Titolo: TITO BOERI. - Inserito da: Admin - Giugno 27, 2007, 12:09:10 pm 26/6/2007
Taglio delle tasse addio TITO BOERI Con l'intesa raggiunta al Consiglio dei ministri di ieri gli italiani possono dire addio alla speranza di un taglio delle tasse in questa legislatura. L'extra gettito è stato tutto impegnato per finanziare nuove spese, molte delle quali sono destinate a durare nel corso del tempo. Anzi, se l'extra gettito dovesse poi rivelarsi un dono effimero, si dovranno nuovamente aumentare le tasse. Si rassegnino i più giovani: la montagna del debito pubblico non si abbassa. Nonostante il contesto macroeconomico favorevole, che dovrebbe favorire una sensibile riduzione del debito pubblico, non ci sarà alcuna manovra nel 2008. E, a meno di sorprese nell'ultima fase della trattativa sulle pensioni, i lavoratori possono abituarsi fin d'ora all'idea che fra pochi mesi dovremo aprire un nuovo tavolo sulle pensioni per trattare dei veri problemi del nostro sistema previdenziale, una volta di più elusi, rinviati ai governi, politici e sindacalisti futuri. La miopia della politica economica italiana sta diventando talmente forte da impedire di mettere a fuoco i numeri della calcolatrice. Il negoziato interno alla maggioranza, forse ancora più serrato che quello coi sindacati, si è sbloccato, a quanto pare, a partire dai risultati dell'autotassazione di giugno. Come se si stesse discutendo di come coprire le spese del prossimo mese e non invece di scelte che riguarderanno lo Stato sociale, dunque la lotta alla povertà e il futuro previdenziale nei prossimi 50 anni. In virtù di risultati dell'autotassazione migliori del previsto, il governo anziché abbassare l'obiettivo sul rapporto deficit/Pil per fine anno, ha deciso di alzarlo dal 2,1 al 2,5 per cento. Questo significa permettere di finanziare, con maggiore deficit pubblico, l'aumento delle pensioni minime, l'allungamento della durata dei sussidi di disoccupazione ordinari, il rifinanziamento delle ferrovie e dell'Anas. Il tutto per circa 6 miliardi di euro. Non c'è in tutte queste misure alcuna organicità. Se si voleva contrastare la povertà, ad esempio, si poteva varare una seria riforma degli ammortizzatori sociali che coprisse contro questo rischio a tutte le età. Sarebbe costata di meno di questa serie confusa di interventi. Avendo alzato il deficit per il 2007, il governo adesso cercherà di vendere a Bruxelles un obiettivo per il 2008 al 2,2%. Come dire che nel 2008 i saldi saranno peggiori di quelli su cui ci eravamo impegnati fino ad oggi per il 2007. Difficile che Bruxelles accetti questo artificio contabile perché infrange non una ma due regole al tempo stesso. Queste impongono, da una parte, che tutto l'extra gettito vada a riduzione del deficit e, dall'altra, che ogni anno si proceda ad un aggiustamento strutturale di almeno lo 0,5% fino all'azzeramento del deficit. Sulle pensioni la partita è ancora aperta. La parola spetta ora ai sindacati. Nelle intenzioni del governo sembra che lo scalone verrà trasformato in due scalini. Nel 2008 si dovrebbe poter andare in pensione a 58 anni (anziché a 60 anni) e poi dal 2010 ci dovrebbe essere un inasprimento dei requisiti contributivi e anagrafici per avere una pensione piena. E' un nuovo scardinamento della riforma varata nel 1996 che prevedeva solo requisiti anagrafici (dai 57 ai 65 anni) per l'andata in pensione. Le quote sono complicate da capire, penalizzano le donne che hanno carriere contributive più brevi e portano a risparmi di spesa minimi. Non si sa ancora come verranno finanziati i costi della rimozione dello scalone. Soprattutto non sembra in vista un accordo riguardo ai cosiddetti coefficienti di trasformazione, quelli che serviranno a calcolare l'importo delle pensioni nel nuovo sistema contributivo. Il problema vero delle nostre pensioni è proprio quello di attribuire regole certe a chi inizia oggi a lavorare, mettendolo al riparo dal rischio politico di nuovi cambiamenti dei criteri di calcolo delle pensioni magari a ridosso dell'andata in pensione, quando si ha meno tempo per premunirsi. L'operazione che andava fatta, che doveva essere fatta fin dal 2005 per applicare la riforma Dini del 2006, era proprio la revisione dei coefficienti di trasformazione. Si annuncia solo l'ennesimo rinvio. Ciò significa che milioni di famiglie rimarranno in ansia. Il tormentone sulle pensioni non è affatto finito. Ci sarà solo la tradizionale pausa estiva. da lastampa.it Titolo: TITO BOERI. - Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2008, 12:23:53 pm 21/1/2008
Camicia di forza TITO BOERI Dopo nove mesi e otto giorni di estenuanti trattative, con sei mesi di ritardo rispetto alla scadenza naturale del contratto, i lavoratori metalmeccanici hanno ieri finalmente trovato un accordo. Questa volta hanno firmato tutti, anche la Fiom. E’ un bene che si ponga fine a un conflitto sociale che poteva degenerare in una fase delicata, di crescente instabilità politica. È un bene anche porre fine a manifestazioni di piazza e blocchi stradali, che avevano già arrecato non pochi disturbi ai cittadini. Ma non ci sono lezioni né di merito, né di metodo da imparare da questo contratto. L’accordo è figlio di quegli assetti centralizzati della contrattazione, con un forte coinvolgimento dell'esecutivo e con un forte appiattimento retributivo, che hanno portato all'esplosione della cosiddetta questione salariale. La presenza di un accordo nazionale inderogabile, con un ulteriore incremento salariale uniforme per tutte le imprese che non fanno contrattazione di secondo livello, impone incrementi salariali uguali su tutto il territorio nazionale, a dispetto di differenze consistenti nel costo della vita. Lo impone a un insieme di imprese molto diverse, che vanno dalla Fiat alle aziende che producono software, da quelle della componentistica elettronica a quelle artigianali della lavorazione dei metalli, dagli odontotecnici agli orafi. Non si rendono possibili quelle innovazioni nella struttura retributiva che possono favorire un recupero della produttività e, con essa, un più forte incremento dei salari. Non si riesce, una volta di più, a innovare l'organizzazione del lavoro: la sua disciplina, peraltro molto dettagliata, nel contratto dei metalmeccanici rimane ancora la stessa di 35 anni fa. E il coinvolgimento diretto del governo nella contrattazione salariale lo espone a pressioni che non dovrebbe subire: il salario nel settore privato non è materia di sua competenza. Da domani, c'è da scommetterlo, torneremo ad assistere alla questua per spartirsi il nuovo tesoretto sotto la minaccia di uno sciopero generale, già indetto per il 15 febbraio. Non passa giorno senza che arrivino nuove richieste per spartirsi la torta, da chi sin d'ora è stato escluso dal negoziato. Prima Confindustria ha chiesto di ridurre di 5 punti il cuneo fiscale sul lavoro, proponendo, bontà sua, di destinare questa volta 3 punti ai lavoratori e 2 ai datori di lavoro. Poi sono arrivate le richieste delle sigle destinate normalmente alle briciole, ai posti in seconda fila ai tavoli della concertazione. E poi c'è una concertazione in atto all'interno della stessa maggioranza. Si discute su a chi dare e a chi togliere. Non stupisce che i sindacati reclamino sconti fiscali per i loro iscritti; né che l'associazione degli imprenditori li reclami, questi sgravi, per i propri aderenti. Sorprende invece che il governo non abbia sin qui avuto la capacità di arginare queste richieste sempre più pressanti indirizzandole a una strategia di politica economica che miri a risolvere i due problemi di fondo del paese: la bassa crescita strutturale e gli oneri imposti dalla montagna di debito pubblico. Il malessere che i lavoratori lamentano trae origine proprio dalla combinazione di questi due problemi. In una economia che non cresce non vi sono risorse da redistribuire, non ve ne sono per migliorare le condizioni di vita, non ve ne sono per investire nel proprio futuro. In un'economia oberata dal debito pubblico, il peso della tassazione lascia poche risorse disponibili ai consumatori limitandone la capacità di spesa. Proprio per questo non si possono risolvere i problemi del nostro paese con una semplice redistribuzione delle risorse. L'unico risultato sarebbe quello di avere l'anno successivo un'altra categoria pronta a porgere il cappello perché è venuto il suo turno. Il reddito disponibile del settore privato nel suo complesso non cambierebbe e, con esso, in modo significativo la domanda di beni. Gli squilibri della finanza pubblica rimarrebbero gli stessi di prima o peggiorerebbero. Questo modo di procedere ci condanna, in prospettiva, a una guerra fra poveri, destinandoci a perdere sempre più posizioni nella gerarchia internazionale dei paesi per reddito pro capite. Dopo la signora Ruiz sarà il signor Stavrakis a superarci. Per cercare una via d'uscita ai problemi del paese e al malessere degli italiani bisogna che la politica economica e, con questa, la contrattazione tra le parti, tornino a guardare in avanti anziché indietro. La questua di queste settimane guarda solo all'indietro, vuole ridistribuire l'extragettito del 2007, dando per scontato il fatto che si ripeterà nel 2008. Il governo prende tempo aspettando di conoscere i consuntivi dell'anno scorso. Mentre la contrattazione salariale interviene in costante e crescente ritardo per rimediare a posteriori alla perdita di potere d'acquisto dei salari. Tutto questo non può incentivare, stimolare comportamenti che facciano crescere il paese, la produttività del lavoro e l'occupazione, quantità e qualità dell'impiego al tempo stesso. Ecco un impegno che il governo e l'opposizione potrebbero prendere nei confronti degli italiani. Il prelievo fiscale sul lavoro diminuirà quando e dove si riuscirà a far crescere produttività e occupazione al tempo stesso. Le parti sociali saranno così stimolate a rafforzare il legame fra salario e produttività in ciascuna impresa. Forse penseranno di più a come rendere più produttivi e stabili i tanti nuovi posti creati in questi anni tra i giovani e gli immigrati, ignorati una volta di più dal contratto dei metalmeccanici (che pone un tetto di quasi 4 anni al lavoro temporaneo, un’eternità). E sarà chiaro a tutti che è la crescita a rendere possibile il taglio delle tasse anziché il contrario. da lastampa.it Titolo: TITO BOERI. - Inserito da: Admin - Novembre 11, 2008, 11:48:57 pm Una missione per la politica
di TITO BOERI Sono in molti in Italia ad avere issato lo spinnaker sperando di gonfiarlo col ponente teso che spira dopo la vittoria di Barack Obama. Ma non basta usare vele con nomi anglosassoni e agitare le bandiere di "chi può" per tornare a essere politicamente competitivi. Il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha di fronte a sé un'agenda obbligata e margini di manovra molto ristretti. Ha vinto con un programma meno radicale di quello di Hillary Clinton. Né si intravedono sin qui quei grandi cambiamenti nelle coalizioni di governo, i cosiddetti "political realignments", che preludono alle grandi svolte nella politica americana. I ripetuti messaggi di continuità con l'amministrazione Bush lanciati nella prima conferenza stampa da presidente degli Stati Uniti in pectore sono indicativi. Investire sul futuro di Obama è perciò un'impresa ad alto rischio. Molto meglio investire sul passato di Obama, sulla sua incredibile campagna elettorale, fatta di primarie vere, dall'esito spesso imprevedibile perché molto più partecipate che in passato, e di internet, come strumento di comunicazione e di finanziamento. Abbiamo molto da imparare dal candidato Obama nel migliorare i processi di selezione della classe politica all'interno del nostro paese. Il suo "yes, we can" è soprattutto un riconoscimento alla democrazia di internet, alla sua capacità di moltiplicare il potere delle idee, al di là, se non contro, i grandi mezzi di comunicazione. Ma internet non sarebbe bastato se non ci fossero state regole che permettono una vera competizione all'interno dei partiti, aperta anche a chi sta fuori dall'establishment. Chi vuole raccogliere la bandiera di Obama deve accettare queste regole, deve permettere una vera competizione nel mercato del lavoro dei politici. Ne abbiamo disperato bisogno. I problemi del nostro paese sono in gran parte problemi di inadeguatezza della nostra classe dirigente, a partire dalla classe politica. Nel passaggio dalla Prima alla seconda Repubblica il processo di selezione della nostra classe politica è solo peggiorato. Una volta esistevano i partiti di massa che svolgevano al loro interno la selezione. Contavano le decisioni dei vertici, ma anche i militanti potevano dire la loro. Difficile essere candidato senza il gradimento della base, anche in un collegio elettorale sicuro. Poi i partiti di massa si sono sgonfiati, il rapporto fra militanti ed elettori è crollato, e sono rimasti quasi solo i capi partito a selezionare la classe politica. Il loro potere è sopravvissuto alla crisi dei partiti, in alcuni casi si è addirittura rafforzato grazie alla crisi dei partiti, come dimostrano i tanti one-man party che sono fioriti negli ultimi anni. Cosa ha dato a questi comandanti senza esercito tanto potere? Sicuramente il finanziamento pubblico dei partiti che ha messo ingenti risorse a disposizione delle segreterie. Ma anche regole elettorali, come le liste bloccate, che hanno reso autocratica la selezione dei politici. Come è stato usato tutto questo potere dai segretari dei partiti? Male, molto male, almeno dal nostro punto di vista. Abbiamo avuto parlamentari sempre più vecchi e sempre meno istruiti, come documentano i dati raccolti da un gruppo di ricercatori coordinati da Antonio Merlo dell'Università della Pennsylvania (www. frdb. org). La quota femminile è rimasta più o meno la stessa. Sono, invece, aumentate le cooptazioni all'interno della classe dirigente: la quota di manager tra i nuovi parlamentari, ad esempio, è costantemente cresciuta fino a toccare il record nelle ultime elezioni, con un manager ogni quattro nuovi eletti. La candidatura di qualcuno dell'establishment rientra spesso in uno scambio di favori. Meglio se il candidato è inesperto e non intende fare carriera in politica. Anche a costo di sguarnire le commissioni parlamentari, è bene tarpare le ali a potenziali concorrenti. Fatto sta che in Italia c'è una fortissima rotazione nei parlamentari: un deputato su tre rimane in carica per un solo mandato, contro, ad esempio, uno su cinque negli Stati Uniti. E' un bene? Niente affatto. La politica è una professione impegnativa, si impara facendo. Oggi l'Italia è dominata da un gruppo ristretto di politici a vita che danno l'illusione del ricambio permettendo a innocui "volti nuovi" di entrare a Montecitorio o a Palazzo Madama. Non si investe in nuovi parlamentari. Né i nuovi parlamentari investono in una carriera tra gli scranni: semmai il Parlamento diventa un parcheggio, una pausa in cui coltivare reti di relazioni utili per il dopo. Il tutto avviene, ovviamente, a carico dei contribuenti. Ed è un carico elevato dato che gli stipendi dei parlamentari sono aumentati a tassi da boom economico (+4% l'anno) dal 1980 ad oggi, mentre il Paese entrava progressivamente in una lunga fase di stagnazione. La nostra ben pagata pattuglia al Parlamento Europeo è storicamente quella coi tassi di rotazione più alti dell'Unione: addirittura un parlamentare su tre lascia prima della fine del suo mandato. E' un mestiere complicato quello del parlamentare europeo. Quando si comincia a imparare qualcosa, si sono già fatte le valige, meglio i bauli, del rimpatrio. I cappellini pro-Barack sono "one size fits most", una taglia va bene per molti, ma non per tutti. Chi vuole metterseli in testa deve accettare di cambiare le regole di selezione della classe politica. Basta col finanziamento pubblico dei partiti. Basta con le liste bloccate. Meno parlamentari e, quei pochi, scelti con cura dalla base dei partiti nell'ambito di primarie vere, il cui esito non è precostituito dalle segreterie. C'è qualcuno lassù disposto a raccogliere questa sfida? (11 novembre 2008) da repubblica.it Titolo: TITO BOERI. Improvvisazione al potere Inserito da: Admin - Novembre 25, 2008, 12:10:32 pm ECONOMIA LE RISORSE ANTICRISI
Come trovare più soldi per le famiglie di TITO BOERI IL GOVERNO ieri sera ha presentato un piano di circa quattro miliardi di euro per contrastare la recessione. Sono troppo pochi e vengono dispersi, come al solito, in mille rivoli. Quindi saranno del tutto inefficaci. È possibile invece attuare interventi più ambiziosi senza mettere a rischio i nostri conti pubblici. Per farlo però ci vogliono due condizioni. La prima è saper scegliere le priorità, le cose da fare e quelle da non fare. Solo pochi interventi mirati, consistenti e duraturi sono in grado di avere un impatto sul comportamento di famiglie e imprese riducendo la durata della crisi, contribuendo in questo modo a migliorare i nostri conti pubblici. La seconda condizione è saper approfittare della recessione per rimettere la casa in ordine, come stanno facendo tutte le famiglie e le imprese italiane. È possibile avviare fin da subito un processo di ristrutturazione della spesa pubblica che porti a risparmi consistenti quando saremo usciti dalla crisi. Nessuno ci chiede di ridurre il nostro indebitamento oggi, nel mezzo della crisi. Possiamo permetterci di agire su due tempi: oggi stimolare l'economia, preparando le condizioni per riduzioni di spesa che si materializzeranno domani, completando il risanamento dei nostri conti pubblici. I veri vincoli sono politici L'impressione è che i veri vincoli contro i quali oggi si scontra l'azione di governo siano politici. Da settimane si succedono gli annunci di grandi piani a sostegno di banche, imprese e famiglie o per grandi infrastrutture. Poi tutti questi piani faraonici il giorno prima di essere varati vengono rinviati o derubricati. Il fatto è che non si è trovata una sintesi. I costi di queste indecisioni sono altissimi. In un periodo in cui grande è solo l'incertezza, con le famiglie italiane terrorizzate dalla crisi, questi continui rinvii alimentano il sospetto che alla fine tutti questi annunci si risolveranno nel nulla. Così le banche continuano a disfarsi di attività e a stringere il credito, le imprese a tagliare costi e personale e le famiglie a stringere la cinghia. Quali priorità nel contrastare la recessione? La riforma degli ammortizzatori sociali, come ormai riconosciuto da tutti (incluso il Fondo Monetario Internazionale) è la priorità numero uno per il nostro paese. Ma non per il ministro del Welfare. Secondo Sacconi (intervista a Repubblica di venerdì scorso) ci sono al massimo le risorse per ampliare i cosiddetti "fondi in deroga" e per concedere una copertura una-tantum "di emergenza" ai lavoratori del parasubordinato. Chi propone una riforma definitiva degli ammortizzatori sociali, sempre secondo il ministro, "non si confronta con i numeri di finanza pubblica". Vediamoli allora questi numeri. Nel 2009 scadranno titoli di stato per un quinto del nostro debito. La crisi ha fatto scendere il loro rendimento di circa uno-due punti, a seconda delle scadenze. Come stimano Angelo Baglioni e Luca Colombo su lavoce questo significa risparmi dell'ordine di 3,8 miliardi di euro di spesa per interessi sul debito. Sommando a questi le risorse che si risparmierebbero abrogando l'anacronistica detassazione degli straordinari, che sta contribuendo a distruggere posti di lavoro, vorrebbe dire avere a disposizione più di 4 miliardi di euro per riformare gli ammortizzatori. Bastano e avanzano per introdurre un sussidio unico di disoccupazione allargato ai lavoratori parasubordinati (costo nella recessione di 2 miliardi e mezzo) e per allungare i sussidi forniti ai lavoratori delle piccole imprese (circa un altro miliardo e mezzo di euro). A regime queste risorse potranno essere reperite razionalizzando la spesa per le cosiddette politiche attive, molto costose e di dubbia efficacia, specie in periodi di recessione. Quindi la riforma degli ammortizzatori si può fare senza aumentare le spese rispetto a quanto previsto a settembre. Se non la si fa è per pura scelta politica. Ci sono risorse per altri interventi? I nostri conti pubblici sono fortemente peggiorati nel 2008. Il rapporto deficit-pil è quasi raddoppiato dal 2007 (1,6%) al 2008 (dovrebbe attestarsi al 2,7-2,8%). Non è solo colpa della congiuntura. Nel 2008 le entrate fiscali sono cresciute meno che in passato in rapporto all'andamento dell'economia e dei prezzi. Soprattutto le entrate dell'Iva sono state deludenti. Il Governo ha abolito una serie di misure antievasione introdotte nella passata legislatura (dall'obbligo di tenere l'elenco clienti fornitori alla tracciabilità dei compensi, dall'innalzamento del tetto per i trasferimenti in contante all'eliminazione dell'invio telematico dei corrispettivi). Il messaggio di lassismo fiscale è stato forte e chiaro, anche alla luce della performance dell'attuale ministro dell'Economia nel quinquennio 2001-6. L'aumento dell'evasione finisce anche oggi per concentrare il prelievo fiscale sul lavoro dipendente, la cui quota sulle entrate tributarie dovrebbe quest'anno raggiungere il massimo assoluto (26,5%, più di un euro su quattro). Quindi le minori entrate non riducono la necessità di riduzioni del carico fiscale del lavoro dipendente, che finirebbero per beneficiare subito le famiglie e, gradualmente, anche le imprese. Ad esempio, un incremento permanente di 500 euro delle detrazioni fiscali a favore di lavoratori dipendenti e parasubordinati costerebbe circa 6 miliardi. Sarebbe di gran lunga più efficace di interventi estemporanei, che essendo percepiti come tali, finirebbero per alimentare soprattutto i risparmi delle famiglie. L'aumento delle detrazioni beneficerà soprattutto chi ha redditi più bassi, stimolando maggiormente i consumi. Come finanziare queste riduzioni del prelievo sul lavoro? Sia la Commissione Europea che il Fondo Monetario Internazionale ci chiedono di rinviare l'aggiustamento a dopo il 2009. Si potranno trovare le coperture dopo. Ma questo non significa non cercare subito di procurarsele. Al contrario, bene approfittare della crisi per avviare un processo di ristrutturazione della spesa pubblica che può portare a consistenti risparmi e a un miglioramento dei servizi forniti ai cittadini. Si tratta qui di entrare nei dettagli, capitolo di spesa per capitolo. Non sono possibili generalizzazioni. Solo il metodo è lo stesso. Occorre individuare i tagli di spesa fatti bene, che permettano riduzioni di tasse migliorando la qualità dei servizi resi ai cittadini, rimuovendo i vincoli legislativi e agendo sugli incentivi delle amministrazioni e sul controllo sociale che viene esercitato su di loro dalle famiglie. Nelle prossime settimane cominceremo a fare questa ricognizione, prendendo in considerazione una varietà di voci. Partiremo da scuola ed edilizia scolastica (il 9% del bilancio dello Stato) per occuparci poi di giustizia (1,6%), trasporti (1,7%), infrastrutture (0,8%), ordine pubblico e sicurezza (2%) previdenza (14,7%) e, infine, rapporti con le autonomie locali (22,6%). In tutto copriremo così più del 50 per cento del bilancio pubblico, addirittura due terzi di quello al netto degli oneri sul debito. (Questo articolo esce oggi anche sul sito lavoce) (25 novembre 2008) da repubblica.it Titolo: TITO BOERI. - Se Gheddafi spazza le norme anti-Opa Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2008, 02:56:49 pm ECONOMIA LA POLEMICA
Se Gheddafi spazza le norme anti-Opa di TITO BOERI La prima della Scala è stata trasmessa in mondovisione sugli schermi di mezzo pianeta, ma non in Italia. I nostri telespettatori non sono così balzati sulla sedia accorgendosi che un tenore americano era stato affiancato all'ultimo minuto alla soprano. Ma hanno avuto anche loro una sorpresa: il corposo ingresso nell'Eni di un fondo sovrano, di dubbio candore, nella prima delle nuove norme sulle Opa. Ricordiamo i passi salienti di questa vicenda, purtroppo meno avvincente dell'opera verdiana. Nelle pieghe del decreto anti-crisi approvato dieci giorni fa dal governo vi sono alcune norme che rendono più difficile scalzare il management di un'impresa mal gestita. In particolare, si è rimossa la passivity rule, la norma che impedisce agli amministratori della società bersaglio di intraprendere azioni per ostacolare il successo di un'offerta pubblica d'acquisto (Opa) di azioni della società. È una scelta paradossale in un pacchetto anti-crisi perché deprime ulteriormente i corsi delle azioni delle società quotate a Piazza Affari e, dunque, i risparmi di milioni di piccoli risparmiatori che già hanno subito ingenti perdite in conto capitale negli ultimi 12 mesi. Il nostro presidente del Consiglio aveva preannunciato questo provvedimento fin da metà ottobre come una misura necessaria "per evitare che aziende italiane sottovalutate per le attuali condizioni di mercato fossero oggetto di Opa da parte di fondi sovrani". Aveva anche aggiunto di avere avuto notizia di fondi sovrani, soprattutto "di paesi produttori di petrolio", intenzionati a "investire massicciamente sui nostri mercati". Da allora ci siamo chiesti, anche su queste colonne, perché per ostacolare l'intervento di fondi sovrani nel capitale delle nostre imprese si dovessero irrigidire le nostre norme sulle Opa, internazionalmente riconosciute come equilibrate e trasparenti. Ammesso e non concesso che i fondi sovrani fossero davvero una minaccia per le nostre imprese, non sarebbe stato meglio regolare l'ingresso di fondi sovrani nel capitale delle nostre imprese strategiche anziché irrigidire le norme sulle Opa? E a quali temibili fondi sovrani di paesi produttori di petrolio faceva riferimento il nostro presidente del Consiglio? In questi giorni abbiamo avuto la risposta alla seconda domanda, ma non alla prima. Un comunicato della Presidenza del consiglio dei ministri ci ha informato che il governo libico ? attraverso il suo fondo sovrano (il Lybian Energy Fund, Lef) ? entrerà nel capitale azionario della maggiore azienda energetica italiana, l'Eni, con una quota fino al 10 per cento, una partecipazione più alta di quella oggi detenuta dalla Cassa Depositi e Prestiti, ormai trasformata in banca governativa. Il Lybian Energy Fund, come secondo azionista, potrà nominare un proprio rappresentante nel consiglio d'amministrazione dell'Eni, una compagnia di cui lo Stato ha voluto mantenere il controllo proprio in virtù della sua natura strategica. Sebbene un tempestivo editoriale del Sole24ore, quotidiano di proprietà di Confindustria, che a sua volta riceve un'importante quota associativa dall'Eni, ci abbia prontamente rassicurato sul vero significato di questa operazione ("una nuova pagina nei rapporti fra Italia e paesi emergenti"), è legittimo pensare che tra i temibili fondi sovrani cui faceva riferimento il nostro presidente del Consiglio ci fosse anche il Lef. Del resto, Sergio Romano ha ieri svelato sul Corriere della Sera che i reggenti dei paesi alle porte di casa nostra si erano sentiti direttamente chiamati in causa dalle parole del nostro presidente del Consiglio. Cerchiamo allora di capire. Il nostro governo vara norme che rendono meno contendibili le nostre imprese in nome della protezione delle nostre imprese strategiche dai fondi sovrani dei paesi produttori di petrolio. Al tempo stesso accoglie a braccia aperte un fondo sovrano libico in un'impresa strategica per i nostri approvvigionamenti di energia. Torniamo perciò alla domanda inevasa. A cosa servono veramente le nuove norme sulle Opa? Forse a proteggere la struttura di controllo delle nostre imprese, anche quelle meno strategiche, da qualunque investitore intenzionato a fare meglio del management attuale? E in cambio di cosa si concede protezione a questo management, che in diversi casi ha contribuito attivamente al declino economico del nostro paese? Confidiamo questa volta in delle risposte vere. Perché la foglia di fico messa sulle nuove norme anti-Opa è volata via con il libeccio di questo lungo weekend. (9 dicembre 2008) da repubblica.it Titolo: TITO BOERI. Improvvisazione al potere Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2008, 10:38:39 am ECONOMIA IL COMMENTO
Improvvisazione al potere di TITO BOERI Un mese fa il governo annunciava, per bocca del ministro del Welfare Sacconi, la proroga al 2009 della detassazione delle ore di lavoro straordinario, una misura volta a incoraggiare orari di lavoro più lunghi (per chi un lavoro ce l'ha e lo avrà anche nel 2009). I tecnici del ministero del Welfare legittimavano pubblicamente questa scelta perché per "sostenere la crescita e incrementare la produzione occorre lavorare di più". Sabato, nella conferenza stampa di fine anno, il Presidente del Consiglio Berlusconi ha, invece, proposto di ridurre l'orario di lavoro, portando la settimana lavorativa a 4 giorni. E gli stessi tecnici che avevano fino a qualche settimana fa elogiato la detassazione degli straordinari si sono affrettati a rimarcare (sugli stessi giornali che avevano ospitato i loro interventi precedenti) che queste misure serviranno per "fronteggiare l'emergenza economica e salvaguardare i livelli occupazionali". Intuendo lo smarrimento degli italiani, poniamoci la domanda che molti di loro si saranno posti: aveva ragione il Governo (e i suoi tecnici) un mese fa a incoraggiare il lavoro straordinario o ha ragione il Governo (e i suoi tecnici) a sostenere ora esattamente il contrario, vale a dire, l'orario di lavoro ridotto? A giudicare dalle esperienze internazionali, la risposta è nessuno dei due. La detassazione degli straordinari era una misura del tutto anacronistica in una fase recessiva, quando si tratta soprattutto di contenere la distruzione di posti di lavoro. I texani amano parlare senza mezzi termini. Il più titolato studioso di domanda di lavoro, Daniel Hamermesh, viene da lì e in un recente incontro all'Isae ha definito la detassazione degli straordinari una misura "demenziale" nell'attuale congiuntura. Il giudizio lapidario non voleva, crediamo, incoraggiare a fare esattamente l'opposto anche perché non sempre l'opposto di una cosa demenziale è una cosa giusta. Eppure il Senatore Francesco Casoli, che sembra abbia ispirato le affermazioni di Berlusconi a favore degli orari ridotti, ha riesumato lo slogan comunista degli anni 90: "lavorare meno, lavorare tutti". Purtroppo, come mostrano le ripetute fallimentari esperienze francesi, prima con le 39 ore di Mitterrand e poi con le 35 ore della Aubry, ogni volta che lo stato riduce d'imperio l'orario di lavoro finisce per distruggere posti di lavoro e scontentare tutti, a partire dagli stessi lavoratori. Il fatto è che gli orari di lavoro non possono che essere definiti e contrattati azienda per azienda, sulla base delle specifiche esigenze dell'organizzazione del lavoro e del personale. E' auspicabile che in molte aziende, invece di licenziare dei lavoratori, si riesca a rimodulare gli orari di lavoro, prevedendo orari di lavoro ridotti per molti, se non proprio per tutti. Ma sono scelte e decisioni che vanno prese azienda per azienda e nell'ambito di patti di solidarietà fra gli stessi lavoratori, che accettino in questo caso riduzioni del proprio salario mensile, pur di salvaguardare il posto di lavoro di altri lavoratori. Gli strumenti normativi per permettere tutto ciò, dalla Cassa Integrazione Ordinaria ai contratti di solidarietà, esistono già nel nostro paese. Quello che manca, semmai, è la contrattazione decentrata, azienda per azienda. Ma questo è un altro discorso. Non riguarda il Governo, ma le parti sociali. Berlusconi nel lanciare la sua proposta sugli orari ridotti non ha citato il senatore Casoli, ma Angela Merkel. C'è una cosa che accomuna il nostro governo e quello tedesco. Entrambi stanno facendo molto poco per contrastare la recessione. Invece di stimolare la domanda, il Governo tedesco ha introdotto un sistema di garanzie agli investimenti (soprattutto delle piccole imprese e nell'industria dell'auto). Le garanzie, tuttavia, funzionano solo in fasi espansive, quando c'è una forte domanda di investimenti. Il nostro paese ha addirittura varato misure, almeno sulla carta, di contrazione fiscale. Toglieranno risorse a famiglie e imprese, anziché metterne di più in circolazione. Forse per questo sia in Germania che in Italia chi è al governo preferisce parlare di materie che non sono di sua competenza, come l'orario di lavoro. "La crisi è nelle mani dei consumatori" ha detto nella stessa conferenza stampa, il nostro Presidente del Consiglio. In verità la durata e l'intensità della crisi è innanzitutto nelle mani del governo. Dovrebbe dare ai cittadini messaggi meno contraddittori se vuole che aumenti la fiducia di famiglie e imprese. Dovrebbe parlare apertamente della crisi, invece di cercare di inventarsi altri terreni di confronto, come Nixon che di fronte all'esplosione dello scandalo Watergate decise nel 1972 di andare in Cina per spostare altrove l'attenzione generale. Non è esorcizzando i problemi e chiedendo ai giornali di parlare d'altro (magari dedicando intere paginate alla band del ministro dell'Interno) che si risolve la crisi. Per questo speriamo che nessuno voglia raccogliere l'invito di Berlusconi a non pubblicare previsioni a tinte fosche, come quelle elaborate dal Centro Studi Confindustria, perché "le profezie negative si autoavverano". Al contrario, è proprio ridurre l'informazione e spargere finto ottimismo che allunga la crisi. Quando l'informazione non è accurata, aumenta solo l'incertezza, e l'incertezza è la peggiore nemica di quegli investimenti che ci porteranno, prima o poi, fuori dalla recessione. (22 dicembre 2008) da repubblica.it Titolo: TITO BOERI. - Ecco come sarà la nuova Alitalia Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2009, 10:12:43 am ECONOMIA
A Parigi il 25% per 300 milioni. Ecco come sarà la nuova Alitalia Un conto da 4 miliardi Accordo fatto con Air France di TITO BOERI DIECI mesi dopo, con quasi lo 0,3 per cento di pil sottratto ai contribuenti e 7.000 posti di lavoro in meno, Alitalia torna a parlare francese. Era il 14 marzo 2008 quando Air France-KLM depositava la propria offerta vincolante, subito accettata dal Consiglio di Amministrazione di Alitalia. Sono stati 10 mesi da incubo per i viaggiatori, presi ripetutamente in ostaggio in una battaglia senza esclusioni di colpi in cui la politica ha occupato un ruolo centrale, dimentica della recessione che ci stava investendo. In questi 300 giorni gli italiani hanno visto franare il prestito ponte di 300 milioni di euro concesso quasi all'unanimità dal Parlamento italiano. Oltre a perdere così un milione al giorno, i contribuenti si sono accollati i debiti contratti dalla bad company per quasi tre miliardi. Ci sono poi circa 7.000 posti di lavoro in meno nella nuova compagnia rispetto all'offerta iniziale di Air France, che comporteranno, oltre ai costi sociali degli esuberi (soprattutto di quelli che riguardano i lavoratori precari), oneri aggiuntivi sul contribuente legati al finanziamento in deroga degli ammortizzatori sociali, per almeno un miliardo di euro. Il conto pagato dal contribuente è, dunque superiore ai 4 miliardi di euro, più o meno un terzo di punto di pil, quasi due volte il costo della social card e del bonus famiglia messi insieme. Sarà Air France-KLM l'azionista di maggioranza, in grado di decidere vita, morte e miracoli della compagnia sorta dalle ceneri di Alitalia. Poco importa che sia italiana la faccia, che si chiami ancora Alitalia la nuova compagnia. Sarebbe stato così comunque, anche con il 100 per cento del capitale nelle mani di Air France-KLM. Come canta Carla Bruni, chi mette la faccia "non è nulla", chi mette la testa "è tutto". La composita cordata italiana ha dovuto subito rinunciare all'italianità della compagnia perché non era da sola in grado di far decollare neanche il primo aereo, previsto in volo sui nostri cieli il 13 gennaio prossimo venturo. Air France rileva il 25% della nuova compagnia, versando 300 milioni. Questo significa che il 100 per cento del capitale viene oggi valutato 1200 miliardi, circa 150 milioni in più dei 1052 pagati a Fantozzi da Colaninno e soci solo un mese fa. Questo sovrapprezzo si spiega col fatto che CAI ha nel frattempo acquisito Air One. Si tratta di una compagnia in crisi, con un debito verso i soli fornitori valutato attorno ai 500 milioni di euro, ma il valore dell'acquisizione di Air One è tutto nella soppressione dell'unico concorrente sulla tratta Milano-Roma, consumatosi con il beneplacito della nostra Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Anche questi 150 milioni vanno aggiunti al conto pagato dagli italiani. E' sono sicuramente una sottostima dei costi che dovremo pagare per la mancata concorrenza. Conti fatti, è soprattutto Air France dunque ad aver fatto un affare. Rileva una compagnia più leggera di 7000 dipendenti rispetto a quella che avrebbe acquisito nel marzo scorso, che ha nel frattempo assunto una posizione di monopolio nella tratta più redditizia versando molto meno di quel miliardo su cui si era impegnata solo 10 mesi fa. Dopo avere subìto un danno ingente in conto capitale e avere assistito alla beffa finale di vedere documentata, nero su bianco, la svendita della loro compagnia di bandiera allo straniero da parte dei "patrioti" della Cai, i cittadini italiani rischiano ora di vedere salire ulteriormente le tariffe aeree, in barba alla deflazione. Per scongiurare questo pericolo l'Autorità Antitrust dovrà assicurarsi fin da subito che gli slot lasciati liberi da Alitalià vengano venduti sul mercato. Le speranze di concorrenza in Italia riposano ormai solo sull'ingresso di Lufthansa-Italia nella tratta Milano-Roma. Varrà senz'altro molto di più della moral suasion esercitata da chi, dopo aver benedetto la fusione fra CAI e Air One il 3 dicembre scorso, oggi promette di monitorare da vicino le tariffe della nuova compagnia. (2 gennaio 2009) da repubblica.it Titolo: TITO BOERI. «Il Parlamento? Oggi è un luogo dove coltivare i propri interessi» Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2009, 04:39:59 pm Boeri: «Il Parlamento? Oggi è un luogo dove coltivare i propri interessi»
di Claudia Fusani Un Parlamento che sembra diventato «terreno dove coltivare gli interessi della propria impresa». Una corruzione, «di favori e non di bustarelle», fenomeno «sommerso» e difficile da pesare anche nella nostra economia. E il Pd che deve «assolutamente cercare un nuova identità nella «capacità di ricambio della propria classe politica». Il viaggio nell’ Italia dei favori continua con il professor Tito Boeri, economista, docente della Bocconi e fondatore della Voce.info. Che tipo di corruzione è quella raccontata dalle inchieste di Firenze, Napoli, Pescara, Potenza? «Sembra più un fenomeno legato agli scambi, siamo quasi nel campo del baratto, voti in cambio di una gara d’appalto confezionata su misura, di un incarico prestigioso o di una nomina. Più difficile anche da perseguire da un punto di vista giudiziario». L’Ocse ci mette al 41° posto, la Banca Mondiale al 70° nella percezione del malaffare, lontanissimi dalle democrazie occidentali. Quanto pesa la corruzione sulla capacità di attrarre patrimoni e investimenti? «In Italia gli investimenti esteri sono molto bassi per le inefficienze del sistema legale e la poca trasparenza nelle regole. La corruzione pesa sul nostro sviluppo perchè evita la concorrenza». Stato “estraneo” rispetto al popolo, classe dirigente “barricata” a difesa dei suoi privilegi. In questi giorni giornalisti e sociologi indicano i responsabili di questo paese che sembra condannato alla corruzione. Come continua? «Con la Fondazione studi Rodolfo Debenedetti abbiamo individuato due problemi. Il primo attiene ai meccanismi di selezione della classe dirigente in Italia. Il secondo a quella che definiamo sanzione sociale contro la corruzione». Quello che un tempo era il senso civico... «Entrambi funzionano molto male. Sui meccanismi di selezione della classe politica, ad esempio. Una volta avevamo i partiti di massa che facevano scuola di politica e selezionavano i funzionari e li valutavano sul campo. Ora i partiti di massa non ci sono più, la selezione viene fatta dal segretario del partito, da vertici molto ristretti che hanno accentrato il potere anche grazie al finanziamento pubblico. Da ultimo è arrivata la ciliegina della legge elettorale senza preferenza. Di fatto oggi un segretario sceglie il candidato con meccanismi di cooptazione». Il risultato? «Abbiamo analizzato le coorti di ingresso in Parlamento dal dopoguerra a oggi. E abbiamo notato due cose: invecchiamento e abbassamento del livello di istruzione dei parlamentarii e calo di quelli con esperienze amministrative». L’identikit del nostro parlamentare? «Il 25% dei nuovi ingressi vengono dalle imprese. È la quota di manager più alta dal dopoguerra a oggi. Il risultato è che stanno in Parlamento una o al massimo due legislature. Restano però in contatto con il mondo della politica e diventano dei perfetti lobbisti. E il Parlamento è diventato il terreno dove si coltivano i propri interessi». Lobbismo non vuol dire corruzione. «No. Però è più facile perdere di vista il confine tra lecito e illecito quando la distinzione tra politica e affari non è netta. Sei stato in Parlamento per una legislatura, ti sei creato il tuo sistema di networking che poi utilizzi anche quando torni in azienda». Leggendo le intercettazioni delle ultime inchieste, che idea si è fatto di questa nuova ipotetica classe di corruttori e corrotti? «È una classe politica con un turn over molto elevato tra i parlamentari e zero ricambio tra i dirigenti del partito che si sentono garantiti nei loro incarichi anche se perdono e vanno all’opposizione». Perchè il Pd boccheggia sotto l’onda della questione morale? «Perchè avere una classe dirigente onesta è uno dei valori identitari del partito. Se quella classe viene travolta, perchè ha tradito quei principi, assistiamo agli effetti devastanti che abbiamo visto. Serve una segnale di rottura e riacquistare una nuova identità». Come? «C’è solo un modo: le primarie. Primarie vere, dal basso e senza cooptazioni dall’alto, far piazza pulita dei capibastone e selezionare persone nuove che siano responsabili di quello che fanno. Invece di rivendicare una unicità non più credibile, come quella di non essere corrotti, serve trovarne una nuova» 06 gennaio 2009 da unita.it Titolo: TITO BOERI. NESSUN COMPROMESSO SULLE MACERIE Inserito da: Admin - Aprile 14, 2009, 06:12:34 pm NESSUN COMPROMESSO SULLE MACERIE
di Tito Boeri 14.04.2009 Il Governo ha tempo fino a domani per decidere se tenere in un'unica consultazione, in un unico election day, elezioni europee, amministrative e referendum sulla legge elettorale. Lo stato risparmierebbe 173 milioni (stime, probabilmente per difetto, del Ministro Maroni che, più da esponente di un partito che da Ministro, si è speso molto per non fare l'election day), e i cittadini risparmierebbero altri 200 milioni di costi indiretti. In totale 373 milioni: uno spreco di risorse che non possiamo permetterci soprattutto dopo il terremoto in Abruzzo. Un Governo responsabile dovrebbe prenderne atto, tenere conto del plebiscito che sul web c'è stato in questi settimane a favore dell'election day e, dunque, cambiare la data del referendum. Eppure quello che si profila all'orizzonte è un "compromesso" molto costoso per i contribuenti e per chi ha bisogno di aiuto dallo Stato: il referendum sulla legge elettorale si dovrebbe tenere il 21 giugno con il secondo turno delle amministrative. E' un compromesso che costerebbe al contribuente circa 300 milioni, tra costi diretti e indiretti. Infatti, il ballottaggio in Italia, in genere, coinvolge un terzo dell’elettorato potenziale e solo i collegi in cui ci sono elezioni provinciali e in cui si vada al ballottaggio. Secondo le nostre stime, solo 21 delle 63 province potenzialmente coinvolte, torneranno a votare a due settimane dal voto alle europee. Le altre 88 province italiane (81 per cento del totale) saranno chiamate a votare unicamente per il referendum. Di qui lo spreco enorme di risorse che si avrebbe anche in questo caso. Ma che razza di compromesso è questo? Qui stiamo barattando una soluzione che fa risparmiare soldi allo Stato e tempo e denaro alle famiglie con una soluzione che costa ai contribuenti e a chi va a votare - e che per giunta riduce la partecipazione al voto, uno dei valori conclamati nella nostra Costituzione - pur di fare un piacere a un partito. E perché gli italiani tutti devono subire il diktat di un partito, votato dall'8 per cento dei cittadini? E’ un compromesso inaccettabile soprattutto dopo il terremoto. da lavoce.info Titolo: TITO BOERI. - Troppi appartamenti sfitti Inserito da: Admin - Luglio 25, 2009, 10:51:40 am 22/7/2009
Troppi appartamenti sfitti STEFANO BOERI Immaginatevi di creare dal nulla in cinque anni una città di circa duecentocinquantamila abitanti, estesa su quindici chilometri quadrati. Come Mestre, o Messina, o Prato. E di realizzare questa città grazie a una importante quota di finanziamenti statali (200 milioni di euro di partenza) e al supporto di fondi privati; cioè di costruttori, proprietari, banche interessate a investire per realizzare dell’edilizia residenziale destinata ai ceti meno abbienti. Ecco visualizzato in un’immagine il Piano Casa varato ieri dal Governo. È tanto? È poco? È sufficiente a rispondere al disagio abitativo di migliaia di cittadini italiani (famiglie a basso reddito, studenti fuori-sede, giovani coppie, sfrattati, immigrati)? Per rispondere a queste domande dobbiamo fare tre considerazioni. La prima è che si tratta di un atto politico opportuno e utile, che riprende una promessa di stanziamento del governo Prodi e ne attua una prima cospicua parte. Ma resta un atto parziale e limitato, se pensiamo che una sola Regione italiana, la Campania, avrebbe, da sola, bisogno di tutte le 100.000 nuove abitazioni previste nel prossimo quinquennio dal Piano Casa per dare risposta alla drammatica domanda di case a prezzi contenuti che proviene dai suoi abitanti. In altre parole, è come se una nuova Mestre o una nuova Messina servissero per ospitare i cittadini bisognosi di una sola, seppur grande, regione italiana. Lasciando insoddisfatto per i prossimi cinque anni il resto del Paese. La seconda considerazione è che questo Piano Casa è un intervento salutare e però anche monco. Gli manca quel pezzo importantissimo, anzi fondamentale, che riguarda tutti gli interventi di recupero, ristrutturazione e ampliamento che - grazie a facilitazioni e incentivi legati alla possibilità di rottamare edifici fatiscenti e di sostituirli con architetture sostenibili dal punto di vista energetico - il governo prevede di concordare con le Regioni italiane. È come se dopo aver discusso per mesi del Piano Casa vero, che potrà sul serio cambiare - nel bene e nel male - la situazione dell’edilizia residenziale dei territori del nostro Paese, ieri se ne fosse rubato il nome per metterlo sul cappello di un progetto molto più limitato, anche se importante. Se è dunque un bene che si sia partiti con l’intenzione di rispondere alle situazioni più drammatiche, va anche detto che proprio perché il disagio abitativo è oggi un fenomeno trasversale, che riguarda fasce diverse della popolazione urbana, è necessario che al più presto i due strumenti legislativi vengano riaccorpati e portati a coerenza. La terza considerazione, la più importante, è piuttosto un appello. Siamo ancora in tempo - anche per le ragioni appena esposte - a convincere il governo a varare un Piano integrato di politiche sulla casa che non eviti di affrontare il primo grande paradosso delle città italiane: sono città che continuano a crescere, a divorare annualmente in misura maggiore di ogni altro Paese europeo terreni verdi e campi agricoli, nonostante siano per gran parte degli immensi gusci vuoti, dei deserti di cemento. Siamo ancora in tempo a capire che senza una politica che si occupi con forza e ostinazione di recuperare alla vita quotidiana le migliaia e migliaia di vani oggi disabitati, ogni previsione di nuova edilizia residenziale assume dei toni caricaturali e addirittura minacciosi. Come abbiamo già scritto su queste pagine, per rendersi conto di questo paradosso basterebbe guardarsi attorno; memorizzare le offerte di affitto e vendita sui portoni delle case e soprattutto quelle infinite persiane chiuse delle abitazioni e quei serramenti senza vita degli uffici che - come le palpebre di occhi che non vedono più - ci guardano con una sospetta fissità nei nostri percorsi quotidiani in centro, in periferia, nella città diffusa. A Roma, su 1.715.000 abitazioni, 245.000 - una su sette - sono oggi vuote. A Milano su 1.640.000 appartamenti, più di 80.000 non sono abitati, e quasi 900.000 metri cubi di uffici sono deserti (l’equivalente di 30 grattacieli Pirelli vuoti). Muri, pavimenti, soffitti, arredi che aspettano da anni che qualcuno entri, li abiti, vi riporti le pulsazioni della vita quotidiana. Una seria politica di rivitalizzazione di questo immenso patrimonio sfitto o abbandonato muoverebbe le energie molecolari di migliaia di piccole imprese edili, l’intelligenza delle innumerevoli associazioni che si occupano di instaurare (ecco la vera sussidiarietà) uno scambio fiduciario tra proprietari e inquilini, aumenterebbe il reddito di migliaia di famiglie impaurite da un sistema dell’affitto sregolato e darebbe casa a prezzi calmierati a altrettante migliaia di cittadini bisognosi ma esclusi dai requisiti a volte rigidi delle politiche centralizzate. Qualcosa che sta accadendo, per fare un esempio vicino, in Spagna, a Barcellona, dove un’Agenzia di immobiliare sociale in pochi anni ha reimmesso sul mercato più di 20.000 abitazioni ad affitti calmierati. Altro che una nuova Mestre o una nuova Messina... Le case di cui abbiamo bisogno stanno già, costruite e vuote, dentro le città del nostro Paese. Recuperarle, ridar loro una linfa vitale è il primo modo di rispondere al fabbisogno abitativo; ed è il miglior modo per difendere da un’inutile - ripeto inutile - cementificazione le campagne che, ancora per poco, circondano le nostre bulimiche città. Architetto, docente di Progettazione urbanistica al Politecnico di Milano. Dirige la rivista Abitare da lastampa.it Titolo: TITO BOERI. - Governo, 15 mesi di vita spericolata Inserito da: Admin - Luglio 31, 2009, 11:47:54 pm L'ANALISI
Governo, 15 mesi di vita spericolata di TITO BOERI TRA i politici italiani va di moda Vasco Rossi. Oggi Berlusconi, nella conferenza stampa in cui presenterà i risultati dei primi 15 mesi del suo quarto governo, probabilmente farà molte bollicine. E cercherà di convincere tutti che il suo esecutivo è stato perfetto ed è andato al massimo. Ci lascerebbe senza parole. Quindi preferiamo scriverle prima. Il Berlusconi IV ha effettivamente avuto una vita spericolata, nel mezzo della recessione più grave del Dopoguerra. Non sono condizioni in cui è facile governare, benché avesse tutti i numeri per farlo. La grande crisi era e rimane globale, importata dall'estero, quindi certamente non imputabile al Governo. Anche se il nostro paese era già ben avviato verso una recessione e la prima manovra economica, quella varata in 5 minuti, non ne teneva affatto conto, la crisi sarebbe stata molto meno intensa di quella stiamo vivendo. A queste turbolenze se ne sono poi aggiunte altre tutt'altro che inevitabili. Ma questo è un altro discorso. È stato anche un Governo molto attivo. Sui media. Uno stillicidio di annunci. Serviti a guadagnare tanti titoli sulle prime pagine dei giornali, a occupare, se ce n'era ancora bisogno, ampie fasce dei Tg in prima serata. Non pochi, comunque, i provvedimenti varati. Un contrasto abissale rispetto all'immobilismo del Governo Prodi. Ma non c'è stata alcuna riforma, se non quella ancora tutta in fieri della pubblica amministrazione. Molti provvedimenti ad hoc, transitori, in deroga o in proroga. Ci lasceranno un'eredità pesante nel paese delle eccezioni e delle complessità normative. Renderanno più difficile il controllo della spesa pubblica. Se ne è già accorto l'esecutivo perché nella legge di assestamento di bilancio ha dovuto rifinanziare per 10 miliardi misure la cui entità era stata in origine sottostimata. Rimane una distanza siderale fra dichiarazioni di principio e atti concreti. Purtroppo in Italia c'è una memoria corta. Anzi cortissima. Cerchiamo allora di ricordare, spulciando il sito www.lavoce.info, cosa è successo di alcuni provvedimenti che hanno a lungo occupato le prime pagine dei giornali. Il Governo è indubbiamente avviato a soluzione il grave problema dei rifiuti in Campania. Da una settimana sono anche state pubblicate le graduatorie delle università che dovrebbero servire a distribuire il 7% dei fondi di finanziamento ordinario agli atenei. Il meccanismo di riparto, a quanto si sa, rende l'intervento poco più che simbolico. Ma anche i simboli contano. Si sono persi nel nulla la convenzione fra il ministero dell'Economia e l'Abi sui mutui prima casa e la Robin tax, che avrebbe dovuto tassare petrolieri, banche e assicurazioni. La crisi, con il calo dei tassi e dei prezzi del greggio, ha reso questi provvedimenti, già di per sé inefficaci, del tutto anacronistici. Basti pensare alle tasse trasformatesi in aiuti alle banche. Chi aveva sbandierato queste misure non si potrà certo vantare di avere previsto la crisi. Sorte analoga è toccata alla detassazione del lavoro straordinario che rischiava di aggravare ulteriormente le perdite occupazionali. Svolta a U. Roba da ritiro della patente. Ma bene essersi accorti dell'errore non troppo tardi. Poco successo hanno avuto i Tremonti bond, varati con grave ritardo dopo che le banche avevano rischiato di essere travolte dalla tempesta. Nessuno sembra volerli, tranne forse i Prefetti che avrebbero dovuto monitorarne l'utilizzo. Caduto nel vuoto anche l'impegno a mantenere inalterati i livelli di credito concessi alle piccole imprese applicando "condizioni di credito non penalizzanti". Se è vero, come lamentato più volte dal ministro dell'Economia, che le nostre piccole imprese sono strozzate dalle banche, anche il rifinanziamento del fondo di garanzia sembra essere stato del tutto inefficace. Dei ben quattro piani casa annunciati, ne è rimasto uno, per ora solo sulla carta, che non prevede nulla a sostegno dell'edilizia popolare. Innumerevoli anche gli annunci di opere infrastrutturali. Anche quei pochi progetti approvati riceveranno dal Cipe "finanziamento parziale", uno stratagemma per aprire i cantieri, ma creare in partenza le condizioni perché, come sempre, le opere non vengano completate. Non si è persa nel nulla l'abolizione dell'Ici sulla prima casa. Come pure il blocco delle addizionali Irpef (comunali e regionali) e Irap. Ma a questo punto la legge delega sul federalismo fiscale, che predica l'autonomia tributaria, "un senso non ce l'ha". Singolare che queste misure vengano oggi sbandierate nei documenti del governo, come volte a "sostenere i redditi e di ridurre la pressione fiscale". Peccato che sia il blocco delle addizionali che la riduzione dell'Ici siano stati introdotti a pressione fiscale invariata. Significa che verranno coperte da altre tasse, quelle che tipicamente colpiscono il lavoro. Oppure sui poveri. Per non "mettere le mani nelle tasche dei cittadini", si è infatti fatto ampio ricorso a imposte sui giochi, tasse che colpiscono i ceti meno abbienti. Non si è persa traccia neanche delle misure che servono a proteggere da scalate i gruppi di controllo delle nostre società (ad esempio riducendo i vincoli all'acquisto di azioni proprie). Chi invece non è stato protetto sono i più poveri. Molti i "titoli" sul contrasto della povertà: dal bonus famiglia, alla social card, al fondo di credito per i nuovi nati. Misure una tantum, poco più che simboliche e troppo selettive per raggiungere chi davvero ne ha bisogno. I dati Istat di ieri confermano che l'Italia, più di altri, vede crescere drammaticamente la povertà durante le crisi. Il fatto è che non ha strumenti universali di contrasto alla povertà. E i nostri ammortizzatori sociali sono pieni di buchi. Lo sapeva questo governo (a dispetto delle dichiarazioni sui nostri ammortizzatori "migliori del mondo"). Lo sapevano anche i Governi di centro-sinistra che non avevano fatto questa riforma. Ma con una crisi così dura all'orizzonte la riforma era davvero improrogabile. Non ci sono attenuanti per questo operato. Poco consola il fatto che Alitalia, che continua a perdere 2 milioni al giorno nonostante alcuni incredibili titoli di giornale, sia stata privatizzata. Lo Stato ha incassato poco più di 1 miliardo per cedere, inter alia, 64 aeromobili, tutti i diritti di atterraggio e decollo e il marchio. Lasciando in eredità al contribuente una massa debitoria, di gran lunga superiore a quanto incassato. Infine, nell'anno del G8 e delle grandi dichiarazioni sui sostegni all'Africa, sono state quasi dimezzate le risorse per la cooperazione allo sviluppo. E i famosi Global Legal Standards, che promettono battaglia senza quartiere ai paradisi fiscali e all'evasione fiscale, sono stati approvati appena in tempo per fornire una cornice all'introduzione dello scudo fiscale, un premio a chi ha esportato illegalmente capitali e alle organizzazioni criminali. Sulle intenzioni di questo governo nella lotta all'evasione fanno testo lo smantellamento di un insieme di importanti provvedimenti di prevenzione dell'evasione e la riduzione delle sanzioni in caso di mancato o ritardato pagamento delle imposte. La riduzione dei controlli sui posti di lavoro, volti a prevenire il lavoro nero, ci espone ancor di più al rischio di immigrazione clandestina, che sfrutta proprio l'ampia area di irregolarità presente nel nostro paese. Bene ricordarsi che i disperati che arrivano sulle coste siciliane rappresentano meno del 10% dei clandestini che oggi arrivano in Italia. In Africa si è troppo poveri per emigrare. È l'unica area del mondo rimasta in gran parte tagliata fuori dai grandi flussi migratori degli ultimi due decenni. Ma abbiamo fatto patti col diavolo pur di non far arrivare gli africani da noi. (31 luglio 2009) da repubblica.it Titolo: TITO BOERI. - Il ministro e lo stregone Inserito da: Admin - Settembre 07, 2009, 10:50:18 am ECONOMIA
IL COMMENTO Il ministro e lo stregone di TITO BOERI ADESSO capiamo perché il nostro ministro dell'Economia evoca così spesso gli stregoni. Il suo stile di governo ricorda da vicino quello del mago di Oz. Il mago di Oz era un pallonista (non necessariamente nel senso di contaballe quanto di guidatore di mongolfiere), trascinato da un ciclone (non è esattamente la stessa cosa di un grande ciclo economico negativo), su territori fino ad allora inesplorati. Oz era riuscito a convincere il popolo, che lo aveva visto scendere dal cielo su di un pallone, di essere un mago. Sarebbe stato in grado di proteggere le loro enormi ricchezze dalle streghe che popolavano ad ogni punto cardinale quelle lande. Si erano convinti di essere molto ricchi perché il "mago" li aveva costretti a indossare occhiali verdi, in grado di trasformare ai loro occhi i sassi in smeraldi. Non passava giorno che il Mago non se la prendesse con qualche strega, tranne che, curiosamente, con quella del Nord. Spingendo tutti a pensare alle streghe, riusciva a nascondere il fatto di non avere quelle capacità che gli venivano così generosamente attribuite. Da quanto è tornato in via XX Settembre, Giulio Tremonti è riuscito a evocare tante streghe quanti sono i venti: dai cinesi "che mangiano come noi" agli speculatori, dall'utilitaria "Tata Nano venduta in India per soli 2000 dollari" agli "avidi petrolieri". Mali assoluti, cui indiscriminatamente contrapporre la propria bravura altrettanto assoluta. Ieri è stata la volta dei banchieri, bersaglio facile facile nell'immaginario popolare. Come ci racconta David Landes, studioso delle grandi dinastie, sono sempre immancabilmente loro, i grandi banchieri dai Baring ai Morgan ai Rotschild, ad essere quelli più odiati dal popolo. Ecco una breve summa degli strali lanciati ai banchieri da un ramo del lago: "Fanno malefici alle imprese", "sono come signorotti sui ponti che impediscono il transito", "parlano in russo, si rivolgano a Putin", "vanno contro l'interesse del paese". Tanta violenza verbale fa il paio con l'inconcludenza del vertice dei Ministri delle Finanze del G20 a Londra, cui aveva partecipato "on his way to Cernobbio", riunione quest'ultima da lui seguita con ben maggiore attenzione e impatto del vertice londinese. Serve forse a coprire l'insuccesso dei Tremonti-bond, stranamente attribuito per una volta agli "utilizzatori finali", anziché a chi aveva ideato questi strumenti onorandoli del proprio nome. Vuole forse celare l'inefficacia delle misure approntate in questi mesi dal Ministro dell'Economia per fare accedere credito alle piccole imprese. Che il fine ultimo fosse uno scaricabarile è risultato evidente quando il Ministro ha esplicitamente attribuito ai banchieri gli stessi fallimenti della politica: le banche sono diventate talmente grandi, secondo Tremonti, da decidere loro al posto dei Governi democraticamente eletti. Se anche fosse vero, negli anni delle grandi aggregazioni bancarie Tremonti sedeva alla scrivania di Quintino Sella ed è stato un processo abbastanza lento, prevedibile, addirittura annunciato dalla costruzione del mercato unico. Perché allora non ha rafforzato in tutti questi anni i controlli e la supervisione delle banche di maggiori dimensioni, possibilmente coordinandosi con gli altri paesi dell'Unione? Sarebbe servito anche ad affrontare la grande crisi che, ovviamente, lui aveva "previsto sin dal 1995". Si narra che il mago di Oz avesse scelto come Governatore del suo regno uno spaventapasseri, cui aveva opportunamente riempito il cervello con una miscela fatta di crusca, spilli ed aghi. Forse il nostro apprendista stregone nutre in cuor suo lo stesso desiderio. Non vorremmo che fosse il Governatore di Banca d'Italia, il cui nome incute timore forse anche ai maghi, il vero bersaglio del nostro Ministro dell'Economia. Prepariamoci in ogni caso a vederne di nuove di streghe. Chissà a chi toccherà oggi. Anzi, proviamo a indovinarlo: toccherà proprio a noi, agli economisti. (7 settembre 2009) da repubblica.it Titolo: Il PATTO STUPIDO E LA PROSSIMA MANOVRA TRIENNALE Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2009, 07:00:27 pm Il PATTO STUPIDO E LA PROSSIMA MANOVRA TRIENNALE
di Tito Boeri e Pietro Garibaldi 09.10.2009 La Commissione Europea ha aperto una procedura per disavanzo eccessivo contro l'Italia. Certo, siamo in buona compagnia: sono venti gli Stati membri che non hanno rispettato le regole comunitarie sul bilancio. Ma il nostro caso nasconde un doppio paradosso. Imputabile essenzialmente al fatto che la manovra triennale avviata nel 2008 è stata particolarmente attenta a vincoli europei ormai del tutto anacronistici di fronte alla crisi. Senza affrontare i problemi strutturali del paese. Intanto, neanche i conti pubblici sono a posto. La vera manovra triennale sarà la prossima? Il Patto questa volta è davvero stupido. C’è dell’accanimento ragionieristico nella scelta della Commissione Europea di aprire procedure per disavanzo eccessivo nei confronti di 20 (su 27) stati membri. Mercoledì è stata la volta dell’Italia in compagnia di Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Germania, Olanda, Portogallo, Slovenia e Slovacchia. L’avvio della procedura serve a infliggere una sanzione politica, segnalando all’opinione pubblica governi che non rispettano le regole comuni. Ma quando sono tutti a violare le regole, la sanzione diventa un semplice adempimento burocratico. Come chiedere a un’intera classe indisciplinata di andare dietro alla lavagna. DOPPIO PARADOSSO Eppure è importante cogliere il doppio paradosso che si cela dietro questa nuova procedura contro il nostro paese. La manovra di bilancio triennale di cui va orgoglioso il nostro ministro dell’Economia ha preso avvio nell’estate del 2008, gli stessi giorni in cui Bruxelles certificava il nostro rientro dal disavanzo eccessivo registrato sotto la precedente reggenza Tremonti in via XX Settembre. Paradossalmente, la nuova manovra triennale ci ha portato in una nuova procedura di disavanzo eccessivo. Indubbiamente molte delle responsabilità vanno alla crisi. Ma anche alla volontà di non adeguare la manovra triennale alla crisi stessa, facendo per lungo tempo finta che non ci fosse. Ecco il secondo paradosso: la procedura si apre nonostante il nostro ministro dell’Economia sia stato particolarmente attento a vincoli europei divenuti del tutto anacronistici di fronte alla crisi. Ai ragionieri di Bruxelles abbiamo risposto con le armi del ragiunatt. Invece di concentrare le poche risorse disponibili su uno o due al massimo provvedimenti significativi, orizzontali, di sicuro impatto come la riforma degli ammortizzatori sociali o una significativa riduzione della tassazione sul lavoro, si è scelta la strada delle micro riallocazioni di bilancio a saldo pressoché invariato. Mille piccoli interventi per placare la lobby di turno, coperti da mille nuovi prelievi. Tutto rigorosamente una tantum. Al netto di tutte queste una tantum e del ciclo il disavanzo primario dell’Italia sarebbe non lontano dalla soglia fatidica del 3 per cento! In altre parole, si è guardato ossessivamente al bilancio e non si è pensato a curare l’economia. È vero che non abbiamo avuto né fallimenti di grandi banche, né lo scoppio di bolle immobiliari. Ma i problemi strutturali dell’Italia continuano a farci perdere posizioni. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale, pure richiamate nell’audizione al Senato del ministro, l’Italia è destinata a essere superata anche da Grecia e Slovenia in termini di reddito pro capite a parità di potere d’acquisto. Sembrano lontani anni luce i tempi in cui si diceva che finché c’è la Grecia in Europa non saremo mai gli ultimi. Remoti anche i giorni in cui guardavamo con superiorità agli ex paesi socialisti. Ci stanno superando. Si dirà: almeno i conti pubblici sono rimasti sotto controllo e quando l’economia finalmente ripartirà saremo in grado di rientrare dal disavanzo senza bisogno di grandi manovre correttive. Non è vero. L’Europa dice che dovremo aggiustare il bilancio di 1 punto strutturale per i prossimi tre o quattro anni. Significa circa 15 miliardi annui di tagli di spesa o nuove tasse. Il rischio vero è che la vera manovra triennale sarà quella dei prossimi tre anni. da lavoce.info http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001323.html Titolo: TITO BOERI. - I musulmani e i tempi dell'integrazione Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2010, 10:21:59 am DOPO L'EDITORIALE DI GIOVANNI SARTORI
I musulmani e i tempi dell'integrazione di Tito Boeri Caro Direttore, dunque Giovanni Sartori ha deciso che gli immigrati di fede islamica non sono integrabili nel nostro tessuto sociale, non devono poter diventare cittadini italiani (Corriere del 20 dicembre, ndr). Non si tratta di un’affermazione di poco conto. Parliamo di circa un milione e mezzo di persone che oggi vivono in Italia. Da cosa trae Sartori questa convinzione? Da un’analisi dei processi di integrazione degli immigrati di fede islamica in Paesi a più antica immigrazione? Si direbbe di no. Il 77 per cento dei maghrebini di seconda generazione immigrati in Francia ha sposato una persona di cittadinanza francese. Dichiarano di sentirsi francesi tanto quanto gli altri immigrati. In Germania un figlio di immigrato turco (al 90 per cento di religione islamica) ha la stessa probabilità di un figlio di immigrato italiano di sposarsi con una persona nata in Germania. Si identificano di più con il Paese che li ha accolti di quanto non facciano i figli dei nostri emigrati. Nel Regno Unito gli immigrati del Pakistan o del Bangladesh, le due più grandi comunità di fede islamica ivi presenti, si integrano allo stesso modo degli indiani, dei caraibici e dei cinesi. Si sentono britannici e parte del Regno Unito più degli immigrati di fede cristiana, anche se mantengono la loro religione. Si integrano economicamente e socialmente, nel lavoro, sposandosi con persone del Paese che li accoglie e parlando a casa l’inglese, indipendentemente da quanto spesso vadano in moschea, da quanto siano devoti all’Islam. Ritengono di poter essere al tempo stesso britannici e musulmani. Si sbagliano forse? Pensa Sartori, come quei sindaci leghisti che si battono contro la costruzione di moschee nelle loro città, che chi nasce in Italia, studia, lavora e paga le tasse da noi, per diventare italiano debba abbandonare la fede islamica? Non voglio certo negare che ci sia un problema di integrazione degli immigrati in generale e dei musulmani in particolare. Ma trattare di questi problemi con superficialità, alimentando pregiudizi tanto diffusi quanto lontani dalla realtà non aiuta certo a risolverli. Impedire poi ai musulmani di praticare la loro religione da noi, a differenza di quanto avviene in Paesi che da decenni ospitano grandi comunità di fede islamica, e precludere loro a priori la cittadinanza italiana, serve solo ad allungare i tempi dell’integrazione. 04 gennaio 2010(ultima modifica: 05 gennaio 2010) da corriere.it Titolo: TITO BOERI. La lettera Integrazione e società Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2010, 06:09:26 pm La lettera di Tito Boeri
Integrazione e società Caro Direttore i terribili avvenimenti di Rosarno mostrano in modo inequivocabile quanto sia cruciale il tema dell’integrazione degli immigrati nella società italiana, su cui lei ha deciso di aprire un dibattito sul suo giornale. Ci dicono che i flussi migratori sono non solo fonte di grandi benefici economici, ma anche di gravi tensioni sociali per le comunità che li ospitano. Dimostrano al contempo come sia riduttivo (e intellettualmente disonesto) confinare alla dimensione religiosa il problema dell’integrazione. La tesi sull’”impossibile integrazione degli islamici” è stata sostenuta sulle sue colonne con riferimenti storici quanto meno azzardati (non è vero che i mussulmani hanno imposto la propria fede con forza in India sotto l’impero dei Moghul, non è vero che solo la cultura islamica ha prodotto chi si fa uccidere per uccidere, basti pensare ai kamikaze o ai guerrieri Tamil), e su testi di autori, come Toynbee, scomparsi 35 anni fa, quindi impossibilitati a studiare il lungo processo di integrazione delle minoranze islamiche nelle società europee contemporanee. Non un solo dato è stato citato a supporto di questa tesi così impegnativa. Né sono stati presi in considerazione le statistiche che avevo fornito e che documentano che l’integrazione di minoranze mussulmane nei paesi a più antica immigrazione è difficile, ma tutt’altro che impossibile. Il compito di uno studioso è quello di fornire informazioni sui casi tipici, sui grandi numeri (di aneddoti ed eccezioni è costellata la nostra vita quotidiana). Approfitto allora di questo spazio per far nuovamente parlare i dati, questa volta sulla realtà dell’immigrazione nel nostro paese, alla luce della prima indagine rappresentativa degli immigrati clandestini condotta in Italia, a cura della Fondazione Rodolfo Debenedetti, nel novembre-dicembre 2009. Primo dato: un italiano su tre non vorrebbe avere un mussulmano come vicino di casa; pochi meno di quanti non vorrebbero estremisti (di destra o sinistra) o malati di aids nella porta accanto; tre volte la percentuale di italiani che non vorrebbero ebrei come vicini di casa. Secondo dato: gli immigrati in provenienza da paesi mussulmani parlano più spesso l’italiano, mandano i loro figli alla scuola pubblica e hanno più frequenti contatti con italiani delle altre minoranze, soprattutto dei cinesi. Terzo dato: gli immigrati, di tutte le etnie, lavorano più degli italiani (il loro tasso di occupazione è del 15 per cento superiore al nostro) sebbene circa un quarto di loro sia presente irregolarmente nel nostro paese, non abbia permesso di soggiorno e regolare contratto di lavoro. Il primo dato spiega molte reazioni dei lettori; fa riflettere anche sul comportamento di chi, dopo aver compiaciuto la vox populi, conta il numero di commenti favorevoli raccolti sul sito web del suo giornale. Il secondo dato apre speranze sull’integrazione dei mussulmani nel nostro paese; soprattutto se sapremo investire, come in altri paesi, nel sistema scolastico, come strumento per trasmettere la nostra identità culturale. Pone dubbi sulla decisione di imporre un tetto del 30 per cento agli immigrati nelle nostre scuole. Ci sono comuni in cui l’80 per cento della popolazione è straniera: dovremmo forse impedire ai figli di questi immigrati di andare a scuola? Il terzo dato è cruciale per capire come contrastare davvero l’immigrazione clandestina, nei fatti e non con le parole. Rafforzando i controlli sui posti di lavoro per contrastare l’impiego in nero degli immigrati si può essere molto più efficaci che introducendo nuove leggi (come quelle che istituiscono il reato di immigrazione clandestina) destinate a non essere applicate. Non ho le rocciose certezze di alcuni suoi editorialisti che hanno risposte su tutto: dalle riforme costituzionali, al rapporto fra islam e immigrazione, al modo con cui salvare la Terra dagli effetti del cambiamento climatico. Essendo indiscutibilmente più limitato, temo di non avere risposte a molti quesiti posti dai lettori. Ma di una cosa sono convinto: queste risposte non possono alimentarsi sui pregiudizi né essere trovate nelle (peraltro autorevoli) pagine di libri scritti alcuni decenni fa. Dovremo avere tutti l’umiltà di dubitare, di osservare per imparare, di farci aiutare dai dati e dai numeri. In fondo è proprio questo che trovo interessante nel mio lavoro. La ringrazio ancora per lo spazio che mi ha gentilmente concesso. Tito Boeri 10 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: TITO BOERI. - L'euro diventa scudo di vetro Inserito da: Admin - Aprile 27, 2010, 12:04:45 pm IL COMMENTO
L'euro diventa scudo di vetro di TITO BOERI La crisi d'insolvenza della Grecia è diventata nelle ultime due settimane una crisi di liquidità. È un'accelerazione e insieme un salto di qualità della crisi, di cui l'Europa porta una responsabilità non irrilevante. Intervenendo subito si sarebbe potuto evitare questa nuova escalation, pagando un costo molto più contenuto per uscirne. Non è più solo una crisi di insolvenza. Nelle ultime due settimane il mercato dei Cds, Credit Default Swaps, le assicurazioni contro il rischio di ripudio del debito è rimasto relativamente tranquillo. Ma sono schizzati verso l'alto i rendimenti dei titoli di stato. Il governo greco fatica sempre più a trovare qualcuno disposto a comprarli. Oggi è costretto ad offrire tassi vicini al 10 per cento. Si tratta di più di 10 euro all'anno in termini di potere d'acquisto per ogni cento investiti, dato che i prezzi in Grecia stanno calando. Quando si pagano interessi così alti su un debito pari al 125 per cento del prodotto interno lordo, è impossibile stabilizzare il rapporto fra debito pubblico e pil. Per farlo bisognerebbe varare una manovra correttiva (più tasse e meno spese) pari a un quinto del reddito nazionale e sperare che in questo contesto l'economia non crolli più dell'1 per cento. Mission impossible. Per questo la Grecia ha deciso di chiedere l'aiuto promesso dall'Europa. Non può più farcela da sola. I margini per evitare un ripudio del debito pubblico greco sono stati fin dall'inizio molto ristretti, Ma adesso è diventata una vera e propria corsa contro il tempo. Questione di giorni non più di mesi. Quando si attraversa una crisi di liquidità non basta più assicurare i mercati sul fatto che ci sarà un intervento esterno. Bisogna che questo intervento si manifesti subito, fornisca prestiti a condizioni meno onerose per evitare che la Grecia si metta su di una spirale esplosiva. Accanto alla fuga dai titoli nelle ultime settimane si è tra l'altro generata anche una fuga dai depositi bancari, con capitali frettolosamente trasferiti all'estero nel timore di un'uscita della Grecia dall'euro. L'aggravarsi della crisi ha fatto lievitare i costi del salvataggio. Fin quando la Grecia pagava il 6 per cento sul debito pubblico, fino a un mese fa, l'Europa poteva limitarsi a fornire prestiti con agevolazioni del 3 per cento sui tassi di interesse del mercato. Avrebbe comportato al massimo un sussidio pari all'uno per mille del prodotto interno lordo dell'unione monetaria. Coi tassi di mercato attuali, il costo dell'operazione di salvataggio è quasi raddoppiato. Di fronte alla richiesta esplicita del Governo greco, l'Europa sta però dimostrando in queste ore che l'aiuto europeo era poco più di una promessa. Come riferito in altre pagine di questo giornale, la Germania vuole aspettare il dopo elezioni e poi ci vorranno comunque altri 10 giorni prima di rendere il prestito operativo. Da qui al 19 maggio sono previste emissioni per 9 miliardi di titoli greci, circa tre punti e mezzo di pil. Certo, è difficile per la Merkel convincere i propri concittadini ad aiutare un paese che ha sistematicamente truccato i conti pubblici. Ma gli stessi cittadini non saranno oggi contenti di sapere che dovranno alla fine pagare un conto ancora più salato di quello che avrebbero trovato sul piatto nel caso di un intervento più tempestivo. Erano stati adeguatamente informati di questo rischio? Legittimo nutrire qualche dubbio. Il nostro paese deve ora prepararsi ad uno scenario in cui lo scudo dell'Euro sarà sempre più tenue. Uno scudo di vetro ora che il Re è Nudo. Per rassicurare i mercati il nostro Paese dovrà ora convincerli che può tornare a crescere, condizione fondamentale per stabilizzare il debito pubblico. Non basta tenere stretti i cordoni della borsa. Bisogna far sì che le previsioni del Fondo Monetario sulla crescita italiana non si avverino. Implicano che il nostro debito salirà a livelli greci (125 per cento del prodotto interno lordo) nel 2015. All'obiettivo di tornare a crescere bisognerebbe consacrare oggi ogni attenzione. Invece si litiga su come redistribuire le sempre minori risorse disponibili fra Nord e Sud. © Riproduzione riservata (27 aprile 2010) da repubblica.it Titolo: TITO BOERI. - MA IL DIVORZIO C'È GIÀ STATO Inserito da: Admin - Maggio 11, 2010, 06:16:22 pm MA IL DIVORZIO C'È GIÀ STATO
di Tito Boeri e Tommaso Monacelli 10.05.2010 L'intervento più importante deciso questo fine settimana riguarda la decisione della Bce di acquistare sul mercato secondario i titoli di stato di Portogallo e Spagna, a condizione che questi paesi adottino programmi adeguati di rientro del debito. E' una decisione senza precedenti, coerente con il Trattato (che impedisce alla Bce di comprare i titoli direttamente dai Governi, ma non di operare sul mercato secondario) e che può riuscire a scoraggiare chi investe sul default di questi paesi. La cosa importante è che tale intervento appaia come selettivo (solo alcuni mercati) e operato ex-ante (in modo da non sembrare un bailout ex-post). Deve quindi essere la Bce ad annunciare questo intervento, mostrando autonomia dai governi nella conduzione della politica monetaria. Per ragioni che ci risultano oscure il nostro Presidente del Consiglio, ha invece deciso di dare lui l'annuncio venerdì sera presentandolo come una decisione del vertice dei capi di governo dell'Eurogruppo di venerdì 7 maggio, ponendo in grave imbarazzo la Bce. A questo punto ai vertici della Banca Centrale Europea non è rimasto che smentire Berlusconi. Quello che doveva diventare un annuncio importante per rassicurare i mercati si è tradotto in una gaffe molto pericolosa per la credibilità che un'istituzione relativamente giovane come la Bce sta faticosamente acquistando sul campo. Il comportamento del nostro Presidente del Consiglio si può spiegare solo come smania di protagonismo e come basato sulla convinzione che la Banca centrale sia al servizio dei governi. Sappiamo che il riferimento ai divorzi in questo momento non è del tutto gradito al nostro Presidente del Consiglio, ma il divorzio fra Banca d'Italia e Tesoro si è consumato nel 1982. Non è proprio il momento di tornare indietro. http://www.lavoce.info/articoli/-europa/pagina1001701.html Titolo: TITO BOERI. - ORA NON AGGIUNGIAMO MIOPIA ALLA MIOPIA Inserito da: Admin - Maggio 11, 2010, 06:17:24 pm ORA NON AGGIUNGIAMO MIOPIA ALLA MIOPIA
di Tito Boeri e Tommaso Monacelli 10.05.2010 Sta accadendo quello che la Germania aveva sempre temuto. Proprio uno dei famigerati paesi mediterranei sta mettendo a repentaglio la stabilità dell’euro. Ma è ovvio che la responsabilità non è di un solo paese: il contagio sta accelerando a causa della miopia della politica economica europea. La mancanza di una procedura automatica di gestione delle crisi del debito sovrano sta facendo da volano della crisi: in queste fasi, niente è peggio della discrezionalità per incendiare i mercati. Questa procedura sarebbe tanto più necessaria visto che nell’Ume manca un’autorità fiscale sovranazionale. Il maxi fondo di salvataggio è solo un second best. Anche l'Europa sta avendo quindi la sua “crisi subprime”. Oggi le banche europee sono piene di titoli portoghesi, spagnoli e greci, esattamente come erano piene ieri di titoli derivati riferiti a pagamenti di mutui immobiliari. Il tutto si spiega con la debolezza dell’architettura fiscale della moneta unica. Si voleva far credere che i titoli del debito di tutti i paesi dell' Ume fossero tra loro perfettamente sostituibili. Si dirà: ma i mercati ci hanno creduto, vista la quasi stupefacente convergenza dei tassi di interesse a lungo termine in Europa. In realtà, questa convergenza si poggiava su una contraddizione. Le autorità europee (compresa la Bce) ripetevano alla noia che il bailout di uno stato sovrano sarebbe stato incompatibile con il Trattato. Ma è evidente a tutti che una convergenza dei tassi poteva aversi solo in presenza di una aspettativa diversa, di investitori convinti che i paesi dell'Euro erano al riparo dal rischio di un ripudio del debito sovrano, pur sapendo che i titoli del debito greco non potevano equipararsi ai Bund tedeschi. In pratica, la UE e la Bce mandavano ai mercati un segnale schizofrenico: evviva la convergenza sui tassi che si fonda su una ragione (quella del bailout) che in realtà noi dichiariamo essere incompatibile con l’esistenza stessa della moneta unica (!). Nessuno in Europa ha mai voluto risvegliare i mercati da questa placida ma pericolosa aspettativa. Se non si vuole aggiungere miopia ad altra miopia bisogna adesso progettare meccanismi automatici di gestione della crisi del debito e forme di coordinamento delle politiche fiscale e sanzioni politiche automatiche (come la riduzione dei voti a livello europeo) ai paesi che non rispettano i patti. http://www.lavoce.info/articoli/-300parole/pagina1001702.html Titolo: TITO BOERI. - La previdenza flessibile Inserito da: Admin - Giugno 08, 2010, 10:21:52 am IL COMMENTO
La previdenza flessibile di TITO BOERI IL ministro Tremonti aveva annunciato in televisione che con la sua manovra si sarebbe completata la riforma delle pensioni. Sarebbe stata posta la parole fine sullo stillicidio di micro-riforme della previdenza introdotte in questi anni. Non sarà così. È passata una sola settimana e il governo deve tornare a mettere mano al capitolo pensioni. Anche questa volta colpendo soprattutto le donne. Vediamo perché, come si è arrivati a questa situazione, quali risparmi siano conseguibili con le misure che il governo si appresta a varare e come cercare di ridurre le iniquità di questi interventi. La Commissione Europea non interviene sui regimi previdenziali degli stati membri, non ne ha la facoltà. Deve però garantire, come guardiana del Trattato istitutivo della Comunità Europea, una parità di trattamento tra uomini e donne da parte dei loro datori di lavoro. Lo Stato è il datore di lavoro dei pubblici dipendenti. Come tale, secondo la Corte di giustizia europea, non può trattare diversamente uomini e donne, offrendo a queste ultime la possibilità di andare in pensione a 60 anziché a 65 anni. Se lo Stato non è datore di lavoro, come nel caso dei lavoratori del settore privato, può introdurre differenze di genere nell'età pensionabile senza incorrere nelle sanzioni europee. E' un problema che riguarda il solo settore pubblico. Il governo italiano per rispettare la sentenza della Corte di giustizia europea aveva deciso di innalzare gradualmente, dal 2010 al 2018, l'età pensionabile delle lavoratrici del pubblico impiego, incrementandola di un anno ogni due. Oggi la Commissione ci chiede di fare più in fretta: entro il 2012. La nostra infrazione è figlia di un'entrata in vigore troppo lenta della riforma che ha introdotto nel 1996 (15 anni fa!) il sistema contributivo in Italia. Se avessimo fatto come in Svezia, prevedendo una fase di transizione molto più rapida (15 anni anziché quasi 40) al sistema contributivo, il problema a questo punto non si porrebbe. In Italia, invece, si è preferito dilazionare i tempi di attuazione della riforma. Per poi intervenire con una lunga serie di piccoli aggiustamenti, forzatamente iniqui e parziali, che tra l'altro ci hanno allontanato sempre di più dal disegno della riforma varata nel 1996 senza un'ora di sciopero. L'ultimo aggiustamento è quello introdotto dal governo con la manovra economica varata la scorsa settimana, che prevede uno slittamento di dodici mesi per i lavoratori dipendenti e di diciotto mesi per i lavoratori autonomi dell'età in cui si va in pensione. Il ritardo è più forte per le pensioni di vecchiaia che per quelle di anzianità. È un provvedimento che colpisce soprattutto le donne che hanno carriere lavorative molto più discontinue degli uomini (non da ultimo per il tempo da loro dedicato alla cura dei figli) e che in genere non riescono ad aver completato l'anzianità contributiva necessaria per godere della pensione di anzianità. Il nostro Governo sembra intenzionato a recepire alla lettera la richiesta della Commissione Europea. Questo significa sei anni in meno per alzare a 65 anni l'età di pensionamento delle donne del pubblico impiego. E' un intervento che nella sostanza ripristina lo scalone della riforma Maroni-Tremonti del 2003. I risparmi di questa operazione saranno abbastanza contenuti, non dovrebbero superare i 300 milioni di euro all'anno, per poi calare progressivamente man mano che si applica il sistema contributivo, che fa aumentare l'ammontare delle pensioni se si va in pensione più tardi. Sarà un nuovo intervento che colpisce le donne dopo quello varato solo una settimana fa. Se non si vuole continuare lo stillicidio di interventi, se non si vogliono introdurre nuove asimmetrie di trattamento cercando magari di rimediare a vecchie iniquità, c'è una sola cosa da fare. Bisogna tornare ai principi del sistema introdotto nel 1996. Questo significa garantire flessibilità sul quando andare in pensione permettendo a chi decide di ritardare l'andata in pensione di ottenere poi quiescenze più alte. Sarebbe un modo per rispondere ad esigenze diverse e a diverse lunghezze auspicate (o imposte dal mercato del lavoro) della vita lavorativa. Si potrebbe andare in pensione dai 60 ai 67 anni, applicando subito le riduzioni attuariali previste dalla riforma Dini fin dal 1996 per chi va in pensione prima dell'età massima. Per tutti, uomini e donne, dipendenti pubblici e privati. In questo modo si sarebbe più equi, sia tra uomini e donne che tra generazioni diverse, perché significa accelerare il passaggio al sistema che entrerà in vigore pienamente solo nel 2032 secondo la normativa attuale. I risparmi sarebbero più consistenti dei provvedimenti tappabuchi e improvvisati di questi anni. E si terrebbe conto del fatto che i tempi del lavoro e del non lavoro sono diversi non solo tra uomini e donne, ma anche tra le persone dello stesso sesso, cioè tra le donne e gli uomini che hanno fatto scelte diverse in quanto a responsabilità famigliari, carriere lavorative, redditi per la vecchiaia e durata del loro impegno professionale. (08 giugno 2010) http://www.repubblica.it/economia/2010/06/08/news/la_previdenza_flessibile-4656869/?ref=HREA-1 Titolo: TITO BOERI L'anomalia del Lodo Marchionne Inserito da: Admin - Giugno 16, 2010, 02:33:26 pm IL COMMENTO
L'anomalia del Lodo Marchionne di TITO BOERI Questo è un accordo necessario, inevitabile. Di cui non andare certo fieri perché mette a nudo i limiti del nostro sistema di relazioni industriali, dei regimi di contrattazione e la persistente arretratezza del Mezzogiorno. Renderlo un esempio, caricarlo di significati, come hanno fatto in questi giorni sia il Ministro Sacconi, sia alcune frange estreme del sindacato, equivale a giocare cinicamente con il lavoro, la principale fonte di reddito di 5.000 famiglie in una delle zone più povere del nostro paese. L'unica vera lezione su scala nazionale da trarre da questa vertenza è che una riforma seria delle regole che governano la contrattazione e le rappresentanze sindacali non è più rinviabile. L'anomalia di questo accordo è che si deve occupare di due questioni che normalmente non dovrebbero competere alla contrattazione aziendale. Il primo problema è quello degli impegni vincolanti che le parti possono prendere. C'è un'impresa che deve decidere dove investire 700 milioni per la produzione della nuova Panda, sapendo bene di avere potere contrattuale solo prima di avere compiuto questa scelta. Adesso che la Fiat sta decidendo se investire in Italia o in Polonia, può dettare le sue condizioni. Una volta fatto l'investimento, sarà la controparte, forte di una scelta per l'azienda irreversibile, a poter dettare le sue condizioni. Naturale che un'impresa che si trova in una situazione di questo tipo chieda delle garanzie, voglia assicurarsi che i patti sottoscritti prima di realizzare l'investimento verranno rispettati dopo, una volta che questo è stato attuato. Se anche un solo sindacato non firma, questo avrà poi mano libera nel rinegoziare un accordo che impone turni molto pesanti. Per questo motivo la Fiat impone clausole che limitino il ricorso allo sciopero degli straordinari una volta realizzato l'investimento. Il problema non si porrebbe se avessimo una legge sulle rappresentanze che vincola i lavoratori al rispetto degli impegni presi dai loro rappresentanti, liberamente eletti, che rispondono regolarmente del loro operato di fronte ai lavoratori. Se questi rappresentanti non riescono a trovare un accordo tra di loro, saranno i lavoratori a scegliere con gli strumenti della democrazia diretta, mediante un referendum che vincoli poi tutti al rispetto delle volontà della maggioranza. Il secondo problema è quello delle misure contro l'assenteismo. Le nuove tecnologie previste per Pomigliano d'Arco sono efficienti solo con tassi di assenteismo fisiologici, come quelli che si osservano mediamente nelle imprese private italiane. Non lo sono con i picchi di assenteismo registrati in passato a Pomigliano, in occasione di partite di calcio, tornate elettorali e altri eventi, che nulla hanno a che vedere con la diffusione di malattie fra le maestranze. Questi comportamenti non sono stati sin qui sanzionati in alcun modo. Al contrario, sono stati protetti dalla camorra (e dai suoi sindacati gialli) anche quando hanno obiettivamente messo a rischio i posti di lavoro degli altri lavoratori. Non c'è stata neanche sanzione sociale contro questo assenteismo. Ora l'azienda vuole scoraggiare questi comportamenti, liberandosi dall'obbligo di retribuire i lavoratori responsabili di questi ingiustificati picchi di assenteismo. Entrambi i problemi dovranno essere affrontati nei tempi ristretti imposti dalle strategie della Fiat e dei suoi concorrenti. Bene allora affidarsi al pragmatismo. Ad esempio, l'azienda torinese potrebbe rinunciare alla clausola di responsabilità in cambio della sottoscrizione dell'accordo da parte della Fiom, che si oppone soprattutto a questa clausola. L'azienda potrebbe anche impegnarsi una campagna di informazione sui costi collettivi dell'assenteismo e di contrasto delle infiltrazioni della camorra fra le rappresentanze dei lavoratori, in collaborazione col sindacato. Sarebbe anche un modo per la Fiat di saldare una piccola parte del debito che ha accumulato nei confronti dello Stato italiano, così generoso in tutti questi anni ne confronti dell'azienda torinese. Bene ricordare che l'accordo contempla un ulteriore intervento del contribuente mediante l'utilizzo dei fondi della Cassa Integrazione in deroga. Il tempo residuo prima del referendum fissato per martedi prossimo può essere sfruttato per trovare un accordo su queste basi. Nel frattempo fondamentale che la politica si astenga dall'intervenire. Meglio se il Presidente del Senato ieri, invece di intervenire anche lui sulla vicenda, avesse cercato di fare spazio nell'agenda di Palazzo Madama al disegno di legge sulle rappresentanze, di cui primo firmatario è il senatore Paolo Nerozzi. E' un modo per spingere il sindacato a trovare finalmente un accordo su queste regole indispensabili. Il Ministro del Lavoro farebbe invece bene a discutere col titolare del dicastero all'economia di norme più efficaci che possano favorire un legame più stretto fra salari e produttività, tali da scoraggiare comportamenti opportunistici di aziende e dipendenti. E' dal 1997 che il contribuente paga di fatto incentivi alla contrattazione di secondo livello che si sono rivelati sin qui del tutto inefficaci. Stranamente la manovra "lacrime e sangue" li ha non solo confermati, ma addirittura ampliati. Quella stessa manovra ha svuotato la pseudo intesa del gennaio 2009 sulla riforma degli assetti contrattuali, che prevede la sostituzione del TIP, tasso di inflazione programmata, con l'IPCA, indice dei prezzi al consumo armonizzato. Doveva essere l'ISAE, uno degli enti aboliti dal Governo, a stimare questo parametro. Non potrà certo essere un datore di lavoro, come lo Stato che ha assorbito i dipendenti dell'Isae, a fornire questo numero da cui dipendono gli incrementi salariali per milioni di dipendenti. Bene cogliere la palla al balzo per rivedere davvero le regole della contrattazione coinvolgendo questa volta la Cgil. (16 giugno 2010) http://www.repubblica.it/economia/2010/06/16/news/l_anomalia_del_lodo_marchionne-4877065/?ref=HRER1-1 Titolo: Intervista a Tito Boeri Inserito da: Admin - Giugno 19, 2010, 09:24:58 am L'economista
'La soluzione? Più incentivi' di Federica Bianchi L'accordo su Pomigliano non è un passo in avanti. La Fiat avrebbe dovuto legare i salari alla produttività. Intervista a Tito Boeri (16 giugno 2010) Tito Boeri"L'accordo proposto dalla Fiat per Pomigliano pone dei paletti ai diritti dei lavoratori. Ma difende l'azienda da un eccessivo livello di assenteismo e da una produttività insufficiente in rapporto all'investimento". Parla Tito Boeri, docente di Economia del lavoro alla Bocconi e uno dei maggiori esperti italiani in materia. "È un accordo importante perché sono in ballo 5 mila posti di lavoro in un'area con tasso di disoccupazione molto alto. Ed è un accordo che mette in luce i ritardi di una riforma degli assetti contrattuali. Se avessimo affrontato per tempo una serie di nodi del nostro sistema di contrattazione questo accordo e molte delle tensioni che ha causato non ci sarebbero. Quello che la Fiat chiede di fatto è che chi non firma l'accordo non possa dichiarare uno sciopero degli straordinari una volta che l'investimento viene fatto. È una richiesta comprensibile perché è un'azienda che deve fare un investimento importante e sa che se non chiude questo accordo prima, una volta fatto, rischia di essere fortemente penalizzata". Non esistono altre soluzioni? "La soluzione vera sarebbe quella di avere una legge per cui i lavoratori possano decidere a priori il loro rappresentante e conferirgli il potere di sottoscrivere un accordo a nome di tutti. Sarebbe un modo per vincolare datori di lavoro e lavoratori al rispetto dell'accordo. Se poi i lavoratori non sono contenti del loro agente negoziale lo potranno cambiare. Il problema della Fiat è che ci sono tante sigle diverse e alcune si chiamano fuori dalla firma per avere poi mano libera". Ma l'accordo è un passo indietro o avanti per il lavoro in Italia? "Non è né un passo in avanti né indietro. Ci sono degli aspetti che potevano essere meglio affrontati migliorando gli incentivi sulla produttività e ampliando la contrattazione di secondo livello, oppure cambiando alcune regole sulle assenze per malattia. Non mi piace che l'accordo intervenga sulle assenze per malattia e sui permessi sindacali, cose che non dovrebbero rientrare nella contrattazione aziendale. Il modo giusto per risolvere il problema dell'assenteismo sarebbe quello di potenziare gli incentivi alla produttività. Un alto tasso di assenteismo si dovrebbe tradurre in salari più bassi, cosa che costringerebbe i lavoratori ad atteggiamenti più responsabili". Perché i sindacati non sono riusciti ad ottenere incentivi legati alla produttività? "È un limite dell'accordo. Credo si potesse fare meglio". Con questo rimescolamento delle regole non corriamo il rischio che l'Italia assomigli alla Cina? "Non c'è dubbio che la pressione competitiva dei Paesi emergenti sia fortissima, ma il fatto che ci sia più concorrenza non vuol dire che debba esserci un appiattimento verso il basso nelle retribuzioni e nelle condizioni lavorative. Il nocciolo di tutto è la produttività: se è bassa, conta solo il salario, se è elevata e c'è un differenziale importante tra lavoratori italiani e cinesi, ad esempio, allora la differenza di produttività può trasferirsi sul salario dei lavoratori senza penalizzare la competitività. Per l'azienda quello che conta è il costo del lavoro per unità di prodotto. Se la produttività langue, come accade in Italia da 15 anni, pur in presenza di salari piatti, un Paese perde competitività e il costo del lavoro aumenta". A cosa è dovuta la diminuzione di competitività in Italia? "Scarsa innovazione da parte delle imprese, mancate liberalizzazioni dei servizi, concorrenza che non è andata avanti, riforme strutturali mancate, ma anche un rapporto problematico tra salari e produttività. Secondo uno studio che abbiamo fatto per la Fondazione De Benedetti, l'adozione di schemi incentivanti potrebbe portare a sensibili incrementi della produttività del lavoro, intorno al 5 per cento. E poi bisognerebbe ridurre il dualismo del mercato del lavoro: la diffusione dei contratti temporanei porta a una diminuzione della produttività media. Occorrerebbe un contratto unico per tutti, con tutele progressive per i lavoratori". © Riproduzione riservata http://espresso.repubblica.it/dettaglio/La-soluzione-Pi%C3%B9-incentivi/2129215 Titolo: TITO BOERI. - Un salto nel buio Inserito da: Admin - Luglio 15, 2010, 12:36:14 pm L'ANALISI
Un salto nel buio di TITO BOERI A scatola chiusa, meglio sigillata, il Senato oggi voterà la manovra economica. Avremo il solito maxiemendamento (un solo articolo per circa 600 commi) da approvare o rigettare nella sua totalità: o tutto o niente. Sarà un voto di fiducia, politico anziché sui contenuti della manovra. Fin qui nulla di nuovo. Ma questa volta i senatori voteranno ancora più al buio del solito. Dovranno davvero fidarsi dell'esecutivo: a poche ore dal voto dell'Aula non era infatti ancora disponibile la tabella che riassume e quantifica gli effetti delle variazioni apportate al testo originario del decreto nell'ultimo mese e mezzo. Come spesso accade, queste modifiche vengono introdotte all'ultimo momento dai sottosegretari e possono anche differenziarsi significativamente da quelle approvate in Commissione Bilancio. La manovra è importante, ma piccola al cospetto degli altri paesi europei. Se da noi ci sono "lacrime e ue", chissà cosa dovrebbero dire i cittadini francesi e belgi, che subiscono un aggiustamento fiscale tre volte superiore al nostro. Per non parlare dei cittadini di paesi nell'epicentro della crisi con aggiustamenti da cinque (Portogallo) a dieci (Irlanda) volte maggiori del nostro. Non possiamo che augurarci che non si rendano fra un anno necessari nuovi interventi correttivi, date dimensioni e crescita inarrestabile del nostro debito pubblico. Aumenta di 1.300 euro al secondo. Ci sono, peraltro, molte scommesse nel decreto, dal successo della lotta all'evasione, che conta per un terzo della manovra, al fatto che i tagli ai consumi intermedi dei Ministeri siano tagli veri e non semplici rinvii di spese ad esercizi futuri. Le misure draconiane inizialmente previste in caso di accertamento di somme dovute al fisco sono state fortemente depotenziate in Commissione Bilancio dopo le proteste di Confindustria e questo non potrà che avere effetti significativi sulle entrate. Se il governo aveva poco margine nel decidere l'entità dell'aggiustamento, posti i vincoli internazionali, e certamente non poteva fare una cura dimagrante ancora meno impegnativa, certamente aveva ampi margini nel decidere la composizione (fra maggiori entrate e minori spese), la qualità (gli effetti sulla crescita economica) e il profilo distributivo della manovra. È principalmente su questi aspetti che deve essere, dunque, giudicato il suo operato. La composizione della manovra è molto diversa da quella inizialmente annunciata e da quanto previsto in altri paesi. Ben il 40 per cento dell'aggiustamento è legato a maggiori entrate, anziché a minori spese. Nel Regno Unito i tagli alle spese (soprattutto dei ministeri) contribuiscono fino all'80 per cento della manovra. Anche in Belgio, Germania, Irlanda e Spagna la parte preponderante della manovra avviene sul lato delle spese. I nostri tagli alle spese sono peraltro fortemente concentrati (al 60 per cento) sulle autonomie locali. È quanto avviene, in paesi come Germania e la Svizzera, dove in gran parte il federalismo c'è già e c'è un legame forte fra tasse e gestione della spesa a livello locale, che impone maggiore disciplina ai politici nella gestione dei bilanci decentrati. Da noi il rischio che questi tagli si trasformino in aumento del debito locale è molto più forte. I tagli all'amministrazione centrale dello Stato sono stati inoltre ulteriormente depotenziati dal passaggio parlamentare. Gli emendamenti agli articoli 6, 7, 8 e 9 della manovra sono tutto un fiorire di deroghe. Come dire, i tagli meglio farli fare agli altri. La qualità della manovra non è certamente migliorata dopo gli emendamenti. Sono state accolte le richieste dei gruppi che avevano maggiore potere contrattuale. Stupisce, in questo quadro, lo scarso peso politico delle Regioni, che non sono riuscite minimamente a incidere sul testo. I commi sulla cosiddetta "premialità" sono una presa in giro. Come possono le Regioni mettersi d'accordo nel ripartire una quota (circa un ottavo) dei tagli? Chiunque subirà in questa redistribuzione tagli ancora più consistenti prevedibilmente si opporrà strenuamente a "premi" dati ad altre Regioni. Il fatto è che i nuovi Governatori della Lega hanno rotto il fronte, forse perché hanno portato a casa il rinvio del pagamento delle rate delle quote latte, un'operazione che costerà fino a 25 milioni di euro di multa al contribuente italiano. Si è, invece, evitato accuratamente di ricalibrare la manovra verso interventi a sostegno della crescita e dell'occupazione e riforme strutturali. Mentre altrove la manovra sostiene la ricerca, da noi i tagli più consistenti hanno sin qui riguardato proprio l'istruzione terziaria. Scelta quanto meno singolare. È solo peggiorato in Parlamento il profilo distributivo della manovra. Sancito l'abbandono di ogni intervento di contrasto alla povertà, con l'esaurimento della carta acquisti, messo da parte ogni disegno di ampliamento della copertura degli ammortizzatori sociali, si è operato chirurgicamente per introdurre trasferimenti dai ricchi ai poveri. Il blocco degli automatismi stipendiali nella scuola e nell'università colpisce coloro che hanno le retribuzioni più basse, i più giovani, che subiscono perdite fino a un terzo del loro reddito netto, secondo le stime di Baldini e Caruso (www. lavoce. info), quando i docenti con maggiore anzianità vengono quasi del tutto risparmiati dai tagli. I politici, che dovevano dare l'esempio a tutti, sono stati ulteriormente messi al riparo: il passaggio parlamentare ha annullato il taglio degli stipendi dei consiglieri di amministrazione degli enti finanziati dallo stato e ha ripristinato le indennità dei consiglieri circoscrizionali nei Comuni più grandi. Dopo aver ascoltato per giorni i titoli di testa del Tg1 annunciare copiosi tagli dei costi della politica, ci siamo accorti un mese e mezzo fa che questi presunti tagli offrivano un contributo di meno di un milione ad una manovra di quasi 25 miliardi. Adesso anche quel meno di un milione sembra sparito nel nulla. Neanche il simbolo di un taglio alla politica ci hanno lasciato. Ma non lo verremo certo a sapere dal Tg delle 20. (15 luglio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/economia/2010/07/15/news/boeri_manovra-5595053/?ref=HRER2-1 Titolo: TITO BOERI. - Una per una, le bugie di B. Inserito da: Admin - Agosto 14, 2010, 04:13:04 pm Una per una, le bugie di B.
di Tito Boeri Tasse. Welfare. Edilizia. Alitalia. Aiuti alle imprese. Un economista ha letto dalla prima all'ultima riga il libretto che Berlusconi farà distribuire in autunno. E ha confrontato la propaganda con la realtà dei fatti (12 agosto 2010) Se questo è il biglietto da visita per la campagna elettorale, è probabile che Berlusconi farà di tutto per evitarla. Magro il bottino di due anni di Governo sul piano della politica economica, nonostante la grandissima forza parlamentare di cui ha potuto contare quella che era fino a pochi giorni fa la maggioranza uscita vittoriosa dal voto del maggio 2008. Come direbbe l'attuale allenatore del Real Madrid, ci sono nel libretto "molti tituli, ma sero riforme". Non a caso la parte sulle "grandi riforme" viene pudicamente relegata alla fine. Ne elenca tre: scuola, università e pubblica amministrazione. La cosiddetta riforma della scuola è sin qui consistita solamente in tagli al personale, con la reintroduzione del maestro prevalente nella scuola primaria, la riduzione dell'orario d'insegnamento nella scuola secondaria (sia di primo che di secondo grado), la riduzione degli indirizzi nella scuola secondaria di secondo grado e la richiesta di compartecipazione delle famiglie alla spesa. Il tutto esclusivamente nella scuola pubblica, dato che il finanziamento alle scuole private "paritarie" non è stato ridotto. Per chiamarla riforma ci vuole tanto coraggio. Simile la strategia seguita nei confronti dell'università, perseguita con la riduzione del fondo di finanziamento ordinario. Il disegno di legge che entro fine anno dovrebbe andare alla Camera porterà, se non viene ulteriormente diluito nei suoi aspetti innovativi, a qualche cambiamento nella governance delle università, e non prima della fine legislatura, dato che si basa sull'esercizio di deleghe. Insomma è, al massimo, una scommessa di riforma, su aspetti relativamente marginali, che non intaccano davvero la ricerca e la didattica. Quella della pubblica amministrazione è forse l'unica riforma avviata da questo Governo, ma è stata cancellata ancor prima di entrare in vigore dalla manovra appena varata che ha posto tetti alla crescita delle retribuzioni nel pubblico impiego in modo del tutto indiscriminato, in barba ai premi al merito introdotti dalla riforma Brunetta. Nel frattempo la riforma ha perso per strada le norme sulla trasparenza della dirigenza pubblica (davvero importanti anche alla luce degli scandali nella gestione della Protezione Civile), si è esclusa dall'applicazione della riforma la presidenza del Consiglio dei ministri segnale evidente del fatto che nessuno ci crede in questa riforma e si è di molto depotenziata la class action contro le pubbliche amministrazioni e i concessionari pubblici. C'è molto editing da fare nel documento. Molte le ripetizioni e non poche le contraddizioni. A p.5 si rimarca come si sia dovuto intervenire per ridurre i compensi dei dirigenti pubblici e dei magistrati, ma a p.7 si rivendica il fatto di non avere tagliato gli stipendi a nessuno. Forse gli autori di queste schede non si sono parlati. La verità è che gli unici compensi ad essere tagliati in modo significativo sono quelli dei ricercatori universitari che, con il blocco degli scatti di anzianità, si vedono ridurre le loro retribuzioni fino al 15 per cento. Il vero risultato che questo governo può esibire sul piano della politica economica è quello di aver contenuto il peggioramento dei conti pubblici durante la crisi. Lo ha fatto adottando la strategia dell'immobilismo. Scegliendo di non scegliere si è evitato di cedere alle richieste di sostegno che venivano un po' da tutte le parti, ma si è anche sbarrata la strada a misure anticicliche, che avrebbero reso la recessione meno pesante, contenendo il calo del reddito pro capite degli italiani. Nonostante i trionfali titoli di testa dei TG1 della scorsa settimana, la produzione industriale è tuttora del 20 per cento al di sotto dei livelli pre-crisi, il prodotto interno lordo + del 6 per cento più basso. Non solo il calo è stato più forte pur non avendo vissuto lo scoppio di una bolla finanziaria o il fallimento di una grande banca, ma anche la ripresa è più lenta che altrove. In effetti il Governo ha preferito accettare un maggior impatto della crisi pur di evitare un aggravamento dei conti pubblici in un paese già fortemente indebitato. © Riproduzione riservata http://espresso.repubblica.it/dettaglio/una-per-una-le-bugie-di-b/2132438 Titolo: TITO BOERI. - Quegli errori da evitare Inserito da: Admin - Agosto 25, 2010, 04:14:53 pm FIAT
Quegli errori da evitare di TITO BOERI Il Presidente Napolitano ha chiesto alla Fiat 1 di rispettare le sentenze e quindi di reintegrare a tutti gli effetti i tre lavoratori prima licenziati e poi riammessi solo formalmente senza poter esser messi in condizione di lavorare. Nel ricordare opportunamente i principi cardine di uno stato di diritto, il capo dello Stato ha auspicato che si creino le "condizioni per un confronto pacato e serio su questioni di grande rilievo come quelle del futuro dell'attività della maggiore azienda manifatturiera italiana e dell'evoluzione delle relazioni industriali nel contesto di una aspra competizione sul mercato globale". Perché il Presidente ha inteso riferirsi a questioni di portata così generale anziché limitarsi al caso specifico dei tre lavoratori che lo avevano interpellato? E perché Fiat ha affrontato uno scontro così duro a Melfi, incorrendo nella censura della massima autorità dello Stato, in un momento in cui in Italia, a Pomigliano, sono in gioco accordi ben più importanti per il suo futuro? Marchionne è oggi impegnato nella realizzazione di un piano industriale ambizioso che, come negli Stati Uniti, richiederà la massima collaborazione dei lavoratori. Perché allora apre un nuovo terreno di conflitto che ricompatta il sindacato e che schiera anche l'opinione pubblica, gran parte della stampa e la stessa classe politica dalla parte dei tre lavoratori che dovevano essere reintegrati? Alcuni hanno parlato di mobbing, un tentativo di convincere i lavoratori ad autosospendersi, a lasciare volontariamente l'azienda. Anche nelle squadre di calcio i "lavoratori" in esubero, indesiderati, vengono costretti ad allenarsi a parte, non possono lavorare assieme al gruppo. Formalmente per non contaminare il morale degli altri. In verità per convincerli ad andarsene e risparmiare così sui loro ingaggi. Ma se la famiglia Agnelli si occupa oggi quasi esclusivamente della Juve, e tenderà a farlo ancora di più dopo lo scorporo che ne diluisce la quota di controllo in Fiat-auto, la multinazionale Fiat ha oggi strategie che vanno ben al di là del problema di tre lavoratori in uno dei suoi impianti. Oggi Marchionne può permettersi di scegliere sistema di relazioni industriali e il sistema prevalente in Italia proprio non gli va. Come presumibilmente non va bene a molte altre aziende che potrebbero investire da noi e che non lo fanno. Il fatto è che non esiste in Italia un sistema di relazioni industriali che vincoli al rispetto di un accordo raggiunto prima di realizzare un grande investimento, prima di costruire un nuovo impianto. Fiat vuole tutelarsi contro il rischio che l'accordo raggiunto a Pomigliano possa essere vanificato una volta che l'azienda ha realizzato l'investimento, rinunciando a farlo in altri paesi. Non vuole trovarsi in una condizione in cui una minoranza di lavoratori possa indire uno sciopero per rimettere in discussione i contenuti dell'accordo siglato prima di realizzare l'investimento. Bloccando la produzione che, in uno stabilimento fortemente automatizzato, può essere interrotta avvicinandosi a uno dei radar che costellano la catena di montaggio. È quanto, secondo l'azienda, sarebbe avvenuto a Melfi, quando i lavoratori hanno convocato un'assemblea lungo il ciclo di produzione avvicinandosi troppo ad un sensore "allo scopo di bloccare la produzione". Un sistema di relazioni industriali deve essere in grado di prendere impegni vincolanti per le parti. Questo è un presupposto perché ci sia contrattazione, perché i lavoratori possano far valere le loro ragioni. Se non c'è modo di impegnarsi in modo credibile, non ci sarà l'accordo, dunque non ci sarà l'investimento. Cosa fareste voi sapendo che un vostro potenziale assicuratore può ridiscutere i contenuti della polizza che state negoziando, riducendo la protezione che vi ha offerto quando avete pagato il premio assicurativo, una volta che avete avuto un incidente? Scegliereste un altro assicuratore in grado di impegnarsi al rispetto dei contenuti della polizza sottoscritta. Un sistema giudiziario in uno stato di diritto serve a permettere che i contratti vengano rispettati. Per questo Fiat ha commesso un grave errore nel non applicare la sentenza di primo grado, anziché limitarsi a cercare di far valere le proprie ragioni in un successivo grado di giudizio. Ma il problema rimane. Come quello affrontato a Pomigliano, dove la Fiat ha scelto di creare una nuova società per assicurarsi il rispetto di un contratto aziendale che avrebbe altrimenti potuto essere impugnato se riconosciuto in violazione del contratto nazionale dei metalmeccanici, applicabile alla "vecchia compagnia". Anche questo è un problema che non può essere ignorato. Il fatto è che il nostro sistema di relazioni industriali funzionava finché c'era un'intesa di fondo fra i diversi sindacati e quindi gli accordi da questi sottoscritti impegnavano tutti i lavoratori. Funzionava anche quando le aziende di una categoria avevano esigenze relativamente simili e quindi contratti sottoscritti a livello nazionale per un insieme di aziende non troppo diverse tra di loro erano adattabili alle diverse realtà aziendali. Oggi queste due condizioni non ci sono più. Il sindacato è diviso al suo interno e le aziende presenti nel nostro paese hanno esigenze talmente diverse che si fatica a chiudere i contratti a livello nazionale. Basti pensare che l'accordo normativo per i metalmeccanici risale addirittura al 1972, come ha ricordato Pietro Ichino. Per questi motivi raccogliere l'invito di Napolitano a un "confronto pacato e serio", significa varare rapidamente una legge sulle rappresentanze che permetta ai lavoratori, azienda per azienda, di scegliere i loro rappresentanti, offrendo a questi ultimi la possibilità di impegnarsi al rispetto delle intese raggiunte. Nel caso in cui l'accordo non piaccia, i lavoratori potranno cambiare i rappresentanti alle successive elezioni aziendali. Per questi motivi un ministro del Lavoro che ha fatto di tutto per dividere il sindacato deve oggi prendere atto della vera natura del problema, imponendo che il tema delle rappresentanze venga inserito nell'agenda di fine legislatura. Deve anche ammettere nei fatti che quello "storico accordo" del 22 gennaio 2009 sulle nuove regole della contrattazione non è palesemente in grado di governare "l'evoluzione delle relazioni industriali nel contesto di una aspra competizione sul mercato globale". E' tempo allora di riaprire il tavolo sulla riforma del sistema di contrattazione, facendo di tutto questa volta perché un accordo vero venga trovato. Vero significa anche che deve impegnare chi poi dovrà applicare queste regole, a partire dalla Cgil, il sindacato che oggi ha il maggior numero di iscritti. (25 agosto 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/economia/2010/08/25/news/fiat_commento-6493135/?ref=HREA-1 Titolo: TITO BOERI. - PAROLE D'ESTATE Inserito da: Admin - Settembre 05, 2010, 09:55:09 am PAROLE D'ESTATE
di Tito Boeri 01.09.2010 L'estate 2010 sarà ricordata per le tante parole spese sulla partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Ne hanno dibattuto ministri e banchieri, gli stessi che non hanno mai fatto niente per metterla in pratica. Ma non serve una legge perché già ora in Italia non c'è nessun impedimento a rendere i dipendenti partecipi dei profitti aziendali. Meglio sarebbe ridurre il carico fiscale che grava sul lavoro spostandolo sulle rendite, a partire da quelle finanziarie. Non farà piacere ai banchieri, ma farà aumentare la partecipazione al mercato del lavoro Agosto è, da sempre, il mese delle parole in libertà nel Belpaese. I giornali sono avidi di spunti da offrire a lettori che non hanno voglia o modo di approfondire, di chiedersi chi, come e perché. E poi ci sono tante tribune nei luoghi di villeggiatura per chi vuole cimentare le proprie arti oratorie. Gli applausi sono garantiti. Il pubblico è in vacanza, cerca diversivi ed è di bocca buona. TUTTI PAZZI PER LA PARTECIPAZIONE AGLI UTILI DI IMPRESA Questo agosto è stata di moda la partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Ne hanno parlato in quel di Rimini, tra gli altri, Cesare Geronzi (“vanno sperimentate forme articolate di partecipazione ai risultati aziendali”), Maurizio Sacconi (“Giusto che i lavoratori acquisiscano il diritto a condividere i risultati delle loro fatiche anche in termini di salario collegato ai risultati dell’attività aziendale”) e, infine, Giulio Tremonti (“la politica di combinazione tra capitale e lavoro va sviluppata con una remunerazione calcolata sugli utili delle imprese”). Belle parole. Ma cosa vorranno dire? Strano che nessun sul palco abbia chiesto chiarimenti agli illustri relatori. Peccato anche perché forse la folla adriatica avrebbe apprezzato moderatori che incalzavano gli ospiti invece di limitarsi a ossequiarli. Non possiamo allora che cercare di carpire il significato di queste parole dai comportamenti di chi le ha pronunciate. Dopotutto, non c’è nulla, proprio nulla, che impedisca loro di metterle in pratica. Nel loro piccolo o grande che sia. Cesare Geronzi è stato, in sequenza, direttore generale della Cassa di Risparmio di Roma, poi Banca di Roma e Capitalia, presidente di Mediobanca e di Assicurazioni Generali. Queste aziende hanno conseguito profitti ingenti durante la sua reggenza. Ma non ci risulta che Geronzi abbia reso i suoi dipendenti “partecipi dei risultati aziendali”. Forse intendeva rendere partecipi gli stakeholders, le famiglie che avevano messo i loro risparmi in queste banche. In effetti, la Banca di Roma ha indotto molte di loro a comprare azioni e obbligazioni Cirio e Parmalat, partecipando attivamente al crac di queste società. Una partecipazione utile, ma per qualcun altro. Giulio Tremonti è stato ministro dell’Economia (per otto degli ultimi dieci anni e in tre degli ultimi quattro governi) e Maurizio Sacconi ministro del Lavoro (da due anni, prima per cinque anni è stato sottosegretario). Da molto tempo hanno annunciato una legge sulla partecipazione agli utili dei lavoratori. L’ultima volta in cui avevano dichiarato che sarebbe stata “legge entro l’anno” era esattamente un anno fa. Da allora non se ne è saputo più nulla. C’era anche un testo bi-partisan elaborato dalla commissione Lavoro del Senato di cui si è perso traccia. I contribuenti italiani (tra cui soprattutto ci sono lavoratori dipendenti) hanno comunque nel frattempo partecipato alle perdite di Alitalia, accollandosi circa 3 miliardi di debiti della “bad company”. Non che sia andata meglio ai dipendenti degli studi professionali. Forse qualcuno si era illuso leggendo del divieto per gli avvocati di costituirsi in società di capitali, una misura che verrà presto estesa a tutti gli ordini professionali, secondo il Guardasigilli Alfano. Forse, avrà pensato, serve affinché gli studi spartiscano gli utili coi loro dipendenti, anziché con gli azionisti. Purtroppo, bene che ne sia consapevole, serve solo a escludere la concorrenza, quei dipendenti che aspirano, prima o poi, a metter su il loro studio professionale. Avranno, purtroppo, vita ancora più dura: ritorno alle tariffe minime inderogabili, divieto di pubblicità, esami di ingresso ancora più difficili. Invece della partecipazione agli utili si sta promuovendo la cooptazione negli ordini da parte di chi un posto al sole, ce l’ha già. Al posto delle promesse liberalizzazioni ci sono quindi solo le parole in libertà. Ne faremmo volentieri a meno. E francamente faremmo a meno anche di una legge sempre promessa e mai realizzata sulla partecipazione agli utili dei lavoratori. Il motivo è che non c’è nessun legittimo impedimento a rendere i propri dipendenti partecipi dei profitti aziendali in Italia, anziché limitarsi a farli partecipare, spesso inconsapevolmente, ai fallimenti societari. Ma una cosa invece sì, ci sentiamo di chiederla a chi continua a prendere in giro milioni di lavoratori. Riducete il carico fiscale che grava sul lavoro, riequilibrando il gettito, in modo tale da spostarlo dal lavoro alle rendite, a partire da quelle finanziarie. Non farà piacere ai banchieri, ma farà aumentare la partecipazione al mercato del lavoro, rivelandosi utile nel far aumentare la ricchezza di tutti. http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001875.html Titolo: TITO BOERI. - Le regole dimenticate Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2010, 06:37:30 pm L'ANALISI
Le regole dimenticate di TITO BOERI DA POMIGLIANO a Mirafiori si ripete il copione. La politica si schiera a favore o contro Marchionne. Si parla di accordi storici, di svolte epocali oppure vengono invocati diritti fondamentali calpestati e violazioni della Costituzione. Sono tutte parole fuorvianti, pericolose perché di mezzo ci sono i posti di lavoro e i redditi di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Il nodo vero è sempre quello delle regole della rappresentanza. Ed è perciò ancora più grave che non si sia cercato in tutti questi mesi di porvi rimedio. La responsabilità ricade in eguale misura sul governo, che continua a ignorare il problema e punta in ogni occasione a dividere il sindacato, e sui vertici sindacali, giunti ai limiti dell'incomunicabilità. È un lusso che non ci possiamo permettere in uno dei momenti più critici della storia economica del paese. Da quando il sindacato è diviso, le organizzazioni dei lavoratori non sono più nelle condizioni di garantire il rispetto degli accordi presi. Una minoranza può sempre intervenire dopo che l'accordo è stato siglato e impedirne l'attuazione, mettendo in atto una serie di scioperi e di azioni dimostrative che possono gravemente compromettere se non far fallire un investimento attuato coerentemente con i contenuti dell'accordo. Finché questo problema non verrà risolto, non solo avremo continue tensioni e interferenze della politica nelle vicende sindacali, ma soprattutto faremo fatica ad attrarre capitali esteri da noi. Per convincere un investitore a puntare sul nostro Paese bisogna metterlo in condizione di avere di fronte interlocutori in grado di prendere impegni cogenti circa il rispetto degli accordi sottoscritti. L'investitore sa bene che il potere contrattuale del sindacato aumenterà dopo che l'investimento è stato attuato. A quel punto non sarà più possibile dirottare le risorse altrove, cosa invece possibile prima, quando l'accordo è stato preso. Di qui il timore che il contraente voglia rimettere tutto in discussione, ottenendo condizioni più favorevoli dopo che l'investimento è stato realizzato. Per attrarre grandi imprese da noi bisogna perciò tutelarle circa il rispetto degli impegni presi dalle organizzazioni dei lavoratori. Queste garanzie possono essere fornite da un sindacato unito oppure da una legge sulle rappresentanze sindacali che attribuisca al sindacato maggiormente rappresentativo in azienda, ai delegati eletti dai lavoratori, l'autorità di sottoscrivere accordi vincolanti per tutti. I lavoratori dovranno rispettarne i contenuti. Se poi l'accordo si è rivelato per loro insoddisfacente, sceglieranno altri rappresentanti alla prossima tornata elettorale. Esistono diversi disegni di legge che recepiscono questi principi e che da almeno 15 anni attendono di essere discussi in Parlamento. Del problema se ne parla peraltro fin dai tempi di Nenni. L'accordo sottoscritto a Mirafiori, in assenza di queste regole, riconosce come rappresentanze dei lavoratori solo le organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto l'intesa. È una scelta chiaramente inaccettabile. Esimi giuristi hanno sottolineato come questo comma dell'accordo Mirafiori sia coerente con l'articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori che garantisce diritto di rappresentanza solo alle organizzazioni che abbiano stipulato almeno un contratto in quell'azienda. Trattandosi di una newco, ed essendo questo il primo e unico contratto stipulato, l'interpretazione alla lettera dell'articolo 19 implica che la Fiom che non firma non avrebbe diritto a costituire la rappresentanza sindacale in azienda. Ma chi volesse costruire un sistema di relazioni industriali su questo principio di esclusione condanna il Paese alla conflittualità permanente. Non deve essere il datore di lavoro a decidere quali sono le rappresentanze dei lavoratori. Non possono che essere i lavoratori, con il loro voto, a scegliere chi li rappresenta. Bene perciò che si apra al più presto quel tavolo sulla rappresentanza proposto da Susanna Camusso su queste colonne lunedì. Significative le aperture mostrate nei confronti di questa proposta dal presidente degli industriali metalmeccanici, Pierluigi Ceccardi, e dal segretario della Cisl, Raffaele Bonanni. Quest'ultimo ha rimarcato che le norme sulle rappresentanze dovranno essere decise dai sindacati e non dal Parlamento. Ma il costo dell'incapacità di trovare un accordo su queste norme lo pagano anche molti non iscritti al sindacato e molti giovani che non hanno ancora iniziato a lavorare. Stupisce perciò la sponda offerta a Bonanni dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che dovrebbe rappresentare gli interessi di tutti i cittadini: "Un intervento del Governo in materia sarebbe autoritario". Un governo che vuole davvero attrarre investimenti dall'estero e che ambisce alla coesione sociale darebbe alle parti sociali un termine di tempo rapportato alle difficoltà attuali dell'economia italiana, diciamo un mese. Se queste in quel lasso di tempo non avranno trovato un accordo, sarà il Parlamento a legiferare in autonomia. La legge sulle rappresentanze offrirebbe anche alla Fiom, sin qui il sindacato maggioritario fra i metalmeccanici, l'opportunità di rientrare in gioco. L'accordo di Mirafiori sulla carta non glielo consente, anche se dovesse cambiare idea. Il testo infatti prevede che "l'adesione al presente accordo di terze parti è condizionato all'assenso di tutte le parti firmatarie". Un sindacato non può restare perennemente all'opposizione. Può farlo un partito politico, a vocazione minoritaria. Ma non certo un sindacato. (29 dicembre 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/economia/2010/12/29/news/boeri_fiat-10670814/?ref=HRER1-1 Titolo: TITO BOERI. - Quei lavoratori da proteggere Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2011, 11:32:28 am L'ANALISI
Quei lavoratori da proteggere di TITO BOERI Invece dell'accordo storico abbiamo avuto un disaccordo senza precedenti. Non sarà facile governare Mirafiori. Non sarà facile governare gli impianti con il 50% di operai favorevoli e il 50 di contrari. Sarà una sfida in più per Marchionne. Meglio, comunque, sospendere il giudizio sul suo operato. I manager vanno giudicati dai risultati e non dalle intenzioni. Potremo fra due o tre anni trarre un primo bilancio della sua gestione. Nel frattempo bene che gli azionisti rivedano gli schemi di remunerazione del management in modo tale da incentivare il raggiungimento di obiettivi di lungo periodo. Bene anche che il governo si schieri a favore del paese, spingendo affinché tra questi obiettivi ci sia anche la salvaguardia degli attuali livelli occupazionali senza ulteriori aiuti di Stato, incrementi salariali per i lavoratori in linea con i miglioramenti di produttività e, soprattutto, il mantenimento a Torino del cuore delle fasi di progettazione, quelle in grado di avere ricadute produttive sull'intero sistema produttivo. Il referendum a Mirafiori è stato salutato dal nostro ministro del Lavoro come una nuova era nelle relazioni industriali. Ci indica, invece, una volta di più che è un sistema che fa acqua da tutte le parti: copre sempre meno lavoratori, interviene sempre più in ritardo e accentua, anziché gestire, i conflitti, non incoraggia gli aumenti di produttività e salari. Costringe a creare una nuova azienda e ad uscire dalle associazioni di categoria per fare contrattazione a livello decentrato, diventando così ancora meno governabile. Le riforme più urgenti riguardano le regole sulle rappresentanze sindacali, i livelli della contrattazione, la copertura delle piccole imprese, i minimi inderogabili e i confini fra contrattazione collettiva e politica. Nel confronto su Mirafiori la frattura tra i sindacati si è ulteriormente accentuata. Occorrono regole che permettano la contrattazione - il che significa prendere impegni con la controparte e rispettarli - anche quando il sindacato è diviso. E che non condizionino come a Mirafiori la rappresentanza dei lavoratori alla firma del contratto. I livelli della contrattazione. Nelle aspre polemiche di questi giorni, i sindacati si sono rinfacciati di avere sottoscritto accordi ben più onerosi per i lavoratori in altre imprese. Alla Sandretto la Fiom (non la Fim) ha firmato per deroghe al ribasso dei minimi salariali fissati dal contratto nazionale, pur di salvaguardare i livelli occupazionali. Alla STM, alla Micron e alla Exside, Fim, Fiom e Uilm hanno accettato turni che impongono il lavoro notturno molto più di frequente e con maggiorazioni salariali inferiori a quelle previste alla Fiat. E ci sono molte piccole e medie imprese nel metalmeccanico in cui si accettano condizioni di lavoro ancora più pesanti in quanto a turni e pause. Non c'è nulla di male se un sindacato accetta queste condizioni in un'azienda e non in un'altra. Può farlo perché i lavoratori hanno esigenze diverse, perché le caratteristiche delle mansioni sono differenti, perché le condizioni del mercato e il potere contrattuale dei lavoratori cambiano a seconda dell'impresa e delle condizioni del mercato del lavoro locale. Questo dimostra che c'è bisogno di contrattazione azienda per azienda. E' l'unica che permetta al sindacato di salvaguardare posti di lavoro in aziende in difficoltà o di rinunciare ad aumenti salariali per fare assumere più lavoratori. A livello nazionale si può solo contrattare sui salari, non sui livelli occupazionali. Chi si oppone al rafforzamento del secondo livello della contrattazione, rinuncia di fatto a tutelare molti posti di lavoro. La contrattazione aziendale è difficile in aziende medio-piccole. In molte di queste non potrà che continuare a valere il contratto nazionale. Oltre a dare copertura contro l'inflazione bene che fissi delle regole retributive più che dei livelli salariali uniformi da imporre in realtà tra di loro molto differenziate. Ad esempio, si può stabilire che una quota minima dell'incremento della redditività di un'azienda sia trasferita ai lavoratori sotto forma di salario più alto. Un sindacato che continua a lasciare da soli i lavoratori delle piccole imprese nel loro tentativo di partecipare agli incrementi di produttività non ha futuro nella stragrande maggioranza delle imprese italiane. Come evidenziato anche dalla composizione del voto a Mirafiori (il turno di notte, che avrà i maggiori carichi di lavoro e incrementi retributivi, ha votato a larga maggioranza a favore del sì, al contrario degli altri reparti) oggi molti lavoratori italiani sono disposti a lavorare di più e in condizioni più pesanti pur di guadagnare di più. Non sorprende data la stagnazione dei salari negli ultimi 15 anni. Questo ci porta ai minimi inderogabili. Bene definirli con precisione e preoccuparsi di farli rispettare per tutti. Ci vogliono dei minimi al di sotto dei quali nessun contratto può scendere. Devono essere per forza di cosa essere fissati per legge e valere per tutti, anche per chi lavora nel sindacato, nei partiti o nel volontariato. Ci vuole un salario minimo orario. Ma ci vogliono anche un'assicurazione sociale di base, a partire da quella contro la disoccupazione. Infine i confini tra contrattazione e politica. Troppi politici hanno perso in queste settimane un'ottima occasione per stare zitti, pronunciandosi a favore o contro l'accordo Mirafiori. E' una ingerenza fastidiosa, inaccettabile, e hanno fatto bene i leader confederali a denunciarla. Ma bisogna ammettere che troppe volte è proprio il sindacato a chiamare in causa la politica. Lo ha fatto anche a Mirafiori. Bene che la smetta. La politica non si fa certo pregare quando si tratta di invadere terreni su cui non dovrebbe avere alcuna voce in capitolo. (17 gennaio 2011) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/economia/2011/01/17/news/boeri_fiat-11312175/?ref=HREC1-4 Titolo: TITO BOERI. - Cari prof, studenti, genitori essere valutati non è "umiliazione" Inserito da: Admin - Maggio 30, 2011, 11:28:46 pm LA POLEMICA
Cari prof, studenti, genitori essere valutati non è "umiliazione" L'economista Tito Boeri ha scritto una analisi dei test Invalsi su Repubblica. E ha ricevuto molte reazioni, spesso dure, dal mondo della scuola. E ora su Repubblica.it prova a riassumere le contestazioni e rispondere di TITO BOERI Sapevo di toccare un nervo scoperto, ma non immaginavo di suscitare reazioni così virulente difendendo i test Invalsi nella scuola superiore con un mio precedente articolo 1. Sono peraltro a conoscenza solo di una minima parte di queste risposte, presumibilmente quelle più favorevoli perché affidate a messaggi di posta elettronica a me indirizzati, a lettere alla posta di redazione di Repubblica o a blog in qualche modo filtrati. Altre reazioni, presumibilmente più feroci, sono contenute nei blog intrattenuti da docenti che dichiarano di avere postato e vivisezionato il mio articolo. Alcuni docenti giungono fino a minacciare di incatenarsi alla sede del mio giornale. Li prego davvero di non farlo perché 1) il mio articolo non impegna certo Repubblica che ha una sua propria linea editoriale, e 2) il sito che coordino, www.lavoce.info (forse è questo che si intende per il "mio giornale"), ha solo una sede virtuale, cui difficilmente potrebbero incatenarsi. Ringrazio comunque chi mi ha scritto per l'attenzione. Non riesco a rispondere a tutti e alcune obiezioni sono ricorrenti. Dunque posso a loro contro-obiettare in questa forma collettiva. Premetto che sono anche io un docente e che mi sottometto periodicamente a valutazioni. Ci sono infatti classifiche standardizzate che guardano alle mie pubblicazioni e al modo con cui vengono citate. Esistono poi valutazioni degli studenti che seguono i miei corsi e vengono raccolti dati sugli esiti di questi studenti in altri esami e poi sul mercato del lavoro, valutando poi il valore aggiunto dei miei corsi. Certo qualche volta non posso non avvertire un senso di fastidio nel leggere qualche giudizio negativo di studenti o provare gelosia nel vedere che qualche collega più bravo di me mi precede nei ranking, ma, al contrario di chi mi ha scritto, non mi sento affatto "umiliato" da queste valutazioni. Mi sentirei umiliato, sia come docente che come contribuente, se non ci fossero perché vorrebbe dire che molti miei colleghi possono ricevere uno stipendio rimanendo inattivi senza che nessuno se ne accorga e che ogni mio sforzo per migliorare la qualità della ricerca e della didattica non viene minimamente monitorato e riconosciuto. Alcuni docenti sostengono che i test Invalsi servono come strumento per "propagandare surrettiziamente delle ideologie" nel corpo studentesco. Non capisco di quale ideologia si tratterebbe dato che il metodo è lo stesso dei test Pisa condotti in tutto il mondo. Si tratta di metodiche consolidate a livello internazionale nella costruzione di test di competenza cognitiva. Allego comunque qui sotto alcuni esempi di domande del test Invalsi affinché tutti si rendano conto di cosa stiamo parlando. Dove sta l'ideologia, nelle reazioni ai test o nei test? Ai lettori l'ardua sentenza. Altri docenti si lamentano della natura fredda dei test che "minano con quattro parole e poche crocette la professione docente", il che, incidentalmente, conferma che non si tratta di test propagandistici. Propongono allora valutazioni di ispettori ,"uomini che giudicano altri uomini" (si tratterebbe per la verità spesso di donne che giudicano altre donne). Non ho mai sostenuto che i test Invalsi debbano essere l'unico strumento di valutazione e concordo che valutazioni che prescindano anche da rilievi strettamente quantitativi siano utili. I test Invalsi sono solo uno degli ingredienti del processo valutativo. Hanno il vantaggio di essere comparabili tra scuole, regioni e addirittura paesi, a differenza delle valutazioni "soft" che molti docenti sostengono di preferire e alle quali, ripeto, non sono affatto contrario. Non vorrei solo che il "ci vuole ben altro" per valutare sostenuto da molti sia solo un modo per non farsi valutare del tutto, rendendo la valutazione talmente onerosa da non poter essere effettuata. Lo sport nazionale in Italia è riempirsi la bocca di termini come "merito" e "meritocrazia", applicati sistematicamente agli altri, per poi rifiutare qualsiasi metrica, qualsiasi misura della propria produttività. Senza queste misure "merito" è un termine vuoto, perché diventa del tutto arbitrario. E' lo stesso atteggiamento mostrato dai nostri politici quando negano le statistiche ufficiali. Il Ministro Tremonti sostiene spesso che le statistiche dell'Istat sono inaffidabili (guarda caso quando documentano che durante il suo regno l'economia italiana non è cresciuta a differenza che in tutti gli altri paesi Ocse). Non vorrei che un simile atteggiamento affiorasse fra quei docenti che sostengono che i test standardizzati applicati in tutto il mondo sono del tutto fuorvianti. Mi si contesta ancora il fatto di voler usare i test per differenziare le retribuzioni del corpo docente. A mio giudizio, allo stato attuale, i test servono semplicemente a informare gli insegnanti, gli studenti e le loro famiglie. Proprio per questo proponevo di fare i test in modo tale da poter rendere pubblici i dati scuola per scuola. A proposito: c'è chi contesta la possibilità di mandare ispettori a controllare che gli studenti non copino (talvolta gli stessi che propongono di fare valutare tutti i docenti da ispettori), sostenendo che non ci sono risorse per l'attività ispettiva. Ovvio che si tratterebbe di controlli a campione soprattutto sulle scuole dove si ha il sospetto che si siano riscontrati comportamenti volti a svilire il significato dei test. Ritengo che in prospettiva, quando i test e altri strumenti di valutazione saranno consolidati, questi strumenti possano essere utilizzati anche per allocare in modo più selettivo le poche risorse disponibili (talmente ridotte che è in discussione la sopravvivenza stessa dell'Invalsi!). La valutazione dell'istruzione è una premessa fondamentale per assegnare più risorse alla scuola. Dato che le risorse sono limitate, occorre evitare in ogni modo di disperderle dandole a istituti che dimostrano di non arricchire ( o di arricchire troppo poco) le conoscenze degli studenti che si iscrivono in quelle scuole. Questo significa che bisogna tenere conto del livello delle conoscenze all'atto dell'iscrizione alla scuola. Premiando le scuole che operano in realtà difficili, che hanno magari punteggi bassi nel test, ma sono in costante miglioramento. Le reazioni al mio intervento su Repubblica comunque dimostrano che l'Invalsi (e il ministro che in questi mesi si è impegnata soprattutto a difendere la condotta non solo diurna del nostro presidente del consiglio) abbiano fatto di tutto per non informare gli insegnanti. Molte delle domande che sono state poste al sottoscritto, andrebbero in effetti girate all'Invalsi. Mi auguro che molti di coloro che mi hanno scritto, cambino il destinatario e che l'Invalsi dedichi a queste richieste di chiarimento la dovuta attenzione. Ecco alcuni esempi di test Invalsi per il secondo anno della scuola secondaria superiore 2 (30 maggio 2011) © Riproduzione riservata da - repubblica.it/scuola/2011/05/30/news/ Titolo: TITO BOERI. - PAREGGIO DI BILANCIO: È MEGLIO FARLO SUL CAMPO Inserito da: Admin - Agosto 09, 2011, 06:28:18 pm PAREGGIO DI BILANCIO: È MEGLIO FARLO SUL CAMPO
di Tito Boeri e Fausto Panunzi 08.08.2011 C’è solo un modo con cui il nostro Governo può acquistare credibilità rispetto a chi ritiene alto il rischio di un ripudio del nostro debito pubblico: mostrandosi capace di contenere le spese e di raggiungere un bilancio in pareggio fin dal 2012. Non è introducendo nella Costituzione l’obbligo del bilancio in pareggio che si esce dalla crisi. “Se stai annegando, ti aggrappi anche a un serpente” recita un proverbio turco. Il Governo, di fronte a una pesantissima crisi di credibilità e all’incapacità di reagire tempestivamente con nuove misure di contenimento della spesa, ha tirato fuori dal cappello una riforma costituzionale che introduca l’obbligo del pareggio di bilancio. È chiaramente un modo per cercare di comprare credibilità a basso costo. Ma i tempi di attuazione della riforma sono troppo lunghi per rassicurare i mercati. E come per ogni regola fiscale è molto difficile trovare un equilibrio tra la rigidità richiesta perché la regola non sia aggirabile e la flessibilità indispensabile nella gestione del bilancio. Il rischio è dunque quello di legarsi le mani inutilmente impedendo politiche anticicliche e risposte a crisi esterne. L’unico modo che il nostro Governo ha per rendersi credibile di fronte ai mercati nel proprio impegno a ridurre il debito pubblico è raggiungere al più presto, fin dal 2012, il pareggio di bilancio con interventi di contenimento strutturale della spesa pubblica e sospendere l’attuazione del federalismo fiscale. Bisogna mostrare sul campo anziché con le regole che siamo capaci di tanto. PERCHÉ NON POSSIAMO SCIMMIOTTARE LA GERMANIA La ragione che ha spinto la Germania a introdurre nella Costituzione regole che impongano il bilancio in pareggio è il tentativo di rendere più credibile il proprio impegno a tenere sotto controllo i conti pubblici e quindi poterli collocare sul mercato offrendo rendimenti più bassi. Come Ulisse si fece legare saldamente all’albero maestro per resistere al canto delle sirene, così può essere utile legare le mani dei futuri governi per impedire che cedano alle pressioni delle loro basi elettorali deviando da una politica di contenimento del deficit pubblico. Oggi il nostro Governo, messo sotto pressione da mercati che ormai ci considerano più a rischio della Spagna, vorrebbe scimmiottare Berlino. Ma ci sono due differenze importanti fra noi e la Germania. La prima differenza è che la Germania ha varato o avviato queste riforme costituzionali mentre beneficiava di un premio di rischio paese relativamente contenuto. Questo ha permesso di adottare regole sufficientemente flessibili, tali da permettere l’adozione di politiche anticicliche, come discusso nella scheda di Giuseppe Pisauro. Il nostro Governo, invece, vorrebbe procedere ora nel mezzo di una grave crisi, sotto la pressione dei mercati e delle istituzioni internazionali. In queste condizioni la credibilità di tale misura rischia di essere percepita come molto bassa dai mercati, un mero espediente per salvare la faccia e guadagnare tempo. Inoltre l’iter di una riforma costituzionale è molto lungo, richiede come minimo nove mesi, una infinità in una congiuntura come quella attuale. Insomma, rischiamo di porci vincoli molto rigidi – al pari di quelli contro cui ha dovuto combattere Obama nelle ultime settimane – senza trarne alcun beneficio. IL NODO DEL FEDERALISMO La seconda differenza è che noi dovremmo imporre queste regole mentre si procede ad attuare i decreti attuativi del cosiddetto federalismo fiscale, che non poco inquietano i mercati nel timore che gli enti locali siano ancora meno virtuosi del governo nazionale nel gestire i conti pubblici. Per questo motivo, le regole di cui dovremmo dotarci nella Costituzione dovrebbero vincolare anche le amministrazioni locali. Non è un caso che la proposta di legge costituzionale sulla “riforma fiscale” presentata qualche giorno fa in Parlamento a firma di senatori che fanno riferimento tanto alla maggioranza quanto all’opposizione (vedi allegato) ponga il vincolo di bilancio in pareggio non solo per l’amministrazione centrale dello Stato, ma anche per le Regioni, gli enti locali e il complesso delle amministrazioni pubbliche. È una norma la cui gestione è fortemente problematica come spiegato da Giuseppe Pisauro. I COSTI DELLE REGOLE FISCALI L’introduzione dell’obbligo del bilancio in pareggio nella Costituzione rischia perciò di non darci alcun beneficio in termini di credibilità. Al contempo ci porrebbe di fronte ai costi tipici di tutte le regole fiscali. Innanzitutto è molto difficile farle rispettare. I vincoli valgono ex-ante, non ex-post. La norma che prevede la possibilità di ricorso al debito con una maggioranza dei due terzi in ciascuna Camera, come previsto dalla proposta bipartisan, rischia di non essere molto stringente, vista la propensione altrettanto bipartisan mostrata nel ridurre la spesa pubblica negli ultimi decenni. Certo, la bozza bipartisan prevede che, in caso di mancato rispetto del pareggio in bilancio, bisognerebbe predisporre un piano triennale di ammortamento del debito. Ma piani di questo tipo rischiano di essere del tutto privi di credibilità e ridurre ulteriormente la trasparenza dei conti pubblici se, come notato da Michele Ainis sul Corriere della Sera del 7 agosto, sarà consentito di iscrivere a bilancio poste aleatorie o addirittura da libro dei sogni quali entrate future legate alla lotta all’evasione o a future privatizzazioni. Inoltre legarsi le mani sulla politica di bilancio può risultare in alcuni casi eccessivamente penalizzante. Nel caso di una recessione, dato che le entrate diminuiscono in linea con l’andamento del prodotto interno lordo, il pareggio di bilancio imporrebbe una riduzione della spesa che potrebbe andare a scapito della fornitura di servizi essenziali quali la protezione sociale e la sanità impedendo ai cosiddetti stabilizzatori automatici (se non a politiche fiscali discrezionali) di operare nel contenere l’ampiezza della recessione. LA CREDIBILITÀ SI OTTIENE COI FATTI Il furore con il quale il Governo oggi si ripromette di cambiare la Costituzione imputandole tutti i problemi ci sembra l’ennesimo diversivo per non guardare in faccia la realtà. Un esecutivo poco credibile come il nostro, anche per il modo dilettantistico con cui ha gestito la crisi sin qui, può oggi guadagnarsi la credibilità solo sul campo, con misure concrete e dagli effetti immediati, dimostrando di essere in grado di portarci al pareggio di bilancio, soprattutto con provvedimenti di contenimento della spesa pubblica. Avendo aspettato così a lungo ad agire, non può più permettersi di fare melina. Il nodo è non solo quello dell’orizzonte entro il quale raggiungere il pareggio di bilancio, ma anche come si intende farlo. I governi italiani non sono mai stati capaci di ridurre la spesa pubblica in modo strutturale. Per quanto difficile e impopolare, sarà questo il terreno su cui i mercati valuteranno la risposta del governo Berlusconi. Utile anche rinviare a tempi migliori il disegno di federalismo fiscale, che pone non pochi interrogativi agli investitori. Non sarebbe allo stato attuale una rinuncia dolorosa: i decreti attuativi approvati in questa legislatura sono un insieme di principi tra di loro contraddittori che rendono meno trasparenti i bilanci delle amministrazioni pubbliche senza avvicinarci in alcun modo al federalismo. Meglio ripartire da capo e in tempi migliori. da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002489.html Titolo: TITO BOERI. Pd, la Cgil e la contro-manovra quant´è difficile fare opposizione Inserito da: Admin - Agosto 28, 2011, 05:01:22 pm l Pd, la Cgil e la contro-manovra quant´è difficile fare opposizione
Fonte: TITO BOERI - la Repubblica | 27 Agosto 2011 La Cgil ha indetto uno sciopero generale contro una manovra che non c´è, dato che il decreto di Ferragosto viene ormai sconfessato anche dai ministri che lo hanno approvato. Il Pd da allora si interroga su che posizione prendere, lacerato tra chi sostiene la scelta del maggiore sindacato italiano e chi, invece, ritiene che sia quantomeno intempestiva. Se non è facile governare in condizioni di emergenza, è ancora più difficile essere all´opposizione in questi frangenti. Bisogna salvare il Paese senza coprire le responsabilità di chi ci ha portato sull´orlo dell´abisso. E non è certo agevole spiegare dai banchi dell´opposizione che bisogna accettare ulteriori sacrifici, quanto sia forte il rischio che stiamo correndo e quali scelte ben peggiori dovranno essere fatte se il Paese affonda. Il modo migliore per riuscire in questo intento è dare l´esempio col proprio comportamento responsabile. È un modo al tempo stesso di offrire un contributo fondamentale al salvataggio del Paese. Non è un caso che il presidente della Repubblica Napolitano abbia nelle ultime settimane ripetutamente sollecitato comportamenti di questo tipo. Servono a rassicurare chi sta decidendo se rinnovare o meno i nostri titoli di stato in scadenza. Bisogna convincerli che chi potrebbe essere chiamato a guidare un governo dopo le prossime elezioni farà non solo meglio, ma anche molto meglio di un esecutivo che si è rilevato del tutto inadeguato nel gestire l´emergenza. Purtroppo il decalogo di proposte presentato da Bersani martedì alla stampa e mercoledì alle parti sociali non ha né i numeri, né i contenuti per riuscire in questo intento. Era stato preannunciato come una vera e propria "contro-manovra". Di "contro" nel decalogo c´è molto. Di "manovra" molto meno. Più o meno un decimo di quanto sarebbe necessario. Quasi metà del testo consiste in critiche alla manovra del governo. Il resto del documento è un elenco di titoli generici, più che un insieme coerente e articolato di proposte. Ed è un elenco che trascura del tutto il 90 per cento del nostro bilancio pubblico: non una proposta sulla previdenza (40 per cento della spesa corrente primaria), non una sulla sanità (17%), oppure su istruzione ricerca e cultura (13%), difesa e ordine pubblico (8%) agricoltura, trasporti ed energia (5%), ammortizzatori e assistenza (4%), ambiente e sviluppo urbanistico (2%). E sì che i tagli da qualche parte dovremo pur farli. A ben vedere di tagli alla spesa pubblica nel decalogo di Bersani c´è solo il dimezzamento delle province (perché non abolirle del tutto?) e dei parlamentari (perché non ridurli a un terzo mettendoci in linea con le altre democrazie in termini di rapporto fra eletti ed elettori?), gli accorpamenti delle funzioni dei Comuni con meno di 5000 abitanti (perché non parlare più esplicitamente di fusione, il che tra l´altro non porrebbe i problemi di costituzionalità che insorgono togliendo funzioni ad alcuni Comuni?) misure giuste, ma ancora parziali, al punto che difficilmente possono portare risparmi superiori al miliardo di euro. A fronte di queste sforbiciatine, ci sono spese aggiuntive (o mancate entrate), come quelle legate alla stabilizzazione dell´agevolazione fiscale del 55% per l´efficienza energetica (in scadenza a fine 2011), il finanziamento dei progetti per l´innovazione tecnologica italiana e la ricerca, il finanziamento pluriennale del contratto di apprendistato e l´abolizione dell´abolizione dell´Istituto per il commercio estero. Vero che c´è un piano di dismissioni nel decalogo, ma è ridotto anch´esso al lumicino. Si tratta unicamente di vendite di immobili, anziché di partecipazioni in società quotate. Dovrebbe portare a raccogliere 25 miliardi: in termini strutturali significa risparmi per circa 800 milioni all´anno in spesa di interessi sul debito. La parte più convincente del decalogo sono le misure di contrasto all´evasione, che abbassano le soglie di tracciabilità (a 300 euro), anche se non sembrano ancora utilizzare le rilevazioni sui patrimoni, che potrebbero davvero permettere di localizzare i grandi evasori. Il grosso della "manovra" sono le entrate, a partire dalla tassa sui grandi valori immobiliari, che assomiglia molto al ripristino dell´Ici sulla prima casa abolita a inizio legislatura. Si può essere più o meno d´accordo con alcune di queste misure, ma è del tutto evidente che non avvicinano neanche lontanamente l´obiettivo dei 40 miliardi di aggiustamento. Coprono, a mala pena, un decimo di questo. Ed è ancora più evidente che il contributo delle entrate al piccolo aggiustamento proposto dal Pd è addirittura superiore a quello della manovra del governo. È come se si cercasse di rassicurare i parenti al capezzale di un malato che ha un´emorragia, offrendo nuove trasfusioni, nuovi prelievi del sangue agli italiani, anziché dimostrarsi capaci di bloccare l´emorragia. Se si vuole essere meno ambiziosi nel miglioramento dei saldi, bisognerà dimostrarsi in grado di tagliare in modo permanente la spesa corrente e di saper fare quelle riforme strutturali che aumentano la partecipazione al lavoro e la dimensione dei mercati permettendoci di tornare a crescere. Invece di misure a favore dello sviluppo nel decalogo c´è solo un imprecisato piano di liberalizzazioni degli ordini professionali e delle farmacie. Difficile pensare che il mantenimento dello status quo in termini di politiche del lavoro richiesto nel decalogo (ottavo comandamento) o il ripristino del reato di falso in bilancio (nono) possano affrontare i problemi della bassa crescita del nostro paese. Speriamo che gli emendamenti che lunedì verranno presentati al Senato dal Pd e dalle altre forze politiche siano di ben altro tenore. Perché c´è bisogno davvero di una contro-manovra, che faccia tagli veri e stimoli la crescita non aumentando ulteriormente la pressione fiscale, ma semmai creando le condizioni per una sua graduale riduzione. C´è bisogno di una manovra che orienti le poche risorse disponibili a sostegno dei poveri creati nella recessione, fra i quali non figurano certo coloro che si apprestano a prendere la pensione d´anzianità. Dato che risorse per l´assistenza ai poveri ce ne sono comunque poche, bene che un partito come il Pd si chieda anche se è giusto che la fondazione Monte dei Paschi, ai cui vertici è assai bene rappresentato, si indebiti per sostenere l´aumento di capitale della banca conferita. Non possiamo più permetterci il lusso di enti che, invece di perseguire unicamente le proprie finalità sociali diversificando il proprio portafoglio onde meglio salvaguardare il proprio patrimonio, decidono consapevolmente di dissanguarsi per mantenere il controllo delle banche. Anche in questo caso si tratta di dare il buon esempio, scegliendo con coraggio le proprie priorità. da - http://www.dirittiglobali.it/home/categorie/18-lavoro-economia-a-finanza/19677-il-pd-la-cgil-e-la-contro-manovra-quantae-difficile-fare-opposizione.html Titolo: TITO BOERI. - Commissariati da "Merkozy" Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2011, 05:18:37 pm IL COMMENTO
di TITO BOERI Commissariati da "Merkozy" DOVEVA ESSERE il week-end del salvataggio dell'euro e dell'intera costruzione europea. Lo ricorderemo invece per i sorrisi sarcastici di Sarkozy 1 alla conferenza stampa in chiusura del vertice europeo, quando gli è stato chiesto un giudizio sugli impegni presi dal nostro presidente del Consiglio. Lo ricorderemo per gli ammiccamenti fra il presidente francese e Angela Merkel. Lo ricorderemo per il lungo silenzio di quest'ultima di fronte ai dubbi espressi in modo così evidente sulla credibilità di chi rappresenta il nostro Paese. Questo teatrino non solo è umiliante, ma anche ha dei costi per tutti noi: è difficile per chi guarda all'Italia dall'estero scindere le opinioni sul nostro presidente del Consiglio da quelle sulle nostre istituzioni. Ieri il "duunvirato Merkozy" ha operato un netto distinguo tra, da una parte, Grecia e Italia e, dall'altra, gli altri paesi coinvolti nella crisi del debito. Si sono rivolti a Berlusconi e a Papandreou come se fossero loro il problema, come se avessero "la stessa faccia", e le nostre istituzioni fossero della "stessa razza" di quelle che in Grecia hanno per lungo tempo occultato le vere dimensioni del deficit pubblico. Spiace ritrovarsi accomunati a chi ha scatenato la crisi del debito, ed è per noi ingeneroso ogni parallelo fra le istituzioni che monitorano e certificano i conti pubblici nei due paesi. Ma è innegabile che portiamo grandi responsabilità se non nella genesi, quanto meno nell'escalation della crisi, per i pesanti ritardi con cui il nostro governo è intervenuto in questi mesi. Ed è del tutto comprensibile che i contribuenti tedeschi e francesi che dovranno impegnarsi di più per tenere l'Euro in piedi si vogliano oggi tutelare contro il rischio che chi beneficia degli aiuti ne approfitti per rinviare ulteriormente scelte difficili quanto inevitabili. A ben vedere il problema è tutto lì: non usciremo dalla crisi fin quando non solo i leader, ma anche l'opinione pubblica francese e dei paesi dell'ex area del marco si saranno convinte che gli strumenti di salvataggio che si vanno faticosamente approntando a livello europeo non sono un pozzo senza fondo. Hanno non poche ragioni per temere atteggiamenti opportunistici. Se la Banca Centrale Europea non fosse intervenuta massicciamente a sostegno dei nostri titoli di stato negli ultimi tre mesi, non avremmo un governo che continua a procrastinare le misure per la crescita, dopo aver per lungo tempo cercato di rinviare ai posteri anche l'aggiustamento fiscale. Eppure non usciremo dalla crisi senza un prestatore di ultima istanza di dimensioni sufficienti, come potrebbe esserlo la Bce. È questo in fin dei conti il problema affrontato in queste interminabili riunioni d'emergenza dei leader europei: come trovare consenso per interventi della dimensione richiesta dall'aggravarsi della crisi, rassicurando gli elettori del "cuore dell'Euro" sulla qualità del risanamento in atto nei paesi ad alto debito. Vertice dopo vertice, gli interventi sulla carta messi a disposizione per sostenere i paesi in crisi del debito sono sempre più consistenti, per qualche giorno magari convincono anche i mercati, ma poi si rilevano ogni volta insufficienti per bloccare il contagio, la diffusione a macchia d'olio della crisi. Si potrebbe ironizzare sui tantissimi complicati schemi ideati in questi mesi per cercare di aumentare le risorse messe effettivamente in campo dai vari governi. Sono riuscite a riportare in auge gli strumenti di finanza creativa ritenuti responsabili della crisi del 2008! Come nel caso dei vituperati CDOs, si impacchettano i "titoli tossici" dei paesi periferici con quelli di paesi che godono ancora della tripla A. Ma i mercati hanno imparato la lezione: non è un caso che lo spread fra i bund tedeschi e i titoli emessi dal fondo di salvataggio europeo si siano pericolosamente allargati negli ultimi giorni. Il fatto è che finché si interverrà reagendo alla diffusione della crisi, anziché cercando di anticiparne gli sviluppi futuri, si sarà sempre in ritardo. Bisognerebbe invece sorprendere i mercati mettendo in campo un credibile prestatore di ultima istanza, in grado di intervenire ben oltre i limiti oggi imposti al fondo salva stati, impedendo il fallimento di altri stati dopo la Grecia. La Banca centrale europea ha tutte le caratteristiche per ricoprire questa funzione, peraltro svolta dalla Fed sull'altra sponda dell'Atlantico. Ma giustamente la Bce non intende cimentarsi in questo compito fin quando non avrà ricevuto un chiaro mandato politico e legale dai governi della zona dell'Euro. Si è già spinta molto al di là dei compiti tradizionali di una banca centrale negli ultimi anni, diventando una specie di hedge fund, e non può diventare prestatore di ultima istanza dei governi, oltre che delle banche della zona euro, senza un preciso mandato. Altrimenti, oltre ad agire illegalmente, non sarebbe credibile perché i governi potrebbero un domani smettere di ricapitalizzarla, non dotandola di quelle risorse che le permettono effettivamente di fare prestiti ai paesi (e alle banche) in difficoltà. La Bce non verrà mai messa in condizione di operare come la Fed, oppure di finanziare un fondo di salvataggio europeo, finché gli elettori ai due lati del Reno non si convinceranno del fatto che non c'è comportamento opportunistico nei paesi del Sud Europa. Per questo la Merkel e Sarkozy hanno ieri parlato come veri e propri commissari straordinari del nostro paese, sostenendo che d'ora in poi vigileranno passo dopo passo su ciò che farà Berlusconi, e si sono spinti fino a imporre un ultimatum di tre giorni e a dettare un'agenda di misure a un grande paese fondatore dell'Unione. Si rivolgevano soprattutto agli elettori tedeschi e francesi. Il nostro Presidente del Consiglio ha reagito annunciando una riunione d'emergenza del Consiglio dei Ministri e misure su pensioni e vendita di immobili pubblici. Avremmo evitato tutto questo se il nostro governo avesse agito per tempo senza dover subire alcun ultimatum dall'Europa. Non è solo una questione di orgoglio nazionale. Abbiamo bisogno di riforme che affrontino i nodi strutturali, specifici del nostro paese. Bene, dunque, che le riforme per la crescita siano decise da noi, invece che essere imposte dall'esterno. (24 ottobre 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/24/news/commissariati_da_merkozy-23747183/?ref=HREA-1 Titolo: TITO BOERI. - I cinque nodi dell'equità Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2011, 10:55:44 pm L'analisi
I cinque nodi dell'equità di TITO BOERI La prima manovra del Governo Monti deve passare nel Paese prima ancora che in Parlamento. Solo in questo modo il nuovo esecutivo avrà il tempo di occuparsi davvero delle misure per la crescita, di cui sin qui non si ha traccia o quasi. Sono fondamentali per portarci fuori dal baratro perché con questa manovra, la pressione fiscale salirà ben oltre il 46 per cento e il peso delle entrate sul totale del reddito generato in Italia supererà il 50 per cento. Roba da uccidere un canguro di media stazza. Figuriamoci una lumaca come è stato il nostro paese in questi anni. Perché la manovra sia accettata dagli italiani deve apparire equa, deve richiedere sacrifici ben distribuiti. Diverse critiche mosse alla manovra in nome dell'equità non sono affatto eque, nel senso che sono sbagliate o superficiali il che distoglie dal trovare correttivi adeguati. Ma è indubbio che l'equità della manovra può essere molto migliorata nel passaggio parlamentare. Cominciamo dalle tre aree fondamentali su cui si gioca la distribuzione dei sacrifici - casa, pensioni ed evasione fiscale - per poi passare a tasse sul lusso, costi della politica e frequenze del digitale terrestre. La parte del leone nella manovra (un terzo del totale) è rappresentata dalla tassa sulla prima casa, la nuova Ici, chiamata Imu per non dare un dispiacere a chi l'aveva inopinatamente abolita. Si è scritto che colpirebbe soprattutto i cittadini più poveri. Non è così. Stime preliminari svolte su un modello di microsimulazione costruito sull'indagine sulle famiglie della Banca d'Italia suggeriscono che quasi la metà del gettito della tassa verrà raccolto tra il venti per cento più ricco della popolazione. La tassa ridurrebbe ancora di più le disuguaglianze nella distribuzione dei patrimoni se i valori catastali fossero allineati a quelli di mercato. Da anni si parla di rivalutare gli estimi catastali, ma nessun governo ha avuto la forza politica di farlo. Oggi sono magari gli stessi politici che hanno permesso a molti ricchi di pagare un nonnulla per immobili di grande valore ad accusare il governo Monti di inquità. A quanto pare, non c'è limite all'ipocrisia in politica. Per rimediare a questo problema si possono utilizzare i dati dell'Agenzia del Territorio che rilevano sistematicamente le transazioni immobiliari per tipologie di immobili in ogni quartiere ottenendo così valori di riferimento più vicini a quelli effettivi, in attesa del completamento della rivalutazione degli estimi. È un metodo senz'altro preferibile all'aumento proporzionale di tutti i valori catastali contemplato dalla manovra. La mancata indicizzazione delle pensioni al di sopra di un certo importo (la soglia dovrebbe essere alzata a 1400 euro dopo la presa di posizione della Commissione Bilancio della Camera) è certamente iniqua, ma per ragioni molto diverse da quelle lamentate dai sindacati. I pensionati sono l'unica categoria il cui reddito disponibile non è diminuito durante la Grande Recessione, quando per l'italiano medio la perdita è stata dell'ordine dell'1,5%, con punte del 6% per giovani e famiglie con figli. Quindi può essere equo chiedere anche ai pensionati un contributo di fronte ad una crisi così grave. Stime preliminari di Massimo Baldini, basate su modelli di microsimulazione, (presto su lavoce. info i risultati) dicono che anche in questo caso più del 50% dei tagli colpirebbe il 30% di famiglie italiane più ricche. Ma ci sono due problemi. Primo, non pochi pensionati, soprattutto quelli più anziani, non sono in condizione di rispondere a questa riduzione permanente delle loro prestazioni pensionistiche mettendosi a fare lavoretti per compensare le perdite. Per fortuna sono relativamente pochi a trovarsi in questa situazione: guardando i dati Inps ci si accorge che i pensionati con più di 70 anni hanno mediamente pensioni tra i 500 e i 600 euro, dunque inferiori a qualunque soglia di esenzione sin qui contemplata. Questo spiega anche la relativa esiguità dei risparmi ottenuti col blocco delle indicizzazioni (meno di due miliardi a regime). Si potrebbe concentrare l'intervento su chi ha preso la pensione di anzianità negli ultimi dieci anni ottenendo pensioni fino a tre volte quelle medie di vecchiaia e ottenendo rendimenti dai propri contributi nettamente superiori non solo a chi andrà col contributivo, ma anche a chi ha avuto accesso alla sola pensione di vecchiaia col retributivo. Sarà come un contributo ritardato al regalo che hanno ricevuto in tutti questi anni. Secondo, nello stabilire le soglie si continua a ragionare come se contassero le prestazioni individuali, quando in realtà due terzi dei pensionati riceve più di una prestazione. E non pochi hanno altre fonti di reddito. Quindi alzare le soglie non necessariamente rende la misura più equa perché ci possono essere persone che ricevono una pluralità di prestazioni tutte al di sotto della soglia, totalizzando un reddito pensionistico superiore a questo livello. Bisognerebbe allora sommare tutte le prestazioni pensionistiche ricevute dallo stesso individuo e possibilmente tutte le sue fonti di reddito, esentando solo chi ha redditi al di sotto di un reddito minimo. Terzo, bisognerebbe comunque dare ai pensionati una chance di recuperare ciò che verrà loro tolto in questi due anni. Un modo per farlo è legare la parte di prestazione eccedente il reddito minimo all'andamento dell'economia italiana: se torneremo a crescere a tassi sostenuti, i pensionati potranno recuperare quanto è stato loro tolto con questa manovra. Servirebbe anche a creare quella constituency a favore della crescita che oggi manca nel nostro Paese. Ciò che ha eroso il sostegno alle politiche di risanamento in Grecia è il mancato contrasto dell'evasione fiscale che ha permesso a molti di farla franca. Per evitare questo rischio la manovra doveva assolutamente aumentare gli strumenti di deterrenza all'evasione fiscale, a partire dall'incrocio delle fonti statistiche già disponibili sui patrimoni degli italiani. Non lo ha fatto, mettendosi in linea di continuità col governo precedente. È invece fondamentale cambiare rotta. Scoraggiando in partenza i comportamenti illeciti, anziché limitarsi ad accertarli una volta che sono stati compiuti, si riesce tra l'altro ad avere benefici immediati dalla lotta all'evasione senza aspettare i tempi lunghi del contenzioso. Non si capisce neanche perché il Governo Monti non intenda sottoscrivere un accordo con la Svizzera sui capitali esportati analogo a quello siglato da Germania e Regno Unito. Nelle percezioni di equità contano anche i simboli. Il governo ha voluto puntare sulle cosiddette tasse sul lusso, che dovrebbero fruttare complessivamente non più di 300 milioni. Scelta discutibile perché si rischiano di colpire anche i lavoratori di industrie in cui il nostro Paese è all'avanguardia. Ma se proprio si vuole seguire questa strada bisogna farlo con perizia. La tassa sulle automobili di lusso prende come riferimento la potenza del motore, colpendo allo stesso modo chi ha auto usate con valori commerciali vicini allo zero e chi ha una Mercedes nuova di zecca, del valore di 150.000 euro. Il fatto è che le autovetture si deprezzano molto rapidamente. Perché non tassare allora in base al valore commerciale delle autovetture? Per risultare più equi agli occhi degli italiani, il governo poteva portare i compensi dei parlamentari allo stesso livello dei politici in altri paesi europei. Può ancora farlo. Non c'è bisogno di una legge ad hoc. Basta decurtare il bilancio della Camera e del Senato obbligando così i due rami del Parlamento a tagliare drasticamente le componenti accessorie della retribuzione di deputati e senatori. Ad esempio, gli uffici di presidenza di Camera e Senato potrebbero decidere che i rimborsi vengono concessi solo a fronte di ricevute di spese effettivamente sostenute o che i collaboratori dei politici devono essere pagati direttamente dalle due Camere e non dagli stessi parlamentari - il che permetterebbe tra l'altro di regolarizzare la posizione contributiva di molti "portaborse" che oggi (sic!) lavorano in nero. Infine equità significa smettere di regalare il patrimonio pubblico. Lo abbiamo chiesto al Ministro Passera fin dal giorno del suo giuramento: bisogna porre fine all'assegnazione gratuita dei canali sul digitale terrestre agli operatori televisivi. Se non è più possibile intervenire sulle procedure d'asta, bene almeno tassare gli operatori televisivi in base all'utilizzo delle frequenze. Se poi questi non vogliono pagare, dovrebbero restituire le frequenze allo Stato che potrà rimetterle a gara. E destinare i proventi di questa vendita alla riduzione del debito pubblico. (09 dicembre 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/09/news/i_cinque_nodi_dell_equit-26317817/?ref=HRER1-1 Titolo: TITO BOERI. - I PROSSIMI CENTO GIORNI DEL GOVERNO MONTI Inserito da: Admin - Marzo 02, 2012, 11:34:53 pm I PROSSIMI CENTO GIORNI DEL GOVERNO MONTI
di Tito Boeri 28.02.2012 Il giudizio più importante sull'operato del governo Monti nei suoi primi cento giorni è quello dei mercati. E ci dice che lo spread tra Italia e Germania sui titoli decennali è sceso del 30 per cento mentre si è dimezzato quello fra Italia e Spagna. Ora l'azione deve passare dalla gestione dell'emergenza alle scelte davvero importanti che rilancino la crescita economica del nostro paese. A partire dai due terreni sin qui prescelti: mercato del lavoro e liberalizzazioni. Con riforme che eliminino la dualità del primo ed estendano le seconde ad altri comparti, come banche e assicurazioni. Abbondano i bilanci sui primi cento giorni del governo Monti. Molti giornali pubblicano pagelle del governo e dei singoli ministri. Noi siamo abituati a utilizzare i voti per le cose serie, per valutare i nostri studenti nel quadro di esami ben più approfonditi di quelli che ci capita di leggere in questi giorni un po’ dappertutto. IL VOTO DEI MERCATI E DELLE FAMIGLIE Peraltro, il voto più importante sull’operato del governo sin qui è quello offerto dai mercati. Ci dice che lo spread Italia-Germania sui titoli decennali è sceso del 30 per cento, da 519 punti a 359 punti base e quello fra Italia e Spagna si è quasi dimezzato, passando da 59 a 32 punti base. Da quando la Banca centrale europea ha smesso di intervenire massicciamente a sostegno dei nostri titoli pubblici, l’andamento dello spread è legato soprattutto a scelte di portafoglio di investitori esteri e banche italiane. È un voto straniero anche perché le banche tornano a comprare i nostri titoli di stato grazie alla lending facility istituita dalla Bce, che verrà presumibilmente potenziata ulteriormente. Le imprese e le famiglie italiane stanno esprimendo il loro giudizio sul governo negli indici di fiducia. In entrambi i casi sono in rialzo, ma significativamente solo quelli legati alla situazione economica generale del paese, piuttosto che quelli legati alla loro condizione individuale. L’impressione è che si tiri un respiro di sollievo nel notare di avere finalmente un governo che, tra l’altro, gode di reputazione internazionale ed è in grado di reagire a eventi esterni. Non siamo più disarmati di fronte alla crisi. Allo stesso tempo, non si reputa che l’iniziativa dell’esecutivo sia in grado di scongiurare la recessione in corso nel nostro paese e, almeno secondo le stime della Commissione Europea, alle porte per la zona euro nel suo insieme. DALL’URGENTE ALL’IMPORTANTE È proprio questo il nodo cruciale su cui dovrà essere valutata la compagine di Monti. Dovrà sapere passare dalla gestione dell’emergenza al governo di ciò che è davvero importante, vale a dire alla capacità di decidere su ciò che può aumentare il tasso di crescita economica del nostro paese. Ha un’opportunità unica di fare alcune riforme fondamentali per agire sull’offerta in un momento in cui non ci si può certo basare su stimoli dal lato della domanda per tornare a crescere. Come nel 1992-3, l’emergenza economica e la crisi dei partiti hanno aperto uno spiraglio che non bisogna farsi sfuggire per riforme davvero incisive. Si può intervenire sugli ingranaggi che ci hanno relegato in uno “stato stagnazionario” (stazionario nella stagnazione) da ormai troppo tempo. A partire dai due terreni sin qui prescelti dal governo per rilanciare la crescita: la riforma del mercato del lavoro e le liberalizzazioni. La prima dovrà forzatamente affrontare i percorsi di ingresso nel mercato del lavoro a tutte le età, dato che il dualismo è ciò che oggi frena maggiormente la crescita della produttività del lavoro. Le liberalizzazioni non devono essere assolutamente diluite, come sembra purtroppo stia avvenendo, nel passaggio parlamentare. Al contrario, vanno potenziate ed estese ad altri comparti, a partire da banche e assicurazioni, seppur con modalità diverse, dato che in questo caso la mancanza di concorrenza è soprattutto legata alla struttura proprietaria, anziché alle regolamentazioni. LE BANCHE E IL GOVERNO DEI BANCHIERI Una crisi finanziaria non può che essere affrontata sul suo terreno, riducendo la stretta creditizia che oggi strangola molte imprese. Sin qui il governo non è intervenuto sul problema, se non indirettamente, attraverso gli effetti positivi sul costo del denaro e sul clima di fiducia associati alla riduzione dello spread. Ben altra decisione ci vorrà d’ora in poi. È anche una questione di credibilità per il “governo dei banchieri”. Sarebbe paradossale, che dopo aver ridato credibilità internazionale al nostro Paese, perdesse credibilità in Italia su questo aspetto, rinunciando ad affrontare alla radice l’anomalia delle fondazioni bancarie e senza trovare correttivi alla stretta creditizia. Per questo valuteremo senza dare voti, ma se possibile con ancora maggiore attenzione i prossimi cento giorni di questo governo. Lo incalzeremo come sempre abbiamo fatto per vedere se e in che misura riforma il mercato del lavoro, difende le liberalizzazioni che ha varato e ne estende la portata. Non smetteremo di proporre anche altri interventi sin qui del tutto estranei all’agenda di governo, come la riduzione della tassazione sul lavoro, a parità di gettito. E gli chiederemo di rispettare le scadenze che si è già dato e che vogliamo cominciare a ricordargli qui sotto. Le principali scadenze del governo Monti Scadenza Oggetto Articolo 30/04/2012 Decreto del Ministro dell'Economia e delle finanze - Dipartimento del Tesoro in cui si elencano gli investimenti finanziari che i tesorieri o i cassieri degli enti ed organismi pubblici devono smobilitare (ad eccezione di quelli in titoli di Stato italiani), entro il 30 giugno 2012. Le relative risorse andranno versate sulle contabilità speciali aperte presso la tesoreria statale. Art. 35 (Misure per la tempestività dei pagamenti per l’estinzione dei debiti pregressi delle amministrazioni statali nonché disposizioni in materia di tesoreria unica) 01/06/2012 Definizione di nuove regole per abbassare i prezzi dei conti correnti e dei pagamenti per via telematica. Art. 27 (Promozione della concorrenza in materia di conto corrente o di conto di pagamento di base) 30/06/2012 Emanazione del decreto del MSE sul fondo per la razionalizzazione della rete di distribuzione dei carburanti. Art. 20 (Fondo per la razionalizzazione della rete di distribuzione dei carburanti) 30/06/2012 Definizione di nuovi bacini per i servizi pubblici locali, non inferiori al territorio provinciale Art. 25 (Promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali) 30/06/2012 Emanazione del Patto di Stabilità interno Art. 25 (Promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali) 30/06/2012 Smobilizzazione degli eventuali investimenti finanziari individuati con decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze – Dipartimento del Tesoro da emanare entro il 30 aprile 2012, ad eccezione di quelli in titoli di Stato italiani, entro il 30 giugno 2012 e le relative risorse versate sulle contabilità speciali aperte presso la tesoreria statale. Art. 35 (Misure per la tempestività dei pagamenti per l’estinzione dei debiti pregressi delle amministrazioni statali nonché disposizioni in materia di tesoreria unica) 30/06/2012 Da questa data l’Autorità dell’energia si occupa anche dei trasporti. Art. 36 (Regolazione indipendente in materia di trasporti) 01/09/2012 Applicazione delle nuove regole per abbassare i prezzi dei conti correnti e dei pagamenti per via telematica. Art. 27 (Promozione della concorrenza in materia di conto corrente o di conto di pagamento di base) 31/12/2012 Adozione di "uno o più regolamenti"…"per individuare le attività per le quali permane l'atto preventivo di assenso dell'amministrazione e disciplinare i requisiti per l’esercizio delle attività economiche, nonché i termini e le modalità per l’esercizio dei poteri di controllo dell’amministrazione, individuando le disposizioni di legge e regolamentari dello Stato che ... vengono abrogate a decorrere dalla data di entrata in vigore dei regolamenti stessi. Art. 1 (Liberalizzazione delle attività economiche e riduzione degli oneri amministrativi sulle imprese) 31/12/2012 Espletamento delle procedure del concorso per complessivi 550 nuovi posti da notaio. Art. 12 (Incremento del numero dei notai e concorrenza nei distretti) 31/12/2013 Bando per un concorso pubblico per la nomina fino a 500 posti di notaio. Art. 12 (Incremento del numero dei notai e concorrenza nei distretti) 31/12/2014 Bando per un ulteriore concorso pubblico per la nomina fino a 500 posti di notaio. Art. 12 (Incremento del numero dei notai e concorrenza nei distretti) entro 120 giorni dall'entrata in vigore Emanazione di indirizzi e modifiche della disciplina attuativa delle dispozioni per contenere i costi e garantire la sicurezza e la qualità delle forniture di energia elettrica, nel rispetto dei criteri e dei principi di mercato. Art. 21 (Disposizioni per accrescere la sicurezza, l’efficienza e la concorrenza nel mercato dell’energia elettrica) entro 150 giorni dall'entrata in vigore Al fine di ridurre i tempi e i costi nella realizzazione delle operazioni di smantellamento degli impianti nucleari e di garantire nel modo più efficace la radioprotezione nei siti interessati il Ministero dello sviluppo economico convoca la conferenza di servizi. Art. 24 (Accelerazione delle attività di disattivazione e smantellamento dei siti nucleari) entro 3 mesi dall'entrata in vigore Istituzione di una specifica autorità indipendente di regolazione dei trasporti, per la quale il Governo presenta entro 3 mesi dalla conversione del presente decretro un apposito disegno di legge. Art.36(Regolazione indipendente in materia di trasporti) entro 3 mesi dall'entrata in vigore Individuazione dei requisiti minimi necessari ad un razionale e corretto sviluppo del mercato degli intermediari del sistema di vendita della stampa quotidiana e periodica. Art. 39 (Liberalizzazione del sistema di vendita della stampa quotidiana e periodica) entro 6 mesi dall'entrata in vigore Annuncio delle modalità di costituzione e di gestione del patrimonio degli enti locali destinato a garantire le obbligazioni per il finanziamento delle opere pubbliche. Art.54 (Emissione di obbligazioni di scopo da parte degli enti locali garantite da beni immobili patrimoniali ai fini della realizzazione di opere pubbliche) entro 60 giorni dall'entrata in vigore Il ministro dell'Economia e delle Finanze e il ministro della Giustizia devono "tipizzare" lo statuto standard delle Società Semplificata a rsponsabilità limitata e individuare i criteri di accertamento delle qualità soggettive dei soci Art. 3(Accesso dei giovani alla costituzione di società a responsabilità limitata) entro due mesi dall'entrata in vigore Definizione tramite decreto della nuova metodologia di calcolo del prezzo medio del lunedì da comunicare al Ministero dello sviluppo economico per il relativo invio alla Commissione Europea, basata sul prezzo offerto al pubblico con la modalità di rifornimento senza servizio per ciascuna tipologia di carburante per autotrazione. Art. 19 (Miglioramento delle informazioni al consumatore sui prezzi dei carburanti) entro due mesi dall'entrata in vigore 5. La componente tariffaria di cui all’articolo 25, comma 3, del decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31, e successive modifiche e integrazioni, è quella di cui all’articolo 1, comma 1, lettera a), del decreto legge 18 febbraio 2003, n. 25, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 aprile 2003, n. 83. Le disponibilità correlate a detta componente tariffaria, sono impiegate, per il finanziamento della realizzazione e gestione del Deposito Nazionale e delle strutture tecnologiche di supporto e correlate limitatamente alle attività funzionali allo smantellamento delle centrali elettronucleari e degli impianti nucleari dismessi, alla chiusura del ciclo del combustibile nucleare ed alle attività connesse e conseguenti e alle altre attività previste a legislazione vigente che devono essere individuate con apposito decreto del Ministero dello sviluppo economico entro 60 giorni dall’entrata in vigore del presente decreto. Art. 24 (accellerazione delle attività di disattivazione e smantellamento dei siti nucleari ) entro il 30 giugno di ogni anno Emanazione di decreto di natura non regolamentare che individui i terreni agricoli e a vocazione agricola, non utilizzabili per altre finalità istituzionali, di proprietà dello Stato non ricompresi negli elenchi predisposti, nonché di proprietà degli enti pubblici nazionali, da alienare. Art 66 (Dismissione di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola) entro sei mesi dall’entrata in vigore Emanazione del decreto relativo alla partecipazione azionaria attualmente detenuta in Snam S.p.A. Art. 15 (Disposizioni in materia di separazione proprietaria ) entro sei mesi dall'entrata in vigore Definizione delle modalità per la progressiva dematerializzazione dei contrassegni, prevedendo la loro sostituzione o integrazione con sistemi elettronici o telematici, anche in collegamento con banche dati, e prevedendo l’utilizzo, ai fini dei relativi controlli, dei dispositivi o mezzi tecnici di controllo e rilevamento a distanza delle violazioni delle norme del codice della strada. Art. 31 (Contrasto della contraffazione dei contrassegni relativi ai contratti di assicurazione per la responsabilità civile verso i terzi per i danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore su strada) entro sei mesi dall'entrata in vigore Definizione delle modalità attuative della disposizione relative alla cartellonistica di pubblicizzazione dei prezzi presso ogni punto vendita di carburanti. Art. 19 (Miglioramento delle informazioni al consumatore sui prezzi dei carburanti) entro sei mesi dall'entrata in vigore Annuncio delle modalità per individuare le effettive maggiori entrate e le modalità di destinazione di una quota di tali maggiori entrate per lo sviluppo di progetti infrastrutturali e occupazionali di crescita dei territori di insediamento degli impianti produttivi e dei territori limitrofi. Art. 16 (sviluppo di risorse energetiche e minerarie nazionali strategiche) (dal decreto Cresci Italia) DA - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002899.html Titolo: TITO BOERI. - La riforma del gattopardo Inserito da: Admin - Marzo 24, 2012, 04:32:55 pm La riforma del gattopardo
di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, da Repubblica, 22 marzo 2012 La riforma del lavoro che si va delineando ha due pregi e molti difetti. Il primo pregio è nel metodo. Sancisce, almeno sulla carta, la fine del diritto di veto delle parti sociali, che è cosa diversa dalla concertazione. Il lungo negoziato si concluderà senza firma delle parti sociali ma con un verbale in cui si annotano le differenti posizioni. E poi il governo procederà comunque. Staremo a vedere se il Parlamento permetterà all'esecutivo di intervenire senza il consenso delle parti sociali. Sembra, infatti, che si procederà non per decreto – come sin qui previsto nel caso di accordo – ma per legge delega e sappiamo quanto lungo, tortuoso e spesso inconcludente sia il processo di attuazione delle leggi delega. Ad ogni modo la novità è importante e positiva: le parti sociali non possono porre il veto su materie di portata così generale. Il secondo pregio è nell'ampiezza della riforma. I problemi da affrontare erano quattro 1) l'entrata nel mercato del lavoro 2) la cosiddetta “flessibilità in uscita” 3) il riordino degli ammortizzatori sociali e 4) il dualismo fra lavoratori precari e lavoratori assunti con i contratti di lavoro a tempo indeterminato. La riforma indubbiamente affronta tutti questi temi. Purtroppo questa ampiezza avviene a scapito della profondità e si ha come l'impressione di un intervento voluto dal Principe di Salina, “affinché tutto cambi perché nulla cambi”, per accontentare gli investitori esteri con il tabù infranto dell'articolo 18 e l'opposizione ricercata della Cgil (segnale del fatto che “è una riforma vera”), ma volendo di fatto conservare lo status quo. Vediamo perché, iniziando dalla flessibilità in uscita, dall'articolo 18. La riforma dell'articolo 18 non riduce l'incertezza per le imprese dal partecipare alla roulette russa del licenziamento. La nuova norma – stando a quanto dichiarato dal ministro Fornero e ai testi circolati sino ad oggi – lascia in vigore il fronte esistente tra licenziamento giuridicamente legittimo e illegittimo, ma apre un nuovo fronte che sin qui non c'era: quello della distinzione fra licenziamenti economici individuali e licenziamenti disciplinari. Fino ad oggi il lavoratore licenziato in maniera illegittima non aveva interesse a chiedere di far valere la distinzione fra licenziamento disciplinare e licenziamento economico. Con la nuova riforma questa distinzione diventa cruciale. Col licenziamento disciplinare, infatti, il lavoratore è maggiormente compensato e, giudice permettendo, può essere reintegrato. La distinzione fra licenziamento economico e disciplinare è nella pratica molto labile. Chi è davvero in grado di stabilire se un lavoratore è poco produttivo perché lavora male (licenziamento disciplinare) o perché inserito in un'unità in crisi in cui non può “dare di più” (licenziamento economico)? In verità tutte e due le ragioni sono sempre vere, altrimenti l'azienda non lo avrebbe licenziato. Per questo il contenzioso inevitabilmente finirà per riguardare anche la qualifica, economica o disciplinare, del licenziamento. Insomma, con la riforma si trasferisce un potere enorme ai giudici che, d'ora in poi, dovranno prendere le seguenti decisioni. Se il licenziamento è legittimo o illegittimo. Nel caso in cui fosse illegittimo, se è discriminatorio o non discriminatorio. Nel caso in cui non sia legittimo e non discriminatorio, se il licenziamento è economico o disciplinare. Nel caso in cui il licenziamento sia disciplinare, se si deve imporre la reintegrazione o solo il risarcimento del lavoratore. Si aumenta così l'incertezza del procedimento e molto probabilmente la sua lunghezza. Chi guadagnerà veramente da questa riforma non saranno nè le imprese, nè i lavoratori, bensì gli avvocati specializzati in cause di lavoro. Sugli ammortizzatori sociali non c'è allargamento nella platea dei potenziali beneficiari, estesa dalla riforma ai soli apprendisti e artisti-dipendenti, meno di 250.000 persone in tutto. I lavoratori a progetto e i precari continueranno ad essere esclusi dagli ammortizzatori. Non c'è neanche il promesso riordino degli strumenti esistenti. Non verrà abolita la cassa integrazione straordinaria, né di fatto verrà soppressa la cassa integrazione in deroga, destinata a trasformarsi in un ampio numero di fondi di solidarietà, presumibilmente uno per settore produttivo. Non viene abolito il sussidio di disoccupazione a requisiti ridotti e l'indennità speciale per i lavoratori agricoli e nell'edilizia, che servono oggi per lo più a integrare i salari di chi già lavora, piuttosto che ad aiutare chi ha perso il lavoro e ne sta cercando un altro. La recessione non è comunque il momento migliore per avviare queste riforme. Si rischia, infatti, di far decollare nuovi strumenti che sono strutturalmente in passivo e che richiederanno, ben oltre la recessione e la “paccata di soldi” data oggi, trasferimenti dalla fiscalità generale. La riforma ridurrà in parte le differenze tra lavori precari e non. I lavori precari costeranno di più in termini di contributi, sia nel caso di contratti a tempo determinato che di lavori a progetto. Questa avviene aumentando il cuneo fiscale, la differenza tra costo del lavoro pagato dalle imprese e reddito netto percepito dal lavoratore. Nel caso di un vero riordino degli ammortizzatori, l'aumento dei contributi sarebbe potuto apparire ai lavoratori come un premio assicurativo piuttosto che una tassa. Così il legame fra contributi e prestazioni sarà tutt'altro che evidente. In assenza di un salario minimo, nel caso di lavoratori a progetto e altri lavoratori parasubordinati, il maggiore carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al dipendente sotto forma di salari più bassi. I lavoratori parasubordinati stanno già ricevendo lettere dai datori di lavorano in cui si annunciano riduzioni del loro compenso nel caso di riforme che aggravino i costi delle imprese. Il meccanismo di entrata principale sarà quello dell'apprendistato. è un contratto che offre poche protezioni durante il periodo formativo, perché può essere interrotto al termine del periodo di apprendistato senza alcun indennizzo. Inoltre si applica soltanto ai giovani fino a 29 anni, mentre oggi più del 50 per cento dei lavoratori precari ha più di 35 anni. Inoltre le parti sociali si aspettano un alleggerimento fiscale per l'apprendistato. Quello di aver aperto il portafoglio è stato forse il maggiore errore negoziale fatto del governo, poiché non è servito nemmeno a “comprare” il consenso delle parti sociali. E avrà effetti negativi sul deficit di bilancio. In conclusione, gli interventi sul dualismo possono peggiorare la condizione dei lavoratori duali e aggravano i costi delle imprese senza offrire una vera e propria nuova modalità contrattuale in ingresso. Tutto questo rischia di ridurre fortemente la domanda di lavoro. La vera sconfitta e il vero paradosso sarebbe proprio quello, che la grande riforma non solo cambi tutto per non cambiare nulla, ma addirittura riduca il numero dei lavoratori occupati. (22 marzo 2012) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-riforma-del-gattopardo/ Titolo: Tito Boeri e Pietro Garibaldi LA RIFORMA DEL PRINCIPE DI SALINA Inserito da: Admin - Marzo 24, 2012, 04:34:37 pm LA RIFORMA DEL PRINCIPE DI SALINA
di Tito Boeri e Pietro Garibaldi 22.03.2012 La riforma del lavoro ha due pregi e molti difetti. I pregi consistono nell'aver messo fine al potere di veto delle parti sociali e nell'ampiezza dei temi affrontati. Sull'articolo 18, le nuove norme danno più potere ai giudici e aumentano l'incertezza. Non si allarga la platea dei potenziali beneficiari degli ammortizzatori sociali. Gli interventi sul dualismo possono peggiorare la condizione dei lavoratori e aggravano i costi delle imprese senza offrire una vera nuova modalità contrattuale in ingresso. Con il rischio che tutto questo riduca fortemente la domanda di lavoro. La riforma del lavoro che si va delineando ha due pregi e molti difetti. Il primo pregio è nel metodo. Sancisce, almeno sulla carta, la fine del diritto di veto delle parti sociali. Il lungo negoziato si concluderà senza firme, ma con un verbale in cui si annotano le differenti posizioni. E poi il governo procederà comunque. Staremo a vedere se il Parlamento permetterà all’esecutivo di intervenire senza il consenso delle parti sociali. Sembra, infatti, che si procederà non per decreto - come sin qui previsto nel caso di accordo - ma per legge delega e sappiamo quanto lungo, tortuoso e spesso inconcludente sia il loro processo di attuazione . Ad ogni modo, la novità è importante e positiva: le parti sociali non possono porre il veto su materie di portata così generale. Il secondo pregio è nell’ampiezza della riforma. I problemi da affrontare erano quattro: 1) l’entrata nel mercato del lavoro 2) la cosiddetta “flessibilità in uscita” 3) il riordino degli ammortizzatori sociali e 4) il dualismo fra lavoratori precari e lavoratori assunti con i contratti di lavoro a tempo indeterminato. La riforma indubbiamente affronta tutti questi temi. Purtroppo questa ampiezza avviene a scapito della profondità e si ha come l’impressione di un intervento voluto dal principe di Salina, “affinché tutto cambi perché nulla cambi”, per accontentare gli investitori esteri con il tabù infranto dell’articolo 18 e l’opposizione ricercata della Cgil (segnale del fatto che “è una riforma vera”), ma volendo di fatto conservare lo status quo. Vediamo perché, iniziando dalla flessibilità in uscita, dall’articolo 18. L’ARTICOLO 18 E LE NUOVE REGOLE DELLA ROULETTE La riforma dell’articolo 18 non riduce l'incertezza per le imprese dal partecipare alla roulette russa del licenziamento. La nuova norma, stando a quanto dichiarato dal ministro Fornero e ai testi circolati sino a oggi, lascia in vigore il fronte esistente tra licenziamento giuridicamente legittimo e illegittimo, ma ne apre uno nuovo: quello della distinzione fra licenziamenti economici individuali e licenziamenti disciplinari. Fino a oggi, il lavoratore licenziato in maniera illegittima non aveva interesse a chiedere di far valere la distinzione fra licenziamento disciplinare e licenziamento economico. Con la nuova norma, la distinzione diventa cruciale. Col licenziamento disciplinare, infatti, il lavoratore è maggiormente compensato e, giudice permettendo, può essere reintegrato. La distinzione fra licenziamento economico e disciplinare è nella pratica molto labile. Chi è davvero in grado di stabilire se un lavoratore è poco produttivo perché lavora male (licenziamento disciplinare) o perché inserito in un’unità in crisi in cui non può “dare di più” (licenziamento economico)? In verità, tutte e due le ragioni sono sempre vere, altrimenti l’azienda non lo avrebbe licenziato. Per questo il contenzioso inevitabilmente finirà per riguardare anche la qualifica, economica o disciplinare, del licenziamento. Insomma, con la riforma si trasferisce un potere enorme ai giudici che, d’ora in poi, dovranno prendere le seguenti decisioni: Se il licenziamento è legittimo o illegittimo. Nel caso in cui fosse illegittimo, se è discriminatorio o non discriminatorio. Nel caso in cui non sia legittimo e non discriminatorio, se il licenziamento è economico o disciplinare. Nel caso in cui il licenziamento sia disciplinare, se si deve imporre la reintegrazione o solo il risarcimento del lavoratore. Si aumenta così l’incertezza del procedimento e molto probabilmente la sua lunghezza anche perché interverrà obbligatoriamente un tentativo di conciliazione. Chi guadagnerà veramente dalla riforma non saranno né le imprese, né i lavoratori, bensì gli avvocati specializzati in cause di lavoro. Rimane l’incentivo per le imprese a procedere a licenziamenti collettivi anziché individuali. I primi costano molto di meno dei secondi. È paradossale che la legge incoraggi le imprese a decidere licenziamenti in massa anziché a graduarli nel corso del tempo onde ridurre gli effetti negativi sul mercato del lavoro locale. Infine, nulla cambia per le piccole imprese, quelle con meno di 15 addetti, a dispetto da quanto dichiarato dal ministro Fornero. I licenziamenti discriminatori erano nulli per queste imprese già prima della riforma. IL MANCATO RIORDINO DEGLI AMMORTIZZATORI Non c’è allargamento nella platea dei potenziali beneficiari degli ammortizzatori sociali, estesa dalla riforma ai soli apprendisti e artisti-dipendenti, meno di 300mila persone in tutto. I lavoratori a progetto e i precari continueranno a essere esclusi. Non c’è riordino degli strumenti esistenti. Ad esempio, non verrà abolita la cassa integrazione straordinaria, né di fatto la cassa integrazione in deroga, che è destinata a trasformarsi in un ampio numero di fondi di solidarietà, presumibilmente uno per settore produttivo. Né viene soppresso il sussidio di disoccupazione a requisiti ridotti e l’indennità speciale per i lavoratori agricoli e nell’edilizia, che servono oggi per lo più a integrare i salari di chi già lavora, piuttosto che ad aiutare chi ha perso il lavoro e ne sta cercando un altro. Vero è che la riforma si propone di dare i sussidi solo a chi è disoccupato, ma non è chiaro come si raggiungerà questo obiettivo tenendo in vita strumenti (e amministrazioni che li gestiscono) che sin qui hanno operato in modo molto diverso. L’obiettivo essenziale di una riforma degli ammortizzatori deve essere quello di costruire pilastri assicurativi che siano in grado di reggersi sui contributi degli assicurati, lavoratori e imprese. L’equilibrio finanziario degli strumenti non deve necessariamente valere anno per anno, ma nell’ambito di un intero ciclo economico. Un buon sistema dovrebbe accumulare dei surplus durante i periodi di crescita, se necessario aumentando i contributi di lavoratori e imprese quando l’economia tira, e usare i surplus per pagare i sussidi e ridurre i contributi di lavoratori e imprese durante le recessioni. Il tutto senza richiedere l’intervento della fiscalità generale. Questa deve servire solo per finanziare l’assistenza sociale di base, quella riservata a chi ha esaurito il periodo di fruizione massima delle assicurazioni sociali, schemi a orario ridotto e sussidi di disoccupazione, e altrimenti cadrebbe in condizione di povertà. Avevamo già sostenuto che la recessione non è il momento migliore per avviare queste riforme. Si rischia, infatti, di far decollare nuovi strumenti che sono strutturalmente in passivo e che richiederanno, ben oltre la recessione, trasferimenti dalla fiscalità generale. Siamo sicuri che nell’ambito della trattativa sono state svolte simulazioni dei costi dei nuovi strumenti e delle entrate contributive che verranno loro destinate. Sarebbe opportuno rendere edotti di queste stime tutti i contribuenti, dato che rischiano di doverci mettere altro, non preventivato, di tasca loro. IL DUALISMO PRECARI NON PRECARI E IL “PARADOSSO” DEL COSTO DEL LAVORO La riforma ridurrà in parte le differenze tra lavori precari e non. I lavori precari costeranno di più in termini di contributi, sia nel caso di contratti a tempo determinato che di lavori a progetto. Ciò avviene aumentando il cuneo fiscale, la differenza tra costo del lavoro pagato dalle imprese e reddito netto percepito dal lavoratore. Nel caso di un vero riordino degli ammortizzatori, l’aumento dei contributi avrebbe potuto apparire ai lavoratori come un premio assicurativo piuttosto che una tassa. Così il legame fra contributi e prestazioni sarà tutt’altro che evidente. In assenza di un salario minimo, nel caso di lavoratori a progetto e altri lavoratori parasubordinati, il maggiore carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al dipendente sotto forma di salari più bassi. I lavoratori parasubordinati stanno già ricevendo lettere dai datori di lavoro in cui si annunciano riduzioni del loro compenso nel caso di riforme che aggravino i costi delle imprese. I MECCANISMI DI ENTRATA Il meccanismo principale di entrata sarà quello dell'apprendistato. È un contratto che offre poche protezioni durante il periodo formativo, perché può essere interrotto al termine del periodo di apprendistato senza alcun indennizzo. Inoltre si applica soltanto ai giovani fino a 29 anni, mentre oggi più del 50 per cento dei lavoratori precari ha più di 35 anni. Le parti sociali si aspettano anche un alleggerimento fiscale per l’apprendistato. Quello di aver aperto il portafoglio è stato forse il maggiore errore negoziale fatto del governo, poiché non è servito nemmeno a “comprare” il consenso delle parti sociali. E avrà effetti negativi sul deficit di bilancio. Non c’è neanche il gradualismo nelle tutele, il loro incremento progressivo con l’anzianità di servizio che avrebbe incoraggiato i datori di lavoro a offrire fin da subito contratti a tempo indeterminato. In conclusione, gli interventi sul dualismo possono peggiorare la condizione dei lavoratori duali e aggravano i costi delle imprese senza offrire una vera e propria nuova modalità contrattuale in ingresso. Tutto questo rischia di ridurre fortemente la domanda di lavoro. La vera sconfitta e il vero paradosso sarebbe proprio quello che la grande riforma non solo cambi tutto per non cambiare nulla, ma addirittura riduca il numero dei lavoratori occupati. da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002956.html Titolo: TITO BOERI. - "Ritrovare lo spirito solidaristico" Inserito da: Admin - Giugno 17, 2012, 06:43:36 pm INTERVISTA
Sargent e Boeri, la ricetta per la crisi "Ritrovare lo spirito solidaristico" Il premio Nobel risponde alle domande dell'economista italiano e di Eugenio Occorsio. L'Europa ha compiuto "probabilmente un errore lanciando una moneta unica prima di creare qualsiasi istituzione in grado di impostare un politica unitaria" Appuntamento di gran richiamo quello di questa mattina con il premio Nobel per l'economia "in carica", Thomas Sargent. Il docente della New York University, che ha ricevuto nell'autunno del 2011 il riconoscimento per i suoi studi sulla macroeconomia e sui rapporti fra gli Stati, ha detto senza mezzi termini che la crisi dell'euro è scoppiata per i ritardi nella trasformazione dell'Europa in una realtà federale. "E' stato probabilmente un errore - ha aggiunto - lanciare una moneta unica prima di creare qualsiasi istituzione comune in grado di impostare una politica unitaria in tema di fisco, controllo sulle banche, legislazione finanziaria. Anche gli Stati Uniti nei loro primi anni si trovarono a fronteggiare alcune crisi di determinati territori, e le volte in cui ne sono usciti meglio è stato quando hanno dato prova di buona solidità interna, chiedendo sacrifici agli Stati di volta in volta coinvolti nelle difficoltà, e facendo concessioni come quando alla Virginia in cambio di un aiuto finanziario fu aggiudicata Washington come capitale, ma in ogni caso è scattato un meccanismo di soldarietà proprio nella parte fondante dell'Unione". Rispondendo alle domande di Tito Boeri, docente a sua volta presso la Bocconi, e di Eugenio Occorsio di Repubblica, l'economista americano ha ripercorso anche le tappe della riunificazione tedesca: "E' stata la prima occasione in cui un'economia molto forte ha dovuto integrarne una assai debole, con tanto di cambio alla pari della rispettiva valuta. Ci furono polemiche, proteste anche da parte degli occidentali che temevano, come hanno in effetti dovuto fare, di incorrere in onerosi sacrifici per finanziare la riunificazione stessa, però nel giro di relativamente pochi anni il processo si è compiuto al meglio". E' vero che in quel caso c'erano da riunire due identità perfettamente affini per etnia, cultura, storia, e probabilmente che c'è più differenza fra un tedesco e un greco oggi di quanta ce ne fosse fra un tedesco dell'ovest e uno dell'est all'epoca della caduta del Muro. Ed è ancora vero che alla base del crac greco c'è stato un inganno da parte di Atene sui conti, però, ha aggiunto il professore, "si deve ritrovare lo stesso spirito solidaristico nell'Europa intera. Serve un grosso sforzo di solidarietà, e serve a questo punto una dichiarazione d'intenti in tal senso molto forte e inequivocabile, che potrebbe venire dal prossimo vertice europeo di fine mese". © Riproduzione riservata (17 giugno 2012) da - http://www.repubblica.it/speciali/repubblica-delle-idee/edizione2012/2012/06/17/news/art_sargent-37378755/?ref=HRER3-1 Titolo: TITO BOERI. - Che cosa manca alla risposta di Grilli Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2012, 03:47:32 pm La polemica
Che cosa manca alla risposta di Grilli di TITO BOERI CI SAREMMO aspettati che il ministro Grilli avesse reagito immediatamente alla pubblicazione su questo giornale 1, sabato 29 settembre, dei testi delle conversazioni telefoniche fra il ministro, allora direttore generale del Tesoro, e Massimo Ponzellini, ai tempi presidente della Banca Popolare di Milano. Oggi Ponzellini è indagato per corruzione privata con l'accusa, tra l'altro, di avere finanziato illegalmente politici e partiti, mettendo la banca al centro di un sistema clientelare. Ma già all'epoca erano emerse diverse irregolarità nell'attività dell'istituto, sottoposto a ispezione di Banca d'Italia e a rischio di commissariamento. Il ministro ha, invece, preferito attendere la pubblicazione di un articolo di Luigi Zingales sulla prima pagina del Sole24ore, in cui gli si chiedeva ragione di queste conversazioni (nonché sulle voci riguardo a consulenze offerte da Finmeccanica, società controllata dal Tesoro, alla sua ex-moglie) per chiarire la propria posizione 2. Meglio tardi che mai. Tuttavia la lettera del ministro non affronta un nodo cruciale. Nelle conversazioni con Ponzellini, Grilli aveva chiesto al banchiere di perorare la sua causa presso Bersani, in modo tale che non ostruisse la sua candidatura a Governatore di Banca d’Italia. In questa richiesta si intuisce il rischio che il Paese ha corso nella estenuante procedura di nomina del successore di Mario Draghi ai vertici di via Nazionale. Se fosse stato nominato Vittorio Grilli, avremmo avuto un Governatore che, in partenza, aveva un debito da saldare con le entità da lui stesso regolate. Quando si chiede un favore a chi sarà sottoposto alla propria vigilanza, ci si mette nelle condizioni di non poter operare serenamente il proprio mandato. Questo indipendentemente dalle buone intenzioni (dall’ingenuità) del ministro. Il quale purtroppo, nella lettera al Sole24ore, omette qualsiasi riferimento a questo potenziale do ut des. Il sospetto è che Grilli sottovaluti questi problemi nel rapporto fra autorità di regolazione e soggetti regolati. È un sospetto corroborato dalla disinvoltura con cui ha in più occasioni enfaticamente celebrato le fondazioni bancarie, enti soggetti alla sua supervisione (“le fondazioni sono rigorose e solidali al tempo stesso e, grazie alla leadership di Guzzetti, hanno capito che devono lavorare insieme”). Si potrebbe pensare che la mancata censura da parte del ministro di quelle fondazioni (come Compagnia San Paolo, Cariparo e fondazione Mps) che si sono indebitate pur di non perdere quote di controllo nelle banche conferitarie, sia frutto anch’essa di un do ut des, che ripaga il passato sostegno delle fondazioni alla sua candidatura in via Nazionale. Il ministro ha oggi la possibilità di contribuire a fugare questi dubbi. In questi giorni si stanno definendo le modalità con cui le fondazioni bancarie continueranno a partecipare al capitale della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). Le fondazioni hanno sin qui avuto un trattamento molto vantaggioso, ottenendo, in cambio del loro contributo al capitale della Cdp, obbligazioni indicizzate con un rendimento del 3 per cento in termini reali all’anno e al tempo stesso poteri di controllo e nomina dei vertici della Cassa. Oggi alle fondazioni viene richiesto di offrire un conguaglio, stimato in circa 6 miliardi, che compensi il fatto che la Cdp ha aumentato il proprio patrimonio senza che le fondazioni abbiano condiviso il rischio corso con questi investimenti dagli altri azionisti, cioè dal contribuente, dato che la quota rimanente della Cassa è posseduta dal Tesoro. Le fondazioni si oppongono a pagare questo conguaglio e sembrano disposte a versare solo un sesto della somma richiesta, con un costo per il contribuente fino a 5 miliardi. Se Vittorio Grilli vuole dimostrare nei fatti di non avere alcuna sudditanza nei confronti delle fondazioni bancarie, può fare ciò che va nell’interesse del contribuente. Liquidi le fondazioni al prezzo di acquisto, riconoscendo che sono state degli obbligazionisti in questi anni. E cominci fin da subito a cercare altri sottoscrittori, veri sottoscrittori che mettono in Cdp soldi loro, indipendenti dal controllo del Tesoro. Permetterebbe alle fondazioni di concentrarsi davvero sulle attività di pubblica utilità, che dovrebbero essere il loro core business, e a una controllata dallo Stato di confrontarsi con veri azionisti, evitando al contempo un nuovo bagno di sangue per il contribuente. (04 ottobre 2012) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/04/news/grilli_ponzellini_risposta-43816630/?ref=HREC1-10 Titolo: Tito Boeri, Luigi, Guiso,Roberto Perotti e Luigi Zingales. Più trasparenza e ... Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2013, 06:14:25 pm Più trasparenza e buona gestione
di Tito Boeri, Luigi, Guiso,Roberto Perotti e Luigi Zingales 14 novembre 2012 L'ironia ha voluto che fosse il presidente dell'Associazione delle Fondazioni Bancarie ad officiare la giornata del risparmio. Ironia, perché queste fondazioni sono tutto tranne che un esempio di oculata gestione e di risparmio. In sei anni le fondazioni bancarie hanno ridotto il valore del loro patrimonio del 41%. Si tratta di circa 17 miliardi di perdita, più di un punto del Pil dell'Italia. Le fondazioni sono formalmente enti di diritto privato (come i loro dirigenti non perdono occasione di rimarcare), ma questo non significa che chi le gestisce abbia il diritto di dilapidare il patrimonio loro affidato. Innanzitutto, in quanto associazioni a scopo benefico le fondazioni sono regolate dal governo e sotto la sua supervisione, come accade anche in America. Quindi il governo è in ultima istanza responsabile per la loro cattiva gestione. In secondo luogo, perché le fondazioni bancarie sono un patrimonio delle comunità locali che fu privatizzato per far passare la privatizzazione delle casse di risparmio all'inizio degli anni Novanta. Moralmente questi soldi appartengono a tutti i cittadini delle comunità di origine. Il principale motivo delle nostre critiche non riguarda lo scopo (lodevole) delle fondazioni, né il modo in cui queste erogazioni vengono effettuate (anche se per parecchie fondazioni ci sarebbe molto da ridire e lo abbiamo fatto in modo circostanziato, dati alla mano), ma il modo in cui il loro patrimonio viene gestito. Proprio perché riteniamo le funzioni benefiche da loro svolte molto importanti, vorremmo che le fondazioni fossero nelle condizioni di poter continuare a svolgerle nel futuro. Perché questo avvenga è necessaria un'oculata gestione del patrimonio. La più elementare regola di gestione di qualsiasi portafoglio è quella della diversificazione del rischio. Nella maggior parte dei casi le fondazioni hanno violato questo principio per mantenere posizioni di potere nelle banche di origine. Così, ad esempio la Compagnia di Sanpaolo ha la metà della propria dotazione in azioni di Banca Intesa, la Fondazione Cariverona il 46% in Unicredit e la Fondazione Banco di Sardegna il 49% investito nel Banco di Sardegna. Questo investimento è stato giustificato con l'esigenza di mantenere le banche legate al territorio. Ma questo obiettivo non rientra tra gli scopi benefici delle fondazioni, a meno che non si consideri come atto di beneficenza quello di regalare ai notabili locali alcuni posti nei consigli delle banche. Cosi come non vi rientra un'altra giustificazione spesso usata, la difesa dell'italianità delle banche; difesa che diventa assurda quando ci si atteggia ad europeisti ma poi si vuole impedire l'accesso in Italia di imprese europee. Questa commistione tra beneficenza e scopi di potere ha causato gravi danni alle banche, alla collettività, e, più in generale, all'economia italiana. Il caso più eclatante è sicuramente quello della fondazione Montepaschi, che è riuscita contemporaneamente a portare sull'orlo del fallimento la terza banca del paese (salvata con i soldi dei contribuenti) e a deprivare la città di Siena di importanti flussi di beneficienza. A questi danni si aggiunge l'ingessamento della classe dirigenziale in un settore chiave dell'economia; a questo ha contribuito non poco l'autoreferenzialità delle stesse fondazioni. Quando Bazoli è stato costretto da una legge a dimettersi dal consiglio dell'Ubi in quanto banca concorrente, poco dopo sua figlia è entrata nel consiglio della stessa banca. Se qualcuno nelle banche coinvolte si è posto un problema di immagine, non ha ritenuto di esternare le proprie perplessità. Le fondazioni si presentano spesso come un baluardo contro l'invasione della politica. Ma la realtà è esattamente l'opposto. Per statuto, in molte se non in tutte le fondazioni la maggioranza dei consiglieri possono diventare tali solo se designati dai poteri politici o economici locali. E nessuna persona in buona fede può negare la sottomissione pressoché totale della Fondazione Montepaschi alla politica locale. Nè si può negare che molti dei presidenti delle fondazioni sono politici della prima repubblica, che si sono rifugiati nelle fondazioni e dopo vent'anni sono ancora lì, da Giuseppe Guzzetti di Cariplo a Giuliano Segre della Fondazione di Venezia a Dino De Poli di Cassamarca. Noi non chiediamo l'abolizione delle fondazioni, ma quattro regole di trasparenza e buona gestione. Primo, che le fondazioni siano costrette a cedere le partecipazioni nelle banche di origine e investirle in un portafoglio diversificato, pena la perdita dei diritti di voto nelle azioni detenute e la perdita dell'esenzione fiscale di cui godono. Se l'obiezione è che solo le fondazioni possono dare stabilità all'azionariato delle banche, si noti che in Italia i fondi comuni hanno 7 volte il patrimonio delle fondazioni. Secondo, un limite massimo di due mandati a tutti i consiglieri e presidenti delle fondazioni, con un massimo comunque di dieci anni di carica. Terzo, bilanci chiari e trasparenti che rendano pubblici tutti i compensi che i consiglieri delle fondazioni ricevono da tutte le società controllate direttamente ed indirettamente dalle fondazioni. Quarto, il diritto ai cittadini che dovrebbero ricevere la beneficenza di far causa agli amministratori delle fondazioni se sprecano il loro patrimonio o lo gestiscono male. Il governo guidato da un'europeista convinto come Mario Monti non può sottrarrsi a questa urgente riforma, che noi riteniamo di gran lunga piu' importante di quella dell'art 18 dello Statuto dei Lavoratori. Non si può chiedere flessibilita' ai lavoratori e poi non imporla anche ai vertici. Clicca per Condividere ©RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-11-14/trasparenza-buona-gestione-082534.shtml?uuid=Ab9Ssk2G Titolo: TITO BOERI. - politica in banca Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2013, 06:43:34 pm 27.01.13
Tito Boeri Molti commentatori hanno in questi giorni sostenuto la necessità di separare nettamente il management delle banche dalla politica. Siamo d’accordo. Come mostrano gli studi di Paola Sapienza, non è chiaro quali siano gli obiettivi di banche in cui continua a esserci una forte influenza della politica. Il loro comportamento è influenzato da interessi locali e cicli politici più che dal desiderio di garantire redditività ed efficienza. Il vero problema è: come? A nostro giudizio c’è un modo molto semplice per spezzare la catena di controllo che lega le banche alla politica: completare il processo di privatizzazione facendo uscire le fondazioni bancarie dal capitale delle banche conferitarie. Sono infatti le fondazioni il canale principale attraverso cui la politica mette le mani sulle banche. I politici entrano negli organi sociali delle fondazioni, si “puliscono” per un mandato, e da lì passano ai consigli di amministrazione delle banche. La procedura è talmente collaudata che il codice di autodisciplina recentemente approvato dall’Acri, l’associazione che riunisce la fondazioni, si è stranamente dimenticato di proibire che le fondazioni possano nominare membri dei propri consigli d’amministrazione ai vertici delle banche cui partecipano. Nelle prossime settimane documenteremo quanto sia importante questo canale partendo dal mettere in luce quanti siano i politici di lunga carriera ai vertici della fondazioni. Vero che una certa quota di rappresentanti ai vertici delle fondazioni è di nomina di enti pubblici locali. Ma nessuno vincola un Consiglio Comunale o Provinciale dal nominare persone competenti ai vertici delle fondazioni, con capacità manageriali e conoscenze specifiche nel terreno di intervento sociale prescelto dalla fondazione in questione. Cominciamo qui sotto dalla Fondazione Monte Paschi di Siena, il cui vertice è composto per due terzi da politici di professione che, si noti, appartengono all’intero arco politico. Nei prossimi giorni i dati su altre fondazioni. http://www.lavoce.info/i-politici-ai-vertici-delle-fondazioni-bancarie/ Titolo: TITO BOERI. - Elezioni 2013: L’Italia deve affrontare la sua crisi politica Inserito da: Admin - Marzo 01, 2013, 12:12:26 am Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Lavoce.info >
Elezioni 2013: L’Italia deve affrontare la sua crisi politica di Lavoce.info | 28 febbraio 2013 Con Monti abbiamo affrontato l’emergenza economica. Adesso dobbiamo affrontare quella politica. Dopotutto il declino dell’economia italiana è legato al fallimento di un’intera classe dirigente. E’ possibile cominciare a farlo anche con questo Parlamento. di Tito Boeri e Luigi Guiso, lavoce.info, 27 Febbraio 2013 Il ritorno di Berlusconi Nanni Moretti aveva predetto nei giorni scorsi che questa settimana gli italiani avrebbero festeggiato la liberazione, avrebbero finalmente finito di essere ostaggio degli interessi di uno solo di loro, Silvio Berlusconi. Nanni Moretti è un regista di eccezionale sensibilità e quella sensibilità gli ha permesso in Habemus Papam di vedere, al di là dei rituali vaticani, la fragilità del Papa, troppo spesso dimenticata. Ma Moretti non è stato altrettanto bravo a intuire le motivazioni del voto degli italiani. Silvio Berlusconi, che era praticamente sconfitto solo un mese fa, è tornato e il suo ritorno – forse il più importante evento politico dell’anno in Europa – corre sulle ali della promessa di abolire l’Imu, la tassa sulle proprietà immobiliari reintrodotta dal governo di Mario Monti. I pensionati italiani hanno spesso case di proprietà di un certo valore, ma hanno problemi di liquidità e non possono vendere la casa nel mezzo di una grave crisi immobiliare. Questo li porta ad odiare le tasse sulla casa. Berlusconi è andato anche oltre: ha promesso di restituire i 4 miliardi dell’imposta già pagati nel 2012, di tasca sua se necessario (il suo patrimonio è valutato sui 5,5 miliardi). Di fatto, ha promesso di fare da banca per gli italiani – proprio quello che manca in questo momento, visto che lo scorso anno il credito delle banche alle famiglie è calato di circa 2 miliardi. L’incognita di Grillo Ma la conseguenza del suo successo – ed è anche la ragione per cui il ritorno di Berlusconi è così importante – è l’impasse politica. In Italia i due rami del Parlamento hanno identici poteri. Alla Camera il premio di maggioranza ha permesso a Pier Luigi Bersani di ottenere la maggioranza dei seggi, ma al Senato la vittoria di Berlusconi rappresenta un problema. Il numero di voti ottenuti del Pdl ha impedito a Mario Monti di raggiungere una quota di seggi sufficiente a garantire una maggioranza a una eventuale coalizione con il centrosinistra. Peraltro, è ormai difficile immaginare una coalizione senza i 54 senatori del Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo può essere determinante sia per una maggioranza di centrosinistra che per una maggioranza di centrodestra, ma per il momento non abbiamo idea di quali saranno le sue scelte. Alcuni senatori grillini potrebbero passare al Pdl: se rimangono con Grillo dovranno rinunciare a metà della loro indennità parlamentare a favore del Movimento. E dunque il passaggio o meno ad altre formazioni politiche dipenderà dai loro valori etici. Ma c’è anche un’altra incognita: tutti i senatori 5 Stelle sono neo-parlamentari. Più in generale abbiamo un Parlamento grandemente rinnovato il che è una buona cosa dato il fallimento della classe politica uscente, ma apre anche molte incognite. Chi ha perso Quello che invece è sicuro è che il grande perdente di queste elezioni è Mario Monti. La formazione del presidente del Consiglio uscente ambiva a essere il secondo partito italiano dopo il Pd, invece è arrivato appena quarto, con un deludente 10 per cento dei voti e solo ventidue senatori – troppo pochi per poter garantire una maggioranza a Bersani. La salita in campo di Monti è stata motivata del desiderio di creare una coalizione aperta a tutti coloro che si dichiarassero disponibili ad aderire a un programma di riforme. Monti avrebbe voluto così consolidare le azioni del governo tecnico. Tuttavia, non ha ottenuto abbastanza voti per riuscirci, probabilmente perché agli occhi degli elettori i sacrifici imposti dal suo Governo sono tangibili, mentre i benefici tardano a manifestarsi. Del resto la funzione del suo governo era proprio quella di fare scelte impopolari senza ansie di rielezione. Vie d’uscita? E tuttavia, l’esito potrebbe essere simile: una grande coalizione guidata non da Bersani né da Berlusconi, ma da un simil-Monti – non necessariamente da Mario Monti in persona – e con un obiettivo meno ambizioso: preparare il paese per le prossime elezioni, si spera con una nuova legge elettorale. Il nuovo governo dovrebbe far fronte alla crisi della politica, il cui fallimento spiega il successo di Beppe Grillo. Dovrebbe raccogliere la proposta del Movimento 5 Stelle di dimezzare lo stipendio e il numero dei parlamentari. In fondo, i gravi problemi economici dell’Italia possono essere affrontati solo attraverso una riforma del meccanismo di selezione della classe dirigente, prima responsabile dei fallimenti economici del paese. Dovrebbe anche ridurre l’autoreferenzialità delle Regioni cui il federalismo della Lega ha concesso troppa discrezionalità nel definire compensi di una classe politica troppo poco sotto i riflettori, poco accountable di fronte agli elettori. Sarebbe anche questa una riforma che riduce i costi della politica. Un pò di tempo, ma non molto Fortunatamente, la gestione del debito pubblico da parte del Tesoro ha permesso di guadagnare tempo, visto che abbiamo già rifinanziato un quarto di quello in scadenza quest’anno. Nel frattempo, il nuovo Parlamento dovrà eleggere un nuovo presidente della Repubblica: grazie al premio di maggioranza ottenuto alla Camera sarà il Pd a decidere il successore di Giorgio Napolitano. Speriamo che il nuovo presidente sia saggio e capace quanto il suo predecessore, e che riesca, come è riuscito Napolitano, a rassicurare i mercati e i partner europei sulla capacità dell’Italia di trovare una via d’uscita alla lunga transizione verso una maggiore stabilità politica e un maggiore realismo. *Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata oggi sul Financial Times. da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/02/28/elezioni-2013-litalia-deve-affrontare-sua-crisi-politica/515852/ Titolo: TITO BOERI. - Con l’instabilità politica rischiamo una nuova spirale recessiva Inserito da: Admin - Aprile 27, 2013, 05:05:08 pm Tito Boeri: “Con l’instabilità politica rischiamo una nuova spirale recessiva”
Nonostante la partita per il Colle si sia sbloccata, l’economista Tito Boeri ricorda che le imprese e il mercato dei consumi attendono da tempo un altro segnale, quello della “formazione di un nuovo governo. Per questo il presente dell’Italia è fatto di “investimenti bloccati“, con le aziende che “attendono di sapere come evolveranno le leggi sul lavoro e le famiglie temporeggiano nell’acquisto di beni durevoli”. Considerazioni che l’economista fa a margine dell’incontro a Milano per la presentazione del Festival dell’Economia di Trento, di cui è responsabile scientifico, dedicato al tema della “Sovranità in conflitto”. “La crisi ha fatto rimpicciolire molte sovranità nazionali – spiega Boeri – I governi hanno scoperto, loro malgrado, che l’unico modo per affrontare il problema era quello di gestire la crisi, e gli aiuti, assieme ad altri Paesi”. L’Ottava edizione partirà il 30 maggio e si concluderà il 2 giugno: tra gli ospiti anche due premi Nobel dell’Economia, Michael Spence (“Come governare la catena produttiva globale”) e James Mirrlees (“Abbandonare l’euro?”) di Francesca Martelli 21 aprile 2013 da - http://tv.ilfattoquotidiano.it/2013/04/21/tito-boeri-con-linstabilita-politica-rischiamo-una-nuova-spirale-recessiva/228845/ Titolo: TITO BOERI e Luigi Guiso - Quell'inciucio locale che frena il credito Inserito da: Admin - Agosto 27, 2013, 11:43:33 pm Quell'inciucio locale che frena il credito
27.08.13 Tito Boeri e Luigi Guiso Tre casi recenti indicano che per le fondazioni bancarie le lezioni della crisi sembrano essere servite a poco. Continuano a perpetuare un sistema in cui la politica ha un ruolo primario di controllo sul sistema bancario. I rischi per l’economia italiana e il passo indietro dei partiti. TRE CASI EMBLEMATICI Le nostre banche vivono un momento difficile. Otto di loro sono state messe sotto sorveglianza speciale dalla Banca d’Italia, perché hanno accantonamenti insufficienti a coprire i crediti deteriorati. Il passaggio al sistema di supervisione bancaria unica presso la Bce comporterà controlli ancora più stringenti. Negli anni a venire la maggior parte dovrà ristrutturarsi pesantemente per abbattere i costi e riguadagnare efficienza. Le banche dovranno rafforzare il loro patrimonio e selezionare meglio i loro impieghi. Prima lo fanno, tanto meglio è, non solo per le banche in sé ma per l’economia italiana che senza un sistema bancario ben funzionante rischia di trasformare la ripresa in una lunga stagnazione. Le interferenze politiche cui il sistema bancario italiano è soggetto possono però bloccare e distorcere il processo. A poco sembrano essere servite le lezioni di questa crisi: le perdite patrimoniali patite dalle fondazioni per aver concentrato il loro investimento nella banca di riferimento, gli effetti sulla gestione delle banche della presenza delle fondazioni, di cui il caso Mps è la rappresentazione plastica. Oggi tanto quanto ieri la politica non molla la presa sulle fondazioni bancarie e, attraverso queste, sulle banche. Tre casi ne sono la testimonianza. Primo quello della Fondazione Carige, che si è opposta strenuamente all’aumento di capitale di 800 milioni di Banca Carige richiesto da Banca d’Italia, pur di non vedere troppo diluita la propria quota (47 per cento) nel capitale azionario della banca ligure. Per questo ha fatto dimettere tutti i propri rappresentanti nel consiglio d’amministrazione di Banca Carige forzando il rinnovo dei vertici dell’istituto. Sarà ancora una volta la fondazione, presieduta da un ex presidente (area centro-sinistra) della provincia di Genova a scegliere i vertici della banca, che ha storicamente distribuito almeno 7 euro su 10 di utile alla Fondazione invece di usarli per rafforzare il patrimonio, avendo ai posti di comando una serie di politici locali, da ultimo il fratello dell’ex ministro Scaloja. L’esito più probabile è che siano l’attuale presidente e vice-presidente della Fondazione – già candidato sindaco per il Pdl – a guidare l’istituto. Diversi politici locali (dal governatore Burlando all’ex senatore Luigi Grillo), a parole, chiedono che la politica si astenga dall’intervenire, ma da che pulpito viene la richiesta? A Sassari l’avvicendamento, nei mesi scorsi, ai vertici del Banco di Sardegna e della sua fondazione, appannaggio da anni di politici di centro sinistra, è stato caratterizzato da una transumanza di poltrone: il presidente in scadenza della Fondazione, Antonello Arru, diventa presidente del Banco e si fa sostituire alla presidenza della Fondazione da Antonello Cabras, ex senatore Pd non rieletto. Nessun cenno a una dismissione della sostanziosa e per questo rischiosa partecipazione nel capitale del Banco (49 per cento del capitale). Anzi, è stata riaffermata ostinatamente la volontà di mantenerla per “meglio difendere il credito locale dal tentativo di erogarlo altrove” cedendo il risparmio dei sardi agli “stranieri”, questi ultimi essendo presumibilmente i modenesi della Bper che esercitano il controllo. Non c’è dubbio, i politici sono bravi a toccare le corde del localismo e del nazionalismo isolano; è il loro mestiere. Meno bravi a fare i banchieri e garantire rendimenti più elevati alle fondazioni che amministrano. Le uniche voci critiche all’operazione si sono levate da alcuni spiriti liberi del centro-sinistra; l’opposizione di centro-destra avrebbe avuto vita facile nel denunciare il gioco di poltrone fra la Fondazione Banco di Sardegna e la banca omonima, ma ha taciuto. Il silenzio talvolta parla più forte delle parole. In questo caso annuncia che quelle pratiche non destano scalpore perché sono essenzialmente condivise: i politici, siano di centro-destra o di centro-sinistra, non hanno alcun dubbio che uno di loro (politico buono o cattivo che sia) possa anche essere un ottimo banchiere. O, forse più correttamente, il dubbio lo hanno ma non gli conviene ammetterlo. Il terzo caso è quello senese. A Siena si procede al rinnovo del consiglio della Fondazione che ha portato il Monte dei Paschi sull’orlo del fallimento come se niente o ben poco fosse avvenuto. Il rinnovo avviene sullo sfondo delle rivelazioni del presidente uscente della Fondazione, Gabriello Mancino, che ha tolto il velo al re testimoniando ai giudici inquirenti – e quindi ufficializzando a tutti quello che tutti sapevano ma non ammettevano – come le nomine siano sempre state fatte dai “maggiorenti della politica locale e regionale, con l’approvazione del Pdl all’opposizione, con la condivisione della politica nazionale ai massimi livelli (Gianni Letta, sentito Silvio Berlusconi)”. Analogo discorso per le nomine nelle società controllate, soggette a “una forte ingerenza dei partiti” e per i “finanziamenti dei progetti da parte della Fondazione” oggi vicina a portare i libri in tribunale. IL CAMBIAMENTO POSSIBILE Questi tre esempi provano l’esistenza di un sistema, condiviso dall’intero arco dei partiti tradizionali, in cui la politica ha un ruolo primario di controllo sul sistema bancario attraverso il “mercato” delle nomine nelle fondazioni bancarie e (attraverso queste) nelle banche. Il mercato avviene nell’ombra, forse nemmeno nelle segreterie, ma spesso in limitati gruppi di controllo all’interno dei partiti che accettano scambi trasversali. È un controllo fine a se stesso, serve solo a estendere le carriere dei politici. Tipico il caso della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata che ha bruciato il proprio patrimonio investendo il 70 per cento del proprio capitale in BancaMarche, lasciando peraltro che la banca, ignorando i richiami della Banca d’Italia, contravvenisse a ogni principio di sana e prudente gestione. Oppure della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara che, pur detenendo il 54 per cento della Cassa di Risparmio, l’ha docilmente accompagnata al commissariamento. Oggi la Fondazione si trova costretta a mettere i propri dipendenti in cassa di integrazione. Oppure ancora della Fondazione del Monte di Parma, salvata solo dall’intervento di Banca Intesa, che ha acquistato la sua quota di controllo in Banca Monte Parma. I casi Mps, Carige e Sassari sono perciò tutt’altro che isolati. E l’assenza della politica dalle fondazioni è l’eccezione non la norma, come dovrebbe essere. Per questo, infatti, le fondazioni furono create: per dare alle banche un padrone diverso dal Tesoro e lontano dalle segreterie dei partiti. Purtroppo, la storia ha preso fino ad ora un’altra piega. Ma non è mai detta l’ultima parola. La politica che interferisce può decidere di smettere di farlo, ma occorre la volontà di operare in tale senso, denunciando un sistema improprio e dichiarando di volerlo abbandonare. Matteo Renzi oggi si presenta come una persona esterna agli inciuci locali che pervadono la politica nazionale, giungendo talvolta fino a condizionare gli equilibri per la formazione di maggioranze di governo in un momento molto delicato per il nostro Paese. Se Renzi vuole dimostrare nei fatti di avere queste caratteristiche, può segnalarlo prendendo una semplice iniziativa. Chieda al sindaco di Siena, definito “renziano” dalla stampa, che il rinnovo dei vertici della Fondazione Mps avvengano in modo trasparente, con la definizione di criteri di competenza e l’adozione di bandi aperti a tutti coloro che soddisfino i requisiti. Chieda che si adottino per le fondazioni bancarie gli stessi criteri di apertura e trasparenza che lui giustamente pretende per le primarie del suo partito. Con un mandato chiaro: separare la fondazione dalla banca. da - http://www.lavoce.info/quellinciucio-locale-che-frena-il-credito/ --- Bio dell'autore Tito Boeri: Ph.D. in Economia alla New York University, per 10 anni è stato senior economist all'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, poi consulente del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Commissione Europea e dell'Ufficio Internazionale del Lavoro. Oggi è professore ordinario all'Economia Bocconi, dove è anche prorettore alla Ricerca. E' Direttore della Fondazione Rodolfo Debenedetti, responsabile scientifico del festival dell'economia di Trento e collabora con La Repubblica. I suoi saggi e articoli possono essere letti su www.igier.uni-bocconi.it. Segui @Tboeri su Twitter Luigi Guiso: Luigi Guiso è professore di Economia allo European University Institute, Firenze. Ha lavorato come economista per molti anni al Servizio Studi della Banca d'Italia occupandosi di macroeconomia, politica economica e analisi della congiuntura. E' fellow del CEPR e direttore del Finance Program, e fellows del Luigi Einaudi Institute for Economics and Finance. Gli interessi correnti di studio e di ricerca vertono sui campi dell'economia finanziaria, delle scelte finanziarie delle famiglie, della macroeconomia, dei legami tra economia e istituzioni. temi recenti di ricerca includono l'effetto della cultura sull'economia e le origini del capitale sociale. Titolo: TITO BOERI. È vero, puntano ancora su di noi ma siamo l'unico paese in... Inserito da: Admin - Settembre 11, 2013, 11:11:22 am di EUGENIO OCCORSIO
Boeri: "È vero, puntano ancora su di noi ma siamo l'unico paese in recessione" L'economista de lavoce.info invita alla cautela: "La situazione si sta deteriorando anche se si sostiene che siamo agli ultimi colpi di coda della crisi. Occorrerebbe una forte sinergia fra l'impresa privata e la politica economica del governo". Poi analizza i pregi e i difetti del dopo-Berlusconi. "Monti era partito bene, poi sul lavoro ha sbagliato e Letta per abolire l'Imu ha tolto soldi alle misure per l'occupazione" MILANO - "Sì, in effetti anch'io ho riscontrato un maggior rispetto per l'Italia. Così, non mi stupisce che il nostro Paese sia tornato anche ad essere un luogo dove investire, con prudenza i capitali internazionali". Tito Boeri, economista della Bocconi nonché direttore della Fondazione Debenedetti e responsabile del sito di informazione economica "lavoce.info", non si stupisce che gli gnomi di Wall Street abbiano reintegrato il nostro Paese nei loro mappamondi. Ma invita alla cautela: "Siamo pur sempre un Paese che nel 2013 secondo l'Ocse perderà l'1,8% di Pil, l'unico ancora in recessione del G7, e poi la situazione si sta gravemente deteriorando". Si continua a dire però che siamo ai colpi di coda della recessione, che la ripresa è dietro l'angolo: questo si deve alla grinta dei nostri imprenditori o all'azione del governo? "Sicuramente la prima di queste due valutazioni. E anche al quadro internazionale che sta migliorando, il che per un Paese fortemente esportatore come il nostro è importantissimo. Certo, occorrerebbe una sinergia fra le due forze, quella dell'impresa privata e quella della politica economica del governo. Quest'ultima mi sembra però del tutto carente". Andiamo con ordine, professore. L'impressione è che il recupero di affidabilità dell'Italia sia cominciato dalla fine dei governi Berlusconi. Il Cavaliere è ancora in grado di influenzare pesantemente l'agenda politica, ma almeno non è più al comando. "Certamente il cambio della guardia a Palazzo Chigi è stato accolto con un sospiro di sollievo dai nostri partner. Berlusconi, soprattutto negli ultimi tempi, è stato un pessimo ambasciatore per il made in Italy finanziario. In fondo è anche una questione psicologica: chi investe in titoli di Stato italiani, o in azioni delle principali aziende, vuole che a capo del governo sia una figura specchiata, dignitosa e affidabile. Niente di tutto questo. Poi, un altro motivo di svolta è stata la figura stessa di Mario Monti, un economista molto conosciuto e stimato a livello internazionale, che in effetti ha fatto molto bene almeno per i primi mesi del suo governo, varando proprio le riforme che la platea europea gli chiedeva, dalle pensioni all'Imu". E nei successivi mesi? "Purtroppo l'azione del governo tecnico ha perso di incisività ed efficacia, sempre più vittima dei consueti veti incrociati politici. In particolare sul lavoro è stato fatto un pasticcio. Dopo mesi in cui il Paese si è dilaniato nelle polemiche sull'articolo 18, è stato varato un pacchetto di riforme difficile da applicare e in ultima analisi controproducente: non si è riusciti ad agevolare né l'entrata né l'uscita dal posto di lavoro, con il risultato di ingolfare ancora di più i tribunali mentre ai giudici veniva affidato troppo potere, e nel frattempo disincentivando di fatto gli imprenditori ad assumere". Ora il governo Letta, con un economista solido come Enrico Giovannini al ministero del Welfare, è riuscito a correggere la situazione? "Macché. Non si è riusciti ad affrontare la questione con misure organiche e si procede tuttora in ordine sparso senza che sia ben chiara la direzione. Ora, paradosso nel paradosso, per finanziare l'abolizione tout court dell'Imu incoscientemente pretesa dal Pdl, quando bastava limitarla alle categorie più abbienti perché non si aprisse una voragine nei conti pubblici, si è andati a incidere tra l'altro proprio su quelle poche risorse che erano state destinate allo sviluppo dell'occupazione specialmente giovanile. Del resto, non c'è via d'uscita: stando al nuovo articolo 81 della Costituzione che prevede il pareggio di bilancio, e sulla base delle indicazioni europee, ogni nuova spesa o taglio di tasse deve essere compensata da una equivalente riduzione di spesa o aumento delle imposte. L'incertezza tra famiglie e imprese regna sovrana. L'unica cosa certa è che le nuove imposte avranno un nome inglese e forse graveranno anche sugli inquilini, generalmente più poveri dei proprietari. In tutto questo, la promessa più volte ripetuta di una riduzione del carico fiscale sui lavoratori e sulle imprese, che sarebbe la chiave per una vera e duratura ripresa, resta ancora una vaga illusione". 04 settembre 2013 © Riproduzione riservata DA - http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2013/09/04/news/crisi_wall_street_guarda_all_italia_tito_boeri-65867199/ Titolo: TITO BOERI. - Il ddl approvato dal Senato non abolisce affatto le province. Inserito da: Admin - Marzo 29, 2014, 11:54:44 am 28.03.14
Tito Boeri Il ddl approvato dal Senato non abolisce affatto le province. Si limita a svuotarle senza stabilire a chi andranno le loro funzioni, ripetendo gli errori del federalismo. Difficile superare i 150 milioni di risparmi. E le città metropolitane sono già quindici. NON ABOLISCE LE PROVINCE Contrariamente a quanto proclamato da molti titoli di giornali, giovedì non abbiamo affatto dato l’addio alle province. Il disegno di legge approvato col voto di fiducia al Senato (dovrà adesso tornare alla Camera) non abolisce le province. Non poteva essere altrimenti dato che per farlo era necessaria una riforma costituzionale. Vero che la proposta di riforma del Titolo V della Costituzione, presentata assieme alla legge ordinaria a settembre 2013, si è persa nei meandri della Camera e ora è stata assorbita nella nuova proposta di abolizione del Senato. Speriamo di sprovincializzarci prima della fine della legislatura. Nel frattempo il disegno di legge appena approvato si limita a svuotare le province, a renderle più leggere, togliendo loro cariche (e compensi) direttivi. Come sempre nelle riforme incompiute, il rischio di rimanere a metà del guado, o meglio a mezz’aria, con province più leggere, acefale e svuotate di competenze, ma di fatto immortali, non va sottovalutato. RISPARMI MODESTI Per le ragioni di cui sopra, il testo approvato al Senato genera pochi risparmi. Né dipendenti né funzioni delle ex province scompaiono e, di conseguenza, non scompaiono neanche i costi relativi, la stragrande maggioranza delle spese di questo livello di governo. E siccome le province rimangono in vita, anche se la dirigenza politica è ora espressa in modo indiretto, non si riducono neanche le spese di rappresentanza degli altri enti territoriali e del governo presso le province. Quello che si risparmia con certezza è solo il finanziamento degli organi istituzionali (le indennità del presidente, assessori e consiglieri e i vari rimborsi connessi alle loro attività), che vengono aboliti, insieme alle spese delle relative consultazioni elettorali. Il finanziamento degli organi istituzionali è una partita di circa 110 milioni secondo gli ultimi dati disponibili. Non verrà azzerata dati i costi dei nuovi organi delle città metropolitane. Le consultazioni elettorali costano circa 320 milioni e si tengono ogni cinque anni, dunque il risparmio annuale è di circa 60 milioni, in totale i risparmi saranno attorno ai 150 milioni di euro. Meglio che nulla, ma certo non è una cifra particolarmente significativa su una spesa pubblica complessiva di circa 800 miliardi di euro. E non si tiene conto del fatto che la legge aumenta il numero di consiglieri comunali (vedi sotto): il Governo si è impegnato a rendere questa operazione a costo zero, ma è difficile aumentare le cariche senza aumentare le spese. LE CITTÀ METROPOLITANE Vengono istituite nove città metropolitane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria) sulla base di criteri interamente politici. Nessun riferimento alla struttura urbana, come dimostra il caso di Reggio Calabria. A queste si aggiungono Roma capitale e le cinque già istituite dalle Regioni a statuto autonomo (Palermo, Messina, Catania, Cagliari e Trieste). Il problema è che la legge, mentre non pone i paletti di criteri oggettivi sulla base dei quali fondare lo status di città metropolitane, apre la possibilità di istituire altre città metropolitane. Gioco facile, ad esempio, per Padova o Verona sostenere che se Venezia è città metropolitana, loro hanno molte più ragioni per diventarlo. Il rischio è che molte province (non solo i capoluoghi di Regione!) cambino solo denominazione trasformandosi in città metropolitane. Del resto, il territorio e le risorse finanziarie delle nuove città metropolitane coincidono con quelli delle vecchie province. Al contempo, regna grande la confusione su quali saranno le competenze dei nuovi enti locali, dunque forte il rischio di creare nuove sovrapposizioni (o conflitti) di competenze, come quello di dare nuove funzioni senza risorse adeguate. In tutta la legge approvata al Senato non c’è alcun tentativo di definire le funzioni più appropriate da allocare ai vari livelli di governo, e le risorse di cui dotarli, esattamente lo stesso errore compiuto nel costruire il “federalismo” al contrario negli ultimi venti anni. L’unica nota positiva è che ci sono state risparmiate le città metropolitane “ciambelle” delle versioni precedenti del disegno di legge; non è più possibile per gruppi di comuni, magari strategicamente piazzati nel mezzo dei nuovi territori, decidere di andarsene e tenersi le vecchie province. LE UNIONI DI COMUNI Il testo varato dal Senato, infine, istituzionalizza e definisce anche le unioni di comuni (e le convenzioni), con sindaci e consiglieri dei comuni sottostanti che diventano, in parte, presidenti e membri del comitato e del consiglio dell’unione. Una scelta che può essere condivisibile per i comuni di piccoli dimensioni (il 75 per cento degli oltre 8mila comuni italiani ha meno di 5mila abitanti), che non hanno la dimensione sufficiente per offrire in modo efficiente i servizi. Con la riforma, la dimensione minima delle unioni dovrebbe raggiungere i 10mila abitanti (3mila per le comunità montane). Bene, ma perché non si è avuto il coraggio di andare più a fondo? Visto che per i piccoli comuni la gestione di tutti i servizi fondamentali in forma associata diventa obbligatoria, non si capisce bene perché non prevederne direttamente la fusione. Oppure lasciare ai comuni sottostanti meramente una funzione di rappresentanza. Invece, la legge prevede un incremento (rispetto a quanto definito dal Governo Monti) degli assessori, fino a quattro per i comuni dai 1000 fino ai 10mila abitanti, sia pure “senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica”. Vedremo quanto sarà vero. Si tratta di circa 25mila cariche in più. Lavoreranno tutti gratis? O gli altri consiglieri si faranno un’autoriduzione dei loro compensi? UNA LEGGE RINVIO In sostanza, quella approvata al Senato è una legge rinvio. Rinvia l’abolizione delle province e rinvia il riordino di funzioni e risorse fra i livelli di governo che dovrebbe sostituire i precedenti. Mentre il rinvio sul primo aspetto era inevitabile, non lo è sul secondo. Perché, ad esempio, non si è previsto che, una volta abolite le province sul piano costituzionale, tutte le funzioni e risorse passassero direttamente all’ente di governo di livello superiore, cioè le Regioni? Queste ultime, a loro volta, avrebbero potuto decidere come delegare funzioni e risorse: a proprie suddivisioni amministrative o alle nuove unioni di comuni previste dalla stessa legge. In attesa della riforma costituzionale, si poteva adottare qualche semplice criterio forfettario deciso dal Governo, basato sul costo storico delle funzioni rimaste alle province, per suddividere le risorse tra provincia e Regione, a cui potevano essere attribuite per default le funzioni non lasciate alle province. Ma il sospetto è che, anche in questo caso, sulla razionalità delle scelte abbia prevalso la fretta di poter esibire qualche trofeo e di giustificare agli occhi della Consulta il blocco delle elezioni dei consigli provinciali. Da - http://www.lavoce.info/province-citta-metropolitane-unione-comuni-delrio/ Titolo: TITO BOERI. - Bio dell'autore Inserito da: Admin - Marzo 30, 2014, 11:37:19 am Bio dell'autore
Tito Boeri Ph.D. in Economia alla New York University, per 10 anni è stato senior economist all'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, poi consulente del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Commissione Europea e dell'Ufficio Internazionale del Lavoro. Oggi è professore ordinario all'Università Bocconi, dove è anche prorettore alla Ricerca. E' Direttore della Fondazione Rodolfo Debenedetti, responsabile scientifico del festival dell'economia di Trento e collabora con La Repubblica. I suoi saggi e articoli possono essere letti su www.igier.uni-bocconi.it. ... @Tboeri su Twitter Da - http://www.lavoce.info/province-citta-metropolitane-unione-comuni-delrio/ Titolo: Tito Boeri e Tommaso Nannicini Resi pubblici gli importi delle pensioni d’oro.. Inserito da: Admin - Agosto 23, 2014, 05:45:13 pm 21.08.13
Tito Boeri e Tommaso Nannicini Resi pubblici gli importi delle pensioni d’oro, quello che continua a mancare è quanto i beneficiari di tali pensioni hanno effettivamente versato. Un’informazione essenziale per ridurre le pensioni troppo generose senza incorrere nella censura della Consulta. Devono infatti valere principi di equità sia redistributiva che intergenerazionale. Quest’estate sono stati resi pubblici gli importi delle cosiddette pensioni d’oro, le dieci pensioni più generose erogate oggi dall’Inps. Sin qui avevamo solo una distribuzione dei pensionati per importo della pensione. Sapevamo, ad esempio, che ci sono 513.876 persone che ricevono un assegno superiore ai 3.000 euro mensili. Ma non sapevamo che ci siano persone che ricevono trattamenti superiori ai 90.000 euro al mese, più di 200 volte l’importo di una pensione sociale. L’informazione che continua a mancare è quanto i beneficiari di pensioni di alto importo hanno versato nel corso della loro intera carriera lavorativa. In altre parole, bisogna rendere noti non solo i livelli delle pensioni d’oro, ma anche i rendimenti impliciti che sono stati concessi dal sistema previdenziale pubblico ai contributi versati da chi sarebbe poi diventato un pensionato d’oro e dai loro datori di lavoro. Servirà questa informazione innanzitutto per evitare ulteriori censure della Consulta in nome della violazione di “diritti acquisiti”. Se non si rendono pubbliche queste informazioni sarà sempre possibile sostenere che, dopotutto, i beneficiari di queste prestazioni milionarie se le sono pagate coi loro contributi in anni di lavoro. DIRITTI O REGALI ACQUISITI? Ogni pensione calcolata in Italia con un metodo diverso da quello contributivo, quello che dalla fine del 2011 viene praticato a tutti i contributi previdenziali versati dai lavoratori italiani, attribuisce prestazioni superiori ai contributi versati in termini attuariali, con un regalo che è tanto più forte quanto più alte sono le retribuzioni finali dei lavoratori. Il sospetto è poi che non pochi dei pensionati d’oro abbiano potuto fruire di regimi speciali e ulteriori regali fatti per ragioni di consenso elettorale soprattutto negli anni 70 e 80, scaricandone i costi sui contribuenti futuri. Per esempio, sono noti i casi di forze armate in cui un rapido (e inefficiente) turnover ai vertici era probabilmente motivato dall’unico obiettivo di far maturate pensioni d’oro all’ombra del vecchio sistema retributivo. Più che di “diritti acquisiti” bisognerebbe perciò parlare di “regali acquisiti”, di piacevoli sorprese ottenute poco prima di andare in pensione. Questi stessi regali insostenibili hanno poi obbligato governi successivi a mutare più volte le regole previdenziali, allontanando la data di pensionamento o riducendo il livello delle pensioni future a chi magari era molto vicino all’andata in pensione. Perchè questi “diritti acquisiti” non sono stati tutelati mentre oggi si vorrebbero tutelare i “regali acquisiti” dei pensionati d’oro? E perchè viene ritenuto in linea coi principi costituzionali chiedere di più a “chi ha di più” come fa il nostro sistema tributario, ma non si può chiedere di più a “chi ha avuto di più”, in base a regole intrinsecamente insostenibili e tali dunque da imporre oneri o togliere diritti ad altri? UN CONTRIBUTO DI EQUITÀ Come già proponevamo su queste colonne, questi dati servirebbero a meglio calibrare gli interventi perequativi. Ad esempio, si dovrebbe intervenire sulle quiescenze di chi soddisfa due criteri: il primo è quello di ricevere un ammontare totale di pensioni (ci sono molte persone che percepiscono più di una pensione) al di sopra di una certa soglia; il secondo è quello di ottenere questo reddito prevalentemente da una pensione il cui rendimento implicito è molto elevato. Il primo criterio (quello che guarda all’ammontare complessivo delle pensioni) serve a tutelare il principio di equità redistributiva, sostenendo nella vecchiaia chi non ha accumulato abbastanza contributi. Il secondo criterio (quello che guarda alle pensioni in rapporto ai contributi versati) tutela l’equità intergenerazionale, chiedendo qualche sacrificio in più a chi ha avuto troppo dalle vecchie regole del sistema pensionistico. I risparmi così ottenuti potrebbero essere utilizzati per dotare il nostro paese di quegli strumenti di contrasto alla povertà assoluta che, unici in Europa assieme alla Grecia, tutt’ora non abbiamo, magari partendo da quelle fasce di età che sono state particolarmente colpite dalla crisi, come le generazioni coinvolte nella vicenda esodati o quelle travolte dall’esplosione della disoccupazione giovanile. E come potrebbe la Corte Costituzionale opporsi a un provvedimento che riduca queste pensioni d’oro per aiutare i lavoratori esodati? A quali “diritti acquisiti” potrebbe fare riferimento al cospetto di persone che hanno visto allontanarsi la pensione e accorciarsi il periodo di fruizione dei trattamenti di mobilità e che si vedrebbero negare un aiuto dalle decisioni della Consulta? Pubblicare i rendimenti impliciti di ogni prestazione oggi erogata dal sistema pubblico rispetto ai contributi versati sarebbe una vera operazione di trasparenza sulle iniquità del nostro sistema previdenziale. Gli italiani hanno diritto, questo sì, di sapere quanto diversi sono stati sin qui i trattamenti pensionistici in rapporto a quanto versato dai lavoratori. Pubblicare questi dati (ad esempio sapere quante persone si sono viste riconoscere un rendimento del 50 per cento superiore a quello del contributivo) e spiegare come vengono calcolati servirebbe anche a rafforzare conoscenze finanziarie di base per chi deve costruirsi il proprio futuro previdenziale. Tito Boeri tito Ph.D. in Economia alla New York University, per 10 anni è stato senior economist all'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, poi consulente del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Commissione Europea e dell'Ufficio Internazionale del Lavoro. Oggi è professore ordinario all'Università Bocconi, dove è anche prorettore alla Ricerca, e Centennial Professor alla London School of Economics. E' Direttore della Fondazione Rodolfo Debenedetti, responsabile scientifico del festival dell'economia di Trento e collabora con La Repubblica. I suoi saggi e articoli possono essere letti su www.igier.uni-bocconi.it. Redattore de lavoce.info. Segui @Tboeri su Twitter Tommaso Nannicini nannicini È professore associato di economia politica all’Università Bocconi di Milano, dove insegna econometria e political economics. Ha pubblicato su numerose riviste scientifiche, tra cui l’American Economic Review e l’American Political Science Review. Ha insegnato all’Universita’ Carlos III di Madrid e svolto periodi di ricerca ad Harvard University, MIT, Fondo Monetario Internazionale, EIEF e CREI. È affiliato anche ai centri di ricerca IGIER-Bocconi e IZA. Redattore de lavoce.info. Da - http://www.lavoce.info/pensioni-la-trasparenza-doro-3/ Titolo: TITO BOERI. - Non bastano i treni a far ripartire il Paese Inserito da: Admin - Agosto 30, 2014, 09:16:04 am Non bastano i treni a far ripartire il Paese
Di TITO BOERI Il tempismo, sul piano della comunicazione, è perfetto. Nel giorno in cui l'Istat certifica il ritorno dopo 50 anni alla deflazione e con un mercato del lavoro sempre più in sofferenza il governo vara un decreto dal titolo molto promettente: sblocca-Italia. Interviene in ritardo rispetto allo scadenziario che lo prevedeva per metà luglio, ma proprio per questo permette al governo di reagire ai dati sui consumi degli italiani dopo l'introduzione del bonus di 80 euro, dati che confermano l'impressione che lo sgravio non abbia avuto gli effetti sperati di stimolo della domanda. Se si va al di là dei titoli e dei relativi cinguettii telematici, affiorano però non pochi dubbi sull'efficacia delle misure varate ieri e, a dispetto delle rivoluzioni annunciate, in molte di loro si respira l'odore stantio del dejà vu. Di sblocco sulla carta ci sono quasi solo i cantieri delle opere su rotaia. Il bonus edilizia viene semmai bloccato, non rinnovato nel 2015 almeno fino all'approvazione della legge di Stabilità. Le 1617 mail ricevute dai Comuni con segnalazioni di ritardi in piccole opere dovranno aspettare. Non ci sono fondi per le misure contro il dissesto idrogeologico. Non è la prima volta che un governo italiano si affida ai trasporti e soprattutto alle Ferrovie dello Stato (che continuano a non assicurare la pulizia dei treni su gran parte delle tratte) per rilanciare un'economia che non riesce a ripartire. I fallimenti del passato, quando peraltro c'erano ben più risorse da destinare a queste opere, non sembrano essere stati metabolizzati. Sono lastricate le strade di Palazzo Chigi di comunicati in cui si annunciano miliardate di opere pubbliche di immediata attuazione, a partire dalla faraonica legge obiettivo del 2001 per arrivare al "decreto del fare" (e disfare) lasciato in testamento da Letta. Il fatto stesso che si peschi una volta di più dall'elenco annunciato da Berlusconi a Porta a Porta, attuato solo in minima parte (attorno al 10 per cento) in 15 anni, certifica che non basta decretare per avviare i lavori. E anche questa volta, quando si studiano i singoli dossier, ci si accorge che gran parte delle opere non sono immediatamente cantierabili. Tre quarti di queste potranno, nella migliore delle ipotesi, partire nel 2018. Del resto è lo stesso profilo temporale dei finanziamenti a certificare che non si tratta di misure di impatto immediato: 40 milioni nel 2014, 415 nel 2015, 888 nel 2016. Non è questo tipicamente l'orizzonte delle misure congiunturali che vogliono evitare una nuova prolungata recessione agli italiani. Una volta di più si annunciano queste misure a costo zero, come se destinassero nuove risorse alle infrastrutture senza sottrarle ad altri interventi. Ma come può un governo che chiede un consenso attorno ad un'operazione politicamente costosa come la spending review, come può un esecutivo che dovrà racimolare nella legge di Stabilità qualcosa come 16 miliardi di tagli alla spesa nel 2015, dire agli italiani che ci sono tutti questi miliardi piovuti dal cielo? È fin troppo evidente a tutti che le risorse che verranno destinate a queste opere, anche quelle che vengono da fondi europei, verranno sottratte a destinazioni alternative. È dovere di un governo spiegare perché queste opere sono più importanti di altre cose che si potevano fare con questi soldi. A partire dalle stesse opere infrastrutturali alternative che potevano essere avviate (perché, ad esempio, il terzo valico Milano-Genova e non il raccordo Fiumicino-alta velocità verso Firenze?). Le analisi costi-benefici delle singole opere servono proprio a questo, ma non ce n'è traccia. Offrono le stesse valutazioni che ogni imprenditore compie quando deve decidere se fare o meno un investimento. Perché i contribuenti italiani, al pari degli azionisti privati, non devono avere il diritto di sapere come vengono utilizzati i loro soldi rispetto a diversi scenari e opzioni alternative? La dimensione del dispositivo entrato in Consiglio dei ministri (125 pagine e, come ormai è prassi, non c'è un testo in uscita) e i commi e sottocommi dei diversi articoli danno l'impressione di burocrazie ministeriali tutt'altro che rottamate. Se il decreto avesse mantenuto l'obiettivo della semplificazione normativa, avremmo un precedente cui appellarci sul piano del metodo. Speriamo che dietro al formalismo non si celino troppi giochi di potere: homo homini lupus. E l'impressione è che almeno al ministero dei Trasporti siano ancora le alte burocrazie a governare. Forse sarebbe stato più saggio ieri limitarsi alle misure sulla giustizia civile, che hanno potenzialmente un rilievo economico molto importante se sapranno davvero intervenire sugli arretrati, e rinviare le altre misure alla prima legge di Stabilità del Governo Renzi, nella quale confluiranno anche le norme sulle società partecipate. Ci dirà qual è la strategia di politica economica di questo governo. (30 agosto 2014) © Riproduzione riservata Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/08/30/news/crescita_non_bastano_i_treni-94686223/?ref=HRER3-1 Titolo: Boeri: “Ma per sussidi a disoccupati mancano 2 miliardi” Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2014, 11:35:21 am Jobs Act, oggi Cdm.
Boeri: “Ma per sussidi a disoccupati mancano 2 miliardi” Lavoro & Precari Oggi a Palazzo Chigi riunione (già rinviata) sui decreti attuativi della riforma del lavoro e sui nuovi ammortizzatori sociali. Ma secondo l'economista di lavoce.info la coperta è troppo corta. Il confronto con l'intervento spagnolo Di Stefano De Agostini | 24 dicembre 2014 Mentre il governo, con il Consiglio dei ministri di oggi, si appresta a svelare il suo piano per il nuovo sussidio di disoccupazione universale, dalla Spagna arriva un campanello d’allarme: la coperta delle risorse prevista dal nostro esecutivo è troppo corta. Solo per finanziare un sostegno per i disoccupati di lunga durata, cioè chi è senza lavoro da molto tempo e non ha più diritto al sussidio, Madrid si prepara a spendere oltre un miliardo di euro in soli 15 mesi. Il nostro governo, invece, per la riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, ha stanziato in legge di Stabilità 2,2 miliardi di euro. “Per un’operazione del genere servirebbero 4 miliardi di euro – spiega Tito Boeri, economista de lavoce.info e docente all’università Bocconi – I 2,2 miliardi previsti dalla legge di Stabilità sono ancora troppo pochi. E, nel calcolo, non ho tenuto conto delle risorse necessarie per il sussidio ai disoccupati di lunga durata, che se fosse approvato sarebbe un intervento molto importante”. Ma per avere un quadro più completo della questione coperture occorre fare un passo indietro. La nuova Aspi (Naspi), in base a quanto fatto trapelare dal governo, sarà estesa a una platea più ampia, che comprenderà precari con contratti a termine, atipici o di collaborazione, per un totale, stima l’esecutivo, di circa 1,2 milioni di persone: il sussidio potrà infatti essere erogato a quanti avranno lavorato anche per soli tre mesi nell’ultimo anno. L’assegno durerà fino a due anni, mentre adesso si limita a 14 mesi, e partirà da 1.100-1.200 euro per poi scendere, con il passare dei mesi, a 700. Un ampliamento della platea di beneficiari, dunque. A questa mossa deve corrispondere necessariamente un aumento delle risorse a disposizione. Nei piani del governo, la Naspi andrà a coprire lo spazio lasciato vuoto dal superamento di buona parte degli attuali ammortizzatori sociali: mobilità, cassa integrazione in deroga, indennità di disoccupazione e, naturalmente, Aspi e mini Aspi. Nel 2013, questi strumenti hanno interessato circa 2 milioni di persone e sono costati alle casse dell’Inps circa 18,2 miliardi di euro. Se ci aggiungiamo i 2,2 miliardi stanziati nella manovra e gli 1,2 milioni di nuovi beneficiari della Naspi stimati dal governo, possiamo ipotizzare che per il sussidio universale, una volta a regime, si spenderanno circa 20,5 miliardi. A questo va aggiunto il fatto che nel giro di due anni la spesa per gli ammortizzatori contro la disoccupazione è aumentata da 11,6 a 13,5 miliardi e il numero dei disoccupati continua a salire costantemente da tre anni. E i 3,2 milioni del terzo trimestre 2014 rappresentano un record dal 2004. In questo quadro, il Jobs Act prevede il varo di un’ulteriore prestazione sociale. Nel testo della legge delega, infatti, tra i principi e criteri direttivi cui dovrà attenersi il governo compare la “eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’Aspi, di una prestazione (…) limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, che presentino valori ridotti dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee, ndr), con previsione di obblighi di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti”. Come in Spagna, si intende quindi venire incontro a quanti hanno esaurito il sussidio di disoccupazione, la nostra Aspi, ma sono ancora senza un lavoro e in stato di difficoltà economica. E al tempo stesso si prepara un percorso di reinserimento lavorativo. Questo passaggio del Jobs Act ricorda infatti da vicino la “ayuda extraordinaria” introdotta da Madrid: il 15 dicembre è stato firmato un accordo tra il governo spagnolo e le parti sociali per garantire un aiuto mensile ai disoccupati di lunga data. La prestazione spetterà a quanti hanno esaurito il sussidio di disoccupazione da oltre un anno e si ritrovano senza alcun reddito e con familiari a carico. L’assegno sarà di 426 euro e avrà una durata di sei mesi. Durante questo periodo, i beneficiari del sussidio parteciperanno a un percorso personalizzato di orientamento al lavoro. Secondo fonti ministeriali la misura avrà un costo tra 1 e 1,2 miliardi di euro e interesserà una platea di 400-450mila disoccupati. Il programma è sperimentale e avrà una durata di 15 mesi, dal 15 gennaio 2015 al 15 aprile 2016, anche se è prevista una verifica tra le parti per valutarne gli effetti e l’eventuale proroga. Saltano però all’occhio alcune differenze tra i piani dei due governi. Innanzitutto la forma scelta. Nel caso spagnolo si tratta di un accordo tra l’esecutivo e le parti sociali con una durata ben definita. Il governo Renzi, invece, ha inserito lo strumento direttamente nella riforma del lavoro, rendendolo, si suppone, una misura strutturale. Eppure, se da una parte Roma sembra puntare in modo più deciso su questa forma di sostegno, dall’altra l’aggettivo “eventuale” lascia al governo la facoltà di realizzare o meno la misura. Insomma, nella legge che dovrebbe impegnare l’esecutivo è già contenuta la scappatoia. E qui, tornando a Boeri, il motivo appare evidente: la scarsità di risorse. Se gli stanziamenti, seguendo il ragionamento del professore, sono già insufficienti senza il sussidio per i disoccupati di lunga durata, figuriamoci con l’introduzione di un’ulteriore prestazione sociale. Insomma, in attesa di conoscere le decisioni del governo, i numeri dimostrano quanto sia difficile trovare le risorse per un intervento sul modello spagnolo. Ecco perché, mentre i tecnici fanno i calcoli, il legislatore si ripara dietro una parola: “eventuale”. Di Stefano De Agostini | 24 dicembre 2014 da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/24/jobs-act-oggi-cdm-boeri-per-i-sussidi-disoccupati-mancano-2-miliardi/1295076/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2014-12-24 Titolo: TITO BOERI. - ALL'INPS chiarisca sul taglio alle pensioni. Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2015, 11:19:35 pm Cgil sulle pensioni: "A gennaio ribassi e caos pagamenti"
Secondo il sindacato Spi con l'anno nuovo ci saranno leggeri tagli agli assegni rispetto al 2014, poi il recupero in febbraio. La legge di Stabilità ha cambiato le date di versamento. L'Istituto previdenziale: per ora nessuna novità nel calendario 30 dicembre 2014 MILANO - A gennaio le pensioni saranno più leggere, salvo poi risalire il mese successivo, ed è probabile si verifichi un caos relativo alle date di pagamento. L'allerta arriva dallo Spi Cgil, secondo il quale a inizio anno nuovo "i pensionati dovranno restituire allo Stato una parte della rivalutazione del 2014". Per il sindacato "una minima perderà 5,40 euro su dicembre 2014" e a un trattamento previdenziale da 1.500 euro mancheranno 16,30 euro. Tuttavia "lievi aumenti sono previsti per febbraio. La rivalutazione automatica porterà nelle tasche di un pensionato con la minima 1,50 euro in più sul 2014", (+3 euro per un assegno da 1.500). Insomma un piccolo recupero dopo la 'brutta sorpresa' di inizio anno. Il sindacato dei pensionati della Cgil denuncia anche un "caos date" per i pagamenti. Lo Spi ricorda come il "governo abbia rimesso mano al sistema di pagamento degli assegni previdenziali". Quindi, riepiloga, "quelli Inps saranno liquidati il primo del mese mentre quelli Inpdap il 16, così come è avvenuto fino ad oggi". Invece, sottolinea, "novità riguardano invece i titolari di due o più pensioni e nello specifico quelle di reversibilità, invalidità civile e di rendite vitalizie per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Queste saranno liquidate il 10 del mese". Ma per lo Spi "la norma" contenuta nella legge di Stabilità, è "poco chiara e rischia di riguardare fino a 5 milioni di pensionati e non alcune centinaia di migliaia come dichiarato dal governo". Ecco perchè secondo il sindacato si tratta di una questione "che il neo-presidente dell'Inps Tito Boeri dovrà affrontare e chiarire quanto prima per limitare il più possibile i disagi arrecati alla popolazione anziana". A questo punto per il segretario generale dello Spi Cgil, Carla Cantone, è evidente come il Governo si sia "dimenticato ancora una volta dei pensionati italiani e nella legge di Stabilità per loro non c'è nulla". In una nota l'Inps ha successivamente fatto sapere che nel mese di gennaio non ci sarà nessuna novità sul calendario dei pagamenti delle pensioni. "Gli assegni verranno liquidati come sempre il primo del mese e il 16 del mese, a seconda che si tratti rispettivamente di pensioni Inps o ex-Inpdap - chiarisce l'Istituto - Resterà da trovare per i mesi successivi una soluzione. Il problema riguarda i soli pensionati che incassano più assegni legati a carriere sia nel settore pubblico che in quello privato. Ma l'Istituto sta studiando modalità che non penalizzino i pensionati, evitando di procrastinare anche se di pochi giorni il pagamento delle loro spettanze". Rispetto alla norma contenuta nella Legge di Stabilità, l'Inps precisa che è sua "ferma intenzione non creare danno ai pensionati" e che "farà di tutto per non introdurre una nuova scadenza di pagamento, che non sia il primo e il 16 del mese". pensioniinpsinpdap © Riproduzione riservata 30 dicembre 2014 DA - http://www.repubblica.it/economia/2014/12/30/news/pensioni_gennaio_cgil-103999552/?ref=search Titolo: BOERI sui "trattamenti d'oro" DEVE CHIARIRE AI PENSIONATI CHE INTENZIONI HA... Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2015, 11:23:42 pm Inps, Boeri: "Il mio sarà un impegno gravoso"
Il nuovo presidente dell'ente previdenziale commenta la sua nomina: "E' un'istituzione fondamentale per il Paese soprattutto alla luce degli squilibri del mercato del lavoro". Sui "trattamenti d'oro": "Credo profondamente in tutte le cose che ho scritto" 26 dicembre 2014 ROMA - Si tratterà di un "impegno gravoso" da affrontare con "grande responsabilità". A due giorni dalla nomina come presidente dell'Inps, Tito Boeri commenta il suo nuovo incarico. "L'Inps è un'istituzione fondamentale per il Paese, soprattutto alla luce dell'andamento demografico, degli squilibri e dei grandi interrogativi che presenta il mercato del lavoro, in relazione ai giovani". Boeri arriva all'Inps dopo il breve commissariamento di Tiziano Treu che ha traghettato l'ente, ormai diventato Super- Inps, con l'accorpamento dell’Inpdap, dopo l'uscita di Antonio Mastrapasqua. E l'economista riferisce che la notizia della nomina del Consiglio dei ministri è arrivata "all'improvviso". "Il giorno prima stavo scrivendo". E invece, d'ora in poi l'attività di editorialista sarà interrotta: "E' una regola che ci siamo autoimposti a La Voce: chi riceve un incarico istituzionale si mette in aspettativa". Nessun accenno sullo scottante tema delle pensioni: in particolare, riguardo ai trattamenti "d'oro", e all'ipotesi di introdurre un "contributo d'equità" (da calcolare sulla differenza tra pensioni percepite e contributi versati, limitatamente a chi percepisce importi elevati) accennato proprio in un suo articolo del gennaio scorso, Boeri preferisce non entrare nel merito rispondendo: "Credo profondamente in tutte le cose che ho scritto". Le altre nomine. Nel corso del Consiglio dei ministri del 24 dicembre sono state approvate le seguenti nomine: su proposta del ministro della Difesa, Roberta Pinotti, il generale di corpo d'armata Tullio Del Sette è stato nominato a Comandante dell'Arma dei Carabinieri. Ancora su proposta della Pinotti, il generale del corpo d'armata Claudio Graziano è stato nominato Capo di Stato maggiore della Difesa. Su proposta del Ministro dell'Interno, Angelino Alfano, è stata approvata la nomina a dirigente generale di pubblica sicurezza del dirigente superiore della Polizia di Stato Raffaele Pagano. Ancora su proposta di Alfano è stata approvata la nomina di Gerarda Pantaleone a Prefetto di Napoli. Infine, su proposta del ministro dell'Economia e delle Finanze, Pietro Carlo Padoan, è stata stabilita la promozione a generale di corpo d'armata del generale di divisione della Guardia di finanza Riccardo Piccinni. © Riproduzione riservata 26 dicembre 2014 da corriere.it Titolo: TITO BOERI. - Inps, Boeri: "Il mio sarà un impegno gravoso" Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2015, 09:59:20 am Inps, Boeri: "Il mio sarà un impegno gravoso"
Il nuovo presidente dell'ente previdenziale commenta la sua nomina: "E' un'istituzione fondamentale per il Paese soprattutto alla luce degli squilibri del mercato del lavoro". Sui "trattamenti d'oro": "Credo profondamente in tutte le cose che ho scritto" 26 dicembre 2014 ROMA - Si tratterà di un "impegno gravoso" da affrontare con "grande responsabilità". A due giorni dalla nomina come presidente dell'Inps, Tito Boeri commenta il suo nuovo incarico. "L'Inps è un'istituzione fondamentale per il Paese, soprattutto alla luce dell'andamento demografico, degli squilibri e dei grandi interrogativi che presenta il mercato del lavoro, in relazione ai giovani". Boeri arriva all'Inps dopo il breve commissariamento di Tiziano Treu che ha traghettato l'ente, ormai diventato Super- Inps, con l'accorpamento dell’Inpdap, dopo l'uscita di Antonio Mastrapasqua. E l'economista riferisce che la notizia della nomina del Consiglio dei ministri è arrivata "all'improvviso". "Il giorno prima stavo scrivendo". E invece, d'ora in poi l'attività di editorialista sarà interrotta: "E' una regola che ci siamo autoimposti a La Voce: chi riceve un incarico istituzionale si mette in aspettativa". Nessun accenno sullo scottante tema delle pensioni: in particolare, riguardo ai trattamenti "d'oro", e all'ipotesi di introdurre un "contributo d'equità" (da calcolare sulla differenza tra pensioni percepite e contributi versati, limitatamente a chi percepisce importi elevati) accennato proprio in un suo articolo del gennaio scorso, Boeri preferisce non entrare nel merito rispondendo: "Credo profondamente in tutte le cose che ho scritto". Le altre nomine. Nel corso del Consiglio dei ministri del 24 dicembre sono state approvate le seguenti nomine: su proposta del ministro della Difesa, Roberta Pinotti, il generale di corpo d'armata Tullio Del Sette è stato nominato a Comandante dell'Arma dei Carabinieri. Ancora su proposta della Pinotti, il generale del corpo d'armata Claudio Graziano è stato nominato Capo di Stato maggiore della Difesa. Su proposta del Ministro dell'Interno, Angelino Alfano, è stata approvata la nomina a dirigente generale di pubblica sicurezza del dirigente superiore della Polizia di Stato Raffaele Pagano. Ancora su proposta di Alfano è stata approvata la nomina di Gerarda Pantaleone a Prefetto di Napoli. Infine, su proposta del ministro dell'Economia e delle Finanze, Pietro Carlo Padoan, è stata stabilita la promozione a generale di corpo d'armata del generale di divisione della Guardia di finanza Riccardo Piccinni. © Riproduzione riservata 26 dicembre 2014 DA - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/26/news/boeri_inps-103758464/?ref=search Titolo: TITO BOERI. Boeri: “Problema dell’Italia è la povertà”. Scontro con Guzzetti... Inserito da: Admin - Marzo 03, 2015, 05:25:10 pm Boeri: “Problema dell’Italia è la povertà”.
Scontro con Guzzetti su gestione Inps Economia Il numero uno della lobby delle fondazioni bancarie ha accusato l'istituto nazionale di previdenza di aver usato "in maniera dissennata decine di miliardi di euro di soldi pubblici". Contrattacco dell'economista, che ne ha appena assunto la presidenza: "Gli enti fanno poco per il sociale perché hanno disperso il patrimonio per tenere il controllo sulle banche" Di F. Q. | 27 febbraio 2015 Da un lato Giuseppe Guzzetti, il “grande vecchio” che da 18 anni guida la Fondazione Cariplo e da 15 la lobby di tutte le fondazioni bancarie, l’Acri. Dall’altro l’economista e neo presidente dell’Inps Tito Boeri. Oggetto del contendere, la gestione dei fondi per la povertà e più in generale le prestazioni assistenziali. Con Guzzetti che accusa l’istituto di previdenza di aver “gestito in maniera dissennata decine di miliardi di euro di soldi pubblici” e il cofondatore del sito lavoce.info che contrattacca ricordando come le fondazioni abbiano “disperso un patrimonio ingente per tenere il controllo sulle banche“. Per poi evidenziare che “il problema dell’Italia, oggi, è la povertà”. Lo scontro è andato in scena durante l’apertura del forum delle Politiche sociali del Comune di Milano, presenti il sindaco Giuliano Pisapia, diversi assessori del capoluogo lombardo e il sottosegretario al Welfare Luigi Bobba. Guzzetti, dal palco, ha sostenuto che “nel bilancio dello Stato ci sono capitoli destinati alle famiglie povere, ai disabili, ai giovani, stimati da una ricerca da noi commissionata in decine di miliardi di euro, gestiti a Roma, per lo più dall’Inps, in maniera dissennata. Sono fondi pubblici da spendere meglio”. La soluzione? Presto detto, secondo il presidente “a vita” della fondazione azionista di Intesa Sanpaolo: “La nostra proposta è che queste risorse siano destinate ai territori, ai Comuni e alle Regioni, che sono le realtà più vicine al disagio”. La presa di posizione arriva però dal rappresentante di un mondo che proprio negli anni più pesanti della crisi ha fortemente ridotto l’ammontare dei contributi destinati al volontariato, alla filantropia, all’assistenza gli anziani, agli alloggi popolari e alle altre attività “di rilevante utilità sociale“. Preferendo in molti casi destinare risorse all’arte e ad attività culturali. Di qui la reazione di Boeri, che pur ammettendo che “sicuramente ci sono miglioramenti da fare sulla gestione delle risorse e tutti i contributi sono importanti” ha colto l’occasione per mettere ancora una volta il dito nella piaga del groviglio spesso tutt’altro che virtuoso tra fondazioni, sistema bancario e politica. Le fondazioni bancarie, ha rimarcato, “hanno bruciato negli ultimi 5 anni un patrimonio ingente del pubblico italiano e lo hanno disperso perché hanno voluto tenere il controllo sulle banche e quindi non sono davvero più in grado di fornire servizi di sostegno e di contrasto alla povertà. E’ una grande opportunità che il Paese ha perso”. Perdendo così anche un’occasione per affrontare quello che secondo l’economista è il vero “problema dell’Italia”: la “Grande Recessione, che nel nostro Paese è stata peggiore della Grande Depressione del ’29”, ha portato a “un tremendo aumento della povertà”, passata dal 19,9% del 2006 al 27% del 2012. Di conseguenza oggi “il problema è la povertà, non le disuguaglianze, anche se ci sono e sono troppo forti: la crisi non le ha aumentate perché i redditi sono calati sia per la parte bassa sia per la parte alta delle retribuzioni”. “E’ un problema che deve essere affrontato”, ha avvertito Boeri, e in questa battaglia “l’Inps può usare il suo grande patrimonio di dati e competenze e fare proposte. Faremo sentire la nostra voce, soprattutto nel contrasto alla povertà”. Sullo sfondo resta il problema del ruolo troppo pervasivo delle fondazioni nell’azionariato degli istituti di credito, un nodo da anni all’attenzione del Fondo monetario internazionale e della Commissione europea che ha più volte denunciato le “opacità” e i “forti legami con il business locale e la politica”. Stando a indiscrezioni, il governo sta ora affrontando la questione con una trattativa tra il Tesoro e la stessa Acri. L’obiettivo è quello di arrivare alla stesura di un “atto negoziale” che impedisca l’eccessiva concentrazione di quote di capitale in una singola banca. Un modus operandi che in diversi casi – si pensi a Fondazione Carige e Fondazione Mps - ha portato gli enti a spolparsi per partecipare alle ricapitalizzazioni dell’istituto di riferimento e non veder diluito il proprio peso nell’azionariato. E' online FQ Magazine, il rotocalco a modo nostro di F. Q. | 27 febbraio 2015 da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/02/27/boeri-problema-dellitalia-poverta-scontro-guzzetti-gestione-inps/1461552/ Titolo: TITO BOERI. Inps, Boeri: «Presto proposta di reddito minimo per gli over 55» Inserito da: Admin - Aprile 20, 2015, 06:12:57 pm PENSIONI
Inps, Boeri: «Presto proposta di reddito minimo per gli over 55» Il presidente dell‘ente annuncia l’iniziativa che presenterà a giugno: «Allarme povertà, la nuova emergenza sono i 55-65enni» Di Redazione Online L’Inps presenterà «a giugno» una proposta per introdurre «un reddito minimo garantito per le persone tra i 55 e 65 anni». Lo ha detto il presidente Tito Boeri. «Non credo che dare loro un trasferimento, che sarà basso - dice - li esponga al rischio di non mettersi in cerca di un lavoro». Si tratta di persone che «difficilmente trovano un nuovo impiego (solo il 10%)». «Emergenza povertà non solo per i giovani» «Sarei felice se il governo riuscisse a trovare le risorse per finanziare un reddito minimo garantito per tutta la popolazione», puntualizza Boeri, sottolineando che la proposta per gli over 55enni «è complementare». Il professore evidenzia poi che con la crisi «abbiamo avuto una forte crescita di povertà per questa fascia di età». Si tratta di persone che se perdono il lavoro «riescono a trovare un reimpiego solo nel 10% dei casi», indica Boeri. È la povertà «il dato più allarmante» provocato dalla recessione in Italia, sottolinea ancora Boeri, spiegando che «il fattore trainante della povertà è la perdita di lavoro». «La povertà in Italia durante questa grande recessione è aumentata di un terzo», spiega durante un convegno all’Università Bocconi, sottolineando che «ha interessato le fasce più giovani, ma anche le persone tra 55 e 65 anni». E questa «è una nuova emergenza per il Paese che si è aggiunta a quella giovanile». «Rivendico il diritto di poter fare delle proposte» «Rivendico il diritto di poter fare delle proposte. Non è certamente un modo di violare le regole della democrazia, come qualcuno ha sostenuto», ha detto ancora il presidente dell’Inps in merito al pacchetto di proposte che - assicura - l’istituto presenterà a «governo e parlamento entro giugno». Per Boeri, «un ente come l’Inps ha conoscenze e competenze che può mettere a servizio del paese. Inoltre abbiamo dati importanti che ci permettono di valutare meglio di altri le politiche fatte sin qui in Italia». «Sì anche a pagamenti il primo del mese» Infine anche un passaggio sui pagamenti di tutte le pensioni il primo del mese. «Abbiamo trovato l’accordo con le banche - dice Boeri - aspettiamo il decreto del governo che mi auguro venga varato il prima possibile”. Boeri ha sottolineato che si tratta di un provvedimento «a costo zero per le banche e per lo Stato, mentre c’è un grande vantaggio per i pensionati». 20 aprile 2015 | 14:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/15_aprile_20/inps-pensioni-boeri-presto-proposta-reddito-minimo-gli-over-55-0521a10a-e756-11e4-95de-75f89e715407.shtml Titolo: Boeri: “In 6 anni poveri cresciuti da 11 a 15 milioni. Non era inevitabile" Inserito da: Arlecchino - Ottobre 08, 2015, 11:54:32 am Crisi, Boeri: “In 6 anni poveri cresciuti da 11 a 15 milioni. Non era inevitabile”
Il presidente dell'Inps ha avvertito che dal 2008 a oggi le famiglie indigenti sono passate dal 18 al 25% del totale, perché la Penisola non ha prestazioni sociali adeguate per contrastare il fenomeno. La ricetta è un reddito minimo da introdurre all'inizio almeno per gli over 55, sui quali è possibile intervenire con le risorse già a disposizione dell'istituto. Caritas: nel mondo 805 milioni soffrono fame Di F. Q. | 19 maggio 2015 Un aumento di un terzo in sei anni. Le famiglie italiane che vivono sotto la soglia di povertà sono passate, durante la crisi, dal 18 al 25% del totale. E le persone coinvolte, che erano 11 milioni, sono salite a 15 milioni. Lo ha detto Tito Boeri, presidente dell’Inps, in audizione in commissione Affari sociali alla Camera. “È la povertà il nodo centrale” per l’Italia, ha avvertito l’economista. “Il 10% più povero nella distribuzione dei redditi ha subito una riduzione del 27% del proprio reddito disponibile, mentre il 10% più ricco della popolazione ha subito una riduzione del 5%”. Quanto al ceto medio, “ha subito una riduzione del reddito del 5%”. A conti fatti, dunque, “i costi della crisi sono sulle persone più povere del Paese”. E sulle più deboli, considerato che la crescita della povertà ha riguardato soprattutto la fascia dai 55 ai 65 anni, i giovani e le famiglie con figli. Per altro questo declino, ha attaccato Boeri, “non era inevitabile. Altri Paesi che hanno conosciuto crisi di entità comparabile alla nostra”. Qual è il problema, allora? “Noi non abbiamo un sistema di prestazione sociale di trasferimenti alle famiglie che sia in grado di contrastare la povertà”. Oggi infatti solo il 3% delle prestazioni sociali erogate in Italia va al 10% più povero della popolazione. Il quadro italiano degli interventi a favore delle fasce deboli è pessimo: “Gli strumenti di contrasto alla povertà necessitano di una efficiente amministrazione delle politiche del lavoro e delle politiche attive: oggi questa capacità in Italia non esiste, in molte regioni non c’è”. Dopo i dati, la ricetta. Quella che il cofondatore di lavoce.info ha già proposto più volte: “Le misure di contrasto alla povertà”, a partire da quelle per la fascia 55-65 anni perché “dai 55 anni in su è possibile creare delle misure con le risorse di cui già oggi l’istituto dispone” e senza che ci siano rischi di “azzardo morale” (cioè accesso al beneficio da parte di chi non ne ha diritto) dato che a quell’età quando si perde il lavoro lo si ritrova solo nel 10% dei casi. Questo intervento “non vuole opporsi o essere in contraddizione con quelli di cui necessita la fascia d’età più giovane”, ha spiegato l’economista. Anzi, “l’auspicio è che il governo, supportato dal Parlamento, affronti questo problema. A quel punto davvero si potrebbe avere un sistema di reddito minimo che supporti l’intera popolazione italiana”. Positivo, secondo Boeri, il fatto che l’esecutivo abbia messo una pezza alla grana della mancata rivalutazione delle pensioni impegnando solo 2,1 miliardi e non 18 come avrebbe richiesto la restituzione totale degli arretrati, perché in quel caso “la possibilità di contrastare la povertà sarebbe stata più difficile”. Proprio martedì la Caritas internazionale ha presentato all’Expo di Milano i dati sulla fame nel mondo, basati sui numeri raccolti dalle 99 Caritas nazionali che operano in 71 Paesi. Le persone che non hanno accesso a cibo sufficiente sono 805 milioni. Secondo lo studio, le prime tre cause dell’insicurezza alimentare sono mancanza di risorse (terra, semi, prestiti, accesso ai mercati) per i piccoli agricoltori, bassa produttività agricola e impatto dei cambiamenti climatici. La ricerca rileva poi come le conseguenze dell’insicurezza alimentare vadano oltre la malnutrizione: la fame ha impatto sul tasso di criminalità, sulla corruzione, sulla diffusione di malattie e disturbi psicologici, sull’aumento dei conflitti tribali e sull’intensificarsi dei fenomeni migratori. Di F. Q. | 19 maggio 2015 DA - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/19/crisi-boeri-6-anni-famiglie-povere-cresciute-di-un-terzo-non-era-inevitabile/1698594/ Titolo: Carlo Renda - Pensioni, Tito Boeri boccia le misure in legge di Stabilità. Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 05:57:31 pm Pensioni, Tito Boeri boccia le misure in legge di Stabilità.
Inps: 42,5% pensionati sotto 1000 euro, 12% sotto 500 euro L'Huffington Post | Di Carlo Renda Pubblicato: 20/10/2015 11:22 CEST Aggiornato: 16 minuti fa Nella manovra ci sono solo "interventi selettivi, parziali" sulle pensioni, mentre "serviva una riforma". Il presidente dell'Inps, Tito Boeri, critica gli interventi previdenziali contenuti nella Legge di Stabilità varata dal Governo, nel giorno in cui l'Istituto rende noto il bilancio sociale 2014 che mostra che quasi un pensionato su due in Italia prende meno di 1000 euro, quasi 1 su 8 addirittura meno di 500 euro. Nella manovra "ci sono interventi selettivi, parziali che creano asimmetrie di trattamento", ha affermato Tito Boeri. "Sarebbe stato importante fare l'ultima riforma delle pensioni. Aggiustamenti e piccole riforme ce ne sono già stati tanti". Secondo il numero uno dell'Inps "presumibilmente, in assenza di correttivi" gli interventi sulle pensioni contenuti nella legge di stabilità non saranno sufficienti e "daranno la spinta ad ulteriori misure parziali che sono, tra l'altro, molto costose". "Speriamo che il 2016 sia finalmente l'anno di un intervento decisivo, organico e strutturale sulle pensioni. Avremmo voluto che il 2015 fosse l'anno dell’ultima riforma delle pensioni, purtroppo non sarà così" IL BILANCIO 2014 DELL'INPS. Conti ancora in rosso per l'Inps nel 2014, seppur in lieve miglioramento. La gestione economico-patrimoniale ha presentato un risultato di esercizio negativo per 12,4 miliardi, in lieve miglioramento (+361 mln) rispetto al disavanzo dell'esercizio 2013. La situazione patrimoniale netta, pari a 9,028 milioni a inizio 2014, si attesta a fine esercizio a 18,407 miliardi "per effetto del risultato economico di esercizio negativo, del contributo per il ripianamento al disavanzo della gestione ex Inpdap per 21,698 miliardi nonché della costituzione della riserva patrimoniale per 166 milioni del fondo di solidarietà residuale". Il 42,5% dei pensionati italiani (6,5 milioni di persone), ha un reddito da pensione inferiore ai 1.000 euro. Ci sono inoltre 1,88 milioni di pensionati (12,1%) con assegni inferiori ai 500 euro. Nel 2014 il flusso di lavoratori in cassa integrazione è stato di 1,2 milioni con un calo del 21,3% sul 2013. La spesa complessiva per ammortizzatori sociali nell'anno è stata pari a 22,6 miliardi con un calo del 4,2% sul 2013. Compresi i contributi figurativi per la cig si sono spesi 6,1 miliardi (-8,8%); per le indennità di disoccupazione si sono spesi 13,1 miliardi (-3,6%, tre milioni di persone interessate); per la mobilità si sono spesi 3,4 miliardi (+2,7%). I dipendenti pubblici a tempo indeterminato scendono sotto quota 3 milioni. Nel 2014 i 'travet' erano 2.953.000 con un calo del 2,8% (circa 90.000 unità) sul 2013. Rispetto al 2011 quando erano 3,23 milioni i dipendenti pubblici, grazie al blocco del turn over, sono diminuiti di quasi 300.000 unità. L'Inps ha inserito per la prima volta nel 2014 tra i lavoratori dipendenti pubblici iscritti anche quelli a tempo determinato portando il totale complessivo a 3,22 milioni (2,95 milioni i dipendenti a tempo indeterminato, 270 mila circa quelli a tempo determinato). Nel complesso il numero dei lavoratori iscritti all'Inps (privati e pubblici) è risultato pari nel 2014 a 22.067.086 unità con aumento di 142.821 lavoratori rispetto ai 21.924.265 del 2013. L'aumento è dovuto solo all'inserimento nel totale dei dipendenti pubblici a tempo determinato. Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/10/20/pensioni-tito-boeri-boccia-misure-in-manovra_n_8335944.html?utm_hp_ref=italy Titolo: Alessandro Barbera. Boeri: “Se non riorganizziamo l’Inps la riforma pensioni... Inserito da: Arlecchino - Ottobre 12, 2016, 05:48:51 pm Boeri: “Se non riorganizziamo l’Inps la riforma pensioni è a rischio”
«Entro un anno il sussidio di disoccupazione sarà automatico. Il sì al referendum è fondamentale per cambiare il sistema dell’invalidità» 12/10/2016 Alessandro Barbera Roma Tito Boeri ha un piccolo ufficio di proprietà dell’Inps a Palazzo Wedekind, due stanze di quella che una volta era l’enorme redazione del Tempo di Roma. Quando non lavora nel palazzone dell’Eur, è il suo punto d’appoggio. Le stanze adiacenti vengono affittate. Non una segretaria, non un funzionario. È appena tornato da Berlino dove ha discusso il progetto per introdurre il numero di sicurezza sociale europeo. In un angolo del tavolo lo zainetto nero da cui non si separa mai. Oggi rifirmerà con alcune modifiche il piano di riorganizzazione dell’istituto che gli ha creato enormi grane con i sindacati. Le finestre di Matteo Renzi a Palazzo Chigi sono a portata di voce. Boeri, a costo di fare arrabbiare il premier non ha mai smesso di chiedere più flessibilità per le pensioni. Fra pochi giorni diventa realtà l’Ape, il piano per concedere l’anticipo a chi vuole uscire prima dal lavoro. Una buona riforma o un flop annunciato? «Tutto ciò che permette maggiore libertà di scelta a persone e imprese senza far aumentare il debito va bene. Il governo ha dovuto tenere conto dei vincoli europei, resta da verificare che i costi non vengano fatti pagare alle giovani generazioni». Giudizio sospeso? «Il diavolo sta nel dettaglio e diverse cose sono ancora in discussione. C’è una norma di cui sono molto soddisfatto: quella per abolire le ricongiunzioni onerose fra gestioni previdenziali diverse. E’ iniquo penalizzare chi cambia lavoro. E poi equivale a tirarci una zappa sui piedi: secondo l’Ocse siamo il Paese europeo con il più alto “mismatch”. In altre parole abbiamo il maggior numero di lavoratori occupato in mansioni diverse dalle loro competenze. Migliorando l’incontro fra domanda e offerta di competenze possiamo tornare a crescere». Il piano di uscita anticipata è piuttosto complesso, non è ancora del tutto chiaro chi potrà fare cosa. O no? «Sì è vero, è un meccanismo complicato, per questo ci vorrà un’importante campagna informativa e il contributo dei sindacati». A parole tutto molto bello, intanto chi ha diritto ad un sussidio di disoccupazione deve fare domanda e attendere mesi. «Entro fine 2017 contiamo di fare tutto in automatico chiedendo noi a chi perde il lavoro dove versare la prestazione cui ha diritto e se è disponibile al reimpiego o a corsi di riqualificazione. Questo ci permetterà di erogare subito la prestazione senza aspettare che il lavoratore si attivi per richiederla». Come va l’operazione buste arancioni? Al giornale riceviamo lettere di persone che scoprono di dover andare in pensione a 70, 71 anni. «Bene che lo sappiano sin d’ora. E che si permetta loro, entro certi limiti, di poter uscire prima, ma con prestazioni più basse». Quante lettere avete spedito? «Circa due milioni. Le abbiamo mandate a chi non aveva il codice di accesso ai servizi on line». Per il piano pensionistico chiede collaborazione ai sindacati, intanto sulla riorganizzazione dell’Inps le fanno la guerra. «Senza la riorganizzazione dell’Inps sarà difficile l’attuazione del piano di anticipo pensionistico. L’Inps dovrà essere il centro di una rete fra banche, assicurazioni, imprese e lavoratori. Per noi è una grossa sfida. Abbiamo il dover di informare adeguatamente i contribuenti sulle implicazioni di scelte difficili. Per farlo abbiamo bisogno di più dipendenti preparati sul territorio». Lo ha detto al premier? Le indiscrezioni raccontano che in passato avete passato momenti di grande freddezza. E’ così? «Non ho mai avuto la sensazione di avere problemi con lui. La mia indipendenza di giudizio non è mai stata in discussione. I problemi in passato semmai li ho avuti col Parlamento, e su questo Renzi non si è mai espresso, né a favore né contro». L’organismo di vigilanza in cui siedono i suoi rappresentanti - il Civ - ha fatto ricorso al Tar contro il regolamento di organizzazione. Perché? «E’ stato il presidente del Civ a fare ricorso. In quel testo chiede di continuare a mettere bocca nella gestione intervenendo direttamente sull’operato del direttore generale. Come in passato c’è chi vorrebbe continuare a scegliere i dirigenti con il manuale Cencelli. Questo è inammissibile. I sindacati devono esercitare sorveglianza, lo avrebbero forse dovuto fare meglio in passato, non devono certo gestire la macchina». E poi ha un fronte aperto con i dirigenti, che contestano il piano di riduzione delle direzioni generali. Perché? «La fusione fra Inps, Inpdap ed Enpals è avvenuta a freddo. Da allora non c’è mai stata una vera riorganizzazione. (Tira fuori l’organigramma dell’Inps). Guardi qui: le pare possibile che l’Inps debba avere una direzione “per il coordinamento analisi e monitoraggio soddisfazione dell’utenza per la riduzione del rischio reputazionale”? Per la pubblicazione dei lavori fatti dai ricercatori coinvolti nel programma VisitInps ho dovuto coinvolgere cinque direzioni generali. Glielo ripeto: cinque». Come entra in ufficio all’Eur la mattina? Si mette l’elmetto? «Il mio discorso di fronte ai dirigenti è stato forse il più difficile della mia vita. Ma c’è anche chi sta dalla mia parte. La struttura è sotto stress: siamo ventottomila ed eroghiamo oltre quattrocento prestazioni diverse. La settimana scorsa ero in Polonia, dove ci sono cinquantamila persone per occuparsi solo di pensioni. Anche in Francia e Germania ci sono molti più dipendenti per euro erogato che da noi. Al tempo stesso i carichi di lavoro non sono distribuiti in maniera equa e il merito non viene adeguatamente premiato. (Tira fuori un altro pezzo di carta, è la lettera di una dipendente)». Oggi avete 48 direzioni generali, 33 delle quali a Roma. Lei ora qui ne vuole solo 14 e ben 22 sul territorio. Perché? «La mia impressione è che il federalismo all’italiana abbia buttato via il bambino con l’acqua sporca. Lo Stato ha abbandonato il territorio. Le autorità locali hanno bisogno di macchine efficienti per erogare i servizi e solo un’amministrazione centrale può ottenere quelle economie di scala che sono essenziali per raggiungere molte persone con costi molto bassi. Quando giro le sedi e incontro i sindaci spesso mi chiedono di aprire punti Inps presso i loro Comuni. Sono disposti non solo a darci locali in comodato gratuito, ma anche terminali e persone dedicate». Non c’è il rischio di alzare i costi? «Dipende da come si riorganizza lo Stato: non deve moltiplicare le amministrazioni. Penso alla gestione degli ispettorati del lavoro: era divisa fra ministero del Lavoro, Inps e Inail. Che bisogno c’era di aprire un nuovo soggetto terzo, anzi quarto a tutti questi? Non si poteva riunire le funzioni presso uno di queste entità?» Il referendum sul Titolo quinto avrà effetti sul vostro lavoro? «Potenzialmente importanti. Penso al contrasto alle povertà: oggi se ne occupano Comuni e Regioni a macchia di leopardo, mentre lo Stato contribuisce residualmente con la carta acquisti. Ci vorrebbe un sistema di finanziamento nazionale affiancato da un cofinanziamento locale. Questo responsabilizzerebbe gli enti locali a controllare che i soldi vadano davvero a chi ha bisogno e a spingere chi può a lavorare. Un altro esempio è la riforma degli strumenti per la concessione di assegni di invalidità: oggi la competenza è divisa fra noi e Asl con sovrapposizioni evidenti, lungaggini e contenzioso. Ipotizziamo di affidare tutto all’Inps: oggi è necessario mettere d’accordo tutte le Regioni, se il sì passa lo Stato riavrà il potere di regia». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2016/10/12/economia/boeri-se-non-riorganizziamo-linps-la-riforma-pensioni-a-rischio-s2HwUnFw4bfuSZ90i22lyN/pagina.html |