Titolo: Mimmo CANDITO, giornalismo in lutto: addio al reporter Mimmo Candito Inserito da: Admin - Marzo 17, 2008, 02:39:59 pm Mimmo Candito
14/3/2008 - Le relazioni tra il mondo della politica e il sistema mediatico: il caso italiano, ma non solo Oggi i giornali e i giornalisti davvero servi della politica? La politica si fa attraverso i massmedia e dunque... Cari naviganti. Ora vi appioppo una mappazza sul perverso rapporto tra sistema mediatico e sistema politico. In periodo di elezioni, questo rapporto raggiunge il suo più elevato punto di criticità, e dunque merita rifletterci organicamente, anche al di là dei brevi suggerimenti che in questi giorni sto cercando di inviarvi per ragionare un po', tutti insieme. Allora, ecco qui sotto il testo. Siamo in week-end, magari trovate il tempo per leggerlo interamente e scrivere la vostra valutazione. Buona lettura... Il rapporto fra media e politica Ora che siamo riprecipitati dentro il tourbillon del voto, la nostra comune attenzione tende ad acuirsi sulle forme nelle quali i nuovi soggetti presentano agli elettori il proprio programma. Insisto sulle “forme”, più che – come sarebbe apparso logico in un altro tempo, ma è ormai giudizio scontato – più che sugli stessi programmi, perché ci siamo abituati progressivamente a “guardare” la realtà piuttosto che a “vederla”, rinunciando alla dimensione critica per adattarci invece a quella, più quieta e rilassante, del consumo passivo (per questo adattamento, le analisi di Antonio Scurati relative allo “spettacolo” della guerra hanno offerto interessante materiale di riflessione sulla mutazione del ruolo che la televisione ha indotto nelle pratiche di ricezione del flussi informativi). E una scrivania di ciliegio nel salotto buono di Porta A Porta attiva reazioni inconsce di catalogazione dei significati, secondo schemi che vanno ben al di là delle valorazioni semantiche del discorso là rappresentato. E’ la “nuova” egemonia della televisione, certamente, ma è anche la qualità dell’apporto che il sistema generale dei mass-media ha dato alla politica, in un territorio virtuale che Roger Silverstone (“Perché studiare i media?”, Il Mulino, 2002) ha definito come rappresentativo di un cambiamento di forte incidenza sostanziale: “Mentre un tempo avremmo potuto pensare ai media come a un completamento del pensiero politico (…), oggi dobbiamo porci di fonte ai media come a soggetti fondamentalmente inscritti nel processo politico stesso: la politica, come l’esperienza, non può più neppure essere considerata fuori da un contesto mediale”. In questa cornice si è praticata dunque una integrazione di ruoli, con una dislocazione delle identità verso un universo di segni e di messaggi dove la contaminazione non lascia più granché di spazio a differenziazioni. Anzi, v’è da chiedersi se questa integrazione non apra talvolta il passo a un autentico scambio di ruoli. Comunque, consuetudini pigramente accettate fanno ancora utilizzare categorie distinte, come se questa autentica palingenesi del discorso politico non si fosse realizzata, e il passaggio al dominio della figura del leader (fall-out naturale del processo mediatico) non avesse sostituito l’articolazione che un tempo si manifestava attraverso la dialettica tra le infrastrutture della politica, cioè i partiti e i loro programmi, e la politica come sistema. Scrive ancora Silverstone: “ Mentre un tempo avremmo potuto pensare al sistema dei media come a un garante della libertà e del processo democratico, oggi dobbiamo riconoscere che le libertà richiesta dai media (…) stanno per essere distrutte da quegli stessi media nella loro piena maturità”. L’integrazione ha prodotto dunque una degenerazione molto pericolosa per la stessa democrazia, perchè non è soltanto significativa di perdita d’identità del processo mediatico e/o del sistema politico, ma intacca la natura delle relazioni che si debbono intendere tra produzione della politica e conoscenza della stessa, facendo cadere la funzione di controllo e di garanzia che il giornalismo dovrebbe avere in un sano equilibrio di divisione dei poteri. (Qui si potrebbe anche ragionare sulle diversità strutturali tra il sistema mediatico americano e quello italiano, arrivando alla conclusione che – al di là delle radici storiche del giornalismo Usa e di quello di casa nostra – ciò che conta, e che incide, è che nella cultura politica americana la divisione dei poteri è tuttora un solido baluardo costituzionale e fattuale, anche quando le forti pratiche degli spin-doctors della Casa Bianca tendono ad aprire contraddizioni drammatiche). All’interno di questo orizzonte, non è che il processo che si va consumando abbia cancellato ogni forma della precedente identità. Nient’affatto. Pensiamo alla forte denuncia che del degrado del sistema politico hanno compiuto Rizzo e Stella nell’assoluto best-seller “La casta”, all’ulteriore approfondimento che ne hanno realizzato Mario Cervi e Nicola Porro in “Sprecopoli” (Longanesi 2007), con un sottotitolo disperatamente illustrativo del loro lavoro di investigazione e di accusa contro la bulimia insaziabile della spesa pubblica: “Tutto quello che non vi hanno mai detto sui nuovi sprechi della politica”. Pensiamo al “viaggio nel paese in svendita” che ha fatto Aldo Cazzullo con “Outlet Italia” (Mondadori 2007), dove racconta con il vecchio animo dell’inchiestista come il degrado dei rapporti umani e la perdita di senso dei valori fondamentali d’una società – a partire dalla giustizia - siano il riflesso amaro di un sistema-paese che va scivolando dentro una spirale che la politica favorisce piuttosto che tentare d’arrestare. A proposito, appunto, della giustizia, e delle sue strette, perverse talvolta, relazioni con il sistema politico, non può sfuggire all’attenzione il denso materiale critico, un’autentica summa antologica, raccolto da Barbacetto, Gomez e Travaglio, cioè tre delle firme più impegnate nel disvelamento della campagna di appropriazione che una parte del mondo politico ha lanciato nel territorio proprio della giurisdizione (ma può esservi anche una specularità di percorso). Con agevole ironia verso “destra e sinistra che si sono mangiati la II Repubblica”, il titolo di questo gigantesco tomo di 900 pagine è “Mani sporche” (Chiarelettere 2007). In controluce a questo drammatico viaggio negli ultimi 6 anni della nostra vita politica - e che parte con “Il ritorno del Cavaliere”, nel 2001, per approdare alla “Sinistra alla barra”, storia dunque di questi stessi giorni - in controluce si potrebbe anche rileggere il librino che Vittorio Foa e Federica Montevecchi dedicano a “Le parole della politica” (Einaudi 2008), non solo per le riflessioni che vi sono contenute sul linguaggio “plurale” che la politica strumentalizza e disossa ma, anche, per il confronto che riapre tra il discorso su giustizia-ingiustizia nel “Gorgia” plutoniano e l’obiezione socratica sulle connessioni inevitabili tra il logos e le ragioni dell’etica. L’etica. Parola di assai difficile reperibilità nell’universo del nostro attuale sistema politico, ricordando anche quanto ebbe a denunciare qualche breve tempo fa Luca Ricolfi sulla improvvisa indecente nudità della sinistra che sempre si era creduta, e rappresentata nei media, come nobile d’animo e diversa di pratiche (“Perché siamo antipatici? La sinistra e il complesso dei migliori”, Longanesi 2005). Eppure, una nobiltà e una diversità sono comunque presenti anche nel putridume d’un costume che progressivamente ha ceduto spazio e protagonismo all’antipolitica: nelle belle interviste che Corrado Stajano ha voluto dedicare a una settantina di figure chiave del Novecento (“Maestri e infedeli”, Garzanti 2008), da Bobbio a Gherardo Colombo, da Parri a Sylos Labini, da Magris ad Altan e Riccardo Lombardi, viene fuori il ritratto di un’Italia diversa, civile, problematica, consapevole della responsabilità dei ruoli e dei doveri alti della politica. Ma questa sopravvivenza comunque d’un giornalismo d’inchiesta, che non ha ancora consumato completamente il connubio contronatura con il sistema politico, non contraddice affatto quanto Silverstone denunciava, e quanto abbiamo sotto i nostri occhi nella lettura quotidiana dei giornali e nello spettacolo (ahimè, davvero spettacolo) dei telegiornali. Il sistema mediatico/politico è una ibridazione mostruosa e però fattualmente reale. L’interdipendenza, ormai, tra informazione e attività politica ha avuto certamente nella televisione il suo strumento di consacrazione; l’egemonia del modello televisivo ha proiettato poi sugli altri media le forme di esercizio di questa pratica. C’è da chiedersi se il giornalismo, alla fine, ne soffra davvero, o se piuttosto non ci sguazzi dentro con felice crapula, a cominciare da quei giornalisti che si fanno naturalmente deputati e senatori. da lastampa.it Titolo: MIMMO CANDITO Caduti per amore di notizia Inserito da: Admin - Maggio 04, 2008, 11:37:17 am 4/5/2008
Caduti per amore di notizia MIMMO CANDITO Nella «Giornata mondiale della libertà di stampa» l’Onu ricorda le vittime di un mestiere sempre più esposto a rischi e poteri forti. Perché l’Italia è sessantesima. E’ molto probabile che, l'anno prossimo, scivoleremo giù da quel già sconsolante sessantesimo posto che Reporters sans Fronrières e gli altri organismi hanno assegnato all'Italia quando ieri, Giornata della libertà d'informazione, in cui l’Onu ha commemorato i giornalisti caduti nel loro lavoro, hanno pubblicato la graduatoria mondiale. I parametri per decidere il posto nella classifica della libertà di stampa tengono conto di molti fattori, e l'intreccio tra interessi editoriali e interessi politici non è di poco conto. Berlusconi editore, in qualche modo, di Mediaset e della Rai e però anche presidente (prossimo) del Consiglio dei ministri comporta un costo che la nuova classifica, il 3 maggio del 2009, registrerà implacabile. Ma siamo davvero un paese da sessantesimo posto? A sentire Grillo, altro che sessantesimi: giù, giù, siamo proprio in fondo alla classifica, centesimi, centocinquantesimi, un giornalismo tutto di servi, tutto di camerieri. Che servi e camerieri ci siano, è innegabile: qualche tempo fa, il presidente Ciampi ebbe a esortare il giornalismo italiano a «tener sempre la schiena dritta», e l'esortazione non ci sarebbe stata se quella schiena Ciampi non l'avesse vista spesso ben piegata. E d'altronde, basta osservare come molti telegiornali hanno praticato una deprimente autocensura sulle immagini che mostravano Berlusconi a villa Certosa mentre mimava di sparare contro la giornalista russa «troppo invadente» (i lettori hanno segnalato quelle immagini soltanto su Tg3, La7 e TgSky). Ma, al di là delle violenze verbali di Grillo, l'ampia partecipazione popolare alla sua manifestazione è una realtà della quale bisogna tener conto, se non vogliamo che questa Giornata mondiale sia esclusivamente rituale. Tanta gente che va in piazza e protesta e grida e s'infuria sulle news significa una cosa anzitutto: che v'è una domanda forte d'una informazione credibile, garantita. Affidabile. Tuttavia, per aiutarci a coglierne il senso autentico dobbiamo leggere quella partecipazione assieme a un'altra notizia, anch'essa di questi giorni: le dimissioni del direttore del Wall Street Journal, che ha considerato di non poter continuare il proprio lavoro per l'invadenza eccessiva del nuovo proprietario. In altre parole: il nuovo padrone del WSJ, Rupert Murdoch, oltre che l'editore voleva fare anche il direttore, e allora il giornalista ha preso il cappello e se n'è andato. Integrare le due notizie aiuta a comprendere che il giornalismo ha, dovunque, un compito molto difficile, nella sua ricerca di una mediazione accettabile tra la lettura autonoma della realtà e la pressione condizionatrice che invece mettono in atto i poteri, politico, economico, culturale, per ottenere una lettura funzionale ai propri interessi. Questa mediazione è fisiologica, è cioè pratica costante; e da quando la centralità dell'informazione è diventata un principio riconosciuto, la mediazione si è fatta ancor più difficile. Dire tutti servi, tutti camerieri, può anche consolarci, in quella pratica del «pensiero binario» (come lo chiama Edgard Morin) che nei fatti tradisce la realtà, la quale non è bianca o nera ma è una complessità di contraddizioni molteplici. Ricordare le dimissioni al WSJ aiuta, nella Giornata mondiale della libertà dell'informazione, a capire che l'aspettativa di un giornalismo credibile si realizza meglio se si aiuta il giornalismo a non trovarsi da solo nel braccio di ferro con i poteri. da lastampa.it Titolo: MIMMO CÁNDITO Inserito da: Admin - Giugno 26, 2008, 03:34:28 pm 26/6/2008
Le 7 sorelle si vendicano a Baghdad MIMMO CÁNDITO Gli americani la chiamano «the smokin' gun», la pistola fumante, per dire: ecco qui la prova inequivocabile, quella che inchioda il colpevole al di là di qualsiasi possibile dubbio. La pistola fumante che inchioda Bush e Cheney alle loro colpe sulla guerra lanciata cinque anni fa la si potrà trovare lunedì prossimo sulla scrivania del Ministro iracheno del petrolio quando, schierate di fronte a lui, siederanno con la penna già in mano le «sette sorelle», o comunque quanto resta di loro dopo le fusioni, pronte a firmare il contratto che gli concede di tornare a metter le mani sul petrolio della Mesopotamia. Le aveva rimandate a casa più di trent'anni fa Saddam Hussein, con un decreto di nazionalizzazione degli idrocarburi; ma ora che Saddam è stato messo a tacere, le majors possono godersi il miele della vendetta e rientrare in pompa magna a farsi i loro affari. Questa è la notizia che circola in molti blog americani negli ultimi giorni, a dire qual è l'umore sprezzante che sempre più viene rivolto al Presidente e alla sua politica irachena, con lo stillicidio quotidiano dei 4 mila morti interrati nella coscienza della nazione. Cadute le facili illusioni dei primi giorni di quel 2003, nell'opinione pubblica ha finito per acquistare sempre maggiore credibilità l'ipotesi che la vera ragione di questa guerra fosse il petrolio, altro che «la democrazia da esportare». E l'Iraq, di petrolio ne ha davvero un mare. Le sue riserve conosciute sono di 115 miliardi di barili (più i 45 miliardi di metri cubi di gas), che è una cifra che lo mette al terzo posto della classifica mondiale; ma nelle settimane che precedettero il lancio della guerra l'Energy Information Agency del governo americano dava una stima assai più elevata, di 332 miliardi di barili, valutando che nella pancia del deserto occidentale ci siano riserve preziosissime, che porteranno l'Iraq al primo posto dei paesi produttori, sopravanzando di 70 miliardi di barili perfino l'Arabia Saudita, oggi il più ricco di pozzi e di petrodollari. A confortare il giudizio amaro sui reali interessi di Bush e di Cheney - legati da sempre al mondo petrolifero, che gli finanziò la campagna elettorale dopo averli avuti anche come qualificati membri dei consigli di amministrazione - è la specifica che accompagna i contratti da firmare lunedì: contrariamente a quanto si pratica in questo comparto industriale, gli accordi sono stati raggiunti a trattativa privata, senza alcun bando pubblico, che è come dire che la Exxon Mobil, la Shell, la Total e la Bp (che facevano parte di quell'Iraq Petroleum Company che gestiva i ricchi affari iracheni prima di Saddam), più la Chevron-Amoco potranno spartirsi l'oro nero iracheno indisturbate, senza concorrente alcuno. L'Iraq, che oggi produce 2 milioni e mezzo di barili al giorno (ma, con investimenti adeguati e un incisivo rinnovamento tecnologico, frenato a lungo dall'embargo contro Saddam, potrebbe arrivare fino a 6 milioni), conta di avere dai nuovi soci una immediata capacità di portare la produzione a 3,1 milioni già entro l'anno; e giustifica il contratto «di favore» con due spiegazioni: l'alto know-how delle majors, che potranno aiutare l'industria irachena a migliorarsi decisamente, e poi la durata del contratto limitata a 2 anni. «Poi si ridiscuterà». Certo ogni illusione è lecita, poi. Il Columbia Journalism Review, pubblicando recentemente in un numero speciale i più importanti reportage sulla guerra, stampava anche quanto aveva detto ai suoi ascoltatori l'inviata della National Public Radio, Anne Garrett: «Gli iracheni, al nostro arrivo, erano scioccati per il fatto che i soldati americani non facessero niente contro le violenze e i saccheggi, e ricorderà per sempre che praticamente l'unico edificio a essere protetto era il ministero del Petrolio; questo ricordava a tanti il motivo per il quale gli Stati Uniti si trovavano là». da lastampa.it Titolo: MIMMO CÁNDITO Maglie nere della libertà di stampa Inserito da: Admin - Luglio 12, 2008, 11:21:31 am 12/7/2008
Iraq, addio giornalismo di guerra MIMMO CÁNDITO Tranne qualche raro flash di routine, l’Iraq è scomparso dalle pagine dei giornali e dalle informazioni di telegiornali e radiogiornali. È come se laggiù fosse finito tutto, finita la guerra, finite le lotte tra sciiti e sunniti, finite le infiltrazioni terroristiche di al-Qaeda, finite le stragi e le autobomba. Poi sfogli il New York Times e nel piccolo riquadro d’una pagina interna un breve titolo, «I nomi dei morti», accompagna l’annuncio che il soldato John Smith e il sergente Carlos Redondo ieri sono stati ammazzati in Iraq. Smith e Redondo si aggiungono ai 4102 che finora erano i morti di quella guerra, ma altri due o tre o cinque Smith e Redondo già domani cancelleranno questi loro nomi, come accade in ognuno di tutti i giorni da quando la guerra è cominciata, nel marzo del 2003. In Iraq, si combatte e si muore tuttora. Solo che ora non se ne parla, non se ne scrive, non se ne raccontano più uomini, storie, tragedie, battaglie. L’Iraq pare diventato una guerra dimenticata. Un tempo, le «guerre dimenticate» erano quelle dove i giornalisti non andavano perché - si diceva - non interessano nessuno, non erano coinvolte né grandi potenze né grandi strategie. Ma oggi la geografia del giornalismo è cambiata drammaticamente, oggi le guerre «dimenticate» sono le guerre dove invece i giornalisti non vanno perché non possono andarci. Perché il rischio d’esservi ammazzati è troppo elevato. Farnaz Fassihi, inviata del Wall Street Journal in Iraq, dice: «Essere un giornalista straniero a Baghdad in questi giorni è come essere un condannato agli arresti domiciliari». (La sua intervista può esser letta nel Diario-mese che ha pubblicato la traduzione italiana d’un numero speciale del Columbia Journalism Review dedicato ai reporter in Iraq). Quest’ultima guerra del Golfo è, forse, anche l’ultima del giornalismo di guerra. Un mestiere va finendo, quanto meno va finendo il modo con cui lo si faceva, che era la pratica testimoniale di un rapporto diretto con il territorio raccontato e con coloro che vi operavano, i soldati, gli ufficiali, i guerriglieri, ma anche la gente comune e la loro vita senza storia e senza qualità. Oggi, in Iraq, se pensi ancora di andare in giro a osservare, intervistare, incontrare persone e informatori, sei un aspirante suicida. Puoi essere rapito e sequestrato, come la Giuliana Sgrena o Malbrunot, ma è più facile ancora che ti prendano e ti sgozzino. Dice Borzou Daragahi, del Los Angeles Times: «Un espediente strategico che utilizzo è di andare sul lungo di un attentato, raccogliere con estrema rapidità i numeri dei cellulari della gente lì attorno, per andarmene nel giro di dieci o quindici minuti. Poi, mentre sto tornando indietro in macchina, li richiamo per raccogliere le loro testimonianze». Borzou non ha l’aspetto di un giornalista straniero, ma quei quindici minuti sono il limite massimo della sua missione. I media occidentali stanno delegando la raccolta e produzione d’informazioni ai loro collaboratori iracheni, che però - nemmeno essi - sono esentati dal pericolo, perché considerati «spie degli americani». Il Committe to Protect Journalists ha contato che, dei 206 giornalisti e stringer e interpreti uccisi fino a oggi in questa guerra, più di 170 erano iracheni. Nell’analisi critica del giornalismo d’oggi, ha un ruolo sempre più accentuato l’utilizzo mediato dei flussi informativi, cioè la sostituzione del lavoro sul campo con la pratica di «impastare» in redazione le informazioni raccolte attraverso l’uso di fonti esterne. È, questo, il derivato più determinante dell’evoluzione tecnologica e delle straordinarie potenzialità del web. Finora, il reporter di guerra aveva potuto resistere a questa mutazione, integrando piuttosto con Internet il suo vagare e indagare sul campo di battaglia. Ma ora che l’Iraq è diventato territorio off-limits, la cronaca di una morte annunciata si va consumando. E ci si chiede che cosa sia giornalismo oggi. da lastampa.it Titolo: MIMMO CÁNDITO La nuova battaglia di Algeri Inserito da: Admin - Agosto 20, 2008, 10:29:27 am 20/8/2008
La nuova battaglia di Algeri MIMMO CÁNDITO Al pomeriggio, quando il calar del sole fa meno torrida l’aria di Algeri e la città bianca di Camus si riapre alla sua gente, i ragazzi che se ne vanno a flanellare lungo rue Diduche Mourad - un muro umano in un paese dove più del 70 per cento della popolazione è di giovani - sono l’obiettivo reale delle bombe che ieri hanno fatto 43 morti e una cinquantina di feriti. In Algeria il terrorismo è lo sfondo sul quale per 15 anni la vita quotidiana ha tentato, tra sofferenze profonde, di sopravvivere allo stillicidio ininterrotto d’una tragedia senza limiti e senza pietà; ha tentato e alla fine ci è riuscita, pur pagando - con 200 mila morti - un prezzo altissimo, che davvero poche società della storia contemporanea (al di fuori dei massacri compiuti dal nazismo e dal comunismo eurasiatico nella spirale ideologica del «secolo breve») hanno dovuto accettare come impianto culturale d’una condizione collettiva mostruosamente deformante. Questi ragazzi, il muro compatto e tormentato delle loro speranze e frustrazioni, dovrebbero diventare, nel progetto del terrorismo, i nuovi militanti della guerra santa che l’alleanza tra al-Qaeda e le formazioni del Gruppo Salafita di Preghiera e Combattimento hanno stretto un anno fa, creando la nuova «al-Qaeda per il Maghreb Islamico», nucleo fondante d’un piano di trasferimento del jihad dalla Mesopotamia (dove sta attraversando una fase di crisi che potrebbe essere anche insuperabile) all’Africa Settentrionale (dove si radica larga parte dei massicci flussi migratori che muovono clandestinamente verso l’Europa e che, nel piano di al-Qaeda, dovrebbero trasformarsi nella quinta colonna che farà saltare in aria, dall’interno, gli equilibri politici e sociali del Vecchio Continente). E il programma ideologico della nuova formazione, redatto dallo stesso numero due di Bin Laden, Aymar al-Zawahiri, identifica il bersaglio delle azioni terroristiche proprio «nei Crociati europei, e nei loro alleati schiavi dell’America e figli della Francia» (gli «schiavi dell’America» sono i regimi arabi moderati, a cominciare da Egitto e Arabia Saudita, e i «figli della Francia» sono le ex colonie francesi del Maghreb, a cominciare dalla stessa Algeria). Le due bombe di ieri vanno osservate da questa parte dell’Occidente con una riflessione più seria di quella che riceverebbero se si trattasse «soltanto» d’un problema locale, dove tensioni politiche e religiose si fondono con le radici storiche dei forti contrasti etnici tra la maggioranza araba algerina e la minoranza berbera insediata in Kabylia. Un’attenzione che il progetto di Unione Mediterranea, nato poche settimane fa sotto la spinta delle ambizioni di «re-grandeur» Sarkozy, accentua in modo significativo, collocando il Maghreb in una visione unitaria con l’Europa che fa prevalere sulle divisioni e sulle diversità - etniche, religiose, politiche, sociali - la speranza di un interesse comune. L’Algeria, proprio per la sua tragica storia recente, e per questo muro umano di ragazzi, affascinante e però preoccupante nella sua fragilità emotiva, è al centro di un piano di destabilizzazione continentale di dimensioni quali finora mai si erano osservate, neanche con gli attentati ai treni di Madrid e alla metropolitana di Londra. Il trauma creato dalla «guerra civile» degli Anni 90 ha potuto essere superato con un’amnistia che il presidente Buteflika ha voluto fermamente, e che ha finito per svuotare gli arsenali umani del Gis (lo stesso leader del Gruppo islamico, Hassan Kattab, si è consegnato all’esercito, in opposizione all’allargamento della lotta che i suoi militanti stavano praticando). Questo nuovo potenziale di crisi può essere disinnescato dal piano di sviluppo del governo, che intende attuare un incremento del bilancio sociale del 19%, utilizzando le maggiori entrate dell’aumento del prezzo del petrolio e del gas per investimenti che rispondano ai bisogni di quel muro inquieto di ragazzi, con un piano di costruzione di 1 milione mezzo di alloggi e con forti contributi per l’istruzione e i trasporti. È una scommessa sulla quale si gioca una partita che coinvolge anche i Paesi del Sud dell’Europa. Merita prestarle un’attenzione che finora è stata spesso assente. da lastampa.it Titolo: MIMMO CÁNDITO Maglie nere della libertà di stampa Inserito da: Admin - Settembre 13, 2008, 12:33:18 am 12/9/2008
Il risveglio degli indios MIMMO CANDITO Era diventato un mondo dimenticato dal mondo, l’America Latina, che sembrava consegnata al suo destino monroeiano di cortile di Washington. L’arrivo irruento di Chávez, prima, e l’esplosione poi del prezzo del petrolio, hanno rovesciato il corso della storia, attivando dinamiche che scuotono dall’interno il subcontinente. Due, soprattutto, sono le forme nelle quali si sta sedimentando il cambiamento: la prima è il risveglio della «nazione india», che scuote gli equilibri degli Stati nei quali gli indios costituiscono una quota rilevante della popolazione e ha trovato nella Bolivia - dove quechua e aymarà sono maggioranza - la realizzazione più compiuta con l’elezione a presidente dell’indio «cocalero» Elio Morales; la seconda è la nazionalizzazione delle risorse energetiche, in un processo che ha avuto in Chávez l’iniziatore e che ha trovato molti imitatori. I problemi boliviani nascono da entrambi questi fattori: le province ribelli sono a maggioranza bianca e sono le aree ricche di idrocarburi. Un ambasciatore (per di più americano) che s’incontra ufficialmente con i prefetti di queste province o è uno che ha sbagliato mestiere oppure è uno che prepara, con il consenso della casa madre, storie sporche come quelle cilene. Sorprende, comunque, tanta rozzezza. I tempi sono cambiati da quanto successe proprio ieri 35 anni fa a Santiago, e la solidarietà manifestata immediatamente da Lula è molto significativa. Ieri stesso, Morales aveva firmato l’adesione della Bolivia all’Unasur, l’Unione sudamericana; tutto si muove, e il G-7 deve intanto registrare che si va formando un centro alternativo di potere che mette assieme gli «altri» grandi, si chiama Crib e dentro, con la Cina, la Russia e l’India, c’è proprio un pezzo «alternativo» dell’America Latina, questa «b» che sta per Brasile. da lastampa.it Titolo: MIMMO CÁNDITO Maglie nere della libertà di stampa Inserito da: Admin - Settembre 13, 2008, 11:55:32 am 13/9/2008 (7:6) - LA STORIA
Cent’anni di rancore verso il padrone gringo Da Bòlivar ai Tupamaros, un odio che non si è mai placato MIMMO CANDITO CARACAS Yanquis de mierda, qué se vayan!». Hugo Chávez ha modi rozzi, che la sua frequentazione delle caserme ha forgiato al di là di ogni civile misura, ma questo scatologico invito agli americani ad andarsene (dal Venezuela e dalla Bolivia, ma soprattutto da quell’universo di genti, etnie e storie che è l’America Latina) voleva proporsi consapevolmente, in questa sua violenza verbale, come l’espressione che meglio interpreta un sentimento popolare che in Sud America è molto diffuso. E che lega in un atteggiamento culturale - prima ancora che politico - segmenti di società e di classi, solidali al di là delle frontiere. Alle radici sta certamente il retaggio dei secoli della colonizzazione spagnola, e portoghese, che da quando James Monroe (in realtà era John Quincy Adams, Monroe se ne appropriò) espresse la celebre dottrina «L’America agli americani», è stato progressivamente sostituito nell’immaginario dai nuovi padroni sull’altra sponda del Rio Bravo. Con la «dottrina», nel 1823, Monroe voleva segnalare all’Europa che il Nuovo Mondo era territorio di competenza degli Usa, e ogni intervento sarebbe stato visto come aggressione. La vecchia alleanza tra latifondisti bianchi e servizievoli forze armate reggeva ancora molta parte dei Paesi del Sud America, però la battaglia bolivariana riportava dall’Europa il sentimento nuovo dello Stato nazionale. Il generale Simón José Antonio de la Santísima Trinidad Bolívar Palacios Ponte y Blanco tentò di costituire un’unione dei popoli sudamericani, autonomi da ogni ingerenza esterna, e poté far nascere la Gran Colombia come Stato-nazione che unificava parte del Venezuela, della Colombia, del Perù e dell’Ecuador; ma il suo progetto si consumò prima ancora della sua morte, scontrandosi con la resistenza delle vecchie alleanze «nazionali» di potere. Comunque, l’invadenza sempre più forte degli investimenti americani spinse da parte la vecchia gestione spagnola (la guerra per Cuba, alla fine dell’800, è l’ultima resistenza), sostituendo una nuova gestione delle economie locali e dei governi, in un esercizio però di assoluta continuità con le alleanze di potere del passato, com'è evidente nel golpe in Nicaragua che porta al potere il sergente Somoza e per il quale il presidente Roosevelt dice in termini di difesa degli interessi statunitensi: «Sarà un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana». E quando, nel 1954, in Guatemala si afferma un progetto di governo che vuole sottrarre i latifondi al controllo della multinazionale United Fruit, un colpo di Stato della Cia (nome in codice Pb-Success) chiude rapidamente i conti. Cuba sarà la tappa successiva, in un intrico di malintendimenti e di errori politici che esplodono nel momento in cui Fidel Castro vara una riforma agraria che nazionalizza gran parte degli investimenti americani e lascia intravedere un modello economico di propensioni socialisteggianti. Da Cuba e dai «focos» guerriglieri del Che Guevara comincia un percorso che si manifesta fino agli anni ‘80 nei tentativi rivoluzionari, antiyanquis. E che troveranno nel Cile di Pinochet, nell’Argentina dei generali golpisti, e nella lotta spietata ai Tupamaros in Uruguay, la loro fase terminale, schiacciati da alleanze militari che, formate con il sostegno di Washington nella «Escuela del las Americas» di Panama, prendono sanguinosamente il potere «contro il comunismo». In questo orizzonte di risentimenti che proiettano sul mito dell’imperialismo yanqui (mito e solida realtà, naturalmente) malesseri sociali molto profondi, Chávez è solo la ripresa di una continuità mai interrotta. Se non fosse il mito a dominare i sentimenti popolari, assai più forte rancore dovrebbe manifestarsi verso la «Reconquista» spagnola: oggi, in molti Paesi, se accendi la luce, apri il rubinetto, telefoni, vai in banca, credi di trattare con una società locale e stai invece pagando un tributo alla società finanziaria di controllo, che ha sede sempre a Madrid. La nazionalizzazione degli idrocarburi di Chávez e Morales sta procurando forti mal di pancia non solo a Washington, ma a Washington sono yanquis. da lastampa.it Titolo: MIMMO CÁNDITO Maglie nere della libertà di stampa Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2008, 11:00:40 am 28/10/2008
Maglie nere della libertà di stampa MIMMO CÁNDITO Al primo posto c’è l’Islanda, al secondo il Lussemburgo, al terzo la Norvegia, e poi a seguire Estonia, Finlandia, Irlanda, Belgio, Lettonia, fino al primo paese non europeo, che è la Nuova Zelanda, nono posto. La classifica mondiale della liberta di stampa appena pubblicata da una delle più autorevoli organizzazioni che controllano la condizione del giornalismo nel pianeta, Reporters Sans Frontières, non mostra in questa testa della graduatoria elementi di novità. Sono, tutti, Paesi e culture dove la libertà d’espressione non sta soltanto nelle norme del diritto positivo - ci sono, naturalmente, Svezia, Svizzera, Canada, Olanda, Inghilterra e così via - ma questa libertà è parte integrante del costume civile di quelle società, insieme con il rigoroso rispetto della divisione dei poteri. Fa stupore, piuttosto, uno stupore iniziale, d’abbrivio, che gli Stati Uniti siano ben giù, al quarantesimo posto; ma poi si pensa alle censure e alle manipolazioni della «guerra contro il terrorismo», e alle dure limitazioni che il Patriot Act comporta nella vita pubblica di quel paese, e allora si fa presto a cancellare dall’immaginario la vecchia lezione (che pure era largamente autentica) del giornalismo del Watergate, di Lippman, di Arnett, di Cronkite. posizione ancor peggiore va comunque all’Italia, classificata quarantaquattresima, e possiamo perfino dire che non ci va malissimo, considerando l’evidenza dei conflitti d’interesse e delle manomissioni politiche che inquinano il nostro sistema mediatico, la canea strumentale sulle intercettazioni che tendono a imbavagliare la stampa sotto la pretesa dì un rigoroso controllo della privatezza, le pesanti minacce che la criminalità lancia contro i giornalisti, a cominciare dalla morte che pende sulle amare giornate clandestine di Roberto Saviano. Per i Paesi dittatoriali o comunque a regime autoritario, poco da dire: l’Iran è 166°, la Cina 167°, Cuba due posti ancora più giù. Ultimi, Corea del Nord ed Eritrea. Ma poiché non sempre le strutture formali corrispondono alla realtà della vita pubblica, nessuno deve stupirsi se un Paese formalmente democratico, la Russia di Putin e di Medvedev, sia ben verso il fondo della classifica, 141ª (richiamo alla nostra comune memoria che, da quando Putin ha preso il potere, a parte il suo controllo totale, o quasi, sui media, nel suo Paese sono stati assassinati 22 giornalisti, senza che mai la giustizia abbia trovato un colpevole). Chiuso l’elenco con qualche malinconico, insopprimibile, sconforto, bisogna avere tuttavia la forza di proiettare la classifica all’interno del nuovo orizzonte dentro il quale il giornalismo va muovendo, incerto, pavido, schiacciato dai condizionamenti dei poteri, ma anche dalla rivoluzione che le tecnologie elettroniche hanno scatenato sul vecchio mestiere. Se politica e affari tentano sempre più di inquinare l’autonomia della narrazione del giornalismo (consiglio a tutti di leggersi sulle pagine del New York Times gli editoriali rabbiosi del neo-premio Nobel, Paul Krugman), si vanno però diffondendo con Internet e con il telefonino forme nuove di produzione giornalistica, il citizen journalism, il microjournalism per esempio, che tentano di arrangiare una difesa che coinvolga più direttamente la società cioè i consumatori d’informazione. Il problema non è affatto corporativo: il 90 per cento di ciò che forma la nostra «conoscenza» viene costruito dalla produzione quotidiana dei massmedia. Conviene rifletterci, tutti. da lastampa.it Titolo: MIMMO CÁNDITO Nuova Africa dietro le lacrime Inserito da: Admin - Novembre 12, 2008, 10:14:35 am 12/11/2008
Nuova Africa dietro le lacrime MIMMO CÁNDITO I giornali e le tv che ci raccontano il conflitto in Congo hanno toni drammatici, squarci e lampi di vissuto aspramente dolorosi, che lanciano contro la nostra disattenzione parole e immagini di violenze sconvolgenti: un’umanità misera perde lenta la propria identità e scompare in un orizzonte dove solo la natura ancestrale di quelle terre pare conservare il diritto alla vita. Come in Conrad, o nella Blixen, a imporsi nel nostro immaginario è ancora lo stereotipo immutabile della tragedia dell’Africa continente senza speranza. E tuttavia una lettura diversa dovrebbe poterci fornire elementi di riflessione più adeguati a comprendere una realtà che non è affatto immobile. E questo, su due piani: uno aderente allo specifico del «caso Africa»; l’altro, più attento a incunearsi nelle forme nuove di costruzione della conoscenza. È sempre vero che gran parte degli 800 milioni di africani vive in condizioni disperate, languendo in una quotidianità senza certezze misurabili. E tuttavia negli ultimi anni i 48 Paesi delle regioni subsahariane hanno registrato un incremento costante del 5%, che è cosa minima in considerazione dei dati di riferimento e delle pesanti sperequazioni sociali, ma indica, comunque, che una tendenza quinquennale può essere legittimamente valutata come una prospettiva interessante di crescita. È sempre vero che la qualità dei sistemi politici mostra forti carenze di credibilità quasi in ogni Paese del continente, e l’esempio della crisi dello Zimbabwe è simbolicamente espressivo d’una realtà globale. E tuttavia, due terzi degli Stati africani sono retti oggi da cariche elettive a durata costituzionale e 14 capi di Stato hanno dovuto abbandonare, negli ultimi anni, le cariche dietro le pressioni interne e internazionali. E la signora Navatathem Pillay, rappresentante del Sud Africa, è il nuovo Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. È sempre vero, ancora, che le tensioni etniche appaiono l’elemento scatenante dei conflitti che insanguinano due terzi degli Stati africani, come ora in Congo nella guerra tra i banyamulenge del Kivu e gli interhawne del Ruanda. E tuttavia, una ricerca dell’Onu dimostra come, dietro lo scontro etnico, ci sono ben altre ragioni, prevalentemente interessi economici internazionali (le tensioni etniche sono solo al quinto posto delle «cause reali»). Il generale Nkunda e i suoi nemici mostrano di battersi per la difesa di ragioni etniche ma dietro queste bandiere stanno le ricchezze minerarie del Kivu e il contratto di 9 miliardi di dollari che il presidente Kabila ha firmato con la Cina. Nel Congo che nelle viscere conserva le più ricche miniere del mondo dopo quelle russe, l’intervento degl’investimenti cinesi segna simbolicamente l’inasprirsi di un conflitto strategico con gli Usa che già era stato aperto dagli investimenti nel Sudan e in Angola, e impone a Obama la necessità di una forte correzione delle politiche statunitensi. Tutto questo sta nello sfondo delle cronache sulla guerra congolese, fino al punto da apparire evanescente. Una ragione forte di questa marginalità si trova nell’«estetica della lacrima» che ormai domina il lavoro giornalistico, soprattutto quando di guerre si tratta. Le esigenze della spettacolarizzazione che guidano il linguaggio della tv, e l’egemonia che il modello televisivo ha sulla costruzione dell’informazione, impongono narrazioni dove il dovere della commozione, la cattura delle emozioni, lo sfruttamento della sensibilità, sono obblighi rigorosi, perché funzionali alla creazione del «messaggio» come appetibile prodotto di consumo. La definizione della realtà è sempre più legata agli effetti di senso che la sua rappresentazione offre al pubblico, e così il simulacro diventa il reale. da lastampa.it Titolo: MIMMO CÁNDITO Che c'entra il giornalismo col tg faidate Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2008, 10:51:23 am 10/12/2008
Che c'entra il giornalismo col tg faidate MIMMO CÁNDITO Dunque anche i giornali americani franano nei conti in rosso, implodono dentro le loro pagine, erodono la tradizione d’un modello che sembrava eterno. E non è nemmeno detto che sopravvivano fino al 2043, come qualcuno profetizzava. Ma non è un problema soltanto dei giornali, cambia da dentro, in profondo, il modo di fare informazione. Quando gli aerei dei terroristi s’infilarono nella pancia delle Torri, furono le immagini di alcuni filmati «amatoriali» a darci la prima notizia di quel mattino di settembre che stava cambiando il mondo. E furono di nuovo i filmati «amatoriali» che ci raccontarono lo tsunami o ancora, qualche tempo dopo, l’angoscia e la paura di una Londra sconvolta dagli attentati nell’Underground. Il lessico della vecchia cultura mediatica definisce «amatoriali» quelle immagini; ma oggi il loro nome è «citizen journalism». E poiché le parole non sono puri accidenti, la nuova formula apre un percorso che va al di là d’una classificazione di comodo. Il «giornalismo cittadino» (o, per altri, «giornalismo partecipativo») è sicuramente il prodotto diretto delle nuove tecnologie elettroniche, quanto meno nel senso che la sua produzione si può avvalere di strumenti - il telefonino, la videocamera, il pc - capaci di registrare e riprodurre la realtà senza il passaggio obbligato di una particolare competenza tecnica. E in queste ultime settimane, sull’esempio di quanto è già avvenuto all’estero (per esempio, i.Report.com della Cnn) prima SkyNews24 e ora il TG1 vanno sollecitando i loro spettatori a inviare alle redazioni filmati «amatoriali» da inserire nel notiziario del telegiornale. Va detto che quanto s’è visto finora è sconsolante. Ma non è questo che conta, certamente arriverà prima o poi qualcosa di più interessante. No, il problema sta nella presunzione di partenza, quella che definisce «giornalismo» la trasmissione di alcune immagini acchiappate casualmente e poi consegnate al consumo pubblico. Come se un «documento» compendiasse ed esaurisse il lavoro giornalistico. È evidente che il giornalismo sia oggi sottoposto a un processo di profonda trasformazione, sotto la pressione delle nuove tecnologie. Matt Drudge, uno dei santoni della Rete, ama dire che «ora l’informazione è democratica, orizzontale», cioè che è finito il monopolio dei sacerdoti (i giornalisti) che distribuivano la conoscenza dall’alto, possessori esclusivi del Verbo. Internet ha mutato relazioni, competenze, forme di produzione, aprendo uno sterminato territorio nuovo, nel quale il miglior giornalismo «tradizionale» si è avventurato da tempo, con curiosità e fascinazioni pari almeno alla cautela che la sua responsabilità gli impone. Responsabilità legate alla consapevolezza che il giornalismo non produce soltanto informazioni, ma anche realtà e anche conoscenza, e che dunque (quando giornalismo è) il processo della verifica e dell’approfondimento sono elementi genetici della sua stessa natura. Quando giornalismo è. Ma nel concetto di «citizen journalism» c’è qualcosa di ben diverso dalla trasmissione di un filmato «amatoriale». C’è il progetto di un passaggio tendenziale del lettore-spettatore da «consumatore passivo» a «corresponsabile attivo»: i massmedia che si aprono ai commenti dei loro utilizzatori, che attivano forum di discussione del loro pubblico con i redattori, che sollecitano il pubblico a farsi fonte d’informazione (i filmati, le telefonate di segnalazione, i documenti offerti etc.), mostrano di voler affrontare senza timori la sfida delle tecnologie. Tuttavia, questa mutazione in corso non può realizzarsi con la cancellazione - o l’emarginazione - dei dati genetici del giornalismo, del suo compito cioè di offrire una credibile capacità di distinzione tra ciò che è «vero» da ciò che è «verosimile». La fascinazione delle nuove tecnologie tende a erodere quella distinzione, e già qualche tempo fa Paul Virilio ammoniva a badar bene che la realtà offerta dai massmedia non crei una «telerealtà», e dunque che - grazie ad una produzione mediatica dove la quantità del consumo (il numero degli spettatori, o i visitatori di un sito, per esempio) ora vale più del contenuto di un messaggio - la democrazia non si trasformi in «telecrazia per cittadini infatilizzati». da lastampa.it Titolo: Mimmo Candito. Rapporto di Reporters sans Frontiéres sulla guerra di Gaza Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2009, 10:53:09 am 16/2/2009 - LA CENSURA IMPOSTA AI MASSMEDIA E L'INCHIESTA CONDOTTA SUL CAMPO
Rapporto di Reporters sans Frontiéres sulla guerra di Gaza Le responsabilità di Israele e quelle di Hamas Mimmo Candito ISRAELE/GAZA Operazione: « Piombo fuso» : il controllo dell''informazione è un obiettivo militare. I giornalisti palestinesi tra il fuoco israeliano e le minacce di Hamas. « Il bilancio delle violazioni della libertà di stampa durante l''operazione "Piombo fuso", a Gaza, potrebbe certamente sembrare secondario se paragonato alle centinaia di vittime, molte delle quali civili. Ma l''informazione è l''ennesima vittima di questa guerra. La chiusura della Striscia di Gaza, ammessa apertamente dalle autorità israeliane, è inaccettabile ed inquietante. E va ben aldilà di questo conflitto: il controllo dell''informazione in tempi di guerra è ormai diventato, dappertutto nel mondo, un obiettivo militare... E'' ormai la norma », ha precisato Reporters sans frontières, in occasione della diffusione di un rapporto sulle violazioni perpetrate ai danni della libertà di stampa durante l''offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza, nel gennaio 2009. «Anche Hamas è responsabile di numerose violazioni gravi della libertà di stampa. Contrariamente a quanto è stato riferito dai suoi dirigenti, i giornalisti non sono liberi di criticare il movimento islamista, diffondere le opinioni di altre fazioni o, semplicemente, esprimere punti di vista divergenti. La maggior parte dei giornalisti incontrati a Gaza da Reporters sans frontières condivide questo punto di vista, ma nessuno può esprimerlo pubblicamente, per paura di rappresaglie», ha sottolineato RSF, che ricorda che ben 28 giornalisti sono stati arrestati da Hamas – per le loro opinioni politiche - da quando, nel giugno 2007, l''organizzazione ha preso il controllo di Gaza. Una delegazione di Reporters sans frontières si è recata in Israele e nella Striscia di Gaza, a metà gennaio, per fare un bilancio delle violazioni della libertà di stampa commesse durante l''ultimo conflitto. Dopo aver effettuato un''inchiesta in loco, Reporters sans frontières dichiara che: sei giornalisti sono stati uccisi – due mentre stavano lavorando -, quindici sono stati feriti e almeno tre edifici occupati da rappresentanti dei media sono stati colpiti dal fuoco israeliano. Nel suo rapporto, Reporters sans frontières condanna con fermezza tutti gli attacchi sferrati dall''esercito israeliano contro gli edifici occupati dai media palestinesi o stranieri e chiede all''esercito e al governo israeliani di fornire rapidamente spiegazioni dettagliate sui motivi di questi attacchi. «Le Nazioni Unite devono esigere di essere coinvolte in questa inchiesta. Inoltre delle ONG dovrebbero esservi associate. Reporters sans frontières esprime, fin d''ora, il desiderio di offrire, in tutta indipendenza, il suo contributo. In passato, altre inchieste avviate dall''esercito israeliano sulla morte di giornalisti o sui bombardamenti che hanno colpito sedi dei media hanno prodotto risultati molto criticabili, esonerando da ogni responsabilità i soldati coinvolti,» scrive RSF nella parte conclusiva del suo Rapporto. Reporters sans frontières aggiunge che, dall''inizio della Seconda Intifada nel settembre 2000, i giornalisti uccisi sarebbero 7 e i feriti più di 100. Per quanto riguarda la chiusura della Striscia di Gaza ai media, Reporters sans frontières continua a sottolineare che questa decisione costituisce una violazione grave, inaccettabile della libertà di stampa. Anche per questo motivo, l''organizzazione incoraggia fortemente le Nazioni Unite ad adottare una risoluzione per esortare le autorità israeliane a non usare più, in futuro, tali metodi coercitivi per imbavagliare l''informazione. RSF offre il suo contributo per organizzare, con l''accordo delle autorità israeliane, l''invio di materiale destinato ai professionisti dell''informazione nella Striscia di Gaza. Materiale che oggi manca totalmente: telecamere, cassette, macchine fotografiche, generatori etc. sono stati rovinati o distrutti durante il conflitto. Israele controlla i flussi di merci che penetrano nella Striscia di Gaza. Reporters sans frontières esorta lo Stato di Israele a far prova di assennatezza. Questo materiale, indispensabile ai media locali, dovrebbe poter beneficiare delle stesse condizioni di trasporto che regolamentano gli aiuti umanitari. da lastampa.it Titolo: MIMMO CÁNDITO I due rivali chiusi insieme nella gabbia del corano Inserito da: Admin - Giugno 18, 2009, 10:15:03 am 18/6/2009 - SHARIA & POTERE
I due rivali chiusi insieme nella gabbia del corano MIMMO CÁNDITO Quando Obama dice che non v’è poi molta diversità tra Ahmadinejad e Mousavi, non si lascia tentare da alcuna eresia politica: i due leader iraniani si muovono, infatti, all’interno di una gabbia dorata che li accomuna, quali che siano i loro programmi politici. La gabbia si chiama «Velayat-e faqih», che in persiano significa «Tutela del giurista» ed è la dottrina che Khomeini s’inventò per rendere inattaccabile il potere del Potere. L’esperto della legge di Dio - l’ayatollah, nello specifico - è l’interprete unico della volontà divina, e ogni esercizio di autorità deve dunque piegarsi all’interpretazione che viene data alle parole della shari’a. Non v’è potere politico, non v’è forza di partito, o di movimento, o di opinione, che possa contrastare quanto il «velayat-e faqih» ha deciso. Come il cattolicesimo ebbe la sua Riforma, allo stesso modo nell’islam il percorso della «riforma» che taluni tentano va ben al di là di quanto possano predicare i Mousavi,i Khatami, o i loro seguaci nelle piazze. E il Martin Lutero di questa riforma è un mite professore di filosofia, Abdel Karim Soroush, occhiali spessi, una piccola barba sul mento, che ora insegna a Harvard anche se è iraniano di antica discendenza. A Harvard c’è dovuto andare per salvarsi la pelle, perchè i gruppi studenteschi di Ansar-e Hizbullah lo avevano preso di mira e lì insegnava che se la religione è la forma della rivelazione divina, eterna, immutabile, invece l’interpretazione della religione si basa su fattori sociali e storici. Ma introdurre il principio che l’interpretazione del Corano e della shari’a vada storicizzata, e che vi possa essere una lettura «non autoritaria» e non dogmaticamente definita della legge, significa minare alla base il concetto del «velayat-e faqih», sottrarre ciè il potere al Potere dell’ayatollah e del Consiglio dei guardiani. Dopo l’ultimo attacco dei bastonatori, Soroush scrisse una lettera al presidente Rafsanjani dove chiedeva: «Ma questo paese, ha proprio bisogno di un Galileo o di un Giordano Bruno?». Un antico proverbio iraniano dice. «Non far salire mai il mullah sul tuo asino. Non ne scenderà più». Soroush oggi vive in America. da lastampa.it Titolo: MIMMO CÁNDITO Per Zapatero i fantasmi di Franco Inserito da: Admin - Luglio 30, 2009, 09:18:40 am 30/7/2009
Per Zapatero i fantasmi di Franco MIMMO CÁNDITO Francisco Franco morì nel ’75, in una gelida alba di quel novembre ormai lontano; e qualche anno più tardi, in una fredda notte di febbraio dell’81, dopo decine di morti ammazzati e un golpe fallito pateticamente («Todos al suelo, coño»), morì anche il franchismo. Che si voglia prendere come data della nascita della democrazia in Spagna quella lontana alba di novembre, o anche soltanto la lunga notte del 23-F di Tejero, appare davvero paradossale che sia proprio il nazionalismo basco, l’irriducibile, libertario, democratico, socialista, antifranchista, nazionalismo basco a far resuscitare oggi il fantasma polveroso del Caudillo, dopo trent’anni o anche più che la storia lo aveva abbandonato nelle pieghe perdute del tempo. In questi trent’anni e più, la Spagna è entrata nell’Europa, ha affermato un sistema democratico di caratura inattaccabile, ha dato al Paese Basco lo Statuto dell’Autonomia, ha concesso amnistie «politiche» e avviato trattative di pace con ogni estremismo politico, ha smantellato commandos, gruppi di fuoco, «santuari» irraggiungibili, ha mandato in pensione perfino i monumenti equestri di Franco; ma l’Eta, l’Eta è sempre lì, con i suoi incappucciati, le sue bombe, i suoi proclami di difesa della libertà della patria basca dal «fascismo spagnolo». Però una differenza c’è, e forte: l’Eta di oggi, questa Eta che mette ancora le bombe, e ancora ammazza, e prende il pizzo del terrore dagli industriali di Guipùzcoa e Bilbao, non c’entra più nulla, o quasi, con quella che a partire dal luglio del ‘59, giusto 50 anni fa, rivendicava la nascita di una terra libera contro la dittatura feroce del franchismo, nelle tre province giù dai Pirenei. Oggi le tre province hanno la libertà e una piena autonomia, nelle scuole si insegna la lingua basca, per le strade si può manifestare dissenso e scontento senza rischiare d’essere ammazzati dalla pallottola impunita di un guardia civìl, c’è una televisione regionale («nazionale» basca), l’albero dell’antico foro si erge solenne davanti al parlamento di Guernica, le librerie del Casco Viejo di san Sebastiàn e Bilbao hanno scaffali pieni di libri in euskera, si vota in tutta serenità, e il vecchio partito nazionalista Pnv si batte alla pari con le forze politiche «spagnoliste», come in ogni angolo del paese, senza limitazioni e senza controlli polizieschi. Ma l’Eta attacca ancora, nel nome della «nazione basca». E però, se negli anni del franchismo più feroce - quando si garrotavano gli etarra, o li si fucilava in una valle sperduta alla periferia di Madrid - a dar forza, fede, sostegno morale, appoggio politico, agli uomini incappucciati di «Euskadi Ta Askatasuna» c’era quasi intera la società basca, i suoi politici, i suoi intellettuali, i suoi preti, i suoi avvocati, la sua gente qualunque senza nome e senza storia, oggi quel sostegno è quasi totalmente sfumato via. E gli etarra vivono clandestini in un’ombra rinserrata e cupa, che tenta di piegare con la ferocia più cruda, più intransigente, tutti i dubbi e le perplessità di un’azione terroristica fine ormai soltanto a se stessa, senz’altra prospettiva - dopo il fallimento dell’ultima tregua negoziale offerta da Zapatero - che il suicidio rituale di una violenza che vuole, e vive, il silenzio del confronto. Gli etarra - i pochi che sono sfuggiti finora alla galera - sono ormai un gruppo disperato, che come tutte le formazioni terroristiche può anche immaginare di poter sopravvivere a se stesso, ma non trova più consenso né appoggio. Le sue rivendicazioni sono vissute - fuori dal ciclo delle armi - come un progetto culturale, più che politico, come la difesa di una idea ormai astratta di «nazione» unita da una lingua e da una memoria che è già fuori dal tempo. I risultati politici delle formazioni «nazionaliste» danno i numeri reali della consistenza di questo progetto anacronistico, e l’Eta può contare quasi esclusivamente sul reclutamento di giovanissimi militanti, affascinati da un ideale che è rivoluzionario soltanto nella sua illusorietà. La bomba di ieri, a celebrare i 50 anni di un sogno di libertà, è soltanto il rito d’affermazione dell’ala militarista, che vede nella radicalizzazione dello scontro le ragioni della propria possibilità di sopravvivenza. È la storia infinita di tutti i gruppi terroristici, quando la purezza narcisistica dell’azione dimostrativa ammazza la ragione e la speranza. da lastampa.it Titolo: MIMMO CÁNDITO Inferno Ciudad Juárez, dieci morti al giorno e neanche una guerra Inserito da: Admin - Marzo 28, 2010, 10:34:47 pm 28/3/2010 (7:19) - MESSICO, SEICENTO MORTI DALL'INIZIO DELL'ANNO NELLA CITTÀ DI FRONTIERA CON GLI STATI UNITI
Inferno Ciudad Juárez, dieci morti al giorno e neanche una guerra Narcos e massacri nella città messicana al confine con gli Stati Uniti Il sindaco: “Oltre il ponte comanda Obama, questa è terra di nessuno” MIMMO CANDITO CIUDAD JUAREZ Son quasi due milioni di abitanti sotto il sole di fuoco e il vento che ti taglia la faccia a stilettate crude, ma il posto più affollato di questa città di confine tra Messico e Stati Uniti eccolo qui, in uno scatolone bianco di cemento e di vetri verdi: si chiama Laboratório de Ciencias Forenses, vi si entra muti e con i piedi in avanti. Lo chiamano Laboratorio, ma è soltanto l’obitorio, il deposito dei morti ammazzati. Qui ce ne stanno impilati fino a 300, di cadaveri tenuti al gelo, dentro la puzza greve della formalina che ti chiude la gola. Ho dovuto vedere l’obitorio di Beirut, e quello di Baghdad, e quello di Kabul, e di Mogadiscio, e di San Salvador, di Teheran, fetidi rifugi angosciosi di guerre senza fine, sotto cannonate che facevano ballare i muri; qui però le cannonate non si sentono, il vento che monta dal deserto addossato alle case è anche lui muto, ma Ciudad Juárez è una città in guerra anche senza i muri che ballano. «Fino all’anno scorso avevamo quindici morti al giorno, in media», mi dice il sindaco. «Qualche volta trenta, altre volte dieci». Non pare nemmeno rammaricato, dà i suoi numeri con la quieta pazienza di una statistica ragionieristica. Però poi s’illumina: «Ah, ma a gennaio e febbraio siamo scesi a cinque morti al giorno». E mi guarda soddisfatto, «Spero che alla fine il conto di marzo confermi, più o meno, questa riduzione». Ma intanto, ieri ne hanno ammazzati altri sette, uno era un agente della Policía Federal, e il Laboratorio è ora circondato, quasi, dai suoi compagni, un centinaio nelle loro uniformi nere, le camionette schierate, alcuni con la faccia coperta dal passamontagna e il mitra al braccio sotto il sole di fuoco. Sotto il sole qui si muore ammazzati. La guerra di Ciudad Juárez è la guerra delle narcomafie, da qui passano tonnellate di marijuana e di cocaina, senza nemmeno troppi misteri. La droga porta nei suoi sacchi miliardi di dollari, ma nel fondo si trascina anche fiumi di sangue. I morti ammazzati di Ciudad Juárez furono 1800 due anni fa, 2600 lo scorso anno, quest’anno - e siamo nemmeno al terzo mese - sono già 600, senza contare questi sette disgraziati di ieri. Ogni tanto poi la mattanza si concentra su obiettivi precisi, come ricorda la fila di croci rosa al confine con El Paso, a memoria di centinaia e centinaia di donne uccise, spesso dopo essere state seviziate e violentate. Le organizzazioni internazionali hanno più volte gridato al «femminicidio», ma la mattanza non si è fermata, portata avanti con lucida freddezza da persone conosciute o sconosciute, violenti, violentatori, assassini individuali o di gruppo, occasionali o professionisti. La quotidianità a Ciudad Juárez è difficile: se esci di casa è certo che ti va bene e che ci tornerai, ma può anche accadere che qualcuno - per la tua faccia che, a lui non piace proprio, o per quello che sei, o perché ti hanno confuso con un altro, o perché ti sei trovato dove qualche pallottola se ne andava perduta nell’aria, o comunque perché anche tu sei un delinquente e ammazzi facile - può essere che quel tizio lì con la sua pistola o il suo kalashnikov ti faccia entrare nel Laboratório con i piedi in avanti; le probabilità te le giochi con la sorte. E quando cala il buio, è meglio starsene a casa. Il coprifuoco - quello delle guerre con le cannonate - qui non c’è; però, è come se ci fosse. E l’ultimo spettacolo del teatro Matrix, la multisala che durante il giorno è affollata di ragazzi con i capelli di gel, quello spettacolo delle 11 di notte e di una sola sala è un’eccezione strana, fatta solo per chi ama giocare duro. «Sono pochi» - mi dice la maschera, con il cravattino e il gilet - «tutte le altre proiezioni finiscono il turno delle 9, e neanche quello ha molti spettatori». La rotta del narcotraffico un tempo passava per il Caribe; le avionetas cariche di sacchi di juta e di plastica partivano da una delle tante piste di terra perdute nella giungla verde e gialla della Colombia e, superato il mare, finivano per atterrare da qualche comoda parte nella Florida; Miami a quel tempo era una città di violenza che neanche al cinema, morti ammazzati e droga che si sniffava come il caffè cubano preso a colazione. Ci fecero su anche la serie «Miami Vice», con i colori brillanti del cielo blu e le palme sullo sfondo. Poi Washington decise che non si poteva continuare, e mandò nella giungla verde e gialla della Colombia i suoi rangers, gli elicotteri all’infrarosso, i commandos che possono ammazzare senza nemmeno chiedere chi sei. E la rotta si chiuse. E si trasferì quaggiù, dove il Messico combacia con il Texas e a dividere i due paesi c’è soltanto un fiume grigio chiaro, che gli americani chiamano Rio Grande e i messicani, invece, Rio Bravo. (E hanno ragione i messicani, naturalmente.) Il sindaco di Ciudad Juárez si chiama José Reyes Ferríz, è un ometto basso e gentile, con gli occhiali senza montatura, e la camicia e la cravatta come fanno gli americani, che in ufficio non indossano la giacca. È bianco di pelle, potrebbe essere un americano anche lui; le città di frontiera combinano meticciati dove l’identità è una variabile fuori controllo. Si alza dalla poltrona di pelle scura e mi chiama al grande finestrone che dà luce al suo ufficio; con la mano mi invita a guardar fuori. A cento metri c'è un gran ponte che si inarca sul fiume; da questa parte stanno le case piccole e basse del Messico, dall’altra, i grattacieli alti e forti dell’America yankee. «Siamo come un unico territorio, noi Ciudad Juárez, e quello che vediamo accanto e che quasi tocchiamo con la mano è invece El Paso, che ha un nome spagnolo e però parla inglese e lo comanda Obama». Di là dal ponte, davvero con la mano che quasi lo tocchi, sventola un gigantesco bandierone a strisce e stelle che il vento scuote alto nel cielo. È questa combinazione di una terra che è la stessa identica e che però un fiume ha diviso in due, con due identità e due storie e due passaporti, è questa combinazione che ha fatto la guerra senza cannoni di Ciudad Juárez. «Vede, qua sotto la mia finestra passano due linee ferroviarie, eccole lì, una porta a Chicago e l’altra a Los Angeles, e poi c’è la Panamericana, che spalanca la porta degli Stati Uniti da ogni Sud che stia da questa parte del Rio Bravo. Non v’è nessun’altra città che dia tante opportunità di comunicazione e di trasporto». Lo dice con la consapevolezza di chi amministra un territorio che potrebbe essere il paradiso e invece è inferno puro. A lui, un giorno fecero trovare davanti al portone del municipio un grosso cane morto, sventrato, che aveva un cartello legato al collo: «Sindaco, o te ne vai entro quindici giorni o ti ammazziamo, prima la tua famiglia e poi tu». I quindici giorni sono passati, e anche le quindici settimane. Lui, José Reyes Ferríz, sorride quieto sulla sua grande poltrona di pelle scura e quel bandierone a stelle e strisce dentro l’orizzonte della finestra: «Ho imparato che queste cose fanno parte del lavoro. L’ho imparato, e non ci penso troppo». Ma della sua famiglia non vuole parlare, e nemmeno di se stesso. Però si sa che, quando chiude a chiave la porta del suo ufficio, poi anche lui prende la macchina, attraversa il ponte, e se ne va a dormire a El Paso, che è Stati Uniti d’America e parla inglese anche se ha un nome spagnolo. A vigilare l’ufficio resta soltanto quella vecchia guardia con l’abito marrone chiaro e un grande distintivo della polizia appeso al collo. Su quel ponte del sindaco (però Ciudad Juárez ne ha addirittura tre, e puoi scegliere quello che vuoi) passa un fiume ininterrotto di auto ma anche di camion, con i loro carichi che ogni tanto controlli e ogni tanto lasci passare. C’è la polizia federale, al ponte, e ora anche i soldati: qualche carico l’hanno trovato, hanno avuto fortuna o soffiate utili; però «il mare è grande», dicono quelli della droga, e si capisce che cosa intendano dire. Coca e marijuana passano sotto gli occhi dei soldati, e se ne vanno negli Usa; valgono venti miliardi di dollari; per prenderne il controllo merita bene di farci una guerra senza cannonate. da lastampa.it Titolo: MIMMO CÁNDITO Quel giorno che la guerra si fece show Inserito da: Admin - Agosto 01, 2010, 09:26:27 am 1/8/2010
Quel giorno che la guerra si fece show MIMMO CANDITO Io, reporter di guerra, sono morto vent’anni fa, oggi, giorno 1 agosto del ’90, quando i carri armati di Saddam invasero e occuparono in poche ore il Kuwait, e puntarono i loro cannoni sui deserti gialli del re del petrolio, l’Arabia Saudita. Non lo capii subito, che ero stato ammazzato. Ma quando tornai a casa dopo 8 mesi in quei deserti, e mi invitarono in giro per l’Italia a raccontare la guerra del «Desert Storm» (ero il reporter italiano più a lungo rimasto tra i cannoni e la sabbia del Golfo), lo scoprii presto che io ero proprio morto: parlavo e parlavo, pensando di svelarla io la guerra che avevo vissuto, da dentro, testimone diretto, ma a quelli che avevo di fronte, al pubblico che era venuto ad ascoltarmi non glie ne fregava niente del mio racconto, perché la guerra l’avevano fatta loro ancor meglio di me quando, la sera alle 8, ogni sera alle 8 per tanti lunghi mesi, si erano seduti sul divano del salotto, si erano calati l’elmetto in testa, avevano acceso il televisore, ed ecco che già stavano essi stessi a Khobar, a Dharan, a Ryadh, al Afr al-Batìn. A farmi morto furono un vecchio militare grande e grosso, il gen. Schwarzkopf, detto l’Orso ma furbo come una faina, e poi quella diabolica macchina delle illusioni che si chiama tv e che in quei mesi d’inferno prese il nome eterno di Peter Arnett e, alla fine, di Cnn. L’Orso fece una drittata che ancora oggi è legge sovrana. In quell’agosto del ’90, prima di partire da Washington per venire in Arabia a comandare il Desert Storm, si era presentato a rapporto dal suo capo, George Bush. Il Presidente gli fece gli auguri per l’impresa, e mentre gli stringeva la mano gli disse anche: «Ma ora, caro Schawrz, mi raccomando, non combattiamo più con un braccio legato dietro la schiena». Quel braccio, a Schwarz e al suo Presidente, glielo avevamo legato noi, i reporter di guerra, che in Vietnam avevamo raccontato che cosa davvero era l’intervento americano in quella penisola dell’Asia, e i 50.000 marines morti ammazzati, e il milione di sciancati, i senza braccia, i drogati persi nella disperazione della giungla. Sconcertata, stravolta, da quel racconto della realtà, l’America già in furore di protesta aveva detto a Nixon: Basta, tutti a casa; e il più potente esercito del mondo era scappato via da Saigon, umiliato, sconfitto. L’Orso, ora che stava per partire da Washington, passò negli uffici di una delle più importanti agenzie di pubblicità americane, gli raccontò di che cosa aveva bisogno, e ne affittò i servigi con regolare contratto del Pentagono. Finito il tempo della propaganda (la bandiera, la patria), ora era arrivato il tempo della pubblicità: la guerra andava venduta come un qualsiasi prodotto del supermercato, il detersivo, i pannolini, quella marca di automobili, le lamette da barba. E a «comprarla» saremmo stati noi, naturalmente, noi, i reporter di guerra, che poi avremmo provveduto subito a impacchettarla a dovere e propinarla all’opinione pubblica. Nasceva il «news management», la gestione delle notizie, quell’artifizio manipolatorio per il quale la «fonte» non soltanto ti dà una informazione ma, anche, provvede a fornirtela in una confezione che pare contenere ogni risposta a qualsiasi possibile domanda. Conferenze stampa continue, briefings con gli ufficiali, visita ai reparti, foto e cineriprese con accompagnatore, e, in ultimo, anche la facoltà di usare come propria testimonianza diretta i report che un gruppo ristretto di inviati speciali «enbedded» dentro le formazioni operative (i «pool» selezionati) provvedeva a scrivere per conto e in rappresentanza dei quasi 2.000 reporter che, lontani dal fronte che si stava aprendo, tenuti sotto stretto controllo, ma bulimici di notizie, se ne stavano acquartierati a rodersi il fegato tra gli alberghi e le sabbie di un deserto di Buzzati. Noi scrivevamo, dettavamo, componevamo, ma a battere sui tasti della macchina da scrivere c’era lui, l’Orso che era una faina. Un giorno dei tanti che aspettavamo la guerra che non arrivava mai e però era filtrata la notizia che no, che questa volta si stava combattendo davvero, su al Nord, alla frontiera, partimmo verso Al-Khafji violando gli ordini ricevuti, io con la mia auto (con tre colleghi italiani) e l’auto della tv australiana. Saltando i posti di blocco e viaggiando nel deserto, arrivammo nella piccola città di frontiera, giusto in tempo per vedere la coda della battaglia e rientrare prima del buio ad Al-Khobar, nel quartier generale dei giornalisti. Quella stessa notte inviammo i nostri reportage, uno scoop, noi e gli australiani; a noi il giorno dopo non accadde nulla, gli australiani furono espulsi. Loro erano «la tv», e la televisione ormai era la voce della verità, voce unica e dominante. I giornali, ormai erano stati messi in un angolo, contavano sempre meno. Non fu Peter Arnett ad ammazzarci, noi, i reporter di guerra: anche lui faceva il nostro lavoro. Ad ammazzarci fu la tv, che prese il comando dei lavori con la potenza delle immagini, e, nel vuoto di notizie d’una guerra che non arrivava mai, costruì giorno dopo giorno «lo show della guerra», uno spettacolo hollywoodiano, di dune al tramonto, di deserti morbidi e di marines trasformati in comparse. Poco alla volta, il reportage dell’inviato perse rilievo, attenzione, centralità; e dal prodotto (il «messaggio») si passò al processo (la confezione spettacolare del «flusso»). Era nato il tempo nuovo, il «dopo Cristo» dell’informazione. Che è anche il tempo di oggi, quando la Rete ha invaso il terreno della comunicazione e aggiunge nuove valenze al dominio del processamento dell’informazione. Oggi la comunicazione conta più del «messaggio», e comunque il «messaggio» è una costruzione dentro la quale la capacità di contestualizzazione della cronaca acquista più rilievo della stessa identità della realtà. Che sia la guerra o la politica o anche altro. E tuttavia, se in questi anni nell’Iraq in guerra sono stati ammazzati 259 reporter, alla fine vuol dire che il giornalismo non è affatto morto, che il giornalismo vuole ancora fare il proprio mestiere, quali che siano i rischi, i tentativi feroci di condizionarlo. In guerra o nella società. Tre giorni fa ,Wikileaks ha consegnato ai giornali 92.000 file di segreti chiusi nella Rete, e ha aperto alla luce del giornalismo scenari e storie e fatti che il giornalismo, quello che lavora sul campo, il giornalismo dei reporter, non era riuscito a disgelare. Io sarò morto, quel giorno, vent’anni fa, l’1 agosto del 1990, ma oggi la macchina del giornalismo si sta inventando un nuovo modo di lavorare; ha raccolto la sfida, una sfida che vale la conoscenza e la consapevolezza, e dentro ci stanno tutti, anche chi credeva di poter raccontare il mondo e invece non s’avvedeva che il mondo che raccontava era in realtà un’elegante confezione esposta da una faina vestita da orso negli scaffali del Supermarket dell’informazione. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7662&ID_sezione=&sezione= Titolo: MIMMO CÁNDITO Reportage in Afghanistan. Num. 1, ovvero la partenza e ... Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2011, 04:42:23 pm 31/1/2011 - PICCOLI FLASH DI RACCONTO DA UN VIAGGIO CHE CERCA DI AIUTARE A CAPIRE
Reportage in Afghanistan. Num. 1, ovvero la partenza e i primi dati Come si viaggia, che cosa si trova, che cosa fare MIMMO CÁNDITO Sono partito per un reportage sull Afghanistan in guerra. Arrivai in questo paese per la prima volta 30 anni fa, subito dopo l invasione dell Armata Rossa. Ci entrai clandestino aggregandomi a un gruppo di mujahiddyin che passavano di nascosto la frontiera del Pakistan. Ci tornai molte altre volte, cladestino ma anche una volta con visto. E poi ci tornai per la guerra americana ai taliban nell ottobre del 2001. Poi ancora una volta conv isto. Ci torno ora con visto di ingresso ma questa volta, e per la prima volta, come enbedded, cioe aggregato alle Forze Armate italiane. Partiamo da Fiumicino con un volo riservato ai soldati che vanno in missione laggiu. Sono 65, di varie armi. Il volo fino al Cairo dura poco piu di 4 ore. Ci danno un pasto non pessimo, e ci proiettano un film per assassinare il tempo e la noia. Il film est The A Team, una sorta di rambata con muscoloni debordanti, ammazzamenti urlati, e l'arrivano i nostri finale. Non so se est perche l abbiano gia visto ma non sono poi moltissimi quelli che stanno appesi allo schermo. Passando nel corridoio, conto 4 che leggono un libro, 1 che legge il numero di Limes dedicato all Afghanistan, 1 che legge un pocket in inglese, 2 che leggono un settimanale, 1 che dormicchia e legge la Gazzetta dello sport, 2 che scrivono su un computer. Tenendo conto che sono soldati, che il film proiettato pare scelto per caricarne lo spirito, che gli italiani leggono pochissimo, beh mi pare una ottima selezione di scelte alternative al film e di interessi poco coincidenti con la immagine tradizionale del soldato. Dal Cairo a Dubai sono poco piu di 2 ore. Arriviamo in un angolo militarizzato dell aeroporto. L ora locale est poco piu dell 1 del mattino. Dobbiamo aspettare fino alle 8 per imbarcarci su un volo speciale per l Afghanistan. In un ufficietto ci sono 2 computer a disposizione, per leggere notizie e altro, piu 1 telefono collegato a un numero speciale che conente l utilizzo delle schede telefoniche che i migranti in Italia usano per spendere poco. Si comprano dal tabaccaio a 10 euri, e danno 45 minti di conversazione. Facciamo la coda per chiamare casa. Nella saletta ci sono una ventina di poltrone, un televisore e un frigo di bottiglie di acqua. In un container accanto, 15 brandine militari sono a disposizione di chi si voglia stendere. Non vengono occupate nemmeno tutte. Metto lo zaino come cuscino, mi stendo ovviamente vestito e mi copro con il montgomery. Conosco Dubai e il deserto che ci sta intorno. La notte fa un freddo boia. Buona notte. ()Chiedo scsa per gi errori di grafia, ma devo usare una tastiera araba)= da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche Titolo: Mimmo Càndito. B interviene a piedi giunti a offendere e insultare ne L'Infedele Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2011, 04:29:21 pm 5/1/2011 - UN ATTACCO TELEFONICO CHE SCONCERTA PER LA VIOLENZA DELLE PAROLE
Mimmo Càndito B interviene a piedi giunti a offendere e insultare ne "L'Infedele" Gad Lerner cerca di contenere il fiume di ingiure E' poco dopo la mezzanotte tra luned' 24 e martedì 25. E' appena terminata la trasmissione de La7 con tema dell'incontro le vicende giudiziarie di B in queste settimane. Poco fa, nella sua parte finale c'è stata una v iolenta - violentissima - intromissisione telefonica del presidente del Consiglio dei ministri che ha ingiuriato Lerner, la sua trasmissione, e le "cosiddette signore", presenti e ha invece elogiato con parole di fortissimo apprezzamento la consigliere regionale Minetti (indagata anche lei per favoreggiamento della prostituzione). In ultimo, ha invitato l'europarlamentare del suo partito Iva Zanicchi ad abbandonare la trasmissione, ma la cantante-onorevole se pur tentata ha alla fine resistito ed è tornata a sedersi. Com'è da sempre suo costume, terminato il suo sconcertante sproloquio B ha troncato subito la comunicazione, rifiutando qualsiasi forma di dialogo e di contraddittorio. Credo che nessuno pensi ormai che gli interventi di B siano sbotti di furia incontrollati, ma piuttosto fanno parte di una organica strategia della comunicazione politica (e per questo se ne parla qui). Il tono, le parole, la costruzione del pensiero, l'articolazione dell'intervento, colpivano per la evidente consapevolezza della proposizione funzionale di un preciso "messaggio" da mandare agli spettatori della trasmissione.Vi invito quindi ad analizzare questo episodio (e gli altri simili) sotto la spec ie della comunicazione politica all'interno dei processi propri della democrazia mediatizzata e, naturalmente, anche all'interno dello specifico italiano. Che un capo di governo intervenga direttamente all'interno di una trasmissione che coinvolge la sua condizione giudiziaria è già stupefacente; che poi questo suo stile si concentri in un attacco tribunizio e si rifiuti a qualsiasi contestazione, be' aggiunge anomalia ad anomalia radicando comunque un costume che invia un preciso messaggio: il potere è al di sopra delle parti ed è incontestabile. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/giornalisti Titolo: MIMMO CÁNDITO Reportage in Afghanistan. Num. 2 ovvero io embedded arrivo a Herat Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2011, 04:30:34 pm 2/2/2011 - PICCOLI FALSH DI VITA QUOTIDIANA PER TENTARE DI CAPIRE UNA GUERRA
Reportage in Afghanistan. Num. 2, ovvero io embedded arrivo a Herat Da Abu Dhabi a Herat, attesa, volo, i primi contatti Vi ho lasciati che ero sbarcato ad Abu Dhabi e m'ero steso a tentare di dormicchiare. Ma, com'era immaginabile, sono rimasto steso sulla brandina un'oretta inutilmente: non riuscivo a riposare, e mi sono alzato. Ho lasciato la sacca e il montgomery nel container, sulle altre brandine tre soldati dormivano quieti, uno russava. La gran parte dei soldati era fuori, sul piazzale, a chiacchierare. Gli accenti della loro discussione erano molto significativi, e anche il volume della voce: dominavano (per numero di interventi e forza vocale) i campani con la loro larga parlata, poi i siciliani, e i calabresi con le loro aspirate; qualche raro accento era del Nord, certamente veneto e anche friulano. I ragazzi e gli uomini del Sud usavano molto il dialetto (o piuttosto un italiano intensamente dialettizzato); quelli del Nord mescolavano la lingua con qualche rara parola dialettale, ma prevaleva di gran lunga l'italiano. La ricostruzione della provenienza regionale di questo contingente conferma quanto ormai si sa delle nostre forze armate: che per il 60 % sono costituite da ragazzi del Sud, che fanno la scelta della divisa (anche per ragioni legate al mondo militare ma, soprattutto,) come uno sbocco professionale in un mercato del lavoro che ai ragazzi - e specie al Sud - offre ben poche opportunità, se è vero che il 30 per cento dei giovani italiani sono disoccupati. Ho ascoltato qualche minuto quell'intensa agorà; parlavano di calcio ma, soprattutto, delle loro esperienze d'armi; alcuni erano veterani che tornavano per un'altra missione in Afghanistan, e raccontavano ai loro compagni la propria esperienza. Erano le 2 del mattino, faceva un po' freddo, la notte era stellata. Sono andato nello stanzone delle poltrone e dei pc; uno dei computer era libero, mi sono collegato a un'agenzia di notizie. Un gran titolo raccontava di altre indagini su Berlusconi e sulla consigliera Minetti, e di nuove pesanti ipotesi di reato. Alle mie spalle, una voce ha detto: "E basta! Speriamo che sia la volta buona che si toglie dai piedi". Era un soldato, un giovanotto con il viso lungo e un pizzetto rado, che da dietro leggeva la mia stessa notizia. Ho notato che non c'era rabbia nè furore, in quel giudizio; il tono non mi sembrava affatto di un ragazzo politicizzato, insomma non era la dichiarazione esplicita e rabbiosa di un antiberlusconiano militante. Piuttosto, mi pareva di cogliere un senso forte, reale, di stanchezza, di stuffaggine, l'insofferenza di chi vuoile liberarsi da qualcosa diventata ormai davvero insopportabile. Dentro di me, pensavo che era una buona cosa. E per due motivi: 1) che forse nel nostro paese torna a manifestarsi la capacità della indignazione, andata smarrita o perduta per così lungo tempo (indignazione comunque, non a senso unico); 2) che la frase veniva da un giovanotto, poco più d'un ragazzo, e non mi interessava sapere se due anni fa lui avesse votato per Berlusconi o per il centrosinistra. D'altronde, a bilanciare qualsiasi suggestione schematizzante, quando ho abbandonato il pc e mi son mosso per lo stanzone ho visto che sullo schermo del televisore andava in onda la trasmissione berlusconiana "Kalispera"; al nostro arrivo, un paio d'ore prima, avevo visto sullo schermo una qualche manifestazione musicale, mentre ora qualcuno dei soldati aveva cambiato il programma e scelto Signorini. Non credo si possano trarre grandi conclusioni di sociologia d'accatto, ma con questa descrizione di una notte poco rilassata voglio dire che quell'attesa nella pista vuota e deserta di un aeroporto lontano mi sembrava mettesse in mostra un interessante e significativo spaccato della nostra società. O, se si preferisce, mi sembrava mettesse in mostra come sia molto approssimativo oggi parlare del nostro mondo militare come un corpo del tutto separato dalla società. Sono uscito sulla pista, a passeggiare e sgranchirmi. Le ore d'attesa dovevano comunque passare e non avevo molta voglia di leggere tra i libri che portavo nel mio zaino. Poco dopo le 5 è arrivato un furgoncino delle nostre Forze Armate, e due soldati con la pettorina gialla hanno cominciato a distribuire un pacchetto con la colazione. Albeggiava, la luna era ormai bassa sull'orizzonte, le luci della città si stagliavano ancora nette, ma lontane. Ho chiamato nel container, dove s'era assopito, Vittorio dell'Uva, l'inviato de "Il Mattino" di Napoli, un giornalista cui sono legato come un fratello, e la cui simpatia è seconda - forse - soltanto alla sua professionalità. Abbiamo raccontato le guerre di mezzo mondo stando uno accanto all'altro, ci vogliamo bene, abbiamo vissuto situazioni drammatiche che, raramente, molto raramente, ci riracontiamo con breve accenni di recupero dei sentimenti. E Vittorio, che pure è nato a Bolzano (potenza del melting pot italiano!), è davvero trascinante con la sua parlata dominata pesantemente dall'accento, e dal dialetto, napoletano (ma poi, quando deve fare la persona seria, si traveste benissimo). Abbiamo fatto colazione rapida: succo d'arancia, un croissant, dei biscotti, latte, una banana. Quando il sole ha cominciato a levarsi, laggiù, sul deserto, è atterrato un Hercules C-130. Sono bestioni con una gran pancia dove sistemare uomini e materiale, anche veicoli militari. Fanno un lavoro prezioso, ma sono scomodissimi: non sono insonorizzati (la testa ti parte frantumata dal frastuono nudo dei motori per tutta la durata del volo), e bisogna acquattarsi sui teli che sono calati lungo le fiancate. Insomma, anche il più scomodo degli aerei low cost è, al confronto, una espressione di comfort lussurioso. In tutti questi anni, sui C-130 avrò volato per qualche centinaio di migliaia di miglia, e un giorno magari mi daranno anche una tessera ad honorem. Il volo è stato abbastanza rapido, quattro ore, e abbiamo spostato in avanti di 3.30 ore (non 3 non 4, per distinguersi dai vicini) le lancette dell'orologio. Siamo atterrati con l'usuale tecnica del landing militare, cioè quasi a caduta libera, con un grado d'accosto molto elevato. Conosco abbastanza dello sterminato e affascinante territorio dell'Afghanistan, ma non ero stato mai a Herat. La città è dominata (da sempre) da uno dei "signori della guerra", Ismail Khan, che oggi è anche ministro dell'acqua e dell'energia del governo di Karzai, per uno di quegli strani aggiustamenti che la democrazia afghana ha concluso con i warlords che dominano il territorio fuori da Kabul. La scelta di Herat come punto d'appoggio di questo reportage è dettata dal fatto che questa volta io viaggio da enbedded, cioè sono accompagnato e assistito dalle nostre forze armate e la base logistica e di comando delle truppe sta, appunto, a Herat, territorio dell'Ovest del paese, a circa 50 miglia dalla frontiera con l'Iran. L'enbedding non è una novita del reportage di guerra, sebbene se ne sia parlato molto 7 anni fa, al tempo dell'attacco di Bush&Blair all'Iraq di Saddam Hussein. Da sempre, larga parte del war reporting è stato realizzato in condizioni di enbedding, sebbene in passato questa parola (vuol dire, più o meno, incastonato, ma io amo dire "incastrato" con la consapevolezza del doppio significato) non fosse nè conosciuta nè usata: la Prima e la Seconda guerra mo0ndiale sono state coperte da enbedded e così fu anche il Vietnam, sebbene poi in Vietnam si sia rotto quel dovere della "fedeltà alla bandiera" che sempre aveva guidato il lavoro dei giornalisti (si doveva scrivere "i nostri ragazzi" e li si doveva tutelare, a coso anche della verità). L'enbedding è stato accompagnato, nel 2003, da forti polemiche, perchè molti lo vedevano come una straordinaria occasione per stare finalmente "al fronte", mentre altri, invece, ne valutavano tutti gli aspetti problematici di una riduzione della libertà d'azione e di movimento. Il fatto che comunque fosse stato inventato", e offerto ai reporter, dall'Ufficio Psicologico del Pentagono un qualche dubbio tra i media avrebbe dovuto accenderlo (davvero non riesco a vedere che l''UfPs faccia una scelta in favore del lavoro investigativo dei giornalisti): il giornalista enbedded viene assegnato a un reparto e lo accompagna in tutte le sue missioni, con la possibilità dunque di un racconto fatto "dall'interno"; contemporaneamente, però, si pone in una condizione nella quale può subire il controllo censorio del comandante del reparto o comunque sta in una posizione nella quale - proprio per il contatto costante e continuo con gli uomini che lo accompagnano - subisce inevitabili condizionamenti psicologici che scivolano all'interno dei processi propri dell'autocensura. L'esperienza alla fine ha insegnato che si può pure utilizzare l'offerta dell'enbedding, ma purchè questa sia accompagnata, nel racconto del giornale, da una narrazione che comprenda l'intero orizzonte del corso della guerra (un giovane reporter del New York Times scrisse, alla fine del suo lavoro di enbedded con le truppe americane, che aveva "visto poco e capito ancor meno". Aveva visto quello che si poteva vedere dal visore del carro armato cui era stato assegnato, e aveva avuto ben poche notizie del resto del fronte, trovandosi dunque impossibilitato a cogliere in termini ampi quel poco che riusciva a scorgere con i propri occhi). Sbarchiamo a Herat con un bel sole. Scendiamo in fila indiana dal portellone posteriore del C-130 storditi e con le orecchie ancora intronati. L'aeroporto è quello che si immagina debba essere un aeroporto militare, con soldati dovunque, aerei militari in partenza e in arrivo, elicotteri in cielo, armi dappertutto. (qui chiudo. ho riscritto per ben tre volte questo racconto, perchè per tre volte è caduto il collegamento durante l'operazione di trasmissione del file, e sono non solo esausto ma anche incazzato. scrivere in condizioni difficili non è mai gradevole, anche se è il mio lavoro, ma soprattutto non è affatto gradevole dover ripetere e ripetere e ripetere la scrittura. e questo comporta, ovviamente, una sciatteria nella stesura del racconto e molte imperfezioni. ma spero di esserne perdonato. basta basta basta. faccio clic, e incrocio le dita http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/giornalisti/grubrica.asp?ID_blog=126&ID_articolo=299&ID_sezione=277&sezione= Titolo: MIMMO CÁNDITO Reportage in Afghanistan. Num. 3, ovvero la guerra non è la guerra Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2011, 04:31:32 pm 6/2/2011 - CON PICCOLI FLSH DAL BASSO SI TENTA DI FAR CAPIRE L'AFGHANISGTAN OGGI
Reportage in Afghanistan. Num. 3, ovvero la guerra non è "la guerra" Capire che cosa è Camp Arena e chi ci sta dentro Uno dice “Tu sei a Herat” e dunque tu sei in guerra. E s’aspetta un blog di sangue e di morti a ogni riga, perché se finora sono state ammazzate più di 100.000 persone – gente vera, di carne e vita, uomini donne bambini – e sono morti più di 3 mila soldati, e 36 erano anche italiani, vuol dire che la guerra c’è davvero, e la guerra non è chiacchiere e riflessioni ma è, anzitutto morti e distruzioni e rovine. Allora, sì, certamente siamo in guerra, e però non in guerra come la si pensa subito, che ti sparano da ogni angolo di strada o da dietro ogni montarozzo di terra, e che se non porti un fucile e non spari per primo non hai speranza di uscirne vivo. Perciò, il primo problema è tentare di far capire che cosa sia oggi “la guerra” in Afghanistan, e farlo capire dal basso, pianamente, con le semplicità apparentemente ovvie del vissuto quotidiano, come il format (cioè il linguaggio) di un blog richiede, a costo di annoiare i signori “sottuttoio”. In uno dei commenti leggo infatti (con le difficoltà e i ritardi da quaggiù, in Afghanistan) che qualcuno si lamenta di aria fritta. Sono felice che chi legge si aspetti “di più”, è una sollecitazione positiva per chi scrive, è il confronto con la voglia di sapere e di conoscere, che è una qualità che in giro è sempre più rara. Ma il rischio del “sotuttoio” sta sempre acquattato nell’ombra, e mi fa venire alla memoria la seconda guerra del Golfo, quella di Schwarzkopf (in questo blog-reportage parliamo di guerra, e dunque posso fare una leggera deviazione dall’Afghanistan). Quando, nel marzo del ’91, tornai in Italia dopo quasi 8 mesi passati nel Golfo a seguire, prima, le pressioni per scacciare Saddam Hussein dal Kuwait che lui aveva invaso e, poi, l’attacco finale di terra con la liberazione di Kuwait City, e fui invitato a tenere conferenze su e giù per l’Italia, da presto ebbi a imparare una cosa che all’inizio mi aveva sconcertato: che io, io, credevo di conoscere e sapere quello che la guerra era stata, ma – balle - m’illudevo di brutto, perché quelli che venivano ad ascoltarmi, loro sì che la guerra sapevano che cos’era. Perché, mentre io stavo laggiù, nel Golfo, e credevo di lavorare per capire e spiegare, e mi dannavo l’anima per non farmi infinocchiare dal generale Schwarzkopf, e dalle trappole e dalle astuzie diaboliche dei suoi spin-doctors, loro invece, loro, quelli che ora avevo seduti davanti a me nella sala della conferenza, loro la sera, ogni sera, alle 8 si erano calati l’elmetto sulla testa, lo avevano allacciato a dovere, si erano accomodati sul divano di casa, avevano acceso il televisore, e per mezz’ora via! a vivere ed emozionarsi con le immagini e le storie della guerra. E loro sì che sapevano, non io. Ma eccomi a Herat, dunque. La base alla quale sono stato assegnato si chiama Camp Arena, è una sterminata distesa di tende, container modulari, aerei, elicotteri, carri blindati, centri di comando, postazioni di controllo satellitare, e poi soldati soldati soldati e ancora soldati, d’ogni arma e d’ogni specializzazione, e tutti in uniforme mimetica. Ce n’è quasi 8mila, la metà dei quali sono italiani, e italiano è il comando di questa piccola città militare dove coabitano (con sufficiente capacità di sopportazione e di reciproca comprensione) contingenti di 11 paesi. Camp Arema è un pianoro infinito di sabbia e pietre disteso dentro una conca ruvida di montagne, che la stringono sotto un cielo di luce intensa, da bruciarci gli occhi (e diciamo che è per questo – e non per fare i Rambo - che molti qui se ne vanno in giro con occhiali da sole che paiono venuti appena fuori da una pellicola di Hollywwod sulla guerra). E poi la polvere, naturalmente. Una polvere lieve, impalpabile, sottile come il pensiero, che vola leggera e danza inafferrabile, poggiandosi dovunque a montare una patina sottile, impenetrabile. Polvere nell’aria, polvere sui panni, polvere negli occhi e sulla bocca, polvere sul computer, nelle tasche, sui fucili, i mitra, gli elmetti, i cannoni. Da sempre, da quando sono penetrato per la prima volta clandestino in Afghanistan e poi l’ho attraversato più e più volte in lungo e in largo, due sono le memorie forti che porto dentro di me, di questo disgraziato paese: una è la bellezza sconvolgente di questi passaggi – forse secondi soltanto all’altopiano etiopico – catene infinite di montagne azzurre, senza un uomo o una capanna che ne violino la purezza, e che si rincorrono e si inseguono dietro tagli improvvisi di gole senza fondo, di dirupi paurosi, di forrre inquietanti, di un inferno che nemmeno Dorè saprebbe incidere, eppure affascinanti nella convincente dimostrazione che esse danno della forza irresistibile che la natura ha quando si offre vergine, senza la violenza che la presenza dell’uomo pare imporle; e la seconda è questa polvere che ti si fa tua seconda pelle, che ti avviluppa inafferrabile, e ti è compagna muta dovunque, come e meglio della tua stessa ombra perché viene anche a dormire con te. A Camp Arena si dorme in tenda, o in questa sorta di container modulari divisi da paratie interne fino a farne sedici piccole stanzette con, ciascuna, tre letti e poi, sul fondo, un vano per i cessi e uno per le docce. Gli scarponi si lasciano fuori, nel corridoietto, che pare cosa saggia e giusta per la salute di tutti. E quando cala sera, verso le 5 del pomeriggio, con il cielo che si fa buio d’improvviso, i soldati vanno in giro come tante lucciole vagabonde, con una torcia in mano a illuminare la sicurezza del passo nella oscurità silenziosa della notte (silenziosa fin quando aerei ed elicotteri non si alzano ruvidi per avviare le loro missioni). Tre sono le cose che l’ufficio stampa ti consegna subito, alla registrazione: un elmetto, un giubbotto antiproiettile (e devi indossarli sempre, obbligatoriamente, quando esci dal campo in missione, perchè qui la guerra c’è davvero anche se la vedi poco), e un lasciapassare da appendere al collo e che ti individua come un civile comunque autorizzato a circolare tra tutta questa gente in uniforme mimetica. Poi, se non ce l’hai già con te nella sacca che hai preparato a casa, pure un rotolo di carta igienica, perchè i soldati e i giornalisti cagano come tutti anche se non sta bene parlarne. E si mangia (bene) in una mensa assediata da code mostruose ma tranquille. Poi, comincia il lavoro. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche Titolo: MIMMO CÁNDITO I nostri soldati assediati nella "bolla di sicurezzza" Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2011, 06:03:34 pm 9/2/2011 - PICCOLI FLASH DI VITA QUOTIDIANA PER CAPIRE CHE COSA E' QUELLA GUERRA
Reportage in Afghanistan. Num. 4: ovvero la guerra dentro un budello I nostri soldati assediati nella "bolla di sicurezzza" FARAH Un antico proverbio arabo dice che, se sei un’isola, ti devi fare amico l’oceano. Come non dargli ragione, e però anche come non storcere il naso e capire subito che i proverbi, sì vabbene, ma a che serve quando poi l’oceano dentro cui sei piantato è questo desolato, e pure bellissimo, “mare” di montagne, di dirupi, di forre strette, di burroni, di strapiombi mozzafiato, di baratri che ti stringono addosso ogni orizzonte e ti soffocano la gola e la tua stessa vita di soldato. Hai la bandiera, certo, hai i compagni e il sergente, hai gli ordini, hai il tuo mitra e laggiù anche il mortaio, hai la guerra che nessuno deve chiamare guerra, hai anche il cesso chimico, hai perfino un vecchio frigo e le razioni che una volta per settimana l’ aereo ti lascia cadere a due passi con il paracadute, hai tutto, insomma, per sentirti abbastanza a posto nella scelta che hai fatto, di voler essere un soldato di professione, ma poi l’isola è pur sempre un’isola, e la morte, la morte, sta acquattata lassù, dentro questo orizzonte soffocato, e ti guarda con occhi ciechi da dentro l’oceano di quelle montagne, quei dirupi, quelle forre inquietanti che ti strapiombano sopra che ti pare di poterle toccare con un mano e però nella notte ti danno gli incubi. Perché sì che sei un soldato ma sei anche un ragazzo, che vuole vivere. E fa di tutto per poter continuare a pensarlo. Il cop “Snow” è uno dei più arrischiati avamposti dell’esercito italiano nella guerra d’Afghanistan. Sta piantato dentro il nulla nella valle del Gulistan, deserto e pietre dovunque, e, attorno, solo queste montagne nude e il silenzio, muto, angoscioso, di un mondo invisibile, perduto dentro agguati e incursioni che a bocca chiusa ti dicono: sei in territorio nemico, non dimenticarlo se vuoi vivere ancora. E’ nel budello stretto e lungo di Snow che un paio di settimane fa un soldato afgano, un soldato “amico”, ha ammazzato il primo caporal maggiore Miotto sparandogli a tradimento, a bruciapelo, e ancora oggi nel budello di Snow – sono 15 metri per 40 contornati da una murastro continuo di sacchi di terra e pietre alto 2 metri – i nostri soldati, poco più d’una ventina, convivono con i loro compagni afghani, una decina; stanno tutti assieme dentro il budello di sabbia e di sassi, di qua gli italiani, di là dietro un basso muretto gli afghani. Dentro si circola solo con le armi scariche; non sarebbe dovuto accadere, ma è accaduto. E Miotto è morto. “L’ho preso tra le mie braccia che ancora respirava”, dice a voce bassa il primo caporal maggiore Antonio Tursi. E non vuole dire altro. In guerra si muore, anche quando è una guerra che guai a chiamarla così, perché a Roma saltano su a dire che non hai capito niente, che l’Italia è uno strumento di pace, e che la guerra invece la fanno gli altri, che sono cattivi, e si chiamano Taliban e sparano non si sa perché , forse per Allah, forse per l’oppio, o forse perché più semplicemente non vogliono questi scarponi stranieri che gli macinano la terra e gli vorrebbero imporre regole, norme, costumi, al posto di quelli che il tempo, invece, ha fatto eterni, che valevano 200 anni fa e varranno ancora tra 200 anni. “Snow” fa parte della Guerra numero 2. Ancora nessuno te l’ha spiegato, alpino che stai dentro il budello stretto e le montagne che, lì a due passi, ti mangiano il fiato. Guerra numero 2 perché oggi in Afghanistan si stanno combattendo, contemporaneamente, 3 guerre. La prima, la Guerra numero 1, è quella ch’è cominciata nell’ottobre del 2001, quando Bush tentava disperatamente un recupero al trauma distruttivo delle Torri di New York. Allora si chiamava “Enduring Freedom”, sono passati 10 anni ma si chiama a quel modo lì ancora oggi. La raccontai passo dopo passo, dentro le montagne, tra le casupole di fango e di niente, nelle strade di Kabul e Jalalabd, ed era una guerra vera, di quelle che fanno morti a centinaia, a migliaia. I morti li fa tutt’ora, questa guerra, con le bombe sganciate da dentro il cielo e i Chinhook che scaricano marines e tempeste di fuoco; solo che a quel tempo la Guerra numero 1 trapanava l’intero l’Afghanistan, da Nord a Sud, da Mazari i-Sherif a Kandahar, mentre oggi è concentrata soltanto in qualche provincia residua, la valle dell’Helmand, Zabul, Kandahar, e poi la montagna che dovrebbe dividere l’Afghanistan dal Pakistan e invece non divide un bel niente e fa del Pakistan il santuario dei Taliban. Di questa guerra si sa poco, quasi niente, se non per i rari reporter americani che il Pentagono fa enbedded e si porta a spasso con i marines che inseguono un nemico sempre lontano e sempre vicino. Poco o niente, ma è una guerra che continua, uguale, frustrante, nervosa, che un giorno ti pare di esserci riuscito e però il giorno dopo il nemico – i Taliban, gli insurgents come preferiscono dire gli americani – il nemico è di nuovo lì, a roderti il fegato e a scorticarti il culo, che spari e uccidi ma anche spari e muori. E non sai – non lo sa nessuno – quando finirà. Se mai finirà. In questa guerra-guerra gli italiani non ci sono, almeno non ci sono ufficialmente perché da qualche parte si parla con insistenza di “truppe speciali” che invece ci sono già, in missione clandestina, e però non si capisce quali truppe siano e quali missioni abbiano. Gli italiani stanno, comunque, nella Guerra numero 2, questa di “Snow” e dell’alpino che passa le sue giornate dentro il budello di 15 metri per 40 con la montagna che gli sta addosso e gli ricorda che la guerra è una guerra anche quando la chiami missione di pace. L’avamposto “Snow” (gli americani lo chiamano “Cop”, Combat outpost) fa parte della nuova strategia della Nato, quella che ha capito che la Guerra numero 1 sì, va avanti, ma non ce la fa a chiudere la partita: e allora ecco la Guerra numero 2 con la strategia delle “bolle di sicurezza”, tante piccole bolle, tanti Cop, sparsi in un territorio non definitivamente “nemico” e dove segni e radichi la tua presenza per conquistarti, poco alla volta, giorno dopo giorno, la sicurezza e il controllo del territorio. “Il nostro compito – dice il sergente Stella – è di fare di “Snow” il check-point delle quattro strade che s’incontrano in questo pezzo di deserto e di montagne: usciamo da “Snow” con i nostri commilitoni afgani, ci piazziamo in questo crocevia, e blocchiamo il traffico delle armi, il fiume dell’oppio, i trasferimenti delle milizie talibane verso Nord”. E’ un lavoro rischioso, spossante, continuo; ma alla fine paga. “I traffici si sono ridotti di brutto, e la gente, la poca gente che vive in questo deserto, comincia a guardarci con rispetto. Come se non fossimo più i nemici, ma soldati che portano la sicurezza”. E la sicurezza è il bene più prezioso di un paese dove la violenza ha sempre sancito, nei secoli, la legge del più forte, la legittimazione del potere. E’ piccola cosa? Vallo a dire all’alpino che sta dentro Snow, che sa che la vittoria (la pace?) non è il trionfo dei carri corazzati e dei B-52 e lui la costruisce giorno dopo giorno, rischiando la sua pelle e la bandiera che pende in alto senza vento, pesante di polvere e di routine. E poi c’è la Guerra numero 3, quella di Petraeus e dell’approccio “all’italiana”. Che sarà il reportage inviato in Italia dall’Afghanistan domani, insh’allah. da lastampa.it Titolo: MIMMO CÁNDITO In viaggio con i lagunari nei villaggi perduti dell’Afghanistan. Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2011, 10:27:10 am Esteri
20/02/2011 - REPORTAGE Banchi e cannoni, l'Italia alla guerra In viaggio con i lagunari nei villaggi perduti dell’Afghanistan. «Finché ci siete voi non temiano i taleban. Ma le bimbe a scuola, no» MIMMO CÁNDITO Fa perfino caldo, dentro questo Lince tutto armi e acciaio. Sarà per l’elmetto verdastro calato a pentola sulla testa e il giubbetto mimetico che mi stringe addosso che quasi non mi fa respirare, sarà perché quest’anno domineddìo si è dimenticato dell’inverno, e nel pianoro che stiamo attraversando lentamente, molto molto lentamente, c’è soltanto il deserto pietroso ma nemmeno un batuffolo di neve che quasi pare una vergogna per il decoro meteorologico dell’Afghanistan, sarà magari anche per la tensione e la paura che ci fa simili, me e i soldati che stanno con me dentro il Lince, gli occhi ben aperti, il mitra nelle mani, con la torretta del mitragliere, lassù, che cigola di metallo stridente ogni volta che lui la fa ruotare per controllare l'orizzonte giallo di sole e di polvere, sarà quello che volete, magari anche le brache di lana e il maglione spesso che mi son portato «perché in Afghanistan è inverno e fa un freddo boia», ma insomma qua dentro c’è un caldo che sembra d’essere tornati nelle pianure desolate dell’Iraq. Siamo in un’altra guerra invece, ch’è la Guerra afghana numero tre, e più o meno ci sto anch’io, prestato per qualche settimana ai nostri soldati, che sono vestiti e bardati ormai come tutti gli altri Rambo d’ogni esercito - stesso elmetto, stessa mimetica, stessi anfibi, occhialoni scuri, visore notturno, microfonino attaccato alla guancia. È la guerra, uguale dovunque. E però, quando si parla di Afghanistan, e delle battaglie che qui si fanno e i morti e le rovine, se ne discute come se parole e i fatti avessero perduto ogni senso. Per capire, invece, che cosa significhi esserci dentro, se abbia senso starci, quali speranze ci siano di uscirne senza aver perduto inutilmente vite umane, speranze, miliardi di euro, perduto perfino il nostro dovere di rispettare quanto ci impone l’articolo 11 della Costituzione (quello che dice che l’Italia non fa la guerra, nemmeno quando la chiami missione di pace), allora bisogna anzitutto tagliare in tre parti questo enorme, affascinante, Paese di montagne, di deserti vuoti, di silenzi senza eco. Perché, c’è la guerra afgana numero 1, che la fanno (quasi esclusivamente) gli americani, con le loro bombe dall’alto e i marines sul terreno, e si chiama - come 10 anni fa - Enduring Freedom e coinvolge più d'un terzo dell’Afghanistan, nelle province più dure del Talibanistan, lungo le illusorie frontiere con il Pakistan. E c’è la guerra numero 2, che è quella delle «bolle di sicurezza», gli avamposti spregiudicati (come il Cop «Snow» dov’è morto Matteo Miotto) piantati in un territorio di natura ambigua - non nemico, forse, ma neanche amico - e proposti come il primo progetto di un controllo militare che, progressivamente, assicuri una vivibile condizione di sicurezza e apra la strada alla pace stabilità d’una pace vera. E poi c’è questa, appunto, del Lince con cui stiamo marciando cauti e a occhi ben aperti nel deserto vuoto che ci circonda, e che è la numero 3, quella che il gran capo di tutti, il generale Petraeus, ha chiamato «la guerra che conquista i cuori e le menti» ma che il nostro generale Bellacicco - che comanda l’intera regione occidentale - preferisce definirmi, e con qualche non celata soddisfazione, come «la guerra dell’approccio all'italiana». Le etichette contano poco, alla fine, e la sostanza è che con questo convoglio stiamo andando ora a portare i banchi di legno - quelli a coppia, d’una volta, con il tavolino e i due sedili accostati - per una piccola scuola che gli italiani hanno già costruito nel villaggio di Kourmalek, a una cinquantina di chilometri a Est dalla base di Farah; e che se di banchi di scuola parliamo, non pare proprio la guerra, eppure una guerra comunque è. Il convoglio con cui procediamo lentamente dentro nuvole rabbiose di polvere ha, infatti, ben poco di turistico. Avanti c'è un carro corazzato, il Dardo dei bersaglieri, con il suo cannoncino che punta l’orizzonte e apre la strada, poi ci sono 4 blindati Lince, quelli che possono resistere all’urto delle bombe nascoste nel terreno e hanno il mitragliere in torretta, poi i camion con i soldati del reggimento Lagunari e i banchi da regalare, e in coda - a dare ancora sicurezza - un altro Dardo. E se non è roba da guerra, guerra vera, questa, non saprei davvero come chiamarla. Siamo partiti poco dopo l’alba dalla base della Task Force South, a Farah, un mare di grandi tende, grigie di polvere, dove il reggimento dei Lagunari e quello (il Cosenza) dei bersaglieri stanno accampati con ogni prudenza, custoditi da un grande dirigibile bianco che sta piantato su, in cielo, e ha una rassicurante telecamera che controlla e scandaglia l’intero orizzonte. Kourmalek è un grosso villaggio allungato dentro la pista del deserto che porta a Bakwah, una cinquantina di chilometri dalla base, verso Sud-Est; sono alcune decine di casupole di fango coperte da una cupoletta tozza, come i dammusi di Lampedusa. «Khalam, khalam», grida la piccola folla di bambini, forse 30, forse anche 40 o 50, che vuole la mia penna e si stringe addosso a rubarmela nello slargo dove ci siamo appena fermati. I bimbi sono allegri come tutti i bimbi, ma intanto i Dardo e i Lince si sono piazzati in sicurezza coprendo con cannoncini e mitragliatrici ogni orizzonte, a 360 gradi, e i soldati ci accompagnano a ogni passo, le armi in mano, i loro microfoni che gracchiano ordini e informazioni. Sarà pure «all’italiana» ma questa è comunque una guerra, e la pelle è sempre in gioco, perché i talebani sono come l’aria che non li vedi ma possono stare dovunque. Arriva il capo della shura del villaggio, una sorta di sindaco in turbante e sherwal khemiz, le brache larghe, una copertina sulle spalle, e una piccola corte di dignitari che gli fa seguito. Con larghi gesti di simpatia il colonnello Parmeggiani gli consegna i banchi, che i soldati portano subito nella piccola scuola; i bimbi gridano di felicità anche se sono scalzi e laceri, l’aria è tiepida, il «sindaco» si mostra soddisfatto, ha la faccia scaltra di un ladro di cavalli. Nero di sole, una gran barba nera sotto il turbante nero, gli occhi neri e duri, se l’incontri di notte gli dai subito il portafoglio, il «khalam», e perfino le scarpe. Verso di lui e il suo codazzo, Parmeggiani è l’ambasciatore di questa guerra all'italiana, che vuol dire che hai il mitra e i cannoncini che ti seguono dovunque e però hai anche i banchi da regalare, la scuola da costruire, e i sacchi di riso e di frumento che i soldati consegnano sorridendo. Basterà tutto questo regalo e questa affettuosa cortesia, basterà per vincerla questa guerra numero 3? Mi tiro in un angolo il sindaco e l’interprete. Il sindaco scuote la testa, «No, talebani in giro è da molto che non ne vediamo», dice, e guarda senza guardarmi. Sì, gli dico, ma qui attorno vedo solo maschietti, neanche una femminuccia. «Ma la scuola è fatta per i maschietti». E le bimbe? «Non abbiamo maestre, qui, e dunque le bambine restano a casa...». E allora, se noi portiamo anche le maestre? «Eh, no. È lo stesso... Noi, qui, viviamo così da 200 anni, e per altri 200 anni sarà ancora così». Però in città le bambine vanno a scuola, e sono anche felici. «Ah, in città. Lo farei anch’io se fossi in città, ma io vivo qui. E la città è lontana». Non cambia nulla, allora? la scuola, i banchi, il riso, il frumento... «Sai, ora ci sono gli italiani, e va bene così. Ma quando gli italiani se ne andranno, i talebani torneranno». Sorride senza due denti, sembra proprio un ladro di cavalli. A un caporale che mi sta accanto col mitra puntato a proteggermi, e che ha sentito la traduzione, racconto quanto diceva Kipling, che puoi fidarti di un serpente più di quanto tu possa di una prostituta, ma che devi fidarti d’una prostituta più d’un afghano. Il caporale dice di sì e batte con la mano sul mitra, anche lui sorride. da - lastampa.it/esteri Titolo: MIMMO CÁNDITO L'orgoglio panarabo del Colonnello ossessionato dall'Italia Inserito da: Admin - Marzo 20, 2011, 03:16:55 pm Esteri
20/03/2011 - LIBIA TRAMONTO DI UN REGIME L'orgoglio panarabo del Colonnello ossessionato dall'Italia Il dominio coloniale ha segnato tutta la sua storia politica Aveva un sogno: riscattare i Paesi della Mezzaluna e l'Africa MIMMO CÀNDITO Una cicatrice sul braccio d'un bambino che giocava libero nel deserto può diventare anche il segno d'un destino predeterminato. Ci sono infatti memorie che talvolta decidono una vita, anche quando soltanto di vita d’uomini qualunque si tratta. Se poi quella vita comanda il destino non d’un uomo soltanto ma il destino d'un intero popolo, allora la memoria lontana d'un bimbo può anche diventare un segmento incisivo sul tempo della Storia. Aveva appena 6 anni, Muammar Gheddafi, quando quella mina esplose. Era il 1948, e giocava con i suoi cuginetti in uno spiazzo polveroso della piana arida di Sirte. Trovarono invece una vecchia mina ch’era stata sepolta chissà quando dai soldati del Regio esercito coloniale d'Italia. I due cuginetti morirono, Muammar si ritrovò soltanto con quello strappo violento lungo tutto il braccio. Non lo dimenticò mai. La sua storia di capo-popolo, il risentimento affondato nel petto, muovono anche da quel mattino lontano, quando l'odio per una ingiustizia subita senza colpa interverrà poi, nel tempo, in scelte politiche che appariranno dettate da emozioni che la razionalità d'una leadership raramente tiene in conto. E con l'Italia sempre - o quasi sempre - al centro d'un universo dove la geografia di due Paesi che stanno di fronte ha sicuramente un ruolo determinante ma dove a contare è anche il desiderio d'un risarcimento che metta assieme la memoria ferita d'un bambino e il riscatto d'una dominazione coloniale che umiliava il popolo. Il primo atto, quello simbolicamente fondante, è il decreto del 21 luglio del ’70, con cui il nuovo Consiglio della Rivoluzione - di cui un giovane sconosciuto capitano nato a Sirte ha preso il comando, esiliando con disprezzo quel re Idris d'una tribù dell'Oriente cireanico - ordina il sequestro di tutti i beni dei 20 mila cittadini italiani che ancora lavorano e vivono nella nuova Libia militarizzata, e ordina poi la loro espulsione immediata, da chiudersi in pochissimi giorni, un fagotto di tela o un cartone dove stringere quello che si può salvare nell’affanno d’una vita spezzata e la nave in porto che già aspetta. Il 7 ottobre sarà poi per sempre il «giorno della vendetta». Ma l’Italia riaprirà comunque la sua ambasciata, e cercherà un percorso di riappacificazione, anche perché la Libia è intanto diventata una potenza petrolifera, e la politica energetica dell’Italia non può ignorare l'interesse che «la quarta sponda» offre agli investimenti dell’Eni, dopo che il giacimento di Zeltén ha fatto scoprire quale insensatezza fosse l'aver pensato a quella sponda come soltanto «uno scatolone di sabbia». Quanto più la politica energetica diventerà poi uno degli elementi essenziali delle strategie internazionali, dopo lo Yom Kippur e la rivoluzione araba del petrolio, tanto più il Colonnello tenterà d'imporre la sua visione del mondo alle vecchie potenze coloniali. E la sua visione, montata sul panarabismo di Nasser, sogna un riscatto dove i Paesi della Mezzaluna - e la stessa Africa - saranno chiamati a determinare i nuovi destini del mondo. Sono gli anni del terrorismo come strategia di una rivoluzione mondiale, e Gheddafi ne usa con spregiudicatezza ogni azione, finanziando movimenti e gruppi senza limite di frontiere, dall’Ira irlandese al Settembre Nero palestinese. L'Italia resterà nell’ombra di questa fanatica visione d'un nuovo tempo modellato dalla potenza dei petrodollari, e dovrà comunque barcamenarsi sotto le pressioni del Colonnello che minaccia sempre ritorsioni per un passato coloniale mai sanato, servendosi anche della cattura di qualche peschereccio di Mazara del Vallo da usare come leva di ricatto per aver mano libera nell’uccisione dei molti leader dell’opposizione libica che hanno trovato rifugio in Italia. Ma quando Reagan, il 15 aprile dell’86, dopo l'attentato a una discoteca di Berlino affollata di marines, decide ch’è giunto il tempo d'una lezione e bombarda Bengasi e Tripoli e la stessa caserma-residenza di Gheddafi, sarà soltanto una misteriosa telefonata (molti pensano di Craxi, presidente del Consiglio italiano) a mettere il Colonnello sull’avviso e a salvargli la vita. Riprende così il tempo dell'alternanza tra risentimenti d'antiche memorie e sviluppo di relazioni con Roma di buon vicinato, che troverà poi un primo radicamento di pacificazione nell'invito che Romano Prodi, presidente della Commissione dell’Unione Europa, rivolgerà a Gheddafi per una visita ufficiale a Bruxelles. Il Colonnello - che in questa alternanza aveva trovato il modo di scaricare verso Lampedusa due missili Scud B per ritorsione - ha intanto abbandonato la politica del sostegno al terrorismo, ha riconosciuto di fatto la responsabilità negli attentati al volo 103 della PanAm nel dicembre dell’88, e poi al Dc-10 dell’Uta nel settembre dell’89, e alla fine riceverà a Tripoli la visita ufficiale del capo del governo italiano, Massimo D'Alema. Non sono ancora i tempi che seguiranno, degli abbracci con Berlusconi a Roma e a Tripoli e di quel bacio della mano che segnerà la degradante umiliazione d'una politica d'affari senza dignità, ma certo si va spegnendo il bruciore di quella lunga cicatrice nel braccio destro d'un bimbo che giocava nel deserto. E verranno, alla fine, anche le passeggiate trionfali nelle piazze stranite di Roma. da - lastampa.it/esteri Titolo: MIMMO CÁNDITO Ajdabiya, al fronte in ciabatte "Qui stiamo facendo la storia" Inserito da: Admin - Marzo 26, 2011, 03:16:12 pm Esteri
26/03/2011 - REPORTAGE Ajdabiya, al fronte in ciabatte "Qui stiamo facendo la storia" Il comandante dei ribelli è un ingegnere informatico: "Neanche il Che era un soldato" MIMMO CÁNDITO AJDABIYA Questa è una storia di guerra, ma non di quelle della televisione, che hanno sempre un eroe bello e sfortunato, le palme sullo sfondo, e ti fanno piangere. No, questa è una storia senza eroi, una storia di gente qualunque, anche sfigata, e magari brutta, gente che si trova a fare la guerra senza nemmeno saperne bene la ragione e però la fa ugualmente, soltanto perché quando si è gente qualunque i doveri si rispettano sempre. Bachir Marghei ha 40 anni, tre figlie e un maschietto, e fino a un mese fa era ingegnere petrolifero in una società di Bengasi. Ieri l'ho trovato sulla strada che porta ad Ajdabiya, un berrettaccio di lana lo copriva fin quasi agli occhi, e aveva una palandrana militare alle ginocchia e le scarpe da passeggio. «Alt!», ha detto alla mia macchina, e l'autista gli ha fatto: «Ma è un giornalista». Lui ha ripetuto no con la testa: «Stampa o no, se vai avanti ti ammazzano». Era l’ultimo check-point prima di raggiungere Ajdabiya, la città dentro cui è assediata una colonna di gente di Gheddafi. «La dentro saranno forse in 120, hanno 7 tank, una dozzina di katiuscia, e si cagano sotto dalla paura. Ma se ti avvicini ti stendono come niente». Bachir non è un eroe, però da un giorno all'altro è diventato un soldato, il comandante di un importante check-point, e nemmeno se la tira. «C’era la libertà sulla strada della Libia, e io ho scelto». Sì, ma i tuoi, chi ci bada? «Ho un fratello a Bengasi, e poi i nostri vicini di casa danno sempre una mano a mia moglie». Non è un eroe, però, vivaddio, è anche lui di carne. E di fronte al reporter che lo accarezzava sul braccio e gli dava solidarietà, non ha saputo tenersi: «La notte scorsa, approfittando che c'era un attacco degli aerei francesi mi sono avvicinato ai carri di Gheddafi. Strisciavo lungo un fiumiciattolo asciutto e stavo coperto da una duna di sabbia. All’improvviso ho visto il tank nel buio, di fronte a me, non più di 30 o 40 metri. Ho tirato con il mio lanciagranate, è esploso in fiamme». E si calava e si drizzava il suo berrettaccio. Forse è per questo racconto che mi ha concesso di andare oltre, fino alla prima linea, dove nessun reporter può arrivare. L'interprete nicchiava, «Ma è pericoloso», mentre l'autista, un ragazzo che ha studiato in Florida, era tentato assai e spingeva il suo compagno parlandogli stretto in arabo. Siamo andati avanti lentamente, molto lentamente. La strada, al riparo della duna, era piena di soldati - chiamiamoli così, ma è una follia - e di pick-up parcheggiati, e tutti, anche i pickup, ci guardavano straniti sfilargli accanto. «Markhaba», buondì, buondì. Sembravano i figli dell’armata Brancaleone, un pugno di ragazzi, chi vestito da Rambo, chi con i jeans e un foulard chiccoso, chi con le braghe coloniali e la kefiah, chi in una improbabile uniforme, ma tutti, o quasi, con le scarpe da ginnastica o le ciabatte. Siamo arrivati fin dove la duna si consuma, e forse da laggiù, dalla città, ci hanno visto, perché un tank ha tirato una cannonata che ha rotto il caldo ardente del sole. Non abbiamo fatto a tempo a sentire il tuono, che il colpo era già caduto a 100 metri da noi, sulla destra, alzando nel cielo una grande nuvola di sabbia. «Allah u akhbar», ha gridato in coro l'armata Brancaleone tirando su le braccia, e l'interprete si è tuffato sotto un pick-up. In mezzo minuto, da qui hanno risposto con un lancio di granate. Un lancio inutile, ma fa sempre cinema; e in guerra il cinema ha sempre effetto. Voleva dire: ehi, tu, cannone, guarda che qui ti teniamo d'occhio. Fine della mia guerra. Si è avvicinato un altro comandante, piccolo, grasso, autorevole, con un giubbotto di pelle, le scarpe da passeggio, e un kalashnikov di traverso sul torace. Si è presentato: Mustafa al Serghesi, ingegnere informatico. Ingegnere anche lei? «Sì, ma ora comando il campo di addestramento di Bengasi. Mi passano sotto le mani circa 2000 ragazzi la settimana, e tutti questi li ho formati io», e allargava il braccio verso i figli di Brancaleone. Lo ascoltavo un po’ perplesso, poi gli ho detto con ogni cortesia possibile: «Vabbè, ma dall’informatica a fare la guerra nel deserto ce ne passa, mi pare». Mi ha guardato sprezzante, dal basso: «Perché, Castro e il Che erano dei soldati? Eppure hanno fatto la rivoluzione». L'ingegnere Mustafa non è nemmeno lui un eroe, in questa guerra senza eroi, ma mi ha dato una lezione solenne: «La motivazione, sai. Quando un uomo è motivato, nulla gli è impossibile. Gheddafi lo sta imparando». Poi mi ha stretto la mano, forte, tranquilla. Siamo tornati da Bachir assai più veloci di quando lo avevamo lasciato. Gli ho chiesto della gente di Ajdabiya che sta scappando dalla città sotto assedio. Mi ha fatto vedere un’auto che si stava immettendo sulla strada (questa è ancora la vecchia strada di Italo Balbo, pur ripulita e riasfaltata), venendo da una piccola pista laterale che si perdeva nel deserto. Sono corso addosso all'auto, uno scatolone bianco guidato da un vecchietto con pochi denti. Dentro, affollati come in un pollaio, c'erano due donne e 11 bimbi di ogni età, dai neonati ai ragazzetti, «miei figli». Che Allah lo benedica. «Siamo scappati ieri notte, la città si è vuotata, la paura non ci faceva dormire, e non c’era più acqua né elettricità né niente da mangiare». E poi? «Abbiamo dormito dentro la macchina, accanto alle altre auto. Ce ne saranno un centinaio, e nel deserto la notte è fredda assai. Un vicino ci ha dato del pane per i bambini, che Allah lo salvi». È ripartito verso Bengasi, dentro una nuvola di olio bruciato e di puzzo che chiudeva la gola. Ma c'è un altro non-eroe di cui parlare, uno che si è avvicinato al finestrino del vecchietto mentre partiva, e gli ha dato un pezzo di carta con un numero di telefono scritto a penna. «Gli ho detto che lì può chiedere aiuto, gli daranno cibo e un tetto». Quest’ultimo noneroe si chiama Massud Bwiguiz (o un cognome simile, lo leggo male nel taccuino), faceva il panettiere ad Ajdabiya, poi la settimana scorsa è scappato e ora tiene il filo tra questi che scappano e un’organizzazione caritatevole. Lo spirito di solidarietà sta dentro l’Islam come dentro il Cristianesimo; qualcuno lo dimentica, qualcuno no. «Sto qui giorno e notte», ha detto con qualche pudore Massud, e si tirava la barbetta rossa sulla galabia zozza. Ah, e la guerra? È fatta così, di ragazzi e ingegneri che sognano la libertà e però aspettano i razzi dei Mirage della Nato per poter vincere la loro battaglia. E sperare che il sogno non resti un sogno. L’impotenza a chiudere è di Gheddafi ma anche dell’armata Brancaleone: per questo, tutti, in Libia, attendono il miracolo. da - lastampa.it/esteri/sezioni Titolo: MIMMO CÁNDITO I ribelli perdono la città del petrolio Inserito da: Admin - Marzo 31, 2011, 06:06:57 pm Esteri
31/03/2011 - LIBIA - LA GUERRA CIVILE I ribelli perdono la città del petrolio L'improvvisato esercito degli insorti è stato cacciato anche da Ras Lanuf. I giovani si scoraggiano: dov'è Sarkozy oggi? MIMMO CANDITO INVIATO AD AJDABIYA Quando uno ha visto in faccia la morte, e l’ha vista davvero, allora ha gli stessi occhi sbarrati che ha questo ragazzo impolverato, Hamed Kwisi, che sta arrivando qui, in retrovia, dalla battaglia di Ras Lanus e quasi non parla. È uno dei tanti ragazzi andati al fronte da volontari, con la kefyah al collo, le scarpe da tennis, e un fucile da agitare in aria per farlo ben vedere ai reporter che inseguono la battaglia come gli sciacalli la loro preda; ma ora per lui la festa è finita. Scuote la testa, pare rotto dentro, gli verrebbe da piangere, come si può piangere solo a vent’anni e per la prima volta nella vita si è capito che cosa sia davvero la paura, quella che ti chiude la gola e poi non dormi più come prima. «Credimi, non abbiamo nemmeno potuto recuperare i corpi dei nostri fratelli ammazzati. Dovevi esserci. Era un inferno, un inferno». Ti guarda, ma nemmeno ti vede. «Tremava la terra e tremava il cielo. Ah, nel nome di Allah misericordioso, non potrò dimenticare mai». La festa pare finita. La cavalcata che domenica gli aveva fatto conquistare 400 chilometri di deserto, a lui e ai suoi compagni di questa armata Brancaleone, si sta trasformando in una disfatta amara, giorno dopo giorno. Inseguiti dalle truppe corazzate di Gheddafi, in appena una manciata di ore i ribelli hanno perduto As Suaan, Bin Jawad, Nowfilyia, Ras Lanus, Naguila, e ora sono sotto attacco a Brega. È una fuga disperata, più che una ritirata tattica, la confusione e la paura fanno sgommare i pick-up, s’incrociano grida, urla, e ordini, il cielo è tagliato dalle code dei missili che squarciano il deserto. «Un inferno, era un inferno». Povero Hamed, la sua Rivoluzione pareva un gioco felice, una specie di rito collettivo nel quale consumare, all’iniziazione alla libertà, i vent'anni suoi e di tanti suoi compagni. Vanno ad arruolarsi nella Caserma del 7 aprile come se andassero a un party di adolescenti, trascinati da un entusiasmo contagioso, che mette nelle loro mani il dovere obbligato d’essere protagonisti di uno Stato nascente. Arrivano per chiedere informazioni a bordo della loro auto, finisce che si fermano dopo aver consegnato le chiavi a qualche amico. E però, queste passioni dei vent’anni la Rivoluzione le consegna anche agli adulti, quelli che mettono da parte il loro mestiere, professore, avvocato, fabbro ferraio, commerciante, e da un giorno all’altro si trasformano in soldati, anch’essi, della libertà. C’è uno spirito che verrebbe da chiamare risorgimentale, come i garibaldini di un’altra avventura impossibile. Qui una intera società pare travolta dalla voglia irresistibile, contagiosa, di essere, tutti, protagonisti e interpreti di un tempo nuovo. E l'armata Brancaleone diventa l’espressione di questa felice anarchia, quella che tutte le Rivoluzioni indossano al momento della conquista della libertà saltando forme istituzionali, gerarchie, regole di comportamento. Sul fronte, lo schieramento di questa armata che pretende di sconfiggere Gheddafi e la sua potente macchina militare è formato da tre linee di fuoco: avanti vanno «le brigate speciali», un centinaio di uomini che hanno una professionalità militare sperimentata e usano le armi di maggior potenza in dotazione alla Rivoluzione; seguono i soldati di mestiere, quasi tutti passati dai vecchi comandi gheddafiani ai nuovi comandi rivoluzionari, e in ultimo si ammassano le reclute improvvisate ma entusiaste della caserma del 7 aprile, quelli con le scarpe da tennis o i mocassini, la kefyah al collo, e i jeans a vita bassa. Questi sono la parte più folkloristica dell’armata Brancaleone, ma in tutto non arrivano a 1000 uomini, anche se nessuno vuol dare una cifra ufficiale, e le armi che tutti hanno in dotazione sono quelle che hanno rubato dai depositi e dalle caserme al momento della Rivoluzione, un mese fa. C’è qualche carro armato, una decina di lanciarazzi Grad (quelli dei missili a lunga gittata, con 40 bocche di fuoco), alcune decine di Katiusha (a 12 bocche di fuoco), una ventina di mitragliatrici antiaeree a 2 e a 4 canne, una cinquantina di pick-up montati di cannoncini da 105 e di cannoncini Duchka, e poi i Kalashnikov di dotazione, vecchi modelli, pesanti, quasi mai usati. Se la guerra diventasse una vera guerra - e non quella che è ora, dove vinceva chi non combatteva - i 10.000 soldati di Gheddafi, armati come un vero esercito, questi «soldati» della Rivoluzione se li mangerebbero in un solo boccone. Qui lo sanno tutti, e guardano il cielo, aspettando nuove armi e nuovi raid aerei. A un posto di blocco, ieri uno dei ragazzi gridava forte, di rabbia, qualcosa che non aveva bisogno d'essere tradotto. «Ma Sarkozy, dov’è oggi Sarkozy?». da - lastampa.it/esteri/ Titolo: MIMMO CÁNDITO Le sfide della libertà di stampa Inserito da: Admin - Maggio 04, 2011, 05:15:58 pm 4/5/2011
Le sfide della libertà di stampa MIMMO CÁNDITO Ieri era la giornata mondiale della libertà d’informazione; la parte del mondo che l’ha celebrata era assolutamente minoritaria. Quei Paesi - quasi 5 miliardi di abitanti - che non le hanno fatto una festa evidentemente non ne sentivano il bisogno. Avrebbero potuto celebrare un funerale, l’assenza di libertà d’informazione è anche la morte della società civile; ma a tiranni, dittatori, regimi autoritari, democrazie elettorali non si può chiedere di commettere suicidio. Si può soltanto denunciarli all’opinione pubblica. Lo si è fatto un po’ dovunque, nel mondo. «Reporters sans frontières» ha pubblicato un rapporto che denuncia 38 «predatori di libertà», da Gheddafi a Putin, da Raúl Castro all’Eritrea, alla Birmania, anche all’Italia; la Fnsi ha chiamato a convegno i giornalisti del Maghreb perché discutessero con i giornalisti italiani la difficile costruzione d’una democrazia nei Paesi della «primavera araba»; televisioni, radio, giornali lo hanno voluto ricordare con testimonianze, memorie, reportage. Ma la celebrazione più significativa è stata, paradossalmente, il contesto informativo nel quale quella celebrazione si trovava inserita. Con un numero impressionante di pagine e di analisi critiche, ieri i giornali di tutto il mondo hanno infatti raccontato la morte di Osama bin Laden: nel mentre si celebrava la festa d’una difficile libertà, si raccontava anche la fine d’uno dei maggiori responsabili, negli ultimi dieci anni, della sottrazione di spazi e di autonomia al giornalismo. L’Undici Settembre non è stato soltanto una tragedia per l’America, e per larga parte del mondo che si batte contro l’intolleranza e la violenza; il crollo delle Torri ha dettato ai sistemi mediali un dovere di cautela, un obbligo di prudenza, un pavido accostamento all’analisi della realtà, che finivano per coincidere con l’esercizio di una pesante autocensura, quando non un’autentica - mai esplicita, certo - censura. Il 19 ottobre del 2001, quando fu lanciato l’attacco americano all’Afghanistan, il segretario Condoleezza Rice invitò a Washington i direttori delle più autorevoli testate. «Gentlemen - disse - stiamo per entrare in guerra, il Paese è in una grave condizione di crisi; il presidente Bush vi chiede l’esercizio del massimo patriottismo». Ciascuno dei direttori rispose come meglio credeva; uno soltanto le disse: «Signora, riferisca al Presidente che la più alta forma di patriottismo che noi si possa esercitare è di stare addosso al governo perché sempre racconti al nostro popolo la verità». Non sempre fu fatto, ancora oggi Paul Krugman lamenta sul «New York Times» l’insoddisfazione per avere ceduto troppo agli spin-doctors della Casa Bianca. Uno di quei «doctors» si chiamava Bin Laden. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: MIMMO CÁNDITO Capitribù, jihadisti e voltagabbana Inserito da: Admin - Agosto 23, 2011, 10:06:23 am Esteri
23/08/2011 - REPORTAGE Capitribù, jihadisti e voltagabbana La rissosa armata dei nuovi padroni Opposizione divisa su tutto: a succedere al raiss sarà chi ha saputo tradire al momento giusto MIMMO CÁNDITO DAL CONFINE TUNISINO Scrutata nel buio di questo polveroso, e inquieto, posto di frontiera, con la Tunisia dolce e morbida che si allontana alle spalle, e di fronte lo spazio aperto della Libia, le montagne ruvide del Jebel Nafusa a destra e, poi, il pianoro, fin laggiù dove si allunga il deserto vuoto di Sebha perduto dentro l’oscurità della notte che scende rapida, la geografia di questa Libia sfasciata assomiglia drammaticamente alla storia politica che l’attende, ora che Gheddafi è una pagina amara del passato. Vallate aperte e verdi, pianure che occhieggiano il mare, il deserto infinito giù a Sud, e monti, alti e aspri come i berberi che li abitano, tutto segna l’orografia di una complessità e di una contraddizione che - nel dopo Gheddafi segnerà indecisa, e probabilmente caotica, la costruzione di un Paese, il Nation Building, nel quale si sono sempre affossati i progetti e le speranze dell’Occidente, quando hanno voluto ficcare il naso in faccende che spettavano ad altri popoli. È un «naso» che questa volta non è arrivato fino a calpestare con gli stivali il terreno di combattimento, anche se i bombardamenti della Nato sono stati nettamente lo strumento con il quale si è squinternata la macchina repressiva del regime e la sua armata di giannizzeri e di mercenari. Tuttavia, ora che si tratta di fare i conti con il futuro, si accende l’inquietudine di come impedire che questo futuro sia un altro dei teatri di destabilizzazione nei quali pare inevitabilmente precipitare il mondo, dopo il crollo delle Torri, giusto dieci anni fa. E la più forte delle inquietudini è certamente il ruolo che probabilmente giocherà nei nuovi equilibri il fondamentalismo islamico. Gheddafi aveva voluto una Libia laica, dove lo spazio della religione e gli ipersensibili processi di autoidentificazione che accompagnano l’Islam nella quotidianità delle società musulmane erano stati tenuti sotto rigido controllo, con quella stessa, feroce, indifferenza repressiva che il Colonnello riservava a tutte le forme di opposizione possibile. Era stato, il suo, un lavoro metodico, e niente affatto facile, ricordando che a Derna, nella Cirenaica che sta dall’altra parte di questa frontiera, sul confine egiziano, sorgeva uno dei centri religiosi più rigidamente integralisti dell’intero Maghreb (è da Derna che arrivavano quasi tutti i libici che Al Qaeda ha impegnato nelle sue operazioni in Afghanistan e nel Golfo, e anzi i terroristi libici costituivano - rispetto alle ridotte dimensioni demografiche della Libia - la componente nazionale più numerosa). Molti di questi jihadisti sono stati ammazzati nelle guerre dove lavoravano, ma molti sono tuttora vivi e sono anche rientrati in patria. Quale sarà il loro ruolo nel Nation Building nessuno, tuttora, può dirlo: ma certamente conteranno, e anche molto, se la Cia fin dall’inizio della sollevazione di Bengasi, in un febbraio che oggi appare lontano quanto un anno luce, esortava il dipartimento di Stato e la signora Clinton, a usare molta, molta cautela nel riconoscere la legittimità politica del nuovo governo insorto, il Cnt. E ai jihadisti si attribuisce anche, da qualcuno, la responsabilità dell’assassinio del generale Younis, comandante generale delle forze armate ribelli, fatto fuori più o meno misteriosamente qualche settimana fa, per via di una possibile vendetta consumata a causa del ruolo che egli aveva avuto nella repressione del fondamentalismo religioso, quando era ancora compagno di merenda di Gheddafi. Altri attribuiscono questa vendetta a uomini appartenenti a clan e tribù che furono duramente repressi da Younis, allora ministro degli Interni del Colonnello. L’una spiegazione può valere l’altra. Ma ciò che è certo è che il Nation Building dovrà inevitabilmente misurarsi con una catena sanguinosa di vendette che la vittoria legittimerà contro quanti avevano goduto di potere e di forza, e di violenza, nel regime che è appena finito. Sarà difficile districarsi da questa catena, consapevoli tutti che più della metà dei componenti del Cnt trionfatore è fatto comunque di uomini che nel vecchio regime avevano onori e responsabilità ufficiali (lo stesso leader Jalil era ministro della Giustizia di Gheddafi, nel momento in cui ha abbandonato il Colonnello ed è passato con gli insorti). Questi «disertori» si spalleggeranno a vicenda avendo tutti un passato comune poco commendevole. Ma tra di loro si incuneerà anche l’identità tribale, cioè l’appartenenza a famiglie e clan che hanno una lunga storia identitaria nella vita delle terre che hanno fatto la Libia (la Cirenaica a Est, la Tripolitania a Ovest il Fezzan a Sud). L’identità tribale comporta il riconoscimento e il forte valore connotativo dell’appartenenza che è un fattore che la realtà metropolitana tende a diluire ma che conserva tuttora una sua forte qualità solidaristica nella Libia allo sbando dell’oggi post-gheddafiano. Terza incognita dunque di questo Nation Building assegnato ai vincitori è il valore dell’appartenenza, che è poi uno dei fattori che hanno deciso la sconfitta finale di Gheddafi, per il ruolo assunto dalle tribù ribelli del Jebel quando hanno deciso di rompere ogni relazione con il Colonnello e cedere alle sollecitazioni e agli impegni che arrivavano dagli emissari clandestini dell’Occidente. Resta infine la componente liberale di questo complesso, contraddittorio, confuso, e forse anche inquietante, nuovo governo libico. Sono, queste, figure che hanno vissuto all’interno del regime, in una condizione di quieta accettazione, senza identificarsi troppo e però anche senza mai prendere le distanze. Questa componente è la più vicina alla cultura europea, ed è stata ampiamente influenzata dai ripetuti contatti con l’Occidente, soprattutto con l’Italia. Per tutti loro vale quanto mi diceva qualche mese fa a Bengasi il professor Gerber, costituzionalista dell’università di Tripoli e anche docente all’università di Tor Vergata a Roma: «Abbiamo preparato il progetto per la nuova carta costituzionale. Il primo punto riconosce l’eguaglianza di tutti, senza distinzioni di sesso, di razza, o di religione. C’è stato un lungo e aspro dibattito tra i 21 membri della mia commissione. Ho avuto qualche difficoltà a farlo approvare; spero che verrà mantenuto nel documento finale della nostra Costituzione». E guarda fuori dalla finestra, verso il verde delle terre della Cirenaica. Ma la Libia ha una orografia complessa, come vedo da questo confuso posto di frontiera perduto nel buio della notte. da - http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/416543/ Titolo: MIMMO CÁNDITO Nell’ospedale dell’orrore tra i cadaveri dei mercenari Inserito da: Admin - Agosto 27, 2011, 04:25:15 pm Esteri
27/08/2011 - REPORTAGE Nell’ospedale dell’orrore tra i cadaveri dei mercenari MIMMO CANDITO TRIPOLI Ieri era venerdì, qui a Tripoli, il giorno di festa, e perfino la guerra sembrava essersi fermata. Nei posti di blocco i miliziani hanno cominciato a montare gli ombrelloni, per difendersi dal sole che picchia a 50 gradi, e il fuoco dei cannoni e dei Kalashnikov ha taciuto fino a notte, quasi spossato anch’esso dalla calura. Ma anche in questo silenzio irreale, lo sporco lavoro della guerra continuava. Nell’atrio dell’ospedale di Abu Salim, un centinaio di corpi lo ricordava ormai indifferente, disfacendosi come se la carne fosse ancora viva; erano tutti neri d’Africa, o quasi tutti, e nel puzzo dolciastro che rendeva l’aria irrespirabile una decina di volontari – la mascherina sulla bocca, i guanti di lattice, lunghi camicioni verdi fino a terra - li avvolgeva in grandi fogli di plastica, stringendoli con un legaccio alla testa e ai piedi e li ributtava a mucchio sui camion in attesa. Miliardi di mosche ronzavano irritate per essere state disturbate dal loro pasto pingue, sulle pance aperte, sulle ferite mummificate nel sangue, sulle budella e i cervelli squarciati; e migliaia di piccoli vermi di color tenue brulicavano come impazziti di gioia sulle occhiaie succose dei morti che la calce non aveva ancora coperto. Vi fa schifo? Ah, ne sono felice, amaramente felice, perché quelle mosche dannate e quei vermi che mangiavano muovendosi con delizia sulla carne del cadavere facevano schifo anche a me, e volevo però, volevo, che voi ne condivideste il disgusto che ti acchiappa allo stomaco e non ti molla più che forse non ci dormi nemmeno; perché allora sì che lo schifo che qui vi obbligo a procurarvi dà finalmente un senso a questo sporco lavoro, di chi va in giro a raccontare la guerra e rischia però di trasformarla soltanto in uno show, dove ci sono i buoni e i cattivi, il pumpum da riprendere con telecamere bulimiche, e i soldati che si muovono come se recitassero. La guerra fa questi morti, queste mosche insaziabili, questi vermi che si muovono oscenamente insensibili davanti a chi li osserva. Fa, la guerra, anche tutto quello che sono andato poi a vedere nell’ospedale di Abu Salim, ora che i miliziani hanno «ripulito» l’intero quartiere (a Tripoli ormai si combatte soltanto nella periferia di Salh alDhin e intorno all’aeroporto), con le teste aperte, le ginocchia frantumate, le ossa rotte, di chi è stato ferito e ancora non si è deciso a morire e riempie di sangue e di urla il pronto soccorso. Un pronto soccorso che è poco più di una stanza sporca di rosso e di polvere, dove i dottori si affannano a ricucire, tamponare, chiudere, stringere di legacci e di filo quello che la carne mostra in tutta la sua impazzita nudità. Un ospedale di guerra è assai più di un ospedale. È un posto dove spesso si passa a morire, o – quando si è fortunati – si passa a lasciare un braccio, una gamba, anche tutt’e due le gambe. E io guardavo il disgraziato, poco più che un ragazzo, sporco di terra e della sporcizia di chi ha passato i giorni a combattere, che lo stavano tagliando per sperare di salvargli la vita. Una vita che, da ieri, per lui sarà per sempre diversa. Non ne so il nome, non posso dargli nemmeno la stupida popolarità d’una identità stampata sulla pagina d’un giornale straniero; ma certamente sarà una vita diversa. La giovane dottoressa che è venuta da Zawyia a portare il suo aiuto volontario aveva grandi occhi sbarrati di dolore; dirige un centro di pediatria e di psicologia infantile, non aveva mai visto nulla di simile. L’orrore le cambiava il volto, ma non piangeva. Si chiama Arabyia Gajun: «Non debbo e non voglio piangere, perché voglio poter sperare in un tempo migliore». Perché toglierle le sue illusioni? perché dirle che deve prepararsi a un tempo difficile, a molte amarezze, a un negoziato che il Cnt e Gheddafi stanno conducendo nella oscurità mentre continua la caccia all’uomo, e forse il Colonnello è nascosto sottoterra come Saddam, o forse è nascosto ancora nel suo bunker, o forse è a Sebha, o a Sirte, o forse anche si è mascherato – come sempre faceva che nessuno ora lo riconosce? Perché dirglielo? La guerra costruisce montagne di illusioni e di speranze, apre i cuori e gli animi, lascia immaginare una palingenesi dove tutto si rinnova, si pulisce, odora di buono. «Voglio che sia finito questo orrore», e mi ha portato in una stanza accanto, che era più o meno fredda come dev’essere un posto dove si tengono i morti a non puzzare troppo. Su quattro lettighe, coperte da un foglio di plastica, quattro cadaveri facevano intravedere divise di militari e facce vuote; ma accanto alla finestra c’era un congelatore, di quelli bassi e larghi che s’usano in casa quando si hanno molte provviste da salvare. «Aprilo, aprilo», mi incitava. Ho sollevato il coperchio, e dentro c’era il corpo di un soldato, ma con le gambe spezzate in modo innaturale, il corpo contorto per farlo stare dentro lo spazio angusto del congelatore, e la testa ruotata all’indietro di 180 gradi. Era un pupazzo sfasciato, ma un tempo era stato un uomo. «Doveva essere uno dell’Est europeo, Gheddafi lo ha fatto buttare qua dentro ancora vivo», e gli occhi sbarrati di quella faccia bianca di morte e di sofferenza, i capelli rossi d’un ucraino o d’un bulgaro, il dolore di uno spasmo bloccato in un lungo istante sospeso tra vita e morte, raccontavano un racconto che anche i lettori di un giornale devono imparare a conoscere come risultato della guerra. Sono andato allora a tentare di trovare almeno un respiro di misericordia, che rendesse più pulita questa giornata di schifezze e di orrore. E alle 2 del pomeriggio, dopo che il lungo richiamo del muezzin aveva riempito l’aria di echi mistici, mi sono affacciato alla preghiera del venerdì (il sermone della «domenica» musulmana), nella più importante moschea di Tripoli, quella del maulaya Mohammed. Ad ascoltare l’imam non c’era molta gente, sembravano le chiese vuote delle nostre domeniche secolarizzate (più tardi, un anziano signore, alto e altero, un ex ufficiale di Marina mi spiegava in inglese: «La gente non ci crede, che sia davvero finita con Gheddafi, hanno ancora tutti paura»). L’imam, giovane, la barbetta, gli occhiali ha parlato pianamente per un quarto d’ora, senza una retorica eccessiva, senza grandi sbalzi di tonalità. Ha raccontato che tutto quanto accade è volontà di Allah, che bisogna accettarlo, che dopo la tempesta viene il sereno. E che bisogna saper perdonare. Quando è sceso dalla scaletta gli ho chiesto: «Il progetto d’una nuova Costituzione chiede all’art. 1 che tutti i cittadini siano uguali, senza distinzione né di sesso né di religione. Lei è d’accordo?». Mi ha guardato, si è lisciato la barbetta, poi ha detto abbassando lievemente la testa: «Ma naturalmente, tutti uguali». Uomini e donne? gli ho chiesto. «Sì, uomini e donne». E musulmani e cristiani? gli ho chiesto ancora. «Sì, musulmani e cristiani». E si lisciava la barbetta. La guerra crea speranze e illusioni. Tutte le guerre, anche questa. da - http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/417108/ Titolo: MIMMO CÁNDITO Da Ustica all’atomica i segreti sepolti con lui Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2011, 06:04:07 pm Esteri
22/10/2011 - GHEDDAFI I MISTERI IRRISOLTI- RETROSCENA Da Ustica all’atomica i segreti sepolti con lui Dopo la sua scomparsa molti tirano sospiri di sollievo, a Oriente e Occidente MIMMO CÁNDITO Ancora non era nemmeno confermata la notizia che a Sirte lo avevano fatto fuori, che già il potere che ora in Libia comandava senza più oppositori metteva le mani avanti: «Noi non abbiamo mai dato l'ordine di ammazzare Gheddafi». I governi - quelli ufficiali e regolari quasi sempre, figuriamoci poi quelli autodefinitisi transitori - non mostrano molti pudori nel difendere pubblicamente le loro malefatte, contando sul convincimento che alla fine le verità istituzionali hanno una buona capacità di tenuta nel tempo; i "weakyleaks" arrivano sempre dopo, quando la memoria si è affievolita e, soprattutto, le regole del gioco e i suoi stessi protagonisti sono ormai cambiati. E allora, perché non credere a quanto dicono oggi e dicevano già ieri Jalil e soci? Loro, Gheddafi non lo volevano morto, proprio per niente, loro che fino all'altro ieri erano stati suoi corifei e accanto a lui ne avevano cantato glorie e sapienza. E certamente non lo volevano morto proprio per niente la Francia mistificatrice di Ustica, la Nato del comando regionale di Napoli, l'America bombardiera di Reagan e Clinton, il Pakistan di quel genio folle di Abdul Kader Khan, l'Inghilterra dell' Mi-6 di Blair e Gordon Brown, e anche l'Italia, naturalmente, l'Italia che va dal Craxi& Andreotti della Prima repubblica fino al Berlusconi&Frattini della Seconda. In più, certo, una lunga lista di nomi illustri e di nazioni orgogliose, e di bande armate, con, dentro, anche una cinquantina di capi di Stato africani, larga parte dei Raìss del Medio Oriente da Nasser fino a oggi, i servizi segreti di mezzo mondo dal vecchio Kgb alla Cia di sempre, e poi la galassia del terrorismo internazionale che negli Anni Settanta e Ottanta ma fino ai giorni nostri dell'integralismo qaedista ha avuto mani in affari e traffici che il Qaìd intrecciava inseguendo il suo sogno, la sua ossessione, di poter salire, un giorno, sulla poltrona dove sta seduto il più potente dei Potenti della terra. Un tale listone di Paesi e di capipopolo che coinvolge i destini e le fortune praticamente di ogni latitudine del pianeta può voler dire una cosa soltanto: che Gheddafi certamente su quella sedia tanto agognata non s'era potuto mai sedere, e però anche che in questi suoi 42 anni di potere assoluto aveva intanto intrecciato una rete così estesa e fitta di relazioni da poter comunque sopravvivere con tutte le sue folli ambizioni, pur in un mondo che mutava geneticamente. In quella rete ci stava di tutto, il baciamano di Berlusconi come i baci sulle guance di Blair, la tenda beduina montata su a due passi dall'Eliseo come le lettere affettuose che la Cia e l'Mi-6 indirizzavano a Moussa potente capo dei servizi segreti libici; non tutte erano uguali, queste storie, certamente, e però tutte avevano qualche ombra ben nascosta, qualche manovra o qualche traffico che era meglio non far conoscere. Solo che quella rete Gheddafi ora se la porterà via con sé nella tomba; e nella terra che ha coprirà quella tomba senza nome sarà sepolta anche la fitta sequenza di misteri, e di strategie politiche spesso inconfessabili, che il Qaìd vivo avrebbe invece potuto aiutare a svelare, con conseguenze che oggi, magari, farebbero fare sonni assai inquieti a molti dei potenti degli ultimi decenni. La sua forza, la fonte del suo potere e del suo sogno, era il petrolio, la manna inarrestabile che sgorgava dai pozzi della Cirenaica e della Tripolitania, offrendogli una munifica cassa continua con la quale comprare sudditanze, comparaggi, alleanze, servizi sporchi, strumenti di pressione d'ogni tipo, fino agli attentati più spregiudicati e alle stragi più indifferenti. E nello scorrere del tempo, questa cassa continua si piegava a strategie che il Colonnello cambiava senza apparenti problematicità, adeguandosi ai fallimenti, o comunque alle irresolutezze, che vedeva trasparire dagli ambiziosi progetti su cui di volta in volta aveva puntato. E se il primo progetto era stato quello dell'inseguimento del panarabismo di Nasser - un inseguimento nel quale, dopo aver buttato a mare la basi americane, aveva spinto fiumi di denaro verso l'Egitto e la Siria - subito dopo, vinta la delusione, aveva montato il nuovo progetto di un Terzo Potere, altro dal capitalismo e dal comunismo, fino ad approdare, in ultimo, a un panafricanismo che a forza di pagamenti cash costruiva una corte ubbidiente di capi di stato del Continente nero con cui reggere la sua ambizione di farsi Re dei re. In questo movimento scomposto, dove il disegno della destabilizzazione era la linea guida che pilotava le scelte tattiche, Gheddafi non poteva non urtare interessi consolidati, egemonie politiche e d'affari, equilibri strategici molto delicati, con la conseguenza che ogni atto compiuto in un simile territorio di poteri sensibili doveva misurarsi con una realtà di fatto e su questa intervenire, provocandone la reazione inevitabile. Nasce all'interno di questa dinamica l'uso strumentale che Gheddafi faceva di ogni movimento politico e di ogni forza d'opposizione militare ai poteri istituzionali, e da qui tutti gli episodi che oggi accompagnano la riflessione sulla sua morte «in guerra», nell'impossibile desiderio di recuperare finalmente la verità di quanto è accaduto, a Ustica, a Lockerbie, a Berlino, a Bab Al-Azizyia, nell'Irlanda ddell'Ira, nel Paese Basco, o anche in Afghanistan e in Pakistan. Ustica, il missile che abbatte un volo dell'Itavia nel cielo e nel mare di quell'isola, resta il simbolo più efficace e più significativo di questo intreccio di interessi strategici internazionali, e di mistificazioni politiche, che hanno accompagnato nella tomba, ormai per sempre, i «misteri» di Gheddafi. Il depistaggio continuo, gli atti spregiudicati di disinformazione, le menzogne ufficiali che coinvolgevano alti gradi militari del nostro paese, della Francia, del comando Nato di Napoli, sono pezzi d'una storia che s'è fatto di tutto - da chi poteva - perché non si chiarisse mai. In questa storia (che poi ebbe una coda in un caccia libico precipitato sulle terre di Crotone), Gheddafi, e un attentato contro di lui, sono rimasti sempre sullo sfondo, legando al destino del Qaìd di Tripoli interessi politici che paiono essere stati manovrati ben al di là del ruolo di Roma o di Parigi. Sotto questa storia, e sotto quella, per esempio, del volo di linea della Pan-Am esploso in volo sul cielo scozzese di Lockerbie, c'era certamente il ruolo di terrorista internazionale che il Colonnello si era scelto per favorire una destabilizzazione diffusa, che dal Mediterraneo e dalle logiche dei processi critici del mondo arabo si era poi spinta fino a Washington e alla Casa Bianca. Il bombardamento di Reagan sulla «reggia» di Bab AlAzizyia sta dentro questo stesso scenario, dove i morti americani della discoteca di Berlino sono solo il pretesto per una resa dei conti che con quei morti aveva solo una relazione indiretta. E sta sempre dentro questo scenario il progetto di Gheddafi di costruirsi la sua Bomba, utilizzando l'avidità commerciale d'uno scienziato pachistano, Abdel Karen Khan, che ha venduto materiale fissile e tecnologia nucleare a ogni angolo delpianeta. Ora che Gheddafi era diventato un «buono», consegnando agli americani i suoi piani nucleari, la rivolta di Bengasi fattasi rivoluzione ha fornito un buon pretesto agli interessi francesi (e non solo francesi) per togliere comunque di mezzo il Colonnello. Certamente, nessuno voleva ammazzarlo. Ma in guerra si muore, e può anche accadere che una morte «in guerra» metta sotto un metro di terra anche mille scomode verità. da - http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/425991/ Titolo: MIMMO CÁNDITO Vittoria impossibile se non si tratta con taleban e Pakistan Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2011, 05:56:03 pm 27/12/2011
Vittoria impossibile se non si tratta con taleban e Pakistan Il controllo del territorio è labile: nel 2014 si rischia il disastro MIMMO CÁNDITO A essere a Kabul, un mese fa, per la grande adunata della Loya Jirga, ci si trovava a girare con occhi ben aperti in una città blindata come non mai prima, l'esercito che pattugliava a muso duro le strade principali, i cecchini sui tetti dei palazzi attorno all’assemblea numerosi più delle formiche, mentre due giorni di chiusura obbligata d’ogni negozio facevano muto e vuoto lo scorrere della vita quotidiana. C’era un’aria di tensione che i 2000 grandi vecchi delle tribù dell’interno traversavano con una evidente inquietudine; era come se la guerra afghana fosse appena ai suoi primi giorni, e sono ormai dieci anni, invece, che la guerra dilaga in ogni angolo del paese, tra montagne e vallate che la Nato sostiene di controllare oggi con i suoi eserciti e con le sue tecnologie d'avvenire e dove, però, il controllo è soltanto una amara illusione che dura quanto la luce del giorno; poi, quando cala la notte, i taleban escono fuori dai loro rifugi inafferrabili e l'Afghanistan torna a essere la trappola mortale che da due secoli a questa parte inghiotte soddisfatta gli stivali stranieri e le loro ambizioni. C’è una drammatica contraddizione tra quanto si vede ufficialmente sul terreno e quanto passa, invece, nella costruzione mediatica di questo conflitto. Non che gli americani e la Nato non stiano dentro il corso della guerra, non che non continuino ad attaccare il nemico con aerei con droni e con le truppe a terra, non che non tentino di dirigere la battaglia verso una soluzione militare accettabile (qualcosa, insomma, che possa esser venduto come un pareggio e non una sconfitta); ma a viaggiare dentro l'Afghanistan si vede facile che questo formidabile impegno non appare adeguato a mantenere un equilibrio duraturo dello scontro, capace cioè di fissare una egemonia che corrisponda alle ragioni di quell’attacco lanciato da Bush sull’onda d’urto del 9/11 e diventato poi un impegno multinazionale di stabilizzazione dell’area Af-Pak. La Loya Jirga d’un mese fa era stata convocata per confermare una sorta di legittimazione politica nazionale del potere del presidente Karzai; c’era da superare il mezzo fallimento di quella del 2010, quando i taleban avevano preso a cannonate le tende della riunione (e questa volta, prudentemente, la convocazione è stata fatta al chiuso, al sicuro, sotto un solido tetto di cemento armato), e c’era soprattutto da dare all’«alleato» americano l'immagine d'una partnership credibile per la definizione della strategia che dovrà seguire il ritiro definitivo delle truppe straniere. Così, ai 2000 grandi vecchi che agitavano le loro barbe bianche Karzai ha raccontato che «l’Afghanistan è come un leone, un po’ vecchio, un po’ stanco, un po’ malato; ma un leone resta sempre un leone, e nessuno osa pensare di poterlo attaccare, perché sa che ne verrebbe sbranato». Forse Karzai esagerava. Ma il suo era un atto sostanzialmente dimostrativo, che doveva poi avere la propria ricaduta politica nella conferenza internazionale convocata in Germania per l’inizio di dicembre, giusto a dieci anni da quella che nel 2001 era sembrata celebrare il trionfo di Enduring Freedom e la sconfitta dei «seminaristi» di Omar e Bin Laden. La conferenza di Bonn è stata celebrata secondo calendario, e Karzai ha chiesto ai suoi interlocutori ancora 10 anni di appoggio economico, politico, e militare, dopo la chiusura ufficiale del 2014. Ma in sala non c’era il convitato di pietra di questa guerra, il Pakistan. E se si scomodano a discutere di come fare una pace quelli che la guerra la stanno facendo, e però poi i taleban e i servizi segreti dell’Isi restano fuori dalla porta, loro che sono quelli che la guerra all’Isaf e agli americani la fanno davvero, allora c’è da pensare che la realtà impone strategie nuove e scenari diversi. Allora, l’unica strada percorribile appare oggi quella del negoziato: trattare alla pari con i seminaristi inturbantati, concedendo qualcosa alle ambizioni territoriali di Islamadab e impiantando un equilibrio di fatto con le forze che combattono nelle varie regioni del paese, tra autonomie pashtun (coinvolgendo la Rete Haqqani) e autonomia tagika. Fare una guerra che è costata miliardi di dollari e decine di migliaia di morti e trovarsi poi ad avere nelle mani poco più del pugno di mosche non appare un gran risultato. Perché, se la cosiddetta da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9589 Titolo: MIMMO CÁNDITO Il Cile cancella dalla sua storia la parola dittatura Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2012, 09:41:41 am 6/1/2012
Il Cile cancella dalla sua storia la parola dittatura MIMMO CANDITO C’è da pensare che chi ha avuto, laggiù in Cile, questa bella pensata, di far grazia alla memoria di Pinochet, tentando di sostituire «dittatura» con una più pudica parola, «regime», non conosca nulla dell’ironia con la quale Manzoni fingeva di raccontare ai suoi 25 lettori che è «cosa evidente, e da verun negata, non essere i nomi se non purissimi accidenti». Sappiamo bene che le parole sono invece pietre, e che la loro scelta, la loro selezione, determinano assai più d’un astratto e inoffensivo «accidente»: creano realtà, conoscenza, identità. L’ipocrisia è la veste da camera della politica, addobba ciò che non si deve vedere, lo adorna, ne nasconde le brutture e le miserie. Almeno, in pubblico. Quando, nel silenzio ovattato dello Studio Ovale, il consigliere diplomatico comunicò al presidente Roosevelt che in Nicaragua i militari avevano appena fatto un colpo di Stato, e che quella era proprio una brutta storia perché a prendersi il potere era stato un lercio figuro, un trafficone che in pochi anni era passato da sergente a generale, insomma un autentico figlio di puttana, Roosevelt perse la pazienza per quel panegirico troppo malato di etica e di morale, e battendo il pugno sul tavolo che aveva davanti sbottò: «Sarà pure un figlio di puttana, ma si ricordi che è comunque il “nostro” figlio di puttana». Questo, però, nel chiuso della Casa Bianca. La politica coltiva i suoi «sons of a bitch», a ogni latitudine. E se la spregiudicatezza con la quale per larga parte del secolo passato Washington sollecitò, approvò, e resse, tutte le dittature che s’impiantavano a sud del Rio Bravo, dal cortile di casa del Centro America fin giù ai generali che, dalle parti di Baires, di Santiago, e di Montevideo, torturavano e ammazzavano a man bassa nel nome di Cristo e della Civiltà Occidentale, non molto di diverso, poi, è accaduto dalle nostre parti, dove soltanto di recente ci si è accorti che nel mondo arabo tutti i nostri «alleati», che per decenni avevamo coccolato per i buoni affari che ci consentivano di fare spartendo con noi i proventi d’ogni investimento, in realtà erano autentici «sons of a bitch», chi più chi meno, certamente, ma tutti della stessa categoria. L’operazione di pulizia d’un passato disonorevole è stata tentata molte volte, in America Latina, sostenuta da trasformazioni politiche che hanno sì mutato le istituzioni ma hanno anche faticato a impiantare una cultura della democrazia. Il processo del cambio si è attenuato tra le ragioni della «memoria» e quelle dell’«olvìdo», tra la conservazione della conoscenza e l’inevitabile tentazione dell’oblio. In Argentina si è andati avanti per anni con un amaro pendolo che oscillava tra leggi di amnistia e riaffermazione del diritto; così in Uruguay, e in Cile. Alla fine le ragioni del diritto hanno saputo affermarsi, pur con qualche titubanza; ma l’operazione che si sta tentando ora a Santiago è diversa: si è passati dal parziale recupero d’approvazione delle leggi economiche di Pinochet - tentando di innestare un nuovo «accidente», la definizione semi-assolutoria di dicta/blanda al posto della dicta/dura - per arrivare ora a proporre, del tutto, la cancellazione della identità politica di quel tristo periodo che va dal ‘73 al ‘90. Voler abolire per legge la specificità della «dittatura», trasferendola verso l’ambiguità del «regime», è un progetto che mira a cancellare l’identità d’una azione politica basata sulla violenza e sulla soppressione della libertà, per sostituirla con una più generica e anonima struttura nominale dell’esercizio del potere pubblico. Il 40 per cento dei cileni ha meno di 25 anni, ha dunque vissuto ogni giorno della propria vita - fin dall’atto stesso della nascita - in un tempo nel quale la dicta/dura era soltanto passato, storia, talvolta anche cronaca; a conservarne la memoria c’erano quelle lapidi grigie e quei nomi che stanno a pochi passi dal cancello d’ingresso del cimitero di Santiago ma, soprattutto, c’era un vissuto concreto, forte, reale, di larga parte del Paese, quale che fosse la scelta politica che questo avesse fatto. Oggi questa memoria di carne si è fatta meno forte, il progetto del ministro Beyer vuole cancellarlo; poi, forse, potrebbe venire il tempo per cancellare quei nomi e quelle lapidi grigie che stanno a pochi passi dal cancello del cimitero. Ancora oggi c’è sempre qualcuno che va a pulirle, a toglierli il velo di polvere, a bagnare qualche raro fiore portato senza nome: ma sono vecchi uomini e vecchie donne. Beyer osserva da lontano, e aspetta. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9620 Titolo: MIMMO CÁNDITO Le primavere e la libertà Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2012, 09:17:34 am 26/1/2012
Le primavere e la libertà MIMMO CANDITO E’possibile che non sorprenda («non fa notizia») che la classifica mondiale della libertà di stampa del 2011 abbia ai primi due posti la Finlandia e la Norvegia, e sbatta in fondo alla lista l'Eritrea, il Turkmenistan, e il Nord Corea. Sono posizioni, le prime e queste ultime, che si ripetono con costanza, anno dopo anno. Ma dovrebbe invece interessare la registrazione dei mutamenti dei Paesi del Maghreb, protagonisti di quella Primavera che ha cambiato profondamente il corso della storia dei popoli del Medio Oriente. I numeri nel listone dei 179 Paesi del mondo, non sono granché confortanti, stanno tutti schiacciati ancora nella parte bassa. E se la Tunisia, caso unico, guadagna 30 posti e risale dal 164 al 134, per gli altri ci sono scivoloni amari: l'Egitto perde 33 posti, va giù la Libia, non parliamo nemmeno della Siria che già era messa malissimo, precipitano Bahrein e Yemen, e perfino l'Iraq (che non è Maghreb ma sta comunque nella galassia araba) perde 22 posti per via dell'uccisione di 2 giornalisti e delle bombe e degli assalti contro i media locali. Insomma, tutto ciò che è stato raccontato in quest’anno appena passato, di una Rivoluzione che ancora non si realizza, d'una speranza disastrata da scontri di piazza, guerre civili, repressioni di un potere sempre più in crisi, finisce per riflettersi nella restrizione degli spazi informativi, che attraverso Internet erano invece stati l'autentico volano d'una dinamica inarrestabile. La contraddizione denuncia che il potere politico ch'era stato smantellato da una «rivolta informatizzata» ne ha colto bene il ruolo determinante, e con rapidità ha provveduto a bloccarne la pratica d'uso, attraverso la repressione militare dei media e l'arresto di blogger che pilotavano i flussi informativi di contestazione. Evidenziando quella contraddizione, ora la classifica di «Reporters Sans Frontières» registra anche la mutazione che assegna a Rete e Blog un ruolo sempre più centrale nella determinazione della conoscenza. Mettere a tacere, silenziare, spengere, per poter continuare a sopravvivere. Il riflesso arriva fino all'Italia - che scivola di 11 posti, al 61° - per via dei ripetuti attacchi che la «legge bavaglio» del governo Berlusconi intendeva portare alla circolazione delle informazioni, e si manifesta fin negli Usa, che precipitano dal 27 al 47, per gli arresti di 25 mediamen che coprivano le manifestazione di «Occupy Wall Street» e per progetti normativi che interferiscono con la libertà della Rete. Il mondo appare oggi meno libero di un anno fa; ma è un mondo che cambia, e ogni dinamica crea prospettive, opportunità. Il giornalismo può esserne strumento essenziale. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9695 Titolo: MIMMO CÁNDITO In Libia vince il fantasma di Gheddafi Inserito da: Admin - Luglio 13, 2012, 10:15:24 am 12/7/2012 - ANALISI
In Libia vince il fantasma di Gheddafi MIMMO CÁNDITO Potrà anche apparire come una beffarda ironia della Storia, ma la realtà è che questa sorprendente vittoria dei moderati in Libia è l’ultima eredità di Gheddafi. Si può legittimamente dire tutto il male che si vuole dei suoi 40 anni di violenze, tuttavia, quando vedremo sedersi sulla tribunetta del Parlamento non un barbuto seguace della Fratellanza Musulmana, ma un glabro signore di modi occidentali che, certamente, anche lui, ringrazierà Allah, e però poi farà riferimento ai valori della democrazia e al tempo nuovo che il suo Paese si appresta a vivere, ebbene, tutto questo lo dovremo a quel dittatore che aveva fatto della Libia un feudo personale. E’ politicamente scorretto trovare qualche traccia perfino positiva nella vita e nella eredità di un dittatore. Ma la “serendipity” è una straordinaria avventura della complessità del reale, e se Jibril e la sua Alleanza di forze moderate hanno ora potuto guadagnarsi la maggioranza dei consensi elettorali, questo risultato nasce anche dal processo di laicizzazione che Gheddafi aveva guidato nella costruzione della sua Jamahiryia. Le Primavere arabe hanno aperto un terreno di confronto dove, in ogni singolo paese, lo scontro più aspro ha sempre avuto come attore protagonista il movimento islamista: quale che ne fosse il nome, che si chiamasse Fratellanza Musulmana o Partito della Giustizia, era comunque un raggruppamento di forze, di personalità, di progetti, che puntava a raccogliere la maggioranza dei consensi grazie a una proposta che nel recupero politico della religione riusciva a sanare il vuoto identitario lasciato dal crollo dei vecchi regimi. In assenza di strutture politiche consolidate, e credibili, l’esercizio collettivo della pratica della fede era un rifugio dove i valori simbolici davano una confortante garanzia di fronte al rischio della palingenesi rivoluzionaria. In Libia, questo non è avvenuto. A Tripoli, come a Bengasi, a Sirte, o anche laggiù nella calura sabbiosa di Sebha, il richiamo del muezzin riempie ancora i silenzi del cielo per cinque volte ogni giorno, e il venerdì nelle moschee il sermone dell’imam trova sempre orecchie attente; ma i quarant’anni di gheddafismo hanno posto la religione al margine della vita sociale, sostituendola con un costume che – pur senza ignorare l’Islam – privilegiava uno stile di vita tentato dalle abitudini e dalle fascinazioni del modernismo consumista. La caccia del regime a qualsiasi conato di formazione politica religiosa è stata spietata, e se pure a Derna, nel cuore antico della Cirenaica, s’era formato uno dei nuclei più intransigenti del jihadismo (la componente nazionale più numerosa del terrorismo qaedista è stata quella libica, in proporzione alla ridotta dimensione demografica del paese), un minimo di sospetto era sufficiente per finire i propri giorni nelle galere di Gheddafi. Bastava comunque vivere le battaglie della Rivoluzione del 17 febbraio tra le file dei giovani twarr, un anno fa, dovunque, ad Ajdhabya come a Misurata o nella stessa Tripoli in rivolta, per capire subito come il grido che accompagnava la loro guerra – Allah u-akhbar, Allah è grande - non fosse per nulla un inno religioso, ma soltanto l’impeto liberatorio di una identità che accomunava clan, tribù, etnie, radici localistiche. E se pure qualcuno degli shebab rivoluzionari talvolta s’inginocchiava verso la Mecca, quella guerra era comunque anche per lui una guerra «laica», di libertà e di riscatto. Due sono le componenti, sociali e politiche, che hanno retto la costruzione culturale di questo laicismo libico: un reddito relativamente alto, grazie ai proventi del petrolio, e una sorta di statalismo che nella fantasiosa struttura della Jamahiryia pilotava i rapporti tra il potere e la vita quotidiana. Naturalmente, tutto questo non vuol dire che Jibril non sia un fervente musulmano, né che dell’Islam non terrà conto nella costruzione del governo; ma la sua vittoria è anche la vittoria della complessità del reale nella vita dei popoli. Che sopravvive anche quando le rivoluzioni ne cambiano il corso. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10322 Titolo: MIMMO CÁNDITO La storia è più lenta delle illusioni Inserito da: Admin - Settembre 16, 2012, 04:40:06 pm 15/9/2012
La storia è più lenta delle illusioni MIMMO CÁNDITO Ma possibile che questa dannata velocizzazione che sta portandosi via il fiato da dentro l’anima del nostro vissuto, possibile che intorbidi davvero il nostro cervello, che ci impedisca ormai di ragionare, di riflettere? Viviamo in affanno, ogni fatto si consuma in un brillìo rapido, leggiamo e cataloghiamo come una folgore ogni fotogramma della Storia, ma non siamo più capaci di seguire pazientemente l’intera sua sequenza. Come scrive Zigmunt Bauman, ormai viviamo schiacciati dentro un tempo puntillistico, ogni punto chiuso in sé, isolato, quindi anche insignificante, debitore insolvente della dimensione del tempo. Meno di due anni fa, la Primavera araba ci ha incantato e affascinato, vi vedevamo il trionfo dell’illuminismo della nostra civiltà; e davamo per acquisito quello che invece stava appena nascendo. Era stata la Tunisia, a partire; poi era arrivato l’Egitto, poi lo Yemen, il Bahrein, poi la Libia, si muovevano folle in Algeria, in Libano, in Giordania. Sbocciava la democrazia, e una primavera era già diventata estate. Ci sbagliavamo, certo; proiettavamo sull’altra sponda del Mediterraneo le nostre illusioni. E oggi che anche laggiù le illusioni devono misurarsi con la spigolosità cruda e dura della realtà, allora passiamo subito al nuovo fotogramma, quello del fallimento, della delusione amareggiata, anche del giudizio saccente sulla inferiorità delle altre civiltà. La Primavera che già è morta, perché come si vede dai giornali essa è impossibile a quella latitudine: «quelli» sono arabi. La Storia è paziente, non ha fretta. Anche la democrazia è paziente, deve esserlo, perché deve conquistare le menti, il costume, il senso comune, le abitudini irriflessive. Ci vuole tempo, e arabi e europei allo stesso modo – pur con le loro incontestabili differenze – devono cedere al Tempo il dominio dello sviluppo delle cose. Sotto lo stupore disperato del massacro siriano, sotto la nuova insofferenza delle masse egiziane, sotto l’esplodere angoscioso dell’assalto di Bengasi, stiamo già passando al fotogramma del fallimento della Primavera, e abbiamo dimenticato quanta incertezza, quanti turbamenti, quante retromarce, quanta violenza anche, hanno accompagnato la nascita e il consolidamento della democrazia in quei paesi dell’Est europeo che per mezzo secolo avevano fatto da satelliti al sol dell’avvenire sovietico. E abbiamo dimenticato anche quante cronache amare ha dovuto raccontare, e quanto sangue, il lungo rientro alla democrazia delle dittature mediterranee, la Spagna di Franco, il Portogallo di Salazar, la Grecia dei colonnelli. Anche il nostro stesso paese. Che pur erano tutte, o quasi tutte, società nelle quali il sentimento della libertà individuale aveva comunque radici, un costume, una cultura. In un suo editoriale di ieri, l’«Economist» scriveva di ciò che sta accadendo dal Mediterraneo al Golfo - come di una «disfunzione araba». Ne elencava doverosamente i fatti tragici di questi ultimi mesi, i morti, le guerre, la violenza; le speranze deluse. Però riconosceva poi che «gran parte del mondo arabo eppure va nella direzione giusta», e questo perché l’analisi non si fermava al fotogramma ma teneva lo sguardo lungo. Vi è comunque, e conta certamente, un elemento di diversità, tra quanto sta accadendo in questa transizione araba e le transizioni delle democrazie europee. Il fattore religioso. La pace di Westfalia aprì un tempo nuovo in Europa, ma una Westfalia non sta nella mappa del Medio Oriente; l’uso politico della fede religiosa inquina e intorbida i processi di modernizzazione, blocca l’evoluzione laica (liberale, dunque, illuminista) delle società, ne tarda la sedimentazione, appiattendo sui dogmi della fede gli stessi processi identitari «nazionali». La Primavera araba aveva anche un bisogno collettivo di libertà ma, soprattutto, aveva un bisogno collettivo e individuale di riscatto sociale, di conquista d’una quieta vivibilità economica, della uscita dalla desolazione antica dei «dannati della terra». Di tutto questo, finora si sono avute soltanto parcelle, significative ma alla fine insufficienti: la libertà si è quasi sempre fermata sulla soglia del processo elettorale, e il desiderio di star meglio, di avere un lavoro, una speranza, di farsi finalmente borghesia, si è arenato nella cacciata delle vecchie consorterie di potere. L’elemento identitario della religione è allora apparso a molti il fattore con cui puntare a recuperare la capacità d’incidere su un processo che si stava esaurendo. E però, ugualmente, continuare a voler aiutare il mondo arabo – la stragrande maggioranza del mondo arabo – nella sua lenta, difficile, costruzione di una società democratica non è soltanto una scelta illuminista; è anche una scelta di Realpolitik. Facciamo i conti di quali vette insostenibili raggiungerebbe il prezzo del petrolio se davvero Israele attaccasse il nucleare iraniano, e comprendiamo subito di come il ragionare con calma, non la velocizzazione, non il puntillismo, aiutino a leggere correttamente la sequenza su cui si dispongono i fotogrammi della Storia. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10529 Titolo: MIMMO CÁNDITO Le piccole verità che mettono in scacco i regimi Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2012, 03:26:56 pm Editoriali
06/10/2012 Le piccole verità che mettono in scacco i regimi Mimmo Cándito C’è un’ ossessione inquieta che accompagna sempre, e straluna, i giorni agri dei regimi, quale che sia la bandiera sotto la quale le loro liturgie chiedono di identificarsi. E’ l’ossessione del disvelamento, della rottura semantica del «logos» dentro cui mascherano la loro identità. Da sempre questa ossessione è stata proiettata simbolicamente sulle pagine dei giornali. E se, oggi, si va passando sempre più all’autonomia selvaggia della Rete, dove non necessariamente sono i movimenti ideologici organici a tentare lo sfregio ma, piuttosto, e frequentemente, la voce dell’Uno che narra soltanto il sé del pensiero e della ribellione, questo non muta affatto il senso della relazione tra potere e verità. Anzi, i regimi devono piegarsi a contorcimenti di cui non hanno costume, e che li trascinano nelle pieghe di coperture pateticamente anacronistiche. Yoani Sánchez, la blogger in carcere all’Avana, propone con compiutezza estrema la dimensione di questo problema. Il suo ruolo, di narratrice d’una realtà quotidiana piccola, minuta, microcosmo variegato d’un vissuto collettivo che in pubblico deve mostrarsi sempre rispettoso dell’ufficialità ideologica, trasforma alla fine i piani della rappresentazione, trasportando verso una caratterizzazione globale il significato dei fatti che racconta dal basso. Questa dimensione personale, fotogrammi scontornati d’ogni impianto relazionale con le grandi problematiche del potere, si sottrae al giudizio dello scontro politico; appare manifestazione quieta d’un «neorealismo» in bianco e nero dove mai vengono sventolate le bandiere della rivolta e mai il regime può trovare ragioni per denunciarne un intento destabilizzatore; e però la ricostruzione piana della realtà, la sua quotidianità difficile, i suoi piccoli drammi, i suoi tormenti consumati nella privatezza di storie senza qualità, finiscono per guadagnarsi un più alto piano espressivo, che negli spaccati di vita comune ingloba un incontestabile giudizio sul sociale e sul politico. Per i regimi, abituati alla repressione dei media tradizionali, diventa più difficile imporre il conformismo ora, quando il blogger si muove a livello del marciapiede, camminando tra le gente, ascoltandone le parole comuni, raccontandone i malumori, le speranze, le frustrazioni. In Egitto, in Tunisia, a Teheran, ora a Cuba, la risposta dei regimi alla sfida delle emozioni private raccontate nella blogosfera si mostra spesso impacciata, costretta a mascherare sotto altre accuse l’impianto che destabilizza il potere. Vi sono tuttora le forme canoniche della repressione, il controllo dei media come in Venezuela o in Russia, e la violenza sui giornalisti; però sbattere in galera un blogger che racconta quanto sia difficile comprare una pagnotta, o aiutare un vicino a sbrogliarsi i problemi quotidiani, impania i guardiani del regime, e li lascia a mani nude. E’ la rivoluzione in bianco e nero, Zavattini e Blasetti per le strade dell’Avana e di Teheran. da - http://lastampa.it/2012/10/06/cultura/opinioni/editoriali/le-piccole-verita-che-mettono-in-scacco-i-regimi-jJvcry6LMdblMBuiYBiBmJ/index.html Titolo: MIMMO CÁNDITO La rivolución avanza, ma a piccoli passi Inserito da: Admin - Novembre 19, 2012, 09:12:54 pm Editoriali
19/11/2012 La rivolución avanza, ma a piccoli passi Mimmo Cándito Andate a Miami, se davvero volete sentire la febbre di Cuba. Ma non andate a Calle Ocho, che è sempre più per turisti; no, no, andate nei quartieri d’affari di Downtown, tra i grattacieli di vetro che specchiano l’avenida Brickell, oppure a Miami Beach, lungo Ocean Drive e la Washington; e lì davvero si sentirà il peso e il ruolo che ormai hanno i cubani della terza generazione, la finanza che controllano, le poltrone di sindaco e di presidente della contea che posseggono quasi per diritto, i soldi facili che smerciano tra boutiques rutilanti e alberghi di fascinosa sapienza decò. Sono loro, questi cubani che sono cubani nella faccia e nel nome ma sempre più yankee nel passaporto e nel potere, sono loro con i loro soldi investiti dall’altra parte di Key West a dire quanto vera – e però anche quanto lenta – sia la nuova revoluciòn che Raúl sta pilotando per le strade di Cuba. Loro, con tutto questo potere e tutta la voglia di rivincita, si stanno preparando a riappropriarsi della «loro» isola perché sanno bene che il vento sta girando, ne seguono le cronache, mandano laggiù milioni di dollari con spericolate triangolazioni finanziarie, fanno ogni giorno migliaia di telefonate all’Avana per sapere, contrattare, allacciare nuovi rapporti; ci puntano, però sanno anche che il tempo è lento. È un tempo che non torna indietro, questo è sicuro; ma a chiamarlo «revolución» bisogna usare la «r» minuscola. Prendiamo la blogger Yoani Sánchez, che ha già la valigia pronta, da quando – il 16 ottobre – il nuovo Líder (semi) Máximo ha tolto il divieto a espatriare. Ma Yoani deve aspettare ancora due mesi, e poi forse partirà. Forse. Perché la nuova revolución fa proclami e lancia solenni segnali, però poi – nella concretezza della vita quotidiana – i proclami e i segnali si sgonfiano tra le pastoie della burocrazia, le lentezze esasperanti di un sistema anchilosato, anche la paura che il cambiamento introdotto si trasformi in una valanga incontrollabile. E allora, bisogna aspettare. All’ultimo congresso del Pcc erano state annunciate 313 riforme, davvero una Revolución; e non erano nemmeno le prime: qualcuna ha funzionato, qualcuna rantola, ma comunque la Cuba di Raúl sta certamente cambiando faccia. Libera (nei fatti semilibera) compravendita di case, libertà (sotto condizione) di acquisto di un’automobile, comunque più d’un milione d’ettari di terre date in usufrutto a 146 mila contadini, licenze di negozi e artigianato concesse a 340 mila lavoratori autonomi, licenza di tenere un ristorante o fare l’affittacamere, rimesse più facili di denaro dall’estero, nuovi permessi di rientro di parenti dagli Usa, facilitazioni più ampie per gli stranieri. Tutto si scuote, vacillano vecchie abitudini, ma nascono anche delusioni e malumori nuovi. Ma, dopo un regime che ha governato e controllato tutto per più di 50 anni, la ruggine d’un potere e d’un costume che premiavano esclusivamente il silenzio e il conformismo fatica a scrostarsi, e tutto si fa faticoso, lento, sempre incerto. Dicono che a Cuba la Russia e il suo comunismo non contano più, che questo è il modello cinese, l’interscambio commerciale con la Cina è passato dai 400 milioni di dollari del 2000 ai due miliardi di dollari dell’anno scorso. Si cambia con prudenza, dice il modello cinese; poi, in realtà, a Pechino, le cose vanno assai meno lente che a Cuba, dove il progetto inevitabilmente è artritico. Comunque, all’Avana ha aperto una sede l’Istituto Confucio: è boom di iscrizioni, sono già un migliaio i cubani che vogliono imparare il mandarino. da - http://lastampa.it/2012/11/19/cultura/opinioni/editoriali/la-rivolucion-avanza-ma-a-piccoli-passi-CZckbc8V8h6ECrQckrQgbL/pagina.html Titolo: MIMMO CÁNDITO Anche 25 milioni di curdi rivendicano una Patria Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2012, 06:42:58 pm Editoriali
01/12/2012 Anche 25 milioni di curdi rivendicano una Patria Mimmo Cándito Son piombate con un turbinio sfrenato di emozioni fin dentro il cuore antico della Mesopotamia, le feste che stanno impazzando a Gaza e Ramallah. La Palestina è laggiù, quasi sulle sponde del Mediterraneo, lontana dalle montagne di Erbil, dalle terre aspre di Dyarbakir, dai pascoli verdi che s’allungano nel nord gelato dell’Iran, lontana anche dalle bombe di Aleppo e dai signori della guerra siriana. Ma da quando, ieri, la bandiera della nuova Palestina si abbandona orgogliosa e legittima al vento freddo dello Hudson, anche a Mosul, Erbil, o Dyarbakir, soffia un vento nuovo. Che non è ancora quello di New York, ma basta comunque a riaccendere fuochi ardenti di speranza. Sono i fuochi del Kurdistan, il fantasma deluso d’uno Stato che tra il ’20 e il ’23 nacque senza mai nascere e però ora vede farsi concrete le illusioni che, ancora dopo un secolo, stanno piantate con forza dentro il cuore della sua gente. Se sono in 5 milioni i palestinesi che hanno ottenuto un primo riconoscimento delle loro attese, i curdi – che sono 25 milioni – trovano nel voto dell’Onu ragioni ancora più forti per rinnovare la loro rivendicazione d’una patria che sia anche uno Stato. I numeri non sono la storia e nemmeno la forza del diritto, ma anch’essi contano, hanno un peso, impongono scelte, determinano alleanze politiche e, magari, aprono conflitti. E per il Kurdistan i numeri non rappresentano una geografia limitata, comunque omogenea, come per la Palestina, ma invece strappano via frontiere consolidate, storie nazionali, poteri governativi di difficile composizione: quei 25 milioni di curdi vivono, infatti, e sognano una loro patria, divisi tra i 14 milioni di curdi turchi, i 5 milioni di curdi iracheni, i 5 milioni di curdi iraniani, e il milione scarso di curdi siriani. Frantumare le storie politiche di questi paesi per ricompattarle in un unico nuovo spazio omogeneo che dovrebbe avere il nome, appunto, di Kurdistan sarebbe per la storia di quell’area più distruttivo di una gigantesca bomba atomica. Forse farebbe meno vittime dirette, ma certamente imporrebbe il progetto armato (certo, le armi che già sparano in Turchia) d’un sisma che allargherebbe la sua sconvolgente onda d’urto in ogni angolo del pianeta. La vittoria diplomatico/militare dei palestinesi (sia pure nei limiti reali che gli equilibri strategici del Medio Oriente le impongono) è destinata comunque ad avere una ricaduta diretta sulla intera cosmogonia dei nazionalismi riaccesi nella crisi identitaria provocata dalle fratture della mondializzazione. Pensiamo al «genocidio armeno», che tuttora crea rancori profondi tra la Turchia e molti paesi d’Europa, pensiamo alle guerriglie nazionaliste in tante parti dell’Asia, pensiamo al Tibet che tanto inquieta Pechino, pensiamo al Kashmir, pensiamo anche a ciò che sta accadendo in Catalogna o che segna ampia parte della vita politica basca. I processi della storia non sono segnati solo dalla razionalità, subiscono spinte e trasformazioni che spesso provocano conseguenze imprevedibili. Moisi ha raccontato di una «geostrategia delle emozioni», dopo il «clash» delle civiltà immaginato da Huntington. Ci siamo dentro, ma a contare sarà sempre il ruolo delle armi. da - http://www.lastampa.it/2012/12/01/cultura/opinioni/editoriali/anche-milioni-di-curdi-rivendicano-una-patria-Z9CDQvAzTnTUY4q7P4gkfK/pagina.html Titolo: MIMMO CÁNDITO Il “cubano” e il “militare” La sfida all’ombra del lutto Inserito da: Admin - Marzo 09, 2013, 12:08:07 am ESTERI
07/03/2013 - personaggi Il “cubano” e il “militare” La sfida all’ombra del lutto Maduro vuole legami con l’Avana, Cabello invece un Paese più forte e autonomo Mimmo Candito E’ soltanto la faccia ufficiale del Venezuela, questa che le tv d’ogni parte del mondo ci stanno dando nel loro intenso racconto d’una morte annunciata, la faccia d’un pianto esposto pubblicamente a segnare il lutto corale d’un intero popolo che ha perso il suo Comandante. Ma, a guardar bene dentro quelle immagini, questo popolo in lacrime - indios, meticci, militanti della «revolución bonita» in divisa - è poi soltanto una parte di quel miscuglio di storie, di razze, di nazionalità, d’interessi, che fa il Venezuela d’oggi, perché nelle inquadrature tutte uguali, nelle parole tutte simili d’una disperazione comune, appare vistosamente che però mancano la facce dei «bianchi», quella borghesia «compradora», speculatrice, arraffona, che s’era pasciuta a dovere della corruzione che un tempo dominava la spartizione di Miraflores, e che è la stessa che ha sempre votato contro Chávez, che lo ha odiato a morte fin dal primo giorno, che gli ha organizzato contro sabotaggi, scioperi, perfino un golpe con tanto di appoggio Usa. Il Venezuela del giorno dopo è un paese diviso in due con la prevalenza ancora dei chavisti e però con quelli «contro» che nei loro palazzi ben serrati, ora si preparano a organizzarsi la rivincita. C’è da disegnare una strategia, organizzare un piano che sappia sfruttare il vuoto di potere (psicologico più ancora che politico) che sempre accompagna la scomparsa dell’Uomo forte; ed Henrique Caprìles, il giovane leader dell’opposizione, lo stesso che Chávez ha battuto al voto quattro mesi, ha lanciato un appello alla «unità della famiglia venezuelana»; è una buona mossa di sagacia politica, distendere gli animi, mostrare la stoffa dell’uomo di Stato, far dimenticare tutti i traffici sporchi e le manovre golpiste dei più oltranzisti tra i nemici del Colonnello. E però c’è anche dell’altro che le telecamere non mostrano e non possono mostrare perché è il tessuto intrecciato e inestricabile delle fazioni che compongono la storia del chavismo, dove la lotta per la conservazione dei privilegi e della gestione d’affari si era irrigidita già dopo le prime notizie della gravità del tumore del Comandante e che però dopo la morte ufficiale sta ormai misurando una tensione pronta a scatenarsi. Ci sono micropoteri che il regime aveva coltivato in ogni snodo della macchina burocratica che il chavismo aveva organizzato nella lunga fase della sua occupazione dello Stato, e sono piccole strutture che convivono senza farsi troppi danni nella concorrenza di un esercizio quotidiano del sottogoverno, le istituzioni pubbliche, il comparto petrolifero, le cooperative, la spartizione dei sussidi e dell’aiuto pubblico; ma ci sono anche - e questo è il grumo nel quale s’invischia il futuro del regime - le due grandi fazioni che spaccano a metà il chavismo. Da una parte stanno «i cubani», quelli che guardano all’Avana con un legame stretto d’interessi comuni e di prospettive politiche e ne coltivano le relazioni contando sull’appoggio della folta presenza di agenti e di uomini dei servizi inviati a Caracas dai Castro; li guida Nicolás Maduro, il vicepresidente, l’uomo di fiducia di Chávez, il suo compagno di sempre, l’ex autista di bus che ha saputo costruirsi una storia pubblica e un futuro creando una rete di amicizie e di favori che la cogestione del potere gli facilitava senza troppi problemi. Dall’altra stanno quelli delle forze armate, l’esercito anima e scheletro del chavismo, interprete fedele e rispettoso del progetto politico del Comandante, suo esecutore puntuale, sostenuto da un forte spirito nazionale e dal convincimento che il Venezuela abbia a difendere in autonomia un ruolo rilevante nelle strategie globali del subcontinente; li guida Diosdado Cabello, presidente del Parlamento, che ha dalla propria parte la legittimazione che gli arriva dall’essere la seconda carica istituzionale dello Stato e dall’avere una storia politica di lungo corso, compagno di Chávez già dal tentato golpe del ’92. Fisicamente diversi, più popolano e massiccio Maduro e più molle e borghese Cabello, tra i due non corre buon sangue, per la concorrenza aspra che già li divideva all’ombra del Comandante, ma anche per le troppo voci di traffici che Cabello appariva gestire in modo disinvolto, servendosi del potere e infischiandosene delle perplessità che lo accompagnavano. All’annuncio ufficiale della morte di Chávez, Cabello ha immediatamente ordinato la mobilitazione dell’esercito, «a difesa dell’unità della patria e contro le manovre dei nemici del paese»; nello stesso tempo, Maduro ha messo in condizioni di allerta le formazioni politiche (e le strutture paramilitari) che costituivano l’ossatura pubblica del potere chavista. Difficile immaginare uno scontro, in questi giorni di lutto e, soprattutto, di vigilanza; difficile anche immaginare che qualcuno degli «esqualidos» voglia saltare al di là dell’esortazione all’«unità della famiglia venezuelana» lanciata già dal primo momento nel tweet di Capriles. L’attesa si consumerà scrutando quali siano le mosse dell’avversario. Ma non potrebbe essere altrimenti: scomparso il Capo, bisognerà vedere nel concreto chi abbia più forza e chi più spregiudicatezza. Nelle inquadrature delle televisioni, tutto questo non si vede; però è il vero Venezuela del dopo Chávez. da - http://lastampa.it/2013/03/07/esteri/il-cubano-e-il-militare-la-sfida-all-ombra-del-lutto-0Z6y1HVGSczsQg6f1ItpEI/pagina.html Titolo: Mimmo Cándito. Le tre spade di Damocle Inserito da: Admin - Settembre 03, 2013, 05:05:03 pm Editoriali
02/09/2013 Le tre spade di Damocle Mimmo Cándito Un vecchio proverbio arabo ammonisce: «Non accendere mai un fuoco quando il vento soffia. Potresti bruciarti». La Siria oggi è un fuoco bastardo, brucia che controllarlo diventa pericoloso, perché non sai da che parte vada a soffiare il vento. Obama, però, quel proverbio mostra di averlo appreso troppo tardi, e il rischio di non poter controllare l’escalation della guerra gli sta addosso, rendendolo ancor più titubante di quanto ormai lo accusi larga parte dei media americani. Infatti, da qualsiasi parte si osservi quanto sta avvenendo sul terreno, ci s’imbatte ovunque in focolai potenziali di deflagrazione; e sebbene siano ancora in pochi a richiamare similitudini che ricordino la crisi dei Balcani all’inizio del secolo scorso - la crisi che poi portò alla Prima guerra mondiale - non c’è dubbio che una ulteriore drammatizzazione del conflitto siriano, quale si avrebbe con l’attacco missilistico americano, richiamerebbe sul campo tutti gli attori che potrebbero finire per allargare in termini alla lunga incontrollabili quella che tuttora resta, comunque, una crisi regionale. Chiunque abbia viaggiato per il Medio Oriente e la sua lunga storia di conflitti conosce quanto sempre si ripete in quelle capitali: che non c’è guerra possibile nelle terre della Mezzaluna se non vi sia coinvolto l’Egitto - perché l’Egitto per la sua dimensione politica e demografica e per la sua storia ha una indiscussa centralità nel mondo arabo - e che però non c’è pace possibile nelle terre della Mezzaluna se non vi sia coinvolta la Siria, perché da sempre la collocazione geografica, l’asprezza del suo regime, la sua minacciosa contiguità con Israele, le danno in mano le chiavi con cui serrare la destabilizzazione dell’area che si aprì nel secolo scorso con la nascita dello Stato ebraico. Quanto sta avvenendo in Siria ormai da due anni ha profondamente trasformato il profilo iniziale dello scontro militare sul terreno; e se in principio lo sfondo delle Primavere arabe raccoglieva in termini credibili la rottura tra un regime autoritario e la sopportazione d’una parte della sua società, oggi a quella guerra diciamo di democrazia si sovrappongono altre due o tre guerre, di etnie (gli alawiti contro gli altri gruppi locali), di religione (i sunniti dell’Islam contro gli sciiti), di terrorismo (le infiltrazioni di Al Qaeda che punta strumentalmente a fare della Siria il nuovo Afghanistan), soprattutto di potere (l’Iran che, passando attraverso il Libano, punta a realizzare con la Siria un conglomerato «rivoluzionario» capace di destabilizzare l’equilibrio dell’intera regione per diventarne il nuovo dominus; non a caso l’Arabia Saudita interviene ormai pesantemente nel conflitto e comunque già da tempo i regni e gli sceiccati del Golfo discutono apertamente di una possibile dotazione nucleare, in termini evidentemente anti-iraniani). Se tutto questo è già avvenuto mentre sul terreno gli attori che intervenivano erano comunque quelli che con qualche approssimazione è possibile definire «locali», e si mantenevano al margine le componenti extraregionali (Washington e Mosca influivano certamente sullo svolgimento del conflitto, con armi e assistenza militare, ma il loro ruolo non incideva direttamente sulle operazioni belliche), una volta che invece gli Usa decideranno di mettere in pratica quello che Obama ha ormai apertamente proposto come scelta dovuta del suo Paese, appare inevitabile che lo scenario muti ulteriormente, e in misura che è davvero difficile immaginare senza rischi incontrollabili. I fattori di destabilizzazione (quasi le «piaghe» di cui ammoniva Mosè) sono tre. Il primo è l’attivazione di un esteso programma terroristico, che coinvolga, ben al di là delle frontiere siriane, i Paesi europei e gli Usa. La rete antiterroristica del mondo occidentale è oggi ben solida e strutturata, ma - come ha dimostrato l’attentato alla maratona di Boston - la capacità di infiltrazione delle cellule e dei militanti jihadisti può superare qualsiasi sbarramento. E un futuro di nuovo molto amaro si aprirebbe per il nostro mondo. Secondo fattore di destabilizzazione è la probabile reazione iraniana. Teheran non nasconde affatto il proprio ruolo attivo nella guerra siriana, né cela le ambizioni di potere che muovono dal khomeinismo e dal suo programma nucleare in fase ormai di completamento. L’attacco americano sulla Siria suonerebbe come una sfida diretta, alla quale l’Iran non potrebbe non opporre una risposta dello stesso livello: e qui si va su una lista di possibili tattiche di contrasto che vanno dalla chiusura dello Stretto di Hormuz (con tutte le immaginabili implicazioni sul mercato del petrolio e sulla accentuazione della crisi economica dell’Occidente) a un pesante attacco missilistico di Hezbollah contro Israele, accompagnato da operazioni siriane che muovano dalle alture del Golan. Diventerebbe allo stesso modo inevitabile la reazione di Tel Aviv, e l’escalation toccherebbe tanto il Libano quanto l’Iran, con l’attacco diretto sulle installazioni nucleari e un possibile coinvolgimento di altri Paesi musulmani. Terzo fattore di destabilizzazione è il ruolo che la Russia si troverebbe costretta a svolgere. Sebbene siano oggi operative nel Mediterraneo alcune unità navali russe, non appare credibile che questo comporti un loro intervento diretto contro la VI Flotta, perché l’azzardo comporterebbe inevitabilmente l’esplosione, davvero, della Terza guerra mondiale. Putin sta giocando con comprensibile spregiudicatezza la carta che Obama gli ha offerto, e sfrutta in termini politicamente propagandistici le difficoltà nelle quali il governo americano si trova a doversi districare. Ma, da questo, ad arrivare a un confronto militare diretto con gli Usa ci sta di mezzo assai più della crisi siriana. Tuttavia, la Russia può sicuramente approfittare dell’attuale debolezza tattica americana per guadagnarsi uno spazio politico - tattico e strategico - negli attuali equilibri mondiali, confortando le proprie ambizioni di recuperare un credibile ruolo di competitor globale degli Usa e guadagnando, non solo nel Medio Oriente, un ruolo potenziale di partner forte, serio, comunque alternativo (il vecchio ruolo della vecchia Unione Sovietica). I tre fattori non sono alternativi l’uno all’altro, e una loro congiunzione cambierebbe per un lungo tempo a venire la storia del nostro stesso stile di vita. Quando gli arabi ammonivano con il loro antico proverbio, una saggezza antica accompagnava le loro parole. Il fuoco ormai è stato acceso, e brucia; rischiamo tutti di bruciarci alle sue fiamme. da - http://lastampa.it/2013/09/02/cultura/opinioni/editoriali/le-tre-spade-di-damocle-OWdtXzPcca2dfgWEWc44BP/pagina.html Titolo: MIMMO CÁNDITO La Libia è una guerra per bande 250.000 miliziani goverano Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2013, 05:22:32 pm 12/10/2013
La Libia è una guerra per bande 250.000 miliziani goverano Mimmo Candito Ma come stupirsi, se ieri alle prime luci dell'alba, a Tripoli, un centinaio di miliziani armati che parevano bardati per la guerra atomica hanno tirato giù dal suo letto il premier, e se lo son portato via, in brache e camicia, le pantofole ai piedi, ancora mezz'addormentato, tra uno sgommare di fuoristrada impazziti e grida esultanti di “Allah u-akbar”. Come stupirsi, nella Libia d'oggi, dove non passa giorno che i titoli dei media non raccontino di almeno un morto ammazzato in qualche sparatoria tra bande rivali, o d'un sequestro di qualche malcapitato che faceva il politico. Certo, i tanti malcapitati senza nome contano poco, ormai appena una notizia in prima, ma se il malcapitato è invece il capo del governo, Ali Zeidan, la faccenda appare allora più drammatica, e si può anche capire perchè perfino la Nato subito abbia fatto vedere i muscoli e abbia rassicurato: se serve, noi siamo qui. In Libia si sta combattendo una vera guerra per bande; ma non di quattro disgraziati che s'ammazzano tra loro, no, qui la guerra è una storia seria, di dimensione gigantesche, con 250 mila uomini inquadrati come solo gli eserciti fanno, stipendiati dai vari Ministeri, per “tenere l'ordine” ma in feroce concorrenza tra di loro, più un altro milione forse che – anche se non fa il miliziano di professione – comunque il kalashnikov lo tiene ben oliato sotto il letto, e lo tira fuori, e lo usa senza risparmio. Ai tempi di Gheddafi, la Libia era una specie di immenso deposito d'armi, c'erano più armi che scarpe. Il Colonnello, poveraccio ora che gli hanno fatto fare quella fine terribile, stuprato e linciato come una pecora che bela perduta, lui le armi le comprava da chiunque, italiani, francesi, russi, americani, tedeschi, e le disseminava in ogni angolo del paese, più o meno tra le mani di quelli che giuravano fedeltà eterna alla Jamahiryia. Poi però – poco meno di due anni fa – quando la Jamahiryia finì per sempre, tutto quel bendiddio sparì d'incanto, in mille rivoli senza patente né bollino ufficiale. E nacquero ben 1.725 bande di “rivoluzionari” (li chiamano i Twarr). Un giorno che ho chiesto al sindaco di Tripoli chi tenesse l'ordine nella capitale, per i posti di blocco che spuntavano su come funghi, o per le sparatorie che addobbano il paesaggio acustico d'ogni quartiere, il pover'uomo allargò le braccia, sconsolato. Eravamo nel vecchio palazzo delle Regie Poste Italiane, dove il Municipio di Tripoli si è sistemato alla meglio, e anche lui, il Sindaco, pareva un sopravvissuto. “Ma che ordine vuole che io possa tenere; qui, e in tutta la Libia, a comandare sono 40 bande di uomini armati fino al collo”. Le 40 bande nelle quali si sono poi fuse le inziali 1.725 sono divise per aree geografiche, per struttura tribale, per fidelismo religioso. Se la banda di Zintan controlla l'aeroporto e la montagna, quella di Misurata comanda nelle aree centrali del paese e sotto la marina, e poi c'è quella che vuole Derna islamizzata, la banda dei Martiri della rivoluzione di febbraio a Bengasi, il Battaglione di Rafallah in Cirenaica, i Martiri di Abu Salim, la Khatiba al-Sawaip, la Brigata Sadum al-Suwayli. Ci sono quelli che hanno sequestrato Zeidan, la Camera della Rivoluzione stipendiata dal Ministero dell'Interno, ci sono i tantissimi miliziani dello Scudo libico che stanno a libro paga del Ministero della Difesa e sono presenti dovunque, tra mare e deserto, e poi, soprattutto, c'è Ansar al-Sharia, che come dice il nome vuole fare della Libia un emirato islamico e pare stia organizzando un gruppone gigantesco dove far confluire tutti gli uomini del Movimento per il Jihad nell'Africa settentrionale. Il povero Ali Zeidan è finito preso in mezzo a tutta questa guerra, maltrattato – pare – perchè aveva dato via libera ai Navy Seals che una settimana fa hanno rapito il feroce Abu Anas al-Libi in piena Tripoli. Gli islamisti hanno gridato vendetta, e dal Congresso sono partiti ordini che volevano restaurare la “dignità nazionale” vilmente danneggiata. Ma intanto anche il petrolio, che fa la ricchezza vera della Libia, stenta a esser pompato con tutti questi miliziani tra pozzi e raffinerie, e il governo italiano fa un vertice straordinario per capire che diavolo sia questa Libia post-Gheddafi che ci vende il suo petrolio con l'Eni a far buona guardia al bidone. da - http://lastampa.it/2013/10/12/blogs/il-villaggio-quasi-globale/la-libia-una-guerra-per-bande-miliziani-goverano-VSe88OPCpe7a6SzynO3R8N/pagina.html Titolo: Mimmo Cándito. Il Califfo, l’Iran e la battaglia di Tikrit. 30 mila uomini ... Inserito da: Admin - Marzo 09, 2015, 10:22:05 pm Il Califfo, l’Iran e la battaglia di Tikrit. 30 mila uomini fanno la storia
Mimmo Cándito 08/03/2015 Non se ne parla molto, ma a Tikrit si sta combattendo una battaglia che potrebbe perfino cambiare la storia del Grande Medio Oriente, almeno la storia quale è segnata oggi dalle forti ambizioni d'un Califfato che proclama di voler raccogliere dietro le proprie bandiere nere i popoli arabi, tutti, dall'Atlantico fino al Golfo. E anche oltre, l'intera galassia della Umma di Allah. Vediamo, dunque. Tikrit è una città della piana mesopotamica, una piccola e polverosa città a un centinaio di chilometri a nord di Baghdad che non ha altra storia se non quella di essere stata la terra dov'è nato Saddam Hussein. Morto impiccato il Raìss dodici anni fa, di Tikrit non s'è più parlato, fin che i jihadisti che stanno conquistando Siria e Iraq (e Libia) agli ordini di un invasato Abu Bkr al Baghdadi hanno spinto verso sud la loro travolgente avanzata, minacciando direttamente la stessa capitale. Il governo iracheno ne ha sentito davvero il fiato sul collo, e ha chiesto aiuto: non soltanto agli americani, che già lanciavano raid di alleggerimento nelle terre del nord per bloccare ai tagliagole dell'Is la strada di Erbil, ma anche – e, forse, soprattutto - alla grande patria sciita dell'Iran. Tikrit era diventata l'avamposto più minaccioso del Califfo, un balzo non impossibile l'avrebbe portato fin sui ponti di Baghdad, e poi forse verso Teheran. Bisognava fermarlo. Obama, riunito il Consiglio nazionale della sicurezza, ha rafforzato con dichiarazioni bellicose il proprio impegno a fianco del governo iracheno, anche con un qualche margine di ambiguità sul possibile intervento sul terreno, e però – nel concreto – ha soltanto deciso di: intensificare le missioni aeree di bombardamento sulle retrovie dell'Is, e accelerare l'addestramento delle truppe irachene con l'invio di altre centinaia di “consiglieri militari”. Ancora segnato dall'eredità dell'interventismo di Bush, il presidente americano si muove con una cautela che il Congresso repubblicano pungola e disprezza. Ma di più non pare orientato a fare. Storia diversa, invece per l'Iran. Teheran, patria della fede sciita, ha un rapporto, diciamo, privilegiato con l'Iraq del dopo Saddam, lo considera una sorta di territorio semicoloniale, ne sostiene con ogni mezzo il governo di netto dominio sciita, e guarda con comprensibile preoccupazione la seria minaccia che le formazioni sunnite del Califfo lanciano sul futuro di Baghdad. L'Iraq è un'invenzione voluta da Churchill, è la sua “scommessa”, fatta dopo la fine dell'impero Ottomano, con l'unificazione delle tre province mesopotamiche, di etnia e cultura distinta: gli sciiti a sud, i sunniti al centro, i curdi al nord. Gli sciiti sono la maggioranza degli “iracheni”, quasi il 60 per cento; i sunniti sono poco più del 20 per cento, il resto sono curdi. Nella lunga dittatura di Saddam, sunnita anch'egli, il potere sunnita schiacciava, umiliava, perseguitava gli sciiti; caduto Saddam, gli sciiti non solo hanno preso il potere ma anche lo esercitano con una egemonia simile (in molte pratiche di violenza e di sopruso) a quella del Raìss. Gli americani hanno tentato di convincere il capo del governo di Baghdad, Maliki, ad aprire a un qualche compromesso con la minoranza sunnita, ma hanno ottenuto poco o nulla, nonostante la montagna di dollari passata a Maliki; né molto è cambiato con il nuovo premier, Abadi, e il risultato è che un odio ormai irrecuperabile divide gli sciiti iracheni dai sunniti iracheni. Al Baghdadi, sunnita come tutta la milizia ai suoi ordini, si muove dunque con un doppio progetto: reimporre il potere sunnita in Iraq, e allargare questo potere politico/religioso anche al di là della frontiera mesopotamica. Tikrit è oggi il tavolo dove si sta giocando la mano più importante di questa drammatica partita. Prima ancora della difesa di Erbil, prima ancora di un possibile assalto a Mosul, nella vecchia città di Saddam si misura la possibilità reale, concreta, di battere il Califfato: se l'esercito “iracheno” riesce a scacciar fuori da Tikrit le bande jihadiste di al Baghdadi, allora la presa del Califfo si allenta, la strada per Mosul si fa aperta, svanisce la capacità propagandistica dell'Is nel mondo musulmano, e lo stesso futuro dello Stato islamico s'incrina fino a vacillare nelle sue fondamenta territoriali e politiche; ma se, invece, il Califfo respinge l'assalto e tiene il controllo del territorio, allora il radicamento dell'Is guadagnerà forza e credibilità ulteriore, la predicazione sunnita acquisterà nuova consistenza e nuovi adepti, e Baghdad diventerà fronte di prima linea d'un retrovia che arriva fino a Teheran. Sul fronte di Tikrit si stanno oggi confrontando le formazioni più agguerrite del Califfo contro 30 mila uomini che attaccano dal sud. E' una battaglia gigantesca, cominciata alcuni giorni fa, con i jihadisti che stanno mettendo in pratica le tattiche della guerriglia per rallentare l'avanzata di Abadi rafforzando, intanto, le difese della città e, dalla parte opposta, da sud, con uno schieramento che prepara l'attacco diretto usando pesantemente artiglieria e bombardamenti aerei. Bombardamento, però, della sola aviazione irachena; gli americani non ci sono. E qui è uno dei punti nevralgici che fanno davvero, di questa battaglia, un tornante della storia. Gli americani avrebbero voluto che l'attacco al Califfo venisse preparato con più cura, che venisse cioè completato l'addestramento militare dell'esercito iracheno, e che la tattica fosse comunque concordata tra il Pentagono e il ministero della difesa di Baghdad. Ma non per un problema di coordinamento tra comandi generali, o per una difesa di ruoli equilibrati; no, no, tutt'altro: di quei 30 mila uomini lanciati oggi all'assalto di Tikrit, i soldati dell'esercito iracheno sono meno di un terzo, neanche10.000 uomini, mentre il grosso – più di 20 mila uomini - è formato da miliziani sciiti, soprattutto i duri e puri di al Sadr, gente che ha sempre fatto la guerra agli americani durante gli anni di Bush e che ha trattato le popolazioni sunnite con ogni durezza possibile (il rischio ora è che l'attacco ai jihadisti del Califfo si trasformi poi in un bagno di sangue di vendetta contro gli abitanti sunniti di Tikrit e delle altre città "liberate"). Non solo, ma a guidare questa operazione c'è poi il più alto potere militare iraniano, quel gen. Qassim Suleimani nemico storico degli Stati Uniti, capo dell'intelligence degli ayatollah, e comandante delle formazioni dei pasdaran iraniani che sono la vera punta di lancia delle truppe "irachene". Un colossale paradosso accompagna perciò questa battaglia: che a combatterla contro un nemico dichiarato dell'Occidente non ci sono gli americani ma, sostanzialmente, quegli iraniani che degli Stati Uniti sono – finora, almeno – avversari storici quando non nemici patentati. A Baghdad, americani e iracheni si riuniscono attorno al tavolo del ministero della Difesa come se non ci fosse alcun dissapore; il ministro dice più meno serenamente che “con loro ce l'avremmo fatta prima, ma ce la faremo anche da soli”, e i generali americani, anch'essi sereni in apparenza, dicono che comunque il coordinamento va avanti, accompagna l'attacco. Se, però, a guidare sul terreno ci sono gli uomini dell'ayatollah, allora non solo si va squarciando il velo di ogni ipocrisia politica sulla natura della guerra al Califfo, ma si conferma nei fatti che l'Iran si guadagna sul campo di battaglia il suo ruolo di egemonia nella regione del Golfo. Con tutto ciò che questo comporta per il futuro di Israele, e con la sempre più evidente irritazione dell'Arabia Saudita, del suo petrolio, e del futuro degli equilibri globali tra sunniti e sciiti. Ma questo lo discuteremo tra qualche giorno. Ora guardiamo alla battaglia di Tikrit, vi si gioca la Storia. Da - http://www.lastampa.it/2015/03/08/blogs/il-villaggio-quasi-globale/nella-battaglia-di-tikrit-uomini-fanno-la-storia-2Cp5guxZhYOFNlFtpyFV5O/pagina.html Titolo: Mimmo CANDITO. Renzi retromarcia (meno male) Ma che sappiamo della Libia? Inserito da: Admin - Marzo 09, 2015, 10:32:48 pm Renzi retromarcia (meno male) Ma che sappiamo della Libia?
Mimmo Cándito 17/02/2015 Beccati come due dilettanti allo sbaraglio, il ministro Gentiloni che già parlava di guerra e la ministra Pinotti che già mandava in Libia 5000 nostri soldati, sono stati zittiti da Renzi, che li ha rimessi in riga esortandoli a non cedere agli "isterismi". Meno male, le nostre caserme restano a fare la loro routine. Solo che il danno era ormai stato fatto, e la ventola della guerra si è perciò messa a vorticare follemente nella testa degli italiani, convincendoli che la guerra non solo è necessaria ma anche inevitabile (negli studi della comunicazione, questo si chiama "effetto consumato": puoi smentire quanto vuoi, e però quello che hai detto una volta, una traccia la lascia sempre). Questa storia della guerra da fare, che - dicono - è una guerra di civiltà (contro la barbarie) e di religione (contro il Male, perché il Bene siamo noi), è una pericolosa deriva del dibattito su quanto sta accadendo in Medio Oriente, e sul ruolo dell'Islam nel mondo moderno. Ad alimentarla sono studiosi e praticoni di varia professione, che speculano sulla paura dell'"altro", danno di quest'"altro" una immagine discreditata, impoverita nella sua, invece, diversità, e proiettano su dimensioni mistico/teologiche e di scontro di civiltà una guerra che si sta combattendo all'interno del mondo musulmano per prevalenti ragioni di potere (i sunniti contro gli sciiti, le ambizioni dell'Iran e le resistenze dell'Arabia Saudita). A guidarla, questa guerra agitata con bandiere già al vento di un nazionalismo ahimè di bassa lega, sono soprattutto i media, e molti loro giornalisti, che ritirano dal passato le invettive dell'Oriana Fallaci contro un Occidente vile e perdente, e le applicano a quanto accade oggi con i drappi neri dell'Is e le incertezze strategiche di Usa ed Europa. Ieri, ho visto in tv un Sallusti che invocava una nuova guerra italiana sulla quarta sponda, perché - raccontava lui- è ossessionato dalla paura che l'Is mandi un aereo a distruggere il cupolone di San Pietro, come fece al Qaeda con le Torri di New York. Ora, due sono le cose: o Sallusti non sa quello che dice (gravissimo per un direttore di giornale), oppure sfruculìa consapevolmente gli istinti più bassi e le paure più angosciose del suo pubblico timorato, conservatore, e forse anche un pochino razzista (addirittura dice che quell'aereo arriva "in 20 minuti" sul bersaglio - neanche fosse... il razzo della Luna). Possiamo tranquillizzarlo che simili paure sono solo roba da fumetto propagandistico, la difesa contraerea del nostro paese saprebbe fare il proprio lavoro, se mai fosse necessario - ma non con i "20 minuti" di calata dell'Unno su Roma. I "cosacchi", insomma, neanche questa volta arriveranno ad abbeverare i loro cavalli a Piazza Navona. Semplicemente, l'Is non ha i sistemi d'arma per poter minacciare veramente l'Italia, e fa solo propaganda ("Siamo già a Sud di Roma!"). Ma fa propaganda benissimo, anzi vince già la sua guerra psicologica, perché la forza comunicativa dei suoi "segnali" è sfruttata con piena consapevolezza dell'effetto che produce, e questo effetto è moltiplicato dalle tecniche mediatiche della comunicazione moderna, con videoclip di straordinaria qualità professionale, e dalla compiacenza che gli offrono certi media, sempre scatenati quando si tratta di enfatizzare paure, irrazionalità, angosce collettive, timori della diversità. Questo mio tentativo di razionalizzare una realtà in forte evoluzione non vuol dire affatto che l'Is non sia un pericoloso bubbone che si sta sviluppando anche in NordAfrica, ma è comunque un "bubbone" che può essere confrontato ed estirpato con l'uso di strumenti appropriati. Il primo di questi "strumenti" è la preparazione di un sistema di controllo diretto a limitare progressivamente l'efficacia delle operazioni dell'Is, sistema che non può ancora essere una spedizione militare italiana e/o europea - che verrebbe vista dai libici e dall'intero mondo musulmano come una spedizione neocoloniale, di occupazione militare - ma anzitutto l'individuazione di quelle componenti locali (le tribù e i clan) che abbiano maggiori probabilità di guidare una neutralizzazione degli scontri e delle infiltrazioni, e su queste componenti di leaderismo intervenire con forme di sostegno, di appoggio politico ed economico, di riconoscimento di ruolo. Oggi sono 4 anni dalla rivoluzione che portò alla fine di Gheddafi e del suo regime. Per 40 anni, Gheddafi aveva tenuto unita la Libia (che in realtà ha 3 anime, Tripolitania, Cirenaica, e Fezzan, messe assieme dal colonialismo italiano all'inizio del secolo scorso), la teneva unita con la ferocia sanguinaria del suo potere assoluto e con l'accorta redistribuzione della ricchezza dei petrodollari tra le tribù. Morto Gheddafi, la Libia si è spappolata, e si è spappolata prendendosi di brutto i giganteschi arsenali di armi che il Raìss aveva accatastato: oggi in Libia c'è più di un milione di miliziani armati fino ai denti, frammentati in circa 1.250 bande di ogni natura (tribale, clanica, familiare, religiosa, laica), molte della quali paradossalmente stipendiate dal denaro dello Stato come "formazioni di sicurezza". Le istituzioni non hanno però alcuna credibilità né alcun potere diretto, e il paese è nominalmente guidato - ma solo nominalmente - da due governi, uno a Tripoli e l'altro a Tobruk. E l'islamismo, che Gheddafi aveva decapitato senza alcuna pietà, ha potuto ritrovare presenza e intervento sulle base delle divisioni tribali. L'Is si è inserito in questo vuoto politico, trovando alleanza con alcune di queste bande armate, e proponendo una sua leadership grazie alla forza del suo messaggio mediatico e alla fascinazione della sua violenza "purificatrice". Ma in Libia è un corpo estraneo, e come un corpo estraneo viene vissuto, al di là delle alleanze tattiche guadagnate in questi mesi. L'Is però ha un messaggio religioso stampato sulle sue bandiere nere, e di questo messaggio - e della sua capacità di attrazione - hanno timore molti regimi arabi, a cominciare dall'Egitto e dall'Algeria, paesi confinanti con la Libia e che in passato hanno avuto guerre sanguinose combattute contro formazioni islamiste, i Fratelli Musulmani in Egitto, i Gruppi Islamici in Algeria. Cairo ed Algeri non vogliono tornare a quei giorni tragici, e potrebbero perciò costituire il primo nucleo di una forza interaraba costruita per favorire una pacificazione; progetto tutt'altro che agevole, ma che può comunque essere immaginato nel lento disegno di controllo dell'Is di cui parlavo prima (altro che la la guerra di Gentiloni e Pinotti e Sallustri!). Da - http://www.lastampa.it/2015/02/17/blogs/il-villaggio-quasi-globale/renzi-retromarcia-meno-male-ma-che-sappiamo-della-libia-kHHCCh7juIS1qr10vB2PDJ/pagina.html Titolo: Mimmo Càndito. "Vietato ai cani e agli italiani" (quando fui migrante anche io) Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 11:45:40 am "Vietato ai cani e agli italiani" (quando fui migrante anche io)
Mimmo Càndito 27/04/2015 Ho letto della dichiarazione di Gianni Morandi che, di fronte a certe reazioni negative, infastidite, sugli sbarchi di migliaia di profughi, ricordava che anche noi italiani siamo stati emigranti, e subito la Rete era stata intasata di violenti attacchi contro il cantante. Ho lasciato passare qualche giorno, per rispetto all'impegno di Morandi. Ora voglio portare un mio contributo di memoria, che credo possa comunque dare un qualche appoggio, da lontano, a quanto egli ci ricordava. Sono stato un migrante anche io. In realtà, a quel tempo - era la prima metà degli anni Sessanta - più modestamente si diceva "emigrante", con la "e", e quello sono stato anche io. Vivevo a Reggio Calabria (aveva appena terminato il liceo, iniziavo l'Università, prima di "emigrare" a Genova), e in quegli anni dai piccoli paesi della mia terra c'era molta gente che partiva per la Germania, a cercare lavoro e fortuna. Erano gli "emigranti", contadini e manovali che tentavano di sfuggire dalla miseria di campagne senza speranza, con la valigia di cartone e la coppola in testa. Allora, pur da ragazzo, mi interessavo molto di sociologia (cosa misteriosa, in quei primi anni Sessanta, appena agli inizi nella elaborazione della nostra cultura), e leggevo tutti i libri di sociologia americana che la piccola, preziosa, biblioteca dell'Usis presso la Camera di commercio teneva nei suoi scaffali, Riesman, Mills, Packard. Volli fare, dunque, una esperienza diretta, sul campo, trasformandomi in emigrante. Chiesi alla mamma (papà era morto, noi eravamo una famiglia modesta, ma non povera) di aiutarmi a fare l'emigrante, quello che tanti ragazzi e tanti uomini di famiglie che noi conoscevamo erano davvero, e non "facevano". Sapevo bene che vi era una differenza di fondo, tra quei poveracci che partivano da disperati e me che, invece, "fingevo" di essere un disperato ma partivo, diciamo, per studio. E però assumevo il valore di quella differenza, e tentavo di controllarla per rendere più autentica la mia esperienza. Sapevo anche di avere strumenti culturali più articolati di tanti che partivano nel viaggio della speranza, ma mi riproponevo di non farmene condizionare: quello che mi interessava era apprendere direttamente delle difficoltà di vita in un ambiente completamente diverso, delle reazioni che queste difficoltà imponevano, e di come gli emigranti italiani subissero - o gestissero - queste reazioni. Mi informai alla biglietteria della stazione Centrale, e mi feci dare dalla mamma 34.000 lire, che erano, giuste giuste, il prezzo di un biglietto di andata e ritorno in Terza classe per Duesseldorf, importante città industriale della Germania Occidentale. Se fosse stato necessario, non si sa mai, avevo il mezzo per poter comunque rientrare; e però partivo come un vero "emigrante", con i soldi contati e una povera valigia: vi stipai un paio di maglioni, calze e mutande, qualche pezzo di pane biscottato, due vasetti di marmellata e (soltanto questo, immagino, differente dagli emigranti "veri") una grammatica italiano-tedesco, che si usava nelle lezioni di tedesco che a quel tempo si potevano ascoltare alla radio, nel pomeriggio alle due, con i corsi anche di francese e di inglese. Ma di tedesco non sapevo davvero nulla, solo un po' di francese appreso a scuola e un pizzico di inglese studiato per mio conto con un giovanotto inglese che faceva l'insegnante a Reggio. Arrivai a Duesseldorf distrutto dal lungo viaggio, stranito, incerto. Però, in testa al binario dove ero sbarcato vidi, sorpreso, interessato, alcune parole in varie lingue, e perfino (incredibile! che fortuna!) in italiano: il cartello diceva "Benvenuti, lavoratori. Se avete bisogno, possiamo aiutarvi". Era la Kolping Haus, un'organizzazione caritatevole evangelica, che dava assistenza alle migliaia di italiani che arrivavano a cercare lavoro. Mi aiutarono, mi ospitarono in una soffitta, dove dormivamo in 24 emigranti di ogni paese, mi fecero il credito di un Marco al giorno, e mi insegnarono come fare i documenti per essere assunti in fabbrica. Trovai lavoro come manovale in un'acciaieria, mi alzavo alle 5 del mattino e ci tornavo al tardo pomeriggio. Pulivo le macchine, pulivo i capannoni, facevo i lavori d'ogni manovale, a poca distanza dai fuochi dell'altoforno. Non c'erano italiani, nel mio capannone, soltanto tedeschi, quasi tutti tedeschi, con un portoghese e un colombiano. Quando avevo un attimo di pausa, mi nascondevo dietro un tavolone di ferro e leggevo qualche pagina della grammatica; poi chiedevo ai lavoratori tedeschi di verificare il mio apprendimento del vocabolario tedesco: il naso, la mano, il vestito, mangiare, lavorare, parlare... Mi seguivano incuriositi, ma mi trattavano anche con qualche disprezzo, e dicevano parole che io non capivo e però li facevano ridere di me. Un giorno, uno dei capiofficina mi sorprese con il mio libro: mi rimproverò aspramente, a lungo, con parole che non conoscevo ma il cui tono era assai chiaro; e mi portò in direzione, tenendomi per il braccio. I direttori mi interrogarono, duri, seri, sfogliando con curiosità quel libro della Eri che il capoofficina gli aveva consegnato; io cercai di spiegare quello che potevo, con il mio poco inglese che riuscivo a manovrare, e quei tre - serissimi, l'abito scuro, il disprezzo stampato in faccia - mi ascoltavano in silenzio. Credo dicessero parole assai dure sugli "Italianen", ma poco alla volta - appreso che ero un giovanotto che stava per andare all'università, e a quel tempo erano davvero pochissimi coloro che potevano fare lo studente - mi perdonarono: non mi licenziarono, ma mi imposero di non portare più in fabbrica quel mio libro. (Tra parentesi, erano tali le condizioni di lavoro nel capannone che, ogni volta che tornavo dalle macchine e dai torni a sfogliare il libro, le pagine che avevo lasciato aperte erano coperte da una sottile, diffusa, polvere di ferro.) Non lo portai più, il mio libro di tedesco, e però mi facevo insegnare le parole dai miei compagni tedeschi. I quali, saputo chissà come, che non mi avevano licenziato perché ero ("addirittura") uno studente universitario, cambiarono completamente il loro atteggiamento verso di me: mi sorridevano, cercavano di aiutarmi nel mio lavoro pesante, arrivavano a invitarmi a cena a casa loro, che sarebbe stato un onore. Uno studente universitario! Una figura sicuramente di prestigio, un "signore"! Per rabbia rifiutai, perché ero la stessa persona che fino a un giorno prima loro avevano trattato con disprezzo e ora volevo vendicarmi. Sbagliavo, ma non ce la feci. Imparai poco alla volta a capire di più, a tradurre quella lingua impossibile, e a districarmi. Un sabato sera mi feci coraggio, decisi di uscire, di andare in un locale vicino dove i tedeschi mi avevano detto che si poteva ballare, che c'erano molte ragazze sole. E ammiccavano. Ci andai, impacciato, timido, curioso, ma interessato soprattutto alle ragazze. Entrai titubante, guardandomi intorno, cercando di capire la gente dentro quel fumo e quella musica sparata a volume alto, e di guardare quelle ragazze bionde che a me sembravano tutte bellissime, fantastiche, come a Reggio nemmeno avrei potuto sognare. Dopo qualche minuto mi feci coraggio, e appena l'orchestrina attaccò un pezzo mi avvicinai a una ragazza; non sapevo ballare, ma il desiderio d'immaginare chissà quale avventura facile e ora a portata di mano mi diede coraggio. Una ragazza, bellissima, mi sorrise, e si alzò in piedi per accompagnarmi nel piccolo spazio dove le coppie già ballavano. Ma un uomo mi si avvicinò e, guardandomi in tutta la mia evidente diversità rispetto all’ambiente, mi disse "Nein, Nein", scuotendo la testa. Mi chiese chi mai io fossi. Gli risposi - con il mio poco tedesco - che ero uno studente italiano, e ricordando il nuovo rispetto che ora mi mostravano in fabbrica i miei compagni tedeschi ero certo di avere, così, un buon lasciapassare. Quell'uomo ascoltò aggrottato, nel fragore alto della musica, poi disse nuovamente, duro, aspro, "Nein! Nein". Mi prese per il braccio (era molto più alto di me, e grosso, e forte), e mi accompagnò alla porta, dove mi mostrò con il dito teso un cartello che io nemmeno avevo visto quand'ero entrato, preso com'ero dal mio imbarazzo e dalla mia curiosità. Ora che sapevo un po' di tedesco, lessi e tradussi: "Vietato l'ingresso ai cani e agli italiani". Me ne andai, la ragazza che avevo invitato, bellissima, già ballava sulla pista tra le braccia di un ragazzo biondo. Il mio progetto "sociologico" lo ressi per più di due mesi, rientrando in Italia giusto in tempo per l'inizio delle lezioni all'università. Appresi molto, parlai con molti emigranti "veri", presi nota dei loro rapporti difficili con gli operai tedeschi. E mi portai dentro, e mi porto tuttora, il segno forte di quella esperienza, e il cartello bianco appeso alla porta di quel caffè, con quelle sue parole sprezzanti, quel "Verboten" che mai dimenticherò e che subito mi torna addosso quando vedo attorno a me il disprezzo usato contro i migranti che vengono in Italia a cercare speranza, fortuna, una vita nuova. Siamo stati migranti anche noi. Ci chiamavamo emigranti, a quel tempo, e ora lo abbiamo dimenticato. Da - http://www.lastampa.it/2015/04/27/blogs/il-villaggio-quasi-globale/vietato-ai-cani-e-agli-italiani-quando-fui-migrante-anche-io-97VEH8OKm1bTFjxd6pyPOI/pagina.html Titolo: Mimmo Càndito. Francesco e Raul, perché è un incontro storico Inserito da: Admin - Maggio 11, 2015, 10:54:36 am Francesco e Raul, perché è un incontro storico
La stretta di mano tra Castro e il Papa sancisce l’apertura del sistema politico cubano REUTERS Raul Castro e Papa Francesco 10/05/2015 Mimmo Càndito Le due mani che stamani papa Francesco e Raul Castro si sono stretti in un saluto apparentemente formale, in realtà portano uno straordinario valore simbolico: segnano un passaggio della storia, sancendo solennemente l’apertura del sistema politico cubano. Fino a oggi, la Revolucion non ammette che vi possano essere altri soggetti isituzionali, oltre il Partito comunista: ogni progetto di creazione di forme e modelli concorrenti, o alternativi comunque, è sempre terminato con una durissima sanzione, la galera o l’esilio o, quando possibile, l’emarginazione in un ghetto (quello del dissenso) bollato con le violente contestazioni del «repudio popular». Nel tempo, questo programma di assoluta impermeabilità ha però dovuto riconoscere che il distacco della società cubana (o, almeno, di una sua parte sempre più ampia) dal regime si andava approfondendo, congiuntamente con una crisi economica senza prospettive di soluzione. Era necessario ritrovare un legame che si stava erodendo molto pericolosamente, “inventarsi” un interlocutore credibile per i sentimenti popolari in modo da recuperare, attraverso questo soggetto, la vecchia ideologia che nel «nosotros» ufficiale, il «noi» collettivo, ci stava autenticamente tutto, la Revolucion e l’intero paese (ormai, e da tempo, la realtà era invece che il noi del regime non comprendesse più la società, che sentiva se stessa come «los otros», cioè gli altri dal potere). E questo distacco era una tabe che minava geneticamente il futuro del castrismo, e il suo stesso mito. La Chiesa cattolica, un non-partito, e però una istituzione di intermediazione presente nel corpo è parsa una soluzione viabile per rafforzare il gattopardismo di un regime in crisi. La stretta di mani di Raul e Francesco non è una rivoluzione, ma la vale tutta. Da - http://www.lastampa.it/2015/05/10/esteri/francesco-e-raul-perch-un-incontro-storico-Uj7mFuqrHFheZTr3AZspUL/pagina.html Titolo: MIMMO CÁNDITO “Io, inviato sul fronte della guerra al cancro” Inserito da: Admin - Giugno 16, 2015, 11:23:46 pm “Io, inviato sul fronte della guerra al cancro”
Mimmo Candito, storica firma della “Stampa”, racconta la sua battaglia contro la malattia Inviato di guerra Mimmo Cándito scrive per «La Stampa» dal 1970 31/05/2015 Mimmo Candito Sto bene. Ma ho un tumore nel polmone. Sì, ho un tumore al polmone destro. Punto. Non credo proprio che sia una notizia d’interesse (tranne che per me, naturalmente), eppure voglio parlarne, e parlarne pubblicamente. Ma, questo, per scuotere i tanti che – appena io dico «mi hanno trovato un tumore» - fanno doverosamente la faccia di circostanza, e abbassano il volume, e il tono, delle loro parole. Come si fa tra persone sensibili quando si parla a un morto, anche se è un morto che cammina. La diagnosi Parto da lontano, alcuni anni fa. Erano più o meno questi giorni, e stavo a Miami; seguivo per la «Stampa» la storia dei cubani esiliati e i loro sentimenti verso l’isola che avevano dovuto abbandonare. Insomma, scrivevo al computer: le interviste, gli incontri, le facce, le storie, e però, quando mi piegavo verso il pc e la tastiera, provavo subito un forte dolore, dietro, tra nuca e spalle. Sarà la cervicale, pensavo. Andai in ospedale, da una mia amica medica di laggiù. Mi portò da un suo collega, il quale confermò la mia supposizione. «Facciamo comunque una piccola radiografia, per valutare lo schiacciamento delle vertebre». Quando, dopo, fissò la lastra sullo schermo, controluce, fece però una brutta faccia. E stette zitto. Per trent’anni, allora, il mio lavoro di corrispondente di guerra mi aveva portato a camminare con occhi angosciati lungo i passi della morte, dentro guerre combattute nella verità nuda di chi ammazza o è ammazzato, tra teste squarciate e pance aperte, gambe mozzate, banchetti di mosche sulle budella ingrigite dal sole, e merda e macerie dovunque. Non poteva certo impressionarmi una vaga idea della morte sospesa nel lindore della cameretta sterile e ben in ordine d’un ospedale americano. Per questo ero sereno, quando dissi: «Com’è serio, dottore. C’è qualche brutta storia?». Mi guardò un attimo, poi indicò un punto della lastra, che inquadrava il collo e la parte alta del torace. «Questa macchia biancastra, qui, vede, non dovrebbe esserci. Non lo so davvero, però potrebbe anche essere un tumore». In America vanno giù diretti; il medico ti spiffera subito tutto, senza reticenze né giri di parole, per evitare poi vertenze legali e i milioni di dollari che magari gli toccherebbe pagare per danni («Eh, se me lo diceva subito...»). Mi guardò molto serio, e scosse la testa. «Potrebbe essere». La prevenzione (Prima considerazione) Il tumore, spesso non sai d’averlo. Ci convivi, lui ti lavora dentro, e quando, alla fine, magari per un qualche accidente che non c’entra nulla, i medici lo scoprono, è ormai troppo tardi. La prevenzione, oggi lo sappiamo, diventa un atto fondamentale. L’ospedale era il «Mount Sinai», un ospedale privato. Mi chiesero se avessi la carta di credito. Certo, ce l’ho, e in pochi minuti mi ritrovai su una barella; veloci, mi portarono per il corridoio a fare una Tac. Poi, mi lasciarono nel lettino d’una cameretta, improvvisamente da solo, la luce abbagliante della Florida nel cielo della finestra. Ero arrivato all’ospedale per un banale controllo, le braghe corte, la t-shirt, le espadrillas; e ora dovevo chiedermi se stavo per morire. (Seconda riflessione) Come ci si comporta? mi chiedevo. Se muori in guerra, non hai domande da fare. Ma se invece ti vengono a dire che devi morire, e ti lasciano lì che nemmeno sai ancora se però sia vero o no, che si fa? E alla moglie, come lo si comunica? Imbarazzo serio. Ma anche (Terza riflessione): hanno detto che «pare» che sia un tumore, e però, per te e per tutti, «tumore» significa che sei morto, che cammini e pensi e ti agiti e fuori c’è il sole, ma però sei già morto. Perché, nella tua testa, nella testa di tutti, il tumore è la condanna definitiva. Entrò un dottore, il camice bianco, un sorriso appena accennato. Mi diede la mano e si presentò. Poi, senza quasi una pausa, aggiunse guardandomi negli occhi: «Dear Mr. Candìto, devo dirle che il suo è davvero un tumore. Ma questo suo tumore è inasportabile. Lei non ha speranze di vita». Mi diede nuovamente la mano, questa volta senza nemmeno l’ombra di un sorriso. E andò via. (Quarta riflessione) E’ dunque vero che tumore significa morte, pensai come chiunque, scacciando dalla mia testa la speranza nascosta che, però, alla fine tutto si aggiusta. L’illusione che tocchi sempre a un altro, ma non a te. Ora, all’improvviso, non era questione di partire per andare in guerra e avere l’abitudine a pensare in astratto che, sì la morte ti può anche agguantare, ma dentro di te sei sicuro che mai arriverà; e invece ora no, la morte era lì, su quel lettino, morte vera e non pensiero astratto. All’improvviso diventavi uno qualunque al quale hanno appena detto che sta per morire, e non c’è muretto dietro il quale proteggersi dai colpi di kalashnikov o dal razzo che sibila nell’aria e sta per pioverti addosso. Morire, e basta. La sperimentazione (Quinta riflessione, però di oggi. No, non è affatto così, il tumore non è una condanna a morte; io imparai ad apprenderlo, in quei giorni, e per questo ora scrivo queste righe.) La mia amica medica convinse il suo collega oncologo a fare «anche l’impossibile». Lui, il dottor Rogerio Lilembaum, uno scienziato di punta, vista l’«impossibilità» del mio caso, non applicò il protocollo, cioè quelle norme terapeutiche già comprovate per ciascun tipo di tumore e che sono comuni ovunque, in America come in Italia o in Ucraina. Tentò un «trial», una sperimentazione. L’esame istologico mostrava che nei vetrini c’erano tracce di metalli pesanti, titanio, uranio, e altro che comunque non sta nella vita quotidiana ma si trova soltanto in guerra; probabilmente, erano tracce d’una contaminazione, l’Afghanistan forse, o forse l’Iraq, o la Somalia, come tanti veterani dei marines o anche tanti soldati italiani in Kossovo. Lavorando con il computer sulla specificità del mio organismo e sulla eziologia del tumore, e adeguando a questo la terapia, mi dettò 45 sedute di radiazioni, e 6 cicli di chemioterapia mirata nel dosaggio delle componenti. Furono mesi molto duri. (Sesta considerazione) Chi è malato di cancro vuole che si rompa la cortina di commiserazione che lo circonda, non accetta l’esorcismo pavido di chi non vuol mai usare la parola «tumore» e ripiega su «il brutto male»; non chiede pietà, e nemmeno l’insopportabile ipocrisia di chi dice «coraggio» e di nascosto fa gli scongiuri, vuole soltanto la comprensione d’un sentire comune perchè il tumore viene vissuto - da chi lo ha - come una malattia «sociale», qualcosa che non appartiene soltanto al malato ma fa parte d’una dimensione psicologica ed emotiva più ampia, che va anche al di là della cerchia familiare. La solidarietà Mandai perciò un sms a tutti i miei compagni di vita, gli inviati speciali con cui avevamo raccontato guerre e uomini nelle terre del mondo. Risposero tutti, subito; e poi, per non affaticarmi, delegarono uno di loro – Vittorio Dell’Uva, del “Mattino» - a seguire per tutti il mio problema, perché, se era una guerra ad avermi segnato, la guerra era stata un tempo vissuto in comune e il mio problema apparteneva perciò a tutti. L’oncologo, intanto, mi aveva suggerito che, per quanto possibile, non mi facessi condizionare dalla consapevolezza del tumore. Seguivo sì una terapia, ma dovevo fingere a me stesso che tutto fosse come prima, prima di quella diagnosi imprevista. Io a quel tempo, al mattino, tutte le mattine, facevo mezz’ora di nuoto, 25 vasche in piscina. Dovevo continuare a farlo, anche se la chemio era davvero distruttiva. Mi costava fatica ma dovevo continuare. E però un giorno che la terapia mi aveva stancato molto, arrivai alla undicesima vasca e dovetti smettere subito, per non affogare: non riuscivo più a respirare. Risalii dall’acqua e mi stesi a meditare. Sentivo la mia impotenza, avvertivo il tumore come una sfida perduta. E dunque c’ero arrivato, dovevo proprio morire. La svolta Ma invece no, mi dissi di no, scesi di nuovo in piscina, ripartii a nuotare e a contare: una vasca, due vasche, tre vasche. Arrivai alla numero 25, e dissi a me stesso: ora fagli vedere tu, al tumore, chi sia più forte. Nuotai ininterrottamente per 55 vasche, un’ora e passa. E quando uscii dall’acqua, sapevo dentro di me che io avrei vinto, non il tumore. E vinsi io. Il «trial» di Lilenbaum ebbe incredibilmente successo, diventò subito un «protocollo» comunicato nei congressi internazionali, all’interno di un 5 per cento dei successi a livello mondiale. E il tumore «inasportabile» mi fu asportato con un intervento molto rischioso. (Settima considerazione) Nella battaglia individuale contro il tumore, la componente psicologica è fondamentale. Il lavoro di Lilenbaum è stato preziosissimo, però ho imparato che la forza, l’energia, che scateni dal cervello, la tua volontà di non cedere al dominio del cancro, è una componente essenziale della terapia medica. L’altro ieri però, dopo i controlli periodici di tutti questi anni, controlli sempre «negativi», l’ultima Pet ha scoperto che ho di nuovo un tumore, nell’altro polmone, il solo che mi è rimasto. Inizierò presto la terapia, e non ho alcuna paura. Quando mi chiedono come sto, rispondo: «Sto bene, ho un tumore ma sto bene». Lo chiamo con il suo nome, tumore, e so che posso batterlo. Voglio però che lo sappiano anche quelli che hanno un tumore, e i loro familiari, e i loro amici. Perchè devono imparare che si possono nuotare 55 vasche, e alla fine anche si vince. Da - http://www.lastampa.it/2015/05/31/societa/io-inviato-sul-fronte-della-guerra-al-cancro-FiY0xL7fHrDV1ueBwx78rK/pagina.html Titolo: MIMMO CÁNDITO Erdogan e la metamorfosi dell’uomo eletto che diventa autoritario Inserito da: Arlecchino - Luglio 20, 2016, 05:17:41 pm Erdogan e la metamorfosi dell’uomo eletto che diventa autoritario
Epurazioni di massa dentro scuole e moschee: la vendetta del Sultano 20/07/2016 Mimmo Cándito Il vento della vendetta sta spazzando le scuole della Turchia, riportandola a un tempo arcaico assai lontano dai secoli illuminati della Sublime Porta. Via, tutti via. Via i rettori, via i presidi, via i decani. Prima erano stati i generali, a pagare, i soldati, i servizi segreti, anche i giudici, ora va via anche la testa pensante della Turchia, lasciando intendere che Erdogan vuole avere piano controllo del pensiero, della libertà del giudizio, dell’autonomia della intelligenza. Via, fuori dalla scuola, fuori dalle università, fuori da centri di ricerca. Ogni regime autoritario vuole creare «l’uomo nuovo», tende a rimodellare con il suo afflato la mente, il cervello, il pensiero, dei cittadini. Ma Erdogan è a tutt’oggi il capo di Stato eletto con libere elezioni, con un Parlamento e un sistema giudiziario che ne dovrebbero bilanciare il potere, e una struttura politica che punta credibilmente a essere accolta nel corpo istituzionale della Unione Europea. Ora la replica a quanto sta avvenendo in Turchia spetta alle capitali europee. Titolari di storie che hanno costruito nei secoli la tutela della libertà della ricerca intellettuale come elemento fondante di una comune, irrinunciabile, identità. L’editto sulle epurazioni di massa è stato emesso dallo Yok, Consiglio per l’Alta Educazione, che guida e sovrintende le università turche. Formalmente, lo Yok chiede le dimissioni di tutti i 1577 docenti che hanno la responsabilità scientifica degli atenei di Ankara, Istanbul, Smirne, Antalya, di ogni parte della Turchia, dall’Anatolia fin giù alle terre dell’Asia Minore. La richiesta di dimissioni cela il progetto di una purga totale, rafforzata dal licenziamento immediato di 15.200 funzionari della pubblica istruzione e di 21 mila docenti di scuole private. E poi vengono chiuse radio e stazioni televisive, vengono sbattuti in galera i giornalisti, licenziati in tronco cronisti e opinionisti. Quando, cento anni fa, Kemal Atatürk prese il potere, e lo esercitò con la mano autoritaria di un militare che si fa politico, i suoi editti puntarono a cancellare l’egemonia della storia religiosa del suo Paese ma ne rispettarono e ne tutelarono la storia intellettuale: abolì il fez come simbolo di una identità da cancellare e troncò l’integrazione tra potere politico e potere religioso, cancellò anche la vecchia scrittura araba e la sostituì con le lettere dell’alfabeto latino però mai arrivò a purgare le teste pensanti della scuola della nuova Turchia che abbandonava l’eredità dell’Impero Ottomano. Cambiarono certamente i testi scolastici ma l’apporto delle intelligenze fu richiesto e conservato sia pur all’interno di un disegno di rifondazione della identità nazionale. Erdogan, che pure ordina ai suoi cameramen di riprenderlo con alle spalle una enorme gigantografia severa di Atatürk, avanza sprezzante di ogni identità e si spinge in un territorio dove la devastazione delle coscienze pare essere l’unico obiettivo che lo interessi. E non per fedeltà a una utopia che realizzi una società nuova ma per consolidare il potere. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2016/07/20/esteri/la-metamorfosi-delluomo-eletto-che-diventa-autoritario-JtuJ28RysTf70KJ4Ld6UXK/pagina.html Titolo: Mimmo Càndito Solo nelle campagne ha vinto il Sì, ora la pace è più lontana Inserito da: Arlecchino - Ottobre 05, 2016, 12:28:46 pm Solo nelle campagne ha vinto il Sì, ora la pace è più lontana
Dubbi sul ruolo del cartello della droga, principale fonte di sostentamento delle Farc 03/10/2016 Mimmo Càndito Davvero per una manciata di voti (65 mila, nemmeno l’1 per cento) la Colombia ieri ha detto No alla pace con i guerriglieri delle Farc. L’accordo era stato concluso meno di un mese fa all’Avana, dopo un negoziato lungo di anni. Non é la guerra di nuovo, tutti dicono che le trattative riprenderanno subito; ma intanto il risultato del referendum indebolisce la posizione del presidente Juan Manuel Santos – che per l’accordo aveva impegnato ogni potere dello Stato – e rafforza il fronte dei contrari, guidati dall’ex presidente Alvaro Uribe. E nulla sarà come prima. Il conteggio é stato incerto fino all’ultimo, non soltanto per il margine striminzito che separava i due fronti, ma anche perché il voto delle città – conteggiato per primo e in prevalenza contrario all’accordo – veniva progressivamente messo in discussione dalla massa dei voti che arrivavano lentamente dalle province con una significativa prevalenza del Sì. Gli stessi sondaggi dell’ultima settimana lasciavano prevedere questa incertezza, assegnando al Sì il 33 per cento, contro il 30 per cento dei contrari. E la percentuale dei votanti di ieri – meno della metà degli elettori – conferma quanti dubbi e quali perplessità seguissero la firma dell’accordo. Il risultato del referendum ha una ricaduta politica che va al di là dello scontro elettorale: una guerra combattuta per 52 anni non lascia strascichi soltanto di bilanci militari, ma ha segnato profondamente il corpo della società, dividendone la popolazione lungo linee di frattura la cui ricomposizione appariva critica già al momento della conclusione dell’accordo e che diventa ancor più difficile ora che ogni progetto di pacificazione appare travolto. I 260 mila morti, e i 7 milioni di profughi che hanno dovuto abbandonare case e terre per sottrarsi alla guerra, pesano sulla memoria del paese e rafforzano l’opposizione all’accordo, sostenuta dal convincimento che la pacificazione violi ogni principio di giustizia poiché impedisce la punizione dei responsabili. L’accordo prevedeva una sorta di amnistia informale, con pene molto ridotte e la concessione di uno statuto politico alle Farc con l’assegnazione di una decina di seggi in parlamento per il tempo di due legislature. Le delegazioni del governo e della guerriglia sono già sbarcate a Cuba per la ripresa di una trattativa, ma molti dubbi si accendono ora sul ruolo del cartello della droga in questo risultato, poiché il traffico della coca era la principale fonte di finanziamento delle Farc e l’accordo prevedeva una rottura di questi legami. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/10/03/esteri/solo-nelle-campagne-ha-vinto-il-s-ora-la-pace-pi-lontana-Irjnf96SnL9fG5HRhnDKrJ/pagina.html Titolo: Mimmo CANDITO, giornalismo in lutto: addio al reporter Mimmo Candito Inserito da: Arlecchino - Marzo 03, 2018, 11:04:59 pm Torino, giornalismo in lutto: addio al reporter Mimmo Candito
A gennaio aveva compiuto 77 anni e della sua guerra contro il cancro, cominciata nel 2005, aveva scritto in un libro e numerosi articoli Di JACOPO RICCA 03 marzo 2018 È morto questa mattina il reporter di guerra e scrittore Mimmo Candito. Docente all'Università di Torino di Linguaggio giornalistico, è stato uno degli inviati di punta sui fronti caldi per La Stampa e dal 2001 era anche il direttore della rivista culturale “L'Indice dei libri del mese”. A gennaio aveva compiuto 77 anni e della sua “guerra contro il cancro” non aveva mai fatto mistero, scrivendone articoli e un libro “55 vasche. Le guerre, il cancro e quella forza dentro”. Nato a Reggio Calabria si era trasferito a Genova negli anni Sessanta, dove ha lavorato prima come dipendente comunale e poi come collaboratore de “Il Lavoro”. Nel 1970 l'arrivo a Torino a La Stampa dove arriva a ricoprire l'incarico di inviato speciale. Con questo ruolo racconterà molti dei conflitti che martoriano il pianeta, da quelli Medio Oriente, all'Asia, passando per l'Africa e il Sud America. È stato uno dei pochi cronisti che ha assistito e scritto sia della guerra in Afghanistan portata avanti dall'esercito dell'Unione Sovietica che, poi, dagli Stati Uniti, ma soprattutto i suoi racconti sono legati alle Guerre del Golfo. Legatissimo alla moglie, giornalista e critica musicale, Marinella Venegoni, Mimmo Candito la sua battaglia contro il tumore l'ha iniziata nel 2005, mentre era negli Stati Uniti. La malattia, sconfitta, una prima volta, si era ripresentata un paio d'anni fa. Presidente italiano di Reporter senza Frontiere, il suo Candito testo “I reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a internet”, pubblicato per Baldini&Castoldi, resta una pietra miliare per gli studenti di giornalismo. © Riproduzione riservata 03 marzo 2018 Da - http://torino.repubblica.it/cronaca/2018/03/03/news/torino_giornalismo_in_lutto_addio_al_reporter_mimmo_candito-190269688/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P9-S1.8-T1 |