LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Aprile 03, 2008, 05:39:10 pm



Titolo: MATTIA FELTRI.
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2008, 05:39:10 pm
3/4/2008
 
Il paese dei diritti incrociati

 
MATTIA FELTRI

 
Nel paese del diritto, quale diritto prevale? Il diritto individuale del signor Giuseppe Pizza di presentare le sue liste e il suo simbolo, lo Scudocrociato, oppure quello collettivo di avere elezioni e governo nuovi entro settanta giorni dallo scioglimento delle Camere? Il paese del diritto si tiene la testa fra le mani e si spreme il cervello. I giuristi d’accademia e quelli di tribunale, quelli di partito e quelli delle istituzioni, tutti sui codici a controllare con la lente d’ingrandimento i commi e i controcommi, uno sovrapposto all’altro da anni e decenni e secoli di affinamento dell’arte del dirimere.

L’incolto cronista si è perso nei labirinti storici e non sa più a chi appartenga il nome della Democrazia cristiana, a chi lo stemma e a chi la sede di Piazza del Gesù, scala A oppure scala B. Il caparbio Pizza ha compiuto il percorso sghimbescio delle competenze; escluso dalla contesa elettorale dal giudizio politico del ministero dell’Interno, e perché il simbolo era troppo simile a quello dell’Udc di Pierferdinando Casini, ha domandato conforto al sommo giudizio della Corte di Cassazione. La Corte non glielo ha concesso e Pizza ha dunque invocato il giudizio amministrativo del Tar del Lazio, ma con il medesimo risultato. Nuovo tentativo, questa volta al Consiglio di Stato, che altro non sarebbe se non l’appello del Tar, e il Consiglio ha riammesso alla competizione Pizza, Dc e Scudocrociato, seppure soltanto in via cautelativa. E cioè: intanto se la giochino; se avevano ragione, qualcun altro lo deciderà. Chi? Il Tar del Lazio.

In queste strepitose sinuosità legali, non sapendo più che pesci pigliare (rispettare la Costituzione oppure la sentenza), il Viminale di Giuliano Amato ha incaricato l’Avvocatura dello Stato di sollecitare l’intervento della Corte di Cassazione. La quale Corte aveva già espresso il suo orientamento; ma stavolta dovrà deliberare su chi sia titolare della competenza: se il giudice amministrativo o quello ordinario. Il lettore con un cerchio alla testa si rassicuri: sono le diavolerie della culla del diritto.

Sul groviglio di norme ballano gli uomini, e soprattutto Pizza, sessantenne di Sant’Eufemia d’Aspromonte il cui tracciato politico è altrettanto lineare. Democristiano con Amintore Fanfani e Arnaldo Forlani, al crollo del ’93 seguì la dottrina della rinascita di Flaminio Piccoli e rifondò la Dc insieme con il friulano Angelo Sandri. Si presentarono alle Europee del 2004 sotto il nome di Paese Nuovo, poiché il percorso giudiziario non aveva ancora attribuito l’eredità contesa della Dc. Presero lo 0,2 per cento, litigarono e si scissero, ognuno per la propria strada col suo zerovirgolauno. Oggi tutto quel bendiddìo è spartito secondo delibere e sentenze fra Casini, la Dc di Pizza, la Dc di Sandri e la Dc di Sergio Rotondi e un’altra mezza dozzina di Dc, e ogni volta viene obliterata dalle elezioni una Dc o quell’altra perché il nome è identico e il simbolo uguale. E il penalizzato di turno aizza il giudice del caso a rifare giustizia. E così mentre Pizza pretende il rinvio delle politiche per disporre dei trenta giorni stabiliti per legge lungo i quali fare campagna elettorale, Sandri pretende una riconvocazione d’urgenza del Consiglio di Stato perché la decisione è stata presa senza consultarlo, lui che carte alla mano ha più titolarità di altri sul nome e sullo Scudo. E intanto Casini le dichiara tutte baggianate, e Rotondi trasecola, con tutti i democristiani che si appresta a portare lui in Parlamento.

Che fare? Secondo Amato, appresa la disposizione della Cassazione, dovranno occuparsene governo e Quirinale. Secondo il Quirinale, prima il governo. Secondo il sodale di Pizza, Paolo Del Mese, basterebbe un decreto legge. Tutti i leader implorano Pizza di mettersi una mano sul cuore, e recedere dall’insano proposito. Qualcuno dice che è soltanto questione di prezzo: «E Pizza costa poco, lo dice la parola stessa». Pizza si inalbera: «Questa pizza è senza prezzo». Poi fa sapere che se il Capo dello Stato lo chiama e lo implora, magari ci ripensa. Alleanza nazionale, per risarcire l’amico della par condicio perduta, propone di indire un «Pizza day». Da sempre il paese del diritto trova la conciliazione con le gambe sotto il tavolo.
 
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Titolo: MATTIA FELTRI. -
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2008, 09:17:32 pm
21/7/2008
 
Ah, la cattedra
 
 
  
 
 
MATTIA FELTRI
 
Cuore di babbo sa tutto: se il suo ragazzo crolla, la colpa è della storia. Non tanto della materia - magari anche - ma specialmente della povera storia nostra, dell’Unità d’Italia imposta e vessatrice. La Padania versa uova d’oro a Roma ladrona, e ne riceve insegnanti meridionali.

Insegnanti che tutto conoscono di Luigi Pirandello e nulla di Carlo Cattaneo; chi si ribella, muore. I nostri giovani, per esempio, dice Umberto Bossi. Uno osò, giustappunto, presentare all’esame di maturità una tesina sul gran federalista, e ne guadagnò una bocciatura. Quell’uno è Renzo, figlio di Bossi, al secondo fallimento consecutivo. Per quest’anno ha redatto uno studio titolato su «La valorizzazione romantica dell’appartenenza e delle identità». Non era un somaro, sostiene Bossi, ma una vittima del centralismo.

Renzo non si affligga. Ha un ottimo avvocato, e non sempre la scuola sa misurare la gente d’ingegno. L’esempio più illustre, il giovanotto l’ha in casa. La carriera da studente del padre è qualcosa di spettacolare. Frequentò le medie e si iscrisse allo “Stanislao Cannizzaro” di Rho, istituto tecnico per periti chimici. Sono gli anni in cui - come scrisse Gianantonio Stella in «Tribù» - Bossi si allontanò dall’etica severa dei genitori e dalla weltanschauung del mondo agricolo. Anni da scapestrato e donnaiolo. Tanto è vero che non si diplomò. Ma siccome i ciuchi finiscono in catene, Bossi non abbandonò l’idea di scalare le vette del sapere: «La prima tappa della mia marcia d’avvicinamento alla cultura fu la scuola Radio Elettra di Torino».

La tappa determinante fu la successiva: venticinquenne, si iscrisse a una scuola privata, e quasi trentenne intascò il diploma scientifico. Non soddisfatto, Bossi provò a diventar dottore, e si cimentò nei corsi di Medicina. Nell’aprile del 1975, l’attempato studente potè infine calzare l’alloro: «Decidemmo di sposarci in agosto. In aprile Umberto diede a tutti la grande notizia: mi sono laureato, presto avrò un impiego come medico. Non facemmo nessuna festa, ma corsi a comprargli un regalo, la classica valigetta in pelle marrone», ricordò intervistata da «Oggi» la prima moglie, Gigliola Guidali. La qual Gigliola, tempo dopo, fiutò la balla. E Umberto, che tutte le mattine usciva di casa destinato allo stetoscopio, confessò: «E’ vero, ma è questione di sei mesi. Poi sarò dottore».

I mesi diventarono anni, e sette per la precisione. Trascorsi i quali, perduta la moglie causa divorzio, Bossi condusse la madre a Pavia per la trionfale discussione della tesi; la genitrice, però, attese in auto e le parve sufficiente. Insomma, il babbo di Renzo fece prima a guadagnarsi il titolo di senatore, nel 1987, quando risultava ancora iscritto all’Università. Ma siccome non sono i pezzi di carta a fare la caratura, non è in ragione della tormentata avventura scolastica se a Bossi capita di sostenere, per esempio, che Giulio Cesare fu il primo padano. Le responsabilità risiedono nello slancio politico del gran capo nordista, che qualche volta evolve in orgasmo oratorio. Gli capitò, infatti, di addebitare a Giuseppe Garibaldi la tragica annessione del Lombardo-veneto al Regno d’Italia. Ernesto Galli della Loggia (ma sarebbe bastato un maestrino qualsiasi, e di qualsiasi provenienza) gli fece notare che la faccenda era dipesa dalla Prussia, alleata dei Savoia e vincitrice sull’Austria.

Fa niente. Un inciampo capita a chiunque. Il punto è che la famiglia Bossi certe questioni le ha nel sangue. E infatti la seconda sposa di Umberto, la calabrese Manuele Marrone, ha fondato a Calcinate del Pesce, in provincia di Varese, la scuola lombarda «Bosina», che significa «varesina». E’ una elementare e media con tutti i crismi, e i programmi seguiti sono quelli ministeriali. Ma con un deciso scrupolo nell’insegnamento del dialetto e delle tradizioni locali. La matematica si chiama etnomatematica, e la pedagogia si chiama etnopedagogia. Gli scolari vanno nei boschi a conoscere le specie di alberi del varesotto. E quando sono sui banchi, studiano la Seconda guerra d’indipendenza, la Prussia e Garibaldi.

 
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Titolo: MATTIA FELTRI
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2009, 03:40:53 pm
16/9/2009

Lo show senza concorrenza
   
MATTIA FELTRI


Il farfallone amoroso gode del suo giorno dell’orgoglio e si riabilita - sempre che ne avesse bisogno - vestendosi e rivestendosi come Leopoldo Fregoli. Occhi lucidi e respiro lungo: tutti felici.

La concorrenza, si sa, non c’è: motivi tecnici. Ballarò spostato a domani, Matrix alla prossima settimana, sono questioni di palinsesto e, dicono da Mediaset, di diffocoltà organizzative; la Champions, dove Pippo Inzaghi collabora alla restituzione della grandeur, è confinata in pay e tutto il mondo televisivo - disinteressato agli ultimi giorni di Adolf Hitler su RaiTre - può assistere al trionfo del presidente del fare.

Fregoli, dicevamo: il presidente giardiniere illustra le qualità terapeutiche del fieno steso sul manto erboso; il presidente ingegnere dettaglia sulle costruzioni antisismiche, le doppie piastre, gli «assorbitori di potenza»; puntando gli indici, il presidente architetto deraglia nella plastificazione poiché il quartiere Bazzano, ricostruito a cinque chilometri dall’Aquila, è stato edificato di modo che le case sembrino di epoche diverse, e non «artefatte», e di conseguenza artefatte sono; il presidente designer guida la visita dentro alle case di legno che saranno consegnate con gli armadi - «anche con gli attacca-abiti» - e apre i frigoriferi delucidando sui requisti dell’ultimo modello; il presidente anglofono dice: «People first»; il presidente pater familias ha una pacca per tutti. E mille e mille presidenti, il presidente anticomunista, il presidente imprenditore che nega le correzioni delle sue reti per favorire gli ascolti del gran ritorno di Porta a Porta, il presidente San Sebastiano traffito dai dardi della tv pubblica. E infine (per modo di dire) il presidente Tafazzi che non guarda più la tele. Ma in fondo è la serata squillante del governo del fare - non della ciàcola, non della lascivia - in un’elencazione di record che avrebbe mandato in tilt anche un Rino Tommasi, e il terrore sale quando il premier sfodera l’elenco delle opere compiute. Record, record e record: due mesi per l’asilo Giulia Carnevali (dal nome della giovane progettista morta nel terremoto, e il padre in studio, dignitosissimo, invita a guardare avanti), record; quattro mesi per le casette, record; entro settembre tutti fuori dalle tende, record; i giapponesi, gli americani e gli australiani ci invidiano le tecniche e i tempi, record; Nancy Pelosi che dice a Berlusconi: «Un’impresa del genere per noi negli Stati Uniti sarebbe stata impossibile», record; ho governato più di Alcide De Gasperi, record; ho governato meglio di De Gasperi, record. E poi la gente, il people, e gli operai, i man at work, che dalla cima delle gru chiamano il presidente a braccia levate: «Silvio! Silvio!». L’uomo vecchio e stanco e barbuto che entra nella casa appena ricevuta e non resiste a un singulto di commozione. La donna col bimbo in braccio che sull’uscio dell’asilo sente la vita che ricomincia. I terremotati in piazza che si guardano attorno e dicono: è un miracolo, un miracolo. Faremo di più, faremo meglio, dice Berlusconi: abbiamo un know how che riproporremo per costruire le carceri, le centodieci città dove le giovani coppie troveranno l’abitazione che non trovano oggi, basta infilare tre turni di otto ore al giorno per ridurre i tempi di due terzi.

Sull’altra parte della barricata resta un povero Stefano Pedica, coordinatore laziale dell’Idv di Antonio Di Pietro, che fa picchetto all’ingresso della sede Rai di via Teulada, ma tanto Berlusconi entra lo stesso. E dentro il sindaco dell’Aquila, Stefano Cialente, cerca soltanto di attutire lo scoppio dei mortaretti. Qualche giornalista propone dei distinguo travolti dall’energica e fluviale parlantina del presidente del Consiglio. Piero Sansonetti si prende la briga di dirne due o tre. Bruno Vespa abbozza un paio di bisticci rapidamente sedati. E’ l’occasione buona per regolare i conti, da presidente pompiere, e per il resto rimangono negli occhi le casette di legno che casette non sono, dice Berlusconi, semmai ville dove a tutti noi piacerebbe abitare. Anche a lui, sembra, al farfallone amoroso che si autodichiara dittatore, scherzando, il narcisetto, ora che non più andrà notte e giorno d’intorno girando delle belle turbando il riposo.

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Titolo: MATTIA FELTRI. Marina e le figlie che si fanno scudo per i padri
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2009, 10:13:22 am
11/10/2009 (7:41)  - LA STORIA

Marina e le figlie che si fanno scudo per i padri

Solo le donne sanno consolare i genitori


MATTIA FELTRI
ROMA

Tutti gli uomini che saranno perduti, e ai quali resterà soltanto la speranza dell’onore, si augurino di avere una figlia. Non un figlio, neutro, indifferentemente un lui o una lei. Sperino sia femmina, e cioè una delle tantissime moderne Antigone, uniche depositarie dell’onoratezza della famiglia. Come Marina, come Stefania. Donne alla guerra, armate di un amore furente e cieco, purissimo, indisposto ai compromessi nemmeno lessicali. Marina Berlusconi, che non concedeva interviste e le si poteva puntare la pistola alla tempia, nel giro d’un mese ne rilascia due al Corriere della Sera, e nel momento in cui la famiglia si disfa. Si schiera non con il padre, ma come scudo davanti a lui: «Ogni volta che lo chiamo per consolarlo, alla fine è lui che consola me. Come sanno fare solo i grandi uomini».

E’ una caccia all’uomo, dice Marina, e viene in mente Stefania Craxi, unico fondatore e presidente della Fondazione Bettino Craxi. Ecco, Antigone, che sfidò la morte pur di concedere i riti funebri al fratello, e disse a Creonte: «I tuoi bandi io non credei che tanta forza avessero da far sí che le leggi dei Celesti, non scritte, ed incrollabili, potesse soverchiare un mortal: ché non adesso furon sancite, o ieri: eterne vivono». Stefania scrisse un libro (Nella buona e nella cattiva sorte, edizioni Koiné) e lo introdusse con un brano della Storia della colonna infame: «... que’ magistrati... complici o ministri d’una moltitudine che accecata... violava con quelle grida i precetti più positivi della legge divina». «Io sono ancora innamorata», ha detto Stefania in un’intervista otto anni dopo la morte del padre.

Innamorata, eternamente e divinamente, oltre ogni legge umana alla quale spesso i maschi si inchinano timidi, per essere degni del consorzio civile e sfiorando il tradimento di sé. E invece Chiara Moroni, figlia di Sergio, morto suicida negli anni folli di Tangentopoli, si alzò alla Camera e disse: «Io so benissimo perché sto in questo Parlamento: per ricordare ogni giorno il gesto di mio padre, che ha ritenuto di dover difendere la sua innocenza suicidandosi. Io sono orgogliosa e fiera di stare qui perché sono la figlia di Sergio Moroni, di stare qui per tenere in vita la sua memoria e il significato politico del suo messaggio... E io oggi qui continuo a rappresentarle, orgogliosamente, dopo aver fatto doverosamente i conti con gli errori. Lo considero un tributo alla memoria di mio padre».

A ogni padre dovrebbe toccare una figlia simile a Marina, la quale sta mettendo sottosopra la sede di via Sicilia a Roma della Mondadori: si ritaglierà un quartierino per stare più vicino al genitore. O una figlia simile a Silvia Tortora, che dedicò la sua vita di ragazza al padre martoriato. O simile a Chiara Gamberale, che diciassettenne scrisse Una vita sottile, romanzo impetuoso e delicato partorito mentre il padre Vito era in galera innocente. E sono tante, c’è Antonia De Mita, una sentinella dell’integrità paterna, perché «è solo amore viscerale». E nulla c’entra con l’onore, ma con la memoria sì, tutto questo mondo di ragazze, Giovanna Mezzogiorno che fa il film su Vittorio, Maria Fida Moro che organizza convegni su Aldo, Sabina Rossa e il libro su Guido e mille altre ancora. E c’è il resto, c’è Silvia Tortora che rivendica i meriti di «un giornalista che ha creato le cose più straordinarie della storia della televisione pubblica italiana»;

Marina strasicura che Silvio «entrerà nei libri come il leader più longevo e amato nella storia della Repubblica»; Stefania fiera nella certezza che Bettino fosse venti anni avanti a chiunque e specialmente al Pci: «Non c’è un tema che calca l’attualità politica che lui non avesse anticipato». Ma prima di tutto c’è «l’amore viscerale».
«Nel rapporto con mio padre, lo sorte non mi è stata amica: il periodo in cui gli sono stata più vicino è stato quello dell’esilio ad Hammamet», scrisse Stefania Craxi.
Nel rigoroso ordine, «amore, dolore e rabbia erano il condimento della vita di ogni giorno». Stefania vide morire il padre: lo chiama «il giorno orrendo».
«Fu allora che decisi di dedicarmi anima e corpo all’opera di restituire onore e meriti a mio padre».

E come diceva un saggio, «quando avrai sete tuo figlio non ci sarà, tua figlia ti porgerà il bicchiere alle labbra».

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Titolo: MATTIA FELTRI Clemente, la spintarella che si fa sistema
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2009, 09:48:55 am
23/10/2009

Il santo protettore
   
Clemente, la spintarella che si fa sistema

MATTIA FELTRI

A Ceppaloni, quando c’è da festeggiare una ricorrenza, tutto il paese scende in piazza in un tripudio di regimental.

Equando va male la indossano cugini di secondo grado. Elencano l’albero genealogico con geometrica precisione e salta sempre fuori che zia de mammà era cognata de zia de Mastella. Il legame di sangue è soltanto un cappottino su un bel vestito: Clemente, l’ex sindaco, l’ex ministro, è comunque il figlio del popolo, quello che ce l’ha fatta. Lo precede, in questi bagordi a cielo aperto, di frittelle e panini alla salsiccia, la moglie Sandra che arriva raggiante e saluta tutti, e chiama tutti per nome, e tutti bacia di qui e di là, non le sfugge una guancia, e nell’estasi le capita di baciare persino i cronisti.

Poi sbarca lui, Mastella, e i popolani, i giovani e i vecchi, si mettono in fila per la stretta di mano e la breve illustrazione del bisognuccio; Mastella ascolta - ascolta per davvero - e garantisce l’intercessione, e quando s’è fatto troppo tardi promette audizione su in villa, la famosa villa della piscina, che prendessero appuntamento. La chiamano politica feudale. Potrebbe avere mille nomi ma, come i nobili di altri tempi, il succo è che Mastella si circonda di questuanti, gli arrivano al cancello, li riceve, distribuisce le prebende. «Ho segnalato povera gente che era in difficoltà. Quando sarò in tribunale le porterò con me e farò vedere se sono ricche o povere le persone che ho segnalato», ha detto ieri in conferenza stampa.

La raccomandazione elevata a sistema, ma non è questo un Mastella che casca dal pero. La raccomandazione è sistema, dicono le carte della procura e l’esperienza. Raccomandano quelli del Pd, quelli dell’Italia dei Valori, raccomanda il figlio di Di Pietro, raccomandano i Verdi. Raccomandano lì e raccomandano in tutto il Sud e raccomandano anche al Nord, se soltanto ci si dà un’occhiata o si fa esercizio di memoria: per esempio, qualcuno ricorda i criteri con cui, a Milano, la Cariplo distribuiva gli appartamenti a equo canone? E’ che Mastella non se ne dispiace, e si dispiace semmai «per altra povera gente con le stesse difficoltà » per la quale non ha potuto nulla.

La raccomandazione - la “segnalazione”, come dice lui - è il gesto munifico del signorotto, «se uno viene direttamente da te, hai il dovere di farlo, di farlo in coscienza». Lo dice nelle interviste, lo dice nei comizi: lui negli anni Settanta entrò in Rai per la raccomandazione di Ciriaco De Mita, e alla redazione scandalizzata obiettava: «Fatemi capire, chi di voi è entrato per concorso?».

E in questi tempi di preteso calvinismo, predicato e non praticato, in altre famiglie si sarebbe evitato di acquistare (o di ricevere in omaggio) una Porsche Cayenne, come è capitato al figlio Pellegrino, ma questa è la famiglia che per il matrimonio dello stesso Pellegrino organizzò un party da Sunset Boulevard, con le piramidi di pesche, il carrello delle granite, Katia Ricciarelli che canta dal vivo, i sacerdoti del centrosinistra incravattati per benino. E’ Mastella con la sua mastellitudine, una sfacciataggine gioiosa, perché Silvio Berlusconi si porta il mondo al mare, Mastella si porta il salotto in paese, patrocina la sagra del fusillo al pecorino, patrocina la Porziuncola, fiera di sbandieratori, e patrocina anche Ceppaloni-Jazz, e ci porta pure Roberto Benigni e Claudio Baglioni, ed è sempre lui l’eroe: il paese ha il santo protettore.

Sarà forse soltanto un piccolo disgustoso mondo antico, dove raccomandare è un imperativo categorico e dove il raccomandato bacia le mani, ma è un piccolo mondo non confinabile nel beneventano, ci si fa raccomandare per il posto di lavoro senza limiti di latitudine, si fanno raccomandare i grandi professionisti per il posto in Parlamento e si fanno raccomandare i galeotti per cambiare carcere e stare più vicino alla famiglia, e chiunque sarà grato, e a buon rendere. E’ clientelismo? E’ corruzione? E’ voto di scambio? Qui il lavoro dei magistrati si fa particolarmente difficile, forse senza sbocco, sebbene il codice penale abbia ora un reato in più: la mastellazione aggravata.

da lastampa.it


Titolo: MATTIA FELTRI L'uomo con il mito del fare
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2010, 10:33:30 am
11/2/2010

L'uomo con il mito del fare
   
MATTIA FELTRI

Guido Bertolaso, medico, sessant’anni a marzo, sposato, due figlie (Olivia e Chiara), nato a Roma da un vicentino generale di Squadra aerea, direttore del dipartimento della Protezione civile.

Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Emergenza rifiuti in Campania, commissario straordinario per il terremoto dell’Aquila, per i vulcani nelle Eolie, per le aree marittime di Lampedusa, per la bonifica del relitto Haven, per il rischio bionucleare, per i mondiali di ciclismo, per la presidenza del G8 edizione 2009, per le aree archeologiche, cavaliere di Gran Croce e Grande Ufficiale Ordine al merito della Repubblica italiana, medaglia d’oro Ordine al merito della sanità pubblica, medaglia d’argento di pubblica benemerenza della Protezione civile, cittadino onorario di Ostuni, laureato honoris causa in Ingegneria gestionale (Roma Tor Vergata), in Giurisprudenza (St. John’s University) e in Sostenibilità ambientale (Università politecnica delle Marche), quando proprio non ha niente da fare, va a giocare a golf all’Olgiata.

Visti gli incarichi e il curriculum (ripreso per intero da Wikipedia), di tempo libero ce n’è poco. La battuta di Fiorello, stracitata, secondo cui esistono oggi almeno centosei controfigure di Bertolaso, spiega l’opinione che gli italiani hanno del sottosegretario, dal momento che nell’ultimo decennio lo hanno visto saltare su e giù, dal Nord al Sud, dai monti ai mari, e qui dovrebbe cominciare un altro estenuante elenco che comincia con Bertolaso fra i terremotati dell’Aquila e si conclude con Bertolaso alla spericolata guida della Papamobile per condurre Giovanni Paolo II attraverso la folla dei papa-boys sul pratone del sacro incontro di Tor Vergata; in mezzo Bertolaso controlla il livello dei fiumi, il funzionamento delle discariche, la tenuta dei trampolini al Foro italico e le insidie delle fioriere a Pratica di Mare, e insomma tutto ma proprio tutto, come sempre è stato scritto: i vertici internazionali, le competizioni sportive, le calamità naturali, le raccolte dei fondi, e ultimamente perfino gli appalti, super-rapidi e super-efficienti.

Per capire perché Bertolaso è diventato Bertolaso, bisogna passare da tre immagini e da un personaggio. Prima immagine. Bertolaso studia a Liverpool, è la fine degli Anni Settanta. Si è laureato in medicina alla Sapienza e sta frequentando un master sulla cura delle malattie tropicali. Per strada i ragazzi giocano a calcio fra liquami e spazzatura e lui li fotografa per illustrare la tesi sulle correlazioni fra patologie e condizioni igieniche. Seconda immagine. Bertolaso è un bambino. Il padre, che ha combattuto come aviatore nella Seconda guerra mondiale, gli racconta dei mille viaggi e dei mille posti visti dal cielo. Il padre di Bertolaso è stato comandante della 91ª Squadriglia, quella di Francesco Baracca, la squadriglia degli assi. Terza immagine. Nell’ufficio di Bertolaso alla Protezione civile sono appese le fotografie di Ernesto Che Guevara, di Ernest Hemingway (di cui ha letto tutto), di Martin Luther King, di Albert Einstein, «sono quelli che ammiro», dice, e la foto di Albert Schweitzer (quasi bertolasianamente medico, teologo, musicista e missionario tedesco) la tiene direttamente nel portafoglio, ma è la bandiera tricolore che si porta appresso da trent’anni, dai tempi della Cambogia, sempre quella, sempre con lui (in Cambogia andò nel 1980 per costruire un ospedale dopo i disastri di Pol Pot, e reduce da un’esperienza africana - fra il Senegal e la Somalia - in guerra contro il colera).

Ecco, le tre immagini spiegano Bertolaso medico e manager, rivoluzionario e cattolico, missionario ed eroe, specialista e poliedrico. Manca il personaggio, e Bertolaso è uno che si è fatto benvolere da Giulio Andreotti, Francesco Rutelli, Romano Prodi. Ma chi ha fatto di lui un frenetico e inarrestabile sottopancia di Palazzo Chigi, titolare di un potere unico (e tanto potere porta tanti nemici), quello per esempio di affidare lavori senza passare, causa emergenza, dalle sfiancanti pappardelle delle gare d’appalto, è stato Silvio Berlusconi. L’antipatia schietta che il premier ha per i riti defatiganti della democrazia ha trovato una traduzione pratica in Bertolaso. Tutto a lui, tutto presto, tutto bene. È il conflitto fra i codici e il buonsenso che la politica non dirime.

da lastampa.it


Titolo: MATTIA FELTRI Il dilemma tra velocità e regole
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2010, 10:43:27 am
16/2/2010

Il dilemma tra velocità e regole
   
MATTIA FELTRI

Qualche mese fa, in un pomeriggio di sole, Silvio Berlusconi era a Coppito, alla periferia dell’Aquila, per consegnare alle famiglie rimaste senza casa le belle palazzine nuove con le facciate di legno colorato.

Il presidente del Consiglio era così fiero del risultato che annunciò l’intenzione di estendere la dottrina-Bertolaso ad altre emergenze, e fece l’esempio di quella carceraria. Durante l’ultimo governo Prodi, poiché le prigioni traboccavano, il Parlamento aveva votato un indulto ma il provvedimento di clemenza non venne accoppiato a uno strutturale (non si costruirono nuovi penitenziari né si studiarono pene alternative alla detenzione), così oggi le prigioni traboccano di nuovo e sono amministrate nell’incivile convivenza.

Se il governo varasse un piano di edilizia carceraria con i sistemi e i vincoli classici, gli servirebbe almeno un lustro per concluderlo. Ma, fra le case di Coppito, il premier immaginò le galere venire su a velocità sconosciute alla democrazia e applicate soltanto alle ruspe mussoliniane (e per l’Aquila). Non soltanto perché Guido Bertolaso è bravo e concreto, ma soprattutto perché gode di strumenti unici: gli è permesso di affidare i lavori con trattativa privata, senza logorarsi nelle procedure solite della gara pubblica (bando di concorso, pubblicazione su Gazzetta ufficiale, presentazione dei progetti...). Sono poteri eccezionali, quasi incontrollabili, proprio perché, nell’emergenza, l’immediatezza del risultato è fondamentale.

Da quasi un decennio, si sa, Bertolaso non viene applicato soltanto ai soccorsi in caso di terremoto, alluvione o disastro ferroviario, ma all’organizzazione dei grandi eventi, come per esempio i Mondiali di nuoto o i viaggi papali. All’Aquila, però, Berlusconi si figurò un passo in più: chiamare emergenza l’ordinario (in Italia tutto l’ordinario è emergenziale e ogni emergenza è ordinaria) e affrontarlo con i sistemi spicci ed efficaci di un dopo-sisma. Per queste ragioni oggi si dibatte con tanta foga delle ulteriori prerogative che si intendevano affidare alla Protezione civile, e che lo scandalo giudiziario bloccherà o ridimensionerà. Ecco, al di là dei risvolti penali, il succo politico della vicenda è tutto qui.

È stato detto che i risultati più squillanti di quasi due anni di governo Berlusconi sono la ripulitura di Napoli dalla spazzatura e la gestione del disastro abruzzese. Sono due successi di Bertolaso e del suo metodo. Altri provvedimenti graditi dalla maggioranza degli italiani sono passati dai decreti, e cioè da leggi dell’esecutivo che entrano immediatamente in vigore, prima di passare dalle camere. Il grande tema di questa legislatura si conferma la velocità di esecuzione. Veramente è un tema antico: dalla crisi della Repubblica di Weimar al decisionismo craxiano, se ne parla da decenni. Ma oggi c’è anche un sistema dell’informazione tambureggiante: le tv, i giornali, i siti internet sollevano problemi in continuazione, e per reggere alla sfida del consenso i politici sono costretti a risposte fulminee.

I sacri (e sacrosanti) riti della democrazia sono sempre più inadeguati. Berlusconi lo ha capito e ha anche capito che, paradossalmente, rendere rapida la democrazia richiede un lentissimo lavoro di riforma che lui non può permettersi. Vuole che il suo governo passi alla storia per le cose fatte, non per una correttezza formale che ha sempre considerato da farisei, o per un riformismo a beneficio dei successori. E così usa i decreti e diffonde il metodo Bertolaso, e dentro la sua maggioranza ci sono opposizioni di scontenti, uomini per ruolo o vocazione fedeli alla liturgia, ministri che si vedono sottratte competenze e controlli, legalisti che vorrebbero un solido rispetto delle regole. La vicenda di Bertolaso ha rinvigorito i perplessi e adesso sarà interessante vedere se e quali altri poteri andranno alla Protezione civile, se invece verranno ridimensionati (molto probabile), e soprattutto se sarà ancora Bertolaso a esercitarli. Anche da questa partita dipende il futuro di Berlusconi: senza le splendide scorciatoie alla Bertolaso gli verrà difficile ripetere certe imprese e conservare l’ammirazione denunciata dai sondaggi. O trova una soluzione, o per i restanti tre anni della legislatura gli toccherà di vivacchiare fra carte bollate.

Insomma, il dilemma non è nuovo: a quanta libertà (a quanta prassi) la democrazia è disposta a rinunciare per essere più competitiva? E a quanta competitività è disposta a rinunciare per essere più libera? Anche se l’inchiesta fosse tutta una bufala, e Bertolaso e i suoi fossero immacolati, saremmo pronti, domani, a girare il loro imparagonabile potere in altre mani? È una domanda importante, perché non riguarda soltanto la politica. Il gip di Firenze, nel firmare l’ordinanza che ha stabilito arresti e avvisi di garanzia, ha ammesso di non averne la competenza. È competente Roma. Ma per evitare che le ruberie proseguissero, scrive, per bloccare quella cricca che ne stava combinando delle altre, è stato necessario uno strappo alla regola. Il risultato serviva, e serviva subito. Chissà se Bertolaso si è reso conto che tutto quello che gli sta capitando dipende dal metodo Bertolaso applicato alla magistratura.

da lastampa.it


Titolo: MATTIA FELTRI Emanuele perfetto arcitaliano
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2010, 09:42:12 am
22/2/2010 - SANREMO

Emanuele perfetto arcitaliano
   
MATTIA FELTRI


Quelli convinti che l’Italia fosse dei sei e mezzo, dei bravini ma non bravissimi, devono cambiare idea, visti i successi di Emanuele Umberto Reza Ciro René Maria Filiberto di Savoia: l’Italia è dei sei meno meno. Secondo a Sanremo dopo essere stato il primo dei non eletti alle elezioni Politiche, e dopo essere passato per la vittoria danzante a «Ballando con le stelle», il principe si dimostra un incapace a tutto, e per di più poliedrico.

Non è vero: si è troppo cattivi. Non è un incapace a tutto. E’ un garbato mestierante. Ha una voce impreparata al karaoke ma, come è stato detto, stona meno di molti professionisti. Balla come lo zio Gino con la zia Gina.

Ma tira fuori il passo del blasone, alla Vittorio Gassman con la servetta veneta.

E se si candida al Parlamento, vabbè, insomma, come si dice: sarà un nano, ma qui di giganti non se ne vedono.

Se si tratta di tv – o se si trattasse della Camera dei Deputati – è in fondo comprensibile il credito di cui gode questo erede a un trono che non c’è. E infatti non stupisce tanto il secondo posto del principe al Festival della canzone italiana, quanto invece stupisce il vorrei ma non posso degli orchestrali di Sanremo (di Sanremo, non della Berliner), che gettano sul palco gli spartiti appallottolati in protesta per l’eliminazione dei loro beniamini, e mettendola incredibilmente sul piano della qualità. A Sanremo.

Ecco, qui siamo davanti agli orchestrali che vorrebbero un’etica sanremese (togliamo ex post le vittorie a Toto Cutugno?), oppure siamo davanti alle trasmissioni resistenziali, dove il moralista dice cretino all’immoralista, e l’immoralista dice deficiente al moralista, e siamo in un (appassionante) pianeta, e non è soltanto della televisione, dove quell’altro è sempre un mascalzone prezzolato, se va bene. E allora spunta questo ex ragazzo quasi quarantenne, col suo faccino inoffensivo, che si intasca tutti i fischi del mondo, e fischi preventivi, mica da giudizio analitico a posteriori, e non perde mai le coordinate della buona creanza. Ringrazia i contestatori quanto i sostenitori, e sarà pure affettato, ma quanto sollievo dà un po’ di educazione, anche fosse messa su con le impalcature, vista la bolgia livorosa cui siamo ridotti.

Forse è che la tv è deficiente, ma i telespettatori lo sono fino a un certo punto: se la tv è deficiente, non facciamo tutti i fenomeni. Si reagisce al linciaggio. Si premia la filastrocca paracula perché in fondo lo è senza infingimenti, e quella di Simone Cristicchi, per esempio, che cosa era? Che cosa era la dedica a Marco Travaglio? Che cosa era l’opposizione a questo sistema che non va, e da cui Cristicchi (a che titolo?) si tira fuori?

Meglio, mille volte meglio Emanuele Filiberto, che non insegna a nessuno a stare al mondo, torna qui dopo un incomprensibile esilio, va alle elezioni, balla sotto le stelle, canta dall’Ariston, è più italiano di me e di te, poiché niente è peggio di un italiano che si sente migliore degli italiani. Persino a Sanremo.

da lastampa.it


Titolo: MATTIA FELTRI E la Polverini restò sola
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2010, 10:27:30 pm
5/3/2010 (7:9)  - REPORTAGE

"Flop" del raduno Pdl

E la Polverini restò sola

La candidata: come può uno scoglio arginare il mare?

MATTIA FELTRI
ROMA

Che non avrà un capitolo nella storia delle agitazioni di piazza, lo si era capito dall’aria che tirava. Non tanto lì, dove comunque pioveva parecchio e c’era vento.

Ma in tutta la città, sin dalla mattina, con i graduati del Popolo delle libertà convocati in vertici telefonici e incontri multilaterali per trovare la soluzione. Quando il pleonastico sit-in stava per cominciare, i pezzi grossi erano tutti a Palazzo Grazioli, a casa di Silvio Berlusconi, per comunicargli l’esito del lavorio: «Pensaci tu!». E là, in piazza Farnese, dove gli attivisti e i simpatizzanti di Renata Polverini erano stati convocati alla manifestazione contro l’esclusione dalla gara delle liste del Pdl, non restava che scambiarsi istruzioni: «Aho, ma contro chi stamo a manifesta’?». Contro i radicali? Contro i giudici? Contro Napolitano? «Contro tutti quelli che nun ce fanno vota’».

Insomma, chiariti gli intenti programmatici si poteva cominciare, anche se stare sotto al palco e sotto al diluvio è sempre un grande impiccio, e perlomeno gli ombrelli aperti aiutavano il colpo d’occhio. Già piazza Farnese è una piazzucola, quanto a dimensioni, e si è contato che ci fossero dalle mille alle duemila persone, il solito ottimista ne denunciava cinquemila, ed era comunque un capolavoro di sobrietà in tempi in cui mobilitazione non è se non si millanta il milione. E però, certo, era un’adunata messa in piedi in un paio di giorni, non c’era da aspettarsi chissà che, i militanti bravini si erano presentati con almeno due ore d’anticipo, e quando gli oratori hanno tentato di dare fuoco agli animi, gli animi erano già zuppi.

Poi, certo, la militanza è la militanza, ci si scuoteva, lo sventolio delle bandiere (berlusconiane, polveriniane, romane e romaniste del Popolo di Roma) era ininterrotto. Si intonava qualche coro («non mollare mai», «democrazia / democrazia»). Si battevano le mani e i piedi nonostante i furori sembrassero sopiti da superiori ragioni meteorologiche. Un anonimo dirigente locale, con un bel vocione adeguatissimo, si è messo a baritonare: «Ladri... di speranza. Ladri... di futuro. Ladri... di democrazia». Ma il grosso si era distratto, faceva capannelli, si attendeva che perlomeno arrivasse qualche big. «Grazie di sopportarci!», gridava Barbara Saltamartini dal palco, bravissima a correggere al volo l’imbarazzante refuso: «Volevo dire, grazie di supportarci». E’ una giornata così, nata storta. La stessa Saltamartini, parlamentare eroica nella missione di tenere su gli astanti, aveva un crollo psicologico e finiva, elencando i relatori, col presentare se stessa: «Interverrà Barbara Saltamartini... Ehm, scusate, la Saltamartini sono io. Volevo dire Beatrice Lorenzin...».

Alla fine, però, i capoccioni sono arrivati e hanno parlato tutti, a cominciare da Fabrizio Cicchitto e per proseguire con Maurizio Gasparri, a dare un senso a questo strano pomeriggio. Il capogruppo del Pdl alla Camera a dire che lo Stato di diritto sarà ripristinato, il capogruppo del Pdl al Senato a dire che i cavilli non fanno democrazia. Interventi brevi, però, che c’era poco da dire, e semmai c’era da aspettare sera, l’incontro al Quirinale, la convocazione eccezionale del Consiglio dei ministri. E così sembra che nella noia siano girati un paio di saluti romani - e qualcuno ne trarrà motivo di scandaletto - e se infine tutto sembrava perduto ci ha pensato la Polverini a regalare un brivido. Aveva detto il necessario: ci batteremo di qui e di là, i diritti sacrosanti, la libertà e la democrazia eccetera. E continuava, fra uno slogan e l’altro, a ritirare fuori un bel paragone col mare - «voi non siete una piazza, siete il mare!», «voi non siete un popolo, siete il mare!» - e non si comprendeva dove volesse andare a sbattere finché, all’ultima metafora, si è svelata: «Voi siete il mare e dunque... Tutti insieme... Forza... Come può uno scoglio / arginare il mare / anche se non voglio / torno già a volare». E tutti a fare oh-oh, sulle note di Battisti e da sottofondo a una Polverini in versione Filiberta. Alla fine lei li ha congedati, che poverelli non si schiodavano: «Andate a fare campagna elettorale che dobbiamo vincere». Hanno lasciato la piazza, verso calze asciutte.

da lastampa.it


Titolo: MATTIA FELTRI Il superspot non seduce Trani
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2010, 10:21:46 am
17/3/2010 (7:12)  - REPORTAGE

Il superspot non seduce Trani

La cattedrale di Trani

Le bellezze della città da giorni in tv: «Ma non abbiamo bisogno di farci pubblicità»

MATTIA FELTRI
INVIATO A TRANI

Ma insomma, Trani è una città moderna. Ieri mattina i furgoni con le parabole e poi i fotografi e naturalmente i cronisti, quelli col microfono e quelli col taccuino, avevano occupato i metri quadrati più belli della Puglia, quelli che stanno fra il tribunale e il castello svevo e la cattedrale di San Nicola Pellegrino.

Tutti lì ad aspettare Michele Santoro che pare ne avesse da dire, agli inquirenti.

E la colleganza impettita, sull’attenti davanti al dovere, e intanto quelli di Trani sbarcavano il pesce. E’ andata così: si sbirciava con consapevolezza. Perché Trani è una città moderna e ha un orgoglio antico. Non è mica questo mezzo vippume d’inizio primavera a scuotere una città di cinquantamila abitanti e secoli di gloria. Ti dicono: vedì lì, da quel molo? Ecco, da lì partivano le crociate. E in fondo non è neppure questo a conservare il senso delle proporzioni, qui, dove in una qualsiasi serata fra maggio e ottobre arrivano da Bari, da Andria, da Foggia, arrivano i villeggianti a migliaia a fare su e giù lungo il porto, fra i bar e i ristoranti, e il lastrico millenario, a furia di suole, è lucido di cera. E arriva Riccardo Scamarcio – e qui un giorno sì e un giorno no, dicono esagerando - e si porta pure la guagliona, la Valeria Golino. E poi Renzo Arbore, eccetera eccetera che ci riempi l’album delle figurine. Occhio a offendere: non sarà una mattinata al tg a dare pelle d’oca.

La chiamano la perla della Puglia, tanto è bella. La cattedrale, la sinagoga, il castello, la fortezza, tutti addosso al porto, bianchi di pietra vecchia come il mondo. Il castello lo fece costruire Federico II, stupor mundi, e ci abitò il figlio prediletto, Manfredi. Qui ci si ferma fuori dalla libreria Maria del Porto, che è tenuta da Rosanna Gaeta, una di sinistra tosta. La conoscono tutti. Ora è all’estero, ma la libreria va avanti da sé. Ieri sera, nella stanzetta in fondo, proiettavano «L’abbuffata», il film di Mimmo Calopresti. Dicono: si fermi fino a venerdì che arriva Maurizio Scaparro a presentare il suo nuovo lavoro, «L’Ultimo Pulcinella». Si sfogliano i libri e si chiacchiera, con meridionale sospensione. Gli frega niente della procura. Potessero, butterebbero a mare Berlusconi, ma «Maria del Porto» è la calamita di professori in carica e in pensione, mezzi scrittori, professionisti, e naturalmente giuristi, si fa letteralmente accademia.

Poi, se proprio vai a insistere, è facile vedere l’orgoglio spuntare fra le parole. Vendono il pesce, al crepuscolo, proprio davanti al tribunale, e sfidano l’ospite: ma lo sai che noi qui eravamo sede di corte d’appello? E per tutta la Regione Puglia. Fu così dall’Unità (1861) all’alba del fascismo, quando i fasci baresi, colti e ammanicati, si presero anche la corte d’appello. Ancora si parla dei rinomati giuristi di Trani. Quelli che sapevano spaccare il capello in quattro e dai tempi di Federico II, e li chiamavano da tutta la regione, e ben prima di Garibaldi, ben prima dell’umiliazione inflitta da Gioacchino Murat, che inginocchiò la città, le tolse l’amata corte d’appello, sterminò i borbonici che si erano dati convegno qua, e non per farne una ridotta, forse solo un concilio. Ecco, al massimo c’è la soddisfazione di essere ancora l’ombelico del mondo, in fatto di codici e di fumisterie, oggi siamo alle competenze territoriali, ma il bello è che per qualche giorno le sorti si decidono a Trani, o perlomeno che l’impressione sia questa.

Ma, si diceva all’inizio, Trani è una città moderna, fra una pietra e l’altra. Qui il vero guaio non è quello combinato dal procuratore Carlo Maria Capristo e dai suoi sostituti, ma semmai è da vedere in viale Russia, ogni sera, sul cavalcavia che chiamano ponte dell’amore. Anche di questo si ama parlare col forestiero. Vai lì quando s’è fatto tardi e in mezzo ai palazzoni e alle bozze di discariche vedi le auto con gli amanti, quelli ortodossi e il resto del mondo, scambisti gay eccetera. E qui siamo moderni, però, eh. L’assessore della giunta comunale di centrodestra, Pina Chiarello, ha aperto un gruppo su Facebook dove gli abitanti di Trani suggeriscono la soluzione giusta, poiché quelle di forza tentate dai vigili scatenano ogni volta un pandemonio di proteste. E poi sarebbe facile dire che la procura dovrebbe occuparsi di ponte dell’amore, e infatti nessuno lo sostiene, ma i fatti di viale Russia non sono meno cicciosi di quelli di Corrado Calabrò.

Alla lunga, col freddo, sono rimasti in strada i soliti struscianti e soprattutto i ragazzi che ieri sera hanno occupato a lungo in piazza Quercia, davanti al camper della Giovane Italia, il movimento giovanile del Pdl. Sul camper c’era la scritta: «Cuori ardenti di sogni, speranze, futuro. Dipende da te». I giovani oratori ci hanno pure scherzato sopra, sulla loro procura, «ma oggi vogliamo parlare del mito». Il mito tolkeniano, mica Santoro.

da lastampa.it


Titolo: MATTIA FELTRI Fi e An, un anno insieme storia di un amore mai nato
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2010, 09:08:36 am
23/3/2010 (7:24)  - IL CASO

Fi e An, un anno insieme storia di un amore mai nato

Dietro ai coordinatori, un esercito di correnti e potentati locali

MATTIA FELTRI
ROMA

Il prossimo fine settimana, mentre si eleggeranno i governatori, il Popolo della libertà compirà un anno. Il congresso fondativo si tenne fra il 27 e il 29 marzo 2009 e, se le elezioni verranno trasformate non soltanto in un referendum sul premier ma anche in un referendum sul nuovo partito, il risultato rischia d’essere tristarello. Perché ci si deve immaginare un partito nel quale i cofondatori, Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, litigano alla frequenza e all’intensità che tutti sanno. Un partito nel quale - secondo l’ultimo consuntivo proposto dal Giornale - le correnti sono quattordici e non si calcolava l’ultima arrivata. Un partito nel quale la corrente ultima arrivata - Generazione Italia, voluta dal presidente della Camera e dai suoi appuntati - una settimana fa ha ricordato che in dodici mesi «non si sono mai riuniti il Consiglio di presidenza e la Direzione nazionale, se non per motivi statutari».

Il riassunto potrebbe occupare spazi infiniti: ci sono tre coordinatori che vanno d’amore e d’accordo, ma attorno a loro volano affamati gli avvoltoi; ci sono i Promotori di Michela Vittoria Brambilla e i club di Mario Valducci, che già si sfidano per chi alla resa dei conti rappresenterà il nuovo. Quello che conta sono gli effetti, e si sono visti in ogni regione col problema d’individuare il candidato buono, ma anche dove non hanno di queste urgenze. E infatti l’ultimo spettacolo è siciliano, dove l’eterna promessa Gianfranco Micciché rilancia il Partito del sud. Furono il presidente del Senato, Renato Schifani, e il Guardasigilli, Angelino Alfano, a brigare perché la Sicilia finisse nelle mani di Raffaele Lombardo anziché in quelle di Micciché. Poi il tempo è bizzarro, più che galantuomo, e oggi Micciché e Lombardo fanno a bacetti per questioni di orgoglio nazional-siciliano, mandando ai nervi i romani, nonostante il Partito del sud di Micciché nasca, e ti pareva, negli interessi del premier. Siccome la cosa sa di scissione, la scorsa settimana c’è stato un vertice Schifani-Alfano-Micciché che si è concluso così: «infruttoso» secondo il coordinatore regionale schifanian-alfaniano Giuseppe Castiglione, «fruttuoso» secondo il parlamentare miccicheiano Pippo Fallica.

Già la Sicilia potrebbe essere il caso di scuola per spiegare come vanno le cose nel Pdl. Potrebbe esserlo pure la Lombardia, dove si finisce spesso alle mani, spessissimo agli insulti, talvolta in galera. Quando l’assessore regionale ex An, Gianni Stornaiuolo, e l’assessore regionale ex FI, Doriano Riparbelli, si sono presi a ceffoni, Riparbelli è filato ad Arcore per esporre la sua versione dei fatti, e il povero Berlusconi, per fare estrema sintesi, disse: fra tangenti e liste respinte qui siamo già una mezza barzelletta; non montiamo anche questa storia che diventiamo un cinema. E infatti (mentre Formigoni aspetta lunedì per regolare i famosi conti con i dilettanti che fecero il casino delle liste, e qui il leghista Matteo Salvini aveva già individuato il colpevole: «Riparbelli!») è tutto clamorosamente bipartisan: Gianni Prosperini, ex An, che in carcere confessa le tangenti e Mirko Pennisi, ex FI, che viene registrato dalle talecamere mentre intasca la mazzetta. Il caso di scuola, a maggior ragione, vien fuori in Campania: sul tafferuglio napoletano questo giornale ha scritto a ripetizione, e forse basta dire che il ras finiano Italo Bocchino è contro il coordinatore regionale Nicola Cosentino che è contro il candidato Stefano Caldoro e in mezzo, ad alimentare la zuffa, ci sono Mara Carfagna e Alessandra Mussolini, anche loro in cerca di un posto al sole del golfo.

Poi è chiaro che per il Pdl il grosso della partita si gioca nel Lazio. Soprattutto gli ex An, che già hanno il sindaco, vorrebbero il governatore per creare un bel centro di potere. E siccome si considera Renata Polverini in quota a Fini, lo spettacolare risultato è un altro tutti contro tutti. Con quelli di An che dicono: «In Forza Italia danno spesso l’idea di remare contro». E quelli di Forza Italia che ribattono: «L’impressione è di avere portato una bella donna all’opera, ma la bella donna non è mai andata oltre Jovanotti». E quelli di An e quelli di Forza Italia che in coro dicono: «I finiani? E chi li ha visti? Qui l’unico che si batte è Berlusconi». E però, in Puglia, ci si sono messi Raffaele Fitto e tutto il partito a convincere il premier che Rocco Palese è l’ideale, e lui che voleva Adriana Poli Bortone per fare l’intesa che l’Udc dovette prima cercare un nome che mettesse tutti d’accordo (Francesco Divella, Stefano Dambruoso) e infine cedere alle lagne dei suoi. Ma se lunedì dovesse vincere Nichi Vendola ci sarà da ridere.

E comunque non è che tutto si risolva nel derby ForzaItalia-An. Si sa, la fusione è funzionata senz’altro nel rimescolare carte e uomini, con ex missini ora superberlusconiani ed ex liberali ora devoti a Fini. La nascita del Pdl, per esempio, non ha cambiato di una virgola la millenaria sfida ligure fra Claudio Scajola e Sandro Biasotti, che però non sono fessi, e ora si fanno vedere assieme in biciclettata. Non per niente Scajola viene dalla Dc, il partito maestro nella faida continua, tranne che in campagna elettorale. Ma insomma, lo show è planetario: in Piemonte il Pdl è nervoso per l’imposizione romana di un leghista, per non parlare della depressione di Giancarlo Galan in Veneto; in Toscana, si è arrivati alla candidatura di Monica Faenzi passando da plateali dimissioni dei coordinatori locali. E così via, sino all’ombelico del mondo. Non è ancora successo niente: il bello comincia lunedì sera.

da lastampa.it


Titolo: MATTIA FELTRI L'addio al partito dell'amore
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2010, 11:53:43 am
23/4/2010 (7:10)  - REPORTAGE

L'addio al partito dell'amore

La direzione del Pdl riunita ascolta il discorso di Fini

La direzione vista dalla platea: le sbuffate di Fini, l'insofferenza del premier, la bolgia in sala

MATTIA FELTRI
ROMA

Ci è mancato soltanto che l’uno rimproverasse all’altro di lasciare in giro i calzini. Ma a Silvio Berlusconi e a Gianfranco Fini - in rigoroso ordine alfabetico - era clamorosamente mancata l’ironia per onorare il paragone speso dopo il tafferuglio: come casa Vianello.

E per questo l’interpretazione melodrammatica del muso a muso fra masculi non fu malriuscita. Anzi. E l’immagine gravida di futuro che Gianfranco Fini aveva offerto di sé, nei mesi e nei giorni scorsi, s’era slavata in un gran masticare di chewing-gum; un ruminare, come si diceva alle elementari, che incontrava una sola attenuante: il presidente della Camera ha smesso di fumare.
Per modo di dire, poi, perché Fini fischiava dal naso e dalle orecchie di prima mattina e - mentre Berlusconi cercava di accreditarsi come intima opposizione (faremo le riforme condivise, faremo i congressi) - era più sbuffante di un vulcano islandese. Ma ancora non si era sospettato che approdasse alla demolizione dell’eterno programma scenografico berlusconiano: lo one-man-show. Certo, il controcanto e il ditino alzato, ma che tutto finisse lì. Invece ogni dettaglio ha complottato contro il partito dell’amore. Intanto la tecnica cubana secondo la quale Fini avrebbe parlato con duemila cofondatori e dopo Berlusconi, dopo i coordinatori, dopo i ministri, e cioè all’ora della pappa. Fini ha fatto cenno di scocciatura, ha mandato ambasciatori, e infine Berlusconi è cascato dal pero: «Se vuoi parlare...».

A quel punto è cominciato qualcosa di sconosciuto alla memorialistica politica. Fini si è eretto a ripetere le cose dette e ridette, in privato e in pubblico, e persino con un tono quasi conciliante, una profusione di premesse sull’eccellenza del governo e di chi lo guida, e di postille su quello che tuttavia non gli garba. Non era bendisposto, Berlusconi. Se ne stava a braccia conserte e col broncio mentre Fini lamentava la puerilità di questo e la polvere sotto il tappeto di quest’altro; era il solito premier che adora le regole per quanto è bello infrangerle: dava sulla voce al comiziante dispiaciuto che lo si chiamasse traditore: «Io non l’ho mai detto!». Era tutto così. Fini parlava dei 150 anni dell’Unità d’Italia e dell’assenza di idee di partito? «Ma dai, Ci lavoriamo tutti i giorni!». «Non voglio polemizzare...». «Ah no?». E non è che Fini aiutasse: la mano in tasca, quel tono da Clint Eastwood felsineo, il modo di rivolgersi: «Berlusconi, te lo dico in faccia...». Non Silvio o presidente. Berlusconi, come al servizio militare. E raccontava che cosa si erano detti in privato, quella volta e quell’altra. E lui, Berlusconi, ascoltava e alzava le mani, sfregando i pollici sugli indici e i medi, in un gesto secondo cui la sostanza era pochina.

Fin lì si era soltanto nella categoria dell’imbarazzante. Ma quando Fini ha parlato di «impunità», s’è capito che finiva a schifio. Berlusconi ha di nuovo ribaltato il programma: ha stretto la mano a Fini e si è impossessato del palco per rispondere a braccio, cioè a ceffoni. Mi è sembrato di sognare, ha esordito. Tutte le cose dette da Fini le scopro oggi. E comunque mi sembrano sciocchezze di fronte alle moltissime cose che vanno bene. E poi - ha proseguito - già che tu racconti dei nostri incontri, l’altro giorno, davanti a Letta, hai spiegato che eri pentito di aver fondato il Pdl e volevi farti i gruppi tuoi. Si era ormai alla rivendicazione da ballatoio. Berlusconi aveva alzato la voce. Fini aveva alzato tutto se stesso, sotto il palco a protestare col dito teso. La platea una bolgia. Non si sono fermati più. Fini si è riseduto ma stavolta era lui a dare sulla voce del premier, non si capiva che cosa dicesse, ma si sentivano le risposte di Berlusconi, nel nulla: «Sììì, proprio tuuuu!». Il privilegio massimo era un’inquadratura per leggere il labiale di Fini in ironico battimani: «Bravo! Bravo!». Uno spettacolo inimmaginabile, rovinato dalla prudenza degli organizzatori che avevano esiliato i cronisti nella sala stampa davanti agli schermi.

E così, quando Berlusconi ha invitato Fini a far politica non dalle istituzioni, e cioè a dimettersi, lì si è intuita una vocazione classica di Fini alla bella morte, che retoricamente chiedeva furioso e terreo «Sennò mi cacci?», prima da seduto, poi all’impiedi, all’inseguimento del premier, con le scorte che intervenivano a far da cordone, e il regista pietoso e maledetto a togliere i primi piani, e forse Berlusconi che risponde: «Ci sto pensando...». E’ finita così, con le telecamere dietro a un mare di schiene alzate, lontane voci concitate, la guerra consumata, quindi tutti fuori, sulla strada a cercare di capire che succederà adesso, e quelle due matte di Alessandra Mussolini e Daniela Santanchè che escono a braccetto, ridendo in coppia come le ginnasiali che vanno al bagno, loro due, che si erano date a vicenda della patata transgenica: «Quando i maschi litigano, le donne fanno pace». E pregustano teste rotolanti.

da lastampa.it


Titolo: MATTIA FELTRI. - Quando il peso politico si misura in metri quadri
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2010, 11:03:50 pm
30/4/2010 (7:17)  - LA STORIA

Quando il peso politico si misura in metri quadri

L’amore della Casta per il catasto: dagli attici della Prima Repubblica ad Affittopoli

MATTIA FELTRI
ROMA

Attico e superattico, luminosissimo e terrazzatissimo, zona Fontana di Trevi, equo canone, ma almeno Ciriaco De Mita teorizzava il diritto al privilegio per le classi dirigenti. Era l’88 e le cronache si adeguavano: un po’ divertite e appena appena scandalizzate. Il capo democristiano si era preso quattrocento metri (più cinquecento di terrazza) e si giocava a indovinare la data dell’inaugurazione, e che cosa avrebbe indossato la figlia Antonia, tutto lì. Saltò fuori che la casta aveva lottizzato il patrimonio immobiliare: ai comunisti i palazzi Inps, ai democristiani i palazzi Inpdai, e il trilocale all’amante e il bilocale al figliolo. Siccome forse il potere logora, ma il podere no, non c’era capocorrente che fosse stato privato della vantaggiosa locazione in centro storico: Nilde Jotti, Giuliano Amato, Giorgio La Malfa, il giovane Rutelli eccetera eccetera. Paolo Cirino Pomicino, in anni di Prima Repubblica, accolse i fotografi a casa, sempre attico e superattico, sempre luminosissimo e terrazzatissimo, kitch e sbalorditivo, stavolta affacciato su Posillipo e di proprietà, per offrire alla vista degli elettori un commensurabile esempio delle sue vette di gloria.

Dunque, siccome il peso di un uomo si calcola in metri quadrati e accatastamento, e da prima della domus aurea, l’immediata preoccupazione del leader è procurarsi un domicilio all’altezza, in ogni modo: in ossequio alle regole o con la truffa. Sulle modalità d’acquisto del ministro Claudio Scajola - appartamento con vista sul Colosseo - si stabilirà. Ma come dimenticare che il medesimo Scajola, nel 2007, in denuncia dei redditi aveva elencato undici immobili di proprietà? Il rischio, poi, è di essere impiccati alla medesima causa per cui si era ammirati: la reggia. Trasecolava, Claudio Martelli, quando da un giorno con l’altro la villa sull’Appia antica era diventata da simbolo di grandeur a simbolo di taccheggio. Era il terribile 1993, ma le cose non sembrano cambiare.

Gira e rigira salta fuori uno scandalo, e gira e rigira si va a parare sul domicilio. Affittopoli, anno 1996, fu la madre di tutte le spiate. Ci rimediarono la figuraccia soprattutto i giovanotti emergenti della sinistra post Mani pulite, Massimo D’Alema e Walter Veltroni, il primo alloggiato a Trastevere, il secondo a piazza Fiume, e anche lì, come nel caso De Mita, a equo canone da enti pubblici. Ma, appunto, mentre De Mita credeva nella rettitudine della franchigia, gli statisti della moralizzazione non potevano permettersi una macchia così disonorevole: D’Alema traslocò, Veltroni chiese un adeguamento della pigione. I giornali si esercitavano su un nuovo tema: Affittopoli è di destra o di sinistra? La contabilità diceva che quelli di sinistra presi col quartierino semiregalato erano quindici contro nove di destra. E quelli di destra non battevano ciglio: «Il nostro elettorato capisce», disse Clemente Mastella a sua giustificazione. E insomma, quelli di sinistra erano di più ma quelli di destra erano senza vergogna, e ognuno ne trasse considerazioni filosofiche: quanto era attuale la lezione di Norberto Bobbio sul (tradito) egualitarismo di sinistra e il (praticato) inegualitarismo di destra?

Poi sono trascorsi gli anni e Affittopoli trasfigurò in Svendopoli: le medesima residenze, occupate ad affitti di favore, a prezzi di favore erano state vendute. E agli stessi illustri inquilini. Di nuovo si rosicò a vedere sui giornali - nel frattempo approdati a una minuziosa stampa a colori - le foto degli attici e superattici, luminosissimi e terrazzatissimi, dei vari Franco Marini e Pierferdinando Casini, in una mutualità della protervia che intanto aveva abbattuto i muri dell’arco costituzionale: ebbe un tetto anche Gianni Alemanno. Tanto per intenderci sull’investimento: Nicola Mancino aveva acquistato al prezzo di un miliardo e 550 milioni di lire (circa 800 mila euro) dieci vani più soffitta autonoma in Corso Rinascimento, la via del Senato. Mastella, col solito spirito pragmatico, rastrellò sei appartamenti destinati a figli, sedi di partito e redazioni di giornale.

C’è niente da fare: se si infilano le mani nei traffici immobiliari, non se ne esce più: dall’abuso edilizio di Vincenzo Visco a Pantelleria, alle immaginifiche e lucrose trattative di Silvio Berlusconi per ognuna delle sue sparse ville, alle mirabolanti avventure di Antonio Di Pietro fra masserie e garconniere (a adesso, se non s’è perso il conto, siamo a un totale di nove possedimenti, come Fausto Bertinotti), le questioni di dimora pareggiano belli e brutti, buoni e cattivi. E sarebbe forse giusto, in periodo di riabilitazioni, applicarsi al caso del socialista Gianni De Michelis il quale, negli swinging Ottanta, abitava in una stanza dell’Hotel Plaza, in via del Corso, a sei milioni di lire al mese. Visto oggi, un atto di sobrietà.

da lastampa.it


Titolo: MATTIA FELTRI. - Il senso del ministro per gli affari
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2010, 08:59:00 am
3/5/2010

Il senso del ministro per gli affari
   
MATTIA FELTRI


Claudio Scajola acquistò casa con vista sul Colosseo nel 2004. Secondo l’accusa, la casa costò 1 milione e mezzo, e 900 mila euro furono pagati dal costruttore Diego Anemone. Scajola nega: «Ho pagato la somma pattuita pari a 610 mila euro». In una delle tante interviste lette sui quotidiani di sabato, il giornalista chiede: «610 mila euro per 180 metri quadrati, non le sembra poco?». Scajola risponde: «Mi sono documentato in questi giorni. Basta fare una rapidissima indagine sui prezzi degli immobili a Roma in quel periodo e si vedrà come il prezzo da me pagato sia in linea con quello di mercato per un immobile di quel tipo in quella zona».

In effetti basta fare una rapidissima indagine e si scopre (Censis 2005) che nel 2004 Roma era la città più cara d’Italia: il prezzo medio al metro quadrato era di 3 mila e 900 euro. Prezzo medio, e cioè facendo sintesi fra una casa di borgata e una, diciamo, vista Colosseo. Ma Scajola (che colpo!) la pagò 3 mila e 300 euro al metro. Sotto la media: magia. Il quartierino in questione sorge a Colle Oppio (cento metri dal Colosseo, proprio sulla Domus Aurea di Nerone): se uno fa un giretto in Google, e controlla i prezzi del 2004 a Colle Oppio, vedrà che il ristrutturato non era mai sotto i 10 mila euro al metro e poteva arrivare a 14-15 mila. Il non ristrutturato, se andava bene, ma proprio bene, si attestava sui 7 mila e 500 euro.

Ecco, basta fare una rapidissima indagine e si scopre che Scajola è quantomeno un uomo molto fortunato. Ma se sopravvive il sospetto che Scajola acquisti appartamenti alla metà della metà perché è un uomo abile, beh, uno così bisognerebbe farlo Presidente dei Mutuatari, o forse ministro della Casa (con vista), oppure direttamente Santo.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7296&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MATTIA FELTRI. - L'epurazione, vizietto bipartisan
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2010, 11:09:21 pm
26/7/2010 (7:13)  - LA STORIA, GUAI AI DISSIDENTI

L'epurazione, vizietto bipartisan

Granata espulso sarebbe solo l’ultimo caso di una serie infinita, a destra come a sinistra

MATTIA FELTRI
ROMA

C’è epuratore ed epuratore. C’è il serial killer, come Umberto Bossi, e il virtuoso del coltello, come Walter Veltroni: la cacciata di Riccardo Villari dal Partito democratico, alla fine del 2008, è un gioiello di spietatezza. La Stampa ricordò le mani di Karl Radek, la scoperta di Franco Fortini in un saggio del 1965 (Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie); Fortini analizzava un filmato di Lenin alla Terza internazionale, dietro Lenin c’era anche Nicola Bombacci che sarebbe poi diventato fascista di Salò e c’era Radek con gli occhialini e la barbetta e rideva, e alla fine gettava le braccia in avanti. Fortini visionò due copie diverse del medesimo filmato e nella seconda, passata per le mani di forbice di Stalin, la faccia di Radek era stata cancellata, poiché era caduto in disgrazia, ma le mani no, ed erano rimaste a gesticolare galleggianti nei fotogrammi.

Villari - qualcuno ricorderà - era stato eletto alla presidenza della Vigilanza Rai senza i voti dei compagni e, siccome non si schiodava, venne estromesso prima dal gruppo poi dal partito e, su demoniaca pretesa di Veltroni, cancellato dall’elenco dei fondatori del Pd. Villari non venne purgato, venne obliterato, eliminato dalla storia, sparso il sale sulla sua ombra. Mai esistito.

Bossi non si occupa di queste crudeltà d’archivista. Lui rade al suolo. Con l’elenco dei pogrom leghisti si potrebbe scrivere un breve manuale del genocidio politico: dalla sorella di Umberto, Angela, col marito Pierangelo Brivio, poi passati ai movimenti dell’irrilevanza, e fino a Maurizio Grassano, subentrato in Parlamento a Roberto Cota e poi defenestrato perché inquisito, si percorre un camposanto. Per intenderci: nel 1999 Domenico Comino venne messo alla porta perché osava intrattenere rapporti con il mafioso di Arcore e due anni più tardi toccò a Francesco Tabladini perché al contrario osava contestare il rinato accordo coi berlusconiani, che però mafiosi non erano più. E ci sono le vicende di Franco Rocchetta, Gianfranco Miglio, Giancarlo Pagliarini, delle decine di veneti allergici al «neocentralismo lombardo» e lì il confine fra l’abbandono e la deportazione è labile. E’ che Bossi è un diserbante. Nel 1990 ammise di aver falciato uno perché «culattone»: «Un ragazzo per bene ma era omosessuale. Quanti partiti democratici hanno omosessuali dichiarati, cioè donnicciole, nei loro posti chiave? Un omosessuale è persona di tolleranza fragile, instabile».

Così, dopo un po’, la pretesa di far fuori Fabio Granata non sembra nemmeno tanto campata in aria, soprattutto perché non è che Alleanza nazionale fosse una congregazione così ecumenica. Spettacolare è la vicenda della Caffettiera ai cui tavolini - luglio 2005 - sono seduti Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa e Altero Matteoli. Siamo a Roma, piazza di Pietra. Li ascolta un giovane stagista del Tempo, Nicola Imberti. I tre parlano di Gianfranco Fini: «E’ malato, non vedete come è dimagrito, gli tremano le mani. Non possiamo farlo trattare con Berlusconi sul partito unico. Non è capace!». E ancora: «La vera questione è capire chi è Fini oggi. Dobbiamo andare da lui e dirgli: svegliati! Se serve prendiamolo a schiaffi, ma scuotiamolo». I giornali spettegolano su recenti delusioni d’amore di Fini, già separato da Daniela Di Sotto e non ancora congiunto a Elisabetta Tulliani. In un libro uscito da pochi mesi (La conversione di Fini, Vallecchi editore), Salvatore Merlo sostiene che Fini disse ai pochi rimasti al suo fianco: «Per coerenza dovrebbero dimettersi». Poi, ma questa è cronaca, sottrasse al trio le cariche nel partito e azzerò tutte le correnti, in quanto correnti distruttive, mentre la sua attuale è costruttiva.

I partiti, si sa, hanno stagioni dolorose, e vale anche per An. Nel 2003 Fini volle e ottenne la testa di Antonio Serena colpevole di aver consegnato a ogni parlamentare una videocassetta dal titolo Guai ai vinti nella quale si sosteneva che Erich Priebke, appena condannato per l’eccidio delle Ardeatine, avesse sparato in ubbidienza ai superiori. Una tesi piuttosto cara alla gerarchia di destra, fino a pochi anni prima. Nel 1998 era stato il turno di Romano Misserville, responsabile di aver fondato il movimento Destra di popolo, forse qualcosa più di una corrente.

E insomma, non c’è fazione senza il suo cadaverino. Il Pdci di Oliviero Diliberto ha espulso un anno fa Marco Rizzo con l’accusa di aver fatto campagna elettorale in favore di Gianni Vattimo; l’indimenticabile Franco Turigliatto fu accompagnato all’uscio di Rifondazione comunista perché nel 2007 non diede il voto alla politica estera del ministro Massimo D’Alema, e il gesto provocò qualche traballio al governo di Romano Prodi; lo stesso governo che Nuccio Cusumano - inizio 2008 - cercò di salvare nonostante l’Udeur di Clemente Mastella, a cui era iscritto, avesse negato la fiducia al premier: il gesto di fedeltà al gabinetto e di infedeltà al leader determinò l’espulsione, cui cercò di porre rimedio il Pd. Cusumano fu candidato ma non eletto alle successive Politiche. E siccome il centralismo democratico non piace a nessuno, eccetto che ai capi, una bella medaglia alla memoria del Novecento spetterebbe anche ad Antonio Di Pietro che, a giugno, ha messo al bando dall’Italia dei valori Nicola D’Ascanio, presidente della Provincia di Campobasso, poiché aveva deliberato di nominare tre assessori graditi a lui ma sgraditi alla segreteria, che ne aveva vanamente indicati altri tre.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/57038girata.asp


Titolo: MATTIA FELTRI. - Fini e i suoi eroi
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2010, 04:43:35 pm
4/8/2010 (7:31)  - IL CASO

Fini e i suoi eroi

Così diversi così finiani

L'esordio in Aula del gruppo "Futuro e libertà"

MATTIA FELTRI
ROMA

Forse i due che si assomigliano maggiormente sono il più giovane e il più vecchio, l’onorevole Gianfranco Paglia, quarant’anni, e l’onorevole Mirko Tremaglia, ottantaquattro. Paglia ha perso l’uso delle gambe nella battaglia del Pastificio, Mogadiscio 1993, e ne ha guadagnato una medaglia d’oro al valor militare. Tremaglia combatté diciassettenne, con onore e dalla parte sbagliata, quella di Salò, l’epilogo della Seconda guerra mondiale. Sono due dei quarantatré finiani - trentatré alla Camera e dieci al Senato - che scuotono la legislatura. Tremaglia, il vecchio bergamasco, vive con tensione altalenante il matrimonio con Gianfranco Fini, che pareva definitivamente interrotto dopo la qualifica che il capo diede del fascismo - male assoluto - altamente lesiva dell’orgoglio di una generazione. Fini non può più fare il leader, disse Tremaglia.

Cambiare idea è sacrosanto, e infatti questo nutrito manipolo di guastatori è bello eterogeneo, come vogliono i tempi moderni. C’è per esempio la marocchina Souad Sbai, grande paladina dei diritti delle donne islamiche, e c’è Maurizio Saia, che ebbe l’onore dei corsivi quattro anni fa, quando giudicò Rosy Bindi indegna del ministero della Famiglia in quanto lesbica (secondo lui): «Guardiamoci in faccia», disse Saia, e Fini lo guardò in faccia e disse: «E’ un imbecille». Ma poi tutto si scorda e s’aggiusta e Saia oggi segue convinto il vecchio boss ma cede al magone perché «stavolta rompiamo con gente con cui facevamo insieme i campi hobbit».

I capibastone sono pochi. Ai tempi erano vice dei vice: i vari Italo Bocchino, Fabio Granata, Adolfo Urso, Carmelo Briguglio. La star è l’attore Luca Barbareschi. Il cervellone è Mario Baldassarri, ex viceministro all’Economia, specializzato al Mit del Massachusetts con Franco Modigliani e Paul Saumelson anche se di Baldassarri, in lampi di frivolezza, la stampa ricorda più frequentemente la seduta spiritica del ‘78, quando il fantasmino cercò di spifferare a lui e a Romano Prodi dov’era recluso Aldo Moro. Il fedelissimo è Donato Lamorte, 79 anni, una specie di combinazione vivente delle casseforti finiane. Le ibarruri sono soprattutto Flavia Perina e Giulia Bongiorno. La Bongiorno è l’ultima arrivata, ma già splende di gloria nuova, tanto è vero che la si ricorda sempre meno per la strepitosa difesa di Giulio Andreotti assunta a Palermo, o per quelle successive e non così fortunate di Francesco Totti e Vittorio Emanuele, e invece la si considera una trasposizione illuminata di Niccolò Ghedini, poiché in favore del capo fa filosofia del diritto, stende le leggi, apparecchia le querele.

Flavia Perina è fra i più solidi della truppa. Quattro anni fa seppe resistere agli schiaffoni di Fini per il quale la direzione del Secolo, affidata alla Perina nel 2000, era fallimentare: «Di questo giornale non sappiamo che farcene». Lei, a dir la verità, a svecchiare il quotidiano ci provava da tempo (senza l’aiuto del partito) e con una linea che ormai è compiuta e che, secondo i detrattori, pare una riedizione fuori tempo massimo dell’Unità veltroniana, così pop ecumenica, in cui vien buono tutto, Francesco Guccini, Hannah Arendt, Tintin. E però la Perina ha il merito - per chi lo considera tale - di essere diventata finiana prima di Fini, visto che nel 2005, intervistata da Claudio Sabelli Fioretti, già criticava le leggi sulla giustizia e il nostalgismo, difendeva il kapò Martin Schulz e i diritti degli extracomunitari, e vedeva Stefania Prestigiacomo «appiattita sulla pappetta post femminista».

E poi, andando avanti, abbiamo in Maria Grazia Siliquini l’ex casiniana, in Benedetto Della Vedova l’ex pannelliano. Abbiamo in Giuseppe Consolo il giurista napoletano, l’insegnante alla Luiss, il padre dell’attrice Nicoletta Romanoff che, per via materna, discende dagli zar di Russia. Consolo, lo scorso maggio, si produsse in una tirata contro i vigili urbani di Roma che con atteggiamento pretestuoso, disse, gonfiavano di multe lui e i suoi colleghi parlamentari. C’è Maria Ida Germontani che è stata la prima deputata di destra eletta a Reggio Emilia nel Dopoguerra. C’è il senatore Francesco Pontone, ottantatré anni, al quale dobbiamo l’istituzione della festa del nonno. Abbiamo la bella Catia Polidori, di Città di Castello, che nel sito personale ancora esibisce le foto col Cavaliere. Abbiamo Silvano Moffa, ex presidente della Provincia di Roma. E abbiamo, per concludere, il deputato bellunese Roberto Menia, promotore della legge con cui è stata istituita la giornata del Ricordo in onore delle vittime delle foibe, un merito che non è certo oscurato dalle celebri immagini delle Jene, che proposero un Menia portato in trionfo in Perù, dov’era andato per prestare soccorso a quell’«incredibile macchina della tecnica e della natura che è il colibrì».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57319girata.asp


Titolo: MATTIA FELTRI. - La politica e il declino dell'(est)etica
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2010, 09:24:33 am
15/8/2010 (7:10)

La politica e il declino dell'(est)etica

Non solo inchieste: così il look sfacciato mostra il lato debole del potere.

Da Scajola a Tulliani


MATTIA FELTRI
ROMA
L’altro giorno, quando abbiamo visto sui giornali le foto di Giancarlo Tulliani, il cognato di Fini, con la Ferrari da quasi 200 mila euro, la maggior parte di noi non si è chiesta dove il giovanotto avesse raccattato i denari per acquistare il bolide. Ma come gli fosse venuto in mente di lavarlo per strada. L’epica del sabato mattina con la spugna e lo shampoo per carrozzeria è, appunto, ormai epica, e non soltanto per i titolari di utilitarie, poiché nessuno più oserebbe vantarsi di pistoni e cromature. Quella foto spiega una verità trascurata: le società mostrano il declino non tanto nei disastri etici, quanto in quelli estetici.

La fiducia ripetutamente accordata dagli elettori a Silvio Berlusconi - con i suoi conflitti di interessi, le sue pagine nebbiose, le sue relazioni spericolate - e il sostanziale fastidio manifestato, di conseguenza, per l’opera replicante di moralizzazione politica da parte della magistratura, sono il segnale che i governati hanno imparato sulla loro pelle - e sulla pelle dei padri - che il potere conduce quasi inevitabilmente al furto e alla soperchieria, da che mondo è mondo. Non li indigna la malversazione, ma l’inconcludenza e l’arroganza. Tutte le scatole cinesi e tutte le leggi ad personam non varranno mai l’immagine dell’ex ministro Claudio Scajola con la moglie al fianco e dietro di loro il finestrone vista Colosseo. Un’imbarazzante esibizione di grandeur da ganassa, e per di più sotto costo, e per di più a loro insaputa. Il nesso fra la morale e l’estetica non è questione relegata ai sussidiari di filosofia: basta sfogliare un patinato.

Non si vuole generalizzare: ognuno ha la propria storia. Ma è il carosello globale che lascia senza fiato. Silvio Berlusconi è stato accolto prima nel mondo dell’imprenditoria e poi in quello della politica come il parvenu, l’arricchito, quello che sventaglia i villoni e il costoso caschetto Playmobil calzato sul cranio. Ma sono state le reiterate battute su Rosi Bindi, bolse anche in un bar per militari di leva, oppure le sfilate di ragazzine e mignotte nei palazzi del potere, come nelle abitudini di certi raìs africani, ad annichilire i fedelissimi del voto a centrodestra. E chi non ama Gianfranco Fini non si capacita - prima ancora che della fronda e della gestione dei beni - dell’abbigliamento festivo, dei giubbotti di pelle alla Arthur Fonzarelli, degli occhialini da sole stile capobastone di quartiere, dei chewing gum masticati nei dibattiti pubblici, dei palpeggiamenti e dei manifesti turgori sulla barca (e lo dovresti sapere che i teleobiettivi guardano lontano). Fu fra due teli da bagno gemelli e zebrati, uno per lui e uno per Elisabetta, che fece capolino il dubbio.

Del resto basta fare un salto a Montecitorio, un giorno qualsiasi, in quella che sarebbe la cattedrale laica, il sacrario della Repubblica, per rendersi conto che qualsiasi forma di rispettosa soggezione non agli uomini, ma alle istituzioni, è calpestata da All Star verdi, le calzature preferite delle nuove leve leghiste. Umberto Bossi, con le sue canottiere, col suo turpiloquio antico e politicamente scorretto, è in fondo obbediente alla ragione sociale (iper popolare) della Lega. Esattamente come Antonio Di Pietro, che riunisce sull’aia, fra trattori e galline, i contadini di masserie vicine e i politici simpatizzanti. Il loro rapporto con l’estetica è una schietta rivendicazione politica, ruspante anziché volgare. Né l’uno né l’altro - che vanno alla Camera vestiti come i nostri vecchi andavano a messa - si sognerebbe di entrare in Aula con magliette girocollo o con giacche a vento, come fanno gli accoliti. I leader abbronzati e smutandati, di destra e sinistra, compaiono su Chi appena prima del tronista depilato. Il dramma delle squinzie berlusconiane, prima ancora dell’eventuale insipienza, sono i sandali zeppoloni in Transatlantico, i colori sfolgoranti, le voci stridule, e si prova nostalgia per i caricaturali tailleur di Irene Pivetti, deferenti quanto più goffi.

Una classe politica che si accanisce chirurgicamente sul proprio volto (da Berlusconi in giù, molto più in giù) e che per innalzarsi calza scarpe con suole di gomma di dieci centimetri, è una classe politica perduta. Una classe politica che insiste col trafficare al telefono, con l’ordire corruzioni da diporto, con l’ordinare sollazzi inguinali come fossero pizze, con l’infarcire di sguaiatezze le conversazioni, e ancora non ha capito che sono conversazioni di pubblica disposizione, è una classe politica perduta. Denis Verdini non avrà - come moltissimi pensano - cercato di sovvertire per mezzo di loggia massonica le sorti repubblicane del paese, ma se va a cena con Flavio Carboni attenta a se stesso. Tutto questo governo di innamorati, che ostenta il più comune dei sentimenti mano nella mano davanti alle telecamere (ah, Gianni Agnelli, quando diceva che si innamorano soltanto le cameriere...), salvo poi pretendere la privacy, è un governo che ambisce a Beautiful. Giovanna Melandri che racconta le sue vacanze in Kenia come una parentesi di impegno sociale e poi viene fotografata mentre balla alla festa di Flavio Briatore a Malindi, e nega finché le foto non escono, va oltre l’umorismo vanziniano e oltre la caricatura dei cuori a sinistra coi portafogli a destra.

L’opinione quasi sacerdotale che si aveva dello scranno e del ruolo - che non è roba da parrucconi, ma forma e dunque sostanza - si è trasformata in un rivendicato autodisprezzo en plen air, una piazzata perenne, liti di ringhiera, abbigliamento da centovetrine, sogno di eterna giovinezza studiato su Postalmarket. I Palazzi del potere non sono più templi, neanche per i templari. E quando frana la torre, cade Babilonia la grande.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57629girata.asp


Titolo: MATTIA FELTRI. - Cosa ci lascia l'estate della politica cafona
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2010, 09:08:37 am
1/9/2010

Cosa ci lascia l'estate della politica cafona
   
MATTIA FELTRI

Due belle facce: come dire, il volto dell’estate. Il ricciolo nero incatramato di Muammar Gheddafi e la grinta di terracotta di Silvio Berlusconi, impietriti nei loro sorrisi, e noi impietriti davanti alla tv. Ecco, è questo il gran finale di stagione con i cavalli berberi che facevano l’ammuina, ognuno per i fatti propri, in un disordine meticoloso ma molto plateale. E’ stata la regola stagionale: tanta roba purché scasciata. Ormai si rubacchia da mattina a sera. Si fa un quotidiano bottino misero. La ristrutturazione a gratis, il mutuo a condizioni irrinunciabili, il massaggio tutto compreso. Siamo alla tangente piccolo borghese perché è il gusto che si è livellato rasoterra. L’alta carica istituzionale veste secondo lo stile del potenziale filarino delle ragazze di Ostia, quelle simpaticissime del «calippo e ’na bira»: quindi pinocchietto, occhialini neri, infradito (se rinfresca, giubbottino di pelle?). E’ la standa globale. Il menu di tutti noi era pennette tricolori e gamberetti in salsa rosa, o giù di lì. E qualcuno avverta Berlusconi che il maglione appoggiato sulle spalle fa tanto sanatorio.

e si nota una differenza fra l’Italia di oggi e di ieri - fra le villeggiature di oggi e di ieri - è la cafonalizzazione dei costumi (non necessariamente da bagno). Un formidabile Nanni Loy, anno 1965, girò «Made in Italy» (una specie di sequel de «I mostri») e c’era un episodio in cui certi riccastri rifuggivano il ristorante d’eccellenza per farsi insultare in trattoria romana. Quel famolo strano è diventata norma ventiquattr’ore su ventiquattro, i politici del dissenso si contorcono in barca con le mogli, le mani sul sedere, quelli di governo aspettano il tramonto per suonare la chitarra e cantare con le camicie aperte sul petto; in generale offrono nudità e spensieratezza, la classe dirigente e la classe diretta. Non si capisce a quale categoria appartenga il giovanotto che lava la Ferrari per strada, a Montecarlo, incredibilmente persuaso di muovere invidie. A quale appartenga la famiglia che posa su poltrone di velluto come nelle foto ufficiali delle satrapie orientali.

Ecco, è stata un’estate così, rubinetteria placcata oro, risse da pollaio, innamoramenti da «Bolero», e tutto dentro il Palazzo. Non si distingue un leghista da un democristiano, e non perché il leghista abbia smussato il vocabolario. Non si distingue un capogruppo da un tronista e anzi negli affari sentimental-erotici il ministro ha scalzato Fabrizio Corona dalle pagine calde del gossip. Il turpiloquio è così diffuso, così esibito, così intonato al lifting e ai calzoni rossi da non provocare scandalo ma noia. Ah, se gli scazzottatori d’aula avessero la misura e il nodo della cravatta di Walter Chiari che insegue Tazio Secchiaroli! E invece abbiamo fatto una mezza rivoluzione perché ci stavano sul gozzo gli impellicciati della Scala. Ma è davvero molto meglio questa universale frittata di cipolle e rutto libero?

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7770&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MATTIA FELTRI. - A Venezia la mostra dei fanfaroni
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2010, 09:07:41 pm
9/9/2010
 
A Venezia la mostra dei fanfaroni
 
 
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MATTIA FELTRI
 
Fin qui siamo nella media.
Ma si conserva la speranza di far meglio dell’edizione scorsa quando, a Venezia per la mostra d’arte cinematografica, arrivarono le ragazze d’oro dell’estate: Noemi Letizia e Patrizia D’Addario. Gli astri della Lolita di Casoria e della Maddalena di Bari vennero oscurati da Michele Placido (sempre lui) che nel presentare il suo lavoro elogiò Renato Curcio, il fondatore delle Brigate Rosse.

Il film era «Il grande sogno», sulle origini del ’68, e Placido confidò nel fascino del maledettismo: «Rispetto Renato Curcio perché ha bruciato la sua vita». Un frase più sexy che assertiva e addirittura trattenuta rispetto all’elogio che la grande Fanny Ardant aveva dedicato al medesimo Curcio nel 2007. Intervistata sul settimanale «A», l’attrice francese aveva preannunciato l’arrivo in Laguna con una dissertazione sulla differenza antropologica fra i terroristi italiani e quelli suoi compatrioti: «Non è diventato un uomo d’affari come è successo agli uomini del Sessantotto francese». E pertanto Curcio era un «eroe» per la Ardant, che aveva «sempre considerato il fenomeno Brigate Rosse molto coinvolgente e passionale».

Il tema dell’etica del male, dunque, non è stato introdotto da Placido commentando - quest’anno - il suo Vallanzasca. Gira da tempo. Piace. Vien fuori a ogni srotolar di tappeto rosso. Nel 2006 il regista Jean-Marie Straub, trattenuto a casa, mandò un contributo scritto nel quale illustrava il sentimento da cui nasceva il suo film, «Quei loro incontri»: «Finché ci sarà il capitalismo imperialistico americano, non ci saranno mai abbastanza terroristi nel mondo». La missiva fu letta in conferenza stampa e fine. Arrivederci. Insomma, buono tutto. Buono l’entusiasmo per Hugo Chávez, buona la periodica minaccia d’espatrio, buonissimo il puntuale calcio nel sedere al ministro in carica.

E infatti il festival di Venezia non è più una semplice mostra cinematografica ovviamente e occasionalmente degenerata in polemica politica della domenica pomeriggio, ma una specie di palestra della fanfaronata, dove l’ultimo che passa offre la sua (tipo che Giuseppe Mazzini era un terrorista, dice il regista Mario Martone, e un terrorista come Toni Negri, aggiunge Luca Barbareschi, quando Mazzini e Negri sono due cose completamente diverse, ma in comune hanno che nessuno dei due era terrorista), e più grossa è più si prende i titoli sui giornali, e poi magari si addolora perché il fango della polemica ha prevalso sullo spirito dell’arte.

E dunque va benissimo anche Placido quando s’accende per Vallanzasca, e sostiene che in fondo in Parlamento siedono criminali più criminali del bel René. E certo che è così. E poi piove governo ladro, e che cosa ci vuole fare signora mia: è tutto un magna magna.

Ma la verità, forse, è che fra la gente di cinema, come fra i politici, c’è chi preferisce spiccare per le baggianate che velarsi col buon senso.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7802&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MATTIA FELTRI. - Pdl, il partito col peccato originale
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2010, 09:00:21 am
7/9/2010 (7:30)  - LA STORIA

Pdl, il partito col peccato originale

Troppo fragile fin dal suo congresso fondativo

MATTIA FELTRI
ROMA

Il Popolo della libertà morì nei giorni del battesimo. Uno che la vide lunga fu il politologo Giovanni Sartori: «Io credo che il successore di Berlusconi, Berlusconi vivente, lo decide Berlusconi, e quindi non sarà certo Fini». E aggiunse: «I colonnelli sono già tutti sistemati». Avevano già cambiato generale. Era venerdì 27 marzo 2009, apertura del week end del congresso di fondazione del partito unitario di destra. Alla domenica sera, la sintesi del segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, fu micidiale: «A Berlusconi faccio tanti auguri, a Fini ne faccio tantissimi».

Sabato 28, dopo il discorso del presidente della Camera, il premier aveva devoluto ai retroscenisti materiale di grande abbondanza e di grande sapore; voci dal backstage avevano spifferato il seguente commento offerto dal cofondatore uno al cofondatore due: «Hai fatto un discorso stre-pi-to-so, stre-pi-to-so. Il miglior discorso che io abbia mai sentito. Sono d’accordo su tutti i punti». E poiché Berlusconi è di notoria generosità, si produsse in un elogio di Elisabetta Tulliani: «Ti devo fare i complimenti per la tua donna che è un modello di stile e di compostezza». Ma che cosa aveva detto Fini? Essenzialmente tre cose. Primo, la Lega va sfidata (allora si parlava del referendum elettorale) «perché discutere è il peso della democrazia»; secondo, le riforme costituzionali si fanno insieme con il Partito democratico; terzo, va sconfessata la legge sul testamento biologico perché è da «stato etico».

I due avevano come al solito appena finito di litigare. Si erano visti in settimana, un pranzo col fiore in bocca, per la battuta di Berlusconi secondo il quale bisognava consegnare diritto di voto (in aula) soltanto ai capigruppo così si sarebbe risparmiato tempo. Fini difese l’istituzione rappresentata, e coi toni che ama. Berlusconi spiegò di essere stato frainteso, naturalmente. Un precedente fra mille. Il più celebre era quello delle «comiche finali», denunciate da Fini poco più di un mese dopo la “rivoluzione del predellino”, piazza San Babila, novembre 2007. Una volta ceduto, Fini avrebbe detto che il nuovo partito sarebbe stato «un partito ampio, plurale, inclusivo ed unitario, non di una persona, ma di una nazione» (a Panorama, una settimana prima del congresso fondativo). In un’intervista alla Stampa, poi, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno (l’ultimo dei colonnelli ad abbandonare Fini, e nonostante in quel momento fosse già considerato un berlusconiano per la presa di posizione nel caso Englaro), disse che uno dei compiti del Popolo della libertà sarebbe stato quello di «costituzionalizzare Berlusconi», e cioè di sottoporlo alle regole, consegnargli la leadership attraverso il voto anziché attraverso il plebiscito, farlo uscire dalla «legittimazione carismatica» per farlo entrare in quella di un «partito strutturato».

Roba che a Berlusconi sarebbero venute le bolle. E infatti, al termine del Congresso, fu incoronato per inerzia e per acclamazione da seimila delegati e il Pdl vide la luce col peccato originale. Domenica 29 marzo, Berlusconi chiuse il trittico e si esibì in una estrosa predica, pura e rilucente bigiotteria, e a Fini dedicò le carezze che si dedicano ai faciulli, ma soprattutto sventolò il programma del Partito popolare europeo dicendo «questi sono i valori del berlusconismo». Non del partito, del «berlusconismo». Su due dei tre punti (Lega, bioetica, riforme) sollevati da Fini non rispose, sul terzo disse: «Se Fini ci riesce, tanto di guadagnato... Ma non credo. Per intanto andremo avanti da soli».

A chi gli chiese conto di una tale sgarberia, Berlusconi rispose: «Io non ho un linguaggio da uomo del palazzo. Non uso il politichese. Me ne guardo bene. Né tantomeno finisco nelle polemiche politiche il più delle volte incomprensibili. Mi tengo fuori dal teatrino della politica. Sono un uomo del fare, io. Da sempre». Insomma, nel giro di tre giorni si era tracciato il canovaccio della commedia recitata nel successivo anno e mezzo. Fini chiedeva regole, dibattito, politica soda, quell’altro gli offriva trance mediatica, monologo fascinoso, politica spiccia del «ghe pensi mi». E si notò, quella domenica pomeriggio, l’assenza del presidente della Camera. Non era in prima fila a celebrare l’incoronazione. Si parlò di precedente impegno istituzionale, ma era il segno di un’illusione già abortita.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58303girata.asp


Titolo: MATTIA FELTRI. - Silvio e l'inutile mercoledì da doroteo
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2010, 05:15:04 pm
30/9/2010 (7:17)  - PERSONAGGIO

Silvio e l'inutile mercoledì da doroteo

I toni concilianti non lo salvano da una valanga di insulti

MATTIA FELTRI
ROMA


Era intrattabile, alla fine, e ancora non conosceva i numeri. Ma se ne stava rintanato in una stanzetta di Montecitorio a ripensare
all’umiliante rito cui s’era dovuto sottoporre, da mattina a sera, e in previsione del trionfo finiano. Tutto quel cumolo di chiacchiere - meglio non le considera - uscite da bocche di deputati dell’ombelico del mondo di cui Silvio Berlusconi nemmeno sa i nomi, i titoli, i meriti. Fermo al banco, la mano sulla fronte, sulla guancia, il gomito a reggere l’armamentario, per ore a sorbirsi la smitragliata di insulti (Wanna Marchi della politica, sognatore, bugiardo, barzellettiere...). E non era servito a niente che gli dicessero dell’ultimo salto triplo dell’ultimo parlamentare eletto in Argentina, che era lì lì pronto a mollare i finiani per rincasare.
E siccome doveva essere il gran giorno di Gianni Letta - del pacificatore, del saggio contabile - il premier si era presentato in mattinata con le migliori intenzioni, cioè con un discorso narcotico, Piero Calamandrei, il dialogo, le ragioni delle minoranze, l’armonia, il tragico elenco dei successi, e ancora dottrina liberale in tono doroteo; e allora reazioni composte, al massimo la sghignazzata quando Berlusconi s’era avventurato nell’ignoto: «Stiamo finendo la Salerno-Reggio Calabria». E bastava che volasse una mosca per oscurare la faccia del comiziante: «Faccio fatica a trattenere le battute pungenti...».

Il seguito aveva la cadenza della tortura, immaginate il bon vivant alle prese con le citazioni di Brecht, Nietzsche, Pessoa, Montesquieu offerte dall’intero emiciclo, impietoso: sembrava che ogni parlamentare avesse qualcosa da ridire, ogni finiano avesse da fare il paternalista, finché calava persino un pietrificante Leoluca Orlando col richiamo di Goethe in lingua originale. La sfacciataggine di Massimo Donadi aveva infine mosso Berlusconi a intercettare il capogruppo dipietresco che stava per uscire dall’aula; la conversazione (ricostruita da Donadi) era più o meno questa. B: «Ma lei è sempre così cattivo?». D: «No, sono buono, non ce l’ho con lei, ce l’ho con quello che fa». B: «Anche io sono molto buono. Pensi che Cossiga nel ‘92 mi sconsigliò di entrare in politica per via della mia bontà». D: «E doveva seguirlo, quel consiglio».

Si può intuire l’allegria, povero Berlusconi. Che pure era il suo compleanno, settantaquattro anni. E tutti sono passati da lì, a stringergli la mano, a fargli gli auguri, anche Pierferdinando Casini, e il Cavaliere con un orecchio ascoltava il buon auspicio, con l’altro la più interminabile sequela di insulti cui sia mai stato sottoposto di persona. Per dare il senso, il grande Mirko Tremaglia, 84 anni, mezzo piegato dall’età e da un femore appena ricomposto, si era aggrappato a una stampella e stava giusto spiegando perché mai e poi mai (questioni di diritti degli italiani all’estero) si sarebbe negato il gusto di dire in faccia al presidente del Consiglio tutto quello che pensava di lui, e sul più bello era arrivato Fini («sempre sull’attenti davanti a Tremaglia!») e, capita la situazione, il presidente della Camera cercava di dissuaderlo («gli fai un favore, così... Vota la fiducia...»), ma niente: «Non lo voto! Mai e poi mai!», e restava la curiosa testimonianza di un Fini che non raccatta voti per Silvio neanche se lo vuole.

Questa era l’aria. E non sarebbe migliorata visto che nel pomeriggio erano fissate le dichiarazioni di voto affidate ai leader, cioè ai più incattiviti. Nella replica Berlusconi aveva cercato di mantenere la caratura alto-istituzionale, si era giusto tolto qualche sfizio, furente per l’accusa di corruzione di parlamentare, poi l’ever green di una pedata alla magistratura, qualche giudizio digrignante. Ma Antonio Di Pietro, costretto dal grillismo ai superlativi, sconfinava nel paranoico, dava al premier dello stupratore della democrazia, dell’erede di Nerone, del criminale, e Berlusconi si era prima limitato a picchiarsi l’indice sulla tempia, poi s’era alzato a protestare con un Fini giudicato troppo morbido nel contrasto all’oltraggio in diretta tv. Quel poco di grazia era definitivamente evaporata, anche sotto i colpi di un Pierluigi Bersani in forma smagliante, nettamente il migliore in campo, ieri, e della certificazione della vittoria di Fini. Chissà se la festa organizzata dalle deputate di più rigida osservanza decorativa, subito dopo, a Palazzo Grazioli, giusto per una fetta di torta e una canzone, è servita per salvare in extremis il compleanno più inglorioso.

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58979girata.asp


Titolo: MATTIA FELTRI. - Una guerra casalinga
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2010, 11:31:48 am
5/11/2010

Una guerra casalinga

MATTIA FELTRI

Nel settembre 2009, Fini salì a Todi, alla scuola di politica di Bondi, per dire tutto quello che pensava (o quasi) di Berlusconi.

E per esprimere la sua opinione sul modo del Cavaliere di condurre il partito.

Il sugo era: io qui dentro non conto più nulla, decide tutto lui, ci vorrebbe più dibattito. Aggiunse qualche sostanziosa questione sulle allarmistiche politiche dell’immigrazione e della sicurezza, qualche squisita rivendicazione morale, qualche perplessità sul varo di leggi di molto circoscritto interesse. Ripeté le stesse cose, grosso modo, nella primaverile giornata in cui puntò il dito. «Sennò che fai, mi cacci?», disse al premier che lo invitava alle dimissioni da presidente della Camera, se voleva riprendere a far politica.

Ci sarebbe da ragionare - valutata l’indole di Berlusconi, e paragonata a quella di Fini, e ai sistemi spicci con cui Fini tenne il Movimento sociale e Alleanza nazionale - su quanto ci fosse di sostanzioso, già allora, e quanto di personale. Oggi collaboratori vicini e lontani compilano il quaderno delle memorie e, su una ricchissima aneddotica, fondano la teoria di un odio profondo e antico, e a lungo dissimulato. Ora i due gareggiano sfacciatamente a chi sa tenere il petto più in fuori, a chi è il galletto con la migliore crestina. Del resto, a parte qualche momento di ambizione istituzionale, per esempio ieri in alcune parti del discorso di Berlusconi, il grosso è stato scazzottata di cortile.

E infatti da mesi non si discute di altro che del famelico presidente del Consiglio e delle fameliche parentele del presidente della Camera. Ora, bisogna essere sciocchi per ignorare le implicazione pubbliche e politiche delle frequentazioni serali di Berlusconi, delle sue telefonate con bugia alla Questura di Milano, o dei criteri di vendita del patrimonio immobiliare di An, con miracoloso rientro in famiglia della casa venduta sottocosto. Ma bisogna essere altrettanto sciocchi per non capire che i due si sono sentiti sbirciati, perquisiti, violentati nel privato, vilipesi negli affetti. Senza contare il gusto non sempre guascone con il quale sono state sollevate le sottane e con la quale è stata messa in dubbio la tenuta morale dei protagonisti. Così più va avanti questa storia, più i contendenti troveranno buono ogni pretesto per dimostrare l’intima abiezione dell’altro. Vengono in mente, più che i duellanti di Conrad, i coniugi Roses, che si innamorarono per combinazione in una notte a caso, e finirono con l’accopparsi al termine di una spettacolare sequela di rancori e vendette.

Da quanto, seriamente, i due non parlano di politica? Da quanto non cercano di ricongiungere le divergenze con una franca discussione che non sia invece ripicca, misero calcolo, tattica buona fino a domattina o, appunto, disprezzo per gli affari casalinghi? Anche quando si mettono sul piatto altissimi principi, per esempio sulla giustizia, si sente sempre un sapore di rappresaglia, con Berlusconi persuaso che Fini voglia soltanto abbatterlo, e con Fini persuaso che Berlusconi voglia soltanto salvarsi, e forse hanno ragione entrambi. E persino ieri, all’Altare della Patria, dopo minuti di gelido imbarazzo, Berlusconi e Fini sono riusciti a scambiare qualche parola, e il meticoloso lavoro dei lettori di labiale ha tirato fuori una conversazione di non elevatissima implicazione sociale, e cioè sull’età delle delegate alla distensione notturna del premier, se i convocanti avessero verificato la carta d’identità delle convocate.

Non è un caso se la Seconda repubblica, costruita su partiti carismatici, compreso l’ultimo, in cui il nome “Fini” è stampato a caratteri da urlo, non meno che quello di Berlusconi o di Di Pietro o di Pieferdinando Casini, è passata dalla sfida fra leader alla sfida fra uomini, cocciuta, tignosa, spietata, senza esclusione di colpi, sopra e sotto la cintura, con le tifoserie attorno aspettando il sangue che scorre, e intanto che l’impero si sfalda.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8043&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MATTIA FELTRI. - "Mara la traditrice" l'ultima campagna Pdl
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2010, 09:07:46 am
Politica

20/11/2010 - PERSONAGGIO

"Mara la traditrice" l'ultima campagna Pdl

Escalation di accuse da colleghi, così lei ha deciso di sfilarsi

MATTIA FELTRI

Si gira di qui? Tradisce. Si gira di là? Non tradisce. Finché Mara Carfagna, imputata nell'interminabile processo indiziario da sentenza quotidiana - oggi condannata, domani scagionata - ha minacciato di sfilarsi con gesto di giovanile sussiego. Certo, la diceria è paranoica e inesauribile: coinvolge tutti, il silente consigliere vede nella sguaiataggine del supporter la prova della slealtà, e viceversa, e soprattutto il pettegolezzo è diventato malinconico oggetto di trafelate interviste. Da una testata all'altra, il ministro azzimato contro la sulfurea zarina, servitori esuberanti contro assistenti contenuti, la ricerca del collaborazionista è da ridotta di Valtellina. Alla fine, però, c'era sempre di mezzo lei: Giancarlo Lehner che ne traduce urbi et orbi le titubanze nei passaggi cruciali, il presidente della provincia di Salerno Edmondo Cirielli che imposta nella corrispondenza dell'intero Parlamento gli articoli della stampa locale, come se dimostrassero in via definitiva l'intelligenza col nemico. E infine, proprio ieri l'altro, quella ferocissima giaguara di Alessandra Mussolini che il nemico lo fotografa proprio, ed è il solito Italo Bocchino intrattenuto alla Camera dalla Carfagna medesima. «Vergogna!», è il ruggito della fiera con l'istantanea sbandierata agli increduli. Girano maldicenze, in quei luoghi di esibita austerità, e una vuole che fra il neocolonnello di Gianfranco Fini e la titolare delle Pari Opportunità resistano antiche tenerezze. Né antiche né contemporanee, replica lei: «Si maligna su tutto. Italo è stato importante per la mia formazione politica. Poi abbiamo preso strade diverse. Restano la stima e la gratitudine», disse a Stefano Lorenzetto poche settimane fa. Però niente toglie dalla testa di questo esercito di berlusconiani impegnati su mille fronti che gli infami stanno all'interno, e chiunque ti trascina negli angiporti di palazzo per ricordarti dove stava lei, quando si trattò di scegliere il nuovo coordinatore campano, e dove sta adesso, che il voltafaccia si consumerebbe sul terreno dei rifiuti, e sempre a causa di questi amorosi sensi mai sopiti. Povera Carfagna, la solidarietà vien da concedergliela ampia e incondizionata, viste le spiegazioni che ci si diede ai suoi esordi in politica. Che ci fa qui? Se lo domandarono commentatori compunti, e con l'immunità accordata alla satira fu Sabina Guzzanti a superare l'allusione con l'assioma: Mara più che una quota rosa è una quota a luci rosse, disse parlando di notti arcoriane.

In un silenzio planetario e meschinello. Sulla questione gravano richieste di risarcimento danni, ma la testimonianza è che la signora non ha mai avuto vita facile, nonostante si sia diplomata allo scientifico col sessanta e si sia laureata in Legge col centodieci. Ragazza più intelligente che bella, dice di lei il promesso sposo, il supermegamiliardario Marco Mezzaroma, il quale così illustra la portata intellettuale della fidanzata: «Per conquistarla le ho regalato “Le uova del drago” di Pietrangelo Buttafuoco». Il politicamente scorretto che le si è rivoltato addosso sembra cercare riscatto in un politicamente corretto instancabilmente distribuito in occasioni formali e informali. Non c'è categoria da lei teoricamente tutelabile - bambini, omosessuali, immigrati, donne, handicappati eccetera - che non intenda patrocinare con leggi che secondo i canoni liberali sono da protezione della specie. E' però nei giochini di società che emerge nitida l'ansia d'apparire impeccabili: le donne che ammira di più sono Oriana Fallaci e Margaret Thatcher, perfettamente stemperate da un'Alda Merini. Molti si sono ricreduti, per carità.

Su tutti Dario Franceschini che, quando era segretario del Pd, a questo giornale disse di aver rivisto il pregiudizio: «La Carfagna è brava e preparata». Anche dentro la coalizione di governo, ormai, è più rispettata che sfotticchiata, le vecchie foto scollacciate, il vallettume cui si sottopose, racconta, per pagare gli studi, sono argomenti casermicoli e di risulta. Stefania Prestigiacomo la adora e la difende, Maria Stella Gelmini né più né meno. Epperò se le seconde e le terze file sostengono che sotto il tailleur continua a non esserci niente, soltanto la ragazzina spensierata e volubile eccetera, ecco, basta e avanza. E' offesa offesissima, Mara Carfagna, negandosi così l'applicazione di quel meraviglioso e altero proverbio: ubi maior...

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/375821/


Titolo: MATTIA FELTRI. I nemici del Cavaliere rischiano di uscire di scena assieme a lui
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2010, 09:15:19 am
Politica

06/12/2010 - ANALISI

Cedere lo scettro a leader più giovani? Impossibile

I nemici del Cavaliere rischiano di uscire di scena assieme a lui

MATTIA FELTRI

ROMA
Quando Berlusconi si dice consapevole di avere una certa età, che presto dovrà cedere il passo e di volerlo cedere non ai maneggioni di palazzo ma a una nuova genia di politici, dimostra un'ambizione (antica).

Quella di organizzare abbandono e avvicendamento come assaggio di immortalità. Che ci riesca o meno, sarà uno dei tanti motivi che renderanno appassionante la fine dell'epoca berlusconiana. Ma forse il presidente del Consiglio tende a sopravvalutarsi, con tutte le buone ragioni di questo mondo, ma con un'ostinazione implacabile. Oggi, infatti, tira un'arietta dentro cui ci si annusa la fine dei maneggioni, che Berlusconi la voglia oppure no.

Questa stagione politica, delirante e sanguinolenta, e che qualcuno ha giustamente definito come la coda interminabile della Prima Repubblica, difficilmente evolverà per pianificazione in qualcosa di più ragionevole, di più scontatamente occidentale, con partiti che si sfidano, si battono, fanno opposizione, prendono rivincite e tutto si chiude lì. Soprattutto con i partiti attuali e con gli attuali leader. Quale ruolo si attribuiranno, e con quale successo, i protagonisti di questi anni, sia di destra che di sinistra, è misterioso. Proprio due giorni fa - per proporre l'esempio più recente - Massimo D'Alema ha dichiarato l'inutilità e l'estinzione della socialdemocrazia. La notizia è stata data dall'ex presidente del Consiglio con grande disinvoltura e con la medesima disinvoltura è stata diffusa. E così D'Alema - che aveva trascorso un terzo della vita a sostenere le ragioni del comunismo e un secondo terzo a sostenere le ragioni della socialdemocrazia - ora si appresta a percorrere qualche altra via con la medesima convinzione ed esuberanza argomentativa con cui aveva percorso le due precedenti.

Negli ultimi giorni qualcuno ha fatto il calcolo di quanti anni avessero trascorso in Parlamento - una novantina in tutto - i tre «responsabili», Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini e Francesco Rutelli. Di per sé non è undifetto. Ma, a parte Casini (che dietro ha una millenaria tradizione cattolica e ha contestato e coerentemente concluso il sodalizio con Berlusconi), gli altri due hanno slalomeggiato fra le grandi questioni degli ultimi secoli - fascismo e antifascismo, laicismo e clericalismo - e fra le piccole questioni quotidiane, qualche volta scoprendo l'acqua calda. E con la vecchia prosopopea hanno affrontato la nuova opera di proselitismo.

Ora, è vero che cambiare idea non è soltanto legittimo ma (quando si abbandona il fascismo, per esempio) anche encomiabile, però bisognerebbe trarne le conseguenze politiche, altrimenti è soltanto esercizio retorico. E sarebbe pure bello - come succede altrove, a Bill Clinton e Tony Blair - che i leader, concluso un mandato o persa un'elezione, si facessero da parte. Ma qui il punto è un altro: si ha l'impressione che tutti questi capoccia della Seconda Repubblica non abbiano mai avuto la forza di proporre un cambiamento della società con idee nuove, e per cui, all'opposto, abbiano cambiato le idee in base ai mutamenti della società. E pertanto è complicato capire che paese abbiano in testa Oliviero Diliberto o Walter Veltroni o Antonio Di Pietro. Se non un paese deberlusconizzato. E invece che paese avesse in testa Berlusconi era piuttosto evidente, come è evidente il totale fallimento: le tasse sono alte come nel ‘94, i parlamentari sono ancora mille, la burocrazia è imbattibile, il federalismo è poco più che un battibecco.

Insomma, le condizioni della nostra politica sono chiare a tutti: oggi reggono su Berlusconi e sugli avversari di Berlusconi. Venuto meno il Cavaliere, è molto, molto probabile che verranno meno i nemici giurati, per mancanza di proposta, e si facciano avanti quelli come Matteo Renzi, e cioè quelli che non sbucano da un sottoscala del Novecento, e sono in grado di sfidare l'apparato e di maciullarlo. Questo vale a sinistra, ma anche a destra. Angelino Alfano, Mariastella Gelmini, Raffaele Fitto, sono giovani politici in qualche caso valorosi, avranno nuove chance, ma la caduta del loro padrino Berlusconi sarà così fragorosa che è difficile immaginare come ne usciranno. Il berlusconismo e l'antiberlusconismo dureranno quanto Berlusconi, non oltre. I leader dell'Italia di domani spunteranno al momento giusto, e non per nomina padronale.

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/378767/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Bonino: quello che conta è cosa accadrà dopo il 14
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2010, 05:24:50 pm
Politica

08/12/2010 - IL CASO

L'emergenza carceri il grimaldello per dire sì al Cavaliere

Bonino: quello che conta è cosa accadrà dopo il 14

MATTIA FELTRI

ROMA
E naturalmente ieri è arrivata la rassicurazione: i voti dei radicali non sono all’asta. L’incontro fra Marco Panella e Pierluigi Bersani ha sollevato tutti. Specialmente tutti quelli che non volevano capire. Ore e ore di dirette e di repliche, su Radio Radicale, avevano l’obiettivo di annunciare il ritiro delle vacche pannelliane dal mercato. Obiettivo evidentemente non raggiunto, se c’era bisogno di questo faccia a faccia e delle epifaniche dichiarazioni successive. Purché siano bastate. E malgrado i colonnelli del Grande Capo Bianco avessero già buttato i sassolini a indicare la strada buona. Ieri mattina, quasi esausta, Emma Bonino aveva ripetuto: «Occorre parlare del dopo 14 dicembre (data del voto di fiducia al presidente del Consiglio, ndr), perché i problemi fondamentali di questo Paese restano anche dopo, a partire dalla giustizia». E Rita Bernardini, deputato ed ex segretario del partito, aveva offerto il passo in più: «Tutti pensano al 14, ma nessuno dice che cosa accadrà il 15, il 16 e il 17. Non escludiamo di presentare noi una sfiducia». Questione chiusa? Probabilmente no.

Negli ultimi tempi, gli scioperi della fame di Marco Pannella sono stati ispirati dalla disonorante condizione delle carceri. Eccesso di detenzione preventiva, sovraffollamento, condizioni igieniche, assistenza sanitaria e così via. Quotidianamente (quella che riportiamo è una dichiarazione di lunedì) Pannella dice: «Sulla giustizia e sulle carceri denunciamo una situazione gravissima. Si tratta, ormai, di spaventosi nuclei di Shoa, vere metastasi neonaziste nella democrazia reale italiana». Sempre la Bernardini (e torniamo a ieri) ha aggiunto: «I radicali stanno tentando di dire che se Berlusconi va a casa non si risolvono i problemi del paese». Messi assieme tutti questi indizi, nella sede di via di Torre Argentina spiegano che cosa succederà non tanto il 14, che è chiaro: tutti presenti, tutti sfiducianti. Ma che cosa succederà, caso mai, il 15. E dunque non è escluso che un nuovo governo, anche presieduto dal vecchio premier, se dovesse impegnarsi solennemente e pubblicamente ad affrontare le emergenze della giustizia, senza però cedere agli eccessi guerrafondai dei rapaci pidiellini, e soprattutto se dovesse impegnarsi solennemente e pubblicamente ad affrontare l’obbrobrio delle prigioni, magari studiando una volta per tutte un piano di pene alternative (invece che stare in gattabuia vai a pulire i giardini pubblici), ecco, forse i radicali potrebbero starci. E se poi si ritenesse di affidare questa seconda questione a un tecnico, uno di area, non serve che sia del partito, magari Luigi Manconi o piuttosto Franco Corleone, allora le possibilità sarebbero in ulteriore crescita.

Non è un piano, sia chiaro. Si vedrà se un Berlusconi bis trova sostenitori a sufficienza. Si vedrà quanto alla Lega garbi e quanto sostenga una conversione garantista delle ferree e forsennate politiche per la sicurezza, pur di condurre a meta il federalismo. Di sicuro Pannella non è tipo da trascurare le occasioni che gli si presentano né gli mancano uomini pronti a mettersi a disposizione. A ben vedere (gioco ozioso fino a un certo punto) ha figliocci ovunque. Ha un figlioccio alla corte di Re Artù, Daniele Capezzone. Ha un figlioccio tra i finiani, l’attiguo Benedetto Della Vedova, uno che fu mandato a destra da Pannella medesimo («perché non si sa mai») e che continua a coltivare le antiche amicizie. Volendo ha persino un figlioccio nel versante cattolico del Terzo Polo: l’indimenticato Francesco Rutelli. Sono personaggi che incrociano storie personali e politiche con Gaetano Quagliariello ed Eugenia Roccella (ex radicali ora pro-life del Pdl), con Elio Vito e Giorgio Stracquadanio (curvaioli di centrodestra), con Giuseppe Calderisi e Mario Pepe, con alcuni a sinistra (la stessa Bernardini, Marco Beltrandi) meno scandalizzati all’ipotesi di lavorare assieme al centrodestra, dove da anni si intrattengono rapporti di cordialità per esempio con Ignazio La Russa.

Ormai sono trascorsi secoli, ma operazioni del genere sono già state messe in piedi da Pannella nel 1992, quando era pericolante il governo di Giuliano Amato, e nel 1993, quando la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, persuasa che fosse venuto il tempo di prendersi Roma, aveva deliberato di pensionare Carlo Azeglio Ciampi. Anche nel ‘92, guarda un po’, i deputati radicali erano sei, e Pannella li portò dall’opposizione all’appoggio esterno. Si parlò di gesto di responsabilità nazionale, poiché c’era da completare la Finanziaria e i conti erano come al solito malmessi. Naturalmente era così, ma non si trascuri che all’inizio del 1993 i pannelliani incassarono la triplicazione della dose minima giornaliera di droga, dose oltre la quale il possesso veniva considerato ai fini di spaccio. Con Ciampi le cose andarono storte: nemmeno idee di rimpasti e governi bis ricondussero alla ragione il Pds.
Si andò al voto, Pannella si mise con Berlusconi e tuttavia non superò la soglia del 4 per cento. Ma Emma Bonino divenne commissario europeo, e su di lei si edificò la rivincita.

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/379105/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Giovani e Libertà il nuovo partito di Silvio
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2010, 06:38:53 pm
Politica

29/12/2010 - CENTRODESTRA, VERSO UN ALTRO STRAPPO

Giovani e Libertà il nuovo partito di Silvio

Nomi e facce inedite: il Cavaliere riorganizza il movimento in vista del voto

MATTIA FELTRI

ROMA
In qualche sms informale, inviato per dettaglio, si spende la parola «rivoluzione». Di che stoffa siano le rivoluzioni all’italiana si sa, ma la terminologia indica i sentimenti di attesa per il nuovo partito di Silvio Berlusconi e per le posizioni personali, quelle in salita e quelle in disgrazia.

Annuncio
Nella conferenza stampa della settimana scorsa, il premier ha annunciato la nascita del nuovo partito. Ha detto di non volere acronimi, che non commuovono e sanno di muffa - Pdl come Dc o Psdi - e di essere alla ricerca del nome giusto. Nelle riunioni coi deputati o coi senatori, o nei brindisi prenatalizi, il capo ha esortato tutti a spremersi le meningi nella speranza che l’ultimo disperato abbia il colpo di genio. Si è detto che il nome sarà costituito da due parole, una delle quali sarebbe Italia, ma l’idea di riverniciatura forzitaliesca ha ceduto il passo alla parola unica. Se ci sono ipotesi, non sono oggetto di spifferata. Per rendere l’idea, sarà qualcosa tipo Amore o Felicità o Patria. O più semplicemente Libertà.

Accelerazione
Berlusconi sa che il vantaggio di tre voti alla Camera non è maggioranza, perché presuppone la presenza in aula di mezzo governo. Anche una buona campagna acquisti non basta per una seconda parte di legislatura riformatrice. L’ingresso dell’Udc nell’esecutivo è oggi improbabilissimo. Così il premier pensa alle elezioni e ci andrà con un nuovo simbolo e con aria fresca. E dopo, che sia vittoria o sconfitta, risistemerà il partito. I suoi luogotenenti lo vorrebbero strutturato e pesante. Berlusconi lo farà leggero. Anzi, aereo.

Stelle cadenti
Dei triumviri che gestiscono il Pdl, l’unico con un futuro è Denis Verdini. Anche lui, per disinvolte frequentazioni e imprudenti iniziative, ha creato grane. Ma ha sgobbato per il partito e lo sporco lavoro prima del voto di fiducia gli ha garantito ammirazione e riconoscenza. Sandro Bondi, si sa, presto lascerà la Cultura: gli erano stati affidati due incarichi nella speranza che ne fosse all’altezza, invece ha fallito su entrambi i fronti. Ignazio La Russa è quello messo peggio. Le sembianze demoniache, quel tono di voce d’oltretomba, quella predisposizione quotidiana allo scatto d’ira - tutte qualità apprezzate nel Msi e in An - sono in contrasto con l’ideale estetico berlusconiano provincial-conservatore. Malmessa è anche Mara Carfagna le cui impuntature, spiegano nello staff del premier, sono state inopportune e intempestive. Lo stesso vale per Stefania Prestigiacomo.

Nuovi pretoriani
Angelino Alfano è l’uomo che per conto di Berlusconi più sta lavorando al progetto. Il premier lo considera serio, riservato, capace di mediazione e di offensiva. Ora è indicato come l’unico vero erede e forse sarà il coordinatore unico del partito. Vola alto anche Maurizio Lupi, che quando parla alla Camera ridesta il premier narcotizzato da altri, tipo Fabrizio Cicchitto, che ha tante buone qualità ma non la stoffa postmoderna richiesta ai collaboratori di domani. Cicchitto sarebbe, schifanianamente, un perfetto presidente della Camera. Lupi è poi uomo di Formigoni, espressione politica di Comunione e liberazione con la quale Berlusconi vuole rinsaldare i rapporti. Per ragioni diverse, sono intoccabili la pugnace Mariastella Gelmini, Altero Matteoli, con cui Berlusconi ha un buon rapporto, il sincero e irreplicabile Maurizio Gasparri, ma soprattutto Andrea Augello, piccolo fuoriclasse capace di far vincere Gianni Alemanno a Roma, Renata Polverini in Regione e di riportare a casa Silvano Moffa e Maria Grazia Siliquini. Augello ha poi il vantaggio, non trascurabile per un ex aennino, che non dà l’eterna impressione di essere appena uscito da una catacomba fascista. Berlusconi è molto compiaciuto da come Beatrice Lorenzin sa stare in tv. Altre figliole (Anna Maria Bernini, Mariarosaria Rossi, Nunzia Di Girolamo) avranno un ruolo per presunta mancanza d’autonomia.

In bilico
Soprattutto Claudio Scajola e Daniela Santanché. Per alcuni hanno un posto al sole, per altri sono sotto il diluvio. Ma bisogna tenere conto che Berlusconi non ha il dono della sincerità ed è anche piuttosto lunatico. Scajola, che ha radunato attorno a sé una grancassa di circa cinquanta parlamentari, vorrebbe occuparsi del partito anche in posizione occulta. Berlusconi è perplesso perché le frottole sulla casa di via del Fagutale lo hanno esposto. Quanto alla Santanché, i modi priebkiani le hanno causato parecchie antipatie, finora arginate da qualche capacità di mondo.

Gli intoccabili
Gianni Letta e Giulio Tremonti, il primo come sempre, il secondo nonostante il caratteraccio.

I giovani
Quando va ad Atreju, la festa dei ragazzi ex An organizzata da Giorgia Meloni, Berlusconi si diverte come un pazzo. Si nutre (castamente, stavolta) di gioventù, riprende vigore. Dice che in un partito l’unico vecchio dovrebbe essere lui. Ultimamente - dopo le battaglie correntizie, le invidie intestine, le liturgie santificate - lo ripete con accenni di stizza. Non vuole essere attorniato da incanutiti cerimonieri della bagattella parlamentare. Seguire le manifestazioni di piazza contro la riforma dell’Università, gli ha fatto venire voglia di un partito agile, tambureggiante, che si organizza su Facebook e occupa le strade con manifestazioni gioiose. Berlusconi punta su Annagrazia Calabria, nata a New York, ventottenne, sveglia, dai modi e dalle fattezze garbate, credente. Sarà lei a occuparsi dei giovani ex Forza Italia. Berlusconi non vuole un team di incravattati laureandi in Economia, ma una specie di Carosello scoppiettante. Ha incaricato la Calabria di prendere contatto coi ragazzi di Cl, fin qui completamente esclusi dalla vita di partito (e da qualche decisione importante, a proposito di riforma universitaria). L’idea è bellissima, come spesso lo sono le idee. Non sarà facile realizzarla.

Lo spirito
Nessuno si aspetti la rispolveratura della rivoluzione liberale, o altre rivisitazioni moderne di ideologie classiche. Come al solito, Berlusconi punterà sulla fascinazione. Vuole dirigenti update, maneggiatori di I-Pad, trottole multilingue in giro per il mondo, una squadretta di yuppies tecnologici del terzo millennio. E sotto, questo esercito di giovanotti spigliati che ridimensioni l’idea di un movimento votato soprattutto dal popolo delle partite Iva e dalla vecchiette: nel 2011 diventano maggiorenni quelli nati nel ‘93, per i quali Mani pulite è storia da bigino. Berlusconi sogna all’americana: grandi comitati stretti attorno a pochi ideali. Il partito, in ogni caso, conserverà luoghi della burocrazia, uffici collegiali, cariche non strettamente onorifiche con le quali dare un senso a quelli che provengono da esperienze più tradizionali, novecentesche, abituati ad obbedir tacendo, purché gli sia assicurato un appezzamento di potere. Saranno organismi che Berlusconi additerà, come fa già ora, come le palestre della democrazia nelle quali saranno prese decisioni malgrée soi, naturalmente sbagliate. Che piaccia o no, questa è la macchinina su cui il Cavaliere vuol correre la sua ultima (ultima?) corsa.

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/381656/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Il tradimento dei leccapiatti
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2011, 12:27:42 pm
19/1/2011

Il tradimento dei leccapiatti

MATTIA FELTRI

E’ davvero così: a guardarlo dagli amici ci avrebbe dovuto pensare Dio. Il sapore della disfatta è tutto lì, nelle conversazioni miserelle dei compari, nelle valutazioni sguaiate e ginnasiali delle ragazze di cui Silvio Berlusconi credeva d’aver conquistato il cuore con fascino e munificenza. Il peggio sta nella risatina oscena di chi sa di avere realizzato la circonvenzione del vecchio famelico sempre col cuore e il portafogli aperto: il dialogo fra Emilio Fede e Lele Mora varrebbe un ultimo atto da ovazione.

L’agente dei divi - quello che in caftano bianco porgeva i piedi al massaggio dei tronisti e allo scatto del fotografo - si ritrova colmo di debiti e chiede soccorso al direttore del Tg4. E’ il direttore che per primo ostentò l’adulazione, la fascinazione incrollabile, la fedeltà incondizionata per lo stupor mundi. Fede ha la soluzione. Va lui da Berlusconi. Gli parla lui. Glielo dice: Lele non sta bene, è preoccupato, «una mano bisognerebbe dargliela, hai fatto tanto bene a tanta gente, lui poi se lo merita più degli altri...». Lele è felice, gli pare tutto perfetto, dice a Fede di spiegare a Berlusconi che poi lui metterà in vendita due o tre cose e restituirà il prestito... «Tanto poi campa cavallo che l’erba cresce...».

Un bella compagnia di giro. Si direbbe il gatto e la volpe, sebbene ora dicano di essere stati fraintesi. Fede ottiene un milione e duecentomila euro, ottocentomila vanno a Mora, quattrocentomila se li tiene lui per il disturbo, e figurarsi Mora: «Benissimo, meraviglia, meraviglia, bravo direttore, bravo». E ancora Fede: «Dimmi che sono bravo e sono un amico». «No bravo, di più», dice Mora, che sull’amico - sul termine - non si sbilancia: qui conta la riuscita del piano. I quattrini saranno spillati per mezzo di assegni circolari.

Poi ci sono le ragazze. Sono entrate nell’harem di Berlusconi, per lui si sono spogliate eccetera. Una legge al telefono la lettera che gli ha scritto nella speranza di ricavarne un impiego, si rivolge al suo amore, scrive amore di qui e di là, e quando arriva alla parola «amore» le viene da ridere. Meglio ancora sono le sorelle De Vivo, Eleonora e Imma, scafate frequentatrici dell’harem. In cambio di moine devono aver intascato gioiellini e banconote, ma ora il giochino sembra incepparsi, una dice all’altra: «L’ho visto un po’ ingrassato, imbruttito, l’hanno scorso era più in forma... Adesso sta più di là che di qua. E’ diventato pure brutto. Deve solo sganciare...». Insomma, niente più sta in piedi. La scenografia si sbriciola, gli amici raccattano le banconote da terra, le ragazze scansano il vegliardo, dicono che bisognerà mettersi a rubargli in casa, un po’ è il mondo che Berlusconi vagheggiava e che sfuma, un po’ è la storia dell’eterna ingratitudine umana che si realizza nei modi più desolanti.

In fondo è una vicenda che va avanti, plateale, da un anno. Il primo era stato Gianfranco Fini che si era emancipato dal fascismo e dal mussolinismo per Berlusconi e la rivoluzione liberale, attraverso cui non aveva guadagnato una presentabilità nei sacrari della democrazia, ma un posto dentro all’arco costituzionale sì. E poi, giunto alla maturità nei paraggi della sessantina, Fini ha scoperto che non soltanto il Duce e le leggi razziali, ma anche il Cavaliere e le leggi ad personam - tante volte da lui votate - erano il male assoluto. Poi c’erano stati Gianni Letta e Giampiero Cantoni, gli amici di una vita, e dai dispacci diffusi da Wikileaks era saltato fuori che in certe occasioni conviviali si erano lasciati andare nella descrizione del presidente del Consiglio che fa notte con le fanciulle, e alla mattina sta su per scommessa, e si appisola ad ogni occasione istituzionale. Non c’è sodale che non lo abbia abbandonato, alcuni con peccato mortale, altri veniale. Ma sono una pugnalata via l’altra. Anche il doppiogiochista Marcello Dell’Utri - se avesse ragione la procura di Palermo nelle motivazioni della condanna - che rassicurava Berlusconi sul contenimento delle minacce mafiose, e ai mafiosi diceva di averli introdotti nella fortezza del potere. La fotografia del crepuscolo è questa: è il generale nel suo labirinto, e attorno soltanto ombre di leccapiatti e traditori.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8309&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MATTIA FELTRI. - Calderoli: "Abbiamo fatto prevalere le urgenze al bon ton"
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2011, 09:43:57 am
Politica

05/02/2011 - INTERVISTA

Calderoli: "Abbiamo fatto prevalere le urgenze al bon ton"

«Con Napolitano ottimo rapporto: ci sta aiutando moltissimo»

MATTIA FELTRI

ROMA
Ministro Calderoli, il presidente della Repubblica dice che il governo è stato scorretto.
«Io l’ho sentito ieri sera (giovedì ndr) e Bossi lo ha sentito stamattina (venerdì, ndr). Posso dire che il suo è stato un sollecito formale che noi avevamo già recepito. Con Giorgio Napolitano i rapporti sono eccellenti. Lui ci sta aiutando moltissimo e lo ha dimostrato l’ultima volta l’altro giorno a Bergamo, la mia città, dicendo che il paese ha bisogno di riforme come quella del federalismo».

E allora con chi ce l’aveva?
«Sottolineava un disappunto formale. Quali siano i rapporti fra la presidenza del Consiglio e il Quirinale, non spetta a me dirlo».

Insomma, ha giudicato irricevibile il decreto e scorretto il modo in cui è stato varato.
«Comprendo l’irritazione di Napolitano. Purtroppo in certi momenti prevalgono le urgenze politiche. Qualcuno si sarà dimenticato qual è il bon ton istituzionale. Ma non sono giornate facili. Mario Baldassarri, che è un finiano, aveva votato a favore nella sua commissione e si è astenuto nella commissione bicamerale. Io credevo di averle viste tutte, invece...».

Baldassarri è la cosa peggiore che ha visto?
«Non dico di Baldassarri, dico in generale».

Però, scusi, la drammatizzazione politica dipende da voi. E’ stato Bossi a dire che, senza una solida maggioranza in commissione, tutto sarebbe saltato».
«Non credo lo abbia detto Bossi».

E allora chi?
«Non Bossi».

Ministro, chi?
«Non lo so. Dico che la politicizzazione della bicameralina è un errore da parte di tutti. Da parte nostra e soprattutto da parte dell’opposizione. Enrico La Loggia ed io abbiamo ricevuto soltanto complimenti da parte di parlamentari dei gruppi di minoranza per la linearità di un percorso che si è dimostrato costruttivo».

Però poi il voto...
«Appunto. Poi di colpo Bersani, Fini e Casini si sono messi a dire in coro che il federalismo lo avremmo portato a casa, ma soltanto senza Berlusconi. Allora capite che il merito della riforma non c’entra più, c’entra soltanto la tattica».

Se è come dice lei, l’occasione era ghiotta.
«Altroché. In un colpo solo mandare sotto la maggioranza e farlo sulla riforma più importante dell’intera legislatura. Davvero, è deprimente».

Questo non succederebbe se la maggioranza fosse più solida.
«La maggioranza è solida e lo dimostra voto dopo voto. Semmai a me dispiace se una rivoluzione come quella rappresentata dal federalismo finisce in mezzo ad altre faccende che non c’entrano niente come i balletti di Arcore, Ruby, la casa di Montecarlo. Io sono orgoglioso del lavoro che abbiamo fatto. Mi piace meno quello che succede in queste ore».

Ma siete stati voi a improvvisare un Consiglio dei ministri dopo il voto contrario della commissione...
«Ma noi non abbiamo scavalcato nessuno. Scusate, ma la bicameralina doveva esprimersi sulle proposte di modifica del relatore, non sul testo. E dopo l’approvazione di altre sei. Ora Napolitano ci chiede di portare la questione in aula e noi infatti ci stavamo organizzando per farlo. Questo è il merito, e sul merito non c’è alcuna frattura con la presidenza della Repubblica. L’unico guaio è stato quello di tenere il Capo dello Stato all’oscuro, ma si è trattato di una distrazione».

Ma perché tutta quella fretta?
«Perché a un’offensiva così massiccia abbiamo voluto rispondere al brucio: Bossi e Berlusconi procedono di concerto e di corsa».

Di corsa... Adesso questo intoppo farà rinviare il tutto di dieci-quindici giorni.
«E allora? Lo aspettiamo da trent’anni, il federalismo. Cosa saranno dieci giorni?».

Chiederete la fiducia?
«Lo proporrò al Consiglio dei ministri se l’aula produrrà un documento su cui si deve votare. Al momento il documento non c’è. Al momento, noi dobbiamo soltanto informare le camere».

Lei si è lamentato della composizione della bicameralina, dice che non rispetta la maggioranza. Ma la maggioranza in aula è di tre voti.
«Bè, ieri (giovedì, ndr) avevamo la maggioranza assoluta, 315 voti. Perché in bicamerale no?».

A questo però dovete pensarci voi.
«Niente affatto. Ci devono pensare i presidenti delle camere».

da - lastampa.it/politica


Titolo: MATTIA FELTRI. - Bondi, il mistero del ministro scomparso senza dimissioni
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2011, 11:04:09 am
Politica

09/02/2011 - PERSONAGGIO

Bondi, il mistero del ministro scomparso senza dimissioni

Non è stato sfiduciato, ma da quasi due mesi nessuno l'ha più visto ai Beni culturali

MATTIA FELTRI
ROMA

Il ministro Sandro Bondi non si vede al lavoro da un periodo approssimativamente compreso fra i quaranta giorni e i due mesi. Sul punto divergono i dipendenti del Mibac (ministero per i Beni e le attività culturali) e i più stretti collaboratori del titolare, ma riconvergono sul succo: Bondi è scomparso da prima di Natale. Per mettersi in contatto con lui, comunicargli l’avvio di un’iniziativa, ottenere un’autorizzazione, strappare una firma, bisogna chiamarlo alla sede romana del Pdl, oppure a casa, magari a Novi Ligure al recapito della compagna, l’onorevole Manuela Repetti. Ma lui, probabilmente, non risponderà. È più facile che risponda lei, Manuela Repetti, e non perché sia un’emula di Yoko Ono, ma perché (pare di avere capito) intende difendere il fidanzato in un periodo che un illustre ed esasperato dipendente ministeriale definisce di «agonia». Forse agonia è eccessivo. Forse è più corretto parlare di disillusione, ripulsa, animosità. Da un mese il presidente del Consiglio ha sulla scrivania la lettera di dimissioni di Bondi, il quale si aspettava che fosse accettata lunedì, al massimo ieri. La notizia era attesa anche al Mibac con un sentimento compreso fra la smobilitazione e la liberazione. Difatti lì dentro si contano sulle dita di una mano quelli che non vogliono bene al ministro. E’ persino amato. Ma la situazione, dicono e ripetono, è ormai insostenibile. «Il premier ascolti la sua voce, lo sciolga da questo vincolo insopportabile, non sottovaluti l’urlo di dolore. Se fosse il caso, si prenda anche questo interim. Ma ricominciamo a far funzionare il dicastero», dice un altro mister X. Aggiunge che «i collaboratori sono sgomenti», che nessuno ha capito perché Bondi abbia tanto insistito per una carica da cui si è disaffezionato così presto, sino a detestarla, e sottraendola a Paolo Bonaiuti che la considerava l’approdo di un’esistenza.

Le ragioni dello squasso psicologico, dicono al Mibac, vengono da lontano, sebbene le pretestuose polemiche sui crolli di Pompei siano state definitive. L’entusiasmo iniziale, peraltro domato dall’indole mite e riservata del ministro, è subito andato a sbattere contro il muro innalzato dall’oligarchia intellettuale, che ha accettato Bondi come sportello burocratico ma non come interlocutore culturale. O almeno così dicono al Mibac. Raccontano dello strazio muto del ministro nelle occasioni in cui scriveva lunghe, ponderose, equilibrate, quasi ossequiose lettere alla Repubblica su questioni di altissima erudizione, come il significato contemporaneo della Carta costituzionale, gli obiettivi ecumenici dei centocinquant’anni dell’unità patria in una coalizione coi federalisti della Lega, e se andava bene gli scritti sbarcavano sul sito internet del quotidiano. E quindi la legittimazione concessa al Bondi coordinatore del Pdl (che sui temi della gestione del partito, della dialettica parlamentare, dei dissidi con i finiani era intervistabile anche tutti i giorni) non è stata estesa al Bondi motore e coordinatore della politica cinematografica o archeologica. Lui ha cercato di consolidare il ruolo con scelte a dir poco al ribasso, come per esempio la compilazione settimanale di brevi recensioni bibliofile per Panorama. Che a un suo rifiuto sarebbero state affidate a Pinco Pallino. La reazione di Bondi al formidabile snobismo è stata di rivalsa qualche volta sopra le righe. La drastica deliberazione di negarsi alla Biennale di Venezia o alla Prima della Scala fu umanamente comprensibile ma strategicamente disastrosa. L’interlocuzione con chi lo scostava con uno sbuffo è stata relegata al battibecco. Governare un mondo così indocile, così avido, così aristocratico con il diverbio giornaliero ha qualcosa di orgoglioso e molto di suicida. Quando gli consigliavano una dose minima di ipocrisia, qualche pranzo organizzato col direttore del museo o col sovrintendente, qualche occasione in cui fingere di ascoltare con interesse supremo, una passerella alla prima teatrale, lui rifiutava per ritrosia. E’ finita come si sa. Una mozione di sfiducia individuale che, alla Camera dei deputati, i gruppi di opposizione hanno sostenuto con ragioni vaghe e alle quali il ministro ha risposto con accenti di rancore non sempre trattenuti. Una volta intascata la fiducia, ci si aspettava il ritorno di Bondi in ministero, se non altro per il piccolo trionfo, se non altro con i ritmi pre-natalizi, quando il ministro si rifugiava a Novi Ligure dal venerdì al martedì.

Invece Bondi ha deciso che con la cultura ha chiuso. Il problema è che non lo ha deciso il governo. Così il Mibac procede nella ordinaria amministrazione, con il sottosegretario Francesco Giro e il direttore generale del patrimonio culturale Mario Resca che insistono cocciuti nelle mansioni cui sono stati destinati. Lo fanno da mesi. Da quando Bondi si accasciava sui rotocalchi di gossip che ospitavano le imbarazzanti interviste alla ex moglie, e sui quotidiani che davano conto degli spericolati (e non onerosi) ingaggi di parenti, ed erano articoli visti come armi non convenzionali nella battaglia politica. E se è così, è alla politica e soltanto alla politica che Bondi vuole tornare. Il doppio incarico è stato un terribile errore (il ministero della Cultura in Italia non dovrebbe contare meno dell’Interno). Bondi ora rivuole il partito e nient’altro. E dunque metterà in pratica gli insegnamenti tratti da recenti e appassionate letture dei testi fondamentali della filosofia politica.

da - lastampa.it/politica


Titolo: MATTIA FELTRI. - Prove generali del Comitato di liberazione da Berlusconi
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2011, 04:05:19 pm
Politica

14/02/2011 - REPORTAGE

Prove generali del Comitato di liberazione da Berlusconi

Dalle suore alle icone del Che.

Ma niente bandiere di partito e politici defilati

MATTIA FELTRI
ROMA

Le bandiere di partito, ospiti sgradite, sono rimaste a casa. «Tutto il cielo al cielo», dice la signora brizzolata, una bella testa di capelli ricci raccolti a coda. La spiegazione sarebbe tutta lì: un moto dell’anima, un’assonanza sfavillante. E’ la società civile con o senza l’aggettivo “mitica” e con tutta la trasversalità tradizionale - d’età, di genere, di classe, di estrazione politica - che marcia sulla piazza perché ha qualcosa di urgente da dire. E’ proprio un messaggio visivo: basterebbe guardare il palco.

C’è la regista di sinistra (Cristina Comencini), la politica della destra finiana (Giulia Bongiorno), la studentessa coetanea di Ruby, la ragazza nera, la suora ex missionaria, la docente universitaria, la gran capa della Cgil (Susanna Camusso), il maschio possibile (Stefano Ciccone, esperto di identità sessuata maschile). Un meticciato di censo e un’ostentata ibridazione ideologica che sarebbero la garanzia della purezza d’intenti, ben più del simbolico bianco, il colore di giornata.

Una mescolanza tenuta assieme dall’obbiettivo così ben raffigurato sui cartelli che ieri pomeriggio circolavano innalzati da decine di braccia: il fotomontaggio di Silvio Berlusconi dietro alle sbarre: «Ti vogliamo così!». Il Comitato di liberazione nazionale - questa riedizione di fronte partigiano a sessantasei anni dall’esecuzione di Benito Mussolini, lanciato mesi e mesi fa da Pierferdinando Casini, e rilanciato di volta in volta, annusato e desiderato dall’ex fascista Gianfranco Fini, dall’ex magistrato Antonio Di Pietro, dagli ex comunisti e naturalmente dagli ex berlusconiani - ieri ha compiuto i primi passi.

Una cosa piuttosto scenografica, tutto sommato meno rancorosa del previsto ma molto decisa, più che altro la classica festa di strapaese e dell’intransigenza. C’era, per esempio, l’angolo di piazza del Popolo occupato da animatori da centro sociale, una quantità di cartelloni bianchi piazzati a terra e nugoli di bambini dotati di pennello, di piattino di plastica in ruolo di tavolozza e intenti a trovare il sublime accostamento cromatico, per esempio la “e” di Berlusconi verde con la sfumatura gialla nella scritta “Berlusconi vattene”.

Disegnano e dipingono facce su facce, i piccoli, mentre i grandi fanno lo spelling: «Ma chi tte vole?”, dettato e scritto proprio così, in perfetto romanesco e spedito al solito indirizzo. Allora era naturalmente una manifestazione a tutela e a riscatto della dignità femminile, con tutto il Partito democratico in piazza ma discosto, Pierferdinando Casini che da Ostia mare, all’inaugurazione di una sede dell’Udc, manda i suoi rispetti, Di Pietro che sfila digrignante a Milano, Fini che, appunto, ha sul campo la sua Bongiorno, l’intera sinistra radicale ed extraparlamentare schieratissima, a cominciare da Fausto Bertinotti che voci di popolo vogliono ai tavolini del caffè Rosati a seguire gli interventi delle oratrici.

Uno stand vende libri come “Palestina ai palestinesi” e “Give peace a chance”, per dire della consueta egemonia. Sono arrivati anche i soliti smerciatori di t-shirt, slogan ricorrenti, sopra c’è scritto love your mother, guerrilla, padrone di niente servo di nessuno, vietato vietare, zero regole, disobbedisco, ieri partigiani oggi antifascisti, Che Guevara, Mafalda che urla «basta!», una ragazza incinta ha la maglietta personalizzata: «Voglio nascere in un paese che ha rispetto per le donne». Dall’altoparlante arriva il saluto delle suore stimmatine.

Una ex ragazza sfida l’universo scrivendo a pennarello sulla canottiera «sono stanca di non trovare lavoro perché sono troppo brutta». Arrivano i saluti di pensionate, casalinghe, mariti mortificati. Eccolo, insomma, è il Cln dei tempi nostri. Lo si capisce al volo che qui ci sono potenziali elettori di tutti i partiti antiberlusconiani. Ci sono le signore attempate che riassaporano il gusto della barricata, per quanto ingentilita. Ci sono le ragazze che sentono il gusto della prima volta. Il loro motto è «ora basta ma non basta». Ma soprattutto ci sono gli uomini.

Sono al seguito delle fidanzate e delle mogli. Esibiscono cartelli di ampia mortificazione: «La mia donna non è in vendita». Oppure tengono i cani e i bambini. C’è chi pare in piena esibizione di paternità: si è conquistato un coriandolo di piazza, ci improvvisa il picnic coi due figli riluttanti.

Qualcuno maneggia l’Iphone o il Blackberry e cerca di connettersi a Livescore. com per i risultati delle partite ma la gente è troppa, la linea non c’è. Tutti ridono rumorosamente ai “monologhi della vagina”, ormai un evergreen delle occasioni femministe. Un altro ancora, seduto sulla fontana del Nettuno, ha ammainato lo striscione che offre le ministre del governo Berlusconi a cattivo esempio di dignità femminile. Cinque oche gonfiabili, poco più in là, portano il cognome delle sgradite signore: Brambilla, Carfagna, Minetti, Gelmini, Santanché. Un impietoso calderone.

E’ quello che spinge per esempio Barbara Saltamartini, deputato del Pdl, a dire che quella moltitudine non dimostra per le donne ma contro l’esecutivo. Ma naturalmente che è così: è il Cln. Anzi, ne è l’ambizione. «Magari», dice una signora della Roma bene, quartiere Prati, che sta giocosamente incitando le vicine a spingersi fino a Palazzo Grazioli: «Che ci facciamo qui?». Quasi un’altra citazione dopo quella di Primo Levi e del suo «Se non ora, quando?», il libro che raccontava altri partigiani, altri nemici, altre dignità.

E quindi, sul palco, ognuno tenta il distinguo, la precisazione, il vero problema sono le pari opportunità, sono i tagli al welfare, sono gli asili nido, sono le differenze sociali, le differenze razziali. Non c’è nulla che non vada bene, in una giornata simile. Ma è al nome lì stramaledetto che si accendono gli entusiasmi, gli applausi collettivi, i sogni di liberazione.

Un secolo e mezzo d’Italia («da Silvio Pellico a Silvio Pelvico») che attende lo scatto morale nella circostanza dell’anniversario. Manca soltanto la cordata politica per l’ultimo scontro. Tanto si sa che deve finire così.

da - lastampa.it/politica


Titolo: MATTIA FELTRI. - Fare leggi? No, l'onorevole deve cambiare casacca
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2011, 06:45:25 pm
Politica

02/03/2011 - IL CASO

Fare leggi? No, l'onorevole deve cambiare casacca

Nel '01-06 produttività legislativa più che doppia coi Berlusconi 2 e 3

Bassa produttività e assenteismo: così funzionano Camera e Senato.

Berlusconi ha buon gioco nel riproporre il taglio dei parlamentari

MATTIA FELTRI
ROMA

Alla Camera lavorano cinquantasessanta persone», ha detto lunedì Silvio Berlusconi, ripromettendosi per la centesima volta di ridurre drasticamente il numero dei parlamentari. In quel momento, in aula c’erano ventiquattro persone. Diciassette funzionari, il presidente di turno (Rosy Bindi), quattro deputati del Partito democratico (Guido Melis, Nazzareno Oliverio, Alessandro Bratti e Roberto Giachetti), uno del Pdl (Roberto Tortoli), un rappresentante del governo (il senatore e sottosegretario all’Istruzione Guido Viceconte). «Abbiamo presentato questa mozione - stava dicendo Oliverio - per scuotere il governo».

Ma né Viceconte né Tortoli si sono scossi. Si discuteva di «iniziative per la bonifica dei siti contaminati di interesse nazionale» e va ricordato che era lunedì, che tradizionalmente di lunedì i palazzi della politica sono deserti, sebbene non si capisca che cosa abbia di così straordinario il lunedì, per i rappresentanti del popolo, né perché si stabiliscano lavori destinati al dileggio di seicentoventiquattro assenti su seicentotrenta. Quando si stendono articoli come questo, le premesse sono necessarie. Si premette che lunedì alla Camera circolavano altri sette o otto deputati, come per esempio il leghista Raffaele Volpi, della sezione di Capriolo, provincia di Brescia, che proprio ieri ha inviato un messaggio al presidente Gianfranco Fini: «Va a ciapà i ratt».

Si premette che ieri erano molto più numerosi e, a proposito di produttività, che le leggi varate non sono un indice definitivo, che i criteri adottati dall’associazione OpenPolis (tipologia di atto, consenso ricevuto dall’atto, il suo iter, la partecipazione del parlamentare ai lavori) sono stati ieri criticati da Massimo D’Alema («Non riflettono la complessità del lavoro del parlamentare»), giunto seicentoventunesimo su seicentotrenta, ed elogiati lunedì dalle quattro parlamentari del Pd risultate ai primi quattro posti per redditività. In ogni caso, nel corso della XIV legislatura (2001-2006, presidente Berlusconi) sono state approvate 147 leggi di iniziativa parlamentare (una media di due e mezzo al mese); nella legislatura successiva (2006-2008, presidente Romano Prodi) ne sono state approvate 13, cioè circa una legge ogni due mesi; infine, in questa legislatura si è avuta una leggera risalita a 37 leggi, e cioè praticamente una al mese. Se si guarda alle leggi di iniziativa governativa, il calo è ancora più evidente: circa nove leggi al mese nel 2001-2006, poco più di quattro nel 2006-2008, poco meno di cinque nel 2008-2011. Ma, insomma, a parte queste due ultime drammatiche legislature, quella 2001-2006 ha generato 686 leggi, quella precedente (1996-2001, premier Prodi, D’Alema, Amato) ne ha generate 898.

Anche se ha risvolti sclerotici, ce ne si rende conto, il misurare il valore di un Parlamento per la quantità di norme sfornate e quella di un ministro (alla Semplificazione, Roberto Calderoli) per la quantità di norme cancellate. Detto questo, farà un pochino impressione notare che dall’inizio dell’anno sono state approvate tre leggi, tutte e tre uscite dall’esecutivo, e stiamo parlando di un esecutivo che, nella penultima seduta del Consiglio dei ministri, ha visto il suo presidente scocciato coi colleghi, che poco lo aiutano a rimpolpare un ordine del giorno sempre più miserello. Per i feticisti, si tratta di disposizioni sull’etichettatura dei prodotti alimentari, sul ciclo dei rifiuti in Campania, su vari trattati internazionali. Forse sono altre le cifre più adatte a esprimere il senso di quest’ultimo giro di Camere. In 34 mesi, i 945 parlamentari hanno prodotto soltanto 37 leggi ma ben 113 cambi di casacca.

E cioè sono 113 (85 deputati e 28 senatori) i parlamentari che dall’inizio della legislatura hanno cambiato gruppo. Nella legislatura 2001-2006, furono 103 in cinque anni, una media di venti all’anno. Qui la media sale a quasi quaranta all’anno, per un incremento del cento per cento. Ma il numero di 113 è impreciso, perché ci sono parlamentari (per esempio Silvano Moffa, Maria Grazia Siliquini e Catia Polidori) che hanno cominciato la legislatura nel Pdl, l’hanno proseguita tra i finiani di Futuro e Libertà, sono quindi transitati nel Misto per approdare, provvisoriamente, nei gruppi dei Responsabili. Pertanto i cambi di maglia salgono a 134, sempre che nella serata di ieri non ce ne siano stati di ulteriori. Non sarebbe strano, visto che alcuni (come Pasquale Viespoli e altri senatori ex finiani) risultano iscritti a gruppi dai quali hanno già deciso di andarsene.

Uno dei problemi riguarda la composizione delle commissioni: l’addio di Fini e dei suoi alla maggioranza ha causato uno squilibrio per cui in alcune commissioni cruciali il governo è in minoranza. Creare nuovi gruppi (i Responsabili, quello in arrivo di Gianfranco Miccichè...) significa ridiscutere le presidenze e le composizioni per esempio della bicameralina per il Federalismo e della commissione Bilancio della Camera. Sono queste le aritmetiche cui sono destinati gli sforzi dei nostri. E sì che l’attuale legislatura doveva essere quella del riscatto dei parlamentari dalla fama di nullafacenti. Fini aveva ipotizzato un mese composto da tre settimane lavorative complete, comprensive di lunedì e venerdì di sgobboneria matta e disperatissima, e una di libertà perché i parlamentari curassero il collegio, sebbene i collegi, in pratica, non esistano più: per garantirsi un futuro nel palazzo e una serena vecchiaia, deputati e senatori necessitano semmai dell’apprezzamento dei leader, che li rimetteranno in lista e in zone più o meno sicure. Così oggi tutto sembra ridotto a guerra di trincea - e la trincea è il Parlamento - dove gli eletti danno l’impressione di esercitare la libertà di mandato più come una libertà di mercenarismo.

E dove anche l’arbitro sommo è da molti reputato un capitano di ventura. La conseguente desacralizzazione è un passo già compiuto, con Umberto Bossi che infrange le regole marmoree portandosi il figlio Trota al ristorante della Camera - fin qui severamente riservato a parlamentari ed ex - e sfumacchiando un sigaro alla capogruppo, alla faccia delle impotenti proteste di Fini.

da - lastampa.it/politica


Titolo: MATTIA FELTRI. - Dispersa e senza leader la diaspora della destra italiana
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2011, 11:44:44 am
Politica

06/03/2011 - CRISI POLITICA - LA FINE DELLE IDEOLOGIE

Dispersa e senza leader la diaspora della destra italiana

La Seconda Repubblica l'ha portata al governo ma ha distrutto la sua identità

MATTIA FELTRI
ROMA

D’improvviso, mentre la Seconda Repubblica volge a sera, la destra non c’è più. Se ne raccattano i pezzi, gli storaciani nel loro semi-ghetto, i berlusconiani aggrappati al governo, i finiani vaganti altrove. Ci sono pure gli apolidi, Domenico Fisichella a casa, i Silvano Moffa e i Pasquale Viespoli perduti nei gruppi misti parlamentari. Il fascismo fu archiviato con tutto il Novecento in sbrigativi congressi o addirittura in isolate e apodittiche sentenze ma, quando sarà conclusa la galoppata di Silvio Berlusconi, è la destra che rischia di svaporare senza un lamento.

Perché adesso? Perché nel lampo di pochi anni? «Perché tutto è finito», dice Pietrangelo Buttafuoco, il più affascinante fra gli intellettuali usciti dal Movimento sociale. L’arrivo della stagione del potere, spiega, ha dato l’occasione a ognuno «di farsi i fatti propri». Alessandro Giuli (vicedirettore del Foglio di Giuliano Ferrara e autore del Passo delle oche , bel saggio edito da Einaudi che quattro anni fa analizzava la sterile identità postfascista e i guai che ne sarebbero derivati) condivide e la spiega così: «Il Movimento sociale era programmato per rispettare una leadership carismatica, magari contendibile ma non contestabile. Fosse Romualdi o Almirante non importava, ci si divideva in correnti, ma davanti a un leader indiscusso».

C’era naturalmente l’istinto di sopravvivenza del branco, dice Giuli. C’era l’arco costituzionale, i fascisti erano i topi di fogna, «e magari nelle sezioni ci si prendeva a cazzotti, ma fuori i comunisti ci davano la caccia. Fuori si rimaneva una falange», dice Giuli. Quando non è più una questione di sopravvivenza, quando arrivano Berlusconi e il potere, «il gruppo dimostra di non avere tenuta. Già nella legislatura 2001-2006, Gianni Alemanno coltivava relazioni col mondo cattolico, Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri erano detti berluscones e restavano con Fini per un rapporto personale alla lunga insufficiente», osserva Giuli.

E Buttafuoco rincara: «Una destra al potere la si penserebbe capace di dare una struttura all’establishment, di avere legami stretti con la scuola, con l’università, con la magistratura, con l’esercito. Non è successo niente di tutto ciò. Pure alla Rai, che è l’industria culturale, ci si è limitati a piazzare qualche parente e qualche famiglio». Buttafuoco aggiunge che non è stata formata una leadership, e in effetti le facce sono le stesse da anni. Insomma, è una destra che non resiste a Berlusconi e alla prova del potere. Ma qui Luciano Lanna (firma del Secolo di Flavia Perina e autore del Fascista libertario , un manifesto culturale del neofuturismo appena uscito con Sperling & Kupfer) devia un poco: «Non credo che nella diaspora attuale c’entri la conquista del potere.

Penso si tratti di una scomposizione e ridefinizione post-ideologica. La Prima Repubblica ha tenuto sulla barricata missina persone profondamente diverse fra di loro, e le ha tenute insieme provocando grossi equivoci. C’erano i nostalgici, c’erano i conservatori, ma c’erano quelli come me che di destra non erano, che leggevano Junger e Pavese, che già allora si sentivano più vicini ai radicali, ai socialisti, al giovane Francesco Rutelli che a Storace». La ratifica è di Buttafuoco: «Soltanto per ignoranza ci si stupisce che alcuni fra i finiani dicano cose di sinistra. Ma le dicevano ai tempi dell’Msi... Quello era un partito all’avanguardia, che si permetteva libertà sconosciute ad An o al Pdl e al Fli. Nel Msi c’era dibattito, spazio per tutte le idee, fermento, persino lacerazione. Questo improvviso e recente incendio, questo prevalere delle tensioni culturali, lo trovo molto interessante».

Lo sarà, soprattutto, se contribuirà a un passo ulteriore. Ne dubita Giuli, che considera quelli come Lanna «la cosa più genuina prodotta da Fli». Ma nel loro portentoso ecumenismo culturale, Giuli vede «una danza infinita sopra l’immaginario, da Evola ai Beatles (cita un capitolo del Fascista libertario , ndr)... un clamoroso complesso di inferiorità». Non sarà da lì, dice Giuli, che uscirà una destra nuova. «Il fallimento attuale è figlio della liquidazione del fascismo senza l’elaborazione del lutto, soltanto perché un giorno Pinuccio Tatarella ci disse di levarci i calzoni neri e di indossare la grisaglia. Non si diventa grandi così.

Forse una destra nuova, interessante, sorgerà soltanto al collasso della Repubblica antifascista», è la conseguenza che trae Giuli. E sul punto non è lontano Lanna: «Io non faccio politica dal 1991. Non ho mai votato An ma voterò Fli. E spero che davvero sia arrivato il momento di buttare a mare destra e sinistra. Mi immagino un’alleanza della politica contro l’antipolitica, e soltanto dopo si riuscirà, spero, a cogliere quella fantastica occasione mancata con la Bicamerale del ‘97, quando ex fascisti ed ex comunisti stavano riscrivendo la Costituzione e cambiando la storia».

Un refolo di ottimismo che a Buttafuoco non muove un capello: «Temo che la destra sia legata inevitabilmente a dei blocchi sociali o delle stagioni, e che non sia capace di radicarsi, come dimostra la lunga stagione berlusconiana durante la quale non si è costruito nulla. Osservo. In particolare non mi piace nessuno. Dedico le mie simpatie a Casa Pound, l’unico luogo dove ancora si fronteggia il pregiudizio».

da - lastampa.it/politica


Titolo: MATTIA FELTRI. - deputati Pd leggono la carta gli altri giocano con la tavoletta
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2011, 11:28:43 am
Politica

13/04/2011 - PROCESSI BREVE- REPORTAGE

E alla fine l'iPad sconfigge il ripasso della Costituzione

L'ex ministro della Difesa Martino passa il tempo giocando a carte

I deputati del Pd leggono la carta gli altri giocano con la tavoletta

MATTIA FELTRI
ROMA

Il momento di massima tensione è stato raggiunto quando Marco Milanese, deputato del Pdl e braccio destro del ministro Giulio Tremonti, ha preso la rincorsa. Il dibattito languiva nella schermaglia procedurale e nel disperato e scialbo ostruzionismo ai quali era affidato il compito di dare un senso alla giornata. Milanese, concentratissimo, con un abile gesto dell’indice ha mandato il bomber a un impatto straordinario: la palla ha scavalcato la barriera e si è infilata proprio sotto l’incrocio dei pali, col portiere vanamente proteso in tuffo, come diceva ai bei tempi Sandro Ciotti; un’improvvisa vampata dell’aula con urla e battimani ha scosso Milanese, il quale per una frazione di secondo si era forse risvegliato all’Olimpico. E per fortuna che c’era l’iPad, vien da dire. Perché, per esempio, il povero ministro Gianfranco Rotondi è rimasto più impagliato che seduto ai banchi del governo per tutto il santo pomeriggio e non si è azzardato a uscire dall’aula nemmeno per due minuti quando l’iscritto a parlare ne aveva a disposizione cinque: non si sa mai che arrivi il blitz, e la maggioranza va sotto. Le disposizioni sono disposizioni.

E infatti ieri si è svolta la classica sfida fra cyber eserciti perfettamente progettati per la craniata frontale: ogni deputato, di destra e di sinistra, pareva fare e dire in base al software, e fino alla parodistica scena di Tonino Di Pietro che interviene per le dichiarazioni di voto col codice di procedura penale sul banco. Persino allo schema a sorpresa, di quelli lungamente studiati in allenamento, non è riuscito di sparigliare: Roberto Giachetti, segretario d’aula del Pd (su idea di Dario Franceschini) si era impegnato in uno sfiancante su e giù per le scale, a raggiungere i colleghi di partito con foglietti di carta ognuno dei quali conteneva - si sarebbe scoperto poi - un articolo della Costituzione. Il tutto era stato pianificato in una serie di conciliaboli così fitti che parevano preludere strategie all’altezza di Austerlitz. A uno a uno sono intervenuti i democratici, a cominciare dai campioni, Pier Luigi Bersani, lo stesso Franceschini, Massimo D’Alema, Walter Veltroni e così via. Ma la lettura degli articoli aveva suscitato all’inizio gli applausi scontati del centrodestra, poi quelli ironici e infine un rassegnato silenzio.

E meno male, dunque, che c’è l’iPad. Una profusione di tavolette. Specie a destra, non c’è parlamentare che non lo possegga e non lo maneggi. A parte quelli ispirati da Milanese, e afflitti dalla difficoltà di centrare il sette, i più scorrazzavano lungo i video di YouTube e le piccanterie di Dago. Il leghista Giacomo Chiappori si applicava a un solitario di carte. L’ex ministro Antonio Martino a una specie di Tetris. Il pidiellino Giulio Marini era alle prese con un complicatissimo gioco di pallette da tennis, o qualcosa del genere, che tendono a moltiplicarsi fino a invadere lo schermo. La sfortuna di costoro è di alloggiare proprio sotto le tribune dei giornalisti mentre i deputati di sinistra sono sovrastati dalle tribune degli ospiti che ieri sono state occupate anche da una delegazione di diplomatici iraniani, e soprattutto diplomatiche col velo nero, contro i quali si è rivolta, con gesti e urla, l’onorevole Souad Sbai, nata in Marocco e particolarmente sensibile alle questioni femminili nel mondo arabo.

Giusto un diversivo, perché per il resto la litania non si è interrotta neppure in serata, dopo la sospensione per la cena. Lo schema era chiaro. Quelli del Pdl tutti zitti per non perdere tempo (la legge bisogna votarla entro oggi, quando la seduta riprenderà, perché non ci siano ripercussioni penali sul presidente del Consiglio e di carriera sui suoi eletti). Quelli del Pd (terminata la Costituzione) per le medesime ragioni sono intervenuti nel numero massimo possibile, e sostanzialmente per dire vergogna, sfregio, maledizione, poveri magistrati, eccetera. Quelli dell’Italia dei Valori non erano da meno: la loro era una Spoon River dell’Italia contemporanea, un deputato ricordava i morti dell’Aquila, un altro quelli di Viareggio, un terzo quelli della Thyssen, e nella loro opinione rimarranno senza giustizia a causa della prescrizione. Ecco, proprio mentre era il turno del cognato di Di Pietro, Gabriele Cimadoro, le pallette gialle avevano già invaso metà schermo dell’iPad di Giulio Marini, che tuttavia si batteva valorosamente.

Un premio se lo meriterebbe per l’abnegazione proprio Giachetti del Pd. Ha cercato in tutti i modi, scavando nei regolamenti, nella prassi, nella giurisprudenza d’aula un appiglio qualsiasi per guadagnare un giorno o anche soltanto qualche ora. Ha accusato il presidente Gianfranco Fini di essere ingiusto con l’opposizione per risparmiarsi qualcuno degli schiaffi che gli arrivano da destra. Le pallette di un trafelato Marini erano a tre quarti, e a quel punto ci si metteva anche Giuseppe Moles, suo emulo e vicino di banco. E lì è stato evidente l’autogol del ministro Angelino Alfano che ha elencato i tempi delle prescrizioni: si ridurranno di un’inezia, ha detto. Di modo che tutti, a cominciare da Pierferdinando Casini, gli hanno chiesto: «E allora perché lo fate? Perché è utile a uno soltanto!», e cioè al premier, più altre considerazioni che non sappiamo restituirvi perché proprio in quel momento le palle tracimavano, e in un flebile lamento Marini capitolava.

da - lastampa.it/politica/


Titolo: MATTIA FELTRI. - E il Capo dà la carica ai mille della Brambilla
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2011, 05:09:18 pm
Politica

17/04/2011 - REPORTAGE

E il Capo dà la carica ai mille della Brambilla

"Per continuare a vincere abbiamo bisogno di forze nuove"

MATTIA FELTRI
ROMA

Alla politica del fare pare sempre corrispondere quella del disfare. E così l’inesauribile Michela Vittoria Brambilla, dopo essersi inventata i Circoli e la Tv della Libertà, celebri iniziative mai iniziate, o a quantomeno prematuramente scomparse, si ridona un certo lustro con le associazioni Asdi. Prima di elencare le migliaia di sedi e di servizi della associazioni Asdi, va però spiegato che, come al solito, la scaltra Brambilla ha soprattutto offerto il destro a Silvio Berlusconi per augurare il buon appetito ai gerarchi banchettanti. Da un paio di settimane, infatti, graduati e sottufficiali del Popolo della Libertà si raggruppano e si dividono nei migliori ristoranti della Guida Michelin Roma. E a tavola stringono alleanze, appianano contrasti, smussano divergenze e stabiliscono le quote di spartizione del partito. Quanto Berlusconi apprezzi questo lavorio da notabili, è testimoniato da una frase pronunciata ieri con grazia sopraffina: «Per continuare a vincere, abbiamo bisogno di forze nuove».

A quel punto tutto ciò che sin lì si era presentato nelle sembianze del movimentismo estemporaneo, dell’ennesimo tentativo abborracciato di radicarsi nel mitico territorio, persino nella classica chincaglieria berlusconiana, ha assunto bel altro aspetto.

E allora, ricominciando daccapo, ieri al Palazzo dei congressi dell’Eur il ministro del Turismo ha alzato il sipario sulle Associazioni “Al Servizio Degli Italiani”. Lo scopo delle associazioni è di mettere in piedi una rete di centri nei quali chiunque va per ricevere assistenza fiscale o legale, cercare lavoro, difendersi dalle banche e degli istituti finanziari e così via. «Siamo mille e sessantotto», ha detto la Brambilla intorno alle 16.30 nell’accogliere il premier. Già oggi, connettendosi al sito alserviziodegliitaliani. it, si dovrebbe vedere dove saranno dislocati i mille e sessantotto centri e apprezzare nel dettaglio l’offerta. I mille e oltre titolati erano tutti lì, all’Eur, per la santissima benedizione. E altre centinaia e centinaia sono accorse nella speranza di conquistare il bollino Asdi e l’opportunità di tirare su la saracinesca.

Qualche infidissimo cronista ironizzava su questo mare di aspiranti Scilipoti, e tracciava il profilo antropologico in base alla metratura dei colletti o alla versione rosea o pervinca del principe di Galles. Stando su questo tono, c’erano tutti gli abiti e tutti i monaci, dal bocconiano al capobastone. Ironia, appunto, e anche piuttosto scontata. Agli stand, in realtà, i ragazzi ci davanodentro con le informazioni e le istruzioni, non c’è stata brochure o volantino che non ci sia stato illustrato, sottolineatoe rifilato, ed era naturalmente niente più che un giochino distinguere fra le aspirazioni filantropiche e la scilipotaggine dei convenuti. E l’unico vero incidente è occorso alla delegazione dell’Usae, la non famosissima Unione sindacati autonomi europei, spintasi fino a Roma per apparentarsi alle Asdi e giunta da Reggio Calabria sotto la guida del segretario regionale Francesco Raso solo all’ultimo momento: «Minchia, undici ore di autobus!». Era capitato, ha spiegato Raso, che «il presidente ci aveva garantito che la Salerno-Reggio Calabria era finita... Col piffero...».

Non sarà certo una promessa andata a vuoto a incrinare il rapporto fra i leader e il suo sempre rinnovabile popolo: in platea sembravano tutti accomunati dall’ammirazione incondizionata e dall’entusiasmo incontenibile. Difficile immaginare quanto Berlusconi conti di pescare lì dentro. Più automatico intuire, per tornare al succo, l’apprezzamento del capo per il feudalesimo dei principini. E, come si diceva, non è stato con slancio ma con gelida dolcezza che Berlusconi si è augurato che davanti a lui sedessero i sottoposti del futuro: «Dobbiamo ammettere che in tutti i partiti, anche nel nostro, a un certo punto si cade in una patologia forse inevitabile. Per cui chi è entrato da tanti anni con dedizione e idealità si ritrova poi in una posizione di potere locale o nazionale, e comincia a dare gomitate affinché i concorrenti non gli tolgano il posto...». Spalanchiamo le porte al nuovo, ha concluso intanto che lì sotto, raggiunto lo status di subentranti, tambureggiavano irrefrenabili.

da - lastampa.it/politica/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Il consiglio di guerra dei sopravvissuti
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 12:40:14 pm
6/6/2011

Il consiglio di guerra dei sopravvissuti

MATTIA FELTRI

Smarrito nel suo labirinto, Silvio Berlusconi sperimenta oggi una nuova possibilità: di essere messo spalle al muro da sottoposti e alleati nel summit di Villa San Martino che sarà animato dai capitani pidiellini (Tremonti e Alfano) e dai vertici leghisti.

Il presidente del Consiglio sentirà come sono salate le condizioni se non è lui a porle. La ridotta nella quale il premier si è asserragliato contro tutto e contro tutti, quasi a cercar la bella morte, non sarà l’ultima trincea di chi per diciassette anni gli ha combattuto al fianco. E quindi, se si deve tenere le armi in pugno, ancora, le si terrà secondo i nostri piani, prendere o lasciare: questo si sentirà dire il Grande Capo.

Quanto vogliamo andare avanti? Per fare che? Per quanto tempo? Con questa maggioranza? Soprattutto - scandalo degli scandali - al prossimo giro, chi sarà il nostro candidato a Palazzo Chigi? C'è poi la questione decisiva della manovra finanziaria, venti miliardi di euro da scucire in due anni, cinque subito, altri quindici nel 2013, e col pareggio di bilancio garantito all'Europa nel 2014. Mica niente. Intanto, diranno i cerberi a Berlusconi, non si pensi di vararla e di votarla alle condizioni di venti responsabili, arrivati in maggioranza con ragioni le cui solidità sono quotidianamente verificabili, fra ricompense pretese e spettacolari andirivieni. L’idea è di mettere in piedi qualcosa di più credibile e strutturale con l’Udc di Casini, che però in cambio non vuole una testolina qualsiasi, ma quella del capo del governo. L’alternativa c’è: elezioni anticipate al 2012.

Il riassuntone del menu di giornata è sufficientemente raggelante. Intanto fa una certa impressione un vertice sul futuro della legislatura e dell’esecutivo riservato in fondo a due leader soltanto, Berlusconi e Umberto Bossi, in confronto alla profusione dei tempi andati: potrebbe essere il sintomo di una coalizione moderna e sintetica, visti i consensi pare più il consiglio di guerra di pochi sopravvissuti. Poi si intravede senza grande sforzo un asse Bossi-Tremonti meno ipotetico del solito; la natura delle richieste sa tanto di linea concordata. Infine lo straordinario inedito di cui si diceva all’inizio: per la prima volta non è Berlusconi a imporre la linea. O meglio: sarà ancora lui a decidere, ma in un caso avrà ancora per un po’ il sostegno di tutta la coalizione, nell’altro sarà dolcemente e progressivamente abbandonato al suo destino. Insomma, un leader in ostaggio.

Davanti a questo quadretto c’è un Berlusconi in drammatica crisi non soltanto di consenso ma di idee. Oramai (incredibile il rimpastino con immissione di nove sottosegretari a dieci giorni dalle Amministrative, cose che neanche il più involuto dei Forlani...) il genio teatrale del premier, quello che ha rivoluzionato la prassi della politica italiana, sembra inaridito e involuto sino a cercare rifugio negli scialbi riti primorepubblicani. E dopo il ceffone del voto, Berlusconi pare aver fallito anche nella sua specialità: il lifting. Tutto si è concluso con la promozione del bravo Alfano, se mai predellini e fuochi d’artificio sarebbero bastati. Fosse un film, mancherebbe soltanto l’ultima scena: sta a Berlusconi, alle carte che ha in mano, al suo senso delle cose e della vita, stabilire il finale.

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Titolo: MATTIA FELTRI. - i leghisti rivelano: «Non possiamo salvare anche questo»
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2011, 04:56:56 pm
Politica

16/07/2011 - PERSONAGGIO

I deputati pronti a scaricare Papa ma nessuno conosce le accuse

Il ministro Maroni insieme al capogruppo della Lega Reguzzoni

Alla Camera i leghisti rivelano: «Non possiamo salvare anche questo»

MATTIA FELTRI

Roberto Maroni non aveva niente da dire. Alfonso Papa, il deputato che tutti vogliono in galera, era davanti a lui, in attesa. Silenzio assoluto. Si era spiegato, Alfredo Papa. Aveva speso i minuti concessi dal ministro per riassumere le sue ragioni. Per entrare nel merito. Per introdurre una «battaglia di verità», come l’ha chiamata con voce smaniosa e perduta. Ha allungato una copia delle sua memoria difensiva perché Maroni la leggesse e si facesse un’idea che nulla c’entri coi problemi di consenso della Lega, con la rabbia crudele di un elettorato esausto, con il cinismo gelido di chi esordì in Parlamento sventolando il cappio e oggi vorrebbe mostrare al popolo digrignante che sa sventolarlo ancora. Ma Maroni non aveva niente da dire e niente ha detto, ha ringraziato e fine.

E’ stata una giornata così, quella di Papa. Gironzolava per i corridoi della Camera più curvo del solito, lui che è alto alto, come se il voto della giunta lo avesse ulteriormente piegato, gli avesse stazzonato l’abito, gli avesse allentato la cravatta. Aveva gli occhi un po’ di fuori. Il sorriso smarrito e stampato intanto che Maurizio Paniz, componente pidiellino della giunta per le autorizzazioni a procedere, cercava di rassicurarlo, e intanto che il collega Mario Pepe gli spiegava che in ogni caso non sarebbe decaduto da parlamentare. Bella consolazione. Tutto intorno si notava ben altro volteggio...

Passa un parlamentare dell’Italia dei Valori. Si chiama Ivan Rota, un galantuomo. Gli si illuminano gli occhi. Spiega la diavoleria che si è inventato Federico Palomba, il membro dipietrista della giunta, per incastrare la maggioranza e mettere Papa spalle al muro. «E adesso l’aula...», dice affamato. Ma, onorevole Rota, lei sa quali sono le esigenze cautelari? Cioè, lei sa per quali impellenze Alfonso Papa non deve finire indagato o a processo ma proprio in carcere? «No», dice, «non lo so». Si incupisce appena: «Non sono un giudice e nemmeno un avvocato. E nel partito non mi occupo di queste cose. Sto soltanto riferendo...». E non è che altrove si rintraccino competenze o approfondimenti. Il drappello leghista brilla come al solito per prudenza: la richiesta dell’anonimato è protocollare, il contenuto della dichiarazione ciclostilato: «Se salviamo anche questo, come lo spieghiamo su ai nostri?». Bene. Ecco il colloquio tipo col deputato della Lega (ieri ne abbiamo avuti quattro, non dissimili l’uno dall’altro): onorevole, perché dovete votare sì all’arresto? «Perché non possiamo salvare tutti i maneggioni a causa di un’alleanza». Ma Papa è un maneggione? «Le carte parlano chiaro». Che cosa l’ha colpita in particolare? «I regali alle amanti, le consulenze alla moglie». Ma queste non sono gli addebiti di Marco Milanese? (domanda trabocchetto) «No... Anche di Papa mi sembra... Comunque più o meno... Difficile immaginarlo innocente». Ma qui si tratta di mandarlo in carcere. «Ma se è colpevole...». Se è colpevole lo condanneranno e vedremo a quanto, ma si tratta di andare in carcere adesso. «Noi sono anni che votiamo no e no a ognuna di queste richieste. Nessuno dei nostri deve poter pensare che stiamo al governo per salvare i mafiosi, i ladri, i corrotti... Adesso basta». Avete paura di perdere altri voti? «Altri voti? E quando mai li abbiamo persi?».

Le banche dati forniscono i precedenti: nella storia repubblicana, concessi quattro arrestidi deputati. Francesco Moranino nel 1955 perché, da partigiano, fece fucilare altri cinque partigiani e due delle loro mogli; Sandro Saccucci (del Movimento sociale) nel 1976 per omicidio, cospirazione politica e istigazione all’insurrezione armata; Toni Negri nel 1983 per reati inerenti al terrorismo armato; il missino Massimo Abbatangelo nel 1984 per detenzione di esplosivo. Durante la furia di Tangentopoli furono respinte ventotto richieste di arresto su ventotto. Ma stavolta si fa. Lo ha detto il capogruppo leghista Marco Reguzzoni: «Mercoledì (il giorno 20 in aula, ndr) voteremo sì all’arresto». Lo ha ripetuto poco dopo Umberto Bossi, chiacchierando con Gabriele Cimadoro, dipietrista per tessera e parentela (è il cognato) e successivamente rispondendo alla domanda su quale sarà il destino di Papa: «In galera».

«Io ora non posso dire niente», si scusa Papa. Si limita alle ovvietà. «Sono sereno». «Berlusconi è stato grande, mi è stato vicino sin dall’inizio». «Io credo nelle istituzioni: se mi toccherà la prigione, ci andrò». Degli altri, di chi lo vuole dentro, dei leghisti, dei pidiellini dubbiosi (come Nunzia De Girolamo) non intende parlare. Vota la fiducia e se la batte perdendosi così il premier, acciaccato e furente, che entra in aula e come è accerchiato incomincia l’arringa. Lo si vede da lontano, corrucciato, per niente amichevole, l’indice puntato su questo e su quello: «Dovete dire a tutti i deputati che votare sì all’arresto di Papa o di Milanese costituisce un precedente pericolosissimo, che pagheremo presto e lo pagheremo salato». E’ il solito generoso Berlusconi. Ma anche lui, alla fine, l’ha buttata in politica: salvate Papa, e salvatelo per la ragione di salvare voi stessi. E di salvare me.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/411770/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Il momento sbagliato di Scozzoli
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2011, 06:04:10 pm
28/7/2011

Il momento sbagliato di Scozzoli

MATTIA FELTRI

La sindrome di Fabio Scozzoli, già conosciuta come sindrome di Willer Bordon, si manifesta in vari modi ma la costante è di arrivare al momento sbagliato, e puntualissimi, all’appuntamento col destino.
Fabio Scozzoli ieri ha vinto la sua seconda medaglia d’argento ai Mondiali di nuoto in contemporanea con il nuovo l’exploit di Federica. La prima l’aveva vinta lunedì, appena 24 ore dopo il titolo iridato nei 400 della Pellegrini, che però è un fenomeno, e le sue medaglie risplendono d’oro. Ieri non c’era un sito che celebrasse con foto e punti esclamativi i trionfi di Scozzoli: erano tutti presi dalle conquiste infinite della Pellegrini, comprese quelle del cuore, per cui in serata si rilanciavano gossip sull’ultimo filarino.

Fin qui il fuoriclasse era stato Bordon. Politico integerrimo ma non fortunatissimo, Bordon toccò il vertice dimettendosi da coordinatore di Alleanza democratica (partito non indimenticabile messo su con Nando Adornato) un quarto d’ora prima che Achille Occhetto si dimettesse da segretario del Pds. Era il 1993. Non gli bastò. Con gesto plateale e cavalleresco, quindici anni più tardi si dimise dalla politica, dal Senato, insomma dalla casta, e lo fece la mattina in cui fu arrestata la moglie di Clemente Mastella, e il governo Prodi cominciò a cadere.

La storia è naturalmente piena di episodi simili. Il grande Carl Lewis inseguì per tutta la carriera il record del lungo di Bob Beamon, 9 metri e 90 e, dopo averlo mancato di centimetri per anni, realizzò a Tokyo il nove novantuno che tre minuti più tardi Mike Powell spazzò via con un incredibile nove e novantacinque. Il povero Roland Ratzenberger morì all’autodromo di Imola il giorno prima di Ayrton Senna, e così fu espulso anche dal libro della scalogna. Jonathan Franzen lanciò Le Correzioni - il romanzo che intendeva raccontare la psicosi della nuova America - l’11 settembre del 2001, giorno in cui le psicosi cambiarono per davvero. «Forza Italia», il documentario di Roberto Faenza, Antonio Padellaro e Carlo Rossella molto critico con la Dc, uscì in contemporanea col sequestro di Aldo Moro, e non finì meglio. La giovane Jo Moore, portavoce di un ministro inglese, l’11 settembre ebbe la prontezza e il cinismo di consigliare la diffusione di notizie indigeribili e occultate per mesi - aumenti di spesa e di tasse eccetera - intanto che i sudditi erano piuttosto distratti. Si sarebbe presto accorta che col virus di Bordon (e di Scozzoli) è meglio non scherzare.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9030


Titolo: MATTIA FELTRI. In Parlamento noia, battute e l'urlo liberatorio: Tutti in ferie.
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2011, 05:35:42 pm
Politica

04/08/2011 - GOVERNO ALLE CAMERE- LA GIORNATA

In Parlamento noia, battute e l'urlo liberatorio: "Tutti in ferie"

Con i trolley in fuga verso stazione e aeroporto

MATTIA FELTRI
ROMA


L’ utilità della giornata che in apertura e in conclusione il presidente Gianfranco Fini ha definito «straordinaria» con pompa nient’altro che istituzionale - è stata perfettamente colta da Mario Pepe, deputato del Pd iscritto per ultimo a parlare. A quel punto l’aula era spopolata e in disarmo e chi s’attardava aveva l’aria dello scolaro che si incaponisce ancora un po’, per meglio gustare la prossima libertà: da oggi il Parlamento è in ferie. Ebbene, aveva parlato il premier Silvio Berlusconi, aveva messo briscola il segretario del partito Angelino Alfano e aveva replicato il segretario democratico Pierluigi Bersani (non uno dei tre era sfuggito al fiacco torpore di pre-villeggiatura). Poi, una volta passata la palla al capogruppo della Lega, Marco Reguzzoni, la vacanze erano ufficialmente cominciate.

Il popolo del trolley - questo splendido animale da palazzo che sgombra a metà settimana trascinandosi minuscole valigie dimensionate alla durata della trasferta - si era messo in moto. A ogni successivo intervento, c’era una quota di onorevoli richiamata alle dure responsabilità della partenza: eurostar, frecce rosse e voli di linea chiamavano senza requie. E così, per arrivare al punto, al nodo della giornata, al cruciale sbocco, quando è stato il momento di Mario Pepe non era rimasta di sentinella che qualche decina di colleghi, tutti in drappello, tutti disinteressati e così è loro purtroppo sfuggita la sentenza dell’on. Pepe, scolpita nel marmo a caratteri d’oro: «Che Dio ce la mandi buona».

Sono state le ultime e chirurgiche parole echeggiate nell’emiciclo in cui ne erano echeggiate, nel pomeriggio, di molte e di altisonanti e provenienti da autorevolissime bocche. Lo scopo era di illustrare il punto di vista del governo davanti al disastro borsistico e a quello dei titoli di Stato. L’esecutivo, dunque, che intende fare? Il presidente del Consiglio, in una prestazione eccitante come quella di un notaio svizzero, ha detto quello che dice da inizio legislatura, se non da inizio vita: va tutto bene, l’Italia è solida, le pensioni vanno che paiono un espresso, le banche sono fortezze Bastiani, se c’è qualche guaio dipende dal fatto che i mercati non ci capiscono un’acca eccetera.

Ecco. In una quarantina di minuti di discorso, si saranno contati sette o otto applausi, compreso quello finale dal sapore più liberatorio che giubilante. Subito dopo era stato il turno di Angelino Alfano, pressoché all’esordio al posto di Fabrizio Cicchitto. L’intera filosofia politica ed esistenziale di Alfano era riassumibile in una delle frasi d’attacco: «Se si litiga meno, si fa il bene del Paese». Poi, naturalmente, Alfano ha giocato un po’ all’oratore, ma quando Pierluigi Bersani con voce grave ha annunciato che l’intervento di Alfano lo aveva «impaurito», ci si è detti che era la prima volta che Alfano impauriva qualcuno. La ciccia non è facile da tirare fuori. Bersani è stato piuttosto dispersivo: «Presidente... eh... mica siamo qui... eh... a dirci questo e quello... no?... presidente!... eh?... vogliamo prenderci in giro?». Insomma, pretendeva che il premier si dimettesse così come Pierferdinando Casini (il quale coglie oggi un clima non dissimile da quello del 1992), per la trentanovesima volta dall’inizio dell’anno, ha proposto un governo tecnico.

Ecco, se lo scopo della giornata era di ascoltare Berlusconi dire che il vento è in poppa, di ascoltare Bersani dire che serve un passo indietro e di ascoltare Casini dire che la coesione nazionale è l’unica uscita, bene, sarebbe bastato Google. E dunque ci si è accontentati di un Di Pietro in forma smagliante, autore di una superba prova di oratoria casereccia: «Se non fossi in Parlamento direi: caro Silvio! Lei ci è o ci fa? Mi viene da ridere per non piangere. Ma lei è il nuovo Alicio nel paese nelle Meraviglie? Oh! Silvio! Aho!». E ancora: «In Italia c’è una crisi nella crisi che si chiama Berlusconi Silvio, nato a non mi ricordo più dove». Fino all’apprezzata deriva psichedelica: «Berlusconi, lei sta facendo morire di fame milioni di persone». Rideva Tonino, rideva Silvio, ridevano tutti. Perché tanto Dio, a noi, ce la manda sempre buona. Forse.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/414382/


Titolo: MATTIA FELTRI. - "Le ridurrò da domani": 17 anni di promesse, poi l’aumento
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2011, 11:17:49 am
Politica

13/08/2011 - LA CRISI

Tasse, il sogno impossibile di Berlusconi

"Le ridurrò da domani": 17 anni di promesse, poi l’aumento

MATTIA FELTRI
ROMA

Una aliquota «Non possiamo realizzare la nostra riforma domattina», disse Berlusconi il 2 marzo del 1994. Era un Berlusconi molto americano, sull’economia lavorava il liberale Antonio Martino e la riforma diceva: flat tax, cioè aliquota unica al 33 per cento. Perché qui «i governi per risanare la finanza pubblica hanno accresciuto le entrare», diceva Berlusconi. E allora rivoluzione! Flat tax e poi detrazioni fiscali in funzione del numero dei familiari, riduzione del numero delle imposte (una ventina in tutto), maggiore flessibilità del sistema, Iva ridotta a due-tre settori, buono-scuola e buonosanità alle famiglie più povere. «Panzane», disse Giulio Tremonti che era in campagna elettorale coi pattisti di Mario Segni. «Miracolismo finanziario», aggiunse. E infatti Forza Italia vinse le elezioni, Tremonti lasciò Segni e passò alle Finanze e Martino se ne andò agli Esteri. E di flat tax non si sentì più parlare.

Due aliquote Di flat tax non si sentì più parlare perché si trovò una soluzione molto migliore dell’aliquota unica: due aliquote. Nel contratto con gli italiani, firmato nello studio di Bruno Vespa, Silvio Berlusconi promise che avrebbe applicato l’aliquota del 23 per cento ai redditi fino a 200 milioni di lire e l’aliquota del 33 per i redditi oltre. Era il 2001. Berlusconi tornò a Palazzo Chigi e, attenzione, la promessa non andava mantenuta entro domattina, ma entro la legislatura. Una promessa sacra: «Se non ci riusciamo è inutile stare qui a dannarci. Se non ci riuscirò non mi ricandido». Lo disse che era già il 2004. La legislatura si sarebbe conclusa nel 2006. «Non riuscirò a ottenere due aliquote», spiegò affranto Berlusconi soltanto cinque mesi più tardi.

Tre aliquote E se non si riescono a fare due aliquote? Se ne fanno tre. «Come sapete, le aliquote fiscali si ridurranno a tre: 23, 33 e 39 oppure 42 per cento, dobbiamo sederci intorno ad un tavolo per decidere», disse un ottimista Silvio Berlusconi nel settembre del 2004.

Tre aliquote e un quarto Ci sono riforme epocali, rivoluzionarie, che non si possono fare entro domattina e così le tre aliquote si complicarono un poco (e siamo giunti al novembre del 2004): «La riforma fiscale ricomprenderà tre aliquote, per quanto riguarda l’Irpef, al 23, 33 e 39 per cento, con una aggiunta di un 4 per cento per i redditi sopra i 100 mila euro come contributo di solidarietà», dettagliò ai giornalisti un orgoglioso Berlusconi. Comunque la riforma è straordinaria, ambiziosa eccetera e non si fa domattina e infatti ci furono ulteriori evoluzioni. Anzi, tuffi nel passato. Una aliquota: raggiungere il traguardo dell’aliquota al 33 per cento è «possibilissimo» (Berlusconi, marzo 2008). Due aliquote, una al 23 e l’altra al 33 per cento: «Sarebbe più razionale» (Berlusconi, gennaio 2010). Tre aliquote: «Ridisegneremo l’impianto delle aliquote, ve ne saranno solo tre rispetto alle attuali cinque, e più basse». (Berlusconi giugno 2011).

Dolci evasioni Una tale feroce guerra al sistema fiscale ha delle giustificazioni etiche. «Se si chiede una pressione del 50 per cento, ognuno si sentirà moralmente autorizzato ad evadere». «E’ una verità insita nel diritto naturale». «Non bisogna chiedere più di un terzo di quanto si guadagna altrimenti è una sopraffazione». «Se lo stato mi chiede il 50 e passa per cento, sento che è una richiesta scorretta».

Se non ora, quando?
Dunque, priorità assoluta sebbene non si pretende che si faccia tutto entro domattina. Su Internet si trovano ancora i titoli dei giornali, titoli storici. Per esempio. La Stampa, 2001: «Tagli alle tasse solo dal 2002». Il Messaggero, 2002: «Berlusconi: meno tasse dal 2003». MilanoFinanza, 2003: «Tasse più leggere nel 2004». La Stampa, 2004: «Berlusconi conferma: meno tasse entro il 2005». Il Giornale, 2005: «Rispetteremo i patti: meno tasse entro il 2006».

Se non questa, quella?
Perché poi un conto è l’Irpef, le aliquote, quest’anno o l’anno prossimo, ma le tasse sono numerose, si interviene su balzelli particolarmente odiosi. Ricordate l’Irap, l’imposta sulle attività produttive? Berlusconi non l’ha mai amata: «E’ una rapina»; «eutanasia fiscale»; «dies irap»; «iniqua, la abrogherò». Tutte queste cose le ha dette dall’opposizione. Al governo rivide leggermente il giudizio: «Anomala»; «esamineremo l’abolizione»; «la ridurremo»; «non eliminare ma modificare». Nel 2006 ritornò all’opposizione: «E’ una rapina»; «odiosa»; «assurda» e così via. Naturalmente l’Irap c’è ancora poiché certe tasse non è facile abolirle così, domattina.

Compendio
Per i più distratti, un breve elenco di altre tasse di cui Berlusconi annunciò l’abolizione e che oggi ci sono ancora: bollo auto, bollo moto, tassa sui rifiuti, canone Rai, tassa di successione, tassa sul caro estinto.

Le mani nelle tasche
Da un certo punto in poi, ma molto presto («è quasi un miracolo non avere aumentato le tasse», dicembre 2001), Berlusconi sperimentò un nuovo tipo di annuncio: il non aumento. «Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani», ripetuto sino a 48 ore fa, è uno slogan del settembre 2002. Non metteremo le mani nelle tasche, niente patrimoniali, niente prelievi aggiuntivi, niente contributi di solidarietà. Adesso però le cose cambiano. E da domattina.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/415613/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Esercizi di geografia creativa
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2011, 06:37:07 pm
Politica

17/08/2011 - LA STORIA

Esercizi di geografia creativa

La manovra ridisegna l’Italia

Cervo, paesino della Liguria al confine tra province di Imperia e Savona: entrambe rischiano la cancellazione, ma rifiutano di associarsi
       
Dalla Provincia delle Alpi Marittime al Molisannio, mille modi per non scomparire

MATTIA FELTRI
ROMA

PRINCIPATI
Non saremo più comune? Bene, saremo principato. Verranno proclamati, se così sarà, il principato di Filettino, il principato di Vallepietra e quello di Collepardo. Non tanto in stile monegasco. Piuttosto di ispirazione seborghina. Esiste, nella provincia di Imperia, il sedicente principato di Seborga, trecento abitanti, che batte e adopera moneta, il luigino, valore sei dollari. Il principato di Seborga elegge un principe (oggi regna Marcello I), emette passaporti, distribuisce patenti e se le pretese indipendentiste passano per stravaganze di attrattiva turistica, quelle di Filettino, Vallepietra e Collepardo hanno qualche ambizione in più. A Filettino (Frosinone) appartiene un importante bacino idrico che rifornisce buona parte della provincia di Roma; il vicesindaco, eletto nella lista «Filettino nel cuore», dice che, una volta proclamato, il principato asseterà la capitale. A Vallepietra (Roma), oltre che un bacino idrico meno consistente ma non marginale, vantano un santuario della Trinità che attira turisti persino dal Giappone; e così Collepardo, nel Frusinate, Jenne, nella valle dell’Aniene, e altri si faranno principato. Con quali mezzi giuridici - se non una vaga autoproclamazione - è ignoto.

COMUNI
Giudicando la via descritta non facilmente praticabile, altri comuni esplorano percorsi alternativi. A Paciano, comune nella provincia di Perugia, mancano dodici abitanti alla salvifica quota di mille e il sindaco pensa di dare la cittadinanza agli extracomunitari formicolanti in zona. Nei giorni scorsi il sindaco di Capraia, isola della provincia di Livorno con 400 abitanti, ha annunciato l’intenzione di rivedere i trattati internazionali e di annettersi alla Corsica, cioè alla Francia, la cui sponda è più vicina di quella italiana. Per blindare il blasone comunale, il sindaco di Altopascio (Lucca) chiede la gestione del meretricio per legalizzarlo, tassarlo e ingrassare le casse municipali. Se ne possono escogitare a dozzine: quelli di Cesi sono tutti contenti per l’abolizione della provincia di Terni; infatti, dicono i membri dell’Associazione Cesi Libera, il regio decreto del 1927 con cui il Duce elevò Terni al rango di capoluogo conteneva l’ampliamento della città con l’accorpamento di alcuni comuni, compreso quello di Cesi, che non se ne riebbe più. Ma oggi vede la luce: se la provincia scompare, Cesi torna all’antico lignaggio.

PROVINCE
Se ne aboliranno dunque ventinove, salvo accoppiamenti. Che però sono complicatissimi per bellicose questioni di vicinato. Per esempio quelli di Savona e quelli di Imperia, che risolverebbero la questione associandosi, si detestano e non ne vogliono sapere. Tantomeno accettano di soggiogarsi a Genova. La soluzione? Violare un paio di Trattati di pace e aggregare la Costa Azzurra (a meno che la Francia non la ceda in cambio di Capraia), oltre al Cuneese, per coniare la Provincia delle Alpi Marittime. La faccenda sta ridisegnando l’intera geografia italiana. La Spezia e Massa-Carrara sognano la provincia Apuania che abbatterà i confini regionali. Benevento e le due province molisane, secondo il sogno di Clemente Mastella, sono pronte al Molisannio. All’idea di fondersi con Vercelli, ai biellesi viene il magone: preferirebbero passare sotto la giurisdizione di Novara; il problema è che Biella e Novara non confinano, e così si è chiesto ai vercellesi la disponibilità a entrare nel sodalizio, ma piuttosto i vercellesi si fanno passare per le armi. La vertenza è aperta. A Rieti si studia un «piano B» illustrato dal coordinatore cittadino del Pd, Annamaria Massimi: «Dal Cicolano alla Sabina cambiano i confini e le tradizioni culturali e questa eterogeneità è da difendere con le unghie e con i denti». A Crotone, illustra con competenza notarile il vicepresidente del Consiglio provinciale, «tutti hanno espresso la necessità di mantenere in essere l’Ente intermedio per una serie di ragioni, dai ritardi infrastrutturali alle emergenze occupazionali». A Caltanissetta propongono verità che dovrebbero scuotere la coscienza del Paese: «Siamo di fronte a un provvedimento che mette a serio rischio la rappresentanza democratica», dice il presidente della provincia.

I PONTI
Qui non c’è soltanto da salvare i comuni e le province, ma anche le loro finanze messe in pericolo dal governo che vuole spostare le feste e abolire gli unici ponti che si fanno oggi in Italia: quelli delle vacanze. Al momento c’è chi si sente toccato nella fede (a Napoli spiegano che San Gennaro è quando il sangue si liquefà, non quando decide Giulio Tremonti), chi nella laicità (il sindaco di Senigallia, provincia di Ancona, spiega che il 25 aprile è data sacra, manovra o non manovra), chi nel quattrino (i consiglieri regionali della Liguria, compresi quelli di centrodestra, e l’assessore al Turismo della provincia di Rimini spiegano che senza ponti e fine settimana lunghi se ne vanno in fumo sacchi di soldini).

FATTO SALVO
Ora, a parte le ampie rivendicazioni territoriali, ce ne sono di interesse prettamente nazionale. Pertanto, «fatti salvi i saldi complessivi», è necessario azzerare i tagli ai comuni, dice Bobo Maroni per il quale, fatti salvi i saldi, è necessario anche azzerare i tagli alla sicurezza. Fatti salvi i saldi, va cancellata la norma sui mini enti, dice il ministro Giancarlo Galan. Fatti salvi i saldi, non ci saranno tagli all’edilizia carceraria, dice Nitto Francesco Palma al quale l’ha detto Silvio Berlusconi («fatti salvi i saldi, accetteremo molte modifiche»). Fatti salvi i saldi, va da sé, è pensabile aumentare gli emolumenti ai parlamentari, come dice il deputato Santo Versace, purché siano i parlamentari a essere tagliati. Fatti salvi i saldi, si stralcino le norme sul lavoro, dice Stefano Fassina, responsabile economico del Pd. Fatti salvi i saldi, si abbandonino i propositi di rinvio del Tfr, dicono tutti i sindacati. Fatti salvi i saldi, si sospenda il superprelievo, dicono Guido Crosetto e gli altri dissidenti del Pdl; la risposta di Berlusconi: fatti salvi i saldi, no.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/415953/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Lo stato del contante
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2011, 03:12:59 pm
6/9/2011

Lo stato del contante

MATTIA FELTRI

Il saggio Giulio Tremonti qualche tempo fa diceva che se in America circoli con il contante in tasca ti fanno pedinare dall’Fbi.

Lo diceva quando ancora erano ignote le sue bizzarre forme di pagamento dell’affitto: 4 mila euro cash al collaboratore Marco Milanese. Il reggente dell’Economia scrisse ai quotidiani per spiegare come disponesse di tanti liquidi: 2 mila e quattrocento euro di stipendio ministeriale corrisposto alla vecchia maniera, un euro sull’altro, e i restanti mille e seicento che egli si ritrovava qui e là, in tasca e sul comò perché, se abbiamo ben capito, fu titolare di uno studio molto ben avviato. Tremonti, che senz’altro non ha pagato la pigione in nero e senz’altro disporrà delle ricevute, ebbe almeno la prudenza di rispettare le norme antiriciclaggio che - prima della manovra di Ferragosto con cui si è abbassata la soglia ai duemila e cinquecento euro - fissavano a cinquemila il limite oltre il quale è vietato saldare in banconote. Però fece impressione immaginare il ministro dell’Economia mentre le ripone sul tavolo, come i cumènda di una volta, che estraevano dalla tasca dei fogli da diecimila lire delle dimensioni di una federa (occhio però a non scordare un superlativo Tonino Di Pietro che restituì ad Antonio D’Adamo 100 milioni di lire in una scatola di scarpe).

Tutto roba da dilettanti, come sempre succede, se paragonata alle disinvolture contabili di Silvio Berlusconi. «Io non ho liquidi, intanto perché faccio beneficenza e non lo dico», raccontò il premier nella primavera del 2008. A parte che si rimane per ore a riflettere sulla frase «faccio beneficenza e non lo dico», a parte che tutti quelli accolti nelle prossimità di Berlusconi attestano la sua generosità, a parte i denari elargiti alle ragazze delle notti bungabunghesche, a parte i finanziamenti ai Lele Mora, a parte gli incerti confini che separano la regalia dal ricatto (o dal timore di esserne vittima), a parte tutto questo, salta fuori il solito Berlusconi allegramente sprezzante, anzi noncurante di qualsiasi regola, comprese quelle da lui stabilite. I ventimila euro girati in contante e ogni mese dalla segretaria Marinella Brambilla al procacciatore di femmine, Giampi Tarantini, riportano alla memoria quel gran genio di Corrado Guzzanti che, alla vittoria del centrodestra del 2001, la faceva sul divano perché ora nulla era vietato. La soglia per la tracciabilità a cinquemila euro fu giudicata da Berlusconi «condivisibile» (maggio 2010) nonostante ci avesse fatto sopra mezza campagna elettorale, e contro la sinistra, promettendo di innalzarla a 12 mila e cinquecento poiché sennò lo Stato è spione, poliziesco e bolscevico. Lo avrebbe fatto e dovette pentirsene. Per di più all’ultimo giro si è scesi a 2 mila e cinquecento ma, che importa?, quando il presidente del Consiglio si sente in giornata distribuisce, dispensa, omaggia a bigliettoni, e malgrado quanto fissato dalle sue leggi perché lui e l’esecutivo che presiede vivono nell’assurda ambiguità di considerare lo Stato un avversario anche quando lo Stato sono loro, e lo raggirano da furbetti, e fin nelle piccinerie.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9165


Titolo: MATTIA FELTRI. - Il giorno della protesta nelle piazze italiane
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2011, 12:30:28 pm
Politica

08/09/2011 - IL CASO

Noia nell’aula, gli indignados nelle strade

Il giorno della protesta nelle piazze italiane

Seduta fiacca, fuori scontri con la polizia

MATTIA FELTRI
ROMA

Forse è ingiusto chiedere al Senato, su cui da tempo è stato steso un pietosos plaid, di infiammarsi anche soltanto per obiettivi scenografici.Il contrasto fra l’aria che tira fuori e quella che si respira dentro (dentro questa Alta Camera Iperbarica) è cupo e profondo. Fuori - quando ormai è buio e intanto che dentro i senatori sfilano fiaccamente sotto il banco della presidenza per la fiducia - ci sono i ragazzi inclusi quelli invecchiati dello storico antagonismo che lanciano improperi e mortaretti, e ci sono i cordoni e le camionette della polizia a dare un senso di drammaticità se non altro estetico. Perché fin lì era parso tutto un doposcuola, un pomeriggio lungo il quale strisciare, una tediosa incombenza da assolvere. Se è vero che rischiamo la fine della Grecia, è un rischio in aula inapprezzabile, un’aula veramente delusa nelle aspettative quando il presidente Renato Schifani ha annunciato d’aver respinto le richieste emergenziali dei molti che volevano votare subito, e filarsela senza rispettare l’ordine alfabetico.

Quale fosse il clima è infine stato chiaro, definitivamente, quando dai banchi del Pd, per le dichiarazioni di voto, si è alzato Luigi Zanda, rispettabilissimo cattolico sardo e tuttavia uno con l’aspetto e la parlantina del direttore di un sanatorio per tisici. E poco prima il leader dell’Api, Francesco Rutelli, aveva ripetutamente messo in imbarazzo Schifani, che gli faceva notare di aver di molto sforato i tempi; eppure non s’era arreso, intendeva giungere al finale ad effetto: «Berlusconi non pensi di salvarsi usando la frase dei giudici di Milano: resistere, resistere, resistere». Ma non abbiamo avuto un tuffo al cuore. Piuttosto ci si è stretto e parecchio ascoltando il capogruppo della Lega Nord, Federico Bricolo, nell’imbarazzante tentativo di mischiare lotta e governo. Che poi: quale lotta? E quale governo? Un discorsetto che era una pietosa impiastrata di frasi fatte e decrepite, il Nord che se ne va, l’inno da fischiare, non vogliamo più il centralismo romano, non puliremo mai più Napoli. Si capirà per quale ragione la seduta di ieri è stata giudicata l’evento più noioso del 2011 dopo i notiziari sulla viabilità svizzera. E non ci rompevamo le scatole soltanto noi in tribuna, davanti all’eterno bla bla inascoltato e inascoltabile. Se le rompevano anche loro, i senatori, e lo davano tranquillamente a vedere: arrivati in gran quantità all’ultimo momento, si sono radunati a drappelli per la chiacchiera pre-aperitivo mentre si discuteva del disastro che sapete, e il povero Schifani, al quale è quantomeno rimasto un decoro da diretta televisiva, per due o tre volte ha richiamato la scolaresca con gli argomenti e la presa di un supplente delle medie.

E in una giornata del genere il momento elettrizzante sono stati i tre minuti dell’antiquariato a opera di un straordinario Emilio Colombo. Il senatore a vita ha detto che la manovra è buona anche se è piena di errori, che lui l’avrebbe votata senz’altro in omaggio agli auspici del Presidente della Repubblica, e che però la decisione di porre la fiducia l’aveva obbligato a rivedere le sue posizioni, e che di conseguenza si sarebbe astenuto. Un irresistibile sprazzo di democristianeria reale. Una degna conclusione.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/419182/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Martino: coordinerò un pool di economisti per aiutarlo
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2011, 10:55:04 am
Politica

12/09/2011 - INTERVISTA

"Silvio vuole la riforma fiscale per lasciare un buon ricordo"

Martino: coordinerò un pool di economisti per aiutarlo

MATTIA FELTRI
ROMA

Professor Antonio Martino, ieri (sabato ndr) si è visto con Silvio Berlusconi. Le ha fatto cambiare idea? Vota la manovra?
«Per la verità abbiamo parlato di tutto fuorché della manovra, che è invotabile. Berlusconi mi conosce da anni, sa che se esprimo un’idea poi non la cambio».

Di che cosa avete parlato?
«Vuole costituire un gruppo di economisti che gli dia suggerimenti in vista delle prossime riforme e mi ha chiesto di farne parte per coordinarlo».

Un gruppo di esperti? Finalmente una buona idea.
«Già. Avevamo aspettato anche troppo. La politica economica la devono fare i governi, mentre da noi ormai la stanno facendo la Banca centrale europea, la Banca d’Italia e il ministero dell’economia. Mi pare che lo si sia capito: mancano pochi mesi alla fine della legislatura, e il premier vuole usarli per promuovere qualche riforma che lo riscatti».

Le famose tre riforme, fiscale, della giustizia e istituzionale?
«Sì e quella fiscale mi pare paradossalmente la più facile. A Berlusconi ho spiegato che nel 2010 l’Ire (ex Irpef), l’Ires (ex Irpeg) e l’Irap hanno fruttato il 14,6 per cento del Pil. Una ridicolaggine. Per assurdo, se mettessimo un’improponibile aliquota unica del 15 per cento incasseremmo di più...».

E’ l’evasione fiscale.
«L’evasione c’è, ma la lotta all’evasione fiscale non si mette in manovra, si persegue per legge. La lotta all’evasione fiscale non è un riforma. Un conto è volerla fare, un conto è riuscirci. Come la contabilizzi? Ma il punto vero sono l’elusione e l’erosione, si deve cominciare da lì, eliminando quegli istituti di comodo che permettono di occultare reddito legalmente».

Le società a cui intestare gli yacht?
«Certo. Ma vi pare normale che uno studio qualsiasi possa mettere fra i beni di rappresentanza un’auto di lusso?».

No, per niente.
«Oggi io appartengo all’uno per cento di italiani catalogabili come ricchi. Eppure vivo a Roma nello stesso appartamento, che era di mia madre, dall’82. Affitto la stessa casa all’Elba dall’85. Ho la stessa macchina dal ‘93. La stessa moglie dal ‘70. Ah, ho un barca scoperta di otto metri, un fuoribordo a cui sono affezionato ma che non definirei uno yacht, è una barca da pesca. Le sembro uno che fa il bagno nello champagne rosé?».

Ma perché prima l’elusione e l’erosione?
«La lotta all’evasione è ovvia, ma qui si tratta di tappare subito i buchi di questo acquedotto pieno di falle, e ci sono gli strumenti legali. Faccio un esempio. Un caro amico che purtroppo non c’è più, il professore di Scienze delle finanze Franco Romani, mi raccontò che lo studio di Giulio Tremonti, nel solo primo anno di attività, fece erodere 600 miliardi di lire di base imponibile. Tutto legale, per carità. Ma basta che non lo sia più».

Dunque lei aiuterà Berlusconi in queste riforme.
«Darò consigli. Tutto lì. Poi vuole fare la riforma della giustizia».

Come no, da diciassette anni...
«Nel 1994 durammo troppo poco, non fu materialmente possibile. Nel 2001-06 si oppose Gianfranco Fini. Stavolta francamente peccato che Angelino Alfano non abbia proceduto».

E la riforma istituzionale?
«Che cosa contenga non lo so. Sicuramente la riduzione dei parlamentari, una rivisitazione della natura stessa del Senato».

Scusi professore, lei ci crede?
«Berlusconi ci tiene, vorrebbe lasciare un buon ricordo di sé ma servirebbe la collaborazione della sinistra».

La sinistra che aiuta Berlusconi a lasciare un buon ricordo di sé?
«Appunto, è un’ipotesi poco plausibile. E oltretutto lo rafforzerebbe moltissimo in vista del 2013».

Comunque non si ricandida.
«Mah, sarà solo lui a decidere, anche se la sensazione è che ne abbia le tasche piene. Ha voglia di lasciare un ricordo migliore perché qui, fra luci e ombre, mi paiono molte di più le ombre. In ogni caso parlare male di Silvio Berlusconi è facile, ma sostituirlo lo è molto meno».

Alfano è l’uomo giusto?
«E’ bravo, ha stoffa, non è carismatico ma ha dalla sua l’età. E’ di formazione giuridica, però se si sceglie qualcuno che ben lo consigli in materia economica...».

Magari il professor Martino?
«Alfano mi parla con quella classica deferenza che i giovani hanno verso i vecchi e la cosa mi fa “incavolare”. Però se mi chiede una mano gliela do volentieri».

Professore, mi sembra molto meglio disposto verso il centrodestra rispetto al solito. «Sì, ho incontrato Berlusconi che era un po’ giù di corda, un po’ acciaccato, e però anche così è uno che fa ripartire la speranza. Questa cosa degli economisti mi ha restituito un po’ di carica».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/419756/


Titolo: MATTIA FELTRI. - In prigione o no? Nei partiti la tattica prevale sulla libertà
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2011, 04:06:03 pm
Politica

22/09/2011 - IL CASO MILANESE

In prigione o no? Nei partiti la tattica prevale sulla libertà

Nessun giudizio di merito nelle scelte dei gruppi

MATTIA FELTRI
ROMA

«Lasciateci vedere quali saranno le tattiche migliori», ha detto domenica scorsa un Pierluigi Bersani in forma olimpica. Ecco, non anticipiamo i tempi. Suspense. Luci basse, e come in un lampo sarà il tempo debito: allora gusteremo l’estro procedurale, il colpo di genio con il quale il deputato Marco Milanese sarà assicurato a Poggioreale. «Abbiamo dimostrato che non siamo inesperti in quanto a tattiche parlamentari», ha aggiunto il segretario del Partito democratico e chissà che il gesto del fuoriclasse non sia quello sfociato nella grigia disputa attorno al voto segreto: due mesi fa, quando fu il turno di Alfonso Papa (primo deputato nella storia della Repubblica a finire in carcerazione preventiva per reati non di sangue o di eversione), lo chiese il centrodestra e il centrosinistra si indignò, e stavolta i ruoli si sono perfettamente invertiti.

Si capirà: sono in ballo, qui, i supremi valori della libertà, della dolorosa scelta di privarne qualcuno, senza parlare del senso filosofico della rappresentanza parlamentare. E chissà, forse sono anche queste vette del pensiero a scuotere la Lega, divisa fra un Umberto Bossi improvvisamente spiaggiato sulle rive del garantismo («non mi piace mandare in galera la gente») e un ferrigno Bobo Maroni, che secondo la retroscenistica è invece disposto a mandarcela, forse per marcare la sua crescente leadership, di sicuro per evitare alla Lega di affondare col berlusconismo. E infatti il voto di oggi «ha una grandissima valenza politica», come dice il dipietrista Leoluca Orlando. Che poi questo giro di walzer avvenga sulla pelle di Milanese, è un fatto che non dà i brividi a una politica che ha abbandonato il pudore e il cinismo (faccio cose sconvenienti ma le mimetizzo dento alti discorsi morali) per imboccare la scorciatoia della sfacciataggine.

Bersani un paio di volte all’ora ricorda che l’incarcerazione di Milanese «può accelerare la crisi di governo», e un Walter Veltroni appena più contenuto approva: il voto è «su una persona, ma ha implicazioni politiche». Considerazione dalla quale il povero Milanese potrebbe convincersi che il fumus persecutionis viene più dai colleghi che dalla magistratura. E proprio dai colleghi di partito. La sua sorte infatti non determinerà soltanto il futuro del governo e di Silvio Berlusconi, e magari quello di Giulio Tremonti (di cui è stato il braccio destro, e che adesso è molto sollevato perché la questione Milanese - spiega - non è più tanto un referendum su di lui quanto su Berlusconi: «Si illude chi pensa che far arrestare Milanese voglia dire far dimettere me», ripete il ministro nei corridoi, per sottolineare quale sia la tensione giuridica), non indirizzerà soltanto il destino del Pd e gli equilibri intestini della Lega, ma probabilmente sposterà i confini della geografia interna del Pdl.

Si descrive un Claudio Scajola pronto a mobilitare i tradizionali franchi tiratori per rifilare una scossa al partito; si descrive un Gianni Alemanno, indisturbato dalle condizioni delle città che amministra, pronto a cogliere il risultato offerto dall’aula per decidere se rilanciare e con quale forza la discussione attorno alla leadership del 2013; si descrivono anonimi peones sofferenti nel dilemma: rimanere fedeli ai sacri dogmi del garantismo o all’amicizia del premier? Perché c’è chi «per dare un senso concreto all’amicizia» sta decidendo di condannare Milanese alla prigione. Che ci sia fumus o no. Che ci siano o meno esigenze cautelari. Non importa: «Per il bene di Silvio dovremmo dire sì all’arresto», confidano quelli che si augurano un premier meno arroccato.

Sono questioni delicatissime, non sfugge a nessuno, tantomeno a un politico cresciuto alle raffinatezze forlaniane come Pierferdinando Casini, al quale è stato attribuito il seguente ragionamento: «Primo, bisognerà vedere se c’è il via libera all’arresto. Secondo, bisognerà vedere qual è lo scarto di voti. Se lo scarto è ampio, Berlusconi...». Se invece lo scarto è basso, o addirittura a favore di Milanese, fuori dal Palazzo è pronta la furia del Popolo Viola, sospettabile di tutto, tranne che di aver fatto le ore piccole sulle carte processuali di Milanese.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/421396/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Il deputato salvato "Non ho niente da festeggiare"
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2011, 10:41:44 am
Politica

23/09/2011 - POLITICA E INCHIESTE: PERSONAGGIO

Il deputato salvato "Non ho niente da festeggiare"

I colleghi: in aula tremava, mai visto così

Poi pranzo in famiglia e confessione da Vespa

MATTIA FELTRI
ROMA

Al momento del voto a Marco tremava una mano. Non credevo fosse possibile una cosa del genere, non l’avevo mai vista. Fini stava leggendo il risultato, mi sono girato e ho visto quella mano che sbatteva incontrollata. Sembrava avesse il Parkinson. E’ stato impressionante». Giancarlo Mazzuca, deputato del Pdl, racconta il dettaglio con il gusto del giornalista, lui che diresse il Resto del Carlino e Il Giorno. Ed è tutta nei dettagli la cronaca della giornata delirante di Marco Milanese, l’uscita dalla buvette di Montecitorio, per esempio, alle nove di mattina trascorse da poco, tre ore prima che l’aula decidesse il suo destino di galeotto o di uomo libero.

Posa la tazzina di caffè ormai vuota, impegna un passo rapido e indeciso, i pochi colleghi mattinieri lo abbrancano per la pacca beneaugurante e lui non smette di parlare. «E’ esagitato, lo devo calmare», dice Melania Rizzoli, anche lei parlamentare berlusconiana. Ma non c’è verso. Nella frenesia, Milanese accetta di conversare anche con gli odiati giornalisti, «siete da massacratori», dice attribuendo all’interlocutore una colpa collettiva. Attacca con una vibrante arringa, un’autodifesa innescata in automatico, ma il punto preciso del suo terrore sono gli occhi sbarrati, il gesticolare convulso, il respiro affannoso, la tambureggiante filippica: «Sono esausto. Questo sputtanamento quotidiano è esasperante. Se dovrò andar dentro, andrò dentro ma i magistrati sappiano che quello che dovevo dire l’ho detto: non ho un’altra verità. Ed è devastante pensare che oggi il voto avrà implicazioni politiche che con me non hanno nulla a che vedere».

Avrà tutt’altro volto, alle 19, uscendo dagli studi di Porta a Porta, lo sguardo rinascente, persino un sorriso spalancato. Nello studio di Bruno Vespa non ha consumato vendette, nemmeno contro Giulio Tremonti, di cui è stato il classico fedelissimo e da cui è stato abbandonato nel momento più terribile. Ci davamo del lei, dice confermando una distanza anche antropologica che a Tremonti è improvvisamente cara. Era all’estero per questioni di rara importanza, è la giustificazione accolta senza discutere. Mi pagava in contanti, ebbene?, dice in uno slancio ecumenico che comprende tutta la maggioranza, poiché nella versione tardopomeridiana i tentativi di strumentalizzare il voto sono attribuiti al solo centrosinistra. In un governo con Berlusconi, Tremonti e Letta potevo farle io le nomine?, aggiunge in uno slancio di buonsenso.

Ma questa è niente altro che la tattica piccina della preda appena scampata alle zanne. Era ben altro fuscello seduto al suo banco in aula, zitto ad ascoltare i relatori e reggendosi il mento intanto che c’era la fila a incoraggiarlo: Jole Santelli, di nuovo la Rizzoli, Manuela Repetti, il generale Speciale, lui rispondeva grato e terreo o ogni mano tesa. Con l’istinto degli avvoltoi, noi giornalisti ci eravamo disputati i posti migliori, con vista sulla vittima. E lo vedevamo da sopra scuotere giusto il capo quando qualcuno lo dipingeva da criminale incallito. Rinunciava, al contrario del povero Alfonso Papa che aveva tentato la carta del melodramma, a prendere la parola e se ne stava lì sempre più raggomitolato, quasi rimpicciolito e rigido, annichilito negli istanti tremendi della proclamazione del voto, un timidissimo applauso di qualche deputato al buon esito, lui sempre immobile, testa bassa, come a prendere fiato. Trenta secondi, forse un minuto di niente, un grazie sussurrato e poi a telefonare alla compagna, e infine un sibilo ancora: «C’era mia figlia che mi guardava in tv...».

Se l’è svignata dal retro, infine. Nel parcheggio della Camera era circondato dai parenti, «non c’è niente da festeggiare», hanno detto ancora scossi ma già diretti al ristorante, perché certe buone notizie sono portentose sull’appetito. E poi tutto un pomeriggio di buoni propositi, l’idea di andare prestoa trovare Papa - che da Poggioreale gli ha mandato le congratulazioni del caso - e ancora quella di mettere giù, nel giro di pochi giorni, una proposta di legge sulla carcerazione preventiva, magari insieme coi radicali, poiché è difficile negare che questa sciagurata consorteria parlamentare si occupa delle grane soltanto quando investono uno dei loro. E se le dimentica facilmente, in un soffio di vento serale, se la fortuna ha sorriso di nuovo.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/421600/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Miracolato ma nel gelo tutti gli siedono lontano
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2011, 04:53:52 pm
Politica

29/09/2011 - GIUSTIZIA, LA POLEMICA NON SI FERMA

Miracolato ma nel gelo tutti gli siedono lontano

Alla fine l'unico collega rimasto ad ascoltarlo era Fitto

MATTIA FELTRI
ROMA

Hanno persino imbarazzo a sedergli accanto, i colleghi di governo. C’è una mobilitazione planetaria: a fine giornata Bobo Maroni transiterà sotto il banco della presidenza a consegnare la fiducia al ministro delle Politiche agricole, Saverio Romano, e con lui tutti i leghisti eterodossi, cioè più maroniti che bossiani. E’ il segno della compattezza dei disperati. Non c’è traccia di franchi tiratori. C’è una maggioranza solidissima e si capisce come andrà a finire ben presto (già da quando un inarrivabile Francesco Nucara, repubblicano, dopo pranzo annuncia che voterà la sfiducia ma soltanto se il suo voto non sarà decisivo: ci mancava quella del parlamentare che si preoccupa di non contare un piffero). E però la scena è allucinata, Romano (che gironzolava per Montecitorio da mattina con un codazzo di giornalisti e soprattutto di collaboratori, e che si intratteneva coi deputati sciorinando un plateale orgoglio espresso a testa alta, un’ostentazione di sé contraddetta soltanto dalle telefonate fatte sino a notte per esplorare gli orientamenti dei deputati), adesso che si era iniziato il dibattito sedeva ai banchi del governo in un deserto manifesto e desolante.

Quando Romano si è alzato per parlare, l’unico ministro lì ad ascoltarlo era Raffaele Fitto, e sebbene il discorso avesse una nobiltà, pure una forza, e specialmente nella parte in cui si ricordava che le indagini proseguono da otto anni - una mostruosità anche per un membro così impopolare di un governo così impopolare. Ma non c’era solidarietà, c’era esibizione di lontananza: Romano aveva due poltrone vuote, una alla destra e una alla sinistra, vuote fino a quando non sono rimaste le uniche due disponibili, e una è stata svogliatamente occupata da Umberto Bossi. E si sono fatti tutti delle grasse risate ad ascoltare Sebastiano Fogliato, piemontese, esperto leghista di questioni agroalimentari che infatti l’ha buttata sul tecnico, una lunga disquisizione attorno alla competitività del sistema, ai problemi del settore, le contraffazioni, il made in Italy, e la cavalcata fra le istanze dei coltivatori diretti ha scosso l’opposizione, gente che cominciava a saltellare sui sedili, a vociare, a sghignazzare, molti avevano le lacrime agli occhi, applaudivano, gridavano e fino a un accenno di ola; e pure il presidente Gianfranco Fini si concedeva l’ironia: «Colleghi! Vi prego di trattenere il vostro entusiasmo».

Ed è stato lì, a proposito, che quelli di Futuro e libertà (con il poster di Vauro per Il Fatto, il «Pornostato» di Patonza da Volpedo squadernato sui banchi) hanno esposto un cartello dalle intenzioni di molto superiori all’effetto («A proposito di Lega-lità», coi leghisti che rispondevano in coro rivolti a Italo Bocchino: «Be-gan! Be-gan!») e Fini faceva quello che cascava dal pero, «onorevoli colleghi... vi prego... riponete... non obbligatemi...». E siccome è tutto un teatro, anche l’interpretazione del leghista Fogliato aveva una sua verità: Romano lo si vota, non lo si difende, si parla di barbabietola da zucchero.

Sono state ore di dibattito senza un brivido, le celeberrime parti in commedia, Antonio Di Pietro che in certi casi ripiomba nella catalessi dell’inquisitore, il richiamo al comma bis, ciò che si pone in essere, la fattispecie di reato, e gli rispondeva Manlio Contento, avvocato del Pdl che già aveva collaborato alla stesura dell’autodifesa di Romano e ora si produceva nell’arringa dopo la requisitoria, applausi di qui e fischi di là. Per imbattersi in qualche cosa di saggio, di non prestabilito, bisognava aspettare i sessanta secondi accordati ad Antonio Martino, il quale ha ricordato una verità accantonata fin dai tempi di Filippo Mancuso: in Costituzione (sia detto ai milioni di paladini della Carta che questo Paese annovera) la sfiducia individuale non esiste. Una questioncella su cui un dibattito sarebbe anche interessante, e infatti non lo si tiene.

Si è trascorsa parte del pomeriggio, dunque, a guardare la bella cera di Marco Milanese, appena sfuggito alla galera (come capro espiatorio il buon Alfonso Papa basta e avanza), e di nuovo colorito, baldanzoso, si dirige a petto in fuori dal capogruppo Fabrizio Cicchitto, gli racconta che gironzolava per il Transatlantico quando - toh! - si è imbattuto nel suo ex capo, in Giulio Tremonti che stava chiacchierando con Niccolò Ghedini, lo stesso Tremonti che quando si trattò di salvarlo dall’arresto non c’era, era diretto a Washington, e insomma Tremonti lo ha salutato, gli ha teso la mano, gli ha forse persino sorriso, e Milanese era di nuovo felice. Quasi quanto Romano quando i radicali hanno annunciato l’astensione - e quelli del Pd hanno ascoltato con gli occhi di fuori - e a destra tanta grazia non se l’aspettavano, tutti a pregustare persino oggi il titolo più battuto della storia: «E la sinistra si spacca».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/422534/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Rischio-default ma tra feste e missioni il governo è distratto
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2011, 05:16:47 pm
Politica

03/11/2011 - LA CRISI, IL CASO

Rischio-default ma tra feste e missioni il governo è distratto

Il 31 ottobre Tremonti era con Bossi a Pecorara (Piacenza) alla festa della zucca

Nei giorni del disastro, troppe dichiarazioni fuori tema

MATTIA FELTRI
ROMA

Quei quattro sciocchi, persuasi che Silvio Berlusconi si fosse portato il lavoro a casa, hanno ricevuto smentita ufficiale, e di prima mattina: «... destituita di ogni fondamento anche la voce di colloqui riservati tra il presidente del Consiglio, il cancelliere Merkel e il presidente Sarkozy...». Nessuna telefonata, ha sentenziato Palazzo Chigi. Domenica e lunedì il premier era rimasto a ritemprarsi ad Arcore e le misure eccezionali - stando ai resoconti del settimanale «Oggi» ripresi da «Dagospia» - non riguardavano le tortuosità economiche ma curve più prosaiche: «Dicono che il premier fosse a festeggiare Halloween con la presunta fidanzata Katarina Knezevic» travestita da Cat Woman.

Lunedì, in particolare, mentre qui e là anche le Borse ballavano, nel villone presidenziale «c’è stata una festa in maschera per la notte delle streghe», ricorrenza nella quale si sono celebrati anche i quattro anni del nipotino Alessandro, figlio di Barbara (attuale fidanzata del bomber Pato). Poi, magari, anche la mascherata troverà rettifica, ma di certo Berlusconi è tornato a Roma martedì, di fretta e furia, quando i programmi lo volevano al focolare e davanti alla tv per il Milan in Champions League. Se gli affari vanno male - dicevano i saggi valligiani - lo stomaco non ne deve soffrire. Che poi è la variante rurale dello stracitato Ennio Flaiano sulla situazione grave ma non seria. Dunque, saltato il ponte sullo Stretto, era un peccato liquidare anche quello di Ognissanti.

E sebbene per qualcuno ormai sia sempre vacanza. «In una situazione così drammatica, Giulio Tremonti deve intervenire subito e negli ultimi tre giorni è in giro per convegni. È anche brillante, ma non si rende conto dell’urgenza e ha rovinato tutto», ha detto Romano Prodi a Radio24. «Tremonti è defilato», ha aggiunto un Vincenzo Visco inebriato dal gusto della vendetta. E infatti questo strano ministro che gira col broncetto, o così pare, tace da quando il governo ha mandato a Bruxelles la letterina dei buoni propositi che lui non ha firmato.

Assegnata al rivale di sempre, Renato Brunetta, la guida della mai abbastanza muffita «cabina di regia», Tremonti si direbbe oggi dedito al birignao e la retroscenistica più accreditata racconta di riunioni surreali, nelle quali il poco divo Giulio ha da ridire su tutto, ma non fa più nulla. Né tanto meno si dimette. Per vedere il superministro in attività, si è dovuta attendere, anche in questo caso, una sagra della zucca vuota. Riunito con gli amici leghisti in provincia di Piacenza, Tremonti ha rotto il silenzio stampa con una dichiarazione psichedelica: «Sta venendo il tempo per mettere il pane al posto delle pietre e l’uomo al posto dei lupi».

Nella stessa circostanza un altro dei nostri caposaldi, Umberto Bossi, ha proposto le gabbie previdenziali e una serie di considerazioni che hanno avuto un naturale sbocco nella pernacchia con la quale, ieri pomeriggio, ha commentato l’ipotesi del governo tecnico di Mario Monti. Nel frattempo di Berlusconi ha detto: «Tanto quello non se ne vuole andare». È vero che una volta avevamo una classe dirigente imperscrutabile e intraducibile, ma le disinvolture di oggi, mentre l’Europa viene giù, hanno piuttosto l’aria di euforia da vendemmia: numerosi economisti americani sostengono che il vero problema è l’euro, ma che Berlusconi facesse propria la diagnosi il giorno dopo aver intascato il soccorso europeo era abbastanza impronosticabile, nonostante le bizzarrie dell’uomo. La squadra lo segue a ruota.

Il neoministro Paolo Romani, da New Delhi, ha offerto rassicurazioni forse più sbrigative che apodittiche: «Il sistema Italia è più forte di quanto agenzie di rating e spread fra i Btp e i Bund tedeschi vogliano far credere». Pure questa non è una teoria così isolata, e che però trova una calorosa ospitalità nel pensiero di Romani, che in un’intervista dietro l’altra ha raccontato come gli ultimi maneggi trovino Tremonti entusiasta e l’Europa rinfrancata. Insomma, non è un esecutivo che offre l’impressione di prendere di petto la faccenda, e da molto tempo.

Dall’opposizione, che cosa avrebbero detto le migliori linguacce di centrodestra di un ministro di Prodi che, come Renato Brunetta, appena investito del ruolo di regista della crisi, fosse arrivato in ritardo al summit di governo? «Era a Pechino», dicono i suoi illustrando i non irresistibili orizzonti di un festival delle piccole e medie imprese italiane inaugurato, fra altri impegni, dal titolare della Pubblica Amministrazione. «Missione compiuta», ha infine esclamato Brunetta con un’enfasi appena inferiore a quella con cui Angelino Alfano - in un tripudio d’applausi pidiellini - ha annunciato il milione di tesseramenti al partitone. E i parecchi che, a questo punto, avessero una gran voglia di alternanza, prima si concentrino qualche minuto sullo spettacolare dibattito che nel mentre impegna il Pd: primarie sì, primarie no.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/427826/


Titolo: MATTIA FELTRI. - La casa di Scajola
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 10:58:50 pm
5/11/2011

La casa di Scajola

Mattia FELTRI

Servizio Pubblico, la trasmissione di Michele Santoro, sostiene che Claudio Scajola vive ancora nella casa vista Colosseo pagatagli a sua insaputa (900 mila euro di un milione e mezzo). Scajola era così scioccato dalla scoperta del reale prezzo e dell’anonimo benefattore che decise di vendere la casa e di devolvere i soldi in beneficenza. Un anno e mezzo dopo, dicono i giornalisti di Santoro, la casa è invenduta e continua a essere abitata da Scajola. Ma non è vero: Scajola precisa di averla ceduta all’insaputa dell’acquirente.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=293


Titolo: MATTIA FELTRI. - Se cede l'ala popolar-tv
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 11:01:01 pm
7/11/2011

Se cede l'ala popolar-tv

MATTIA FELTRI

Se ne vanno quelli di scuola liberale, quelli d’origine socialista, quelli di matrice cattolica. Con Gabriella Carlucci, Silvio Berlusconi perde anche le radici popolartelevisive: il buonsenso di Portobello e la verve del Cantagiro di cui ha impreziosito il Parlamento.

Se la lunga mano di Pierferdinando Casini plana sulla lunga coscia del Pdl (ed è la donna che pochi mesi fa definì il Cavalier Notturno un mito dei suoi figli), una specie di sentenza divina, evidentemente, è stata pronunciata.

La signora, annunciando il passaggio all’Udc, ha detto di augurarsi che i moderati possano trovare “nuove strade”. Qui viene in mente della volta in cui tamponò un bus, imboccò contromano via del Tritone e parcheggiò la Porsche sul marciapiede di Montecitorio. Solo per dire che a trovare nuove strade i moderati non si sa, ma la Carlucci è formidabile.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9406


Titolo: MATTIA FELTRI. - De Rita: "Il berlusconismo è finito ma se l'élite non ce la...
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2011, 11:50:55 am
Politica

16/11/2011 -

De Rita: "Il berlusconismo è finito ma se l'élite non ce la fa temo un leader populista"

"Non amo il governo che sta nascendo ma lo sosterrò perché è l'unica supplenza possibile"

Mattia Feltri

Roma

Professore Giuseppe De Rita, la seconda Repubblica e il bipolarismo paiono finiti. C'è un cambio
di scenario nella nostra società?

«Sì ma non sono sicuro che la coscienza collettiva lo stia cogliendo. Le contrapposizioni, la rabbia, il rancore e i giudizi morali come abbiamo visto nelle manifestazioni di piazza dell'altra sera, al Quirinale e davanti a Palazzo Chigi - sono ancora predominanti e non fanno capire che il ciclo del berlusconismo si è chiuso».

Lo dà per chiuso?

«Il ciclo del berlusconismo come soggettivismo etico è chiuso. Il ciclo del berlusconismo come tendenza a cavalcare la cultura popolare forse non ancora, anche se l'ultimo messaggio di Berlusconi era così ripetitivo che si aveva l'impressione di un leader incapace di trovare un linguaggio nuovo adeguato ai tempi nuovi».

Che cosa intende per ciclo del soggettivismo etico?

«Intendo la libertà intesa come libertà di essere se stessi. Non è una tendenza recente. Secondo me diventa predominante nei primi Anni Sessanta con don Milani e l'obiezione di coscienza, quando si diffonde il primato del soggetto e della coscienza. L'obbedienza non è più una virtù, dice don Milani. Poi c'è Marco Pannella con le sue battaglie referendarie: questa moglie non mi garba più, la cambio; non mi sento madre, abortisco. Poi anche l'azienda è mia e me la organizzo io. E il lavoro è mio e me lo organizzo io. Le vacanze sono mie. Il tempo è mio. Finché negli Anni Settanta finisce il mito della confessione perché anche il peccato è mio».

Il risultato finale è Berlusconi?

«Sì. Berlusconi non ha inventato niente: ha trovato un'onda alta e se l'è intestata. Ha portato il soggettivismo etico agli estremi, fino alla cultura libertina, alla licenza personale».

Viene in mente quel gran genio di Corrado Guzzanti: nel 2001 recitava il forzitaliano che faceva pipì sul sofà perché aveva vinto Berlusconi e tutto era concesso.

«Non ricordo quello sketch ma mi pare molto centrato. Soltanto che adesso la gente è stanca, si è stufata dell'abuso che Berlusconi ha fatto del soggettivismo etico. Attenzione, è un ciclo durato quasi cinquant'anni, è naturale che sia in via di estinzione».

Ritiene che stia nascendo una società più collettivista?

«è da vedere, non è detto che succederà ma è possibile. Io sono un sostenitore del ciclo comunitario, della società che coglie la sua dimensione. Bisogna vedere che cosa succede adesso».

Cioè?

«Come accennavo, credo sia finito anche il ciclo della cavalcata degli umori popolari. Non vedo nessuno da un certo punto di vista in grado di rimpiazzare Berlusconi. Mi spiego: sta arrivando un governo delle élite, costituito da rettori, prefetti, giuristi. è un governo che avrà la capacità di rappresentare la gente comune? Perché questo governo, dobbiamo dirlo, è figlio delle scelte di Francoforte e di Bruxelles ed è stato legittimato dal Quirinale. Quindi se un governo così non sa capire e non sa parlare alla gente comune, un reazione nazional popolare non sarebbe del tutto folle prevederla».

Insurrezioni di piazza?

«Non mi spingo a tanto, però il popolo italiano in fondo non è un popolo meraviglioso. Berlusconi lo ha reso per quindici anni un popolo sorridente, questo è stato il suo capolavoro. Non lo ha indurito come lo hanno indurito i suoi avversari. Ecco, i più sono rimasti sorridenti, ma il nostro è un popolo che tende a radunarsi nella piazza più stupida. Ci vorrebbe un leader autorevole, capace, sorridente...».

Oh, un Berlusconi senza difetti.

«Beh, il vero problema è se le élite deputate a quel compito sanno fare le élite per qualche anno. Me lo auguro. In fondo in Italia hanno fatto delle cose ottime. Hanno retto il paese dal 1824, l'anno in cui Giacomo Leopardi scrisse il "Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani", fino all'avvento del fascismo e anzi, al contrario di quello che si pensa anche il fascismo fu elitario: fu una dittatura all'acqua di rose, se paragonata a quelle russe o tedesche o spagnole, perché era un'élite che decideva con mano leggera. Introdusse il welfare dall'alto, ecco un esempio di governo elitario. Credo che le élite sappiano governare e spero che ci riescano, altrimenti c'è il pericolo di scuotere le piazze».

Insisto: lo schema sembra abbastanza classico: crisi della democrazia, tentativo di supplenza delle oligarchie, dittatura.

«Non credo. Sto parlando soltanto di una cultura populista e nazionalista che a naso nel Paese c'è e periodicamente si sfoga, come dicevo prima, nelle piazze più stupide. Il governo che sta nascendo non lo amo, ma bisogna crederci altrimenti salteranno fuori tutti quei sentimenti da vittoria dimezzata, da imposizione calata dall'alto, da orgoglio violato, coi precari arrabbiati, gli industriali arrabbiati, i dipendenti arrabbiati. Se questo governo non ce la fa, non vedo un altro sbocco».

Cioè, si tornerebbe a cavalcare gli umori popolari.

«Esatto. Il ciclo berlusconiano è finito come soggettivismo etico ed è finito come cavalcata dell'umore popolare. Ma se c'è il fallimento delle élite, al posto di Berlusconi, potrebbe spuntare un altro leader capace di instaurare col popolo il medesimo rapporto, un leader che avrebbe nell'orgoglio nazionale e popolare i suoi riferimenti, che condurrebbe gli italiani a reagire all'eterodirezione e a contestare il sistema in quanto tale. Questo è il nuovo scenario che vedo davanti a noi».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/430063/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Galan: l'indignato sono io E non perdonerò Tremonti
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2011, 11:51:53 am
Politica

14/11/2011 - LA CRISI IL CENTRODESTRA/ INTERVISTA

Galan: l'indignato sono io E non perdonerò Tremonti

L’ex ministro: «Giulio non era dei nostri, ci ha trascinati nel baratro Silvio? Nonostante tutte le sue sciocchezze resta il migliore»

MATTIA FELTRI
ROMA

Ministro Galan, lei non è nemmeno parlamentare. Come si sta da di soccupati?
«Non me lo dica... Stamattina ho chiesto a mia moglie un soldo. Le ho detto, amore, è per il caffè, i giornali...».

Gliel’ha dato?
«Sì. Però mi ha detto che devo mettermi a fare qualcosa».

Lei, così esuberante, come mai questa vocina?
«Ma perché sono amareggiato, avvilito, indignato...».

Indignato?
«Con quelli che nella vita non hanno mai fatto niente di buono e ci trattano peggio dei delinquenti. Urlano, sputano, tirano monetine. Lo so che anche l’asino tira un calcio al leone ferito, ma non pensavo che gli asini fossero tanti. E dovrei fare un governo con quelli?».

Non proprio con quelli.
«All’incirca... E dopo aver sentito Franceschini alla Camera mi veniva voglia di rispondergli con un’allocuzione romana ormai così in voga anche fra noi al Nord, che ci lasciamo stuprare la lingua. E cioè: ma vaff...».

Ministro...
«Franceschini sappia che non ci hanno battuti, né in aula né le elezioni, e nemmeno i magistrati sono riusciti...».

Era più remissivo nei giorni scorsi. A metà fra il neomontiano Frattini e i sostenitori del voto subito, alla Ferrara.
«È che sono dibattuto. Io sentivo il montare delle critiche al governo. In Veneto tre persone su quattro stanno con me ma ultimamente erano meno di tre su quattro, ed erano più tiepide. Però una fine così, con Franceschini, i cori, gli sputi... no, non la meritavamo».

E del governo Monti che cosa pensa?
«Faccio una previsione. Mario Monti diventa premier, il giorno dopo Mario Draghi compra 30 miliardi (dico una cifra a caso) del debito, lo spread si dimezza e tutti a gridare: miracolo! miracolo!».

I poteri forti?
«Già. E io rimango a metà tra Frattini e Ferrara perché è colpa nostra, ché i poteri forti dovevamo spazzarli via, distruggerli, farli a pezzi».

Ma chi?
«I grandi banchieri. La finanza internazionale. Le multinazionali».

Un po’ vago.
«Un po’ vago? Ma noi dovevamo fare la rivoluzione liberale, cancellare i privilegi. E invece una volta non tocchiamo le coop perché l’Udc ha le coop bianche. Poi se ne va l’Udc e non tocchiamo gli amici di An. Poi se ne va Fini e arrivano Tremonti e la Lega».

E lì che succede?
«Abbiamo progressivamente ceduto alle corporazioni. Abbiamo smesso di parlare agli industriali per parlare con Confindustria. Abbiamo smesso di parlare ai commercianti per parlare all’Ascom. Abbiamo smesso di parlare alla gente per parlare alle corporazioni, alle nomenklature, ai poteri che poi ci hanno ammazzati».

È colpa di Tremonti e Bossi?
«In un anno e mezzo, il tempo in cui sono stato ministro, ho visto un progressivo spostamento di potere da Palazzo Chigi alla sede dell’Economia. Sono cose che da lontano non si colgono, ma a Roma sì... Ecco, io Tremonti non lo perdonerò mai! Mai!».

È stato lui...
«Io dico solo una cosa: ho visto da parte sua un’arroganza, una protervia. Ci ha trascinati nel baratro. Penso all’ultima seduta del Consiglio dei ministri, ci siamo detti che in fondo eravamo una bella squadra, che abbiamo fatto delle cose importanti... ma io dico che Tremonti non è dei nostri. Lui non ha mai fatto parte della nostra squadra».

Dice che ha remato contro?
«Per carità, non mi faccia dire altro...».

Ministro...
«Non dico altro. Davvero. Anche perché sono stati diciassette anni belli. Abbiamo davvero fatto cose positive: abbiamo fermato la Gioiosa macchina da guerra di Occhetto, abbiamo fondato un sistema bipolare che aveva tutte le caratteristiche per diventare un sistema bellissimo, civilissimo».

Se aveste adeguato la Costituzione al bipolarismo, ora non ci sarebbe Monti.
«È vero. E saremmo scampati anche all’osceno mondo dei partiti, che sono ancora lì a spartirsi posti nei consigli di amministrazione, nelle municipalizzate...».

Si rende conto che non ha ancora pronunciato la parola «Berlusconi»?
[tace, ndr]

Ministro?
«È difficile per me... Potrei elencare mille suoi difetti, riempire cento pagine con gli errori che ha commesso ma... sono con lui da 27 anni, gli devo tutto, non è neppure ipotizzabile che non gli sia riconoscente, fedele, leale fino a pagare il prezzo più alto. E poi, per quante sciocchezze abbia fatto, lui è ancora il migliore di tutti. Mi viene il magone...».

Gli dica qualcosa.
«L’altro giorno, al Consiglio dei ministri, avrei voluto farlo, ma mi veniva da piangere. E siccome mi vergognavo, sono stato zitto. Ma vedevo intorno a me tanti ministri che già pensavano al loro futuro. Vedevo tanta ipocrisia».

Ministro, i nomi...
«No, basta, sono stanco. E poi i nomi li sapete anche voi».

Veramente no.
«Comunque adesso ci dobbiamo inventare qualcosa».

Lei che farà?
«Diciamo tutti che torniamo a fare i contadini ma non è vero. Radunerò i trenta amici più cari per riprendere la mia guerra, quella per portare un po’ di liberalismo in questo Paese».

Con Berlusconi?
«Non ci resta che ripartire da lì. Poi, si vedrà».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/429652/


Titolo: MATTIA FELTRI. - La rivoluzione mancata
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2011, 12:05:57 pm
13/11/2011

La rivoluzione mancata

MATTIA FELTRI

La storia del IV governo di Silvio Berlusconi è la storia di un’occasione buttata. Era una prateria, non un Parlamento, quello che il premier si trovò davanti il 14 maggio del 2008 quando ottenne alla Camera una copiosa fiducia di sessanta deputati, 335 a 275. Di comunisti non ce n’erano. Fatti fuori dai loro stessi fallimenti, dalla legge elettorale e dal sistema di alleanze voluto dal candidato di sinistra, Walter Veltroni. C’era un’aria di pacificazione, persino la speranza che sarebbe stata una legislatura costituente, di passaggio a un bipolarismo meno farabutto. Berlusconi e Veltroni si stringevano la mano in aula e si davano appuntamento per pranzo. Il discorso del presidente del Consiglio, aperto a riforme condivise, era stato applaudito e la risposta di Veltroni - orgogliosa e non supina - conteneva un elemento fondamentale: yes we can, se po’ fa’. L’esecutivo era in stato di grazia.

Sembrava che Napoli fosse stata buttata in lavatrice e stesa all’aria del golfo. La confusa manovra di salvataggio dell’Alitalia procedeva nello sventolio dei patriottici. Giulio Tremonti già lavorava alla sua Finanziaria da piano triennale, quella che, per usare i termini in voga, doveva mettere in sicurezza i conti pubblici. Renato Brunetta si occupava dei suoi fannulloni in mezzo alle trascurabili rimostranze dei lavoratori pubblici e nelle ovazioni da stadio del suo pubblico. Mariastella Gelmini studiava una riforma contestatissima ma senz’altro ambiziosa. In estate era entrato in vigore il lodo Alfano (cancellato in ottobre dalla Corte Costituzionale) perché si proteggesse il presidente del Consiglio dall’eterno match con la magistratura, e dunque lavorasse. Lì, però, si era già capito qualcosa. Berlusconi concepiva il dialogo come l’adeguamento indiscusso delle opposizioni ai progetti di maggioranza; adeguamento che Veltroni negò anche in minima parte, per ragioni di contenuto (il lodo Alfano ebbe un ruolo) e forse perché dipietristi ed extraparlamentari lo chiamavano inciucista e nelle manifestazioni di piazza lo inserivano in una scomoda trinità col premier e George Bush.

La speranza che Berlusconi e Veltroni concludessero quello che non si concluse con la bicamerale del 1997 a giugno era giù sfumata: «E’ guerra aperta», titolava una nota dell’Ansa. C’era tuttavia un governo forte, compatto, con un poderoso sostegno parlamentare e una spinta riformatrice. Nella primavera del 2009, il disastroso terremoto dell’Aquila aveva offerto all’esecutivo l’opportunità di mostrarsi veloce ed efficace. I soccorsi furono eccellenti. Il capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, aveva l’appeal dell’angelo protettore. Il premier visitava quotidianamente le zone distrutte raccogliendo consensi misurabili in applausi e pacche sulle spalle, e nei sondaggi. Per una volta non si ritrasse alla festa della Liberazione: il 25 aprile fu a Onna, col fazzoletto tricolore al collo, a pronunciare un discorso commovente apprezzato anche a sinistra; fu l’ultimo momento in cui la guerra civile parve archiviabile. Le coincidenze della storia sono micidiali. Il giorno dopo, il 26 aprile, Berlusconi raggiunse una festa a Casoria, quella dei diciotto anni di Noemi Letizia.

Fu l’inizio di un bordellificio senza precedenti, un imbarazzante giro d’Italia pelvico, le registrazioni fai da te di Patrizia D’Addario, le parentele supersoniche di Ruby Rubacuori, e poi Nicole Minetti, le Olgettine, le miserelle malversazioni degli amici del Capo. E naturalmente una fecondia di intercettazioni ordinate dalla magistratura e pubblicate dai giornali in un festival da brividi, senza distinzione fra notizie di reato e ciance di ringhiera che consegnò alla maggioranza e ai suoi giornali la comprensibile convinzione che la guerra continuasse, e non convenzionale. Inchieste non sempre solidissime che si sono succedute sul premier, su Denis Verdini, su Bertolaso, su Marco Milanese, fino al raggelante voto della Camera che mandò in carcerazione preventiva Alfonso Papa. Subito dopo Casoria, Veronica Lario aveva lasciato il marito denunciando un «ciarpame senza pudore», che comprendeva le disinvolte candidature per le Europee. Fu una battaglia anche dei finiani. Il presidente della Camera, che aveva rotto («siamo alle comiche finali») con Berlusconi alla fine del 2007, era tornato in squadra dopo il lancio del partito unico sul predellino. L’idea era di «costituzionalizzare» Berlusconi.

La stessa di Veltroni, in fondo. Gianfranco Fini visse la missione come una fronda quotidiana, un obbligatorio controcanto su tutto e del tutto sterile, se il destinatario è Berlusconi. Lo scontro fu plateale il 22 aprile del 2010 quando, in una direzione del Pdl, Fini si alzò dalla platea e puntò l’indice contro il premier: «Sennò che fai? Mi cacci?». Lo caccerà pochi mesi dopo, a fine luglio. Non soltanto non si era riusciti a estinguere la rissa con la sinistra, ma la si era importata nel Pdl. Tuttavia la maggioranza sembrava imbattibile. Passava dalle Europee alle Amministrative come di trionfo in trionfo, saccheggiava le regioni del Pd (Abruzzo e Sardegna), la Lega volava e lavorava al federalismo fiscale, e il 14 dicembre del 2010 si stabilì il fallimento totale di Fini, che aveva portato il suo manipolo a sinistra senza però mandar sotto il governo. In realtà fu un disastro anche per Berlusconi.

La vittoria gli era costata carissima: passarono con lui deputati di ogni provenienza (i Responsabili), capricciosi, voraci, instabili. L’ultimo anno è stato il tormento di una maggioranza virtuale, capace di portare in aula solo provvedimenti scontati (e talvolta nemmeno quelli), sconfitta a Milano e a Napoli, travolta da una crisi minimizzata fino a metà 2011 e che invece pretese misure che hanno impegnato il governo per tutta l’estate in un balletto da morir dal ridere, e deprimente, un can can di ricette contraddittorie, garantite alla mattina, bocciate al pomeriggio, riproposte alla sera. E intanto si era pure obbligati alla guerra a Muammar Gheddafi, l’ospite d’onore accolto a Roma fra baciamani e amazzoni, di modo da chiudere in coriandoli la questione coloniale. Si è invece chiuso, fra bizze e meschinerie, un governo che ha scialacquato una straripante maggioranza. E che ha tradito una prospettiva tramontata dietro un sorriso villanzone e francese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9429


Titolo: MATTIA FELTRI. - Le frasi alla lavagna del premier-professore
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2011, 03:18:39 pm
Politica

27/11/2011 - il caso

Le frasi alla lavagna del premier-professore

Rigore, freddo, necessità di imparare: l’Italia e i compiti a casa

Mattia Feltri
Roma

Chiamatemi professore».
Un frasario essenziale del nuovo premier non può cominciare che da qui, dalle presentazioni e da tutto quello che ne consegue. La citazione, subito dopo, era dell’illustre predecessore Giovanni Spadolini: «I professori durano, i premier passano», ma naturalmente a tutti è venuta in testa l’altra sentenza, degli uomini che passano e delle idee che restano. Quelle di Mario Monti ci resteranno in eredità: è l’augurio di chi ci vorrebbe un po’ più calvinisti, persuasi che non ci sia «contraddizione fra rigore e crescita», e anzi
l’unico modo per regolare le esistenze, e forse non soltanto dal punto di vista economico: senza rigore non c’è crescita - la dialettica montiana è implacabile -, la riforma sarà «equa e incisiva», il governo sarà «incisivo ed efficace». Nei momenti di maggiore severità servono «decisioni facili e non gradevoli»: fossero state prese prima non ci saremmo ritrovati con pochi denari in tasca. Ecco, «chiamatemi professore», e ogni volta è come se da lui passasse a noi un novembre umido e piovigginoso.

Ora viene facile ironizzare su quella frasetta - che poi era indirizzata più ai professorini europei che agli alunni compatrioti -,
«l’Italia farà i compiti a casa», come li faranno tutti. Fosse tutto lì. Il piglio è ben altro, «non applaudite, ascoltate», ha detto ai senatori. Ecco, aprite bene le orecchie, sturatevele, «la prima cosa da fare, e lo dico in particolare agli italiani, è di abituarsi a trovare meno facilmente le responsabilità negli altri». E’ proprio una questione sistematica, si tratta di capire il mondo, stabilire nuove prassi e Monti le tratteggia alla lavagna, «il governo che è nato ha certamente una missione di gestione della situazione ma ha anche una funzione di aiutare le forze politiche a trovare una forma di, almeno temporaneo, disarmo reciproco». E però, se arriveranno temperature più miti, la speranza è che si registrino «nei toni e non nell’inazione».

Sin ora, si capisce, è stata soltanto una rissa sterile, un tirarla per le lunghe. Ora si tratta di fare «presto», «prestissimo», «alla svelta», essere «rapidi», e le riforme saranno «strutturali con il consenso (o «in associazione», ndr) con le parti politiche e sociali». «Tutti assieme», diceva Romano Prodi, ma l’obiettivo di Monti è di altra portata, è globale, coinvolge tutti perché «il compito è quasi impossibile, ma ce la faremo» e «d’altra parte se non ci fosse la crisi sospetto che non sarei qui» e nessuno è autorizzato a coltivare sospetti: «Nel mio passato non si nota una particolare frequenza in cui mi sono candidato a qualcosa. Il numero è zero». Quanto ai poteri forti, a chi li considera gli azionisti di maggioranza dell’esecutivo, «io di poteri forti in Italia non ne conosco», semmai ce ne sono in Europa e l’Economist scrisse che «il mondo degli affari internazionali considerava Mario Monti il Saddam Hussein del business».

Poi questa squadra di governo («non siamo un manipoli di tecnici» ma anche di uomini) ha la consegna del riserbo, politicamente della collegialità, così basta e avanza quello che spiega il professore. Il suo scostare i giornalisti ha l’aria del vezzo: possiamo farle una domanda? «Non credo». Manca soltanto un «preferirei di no», non fosse una frase così poco beneaugurante. Di cose da dire ne ha molte,
l’importante è non dirle a richiesta, fuori dagli orari prestabiliti, allora arrivano enunciati perfetti come sfere («il mio sforzo e del mio governo sarà di mettere l’Europa al centro dell’attività mia e del mio governo») o facezie non oliatissime («vi sarei grato se non fosse usata l’espressione “staccare la spina”: non ci consideriamo un apparecchio elettrico, e non saprei a quel punto se dovremmo essere un rasoio o un polmone artificiale»).

A quel punto si sono spesi impegnativi elogi sul suo umorismo, che vide l’alba una domenica mattina, il solito assedio dei gionalisti, e lui che sfugge con una battuta: «E’ una bella giornata». Eravamo tutti molto ammirati,come davanti alle geniali ricette economiche distribuite in «Oltre il giardino» dal giardiniere Chance («se l’albero non dà frutti, bisogna tagliare i rami secchi»), poiché spesso, al culmine della disperazione, si vede quel che si vuole vedere, e non quel che c’è.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/431880/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Il Carroccio ritorna all’epoca del cappio Ma ci crede poco
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2011, 06:06:46 pm
Politica

15/12/2011 - il caso

Il Carroccio ritorna all’epoca del cappio Ma ci crede poco

I senatori del Carroccio hanno alzato cartelli di protesta durante l'intervento del premier Mario Monti

Cartelli e insulti in Senato. Schifani: sceneggiata mortificante

Mattia Feltri
Roma

Canuti ed esagitati: eccoli i senatori leghisti, come ai ruggenti anni del cappio, che sollevano i cartelli a caratteri verde-padano, «Non è una manovra è una rapina», e poi «Giù le mani dalle pensioni» e infine «Basta tasse». Mario Monti, che ancora sbigottisce, come venisse da un altro sistema solare, rimane lì a naso in su intanto che gli attempati oppositori vociano, e dicono che è ora di finirla, adesso basta, hanno ventri gelatinosi e ballonzolanti, Roberto Calderoli, che ne ha viste di ben altre, ride attorniato da questi reduci a cui non pare vera tanta grazia.

Qualcuno come il capogruppo Roberto Bricolo o come l’ex sindaco di Lampedusa, Angela Maraventano, ha la grinta paonazza di chi ancora ci crede, ma forse sono eccezioni. L’aria che tira è quella dell’atto dovuto sinché alle rimostranze di Renato Schifani («È una sceneggiata veramente mortificante») e alla decisione di sospendere la seduta, il leghista Enrico Montani reagisce con cavernicola creatività: «Ma va a ca... pagliaccio!».

La mattina, anzi la giornata è finita lì. Il resto è stato conseguente. Come per esempio l’ex segretario generale della Cisl, Sergio D’Antoni, in brodo di giuggiole per il taglio delle pensioni di anzianità («finalmente una riforma strutturale») o per il ritorno dell’Ici/Imu («finalmente una patrimoniale»), ed è l’immagine spettrale di un partito, il Pd, costretto ad abbandonare il sentiero del sindacato e a votare una manovra impietosa. Se oggi in Parlamento c’è un partito della Cgil, questo partito ha sede alla destra dell’emiciclo ed è la Lega: siamo alle convergenze parallele fra Umberto Bossi e Susanna Camusso (con Antonio Di Pietro fermo a metà del guado, ancora indeciso fra la lotta e il governo).

C’è un parlamentare valtellinese, Jonny Crosio, che ieri con le braccia tese faceva il gesto di chi ha trovato l’autostrada libera, e ci si è buttato sopra a duecento all’ora. Per il pidiellino Osvaldo Napoli la Lega non ne ricaverà un voto, forse ha ragione, gli otto anni sugli ultimi dieci trascorsi al governo pesano di più, ma non è una posizione diffusa dalle sue parti: un ex ministro ancora non se la sente di mettere la firma sotto le proprie opinioni, che sono le seguenti: «Prima o poi dovremo dirlo che abbiamo fatto una gran cretinata. Questa manovra la poteva presentare qualsiasi commercialista, altro che professori. Ma che scienza ci vuole a togliere le pensioni o ad alzare il prezzo della benzina? E intanto che noi votiamo una finanziaria schifosa, i leghisti si fanno la loro bella opposizione in solitaria, e finirà che al Nord ci spazzano via».

Tutto vien buono, infatti. Intanto che alla Camera, per conto del Pdl, Massimo Corsaro offriva una clamorosa «excusatio non petita» («su questa manovra saremo interlocutori, punto su punto, e non portatori d’acqua»), i leghisti organizzavano il presidio notturno. Si progettava un ostruzionismo per cui i leghisti avrebbero parlato sino all’alba di una legge sciagurata, centralista, romana, da sanguisughe, cose peraltro dette e ridette tutto il giorno, proteste gutturali in un’universale melassa. La disposizione d’animo dei leghisti, per capirci, ieri ha portato la commissione Sanità a bocciare un emendamento (sulle risonanze magnetiche nucleari) voluto dal vecchio governo poiché la leghista Francesca Martini, ex sottosegretario, si è confusa, credeva fosse un emendamento del governo attuale, e ha guidato i suoi alla ribellione.

In serata il Parlamento sembrava risparmiarsi la commedia (anche i gatti sanno che stamattina il governo porrà la fiducia che culminerà intorno alle 20 di domani, giusto in tempo per la fine dello sciopero dei treni, come sottolinea un deputato sveglio e malizioso), il dibattito era stato chiuso per decisione della maggioranza: non c’era ragione di offrire al Carroccio anche una lunga notte di propaganda gratuita. E oltretutto con davanti un governo a tendenza smargiassa, come nel caso di Piero Giarda che alla richiesta del leghista Maurizio Fugatti («è vero che ci sarà un maxiemendamento che cambierà anche il testo uscito dalla commissione?») si è alzato beffardo chiedendo di quali fonti di intelligence disponesse. Fugatti, con le vene del collo pulsanti, ha chiesto più rispetto e meno supponenza. E poi, alla chiusura del dibattito, è stato il caos finché - dietrofront - alla Lega è stata restituita la sua prateria notturna. «Non facciamo casino, facciamo politica», ha detto Bossi. Sempre che le due cose non coincidano.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/434486/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Tecnici in disgrazia? Ora godono i politici
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2012, 11:44:38 am
Politica

11/01/2012 - GOVERNO, LA VICENDA

Tecnici in disgrazia? Ora godono i politici

Ugo Sposetti Pd: Perché invece non ci si chiede le ragioni per cui hanno nominato Malinconico?

A Montecitorio gli “sconfitti” assaporano la rivincita

MATTIA FELTRI
Roma

Il sottosegretario si piega su di sé, si ingobbisce, quasi scompare dentro la propria stessa giacca - che spettacolo imprevisto - e, ricevuta solenne promessa d’anonimato, esprime il timore: «Dopo Carlo Malinconico, non ci risparmieranno niente». Quello del rigore non soltanto contabile ma anche morale era il punto sul quale il governo dei tecnici - spiega il sottosegretario - intendeva marcare il maggior distacco. «E invece... Qualsiasi cosa potranno dire, la diranno». Non è propriamente un pregiudizio. Ieri, a Montecitorio, certi deputati parevano gattoni con la scintilla sull’artiglio. Si volava persino alto: «Non sono stati i tedeschi, sono stati gli uomini». Cioè, si citava Léon Blum a colloquio con Marek Edelman, subito dopo la Seconda guerra mondiale, per spiegare che l’indole umana, specie in fatto di mascalzonaggine, attraversa le epoche e i Paesi, figuriamoci le caste. Anzi, precisava la berlusconiana Deborah Bergamini: «Gli uomini si muovono lungo il crinale della Piramide di Maslow, dove alla base ci sono i desideri primari, la fame, il sesso eccetera, e al vertice quelli, appunto, più elevati e spirituali. Ci sono uomini che tendono alla base e uomini che tendono al vertice».

E così, a furia di metterla giù pesante, ci si stava quasi dimenticando di certificare la soddisfazione somma (ma non esibita) di una categoria sputtanatissima davanti al secondo caso (il primo fu l’abitazione con vista Colosseo di Filippo Patroni Griffi) di umana debolezza nell’esecutivo di teutonica tempra. «Perché non sono tecnici. Sono politici. E la politica è fatta da grandi politici, politici medi, politici piccoli e quaquaraquà», diceva ieri il liberale Giuseppe Moles. E sebbene non sia il caso di godere delle disgrazie altrui, pare confermarsi (attraverso il repubblicano Giorgio La Malfa) un antico detto: «In Parlamento il dieci per cento è meglio degli italiani, il dieci per cento è peggio, e il restante ottanta è l’Italia. Quindi, quando si pesca nella società civile, è come se si pescasse in Parlamento, né più né meno. Nessuno stupore».

E insomma, un esercizio di puro buon senso che arriva sino a Franco Giordano (segretario di Rifondazione ai tempi di Fausto Bertinotti presidente della Camera, uno che bazzica ancora il Transatlantico in attesa di riappropriarsene...), il quale ci mette dieci secondi a inquadrare la situazione: «Le vicende della cricca dimostrano ampiamente come, se si tratta di rubare, politica, imprenditoria, burocrazia e tecnici sanno mettersi d’accordo benissimo». Impeccabile. E naturalmente alla fine la peggio gioventù siamo noi giornalisti: un Ugo Sposetti (ex tesoriere dei Ds) come al solito in formissima, alla domanda se il caso Malinconico confermi una volta di più che non è la politica ma l’occasione a fare l’uomo ladro, risponde: «A me lo chiede? Lo chieda a se stesso, al suo direttore, ai suoi colleghi. Per esempio si continua a discutere delle nostre retribuzioni ma non si discute delle vostre, cosa che mi piacerebbe fare, dopo aver votato tanti finanziamenti e agevolazioni all’editoria».

Siccome serve anche un piccolo reportage dall’angolo ultrà, è stato ovvio intercettare il pensiero di Domenico Scilipoti: «Questo governo è espressione di una pessima borghesia e di un capitalismo sfrenato, che non si cura del bene del Paese ma del bene dei suoi componenti e dei suoi referenti. E la vicenda di Malinconico lo prova». Mentre il berlusconiano Osvaldo Napoli - molto irritato perché la guerra alla casta ha, per esempio, portato il crodino a tre e cinquanta alla buvette - allarga le braccia e osserva che «o ci diamo una regolata o presto ci sembrerà il caso di andare a vedere quante bottiglie ha ricevuto a Natale il magistrato, e quante cene mi sono state offerte questo mese». Bè, Malinconico non era a queste minuzie, e Napoli lo ammette, ma «in questo clima da caccia alla streghe è durato due giorni. Del resto, chi scaglia la prima pietra...». Ma c’è anche in questo clima si sente benone. Per esempio, Pierlugi Castagnetti (Pd) il quale ricorda di quando Nino Andreatta si inalberava: «I comportamenti privati e quelli pubblici sono facce della stessa medaglia». E il dipietrista Ivan Rota, che non si accontenta di vedere il tecnico nel fango: «Serve uno scatto etico, e deve cominciare dalla politica». Ma quando tutto pareva sentito e detto, è risaltato fuori Sposetti - faccia da gatto, artiglio all’insù: «Perché invece non si chiede le ragioni per cui hanno nominato Malinconico nonostante questi guai, che tutti conoscevamo». Perché? «Forse perché bisogna accontentare tutte le burocrazie?». Un manuale Cencelli della società civile? «E questa la chiamate società civile?».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/437727/


Titolo: MATTIA FELTRI. - La corsa alla modernità s’impantana in Parlamento
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2012, 06:24:45 pm
Politica

28/01/2012 -

La corsa alla modernità s’impantana in Parlamento

Il regolamento della Camera dei deputati risale al 1997, quello del Senato al 1999

Doppie chiamate e urne bicolori: le lungaggini dei regolamenti non aggiornati

Mattia Feltri
Roma

I regolamenti parlamentari sono aggiornati alla fine degli anni Novanta. Al 1997 quelli della Camera, al 1999 quelli del Senato. I due rami del Parlamento, dunque, viaggiano su binari tracciati nel millennio scorso. Sarebbe come se voi oggi lavoraste con un computer acquistato quindici anni fa. È per questo che spesso si sente parlare dell’inadeguatezza dei regolamenti. Meno di frequente si hanno esempi concreti. Senza l’ambizione di esaurire il tema, qualche esempio ve lo facciamo noi.

Fiducia
Quando il governo pone la fiducia, per votarla alla Camera dei deputati bisogna aspettare ventiquattro ore. Per anticipare il voto serve l’intesa di tutti i capigruppo, ma è una facoltà esercitata di rado. Perché aspettare un intero giorno? Per consentire a tutti i deputati di arrivare a Roma dai quattro angoli del Regno, quando si viaggiava su calessi, navi a vapore o treni a carbone non precisamente competitivi con gli Eurostar di oggi. È una regola che il Senato ha abolito. Montecitorio se la tiene stretta.

Fiducia due
Il voto di fiducia è a doppia chiamata nominale. Significa che ogni deputato viene chiamato a transitare sotto il banco della presidenza a dire «sì» o «no» e se è assente alla prima chiamata ce n’è sempre una seconda. Con seicentotrenta deputati, servono circa due ore. La tecnologia (non necessariamente quella moderna) consentirebbe in trenta secondi di votare dal posto, con immediata diffusione dell’elenco dei deputati e di come hanno votato.

Elezioni
Ancora più anacronistico il sistema di elezione del Presidente della Repubblica o del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Si allestisce in aula un baracchino dove il parlamentare entra, su un foglietto scrive il nome gradito e lo imbuca. Operazione, compreso lo spoglio, che è anche scenograficamente di epoca giolittiana.

Decreto
I decreti escono dal Consiglio dei ministri e vanno alle Camere per la conversione in legge. La Camera che riceve il decreto deve convocare l’aula e avvertire i parlamentari che lo sta girando alla tal commissione o alla tal altra. È successo lo scorso Ferragosto in Senato per uno dei tanti decreti anticrisi. Naturalmente arrivarono a Roma sei o sette senatori (uno dei quali prese due aerei all’andata e due al ritorno, se la questione era quella della casta...) e tutti gli altri si presero dei fannulloni insensibili agli affanni del Paese. Ma era una presenza inutile, se non dannosa: a differenza dei loro colleghi ottocenteschi, avevano saputo del decreto da radio, tv, giornali e Internet. E se Renato Schifani gli avesse spedito una mail, l’avrebbero saputo anche dallo smart phone.

Commissioni
Tenetevi forte. Nelle commissioni capita spesso di dare pareri su nomine, per esempio alle authority, e si procede per voto segreto. In questo caso si allestiscono due urne, una color marrone scuro, una color marrone chiaro, e ogni membro della commissione deve recuperare le due palline, una nera e una bianca, che ha in dotazione. Se è d’accordo sul nome proposto, infila le palline in coerenza cromatica: la pallina nera nell’urna marrone scuro, la pallina bianca nell’urna marrone chiaro; se è in disaccordo, fa il contrario. Uno dei problemi è che c’è sempre qualcuno che inverte le palline. Un altro è che al momento buono c’è sempre un deputato che non ricorda dove diavolo le ha lasciate.

Segretario d’aula
Ogni seduta viene registrata, sbobinata, riscritta e stampata. Se ne occupano gli stenografi che, decenni fa, dovevano stenografare l’intera seduta (oggi si appuntano soltanto le cose dette da deputati che non hanno il microfono acceso, quindi fuori registrazione). Ogni gruppo parlamentare nomina un segretario d’aula che siede a fianco del presidente e controlla che gli stenografi stenografino correttamente. E cioè non attribuiscano a un deputato espressioni o pensieri mai pronunciati. Non importa che oggi i parlamentari possano controllare sul sito quasi in tempo reale.

Carta
Tutto ciò che viene detto, scritto o prodotto in Parlamento deve essere stampato, in molti casi in duplice copia per Camera e Senato. Proposte di legge, discussioni generali, emendamenti, ordini del giorno. Migliaia di pagine che quotidianamente affluiscono in faldoni inviati in misteriose stanze remote, in cui nessuno entra se non per depositare il faldone successivo. Un dettaglio: si trova tutto sul sito.

Leggi
Questo splendido folclore non fa altro che rallentare una macchina che è più inadeguata che costosa. Le leggi ormai le fanno i governi con decreti e fiducie (o persino le Protezione civile con le ordinanze), eppure la procedura è sempre quella, con un Parlamento al centro di tutto, ma con meno poteri di un semaforo.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/440202/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Città eterna e abbandonata
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2012, 12:19:41 am
Cronache

05/02/2012 - A PASSEGGIO PER LA CAPITALE

Città eterna e abbandonata

Ci pensa il sole a salvare i romani

Mattia Feltri
Roma

Quando si dice scommessa vinta: invece del gelo è arrivato il sole e ha sciolto la neve, ha liberato le carreggiate, ha reso inutili le gomme termiche, quasi dannose le catene, le strade e i marciapiedi sono diventati ruscelletti. Ecco il trionfo istituzionale: il cielo sereno. Perché lungo la notte fra venerdì e sabato i romani erano rimasti incollati alle finestre a godersi la rarità assoluta, l’intemperie meravigliosa e fitta, e alla mattina la città era tutta bianca, era un deserto allucinato, spuntava un’auto ogni tanto, pochi turisti. Alle nove dalla stazione Termini al Colosseo a piazza Venezia a Campo de’ Fiori, la capitale era consegnata alle mani di rari passanti che si crogiolavano al rumore della neve sotto le suole. Un autobus qui e là, niente taxi, nemmeno un camion, non uno spargisale, figurarsi gli spazzaneve.

La pulitura delle strade era stata ingegnosamente affidata agli pneumatici di chi passava, se passava. Il cielo grigio chiaro prometteva un’altra giornata scandinava. La gran parte dei negozi era chiusa. I bar pure. Era un sabato che esordiva davvero splendidamente, con le previsioni del tempo che annunciavano la gelata: il presupposto di una Roma impraticabile per chissà quanto. Alla stazione i treni restavano fermi. Erano in funzione due binari, a un certo punto tre. Le rare partenze portavano almeno due ore di ritardo. Fuori una lunga coda attendeva taxi latitanti. Girava giusto un elicottero a sorvegliare non si sa che. Come spettri, alcune macchine sostavano sbieche e ammaccate, altre erano ricoperte, insomma si camminava nel nulla, in un abbandono surreale, ognuno lasciato a se stesso.

Poi finalmente qualcosa è accaduto: le nuvole si sono scansate per far passare il sole. Eccolo il piano antiemergenza. Però nel frattempo il sindaco Gianni Alemanno stava ingaggiando duello con la Protezione civile, secondo lui colpevole di non averci preso sull’entità delle precipitazioni. Per la Protezione civile era Alemanno che non sapeva leggere i dati ma, ecco, ieri mattina ci si attendeva qualsiasi cosa tranne che il sindaco annunciasse una commissione d’inchiesta con cui dirimere la bega. Intanto diffondeva video per raccomandare ai romani di restarsene tappati in casa a cospargere i davanzali di briciole per i piccioni, e semmai che uscissero per raggiungere i punti di raccolta dove si distribuivano pale ai volontari. Il cronista naturalmente è stato molto sfortunato e in tutto il giorno non si è imbattuto in nessuna pala e in nessun posto di raccolta.

I romani più che ubbidienti erano stati giustamente poltroni: era pur sempre sabato mattina. Ma già verso le undici, e fino a metà pomeriggio, si sono riversati in centro a migliaia, hanno colmato i Fori imperiali candidi e bellissimi, a frotte li hanno fotografati così incantevoli dai parapetti del Campidoglio. Avevano tirato fuori l’intero armamentario da Terminillo, tute da sci, Moonboots, pedule, persino specialissime scarpe con le catene, qualcuno procedeva aiutandosi con la racchette, l’importante era affrontare addobbati la giornata di domestico turismo. Al Circo Massimo centinaia di ragazzini giocavano alle palle di neve e venivano giù saettanti dai declivi con slitte di legno e slittini di plastica, o anche con i sacchetti di cellophane. Nel giro di un paio d’ore la città era tornata a essere un luna park, un andirivieni vociante mentre il sindaco da qualche eremo proseguiva le sue non eccitanti dispute dialettiche, reiterava a lunedì la chiusura delle scuole che già sabato era stata ampiamente disattesa da numerosi istituti (più interessante l’informazione dell’azienda trasporti: mancavano le catene per i bus). A nessuno veniva in mente di ripristinare almeno per qualche ora i turni dei taxi, lasciati liberi venerdì. Eppure i tavolini dei bar erano stati ritirati fuori, tutti al loro posto di battaglia. In piazza Venezia si beveva il caffè sbracati sulle seggiole di metallo. Il traffico si rifaceva corposo. Ogni qualche metro bei pupazzi di neve molto ortodossi, con la carota al posto del naso, consegnavano l’idea di quale terrore avesse pervaso gli abitanti. Giusto alla mattina si era vista qualche coda ai supermercati: si sa mai. Del resto ora tutto è nelle manidi Dio, se darà ragione alle blande previsioni della Protezione civile o a quelle più allarmanti dell’Aeronautica, soprattutto se nella notte avrà portato il ghiaccio mancato ieri, o se invece benedirà questi folli romani, l’eterno esercito che ha marciato invincibile di vetrina in vetrina.

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/441238/


Titolo: MATTIA FELTRI. - ... Renzi: l’articolo 18 solo un totem
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2012, 03:16:18 pm
Politica

24/03/2012 - Riforme, esecutivo alla prova Renzi: l’articolo 18 solo un totem

Il vero problema è la burocrazia

"Conservarlo o cancellarlo, non cambia nulla.

Semmai, andrebbero abbassate le tasse."

MATTIA FELTRI

Roma

Sindaco Renzi, sull’articolo 18 lei di che idea è?
«Penso sia un gigantesco specchietto per le allodole. Poi per capire bene la questione, non dico serva una specializzazione giuslavoristica ma quasi. Comunque, se ci interessano gli aspetti tecnici, se vogliamo una riforma all’americana o alla tedesca, sentiamo che hanno da dire Pietro Ichino e Tito Boeri...»

E Stefano Fassina no?
«Io veramente pensavo a gente che seguo con qualche interesse, con tutto il rispetto per Fassina e il ruolo che si è attribuito... Se invece ci interessa l’aspetto politico, mi pare che il tema ruoti attorno a un totem ideologico. Non ho mai trovato un ventenne che mi chiedesse la conservazione dell’articolo 18 o un imprenditore che me ne chiedesse l’abolizione».

Col Pd passi, ma ce l’ha anche col governo?
«No: capisco che il premier voglia dire all’estero che la riforma del lavoro si fa. Invece i partiti, quando dicono che la riforma non li convince, dovrebbero prima rispondere a una domanda: perché non l’avete fatta voi? Specialmente quelli di destra, che la rivoluzione liberale non sanno nemmeno da dove si comincia. Questo governo ha un merito non da poco: sta mettendo mano a una materia a cui non ha mai messo mano nessuno. Però i punti veri sono altri. Faccio un discorso in generale: non si deve garantire il posto di lavoro, ma il lavoratore...».

E in particolare?
«Mah, per esempio: questi bravissimi tecnici sanno quanti fondi europei sono stati buttati per la formazione, e più a beneficio dei formatori che dei formati?».

Sindaco, è per l’abolizione o no dell’articolo 18?
«Lo ripeto: per me l’articolo 18 possono conservarlo o cancellarlo, non cambia nulla. E’ la coperta di Linus sotto cui tutti nascondono le loro insicurezze. Io ricevo imprenditori russi, coreani, cinesi, tutti innamorati di Firenze, e quando gli chiedo di investire mica scappano perché c’è l’articolo 18. Scappano per la burocrazia, per le tasse, per la giustizia».

La giustizia?
«Ora che non c’è più lo spauracchio di Silvio Berlusconi, il processo breve dovremmo farlo noi. Soprattutto nel civile, perché sono le cause eterne a bloccare l’economia».

Però bisogna ammettere che Pierluigi Bersani ha ricompattato il partito.
«E’ stato saggio. Tatticamente impeccabile. Oltre questa élite tecnica che ci governa c’è un paese che ha ancora paura, ed è una paura che Bersani ha assecondato. Ha detto: impediremo che vi licenzino. Ma gli chiedo: lo statuto del lavoratori è del 1970, quando la smetterai di parlarci dell’Italia di allora per parlarci di quella del 2030? Perché qui ci sono la sondaggiocrazia e la tecnocrazia, ma quando toccherà alla politica?».

Il consenso non è uno scherzo.
«Però è passata una riforma delle pensioni e gli italiani, che sono più maturi di quello che spesso si dice, l’hanno capita benissimo: si campa dieci anni di più, se ne lavorano due o tre in più. Ma anche noi non dobbiamo dimenticare la responsabilità atroce dell’abolizione dello scalone di Roberto Maroni per iniziativa di Cesare Damiano».

E quindi?
«E quindi vogliamo dire che oltre tre milioni di dipendenti pubblici sono uno sproposito? Vogliamo dire che in Italia un operaio specializzato costa tre mila euro e ne prende uno e quattro e in Germania ne costa quattro e mezzo e ne prende tre? Che dal 2005 al 2010, con Tommaso Padoa Schioppa e soprattutto Giulio Tremonti, cioè i ministri rigoristi, la spesa pubblica è aumentata di venti miliardi di euro e ai comuni nello stesso periodo ne sono stati tolti due miliardi e settecento milioni? Che abbiamo una spesa sanitaria folle e non riusciamo nemmeno a stabilire un prezzo delle siringhe che valga in Calabria come in Veneto?».

Sindaco, ma qui stiamo ancora discutendo se la concertazione serva o no...
«La concertazione? Le primarie ci insegnano che il partito novecentesco è morto, che il potere decisionale è tolto alle segreterie, dai risultati capiamo che c’è una clamorosa crisi di rappresentatività, e si parla di concertazione? Ma chi rappresenta la Cgil? E Confindustria? Ma via...».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/447632/


Titolo: MATTIA FELTRI. - La società civile e il trionfo impazzito della lista civica
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2012, 10:44:19 pm
Politica

06/05/2012 -

La società civile e il trionfo impazzito della lista civica

Mario Spallone Medico di Togliatti, tuttora stalinista, ad Avezzano a 95 anni è il candidato più vecchio d’Italia

Dal “Bunga Bunga” a “Fascismo e Libertà”, non manca nulla

MATTIA FELTRI
Roma

Assorbito il duro colpo del ritiro di Milly D’Abbraccio - la pornostar amata da Vittorio Sgarbi che a Torre del Greco voleva sfidare il sindaco uscente Ciro Boriello, chirurgo plastico specializzato in ricostruzione vaginale -, la società civile si è rimessa in marcia a capo di duemila e seicentonovantuno liste civiche. Purtroppo, va detto subito, è venuta meno anche «Taranto svegliati», la lista lubrica di

Amandha Fox che alle primarie aveva prevalso su Luana Borgia (per i pochi ignari, entrambe apprezzate colleghe della D’Abbraccio). Mancarono le firme, non l’onore. E così questo particolare settore della rivendicazione notturna vede gli stendardi al vento grazie alle liste «Bunga Bunga» (nudo di donna stilizzato su campo fucsia) che spopolano in Piemonte, puntano alla conquista di Vesime, provincia di Asti, dove se la vedranno con una lista a chilometro zero, la «Grappolo d’Uva», e una importata dal Nord Europa, la «Pirateparty.it», naturalmente per simbolo un teschio bianco su campo nero, eppure la non violenza e la disobbedienza come cuore del programma.

Per tornare alla lista «Bunga Bunga», che l’anno scorso sfiorò di concorrere al sindaco di Torino, ha intenzione serie anche a Claviere (provincia proprio di Torino), dove il fondatore Marco Di Nunzio ha rafforzato il concetto lanciando la lista «Bunga Bunga Più Pilu per Tutti», un ticket ideale fra Silvio Berlusconi e Cetto La Qualunque. Insomma, non sono tutte liste tipo «Insieme per Gallarate» o «Guardialfiera Rinasce». Ci sono anche quelle, per carità; a Torre Annunziata c’è «Torre nel Cuore», «Insieme per Torre», «Uniti per Torre», «Orgoglio e Dignità Torrese», «Torre del Valore», e del resto lì c’è un’irrimediabile ansia di rinnovamento, quarantatremila abitanti, seicento candidati al Consiglio comunale, uno ogni settanta residenti. Però il momento della lista civica coincide col colpo di genio. Il primo premio va a Pietro Vierchowod, mezzo bergamasco e mezzo russo, grande difensore della Samp, della Juve e della Nazionale negli anni Ottanta e Novanta, che si è candidato a Como al comando della lista «Quel faro del lago di Como» (se è l’incipit di una carriera politica, è una carriera promettente), e il suo motto è «Sto (p) per candidarmi», dove quello «Sto (p) per» dovrebbe ricordare il ruolo ricoperto sui campi di calcio. A dargli una mano c’è Davide Fontolan, ex attaccante dell’Inter che nelle cronache della Gialappa’s era il celebre «Fontolino Fontolan».

Forse a questo punto avrete intuito quale fermento partecipativo scuota l’Italia. Non c’è istanza, competenza, entusiasmo che le elezioni amministrative sappiano annacquare. A Bitonto c’è un altro beniamino assoluto, Pinuccio Lovero, candidato vendoliano al consiglio comunale che ha ambientato i manifesti elettorali sul proprio luogo di lavoro: il cimitero. Ottimo il suo primo piano, e sullo sfondo un carosello di lapidi, fiori e cipressi. Beneaugurante lo slogan: «Pensa al tuo domani». Il programma di Lovero è schietto: «... più loculi, più ossari...».

Peccato, piuttosto, per le occasioni mancate: quali soddisfazioni ci avrebbe dato, avesse raggiunto l’obiettivo della candidatura, Alfonso Restivo, il «Paladino di Agrigento» che prometteva di radere al suolo la Valle dei Templi per costruirvi un centro direzionale, e far zampillare dalle fontane del centro «vinu e gazzusa»? Ma per fortuna il futuro è radioso. Se siete di Cassano Magnago, paese di nascita di Umberto Bossi, avete la rara opportunità di votare per l’Ape (niente a che vedere con l’Api rutelliana), lista che ha nello slogan il suo punto di forza: «Vola, vola, vola l’Ape...», e sottinteso Maia (chi non sa di cartoni, chieda chiarimenti a figli e nipoti). Anche la società civile ha scoperto gli strumenti della comunicazione moderna: «Rendere tutto migliore spendendo meno e aiutando tutti» è il programma più corto d’Italia, cinquantaquattro caratteri a portata di Twitter. Tuttavia la comunicazione moderna può anche essere una trappola: col copia e incolla, un candidato ha trasferito a Paternò, provincia di Catania a venti chilometri dal mare, le promesse di un collega genovese, compreso il porto. Ma meno male che la politica è anche sangue e carne, e i giornali hanno salutato con moti di simpatia il ritorno alla contesa di Mario Spallone, che fu medico di Palmiro Togliatti e a 95 anni è il candidato più vecchio d’Italia. Cerca di riprendersi Avezzano, già guidata nello scorso millennio, e ricorda di essere comunista tendenza Stalin. In fondo il revival è tutta cosa nostra. L’Msi (Movimento sociale italico) di Duronia, Campobasso, è roba da smidollati in paragone a Fascismo e Libertà, il partito fondato nel ’91 da Giorgio Pisanò, gran mussoliniano che combattè nella ridotta di Valtellina nella vana attesa del Duce. A Fascismo e Libertà, che gareggia un po’ ovunque sotto varie spoglie, è stato concesso di presentarsi poiché il suo fascio littorio è diverso da quello del Ventennio e negli stemmi non presenta altri simboli che richiamino il fascismo. Poi, va bè, si chiama Fascismo e Libertà e lotta per un’Italia «basata sul pensiero di Mussolini». Ma la società civile ha anche i suoi piccoli tic.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/453003/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Un leader per il centrodestra
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2012, 03:02:04 pm
9/5/2012

Un leader per il centrodestra

MATTIA FELTRI

Nella seconda metà del 1993, un ricco imprenditore del mattone e dell’etere si trovò ad analizzare un voto amministrativo che somiglia parecchio al voto di oggi. Nelle città vinceva e sopravviveva il partito erede del Pci.

E si sbriciolava la rappresentanza moderata, quella che era della Dc e del Psi; se la giocava e bene il Msi, discendente diretto del fascismo per quanto - dice oggi Enrico Mentana, direttore del tg de La7, allora del Tg5 «avesse un ruolo di testimonianza, non di aggregazione». C’era un non più nuovissimo ma non ancora compreso voto di ribellione raccolto dalla Lega Lombarda di Umberto Bossi, così come oggi lo raccoglie il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo. A Palermo c’era, guarda un po’, il sindaco Leoluca Orlando eletto con il 75 per cento dei consensi sulla promessa belligerante del rinnovamento. Fu lì che quel ricco imprenditore decise di inventarsi il centrodestra che avrebbe dominato per diciotto anni, conquistando tre volte il governo del Paese. Il dubbio è se ci sia ancora in giro qualcuno con un nome e un’idea all’altezza di una nuova rifondazione. «Macché. Il nome non c’è adesso come non c’era nel 1993. Tanto è vero che Silvio Berlusconi finì con il lanciare se stesso», dice Giancarlo Pagliarini, ex leghista e ministro del Bilancio nel gabinetto del ’94.

Ecco, la discussione potrebbe finire qui poiché la diagnosi di Pagliarini è ampiamente condivisa. Mario Sechi, direttore del Tempo (già vicedirettore del Giornale e di Panorama), dice che «il centrodestra italiano è raso al suolo, e il passo indietro di Berlusconi di colpo ha fatto invecchiare il berlusconismo». Per Mentana, senza Berlusconi la destra «era una merce invendibile allora, figuriamoci adesso». E pure Antonio Martino, vecchio liberale, vecchio amico del Cav., confida che lui un partito personalistico lo rivorrebbe, «ma manca una personalità: Silvio non ha nessuna voglia di tornare, Angelino Alfano è anche bravo ma non ha carisma, un erede in giro non si vede». E quindi? Uno spazio c’è, come c’era nel ’93. Si tratta di riempirlo. «E’ che nel ’93 Berlusconi pensò di importare la rivoluzione reaganiana, meno Stato e più iniziativa privata, poca burocrazia, ma ormai quella roba lì non la vuole più nessuno», dice Sechi. Eppoi questo centrodestra bipolarista, eterno giocatore di digrignanti derby, non ha ancora capito, afferma Mentana, «che davvero le nozioni di destra e sinistra sono evaporate: per quelli nati dagli Anni Ottanta in poi, il Novecento è sui libri di storia, e il voto a Grillo lo dimostra». «Se è per quello ricordo una lezione con cui Gianfranco Miglio, nel 1964, chiarì che i concetti di destra e sinistra appartenevano alla sfera infantile della politica, e presto sarebbero stati superati. E invece...», aggiunge Pagliarini. Insomma, non c’è un leader, nessuna lampadina s’accende, resta una drammatica tendenza a ripetere i postulati nemmeno della Seconda, ma della Prima repubblica.

E mentre a Martino basterebbe sbarazzarsi «dei pagliacci dell’Udc e del Fli che hanno succhiato il sangue a Berlusconi e poi lo hanno tradito», Mentana immagina «per un polo moderato, chiamiamolo così, la chance di prendere a modello la politica legalista di Flavio Tosi incentrata su più sicurezza, anche economica, su parole d’ordine chiare, persino impopolari, che prefigurino uno Stato forte, altro che deregulation». Sechi aggiunge il tema del merito «perché prevale la nausea per la gerontocrazia che si perpetua. Grillo sarà discutibile, ma porta idee e facce nuove, e prende voti. Cosa che l’attuale centrodestra non può fare in alcun modo». E’ il sistema perfetto di caricare Pagliarini: «Ma certo, quelli parlano a una società che non c’è più. Io voterei Grillo o non voterei, ed è lo stesso motivo per cui mi avvicinai a Bossi: tutti ne dicevano male perché era un ufo, perché era diverso, e più ne dicevano male più ci piaceva. Grillo fa discorsi incomprensibili e spesso inconsistenti, ma ha capito che nessuno è servitore dello Stato, semmai lo Stato è servitore del cittadino. Sogno per noi una Svizzera dove gli elettori bocciano per referendum la riduzione delle tasse. Purtroppo non abbiamo né una politica né un elettorato all’altezza».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10078


Titolo: MATTIA FELTRI. Si tagliano i rimborsi ai partiti e l'Aula diventa sorda e vuota
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2012, 11:44:11 am
Politica

15/05/2012 -

Si tagliano i rimborsi ai partiti e l'Aula diventa sorda e vuota

L’Aula della Camera deserta ieri, nonostante si dibattesse di una legge da molti parlamentari definita «epocale»

A Montecitorio si inizia a discutere dell’«epocale riforma»: quindici presenti

MATTIA FELTRI
Roma

Il momento più suggestivo è arrivato intorno alle 18.30 quando il sole calante ha proiettato i suoi raggi, attraverso la preziose vetrate del soffitto, sui banchi del centrodestra colorandoli di luce crepuscolare. Quasi una predizione e offerta con un tratto poetico persino nobilitante. Non c’era nessuno, lì, a prendersi in volto il bacio del sole. L’unico deputato del Pdl a cui pareva interessare qualche cosa della revisione del rimborso elettorale (misura di nessun impatto macroeconomico, ma di semplice dimostrazione di buona volontà) era infatti Beatrice Lorenzin, ora raggiunta ora abbandonata dal collega Simone Baldelli, che forse per l’istinto umano del branco era andata ad accamparsi sugli scranni centrali e in basso, quelli occupati dai relatori della legge. Non è che gli altri gruppi parlamentari avessero riversato truppe e riservisti nell’emiciclo. Due o tre o massimo quattro della Lega (a rotazione), altrettanti del Pd, compreso il granitico Ugo Sposetti, uno che di soldi ai partiti ci capisce e vuole continuare a capirci, e poi Mario Tassone dell’Udc, Benedetto Della Vedova del Fli. Insomma, senza farla tanto lunga, il numero dei deputati accorsi alla discussione generale attorno alla storica e rivoluzionaria norma che ridimensionerà i foraggiamenti ai partiti, restituendo loro l’applauso e la fiducia dell’elettorato, diciamo così, variava da un minimo di dieci a un massimo di quindici, escluso il presidente di turno Maurizio Lupi. Cioè, nell’ora topica della contrizione, del ravvedimento e del riscatto, la percentuale degli onorevoli sul pezzo andava dall’1,5 al 2,3 degli eletti, che avanti di questo passo sarà anche la percentuale dei loro partiti alle prossime elezioni.

Insomma, un altro pomeriggio volenterosamente dedicato dalla politica al nutrimento dell’antipolitica. E sembrerebbe pure l’unico progetto a lungo termine dei protagonisti di questa legislatura, poiché l’aula viveva momenti dinamici (ridiciamo così) quando sulle tribune una scolaresca lasciava il posto a quell’altra. Se ne sono contate tre, totale degli alunni una settantina almeno, che se ne stavano lassù a guardare l’acquario vuoto. Ragazzini dai dieci ai tredici anni, e un gruppo era arrivato festoso e omaggiante in uniforme blu con la coccarda tricolore appuntata sul petto; tutti grillini di domani. Infatti ai commessi è toccato di spiegargli che non c’era stata un’epidemia, una sparatoria, una strage, ma semplicemente era lunedì, e il lunedì alla Camera non si lavora perché è un giorno dedicato ai trasferimenti, onorevoli in viaggio da Siracusa, Asti, Forlì e Chieti verso Roma. Lo si dice non per invidia sociale - non è che si godrebbe di più con l’emiciclo colmo di deputati con le occhiaie per la levataccia ma per dare una timida spiegazione visiva della diffusa impopolarità.

E’ che tutto congiura contro il Parlamento, tanto è vero che quando il presidente Lupi ha chiamato i due relatori della legge, Gianclaudio Bressa e Peppino Calderisi, in aula non c’era né l’uno né l’altro, e Bressa è infine arrivato di gran lena, seguito a una lunghezza da Calderisi. E’ succeduta una discussione di superlativi, la straordinarietà del provvedimento, la miracolosa intesa bipartisan, il giorno indimenticabile, la portata del testo, fino a un sublime «richiamo all’attenzione l’aula» dell’ottimista Bressa. Però agli osservatori le cose degne di nota sono parse tre. Prima, la Lega e l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro sono contrari alla legge perché prevede il dimezzamento dei rimborsi quando loro ne vogliono l’azzeramento (Idv ha depositato ieri duecentomila firme in scatoloni). Seconda, l’Udc si è vendicata sul medesimo Di Pietro proponendo un emendamento secondo cui «i partiti o i movimenti politici non potranno più acquistare e prendere in affitto, a titolo oneroso, immobili di proprietà di europarlamentari, parlamentari nazionali e consiglieri regionali ad essi iscritti», pratica molto in voga fra i leader dell’Idv. Terza, a un certo punto Tassone dell’Udc si è infuriato con il relatore Calderisi poiché telefonava mentre egli stava illustrando le sue deduzioni, e non ce n’erano molti altri che lo potessero ascoltare.

Ps. Alcuni deputati oggi cederanno alla tentazione di sostenere che la loro presenza in aula era del tutto superflua. In tal caso correranno il rischio che gli si dia ragione.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/454213/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Il leghista che ha scoperto il volo perpetuo
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2012, 03:29:57 pm
28/7/2012

Il leghista che ha scoperto il volo perpetuo

MATTIA FELTRI

La Lega ha di nuovo spiccato il volo. Per la precisione lo ha fatto nella notte fra giovedì e ieri quando il senatore padano Giuseppe Leoni ha firmato un emendamento alla spending review con il quale si proroga per un anno il commissario dell’Aero Club d’Italia, che è Giuseppe Leoni. Il senatore Leoni, dunque, ha confermato di stimare molto il commissario Leoni, conoscendolo bene e stimandone il lavoro fatto, senza sosta, dal lontano 2002. Infatti sono dieci anni che il senatore esce da Palazzo Madama, si toglie il celebre papillon e indossa occhialoni e cuffia di cuoio con massimo godimento. E, sia detto subito, senza prendere il becco di un quattrino: tutto gratis, tutto volontariato, tutta gloria celeste. E però la cosa non è andata giù a un sacco di gente, specialmente al collega di Futuro e Libertà, Enzo Raisi, che ieri s’è inalberato per la millesima volta: «Scandaloso! Vergogna!».

Raisi oltretutto sostiene che, in quanto parlamentare, Leoni sarebbe incompatibile con la carica di numero uno di un ente controllato dal ministero dei Trasporti. Sono questioni da comma bis. Quello che appare oggi simpaticamente rimarchevole (anche a Raisi), è il colpo d’ala con cui Leoni si è prorogato da sé.

L’Aero Club d’Italia riunisce sotto l’alta egida del senatore le associazioni che promuovono il volo in ogni sua applicazione, anche da diporto: il turistico, l’ultraleggero, il paracadutismo. Lui, il vecchio Leoni, è con Umberto Bossi il più antico parlamentare della Lega: entrò alla Camera nel 1987, venticinque anni e sei legislature fa. Una performance da capocorrente democristiano, eppure è fondatore della Lega, e ne è così affezionato che quando l’Aero Club prese diciotto nuovi apparecchi, vennero battezzati secondo criteri, diciamo così, intimistici: l’I-Cald era l’aereo dedicato a Calderoli, l’I-Rmar era l’aereo dedicato a Maroni, l’I-GiTr era l’aereo dedicato a Tremonti e l’I-Noel era l’aereo che il nostro comandante dedicò a sé (leggete I-Noel al contrario). È soltanto un episodio - dicono i nemici di Leoni - per intuire la portata della gestione affettiva del comandante. Nel tempo vari parlamentari hanno scritto interrogazioni fra il sacrosanto e il tignoso: perché mai il regolamento di contabilità e bilancio è stato redatto da consulenti esterni scelti a discrezione del commissario (Antonio Borghesi, Italia dei Valori)? Perché mai l’Aero Club Italia spende denari pubblici in fragorose feste di gala (Marco Perduca, Radicali)? Come mai i dirigenti del club vengono assunti senza concorso (Maria Antonietta Coscioni, Radicali)? Come mai l’Aero Club ha un contenzioso con l’Agenzia delle entrate (Alessio Butti, Pdl)? Come mai, nonostante la scadenza dei termini, il nuovo statuto non è stato ancora approvato (Ettore Rosato, Pd)?

Insomma, con mezzo palazzo addosso (e pure qualche federazione sportiva aeronautica), sembrava che per Leoni fosse giunto il momento di ritirarsi in hangar. Anche perché l’implacabile e ringhioso Raisi aveva dettagliato il suo parere sulle competenze d’aria del rivale: «L’unico merito è stato quello di far parte del cosiddetto Cerchio Magico del leader della Lega Nord, Umberto Bossi. Ora che non c’è più (il cerchio magico, ndr) vengono a mancare anche le motivazioni clientelari che hanno portato alla nomina». E invece Leoni è uscito vivo anche da questa purga, forse perché ha sessantacinque anni e conosce Maroni da quando portava bei mustacchi da messicano, forse perché l’alto incarico è tale soltanto dopo il decollo. Di certo l’abile mossa di nominare se stesso dovrebbe consegnare a Leoni almeno il titolo di Barone Verde.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10383


Titolo: MATTIA FELTRI. - La sinistra italiana
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2012, 06:44:14 pm
15/8/2012

La sinistra italiana

MATTIA FELTRI

Riflessione di Ferragosto per la sinistra italiana. C’è stato un tempo nel quale la sinistra italiana non voleva morire democristiana.

Poi la Dc è morta. Quindi c’è stato un tempo nel quale la sinistra italiana non voleva morire berlusconiana.
Poi Berlusconi è morto. Politicamente parlando.

Forse. Adesso è il tempo nel quale la sinistra italiana non vuole morire tecnocratica.

Visto che intanto sono passati più di sessant’anni, la sinistra italiana si accontenti di non essere ancora morta.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/grubrica.asp?ID_blog=293&ID_articolo=497&ID_sezione=666


Titolo: MATTIA FELTRI. - Riccardi: un luogo in cui la cultura cattolica incontra i laici
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2012, 07:41:04 pm
Politica

19/08/2012 - intervista: il messaggio del papa

"Il bipolarismo ha fallito, ora serve un centro per poter governare"

Riccardi: un luogo in cui la cultura cattolica incontra i laici

MATTIA FELTRI
Roma

Ministro Andrea Riccardi, lei oggi partecipa alle commemorazioni per i 58 anni dalla morte di Alcide De Gasperi, e lo fa con rappresentanti della politica, del sindacalismo e dell’associazionismo cattolici. Un passo in più verso la Cosa Bianca?

«L’idea è di Lorenzo Dellai (presidente della provincia di Trento e ideatore della Margherita, ndr) e ho aderito perché sono convinto che la politica debba ripartire dalla cultura, da cui per troppo tempo ha divorziato: oggi nella politica c’è un problema di linguaggio e di stile troppo marcati dai fuochi d’artificio mediatici. I problemi sono complessi e per essere spiegati hanno bisogno di un linguaggio e di uno stile nuovo, concreto».

E per tracciare questo percorso serve un partito dei cattolici?

«La cultura dei cattolici deve avere un ruolo. È che oggi non possiamo dire come sarà la politica domani, non c’è nemmeno la legge elettorale. Di sicuro possiamo dire che c’è bisogno di un soggetto terzo: il centro. Ma non sto pensando a un partito confessionale, bensì a un centro che governi una coalizione. De Gasperi, coi suoi esecutivi, ha sempre preferito governare con altri partiti, anche quando aveva quasi la maggioranza assoluta».

Sta dichiarando concluso il bipolarismo?

«Il bipolarismo mi appare in buona parte inadeguato tanto è vero che il Pdl ha rinunciato al governo per una particolare grande coalizione, e per le stesse ragioni il Pd ha rinunciato a elezioni in cui i sondaggi lo davano in vantaggio. Noi siamo diversi dalla Spagna, dove Mariano Rajoy governa nelle contestazioni; qui il paese è più coinvolto, più convinto dell’attuale esperienza di governo che fa riferimento a tre partiti. Capisco la ragioni per cui è nata la Seconda repubblica, ma quel tempo ora è passato».

Però, ministro, perdoni. Questo centro sarà o non sarà il partito dei cattolici?

«Anzitutto ci tengo a precisare che sto ragionando come cittadino e come studioso, anche perché non ho la veste per costruire nuovi partiti o nuove liste. Come dicevo prima, il bipolarismo è inadeguato ai tempi. A me sembra, per quella che è la fisiologia della politica in Italia, che una articolazione oltre i due poli sia implicita e necessaria. Quanto alle mie aspettative, ripeto di non attendermi un partito confessionale: i cattolici sono in tutti i partiti ed è bene così. Mi attendo un luogo in cui la cultura cattolica si incontra con i laici per trovare una sintesi».

Ma questo centro che cosa sarà?

«Devo dire due cose che mi stanno a cuore. Prima: mi preoccupa il distacco dei giovani dalla politica che da un certo punto in poi non li ha più coinvolti o li ha coinvolti poco».

E invece Grillo li coinvolge e li conquista.

«E’ vero. Bisogna trovare un linguaggio meno gridato, ma che faccia riferimento a una cultura. Un po’ più colto, un po’ più concreto. Seconda cosa, non

Nella vita di ogni giorno «anche quando si rifiuta o si nega Dio, non scompare la sete di infinito che abita l’uomo. Inizia invece una ricerca affannosa e sterile, di “falsi infiniti” che possano soddisfare almeno per un momento». E così, «l’uomo, senza saperlo, si protende alla ricerca dell’Infinito, ma in direzioni sbagliate: nella droga, in una sessualità vissuta in modo disordinato, nelle tecnologie totalizzanti, nel successo ad ogni costo, persino in forme ingannatrici di religiosità». È quanto scrive papa Benedetto XVI, in un passaggio del suo messaggio al vescovo di Rimini, monsignor Francesco Lambiasi, in occasione dell’apertura del Meeting per l’Amicizia fra i Popoli. «Anche le cose buone, che Dio ha creato come strade che conducono a Lui - scrive ancora - non di rado corrono il rischio di essere assolutizzate e divenire così idoli che si sostituiscono al Creatore».

possiamo più ragionare parlando soltanto di Italia, ma dobbiamo farlo parlando di Europa. Anche questa fu una lezione di De Gasperi. Per continuare a essere italiani abbiamo bisogno di essere europei, i nostri valori e la nostra cultura non sono salvabili sul lungo periodo se non in un quadro europeo».

Molti italiani sentono la loro sovranità usurpata dall’Europa.

«Ma non è così. Quando c’erano i paesi comunisti eravamo vincolati alla Nato ed era impossibile immaginare il Pci al governo. Era usurpazione di sovranità? Oggi si è creata una comunità di destino, l’Europa, senza la quale siamo troppo piccoli di fronte al mondo: non bisogna accettare che il proprio governo sia in qualche modo condiviso dagli altri membri della comunità e raccordato a loro?».

Però queste sono cose che non sono mai state dette chiaramente.

«E’ vero. La politica europea ci è sempre apparsa distante e non è mai stata spiegata, e invece è protagonista di un percorso politico lungo che ha ricadute nella vita concreta. Uno dei meriti di Mario Monti è quello di aver spiegato l’Europa all’Italia e l’Italia all’Europa».

Gli italiani continuano a far fatica a capire...

«Dobbiamo metterci in testa che è necessario chiedersi che cosa sarà l’Italia domani, intanto che infuriano i travolgenti cicloni della globalizzazione. Sarà la costa dorata per le vacanze dei cinesi o degli arabi? Oppure sarà il soggetto di grande e imprescindibile mediazione che fu per esempio la Repubblica di Venezia? Se non cominciamo a parlare di queste cose rimarremo sempre ripiegati su noi stessi. Faccio un esempio: per la mia storia e il mio ruolo (fondatore della comunità di Sant’Egidio e ministro per la Cooperazione, ndr) giro e conosco l’Africa, e lì ci sono mercati dalle prospettive formidabili in cui noi siamo troppo assenti. Invece, non a caso, i cinesi e gli americani li battono da tempo».

Ministro, un’ultima domanda: che deve fare Monti dopo questa legislatura?

«Monti è un valore per la politica e converrà continuare a utilizzarlo. All’estero si sono accorti che non è l’avvocato degli italiani, ma uno che ha qualcosa da dire sull’Europa e sul mondo».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/465920/


Titolo: MATTIA FELTRI. - Politici scomparsi, la fiera dei fuori dal mondo
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2012, 10:07:31 pm
22/8/2012

Politici scomparsi, la fiera dei fuori dal mondo

MATTIA FELTRI

Pare, quasi di colpo, che il mostro abbia perso gli artigli. Si ricacci fuori la testa, hanno detto uno dopo l’altro Mario Monti e Corrado Passera, appena anticipati da Elsa Fornero in un’intervista alla Stampa. Non è la prima volta: il premier aveva intuito un’aria nuova già ad aprile e a giugno, nonostante qualche successiva precisazione più prudente. Però stavolta le stramaledette società di rating soffiano nella direzione sperata. Con Moody’s che prevede l’uscita dalla crisi più nera già l’anno prossimo e Fitch che sentenzia sulla «tantissima credibilità» dell’esecutivo, autorizzato - bontà loro - ad abbandonare il postulato del rigore.

Oh che meraviglia: in coda all’estate arriva una cartolina rosa e profumata, altro che autunno caldo e altre ovvietà di stagione. Naturalmente non è il caso di ordinare casse di champagne, col rischio evidente di ricascare a terra da un giorno all’altro. Però, chi sa di diavolerie finanziarie, dietro alle delizie di Moody’s e Fitch, intuisce l’indebolirsi degli speculatori, forse meno convinti di vincere la partita contro l’euro. Tutto quest’improvviso ottimismo sfuma però alla svelta se si va col pensiero alla prossima campagna elettorale e ai protagonisti che la animeranno.

Stiamo parlando di una classe dirigente, e tocca generalizzare, che nove mesi fa ha rinunciato a governare e a fare opposizione devolvendo ai tecnici il compito di rimettere in piedi la baracca; se sospensione della democrazia ci fu, la benedizione venne proprio dai santuari della democrazia, quali sarebbero i partiti. E il disimpegno acquistò qualche tratto particolarmente imbarazzante quando destra e sinistra declinarono l’offerta di mettere dentro uno o due dei loro nella squadra di Monti (che si pigliasse dunque tutte le grane). Noi, dissero, avremo il tempo necessario per combinare qualcosa di buono. Per esempio, rifaremo la legge elettorale. Nove mesi, un periodo sufficiente a produrre un essere umano, non sono bastati a produrre un’intesa, peraltro annunciata ogni quindici giorni.

Il povero Roberto Giachetti, segretario d’aula del Pd, ha intrapreso uno sciopero della fame per spingere i leader a darsi una mossa, ma qualche giorno fa ha sospeso la competizione per assenza di avversario, rifugiato al mare. Silvio Berlusconi valuta le doti d’area di Giampaolo Pazzini e l’opportunità di replicare l’alleanza con la Lega. Pier Luigi Bersani, come ogni estate, ripara in villeggiatura e stacca tutti i telefoni. Bobo Maroni progetta referendum sull’uscita dall’euro. Gianfranco Fini santifica Alcide De Gasperi e quotidianamente appare in foto mentre fa le formine in spiaggia o il bagno al largo, e intanto si discute di scorte pletoriche e macchine del fango.

Si studiano sistemi grilleschi di comunicazione, nomi accattivanti, simboli fascinosi: una fiera di paese completamente fuori dal mondo e fuori dal tempo, nella quale la strategia si limita al colore della cravatta e a chi prendere sotto braccio. E non c’è un’idea che sia una – e che non sia di propaganda - su quale Italia verrà, su quale architettura istituzionale poggerà, su quali riforme seguiranno, su che cosa convenga fare del lavoro, della giustizia, del fisco. E nemmeno il sospetto su chi davvero nutre l’antipolitica. Pagine...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10447


Titolo: MATTIA FELTRI. - Di Pietro: "Mai violato il segreto I partiti erano corrotti"
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2012, 11:17:27 am
Cronache

30/08/2012 - INTERVISTA

Di Pietro: "Mai violato il segreto I partiti erano corrotti"

L’ex magistrato: «Certe ricostruzioni sono senza senso: prima ero burattino Usa, ora mi accusano del contrario»

MattiA FELTRI
Roma

Onorevole Di Pietro, i rilievi a Mani Pulite dell’ex ambasciatore Reginald Bartholomew sono pesanti, sebbene non inediti da noi.
«E sono curiosi, perché mi hanno accusato del contrario, cioè di essere stato, insieme col pool, un burattino degli Stati Uniti che volevano far fuori i filoarabi Giulio Andreotti e Bettino Craxi. Accuse senza senso, naturalmente. Adesso me ne rivolgono di nuove, che contraddicono le precedenti, e altrettanto insensate. Vorrei entrare nel merito».

Prima accusa: avete violato sistematicamente i diritti di difesa degli imputati.
«Ci sono decine di sentenze che dicono il contrario. C’è una relazione della commissione parlamentare del ’96 secondo cui noi non fummo aguzzini ma semmai vittime di una serie di diffamazioni per le quali siamo stati risarciti. Sono stato sotto inchiesta per queste accuse e prosciolto ogni volta».

Non abbiamo mai avuto la percezione che lei sarebbe stato condannato.
«Perché avevate torto».

Perché ci sembrava non ci fossero i presupposti, diciamo, politici.
«No, perché avevate torto. Sono stato prosciolto tutte le volte per insussistenza del reato».

È vero ma qualche volta, prosciogliendola, i giudici hanno criticato i suoi comportamenti.
«Bisognerebbe vivere due volte per rimediare nella seconda vita agli errori commessi nella prima. Ma non ho mai commesso reati, non ho mai volontariamente violato la legge».

La carcerazione preventiva per estorcere confessioni aveva aspetti da tortura.
«La carcerazione preventiva non serviva per estorcere confessioni, ma seguiva la legge e le regole, come dimostrato da decine di sentenze e mi dispiace che il povero Bartholomew, pace all’anima sua, ci rivolga accuse tanto gravi delle quali, fosse in vita, dovrebbe rispondere in tribunale».

Non lo pensava soltanto Bartholomew. Come dice nell’intervista, riunì sette importanti giudici italiani che concordarono con lui.
«Peccato che Bartholomew non possa più farne i nomi. Mi piacerebbe se saltassero fuori, magari con l’aiuto della “Stampa”. E mi piacerebbe che questi sette giudici ripetessero in pubblico delle valutazioni che fin qui hanno fatto in privato e nell’anonimato. Semmai il caso dimostra che l’ambasciatore basava le sue opinioni su notizie inquinate, e glielo dimostro. Si tratta della seconda accusa, secondo cui avremmo offeso il presidente Bill Clinton recapitando a Napoli un avviso di garanzia a Berlusconi. Primo errore: era un invito a comparire. Secondo errore: non lo abbiamo recapitato a Napoli ma a Roma...».

Onorevole, sono dettagli.
«No, per niente. Infatti noi abbiamo recapitato un invito a comparire a Roma e dopo la chiusura del vertice. Fu il “Corriere della Sera” ad anticiparlo con Goffredo Buccini che si è sempre rifiutato - e io ne rispetto le ragioni - di svelare la fonte. Le inchieste hanno dimostrato che le fonti erano potenzialmente numerose e noi del pool siamo stati assolti».

Bartholomew è noto per una leggenda che gira da tempo. Partecipò, nel giugno ’92, all’incontro sul panfilo Britannia nel quale sarebbero state pianificate le privatizzazioni. Forse voi eravate andati troppo oltre...
«Adesso non esageriamo. E poi io di questo Britannia non so nulla».

Non ci credo neanche se me lo giura su sua madre.
«E che vuole che le dica? Quella nave mi è sfuggita».

Domani (oggi per chi legge, ndr) pubblichiamo un’intervista in cui il console generale Peter Semler la ricorda con più simpatia. Dice che vi incontravate spesso.
(Legge l’intervista, ndr) «Il nome mi torna in mente adesso, non lo ricordavo più. Ma quello che racconta è sostanzialmente vero con alcune imprecisioni».

Compreso il fatto che lei gli anticipò nel novembre del ’91 il coinvolgimento della Dc e del Psi ai massimi livelli?
«Be’, lì temo che faccia confusione, che sovrapponga - sono passati più di vent’anni - conversazioni avvenute in momenti diversi. Non potevo anticipargli il coinvolgimento dei vertici di Dc e Psi perché, in quel novembre, già indagavo su Mario Chiesa ma non avevo idea di dove saremmo andati a parare».

E allora perché Semler lo dice?
«Perché, ripeto, confonde conversazioni avute in tempi e con persone diverse. (Mostra un report inviato da Semler a Secchia, il predecessore di Bartholomew, in cui un esponente della Rete, forse Nando Dalla Chiesa, gli parla dell’imminente fine del pentapartito. L’archivio di Di Pietro è ancora portentoso, ndr). È del 25 febbraio, otto giorni dopo l’arresto di Mario Chiesa. Vede che si confonde?».

Questo non dimostra nulla.
«Sto facendo un’ipotesi. Per dire che Semler incontrava e parlava con molta gente. Ma nel novembre del 1991 non potevo anticipargli ciò che non sapevo. C’è però un punto. Mani Pulite non è cominciata nel ’92. È cominciata a metà degli Anni Ottanta con una serie di inchieste che non portarono a nulla, per ragioni politiche e perché la corruzione è un reato che si compie in due, e quindi ci si protegge a vicenda. Era un eterno coitus interruptus. Noi invertimmo il percorso, partendo dai fondi neri creati per pagare la politica e spezzando così il patto omertoso. Di questo posso aver parlato con Semler. Ma che Dc e Psi e anche il Pci fossero partiti corrotti, in Italia lo sapevano tutti. In fondo Mani pulite fu la scoperta dell’acqua calda».

Perché si incontrava con Semler?
«Perché lo desiderava. Faceva il suo lavoro. Voleva capire e infatti capì perfettamente, a differenza di altri suoi connazionali. E incontrò un sacco di altre persone».

Non è irrituale?
«No. Non ho mai violato il segreto istruttorio».

Vede che il suo rapporto con gli Usa era saldo? Fu invitata anche dal Dipartimento di Stato.
«In America ci ero stato anche prima per atti di indagine. Poi fui invitato come succede a molti. Ma voi che pensate: aveva ragione Bartholomew che diffidava di me, o Semler che mi ricorda volentieri? (Sorride, ndr)».

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/466850/


Titolo: MATTIA FELTRI. - "La Seconda Repubblica figlia di diplomatici e Fbi"
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2012, 11:48:20 am
Politica

01/09/2012 - MANI PULITE I RAPPORTI ITALIA-USA

"La Seconda Repubblica figlia di diplomatici e Fbi"

De Michelis: «La Cia sapeva dei soldi al Psi ma poi ci mollò»

MATTIA FELTRI
Roma

Gianni De Michelis, lei nel 2003 scrisse un libro (La lunga ombra di Yalta, 2003) in cui delinea la sua teoria sui metodi del pool Mani pulite e sul ruolo non secondario degli Usa.
«E infatti per me non è stato sorprendente leggere le interviste a Reginald Bartholomew e Peter Semler: mi è sempre stato chiarissimo che l’inchiesta si è basata in gran parte sulla carcerazione preventiva come mezzo per ottenere confessioni, e ho sempre attribuito all’operazione Mani pulite una valenza essenzialmente politica».

Cioè?
«Non tutti i partiti hanno avuto lo stesso trattamento. La storia più famosa è quella di Primo Greganti alla cui vicenda il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio diede una lettura particolarmente favorevole».

Perdoni ma non è così. Nonostante abbia subito una lunga carcerazione, Greganti ha sostenuto di aver intascato i soldi per sé. I giudici non gli hanno creduto, come dicono le sentenze, ma non hanno potuto dimostrare il coinvolgimento del Pci.
«Pensa che se Greganti fosse stato socialista sarebbe finita così?».

Questo è soltanto un sospetto.
«E il miliardo di Raul Gardini? Antonio Di Pietro ha raccontato di aver seguito i soldi fin sul portone di Botteghe Oscure, ma di non aver mai scoperto chi lo intascò. Ma come? Ma stiamo scherzando?».

Che il Pci c’entrasse in Mani pulite come gli altri è appurato.
«Benissimo, allora quello che voglio dire è che Bartholomew, e naturalmente mi spiace sia morto, quando si lamenta di certi sistemi degli inquirenti si lava la coscienza: lui e il suo paese avevano preso atto che la vecchia classe politica non c’era o non serviva più, e cominciò a dialogare con altri. Il gruppo dell’ex Pci doveva servire per vent’anni».

Un po’ poco per sostenere che gli Stati Uniti indirizzarono...
«La vostra intervista a Semler è illuminante. Il console dice che Di Pietro lo avvertì nel ’91 che presto il Psi e la Dc sarebbero stati spazzati via».

Per Di Pietro, Semler si è confuso.
«Ma siamo seri. Semler è un console, mica si confonde. I casi sono due: o dice la verità o mente. E io penso dica la verità».

Quindi?
«La Cia coprì l’apertura del Conto Protezione per il finanziamento illecito al Psi. Sapeva tutto. Il giorno dopo il disfacimento dell’impero comunista, la Cia ha preso e se n’è andata lasciandoci con il cerino in mano. Se ne andò perché l’Italia non aveva più un ruolo geopolitico e non c’era più da garantire l’equilibrio di Yalta. Da noi prevalse l’Fbi, interessata ad evitare che la mafia prendesse troppa forza».

Così paradossalmente voi e la Dc, che avevate garantito Yalta, venite lasciati nelle mani della magistratura.
«E nel ’92 Luciano Violante, del Pds, diventa presidente della Commissione antimafia. In quel ruolo ha un rapporto stretto con Louis Freeh, dell’Fbi. Niente di oscuro, s’intenda. Non parlo di complotti. Ma tutto si lega: l’ex Pci - con l’ambasciatore, con l’Fbi - diventa interlocutore dell’America. E al Pci non si applica il “non poteva non sapere”. Curioso no?».

C’è qualcosa che non torna. Sta dicendo che l’Fbi si occupa di mafia con lo Stato italiano e col Pds. Ma sono gli anni della trattativa, se trattativa ci fu. Furono gli americani a volerla?
«Non sono in grado di dirlo. Dovreste chiederlo a Di Pietro».

A Di Pietro?
«Sì, a Di Pietro. Dovreste chiedergli la natura dei suoi viaggi in America. Dovreste chiedergli di che cosa si parlò, che cosa avevano in testa gli americani in quegli anni, perché fu invitato dal Dipartimento di Stato».

Perché era l’uomo più importante d’Italia.
«No, era l’uomo politico più importante d’Italia. Altrimenti lo avrebbe invitato il Dipartimento della Giustizia, non il Dipartimento di Stato. Di Pietro aveva rapporti particolari e privilegiati con Washington, e sa molte cose su cui tace. E mi domando per quale ragione oggi torni fuori la trattativa: perché - è la mia sensazione - il disegno americano di impostare la Seconda repubblica è sostanzialmente fallito, e perché la magistratura è oggi frazionata su varie posizioni. È un altro equilibrio che si rompe».

Una teoria complicata ma chiara. Se è così, Bartholomew e Samler giocano la stessa partita: uno fa il poliziotto buono e uno il poliziotto cattivo.
«Esatto. A parte che Bartholomew racconta un fatto fondamentale: chiamò un grande giurista come Antonin Scalia e riunì sette alti magistrati italiani per parlare degli abusi del pool di Milano. A parte questo, Semler anticipava l’entrata dell’Fbi e Bartholomew compensava l’uscita della Cia. E’ lui, e lo racconta, che sceglie i nuovi interlocutori».

Aveva tutto questo peso, Bartholomew?
«Ma Bartholomew non era mica uno qualsiasi. Era un ambasciatore di rango. Era uno tosto, ascoltatissimo alla Casa Bianca. A un certo punto - non ricordo che incarico avesse all’epoca - si era persuaso nonostante le nostre rassicurazioni che Carlo De Benedetti se la facesse con l’Unione Sovietica. Nell’89 io e Francesco Cossiga andammo in vista dal presidente George Bush senior e anche lui ci parlò di De Benedetti. Voleva che prendessimo contromisure e non fu facile convincerlo che non era il caso».

Per dire quanto contasse Bartholomew?
«E per dire che la cortesia non ci fu restituita».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/467069/


Titolo: MATTIA FELTRI. - La corsa a ostacoli per votare alle primarie
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2012, 04:02:16 pm
Politica
14/10/2012 - il caso

La corsa a ostacoli per votare alle primarie

Obbligatorio iscriversi all’albo, ma non si potrà farlo al seggio

Mattia Feltri
Roma

Votare alle Primarie del centrosinistra: ecco un esercizio che è l’anello di congiunzione fra la caccia al tesoro e la burocrazia cinese.
E che promette di evolvere a gioco di società/rompicapo con cui vincere il tedio autunnale. Di certo c’è che si voterà al primo turno domenica 25 novembre. Il resto brancola nelle nebbie della perfidia umana. Perché al simpatico punto due del decalogo varato ieri dal Pd, della vendoliana Sel e dal Psi c’è scritto che per partecipare bisogna sottoscrivere una carta d’intenti (anche quella presentata ieri: si chiama “Italia Bene Comune” ed è una dettagliata enciclopedia del filantropismo moderno) con la quale ci si impegna a sostenere il centrosinistra alle Politiche del 2013. Cioè, praticamente, se uno va alla Primarie per appoggiare la leadership di Matteo Renzi, garantisce di votare centrosinistra anche se la spuntasse Nichi Vendola. E viceversa (praticamente l’ambizione novecentesca di trasformare i potenziali elettori in affiliati).

Ma non è tutto. Questo punto due è un lascito per i posteri. Infatti disciplina l’afflusso alle urne. E sostiene che i desideranti al voto debbono iscriversi all’Albo delle elettrici e degli elettori e «tale registrazione dovrà avvenire con procedure distinte dalle operazioni e dall’esercizio di voto». Traduzione: boh. O meglio, come e dove ci si possa iscrivere all’Albo delle elettrici e degli elettori è ancora da stabilire, ma di sicuro non lo si farà al banchetto delle primarie. Sarà un banchetto a fianco? Un banchetto lontano cinque metri?
Sarà a tre isolati di distanza? Dall’altra parte della città? In una zona a caso dell’emisfero boreale? Altro boh. Lo si preciserà più avanti.
In ogni caso, recuperata l’imprescindibile iscrizione, si otterrà diritto di voto che prevede il versamento di almeno due euro: e questo è giusto, visto che le primarie costano anche se qualcuno ha protestato ricordando, per esempio, gli emolumenti girati al gruppo del Pd in Regione Lazio: circa due milioni di euro l’anno.

Tuttavia non è per niente escluso che nessuno dei candidati raggiunga il cinquanta per cento più uno dei favori.
Nel caso si andrà al ballottaggio, già fissato per la domenica successiva, quella del 2 ottobre. E qui c’era un punto di discussione fra
l’aristocrazia del partito e i renziani. Questi ultimi erano dell’opinione di aprire il ballottaggio anche a chi non aveva votato al primo turno. Il partitone tendeva invece più all’ipotesi opposta: chi c’era, ci sarà; chi non c’era pazienza. Questo per evitare che sabotatori del centrodestra assaltino i banchetti ed inquinino il voto. Bene, come è stata risolta la questione? Non è stata risolta. Anche qui ogni interpretazione è buona perché il decalogo dice semplicemente che chi ha (faticosamente) ottenuto l’autorizzazione a votare al primo turno ce
l’ha automaticamente al ballottaggio. Per il resto buio fitto. 

Sarà pure questa una decisione a carico dei garanti, che sono quattro e costituiscono il Collegio Nazionale (Il più noto è Luigi Berlinguer, ottant’anni, cugino di Enrico e già ministro con Romano Prodi e Massimo D’Alema. Qualche fama ce l’ha anche il vendoliano Francesco Forgione, che fu presidente della Commissione antimafia dal 2006 al 2008. Gli altri due sono tecnici meno famosi, la filosofa Francesca Brezzi per il Pd e il docente di diritto amministrativo Mario Chiti per i socialisti). Insomma, il tentativo di tenere la gente lontano dalle Primarie è articolato.
Se il tentativo riuscirà, è meno chiaro.

da - http://lastampa.it/2012/10/14/italia/politica/la-corsa-a-ostacoli-per-votare-alle-primarie-AfSHOyzO3SkLfDYLa0mJoJ/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Giachetti
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2012, 09:33:30 am
Paesi & buoi
25/10/2012

Giachetti

Mattia Feltri

Roberto Giachetti (deputato del Pd di provenienza radicale) è al 52° giorno di sciopero della fame. 

Andrà avanti sin quando non sarà approvata una nuova legge elettorale: un balletto stucchevole che prosegue da quasi un anno e di cui non si vede la fine. 

Preso atto delle drammatiche condizioni di Giachetti, e del discredito che getta su di loro, deputati e senatori hanno deciso di abbreviare drasticamente i tempi: entro fine mese Giachetti sarà abbattuto.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/25/cultura/opinioni/paesi-e-buoi/giachetti-0vZuUkpYlHbkgIqt2qKqOO/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Primarie Pdl
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2012, 11:57:50 am
Paesi & buoi
27/10/2012

Primarie Pdl

Mattia Feltri



Sono già piuttosto numerosi i candidati

- o candidati in pectore - 

alle primarie del Pdl. 


Sono tanti perché ognuno rappresenta un’anima 

della composita aerea. 

Angelino Alfano 

rappresenta l’anima 

berlusconian-democristiana. 

Giancarlo Galan rappresenta l’anima berlusconian-liberale.

Stefania Craxi rappresenta l’anima socialista. 

Roberto Formigoni rappresenta l’anima ciellina. 

Giorgia Meloni rappresenta l’anima di destra. 

Daniela Santanché rappresenta l’anima de li mejo...


da - http://www.lastampa.it/2012/10/27/cultura/opinioni/paesi-e-buoi/primarie-pdl-ApPMXZoqkB4A8gHyuCz28N/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Azzurra Cancelleri, lei è la coordinatrice della campagna ...
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2012, 10:41:45 pm
Politica
29/10/2012 - intervista

“Dopo i pasticci di Formigoni, la Sicilia ci ha dato fiducia”

Azzurra Cancelleri, sorella di Giancarlo: ora i nostri consiglieri dimostreranno che sappiamo anche fare oltre che parlare

Mattia Feltri


Azzurra Cancelleri, lei è la coordinatrice della campagna elettorale di Giancarlo Cancelleri che è suo fratello. Come mai? 

«Io sono nel Movimento 5 Stelle già da qualche anno e in precedenza avevo curato la campagna elettorale di Sonia Alfano per il Parlamento europeo, quindi conosco la materia».

Sarà difficile ripetere un successo simile in futuro? 

«Credo proprio di no. Faremo ancora meglio in futuro perché adesso i nostri consiglieri regionali dimostreranno che sappiano anche fare oltre che parlare».

Quando vi siete accorti che avreste potuto sfondare? 

«Quando abbiamo assistito a tutti i pasticci di Formigoni: quando i siciliani hanno capito che la cattiva politica è anche al Nord hanno avuto uno scatto di orgoglio e ci hanno dato fiducia». 


da - http://lastampa.it/2012/10/29/italia/politica/dopo-i-pasticci-di-formigoni-la-sicilia-ci-ha-dato-fiducia-RQvSYpNPeYsPbx6P337rlM/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Abbandonate dal leader hanno ceduto alla rabbia
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2012, 09:35:00 pm
Politica
23/11/2012 - il caso

L’ ultima cavalcata delle Amazzoni si copre di rancore per il Cavaliere

Abbandonate dal leader hanno ceduto alla rabbia

Mattia Feltri

Roma


«Come Schettino», cioè incapace e traditore. Era difficile che trovasse un insulto più sanguinoso una donna, Isabella Bertolini, che per tanto tempo ambì alla parte di Domnica Cermontan, la moldava fiera di svettare in plancia. E la Bertolini se la contendeva, quella parte, con la moltitudine esuberante che predicava berlusconismo a ogni scollatura e a ogni colpo d’anca e soprattutto a ogni ghirigoro di lingua. «E’ proprio vero, signori si nasce. A questo punto è chiaro a tutti gli italiani dove sono la nobiltà d’animo e la bontà». Era il 2005, e Silvio Berlusconi era un «grande italiano» nel giudizio irrimediabile della Bertolini, che ora saluta il Pdl non accordandogli più che la dimensione di «fronda grillina». Non lo si scrive per impiccare la signora a una vecchia frase, ma per individuare quel filo ormai fosforescente che congiunge Nicole Minetti («è solo un culo flaccido», parere secondo competenza) a Michaela Biancofiore («ha ceduto alla nomenclatura») passando per tutte le altre. L’ultima, appunto, è stata la Biancofiore, soltanto poche settimane fa insignita del titolo di comandante delle Amazzoni, cioè le succinte, ardenti e furiose incaricate di organizzare l’ultima e irriducibile difesa del berlusconismo. Me ne vado, ha detto ieri la ex guerriera, a fondare un altro soggetto. Il miliardesimo.

 

Ma non è per forza diserzione, forse soltanto sfinimento, sebbene i modi e i tempi lascino di sale. Infatti pure una signora dal percorso non sempre rettilineo come Daniela Santanché - e però l’indiscussa depositaria del verbo arcoriano - nelle conversazioni private si lascia sfuggire qualche sospiro di abbattimento per l’instabilità cronica del Capo. L’unica rimasta a cantare senza un tentennamento le rime dell’epica del Cavaliere è Stefania Prestigiacomo, che il 24 ottobre definì «generoso e lungimirante» il Berlusconi che annunciava il ritiro e indiceva le primarie, e tre giorni dopo (pronunciata la condanna dal tribunale di Milano, con la conseguente invettiva da villa Gernetto) esultava: «Abbiamo ancora un grande leader. Il suo impegno diretto è obbligato da una sentenza politica». Ma in questo caso il romanzo di Montecitorio vuole che tanto slancio non venga corrisposto proprio dall’ex premier, che ormai si è fatto un’idea precisa di quanto sappia dare una ragazza della prima ora come la Stefania. Un po’ quanto è successo a Mara Carfagna, oggi vibrante sostenitrice delle primarie e della premiership di Angelino Alfano, e le cui difese di Berlusconi hanno il suono legnoso della recita a copione. L’interpretazione è accusabile di malizia, ma è difficile negare che l’amore sia infiacchito e che i due si lascino da buoni amici, o almeno con quell’aria lì.

 

Era un bell’esercito di rabbiose e gelosissime soldatesse, tenute assieme dallo sguardo sul Sole. L’eclissi ha coinvolto già qualche mese fa Mariastella Gelmini, subito sospettosa dell’andazzo del partito e sicura su dove sarebbero andati a finire i sondaggi. E ha oscurato più di recente le retrovie, dove si agitano febbrili e smarrite quelle che non sanno rassegnarsi. Gabriella Giammanco, Laura Ravetto, Fiorella Ceccacci, tutte queste deputatesse di così bell’aspetto non possono credere che il Grande Leader non gli risponda più al telefono. Né agli squilli né ai messaggini. Allora chiamano Maria Rosaria Rossi, soprannominata “la badante” (con sprezzo ma centrando il bersaglio), e niente, non risponde nemmeno lei, che fino all’altro giorno era il crocevia di ogni dolce pettegolezzo, di ogni spartizione di affettuosi incarichi. Ieri la Rossi è arrivata inattesa a Montecitorio, suscitando tutto un frullar d’ali, e vano, poiché la signora se ne è rimasta in disparte a parlare al telefono, e a concedere udienza a pochi. Ecco, questa è la sala da ballo. Annagrazia Calabria (responsabile dei giovani pidiellini) stando ai resoconti dell’Ansa non pronuncia la parola “Berlusconi” dal 10 di ottobre, quarantadue giorni. Maria Vittoria Brambilla è scomparsa nel nulla, vittima di qualche sospetto e qualche rancore. La festa è finita, e anche le briciole son quelle che sono.

da - http://lastampa.it/2012/11/23/italia/politica/l-ultima-cavalcata-delle-amazzoni-si-copre-di-rancore-per-il-cavaliere-ZUfiRltmEnj2eJEbo0Q0jN/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - “Non mi candido. Forse. Anzi sì”
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2012, 06:40:53 pm
Politica

12/12/2012 - il reportage

“Non mi candido. Forse. Anzi sì”

La gimkana verbale del Cavaliere

Berlusconi e la “conferenza stampa” senza soluzione. Vince la vaghezza

Mattia Feltri
Roma

E’ stata una delle conferenze stampa (travestita da presentazione di un libro) più complicate della plurisecolare storia dell’informazione. Tanto è vero che, a un certo punto, uno sfiancato Bruno Vespa ha interrotto il monologante: «Presidente, lei aveva una qualità, che diceva pane al pane e vino al vino…». E tanto è vero che, dopo forse quaranta minuti di risposta a gimkana alla semplice domanda se fosse candidato a premier a no, Silvio Berlusconi è stato interrotto da Massimo Franco, editorialista del Corriere della Sera, che ci ha coraggiosamente riprovato: «Mi ha scritto una collega: non ha ancora capito se lei se ricandida o meno». Non l’aveva capito nessuno. Se questa infatti fosse una partita alla roulette, l’ex premier era il giocatore che aveva piazzato una fiche per ogni casella, sperando di raccattare qualcosa. 

Riassumendo (verbo assolutamente pretenzioso), il Cavaliere è attualmente candidato a premier del suo partito, tranne alcuni che se ne stanno andando a destra (ex An) o al centro (verso Luca Cordero di Montezemolo e Pierferdinando Casini), e senza Lega con cui sta trattando, la quale Lega non lo vuole candidato premier, e però vorrebbe Bobo Maroni candidato alla Lombardia, e se Maroni se ne va per conto suo cadono le giunte pidiellin-leghiste di Piemonte e Veneto, ma se Mario Monti accettasse di fare il candidato premier, Berlusconi sarebbe disposto a fare un passo indietro, purché il suddetto Monti sia in grado di riunire i moderati da Casini fino a Ignazio La Russa e passando per la Lega che però è sempre stata all’opposizione di Monti, quindi boh, e se non fosse Monti almeno qualcun altro, per esempio in pole position c’è anche Angelino Alfano… 

Insomma, la vaghezza più assoluta così strabiliante nell’uomo del fare, e che in assenza del fare è sempre stato almeno l’uomo del dire. Alla fine, l’unica cosa chiara è che non ricandiderà il sodale di una vita, Marcello Dell’Utri, lasciato in pasto alla procura di Palermo.

da - http://lastampa.it/2012/12/12/italia/politica/non-mi-candido-forse-anzi-si-la-gimkana-verbale-del-cavaliere-GKQ5LN4Rk9vpHemFjkoSZK/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Grillo: “Sistema al collasso, è marcio”
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2013, 05:24:00 pm
politica
11/01/2013 - in fila davanti al viminale per la presentazione del simbolo

Grillo: “Sistema al collasso, è marcio”

“Cambiano regole ogni momento per impedirci di depositare le liste” Una volta eletti “Noi apriremo le Camere come scatole di sardine”

Mattia Feltri

Fa ancora questo effetto, Beppe Grillo. Tutti attorno a lui, che è arrivato al Viminale nella notte per sorvegliare sulla correttezza delle procedure per la presentazione del simbolo. Ormai non fa più nemmeno impressione, ma si tratta di un comico che non si fida della legalità del ministero dell’Interno. E’ l’Italia di oggi. Giornalisti, telecamere, tanti grillini (“imparate a fare il vostro mestiere”, dicono preventivamente e sprezzanti ai cronisti), e il traffico è bloccato. «I miei sono qui in piazza, transennati, circondati dalla polizia, mentre loro dentro a inventarsi tutto per impedirci di presentare le nostre liste. Cambiano regole e procedure ogni momento. La carta che non va bene, le firme che sono storte. Ma a me non la fanno, sono qui con avvocati, notai, comitati…». Apriremo le Camere come una scatola di sardine, dice ridacchiante e bellicoso. «Lo Stato è al collasso, è marcio, qui sta crollando tutto». Insomma, lo show che ha varianti minime.

Nel frattempo la fila di chi vuole depositare il simbolo si assottiglia. Una bella fila, ma gli anni scorsi sembrava anche più lungo.
E’ che, in caso di simboli simili, è il primo a essere depositato che ha diritto a correre. Il primo derby di stamane è fra due Partito Pirata, uno dei quali sostiene di avere Johnny Depp come presidente onorario. Si segnala poi il ritorno del Movimento sociale, una lista Recupero Maltolto e vari movimenti di ritorno alla Lira.

da - http://lastampa.it/2013/01/11/italia/politica/grillo-sistema-al-collasso-e-marcio-WvYZnuTlqyj7WqvXYkymwO/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Effetto Santoro: Silvio sale nei consensi
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2013, 10:35:06 am
Politica
11/01/2013

Effetto Santoro: Silvio sale nei consensi

Qualche giorno fa Berlusconi veniva dato – altro che morto! – prossimo al venti per cento dei voti, adesso lo si accredita già oltre

Mattia Feltri
Roma


“Un kilo di audience contro un kilo di voti”. Silvio Berlusconi che se ne viene di qua con lo scatolone pieno, Michele Santoro che se ne va di là col televisore scintillante: bastano i quattro centimetri quadrati della vignetta di Vincino sul Foglio a stabilire i termini della questione. 

L’eroe della resistenza moderna, l’ex epurato, lui e il suo Guevera di cancelleria (Marco Travaglio) stabiliscono i record dei record, trentatré per cento; e dall’altra parte c’è Ercolino Sempreimpiedi, la riproposizione vivente del pupazzo Galbani che a ogni schiaffo andava giù, e regolarmente tornava su, più dritto di prima, che compulsa sondaggi di goduria fremente. 

Qualche giorno fa Silvio Berlusconi veniva dato – altro che morto! – prossimo al venti, ora lo si accredita già oltre. Infatti Servizio Pubblico non era una trasmissione, era il Klondike di Disney, c’era oro da raccattare per tutti, anche se a raccattarlo si finisce con l’esibire più il sedere che la faccia. Se trattativa ci fu, la trattativa era questa: volete il peggio? E il peggio vi diamo.

da - http://lastampa.it/2013/01/11/italia/politica/effetto-santoro-silvio-sale-nei-consensi-eJtGNxY3wBMyuR0jZni3CJ/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Voto, Berlusconi da record: 63 ore in tv, dietro Monti, ...
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2013, 11:34:00 pm
Politica
18/01/2013

Voto, Berlusconi da record: 63 ore in tv, dietro Monti, staccato Bersani

Svolta dopo Natale: oltre due apparizioni al giorno

Mattia Feltri

ROMA


Ogni lasciata è persa: l’applicazione alle trasmissioni televisive di una filosofia di vita è la carta così poco segreta e così redditizia di Silvio Berlusconi. Non c’è microfono o telecamera trascurabile, in questa campagna elettorale tambureggiante, non soltanto per le liti di ringhiera e le zuffe di cortile. Dalla vigilia di Natale a lunedì scorso, 14 gennaio, e cioè in ventuno giorni disseminati di festività, il capo del Pdl ha accettato cinquantaquattro ospitate, in televisione, alla radio, alle dirette in Rete; una media di oltre due al giorno, Natale e Capodanno compresi, e pedalare anche alla Befana: tutto fa brodo. Una tournée debordante a occhio nudo, con Servizio Pubblico come tappa scintillante, e tante altre già nella memoria di questa nostra breve stagione: l’inedito bisticcio con Bruno Vespa a Porta a Porta, la cruciale cartellata in testa a Marco Damilano a Omnibus, l’abbordaggio a Ilaria D’Amico malinconicamente toppato a Lo Spoglio. Se pare un’invasione, figurarsi a guardare col binocolo. 

 

Dal telegiornale di Alto Adige Tv all’approfondimento di Tele Molise fino agli spazi politici di La Nuova Tv, emittente lucana, Berlusconi ha sfidato le latitudini e si è offerto agli ascoltatori (ed elettori) dell’ultima contrada e della valle più remota. Una performance di straordinaria generosità e di ammirevole tenuta fisica, da cui gli avversari dovrebbero imparare qualcosa, se non è troppo tardi. Si è sentito il Grande Arzillo promettere la mutilazione delle tasse a Teleradiostereo, opporre un ritrovato orgoglio nazionale a Radio Norba, tratteggiare scenari gloriosi a Canale Italia, infuocarsi per il poliziesco redditometro a Bergamo Tv.

È lui che fa il contesto: vengono buoni i dieci minuti dell’agonista a Studio Sport su Italia 1, il quarto d’ora quasi introvabile a Tvrs, rete marchigiana, i venti minuti d’allegria a TeleEspansione Tv, la mezzora a pacche sulla spalle ad AntennaTre Nordest. Un bomber come lui si butta affamato nell’etere di Radio Goal e ha l’aria di attraversare le galassie della propaganda e della sopravvivenza per raggiungere Radio Marte. Non si è ancora fermato né si fermerà: fuori dal periodo da noi compulsato, si è concesso al direttore di Tv Parma, Giuliano Molossi, e alla fine non s’è trattenuto dallo sfiorare la figura lacrimosa del vecchio zio abbandonato: «Tornate a trovarmi prima delle elezioni, mi raccomando». E però in questo modo, centesimo dopo centesimo, il suo forziere paperonesco si sta di nuovo riempiendo. «I sondaggi lo galvanizzano, ora non lo ferma più nessuno», dicono dalla sede del partito. 

 

I dati Auditel rielaborati dalla Geca Italia (società di indagine audiovisiva) sono spettacolari: il condottiero del centrodestra - dal 24 dicembre al 13 gennaio (un giorno in meno del periodo analizzato dalla Stampa) - è stato in tv per ventotto ore, cinquantasei minuti e trentadue secondi; fra gli avversari nemmeno Mario Monti, uno che ha capito come gira la giostra e non disprezza il mezzo, sa tenergli il passo: nello stesso periodo si è fermato a venti ore e tredici minuti. Il povero Pierluigi Bersani, forse spiazzato, forse meno cinico, sta addirittura a dodici ore e venti minuti. Sono numeri che dicono molto, ma non tutto, poiché il conteggio considera un terreno vastissimo, con le tre reti Rai, le tre Mediaset, La7, i canali satellitari di Rai e Sky, i siti dei maggiori quotidiani, qualche radio nazionale, ma non tiene conto di Vista Tv e Tv Umbria, pure alle quali Berlusconi ha consegnato i piani di guerra. 

 

Un altro dato esibito da Geca dimostra che, in quelle tre settimane scarse, il Cav. è stato seguito al telegiornale (Rai, Mediaset e La7) da 395 milioni di persone, il che significa che ognuno di noi, neonati e decrepiti compresi, lo ha visto sei o sette volte. Monti segue con un distacco di oltre 120 milioni di spettatori, terzo è Pierferdinando Casini a 184 milioni di totale, solo quarto Bersani, pure lui a 184 e qualche spiccio in meno. Soltanto sullo share (la percentuale sui telespettatori che guarda la tv in quel momento), Berlusconi non rade al suolo gli avversari. Anzi, Monti ha prestazioni migliori delle sue: a Unomattina il bocconiano batte il brianzolo 24.26 per cento a 23.09; a Otto e Mezzo lo batte 8.68 a 6.48. Anche qui si sono perse le tracce di Bersani, che a Otto e mezzo tira insieme un buon 8.06, ma a Porta a Porta resta di sette punti dietro a Berlusconi: 16.23 contro 23.10. Un trionfo, se si pensa che il leader del centrodestra, da premier, abbatteva i telespettatori uno a uno, tutti in fuga precipitosa ogni volta che lui appariva sullo schermo a elencar miracoli. Ma adesso che è battaglia, che soprattutto è pagliacciata e sarabanda, e cioè è il terreno ideale per questo raider della politica, parecchio è cambiato. Il 33 per cento cumulato la sera di Servizio Pubblico (magari paragonato al 7.19 di Antonio Ingroia a Piazza Pulita, stessa emittente) ci fa mostra l’inesauribile vecchietto che non ha paura né vergogna di niente, ed è pronto a ribaltare tutto una volta ancora.

da - http://lastampa.it/2013/01/18/italia/politica/voto-berlusconi-da-record-ore-in-tv-dietro-monti-staccato-bersani-HwBB3xdfAbOrN774vYcX0K/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Implicazioni
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2013, 11:56:00 am
Paesi & buoi
02/02/2013

Implicazioni

Mattia Feltri

Nello scandalo del Monte dei Paschi sono implicati: i vertici della Banca, i vertici del Pd, la Curia e l’Università di Siena, il Vaticano, lo Ior, la massoneria, le grande imprenditoria, la grande finanza, i grandi investitori, la famiglia Berlusconi coi vertici del Pdl, la Banca
d’Italia, la Consob, vari organismi di controllo, la stampa compiacente, schegge della magistratura, i soliti faccendieri e i poteri forti in genere. 

Osserva un turno di riposo Marcello Dell’Utri.

da - http://lastampa.it/2013/02/02/cultura/opinioni/paesi-e-buoi/implicazioni-gPlbengCDrmWv2YCOFvWBJ/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. Il guru inafferrabile che ama Tex, Asimov e non parla coi baristi
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2013, 03:27:44 pm
Politica
02/03/2013

Il guru inafferrabile che ama Tex e Asimov e non parla coi baristi

Al centro delle manovre senza far trapelare nulla di sé

Mattia Feltri
ROMA


Finché la questione riguardava i giornalisti, pazienza. C’era uno ogni tanto, pare, che chiamava a casa di Beppe Grillo cercando il segretario generale del Movimento. «Il segretario generale?! Gli ho passato mio figlio Ciro che ha dodici anni», diceva Grillo. Però appunto riguardava noi su questioncelle tipo interviste o malinconici retroscena, ma adesso che riguarda i partiti alla ricerca del fantasioso accordo di governo, o quantomeno per comprendere che giri nella testa di Grillo prima che gli esca dalla bocca sotto forma di contumelia, ecco, adesso è un guaio serio. A chi bisogna telefonare se il segretario generale è Ciro, dodici anni? Come scriveva ieri Giuliano Ferrara - e come ha imparato chi ha a che fare col grillismo - «gli alieni sono introvabili, non sai con chi parlare, sono inafferrabili». Non è neanche vero che si rimanga fuori dalla porta, perché la porta proprio non c’è. E se si materializza, come ieri, Grillo è mascherato da ghostbuster, e non è detto che sotto la maschera ci fosse lui. 

Lo smarrimento dei vecchi leader, alla ricerca dell’olio buono per l’ingranaggio, si è espresso perfettamente nell’offerta al M5S della presidenza di una camera da parte di Massimo D’Alema. È che il M5S non è un partito, né solido né liquido, ma un’entità gassosa con la quale una classe dirigente novecentesca non riesce a mettersi in sintonia, non sul linguaggio e nemmeno sulla prassi.

Gli unici luoghi fisici dei quali è consentito suonare il campanello sono casa di Grillo e l’ufficio milanese di Gianroberto Casaleggio, sempre che aprano. La coppia porta il titolo di «fondatori del movimento», altre cariche non ne ha, se non quelle suggestive e non codificate di capopopolo e guru. Chi prende le decisioni - se si è capito, poiché la struttura non è poi così trasparente come le intenzioni del Movimento presuppongono - è Casaleggio, l’uomo più inavvicinabile dell’emisfero. La sua biografia è circondata dalla nebbia e dal mito. Si sa della sua brillante carriera dalla Olivetti sino alla sua Casaleggio Associati passando per Telecom. Brillante più per sentito dire che altro.

Sfiancanti lavori da 007 hanno fornito ai cronisti dettagli di pallido colore: dietro alla scrivania, Casaleggio ha copertine di Tex incorniciate, ama la fantascienza di Isaac Asimov e la sociologia di Marshall MacLuhan, si inebria delle gesta di Gengis Kahn e Re Artù al punto (ma qui siamo alla leggenda metropolitana) da convocare riunioni attorno a una tavola rotonda. Nessuno dei suoi ex colleghi sa fornire dettagli personali appena più solidi del marginale pettegolezzo. Casaleggio è uno che non parla con gli estranei, non parla coi baristi, non parla nemmeno coi conoscenti. Eppure sarà lui (o Grillo o più probabilmente entrambi) ad andare alle consultazioni dal presidente Giorgio Napolitano e a ragionare con i boss degli altri partiti.

Per essere il movimento più democratico (partecipazione dal basso eccetera) e trasparente del mondo (riunioni sul web, rendicontazioni on line di ogni spesa e ri-eccetera), il M5S ha un vertice sfuggente, proprio perché nega se stesso e si dichiara un non vertice, ed ermetico per altalenanti ragioni gerarchiche e per una dichiarata diffidenza; sebbene, guardando le cose dall’angolazione grillina - la stampa è al servizio della politica per manipolare l’informazione e sostenere il regime - sarebbe stupefacente un approccio diverso. 

E però gli aspetti settari e i legami irrituali saltano fuori anche dal codice di comportamento steso per gli onorevoli (anzi, cittadini) che davanti al non statuto del non leader del non partito devono un’obbedienza senza non, altrimenti li si allontana discutendone poco o niente. All’ultimo punto del codice, poi, c’è la regoletta secondo la quale i contributi per l’attività parlamentare, le funzioni di studio e la comunicazione saranno sottratti agli onorevoli/cittadini e dirottati a «due gruppi di comunicazione» la cui «costituzione sarà definita da Beppe Grillo in termini di organizzazione, strumenti e scelta di membri» (la prosa formalista è di Casaleggio). Con tutto il rispetto per Ciro, sarebbe più trasparente darsi un capo e pure un indirizzo.

da - http://lastampa.it/2013/03/02/italia/politica/il-guru-inafferrabile-che-ama-tex-e-asimov-e-non-parla-coi-baristi-t21Bv2nSK4am2yIoWirvCM/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - La solita Italia, tutti di corsa sul carro di Grillo
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2013, 05:16:26 pm
POLITICA
07/03/2013 - la storia

La solita Italia, tutti di corsa sul carro di Grillo

Dopo le accuse, ora tutti si scoprono vicini a Beppe Grillo

Da Artom a Vendola ai giovani turchi improvvisamente aperti

Lavia, Venditti, Allevi e Battiato: volevo telefonargli, ma poi...

Mattia Feltri
Roma

Oh che bello Beppe Grillo! Quanto piace, Beppe Grillo: all’intellettualità più vitale, all’imprenditoria più illuminata, agli artisti più impegnati e naturalmente ai politici che si assumono le loro responsabilità e scoprono un ruolo da pontieri. Di colpo, in fondo. Diciamo da una decina di giorni, da lunedì sera/martedì mattina della settimana scorsa, si svelano quotidianamente fervidi sostenitori della rivoluzione dal basso. L’altra sera, per dire, Arturo Artom - uomo di telecomunicazioni con fama di innovatore - è comparso a Piazzapulita portando il titolo di imprenditore grillino, sebbene fosse alleato di Silvio Berlusconi sino alla vigilia del voto. Lo stesso Artom che quando era leader del suo Rinascimento italiano rimproverava Grillo perché «anche il M5S chiude la selezione per i candidati alle Politiche unicamente ai militanti». La febbre però è salita. Le elezioni sono andate come sono andate. Uno pragmatico, Nichi Vendola, successivamente ad analisi è evoluto da «Grillo è un populista», «Grillo appartiene alla cultura delle macerie» e la sua parabola ricorda «il preludio al fascismo» - mica niente - a «Grillo non rappresenta nessuna delle varianti del passato», quindi «va preso sul serio» e anziché Mussolini «ricorda Pannella». 

 

È una febbre, sì, e percorre la Puglia. Il sindaco di Bari, Michele Emiliano, uno che per la verità Grillo lo ha sempre guardato con occhio curioso, è ora giunto al parallelo funambolico: «Il premier deve essere Grillo, rappresentante del primo partito italiano. Sarebbe come Ronald Reagan». Forse l’obiettivo era la suggestione, e allora raggiunto. Ma qui si scaldano cuori che si credevano di marmo. Uno come Stefano Fassina a settembre descriveva Grillo pari al ceffo che «ha imparato benissimo la lezione dell’aggressione e del vittimismo», un «totale irresponsabile», «come Berlusconi»; fermi tutti, ora c’è da fare un governo, assumersi le responsabilità, di nuovo e per sempre, e dunque il Fassina di oggi è con Matteo Orfini (un altro transitato da «per me Grillo e Berlusconi sono la stessa cosa» a «ora a Grillo faremo proposte chiare per risolvere alcune emergenze del Paese») l’offerente dell’esecutivo all’ex mostro, e se dice no si torni a elezioni. Ma un’intesa così è persino poco, «non basta allearsi - dice Salvatore Settis, prestigioso storico dell’arte - è arrivato il momento che la sinistra italiana si sieda a un tavolo con Grillo per rileggersi insieme la Costituzione», e magari rileggere i passaggi sull’assenza di vincolo di mandato. 

 

Tutti vogliono Grillo. Tutti amano Grillo. Aiuto, ci scrivono mail «allo scopo di ottenere un qualche tipo di legame», cioè di raccomandazione, dicono dal MoVimento. Di ogni febbre il termometro più straordinario è la Rai, dove sta nascendo un gruppo dei Giornalisti Liberi a Cinque Stelle. Liberi di essere grillini, niente di nuovo: li guida un redattore del Televideo, Fabrizio De Jorio, che indica in Maria Grazia Capulli del Tg2 il suo volto più noto (lei però smentisce: «Non ho niente contro Grillo, ma da una vita dico che dobbiamo svincolarci dai partiti: se c’è un diretto riferimento al M5S io non ci sto»). E poi il vento soffia sempre in faccia ad attori, cantanti e acrobati. Franco Battiato dice che Grillo «ha un’intelligenza politica notevole», e prima del voto voleva anche chiamarlo ma poi... Gabriele Lavia nutre una incondizionata simpatia e conserva una sola perplessità: «Non so usare il computer». Raffaella Carrà crede fermamente «nella sua rivoluzione e spero la porti avanti». Antonello Venditti condivide «l’aspetto morale» del MoVimento. Il compositore Giovanni Allevi vive una nuova identità: «Sono il Beppe Grillo della musica». Le iscrizioni sono aperte.

da - http://lastampa.it/2013/03/07/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/la-solita-italia-tutti-di-corsa-sul-carro-di-grillo-a8UzFvGcYI3PDg9oXDJ5LN/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - L’offerta impossibile di Berlusconi
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2013, 10:55:53 pm
Politica

29/03/2013 - il punto sulle consultazioni

L’offerta impossibile di Berlusconi

Ma si apre uno spiraglio sul Quirinale

Il Cavaliere chiede un governo di grande coalizione con dentro tutti tranne i grillini.

Bersani costretto a dire no. Si tratta ancora

Mattia Feltri


Tutto così logico, tutto così complicato. Silvio Berlusconi fa i conti della brava massaia e, uscendo dall’incontro con Giorgio Napolitano, dice che, siccome non c’è una maggioranza, l’unica possibilità è rappresentata da un governo di grande coalizione con dentro tutti (tranne i grillini ma soltanto perché non ci vogliono stare): Pd, Pdl, Scelta civica e Lega. 

 

Il premier, naturalmente, lo indicherà il Pd e nessuna preclusione nemmeno per Pierluigi Bersani. Di altri governi tecnici, il capo del centrodestra non ne vuole sapere. Quanto al Quirinale nessuna richiesta specifica, semplicemente la ovvia considerazione che, se si fa il governo tutti insieme, tutti insieme si sceglierà il prossimo presidente della Repubblica. 

 

C’è qualcosa che non torna? In teoria no. In pratica, come si sa, la soluzione squadernata da Berlusconi fa venire i brufoli a Bersani che di impiantare qualcosa con Berlusconi non ne vuole sentir parlare. O almeno: non vuole impiantarla en plen air poiché i suoi elettori gli tirerebbero il collo. E glielo tirerebbero pure nel partito. Lui vorrebbe un sostegno dai pidiellini ma un pochino di nascosto (magari se uscissero dall’aula al momento del voto di fiducia…), e soprattutto senza che ci metta la faccia Berlusconi, l’impresentabile degli impresentabili. Una richiesta che ha risvolti bizzarri e difficilmente conciliabile con quella espressa del centrodestra poco fa al Quirinale.
Anche se i toni niente aggressivi del Cav e la correzione sul nuovo Capo dello Stato (scelto insieme e non indicato dal Pdl) fanno pensare che con Napolitano un piccolo spiraglio si è aperto. Fra poche ore lo sapremo.

da - http://lastampa.it/2013/03/29/italia/politica/l-offerta-impossibile-di-berlusconi-ma-si-apre-uno-spiraglio-sul-quirinale-vXMwh1Uy8dgqqThqyQoxNJ/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - “Scappa”, “No, devi resistere” La Babele dei consigli a Silvio
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2013, 05:26:34 pm
POLITICA
14/09/2013 - Cercando una via d’uscita


“Scappa”, “No, devi resistere” La Babele dei consigli a Silvio


I suggerimenti di segno opposto dei suoi fedelissimi su governo, grazia e domiciliari


Mattia Feltri
Roma


L’ultimo consiglio a Silvio Berlusconi - forse il meno interessato e senz’altro il più praticabile - l’ha dato Ilona Staller, in arte Cicciolina: «Accetti la condanna e faccia sesso a go go». Il sesso, ha spiegato l’ex pornostar (forse non informatissima sugli hobby notturni del destinatario), è «gioia». E poi la vita «è breve». Purtroppo per Berlusconi, è stato lunghissimo quest’ultimo mese e mezzo: da che ha ricevuto la condanna definitiva per evasione fiscale (1 agosto), metà mondo esulta e l’altra metà si spende in suggerimenti senz’altro amorevoli, talvolta originali, ma raramente ingegnosi. 

Anche perché si trascura un dettaglio: che a seguirli dovrebbe essere un altro. Per esempio: è con sforzo laico che si riconosce la presunzione della buona fede a Daniela Santanché, la quale, col battagliero spirito di cui gira armata, ha detto di non trovare calzanti al personaggio gli arresti domiciliari: «Lo vedo in carcere perché è persona che ha amore e coraggio». Lei lo vede in carcere. Chissà come ci si vede lui. E infatti altri più prudenti si sono trattenuti proprio sull’alternativa dei domiciliari. Giuliano Urbani dice che da lì potrebbe fedelmente «sostenere il governo», e questa pare la soluzione migliore anche a Ennio Doris e Flavio Briatore, mentre Antonio Martino sostiene che, dal salotto, Silvio condurrebbe una «campagna elettorale formidabile». 

Molto viva l’ipotesi dei servizi sociali, che per il professor Giovanni Sartori costituirebbero «un’onorevole ritirata». Con dei vantaggi, nell’opinione del deputato pidiellino Paolo Romani: «Gli consentirebbero l’agibilità politica».

I benefici non sarebbero soltanto personali ma un po’ per tutta l’umanità, secondo Francesco Nitto Palma: «Spronerebbe i ragazzi a rinunciare alla droga». Se poi l’ex premier fosse indeciso, c’è sempre la richiesta della grazia, caldeggiata da un po’ tutte le colombe e osteggiata da un po’ tutti i falchi, qui sostenuti dal boss. Dunque siamo in una posizione prodigiosamente illustrata dal leghista Roberto Calderoli: «Se fossi in lui non chiederei mai la grazia a nessuno, soprattutto a Napolitano, non chiederei i domiciliari, non chiederei i servizi sociali». E così si torna al lodo Santanché. A meno che non si voglia prendere in considerazione una linea curiosamente lanciata dalla coppia Beppe Grillo-Giancarlo Galan (con un diverso grado di sarcasmo): «Scappa!». Sul lato grillino, ha approfondito il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti: «Antigua potrebbe essere per lui una località adatta». Sul lato di centrodestra ha provato a fare dignità alla soluzione il presidente di F.lli d’Italia, Guido Crosetto: Berlusconi conduca una battaglia politica dall’estero «alla Pertini o alla De Gasperi». Però, se la cosa non lo attirasse, la conduca dalla cella «alla Havel o alla Mandela». E così, di nuovo, siamo punto e a capo.

Altro dilemma: aspettare le decisioni della Giunta sulla decadenza o mollare prima, con gesto virile? Di questo avviso è Marco Pannella: «Silvio, ti chiedo di dimetterti per sbaragliare i tuoi nemici, i Robespierre “epifanici”». È un po’ la sollecitazione che arriva dalle colombe alla Fabrizio Cicchitto, che non per nostalgia vedrebbero benissimo il capo a Palazzo Madama mentre pronuncia un discorso storico, in stile Bettino Craxi. Giuliano Cazzola, ex pidiellino ora in Scelta civica, il discorso gliel’ha pure steso (e l’ha pubblicato su Formiche): ho combattuto i comunisti perché non usurpassero il potere, ma mi hanno fermato le toghe rosse; e poi: «Aveva ragione mia moglie Veronica, quando scrisse che io ero un uomo malato» a causa «della mia ossessione per le donne, soprattutto se giovani e belle». Alla fine, conclude Cazzola, il condannato dovrebbe dimettersi con piglio plateale e garantire fedeltà all’esecutivo. Anche qui l’unanimità è improbabile. Sandro Bondi ieri ha scritto un commento sul Giornale titolato: «Stacchiamo la spina». Non in caso di decadenza: comunque, e subito. È quello che sostiene il segretario leghista, Bobo Maroni: «Silvio, stacca la spina o ti faranno fare la fine di Craxi». Per questo, forse, c’è chi come il ministro Mario Mauro l’ha buttata lì: «E l’amnistia?». E un altro vecchio sodale, l’avvocato Raffaele Della Valle, ha proposto di sollecitare al Quirinale la «commutazione della pena» con una giustificazione cara a Napolitano: «Salverebbe la pacificazione» (questa è di Cicchitto). 

Ogni tanto, nella vertiginosa babele, fanno capolino anche quelli del Pd e dell’opposizione intera, stretti in una rara concordia. Matteo Renzi: «Se ne vada a casa» («per sempre», aggiunge prudentemente Famiglia Cristiana). Walter Verini: «Faccia un passo indietro». Nicola Latorre: «Faccia un passo indietro». Nichi Vendola: «Faccia un passo indietro». Massimo D’Alema: «Faccia un passo indietro». Rosi Bindi: «Faccia un passo indietro». Leggermente più sfumata la posizione del segretario, Guglielmo Epifani: «Faccia un passo di lato».

da - http://lastampa.it/2013/09/14/italia/politica/scappa-no-devi-resistere-la-babele-dei-consigli-a-silvio-pnLrw0ehgEFqVrQ0D18JgI/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Gianni ricevuto da Enrico
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 04:37:53 pm
POLITICA
28/09/2013 - PERSONAGGI

Gianni ricevuto da Enrico

E per la prima volta zio e nipote trattano “alla luce del sole”

Vertice a Palazzo Chigi: l’emergenza fa cadere l’ultimo tabù

MATTIA FELTRI
ROMA

Dice il saggio: perché vedersi a Palazzo Chigi quando prudenza e vincoli di sangue renderebbero consigliabile e particolarmente agevole trovare un’altra sede? Perché non scambiarsi una telefonata, quando i due conservano da lustri, in agenda, e magari a memoria, il recapito dell’altro? La sterminata soap dello zio e del nipote ha riservato nel finale – come lo spettacolo vuole – il colpo di scena. 
 
Chissà quante volte Gianni ha incontrato Enrico, in segreto. E chissà quante volte Enrico ha telefonato a Gianni, se serviva. Chissà, per esempio, e per restare ai fatti recenti, qual è stato il ruolo di Letta il vecchio quando Letta il giovane ospitò in casa sua al Testaccio i capi di centrodestra e centrosinistra, Silvio Berlusconi e Pierluigi Bersani, perché si accordassero sulla presidenza della Repubblica a Franco Marini. E poi ci sono anche le foto ufficiali, le occasioni di protocollo, quando la coppia si scambiava di ruolo e dunque il testimone al passaggio da un governo all’altro. Però, così come ieri, mai. Così, in trattativa ufficiale, a cielo aperto, ognuno per conto della sua parrocchia, proprio mai. E sarà stata la gravità del momento, o forse persino la necessità delle colombe di mostrare ai falchi che sono vive e in lotta, a relegare ai margini l’eleganza delle forme. Ci avevano sempre tenuto, i due, all’eleganza. A un nobile distacco. A una forma impeccabile, perché la commistione molto italiana fra cosa pubblica e cosa privata non intrappolasse anche loro. Tutto sfumato in una sera di fine settembre e di fine impero.
 
La disperazione, dunque, si sa che induce alla sfacciataggine. Se c’è un margine per rimettere assieme le cose non era un margine da affidare ad Angelino Alfano, né falco né colomba, né governativo né oltranzista, amico dei siciliani sempre indicati come traditori, però braccio destro del capo. Braccio sempre più intorpidito. Il faccia a faccia familiare segnala anche questo. Ricorda che l’ambasciatore di Silvio Berlusconi, quello vero, quello delle questioni supreme, rimane Gianni Letta, sebbene questa abbia tutta l’aria di essere l’ultima ambasciata. L’uomo delle altissime sfere, che le cronache e i retroscena hanno indicato come il garante nel Pdl (o in Forza Italia) dell’accordo col Quirinale, non pare più in grado di garantire molto. Anche perché ciò che Berlusconi vuole, Giorgio Napolitano non glielo può offrire. 
 
In realtà Letta ha cercato continuamente di costruire una civiltà di rapporti fra gli schieramenti, e questo è il succo dell’estremo tentativo di ieri: salvare il salvabile, tenere in piedi un governo che è il pochissimo che ci rimane, preparare un’uscita di scena dignitosa al capo del centrodestra. Un’uscita di scena che lo stesso capo vede nebulosa, e talvolta pare non veda più: e allora si mette in testa di dirigere le operazione belliche dal cupo bunker di palazzo Grazioli. Un qualcosa che sta prendendo la scenografia dell’ok corral. Ma che rimane dell’inciucio alla meglio? Forse che i forzisti terranno a piazza Farnese, luogo delle adunate radicali e di sinistra, la manifestazione del 4 ottobre? (Che poi piazza Farnese ha soprattutto il pregio di essere piccola e di non richiedere folle oceaniche). Forse che un manipolo di negoziatori ha innalzato il pennacchio di Gianni Letta per lasciare traccia della sua ostilità allo sfascio generale, che sembra l’unico possibile capitolo conclusivo della Seconda repubblica? 
 
In queste ore confuse – e in queste settimane, in questi mesi – è complicato individuare una logica dietro le azioni e le parole. La rottura di un tabù – Letta che vede con Letta nel palazzo del governo – ha giusto il sapore della mossa terminale, ma che doveva essere fatta. Berlusconi vuole ancora bene al consigliere di una vita, l’ultimo rimasto della squadra originaria, costellata di liberali, storici e filosofi. I suoi consigli non suonano la musica che lui vorrebbe, ma sono gli unici che sente sinceri. Se le cose sono andate come il buon senso suggerisce, Gianni Letta ha portato a termine l’incarico finale. Con che risultato, si vedrà.

da - http://www.lastampa.it/2013/09/28/italia/politica/gianni-ricevuto-da-enrico-e-per-la-prima-volta-zio-e-nipote-trattano-alla-luce-del-sole-MzESNHxFtdPkSpM79M954L/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Epitaffio
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 04:45:00 pm
Paesi & buoi
28/09/2013

Epitaffio

Mattia Feltri

I l sindaco di Bari, Michele Emiliano, scrive su Twitter l’epitaffio della Seconda repubblica: «Se un leader della sinistra viene indagato o condannato va a casa. Punto». Bene, si faccia il caso del senatore pugliese Alberto Tedesco, collega di partito (Pd) di Emiliano che gli ex colleghi di procura di Emiliano vogliono arrestare per corruzione. Lui non si dimette. In Senato il Pd vota per il suo arresto. Lo salvano i voti del Pdl. Tedesco è espulso dal partito di Emiliano e quando finisce la legislatura è finalmente arrestato dalla (ex) procura di Emiliano. Infine viene prosciolto.

da - http://lastampa.it/2013/09/28/cultura/opinioni/paesi-e-buoi/epitaffio-QzxLIaAJ793WLUdGjM0yuL/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - L’eterno ritorno della Dc Balena bianca ormai spiaggiata
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 10:03:05 am
Cronache
20/10/2013

L’eterno ritorno della Dc

Balena bianca ormai spiaggiata

La spaccatura dentro Scelta civica è solo l’ultimo dei tentativi di rifare la Democrazia cristiana

Mattia Feltri
Roma

La mamma è sempre la mamma. Le braccia calde della Democrazia cristiana, del bel tempo della nostra infanzia, sono le braccia a cui tendiamo le nostre. Non c’è niente da fare: non si diventa grandi, il lavorio attorno a Mario Monti e a Silvio Berlusconi è quello, e gli ultimi rifondatori sono Angelino Alfano e Mario Mauro, Maurizio Lupi e forse qualche esule del Pd – se Matteo Renzi non garba – e come fare a meno di Pier Ferdinando Casini e di Roberto Formigoni, che la ricetta ce l’hanno nello scrigno da tempi imberbi? Sono venti anni, dalla sepoltura officiata da Mino Martinazzoli, che la Dc è un punto di arrivo. Non ci si rassegna. Poco più di un anno fa, su questo giornale, l’allora ministro Andrea Riccardi, di Sant’Egidio, provò a buttare lì qualche ingrediente, il piatto poteva venire fuori ancora appetibile: «Bisogna trovare un linguaggio meno gridato, ma che faccia riferimento a una cultura. Un po’ più colto, un po’ più concreto. Seconda cosa, non possiamo più ragionare parlando soltanto di Italia, ma dobbiamo farlo parlando di Europa».  

Erano i giorni in cui Berlusconi ancora pensava di offrire a Monti la leadership del «rassemblement dei moderati» (espressione che precisava il declino), in una non confessata tensione al moroteismo, altro che rivoluzione liberale. Riccardi poi si è tirato fuori, Monti con Berlusconi non ha condiviso neppure un caffè, e la Dc due punto zero si è dimostrata quasi più una percentuale che un progetto.  

Niente da fare, la mamma è sempre la mamma ma ci si va a cena giusto una volta al mese. Tutti questi inesausti e ripetuti tentativi – sarà oggi quello buono? Mah – non hanno retto alla prova della strada. Guardate che davvero è una storia vecchia come il cucco. Bisogna ritornare a Giovanni Paolo II, che a Loreto esortò all’impegno pubblico dei cattolici – era il 1994 – e l’ottimo professore Rocco Buttiglione, che di Germania ne capisce ma sull’Italia arranca nel pantano, chiamò al raccoglimento: «Un’alleanza politica dei cattolici può portare solo benefici all’unità del paese». Eh bè, diciannove anni fa, abbondanti. Diciannove anni lastricati di buone intenzioni, e si sa che le buone intenzioni producono i danni peggiori. In questo caso danni collaterali, viste le gite fuori porta – al contrario: verso il centro – di Casini e Gianfranco Fini, che per liberarsi della dittatura berlusconiana hanno pensato di riagganciarsi a qualche fuoriuscito di sinistra, e nella terra di nessuno. Magari la colpa è proprio di Berlusconi, lui che la Dc l’ha rifatta davvero, con la sua teoria di essere concavi coi convessi e convessi coi concavi, per cui l’ex democristiano era una campo già arato.  

Vista oggi, da qui, è impressionante la miopia di quei freschi nostalgici alla Buttiglione, come Roberto Formigoni, che in quel formidabile 1994 disse: «Un paese non si governa dagli estremi, e quindi emerge la ricerca di uno spazio centrale di governabilità». Ci sperava anche Mario Segni, trionfatore del referendum sull’uninominale e poi sbaragliato nel primo tentativo neodemocristiano, proprio quello delle elezioni della primavera 1994 (a proposito, solo i maniaci hanno a memoria il comico Elefantino di Fini-Segni a un giro di Europee di lustri fa). Mica era finita lì. Anzi. Ogni due anni rispunta l’ideuzza, il Grande Centro, la Balena Bianca. Leggete questa del 1997, dal settimanale «Oggi», una rubrica di Antonio Di Pietro: «Mi offro come garzone del nuovo Grande Centro». Uno spettacolo infinito. Nel 2001 si incarnò direttamente il messia, Giulio Andreotti, con la sua Democrazia europea (oddìo, questa Europa…) messa su con l’ex cislino Sergio D’Antoni. Deputati: zero. Senatori: due col recupero proporzionale. Eppure si sono scannati per la legittima eredità. Ci sono stati anni, intorno al 2005, in cui ci si è occupati di liti da ballatoio fra personaggi intraducibili, Giuseppe Pizza e Angelo Sandri, che si disputavano sede e simbolo dello Scudocrociato; il cui significato, per i ragazzi di oggi, equivale alla Stele di Rosetta. Il resto sono nomi, ambizioni vaporose, da Clemente Mastella a Paolo Cirino Pomicino, da Giuseppe Fioroni a Marco Follini. Coraggio, è solo un altro round.  

Da - http://www.lastampa.it/2013/10/20/italia/cronache/leterno-ritorno-della-dc-balena-bianca-ormai-spiaggiata-h0ILWMqd0wBurVw9VYLHuL/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Alfano tra eretici e lealisti in cerca dell’ultima mossa
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2013, 07:22:09 pm
Politica
30/10/2013 - personaggio

Alfano tra eretici e lealisti in cerca dell’ultima mossa

Berlusconi lo tenta, i fedelissimi vogliono rompere

Mattia Feltri
Roma

Il problema (uno dei problemi) sono i diversamente alfaniani. Perché ci sono gli alfaniani osservanti, di cui, almeno per il momento, fa parte lo stesso Angelino Alfano, oltre a Maurizio Lupi e forse Beatrice Lorenzin. E poi ci sono gli alfaniani eretici, cioè i diversamente alfaniani, indicati in Gaetano Quagliariello, Carlo Giovanardi e Roberto Formigoni. La discordanza fra gli osservanti e gli eretici, è che gli osservanti cercano il modo di conciliare Silvio Berlusconi ed Enrico Letta, mentre gli eretici mollerebbero subito il partito per mettere su un gruppo che tenga in piedi il governo. Se non lo fanno, è perché vogliono con sé il vicepremier, a dare un’apparenza di blasone all’impresa. E così, l’altra sera, dopo l’inchino davanti al Sire (il capo è lui), Alfano ha dato prova di silente lucidità: «Mi sono umiliato un’altra volta», ha detto. E ha spiegato: «Non si può litigare ogni due minuti con delle teste di rapa», laddove l’espressione «teste di rapa», riferita ai diversamente alfaniani, fu pronunciata in versione più pedestre. Tutti lo desiderano e tutti lo affliggono, ecco il dilemma.

La mobile geografia pidiellina, o forzitaliana, non può che rendere incerto e sofferto ogni passo di Alfano, il quale già di suo non è l’uomo più risoluto d’inizio millennio. Infatti non lo reclamano soltanto i diversamente alfaniani, ma in buona parte anche i berlusconiani, proprio lui, che si definì diversamente berlusconiano. Una babele. Ma, come spiega l’ex ministro Giancarlo Galan, e come è chiaro a molti, «se Angelino se ne andasse a noi costerebbe, e questo vale per lui e non vale per gli altri. Se se ne vanno Formigoni e Quagliariello, non muore nessuno». Berlusconi (che ad Angelino dice tesoruccio e figliolo, ma è ancora imbufalito per la figura rimediata in Senato a inizio ottobre, quando si alzò a sostenere che l’idea della sfiducia era evaporata) sarebbe tanto contento se il giovane segretario restasse con lui, e abbandonasse gli altri congiurati nella melma centrista. Non si parlerebbe di scissione, ma di fuoriuscita di quattro democristiani. 

Tirato di qui e tirato di là, Alfano cerca un centro di gravità pure provvisorio. Non è facile. Sentite che dice Sandro Bondi: «Sono certo che Alfano ha un profondo rapporto umano e personale con Berlusconi, che non può non farlo soffrire nelle decisioni politiche che deve assumere. Questo rapporto secondo me lo porterà a trovare un accordo per restare nella nuova Forza Italia». E quello che dice Galan: «La retromarcia di Angelino è evidente. Che sia sincera, non lo so. Tanto è vero che a me risulta che sia corso a rassicurare i suoi, a spiegargli che si tratta di tecniche, di strategie».

In questo paesaggio, ieri, nel suo eccellente Mattinale, Renato Brunetta è riuscito a scrivere che lì dentro non ci sono correnti. La qual cosa è anche tecnicamente vera, perché la scena somiglia piuttosto alle partite di calcio dei bambini: tutti contro tutti. Gira un’aneddotica irresistibile. Si racconta che Quagliariello e Lorenzin, quando vanno verso il Quirinale, scandiscono per gioco e per fedeltà «Avanti Savoia!». E si racconta che l’altro giorno Fabrizio Cicchitto, con un libro in mano, abbia incontrato in ascensore Renata Polverini e, sollevato lo sguardo dalla pagina, l’abbia salutata con un uggioso «salve». Per dire quali sentimenti animino un partito che fino a un anno fa era una testuggine. L’unica certezza, diciamo così, resta Berlusconi. Il saggio Bondi ricorda: «È ancora lui il depositario del consenso degli elettori di centrodestra. Altri sbocchi politici, e continuando a sostenere il governo, non ce ne sono». Ecco, appunto. Lui, Alfano, diversamente berlusconiano, con addosso i diversamente alfaniani, che cosa può fare - per indole e per contingenza - se non appollaiarsi nella terra di nessuno, aspettando di individuare la trincea migliore (e sempre che intanto non gli sparino addosso)? 

Da - http://lastampa.it/2013/10/30/italia/politica/alfano-tra-eretici-e-lealisti-in-cerca-dellultima-mossa-jwMS9iqY4Y6rDZwDlVHvUM/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Gli alfaniani minacciano di dare forfait
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2013, 04:22:42 pm
Politica
08/11/2013 -

Il generale di silvio Verdini al fianco del capo raduna le truppe fedeli per la battaglia finale

Gli alfaniani minacciano di dare forfait

Al consiglio nazionale 650 delegati con il Cavaliere, 130 con Alfano

Mattia Feltri
Roma

Ieri, quando ha letto la birichinata di Fabrizio Cicchitto secondo cui lui sbaglia i numeri, Denis Verdini ha commentato da toscano: e Cicchitto sbaglia gli uomini.

A parte che questa cosa dei numeri gli sta sul gozzo. Il 2 ottobre, al Senato, è andata come è andata. Ma nel computer conserva la mail che inviò a Silvio Berlusconi il giorno prima del fallito attacco di Gianfranco Fini al governo, il 14 dicembre 2010, e spesso la mostra: si vanta di non aver toppato un nome. In questi giorni, raccontano nella sede di Forza Italia in piazza San Lorenzo in Lucina, va allo stesso modo. Verdini sfoglia un voluminoso fascicolo contenente tutti i nomi degli 863 delegati al Consiglio nazionale di sabato della settimana prossima. Il numero non è definitivo, perché fra i delegati ci sono assessori e capigruppo di comuni e province, e qualcuno nel frattempo magari ha perso la carica. Varierà di poco, in ogni caso. I nomi sono segnati in colori diversi: verde chi sta con Berlusconi, e sono 650, rosso chi sta con i governativi di Angelino Alfano, e sono poco più di 130, bianchi gli indecisi, un’ottantina. Sono stati chiamati tutti, molti personalmente da Verdini, altri dai deputati, a seconda di dove sono stati eletti, perché fosse ben chiaro qual è la questione. A fine giornata, Denis scorre gli elenchi, ci rimugina sopra, poi va a Palazzo Grazioli e aggiorna il capo.

Verdini è un mulo, lo sanno tutti. Alla mattina arriva alle 8.30, fa colazione con Antonio Angelucci - deputato e signore delle cliniche romane - al bar Ciampini. Poi va nella sua stanza, nemmeno tanto grande, una scrivania, cinque potrone per gli ospiti, il tricolore, la bandiera europea e quella di Forza Italia. Posa il pacchetto di Marlboro sul tavolo e comincia. Gli squillerà il telefono un centinaio di volte. Non legge i giornali, se non gli editoriali più importanti, perché si perde tempo e si finisce col correre dietro ai pettegolezzi. Due condizionatori mantengono una temperatura baltica, a diciassette gradi. La chiamano la Siberia, la sua stanza. Un po’ perché Denis ha la fama del gelido esecutore di sentenze capitali. Uno da Lubjanka. A proposito di numeri e di uomini (e di candidature) sbagliate, nel suo giro ricordano nel dettaglio il giorno in cui Verdini impegnò più tempo del solito per convincere Berlusconi che «quelli di Italia popolare» - i parlamentari che avevano partecipato alla kermesse montiana del teatro Olimpico - non dovevano essere candidati. Chi tradisce una volta tradisce di nuovo, diceva. Erano grosso modo i governativi di oggi. Avevo ragione, dice Verdini agli amici. 

Adesso, però, il suo compito è di fare mediazione. Non è vero che dopo il disastro del 2 ottobre Verdini sia stato fatto fuori. Chiunque, nel partito, spiega che Berlusconi di lui si fida, sa che non combatte per vantaggio personale o per i galloni. Lo incontra quotidianamente. È stato iscritto nei retroscena alla corrente dei falchi e ora a quella dei lealisti, ma Verdini dice di essere berlusconiano in quanto incaricato di servire l’azionista di maggioranza. I parlamentari a lui vicini raccontano che sin dal primo giorno diceva a Berlusconi che la grazia non gliel’avrebbero mai concessa. Di conseguenza, falco. E gli diceva anche di non fare il governo di corsa, di prendersi tre o quattro settimane, come succede in Germania, perché fosse steso un programma dettagliato, a cui non si sfugge. Ancora falco.

Ora cerca soluzioni perché i governativi, al Consiglio nazionale del 16, non procedano con la scissione. Gli preme soprattutto che Alfano rimanga dentro. Se se ne vanno gli altri, pazienza. Anzi meglio. Non è nemmeno così certo che il punto d’accordo sia tanto lontano. Intanto c’è la variabile di Matteo Renzi, che lui conosce bene seppure non lo senta da anni, e sa che la sua elezione alla segreteria del Pd costituirebbe un rischio per il governo. E poi la questione - sottolineano i collaboratori di Verdini - non risiede negli incarichi della nuova Forza Italia. Verdini ha fatto sapere che non c’è problema, che ne ha anche le tasche piene. Se non lo vogliono più lì, ci rimarrà soltanto su ordine di Berlusconi. Dice ai numerosi ospiti che il suo è un lavoro infame. Se qualcuno lo vuole, prego. Capirà che significa stare alla scrivania dodici o tredici ore al giorno, ad accogliere ogni lagna, a pacificare i litiganti, a far di conto. A un certo punto Berlusconi gli appioppò persino l’incarico di contenere Daniela Santanché, perché non esagerasse. Era una missione impossibile, e ora Daniela è fuori gioco. Le mostrine attirano, ma poi? Poi si finisce con la fama del cattivo, del sicario, perché qualcuno deve pur mettere la sua firma sulle candidature, sugli avvicendamenti nei ruoli di responsabilità. Ciò di cui Verdini si duole davvero, però, e di aver messo su pancia, perché il lavoro sovente prosegue al ristorante, pranzo e cena. Talvolta la scampa, e di sera va a casa, dietro al Senato, e si prepara una pastina in brodo.

Da - http://lastampa.it/2013/11/08/italia/politica/verdini-al-fianco-del-capo-raduna-le-truppe-fedeli-per-la-battaglia-finale-tASA112qWxbYfZydUdw5fL/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Alla corte del Cavaliere la vecchia guardia non ha più udienza
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2013, 05:29:09 pm
politica
29/11/2013

Alla corte del Cavaliere la vecchia guardia non ha più udienza
Gianni Letta ha accesso a ogni residenza di Berlusconi, ma non è più ascoltato
Da Gianni Letta a Bonaiuti si sono dileguati i consiglieri storici, ma nessuno li ha sostituiti

Mattia Feltri
Roma
Il giorno della decadenza, Daniela Santanché si è affacciata al balcone di Palazzo Grazioli nell’esatto momento in cui, sul maxischermo, appariva la faccia di Massimo D’Alema. All’improvviso urlo con accompagnamento di fischi, persuasa di esserne il destinatario, Daniela s’è ghiacciata di stupore. Sarà che nella ruota panoramica di Forza Italia, in cui un giorno stai in basso e quello dopo al cielo, ora le tocca di vedere il mondo da sotto. Una sera della scorsa settimana, a cena, Silvio Berlusconi ha detto che Daniela gli ha fatto danno perché è una che litiga e divide. Il nuovo responsabile della comunicazione di Forza Italia, Deborah Bergamini, è stata incaricata di smistare leader e parlamentari nella trasmissioni televisive, e di mandarci Daniela il meno possibile. Anzi, quasi mai, ché l’ultima cosa di cui Berlusconi ha bisogno è di toni focosi e stabilità di rissa. Ma lei, Daniela, non ne vuole sapere: «Andare in tv è la mia forza». Così scavalca la Bergamini e si fa invitare direttamente dai conduttori, che una del genere in studio la vogliono sempre.
Anche a questo giro di ruota, come a ogni altro, si liberano e si occupano le stanze del cuore di Berlusconi. Una, come vedete, l’ha occupata la Bergamini, che al capo dà ancora del lei, e di cui lui si invaghì, come spesso gli capita quando vede ragazzi secchioni e beneducati. Nel 2003 (Deborah aveva 35 anni) la mise nel cda Rai e naturalmente lì cominciarono le grane: fu coinvolta nella storia della Struttura Delta e accusata di aver tardato l’emissione dei dati delle Regionali 2005 per condizionarne il risultato. Polemiche, paginate, indagini della magistratura (sollecitate dai Ds) e assoluzioni piene. Il ritorno della Bergamini coincide col garbato sollevamento di Paolo Bonaiuti, a dimostrazione che i collaboratori più sono storici più se li ingoia la storia. 
Dicono che un giorno, in espressione di fedeltà massima, Bonaiuti abbia detto a Berlusconi di non condividere la politica pugilistica con governo e Quirinale. Da vecchio socialista (c’è chi lo ricorda trentenne e coi capelli alle spalle) non ce la poteva fare. E però, aggiunse, ubbidirò. Berlusconi fu riconoscente, ma da quel momento qualcosa è cambiato. Come molto è cambiato con Gianni Letta, amato come un fratello, e però i sentimenti non chiudono gli occhi: il vecchio Mazarino non ha più il tocco di una volta. Non ha ottenuto risultati con il capo dello Stato né in Corte costituzionale né in Cassazione. Palazzo Grazioli è casa sua, ma finisce lì.
E allora? Scarta questo, scarta quello, chi sono i consigliori del Decaduto? Semplicemente non ce ne sono più. O almeno non ce ne sono del livello dei vecchi. Il partito, si sa, è in mano a Denis Verdini, uno che pedala mangiando il manubrio da mattina a sera. Le grandi strategie, diciamo così, sono piuttosto in mano a Franco Coppi e soprattutto a Niccolò Ghedini, nonostante quest’ultimo non abbia raccolto risultati brillantissimi, e per la ragione che le cosiddette grandi strategie oggi collimano sempre più con le questioni giudiziarie; Ghedini deve trattare con le procure, e piuttosto i problemi sorgeranno quando, da indagato nel Ruby ter, sarà investito da un nuovo tipo di conflitto di interessi. 

 

Così, quando si chiede da chi sia costituito l’inner circle, ti rispondono: «Da Francesca Pascale e da Mariarosaria Rossi». Cioè dalla fidanzata e dalla matrona. Della politica pura, non c’è più nemmeno da discutere: è roba di Berlusconi, sarà lui a occuparsi della proliferazione dei Club Forza Silvio e di condurre il partito alle Europee. Certo, un ruolo l’ha riconquistato Raffaele Fitto, un altro ex enfant prodige, oltre che ex ministro; Berlusconi era incantato da questo ragazzo e dalla sua ottima famiglia pugliese, ma non gli piace che, superati i quaranta, abbia messo su qualche chilo e soprattutto non gli perdona di essersi opposto ai suoi piani, col risultato che alle Regionali ha rivinto Nichi Vendola. 
Non va male neanche Daniele Capezzone, anche perché, a furia di passi indietro degli altri, lui si è ritrovato avanti. E poi ha risolto il suo problema con Dudù, che gli abbaiava sempre mettendolo in cattivissima luce. Capezzone, che è sveglio, ha corrotto la bestia a suon di leccornie, e ora ce l’ha dalla sua parte. Probabilmente, Renato Brunetta non lo sa: da vero amante dei cani, si permette di rimproverare a Berlusconi l’indulgenza alimentare con cui vizia il barboncino. La cosa dimostra anche che Brunetta è tornato in gloria: lo si vede spesso su un palco, da capogruppo è più saldo che mai e poi anche a Berlusconi piace parecchio il suo Mattinale, una rassegna stampa con supplemento di agonismo che arriva ogni giorno per mail. Molti parlamentari lo cestinano all’istante il che dimostra, commenta Berlusconi, «quello che ho sempre pensato: Dudù è più intelligente della metà dei miei». 

Da - http://lastampa.it/2013/11/29/italia/politica/alla-corte-del-cavaliere-la-vecchia-guardia-non-ha-pi-udienza-SRRZvpe0kHDZE449J0V0QO/pagina.html


Titolo: Mattia FELTRI. Il primo risultato Matteo Renzi lo ha ottenuto: ...
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 12:18:44 am
Politica
18/01/2014
La prima «vittoria» del segretario Renzi Berlusconi arriva puntuale al Nazareno
L’ex premier, famoso per i ritardi, è giunto alla sede del Pd alle 16 in punto.
Ed è riuscito a resuscitare il popolo viola: lancio di uova contro la sua auto
Folla di manifestanti in largo S.Andrea delle Fratte per contestare l’incontro sulla legge elettorale tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi nella sede PD,

Mattia Feltri
Roma

Il primo risultato Matteo Renzi lo ha ottenuto: Silvio Berlusconi, che da qualche decennio ci aveva abituato a puntualissimi ritardi, anche di ore, è arrivato alla sede del Pd alle 16, non un minuto più né uno meno. In questo periodo di resurrezioni, si registra quella del popolo viola, sebbene in poche unità e nemmeno tanto agguerrite: un lancio di uova che ha colpito l’auto con vetri oscurati che trasportava il capo del centrodestra è stato infatti attribuito a contestatori occasionali e non organizzati. 

Qualche urla di chi non arriva a fine mese, qualche strillo di chi ritiene non si tratti con un pregiudicato, qualche lamentela dei commercianti per la chiusura della strada; e intanto Berlusconi entrava da un ingresso laterale di modo che i giornalisti, naturalmente numerosi, non hanno avuto nemmeno il piccolo privilegio di vedere la faccia del Cav all’esordio in una sede del partito democratico. Renzi era invece arrivato a piedi, dalla stazione Termini, con un’ora di anticipo.

Da - http://lastampa.it/2014/01/18/italia/politica/la-prima-vittoria-del-segretario-renzi-berlusconi-arriva-puntuale-al-nazareno-J1GtjbEbsNHTZnK6fAaYMI/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Beppe cambia strategia e imita il grande rivale
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2014, 11:22:56 am
Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 20/02/2014.
Le foto e l’automobile Beppe cambia strategia e imita il grande rivale

Il primo indizio era stato diffuso da Beppe Grillo medesimo in tarda mattina: su twitter aveva postato una foto che lo ritraeva al volante diretto a Roma. Sarà stato un caso, ma fin qui il grande capo a cinque stelle si era fatto scorrazzare su auto e camper mentre attendeva ai doveri on line o alla post-ideologia orizzontale. Forse s’era accorto di avere perso qualche colpo - lui che attraversò lo Stretto a nuoto e fece della frugalità politica una religione - nel vedere Matteo Renzi alla guida verso il Quirinale, o spostarsi a piedi fra la sede del Partito democratico e Montecitorio, e da un palazzo all’altro senza autisti, senza scorta, talvolta senza accompagnatori. E qui ci era parso che quel Grillo pilota avesse cominciato un percorso di renzizzazione. 

Poi, durante l’allucinogeno incontro di Montecitorio, il comico ha proseguito con una strategia parallela (oddìo, non vorremmo metterla giù troppo dura). E cioè ha rimproverato a Renzi l’opposto di ciò che rimprovera agli altri: gli ha dato del «bambino», gli ha detto che lui è ben più grandicello, che ha quarant’anni di carriera, che se solo gli fosse girata lo avrebbe messo nel sacco in dieci minuti. E cioè fino a ieri la colpa era di essere vecchi e muffiti, mummie ambulanti e morti inconsapevoli; ora di essere puttini, sbarbatelli in mano ai «poteri forti e alle banche». «Val la pena di starti a sentire?», ha chiesto Grillo.

Ed è andato avanti così, in un ribaltamento delle prospettive piuttosto scontato e non del tutto efficace. Gli altri erano dei gran farabutti perché non schiodavano il sedere dalle loro auto blu coi vetri fumé, e Renzi molto peggio, furbino, infidello, era salito anche lui sul camper, «e chi te l’ha insegnata questa cosa del camper, eh?». Invece di rallegrarsi d’essere spunto per una politica meno boriosa, il comico si avvelena. «Vai in giro a piedi, vai in giro con la bicicletta», gli ha detto sibilante. Di modo che per l’idrofobo elettorato grillino se ti sposti con l’auto blu sei casta, se ti sposti a piedi sei un dritto. E lo stesso per la faccenda della scorta rifiutata: «Hai detto che la tua scorta è la gente?», ha chiesto Grillo con tono apertamente ironico (e lì Renzi, che dritto lo è davvero, gli ha risposto: «Questa ti è piaciuta, eh?», e aveva un approccio complice, come dire che lì di santi non ce n’erano, e nel ramo-paraculate lui è un avversario di livello). Chissà se il nervosismo di Grillo dipendesse dalla consapevolezza che il giovinastro non è un ingenuo, conosce le ragioni dell’anticasta, non si fa ingolosire dagli status che ancora incantano i suoi colleghi. È un vero guaio per l’altoparlante dei cinque stelle, che rende indisponibile a qualsiasi compromesso la sua pretesa diversità, mentre Renzi la mette al servizio del governo. Grillo ha capito che la sua inesorabile ascesa ha incontrato un ostacolo: se Renzi va avanti con questo stile di strada, se porta a casa la legge elettorale, infila un paio di riforme ammiccanti e magari recupera qualche soldino, il Movimento perde di ragione sociale. Certo, se invece Renzi dovesse fallire, alla successive elezioni ci troveremo proiettati nel mondo di Gaia.
 
mattia feltri

da - http://lastampa.it/2014/02/20/italia/politica/le-foto-e-lautomobile-beppe-cambia-strategia-e-imita-il-grande-rivale-RE9XjBOBzN8RVC81M0JXvI/premium.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Il nuovo Pd si scopre garantista
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2014, 06:20:18 pm
Editoriali
10/03/2014

Il nuovo Pd si scopre garantista

Mattia Feltri

L’ex sindaco di Pescara, Luciano D’Alfonso, ha vinto le primarie del Partito democratico abruzzese, di cui è stato segretario, e sarà candidato alla presidenza della Regione. L’altra particolarità di D’Alfonso è che è in attesa del processo d’appello dopo essere stato assolto in primo grado per i suoi rapporti con il costruttore Carlo Toto.

La polemica è classica: D’Alfonso parla di macchina del fango e si fa forte dell’assoluzione (non definitiva); gli avversari, specialmente interni, ritengono più serie le ragioni di presentabilità e di opportunità: sarebbe piuttosto imbarazzante se, eletto presidente, D’Alfonso fosse condannato in secondo grado. Tentando complicate incursioni sui terreni della filosofia politica, i nuovi comandanti del Pd si chiedono se prevalga una visione etica della politica, con inchino alla magistratura, e doppio inchino alla furia antipolitica degli elettori, oppure se sia più prezioso il garantismo, oltre che un’idea crociana secondo cui i politici è bene che siano onesti, ma è meglio se sono capaci (senza contare che D’Alfonso ha vinto le primarie, e cioè il popolo del Pd lo ha votato nonostante i processi). 

In fondo è ciò che pochi giorni fa ha detto il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, spiegando alla Camera dei deputati i motivi per cui Francesca Barracciu, indagata in Sardegna per i rimborsi spese, non è stata candidata alle regionali ma successivamente promossa a sottosegretario. Il governo, ha detto la Boschi, non chiede dimissioni a sottosegretari o ministri sulla base di un avviso di garanzia. Un’inattesa novità. Anzitutto perché negli ultimi vent’anni il Pd (in ogni sua precedente denominazione) è stato piuttosto sensibile alle aspettative della pubblica accusa, soprattutto le molte volte in cui riguardavano gli avversari politici. Poi perché alla visione magistrato-centrica della vita avevano ceduto un po’ tutti (si pensi a Claudio Scajola che esulta, comprensibilmente, per essere stato assolto nella vicenda della casa vista Colosseo, e nessun imbarazzo, che abbia rilievi penali o no, se la casa gliel’hanno pagata a sua insaputa). Aveva ceduto persino il resistente eterno, Silvio Berlusconi, che all’ultimo giro elettorale non ha candidato l’amico prediletto, Marcello Dell’Utri: la gente non capirebbe, disse. Più che dalle toghe, Berlusconi era stato costretto dal grillismo, una condizione dell’animo colta benissimo dagli ultimi governi, che hanno allontanato ministri per colpe veniali: il sottosegretario Carlo Malinconico, del governo Monti, fu costretto a lasciare perché gli avevano pagato due notti di riposo in resort. E Renzi pareva proprio di quella pasta: ci si ricorderà lo scandalo da cui fu scosso per il salvataggio del ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, colpevole di relazioni pericolose con la famiglia Ligresti.

Ora che è capo del governo, oltre che del partito, Renzi si dimostra diverso. Per dirlo male, ma chiaramente, se ne frega della magistratura. Viva la Barracciu, viva D’Alfonso. La supremazia della politica. Anzi, della politica forte. Certo, per uno come Renzi, così attento ai sentimenti degli elettori, sarebbe molto grave se la svolta si limitasse a così poco. La politica forte non fa soltanto i muscoli, soprattutto fa le riforme, e sul terreno delle riforme sfida la magistratura come sfida il sindacato e qualsiasi altra casta. Sennò non è politica forte, è politica bulla. E dura poco. 

Da - http://lastampa.it/2014/03/10/cultura/opinioni/editoriali/il-nuovo-pd-si-scopre-garantista-WHDUAY9w0Cov0Efe7duv7K/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Umiliati, offesi e folgorati Si rimescolano le anime del Pd
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2014, 06:16:25 pm
Politica
27/02/2014

Umiliati, offesi e folgorati Si rimescolano le anime del Pd
L’avvento di Renzi ha cambiato la geografia all’interno del partito


Mattia Feltri
Roma

Le tempeste che scuotono il Pd sono soprattutto nell’anima, e la suddivisione del partito in correnti ha oggi meno senso di una geografia sentimentale. L’arrivo di Matteo Renzi alla guida di partito e governo ha infatti sovvertito l’ordine e gettato scompiglio nelle truppe; lì dentro, perduti i punti cardinali, hanno cominciato a muoversi lungo le direzioni indicate dal cuore (diciamo così).

Il grande abbraccio dell’altroieri a Montecitorio fra Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta non apparteneva alla grammatica politica, ma era l’abbraccio dei reduci della cruenta battaglia che a fine guerra invocheranno la Convenzione di Ginevra. Sono gli Umiliati, categoria numerosa a cui sono iscritti i grandi capi, da Massimo D’Alema a Rosi Bindi (e forse pure Walter Veltroni). C’è Stefano Fassina, abbattuto con un pronome di tre lettere (chi); alla Camera ha detto di non votare fiducie in bianco, vedrà di volta in volta, come di solito promette l’opposizione sedicente responsabile. Si annota che Letta martedì mattina ha preso un aereo da Londra dove è tornato la sera stessa pur di rimarcare il suo sdegno fra le braccia del vecchio capo. Gli esperti in dinamiche politiche ritengono che gli affettuosi sensi fra Bersani e Letta contengano una minaccia: arriverà Norimberga.

Attigui agli Umiliati ci sono gli Offesi, il cui leader è Pippo Civati, quotidianamente impegnato a ricordare l’antica e poi tradita familiarità con Renzi. «Ciao Matteo», gli ha detto in aula contro ogni etichetta. Aveva il tono malinconico di chi nota che le cose non sono andate come dovevano. Fra gli Offesi ha un ruolo Lapo Pistelli, maestro politico di Matteo di cui divenne il primo rottamato. Renzi lo cita nelle repliche alla Camera e Pistelli regala qualche parola agli intervistatori, un gran sapore di amarezza che cresce alla fine: «Era meglio se non faceva il mio nome, lasciamo perdere...». Umiliati e Offesi hanno un trait d’union, che è Gianni Cuperlo, umiliato alle primarie e offeso subito dopo: «Nella legge elettorale vuoi le preferenze, ma è un tema di cui avrei voluto sentir parlare quando ti sei candidato», gli disse Renzi. Cuperlo si dimise da presidente e da allora pencola fra due emozioni e due posizioni che dispongono di un braccio armato: i Partigiani, e cioè le seconde linee deputate a mantenere il nemico sotto fuoco in attesa della controffensiva (se mai arriverà). Come da tradizione, i Partigiani sono pochini, ma ne arriveranno. Il primo a salire in montagna è stato il bersaniano Alfredo D’Attorre, seguito in questi giorni da Miguel Gotor, Felice Casson, Corradino Mineo e qualche altro. Non si fanno problemi tattici, dicono a Renzi che è una jattura, gli ricordano che la vittoria non è ancora totale.

 
C’è poi una grande area di spiriti combattuti. Lì meditano innanzitutto i Delusi, come il sindaco di Bari, Michele Emiliano, e quello di Salerno, Vincenzo De Luca; erano stati così generosi di elogi (con Renzi arriva la rivoluzione, disse il primo; con Renzi cambia tutto, disse il secondo) da aspettarsi la convocazione al governo. Niente. Si segnala un disperato Emiliano a Un giorno da pecora: «Gli ho mandato molti sms, ma niente». Non distanti dai Delusi, alloggiano i Semplici Conoscenti. È gente che si direbbe in attesa di elementi più solidi su cui fondare i rapporti. C’è Alessandra Moretti, che fu bersaniana, poi quasi renziana, ora boh; c’è Anna Finocchiaro, che diede di miserabile a Renzi e adesso ammette «ci ha spaesati»; c’è Matteo Orfini, fiero nemico dei vecchi tempi («Renzi in campo? È una follia, vada ad Amici») piegato dal pragmatismo: il Pd sta vivendo un passaggio «lacerante ma inevitabile». 

Tutte queste categorie sono però una drammatica minoranza perché ce n’è un’ultima straripante: i Folgorati (che si sommano ai Fedelissimi, di cui qui non ci si occupa). Costoro sono al governo, nel partito, nelle amministrazioni locali, vanno da Dario Franceschini e Deborah Serracchiani, da Federica Mogherini e Nicola Latorre, da Marianna Madia a Laura Puppato. Il loro leader spirituale è il capogruppo al Senato, Luigi Zanda, che al termine di un discorso di Renzi disse: «Mi è piaciuto tutto quello che ha detto, tranne una cosa... Una cosa che mi è piaciuta anche di più...». (La geografia sentimentale del Pd muterà sensibilmente dopo la nomina dei sottosegretari).

Da - http://lastampa.it/2014/02/27/italia/politica/umiliati-offesi-e-folgorati-si-rimescolano-le-anime-del-pd-lkjsB4qafW85b0XaNaS3aN/pagina.html?exp=1


Titolo: MATTIA FELTRI. Siamo un partito senza futuro Forza Italia tra paura e sconforto
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2014, 06:18:04 pm
Politica
09/04/2014

“Siamo un partito senza futuro”
Forza Italia tra paura e sconforto
Molti rifiutano di candidarsi alle Europee.
E crescono i sospetti: 10 senatori sarebbero pronti a passare con Ncd

Mattia Feltri
Roma

«Noi vogliamo bene a Berlusconi, ma vogliamo più bene ai suoi voti». L’epitaffio di vent’anni di Forza Italia, se epitaffio servirà, è dunque già scritto a nome del partito intero da un aspirante candidato alle elezioni europee. Aspirazione per la quale rinuncia prudentemente alla paternità della battuta: «Tanto lo sappiamo tutti che è così». Vogliono così bene a Berlusconi, lì dentro, e soprattutto ai suoi voti, che nessuno dice niente se a sei giorni dalla scadenza le candidature non sono ancora stabilite. Forse se ne parla oggi ma tutto potrebbe restare in sospeso finché il tribunale di Milano non avrà deciso se l’ex premier meriti la detenzione domiciliare o l’affidamento in prova, come ha chiesto la procura. Si comincia domani pomeriggio, al palazzo di giustizia di Milano, e magari ci sarà bisogno di qualche giorno. Si aspetterà, come ci hanno detto ieri dalla sede di San Lorenzo in Lucina, «in depressione e prostrazione». E da lì in poi ogni cosa cambierà.

Per esempio: Silvio Berlusconi ha già preparato dei video. Se avrà i servizi sociali, li butterà: gli sarà consentito parlare in tv, rilasciare interviste, prendere parte a comizi. Se avrà la detenzione domiciliare, li diffonderà in una specie di campagna elettorale postuma dagli effetti imprevedibili ma non promettentissimi. La decisione della magistratura avrà poi un peso sulla nuova guerra intestina, coi filo-renziani in minoranza ma di maggior peso politico, e gli antirenziani in maggioranza ma di peso minore. «Fra due giorni scateneremo l’inferno», ha già detto Renato Brunetta, comandante in capo degli oltranzisti. Opposizione furibonda, dunque. E però è anche vero che l’altra sera Gianni Letta - il sire dei trattativisti - ha chiamato Berlusconi sul tardi e lo ha convinto a telefonare a Matteo Renzi con la motivazione che un partito col leader condannato ed escluso dalla partita delle riforme sarebbe un partito da buttare; e poi sai che bello vedere Berlusconi semirecluso che partecipa alla rifondazione dello Stato? Sai che bello mostrare al mondo una simile spettacolare contraddizione? Quando Brunetta ha saputo del contatto fra i due, s’è imbufalito e ha fatto il numero di Silvio. Il quale s’è scusato con una frottola delle sue: ti ho cercato ma non sono riuscito a trovarti. E Brunetta che guardava il cellulare e non c’erano chiamate perse, e sacramentava con Berlusconi come (quasi) solo lui può. «Che errore! Bisogna sempre telefonare a Berlusconi per ultimi», ha detto il capogruppo avvalorando la teoria che l’ultimo che parla con Berlusconi è quello che ha ragione. 

 Ecco, Forza Italia è messa così, e si sa. E uno di quelli incaricati di selezionare le candidature la spiega meglio: «Siamo un partito senza futuro e non abbiamo neanche un gran presente». Cioè, non si riesce a mettere insieme le liste, perché quelli infilati a riempitivo si rifiutano. Una volta uno ci provava, si sa mai. Ma adesso i sondaggi deprimono le più ottimistiche aspettative: se uno si candida e non spende soldi, raccatta quattro voti e fa la figura del fesso; se spende soldi prende voti ma comunque non abbastanza per passare. Difficile trovare disponibilità di suicidio. Quanto ai capilista, ancora ieri Raffaele Fitto diceva che quelli forti «dovrebbero mettersi a disposizione per garantire un minimo di risultato al partito e al leader». Ma qualcuno coltiva il sospetto (forse eccessivo) che ci sia chi intende esibire la forza in vista di una competizione interna e trasformare le Europee in primarie. Probabilmente è l’effetto di un eccesso di avvilimento e paura. Dice un ex ministro: «Siamo con Renzi ma non tanto, siamo di destra ma non tanto, siamo contro l’euro ma non tanto. Abbiamo anche un leader, ma non tanto e non so per quanto». In effetti lo slogan selezionato per le Europee è di una bruttezza competitiva: «Più Italia in Europa, meno Europa in Italia». 

In FI gli spettri sono tali che si vive di sospetto. I parlamentari - consegnati al silenzio sulle vicende giudiziarie sinché non si saranno compiute - additano i più loschi congiurati. La voce diffusa è che, se dovesse precipitare tutto e prevalere il napalm di Brunetta, una decina di senatori sarebbe disposta a passare col Nuovo centrodestra di Angelino Alfano per prolungare la legislatura, visto che alla prossima non li candiderebbe nessuno. Ma non è una voce così: la ripete chiunque. Dopodiché, dice Osvaldo Napoli, «vorrei vedere riforme fatte da un premier che non è stato eletto dal popolo insieme a gruppi di fuoriusciti. E vorrei proprio vedere che farebbe Giorgio Napolitano». Ma in un saliscendi di allucinazione ti fanno notare che da qualche tempo il Mattinale, l’esuberante organo del brunettismo, non ha più gli alfaniani per obiettivo. Qua e là, per le amministrative, si stringono alleanze. Ieri, guarda caso, c’è stato un convegno dal tema «Riflessioni sul centrodestra» con quelli di Ncd (Cicchitto, Quagliariello, Schifani) e col berlusconiano Paolo Romani. Una serie di coincidenze, e di piccoli fatti, che in realtà non avvalora niente. Ma è la ciccia quotidiana che viene offerta con una strizzata d’occhio. Si stabiliscono link estrosi («Letta ha detto a Berlusconi che se non rompe sulle riforme avrà i servizi sociali»). Si intuisce l’untore a ogni spiffero («Marcello Fiori dice che ha dodicimila club. Ma chi ha mai visto l’elenco?»). Nei momenti di vitalità si progettano manifestazioni contro le toghe rosse, e si è presi da fiacchezza al solo pensiero. Si aspetta domani, nella bella speranza che sia un giorno in più.

Da - http://lastampa.it/2014/04/09/italia/politica/siamo-un-partito-senza-futuro-forza-italia-tra-paura-e-sconforto-faAaua107g3iPWGvjPEvoL/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Paesi & buoi - Ribelli
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2014, 11:45:08 pm
Paesi & buoi
03/05/2014

Ribelli
Mattia Feltri

Sono un ribelle, dice
di sé Piero Pelù.
Lo dice contro Matteo Renzi che pure si definisce un ribelle. E si definirono ribelli Bossi, Fini,
persino Pajetta,
e oggi i F.lli d’Italia,
i Cinque stelle, un po’
pure Berlusconi.
Sono ribelli
i cantanti in genere,
i registi, gli scrittori,
i direttori d’orchestra,
i ballerini,
i fumettari, i giornalisti,
i sindacalisti, i deejay,
i conduttori tv, gli agricoltori,
gli animalisti...
Poi restano quattro
o cinque conformisti
che tengono
in pugno il paese.

Da - http://lastampa.it/2014/05/03/cultura/opinioni/paesi-e-buoi/ribelli-zTqS8o9dnSe1W5OcaFfcVI/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Le tangenti e la fine dei partiti
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2014, 10:44:56 am
Editoriali
13/05/2014

Le tangenti e la fine dei partiti

Mattia Feltri

«Per carità, quell’espressione non usatela più», dice Rino Formica, vecchio ministro socialista dei governi di Giovanni Spadolini e Giulio Andreotti. L’appello ai giornalisti è, per quanto ci riguarda, ben accolto: l’espressione originaria (Tangentopoli) era vigorosa, quella derivata (Nuova tangentopoli) è ripetitiva e bolsa. 

Soprattutto è pigra e non spiega nulla. Non spiega, per esempio, che oggi non si ruba per il partito e nemmeno al partito, ma dentro al partito si muovono lobby che hanno agganci al di fuori e puntano al rafforzamento di poteri politici individuali. Massimo Fini – scrittore fra più eccentrici, ribellista colto, antimodernista – ne parla così: «Sono lobby legate a gruppi di intermediari privati – conoscenze antiche come Gianstefano Frigerio e Primo Greganti – gente senza ruolo che fa da collegamento con organismi malavitosi, o anche soltanto con imprenditori felloni: personaggi che si fiutano e si garantiscono a vicenda». E’ l’opinione di un altro che ne ha viste parecchie, Emanuele Macaluso, ex comunista e sindacalista della Cgil, oltre che direttore dell’Unità e del Riformista. Il quale ricorda che «la Tangentopoli d’inizio anni Novanta coinvolse i partiti e i massimi dirigenti, Bettino Craxi, Arnaldo Forlani, Giorgio La Malfa, pure Umberto Bossi». L’inchiesta della procura di Milano, dice Macaluso, «accelerò la crisi dei partiti successiva alla fine dell’assetto mondiale prodotto dalla Guerra fredda. Arrivò un sistema nuovo e non riuscimmo ad adeguarci». Si tirò avanti con la ferraglia novecentesca persuasi che restasse a galla. Lì si infilarono i magistrati sorretti dai grandi giornali e sospinti dalla rabbia popolare, all’improvviso desta dopo un lungo sonno sul velluto. 

Parlare di Nuova tangentopoli non ha senso, secondo l’analisi di Formica, anche perché «quando un fenomeno è continuo perde la caratteristica di definizione». Dice che sono solamente cambiati «i soggetti e i fruitori finali». La traduzione di Massimo Fini è la seguente: «Dopo l’euforia degli anni di Mani pulite, le cose sono continuate ma modificandosi: non c’è distacco, è una normale evoluzione della pratica criminale». E Formica ci si riaggancia per proporre un’amata teoria: «La decomposizione del sistema aggrava il fenomeno degenerativo: in un sistema di democrazia organizzata, anche i fenomeni degenerativi come la corruzione rimangono sotto controllo. Per fare un esempio, un conto è se la Chiesa ruba per sfamare i poveri, un conto se lo fa per comprarsi gli attici. Oggi il dato non è tanto il fenomeno degenerativo quanto la decomposizione del sistema».
 
E allora, tornando a Macaluso, la decomposizione del sistema è tale per cui stavolta i partiti non c’entrano, o c’entrano marginalmente, «per il semplice motivo che non esistono più. Il Partito democratico è un agglomerato elettorale, Forza Italia è da sempre un partito azienda con una leadership non contendibile, il Movimento cinque stelle è un partito-blog con regole interne bizzarre, la Lega è un residuato». Si partì venti anni fa dalla crisi dei partiti, si arriva oggi col loro decesso: un’avventura tenuta assieme dalle stecche. E però a questo punto Fini e Formica prendono altre strade. Fini si chiede per quale ragione non ci sia più scandalo, forse per una questione sinergica, e cioè che «la politica corrotta ormai si muove dentro un paese corrotto, dove per rimanere onesti bisogna essere santi». Formica, invece, ricorda che la Prima repubblica implose perché era un sistema senza alternativa (il Pci era escluso dall’esecutivo, il Msi addirittura dal famoso arco costituzionale), «con una legge elettorale che favoriva la disgregazione, con un’economia pubblica che soffocava il mercato, con partiti che comprimevano le realtà, con sindacati che bloccavano le dinamiche sociali. Bene, passati vent’anni, le cose sono migliorate o peggiorate? Venti anni più tardi, dopo che sono stati al governo tutti, dai naziskin ai terroristi rossi e chiunque stesse in mezzo, a che punto siamo?».

Da - http://lastampa.it/2014/05/13/cultura/opinioni/editoriali/le-tangenti-e-la-fine-dei-partiti-Ceo3QndEK17eYz4OuWH5OK/pagina.html


Titolo: Mattia Feltri Tutti a favore dell’arresto
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2014, 06:41:48 pm
Politica
16/05/2014 - reportage

Tutti a favore dell’arresto
Ma i M5S non rinunciano al teatrale attacco al Pd
La Camera dice sì al carcere per il deputato Genovese
Dibattito annoiato, poi lo scontro su Borsellino scalda il clima
Grillo: appello a polizia, non fate fuggire Genovese
Il «blues politico» di Grillo
Canzone sul palco di Novara

Mattia Feltri
Roma

La procedura, a lungo vibrante come la stesura di un atto notarile, si è conclusa alle 18,12: Francantonio Genovese (Pd) è il secondo deputato nella storia della Repubblica - dopo Alfonso Papa nella scorsa legislatura - a finire in galera preventiva per imputazioni non di sangue, armi o terrorismo. L’uomo si abitua a tutto, figuriamoci i parlamentari: il pomeriggio in cui si decretò la detenzione di Papa fu percorso da una tensione spossante, e svanì in lacrime e silenzi; stavolta si è oscillati fra la sceneggiata e l’iter protocollare. Del resto tutto era chiaro sin dalla mattina, quando Matteo Renzi - lontano molti giorni da quello in cui, parlando del caso di Silvio Scaglia di Fastweb, definì «indegno» l’uso della carcerazione cautelare - aveva chiuso la questione dichiarando che il Pd intendeva votare subito e per l’arresto. Voleva smentire i grillini secondo i quali l’idea renziana era di spostare la decisione a dopo le Europee, per non perdere voti, e si deduce che invece i grillini preferivano prenderla prima, per guadagnarne. Il carattere elettoralistico della contesa, intanto che si doveva stabilire il destino di un uomo, ha preso un rapido e deciso sopravvento, e ha portato il capogruppo del Pd, Roberto Speranza, a proclamare in aula la ferrea deliberazione del suo partito. Genovese ha capito che non c’era più niente da fare ed è tornato a casa, a Messina, per prepararsi ad andare in carcere.

Il dibattito pomeridiano d’aula, fissato alle 16,30, aveva così perso ogni funzione propagandistica e di messa in scena. Né c’era tensione, vista la certezza del risultato. Un disimpegno comprensibile ma a tratti imbarazzante, specie quando si è scoperto che il relatore di minoranza (cioè l’incaricato di difendere Genovese, nella circostanza Antonio Leone di Forza Italia) non era presente e così non ha parlato. Cosa che invece ha fatto il relatore di maggioranza, Franco Vazio del Pd, e intanto che elencava le buone ragioni della procura e i reati contestati al collega (truffa aggravata ai danni della Regione, associazione per delinquere, peculato, riciclaggio...), l’emiciclo non era proprio gremitissimo, soprattutto dalle parti del centrodestra. Quelli presenti maneggiavano l’iPad o leggevano sul computer o chiacchieravano col vicino producendo il brusio annoiato di sottofondo. 

Ci si è un po’ scossi - la sfida sembrava quasi vera - soltanto quando hanno preso la parola i deputati a cinque stelle, i quali si erano allenati per una partita ormai sospesa. La sceneggiatura prevedeva infatti un teatrale attacco al Pd temporeggiatore o addirittura correo. Ed era paradossale la scena dei grillini con l’indice tremante di rabbia e puntato contro il gruppo democratico, sebbene votassero allo stesso modo. Il cittadino Francesco D’Uva ha proposto considerazioni giuridicamente non raffinatissime («le manette ai polsi di Genovese sono niente in confronto alle manette messe per anni ai polsi del popolo siciliano»), eguagliato dal compagno di banco Alessio Villarosa («Ho cercato lavoro fuori dalla Sicilia perché le risorse sono sempre finite nelle mani sbagliate»). Ed è stato il medesimo Villarosa a regalare un po’ di focosa spontaneità a un pomeriggio deprimente, quando ha suggerito di vergognarsi a «voi che alla Camera avete intitolato una biblioteca a Paolo Borsellino». A sinistra è stata tumultuosa rivolta: si è gridato buffone, pagliaccio e bugiardo. Anna Rossomando (Pd) ha scatenato i suoi dicendo che il partito di Pio La Torre non accettava lezioni. Rosi Bindi ha aggiunto che nessuno dovrebbe appropriarsi dei nomi di Falcone e Borsellino, sebbene altri lo abbiano fatto per vent’anni, anche nei partiti in cui ha militato la Bindi. Di colpo si era avverata la profezia pronunciata pochi minuti prima da Maurizio Bianconi (FI): «Chi porta la ghigliottina in piazza troverà sempre uno che è più Robespierre di lui». Peccato non lo ascoltasse nessuno. I più erano impegnati a spedire sms o a giocare a QuizDuello. La Rossomando ha ufficialmente annunciato che il Pd era per la prigione. Era la fine dell’intervento: è scattato un applauso automatico e raggelante. Risultato finale: 371 a 39. Dai banchi del M5S hanno festeggiato incrociando le braccia a mimare gli schiavettoni.

Da - http://lastampa.it/2014/05/16/italia/politica/tutti-a-favore-dellarresto-ma-i-ms-non-rinunciano-al-teatrale-attacco-al-pd-REUoTmFCe3lFCDn7OWaIJM/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - E la pancia M5S sul web attacca “il popolo di pecoroni”
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2014, 10:32:04 pm
Elezioni 2014
27/05/2014 - Il grande sconforto
E la pancia M5S sul web attacca “il popolo di pecoroni”
Ma spuntano le critiche: Beppe, ascolta chi non la pensa come te

Mattia Feltri
Roma

La colpa, scrive uno che su twitter si firma Regan McNeil, è degli anziani: «Ricordate che ci accusavano di non avere ideali? Sono gli stessi che ci hanno venduto per 80 euro». La colpa, più in generale, è degli italiani che si «sentono rappresentati da Pinocchio dato che loro stessi sono disonesti», scrive Fortunato Corigliano. E al «78 per cento di loro va bene il sistema del finanziamento pubblico, della corruzione, della disonestà», scrive LatinaGaia. 

È colpa di un «popolo di pecoroni», scrive Desiree Maiorino. È colpa di quelli a cui «proprio la politica non interessa ma sono convinti di dover votare lo stesso», scrive Stefano Ghisalberti. È colpa naturalmente di Matteo Renzi che «ricorda quei bei ragazzi che in giacca-cravatta vanno a truffare le vecchiette», scrive Vale Mameli. Dunque, scrive Raffaele Candela, «vince la mafia». E «vince Licio Gelli», scrive Garibaldi Eroe. Vincono i brogli, come scrive Lea De Luca, ieri idolo del web poiché non le tornavano i conti: «Se l’affluenza è stata sotto al 50% come mai la superiamo? Il Pd 40%, il M5S 21%, Forza Italia 16% poi c’è la Lega Nord poi tutti gli altri...», e la somma va curiosamente oltre la percentuale di affluenza.

Il giorno dopo non è facile. Gli elettori del Movimento non ce la fanno proprio a rimettersi in piedi con un colpo di autoironia, com’è il video di Beppe Grillo. Rimettersi in piedi è dura se si scopre che cambiare l’Italia è impossibile se «non si cambiano gli italiani». Durissima, se ci si aspettano «tagli da 50 miliardi di euro» e quindi «ora sappiamo con chi prendercela». Letteralmente impossibile se ci si figura - come fa Francesco Presti - «i banchieri, gli evasori etc... Possono brindare a champagne e aragoste». La ricerca è lunga e complicata: qui di gente che ipotizza di aver sbagliato qualcosa - i conti, i toni, la strategia - ce n’è poca. 

In fondo «siamo la coscienza morale di questo paese», scrive Federico Fabbricatore. E siamo «5.804.810 patrioti», scrive Giacomo D’Angelo. Dunque si ripartirà perché «abbiamo troppe cose da fare per demoralizzarci. Andiamo in Europa e facciamo quello che abbiamo fatto nel Parlamento italiano», scrive Marco Acquapendente. Leggete quanto poco basti a uno che si firma Pat Garret: «Ero triste e arrabbiato, poi ho letto “Ora Casaleggio è in analisi per capire perché si è messo il cappellino”. Beppe mito». È sufficiente un sorriso e un «sì, #vinciamopoi», e «non ci arrenderemo mai! Ci vediamo alla prossima», scrive Luca Orazi. «È dalle cocenti sconfitte che si impara qualcosa», scrive Sioux. «Prima o poi la vittoria sarà dei cinque stelle, è soltanto questione di tempo», scrive Mirko Andrina. E anche se non si vincesse mai pazienza: «Me ne sbatto di percentuali vittorie e sconfitte, mi sento bene perché il mio voto è andato a persone come me», scrive William Lacalamita. Pare esserci la casistica completa per studiare gli elementi che muovono questo popolo. Persino quando spunta quello critico: «Beppe ti voglio bene però adesso fatti da parte e lascia fare ai ragazzi, il problema sei anche tu», scrive Samuele Quadri.

Fantastico: spuntano le critiche. Ne è pieno il blog di Grillo. «Beppe una critica va fatta al M5S. Occorre scegliere meglio tra i candidati», scrive Marco B. «Una forza politica per me deve essere in grado di cooperare e lavorare anche con chi non ti piace», scrive Dario. «Ecco perché non si deve parlare di successo prima del voto: tenersi bassi, poco baldanzosi e soprattutto con meno promesse di gogna processuale mediatica», scrive Guido Ligazzolo. 

Nel frattempo, grazie comunque: «Grazie Beppe di averci fatto sognare che un cambiamento era possibile, che da un giorno all’altro gli italiani, che pensavo per lo più corrotti e servi, si fossero risvegliati con la voglia di riscattarsi dopo un ventennio di corruzione», scrive Loretta Pasquini. E comunque, tutti sempre con le antenne dritte come Luigi Costanzo: «Attenzione non rispondete al falso sondaggio dopo il post è una truffa mi hanno appena rubato 5€!».

Da - http://lastampa.it/2014/05/27/italia/speciali/elezioni/2014/e-la-pancia-ms-sul-web-attacca-il-popolo-di-pecoroni-nyVZYakKMHWKBe7B9da9DP/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Il Movimento ondeggia in cerca di un’identità nuova
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2014, 11:08:39 pm
Politica

29/05/2014 - La nuova mossa Un po’ a destra e un po’ no
Il Movimento ondeggia in cerca di un’identità nuova
Se ci sarà l’intesa con l’Ukip sarà in chiave anti euro

Mattia Feltri
ROMA

Dopo aver fatto una cosa di destra - discutere un’alleanza con Nigel Farage, leader dell’Ukip, il partito antieuro britannico - pare che Beppe Grillo abbia fatto una cosa di sinistra: in aereo ha bisticciato col leghista Matteo Salvini a proposito di immigrazione e smantellamento della Bossi-Fini. Che poi, guarda il groviglio, proprio sul punto il capo del movimento si era guadagnato accuse di destrite quando si oppose salvinianamente alla cancellazione del reato di immigrazione clandestina, prima di essere anti-salvinianamente smentito dalla rete. Non se ne viene fuori. Tuttavia la notizia del giorno c’è: Grillo ha trovato qualcuno che gli va a genio e a fianco al quale siederebbe senza ribrezzo. È Nigel Farage, appunto, uno che porta il titolo di ultraconservatore perché sta a destra del premier conservatore David Cameron. In Italia magari se ne sa poco, anche dentro al M5S, dove ieri qualcuno ammetteva di dover studiare. Però Farage ha solidi ammiratori proprio fra i cinque stelle, anche perché in un’intervista a David Parenzo disse: «Io non voglio il Regno Unito fuori dall’Europa, voglio l’Unione europea fuori dall’Europa». Praticamente un inno. Tanto che Grillo girò alle truppe dell’Ukip l’elogio sommo: «Sembrano parlamentari del M5S».

 

A parte che l’alleanza non è ancora siglata, fra i parlamentari a cinque stelle c’è pure chi non la vuole, e a prescindere - dal capogruppo Giuseppe Brescia al semidissidente Tommaso Currò - per sospetta fascisteria di Farage. E con sospetto di fascisteria, per la proprietà transitiva, del medesimo Grillo, già sospettato di hitlerismo (oltre che di stalinismo e polpottismo). E però nel frattempo lo stesso Farage non ha nessuna intenzione di fare gruppo con Marine Le Pen, troppo fascista per i suoi gusti, forse anche troppo concorrente, di certo troppo statalista agli occhi di un orgoglioso nazionalista inglese (con papa Francesco non lega a causa delle Falkland...), accusato da tutti di liberismo economico esasperato. Alla fine l’intesa con Grillo ci sarà - se ci sarà - per strategiche ragioni antieuropeiste. Fa niente se qui da noi si individuerà nel patto lo spostamento a destra di Grillo. Succede periodicamente. Nella notte che precedette il deposito dei simboli per le Politiche del 2013, una telecamera beccò Grillo mentre parlava con un ragazzo di Casa Pound, uno imbufalito con le banche, e gli diceva: vieni da noi, sentiamo che idee hai. Fu scandalo. Allo stesso modo, pochi mesi fa, si scoprì un Grillo leghista perché in Veneto aveva arringato la folla col tema delle macroregioni caro a Gianfranco Miglio. Con questo metodo è lecito iscrivere Grillo a ogni categoria politica novecentesca, o d’inizio millennio. Per fare un esempio: venerdì scorso, a San Giovanni, ha parlato di dazi per le arance nordafricane, come nemmeno Giulio Tremonti.

 

Da Bruxelles, fra l’altro, gira voce che Grillo avesse prima tentato un approccio con i Verdi, respinto. «Escludo categoricamente un’alleanza con il movimento», ha detto all’Agi l’eurodeputato dei verdi tedeschi, Jan Philipp Albrecht. C’era persino una logica, visto che meno di una settimana fa è stato sottoscritto un patto fra candidati verdi, a cinque stelle e della lista Tsipras contro gli OGM e per la promozione dell’energia solare. E nelle stesse ore la portavoce dei Verdi italiani, Luana Zanella, esprimeva tutto il suo dolore per le pulsioni canicide di Grillo per Dudù. Ah, che fatica. Fortuna che ci viene in soccorso la brutale sintesi di Massimo Fini: «Il movimento va oltre le categorie di destra e sinistra, peraltro superate da tempo. E quindi è inevitabile che al suo interno contenga di tutto». Pare lo sappia anche Farage.

Da - http://lastampa.it/2014/05/29/italia/politica/un-po-a-destra-e-un-po-no-il-movimento-ondeggia-in-cerca-di-unidentit-nuova-RsvaWFmsHON8zVXq8ee7AL/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Grillo e il partito liquido dove uno vale l’altro
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2014, 12:27:01 pm
Politica
03/06/2014 - la storia

Grillo e il partito liquido dove uno vale l’altro
Le mille dichiarazioni contraddittorie dalla tv all’Europa

Mattia Feltri
Roma

Più che uno vale uno, uno vale l’altro. Pare infatti sia ovvio, nella medesima giornata e alla medesima ora, trascurare la parata del 2 giugno e sostenere che un «Paese senza rispetto dei suoi militari è un Paese senza dignità». I militari in questione sono i due marò detenuti in India e senz’altro i parlamentari a cinque stelle non trovano contraddizione fra le cose fatte e le cose dette.

Del resto la campagna elettorale delle Europee è stata condotta sull’accusa di voto di scambio rivolta a Matteo Renzi per gli ottanta euro in busta paga, mentre la promessa di un reddito di cittadinanza «è un’idea seria e concreta», come ha detto Beppe Grillo a Bruno Vespa. Il quale Vespa era stato premiato, dopo sondaggio online promosso proprio da Grillo, col microfono di legno per il «giornalista più fazioso». Così l’uomo indisponibile alla corruzione televisiva, alla fine in tv ci è andato, è andato giustamente dal «più fazioso» e alla fine l’ha elogiato: «Vespa è stato corretto». 

Non ci si fermerebbe mai. Una sentenza chiama sempre una controsentenza e poi una sentenza successiva con immediato ribaltamento. In questi giorni il presidente della commissione di Vigilanza della Rai, il grillino Roberto Fico, esprime perplessità sui 150 milioni di euro chiesti dal governo alla tv pubblica: «Non rappresentano purtroppo una revisione di spesa ma sono la maschera per svendere parte di Raiway, la società che detiene l’infrastruttura pubblica di trasmissione». Alla presidenza della commissione Fico ci era arrivato perché, disse Grillo un anno fa, la Rai offre «propaganda gratis a spese di tutti i contribuenti italiani che hanno ripianato la perdita di 200 milioni di euro del 2012». 

Renzi taglia? Non è così che si taglia. Si propone la cancellazione delle province? Non è così che si cancellano le province. Fine del bicameralismo paritario? Non è così che se ne decreta la fine. A un anno e qualche mese dall’inizio della legislatura, il Movimento non ha trovato un punto di incontro su alcun argomento con alcun partito, a costo di sembrare incoerente e prevenuto. Del resto Grillo non voleva nemmeno incontrare Renzi nei giorni precedenti alla formazione del governo; interpellò la rete che diede indicazione opposta: vai a sentire che ha da dirti. Grillo partì da Sanremo, giunse a Roma dopo sei o sette ore di automobile, si presentò da Renzi e gli disse: con te non ci parlo. Fine. Addio.

 È stata l’ultima volta che abbiamo visto Grillo in streaming. Eccolo, streming: uno dei termini fondamentali del vocabolario grillino. Manderemo tutto in streaming. Trasparenza. La casa di vetro. Già alle prime riunioni dei parlamentari grillini negli hotel romani la diretta streaming funzionava forse che sì forse che no, ma più probabilmente no. Oggi non interessa più a nessuno: Grillo vola a Londra a incontrare l’ultraconservatore Nigel Farage, e non se ne sa niente, impossibile vedere, vietato ascoltare. Si installano le basi di un’alleanza imprevedibile («non ci alleiamo con nessuno, la demolizione è cominciata», diceva Grillo un anno fa e lo ha ripetuto per l’anno successivo) e stordente, visto che l’Ukip ha accenti xenofobi e, per stare su questioni più centrali della politica a cinque stelle, sostiene l’energia nucleare. 

Il Movimento è per le rinnovabili eppure non trova agganci coi Verdi, e sarebbe questione di normale garbuglio italiano: più complicato orientarsi sulle elevate questioni costituzionali, risolte da Grillo con linguaggio classico e sincero: «La Costituzione non è carta da culo». Ha stilato un elenco così di stupratori di legge fondamentale, e però dentro il suo gruppo ha reintrodotto il vincolo di mandato - cioè l’obbligo di votare in conformità col partito - previsto solamente nelle costituzioni del Portogallo, dell’India, del Bangladesh e di Panama. È tutto così rotatorio da essere indiscutibile, si passa dal «siamo andati oltre la sconfitta» del 26 maggio a «la nostra affermazione è stata trasformata in una Caporetto, una Waterloo» di quarantotto ore dopo. No sconfitta no dimissioni. Anche perché, dice Grillo, «dimettermi da che? Non ho cariche». Aveva detto: «Se perdo vado a casa sul serio». È tutto buono. Uno vale l’altro. E poi, al massimo, Grillo scherzava. 

Da - http://lastampa.it/2014/06/03/italia/politica/grillo-e-il-partito-liquido-dove-uno-vale-laltro-WGdqGNcwG8rTahBFGxFMRM/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI Le intercettazioni svelano l’imprudenza di politici e imprenditori
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2014, 07:20:52 pm
Politica
14/05/2014

Quella sfrontatezza nelle telefonate di una classe dirigente ladra (e fessa)
Le intercettazioni svelano l’imprudenza di politici e imprenditori

Mattia Feltri
ROMA

Nell’anno XXIII dell’era manipulitista - cominciata il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa - i più restano di stucco davanti alla perseveranza nel malaffare di imprenditori e politici. Ma considerando la propensione all’onestà dell’italiano medio, a stupire dovrebbe essere, più del ladrocinio, la disinvoltura, l’imprudenza, la sfrontatezza - per non dire l’asineria - e anche quel po’ di cattivo gusto con cui gli indagati parlavano al telefono. Non vale soltanto per l’Expo, ma anche e soprattutto per Claudio Scajola al quale - dal punto di vista politico - andrebbe contestata l’aggravante di essere stato ministro dell’Interno, ruolo nel quale qualche notizia sull’efficacia delle intercettazioni dovrebbe essergli arrivata. Come uno che è stato al comando del Viminale possa avere certe conversazioni telefoniche con la moglie di un latitante in procinto di andare a Beirut, Libano («Stiamo parlando della capitale?», dice lei. «Certo, certo». «Che inizia con la L». «Bè, il paese...». «No. Che inizia con la B». «Brava».) è un mistero in grado di insidiare quello della casa vista Colosseo. Dalle carte pubblicate è senz’altro più facile cogliere aspetti dell’avventatezza, e forse del delirio d’onnipotenza, che non della colpevolezza di Scajola. Secondo quanto si è scritto ieri, in alcuni scambi di battute al cellulare l’ex ministro si vantava di disporre di un servizio segreto personale con cui raccogliere informazioni su mezzo mondo.

La vanteria è una costante di questi articoli compilati con le intercettazioni. Gianstefano Frigerio, già arrestato ai tempi di Mani pulite, ora protagonista dell’inchiesta sull’Expo, è descritto nelle carte come uno avveduto quando parla al cellulare. E chissà se fosse stato incauto, visto che a un amico confida di un suo amico carabiniere che ogni tanto gli fa le «pulizie», e in un’altra occasione spiega di dover sbrigare «un lavoro di copertura politico-giuridica»: in pratica organizza una cena (poi mai tenuta) fra il senatore Luigi Grillo e un comandante della Guardia di Finanza. Eppure nell’anno XXIII dell’era manipulitista una lezione si presupporrebbe mandata a memoria: non dire niente di ambiguo al telefonino. Macché: sono tutti lì a darsi arie (sia Frigerio che Primo Greganti raccontano di conoscere questo e quello, di aver accesso qui e là) intanto che parlano con aplomb di appalti e mazzette. Forse la medaglia d’oro va al direttore di Expo 2015, Angelo Paris, uno che si direbbe preoccupato di sollecitare l’attenzione anche di un demente quando dice: «Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera». Sergio Cattozzo, braccio destro del senatore Luigi Grillo, chiama trafelato (secondo quanto dicono i verbali) perché sta «uscendo una cosa da 67 milioni». Greganti dice di dover scendere a Roma per parlare «con gli amici miei». Un tocco di suspense che si scioglie nella rivelazione: si vedrà con Gianni Pittella (Pd, vicepresidente del Parlamento europeo), ma è una millanteria. Intanto Frigerio ogni tre per due pronuncia la parola Arcore e manda sms a Silvio Berlusconi persuaso che siano irrintracciabili. Dice che si va a pranzo con Silvio Berlusconi e Gianni Letta, e nel frattempo condisce i programmi con antica saggezza: «Bisogna mettere venti stecche in forno per tirarne fuori dieci». Sembrerebbe che ne escano anche meno: il gruppo sollecita i debitori. In fondo «le nostre richieste non sono esose, chiediamo l’1 per cento, gli altri il quattro e il cinque». La vera domanda è: peggio avere una classe dirigente ladra o fessa? È peggio se è l’uno e l’altro.

Da - http://www.lastampa.it/2014/05/14/italia/politica/quella-sfrontatezza-nelle-telefonate-di-una-classe-dirigente-ladra-e-fessa-DlUQ0WeM19eOaBwuOj3yTK/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. Le mille e contraddittorie proposte per cancellare la corruzione
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2014, 11:24:02 am
Politica
08/06/2014

Le mille e contraddittorie proposte per cancellare la corruzione
Dalla ghigliottina ai nuovi reati passando per la speranza

Mattia Feltri
Roma

Bisogna metterci subito le mani. Bisogna istituire una «commissione di inchiesta regionale», dice il Nuovo centrodestra del Veneto. Bisogna adottare il nostro decalogo, dice l’Associazione nazionale costruttori edili. Bisogna adottare il nostro ottalogo, dicono le sinistre unite di Venezia. «Prima delle responsabilità penali bisogna indagare su quelle politiche», dice il Wwf. E prima ancora «serve chiarezza sull’impatto ambientale», dicono i Verdi.

Più in generale, dice Rosy Bindi, «questa commissione (l’Antimafia, che presiede, ndr) non ha una esplicita competenza sui fenomeni di corruzione politica economica, ma non potremo non approfondire anche questo versante». Tutti all’opera, tutti con le maniche rimboccate: competenti e meno competenti, interessati ed ex disinteressati. La Corte dei conti ha già istituito la sua, di commissione: «Una Commissione di indagine per l’accertamento di tutte le procedure di controllo effettuate negli anni in merito all’opera, la verifica degli atti e delle relative risultanze». 

Beppe Grillo vuole il politometro, sistema di misurazione di guadagni e spese. Riccardo Nencini, del Psi, offre una proposta all’apparenza più dettagliata: «Martedì prossimo presenteremo la prima griglia e i principi per le norme delega per la revisione del codice degli appalti». Può voler dire un sacco di cose, in effetti. E, in effetti, chiunque ha soluzioni di proporre. Non c’è politico, associazione di categoria o istituzione repubblicana sprovvisto della ricetta giusta. Ci sono anche quelli che di ricette ne hanno un paio, persino una in contrasto con l’altra. Per esempio il ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, un giorno ha detto che «le regole le abbiamo e negli ultimi anni sono state inasprite. Non è una questione di regole, ma di mentalità», forse ispirato da Debora Serracchiani («possiamo fare tutte le regole del mondo, ma la necessità è eliminare i ladri») e dal ministro Giuliano Poletti («la colpa non è delle regole, ma dei ladri»); e all’indomani il medesimo Galletti ha annunciato «un decreto per inasprire le misure contro la corruzione», e addirittura «per introdurre nuovi reati». 

Ecco, la questione centrale è quella delle norme. I legislatori, quantomeno sul piano teorico, sono vulcani in eruzione. Da non trascurare quella del senatore grillino Michele Giarrusso: «Io per i corrotti del Mose, dell’Expo e della Tav vorrei la ghigliottina. Gli taglierei la testa». Interessante anche quella dell’indipendentista veneto Lucio Chiavegato (uno degli arrestati per il trattore-carrarmato): «Gli sequestrerei tutti i beni suoi (parla di Giancarlo Galan, ndr), della sua famiglia, e dei suoi parenti fino al terzo grado». Per tornare a livelli di stravaganza appena più contenuta, Paolo Ferrero di Rifondazione comunista è per fermare il Mose, e poi anche l’Expo e la Tav; Renato Schifani (Ncd) suggerisce una task force composta da uomini della Guardia di finanza che verifichino le fatturazioni; Sergio Boccadutri (Sel) rilancia il «finanziamento pubblico in rapporto al consenso». Federica Mogherini confida «nell’azione della magistratura»; Lorenzo Dellai si rimette direttamente alla «speranza in Matteo (Renzi, ndr), espressa anche da Civiltà Cattolica».

In questo tripudio di trovate sarà difficile raggiungere una sintesi. Da dove partire? Per Laura Puppato, del Pd, «non dai distinguo ma dal mea culpa». Per Pippo Civati dalla «grande conflagrazione degli stoici», e cioè dar fuoco a tutto e tornare a votare. Ah, c’è anche Di Pietro, gli sembra davvero «la fotocopia di Mani pulite» e infatti le regole, dice, o non sono state fatte o «sono state fatte per aiutare i ladri». Di contributi così immediati ce ne sono a decine: c’è da «combattere contro l’idea perversa che lo Stato sia un bottino da spartirsi» (Nicola Zingaretti, governatore del Lazio); c’è da erogare «punizioni molto severe» (Pierluigi Bersani); anzi, più che severe, «esemplari» (Edmondo Cirielli, F.lli d’Italia). Una via aperta da Renzi con l’imputazione per alto tradimento ai corrotti, e appena rivisitata dal vicesegretario dell’Udc, Antonio De Poli, che invoca «tolleranza zero e una terapia d’urto». E qui ci sarebbe da elencare la profusione di spunti, arrivati da destra e sinistra, su come definire concetti elastici come tolleranza zero e terapia d’urto: revisione degli appalti, abolizione delle gare al ribasso, riforma del sistema dei controlli, annullamento delle deroghe, reintroduzione del falso in bilancio. E cioè, come dice Pino Pisicchio (leader del Centro democratico) in un drammatico slancio sinottico, ci occorre «una riforma dello Stato».

Da - http://lastampa.it/2014/06/08/italia/politica/le-mille-e-contraddittorie-proposte-per-cancellare-la-corruzione-oLpKZHNVTaP2UvUeZxxOEL/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - “Vietato dissentire”: così i partiti reintroducono il vincolo..
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2014, 09:02:15 am
Politica
17/07/2014

“Vietato dissentire”: così i partiti reintroducono il vincolo di mandato
Dal premier a Berlusconi, passando per Grillo: l’articolo 67 viene scavalcato

Mattia Feltri
Roma

Il primo ritocco alla Costituzione - in attesa della riformona in discussione a Palazzo Madama - è stato apportato senza annunci né discussioni e nemmeno voti. È entrato nella prassi politica così, come un improvviso soffio di vento per il quale è volato via l’articolo 67 dalla carta repubblicana, quello secondo cui «ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Traduzione: è libero di decidere come gli pare e non secondo gli ordini del capo. E però le disposizioni sono oggi all’opposto: ai deputati e ai senatori sembra essere stata negata anche soltanto l’ipotesi di avere un’opinione. Il vicesegretario del Partito democratico, Debora Serracchiani, mercoledì a Radio Anch’io, ha detto di non credere «che ci sia una questione di coscienza se si tratta di fare una riforma costituzionale che riguarda il Senato». Dunque i dissidenti non si appellino alla coscienza. È consentito farlo se si discute di matrimoni omosessuali o di fecondazione assistita, non se ci si sta occupando della più rivoluzionaria riforma della Costituzione nella storia della Repubblica. Lì la coscienza è fuori gioco, come la Costituzione. Prevale, secondo la Serracchiani, quello che nei partiti comunisti si chiamava centralismo democratico, ossia la necessità di votare secondo le decisioni della maggioranza, di modo che il dissenso non ostacolasse l’avvicinamento al Mondo Nuovo (Lenin scrisse nel 1906 «libertà di discussione, unità d’azione»). 

«Rimango ancorata all’idea che se si fa parte di un partito si resta ancorati anche alle regole democratiche che prevedono che quando il partito prende una linea, quella linea venga comunque rispettata», dice alla radio la Serracchiani, riconoscendo - nello spazio di un inciso - che esistono comunque delle libertà costituzionali. Matteo Renzi non si è infilato in simili tecnicismi, così contorti da qualche tempo a questa parte. Lui più bruscamente non riconosce dignità di pensiero agli oppositori. Non importa che cosa dicono, importa perché: sono gufi, sono conservatori, sono venali. «A mio giudizio - ha detto al Corriere della Sera - l’obiettivo dei frondisti è affermare l’elezione diretta per poter dire che il Senato deve avere ancora più poteri. Non si rassegnano all’idea della semplificazione e del fatto che non ci sia indennità per i senatori». E l’altra sera, nell’incontro coi parlamentari trasmesso in streaming, ha garantito di essere «pronto a governare il partito anche con chi non la pensa come me. Ma a condizione che sui tempi e sull’urgenza la pensiamo come gli italiani: non c’è un minuto da perdere». Dunque si fa subito: il dibattito no! Proprio come Silvio Berlusconi, che mercoledì, davanti ai parlamentari forzitaliani contrari alle riforme renziane, ha minacciato di dar lavoro ai probiviri, cioè - come è stato scritto su questo giornale - alla Santa Inquisizione dei partiti. 

 In Forza Italia chi dissente è un traditore, da tempo. «Andatevene», ha detto il capo, scorato dalle preoccupazioni processuali e sorpreso da un dissidio così vigoroso. Andatevene da Alfano, ha detto, andatevene insieme con Fitto. E poi ad andarsene (dalla stanza) è stato lui, mentre una decina dei suoi aveva la mano vanamente alzata: non è stato loro consentito di illustrare le ragioni di divergenza. E così, guarda un po’, stavolta ne esce alla grande Beppe Grillo, uno che il vincolo di mandato lo teorizza: chi devia dall’ordine impartito - dalla rete o dal vertice - se ne vada fuori dai piedi. Sostiene la teoria citando Simone Weil, una che peraltro diceva esattamente l’opposto. Stavolta, però, è andato tutto liscio. Nessuna idea dissonante con cui vedersela, nessun dissidente da espellere. Il Movimento cinque stelle ha marciato compatto, con una disciplina degna dei rivoluzionari di Lenin del 1906.

Da - http://lastampa.it/2014/07/17/italia/politica/vietato-dissentire-cos-i-partiti-reintroducono-il-vincolo-di-mandato-cEW7XnJRNMLCBoVExhjzAN/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Berlusconi, l’assoluzione e il solito derby all’italiana
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2014, 06:33:17 pm
Politica
18/07/2014

Berlusconi, l’assoluzione e il solito derby all’italiana

Mattia Feltri

L’assoluzione di Silvio Berlusconi ha subito acceso il dibattito in Rete, un dibattito prevedibile siccome ripetitivo da un paio di decenni: chi ingiuria l’assolto perché rimane un criminale, chi la magistratura persecutrice (e in mezzo ci sono i giornali colpevoli di tutto). Ma un paese che amasse innanzitutto se stesso dovrebbe essere soddisfatto dell’assoluzione di un imputato, e a maggior ragione di un suo ex presidente del Consiglio, a qualsiasi schieramento appartenga. 

Per l’Italia, e per la sua non eccezionale immagine, è meglio sapere e far sapere di essere stata governata da un uomo che non ha commesso concussione né ha indotto alla prostituzione delle minorenni (soprattutto se quell’uomo è già stato condannato in via definitiva per evasione fiscale). Si tratta di una questione di orgoglio.

Naturalmente ognuno conserverà, ed è giusto che sia così, il giudizio sulla persona e sul leader: bisognerebbe convincersi che la moralità e le capacità di un uomo non coincidono con la sua fedina penale. E invece in queste poche ore si è infiammato il solito derby, utile soltanto a dimostrare che gli italiani – ma succede da secoli – sentono più l’appartenenza a una fazione che a una nazione.

Da - http://www.lastampa.it/2014/07/18/italia/politica/perch-lassoluzione-di-berlusconi-una-buona-notizia-per-il-paese-W2vQVmffDFnLuhGbxYBXlI/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Menti raffinatissime
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2014, 06:55:39 pm
Paesi & buoi
19/07/2014
Menti raffinatissime

Mattia Feltri

Le cose non sono mai come sembrano, specie a uno sguardo facilone. Per esempio, menti raffinatissime ci spiegarono che cosa stava dietro al Rubygate e alla successiva condanna: era parte di un diabolico piano per accoppare Berlusconi.

E adesso altre menti raffinatissime ci spiegano che cosa sta dietro l’assoluzione: è parte di un piano diabolico per resuscitare Berlusconi.

Rimane un solo mistero: come possa andare a rotoli un Paese così traboccante di intelligenze.

Da - http://lastampa.it/2014/07/19/cultura/opinioni/paesi-e-buoi/menti-raffinatissime-mkWgo6LODklELzH3K1eDeK/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - Da Togliatti, quel che resta del Pci. Zanzare killer e vecchi..
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2014, 06:03:06 pm
Zanzare killer e vecchi compagni. Da Togliatti, quel che resta del Pci
Al Verano, un manipolo di ex comunisti per i 50 anni della morte del Migliore. Delle nuove generazioni solo il ministro Orlando: “Fu una figura decisiva”

22/08/2014

Mattia Feltri
Roma

Dice Ugo Sposetti (senatore del Pd ed ex tesoriere dei Ds) che il 21 agosto del 1964, quando seppe della morte di Palmiro Togliatti, stava raccogliendo nocciole a Soriano nel Cimino, provincia di Viterbo. «Avevo diciassette anni e lavoravo per pagarmi gli studi». Lo dice al Verano, il cimitero monumentale di Roma, a pochi passi dalla tomba secondaria del Pci. Lì sono sepolti Sibilla Aleramo, la poetessa che fu l’amore di Dino Campana e fu fascista e poi comunista.

E anche Ottavio Pastore, il direttore dell’Unità che nel 1924 sfidò a duello Curzio Malaparte, ma ne uscì ferito e sconfitto perché non sapeva maneggiare la spada, e poi Aldo Lampredi, che partecipò alla fucilazione di Benito Mussolini a Giulino di Mezzegra, e Francesco Misiano, che portò Douglas Fairbanks a Mosca, distribuì la Corazzata Potëmkin in Germania e morì di crepacuore quando Mosca lo accusò di deviazionismo trotzkista. Una specie di tomba di famiglia. Anzi, una tomba di partito, perché nel Pci gli affetti venivano dopo la politica. Questo è giusto un angolino di lettere cadenti dalle lapidi e popolato da zanzare killer. Niente a che vedere col famedio.

Ieri, poco dopo le nove di mattina, una manciata di ex comunisti si è radunata all’ingresso principale del Verano per poi dirigersi in auto al famedio dov’è sepolto Togliatti (il Verano è il più grande cimitero d’Italia, percorso da un sistema viario lungo trentasette chilometri). Volti conosciuti: Sposetti ed Emanuele Macaluso. Dice Macaluso che è qui, e ci viene a ogni anniversario, se appena può, per motivi sentimentali: «Ho lavorato cinque anni con Togliatti, e fu decisivo per la mia crescita politica e culturale». Cinquant’anni fa era nella segreteria politica del Pci ed era in sede, in via delle Botteghe Oscure, quando dall’ambasciata di Russia lo avvertirono che il Migliore era morto a Yalta in conseguenza di un ictus. Il Togliatti che ricorda oggi Macaluso è quello che con la svolta di Salerno - cioè l’ingresso nel governo di Pietro Badoglio con i Partiti di liberazione nazionale - gettò le basi su cui avrebbe poggiato l’Assemblea costituente e cioè la Repubblica italiana. «E’ un padre della nostra democrazia, insieme con Alcide De Gasperi, con Pietro Nenni, con Ugo La Malfa, uomini che ci hanno insegnato come si stabiliscono le regole della convivenza politica. Ma sono tempre che oggi, purtroppo, non ci sono più».

Al famedio saremo in quaranta, forse cinquanta compresi i giornalisti. È arrivato anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Per l’età media dei partecipanti è un ragazzino. Ha 45 anni ma ha fatto in tempo, a venti, a essere eletto in consiglio comunale col Pci a La Spezia. Non è qui per conto del partito, dice. È qui e rappresenta sé stesso per «rendere omaggio a una figura decisiva nell’edificazione della nostra democrazia». Orlando dice che, a prescindere da calcoli ereditari ed elencazioni di pantheon più o meno utili, Togliatti non andrebbe dimenticato. Con tutte le contraddizioni della biografia eccetera. 

Il ministro centra il punto in pieno proprio nei giorni in cui si litiga sull’idea di intitolare ad Alcide De Gasperi la festa dell’Unità. Si ripensa all’agiografia perenne che si fa di Enrico Berlinguer. Si ripensa alle figurine e ai poster incollati sulla carrozzeria del partito a ogni revisione, coi Martin Luther King e i Nelson Mandela, calzanti a ogni coscienza, con i democristiani Aldo Moro e Giorgio La Pira, con l’America superbuona di Bob Kennedy e Barak Obama, e l’ultima volta nell’elenco saltò fuori di tutto, da Gandhi a Federico Fellini, fino a Italo Calvino e persino l’ex nemico pubblico Bettino Craxi. Un bel sintomo di totale confusione identitaria, e dire che il pantheon è qui, in pietra, disegnato all’inizio degli anni Settanta dall’architetto Gualtiero Costa. Come dice lo scrittore Fulvio Abbate, le lapidi che salgono alternativamente danno l’idea di una bocca sdentata. 

La cinquantina scarsa di celebranti rimane qui giusto qualche minuto, in silenzio. Nessun discorso. C’è la figlia adottiva di Togliatti, Marisa Malagoli. C’è Antonio Rubbi, vecchio dirigente della sezione esteri. C’è una delegazione di Fiano Romano guidata da Giuliano Ferilli, il babbo di Sabrina. Ci sono - dicono qua - i compagni di Ravenna, i compagni di Milano. C’è uno dell’Anpi che dice: «Quando dicono che manca Berlinguer rispondo che mi manca il partito». 

Scendiamo di sotto, guidati da una specie di “responsabile morti del Pci” dove ci sono le tombe. Eccolo il pantheon. Altro che idoli quartaginnasiali, Nobel per la Pace e Oscar alla carriera. In pochi metri quadrati ci sono (oltre a Togliatti) Nilde Jotti, Luigi Longo, Pietro Secchia, Giuseppe Di Vittorio, Ruggero Grieco, Mauro Scoccimarro, Mario Alicata, Camilla Ravera, Luciano Lama e tanti ancora. In pochi metri quadrati c’è un bel po’ di storia italiana, e molta storia della sinistra, nel tanto bene e nel tanto male che sono propri del Novecento. È una storia che sono rimasti in pochi a non aver rimosso, e oggi sono qui.

Da - http://lastampa.it/2014/08/22/italia/cronache/zanzare-killer-e-vecchi-compagni-da-togliatti-quel-che-resta-del-pci-laBbfhl3gSjrhG9STrmSiP/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. - L’ultimo smacco per Silvio Berlusconi, ormai non comanda più...
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2014, 06:30:04 pm
L’ultimo smacco per Silvio Berlusconi, ormai non comanda più nemmeno nel suo partito
Forza Italia né di lotta né di governo. E divisa dalle faide
Continua la fronda nel partito contro il leader

14/09/2014

Mattia Feltri
ROMA

Vasca dopo vasca, il mondo non dev’essergli sembrato un labirinto, ma una piscina. Sicché i suoi percorsi, che a noi popolino paiono sclerotici e rapsodici, per lui - per Silvio Berlusconi - sono tracciati liberi e lineari. 

Li affronta come quei nuotatori su con l’età, che trasformano la bracciata in un ceffone per togliersi di torno ostacoli e intrusi. Nuotava, quest’estate ad Arcore, anche se odia l’acqua. Si dice che per ribrezzo non abbia messo piede in mare in vita sua: si è sottoposto alla tortura soltanto per ragioni di linea (la classica dieta ferrea) e in cambio di dosi massicce di cloro. Gli è tornata così l’uveite, l’infiammazione all’occhio per cui in marzo si presentò in Senato con degli occhiali da sole da boss moldavo. Nuotava concentrato sulla sorte maledetta - di condannato in Cassazione e in piscina - e tutto il resto era scocciatura. 

«Non ci risponde più al telefono», è la geremiade collettiva e ormai antica dei forzitaliani. Riceve soltanto i soliti e ogni decisione, compresa quella su Antonio Catricalà alla Corte costituzionale, viene recapitata alla truppa con l’accortezza di un bigliettino lasciato al maggiordomo. È soltanto una questione di stile: lì dentro si è sempre fatto quello che diceva il capo, finché era a piede libero e non ancora così disgustato dalle relazioni di partito, e si prendeva la briga di convocare riunioni di modo da spacciare l’ordine per unanimità. Tempi remoti. 

Quando si trattò di incontrare Matteo Renzi al Nazareno, Berlusconi tenne uno degli ultimi incontri coi parlamentari e comunicò la scelta per poi mollare lì tutti, coi loro dubbi e le loro rimostranze da rimettere in tasca: parlatene fra di voi, se ci tenete. Fu interpretato come un segno di debolezza, e probabilmente lo era. Trattare gli altri da dementi non è un atto di autorevolezza. E poi si sa quali leggi regolano le comunità: quando Berlusconi aveva i denari, i voti, e non era semi-ingabbiato per esiti penali, era più complicato fargli la guerra. Ora gliela si fa e per mille ragioni.

L’uveite stavolta ha costretto l’ex premier a farsi vedere sulle tribune di San Siro con gli occhiali da vista. Anche questo è un allegro mistero che ci insegue da lustri: in passato ci vedeva perfettamente, oppure portava lenti a contatto? 

 
L’ozioso dibattito conta soltanto per chi, anche questo settembre, conta gli anni (78 il giorno 29) e ne trae indicazioni. L’immagine, con Berlusconi al centro, la figlia Barbara a un lato e Adriano Galliani all’altro, è la definitiva istantanea del momento: vecchi amici con cui ha costruito l’impero e giovani leve a cui avrebbe voluto lasciarlo, se non gli si stesse sfarinando fra le dita, come la malinconica campagna acquisti della società rossonera dimostra stagione dopo stagione. 

Una volta dà sponda ai primi, quell’altra la dà ai secondi. Si prenda il caso di Renato Brunetta: ogni tre per due arrivano notizie da Arcore sull’irritazione del boss per la guerriglia mossa dal Mattinale a Matteo Renzi; poi Brunetta viene ricevuto (uno che ancora ce la fa perché, oltre a strepitare in anarchia come gli altri, ci mette un po’ di ciccia) e quando ne esce spiega: «Mi ha dato ragione su tutta la linea». Dunque: Berlusconi ne vede pochi e quei pochi li accontenta tutti, infischiandosene del caos conseguente. E intanto delega a Mariarosaria Rossi il compito di tenere a bada quei gattoni spelacchiati del partito, e lei lo fa con la grazia curvaiola con cui ha liquidato Raffaele Fitto e la sua eterna battaglia per le primarie. Il dibattito politico, con lei, è concentrato sulla questione dei soldi che i parlamentari non versano al partito - altra azienda berlusconiana coi conti non proprio solidissimi - e la faccenda è riassumibile così: la Rossi dice che chi non paga non sarò ricandidato, e chi sa di non essere ricandidato (o rieletto) tanto più non paga. 

Spiega uno col cervello fino che Berlusconi ha oggi l’aria del cane dell’ortolano, che non mangia l’insalata e sta attento che non la mangino gli altri: né di lotta né di governo. Fosse un film, sarebbe perfetta la sequenza di lui che nuota e il rumore è soltanto delle mani che picchiano l’acqua. Insomma, è una cosa che gli fa schifo ma va fatta, e la deve fare lui soltanto, senza rompitasche fra i piedi. La sua vasca è il mondo del renzismo in cui restare a galla. Dare una mano al premier su tutto, farlo durare, collaborare ai suoi successi (sempre se successi saranno) per ottenere il massimo, e cioè la riabilitazione: salutare la politica da vincitore morale di un ventennio che si compie, infine, con la scomparsa degli avversari e l’avvento di un giovanotto non prevenuto e replicante, salutarla da padre costituente e non da frodatore fiscale. Tutti fermi e tutti zitti sinché Strasburgo non si pronuncerà sulla condanna in Cassazione e sull’espulsione dal Senato, attesa ad Arcore con l’ottimismo dei giorni di sole. Ma il problema drammaticamente trascurato è: avere ridotto Forza Italia a quartiere di gang non finirà col fare danni proprio a Berlusconi e a Renzi?

Con tutto il tempo libero che aveva, quest’estate si è anche guardato in dvd i discorsi di Benito Mussolini e Adolf Hitler. Interesse puramente storico, naturalmente. Feticismo culturale. Il Duce e il Fuhrer, due che - convinti o obbligati - non si sono mai arresi, nemmeno all’evidenza. E infatti una vocina amica suggerisce l’interpretazione finale: nell’intervista a Repubblica di un paio di giorni fa, Mariarosaria Rossi non ha rilanciato la candidatura di Marina Berlusconi (che ha i suoi guai coi bilanci della Mondadori), ma di «un Berlusconi». Magari uno ripulito dalla Corte europea, uno che rifà la Costituzione, uno che non si arrende mai, nemmeno all’evidenza.

Da - http://www.lastampa.it/2014/09/14/italia/politica/lultimo-smacco-per-silvio-berlusconi-ormai-non-comanda-pi-nemmeno-nel-suo-partito-pIAfOD8f2dVSfTtBWFA3LM/pagina.html?ult=1


Titolo: Mattia Feltri Ma che figura i miti salvifici del nuovismo
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2014, 11:21:08 am
Ma che figura i miti salvifici del nuovismo

07/12/2014
Mattia Feltri

Bella fine hanno fatto le nostre ricette miracolose per una buona politica, quelle idee stagionali di rivoluzione etica: il ricambio generazionale, i nuovi sistemi di finanziamento ai partiti, la paleontologica discussione attorno alle preferenze o alle nomine.

La vicenda di Roma, intermedia fra cinepanettone e le mani sulla città, ha tirato fuori il velleitarismo delle vertenze da salotto, animate da contendenti tutti con la pietra filosofale in tasca. Abbiamo fatto, di faccende incidentali, miti così inconsistenti che la volta dopo, costernati, saremo pronti a ribaltare tutto, con altrettanta certezza salvifica: l’esperienza contro l’inesperienza, il pubblico contro il privato, la selezione dall’alto contro il plebiscito dal basso. Vent’anni fa ci ammalammo di nuovismo - si usava questo termine - per cui ciascun residuo di Prima repubblica andava accantonato per qualcosa di inedito e dunque di per sé migliore; si fece spazio a ogni genere di saltimbanco della società più o meno civile, e a ogni sopravvissuto delle idee assassine del Novecento, in grado però di esibire mani pulite. 

Ora, nel passaggio alla Terza repubblica (davvero?), soprattutto per emulazione di Beppe Grillo e di Matteo Renzi, ci siamo buttati in uno sfrenato giovanilismo, in una curiosa e ferrea fiducia nell’implume. Ecco, andiamo a vedere che si dice a Roma di questi semi-esordienti figli della rottamazione - introdotti come si vede da una terminologia sfrontata. Certo, sotto accusa ci sono Gianni Alemanno e il capo delle cooperative, Salvatore Buzzi, che sono avviati alla sessantina, ma il grosso degli indagati sono poco più che piccini, tutti compresi fra i 34 e i 42 anni (Daniele Ozzimo ed Eugenio Patanè del Pd, Luca Gramazio di Forza Italia e Mirko Coratti che ha già fatto in tempo a militare in entrambe le formazioni), e della stessa età sono gli altri tirati in ballo dalle intercettazioni, ma non sotto inchiesta: Micaela Campana (37), Giordano Tredicine (32) fino a Tommaso Giuntella (28) che grida la sua innocenza come la gridavano, inascoltati, i campioni della senilità corrotta (vogliamo parlare del pluriassolto Clemente Mastella?). 

Nel frattempo l’alta teoria imperversa. Dal Nuovo centrodestra si difende la battaglia per le preferenze nonostante i mascalzoni dei consigli comunali e regionali, coi loro compari nella malavita e i loro famelici e fantasiosi rimborsi spese, ne vantino a migliaia e decine di migliaia; la risposta è che pari delinquenti sono usciti dalle liste bloccate, ma con le medesime tesi e antitesi si potrebbe andare indietro nei decenni, almeno fino ad Alfredo Vito, che con i suoi centomila voti e i suoi processi per collusioni con la camorra (prosciolto, però) divenne l’incarnazione del male al tempo in cui le preferenze erano poco di moda.

E non è andata diversamente con l’abolizione del finanziamento pubblico, che dovrebbe essere un caposaldo democratico se non venisse usato per ostriche e vibratori; le cene di fundraising organizzate dal Pd di Renzi erano state presentate, con quel po’ di prosopopea da colonizzatori di terre sconosciute, come la formula nuova del partito fresco e dinamico, capace di mantenersi da sé. La questione formidabile - e formidabilmente dimostrata nella circostanza - è che se alla cena di fundraising arriva Salvatori Buzzi - per il semplice motivo che è capo delle cooperative e dunque affine alla casa - il problema non è la regola. Se ladruncoli e ladroni entrano in circolo indifferentemente se scelti dai cittadini o dalle segreterie, il problema non è la regola. Se ladruncoli e ladroni sono padri e figli, giovani e vecchi, il problema non è il ricambio generazionale. Il problema delle regole è che ne siamo allergici, a qualsiasi regola, dalle strisce blu dei parcheggi alla grande corruzione di palazzo, e - come diceva il saggio - la regola è una sola: finché non cominceremo a spazzare il tratto di marciapiede fuori da casa nostra, il mondo non sarà mai pulito.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/07/cultura/opinioni/editoriali/ma-che-figura-i-miti-salvifici-del-nuovismo-jHMaPt3VztuTMoqnwYTYeP/pagina.html?ult=1


Titolo: Mattia FELTRI. “Efficiente”; “Un disastro” Le giravolte dei politici sulla...
Inserito da: Arlecchino - Agosto 23, 2016, 11:31:10 pm
Emma Bonino: “Dominano le agende nazionali. L’Ue trattata come un robivecchi”
L’ex ministro degli Esteri: «Francia e Germania hanno le elezioni, noi il referendum. Difficile ripartire da Ventotene.
Sul burqa ha ragione la Merkel»

Radicale
Emma Bonino, storica leader del movimento dei diritti civili, è stata ministro degli Esteri nel governo Letta

20/08/2016
Mattia Feltri
Roma

«Angela Merkel ha ragione quando dice che bisogna regolamentare l’uso del burqa nei luoghi pubblici. Io sono senza fiato, da quanto lo ripeto», dice Emma Bonino, radicale, ex ministro degli Esteri ed ex commissario europeo agli Aiuti umanitari.

Fra il no al burqa di Merkel e il no al burkini del premier francese Valls c’è una differenza.  

«Naturalmente, intanto il burqa e il burkini sono due cose diverse: il burkini lascia scoperto il viso e il burqa no quindi impedisce l’identificazione di chi lo indossa. In Italia una legge che impedisce di circolare col volto coperto è stata varata negli anni del terrorismo. Non è una questione religiosa, sennò se turba l’esibizione di simbolo confessionale poi toccherà vietare i turbanti dei sikh o i payot degli ebrei, cioè i boccoli. La questione è che chi sta in un luogo pubblico, dalle scuole alle strade, deve essere identificabile. La nostra è una società basata sulla responsabilità individuale, peraltro elemento indispensabile per qualunque politica di integrazione».

E col burkini si è identificabili.  

«Esatto. Come impedirne l’uso? Non c’è nessun dettato costituzionale, neanche in Francia, su cui poggi una legislazione di ordine vestimentario, diciamo così. E mi inquieterebbe uno Stato che mi dicesse come devo vestirmi. O svestirmi. Poi possiamo discutere della libertà di cui spesso le donne islamiche non godono. La strada della loro emancipazione sarà lunga, tortuosa, difficile. E segnalerei che per molte musulmane il burkini è un passo importante, che consente loro di stare in spiagge non segregate, cioè insieme con gli uomini. Non per tutte ovviamente, in alcuni Paesi pur a religione musulmana le donne sono già più avanti».

 Difficile che si discuta di questo nel vertice di lunedì a Ventotene. Renzi ci punta molto, anche per la suggestione del posto, dove Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi hanno scritto il loro Manifesto. Ma non pare esserci un’agenda sull’integrazione.  

«In politica i simboli sono importanti se sono seguiti da iniziative politiche e l’impressione è che per Hollande, Merkel e Renzi domineranno le agende nazionali. Del resto in Francia e in Germania si vota e in Italia c’è il referendum, e questo non mi sembra un periodo in cui le spinte all’integrazione federalista europea siano particolarmente popolari. Temo sia inevitabile che la ripartenza del progetto europeo di cui parla Renzi rimanga ai margini, o sia ulteriormente ritardata ma l’importante è che non venga archiviata come un robivecchi, e rimanga l’obiettivo per cui lavorare».

Lei ritiene che un giorno si potrà ricominciare a lavorare per l’integrazione, su cui oggi siamo così indietro?  

«Per come vedo il mondo, non credo che gli Stati nazionali possano essere all’altezza delle sfide. Ma io rimango fedele alla straordinaria sintesi di Adenauer: Ventotene fu la visione di pochi, è diventata la realtà per molti e diventerà una necessità per tutti».

C’è stata la Brexit a complicare le cose.  

«E sarà una difficoltà non da poco, anche perché Francia e Germania hanno idee diverse su come gestirla, più drastica quella francese, mi pare appoggiata dall’Italia, e più soft quella tedesca. E ricordo quando uscì la Groenlandia, cioè due pesci e due pescatori, e ci si mise tre anni. Figuriamoci stavolta».

E intanto il mondo brucia. Come trovare un’azione unica in Libia?  

«E’ un problema enorme che dimostra come le capitali europee abbiano e perseguano interessi diversi. La Francia più vicina a Tobruk, e dunque all’Egitto e agli Emirati Arabi, altri più vicini al governo nazionale. Aggiungiamo che negli ultimi anni nel Mediterraneo sono nati Stati e sono emerse aree geografiche con obiettivi contrastanti. Aggiungiamo che le monarchie del Golfo sono contro i Fratelli musulmani per questioni non certo religiose ma di predominio economico. Che in Siria c’è una vastissima coalizione in cui ognuno segue obiettivi e strade proprie. Insomma, è un groviglio di cui non si vede neanche un’ipotesi di soluzione».

 

Inutile così sperare in passi avanti nella sicurezza.  

«E’ quello che sto dicendo. Nel 2015 ci sono stati 11 mila attentati di matrice islamica, soprattutto in Afghanistan, Pakistan, Sudan e Somalia, con sconfinamenti europei. Per ora non c’è possibilità di soluzione, anche in Europa, visto che tutto è affidato agli Stati nazionali che non mettono in comune neanche le liste dei sospettati. La sicurezza è affidata agli Stati, i confini esterni agli Stati, le politiche dell’integrazione dei migranti pure. Non so che cosa debba ancora capitare perché si cambi direzione».

Un’ultima domanda: Aleppo non rischia di diventare una nuova Sarajevo, il punto dove i civili muoiono e un nuovo disastro si annuncia?  

«Lo è già, basta guardare le cifre. Aggiungo che oggi il Kosovo e la Bosnia, e soprattutto Sarajevo, la città simbolo della secolare convivenza religiosa, sono brulicanti di donne in burqa, prima inesistenti, e sintomo di un’islamizzazione interna finanziata dai sauditi. Un’altra minaccia che continuiamo a non vedere».

 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/08/20/italia/politica/emma-bonino-dominano-le-agende-nazionali-lue-trattata-come-un-robivecchi-2aO8RDGgm0yyFIzsO5xF9O/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. Dario Fo, dalla fedeltà a Salò all’ostilità per l’Occidente
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 15, 2016, 07:33:29 pm
Dario Fo, dalla fedeltà a Salò all’ostilità per l’Occidente
Volontario nella Rsi, simbolo della gauche, antisionista: la parabola dell’estremismo attraverso il Novecento

14/10/2016
Mattia Feltri

Sarebbe forse un errore attribuire a Dario Fo - come fanno molti antipatizzanti - una volatilità ideologica, per le militanze dall’estrema destra all’estrema sinistra, fino ai cinque stelle. Ma a guardare bene, la vita politica del Nobel ha seguito una linea di coerenza espressa attraverso un ribellismo giovanile simile a quello adulto e senile: il giuramento di fedeltà al manifesto di Verona, fondativo della Repubblica di Salò, contemplava la lotta per l’«abolizione del sistema capitalistico interno e contro le plutocrazie mondiali» che tanto assomiglia alla dichiarazione d’intenti del Soccorso Rosso, la struttura degli Anni Settanta che si riprometteva di «sostenere compagni incarcerati nel corso delle lotte antifasciste ed antimperialiste a livello nazionale ed internazionale». Il linguaggio è soltanto leggermente diverso, da «plutocrazie» si passa a «imperialismo», ma è comunque una dichiarazione di guerra alla società occidentale, o almeno a quella maggioritaria, capitalista e liberale, che si è opposta prima al nazifascismo poi al comunismo vincendo entrambe le sfide. 

Ora, va specificato che Fo ha sempre ridimensionato la sua partecipazione da volontario al fascismo della bella morte di Salò, prima dichiarandosi una quinta colonna della Resistenza, poi uno che cercava di «salvarsi la pelle», e sarebbe comunque ingiusto attribuire valore storico alle sentenze di tribunale che autorizzano a definirlo «rastrellatore». Ma, insomma, una linea fra quelle due fasi della vita, disconosciuta la prima e rivendicata la seconda, è abbastanza visibile e anche dolorosa. La Repubblica sociale era nata, fra l’altro, qualificando stranieri «gli appartenenti alla razza ebraica» e «appartenenti a una nazionalità nemica». In uno spettacolo teatrale del 1972, al feddayn (che dava nome all’opera) si consegnava la dimensione di «nemico numero uno dell’imperialismo, del sionismo e della reazione araba».

Anni dopo, rifacendosi a un testo di Nelson Mandela, Fo ha paragonato la situazione dei palestinesi a quella dell’apartheid sudafricano e, ancora di recente, in un’intervista per i suoi novant’anni, ha sostenuto che gli ebrei si avvalgono della «loro brutalità contro chi segue altre religioni». Sono frasi per cui Fo si è guadagnato esorbitanti accuse di antisemitismo, almeno per il Fo post-Salò, ma l’antisionismo, quello sì, era orgogliosamente rivendicato. Ed era parte fondante dell’antimperialismo che lo ha condotto ad analizzare l’11 Settembre prima come una reazione dei poveri sui ricchi («questa violenza è figlia legittima della cultura della violenza, della fame e dello sfruttamento disumano»), poi a fare da voce narrante di un documentario cospirazionista scritto da Giulietto Chiesa, e secondo il quale gli attentati del Wto e del Pentagono erano strumento di un grande complotto a sfondo petrolifero. Proprio come succede sempre, disse Fo, «fin dall’omicidio Kennedy». 

Per un intellettuale di tale formazione era naturale finire dalle parti di Beppe Grillo. Alla lunga il sugo è sempre quello: la realtà offerta è una realtà contraffatta: il mondo occidentale è basato sullo sfruttamento di pochi forti su molti deboli, e con la collaborazione della menzogna.

Del resto sono sentimenti ai quali è in parte ispirata la terribile lettera del 1971 all’Espresso - firmata da Fo e da parecchi altri - nella quale si giudicava il commissario Luigi Calabresi colpevole della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, e nella quale si proclamava una ricusazione di coscienza «rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni». Era soltanto una grande recita a cura di istituzioni statali a cui non era più riconosciuta cittadinanza. Soprattutto al commissario Calabresi, che in quel coro furente era indicato come agente della Cia, e cioè avanguardia degli oppressori, gli imperialisti, gli oscuri nemici di sempre.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/14/cultura/dalla-fedelt-a-sal-allostilit-per-loccidente-6WbhpnpsVFHTi9L0QWRI5L/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. “Tu fai più schifo di me”. E la Camera diventa un mercato
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 25, 2016, 05:15:26 pm
“Tu fai più schifo di me”. E la Camera diventa un mercato
Brunetta: gli stipendi siano uguali al reddito precedente
Oggi è previsto l’arrivo show di Beppe Grillo. La proposta M5S di dimezzare le indennità nasce dai giorni di polemica intorno all’uso disinvolto dei rimborsi da parte di Di Maio

25/10/2016
Mattia Feltri
Roma

«Tu fai più schifo di me»: ecco l’arma segreta. Non si direbbe un’arma vincente, specie in una pluridecennale fase di discredito della politica. Eppure continua ad andare forte. Ci sono deputati, qui alla Camera, che sembrano le scimmie di 2001 Odissea nello Spazio, brandiscono ossa, se le danno vicendevolmente in testa e poi si battono il petto. L’onorevole Alan Ferrari, del Pd, ha trovato arguto e contundente spulciare nelle rendicontazioni dei cinque stelle, ossia 12 mila euro di taxi qua e quasi 17 mila di trasporti extra di là, a dimostrare l’immoralità dei moralizzatori. Poi toccherà rispondere alla domandina del grillino Alessandro Di Battista che impegna dieci secondi - mentre gli altri avevano da dipanare architetture logiche per minuti e minuti, e qui tocca segnalare Dore Misuraca del Nuovo centrodestra che, in un discorso della alte proprietà sedative, è riuscito a riproporre la citazione più citata di tutti i tempi, di Pietro Nenni («Nella gara fra i puri trovi sempre uno più puro che ti epura»), e a iscrivere Umberto Terracini al Pd, «se qualcuno non lo ricordasse». Ed è vero, non lo ricordava nessuno, visto che il costituente Terracini è morto nel 1983.

La domandina di Di Battista era la seguente: «Siete d’accordo a dimezzarvi gli stipendi, quindi guadagnare 3 mila euro netti, più spendere tutto quel che dovete spendere per l’attività politica, e restituendo ai cittadini italiani tutto quello che non spendete per la vostra attività politica?». (Subito dopo lo ha ripetuto Luigi Di Maio che evidentemente non si era accordato con Dibba e ha rimediato la figura del bagonghi). Del resto, se il livello del dibattito è questo, tante parole non servono. Né pare un suggerimento alla riflessione, per tornare al piddino Alan Ferrari, quello a proposito degli emolumenti riservati al sindaco di Roma, la cinque stelle Virginia Raggi, e cioè se i 10 mila euro lordi d’indennità siano «meritati». Nel calcio si dice buttarla in tribuna, a Roma buttarla in caciara, e dunque per una volpe come Renato Brunetta è stato un gioco venirne fuori da gigante, con un discorso quasi sussurrato, saggio, ironico, come non se ne sentivano da un po’. 
 
«È noto come in tutti gli ordinamenti ispirati alla concezione democratica dello Stato sia garantito ai parlamentari, rappresentanti del popolo sovrano, un trattamento economico adeguato ad assicurarne l’indipendenza», ha detto Brunetta, trascurando volutamente che si pensava la questione chiusa da un centinaio d’anni almeno, e prima che arrivassero i nuovi interpreti della virtù. L’indennità, ha proseguito Brunetta, ha permesso «il superamento del Parlamento degli aristocratici, dei possidenti, dei notabili, e l’ingresso dei ceti popolari». Per cui la faccenda è: un parlamentare non deve arricchirsi, d’accordo, ma deve impoverirsi? Meglio pensare a una legge, ha detto Brunetta, meno marmorea, che sollevi meno sospetti: «Proponiamo di calcolare l’indennità da corrispondere ai deputati e ai senatori sulla base del reddito percepito prima dell’elezione». 

L’onorevole che faceva l’operaio continuerà a guadagnare da operaio, chi faceva il professore universitario continuerà a guadagnare da professore universitario, e se arrivano miliardari come l’ottimo Alberto Bombassei, titolare della Freni Brembo, si studierà un tetto. Una proposta forse seria, di sicuro studiatamente comica, e col finale a sorpresa: e chi era disoccupato (molti dei cinque stelle)? «Reddito di cittadinanza», ha detto Brunetta, ed è pure «un’utile sperimentazione di uno strumento che tanto sta a cuore ai nostri amici del Movimento».

E la storia potrebbe chiudersi qui, non fosse che ricomincerà oggi, con tifoserie grilline all’esterno e il gran capo Beppe Grillo in tribuna. È il gioco piccino, e da entrambe le parti, attorno al referendum: chi sostiene che le riforme fanno risparmiare, chi sostiene che bastano due tagli per risparmiare di più. Peccato che ieri in aula ci fossero solo settanta o ottanta parlamentari: il modo migliore per far risplendere la paccottiglia. 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/25/italia/politica/tu-fai-pi-schifo-di-me-e-la-camera-diventa-un-mercato-dMzFxZUWK4bWDetSSFrvmN/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. Il dovere di ascoltare i loro cuori
Inserito da: Arlecchino - Novembre 03, 2016, 12:07:40 pm
Il dovere di ascoltare i loro cuori

02/11/2016
Mattia Feltri

L’importante è che ascolti. C’è anche una sedia, per te, pure se sei un giornalista, oggi eccezionalmente non sei uno scocciatore: siedi e ascolta. «Ho bisogno di parlare», diceva due giorni fa Gabriela, che a 69 anni aveva scoperto il mare, lì al camping Holiday di Porto Sant’Elpidio, sua destinazione di sfollata. «Parlo e mi calmo un poco», aveva detto. Venga qui, ascolti, avevano detto gli abitanti di Pieve Torina, i pochi rimasti, mentre il loro sindaco discuteva su che fare col presidente della Marche, Luca Ceriscioli; avevano allargato il cerchio e aperto un posto per il cronista. 

Devi ascoltare anche se non puoi fare niente. «Avrei bisogno di soldi», aveva detto una signora, una vecchia curva con lampi d’intelligenza, seduta nel cortile dell’hotel Velus di Civitanova Marche: era scappata di casa con cinquanta euro in tasca perché pensava di tornare presto, e poi i cinquanta euro sono finiti alla svelta.

«Le posso dare qualcosa, signora? E’ solo un prestito». «No, ma che dice? No, ho bisogno di soldi ma non da lei, non mi dia niente, quando la rivedo? Ascolti, mi ascolti un po’: ho bisogno che mi facciano tornare in casa perché i miei soldi sono lì: ascolti bene, e scriva». 

Ascolta: uno ha bisogno di biancheria intima, uno ha bisogno di sapere se la scuola dei figli sarà organizzata in campeggio o al paese, uno ha bisogno di un’auto per tornare dalle sue pecore, uno ha bisogno di salire al paese perché ha due prosciutti e vuole portarli in albergo per offrire l’antipasto, uno ha bisogno di andare a Rieti dove vivono i figli che per la paura dormono in macchina, uno ha bisogno di cibo per il cane, uno ha bisogno di sistemare le bollette perché sono in scadenza e non le ha pagate, uno ha bisogno di un supermercato per comprare il dentifricio, uno ha bisogno che qualcuno parli con la madre e la tranquillizzi un po’, uno ha bisogno di stringere una mano e di dire grazie, «grazie di essersi fermato un po’ con noi».

C’è anche chi non ha bisogno di niente, di essere lasciato in pace. Poi non c’è soltanto il bisogno, c’è anche il desiderio. Per fortuna gli italiani lo sanno quanto è fondamentale il superfluo. Arrivano i giocattoli per i bambini, i fumetti, le carte da gioco, le saponette, i profumi, le donne in macchina ad accompagnare questa gente dove deve essere accompagnata. A Civitanova, in una settimana, gli sfollati sono stati ospitati in tre ristoranti diversi, per un pescetto alla griglia, una pizza, qui tutti insieme, quel che si può. Certo, all’inizio è facile, c’è tutto lo slancio del cuore, e poi alla lunga ci si distrae e si dimentica.
Ma ecco che cosa serve: esserci, ascoltare, portare i pasticcini, le parole incrociate, i figli perché giochino coi figli degli altri. Oggi, e poi domani, e sarà necessario soprattutto la settimana prossima e il prossimo mese e finché durerà. Questa è gente che è stata costretta ad abbandonare tutto, e adesso ha paura di essere abbandonata. Basta sedersi e ascoltare, è già più di un po’. 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/02/cultura/opinioni/editoriali/il-dovere-di-ascoltare-i-loro-cuori-IDy88oBxpCVBCSYFlvThfI/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. La fascinazione italiana per Fidel e quel grande equivoco ...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 26, 2016, 09:12:01 pm
La fascinazione italiana per Fidel e quel grande equivoco romantico
Da Gianni Minà a Raffaella Carrà al rapporto tra Pci e Cuba: in fondo conta più quello che rappresenta di quello che è stato

Pubblicato il 26/11/2016 Ultima modifica il 26/11/2016 alle ore 10:54
Mattia Feltri

Il grande equivoco romantico è che Cuba fosse la trasposizione fisica e geografica di Macondo. E che Fidel fosse l’incarnazione storica di Aureliano Bendìa, che aveva promosse guerriglie e sommosse a decine, dove la vittoria bastava fosse ideale. E infatti il luogo e l’eroe di Cent’anni di solitudine avevano fatto del suo autore, il sommo Gabriel Garcia Marquez, l’amico e il garante della purezza di Cuba.

Ancora, infatti, fra i sostenitori del piccolo stato caraibico contro il Golia americano anche in Italia c’erano (o ci sono) molti campioni della cultura e dello spettacolo, prima ancora che dei partiti. Gianni Minà era il totem, diciamo così, attorno a cui ruotavano il filosofo Gianni Vattimo e il maestro Claudio Abbado, il riverito giornalista Alberto Ronchey e l’illuminato editore Giangiacomo Feltrinelli, la popstar Zucchero e la decana dell’entertainment a colori, Raffaella Carrà. E poi ancora Gina Lollobrigida, che all’elogio del rivoluzionario faceva precedere quello delle mani, «così belle», e Carla Fracci, cosciente del regime dittatoriale cubano, e però niente poteva prevalere sulla «grande considerazione che il balletto gode nei paesi socialisti».

E dunque tutti castristi, per ragioni diverse, e con diverse intensità, talvolta rafforzate e altre indebolite dal tempo, dall’annacquarsi dell’utopia, e così anche il più giovane dei castristi, Gennaro Migliore, ora nel Pd, fu visto una sera a Milano ad ascoltare con attenzione Mario Vargas Llosa, Nobel per la letteratura e irriducibile nemico di Garcia Marquez.

È che il rapporto fra il Pci e Cuba non è mai stato semplicissimo: grande attenzione e simpatia all’inizio, poi una certa diffidenza proprio per la natura un po’ eccentrica del comunismo cubano: andarono sull’isola Enrico Berlinguer e Luigi Pintor, Pietro Ingrao e Rossana Rossanda, tornando sempre con più perplessità che entusiasmi. E lasciando progressivamente il castrismo e il guevarismo alle fascinazioni sessantottine, e poi ai partiti minori della seconda Repubblica, dove si ricorda un «lunga vita, caro comandante», spedito da Fausto Bertinotti a Castro per i suoi ottant’anni nel 2006.

In fondo conta più quello che rappresenta di quello che è stato, purtroppo, così anche oggi non soltanto l’eterno Marco Rizzo, rivalutatore di Stalin, ma pure il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, possono ricordarlo come un liberatore, piuttosto che come un tiranno.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/26/esteri/la-fascinazione-italiana-per-fidel-e-quel-grande-equivoco-romantico-qnWnE2q8p4oyNjp2ZzB5aM/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. Se col referendum tornano guelfi e ghibellini
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 05, 2016, 04:32:01 pm
Se col referendum tornano guelfi e ghibellini

Pubblicato il 03/12/2016
Ultima modifica il 03/12/2016 alle ore 07:45
Mattia Feltri

Cominciamo subito: «Ora che siete arrivati voi siamo in perfetto equilibrio, due per il Sì e due per il No». Lui è un caro amico, di destra per storia familiare, passato dal Movimento sociale a Silvio Berlusconi fino al disperato voto a Roberto Giachetti al ballottaggio per Roma («Aho, me so’ buttato a sinistra!»); lei, la sua compagna, è di sinistra ondeggiante fra la grande casa madre e le formazioni più estreme, o più pure. Non sono mai stati d’accordo su niente, ma ora è tutto un bacetto, un’affinità politica che ha dello struggente, accomunati da rinnovate convergenze parallele: lui pensa che la caduta di Matteo Renzi riporterà in gloria il berlusconismo, lei che la medesima caduta le restituirà una sinistra pensosa. Noi che li raggiungiamo siamo elettori più disillusi, per niente ideologici, però il derby è inevitabile: l’abbrivio era quello, il resto una conseguenza dall’antipasto all’ammazzacaffè, e con toni così costruttivi che in paragone un duello Salvini-De Luca passerebbe per un seminario a Tubinga. 

Non è che siamo partiti piano: subito accuse di cecità, dabbenaggine, demenza senile, e per usare qui sinonimi pubblicabili. Ci si è lasciati in una fase di tregua, con la promessa che ci saremmo rivisti soltanto a referendum celebrato, anche se lo sconfitto probabilmente avrà ancora molto da ridire.

Ecco che cosa è diventata questa campagna elettorale: non soltanto lo sciagurato e avvilente spettacolo dei talk show, ma quello ben più misero delle nostre vite private. Abbiamo ritrovato i più scorrevoli terreni di scontro, la perfetta polarizzazione, bianco o nero: abolito il terzismo. E così che la coppia di amici ha imprevedibilmente siglato il suo piccolo patto Molotov-Ribbentrop, e così che gente più contenuta ha riscoperto il gusto dell’irriducibile partigianeria. O di qui o di là, come diceva una trasmissione televisiva di Pialuisa Bianco di oltre venti anni fa, al tempo in cui la nuova legge elettorale maggioritaria ci aveva sottratto il voto da palla buttata in corner per obbligarci a quello manicheo, irrimediabile, destra o sinistra, e soprattutto con Berlusconi o contro Berlusconi, l’uomo attorno a cui sono ruotati i destini dei nostri rapporti parentali e amicali. E finché la consunzione del Cav non ci aveva di nuovo liberati dalla logica del ring. 

 Macché, ecco Renzi e siamo punto e capo, bene assoluto contro male assoluto perché dire «Renzi non è male» procura accuse di mercenarismo e leccapiedismo, mentre dire «Renzi non mi convince» equivale a essere sfascisti e populisti. Andate a vedere che cosa succede sui social: vecchi amici o alleati che rompono i rapporti, speriamo momentaneamente, attraverso reciproche e violentissime denigrazioni. E’ il nostro giardino di casa: nei giorni della morte di Claudio Pavone, che per primo a sinistra definì civile la guerra di liberazione, provocando una nuova guerra civile, viene da pensare che la guerra civile è sempre, come lo fu su Craxi e su Berlusconi, e così ancora, escludendo che l’avversario, e cioè il commensale, il collega, il vicino di casa, abbia motivazioni meno che meschine.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/03/cultura/opinioni/editoriali/se-col-referendum-tornano-guelfi-e-ghibellini-LbeDS49UtEJupxV16VMYHJ/pagina.html


Titolo: Mattia FELTRI. “Efficiente”; “Un disastro” Le giravolte dei politici sulla...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 24, 2017, 06:02:35 pm

“Efficiente”; “Un disastro” Le giravolte dei politici sulla Protezione civile
Il giudizio cambia se si è maggioranza o minoranza
Criticità. Chi accusa la Protezione civile parla di carenza di turbine, aiuti lenti e previsioni del tempo ignorate

Pubblicato il 21/01/2017
Ultima modifica il 21/01/2017 alle ore 08:51
Mattia Feltri

I soccorsi non si sa, ma le polemiche sono state tempestive. «Il simbolo di questo terremoto è il campanile di Amatrice, l’emblema dei ritardi di questo governo», ha detto mercoledì Luigi Di Maio dei cinque stelle a terra ancora tremante. E dopo un giorno di collaborazione offerta, ieri Beppe Grillo ha scritto sul blog di «situazione allo sbando», di «mutismo che non possiamo accettare», e di «Italia messa in ginocchio da nevicate ampiamente previste». Matteo Salvini in questi giorni ha girato nelle zone devastate denunciando il «governo che dorme», di «politicizzazione della Protezione civile», anche lui in approfondimento meteorologico a proposito della bufera annunciata (tesi molto diffusa in queste ore), e fino a un’annotazione etnica sorprendente: «I primi ad arrivare all’hotel Rigopiano sono di Belluno. Forse una Protezione civile più efficiente a Pescara ci avrebbe potuto mettere meno». Giorgia Meloni (F.lli d’Italia) è andata a colpo sicuro: «Il governo pensa più alle banche che ai terremotati». Forza Italia si è affidata ai talenti agonistici di Maurizio Gasparri: «È apparsa sostanzialmente inadeguata l’azione di soccorso alle popolazioni terremotate», e dopo aver rifiutato il processo mediatico ai carabinieri per il caso di Stefano Cucchi, lo ha chiesto per i responsabili della sottovalutazione (sempre che tale sia stata) del disastro Rigopiano: «Fuori i nomi». 

Si sarà notata la tradizionale spaccatura fra chi critica, tutti all’opposizione, e chi no, tutti in maggioranza, per cui si può supporre, con un po’ di malizia, che a ruoli invertiti si sarebbero invertiti gli atteggiamenti, come si è sperimentato in precedenti casi, per esempio all’Aquila. Le tesi d’accusa sono suggestive e ampie: dalla carenza di turbine, agli aiuti lenti, alle previsioni del tempo ignorate, a direttive sui modi per ripristinare l’energia elettrica fino a temerarie indicazioni su come si pilotano gli elicotteri al buio e sotto la tormenta. Venire a capo di ipotesi così vaste e spericolate, e in una situazione di dimensioni e gravità enormi, è molto complicato, ma qualche contributo si riesce a darlo. A proposito delle nevicate «ampiamente previste», il sito della Protezione civile conserva i bollettini. Dunque, lunedì 16 si lancia un codice arancione, cioè «moderata criticità», sebbene con pericoli; è un codice più basso del codice rosso, «elevata criticità» con molti pericoli. Il codice arancione resta nei bollettini del 17 e del 18, mercoledì, il giorno delle quattro scosse a cinque gradi di magnitudo. Quindi l’eccezionalità delle nevicate non era «ampiamente prevista». Secondo i calcoli di Daniele Izzo, del centro Epson Meteo, in quei giorni sull’Abruzzo (coste comprese) è caduto «mediamente un metro di neve», fino a zone sommerse da due metri. Non succedeva da decenni. La neve, il vento, soprattutto le scosse di mercoledì hanno fatto cadere un numero imprecisato di tralicci che hanno tolto elettricità a centinaia fra paesi e borghi. Le scosse, poi, hanno provocato le slavine che sono state il vero insormontabile ostacolo ai soccorsi.

Un funzionario della Protezione civile di Chieti (è anonimo, ma lo abbiamo scelto perché lavora sul territorio ed è meno costretto alla propaganda) ci ha detto: «La nevicata più le scosse hanno creato lo scenario peggiore che si potesse ipotizzare. Il che significa che era ipotizzabile, ma non che fosse probabile». E poi, sulla scarsità di turbine: «E’ difficile stabilire quante ne avessimo, perché sono coinvolte quattro regioni, varie strutture, dalla protezione civile, alle province, all’Anas. Ma è sicuro che si sono rivelate insufficienti. Ma allora dovremmo dotarci di un parco mezzi che poi, molto probabilmente, si rivelerà esorbitante per dieci o venti o trent’anni? Forse sì, forse no, francamente non so. Ma non è che poi voi fra qualche anno scrivete un pezzo sugli sprechi dei mezzi antineve fermi nei box con quello che sono costati?». Il nostro interlocutore non è un fan di Guido Bertolaso, il vecchio capo della Protezione civile (che in questi giorni dice: «E’ stata disarticolata la catena di comando e controllo. Chi comanda? Chi è che dà gli ordini?»), ma condivide l’analisi, sebbene con un puro slancio analitico: «Dopo gli anni di Bertolaso si è deciso di avere un minimo di efficienza in meno per avere il massimo della trasparenza. Penso sia la strada giusta, ma se si vuole il massimo dell’efficienza bisogna rinunciare a un po’ di trasparenza. Tutto non si può pretendere». 

Sono soltanto alcune annotazioni delle molte che si potrebbero fare non per un’assoluzione collettiva, ma per dare la dimensione di una storia immane, e soprattutto per dare a chi critica strumenti offensivi meno vaghi, da usare magari in momenti più opportuni. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/21/italia/cronache/efficiente-un-disastro-le-giravolte-dei-politici-sulla-protezione-civile-mV4DLcGyF3n6bujyHEk3lK/pagina.html


Titolo: Mattia FELTRI. Europeisti pentiti e fan di Putin.
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 29, 2017, 08:28:06 pm

Europeisti pentiti e fan di Putin. Il debutto della destra sovranista
Il leader del Carroccio: “Reintroduciamo la leva obbligatoria”.
Ma la proposta più applaudita è legalizzare la prostituzione

Pubblicato il 29/01/2017 - Ultima modifica il 29/01/2017 alle ore 10:02

Mattia Feltri
Roma   

Primo risultato raggiunto dai sovranisti: via del Tritone ripulita dai giapponesi. Per ora un successo incidentale. Ma alla fuga dei turisti dalla via di shopping, percorsa dal corteo della destra quasi unita, dovrebbero seguire risultati secondo progetti più ambiziosi. E le cui premesse sono state illustrate dalla signora del pomeriggio, Giorgia Meloni leader di F.lli d’Italia, sul palco di piazza San Silvestro, a due minuti a piedi da palazzo Chigi. «Seguite il ragionamento», ha detto Meloni, e noi lo abbiamo seguito, eccome, e non è stato nemmeno complicato perché il ragionamento era il seguente: «L’immigrazione è pianificata per fornire manodopera a basso costo al grande capitale». Dunque, si ritmava, «via gli stranieri dall’Italia», e non per questioni etniche, ma per far fronte al complotto planetario del «grande capitale» ma, è stato detto nel corso degli interventi, anche delle «lobby col potere saldamente in mano», della «finanza globalizzata» e naturalmente dei «poteri forti». Un nemico di tale inafferrabile vastità meritava uno slogan all’altezza, sebbene, per una folla di destra, dalla sorprendente assonanza leninista: «Il popolo al governo» («L’insurrezione è la risposta più energica, più uniforme e più razionale di tutto il popolo al governo», dal celebre discorso del «Che fare»). 

Se si fosse un po’ superficiali si obietterebbe che un impegno politico tanto vibrante e impegnativo avrebbe meritato una partecipazione più massiccia di quella di una piazza di media grandezza non più che pienotta, ma chi segue la politica sa che le «manifestazioni oceaniche» sono rimaste nella mitologia del secolo scorso e forse dei primissimi anni di questo. È meno banale notare il meticciato ideologico fatto di sigle che andava dai leghisti (qui nella versione centromeridionale di «Noi con Salvini») al Partito liberale di Giancarlo Morandi (volenterosa ma esangue reincarnazione del vecchio Pli), che alle elezioni Europee del 2014 stava in una lista che si chiamava «Scelta europea», e adesso aderisce a scelte antieuropee, e fino al movimento di Gaetano Quagliariello (Idea) e ai ragazzi di Patria e Libertà, di cui ignoriamo colpevolmente i contorni, ma li si possono intuire dalla pagina Facebook, illustrata da una foto di Yukio Mishima con la katana. 

E poi c’erano anche quelli di Forza Italia, capeggiati dal governatore ligure Giovanni Toti e da un Renato Brunetta naturalmente rissoso («il centrodestra unito vince, e chi non ci sta se ne assume la responsabilità»), ma la loro presenza non ha impegnato il partito, visto che non una bandiera forzista s’è unita allo sventolio. A caratterizzare lo spirito dell’iniziativa sono state bandiere più suggestive, per esempio quella russa, innalzata da una delegazione guidata da un moscovita con crocefisso ortodosso impugnato a benedire il mondo; una giovane donna di Odessa aveva con sé una drappo nero-arancione, ridisegnato sui colori del nastro di San Giorgio che in Russia simboleggia patriottismo e indipendenza. «Arancione come il fuoco, nero come il fumo», ha detto la donna per evocare la risolutezza di un sentimento: infatti è di Odessa, cioè Ucraina, ma si sente una donna della Grande Madre, e l’ovvia conseguenza del gruppo di cui faceva parte erano due grandi icone di Vladimir Putin e Donald Trump. 

Però poi a distinguerci siamo sempre noi italiani, soprattutto con i cori che hanno seguito la tradizionale etichetta di happening di questa natura: «Gentiloni / fuori dai cog...» si direbbe il più apprezzato da un popolo con una visione del mondo non sempre lineare, per esempio fermo nel dichiarare abusivo il presidente del Consiglio (lo avrebbe fatto più tardi anche Giorgia Meloni), nonostante gli sia stato affidato l’incarico dal presidente della Repubblica secondo le più consolidate - e forse usurate - obbedienze costituzionali, e cioè secondo la dottrina di quella Carta che tutti questi hanno difeso con enfasi nel referendum di dicembre. Probabilmente sono soltanto sofismi, la posta in gioco, per tornare all’inizio, è la sovranità. «I nostri soldi li prendono così / miliardi a clandestini e banche del Pd», si cantava. Bisognerà mandare al diavolo Bruxelles e Francoforte, la burocrazia e la finanza, ristabilire i confini e controllarli armi in pugno. Reintroduciamo il servizio di leva, ha detto Salvini, e creiamo eserciti regionali: un insuperabile progetto fascioleghista, e che però non è stato accolto con l’atteso nerboruto entusiasmo. Legalizzare la prostituzione, ecco l’idea di Salvini più applaudita: non è questione di destra o sinistra, è che siamo italiani. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/29/italia/politica/europeisti-pentiti-e-fan-di-putin-il-debutto-della-destra-sovranista-gD2w1srVqGUo281pV94uUN/pagina.html


Titolo: Mattia FELTRI. Hasta la sconficta
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 01, 2017, 08:48:14 pm
Hasta la sconficta
Pubblicato il 01/02/2017 - Ultima modifica il 01/02/2017 alle ore 06:53

Mattia Feltri

Gianni Cuperlo (è vero, non bisognerebbe mai cominciare una rubrica con la parola Cuperlo, scoraggia la lettura, ma Cuperlo è simpatico e intelligente, fidatevi), insomma Gianni Cuperlo ha detto che Benoît Hamon, vincitore delle primarie socialiste in Francia, è «un ammonimento per il Pd», e anche per «una sinistra che ha detto troppi sì alle ricette dei nostri avversari». 

Un po’ come Walter Veltroni («Con José Luis Zapatero il pendolo della storia sta tornando a oscillare verso la nostra direzione») poco prima che l’esercito di Zapatero sparasse sui clandestini; e un po’ come Massimo D’Alema («Caro Blair, la tua straordinaria vittoria premia quella sinistra che ha avuto il coraggio di rinnovarsi») poco prima che Blair facesse la guerra a fianco di George W. Bush; e un po’ come Bersani («La vittoria di François Hollande può essere un passo determinante per invertire il ciclo disastroso della destra»), poco prima che Hollande andasse nei consensi sotto Marine Le Pen; e un po’ come Stefano Fassina («Renzi dovrebbe imparare dal discorso di verità che Syriza e Tsipras fanno»), due ore prima che Tsipras si consegnasse alla Trojka; e un po’ come D’Alema, di nuovo lui («la vittoria di Barack Obama è la sconfitta della cultura di Silvio Berlusconi»), molto prima che Obama, sconfitta la cultura di Berlusconi, vedesse sorgere la cultura di Donald Trump. 

Ecco, siamo proprio curiosi di vedere quale carognata combinerà adesso Hamon alla sinistra italiana. 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/01/cultura/opinioni/buongiorno/hasta-la-sconficta-8jOto57GPknGdkPshpRkiI/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI Di chi è la colpa se siamo ridotti così?
Inserito da: Arlecchino - Aprile 07, 2017, 12:52:25 pm
Il Paese più ricco del mondo
Pubblicato il 07/04/2017 - Ultima modifica il 07/04/2017 alle ore 06:52

MATTIA FELTRI

Di chi è la colpa se siamo ridotti così? Della politica, naturalmente. E perché in questo Paese non funziona nulla? Ma perché c’è la casta che si mangia tutto. Per quale motivo c’è disoccupazione, ci rubano il futuro e noi cittadini vogliamo un mondo migliore? Facile: perché non siamo ladroni come chi ci governa, e dunque avvampiamo d’indignazione. Bene, alle premesse necessarie per scampare alle accuse di collusione col potere farabutto manca di dire che va abolito ogni privilegio pensionistico per i parlamentari, ridotta la paga agli assenteisti d’aula e sospese le garanzie costituzionali per i sospettati di corruzione. Ma ora, se non spiace, si prova ad aggiungere un piccolo elemento d’analisi. 

L’amministratore delegato di Equitalia, Ernesto Maria Ruffini, ha raccontato in un’audizione alla Camera che 21 milioni di italiani, metà della popolazione adulta, ha debiti col fisco per 817 miliardi di euro. E, attenzione, è una somma che non ha nulla a che vedere coi 100-110 miliardi l’anno di reddito in nero: qui si tratta di evasione accertata dell’Irpef, dell’Iva, multe mai pagate e così via. Magari il numero in sé non dice molto, i numeri sono sempre aridi. Però 817 miliardi sono circa il quaranta per cento del nostro debito pubblico. Se ne recupererà, se va bene, un quarto e ci vorranno lustri. Però se domani mattina, per magia, lo Stato, cioè noi, riavesse i suoi 817 miliardi, ci eviteremmo la manovra finanziaria per almeno venticinque anni. Ecco, per dire che il futuro ce lo sgraffigniamo anche un po’ l’uno con l’altro.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/07/cultura/opinioni/buongiorno/il-paese-pi-ricco-del-mondo-7v36NLKmeaVC6nUAt34qOI/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. Complotti e altri demoni
Inserito da: Arlecchino - Aprile 22, 2017, 05:21:05 pm
Complotti e altri demoni

Pubblicato il 22/04/2017 - Ultima modifica il 22/04/2017 alle ore 06:32

MATTIA FELTRI

Hit parade dei complotti di giornata.
10) Secondo il quotidiano spagnolo As, il sorteggio per le semifinali di Champions è stato pilotato contro Atletico e Real Madrid.
9) Il Movimento Cinque Stelle pretende le scuse da Alessandra Moretti del Pd per aver detto che un bambino è morto a Roma dopo il morso di un topo.
8) Il Pd pretende le scuse dei Cinque Stelle perché effettivamente il bambino non è morto, ma soltanto perché era vaccinato.
7) Matteo Salvini sospetta che la Chiesa se la intenda coi grillini per evitare i pagamenti dell’Imu.
6) Il senatore Michele Giarrusso (M5S) ha capito che questo regime sta con la ’ndrangheta.
5) Lo scrittore francese Marek Halter segnala che i terroristi organizzano attentati per far vincere Marine Le Pen.
4) Il deputato di F.lli d’Italia, Fabio Rampelli, ribatte che piuttosto la strategia della tensione, da che mondo è mondo, fa il gioco di chi detiene il potere.
3) L’ex pm Piercamillo Davigo dice che gli italiani credono al pifferaio magico di turno - Mussolini, poi Berlusconi, ora Renzi - che li incanta e poi delegittima la magistratura.
2) Una studentessa tunisina ha scritto una tesi in cui certifica che conformemente al Corano la Terra è piatta, le teorie scientifiche di Copernico, Galilei e Einstein non valgono niente, e le stelle servono ad Allah per lapidare i diavoli.
1) «Bruxelles: nella stessa città la sede delle Istituzioni Ue e il quartier generale dei terroristi islamici. La cosa fa parecchio riflettere». E con questa, Giorgia Meloni vince al ballottaggio sulla Terra piatta.

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Titolo: FELTRI Da Berlusconi a D’Alema, da De Mita a Orlando è la riscossa dei rottamati
Inserito da: Arlecchino - Giugno 19, 2017, 05:22:46 pm

“Se me lo chiede il Paese, mi sacrifico”. L’effetto rieccolo della politica italiana
Da Berlusconi a D’Alema, da De Mita a Orlando: è la riscossa dei rottamati
Entrato in Parlamento per la prima volta 30 anni fa, si dice pronto a tornare «se me lo chiedono i pugliesi»

Pubblicato il 18/06/2017  -  Ultima modifica il 18/06/2017 alle ore 07:27

Mattia Feltri
Roma

Ci si distrae un attimo e rieccoli tutti lì: Romano Prodi e Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema e la sua vecchia costola Umberto Bossi, Leoluca Orlando che non ha nemmeno il buon gusto di incanutire, persino Ciriaco De Mita accompagnato dalla discrezione di un pensiero. Riemergenti per necessità, non loro, ma del Paese che parrebbe spingerli al solito atto di responsabilità, e cioè ancora al sacrificio. D’Alema sembra prendere la parola a nome di tutti: «Noi sentiamo l’urgenza di offrire agli italiani un’altra possibilità». Uno slancio colmo di nobiltà, e un uomo avveduto come D’Alema non avrà trascurato un’opzione: che gli italiani non sentano la medesima urgenza, e cioè di offrirla a lui un’altra possibilità. Ma è la democrazia. La sconfitta di Matteo Renzi al referendum e le trattative non particolarmente auliche né stentoree sulla legge elettorale hanno rimesso fiato a uomini e ambizioni (e spirito di servizio, diciamo): una legge della politica, e della vita, è che col tempo si scoprono le indispensabili virtù dell’esperienza. Compreso De Mita, ognuno dei riemergenti ha avuto la consapevolezza di essere il nuovo, sospinto dalla storia all’incarico del rinnovamento.

Per Berlusconi e Bossi non serve sostanziare, per Orlando nemmeno, forse neanche per Prodi, ma per D’Alema sì. Nel Pleistocene della nostra memoria fu un innovatore sin dai tempi della Federazione dei giovani comunisti negli anni Settanta, e poi del Pci negli anni Ottanta quando si trattò di sostituire Alessandro Natta con Achille Occhetto, e di nuovo un innovatore del Pds quando si trattò di sostituire Occhetto con sé medesimo, cioè il volto nuovo, finalmente. Nel 1992, venticinque anni fa, D’Alema già sentiva le urgenze: «Un governo con programmi diversi e volti nuovi». L’idea che circolava di un altro governo Craxi gli faceva intravedere la «sciagura», poiché, ancora, «servono volti nuovi». Settembre 1997 (poi non vi annoiamo più): «Si sta formando una classe dirigente che ha caratteristiche ben diverse da quella che ci ha preceduto. Una classe dirigente giovane, appassionata, che mostra al Paese intero il volto di una nuova Italia». Ecco, siamo stati tutti rottamatori. Magari con un lessico più contenuto e risultati migliori. E che c’è di più naturale che resistere alla ruota che gira? L’altra sera, a Bari, D’Alema ha spiegato perché non si tira indietro: «È evidente che per un movimento che nasce ci sarà bisogno di candidare delle personalità. Quindi se i cittadini pugliesi mi chiederanno di essere candidato, mi prenderò le mie responsabilità». 

Ecco, la personalità si sacrifica. Non si sottovaluta il rischio di avere affiancato D’Alema a Renzi, e ora di affiancarlo a Berlusconi, ma «sacrificio» e «responsabilità» sono stati i motori, per autodichiarazione, di un’intera carriera politica. «Restare a Palazzo Chigi e alla guida del centrodestra vi assicuro che è un grande, grandissimo sacrificio» (Berlusconi, giugno 2011). «Il senso di responsabilità verso il mio Paese mi ha costretto a scendere in campo anche adesso». Quest’ultima è dello scorso novembre e chissà il novembre prossimo, dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo avrà giudicato l’incandidabilità di Berlusconi. In genere ci vogliono sei mesi (quindi si va a maggio 2018) per la sentenza, ma l’arrivo delle elezioni potrebbe consigliare alla Corte un po’ di sollecitudine. L’idea che il vecchio capo rimetta insieme la vecchia squadra ha innescato la contromossa permanente: Prodi! Il quale Prodi ha sufficiente amor proprio per restare zitto, e vedere l’effetto che fa, mentre a sinistra la potenziale coalizione s’allarga e s’allarga, e più s’allarga più necessita del miglior federatore di tutti i tempi. Prodi! Sembra di tornare ai tempi dei Bellissimi di Retequattro, i film di seconda serata con Cary Grant e Ingrid Bergman, intanto che qui si controllano i rendimenti azionari di Netflix. 

E non è una semplice impressione. Non è soltanto la deformazione della nostalgia. È proprio l’urgenza di cui parla D’Alema. Se Berlusconi ritorna al futuro gli vanno dietro tutti, ognuno con la propria urgenza. «La stella polare del Nord è la Padania, non la Lega. La Lega è uno strumento, e se uno strumento non serve lo puoi fare anche sparire», ha detto Umberto Bossi al raduno del Grande Nord, il movimento dei leghisti intolleranti del sovranismo nazionale di Matteo Salvini. «Siete troppo legati al presente. Inventate una via d’uscita dalla palude che ha creato Renzi, non rassegnatevi. Gli ex democristiani del Pd non parlano, sono muti, non so se sono vivi o morti», ha detto Ciriaco De Mita una settimana fa a Napoli. «Non voglio fondare un quarto polo, voglio stanare i democristiani», ha detto. Visto da qui, e con la folla vociante, De Mita è diventato un colosso, alla cui ombra sognare la rinascita della Dc. Insieme alla rinascita di D’Alema, dell’Ulivo, della Padania, dello spirito forzitaliano del ’94, cose così diverse e così lontane tenute assieme dal vero immarcescibile: Leoluca Orlando, che fu sindaco di Palermo con la Dc nel 1985, e rottama rottama, ancora sindaco è.
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DA - http://www.lastampa.it/2017/06/18/italia/politica/se-me-lo-chiede-il-paese-mi-sacrifico-leffetto-rieccolo-della-politica-italiana-8NpHJzrTEDB6O7GtQDbHzI/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. L’onore di Roma svenduto dalla politica per un pugno di voti
Inserito da: Arlecchino - Luglio 30, 2017, 06:16:18 pm

L’onore di Roma svenduto dalla politica per un pugno di voti
Gigantesche calunnie, indignazioni roboanti, danni letali.
La mafia non c’era ma è servita a tutti, dal Pd ai Cinquestelle

Pubblicato il 21/07/2017 - Ultima modifica il 21/07/2017 alle ore 07:04

Mattia Feltri
Roma

Ieri i giudici hanno stabilito che Roma è stata vittima di una calunnia entusiastica, colossale e globale da parte di spensierati calunniatori che hanno fatto a gara a chi calunniava meglio per due spicci di guadagno. 

Mafia capitale non esiste, come era politicamente chiaro a chi volesse vederlo sin dall’avvio dell’inchiesta e a maggior ragione quando l’ex sindaco di destra, Gianni Alemanno, era stato prosciolto dall’aggravante mafiosa insieme a tutti gli altri politici coinvolti nell’inchiesta (tranne cinque o sei e non per mafia, fra cui Luca Gramazio che, siccome ieri è stato condannato, torna a casa: uno dei luminosi paradossi della giustizia italiana). È stata calunniata Roma, le sue amministrazioni, fallimentari ma non mafiose, i suoi cittadini e la sua trimillenaria storia che in giro per il mondo porta ancora il titolo del trionfo, malgrado evidenti e abissali disastri. Mafia capitale non era mafia, era una banale, banalmente grave storia di corruzione e delinquenza arrivata a toccare il Campidoglio, senza però stringerlo fra tentacoli di piovra, come era stato raccontato a partire dal 2 dicembre 2014, giorno in cui furono arrestati Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. E lì è partita la carneficina. 

Per paradosso, in quei giorni, l’unico a tirare fuori due frasi da statista fu il sindaco Ignazio Marino: «Io mi rifiuto di avvalorare l’idea che Roma sia una città di mafiosi. Prima c’era la Roma ladrona, ora la Roma mafiosa. Non è così». È quello che avrebbe dovuto dire Matteo Renzi, presidente del consiglio e segretario del partito che esprimeva il sindaco di Roma, per proteggere quel che resta della dignità del Paese e del Pd, invece di ripararsi dietro a scaltrezze linguistiche senza domani, come si è visto: «Non sappiamo se quello che emerge dipinge dei tangentari all’amatriciana o dei mafiosi, lo dirà la magistratura. Ma noi non lasceremo la capitale in mano ai ladri». Era lo schieramento del plotone d’esecuzione per Marino, che si sarebbe lasciato tirare dentro alla gara della purezza, dichiarandosi di colpo l’ultimo argine alla cupola («la mafia vuole far cadere la mia giunta»); e quella della purezza è sempre un gara che si corre col fiato corto. Dalle altezze sacre dell’Antimafia, Rosy Bindi si buttava nella filosofia del diritto: «L’inchiesta della procura di Roma presenta elementi di novità rilevanti: individua il metodo mafioso per il reato di criminalità organizzata di stampo mafioso che non è la semplice duplicazione dell’organizzazione mafiosa di altri territori». Cioè, non sarà una cosa corleonese, ma sempre mafia è. Matteo Orfini, portato dall’emergenza al commissariamento e alla guida del Pd romano, prometteva la sciabola contro «il sistema di potere» retto «dai mafiosi». Dunque, chi pensa che Roma sia passata ai Cinque stelle per una campagna brutale e dissennata, cui ha preso parte acriticamente buona parte della stampa, sa dove deve bussare.

Perché poi, certo, i grillini ci hanno infilato le mani. Erano i pomeriggi invernali in cui i loro militanti e quelli di Giorgia Meloni e Matteo Salvini andavano sotto il Campidoglio a gridare «fuori la mafia dal Comune». In cui il New York Times scriveva che la dimensione dello scandalo «sbalordisce persino gli italiani», e si noti la delizia di quel «persino». La stampa estera sarebbe arrivata all’apertura del processo con la solida speranza di vedere alla sbarra ceffi in doppiopetto gessato, come tanti Al Capone della Garbatella. Beppe Grillo impostava la campagna elettorale per il nuovo sindaco secondo le sue riflessioni bipartitiche: «Movimento Cinque Stelle o mafia capitale?». Spiegava che «Il Campidoglio va disinfestato, i legami con la mafia recisi». Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista duellavano quanto a soluzioni sovietiche. Il primo: «Cittadini, fateci avere anonimamente, in busta chiusa, tutto quello che sapete sulla mafia nella capitale: noi vi garantiamo riservatezza». Il secondo: «Nel Pd e in Forza Italia ci sono persone per bene. Ci mandino una mail con quello che sanno, gli garantiamo l’anonimato e penseremo noi a ripulire questa Repubblica filomafiosa». Virginia Raggi ancora ieri era in aula ad attendere la sentenza per raccattare il dividendo e, quando l’aggravante mafiosa è volata via col Ponentino, non ha mosso muscolo e dichiarato la vittoria dei cittadini contro il malaffare. Dopo avere condotto un’intera e vittoriosa campagna elettorale sulla reazione popolare alla «mangiatoia della criminalità e di mafia capitale». Dopo avere promesso che la sua sarebbe stata l’amministrazione «che niente ha a che fare con mafia e criminalità». Il sindaco di Roma - insieme con Renzi e tutti gli altri - farebbe buonissima figura a chiedere scusa alla città per il danno d’immagine inferto.

L’indagine della procura di Roma, grazie soprattutto al solito, eterno, sfiancante uso politico delle inchieste, ha prodotto guasti irreparabili: tutti i partiti, la Lega e Fratelli d’Italia compresi, hanno chiesto lo scioglimento del Comune per mafia. Hanno impostato la campagna elettorale per la successione di Marino in nome della lotta alla mafia. Hanno ceduto all’estero l’immagine della loro capitale sequestrata per collusione dalla criminalità organizzata. Nessuno ha avuto l’orgoglio di difendere il decoro del Paese pur di non cedere un metro, e quando si è disposti a tanto, a calunniare il proprio Paese, e a preferire il bene di fazione che il bene di tutti, allora sì che si intravede qualcosa di somigliante al metodo mafioso.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/21/italia/politica/lonore-di-roma-svenduto-dalla-politica-per-un-pugno-di-voti-3zxUEfOzFIbdHFXBqgEOoJ/pagina.html



Titolo: Mattia FELTRI. Trattative, gimkane e semileader. Un mese vissuto pericolosamente
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 05, 2017, 11:33:44 am

L’ultima capriola M5S. L’esultanza di Grillo incrina il mito dell’onestà
I vertici cantano vittoria: archiviato il reato più grave. Dopo leadership e streaming, la metamorfosi è compiuta
Il fondatore del M5S ha ceduto la leadership politica a Luigi Di Maio, vincitore delle primarie per il candidato premier M5S

Pubblicato il 29/09/2017 - Ultima modifica il 29/09/2017 alle ore 08:09

Mattia Feltri
Roma

Viene in mente Isaac Asimov, per il quale la disumanità del computer risiede, una volta programmato e messo in funzione, nella sua perfetta onestà. Grazie al cielo Virginia Raggi non è un computer, lo si nota a occhio nudo, nessuno del Movimento lo è, e non per questioni di onesta e disonestà, stabilite ruvidamente codice alla mano. I codici non dicono tutto, neanche quello penale. E comunque Raggi non è nemmeno arrivata a processo, forse non ci arriverà proprio, deciderà un gip, e semmai poi ci saranno tre gradi di giudizio e per un reato, se tale è, di poca rilevanza: falso ideologico. 

La perfetta onestà dei Cinque Stelle si incrina invece nell’esultanza di Beppe Grillo per l’archiviazione del reato più grave, l’abuso d’ufficio, che è più grave soltanto nella realtà on demand del blog, poiché l’abuso d’ufficio prevede pene più basse del falso ideologico. 

La perfetta onestà dei Cinque Stelle si incrina nel tweet del capo, Luigi Di Maio, che annuncia l’archiviazione delle accuse per cui «la stampa ci ha infangato», immemore delle dieci, cento volte che lui e i suoi hanno sventolato in aula di Montecitorio le pagine di giornale con le inchieste sugli altri, addotte alla richiesta di dimissioni. Oltre che immemore, naturalmente, delle accuse che archiviate ancora non sono, come un passacarte di Forza Italia o del Pd. 

 Inconsapevole, soprattutto, di aver raggiunto una certa solidità politica, una solidità antica, quella per cui la consigliera Cristina Grancio è stata sospesa perché contraria all’edificazione dello stadio di Roma. 

Succede a tutti, da millenni: l’azione distrugge l’utopia. Raggi (ed è giusto così) resta al suo posto nonostante una richiesta di rinvio a giudizio, Grancio viene cacciata per dissenso (poi reintegrata il giorno prima del processo per il ricorso), secondo il santissimo metro della politica e non della magistratura, quello usato da Matteo Renzi per salvare Maria Elena Boschi, che era più utile al governo sebbene inguaiata per le banche, e per sommergere Maurizio Lupi, che da inguaiato per le infrastrutture era dannoso al governo. «Se un sindaco ha un avviso di garanzia per abuso d’ufficio deve stare fermo un giro», diceva Di Maio giusto un paio d’anni fa, prima di rendersi conto che un sindaco di media o grande città può uscire indenne da una consiliatura soltanto se gli altri sono distratti, tante e tanto complesse sono le regole cui è chiamato ad attenersi, per non dire delle tentazioni. Non basta proclamare onestà, quasi mai. Ora il problema è che ne va di mezzo la purezza della razza, e non lo si intuisce, o non lo si confessa. Quattro anni fa Beppe Grillo ci irrideva per la nostra incapacità di comprendere l’assenza di un leader, diceva che quando lo chiamavano i giornalisti per parlare col leader del Movimento, lui gli passava il figlio Ciro. Il leader non c’era perché a comandare è la rete dei cittadini attraverso il web, diceva, ed è questa la rivoluzione somma, e inafferrabile per menti polverose come le nostre. Poi adesso hanno eletto un leader, Di Maio appunto, con le primarie on line. Quattro anni fa non c’era il candidato premier (lo era Grillo, ma solo formalmente) perché il premier sarebbe stato l’ologramma della volontà popolare, un portavoce, uno qualsiasi, e adesso hanno eletto un candidato premier, sempre Di Maio, sempre con le primarie online. Ci sono stati direttori, nazionali e locali, ora c’è una gerarchia, un designato alla premiership, un serio abbozzo delle strutture novecentesche e marcescenti che forse marcescenti non sono, ma indispensabili. 

Si procede lungo questo sentiero che collega l’a priori con l’a posteriori, che collega il mondo perfetto progettato attraverso regole ferree e il mondo in cui ci si imbatte, e in cui le regole hanno bisogno di elasticità. Si organizzano le primarie del sindaco di Genova e siccome vince la candidata sgradita la si fa fuori, in onore di quella elasticità lì, necessaria anche ai movimenti più stentorei, in cui si ingoia tutto nella onestissima certezza che i predecessori facevano porcate a fin di male, e ora le si fanno ancora, eccome, ma a fin di bene, come cedimenti inevitabili al raggiungimento del celeste obiettivo, e unica possibile risposta all’accerchiamento dei nemici: eccola la drastica differenza, una pretesa differenza antropologica, stravista, fallimentare, già raccontata su tutti i libri di storia. Una citazione cara a Giulio Tremonti: si fa la figura del selvaggio di Kant che pensa che il sole sia sorto perché lui si è svegliato. 

Ricorderete la breve leggenda dello streaming, l’apertura del palazzo come una scatola di tonno, le pareti di vetro, l’animo incontaminato esibito al popolo negli incontri con Pier Luigi Bersani, Enrico Letta e Matteo Renzi, a cui veniva così impedito ogni losco infingimento, e poi lo streaming è stato rapidamente dimenticato, quella specie di balletto con copione, dunque fintissimo, perché la politica ha bisogno delle sue ore grigie, dei suoi notturni segreti, dei compromessi che sono sempre al ribasso sennò compromessi non sono: si decide dentro le stanze dell’Hotel Forum, Roma, o nella villa di Grillo, Toscana, o alla Casaleggio, Milano, altro che streaming, se Dio vuole. Ricorderete il divieto dogmatico di mettere piede nei paludosi studi televisivi, luoghi di corruzione intellettuale, dove manipolatori di regime avrebbero ridotto il cristallino Cinque Stelle alla condizione fangosa degli altri, e adesso vanno tutti in tv, se possibile senza confronto, a esercitare il lusso del monologo. In fondo ci sarebbe niente da dire se i ragazzi di Beppe si lasciassero attrarre dal dubbio che la rivoluzione dell’onestà è un bel gioco da tavolo, e sta alla vita come il risiko sta alla guerra, ché poi tocca cambiare le regole, tocca ricorrere all’eccezione, una via l’altra, tocca concedere a sé attenuanti o assoluzioni piene negate ai cattivi ma, come si diceva all’inizio, si vede tutto a occhio nudo: il mondo è pieno di persone oneste, diceva uno intelligente e spiritoso, e si riconoscono dal fatto che compiono le cattive azioni con più goffaggine. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/09/29/cultura/opinioni/buongiorno/lultima-capriola-ms-lesultanza-di-grillo-incrina-il-mito-dellonest-pXkuJ3PBrWnBySNHFdWkgL/pagina.html


Titolo: Mattia FELTRI. E la rabbia della piazza grillina non salva Bersani: “A mummia”
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 12, 2017, 06:10:11 pm

E la rabbia della piazza grillina non salva Bersani: “A mummia”
Viaggio nell'incomunicabilità dei due eventi di M5S e sinistra

Pubblicato il 12/10/2017

Mattia Feltri
Roma

L’attimo di massima comunione: due canuti che non hanno finito le munizioni, arrivano dalla piazza davanti a Montecitorio dei cinque stelle, due minuti a piedi e sono al Pantheon proprio mentre spunta Pierluigi Bersani. Devono esprimergli tutta la stima, se non altro per la battaglia condivisa: «A mummiaaa». E certo: la mia piazza è più piazza della tua. 

E in effetti non s’era mai vista una distanza più siderale, ben oltre quei pochi metri da cui le manifestazioni erano separate, i pochi minuti fra l’eclissarsi della prima e il sorgere della seconda: come se l’onda d’energia si fosse esaurita.

S’era invece abbattuta all’ora di pranzo sulle transenne che tenevano i cinque stelle al di qua di Montecitorio. Uomini e donne su con gli anni, si intende intorno alla sessantina, tendevano le mani verso il palazzo delle frodi, un atto di disperata speranza, e di ultima minaccia. L’ululato: «Fuori! Fuori!». Infami, ladri di democrazia, abusivi. Mi chiamo Domenico, strilla uno all’orecchio. Di cognome? Turano, romano, pensionato. Ha con sé un libretto della Costituzione furiosamente sottolineato, righe gialle rosa blu. Qui c’è un conflitto fra poteri, strilla ancora, e sfoglia, articolo 72, modalità di voto: incostituzionale! Uno da dietro punta l’indice, Boldrini assassina, scrivilo scrivilo, servo! Due di Caserta portano via il cronista, Gaetano Sanfelice e Gerardo Sorice, sono iscritti al meetup, hanno addosso le rotondità di una lunga vita, il sorriso affabile, ascolta noi, dicono. Sono partiti stamattina per guadagnarsi la prima fila. La sanno lunga, loro: questi qui difendono le poltrone e niente altro, ecco perché siamo qui, sono l’immondizia, come Casini che ha cambiato tremila partiti - veramente non è vero, Casini no - ma fa lo stesso, sono tutti uguali, ecco perché siamo qui. È la bolgia che risucchia tutto. Uno sulla trentina, uno dei più giovani, cinge le spalle del cronista, nel tumulto trova l’intimità a un centimetro dal naso: il capitalismo finanziario ha paura soltanto dell’insurrezione del popolo, e noi faremo l’insurrezione, io che altro devo fare nella vita se non l’insurrezione? Sono sei anni che cerco lavoro - come ti chiami? - allora non hai capito, mi chiamo piazza, popolo, Movimento cinque stelle, e sono incazzato nero.

Poi il sole era andato via da un po’, e di fronte al Pantheon era stato tirato su un palchetto. Attorno sventolavano bandiere rosse, tutte uguali, se non fosse per le sigle, Sinistra italiana, Possibile, Mdp, Rifondazione, un placido arrendersi al tempo e al vento, fumo di pipa, tweed, cravatte disegno cachemire, Massimo D’Alema dice che il Pd logora la democrazia, sfilano come su un nastro trasportatore vecchi leader dotati dell’intera casistica dei congiuntivi, Gavino Angius, Guglielmo Epifani, Vincenzo Visco, Corradino Mineo, la corteggiatissima Anna Falcone, un attempato signore illustra la svolta di Fiano Romano dove l’intera giunta ha lasciato il Pd per Mdp, lui compreso, che conobbe gli anni ruggenti di Pci. Si chiama Giuliano Ferilli, è il babbo di Sabrina. Un ragazzo con una bella barba, ha ventotto anni, si chiama Andrea Mazzoni, dalemiano di Perugia, conta si possa costruire una sinistra di popolo radicata in una cultura di governo. Ha un elegante berretto di feltro, maglione di lana sotto la giacca. Un signore immobile reca un cartello con scritto «proporzionale puro». Mi chiamo Claudio Giambelli, sono pensionato di Roma, vorrei dare una struttura sociale e politica basata su dei fondamenti reali. Accanto a lui c’è una signora di 65 anni, mi chiamo Susanna Fratalocca, penso tutto quello che dice Tomaso Montanari, e mi dispiace che qui non ci siano giovani, i giovani in piazza non ci vanno più, le mie figlie non voteranno, dicono che non gli interessa. Sorride amara.

Com’è già distante la furia. Quando davanti a Montecitorio la calca aveva preso di colpo a ondeggiare, a ruggire. Uno ha il collo che esplode, maiale! maiale! Ma sul palco non c’è nessuno - chi sta parlando? - stanno trasmettendo l’aula, dice, credo sia Salvini, il bastardo - no, Salvini no, è europarlamentare. Guarda storto, sono maiali, solo maiali. Si alzano fogli con scritto no all’obbligatorietà vaccinale, un vassoio di cartone dorato con scritto reddito di cittadinanza, una donna di Rieti, sulla sessantina, Silvana Manganero, dice di essere venuta col marito perché ha visto su Facebook l’appello di Alessandro Di Battista che era così giù di corda, accidenti. Siamo venuti perché vogliamo un Parlamento costituzionale. Fuori / la mafia / dallo Stato / fuori / la mafia... Saltellano anziane signore minute e brizzolate, uomini sui cinquanta con t-shirt Harley Davidson, Heineken, Keep Calm che andiamo al governo, I love Formentera, hanno capelli lunghi e code bianche e magliette dei Kiss, residuato del metal novecentesco, giacche di jeans, poche ragazze con le unghie e le scarpe brillantinate, spazzano via tutto con applausi fragorosi quando la Camera viene dichiarata fascista, e sbraitando sul nome dell’ultimo nemico, Sergio Mattarella. Ci avete rotto i coglioni. Vi butteremo fuori a calci in culo. Onestà! Onestà! Faremo la veglia, dicono, staremo qui fino a domani, finché serve. E di là, al Pantheon, era già tutto vuoto, restituito ai turisti, s’era spento giusto un sussulto su Bella Ciao, versione dei Modena City Ramblers; e belle signore avevano ballato in tondo tenendo per mano i mariti, alla gioiosa memoria.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/12/italia/politica/e-la-rabbia-della-piazza-grillina-non-salva-bersani-a-mummia-E18I18RrqPpZKQ16Ugg3nK/pagina.html


Titolo: Mattia FELTRI Schede bianche e indici alzati: il   debutto degli onorevoli ...
Inserito da: Arlecchino - Marzo 25, 2018, 06:22:36 pm
Schede bianche e indici alzati: il   debutto degli onorevoli smarriti
Dal leader dei pensionati ai reietti grillini.
Entusiasmo e buone intenzioni ce dono subito il passo alle manovre dei partiti per le presidenze del Parlamento

Pubblicato il 24/03/2018 - Ultima modifica il 24/03/2018 alle ore 15:14

Mattia Feltri
Roma

Poverini: probabilmente erano tramortiti dall’intrico di tattiche e forse persino di strategie. Questi nostri poveri novizi, oltre sei su dieci al debutto in Parlamento, pronti via e già erano dentro il viluppo delle tattiche - riservatissime. 

Smarriti lungo i traslucidi corridoi solcati dai veterani, che brancolavano col telefonino all’orecchio e la mano sulla bocca per non offrire il labiale agli avvoltoi dei giornali, affettuosamente s’intenda. Il senso della legislatura, del Paese intero, potrebbe stare tutto dentro il passo navigato di Rocco Casalino: per i più distratti, passato meritoriamente in un decennio dalla casa del primo Grande Fratello all’alta logistica dei Cinque Stelle. Niente, non c’è friccico né emozione né stupore.

Tutto anestetizzato da questi giri in aula, sotto l’arco di mogano, per votare col bigliettino infilato nel cesto, bigliettino bianco, scheda bianca per ordini superiori, che come in guerra magari non si capiscono ma si eseguono. Tutto volato via quell’entusiasmo di avere in mano il futuro del Paese, le buonissime intenzioni rinviate a dopo la mossa del cavallo per la conquista e la distribuzione delle più alte poltrone della gerarchia statale. Vecchi e nuovi, giovani e anziani, onesti autoproclamati e disonesti conclamati immersi nel medesimo gioco del nascondino, cantilenato dai presidenti provvisori, Giorgio Napolitano al Senato e Roberto Giachetti alla Camera: bianca-bianca-bianca. Che a Dario Franceschini, ministro uscente della Cultura, ha riportato alla memoria la bisnonna Attilia, che anni fa assisteva in tv all’elezione di un presidente della Repubblica, e quando la figlia Bianca rincasò le disse trafelata: «I tà tant ciamè dà la television!».

Fortuna che è arrivata la sera ad animare un poco una giornata di lento casino, nel quale noialtri giornalisti ci si avventurava nelle inesplorate oscurità delle menti politiche al lavoro, trascurando che lì dentro è verosimile soltanto l’inverosimile. Si provava a intuire esiti o almeno sbocchi, quando la soluzione l’aveva data la superanimalista berlusconiana Michela Vittoria Brambilla, che informava di aver depositato una proposta di legge per vietare bocconi ed esche avvelenate. Ma l’azione legislativa in favore dei quadrupedi non poteva ancora fermare il bipede Matteo Salvini. Di mattina ci era invece toccato animarci per la bizzarra collocazione geografica dei F.lli d’Italia, seduti al Senato nei banchi a sinistra, fra i nemici del Pd. «Quelli di Forza Italia si erano seduti a destra, non avevamo spazio. Piuttosto che metterci al centro, abbiamo deciso di metterci a sinistra. Al centro mai!», ha poi spiegato Ignazio La Russa. Ci eravamo incuriositi per l’arcaico armeggiare di Maurizio Gasparri coi giornali di carta, strappava pagine e se le infilava in tasca, si imbatteva in una foto di Giorgio Almirante che nel 1973, come Salvini l’altro giorno in gelateria, non era stato servito per ritorsione democratica - diciamo così - all’autogrill di Barbagallo. «Partirono delle auto da Roma, cariche di camerati, che andarono a distruggere un po’ di stoviglie. Ma come, non servite il mio capo? Ma vaffa... Ecco, prima del vaffa di Grillo ci fu il vaffagrill». 

Ci si aggrappa a questi vecchi (se non si offendono). Roberto Calderoli ha ormai la statura del totem, con quante legislature e sapienze ha sulle spalle. Fanno malinconia i reietti dei Cinquestelle, quelli che si intascarono i rimborsi: il senatore Carlo Martelli, l’ex cavaliere dell’intransigenza, siede solo all’estrema sinistra, vestito interamente di nero, cravatta d’oro zecchino. I più sono irriconoscibili, sia a Palazzo Madama sia a Montecitorio. Cinque anni fa, il primo giorno della scorsa legislatura, gli ufo a Cinquestelle l’avevano scritto in fronte chi erano, indossavano Superga gialle o verdi, jeans sfilacciati, si portavano appresso zainetti no logo. Adesso sono vestiti come praticanti di studio legale, camicia bianca e cravatta amianto; potrebbero essere forzisti di Publitalia (che forse non esistono più). Cinque anni fa si portavano al banco i bicchierini di plastica e sopra ci scrivevano il loro nome: «Sono soldi dei cittadini anche questi!», dicevano. Ora bevono e gettano: non risparmiano in bicchierini ma si risparmiano la caricatura.

Però questo non può bastare al leggendario Pasquale Laurito, decano dei cronisti, qua dentro dal 1947. «In settantuno anni non avevo mai visto tutti i gruppi votare scheda bianca. È lo sgretolamento delle istituzioni, ma che volete, allora c’era Concetto Marchesi che interveniva in latino, e Palmiro Togliatti gli rispondeva in greco». Era un altro mondo. Ora ci baciamo i gomiti per il situazionismo di Vittorio Sgarbi che prova a iscriversi al gruppo dei Cinque Stelle, nonostante il dolore per la mancata elezione di Alessia D’Alessandro, la candidata grillina che si spacciò per collaboratrice di Angela Merkel. «La più bella ragazza (non dice proprio così, ndr) di tutti i tempi. Se l’avessero eletta, avrei aperto il dialogo». Renata Polverini (Fi), in stampelle per un malleolo rotto, ci pare l’essere più saldo del palazzo. Ci pare esoterico ed eccitante il profilo novecentesco di Carlo Fatuzzo, fondatore nella notte della Prima repubblica del Partito pensionati, due miracolose legislature europee, un imbarazzante elenco di fallimenti, l’ultimo un anno fa quando alle comunali di Crema (di Crema!) prese un voto (un voto!). Non si sa come, ora è deputato di Forza Italia. Ma va bene tutto. 

La sera riversa ombre col profilo del governo Di Maio-Salvini. Va bene anche Matteo Renzi che alla buvette elenca le sue serie preferite su Netflix, occupazione di recenti dopocena di quiete. Va benissimo Elio Lannutti, altra presenza spettrale, dallo sprofondo della rettitudine, dipietrista, animatore di associazioni per i consumatori, nemico pubblico delle banche, un giustiziere seriale ora qui col Movimento. Va bene anche lui, almeno finché non si infila nella parte e solleva l’indice in nome dell’onestà, dei sacri valori dell’integrità: è il segnale che la giornata può inabissarsi, le lunghe ore delle astuzie si dissolvono. La notte porterà consiglio ed è il consiglio di esserci, stamattina: via la scacchiera, si passa al randello. 

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Titolo: Mattia FELTRI. Trattative, gimkane e semileader. Un mese vissuto pericolosamente
Inserito da: Arlecchino - Aprile 04, 2018, 12:45:41 pm
Trattative, gimkane e semileader. Un mese vissuto pericolosamente
Trenta giorni dopo il voto un’alleanza di governo sembra lontanissima. Tra liturgie e balletti ipnotici, a perdere finora sono Renzi e Berlusconi
La telefonata. Sono le 20,15 e il telefono di Di Maio squilla: è Matteo Salvini. Si tratta del primo contatto tra M5S e Lega, il nocciolo dello scambio (5 minuti) è sulla presidenza delle Camere e sul taglio dei vitalizi
Pubblicato il 04/04/2018 - Ultima modifica il 04/04/2018 alle ore 07:25

Mattia Feltri
Roma

Finalmente ci siamo, quasi. A un mese e un giorno dalle elezioni, nel tempo fra l’ascesa al Quirinale e la ridiscesa, qualche cosa dovrà ben succedere, e subito. O quasi. E fra questi due avverbi - subito e quasi - c’è l’intera distanza fra le aspettative frenetiche e onnivore di noi spettatori e i tempi lassi della liturgia politica, così che in questo mese più un giorno pare si sia arrancato fra le strategie verbali di leader e semi-leader, nemmeno più tanto raffinate, fra piccole trappole quotidiane, offerte e rifiuti come di filarini ginnasiali. E invece una cosa è già successa, e seria. Matteo Salvini ha fatto fuori Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio ha fatto fuori Matteo Renzi. Ci avevano provato i due - Berlusconi e Renzi - a tenere il centro del palco.

Il 5 marzo, poche ore dopo la sconfitta, il primo aveva spiegato che il regista del centrodestra restava lui, e il secondo che di tanti errori commessi il peggiore era stato di non andare a votare nel 2017 (colpa di Sergio Mattarella), che lui a differenza di altri nel Pd aveva vinto nel suo collegio, e che si sarebbe fatto da parte soltanto dopo la formazione del governo, per evitare mani tese ai Cinque Stelle. Eccoli lì, l’uno e l’altro.  

Nella notte fra il 23 e il 24 marzo, Berlusconi cede. Poche ore prima, Salvini aveva annunciato di votare Anna Maria Bernini alla presidenza di Palazzo Madama, e non il prescelto da Forza Italia, Paolo Romani. Sono i prodromi dell’alleanza con Di Maio, la coalizione è finita, dice Berlusconi. Macché. Per non restare tagliato fuori, accetta. In quella notte Berlusconi incassa dai suoi insulti e gesti di disprezzo, ma li incassa per cercare di rimanere in pista. Poi tocca di nuovo al Pd: resta senza questori e segretari d’aula, figure di potere in Parlamento, e non era mai successo in settant’anni di Repubblica che il secondo partito del Paese fosse trattato a quel modo. Un balletto rapsodico e ipnotico: Salvini e Di Maio vincono a mani basse la prima partita. Ci sarebbe un solo motivo al mondo per fermarsi proprio ora?

Il resto potrebbe sembrare tutto senza senso. Non sono trascorse ventiquattro ore dai risultati elettorali, e Di Maio e Salvini - naturalmente nel massimo rispetto delle prerogative del Capo dello Stato eccetera - rivendicano il mandato a formare il nuovo governo. Di Maio perché il suo è il partito con più voti. Salvini perché la sua è la coalizione con più voti. Purtroppo né il primo partito né la prima coalizione hanno una maggioranza da proporre a Mattarella. Si inventano gimkane costituzionali, Di Maio dice che è aperto a discutere con tutti (e non vuole dire niente), Salvini che otterrà la fiducia su punti programmatici dai singoli parlamentari (e vuol dire ancora di meno). Ma su questi presupposti si inizia la lunga barzelletta del contadino che deve portare il lupo, la capra e il cavolo al di là del ponte. Di Maio è aperto a discutere con tutti, ma non con Berlusconi, dice. Salvini è disposto all’appoggio di tutti, ma non del Pd, dice.

E la contabilità si inceppa. Due semplici e comprensibili ostracismi, e i numeri non tornano più. Nessuna maggioranza è possibile, tranne che quella lanciata da Steve Bannon, ex capo stratega di Donald J. Trump, con sfrontatezza americana: Lega e Movimento Cinque Stelle, assieme. I numeri ci sono, e si rafforzeranno.

Scalate a mani nude  
Noi qui a dare credito, almeno per dovere di cronaca, alle scalate a mani nude. Gustavo Zagrebelsky marcia in testa al gruppo d’intellettuali che vorrebbe un governo M5S+Pd. Dalla derelitta sinistra distaccata dal Pd si rimpolpa la prospettiva: M5S+Pd+LeU. Renato Brunetta (Forza Italia) butta lì un piccolo compromesso storico centrodestra+Pd (con premier Salvini, gulp! L’avance sfuma in venti secondi). Si ipotizzano governi istituzionali, del Presidente, di scopo, di garanzia, e in una tale fumisteria la nostra giovane coppia prefigura il futuro. Di Maio se la ride ai vitalizi che «non avranno più scampo», al reddito di cittadinanza (sebbene non sia un reddito di cittadinanza) che sarà definito al primo Consiglio dei ministri; Salvini già sogna il primo def per ridurre le tasse (non al 15 per cento, non lo specifica più) e la poltrona giusta per sfollare gli immigrati.

Il primo giorno di lavoro  
La virtù dilaga, il presidente della Camera, Roberto Fico, il primo giorno di lavoro si muove in autobus perché i galloni non hanno annacquato la sua purezza. La collega del Senato, Maria Elisabetta Casellati, va in Liguria con un volo di linea perché nemmeno lei vola alto, vola alla quota degli altri. Mara Carfagna rinuncia all’indennità di vicepresidente e annuncia che la devolverà alla tale Onlus, operazione che conclusa in dignitoso silenzio avrebbe mancato l’obiettivo: partecipare alla moda recente di rinunciare ai soldi, anziché guadagnarseli, e di offrire la rettitudine alla voracità del popolo. Tutto sembra compiersi, in nome del popolo e nella direzione del popolo. Da oggi si capirà se l’inverosimile è diventato verosimile.

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Titolo: MATTIA FELTRI. Ecco la foto di gruppo della futura razza padrona
Inserito da: Arlecchino - Aprile 17, 2018, 09:21:30 pm
Esordienti, dilettanti e nuovi leader.
Ecco la foto di gruppo della futura razza padrona
Jeans, scarpe da tennis e fermezza: quelli che ora dettano la linea

Maurizio Martina.
Debuttò sulla scena come ministro del governo di Enrico Letta, poi riconfermato e ora scelto come reggente del Pd in burrasca Matteo Orfini.
Cinque anni fa esordiva da parlamentare col titolo di ex portavoce di Massimo D’Alema a 43 anni è presidente del Partito democratico

Pubblicato il 08/04/2018 - Ultima modifica il 08/04/2018 alle ore 13:33

MATTIA FELTRI
ROMA

La nuova razza padrona incede di buon passo. Non tanto quello che l’ha condotta al Quirinale senza auto blu (abitudine antica, veramente, e non per frugalità, ma perché a piedi si fa prima), bensì il passo dell’oca dell’irruzione in scena. Basterebbe la foto della delegazione del Pd, spolverini blu, vestiti blu, cravatte blu, guidata dal segretario reggente Maurizio Martina, bergamasco neanche quarantenne che, quando si iniziò la legislatura scorsa, nessuno sapeva chi fosse. Si indagò alla nomina (governo Letta) a ministro dell’Agricoltura; una scelta che aveva il gusto di un omaggio al giovanilismo di cui la politica non sa più fare a meno. E poi Matteo Orfini, che cinque anni fa esordiva da parlamentare col titolo di ex portavoce di Massimo D’Alema, e Graziano Delrio che come Martina si presentò al mondo con l’ingresso nell’esecutivo di Enrico Letta. Ma la vera foto della nuova razza padrona è naturalmente quella dei ragazzi del Movimento, pubblicata sulla prima pagina del Manifesto con un titolo geniale: «Coalizione al sacco». A parte il sempre azzimato Luigi Di Maio, una sfilata di sneakers, di cravatte allentate, colletti slacciati. Ora Di Maio fa parte del panorama, ma quanto tempo è passato, quante cose sono cambiate dalla marcia dei grillini senza volto di cinque anni fa? 

Abbiamo preso confidenza con Danilo Toninelli nei mesi della discussione parlamentare sulla riforma della Costituzione, quando conduceva con enfasi resistenziale i cinquestelle della Camera, dall’alto della sua laurea in legge. Ora è capogruppo al Senato, e accompagna Di Maio insieme con Giulia Grillo, equivalente a Montecitorio, promossa per affinità elettive col capo e per una tendenza a non vedere scie chimiche né invasioni di sirene (è persino favorevole ai vaccini, sebbene non alla loro obbligatorietà). Insomma, serviva quel minimo di contegno che è anche di Riccardo Fraccaro (quasi sempre), attendente del candidato premier, in cui ci si imbatté nel giorno della rielezione di Giorgio Napolitano, che cadde il 20 di aprile, e Fraccaro trovò una coincidenza non così casuale con la data di nascita di Itler (scritto così, senza acca).

Non si dice che a Sergio Mattarella saranno servite le foto segnaletiche (non vorremmo passasse per un’allusione all’onestà della nuova razza padrona), ma insomma. E per assurdo non gli sono servite di certo per riconoscere Silvio Berlusconi, l’unico leader storico tornato al cospetto del Presidente della Repubblica, e nonostante la condanna passata in giudicato (a proposito di foto segnaletiche), e le conseguenze della legge Severino che lo escludono da cariche pubbliche. Era accompagnato da Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini, due ragazze con alcune legislature alle spalle, per cui almeno loro si meritano la qualifica di veterane.

Ma, insomma, questa classe dirigente pare davvero piombata dal cielo per combinazione astrale. I presidenti delle camere arrivano da dorate retrovie, e cioè Maria Elisabetta Casellati, salita sui pendii di qualche notorietà ai tempi di Ruby Rubacuori e di zio Mubarak, quando si batteva coraggiosamente in una trasmissione e nell’altra per l’onorabilità di Berlusconi. Oppure arrivano dalle praterie del clic, ed è il caso di Roberto Fico, che come Di Maio s’è fatto un nome nell’ultimo lustro. Ci avessero fatto vedere queste foto cinque anni fa, saremmo cascati dalla sedia. Gianmarco Centinaio è stato confermato capogruppo al Senato della Lega, carica che ottenne nella scorsa legislatura quando il suo era un partitino del quattro per cento. Giancarlo Giorgetti, alla testa di centoventicinque deputati dopo sei legislature vissute nel vivo, ma sempre un passo indietro, ha ormai l’aria del raffinato stratega, e considerato il mucchio lo è senz’altro. E allora Matteo Salvini, quasi un reduce della politica per costanza televisiva, sembra davvero un vecchio compare invece che l’imprevisto condottiero dell’intero centrodestra, blasone con cui bello tronfio è entrato al Quirinale. Ecco, di rinnovamento in rinnovamento, esigenza che ci insegue (o ci perseguita) da due decenni e mezzo come un’ambizione di catarsi, siamo arrivati a questa foto di gruppo della nuova razza padrona. Va guardata e riguardata, questa foto, per il semplice motivo che qualcuno sembra non averla ancora messa bene a fuoco.

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Titolo: MATTIA FELTRI Le inedite elezioni a luglio celebrano la rivalsa degli anti-casta
Inserito da: Arlecchino - Maggio 10, 2018, 08:45:28 pm

Politici al lavoro con l’Italia al mare.
Le inedite elezioni a luglio celebrano la rivalsa degli anti-casta
La rivincita di un popolo che crede ai complotti e vuole il cambiamento a prescindere

Pubblicato il 08/05/2018

Mattia Feltri
Roma

C’è una sola cosa peggiore di andare a votare a luglio: lamentarsi perché si va a votare a luglio. Dicono: fa caldo. Al Sud ci sono quaranta gradi, chi diavolo va al seggio con quaranta gradi? Eppoi le scuole sono chiuse, qualche madre e qualche padre e soprattutto molti nonni se ne staranno in spiaggia coi ragazzini sfaccendati. Dicono al voto sotto l’ombrellone, che poi è il contrario, qualcuno non andrà al voto proprio perché preferirà l’ombrellone, è faccenda di priorità. Dicono non s’è mai fatto prima, e perfetto, facciamo stavolta. Così la prossima non avremo nemmeno l’imbarazzo. Dicono che agli italiani non puoi rompere le tasche con le miserie politiche mentre se ne stanno in canottiera e infradito a fronteggiare la canicola a fette di cocomero. Non puoi far pagare a loro la burattinata degli ultimi sessanta giorni, col fardello di guai che già gli fiacca le spalle, e specialmente a luglio quando, appunto, fa caldo eccetera (soprattutto eccetera, che non vuole dire nulla). Qui come al solito si sottovalutano gli italiani, che non aspettano altro, in larga parte hanno l’ambizione di una democrazia permamente, diffidano dei riti prudenti di quella rappresentativa, hanno orrore delle macchinazioni di palazzo - così indispensabili in una Repubblica parlamentare, ma ormai ci paiono il parto del demonio - recitano a memoria che la Costituzione affida la sovranità al popolo, sebbene, prosegua l’articolo, la eserciti nei limiti della medesima Costituzione. Ma non nei limiti del calendario, tantomeno del termometro. Sono animati dalla foga di ottenere un governo espressione o almeno impressione della loro scelta, e al più presto. Sarà l’afa il vaporoso nemico della smania di cambiamento?

Faceva molto caldo anche il 26 giugno del 1983, data di elezioni in cui si sfiorò luglio. Allora poi mica si poteva salire al Quirinale con la cravatta allentata, come fa ora Matteo Salvini, sebbene sia maggio. La allenterà di più. Chissà, magari sarà consentito uno strappo al cerimoniale e per le eccezionali condizioni atmosferico-elettorali saranno previste le consultazioni in Lacoste, si alzerà l’aria condizionata a beneficio dei corazzieri con l’elmetto, e pazienza per i cronisti inviati sul piazzale, incaricati di controllare se uno sale a piedi e quell’altro in auto, e di che colore è e di che cilindrata. Faceva molto, molto caldo anche in Grecia, il 17 giugno 2012, ed era trascorso un solo mese dalle elezioni precedenti, e si rivotò con la stessa legge elettorale ma la geografia politica cambiò completamente, e Alexis Tsipras conquistò la maggioranza necessaria. Gli elettori torneranno dai luoghi di villeggiatura, dagli stabilimenti a stabilire il loro futuro, già saccheggiato. Ci hanno rubato il futuro, ecco una frase che si sente così spesso, rivolta alle classi dirigenti, e allora si rincaserà dal mare e dalla montagna per riprendersi almeno il presente, e chi non tornerà, beato lui, si vede che ha un presente già colmo di soddisfazioni. 

Eppoi c’è una spettacolare serie di effetti collaterali. Ci risparmieremo quelle cronache straripanti indignazione per il palazzo che chiude ad agosto, e con un po’ di settembre per la quarantina di giorni di vacanza della casta. Si voterà l’8 o più probabilmente il 15 luglio, saranno tutti lì in pieno agosto a scegliersi i presidenti delle camere, tutti e novecentoquarantacinque (con l’obbligo della giacca! E al Senato pure della cravatta!); se le cose andranno come devono andare saranno lì ad agosto a votare la fiducia al nuovo governo, a costituire le commissioni, sottoposti all’intera serie di ottemperanze che fa dell’esordio il momento a maggior densità per metro quadro dell’intera legislatura. E quando avranno finito gli toccherà mettersi al chiodo per redigere una legge finanziaria, e recuperare il tempo perduto. Non avranno requie almeno fino a Natale. Li guarderemo dall’alto del nostro inedito privilegio di vacanzieri mentre loro stanno al chiodo, sarà così platealmente soddisfatto il desiderio di rivalsa. Sono inetti, almeno lavorino! Non vi pare lo spettacolo della catarsi? E quando sarà settembre, e ricominceranno le scuole, e i primissimi venti autunnali restituiranno refrigerio, godremo del privilegio di un esecutivo avviato, messo su secondo i nostri gusti, pienamente rappresentativo e incaricato di condurci verso una stagione di libertà e giustizia.

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Titolo: MATTIA FELTRI. Calzini a righe, selfie e il broncio di Savona. ...
Inserito da: Arlecchino - Giugno 02, 2018, 11:57:54 am
Calzini a righe, selfie e il broncio di Savona. Esordio senza imbarazzi

Ieri al Quirinale il giuramento dei ministri del governo del cambiamento.

Bongiorno marziale, l’orgoglio di Di Maio e Bonisoli “lumacone” con la Grillo

Pubblicato il 02/06/2018

Mattia Feltri
Roma

Se sarà il governo del cambiamento lo vedremo (sembra già qualcosa che ci sia stato il cambiamento del governo). Per il resto purtroppo siamo alle solite, ma non è colpa di nessuno. E cioè, noialtri cronisti, pigiati nello spazio deputato del Salone delle Feste, avevamo un imperativo categorico: scoprire se ci fosse o meno Elisa Isoardi. In realtà non tutti avevamo coscienza dell’alta missione, ma alla fine ognuno ci si è applicato. Perché la categoria era percorsa da un fermento che non ammetteva replica: «C’è Elisa Isoardi?». «Hai visto Elisa Isoardi?». «Com’è vestita Elisa Isoardi?». 

E quelli con una reputazione da difendere sbiancavano, non avevano una risposta. Non c’era firma, la più celebrata, che confermasse la propria levatura allungando il braccio e puntando l’indice con la sicurezza del fuoriclasse verso lo scoop: «Eccola là, Elisa Isoardi!». Niente. E per fortuna che l’imbarazzo s’è stemperato quando nel salone è entrato Matteo Salvini, che non è Elisa Isoardi, ma ne è il fidanzato e, perlomeno in quel luogo, nell’ombelico del Quirinale, poteva ambire al ruolo del protagonista, persino più della morosa. 

Noi, che avevamo il compito di raccontare la sacralità marmorea del giuramento, cioè l’immobilità al massimo del protocollo, ce lo mangiavamo con gli occhi. È il dettaglio che risuona, ci ripetevamo con sicumera consolatoria. In genere quello è il momento in cui si estrae il Pantone, e si comincia a misurare le gradazioni di blu: il vestito di Salvini è Blu Denim. No, Blu Doger. Sarà mica Blu di Persia?

La battuta su Di Maio “E’ il suo primo colloquio di lavoro” 
Che altro vi possiamo dire, insomma? Poco prima c’era stato un solidale scambio di informazioni sulla tenuta della frugalité: come erano arrivati, i ministri, quassù al Colle? Il premier Giuseppe Conte con una Volkswagen, ma accidenti non c’era unanimità sul modello. Una Polo! Una Golf! Una Arteon! Finché un giornalista concreto non ha sottolineato che comunque era un’auto tedesca, e la cosa avrebbe rassicurato i mercati. I Cinque Stelle erano arrivati tutti insieme su un pulmino, segnale di coesione e di attenzione ai conti pubblici. Altri erano arrivati a piedi. Tutto faceva brodo, nei nostri taccuini. Si è provato a insinuare che il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, fosse arrivato su pattini a rotelle ma dopo un attimo di smarrimento la notizia è stata presa per quello che era, una spiritosaggine fuori luogo. 

Tutti in piedi 

Ma a un certo punto erano tutti seduti, questi ministri esordienti, e alzandosi in punta di piedi, lanciando lo sguardo oltre l’ostacolo della fitta foresta di telecamere, si guadagnava il privilegio di una sbirciata sullo spettacolo. Ecco che cosa ci siamo annotati: Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, aveva l’espressione di uno che sta ascoltando una barzelletta con grandi aspettative; Salvini sedeva come Mourinho sulla panchina del Manchester City, gambe larghe e avambracci poggiati sulle ginocchia: portava una cravatta verde crivellato, tipo vittima di legittima difesa, e calze a righe nerazzurre (la prova che Elisa Isoardi non c’era, altrimenti gli avrebbe stirato quelle blu); il premier Conte aveva un sorriso laterale stile Silvio Berlusconi; Luigi Di Maio risplendeva davanti ai genitori, ospiti nello spazio del pubblico, con l’orgoglio di Napoleone ad Austerlitz; Paolo Savona era scuro come uno che il piano B l’ha subito, cioè l’arretramento alle Politiche comunitarie; il ministro alla Cultura, Alberto Bonisoli, faceva il lumacone con la collega alla Salute, Giulia Grillo (ma questa è un’illazione da cronisti disperati). 

La goliardia 
Questo scrupolo di appunti è andato a farsi benedire, come sempre. Quando Di Maio è andato a giurare davanti al presidente Sergio Mattarella, è venuta fuori un po’ di goliardia. «E’ la prima volta che fa un colloquio di lavoro», ha detto uno, e la facezia ci ha fatti rinascere. Non c’era davvero motivo di essere tanto compresi, anche perché Salvini già si faceva il selfie, un lubrico primo piano diffuso online prima ancora della fine della cerimonia. Giulia Bongiorno, titolare della Pubblica amministrazione, andava a leggere il testo del giuramento («giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione») con un’enfasi marziale, un po’ fuori luogo ma senz’altro suggestiva. 

S’è tutto concluso in pochi minuti, e i ministri sono usciti sul piazzale a dimostrare che non provavano l’emozione dell’esordio (non è gente che s’emozioni, questa), che piuttosto erano concentrati sul gravoso compito. Noi ci siamo precipitati sull’uno e poi sull’altro a sentire frasi riassumibili così: «Abbiamo una grande squadra, lo scudetto è alla nostra portata». Finché non ci siamo precipitati anche su Gian Marco Centinaio (Politiche Agricole) e, mentre lui stava illustrando il progetto di tutela delle nostre eccellenze agroalimentari, è uscito Di Maio, e tutti hanno gridato «Di Maio! Di Maio!». 

E hanno piantato lì il povero Centinaio, a bocca aperta. Il vostro cronista, che non ha nessun senso della notizia, è rimasto solidale a fianco di Centinaio. Ed è lì che si è stagliata la statuaria figura. Laggiù, era lei: Elisa Isoardi!

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Da - http://www.lastampa.it/2018/06/02/italia/calzini-a-righe-selfie-e-il-broncio-di-savona-esordio-senza-imbarazzi-7olAL2JHbMtkGGO2UL0NDO/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. Prima le élite italiane
Inserito da: Arlecchino - Giugno 10, 2018, 01:04:27 pm
Prima le élite italiane

Pubblicato il 05/06/2018 - Ultima modifica il 05/06/2018 alle ore 06:54

Mattia Feltri

Per avere negato l’esistenza e la conseguente cura delle famiglie arcobaleno, il ministro leghista alla Famiglia, Lorenzo Fontana, si è guadagnato la stima randellatrice del popolo di Internet. Non solo quella, però. Paola Concia, assessore a Firenze, sposata con una ragazza tedesca, ha garbatamente aggiunto una spiazzante ovvietà: «Non facciamo male a nessuno». Al pestaggio social, Fontana poteva rispondere in molti modi e ha scelto il peggiore, additando le élite del pensiero dominante. Ora, se la Lega è al governo, è facile supporre che il pensiero dominante sia piuttosto quello di Fontana, ma si vedrà. Primo. 

E secondo, presupporre che uno diventi omosessuale per censo, titolo di studio o posizione nella società è una visione strampalata. Si può essere gay in un assessorato di Firenze oppure in una palazzina di Zagarolo, da dove esercitare l’elitarismo è già più complicato. È che questa bella storia del popolo probo contrapposto alle élite farabutte, così fruttuosa nei delitti di massa del Novecento e nell’ultima campagna elettorale, sarebbe il caso di metterla da parte. 

Ma, se è una dialettica a cui proprio tiene, e siccome il concetto di élite è molto relativo, Fontana potrebbe dedicare qualche minuto alla storia di Sacko Soumalya, maliano, regolare, ucciso con un colpo di fucile alla testa a Vibo Valentia mentre da una fabbrica abbandonata rubava lamiere con cui costruire una baracca. Sacko lavorava nei campi per una paga che andava da due euro e mezzo ai cinque l’ora. Ecco, pure pagare così gente che vive così è roba da élite. Anche in questo, prima gli italiani.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/06/05/cultura/prima-le-lite-italiane-Rq5VKs8e5UwklFrbq8iTyI/pagina.html


Titolo: MATTIA FELTRI. Che tempi, Medioevo mio
Inserito da: Arlecchino - Marzo 27, 2019, 05:18:34 pm
Che tempi, Medioevo mio

Mattia Feltri 
20 Marzo 2019

Del Buongiorno
Da giorni mi chiedevo perché questi del governo ce l’avessero tanto col Medioevo. Un tafferuglio continuo e con un unico violentissimo scambio di accuse: volete tornare al Medioevo! No alla Tav? Un’idea da Medioevo. Il congresso di Verona sulla famiglia? Nostalgia del Medioevo. L’utero in affitto? Il vero Medioevo. Gli inceneritori? Autentico Medioevo. L’ostilità per la democrazia diretta? Puro Medioevo. Poi gialli e verdi si sono ritrovati di colpo compatti contro gli sconti di pena agli uxoricidi (senza conoscere le sentenze, ché leggere è roba da Medioevo): eccolo il Medioevo! E dunque? Inasprire le pene.

Perché? Per non tornare al Medioevo. Ma, accidenti, il Medioevo ha avuto Federico II Stupor Mundi, ha avuto Carlo Magno, il sommo poeta Dante Alighieri, il magnifico Giotto, pittore e architetto, e pure Francesco d’Assisi, cui ciascuno dice di ispirarsi, se non incombe l’apericena. Pensa e ripensa, ho capito tutto. Il Medioevo si apre con San Benedetto da Norcia, che con la sua regola monastica crea una rete di conventi che è la prima imbastitura culturale dell’Europa unita. E addio a «prima gli italiani».

Poi, intorno all’anno Mille, nasce l’università, oscura fucina di élite dove si impara a dire soltanto quello che si sa, cioè un luogo antidemocratico. Mica è finita. Subito dopo a Genova lanciano la finanza e fondano le banche. Insomma, senza Medioevo non avremmo avuto né Etruria né Draghi né Morgan Stanley. E finalmente questo terribile Medioevo sta per finire e chi ti arriva? Gutenberg. Che proprio all’ultimo si inventa la stampa! Cioè i giornalisti! Che tempi ’sto Medioevo...

Da - https://www.lastampa.it/2019/03/20/cultura/che-tempi-medioevo-mio-bcPEmd5gLbLuMQfEcFEF4H/premium.html