LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => FAMIGLIA, SOCIETA', COSTUME e MALCOSTUME. => Discussione aperta da: Admin - Gennaio 18, 2008, 05:37:40 pm



Titolo: Bruno Gravagnuolo - Rodotà: «L’Angelus non può essere un’adunata politica»
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2008, 05:37:40 pm
Ci pensa la famiglia

Bruno Gravagnuolo


C’è qualcosa di bizzarro in alcuni dei nomi che ricorrono nell’inchiesta giudiziaria che travolge Lady Mastella e il consorte guardasigilli. La solita curiosa ironia del destino. Chiaromonte, ad esempio, e «Lucariello». Chiaromonte è il nome del gip che ha firmato le 391 pagine dell’ordinanza che mette a soqquadro il mondo politico non solo campano. E Chiaromonte era anche il nome di un paesino lucano preso ad esempio come «caso di studio» dal sociologo Banfield, autore nel 1958 del saggio sul famoso «familismo amorale» («Le basi morali di una società arretrata»).

Cioè il fenomeno antropologico per cui in Italia la famiglia è divenuta nei secoli l’unica autorità riconosciuta e produttiva di senso e lealtà. L’unica risorsa davvero identitaria, anteposta a ogni altra agenzia. Capace di orientare i singoli e segnarne il destino. Oltre la Chiesa e le istituzioni di una società civile inesistente o primitiva.

Ecco, per contrappasso è un giudice Chiaromonte a sanzionare e colpire la «sindrome Chiaromonte» nel suo ennesimo comparire al sud, sotto forma quantomeno di clientelismo familistico. E tale ci appare uno degli aspetti centrali della vicenda, di là dei suoi profili strettamente penali. E «Lucariello»? Nelle carte del giudice Chiaromonte figura come «postulante», uno dei postulanti. Ovvero l’ex segretario generale del Tar Campania e uomo di fiducia Udeur, che premeva su Ugo Di Maio, Presidente della III sezione del medesimo Tar, per «aggiustare procedimenti in cui erano coinvolti personaggi dell’Udeur o anche per avere notizie «in anteprima». Ma Lucariello è anche un celebre personaggio di una famosa commedia di Eduardo, che inizia con la battuta: «Lucariè, scetate song e nove» («Svegliati sono le nove»). Ovvero, «Natale in casa Cupiello». Nella quale, attorno al protagonista, si stringono le fila di un dramma familiare, dove in nome della famiglia tutto deve essere celato: bassezze, ignominie, furti, conflitti. In nome del «presepe di Lucariello», che al figlio «Ninnillo» non piace. E che alla fine gli dovrà pur piacere, sul letto di morte del padre. Per salvaguardare un’armonia moralistica, fittizia e ipocrita.

Ecco, in questi antecedenti sociologici e drammaturgici suggeriti dai «nomi», c’è qualcosa di più di una prefigurazione del destino, o di un’allusione involontaria. C’è invece addirittura una spiegazione di quanto sta avvenendo in Campania e in Italia. Qualcosa di antico e di nuovo. E l’antico che trapela dall’indagine di S. Maria Capua a Vetere è proprio il riemergere del «familismo amorale» di cui si diceva, un meccanismo capillare di controllo delle coscienze e dei comportamenti, radicato sul territorio su base familistica. Che si rovescia in economia, in politica, nella vita quotidiana delle istituzioni. Per selezionare risorse, plasmare classi dirigenti e carriere, sulla base di una lealtà non pubblica o fondata sull’interesse generale, bensì filtrata dal microcosmo dell’interesse familiare.

Intendiamoci, c’è stato in questo anche un elemento positivo, se pensiamo in Italia ai distretti e alle imprese familiari. Ma per lo più specie al sud è come se la famiglia e le sue consuetudini, abbiamo prodotto un gigantesco risucchio verso il primordiale e l’arretrato. Generando mostri come l’illegalismo mafioso, l’omertà e la Camorra, grandi proiezioni familistiche di un sociale che si autorganizza e che «fa legge». Magari contro la latitanza e l’ingiustizia di uno stato latitante o oppressivo. Sta di fatto che il familismo - espressioni di cui sono anche il capitalismo familiare e il conflitto di interessi - è una costante del «genio italico». E ben prima di Banfield lo aveva capito Giacomo Leopardi che nel «Discorso sopra lo stato civile degli italiani» del 1821 diceva proprio questo: agli italiani la «cittadinanza» è estranea. E l’italiano nel suo particolarismo riproduce, nei legami generali, lo spirito della famiglia e delle sue convenienze. Non riconoscendosi in alcuna dimensione del «pubblico», e accovacciandosi volentieri all’ombra dei costumi locali e degli averi, santificati dalla tradizione religiosa. Dunque per dirla con Gramsci, che insisteva anche lui su questo tasto: cosmopolitismo indifferente, anarchia e municipalismo degli italiani, sotto lo scudo della religione.

Ma dov’è la novità allora in quel che accade con l'esplosione pubblica - e in verità non erano segreti! - dell’azione concertata e capillare del duo Lonardi-Mastella? Nel secondare carriere, occupare posti, manovrare i finanziamenti nel gran risiko campano? Forse la novità sta proprio nella promozione pubblica, aperta e senza infingimenti del «fattore famiglia» a criterio sommo dell’agire politico. Sta nel «malcostume mezzo gaudio» che ormai ci fa considerare normali certe pratiche. E al massimo degne di sorrisi, siparietti raccontati e benevoli commenti da gossip, sui «Clinton di Ceppaloni». E sta nel fatto che questa «normalità» è diventata talmente pervasiva da aver colonizzato l’intera politica. E non perché la nostra sia una politica a specifico radicamento familiare - a parte «figli e mogli di» - ma perchè è come se l’intera politica si fosse trasformata in un gioco di clan. Si fosse «familizzata», mutuando dal familismo stili e riflessi condizionati. Si imbocca quindi «l’ascensore sociale» e politico perché si è parte di cordate e clan. Perché si appartiene a qualcuno, e ci si comporta come dentro un organigramma familiare che impone il suo suggello all’esterno. E chi non è dentro il meccanismo è perduto, giacché così vanno le cose e il mondo. È un gigantesco fenomeno sociale forse anche globale, ma che in Italia raggiunge il diapason. Che s’alimenta dello sfascio dello spirito pubblico. Della rottura delle grandi identità collettive e culturali, che bene o male nel nostro paese avevano pilotato l’incontro tra grandi masse e stato democratico. Facendo fare un salto in avanti alla «selvatichezza familistica» della nostra selvatica società civile senza «legami civili». Su questo occorrerebbe riflettere. E cioè: che cosa abbiamo messo al posto della vecchia politica, dopo il tramonto delle «appartenenze» e dei partiti, che pure traducevano gli interessi nudi e crudi in visioni generali? Il dubbio è che ciò che è subentrato sia una politica ancora più vecchia della vecchia politica. Notabilare, personalistica, trasformistica e familistica. Come da antica tradizione italica. Nella nuova cornice dei media dove ormai tutto è reality show.


Pubblicato il: 18.01.08
Modificato il: 18.01.08 alle ore 8.25   
© l'Unità.


Titolo: Bruno Gravagnuolo - Rodotà: «L’Angelus non può essere un’adunata politica»
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2008, 12:03:32 am
Rodotà: «L’Angelus non può essere un’adunata politica»

Bruno Gravagnuolo


«Questo Papa si comporta come un leader politico ed è anche percepito come tale. Nessuna meraviglia quindi che ci siano reazioni contrarie: è la democrazia. E vittimismo e appelli integralisti sono fuori luogo». È netto Stefano Rodotà, ex garante per la privacy, giurista «bioetico» e studioso dei diritti nell’era della tecnica: la chiamata a raccolta all’Angelus dei politici non fa che confermare una tendenza «regressiva». Che confonde, senza residui, politica e religione, agire pubblico e agire religioso. Generando un cortocircuito arcaico che è la negazione di ogni laicità. Come nel caso della visita del Papa organizzata a Roma. Dove, sostiene Rodotà, «si è voluto mediaticamente rilanciare l’Istituzione dell’Anno Accademico con un’iniziativa incongrua e pasticciata». Fino a criminalizzare chi dissentiva su un’intervento non certo da libero pensatore tra gli altri. E «reclamando Voltaire solo per Ratzinger». E non per i docenti che avevano espresso contrarietà a quel tipo di visita. Sentiamo Rodotà.

Politici, sindacalisti, parrocchie. Tutti all’Angelus del Papa, in risposta all’appello di Ruini. Un’adunata politica in stile esercito della Santa Fede?

«È la conferma di un dato su cui non si riflette abbastanza. E cioè: non è solo questione di percezione sociale. Bensì di un atteggiarsi del Papa a leader politico che chiede solidarietà e consenso. Non è una forzatura. Già prima della storia dell’Università, c’era stato un attacco durissimo del Pontefice alla gestione di Roma, alla presenza di Veltroni e Marrazzo. Seguito da una procedura tipica della peggior politica. Una trattativa sotterranea tra gli staff, volta a “rettificare” strumentalizzazioni e travisamanenti di stampa. Procedura quasi berlusconiana, per lanciare avvertimenti e poi modificare le carte in tavola. Con le dietrologie del caso sui dissensi tra Ruini e Bertone».

La Chiesa si comporta come un partito, ma poi reclama tutele...

«Esatto, come all’Università di Roma. Le cosiddette reazioni politiche di chi ha reagito alla visita, sono state il contraccolpo di un’azione papale che muovendosi in chiave politica deve poi sottostare alle regole della democrazia. Regole che includono anche la contestazione del Papa».

Ma quella del Papa era una visita pastorale, l’intervento in un dibattito, un suggello all’Anno Accademico, o che altro?

«Tutti hanno invocato Voltaire. Ma solo per Ratzinger, non per Marcello Cini e i dissidenti! Se il Papa ha il diritto di esprimere la sua opinione, a maggior ragione lo hanno Cini e Bernardini, che parlavano in casa propria, dove non c’è un’autorità gerarchica. E dove anche una sola opinione ha valore. Aggiungo che l’occasione era stata ideata in maniera goffa. Prima una prolusione, poi il negoziato su un discorso dopo l’inaugurazione di una cappella. C’erano tute le premesse perché la vicenda finisse male».

Nessuna oltranza da parte dei laici?

«No, ma una legittima manifestazione di opinione. Meno che mai tale, perché non si potesse venire all’Università. Le condizioni di sicurezza erano garantite dal Ministro dell’Interno. E che ci si potesse imbattere in studenti che erano contrari, era del tutto all’interno delle regole democratiche, le quali prevedono dissenso e conflitto. Ed è incongrua, da questo punto di vista, la pretesa di distinguere tra Ratzinger mite teologo e un Papa leader politico che tuona contro la scristianizzazione e vuole rilanciare dall’Italia la riconquista cattolica del mondo».

Laici subalterni dinanzi a questa offensiva?

«Molto subalterni. Anche se c’è un uso esagerato del termine “laicità”. No, ci troviamo di fronte alla necessità di rispettare regole democratiche minime: il diritto di tutti a esprimere opinioni. Il Rettore invita il Papa all’Università, e alcuni professori dissentono. E poi: il Papa si immerge nella contesa politica? Si comporta da leader ideologico e politico? Ovvio che possa esserci una reazione, specie da parte di studenti e professori attenti ai diritti civili».

Torniamo all’Angelus. In fondo è una svolta senza precedenti, nemmeno nel 1948 era così...

«Non c’è dubbio che c’è una regressione clericale. E la discrezione richiesta tante volte alla politica, la sobrietà e il distacco, vengono clamorosamente violati. Uno studioso non certo anticlericale come Adriano Prosperi ha detto: attenti al ritorno del Papa Re! E una politica seria e responsabile, a destra come a sinistra, avrebbe avuto il dovere di criticare come impropria una tale chiamata alla solidarietà, in un’occasione liturgica come l’Angelus. Qui c’è una confusione di piani inaccettabile, che dimostra la debolezza strutturale di una politica ormai senza legittimazione, e che va a cercarsela fuori. Proprio come all’ Università di Roma. Si è pensato di poter rivitalizzare l’obsoleto avvio dell’Anno Accademico, allestendo un palco mediatico. E svilendo sia la presenza del Papa sia la cerimonia»

Ma c’è una «teoria democratica» di tutto questo: ruolo e rilevanza pubblica della religione. O no?

«Alla carta dei valori Pd, su questo punto, dobbiamo dare il giusto significato. Ovvero: anche il punto di vista religioso deve potersi esprimere nella sfera pubblica. Ciò detto, la religione entra nella sfera pubblica accettandone le regole democratiche. E non dettando le regole. Nessun privilegio, nessuna primazia. Ecco la lettura corretta e coerente della Carta dei Valori. Che infatti respinge la pretesa di ravvisare nelle “radici cristiane” il fondamento dell’Europa.

Ma la laicità è un puro terreno neutro di incontro, oppure è un’istanza di valori positiva e fondante?

«Assolutamente un’istanza positiva, non oppositiva al clericalismo. Quell’istanza coincide con la democrazia stessa e le sue regole. La tolleranza, il confronto, il rispetto dell’altro, sono consustanziali alla laicità della democrazia. Il che implica un’assoluta parità tra i diversi soggetti in gioco, con tutte le conseguenza del caso. Che si possano pretendere trattamenti privilegiati, che la religione sia una pretesa civile, è contrario ai princìpi fondamentali della democrazia, a cominciare dal principio di eguaglianza».

Pubblicato il: 19.01.08
Modificato il: 20.01.08 alle ore 15.52   
© l'Unità.