LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Gennaio 16, 2008, 12:19:07 am



Titolo: LUIGI LA SPINA -
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2008, 12:19:07 am
15/1/2008
 
La Corte e le ragioni del sì
 
LUIGI LA SPINA

 
C’è un orientamento giuridico, ispirato da civiltà e buon senso, riassunto in un motto latino che persino i liceali d’oggi sanno tradurre: «In dubio pro reo». Con un po’ di ironia, ci si potrebbe riallacciare a questo principio per comprendere la motivazione principale per cui, domani sera, i giudici della Corte costituzionale dovrebbero dare il via libera alla celebrazione del referendum sulla legge elettorale. Una previsione naturalmente a rischio, perché non sono affatto esclusi colpi di scena, ma che, secondo autorevoli indiscrezioni, si può avanzare con sufficiente attendibilità. A costo di far impallidire i giuristi e di far arrossire l’avventuroso divulgatore, il dovere giornalistico impone di semplificare il «nocciolo» del problema.

Sarà discusso in camera di Consiglio nella soluzione del conflitto tra due esigenze altrettanto essenziali in una democrazia, quella di una corretta rappresentanza dei cittadini nelle istituzioni e quella di una efficace governabilità. Alcuni ritengono che assegnare alla lista con più voti un così determinante premio di maggioranza, come avverrebbe per effetto di un sì al referendum, possa distorcere troppo gravemente i veri risultati elettorali. La democrazia rappresentativa, quella alla quale si ispirano i moderni Stati costituzionali, compreso il nostro, sarebbe colpita nel suo principio fondamentale. I sostenitori di questa tesi, per giustificare in maniera evidente i loro timori, avanzano un caso, teorico, ma possibile. In un sistema molto frazionato di partiti, potrebbe succedere che la lista con più voti raggiunga solo il 15 per cento dei suffragi, ma ottenga, con la legge risultante da un favorevole responso referendario, una maggioranza in seggi di oltre il 50 per cento. All’esigenza di governabilità, si può subordinare a tal punto il criterio di un’adeguata rappresentanza della reale volontà degli elettori?

Nonostante l’indubbio fondamento di questa obiezione, la Corte costituzionale, nella maggioranza dei suoi componenti, sarebbe orientata all’ammissibilità del referendum per una serie di considerazioni di ordine giuridico, pratico e persino «politico», se a questo termine si attribuisca un’accezione molto larga, che comprenda anche un giudizio generale sugli effetti di una decisione per gli equilibri delle istituzioni. Bisogna, innanzi tutto, sgombrare il campo da facili scorciatoie in base ai precedenti. Come ha scritto Michele Ainis sulla Stampa di ieri, il passato fornisce «un sacco della Befana» nel quale ognuno può trovare la tesi che fa più comodo. In questa situazione, in cui l’opinabilità ha latitudini assai estese, l’imputato referendum sarebbe «assolto», per tornare all’iniziale riferimento scherzoso, con tre sostanziali motivazioni.

È difficile stabilire una cifra, un limite quantitativo per cui un premio di maggioranza non diventa più un’accettabile correzione di necessaria governabilità del sistema, ma si trasforma in una vera e propria truffa della reale rappresentatività popolare. Una consultazione referendaria sull’argomento, come quella che si celebrerebbe se la Corte costituzionale desse parere favorevole all’ammissibilità dei quesiti, non offrirebbe, del resto, un responso chiaro sull’effettiva opinione dei cittadini a tal proposito? C’è, poi, un’altra considerazione che influenza la scelta della Consulta. Proprio in questi giorni in Parlamento, il luogo che rappresenta la massima espressione della volontà popolare, si sta discutendo una bozza di accordo sulla riforma della legge elettorale. Perché non lasciare al potere legislativo, a cui spetta il compito di trovare un’intesa, la responsabilità di annullare il voto referendario con una soluzione approvata dalla grande maggioranza delle Camere? Alla luce anche di questa osservazione, i giudici si limiterebbero a un puro parere di legittimità sui quesiti presentati dalla coppia Guzzetta-Segni, senza approfondire gli aspetti di costituzionalità della legge risultante. La terza valutazione che dovrebbe orientare al «sì» la Corte costituzionale si riferisce, infine, proprio alle specifiche caratteristiche di una legge elettorale. Per come è configurato il giudizio di legittimità, è estremamente improbabile, per non dire impossibile, che una norma elettorale arrivi al parere della Consulta.

Ecco perché, di fatto, solo il presidente della Repubblica, nell’ambito delle sue prerogative in tema di promulgazione di una norma legislativa, riesce a esprimere una valutazione sulla sua correttezza costituzionale. Fu il caso, ad esempio, del «no» del Quirinale alla prima formulazione del cosiddetto «porcellum» di Calderoli, il sistema con il quale fu eletto l’attuale Parlamento. Ciampi ricordò ai riformatori di quel tempo che al Senato, secondo la nostra Costituzione, vige la regola della rappresentanza su base regionale. Così la legge fu cambiata, anche se i dubbi, proprio sul premio di maggioranza, rimasero. I 14 giudici della Corte, anche domani sera, potrebbero seguire, perciò, la stessa prassi e non avventurarsi in un giudizio preventivo, una scelta così innovativa da risultare clamorosa e da ammettere alle attenuanti, generiche e specifiche, pure l’incauto indovino.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA Il Signor No parla di dialogo
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2008, 03:17:09 pm
5/2/2008
 
Il Signor No parla di dialogo
 
LUIGI LA SPINA

 
Non si saprà mai se la sorprendente ipotesi di una intesa Berlusconi-Veltroni lanciata sulla prima pagina del Giornale di ieri sia stato un ballon d’essai ispirato dal Cavaliere per ammonire gli alleati del suo schieramento, cercare di seminare lo scompiglio in campo avverso, ribaltare la responsabilità dell’interruzione della legislatura. Oppure, più semplicemente, sia partorita solo dalla imprevedibile fantasia del direttore del giornale di famiglia, per di più nel giorno del lutto per la scomparsa di mamma Rosa. Qualunque sia la verità, la proposta-provocazione ha avuto un merito, quello di individuare il più insidioso punto di debolezza, tra i tanti di forza, di Silvio Berlusconi alla vigilia dell’apertura della campagna elettorale: quello di apparire come il «Signor No». Colui che, per un vantaggio elettorale immediato, personale e di partito, costringe gli italiani ad andare al voto con una legge contro la quale si sono pronunciati, oltre che mezzo Parlamento, non solo i sindacati, che si potrebbero dipingere come fiancheggiatori del centrosinistra, ma quasi tutte le organizzazioni imprenditoriali e artigiane, in genere non tenere nei confronti di quella parte politica.

Nei prossimi due mesi, fino a metà aprile, quando molto probabilmente si voterà, dovremo aspettarci molti altri colpi di scena, da entrambi gli schieramenti. Berlusconi, infatti, dovrà cancellare, con una campagna propagandistica a suon di colpi d’artificio, l’impressione di un noioso revival di quelle del 2006 e del 2001, per non rievocare addirittura quelle del secolo passato. Veltroni dovrà costantemente segnare la discontinuità con l’era prodiana, rimarcando la novità della sua offerta elettorale, sia nei contenuti politici sia nelle forme in cui si presentano.

Così, ancor prima che il presidente della Repubblica abbia ufficialmente dichiarato il fallimento della legislatura e sia stata stabilita la data delle elezioni, già si intravedono, con sufficiente chiarezza, le linee fondamentali di quello sforzo di convincere gli elettori che non siamo alla vigilia della più noiosa campagna elettorale degli ultimi tempi. Anche per non contribuire a rafforzare il maggior rischio del prossimo voto, quello di una straordinaria vittoria dell’astensionismo.

Il Cavaliere, poiché non può cambiare il nome del solito candidato alla presidenza del Consiglio, né la formazione degli alleati, col consueto terzetto Fini-Bossi-Casini, ha deciso di cambiare il messaggio con il quale si presenterà agli italiani. Non più l’uomo della «rottura», anzi della rupture come si dice adesso alla Sarkozy, rispetto ai tradizionali ipocriti balletti consociativi della politica italiana. Ma l’uomo del dialogo, l’unico, ora, capace di mettere fine a quella sterile guerra di tutti contro tutti che, nella seconda Repubblica, ha portato l’Italia sull’orlo di un declino storico. La riforma della legge elettorale, simbolo di una nuova fase della politica italiana, sarà lui a riuscire a portarla a compimento, nella prossima legislatura. Il traguardo del Quirinale, in questo modo, potrebbe sancire la sua avvenuta mutazione: da capopopolo di una guerresca fazione a padre della patria, consacrato, se non unto, dal balsamo della grande riconciliazione nazionale.

Più facile, apparentemente, l’annuncio innovativo di quello che sarà il suo avversario, Walter Veltroni. Innanzi tutto il nome di un candidato che, per la prima volta, si presenta nella corsa a palazzo Chigi. Poi un partito nuovo, il Pd, che ha scelto il suo leader con un metodo inedito in Italia, le primarie. Veltroni, inoltre, aggiungerà a queste caratteristiche alcune innovazioni, esteriori ma non secondarie: un programma di pochi punti che dovrebbe far dimenticare le famose 278 pagine di quell’autentico inutile elenco del telefono che appesantì subito il governo Prodi e la promessa, in caso di successo, di un governo snello, con una forte riduzione di ministri. Ma, soprattutto, Veltroni annuncerà, sia pure con tutto il garbo che gli conosciamo, la rupture più significativa: quella dell’esperienza dell’Ulivo, la formula con la quale, per 15 anni, il centrosinistra, con alterne fortune, ha gareggiato nella competizione politica italiana. L’intesa con la sinistra radicale, prima di desistenza elettorale, poi, di alleanza organica nell’Unione, è stato il vincolo, nel bene e nel male, al quale si è legato il partito del riformismo italiano. Ora, aldilà di possibili intese tecniche al Senato, sembra si sia chiusa la lunghissima epoca, cominciata agli esordi della nostra Repubblica, nella quale, dalla sinistra del nostro paese, era stata sempre osservata scrupolosamente la regola di non avere mai nemici da quella parte.

La prossima campagna elettorale, così, si presenta già con una curiosa inversione di ruoli: là dove c’era l’annuncio di una novità dirompente ora c’è la promessa di un dialogo conciliante; nel campo di quella che era la continuità si avanzano, invece, brusche e potenzialmente dirompenti mutazioni. Se questi cambi di campo serviranno a ravvivare la campagna elettorale siano benvenuti. Speriamo solo che, come si diceva a scuola, cambiando l’ordine dei fattori, i risultati della politica italiana siano destinati a non rimanere immutati.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA Nuovo cinema Walter
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2008, 05:11:45 pm
11/2/2008
 
Nuovo cinema Walter
 
LUIGI LA SPINA

 
Finora non ci siamo annoiati e anche il futuro, almeno quello prossimo, sembra promettente. Il Pd spezza l’alleanza con la sinistra radicale, Berlusconi convince Fini alla lista comune. Gli altri rimangono spiazzati e comincia quel balletto dei piccoli alleati che, ricordando la famosa battuta di Moretti, potrebbe sintetizzarsi così: «Conto di più se entro nel partito del più forte o se rimango da solo?». Da una parte, il dubbio angoscia Di Pietro e i radicali; dall’altra, affligge Storace e, soprattutto, Casini. Insomma, lo spettacolo della campagna elettorale è partito in modo più avvincente del solito e la ricerca della «novità» pare la parola d’ordine per conquistare gli italiani.

Se dovessimo tradurre nel linguaggio degli economisti il fenomeno che sta avvenendo in questi giorni, si potrebbe osservare che sul mercato della politica, di fronte al rischio della disaffezione del cliente per la scarsa efficacia del prodotto che è stato presentato, si sta cercando di cambiare l’offerta. Per rianimare le vendite, c’è chi scommette su una nuova denominazione della ditta e su un nuovo capoazienda; c’è chi, invece, si limita a una diversa confezione. Tutti accusano la concorrenza di riciclare, in realtà, la vecchia merce, con una dose, maggiore o minore, di fantasia e di inganno.

Ma, rovesciando il punto di vista dal quale si osserva il mercato della politica, forse si potrebbe scorgere più facilmente la vera novità di questa neonata campagna elettorale: la scommessa su un cambiamento della domanda.

Da 15 anni, da quando, in sostanza, è cominciata la cosiddetta Seconda Repubblica, c’è stato un tale congelamento degli italiani in due schieramenti, fieramente opposti e assolutamente non comunicanti, da provocare sempre lo stesso fenomeno elettorale: la vittoria andava a chi, di volta in volta, riusciva a portare alle urne il maggior numero dei suoi tifosi. Mai si è riusciti a far breccia in campo avverso. Ecco perché «comunisti» e «forzitalioti» si sono combattuti a colpi di slogan sempre più feroci, tali da aprire sempre di più il fossato tra i due accampamenti e impedire qualsiasi sconfinamento. Come dimostra il discorso d’apertura della campagna elettorale pronunciato ieri da Veltroni, per la prima volta, affiora la possibilità, e la voglia, di scongelare quel blocco di ghiaccio che ha immobilizzato la politica e la società italiana negli ultimi tre lustri. Il leader del Pd punta a convincere anche parte degli italiani che finora hanno votato per il centrodestra, non ritenendo più immutabile la domanda sul mercato della politica.

I cambiamenti di linguaggio, di comportamento, persino della scenografia nella quale Veltroni ha voluto ambientare il suo intervento in Umbria non derivano solo, come superficialmente si dice, dalle caratteristiche del suo modo di far politica, dal suo temperamento e dalla sua cultura. Sono obbligati dalla strategia, l’unica possibile per tentare di vincere o di perdere il più onorevolmente possibile. Sono possibili perché ora, ha osservato il leader Pd, non tanto «siamo soli, quanto liberi». Da quei condizionamenti ideologici che, evidentemente, impedivano finora mosse così innovative. Sono plausibili se si riconosce che non è giusto «mettere le bandierine» sulla testa degli italiani.

Il «nuovo cinema Veltroni» non imita l’America per passioni adolescenziali, ma perché crede, come sta dimostrando la battaglia per le primarie negli Stati Uniti, che si possa conquistare il centro dei due campi, sfondando le linee avversarie e non solo rinsaldando le proprie. Così come McCain si atteggia a repubblicano moderato e sia Obama sia Hillary smussano le audacie liberal dei loro programmi. Proprio secondo le classiche regole delle competizioni politiche americane.

È probabile che Veltroni, anche in questo caso, trascini l’avversario Berlusconi a quel comportamento imitativo che ha indotto il Cavaliere a rompere gli indugi sulla costituzione del partito unico dei moderati. Del resto, il significato originario della mossa da lui annunciata sul predellino dell’auto a Milano, quando decretò il de profundis per Forza Italia e la nascita del «popolo o partito della libertà», era proprio quello di allargare i consensi in un’area più vasta e composita di quella a cui faceva riferimento il berlusconismo della prima ora. Ecco perché anche il centrodestra cercherà, questa volta, di non voler solo convincere quelli che erano già convinti. Non è detto che un cambio di formazioni, nella classe politica, produca necessariamente migliori risultati per i cittadini italiani. Forse migliori speranze si potrebbero coltivare se gli elettori si strappassero quelle maglie un po’ logore che da troppi anni indossano e provassero a giudicare i candidati senza pregiudizi. Sarebbe proprio bello se risuonasse, in campagna elettorale, quel grido di «liberi tutti» che allietava il finale dei nostri vecchi giochi di bambini.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA. Depressi alle urne
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2008, 06:54:05 pm
29/3/2008
 
Depressi alle urne
 
LUIGI LA SPINA

 
Ci avevano promesso una campagna elettorale senza insulti, senza colpi bassi, finalmente degna di una democrazia matura. Una sfida sui programmi, in modo che gli elettori potessero scegliere tra progetti alternativi, concreti e verificabili, per far uscire l’Italia dal declino, anche d’immagine internazionale, sempre più evidente. Ci avevamo sperato e, con un po’ di buona volontà, ci avevamo anche creduto. Ma, a due settimane dal giorno del voto, forse è il caso di ricredersi e di rimpiangere il passato. Sì, proprio quello che abbiamo tanto deprecato, perché almeno ci si poteva illudere nel carosello di reboanti promesse, perché almeno la noia non ci affliggeva, perché almeno aspettavamo con grande curiosità il duello televisivo finale, quello che ormai in tutti i Paesi anticipa, con il suo esito, il verdetto delle urne. Se non ci sarà una scossa negli ultimi quindici giorni, del tutto improbabile peraltro, i due principali candidati a Palazzo Chigi, ma anche tutti gli altri a dire il vero, concluderanno una delle più deprimenti campagne elettorali che si siano mai viste. Una campagna all’insegna di una sostanziale rassegnazione di fronte alle difficoltà davanti alle quali si trova il nostro Paese.

Non si poteva trovare, in effetti, miglior simbolo di questo clima scoraggiante, dell’argomento sul quale si è concentrata la polemica elettorale: l’Alitalia. Un caso che avvilisce, perché si parla di concludere una storia vergognosa di sprechi clientelari e di incapacità manageriale con due soluzioni entrambe umilianti. O la svendita a una compagnia straniera o l’intervento dello Stato, anche se coperto da ancora fantomatici imprenditori privati, che comunque si risolverà al solito modo: a spese dei contribuenti italiani. La società italiana, ingessata dal potere delle corporazioni, da mediocri compromessi su qualsiasi cambiamento si tenti di varare, avrebbe bisogno di una classe politica all’altezza di una grande impresa: quella di esercitare su di essa un vero choc riformistico. L’impressione, invece, è duplice: o i nostri leader sottovalutano la gravità della diagnosi, o sono consapevoli della loro incapacità ad applicare quelle terapie che potrebbero salvare il malato. Davvero Veltroni pensa che bastino le proposte finora avanzate, dall’aumento delle pensioni alla riduzione dei costi della politica, benché siano opportune, ad affrontare i nostri veri, grandi problemi? È tutto qui, quello che «si può fare»? Davvero Berlusconi pensa che basti riproporre il ricordo dei suoi ultimi cinque anni presidenziali, senza neanche la promessa-illusione di ridurre drasticamente le tasse, per far «rialzare l’Italia»? A questo punto, è legittimo il sospetto che il candidato del Pd punti a una onorevole sconfitta che gli eviti un troppo oneroso compito a Palazzo Chigi. Come è giustificato il dubbio avanzato anche da Stefano Folli sul Sole-24 ore di ieri, cioè quello di un Cavaliere sospeso tra la voglia di vincere e il desiderio di sottrarsi al dovere di governare. In Italia ci sono almeno tre emergenze, prioritarie e gravissime, che andrebbero risolte con misure drastiche, attuabili solo con un sostanziale accordo della classe politica, in qualsiasi modo si divida in Parlamento. La prima riguarda l’impossibilità, per i veti di minoranze onnipotenti, di varare opere indispensabili allo sviluppo del Paese e, quindi, al bene comune, come, per esempio, l’Alta velocità o i termovalorizzatori per i rifiuti. La paralisi decisionale del nostro Paese sta emarginando l’Italia dalle nazioni che contano sul piano internazionale, con le ben note conseguenze sulla competitività del sistema economico, sulle nostre esportazioni, sulle sorti del turismo. C’è poi la questione della criminalità organizzata. È chiaro che, senza l’apporto delle regioni del Sud, l’Italia non riesce più a stare al passo delle economie occidentali sviluppate. Mafia, ’ndrangheta e camorra, oltre al quotidiano bilancio tragico di morte e di ricatto sulle persone, drenano risorse tali da costituire un fardello ormai insopportabile per i conti dello Stato e per quelli delle imprese. La Confindustria siciliana ha avuto il coraggio di rifiutare la sottomissione alla legge criminale. Che cosa aspettano le forze politiche per proporre il varo di un piano straordinario di lotta alla criminalità organizzata? Di questo argomento, in campagna elettorale, abbiamo sentito solo flebili e marginali accenni. Resta, infine, la grande necessità di un rapido e deciso cambio di passo nella formazione delle nuove generazioni. Sulla scuola e sull’università italiane si sono abbattute, negli ultimi quindici anni, continue, devastanti riforme con un gravissimo effetto di confusione sugli obiettivi fondamentali e di sostanziale svilimento degli studi. Senza una classe dirigente all’altezza dei tempi, l’Italia è destinata a un più o meno lento scivolamento nella schiera dei Paesi di serie B. Anche qui, senza una grande intesa politica vinceranno sempre le corporazioni sindacal-burocratiche a spese degli utenti, con i risultati che constatiamo ogni giorno. Ci sono ancora quindici giorni per curare la «grande depressione» di questa campagna elettorale. Altrimenti, non ci si potrà sorprendere o, peggio, lamentare per l’arrivo di una «grande depressione» anche nell’affollamento alle urne.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA Lo specchio del Cavaliere
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2008, 06:59:10 pm
8/5/2008
 
Lo specchio del Cavaliere
 
LUIGI LA SPINA

 
Come ha riconosciuto il Presidente della Repubblica, il merito è soprattutto dei cittadini. La rapidità con la quale si è riusciti, dopo il voto, a formare un governo è stata possibile perché gli italiani, nonostante una sciagurata legge elettorale, hanno concesso al leader prescelto un’ampia e chiara maggioranza. Bisogna però ammettere che, questa volta, anche la classe politica ha contribuito all’inedita snellezza delle procedure: Veltroni ha avuto il coraggio di semplificare, nel suo schieramento, il ventaglio dei partiti. Berlusconi e Fini hanno avuto la prontezza di raccogliere la sfida e la legge Bassanini, con la prescrizione di soli 12 ministri con portafoglio, ha completato l’opera di sfrondamento.

Al di là dei risultati elettorali, dei meccanismi tecnici, dei riti semplificati, però, si è indubbiamente colta la preoccupazione di fondo che tutto il nostro Paese manifesta. L’urgenza di vedere subito insediato un governo nella pienezza dei suoi poteri per affrontare la gravità dei problemi che si affollano. A partire dal principale, la difficoltà di milioni di famiglie davanti al rincaro dei prezzi e ai segnali di una economia stagnante. Ecco perché il clima un po’ trionfalistico che accompagna, in genere, la nascita di un governo è sembrato ieri mutare in un’atmosfera di prudente realismo, come le parole del neoministro dell’Economia, Giulio Tremonti, hanno dimostrato senza troppe concessioni ai brindisi augurali.

Le caratteristiche del nuovo governo sono evidenti e si possono prestare a un duplice pronostico sulla sua efficienza e sulla sua capacità di essere all’altezza dell’arduo compito. Si tratta di un ministero imperniato su tre figure chiave: Tremonti, Maroni e il sottosegretario Letta. Intorno a loro, un gruppo di fedelissimi. Una compagine in cui scarseggiano i cosiddetti «tecnici» e non compaiono personalità che potrebbero assumere posizioni scomode o troppo indipendenti, come gli ex ministri Beppe Pisanu e Antonio Martino o l’ex presidente del Senato, Marcello Pera. Il ministero si profila, dunque, soprattutto per l’omogeneità politica dei suoi componenti. In netta contrapposizione con il maggior difetto del precedente, quello di Prodi, in cui l’anarchia delle voci era assoluta.

L’altro aspetto per il quale il nuovo governo si distacca da quello dell’ultima legislatura è l’età media dei suoi ministri. Per le abitudini italiane, arrivare alla cifra dei 50 anni è già un bel progresso. Spiccano, poi, un ministro della Giustizia di 37, dell’Istruzione di 34 e le poco più che trentenni Meloni e Carfagna. Meno successo ha avuto Berlusconi, lo dovrà ammettere persino lui e gli costerà molto, con la presenza femminile: 4 donne su 21 sono ancora troppo poche.

Se questi, a una prima sommaria analisi, sembrano i principali connotati della terza esperienza governativa del «Cavaliere», il giudizio, come si accennava prima, può essere bifronte. Da un lato, la compattezza di questo ministero, con l’assenza, a parte il triumvirato di comando che assiste il presidente del Consiglio, di figure troppo indocili, assicura una concordia, una fedeltà e una unicità di indirizzo, almeno a Palazzo Chigi, quali Prodi non si poteva neanche immaginare. Con la garanzia, fondata sulla grande maggioranza che il governo possiede alle Camere, che alle decisioni del gabinetto seguano rapide approvazioni parlamentari. Tali condizioni rassicurano Berlusconi sulla possibilità di attuare il suo programma, ma gli tolgono qualsiasi alibi, se i risultati della sua azione di governo non dovessero rispondere alle attese degli italiani e alle promesse fatte in campagna elettorale.

La medaglia ha il suo rovescio. Dall’altro lato, proprio la possibile mancanza di una dialettica franca, spregiudicata e magari capace di contraddire, con forte personalità e autorevolezza, gli orientamenti del premier potrebbe indebolire la capacità del governo di reagire, con prontezza ed efficacia, alle sfide difficili che il prossimo futuro sicuramente gli presenterà. E’ davvero arduo prevedere se i vantaggi della scelta berlusconiana prevarranno sui rischi. Ma quando si comincia un’opera complicata è d’obbligo e non solo cortese guardare il bicchiere dalla parte dove è pieno.

 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA Grandi crac piccoli imbrogli
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 06:02:54 pm
25/5/2008
 
Il villaggio di Asterix
 
LUIGI LA SPINA

 
Torna alla moda il nucleare e la presidente della Regione Piemonte dice di no. Trionfa il federalismo di Bossi e il sindaco di Torino gli contrappone il suo. Ma Bresso e Chiamparino chi sono diventati?

Approfittando dell’eclisse parlamentare di Pecoraro Scanio e di Bertinotti, forse si sono scoperti tardoseguaci dell’antimodernista Ivan Illich e del Rousseau delle «piccole patrie».

O si preparano alla barricate contro Berlusconi, rilanciando la parola d’ordine dell’ex procuratore generale di Milano, Saverio Borrelli: «Resistere, resistere, resistere!». Oppure hanno solamente ceduto alla tentazione dello snobismo, quello gozzaniano e un po’ zitellesco che qualche volta colpisce i piemontesi.

In attesa di un chiarimento, tutte le ipotesi sono valide. Anche perché, come è noto, l’animo umano è insondabile, ma quello dei politici lo è ancor di più. Eppure, la voglia di distinguersi della coppia istituzionale più importante del Nord-Ovest può rappresentare, di questi tempi, una risorsa nazionale, ma anche recare qualche danno. La cartina dell’attuale nostra geografia politica li condanna, innanzi tutto, a una certa inquietante solitudine. Con le giunte genovesi sull’orlo del naufragio, con quelle napoletane sostanzialmente commissariate dal Berlusconi in veste di «operatore ecologico», per parlar fino, Bresso e Chiamparino signoreggiano sull’unica grande isola della sinistra nazionale. Se escludiamo, naturalmente, i territori del Centro, dove comanda da sempre la «Lega dell’Appennino», come rischia di trasformarsi il Pd.

L’isolamento, come detto, può rivelarsi «splendido». Se suggerisce ai riformisti italiani l’alternativa alla tenaglia formata da un’opposizione di sua maestà, debole e conformista, e da un’opposizione ribellistica, astratta e livorosa. Chiamparino, terragno torinese che parla in dialetto ai suoi concittadini anche quando sono immigrati, potrebbe far scendere i suoi compagni di partito dalle luci della (ex) ribalta alle ombre delle fabbriche e agli angoli oscuri delle strade. La Bresso, con l’aiuto del marito svizzero e con la passione dell’Europa, dovrebbe poter aiutare il suo schieramento a uscire dai confini nazionali, per gettare lo sguardo a quello che succede al di là delle Alpi. In fondo, non si capisce perché il suo partito non debba assomigliare un po’ di più ai suoi fratelli europei.

La solitudine piemontese e torinese, politica ma forse anche psicologica e civile, può ispirare, però, una sindrome pericolosa, quella che potremmo definire da «villaggio di Asterix». Se Bresso e Chiamparino, novelli Asterix e Obelix, pensassero di costituire in Piemonte una «riserva gallica» della sinistra in lotta contro Cesare-Berlusconi, il risultato potrebbe essere, per loro e per il Pd italiano, del tutto catastrofico. L’ambientalismo della Bresso, diverrebbe subito la variante subalpina del conservatorismo nazionale e il federalismo comunale di Chiamparino, la parodia di un Bossi in formato Gianduia.

Come sanno i veri snob, il rischio è quello che l’anticonformismo non costituisca una salutare reazione all’ossequio della moda e, magari, alla viltà del servaggio. Ma la caduta nel provinciale macchiettismo del «signor no», destinato al compatimento e alla noncuranza. Sarebbe un peccato, perché l’azzardo di volersi fare sentire anche fuori dai confini di Torino e del Piemonte si può giocare una volta sola e, quindi, bisogna giocarselo bene.
 
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA Prof nord e prof sud
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2008, 10:49:44 am
26/8/2008 - SCUOLA, FEDERALISMO
 
Prof nord e prof sud
 
 
 
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Tra le certezze che alleviano i mutati ritmi stagionali dell’esistenza, il dibattito di fine estate sulla scuola è tra i più rassicuranti. Nell’imminenza dell’apertura dell’anno scolastico, conforta ritrovare il vecchio lamento sul costo dei libri, la consueta denuncia per la carenza e il degrado delle strutture edilizie, ricorrere ai cari luoghi comuni sul «carosello degli insegnanti».

Quest’anno, però, il ministro Gelmini ci ha provocato un brivido di disorientamento introducendo una polemica un po’ nuova, quella sulla scarsa preparazione dei professori meridionali. È vero che di fronte alla reazione indignata e offesa dei docenti provenienti dalla Magna Grecia, è subito tornata, anche lei, all’antica abitudine di accusare le cattive interpretazioni delle sue parole, ma il merito di aver ricordato come il divario di risultati tra Nord e Sud d’Italia sia certificato da inoppugnabili dati comparativi non va trascurato. È, naturalmente, una sciocchezza sostenere che la causa di questa grave disparità di preparazione scolastica sia attribuibile alla più ridotta capacità professionale degli insegnanti meridionali. Innanzi tutto perché le generalizzazioni sono tutte stupide. Poi perché, in questo caso, sono ancora più stupide, dal momento che molti professori in cattedra al Nord si sono laureati in atenei del Sud. È perlomeno ingenuo, infine, pensare che la scuola possa essere un’isola rispetto al contesto sociale in cui si trova e che le vere cause di queste differenze non debbano dipendere, invece, dal diverso livello economico, civile, culturale tra le regioni confrontate.

Fatte queste banali premesse, che dovrebbero essere ovvie, ma che evidentemente ancora non lo sono, la Gelmini, in maniera del tutto involontaria, ha offerto alla discussione pubblica il problema della scuola italiana come paradigma illuminante della questione politica che dominerà la prossima stagione politica: il federalismo. Se proviamo a collegare, infatti, quanto è avvenuto e avviene nelle aule scolastiche del nostro Paese, con il possibile esito della riforma propugnata dalla Lega e in discussione in tutti gli altri partiti, possiamo forse aumentare l’interesse di una polemica che, in tempi antichi, si definiva «da bar». Con tutta la nostalgia, certo, per quei bar di una volta e per gli avventori che li frequentavano.

C’è una parola in nome della quale si sono compiute le peggiori nefandezze nella scuola italiana: l’autonomia. Questo slogan ha inaugurato la via italiana al decentramento dell’istruzione, fondata su una comoda contraddizione, quella tra l’assoluta libertà didattica, che in alcuni casi ha sfiorato l’anarchia, e l’irresponsabilità sui risultati di questo metodo di insegnamento. In tutto il mondo si possono scegliere due soluzioni al problema della scuola pubblica. La prima assicura il valore legale del titolo di studio, con il riconoscimento uniforme dei voti conseguiti per le graduatorie nei successivi sviluppi di accesso universitario e professionale, stabilendo rigide norme su programmi, orari, disciplina. Corollario coerente con tale impostazione è lo stipendio uguale per tutti i docenti, una carriera fondata solo sull’anzianità, ma la tutela di una cattedra a vita, fino ai fatidici «quarant’anni di insegnamento», come diceva il professor Aristogitone nel famoso programma radiofonico di Arbore e Boncompagni.

La seconda via, sul modello anglosassone, è fondata, invece, sulla flessibilità dei programmi, sulla riconosciuta disparità nella preparazione degli alunni, ma alla mobilità e anche alla precarietà degli insegnanti corrisponde una verifica impietosa dei risultati. Quella che il mercato delle professioni sanziona con il livello di accesso agli impieghi più prestigiosi e remunerativi. Una selezione su basi economico-sociali che attenua le disparità iniziali di classe con sostanziose borse di studio pubbliche, ma soprattutto private. Insomma, la libertà d’insegnamento si collega strettamente alla responsabilità sui risultati. Con conseguenze trasparenti e crudeli sulla carriera dei capi d’istituto, sugli stipendi dei docenti, sul destino degli allievi. Solo in Italia si è riusciti nel perverso incrocio tra la cosiddetta autonomia scolastica e l’assoluta irresponsabilità sugli effetti di tale autonomia. Tra la gelosa tutela della libertà d’insegnamento e la comoda garanzia dell’inamovibilità del posto e dello sviluppo di carriera.

Se ora trasportiamo questo modello scolastico ai criteri della futura riforma federalista, non vorremmo si ripetesse lo stesso esito. Ogni amministratore pubblico potrà disporre di ampia libertà per finanziare tutte le attività che riterrà più convenienti. I «cento fiori» delle regioni e dei comuni italiani esalteranno le risorse di fantasia e di spregiudicatezza del genio nostrano. In teoria, alle maggiori spese dovrebbero corrispondere maggiori tasse, agli sprechi di denaro la sanzione di un più vicino e occhiuto controllo del cittadino. Ma alla fine, quando i conti non torneranno, ci sarà mai qualche sindaco o governatore regionale che pagherà di tasca sua, perdendo il posto, senza far appello alla borsa dello Stato e incolpare il solito «governo ladro»?

 
da lastampa.it


Titolo: Consolo: «Scuola del Sud? Un'idiozia»
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2008, 06:46:12 pm
«I signori al governo fanno a gara a chi la spara più grossa».

Consolo: «Scuola del Sud? Un'idiozia»

Lo scrittore siciliano replica alla Gelmini

Intervista al saggista messinese trapiantato a Milano: «Sono migliaia gli insegnanti meridionali al Nord»



MILANO - «Parlare di corsi di aggiornamento per i professori meridionali, di un’istruzione del Sud e di una del Nord è una grande idiozia, fuori dai tempi. Fomenta l’odio razziale e non fa emergere il vero problema dell’Italia, che è l’individualismo e la mancanza di una coscienza civile». Lo scrittore e saggista siciliano Vincenzo Consolo, emigrato a Milano nel 1969, difende gli insegnanti meridionali «costretti a lasciare la propria terra per lavorare» e si scaglia contro la ministra Gelmini e Umberto Bossi: «I signori che stanno al governo oramai fanno a gara a chi la spara più grossa».

Lei è nato a Sant’Agata di Militello e ha frequentato ginnasio e liceo a Barcellona (in provincia di Messina). Che ricordi ha dei suoi docenti?
«Ho avuto sempre dei professori straordinari. Ricordo in particolar modo il professori di Lettere e di Filosofia. Non insegnavano solo storia della filosofia, ma ci introducevano alla cultura e alla storia contemporanea».

Ma durante gli studi universitari si è trasferito a Milano…
«Ho frequentato Giurisprudenza e con me c’erano molti meridionali, che poi sono diventati la classe dirigente dell’Italia del dopoguerra: i fratelli De Mita, Gerardo Bianco. Allora Milano era un mito, il paradiso della rinascita italiana. Però mi sono laureato a Messina, perché per un disguido burocratico dovetti fare il militare e persi tempo. Dopo la laurea ho insegnato Diritto ed Educazione Fisica in un Istituto agrario, nelle colline siciliane. Ho evitato l’avvocatura e il notariato o, peggio, di dover chiedere al politico di turno di darmi un posto in Regione, come succedeva a tutti i miei coetanei e come avviene ancora oggi. Infine, quando ho avuto la malsana idea di fare lo scrittore, sono emigrato a Milano, nel 1969».

Che cosa consigliava ai suoi alunni di allora e che cosa consiglierebbe agli studenti di oggi?
«Ai miei tempi consigliavo di lasciare Agraria e di scegliere gli istituti alberghieri, perché con il fallimento della Riforma Agraria, in Sicilia c’era molta emigrazione e povertà. Oggi i confini sono molto più aperti di allora. Consiglierei di andare in Europa, di non andare dal politico a chiedere aiuto. Si diventa schiavi, clienti del potere».

Lei che ha frequentato Nord e Sud, che differenze di stile didattico trova tra le due Italie?
«Non vedo differenze. La Gelmini, che è di Brescia, ha fatto delle dichiarazioni grossolane. Oramai i signori che stanno al governo, fanno a gara a chi la spara più grossa. Rileggetevi il "Discorso sul costume degli italiani” di Leopardi. Parlava di una mancanza di società civile, di un paese dove ognuno pensava a se stesso. Questo e l’immobilismo sono i veri mali dell’italia, non i professori del Sud. Tanto più che ci sono migliaia di professori che dal Meridione emigrano a Nord perché c’è più spazio e più lavoro.

Anche quelli sono stati abbastanza maltrattati da Umberto Bossi, per la verità…
«Rispondo con un solo esempio: Salvatore Guglielmino, autore con Leonardo Sciascia de “La Guida al Novecento”, dove moltissimi alunni hanno studiato letteratura, era di Ragusa. Ha insegnato all’istituto Manzoni di Milano e ne ha fatto storia e lustro. Direi che è ora di smetterla con questi campanilismi inutili. Facciamo una pessima figura davanti all’Europa. Mi dispiace che lo stesso presidente della Regione Sicilia Lombardo dialoghi con la Lega».

A settembre sarà premiato per il suo impegno civile al SalinaDocFest e sta ultimando un romanzo sui fondamentalismi, ambientato in Sicilia». Il Sud per lei è una patria o un ricordo?
«Io sono un disadattato. Il sud è un paradiso abitato da diavoli, da mafiosi. Per me è l’Itaca che ho lasciato e che non riconosco più. Milano è la patria immaginaria, il mito del progresso. Ma mi ha deluso anche questa, per la nascita della Lega, per la progressiva mancanza di accoglienza e solidarietà».

Ketty Areddia
26 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: LUIGI LA SPINA Grandi crac piccoli imbrogli
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2008, 07:05:24 pm
28/8/2008 (9:24) - ANALISI

L’autunno caldo di Chiamparino
 
In bilico tra una forte immagine nazionale e le beghe politiche che dividono la sua città


LUIGI LA SPINA


TORINO
C’era una volta a Torino un sindaco che andava in giro vestito in un solo modo. D’estate, sfoggiava larghi camiciotti di improbabili colori. D’inverno, si infagottava in un pesante loden verde. Parlava anche una sola lingua: un curioso misto di italiano e dialetto piemontese, in cui, ogni tanto, spuntava la parola in inglese. Come se la nostalgia per la vocazione di un insegnamento universitario in economia, precocemente rinnegata per la politica, dovesse trovare uno sfogo, almeno verbale.

Ora, Sergio Chiamparino è diventato un sindaco à double face. Quando calca la scena nazionale, come ministro-ombra per la riforma federale, dialoga, con autorevolezza e competenza, sul problema chiave della ripresa politica, mostrando una capacità di mediazione e una volontà di raccogliere larghi consensi che, anche di fronte alle platee più ostili, gli assicurano ascolto e rispetto. Ma quando torna nella capitale subalpina, il suo sorriso si rabbuia in una persistente irritazione. Ingaggia tenzoni furibonde contro i signori delle tessere pd, personaggi del tutto sconosciuti fuori dal cerchio della piccola politica cittadina.

Si rinchiude nella sua oscura stanza a palazzo di Città come in un fortino assediato, come se temesse di perdere l’immagine vincente del sindaco delle Olimpiadi, forte di un consenso elettorale straordinario, ai vertici in tutte le classifiche di popolarità tra i primi cittadini italiani.

Il destino personale di Sergio Chiamparino può interessare relativamente poco. L’ennesima prova di masochismo della sinistra, che, ancora una volta, rischia di bruciare, per squallidi litigi e gelosie correntizie, uno dei pochi personaggi spendibili in sede nazionale, non sorprende. Nè sorprende che il caso Chiamparino somigli alle analoghe vicende che, per citare solo qualche esempio, a Bologna come a Venezia, contrappongono sindaci pd dotati di forte personalità e di carisma sovracittadino alla burocrazia partitica locale.

La vocazione al «farsi male da soli» è l’unica caratteristica identitaria resistente a tutte le rivoluzioni (o pseudo tali) del partito più forte in quello schieramento. Che anche la ridotta di Asterix, quella di Torino e del Piemonte, dove, al Nord, si lecca le ferite la sinistra italiana, possa essere sbaragliata, alla prima occasione, dal centrodestra dilagante, è un’ipotesi che non deve spaventare chi crede nella democrazia e nelle virtù dell’alternanza al potere.

La preoccupazione e l’allarme, per chi ha solo a cuore le sorti di una città come Torino, nella delicata fase post-olimpica nella quale si trova, sono altri. Poichè il secondo mandato di Chiamparino scade istituzionalmente nel 2011, l’eventualità che altri tre anni di logoramento, di battaglie correntizie, di dispute non sulle grandi questioni dello sviluppo cittadino, ma su misere lotte di potere, assegnazioni di posti, distribuzioni di fondi, spartizioni di influenze politiche, possano compromettere il futuro della città dovrebbe angustiare tutta la classe dirigente subalpina.

Proprio i prossimi tre anni saranno decisivi per Torino. Come è capitato in tutte le amministrazioni comunali che hanno sostenuto l’onere di ospitare le Olimpiadi, svanita l’euforia della festa, illanguidite le speranze di ricaschi turistico-economici straordinari e immediati, terminato il boom edilizio finanziato dai governi nazionali, i conti non tornano.

Se alle casse esauste si aggiungono i tagli disposti da Tremonti, a cominciare dal mancato introito dell’Ici compensato da finanziamenti erariali promessi ma ancora non incassati, si comprende facilmente come la situazione del bilancio di palazzo di Città sia veramente drammatica. Per di più, anche a Torino, nel passato, si è caduti nel tranello di spericolate cartolarizzazioni che, con i tassi crescenti di questi anni, fanno pesare ancor di più il gravame del debito.

Su queste pericolanti basi di fragilità finanziaria, si innestano problemi politici complessi, a partire dalla scadenza del secondo mandato di Chiamparino. Da una parte, è già cominciata la battaglia di posizionamento in vista della candidatura alla sua successione. Intrecciata, peraltro, all’altra lotta per una votazione altrettanto importante: quella, prevista nel 2010, per la presidenza della Regione.

Ufficialmente Mercedes Bresso, attuale inquilina del palazzo in piazza Castello, si dovrebbe ripresentare senza temibili concorrenti. Ma le variabili, presunte, sperate, solo immaginate, eccitano gli animi e turbano le fantasie.

D’altra parte, è anche comprensibile che Chiamparino pensi al suo futuro politico. A come non disperdere il tesoro di popolarità che si è assicurato a Torino. A come utilizzare il prestigio e l’autorevolezza che si sta conquistando anche nel resto del Paese. Gli onori comportano anche gli oneri del coraggio politico: sta a lui esercitare la sua leadership mettendola alla prova. Non nella polemica del cortile di casa, in cui rischia di immiserire la sua posizione. Ma in una scelta di responsabilità istituzionale, soprattutto di fronte a quel 70 per cento di torinesi che l’ha votato. Se può esercitare il ruolo di sindaco nelle condizioni, personali e politiche, in cui l’ha fatto negli anni scorsi, lo dimostri, tornando ad indossare i suoi vecchi abiti. Altrimenti, non condanni la città, per altri tre anni, a uno spettacolo poco rassicurante.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA Grandi crac piccoli imbrogli
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 09:43:07 am
10/10/2008
 
Grandi crac piccoli imbrogli
 
 
LUIGI LA SPINA
 
È una consuetudine, per la verità non solo italiana, quella di nascondere dietro grandi progetti, nati da ottime intenzioni, piccoli imbrogli, nati da personali interessi. Tradizione rispettata anche nel decreto Alitalia, una legge che dovrebbe consentire il salvataggio della nostra compagnia di bandiera, ma che avrebbe potuto anche salvare dai guai giudiziari alcuni grandi manager italiani, da Tanzi, a Cragnotti, a Geronzi.

Come al solito, è stata rispettata anche un’altra tradizione: quando viene svelato il trucco, la ricerca dei mandanti della poco onorevole operazione si perde nell’anonimato di piccoli peones parlamentari, subito scaricati da tutti e costretti a immolarsi, solitari e comodi capri espiatori, al ludibrio generale. Con i presunti beneficiari che si dichiarano ignari di tutto, i presunti sostenitori della maggioranza che si ritraggono indignati dal sospetto che si possa dubitare della loro superficialità e persino i presunti avversari dell’opposizione che proclamano non si possa non credere alla loro dabbenaggine.

Veri, verosimili o fantasiosi i retroscena che si raccontano in queste ore sulla vicenda, sarebbe troppo cinico, ma soprattutto poco avveduto, l’atteggiamento di chi tende a circoscrivere la vicenda come uno dei tanti episodi di malcostume politico, una gaglioffa furbata che solo l’arroganza del potere poteva pensare passasse impunita. A tutti costoro, in buona o cattiva fede, manca completamente la sensibilità nell’avvertire i sentimenti che in questi giorni agitano il nostro Paese. Quando, di fronte alla gravissima crisi finanziaria mondiale, alla possibile incombente crisi economica, la credibilità e la fiducia dell’opinione pubblica in coloro che li governano è l’unica arma contro il dilagare di una incontrollata paura. Il vero pericolo di fronte al quale nulla varrebbero i provvedimenti che governi e autorità finanziarie di tutto il mondo hanno approvato.

A questo proposito, bisogna dare atto a Casini che ha denunciato la questione in Parlamento e soprattutto a Tremonti di aver colto la gravità del segnale che la classe politica, tra complicità e indifferenza, stava mandando ai cittadini. Il ministro del Tesoro, con un drastico aut-aut che metteva in gioco la sua permanenza alla guida del dicastero, ha costretto alla frettolosa e vergognosa ritirata proponenti dichiarati e ispiratori occulti dell’emendamento truffaldino.

La «ragion di Stato» e anche la responsabilità di tutti coloro che, in questi giorni, hanno il compito di informare l’opinione pubblica, giornalisti compresi, corrono su un binario assai stretto. Da una parte, occorre non drammatizzare una situazione che soprattutto e solo dal panico potrebbe essere compromessa, con conseguenze catastrofiche. Dall’altra, non nascondere con generiche promesse di assolute garanzie la gravità dei fatti avvenuti e di quelli che potrebbero avvenire. Anche perché la rapidità con cui le bugie sparse a piene mani, in queste ore, sono state svelate, può compromettere la credibilità di qualsiasi promessa o semplicemente previsione sul futuro avanzate da quegli stessi protagonisti della crisi.

L’elenco delle false rassicurazioni, purtroppo, è lungo. Ci avevano detto che le difficoltà finanziarie avrebbero toccato solo le banche americane, spregiudicate e irresponsabili. Poi, che solo qualche banca europea poteva essere contagiata, ma che sicuramente tutte le banche italiane avevano una capitalizzazione largamente sufficiente a fronteggiare qualsiasi esigenza di liquidità. Infine, che l’economia reale, quella che non si regge sulle carte, ma sulle fabbriche e sulle merci, era al riparo, dietro solidi salvagenti. Tutti conforti verbali che si sono trasformati in inquietanti boomerang nell’opinione degli italiani.

I banchieri non possono operare senza la fiducia. I governanti senza la credibilità delle loro parole. Se dietro alle parole vuote si nascondono, poi, piccole o grandi truffe, non possono lamentarsi di non riuscire a convincere gli italiani, anche quando avrebbero ragionevoli argomenti per riuscirci.

 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Se l'Italia scioglie il gelo del Cremlino
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2008, 08:45:22 am
6/11/2008
 
Se l'Italia scioglie il gelo del Cremlino
 
 
LUIGI LA SPINA
 

Avranno poca importanza, per fortuna, le scontate reazioni italiane alla vittoria di Obama. Sia quelle del centrosinistra, che cerca di sfruttare il riverbero mediatico del clamoroso successo dei democratici americani, nella speranza di rianimare le sorti del partito che porta, in Italia, lo stesso nome. Sia quelle del centrodestra, che vorrebbe evitare di essere coinvolto nella dura sconfitta degli amici repubblicani.

Più interessanti possono essere, invece, le conseguenze dell’elezione di Obama alla Casa Bianca sulla linea della politica estera governativa. Berlusconi, approfittando di una serie di coincidenze diplomatiche e sfruttando il suo notorio pragmatismo, potrebbe accentuare quel movimento di cauto distacco dalla politica di Bush che, negli ultimi mesi, aveva tradito il tradizionale perfetto allineamento alle tesi della segreteria di Stato americana. Soprattutto sui due scenari che, molto probabilmente, vedranno i cambiamenti più significativi nella politica Usa: il fronte russo e quello iraniano.

La contemporaneità tra il trionfo elettorale di Obama e il durissimo discorso anti-Stati Uniti del premier Medvedev non è né casuale né beneaugurante per il nuovo presidente americano. Si tratta di un pesante avvertimento che rischia di avvelenare quella «luna di miele» che Obama sembra aver intrapreso con il mondo intero. Proprio in questo momento di gelo diplomatico Mosca-Washington, si presenta un’opportunità che Berlusconi potrebbe cogliere per proporsi in un ruolo che ama molto, quello del mediatore internazionale. Per tutto il 2009, infatti, l’Italia avrà la presidenza di turno del G8.

L’occasione per offrire al neopresidente Usa i frutti dell’amicizia con Putin coltivata da Berlusconi sia in appuntamenti pubblici sia in quelli privati, nella sua villa in Sardegna. Rapporti di simpatia che oggi, nella visita ufficiale a Mosca, il nostro premier riconfermerà ed estenderà al successore di Putin al Cremlino.

L’altra partita sulla quale la posizione italiana potrebbe essere utile alla diplomazia del neopresidente americano è quella, ugualmente importante, del caso Iran. Se, all’epoca della crisi per la Georgia, era apparsa evidente la distanza tra l’amministrazione Bush e il governo Berlusconi, altrettanto diverse, anche se meno clamorosamente, sono le linee di approccio al confronto con quello Stato mediorientale. L’Italia, al contrario della Germania ad esempio, non ha affatto ridotto l’interscambio commerciale con l’Iran e, sia pure in forme molto discrete, continua a mantenere un dialogo con il regime di Ahmadinejad. Anche in questo caso, se Obama volesse ammorbidire l’atteggiamento di Bush potrebbe trovare nell’Italia un canale di colloquio sperimentato con i dirigenti di quel Paese.

I presumibili migliori rapporti tra la nuova amministrazione democratica americana e l’Europa, invece, non dovrebbero lasciare al governo Berlusconi quei margini di protagonismo internazionale che, con Bush, consentivano al leader italiano un ruolo di particolare vicinanza agli Stati Uniti. A meno che al nostro presidente non riesca una mediazione che, all’apparenza, sembra proprio impossibile: mettere d’accordo due caratteri inconciliabili, quello di Angela Merkel e quello di Nicolas Sarkozy.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA Passera Modiano e il Mi-To
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2008, 10:13:31 am
12/11/2008
 
Passera Modiano e il Mi-To
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Uno scontro di potere all’interno di un’azienda. Una partita politica tra le principali banche italiane e il governo, in un momento di crollo dei listini borsistici. Un nuovo assetto della classe dirigente torinese, in vista del confronto con Milano. Ecco perché il caso Passera-Modiano, al vertice del gruppo Intesa Sanpaolo, non è solo una disputa personalistica tra due manager, né un confronto tra due diverse concezioni organizzative, ma una vicenda rivelatrice dei prossimi mutamenti nei rapporti tra il nostro sistema finanziario e quello politico. Con le relative conseguenze sul futuro delle due capitali del Nord-Ovest italiano.

Per capire il significato dell’ultima puntata di quell’infinita telenovela che, sull’asse Torino-Milano, si va rappresentando, dall’epoca della fusione tra le principali banche delle due città, si deve partire, come al solito, dagli uomini.

Dalle loro ambizioni che, quando non sono misere, celano, però, progetti più ampi e più interessanti di un’affermazione di vanità personale. Come in una qualsiasi azienda, la delimitazione dei territori di potere tra amministratore delegato e direttore generale non solo non è facile, ma si ridefinisce ogni giorno. Non fanno eccezione i rapporti tra i due maggiori manager di Intesa Sanpaolo. È comprensibile, perciò, che Corrado Passera cerchi di affermare la sua assoluta supremazia nella gestione della banca. Come è comprensibile che Pietro Modiano cerchi di resistere ai tentativi di ridimensionamento della sua autonomia e delle sue competenze. Ed è altrettanto comprensibile che i punti critici della banca, dal caso Zaleski all’esposizione per la Cai, alla minore redditività del «retail», siano pedine-pretesto per reciproche accuse strumentali e propagandistiche.

Ridurre questo scontro al solito allarme per la volontà prevaricatrice di Milano nei confronti dell’influenza torinese nel nuovo gruppo bancario, però, sarebbe davvero un’interpretazione di miope campanilismo provinciale. Accanto allo scontro di potere, infatti, si individuano i segni dell’avvio di una partita politico-finanziaria che supera i confini del Nord-Ovest italiano e riguarda la fisionomia nazionale del nostro sistema del credito. In un momento di gravi difficoltà per tutte le banche, è naturale il loro avvicinamento al potere governativo, dal quale si aspettano un prezioso e, forse, indispensabile aiuto.

Sia Unicredit sia Intesa Sanpaolo erano considerate, fino a poco tempo fa, istituti guidati da personalità legate al centrosinistra. Ma, da quando Passera si è fatto promotore e principale sponsor della cordata Colaninno per il salvataggio dell’Alitalia, si sono cominciati a vedere nelle mosse dell’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo i segni rivelatori di una progressiva e crescente influenza del centrodestra in tutto il mondo bancario e finanziario italiano. Così l’attacco a Modiano, un manager sempre sostenuto dalla sinistra, viene giudicato anche come l’avvisaglia di un’offensiva che potrebbe persino arrivare ai due presidenti del gruppo, Enrico Salza e Giovanni Bazoli, di simpatie notoriamente antiberlusconiane.

Il terzo aspetto sotto il quale è utile guardare il caso Passera-Modiano riguarda i cambiamenti che, in alcuni ruoli-chiave del potere torinese, si stanno manifestando sotto la regia del nuovo presidente della Compagnia di San Paolo, il più forte azionista della banca. Nella classe dirigente della città si sta sgretolando il vecchio assetto che, formatosi quindici anni fa, all’epoca della prima giunta Castellani, di fatto ha guidato le sorti della capitale subalpina fino alle Olimpiadi e all’immediato periodo successivo ai giochi. L’avvocato Angelo Benessia vorrebbe ereditare, insomma, quel ruolo di «patronage» che finora ha esercitato Enrico Salza per le sorti di Torino, sia pure in condizioni e in modi diversi.

Al di là della rivalità tra i due personaggi della «città che conta», si profila un nuovo modello di relazioni tra le due capitali del Nord-Ovest: non più competitivo sulle singole partite di potere che si aprono nelle due regioni, ma di integrazione complementare per lo sviluppo di questo intero territorio. Per Torino si tratta di non limitarsi più a una battaglia difensiva, di resistenza alle mire milanesi, ma di ambire alla cogestione paritaria delle più importanti scelte socioeconomiche del Nord-Ovest. Un progetto che può essere interessante, che magari richiede un ricambio di classe dirigente, a patto che non preveda, per avviarlo, un disarmo unilaterale.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Farsa all'Alta Corte
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2008, 12:03:30 pm
15/11/2008
 
Farsa all'Alta Corte
 
LUIGI LA SPINA

 
L’occasione è buona, proprio perché nessuno può mettere in dubbio i meriti del nuovo presidente della Corte Costituzionale e le sue attitudini a ricoprire l’alto incarico che gli è stato affidato. Giovanni Maria Flick, sia per le sue competenze scientifiche, sia per le qualità di indipendenza, equilibrio, capacità organizzativa, sia per aver sempre dimostrato di essere persona assolutamente per bene, sarà un presidente di massima garanzia per tutti.

Sgombrato il campo da qualsiasi dubbio sulla persona, si può esigere, senza rischi di alimentare sospetti ed equivoci, che questo malcostume di affidare, per pochi mesi, la guida della Consulta al giudice più anziano finisca al più presto. La convenienza ad allargare il più possibile il numero di coloro che possono fregiarsi del titolo di «emerito», con annessi vantaggi, è chiara. Ma è altrettanto chiaro il danno che questo espediente arreca alla autorevolezza, credibilità e prestigio dell’Alta Corte.

Questi giudici, chiedono, spesso, di essere difesi dagli attacchi strumentali nei loro confronti. Per pretenderlo dagli altri, dovrebbero prima difendersi da se stessi.
 
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Partiti modello Lega
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2008, 10:43:42 am
21/11/2008
 
Partiti modello Lega

 
LUIGI LA SPINA
 
Bossi non ha ancora vinto, perché il cammino verso la trasformazione dell’Italia in uno Stato federale è lungo e accidentato. Ma già può inorgoglirsi di un risultato, forse da lui imprevisto e sicuramente da tanti imprevedibile, quello di aver imposto a un po’ tutti i partiti italiani il modello della sua Lega.

Fermiamoci un momento a raccogliere le immagini che in questi giorni offre la politica di casa nostra.

La domanda è immediata: che razza di partiti abbiamo in Italia? È certamente vero che le ideologie, feticci distintivi del Novecento, non ne marcano più né le identità, né i confini. Ma il via-vai sul tradizionale asse della destra e della sinistra delle nostre forze politiche negli ultimi tempi è tale da rendere una sfida impossibile quella di tentare un, sia pure approssimativo, allineamento logico. Perché Di Pietro sia finito all’estrema sinistra o Fini si batta con vigore contro la Lega per non chiudere la porta agli immigrati, ad esempio, è del tutto misterioso.

Per non parlare, poi, della velocità con cui svolte epocali, improntate a inaugurare stagioni storiche della nostra politica, si rivelino, dopo pochi mesi, fuochi fatui di scenari immaginari. Le recenti elezioni avevano illuso su un risultato che sembrava incontrovertibile: il sostanziale bipartitismo raggiunto dal nostro sistema. Ora, a sinistra, non solo quel gruppo unico parlamentare «Democratici-Italia dei valori», promesso prima del voto, è stato subito rinnegato, ma si è sfasciata clamorosamente l’alleanza, prima in una quotidiana polemica reciproca e, poi, in quella farsa ridicola e penosa a cui siamo costretti ad assistere sul caso della Vigilanza Rai. A destra, solo il cemento del potere impedisce che, per la sorte degli scali aerei, per la «messa in prova» dei detenuti, per i flussi immigratori, i contrasti nella maggioranza si allarghino pericolosamente. Con l’effetto che il percorso verso un vero partito unico tra Fi e An si allunga sempre di più.

Se neanche la personalità del leader, a partire dalla più forte, quella di Berlusconi, riesce a unificare la fisionomia delle nostre forze politiche, smentendo la tesi, che pure sembrava illuminante, di una nuova realtà, quella del moderno «partito personale», bisogna concludere che esse abbiano esaurito la loro funzione di rappresentanza dei cittadini, almeno in una democrazia come la nostra?

Prima di proclamare troppo frettolosamente il loro decesso, forse è il caso di non trascurare, invece, la forza crescente dei partiti italiani quando riescono a difendere gli interessi concreti di un territorio. Perché solo sul territorio se ne riconoscono chiaramente i confini, si capiscono quali gruppi sociali li sostengano e quali li combattano e, spesso, solo dal territorio possono emergere anche le nuove leadership. A quest’ultimo proposito, è evidente, tra l’altro, l’impressione che l’esperienza di sindaco o di governatore regionale prometta un cursus honorum più rapido e più sicuro della navigazione parlamentare e, persino, di quella ministeriale.

Se si guarda la vera mappa politica dell’Italia d’oggi il fenomeno è evidentissimo. A parte il dilagante successo della Lega di Bossi nell’Italia del Nord, il centrosinistra è ormai ridotto a una Lega del Centro, con qualche residua presenza, all’estremo Ovest e all’estremo Est, dell’eredità operaista di città come Torino, Genova e Venezia-Marghera. A destra, è significativo l’allarme con cui il presidente di una Regione importante come il Veneto, Giancarlo Galan, incita Forza Italia a trasformarsi in una «Forza Veneto», unica soluzione per non essere sconfitti dall’impetuosa avanzata delle armate bossiane. Nel Centro-Sud, quella mappa è altrettanto rivelatrice. Sul sindaco di Roma, Gianni Alemanno, si sta definendo la nuova identità di An e degli interessi da lui rappresentati. Un partito dal quale Fini sembra sempre più distaccato, nella corsa alla sfida per l’eredità berlusconiana dell’intera area moderata. La battaglia per la difesa di Fiumicino nella vicenda Alitalia, anche attraverso imprevedibili alleanze trasversali, potrebbe trovare il primo cittadino della capitale in una posizione ideale per la sua crescita di leadership tra gli elettori e di forza tra gli iscritti. Nel Sud, l’alleanza del centrodestra con l’Mpa di Raffaele Lombardo non solo si è rivelata preziosa dal punto di vista elettorale, ma si è dimostrata condizionante per il governo di città importanti come Catania e per quello di Regioni fondamentali come la Sicilia.

Questa tendenza, poi, verso il cosiddetto «partito territoriale» è destinata a crescere se, com’è ormai scontato, nemmeno per le elezioni europee, in cui non vale l’alibi della governabilità, sarà possibile, per i cittadini, scegliere il proprio rappresentante. Con le liste bloccate, l’unico vero rapporto di fiducia che è concesso all’elettore è quello con il proprio sindaco o con il proprio presidente di Regione. È l’unica libertà di scelta che resta agli italiani. E loro la faranno valere sempre di più.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - sindaco di Torino: dobbiamo organizzarci autonomamente da Roma
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2008, 12:23:20 pm
22/11/2008 (7:25) - CHIAMPARINO

"Un leader per il Pd del Nord"
 
Il sindaco di Torino: dobbiamo organizzarci autonomamente da Roma

LUIGI LA SPINA
TORINO


Il partito democratico è in pieno marasma. La sorda guerra di correnti intorno al solito dualismo Veltroni-D’Alema è esplosa clamorosamente sul «caso Villari». Ma anche la collocazione nel Parlamento europeo ha riacceso le polveri tra la componente cattolica e quella postcomunista. Di fronte al rischio concreto della dissoluzione di un progetto che, a sinistra, aveva sollevato molte speranze, alcuni pensano che solo un congresso possa far superare questa crisi. Domandiamo, allora, al ministro ombra per le riforme istituzionali, il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, se anche lui ritiene che questa proposta sia utile a superare i contrasti. «Non credo. Servirebbe solo a fotografare la situazione esistente e, finito il congresso, tutto continuerebbe come prima. Le correnti e le sottocorrenti sono preesistenti a quella fusione “tiepida” che ha unito ds e Margherita. Ho l’impressione che gran parte dei capi di queste correnti abbiano partecipato alla nascita del nuovo partito più con l’obiettivo di creare un contenitore che garantisse l’autoriproduzione di quelle componenti che non per cercare di costruire davvero un soggetto unico. Non ci sono diversi progetti politici, alternativi tra loro, ma ci sono divisioni fondate su rivalità personali, lotte di potere interne al partito».

Allora, se un congresso non serve, come potete uscire da questa situazione? Lei ha una proposta?
«Sì. Io trasformerei l’attuale federazione di correnti in una federazione dei territori. Devo fare un’autocritica: mi rammarico di essermi fermato, quando ci furono le primarie, ad organizzare, con altri amici, una lista a favore di Veltroni con caratteristiche territoriali. Ora, se fossi al posto del segretario, farei io qualcosa per stimolare che questo nasca. Per esempio, partendo dal Nord, dove questo tema è più sentito e dove la sfida del partito territoriale esistente, cioè la Lega, è più forte».

Mi faccia capire, lei vuole fondare il partito democratico del Nord? «Nella prossima primavera, abbiamo le elezioni europee, ma abbiamo anche alcune elezioni locali che, per certi aspetti, sono ancor più importanti per il nostro radicamento e per la continuità di certe esperienze di governo. Direi a Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto: ragazzi, mettetevi insieme, decidete voi un coordinatore che sia rispettoso delle rappresentanze nei vostri territori e decidete autonomamente alleanze politiche, programmi, candidati e leadership. Sarei io a spingere con forza nel senso di questa federazione dei territori».

Ma con chi dovrebbe allearsi il partito democratico del Nord? Con l’Udc e, cioè, con il centro o dovrebbe ritornare all’Unione? «Io faccio un altro discorso. Ho l’impressione che organizzare una sommatoria di sigle rischi, per prima cosa, di non essere realizzabile e, poi, di non tradursi in una sommatoria di voti. Il Trentino lo dimostra: lì c’è stata un’originalità di rapporti. Il pd si è alleato con una lista territoriale che ha racchiuso tutta un’altra serie di sensibilità politiche».

Ma un progetto politico deve pur avere una direzione riconoscibile, non crede? «Certo. In termini di progetto politico, è indubbio che la necessità di guardare verso il centro è forte, è quella prevalente. Le sfide politiche, è notorio, si vincono sottraendo voti al centro. Il problema è che il centro non sempre è moderato. Spesso è radicale, come quello della Lega, per esempio. Per vincere dobbiamo conquistare la vasta area che confluisce al centro dell’incrocio tra due assi: destra e sinistra, innovazione e conservazione. E questo non si ottiene sommando le attuali sigle di partito».

E allora, con chi? «Sperimenterei, partendo dalle prossime elezioni, aggregazioni con una forte connotazione di rappresentanza territoriale e civica. Questa è l’unica condizione, facciamo l’esempio del Piemonte, per poter tenere insieme fasce di popolazioni, come quelle montane, e istanze sociali, come quelle legate alle fabbriche. Insomma, per mettere insieme rappresentanze diverse, come l’agricoltore cuneese e il cassintegrato della Bertone. Unire sensibilità diverse, come l’attenzione ai valori del mondo cristiano e la difesa della laicità dello Stato».

Queste non erano le ragioni fondative dell’Ulivo? «Sì, si potrebbe anche parlare di un rilancio di quell’idea. Ma con questa forte specificazione territoriale. Non lo chiamerei più l’Ulivo, perché i nomi connotano un’esperienza, e quell’esperienza è finita. Ci vuole una scommessa nuova, che non punti alla sommatoria di sigle di partito, siano l’Udc o quelli della vecchia Unione».

Ma basta la territorialità per fare un partito? Questa non è la morte della politica, almeno come l’abbiamo sempre pensata: condivisone di ideologie o almeno di valori, di progetti ideali? «Certo. Il territorio è condizione necessaria, ma non sufficiente. Il partito territoriale, me ne rendo conto benissimo, è la risorsa, ma anche il limite. Non essendoci sistemi di valori tali da esprimere un progetto politico credibile, che risponda alle aspirazioni di tutto il Paese, il territorio è l’unico punto di partenza per cercare di ricostruire questo insieme di valori e di messaggi programmatici, stando in mezzo ai problemi. E’ l’inizio di un cammino, ma sicuramente non ci si può fermare lì».

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA Guerre regionali
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2008, 08:33:41 am
3/12/2008 - I RISCHI DI UNA FRATTURA TRA NORD E SUD
 
Guerre regionali
 
LUIGI LA SPINA

 
In attesa di una riforma federalista che sembra si sia persa negli affanni assillanti della crisi economica, l’Italia potrebbe correre il rischio d’avviarsi verso una specie di guerra regionale. Da quando Chiamparino sul nostro giornale ha lanciato l’appello per una svolta autonomista nel Pd, la cronaca ha registrato sintomi preoccupanti.

Non solo alcuni segretari del Partito democratico, nelle regioni del Sud, hanno subito rialzato il vessillo del meridionalismo offeso da una provocazione nordista. Ma persino Cofferati ha rivendicato le ragioni dell’Oltrepò emiliano, in contrapposizione con un fantomatico partito a egemonia subalpina. Sempre a sinistra, il crescente e travolgente fastidio per il ventennale duello Veltroni-D’Alema ha trovato nella loro «romanità» il pretesto per uscire dai borbottii a mezza bocca ed esprimersi, finalmente, in un pubblico coro. La visita del Presidente della Repubblica a Napoli ha raddrizzato, per fortuna, uno scivolamento polemico, tra neocrociati della questione settentrionale e nostalgici di quella meridionale, foriero solo di pessimi effetti, sia per il Nord sia per il Sud. Napolitano ha ricordato che questo sarà l’ultimo quinquennio per utilizzare i fondi europei per lo sviluppo. Dopo il 2013, le Regioni meridionali non avranno più l’ingente massa di finanziamenti che dal 1956, cioè da più di 50 anni, avrebbe dovuto assicurare il decollo economico del Mezzogiorno. Di fronte a questa prospettiva e ai pessimi risultati ottenuti finora dall’utilizzo di questi soldi, s’impone una profonda autocritica delle classi dirigenti. Diversamente, ha concluso Napolitano, «il Sud è fuorigioco». A una più approfondita riflessione, l’allarme gettato dal Presidente, fondamentale per il futuro delle Regioni meridionali, è importante anche per quelle settentrionali, perché aiuta a capire meglio i motivi del crescente peso dei «partiti territoriali» nell’evoluzione del nostro sistema politico. Spiega, inoltre, le inquietudini delle popolazioni che vivono nel Settentrione, aiuta a dissipare gli equivoci, più o meno strumentali, con i quali è stata accolta la proposta di Chiamparino e mette in guardia rispetto ai possibili risultati di una riforma federalista che andrebbe varata con criteri meno conservatori di quelli finora utilizzati.

Il rischio più grave di «scissione» che corre in questi anni l’Italia non è quello tra i territori del Nord e quelli del Sud e neanche quello tra un Pd del Nord e un Pd romanocentrico, ma tra le preoccupazioni, le speranze, gli atteggiamenti, le sensibilità delle classi dirigenti nazionali, in particolar modo quelle politiche, e quelli dei cittadini. Ecco perché solo dalla credibilità di una buona amministrazione pubblica si può partire per avviare la ricostruzione di un rapporto di fiducia sempre più allentato. In questo senso «il partito territoriale» non mira alla separazione nazionale, ma dovrebbe servire da strumento per collegare più strettamente gli interessi dei governati a quelli dei governanti. Proprio l’acuirsi della crisi economica accentua i timori che le risorse della parte più sviluppata del Paese vadano disperse in una gestione politico-amministrativa centrale che non riesce a restituirle, sotto forma di servizi, al territorio che li ha generati. Così come la solidarietà tra i cittadini di una stessa nazione, nel rispetto costituzionale dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri tra gli italiani, non può essere assicurata, come pare, dalla permanenza, addirittura codificata per legge, degli squilibri di efficienza tra Regioni diverse. Quando Napolitano ricorda che i tagli al bilancio pubblico, se fatti in maniera contabilmente proporzionale, perpetuano le ingiustizie e gli errori invece di correggerli, avanza un’obiezione di metodo che vale anche per la futura riforma federale.

Le preoccupazioni per il pericolo di una disgregazione regionale del Paese non sono del tutto infondate, anche perché in momenti di difficoltà l’egoismo corporativo e anche quello localistico sono una forte tentazione. Ma non possono essere fugate con retorici appelli all’unità nazionale, con allarmi, peraltro infondati, contro l’ipotesi di scissioni partitiche, con richiami moralistici ai doveri di solidarietà verso i più deboli. Basterebbe, invece, additare un solo esempio a tutta la classe dirigente del Paese, quello della Confindustria siciliana contro la criminalità organizzata. Se ognuno, nel proprio compito, dimostrasse quello stesso senso di responsabilità che solo può legittimare il potere, appunto, di una classe dirigente, non ci sarebbe bisogno di temere alcun rischio per l’Italia di domani.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il doppio campanello
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2008, 12:18:12 pm
14/12/2008
 
Il doppio campanello

 
LUIGI LA SPINA


Le notizie sono due e il campanello d’allarme suona per entrambi gli schieramenti politici. La prima riguarda il distacco, in termini quantitativi assolutamente straordinario, tra i cittadini e i rappresentanti in Parlamento. La sorpresa è amara soprattutto per i partiti di governo.

Una sorpresa amara se è vero che, nel Nord-Ovest del Paese, un elettore su quattro ha deciso di non andare più a votare, e questo impressionante dato è equamente distribuito tra gli elettori della maggioranza e quelli dell’opposizione. A otto mesi dal voto, infatti, non solo è comprensibile che i simpatizzanti del centrosinistra non abbiano superato la depressione post-sconfitta. Ma i travagli del gruppo più forte in quella parte politica, il Pd, sono tali che anche il più granitico ottimista non potrebbe negare di sentirsi scoraggiato. Singolare è, invece, che la delusione contagi anche una quota così ampia degli italiani che hanno votato per il centrodestra. Un fenomeno, tra l’altro, che tocca un elettorato, quello del Nord-Ovest, tradizionalmente poco mobile nei suoi orientamenti, meno emotivamente abituato ad alterare le proprie convinzioni secondo le contingenze del momento. Al contrario, per esempio, dell’atteggiamento politico, molto più «ballerino», che si manifesta, da sempre, nelle regioni meridionali.

È probabile che la crisi economica, che finora sembra incominciare a incidere sulle tasche dei cittadini soprattutto nelle aree industriali, alimenti una sfiducia generalizzata. Ma il dato del sondaggio potrebbe anche suggerire una certa insoddisfazione, un sentimento di speranze tradite, per come il governo ha risposto, finora, alle attese di coloro che l’hanno votato. Nella sensazione, insomma, che i provvedimenti per affrontare le emergenze dell’economia non siano tali da rassicurarli.

La seconda notizia, invece, costituisce per la sinistra non un campanello d’allarme, ma un suono di campane a martello, come quello che avvisava i paesani dell’imminente invasione dei nemici. Se anche nella roccaforte «rossa» di Torino e provincia, ormai, il centrodestra è quasi a un solo punto di distanza nelle percentuali di voto espresse dal sondaggio, le preoccupazioni di Veltroni e compagni dovrebbero indurli a risposte meno dilatorie, vaghe e persino sprezzanti rispetto alla cosiddetta «questione settentrionale».

Se vogliamo uscire dalle ipocrisie e dagli eufemismi, la situazione del Partito democratico, vista dal Nord, è sintetizzabile in poche righe. In questa zona del Paese, il Pd è visto come un «partito romano», con una base elettorale nel Centro Italia e con una forza clientelare e assistenziale in alcune città del Sud. Un partito dove i litigi tra i dirigenti non svelano contrasti ideali e politici, ma il desiderio di conservare e, possibilmente, aumentare il potere che ciascun capocorrente detiene. Unico motivo per non ammettere due verità dolorose, inaccettabili e contraddittorie. La prima è il fallimento dell’unione tra gli eredi dei filoni più importanti della cultura politica del secondo Novecento italiano, quello comunista e quello cristiano-democratico. La seconda è l’assoluta mancanza di alternative, almeno quelle concrete, per il centrosinistra rispetto alla via intrapresa e, quindi, la costrizione a continuare nell’esperimento, fin qui assai deludente.

Ma l’aspetto più curioso è che la dirigenza nazionale del Pd sembra aver accettato questo stato di fatto e, con una certa rassegnazione, dia per persa, ormai, la partita nel Nord e punti al voto «mobile» del Sud. Nell’ingenua speranza che, come è successo in passato, il suffragio meridionale possa costituire l’ago della bilancia per la vittoria nazionale. Insomma, che un ipotetico asse centro-meridionale riesca a sconfiggere il Settentrione, ormai passato definitivamente al nemico.

Come si possa pensare di candidarsi alla guida del Paese in opposizione alla parte più socialmente, economicamente e culturalmente evoluta, nell’Italia del Duemila, è già un azzardo, incredibile anche per il pensiero politico più spregiudicato e avventuroso. Ma che si possa immaginare di attuare il progetto senza le tradizionali, forti e maggioritarie presenze in alcune grandi città del Nord, da Torino a Genova fino a Venezia, è, poi, del tutto misterioso. Vorrebbe dire trasformare il partito che raccoglieva tradizionalmente la gran parte dei ceti più coinvolti nel processo di trasformazione industriale e, più in generale, economica, dell’Italia nel secolo scorso in un cartello di difesa conservatrice, con una maggioranza di pensionati impauriti e intellettuali arrabbiati.
 
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Non hanno idea
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2008, 12:09:17 pm
20/12/2008
 
Non hanno idea
 
LUIGI LA SPINA
 

C’era molta attesa nel popolo della sinistra per l’esito della direzione Pd. Certo l’impressionante susseguirsi di inchieste contro gli amministratori locali del partito democratico aveva acuito l’interesse per la cosiddetta «questione morale». Ma anche sulla validità della linea politica del segretario, dalla strategia delle alleanze al rinnovamento di programmi e uomini, si aspettava una convinta conferma o una chiara bocciatura. Insomma, si attendeva un segnale di svolta, nella consapevolezza della necessità di decisioni tali da riannodare quel rapporto di fiducia tra classe dirigente del partito e suoi elettori che sembra si stia sfaldando.

Il discorso di Veltroni ha ripreso con efficacia molti dei temi innovativi che avevano favorevolmente colpito nell’esordio della campagna elettorale, al Lingotto di Torino. Il dibattito che ne è seguito è stato non rituale e gli interventi, fra gli altri, di D’Alema e Bersani, da una parte, e di Chiamparino, dall’altra, hanno esposto con franchezza dubbi e anche critiche non ipocrite.

Ma è difficile pensare che il documento finale, votato con un solo voto contrario, costituisca davvero quell’avviso di cambiamento di rotta capace di rassicurare sia i militanti sia i potenziali elettori del Pd.

La delusione per il risultato della lunga giornata di dibattito nel Partito democratico, in sostanza, è costituita dallo scarto tra la drammaticità della situazione del Pd e le scelte concrete varate dal «vertice» dei suoi dirigenti per cercare di ribaltare la crisi in cui si trova. Se i contrasti emersi nella discussione si sono risolti con una sconcertante votazione plebiscitaria, vuol dire che tutti i problemi, in realtà, sono stati rinviati. Da quello della leadership di Veltroni, rafforzata apparentemente nei numeri, ma indebolita dalla severità e, persino, dall’asprezza di alcune pesanti critiche che gli sono arrivate. A quello della concezione del partito cosiddetto «leggero», processata proprio per l’allentamento di quei forti legami con il territorio e la società che lo contraddistinguevano e gli consentivano di superare anche le bufere più insidiose.

Non basta rivendicare giustamente l’onestà di tanti amministratori locali del Pd per convincere che il partito possegga davvero gli anticorpi per sconfiggere l’omologazione morale di certi suoi dirigenti al costume di servilismo della politica rispetto al mondo degli affari. Su questo argomento, senza decisioni, urgenti e straordinarie, nei confronti dei responsabili, almeno di mancata vigilanza, non si può pretendere di essere creduti sulla parola e sulle buone volontà. Ma ha ragione D’Alema quando sostiene che la questione morale nel Pd ha tanto peso soprattutto perché è finora fallito l’amalgama tra i due tronconi che hanno dato origine al nuovo partito.

Se dobbiamo riconoscere che è questo il punto di partenza per la diagnosi del male oscuro nel Pd, non si capisce perché, poi, si pretenda di curarlo senza cambiare né il medico né la medicina. La contraddizione è troppo evidente perché non si sospetti che le vecchie liturgie del rinvio e della dissimulazione dei contrasti perdurino ostinatamente anche nelle pretese novità di una forza politica appena nata.

Le alternative sono due e, anche in questo caso, le famigerate «terze vie» non esistono. O Veltroni ha ragione e le difficoltà derivano dalle resistenze che i suoi oppositori interni pongono al rinnovamento del partito e dei suoi quadri dirigenti. Con il risultato che le lotte di corrente paralizzano il partito, incapace di scelte riformiste non ambigue e comprensibili al suo elettorato. E, allora, bisogna riconoscere al segretario il potere di imporre tutti quei cambiamenti che lui giudica necessari, senza veti da parte dei «cacicchi» nazionali e locali.

Oppure bisogna prendere atto che la pretesa di un partito democratico «all’americana», già l’aggettivazione è significativa del problema, nell’Italia d’oggi, non corrisponde alla realtà storica e politica del nostro Paese. Perché impedisce un coerente allineamento con le grandi forze presenti in Europa. Perché finisce, paradossalmente, per inasprire e non risolvere il contrasto tra l’ispirazione laica e quella cattolica, in una continua costrizione o al compromesso o all’afasia. Perché non riesce a rassicurare la grande area moderata degli elettori italiani, diffidente per le troppe ambiguità di un riformismo che non vuole pagare il prezzo di scelte coraggiose. Né conforta quel settore di sinistra della società italiana, cospicuo anche se minoritario, che si sente privo di una rappresentanza politica, magari non sufficiente per governare, ma utile per costituire un’opposizione efficace rispetto a Berlusconi.

In questo caso, è illusorio attendere, dopo il voto dell’Abruzzo, quelle altre conferme negative, nelle prossime elezioni europee, che costringano Veltroni a gettare la spugna. Il problema non è la sorte di un segretario, ma la sopravvivenza del centrosinistra in Italia.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Parlar d'altro
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2008, 11:36:41 am
23/12/2008
 
Parlar d'altro
 
LUIGI LA SPINA
 

Non c’è davvero da meravigliarsi se, come ha ricordato ieri sulla Stampa Luca Ricolfi, tutti i più recenti sondaggi confermano, anche in sede nazionale, lo straordinario aumento delle astensioni che si è manifestato nell’ultimo voto, quello in Abruzzo. Un fenomeno che colpisce sia i simpatizzanti dell’opposizione sia quelli della maggioranza. Se si riguardano i titoli dei giornali in queste ultime settimane dell’anno, infatti, l’impressione di un clamoroso scollamento tra gli interessi degli italiani e gli argomenti su cui dibatte la classe politica è subito evidente.

Ma come? Ancora ieri l’Istat segnalava in modo molto significativo le difficoltà economiche della grande maggioranza delle famiglie nel nostro paese e la discussione pubblica si concentrava prima sulla divisione delle carriere per i magistrati, poi sulla trasformazione federalista dello Stato e, ora, dulcis in fundo, addirittura sull’elezione diretta del capo dello Stato.

In tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Francia, ma anche dalle potenze petrolifere del Medio Oriente alla star dell’ultimo miracolo economico internazionale, la Cina, i governanti, senza distinzioni di ruolo rispetto al potere, si affannano e si dividono solo sulle misure più opportune per alleviare i disagi e le paure dei loro governati. Da noi, tv e giornali sono costretti ogni giorno ad ospitare annunci, dispute, sconfessioni e retromarce su ipotetiche riforme che o soddisfano solo interessi di parte o riguardano tempi lontani o, e questo è il caso peggiore, servono a creare polveroni per distogliere l’attenzione dai problemi più gravi e urgenti.

Ad un ipotetico ospite straniero, il calendario della nostra politica potrebbe apparire davvero surreale. Cominciamo dal federalismo. Sia i fautori di tale assetto dello Stato sia gli oppositori, quando non sono costretti dal gioco delle reciproche parti, convengono su un punto: è possibile che, se ben costruita, la riforma regionalista possa, in futuro, ridurre le spese del bilancio pubblico; ma è sicuro che, per i primi tempi, i costi dell’operazione siano molto forti. Ora, proprio in un periodo di crisi finanziaria ed economica che, purtroppo, si prevede piuttosto lungo, pensiamo di varare un provvedimento del genere? Solo per permettere alla Lega di sventolare la bandiera del successo e per non infliggere a Bossi un’umiliazione che potrebbe mettere a rischio la tenuta del governo e della sua maggioranza.

Passiamo alla riforma della giustizia. Tutti gli italiani sanno che i mali più gravi riguardano la lentezza dei processi, specie quelli civili, la garanzia di un ugual trattamento davanti alla legge, la certezza di dover scontare la pena, quando arriva finalmente la sentenza definitiva. Invece si discute di separazione delle carriere, della ripartizione dei compiti, nelle inchieste, tra polizia e magistratura e di vietare le intercettazioni, se non in caso di mafia o terrorismo. Su quest’ultima proposta, poi, si abbatte anche la beffa di una coincidenza temporale che rende la situazione ancor più paradossale. Tutti gli scandali che riguardano il malcostume di assessori comunali e regionali sono fondati su questo strumento di indagine. Come evitare che questa intenzione alimenti, tra i governati, il sospetto di un interesse di categoria, quella dei loro governanti, compresi quelli dell’opposizione?

L’ultima bizzarria dell’agenda politica riguarda il presidenzialismo. Anche qui, non si tratta di discutere sul merito del progetto. Ci sono fior di democrazie che prevedono l’elezione popolare del capo dello Stato e ci sono tanti dittatori eletti, invece, dai Parlamenti. Ma la meraviglia riguarda l’opportunità, il significato di una tale discussione, oggi. Quando una tale riforma costituzionale richiederebbe un impossibile grande accordo tra la quasi unanimità delle forze politiche. Quando se ne potrebbe parlare solo tra quattro anni, alla fine della legislatura e alla scadenza dell’attuale presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Quando questo problema, soprattutto, è nascosto, se c’è, proprio al fondo dei cuori e delle menti degli italiani, in tutt’altre faccende affaccendati.

L’assoluta virtualità di un dibattito politico sempre più estraneo alla vita concreta dei cittadini produce, infine, conseguenze molto negative anche sulla stessa classe politica. La crisi economica, in tutto il mondo, costringe i governanti a unirsi nello sforzo di fronteggiarla. Persino i due attuali presidenti degli Stati Uniti, quello in carica e quello che entrerà alla Casa Bianca tra pochi giorni, due leader assolutamente agli antipodi come Bush e Obama, sembrano essere riusciti a concordare una strategia anticiclica. In Italia tutte le riforme allo studio hanno un effetto comune, di questi tempi, assai pernicioso: quello di dividere invece di unire. Insomma, a parlar d’altro non solo si spreca il fiato, ma ci si fa del male.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - L'uso politico di una tragedia
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2009, 03:46:55 pm
7/2/2009
 
L'uso politico di una tragedia
 
 
LUIGI LA SPINA
 

Lo strapotere della Chiesa lo scivolone del Quirinale il pugno del Cavaliere.

In un momento in cui ogni coscienza si sente dilaniata da una scelta ugualmente terribile e iniqua, in una questione in cui nessuno si può arrogare il monopolio della giustizia e della verità perché è il dubbio che ci tormenta, c’è una sensazione che addolora di più e acuisce tristezza e pena: la consapevolezza che il grave conflitto politico e istituzionale che si è aperto ieri si gioca sulla pelle di una ragazza. Anzi, sul corpo di una ex ragazza divenuta donna nella lunghissima attesa della morte.

Se guardiamo l’incalzare febbrile delle vicende che, in queste ore, si sono susseguite fuori da quella porta che, fortunatamente, ancora separa Eluana dai politici, dai giudici, dai preti, dai dimostranti, dagli schermi tv, si possono cogliere almeno tre impressioni fondamentali: la volontà della Chiesa cattolica, meglio del Vaticano, di dimostrare la forza del suo potere sulla classe politica italiana; la mossa irrituale, comprensibile ma forse sbagliata nella valutazione delle conseguenze, da parte del presidente Napolitano, quando ha spedito la lettera con il preventivo «no» al decreto; il pugno di Berlusconi, con un duplice obbiettivo, di mettere in difficoltà il Presidente della Repubblica e di dimostrare la necessità di una riforma costituzionale che rafforzi i poteri del premier.

Per i laici è solo una coincidenza, per i credenti un segno provvidenziale. Per tutti, è comunque curioso che proprio nei giorni in cui si celebrano l’ottantesimo anniversario dei Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa e il quarto di secolo della revisione di quegli accordi, allo scontro tra istituzioni italiane si affianchi il rischio di una dura polemica tra Santa Sede e presidenza della Repubblica. Con ministri vaticani che criticano pesantemente Napolitano.

Nell’augurio che non si apra nella società italiana una «guerra di religione» di cui non si sente davvero il bisogno, né se ne comprende la giustificazione, è interessante notare come, sul caso Eluana, sia stata la Santa Sede a esprimere i toni più forti ed esasperati, sia nella polemica pubblica sia col protagonismo indiscusso del Segretario di Stato, cardinal Bertone, nel dialogo con i leader della nostra scena politica. Questo corrisponde alla prevalenza, ormai evidente nel pontificato di Benedetto XVI, degli aspetti teologici su quelli diplomatici. Un carattere che tende a sottovalutare il ruolo anche di capo di Stato che il Pontefice riveste e, quindi, delle pesanti conseguenze che certe parole e certe accuse possono avere sul rapporto tra Vaticano e presidente di uno Stato laico. Uno Stato che rivendica, o dovrebbe rivendicare, la piena autonomia delle sue scelte contro ogni tipo di ingerenze esterne, sia spirituali che temporali.

Sarebbe un errore, però, scambiare l’indubbio segnale di forza dimostrato dal Vaticano sulla classe politica italiana, con un’accresciuta influenza della Chiesa nella nostra società. Forse alla debolezza dei partiti e delle leadership si affianca, parallelamente, il timore dei vertici vaticani di un crescente distacco tra i sentimenti e i costumi degli italiani e la Chiesa. Un rischio che si cerca di esorcizzare più con fredde dimostrazioni di potere e di autorità che con manifestazioni di vicinanza pastorale ed affettiva ai problemi concreti della nostra popolazione.

Nell’ex residenza dei Papi, al Quirinale, si è vissuta una giornata di altrettanta tensione. È stato evidente il tentativo compiuto da Napolitano di avvertire pubblicamente Berlusconi di quella responsabilità di uno scontro istituzionale che si sarebbe assunta varando il decreto per Eluana. Nel timore di dover esprimere un «no» che lo avrebbe esposto all’accusa di aver voluto firmare una sentenza di morte. Ma il parere preventivo, arrivato proprio durante un consiglio dei ministri che stava decidendo sulla questione, può apparire lesivo di quella piena autonomia e responsabilità che la Costituzione riserva al governo in questi casi.

Nella partita a scacchi tra organi dello Stato che si è svolta ieri resta da notare la determinazione del presidente del Consiglio nell’imboccare consapevolmente la via dello scontro col Quirinale. Non tanto e non solo per piegarsi alle volontà del Vaticano, assumendo il ruolo di difensore della fede e della morale cattolica nella politica italiana, in una versione confessionale dell’eredità democristiana. Quanto per assestare, in modo clamoroso, un colpo al prestigio e al ruolo del Capo dello Stato e a chi, come Fini, ne segue troppo pedissequamente i consigli. Sfogando un risentimento che Berlusconi cova da tempo nei confronti di Napolitano e che, finora, si era acconciato a mimetizzare nella diplomazia istituzionale molto a malincuore. Nella speranza, inoltre, di dimostrare quanto sia necessario un riequilibrio dei poteri a favore della presidenza del Consiglio, manifestatasi così impotente in una questione così delicata. Sarà difficile che una riforma costituzionale quale Berlusconi vagheggia sia realizzabile, almeno in tempi ragionevolmente brevi. Ma in politica, soprattutto in quella italiana, non sempre servono i risultati. Bastano le intenzioni.
 
 da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Un destino di minoranza
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2009, 12:05:55 pm
19/2/2009
 
Un destino di minoranza
 
LUIGI LA SPINA
 

I medici pietosi che si affannano accanto al moribondo Partito democratico, dopo l’ennesimo disastro elettorale e le dimissioni di Veltroni, si dividono sostanzialmente in due scuole: i leaderisti e i politicisti. Formulano due diagnosi diverse e suggeriscono due terapie diverse. I primi, sedotti dalla moda presidenzialista, formula vincente della politica nel nuovo secolo, sostengono che il male del Pd è stata l’inadeguatezza del leader, prigioniero dei cacicchi che lo circondavano. Ritengono che, come in tutte le democrazie moderne, il candidato premier, dopo la sconfitta, avrebbe dovuto dimettersi subito e che il ricambio del segretario e il rinnovamento della classe dirigente del partito sia la vera ricetta per guarire il malato. Insomma, facce nuove, con un’età più verde e con il volto meno segnato dalle ferite di antiche battaglie.

I secondi, più sensibili alla lezione dei numeri e della storia, anche recente, nel nostro Paese, pensano invece che si debba innanzitutto ricostruire un solido partito socialdemocratico che arrivi, da solo, almeno al 30-35% dei consensi.

Giunti a quella soglia si vedrà come ristabilire un’alleanza con tutte le sinistre per sperare di giungere al fatidico 51%. Così i leaderisti si entusiasmano di fronte a ogni fuoco fatuo che si accende nel cimitero della sinistra italiana, in una patetica galleria di improbabili nuove star della politica. E i politicisti affidano al bravo e simpatico Bersani, che non meriterebbe una sorte così ingrata, il compito sul quale si è già immolato il povero Fassino.

L’impressione è che i medici pietosi, come dice il proverbio, servano solo ad allungare l’agonia del malato. Le loro terapie saranno forse necessarie, ma sicuramente non sono sufficienti, perché le loro diagnosi si ostinano a ignorare la verità e le loro ricette parlano agli italiani con un linguaggio ormai sconosciuto.

Il punto di partenza, se quei medici non vogliono più cullarsi nell’illusione consolatoria, è la comprensione di quanto è successo quasi un anno fa. L’esito delle elezioni non ha segnato solo la sconfitta di un candidato della sinistra, ma la ricomposizione, sotto le bandiere di Berlusconi, di quel blocco sociale e politico che ha consentito alla Dc di governare l’Italia per i primi 45 anni della storia repubblicana. Con una sola variante: l’assorbimento, nella maggioranza moderata del Paese, dell’eredità postfascista e la contemporanea espulsione della sinistra cattolica. Un cambiamento, peraltro, che uniforma in una fisionomia europea quella che era un’anomalia del nostro sistema politico rispetto alle altre democrazie occidentali.

Per la sinistra italiana, perciò, il rischio non è di una fisiologica alternanza al potere, come si è verificata nella seconda Repubblica, quella che è cominciata dai primi Anni 90. Ma di una terza Repubblica, con caratteristiche molto simili alla prima, almeno dal punto di vista della stabile presenza di un solo schieramento alla guida del Paese. Se questo è lo scenario del prossimo futuro, la sinistra può rassegnarsi al ruolo che ebbero il Pci e i suoi piccoli alleati di allora, quello di un’opposizione, magari forte, ma permanente. Un’eterna minoranza che tuteli il suo ceto politico, le forze sociali di riferimento e le residue e sempre più limitate aree del Paese dove potrà ancora governare. Per questo obiettivo, basta certamente cambiare un segretario logorato con un altro e cercare di ricostruire un partito socialdemocratico.

Se il centrosinistra italiano, invece, vuole tornare, un giorno, a Palazzo Chigi, l’ambizione e il compito sono ben più alti. Bisogna ammettere, innanzitutto, che le idee e le parole con le quali questo schieramento si è rivolto agli italiani sono vecchie e non corrispondono più al comune sentire della grande maggioranza dei concittadini. Occorre operare, perciò, una vera rivoluzione culturale e politica e pagare un prezzo, anche gravoso, con le liturgie, i miti, i compromessi, le bugie, le procedure del passato.

Non è vero che il Pd sia fallito perché non è riuscito a fondere l’eredità post-comunista con quella cattolico-democratica. Veltroni, al contrario, ha perso la scommessa perché si è ostinato a tenerle insieme, a farle sopravvivere, con continui compromessi e al costo di tante ambiguità. Senza attuare il vero progetto esposto al Lingotto di Torino, quello di mandarle in soffitta. Con tutto il rispetto per i cari antenati, ma riconoscendo che, oggi, quelle due tradizioni non significano più niente per tantissimi italiani. Perché non servono né a scaldare i loro cuori, né a rassicurare i loro portafogli. Perché parlano con il linguaggio del secolo scorso, astratto, ideologico, ipocrita. Perché non sono di nessun aiuto rispetto ai problemi nuovi di un secolo nuovo.

È inutile, allora, che il centrosinistra italiano vada, con la lanterna di Diogene, a cercare nuovi leader sparsi per tutta Italia, belli, giovani e, magari, abbronzati. Così, è assurdo cercare di ricostruire il vecchio Pci cambiandogli il nome, come è stato già fatto, prima trasformandolo in Pds, poi in Ds. Proprio nel momento in cui, evidentemente, si stanno sfaldando i rapporti di consenso tra il partito e il suo tradizionale elettorato: gli operai, i giovani, gli intellettuali. Il Pd, finora, ha parlato sempre dentro una vecchia e residuale coalizione di consensi, rassicurato, ogni tanto, dai falsi plebisciti delle primarie e dalle piazze falsamente moltiplicate. Se non avrà il coraggio di guardare alla realtà, la minoranza in Italia sarà sempre e sicuramente il suo destino.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il Fini delle regole
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2009, 03:33:44 pm
14/3/2009
 
Il Fini delle regole
 
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Anche in politica, le parole restano sempre molto indietro ai fatti. L’ha dimostrato pure l’ultimo scambio di accuse tra Berlusconi e Franceschini, a suon di definizioni vecchie e ormai senza alcun rapporto con la realtà. Perché sia il clerico-fascismo sia il catto-comunismo sono stati importanti filoni culturali e politici della nostra vita pubblica, ma appartengono a un passato senza eredi. Chi non se n’è accorto, o finge di non essersene accorto per comodità polemica, sottovaluta l’intelligenza dell’opinione pubblica, che invece è molto più occupata a capire le novità del presente per intuire gli sviluppi del futuro.

Al di là delle tumultuose vicende del Partito democratico che, almeno, contribuiscono a ridurre il tasso di ripetitività delle nostre cronache, la parabola politica e personale di Gianfranco Fini suscita, da un po’ di tempo, una crescente curiosità, molta sorpresa e, perfino, un qualche imbarazzo. Anche in vista dell’unificazione tra An e Fi nel nuovo partito, colpiscono le trasformazioni del presidente della Camera: da delfino, qualche volta impaziente di Berlusconi, al ruolo di implacabile suo censore, in nome del rispetto delle regole e degli equilibri tra poteri dello Stato.

Se questo atteggiamento potrebbe rientrare nelle funzioni e nei doveri di un’alta carica istituzionale, meno scontate, invece, sono le sue mosse politiche: da quelle internazionali, sulle responsabilità fasciste e naziste nei confronti degli ebrei, a quelle su questioni più domestiche.

Fini sfoggia un fermo laicismo, senza paura di turbare le coscienze cattoliche, in stragrande maggioranza sia nel suo partito sia nel suo elettorato. Ripudia il tradizionale «machismo» della destra italiana per un femminismo che, anche in questo caso, lo mette in contrasto con molti suoi antichi sodali, propugnando persino le «quote rosa». Sfida la paura per gli immigrati, motivo fortemente aggregante per mobilitare la richiesta di «legge ed ordine», tradizionale slogan sotto le vecchie bandiere della destra, con una serie di incalzanti dichiarazioni: a favore del loro voto nelle amministrative, contro la possibilità che i medici possano denunciare gli immigrati clandestini, contro il rischio di non registrazione all’anagrafe dei loro figli.

Parlare, perciò, di curiosità di tutta l’opinione pubblica è davvero giustificato, registrare la sorpresa di quella che ha sempre votato centrodestra è scontato, ma perché e dove alberga l’imbarazzo? A questo punto, bisogna smettere con le ipocrisie e formulare ad alta voce le domande che inquietano molti elettori del centrosinistra: Fini è diventato il garante della democrazia in Italia? Se, al termine del mandato di Napolitano, fosse lui e non Berlusconi ad ascendere al Quirinale, saremmo più tranquilli? Insomma, l’erede di quel partito che fu escluso per tutta la prima Repubblica dal famoso «arco costituzionale» può essere considerato, oggi, un sincero e rassicurante difensore della suprema legge del nostro Stato antifascista?

Finché qualche salace battutista, come la nostra «Jena» quotidiana, propone l’attuale presidente della Camera come segretario del Pd, si può sorridere e passare oltre. Ma quando Fini stesso trova che «non ci sia nulla di male» a considerare di sinistra certi suoi atteggiamenti e ricorda che fu Almirante a pronosticargli «l’apprendimento della democrazia» attraverso la frequentazione delle aule parlamentari, forse è il caso di riflettere un po’ di più su questa intrigante metamorfosi dell’ex leader neofascista.

È possibile che Fini abbia capito che la maggioranza dei suoi colonnelli guardi, ormai, più a Berlusconi che a lui. È probabile che giudichi, ormai, la gran parte del suo antico elettorato irrimediabilmente sedotta dalle sirene del capo del governo. È ragionevole che, ormai, non creda più alla possibilità di ereditare Palazzo Chigi dall’attuale presidente del Consiglio. Ma la sincerità delle intenzioni non conta in politica. Contano i fatti e le apparenze divengono spesso strade obbligate e senza ritorno.

Ecco perché, lasciando perdere le antiche definizioni e distogliendo i pensieri dagli automatismi mentali del passato, si può anche immaginare che il futuro del centrodestra italiano si possa giocare tra due ipotesi. La costituzione di un partito che non è mai esistito nella storia della nostra Repubblica: quello conservatore e democratico, sul tipo del modello inglese, e un altro, moderato e plebiscitario, sulla falsariga di quello che in Francia sta prefigurando Sarkozy. Sulla via del primo, almeno per ora, Fini pare un camminatore solitario, mentre l’autostrada di Berlusconi sembra molto affollata. Ma è affollata anche la truppa degli aspiranti eredi al trono del Cavaliere. E il proverbio ricorda che, qualche volta, è meglio essere soli che male accompagnati.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - La carta di Fini
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2009, 12:09:04 pm
21/3/2009
 
La carta di Fini

LUIGI LA SPINA
 
L’unione tra Alleanza nazionale e Forza Italia costituisce sicuramente un fatto positivo per la nostra democrazia. Non tanto perché sia un’ulteriore tappa verso la semplificazione del sistema politico italiano: rispetto ai taumaturgici effetti dell’ingegneria elettorale e costituzionale, occorre sempre manifestare una sana diffidenza. Ma per un motivo più semplice e un’osservazione più realistica: tra gli elettori dei due partiti una sostanziale unificazione è già avvenuta da tempo e, quindi, perpetuare una divisione dirigenziale sarebbe solo un inutile tentativo di autoconservazione dei grandi e piccoli gruppi di potere. Questa presa d’atto, però, non deve far compiere l’errore di sottovalutare l’interesse per le imprevedibili conseguenze del nuovo assetto nel centrodestra italiano. Perché nulla è scontato, tranne l’attuale indiscutibile leadership di Berlusconi.

A partire dalla fallace tesi di chi pensa che ammettere l’inesistenza di una diarchia con Fini equivalga ad ammettere che An stia confluendo in Forza Italia. L’evoluzione dell’area politica destinata a raccogliere la rappresentanza dell’Italia moderata e conservatrice che parte, oggi, dall’ultimo congresso di un partito nato a metà del secolo scorso, non terminerà certamente la prossima settimana, con la celebrazione della nascita del «Popolo della libertà». Le ultime mosse del presidente della Camera, infatti, hanno confermato una sua scelta strategica: quella di chiudere l’epoca della ricerca del «delfinato» rispetto a Berlusconi, come se Fini potesse limitarsi a raccogliere l’eredità del presidente del Consiglio. Una fase che, se davvero è esistita, da tempo si è compiuta nella pratica dimostrazione di un fallimento. Con l’unità tra i due partiti più grossi del centrodestra italiano si è aperta una sfida più ambiziosa. Quella di chi non si limita a portare nel nuovo partito l’orgoglio del proprio passato, di chi non vuole entrarci deponendo le armi. Ma di chi, anzi, presume di possederne migliori per vincere la competizione del futuro.

Non ci si deve aspettare, perciò, che Fini, durante questa legislatura, ingaggi una battaglia di logoramento, di punzecchiature, di prese di distanza nei confronti di Berlusconi. Coloro che, soprattutto nella sinistra italiana, pensano di trovare nel presidente della Camera un alleato, una «quinta colonna» dell’opposizione, si illudono o fingono di illudersi. Coloro che, nello schieramento di maggioranza, temono tradimenti politici e agguati parlamentari rischiano di non vedere, tra il fumo delle scaramucce quotidiane, il fuoco della futura decisiva battaglia. Il progetto di Fini è un altro e si basa su una fondamentale convinzione: quella di una superiorità «ideologica» dei valori da sempre sostenuti dal suo partito rispetto al pragmatismo aziendalista del presidente del Consiglio. La crisi, prima finanziaria e poi economica, che il mondo sta drammaticamente vivendo in questi giorni, infatti, sembra aver riportato alla ribalta, con una verniciatura più seducente, alcune tradizionali convinzioni della destra italiana.

Quella, per esempio, che il ruolo dello Stato conservi un’importanza fondamentale, sia come motore di sviluppo, sia come garanzia di una efficace e indispensabile rete di protezione per i cittadini. Ecco perché la difesa delle sue istituzioni, delle sue regole e, persino, di alcune prassi parlamentari, da parte di Fini, non deriva solo dal rispetto del ruolo che attualmente ricopre. Ma dalla certezza che, nei prossimi anni, solo chi avrà puntato al rafforzamento della centralità dello Stato nella vita pubblica sarà legittimato a guidarne le sorti. La scommessa di Fini, prima sulla futura egemonia culturale e, poi, su quella politica nei confronti dell’area di centrodestra, non punta solo sull’insperata resurrezione di alcuni «temi forti» del suo passato partitico. Ma sulla speranza di aver intuito alcune trasformazioni profonde del moderatismo italiano, come l’inarrestabile secolarizzazione modernizzante di quell’elettorato, che resta conservatore in economia e in politica, ma che non lo è più nel costume privato e pubblico. Il tentativo di non seguire il tradizionale ossequio berlusconiano per le posizioni delle gerarchie vaticane, con un laicismo non antireligioso, ma non dissimulato, dimostra proprio la sua volontà di cogliere questo mutamento e di rappresentarlo politicamente. Oggi, dunque, non si apre un congresso che dovrà stabilire chi comanderà nel nuovo partito unificato, perché i cittadini che hanno votato il centrodestra lo hanno già deciso. Né a chi andrà l’eredità di Berlusconi, perché quella personale è, sicuramente, un fatto di sangue e quella politica è, probabilmente, non trasmissibile. La vera competizione, nel centrodestra, è tra chi, anche senza cannocchiale, avrà visto meglio il nostro futuro.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il Cavaliere pigliatutto
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2009, 09:29:22 am
30/3/2009
 
Il Cavaliere pigliatutto
 
LUIGI LA SPINA
 
Singolare ma significativo il modo con il quale si è concluso il congresso fondativo del nuovo partito di centrodestra italiano. Certo può essere sorprendente che alle tre fondamentali questioni poste da Fini, l’apertura di una stagione costituente, il sostegno al referendum, la correzione della legge sul testamento biologico così come votata al Senato, Berlusconi, nella replica finale, abbia risposto a metà e piuttosto sbrigativamente solo alla prima, lasciando all’interpretazione del suo silenzio la posizione del Pdl sulle altre due.

Il presidente della Camera aveva tratteggiato un profilo di partito molto preciso, dai caratteri laici e modernizzanti, quasi spigoloso, con una identità così forte che lui stesso era stato costretto a definirlo obbligatoriamente «di minoranza». Un partito, certo, di ispirazione moderata, ma con lo sguardo tutto rivolto al futuro e difficilmente etichettabile come conservatore. Il premier ha voluto evitare «l’alternativa del diavolo» che Fini gli aveva posto: se avesse aderito alle sue posizioni gli avrebbe consegnato il bastone dell’ideologo e del profeta, consacrandolo definitivamente come suo erede; se gli avesse opposto una linea diversa avrebbe riconosciuto, per la prima volta nel partito da lui fondato e sul quale regna incontrastato, la possibilità di una leadership alternativa.

Così, Berlusconi, derubricando quasi l’intervento di Fini come il proverbiale «utile contributo al dibattito», ha voluto concentrarsi sull’ordine del giorno del presente. Un ordine del giorno pervicacemente mirato a un solo scopo: il rafforzamento dei poteri del premier. D’altra parte, se si punta a un partito del 51 per cento, se si identifica il Pdl come il partito degli italiani, quello destinato e quasi costretto a governare per l’inconsistenza dello schieramento avversario, si deve tener conto che tutti possono farvi parte, i laici come i cattolici, i liberisti come i protezionisti, i conservatori come i riformisti. Insomma, un partito che non divide, pragmatico, che si modella nelle mani del suo leader con prontezza e realismo.

È difficile prevedere se questo modello di partito «acchiappatutto» reggerà agli scossoni di scelte che, comunque, sono imminenti, come quelle sul testamento biologico dove, alla Camera, forse la maggioranza dei deputati non è pronta a sostenere il testo approvato a Palazzo Madama. O quando il referendum sulla legge elettorale potrebbe costituire una ghiotta tentazione per sfidare la Lega alla crisi di governo e a nuove elezioni, pur di arrivare, con una scorciatoia, a quella soglia del 51 per cento che, diversamente, potrebbe costituire solo un miraggio.

La conclusione del congresso, però, aiuta a dare un significato chiarificatore al paragone che è aleggiato in questi giorni: il Partito della Libertà è la Dc del Duemila, una «balena bianca» guidata da quel moderno doroteismo ideologico che ha sostituito il dialogo diretto tra il leader e il popolo alla vecchia mediazione interclassista dei capi democristiani? Il confronto sottintende, più o meno esplicitamente, una previsione: Berlusconi è riuscito a raggruppare sotto le nuove bandiere del Pdl un blocco sociale che garantirà al centrodestra l’egemonia politica in Italia per un periodo molto lungo, destinato a non terminare neanche dopo il suo passaggio di consegne.

Il richiamo alla Dc è utile se coglie la capacità del Pdl di rappresentare l’anima moderata e sicuramente maggioritaria del Paese. È illuminante perché coglie l’attuale pragmatismo di Berlusconi, che ha mandato in soffitta l’epopea rivoluzionaria degli esordi e che rifiuta le incalzanti sfide modernizzanti e fortemente identitarie che gli propone Fini. Ma con alcune differenze importanti che, invece, non consentono di fare pronostici. La Dc aveva un elettorato più conservatore di chi si incaricava di rappresentarlo nelle aule parlamentari e al governo. Il Pdl, al contrario, rischia di avere un centro di gravità dirigenziale nettamente più a destra della maggioranza di chi lo vota.

Questa diversità lascia, soprattutto nel Nord Italia, un potenziale spazio politico sia alla Lega, naturalmente, sia ai partiti del centro e del centrosinistra. Poiché non esiste più, nonostante le ossessive insistenze di Berlusconi, un partito antisistema come era il partito comunista, la previsione di una sicura egemonia del centrodestra per i prossimi decenni non può essere confortata da quella similitudine storica. Nell’Italia del Duemila il potere non si conquista più perché gli altri sono fuori gioco, ma perché gli altri si mettono fuori gioco da soli.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il duello del Nord
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2009, 11:09:47 am
9/4/2009
 
Il duello del Nord
 
LUIGI LA SPINA
 
Era una facile previsione quella formulata al primo congresso del «Popolo della libertà»: l’unità fra Fi e An avrebbe ridotto il potere negoziale della Lega verso il principale partito che sostiene il governo.

Un pronostico che già ieri, in mattinata, si era confermato, quando la discussa istituzione delle ronde era stata stralciata dal decreto e relegata nel disegno di legge. Ma che si è dimostrato clamorosamente azzeccato alla luce della sconfitta parlamentare dello schieramento di centrodestra sulle espulsioni degli immigrati. Nel voto segreto, infatti, è emersa la crescente irritazione di molti deputati del neonato partito per quelli che considerano i «ricatti» continui e inaccettabili della Lega.

La politica, però, non è solo una fredda partita a scacchi, dove i numeri, le strategie, le alleanze, i rapporti di forza si muovono nel ristretto campo di gioco, in questo caso in Parlamento e in Consiglio dei ministri. Per comprendere, con una maggiore profondità, sia i motivi di questo contrasto sia il perché sarà destinato a crescere durante l’attuale legislatura, occorre allargare lo sguardo anche fuori dai palazzi del potere.

Il partito di Bossi è in difficoltà perché deve dimostrare ai suoi elettori che l’alleanza di governo stretta a Roma costringe a pagare prezzi salati sull’altare della coerenza programmatica, ma riesce a portare il risultato della riforma federalista. Un provvedimento che è ormai diventato il totem davanti al quale solamente si giustifica la partecipazione della Lega alla maggioranza. Il conseguimento di questo obiettivo simbolico sta diventando sempre più oneroso, anche perché la necessità di trovare un accordo pure con il Pd alimenta le diffidenze tra le file dei sostenitori di Berlusconi. Una parte della maggioranza, inoltre, si è resa conto che, almeno in una prima fase, i costi di questa riforma saranno alti e difficilmente sopportabili in un momento in cui la crisi economica mette a rischio anche i conti dello Stato.

Si sta allargando tra il partito del presidente del Consiglio e quello di Bossi, però, una diversità «ideologica» ancora più importante della valutazione di questo o quel provvedimento, come potrebbe essere la riforma federalista o le ronde anti-immigrati. Un contrasto più profondo e radicale che, proprio in questi tragici giorni, si palesa con grande chiarezza. La volontà d’impersonare lo Stato, la sua forza, la sua presenza, la sua necessità, la provvidenzialità del suo intervento di conforto e di aiuto ai terremotati abruzzesi che Berlusconi dimostra in questi giorni contrasta frontalmente proprio con la ragione fondativa della Lega.

Tra il Cavaliere «rivoluzionario» dei suoi esordi politici, alla fine del secolo scorso, interprete del fastidio per le regole di uno Stato burocratico e accentratore, un sentimento largamente diffuso nel Nord del nostro Paese, e un premier che pare voler subentrare, sul campo devastato di una tragedia immane, al ruolo di Napolitano nella funzione di massima autorità istituzionale, c’è davvero una trasformazione notevole. Allora, l’alleanza con l’antistatalismo e l’autonomismo leghista era del tutto naturale. Ora, diventa più difficile, per il partito di Bossi, accettare un presidente del Consiglio sempre di più avvolto nell’odiato tricolore, a capo di una nuova formazione politica che pare aver trovato nel Centro-Sud d’Italia il baricentro non tanto dei consensi quanto degli entusiasmi.

Quando si proclama solennemente, durante il congresso di unificazione, che il traguardo del Pdl è quello di raggiungere l’autosufficienza per governare l’Italia, cioè il 51 per cento dei suffragi elettorali, è evidente, per la Lega, il rischio dell’impotenza e della sua riduzione a un ruolo di mera testimonianza identitaria in alcune zone del Paese. Bossi, che è un politico molto accorto, non ha avuto certo bisogno di aspettare gli avvenimenti di ieri per avvertire il pericolo. Le prossime elezioni europee potrebbero costituire, nel Nord, il primo banco di prova di quella stagione fortemente competitiva che si annuncia tra i due partiti della maggioranza.

La sfida tra Pdl e Lega potrebbe avere due esiti. Quello di un confronto continuo, in un’alternanza di risultati, per tutta la legislatura con un obbiettivo finale: la conquista dell’egemonia, nel Nord d’Italia, tra l’elettorato del centrodestra. Oppure potrebbe portare a uno sbocco dirompente: l’interruzione della quarta esperienza governativa di Berlusconi e nuove elezioni. In quest’ultimo caso, il verdetto del duello potrebbe essere senza possibilità di rivincita e potrebbe chiudere un’intera stagione politica e, magari, personale.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Se MITO tramonta
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2009, 09:23:17 am
10/4/2009
 
Se MITO tramonta

 
LUIGI LA SPINA
 
Tra i tanti miti che «la grande recessione», come ormai viene definita l’attuale crisi economica in riferimento alla «grande depressione» del ’29, ha infranto, forse, ce n’è uno speciale. Perché si scrive in lettere tutte maiuscole, MITO, e si riferisce al progetto di una grande alleanza tra le due capitali del Nord-Ovest, Milano e Torino. L’idea non era nuova, perché risaliva addirittura agli Anni Ottanta del secolo scorso.

Ma il superamento della crisi Fiat, l’entusiasmo per l’arrivo delle Olimpiadi torinesi, la prospettiva di un rapido collegamento ferroviario tra le due città, la fusione tra le due grandi banche, Intesa e San Paolo, aveva ridato slancio ai sogni di una vera conurbazione industriale e commerciale, motore dell’intera area nord-occidentale dell’Italia. Così, qualche anno fa, l’euforia finanziaria internazionale diede anche un po’ alla testa, forse, ad alcuni protagonisti delle classi dirigenti torinesi e milanesi. Si stabilirono tappe forzate di integrazione tra aziende di servizio, si immaginarono e si realizzarono alcuni esperimenti di collaborazione culturale e turistica, del resto con ottimi risultati, come la rassegna «Settembre Musica». Si programmò un rilancio reciproco tra i due grandi prossimi appuntamenti internazionali che riguarderanno Torino e Milano, nel 2011 le celebrazioni per i 150 anni dell’unità italiana e, nel 2015, l’Expò milanese.

Non mancarono, naturalmente, reazioni di paura e di diffidenza. I timori erano soprattutto quelli che provenivano dalla capitale subalpina, più piccola di quella lombarda e, quindi, spaventata dalla possibilità di diventare solo una città satellite, dormitorio più a buon mercato dell’imperialismo economico meneghino. Lo scetticismo, invece, era diffuso a Milano, per la sensazione di supponente autosufficienza che spesso colpisce parte di quella classe dirigente. Un convincimento, peraltro, che non sembra suffragato dai fatti, recenti e meno recenti.

In questo clima, di un MITO ormai sballottato fra illuministici progetti e provinciali sgomenti, è arrivato il tornado della crisi internazionale. Con il solito corollario, comprensibile ma pericoloso: l’egoismo stracittadino. Le obiezioni di merito si sono trasformate in paletti di principio irrinunciabili e le difficoltà di bilancio in solidissimi alibi. Finché è sbarcato a Torino il grande guru della sociologia italiana, Giuseppe De Rita, e, con il suo eloquio sornione e ammaliante, ha ammonito la classe dirigente locale con un crudo avvertimento: cari torinesi, non illudetevi, fate da soli, perché non saranno i cinquanta minuti dell’Alta velocità a colmare i fossati che si stanno aprendo tra le due città. Non che De Rita abbia consigliato Torino a rimanere zitella. Solo non ha suggerito la monogamia, ma una sbarazzina poligamia. Per un cattolico dichiarato, fedelissimo a una moglie con la quale ha avuto ben otto figli, è certamente un azzardo. Magari rischia la scomunica. Per amore. Di Torino.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Gli orfani del 25 Aprile
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2009, 05:55:50 pm
28/4/2009
 
Gli orfani del 25 Aprile
 
LUIGI LA SPINA
 

Non facciamo gli ipocriti.

Non è vero che, dopo la celebrazione, a partiti unificati, della festa del 25 Aprile, il compiacimento sia generale e tutti sprizzino soddisfazione.

I sentimenti, quelli sinceri di gran parte dei militanti e di gran parte della classe dirigente del Pd come del Pdl sono altri: delusione, stizza e, in molti casi, la sensazione di aver subito una sconfitta.

A sinistra, Franceschini viene accusato di una colpevole ingenuità, quella di avere offerto su un piatto d’argento l’occasione a Berlusconi per un’altra «furbata»: lo scippo dell’unica festa veramente ed esclusivamente identitaria del centrosinistra italiano, quella che, ancora, lasciava una fetta dell’attuale maggioranza fuori dal perimetro dei fondatori e ispiratori della nostra Repubblica. Il segretario Pd, sempre secondo i suoi critici all’interno del partito, prevedeva, da parte del premier, la persistenza del rifiuto a partecipare a quella celebrazione e, quindi, l’opportunità di sfruttare un forte argomento polemico in campagna elettorale. Quando Berlusconi, invece, ha deciso di intervenire alla festa della Liberazione, la mossa di Franceschini si è rivelata un clamoroso boomerang.

La cosa curiosa è che, anche a destra, gli umori sono simili. La partecipazione dei leader Pdl a quella festa è vista come un cedimento all’opportunismo, uno sgradevole prezzo pagato per l’accreditamento politico e morale di Berlusconi come candidato al Quirinale e custode proprio di quella Costituzione di cui gli odiati comunisti furono tra i progenitori. Boccone ancor più amaro da digerire è, poi, il riconoscimento della Resistenza e dei suoi valori come elemento costitutivo e ispiratore della nostra Repubblica.

Altrettanto curiosa e unificante è la speranza segreta che riesce a consolare, sia la destra sia la sinistra, in questi momenti. Per i militanti della prima, l’attesa è quella di superare in fretta il fastidioso pedaggio dell’avvenuto ossequio formale, per depotenziare questa ricorrenza fino a mandarla in soffitta, tra le vecchie bandiere e le vecchie medaglie dimenticate e impolverate. Possibilmente cambiandogli addirittura il nome, per confonderlo con uno più gradito. Per i simpatizzanti della seconda, la presunta gaffe di Franceschini sarà presto superata, quando la strumentalità dell’adesione di Berlusconi sarà contraddetta da comportamenti ed iniziative che riveleranno i veri sentimenti del premier nei confronti del 25 Aprile. Insomma, cova in tutti e due gli schieramenti l’ansia di dimostrare che si può tranquillamente tornare indietro, a quei posti che assicuravano così comode identità distintive e così comode occasioni di polemica politica e di scontro ideologico.

Invece, no. In politica, quello che conta non sono le intenzioni, le mosse strumentali, i retropensieri, ma i fatti compiuti. Quando Fini è passato dal ritenere Mussolini «il più grande statista del Novecento» a considerare l’antifascismo un valore obbligatorio per aderire alla democrazia italiana, molti erano i dubbi, le ironie, i sospetti, dentro e fuori An. Tutte impressioni fallaci: era partito un tragitto irreversibile, certo accidentato, ma senza ritorno, come lo sono tutte le profonde revisioni della propria storia politica e personale. Un percorso che ha portato anche La Russa, ministro della Difesa, a inchinarsi davanti alla Resistenza e alla festa della Liberazione dai fascisti e dai nazisti.

Quando, molti anni fa, il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, ammise di sentirsi più sicuro all’ombra della Nato, ci furono analoghi dubbi, sospetti, ironie. Eppure, quello fu il punto di partenza che trasformò un partito che, in molte sue parti, era rimasto filosovietico, antidemocratico e antioccidentale, nella sezione italiana della socialdemocrazia europea. Sarebbe più rassicurante, certo, che le truppe avversarie rimanessero sui vecchi fronti e che le caserme dei nostri rimanessero sempre là, dove il rifugio è sicuro. Poi, per fortuna, e magari senza calcolare le conseguenze, magari senza intravedere il punto d’arrivo, i protagonisti della storia spezzano tabù e scompigliano il gioco. Lo fanno per un calcolo contingente, per astuzia, magari per viltà o per azzardo. Ma quello che dicono e che fanno resta e non possono più tornare indietro.

L’«ingenuità» di Franceschini ha prodotto un risultato importante. La fermezza del Capo dello Stato, nel ribadire che i principi della Costituzione sono irrinunciabili per garantire il rispetto della democrazia nel nostro Paese e che la lotta antifascista è l’esperienza fondante della nostra Repubblica, ha molto contato per arrivare alla condivisione della festa. La rinuncia di Berlusconi a un suo lungo atteggiamento di distacco e di freddezza, rispetto all’anniversario della Liberazione, va apprezzata per quello che significa non per i motivi, presunti o reali, di tale scelta.

Prendere sul serio quello che si dice e quello che si fa non è da sciocchi ottimisti, ma sottintende una pretesa esigente: la verifica della coerenza da parte dei protagonisti. Chi pensa o spera in una facile palinodia delle parole o degli atteggiamenti non considera che la forza dei fatti è destinata a vincere sempre, anche contro la volontà degli uomini.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il fantasma dell'immigrato
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2009, 05:07:26 pm
8/5/2009

Il fantasma dell'immigrato
   
LUIGI LA SPINA


Sul problema dell’immigrazione, i rischi sono evidenti. C’è una campagna elettorale dove, oltre alla battaglia tra destra e sinistra, si è aperta una competizione dura tra Lega e Pdl.

Una competizione, in prospettiva determinante, per l’egemonia politica e culturale nelle regioni del Nord d’Italia. La crisi economica è nella fase in cui alle avvisaglie di qualche segnale incoraggiante corrisponde la fase più dura delle conseguenze sui consumi delle famiglie e sull’occupazione, soprattutto dei giovani. Sono i momenti in cui le lusinghe della demagogia, la corsa al voto in più o al lettore in più, sembrano irresistibili e le voci dell’egoismo, le paure di perdere le nostre sicurezze, le tentazioni di chiudersi nei recinti del pregiudizio appaiono troppo forti.

Eppure bisogna resistere a queste seduzioni, comprensibili ma da respingere con fermezza, e cercare di fare appello alla coscienza civile, alla necessità di ragionare, distinguere, fermare un’ondata emotiva e strumentale che può far correre al nostro Paese un’altra stagione di follia collettiva, di sbandamento morale e politico e di fornire a gruppi più o meno organizzati l’occasione di violenze e di delitti.

Il controllo dell’immigrazione clandestina è un problema vero e occorre togliere alla Lega il monopolio della sua agitazione propagandistica e strumentale. Non si risolve con appelli moralistici e irenici all’integrazione sociale e culturale, né con azioni caritative e umanitarie, doverose, encomiabili, ma che limitano i danni di politiche sbagliate, non offrono soluzioni di lungo periodo. I risultati dell’azione del ministro Maroni, dopo un anno di esercizio al ministero dell’Interno, non sembrano aver ottenuto, finora, quegli effetti che in campagna elettorale erano stati promessi. È anche questa consapevolezza, forse, che induce la Lega ad affrettare i tempi e alzare i toni di provvedimenti annunciati e poi ritirati, confusi, contraddittori, velleitari e, in alcuni casi, come quelli sui medici e i presidi «spioni», così clamorosamente anticostituzionali da risolversi in un boomerang per la credibilità dell’intera politica del Viminale.

Occorre individuare, con intese possibilmente meditate e allargate a un ampio confronto parlamentare, una serie di interventi che, come è stato fatto per l’immigrazione albanese, limitino il fenomeno e, poi, finiscano per estinguerlo. Le intese con la Libia, ad esempio, vanno messe alla prova di un impegno concreto e verificabile e, di fronte alla possibilità di bloccare il flusso dei clandestini riportandoli ai lidi di partenza, non bisogna opporre rifiuti pregiudiziali.

A fronte di questo impegno, serio, civile, rispettoso dei valori della persona, specie se in difficoltà, ma non ipocrita e falsamente moralista, è necessaria una vera mobilitazione delle coscienze per impedire una deriva emozionale del Paese che potrebbe accendere fenomeni di vero e proprio razzismo. Gli episodi di questi giorni, purtroppo, hanno alimentato timori da non sottovalutare. Basti citarne uno solo, che vale per tutti: la proposta del capogruppo milanese della Lega, Salvini, di una specie di segregazione razziale, come nel passato regime sudafricano, sui trasporti pubblici della città. Un’idea che fa rabbrividire e che dimostra come sia assolutamente necessario porre un deciso altolà alle sfrenatezze culturali e morali di certe posizioni politiche.

Già abbiamo vissuto epoche in cui al mancato rispetto delle regole civili di uno Stato democratico sono corrisposte indulgenze giudiziarie, furbizie partitiche e ammiccamenti giornalistici. Ora, il pericolo può essere ancor più grave, perché la violenza verbale e, magari, fisica rischia non solo d’infrangere una legge, ma il diritto a una convivenza fondata sul rispetto elementare per la vita umana, sull’accettazione di quella fraternità che, accanto alla libertà e all’eguaglianza, sono i fondamenti di una moderna comunità civile. Sono i principi della Rivoluzione francese, alla fine del Settecento. Speriamo che nel nuovo millennio non si debbano più ricordare come patrimonio di parte, ma come patrimonio di tutti.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Non sono ragazzate
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2009, 10:37:19 am
20/5/2009
 
Non sono ragazzate
 
 

LUIGI LA SPINA
 
L’automatismo della memoria potrà anche essere fuorviante, quando ci spinge ad applicare al presente i termini del passato.

Ma può anche essere salutare, quando ci impedisce di trasferire gli errori del passato sul nostro presente. A Torino, prima l’aggressione al segretario della Fiom, poi gli scontri con la polizia al cosiddetto G8 dei rettori hanno fatto immediatamente ricordare il clima infame degli Anni Settanta e, subito, è scattato l’allarme sui rischi di un ritorno del terrorismo nel nostro Paese. Ci si può chiedere se sia ancora adeguato l’uso di questo o di un altro termine per analizzare ciò che sta avvenendo, quasi quarant’anni dopo. Ma la vera domanda, quella che conta, non è se l’usura del linguaggio possa agevolare la pigrizia della mente. La questione è se sia giustificato quel timore e quell’angoscia che prende alla gola chi ha vissuto quei tempi orribili. La risposta, purtroppo, può essere una sola, chiara e forte: sì.

È ovvio che oggi le condizioni politiche, sociali, culturali sono troppo diverse da quelle che il confronto, eppure inevitabile, ci rammenta. Ma il paragone non suggerisce solo elementi rassicuranti.

Allora, c’era la spinta a una redistribuzione di ricchezza e di potere, accumulati negli anni del dopoguerra, richiesta dalla affollata generazione dei figli di coloro che li avevano procurati. Adesso, s’agita lo spettro dell’esaurimento, a seguito della crisi economica, dell’unico capitale che ha consentito alla precarietà giovanile la sopravvivenza, quello dei risparmi di genitori e nonni. Allora, c’era una forte opposizione parlamentare di sinistra che, in una prima fase, trasferì nelle istituzioni la voce della protesta e, poi, sia pure tardivamente, vi si oppose con fermezza, quando non fu più possibile disconoscerne l’eredità familiare. Adesso, l’assenza o la debolezza di quella rappresentanza non è un vantaggio, ma un rischio.

Allora, c’erano forti ideologie rivoluzionarie, certo da non rimpiangere, perché dietro le utopie si nascondevano modelli di terribili regimi dittatoriali e sanguinari, ma che legavano, comunque, i sogni giovanili a un ideale. Adesso, le speranze faticano ad appendersi a qualsiasi valore per cui possa sembrare giustificato battersi.

Ecco perché la memoria soccorre, invece preziosa, a ricordarci una lezione intransigente su quel limite invalicabile, sempre, comunque, dovunque: il confine tra l’espressione di un pensiero, di una protesta, anche di una ribellione, e il ricorso alla violenza, sia pure piccola, marginale, apparentemente effimera. Le parole si possono cercare meglio, ma le accezioni della violenza non hanno i diminutivi. Perché il passato può essere un incubo, ma anche un vaccino.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Berlusconi e i problemi dimenticati
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2009, 10:09:47 am
27/5/2009
 
Berlusconi e i problemi dimenticati
 
LUIGI LA SPINA
 
A dieci giorni dal voto, ci aspettavamo di dover lamentare l’assenza delle questioni europee nella campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Ma non avremmo mai potuto immaginare che sarebbe stato «il caso» di una ragazza diciottenne, Noemi Letizia, il centro del dibattito tra i partiti. Una polemica che ha suscitato, da una parte, una enorme curiosità voyeuristica sull’intimità di Berlusconi e, dall’altra, una raffinata dissertazione politologica sulla distinzione tra pubblico e privato, quando si parla di un personaggio che rappresenta la quarta carica dello Stato. Ma che non avrà, molto probabilmente, alcun effetto sui risultati del 6-7 giugno.

Tanto rumore per nulla, quindi? Non proprio. Esiste un problema di coerenza nella pretesa di riservatezza sulla sua vita privata che, oggi, il presidente del Consiglio rivendica. Una richiesta difficilmente comprensibile, dal momento che anche sull’esibizione pubblica, ostentata ed insistita, delle felicità familiari, delle ricchezze personali e, persino, delle straordinarie capacità di ringiovanimento estetico si è fondato quel formidabile rapporto di successo politico che unisce, da oltre quindici anni, Berlusconi con la maggioranza del popolo italiano.

Ecco perché il premier dovrebbe riuscire a offrire, sul «caso Noemi», una versione dei fatti meno contraddittoria e più credibile di quella finora fornita da lui, dai suoi difensori e dai familiari della ragazza. Berlusconi si sentirà ingiustamente perseguitato per una sciagurata visita nella poco amena Casoria, ma non dovrebbe dimenticare la lezione dantesca sulla pena del contrappasso.

Non è possibile, però, che i trasversali interessi congiunti dei due schieramenti, con l’opposizione che così maschera le sue difficoltà e con Berlusconi che recita la sua parte migliore, quella della vittima, riescano a eludere il vero problema sul quale il dibattito pubblico dovrebbe concentrarsi: la crisi economica, soprattutto per le sue conseguenze più gravi, la crescita della disoccupazione e l’ampliarsi della condizione di precarietà che affliggono molti italiani. Le preoccupazioni dei vescovi sulla condizione sociale di molti nostri concittadini sono condivisibili e significative, anche perché provengono da chi aveva espresso una esplicita fiducia al nascente «Berlusconi quarto». L’appello alla riforma del welfare lanciato da Confindustria e, per la prima volta, non contestato pregiudizialmente da tutti i sindacati, va accolto. Non solo per verificare la possibilità di un’intesa, ma per sgomberare o confermare il sospetto che incomincia a convincere molti: quello di un’ipocrita commedia all’insegna dello slogan «ora le riforme». Perché, in campagna elettorale, è troppo pericoloso impaurire la somma degli interessi costituiti in difesa dell’esistente e perché è più facile, per chi non ha responsabilità di governo, inneggiare al cambiamento.

La divaricazione tra le due Italie che, in questo momento, fronteggiano la situazione di crisi è davvero insopportabile. Da una parte, i garantiti: coloro che, addetti all’impiego pubblico o semipubblico, non solo non rischiano il posto di lavoro, ma, in un periodo di inflazione moderata, almeno finché durerà, constatano un potere d’acquisto, tutto sommato, non inferiore ai tempi passati. Dall’altra, chi ha visto drammaticamente ridotto il suo salario dalla cassa integrazione o, addirittura, non ha più speranze di una riapertura della sua fabbrica o del suo ufficio. In fondo al secondo girone, quello che potremmo chiamarlo, alla Primo Levi, dei «sommersi», ci sono i precari. Quelli che invano hanno sperato in una riconferma dell’occupazione e, magari, in un contratto a tempo indeterminato. Come è possibile sopportare l’ingiustizia di protezioni sociali che così dividono la sorte di tanti italiani? Come è possibile non accettare un innalzamento dell’età pensionabile, di fronte a una molto più lunga aspettativa di vita, per poter estendere a tutti la sicurezza di non essere abbandonati a una perenne precarietà del lavoro?

È a questa linea di coraggioso rinnovamento nella politica sociale ed economica che Berlusconi dovrebbe rispondere. Coi fatti.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA Fiducia, ma niente trucchi
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2009, 10:06:47 am
30/5/2009
 
Fiducia, ma niente trucchi
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Il tono di Mario Draghi era il solito: asciutto, fattuale, garbato. Lo sfoggio di sintesi arrivava a raggiungere il record di brevità, nella storia delle Considerazioni finali di un governatore: solo 19 pagine. Ma la forma diplomatica non nascondeva una diagnosi della crisi economica italiana nettamente più preoccupata di quella governativa e, soprattutto, una terapia che non accettava «i due tempi» concepiti da Tremonti per affrontarla, sollecitando una urgente e incisiva strategia di scelte riformatrici.

Era davvero un curioso inizio di giornata quello che ieri aspettava il governatore della Banca d’Italia nel suo momento di maggior visibilità mediatica durante tutto l’anno. La lettura delle sue Considerazioni finali, infatti, era stata preceduta, con una tempistica che è difficile immaginare affidata al caso, da un’altra lettura, quella di un’intervista del ministro Tremonti al più importante quotidiano economico-finanziario del nostro Paese, Il Sole-24 Ore.

Una specie di «contro-relazione» anticipata, dunque, con la quale era inevitabile ingaggiare un confronto con il discorso che avrebbe pronunciato il governatore a metà mattinata. Così, al di là delle intenzioni, almeno quelle di Draghi, un felpato duello dialettico si sviluppava in una giornata in cui il ministro dell’Economia rivendicava il diritto esclusivo del governo «a fare la politica economica», pur non ignorando i dati forniti «dai tecnici». Mentre il governatore non si sottraeva al compito di suggerire una linea di maggior interventismo riformatore, di fronte ai rischi di un grave impatto sociale della crisi sull’occupazione.

L’approccio di Draghi nel confronto con l’esecutivo era molto soffice: si ammetteva la particolare difficoltà, rispetto agli altri paesi, di una politica economica che deve limitare l’azione di sostegno alla domanda, perchè il peso del debito pubblico è gravoso. Si riconosceva anche al governo di aver imboccato la strada giusta nelle misure anti-crisi. Ma si contestava, con nettezza, l’opportunità dei «due tempi» nell’azione di rilancio prospettata dal ministro dell’Economia, cioè prima «il pronto soccorso», come lo chiamava Tremonti nell’intervista e, poi, «la fase due, quella della spinta e delle riforme». Il governatore di Bankitalia, invece, sosteneva la necessità di varare subito quelle riforme che possano aggredire il «male oscuro» della nostra economia negli ultimi 15 anni: la bassa crescita.

L’impossibilità di concedere altri rinvii alle indispensabili scelte sull’innalzamento dell’età pensionabile e sull’estensione a tutti i disoccupati di una uniforme protezione sociale è obbligata, perché, quando la congiuntura cambierà, non ci troveremo al punto di prima, ma in una situazione peggiore: «con più debito pubblico» e con un «capitale privato - fisico e umano - depauperato». La strategia economica che il governatore suggerisce al governo, in realtà, punta a sollecitare consensi, almeno così sembra di capire, anche all’interno di quella parte dell’esecutivo che non è del tutto allineata alle tesi di Tremonti. Così, si loda la riforma federalista «nel cruciale passaggio dal criterio della spesa storica a quello dei costi standard». Un importante contributo, riconosce Draghi, al contenimento della spesa e, quindi, a una maggiore flessibilità del bilancio dello Stato. Sulla riforma del welfare, inoltre, c’è un esplicito riconoscimento alle misure di sostegno al reddito per i casi non coperti dalla cassa integrazione indicate dal ministro Sacconi nel «libro bianco».

Tutto il complessivo impianto della linea di politica economica che il governatore ritiene indispensabile per consentire all’Italia non solo di uscire dalle attuali difficoltà, ma di «essere parte attiva della ripresa economica mondiale», non si fonda, come detto, sui «due tempi» di Tremonti, ma su quelli che ha chiamato «due fronti»: misure di riduzione della spesa corrente, da varare «subito, anche se possono avere effetti differiti» e riforme «da lungo tempo attese» per assicurare all’economia ritmi di crescita superiori. Draghi si è riallacciato, in maniera significativa, all’esigenza di «ricostruire la fiducia», lo slogan che Berlusconi ripete con insistenza. Ma la frase si è completata con una precisazione importante: «non con artifici, ma con la paziente, faticosa comprensione dell’accaduto, dei possibili scenari futuri e con l’azione conseguente». Perché «la fiducia non si ricostruisce con la falsa speranza, ma neanche senza speranza». Insomma, un discorso, quello di Draghi, che è stato apprezzato, forse, più a Palazzo Chigi che in via XX Settembre, la sede del ministero dell’Economia. Come lo rivelava, a sera, lo stesso Berlusconi, definendolo, con una certa malizia, «molto berlusconiano».
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Referendum su quattro leader
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2009, 05:31:25 pm
6/6/2009
 
Referendum su quattro leader
 
LUIGI LA SPINA
 
Un brivido di nostalgia colpirà, forse, molti italiani domani sera, quando guarderanno la tv per conoscere i risultati del voto: è possibile che tutti i principali leader del nostro teatro politico si possano dichiarare soddisfatti.

E come ai (bei?) tempi della prima Repubblica, si possano proclamare vincitori. Così, la notte dell’elettore sarà agitata da sogni confusi e turbata dai dubbi. In teoria, la partita è relativamente semplice. Oggi e domani si dovrà eleggere il Parlamento Europeo e sono previste parziali elezioni amministrative. In pratica, si tratta di un anomalo e scorretto referendum su almeno quattro leader italiani. Una specie di sondaggio, ma con regole così diverse da quelle che sono stabilite nelle elezioni politiche da rendere abbastanza infondato il test e sostanzialmente abusive le conclusioni che se ne trarranno.

Il «nocciolo» di questa intricata consultazione è, invece, abbastanza chiaro. Si dovrà giudicare se il voto popolare costituirà, per Berlusconi, quel trionfo plebiscitario che, nelle sue intime speranze e nelle sue pubbliche previsioni, lo assolverà dalle accuse, grandi e piccole, che in campagna elettorale gli sono piovute addosso, dentro e fuori le nostre frontiere. Se Franceschini avrà salvato il Pd dal naufragio, ad appena un anno e mezzo dalla nascita di questo partito. Se Bossi avrà così rafforzato la sua presenza nel Nord d’Italia da spostare nel CentroSud il vero baricentro del «Popolo della libertà». Infine, se Di Pietro raccoglierà solo la transeunte onda del voto di protesta, sempre alla ricerca di uno scoglio sul quale raccogliersi, o se la sua trasversale caccia all’elettore smarrito potrà consentirgli di costruire un inedito modello di opposizione diversa.

A queste quattro fondamentali domande è difficile che la notte di domani offra risposte affidabili. Innanzi tutto, per il carattere europeo dell’unica consultazione che si svolge omogeneamente in tutto il territorio nazionale. A meno di clamorose sorprese, lo scarto tra la percentuale degli italiani che sarà andata a votare per queste elezioni e quella che normalmente si registra nelle politiche sarà tale da indebolire un confronto valido. Perché la mobilitazione alle urne degli elettorati, nei vari partiti, è molto diversa secondo la «natura» del voto e, quindi, una ripartizione proporzionale degli astenuti è statisticamente scorretta.

Per complicare i ragionamenti, già abbastanza complicati, che i nostri leader sfoggeranno domani sera per giustificare una vittoria collettiva, ci sono due «varianti». Il primo utile depistaggio per deviare l’attenzione su argomenti più favorevoli all’esito che si auspica è il voto amministrativo. E’ vero che si tratta di un test parziale, ma è anche vero che sono in ballo Province e Comuni cospicui come numero di abitanti e significativi dal punto di vista politico. Dove, peraltro, la vicinanza dei candidati e dei problemi locali rispetto agli elettori acuisce l’interesse per una prevedibile più sollecita corsa alle urne. Basti pensare al verdetto sulla Provincia di Torino, una delle ultime roccaforti del centrosinistra al Nord. O al tentativo di un clamoroso assalto del centrodestra ai presidi «rossi» dell’Italia di mezzo, come il Comune di Firenze. Con la scappatoia, se anche qui non si avessero esiti confortanti, di rinviare la condanna ai ballottaggi, quel traguardo finale che solo tra due settimane consentirà bilanci definitivi.

C’è poi la questione delle preferenze. Il paradosso è che agli italiani sarà consentita questa indicazione dei candidati preferiti proprio nella consultazione dove meno tengono a esercitare tale facoltà. Le circoscrizioni europee, infatti, sono così ampie che, al di là dei capilista, ma non sempre, i nomi sono spesso sconosciuti da un elettore a cui mancano, di fatto, i minimi indizi affidabili per poter fare una scelta che non sia simile a quella che si compie sui numeri del lotto. Ma su questa caratteristica ha puntato Berlusconi per lanciare una sfida «milionaria» ai suoi oppositori «esterni» e competitori «interni». Presentandosi come capolista in tutt’Italia, ha fissato in un numero variabile di suffragi personali, che passano, secondo le dichiarazioni, da cinque a quattro o a tre milioni, la prova schiacciante che la grandissima maggioranza dei concittadini gli tributa fiducia e simpatia in queste travagliate settimane. Ecco perché anche il gioco delle preferenze consentirà, almeno per il presidente del Consiglio, un test sul quale misurarsi.

La confusione aumenterà, infine, perché sull’esempio delle preferenze per il premier, nessuno ha fissato l’asticella per valutare la sconfitta o la vittoria. Né il termine di confronto più significativo, se sia quello omogeneo al tipo di elezione, le ultime europee del 2004, o quello più vicino nel tempo, le politiche dell’anno scorso. Ancor più conveniente potrebbe essere il paragone con i sondaggi. Se si prevede il peggio, basterà proclamarsi soddisfatti per l’«ampio recupero sulle previsioni». Quelle sì, davvero sicure, perché spesso si dichiarano solo dopo che si è conosciuto il risultato.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Rincorrendo paura e protesta
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:10:13 am
9/6/2009
 
Rincorrendo paura e protesta
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Paura e protesta. Il risultato complessivo del week-end elettorale tra le europee e la parziale tornata amministrativa ha sostanzialmente fatto emergere questi due sentimenti tra gli italiani. Al di là del giudizio per le provinciali e comunali, che sarà possibile formulare compiutamente solo dopo i ballottaggi, il sistema con il quale si è votato ha agevolato l’espressione libera, senza i condizionamenti di un governo nazionale da eleggere, degli stati d’animo più profondi dei cittadini in questo momento.

Si è radicalizzata, così, la spinta centrifuga verso la Lega, da una parte, e verso Di Pietro, dall’altra, all’interno di una spaccatura così profonda nell’elettorato che non consente travasi di voti tra i due schieramenti. Inoltre, si è accentuato il distacco dell’elettorato dalla politica, con una percentuale di astensioni che non va trascurata con l’alibi di un confronto europeo che ancora ci privilegia. Un fenomeno che, presumibilmente, ha colpito soprattutto i due partiti maggiori, il Pdl e il Pd. Con l’effetto di aumentare la polarizzazione «alle estreme» dei due fronti.

Senza decretare con troppo anticipo il «de profundis» nei confronti della tendenza al bipartitismo nel nostro Paese, un orientamento che dovrà essere verificato con un confronto corretto, cioè con il sistema di voto che vige nelle elezioni politiche, è comunque responsabilità primaria dei due maggiori partiti raccogliere questi sentimenti e dar loro una risposta seria, concreta, urgente. La tentazione più sbagliata, da parte di Pdl e Pd, sarebbe quella di rincorrere la paura e la protesta, ripetendo il clamoroso errore della loro campagna elettorale: aver scosso quell’albero i cui frutti sono caduti nelle mani dei rispettivi partiti concorrenti. Rispondere alla spinta verso la radicalizzazione degli umori negli schieramenti, con una parallela corsa all’esasperazione delle posizioni, nell’illusione di assorbirla, sarebbe uno sbaglio drammatico e controproducente.

Berlusconi deve prendere atto che atteggiarsi a vittima, gridare ai complotti, attaccare i magistrati, i giornali e, persino, accusare la Banca d’Italia di sbagliare i conti, non porta a quel trionfo plebiscitario che sperava. Soprattutto, non deve autoilludersi per poter illudere, dipingendo un quadro dell’Italia irrealistico: la crisi economica, nel nostro Paese, non è passata. Le conseguenze sui consumi e sull’occupazione sono e saranno pesanti. Occorre rispondere alle sollecitazioni delle forze sociali, dalla Confindustria come dalla gran parte dei sindacati, con un programma di riforme che sostenga i redditi delle famiglie e che modifichi un sistema di welfare ingiusto e insufficiente.

Si può anche mascherare una sconfitta, consolandosi per il mancato sfondamento elettorale del premier, ma Franceschini non può davvero pensare che con l’addizione delle attuali opposizioni si possa costruire un’alternativa di governo a Berlusconi. Per il Pd si aprono due grandi problemi: inventare un grande progetto di moderno cambiamento del centrosinistra italiano e accelerare, a tappe forzate, un ricambio di ceto dirigente assolutamente indispensabile. Un partito che viene votato solo da un italiano su quattro non può pensare di coagulare un’alleanza del 51 per cento né con una riedizione dell’alleanza prodiana con la sinistra radicale, né con una intesa con l’Udc di Casini.

L’unico conforto, per i dirigenti del Pd, può venire, invece, dal riconoscimento di aver intuito, prima degli altri partiti progressisti d’Europa, l’esaurimento dell’esperienza socialista, sia nella applicazione socialdemocratica sia in quella radicale. La crisi delle sue varie versioni continentali, da quella laburista a quella francese e tedesca e, da ultimo, anche a quella più nuova, l’iberica zapaterista, salva l’ipotesi ideologica sulla quale è stato immaginato quel partito. A patto che la nuova suggestione ideale sia applicata a una formazione politica che non rappresenti una somma di ex esponenti del passato comunista e democristiano, peraltro divisi e fiaccati da rivalità e odi personali che durano da decenni. Un ceto politico che il suo elettorato non sopporta più.

La lezione di un test elettorale «anomalo» come questo che si è svolto a un anno dal voto per le politiche può essere facilmente metabolizzata, con un po’ di propaganda, con qualche rimescolamento di potere nei due partiti maggiori che serva a trovare qualche capro espiatorio e possa alimentare la speranza di una rivincita. Ma Berlusconi ha un’occasione preziosa per cambiare il suo vecchio spartito. E Franceschini per trovarne uno.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Quei riti nell'Italia stanca
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2009, 12:11:22 pm
14/6/2009
 
Quei riti nell'Italia stanca
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Che tristezza ascoltare quei vecchi slogan che il tempo ha reso ancor più vuoti, ancor più senza significato, ma non è riuscito a cancellarli per sempre dalla nostra vita.

Che tristezza vedere quei pugni alzati, quel rituale stanco di una violenza politica che non è stata mai capace di fare la rivoluzione, ma che ha potuto procurare tanto dolore e tanto lutto. Quelle bandiere rosse usurpate, quegli insulti, quelle minacce a chi compie solo il proprio dovere. Il contrasto tra la rappresentazione che si è ripetuta a Milano nell’aula di giustizia, dopo la sentenza contro le cosiddette «nuove Br», e la realtà dell’Italia d’oggi è tale, da rendere immediata e inquietante la domanda: perché soltanto nel nostro paese non si riesce a interrompere questa tremenda illusione che arma le menti e le mani di giovani e meno giovani, sempre più isolati, sempre più disperati, cupi replicanti del passato? Come mai un movimento di contestazione mondiale nato alla fine degli Anni 60 ha generato, soltanto da noi, una così lunga scia di violenza terroristica nei due decenni successivi? Una scia sempre più ridotta, ma che è riuscita a scavalcare il nuovo millennio senza minimamente trarre qualche lezione da anni costellati di assurdi assassinii?

Dopo quarant’anni, la Francia ritrova un grande leader della rivoluzione sessantottina, Daniel Cohn-Bendit, a capo di un partito ecologista riempito di suffragi elettorali e di speranze democratiche. In Germania rispunta una sinistra radicale, ma non violenta, che unifica la separazione dei due Stati di allora in una contestazione parlamentare dura, ma senza tragiche tentazioni. L’Europa intera ammette il dissenso, coltiva il dubbio sul futuro del mondo globalizzato, conosce la protesta, ma non si attacca più alla barba di Marx e ai dittatori novecenteschi che a lui si sono ispirati.

Il senso di stanchezza, di inutilità, di arretratezza, mentale prima che politica, di quelle parole, di quei gesti suggerisce una ipotesi che non vorremmo ammettere: forse, c’è un legame tra la persistenza, sia pure isolatissima, di questo vecchio estremismo violento nel nostro paese e l’impressione generale di una Italia ferma nel coltivare i suoi vizi, nel ripetere i suoi riti, nell’insistere sulle antiche divisioni. Una collettività intenta più a rimproverarsi le colpe del passato, a scoprire le debolezze attuali dell’avversario che a voler competere con lui sulla sfida del futuro. Il collegamento tra un fenomeno di una limitatissima minoranza e il «male oscuro» di una intera nazione è sicuramente azzardato e sorge più per la suggestione dei sentimenti che per una riflessione analitica. Ma qualche volta, non si sbaglia a riconoscere, come diceva Pascal, che «il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce».

Filosofi a parte, e per di più antichi, forse possiamo alimentare la speranza. Quella che un giorno, un colpo di vento riuscirà a spazzare, insieme, i risentimenti sterili ma pericolosi di chi pensa ancora che la violenza politica produca una rivoluzione e la pigrizia corporativa e conservatrice di gran parte della società italiana d’oggi.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Quel volto stanco del premier
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2009, 10:16:05 am
18/6/2009
 
Quel volto stanco del premier
 
LUIGI LA SPINA
 
C’è una foto che documenta meglio di qualsiasi parola la situazione psicologica nella quale si trova il presidente del Consiglio. Non è una foto scandalistica, rubata in un momento di intimità, ma ritrae Berlusconi in una cerimonia ufficiale e la smorfia amara del suo volto svela, con straordinaria efficacia, la fatica e la difficoltà di dover governare in un clima politico così avvelenato e torbido. È comprensibile il tentativo del premier di sfuggire alle accuse e alle critiche che, con un crescendo impressionante, stanno piovendo su di lui da alcune settimane.

Lanciando l’allarme su un presunto e misterioso complotto che mirerebbe a scalzarlo da una responsabilità che la maggioranza degli italiani hanno democraticamente deciso di affidargli. Ed è altrettanto comprensibile la tentazione dei suoi avversari che accanitamente cercano o di screditare in maniera irreparabile la sua figura morale o di trovare una prova di accusa che regga un processo penale fino a una condanna definitiva.

Né col vittimismo di Berlusconi che pretende un’immunità pregiudiziale, non ammissibile in chi ricopre una così alta carica dello Stato. Né con il moralismo ipocrita di chi finge di sorprendersi dei vizi privati del potere, in qualsiasi regime e in qualsiasi latitudine, e si scandalizza solo quando gli fa comodo. Né col giustizialismo di chi emana sentenze a furor di popolo, peraltro un furore tutto da dimostrare, si potrà spezzare la spirale di inquietante confusione che rischia di produrre il devastante effetto di una sostanziale paralisi del Paese in uno dei momenti più difficili della sua recente storia repubblicana. Paralisi di concentrazione della classe politica sulle vicende personali del premier, paralisi di attenzione dell’opinione pubblica, paralisi di funzionamento della giustizia in un crescente scontro tra poteri dello Stato. Un’impotenza decisionale collettiva che l’Italia, nel mezzo di una crisi economica le cui conseguenze sono tutt’altro che in via di superamento, non si può permettere.

L’imbarazzo di doversi occupare di questioni francamente squallide, tra ricatti economico-politico-sessuali, indurrebbe a trovare una sicuramente efficace via d’uscita imboccando la strada di uno dei tre atteggiamenti descritti precedentemente. Soluzioni che, per i virtuosi della parola, possono contemplare anche l’incredibile, ma praticata, contaminazione fantasiosa di tutti e tre questi vizi della mente. Correndo l’azzardo di volerli evitare, bisogna riconoscere che, al fondo dell’intricata bufera mediatico-giudiziaria che si sta abbattendo su Berlusconi c’è, invece, una constatazione semplice, persino banale: il presidente del Consiglio è inseguito da uno «stile di vita» che ha voluto trasportare, in maniera identica, dall’epoca dei suoi primi successi di bravissimo tycoon televisivo a quella ben più gravosa di premier. Insomma, dal set di «Drive in» alle camere di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa, trasformate, proprio da lui, non nelle sue residenze private, ma nelle stanze dove si conducono effettivamente gli affari di Stato.

È certamente vero che la commistione pubblico-privato non solo è stata tollerata da Berlusconi, ma è stata da lui perseguita costantemente, con l’intuito del grande uomo di marketing, come una delle chiavi del suo successo popolare e, quindi, politico. Ed è altrettanto vero che la sua esuberanza viriloide, se vogliamo chiamarla così, ha sempre suscitato la complicità, invidiosa ma ammirata, della maggioranza degli italiani e ha sempre sollevato ondate di simpatica seduzione nella maggioranza delle italiane. Ma l’impressione è che, ora, la benevola tolleranza per questo «stile di vita», di fronte alla particolare situazione economico-sociale in cui si trova il Paese, si stia trasformando in perplessità e distacco.

Il problema politico di Berlusconi, perciò, non sta nella rilevanza penale di certi comportamenti, non sta nel giudizio moralistico di una vita privata che non dovrebbe interessare chi deve valutare solo le sue capacità di governo del Paese. Ma nella difficoltà di evitare che si pensi al varo della legge sulle intercettazioni non come a un freno a certi abusi, ma come a una disperata rincorsa a tappare le fonti dei suoi guai giudiziari. Che si possa sospettare che gli inviti agli imprenditori perché non facciano pubblicità sui giornali «ostili», cioè tutti quelli che non sono pregiudizialmente e sempre a suo favore, non siano innocenti sfoghi di una vittima di Franceschini. Che la sua amicizia con Putin e con Gheddafi non sia un simpatico corteggiamento a due «clienti» difficili e magari un po’ stravaganti, ma trascuri le tendenze antidemocratiche di certi leader mondiali, pur di vagheggiare linee di politiche internazionali alternative rispetto a quelle di Obama.

Ci saranno sempre i fedelissimi berlusconiani che, di fronte a qualsiasi critica nei suoi confronti, gridano all’attentato, al «golpe» antidemocratico contro colui che la maggioranza degli italiani ha eletto premier del Paese. E quelli per cui Berlusconi è un pericoloso dittatore e l’Italia è diventata un regime, come quello di Mussolini. Ma non si capisce perché, di costoro, l’Italia debba restare sempre prigioniera.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Premiati i candidati pragmatici
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2009, 02:34:29 pm
23/6/2009
 
Premiati i candidati pragmatici
 

LUIGI LA SPINA
 
Ci sono i fatti, che contano. Ci sono gli effetti, che possono contare, e ci sono i commenti dei partiti, che contano nulla. Nel complesso turno elettorale di questo tempestoso inizio d’estate, i primi sono abbastanza chiari e, in generale, senza grosse sorprese. Prevedibile il fallimento dei referendum, ma le dimensioni della sconfitta impongono una riforma dell’istituto.

Nei ballottaggi, il centrosinistra ha riportato un buon successo: ha respinto l’assalto alle città-simbolo del «cuore rosso» d’Italia, Bologna e Firenze.
Ha ottenuto una netta vittoria con Emiliano a Bari e con Saitta alla provincia di Torino. Ha prevalso con Zanonato a Padova. Ma, per questo schieramento, il segno politico più significativo è avvenuto alla provincia di Milano, con l’unica vera grande sorpresa: il testa a testa che Penati, indietro di dieci punti al primo turno, ha imposto a Podestà. Il recupero del centrosinistra, rispetto alla sconfitta nelle amministrative di 15 giorni fa, si è poi confermato in alcuni importanti centri del Piemonte, come Alessandria, Alba, Bra e Saluzzo.

Gli effetti, naturalmente, sono meno evidenti e, soprattutto, si potranno valutare con tempi più lunghi. Non ci saranno conseguenze sconvolgenti, né per il governo, né per gli equilibri nei partiti. Questo non vuol dire, però, che l’esito di questi ballottaggi non abbia dato almeno due indicazioni che valgono in campo nazionale. Il calo dei consensi per Berlusconi, già rivelatosi due settimane fa, sembra essersi rafforzato dopo le ultime rivelazioni scandalistiche. Così è certamente mancato quel traino personale del presidente del Consiglio su cui contavano molti candidati del Pdl, da Podestà alla Porchietto. Per non parlare delle secche sconfitte dei suoi rappresentanti a Firenze, Bologna e Bari. Non è ancora detto che l’oscuramento del carisma elettorale del premier sia destinato a proseguire o sia solo caratteristico di una fase di questa legislatura, ma il segnale, confermato e rafforzato al secondo turno, non è da sottovalutare.

Il secondo aspetto interessante di questo voto riguarda, invece, il Pd. I dirigenti nazionali di questo partito farebbero bene a non trascurare il significato dell’affermazione di alcuni amministratori Pd in importanti città e province dell’Italia settentrionale. Se il maggior partito della sinistra italiana non è stato spazzato via dal Nord del Paese, è dovuto alla presentazione di candidati locali pragmatici, vicini ai problemi delle loro popolazioni, con programmi che non esitano a raccogliere i timori sulla sicurezza e sull’occupazione, senza paura di essere accusati di criptoleghismo. È il caso di Penati che ha sfiorato la clamorosa vittoria alla provincia di Milano o di Saitta, che alla provincia di Torino ha seguito le orme del sindaco Chiamparino. Oppure di Zanonato a Padova.

Questi leader hanno dimostrato, come in passato Dallai a Trento, che su tale piattaforma, moderata e concreta, il Pd, anche in una zona difficile come il Settentrione, può portare il centrosinistra a vincere o, almeno, a mostrarsi competitivo. Non si tratta di pensare a un cosiddetto «partito democratico del Nord», ma è sempre più colpevole la sostanziale indifferenza, o vera e propria sufficienza, con cui questa lezione politica ed elettorale viene accolta al vertice romano del partito.

Restano, infine, i commenti dei leader. Tutti abbastanza inutili. Franceschini pronostica addirittura «l’inizio del declino elettorale della destra italiana». Profezia perlomeno azzardata e frettolosa, dopo il brodino che l’ammalato Pd è riuscito a ingurgitare in questi ballottaggi. Il portavoce del Pdl, Capezzone, si è spinto a parlare di «straordinario successo». La Lega si è sbrigativamente annessa quell’80% di italiani che non ha votato per i referendum. Gli altri hanno vinto, pure loro, tutti. Tranne il povero Segni, anche perché sarebbe stato molto difficile non ammettere la durissima sconfitta. Farebbero meglio a sfoggiare meno ottimismo e a preoccuparsi un po’ di più del crescente e davvero inquietante assenteismo degli italiani alle urne.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il giudice non va a cena con Richelieu
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2009, 10:17:06 am
3/7/2009
 
Il giudice non va a cena con Richelieu
 
LUIGI LA SPINA
 
C’era una volta un magistrato francese. Si chiamava Pierre de Fermat ed era nato nel 1601. Si occupava di cause civili, banali questioni di diritti sulle acque. Le virtuose e rigide regole della Francia di quei tempi gli impedivano, nel tempo libero, di frequentare la società cittadina, perché il cardinale Richelieu voleva che i funzionari pubblici non potessero essere influenzati, nei loro giudizi, da amicizie e, persino, da semplici conoscenze. Ecco perché, la sera, restava a casa e, indossando, come il nostro Machiavelli, abiti adatti allo studio, si dedicava alla matematica.

Divenne, così, uno scienziato straordinario, scambiando anche corrispondenze con i «grandi» del suo tempo, da Cartesio a Pascal. Ma la sua larga fama resta legata al cosiddetto «ultimo teorema di Fermat», una dimostrazione che non poté scrivere, perché «non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina».

Peccato che i due rappresentanti della più alta magistratura del nostro Stato, la Corte Costituzionale, Luigi Mazzella e Paolo Napolitano, accusati di frequentare, la sera, presidenti del Consiglio e ministri, non abbiano seguito l’esempio del loro ben più umile collega del tribunale civile di Tolosa. Forse, avremmo due scienziati in più. Sicuramente, due giudici discussi in meno.
 
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il Premier usi sempre lo stile G8
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2009, 09:18:33 am
11/7/2009
 
Il Premier usi sempre lo stile G8
 
LUIGI LA SPINA
 
I risultati dei vertici internazionali si misurano solo sul tempo. Quando si possono verificare il rispetto dei solenni impegni assunti e la percentuale delle promesse davvero realizzate. I leader del mondo, alla fine, si dichiarano sempre molto soddisfatti e alcuni si spingono ad aggiungere, all’inevitabile «successo», persino l’azzardato aggettivo «storico». Per un solo protagonista del G8 dell’Aquila, invece, si può non aspettare per formulare un giudizio: per Berlusconi, si può già dire che è stato un successo.

Non è necessario possedere una memoria mirandolesca per ricordare il clima politico-psicologico della vigilia: gli avversari del premier che preconizzavano disastri organizzativi, gaffe protocollari, sorprese mediatiche e giudiziarie; i giornali stranieri, soprattutto quelli inglesi, che arrivavano addirittura ad annunciare l’espulsione dell’Italia dal «club dei grandi»; l’ansia e i timori che avvolgevano sia Palazzo Grazioli, l’abitazione romana di Berlusconi, sia Palazzo Chigi, la sede ufficiale del governo, trasformandoli in fortini assediati. Le attese dei profeti di sventura sono state deluse e si può concludere che il presidente del Consiglio sembra aver «scavalcato la collina».

Può sembrare un paradosso, ma Berlusconi è stato aiutato a costruire il suo personale successo proprio dal quel clima di foschi presagi. Perché l’hanno costretto a contenere la sua esuberanza caratteriale, la sua smania di protagonismo, la sua vocazione irresistibile al siparietto mediatico, nelle rigide regole delle consuetudini diplomatiche. Così, con immaginabili sforzi di autocontrollo, il nostro premier è apparso un padrone di casa impeccabile. Ma quelle malevole attese hanno influito anche sugli altri protagonisti del vertice, i quali, già ben attenti a esibire premura e commozione per la tragedia della terra che li ospitava, hanno indubbiamente agevolato il compito di Berlusconi. Cointeressati al successo dell’evento, hanno contribuito a mostrare non solo rispetto per il padrone di casa, ma anche a mantenere un atteggiamento rigoroso e concreto. In questo modo, si potrà discutere se l’intesa sul clima, con la posizione distante della Cina, ad esempio, sia stata davvero promettente. Ma è indiscutibile la serietà e la franchezza di un confronto approfondito sui principali problemi della nostra Terra.

Il contributo maggiore al successo di Berlusconi, anche questo può sembrare un paradosso, è venuto proprio da Obama. Alla vigilia, erano corse voci di una amministrazione americana democratica irritata con Berlusconi. Indiscrezioni che parlavano di sospetti Usa per la troppo esibita amicizia del nostro premier con Putin e di un certo fastidio per le tentazioni mediatrici di Berlusconi tra le grandi potenze. Altri superinformati retroscenisti raccontavano addirittura di una atmosfera di crescente ostilità verso la politica petrolifera dell’Eni, troppo aggressiva e spregiudicata, rievocando persino i tempi di Mattei.

Il vero unico superprotagonista del G8 dell’Aquila, il presidente americano, invece, voleva evidentemente dimostrare la sua capacità di guidare al successo l’evento, imponendo al mondo la sua agenda dei problemi e respingendo le prime critiche internazionali che incominciano a dubitare dell’efficacia concreta della sua politica estera. Berlusconi ha subito compreso il valore decisivo di quella alleanza di interessi che si stava realizzando al vertice e si è dimostrato fortemente riconoscente. Fino a dare l’impressione di aver rinnegato, soprattutto sui temi dell’ambiente, il suo storico allineamento con Bush. Impressione così evidente che gli ha suggerito, nella conferenza stampa finale, di confermare la sua amicizia con l’ex presidente americano, ma da affiancarla con il grandissimo elogio di un Obama «che non sbaglia una mossa».

Oltre al compiacimento per un successo che si riflette sull’immagine dell’Italia nel mondo e, quindi, dovrebbe essere comune a tutti, amici e nemici di Berlusconi, l’esito del G8, sotto l’aspetto «domestico», potrebbe portare anche qualche maggiore speranza. Se il nostro premier riuscirà a mantenere quella linea di compostezza ed efficacia esibita davanti ai leader del pianeta anche in politica interna, i vantaggi potrebbero essere molteplici. Si potrebbe discutere di più di provvedimenti per superare la crisi e meno di serate intime in belle (?) compagnie. Si potrebbe metter mano a modifiche di leggi che vanno corrette, da quella sulla sicurezza a quella sulle intercettazioni telefoniche. I patiti del gossip si divertiranno di meno. Tutti gli altri ne avranno maggiori conforti.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il dribbling di Chiamparino
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2009, 07:52:31 pm
1/7/2009
 
Il dribbling di Chiamparino
 
LUIGI LA SPINA
 
Non devono essere state davvero facili le ultime notti a casa Chiamparino. Proprio per un personaggio come lui, schivo e un po’ timido, non abituato a saltare da una tv all’altra nella solita compagnia di giro tra politica e spettacolo, la lusinga di una improvvisa popolarità nazionale deve essere stata forte. Come dev’essere stata forte la tentazione di accettare gli inviti a «salvare la patria», a salvare un partito in cui ha passato gran parte della sua carriera politica, a correre «da mediano», come dice la canzone di Vasco. Sì, quel sogno che tutti gli oscuri faticatori del centro campo, quello del pallone come quello della vita, fanno spesso. Quando, di colpo, nella disperazione generale, a due minuti dalla fine della partita, tutti si rivolgono a lui, il vecchio spaccapolmoni, e lui dribbla l’intera squadra avversaria e fa il gol che regala quella vittoria che sembrava impossibile.

Invece Sergio Chiamparino ha detto no, e ha fatto bene, molto bene. Perché ha capito che non poteva risolvere la contraddizione tra i motivi che spingevano moltissimi militanti, elettori e simpatizzanti del centrosinistra a chiedergli di candidarsi per la segreteria nazionale e il tradimento di quei motivi a cui sarebbe stato inevitabilmente costretto. La popolarità del sindaco di Torino, infatti, deriva dal suo rapporto con il territorio. Un legame molto stretto, quasi un patto con gli elettori che gli ha permesso, finora, di superare un confronto non facile con la sua maggioranza in consiglio comunale, ma anche con il suo partito. E’ stato proprio il successo nel ruolo di amministratore, riconosciuto in tutt’Italia, a motivare l’ipotesi di un suo trasferimento ad amministrare un partito che pare privo di una identità chiara e afflitto da una eterna e insopportabile lotta fratricida tra i principali capo-clan. Vista l’impossibilità di conciliare i due ruoli, Chiamparino avrebbe dovuto, con ben due anni d’anticipo, rompere quel patto di lealtà con i suoi elettori e con la sua città.

Le buone ragioni della coerenza morale e di un costume non abituale nella nostra classe dirigente non escludono, naturalmente, i calcoli su una candidatura dagli esiti assai incerti. Perché di gesti «eroici» non ha bisogno la politica e la serietà del personaggio non si deve necessariamente coniugare con l’ingenuità. Anche perché Chiamparino è un uomo di partito e conosce bene le regole dei partiti e del suo in particolare. Se il sindaco di Torino avesse voluto diventare il leader di una corrente tra i «democratici» avrebbe potuto pensare di raccogliere una percentuale di sostenitori tra gli iscritti, tra il 10 e il 20 per cento, per esempio, e poi contrattare con i due sfidanti un appoggio che sarebbe potuto diventare determinante. Ma vista la sua intenzione di pensare a una candidatura non per giochi tattici, ma nell’eventualità di una sua possibile vittoria, sull’onda di un rinnovamento chiesto soprattutto dalla base, l’ipotesi era tanto ambiziosa quanto irrealistica: dietro Franceschini e Bersani si stanno distribuendo le forze poderose di quei controllori di tessere che non sembrano lasciar spazio a candidature seriamente presentate per poter prevalere.

Queste considerazioni non oscurano però il valore del «no» di Chiamparino. Perché i rischi di restare ancora per due anni sulla poltrona di sindaco di Torino sono altrettanto gravi come quelli di abbandonarla precocemente. La sua popolarità gli ha inviso la grande maggioranza della classe politica locale, compresa quella del suo partito. L’attuazione del programma per l’ultimo periodo del secondo mandato, perciò, sarà molto faticosa e si potrebbe offuscare la sua immagine di sindaco di grande successo. Alla fine, Chiamparino potrebbe anche pentirsi del suo «no». Ecco perché, ora, ha fatto bene a dirlo.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Federalismo all'italiana un paradosso
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2009, 09:16:49 am
30/7/2009
 
Federalismo all'italiana un paradosso
 
 
 
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Dicono che bisogna essere ottimisti a tutti i costi. Allora, prendiamo la situazione dall’unico effetto positivo. La polemica sull’identità italiana, esplosa per le tentazioni sul «partito del Sud», per le provocazioni leghiste sulla scuola, per le esitazioni sui finanziamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia, hanno finalmente fatto uscire dall’ipocrisia, dalla reticenza, dall’ambiguità una questione fondamentale per il nostro Paese: come sia difficile e pieno di rischi l’esperimento di costruire uno Stato federale con un processo contrario a quello normale. Cioè, non per aggregazione, ma per disaggregazione.

Tranne qualche rara eccezione, infatti, il riconoscimento di comuni interessi o il desiderio di rafforzare le difese contro un nemico lontano hanno indotto Stati o regioni a stringersi in un patto federale. Così è stata, in Europa, l’esperienza della Germania o della Svizzera. Così si è costituito il maggiore Stato federale del mondo, gli Stati Uniti d’America.

Molto raramente la strada è stata percorsa al contrario. Si potrebbe citare, forse, l’esempio della Spagna post-franchista, se il paragone con l’Italia non fosse inficiato, tra l’altro, da una differenza fondamentale: il paese iberico è stato unificato alla fine del XV secolo in un impero tra i più potenti del mondo, il nostro festeggia, appunto, solo i 150 di vita.

Così, questo arduo passaggio da uno stato centralista a una struttura federale è ulteriormente complicato dall’evidente fragilità di una coscienza nazionale illanguidita nella popolazione e sostanzialmente assente nella classe politica a cui è toccato in sorte di condurre questa trasformazione. Tramontati i partiti di ispirazione risorgimentale, già sopravvissuti stentatamente dopo la seconda guerra mondiale in una posizione di estrema minoranza, si sono estinti anche quelli che avevano costruito l’Italia repubblicana: i democristiani, i comunisti, i socialisti. Gli eredi, in realtà, non sentono la costituzione dell’Italia come elemento fondante della loro ragione sociale: il partito di Berlusconi ne ha utilizzato il nome soprattutto per l’effetto di aggregazione emotiva dei suoi militanti, da tifo calcistico. Il Pd sventola il tricolore perché è l’unica bandiera che unifica quella rossa, ormai impresentabile, e quella scudocrociata, ormai dimenticata.

La realtà italiana d’oggi, nel processo federalista, può essere riassunta molto semplicemente: la sinistra si è sostanzialmente messa fuori gioco, attraverso una lotta intestina per la leadership che la sta emarginando da qualsiasi vera e sensibile influenza sulla politica nazionale. Sulla scena, allora, conduce la danza la Lega, con una abile strategia di avanzate provocatorie e di ritirate opportunistiche. Il Pdl reagisce debolmente all’azione leghista, con il rischio di una spaccatura interna tra nord e sud che la mediazione di Berlusconi fatica sempre di più a mascherare.

Il partito di Bossi, con una certa lucidità strategica, bisogna ammetterlo, punta a scardinare i capisaldi fondamentali sui quali, nei fatti, è stata costruito lo Stato italiano in questi 150 anni di esistenza: l’esercito, la scuola pubblica, la lingua. Tutti sanno, per esperienza o per un minimo di conoscenza storica, che quel poco o tanto di coscienza nazionale esistente nel nostro paese è stato ottenuto dalla leva militare obbligatoria, dalla riforma crociana e gentiliana dell’istruzione e dalla Tv. La prima ha ibridato, per la prima volta nel secolo scorso, i nostri giovani su tutto il territorio. La seconda ha unito le culture localistiche in una retorica unitaria. La terza è stata capace di estendere l’italiano alla grande maggioranza dei cittadini.

Non è casuale, allora, che le offensive leghiste si concentrino su questi tre campi. Con la negazione di un ruolo internazionale del nostro esercito, con il tentativo di regionalizzare la scuola, con il desiderio di imporre, nella tv pubblica, una riscrittura della storia in chiave antiunitaria.

Quello che più colpisce, di fronte allafiacca reazione, è la confusione intellettuale, l’incertezza morale e politica di chi, almeno a parole, dice di non condividere questo piano disgregativo. Dopo la proposta leghista di un ritiro delle nostre truppe dall’Afghanistan, anche l’accenno di Berlusconi alla necessità di una exit strategy, se non afferma una ovvietà, può essere considerato un sintomo di questo atteggiamento difensivo e sostanzialmente cedevole. Ma l’ultimo esempio, quello più clamoroso, è la risposta della Gelmini sull’emendamento leghista proposto in commissione sulla scuola. Esclusa, per fortuna, la follia del test di dialetto per gli insegnanti, il ministro si dichiara, però, sostanzialmente favorevole a una specie di regionalizzazione dei professori. Il responsabile dell’istruzione pubblica dovrebbe apprezzare, invece, il valore di uno scambio culturale e umano tra allievo e docente provenienti da parti diverse del nostro Paese. Anzi, se non ci fossero evidenti problemi economici e familiari, andrebbe scoraggiata e non incentivata l’assimilazione regionalistica di chi sta sulla cattedra e di chi sta sotto. In tempi di crescente immigrazione multietnica, è davvero deprimente dover parlare ancora di accenti diversi nel pronunciare la nostra lingua. Perché nella scuola italiana, come sappiamo tutti, il problema è la qualità degli insegnanti, non il loro luogo di nascita.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - I pericoli che teme Napolitano
Inserito da: Admin - Agosto 20, 2009, 10:36:45 pm
20/8/2009
 
I pericoli che teme Napolitano
 
LUIGI LA SPINA
 
Lo «spirito del tempo» sembra concentrare sulle celebrazioni per i centocinquant’anni dell’unità d’Italia un’attenzione politica in apparenza sproporzionata. Sul piano emotivo, le ricorrenze possono suscitare, del tutto legittimamente, sentimenti di fervore o di perplessa freddezza. Anche sul piano più concreto, quello delle opere previste per questo appuntamento, pur riguardando interventi significativi in varie città italiane, il programma dei lavori non sembra tale da provocare un determinante scontro di interessi economici.

Eppure, il crescendo di polemiche su questo evento, culminato ieri con il colloquio concesso alla Stampa dal presidente della Repubblica nel quale si sollecita il governo a rispettare gli impegni assunti, dimostra come un complesso di circostanze abbia contribuito a trasformare una scadenza cerimoniale in un segnale illuminante, sia per gli equilibri della nostra politica sia per il futuro del nostro Stato.

Non è stata la campagna d’estate della Lega contro alcuni simboli dell’unità italiana, dalla lingua nazionale all’inno di Mameli, ad allarmare Napolitano. Il partito di Bossi conduce da sempre una lotta ai confini tra il separatismo e il regionalismo, che raccoglie, nel Nord, un favore popolare cospicuo ma largamente minoritario, comunque, tra i cittadini della penisola. Possono piacere o meno i toni provocatori e qualche volta folcloristici con cui i vari leader della Lega conducono la loro battaglia, ma, se non violano le regole del codice, la Costituzione garantisce a tutti una libertà di espressione che deve essere rispettata.

Il problema è un altro. E’ quello dell’atteggiamento ufficiale di un governo che invece è sostenuto da un’ampia maggioranza in Parlamento e nel Paese. Il presidente della Repubblica, a cui, ricordiamolo, è affidato il ruolo di garante dell’unità nazionale, pretende, non tanto con le solite rassicurazioni verbali quanto con la verifica puntuale del programma e dell’avvenuto stanziamento finanziario per attuarlo, un chiarimento sulla questione. Non si tratta di sapere se la politica governativa sostenga la resurrezione del dialetto o si schieri per l’inno di Mameli o per il «Va’ pensiero». Si tratta di sapere se, nella sua responsabilità collegiale, il quarto ministero Berlusconi intenda contrastare quel clima di disgregazione nazionale che, in futuro, potrebbe davvero mettere a rischio il nostro Stato unitario.

Il vero pericolo, a questo proposito, non è costituito dalle proposte di implicito separatismo avanzate della Lega con intermittente sapienza comunicativa. E’ costituito dagli effetti sul bilancio dello Stato, potenzialmente esplosivi e comunque a tutt’oggi sconosciuti, che saranno determinati dall’applicazione della legge sul federalismo approvata nella primavera scorsa. Se i costi della riforma, come alcuni sospettano, non ridurranno le spese dello Stato, ma, almeno nei primi anni, li aumenteranno, proprio questo clima di insufficiente unità nazionale potrebbe alimentare una corsa all’egoismo regionalistico. Con un tale coro popolare di proteste comparative tra le varie parti d’Italia, cavalcato sicuramente dalle classi dirigenti locali per scopi elettoralistici, da minare qualsiasi resistenza a una effettiva divisione della nostra Repubblica. Ecco perché la celebrazione di un semplice anniversario è diventata la cartina di tornasole sia del «peso» effettivo della Lega nella politica del governo sia dei destini di una nazione troppo giovane e fragile per essere sicura di arrivare all’età adulta.
 
da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Così il Pd ha perso la voce
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2009, 10:54:51 am
23/8/2009
 
Così il Pd ha perso la voce

 
LUIGI LA SPINA
 
Un assordante silenzio. L’esempio più scolastico di un ossimoro potrebbe davvero definire l’afasia politica che ha caratterizzato l’agosto del principale partito d’opposizione. Sia sulle grandi questioni internazionali, come la difficile situazione in Afghanistan e in Iraq, sia sul dibattito in vista delle prospettive autunnali della nostra economia, fino ad arrivare alle baruffe estive sull’Inno di Mameli o sui dialetti, il Pd si è distinto per una assoluta mancanza di reazioni. Un riserbo insolito per le abitudini della politica italiana, dove l’esternazione prevale sempre sulla meditazione.

Le uniche voci che si sono udite da quelle parti, ascoltate peraltro senza suscitare particolari emozioni, sono state raccolte in alcune interviste ai due contendenti favoriti per la futura segreteria del Pd, Bersani e Franceschini, impegnati in qualche stanca polemica interna.

Poiché l’auto-oscuramente dialettico agostano sarà forzatamente interrotto dall’avvenuta apertura della festa nazionale di quel partito, a Genova, c’è da sperare che la lunga pausa, dedita evidentemente a una profonda riflessione, sia servita affinché i leader Pd ci rivelino finalmente una organica, concreta e innovativa proposta di governo del nostro Paese. Tutti gli italiani, sia quelli che hanno votato per Berlusconi, sia quelli che non l’hanno fatto, vorrebbero confrontare le ricette finora attuate dall’esecutivo con quelle suggerite dal maggior partito dell’opposizione. Senza dover solo ascoltare battute, più o meno divertenti, sulla vita privata del presidente del Consiglio o critiche alle misure governative prive, però, di una esposizione delle ipotesi alternative basate su realistici e sostenibili conti di spesa.
L’improvviso mutismo dei dirigenti democratici è apparso l’inevitabile risultato di una delusione largamente scontata e da loro del tutto prevista: quella seguita all’annunciato fallimento della campagna per far dimettere Berlusconi a causa del sue vicende sessual-matrimoniali. Una sindrome tipica di frustrazione, umana prima che politica, che colpisce inevitabilmente chi è stato costretto a partecipare a una battaglia, sapendo già che l’esito sarà infausto.

A questo punto, il rischio più grave per quel partito è che l’avvicinarsi della data del congresso finisca per accentuare il fenomeno di introversione politica del Pd. Una sindrome solipsistica che, comprensibile nella prima fase di ricerca dei motivi della sconfitta elettorale, non solo si è trascinata per un tempo insopportabilmente lungo, ma, di fatto, ha spento il collegamento tra il partito e la sua base elettorale.

In una democrazia regolarmente funzionante, infatti, occorre sia che l’opposizione sappia influire sull’operato della maggioranza, sia che non lasci quella parte di elettorato che non ha aderito alle proposte governative senza una salda rappresentanza politica.

Tra gli altri, si possono citare due clamorosi esempi di allentamento del legame che il Pd ha sempre avuto con categorie sociali e professionali vicine al partito. Il primo caso si è manifestato con la vicenda degli operai milanesi della Innse saliti per giorni su una gru, pur di difendere il posto di lavoro in pericolo per la minacciata chiusura dell’attività nella fabbrica dove lavorano. In altri tempi, la solidarietà del partito alla loro lotta si sarebbe manifestata con la tradizione di vigore e di clamore che tutti ricordiamo. In questa occasione, invece, l’appoggio è stato molto flebile e la voce del Pd si è confusa nel generico coro di auspici che veniva dalla classe politica locale.

L’altro clamoroso esempio, a questo proposito, è venuto dalla fiacca, generica e imbarazzata reazione del Pd alle iniziative del ministro Gelmini sulla scuola. Maestri e professori, notoriamente, costituiscono, o costituivano, una delle riserve privilegiate per i consensi al maggior partito dell’opposizione italiana. Ebbene, il Pd, diviso tra la consapevolezza della insostenibilità dell’andazzo corrente nelle aule del nostro Paese e l’impossibilità di ammettere la corresponsabilità per una egemonia culturale e politica in quel settore che ha prodotto risultati così negativi, non ha saputo opporre alle riforme governative alcun progetto credibile e organico di serio cambiamento. Limitandosi ad opporsi ritualmente alle proposte della Gelmini e lasciando sostanzialmente soli quegli insegnanti che pur fanno riferimento al partito.

Sono giuste le preoccupazioni di chi lamenta un panorama politico esclusivamente monopolizzato dal duello interno tra Lega e Partito della libertà e da un orizzonte culturale limitato al contrastato rapporto tra il governo e il Vaticano. Ma anche la «solitudine» di importanti ceti sociali del nostro Paese che non si sentono più difesi dai loro tradizionali rappresentanti nella classe politica nazionale consegna al futuro della nostra democrazia molte inquietudini.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Una sconfitta per tutti
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2009, 07:49:19 pm
4/9/2009

Una sconfitta per tutti
   
LUIGI LA SPINA


Le dimissioni del direttore di Avvenire, Dino Boffo, segnano, almeno in apparenza, una grande vittoria per il presidente del Consiglio e una dura sconfitta per la Chiesa italiana. Berlusconi, indignato per non essere stato difeso da una gerarchia cattolica alla quale, in questi anni, è convinto di aver concesso molto, ha voluto dare un avvertimento. Ha voluto dimostrare all’opinione pubblica e, in particolare, alla stampa non amica che neanche la potenza di uno Stato come il Vaticano e l’autorità morale e spirituale del cattolicesimo nel nostro Paese riescono a resistere a un attacco contro un direttore di un giornale che si era permesso qualche, peraltro prudente, critica su certi suoi comportamenti privati.

Se il messaggio fondamentale che arriva agli italiani, in queste ore, è sintetizzabile così, la realtà di questo scontro tra il presidente del Consiglio e la Chiesa è certamente più complessa e gli effetti di questa vicenda meno prevedibili. Boffo ha deciso di presentare irrevocabilmente le sue dimissioni quando è stato fin troppo chiaro che la difesa d’ufficio della Segreteria di Stato lo lasciava, di fatto, in un sostanziale isolamento. Al di là del merito nella questione giudiziaria che lo riguardava, la sua debolezza era determinata dall’essere l’ultimo fedelissimo di Ruini ancora in una posizione di spicco nel potere della Chiesa italiana.

Il paradosso della sorte di Boffo è determinato dal fatto che la linea editoriale dell’Avvenire, dettata in questi anni dall’ex presidente della Conferenza episcopale italiana e attuata da lui con una fedeltà assoluta, è stata di sostanziale appoggio al centro-destra. Né si può dire che la Segreteria di Stato abbia una posizione diversa da quella che Ruini aveva impostato e qualche volta imposto ai vescovi del nostro Paese. Anche il cardinal Bertone, sia pure in modi caratterialmente diversi, ritiene, in effetti, Berlusconi l’interlocutore più utile per ottenere dal Parlamento leggi che tengano conto il più possibile delle richieste del mondo cattolico. In una concezione contrattualistica, di Realpolitik se vogliamo chiamarla così, che rischia una difficile coesistenza con l’irrinunciabile dovere ecclesiale di predicare la difesa della morale pubblica e privata.

Il caso Boffo, quindi, per il Vaticano, rappresenta non solo una sconfitta d’immagine, tra l’impossibilità e la non volontà di difendere il direttore del quotidiano dei vescovi italiani, sia pure non da tutti amato. Ma costringe a prendere atto di come sia sempre più difficile gestire quel compromesso tra negoziazione politica con Berlusconi e autorevolezza, credibilità ed efficacia nella guida spirituale degli italiani.

Lo sconcerto tra i fedeli cattolici per quest’ultima vicenda, infatti, determinerà una difficilissima prova per il nuovo direttore di Avvenire. Chi prenderà il posto di Boffo potrà dimostrarsi ancor meno critico di lui nei confronti dei discutibili comportamenti privati del presidente del Consiglio? Dimostrerebbe troppo platealmente la soggezione che il Vaticano e tutta la gerarchia italiana sono costretti a subire, pur di ottenere provvedimenti parlamentari graditi.

Anche se è largamente prevedibile, ora, una tregua tra Chiesa e presidenza del Consiglio, è indubbio che quanto avvenuto lascerà un’impronta forte e duratura nel mondo del cattolicesimo italiano, già scosso da molti dubbi sulla praticabilità di quella che si potrebbe definire «la linea Ruini senza Ruini». Ma anche per Berlusconi la vittoria di oggi potrebbe complicare e non semplificare la sua azione governativa. Troppo sproporzionato appare l’attacco di un presidente del Consiglio, dotato peraltro di una straordinaria forza mediatica attraverso il suo potere nelle tv e nei giornali, contro un direttore di un quotidiano cattolico non pregiudizialmente ostile, per non suscitare allarme nell’opinione pubblica e nella classe politica.

L’impressione è quella di un Berlusconi così esasperato per le accuse ricevute a proposito della sua vita privata, da dare ascolto più alle sue reazioni emozionali e agli incitamenti vendicativi dei suoi consiglieri ultrà che a una ragionevole linea di controllata difesa. Le dimostrazioni di forza, quando si abbattono su vittime che al confronto appaiono troppo deboli, non sono sintomi di sicurezza, ma tradiscono, al contrario, un segno di difficoltà.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Una felice occasione sprecata
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2009, 03:43:29 pm
16/9/2009

Una felice occasione sprecata
   
LUIGI LA SPINA


Peccato. La cerimonia di consegna del primo centinaio di abitazioni ai terremotati d’Abruzzo doveva costituire un segnale di unità e di solidarietà nazionale nei confronti di chi è stato vittima di una grande tragedia. Una manifestazione, insieme, di immediato conforto e di speranza nell’avvenire. Nella possibilità di riprendere il filo di un’esistenza normale, anche per chi ha perso tutto e può contare solo sull’affetto e sulla generosità degli altri. Nella constatazione di come sia stato immediato e cospicuo il contributo di tutti gli italiani, affinché gli abruzzesi coinvolti nel disastro potessero non dimenticare il passato, ma aver il coraggio di voltarsi e guardare anche al futuro. Nel compiacimento per l’efficienza e l’abnegazione di tutti coloro che, a vario titolo, hanno contribuito ad alleviare il più possibile le sofferenze e i lutti, ma anche i disagi e i problemi di una quotidianità difficile.

Peccato. L’occasione forniva anche una simbolica e concreta testimonianza di questi sentimenti, perché quelle casette sono state costruite con il contributo di una provincia del Nord d’Italia, tra le più belle e civili, il Trentino e con il finanziamento di tanti cittadini di ogni regione affidati alla Croce Rossa. Insomma, poteva essere davvero una bella giornata. Come quelle che, in tanti Paesi del mondo retti da mature democrazie, celebrano la volontà comune di risorgere dopo un dramma collettivo profondo e affermano la necessità che, di fronte a tali grandi tragedie, le divisioni politiche non turbino minimamente lo sforzo di unità nazionale per affrontarle e poterle superare.

Peccato, perché nulla di tutto questo è avvenuto, ieri, in Italia. La sola elencazione dei fatti che si sono susseguiti in questi giorni dimostra come non si possa immaginare un clima politico così contrastante con quello nel quale avrebbe dovuto svolgersi la cerimonia in Abruzzo. Il presidente del Consiglio, segnato evidentemente da una campagna di critiche sui suoi comportamenti privati, ha voluto trasformare la consegna delle prime case ai terremotati in una passerella trionfalistica personale. Una dimostrazione di efficienza del suo governo, per smentire, con i fatti, le accuse a lui e al suo ministero. Dimostrazione, peraltro, inutile, perché da tutti sono state riconosciute l’energia e la prontezza con le quali le autorità responsabili sono intervenute dopo il tremendo sisma dell’Aquila. Dando atto allo stesso Berlusconi di un comportamento serio e di una presenza assidua in quelle terre per coordinare gli aiuti ed affrettare i tempi della ricostruzione.

La volontà di uno sfruttamento mediatico della cerimonia è stata confermata, poi, dalle modifiche ai palinsesti televisivi, con lo spostamento in prima serata del programma di Vespa, con il rinvio di Ballarò e con la soppressione della puntata di Matrix sulla libertà d’informazione. Vicende che hanno suscitato un seguito di ovvie e feroci polemiche, dal momento che il presidente del Consiglio possiede il maggior gruppo italiano di tv privata ed esercita una notevole influenza su quella pubblica, come, del resto, è sempre avvenuto per chi siede a Palazzo Chigi.

Nel frattempo, si incrociano nel cielo della politica italiana e della stampa nazionale le querele e le minacce di querele. Non solo tra il capo del governo e i giornali a lui ostili, ma, fatto del tutto straordinario, tra il presidente della Camera, cofondatore del partito fulcro della maggioranza, e il quotidiano di proprietà della famiglia Berlusconi. In un crescendo di insinuazioni, di dossier, di inchieste giudiziarie su uomini della politica e del Parlamento che svariano, con identica disinvoltura di commenti e di giudizi, da fatti gravissimi come le stragi di mafia del 1992 e ’93 a questioni di moralità personale, come tradimenti coniugali o sfrenatezze sessuali, forse solo presunte oppure vantate.

Il contrasto tra questo clima di veleni e quello nel quale si sarebbe dovuta svolgere la giornata di ieri non deve suggerire né patetici inviti alla tregua, tanto facili quanto inutili; né pilateschi giudizi di uguali responsabilità tra le parti guerreggianti. Basterebbe limitarsi a sollecitare una riflessione sulle convenienze di una strana partita. Una partita dove non è immaginabile un trionfatore, ma sono previsti parecchi sconfitti. Perché, in politica, la paura di perdere fornisce migliori consigli della voglia di vincere.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - La forza della storia
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2009, 12:27:08 pm
16/10/2009

La forza della storia
   
LUIGI LA SPINA


La testimonianza, accorata e persino spietata, di un lungo e sofferto cammino, costellato di errori, ritardi, macchiato da colpe, anche gravi. Ma con l’orgoglio di averlo compiuto per intero, scontando, con una critica severa su di sé e sulla propria parte, la piena legittimazione a esercitare un ruolo di garanzia per tutti gli italiani. È questo il senso più profondo di un discorso, quello pronunciato ieri mattina dal Presidente della Repubblica a Torino, in cui uno dei leader della sinistra comunista italiana nella seconda metà del secolo scorso confessa di aver capito il valore delle forme della democrazia liberale, per lungo tempo sottovalutate, e si impegna a difenderle «con serenità e fermezza».

Non ha tradito davvero le attese la risposta di Giorgio Napolitano, pacata ma non ipocrita, agli attacchi del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sulla sua figura di «uomo di parte».

Ma quello che più ha colpito coloro che hanno partecipato alla cerimonia in occasione del centenario della nascita di Norberto Bobbio è, da un lato, il tono commosso della sua rivendicazione autobiografica, dall’altro, il richiamo ai valori della politica, intesa come esercizio che riesce a trasformare un uomo di fazione in un uomo delle istituzioni. Un mutamento che è consentito, è parso di capire, solo a chi non nasconde la propria storia, le proprie origini culturali e ideologiche, ma, quando è chiamato a rappresentare una importante carica pubblica, sa trascenderle ed esercitare quel «potere neutro» che è indispensabile per far funzionare una democrazia, come la consideriamo in Occidente.

È stato proprio il filosofo torinese, così come ha raccontato il presidente della Repubblica, ad adoperare, nel confronto con i comunisti del secolo scorso, quella «pedagogia del dubbio» che ha fatto comprendere come la garanzia dei diritti di libertà, con la divisione dei poteri, la distinzione tra organi della Repubblica al servizio del principio di imparzialità, non fossero «forme borghesi» dello Stato, in contrapposizione con una fantomatica «democrazia sostanziale» che poteva anche contraddirle o trascurarle. Ma fossero il fondamento della convivenza civile.

Una proclamazione di principi che certamente non si limita a un riconoscimento di un errore del passato, ma assume una precisa condanna delle attuali tentazioni populiste presenti nel centrodestra italiano, esaltatrici di una specie di «democrazia diretta», fondata solo sull’investitura elettorale del leader. Una forma di Stato che rischia di trasformare il Parlamento in una camera di registrazione ed approvazione di testi redatti, magari, in qualche studio professionale e, comunque, mal sopporta le lungaggini, gli ostacoli, procedurali e di merito, che autorità «terze» frappongono all’azione dell’esecutivo. Se la forma dell’equilibrio dei poteri è, invece, la sostanza della democrazia, questo non vuol dire che la Costituzione sia un tabù. L’appello del Capo dello Stato alla sinistra perché non si chiuda alle proposte di una riforma della seconda parte del nostra carta fondamentale non è stato meno netto delle sue critiche a chi, a destra, non rispetta gli istituti di garanzia. E anche in questo caso, Napolitano si è appoggiato al ricordo delle battaglie di Bobbio in favore di riforme elettorali e costituzionali.

Una lunga citazione del filosofo torinese è servita pure al Presidente della Repubblica per esprimere un giudizio che, con l’aria che tira, può sembrare controcorrente: «Sono convinto che molti italiani, al di là delle loro diverse, libere scelte elettorali... avvertano la necessità» del «senso della misura, del rispetto delle istituzioni e del confronto costruttivo».

Si sta diffondendo, infatti, un’impressione fallace, tratta dai successi di ascolto delle trasmissioni politiche in tv più urlate o dalle fiammate di vendita dei giornali più schierati. Quella che i cittadini italiani siano favorevoli a quel clima di «guerra civile delle parole» che vuole trasformarli in tifosi assatanati, obbligatoriamente arruolati nell’una o nell’altra fazione e disposti a «non fare prigionieri» pur di far vincere la loro parte. In una battaglia senza fine che vedrebbe, invece, solo una minoranza di cittadini, tremebondi parrucconi legati ad antiche forme di galateo politico, preoccupati per il rischio di compromettere non solo le possibilità di ripresa della nostra economia, ma le caratteristiche fondamentali della nostra democrazia.

Napolitano, ieri a Torino, ha avuto il merito di confutare questa superficiale convinzione, dimostrando che l’espressione ferma e serena delle proprie convinzioni, in difesa delle garanzie di uno Stato democratico e pluralista può costituire la risposta migliore e più efficace a chi avesse la tentazione di scavalcarle.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il pareggio malattia del Paese
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2009, 10:24:43 am
29/10/2009

Il pareggio malattia del Paese
   
LUIGI LA SPINA

Escort contro trans; arbitro monsignor Della Casa; risultato: pareggio. Tremonti contro Berlusconi; arbitro Bossi; risultato: pareggio. Le banche contro Tremonti; arbitro Guzzetti, risultato: pareggio.

Bisogna ammetterlo. Tranne la Gelmini che, con lombarda ostinazione, continua a sfornare progetti di riforma, in Italia spira una gran voglia di raggiungere quell’esito perfetto di una partita di calcio che teorizzava un famoso allenatore del secolo scorso, Annibale Frossi. Con l’alibi di un pericoloso fraintendimento: quello di chi scambia la necessità di una tregua tra eserciti sempre in armi con la convinzione che sia meglio non fare nulla, perché, come diceva il grande Eduardo, «ha da passà ’a nuttata» e, poi, tutto tornerà come prima. Sì, tutto come prima, compresa la vecchia Dc resuscitata in un grande (?) centro, la vecchia socialdemocrazia risorta in un nuovo (?) Ulivo e con il riaffacciarsi di quella formidabile fantasia politologica d’antan che trova nella «cabina di regia» un classico esempio.

Eppure, come dimostrano due interessanti libri usciti da poco, quello di Salvatore Rossi, intitolato «Controtempo», e quello dell’americano Jeff Israeli, «Stai a vedere che ho un figlio italiano», dopo la crisi non è vero che si potrà tornare al nostro recente passato. Meglio, se mai potremmo tornarci, sarà un disastro. Perché si accentuerebbe il distacco tra la nostra economia e quella degli altri Paesi continentali, come è avvenuto negli ultimi quindici anni. Perché diverrebbe asfissiante la conservazione classista della nostra società, con l’esito di una vera e propria fuga all’estero dei migliori giovani del nostro Paese. Perché sarebbe insostenibile l’onere di garantire le pensioni a un numero crescente di anziani da parte di un numero sempre più ridotto di occupati.

In Italia, un’apparente frenetica lotta politica, spumeggiante di gossip sulle abitudini sessuali dei leader, di guerre giudiziarie tra il capo del governo e i magistrati, di litigi tra banchieri e industriali, nasconde un sostanziale immobilismo. Una inazione che, in realtà, fa comodo a (quasi) tutti, perché assicura la protezione dei veri padroni della società italiana, le corporazioni. Quelle che garantiscono il posto di medico ai figli dei medici, quello di notaio al figlio del notaio, quello di giornalista al figlio del giornalista. Ma anche il sistema che trasmette, di generazione in generazione, il volante del taxi, la titolarità dell’ombrellone sulle nostre spiagge, il banco della farmacia e, persino, la cattedra universitaria.

Ben venga, perciò, un clima di maggior serenità tra i due schieramenti auspicato dopo l’elezione popolare di Bersani alla segreteria del Pd e lo spostamento dell’attenzione politica dai problemi erotici a quelli lavorativi, come indicato dallo stesso Bersani nel discorso sulla sedia dello stabilimento di Prato. Ma l’effetto della prima «P», quella del pareggio, non si deve trasformare nella tentazione di una seconda, esiziale «P», quella del passato.

Perché non proporre, almeno, quel minimo nucleo di riforme, nel campo del lavoro e del welfare, sul quale i nostri più importanti economisti sono tutti d’accordo, dall’innalzamento dell’età pensionabile allo sblocco dei finanziamenti per gli enti locali «virtuosi»? Si potrebbe verificare, in concreto, chi sta dalla parte dell’innovazione e chi sta dietro le comode barriere della conservazione. Se la maggioranza, invece, tornerà alla disputa tra coloro che vogliono tagliare le tasse oggi e quelli che vogliono farlo domani, se l’opposizione continuerà a dividersi tra chi preferisce l’alleanza con Di Pietro e chi quella con Casini, avremo un solo risultato, quello dello «zero a zero». I tifosi avranno sventolato inutilmente le loro bandiere, la buon’anima di Annibale Frossi si consolerà nella tomba, ma gli spettatori avrebbero preferito magari un altro pareggio, quello con tanti gol.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il premier salvato solo a metà
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2009, 10:20:34 am
11/11/2009

Il premier salvato solo a metà
   
LUIGI LA SPINA


L’apparenza accontenta tutti.

Berlusconi può tirare un sospiro di sollievo: salteranno i due processi per i quali rischia una condanna, quello sui diritti tv Mediaset, in cui è imputato per reati societari, e quello contro l’avvocato Mills, nel quale è accusato di corruzione in atti giudiziari.

Fini si è opposto con successo alla proposta dei legali del premier sulla «prescrizione breve», cioè una vera e propria amnistia, mascherata sotto un altro nome. I cittadini, finalmente, possono sperare che si riesca ad affrontare il vero male della giustizia italiana, la lentezza dei processi.

Il faticoso compromesso tra i due cofondatori del «Popolo della libertà» raggiunto a Palazzo Chigi, in realtà, non costituisce per Berlusconi una garanzia contro le iniziative dei magistrati nei suoi confronti. Non assicura la fine delle tensioni tra il presidente del Consiglio e quello della Camera. Soprattutto, sarà da verificare se il disegno di legge annunciato ieri mattina riuscirà a raggiungere l’obiettivo di realizzare nel nostro Paese una vera giustizia per tutti, cioè quella che consente sia di sapere, in tempi ragionevoli, da che parte stia la ragione e da che parte stia il torto, sia di poter distinguere l’innocente dal colpevole.

Il capo del governo voleva un accordo che sostanzialmente gli consentisse di ottenere gli stessi risultati concreti che gli assicurava quel «lodo Alfano» bocciato dalla Corte Costituzionale, cioè l’immunità fino alla fine del mandato a Palazzo Chigi. L’intesa con Fini, se si tramuterà in legge, lo salverà dal rischio di una imminente condanna in tribunale, ma i più brevi termini di prescrizione non possono escludere, per il futuro, che sia indagato e processato per altre imputazioni. Nell’accordo con il presidente della Camera, inoltre, non figurano norme che possano eliminare o ridurre l’obbligo, da parte Mediaset, di versare a De Benedetti i famosi 750 milioni di risarcimento per la causa Mondadori.

Anche per Fini non si può parlare di vittoria piena. E’ vero che ha ottenuto l’annullamento della «prescrizione breve», ma, nella sostanza, ha dovuto accogliere la tesi di Berlusconi sul suo diritto a non essere giudicato dalla magistratura italiana per i due processi che erano ormai avviati a raggiungere il traguardo della sentenza, sia pure di primo grado.

Non ci possono essere dubbi, invece, sulla necessità di una riforma che metta fine allo scandalo dei tempi della nostra giustizia. C’è modo e modo, però, per risolvere il problema. Uno, sbrigativo e cinico, costituisce una specie di resa dello Stato davanti al principio che qualunque reato debba essere perseguito e che ogni colpevole debba essere punito. Ridurre la prescrizione, senza prima assicurare gli strumenti giuridici, finanziari, organizzativi, tecnologici necessari per garantire il rispetto dei tempi assegnati per la celebrazione dei processi equivale a distinguere la criminalità in due categorie. Alla prima, quella che compie i reati più gravi, sarebbe riservato il giudizio della magistratura della Repubblica. Alla seconda, quella che si esercita in misfatti «minori», si assegnerebbe, di fatto, la promessa di una sostanziale impunità. Con un indubbio sollievo per l’affollamento carcerario, con un altrettanto indubbio sollievo per gli addetti agli uffici giudiziari, ma con un sicuro minor sollievo per i cittadini onesti.

Solo la lettura attenta del disegno di legge che la maggioranza si propone di presentare alle Camere potrà far capire se la soluzione del problema «tempi della giustizia» sarà affidata, nella pratica, alla rassegnazione di fronte alla realtà. Oppure, si troveranno le risorse e la volontà di una vera rivoluzione in campo giudiziario su almeno tre punti.

Il primo riguarda i magistrati che dovranno essere più preparati, dal punto di vista giuridico e culturale, e costretti a una verifica del loro impegno di lavoro, ancora troppo legato solo alla coscienza individuale. La seconda questione concerne i legami con la politica: l’apparentamento in una corrente sindacale, legata a un partito, spesso aiuta il giudice a ottenere incarichi di potere e di prestigio che i meriti professionali non gli consentirebbero, invece, di occupare. Il terzo punto, infine, si può affrontare solo con le forbici: ci vuole un taglio energico alle leggi e alle procedure. Con le attuali norme, non basterebbero un impossibile raddoppio dei finanziamenti per la giustizia e una irrealizzabile moltiplicazione di giudici e tribunali su tutto il territorio nazionale per rispettare i termini di prescrizione dei processi, peraltro ragionevoli, che sono stati auspicati.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Uniti per il mondo globale
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2009, 11:51:00 am
13/11/2009

Uniti per il mondo globale
   
LUIGI LA SPINA


L’ultimo esempio è stata la reazione all’annuncio dell’alleanza tra il Politecnico di Torino e quello di Milano. Tutte le volte che si parla di una intesa tra le due grandi capitali del Nord-Ovest, i torinesi esprimono istintivamente un sentimento di timore, i milanesi un moto di sufficienza. Sono atteggiamenti sbagliati, ma comprensibili, se appena si conosce, almeno superficialmente, la storia di queste due città e si dà un’occhiata alla carta geografica. Rischiano, però, di non far cogliere, con anacronistici pregiudizi, sterili rivalse campanilistiche, lamenti, anche fondati, ma ora assolutamente inutili, tutte le opportunità, meglio, tutte le necessità che i cittadini di questa macroregione devono sfruttare per competere nel mondo del nuovo secolo.

Nei prossimi decenni, la partita della sopravvivenza economica e sociale nel primo girone dei paesi sviluppati non si giocherà certo nel confronto tra l’ombra della Mole e quella della Madonnina. Ma in un contesto almeno europeo, dove è impossibile pensare che due città, peraltro con strutture industriali e commerciali complementari, distanti tra loro poco più di 100 chilometri, possano pretendere di misurarsi, divise, contro i colossi di aree continentali fortemente avanzate, anche dal punto di vista tecnologico, come quelle che ci sono in Germania, intorno a Stoccarda, in Olanda, intorno a Rotterdam o nelle Fiandre, intorno ad Anversa.

Se si considera che 50 minuti, quanto ci vorrà tra un mese per andare in treno tra Torino e Milano, costituiscono la media del tempo impiegato dai pendolari europei per raggiungere i centri cittadini, si capisce che i parametri di giudizio si debbano riferire obbligatoriamente allo sviluppo dell’intera regione Nord-Ovest. Non basterà, perciò, un allargamento dello sguardo socioeconomico, ma si dovrà compiere una vera piccola rivoluzione culturale e caratteriale negli abitanti di questa area.

I torinesi dovranno cancellare quel nascosto senso di inferiorità rispetto a Milano che impedisce di credere di più in loro stessi e nella competitività di Torino. Una città con valori naturalistici, culturali, ma anche con capacità progettuali, artistiche, competenze industriali, insomma, con un tale capitale umano, come lo definiscono gli economisti, da non dover temere alcun confronto. Basta, quindi, con il solito ritornello torinese sugli «scippi» meneghini a danno della città della Mole, un atteggiamento tutto rivolto alla nostalgia del passato. Ma basta anche con la provinciale rivendicazione della cosiddetta «città laboratorio». I milanesi, invece, si dovranno accorgere che un certo borioso sentimento di autosufficienza non li aiuterà a conquistare un roseo futuro. Ma, osservando la loro città, molti se ne sono già accorti.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - L'anomalia dell'avvocato onorevole
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2009, 11:15:09 am
2/12/2009 - IL CASO

L'anomalia dell'avvocato onorevole
   
LUIGI LA SPINA


Sono ubiqui, stakanovisti, onniscienti, presenzialisti. Volteggiano instancabili da un’aula del Parlamento a quella di un tribunale, dall’orecchio di un potente all’occhio di una telecamera.

Suggeriscono nuove leggi, ma sono abilissimi a sfruttare quelle vecchie.

Vivono (bene) sui conflitti degli altri, ma amano soprattutto il proprio, quello di interesse. Ma come fanno, direbbe Lucio Dalla, a rimanere avvocati queste star del palcoscenico pubblico d’Italia? L’ultimo, e un po’ sgradevole caso, è quello del legale di fiducia del premier, Niccolò Ghedini. Parlamentare dal 2001, l’avvocato di Berlusconi ha difeso «Tributi Italia», la società privata di riscossione delle tasse con debiti per quasi 90 milioni di euro nei confronti di 135 amministrazioni comunali che rischiano, per questo motivo, il dissesto finanziario. Un incarico evidentemente assunto senza alcun dubbio sull’opportunità, per usare un eufemismo, di un ruolo che lo pone contro gli interessi di istituzioni fondamentali dell’articolazione del nostro Stato e, in ultima analisi, contro gli interessi di un ministero della Repubblica, quello dell’Economia.

Poiché la rappresentanza degli avvocati in Parlamento costituisce la lobby più numerosa e potente e l’incompatibililtà delle due funzioni non è prescritta per legge, la disinvoltura di Ghedini è stata preceduta e seguita da analoghi comportamenti che hanno coinvolto tanti suoi colleghi. Alternativamente vestiti sia con la toga dell’avvocato sia col laticlavio parlamentare. Dai famosi casi di altri legali di Berlusconi, come Previti e Pecorella, a difensori di sinistra, come Guido Calvi o Giuliano Pisapia. Tutti avvocati che, quando sono entrati in Parlamento, non hanno cessato la loro attività professionale.

Certo non si può pretendere, in tempi di ferro e per di più piuttosto arrugginito come questo, la stessa sensibilità istituzionale e morale che dimostrò, tra gli altri, Enrico De Nicola, futuro primo presidente della Repubblica italiana, il quale, prima di entrare alla Camera, chiuse il suo studio napoletano. Ma al di là del caso, non isolato, di un parlamentare, rappresentante quindi dell’interesse generale, lautamente incaricato di difendere un interesse privato in conflitto con quello pubblico, c’è, poi, una indebita pressione psicologica e professionale esercitata da un avvocato che possiede anche una carica politica.

L’esempio più recente è quello della bravissima Giulia Bongiorno. Presidente della commissione Giustizia della Camera e consigliere di fiducia di Gianfranco Fini, si è esibita, lunedì scorso a Perugia, in uno straordinario show oratorio in difesa di un imputato al processo per l’assassinio di Meredith, Raffaele Sollecito. In apparenza, una causa dove il confine tra interesse pubblico e privato sembra lontano e i due campi ben separati. Ma come non valutare la differenza di potere e la capacità d’influenza, in quell’aula, tra magistrati e legali senza altri ruoli e un avvocato che, sia pure in via teorica, può esercitare i poteri, diretti e indiretti, di un presidente della commissione Giustizia? Siamo assolutamente sicuri che la Bongiorno si è avvalsa e si avvarrà solo della sua abilità professionale, ma il problema di quel doppio incarico esula dal caso personale e specifico per toccare una questione che dovrebbe trovare una regola valida per tutti: l’incompatibilità tra seggio parlamentare e studio legale, tra il ruolo di legislatore e quello di operatore del diritto che le leggi le deve applicare.

E’ vero che questa norma potrebbe ridurre considerevolmente gli introiti economici per i politici-avvocati. Ma gli stipendi, alla Camera e al Senato, assicurano, comunque, una dignitosa esistenza e, poi, nessuno è stato costretto, in catene, a quel sacrificio.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il Paese con due destre e due sinistre
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2009, 09:32:36 am
17/12/2009


Il Paese con due destre e due sinistre
   
LUIGI LA SPINA


Il luogo comune è talmente diffuso da essere ripetuto come un dogma indiscutibile: l’Italia, sia nella sua classe politica sia nella sua società civile, è un Paese spaccato in due, esasperato in un conflitto profondo. L’aggressione al presidente del Consiglio e le reazioni successive, sui siti Internet, sui muri delle università e in Parlamento dimostrano che questo scontro non solo è diventato, nel volto emblematico di Berlusconi, perfino sanguinoso, ma talmente irriducibile da rendere inutili e ipocriti gli appelli alla moderazione.

Può sembrare persino provocatorio, in questi giorni, sostenere una tesi opposta e affermare che, nonostante le apparenze, questa rappresentazione è falsa. Davanti ai problemi di come affrontare e, poi, uscire al più presto dalla crisi economica, di come riformare le istituzioni per ottenere una giustizia più affidabile, un fisco più giusto e di come garantire ai giovani un futuro meno incerto, la grande maggioranza dei cittadini sa benissimo quali riforme andrebbero varate.

Ma, cosa che potrebbe sorprendere di più, anche la grande maggioranza dei nostri parlamentari lo sa benissimo e le differenze di opinione non sono così gravi da impedire che le Camere possano trovare un’intesa.

In Italia, infatti, non è vero che ci siano due schieramenti in una lotta all’ultimo sangue tra di loro. Questo scontro binario, sia nel Paese sia in Parlamento, riguarda solo il giudizio su Berlusconi. Il vero confronto politico è tra due destre e due sinistre e la sorte della nostra nazione sarà affidata all’esito di questa partita a quattro. Al di là delle questioni personali e delle dispute giornalistiche, nel centrodestra, tra la concezione di Fini e quella dei pasdaran di Berlusconi non sono possibili mediazioni. Così, si va acuendo l’impossibilità di una alleanza, nell’opposizione, tra il gruppo egemonizzato da Di Pietro, con l’appoggio dell’estremismo antiberlusconiano movimentista, e l’asse Bersani-Casini-Rutelli. Ecco perché sul merito delle questioni che davvero interessano gli italiani, quelle che non riguardano le fortune politico-aziendal-processuali del premier, alle Camere esiste una maggioranza trasversale di posizioni che sostanzialmente condivide l’analisi sui difetti del nostro sistema politico, economico e sociale. Ma condivide anche le terapie per cominciare a modificarlo, anche perché quasi tutti gli esperti internazionali che guardano ai problemi italiani suggeriscono le stesse fondamentali ricette.

Nei giorni scorsi, proprio a Torino, promossa dall’Ispi e dal centro Einaudi, si è svolta una riunione tra i più autorevoli studiosi continentali che è ha tracciato un quadro significativo e allarmante della posizione europea e italiana nel contesto della crisi internazionale. Le relazioni sulle tendenze dell’economia, della demografia, dei movimenti immigratori e sociali, e sulla forza delle istituzioni per guidare tali processi, hanno convenuto sul timore che il «sistema Europa» non sia in grado di reggere il confronto con il resto del mondo nei prossimi 20-40 anni. All’interno del nostro continente, poi, se si guardano i dati su un lungo periodo, quello che va dagli inizi degli Anni 90, la posizione dell’Italia registra un costante declino. In competitività delle nostre industrie sui mercati mondiali, in investimenti sulla ricerca e sull’innovazione, in infrastrutture, in mobilità sociale.

La maggioranza dei cittadini italiani, quella che non agita bandiere e bastoni nelle piazze, che non urla slogan pro o contro Berlusconi via Internet, che fatica a vivere con lo stipendio o con la cassa integrazione, che si batte per tenere aperto un negozio, un ufficio, una piccola o media azienda è tutt’altro che spaccata nel giudizio sulle vere riforme da approvare. Anche il Parlamento sarebbe sostanzialmente d’accordo a vararle, ma sia il paese sia la nostra classe politica sono prigionieri. In ostaggio di due minoranze fanatiche ed estremiste che costringono l’Italia all’impotenza.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Pd, partito a vocazione confusa
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2010, 10:43:53 am
10/1/2010

Pd, partito a vocazione confusa
   
LUIGI LA SPINA


A questo punto, la domanda è una sola: il Pd è un partito ingovernato o è un partito ingovernabile?

L’intervista alla Bindi su «La Stampa» di ieri è solo l’ultima testimonianza di una serie di contraddizioni, confusioni, incertezze veramente sbalorditive per un gruppo dirigente che, tra l’altro, si ritiene la classe politica più professionale e sperimentata d’Italia.

Non si può pensare, perciò, che sia l’ingenuità e l’inesperienza degli uomini, di volta in volta alla guida di quel partito, il motivo di una costante incapacità di tenere una linea politica coerente e credibile. La conclusione obbligata, allora, anche se amara per tutto il sistema democratico del nostro Paese che avrebbe sempre bisogno di una potenziale alternativa di governo, è che il Pd è ingovernabile perché non ha una identità comune, cioè, non è un partito.

Cominciamo dall’inizio. Il candidato alla prima segreteria, Walter Veltroni, al Lingotto di Torino, nel giugno 2007, pronuncia un discorso molto apprezzato, promettendo l’azzeramento di tutti gli spezzoni eredi dei partiti della prima Repubblica e la fusione in una classe dirigente nuova, costruita essenzialmente dalla partecipazione di quella società civile che crede in un moderno progetto riformista.
Lancia l’idea, forse velleitaria e discutibile, ma affascinante, di un partito a vocazione maggioritaria, cioè che non debba subire i condizionamenti decisivi degli alleati nel governo del Paese. La sua pratica, però, contraddice subito le sue intenzioni: costruisce un’assemblea costituente fatta proprio di spezzoni dei vecchi partiti e presenta alle elezioni una coalizione che esclude un pezzo importante del riformismo italiano, il Partito radicale, e include un partito che non ne fa parte, quello di Di Pietro.

Il risultato di questa azzardata sfida a Berlusconi è una sconfitta, ma non solo onorevole: è quasi una mezza vittoria, infatti, perché raggiunge per il suo partito una percentuale di voti insperata e sulla quale si potrebbe costruire un futuro promettente.
Invece, pochi mesi dopo, è costretto alle dimissioni.

Arriva alla segreteria provvisoria Dario Franceschini, per un breve interregno contrassegnato da un accentuato antiberlusconismo.
Ma il congresso, nell’ottobre 2009, elegge il suo competitore interno, Pier Luigi Bersani, e l’alleata di corrente, Rosy Bindi, diventa presidente. Il nuovo leader ripudia il partito a vocazione maggioritaria di veltroniana memoria, stabilisce la necessità di alleanze con esponenti del centro moderato e la regola, quando nello schieramento di centrosinistra ci fossero le condizioni di candidati alternativi su programmi diversi, di risolvere i contrasti con il metodo delle primarie.

Passano solo due mesi e la confusione, nel Pd, è assoluta. In Puglia si verifica il caso più classico dell’opportunità di primarie: due candidati, con due ipotesi di alleanze diverse. Ma Bersani stabilisce di non farle, perché l’eventuale vittoria di Vendola non consentirebbe l’accordo con Casini. La scelta, discutibile come tutte le scelte, potrebbe essere comprensibile se con il leader dell’Udc ci fosse un accordo generale, in quasi tutt’Italia. Ma non è così, perché quel partito è libero, ad esempio, di allearsi con la Lega in Lombardia e con la Polverini nel Lazio.

Il presidente del partito, Bindi, alla vigilia della decisione finale in Puglia, allora, formula al suo segretario queste ragionevoli obiezioni, ma cade in una contraddizione clamorosa: è d’accordo con un’alleanza del suo partito con Casini, pur prevedendo che, alle prossime elezioni politiche, sarà proprio lui l’avversario, il candidato del centrodestra, l’erede di Berlusconi.

Il vero problema del Pd non è, in questa situazione, la percentuale del consenso elettorale e neanche il numero di Regioni attualmente governate dal centrosinistra che resisteranno al prevedibile tsunami berlusconian-leghista nel voto di fine marzo. In Europa, il confronto numerico tra le forze riformiste e quelle moderate e conservatrici non trova l’Italia in un drammatico svantaggio, anzi. Si tratta, invece, di metter fine al marasma di contraddizioni politiche, di giravolte nelle alleanze, di lotte tra gruppi e dirigenti che si odiano e di prendere atto che la convivenza tra una cultura di governo e la testimonianza di antiberlusconismo è fallita.

L’Italia ha bisogno di un’opposizione tale da non perpetuare, nella seconda repubblica, il vizio fondamentale della prima: l’impossibilità di un ricambio a Palazzo Chigi. Con il rischio di una situazione peggiore, perché, una volta, tra Dc e Pci, almeno, c’era il riconoscimento di una comune partecipazione alla costruzione dello Stato repubblicano e la condivisione delle sue regole. Un patrimonio sul quale, oggi, non possiamo neppure contare con certezza.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Lo strano caso del partito del premier
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2010, 12:13:46 pm
21/1/2010

Lo strano caso del partito del premier
   
LUIGI LA SPINA

La mappa delle candidature per il voto amministrativo di marzo è diventata, ormai, la più efficace rappresentazione della vera forza dei partiti in Italia. Una sciagurata legge elettorale per la Camera e per il Senato, infatti, ha trasformato i parlamentari in personaggi nominati dalle segreterie romane, rompendo la dipendenza dal territorio nel quale formalmente si presentano.

Ecco perché la battaglia di questi giorni per scegliere gli aspiranti alla carica di presidente di Regione o di sindaco, nei Comuni dove sono previste elezioni abbinate, finisce per svelare una radiografia politica del nostro Paese assai illuminante.

Se, per questa volta, si limita l’osservazione allo schieramento di centrodestra, balza subito agli occhi la persistenza, dopo quasi vent’anni, della straordinaria anomalia nel rapporto tra la leadership di Berlusconi e il suo partito. La decisione di candidare Renato Brunetta a sindaco di Venezia, uno dei ministri più popolari del governo, ma anche uno dei rappresentanti più vicini all’anima originaria di Forza Italia, quella radicalmente liberista e populista, sembra costituire l’eccezione che conferma la regola di una estrema debolezza del partito di Berlusconi nel radicamento territoriale italiano. Con un contrasto clamoroso tra il consenso e il potere del presidente del Consiglio nel governo del Paese e la capacità di imporre in Regioni e Comuni la leadership degli uomini più a lui vicini.

Le candidature nelle regioni più rappresentative del Nord confermano questa opinione: la cessione alla Lega del Piemonte e del Veneto costituisce un segnale, sia d’immagine sia di concreto potere, fortissimo. Anche perché l’ennesima presenza di Roberto Formigoni alla conferma sulla poltrona più importante del Pirellone di Milano rafforza l’impressione di una posizione autonoma dell’attuale «governatore» lombardo, forte di un sistema di potere e di una ideologia politica sostanzialmente lontani dal nucleo fondante di Forza Italia.

Quando si allarga lo sguardo verso il Centro e il Sud, la sensazione non cambia: nel Lazio, la regione più importante dell’Italia di mezzo, la candidata, Renata Polverini, è stata indicata da An e dal suo grande sponsor Gianfranco Fini, così come riconducibile ad An è Giuseppe Scopelliti che corre per la presidenza della Regione Calabria. Anche in Campania, Stefano Caldoro, arriva a Forza Italia piuttosto tardi, solo dopo una lunga e importante militanza tra i socialisti. Infine, se si arriva alla Sicilia, il caso Lombardo acuisce l’impressione di una grande difficoltà del partito di Berlusconi nel rappresentare, sul territorio, l’equivalente forza del suo leader in campo nazionale.

E’ vero che questa anomalia conferma tutti gli stereotipi che hanno sempre accompagnato «la discesa in campo» di Berlusconi, dalle famose accuse sul «partito di plastica», sul partito proprietario e personale. Soprattutto conferma la debolezza nel reclutamento del ceto dirigente e nella capacità di affermazione politica sul territorio. Tutti problemi irrisolti e finora mascherati dalla prorompente e pervasiva personalità del suo leader. Ma la radiografia territoriale di questo partito dimostra l’inanità di tutto lo sforzo dei tanti aspiranti eredi di Berlusconi. Si rassegnino pure. Il premier ha sicuramente tanti, forse persino troppi, futuri eredi del suo patrimonio personale. Ma il suo patrimonio politico non ci sarà: neanche lui potrebbe assegnarlo. Perché anche lui sa che non si potrà trasmettere a nessuno. E, quindi, non esiste.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - La seconda generazione
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2010, 10:38:16 am
1/2/2010

La seconda generazione
   
LUIGI LA SPINA


E’ troppo pretendere di sottrarre i due episodi di violenza accaduti a Torino allo sfruttamento della campagna elettorale.

Eppure, sarebbe davvero necessario evitare, almeno questa volta, il solito rimbalzo polemico di accuse, destinato alla consueta sorte: l’assoluta inutilità a prevenire queste tragedie.

Non esiste, innanzi tutto, una specifica e particolare situazione di criminalità giovanile a Torino rispetto a quanto avviene in tutt’Italia e, in particolare, nelle grandi città. La coincidenza temporale di due agguati è suggestiva, ma le circostanze, le nazionalità degli aggressori e delle vittime, le cause, meglio sarebbe dire i pretesti, per lo scatenamento di una violenza così spropositata e sproporzionata sono tali da richiedere un’analisi distinta. Per non rischiare di aggiungere confusione intellettuale, giustificazionismi sociologici, generico moralismo di fronte al pericolo di un aggravamento del clima di intolleranza che indubbiamente sta montando nella nostra società e, in particolare, tra i nostri ragazzi.

L’accoltellamento del giovane romeno da parte di una banda di connazionali in un giardinetto della periferia torinese squarcia il muro di omertà, di sottovalutazione, di indifferenza sul problema della difficile integrazione dei figli di immigrati. Lasciati soli, in quartieri ghetto, dove i genitori spariscono per tutto il giorno e magari per parte della notte, alla ricerca di lavori che consentano di avere più soldi possibili da inviare anche ai parenti rimasti nei paesi d’origine. Ragazzi divisi tra la voglia di omologarsi alle abitudini dei coetanei italiani e il rifugio nelle apparenti sicurezze della tracotanza bullistica dei connazionali.

È facile, per chi non vive in certi quartieri di Torino, considerare il clima di intimidazione che si respira quotidianamente in alcune strade e in alcune piazze come l’inevitabile prezzo di una faticosa integrazione. Più complicata è l’esistenza di chi è costretto a schivarne costantemente i pericoli e non può accettare l’implicito invito alla rassegnazione che lo condanna o alla paura o alla rivolta. Senza un intervento che affianchi alla repressione della piccola e grande criminalità, un piano di recupero educativo, sociale e culturale di questi giovani della seconda generazione immigratoria, le tensioni saranno inevitabilmente crescenti.

Persino più allarmante è il caso del diciannovenne massacrato, in un paese della cintura torinese, da un coetaneo accecato dalla gelosia. Il contrasto tra le motivazioni del litigio e la gravità della violenta reazione contrassegna, in realtà, un costume di rapporti sociali che riguarda una convivenza civile sempre di più esasperata da tensioni incontrollabili. L’esperienza quotidiana di tutti noi, sui luoghi di lavoro, di studio, persino di divertimento registra, con amarezza e stupore, comportamenti assurdi, frutti di un vero e proprio accecamento della ragione. Una violenza che nei giovani si traduce in conseguenze più gravi solo per la loro maggiore esuberanza fisica, ma che, nelle intenzioni aggressive, accomuna tutte le età.

Torino non è certo la capitale della violenza, neppure quella giovanile. Ma sarebbe bello che da Torino cominciasse una rivolta morale per non sopportare più l’offesa, anche verbale, contro qualsiasi persona, di qualsiasi colore. Si può esercitare in tanti modi. Anche cambiando un canale tv.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Un messaggio con due destinatari
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2010, 05:32:54 pm
10/2/2010

Un messaggio con due destinatari
   
LUIGI LA SPINA


Alla fine, il muro del silenzio è franato ed è dovuto intervenire addirittura il Papa, con un duro richiamo all’ordine, per cercare di por fine al logoramento dell’immagine della Chiesa a seguito del «caso Boffo».

La tradizionale tattica della prudenza con la quale, per secoli, il Vaticano è riuscito a soffocare, con il manto del silenzio, il fuoco degli scandali tra le sue mura, delle rivelazioni imbarazzanti sulle lotte tra poteri ecclesiastici, ma anche quello degli attacchi esterni contro la sua autorevolezza e credibilità si era ormai rivelata impotente. Così, la nota della Segreteria di Stato che esplicitamente richiama l’approvazione di Benedetto XVI sul testo, una precisazione che, in tempi normali, sarebbe inutile perché ovvia, ha un duplice obiettivo: uno rivolto al mondo laico, l’altro a quello cattolico.

Al primo si offre la rappresentazione di una Santa Sede unita nel difendere l’onore dei principali collaboratori del Papa, a cominciare dal segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone e dal direttore dell’«Osservatore Romano», Giovanni Maria Vian, accusati di essere rispettivamente ispiratore e mandante della campagna di stampa con cui Feltri ha costretto Boffo alle dimissioni. Una difesa alla quale, poche ore dopo, la presidenza della Conferenza episcopale italiana si associava, avallando quindi la tesi di un perfetto allineamento del cardinal Angelo Bagnasco rispetto alla segreteria di Stato.

All’interno del mondo cattolico, il messaggio vuol essere altrettanto chiaro, ma molto severo. Benedetto XVI ha inteso dare un solenne «alt» alla perdurante lotta, sotterranea ma durissima, tra l’ala vicina all’ex capo dei vescovi italiani, Camillo Ruini e quella che sostiene il segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Uno scontro di potere senza il quale non si potrebbe capire come mai si sia riacceso, dopo mesi di tregua, il caso delle dimissioni di Boffo dall’Avvenire per la campagna di stampa del Giornale nei suoi confronti. Un avvertimento inequivocabile: nessuna si illuda che i contrasti si possano limitare ad arrecare danni solamente agli avversari della fazione contrapposta, perché colpiscono, invece, l’intera immagine della Chiesa e arrivano fino alla figura del Papa.

L’invito a serrare i ranghi avviene in un momento molto delicato, perché sono imminenti scelte importanti nella struttura della Curia vaticana e dell’episcopato italiano. Sono in scadenza, tra gli altri, il prefetto dei vescovi, Giovan Battista Re, il presidente del pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, Walter Kasper. Ma anche i capi di due diocesi come quella di Milano e di Torino. Così come si dovrà nominare il presidente della Fondazione Toniolo, l’influente organismo che condiziona anche la scelta di confermare per un altro mandato l’attuale rettore dell’Università cattolica, Lorenzo Ornaghi o di indicarne un altro.

Come è normale in tutte le istituzioni, la decisione per incarichi prestigiosi suscita una fibrillazione di candidature che non agevola la serenità interna, poiché i malumori degli esclusi sono sempre numericamente superiori alla soddisfazione dei prescelti. Ecco perché il protrarsi di una battaglia di logoramento tra gruppi rivali, a suon di ripicche, vendette, maldicenze, potrebbe non esaurirsi nei seguiti del caso Boffo, ma trovare, in un prossimo futuro, ulteriore e ancor più insidioso alimento. Di qui anche le ripetute, clamorose, pubbliche condanne di Benedetto XVI per il dilagare del vizio di «carrierismo» all’interno del mondo ecclesiastico.

La mossa di far intervenire direttamente il Papa, attraverso la nota «approvata» della segreteria di Stato vaticana, potrebbe riuscire, effettivamente, a interrompere il fiume di indiscrezioni, vere o false che siano, sui retroscena dall’«affaire Feltri-Boffo». Ma la discesa in campo di Benedetto XVI documenta anche la gravità del rischio di un deterioramento dell’immagine della Chiesa. L’«esposizione» del Papa sullo scenario mediatico di una vicenda dai contorni sgradevoli e non del tutto chiari indica la necessità di ricorrere alla più alta autorità, in una istanza difensiva ultima e definitiva. Se così non fosse, non ci sarebbe altro riparo.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Chi serve lo Stato non ha amici
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2010, 02:57:36 pm
18/2/2010

Chi serve lo Stato non ha amici
   
LUIGI LA SPINA

La ripetitività degli scandali che si abbattono sull’Italia può alimentare due sbagliate reazioni dell’opinione pubblica: l’assuefazione, cinica e rassegnata, a un virus corruttivo che sembra dilagare nella società italiana e l’abitudine a confondere le accuse con i sospetti, le maldicenze con le sentenze, i reati con i peccati, le fantasie complottistiche con le prove dibattimentali.

Un gran polverone dove il destino di queste indagini giudiziarie è segnato. Chi è schierato politicamente con gli imputati è deciso ad assolverli, pur contro ogni evidenza. Chi sta dalla parte opposta ha già emesso una condanna, preventiva e inappellabile. Una divisione in due partiti, però, molto provvisoria: sarà presto l’oblio a riunificarla, nell’attesa della prossima inchiesta. Ecco perché, in queste circostanze, è assolutamente necessaria la ricerca delle differenze, la pazienza nel separare le situazioni, la chiarezza nell’individuare le responsabilità.

Ogni grande scandalo nazionale, pur nella similitudine della caccia al ladro di turno, si contrassegna per una locuzione, sintetica ma espressiva, che lo distingue. All’epoca di «Mani pulite» fu la cosiddetta «dazione ambientale», una tassa impropria riferita al rapporto imprenditori-partiti. Quella tangente, controllata ferreamente dalle percentuali del Cencelli spartitorio, che alimentava il finanziamento illegale della politica. Oggi, l’etichetta che ha colpito l’immaginazione degli italiani è la parola «gelatina», con la quale i magistrati dell’accusa hanno definito la collusione vischiosa di amicizie, favori, complicità, tra funzionari statali e aspiranti agli appalti dell’amministrazione pubblica.

E’ questo, dunque, il punto sul quale bisogna concentrare l’attenzione dei cittadini. Anche perché, almeno finora, non sono emerse nell’inchiesta sulla Protezione civile prove di corruzioni milionarie, ma le accuse imputano favori ai familiari, compiacenti assunzioni più o meno precarie, ospitalità gratuite, elargizioni di auto e, magari, di ragazze ben disposte. Le intercettazioni rivelate sui giornali, poi, aldilà dei sospetti di reati, tutti da dimostrare, illuminano, però, un costume sul quale non bisogna aspettare i giudizi dei tribunali perché sia evidente una constatazione: è scomparsa nelle classi dirigenti dell’amministrazione pubblica qualsiasi consapevolezza degli obblighi di comportamento che gravano sui cosiddetti «servitori dello Stato».

E’ bella questa espressione con la quale, con orgoglio ottocentesco, si è autodefinito Guido Bertolaso. Peccato che il capo della Protezione civile sembra sottovaluti quanto contrasti con l’atteggiamento di confidenza e di amicizia da lui dimostrato nei confronti di imprenditori che il suo dipartimento aveva la facoltà di premiare o punire. Con l’aggravante dell’assoluta discrezionalità, giustificate o no che fossero le emergenze dichiarate per quei lavori. Peccato che la stessa, e forse maggiore, insensibilità l’abbiano manifestata i suoi collaboratori, pronti a un attivismo ambiguo e collusivo, invece di esercitare il distacco, l’imparzialità, la discrezione al limite dell’estraneità, che competono all’arbitro, detentore del potere di far arricchire chi da una sua scelta dipende.

La confusione, nel costume italiano, tra interessi personali e interessi dello Stato, della sua credibilità e della sua efficienza, non solo determina le conseguenze denunciate ieri dal procuratore della Corte dei Conti per il boom di denunce e per i danni erariali connessi ai reati amministrativi e penali. Ma alimenta una più generale «corruzione mentale» fra tutti i poteri dello Stato.

E’ quella «corruzione mentale» di cui sembra afflitto il pm di Bari, Lorenzo Nicastro, che grida alla «discriminazione» se qualcuno gli fa osservare quanto sia sbagliata la sua candidatura come avversario politico proprio di un suo indagato. La stessa sindrome che colpisce un giudice costituzionale, già presidente dell’Antitrust, Giuseppe Tesauro, quando è costretto ad ammettere di essere socio in affari con un imprenditore, più o meno chiacchierato che sia. Una insensibilità dimostrata anche da due suoi colleghi della Consulta, Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano, quando, alla vigilia della decisione sul lodo Alfano, parteciparono a una cena con Berlusconi e con lo stesso ministro della Giustizia.

E’ giusto che i pm di Firenze si offendano se il presidente del Consiglio li invita a «vergognarsi» per aver indagato il vertice della Protezione civile, ma otterrebbero maggiore solidarietà se tanti loro colleghi evitassero di dimenticare che i giudici non solo devono essere imparziali, ma anche «apparire» tali. La riservatezza, il senso d’opportunità, l’estraneità ad amicizie potenzialmente in conflitto rispetto agli obblighi della funzione, per un dipendente statale, di qualsiasi livello e a qualsiasi ordine appartenga, non sono manifestazioni di ipocrisia o di moralismo bigotto e passatista. Sono sacrifici, magari anche limiti a quella manifestazione del pensiero che è costituzionalmente garantita a tutti i cittadini, ma che si esercita nelle forme e nei modi consentiti a chi riveste un ruolo così delicato. Possono essere anche «discriminazioni», come le chiama il pm Nicastro, a cui si dovrebbero assoggettare volentieri coloro che, senza alcuna costrizione, scelgono una carriera nell’amministrazione pubblica.

Il prossimo anno si festeggeranno i 150 anni dello Stato italiano. Invece dei soliti riti celebrativi e delle solite polemiche retrospettive sulle virtù degli Stati borbonici e le crudeltà repressive dei piemontesi, ecco un bel tema di riflessione e di discussione pubblica.
Anche perché la corruzione va colpita in sede giudiziaria, ma va combattuta prima di tutto nella testa dei cittadini. Specie se sono «servitori dello Stato».

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Capro espiatorio
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2010, 05:37:53 pm
24/2/2010
Capro espiatorio
   
LUIGI LA SPINA

I simboli, anche in Spagna, contano. Ma le trappole mentali delle loro suggestioni rischiano di trasformare la realtà nel mito. Per crearlo e, poi, per distruggerlo. Sempre nel regno dell’immaginario.

Il più recente esempio di questo tradimento della verità si sta consumando, in Europa, sulla figura di Zapatero. Una sinistra continentale, alla disperata ricerca di modelli e di ricette, aveva assurdamente cercato di esportare la declinazione iberica del socialismo fuori dei suoi confini. Davanti all’obsolescenza della socialdemocrazia classica di stampo tedesco, alle delusioni delle «terze vie» laburiste e anche italiane, l’esperienza del leader spagnolo era stata frettolosamente innalzata come la moderna versione di un sogno dal quale non ci si voleva risvegliare. Così, quando la crisi internazionale ha travolto anche la fragile economia di quel Paese, all’impossibile illusione è sopravvenuta la facile deprecazione. Ed è caduto, tra ironie postume e ingenerose accuse, l’ultimo mito della sinistra europea, fabbricato dalla fantasia e sfasciato dall’ipocrisia di chi, di volta in volta, cerca un capro espiatorio fuori di sé. Per non guardarsi dentro.

Le manifestazioni dei sindacati, ieri sera a Madrid e a Barcellona, contro il governo Zapatero segnalano, certamente con una evidenza simbolica, l’allarme per un possibile sfaldamento di quella «tenuta» sociale che, finora, ha impedito conseguenze drammatiche di fronte a una situazione economica preoccupante. Bastano pochi numeri per illustrarla. La Spagna è passata, in pochissimo tempo, da un attivo di bilancio a un deficit dell’11,5 per cento. La disoccupazione, almeno quella ufficiale, è salita dall’8 al 18 per cento. Il debito pubblico è cresciuto dal 40 al 55 per cento del Pil. Il motore del boom spagnolo, fondato sull’asse finanza-edilizia-turismo, alimentato da 5 milioni di immigrati che fornivano mano d’opera a basso costo, si è fermato.

Zapatero, prima ha tentato di fronteggiare la situazione con generici appelli alla «confianza», cioè alla fiducia. Poi, ha cercato di tranquillizzare i mercati internazionali, prospettando una riforma delle pensioni. Un messaggio-annuncio al quale i sindacati, piuttosto deboli in Spagna, non potevano che decidere di rispondere con una manifestazione-annuncio di protesta.

Dietro la vetrina di questi effetti simbolici di una vera e profonda crisi della Spagna, sta una realtà amara. Zapatero non ha mai avuto un modello di sviluppo economico originale, perché ha lasciato semplicemente correre quello che aveva impostato Aznar. E quando si è bloccato, ha cercato solamente di limitare i danni sulle classi più povere. Il crollo della sua credibilità non si è accompagnato a una apprezzabile crescita dell’opposizione. E’ la classe politica spagnola, nel suo complesso, a mostrare i limiti di un rinnovamento mancato, sia in casa socialista sia in quella popolare. La Spagna soffre di più in Europa, perché non ha la capacità industriale di Paesi come la Germania o la Francia. Ma non può contare neanche sull’ingente capitale privato detenuto dai risparmiatori italiani.

La sinistra europea può continuare, come Diogene, la sua ricerca dell’uomo. Quello «socialista», naturalmente. Può crocefiggere, ora, Zapatero, che non era il nuovo eroe del «sol dell’avvenire», ma non può diventare, ora, neanche lo zimbello del comodo sarcasmo progressista. Sempre in attesa di far fuori il prossimo candidato al dileggio universale, quello che sta dall’altra parte dell’Atlantico.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - L'ultimo referendum
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2010, 08:53:20 am
8/3/2010

L'ultimo referendum
   
LUIGI LA SPINA

E’ stato Napolitano a individuare subito il vero punto debole del centrosinistra sul pasticcio delle liste. Il Presidente della Repubblica, infatti, nella sua risposta alle lettere di due cittadini, ha osservato come l’opposizione fosse contraria al decreto, ma non avesse avanzato alcuna altra soluzione, «meno esente da vizi e dubbi», per eliminare un rischio che gli stessi Bersani e Di Pietro volevano evitare: quello di «vincere per abbandono dal campo dell’avversario».

Così il gioco di rimessa, la tattica attendista di limitarsi a denunciare lo scandalo di cambiare le regole del gioco mentre la partita è cominciata, senza proporre un compromesso per salvare un’esigenza alla quale si dice pur di tenere, potrebbero agevolare l’offensiva della destra. Un attacco, cominciato da alcuni giorni e inasprito ieri dallo stesso Berlusconi, che mira, con un capovolgimento delle responsabilità per l’accaduto, a indirizzare la campagna elettorale sulla rappresentazione preferita dal Cavaliere, quella della vittima. Con la contrapposta immagine di una sinistra ipocrita, formalista, amante dei cavilli e degli intoppi burocratici, istigatrice e complice di magistrati faziosi.

Ecco perché la vicenda delle liste potrebbe rivelarsi un imprevedibile boomerang per chi si aspettava di guadagnare consensi, sull’onda di una presunta indignazione popolare anche di una parte dei simpatizzanti del centrodestra, e, invece, rischia di perderli per la trasformazione improvvisa del vero tema di queste elezioni.

La consultazione amministrativa regionale sembra ormai ricalcare, in Italia, il significato che hanno le elezioni di mid-term negli Stati Uniti: quello di un giudizio sull’operato del governo a metà legislatura. Può essere deplorevole che il parere dei cittadini non si concentri soprattutto sull’operato dei governatori regionali uscenti, quando si ripresentano, o sulle promesse dei nuovi aspiranti a quella poltrona. Ma che, in queste elezioni, gli orientamenti di politica nazionale prevalgano nelle scelte degli elettori è un fatto ormai consolidato.

Fu così nel 2005, quando la delusione per i risultati governativi, dovuti al mancato abbassamento delle tasse e alle divisioni tra Berlusconi e l’asse Fini-Casini, punirono il centrodestra, al potere a Roma, con una sconfitta che consegnò all’opposizione 12 delle 14 Regioni in palio. Fu addirittura riconosciuto ufficialmente come il vero verdetto di questa consultazione, quando D’Alema, in modo inopinato, si dimise dalla presidenza del Consiglio per il risultato negativo delle elezioni regionali del 2000.

Anche questa volta, come un po’ tutti i sondaggi confermano, la soddisfazione degli italiani per il governo sta diminuendo, sia per il perdurare degli effetti della crisi economica, sia per l’ondata di scandali che hanno coinvolto personaggi del centrodestra, sia per le divisioni nell’ambito del neonato e ancora molto fragile Pdl. Ma il clima elettorale, in queste ultime tre settimane prima del voto, potrebbe improvvisamente mutare e la consultazione cambiare «natura»: da un giudizio prevalentemente dedicato ai risultati del governo al solito, ennesimo referendum su Berlusconi.

Le avvisaglie ci sono tutte e riguardano gli atteggiamenti di entrambi i poli. A sinistra, la vicenda del «decreto interpretativo» ha spezzato la precaria ma comunque inedita unità che, negli ultimi mesi, sembrava aver cancellato i contrasti che portarono alla caduta di Prodi e alla sconfitta di Veltroni. Il Pd è tornato a soffrire in mezzo all’opposta necessità di non lasciare a Di Pietro il monopolio della protesta e di non farsi coinvolgere nell’attacco a Napolitano. Mentre l’Udc di Casini si è distaccata subito dalla manifestazione di piazza prevista per sabato prossimo. A destra, l’effetto è speculare: Fini, seppur con toni diversi, si è dovuto riallineare sulla posizione del premier e anche Bossi che, con le prime valutazioni espresse dal suo ministro, Maroni, sembrava voler sostenere l’impossibilità di un decreto per sanare il famigerato «pasticcio», si è dovuto acconciare all’approvazione del provvedimento.

Berlusconi, con l’indubbia capacità di saper condurre le campagne elettorali sui temi che preferisce, ha colto immediatamente l’occasione e, ieri, intervenendo a sostegno del suo candidato in Campania, ha rilanciato lo slogan della «scelta di campo», sul fronte del collaudato motto «o con me o contro di me». Una massima che, da sempre, costringe gli alleati a rinunciare alle ambizioni di una certa autonomia e gli avversari ad unirsi nell’antiberlusconismo più scontato. Tra tre settimane, il voto per le regionali sarà l’ultima consultazione importante prima della fine della legislatura, prevista nel 2013. Forse sarà anche l’ultimo referendum su Berlusconi.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - L'ora della responsabilità
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2010, 09:24:43 am
10/3/2010

L'ora della responsabilità
   
LUIGI LA SPINA

E’ comprensibile la delusione di Berlusconi per il verdetto dei giudici che ha escluso la lista del Pdl dalla competizione regionale a Roma.

Ed è certamente un danno per la libera espressione democratica di tanti cittadini che si riconoscono in quel partito non poter manifestare il loro voto per la lista a cui andrebbe la loro preferenza. Meno comprensibile, però, è definire, come ha fatto il presidente del Consiglio nel video con il quale ha proclamato una grande manifestazione di protesta, «un sopruso», una sentenza che prende atto della mancata presentazione di quella lista nei tempi e nei modi prescritti dalla legge. Poiché non si può dimenticare che i responsabili di quel grave danno inferto agli elettori del Pdl nella provincia di Roma sono proprio quei funzionari del «Partito della Libertà» che hanno combinato «il pasticcio», come l’ha definito il presidente Napolitano. Né che è stata la stessa magistratura, senza adottare neanche il cosiddetto «decreto interpretativo», a riammettere la lista Pdl in Lombardia, dove evidentemente le irregolarità non erano così gravi e manifeste.

Lo sconcerto dei simpatizzanti del centrodestra per questa vicenda è certamente tale da far temere a Berlusconi una disaffezione che potrebbe indurre una parte di loro a disertare le urne. Ecco perché, com’era prevedibile, il premier ha deciso di lanciare una campagna di mobilitazione dei suoi elettori, all’insegna dell’emotività politica, di un presunto «scontro di civiltà» di cui il Paese non ha proprio alcun bisogno. In un momento di forti tensioni, non solo politiche ma anche sociali per una crisi economica i cui effetti non sono certo scomparsi, è necessario da parte di tutti il massimo senso di responsabilità. Nei comportamenti, ma anche nelle parole.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - L'ora della responsabilità
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2010, 05:53:34 pm
10/3/2010

L'ora della responsabilità
   
LUIGI LA SPINA

E’ comprensibile la delusione di Berlusconi per il verdetto dei giudici che ha escluso la lista del Pdl dalla competizione regionale a Roma.

Ed è certamente un danno per la libera espressione democratica di tanti cittadini che si riconoscono in quel partito non poter manifestare il loro voto per la lista a cui andrebbe la loro preferenza. Meno comprensibile, però, è definire, come ha fatto il presidente del Consiglio nel video con il quale ha proclamato una grande manifestazione di protesta, «un sopruso», una sentenza che prende atto della mancata presentazione di quella lista nei tempi e nei modi prescritti dalla legge. Poiché non si può dimenticare che i responsabili di quel grave danno inferto agli elettori del Pdl nella provincia di Roma sono proprio quei funzionari del «Partito della Libertà» che hanno combinato «il pasticcio», come l’ha definito il presidente Napolitano. Né che è stata la stessa magistratura, senza adottare neanche il cosiddetto «decreto interpretativo», a riammettere la lista Pdl in Lombardia, dove evidentemente le irregolarità non erano così gravi e manifeste.

Lo sconcerto dei simpatizzanti del centrodestra per questa vicenda è certamente tale da far temere a Berlusconi una disaffezione che potrebbe indurre una parte di loro a disertare le urne. Ecco perché, com’era prevedibile, il premier ha deciso di lanciare una campagna di mobilitazione dei suoi elettori, all’insegna dell’emotività politica, di un presunto «scontro di civiltà» di cui il Paese non ha proprio alcun bisogno. In un momento di forti tensioni, non solo politiche ma anche sociali per una crisi economica i cui effetti non sono certo scomparsi, è necessario da parte di tutti il massimo senso di responsabilità. Nei comportamenti, ma anche nelle parole.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Bipolarismo il tempo è già scaduto
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2010, 11:01:00 am
25/3/2010

Bipolarismo il tempo è già scaduto
   
LUIGI LA SPINA

La campagna elettorale più assurda degli ultimi anni si va concludendo con la polemica più lontana dagli argomenti che riguardano i poteri e le funzioni delle Regioni, l’ente per il quale, domenica e lunedì, gli italiani dovranno andare a votare. Non bastavano i magistrati, la Protezione civile, gli arresti di presunti corrotti dalle grazie delle escort e, dulcis in fundo, il cancro e l’aborto.

Ci voleva anche il tema delle riforme costituzionali per appassionare i cittadini e per indurli a affollare le urne. Come se i nuovi consiglieri regionali non dovessero badare alla sanità, all’occupazione, ai trasporti, ma dovessero cambiare i supremi principi della nostra democrazia.

Poiché le regole dell’americano «pensare positivo» impongono, però, di cercare l’utilità anche dove, a prima vista, se ne vede assai poca, proviamo a individuarne le tracce anche nel «botta e risposta» tra Berlusconi e D’Alema apparso nelle interviste successive alla Stampa. In entrambe, pare si possa cogliere, infatti, una comune considerazione negativa sugli effetti del bipolarismo nel nostro Paese. Almeno, come è stato interpretato e realizzato negli ultimi 15 anni in Italia.

È curioso come due leader appartenenti ai due maggiori partiti delle opposte coalizioni, i teorici beneficiari di un sistema che dovrebbe esaltare il potere delle loro formazioni politiche a scapito delle più piccole, sembrino insoddisfatti e caldeggino modifiche di una condizione che, invece, dovrebbe avvantaggiarli. Escludendo eccessi di altruismo, non previsti in politica, si deve propendere per la maturata consapevolezza di una scarsa efficacia dei risultati governativi di questi anni. Sia quelli a guida del centrosinistra sia quelli retti dal centrodestra.

Così, Berlusconi punta al presidenzialismo per rafforzare e consolidare una sua maggioranza, ampia numericamente, ma percorsa da insofferenze personali e manovre correntizie per una successione la cui ombra si allunga indefinitivamente. D’Alema, invece, vuole una nuova legge elettorale che modifichi l’attuale bipolarismo allentando un sistema troppo bloccato. Due ricette molto diverse, naturalmente, ma che cercano di rimuovere gli ostacoli che, finora, hanno fatto dei loro partiti giganti fragili.

Le proposte di modifica dell’attuale bipolarismo, non bisogna dimenticarlo, cadono in quel clima di curioso revisionismo per la cosiddetta prima Repubblica che, da un po’ di tempo, si va diffondendo nel nostro Paese. Sindrome tipica, forse, di senescenza nostalgica della nostra classe dirigente, ma anche di una certa delusione per tante speranze di rinnovamento che, occorre ammetterlo, non si sono avverate con la cosiddetta seconda.

In attesa di assistere all’esito della sempre più rinviata successione di Berlusconi alla leadership del centrodestra, l’esplicita bocciatura dell’attuale bipolarismo, mai espressa con tale chiarezza e forza, da parte di D’Alema, merita un particolare approfondimento. Bocciata la pretesa «vocazione maggioritaria» del Pd, vagheggiata da Veltroni, l’ex presidente del Consiglio pare rendersi conto di una strettoia politica che, con l’attuale sistema, potrebbe condannare il suo partito e il centrosinistra a una perpetua opposizione. Un altro «fattore K», per usare la storica definizione del compianto Alberto Ronchey, che innalzerebbe tra questo schieramento e il governo un nuovo Muro, dopo quello caduto a Berlino.

Se il partito democratico rinnovasse l’esperienza dell’Unione, potrebbe vincere solo con una improbabile rottura nel centrodestra e, comunque, non riuscirebbe ad ottenere quella coesione interna necessaria per governare. Se rifiutasse l’alleanza con la sinistra radicale, non arriverebbe mai alla maggioranza dei consensi di un Paese che, dalla fondazione della Repubblica, esprime una prevalenza di orientamenti elettorali moderati e conservatori.

L’alternanza è stata, dunque, una breve parentesi nella confusa fase seguita al crollo della seconda Repubblica? È possibile che, senza una modifica dell’attuale sistema elettorale e partitico bipolare, la risposta debba essere affermativa. Ecco perché la via d’uscita al nuovo probabile blocco della democrazia italiana potrebbe consistere in un taglio delle ali estreme nei due schieramenti. Con una alternanza «centripeta» tra due forze politiche, condizionata dall’appoggio di un terzo partito, «autorizzato» ad allearsi, secondo le circostanze, con l’uno o con l’altro dei due maggiori.

È inutile che la sinistra guardi all’amato «doppio turno» alla francese. Proprio perché sarebbe l’unico metodo elettorale con cui potrebbe vincere, non l’avrà mai. Se coltiva sogni di successo, forse è meglio che faccia un corso accelerato di tedesco.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il Pd nel vicolo cieco
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2010, 03:01:48 pm
31/3/2010

Il Pd nel vicolo cieco

LUIGI LA SPINA

Con un gioco di parole, banale ma efficace, si potrebbe dire che ha colpito, nei risultati del voto per le elezioni regionali, la voglia di protesta degli italiani. Ma il sentimento più vero e importante emerso dal verdetto è un altro: la voglia di proposta. La domanda, anzi, la giusta pretesa degli elettori di essere governati. E governati bene.

La democrazia è fatta di numeri e di sintesi.

Non si possono confondere, perciò, le dimensioni quantitative dei fenomeni, mettendo sullo stesso piano realtà con cifre assolutamente distanti tra loro. Né trascurare la crudele ma imparziale legge che assegna una vittoria senza ombre anche a chi prevale per un voto e una sconfitta senza giustificazioni a chi, per un voto, soccombe.

E’ vero che l’astensione è stata senza precedenti nel nostro Paese e interpretarla come una disaffezione, un’accusa, anche una protesta dei cittadini contro la classe politica è certamente un’interpretazione corretta. Ma non bisogna dimenticare che, dopo una campagna elettorale deprimente e lontana dagli interessi concreti degli elettori, una ancora ampia maggioranza degli italiani è andata a votare per un ente, la Regione, che non è in cima nella graduatoria di affezione popolare. Un fenomeno, quindi, del tutto fisiologico, non drammatico nei numeri e, molto probabilmente, reversibile in votazioni politiche e amministrative più sentite. Altrettanto fisiologica e assolutamente minoritaria è la presenza di un’opposizione irriducibile e contestativa contro il generale nostro sistema dei partiti che, di volta in volta, sceglie l’estremismo movimentista, a targhe alterne, dal «girotondismo» al «grillismo».

Considerate le dimensioni numeriche della protesta che si è manifestata in Italia, è forse più opportuno concentrare l’attenzione sulle intenzioni espresse da coloro che sono andati a votare per i partiti che si contendevano la posta in palio e che, cambiando le loro scelte, hanno connotato il significato dell’elezione. La sintesi è semplice e chiara: la Lega è l’unica vera vincitrice del round elettorale perché ha dimostrato, in questi ultimi anni, di non essere più un movimento di protesta, ma di offrire una vera alternativa di governo, almeno di quello locale e regionale. Il Pdl ha visto ridotto il suo bacino di consensi, nonostante le straordinarie capacità di seduzione elettorale di Berlusconi, perché una parte dei suoi simpatizzanti non è soddisfatta dei risultati del governo in questo inizio di legislatura. Il Pd non può nascondere, dietro la tenuta dei suffragi, l’amara verità: ancora una volta non ha dimostrato di sapere offrire agli italiani una concreta alternativa nazionale di governo all’asse politico, sociale, culturale rappresentato dalla coppia Berlusconi-Bossi.

Le giustificazioni, come l’addebito alla lista di Grillo per la sconfitta della Bresso in Piemonte e le eccezioni, come la vittoria a Venezia di Giorgio Orsoni contro il ministro Brunetta, non possono mascherare la constatazione che il progetto politico del partito democratico è finito in un vicolo cieco: non si può pretendere di offrire agli italiani una proposta di vera alternativa nazionale di governo, se non si riesce a convincere almeno una parte delle grandi regioni del Nord. Se si subisce, nel Lazio, la candidatura della radicale Bonino e non la si porta alla vittoria in una competizione che, per le note vicende, non sembrava impossibile. Se, in Puglia, si perdono le primarie contro il candidato di un altro partito e, poi, si contribuisce a farlo vincere solo per una masochistica e clamorosa divisione del fronte avversario. In queste condizioni, alzare la bandiera della Liguria e della Basilicata, in aggiunta ai tradizionali feudi del centro Italia, per non ammettere la sconfitta è un esercizio di acrobazia dialettica che non può essere concesso neanche a una persona perbene e simpatica come Bersani.

La richiesta di essere governati degli italiani andrà raccolta, perciò, da tre fronti: dalla Lega, che non dovrà deludere quelle attese di serietà, concretezza e moderato buon senso che l’hanno premiata; da Berlusconi, che non dovrà sottovalutare, per il sollievo dello scampato pericolo di una sconfitta, i segni di stanchezza e sconcerto di una parte del suo elettorato; infine, dal Pd al quale, forse, spetta il compito più difficile ma anche più importante per conservare l’equilibrio di una sana democrazia: offrire una vera alternativa di governo all’attuale maggioranza.

È inutile, a questo proposito, che il partito democratico continui a cercare la soluzione cambiando il segretario. Ma è inutile pensare che senza un vero chiarimento possa uscire dalla sua condizione di un partito senza identità, con una classe dirigente invecchiata in un asfissiante logoramento di lotte intestine. Le strade sono solo due. La prima porta il Pd a rappresentare la parte maggiore dell’opposizione nel nostro Paese, con vittorie occasionali e provvisorie, frutto di errori clamorosi degli avversari. La seconda ha l’ambizione di convincere una parte dell’elettorato di Berlusconi e Bossi che l’Italia si può governare in un altro modo.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Trasparenza senza eccezioni
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2010, 09:13:55 am
10/4/2010

Trasparenza senza eccezioni

LUIGI LA SPINA

La lettera scritta nel 1985 dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger, è una ulteriore conferma. A lungo il Vaticano, «per il bene della Chiesa universale», come si legge in quel testo, decise di coprire nel silenzio lo scandalo dei preti pedofili. Ma questo documento dimostra anche che il futuro Benedetto XVI si uniformò a quella linea di riserbo adottata da Giovanni Paolo II per evitare che i nemici della Chiesa strumentalizzassero quelle vicende. L’ultima rivelazione proveniente dagli Stati Uniti colpisce la Santa Sede e il Papa in momento di grave difficoltà. La sofferenza di Benedetto XVI è comprensibilmente acuita da una specie di pena del contrappasso che, in questi giorni, sta crudelmente subendo.

Proprio su di lui che, da quando è salito al soglio pontificio, ha cercato di attuare una svolta di trasparenza e di denuncia pubblica per questi scandali, si abbatte quotidianamente una bufera di attacchi che non sembra aver mai fine. Proprio su di lui, sulle spalle esili un Pontefice anziano e stanco, incombe l’onere di difendere la Chiesa, assumendosi, come un Papa è costretto a fare, anche il carico di responsabilità passate, in circostanze storicamente diverse. Per comprendere, infatti, i motivi della resistenza a denunciare pubblicamente i casi di pedofilia in ambito ecclesiastico all’epoca del pontificato di Papa Giovanni Paolo II, occorre ricordare l’esperienza pastorale in Polonia di Karol Wojtyla. Un Paese dell’Est europeo, allora sotto il dominio di un regime comunista che spesso usava la calunnia a sfondo sessuale contro i sacerdoti per minare il rapporto di fiducia dell’opinione pubblica locale nei confronti della Chiesa.

Ecco perché, in tempi in cui il nemico esterno, l’ateismo comunista, combatteva la presenza cattolica in quelle terre con tutti i mezzi, anche i più spregiudicati, sembrava opportuno cercare di indagare su questi scandali, veri o falsi che fossero, solo all’interno della comunità ecclesiale. Un atteggiamento di prudenza e anche di diffidenza nei confronti delle accuse di quel genere contro i preti che Giovanni Paolo II conservò anche quando fu eletto Papa. Il segnale più forte di un cambiamento verso la trasparenza e la denuncia pubblica fu dato proprio da Benedetto XVI nel suo viaggio negli Stati Uniti avvenuto nell’aprile del 2008. Papa Ratzinger, con un gesto che suscitò perfino un certo sconcerto e qualche critica nell’episcopato americano, volle incontrare le vittime degli abusi sessuali compiuti dai sacerdoti in quel Paese e, con loro, unirsi in preghiera, mano nella mano. L’attuale difficoltà della Chiesa e dello stesso Papa ad uscire dall’assedio di accuse che sembra sommergerli deriva da una reazione difensiva sbagliata.

Costruita su tentativi di minimizzazione o di giustificazioni, assai improbabili, per le mancate denunce nei confronti di chi si è reso colpevole di questi terribili delitti contro i più deboli, i bambini. Intessuta di sconcertanti gaffe comunicative, come se le manifestazioni di pedofilia anche fuori del mondo ecclesiastico riducessero lo scandalo sulla Chiesa. Ecco perché, a questo punto, al Vaticano non resta che una via d’uscita da questa bufera: la consapevolezza e la volontà di dover pagare un prezzo molto pesante per ristabilire un clima di fiducia e di credibilità nei confronti dell’istituzione ecclesiastica. Con una assunzione di responsabilità, alta e forte, per quanto è avvenuto in passato, accompagnata da solenni scuse e richieste di perdono. E la dimostrazione che l’assoluta trasparenza, d’ora in poi, non avrà alcuna eccezione. Per nessuno e in nessuna circostanza.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - L'equivoco del territorio
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2010, 03:57:04 pm
16/4/2010

L'equivoco del territorio

LUIGI LA SPINA

La conquista elettorale del Nord da parte della Lega ha riaperto la partita tra la politica e i «signori delle banche». L’annuncio, questa volta, non è filtrato dalle intercettazioni rivelatrici della speranzosa domanda di Fassino, («Allora, abbiamo una banca?»), come all’epoca della scalata alla Bnl. Ma dalle esplicite e sbrigative intenzioni espresse da Bossi («La gente ci dice prendetevi le banche, e noi lo faremo»).

La nuova offensiva sfrutta certamente lo spirito dei tempi. Una crisi finanziaria ed economica, senza precedenti nell’ultimo mezzo secolo, ha determinato difficoltà di credito, soprattutto per le piccole e medie aziende e, almeno sul piano internazionale, ha gettato un generico discredito e una generica diffidenza sull’operato dei banchieri. Ecco perché, come era già avvenuto nella precedente legislatura a guida del centrodestra, nel mirino sono tornate le Fondazioni ex bancarie, porte d’ingresso per l’influenza della politica locale e, magari, anche nazionale, nell’era del mercato globale.

Durante la seconda repubblica, questi enti di diritto privato, inventati dalla alchemica fantasia giuridica di Giuliano Amato, sono riusciti a erigere un efficace filtro tra il mondo della politica e quello della società civile, consentendo l’unica vera «rivoluzione» realizzata negli anni seguiti a Tangentopoli: il tramonto del dominio partitico e lottizzatorio su istituti di credito piccoli, per dimensioni, e sostanzialmente estranei al mercato internazionale e alle sue regole. La memoria, anche la più distratta, non può dimenticare le vicende del Banco Ambrosiano, del Banco di Napoli, di quello di Sicilia, della Banca di Roma, della stessa Bnl, istituti infeudati dalla politica e condotti al fallimento o all’orlo del dissesto.

Se il passato non induce alla nostalgia, il presente conforta la constatazione di una ben diversa realtà. Le nostre banche non solo si sono dimostrate competitive sui mercati finanziari, ma hanno manifestato, proprio rispetto alla concorrenza straniera, una solidità invidiabile davanti alle gravi scosse della crisi. Bisogna dar atto alle Fondazioni, maggiori azioniste delle più importanti banche nazionali, di aver esercitato un meritorio ruolo di garanzia dell’autonomia degli amministratori e di aver assicurato il rispetto delle regole del mercato.

L’osservazione che questi istituti debbano preoccuparsi soprattutto della tutela del territorio di cui sono espressione, grimaldello dialettico per aprirle al diretto condizionamento della politica, cela, in realtà, un equivoco. Il tanto celebrato «territorio» deve essere il beneficiario degli utili che le banche forniscono alle fondazioni. Non dev’essere il trampolino della politica per piazzare ai vertici delle banche uomini che assicurino finanziamenti ai loro partiti o ai loro amici di riferimento. Anche perché, quegli utili, prima di distribuirli, vanno realizzati. In un mercato aperto, in cui la credibilità e la fiducia degli investitori internazionali, a partire dai fondi pensione di mezzo mondo, vanno conquistate giorno per giorno e si possono perdere molto in fretta.

A proposito del ruolo delle Fondazioni, in una sfortunata coincidenza di tempi con le dichiarazioni di Bossi, è arrivata, dalla Compagnia di San Paolo, la designazione di Domenico Siniscalco alla presidenza del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo. L’esito dello scontro tra Angelo Benessia ed Enrico Salza sembra destinato a concludersi, quindi, con la vittoria del presidente della Compagnia. All’attuale presidente del consiglio di gestione si rimprovera di non aver difeso sufficientemente, dopo la fusione, il peso di Torino rispetto al più potente partner milanese. Una accusa, fondata o meno che sia, che non può certamente far dimenticare il ruolo esercitato, per tantissimo tempo, da Salza per la promozione e lo sviluppo della capitale subalpina in campo nazionale e internazionale. Ma l’obiettivo di una sua sostituzione non dovrebbe far trascurare, anche in questo caso, il rispetto delle regole e la distinzione dei ruoli nella triangolazione politica-fondazione-banca.

I compiti dell’azionista non sono quelli dell’amministratore e il mestiere del banchiere non può confondersi con quello del funzionario di partito. Tutto ciò non per un ossequio al formalismo o all’ipocrisia. Ma perché è l’unica garanzia che i soldi del cittadino, raccolti allo sportello, siano tutelati dal rischio dell’insolvenza della banca o dello sperpero al finanziamento clientelare. E’ vero che le Fondazioni non possono essere azionisti silenti e passivi e che gli istituti di credito non si possono trasformare in potenze autoreferenziali, senza alcun controllo. Ma il controllo del mercato è sempre preferibile a quello dei politici.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Una brutta figura che si doveva evitare
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2010, 06:15:42 pm
30/4/2010

Una brutta figura che si doveva evitare
   
LUIGI LA SPINA

Una sconfitta clamorosa e insensata per tutta la classe dirigente torinese. L’irritato ritiro della disponibilità di Domenico Siniscalco alla sua nomina come presidente del Consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo è stato l’inevitabile sbocco di una vicenda cominciata male e condotta peggio. Con il risultato di un pesante danno per la credibilità di Torino nei confronti del partner milanese della banca, ma anche per l’immagine della città rispetto a tutta la comunità finanziaria nazionale.

Fin dall’inizio, la mancata conferma di Enrico Salza era apparsa più una sorta di punizione dettata da ragioni personalistiche che l’approdo di una scelta anche comprensibile, ma che riconoscesse, comunque, il suo ruolo e il suo apporto per lo sviluppo di Torino negli ultimi decenni. L’esigenza di rafforzare l’influenza torinese rispetto allo strapotere di Milano negli indirizzi della banca poteva anche essere opportuna. L’«operazione riequilibrio» tra i due poli geografici di Intesa Sanpaolo, però, avrebbe richiesto almeno il rispetto di due condizioni.

La prima è quella dell’unità e il sostegno di tutta la classe dirigente torinese su un nome di indiscusso prestigio. La seconda una paziente, silenziosa e accorta politica di alleanze con le forze che avrebbero potuto condizionare la designazione del presidente del Consiglio di gestione. Il modo, invece, con il quale, sia Chiamparino sia Benessia, hanno gestito la candidatura dell’ex ministro Siniscalco è stato, purtroppo, maldestro.

Il sindaco l’ha promossa in maniera negativa, con una ingerenza politica tanto ingenua quanto controproducente. Tra l’altro, in un momento in cui i proclami di Bossi sull’ingresso della Lega nel mondo bancario suscitavano inquietudini e sospetti. Il presidente della Compagnia è riuscito nell’ardua impresa di dividere i membri del comitato di gestione sulla scelta di Siniscalco, di vedersi contrapposto un altro nome come quello del professor Beltratti e, per di più, di assistere al sorpasso, nella conta dei voti, di quest’ultimo rispetto al candidato presidente che lui aveva proposto. Ciliegina finale è stata la dura polemica, a suon di interviste, tra Chiamparino e Guzzetti.

I cocci di questa Waterloo diplomatica, politica, finanziaria, comunicativa saranno difficili da comporre per tutti i protagonisti torinesi della vicenda. Chiamparino, molto isolato nel suo partito, sia a livello nazionale sia a quello torinese, rischia di dilapidare quel capitale di credibilità politica e di autorevolezza personale accumulato negli anni della sua permanenza a palazzo di Città.
Siniscalco subisce una ingiusta umiliazione. Salza, a meno di un sorprendente e clamoroso ripescaggio, appare come la vittima di una altrettanto ingiusta punizione. Beltratti, senza alcuna colpa, teme di essere usato come strumento di una faida politico-accademica.

Benessia, infine, sembra persino sfiduciato dallo sponsor che lo ha promosso alla presidenza della Compagnia, il sindaco Chiamparino.
Dal caso Siniscalco il centrosinistra torinese esce più spaccato di prima, registrando una sconfitta storica rispetto ai poteri milanesi. Non sono davvero le condizioni migliori per riconfermarsi, tra un anno, alla guida della città.

da lastampa.it


Titolo: LUIGI LA SPINA - Lontano dalla realtà
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2010, 10:53:50 am
5/5/2010

Lontano dalla realtà
   
LUIGI LA SPINA

Il maggior rammarico, in queste tristi ore, dell’ex ministro Claudio Scajola dovrebbe essere quello di aver affidato la sua difesa all’avvocato Claudio Scajola. Il legale, forse per inesperienza professionale, forse per arroganza provinciale, ha scavato con pertinacia, in dieci giorni di dichiarazioni inverosimili, un tale fossato di credibilità intorno al suo assistito da costringerlo all’inevitabile sprofondamento politico delle dimissioni.

L’allontanamento progressivo dell’ex ministro dalla realtà è documentato dal linguaggio, rivelatore infallibile ma anche inesorabile di una sindrome masochistica. Scajola, oltre alle rituali accuse contro il «complotto mediatico», parte già dall’ammissione di conoscere l’architetto Anemone per ragioni d’ufficio. Poi, non riesce a spiegare come mai non sia sorpreso dallo straordinario affare costituito dall’acquisto di una casa a meno della metà del valore di mercato.

Infine, arriva al culmine del tentativo di convincere l’opinione pubblica dell’impossibile: se sapessi - dice - che qualcuno, a mia insaputa, ha pagato una parte della mia abitazione, rescinderei il contratto. Una vera e propria scalata nell’assurdo, dove un acquirente di tale lignaggio non conosce i prezzi delle residenze romane e, in seguito, diventa ministro per lo Sviluppo economico. Dove benefattori misteriosi, tempestivamente scesi dal cielo, donano a due sorelle, non bisognose ma dotate di un cognome allusivo, al di qua e al di là del Tevere, integrazioni risarcitorie per uno sconto eccessivo.

Al di là del «caso Scajola» e del personale grado di responsabilità nella specifica vicenda della sua casa che solo la magistratura avrà il compito di valutare, l’attenzione dovrebbe essere concentrata, però, sull’ormai evidente intreccio corruttore rivelato, prima dalle indagini sulla caserma dei carabinieri a Firenze, poi dalle inchieste sulla Protezione civile e probabilmente confermato da altri possibili futuri coinvolgimenti illustri: il rapporto, chiuso e autoreferenziale, tra imprenditori e settori delicati dell’amministrazione dello Stato.

Si è ormai intuito che, con l’alibi di una riservatezza necessaria per alcuni lavori che riguardano il ministero dell’Interno, della Difesa, della Protezione civile, ma anche di altri dicasteri, si è creato un nucleo solido di interessi convergenti tra costruttori e politici nel quale spariscono i confini tra pubblico e privato. Un ambito, protetto e oscuro, dove ci si può, più o meno legittimamente, sottrarre ai due obblighi fondamentali del mercato. Il primo riguarda la concorrenza, con il corollario che impone la rima obbligata, la trasparenza. Il secondo tocca il sistema dei controlli amministrativi, a partire da quello della Corte dei conti.

E’ all’interno di questo mondo impermeabile a sguardi estranei che si costruisce un sistema e si consolida una mentalità. I magistrati hanno definito questo circolo chiuso di affaristi «una cricca». Il termine è efficace perché ben illumina l’aspetto di consorteria ristretta dei protagonisti e anche la ripetitività di reati compiuti nelle stesse forme. Ma non riesce a spiegare fino in fondo i motivi della peculiare sensazione di impunità e di onnipotenza che inebria costruttori e politici, quel misto di presunzione arrogante e nello stesso tempo ingenua che finisce per travolgere ogni prudenza e ogni limite di opportunità.

Nel tempo, con la consuetudine di frequentazioni amicali, diventa normale, infatti, rivolgersi a chi ristruttura i locali del ministero anche per aggiustare gli infissi di casa propria. Diventa normale chiedere a chi ha vinto l’appalto indetto dal dicastero che si dirige anche l’aiuto per acquistare una casa a prezzo ultrascontato. Diventa normale confessare al telefonino affarucci e affaracci, sicuri di una immunità riservata a imprenditori «speciali». Ma diventa anche normale e persino comprensibile la sorpresa quando la segretezza viene violata e diviene altrettanto comprensibile un atteggiamento altrimenti sconcertante: la pretesa di convincere l’opinione pubblica dell’assolutamente improbabile e il distacco da una realtà che i cittadini comuni conoscono a memoria e che, invece, in quel mondo, è così lontana da giustificare qualsiasi romanzesca versione dei fatti. In attesa di apprendere le prossime rivelazioni, armati di un serio garantismo ma non di una sciocca credulità, è urgente smantellare, al più presto e col massimo rigore, questo intreccio pubblico-privato di affarismo «riservato». Come diceva Bobbio, la democrazia non ama il buio.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7304&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUIGI LA SPINA - Federalismo alla prova
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2010, 04:33:51 pm
27/5/2010

Federalismo alla prova

LUIGI LA SPINA

E’ vero. L’Europa ha deciso una concertata azione di tutti gli Stati contro l’espansione del debito pubblico per difendere non solo l’euro, ma la credibilità del progetto di unione politica ed economica del nostro continente. Ma il governo ha colto questa opportunità per varare un primo test sugli effetti, in Italia, dell’applicazione del federalismo.

Con una categoria esplicitamente e anche duramente messa nel mirino: i dipendenti pubblici. E con una istituzione messa alla prova: le Regioni.

La conferenza stampa della coppia Berlusconi-Tremonti aveva il dichiarato e obbligato scopo di smentire l’esistenza di contrasti tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia. Il tono di ostentata deferenza con il quale Tremonti si rivolgeva al premier, però, non è riuscito a mascherare la realtà. L’impronta della manovra corrisponde perfettamente alle visioni di politica economica e sociale caratteristiche dell’asse forte sul quale, oggi, si regge il quarto governo Berlusconi, quello formato dal ministro dell’Economia e dalla Lega.

Le dimensioni quantitative dei «tagli», o meglio, come pudicamente li ha battezzati Tremonti, dei «risparmi di spesa», non sono clamorose. Sia rispetto a quello che hanno fatto i governi dell’Europa, sia rispetto ai sacrifici che, in un passato abbastanza recente, prima Amato e poi Prodi hanno chiesto agli italiani per salvare lo Stato dal dissesto e per entrare subito nella moneta unica. A questo proposito, è significativo come, anche da parte di ambienti favorevoli alla maggioranza, siano state espresse preoccupazioni sulla sufficienza di questi provvedimenti per convincere i mercati e la speculazione finanziaria. Timori che lo stesso ministro dell’Economia ha cercato di fugare esibendo, con molta enfasi, i pareri favorevoli espressi ieri dalla Commissione europea, dal Fondo monetario e da alcune agenzie di rating.

Quello che caratterizza questa manovra è, invece, il preciso indirizzo sociale e politico, concentrato su una riduzione di spesa della pubblica amministrazione. La «filosofia» dalla quale nascono i provvedimenti parte da due scommesse. La prima presuppone che il costo dell’intervento sia accettabile per una categoria per la quale, finora, la crisi economica non ha avuto sensibili conseguenze. Perché garantita da un posto sicuro e da un salario che ha perlomeno conservato lo stesso potere d’acquisto, visto il basso livello dell’inflazione. La seconda scommessa vuole verificare le conseguenze di un trasferimento di responsabilità alle Regioni, che saranno costrette, se non riusciranno a tagliare i cosiddetti «sprechi», o a ridurre i servizi o ad aumentare le tasse.

Queste prove di federalismo fiscale, però, scontano differenze territoriali enormi che, simbolicamente, si potrebbero riassumere anche con la distribuzione geografica delle Province a rischio, secondo i criteri stabiliti dal governo: quasi tutta concentrata nel Centro-Sud. Nel nostro Mezzogiorno, ma non solo, è molto labile il confine tra l’erogazione di un servizio da parte dell’amministrazione pubblica e l’assistenza, il sostegno contro la disoccupazione, il disagio economico, la precarietà del lavoro. Forme di welfare improprio, certamente, ma che hanno consentito una pace sociale difficile da garantire altrimenti. Anche perché c’è una evidente sfasatura temporale tra gli effetti, immediati, dei tagli alle spese pubbliche e quelli, possibili ma non assicurati, dei provvedimenti previsti per attirare investimenti nel Sud.

Ecco perché le due sfide mettono a repentaglio un consenso elettorale che non tocca la costituente d’interessi di Tremonti e di Bossi. Il ministro dell’Economia, almeno per ora, deve occuparsi principalmente di offrire garanzie sui nostri conti, sia nei confronti dei partner europei, sia nei confronti dei risparmiatori che devono acquistare i nostri titoli di Stato. Impiegati pubblici e territori del Centro-Sud non sono, notoriamente, aree di particolare attenzione da parte della Lega.

Diversa è la condizione di Berlusconi. Al di fuori degli insegnanti e dei magistrati, i pubblici dipendenti costituiscono un bacino elettorale che assicura al Pdl una notevole messe di voti. Così come lo spostamento dei suffragi, dallo schieramento di centrosinistra a quello di centrodestra, è stato determinante per le sorti della competizione nazionale negli ultimi tempi. Non è un caso infatti che, proprio in questi giorni, il presidente del Consiglio stia tentando di riallacciare buoni rapporti sia con Casini sia con Fini, altrettanto interessati alle sorti di quella categoria e di quell’area geografica. L’equilibrio dei governi, come quello degli uomini, non sopporta che una gamba sia troppo più forte dell’altra.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7409&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUIGI LA SPINA - La cortina fumogena del governo
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2010, 05:40:20 pm
12/6/2010

La cortina fumogena del governo
   
LUIGI LA SPINA


Quando la politica parla troppo di grandi princìpi, puzza di bruciato. Perché i princìpi si cercano di osservare, se ci si riesce. Ma quando si sbandierano, con il contorno di dotte citazioni dei maestri del pensiero liberale, è bene diffidare da quel fumo di ipocrisia che copre l’arrosto: gli interessi.

La vicenda della legge sulle intercettazioni è, in realtà, abbastanza chiara e l’opinione pubblica, al di là della propaganda, ne ha capito benissimo il significato e, soprattutto, gli obbiettivi. Si possono riassumere in poche parole. Nei mesi scorsi, i giornali hanno documentato, anche attraverso la pubblicazione di conversazioni telefoniche, un clima di corruzione politico-amministrativa estesa e preoccupante. Alcune volte con gravi risvolti penali, altre volte solo con caratteri di malcostume. Ci sono stati certamente episodi in cui la rivelazione di particolari ininfluenti, rispetto alle indagini, ha colpito la sfera della riservatezza delle persone. E ha infangato l’onore dovuto a chiunque sia sottoposto a un’inchiesta, per l’obbligata presunzione d’innocenza fino a giudizio definitivo. Con violazioni della legge in vigore che già proibisce questi comportamenti e che, se fosse osservata, sarebbe assolutamente in grado di tutelare questi fondamentali diritti.

Il governo, sentendo montare l’indignazione dei cittadini per questi scandali che si abbattono sulla classe politica con impressionante frequenza, ha colto il pretesto degli abusi nella pubblicazione delle intercettazioni per varare una nuova legge che, se andrà in vigore, avrà due conseguenze: rendere più difficile, per la magistratura, l’utilizzazione di questo mezzo d’indagine e limitare fortemente il diritto-dovere dei giornalisti di informare i cittadini, per assicurare la garanzia fondamentale in un sistema democratico: il controllo dell’opinione pubblica sull’operato di chi ricopre un incarico pubblico.

Quello che più sorprende è la sottovalutazione degli effetti-boomerang di questa vicenda proprio nell’elettorato di centrodestra. E’ ingenuo pensare che l’elevazione di questa barriera preventiva a tutela degli interessi della classe politica riesca a ridurre il distacco che si sta approfondendo tra la cosiddetta ”casta” e i cittadini. In particolare, quella parte dei ceti moderati e popolari che ha votato per il Pdl e per la Lega è più sensibile alle parole d’ordine di maggior tutela della sicurezza lanciate in campagna elettorale proprio da quei partiti. Non si capisce come possano plaudire alle limitazioni d’indagini, a causa delle maggiori difficoltà per poter intercettare le conversazioni, a cui saranno costretti magistrati e forze dell’ordine. Né come questa legge possa rientrare nelle priorità dei loro interessi quotidiani, che non sembrano particolarmente minacciati da intercettazioni.

E’ abbastanza illusorio, inoltre, che la legge approvata al Senato riesca a evitare la pubblicazione di indiscrezioni sulle indagini in corso. Il rapporto tra magistrati e giornalisti dovrebbe essere improntato alla massima chiarezza sulle conseguenze dei rispettivi comportamenti. Già adesso si sconta un clima di assoluta incertezza tra i cronisti per le disparità di valutazioni tra procura e procura, giustificate magari con ambiguità nell’applicazione di norme che, in realtà, non sono affatto ambigue. In futuro, la confusione delle procedure, le violazioni della legge imposte dalla deontologia professionale, l’apertura incomprimibile del villaggio globale sulle informazioni, tramite i più moderni mezzi di comunicazione, susciteranno una guerra senza regole, a colpi di veri o falsi scoop, con effetti diametralmente opposti a quelli che si vogliono raggiungere.

La contraddizione, poi, tra le esigenze più sentite dai cittadini e le scelte governative sono patenti. Si parla degli eccessivi costi della politica e, poi, non solo i “tagli” agli stipendi sono sostanzialmente simbolici, ma la ventilata abolizione delle province finisce in un ridicolo “nulla di fatto”. Per non parlare della riduzione del numero dei parlamentari, di quella dei consiglieri in tutti gli enti locali. Una delusione che non sarà certamente compensata dalla lettura, in tv, delle retribuzioni di Santoro o della Dandini.

La stravagante agenda dei provvedimenti del governo rischia, infine, di mettere in particolare difficoltà la Lega. Gli elettori di Bossi sono forse i più diffidenti nei confronti delle «esigenze» della classe politica. Eppure, sull’altare della speranza che la manovra di Tremonti non comprometta il sogno del federalismo fiscale, hanno dovuto accettare il dietro-front sull’abolizione delle province. Sollecitato, tra l’altro, dallo stesso Bossi che temeva di perdere qualche amministratore locale della Lega. Hanno constatato l’esiguità dei sacrifici imposti a parlamentari e ministri e udito, proprio per bocca di alcuni loro rappresentanti arrivati nelle stanze del potere locale, la necessità di tagli alle spese di comuni e regioni. Ora, devono assistere al tentativo d’innalzamento di una, sia pure velleitaria, cortina fumogena sui comportamenti di chi li governa. Una serie di bocconi amari davvero faticosi da digerire anche per chi ha stomaco robusto e molta fiducia nell’avvenire.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7466&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUIGI LA SPINA - Un voto che non va travisato
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2010, 12:34:53 pm
24/6/2010

Un voto che non va travisato

LUIGI LA SPINA

Alla luce dell’esito del referendum nella fabbrica Fiat di Pomigliano i rischi più gravi sono due: travisare i fatti per non volerne accettare il significato e cercare di non assumersi le responsabilità delle conseguenze.

La realtà, nelle linee fondamentali, è abbastanza chiara. La Fiat vuole riportare in Italia la produzione del modello decisivo per le future sorti del gruppo, la «Panda». Nelle attuali condizioni del mercato automobilistico, voler dimostrare che nel nostro Paese è possibile essere competitivi rispetto alle altre nazioni del mondo è una scommessa al limite dell’azzardo. Se, poi, si considera che questa sfida ha scelto proprio il Sud come terreno di prova, si comprende come ci sia soprattutto la volontà di verificare se il nostro Mezzogiorno debba essere considerato ancora una regione d’Europa non al di fuori dai moderni circuiti dei mercati mondiali.

Insomma, se possa diventare attrattivo per finanziamenti industriali o debba essere definitivamente escluso dall’interesse del capitalismo internazionale. Per poter attuare questo impegno, però, si devono assicurare garanzie che impongono sacrifici, anche duri, rispetto agli attuali modi di lavorare in quella fabbrica.

Di fronte a queste richieste aziendali, magari discutibili e certamente severe, ma che riguardano specifiche situazioni della realtà produttiva in quello stabilimento campano e del contesto sociale che lo circonda, nasce subito una campagna polemica di segno opposto, ma di uguale incongruo significato. Alcuni ministri del governo accolgono le proposte Fiat come l’imposizione di un nuovo modello universale di relazioni industriali, esaltando la fine di un’epoca e, addirittura, lo stravolgimento definitivo del rapporto tra il mondo del lavoro e quello del capitale. Dall’altra parte, la Fiom e i Cobas, appoggiati da un certo radicalismo intellettual-politico, parlano di attacco ai diritti fondamentali della persona e, persino, di un tentativo di colpire la Costituzione.

A questo primo tentativo di confondere i termini del problema, si aggiunge, ora, la tentazione di fuggire rispetto alla presa d’atto dei risultati: un’affluenza alle urne plebiscitaria, una netta maggioranza di «sì», una forte minoranza di «no». La responsabilità non può prescindere dalla chiarezza: alla Fiat spetta il compito di rispettare la volontà dei lavoratori che, per oltre il 60 per cento, si sono detti disponibili all’accordo. Senza ignorare le conseguenze, sulle future condizioni di lavoro nella fabbrica campana, dell’opinione contraria di un terzo dei dipendenti. Il comunicato dell’azienda torinese non sanziona una rottura definitiva e non dichiara l’impossibilità di proseguire la verifica per poter produrre a Pomigliano la «Panda» con l’investimento dei 700 milioni previsti. Ecco perché i sindacati, compresa la Fiom, debbono cogliere la finestra d’opportunità che la Fiat non ha chiuso. Senza sfruttare diversivi polemici per non affrontare, con realismo e coraggio, il tema delle particolari condizioni di lavoro in quella fabbrica.

Dal confronto negoziale non può estraniarsi, infine, come semplice spettatore o, peggio, come tifoso, uno degli interlocutori di una partita il cui risultato sarà determinante per l’Italia, la politica. Se la produttività del nostro sistema industriale è la vera e profonda causa del mancato nostro sviluppo negli ultimi quindici anni, la vicenda di Pomigliano tocca la responsabilità dell’intera classe dirigente del Paese. È giusto che ognuno faccia la sua parte, senza pressioni indebite. Ma il tentativo di passare agli altri il cerino acceso, per evitare di bruciarsi, è fin troppo evidente

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Titolo: LUIGI LA SPINA - I giudici e il peso del rinvio
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2010, 11:02:46 am
17/7/2010

I giudici e il peso del rinvio
   
LUIGI LA SPINA

Le sentenze dei magistrati si rispettano, ma si possono commentare. La decisione dei giudici amministrativi sulle elezioni regionali in Piemonte ha innescato, per la felicità dei giuristi, una ridda di interpretazioni e di pareri contrastanti. Per il comune cittadino, invece, la reazione, di sorpresa e di sconcerto, è stata abbastanza comune. Di fronte a due litiganti, ci si aspetta un verdetto che dia ragione o all’uno o all’altro. Al contrario, davanti a due strade, i giudici del Tar ne hanno individuato non solo una terza, persino una quarta e una quinta. Dalla giustizia si chiede la riduzione delle tesi contrastanti in una sola verità. Come si può non esprimere un sentimento di perplessità, quando da una camera di consiglio nasce una moltiplicazione delle ipotesi? A tutela del lettore, e magari anche dell’autore, è bene evitare di scendere in dettagli giuridico-amministrativi che, una volta e chissà perché, si attribuivano alle propensioni contorte di menti bizantine. Ma con qualche azzardo, il mestiere impone di tentare una semplificazione.

Contro la vittoria del leghista Cota, alla Regione Piemonte, erano stati presentati ricorsi per quattro liste a lui collegate. Respinto quello sui «Verdi-Verdi», i giudici hanno sospeso la decisione per la lista «Pensionati per Cota», in attesa del processo penale. Hanno ordinato, invece, il riconteggio dei voti per due liste, «Consumatori» e «Al centro con Scanderebech», considerandole presentate in modo irregolare. Il buon senso del cittadino, benché già un po’ provato, potrebbe a questo punto sentirsi meglio, nell’ipotesi che tutto si possa risolvere con una, sia pure faticosa, operazione aritmetica: se Cota risulta vincitore anche senza i voti delle due liste, ma con quelli espressi alla sua persona, quale candidato collegato alle liste incriminate, il verdetto viene confermato; altrimenti avrà vinto la sua competitrice, Mercedes Bresso. Troppo facile: la legge prevede che basti la croce su una lista, per contare quel voto anche per il candidato presidente di quella coalizione elettorale. Poiché non è ammessa ignoranza, se non c’è una esplicita volontà di dare il cosiddetto voto disgiunto, le intenzioni del cittadino devono essere rispettate anche in questo caso.

Ancora troppo facile: la presentazione di liste irregolari, hanno sentenziato i giudici, altera la composizione dell’intero consiglio regionale. Allora, penserebbe il sempre sbalordito cittadino, quei magistrati hanno deciso di far tornare i piemontesi alle urne? No. Non è detto: tutto è demandato a una prossima udienza e a un futuro di ricorsi, appelli, sospensive, rinvii... E’ vero che il sospetto è l’anticamera del peccato, ma, come ricorda uno che di peccati e di sospetti se ne intende, Giulio Andreotti, molte volte ci si azzecca. Non sarà che i nostri giudici abbiano voluto evitare di prendersi la responsabilità di una scelta chiara, di accollarsi il peso di un verdetto che avrebbe indignato sicuramente il cinquanta per cento degli elettori? Una domanda forse maliziosa, ma che rivela anche l’illusione di potersi sottrarre all’ingrato compito: quella responsabilità, infatti, cacciata dalla finestra, rientra dalla porta. E’ la responsabilità di provocare, in un momento già difficile, una confusa situazione di ingovernabilità, di impotenza decisionale, di polemica e di tensione politica intollerabile. E queste conseguenze sono più gravi di quelle che avrebbe suscitato una scelta netta e comprensibile a tutti.

Si parla spesso di una magistratura messa sotto accusa dalla politica per motivi strumentali. Molti giudici si lamentano del mancato rispetto nei loro confronti. Ma, in alcuni casi, sono i magistrati stessi a intaccare la loro credibilità e la loro autorevolezza. Quando, come ha efficacemente scritto sulla Stampa di ieri il professor Carlo Federico Grosso, adottano comportamenti che ledono la loro immagine di imparzialità. Ma anche quando non sentono l’urgenza e il dovere di assumersi la loro «coscienza di responsabilità».

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7605&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUIGI LA SPINA - I cattolici e il sogno del terzo polo
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2010, 11:12:52 am
22/7/2010 (8:6)  - INCHIESTA

I cattolici e il sogno del terzo polo

Perchè i cristiani, maggioranza in Parlamento, temono l'emarginazione politica

LUIGI LA SPINA
CITTA' DEL VATICANO

Un governo di «larghe intese» non c’è ancora e, forse, non ci sarà mai. Ma una larga intesa c’è già: quella di tutti i cattolici in politica, di destra come di sinistra, che ritengono di non contare nulla. Non si tratta di evangelica modestia. Anzi, di laicissima rabbia. Certo, più contenuta e magari dissimulata nel partito di Berlusconi, perchè il potere lenisce molte amarezze. Più esplicita nell’opposizione targata pd, dove gli ex popolari sono esasperati. Ma anche nell’udc, partito dichiaratamente cattolico, la sensazione dell’irrilevanza è netta.

Al di là delle beghe di partito, il rimprovero che viene rivolto al leader, Pier Luigi Bersani, è quello di non aver capito quello che ha ben compreso, in America, Obama. Nelle democrazie moderne, di questi tempi, si vince puntando sulle cosiddette «minoranze significative». E lo sono, negli Stati Uniti, come in Italia ormai, i cattolici. E’ possibile che l’attuale viaggio di Bersani negli Usa porti consiglio al leader dei democratici italiani, ma i cattolici che stanno con lui ci sperano poco. A destra, poi, la strumentalità clericale con la quale Forza Italia usa il cattolicesimo è evidente. Con un corollario di degenerazioni affaristiche che, nel «caso Balducci», gentiluomo di Sua Santità, e nel «caso Sepe», gestore discusso delle case di Propaganda fide, hanno avuto i più recenti esempi.

Ma il problema, per la Chiesa e per i cattolici italiani, non sono tanto i rischi di corruzione politico-clientelare. Anche i preti sono uomini e le tentazioni non li hanno risparmiati in passato e non li risparmieranno in futuro. Del resto, c’è una battuta in circolazione al Vaticano così bella che viene citata da tutti e così cattiva per cui nessuno se ne attribuisce la paternità: «Quando i vescovi hanno da fare col denaro o sono imbroglioni o sono imbrogliati». Il pericolo più grave è quello di perdere l’identità e l’influenza nella società italiana, se non attraverso umilianti scambi di favori, peraltro a un prezzo sempre più alto, con il governante di turno.

E’ un rischio che l’ex presidente dei vescovi italiani, il cardinale Camillo Ruini, dopo la scomparsa della dc, aveva intuito con molta lucidità e preveggenza, cercando di evitarlo attraverso il progetto della cosiddetta «inculturazione della fede». Ma i risultati del suo sforzo, alla luce della realtà in questo primo decennio del nuovo secolo, non paiono aver corrisposto alle attese.

La condizione di difficoltà dei cattolici in politica viene spiegata molto bene dall’ex segretario di Dossetti e attuale deputato pd, Pierluigi Castagnetti: «L’afasia dei cattolici e la crisi della Chiesa sono assolutamente collegate. Una volta, all’epoca della Costituente, personalità di giovani brillanti e di grande cultura, come Mortati, Moro, Dossetti alimentavano coloro che facevano politica e si sforzavano di tradurre in pratica le loro idee. Così, anche per la generazione successiva, basti pensare ad Andreatta in economia, a Elia nel diritto, ad Ardigò nella sociologia, a Scoppola nella storia. Ora, dietro di noi, manca il lievito di quel pensiero. Ruini, temendo la sorte che hanno fatto la chiesa e i cattolici francesi dopo la scomparsa del Mrp, alla fine degli anni Sessanta, ha esposto direttamente la Chiesa in politica. I risultati sono stati buoni nella trattativa con lo Stato, ma a costo di rinunciare alla visione politico-profetica».

Ecco perchè i cattolici, soprattutto quelli impegnati in politica, guardano alle mosse del vertice vaticano come il possibile punto di partenza di una loro «nuova stagione», come l’ha chiamata il successore di Ruini alla Cei, il cardinale Angelo Bagnasco. A questo proposito, dopo il clamore suscitato dalla presenza del segretario di Stato, Tarcisio Bertone, alla cena in casa Vespa, non è sfuggito il significato di una ampia e ambiziosa intervista di Bagnasco comparsa, qualche giorni fa, proprio sull’Osservatore romano. Il segnale di una avvenuta ricomposizione delle lacerazioni tra Vaticano e Conferenza episcopale italiana, dopo la bufera del «caso Boffo», forse non è ancora sufficiente per prevedere il raggiungimento di un compromesso sui rispettivi ruoli nel rapporto con la politica e la società del nostro paese. Ma certo ha ragione Gianfranco Brunelli, sul Regno, quando osserva che «per uscire da una subalternità pacificata della Chiesa verso ogni governo» è necessario un nuovo equilibrio tra Segreteria di Stato e Cei, tale da poter inaugurare davvero «una nuova stagione dell’autonomia dei laici e del laicato».

Tradotta in concreto, la prospettiva a cui tutti guardano, con speranza o con scetticismo, è l’eventualità della costituzione di un «terzo polo» della politica italiana, dichiaratamente cattolico. Una ipotesi certamente suggestiva, ma di dubbia praticabilità, anche perchè dovrebbe coagulare personalità carismatiche e in grado di ottenere un consistente tributo elettorale da parte degli italiani. I vescovi, infatti, sono divisi, perplessi e aspettano anche dalla loro nuova guida, il cardinale Bagnasco, un segnale che autorizzi, nelle parrocchie delle loro diocesi, una mobilitazione in favore di tale tentativo.

Visto che il grande partito cattolico, la dc, non esiste più e che il fantomatico «terzo polo» chissà se mai nascerà, dove si dovrebbe allevare la nuova classe dirigente cattolica pronta a impegnarsi in politica, se non all’ombra delle sacrestie? Del resto, anche i movimenti con adepti più numerosi, dall’Azione cattolica a Cl, ai focolarini non sembrano vivere la stagione culturale più brillante ed espressiva di grandi personalità. E le comunità più piccole, da quella di Sant’Egidio a quella di Bose, svolgono compiti importanti, ma in ambiti troppo ristretti per un compito così impegnativo.

E’ significativo di questa situazione, del resto, come negli ultimi tempi sia stato proprio l’ateo-devoto Giuliano Ferrara, sul suo Foglio, a far emergere un pensiero cattolico alternativo, discutibile ma interessante, rispetto a quello tradizionale, di ispirazione progressista, che ha nella bolognese rivista Il Regno forse la sua roccaforte più importante. I cattolici dovranno guardare ai laici, più o meno devoti, per alzare la testa e muoversi alla riscossa?

I paradossi restano, naturalmente, solo paradossi. Lo ricorda, con paragoni biblici, il filosofo e politico Rocco Buttiglione: «I cattolici devono smetterla di pensare a un nuovo Ciro il Grande che li libererà, come fece il re persiano con gli ebrei. Ci vuole un eroe che venga dalle nostre file, come Giuda Maccabeo, che si ribellò contro l’oppressione siriana». Ma Berlusconi, di Ciro il Grande ha sicuramente le ambizioni, forse non le sue virtù. E di eroi cattolici, non se ne vedono comparire all’orizzonte.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/56935girata.asp


Titolo: LUIGI LA SPINA - Un paese senza politica industriale
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2010, 11:17:30 am
23/7/2010

Un paese senza politica industriale

LUIGI LA SPINA

L’esercizio è semplice, ma l’effetto è impressionante. Basta accostare due notizie, registrate da tutti i giornali negli ultimi giorni. La prima, in ordine di tempo, si riferisce al rapporto Svimez 2010 sull’economia del nostro Mezzogiorno, dove si segnala addirittura il rischio di «una estinzione» dell’industria nel Sud. La seconda, di ieri, riporta le dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, nelle quali si annunciano, da Detroit, il passo decisivo e obbligato dell’azienda sulla via dell’internazionalizzazione e la scelta di spostare in Serbia la costruzione della nuova monovolume, in un primo momento prevista a Mirafiori.

Il drammatico allarme del più importante istituto di analisi economico-sociale sulla condizione delle nostre regioni meridionali e la cruda chiarezza con cui Marchionne esprime scetticismo sulle garanzie che negli stabilimenti italiani si possano ottenere per attuare progetti di investimento così impegnativi hanno suscitato nella classe politica e in quella sindacale del nostro Paese reazioni sconcertanti. Da una parte, deprecazioni generiche all’insegna di un meridionalismo sempre più vecchio e senza idee.

Dall’altra, minacce, barricadiere nei toni e vane nella sostanza, contro le regole della competitività e dei mercati internazionali e proposte di liturgici tavoli di discussione.

La debolezza di queste risposte al significato complessivo delle due notizie è sconfortante, per almeno due ragioni. La sproporzione rispetto al pericolo di un forte declino dell’industrializzazione italiana e, quindi, di una sostanziale emarginazione di quella che figura ancora come settima potenza dell’economia mondiale dal futuro vertice dei Paesi più sviluppati del ventunesimo secolo. La sorpresa per due annunci che non sono affatto «due fulmini a ciel sereno», ma sono gli esiti, purtroppo largamenti previsti, di fenomeni che, in Italia, si manifestano non da anni, ma da decenni.

E’ da decenni, infatti, che i governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi non hanno avvertito la gravità della crisi e che, perciò, non hanno lanciato un vero piano straordinario di politica industriale. L’unico progetto con il quale, concentrando tutte le risorse del Paese, si possa sperare di restare a far parte dell’élite economica del mondo. L’unico modo, al di là di astratti, confusi e velleitari piani di riconversione delle vocazioni fondamentali dell’Italia, con il quale si possa assicurare il futuro ai nostri giovani.

Nel recente e non solo recente passato i governi hanno diviso la questione industriale in Italia, separando, di fatto, l’attenzione e le terapie tra la condizione del Nord e quella del Sud. Nel Settentrione, si è pensato di compensare le difficoltà delle grandi aziende per competere sui mercati internazionali con il modello della piccola manifattura che si è sviluppato nel Nord-Est. Un sistema fondato su presupposti economici, sociali, finanziari che non poteva reggere davanti alla crisi dei mercati esteri e alla concorrenza delle condizioni di lavoro nei Paesi meno evoluti.

Per il Mezzogiorno si è oscillato, invece, tra due convinzioni, in realtà senza applicare nessuna delle due con la minima coerenza. Alcuni hanno teorizzato che la migliore scelta fosse quella di non fare nulla. I risparmi ottenuti, rispetto alle onerose politiche di incentivi e di assistenza, avrebbero potuto consentire al Nord una più rapida crescita e, quindi, trainare anche il Sud verso un progresso economico più sano e più indipendente. Altri hanno invocato, invece, una specie di ritorno al passato, alla «gloriosa» epoca della Cassa del Mezzogiorno e dell’Iri, al massiccio intervento dello Stato. I risultati dell’intreccio casuale di queste due linee di politica economica sono evidenti: mentre in altre zone depresse d’Europa, come l’Irlanda, il Sud della Spagna, l’Est della Germania, le distanze con le regioni più sviluppate si sono accorciate o addirittura annullate, il nostro Mezzogiorno è nella condizione tragica denunciata, appunto, dall’ultimo rapporto Svimez. Un piano straordinario di politica industriale dovrebbe puntare sulle tre emergenze che impediscono all’Italia di essere un Paese attrattivo per gli investitori stranieri: una giustizia civile meno insopportabilmente lunga, una burocrazia meno asfissiante, una legislazione del lavoro più moderna. Il ministro Tremonti, a parte la balzana idea di modificare l’articolo 41 della Costituzione, ha avanzato, per la verità, alcune proposte interessanti in merito, individuando il vero motivo per cui sia le famose «lenzuolate» di Bersani, sia il tanto propagandato «piano casa» di Berlusconi si siano risolti in un sostanziale fallimento: «gli interessi di settori riescono a bloccare tutto», ha ammesso.

Ecco perché solo una eccezionale mobilitazione bipartisan, provocata dalla consapevolezza del rischio che corre l’Italia in questo momento, potrebbe sconfiggere le resistenze corporative. Non c’è bisogno di calcare i toni dell’allarme sul futuro dell’industria nel nostro Paese, perché la situazione è persino troppo evidente. Né di eccedere in pessimismo, perché il nostro futuro non è scontato. E neanche di esibire qualche gesto simbolico. Ma se, a quasi tre mesi di distanza dalle dimissioni di Scajola, si trovasse anche un ministro dell’Industria non sarebbe male.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7631&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il solco tra il dire e il fare
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2010, 08:59:23 am
3/9/2010

Il solco tra il dire e il fare

LUIGI LA SPINA

Fare il ministro della Pubblica Istruzione, oggi in Italia, è uno dei mestieri più difficili e, nello stesso tempo, più determinanti per il nostro Paese. Si è destinati a guidare una struttura elefantiaca, dove convivono eccellenze professionali sorprendenti assieme a sacche di inefficienze, mediocrità, menefreghismo irriducibili. Un mondo, quello della scuola, condizionato da un sindacalismo corporativo che, associato al clientelismo politico, ha costruito nei decenni uno pseudowelfare assistenziale responsabile di illusioni e di strumentalizzazione per migliaia di giovani, vittime di un precariato quasi perenne. D’altra parte, a quel ministro è affidata una missione assai impegnativa: garantire il futuro occupazionale ai nostri figli, farne dei cittadini consapevoli del nostro Stato e selezionare la classe dirigente dei prossimi anni.

Il compito, già molto arduo, è stato reso, per l’attuale ministro del governo Berlusconi, ancor più difficile dalle ristrettezze del bilancio pubblico, sul quale l’occhiuta vigilanza del collega Tremonti non permette eccezioni.

Mariastella Gelmini, come ha ribadito nella conferenza stampa di presentazione del nuovo anno scolastico, ha scelto, in queste condizioni, una strategia sostanzialmente mediatica, affidata a una serie di annunci-intenzione, fondati su un messaggio semplice ma efficace: occorre ripristinare, nelle aule italiane, un clima di serietà e di rigore meritocratico. Sia nei confronti degli studenti, sia nei riguardi del corpo insegnante.

L’immagine di durezza, di intransigenza che la Gelmini ha diffuso in questi anni di guida al ministero di viale Trastevere è stata persino volutamente inasprita dai due principali nuovi suoi annunci, quello sulla bocciatura di chi colleziona più di 50 giorni di assenza e quello sulla chiusura a qualsiasi trattativa per l’assunzione dei precari. E’ evidente la sua volontà di farsi sostenere dalla maggioranza dell’opinione pubblica, favorevole a un ritorno della severità negli studi, per sconfiggere le resistenze della burocrazia e, soprattutto, dei sindacati scolastici.

Le strategie dei politici, come quelle degli amministratori delle aziende, un paragone che non dovrebbe dispiacere al ministro Gelmini, si giudicano, però, non dalle intenzioni, ma dai risultati. Soprattutto dal confronto non dal mondo come dovrebbe essere, ma da quello che realmente esiste. Nell’attuale situazione della scuola italiana, il rischio della sua strategia è evidente: l’esasperazione, quasi provocatoria, delle diagnosi e delle terapie sui mali dell’istruzione pubblica, in molti casi fondate, potrebbero portare a tali reazioni da suscitare effetti opposti a quelli che si vorrebbero suscitare. La Gelmini si potrebbe trovare davanti a un vero «muro di gomma», fatto di pervicace boicottaggio e di resistenza passiva di chi dovrebbe attuare quelle direttive, tale da vanificare qualsiasi volontà riformatrice.

Il sistema della scuola italiana è molto più complicato di quanto la Gelmini faccia finta di credere ed è difficile si possa smuovere senza la collaborazione e il consenso della grande maggioranza di coloro che ne fanno parte. E’ vero che il ministro deve disinnescare una «bomba precari», la cui miccia è stata accesa da predecessori irresponsabili e da gravi complicità sindacal-politiche, ma non può ignorare la condizione drammatica di tanti giovani ed ex giovani destinati a una sicura disoccupazione. Con l’aggravante di accuse generalizzate e ingiuste sulla loro militanza politica. Prima di tutto assolutamente presunta e, poi, eventualmente, del tutto legittima in un Paese democratico.

Così come è evidente che bisogna frequentare con costanza l’aula scolastica. Ma le eccezioni alla regola dei 50 giorni di assenza, peraltro già ammesse dal suo ministero, rendono abbastanza irrilevante un annuncio la cui concreta attuazione si affida al solito buon senso del collegio degli insegnanti. Siamo tutti d’accordo, naturalmente, sulla meritocrazia, come condizione essenziale per una selezione che non sia fondata sull’iniziale livello della condizione sociale degli alunni. Ma il confine con il darwinismo scolastico si misura su una condizione essenziale: che al mondo dell’istruzione siano concesse maggiori risorse di quelle che, finora, sono state riservate a questo settore.

Ed è del tutto inutile parlare continuamente di quanto sia importante l’investimento sul futuro dei nostri giovani, sulla formazione e sulla ricerca, se poi, a questi buoni propositi, non seguono stanziamenti adeguati. Purtroppo, il confronto con i maggiori Paesi del mondo, in questo campo, boccia l’Italia, anche quella che, nelle nostre aule, non fa più di 50 giorni di assenza.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - La febbre delle riforme sbagliate
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2010, 05:15:55 pm
18/9/2010

La febbre delle riforme sbagliate
   
LUIGI LA SPINA


L’invito, del tutto condivisibile, arriva anche da personalità molto autorevoli, come il presidente della Repubblica: basta con le polemiche a suon di pettegolezzi e di insulti, discutiamo e variamo finalmente le grandi riforme necessarie per l’avvenire del nostro Paese. L’intento è lodevole, ma il riformismo, di per sé, non garantisce un buon risultato. Anche se la diagnosi del male che si vuol curare è giusta, ci sono terapie inefficaci e addirittura medicine che aggravano il male, con effetti opposti a quelli che si volevano ottenere. Come ha scritto, qualche giorno fa, Bill Emmott sulla Stampa, pure copiare la formula vincente all’estero non assicura all’Italia lo stesso successo.

L’esempio più efficace e clamoroso di questo cattivo riformismo si trova nel settore dove, negli ultimi tempi, più si è rovesciata la furia di cambiamento dei vari governi, di entrambi gli schieramenti: l’università. Una specie di campo di esercitazione per la volontà dei vari ministri che si sono succeduti su quella poltrona di iscrivere il loro nome nella storia delle «svolte epocali» di questa istituzione. Con il risultato di rischiare di essere ricordati come i volenterosi ma maldestri becchini del futuro di tanti giovani italiani. Per poter giudicare gli effetti di una riforma, però, ci vuole soprattutto pazienza, perché solo dopo un congruo periodo di tempo si possono confrontare i traguardi sperati con i risultati ottenuti. Così, per l’università, l’esercizio si può tentare per quella riforma, davvero «epocale», che, circa 10 anni fa, varò, negli atenei italiani, il famoso «tre più due» al posto dei canonici quattro anni per arrivare alla laurea, com’era stabilito nella maggior parte delle nostre facoltà. Ricordiamo le finalità di quella legge, invocata, tra gli altri, anche da Confindustria e sindacati come la terapia giusta per combattere i tre gravi mali della formazione universitaria in Italia: il ritardo con il quale i giovani si inserivano nel mondo del lavoro, la quantità di abbandoni degli studi prima di arrivare alla laurea, cioè la cosiddetta «mortalità universitaria», l’alto costo per lo Stato di ogni studente parcheggiato in quelle aule. La soluzione del problema era semplice: bastava copiare la struttura della formazione accademica europea fondata su lauree brevi di tre anni, lauree magistrali di altri due e, poi, il dottorato di ricerca.

Ebbene, dopo quasi 10 anni, chiunque frequenti un ateneo, per qualsiasi ragione e in qualsiasi ruolo, dovrà riconoscere che quella legge non solo non ha curato quei mali, ma li ha aggravati. Il mondo del lavoro rifiuta la laurea triennale, a cominciare dallo stesso Stato che per gli insegnanti, ad esempio, richiede quelle magistrali. Per non parlare degli ordini professionali, come quello degli ingegneri, degli architetti, degli avvocati. Così, la stragrande maggioranza degli studenti prosegue gli studi dopo i tre anni, con il risultato concreto di allungare e non di diminuire il loro inserimento nel mondo del lavoro. Per non parlare della sorte dei «dottori di ricerca», assorbiti in minima parte dagli atenei e universalmente osteggiati e non assunti dalle aziende.

A questa disgraziata «eterogenesi dei fini», si aggiunge un paradosso che tutti i docenti dei nostri atenei possono confermare. Trascorrere un anno di più, al minimo, nelle aule di giurisprudenza, matematica, lettere o economia non garantisce affatto una migliore preparazione. Anzi, nella grande maggioranza dei casi, il livello culturale dei laureati è peggiorato negli ultimi dieci anni. L’alta quota di «mortalità universitaria», poi, è rimasta costante o è cresciuta, per cui le distanze, rispetto ai Paesi dell’Occidente con i quali ci dobbiamo confrontare, restano umilianti. Il fenomeno del parcheggio di studenti fuori corso da anni si è aggravato, perché la poca spendibilità della laurea triennale ha spinto a un affollamento, di iscrizioni se non di frequenze, verso quella magistrale di allievi poco motivati o non meritevoli, per varie ragioni, di conseguirla. Con l’effetto di mantenere troppo alto e del tutto sproporzionato ai risultati il costo pro-capite dello studente per lo Stato. Dal momento che, come si sa, solo una parte di quel costo viene pagata dalle rette, mentre il resto è a carico della fiscalità generale.

Questo pessimo bilancio della più importante riforma che si sia abbattuta sugli atenei italiani, però, sembra non insegnare nulla ai successori di quelli sciagurati padri portatori di questa insana febbre riformistica che, come un contagioso focolaio di pericolosi germi, infetta inesorabilmente i ministri competenti (?!). Con entusiasmo assolutamente bipartisan, consigliati da esperti disposti, con la massima disinvoltura, a mettere i frutti delle loro fantasie a disposizione di entrambi gli schieramenti politici, i responsabili di quel dicastero non hanno pace. Ogni due, tre anni sfornano una riforma che rivoluziona la precedente. Senza aspettare che il tempo faccia capire gli effetti delle loro mosse. Non li spaventano proteste, critiche, perplessità. Verrebbe voglia davvero di rivolgere un appello controcorrente: ministri, faticate un po’ di meno e pensate un po’ di più.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Il pericolo del ritorno al passato
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2010, 05:04:36 pm
22/9/2010

Il pericolo del ritorno al passato

LUIGI LA SPINA


Ci sono motivi contingenti. Ci sono evidenti pretesti. Ci sono persino questioni caratteriali. Ma sarebbe davvero miope e provinciale non alzare lo sguardo sul preoccupante segnale che la cacciata di Alessandro Profumo manda alla comunità economica e politica internazionale. Un segnale che supera la sorte personale di un manager e sul quale, invece, va concentrata l’attenzione, perché svela, con il massimo clamore mediatico, il rischio di una involuzione del sistema finanziario nel nostro Paese.

L’ex amministratore delegato di Unicredit ha pagato certamente anche una serie di errori che, negli ultimi anni, hanno offuscato, ma non possono far dimenticare, il fondamentale successo della sua carriera: essere riuscito a costruire, nei quindici anni del suo mandato in piazza Cordusio, la seconda banca europea, l’unico istituto di credito italiano con una vera, grande apertura sullo scenario del mondo. Una posizione brillante, ma anche scomoda, perché esposta più di altre banche ai contraccolpi della crisi internazionale. Ma una vocazione alla quale non si deve rinunciare, per non tornare a rinchiudersi nel vecchio orizzonte dei confini nazionali.

Quello preferito dalla politica per esercitare quell’influenza e quel sostanziale controllo, di cui la nostra memoria ancora non può dimenticare i nefasti effetti su tutto il sistema economico negli ultimi decenni del secolo scorso.

Profumo si è servito, con grande abilità e con indubbia spregiudicatezza, di una serie di circostanze irripetibili: la necessità di una crescita dimensionale del sistema creditizio italiano, la debolezza del potere politico nella fase di transizione dopo la cosiddetta prima Repubblica, lo scudo delle neonate fondazioni azioniste, così come furono concepite da Amato e da Ciampi, i padri di questi strani istituti, ircocervi di natura mista, pubblica e privata. Così ha potuto disporre di un potere assoluto, per certi versi anche incontrollato, trasformando la sua banca in una specie di public company.

Questo mutamento dell’identità del suo istituto, se, da un lato, gli ha concesso la massima libertà decisionale, dall’altro, l’ha costretto a subire la regola di tutte le public company. Fin quando gli azionisti ricevono ghiotti dividendi, si accontentano di staccare l’assegno e di ringraziare l’amministratore delegato; quando i profitti mancano e sono costretti a rimpinguare i patrimoni traballanti, il licenziamento è un provvedimento annunciato. Ancora una volta, il rischio di questo tipo di capitalismo finanziario si è dimostrato con tutta la sua evidenza, perché è difficile sostenere obiettivi di medio-lungo periodo, se chi gestisce l’azienda si deve solo preoccupare dei risultati nel bilancio dell’anno. Il venir meno di quello scudo delle fondazioni azioniste, preoccupate dalla riduzione delle risorse da distribuire sul territorio e incalzate da una classe politica che è tornata a reclamare il suo potere di clientela e di gestione occulta delle banche, ha segnato la fine non solo della carriera di un manager, ma di una intera fase del sistema finanziario nel nostro Paese. Profumo ha certamente compreso il significato di questo cambiamento del quadro nel quale era abituato a muoversi, ma non è riuscito a sapersi proporre come gestore anche per il «dopo Profumo». D’altronde, gli uomini migliori sono quelli che sanno far bene una cosa e non esistono quelli sanno fare anche l’altra.

Non bisogna dar troppa importanza alle logomachie dei partiti, alle loro polemiche strumentali, alle battute tronfie e arroganti di chi cerca di vendersi come vincitore di battaglie in cui ha fatto solo la parte della comparsa. Né vale soppesare le alleanze mutevoli e sorprendenti di alcuni potenti personaggi dell’establishment nazionale, come il ministro Tremonti, difensore imprevedibile di un Profumo azzoppato. Perché quello che davvero conterà sarà la sorte delle fondazioni ex bancarie nel prossimo futuro. Dipenderà dai loro gruppi dirigenti se riusciranno a conservare quella autonomia dai condizionamenti politici che ha consentito sia lo sviluppo dei nostri istituti sul mercato internazionale del credito, sia una gestione che ha potuto evitare i fallimenti che sono avvenuti in tanti Paesi occidentali durante la fase più acuta della crisi finanziaria. Dipenderà da loro se garantiranno ai manager delle loro aziende quella prospettiva, lunga sul piano temporale e ampia su quello internazionale, che non trasforma l’azionista in un raider di Borsa.

Le preoccupazioni sono fondate, ma sbaglierebbe chi sopravvalutasse le tentazioni dei politici, tanto abili a vendere un potere che, almeno finora, non è riuscito a espugnare più di tanto le roccaforti delle fondazioni. Una indicazione importante, invece, verrà proprio dalla scelta del successore di Profumo all’Unicredit. L’autorevolezza e l’indipendenza del nuovo manager costituirà un significativo avviso sui caratteri della nuova strada che si appresta a percorrere il sistema creditizio del nostro Paese. Purché la nuova strada non assomigli troppo a quella vecchia.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Democrazia malata
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2010, 01:01:08 pm
8/10/2010

Democrazia malata

LUIGI LA SPINA

Il caso «Marcegaglia-il Giornale» segna un’altra tappa sulla via di un inquietante imbarbarimento della vita pubblica italiana.

Da una parte, c’è un’inchiesta, condotta col solito metodo delle intercettazioni a strascico, che porta a un controllo delle conversazioni dell’intera direzione di un quotidiano, a perquisizioni in ufficio, in casa e, perfino, intime, di giornalisti a cui dovrebbe essere garantita la riservatezza delle fonti e la libertà di inchiesta.

Dall’altra, la stessa libertà professionale a cui giustamente si appellano i vertici del «Giornale» dovrebbe essere tutelata nei confronti della presidente della Confindustria, la quale confessa di essersi sentita minacciata dagli avvertimenti ricevuti. In mezzo, una pubblica opinione sconcertata per il sospetto che il ricatto, il dossieraggio mirato ipotechi pesantemente le sorti della nostra politica e la condotta, sia dei nostri leader di partito, sia dei rappresentanti delle principali forze sociali del Paese.

Le perplessità sulla robustezza dell’impianto accusatorio e sul modo con il quale si è giunti a giustificare una perquisizione così spettacolare nascono, purtroppo, per due ordini di considerazioni. Il primo riguarda la sorte di molte altre inchieste sui cosiddetti vip della vita pubblica italiana promosse dal pm Henry John Woodcock e concluse, compresa quella che riguardava infamanti accuse contro Vittorio Emanuele, con proscioglimenti senza neanche arrivare a un rinvio a giudizio. Con grave e ingiustificato danno per la credibilità di un’intera categoria di procuratori della Repubblica e fornendo insperate armi propagandistiche al vittimismo giudiziario del capo del governo e dello schieramento di centrodestra.

La seconda considerazione riguarda, ancora una volta, un sistema di intercettazioni telefoniche che, partendo da una vicenda specifica, può allargare il controllo della magistratura sulle conversazioni telefoniche dei cittadini praticamente senza limiti, né di tempo, né di argomento, né di interlocutore. Una prassi investigativa che, quando coinvolge la professione giornalistica, rischia di ledere sia il diritto alla riservatezza di coloro che vengono intercettati, sia la libertà di informare l’opinione pubblica senza censure preventive. Non si può invocare il rispetto dei principi fondamentali della nostra Costituzione, però, senza pretendere il pari rispetto per la libertà di giudizio e di azione politica dei principali protagonisti della nostra vita pubblica.

Altrimenti, apparirebbe una farisaica difesa corporativa che, con una falsa ingenuità, fa finta di non cogliere il rischio di un grave inquinamento della lotta politica. La coincidenza tra le critiche a Berlusconi e al suo governo e l’avvio immediato di campagne accusatorie, da parte dei giornali più schierati col centrodestra, indirizzate contro chi ha avuto l’ardire di non condividere l’opinione del presidente del Consiglio o l’operato del suo esecutivo è troppo puntuale e ripetuta per non alimentare un grave timore. Un grave timore confermato, del resto, dalle parole rese dalla Marcegaglia al procuratore di Napoli, a proposito della minaccia alla sua libertà di giudizio e di espressione pubblica.Questa preoccupazione è ancora più giustificata se si considerano, poi, i protagonisti e il tenore delle critiche che hanno suscitato tali campagne. L’ex direttore dell’«Avvenire», un giornale certamente non schierato a sinistra, Dino Boffo, aveva risposto ad alcune lettere di lettori con toni assolutamente moderati e con considerazioni del tutto legittime. Così come del tutto ragionevoli e condivisibili sono gli inviti al governo della Marcegaglia, altro personaggio non etichettabile certo come un pericoloso estremista antiberlusconiano, a un’azione più concentrata a risolvere i veri problemi degli italiani, senza perdersi in liti personalistiche tra fondatori dello stesso partito.

Se il confronto politico e delle idee, in Italia, si esercita con i fumogeni contro le persone e con gli assalti alle sedi di coloro che hanno un’opinione diversa o cercando di intimidire, preventivamente o immediatamente dopo, chi osa criticare il governo o il suo leader vuol dire che la nostra democrazia è davvero malata.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Gli alibi sono finiti per tutti
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2010, 04:55:00 pm
20/10/2010

Gli alibi sono finiti per tutti

LUIGI LA SPINA


L’ordinanza con la quale il Consiglio di Stato ha sospeso il riconteggio dei voti per le regionali in Piemonte non ha, in teoria, valore di un giudizio definitivo.

Ma, nella sostanza, ha chiuso politicamente un brutto pasticcio giuridico-amministrativo, nato da una serie di errori, di pavidità e di furbizie.

Questa catena di colpe che ha avuto il disastroso effetto di gettare un’ombra di precarietà, per sei mesi, sul governo della Regione nasce dal primo, il più grave, sbaglio: quello di aver ammesso al voto alcune liste piuttosto manifestamente irregolari. Il risicato successo del leghista Roberto Cota ha indotto l’ex presidente Mercedes Bresso, solo dopo l’annunciato verdetto, a contestare l’esito elettorale. Mossa formalmente corretta, ma politicamente discutibile.

Dopo il solito guazzabuglio italiano di ricorsi, sospensive, eccezioni, rinvii e in un crescendo di polemiche, accuse, intimidazioni e, persino, di minacce al ricorso alla piazza, del tutto inaccettabili, si arrivava a una sconcertante sentenza del Tar piemontese. Perché, al di là degli scrupoli formali che l’avevano giustificata, l’esito pratico era quello di dare avvio a un irragionevole, costoso, lungo e, alla fine, inutile riconteggio dei voti «incriminati». Una fatica sprecata perché era chiaro, fin dal primo momento, che ben pochi elettori avevano segnato la croce sia sul contrassegno della lista, sia sul nome del candidato presidente collegato a quella lista. La disposizione che prevede l’automatico abbinamento del consenso, salvo l’espresso diritto al cosiddetto voto disgiunto, era ben nota a tutti i cittadini. Anche perché l’avvertimento del ministero dell’Interno si ripete a ogni elezione amministrativa e non ha mai destato né polemiche né dubbi.

L’ordinanza del Consiglio di Stato, emessa ieri sera, cancella quella decisione di giudici che non hanno voluto assumersi la responsabilità di un verdetto rispondente al dettato evangelico della chiarezza, quella di un «sì» e di un «no». Lascia all’auspicabile buon senso dei ricorrenti contro l’elezione di Cota il compito di sgombrare il campo dei tribunali e di riempire di controproposte efficaci l’azione dell’opposizione. Soprattutto impone al presidente Cota e alla sua giunta di confermare, con i fatti e con i risultati concreti, che la campagna elettorale, e anche quella postelettorale, è davvero finita.

Sulla Sanità, il più importante comparto del bilancio regionale, il governatore leghista ha il difficile compito di dimostrare come si possano fare sensibili tagli alle spese senza diminuire il livello dell’assistenza ai cittadini. Sui problemi dell’economia, deve contribuire fortemente all’aumento dell’attrattività del territorio, per rafforzare gli insediamenti produttivi in Piemonte. Nel settore culturale, deve impedire che la «depressione post-olimpica», per certi versi fisiologica, non si trasformi in una patologica recessione, tale da riportare la regione a un passato di grigiore e di isolamento.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Cartellino giallo al governo
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2010, 05:26:44 pm
28/10/2010

Cartellino giallo al governo

LUIGI LA SPINA

Le cifre possono sembrare modeste: per la Torino-Lione si tratta di un taglio di 9 milioni sui 671 stanziati; per la linea del Brennero la sforbiciata è più consistente, perché riduce il finanziamento di circa un quinto. La punizione dell’Europa per i ritardi e le inadempienze dell’Italia sulle grandi opere del trasporto ferroviario non è tale da compromettere, almeno per ora, la realizzazione dei progetti.

Ma la gravità della mossa attuata dalla Commissione sta nel segnale che ha voluto trasmettere, prefigurando lo spettro di una colossale beffa ai nostri danni: il possibile trasferimento dei soldi promessi al nostro Paese ad altre nazioni europee più pronte ad utilizzarli nei loro territori.

Dopo decenni di sostanziale blocco nella costruzione di importanti infrastrutture, l’Italia ha finalmente l’occasione di inserirsi in una grande rete di sviluppo del trasporto delle merci che dovrebbe aprire l’Europa a una nuova fase del mercato internazionale nell’era della globalizzazione. Con il contributo determinante di fondi Ue, il Nord-Ovest e il Piemonte occidentale, in special modo, potrebbe uscire dall’isolamento commerciale che rischia di strozzare il futuro della sua economia e il Nord-Est potrebbe ritornare al ruolo che, per secoli, ha esercitato, cioè quello di costituire la principale porta di comunicazione con l’Europa orientale.

Purtroppo, l’ipotesi del fallimento di questo aggancio italiano all’ultima carrozza di questo treno in partenza, per usare una metafora che, in questo caso, è molto vicina alla realtà, è tutt’altro che scongiurata, perché sull’Alta velocità Torino-Lione, ma anche sulla linea del Brennero, sembrano concentrarsi simbolicamente i tre fondamentali mali d’Italia: l’impossibilità di progettare opere con un’ottica di medio-lungo periodo, la confusione delle responsabilità decisionali, i tempi delle realizzazioni, drammaticamente in ritardo rispetto alla velocità necessaria nel mondo attuale.

La precarietà e l’instabilità che caratterizzano la vita di tutti i governi, anche quelli che, sulla carta, possono vantare maggioranze parlamentari ampie, riducono costantemente la politica a un raggio d’azione molto limitato, perché i vantaggi, in termini di consenso elettorale, si devono raggiungere immediatamente. Alla tradizionale miopia degli obiettivi si è aggiunta una paralisi decisionale che, negli ultimi anni, ha assunto livelli drammatici e persino farseschi. Alla vigilia di una trasformazione federalista del nostro Stato, di cui sono ancora oscuri quali saranno gli effetti concreti, l’intreccio delle competenze tra Stato, Regioni, Comuni, autorità di controllo, magistratura amministrativa, comitati più o meno spontanei, è tale da costituire un ottimo alibi per evitare l’individuazione delle responsabilità. I poteri di veto, formali o sostanziali, sono talmente estesi e incontrollabili che la fondamentale regola della democrazia, cioè il rispetto della maggioranza, è vanificata. Poiché il boicottaggio sistematico operato da qualsiasi minoranza, sia in forme violente sia in quelle della resistenza passiva, riesce sempre a prevalere.

Corollario inevitabile dei primi due mali è il terzo, quello forse più preoccupante: l’Italia è ormai fuori dal ritmo dei tempi. Il segnale che l’Europa ci ha inviato ieri è, in realtà, un ultimatum proprio su questo tema. Non bastano le dichiarazioni di principio, anche quelle solennemente sancite nelle aule parlamentari, senza l’armonizzazione dei nostri orologi con quelli di tutto il mondo. E’ vero che riusciamo a decidere solo sotto l’urgenza di problemi pressanti, che fatichiamo a decidere e, quindi, lo facciamo poco e male. Ma il peccato più grave è l’intollerabile ritardo che rende inutile e, magari controproducente, anche quel poco che riusciamo a fare.

Alla tradizionale ed emblematica incapacità italiana di realizzare le grandi infrastrutture si aggiunge, infine, l’aggravante di una chiara convenienza, questa sì contingente, della nostra economia in questo momento di crisi. Si parla troppo spesso delle difficoltà delle nostre aziende a esportare i loro prodotti, sia per le ragioni di cambio, sia per quelle dei costi. Ma forse andrebbe rivolta più attenzione alla domanda interna, perché se non ripartono i consumi, la ripresa nel nostro paese sarà sempre precaria ed esposta a troppe variabili internazionali. A questo fine, il volano delle grandi opere potrebbe offrire un grande contributo. Come sarebbe importante garantire ai nostri territori del Nord maggiori vantaggi competitivi per attirare investimenti dall’estero, perché la rapidità del trasporto è un fattore decisivo nell’allocazione degli impianti produttivi.

Ecco perché, se proprio i nostri politici non riescono ad alzare la testa e a guardare al futuro dell’Italia nei prossimi cinquant’anni, la tengano pure abbassata. Purché aprano gli occhi.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Governatore e ministro: le vite parallele
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2010, 03:54:35 pm
6/11/2010

Governatore e ministro: le vite parallele
   
LUIGI LA SPINA

Qualche volta le occasioni capitano. Ma, più spesso, si scelgono. L’ultima applicazione di questa regola l’ha dimostrata, ieri, il governatore della Banca d’Italia, con la sua lezione magistrale all’università di Ancona. Mario Draghi, infatti, ha approfittato del convegno in onore di Giorgio Fuà, il grande studioso italiano dedicatosi soprattutto ai problemi dello sviluppo, per un discorso che ha superato i tradizionali limiti dell’economia, suggerendo una ampia strategia politica per il futuro dell’Italia.

Con la consueta stringatezza, il governatore è riuscito a condensare in tredici cartelle quasi un programma di governo, di cui l’invito finale, citato per intero, basta a fare capire l’ambizione e la difficoltà della sua proposta: «Dobbiamo tornare a ragionare sulle scelte strategiche collettive, con una visione lunga. Cultura, conoscenza, spirito innovativo sono i volani che proiettano nel futuro. La sfida, oggi e nei prossimi anni, è creare un ambiente istituzionale e normativo, un contesto civile, che coltivino quei valori, al tempo stesso rafforzando la coesione sociale». Il profilo di queste parole, cadute, occasionalmente ma significativamente, in un clima di polemiche dominate da temi che, con un eufemismo, potremmo definire «di minore impegno», fanno pensare che la vera futura partita politica si giocherà, probabilmente, sul campo dell’economia.

Con due protagonisti, Draghi, appunto, e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che, finora, hanno costruito la loro immagine con certosina sapienza e prudenza. In un duello a distanza che è riuscito in una miracolosa impresa, anzi in due. Quella di tenerli lontani da qualsiasi schizzo di fango proveniente dalle cronache politiche d’oggi, sfruttando con abilità silenzi istituzionali quanto mai opportuni. E quella, forse ancor più difficile, di ingaggiare una tenzone cultural-diplomatica che dura da anni, ma i cui altalenanti andamenti non li hanno, come capita spesso, immiseriti reciprocamente.

La competizione tra via Nazionale, sede della Banca d’Italia, e via XX Settembre, dove è collocato il ministero dell’Economia, è riuscita a svolgersi ben fuori dal ristretto perimetro romano in cui gravitano i due palazzoni. Si è proiettata, infatti, su un palcoscenico mondiale che ha assistito, con divertita ma rispettosa curiosità e, magari, con un pizzico di malizia, al balletto di freddi sorrisi e di gelide battute da parte di due personaggi che, nel frattempo, crescevano nella considerazione internazionale.

Le plutarchiane «vite parallele» di Draghi e di Tremonti si sono fronteggiate anche in una sfida culturale che ha fatto uscire l’economia dal suo tradizionale ambito, fatto di aride cifre e di previsioni statistiche spesso smentite dai fatti. Il governatore, assumendo una carica che l’ha costretto a uscire dagli elitari circuiti finanziari tra i quali era più conosciuto, ha progressivamente allargato il suo sguardo all’interesse per i grandi mutamenti demografici, culturali, sociali, tecnologici avvenuti a cavallo dei due secoli nelle nostre società. Il ministro ha pubblicato una serie di pamphlet filosofico-politici sugli effetti della globalizzazione, culminati, l’anno scorso, con il fortunato saggio «La paura e la speranza» che ha suscitato un acceso dibattito, sia in Italia, sia all’estero

A questa comune propensione di Draghi e di Tremonti all’allargamento delle relative iniziali competenze culturali e professionali verso i campi più vasti dell’intera scienza umana si è unita una bizzarra inversione di ruoli nella pratica quotidiana del loro lavoro. Il governatore, pur non abdicando, naturalmente, ai compiti di severità nel giudizio sul controllo dei conti dello Stato ha sollecitato spesso il ministero dell’Economia e, in generale, il governo nel suo complesso a una maggiore sensibilità e attenzione per i problemi della crescita e della modernizzazione della struttura produttiva italiana. Con una particolare preoccupazione per i giovani, angustiati dalla disoccupazione e della precarietà del lavoro. Appello fondamentale, del resto, anche nella lezione anconetana di ieri.

In questa seconda esperienza ministeriale in via XX Settembre, Tremonti, invece, si è caratterizzato soprattutto come un duro custode della contabilità nazionale, fino al punto di diventare il ministro più inviso e temuto dai suoi colleghi, costretti a dolorosi tagli nei loro budget di spesa. Insomma, Draghi sembra aver invaso i compiti del ministro dell’Economia e dell’Industria (quando non era vacante). Tremonti ha indossato i panni del più arcigno banchiere centrale. Il risultato di questi curiosi intrecci tra due personaggi diversissimi per indole, propensioni culturali, stili di vita, storie professionali e umane li pone, così, in prima fila per la candidatura alla guida del futuro politico della nazione. Per meriti loro, naturalmente. Per demeriti altrui, vista la debolezza della nostra attuale classe politica, anche. Soprattutto perché i tempi di crisi sollecitano un vigoroso e coraggioso piano di riforme economiche. Chissà se sarà proprio dalla scienza che Carlyle definiva «triste» che potrà arrivare ai cittadini italiani, nel prossimo decennio, un po’ di felicità.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - La soluzione è nelle regole
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 09:15:10 am
5/12/2010

La soluzione è nelle regole

LUIGI LA SPINA

Per chi guardi la politica italiana con l’interesse del cittadino, ma anche con l’esperienza della memoria, le vicende di questi giorni non suscitano preoccupazioni.

La storia repubblicana del nostro Paese, per limitarci a quella, è segnata da ben altre fasi drammatiche, contrassegnate da morti in manifestazioni di piazza, tentativi più o meno velleitari di colpi di Stato, attentati terroristici culminati con il sequestro e l’omicidio di un grande leader, scandali e dimissioni forzate persino di un inquilino del Quirinale. Quello che più colpisce, invece, è l’estrema confusione. Confusione di ruoli, di regole, di confini, di responsabilità, per cui ogni previsione di quanto possa avvenire domani non è resa difficile dalla pluralità delle soluzioni oggi possibili, ma dalla assoluta imprevedibilità dei percorsi che si apriranno per raggiungerle.

In questo clima, anche l’eccitazione verbale dei protagonisti della nostra vita pubblica, come il ricorso al mussoliniano «me ne frego» del coordinatore Pdl, Denis Verdini, più che segnare la temperatura dello scontro politico o il decadimento dell’educazione civile e democratica pare il sintomo del completo sbandamento delle emozioni, alla mercé di avvenimenti senza più un filo logico.

Del resto, basta un collage solo di alcune immagini che si sono susseguite in queste settimane per giustificare lo smarrimento collettivo. C’è un presidente del Consiglio giudicato dalla diplomazia della nazione più potente del mondo (forse ancora per poco) a rischio per il suo eccessivo attivismo notturno. Un presidente della Camera che viene espulso dal partito di cui è stato cofondatore, che ne vara subito un altro, uscendo dalla maggioranza, ma conservando il suo scranno di terza autorità dello Stato. Un leader del maggior partito d’opposizione che scala i tetti col sigaro in bocca. Un ex capo della polizia, ora al vertice dei servizi segreti, che viene accusato nientemeno di complicità con la mafia.

Ecco perché è sbagliato il solito coro di ammonimenti moralistici che puntualmente seguono la solita escalation di insulti, provocazioni, scontri tra vertici istituzionali che si abbatte sulla politica italiana. Sono inutili gli appelli al dialogo, alla moderazione dei toni, al rispetto dell’antico bon ton. Un po’ perché appaiono noiosi e ipocriti, lamenti di vecchi parrucconi che, in realtà, covano furbizie manovriere ed occulte. Soprattutto non colgono, invece, il vero pericolo di questa fase politica che non è l’asprezza dello scontro, ma la difficoltà di trovare il filo d’Arianna per uscire dal labirinto della confusione generalizzata e dell’inazione governativa. Per arrivare a una soluzione di governo che sia in grado di affrontare, con efficacia, la crisi economica internazionale e i suoi pesanti e ancora incerti effetti in Italia.

Osservare rigidamente e persino ossessivamente le procedure, garantire i confini delle responsabilità, assicurare l’effettiva terzietà di quelle istituzioni a cui la Costituzione riserva proprio il compito di dirimere i conflitti, non rappresentano, oggi, scrupoli formalistici e democraticisti, ma i necessari mezzi per poter individuare un percorso utile. Perché solo partendo dal «come» e dal «chi» potremo arrivare al «che cosa».

Le condizioni per diradare la più grande confusione che abbia mai avvolto la nostra Repubblica sono sostanzialmente tre. Accettare che le scelte del capo dello Stato, qualsiasi esse siano, possano dispiacerci, essere anche considerate sbagliate, ma che non costituiscano una manifestazione di faziosità tale da giustificare incitamenti a rivolte di piazza.

E’ consigliabile, poi, dimenticare la funesta distinzione tra «democrazia formale» e «democrazia sostanziale», fonte giustificativa delle peggiori dittature. A questo proposito, è davvero curiosa, tra l’altro, l’inversione delle parti che sta avvenendo in Italia. Nel nostro Paese, infatti, è la destra che fa propri i vecchi canoni marxisti di disprezzo per le procedure della democrazia liberale e rappresentativa, appellandosi alla supremazia della volontà popolare. Mentre è la sinistra che sfiora il bigottismo formalistico per aggirare i dubbi di chi non vuole ignorare, comunque, un verdetto elettorale.

Utile, infine, è ricordare come l’alternarsi delle maggioranze, la loro scomposizione e ricomposizione, il cambio di governi, le decisioni dei parlamentari, anche quelle per un solo voto, non determinano crisi irreversibili, strappi d’epoca, colpi di Stato, rischi per la democrazia. Ma indicano, anzi, che la nostra democrazia funziona, è solida e manifesta la sua normale fisiologia. Le tragedie, in Italia, sono altre

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Tanto rumore forse per nulla
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2010, 03:35:26 pm
22/12/2010

Tanto rumore forse per nulla


LUIGI LA SPINA

Sul teatro della vita pubblica italiana va in scena, oggi, una commedia assurda. Assurda e azzardata, perché la rappresentazione potrebbe anche trasformarsi in tragedia, ma come quelle di Beckett, non certo di Eschilo. Appelli delle più alte istituzioni dello Stato alla calma. Minacce di repressioni inesorabili. Inviti ai padri perché tengano a casa i figli. I palazzi della politica isolati. Annunci di guerriglie urbane fantasiose, guidate da un’immaginazione che non va più al potere, come sognavano i ribelli del ’68, ma si rifugia nei vicoli di Roma. Insomma, sembra di essere, stamane, alla vigilia della «madre di tutte le battaglie», alla fine della quale la vittoria della Gelmini aprirà il baratro nell’università del nostro Paese o la sua sconfitta sarà la salvezza per il futuro dei nostri giovani.

Come spesso capita nell’Italia d’oggi, questo clima di eccitazione guerresca è del tutto sproporzionato rispetto alla realtà. Perché tra le parole e i fatti non c’è nessun rapporto logico e lo scontro, pacifico come speriamo, cruento come temiamo, alla fine, sarà abbastanza inutile.

Il motivo, nella sua banalità è desolatamente semplice. La riforma Gelmini, che dovrebbe essere approvata stasera al Senato in via definitiva, è piena di buone intenzioni, propone una ventata di meritocrazia assolutamente necessaria, suggerisce alcuni provvedimenti utili per ostacolare il familismo d’ateneo, ma ha un difetto fondamentale: non prevede maggiori finanziamenti per l’istruzione e la formazione dei giovani italiani. E senza soldi, non c’è riforma che tenga, buona o cattiva che sia.

Ecco perché non vale la pena, per gli avversari della Gelmini, evocare scenari apocalittici. Non sarà l’ingresso di tre non docenti nei consigli d’amministrazione, una minoranza certo non decisiva, ad asservire la ricerca scientifica e la cultura italiana ai biechi interessi del capitalismo e alle spietate leggi del mercato. D’altronde, chi conosce, almeno un po’, gli usi e costumi dell’università di casa nostra sa benissimo che la stragrande maggioranza dei professori non correrà alcun rischio di vedersi decurtato lo stipendio, oltre la misura già decisa da Tremonti, perché quasi tutti saranno giudicati meritevoli del massimo premio. Sa benissimo che nessuno avrà il coraggio di sbattere fuori dall’università ricercatori ai limiti dei quarant’anni che, per oltre dieci anni, avranno permesso di fare esami, tenere lezioni, discutere tesi. Siccome siamo in Italia e non in America, il mercato del lavoro non è in grado di assorbirli e quindi resteranno, meritevoli o no, dove già sono.

Anche i tifosi del governo, però, dovrebbero mettere la sordina alle loro trombe. Come quelle di Berlinguer e della Moratti, le modifiche introdotte dalla Gelmini, senza adeguate risorse, rischiano di cambiare ben poco, nella sostanza, la vita quotidiana nelle aule. Con l’effetto inevitabile di aumentare l’accavallamento delle norme, della burocrazia, della confusione amministrativa e culturale, senza poter portare a quella rivoluzione d’efficienza, a quell’incremento di produttività scientifica e di competitività internazionale che tutti auspicano. La buona volontà del ministro Gelmini, come quella dei suoi predecessori, non si può discutere. Ma la vera rivoluzione, in questo settore, avverrà solo quando ci si renderà conto che l’Italia deve stanziare per l’università e la ricerca almeno le stesse risorse dei Paesi europei a noi più vicini, come la Francia.

Non vale la pena, perciò, assediare il Parlamento, sfoderare caschi e bastoni, lucidare i manganelli, minacciare galere e preparare le molotov. Ma non vale neanche la pena che i politici salgano sui tetti, invochino arresti preventivi, censurino padri che non chiudano a chiave le stanze dei figli. Bisognerebbe che si limitassero a fare i buoni parlamentari e non i protagonisti di una commedia che sta diventando pericolosa. Ascoltino le obiezioni, discutano gli emendamenti, approvino pure la legge, se non ritengono si possa fare di meglio. Dopo, però, si convincano ad aprire i rubinetti del finanziamento. Altrimenti, sarà meglio riporre nei cassetti i sogni rivoluzionari e tornare alla amministrazione accademica del buon senso, quella che misurava le risorse con le riforme possibili. Può sembrare paradossale, ma un giorno qualcuno potrebbe persino rimpiangere la faccia larga e sorridente di una democristiana d’altri tempi: la ministra Franca Falcucci.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - L'eredità che resta all'Italia
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2011, 11:21:58 am
15/1/2011

L'eredità che resta all'Italia

LUIGI LA SPINA

Conclusa la votazione sul futuro di Mirafiori e in attesa di conoscerne il verdetto, si può osservare che l’altissima affluenza alle urne ha testimoniato la profonda consapevolezza dell’importanza di questa scelta per i destini individuali e concreti sia dei 5500 lavoratori direttamente interessati, sia per tutti coloro che, fuori da quei cancelli, sanno che anche la loro sorte è legata allo sviluppo produttivo di quella fabbrica. Ma costituisce anche il segnale di come sia stato compreso pure il valore simbolico che ha ormai assunto questo risultato, caricato inoltre, nei giorni scorsi, da una discussione a volte troppo astratta, con toni esasperati e inquinati da pregiudizi ideologici e polemiche strumentali.

Era forse inevitabile, del resto, una reazione così accesa alla proposta Fiat per Mirafiori perché non si può sottovalutare la sua forte carica innovativa, anche oltre gli stretti confini delle relazioni industriali, almeno per due motivi: la chiarezza con la quale si sono poste le condizioni all’Italia di un mercato globalizzato e altamente competitivo, quale quello dell’auto, e l’impossibilità di risolvere il confronto con le vecchie liturgie politico-concertative di un consenso da raggiungere ad ogni costo. Semplicemente perché quel possibile costo rischia di escludere il progetto dalle compatibilità del mercato. In un Paese dove i settori protetti da corporazioni agguerrite e non esposti a una concorrenza aperta e mondiale sono la maggioranza, il solo aver presentato, senza ipocrisie e senza possibilità di dilazioni a tempi infiniti, tali problemi ha avuto perciò un effetto dirompente.

La speranza è quella che il risultato del voto confermi le prospettive di un forte sviluppo dell’attività nello stabilimento di Mirafiori, condizione essenziale pure per il lavoro nell’indotto, ma anche per il futuro economico e sociale di tutto il territorio torinese. Ma, da domani, qualunque sia il verdetto e la sua proporzione tra i «sì» e i «no», è necessario che si allarghi il carico di responsabilità che si è abbattuto, ingiustamente, solo su 5 mila e 500 persone. Sì, perché è parso che solo da loro, dal loro comprensibile e comunque difficile travaglio di coscienza, dipenda tutto il futuro della manifattura italiana e, magari, dell’intero settore dell’industria nazionale.

Le questioni che hanno determinato il voto a Mirafiori, infatti, coinvolgono i destini, le condizioni di vita di milioni di nostri cittadini e la posizione dell’Italia nella competizione mondiale dei prossimi decenni. Tocca al governo porle al centro della sua attività, al Parlamento farne il tema dominante del dibattito politico. Così come le forze sociali organizzate, a partire dalla Confindustria e dai sindacati, non possono certo assumere la posizione di «tifosi», più o meno accesi, delle parti in causa. Perché i vecchi rifugi corporativi e assistenziali non reggono più le novità di economie e di società in cui le regole sono profondamente cambiate.

E’ vero che, in una democrazia, le condizioni del lavoro non possono essere solo sottoposte ai voleri del mercato, ma le tutele dei diritti, proprio in una democrazia, non possono essere difese solo per alcune categorie e trascurate per altre. Onestà intellettuale dovrebbe costringere a non ignorare l’ingiustizia che si compie nei confronti di tanti giovani disoccupati, di tanti lavoratori precari, costretti a una flessibilità esasperata e di cui non si vede mai la fine, che non sono difesi da nessun sindacato e la cui voce non ha mai alcun megafono per essere ascoltata.

Ecco perché il futuro dell’industria italiana, ma pure dell’economia italiana, non può dipendere e non si può caricare sulle spalle di coloro che hanno votato a Mirafiori. Anche perché è legato alle condizioni generali del cosiddetto «sistema paese»: lo sviluppo delle infrastrutture, le semplificazioni normative e burocratiche necessarie per alleviare il carico di adempimenti per chi vuole avviare una attività, la struttura di una imposizione fiscale squilibrata e non favorevole al lavoro, una riforma del Welfare che dia anche un po’ di serenità a quelle categorie che oggi ne sono ancora escluse. Infine, forse la condizione più importante: una scuola e una università che riprendano la funzione fondamentale in una democrazia. Quella di una formazione educativa e professionale che favorisca una mobilità sociale ormai negata, di fatto, nell’Italia d’oggi e che, insieme, metta i nostri giovani nelle condizioni di trovare un lavoro dignitoso.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Il suo destino non è quello del Paese
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2011, 06:20:29 pm
20/1/2011

Il suo destino non è quello del Paese

LUIGI LA SPINA

Il videomessaggio con il quale il presidente del Consiglio ha comunicato agli italiani la decisione di non presentarsi alla procura di Milano e la volontà di varare una legge per punire quei pm che lo accusano annuncia, purtroppo, una linea di difesa inquietante. Destinata ad aggravare sia lo stato di turbamento del Paese, sia l’immagine di discredito internazionale che, in questi giorni, si sta riversando sull’Italia.

Berlusconi ha lanciato un appello drammatico alla maggioranza che lo ha eletto perché, in maniera compatta, unisca il destino della nazione al suo destino personale. Senza comprendere che l’istituzione che presiede, il governo della Repubblica, deve rappresentare non solo coloro che l’hanno votato, ma tutti gli italiani. Ecco perché la sua sfida alla magistratura, in nome del consenso popolare, rischia di aver gravi conseguenze sull’ordinamento e sull’equilibrio dei poteri dello Stato, fondamenti della nostra democrazia.

Il presidente del Consiglio ha diritto, come tutti i cittadini, di veder rispettata la presunzione d’innocenza davanti alle infamanti accuse che la procura di Milano gli ha rivolto. Un principio costituzionale di elementare civiltà giuridica, ma che ha come corrispettivo naturale lo stesso rispetto sia verso il magistrato che lo indaga, sia verso i cittadini italiani che hanno diritto di conoscere la sua versione dei fatti contestati. Anche perché non sarà la procura di Milano a considerare la fondatezza della sua difesa, ma i giudici di un tribunale che, in passato, ha dimostrato indipendenza di valutazione rispetto alle richieste del pm. Né sarà la procura di Milano a decidere sulle questioni di competenza territoriale e funzionale avanzate dai suoi avvocati.

Fa parte, poi, di una strategia difensiva puramente mediatica, utile ad aumentare la confusione polemica, ma dalla logica avventurosa, l’invocazione alla cosiddetta privacy. Per due elementari ragioni: le indagini, innanzi tutto, sono nate dal sospetto di gravi reati e, quindi, la verifica di tali ipotesi non si può fermare davanti a quei limiti. La valutazione delle conseguenze, se questa obiezione venisse accolta, nelle inchieste sui comuni cittadini potrebbe equivalere alla dichiarazione di una sostanziale impunità estesa a tutti gli italiani.

Ma la seconda ragione dell’insostenibilità della tesi che in questi giorni viene ripetuta dai fan di Berlusconi, senza un minimo di riflessione, riguarda proprio il fatto che il presidente del Consiglio non è, appunto, un comune cittadino italiano, ma rappresenta una delle più alte cariche dello Stato. La nostra Costituzione, come quelle di tutti i Paesi non retti da una dittatura, impone una trasparenza, una dignità di comportamenti, anche personali, che non sono richiesti a coloro che non hanno i doveri dell’uomo pubblico.

Al di là della fondatezza delle accuse, della solidità delle prove raccolte, delle competenze delle procure, il presidente del Consiglio dovrebbe rendersi conto che l’unico modo per arginare il mare, montante e inquietante, dei giudizi sprezzanti che si sta abbattendo, da parte dell’opinione pubblica internazionale, sul nostro Paese è fornire ai magistrati una versione, credibile e accettabile, di quanto avvenuto sia nelle sue ville private, sia nella famosa notte alla questura di Milano. Se davvero non ha nulla da farsi perdonare, né sul piano penale né su quello morale, non si capisce perché impedisca a se stesso, con formalismi giuridici discutibili, di convincere gli italiani, anche quelli che non sono suoi tifosi, di poter credere alla sua innocenza.

E’ arrivato il momento che anche Berlusconi, dopo quasi vent’anni, possa distinguere la sorte della sua fortuna di imprenditore, di politico, persino di uomo di grande successo mediatico e di sicuro carisma personale, da quella del suo Paese. Lui, nonostante una notevole considerazione di sé, non si può paragonare a Sansone e gli italiani non possono fare la fine dei filistei.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Le riforme sono impossibili in questo clima
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2011, 06:00:19 pm
4/2/2011

Le riforme sono impossibili in questo clima


LUIGI LA SPINA

La coincidenza temporale è stata significativa. I due voti con cui ieri il Parlamento, prima, ha negato l’approvazione del decreto sul federalismo e, poi, ha respinto la richiesta di perquisire l’ufficio di uno dei tesorieri di Berlusconi hanno illuminato, con la massima chiarezza, la situazione in cui si trova la politica italiana. Da un lato, una fondamentale riforma, destinata a modificare radicalmente la struttura istituzionale del nostro Paese, a incidere sulle condizioni di vita degli italiani e sulle loro finanze, parte, se davvero riuscirà a partire, male, senza l’ampio consenso che sarebbe stato necessario. Dall’altro, i ripetuti tentativi dell’opposizione di sconfiggere, in aula alla Camera, la maggioranza si scontrano puntualmente con numeri risicati, sì, ma compatti e persino leggermente in aumento.

Quella coincidenza, peraltro, non è solo temporale, ma politica. Dimostra, infatti, come siano indissolubilmente intrecciate questioni legate al futuro dell’Italia, al suo sviluppo economico, alla sua coesione sociale e nazionale, e problemi legati alla figura del suo premier, Silvio Berlusconi.

Perché i rappresentanti della Lega e del Pdl, alla cosiddetta «Bicameralina» che doveva approvare il parere sul federalismo, hanno disperatamente cercato di modificare il testo proposto dal governo, pur di ottenere l’assenso di qualche parlamentare dello schieramento avverso. Senza troppo badare alla coerenza dell’intento federalista e alle conseguenze degli emendamenti proposti dall’opposizione. Con il risultato, del resto, di non raggiungere l’obiettivo sperato. Mentre il leader del Pd, Bersani, ha dichiarato, senza troppi giri di parole, la sua disponibilità ad approvare il federalismo se il presidente del Consiglio si dimettesse.

E’ vero che la condizione di precarietà e di confusione in cui versano il Parlamento e il Paese è dovuta anche a errori tattici evidenti nella strategia delle forze che sostengono il governo. Se il cosiddetto «lodo Alfano» fosse stato proposto in forme più accettabili e con legge costituzionale, forse Berlusconi, oggi, sarebbe già protetto dalle conseguenze delle sue vicende giudiziarie. E se, per il federalismo, non si fosse ricorso alla costituzione di una commissione «Bicamerale», nome che evoca già infausti ricordi di analoghi fallimenti, la strada di questa riforma sarebbe stata più agevole.

A questo punto, Bossi ha tutto l’interesse a rivendicare, nei confronti dei suoi elettori, una mezza vittoria invece che a dover ammettere una mezza sconfitta. Così si spiega la sua insistenza, ieri sera, nel chiedere a Berlusconi il varo immediato di un decreto legislativo sul federalismo, nonostante le perplessità politiche del Quirinale e quelle giuridico-parlamentari di alcuni costituzionalisti. Così si capisce come i margini di trattativa con la Lega del presidente del Consiglio, se vuole salvare il suo governo, siano ridottissimi e possano arrivare anche all’azzardato tentativo di cambiare la composizione di quella «Bicameralina», con le ovvie conseguenze di inasprire i già tesi rapporti tra i presidenti delle due Camere.

Al di là del pallottoliere in Parlamento, degli errori strategici e delle furbizie tattiche, dei rapporti tra Berlusconi e i magistrati, la domanda fondamentale, però, è un’altra: in questo clima politico e sociale si può davvero discutere delle virtù e dei difetti del federalismo, valutare le conseguenze sul carico fiscale che graverà sui cittadini, giudicare se sia davvero a rischio la solidarietà nazionale o se questi timori siano solo spettri strumentali per avversarlo? Quando una riforma di tale portata può dipendere dalle confessioni di una ragazza ospite a villa Macherio o da uno scambio indebito tra la sua approvazione e la scomparsa di Berlusconi dalla presidenza del Consiglio.

Non è solo il federalismo, e già basterebbe, a essere condizionato impropriamente dalla situazione politico-parlamentar-mediatica nel nostro Paese. L’ipotesi delle elezioni stravolge il significato di altri importanti provvedimenti, quelli sull’economia. Così, la proposta di una patrimoniale per ridurre il debito pubblico, maldestramente e masochisticamente avanzata da alcuni rappresentanti della sinistra, finisce per fornire un formidabile assist alla propaganda pre-elettorale di Berlusconi. Un aiuto, peraltro, di cui la bravura mediatica del premier non avrebbe bisogno, essendo largamente sufficiente per prevalere in qualsiasi dibattito televisivo. Ma anche le nuove proposte del presidente del Consiglio, sul tema dell’economia, vengono del tutto subordinate all’eventualità di un imminente voto. Sia per le sbrigative reazioni dei suoi oppositori, sia per l’evidente velleità di chi, in un periodo del genere, pensa che la principale preoccupazione di imprenditori, lavoratori e cittadini italiani sia la modifica dell’articolo 41 della Costituzione. Tra poco più di un mese si celebrerà la festa per i 150 anni dell’unità italiana. Davvero si poteva sperare in un clima migliore.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: LUIGI LA SPINA - Le elezioni sono il male minore
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2011, 12:26:09 pm
17/2/2011

Le elezioni sono il male minore

LUIGI LA SPINA

Un futuro da brivido. E’ quello che aspetta l’Italia nei prossimi mesi sull’asse Milano-Roma. Da una parte, al tribunale di Milano, un processo a Silvio Berlusconi che rischia di essere tutt’altro che breve e sicuramente pieno di ostacoli, come ha spiegato, ieri su «La Stampa», Carlo Federico Grosso. Con imbarazzanti e imbarazzate sfilate di giovani testimoni, al bivio tra la difesa personale e quella del premier. Un rito, destinato a una via crucis dilatoria, tra eccezioni di incompetenza, appelli al legittimo impedimento, richieste di annullamento di atti, e stretto tra le contemporanee udienze di altri tre procedimenti, sempre a carico del presidente del Consiglio.

Dall’altra parte, nelle aule del Parlamento, un governo che, con una risicatissima maggioranza, cercherà di far approvare riforme fondamentali, come quella sul federalismo o quella sulla giustizia, che richiederebbero un larghissimo consenso. Sia per superare gli ostacoli di una opposizione disposta a tutto pur di non farle passare, sia per evitare, come già successo, che l’arma del referendum vanifichi il risultato di tanti sforzi. Se questo è il cupo profilo che si staglia sul nostro orizzonte, aggravato probabilmente da un conflitto istituzionale tra poteri e ordini dello Stato quale non si è mai verificato nella storia della nostra Repubblica, l’augurio non può essere quello che il meglio prevalga sul peggio, ma solamente che, tra i mali, vinca almeno il male minore.

Da molte settimane, ormai, l’interrogativo dominante è uno solo: saranno le elezioni anticipate a far uscire il Paese, in qualche modo, da questa drammatica situazione? L’ipotesi viene caldeggiata o osteggiata, alternativamente, solo per le opposte convenienze elettorali. In una prima fase, l’aveva minacciata il presidente del Consiglio, per convincere i «responsabili» a evitare il rischio di non essere più eletti nel prossimo Parlamento e per chiudere la porta a eventuali successori a Palazzo Chigi nel corso della legislatura. L’opposizione, invece, avrebbe preferito evitare la prova del voto, per avere il tempo di organizzare un’offerta elettorale agli italiani più convincente dell’attuale.

Negli ultimi giorni, le parti si sono invertite. I sondaggi sui consensi a Berlusconi non sembrano troppo rassicuranti per il presidente del Consiglio. Ma le travagliate vicende del neonato partito di Fini, con lo sfilacciamento dei suoi parlamentari, impediscono di pensare che un altro governo riesca a essere sostenuto da una maggioranza diversa. In più, il sorprendente successo delle manifestazioni delle donne ha indotto a sospettare, forse con troppo semplicismo e con forzature magari arbitrarie, che sia mutato il clima psicologico e morale dei cittadini italiani davanti ai costumi pubblici e privati del Cavaliere.

Questa improvvisa inversione tra speranze e paure ha rovesciato ipocriticamente le tesi. Berlusconi, da sempre fautore del consenso popolare come unica patente di legittimità a governare, da sempre fustigatore degli intrighi romani, delle trasmigrazioni di deputati e senatori da un partito all’altro è diventato il più rigoroso difensore della, una volta negletta, «centralità del Parlamento». Scrupoloso e legalistico cultore della «libertà di mandato» che la Costituzione prevede per i rappresentanti del popolo nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama. Senza considerare che, proprio dal punto di vista politico, lo schieramento vittorioso quasi tre anni fa era del tutto diverso dall’attuale, perché comprendeva un partito che aveva in Fini addirittura il cofondatore.

L’opposizione, invece, galvanizzata, forse con troppo entusiasmo, dai verbali delle intercettazioni, dalle piazze, dai numeri dei sondaggi pensa sia questo il momento della spallata elettorale al premier. Nella convinzione, probabilmente fondata, che Berlusconi non sia minimamente disposto a lasciare la poltrona di Palazzo Chigi a un suo erede, Tremonti, Alfano o Letta che sia. E nella speranza, altrettanto probabilmente fondata, che, alla fine, sia Bossi l’unico possibile becchino di questo governo.

Come si è visto, i sofismi dialettici, le ipocrisie ideologiche possono giustificare l’inosservanza di qualunque scrupolo costituzionale, di qualunque coerenza politica e, persino, di qualunque regola della logica. L’anomalia italiana, rispetto alle democrazie occidentali più evolute, è tale, poi, da rendere del tutto inutile un confronto internazionale per trovare una via d’uscita. E’ vero che, all’estero, un primo ministro che si trovasse investito da accuse quali vengono rivolte a Berlusconi si sarebbe subito dimesso e presentato ai giudici per dimostrare, con la massima rapidità, la sua innocenza. Ma, in Francia, in Germania o in Inghilterra il detentore di un così grande potere mediatico e plutocratico non sarebbe mai arrivato a presiedere un governo e, quindi, quelle magistrature non sarebbero state messe nelle condizioni di dirimere una legittimità politica, come, di fatto, è avvenuto nel nostro Paese.

E’ vero, infine, che le elementari regole di un ordinamento liberale non affidano al popolo e alla sua maggioranza elettorale il verdetto su un caso giudiziario. Ma, nella realistica valutazione delle convenienze, questa volta degli italiani, il voto anticipato non può risolversi come il male minore?

da - lastampa.it/_web


Titolo: LUIGI LA SPINA - L'esperienza vince se il futuro è incerto
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2011, 03:34:22 pm
28/2/2011

L'esperienza vince se il futuro è incerto

LUIGI LA SPINA


La legge delle primarie nel centrosinistra non ha fatto eccezioni neanche a Torino, ma la sorpresa, questa volta, non è venuta dalla scelta per la candidatura a sindaco, ma dalla grandissima partecipazione al voto, un vero record di affluenza.

Il favorito, Piero Fassino, ha ottenuto così un grande successo, con circa il doppio dei consensi raggiunti dal più giovane compagno di partito, Davide Gariglio. La vittoria dell’ex ministro ed ex segretario Ds premia il coraggio di aver accettato, dopo una lunga e prestigiosa carriera di leader nazionale, di tornare nella sua città per rimettersi in gioco nella lotteria delle primarie, una gara fratricida e insidiosa. Dal punto di vista nazionale, invece, conforta le speranze del partito di Bersani che vede non solo il candidato prescelto per la successione a Chiamparino trionfare nettamente, ma soprattutto essere eletto con un amplissimo consenso popolare. Un segnale positivo che, dopo le delusioni di Bari, Firenze e Milano pare confermare, per il Pd, i sintomi di ripresa che i sondaggi indicano nelle ultime settimane.

La straordinaria partecipazione alle primarie torinesi sembra possa spiegarsi attraverso due motivazioni fondamentali. La febbre di mobilitazione che percorre le file dei simpatizzanti per il centrosinistra, rivelata pure dall’imprevisto successo della recente manifestazione delle donne in difesa della loro dignità. Ma anche il riconoscimento di una competizione vera, nella quale non si chiedeva solo l’ubbidienza a una scelta fatta dal vertice Pd, ma si affidava agli elettori il diritto di decidere tra due alternative, se non di programmi, almeno di personalità e di prospettive. Merito anche del principale sfidante di Fassino, Davide Gariglio, che ha saputo giocare la sua partita, con notevole vivacità polemica e senza timori reverenziali per il competitore più titolato.

La risposta degli oltre cinquantamila elettori che sono andati alle urne è stata chiara e significativa: in un momento di incertezza per la città, alle prese con molti problemi, soprattutto di natura economico-sociale, la preferenza è andata a chi ha offerto le maggiori garanzie, per esperienza politica e affidabilità personale, di saper affrontare un futuro che si annuncia difficile. Forte della sua profonda conoscenza della città e dei solidi legami sia con il mondo operaio, che conosce molto bene, sia con quello imprenditoriale, con cui vanta un rapporto di rispetto e di stima, Fassino può sperare, se riuscirà a vincere anche il confronto con l’avversario del centrodestra, di restituire la fiducia ai torinesi. Quello slancio che Torino, dopo le Olimpiadi, sembra aver un po’ perso e che, forse, le celebrazioni per i 150 anni dell’unità nazionale potrebbero contribuire a recuperare.

Il vincitore delle primarie del centrosinistra, se sarà anche il nuovo sindaco, avrà anche un altro compito arduo. Quello di esprimere la continuità dell’esperienza di Chiamparino, giudicata positivamente dalla larga maggioranza dei torinesi, ma con la consapevolezza che il “cambio di stagione” è inevitabile. Anzi, che proprio lui, per la lunga e importante carriera politica alle sue spalle, è l’uomo più adatto e disponibile a imboccare la via dell’inevitabile rinnovamento La vittoria di Fassino, è inutile nasconderlo, aggrava, infine, le difficoltà del centrodestra torinese, peraltro già sfavorito in partenza, per il divario di voti che in città lo divide tradizionalmente dagli avversari. Contro di lui, l’attuale opposizione ha due strade: quella di ricercare, magari anche nella società civile, un nome di altrettanto prestigio, notorietà e competenza politico-amministrativa. Oppure, giocare, con spregiudicatezza, la carta del passaggio generazionale, puntando su uomini o donne giovani, che rappresentino una alternativa radicale, non solo di programmi, ma anche di immagine, per le scelte dei torinesi. In ogni caso, una strada, da oggi, ancor più impervia.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: LUIGI LA SPINA - La rivincita della politica sui giudici
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2011, 04:33:28 pm
11/3/2011

La rivincita della politica sui giudici

LUIGI LA SPINA

Di simboli vive anche la politica. In tutto il mondo, ma soprattutto in Italia, dove la realtà sfuma spesso nella rappresentazione e le parole sono gli strumenti di una recita. I modi, i tempi, le circostanze con i quali è stata presentata ed è stata accolta l’«epocale» riforma della giustizia ne sono un ulteriore e chiarissimo esempio.

Simbolica è la vistosità del cerotto sulla guancia esibito da un presidente del Consiglio ferito, come l’apparizione dei disuguali piatti di una bilancia da equilibrare. Simbolica è la decisione di avviare un così grande cambiamento nella giustizia del nostro Paese, proprio quando Berlusconi è in procinto di affrontare una raffica di udienze in processi di grande impatto mediatico. Simbolica è, soprattutto, la scelta di procedere con una riforma costituzionale. Una via che alla radicalità del mutamento, addirittura intrepido sfidante di un tabù sacrale, quello della carta fondativa della nostra Repubblica, associa previsioni di scadenze attuative lunghe e molto incerte. Legate, molto probabilmente, alla suprema prova finale, quella di un referendum popolare.

Nonostante le prudenze dialettiche del ministro Alfano, tutte tese a dimostrare come le intenzioni governative siano esclusivamente dedicate agli interessi del cittadino comune, la simbolica squilla della «rivincita» da parte della classe politica nei confronti della magistratura è suonata nelle parole del premier. Come al solito, incapace, ma anche indisponibile, a frenare, con soverchie diplomazie verbali, la sincerità dei suoi propositi. Così, Berlusconi ha affermato che se questa riforma fosse stata già in vigore «non ci sarebbe stata Tangentopoli e l’annullamento di una classe di governo nel ’92-’93».

E’, innanzi tutto, abbastanza paradossale che il presidente del Consiglio non sia riconoscente a quel crollo della prima Repubblica che aprì la porta alla sua grande affermazione politica, lanciata proprio all’insegna di un vasto rinnovamento, non solo della classe dirigente del nostro Paese, ma delle procedure e dei costumi di quell’epoca. Come testimoniano, peraltro, le sue parole nel discorso d’insediamento del suo primo ministero, il 16 maggio 1994: «Il governo s’impegna a non mettere mai in discussione l’indipendenza dei magistrati. Questo governo è schierato dalla parte dell’opera di moralizzazione della vita pubblica intrapresa da valenti magistrati».

L’appello di Berlusconi a tutta la classe politica, anche a quella dell’opposizione, per l’affermazione del suo primato sugli altri poteri dello Stato e per la salvaguardia del suo incontrollabile esercizio di comando, al di là della concreta realizzabilità, è, poi, evidente in tante parti della riforma proposta al Parlamento. Ci sono indubbiamente ragioni che possono giustificare i sostenitori della separazione della carriere, per evitare indebite influenze della magistratura inquirente su quella giudicante. Come si può avanzare l’opportunità di ridurre le tentazioni corporative del Csm nel giudicare i colleghi colpevoli di faziosità, di corruzione o, più banalmente, di incapacità e di negligenza professionale. Ma il sintomo più evidente di questa voglia di rivincita della politica sulla magistratura è suggerito dalla formulazione della cosiddetta «obbligatorietà dell’azione penale».

La norma attuale, infatti, se, dal punto di vista formale, costringe i pm a indagini su tutte le ipotesi di reato, in pratica, lascia ai procuratori l’assoluta discrezionalità nello scegliere le priorità d’intervento. Con la riforma proposta dal ministro Alfano sarebbe invece il Parlamento e, cioè, la maggioranza che sostiene il governo, a stabilire le inchieste da privilegiare. Anche in questo caso, la riforma non si cura tanto di prescrivere come sia possibile e quanto sia possibile applicare tale criterio nella concretezza della vita reale, quella che si svolge nelle caserme della polizia, dei carabinieri e nei palazzi di giustizia. Si limita a rivendicare il diritto di supremazia della politica e il potere di escludere, nella sostanza, l’intervento di altri organi dello Stato nei campi di suo interesse.

E’ questa la sirena più tentatrice per le orecchie dei parlamentari, pure quelli di una opposizione che, oggi, non governa, ma che, domani, può sperare di portare un suo leader alla guida di Palazzo Chigi. E, quindi, di poter temere le insidie di una troppo occhiuta e, magari, un po’ accanita facoltà di controllo e di sanzione da parte della magistratura.

Chissà se Bersani, novello Odisseo, riuscirà, legandosi al suo banco della Camera, a resistere alla malìa di quei demoni del mare.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Spettacolo al di sotto della decenza
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2011, 05:59:55 pm
31/3/2011

Spettacolo al di sotto della decenza

LUIGI LA SPINA

Faceva impressione, ieri sera su tutti gli schermi delle tv italiane, vedere il ministro della Difesa urlare in aula e insultare il presidente della Camera per le contestazioni sul «processo breve».

Un ministro del Paese più coinvolto nelle conseguenze delle rivoluzioni che sconvolgono l’altra sponda del nostro Mediterraneo. Una questione lontanissima dalle gravi preoccupazioni che assillano gli italiani in questo momento e che, tra l’altro, dovrebbero assillare anche i suoi pensieri e le sue azioni. Lo spettacolo si completava con il collega ministro degli Esteri che lo affiancava sul banco del governo, sbalordito e imbarazzato testimone di una scena impensabile e inaudita in qualsiasi Parlamento di una democrazia occidentale. Uno Stato che sta partecipando, in questi giorni, a una operazione militare di guerra, anche se vogliamo chiamarla in altro modo, e che deve affrontare un’emergenza umanitaria drammatica.

Così come faceva impressione vedere il presidente del Consiglio offrire agli abitanti di Lampedusa, comprensibilmente esasperati da una situazione sconvolgente, una escalation di promesse strabilianti, culminate con la candidatura al Nobel della pace e garantite da un impegno che, preso da Berlusconi, ha un valore assoluto: l’acquisto di una villa sull’isola. Perché, in quelle stesse ore, a Roma, i suoi deputati e il suo ministro della Giustizia preparavano un blitz procedurale per assicurare un cammino parlamentare, appunto, brevissimo a quel «processo breve». Una legge che, se fosse approvata in tempi rapidi, lo salverebbe da un’eventuale condanna al processo Mills.

Faceva pure impressione, sempre ieri sera, l’evidente difficoltà dell’altro partner di governo, quello determinante in questa fase della vita politica, la Lega. Da una parte, costretta a dimostrare di saper gestire, in prima persona col suo ministro Maroni, una situazione molto intricata e difficile, quella dell’immigrazione dai Paesi mediterranei, dove non bastano le sbrigative battute in dialetto di Bossi a risolvere problemi di portata epocale. Dall’altra, obbligata a sostenere Berlusconi nelle sue vicende processuali, con provvedimenti di legge che rischiano di incidere gravemente sui consensi di elettori molto sensibili al rischio di generalizzate clemenze giudiziarie. Due fronti che, con una coincidenza simbolica, vanno a colpire proprio un motivo fondante di quel partito, la tutela della sicurezza, scudo delle paure più profonde degli italiani.

Per completare lo scenario ieri spalancato davanti all’opinione pubblica nazionale, e ancor più internazionale, la visione di un Parlamento assediato da una contestazione accesissima, a cui, inspiegabilmente e singolarmente, è stato permesso di arrivare sulla soglia del portone. Testimonianza di un clima esasperato e di una spaccatura emotiva tra i cittadini italiani rischiosa, soprattutto in un momento in cui il nostro Paese deve superare prove molto ardue.

È vero, infatti, che l’Europa, sul problema degli immigrati maghrebini, pare sorda ai giustificati appelli alla solidarietà comunitaria che arrivano dalle nostre autorità di governo. Ed è anche vero che il modo con il quale i principali leader del mondo trattano i rappresentanti italiani ai vertici internazionali sembra oscillare tra la trascuratezza e il paternalismo. Proprio su una questione, quella della crisi libica, in cui il nostro Paese è il più coinvolto, sia per gli interessi economici e geopolitici, sia per i risvolti demografici, sia per le nostre antiche responsabilità storiche.

La forza negoziale dell’Italia, però, sarebbe ben diversa se la credibilità della nostra classe dirigente, in queste e in altre circostanze, non fosse molto indebolita da un costume politico così al di sotto dei minimi standard di decenza pubblica. Perché l’autorità nei confronti degli altri Paesi del mondo si conquista con l’autorevolezza raggiunta nel nostro.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Un governo sempre in difesa
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2011, 02:55:34 pm
9/4/2011

Un governo sempre in difesa

LUIGI LA SPINA

Da mesi, ormai, c’è una sola domanda che domina le chiacchiere degli italiani, sia quelli che la politica la osservano da lontano, magari con distacco e sfiducia, sia i tifosi dell’uno o dell’altro schieramento, smaniosi più di vedere nella polvere l’avversario che al potere la propria parte: questo governo Berlusconi arriverà fino alla fine della legislatura?

La risposta sembra variare di giorno in giorno, come gli indici di Borsa, in un’altalena legata ad altre domande, al contrario, del tutto contingenti. Dipenderà, si dice, dal raggiungimento o no della ormai famosa «quota 330», il margine di deputati della maggioranza che il presidente del Consiglio ritiene possa garantire una navigazione parlamentare meno affannosa per i provvedimenti del suo ministero. Dipenderà, si dice ancora, dall’andamento dei suoi processi, un fronte sul quale si svolge una battaglia pornoleguleia del tutto imprevedibile. Oppure, si dice infine, dipenderà dagli umori tellurici di Bossi, scossi tra gli impegni di Stato del suo ministro Maroni e i brontolii di sondaggi, non più così confortanti, sulle opinioni dei suoi elettori. La domanda che, invece, sarebbe più opportuno farsi è diversa: altri due anni di questo governo per fare che cosa?

Certo, al potere si devono anche fronteggiare le emergenze. E di emergenze, a partire da quella immigratoria dopo lo scoppio del cosiddetto «risorgimento arabo», ne abbiamo sotto gli occhi una davvero tragica, dal punto di vista umano, e complicata, da quello politico. È vero che la gestione dell’esistente, quando è difficile come nel nostro mondo globalizzato, è già un incarico impegnativo. Ma l’ordinaria amministrazione, di regola, è compito affidato ai ministri di un governo dimissionario, per assicurare consegne non traumatiche ai colleghi che prenderanno il loro posto. Ma non tra due anni.

Su tutti i principali temi, la posizione governativa sembra ormai contrassegnata da un atteggiamento difensivo e attendista. In politica estera, come ha dimostrato il caso Libia, l’Italia non ha seguito l’interventismo francese, né il neutralismo tedesco. Ha oscillato tra la condivisione per i dispiaceri di Gheddafi e un tardivo e, forse, ormai inutile riconoscimento diplomatico dei ribelli cirenaici.

In campo economico, il ministro Tremonti ha difeso strenuamente e meritoriamente i conti pubblici, ma, di fronte al perdurare della crisi occupazionale e all’affacciarsi del rischio inflazione, i provvedimenti per lo sviluppo e i progetti di riforma fiscale sembrano ormai rinviati a un futuro che scavalca questa legislatura. Il male profondo, il vero difetto della struttura industriale del nostro Paese, quello che, da circa vent’anni, rallenta drammaticamente la crescita, rispetto alle altre nazioni europee, è, per unanime convinzione, la ridotta dimensione delle imprese. Se questa malattia italiana, ormai cronica e sempre più grave, non viene affrontata con terapie d’urto, per difendere le nostre aziende dalle mire straniere non restano che tardivi provvedimenti difensivi o protezionistici. Di discutibile legittimità e di incerta efficacia.

Ecco perché l’unico impegno governativo per i prossimi due anni pare riservato a quella «epocale» riforma della giustizia che il ministro Alfano ha annunciato, con una solennità forse sproporzionata, e che, ancora ieri, Berlusconi ha invocato per ripristinare «la vera democrazia» in Italia. Peccato che ai provvedimenti superlativi del premier, ormai incline a un crescendo di promesse stupefacenti che non pare aver più freni, seguano iniziative ben più modeste e circoscritte, per lo più, alla personale difesa dagli esiti dei suoi processi. Si capisce, però, perché il presidente del Consiglio riservi sostanzialmente l’ultima parte della legislatura all’offensiva contro i magistrati. Le accuse che lo assillano e le conseguenti sue azioni difensive, nelle aule giudiziarie e in Parlamento, sono l’unica vera garanzia della sopravvivenza del suo governo fino alla fine della legislatura. Costituiscono la migliore blindatura della sua maggioranza. Perché costringono il suo partito, il Pdl, a quella obbligata unità in sua difesa che, altrimenti, si sarebbe disgregata, già da tempo, nella dura lotta alla successione o, meglio, alla spartizione del suo capitale politico ed elettorale. Perché impediscono alla Lega di cedere ai sotterranei, ma tutt’altro che rimossi, impulsi secessionistici, indotti a mascherarsi nel progetto federalista. Perché soffocano qualsiasi ipotesi di una politica alternativa affidata allo schieramento a lui avverso.

Il centrosinistra, ma anche i centristi del Terzo polo, infatti, finché Berlusconi sarà all’offensiva contro i magistrati che lo accusano, dovranno, per necessità, essere forzati a concentrare la loro azione su questo tema. Ancora una volta è il Cavaliere, così, a imporre l’agenda della discussione pubblica. Quella a lui preferita, perché evita il confronto sui temi più importanti dell’attività governativa e, soprattutto, riesce a spostare l’unità dello schieramento avverso dal campo politico a quello giudiziario. Dove si può vincere nella propaganda tv, ma si è sicuramente perdenti in Parlamento. Finché sarà quello il terreno dello scontro, la domanda sulla durata del governo avrà una facile risposta. Così come sarà facile prevedere, purtroppo, quale sorte avranno le riforme che veramente gli italiani aspettano nei prossimi due anni.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Non è stato un processo al capitalismo
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2011, 05:11:59 pm
17/4/2011

Non è stato un processo al capitalismo

LUIGI LA SPINA

La sentenza con la quale i giudici di Torino hanno condannato l’ex ad della Thyssen-Krupp Italia, Harald Espenhahn, a 16 anni e mezzo per “omicidio volontario con dolo eventuale” ha scosso la sensibilità di tutti.

Proprio per coglierne i molteplici significati, al verdetto sono stati aggiunti vari aggettivi, definendolo, da una parte, «storico» ed «esemplare», dall’altra, «mediatico» e «politico». Attributi che riconoscono, nella giustificata emotività delle reazioni immediate, l’importanza della decisione, ma che andrebbero analizzati meglio, proprio per evitare di distorcere il valore di quella sentenza, con valutazioni generiche e strumentali.

È certamente la prima volta, almeno in un processo di tale risonanza pubblica, che sia stato riconosciuto «il dolo eventuale» per una morte sul lavoro. Da questo punto di vista, può essere adatta l’iperbole epocale, pur considerando che si tratta di un giudizio su uno specifico caso e, quindi, non estensibile ad altre vicende simili. Al di là del ricorso alla storia, però, sarebbe meglio mettere in luce le conseguenze positive dell’azione della magistratura torinese nella tragedia dell’acciaieria. Innanzi tutto, la dimostrazione che la giustizia, anche in Italia, può concludere, in tempi ragionevolmente brevi, un’inchiesta, pure molto complessa, e tagliare il traguardo del verdetto. Con l’impegno di tutti, come era stato solennemente promesso nei giorni dello sgomento cittadino, e con l’efficacia di metodi d’indagine innovativi e approfonditi.

In un momento in cui la magistratura italiana si trova esposta a una raffica di accuse e a una pervicace volontà di delegittimazione, il segnale che arriva da questa sentenza è importante, perché rinsalda la fiducia dei cittadini, sia sulla verità di quella scritta che compare in tutti i tribunali, «la legge è uguale per tutti», sia sulla possibilità concreta che le vittime di grandi e piccoli delitti riescano a ottenere la doverosa e pronta tutela dello Stato.

In questo senso, può essere giustificato anche l’aggettivo «esemplare», se lo si consideri come ammonimento a una profonda riflessione collettiva sul valore di quella condizione umana che non dev’essere mai subordinata ad altri interessi, economici, geografici, politici, religiosi. Riflessione utilissima e quanto mai attuale, perché si deve applicare con un’attenzione rigorosa al suo rispetto nel mondo del lavoro, ma anche nelle vicende drammatiche dell’emigrazione o nelle tragiche persecuzioni di tanti cristiani in varie regioni del mondo. Più cautela va usata, invece, se questa rivendicazione di esemplarità potesse giustificare una sproporzione tra pena e delitto, come se le esigenze di un solenne e generico avvertimento pubblico sulla gravità di certi comportamenti autorizzassero a sacrificare il capro espiatorio di turno.

Altrettanta attenzione dev’essere rivolta ai commenti di chi spiega la sentenza con il clima di emotività generato dalla cosiddetta «pressione mediatica» esercitata sui giudici da stampa e tv. È indubbio che il rogo della Thyssen abbia sconvolto i sentimenti dell’opinione pubblica e, in particolare, quelli della città di Torino. La costituzione di parte civile delle istituzioni locali e il riconoscimento del loro diritto, sanzionato dal verdetto, rispecchiano appieno il valore della solidarietà e dell’affetto per i familiari delle vittime espresso in quei giorni dall’intera comunità, nazionale e cittadina. Per comprendere la profondità di quel dolore collettivo, basti ricordare, poi, il significato, anche simbolico, che l’industria e la fabbrica hanno nella storia e nella memoria di Torino.

È giusto, perciò, che angosce e lacrime siano entrati, con la forza delle immagini di carni straziate dalle fiamme, in quell’aula. Ma è altrettanto giusto ritenere che i giudici abbiano trovato convincenti le prove sulla responsabilità dell’imputato nel non applicare le norme di sicurezza che, pure, la casa madre tedesca gli suggeriva, attraverso un cospicuo stanziamento di spesa. Intervento negato, con la scusa di una prossima chiusura dello stabilimento. Saranno anche i giudici di secondo grado a valutare la saldezza di quelle prove, ma l’argomentazione dell’accusa per chiedere la condanna induce a non autorizzare sospetti di una volontà «politica», di una giustizia moralizzatrice e purificatoria.

Era proprio un grande giurista piemontese, storico collaboratore del nostro giornale, Alessandro Galante Garrone, infatti, a diffidare della validità di atteggiamenti generici e strumentali. In un editoriale sulla «Stampa» del 13 giugno 1964, a proposito dell’inchiesta sui presunti reati amministrativi del segretario del Cnen, Felice Ippolito, scriveva parole che è utile ricordare: «Si è parlato, immaginosamente, di bisturi, o di spada tagliente, o magari di scopa vigorosa. Alla radice di queste propensioni, c’è un genuino impulso di rivolta morale; ma c’è anche qualcosa di vagamente inquietante, una visione apocalittica delle cose, una concitazione emotiva che può farci perdere di vista i principi essenziali».

Proprio alla luce di questo alto avvertimento morale, prima ancora che giuridico, è opportuno stigmatizzare altre reazioni che, nella concitazione dei commenti, hanno voluto piegare il verdetto a interpretazioni faziose. Il processo Thyssen non è stato il processo al capitalismo tedesco, attento alla difesa dei lavoratori in Germania e negligente quando si tratta degli operai italiani. La sentenza ha condannato un comportamento specifico di un dirigente. I passaporti del colpevole e quelli delle vittime non devono influenzare i giudizi e, soprattutto, i pregiudizi. Perché la morte degli uomini e la loro coscienza morale non hanno confini.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Sulla Lega la rivincita del tricolore
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2011, 08:53:55 am
18/5/2011

Sulla Lega la rivincita del tricolore

LUIGI LA SPINA

Il carisma è un dono di Dio, come dice l’etimologia greca della parola. Come tale, può essere concesso senza un perché. Ma pure senza un perché può essere ritirato. E quando non c’è più, si interrompe improvvisamente quello straordinario dialogo diretto con i suoi adepti che trasforma un capo politico in un leader, appunto, carismatico. Sembra questo il caso delle due uniche personalità della politica italiana che abbiano, o abbiano avuto, questo dono.

Si tratta dei fondatori dei due partiti personali della seconda Repubblica, Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Quello che colpisce, tra i vari significati del voto di domenica e lunedì, è proprio la mancata risposta, per la prima volta, del popolo, del loro popolo all’appello dei due leader del centrodestra. Come se quella eccezionale, quasi rabdomantica capacità di intuire, rappresentare ed esaudire i desideri degli elettori-fan si fosse misteriosamente appannata. Un segnale grave, proprio perché a un capo politico è concesso di commettere errori, ma un leader carismatico non può perdere la vera legittimazione del suo potere: la garanzia di un contatto permanente con i sentimenti dei suoi fedeli.

Il presidente del Consiglio ha tentato a Milano di replicare la mossa già tante volte riuscita in altre simili circostanze, quella di far passare attraverso il lavacro della sua persona, questa volta il malessere degli elettori milanesi per l’operato della Moratti e di riscattare il disagio per i risultati del suo governo con l’appello alla solidarietà contro i magistrati. Ma l’operazione mediatico-politica è incappata nell’improvvisa sordità del corpo moderato cittadino. Un atteggiamento sorprendente, anche perché il rifiuto all’appello berlusconiano non si è tradotto in un rafforzamento della Lega, né del «Terzo polo» e neppure si è rifugiato nel tradizionale serbatoio della protesta: l’astensione dal voto. Un «mistero di Milano» che sarà probabilmente svelato da un’accurata analisi dei flussi elettorali in quella città e che potrà risultare, comunque, meno indecifrabile solo tra quindici giorni, al ballottaggio.

Quella bacchetta magica in grado di individuare subito la vena sotterranea degli umori della propria gente sembra essersi spezzata anche nelle mani dell’altro leader carismatico del centrodestra, Umberto Bossi. Il caso del leader della Lega è, forse, ancor più interessante di quello del presidente del Consiglio. Innanzi tutto perché è più sorprendente: mentre le difficoltà per Berlusconi erano già state segnalate dai sondaggi, si pensava che l’alleato di governo potesse ereditare una cospicua parte della delusione moderata. C’è, poi, la sensazione che la perdita di sintonia tra le scelte di Bossi e i sentimenti del popolo leghista stia durando da oltre un anno, con prove ripetute ed evidenti, anche se finora mascherate dalla sua «dittatura» nelle espressioni ufficiali dei suoi colonnelli.

Il riassunto di questa progressiva incomunicabilità tra il fondatore del partito e i suoi sostenitori è facile ed eloquente. Cominciamo dal motivo unificante e principale del desiderio collettivo nella base leghista, l’abbassamento delle imposte. Su questo argomento si è diffuso il timore che il modo con il quale si sta impiantando il federalismo fiscale, almeno in un primo momento, aumenti la tassazione invece di diminuirla. Bisogna segnalare, inoltre, il dilagante malumore per l’obbligo di difendere Berlusconi dai suoi guai giudiziari, in un campo, quello della morale pubblica e privata, che non trova, nelle sensibilità sostanzialmente conservatrici di quegli elettori, troppa indulgenza.

I veri bocconi amari, però, sono venuti da alcune scelte di Berlusconi, avallate da Bossi. Il più indigeribile è il passaggio del ministero dell’Agricoltura, indispensabile tutore degli allevatori padani, prima dal leghista Zaia al berlusconiano Galan e, poi, addirittura a un siciliano, peraltro molto discusso, come Saverio Romano. Con il contorno di scelte altrettanto meridionalistiche tra i sottosegretari, per recuperare l’appoggio dei deputati cosiddetti «responsabili», stretti intorno al loro leader mediatico e simbolico, Salvatore Scilipoti.

Decisioni concrete che si sono affiancate a un altro clamoroso cortocircuito tra Bossi e suoi elettori, quello avvenuto in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità italiana. I dirigenti della Lega hanno cercato di boicottare e, comunque, di sminuire il valore della festa, non intuendo che il clima generale del Paese, compreso quello della maggioranza degli abitanti anche del Nord, non era affatto disposto a seguirli in una posizione che è apparsa meschina, provinciale, venata da un antipatriottismo ingiustificato. Il coro di fischi che puntualmente si è levato di fronte a tale atteggiamento si è ritrovato nei risultati elettorali. Sintomatico quello di Novara, patria del tandem Cota-Giordano che guida la Regione in Piemonte. Mauro Franzinelli, fedelissimo della coppia più forte nella Lega del Nord Ovest, non è stato eletto al primo turno in una città dove il precedente sindaco di quel partito aveva superato, cinque anni fa, il 60% dei suffragi. I consensi della lista di Bossi, inoltre, hanno seguito lo stesso destino, calando dal 22 al 19 per cento.

Non bisogna, quando si parla di carisma, fare mai previsioni per il futuro. Quel «dono di Dio» è tanto forte, quanto labile. E’ possibile che Berlusconi e Bossi, come l’hanno improvvisamente perso, così improvvisamente lo ritrovino. Ma devono fare in fretta, perché il canale di comunicazione tra loro e il loro popolo potrebbe non riaprirsi più.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Dalla Moratti a Cetto La Qualunque
Inserito da: Admin - Maggio 23, 2011, 04:56:51 pm
23/5/2011

Dalla Moratti a Cetto La Qualunque

LUIGI LA SPINA

E’ un vero peccato che la campagna elettorale per il ballottaggio a sindaco di Milano si sia conclusa con una settimana d’anticipo e con un risultato a sorpresa: Letizia Moratti ha perso, ma non è stata sconfitta dal suo competitore Giuliano Pisapia, ma da se stessa.

Perché potrà anche riuscire a compiere l’impresa disperata di superare il candidato del centrosinistra, lunedì prossimo, ma a un prezzo che non bisognerebbe mai accettare di pagare, quello di rinnegare il proprio passato politico, le scelte programmatiche fatte e tante volte rivendicate, i valori in cui si è creduto o si è detto di credere e, soprattutto, tradendo la fiducia di coloro che per quei valori l’hanno eletta a loro rappresentante.

I segnali di fastidio e di distacco con i quali i moderati milanesi avevano risposto, col risultato del primo turno, ai toni estremistici e spregiudicati usati dalla candidata di Berlusconi e Bossi alla rielezione a sindaco di Milano, evidentemente, non sono bastati.

Così la Moratti, in questi giorni, ha inanellato una serie di promesse demagogiche che non solo contraddicono le decisioni più significative del suo precedente mandato, ma assumono caratteristiche che, nei cittadini più anziani, ricordano le scarpe spaiate offerte da Achille Lauro ai napoletani degli Anni 50 e, in quelli più giovani, i mirabolanti impegni elettorali dell’Antonio Albanese di «Qualunquemente».

L’Ecopass, la Ztl, le strisce blu e gialle sulle strade di Milano sono il segno più visibile e concreto della passata amministrazione milanese. Decisioni discutibili, certo, ma che sono nate dalla consapevolezza dei problemi d’inquinamento ambientale e di mobilità urbana nel centro storico. Ora, con una contraddizione clamorosa rispetto alle intenzioni dichiarate dalla Moratti, quelle di «raccontare ai cittadini le tante cose buone fatte a Milano», il sindaco uscente le rinnega. Con la sconcertante promessa di condonare le multe dei milanesi che hanno violato le disposizioni da lei stessa impartite.

Quale opinione la Moratti pensa possano avere di questi atteggiamenti proprio quegli elettori moderati che, fedeli al principio del rispetto della «legge e dell’ordine», hanno osservato le regole? A quale Milano si rivolge? Non crede di offendere, così, l’onestà e il civismo dei suoi concittadini? Soprattutto non ritiene di offendere se stessa, il suo passato di impegno pubblico, dalla presidenza Rai al ministero dell’Istruzione? Compiti svolti con risultati controversi, ma sempre con dignità e mai segnati da cotanto cinismo politico.

E’ con amarezza che occorre constatare l’impossibilità di assistere a una battaglia elettorale, a Milano, come si poteva prevedere: tra un galantuomo garantista di sinistra come Pisapia e una gentildonna di destra come la Moratti. E questa volta, non si può essere così ipocriti e falsamente equidistanti da non segnalare per colpa di chi un clima di civile competizione sia stato compromesso. Con altrettanta amarezza dispiace come la grande tradizione liberale, moderata e anche conservatrice di Milano si possa sentire abbandonata. Un passato che ricorda figure di cattolici come Filippo Meda, Gallarati Scotti, Giuseppe Toniolo, e di laici come Luigi Albertini e Giovanni Malagodi.

La deriva finale della Moratti sulla via dell’estremismo verbale e della demagogia elettorale più incontrollata può sorprendere chi credeva di conoscerla, ma corrisponde, purtroppo, agli atteggiamenti della coppia Berlusconi-Bossi di questi tempi. Il primo sembra non aver capito che le mosse a sorpresa, sul calare dell’ultimo gong nella campagna elettorale, possono essere efficaci le prime volte. Non più quando vengono ripetute dopo che gli elettori hanno constatato i risultati di quelle promesse. L’esempio più calzante è quello dell’abolizione totale dell’Ici. Una decisione che ha messo in difficoltà tutti i Comuni, costretti o a tagliare i servizi o a ricevere dallo Stato, attraverso le tasse, rimborsi che si sono tradotti in una sostanziale «partita di giro». Risultati ancora peggiori, proprio nell’opinione dei moderati italiani, hanno altre promesse berlusconiane, come quelle di lasciare mano libera all’abusivismo edilizio in Campania.

Il pericolo maggiore, sul piano nazionale, è, però, un altro. Le necessità elettorali, le traballanti maggioranze governative alla Camera, le incognite di un’ultima parte della legislatura che si presenta molto difficile potrebbero indurre Berlusconi a compiere una tale pressione su Tremonti da costringerlo a indebolire la ferrea difesa dei conti dello Stato fin qui esercitata dal ministro dell’Economia.

Con la situazione internazionale che caratterizza questi mesi e che si potrebbe aggravare nei prossimi mesi, a partire dalla tenuta dell’euro, il rischio è grave. Tremonti, infatti, si potrebbe trovare in una posizione, per lui, del tutto insolita. Il suo più fedele sostenitore, Umberto Bossi, potrebbe unirsi al presidente del Consiglio, questa volta, nel sollecitarlo a una linea di minor rigore.

Perché, quando i consensi calano, come sono calati quelli della Lega negli ultimi tempi, le promesse s’alzano. A cominciare da quelle più estemporanee, come lo spostamento di qualche ministero a Milano. Perché quella che una volta era una grande capitale morale possa divenire anche una piccola capitale ministeriale.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Programma di governo in otto punti
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2011, 05:38:12 pm
1/6/2011

Programma di governo in otto punti

LUIGI LA SPINA

Era l’ultima occasione. Ma era anche quella in cui il Governatore si sentiva più libero di parlare alla politica, perché non poteva più suscitare sospetti di una sua candidatura al governo del Paese. E Mario Draghi non se l’è fatta certo sfuggire.

Così, in attesa del suo trasferimento alla guida della Bce, la lettura delle sue «considerazioni finali» all’assemblea della Banca d’Italia gli è servita per tracciare un bilancio dei suoi cinque anni in via Nazionale, ma e soprattutto per lanciare un forte messaggio alla classe politica, a tutta la classe politica italiana.

La ricorrenza dei 150 anni dell’unità nazionale ha suggerito al Governatore una citazione di Cavour, significativa dell’indirizzo particolare che, quest’anno, ha voluto dare alla sua ultima relazione. Uno scritto nel quale lo statista piemontese lega la crescita dell’economia alla buona politica, quella delle riforme che «compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano». Draghi conserva una fiducia di fondo sul nostro Paese, perché osserva come la diagnosi sui problemi dell’economia sia sostanzialmente condivisa da tutti e la convinzione che non esistano terapie veramente alternative sia altrettanto unanime. Alla politica è mancato il coraggio di affrontare il vero nodo che soffoca la crescita: «gli intrecci di interessi corporativi che in più modi opprimono il Paese».

La ricetta che, ieri, il Governatore ha lasciato come una specie di testimonianza ereditaria della sua azione quinquennale alla Banca d’Italia si può sintetizzare con la rivendicazione, orgogliosa e ripetuta, di aver per primo insistito sulla necessità della crescita. Una «predica inutile» alla Einaudi, ha constatato con amarezza, perché su questo tema il giudizio di Draghi sull’azione del governo è spietato: si è fatto molto poco. E’ vero che Tremonti ha avuto il merito di salvaguardare i conti pubblici e l’amministrazione finanziaria ha lottato efficacemente contro l’evasione fiscale, ma senza riforme strutturali il sistema economico italiano non è in grado di affrontare la sfida della competitività internazionale.

L’indicazione di otto punti di intervento nelle politiche pubbliche lanciata da Draghi ieri costituisce, in realtà, un ottimo programma di governo. Dettagliato come il Governatore non si era mai spinto a suggerire e attento anche a misurare le riforme possibili alla luce della necessaria sorveglianza sui conti dello Stato. Anche per raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio la sua ricetta è stata chiara e senza ipocrisie: è sbagliata la procedura di tagli uniformi su tutte le voci; meglio utilizzare il metodo selettivo già intrapreso dal compianto Padoa-Schioppa. Così come occorre che il federalismo fiscale non si traduca in una somma di nuovi tributi locali a quelli nazionali, che resterebbero invariati.

Se esplicita è stata l’agenda consegnata dal Governatore alla politica italiana, più criptico, ma altrettanto evidente, è stato il messaggio sulla credibilità, l’autorevolezza e il coraggio necessari per accogliere e realizzare questo programma. Draghi ha ricordato come, all’inizio degli Anni Novanta, la situazione del debito pubblico avesse messo l’Italia in condizioni ben peggiori di quelle attuali. Eppure, l’azione di uomini come Ciampi, a cui è stata riservata una passerella trionfale del tutto programmata in modo significativo, è stata all’altezza della gravità dei problemi.

Il richiamo all’ex governatore e Presidente emerito della Repubblica non è stato solo l’esemplificazione della necessaria qualità di una classe politica che sembra assai lontana da quel modello. Ma è servito anche a Draghi per lanciare a chi dovrà scegliere il nuovo Governatore un richiamo sull’opportunità di utilizzare le risorse interne della Banca d’Italia. Chiaro è apparso il suo insistere, proprio all’inizio del discorso, sui meriti «di competenza e di indipendenza» che fanno dell’istituzione un prezioso «consigliere autonomo, fidato, del Parlamento, del governo, dell’opinione pubblica». Così come il ribadire la necessità di preservare «una voce autorevole e senza interessi di parte». Una raccomandazione che è apparsa preoccupata. Speriamo che l’impressione sia sbagliata o che Draghi sia un po’ troppo diffidente. Meglio pensare e augurarci che sia stata del tutto inutile.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Torino-Lione, il dovere dei sindaci
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2011, 10:20:03 am
10/6/2011 - SI APRE IL CANTIERE

Torino-Lione, il dovere dei sindaci

LUIGI LA SPINA

Dopo anni di polemiche, contestazioni, trattative, la prossima settimana dovrebbe segnare l’inizio, concreto seppur quasi simbolico, dei lavori per la nuova ferrovia Torino-Lione. Si tratta del primo pezzo, in Italia, del famoso «corridoio 5», il grande asse di comunicazione tra l’Ovest e l’Est dell’Europa, destinato a rivoluzionare il trasporto delle merci attraverso il nostro Continente.

Il clima politico e sociale nel quale si aprirà il cantiere destinato a inaugurare questa opera, fondamentale per lo sviluppo economico del Nord e, in particolar modo, del Piemonte, si annuncia pessimo. Negli ultimi giorni, agli annunci di mobilitazione di coloro che si oppongono al progetto, sono seguite minacce di morte, in puro stile terrorista, nei confronti di coloro che, invece, lo sostengono. L’ipotesi di un ricorso, deliberato e provocatorio, alla violenza da parte di gruppi estremisti è purtroppo prevedibile, nell’intento di suscitare una tale esasperazione emotiva da impedire un ragionevole confronto di idee e il rispetto delle decisioni assunte sulla base della regola fondamentale in democrazia, la volontà della maggioranza.

Da circa sei anni una commissione, guidata dall’architetto Virano, ha esaminato, con le parti coinvolte nel progetto, tutti i problemi ambientali, economici, sociali che la cosiddetta Tav potrebbe procurare alla vita delle popolazioni valsusine. Perché è ovvio il consenso di chi non è toccato direttamente dai disagi che arrecheranno i lavori e ne vede solo i vantaggi futuri.

Mentre è del tutto comprensibile la preoccupazione di chi, invece, vive in prossimità della nuova linea. Così, il tracciato della ferrovia è stato profondamente cambiato, il sistema di smaltimento dei rifiuti è passato dal camion al treno, sono state assicurate le stesse garanzie di sicurezza che sono valide in tutt’Europa e che sono state accettate per i valichi del Brennero, del Gottardo, del Loetschberg. E’ stato stabilito, infine, un piano di compensazioni per la Valsusa che prevede numerose opere di riqualificazione e ammodernamento infrastrutturale. Una prima parte di questi finanziamenti è stata varata, il resto arriverà man mano che i lavori avanzeranno.

Il metodo della trattativa e del confronto, almeno con chi non lo rifiuta pregiudizialmente, si è rivelato, quindi, fruttuoso ed è servito anche a fornire risposte esaurienti ad alcune obiezioni fondamentali sulla convenienza del progetto. E’ evidente, infatti, che le stime sui volumi di traffico non si possono calcolare sulla situazione attuale, ma sulla base delle previsioni per i prossimi cinquanta o cento anni. Basta ricordare le vicende del piano autostradale varato in Italia all’inizio della seconda metà del secolo scorso: sembrava sovrabbondante, ora ne lamentiamo le insufficienze. Anche le critiche relative ai costi non sembrano giustificate, perché la Ue ha destinato i finanziamenti solo per questo progetto. Se l’Italia rinunciasse, non solo non vedrebbe un euro per qualsiasi opera alternativa, ma sarebbe costretta a pagare penali per circa due miliardi. I vantaggi, poi, per l’economia locale, tra quelli diretti e quelli indiretti, non sono trascurabili, soprattutto in un periodo di crisi occupazionale come questo. Solo per scavare i sette chilometri del tunnel della Maddalena, un centesimo dell’intera opera, si calcolano ricadute di 35-40 milioni di euro. La previsione di una fermata della ferrovia a Susa, infine, consentirà ai viaggiatori che provengono da Londra o da Parigi o da Madrid di arrivare velocemente nel cuore della Valsusa, con conseguenze turistiche facilmente intuibili.

Nel tentativo di svelenire un clima che si stava facendo davvero troppo acceso, la decisione del ministro Maroni di riservare solo alle forze dell’ordine il compito di tutelare la sicurezza dei lavori, escludendo quelle militari, è apparsa davvero opportuna. Ma il clima nel quale si aprirà il cantiere di Chiomonte è affidato soprattutto alla responsabilità di coloro che rappresentano alcune istituzioni locali: i sindaci e il presidente della Comunità montana, Sandro Plano. Toccherà a loro il compito di assicurare che le frange estremiste e paraterroristiche rimangano isolate da coloro che, anche legittimamente, restano contrari al progetto e vogliono esprimere il loro dissenso in maniera pacifica. Il crinale fra la tentazione di accendere lo scontro per ingigantire il loro ruolo di mediatori e di unici potenziali pompieri della protesta «no Tav» si sta facendo troppo stretto e pericoloso. Di fronte alle minacce di morte e di violenza, non si tratta più di un invito alla coerenza politica fra la loro militanza nel Partito democratico che si batte per la realizzazione dell’opera e la loro opposta convinzione. Ma del rispetto per il compito istituzionale che devono rivestire: quello di rappresentanti di tutta la popolazione e, soprattutto, dello Stato italiano. Come ricorda, tra l’altro, la fascia tricolore che indossano.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - La politica è diversa dalla protesta
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2011, 10:28:36 am
18/6/2011

La politica è diversa dalla protesta

LUIGI LA SPINA


Il crepuscolo del berlusconismo in Italia, lungo o breve che sia, travagliato o meno, affida al Pd, il partito più forte dello schieramento che in questi anni si è opposto alla lunga egemonia politica del Cavaliere, una grande responsabilità. Quella di resistere a una tentazione e di non cadere in un equivoco. L’inaspettato successo dei referendum e le altrettanto sorprendenti vittorie di Pisapia a Milano e di De Magistris a Napoli hanno confermato la forza elettorale e l’efficacia comunicativa di un movimento trasversale di protesta.

Un movimento, guidato soprattutto dai giovani, contro una concezione della politica giudicata mediocre, corrotta, lontana dagli interessi urgenti dei cittadini. Molti commentatori, giustamente, ne hanno colto le caratteristiche innovative, a partire dalla prevalenza dell’uso propagandistico di Internet rispetto alla televisione e, simultaneamente, dal ricorso all’antico «passaparola» come mezzo di convincimento e stimolo a una rinnovata partecipazione politica. Un fenomeno che nella nostra società civile si era già annunciato, nei mesi scorsi, con i lusinghieri esiti delle manifestazioni delle donne o delle stesse primarie per la scelta dei candidati del centrosinistra. Ma che, nelle più recenti manifestazioni elettorali e referendarie, si è imposto con una straordinaria evidenza. Ecco perché il Pd potrebbe essere tentato di cavalcare, più o meno strumentalmente, questo inedito movimentismo protestatario per affrettare la caduta di Berlusconi e agevolare il proprio successo alla guida di un largo schieramento alternativo al centrodestra. La seduzione, in effetti, potrebbe sembrare molto allettante, ma si fonda su un equivoco interpretativo e comporta un rischio, per il futuro del nostro Paese, veramente altissimo.

La protesta emersa nelle inedite forme di queste settimane, infatti, non è il frutto di un clima para rivoluzionario o contestativo, come quello che, anche in Italia, maturò alla fine degli Anni 60 nel secolo scorso. Perché non si basa sulla fiducia di poter cambiare il nostro mondo, ma, al contrario, sul timore che possa cambiare questo nostro mondo. Allora, era l’ottimismo che accendeva l’immaginazione, ora, è la paura che turba gli animi. Allora, si chiedeva alla politica il coraggio di farsi da parte; ora, si chiede alla politica di farsi più responsabile, invece, del futuro dei cittadini. Allora, si inneggiava alla libertà, intesa in tutti i campi della vita. Ora, si cerca la rassicurazione, in tutti i campi degli interessi.

In questo contesto, è veramente illusorio pensare, per il Pd, di aggregarsi e, magari, di contribuire ad accendere fuochi di protesta come strumenti di lotta politica contro Berlusconi e il centrodestra. Perché l’indignazione contro la «malapolitica» non ha bisogno di un coro, compiacente e corrivo, di adulatori. Ma di un partito che dimostri di saper costruire un’alternativa di governo, con risposte realistiche rispetto ai timori degli italiani. Anche perché questo fenomeno politico e sociale di rivolta contro la classe politica ha già dimostrato, proprio a spese del Pd, quanto diffidi del paternalismo di chi si illude di poterlo rappresentare e, magari, utilizzare ai propri fini.

Il possibile equivoco di interpretazione nell’analisi di quanto sta avvenendo in Italia non costituisce, però, solo una trappola per chi travisasse, più o meno consapevolmente, il significato del fenomeno sociale al quale stiamo assistendo. Perché i tempi che si annunciano in Italia sono assai cupi: la manovra economica, ormai imminente, susciterà certamente malumori e proteste di varie categorie e l’esempio della Grecia, stretta tra rivolte sociali e tagli dolorosi a cui è costretto il governo, è troppo vicino, non solo geograficamente, per non preoccupare. Una sinistra estrema, poi, non paga di riflettere sull’irresponsabilità di comportamenti che costrinsero alle dimissioni Prodi e che provocarono la sua esclusione dal Parlamento, crede di sentire un clima di possibile rivincita. Così, rincorre qualsiasi focolaio di contestazione, da quella della Fiom a quella dei «no Tav», con antichi slogan e antiche illusioni. La maggioranza, infine, finché resterà tale, tra inchieste giudiziarie e delusioni elettorali, sembra ormai concentrata solo sulle sue convulsioni interne, in cerca di uno sbocco alla sua crisi che, per ora, neanche si intravede.

Proprio in queste circostanze, quando la politica sembra scappare dai suoi compiti ed eludere i suoi doveri, avvolta in un vuoto di decisione allarmante, si misurerà quanto sia credibile uno schieramento alternativo a Berlusconi che non si limiti a fare da megafono alle paure e alle proteste, ma che si assuma la responsabilità di avanzare proposte concrete di risanamento finanziario e di sviluppo economico. Un compito molto difficile. Ma se il Pd pensa di imboccare scorciatoie più facili per arrivare a palazzo Chigi potrà aumentare di qualche punto il suo bottino elettorale, ma non convincerà mai la maggioranza degli italiani ad affidare a un suo uomo le chiavi del governo.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Abbattuto il muro dell'illegalità
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2011, 04:38:33 pm
28/6/2011

Abbattuto il muro dell'illegalità

LUIGI LA SPINA

Un muro è stato abbattuto: quello dell’illegalità che cingeva d’assedio il cantiere di Chiomonte, impedendo l’inizio dei lavori per la costruzione della linea di alta velocità Torino-Lione. Un altro muro si è innalzato: quello tra i valsusini contrari all’opera e i gruppi di violenti che hanno assalito con una pesante sassaiola le forze dell’ordine, utilizzando grosse pietre, estintori, balle di paglia incendiate. Il prezzo dello straordinario esempio di addestramento e di controllo dei nervi dimostrato da poliziotti, carabinieri e finanzieri è stato alto e amaro, perché ben 62 sono stati feriti, ma il loro comportamento ha evitato che lo sgombero del primo cantiere provocasse più gravi conseguenze. Così, alla fine di una giornata di grandissima tensione in tutta la valle, il bilancio «politico» dell’operazione d’avvio dei lavori si può considerare sostanzialmente positivo.

Si deve dare atto a tutti i responsabili del ministero dell’Interno di aver pianificato le mosse delle forze dell’ordine con grande abilità tattica e con accorto senso di responsabilità. L’uso dei lacrimogeni ha reso impossibile lo scontro diretto con le frange violente dei «no Tav».

D’altra parte, non si è verificato il fenomeno più temuto, quello che nel 2005 aveva provocato gravissimi incidenti e il forzato blocco dei lavori, cioè la partecipazione massiccia degli abitanti della valle alle azioni di protesta dei manifestanti più estremisti. Certo l’apertura del cantiere avvenuta ieri non deve illudere, perché i violenti non rinunceranno ai loro metodi di lotta e molti valsusini resteranno contrari al progetto. Ma l’esito della giornata, almeno, non ha confermato quelle fosche previsioni che, alla vigilia, molti avevano avanzato.

Un contributo alla riflessione, nelle prossime settimane, potrà avvenire quando saranno esaminate, con maggior approfondimento e meno emotività propagandistica, le risposte che la nuova versione del progetto alta velocità Torino-Lione ha cercato di offrire alle tre principali obiezioni di coloro che lo osteggiano. L’ultima variante del percorso, infatti, quasi dimezza il costo dell’opera; non prevede più cantieri nella bassa valle; individua una serie di tappe per l’intera realizzazione della nuova linea.

Per chi è ideologicamente contrario all’Alta velocità o per chi cerca un pretesto per una generica lotta contro lo Stato e, quindi, non è interessato veramente a entrare nel merito dei problemi, questa correzione in corsa non cambierà sicuramente le intenzioni più bellicose. Ma per la grande maggioranza degli abitanti valsusini, quella che si interroga, con timori comprensibili, sulle conseguenze concrete dei lavori per la loro vita, forse le nuove proposte attenueranno le preoccupazioni fondamentali. Anche perché è più difficile parlare di «devastazione della valle» se si valutano con attenzione le modifiche previste. Inoltre, se davvero i flussi di traffico non dovessero crescere fino a quei livelli che costringerebbero a rifare l’intera linea, l’utilizzo di parte di quella «storica» potrebbe essere confermato. Una flessibilità, dunque, che non esclude una revisione del progetto alla luce delle diverse condizioni che si dovessero presentare in futuro.

C’è, infine, un altro elemento confortante da registrare al termine della giornata. L’inizio dei lavori a Chiomonte dà un primo segnale positivo agli ultimatum dell’Unione europea per il rispetto dei tempi da parte italiana. E’ evidente che il rischio di perdere gli oltre seicento milioni di euro stanziati da Bruxelles per il tragitto italiano della Tav non è fugato da un atto quasi simbolico quale si è compiuto, ieri, in Valsusa. Il cantiere esplorativo della Maddalena dovrà andare avanti e gli altri, previsti dal progetto, dovranno essere aperti alle scadenze programmate. I primi commenti, anche informali, registrati negli ambienti comunitari fanno capire che l’Europa guarda con un certo scetticismo e con immutata apprensione al faticosissimo avvio dell’opera. Ma un ulteriore ritardo non sarebbe stato certamente tollerato. L’ottimismo non è prudente e, forse, neanche consigliabile, ma non è proibito. Per ora, accontentiamoci.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Dissoluzione senza soluzione
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2011, 05:06:46 pm
9/7/2011

Dissoluzione senza soluzione

LUIGI LA SPINA

I regimi politici cadono in due modi: o perché sono sconfitti o per sfarinamento interno. Nel primo caso, il crollo può essere cruento, ma i vincitori riescono rapidamente a diventare una credibile classe dirigente alternativa. Nel secondo, l’agonia può essere molto lunga e molto pericolosa, perché lascia il Paese senza una guida sicura e in balia degli eventi. Com’era facilmente prevedibile, la fine del berlusconismo in Italia sta seguendo quest’ultima forma. Un modello che si potrebbe sintetizzare, anche in rima, così: dissoluzione senza soluzione.

L’ultima ondata di scandali che si stanno abbattendo sul centrodestra avrà un effetto, in apparenza, paradossale e contraddittorio. Da una parte, ha bruciato la candidatura delle due più forti personalità ministeriali alla successione di Berlusconi, prima quella di Gianni Letta e, ora, quella del superministro dell’Economia, Giulio Tremonti; con risultati devastanti, sia per l’immagine del governo, sia per l’efficacia della sua azione. Dall’altra, costringerà tutti i ministri, a cominciare da quelli più sotto schiaffo giudiziario, a una resistenza e a una convivenza obbligata.

Ecco perché, nonostante il clima pessimo che si respira nella Roma politica, il quarto ministero Berlusconi rischia, sì, di non poter governare con sufficiente credibilità, specialmente in un momento in cui chiede sacrifici agli italiani. Ma rischia anche di durare, perché sia nella maggioranza, sia nell’opposizione, non solo non è pronta una vera alternativa, ma non c’è molta voglia e molto interesse a cercarla. Una prospettiva davvero inquietante per gli italiani, con un’unica variabile a questo scenario, quella di un attacco della speculazione finanziaria internazionale contro il nostro Paese, ipotesi che proprio ieri si è affacciata sui mercati e che, certamente, è ancora meno confortante.

Il quadro della situazione nei principali partiti è abbastanza chiaro. La Lega, ormai azionista di riferimento nella maggioranza, non ha alcun interesse, ora, a rompere l’alleanza con Berlusconi. Sia perché è molto difficile che possa immaginare un governo diverso che possa assicurarle un maggior potere, sia perché anche in quel partito è cominciata una lunga, logorante e molto incerta lotta alla successione del leader carismatico (o ex carismatico), Umberto Bossi.

Pure nel Pdl gli equilibri interni sono precari, dal momento che l’investitura di Alfano è troppo recente perché si possa ritenere accettata da tutti e, soprattutto, il ministro della Giustizia deve ancora intraprendere un difficile cammino tra due precipizi: quello di apparire un segretario senza autonomia da Berlusconi e, quindi, con poca autorevolezza e quello di sembrare averne troppa, snaturando la fisionomia di un partito che forse può esistere solo se guidato dal suo fondatore.

Al di là di questi problemi, però, il Pdl si trova, forse per la prima volta, davanti a un dilemma concreto e quasi drammatico. La manovra concepita da Tremonti, infatti, colpisce direttamente gli interessi proprio di quel ceto medio che costituisce il nocciolo duro del suo elettorato. Quello che vede decurtati i già miseri interessi dei titoli di Stato che detiene in banca. O quello che è preoccupato per la nuova tassazione sulle partite Iva. D’altra parte, il Pdl sa bene che il ministro dell’Economia è considerato, all’estero, l’unico baluardo allo sfondamento dei conti pubblici italiani. Una sua uscita di scena, se la manovra fosse stravolta in Parlamento, potrebbe segnare il via libera alla più sfrenata speculazione internazionale contro l’Italia.

Anche la principale forza d’opposizione, infine, preferirebbe aspettare momenti più propizi per accollarsi un impegno governativo, così gravoso in circostanze come queste. Bersani, negli ultimi mesi, si è guadagnato sul campo la candidatura del Pd a Palazzo Chigi per le prossime elezioni. Ma il partito sente la pressione di un movimentismo, alla sua sinistra, che per un verso rischia di sedurre, con un facile populismo, una buona quota del suo potenziale elettorato e, dall’altra, potrebbe riportarlo ai tempi nefasti delle «gioiose macchine da guerra».

In queste condizioni, sono inutili gli appelli al bon ton governativo, perché non si può immaginare che le forme non rispecchino la sostanza di questa implosione governativa. Come gli appelli alle responsabilità istituzionali, perché le virtù morali dei singoli sono già abbondantemente messe in dubbio dalle cronache quotidiane. E’ più interessante cercare la risposta a una domanda: stiamo assistendo alla fine del berlusconismo o alla fine del sistema della seconda Repubblica? L’offensiva della magistratura sulla politica ricorda l’epoca di «Mani pulite». Il distacco dei leader dagli umori degli italiani, dimostrato anche nei recenti referendum, fa pensare agli inviti craxiani di «andare al mare». Il dilagare di forme nuove nella protesta antipartitica rievoca l’epopea del «popolo dei fax». E’ vero che la storia non si ripete e, forse, la memoria è d’inciampo per scrutare il futuro. Ma la seduzione dei ricordi, qualche volta, è davvero troppo forte.

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Titolo: LUIGI LA SPINA. La fine di un'illusione
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2011, 11:32:26 am
21/7/2011

La fine di un'illusione

LUIGI LA SPINA

Può sembrare un paradosso. In una giornata politica di fortissima tensione, con le aule parlamentari ribollenti di urla, litigi al limite dello scontro fisico, e sintetizzata persino da un pugno sul tavolo sferrato dal presidente del Consiglio, i veri protagonisti sono stati due: una assenza e un lungo silenzio. La prima è stata quella di Umberto Bossi. Il secondo è stato quello che ha accolto il sì della Camera all’arresto di un suo componente. L’assenza certificava l’impossibilità, da parte del leader della Lega, di mantenere quel patto con Berlusconi che ha varato la legislatura e ha sostenuto per tre anni il governo. Il silenzio esprimeva la sorpresa, lo sconcerto, il disorientamento, quasi il panico dei deputati che assistevano alla fine di quell’intesa senza che se ne potesse intravedere un’altra.

Come gli capita troppo spesso negli ultimi tempi, il presidente del Consiglio non aveva capito che gli umori del Paese avrebbero messo alle corde la resistenza del partito di Bossi. Così, i suoi pronostici ottimistici, fondati su un voto segreto che avrebbe dovuto mascherare il tradimento dei leghisti rispetto alle dichiarazioni ufficiali, si sono scontrati, ancora una volta, con una realtà che sembra ormai sfuggirgli.

Eppure, gli sarebbe bastato notare quella mancata presenza e il plateale spostamento di Maroni dai banchi del governo a quelli del suo gruppo alla Camera per comprendere che nella Lega si è chiusa una stagione e, con essa, forse anche una legislatura.

Occorreva un’occasione importante perché l’azionista di riferimento di questo governo, la Lega, mandasse questo segnale di distacco al suo amministratore delegato, Silvio Berlusconi. E la giornata alla Camera, ieri, è stata addirittura drammatica e dall’esito sconvolgente, perché da quasi trent’anni l’assemblea di Montecitorio non spediva un suo deputato dietro le sbarre di un carcere. Ma l’esito non era certo prevedibile per chi si fosse ostinato a seguire solo le liturgie del Palazzo, collaudate in anni di accordi trasversali, tra tutti i partiti, per difendere ad oltranza chiunque, tra quelle mura, fosse indagato anche con gravissime accuse. Bisognava intuire che la pressione dei cittadini contro una classe politica, apparsa inadeguata rispetto alla gravità dei problemi del Paese e indifferente di fronte ai sacrifici imposti, avrebbe sconvolto l’ordinario rito corporativo delle Camere e spezzato l’anello più sensibile della maggioranza, il partito della Lega.

Solo i prossimi mesi chiariranno se l’assenza di Bossi, ieri nell’aula di Montecitorio, abbia avuto anche un altro significato: quello del passaggio di testimone di una leadership così carismatica e, fino a poco tempo fa, del tutto indiscussa. Se sarà Maroni a ereditare la guida della Lega o se la lotta per la successione provocherà una guerra fratricida, con una conclusione, magari, del tutto sorprendente. Ma il motivo di fondo del cambio di rotta clamorosamente annunciato ieri è già abbastanza chiaro: è finita, nella Lega, l’illusione che, pur di conquistare il federalismo, valesse la pena sopportare il sempre più faticoso appoggio a Berlusconi, alle sue leggi ad personam, ai suoi stili di vita, ai suoi metodi di governo. Per una contraddizione evidente e molto concreta: da una parte, gli effetti positivi per il Nord del federalismo fiscale appaiono lontani e molto dubbi, man mano che i decreti attuativi vengono approvati; dall’altra, tutti i tagli e le manovre del governo finiscono per penalizzare soprattutto le risorse degli enti più vicini al territorio, Comuni e Regioni. Con il risultato, reso evidente del voto delle amministrative, di una rivolta degli elettori della Lega, costretti a subire riduzioni dei servizi locali, senza vedere vantaggi da un sogno federalista rivelatosi assai deludente.

E’ difficile prevedere se, in questa situazione di sbando parlamentare e governativo, la maggioranza numerica che sostiene Berlusconi, pur con la clamorosa eccezione del voto di ieri alla Camera, potrà resistere ancora. Certo il segnale lanciato dalla Lega, alla Camera, è molto forte. Ma più determinante per la sorte della legislatura sarà, forse, l’andamento dei mercati nelle prossime settimane. L’esito del vertice europeo, formalmente convocato per il salvataggio della Grecia, ma dedicato soprattutto alla difesa dell’euro, potrebbe aiutare anche il nostro governo, così traballante. Ma il logoramento politico di questi giorni, tra sconfitte parlamentari e dilagante sfiducia dei cittadini, non aiuta a offrire al mondo l’immagine di un’Italia pronta a superare una delle crisi più difficili della sua storia.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Preoccupante vuoto di potere
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2011, 10:13:34 am
1/9/2011

Preoccupante vuoto di potere

LUIGI LA SPINA

Al di là dell’imbarazzante retromarcia sul riscatto degli anni di università o di leva ai fini della pensione, un caso in cui il dilettantismo e l’improvvisazione hanno sicuramente superato ogni limite, quello che colpisce in queste settimane di fine estate è un’impressione più preoccupante.

Il drammatico scarto, cioè, fra la gravità dei problemi dell’Italia e il livello di consapevolezza politica, di competenza professionale e di responsabilità morale con i quali chi ci governa affronta una situazione certamente molto difficile.

Il nostro Paese, infatti, soffre di tutti i problemi finanziari, economici e sociali dell’Europa e dell’intero Occidente con l’aggravante di due cospicui handicap rispetto alle altre nazioni: un pesantissimo debito pubblico e un livello di crescita nettamente inferiore.
Ridurre il peso del primo sui conti dello Stato senza innescare una recessione, anzi cercando di stimolare investimenti e consumi, è compito arduo, soprattutto in una società come la nostra, dove il potere delle corporazioni sulle scelte della politica è molto forte.

In queste condizioni, solo l’autorevolezza e la credibilità di una intera classe politica e, soprattutto, della sua espressione governativa potrebbe convincere i due fondamentali interlocutori, le istituzioni internazionali e i cittadini italiani, di essere in grado di fronteggiare la situazione. Occorre dimostrare ai primi di aver compreso la gravità dell’emergenza in cui si trova l’Italia e di avere la forza e il coraggio di imporre le misure indispensabili. Ai secondi è necessario parlare con la serietà che il momento richiede e non nascondere la verità, amara ma incontrovertibile: per riprendere il cammino della crescita sono necessari sacrifici, ma di tutti.
Certamente graduati secondo le disponibilità economiche di ciascuno, senza illudere, però, che i problemi possano essere risolti con qualche estemporanea trovata punitiva contro chi è meno caro ai partiti della maggioranza o con le solite promesse di un radioso futuro in cui gli evasori saranno finalmente scovati e la politica sarà capace di tagliare i suoi costi. Promesse a cui ormai nessuno, neanche il più ingenuo, crede più.

Lo spettacolo che la politica italiana offre alle istituzioni finanziarie internazionali, ai Paesi partner dell’eurozona e soprattutto ai cittadini è, a dir poco, sconcertante. I due leader della maggioranza governativa, Berlusconi e Bossi, sono apparsi, nei giorni scorsi, silenti e persino defilati, proprio quando ci sarebbe la necessità di esercitare una guida energica, lucida, autorevole. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, a suo agio nelle discussioni intellettuali sui destini del mondo, sembra patire un oscuramento preoccupante, non si sa se dovuto ai guai giudiziari che l’hanno sfiorato o all’offensiva che una parte del suo partito sta conducendo contro di lui.
Con risultati, in ogni caso, negativi. Perché questa offensiva non è sufficiente per costringerlo alle dimissioni, ma è sufficiente per metterlo in grande difficoltà.

Questo sostanziale vuoto di una leadership all’altezza del grave momento in cui si trova il nostro Paese ha prodotto una confusione di idee assoluta, in cui la modestia delle competenze e l’irresponsabilità dei ruoli garantiscono una sfrenata libertà alla fantasia. Si avanzano proposte, come quest’ultima sugli anni di studio per raggiungere la pensione, senza calcolare le conseguenze economiche, valutare i rischi di incostituzionalità, comprendere gli enormi danni nel rapporto tra i nostri concittadini e lo Stato che una norma del genere avrebbe arrecato. L’unica preoccupazione sembra quella di scaricare i sacrifici su quella categoria che è più lontana dal proprio elettorato.
Così il compromesso, soluzione inevitabile e anche accettabile quando riesce a evitare troppe ingiustizie, diventa una trappola, perché si trasforma in un veto di tutti contro tutti. Il risultato è inevitabile: la manovra non c’è più e i conti non tornano. Allora, almeno così pare, si dovrà ricorrere all’arma finale: l’aumento dell’Iva. Come tutte le armi finali, con effetti dirompenti. Sicuramente utili per garantire i saldi promessi all’Europa, ma rischiosi per i già modestissimi livelli di crescita economica del nostro Paese.

E’ comprensibile che un governo, qualsiasi governo, si preoccupi delle conseguenze elettorali, quando decide provvedimenti che comportano sacrifici. Ma è incomprensibile come non si capisca come questo modesto carosello di proposte, pasticciate e incoerenti, suscitino negli italiani una irritazione e una indignazione ben maggiore di quella che produrrebbe un serio appello alla responsabilità collettiva. Peccato che i nostri politici disprezzino così tanto l’intelligenza e la maturità di coloro che governano.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9150


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il nodo politico da sciogliere
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2011, 05:28:57 pm
7/9/2011

Il nodo politico da sciogliere

LUIGI LA SPINA

In Italia, da un mese si recita sempre lo stesso copione. In agosto, era stato il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, a sollecitare urgenti misure di risanamento finanziario. La risposta fu, a parole, rassicurante, ma, nei fatti, poco credibile. Allora, i mercati fecero subito capire qual era l’opinione internazionale sull’atteggiamento del nostro governo e la Borsa consegnò a Berlusconi il suo ultimatum. Nuove promesse e nuovi dubbi sulla serietà di quelle intenzioni.

Intanto, si susseguivano imbarazzanti giravolte governative sulle misure da prendere. Poi, è stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a intervenire qualche giorno fa, suggerendo, in maniera molto autorevole e pressante, un inasprimento dei provvedimenti. Infine, è arrivato il colpo da ko dell’impressionante differenziale di rendimento dei nostri titoli di Stato rispetto a quelli tedeschi, una sanzione sui nostri interessi che ha costretto il governo a varare quelle misure alle quali sperava di non dover ricorrere. Ma ora, la domanda angosciosa è: arrivate solo adesso, basteranno per convincere mercati e autorità finanziarie straniere che l’Italia si è decisa a far sul serio?

Al di là della discussione sull’efficacia e sull’equità della manovra decisa dal governo, nella sua ultima e speriamo definitiva versione, il problema dell’affidabilità del nostro Paese in ambito internazionale non è tanto tecnico-finanziario, ma è un problema politico. Per spiegarlo, può essere utile far riferimento a quell’ accostamento dell’Italia alla Grecia fatto dalla Merkel nei giorni scorsi e che ha così tanto sorpreso e irritato i leader della maggioranza. Sorpresa e irritazione raddoppiata ieri, quando Luis Zapatero, il capo del governo spagnolo, ha rimproverato l’Italia di non aver seguito, in una situazione simile, l’esempio di severità mostrato dal suo Paese al mondo.

E’ vero che il debito pubblico in quella nazione iberica è molto inferiore al nostro, ma la fiducia internazionale sulle capacità di risanamento della Spagna si è consolidata quando Zapatero, che come Berlusconi aveva per molto tempo sottovalutato la gravità della crisi economica, ha concesso le elezioni e ha promesso di non ricandidarsi. Lo sblocco della situazione politica ha contribuito ad assicurare il sostanziale appoggio dell’opposizione ai provvedimenti governativi e, soprattutto, ha tolto a Zapatero l’ossessione degli effetti elettorali che potrebbero determinarsi a seguito di quelle misure.

In Italia, la situazione è del tutto diversa. I partiti della maggioranza non solo contano di riuscire ad affrontare le attuali difficoltà senza perdere il consenso del Parlamento e, quindi, di poter arrivare alla normale scadenza della legislatura, fra due anni. Ma, è proprio sull’allungamento dei tempi del verdetto elettorale che possono sperare in una riconferma della loro supremazia alle Camere. Perché, in caso di un voto ravvicinato, come tutti i sondaggi indicano, le loro probabilità di vittoria sarebbero minime. Le incertezze sulla ricandidatura di Berlusconi, infine, alcune volte esclusa, altre volte riaffermata con sicurezza, accentuano l’irrigidimento di un quadro politico, precario nella sostanza, ma senza visibili alternative.

Così, le opposizioni assicurano la loro disponibilità a contribuire alla manovra con una contropartita che Berlusconi evidentemente non può accettare, cioè il suo harakiri a Palazzo Chigi. Per di più, come si è visto ieri, si uniscono a un discutibile sciopero generale proclamato dalla sola Cgil. Con il risultato di offrire il fianco alla facile accusa di irresponsabilità in un momento in cui, invece, dovrebbero mostrare consapevolezza della necessità di sacrifici per tutti. Infine, le varie corporazioni degli interessi, quelle che impediscono in Italia una politica di vere riforme, trovano vita facile nell’opporsi a qualsiasi cambiamento, perché sfruttano sia la debolezza di una maggioranza terrorizzata dal rischio elezioni, sia l’opportunismo delle minoranze che non vogliono aiutare il governo senza averne un qualche vantaggio.

Conseguenza del «fermo immagine» sul film della nostra politica è la sostanziale subalternità dell’Italia al giudizio degli altri. Non solo quando le decisioni sull’economia paiono dettate dalle autorità finanziarie europee e dai governi nostri partner nell’eurozona. Ma soprattutto quando l’efficacia e la credibilità delle misure che, infine, il nostro governo assume, non dipendono dal parere del Parlamento che sta a Roma o dalle opinioni dei connazionali che devono accettare quei sacrifici, ma dalle valutazioni che si fanno oltre i nostri confini. Può sembrare ingiusto e persino umiliante che ciò avvenga, ma non è detto, dopotutto, che sia un male.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9170


Titolo: LUIGI LA SPINA - Un fossato tra il Paese e il governo
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2011, 03:33:18 pm
1/10/2011

Un fossato tra il Paese e il governo

LUIGI LA SPINA

Ancora una volta, la grande sensibilità ed esperienza politica del Capo dello Stato ha individuato il problema più grave dell’Italia d’oggi: il distacco e la profonda sfiducia dei cittadini nei confronti di chi li governa. Così va intesa la sollecitazione di Giorgio Napolitano a una riforma elettorale che restituisca al popolo il giudizio sui propri rappresentanti alle Camere e tolga alle segreterie dei partiti il potere assoluto di nominarli in Parlamento. Ma anche la sua nuova, durissima condanna di chi, di fronte ai veri problemi del nostro mondo globalizzato, favoleggia soluzioni fuori dalla realtà, come quella della secessione padana.

Quest’estate che sembra non voler più finire ha acuito l’impressione dell’assoluta solitudine degli italiani rispetto alla loro classe politica. Preoccupati per la sorte dei loro risparmi, per il futuro dei loro figli, per il clima di disorientamento che si diffonde, tra annunci di imminenti catastrofi e rassicurazioni assai poco credibili, avvertono la sconcertante sordità del loro governo e la desolante impotenza della loro opposizione.

La sensazione è quella di un Paese abbandonato a se stesso, aggrappato alla speranza che la tutela interessata dei partner europei basti a salvarlo e la supplenza di autorevolezza e di credibilità del Presidente della Repubblica sia sufficiente per preservarne l’onore internazionale.

Berlusconi, i suoi ministri e la sua coalizione partitica paiono racchiusi come in un bunker di totale isolamento rispetto a quello che avviene fuori dal perimetro della Roma politica. Questa specie di autismo governativo viene rafforzato ogni volta che, con il voto palese, le Camere ribadiscono, con puntualità sistematica, la quota di una sempiterna maggioranza. Una maggioranza che sfida con successo le accuse di connivenze mafiose nei confronti di uno dei suoi ministri, di corruzione nei riguardi di un suo rappresentante, stretto collaboratore del titolare dell’Economia, e che sostiene, a colpi di fiducia, i provvedimenti del suo governo.

Vittorie che irridono i patetici tentativi dell’opposizione di ottenere un ribaltone parlamentare, aggravandone le divisioni ed esasperando i suoi caratteri litigiosi e inconcludenti. Ma che hanno soprattutto l’effetto di autorizzare la chiusura di ogni ascolto agli umori dell’opinione pubblica, con la ripetizione di quello che è ormai diventato un «mantra» autoassolutorio: «Finché i numeri alle Camere lo confortano, il governo ha sempre ragione».

La più significativa conferma di questo fossato che si sta scavando tra il Paese e il governo è venuta ancora ieri, quando si sono registrate le stizzite repliche di alcuni esponenti della maggioranza al piano per la crescita proposto dalla Confindustria e da altre rappresentanze imprenditoriali. Le proposte della Marcegaglia, certo, possono e debbono essere discusse ed è naturale che suscitino consensi e dissensi. Quello che ha colpito, però, è il distacco che si è creato con un mondo, quello delle forze produttive della nostra società, che, per anni, ha costituito uno dei punti di riferimento del berlusconismo nel nostro Paese. Quanto è lontano l’entusiastico consenso di quell’assemblea confindustriale di Vicenza, nel 2006, che elesse l’attuale presidente del Consiglio suo paladino, dal secco ultimatum intimato dalla Marcegaglia al governo. Ma quanto è lontano, soprattutto, l’atteggiamento risentito e quasi sprezzante verso il presidente degli industriali italiani da parte di un ministro come Sacconi, da sempre beniamino di ogni platea confindustriale.

Ecco perché sembra davvero che il fortino in cui si è chiuso il governo, nella sua orgogliosa autosufficienza parlamentare, abbia sollevato tutti i ponti levatoi. Anche quelli con i suoi tradizionali alleati e scambi pericolosamente la garanzia della sua esistenza con l’efficacia della sua azione. Dentro quelle mura si agitano duelli personali e politici, come quelli che combattono Tremonti e Berlusconi. Si sentono echi di battaglie infinite, come quelle tra la magistratura e il presidente del Consiglio. Risuonano nomi di donne e voci di allegri festini. Si percepiscono persino felpati avvertimenti, come quelli inviati dalla Chiesa italiana nei confronti di un certo «costume», chiamiamolo così, politico. Fuori, oltre il fossato, stanno gli italiani, osservatori smarriti di lotte furiose, ma lontanissime dalle loro più urgenti preoccupazioni. La sera, le tv, moderni cantastorie, raccontano le solite favole. Ma ormai non incantano più.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9264


Titolo: LUIGI LA SPINA - Balletto di viltà politica
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2011, 12:05:55 pm
13/10/2011

Balletto di viltà politica

LUIGI LA SPINA

La liturgia della crisi ha compiuto un altro importante passo, ma non è detto che sia arrivata all’ultimo. E’ possibile che il nuovo ricorso di Berlusconi al voto di fiducia, col voto palese della Camera, consenta domani il prolungamento di un’agonia che ormai contrasta, in maniera insopportabile, con l’urgente necessità di una forte guida del Paese. Un governo che aiuti l’Italia a superare uno dei momenti più difficili della sua storia repubblicana. Capace di imporre decisioni certamente impopolari, ma che abbia la credibilità e l’autorevolezza di farle accettare, sia dalle autorità finanziarie europee, sia dai mercati internazionali.

Certo, i due comunicati con i quali il Presidente della Repubblica ha espresso la sua grave preoccupazione per le conseguenze della bocciatura sul rendiconto del bilancio dello Stato impediscono, da un lato, scappatoie tecnico-procedurali e, dall’altro, costringono tutti ad assumersi responsabilità politiche finalmente chiare. Napolitano, infatti, col primo, ha chiesto al governo di non limitarsi a esibire una maggioranza numerica alla Camera, ma a dimostrare di essere in grado di fornire «risposte credibili» alle esigenze del Paese.

Col secondo, ha ricordato che spetta all’esecutivo riuscire a individuare una soluzione, corretta giuridicamente e politicamente accettabile, rispetto al voto sul consuntivo di bilancio e spetta al Parlamento il giudizio sulla ammissibilità di tale soluzione.

Con questa specie di ultimatum istituzionale, il capo dello Stato, insomma, vuol mettere fine a quel triste e meschino balletto di vera e propria viltà politica che, in questi mesi, sta sfaldando il governo, ma anche il Parlamento, e che riguarda un po’ tutti. A partire da un presidente del Consiglio che non si rende conto di non poter più contare su una maggioranza tale da consentirgli di assumere quelle decisioni che sarebbero indispensabili per affrontare la crisi. Per proseguire con deputati che, quando costretti dal voto palese, non rinnegano la loro fiducia a Berlusconi. Ma, appena possono farlo senza assumersi pubblicamente la responsabilità di provocare la caduta del governo, colgono tutte le occasioni, anche le più importanti, per manifestare il loro dissenso e il loro malcontento. Per finire con un’opposizione che, divisa tra la volontà di andare subito a nuove elezioni e quella di aiutare la formazione di un nuovo esecutivo, «tecnico» o di «decantazione» come è più di moda definirlo adesso, non offre all’opinione pubblica un accordo, concreto e praticabile, né di politica economica, né di riforma elettorale.

Vedremo se, in questi giorni cruciali per affrontare una situazione finanziaria che, come ha ricordato il governatore uscente della Banca europea, Jean-Claude Trichet, si è aggravata drammaticamente, l’appello all’assunzione di responsabilità lanciato da Napolitano avrà ottenuto l’effetto di far uscire un po’ tutta la nostra classe politica dall’opportunismo più miserevole. Quello che si occupa, per esempio, solo del calcolo, peraltro molto imprevedibile, sulla posizione più favorevole per ottenere un posto alle Camere anche nella prossima legislatura. Ma il governo, se anche questa volta dovesse trovare la fiducia a voto palese, sarà comunque costretto a dare la vera risposta a Napolitano entro la fine del mese. Quando dovrà presentare, infatti, le misure per lo sviluppo dell’economia.

Sarà questa la prova di poter ancora pretendere di governare il Paese. Ma non sarà facile, perché Berlusconi dovrà scegliere tra due alternative altrettanto scomode. O sconfessare Tremonti, e Bossi che sostiene a spada tratta il ministro dell’Economia, trovando le risorse necessarie, con il condono fiscale ed edilizio o con la patrimoniale, e magari con tutti e due. Una soluzione che rischia contraccolpi drammatici sui mercati finanziari, per le obbligate dimissioni di Tremonti e il probabilissimo distacco della Lega dalla maggioranza. O varare provvedimenti «a costo zero», come vuole il suo più autorevole ministro, ma con effetti pratici così ridotti sulla situazione dell’economia nel nostro Paese da perdere qualunque residua credibilità nei confronti sia dei cittadini italiani, sia della comunità politica e finanziaria europea.

Tra tante incertezze e tante preoccupazioni, i prossimi giorni daranno a tutti noi almeno una consolazione: quella di vedere protagonisti e comprimari della nostra scena politica essere costretti a gettare la maschera delle ambiguità. Magari lo spettacolo non sarà edificante, ma, di questi tempi, bisogna sapersi accontentare.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9315


Titolo: LUIGI LA SPINA - La coerenza negoziabile
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 05:14:36 pm
26/10/2011

La coerenza negoziabile

LUIGI LA SPINA

In politica fare previsioni è sempre azzardato. Ma rispondere alla domanda che tutti si fanno, in queste ore, è davvero impossibile. Perché l’esistenza del governo è appesa non solo al filo della difficilissima intesa con la Lega sulle pensioni, ma alla credibilità delle promesse contenute nella lettera che il premier, oggi, si porta in tasca per presentarla al nuovo vertice europeo.

Se l’accordo, o il mezzo accordo, proclamato ieri sera porterà solo aggiustamenti minimali e poco incisivi al nostro sistema previdenziale, la reazione dei nostri partner stranieri e, soprattutto, quella dei mercati finanziari potrebbe sopraffare il desiderio della coppia Berlusconi-Bossi di evitare, in questo momento, le elezioni anticipate.

C’è un’unica scienza, invece, in grado di prevedere il futuro, almeno quello prossimo, con sufficiente attendibilità: la demografia. Una disciplina del tutto trascurata dai nostri politici, perché ha due caratteristiche molto scomode. Non consente quella flessibilità d’interpretazione che aiuta a giustificare le tesi più disparate e, soprattutto, le giravolte più spericolate. Ma ha un difetto, poi, davvero imperdonabile: si occupa, appunto, del futuro. Un tempo che proprio non interessa quella politica così ossessivamente preoccupata del consenso che si raccoglie oggi, non della gratitudine che si otterrà domani.

Ecco perché è spesso sulle pensioni che i governi si spaccano o rischiano di spaccarsi e perché, su questo argomento, la confusione delle idee e, soprattutto, la contraddizione delle parole è sempre al massimo. Eppure, la negletta demografia parla con un linguaggio che tutti capiscono e che si può riassumere in pochi dati. In Italia stanno andando in pensione le classi più numerose, quelle del «baby boom» scoppiato dal dopoguerra alla fine degli Anni 60. Il nostro Paese ha, tra quelli più sviluppati, un solo record, quello degli anni in cui si gode la pensione. Un risultato ottenuto da quasi due primati, quello della fine precoce del periodo di lavoro e quello della più lunga aspettativa di vita. Gli italiani, in media, usufruiscono della pensione per 23 anni; le italiane addirittura per 27.

Con un mercato del lavoro che registra un’alta percentuale di disoccupazione giovanile e una spesso lunga precarietà, le vie d’uscita, se non si vogliono tagli drastici agli incassi mensili dei pensionati, sono solo due: o si alza l’età in cui si smette di lavorare o ci si deve augurare un’epidemia che colpisca gli anziani del nostro Paese in maniera micidiale. Le altre nazioni europee, scartando evidentemente la seconda strada, hanno già provveduto a imboccare la prima.

I motivi per cui, in Italia, si fa così fatica ad accettare la scontata conseguenza di quanto ci dice la demografiasono altrettanto semplici. Sindacati e politici difendono i loro iscritti e i loro sostenitori. I primi hanno ormai una maggioranza composta da pensionati o pensionandi e rappresentano soprattutto coloro che lavorano in aziende mediograndi,con contratti a tempo indeterminato. I secondi non hanno nessun interesse ad accaparrarsi il consenso delle future generazioni. Per capirlo non serve la matematica, basta l’aritmetica: i giovani, rispetto agli anziani o ai quasi anziani, sono pochi e non conviene barattare il suffragio dei tanti che desiderano smettere il più presto possibile di lavorare con i consensi, labili e futuribili, di elettori che, magari, non saranno più chiamati a votare per loro.

Gli effetti politici di questa realtà sono evidenti nella confusione, nella demagogia, nelle contraddizioni dei principali protagonisti della nostra classe politica. Cominciamo dalla Lega, anche perché l’attualità giornalistica dello scontro nella maggioranza l’impone. C’era un suo ministro, nel 2004, che non era un omonimo di Roberto Maroni, ma era proprio lui, l’attuale capo del dicastero dell’Interno, che firmò una legge sul cosiddetto «scalone» pensionistico. Prevedeva l’immediato e drastico (di ben 3 anni) innalzamento dell’età per smettere di lavorare. Ma quella legge, sostenuta e varata con convinzione dall’allora ministro del Welfare, sempre lui, Roberto Maroni, fu abrogata, tre anni dopo, dal centrosinistra arrivato al governo. Se quel provvedimento fosse stato attuato, non avremmo risolto, magari, tutti i nostri problemi previdenziali, ma sicuramente saremmo molto più avanti sulla strada per risolverli.

E’ perlomeno curioso che, oggi, sia lo stesso Maroni ad affiancarsi a Bossi nella resistenza fermissima a «toccare le pensioni». Come sorprende la disponibilità del Pd, ora, ad accettare la drastica cura che ci chiede l’Europa sul tema, visto il passato atteggiamento di quel partito, determinante per ottenere la cancellazione di una legge che andava proprio incontro a quelle esigenze. E’ proprio vero che la coerenza, in politica, è una virtù, per usare un lessico vaticanesco, del tutto «negoziabile». Dipende dalla posizione parlamentare, in maggioranza o all’opposizione, non dal merito della questione a cui si è di fronte. Tanto alle capriole si trova sempre una giustificazione.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Il vuoto di responsabilità collettiva
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2011, 05:10:18 pm
3/11/2011

Il vuoto di responsabilità collettiva

LUIGI LA SPINA

In un momento tra i più difficili della storia repubblicana, la nostra politica sembra svolgersi su due piani diversi, su due mondi quasi incomunicabili. Da una parte, il governo cerca affannosamente di presentarsi al vertice di Cannes con qualche impegno che dimostri la sua capacità di affrontare una situazione drammatica. Nel tentativo disperato non solo di convincere i capi degli altri 19 Paesi più importanti del mondo, ma soprattutto i mercati e la speculazione finanziaria. Dall’altra, l’unica figura rispettata e autorevole riconosciuta dalla comunità internazionale tra la nostra classe politica, cioè il Presidente della Repubblica, guarda, con una serie di consultazioni straordinarie, al dopo Berlusconi.

Ieri, la rappresentazione sui due palcoscenici della politica italiana non poteva essere più esplicita. Le riunioni convocate dal presidente del Consiglio si svolgevano sulla base del copione ormai consueto negli ultimi mesi di questo ministero: scontri verbali molto duri tra Berlusconi e Tremonti, con accuse reciproche di essere i principali responsabili della mancanza di credibilità dell’azione governativa, minacce incendiarie di Bossi, caccia all’ultimo deputato incerto per convincerlo a rinsaldare l’esangue maggioranza su cui precariamente ancora si regge il governo.

Una scena continuamente interrotta dalle voci più incontrollate sui provvedimenti che sarebbero stati varati nella notte, dal prelievo forzoso sui conti correnti alle varie forme che potrebbe assumere la cosiddetta «patrimoniale».

Sul Colle, come familiarmente il gergo politico chiama il palazzo della presidenza dello Stato, prendeva forma, di fatto, una nuova configurazione dei poteri italiani: la guida semipresidenziale di un Paese in stato d’emergenza. Napolitano convocava i partiti della maggioranza e quelli dell’opposizione, si consultava col nuovo governatore della Banca d’Italia e con il nuovo presidente della Banca europea, parlava con i principali partner stranieri.

Così, nel rispetto formalmente rigoroso dei rispettivi compiti tra Palazzo Chigi e il Quirinale, il presente e il futuro della politica italiana sembrano non aver alcun rapporto tra di loro. Come avviene tra le rassicurazioni, le promesse, le illusioni, le speranze di cui si riempiono la bocca i leader dei partiti di governo e la spietata realtà delle tragiche cifre che compaiono sugli indici della Borsa e, soprattutto, su quei numeri angosciosi di una parola straniera che tutti hanno imparato ormai a conoscere, lo «spread», annuncio di sventura per la categoria più numerosa tra gli italiani, quella dei possessori di titoli di Stato.

Eppure, c’è un decisivo legame tra i due luoghi in cui si svolge lo scenario della politica italiana: il tempo. Il governo sembra aver esaurito il tempo per varare provvedimenti tali da risultare affidabile agli occhi della comunità internazionale e a quelli dei mercati. Napolitano, invece, ha bisogno di tempo per costruire il futuro del dopo Berlusconi. Il rischio, a questo punto, può essere drammatico, perché la realtà di una situazione europea che sembra ormai ingovernabile potrebbe negare proprio il tempo, sia ai tentativi di resistenza alle dimissioni da parte di Berlusconi, sia alla preparazione di un’alternativa politica a questo governo.

Il pericolo maggiore, allora, è proprio quello del vuoto di responsabilità collettiva. Uno scenario in cui anche Napolitano rimarrebbe solo, impotente davanti al rifiuto, da parte di tutti, del sacrificio di un interesse personale per la salvezza del bene comune. Un’ipotesi purtroppo da non scartare, se Berlusconi si ostinasse a non voler vedere la realtà, quella di una sua credibilità internazionale ormai compromessa e se le opposizioni si rifiutassero di consentire il varo di quei provvedimenti, dolorosi sì, ma indispensabili per garantire all’Europa la volontà di rispettare le condizioni per restare nel sistema dell’euro.

Se questa fuga nell’irresponsabilità avvenisse davvero, nulla si può escludere. Perché adesso non basta più l’esperienza del passato per cercare di prevedere il futuro e tutte le convinzioni sulle quali, per decenni, siamo stati abituati a fondare le nostre sicurezze sono state spazzate via dai cambiamenti di un mondo di cui ancora non conosciamo le nuove regole. Purtroppo, i governatori di questo mondo, quelli della nostra Europa, ma anche quelli fuori dal nostro Continente, non sembrano all’altezza del compito. Come se la malattia italiana, la mediocrità delle ambizioni e la miopia degli interessi, avesse contagiato i cosiddetti «grandi della terra». Speriamo davvero che dal vertice di Cannes ci arrivi una solenne smentita.

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Titolo: LUIGI LA SPINA - Un'opportunità per la politica
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2011, 12:13:24 pm
12/11/2011

Un'opportunità per la politica

LUIGI LA SPINA

S’ode a destra uno squillo e a sinistra risponde uno squillo: allarme, la democrazia è in pericolo. In questi giorni, mentre Mario Monti si appresta a formare un nuovo governo, dai lati estremi degli schieramenti politici e giornalistici italiani si è levato davvero un coro, come quello di manzoniana memoria, che denuncia il deficit di consenso democratico della soluzione alla crisi che si va profilando. Alcuni, dotati di maggiore vis polemica o di maggiore immaginazione, si sono spinti addirittura a lanciare il grido d’allarme per un presunto «golpe» contro le istituzioni democratiche del nostro Paese.

Di fronte a queste compunte e sdegnate preoccupazioni si oppongono, in genere, due rilievi. Il primo riguarda il fatto che qualsiasi governo, di qualsiasi natura, deve trovare l’approvazione del Parlamento e, con ciò, ottiene la qualifica di «governo politico». Il secondo ricorda che i dieci anni passati da Monti come commissario europeo attribuiscono al candidato in pectore di Napolitano (e di tutta la comunità internazionale) una caratura politica indubbia e collaudata.

Le due osservazioni, però, non possono mettere a tacere quella preoccupazione, perché essa coglie un punto di assoluta verità ed esprime un timore del tutto fondato. Perché la politica, non solo in Italia, si è dimostrata incapace di governare i meccanismi dell’economia e della finanza internazionale e impotente davanti agli effetti sconvolgenti di quelle dinamiche sulla vita dei cittadini. Per limitarci al nostro Paese, tutti ormai conoscono le ricette per adeguare la nostra struttura economica, sociale, ma anche politica, alle trasformazioni compiute nel mondo, sul piano della competitività e alla luce dello straordinario allargamento dei mercati avvenuto negli ultimi vent’anni. Ma le forze politiche, nello stesso periodo di tempo, hanno dimostrato una patente inadeguatezza culturale e una manifesta debolezza rispetto a quello che avrebbe dovuto essere il loro compito fondamentale: per dirla come l’ha chiamata Monti, «la riforma dei privilegi e delle rendite nazionali». Quell’Italia corporativa e immobile che ha sconfitto sempre la politica nei suoi timidi e confusi sforzi di cambiamento.

I partiti si sono completamente arresi davanti alla forza degli interessi clientelari che rappresentavano. I leader hanno ristretto, sempre di più, la loro visione alle convenienze e ai risarcimenti del presente, rinunciando a qualsiasi ambizione di un progetto futuro. Condannandosi così all’irrilevanza e, appunto, all’impotenza, rispetto alle esigenze di un veloce adeguamento del «sistema Italia» alle sconvolgenti novità delle mutazioni che, nel frattempo, avvenivano sul palcoscenico del mondo.

Se questa diagnosi è corretta, la terapia deve ricorrere necessariamente a quell’intervento, più o meno esterno al sistema partitico italiano, che sovente nella storia d’Italia ha permesso, sia il superamento di emergenze economico-sociali drammatiche, sia una modifica, più o meno profonda, della struttura politica e, magari, istituzionale dell’Italia. Per superare il vero e proprio circolo vizioso dell’immobilismo nazionale: l’impossibilità dell’autoriforma della politica.

Come si fa davvero a credere che i parlamentari si dimezzino, che i cosiddetti «costi della democrazia» si riducano drasticamente, che si aboliscano privilegi e arroganze di quella che viene comunemente chiamata «la casta» solo con la miracolosa bacchetta magica delle elezioni? Per di più, con una legge elettorale che toglie ai cittadini il diritto di scegliere i loro rappresentanti, consegnando tutto il potere alle segreterie romane? Come si fa a sperare ancora che si possano superare i veti di sindacati e partiti che continuano a privilegiare, nel mercato del lavoro, le garanzie degli iperassistiti, rispetto ai diritti dei giovani e dei precari? O che difendono, come un tabù, quelle pensioni d’anzianità che i mutati andamenti demografici rendono impossibili da sostenere, tanto è vero che costituiscono l’ennesima specialità italiana rispetto ai sistemi previdenziali stranieri.

Ecco perché non si tratta di «abolire la politica», o di «sospendere la democrazia», ma di approfittare di una gravissima crisi italiana per avviare un ciclo di politica diversa, capace, proprio per le sue caratteristiche di maggiore libertà rispetto alle esigenze clientelari o semplicemente elettorali, di sconfiggere le «circoscrizioni» che, finora, hanno impedito quei cambiamenti che tutti ormai hanno capito come necessari e urgenti.

A questo proposito, è evidente il vantaggio che otterrebbe Monti se riuscisse a contare, nel suo governo, su ministri il più possibile sganciati da esigenze o rappresentanze partitiche. Ma, a pensarci bene, tale distacco avvantaggerebbe anche gli stessi partiti. Non tanto perché eviterebbe le sconvenienze «estetiche» di quelle foto del giuramento davanti a Napolitano, con volti di ex acerrimi nemici costretti agli obbligati sorrisi di una doverosa collaborazione nella nuova squadra ministeriale: l’ipocrisia delle convenienze politiche è sempre più forte di qualsiasi decenza e di qualsiasi coscienza. Quanto perché le impopolari misure che, purtroppo, si preparano nel futuro prossimo degli italiani dovrebbero consigliare una certa lontananza dei protagonisti della nostra politica dai quadretti del «totoministri» che ormai si affacciano da giornali e tv.


da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9426


Titolo: LUIGI LA SPINA - Spagna-Italia, le divergenze parallele
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2011, 12:00:41 pm
18/11/2011

Spagna-Italia, le divergenze parallele

LUIGI LA SPINA

Proprio mentre l’Europa e la sua moneta affrontano la crisi più grave della loro storia, i Paesi della sponda mediterranea, i primi imputati al tribunale dei mercati finanziari, cambiano i loro governi.

Dopo la Grecia, in Italia, Mario Monti si appresta a ottenere la fiducia del Parlamento.

In Spagna, domenica sera, il candidato del centrodestra iberico, Mariano Rajoy, dovrebbe vincere le elezioni con un successo trionfale: tutti i sondaggi, infatti, assegnano al partito popolare addirittura la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e prevedono, per il partito socialista, la peggior sconfitta della sua storia.

Il confronto tra Italia e Spagna, naturale in questo momento di comune difficoltà, è particolarmente interessante perché analogie e differenze tra la situazione dei due Paesi mettono in evidenza il dubbio profondo e inquietante che li unisce, ma anche le diverse ricette a cui Italia e Spagna pensano per esorcizzarlo. L’angosciosa domanda è identica: la campana dei mercati finanziari ha annunciato la fine di un ciclo, quello della cosiddetta «società del benessere», fondata sull’illusione di una crescita illimitata dei consumi, accoppiata a un «Welfare State» capace di garantire una estesa protezione sociale a tutti i cittadini?

La risposta di Italia e Spagna a questo interrogativo sembra molto differente, anche perché deriva da una differente condizione economica dei due Paesi e da un differente sistema politico. A questo proposito, bisognerebbe dissipare il grande equivoco che si va diffondendo nell’opinione pubblica europea, quello che nasce da una troppo superficiale assimilazione della fisionomia delle due nazioni.

I problemi della Spagna derivano da quella «bolla immobiliare» che ha consentito la straordinaria crescita economica dell’ultimo decennio, ma la cui rottura ha provocato un tasso di disoccupazione che supera il 21 per cento e ha spinto le banche sull’orlo del dissesto. E’ vero che anche per l’Italia la necessità più urgente è quella di un ritorno alla crescita, perché analoghi sono i decimali inferiori all’uno per cento del Pil. Ma sulle spalle dei nostri cugini iberici grava un debito pubblico che non arriva al 70 per cento del prodotto nazionale, mentre quello dell’Italia è poco meno del doppio. Sul piano delle riforme, poi, la Spagna ha già avviato, nell’ultimo periodo dello sfortunato esito della esperienza politica di Zapatero, una serie di modifiche, sia del mercato del lavoro, consentendo una sua maggiore flessibilità, sia del regime pensionistico, con un congelamento dei trattamenti.

E’ sul piano politico, però, che il paragone tra i due Paesi rivela diversità ancora più marcate. In Italia, la crisi economico-finanziaria decreta il fallimento di una «seconda Repubblica» fondata su un’alternanza tra schieramenti caratterizzata da una eccezionale esasperazione polemica e da una assoluta impermeabilità dei rispettivi elettorati. Tanto che solo «un governo di tecnici», fuori dalle appartenenze partitiche, può affrontare l’emergenza di un momento così difficile. In Spagna, la scontata vittoria del centrodestra di Rajoy consentirà a un professionista della macchina politica, digiuno di competenze economiche e privo di qualità carismatiche, di pilotare il suo Paese verso quella sponda di salvezza di cui ancora non si vede, per la verità, il profilo sufficientemente chiaro.

La campagna elettorale che, stasera, qui si chiude con due comizi di Rajoy e del candidato socialista, Alfredo Pérez Rubalcaba, a Madrid, ha manifestato, per noi osservatori di italici costumi, caratteristiche davvero sorprendenti. Nell’unico «faccia a faccia» in tv, a parte il confronto polemico, duro, ma solo sul merito delle rispettive proposte per uscire dalla crisi, senza insulti personali, né allusioni a misteriosi complotti, Rubalcaba ha, di fatto, riconosciuto l’avversario come il futuro capo del governo. Dal canto suo, Rajoy, ha sfoderato il sorriso del magnanimo vincitore, tutt’altro che disposto a «non fare prigionieri».

Sono le più accurate analisi dei probabili flussi elettorali, tra l’altro, a segnare differenze profonde tra un regime di «alternanza matura», come quello del sistema politico spagnolo e la nostra «alternanza rigida», aggressiva e impermeabile. La maggior parte dei voti uscenti dal Psoe, rispetto alle ultime elezioni, non avranno timori, ora, nel «saltare il fosso» e votare direttamente per il Pp. Così come l’appello al voto utile, ripetuto in questi giorni ossessivamente dai leader del partito socialista, sembra non abbia convinto coloro che si apprestano tranquillamente a ingrossare le esili rappresentanze dei partiti minori. Perché il cosiddetto «cambio», il previsto grande successo dei popolari, non spaventa più di tanto, anche nell’opinione pubblica di centrosinistra. Si ritiene, infatti, che tale risultato sia del tutto inevitabile, in un momento in cui la crisi economica e sociale è destinata a punire chi ha governato negli ultimi anni. Ma un simile esito non viene considerato né catastrofico, né foriero di grandissimi cambiamenti. Il vero problema è un altro: anche qui, è generale l’impressione che la terapia, chiunque governi l’Europa d’oggi, non dia troppo affidamento sulla guarigione del malato.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9447


Titolo: LUIGI LA SPINA - Spagna, il bivio del socialismo
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2011, 11:28:58 am
20/11/2011

Spagna, il bivio del socialismo

LUIGI LA SPINA

La rituale «giornata di riflessione» che anche in Spagna ha preceduto il voto di oggi, così inutile e ipocrita, è un altro piccolo, ma significativo sintomo di come ormai la nostra politica abbia perso i contatti con i ritmi febbrili delle società contemporanee e, soprattutto, con l’immediatezza dei flussi finanziari che la dominano. Eppure, può essere stata utile ai dirigenti dei due partiti sui quali si fonda il sistema bipolare iberico. I popolari del prossimo governo, guidato dal loro leader, Mariano Rajoy, devono pensare a come poter utilizzare il grande successo che si apprestano a cogliere per evitare alla Spagna il collasso finanziario e sociale. I socialisti devono meditare sui motivi per cui l’accattivante «modello Zapatero» sia finito nel generale discredito.

In Spagna, per la verità, la sinistra ha cominciato a riflettere da un pezzo. Non è un caso che il nuovo movimento di contestazione giovanile mondiale sia nato qui e che, dappertutto, si usi il termine «indignados» per indicare i suoi adepti. Ma la consapevolezza che la crisi finanziaria ed economica internazionale abbia colpito soprattutto la socialdemocrazia ha avuto, proprio qui a Madrid, la sua più evidente manifestazione. Poche settimane fa, infatti, i più bei nomi del progressismo mondiale, da Clinton a Gore, da Miliband a Lula, assenti i nostri Bersani e D’Alema, sono stati convocati dalla fondazione «Ideas», laboratorio ideologico del Psoe, per discutere sulle sorti della sinistra in questo difficile momento. Alla fine, con un soprassalto creativo, sono state lanciate ben 55 proposte per affrontare la crisi, un vero e proprio nuovo «manifesto».

Forse bastavano anche meno, perché non è ancora chiaro come pensare a una rivincita dopo la più clamorosa delle sconfitte: la sinistra, che ha sempre teorizzato e praticato il governo della politica sui comportamenti dell’economia, ha visto la politica assoggettarsi all’imperio dei mercati, proprio i più inafferrabili, quelli finanziari. Sui motivi di questo rovesciamento della gerarchia di comando, che ha ovviamente colpito più duramente quella sinistra che era al potere, come in Spagna, i giudizi sono assai disparati, ma si possono riassumere sostanzialmente in due filoni, ben rappresentati dagli importanti dirigenti del partito socialista, Jesús Caldera e Alfonso Guerra.

Il primo, ex ministro di Zapatero e ideologo della suddetta fondazione, sostiene la tesi minimalista e meno inquietante. «Non c’è bisogno di rifondazioni ideali - dice -, la crisi ha ovviamente colpito la sinistra al governo. Tra poco, in Germania, in Francia e in Italia la socialdemocrazia tornerà al potere e tante autoflagellazioni appariranno quelle che sono, inutili esercizi di masochismo».

Meno ottimistica è l’analisi del secondo, ex vicepresidente del governo Gonzales e figura storica del Psoe: «Non sottovaluto gli effetti della crisi, ma bisogna ammettere che quando si è imposta la teoria neoliberista, alcuni di noi hanno cominciato a cercare di amministrare il capitalismo invece di amministrare il socialismo». Guerra spiega così perché l’elettorato progressista abbia finito per non vedere più «quello che distingue la sinistra dalla destra».
Chiunque abbia ragione, e magari hanno un po’ ragione tutti e due, non si comprende bene il paradosso per cui una crisi provocata dalla libertà sfrenata e senza regole della speculazione finanziaria trovi l’opinione pubblica europea così diffidente verso le tradizionali ricette della sinistra, il controllo dello Stato sui mercati, lo stimolo del deficit pubblico per rianimare l’economia, un più esteso welfare. Insomma, c’è un altra ricetta oltre al rigorismo della Merkel, alla prudenze della Bce, agli imperativi del Fondo monetario internazionale?

A questa domanda, sotto l’incubo di una disfatta elettorale che si annuncia drammatica, i più illustri economisti della sinistra spagnola si vanno arrovellando con le migliori intenzioni. Proprio qualche settimana fa è uscito un libro che sta ottenendo un grande successo. Si intitola «Hay alternativas» e raccoglie le proposte «per creare occupazione e benessere sociale» di tre studiosi, Vicenc Navarro, Juan Torres López e Alberto Garzón Espinosa. Con una prefazione del famoso linguista americano del dissenso, Noam Chomsky, si rivolge a un pubblico più radicale di quello tradizionalmente socialdemocratico, ma, nello sbandamento attuale, viene letto con attenzione anche dagli antichi riformisti. Come l’altro volume, quello dell’economista José Sevilla, drasticamente intitolato «Il declino della sinistra».
Letture pensose e utili, anche perché le urne, stasera, dovrebbero concedere ai socialisti spagnoli più tempo per riflettere.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9458


Titolo: LUIGI LA SPINA - I sacrifici e la svolta promessa
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2011, 11:17:27 am
5/12/2011

I sacrifici e la svolta promessa

LUIGI LA SPINA

Ci sono momenti in cui scontentare tutti è un dovere e certamente questo, in Italia, è uno di quei momenti. Il bivio davanti al quale si trova il nostro Paese non ammette vie diversive, né incertezze. Lo testimonia il tono drammatico con il quale il premier lo ha indicato.

Il messaggio di Monti segna l’atterraggio dal mondo delle illusioni e delle favole nel quale abbiamo vissuto, per troppo tempo, a quello di una realtà, per troppo tempo, nascosta e ignorata. La irrituale commozione per la quale il ministro del lavoro e della previdenza, Elsa Fornero, ha dovuto interrompere l’esposizione della riforma pensionistica è stata l’immagine più efficace di quella «catastrofe», evocata ieri, al limite della quale ci troviamo.

Un atterraggio, dunque, brusco e doloroso, ma inevitabile. Per questo, suonano particolarmente insopportabili le demagogiche proteste di chi fino a ieri è stato corresponsabile di una situazione che ci ha portato sull’orlo del dissesto. Ma anche la stessa esigenza di non distaccarsi dal reale, dovrebbe consigliare alcuni critici di verificare la concreta praticabilità di molte ricette alternative, magari anche brillanti, che in questi giorni sono state suggerite al governo Monti.

Le durissime misure approvate ieri scontano il limite, appunto, di concretezza e di urgenza. Nei prossimi giorni gli italiani si eserciteranno nel calcolo sull’equità dei sacrifici richiesti, con la solita bilancia che vede nel piatto del vicino il peso sempre più leggero. Sarà un esame interminabile e, inevitabilmente, opinabile, in cui le corporazioni degli interessi che, da decenni, imprigionano il nostro Paese si scateneranno in una forsennata gara di egoismo sociale.

Questo annunciato carosello di proteste intrecciate metterà a rischio, purtroppo, il vero giudizio che le Camere e i cittadini dovrebbero emettere sui provvedimenti governativi. Quello che risponde alla fondamentale domanda: le misure approvate ieri quanto garantiscono che, nei prossimi anni, non ne saranno necessarie altre, più o meno, dello stesso tenore e delle stesse proporzioni? Rispetto a quelle che ritualmente siamo stati costretti a sopportare negli ultimi decenni e che, evidentemente, o non sono state sufficienti o sono state sbagliate, come si differenziano?

«Le tasse sono bellissime». Con questa frase, il compianto ex ministro Tommaso Padoa-Schioppa scandalizzò provocatoriamente l’Italia. Eppure, quella frase coglieva il vero nocciolo della nostra «questione fiscale»: il sentimento di ingiustizia che rende così odioso il dovere di contribuire alle spese dello Stato. Per due motivi: l’eccezionale livello dell’evasione che tocca oltre un quarto dei cittadini e gli scandalosi privilegi di una classe politica pletorica, sia a livello centrale, sia a livello locale.

Ecco perché più che addentrarsi nel vaglio certosino di una equità che evidentemente deve fare i conti con i numeri, per cui i sacrifici non possono essere riservati solo ai ricchi, ma anche al ceto medio e alla grande maggioranza degli italiani, è meglio concentrare l’attenzione sulla presenza o meno di una «qualità» diversa dei provvedimenti governativi. Se abbiano, e quanto lo abbiano, caratteristiche tali da modificare la struttura del bilancio dello Stato e dei criteri con cui finora il prelievo fiscale ha colpito meno i patrimoni e più il reddito.

Alla luce di questo metodo, il giudizio sulla manovra varata ieri, nelle prossime settimane, dovrà verificare l’efficacia della svolta annunciata nella lotta all’evasione e nella riduzione del peso dei cosiddetti «costi della politica» sulle spalle degli italiani. Non tanto e non solo per l’entità delle cifre recuperabili se venisse ridotta la quota degli italiani che sfuggono al dovere civico di pagare le tasse, anche se potrebbero essere non trascurabili, quanto per il segnale di moralità pubblica che potrebbe rendere più accettabili i sacrifici annunciati. Stesso significato, anzi ancora più accentuato, dovrebbe essere attribuito al taglio dei privilegi e delle spese per mantenere la nostra classe politica.

E’ giusto non chiedere «miracoli» a un governo che può contare su una maggioranza parlamentare così eterogenea e del tutto priva di una sua rappresentanza nei vari dicasteri. È anche comprensibile che la distribuzione dei sacrifici debba tenere conto della somma degli interessi tutelati dai partiti che lo sostengono. Ma alla «diversità» di un governo tecnico deve necessariamente corrispondere la «diversità» di interventi che diano l’immagine di una «svolta» nella politica italiana. Ieri la conferenza stampa di Monti e dei suoi ministri l’ha promessa. Solo se sarà mantenuta, l’Italia sarà salvata.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9519


Titolo: LUIGI LA SPINA - Realismo e rifiuti pregiudiziali
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2011, 06:42:15 pm
20/12/2011

Realismo e rifiuti pregiudiziali

LUIGI LA SPINA

Una delle conseguenze più apprezzate della nuova stagione inaugurata dal governo Monti è la ritrovata civiltà e concretezza della discussione e anche della polemica politica. Confronti di idee sul merito delle proposte hanno scacciato dibattiti a suon di insulti, insinuazioni, dietrologie, sospetti, promesse irrealizzabili.

Così, quando si ritorna alla demagogia, allo schiamazzo, all’aggressività e all’arroganza verbale, come è avvenuto recentemente in Parlamento per colpa della Lega, la reazione prevalente è quella della sorpresa, dello sconcerto, del fastidio, più che quella dell’indignazione. Come se quei toni esagitati fossero ignari della gravità della situazione italiana e come se i protagonisti di quelle gazzarre fossero inconsapevolmente sopravvissuti alla fine di un’epoca.

Colpisce perciò, al di là e prima delle opinioni, il linguaggio usato dalla segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, per ribattere alle proposte della ministra Elsa Fornero sulla riforma del mercato del lavoro. Toni particolarmente sbagliati perché non esasperati dalla foga di un comizio, ma distillati freddamente in una intervista sul «Corriere della Sera». A parte la sorprendente osservazione su un presunto «livello di aggressione nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici che, fatto da una donna, stupisce molto», una discriminazione di genere che in politica suona davvero fuori luogo, la Camusso insinua che ci siano personali interessi per favorire le assicurazioni private, solleva accuse di «autoritarismo» e di «brutalità», rimprovera falsità e, dulcis in fundo, sostiene che le idee della Fornero compromettano addirittura «norme di civiltà».

In un momento di pesante crisi economica che indubbiamente provoca e provocherà forti tensioni sociali, la responsabilità delle parole che vengono usate dai protagonisti della vita pubblica è particolarmente acuta. Tanto più quella della leader del più grande sindacato italiano, la quale dovrebbe farsi carico dell’impegno di non chiudersi, proprio in una fase così difficile, nella difesa degli interessi strettamente legati alla rappresentanza della sua organizzazione, ma preoccuparsi anche di quelli più generali. Soprattutto in difesa della categoria oggi più debole in Italia, quella dei non garantiti da nessuno, i giovani.

Se davvero è giusto il suo invito a guardare la realtà del mondo del lavoro, com’è davvero e non come fa comodo dipingerlo, allora la Camusso sa bene che la questione più grave è la precarietà dell’occupazione giovanile. L’idea di assicurare per tutti un’assunzione dignitosa, con un contratto a tempo indeterminato che possa dare un po’ di sicurezza nel futuro, in cambio di una maggiore flessibilità in uscita dall’azienda, con garanzie di ammortizzatori sociali estesi a tutti, in modo che la renda sopportabile per il lavoratore, non merita davvero un rifiuto pregiudiziale e apodittico.

In un mondo di mercati globalizzati, dove la competizione non ha confini né protezioni, non si tratta di difendere «totem e tabù», anche questi termini suonano vecchi e sbagliati, ma di confrontarsi sul modo di contemperare due esigenze: quella di favorire l’occupazione, specie giovanile, e quella di impedire una incontrollata «licenza di licenziare». Una discussione, però, che deve assolutamente evitare toni apocalittici e ricattatori, appelli ai «principi inalienabili», come controproposte irrealizzabili e controproducenti. A quest’ultimo proposito, davvero la segretaria della Cgil pensa che aggravare i costi per le assunzioni a tempo dei giovani aiuterebbe costoro a trovare più facilmente un’occupazione?

Tra il profluvio di commenti, a favore e contro la proposta della Fornero, ieri, si è distinto il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni che, ostile alla manovra del governo, ha fatto un’affermazione del tutto condivisibile: «Chi ha ragione, non deve avere paura del confronto». La collega leader della Cgil dovrebbe far tesoro di queste parole e, invece di opporre, con toni così esagerati e insultanti, rifiuti pregiudiziali, dovrebbe avere il coraggio di affrontare la questione con realismo e buon senso. Un esempio che avrebbe, tra l’altro, un grande valore per evitare la subordinazione all’egemonia culturale, politica e sindacale delle frange radicali ed estremiste che adoperano, irresponsabilmente, parole incendiarie e allarmanti.

Se alle barricate conservatrici delle corporazioni, quelle dei tassisti, dei farmacisti, dei notai e degli avvocati, dei commercialisti come degli architetti e, magari, anche quelle dei giornalisti, si uniscono anche quelle dei sindacati maggiori, sarà davvero impossibile, per il nostro Paese, raggiungere una crescita economica che impedisca un irreversibile declino. I danni saranno gravi per tutti, anche per coloro che credono di salvarsi nel recinto, ormai illusorio, delle vecchie protezioni. Ma saranno gravissime per le nuove generazioni che, per tutta la vita attiva saranno costrette a una precarietà continua e, quando saranno anziane, si troveranno con pensioni da fame. Forse non ci rendiamo conto di quale «bomba sociale» stiamo innescando per uno scoppio terribile tra trenta-quarant’anni. C’è ancora poco tempo perché la nostra memoria non sia maledetta.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9566


Titolo: LUIGI LA SPINA - Chiusi nel bunker
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2012, 05:17:44 pm
13/1/2012

Chiusi nel bunker

LUIGI LA SPINA

Le coincidenze, nella vita, sono casuali. In politica, invece, sono determinanti, perché sono capaci di imprimere un significato unitario a eventi apparentemente non collegati tra loro. La giornata di ieri ne ha fornito un altro inequivocabile esempio: il «no» della Consulta ai referendum elettorali e quello del Parlamento all’arresto di Cosentino, piovuti contemporaneamente sulla testa di un’opinione pubblica a dir poco sconcertata, hanno rafforzato l’impressione di una classe politica sempre più chiusa nel bunker.

Sorda e persino irridente rispetto alla sensibilità, agli umori, alle speranze dei cittadini.

E’ logico, è giusto ed è anche augurabile che le distinzioni e le responsabilità non si confondano in una esasperazione di sentimenti demagogici. Le scelte della Corte Costituzionale riflettono indubbie difficoltà giuridiche a contraddire una costante linea interpretativa sulla cosiddetta questione della «riviviscenza» di una legge modificata rispetto a quella che si vuole cancellare. Più difficile, invece, giustificare come casi di coscienza dei singoli parlamentari decisioni che, come è stato evidente nel caso Cosentino più ancora che nelle vicende Milanese e Papa, chiudono o aprono a un uomo le porte del carcere secondo le convenienze del momento, magari secondo patti inconfessabili, fruttuosi nel passato e buoni anche nel futuro.

Eppure, è del tutto comprensibile cercare di prevedere, insieme, le conseguenze dei due «no», sia perché sarebbe ipocrita far finta che non indichino una direzione comune, sia perché sarebbe rischioso far finta di non capire le reazioni dei cittadini a questi due negativi verdetti. L’osservazione più immediata è stata quella di quasi tutti i commentatori politici: sia la Consulta sia il Parlamento hanno finito, ieri, per rafforzare il governo. L’incubo del referendum, infatti, avrebbe alimentato la tentazione di affrettare la legislatura per evitarlo, vista la pratica impossibilità di trovare un accordo, su un tema così controverso e delicato, in pochissimo tempo. D’altra parte, l’isolamento parlamentare del Pdl e la sua clamorosa sconfitta, nel caso di un «sì» all’arresto di Cosentino, avrebbe reso più difficile la persistenza del partito di Berlusconi nell’inedita alleanza con Pd e Udc a sostegno di Monti.

Questa opinione è del tutto condivisibile, ma dovrebbe trovare una certa compensazione nel giudizio sul significato, meno evidente ma non trascurabile, della ritrovata sintonia tra Pdl e Lega, al fine di riaffermare la volontà decisiva del Parlamento sulle sorti della politica nazionale. Come se il ripetuto avvertimento di Berlusconi al premier sulla possibilità di estrometterlo da Palazzo Chigi in qualsiasi momento suonasse, ora, più forte e più allarmante.

La delusione degli oltre un milione e duecentomila firmatari della proposta di referendum contro il cosiddetto «porcellum» elettorale e dei tantissimi altri che certamente condividevano la speranza di poterlo cancellare con la scheda referendaria dovrebbe trovare una qualche consolazione nell’impegno, espresso ieri da tutti i politici, a trovare un accordo per una nuova legge. Finora, nonostante l’indignazione dei cittadini italiani per l’esproprio della loro volontà nella composizione del Parlamento, i rimbrotti della Corte Costituzionale che saranno probabilmente ripetuti nella motivazione della sentenza di ieri, le esortazioni del capo dello Stato, i partiti non sono stati capaci, o non hanno voluto, cambiare quella legge. Perché, ora, dovremmo essere più fiduciosi di non dover mai più votare con quelle regole?

Il paragone con l’attività del governo è troppo utile, a questo proposito, per non farvi ricorso. Così come l’Europa ha costretto la politica ad assecondare Monti, sia pure con qualche maldipancia, nella dura azione di risanamento del bilancio pubblico, così il referendum avrebbe imposto al Parlamento di raggiungere un’intesa su una diversa legge elettorale. Tolto, col verdetto della Consulta, lo spauracchio della consultazione popolare, chi potrebbe escludere, come è stato negli anni passati, un nuovo fallimento di un accordo dimostratosi così arduo? Anche perché ai leader dei partiti, di tutti i partiti, fa così comodo la possibilità di modellare a loro piacimento il volto delle loro rappresentanze parlamentari, senza le sorprese determinate dalle scelte, magari difformi, degli elettori.

Nonostante i legittimi dubbi, non possiamo abbandonarci al pessimismo. Anche perché se al governo Monti fosse impedito di proseguire nell’opera di salvataggio dell’Italia, dovremmo dare l’addio all’Europa e all’euro. Se i partiti dovessero ostinarsi a ignorare i sentimenti e la volontà dei cittadini, potremmo correre il rischio di dire addio alla democrazia.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9644


Titolo: LUIGI LA SPINA - La debolezza del fattore umano
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2012, 11:48:10 am
16/1/2012

La debolezza del fattore umano

LUIGI LA SPINA

Sarà l’inchiesta a chiarire i tanti dubbi che ancora restano sulle cause della tragedia al Giglio e saranno i giudici a valutare le responsabilità. Un’inchiesta comunque difficile, perché dovrà evitare, innanzi tutto, di essere condizionata dalla confusa onda emotiva che, del tutto comprensibilmente, si è scatenata nell’opinione pubblica, non solo italiana. Ma anche perché gli interessi economici coinvolti sono enormi, le convenienze assicurative possono essere fuorvianti, le complicità e, al contrario, le rivalità corporative potrebbero compromettere sia la trasparenza della ricostruzione dei fatti, sia l’attribuzione delle colpe.

Come sempre accade in eventi eccezionali e tragici come quello che è avvenuto nella notte tra venerdì e sabato, si sono mescolati episodi di viltà e di eroismo, dimostrazioni di incompetenza e di grande professionalità, assieme alla testimonianza unanime di una straordinaria solidarietà umana, commossa ed efficiente, di tutti gli abitanti del Giglio.

Ecco perché è giusto sempre ricordare, e in questo caso è ancora più necessario, che processi sommari a singole persone o a intere categorie sono sbagliati, soprattutto perché impediscono di individuare le opportune correzioni, di regole e di metodi, per evitare che simili tragedie non capitino mai più.

Quello che più colpisce nel disastro della «Costa Concordia» è sicuramente il contrasto tra la sofisticazione tecnologica, la grandezza delle strutture, la molteplicità delle apparecchiature di sicurezza della nave e la debolezza del «fattore umano», messo a repentaglio da uno scoglio che, ora, conficcato nel cuore della fiancata, sembra svelare, con l’antica legge della natura, la moderna superbia della scienza, l’arroganza delle abitudini pericolose, le compiacenze e le strafottenze di superuomini che appaiono, di colpo, uomini piccoli, molto piccoli.

Ecco perché, dopo che le ricerche dei possibili superstiti saranno terminate, dopo che sarà escluso il rischio di una catastrofe ambientale, dopo che sarà chiarita la dinamica dei fatti e individuate le colpe specifiche e contingenti dei responsabili, sarà opportuna una riflessione più ampia e approfondita. Lo imporrà, oltre che la coscienza nazionale, la necessità di affrontare le conseguenze su quell’immagine dell’Italia che, nel mondo, è già abbastanza compromessa. Con riflessi sul futuro del nostro turismo, di una cantieristica già in difficoltà, in generale, dell’economia del nostro Paese.

Da una parte, occorre respingere facili e superficiali accuse che, in queste ore, arrivano soprattutto dall’estero, giustificabili nelle reazioni immediate dei turisti di tante nazionalità coinvolti nel dramma dell’evacuazione della nave, ma che possono essere strumentalmente utilizzate per campagne d’opinione sostenute da evidenti interessi concorrenziali. Dall’altra parte, però, è giusto chiedersi se la vicenda non faccia emergere anche i vizi di un certo costume nazionale che, in questi anni, si sono aggravati e incancreniti.

Chi ha vissuto, magari per una vita, nell’ambiente della marina mercantile italiana, conosce benissimo le difficoltà di un settore che, malgrado sia dotato di professionalità ancora eccellenti e pervaso da una profonda sensibilità umana, non può non risentire di alcune gravi malattie italiane. Le testimonianze difficilmente arrivano a superare l’anonimato, perché l’ipocrisia è la regola di un malinteso senso dell’onore di categoria e chi osa sfuggire alle convenienze e alle piccole e grandi complicità rischia l’emarginazione e, in tanti casi, molto peggio.

La crisi della scuola italiana, innanzi tutto, non ha risparmiato gli istituti nautici. Una volta erano il vanto della nostra marineria. Apprezzati da tutto il mondo, fornivano comandanti e ufficiali di grande competenza. Ora, bisogna ammetterlo, non è più così. Meglio, accanto a scuole che mantengono livelli di insegnamento eccellenti, ce ne sono altre in cui la preparazione è molto sommaria e scadente.

Il reclutamento e la selezione del personale, sia quello di macchina, sia quello addetto alla navigazione e ai servizi, risente della difficoltà di trovare, oggi, disponibilità a un lavoro che costringe a lunghi e faticosi orari, a prolungate assenze da casa, con conseguenze magari pesanti sugli equilibri personali e familiari. Proprio per questo, gli avanzamenti di carriera, i passaggi da funzioni esecutive a ruoli di grande responsabilità spesso non seguono criteri di rigida selezione meritocratica, ma seguono considerazioni di «buonismo» o si piegano a spinte sindacali e corporative all’insegna di promozioni generalizzate.

Accanto agli specifici problemi delle navi da crociera e dei traghetti italiani, ci sono, poi, i più tipici vizi nazionali ad aggravare i rischi. Quelle compiacenze, un po’ infantili e un po’ «bullistiche», su rotte deviate per salutare vecchi amici e plurime fidanzate o per impressionare gli ospiti con passaggi suggestivi davanti alle coste o alle isole. Imprudenze che solo la ritualità del percorso e l’eccessiva sicurezza dei comandanti fanno ritenere innocue, ma la cui responsabilità non dovrebbe ricadere solo su chi li compie, ma anche su chi le tollera e, magari, le incoraggia.

Anche la tragedia del Giglio, insomma, conferma, purtroppo a un prezzo ancora una volta tragico e insopportabile, l’assoluta necessità di un cambio di mentalità nel nostro Paese. Un’Italia dove il rigore negli studi, lo scrupolo nel lavoro, il merito delle carriere, la serietà dell’impegno e, persino, il pignolo rispetto delle regole non siano più dileggiati come residui del passato, ma ritenuti strumenti essenziali per affrontare le durezze della competizione economica del futuro.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9655


Titolo: LUIGI LA SPINA - Italiani più sensibili ai doveri
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2012, 10:45:31 am
20/1/2012

Italiani più sensibili ai doveri

LUIGI LA SPINA

È sempre azzardato collegare segnali che sembrano arrivare da più parti nella società italiana per cercare di cogliere nuovi sentimenti e nuovi bisogni. Eppure, notizie e reazioni alle notizie che si sono succedute in queste ultime settimane paiono indicare la necessità, ma anche il desiderio, di ritrovare nella responsabilità individuale, nell’impegno personale al rigore dei comportamenti, nella consapevolezza dei doveri oltre che dei diritti, la strada più sicura, forse l’unica, per un riscatto nazionale. Per uscire da una specie di depressione psicologica collettiva, umiliata per un confronto negativo da parte degli stranieri che riteniamo ingiusto, ma che non sappiamo contrastare. Come se fosse frutto di una inesorabile congiura del destino. Quello che conferma, con l’ostinazione dei fatti e delle opinioni, vecchi pregiudizi e vecchi sospetti verso l’Italia e verso gli italiani.

Perché, nonostante le furiose opposizioni delle categorie colpite dalle annunciate liberalizzazioni del governo e dopo i duri tagli imposti ai bilanci familiari, il premier Monti mantiene un così elevato consenso popolare in tutti i sondaggi? Perché i richiami secchi del capitano De Falco ai doveri di un comandante suscitano così clamorosi brividi di ammirazione e sentimenti di riconoscenza nazionale?

Perché il blitz delle «Fiamme gialle» a Cortina, al di là delle locali reazioni, è stato accolto con unanime soddisfazione? Perché a quella tolleranza, complice e ammiccante, verso le piccole e grandi furbizie individuali, pare si sia improvvisamente sostituita una generale intransigenza, quasi giacobina? Perché appare così insopportabile persino quella nube di linguaggio, ipocrita, demagogica e incompetente, tipica di certa classe politica che ha ammorbato, fino a poco tempo fa, i nostri giornali e le nostre tv?

Domande alle quali non è facile rispondere, ma che meriterebbero qualche non inutile riflessione. Anche perché sorgono pure dalla conoscenza di proposte inusuali, persino provocatorie, che, in altri tempi, avrebbero suscitato non solo sorpresa, ma sconcerto e, probabilmente, indignazione. Nel clima di questi giorni, invece, paiono giustificate e opportune, sintomo e conseguenza di un ritrovato senso di consapevolezza individuale verso i doveri collettivi, verso i doveri nei confronti dello Stato.

Ci riferiamo, solo come un esempio, magari marginale ma significativo, all’intenzione, da parte di alcune Regioni, di comunicare al paziente, dopo la cura, il costo sostenuto dal servizio sanitario per la prestazione fornita. Non si tratta, evidentemente, di aggiungere alla sofferenza del malato l’afflizione del senso di colpa per l’esborso a cui lo Stato è stato costretto per guarirlo o alleviare i dolori della sua vita. Né di «mercificare il valore della salute», come, con un gergo tardosessantottino, alcuni si affretteranno a bollare l’iniziativa. Ma l’invito a prendere coscienza di come le tasse che si impongono ai cittadini siano usate e di quale delitto si macchino coloro che le evadono. Insieme all’appello, implicito ma evidente, a medici, industrie farmaceutiche, dirigenti ospedalieri perché le singole responsabilità di fronte a sprechi e inefficienze non permettano di affossare un bene prezioso che l’Italia è riuscita a conquistare e che sarebbe un delitto perdere: il nostro servizio sanitario nazionale.

Chiunque abbia avuto la sfortuna di dover ricorrere alle cure in un Paese extraeuropeo, soprattutto negli Stati Uniti, sa come le discriminazioni di censo siano alla base delle possibilità di guarigione del malato e, comunque, di un trattamento adeguato. Proprio per conservare questa condizione di vantaggio, però, si impongono scelte chiare e urgenti. In futuro, l’allungamento delle speranze di vita, l’arrivo alle soglie della vecchiaia di classi molto numerose, i progressi nelle tecnologie e nelle terapie imporranno maggiori spese per garantire un’assistenza paragonabile a quella attuale e, augurabilmente, anche migliore.

Occorrono, perciò, comportamenti personali responsabili. Perché non ci possiamo più permettere quella mentalità, falsamente democratica, che ritiene inesauribili le risorse dello Stato e, contemporaneamente, insopportabili le tasse. Sempre le proprie, naturalmente. Il risultato dell’illusione alimentata dall’idea che si possa «dare tutto a tutti» sarà quello di una feroce selezione classista tra chi potrà far ricorso alla sanità privata e chi dovrà subire l’inevitabile degrado della sanità pubblica. A questa opera di educazione alla disciplina e alla consapevolezza individuale potrà servire anche un piccolo segnale come questa comunicazione, dopo la cura. E’ vero che la vita di una persona non ha prezzo, ma è vero anche che ha un costo. Ed è bene che tutti lo sappiano.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9669


Titolo: LUIGI LA SPINA - Le banderillas dei partiti
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2012, 11:46:26 am
4/2/2012

Le banderillas dei partiti

LUIGI LA SPINA

Fragile, perché il governo Monti non può contare su un vero accordo politico tra i componenti della sua inedita maggioranza. Forte, perché i partiti che hanno votato la fiducia in Parlamento sanno che abbatterlo vorrebbe dire arrecare danni enormi al Paese, ma infliggersi anche un harakiri definitivo per la loro credibilità nei confronti dell’opinione pubblica.

Tecnico, perché si fonda sulla competenza del premier e dei ministri nelle questioni che devono dirimere. Politico, perché l’abilità del presidente del Consiglio nel destreggiarsi tra un’ex maggioranza, inquieta e delusa, e un’ex opposizione, diffidente e divisa, dimostra una vocazione certamente non improvvisata. Libero, perché non è costretto a subire i «veti» delle corporazioni che stanno affondando l’Italia, dal momento che non si regge sul loro consenso. Prigioniero, vincolato com’è a distribuire sacrifici e vantaggi, con millimetrica equità, tra tutte le forze sociali tutelate dai partiti che devono approvare, in Parlamento, i suoi provvedimenti. Il governo Monti, in realtà, più che un governo «strano», come lo ha definito il premier, è il campione dei contrari, il trionfo dell’ossimoro, quella figura retorica che accosta termini in assoluta antitesi tra loro.

Quanto potrà durare questo virtuosistico cammino sul filo che Monti è costretto a compiere tutti i giorni? E, soprattutto, il premier riuscirà a realizzare le fondamentali riforme che consentiranno all’Italia di uscire dalla «zona a rischio» dell’Europa? Oppure, quel filo finirà per avvolgerlo nella tela di ragno dell’impotenza e della delusione? Sono domande a cui proprio la curiosa contraddittorietà delle caratteristiche di questo governo consiglierebbe risposte caute e ambigue. Si possono affacciare alcune considerazioni, invece, che potrebbero indurre a un certo ottimismo sulla sorte dell’esperienza Monti, sfidando il destino dei commentatori politici, quello dell’immediata e clamorosa smentita.

Questo governo, come si è detto, ha saputo intercettare una diffusa domanda di cambiamento nel costume della politica italiana. Un desiderio di rigore, di competenza, soprattutto la necessità di una vera efficacia realizzativa, veloce nei tempi e concreta nelle conseguenze, dopo tanti anni di quelle inutili promesse e di quelle imprudenti autoesaltazioni tipiche dei «governi del fare».
A questa richiesta di una decisa svolta, i partiti dimostrano la loro incapacità di rispondere con proposte forti, condivise al loro interno, coraggiose e innovative al punto tale da imporle al centro della discussione pubblica. Ecco perché la frustrazione, provocata dalla consapevolezza di questa loro impotenza, produce l’effetto di un ribellismo trasversale che, di tanto in tanto, si sfoga nel voto parlamentare contrario al parere del governo. Non a caso, sempre in una ottica difensiva e corporativa, tipica di una categoria che si sente debole e invisa. Una volta, per salvare dalla galera un loro rappresentante; un’altra, per opporsi alla riduzione di privilegi pensionistici e non; un’altra ancora, per vendicarsi delle iniziative giudiziarie delle procure. Spesso, nel tentativo nostalgico di ritornare al clima di contrapposizione frontale del passato, come nel caso della Rai o, appunto, della lotta contro la magistratura. Un tempo in cui il chiacchiericcio della polemica, aspra e sguaiata, dava loro l’impressione di una primazia e di un potere che, oggi, sembrano del tutto svaniti.

A rimorchio sul tema che interessa veramente i cittadini e sul quale è il governo a condurre la danza, cioè l’economia, i partiti non comprendono che potrebbero dare un significato alla loro esistenza e alla loro attività in questo scorcio di fine legislatura solo su una questione, peraltro in cui avrebbero piena sovranità e sulla quale potrebbero sperare in un riscatto di fiducia da parte degli italiani: la legge elettorale. Una riforma che restituisse al popolo il potere di scegliere i loro rappresentanti in Parlamento. Ma le speranze di un’intesa sono poche, perché è molto difficile un accordo che soddisfi interessi elettorali contrastanti e, soprattutto, perché è così comodo, per tutte le segreterie dei partiti, continuare a dipingere a loro somiglianza deputati e senatori, scaricandosi vicendevolmente la responsabilità di non voler cambiare la legge.

Ecco perché è probabile che i volteggi di Monti, tra un’intervista televisiva e un Consiglio dei ministri-fiume, possano continuare, nonostante gli avvertimenti, le punzecchiature, le ribellioni della pancia parlamentare, come quelli dei giorni scorsi. Sussulti di protagonismo che mirano a infiacchire la vitalità del governo, come, nella corrida, le banderillas fanno al toro, ma che non vogliono scagliargli il colpo mortale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9732


Titolo: LUIGI LA SPINA - La coerenza di un "no" responsabile
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2012, 11:06:56 am
15/2/2012

La coerenza di un "no" responsabile

LUIGI LA SPINA

Dopo la riforma delle pensioni e in vista di quella sul mercato del lavoro, la decisione di Mario Monti di non firmare la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020 conferma e rafforza soprattutto l’impressione di una notevole discontinuità rispetto agli abituali metodi di governo.

Di fronte a ben quattro mozioni, favorevoli a una scelta opposta, da parte dei partiti che lo sostengono in Parlamento, dopo una pioggia di appelli per il «sì» di sportivi, intellettuali e imprenditori, davanti a una potente lobby che ha esercitato fortissime pressioni, Monti ha evitato di seguire la strada più conveniente e, certamente, la più comoda. Quella di sostenere la candidatura di Roma, ben sapendo che, al «Comitato internazionale olimpico», i delegati avrebbero quasi certamente preferito Istanbul o Tokyo per la sede di quei Giochi. Sarebbe stato un modo per non scontrarsi con la sua maggioranza, non deludere il Coni e i promotori, non suscitare le proteste del sindaco della capitale e non subire le critiche di chi vedeva nell’Olimpiade romana un’occasione di sviluppo economico nazionale e, magari, di buoni affari per sé.

Con la consapevolezza di raggiungere lo stesso risultato di risparmio per le finanze statali, nascondendosi dietro il paravento del Cio e delle opinioni internazionali sfavorevoli all’Italia.

Il presidente del Consiglio, invece, ha deciso di assumersi la responsabilità, diretta e chiara, di un «no», motivato con la necessità della coerenza nel significato del suo governo, nella missione che la crisi economica del Paese gli ha imposto e nel rispetto del mandato che Napolitano gli ha affidato. Una scelta certamente difficile che, però, è stata agevolata da una sensibilità, rispetto agli umori degli italiani, che sembra sicuramente maggiore, in questi giorni, di quella che la tradizionale classe politica pare dimostrare. Le parole con le quali Monti ha spiegato i motivi del suo «no» alla candidatura di Roma fanno capire molto bene come il premier temesse il segnale contraddittorio, nei confronti dell’opinione pubblica, che una decisione diversa avrebbe assunto. L’incomprensione, cioè, verso un governo che, da una parte, chiede pesanti sacrifici a tutti e, dall’altra, si avventura in una iniziativa per la quale il rapporto tra i costi e i benefici non assicura un saldo positivo, con il rischio di vanificare parte di quello sforzo che i cittadini stanno compiendo per risanare i conti pubblici.

Sono ormai molti i segnali, e quest’ultimo non è il meno importante, di come questo governo riesca, meglio dei partiti e anche delle forze sociali organizzate, a inserire il suo comportamento nelle attese dei cittadini. Lo testimonia, in senso contrario, la ritualità e la ripetitività delle reazioni che, anche ieri sera, sono arrivate dopo il «no» alla candidatura olimpica di Roma e il loro clamoroso contrasto con le risposte che, in quasi tutti i sondaggi d’opinione organizzati da tv e siti Internet, hanno confermato il sostanziale accordo della grande maggioranza degli italiani con la scelta di Monti.

Al di là del metodo e della coerenza programmatica ispiratrice del governo, occorre valutare, infatti, le condizioni nelle quali l’Italia avrebbe avanzato quella candidatura. Per avallare, ma anche per rendere efficace, credibile e, alla fine, vincente una proposta simile al Comitato olimpico internazionale, occorre avere alle spalle una forte spinta unitaria di tutto un Paese. A questo proposito, è bene subito chiarire che non si tratta di giustificare le solite, meschine polemiche, a sfondo campanilistico, che si sono puntualmente levate contro una presunta insensibilità, milanese e nordista, di Monti e di alcuni suoi influenti ministri per una scelta che avrebbe favorito Roma. Commenti e sospetti che resuscitano uno sciocchezzaio, mentale e verbale, che davvero hanno ammorbato il recente passato e non vorremmo ammorbassero anche il nostro presente e futuro.

E’ vero, invece, che la promozione olimpica di una città, a maggior ragione se si tratta di una capitale, procura vantaggi economici e d’immagine a tutta una nazione. Così è stato per la Spagna, nel caso di Barcellona e, se guardiamo al caso più vicino, nel tempo e nello spazio, per le Olimpiadi invernali di Torino. Ma nei due esempi citati, sia pure con l’importanza indubbiamente diversa dei due eventi, tutte le opinioni pubbliche nazionali, i «sistemi» dei due Paesi, come si suole dire adesso, avevano manifestato un convinto appoggio e una pronta disponibilità all’impegno organizzativo e finanziario. Per le Olimpiadi romane del 2020, è una constatazione non un’opinione, questo clima di fervore collettivo non è emerso. Si sono avvertiti, invece, un distacco e una certa indifferenza nazionale a una candidatura apparsa, forse, troppo sponsorizzata da lobby locali e subordinata a logiche politiche.

Comprensibile può essere l’amarezza per la perdita di un’occasione di investimento infrastrutturale e, magari, di rilancio d’immagine. Ma gli italiani e anche i mercati internazionali si aspettano, da Monti, molto altro e molto di più che una candidatura olimpica.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9775


Titolo: LUIGI LA SPINA - La violenza non aiuta a dire no
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2012, 11:57:42 am
22/2/2012

La violenza non aiuta a dire no

LUIGI LA SPINA

I ricordi possono diventare trappole mentali, ma, qualche volta, aiutano a capire e a sollevare opportuni campanelli d’allarme. Perché può essere vero, come diceva Karl Marx, che la storia si ripete la prima volta come tragedia e la seconda come farsa, ma un altro grande pensatore, Raymond Aron, sosteneva che, oltre a distinguere specificità e tempi degli eventi, è necessario cogliere le costanti nella storia dell’umanità.

È il caso del brutto clima che si sta addensando sulla questione dell’Alta velocità in Val Susa. Perché, col pretesto dell’opposizione “no Tav”, si riconoscono, con inquietante somiglianza, due atteggiamenti che avremmo voluto dimenticare.

Da una parte, la sublimazione simbolica e apocalittica di una minaccia che sembra coagulare tutti i possibili obiettivi della protesta: quello contro l’Europa dei tecnocrati, contro la speculazione ambientale, contro gli interessi del grande capitalismo globalizzato come contro le mire della mafia, contro l’affarismo dei politici come contro il servilismo dei giudici e dei giornalisti. Un concentrato di poteri ostili al popolo che ricorda l’occulta e confusa forza del Sim, quello «stato imperialista delle multinazionali», evocato dai terroristi Anni 70. Alla stessa rappresentazione di quel tempo, mitica e paraideologica, del nemico allegorico, corrisponde oggi, purtroppo, la stessa personificazione di quello concreto, vicino, da colpire, prima, nel ludibrio del suo nome e, poi, nella sua integrità fisica.

Dall’altra parte, allora come adesso, la reazione fiacca e distratta, sottovalutatrice fino ai limiti della connivenza, dei poteri pubblici e di un’opinione comune che si limita a esprimere condanne alla violenza generiche, di maniera, con quella infastidita ritualità che a stento maschera l’implicito rimprovero a non esagerare, a non esasperare gli animi, a non amplificare episodi di ribellismo giovanilistico. Insomma, parole che ricordano troppo da vicino quelle antiche e colpevoli compiacenze nei confronti di «compagni che sbagliano».

La sistematica caccia al procuratore di Torino, Gian Carlo Caselli, con l’obiettivo di impedirgli di presentare in pubblico il suo libro, testimonia sia la gravità di un attacco a un magistrato simbolo della lotta, prima contro il terrorismo, poi, contro la mafia e, ora, contro i rischi della sicurezza nei luoghi di lavoro; sia la pavidità, l’inerzia, la vergogna di uno Stato che non riesce neanche a tutelare la libertà di parola di una persona che esercita una fondamentale funzione istituzionale in questa Repubblica.

A Torino, prima si tollera che, durante una violenta protesta, i muri del centro cittadino vengano deturpati con minacce e insulti a Caselli e a giornalisti. Poi, non si interviene tempestivamente per cancellare quelle scritte oltraggiose che, per giorni, resistono allo sguardo dei cittadini, in qualche caso ridicolmente oscurate da epiteti che tutti, ormai, conoscono. La città, nell’espressione dei suoi politici, delle istituzioni, dei sindacati, degli imprenditori, degli intellettuali, tranne qualche caso isolato, non sembra reagire con la fermezza e l’indignazione che sarebbero adeguate. In sede nazionale, inoltre, non si avverte il pericolo che la strumentalizzazione estremistica e aggressiva del movimento «no Tav» potrebbe coltivare un laboratorio di violenza pronto a egemonizzare e a distorcere ogni legittima manifestazione di protesta.

Quello che non capiscono o fingono di non capire, infatti, i promotori del dissenso «no Tav» è che proprio questo movimento è la principale vittima di tale clima. Perché il rischio è quello di una criminalizzazione del diritto a non essere convinti dell’opportunità di un’opera del genere, in questo momento. Le ragioni del «no» alla Tav, opinabili come quelle del «sì», vengono irrimediabilmente compromesse, se non riescono ad escludere ogni forma di espressione violenta. Come la credibilità dei leader di questa protesta, degli scienziati e dei professionisti che la sostengono, dei magistrati giustamente garantisti viene meno, se non ci si dissocia, senza sofistiche indulgenze, da coloro che ritengono l’inchiesta della procura torinese «una provocazione» contro i «no Tav». Lo stesso Caselli, all’annuncio degli arresti, aveva chiarito l’intenzione di colpire solo le responsabilità dei singoli in atti violenti e di escludere, in maniera assoluta, qualsiasi volontà di intimidire il movimento. Intenzione che è stata convalidata da quasi una decina di giudici, estranei alla procura, che hanno esaminato i risultati dell’inchiesta.

Credere nella validità dell’opera che dovrebbe permettere una rapida circolazione delle merci tra l’Ovest e l’Est dell’Europa non dev’essere un atto di fede, ma può nascere solo da un bilancio, concreto e non ideologico, di vantaggi superiori ai costi. Chiunque impedisca questo esame con la violenza non è un avversario dell’Alta velocità, ma un nemico della democrazia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9800


Titolo: LUIGI LA SPINA - La coalizione che uccide il bipolarismo
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2012, 10:55:25 am
2/3/2012

La coalizione che uccide il bipolarismo

LUIGI LA SPINA

In politica, specialmente in quella italiana, tutto può succedere. Ma il pronostico sulla continuazione dell’esperienza del «governo strano», con l’appoggio dei tre più grandi partiti, anche nella prossima legislatura è ormai generale. L’ha fatto intuire lo stesso Mario Monti, quando, mercoledì scorso, non lo ha più escluso, sia pure con quelle sue locuzioni allusive e un po’ criptiche. Lo ha confermato, ieri, Silvio Berlusconi, con il linguaggio alla sua maniera, diretto e senza sfumature.

L’ipotesi di un governo di unità nazionale anche dopo le elezioni del 2013 si è rafforzata perché Pdl, Pd e Terzo Polo, o meglio, i leader di questi tre partiti, hanno trovato, nelle settimane scorse, un sostanziale accordo su una nuova legge elettorale, in senso proporzionalista. Al di là dei dettagli tecnici, ancora da definire, l’intesa su questo metodo per eleggere il nuovo Parlamento conviene un po’ a tutti. In un clima di discredito e di sfiducia da parte dei cittadini nei confronti dei politici e dei partiti, con la prospettiva di una riduzione generalizzata dei consensi e di alte astensioni dal voto, il sistema proporzionale, sia pure un po’ corretto, offre due fondamentali vantaggi: consente di rendere difficili i confronti col passato e, quindi, di mascherare meglio le prevedibili sconfitte. Com’era costume durante la prima Repubblica, tutti potrebbero sostenere, la sera dei risultati, se non di aver vinto, almeno di non aver perso.

Il secondo vantaggio è quello di avere le «mani libere» per decidere la nuova maggioranza sulla quale fondare il nuovo governo e, magari, il nuovo presidente del Consiglio.

È possibile che, nonostante la buona volontà di Berlusconi, Bersani e Casini non si riesca a varare, prima che questa legislatura finisca, una tale riforma della legge elettorale. Ma, anche se si andasse a votare, nella primavera del 2013, con quella attuale, l’ipotesi della grande alleanza, di un governo di unità nazionale non si indebolirebbe. Tutti i sondaggi e tutti gli esperti di alchimie elettorali convengono sulla scarsa probabilità che, con il sistema vigente, si riesca a trovare al Senato, dove non è previsto il cospicuo premio di maggioranza assegnato alla Camera, una maggioranza tale da poter governare con un certo margine di sicurezza. Ecco perché, pure se la nuova legge non fosse approvata in tempo, sarebbe necessaria un’ampia convergenza parlamentare, simile a quella che sostiene Monti.

Quando si azzardano pronostici, bisogna avere il coraggio di andare, con sprezzo del pericolo, fino al fondo del rischio di una clamorosa smentita. Vediamo, perciò, chi potrebbe guidare il primo governo della prossima legislatura. È difficile che l’accordo tripartito Pdl, Pd e «Terzo Polo» preveda uno dei tre leader installato al piano nobile di Palazzo Chigi. Allora è naturale pensare che sia Monti, che non si presenterebbe in nessuna lista in coerenza col suo profilo di «tecnico» al di sopra delle parti, a continuare, ancora su indicazione del solo presidente della Repubblica, come il rispetto assoluto della Costituzione dovrebbe sempre prevedere, l’esperienza del suo governo «strano». Una variante a questa soluzione potrebbe consistere nel passaggio di testimone della presidenza del Consiglio a Corrado Passera, magari in vista, per Monti, di una salita a un colle molto prestigioso.

Lo scenario prefigurato, in realtà, sembra prendere atto del fallimento del bipolarismo all’italiana, come si è realizzato nella seconda Repubblica. Se guardiamo al quasi ventennio 1994-2011, infatti, dobbiamo constatare che il periodo è contraddistinto, in una prospettiva storica, da due fenomeni negativi: il declino della posizione italiana sullo scenario internazionale, sia dal punto di vista del peso politico della sua presenza, sia da quello della sua competitività sui mercati del mondo, e da un sostanziale immobilismo riformatore. Una caratteristica, quest’ultima, che ha impedito, sia ai governi di centrosinistra, sia a quelli di centrodestra, di incidere in maniera significativa nella società italiana. Con l’eccezione, non a caso, del ministero Ciampi, anche lui tecnico «associato» alla politica in un momento di grave emergenza.

È facile intuire la ragione di questa impotenza decisionale nella seconda Repubblica. La forza delle corporazioni italiane e le contrapposizioni degli interessi sono tali nel nostro Paese che solo grandissime maggioranze parlamentari possono sperare di superarle. Come dimostrano le fatiche dello stesso governo Monti nel tentativo di incominciare a scardinare la pietrificazione dell’Italia d’oggi in un così ostinato conservatorismo sociale e politico. Eppure in una situazione parlamentare, economica e internazionale che, dal punto di vista comparativo, lo favorisce così tanto rispetto ai precedenti ministeri.

Le astuzie della storia, come al solito, sono beffarde. Fu Berlusconi, con la sua discesa in campo, a varare, circa vent’anni fa, il bipolarismo in Italia. Ieri, è stato lo stesso Berlusconi ad annunciarne il funerale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9835


Titolo: LUIGI LA SPINA - Tutti i rischi di un vertice affollato
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2012, 11:56:39 am
17/3/2012

Tutti i rischi di un vertice affollato

LUIGI LA SPINA

La foto di gruppo a palazzo Chigi con i tre segretari che sostengono il governo, spedita su Twitter durante il vertice di giovedì, oltre ad aggiornare i metodi comunicativi della politica italiana, segnala anche l’inizio della «fase due» nel rapporto tra Monti e i partiti della sua maggioranza parlamentare.

Con l’intesa sulla riforma del mercato del lavoro, infatti, si chiude il tempo dell’emergenza economica, caratterizzato da quell’appoggio sospettoso, riluttante e intermittente, degli «strani» alleati, Alfano e Bersani, e dalla necessità, in Parlamento, di una decretazione a colpi di voti di fiducia. Si apre, invece, un periodo che arriverà sicuramente fino alle elezioni amministrative, ma che potrebbe prolungarsi fino al termine della legislatura, in cui i due maggiori partiti si uniranno al «terzo polo» di Casini nel «mettere la faccia», appunto, accanto a quella del governo e del presidente del Consiglio.

Un calcolo sbagliato era all’origine dell’atteggiamento del Pdl e del Pd. Pensavano che la necessità di misure severe di risanamento dei conti pubblici scavasse un solco di violenta impopolarità tra i cittadini e Monti, con il seguito dei suoi ministri tecnici. Con l’abbandono della prima linea, sulla scena della politica, ritenevano, perciò, di scansarne le pericolose conseguenze elettorali. Dalle retrovie, intanto, tentavano di tutelare gli interessi delle corporazioni a loro vicine, attraverso il ricatto dell’arma letale per il governo: il ritiro dell’appoggio parlamentare e, quindi, l’obbligo delle dimissioni di Monti.

La realtà ha smentito queste previsioni. I consensi al governo, nonostante i duri provvedimenti fiscali, non si sono ridotti a percentuali preoccupanti; anzi, si sono mantenuti a un livello rassicurante. Nel frattempo, la rapida riduzione del famoso «spread» tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, vero termometro della fiducia dei mercati sul futuro dell’Italia, sanzionava il successo del «ministero strano» e la stima dei partner europei nei confronti di Monti ne accresceva il prestigio, a scapito dei leader dei partiti nostrani. Insomma, tutti i meriti si indirizzavano verso palazzo Chigi e tutte le colpe dei compromessi, degli annacquamenti nelle misure annunciate dal governo venivano attribuite ai freni imposti dalle lobby partitiche e dai privilegi a cui i parlamentari non volevano rinunciare.

La controprova di questo sorprendente rovesciamento delle aspettative, veniva, poi, dall’altro fronte, quello delle opposizioni. La maggiore forza politica contro il governo Monti, la Lega di Bossi, non solo non veniva avvantaggiata dalla sua collocazione parlamentare, ma era squassata da tensioni interne dirompenti e l’appello alla demagogia antigovernativa sembrava cadere in un vuoto di credibilità impressionante. Nè i sondaggi erano più clementi nei confronti delle residue pattuglie dell’opposizione, a cominciare dall’Idv di Antonio Di Pietro.

Alla luce di queste sorprendenti vicende, il cambio di rotta si imponeva con una tale chiarezza che nè Alfano, nè Bersani potevano sacrificarlo alle loro inquiete basi parlamentari. Così, il forte abbraccio dei segretari stretto a Monti nella notte di giovedì costituisce, insieme, una rassicurazione sull’esistenza del governo, ma rischia di diventare persino un po’ troppo soffocante.

L’assunzione di una piena e chiara responsabilità nel sostegno a Monti, infatti, consente al presidente del Consiglio una navigazione politica meno solitaria e meno esposta alle turbolenze quotidiane. Anche il sostegno alle Camere dovrebbe essere più solido, dal momento che, finita la fase dell’emergenza economica, i provvedimenti governativi dovrebbero prendere la strada dei consueti disegni di legge. Come dimostra la via scelta per attuare l’accordo sulla giustizia trovato nel vertice notturno, dalle norme anticorruzione ai limiti sulle intercettazioni e sulla loro pubblicazione. Un ritorno alla normalità delle procedure di legislazione democratica che certamente andrebbe apprezzato. Così, si dovrebbe far credito ai partiti di voler cogliere l’opportunità di realizzare quelle riforme che da troppo tempo la società italiana aspetta e che le esasperate polemiche tra gli schieramenti finora hanno impedito di varare.

Gli abbracci troppo vigorosi, però, possono nascondere qualche insidia. Innanzi tutto, limitano gli spazi d’iniziativa autonoma. Finora, il presidente del Consiglio poteva esercitare la sua libertà d’azione con la sicurezza di poter dimostrare ai partiti che lo sostengono come la loro presunta «arma letale», il ritiro della fiducia, fosse, in realtà, una pistola scarica. Ora, con la fine del periodo più acuto della crisi finanziaria, ma soprattutto, con il metodo degli accordi preventivi e ufficiali, sanzionati dai vertici con i tre leader, la situazione si è modificata, non sempre a vantaggio del presidente del Consiglio. Perché i segretari dei partiti di maggioranza, di fronte a un provvedimento che non trovasse tutti d’accordo, potrebbero più facilmente rimproverare a Monti di voler imporre una misura sulla quale non è stata trovata un’intesa.

Nella «fase uno», questo governo rischiava di avanzare in terreni inesplorati, infidi e di trovarsi, un giorno, senza truppe alle spalle. Nella «fase due», il pericolo non sta più indietro, ma avanti: quello di vedere la strada troppo affollata e di essere costretto a indietreggiare.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9891


Titolo: LUIGI LA SPINA - Tutto porta a un Monti bis
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2012, 03:10:23 pm
28/3/2012 - FORZE POLITICHE DEBOLI

Tutto porta a un Monti bis

LUIGI LA SPINA

È bastato l’altolà «andreottiano» di Monti per far capire a tutti, ma soprattutto ai partiti che lo sostengono in Parlamento, quanto fosse poco credibile la minaccia delle elezioni anticipate. Così Alfano, Bersani e Casini, consapevoli della debolezza e della scarsa credibilità delle forze politiche che guidano, hanno cercato di correre ai ripari, con l’annuncio di un accordo sulla nuova legge elettorale e sulla riforma della Costituzione.

L’intenzione è chiara, ma contraddittoria: da una parte, si promette di restituire ai cittadini la facoltà di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento, condizione minima, ma indispensabile per avere il coraggio di chiedere ai cittadini il loro voto; dall’altra, si cerca di allargare la libertà di manovra dei partiti nella formazione del governo, mandando sostanzialmente in soffitta quel bipolarismo all’italiana durato quasi un ventennio.

Una esperienza che aveva suscitato molte speranze, ma che ha provocato molte delusioni.

Ammaestrati dal passato, bisogna essere prudenti nei pronostici, perché gli annunci di accordi, le esibizioni di buona volontà non bastano a ritenere che in un anno, quanto manca alla fine della legislatura, si riesca a varare una nuova legge elettorale e ad approvare, quanto meno, uno schema di riforma costituzionale. Come sempre, il diavolo sta nei dettagli e non si nasconde dietro i grandi principi. Quando alle parole si sostituiranno i numeri, le convenienze dei partiti faranno premio sulle rette intenzioni e poiché, su queste materie, non si possono prevedere maggioranze striminzite, i troppi poteri di veto potrebbero far saltare qualsiasi bozza d’intesa.

Bisogna ammettere, però, che le probabilità di realizzare un accordo, questa volta, sono maggiori, perché le circostanze politiche, del tutto inedite e abbastanza anomale per il nostro Paese, potrebbero aiutare. Innanzi tutto, i tre partiti della maggioranza governativa, constatata quanto sia scarica la pistola alla tempia di Monti, devono dare segnali di concreta capacità riformatrice. Diversamente, apparirebbe clamoroso e quasi umiliante il confronto con un presidente del Consiglio che, in pochi mesi e con l’elogio di tutte le autorità politiche del mondo e di tutte le istituzioni finanziarie internazionali, assume decisioni importanti e anche impopolari. Autoridurre il loro ruolo a portatori d’acqua, magari riottosi e litigiosi, di un professore bocconiano, a capo di un governo «strano», farebbe sospettare, nella capitale, un’epidemia di masochismo politico. Una sindrome finora sconosciuta, anche ai medici parlamentari più sperimentati. La materia elettorale e costituzionale costituisce, naturalmente, una riserva assoluta di competenza dei partiti e, quindi, libero da qualsiasi influenza governativa, il terzetto Alfano, Bersani, Casini potrebbe dimostrare che la politica esce dalle retrovie del palcoscenico italiano e ritrova il ruolo di protagonista.

C’è, inoltre, una convenienza a cercare davvero un accordo, per un motivo meno legato all’immagine e alla credibilità dei partiti e più ai loro concreti interessi. L’aspetto più importante, dal punto di vista politico, dell’intesa di massima sbandierata ieri, alla fine del vertice, è quello che sancisce la fine del cosiddetto «obbligo di coalizione», preventivo rispetto al voto degli italiani. La norma che distingueva la seconda Repubblica dalla prima, quella cominciata dopo la riconquista della democrazia.

La mano libera alle segreterie dei partiti per la formazione di una maggioranza che sostenga il governo, dopo le elezioni, apparentemente potrebbe far pensare a un ritorno al passato, quello del sistema proporzionale perfetto. In realtà, il margine di discrezionalità che si affiderebbe alle forze politiche è notevolmente maggiore di quello che era a disposizione nella cosiddetta prima Repubblica. Allora, si trattava solo di scegliere, fra gli alleati della Dc, quelli più adatti al segno che la segreteria di piazza del Gesù voleva dare al suo governo. Ora, il gioco si può fare a tutto campo e nessun partito è escluso, a priori, dalla possibilità di entrare nella maggioranza parlamentare.

L’astuzia della storia, però, potrebbe giocare un brutto tiro a questa «volontà di potenza» dei partiti. Se gli attuali umori elettorali non cambieranno fino al prossimo anno, è probabile che nessuna forza politica possa ottenere una quota di consensi sufficiente non solo a comandare da sola o quasi, ma neanche tale da conquistare un premio di maggioranza, o di «governabilità» come si prefigura nella nuova ipotetica legge elettorale, capace di aggregare una solida alleanza politica. La soluzione, allora, potrebbe essere quella di essere costretti, anche nel 2013, a richiamare, dopo una breve vacanza, Monti a Palazzo Chigi. Così, una riforma del voto concepita per restituire lo scettro al re, finirebbe per affidarlo al solito professore.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9933


Titolo: LUIGI LA SPINA - Meno soldi ai partiti non è tempo di meline
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2012, 07:02:41 pm
11/4/2012

Meno soldi ai partiti non è tempo di meline

LUIGI LA SPINA

Forse non hanno capito. O fanno finta di non capire. Chiusi nei loro bunker d’isolamento, davanti a una marea montante d’indignazione e di rabbia popolare, molto pericolosa per il futuro della nostra democrazia, i partiti sembrano pensare di cavarsela con una nuova legge-soufflé sul finanziamento pubblico. Allora, proprio per cercar di evitare decisioni che darebbero il colpo definitivo alla credibilità del nostro sistema politico, è meglio mettere da parte ogni garbo diplomatico, parlare molto chiaro, cominciando, come ogni storia prevede, da un riassunto delle puntate precedenti.

Tutto è cominciato da una vera e propria truffa della volontà popolare. Un referendum, infatti, aveva bocciato la legge che stabiliva il finanziamento pubblico ai partiti. Le forze politiche, con un espediente tanto sfacciato da apparire davvero provocatorio nei confronti del rispetto che si dovrebbe avere per i cittadini in una democrazia, l’hanno, di fatto, ripristinato. Non solo attraverso il trucco di definirlo in altro modo, come “rimborso elettorale”, ma non prevedendo alcun controllo sull’uso dei soldi che gli italiani sono costretti a devolvere ai partiti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti e sarebbe davvero miope non vedere come lo scandalo dei milioni usati a piacimento, soprattutto suo, dal tesoriere Lusi e di quelli del collega Belsito si possa circoscrivere a quei partiti, senza toccare anche le altre forze politiche.

Già mesi di polemiche sui costi della nostra democrazia, con campagne di stampa documentate e incalzanti, hanno avuto, finora, esiti modestissimi. Persino qualche taglio a indennità pensionistiche, spropositate rispetto alle norme che regolano quelle dei comuni cittadini, hanno suscitato proteste furibonde da parte di parlamentari e di ex presidenti delle Camere che, peraltro, non saranno da annoverare fra i padri (e le madri) della nostra patria. Ora, se non ci saranno provvidenziali ripensamenti notturni, si annuncia un nuovo gioco di «melina» politica.

Di fronte a quanto emerso non solo dalle inchieste e dalle intercettazioni, ma soprattutto dalle confessioni di segretarie e autisti, non si pensa a un decreto-legge che metta fine, subito, a questo vergognoso andazzo, ma alla via parlamentare, seppur con la promessa di un iter più veloce, meglio sarebbe dire meno lento, del solito. Ma se si ricorre a un decreto-legge in casi di urgenza, quale mai provvedimento può essere più urgente di questo?

Non si rendono conto i partiti della situazione in cui si trovano moltissime famiglie italiane in queste settimane? Con una disoccupazione, soprattutto giovanile, già molto alta al Nord, ma veramente drammatica al Sud e con la prospettiva di dover pagare a giugno, ma soprattutto a fine d’anno, un pesante aggravio di tasse sulla casa, il bene che appartiene all’ottanta per cento dei nostri cittadini, si prepara una legge che, sostanzialmente, non diminuisce il contributo pubblico ai partiti.

E’ inutile affollare la testa dei lettori con molte cifre, perché ne basta una, fin troppo eloquente: per oltre due terzi, i partiti incassano soldi che non hanno una documentazione, verificata e credibile, valida a confermare lo scopo di effettivo rimborso elettorale. Anzi, per la stragrande maggioranza dei casi, non esiste alcuna documentazione. Insomma, prendono dai contribuenti italiani 100 e ne spendono correttamente solo circa 33. Il resto dove va?

Il rispetto per la volontà popolare imporrebbe, come si è detto, l’ossequio al risultato del referendum, cioè l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Ma pretenderlo, in Italia, sarebbe come pretendere l’impossibile. Si può chiedere, invece, come minimo risarcimento ai cittadini, almeno il dimezzamento di questa «imposta forzosa», con il controllo, da parte di una autorità estranea a qualsiasi influenza politica, di come questi soldi vengano usati. I partiti devono uscire da una condizione unica tra le associazioni italiane, quella dell’assoluta imperscrutabilità dei loro bilanci e dell’assoluta insindacabilità dei loro statuti e delle regole di democrazia interna. Prima di cambiare la Costituzione, sarebbe meglio applicarla, perché su questo tema la nostra Carta fondamentale è del tutto disattesa.

Se davvero i partiti, ancora una volta, facessero finta di non capire, toccherebbe al governo Monti intervenire. Il presidente del Consiglio dovrebbe preparare un opportuno decreto-legge e mettere il Parlamento davanti alla responsabilità di bocciarlo. E’ possibile che questo gesto costerebbe a Monti la poltrona, ma forse ne varrebbe la pena.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9981


Titolo: LUIGI LA SPINA - L'inversione di ruoli in Europa
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2012, 04:49:41 pm
4/5/2012

L'inversione di ruoli in Europa

LUIGI LA SPINA

L’Europa della moneta unica cerca di cambiare volto. Per la prima volta dall’inizio del secolo, cioè dalla fondazione, potrebbe modificare il suo profilo arcigno, quello di chi chiede ai cittadini del continente solo tagli e sacrifici, quello che suscita proteste di massa come a Barcellona ieri, e mostrare, invece, la faccia benigna dell’unica istituzione in grado di assicurare l’araba fenice dei nostri tempi, la crescita. Così, se nei prossimi mesi si realizzassero davvero le premesse e le promesse che si annunciano in questi giorni, si potrebbe avviare una significativa inversione dei fondamentali compiti nelle funzioni tra l’Europa e gli stati nazionali: alla prima la responsabilità della spesa, ai secondi la guardia dei bilanci.

Gli italiani non hanno certo dimenticato il biglietto da visita con cui l’euro si presentò, quello dei famosi «parametri di Maastricht» da rispettare, con il relativo prezzo.

Una parola che, anche negli anni che seguirono all’introduzione della moneta unica, divenne sempre associata all’Europa: tassa. Quella che pagammo per entrare subito nell’euro e che ci fu imposta da tutte le manovre finanziarie varate dai nostri governi, con l’alibi delle decisioni di una istituzione lontana dal cuore degli europei e insensibile alle necessità dei cittadini. Era l’ossessionante «vincolo esterno», quello che costringeva i politici nostrani a fare cose sgradevoli, che mai, naturalmente (?), avrebbero fatto di loro volontà.

Il mutamento di ruoli sul teatro della scena europea potrebbe essere determinato, come quasi sempre accade, non da improvvisi assalti di coscienza politica e di responsabilità civile dei governi nazionali, ma dalla spietata realtà. Perché gli Stati non hanno più un soldo da spendere e l’unica possibilità di mettere in campo i miliardi di euro necessari a un’inversione di rotta nella stagnazione continentale si può trovare a Bruxelles e a Francoforte. Il motivo, al di là delle sofisticherie tecniche degli economisti, si può riassumere con parole abbastanza comprensibili a tutti: la Ue può finanziare grandi infrastrutture, capaci di muovere lavoro e occupazione, a tassi molto più bassi di quelli che dovrebbero sborsare Roma e Madrid, per non parlare di Atene e Lisbona.

La Banca europea per gli investimenti, infatti, se sarà trovato un accordo nell’incontro previsto agli inizi della prossima settimana, potrebbe assicurare fino a 300 miliardi per grandi opere nel nostro continente attraverso i cosiddetti «bond per la crescita». E’ vero che l’operazione dovrebbe essere preceduta da una ricapitalizzazione della Bei, ma la garanzia della tripla «A» su questi bond dovrebbe costituire un tale vantaggio da rendere molto conveniente una simile partita di giro tra Stati nazionali e istituzioni comunitarie.

Tale progetto per lo sviluppo europeo, l’unico che sembra avere realistiche possibilità di riuscita, perché non trova l’ostilità pregiudiziale della Merkel, sempre contraria invece agli eurobond, richiede una condizione assoluta, cioè l’impegno degli Stati nazionali al rigore dei bilanci pubblici. Alla vigilia delle elezioni francesi e sotto l’influsso delle promesse elettorali di Hollande, si sono agitate troppe illusioni sulla possibilità di un allentamento degli impegni su deficit e debiti nella zona euro. Come avverte Monti, del resto, nei suoi ripetuti inviti a non pensare che si possa ottenere una crescita sforando i conti.

Ma è davvero possibile una tale inversione di ruoli tra Europa e Stati nazionali? Innanzi tutto bisogna affrontare una facile obiezione alla tesi di una Ue sempre taccagna guardiana dei bilanci. E’ naturalmente vero che Bruxelles ha dispensato, attraverso i famosi «fondi strutturali», un fiume di denaro ai cittadini e ai governi europei. Sia per aiutare le regioni continentali più svantaggiate, sia per sostenere le categorie economiche più deboli. La distribuzione di questi soldi, però, è stata sempre condizionata dalle lobby più forti in sede comunitaria e i fondi o non sono stati utilizzati, come spesso è capitato per quelli destinati all’Italia, o sono finiti per obiettivi ben diversi da quelli che erano stati individuati. Per questi motivi, l’Ue, anche se in questi anni non ha lesinato finanziamenti per lo sviluppo, non è mai apparsa come una risorsa per la crescita, ma sempre come un’idrovora nei risparmi dei cittadini.

I tempi, ora, sembrano donare all’Europa la possibilità di cambiare un’immagine talmente negativa da giustificare persino le idee più strampalate, come quella di un ritorno alle monete nazionali. Potrebbe costituire un paradosso, ma di paradossi è piena la storia. Proprio nel momento di maggiore crisi del sogno perseguito dai suoi padri, come i nostri Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, l’Unione europea potrebbe compiere uno scatto in avanti nel governo del continente. Perché il controllo della fiscalità comunitaria e la moneta unica non bastano più a giustificare la sua esistenza. Per sopravvivere, ora deve salvare gli europei dal declino del loro ruolo nel mondo. Forse non lo farà per l’impulso generoso e visionario degli autori del «Manifesto di Ventotene», ma per le crude necessità dell’economia. Ma fa lo stesso.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10062


Titolo: LUIGI LA SPINA - La parola negata
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2012, 05:57:02 pm
13/5/2012

La parola negata

LUIGI LA SPINA

La domanda può essere considerata provocatoria, ma qualche volta bisogna avere il coraggio di scavare senza pudore nell’inquietudine, perché nel suo profondo si possono trovare anche tracce di verità.

Se la democrazia è soprattutto legata alla parola, al dialogo libero e sincero tra i membri di una comunità, non corriamo il pericolo di smarrirla, questa nostra democrazia, nella triste Italia d’oggi? Se il discorso pubblico diventa così faticoso, angosciante e, qualche volta, impossibile, si può ancora pensare, attraverso il confronto della ragione, di individuare compromessi condivisi ai problemi nuovi e difficili che le società contemporanee ci pongono?

È questo il dubbio, magari indecente ma ineludibile, che sorge quando si leggono le parole dei cartelli che si agitano nelle manifestazioni di protesta, quando si ascoltano quelle dei politici, vanamente in cerca di un senso, anche quando manifestamente non l’hanno; quando si sentono quelle di rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori, dai toni sempre drammatici e ultimativi, che invece appaiono vane e fastidiosamente ripetitive; quando quelle parole appaiono, lugubri e assurde, nei volantini dei terroristi.

Persino quando si avverte la pressione, esigente e diffidente, sulle bocche dei ministri, perché siano costretti a pronunciare la parola sbagliata, magari frettolosamente inopportuna, perché ci si possa avvolgere nelle spire di una polemica che non produrrà mai nulla di utile, di serio, di concreto.

Quella «lingua di legno» che si rimproverava ai politici e ai burocrati del secolo scorso, elusiva e ipocrita, sembra essersi trasformata, nell’Italia d’oggi, in una «lingua di fuoco», che apparentemente incendia le passioni e che, invece, è solo una fiammella fatua, come quella, innocua, che invano tenta di riscaldare le anime dei cimiteri. In un clima di profondo e motivato disagio sociale, sembra perduta la possibilità di esprimere un’opinione, magari del tutto opinabile, senza che si alzi subito, non la critica sul merito, ma la condanna per aver osato pronunciarla e, persino, pensarla.

Eppure, terminata finalmente la stagione di quelle ideologie che avevano sempre una certezza, per tutto e per tutti, ora ci troviamo davanti a un mondo, forse divenuto troppo grande e troppo complesso, dove i dubbi, invece, si accumulano, più di quanto si sciolgano. Dal ruolo delle religioni nella vita politica e sociale al problema della distribuzione delle risorse, tra popoli ex ricchi ed ex poveri; dalla questione delle fonti energetiche, in un futuro che non garantisce uno sviluppo illimitato a quella di una vita dell’uomo che si allunga imprevedibilmente, insieme conforto individuale e allarme sociale. Le risposte a questi interrogativi, proprio perché nessuno ha più la bussola della verità, dovrebbero essere tutte ammesse, tutte verificate dal riscontro dei fatti e dei numeri, tutte vagliate da un esame sereno della ragione. Non ci dovrebbero essere argomenti tabù, interlocutori impediti a esprimere un giudizio. Peggio, uomini e donne ancora oggi, ancora in Italia, che rischiano la vita per un’opinione, per un’appartenenza, per una fede. Persino per l’espressione di una identità, nazionale, religiosa o sessuale.

Gli esempi sono troppi e fa male pure ricordarne qualcuno. Il ricorso all’atomo non è più un’alternativa energetica discutibile, ma un’ipotesi che condanna alla pistola chi l’avanza. L’Alta velocità non dimostra un’utilità opinabile, ma in Valsusa è diventato un fantasma apocalittico, che non è possibile evocare neanche nelle scuole, là dove si insegna, o si dovrebbe insegnare, la civiltà del dialogo democratico. L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori forse è diventato marginale tra le cause della mancata crescita occupazionale in Italia, ma continua a suscitare proclami inutilmente retorici e drammatici.

La crisi delle rappresentanze sociali, evidente nel nostro Paese, aggrava l’impressione di un teatro dell’assurdo, dove i fronti polemici, immotivatamente aggressivi, non trovano più mediatori credibili, autorevoli, capaci di imporre soluzioni ragionevoli, compromessi sostenibili in un periodo sufficientemente lungo. Così il dialogo, quello vero, finalizzato al convincimento dell’interlocutore, finisce o per essere rifiutato o viene sollecitato solo come pretesto per dimostrare la colpa dell’avversario, ormai sinonimo di nemico.

La «parola negata» in una democrazia produce, tra l’altro, una conseguenza grave, perché giustifica la dittatura della maggioranza o, peggio, la dittatura dell’autorità. Se il pluralismo delle idee non è più ammesso alla competizione del consenso nell’opinione pubblica, è evidente che la forza del potere vincerà sempre. O attraverso l’insidia del «luogo comune», la più pericolosa trappola della mente, o attraverso la coercizione di una verità che cala dall’alto, da una cattedra, da un pulpito, da un consiglio d’amministrazione. Perché la libertà della lingua, anche quella più scomoda, è l’arma più forte di chi è meno forte. Paradosso dei nostri tempi è il fatto che sono i più deboli, a volte, a rifiutarla e a disconoscerne la potenza.

Se il discorso pubblico diventa in Italia così arduo, così improduttivo, sarà sempre più difficile trovare soluzioni concrete, rapide, realizzabili ai nostri problemi, perché la confusione delle lingue, la censura delle idee e la delegittimazione delle persone non ci consentirà di distinguere la realtà dalla sua brutta rappresentazione. Diceva un grande intellettuale europeo, il filosofo e musicologo Vladimir Jankélévitch: «Le cose rispettabili sono relative e contraddittorie, ma non lo è il fatto di rispettarle».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10094


Titolo: LUIGI LA SPINA - L'unica direzione possibile
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2012, 10:23:24 am
1/6/2012

L'unica direzione possibile

LUIGI LA SPINA

Il caso e la necessità, proprio nel senso in cui l’intendeva Jacques Monod, potrebbero offrire all’Italia un ruolo da protagonista nell’impulso a una nuova tappa verso l’unità politica ed economica dell’Europa. La contemporanea presenza alla guida di importanti istituzioni continentali del presidente del Consiglio, Mario Monti, del capo della Banca centrale europea, Mario Draghi, e del governatore di quella italiana, Ignazio Visco, infatti, rappresenta un’opportunità per contribuire, proprio in un momento di crisi, a indicare l’unica direzione possibile per evitare la dissoluzione della moneta unica e la fine dell’integrazione dei mercati in Europa.

La giornata di ieri, con la coincidenza, del tutto casuale sul piano dei tempi, ma perfettamente coordinata sul piano dei contenuti, dei loro interventi pubblici, ha indicato con chiarezza come ci siano le condizioni per una forte spinta comune in questo senso dell’Italia, sia sul piano politico, sia su quello economico-finanziario.

Il compito di esplicitare questa volontà, però, è stato il tema di fondo delle considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia lette, per la prima volta, da Visco. Il neogovernatore, infatti, in linea con le sue peculiari vocazioni intellettuali che gli consentono maggiori libertà di pensiero, ha tenuto una relazione molto innovativa rispetto a quelle dei suoi predecessori. Da una parte, si è attenuto strettamente ai compiti che riguardano la Banca che presiede, con un approfondito esame della situazione monetaria e della condizione degli istituti di credito italiani. Dall’altra, ha inserito l’analisi sull’economia del nostro Paese soprattutto nel quadro di quella europea.

Il significato di questa scelta del governatore è apparso molto chiaro: i problemi dell’Italia derivano sì da comportamenti errati dei governi negli anni passati che certamente vanno corretti dall’attuale e da quelli che verranno, ma si potranno affrontare e risolvere solo con una coraggiosa sfida della politica continentale verso una vera federazione europea.

Questa sfida, lanciata ieri da Visco, sicuramente comporta un certo azzardo volontaristico e nasce da una antica fiducia nell’europeismo, non indebolita dalle rinascenti tentazioni nazionalistiche, anzi, rafforzata proprio dall’attuale crisi. A questo proposito, come ammonimento a coloro che rimpiangono le comode svalutazioni competitive della nostra storia repubblicana, ha ricordato i diversi modi con i quali gli Stati europei hanno reagito alla moneta unica: i virtuosi, beneficiando di una valuta forte ma non sopravvalutata e dell’apertura dei mercati, gli altri, tra cui c’è l’Italia, non sono riusciti ad approfittare della stabilità dei prezzi e dei tassi d’interesse bassi. E adesso ne pagano le conseguenze.

Le considerazioni lette da Visco sono apparse di sicuro sostegno all’opera di Draghi alla Bce. Perché, forse nel rispetto di un certo gioco delle parti, hanno appoggiato la funzione innovativa concepita dal presidente dell’Eurosistema nei confronti delle tesi tradizionalmente conservative dei tedeschi, con un chiaro avvertimento, però, ai governi. Si può convenire, ha osservato, sulla proposta di trasferire i debiti sovrani che eccedano una certa soglia a un fondo di garanzia europea, ma questo non deve autorizzare alcuni Stati a «perseverare nelle cattive politiche del passato». Insomma, le nazioni continentali, in cambio, devono rassegnarsi a una certa perdita di sovranità. Una condizione irrinunciabile, se davvero si vuole salvare l’euro.

Il segno europeista delle prime «considerazioni» del governatore non ha fatto trascurare, però, alcuni brevi ma non marginali suoi commenti sulla politica economica italiana. Visco ha riconosciuto al governo il merito di una efficace azione di risanamento dei conti pubblici, ma ha ricordato come il prezzo pagato, in termini di pressione fiscale, sia insostenibile. Ecco perché è essenziale una riduzione, in termini di quantità, ma anche di qualità, della spesa. Tali tagli, sempre a suo giudizio, dovrebbero consentire di dedicare maggiori risorse a favore di ricerca e istruzione. Una raccomandazione che, rivolta a un governo di tecnici e professori, si spera sia accolta non solo con i consueti consensi verbali, ma con concreti e immediati investimenti pubblici.

È arduo prevedere se l’azione concertata della troika italiana sulla scena continentale possa convincere i capi di governo europei a superare gli egoismi nazionalistici e i timori dei loro elettorati, comprensibilmente risorgenti in tempi così difficili. Il credito internazionale e le competenze professionali di Draghi, Visco e Monti, insieme all’assenza di autorevoli leadership politiche in questo momento in Europa, potrebbero sfociare in scenari imprevedibili fino a poco tempo fa. Il caso e la necessità, comunque, aiutano e non è detto che l’ottimismo sia proibito.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10171


Titolo: LUIGI LA SPINA - Un'occasione per battere le meschinità
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2012, 06:44:19 pm
21/6/2012

Un'occasione per battere le meschinità

LUIGI LA SPINA

Le circostanze favorevoli, ma anche la credibilità internazionale di Monti, offrono all’Italia l’occasione di esercitare un ruolo importante nei prossimi dieci giorni che, parafrasando John Reed, davvero possono «sconvolgere il mondo» e, soprattutto, il nostro continente. Come quasi sempre è avvenuto nella storia dell’Unione europea, la partita decisiva per salvare la moneta comune si giocherà tra Germania e Francia. La prima è favorevole ad ammorbidire il suo dogmatismo finanziario solo se gli Stati dell’eurozona saranno disposti a cedere gran parte della loro sovranità, nelle politiche economiche dei loro Paesi, al potere sovrannazionale dell’autorità comunitaria. La seconda, nel solco di una lunga tradizione di orgoglioso e geloso rifiuto di qualsiasi soggezione francese, pare tutt’altro che pronta ad acconsentire alle richieste della Merkel. Ecco perché al nostro presidente del Consiglio, erede della funzione esercitata dall’Italia fin dall’atto costitutivo del primo nucleo della Comunità europea, è affidato il compito di trovare una mediazione tra queste due, apparentemente inconciliabili, posizioni.

In attesa dell’esito di questa fondamentale scommessa negoziale, consapevoli dell’importanza per le sorti di tutta l’economia internazionale, i leader più importanti del mondo, a cominciare da Obama e dal cancelliere tedesco, cercano di rafforzare la posizione di Monti con elogi, persino un po’ esagerati, per i progressi compiuti dall’Italia sulla via del risanamento finanziario e delle riforme strutturali. In un pianeta in cui la comunicazione mediatica è così globalizzata, immediata e determinante per raccogliere l’indispensabile consenso dell’opinione pubblica agli sforzi di un leader, il tentativo di infondere fiducia e accrescere l’autorevolezza di Monti, in un momento così delicato, assume, evidentemente, il significato di una ben precisa azione di politica internazionale.

Se questo è il quadro nel quale il presidente del Consiglio italiano si dovrà muovere e se questo è il clima che circonda il suo fondamentale impegno, è impressionante e drammatico lo scenario che, invece, si palesa in questi giorni in Italia. Un contrasto che, davvero, prima stupisce e, poi, indigna.

Ricapitoliamo la nostra storia politica recente. Reduci da un clamoroso fallimento di credibilità internazionale e di efficienza riformista dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni, i partiti sono stati costretti ad ammettere il loro scacco e ad affidare le sorti del nostro paese a un esecutivo «tecnico». Ma la promessa di coloro che hanno deciso di sostenerlo, non solo con il voto parlamentare, ma soprattutto aiutandolo a rendere consapevoli i cittadini della necessità di sacrifici per evitare la bancarotta, è durata ben poco.

Il tentativo, peraltro inutile, di ridurre gli effetti elettorali della delusione generalizzata verso tutta l’attuale classe politica ha indotto non tanto l’esigua opposizione parlamentare a una sfrenata rincorsa demagogica di tutti i timori degli italiani, quanto la stessa maggioranza a minare, tutti i giorni, il sostegno dell’opinione pubblica all’operato del presidente del Consiglio e dei suoi ministri. Gli esempi sono talmente numerosi che basta sfogliare i giornali delle ultime settimane per compilarne un elenco assai affollato. Per limitarsi ai casi più recenti, citiamo l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, ancora ieri, proprio mentre Monti cerca di salvare l’euro, insiste sull’ipotesi di tornare alla lira. La richiesta del governo di approvare la riforma del lavoro, come segnale della coesione politica italiana in vista dei vertici europei decisivi di fine mese, inoltre, viene sottoposta a condizionamenti ricattatori che arrivano da entrambe le maggiori forze politiche della sua maggioranza parlamentare. In più, anche le rappresentanze sociali non dimostrano molto senso di responsabilità su un argomento così delicato: il neopresidente della Confindustria comincia infelicemente il suo mandato con una battuta, di fantozziana memoria, assai discutibile. I sindacati, da parte loro, almeno nelle parole dei loro leader nazionali e, per fortuna, meno negli atteggiamenti concreti nelle fabbriche, non solo accendono tutti i fuochi della protesta, ma usano un linguaggio, nei confronti del ministro del Lavoro Fornero, di una violenza inaccettabile e irresponsabile.

In questo quadro, già preoccupante, rischia di indebolirsi anche l’altro pilastro che, finora, ha retto, con Monti, il periclitante vascello della navigazione italiana nella tempesta finanziaria internazionale: il Quirinale. Dietro il «caso Mancino», sono evidenti il durissimo scontro di apparati dello Stato e, soprattutto, le faide nella nostra magistratura che colgono questo pretesto per proseguire una lotta sotterranea e inquietante che dura ormai da molti anni. Il rischio è che, in tale momento difficilissimo, il tentativo di coinvolgere il presidente della Repubblica in una polemica di cui, almeno finora, non si vedono i motivi, possa disorientare l’opinione pubblica nei confronti dell’unica autorità nazionale che gode il rispetto della quasi totalità degli italiani. Con l’aggravante di accentuare gli scricchiolii di un assetto istituzionale e politico che, al contrario, avrebbe l’esigenza di dimostrare la massima coesione di intenti e il massimo senso di responsabilità.

Il contrasto tra i primi, certo non sufficienti ma confortanti, segnali positivi che vengono dalla formazione del governo greco, dagli indici della Borsa e dagli spread e i segnali di scollamento della società italiana e delle sue rappresentanze politiche, sindacali, imprenditoriali e civili è ormai troppo clamoroso per non suscitare un allarme grave e urgente.

DA - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10251


Titolo: LUIGI LA SPINA - La politica senza confini
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2012, 09:58:08 am
10/7/2012

La politica senza confini

LUIGI LA SPINA

L’ accusa, sostanzialmente con la stessa domanda, arriva sia da destra, sia da sinistra: perché non si può criticare Monti? Perché davanti a ogni giudizio negativo sull’operato del presidente del Consiglio e del suo governo si viene imputati non solo di «lesa maestà», ma addirittura di tradimento della patria?

Da mesi questa domanda accompagna le osservazioni polemiche di Alfano sulla riforma del lavoro, quelle di Bersani e di Vendola sui tagli alle spese e, dopo le bombastiche definizioni del presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, a suon di «boiate» e «macelleria sociale», si è ripetuta con maggior insistenza e con indignato fastidio.

L’avvertimento di Monti sulle conseguenze per l’Italia, dall’andamento del famoso «spread» alle sorti del «salvaStati», delle critiche e dei distinguo che arrivano dal fronte interno, cioè dai partiti che lo sostengono in Parlamento e dalle rappresentanze sociali, non deriva, in realtà, dalla tipica insofferenza degli accademici nei confronti di chi osa mettere in dubbio le loro tesi. Nè dalle suscettibilità caratteriali di tecnici dalla pelle troppo tenera per sopportare le durezze della nostra vita pubblica. Ma dalla consapevolezza di un mutamento, profondo e importante, avvenuto negli ultimi tempi nel nostro continente: la politica europea è diventata una politica democratica. Una politica, cioè, in cui il consenso delle opinioni pubbliche è divenuto determinante. Ed è paradossale, ma significativo, che sia proprio un «tecnico», come il professor Monti, ad avvisare partiti, sindacati e imprenditori di questo fondamentale effetto della crisi finanziaria ed economica in Europa.

Fin dai primi vagiti delle istituzioni comunitarie, alla metà del secolo scorso, l’accusa nei loro confronti fu quella di un regime tecnocratico, governato da funzionari la cui legittimità non era legata al consenso popolare. Da qui, l’ostinata diffidenza per liturgie misteriche e per imperscrutabili decisioni di personaggi ciechi, sordi e muti, legati da solidarietà fondate su clan elitari e, magari, un poco inquietanti. La «burocrazia di Bruxelles» era la definizione di un potere sul quale, di volta in volta, si poteva ironizzare quando stabiliva le misure degli ortaggi, o di un potere che doveva essere a buon diritto truffato, quando pretendeva di imporre la quantità di latte che doveva essere munto dalle vacche nazionali.

Né l’elezione diretta del Parlamento europeo, a metà degli anni 70, né il progressivo allargamento, sia delle competenze comunitarie, sia dei confini della Ue, riuscirono a colmare, nell’opinione pubblica europea, quella diffidenza che si tramutava, nei casi migliori, in un diffuso disinteresse o, in quelli peggiori, in una profonda ostilità.

La vera svolta di questo atteggiamento popolare è avvenuta negli ultimi mesi. Da quando i cittadini europei si sono resi conto che le loro sorti non dipendevano più dai governanti dei loro Paesi, ma dai giudizi che prevalevano nelle opinioni pubbliche degli altri stati della Ue nei loro confronti. Perchè i leader eletti dai parlamenti nazionali non potevano, o non riuscivano, o non volevano disattenderne gli umori.

Questo mutamento ha sconvolto persino il tradizionale orientamento politico dei partiti europei. Significativo esempio di questo fenomeno è stato, nei giorni scorsi, quanto è avvenuto in Germania, dove la Merkel è stata accusata, dopo l’ultimo vertice di Bruxelles, di cedimento alle richieste di Spagna e Italia, appoggiate dal socialista francese Hollande, proprio dalla Spd, un partito socialdemocratico che, in teoria, dovrebbe essere meno severo sulla rigidità delle economie statali. Proprio perché è l’operaio tedesco, il signor Mueller citato da Monti
nell’intervista ai principali quotidiani europei, che non sopporta di pagare i debiti delle cicale mediterranee nel nostro Continente.

Ecco perché è importante, di più, è determinante, far capire agli abitanti della Germania, dell’Olanda, della Finlandia che, questa volta,
l’Italia i sacrifici li farà davvero, che le promesse di riduzione di spesa non verranno vanificate dalle proteste delle categorie, che gli italiani lavoreranno di più e più a lungo, che le prese di distanza dei partiti «di lotta e di governo», definizione quanto mai attuale per la strana maggioranza che dovrebbe sostenere Monti, non pregiudicheranno gli impegni annunciati a Bruxelles.

E’ vero che i mercati non hanno più confini e guardano sospettosi mosse e contromosse di quello che avviene nei singoli Stati, ma lo stesso sguardo sovrannazionale, ormai, è comune anche ai popoli dell’Europa. Poiché i leader politici di questo nostro continente all’inizio del nuovo secolo non sembrano possedere visioni lungimiranti, né l’autorevolezza per realizzarle, le opinioni pubbliche europee, con i loro giudizi fluttuanti, ma anche con i loro ostinati pregiudizi, diventano le padrone dei nostri destini.

Si voleva un’Europa finalmente democratica? Ora l’abbiamo. Curioso che chi l’invocava, ora, abbia qualche dubbio.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10316


Titolo: LUIGI LA SPINA - Riforme è l'ultima chiamata
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2012, 04:30:21 pm
26/7/2012 - LEGGE ELETTORALE

Riforme è l'ultima chiamata

LUIGI LA SPINA

Lo spread è sempre altissimo, si susseguono i vertici istituzionali e politici all’insegna dell’emergenza, anche il neopresidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, ammette che certe intemperanze polemiche (forse anche le sue) non sono più ammissibili, ma i partiti non riescono a varare l’unica cosa sensata che potrebbero fare: una nuova legge elettorale. L’ennesima «fumata nera» su un’intesa che sembrava imminente, con il solito, stucchevole rimpallo di accuse sulle responsabilità del mancato accordo, dimostra come il masochismo della classe politica sia arrivato a forme di perversione davvero incomprensibili.

E’ davvero cosi difficile cambiare la nostra legge elettorale? In effetti, riuscire a combinare un puzzle di norme che soddisfi un po’ tutti è complicato, perché le convenienze elettorali, tra piccoli e grandi partiti, ma anche tra le diverse coalizioni possibili e le diverse esigenze dei leader sono spesso opposte. L’occasione per trovare un’intesa, però, in questi giorni è troppo favorevole per sprecarla e sarebbe davvero un delitto non approfittarne. Nessuno, infatti, può ragionevolmente prevedere non solo chi vincerà, ma neanche chi si presenterà alla competizione. Ecco perché sono del tutto imprudenti e perfino un po’ ridicoli questi calcoli che si intrecciano tra i cosiddetti esperti elettorali dei partiti.

Un almanaccare confuso di previsioni del tutto inattendibili, per due fondamentali motivi. Il primo, già accennato, riguarda una offerta politica ancora misteriosa: Berlusconi davvero si ripresenterà e a capo di quale partito? Ci sarà una scissione nel Pdl? Ci saranno novità al centro dei vecchi schieramenti, con una lista patrocinata da Montezemolo? Il Pd ha rotto definitivamente con Di Pietro e sceglierà un’alleanza con Vendola o con Casini? Le incognite, come si vede, sia pure limitandoci alle principali, sono davvero tante. Se poi si aggiunge l’«effetto Grillo», forse l’incognita più misteriosa e imprevedibile, è facile capire come ai sondaggisti, in questo momento, sia consigliabile un atteggiamento oracolare, quello di chi parla così oscuro da essere interpretato in qualsiasi modo.

Al di là dei simboli che compariranno sulla futura scheda elettorale, tra quattro o otto mesi, chi può prevedere, poi, in quale situazione ci troveremo non tra quattro o otto mesi, ma alla fine del mese prossimo? Il secondo motivo per cui quei calcoli dei partiti sembrano così inutili è persino più forte del primo. E’ evidente che la sorte dell’euro, l’andamento dello spread, i provvedimenti d’emergenza finanziaria che potrebbero essere necessari nelle prossime settimane finirebbero per cambiare qualsiasi programma elettorale, qualsiasi progetto di alleanze, qualsiasi candidatura a palazzo Chigi.

Ecco perché, e può sembrare un paradosso, questo è proprio il tempo in cui si potrebbe varare una legge che meno possa risentire dei calcoli di convenienza partitica e più degli interessi collettivi per un sistema che assicuri una efficace e stabile governabilità del Paese. Un meccanismo elettorale che corregga i difetti più gravi emersi nelle leggi che sono state sperimentate nella cosiddetta seconda Repubblica e che aiuti anche al miglioramento qualitativo della nostra classe politica. A partire dall’errore più grave: quello di far eleggere i parlamentari non dai cittadini italiani, ma dalle segreterie dei partiti.

Se il deputato o il senatore fosse più preoccupato di rappresentare gli interessi di chi lo ha votato che di compiacere i voleri del leader che l’ha nominato, non solo aumenterebbe il tasso di libertà del Parlamento, ma la selezione per quelle cariche sarebbe evidentemente orientata a qualità professionali e caratteriali più consone alle necessità della politica e non a virtù, diciamo così, di altro genere. L’obbiettivo si può raggiungere o con le preferenze o con i collegi elettorali, ma la differenza non dovrebbe, nella condizione descritta, provocare uno stallo come quello che appare in questi giorni.

Il secondo punto di un accordo possibile dovrebbe riguardare un premio di maggioranza ragionevole, che assicuri la governabilità, ma che non stravolga la rappresentatività delle assemblee e distorca i voleri dei cittadini. Anche in questo caso, litigare sul premio alle coalizioni o al primo partito, è un esercizio vano di fantapolitica. Di fronte alla necessità di un veloce accordo sulla legge elettorale, trovare questa differenza come insuperabile ostacolo all’intesa vuol dire avanzare un pretesto assurdo e suicida.

Il terzo fondamentale punto del nuovo sistema di voto dovrebbe riguardare una seria soglia di ingresso in Parlamento che eviti, da una parte, la dispersione di voti e, dall’altra, non riduca troppo le voci delle minoranze d’opinione pubblica. Una percentuale del 5-7 per cento potrebbe costituire una griglia selettiva ragionevole.

Tutti, o quasi tutti, sono d’accordo su queste tre esigenze; tutti, o quasi tutti, capiscono quanto sia imprevedibile il futuro e quindi sia inutile, questa volta, calcolare le singole convenienze partitiche; tutti, o quasi tutti, sanno che, se non si raggiungerà l’accordo, l’indignazione dei cittadini, già a dura prova, porterà a conseguenze pericolose per la nostra democrazia. Che cosa deve succedere ancora perché i leader si chiudano in una stanza e non ne escano finché non abbiano firmato l’intesa?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10373


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il potere perduto dei partiti
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2012, 07:20:17 am
2/8/2012

Il potere perduto dei partiti

LUIGI LA SPINA

I partiti italiani tentano di prefigurare gli scenari del nostro futuro, ma l’impressione è che il gioco del potere sia ormai sfuggito di mano alla classe politica. Bersani cerca di ricostruire un centrosinistra senza i difetti che fecero tramontare l’esperienza governativa di Prodi. Berlusconi, annunciando il suo sesto ritorno in campo, vuole impedire al leader democratico una vittoria con una grande maggioranza parlamentare. Casini spera di acquisire una posizione che possa condizionare entrambi gli schieramenti. Mosse e contromosse che, spostando lo sguardo verso un orizzonte lontano, vorrebbero mascherare la consapevolezza di quello vicino, quello che vede tutte le decisioni che conteranno nel futuro degli italiani fuori dall’arco delle Alpi. Verdetti che arriveranno da Francoforte e da Bruxelles, da Berlino e, magari, addirittura dalla Finlandia.

Decisioni che potranno essere condizionate persino dall’esito delle elezioni americane di novembre. Con un unico interlocutore italiano ammesso al tavolo di quelle decisioni, il premier Monti.

Durata poco più di una notte di mezz’estate l’ipotesi di elezioni anticipate, acclarata l’impossibilità di trovare un’intesa sulla nuova legge elettorale prima dell’autunno, i partiti italiani hanno cominciato una campagna elettorale del tutto «autistica». Una partita completamente isolata dalle attuali preoccupazioni degli italiani e che li vede guardare ai saliscendi dello spread, alle battaglie sulla sopravvivenza dell’euro, alle sfide dei mercati finanziari nei confronti delle potestà degli Stati come semplici spettatori. Consapevoli di un ruolo che consente il diritto di tifare, ma non quello di partecipare all’incontro.

L’esproprio di sovranità di cui si discute in Europa, tra le insistenze della Merkel e le resistenze di Hollande, in realtà, è già avvenuto in Italia. Con una differenza fondamentale: l’attiva e determinante complicità di una classe politica che non è stata estromessa dal ruolo, ma che ha abdicato volontariamente al ruolo che le competeva. Riconoscendo l’incapacità a sostenerlo, con quella autorevolezza e con quella credibilità necessarie durante la più grave crisi europea dopo la seconda guerra mondiale.

In attesa di sapere se Monti riuscirà a convincere i Paesi «virtuosi» dell’Eurozona sull’efficacia e, soprattutto, sull’irreversibilità della linea di rigore finanziario da lui impostata in Italia; in attesa di conoscere l’esito dello scontro tra Draghi e la banca tedesca; in attesa del contestato varo del fondo «salva-Stati»; in attesa di vedere se il nostro spread sopravviverà alle tempeste borsistiche di agosto, dove guardano, adesso, i partiti italiani?

La risposta è ovvia: alle elezioni della primavera 2013. Vero, ma anche ad altre elezioni, più vicine, di cui meno si parla, ma che costituiranno le prove generali della sfida per la prossima legislatura, quelle siciliane di ottobre. E’ lì che Berlusconi, nel ricordo di un successo storico, verificherà la forza del suo residuo fascino elettorale. Nell’isola si proverà quel matrimonio di necessità tra Bersani e Casini che l’accordo con Vendola, proclamato ieri, rende così arduo e, forse, improbabile. A quell’appuntamento sono appese le speranze di Di Pietro, stretto tra i rifiuti all’alleanza, sia di Grillo, da una parte, sia di Bersani e Vendola, dall’altra.

Alla luce del verdetto siciliano potrebbe anche sbloccarsi lo stallo sulla nuova legge elettorale che, al di là delle pseudo tecnicalità, si fonda su un contrasto esclusivamente politico. La paura del probabile candidato premier del centrosinistra, Pierluigi Bersani, di non ottenere una maggioranza sufficiente a governare e, quindi, la volontà di avere un premio elettorale che non sia assegnato al primo partito, ma alla coalizione vincente. Al contrario, il desiderio di Berlusconi e del Pdl di impedire il trionfo dello schieramento avversario e, perciò, di poter contare su un risultato così precario da non rendere l’opposizione di centrodestra ininfluente.

Possono essere comprensibili, allora, le preoccupazioni per le sorti di una democrazia italiana svuotata dal potere dei partiti, unici legittimati dalla Costituzione a rappresentare la volontà popolare. Possono essere opportune le accuse al cosiddetto «pensiero unico», quello che sostiene sempre e comunque le scelte del governo tecnico, perché senza la libertà e l’autonomia della critica pubblica alle decisioni che coinvolgono interessi rilevanti dei cittadini, la democrazia non è solo svuotata, ma addirittura compromessa. Ma ci si deve chiedere perché possa essere così forte il dubbio che, in questo momento, la perdita di quel potere da parte dei partiti sia più un bene che un male.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10398


Titolo: LUIGI LA SPINA - Pd, la tentazione autoritaria
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2012, 04:51:27 pm
29/8/2012

Pd, la tentazione autoritaria

LUIGI LA SPINA

C’è un partito che si candida alla guida del Paese in un momento molto difficile per l’Italia. È il più forte nello schieramento che si è opposto per molti anni ai governi di Berlusconi.

E tutti i sondaggi lo pongono in testa nelle preferenze degli elettori. Sostiene il governo Monti e, contestando le presunte ambiguità del Pdl nell’appoggio al presidente del Consiglio, accusa quel partito di praticare uno sleale e opportunistico «doppio binario», per non perdere consensi tra i suoi sostenitori. Eppure, questo partito, il Pd di Bersani, ha avuto «il buon gusto», davvero democratico, di vietare la partecipazione del ministro del Lavoro, la torinese Elsa Fornero, ai dibattiti che si svolgono nelle cosiddette feste del Pd, compresa quella che si tiene a Torino.

Tale esclusione è davvero ingiustificabile, sul piano politico e su quello personale, ma riveste un significato inquietante, più generale, perché alimenta dolorosi sospetti su come sia intesa ancora in quel partito la concezione del dialogo e, quindi, della sostanza della democrazia.

La risibile e, ripetiamo, purtroppo inquietante, motivazione di questa scelta è quella di valutare «non in sintonia» il ministro Fornero con le posizioni del Pd. Già è abbastanza grave la contraddizione evidente tra questo giudizio e il sostegno parlamentare a un governo di cui il responsabile delle politiche per il lavoro è parte fondamentale. Ma è ancora più grave che si pensi di dover dialogare solo con chi è «in sintonia» con le idee del partito.

Fa davvero dispiacere che il «social democratico» Bersani autorizzi una simile deriva solipsistica e autoritaria di un partito che, più o meno convintamente, aveva fatto credere la piena conversione all’idea liberale e democratica del dialogo. Quel dialogo che è tale se avviene, appunto, solo tra persone che non sono «in sintonia». È incomprensibile, poi, l’occasione rivelatrice di questo atteggiamento, un atteggiamento che speravamo fosse dimenticato nella storia più buia della vecchia tradizione comunista. Il ministro Fornero, infatti, può certamente aver assunto posizioni discutibili e, magari, anche sbagliate, ma è persona di cultura sicuramente democratica, con un impegno politico sempre nello schieramento di centrosinistra, basti ricordare la sua partecipazione alla giunta torinese di Castellani, il sindaco predecessore di Chiamparino.

È inoltre curioso, per usare un aggettivo benevolmente ironico, che il ministro Fornero sia stato invitato dal consiglio di fabbrica dell’Alenia di Caselle, a maggioranza Fiom, per spiegare le sue posizioni e quel dibattito sia stato esemplarmente duro, ma corretto e civile, mentre non possa fare altrettanto con i simpatizzanti del Pd. I quali, per un’altra decisione sciagurata di quel partito, non possano neanche ascoltare le ragioni di quel sindacato, anch’esso escluso dalle feste «democratiche». Una doppia esclusione che non elide l’errore commesso con Fornero, ma che non raddoppia, perché conferma una concezione profondamente errata del «dialogo».

Da una parte, fa impressione come Bersani, sulla scia dello sfortunato slogan berlingueriano, «partito di lotta e di governo», finisca per riuscire a non fare del Pd né un partito di lotta, né un partito di governo. Perché lascia larghi spazi alla protesta e al disincanto, mentre suscita molti dubbi tra gli elettori moderati, non convinti della sua capacità di affrontare scelte di rinnovamento e di apertura riformatrice, come l’Europa chiede al prossimo inquilino di Palazzo Chigi.

Dall’altra parte, stupisce la quiescenza e la mancata vigorosa protesta di quell’ala del Pd che si autodefinisce «liberal» o che non proviene dalle file del vecchio Pci. Sottovalutare certi atteggiamenti, trascurare questo costume di intolleranza, di dogmatismo che persiste in quel partito è, soprattutto per loro, un grave peccato di autolesionismo. Se, poi, la sera delle elezioni, quando prima o poi arriverà, se ne pentiranno, sarà troppo tardi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10469


Titolo: LUIGI LA SPINA - Passera: "Subito un grande patto per la produttività"
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2012, 11:15:09 am
Economia

30/08/2012 - INTERVISTA

Passera: "Subito un grande patto per la produttività"

Appello del ministro a sindacati e aziende: drammatico il ritardo di competitività.

C’è un altro problema terribile: il gomitolo di norme che avvolge famiglie e imprese

LUIGI LA SPINA
Roma

Alla vigilia del consiglio dei ministri che di domani dovrebbe discutere la prima parte dei provvedimenti sulla crescita, il ministro per lo sviluppo economico Corrado Passera, in questa intervista alla “Stampa” lancia un appello alle parti sociali perchè si arrivi a «un grande patto per la produttività». Una intesa che, recuperando i quasi 10 punti di distacco che su questo aspetto abbiamo rispetto ai principali paesi europei, consenta alle aziende di tornare in condizioni di competitività sui mercati internazionali e ai lavoratori di aumentare le loro retribuzioni.

Ministro, è arrivata finalmente l’ora della “fase due” del governo Monti, quella della crescita...
«Altolà. Nessuna “fase due”. L’agenda per la crescita è nata insieme al “Salva Italia”. La messa in sicurezza dei conti e la creazione delle condizioni per la crescita, fin dal primo giorno dell’esistenza di questo governo, sono in parallelo. E’ vero che nel “Salva Italia” c’è la riforma delle pensioni e l’Imu, ma cui sono anche i 20 miliardi di garanzia per il credito alle piccole e medie aziende, ci sono i 14 miliardi per incentivare gli imprenditori a rafforzare i patrimoni aziendali (Ace) e ad assumere (Irap). Intanto sono arrivate le liberalizzazioni, le semplificazioni, il decreto sulla crescita, gli interventi sull’energia, sulle infrastrutture e l’edilizia, i project bond e il diritto fallimentare, solo per fare alcuni esempi».

Sì, ma l’impressione è che, in Italia, agli annunci dei governi, anche all’approvazione delle leggi da parte del Parlamento segua un’applicazione pratica molto lenta e difficile, per cui l’efficacia dei provvedimenti risulti molto scarsa. Non sarà così anche per l’agenda della crescita?
«E’ proprio per questo che abbiamo cambiato rispetto al passato: sui cantieri, per esempio, vogliamo che tutto sia controllabile dai cittadini attraverso il sito “cantieri Italia” che specifica per ciascun progetto i finanziamenti, l’andamento dei lavori e gli eventuali problemi. La stessa filosofia ha portato alla norma che impone a tutte le istituzioni pubbliche di indicare sul proprio sito, appena si erogano fondi, a chi sono destinati, quanto si è dato e per che cosa. Questo tipo di trasparenza, questo senso di responsabilità nel rendere conto di come si spendono i soldi pubblici può cambiare molto nel costume della gestione dei soldi dello Stato, cioè dei cittadini».

A questo proposito, quale dev’essere il ruolo dello Stato per lo sviluppo di un Paese, quello di regista o esclusivamente di regolatore del mercato?
«Se crediamo nell’ economia aperta e vogliamo crescere nel mercato globale, la visione dello Stato che dirige la crescita e che decida in quale settore devono investire le imprese, è assurda e inapplicabile: fa parte di un mondo che non c’è più e che, tra l’altro, ha dato pessimi risultati. Ma lo Stato può fare molto per agevolare la crescita sostenibile. Lo Stato deve creare le migliori condizioni di contesto: buone regole e controlli adeguati, infrastrutture moderne, giustizia veloce – oltre che giusta - , istruzione che crei le competenze richieste dalla società e dall’economia, una pubblica amministrazione efficiente. Lo Stato deve incoraggiare fiscalmente gli imprenditori che investono in innovazione, che vanno alla conquista di mercati esteri e crescono dimensionalmente. Di più, lo Stato deve intervenire su tutti gli “spread” negativi…».

Pensavamo di aver imparato che cosa è uno spread, adesso scopriamo che ce ne sono altri.
«Non solo paghiamo i nostri finanziamenti 4 o 5 punti percentuali più dei nostri concorrenti, ma – ad esempio – paghiamo l’energia più degli altri e abbiamo costi diretti e indiretti della burocrazia più alti. Tutto in Italia soprattutto per le imprese è più difficile, lungo, complicato nei rapporti con la Pubblica Amministrazione. E’ necessario semplificare e poi ancora semplificare. Per questa ragione due decreti sono stati già messi a punto – e uno già tramutato in legge - e ne stiamo elaborando altri in stretta collaborazione con il mondo delle imprese da una parte e con la Funzione Pubblica dall’altra».

La settimana scorsa al Meeting di Rimini lei ha fatto un quadro preoccupato dei nostri ultimi 15-20 anni in termini di investimenti, di crescita, di spesa corrente e, soprattutto, di produttività.
«In questi anni ci siamo mangiati il dividendo dell’euro - cioè minori interessi per quasi 500 miliardi - e circa 200 miliardi di privatizzazioni e dismissioni, abbiamo ridotto quasi a zero gli investimenti per il futuro a favore di una spesa corrente che è cresciuta più che in qualsiasi altro Paese europeo. Ora, ci troviamo al massimo del disagio occupazionale, con una fiscalità record mondiale, per chi le tasse le paga, ma con una enorme evasione: i 2000 miliardi del nostro debito pubblico possono anche essere visti come 100 miliardi di evasione all’anno per 20 anni. Nessuno in questo bilancio può dirsi innocente e senza responsabilità».

Un fardello pesante, ce la possiamo fare?
«Certamente abbiamo imboccato la strada giusta, ma non dovremo abbassare la guardia per parecchi anni. Oggi i conti pubblici sono sotto controllo e dal punto di vista del deficit l’Italia è tra i Paesi più virtuosi in Europa. La spending review è in corso, gli strumenti per combattere più efficacemente l’evasione fiscale sono stati messi a punto, la valorizzazione di parte del patrimonio pubblico potrà aiutarci a ridurre progressivamente il debito. Molti fattori che determinano la produttività di sistema – prima di tutto le infrastrutture – sono stati attivati e riceveranno nuovo impulso nei prossimi mesi. Rimane però da affrontare il più grave degli svantaggi competitivi: quello relativo alla produttività del lavoro. Più che nelle mani della politica, questo fondamentale fattore di competitività e di crescita è nelle mani delle parti sociali. Se guardiamo a questo dato, comunque lo si voglia calcolare, vediamo che, in 10-15 anni, abbiamo perso almeno 10 punti rispetto alla media europea, ancora di più rispetto alla Germania e alla Francia. E’ una situazione da affrontare tutti insieme con grande urgenza: il rischio di uscire dal mercato in moltissimi settori è molto elevato».

Su questo punto, però, il sindacato non sembra molto disponibile...
«Per mia esperienza, sia nell’industria che in banca che alle Poste, ho potuto constatare che quando al sindacato si presentano grandi progetti di ristrutturazione, ma anche di rilancio, quando i sacrifici si distribuiscono equamente così come i benefici, quando c’è un progetto condiviso, il sindacato c’è e ci sta. Naturalmente bisogna parlarsi chiaro e sulla produttività lo sappiamo tutti che lo spazio è significativo: la prospettiva è di mettere in tasca ai lavoratori più soldi, perchè parte di quell’aumento di produttività deve andare a loro, mentre l’altra parte deve mettere le aziende in grado di competere più efficacemente sul mercato».

Questa sarebbe “la sana concertazione” di cui parlava a Rimini?
«Certo. Vuol dire fare il possibile per trovare soluzioni condivise per problemi comuni, senza confusioni di ruoli, né diritti di veto. Fare della produttività un punto di forza del nostro paese necessita un forte patto e un impegno condiviso da imprese e sindacato. Lo Stato può accompagnare questo sforzo con normative ed incentivi adeguati, ma prima di tutto dobbiamo convincerci che anche il nostro Paese ha la volontà di realizzare in poco tempo un grande recupero del tipo di quello che dieci anni fa la Germania ebbe il coraggio di fare».

Quindi per riassumere: forte spinta alla competitività delle imprese e del Paese per ricominciare a crescere con piena responsabilizzazione delle parti sociali sul recupero di produttività.
«Sì, ma non basta perché la crescita sostenibile ha bisogno non solo di competitività, ma anche di coesione sociale. Il welfare è fondamentale: deve sapersi adattare ai mutamenti demografici come è stato necessario fare per la previdenza. E’ una conquista di civiltà da rafforzare in tutti i campi: dalla sanità all’assistenza, dalle politiche per la famiglia a quelle per rendere occupabile chi il lavoro non ce l’ha ancora o non ce l’ha più. Il Terzo Settore può giocare un ruolo crescente e sempre più qualificato. In questi anni il privato sociale ha creato più posti di lavoro di molti altri settori del privato profit e del pubblico e ha portato esempi di sussidiarietà che indicano un modello da seguire in molti campi».

Ministro, parliamo, infine, un po’ di politica. Si vagheggia di grandi centri, di rose bianche, dell’ipotesi di una rinascita del partito cattolico. Lei ritiene utile che i cattolici si ritrovino in un partito unico?
«No. Io condivido l’idea che i valori a cui si ispirano i cattolici possano arricchire molte formazioni politiche e che non sia necessario, nè opportuno creare un partito dei cattolici».

Allora, le faccio una domanda personale. Lei, dopo questa esperienza politica, pensa di tornare a fare il manager o le piacerebbe continuare questo lavoro?
«Lavorare oggi per il mio Paese è un onore e una grande responsabilità. Non mi tirerò certo indietro se ci sarà la possibilità di continuare il risanamento e il rilancio del nostro Paese che il Governo Monti ha impostato e che riceve il consenso di tutto il mondo, come è avvenuto anche oggi a Berlino. Ora però devo pensare a tutto ciò che posso attivare come Ministro per creare crescita sostenibile e occupazione».

Prossimi impegni in questo senso?
«Agenda digitale, start-up, attrazione degli investimenti esteri, semplificazioni, piano aeroporti, strategia energetica, legge sulle Pmi e poi la ricerca di soluzioni sostenibili per i 100 tavoli di crisi aziendale sui quali sono impegnato ogni giorno».

Che cosa ne pensa della decisione di escludere il ministro del Lavoro Fornero dalle Festa del Pd?
«Un errore grave e inspiegabile».

I rapporti con i partiti rischiano di essere più difficili man mano che si avvicinano le urne: cosa si augura per questi ultimi mesi?
«Di continuare a lavorare con il Parlamento fino all’ultimo giorno così come è avvenuto fino ad oggi: siamo riusciti – insieme – a completare in pochi mesi un lavoro che in altre situazioni avrebbe necessitato anni e in molti casi i provvedimenti sono stati ulteriormente migliorati nel corso dei lavori. Serve poi una legge elettorale che garantisca governabilità, evitando coalizioni troppo eterogenee e ricattabili e che riapra la partecipazione dei cittadini permettendo agli elettori e non solo alle segreterie dei partiti di scegliere i propri rappresentanti».

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/466844/


Titolo: LUIGI LA SPINA - Gli italiani riformisti immaginari
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2012, 09:59:58 pm
7/9/2012 - SANITÀ, LE POLEMICHE SUL DECRETO BALDUZZI

Gli italiani riformisti immaginari

LUIGI LA SPINA

La premessa è doverosa, anche se può sembrare scontata, perché è giusto ricordare certi meriti, soprattutto in un momento in cui il nostro Paese è troppo facilmente messo sotto processo: il welfare sanitario assicurato dallo Stato in Italia è una conquista di civiltà di cui andare assolutamente fieri. Tanto è vero che i cittadini di tutto il mondo invidiano le nostre garanzie di assistenza pubblica.

Garanzie che pur con grandi differenze regionali di qualità e con le inevitabile carenze episodiche, offrono cure adeguate e sostanzialmente gratuite a milioni di italiani.

Il problema, perciò, è quello non solo di preservare i vantaggi di questo sistema, ma di adattarlo ai tempi, correggerne i difetti, uniformare su tutto il territorio nazionale gli standard di efficienza per permetterne la sostenibilità finanziaria nei prossimi decenni. In momenti di crisi della spesa pubblica come quelli attuali, infatti, il livello del nostro welfare sanitario può sembrare un lusso che non ci possiamo più permettere. E’, invece, miope considerarlo solo un costo, perché toglie al cittadino quella paura del futuro che costituisce uno dei più grandi freni allo sviluppo di un Paese. La sicurezza di essere curati adeguatamente, anche nel caso della perdita del lavoro, di una improvvisa emergenza sanitaria che metta a rischio il bilancio familiare rappresenta un importante fattore di coesione sociale e di stimolo al coraggio di investire, di impiegare i propri risparmi nel ciclo produttivo. Ecco perché è proprio nei momenti di difficoltà economica di una nazione che un welfare sanitario efficiente è una importante risorsa, non solo un costo.

Se questo dev’essere l’obbiettivo del nostro Stato in questo settore, occorre riconoscere che il «decretone Balduzzi» individua, con correttezza, i tre principali problemi della sanità pubblica, come si è sviluppata in Italia negli ultimi decenni. Il primo, quello più evidente, è la crescita abnorme della spesa. I bilanci delle Regioni sono occupati, per più dell’ottanta per cento in molti casi, dal finanziamento agli ospedali e, in genere, alle strutture dell’assistenza sanitaria. Con un rapporto, peraltro, prevalentemente inverso tra la spesa e la qualità del servizio. Una osservazione da non trascurare per smentire i tanti luoghi comuni che molti amministratori invocano come alibi alle loro incapacità.

Il secondo importante difetto del nostro welfare sanitario è, tra l’altro, causa principale del primo, con l’aggravante che ricade direttamente sulle spalle degli utenti: la scarsa opera di filtro e di prevenzione costituita dal sistema dei medici di famiglia. Non per colpa loro, perché il loro impegno e la loro preparazione professionale sono, nella maggioranza dei casi, abbastanza adeguati, ma proprio perché gli orari ridotti, le lunghe file negli ambulatori, il sovraccarico della burocrazia finiscono per scaricare sui «pronti soccorso» degli ospedali una quantità di malati, o di presunti tali, da elevare insopportabilmente sia i costi dell’assistenza, sia le inefficienze del servizio. Il ricorso, poi, a indagini diagnostiche «a tappeto», con una moltiplicazione delle spese per lo Stato, viene indotto da quella medicina cosiddetta «difensiva» adottata ormai diffusamente, per paura di un contenzioso legale con i pazienti, logorante sul piano finanziario e umiliante su quello professionale e morale.

L’ultimo principale problema è quello dell’invadenza partitica nella sanità pubblica. Proprio l’elevato livello della spesa ha fatto diventare il sistema uno dei principali centri di potere, di corruzione, di clientelismo politico presenti sul territorio nazionale. Così, è notorio che l’appartenenza a un partito o a una corrente di partito, spesso, prevale sui meriti professionali nelle carriere dei medici. Con ricadute gravi sulla buona organizzazione dei reparti e, magari, sulla salute dei pazienti.

Il «decretone Balduzzi» cerca di affrontare questi mali con una terapia molto meno rivoluzionaria di quanto appaia, poiché, in parte, ricalca leggi e norme già approvate e, quasi mai, applicate. La disposizione che ha fatto più notizia, quella sull’apertura continua degli studi dei medici di famiglia, nei pochissimi casi in cui è già stata sperimentata, dimostra non solo la fattibilità operativa, ma che il solito lamento delle Regioni sulla necessità di maggiori finanziamenti è ingiustificato. Si tratta di un accorpamento delle guardie mediche con gli ambulatori che richiede uno sforzo di buona volontà e di razionalizzazione, sia delle risorse, sia del personale, certamente non impossibile.

La questione vera è un’altra e più generale: in Italia, ormai, qualsiasi riforma, buona o cattiva che sia, rischia l’inapplicabilità. Perché le resistenze degli interessi, effettivamente o presuntivamente colpiti, delle corporazioni, dei privilegi e, persino, delle abitudini e dei vizi sono talmente forti da bloccare, ritardare, vanificare ogni innovazione. Perché siamo un Paese non solo di rivoluzionari «marxisti immaginari», come scriveva, in anni sessantottini, Vittoria Ronchey, ma di riformisti altrettanto immaginari.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10498


Titolo: LUIGI LA SPINA - Cacciatori di poltrone e bella vita
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2012, 04:57:12 pm
20/9/2012

Cacciatori di poltrone e bella vita

LUIGI LA SPINA

C’è una lettura politica immediata: lo scandalo alla Regione Lazio non sta devastando solo la destra romana, ma rischia di essere il detonatore di quella spaccatura nel Pdl nazionale che, ormai da qualche mese, è sempre più evidente. Tra il gruppo degli ex An e quello degli ex Forza Italia, il collante di Berlusconi non basta più, perché non assicura più l’unica condizione che lo sigillava, la probabilità della vittoria. Ma le convulsioni della giunta Polverini, in una agonia che trascina la sua fine oltre la decenza, dopo i casi Lusi, Penati, Lombardo, Formigoni suggeriscono una riflessione più profonda e qualche domanda inquietante.

Gli interrogativi sono almeno due. Che razza di classe politica e amministrativa è stata allevata in Italia negli ultimi anni? Con quali metodi di formazione è stata coltivata e con quali criteri si è selezionata la carriera dirigente? E, poi, lo spettacolo di sfascio democratico, civile e morale, con punte di squallida farsa, come quelle testimoniate dalle foto durante le feste nel costume di una pseudo Roma antica, non segnala anche la fine di un’illusione?

Quella delle virtù del potere diffuso sul territorio, meno esposto alle tentazioni perché più prossimo e, quindi, più controllabile da parte del cittadino. Una illusione e pure una speranza, alla base di quei consensi popolari che, negli ultimi tempi, hanno fatto crescere l’idea federalista in Italia. Ma anche l’alibi dietro il quale un famelico assalto alla diligenza è dilagato tra pletorici Consigli regionali, provinciali, comunali, di quartiere, tra migliaia di poltrone dove all’ideale democratico della partecipazione si è sostituito il costume criminogeno della spartizione.

La risposta alla prima domanda è facile, basta guardare alla realtà dei partiti italiani, così come si è modificata negli ultimi decenni. Finita la forte motivazione ideologica che divideva gli animi, ma che accendeva la passione di un impegno che pensava di poter cambiare se non il mondo, almeno l’Italia, l’ingresso in un partito non è più una scelta di vita, ma l’opportunità di acchiappare un tenore di vita. La conferma dell’obiettivo viene data, poi, dalla selezione delle carriere, perché chi avesse altre intenzioni viene subito emarginato e, infine, costretto all’abbandono o a ricoprire ruoli marginali. Criteri di promozione che sono necessitati, peraltro, dalla mutata natura della lotta politica: dallo scontro tra correnti ideologiche alle rivalità tipiche dei «partiti personali». Un modello di organizzazione che, dall’alto, si è ormai propagato nelle realtà periferiche, anche le più piccole. Con la ovvia conseguenza che la fedeltà è più utile della capacità, l’obbedienza fa premio sull’indipendenza.

Come in tutte le società, anche in quella politica, il peggioramento della classe dirigente diviene, a un certo punto, talmente insopportabile e manifesto che il sistema non regge più e l’attuale situazione sembra potersi configurare sul crinale di questa drammatica svolta. Come fu all’epoca di «Mani pulite», quando il meccanismo della diffusa pratica di «dazione ambientale» si spezzò clamorosamente e tutto in una volta, così, adesso, la corruzione e il malcostume della classe politica locale pare annunciare una vera e propria crisi della democrazia italiana.

La necessità di un profondo rinnovamento della classe politica, nazionale e locale, non può che partire là dove il male si è annidato e ha prosperato: la vita dei partiti. Se la democrazia non si riesce a concepire senza i partiti, questi partiti non sono concepibili in una democrazia. Sono necessari statuti rigorosi, controlli di autorità esterne, regole di finanziamento trasparenti, ma, e soprattutto, una modifica profonda e radicale dei criteri di formazione e di selezione delle carriere.

Lo spettacolo che, dalla Sicilia alla Lombardia, passando per la capitale, sta squadernandosi sotto gli occhi degli italiani, però, dovrebbe limitare anche gli entusiasmi, come si è detto, per certi dogmatismi federalistici troppo sbandierati, in buona o cattiva fede. La moltiplicazione dei poteri e la loro diffusione sul territorio, di per sé, non è una garanzia democratica. Può diventare anche la moltiplicazione e la diffusione di ruberie, sprechi, alimento di corruzioni spicciole e grandi. Perché in politica, non ci sono buone ricette, se non sono preparate da un bravo cuoco.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10549


Titolo: LUIGI LA SPINA - Non sprechiamo i sacrifici degli italiani
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 02:27:16 pm
26/9/2012

Non sprechiamo i sacrifici degli italiani

LUIGI LA SPINA

I tre presidenti italiani di maggior prestigio internazionale, quello della Repubblica, Giorgio Napolitano, quello del Consiglio, Mario Monti e quello della Banca europea, Mario Draghi, condividono, in questi giorni, la stessa forte preoccupazione per il nostro Paese. Il timore che, dopo la cospicua riduzione del divario di interessi tra i bond italiani e quelli tedeschi e il varo deciso a Francoforte dello scudo antispread, in Italia, ci si possa illudere su un definitivo superamento della crisi finanziaria dello Stato. Una eventualità che non è totalmente scomparsa, invece, sull’orizzonte del nostro futuro. Così, tra l’altro, si spiegano i tre contemporanei allarmi che, da Roma, da New York e da Berlino, oggi, hanno lanciato i tre presidenti.

Napolitano ha espresso una condanna durissima per i vergognosi esempi di corruzione e di immoralità pubblica che alimentano, con la giustificata indignazione dei cittadini, la cosiddetta «antipolitica». Monti, sia pure con il suo tipico linguaggio sobrio e allusivo, ha sollecitato l’aiuto dell’opinione pubblica perché esiga una diversa «qualità» dei loro governanti.

Draghi ha ricordato che, senza l’impegno concreto e persistente al risanamento e alla riforme delle classi politiche nazionali, non sarà sufficiente l’opera della Bce per salvare sia l’unità dell’Europa, sia la sorte dell’euro.

Le diverse responsabilità istituzionali, certamente, hanno indotto i tre presidenti a manifestare la loro apprensione con forme differenti, ma il fondamento dei timori è identico: il rischio che l’Italia, dopo aver faticosamente risalito la china della credibilità internazionale, dopo aver recuperato la stessa dignità della sua immagine sul palcoscenico del mondo, dopo aver di nuovo riscosso la fiducia sulla serietà dei suoi impegni, possa ripiombare nel discredito e nel disprezzo dei suoi partner continentali e d’oltreoceano.

Si coglie con evidenza, in questi giorni, l’amarezza e, persino, un certo disorientamento di Monti e dei ministri del suo governo. Come se lo scandalo della Regione Lazio, con i terribili danni mediatici di quelle squallide foto di festini, col contorno di maschere umane e suine, avesse reso, di colpo, vani tutti gli sforzi che, da mesi, si stanno facendo, in tutte le sedi del potere internazionale, per convincere i nostri interlocutori che l’Italia ha compiuto una svolta definitiva, irreversibile e profonda nei suoi comportamenti pubblici. Come se tutti i dubbi sul «dopo Monti», l’interrogativo che all’estero pongono con trepidazione al presidente del Consiglio, avessero avuto una risposta improvvisa ed eloquente. Come se il futuro italiano si fosse svelato ai loro occhi, dietro quelle maschere ridanciane e spudorate, diffuse, con malizioso compiacimento, sui giornali, le tv e gli schermi di Internet in tutto il mondo.

A quasi un anno dall’inizio della durissima prova a cui è stato sottoposto il nostro Paese, si è ormai capito che l’immagine dell’Italia, la percezione che in Europa si ha del nostro paese e dei nostri governanti, condizioni pesantemente sia i mercati finanziari, sia le istituzioni europee. E’ quell’immagine che rende credibili gli impegni di risanamento dei nostri conti pubblici. Quell’immagine fa sperare che le riforme approvate o solo annunciate abbiano veramente effetti concreti sull’economia italiana. Quell’immagine garantisce che anche le parti sociali abbiano compreso l’esigenza di rinunciare alle difese corporative e accettino di cambiare passo, per salvare il futuro dei giovani, le vere vittime di anni di dissipazione pubblica e di egoismo privato.

Le preoccupazioni di Monti e del suo grande «lord protettore», Giorgio Napolitano, sono condivise anche dal presidente della Bce, il quale le inserisce pure in un quadro europeo che mostra sintomi di inquietante allentamento degli impegni promessi. Draghi nota le titubanze e gli affannosi negoziati del premier spagnolo, Mariano Rajoy, soprattutto con la Merkel, per evitare di chiedere quegli aiuti all’Europa che lo costringerebbero a imporre ai suoi connazionali una medicina ben più amara di quella che già stanno sorbendo. Ma ha accolto, con allarme, pure le sparate propagandistiche di Berlusconi sull’abolizione dell’Imu, in caso di una nuova vittoria elettorale del centrodestra italiano. Un segnale di come l’imminenza della campagna elettorale nel nostro paese possa spezzare il precario accordo della «strana maggioranza» che sostiene Monti sulla necessità di non abbandonare la strada del rigore finanziario.

I timori dei tre presidenti sono fondati sull’esperienza di chi sa come la fiducia si conquisti con molta fatica e la si perda con molta facilità. I sacrifici che in questi mesi stanno facendo gli italiani non meritano di essere sprecati.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10570


Titolo: LUIGI LA SPINA - Se la morale si salda alla politica
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2012, 05:56:33 pm
Editoriali
31/10/2012


Se la morale si salda alla politica

Luigi La Spina

I risultati delle elezioni siciliane, così sorprendenti e significativi, hanno suscitato reazioni ancor più spassose e stimolanti del solito. Per limitarci ai principali politici nazionali, Bersani, leader di un partito che ha visto calare i suoi consensi, si è accontentato della vittoria di Crocetta, pur senza una maggioranza, per evocare addirittura la storia. Alfano, di fronte al collasso del Pdl, ha sfidato l’insondabile parlando di un esito «straordinariamente positivo».

 

I politologi, poi, hanno giustamente cercato di proiettare il verdetto siciliano sul prossimo voto nazionale, con tutte le variabili del caso, a cominciare dalle legge elettorale. Sia i commenti un po’ grotteschi dei protagonisti della nostra scena pubblica, sia le considerazioni molto interessanti degli esperti, però, hanno trascurato un aspetto che si potrebbe definire «pre-politico». Un aspetto che, invece, è stato subito colto dal nostro presidente del Consiglio. 

 

Monti, infatti, con la consueta finta ingenuità del tecnico, ha osservato che il suo governo, pur «maledetto» per i sacrifici che ha imposto ai cittadini, è, comunque, «più gradito dei partiti».

 

Il premier, dimostrando una sensibilità politica ben più acuta dei professionisti della categoria, ha capito che gli italiani condizionano il loro voto, o il loro non voto, soprattutto alla disponibilità concreta, immediata e in proporzione rilevante, da parte della classe politica tradizionale, alla condivisione di quei tagli al tenore di vita che tutti i cittadini stanno compiendo in questi mesi. Un giudizio che antepone alla valutazione dei programmi, alle promesse dei leader, persino al profilo individuale dei candidati, la dimostrazione di aver compiuto atti rilevanti che manifestino, indubitabilmente, la volontà di non sottrarsi al comune destino dei sacrifici.

 

Se si va a cercare nel profondo legame comune che unisce le astensioni, i voti al movimento di Grillo, le deludenti percentuali attribuite a un po’ tutti partiti della cosiddetta seconda Repubblica, si troverà l’esigenza di sanare quella divisione tra morale e politica che è il fondamento della scienza della società pubblica, a partire da Machiavelli. In una accezione, però, in cui l’etica sfugge al tradizionale moralismo qualunquistico, magari un po’ ipocrita e bigotto, per esigere la testimonianza indispensabile di una legittimità davvero tutta politica: quella che permette all’eletto di avere la dignità di rappresentare il suo elettore. Perché ne condivide gli interessi più forti e i sentimenti primari.

 

Ecco il perché di quella apparente contraddizione che, con sottile perfidia intellettuale, Monti ha ieri rivelato. Gli italiani, pur protestando in piazza e mugugnando in famiglia e con gli amici, comprendono la necessità di rinunce, anche molto dolorose, alle abitudini di vita alle quali, da decenni, si erano concessi. Ma non sopportano il protervo rifiuto della cosiddetta «casta» politica a tagliare drasticamente stipendi, rimborsi, privilegi. Insomma, ad adeguarsi alla media delle condizioni di esistenza dei cittadini comuni.

 

Il successo del «Movimento cinque stelle» non sta, in maniera prevalente, nelle sparate demagogiche di Grillo, nell’auspicato e insensato ritorno alla lira, nello spregiudicato sfruttamento dei risentimenti anti-tedeschi e anti-europei. Ma nella speranza che «uomini nuovi» mettano in pratica, davvero, le intenzioni espresse, subito dopo il voto, da una giovane eletta al Consiglio regionale siciliano: «La prima cosa? Lo sanno tutti: ci ridurremo lo stipendio a 2 mila e 500 euro netti, contro i 16 mila e persino i 21 mila che si attribuiscono gli altri».

E’ troppo spudorato e inaccettabile, ormai, il divario tra le promesse della classe politica e la realtà dei fatti compiuti: il dimezzamento dei senatori e deputati non è mai stato varato, le riduzioni di stipendi e vitalizi, quando sono state approvate, sono state caricate sugli eletti delle prossime legislature, il livello delle retribuzioni per un servizio che si deve alla comunità mette i rappresentanti del popolo in una condizione di privilegio sociale che né le competenze professionali, né quelle culturali e intellettuali possono, nella media, giustificare.

 

Se non si ha la sensibilità, veramente tutta politica, di capire l’esigenza di questa precondizione morale alla rappresentanza dei cittadini, è abbastanza inutile discettare sul proporzionale o sul maggioritario, dividersi tra liberisti e solidaristi, escogitare alleanze elettorali effimere e improduttive e, persino, scegliere candidati più o meno seduttivi. Monti, trasformando il sarcasmo sulla sua sobrietà, sul suo eloquio vagamente soporifero, ma all’occasione urticante, sulla sua non mascherata punta di saccenza accademica in uno stile di governo, ha compreso, più di tanti politici, il sentimento prevalente degli italiani. Chissà che quello stile non gli serva ancora.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/31/cultura/opinioni/editoriali/se-la-morale-si-salda-alla-politica-OUCuZgBgbdFk27YyRnQVWI/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - La governabilità si conquista non è un diritto
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2012, 05:29:51 pm
Editoriali
14/11/2012 - la legge elettorale

La governabilità si conquista non è un diritto

Luigi La Spina


A proposito della legge elettorale, si potrebbe contraddire la fiduciosa previsione di Obama dopo la sua vittoria alle presidenziali Usa, perchè sembra proprio che «il peggio debba ancora venire». A furia di compromessi tra i partiti, fatti solo sulla base dei pronostici elettorali per l’imminente voto della prossima primavera, si potrebbe arrivare al varo di regole elettorali non solo senza alcuna coerenza politica e costituzionale, ma talmente cervellotiche da non rispondere nemmeno a una delle due fondamentali esigenze: il rispetto della volontà dei cittadini e la governabilità del Paese. 

 

Per capire come sia possibile temere persino che la nuova legge sia peggiorativa del famigerato «porcellum», forse è utile un breve riassunto delle puntate precedenti.

 

Cominciamo proprio dall’inizio della nostra storia repubblicana. 

 

I partiti nati nel dopoguerra, forti di una fresca legittimazione democratica, animati da ideologie, magari contrastanti, ma profondamente radicate negli animi dei loro adepti, pronti a rivendicare l’ampio consenso elettorale complessivamente a loro attribuito dal popolo italiano, decidono per un sistema perfettamente proporzionale. Soddisfano, perciò, la prima condizione, quella della assoluta rappresentatività del Parlamento rispetto agli umori popolari, poiché è inutile preoccuparsi della seconda. La governabilità è assicurata, infatti, non dal sistema elettorale, ma da quella divisione del mondo tra comunismo e democrazie che garantisce all’Italia, nei fatti, un sostanziale bipolarismo. 

 

La caduta del Muro di Berlino e la quasi contemporanea caduta dei partiti firmatari della nostra Costituzione impone, da questo punto di vista, un cambiamento radicale. Così, l’alternanza al governo, divenuta possibile, si fonda su due schieramenti cementati da un mascherato presidenzialismo. Gli italiani votano, nei fatti, per scegliere un premier, in contrasto sostanziale con la Costituzione. I cittadini, a cominciare dalla riforma battezzata «mattarellum», vengono, via via, espropriati delle preferenze e gli eletti al Parlamento sono scelti dai segretari dei due schieramenti. Il potere, una volta tutto concentrato nei partiti e nell’esito delle lotte tra correnti, si trasferisce sulle figure carismatiche dei leader. Un mutamento che diventa evidente quando sui simboli delle forze politiche prevalgono i nomi dei loro capi. Il fenomeno che viene efficacemente definito come il sistema dei «partiti personali». La legge elettorale elaborata da Calderoli, a questo punto, è la coerente e necessaria condizione perché si applichi questa metamorfosi della nostra Repubblica.

 

La terza tappa di questa storia arriva adesso. I partiti, a cominciare da quelli più caratterizzati dai loro leader, vengono travolti dalla disaffezione e, persino, dal disprezzo generalizzato della gran parte degli italiani. Ecco perché, invece di cercare una rilegittimazione del loro ruolo e di riacquistare la fiducia dei loro elettori, meglio ex elettori, cercano, con una nuova legge elettorale, di garantirsi o la vittoria o, almeno, di impedire la vittoria degli avversari. E, comunque, di evitare che il discredito degli italiani nei loro confronti favorisca quel populismo demagogico da loro, per anni, alimentato.

 

Il vergognoso ritardo con il quale ci si appresta a cambiare il «porcellum» fa sì che la nuova legge elettorale non nasca dalla preoccupazione di garantire un sistema coerente di regole che assicuri quella governabilità voluta dalla maggioranza degli italiani. L’ottica è solamente quella della convenienza partitica, fondata sui più recenti sondaggi per le prossime elezioni. Una volontà, bisogna darne atto, neanche coperta dalla minima ipocrisia, ma confessata spudoratamente da tutti.

 

In virtù di questa necessità si compiono le acrobazie dialettiche più incredibili. Il Pd è passato dalla «vocazione maggioritaria», di veltroniana memoria, alla «pretesa maggioritaria», rivendicata da Bersani, attraverso un consistente premio di parlamentari al prevedibile piccolo vincitore del voto di aprile. Il Pdl, dopo aver sprecato in questa legislatura quel robusto premio di maggioranza assicurato dal «porcellum», trova ora distorsivo della volontà popolare questo meccanismo di governabilità. Le preferenze, prima demonizzate dal referendum promosso da Segni come simbolo di ogni malaffare, vengono ora riscoperte, come trasparenti mezzi di espressione politica dei cittadini. Il migliore sistema elettorale possibile, inutilmente consigliato da quasi tutti i politologi, quello fondato sul doppio turno in collegi uninominali, non viene neanche preso in considerazione.

 

A questo punto, la disperazione suggerirebbe persino di auspicare che rimanga in vigore l’orrendo «porcellum», in modo da consentire che, nella prossima legislatura, non più sotto la necessità di guardare a convenienze immediate, prevalga un minimo di ragionevolezza politica e di rispetto per le istituzioni democratiche. Bisognerebbe, però, resistere a questa tentazione e ricordare ai partiti che la rappresentatività dei voleri popolari non si conquista con le regole elettorali quando, come è capitato in Sicilia, la maggioranza degli aventi diritto non va a votare. E che la governabilità non viene garantita dai premi di maggioranza, ma dalla capacità di offrire agli italiani un programma serio e credibile, avanzato da una classe politica rinnovata e altrettanto seria e credibile. Insomma, per governare non basta una legge, bisogna dimostrare di saperlo fare.

da - http://lastampa.it/2012/11/14/cultura/opinioni/editoriali/la-governabilita-si-conquista-non-e-un-diritto-QeSXAKFdF3ZdRBpTX6oQ5O/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Figuraccia parlamentare
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2012, 05:31:02 pm
Editoriali
27/11/2012

Figuraccia parlamentare

Luigi La Spina

Quale male peggiore? E’ davvero imbarazzante e alquanto penoso dover stabilire se sia meglio l’affossamento di una pessima legge sulla diffamazione o la permanenza dell’attuale. 

 

che prevede, sia pure in casi estremi e rarissimamente applicati, il carcere per i giornalisti. Ma è, soprattutto, amaro dover constatare come questo Parlamento confermi la sua incapacità ad affrontare, con adeguata consapevolezza culturale e serietà politica, questioni certo delicate, ma sicuramente risolvibili, se ci fosse la volontà di trovare una soluzione equilibrata. Per di più, il voto al Senato di ieri mette la firma a un’autocertificazione beffarda per una legislatura costellata da leggi ad personam, poichè dimostra come sia arrivata al punto di non saper più neanche praticare con successo quella discutibile “specializzazione”. 

 

Sono tanti e tutti abbastanza meschini i motivi di questa nuova figuraccia parlamentare. Già il punto di partenza non era promettente: la fretta di risolvere il “caso Sallusti”, un viatico poco rassicurante per sperare non solo in una legge che sanasse una vicenda specifica ed eccezionale, ma tale da contemperare la tutela dell’onorabilità della persona e della verità dei fatti con il diritto, ma anche il dovere, dei giornalisti di informare, in piena libertà, l’opinione pubblica. Condizione essenziale non del privilegio corporativo di una categoria, ma dell’esistenza stessa di una democrazia. La quale si fonda, appunto, sulla possibilità che i cittadini siano messi in condizione di giudicare i propri rappresentanti al potere.

 

Il vizio iniziale dell’iter legislativo di questo provvedimento ne procurava altri, persino peggiori: il risentimento esplicitamente vendicativo della classe politica contro il mondo dell’informazione; l’arretratezza culturale di chi non capisce che, ormai, il pluralismo dei mezzi comunicativi e la loro specificità tecnologica richiederebbe un approccio al problema della diffamazione ben più consapevole della straordinaria e molto complessa evoluzione avvenuta in questi anni nel settore; infine, lo sbandamento parlamentare davvero impressionante del Pdl, tra odi politici e rivalità personali nei confronti di Sallusti, dei suoi amici e delle sue amiche, del capogruppo al Senato, Gasparri, e, persino, nei confronti di chi si appresta a partecipare all’ultima,(forse), metamorfosi partitica di Berlusconi.

 

La fine ingloriosa di questa riforma della legge sulla diffamazione potrebbe aiutare i nostri legislatori a una benefica pausa di riflessione, tale da stemperare le animosità e da far ripartire l’esame del problema su basi conoscitive più adeguate ai tempi. Ma un contributo a un clima migliore potrebbe venire anche dai giornalisti, dagli editori e dalle loro rappresentanze. Forse sarebbe ora di riconoscere che, da qualche parte del mondo dell’informazione, si sono praticate certe abitudini, giustificazioniste e corporative, non più tollerabili. A partire da coloro che, disinvoltamente, gridano al reato d’opinione, quando si tratta di diffamazione bella e buona o da coloro che si appellano al diritto di critica quando, per colpire chi milita nel campo avverso, si raccontano pure falsità e si arriva a manipolare le prove di una accusa. Ma bisogna evitare anche quella corrività supponente che ignora il diritto alla replica, quando sia doverosa, o abusa dell’opportuna controreplica del giornalista sui fatti contestati, per risposte evasive o, addirittura, sprezzanti e offensive.

 

Queste “abitudini”, chiamiamole così, hanno un effetto controproducente, perchè alimentano un’altra grave “abitudine”, quella di promuovere procedimenti civili e penali contro giornalisti ed editori del tutto senza fondamento, nella speranza di firmare, comunque, una transazione prima della sentenza che arrechi un qualche vantaggio economico al querelante. Cause tecnicamente definite “temerarie”, ma che hanno sempre un intento intimidatorio, tale da incidere nei comportamenti degli operatori dell’informazione. Perchè limitano la loro libertà di indagine e la loro libertà di critica, inducendoli a conformismo, acquiescenza nei confronti del potere, di qualunque specie, subordinazione agli interessi di chi, magari, è in grado, senza pagare pegno per richieste infondate, di minacciare risarcimenti milionari.

 

C’è materia, come è evidente, sia per non varare norme, sbagliate nel merito e vendicative nelle intenzioni, come quelle che fortunatamente sono cadute ieri al Senato; sia per non rassegnarsi a conservare l’attuale legge che si presta, come si è visto nel caso Sallusti, a sanzioni così assurde da costringere o all’inapplicabilità o a scappatoie penose e, persino, vagamente ridicole. Ma è ora che sul palcoscenico di questo Parlamento, esauriti i compiti d’obbligo, cali una provvidenziale tela.

da - http://lastampa.it/2012/11/27/cultura/opinioni/editoriali/figuraccia-parlamentare-nuCGzDzpby01bHrdzYMJlI/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il Paese della destra impossibile
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2012, 04:43:32 pm
Editoriali
06/12/2012

Il Paese della destra impossibile

Luigi La Spina


Dalla nascita della Repubblica italiana non l’abbiamo mai avuta. Prima, e per quasi 50 anni, la democrazia cristiana ha occupato il suo spazio, ma rifiutando, quasi con sdegno, il suo nome. Poi, quello spazio l’ha usurpato Berlusconi, ma rifiutando, anche lui, di interpretare quella politica. Ora, ci sarebbe la grande occasione per assistere, finalmente, alla nascita della destra italiana. Purtroppo, è molto probabile che, anche questa volta, il nostro Paese non riesca a diventare una normale democrazia moderna e occidentale. 

 

Eppure, le condizioni adesso sembrano molto favorevoli.

 

A sinistra, si è consolidato in Italia un partito democratico che pare aver superato l’anomalia tardo-novecentesca della sommatoria di due ex burocrazie, quella comunista e quella della sinistra dc. Una maturazione che smentisce le tante profezie sull’inarrestabile destino fallimentare della creatura patrocinata da Prodi e che si deve non solo all’audacia giovanilistica di Renzi, ma anche alla sorniona abilità tattica di Bersani.

 

Sull’altro versante dello schieramento politico, le convulsioni amletiche di Berlusconi potrebbero trasformare un partito personale di massa in una guardia personale di pseudo-amazzoni e di pseudo-dannunziani. Si susseguono, a Palazzo Grazioli i vertici come quello di ieri. Ma l’impressione è che anche se Berlusconi decidesse alla fine di candidarsi, il declino dell’uomo e del Pdl sarebbe inevitabile.

 

Il centro, tanto evocato e tanto evanescente, si dibatte tra rivalità incomprensibili e meschini calcoli di potere. Mescola a vuoto buone intenzioni con astratti disegni e consuma attese ormai insopportabili. La Chiesa italiana, infine, che ha sempre esercitato una sotterranea opera di interdizione per la nascita di una destra «normale» anche nel nostro Paese, sembra, col passaggio tra Ruini e Bagnasco, aver rinunciato a quella funzione di supplenza, che ha reso, in passato, quella parte del campo politico di ispirazione cattolica, gregaria, minoritaria e sostanzialmente inutile.

 

Perché, allora, sono così flebili le speranze che il grande vuoto che si è drammaticamente aperto di fronte al partito democratico possa essere riempito da una formazione politica che si modelli come la destra conservatrice britannica, quella post-gollista francese o quella popolare della Germania di Angela Merkel e della Spagna di Mariano Rajoy? Perché il liberismo economico fatica persino ad essere praticato dai tecnici del bocconiano Monti, le liberalizzazioni e le privatizzazioni devono essere rivendicate con orgoglio dal socialdemocratico Bersani, l’appello alla legge e all’ordine sia paradossalmente monopolio della sinistra giustizialista?

 

Il motivo è semplice: proprio perché la destra, negli oltre 60 anni della storia repubblicana, non ha mai avuto, né una presenza politica, né una presenza culturale e sociale di un certo rilievo. Ridotta a manipoli di reduci ex fascisti e velleitari evoliani, costretta a nascondersi tra i nostalgici e ultraminoritari circoli conservatori, assente in una cultura universitaria e letteraria egemonizzata dalla sinistra, poteva nascere dal collasso democristiano. Ma l’arrivo del partito-azienda berlusconiano l’ha, per altri vent’anni, costretta all’aborto.

 

L’illusione di uno sparuto gruppo di intellettuali vaganti, delusi dal comunismo, come Colletti, Melograni, Vertone, si scontrò quasi subito con l’amarezza di chi aveva voluto chiudere gli occhi, pur di coltivare il sogno di una destra europea. Altri intellettuali, di matrice liberale, come Urbani, Martino, Rebuffa tentarono, con maggior pazienza, di contaminare il partito di Berlusconi con le loro idee, ma, prima o poi, furono costretti a emarginarsi o essere emarginati.

 

Dopo due decenni, le circostanze sembrano, adesso, ancor più promettenti per assistere al parto di una destra il cui travaglio dura dagli albori della Repubblica. Ma il pessimismo nasce da una domanda: può nascere un vero partito di destra in Italia senza una cultura di destra, senza una borghesia liberale e legalitaria, senza una classe dirigente selezionata meritocraticamente e non cooptata per fedeltà e conformismo? Forse dovremo aspettare altri 60 anni.

da - http://lastampa.it/2012/12/06/cultura/opinioni/editoriali/il-paese-della-destra-impossibile-UMwzlEcANuaGeCYL9XN2tL/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Quel salto dai poteri forti alla protesta
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 05:36:08 pm
Editoriali
12/12/2012

Quel salto dai poteri forti alla protesta

Luigi La Spina

C’è un uomo, in Italia, che segue, con assoluta coerenza, la fondamentale lezione di Carlo Marx. Questo uomo è Berlusconi. Da quando è entrato in politica, da quasi vent’anni, pensa che le ideologie, le sovrastrutture, siano solo strumenti dello scontro di interessi e che, per raccogliere voti, occorra individuare, con la massima rapidità e spregiudicatezza, i cambiamenti sociali che alimentano la protesta. 

 

Così, ha scelto, con perfetto tempismo, il momento più opportuno per lanciare la sesta discesa in campo nel nome della sua antica battaglia, quella del ‘94, contro l’establishment, la struttura dirigente nazionale ed europea. 

 

Non devono stupire, perciò, le sue tante contraddizioni: quella di aver stipulato lui, con l’Europa, appena l’anno scorso, un patto di repentino e azzardato rientro del debito; quella di aver fatto votare al suo partito tutte le misure proposte da Monti e, infine, per citare solo quella più clamorosa, la promessa di ritirarsi come «padre nobile» di un centrodestra rinnovato. Berlusconi ha capito di aver perso definitivamente la credibilità sull’immagine che aveva cercato di costruirsi nella legislatura che sta per concludersi, cioè quella dell’uomo di Stato, liberista in economia e moderato in politica, perfetto interprete italiano della linea sostenuta in Europa dal partito popolare europeo. Una linea, peraltro, nel nostro Paese, «usurpata», con ben maggiore autorevolezza internazionale, proprio da un leader tecnico e pragmatico come Mario Monti.

 

Sintomo di questa sottrazione di una parte importante del bacino elettorale del Cavaliere è lo sfaldarsi, proprio in contrapposizione con l’attuale premier, dell’appoggio di due pezzi tradizionali e fondamentali di quella che è stata la sua «costituente» in questi due decenni, la Chiesa e l’imprenditoria italiana. Le reazioni alla mossa di provocare la crisi di governo, insolitamente dure e senza troppe ipocrisie formali, di vescovi abituati alle più sottili prudenze episcopali come quella del loro capo, Angelo Bagnasco o di industriali ex simpatizzanti, come il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, sono state la conferma di un distacco definitivo che Berlusconi, da abile uomo di marketing, aveva compreso da tempo come fosse ormai irrecuperabile.

 

Ecco perché la sua strategia politica è cambiata, apparentemente all’improvviso. Perduto il sostegno dei moderati, del ceto medio borghese, del mondo dell’imprenditoria, della finanza e, persino, dell’alto clero, Berlusconi è stato costretto a rivolgersi, nel frattempo, là dove montava più forte il disagio e la protesta. Ossia nei ceti popolari, trasversalmente divisi tra l’astensionismo, la ribellione grillina e anche la rabbia di una certa sinistra insofferente a Monti e alla sue riforme rigoriste. Così è stato riscoperto il vecchio linguaggio dell’esordio politico berlusconiano, quello anti-sistema, contro i cosiddetti «poteri forti», aggiornato all’ultima vulgata popolar-demagogica, quella contro la Germania e l’Europa egemonizzata dalla Merkel. Con la conclusione (per ora) linguisticamente più efficace, lo slogan contro «lo spread», simbolo dell’incomprensibile spauracchio che incomberebbe sulla testa e nelle tasche degli italiani.

 

La linea che impronta la campagna elettorale di Berlusconi è perfettamente adeguata allo scopo che si prefigge il Cavaliere: non quello di vincere la battaglia per la futura presidenza del Consiglio, ma quella di ottenere un consistente gruppo di fedelissimi in Parlamento, scudo personale delle sue aziende e dei suoi problemi processuali. E’ chiaro, infatti, che una tale posizione antieuropeista e antitedesca sarebbe improponibile se dovesse avere come obiettivo la leadership di un governo italiano, pena catastrofiche conseguenze sulle nostre finanze e sulla nostra presenza internazionale. Le parole della Merkel, del ministro Westerwelle e, soprattutto, della dirigenza del partito popolare europeo sono, a questo proposito, inequivocabili. Fanno capire, tra l’altro, come neanche l’ipocrisia diplomatica riesca a celare la convinzione, tra i nostri partner europei, che nel 2013 non si troveranno davanti, a Bruxelles, di nuovo Berlusconi a capo della delegazione governativa italiana. 

 

Del tutto compatibile, invece, con un’opposizione senza particolari responsabilità, sarebbe la polemica contro l’Europa e, perfino, quella contro lo spread e contro l’euro, condita dal definitivo abbassamento della bandiera liberale, in favore di un protezionismo nazionalistico che resusciti, almeno nei sogni, la lira e quelle svalutazioni della moneta che erano tanto preziose per esportare i nostri prodotti.

 

Alla spregiudicata strategia filosofica «marxiana» si aggiunge, in Berlusconi, l’intuito tattico dell’uomo di comunicazione. Così, la sconfitta di Renzi alle primarie pd, l’alleanza in lista della coppia Bersani-Vendola, la necessità, da parte di Maroni, di un accordo col Pdl per sperare in una vittoria in Lombardia, l’opportunità di anticipare il travagliato parto del nuovo «centro» politico, e infine, ma non da ultimo, la scadenza del pagamento dell’Imu hanno dettato i tempi della sua sesta discesa in campo con cronometrica precisione. A questo punto, l’unica incognita che potrebbe alterare il piano berlusconiano potrebbe essere un secondo contropiede di Monti, dopo l’annuncio delle sue prossime dimissioni: quello di una sua disponibilità al sostegno di una lista. Per saperlo, bisognerà aspettare la vigilia di Natale. Per Berlusconi (e per Bersani) non sarebbe certo un bel regalo.

da - http://www.lastampa.it/2012/12/12/cultura/opinioni/editoriali/quel-salto-dai-poteri-forti-alla-protesta-CFnrVQPqQSH1MLmRgizE0J/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - La radiografia del candidato ideale
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2012, 07:47:11 pm
Editoriali
29/12/2012

La radiografia del candidato ideale

Luigi La Spina

Il mancato cambiamento della legge elettorale non è solo uno dei tanti fallimenti di una legislatura da dimenticare. E’ anche il simbolico segnale della sordità dei partiti rispetto alle richieste dei cittadini su tutto il fronte della riforma della politica, dalla riduzione del numero dei parlamentari, al finanziamento pubblico, dall’abolizione delle province alle regole di garanzia per le candidature alle Camere.

 

Il risultato di questo deludente bilancio è, in questi giorni, sotto gli occhi di tutti. C’è chi, come il partito di Bersani, cerca, con le cosiddette «parlamentarie» in programma nel week-end, di attuare, perlomeno, un parziale tentativo di restituzione agli italiani del diritto a scegliere i loro rappresentanti. Chi, come Berlusconi, vuole evitare che la sua prossima compagine parlamentare non sia composta solo di fedelissimi. Chi, come Monti, salendo in politica spera di alleggerire il più possibile il carico di imbarazzanti compagni di cordata. 

 

A proposito dell’attuale presidente del Consiglio in carica per gli affari correnti, è evidente il tentativo di sorvegliare la selezione di questi adepti alla sua «agenda». Lo conferma sia l’incarico a Bondi di un esame preliminare dei candidati, sia la distinzione, dove è consentito dal quorum necessario all’elezione, cioè alla Camera, tra una lista di uomini e donne provenienti dalla «società civile» e una lista di personale politico collaudato, come quello che si raggruppa nel partito di Casini.

 

E’ lodevole l’apertura di Monti verso coloro che non hanno fatto della vita di partito l’unica esperienza della loro vita. Del resto, corrisponde al suo profilo di tecnico, autorevole professore di economia apprezzato internazionalmente. Così come è apprezzabile la ricerca di competenze, fondate più sul valore intellettuale e sul successo professionale e meno sulla fedeltà di clan, per arricchire di qualità una classe politica che non ne ha dimostrato molta.

 

La questione della provenienza, da parte dei candidati, è, però, meritevole di qualche riflessione supplementare. E’ ovviamente ingenuo o scopertamente ipocrita ritenere che assicuri, di per sé, una garanzia di serietà, competenza e rigore morale. Il passato offre esempi troppo clamorosi per poterli dimenticare, sia tra gli eletti in Parlamento, sia tra i consiglieri regionali. E non sono solo gli albi degli igienisti dentali a non aver offerto nomi che abbiano dato prove esaltanti nei nostri emicicli. Tra coloro che sono stati condannati dalla magistratura ci sono fior di avvocati, medici, architetti che, prima di entrare in politica, godevano di sicura fama per la presunta eccellenza del loro lavoro. Ricordiamo, infine, che la ventennale discesa in campo dello stesso Berlusconi è sempre stata contrassegnata dalla sua polemica contro i «professionisti della politica». Ma l’esito concreto di questo slogan non pare davvero brillante, se guardiamo alla classe dirigente trasportata dal Cavaliere nelle aule parlamentari.

 

La radiografia dei candidati, oltre che alla fedina penale, non può quindi limitarsi alla professione dichiarata sul loro curriculum vitae. Né ci sono garanzie assolute, per il futuro, dai comportamenti del passato. Tutt’al più ci possono essere segnali promettenti e altri meno. Per quanto riguarda i magistrati, ad esempio, la carriera quarantennale dell’ormai ex procuratore antimafia, Piero Grasso, improntata alla serietà di un impegno volto a evitare esibizionismi parapolitici e a condurre indagini concluse con sentenze che ne hanno garantito la fondatezza, forse potrebbe confortare di più di quella di altri suoi colleghi, come Antonio Ingroia, per citare la candidatura più discussa.

 

Di fronte alla montante indignazione «antipolitica» da parte dei cittadini italiani, peraltro ampiamente giustificata, bisogna, però, evitare scorciatoie semplicistiche e populiste. La nostra storia recente ci dimostra come certe parole d’ordine, sulle quali è stata costruita la cosiddetta «Seconda Repubblica», non hanno portato benefici risultati. E’ augurabile che, anche con il contributo di Monti, la Repubblica che ci aspetta dopo la fine di febbraio offra un personale politico migliore. Ma la società, qualche volta è civile e, qualche volta, no.

da - http://lastampa.it/2012/12/29/cultura/opinioni/editoriali/la-radiografia-del-candidato-ideale-F4z5t4YCJe72gcY36XKiSM/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Opinione pubblica disprezzata
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2013, 09:03:44 am
Editoriali
22/01/2013

Opinione pubblica disprezzata

Luigi La Spina

La compilazione delle liste elettorali, culminata con il «caso Cosentino», trascinatosi fin all’ultima ora a casa Berlusconi in una trattativa a dir poco indecorosa, anche se conclusa per fortuna in modo ragionevole, lascia davvero interdetti. Ma in quale mondo vive la nostra classe politica, a cominciare da quella del Pdl? 

 

U na legislatura costellata da una eccezionale ondata di scandali ha suscitato un’altrettanto eccezionale ondata di sdegno popolare. Ne è testimonianza evidente il dilagare di un fortissimo sentimento «antipolitico» che, non solo gonfia fino a percentuali a due cifre il movimento di Grillo, ma che ingrossa le file di coloro che, in questi giorni, pensano di rifiutare la scheda per il voto di fine febbraio. Il fallimento, poi, dell’unico compito, nell’ultimo anno di vita di questo Parlamento, che il presidente Napolitano aveva sollecitato ai partiti, quello di varare una riforma della pessima legge elettorale in vigore, poteva far sperare che le forze politiche cercassero di dimostrare almeno qualche segnale di consapevolezza e di autocorrezione. 

 

Il bilancio che ieri sera si poteva tracciare, invece, a parte, bisogna ammetterlo, il miglior comportamento del Pd, è del tutto deludente.
Sia sul piano della decenza politica nella scelta dei candidati, con la dimostrazione lampante di quanto fosse insufficiente il decreto varato dal ministro Severino due mesi fa. Sia sul piano della lealtà nei confronti dei cittadini, con la reiterazione impudente delle vere e proprie truffe elettorali che si compiono con le candidature plurime in vari collegi e con quelle che si avanzano solo come «acchiappavoti», perchè si dichiara in anticipo la volontà di rinuncia al seggio parlamentare per mantenere altri incarichi, politici o istituzionali.

 

Il negoziato, chiamiamolo così, sulla candidatura dell’ex deputato Pdl e ex sottosegretario, Nicola Cosentino, è stato certamente esemplare di uno sfacciato schiaffo alla sensibilità dell’opinione pubblica. Con l’aggravio di una mistificante confusione tra concetti diversi.
Non si trattava, infatti, di emettere un verdetto nei confronti delle pesantissime accuse che la magistratura gli ha rivolto, in sostanza quelle di collusione con la camorra. Cosentino, infatti, è da considerarsi innocente fino all’ultimo dei tre gradi di giudizio.
Né valgono considerazioni di tipo morale o moralistico che riguardano solo la coscienza individuale, sua e dei suoi concittadini. Esiste, invece, una chiara condizione, nei suoi riguardi, di impresentabilità politica, quella che, secondo la Costituzione, non gli consente di rappresentare, senza vincoli di mandato, la nazione nel Parlamento italiano.

 

Aggravante di questa trattativa disperata, per lui e per i vertici del suo partito, è il calcolo, davvero vergognoso, di cui si è discusso in questi giorni in via del Plebiscito. Non si è valutato solo il prezzo di una rinuncia ai voti che Cosentino avrebbe potuto portare al partito. Ma, sulla bilancia delle convenienze, una indecente contabilità ha cercato di valutare se fossero maggiori, in termini di suffragi elettorali, i numeri di coloro che avrebbero disertato, per indignazione, le urne, nel caso di una sua candidatura o quelli di chi non avrebbe votato senza che il suo nome figurasse in lista.

 

La motivazione fondamentale della necessità di candidare l’ex deputato campano, poi, è stata confessata, da entrambe le parti di questa trattativa, con sorprendente candore: quella di evitargli il carcere. Qui la confusione delle idee è massima. O non siamo più uno Stato di diritto, basato sulla distinzione dei poteri, e allora non c’è altra via che quella della montagna, con il moschetto in mano per fare la rivoluzione. Oppure, nonostante tutte le colpe e gli errori della magistratura e i difetti della nostra vita pubblica, lo siamo ancora.
In questo secondo caso, la Costituzione ammette che non si possa arrestare un deputato senza il consenso della maggioranza dei suoi colleghi, ma non che si possa far eleggere, con un listino bloccato in modo da assicurargli il seggio, un cittadino in Parlamento per sottrarlo alla prigione.

 

L’esclusione, in extremis, di Cosentino dalla lista Pdl in Campania rappresenta una buona notizia, ma non cancella lo spettacolo miserevole che si è svolto in questi giorni. Anche perché, sia pure, con gravità minore, ha riguardato il comportamento di altri partiti.
Per esempio, pure la decisione di candidare Lorenzo Cesa nelle liste del partito di Casini si presterebbe a molte critiche.
Rafforzate, peraltro, dalle promesse di un rigoroso controllo di «presentabilità politica» sbandierate dal capo della coalizione, lo stesso Mario Monti.
Per non parlare del brutto costume, abituale anche questa volta in tutti i partiti, di «paracadutare» nei collegi nomi sconosciuti sul territorio, in barba a qualsiasi rispetto per la rappresentatività regionale degli eletti.

 

Il disprezzo per l’opinione dei cittadini manifestato così clamorosamente in questi giorni, però, fa sorgere un sospetto.
Forse quell’indignazione della società civile contro la cosiddetta «casta», così sbandierata in tv e sui giornali, nei bar e nei salotti di tutt’Italia, è solo un clamoroso bluff mediatico destinato a rientrare nelle disciplinate truppe della militanza o della convenienza partitica? Forse, per questa convinzione, è, in fondo, comprensibile l’insensibilità, un po’ beffarda, della nostra classe politica nei confronti degli elettori? La risposta non tarderà ad arrivare, tra poco più di un mese.

da - http://lastampa.it/2013/01/22/cultura/opinioni/editoriali/opinione-pubblica-disprezzata-AqBepqW3hx8iBM3vAcD2lN/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Non sprechiamo i sacrifici degli italiani
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2013, 07:42:22 pm
26/9/2012

Non sprechiamo i sacrifici degli italiani

LUIGI LA SPINA

I tre presidenti italiani di maggior prestigio internazionale, quello della Repubblica, Giorgio Napolitano, quello del Consiglio, Mario Monti e quello della Banca europea, Mario Draghi, condividono, in questi giorni, la stessa forte preoccupazione per il nostro Paese. Il timore che, dopo la cospicua riduzione del divario di interessi tra i bond italiani e quelli tedeschi e il varo deciso a Francoforte dello scudo antispread, in Italia, ci si possa illudere su un definitivo superamento della crisi finanziaria dello Stato. Una eventualità che non è totalmente scomparsa, invece, sull’orizzonte del nostro futuro. Così, tra l’altro, si spiegano i tre contemporanei allarmi che, da Roma, da New York e da Berlino, oggi, hanno lanciato i tre presidenti.

Napolitano ha espresso una condanna durissima per i vergognosi esempi di corruzione e di immoralità pubblica che alimentano, con la giustificata indignazione dei cittadini, la cosiddetta «antipolitica». Monti, sia pure con il suo tipico linguaggio sobrio e allusivo, ha sollecitato l’aiuto dell’opinione pubblica perché esiga una diversa «qualità» dei loro governanti.

Draghi ha ricordato che, senza l’impegno concreto e persistente al risanamento e alla riforme delle classi politiche nazionali, non sarà sufficiente l’opera della Bce per salvare sia l’unità dell’Europa, sia la sorte dell’euro.

Le diverse responsabilità istituzionali, certamente, hanno indotto i tre presidenti a manifestare la loro apprensione con forme differenti, ma il fondamento dei timori è identico: il rischio che l’Italia, dopo aver faticosamente risalito la china della credibilità internazionale, dopo aver recuperato la stessa dignità della sua immagine sul palcoscenico del mondo, dopo aver di nuovo riscosso la fiducia sulla serietà dei suoi impegni, possa ripiombare nel discredito e nel disprezzo dei suoi partner continentali e d’oltreoceano.

Si coglie con evidenza, in questi giorni, l’amarezza e, persino, un certo disorientamento di Monti e dei ministri del suo governo. Come se lo scandalo della Regione Lazio, con i terribili danni mediatici di quelle squallide foto di festini, col contorno di maschere umane e suine, avesse reso, di colpo, vani tutti gli sforzi che, da mesi, si stanno facendo, in tutte le sedi del potere internazionale, per convincere i nostri interlocutori che l’Italia ha compiuto una svolta definitiva, irreversibile e profonda nei suoi comportamenti pubblici. Come se tutti i dubbi sul «dopo Monti», l’interrogativo che all’estero pongono con trepidazione al presidente del Consiglio, avessero avuto una risposta improvvisa ed eloquente. Come se il futuro italiano si fosse svelato ai loro occhi, dietro quelle maschere ridanciane e spudorate, diffuse, con malizioso compiacimento, sui giornali, le tv e gli schermi di Internet in tutto il mondo.

A quasi un anno dall’inizio della durissima prova a cui è stato sottoposto il nostro Paese, si è ormai capito che l’immagine dell’Italia, la percezione che in Europa si ha del nostro paese e dei nostri governanti, condizioni pesantemente sia i mercati finanziari, sia le istituzioni europee. E’ quell’immagine che rende credibili gli impegni di risanamento dei nostri conti pubblici. Quell’immagine fa sperare che le riforme approvate o solo annunciate abbiano veramente effetti concreti sull’economia italiana. Quell’immagine garantisce che anche le parti sociali abbiano compreso l’esigenza di rinunciare alle difese corporative e accettino di cambiare passo, per salvare il futuro dei giovani, le vere vittime di anni di dissipazione pubblica e di egoismo privato.

Le preoccupazioni di Monti e del suo grande «lord protettore», Giorgio Napolitano, sono condivise anche dal presidente della Bce, il quale le inserisce pure in un quadro europeo che mostra sintomi di inquietante allentamento degli impegni promessi. Draghi nota le titubanze e gli affannosi negoziati del premier spagnolo, Mariano Rajoy, soprattutto con la Merkel, per evitare di chiedere quegli aiuti all’Europa che lo costringerebbero a imporre ai suoi connazionali una medicina ben più amara di quella che già stanno sorbendo. Ma ha accolto, con allarme, pure le sparate propagandistiche di Berlusconi sull’abolizione dell’Imu, in caso di una nuova vittoria elettorale del centrodestra italiano. Un segnale di come l’imminenza della campagna elettorale nel nostro paese possa spezzare il precario accordo della «strana maggioranza» che sostiene Monti sulla necessità di non abbandonare la strada del rigore finanziario.

I timori dei tre presidenti sono fondati sull’esperienza di chi sa come la fiducia si conquisti con molta fatica e la si perda con molta facilità. I sacrifici che in questi mesi stanno facendo gli italiani non meritano di essere sprecati.

da - http://www1.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10570


Titolo: LUIGI LA SPINA - Quel marcio della società civile
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2013, 11:57:36 pm
Editoriali
01/02/2013 - il caso musy

Quel marcio della società civile


Luigi La Spina

Sono tanti i sentimenti che agitano l’animo di chi abbia letto il decreto di fermo emesso dalla procura contro il presunto attentatore di Alberto Musy, l’ex candidato a sindaco di Torino e consigliere comunale che giace, in coma profondo, in una clinica emiliana da poco meno di un anno. E’ sempre opportuno ricordare subito che, fino a sentenza definitiva, l’imputato, Francesco Furchì, si deve considerare innocente. Ma il giusto scrupolo giuridico non può impedire di compiere qualche riflessione e di formulare qualche giudizio, non sulla fondatezza o meno degli indizi contro l’accusato, compito esclusivo della magistratura, ma sulle vicende e sui comportamenti dei protagonisti e dei comprimari di una tragedia che ha commosso tutti. La coincidenza, poi, con la campagna elettorale aggiunge suggestioni comparative interessanti e offre una lezione su cui varrebbe la pena meditare. 

 

E’ certamente grande lo sbigottimento per la futilità e l’abiezione delle motivazioni per cui, secondo l’accusa, si arriva a privare, purtroppo probabilmente per sempre, quattro bambine della guida di un padre e una donna dell’amore di un marito. 

 

Come è altrettanto grande il rispett o e l’ammirazione per il comportamento della vittima. Musy ascolta la raccomandazione del suo maestro all’Università, Pier Giuseppe Monateri, in favore del figlio dell’ex parlamentare Salvo Andò, ma, dopo l’esame del candidato in commissione, segue la sua coscienza e vota in modo contrario rispetto all’autorevole consiglio. Analoga indipendenza di giudizio e probità morale mostra nelle altre due circostanze per cui, secondo gli inquirenti, Furchì decide la vendetta. 

 

Fosco è, invece, l’ambiente in cui si muove l’imputato, faccendiere tanto millantatore di amicizie importanti quanto impresario di affari costantemente destinati al fallimento. Mellifluo e forbito nelle occasioni mondane, violento e intimidatorio nei rapporti privati. Ma anche il comportamento del docente di diritto, il terzo uomo di questa vicenda, lascia allibiti. Amico di Furchì, sospetta subito che possa essere l’attentatore, sia per la conoscenza dei motivi di risentimento contro Musy, sia per l’inconfondibile andatura claudicante dell’attentatore, rilevata dalle immagini tv che lo ritraggono. Dopo gli appelli della moglie della vittima e degli inquirenti a tutti coloro che potessero aiutare l’inchiesta, Monateri non solo non si presenta in questura, ma scrive un bigliettino, vergognoso e insultante, contro il suo ex allievo e fornisce una versione credibile dei fatti solo al quarto interrogatorio, quando è minacciato di arresto per favoreggiamento e falsa testimonianza.

 

Al di là delle prove che saranno portate al dibattimento e dell’esito del processo, il quadro dei comportamenti dei protagonisti è ben definito. Da una parte, abbiamo Musy, un avvocato che lascia la docenza universitaria e uno studio professionale molto importante per un impegno politico che sa benissimo lo porterà solo a un posto di minoranza in consiglio comunale. Un uomo la cui vita è stata setacciata in ogni risvolto possibile, senza mai trovare la più piccola ombra. Dall’altra, un faccendiere senza faccende e un professore che insegna diritto civile ai suoi allievi e dovrebbe offrire ai suoi studenti esempi ben diversi di comportamento civile. Dov’è, questa volta, il confine tra la buona società, quella dei salotti letterari, delle associazioni culturali, delle professioni prestigiose, delle amicizie altolocate, e quella della politica, per definizione, sporca, brutta e cattiva?

 

In una campagna elettorale confusa, strumentale, miserrima come quella a cui stiamo assistendo, il tragico e significativo, «caso Musy» dovrebbe insegnare, almeno, che gli uomini non si dividono per etichette professionali e che onore e disonore possono convivere tra vicini di poltrona, nelle aule parlamentari come in quelle universitarie. Musy ha dimostrato che la politica si può fare anche in maniera diversa, pagando un prezzo altissimo per rimanere coerente a una scelta morale. Resta la sua immagine di uomo, forse, sì, anche ingenuo, ma che rivendica il diritto di essere ingenui pure in politica, e il suo corpo steso, incosciente sul letto di una clinica. Vicino a lui, è chiaro e terribile, invece, il confine tra la vita e la morte. L’amore delle sue bimbe e di sua moglie, che non finirà mai, lo trattiene al passaggio di quel confine. Lo fa anche la speranza di quelli che l’hanno conosciuto, nell’augurio che, anch’essa, non debba finire.


da - http://lastampa.it/2013/02/01/cultura/opinioni/editoriali/quel-marcio-della-societa-civile-72gEQAPqp7ttYkLItZaB4N/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - La Destra che non trova alternative
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2013, 05:37:55 pm
Editoriali
27/02/2013

La Destra che non trova alternative

Luigi La Spina

Ai nostri politici farebbe bene un corso accelerato di storia patria. Anzi, per fare meno fatica, si potrebbero limitare a un colpo d’occhio sul bel grafico multicolore che il sito del nostro giornale ha pubblicato e metterlo a confronto con i risultati del voto, dalla proclamazione della Repubblica in poi. Si accorgerebbero subito che in Italia, ormai, esistono tre «postulati». 

 

Postulati che non si possono ignorare, pena le clamorose gaffe e gli imbarazzanti commenti che abbiamo ascoltato nei primi minuti dello spoglio elettorale di lunedì. 

 

Nel nostro paese, innanzi tutto, c’è una solida e persistente maggioranza di centrodestra. Rappresentata, per quasi cinquant’anni, dalla Dc e, per quasi vent’anni, da Berlusconi. Corollario della prima regola è, quindi, la seconda: il centrosinistra può vincere solo se questa maggioranza è costretta a dividersi o, in parte notevole, ad astenersi. L’ultimo, in verità, non è un postulato, ma è una consuetudine talmente radicata da divenire anch’essa una costante dalla quale non si può prescindere: i sondaggi, in qualsiasi modo siano condotti, sottovalutano sempre i consensi del centrodestra. 

 

Alla luce di queste banali osservazioni, sono chiarissimi i motivi di quelle apparenti sorprese del voto che riguardano l’atteggiamento elettorale dei cosiddetti «moderati» italiani. Appaiono del tutto comprensibili la tanto celebrata rimonta di Berlusconi, i modesti apporti di questi elettori alla lista Monti, la sconfitta della Lega e la sostanziale scomparsa dell’estrema destra. 

 

Se si guardano le serie storiche dei risultati dal ’94 in poi, l’andamento dei suffragi al partito di Berlusconi è assolutamente costante: dopo il clamoroso successo iniziale, avviene un’esperienza di governo che regolarmente delude i suoi simpatizzanti e che viene punita nei successivi verdetti elettorali sempre meno del prevedibile per le eccezionali prestazioni del Cavaliere in campagna elettorale, certamente, ma non solo. Il punto fondamentale di questo fenomeno è un altro: non esiste una diversa «offerta» che possa dirottare la «domanda» dei moderati al mercato elettorale italiano. 

 

Anche domenica e lunedì scorsi, la regola è stata puntualmente osservata. A questo proposito, è corretto confrontare i sondaggi con i sondaggi e i risultati con i risultati e non mischiare questi due diversi termini di riferimento. La rimonta di Berlusconi è stata sicuramente spettacolare, ma se i sondaggi si sono dimostrati fallaci rispetto al dato reale dei voti, è probabile che fossero fallaci anche quelli, estremamente deludenti, che erano stati diffusi all’inizio della campagna elettorale. Del resto, la «quasi vittoria» del centrodestra è avvenuta soprattutto per la pesante sconfitta di Bersani che, rispetto al 2008, è passato dal 33,2 al 25,4. Perché, sempre nel 2008, il partito di Berlusconi aveva il 37,3; nel 2011, il 29,4 e, ora, è arrivato al 21,5. Vista la dura sconfitta della Lega, la scomparsa dell’estrema destra e di Fini, il deludente risultato di Casini e della Meloni, era davvero inimmaginabile che la delusione dei moderati italiani fosse tale da punire ancor di più il partito di Berlusconi. A meno di prevedere una devastante epidemia influenzale politicamente selettiva, cioè tutta rivolta contro i simpatizzanti di quello schieramento. 

 

L’unica alternativa al voto per il Popolo della libertà, sempre per questa area di elettorato, poteva essere il suffragio a Monti. Ma il presidente del Consiglio ha chiuso subito questa strada, rifiutando di ereditare il consenso che, in questi vent’anni, i moderati hanno affidato al Cavaliere, per imbarcarsi in un difficile tentativo di scompaginare quei due poli che, in tutto il mondo, dividono i cittadini: la destra e la sinistra. Una scelta che ha abbandonato una sfida, altrettanto difficile, ma forse che sarebbe stata più utile all’Italia. Perché Monti, invece di voler accentuare l’eterodossia del nostro sistema politico, avrebbe potuto guidare al cambiamento la destra italiana, uniformandola alla normalità delle democrazie europee. Quella di uno schieramento liberal-conservatore, rispettoso delle regole, privo dei condizionamenti che la personalità di Berlusconi gli ha impresso, meno incline alle suggestioni populistiche e alle tentazioni antieuropee. 

 

La storia, anche quella recentissima, non si fa con i se. È inutile pensare quali conseguenze ci sarebbero state per il futuro della nostra democrazia se Monti, ascoltando anche il nostro saggio capo dello Stato, non fosse «salito» in politica e, dall’alto del suo seggio di senatore a vita, avesse avuto il coraggio di avviare la trasformazione dei caratteri del centrodestra italiano. Allora, fantasia per fantasia, si può sognare un altro po’ e immaginare che quel compito, rifiutato da Monti, tocchi a un giovane esponente del centrosinistra italiano. In fondo, i paradossi non sono solo una specialità nostrana: Tony Blair, in Inghilterra, ha preso anche l’eredità della Thatcher. Non potrebbe avvenire una cosa simile pure da noi? 

 da - http://www.lastampa.it/2013/02/27/cultura/opinioni/editoriali/la-destra-che-non-trova-alternative-4fVwJb9PJMZnMG7n30SqqN/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Dalla politica una melina sconcertante
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2013, 11:32:11 pm
Editoriali
09/03/2013

Dalla politica una melina sconcertante

Luigi La Spina


Solo una «commedia dell’assurdo» alla Ionesco potrebbe ben rappresentare la situazione che l’Italia sta vivendo. 

Ogni giorno si moltiplicano i segnali di una crisi economica che, in molte regioni del nostro Paese, si sta trasformando in un vero dramma sociale. 

In Piemonte, i ritardati o addirittura mancati pagamenti da parte delle amministrazioni pubbliche stanno costringendo alla chiusura o al fallimento molte aziende, proprio mentre le risorse per gli ammortizzatori ai dipendenti licenziati si stanno esaurendo. Dall’altra parte della pianura padana, il sistema veneto delle piccole aziende, una volta esportatrici, si sta disgregando, senza che appaiano praticabili altre forme produttive in grado di reggere la concorrenza internazionale. Nel nostro Mezzogiorno, in difficoltà i già pochi poli industriali esistenti, la sopravvivenza è affidata a una modesta economia familiare legata all’impiego pubblico e all’assistenzialismo statale. E proprio ieri sera, l’agenzia Fitch ha sanzionato questa condizione dell’Italia declassando il nostro rating. 

 

Di fronte a questa emergenza drammatica, ci sarebbe bisogno di un governo autorevole, forte nel consenso popolare e, soprattutto, capace di rappresentare in sede europea una voce ascoltata e influente. Le scelte di politica economica per stimolare la crescita che si dovrebbero attuare, infatti, dipendono, almeno per l’80 %, da decisioni che si possono approvare solo in sede comunitaria. Ebbene, dopo elezioni che hanno clamorosamente dimostrato l’insofferenza e la protesta di molti italiani, la nostra classe politica sta attuando una «melina» tattica davvero sconcertante.

 

La direzione del Pd ha votato compattamente in direzione una proposta di governo, guidato dal suo segretario Bersani, con l’unanime consapevolezza che sarà impraticabile. Il leader del «Movimento 5 stelle», infatti, ha già respinto sprezzantemente la richiesta di un voto di fiducia senza il quale la maggioranza al Senato non esiste. D’altra parte, nessuna persona di buon senso e con un minimo di esperienza politica potrebbe immaginare una rivolta di quei parlamentari contro il diktat di Grillo. Non solo per il costume, diciamo così, in vigore in quel movimento, ma perchè è davvero impossibile pensare a un’ipotesi del genere proprio all’inizio della legislatura e con la forte probabilità di imminenti nuove elezioni. È evidente perchè il partito democratico vorrebbe sottoporre Napolitano e il Paese a una così inutile perdita di tempo: il solenne «no» espresso in Parlamento dai grillini addosserebbe solo a loro la responsabilità di portare l’Italia a un nuovo scontro elettorale, all’ombra di una situazione economica e finanziaria che potrebbe davvero diventare tragica.

Sull’altro versante, quello del centro destra, i comportamenti sono altrettanto grotteschi. L’ indirizzo politico di quello schieramento appare determinato unicamente dalla sorte giudiziaria del suo leader, Silvio Berlusconi. La disponibilità a un governo di larga coalizione è ben vista perchè potrebbe offrire uno scudo istituzionale, politico e aziendale al Cavaliere nei confronti delle possibili sentenze di condanna che potrebbero essere pronunciate nelle aule di giustizia. Ma già è pronto un «piano B», se questa offerta venisse respinta: l’appello al popolo contro il «cancro» della magistratura, che sarà, prima, lanciato nella manifestazione romana del prossimo 23 marzo e, poi, costituirà il tema fondamentale di una ancor più pirotecnica campagna elettorale estiva.

 

Il terzo polo di questa inedita evoluzione della nostra cosiddetta «seconda Repubblica», quello del movimento di Grillo, intanto, aspetta l’auspicata catastrofe del sistema, tra le goffe ingenuità dei suoi neoparlamentari e gli insulti a raffica del leader. Corteggiato penosamente da chi dovrebbe contestarne, invece, le improbabili ricette per affrontare la nostra crisi economica, dall’impossibile referendum sull’euro a quel reddito di cittadinanza che, nella misura indicata, affosserebbe definitivamente i conti dello Stato. 

 

È vero che le forme e le liturgie della Repubblica vanno rispettate perché sono anche sostanza di una democrazia che non si deve arrendere alla demagogia. Ma non si capisce perchè si debba imporre al presidente della Repubblica, e soprattutto a tutti i cittadini, un allungamento di tempi che, a questo punto, umilierebbe, nell’ipocrisia e nel tatticismo, proprio quella democrazia che, a parole, viene tanto esaltata. Un forte richiamo alla responsabilità di una classe politica che non sembra ancora aver capito la gravità del disagio sociale che sta investendo il Paese, è arrivato ieri dal capo dello Stato, con parole di una inequivocabile chiarezza e severità. Parole che hanno raccolto lo stupore e l’ allarme degli italiani per tempi di attesa che non preludono a soluzioni, ma solo a uno scontato fallimento. 

 

Non è più il momento di inutili giri di valzer intorno a Napolitano (o forse al suo successore?), con l’unico scopo di ribaltare sugli altri la colpa della mancata costituzione del governo. Il rischio è quello di un maremoto che travolgerà tutti, anche il pifferaio Grillo che l’ha evocato. 

da - http://lastampa.it/2013/03/09/cultura/opinioni/editoriali/la-sconcertante-melina-della-politica-uxL2mQzscUYGwm0eNePAiL/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Non basta l’anagrafe per dirsi nuovi
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2013, 06:47:03 pm
Editoriali
20/03/2013

Non basta l’anagrafe per dirsi nuovi

Luigi La Spina


Era ora. L’ondata di «nuovismo» che sta dilagando nella politica italiana rompe finalmente il più evidente carattere distintivo del nostro sistema democratico rispetto a quelli stranieri: una gerontocrazia, ostinata e pervasiva, che sta soffocando un po’ tutta la società italiana. 

 

Un costume che non si limita, infatti, all’occupazione permanente delle poltrone del potere politico, ma che si estende a tutte, o quasi, le posizioni di vertice nella nostra classe dirigente. 

Con tutte le critiche che si possono rivolgere ai comportamenti dei parlamentari del Movimento 5 stelle e, soprattutto, del leader, Beppe Grillo, bisogna riconoscere, però, che il loro irrompere sulla scena della politica italiana ha impresso, almeno sotto questo aspetto, un impulso importante e contagioso.

 

In questo clima di rinnovamento, pur senza far paragoni incongrui, anche la coincidenza temporale dell’arrivo in Vaticano di Papa Francesco pare contribuire a rafforzare tale tendenza che coglie la necessità di una maggiore apertura e di una maggiore sensibilità per i grandissimi cambiamenti che, in questi ultimi anni, hanno mutato e, persino stravolto, il mondo e i nostri stili di vita. Con l’ovvia considerazione che l’apporto delle nuove generazioni alla direzione delle nostre società diventi determinante per cogliere prontamente le opportunità più promettenti del futuro sviluppo.

 

Come in tutti gli amori improvvisi, però, accanto agli indubbi benefici si possono celare insidie che, con l’andar del tempo, possono portare a controproducenti delusioni. Ecco perché sarebbe meglio non farsi travolgere da ingenui entusiasmi e formulare qualche distinzione a proposito dell’etichetta «nuovo».

 

Il pericolo maggiore è quello di una conseguenza paradossale di tale moda giovanilista, quella di perpetuare, cambiando direzione, un sistema di privilegio fondato sullo stesso criterio che si cerca di combattere: l’età anagrafica. Sarebbe davvero un peccato se l’esito di questa rivoluzione generazionale si risolvesse nel semplice spostamento, a favore delle classi più giovani, di quella stessa barriera di esclusione che, finora, li ha così potentemente sfavoriti. Se l’esperienza, in nome della quale si sono autorizzate occupazioni di potere non altrimenti giustificate, diventasse, ora, una patente d’infamia, in nome della quale si possano compiere scelte non altrimenti giustificate. Perché dobbiamo ricordarci che il merito, la professionalità e la competenza non possono essere subordinati a considerazioni meramente anagrafiche.

 

Gli esempi di questi giorni, a tal proposito, sono contraddittori. Le nomine per le presidenze delle Camere hanno premiato, al di là delle loro tendenze ideologiche, due nomi certamente «nuovi» alla politica; personaggi che nella società civile, però, si sono distinti per un impegno riconosciuto di serietà e di professionalità. La discriminante «nuovista», in questi due casi, non ha avuto come punto di riferimento l’età, ma il merito. In altre occasioni, invece, l’inesperienza non sembra aiutare l’efficacia nello svolgere il compito assegnato. È la sorte di tanti esponenti del M5S, sulla cui ingenuità ci si è accaniti forse con troppe compiacenze interessate, ma che hanno costretto lo stesso leader, Grillo, a riconoscerle come un pericolo. Talmente grave da imporre le inedite e un po’ inquietanti figure di due «commissari», controllori di comportamenti che potrebbero essere facilmente preda di esperti in trappole parlamentari.

 

Anche le scelte per i capigruppo hanno avuto esiti discutibili. Tale funzione, infatti, richiede una conoscenza dei regolamenti e delle consuetudini, alle Camere, molto approfondita. Ma lo studio di leggi e di norme non è sufficiente, se non è accompagnato da lunghi anni di frequentazioni parlamentari che solamente possono costruire un bagaglio di esperienza tale da far fronte a qualsiasi imprevisto procedurale o politico. E’ l’autorevolezza conquistata sul campo di tante battaglie parlamentari che consente di imporre la disciplina ai membri del gruppo di cui si è alla guida e di guadagnare il rispetto sia degli avversari che si affrontano dalle altre parti dell’aula, sia del presidente dell’assemblea.

 

Ecco perché è con simpatia che si può accogliere la giovane età e il brillante futuro che aspetta il nuovo capogruppo del Pd, Roberto Speranza. Un politico che ha la fortuna di esibire un nome benaugurante, ma che forse non basterà per dirigere un gruppo di parlamentari, molto composito negli orientamenti politici e culturali, e con esponenti dotati di lunga navigazione in tutti i meandri della complessa vita a Montecitorio.

 

Se proprio vogliamo insistere, insomma, nel confronto con quanto sta succedendo sull’altra sponda del Tevere, si potrebbe valutare forse con minor superficialità il vero significato di quel «nuovo» che un uomo di quasi 78 anni sta portando nei secolari costumi della più vecchia monarchia del mondo.

DA - http://lastampa.it/2013/03/20/cultura/opinioni/editoriali/non-basta-l-anagrafe-per-dirsi-nuovi-qoqdOyuti7eeVyKMC04cIN/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - I guai dei tecnici che vogliono fare i politici
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2013, 06:42:14 pm
Editoriali
27/03/2013

I guai dei tecnici che vogliono fare i politici

Luigi La Spina


Infierire sarebbe così facile e così meritato che verrebbe voglia di cercare argomenti per difendere il governo e i due ministri competenti (?!), giustificare, in qualche modo, quella che il capo di stato maggiore ha definito, qualche giorno fa, «una farsa» e che, ieri, in Parlamento, ha superato persino i caratteri di un genere drammatico che, pure, ha grandi tradizioni e nobili interpreti. Ricorrere a quelle parole che cominciano tutte con la «s», come sconcerto, stupore, sgomento, sdegno e finiscono tutte con una condanna senza appello.

 

Oppure si potrebbe solleticare la complicità del lettore con l’irrisione e il sarcasmo, sfogando così l’amarezza e la vergogna per una figuraccia internazionale quale, nella storia della Repubblica, si fa fatica a ricordarne una somigliante. Una tentazione che promette un effetto brillante, ma che sarebbe imperdonabile accogliere, perché non si può davvero sorridere sulle spalle di due militari italiani in attesa di un processo che potrebbe condannarli, se non alla morte, a una lunga pena detentiva.

 

Meglio, allora, avvertire il rischio e sollecitare l’allarme davanti all’imprevedibile incrocio tra una crisi di governo, già molto complicata sullo sfondo di possibili nuove elezioni e uno «tsunami» devastante sul governo Monti , con riflessi negativi persino sul Quirinale. Istituzioni che, nel frattempo, dovrebbero reggere l’immagine dell’Italia sul piano internazionale, per evitare conseguenze gravi sui conti della nostra finanza e della nostra economia. Una situazione che, oggi, dovrebbe imporre a tutti i partiti, per un minimo di responsabilità nazionale, atteggiamenti che non cerchino di sfruttare il dibattito sul caso dei marò e delle dimissioni del ministro Terzi nell’occasione per una sfacciata e contingente propaganda politica. 

 

L’occasione, invece, potrebbe essere anche utilizzata per cercare di rispondere alla domanda che, in queste ore, un po’ tutti si fanno. Perché quel governo Monti e quei «tecnici», chiamati in soccorso di una politica fallimentare, celebrati e celebratisi come i salvatori dell’Italia, rispettati in sede internazionale e stimati dalla stampa estera, stanno per concludere la loro esperienza, proprio su quella scena mondiale teatro di tante soddisfazioni, in un modo così disastroso? In un modo tale da cancellare, magari ingiustamente, un ricordo, nella memoria degli italiani, che poteva essere diverso? 

 

C’è solo un motivo di consolazione, forse, in una vicenda dove è davvero difficile trovarne. Quella di un chiarimento, severo ma illuminante, sulla questione dei tecnici in politica.
Una ipotesi auspicata fin dai lontani tempi del ministro repubblicano Visentini e che, periodicamente, si affaccia quando la politica si manifesta inadeguata a risolvere i nostri problemi. La delusione per questo epilogo del governo Monti potrebbe indurre alla errata conclusione che la competenza sia inutile o un ostacolo alla buona politica. Invece, proprio la lezione che si può trarre dal lavoro compiuto dal governo Monti, in questo anno e mezzo di attività, dimostra che i guai cominciano quando i tecnici esulano dalle loro competenze e sono sedotti dalla prospettiva di cambiare mestiere e di trasformarsi in politici. Tentazione che, sulla scia dell’esempio più importante, quello del presidente Monti, ha contagiato, ad un certo momento, anche il suo ministro degli Esteri.

 

Davanti a questa mutazione genetica così allettante, si palesano, allora, i dieci «peccati capitali» dei tecnici che vogliono cambiare mestiere:
1) La sopravvalutazione della competenza. Poiché è l’unico motivo per cui vengono chiamati, essi pensano che le loro teorie siano infallibili e, se producono errori, la colpa non è di teorie sbagliate, ma di realtà che sbagliano a non adeguarsi.
2) La pelle sottile. Abituati alle riverenze accademiche, non sopportano le durezze dello scontro politico.
3) L’ingenuità. Sottovalutano le capacità di interdizione delle burocrazie ministeriali, così potenti da far fallire qualsiasi progetto d’innovazione.
4) L’isolamento professionale. Se i consigliori decidono, chi consiglia i consigliori?
5) Un linguaggio che tradisce. Non c’è niente di peggio che scambiare un’aula di università, piena di studenti intimoriti, per un’assemblea parlamentare pronta ad azzannare chiunque.
6) Un’emozione che tradisce. Controllare i sentimenti non è facile, per chi non ha imparato la cinquantennale lezione di un Andreotti.
7) I tempi troppo veloci. La politica non consente le lentezze di chi è abituato a meditare troppo prima di rispondere (anche di fronte alle telecamere).
8) A proposito di tempi: sanno di essere ministri «a tempo», ma vorrebbero estendere all’infinito quella scadenza.
9) Suscitano troppe speranze, perché possano arginare le inevitabili delusioni.
10) Ultimo e più grave peccato: la vanità, per chi non è abituato a padroneggiarla, come gli attori o i politici, si trasforma sempre in un crudele boomerang.

 

In un mondo in cui si pensa di poter fare a meno dei medici, cercando le ricette su Internet, degli avvocati, sfogliando il codice, degli idraulici, ricorrendo agli esperti casalinghi del «fai da te» e, magari, pure dei giornalisti, utilizzando i più comodi tramiti comunicativi della «rete», sarebbe ora che anche i cosiddetti tecnici rispettassero le loro competenze e le loro professionalità e non invadessero quelle degli altri.

da - http://www.lastampa.it/2013/03/27/cultura/opinioni/editoriali/i-guai-dei-tecnici-che-vogliono-fare-i-politici-UTiEAzU008iDWlkPhjj94J/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il chiarimento che non si può rinviare
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2013, 05:28:52 pm
Editoriali
11/04/2013

Il chiarimento che non si può rinviare

Luigi La Spina


La Commissione Ue è allarmata: in Italia, le banche sono incapaci di sostenere la ripresa. Monti ha lanciato un monito sul rischio di far ripiombare il Paese nella crisi. 

 

Il presidente di Confindustria descrive una situazione economica drammatica, con pericoli di violente esplosioni sociali. Ormai tutti, da Napolitano al piccolo negoziante sull’orlo del fallimento, invocano un governo e si lamentano, giustamente, per i ritardi di una classe politica che, dopo le elezioni, non riesce ancora a formare un esecutivo che provveda a misure di politica economica urgenti e indispensabili. 

 

Come oggi «La Stampa» documenta, l’ordinaria amministrazione alla quale è obbligato il governo Monti dimissionario, costringe l’Italia a un immobilismo ormai insopportabile. Sia per i limiti che prescrive all’iniziativa dell’esecutivo, sia, e forse con peggiori conseguenze, perché i responsabili degli uffici pubblici, senza attendibili previsioni sugli indirizzi del prossimo governo, preferiscono rinviare anche quei provvedimenti che, in realtà, potrebbero varare. Ecco perché è ormai evidente quanto siano false e pericolose quelle illusioni sulla possibilità che una nazione possa reggere senza un governo, fondate su strampalati confronti con esperienze come quelle che ha vissuto, in tutt’altra situazione, uno Stato come il Belgio.

 

Invocare l’arrivo di «un» governo, però, non basta. Quale governo? L’Italia non ha bisogno di un governo qualsiasi, ma del governo capace di affrontare i gravi problemi strutturali di una economia poco innovativa e inadeguata a sostenere la competitività internazionale, di riformare istituzioni non più adatte a una società che è molto cambiata negli ultimi decenni, di alleviare il peso di una politica invasiva e costosa. Per queste ragioni, non sono indifferenti le alleanze partitiche possibili e la costruzione di una maggioranza parlamentare non può limitarsi al raggiungimento di un traguardo numerico.

 

A questo proposito, forse non sarà così inutile, come la pensa anche qualche suo componente, quella commissione di saggi istituita dal presidente della Repubblica che ha sollevato tante critiche e tante troppo facili ironie. Innanzi tutto perché, invertendo l’ordine delle scelte sulle due più importanti cariche del nostro Stato, ha obbligato le forze politiche a cercare un ragionevole accordo sulla prima, quella per il Quirinale, foriero di un clima meno invelenito per trovare la seconda, quella per Palazzo Chigi. Poi, perché il lavoro che sarà offerto dai saggi alla meditazione di tutti potrebbe individuare davvero quel minimo programma comune sul quale si potranno dividere coloro che sono pronti a condividerlo e coloro che non lo sono.

 

Gli esempi di alleanze impossibili su temi fondamentali per il futuro del Paese sono numerosi e documentano come sia necessario un preventivo esame sulla diagnosi dei mali italiani e sulle terapie più efficaci per curarli. È difficile trovare un’intesa fra chi vuole l’abrogazione dell’Imu sulla prima casa e chi sostiene che, dopo questo provvedimento, l’Italia avrebbe bisogno di un’altra manovra correttiva. Fra chi crede necessario dotare l’Italia di una serie di infrastrutture moderne, più adeguate alla competizione sui mercati delle merci e chi preferirebbe un Paese disponibile alla cosiddetta «decrescita felice». O tra chi sollecita il ritiro dei nostri soldati dall’Afghanistan e chi ricorda che gli impegni internazionali dell’Italia devono essere mantenuti, pena l’ulteriore caduta del nostro ruolo e della nostra immagine nel mondo. Oppure tra chi ritiene indispensabile una riforma della legge sulla corruzione e, in generale, una profonda revisione del funzionamento di una giustizia che non tranquillizza gli investitori stranieri sulla convenienza del mercato italiano e chi, invece, pensa sia più importante puntare sulla separazione delle carriere e sulla responsabilità individuale dei magistrati. Per non parlare della condivisione indispensabile su principi fondamentali della democrazia rappresentativa e sul rispetto delle autonomie tra i poteri dello Stato. Ciò non vuol dire sanzionare l’impossibilità di un qualsiasi accordo, ma costringere le parti a un chiarimento sulle loro priorità e sui compromessi ai quali sarebbero disponibili.

 

In politica, quando si annunciano trattative impostate sui «criteri» o sul «metodo» per compiere una designazione a una carica pubblica si dice una bugia. Prima si cerca di trovare l’accordo su un nome e poi, alla luce dell’identikit del prescelto, si inventano i motivi che giustificano quella decisione. Speriamo che questo sistema non sia la regola per nominare il prossimo capo dello Stato. Ma sarebbe gravissimo per il futuro dell’Italia se la formazione del nuovo governo si fondasse sul gioco delle alleanze preferite dai partiti, o più convenienti per la sorte di alcuni loro leader, e non su un’intesa sulle cose da fare.

da - http://lastampa.it/2013/04/11/cultura/opinioni/editoriali/il-chiarimento-che-non-si-puo-rinviare-mzFLEyh6a4HzFDM1g8yOaM/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - La scelta per il Colle non diventi un concorso di popolarità
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2013, 11:52:11 am
Editoriali
17/04/2013 - Quirinale

La scelta per il Colle non diventi un concorso di popolarità

Luigi La Spina

La scelta per il nuovo Presidente della Repubblica non si fa per concorso, ma non si fa neanche con un sondaggio di popolarità. La mancanza di autorevolezza da parte della classe politica a cui spetta la nomina del Capo dello Stato è tale che si sta diffondendo un nuovo gioco di società, all’insegna del presidente preferito. 

 

Chi lo vuole donna, chi giovane, magari senza sapere che deve almeno aver compiuto 50 anni, chi lo vuole «nuovo», fuori dall’aborrita casta, chi lo vuole, invece, esperto, ma simpatico come Pertini, competente come Ciampi, saggio come Napolitano. Insomma, ogni italiano possiede l’identikit giusto, come quello dell’allenatore che saprebbe far vincere alla sua squadra la Coppa dei Campioni.

 

Il problema è che il futuro presidente italiano avrà un compito ancor più difficile. Altro che Coppa dei Campioni : qui si tratta di non far scivolare il nostro Paese nella serie B delle nazioni nel mondo. Ecco perché il punto di partenza da cui far nascere questa scelta non dev’essere il balletto sul nome a noi più gradito, ma una seria riflessione sul ruolo che dovrà svolgere il nuovo inquilino del Quirinale e, quindi, sulla persona più adatta a ricoprirlo nelle attuali difficilissime circostanze.

 

Le istituzioni politiche, come gli organi del corpo umano, si modificano secondo le funzioni a cui sono chiamate. La presidenza della Repubblica è l’esempio più evidente di questo fenomeno. Nella prima fase dello Stato democratico, caratterizzata da partiti forti, ideologie forti e forte identificazione degli italiani con i loro rappresentanti in Parlamento, bastavano capi dello Stato notai o arbitri. Quando si sono manifestate, tra crisi economiche e tensioni sociali, le prime vistose crepe nei rapporti tra la classe politica e cittadini, durante gli Anni 70 e 80, il Presidente è diventato il parafulmine dello scontento popolare, inteso sia come megafono degli umori generali, sia come mediatore dei conflitti. Una funzione esemplarmente esercitata da Pertini e, in parte, anche dal «picconatore» Cossiga. Il trauma del passaggio tra la prima e la seconda Repubblica, richiedeva, invece, la garanzia di un vecchio «padre della patria», come il costituente Scalfaro o quella riscoperta dell’orgoglio nazionale, indispensabile cemento unitario contro la disgregazione della Repubblica, che, forse, solo un’azionista come Ciampi poteva compiere senza rischi nostalgici.

 

È toccata a Napolitano l’ultima, necessaria metamorfosi quirinalizia. In una drammatica spaccatura tra destra e sinistra, tra berlusconismo e antiberlusconismo, una sfida che ha sostanzialmente bloccato lo sviluppo italiano condannando il nostro Paese all’immobilismo e, quindi, al declino, l’attuale Capo dello Stato è stato costretto a guidare la politica, rappresentando, dentro e fuori i confini nazionali, l’unica istituzione autorevole, super partes, capace di suscitare fiducia nei cittadini. Una istituzione, quella della presidenza della Repubblica, che, ormai, è più importante della presidenza del governo e tale sarà destinata a restare. 

 

La memoria del passato, oltre a essere utile per diradare un po’ le nebbie del futuro, può servire anche per smascherare alcuni pregiudizi e far emergere la banalità di alcune delle osservazioni che, in questi giorni, sono più ripetute. Napolitano, non solo fu eletto da una risicata maggioranza, ma, quando fu nominato, era un politico di lunghissimo corso, per di più erede di una militanza comunista mai rinnegata. Eppure, l’uomo di parte è diventato il Presidente di tutti, anche dell’anticomunista per eccellenza, Silvio Berlusconi. Ma, cosa ancor più straordinaria, gli italiani, non considerano Napolitano un rappresentante della cosiddetta «casta», anche se ha passato più di mezzo secolo nelle aule parlamentari. Proprio perché, come si è detto prima, la funzione che le circostanze storiche costringono a esercitare al Quirinale è capace di trasformare l’uomo che vi abita. Fa diventare un democristiano, colto e riservato come Cossiga, un fantasioso demolitore del «bon ton» istituzionale. Costringe un severo conservatore come Scalfaro a essere considerato un campione della più accesa sinistra. Prende un garbato governatore della Banca d’Italia, lo avvolge in una bandiera tricolore e lo mette a cantare, con tutti gli italiani, l’inno di Mameli.

 

Ecco perché non è importante che il prossimo presidente sia uomo o donna, giovane o vecchio, politico di antica data o di fresca esperienza e, magari, neanche conterà il numero dei suoi elettori o il loro colore politico, anche se è auspicabile, naturalmente, la più ampia condivisione della scelta. Dovrà essere una persona che per 7 anni, un periodo che non consente una nomina dettata da esigenze contingenti, garantisca che la politica italiana, in un momento di estrema conflittualità interna e discredito tra i cittadini, non corroda le basi della democrazia. Dovrà essere punto di riferimento internazionale, interlocutore affidabile e autorevole dei più importanti leader , immagine di un’Italia rispettata nel mondo. Dovrà aiutare, con scelte difficili e pure impopolari, a far superare quel conservatorismo sociale e quell’egoismo corporativo che blocca, da almeno due decenni, l’economia del nostro Paese e che non si battono con la demagogia.

 

Compiti molto ardui, che richiedono competenza istituzionale, capacità di guida politica, esperienza internazionale, ma anche coraggio morale per compiere scelte innovative e resistere alla pressioni delle convenienze e delle abitudini. Perché il prossimo Presidente della Repubblica sarà determinante per il futuro del nostro Paese. Non è il caso di sceglierlo con l’applausometro.

da - http://lastampa.it/2013/04/17/cultura/opinioni/editoriali/la-scelta-per-il-colle-non-diventi-un-concorso-di-popolarita-cmF1rFS75E0wcf9pZK9wkI/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il peso delle buone intenzioni
Inserito da: Admin - Maggio 02, 2013, 06:51:13 pm
Editoriali
30/04/2013

Il peso delle buone intenzioni

Luigi La Spina


I discorsi che i neo-presidenti del Consiglio leggono in Parlamento per ottenere la fiducia ai loro governi sono sempre pieni di buone intenzioni. Anche quello che Letta ha pronunciato ieri alla Camera è stato pieno di buone intenzioni, forse troppo pieno di buone intenzioni. Ma, accanto ai propositi, questa volta, il nuovo inquilino di palazzo Chigi ha pure fornito agli italiani due notizie importanti. 

 

La sospensione della rata Imu di giugno per la prima casa e l’impegno a non aumentare l’Iva. Un annuncio che, legittimamente, ha permesso al centrodestra di rivendicare il successo della promessa elettorale di Berlusconi e di imprimere al primo governo di larghe intese nella storia della nostra Repubblica il suo sostanziale sigillo politico.

 

È vero che il presidente del Consiglio ha annunciato l’avvio di una nuova fase nella politica italiana, con un esplicito richiamo a quella necessità di una profonda autocritica dei partiti sollecitata da Napolitano nel suo discorso di rielezione al Quirinale. Così come ha posto il problema del lavoro al centro di un programma tutto teso alla crescita e ha confermato una visione europeista, pure molto spinta in senso federale. Ma lo scarto temporale tra le buone intenzioni e le notizie è stato tale che l’appropriazione, debita o indebita, da parte del centrodestra del suo governo è stata fin troppo facile. Anche perché sarebbe stato molto arduo individuare nel fumoso programma elettorale del centrosinistra una proposta concreta, di immediata comprensione da parte dei cittadini italiani, da accogliere nel discorso del nuovo presidente del Consiglio. Ecco perché quello squilibrio politico, in verità, non è addebitabile tanto a Letta, quanto alla sciagurata campagna per il voto di febbraio condotta da Bersani.

 

Il premier, citando la distinzione che faceva il suo maestro, Nino Andreatta, tra «la politica» e le «politiche», ha cercato preventivamente di ammonire la ex contrastante maggioranza che si appresta alla fiducia a evitare proprio simili divisive rivendicazioni di schieramento e a unirsi sulla necessità dei provvedimenti da varare. Una giusta raccomandazione, anche se i primi commenti dei berlusconiani trionfanti non sembrano averne tenuto conto. Ma è proprio nel merito della complessiva manovra economica annunciata ieri che, subito, è emersa una domanda fondamentale: dove il nuovo governo troverà, nel risicato bilancio dello Stato, le risorse per coprire tutte le nuove spese indispensabili di fronte agli impegni annunciati alla Camera?

 

La domanda non ha avuto, ieri, una risposta, anche perché le assicurazioni del presidente del Consiglio sulla «ferrea lotta all’evasione» e sul rispetto degli impegni assunti dall’Italia durante il precedente governo Monti non servono, certamente, a trovarla. Né, d’altra parte, il discorso programmatico di un nuovo governo è l’occasione più adatta per snocciolare cifre e illustrare tabelle di bilancio. Si può intuire, però, la strada che Letta ha intenzione di imboccare per mantenere fede alla sua convinzione per cui «di solo risanamento l’Italia possa morire». Ed è quella annunciata da un’altra notizia fornita dal discorso alla Camera, il suo immediato viaggio a Berlino, Bruxelles e Parigi.

 

Il carattere fortemente europeista che il presidente del Consiglio ha voluto imprimere al programma del governo, infatti, non è solo la rivendicazione della fondamentale sua esperienza politica e intellettuale. Perché individua, persino con le uniche parole un po’ enfatiche di un discorso altrimenti pacato, quelle finali, l’unica possibilità di conciliare la tenuta dei conti pubblici con l’urgenza di avviare la crescita dell’economia italiana. È proprio sulle sue indiscutibili credenziali europeistiche che Letta tenterà di appoggiare le richieste alla Merkel di concedere al nostro Paese quello che è stato ottenuto da un altro confratello del partito popolare europeo, il premier spagnolo Mariano Rajoy, cioè un allentamento dei vincoli sul deficit. Dopo aver invocato l’elezione diretta da parte dei cittadini europei del presidente della commissione, gli sarà più facile, nei prossimi giorni a Bruxelles, incoraggiare i vertici comunitari su quella svolta antirecessiva della politica economica che sembra annunciarsi nelle più recenti loro dichiarazioni. Sarà naturale, a Parigi, stringere un patto di sostegno reciproco con il francese Hollande per rafforzare quella «alleanza per la crescita» che pare incominciare a far breccia nel muro rigorista elevato dai Paesi del nord Europa.

 

Basterà la patente dell’europeista a 24 carati Letta per convincere la Merkel e, soprattutto, la Bundesbank, di concedergli quello che non hanno concesso a un altro indiscusso europeista come Monti? Basterà il cambiamento di umore continentale che si avverte dappertutto, anche in Germania, per aiutarlo in una impresa che appare abbastanza temeraria? Gli basterà l’appoggio di Napolitano, la competenza e l’autorevolezza internazionale di Saccomanni, il favore di Draghi, la mancanza di una alternativa che non siano le elezioni, per arrivare al primo tagliando del suo governo, quello fissato tra 18 mesi? Domande a cui nessuno, oggi, potrebbe dare risposte. Letta, comunque, merita un sincero augurio, perché l’Italia ha bisogno che le sue buone intenzioni si realizzino. Ma ci potremmo accontentare anche di molto meno di quello che ci ha promesso.

da - http://lastampa.it/2013/04/30/cultura/opinioni/editoriali/il-peso-delle-buone-intenzioni-pNCYxPllhb7uXSRIG2eXmN/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Andreotti, gli storici si divideranno
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2013, 11:06:51 pm
Editoriali
07/05/2013

Andreotti, gli storici si divideranno

Luigi La Spina

Come al solito, è stato Napolitano a indicare la strada sulla quale si dovevano incamminare i commenti: bisogna riconoscere l’eccezionale ruolo svolto da Andreotti nelle vicende della nostra Repubblica, ma il giudizio su di lui va affidato alla storia. 

 

Così, nella scia della duplicità, peraltro simbolo di una vita che per i suoi detrattori aveva l’accezione della doppiezza, si sono indirizzate quasi tutte le dichiarazioni d’ordinanza in occasione della sua morte. Eppure, questa volta il nostro presidente-bis della Repubblica potrebbe essersi sbagliato ad affidare con tanta fiducia al supremo tribunale del tempo. Se la politica, infatti, si è ritirata nel limbo dell’imbarazzo di fronte alla sua indecifrabile personalità, anche la giustizia, almeno quella terrena, non è riuscita, dopo anni e anni di indagini, a emettere una sentenza che non avesse, appunto, il carattere dell’ambiguità e della doppiezza: per metà assoluzione e per metà condanna. È possibile quindi, anzi è molto probabile, che anche gli storici futuri si divideranno sulla sua figura e finiranno per arrendersi, pure loro, di fronte al vero incrollabile muro di ingiudicabilità che impedisce di emettere il verdetto definitivo su di lui: il mistero.

 

L’uomo che per sessant’anni è stato sempre sul palcoscenico della vita pubblica, sempre in prima fila, sempre protagonista delle luci della politica e persino dello spettacolo, se ne è andato senza accendere neanche il più piccolo spiraglio sul retroscena di quella ribalta. Come per suggellare la sua vita nella definizione dell’uomo più misterioso della nostra Prima Repubblica e per lanciare, da accanito scommettitore alle corse quale era, l’ultima sua sfida, proprio alla storia: far breccia, finalmente, nel muro del suo mistero.

L’imbarazzo della politica d’oggi nei confronti di Andreotti non deriva, però, solo dall’indecifrabilità dello statista romano, ma da un sottile legame, forse persino un po’ inquietante legame, del nostro presente a quel passato. Come se il richiamo di quella presenza non si spegnesse neanche con la sua morte e, anzi, il momento della sua scomparsa segnasse, per una beffa della cronaca di questi giorni, una coincidenza di segni che riaccende il ricordo e l’attualità della sua esperienza politica.

 

Se Andreotti è stato l’essenza della cosiddetta «democristianità» nella storia della nostra Repubblica, è quasi banale osservare che Letta, con Alfano suo vice, sono i giovani dc a cui è affidato il rinnovamento della politica italiana, perché forse quel carattere è l’araba fenice della nazione. Meno ovvio dell’anagrafe partitica, è il metodo di governo proclamato dal neopresidente del Consiglio nel suo discorso di investitura alle Camere, la concretezza. Non è stata sempre questa la maniera con cui Andreotti ha definito il suo modo di governare gli italiani, fino a intitolare la sua storica rivista di corrente con il nome di «Concretezza», appunto? Da tutti i commentatori, poi, è stato rievocato il precedente storico delle «larghe intese» sulle quali si regge il governo Letta, il primo esperimento del genere, quello inaugurato nel ’76 proprio da Andreotti, definito della «non sfiducia» e proseguito, due anni dopo, sempre da lui a palazzo Chigi, con il ministero della solidarietà nazionale.

 

I brividi della memoria, però, non si fermano qui, perché, purtroppo, richiamano altri ricordi, più sanguinosi. Perché quel governo con cui Andreotti ebbe la fiducia anche dei comunisti, nel marzo ’78, nacque sull’onda del rapimento di Moro e dell’uccisione dei suoi uomini di scorta come l’esecutivo Letta è stato battezzato dalla sparatoria contro i carabinieri davanti al Parlamento.

 

Non bisogna, naturalmente, dar troppo peso a quelle che sono solo suggestioni di eredità partitiche e coincidenze di tempi molto diversi per formulare confronti, e meno che mai, previsioni del tutto ingannevoli. Ma la scomparsa dell’ultimo grande statista democristiano e i troppi chiaroscuri dei commenti di ieri una lezione utile la danno, invece. Fino a quando l’Italia non sarà capace di fare i conti con la sua storia, anche recente, di riconoscerne virtù e vizi senza sempre voler assolvere la propria parte e sempre condannare quella avversaria, ma ammettendo l’inestricabile partecipazione di tutti sia alle prime sia ai secondi, l’ombra di Andreotti e del suo mistero continueranno a incombere sulla politica italiana. 

da - http://www.lastampa.it/2013/05/07/cultura/opinioni/editoriali/andreotti-gli-storici-si-divideranno-JHAPzyssG0WKgIep0mXgfL/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Deve finire lo scaricabarile politico
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2013, 11:58:10 am
Editoriali
15/05/2013

Deve finire lo scaricabarile politico

Luigi La Spina


No alla guerra per la Tav. Perché non si può nascondere la realtà dietro le parole dell’ipocrisia o della furbizia. Quello che è avvenuto l’altra notte in Valsusa non è un atto di protesta e neanche di guerriglia contestativa, ma un attacco terroristico che, per le modalità con cui è stato programmato e attuato, non ha provocato vittime solo perché così ha voluto un provvidenziale destino. Si è trattato anche di una specie di prova generale di quello che potrebbe succedere nei prossimi mesi, con il rischio che il lavoro degli operai nei cantieri diventi il fronte di una assurda battaglia.

Ecco perché non è più tollerabile l’ambigua coltre di imbarazzo con cui la politica italiana cerca di mascherare sia l’incapacità a gestire questo problema secondo le regole della democrazia, sia quella vergognosa doppiezza con cui, alla stragrande maggioranza dei sì ufficiali da parte dei partiti all’Alta velocità, si accoppia la ricerca di strumentali e demagogici consensi elettorali. È troppo facile e profondamente ingiusto ridurre la questione della Tav a un problema di ordine pubblico, scaricando su poliziotti, carabinieri e magistrati la responsabilità di quanto sta avvenendo in Valsusa. Troppo vigliacca è «l’alternativa del diavolo» a cui li si mette davanti. 

O la scelta di una impossibile militarizzazione, per anni, di una vasta zona del territorio nazionale o quella di immolarsi e di far, magari, immolare qualche lavoratore di quei cantieri per consentire la realizzazione di un’opera su cui lo Stato non mostra il volto della chiarezza, della coerenza e della responsabilità.

È ora che governo e Parlamento facciano una scelta precisa tra quella, invece, seria alternativa che adesso si impone, ne spieghino le ragioni a tutti gli italiani, ma pure all’opinione pubblica internazionale, e si impegnino a mantenerla in tutte le sedi, anche quelle più direttamente interessate al progetto.

Si può considerare la nuova linea di Alta velocità Torino-Lione indispensabile per lo sviluppo dell’economia italiana e, in particolare del Nord-Ovest, nell’Europa delle future generazioni. Ritenere che, anche alla luce della crisi di questi anni, l’opera, con la proiezione dei lavori per quasi 20 anni, costituisca l’unico realistico grande investimento in grado di offrire importante occupazione nel territorio. Valutare le compensazioni promesse ai valligiani un’occasione di ammodernamento delle infrastrutture locali da non perdere. Giudicare che il nuovo percorso del treno riduca notevolmente gli indubbi disagi di chi dovrà sopportare, per così tanto tempo, quei lavori vicino a casa e limiti i rischi ambientali in modo convincente.

È possibile, invece, pensare che, con le parziali ritirate di alcuni partner europei dalla partecipazione a questa linea ferroviaria di alta velocità, il famoso «corridoio 5» sia diventato un progetto ormai morto, una ambiziosa opera che l’Europa, con la sua economia languente, non si può più permettere. Nella disputa sulle eventuali penalità pecuniarie che l’Italia dovrebbe sopportare per la rinuncia alla Tav, poi, c’è chi accusa i favorevoli al progetto di esagerarne strumentalmente la portata.

La questione, se si evitano fantasiosi e demagogici allarmi da una parte e troppo facili sottovalutazioni delle conseguenze da chi non è concretamente toccato dai lavori, si può e si deve affrontare con razionalità e senza ideologismi preconcetti. Quello che non si può fare è il valzer di uno scaricabarile politico durato troppo a lungo e diventato troppo pericoloso, perché uno Stato, per essere rispettato dai cittadini, deve dimostrare di avere rispetto per se stesso. Il Pd non può più tollerare l’ambiguità tra la posizione nazionale favorevole e la sostanziale ostilità di tanti suoi amministratori locali. Ma anche il centrodestra, a parole più coerente, nei fatti mostra contraddizioni inspiegabili, come lo sconcertante zig-zag dichiaratorio sui finanziamenti compensativi compiuto dal ministro Lupi qualche giorno fa.

L’Alta velocità Torino-Lione può assurgere, se ci pensiamo, al simbolo della più grave malattia che, negli ultimi decenni, ha colpito l’Italia: la diserzione di una classe dirigente che non sa più dirigere alcunché.

 da - http://lastampa.it/2013/05/15/cultura/opinioni/editoriali/deve-finire-lo-scaricabarile-politico-0c2Woj8iN7zZGzGvywYTHJ/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Se la riforma può blindare il governo
Inserito da: Admin - Maggio 23, 2013, 05:31:08 pm
EDITORIALI
23/05/2013

Se la riforma può blindare il governo

LUIGI LA SPINA


C’è una regola d’oro che andrebbe sempre rispettata: per fare una buona legge elettorale occorre che le elezioni siano lontane. Il motivo è ovvio. Altrimenti, ciascun partito cercherebbe di ottenere un sistema di voto che, nell’immediata contingenza, lo favorisca e penalizzi gli avversari. Solo quando la futura scadenza elettorale è così lontana da rendere imprevedibili quelli che saranno gli schieramenti ai blocchi di partenza e i loro rapporti di forza è possibile sperare in una legge che soddisfi, per un tempo sufficientemente lungo, le due fondamentali esigenze. Quella di formare un Parlamento che rispecchi le opinioni degli italiani e che sia in grado di assicurare un governo stabile al Paese. 
 
Questo inizio di legislatura, allora, sembrerebbe il momento più opportuno per riformare, finalmente, il più brutto sistema di voto che la Repubblica abbia mai avuto. Ma le apparenze ingannano, perché il rischio di elezioni anticipate, anzi anticipatissime, incombe e, quindi, tutte le proposte che, in questi giorni, i partiti avanzano tengono conto di questa ipotesi e si modellano sulle speranze o sui timori che l’ipotesi possa diventare, tra breve, una realtà.
 
Ecco perché l’annunciata riforma minimale del cosiddetto «porcellum» potrebbe diventare, inopinatamente, uno strumento di governo. Un mezzo, insomma, per ridurre le tentazioni, presenti sia destra, sia a sinistra, di interrompere la legislatura e di far fallire subito l’esperimento di grande coalizione su cui si fonda il ministero Letta. Un rischio che, in un momento di grave crisi economica e di forti tensioni sociali per una situazione occupazionale drammatica, preoccupa tutta la classe dirigente del nostro Paese.
 
Le proposte di riforma elettorale che si stanno affollando sul tavolo del ministro Quagliariello, incaricato della questione, sono varie, ma quasi tutte convergono su un punto: quello di ridurre, o addirittura eliminare, l’eccessivo premio di maggioranza previsto dal «porcellum» alla Camera. Intento del tutto condivisibile, ma che, nella situazione attuale, estenderebbe quella impossibilità di trovare una maggioranza che risulta al Senato anche a Montecitorio. Un sistema sostanzialmente tripolare, con centrosinistra, centrodestra e Movimento cinque stelle attestati ciascuno sul 25-30 per cento dei voti e profondamente divisi tra loro, non potrà mai arrivare a esprimere, senza un premio elettorale «esagerato», una maggioranza solida e politicamente omogenea. La piccola riforma che il governo Letta si prepara a proporre al Parlamento servirà, perciò, a costituire il miglior deterrente contro le velleità di chi vuole tornare al voto e, così, a «blindare» il suo ministero. Perché spegnerà le speranze di una piena vittoria di ciascuno dei tre raggruppamenti politici che si dividono il voto degli italiani e quelle di poter contare, nella prossima legislatura, su una governabilità migliore di quella, assai precaria, che caratterizza l’attuale.
 
La convinzione che, in mesi così difficili, sarebbe una sciagura interrompere una esperienza di governo tanto faticosamente raggiunta e lo scenario alternativo che si presenterebbe, con le previste e minacciate dimissioni dell’appena rieletto presidente della Repubblica Napolitano, sono tali che il risultato della riforma «minimale», così è stata definita, del sistema di voto sarebbe del tutto auspicabile. Una riforma elettorale, poi, deve essere coerente con un assetto delle istituzioni e delle forme di governo che le forze politiche si dichiarano impegnate a cambiare. Eliminare, intanto, il rischio che gli italiani possano andare a votare, un’altra volta, con le attuali regole è certamente opportuno. Vedremo quale sorte avrà, questa volta, l’obbiettivo di quella «grande riforma» che, da oltre 20 anni, i partiti cercano di varare e che tra commissioni, bicamerali e, adesso, convenzioni sembra sempre allontanarsi quanto più se ne proclama la necessità e l’urgenza. Nel frattempo, però, quella «minimale» che, ora, dovrebbe essere approvata sul sistema di voto deluderebbe gli italiani sulle due fondamentali esigenze: quella di poter scegliere lo schieramento che dovrà guidare il Paese e quella di poter eleggere i loro rappresentanti in Parlamento attraverso una chiara contrapposizione tra i candidati nel collegio elettorale. 
 
L’esperienza, inoltre, insegna a coloro che non hanno la fortuna di essere giovani che, in Italia, le leggi tampone hanno una longevità straordinaria. Non c’è niente di più duraturo, da noi, che una norma annunciata come provvisoria. Vuoi vedere che la prossima riformetta elettorale non solo serva a blindare Letta a palazzo Chigi, ma trasformi questa esperienza precaria delle larghe intese in una caratteristica di governo che ci accompagnerà, invece, per i prossimi anni?

da - http://www.lastampa.it/2013/05/23/cultura/opinioni/editoriali/se-la-riforma-pu-blindare-il-governo-38Z3vJ7yZFLl1ZTeRVt5YO/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Centrodestra, un futuro oltre Berlusconi
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2013, 06:23:59 pm
Editoriali
29/05/2013

Centrodestra, un futuro oltre Berlusconi

Luigi La Spina


Ancora una volta è apparsa evidente la diversità tra le elezioni amministrative e quelle per le politiche. Una caratteristica costante in Italia, ma che pure i differenti sistemi di voto in uso nelle due consultazioni hanno accentuato. 

 

Ca mbia, evidentemente, la domanda dei cittadini nei confronti dei candidati e cambia l’offerta della politica nel cosiddetto mercato elettorale. 

 

Quando i due tipi di votazione si sovrappongono, poi, le valutazioni sono ancora più complicate perché gli effetti di trascinamento tra i due voti non sono facilmente calcolabili.

 

I confronti e i giudizi, perciò, dovrebbero sempre rispettare le regole elementari della statistica, quelle che comparano situazioni omogenee e criteri altrettanto omogenei. L’analisi dei risultati del voto di ieri, proprio cercando di non tradire le norme della correttezza valutativa, consente sia qualche correzione alle impressioni più immediate, sia di formulare alcune ipotesi sulle tendenze, di più lungo periodo, nei comportamenti elettorali degli italiani.

 

L’esito più clamoroso e più preoccupante della parziale consultazione amministrativa è certamente il dato dell’astensione. La percentuale dei cittadini che non hanno ritirato la scheda elettorale è alta in sé, ma è ancor più significativa perchè, in Italia, il fenomeno del «non voto», diversamente da altre democrazie occidentali, non è mai stato così diffuso. Un confronto, però, tra votazioni amministrative omogenee, cioè quelle non «inquinate» dall’effetto spurio di contemporanee elezioni politiche nazionali, suggerisce un giudizio meno sorprendente. Perché non c’è stato un crollo improvviso della partecipazione elettorale, ma la conferma di una costante tendenza che, alla tradizionale scadenza dei cinque anni di una legislatura comunale, si pone sempre tra il 5 e l’8 per cento in meno di votanti. Un dato forse ancor più allarmante di una caduta drammatica, perché segnala una disaffezione dei cittadini per la politica profonda e crescente, non legata a sfiducie episodiche e transitorie, ma a una delusione per i comportamenti della nostra classe politica che nasce da lontano e che non sarà curabile, nè in tempi brevi, né con ricette demagogiche, come il caso Grillo sembra dimostrare.

 

Al di là delle un po’ affrettate consolazioni del «Pd» sulla tenuta del partito, fondate più sullo scampato pericolo della sua dissoluzione che sui consensi numerici effettivamente ottenuti dai suoi candidati, la riflessione forse più interessante, quella che illumina uno scenario più gravido di conseguenze per il sistema politico italiano, anche con uno sguardo più lungo sul futuro, riguarda il centrodestra.

 

Se, come pare probabile, Alemanno sarà sconfitto al ballottaggio da Marino, questo schieramento che, dalla fondazione della Repubblica, può contare sulla maggioranza dei consensi tra gli italiani non guiderà nessuna tra le più importanti città del Paese. Con il rischio di perdere persino alcune delle sue tradizionali roccaforti in quelle città di media dimensione che, soprattutto nel Nord, avevano sempre assicurato un suffragio ampio e sicuro allo schieramento di centrodestra. Questo risultato, naturalmente, non si fonda sulla peggiore prestazione che, da sempre, contraddistingue l’alleanza guidata da Berlusconi nel voto amministrativo rispetto a quello nelle politiche, ma confronta votazioni di tipo omogeneo. 

 

I motivi di tale situazione sono vari e si possono dividere sostanzialmente in due campi, il primo di tipo più strettamente politico, il secondo con caratteristiche economico-sociologiche.

 

Dopo vent’anni, la leadership carismatica di Berlusconi non è riuscita, non ha potuto, non ha voluto creare una classe dirigente con personalità adeguate alle esigenze di governo del territorio. Nei casi più fortunati ha «adottato» leader locali di provenienza democristiana o socialista, in altri ha gettato nella mischia della politica manager pubblicitari, uomini di belle ma sproporzionate speranze, donne di bella ma troppo ambiziosa presenza. Il risultato di un confronto che, in genere, vede perdenti i candidati locali del centrodestra rispetto a quelli del centrosinistra, non deriva da un destino avverso, né da differenze, dal punto di vista politico, genetiche. E’ il prodotto naturale, coerente e inevitabile del rapporto fiduciario e personale tra Berlusconi e il suo elettorato. Con il vantaggio di poter godere, all’ombra della sua abilità nelle campagne elettorali nazionali, di una rendita di posizione assicurata, o quasi, in Parlamento, ma con lo svantaggio di perderla del tutto quando il candidato, nel voto amministrativo, non è più lui. Per ora, il rischio che il centrodestra perda una forte rappresentanza alle Camere è oscurato dalla longevità politica del Cavaliere, ma in un futuro non troppo lontano questa sarà l’incognita più importante del nostro sistema democratico.

 

La seconda causa della grave sconfitta di questo schieramento è il venir meno di quella richiesta liberista e antistatalista su cui si è fondato, per 20 anni, il consenso, soprattutto nel Nord, al centrodestra. In un momento di crisi economica, dalle giunte degli enti locali ci si aspetta sicurezza sociale, mantenimento dei livelli nei servizi pubblici, stimolo allo sviluppo e all’occupazione. Attese che, in genere, si pensa siano più ascoltate da uomini della sinistra e meno da candidati dello schieramento opposto.

 

Ecco perché il centrodestra, se vuol garantirsi un futuro meno oscuro, non dovrà solo pensare al dopo Berlusconi, alla costruzione di un partito e di una classe dirigente all’altezza delle sfide dei prossimi decenni, ma a come adeguare il suo programma politico alle mutate esigenze del blocco sociale che, in questi anni, ha costituito lo zoccolo duro dei suoi consensi elettorali.

da - http://lastampa.it/2013/05/29/cultura/opinioni/editoriali/centrodestra-un-futuro-oltre-berlusconi-Z9J63Stj9mBow2sYNXTcVI/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Italia in ritardo, colpa di politici e imprese.
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2013, 04:59:55 pm
Editoriali
01/06/2013

Italia in ritardo, colpa di politici e imprese

Luigi La Spina

segue dalla prima pagina

C’era un malcelato orgoglio nell’elenco dei ringraziamenti che Ignazio Visco ha rivolto a coloro che, dalla Banca d’Italia, sono andati a ricoprire posti importanti nel governo, nell’amministrazione pubblica e, perfino, alla Rai. E c’era molta curiosità tra la platea che ascoltava le sue «considerazioni finali» per capire come il governatore avrebbe marcato la distanza con il suo ex direttore generale, Fabrizio Saccomanni. 

Quel Fabrizio Saccomanni da solo un mese a capo del ministero dell’Economia, il tradizionale interlocutore degli ammonimenti che, ogni anno, vengono lanciati da via Nazionale al governo. Il potenziale imbarazzo di Visco è stato schivato con abilità, ma senza reticenze, pur nell’ancor più rigoroso rispetto della funzione del governatore e dei limiti del ruolo. Così il messaggio alla politica, anche questa volta, è stato chiaro, ma si è esteso, con maggior forza del passato, a tutta la società italiana, in particolar modo alle imprese e all’alta dirigenza burocratica del nostro Paese. Nella consapevolezza di una vasta corresponsabilità per il drammatico ritardo competitivo che l’Italia ha accumulato negli ultimi 25 anni. 

La diagnosi dei nostri mali è, ormai, da tutti condivisa e le terapie per la cura, anche per i ridotti margini che l’Europa concede ai medici italiani, sono, quasi da tutti, pure condivise. Ma il guaio è nella loro applicazione, perché i politici, come ha detto eufemisticamente Visco, «stentano» a mediare tra interesse generale e interessi particolari, la burocrazia frena il processo di ammodernamento e le riforme «sono sempre chieste a chi è altro da noi». È questo il nodo che strozza l’economia italiana e che ha indotto il governatore a un giudizio abbastanza desolato e desolante sul nostro Paese «incapace di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici» avvenuti da oltre due decenni.

Ecco perché la politica deve fare la propria parte e, a questo proposito, Visco si è schierato decisamente fra coloro che difendono il rigore nelle politiche di bilancio, in sottintesa, ma trasparente polemica con chi è stato colto da improvvise conversioni sull’opportunità di un loro allentamento. Anzi, ha ricordato al governo che, almeno per quest’anno, non ci sono né tesori, né tesoretti da spendere e che le tasse, nel medio periodo, andranno sì abbassate, ma cominciando da quelle che gravano sul lavoro e sulle imprese. E i silenzi del governatore sulla invocata, da Berlusconi, abolizione dell’Imu e sul sollecitato, dalla sinistra, rinvio dell’aumento dell’Iva sono apparsi davvero eloquenti.

Non basta, però, a salvare l’Italia da un inesorabile declino nella gerarchia delle nazioni nel mondo l’opera dei politici e neanche il forte contrasto alle inerzie e alle inefficienze dell’amministrazione pubblica, pure nella speranza che il nuovo ragioniere dello Stato, proveniente proprio dalla Banca d’Italia, Daniele Franco, riesca là dove hanno fallito i suoi predecessori. La sferzata più bruciante, e forse la più inattesa, è stata riservata da Visco alle imprese. Non tutte, per la verità. Perché il governatore ha riconosciuto che alcune, fra le più grandi, hanno investito con risorse proprie, hanno accettato la sfida dell’innovazione spostandosi sui mercati più dinamici, hanno cambiato i modelli organizzativi. Altre, invece, continuano a chiedere soldi allo Stato, a non diversificare, rispetto ai finanziamenti bancari, le fonti delle loro risorse, a non modernizzare i processi produttivi. 

È vero che profondi cambiamenti nei rapporti di lavoro sono necessari, ha sostenuto Visco, così come nel mondo dell’istruzione, nella giustizia civile, nel quadro troppo ridondante di norme e di adempimenti amministrativi. Ma quella «distruzione creativa» di schumpeteriana memoria farà il suo inarrestabile corso nei prossimi anni in Italia e la previsione del governatore non è sembrata nascondere la drammaticità delle conseguenze che provocherà anche sulla coesione sociale nel nostro Paese.

La relazione del governatore è apparsa spietata nella diagnosi, completa nella individuazione delle responsabilità, ma forse priva, all’apparenza, di proposte innovative, soprattutto sul difficile problema del rapporto tra banche e imprese medio-piccole. È possibile che, nei prossimi mesi, la Banca d’Italia suggerisca, su questo tema, una serie di misure che possano aiutare quel tessuto aziendale intermedio che costituisce la forza dell’economia produttiva italiana. Una struttura gravemente indebolita nel numero di grande industrie presenti in settori fondamentali per i mercati internazionali e che conserva, invece, nicchie di eccellenza che, però, avrebbero bisogno di una crescita dimensionale ormai non più rinviabile. Ma siamo davvero sicuri che sia più urgente esercitare la fantasia, immaginando nuove norme, nuove leggi, nuove proposte e, invece, non sia meglio, e più concretamente efficace, far funzionare quelle che ci sono già o che sono state già decise e che le mille corporazioni italiane del privilegio stanno bloccando?


da - http://lastampa.it/2013/06/01/cultura/opinioni/editoriali/italia-in-ritardo-colpa-di-politici-e-imprese-DCPpaRKFVfyeKsAG4iCXJI/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il paradosso che può aiutare il cambiamento
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2013, 03:18:01 pm
Editoriali
06/06/2013

Il paradosso che può aiutare il cambiamento

Luigi La Spina

Parte oggi, con la convocazione al Quirinale per l’insediamento della commissione dei 35 saggi, il nuovo tentativo di cambiare norme importanti della Costituzione italiana. Di una grande riforma del nostro assetto istituzionale, ormai, si parla da oltre 25 anni e da un quarto di secolo sono falliti tutti i tentativi per riuscirci. La domanda che gli italiani si stanno facendo in questi giorni, perciò, è ovvia e parte da un’osservazione di puro buon senso: visto che il Paese soffre la più grave crisi economica dalla nascita della Repubblica ed è attraversato da tensioni sociali molto forti è davvero questo il momento più opportuno per provarci ancora una volta? Non sarebbe meglio che il governo si concentrasse sull’emergenza più preoccupante per la vita quotidiana di tanta gente e rimandasse il grande progetto di riforma a tempi migliori? 

Il dubbio non solo è legittimo, perché il buon senso è una virtù, nonostante la sua cattiva fama presso intellettuali e politici nostrani, ma è anche opportuno, perché la comprensione dei cittadini, in una democrazia, dovrebbe costituire la spinta fondamentale per varare buone riforme, soprattutto in argomenti così delicati.

La risposta a questa domanda, però, potrebbe essere altrettanto semplice: l’attuale sistema istituzionale, politico e partitico ha dimostrato, ormai, la sua incapacità ad affrontare, con la radicalità e l’urgenza che proprio la crisi richiede, quei cambiamenti necessari per rimettere in moto un’economia e una società italiana che, come ha ricordato il governatore di Bankitalia qualche giorno fa, sono rimasti drammaticamente indietro rispetto all’evoluzione del mondo. 

È convinzione abbastanza comune che le corporazioni di interessi nel nostro Paese, divise tra di loro, ma unite nella volontà di difendere ad oltranza le nicchie di privilegi raggiunte, siano talmente consolidate, talmente arroganti da resistere a qualunque tentativo di cambiamento operato dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Coalizioni di centrodestra e coalizioni di centrosinistra, se analizziamo un po’ più in profondità i risultati concreti ottenuti in tale direzione, sono state costrette ugualmente a una ritirata ingloriosa. Lo schieramento di Berlusconi ha fallito nel tentativo di una rivoluzione liberale che, tanto proclamata a parole, si è conclusa, nei fatti, nel nulla. Quello capitanato da Prodi, sulla parola d’ordine del riformismo democratico, si è dovuto arrendere non solo davanti al solito massimalismo conservatore di una parte della sinistra italiana, ma perfino davanti al ribellismo dei taxisti romani. La speranza, perciò, è quella che solo un rafforzamento della politica, nella sua capacità di decisione e, soprattutto, nella forza di attuare le decisioni prese, potrebbe sconfiggere il «male oscuro» dell’Italia in questi anni a cavallo del secolo, l’immobilismo della società che colpisce soprattutto i nostri giovani e la stagnazione dell’economia che la sta portando a un irreversibile impoverimento.

da - http://lastampa.it/2013/06/06/cultura/opinioni/editoriali/il-paradosso-che-pu-aiutare-il-cambiamento-wyJ0zaE8AxokXwmf0oqF9K/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - La necessità di separare due destini
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2013, 07:43:14 pm
Editoriali
11/07/2013

La necessità di separare due destini

Luigi La Spina

La ventennale parabola politica di Silvio Berlusconi rischia di chiudersi nel modo peggiore. Non tanto e non solo per lui, se a fine mese la Corte di Cassazione confermerà la sentenza di condanna a quattro anni e la sua interdizione perpetua dai pubblici uffici, ma quel verdetto potrebbe trascinare l’Italia in una grave crisi politica e istituzionale. 

 

Tutti i tentativi fatti, finora, per separare le vicende giudiziarie del Cavaliere dai destini del governo, dalle sorti della nostra economia e della nostra finanza, ma soprattutto dalle normali e corrette relazioni tra i fondamentali poteri dello Stato potrebbero dimostrarsi vani. La giornata di ieri, confusa e convulsa nelle aule del Parlamento e sulla piazza di Montecitorio, ma chiara, invece, nel suo preoccupante significato politico, ha annunciato, con la massima evidenza, l’accelerazione di un pericoloso smarrimento delle regole elementari sulle quali si basa una democrazia. Uno smarrimento che è cominciato da anni, che è proseguito con una colpevole assuefazione, sia da parte della classe politica, sia dall’opinione pubblica e che potrebbe portare a gravi conseguenze sul futuro del nostro Paese. 

 

La richiesta del Pdl di sospendere per tre giorni i lavori del Parlamento, in segno di protesta per la fissazione della data in cui la Corte dovrà decidere la sorte giudiziaria di Berlusconi, non ha una giustificazione tecnico-giuridica, rappresenta una pesante minaccia nei confronti della serenità con la quale i giudici dovranno valutare le carte del processo, ma stabilisce anche un inaccettabile collegamento tra i destini di una persona e quelli della più importante istituzione politica dello Stato, quella che rappresenta la sovranità popolare. La limitazione temporale al solo pomeriggio di ieri, consentita da un voto al quale si è unito pure il Pd, non può cambiare il giudizio, perchè così si colpisce un principio fondamentale sul quale si regge l’equilibrio dei rapporti tra istituzioni e che non può essere calcolato a ore o a giorni, nè condizionato da compromessi per salvare un governo.

 

È giusto che si chieda alla Cassazione di osservare quella legge che impone di impedire le prescrizioni, in tutti i processi, non solo quando l’imputato è il Cavaliere, ma è paradossale e sintomo di debolezza nelle convinzioni di innocenza che si punti non alla rapidità di un verdetto, ma a una soluzione che non chiarisca da quale parte sia la ragione. Comprensibile, pure, che Berlusconi e il suo partito diffidino dell’imparzialità del tribunale di Milano, ma un simile sospetto non può certo toccare quella Corte che ha già dimostrato, più volte, di esprimere valutazioni del tutto diverse dalle sentenze di quei magistrati. Se, poi, si coinvolgesse tutta la magistratura italiana in un fantomatico e improbabile complotto contro il principale leader della destra, non si capirebbe come il più volte capo del governo italiano abbia accettato di ricoprire una delle più alte cariche di uno Stato a cui sarebbe mancato un principio fondamentale per essere giudicato una democrazia.

 

Né le lotte interne tra «falchi» e «colombe» nel partito di Berlusconi, nè le dispute nel Pd tra l’attuale dirigenza e le scalpitanti truppe di Renzi, ma neanche le conseguenze sul precario accordo di larghe intese sul quale si regge il ministero Letta possono confondere al tal punto le idee sullo stravolgimento di alcune regole basilari della nostra Repubblica, il cui rispetto non costituisce un ipocrita formalismo, ma l’indispensabile condizione per cui la lotta politica non degeneri in uno scontro civile. Le dosi omeopatiche di cloroformio sulla sensibilità democratica immesse nella vita pubblica italiana in questi anni stanno arrivando a compromettere la coscienza della nazione in modo assai allarmante e la sentenza su Berlusconi del 30 luglio rischia di svelare, in un drammatico finale d’atto, i guasti che troppe compiacenze, troppi compromessi, troppe sottovalutazioni hanno prodotto nella società italiana.

 

Da vent’anni la giustizia di questo Paese, che dovrebbe essere profondamente riformata, sia per le lentezze delle sue procedure, sia per le incertezze di un diritto troppo esposto a eccessive discrezionalità da parte dei magistrati, viene condizionata, invece, dai verdetti su Berlusconi e le leggi che il Parlamento emana in questo campo vengono valutate solo per le conseguenze che possono avere sulle sue sorti giudiziarie. Ora, il rischio è di affidare alla Cassazione non la sentenza su un leader politico, ma la sorte di un governo che molto faticosamente sta cercando di far uscire l’Italia da una pesante crisi economica e occupazionale, l’andamento della finanza pubblica e, magari, le possibilità di un civile confronto politico. Un destino che non è compito di una Corte di giustizia determinare e che, forse, l’Italia e gli italiani non meritano.

da - http://lastampa.it/2013/07/11/cultura/opinioni/editoriali/la-necessit-di-separaredue-destini-oymTbbqoioqX1xg5uV3c7I/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Un governo isolato dai partiti
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2013, 06:15:30 pm
Editoriali
16/07/2013

Un governo isolato dai partiti

Luigi La Spina


Ha proprio ragione Letta quando osserva che nel mondo della politica avvengono «cose indecorose» e quando deplora la perdita del «senso delle istituzioni». Ma anche lui sa che non basteranno i suoi moniti saggi, né quelli di Napolitano, per limitare i danni che, ogni giorno, si provocano sull’immagine internazionale del nostro Paese e sulla credibilità della nostra classe politica nei confronti dei cittadini. 

Il contributo più utile, però, che il presidente del Consiglio può fornire, prima che si arrivi a uno scontro tanto permanente quanto improduttivo, è quello di riuscire a superare una condizione che del suo ministero fa un «unicum» assoluto nella storia della Repubblica. 

Non si è mai visto, infatti, un governo che, pur godendo, sulla carta, di una maggioranza parlamentare amplissima, appaia così isolato dai partiti che lo sostengono. Né si è mai visto un governo che, nonostante tutto, non abbia alcuna alternativa concreta e, quindi, appaia insostituibile. 

La situazione, se vogliamo uscire dalle ipocrisie, è riassumibile in poche parole: il Pd è squassato da una battaglia interna devastante e, nella sostanza, paradossale, perché è l’unico partito al mondo che, possedendo un leader sicuramente vincente alle elezioni, come Renzi, sta cercando in tutti modi di evitare di candidarlo. Nel frattempo, quel partito invoca le dimissioni, un giorno di Alfano, l’altro di Calderoli e spera che la Cassazione riesca a fare quello che in vent’anni non è stato capace di fare: eliminare dalla scena politica Berlusconi. Del governo se ne occupa, perciò, il meno possibile, anche perché, occupandosene, dovrebbe ricordare ai suoi furibondi e disperati elettori che, in quel governo, collabora con il nemico di sempre, l’odiato Cavaliere.

Il Pdl, l’altra gamba su cui si regge, si fa per dire, il ministero Letta, è perfettamente consapevole che, senza il suo fondatore e padrone assoluto, è un partito inesistente, sia nella politica nazionale, sia in quella locale, come dimostrato, prima dalla campagna elettorale per il Parlamento e, poi, dai risultati delle recenti elezioni amministrative. Ecco perché è terrorizzato dalla possibile condanna definitiva del suo leader e alterna minacce di conseguenze devastanti sulle istituzioni e sul governo, in caso di conferma della sentenza Mediaset, a improbabili rassicurazioni sul senso di responsabilità del partito, nella speranza di convincere i giudici della Cassazione a tener conto sia di quelle minacce, sia di quella promessa. In attesa dell’unica cosa che per il Pdl abbia importanza, quel verdetto di fine mese, ci si può dividere, senza troppi danni, tra amici e nemici di Alfano.

Il terzo partito che conta, o potrebbe contare, nella politica italiana, il Movimento di Grillo, si è autoesiliato in un sostanziale Aventino che, come tutti gli Aventini della storia, è destinato alla totale inutilità e, quindi, a un destino di sicuro fallimento. Il solo concreto risultato della posizione del M5S, se vogliamo, è di togliere l’unica teorica alternativa possibile al governo Letta, rafforzando così la sua insostituibilità, perché tutti sanno che, senza una diversa legge elettorale, i risultati di un nuovo voto sarebbero, più o meno, gli stessi.

A questo proposito, il governo Letta dovrebbe dimostrare di meritare la fortuna di non avere possibili successori e di non meritare l’isolamento dai partiti che lo sostengono. Nell’unico modo praticabile: smettendo di rinviare la soluzione dei problemi più gravi e urgenti, a partire dalla tassa sulla casa e dall’aumento dell’Iva e affrontando, con la radicalità che la situazione impone, la questione che più interessa gli italiani: la ripresa dell’economia. La crisi dell’occupazione, soprattutto giovanile, è tale da non consentire più soluzioni di compromesso, pannicelli caldi, misure che non sono in grado di cambiare sostanzialmente le cose nel mondo del lavoro. L’inesistenza di una seria alternativa a questo governo dovrebbe costituire la più formidabile leva di convinzione per non procedere più con la strategia dei rinvii e dei piccoli passi, quando urgono, invece, passi da giganti. È vero che il coraggio, come diceva don Abbondio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare, ma in certe occasioni ce ne vuole davvero poco per non approfittarne.

Finora Letta ha utilizzato, con giovanile sapienza, il credito internazionale per le sue salde convinzioni europeiste e quello nazionale per la serietà dei suoi comportamenti. Ma ora è scaduta la sua «luna di miele» con i cittadini del nostro Paese, ai quali deve dimostrare che le sue doti di abile mediatore dei conflitti non condanneranno l’Italia a un sostanziale immobilismo. Perché sono vent’anni, da quando è cominciata una seconda Repubblica dai risultati davvero fallimentari, che non si riesce a rompere il muro dei «no» ripetuto inesorabilmente dalle mille nostre corporazioni. Quelle corporazioni di ostinati interessi particolari che ci stanno condannando a un irreversibile declino. 

da - http://lastampa.it/2013/07/16/cultura/opinioni/editoriali/un-governo-isolato-dai-partiti-gQiqi3bS13A126ou2RCHUO/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - L’insidia inaspettata per Letta
Inserito da: Admin - Agosto 10, 2013, 11:23:35 pm
Editoriali
10/08/2013

L’insidia inaspettata per Letta

Luigi La Spina

Non si è mai visto un presidente del Consiglio pessimista sulla durata del suo governo, ma Enrico Letta, prima del breve periodo di vacanza, forse potrebbe aver ragione nel sostenere che l’esecutivo sia più solido di quanto appaia. 

I motivi della sua fiducia, oltre a quello d’obbligo per ragione d’ufficio, si basano sostanzialmente sulla mancanza di vere alternative. 

Mancanza di vere alternative che derivano dalla composizione dell’attuale Parlamento e dall’impossibilità di chiedere agli italiani di cambiarla, con un nuovo voto, senza l’approvazione di una diversa legge elettorale. 

Governo obbligato, dunque, governo fortunato? Mica tanto, vista la quotidiana sorte di dover sopportare le continue polemiche tra i due principali partiti della sua maggioranza, alleati per forza e avversari per vocazione. Con l’effetto concreto di essere costretto a rinviare le scelte fondamentali, quelle sui nodi dell’economia che più interessano agli italiani, come le tasse sulla casa o l’Iva, e di limitarsi al varo di provvedimenti sui quali difficilmente si potrebbe essere contrari. Ultimo esempio in ordine di tempo, l’inasprimento delle pene per le violenze sulle donne. 

All’apparenza, vengono dal Pdl le minacce più serie per il governo, come l’ultimatum di Berlusconi sull’abolizione totale dell’Imu per la prima casa, ripetuto ieri, sembra dimostrare. E’ evidente la scelta di ipotizzare l’apertura di una crisi e nuove elezioni, da parte di quel partito, su un tema così popolare e non sulla richiesta agli italiani di approvare, con il voto, un salvacondotto giudiziario per il suo leader. Ma è discutibile il vantaggio, per Berlusconi, della sostituzione di questo governo Letta con un qualsiasi altro, vista la notoria e assoluta contrarietà di Napolitano a elezioni anticipate e l’impraticabilità di indirle con una legge elettorale che la suprema Corte si appresta a dichiarare incostituzionale. 

Più insidioso per Letta, invece, è l’atteggiamento del suo partito. Il Pd pare, in questo momento, del tutto disinteressato alle sorti del governo e tutto concentrato sull’esito di un nuovo «duello infinito». Come quello che, per gli ultimi vent’anni, ha paralizzato il maggior partito della sinistra italiana, la competizione tra D’Alema e Veltroni, così, magari per i prossimi vent’anni, si annuncia la sfida tra gli eredi della nuova generazione, Letta e Renzi. I prodromi dello stesso infausto destino ci sono tutti e il surreale andamento dell’ultima direzione Pd, con il balletto di annunci e smentite sulla data delle primarie, conferma i peggiori pronostici. Da mesi, in quel partito, si parla solo di calendari e di regole, questioni certamente appassionanti per gli italiani oppressi dalla crisi e dalla disoccupazione. Da mesi, non appare una proposta chiara e concreta di politica economica che possa far interessare e, magari, far discutere i cittadini.

Da una parte, Berlusconi vellica i magri portafogli dei nostri connazionali, occupa sempre da protagonista il dibattito politico, costringendo gli altri a seguire la scia dei suoi temi, contestando le ricette economiche dell’Europa e del Fondo monetario e riscuotendone i relativi vantaggi demagogici. Dall’altra, si ode un balbettìo confuso e incerto tra omaggi rituali ai rigori monetari delle autorità politiche ed economiche internazionali e timide obiezioni sull’efficacia di quelle ricette. Così, l’unica cosa comprensibile è la condanna a un compromesso continuo, prima sull’alleanza con Berlusconi, poi sull’Imu, poi sul possibile aumento dell’Iva e, infine, persino sulle sorti del ministero retto dall’ex vicesegretario del partito. Un atteggiamento che ricorda quello della Dc, all’epoca della prima Repubblica, nei confronti dell’occasionale «governo amico».

Ecco perché, quasi insensibilmente, quasi inconsapevolmente, quasi involontariamente, l’autismo del Pd, una malattia dalla quale quel partito non riesce a guarire, potrebbe coinvolgere il presidente del Consiglio, dal momento che Letta è anche uno dei duellanti per la futura leadership, e le conseguenze dello scontro con Renzi potrebbero avere decisivi riflessi sulla sua poltrona a Palazzo Chigi.

Alla vigilia della settimana di ferragosto, ci si potrebbe chiedere se la durata del governo, nel prossimo autunno, sia augurabile o no. La risposta è difficile, perché dipende dalla soluzione delle scelte economiche finora rinviate. Quella timida ripresa internazionale che si annuncia non sarà agganciabile anche dall’Italia senza misure, da parte della politica, concrete e rilevanti sul piano dell’occupazione e degli investimenti. L’unica consolazione è che, a fine mese, avremo quella risposta, perché il tempo dei rinvii è scaduto.

da - http://www.lastampa.it/2013/08/10/cultura/opinioni/editoriali/linsidia-inaspettata-per-letta-bmiPwD1RYVQ4r6miq6fUkM/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Una scelta di irresponsabilità istituzionale
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2013, 05:10:51 pm
Editoriali
26/09/2013

Una scelta di irresponsabilità istituzionale

Luigi La Spina


La notizia ha dell’incredibile. Le dimissioni in massa di tutti i parlamentari del Partito della Libertà, se la Giunta del Senato dovesse votare per la decadenza del leader del centrodestra, Silvio Berlusconi, da palazzo Madama, in un momento così difficile per le sorti del Paese, annunciano una prova di irresponsabilità istituzionale, prima ancora che politica, davvero sconcertante. 

 

Il giorno dopo le assicurazioni di Alfano al presidente della Repubblica, proprio mentre il premier Letta parla all’Onu e alla comunità finanziaria internazionale per convincere gli interlocutori dell’Italia sulla nostra stabilità politica, quando i conti pubblici sono tornati a rischio e i casi Telecom e Alitalia manifestano la grave crisi del nostro sistema produttivo, il dramma personale del leader del centrodestra rischia di portare l’Italia in una situazione di vero caos parlamentare, politico e istituzionale, con conseguenze economiche e finanziarie del tutto imprevedibili.

 

L’impressione è che la tragedia di un uomo, passato dagli onori della ribalta internazionale e dalla percezione di un successo imprenditoriale e politico straordinario e destinato a non finire mai nel consenso della maggioranza degli italiani, alla prospettiva di un arresto e, magari, del carcere sotto un diluvio crescente di accuse, abbia tolto a Berlusconi quella lucidità che gli aveva consentito sempre di calcolare, con molta accortezza, le conseguenze di ogni sua mossa. In questo tunnel di disperazione spinto, per giunta, da un manipolo di ultrà che non vedono il loro futuro politico e anche personale se non asserragliati intorno a lui, in una furibonda e inutile guerriglia contro chiunque non lo aizzi a iniziative sempre più incontrollate e controproducenti. Nella sostanziale incapacità dei molti e più avveduti suoi parlamentari di avere il coraggio di sottrarsi a un rassegnato e vile accodamento alle assurde proposte avanzate da tali ultrà.

 

Eppure, l’annuncio delle dimissioni in massa apre uno scenario tanto evidente quanto preoccupante. Mira, infatti, a impedire o a rendere drammatico il voto dell’assemblea al Senato per la ratifica della decisione della Giunta e a superare anche il verdetto della Corte d’Appello di Milano sull’interdizione di Berlusconi dai pubblici uffici previsto per metà ottobre. Dal momento che si tratta di una nuova sentenza, infatti, i suoi legali potrebbero ancora fare ricorso in Cassazione e, così, rinviare di alcuni mesi l’espulsione del leader del Pdl da palazzo Madama. Lo scontro istituzionale, giudiziario e politico non potrebbe, naturalmente, non travolgere il governo, ma l’illusione di Berlusconi, alimentata da quella disperata corte di ultrà, di ottenere subito le elezioni anticipate sarebbe sicuramente frustrata da altre e ben più gravi dimissioni, quelle già annunciate di Napolitano. Con il risultato che il nuovo presidente della Repubblica sarebbe eletto non da un nuovo Parlamento, ma dall’attuale. Un futuro che non sembra davvero più rassicurante per Berlusconi e più promettente per il centrodestra italiano.

 

Al di là di una contabilità miserevole sulle convenienze personali e politiche, però, quello che davvero stupisce è la distanza tra la comprensione di una fase molto delicata del Paese e l’annuncio di una mossa così irresponsabile. L’Italia è al bivio tra un destino di decadenza produttiva ormai drammatica, con il rischio di una crisi finanziaria che porterebbe a nuovi, pesanti sacrifici per tutti i cittadini, e la speranza di agganciare una pur flebile ripresa internazionale. Una situazione che richiederebbe, davvero, comportamenti adeguati alla gravità del momento da parte di tutta la classe politica. Non è difficile prevedere quale sarebbe l’accoglienza della maggioranza degli italiani, compresi molti elettori moderati, nei confronti di una così sconsiderata iniziativa dei parlamentari Pdl. Basterebbe domandarlo, peraltro, a quelle 500 donne, in coda su una strada di Genova, per il sogno di acchiappare uno dei tre posti di commessa che un negozio ha messo in palio. 

da - http://www.lastampa.it/2013/09/26/cultura/opinioni/editoriali/una-scelta-di-irresponsabilit-istituzionale-Hqdu9LRHMPdee81AsEKQtK/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Un balletto grottesco
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2013, 11:34:55 am
Editoriali
17/10/2013

Un balletto grottesco

Luigi La Spina

Il lamento è ormai diventato un luogo comune: gli italiani non hanno senso dello Stato. Ma come si fa ad averlo, se neanche lo Stato ha senso dello Stato? 
Il grottesco balletto funebre della salma di Priebke nella provincia romana, tra omaggi neonazisti e aggressioni di discendenti delle sue vittime, lo dimostra, purtroppo, con una evidenza umiliante. Come facciamo a pretendere che i nostri concittadini rispettino le istituzioni, osservino le leggi, paghino le tasse a uno Stato che, di fronte a un caso del genere, offre all’opinione pubblica, anche internazionale, un tale squallido spettacolo? 
Era davvero imprevedibile che la morte del centenario criminale nazista non aspettasse decenni per porre il problema della sua sepoltura? È ammissibile che sul caso del responsabile di uno dei più sconvolgenti delitti della follia umana, o meglio disumana, lo Stato italiano riuscisse a squadernare tutti i peggiori e i più meschini difetti del nostro pubblico costume: l’improvvisazione, la piccola furbizia, il palleggio delle responsabilità, l’assoluta mancanza di autorevolezza e di credibilità dei suoi funzionari?
Ripercorrere le scene che, in questi giorni, si sono succedute all’annuncio della scomparsa di Priebke è come rivedere, in flashback, un film dell’orrore, l’orrore di uno Stato assente, incapace di prendere una seria decisione, una istituzione che abdica i suoi poteri a chi, di volta in volta, si arroga il diritto di esercitarli. Compare un avvocato dagli annunci irresponsabili, spunta una fantomatica congrega di nostalgici lefebvriani, s’infuria un sindaco alle prese con un problema certamente più grande di lui, si agita un prefetto che, prima autorizza i funerali e, poi, è costretto a vietarli, di fronte alle più che prevedibili conseguenze delle sue sconsiderate decisioni. Così, appaiono sui video di tutto il mondo spettacoli che abbiamo sempre pensato potessero arrivare solo da qualche Paese mediorientale alla caduta del dittatore di turno, con la bara di un uomo, sia pure un criminale, sballottata tra insulti, calci, sputi e cori di impudente omaggio nostalgico, costretta prima a sfuggire all’assedio con una manovra diversiva all’ombra delle tenebre e, poi, a riparare addirittura in un’aeroporto militare, senza che nessuno possa neanche immaginare la sua destinazione finale.
Neanche la notte porta consiglio, perché ieri la scena, questa volta spostata dal fuoco della piazza alle austere stanze della diplomazia, non cambia: si susseguono assicurazioni sull’intervento della Germania e secche smentite da parte dell’ambasciata tedesca che, in serata, precisa di non potersi occupare di una questione che riguarda la sola competenza dell’Italia. Confusione, imbarazzo e qualche piccola bugia fanno ancora da vergognosa colonna sonora a un film davvero da brivido, perché mostra uno Stato ormai svuotato, assente, incapace di far fronte alle responsabilità di una istituzione a cui, secondo il patto fondamentale stretto tra i cittadini, è affidata non solo la rappresentanza degli interessi degli italiani, ma la rappresentanza dell’onorabilità degli italiani di fronte al mondo. Quello Stato che, al di là delle diverse opinioni dei suoi abitanti, delle loro diversità ideologiche, delle diverse sensibilità, magari anche dei contrastanti umori e risentimenti, giustifica ancora la necessità, ma anche la voglia, di riconoscersi in una sola nazione. 

 

Se questa è la penosa rappresentazione di impotenza istituzionale offerta dal nostro Paese, non ci possiamo meravigliare che cerchino visibilità mediatica confusi epigoni nostrani del negazionismo storico come Odifreddi o che pseudo estremisti di sinistra come i grillini vadano in caccia di trasversali consensi tra i nostrani pseudo estremisti di destra, bloccando la rapida approvazione della legge che istituisce il reato di apologia del nazismo e dell’antisemitismo.
Eppure ci dev’essere un limite al disfacimento del nostro Stato nel silenzio un po’ complice dei suoi abitanti e, forse, lo squallido spettacolo di questi giorni servirà almeno a impedire che qualche italiano possa dire di non essersene accorto.


Titolo: LUIGI LA SPINA - Una forzatura che serve a fare chiarezza
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2013, 06:32:56 pm
Editoriali
31/10/2013

Una forzatura che serve a fare chiarezza

Luigi La Spina

Mai, come in questo caso, la famosa battuta di Flaiano sull’Italia «patria del diritto e del rovescio» si può applicare alla perfezione e mai, come in questo caso, appaiono inutili, tanto sono strumentali, disquisizioni su leggi, regolamenti, procedure, prassi. Allora, è meglio evitare di inoltrarsi nel mare di ipocrisia che, in queste ore, cerca di giustificare o di condannare la decisione del voto palese sulla decadenza da senatore di Berlusconi con più o meno arzigogolate considerazioni giuridiche e affrontare la vera questione, quella dell’opportunità politica.

L’adozione del voto segreto, con il pretesto di salvaguardare la libertà di coscienza del parlamentare, tradisce un’ammissione di viltà da parte di coloro che rappresentano i cittadini alle Camere e oscura quella trasparenza della condotta pubblica che dovrebbe essere la regola prima di una democrazia. La libertà di coscienza non si può affermare senza la responsabilità dei propri atti, perché le due condizioni sono indissolubilmente connesse. Le procedure che prevedono voti segreti, in tutti i campi e non solo in quello politico, dovrebbero essere limitate a casi del tutto particolari, a meno che non si debba vivere in regimi dittatoriali.

Cambiare sistema, però, proprio adesso, proprio nei confronti di un Berlusconi accusato per due decenni di far approvare «leggi ad personam», solo per favorirlo, sia in campo giudiziario sia in quello economico, appare certamente una scelta che si presta alla facile accusa di persecuzione personale, una decisione, appunto, «contra personam». 

Si tratta, perciò, di una forzatura indubbiamente intempestiva e con molte controindicazioni polemiche, ma che, negli attuali momenti della discussione pubblica in Italia, si potrebbe giudicare come una forzatura di chiarezza. Perché mira a scacciare l’arrivo di un altro di quei fantasmi che, da anni, si aggirano sulla nostra politica, personaggi tenebrosi che non permettono mai che si sciolgano eterni sospetti sulle più importanti vicende del nostro Paese.

Tarli di complotti inesplicabili si insinuano sui giornali, in tv, nelle reti e nei corridoi parlamentari tra accuse senza prove e difese d’ufficio: chi, ad esempio, ha davvero deciso la caduta del governo Prodi e chi, nella folta compagnia di altri cento voti segreti, ha stroncato l’ascesa dello stesso Prodi al Quirinale? È troppo facile immaginare i fantasmi che avrebbero avvelenato la nostra Italia se, sotto quei catafalchi che proteggono da occhi indiscreti il verdetto dei senatori, fosse spuntato un risultato contrastante con le indicazioni ufficiali dei partiti. Si sarebbe gridato al «patto scellerato» che, pur di garantire la stabilità del governo, alcuni parlamentari del Pd avrebbero stipulato con il centrodestra, salvando Berlusconi dalla decadenza. Un’accusa che avrebbe fatto implodere un partito democratico già abbastanza fibrillante per conto suo. Oppure, un verdetto contro la sua permanenza in Senato più ampio del previsto avrebbe imputato ai «diversamente berlusconiani» l’onta del tradimento, pur di mantenere le poltrone ministeriali.
La stabilità del governo Letta può essere utile, sì, ma non può essere pagata al prezzo del sospetto, di un confuso intrigo di convenienze intrecciate, senza che i parlamentari abbiano il coraggio, meglio l’onestà intellettuale e morale, di prendere una posizione trasparente e responsabile di fronte all’opinione pubblica, sia sul caso Berlusconi, sia sulla permanenza dell’esecutivo. Sarebbe davvero auspicabile che quella libertà di coscienza che deputati e senatori invocano per ricorrere al voto segreto, la manifestassero, invece, nel voto palese, magari dissociandosi dalle indicazioni del loro partito. Così si ricorderebbero e ricorderebbero agli italiani quell’articolo 67 della nostra Carta costituzionale che li libera dal vincolo di mandato, poiché ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione.

I frutti delle «larghe intese» possono essere giudicati positivamente per contribuire all’uscita della Repubblica italiana dalla più grave crisi economica della sua storia, oppure possono essere valutati come insufficienti e iniqui, ma le conseguenze devono essere figlie dei fatti e non dei fantasmi. 

http://lastampa.it/2013/10/31/cultura/opinioni/editoriali/una-forzatura-che-serve-a-fare-chiarezza-oQ2XHr1Tteog3XbgEkayrJ/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Così si spezza la doppia anima del Cavaliere
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2013, 11:47:32 am
Editoriali
27/11/2013

Così si spezza la doppia anima del Cavaliere

Luigi La Spina

Anche l’epilogo dell’esperienza, se non politica, almeno parlamentare di Berlusconi conferma che, in questi vent’anni, l’Italia ha visto sulla scena pubblica non uno, ma due Berlusconi. Da una parte, l’uomo di Stato che dialoga con i potenti del mondo come rappresentante e interprete del moderno conservatore europeo. Dall’altra, il rivoluzionario di centro, disinvolto contestatore dei riti e dei miti istituzionali, in nome di un rapporto empatico e diretto con i consensi non tanto dei suoi elettori, quanto dei suoi fan. Un doppio registro che, alternato con una sapiente regia mediatica, gli ha consentito, finora, di tenere insieme le due platee alle quali si è rivolto, quella tradizionale del moderatismo italiano orfano della dc e quella del ribellismo anarco-conservatore, insofferente alle regole di uno Stato considerato sempre come un avversario. Un nemico che non si può abbattere, ma a cui è legittimo sfuggire con ogni mezzo. 

Così, questi giorni di vigilia di quella decadenza parlamentare che, stasera, dovrebbe seguire alla sua definitiva condanna penale, hanno manifestato con estrema chiarezza quel modello binario della sua condotta tipico di tutta la sua presenza in politica.

Con una forte accelerazione però dei due atteggiamenti, alternati freneticamente come in un balletto chapliniano. Prima, il leader di Forza Italia ostenta un vittimistico ossequio per le libere prerogative presidenziali sulla concessione della grazia e, subito dopo, passa agli anatemi complottisti e minacciosi contro Napolitano, conditi da veementi attacchi e ingiurie contro il capo dello Stato da parte dei giornali che a lui fanno riferimento. Prima, chiede ai membri del Parlamento, con un appello commosso, il rispetto dovuto a un loro collega, rappresentante, secondo la Costituzione, di tutto il popolo italiano e, immediatamente dopo, si appella a un’imponente manifestazione di piazza come arma impropria di pressione sulle scelte dei senatori che devono deliberare la decadenza. Prima, ricorre a principi del foro come l’avvocato Coppi per seguire le vie maestre del diritto processuale, nella convinzione che, alla fine, la giustizia debba trionfare, riconoscendo la sua innocenza e, poi, dichiara impossibile che la magistratura italiana esprima nei suoi confronti una sentenza di verità. 

È probabile, però, che, adesso, questa «partita doppia» sulla quale Berlusconi ha condotto l’equilibristico bilancio della sua esperienza politica sia alla conclusione, proprio per l’impossibilità di tenere insieme quello che è sempre riuscito a tenere insieme. Come se, in epoca pre digitale, l’affrettato ritmo di quel film chapliniano potesse preludere alla rottura della pellicola. Per la prima volta, infatti, l’esasperazione del caso personale rispetto alle sorti di quel popolo di cui Berlusconi è sempre riuscito a rappresentare paure e speranze, desideri legittimi e aspirazioni inconfessabili, rischia di rompere il circuito magico che ha costantemente legato il destino del leader a quello della composita maggioranza degli italiani che in questi anni l’ha votato. 

 
Se questa ipotesi avesse il conforto degli avvenimenti nei prossimi mesi, la divisione tra «lealisti» e «diversamente berlusconiani» non rappresenterebbe, come pure è stato giustamente osservato, un aggiornamento partitico del suo tradizionale metodo, quello, appunto, del doppio registro, moderato e radicale, ma il segnale di una sua ormai insanabile rottura. L’estromissione di Berlusconi dal Parlamento potrebbe costituire, perciò, il simbolo dell’impossibilità di inserire e far valere nelle istituzioni dello Stato il ribellismo antipolitico e para-rivoluzionario che cova, nel profondo, una parte importante del suo elettorato. 

Si spiegherebbe, così, l’opposizione disperata del leader di questa nuova, ma molto diversa, «Forza Italia» alla sua decadenza da senatore, un’eventualità che non può essere paventata solo dal timore, senza lo scudo dell’immunità, di un improbabile arresto. Tra l’altro, proprio i leader che più recentemente si sono affacciati sulla scena pubblica, Grillo e Renzi, hanno dimostrato come si possa far politica, e farla efficacemente, fuori dagli scranni delle due Camere. Berlusconi, che certo non sfigura al confronto carismatico con i due probabili futuri suoi competitori, potrebbe avvantaggiarsi, anzi, da una posizione extraparlamentare che gli lascerebbe la massima spregiudicatezza propagandistica. Forse la sua accanita battaglia per conservare il più possibile il suo posto a palazzo Madama indica la consapevolezza, più istintiva che razionale, della necessità di prolungare il più possibile lo straordinario miracolo del ventennio berlusconiano, quello di non spaccare la doppia anima del moderatismo italiano a cavallo del secolo. E con quella, anche la sua.

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/27/cultura/opinioni/editoriali/cos-si-spezza-la-doppia-anima-del-cavaliere-kUOJmKfaWlqq8MWHPU3j7L/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Un colpo all’ipocrisia della politica
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2013, 11:56:14 pm
Editoriali
05/12/2013

Un colpo all’ipocrisia della politica

Luigi La Spina

La pressione dell’opinione pubblica e una certa «vocazione» politica hanno prevalso sulle ragioni del diritto. Solo così si può comprendere una decisione della Consulta che ha dichiarato incostituzionale una legge che, da otto anni, ha fatto eleggere dai cittadini la massima istituzione della Repubblica italiana, il Parlamento. Una sentenza che, se non politicamente e giuridicamente, ma almeno dal punto di vista morale, delegittima quasi dieci anni di vita pubblica nel nostro Paese. 

Sono significative, del resto, le prime reazioni a questo verdetto della Corte Costituzionale: applausi unanimi e propagandistici delle forze politiche; sconcerto, in privato, e perplessità, in pubblico, della gran parte dei giuristi. 

È vero, però, che la decisione sarà accolta da un sospiro di sollievo e dall’entusiastico consenso di tutti gli italiani, giustamente indignati dal comportamento ipocrita e inaccettabile di una classe politica che, nonostante gli appelli del Capo dello Stato sostenuto da un’opinione pubblica insolitamente compatta, non è riuscita a trovare un accordo per cambiare l’obbrobrio del «porcellum». La sentenza, infatti, costituisce un durissimo monito a coloro che ci hanno governato negli ultimi anni, raccoglie lo sdegno degli italiani per l’esproprio della volontà popolare subito da parte delle segreterie dei partiti, ma apre, nello stesso tempo, scenari del tutto imprevedibili davanti a un futuro politico già molto complicato.

La Corte non solo lancia al Parlamento un ultimatum, un messaggio che sarebbe potuto arrivare anche se accompagnato da un più comprensibile rinvio della decisione, ma non lo aiuta a individuare un indirizzo di riforma urgente del «porcellum» finché, fra alcune settimane, non saranno note le motivazioni. A meno che siano attendibili le voci che, ieri sera, confidavano una opinione della Corte altrettanto sorprendente, quella di una sentenza già applicativa della legge elettorale, con due correzioni: il proporzionale puro e la preferenza unica. 

È molto difficile, in queste ore, valutare le conseguenze, sul piano strettamente politico, del clamoroso verdetto della Consulta, perché il solito uso della logica e della ragionevolezza potrebbe essere vanificato da un clima di tale confusione, persino tra le istituzioni, da non poter escludere nessuna ipotesi, anche la più inverosimile. A prima vista, però, la sentenza potrebbe garantire al governo Letta, per almeno un anno, un’affidabile assicurazione sulla vita. I paradossali consensi alla decisione della Corte da parte di quelle stesse forze politiche così duramente messe sotto accusa e delegittimate non preludono a un immediato accordo su una nuova legge elettorale, perché gli interessi di parte sono così frazionati da rendere molto arduo il raggiungimento di un’intesa ampia tra i partiti, quale sarebbe necessaria per una riforma così delicata, quella che deve stabilire le regole del gioco elettorale. I tempi, poi, si potrebbero allungare anche per l’opportunità di legare alla nuova legge sul metodo di voto almeno due riforme costituzionali, quella sulla riduzione del numero dei parlamentari e quella sul monocameralismo.

Tale percorso politico che in queste ore i principali esponenti del governo prevedono come il più probabile, e anche quello da loro evidentemente caldeggiato, si potrebbe scontrare con la forza dirompente della sentenza emessa ieri sera dalla Corte che, in un momento di acute tensioni sociali e di gravi preoccupazioni economiche, potrebbe travolgere le sempre fragili difese di un equilibrio politico molto delicato. È chiaro che le forze d’opposizione al governo Letta, a cominciare dal Movimento 5 Stelle, useranno il verdetto come il più autorevole avallo all’attacco di questo Parlamento e alla delegittimazione di quella maggioranza che sostiene l’esecutivo. Ma anche la risorta Forza Italia potrebbe trovare nella Consulta un formidabile alleato per giustificare l’urgenza di nuove elezioni e, così, strozzare nella culla il neonato concorrente costituito dal partito di Alfano. 

L’effetto sentenza, infine, potrebbe indirettamente indebolire anche le resistenze di Napolitano a interrompere la legislatura, perché, da una parte, rafforza gli appelli del Capo dello Stato per la riforma della legge, ma, dall’altra, dichiara sostanzialmente illegittima la composizione delle attuali Camere.

L’Italia, insomma, si appresta a vivere scenari del tutto inediti, nei quali si mischiano populismi di vario genere, un antieuropeismo a sfondo autarchico e una crisi di delegittimazione morale di una intera classe politica. In questo clima, le istituzioni fondamentali del nostro Paese rischiano, pure loro, di non credere più a se stesse, al ruolo che devono esercitare in una democrazia. Ecco perché è giusto che siano sensibili alle esigenze dei cittadini, ma nell’assoluto rispetto dei confini del loro potere. 

Da - http://lastampa.it/2013/12/05/cultura/opinioni/editoriali/un-colpo-allipocrisia-della-politica-SyAVfkIBrOcQapA8f9bxqJ/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Se lo Stato rinuncia al suo ruolo
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2013, 06:34:36 pm
Editoriali
12/12/2013

Se lo Stato rinuncia al suo ruolo

Luigi La Spina

Da tre giorni le principali città italiane, ma soprattutto Torino, sono ostaggio di una confusa rivolta. Confusa, perché raccoglie un effettivo forte disagio sociale, ma pure un trasversale ribellismo dai molti e anche ambigui colori. Confusa, perché gli obbiettivi o sono così vaghi o sono così irrealistici da apparire puri pretesti.

Pretesti per sfogare una protesta destinata a non avere risultati concreti. Confusa, perché invece di colpire i presunti «nemici del popolo», la classe politica, nazionale e locale, colpisce il popolo. Quello dei pendolari, costretti a raddoppiare la fatica di una già durissima giornata; quello dei commercianti, obbligati dalle minacce dei rivoltosi a rinunciare ai pur magri incassi prenatalizi; quello della gente comune, costretta a complicati e, in alcuni casi, perigliosi pellegrinaggi tra serrande sbarrate. Una rivolta, invece, chiarissima nel dimostrare una realtà ormai emersa in molti casi, ma mai in maniera cosi evidente: l’assenza dello Stato. 

Uno Stato capace di garantire sì la libertà di manifestazione, ma non di impedire plateali e gravi lesioni della legge, come quando si consentono l’occupazione di ferrovie, le interruzioni di pubblici servizi nel trasporto locale, le ripetute e pesanti intimidazioni contro la tutela di diritti irrinunciabili, quali la libertà di opinione e la libertà del lavoro. In questi tre giorni, la condotta del Viminale e quella delle questure e prefetture è stata sconcertante.

Gli italiani hanno assistito, allibiti, alla contraddizione palese tra le roboanti dichiarazioni di fermezza pronunciate in tv dal ministro Alfano e la realtà di un comportamento delle forze dell’ordine che ha lasciato le città italiane alla mercé di raid squadristici, peraltro operati da sparuti gruppi di ultrà, non da imponenti masse di manifestanti. Una strategia incomprensibile, perché invece di scoraggiare le violenze e di isolare coloro che non si limitavano a contenere la protesta nei limiti della legge, ha avuto l’effetto di allargare il contagio, vista la sostanziale impunità che faceva seguito a quei comportamenti. Ecco perché la polemica sui caschi sfilati dalle teste degli agenti si è incentrata su un falso dilemma, quello se fosse un gesto di solidarietà con i manifestanti o un intelligente atto per allentare la tensione. Ha avuto, invece, solo un effetto simbolico, quello di un abbandono del campo da parte dello Stato. Un’impressione certamente non contraddetta dai tardivi arresti di ieri sera.

Tale assenza dello Stato, in questi tristi giorni, sta suscitando i prevedibili e pericolosi effetti di reazione sociale: ieri, gruppi di cittadini esasperati hanno incominciato ad organizzare e a propagandare, anche via Internet, contro-manifestazioni per protestare contro i cosiddetti «forconi», in difesa del diritto al lavoro. Il rischio è quello di uno scontro civile dagli esiti incontrollabili e la responsabilità di questa situazione è proprio di chi ha lasciato che i cittadini si sentissero soli e abbandonati da coloro che dovrebbero difenderli. Quando il monopolio della forza, il fondamentale requisito per cui uno Stato viene riconosciuto come tale, viene così irriso da sparute e violente minoranze, è naturale che si lasci campo libero ad altrettante minoranze, magari meno sparute, che se lo contendono, in una sfida che mette i brividi.

È lo stesso abbandono del campo, da parte dello Stato, che avviene negli stadi tutte le settimane, quando si tollera il travestimento di teppisti da tifosi e si nascondono le ambiguità delle autorità calcistiche, più attente a tutelare gli interessi economici che quelli dello sport. La stessa assenza dello Stato, quando deve osservare i diritti del contribuente, frastornato e vessato da una frenesia incomprensibile di tasse, prima dovute, poi annullate, poi ripristinate, poi corrette mille volte, come l’assurda vicenda dell’imposta sulla casa dimostra. Quello Stato che lascia languire nelle carceri migliaia di detenuti in attesa di giudizio, magari molti innocenti e, nello stesso tempo, non riesce a ridurre in dimensioni accettabili la montagna di evasione fiscale che schiaccia i cittadini onesti del nostro Paese.

Come sarebbe bello se un questore o un prefetto, magari quello di Torino, per non dire un ministro di questo povero nostro Stato, per dimostrare un po’ di rispetto proprio per quello Stato che rappresentano, di fronte a una Waterloo come quella di queste ore, offrisse le sue dimissioni, anche se ritenesse di non essere il solo responsabile. Ma non allarmatevi, non lo farà. 

Da - http://www.lastampa.it/2013/12/12/cultura/opinioni/editoriali/se-lo-stato-rinunci-al-suo-ruolo-gmPz0DSyX5aXjzZorrN1tO/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Si chiacchiera mentre l’Italia declina
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2014, 11:00:47 am
Editoriali
09/01/2014
Si chiacchiera mentre l’Italia declina

Luigi La Spina

Il cittadino comune che, in questi giorni, legge i giornali e guarda la tv sta passando momenti di grande sconcerto. Da una parte, vede la classe politica occuparsi sostanzialmente di tre argomenti: la discussione su una nuova legge elettorale tra modello spagnolo modificato, Mattarellum risuscitato e un sindaco nazionalizzato, l’ipotesi di un rimpasto di governo e la scommessa su quando Renzi riuscirà a prendere il posto di Letta.

Dall’altra, avendo la fortuna (?) di possedere una casa ha perso ogni speranza di capire se, quando e quanto dovrà pagare per misteriose sigle e aliquote di tasse sull’abitazione che, ogni giorno, si annunciano diverse. Il suo sconforto aumenta, poi, quando lo stesso commercialista di fiducia si dimostra confuso, giustificando il suo smarrimento per aver contato, negli ultimi mesi, ben 38 modifiche sulla legislazione per la casa e sapendo che, nelle prossime settimane, questo record sarà sicuramente battuto. Per l’aggiornamento sulle ultime notizie, infine, gli viene comunicato dall’Istat che, tra i disoccupati, i giovani in Italia sono il 41 per cento. Vuol dire che se il suddetto cittadino comune abita in Meridione può prevedere che per suo figlio quella percentuale si alzi al 70-80 per cento.

Il distacco tra gli interessi, i problemi, le preoccupazioni degli italiani e la cosiddetta agenda di governo e Parlamento sta diventando davvero enorme. Anche perché l’impressione è che la classe politica discuta, polemizzi, si divida su questioni che hanno ben poco rapporto con la concreta realtà. Prendiamo, ad esempio, l’argomento che più ha caratterizzato l’inizio d’anno: la riforma elettorale. Renzi, come vogliono del resto tutti gli italiani, vuole una legge per la quale si sappia, la sera stessa dello spoglio dei voti, chi sarà il nuovo presidente del Consiglio e quale sarà la maggioranza sulla quale potrà contare. Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che, con l’attuale bicameralismo, nessun sistema elettorale garantisce maggioranze omogenee nei due rami del Parlamento. Prima, perciò, bisognerebbe riformare la Costituzione su Camera e Senato e, quindi, anche se si trovasse un accordo tra i partiti, ci vorrebbe almeno un anno perché possa essere approvata una simile riforma. Non esiste la probabilità, perciò, che si possa andare a nuove elezioni nel corso del 2014 e tutte le elucubrazioni che in questi giorni si fanno a tale proposito sono assolutamente inutili.

Si era sostenuto che il passaggio dalle cosiddette «larghe intese» alle cosiddette «ridotte intese» avrebbe favorito la coesione della maggioranza e, quindi, una maggiore efficacia e rapidità delle decisioni governative. La farsesca vicenda sugli stipendi degli insegnanti dimostra che quelle speranze erano piuttosto illusorie, perché i contrasti, le incertezze, le retromarce si sono trasferiti, dai partiti, addirittura ai ministri. Al di là della figuraccia, quello che colpisce e amareggia è un metodo di governo che affastella annunci su annunci, molte volte contraddittori e che non rispetta le elementari regole nei confronti dei cittadini, i quali hanno diritto di conoscere, con la massima chiarezza e con sufficiente anticipo di tempi, le disposizioni in materia di leggi, soprattutto di quelle tributarie. Tutte le promesse sulle sbandierate semplificazioni si sono sempre scontrate con una realtà applicativa del tutto deludente. Nell’esperienza quotidiana degli italiani l’oppressione burocratica e le incertezze interpretative sono aumentate e non sono affatto diminuite negli ultimi mesi.

Se la classe politica parlasse meno di riforma elettorale, di rimpasto, dei duellanti Renzi e Letta, forse, potrebbe occuparsi con maggior profitto, ad esempio, del problema che annuncia il vero, prossimo declino dell’Italia nel mondo, legato non tanto al valore dello spread e neanche al nostro enorme debito pubblico, ma al dramma dell’emigrazione forzata dei migliori giovani del nostro Paese.

Ogni cittadino italiano paga, per la formazione scolastica e universitaria, una quota notevole delle tasse che versa allo Stato. Soldi ben spesi perché l’investimento ha una resa soddisfacente. Nonostante le scarse risorse, le note difficoltà, le modeste soddisfazioni professionali ed economiche dei professori, dalle nostre scuole e dai nostri atenei escono ragazzi con una preparazione molto apprezzata all’estero. Così, da anni ormai e con ritmi sempre più frequenti, i migliori giovani italiani, ricercatori, medici, professionisti, ma anche tecnici, l’ipotetica futura classe dirigente del nostro Paese, è costretta a cercare lavoro in terra straniera. Una selezione di cervelli migranti che avviene per merito, ma anche per classe, ingigantendo un’ingiustizia sociale che costituisce un vero tradimento ai principi di uguaglianza proclamati nella nostra Costituzione. Poiché alti stipendi e valorizzazione delle capacità premiano le carriere di questi nostri giovani all’estero, ben pochi pensano di ritornare a lavorare in Italia, anche perché le esperienze umilianti di coloro che, per varie ragioni, hanno avuto il coraggio di farlo, sconsigliano un così deludente rimpatrio.

Si può essere fiduciosi nel futuro dell’Italia se la parte migliore e più fortunata degli italiani è costretta ad abbandonarla? È quella che, a scuola, definivano una domanda retorica, perché la riposta, purtroppo, è una sola: no.

Da - http://lastampa.it/2014/01/09/cultura/opinioni/editoriali/si-chiacchiera-mentre-litalia-declina-7JydYWCSIIoSrjWZdDhhtN/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - I tempi di un paese poco normale
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2014, 11:50:49 am
Editoriali
11/01/2014

I tempi di un paese poco normale
Luigi La Spina

C’è un Paese, nel civile e democratico occidente, in cui l’organo dello Stato più importante, quello che rappresenta la volontà popolare, il Parlamento, è composto, da quasi un anno, da senatori e deputati eletti con una legge contraria alla Costituzione. Nello stesso Paese, una delle più grandi regioni del nord, il Piemonte, è governata, da quasi quattro anni, da un presidente e da una giunta eletti illegittimamente.

Questo Paese è l’Italia.

La decisione con la quale il tribunale amministrativo piemontese, ieri, ha dichiarato nulle le elezioni che, nella primavera 2010, avevano deciso, per poche migliaia di voti, la vittoria dello sfidante leghista, Roberto Cota, sull’ex presidente Mercedes Bresso, ricandidata dal centrosinistra, non è certo sorprendente nel merito della questione. Dopo l’accertamento della falsità di alcune firme su una lista d’appoggio al candidato di centrodestra, la sentenza era prevedibile. Ma il verdetto è sconvolgente perché arriva quasi alla fine di una legislatura regionale e, per di più, non è ancora definitivo, dal momento che il ricorso dei perdenti al Consiglio di Stato sicuramente allungherà ancora questi tempi infiniti, con il rischio pure di un annullamento del giudizio del Tar.

Si può ancora definire «normale» un Paese nel quale ci vogliono quattro anni per verificare la regolarità di una elezione importante, come quella per una Regione? Si può ammettere che per quasi un’intera legislatura il presidente del Piemonte e la sua giunta abbiano esercitato un potere illegittimo, abbiano emanato leggi illegittime, abbiano deciso nomine illegittime? L’Italia ha dimostrato di sopravvivere, con il sacrificio dei suoi cittadini, a una crisi economica devastante per molte famiglie. Come può sopravvivere l’immagine di questo Paese quando le sue istituzioni sono esposte al rischio peggiore, quello del ridicolo? Come si può pretendere di esigere il rispetto che l’Italia dovrebbe riscuotere all’estero, quando una disputa elettorale non viene decisa nel giro di un mese, come avviene in tutti i Paesi del mondo, ma si trascina fino a quando la soluzione diventa sostanzialmente inutile. Perché la politica, come la vita degli uomini, non si può «resettare» come si dice nei linguaggi informatici.

La gravità del caso Piemonte è proprio quella dell’assoluta osservanza di leggi e procedure. Non si possono imputare speciali pigrizie ai giudici amministrativi, né particolari atteggiamenti ostruzionistici agli avvocati delle parti. Tutti hanno compiuto, con scrupolo e competenza professionale, i doveri imposti dal loro ruolo. L’inaccettabile ritardo del verdetto (quasi) definitivo dimostra, in maniera simbolicamente molto efficace, la paralisi in cui l’Italia è sprofondata da almeno vent’anni. Vent’anni perduti in dispute inconcludenti, in cui alla vicende giudiziarie di Berlusconi sono state sacrificate riforme della giustizia indispensabili, quelle che interessano davvero i cittadini. Quelli che aspettano da decenni che si concluda una causa civile, quelli che sono costretti a rinviare o a cancellare investimenti che darebbero preziosa occupazione perché ad ogni passo s’imbattono in ricorsi ostativi dalle parti più disparate, con le pretese più improbabili. Quelli che, in attesa di giudizio e magari innocenti, affollano per anni le carceri, le cui condizioni vergognose ci espongono alle condanne delle corti internazionali.

Una classe politica del tutto inadeguata come quella che ci ha governato nella cosiddetta seconda Repubblica ha condannato il nostro Paese all’immobilismo più assoluto. Una nazione in cui le decisioni, anche le più importanti, vengono delegate ai ritmi lenti e tortuosi della giustizia italiana. Così, del tutto regolarmente per carità, la Corte Costituzionale scopre, solo dopo quasi dieci anni, che la legge con la quale si elegge il Parlamento ha portato alla Camera e al Senato illegittimi rappresentanti del cosiddetto popolo sovrano. Così, dopo quattro anni, (forse) si stabilirà che Cota e la sua giunta hanno esercitato in Piemonte un potere abusivo, occupando abusivamente poltrone che sarebbero spettate ad altri.

Non servono agli italiani facili e demagogiche proteste, né ricette miracolistiche e dall’applicazione impossibile, ma una riflessione seria e severa sulle responsabilità collettive in questi anni di sciagurata dilapidazione del patrimonio nazionale non solo economico, ma soprattutto morale e civile. La battaglia di tutti contro tutti, corporazione contro corporazione a colpi di veti reciproci, ha impedito nel nostro Paese il varo di tutte quelle riforme, radicali e urgenti, indispensabili perché l’Italia torni a essere una normale democrazia dell’Occidente. A cominciare da quella sui tempi della giustizia.

Da - http://lastampa.it/2014/01/11/cultura/opinioni/editoriali/i-tempi-di-un-paese-poco-normale-dLWldr51qRN85KZHKjltgN/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Se la Corte fa da balia ai politici
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2014, 06:02:35 pm
Editoriali
24/01/2014

Se la Corte fa da balia ai politici

Luigi La Spina

Era largamente prevedibile che il progetto di nuova legge elettorale presentato alla Camera dopo l’accordo tra Renzi e Berlusconi suscitasse polemiche e critiche. Come è giusto che il Parlamento rivendichi il diritto non solo di discuterlo senza imposizioni censorie, ma anche di approvare tutte quelle modifiche che possano migliorarne l’efficacia per garantire sia l’osservanza della Costituzione, sia il rispetto degli obiettivi. 

Quelli di governabilità del sistema e di rappresentanza della volontà popolare.

Era anche prevedibile, forse, che sul testo, peraltro ancora non del tutto definito, si scatenasse una curiosa fiera della vanità ferita, tra ostinate invidie accademiche di star della politologia e rivendicazioni di primogenitura politica che risalgono a convegni colpevolmente perduti nella memoria. Non era davvero prevedibile, invece, che la Corte Costituzionale, dopo quasi dieci anni di silenzio sull’esecrato porcellum, si sia così innamorata del ruolo politico assunto attraverso la sentenza con la quale lo ha finalmente condannato, da esercitarlo addirittura preventivamente. Così da lasciar filtrare, certo in forma anonima, ma con assolute garanzie di autenticità e di larga condivisione, giudizi critici su una legge non solo non promulgata, ma addirittura ai primissimi passi del suo iter legislativo.

A pensarci bene, lo stupore deriva solo dall’ingenuità di chi ancora si attardi su quelle distinzioni di funzioni e su quella indipendenza dei poteri, previste nei sacri testi delle democrazie liberali, ma ormai retaggi culturali e pruderie di antichi cerimoniali da cui rifuggire nella nostra confusa Repubblica d’oggi. Ed è naturale che quando si imbocchi una scorciatoia promettente, rispetto a una più faticosa e oscura, il fresco entusiasmo rischi di far correre verso il precipizio.

Se la Consulta si fosse limitata allo scrupoloso rispetto dei limiti delle sue funzioni, senza indulgere al desiderio di essere applaudita da tutti gli italiani per la condanna di una legge odiosa e alla volontà di aiutare le forze politiche a cambiarla, ora non sarebbe costretta ad affannose e non richieste precisazioni sul dispositivo della sentenza. Non ci sarebbe la necessità di chiarire che il riferimento al sistema elettorale spagnolo, notoriamente senza preferenze, non significa una patente di costituzionalità a una legge che, in Italia, non le preveda. Con la risibile giustificazione che il richiamo alla norma iberica, in un dispositivo così meditato da richiedere settimane per essere reso noto, era solamente dovuto alla volontà di dimostrare che, nel mondo, esistono leggi elettorali di diverso tenore. Non ci sarebbe l’opportunità di raccomandare, sempre informalmente è ovvio, soglie di premi di maggioranza più alte. Non ci sarebbe la volontà di far conoscere e di far pesare, con un certo gusto intimidatorio, la larga maggioranza che queste opinioni raccoglierebbero tra i giudici della Corte. Insomma, di invadere, per di più in anticipo, campi che sono di esclusiva competenza prima del Parlamento e, poi, di un Presidente della Repubblica che si è sempre dimostrato molto attento alla osservanza dei suoi compiti, tra cui, fondamentale, quello di far rispettare la Costituzione. In quel testo, sempre lodato con troppa ipocrisia e sempre trascurato quando fa comodo, non sono previste consulenze, ufficiali o ufficiose, da parte dei giudici a politici così maldestri da combinare, se lasciati soli, guai irreparabili. Le balie non vengono invocate neanche nelle latitanze più irriducibili di latte materno, figuriamoci tra senatori e deputati per cui è prevista la maggiore età.

Può essere, naturalmente, che le critiche alla mancanza di almeno una preferenza o ai limiti troppo bassi per ottenere il premio di maggioranza siano condivisibili. Può essere che i parlamentari modifichino, su questi punti, un testo che effettivamente corre rischi di costituzionalità. Può essere che il dibattito politico, quello tra gli accademici e tra i commentatori su giornali, sulle tv e nella rete illumini le menti dei legislatori. Ma come sarebbe bello se coloro che sono investiti di altissime responsabilità istituzionali osservassero un rigido silenzio sulle intenzioni altrui. A sbagliare bastano i politici. Non è il caso che lo facciano anche i supremi giudici. 

Da -http://lastampa.it/2014/01/24/cultura/opinioni/editoriali/se-la-corte-fa-da-balia-ai-politici-ZLUYU58B8Gpb5whjwKhGAL/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Due stampelle per la sfida del premier
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2014, 11:22:51 am
Editoriali
01/03/2014

Due stampelle per la sfida del premier
Luigi La Spina

L’insonne Renzi l’ha accolta subito con un commento adeguato al suo tipico linguaggio iperbolico: «Allucinante». La cifra raggiunta dalla disoccupazione in Italia, la più alta dal 1977, insieme con gli altri dati sui prezzi che certificano il drammatico prolungarsi della crisi economica italiana, lo aiuta, infatti, a giustificare quella emergenza sulla quale il neopresidente del Consiglio ha fondato il motivo fondamentale della sua sbrigativa presa del potere.

La conquista di Palazzo Chigi da parte del sindaco di Firenze ha suscitato, in questi giorni, un significativo contrasto di sentimenti, prima ancora che di opinioni, tra cittadini comuni e quella parte degli italiani che si potrebbe riconoscere nella definizione di classe dirigente. I primi, nella grande maggioranza e senza sostanziali differenze tra elettori di destra e di sinistra, l’hanno accolta con una fiducia persino inspiegabile, se non con la sensazione che Renzi costituisca l’ultima spiaggia prima di un naufragio annunciato. Sarcasmo al limite del disprezzo, ironie sulla programmazione mensile delle promesse, critiche sulla mancanza di bon ton istituzionale, accuse di incompetenza professionale e politica, sconcerto per la vaghezza del programma. 

Tutto ciò ha costituito il nucleo della sostanziale diffidenza con la quale, invece, la seconda ha pronosticato il fallimento di questo homo novus della politica italiana.

Così, il paragone con Berlusconi e con la sua analoga fulminante presa del potere di vent’anni fa, è stato troppo facile per non notare la simile abilità mediatica, la stessa propensione alla demagogia spicciola, l’identica volontà di rappresentare l’italiano medio in lotta contro la voracità di uno Stato burocratico e immobile, la pretesa di volere il potere per stravolgere il potere.

Peccato che l’ovvietà del paragone abbia concentrato l’attenzione dell’opinione pubblica solo sugli aspetti più superficiali, estetici e comportamentali, di un confronto che, invece, sarebbe stato maggiormente rivelatore se avesse approfondito una analogia social-politica molto interessante. Il crollo della prima Repubblica e l’avvento di Berlusconi, ricordiamolo, avvenne quando il sistema economico italiano non sopportò più quel costo della cosiddetta «dazione ambientale» che costituiva l’aggio finanziario da fornire ai partiti. Un prezzo che, negli Anni 80, era sopportabile, perché la generale crescita dell’Italia lo rendeva compreso in bilanci attivi, ma che, agli inizi del decennio successivo, era diventato troppo esoso, proprio perché quella «nave Italia» che Craxi aveva pronosticato in un trionfale cammino si era, invece, bruscamente arrestata. La rivolta delle «partite Iva», dei ceti del lavoro autonomo non difeso dalle garanzie sindacali degli occupati a tempo indeterminato costituì la base di quel blocco sociale di cui Berlusconi interpretò la voglia di una sbandierata «rivoluzione italiana». Una rivoluzione fallita, è vero, ma che riuscì a distruggere, in poco tempo, un sistema di partiti e di potere che, per quasi cinquant’anni, dominò l’Italia dopo la seconda guerra mondiale.

Ora, la crisi dell’economia nazionale sta determinando conseguenze di trasformazione sociale altrettanto profonde e sta suscitando sentimenti di rivolta insensibili ai tradizionali schieramenti politici. Ecco perché l’asse della divisione italiana non si situa più in quello orizzontale, fra destra e sinistra, ma in quello verticale, tra innovazione e conservazione. Renzi ha colto immediatamente la forza di questo cambiamento e l’ha cavalcato con un successo che appare incredibile, sia nei tempi, sia nei modi. Ma è inutile guardare al passato, così rapido che lo si giudica erroneamente con gli stessi occhi del presente, è inutile ironizzare sul profilo botticelliano della neoministra della semplificazione, Marianna Madia, contro quello, ben più arcigno, degli alti burocrati da sgominare, inutile parlare delle mani in tasca di Renzi al Senato. Ma è anche poco importante seguire le possibili transumanze dei grillini dissidenti verso le sponde di una sinistra radicale, in un cantiere tanto infinito quanto poco affollato. Non è nelle alchimie parlamentari che il premier gioca la partita decisiva, perché lo scontro che si annuncia è ben più profondo e il risultato scuoterà i futuri assetti del sistema politico e sociale italiano in maniera sconvolgente.

Meglio della nostra classe dirigente, che aspetta questo scontro con la solita pseudo furbizia del gattopardo italico, hanno capito l’importanza del suo esito la maggioranza dei cittadini comuni e, forse inaspettatamente, quel sistema delle istituzioni internazionali che ha tutto l’interesse a non vedere l’Italia sprofondata in una pericolosa stagnazione, fonte di contagio per l’Europa, ma anche di imprevedibili conseguenze sugli equilibri finanziari del mondo. Renzi, con evidenza, punta all’appoggio di queste due stampelle per sconfiggere le reazioni corporative, già annunciate, sia nel suo partito, sia nel sindacato, che tenteranno di bloccare le riforme. È possibile, e forse anche probabile, che lo squilibrio di forze, di esperienze e pure di competenze, il divario tra le promesse imprudentemente annunciate e le risorse effettivamente disponibili condannino Renzi e il suo governo a una obbligata constatazione di fallimento. Ma, di sicuro, il nuovo premier tirerà subito la carta di riserva: l’appello alle urne. Poteva farne a meno per arrivare al potere, ma non potrà fare a meno del consenso degli elettori per sperare di vincere.

DA - http://www.lastampa.it/2014/03/01/cultura/opinioni/editoriali/due-stampelle-per-la-sfida-del-premier-uxZBJ6w76WKij8oIm31f7M/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - A Matteo serve un successo alle europee
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2014, 07:48:43 am
Editoriali

12/03/2014
A Matteo serve un successo alle europee

Luigi La Spina

Tra mille agguati e mille affanni la cavalcata di Matteo Renzi si avvia a superare il primo ostacolo, l’approvazione alla Camera della legge elettorale. Ma il successo non dovrebbe illudere troppo il premier, sia perché il passaggio del testo al Senato si annuncia ancor più tempestoso, sia perché è sulla partita economica che si gioca l’azzardo più importante per le sorti del suo governo. 

È su questo terreno, infatti, che il neo-inquilino di Palazzo Chigi spera di stringere quella alleanza con la gran parte dei cittadini italiani che potrebbe consentirgli di abbattere le barricate che partiti, a cominciare dal suo, sindacati e Confindustria si apprestano a elevare per opporsi ai suoi progetti. Ecco perché l’appuntamento con le elezioni europee del 25 maggio è fondamentale per Renzi e a questo obiettivo sono subordinate tutte le scelte che, in questi mesi, si appresta a compiere.

Un significativo successo elettorale permetterebbe al premier di far dimenticare «il peccato originale» della sua presa del potere, la manovra di palazzo che ha estromesso Enrico Letta da Palazzo Chigi, ma anche di legittimare nella forma più indiscutibile, quella del consenso democratico, sia i suoi progetti, sia il metodo per attuarli.

Non desta alcuna sorpresa il fatto che Renzi sia riuscito, già nei primi giorni di lavoro del suo governo, a mettersi contro il maggior sindacato del nostro paese, la Cgil e, contemporaneamente, pure la Confindustria. Può essere un rischio mortale per il suo governo, ma è una strada obbligata, perché è la conseguenza logica di una domanda con risposta incorporata: si può lottare contro le corporazioni con l’aiuto delle corporazioni? Ma alla prima domanda, ne segue una seconda: come si fa a pensare di sconfiggere una coalizione di resistenze così formidabili? Anche a questo secondo quesito, c’è una risposta scontata, che risale addirittura ai nostri avi latini: dividendola.

Renzi ha cominciato subito a mettere in pratica questa antica strategia. Con la scelta di privilegiare il taglio dell’Irpef rispetto a quello dell’Irap vuole dividere gli interessi degli imprenditori tra coloro che prevalentemente esportano e coloro che soffrono, sul mercato interno, la debolezza dei consumi. Nello stesso tempo, cerca di separare la dirigenza Cgil della maggioranza dei suoi iscritti, perché alle lamentele di Camusso per la mancata consultazione dei sindacati si prepara a rispondere con una riduzione delle tasse proprio sui redditi più bassi.

 Il rifiuto del tradizionale modello concertativo da parte del premier non prevede, d’altra parte, uno scontro totale con le rappresentanze imprenditoriali e sindacali, perché Renzi nega a loro il diritto di veto sui provvedimenti governativi, ma cerca un negoziato, una specie di «do ut des», attraverso il quale esse rinuncino a vantaggi e garanzie ormai insostenibili di quelle categorie «protette», in cambio di concrete contropartite salariali e occupazionali. Anche in questo caso, una proposta con molti rischi da parte del presidente del Consiglio, perché tende ad agevolare le richieste delle aziende e degli iscritti per ridurre i poteri dei vertici confindustriali e sindacali.

Se si considera, poi, l’esigenza primaria di un successo al voto di fine maggio, è ovvia la scelta di subordinare gli interessi dei lavoratori autonomi, meno garantiti, a quelli dei dipendenti statali e delle grandi imprese, più garantiti. È vero che Renzi cerca di allargare il tradizionale perimetro dei consensi al Pd, ma neanche il suo frenetico e spregiudicato trasversalismo politico può fargli dimenticare la necessità di sostenere, innanzi tutto, le categorie sulle quali, da quasi 70 anni, si fonda il suffragio alla sinistra italiana.

Ha suscitato giustificati stupori l’invito che Massimo D’Alema ha rivolto a Renzi per presentare il suo ultimo libro. Se si pensa, però, che anche il primo presidente del Consiglio ex comunista arrivò a Palazzo Chigi con una manovra di palazzo, che anche lui cercò di fronteggiare il potere dell’allora capo Cgil, Sergio Cofferati, che anche lui chiese un voto che sanzionasse la sua legittimità a governare, forse, l’incontro potrebbe assumere un curioso significato. Vista la sconfitta, su tutti fronti, subita da D’Alema nella sua esperienza governativa, sia da Cofferati, sia dal verdetto elettorale, si potrebbe pensare o che l’ex capo della sinistra italiana voglia elargire, in quell’occasione, qualche paterno e beneaugurante consiglio all’ultimo suo successore o preannunciargli, più o meno malignamente, il destino che lo aspetta.

DA - http://lastampa.it/2014/03/12/cultura/opinioni/editoriali/a-matteo-serve-un-successo-alle-europee-rQDshUh4WWo9EsWo2Ki86J/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Ma il muro del malaffare sta crollando
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2014, 06:52:04 am
Editoriali
06/06/2014

Ma il muro del malaffare sta crollando

Luigi La Spina

Prima, lo sconcerto, per la ripetitività, quasi settimanale, con la quale esplodono in Italia clamorosi casi di corruzione politica. Poi, l’indignazione per il pervasivo dilagare di un malaffare da cui non sembra essere escluso nessun centro di potere, nazionale o locale, e che contagia l’intero arco dei partiti. Infine, la sfiducia per il dover constatare, ancora una volta, come proclami di assoluta severità, leggi che prescrivono rigorosi controlli, regolamenti amministrativi che impongono onerose e lunghe trafile burocratiche continuino a lasciare, ai ladri di soldi pubblici, mani sostanzialmente libere di delinquere. 

Sono questi i sentimenti con cui l’opinione pubblica segue la catena di scandali che le cronache giudiziarie, da ogni parte d’Italia, rivelano. La coincidenza temporale con cui la magistratura riesce a intervenire per far fronte al fenomeno della corruzione politica e para-politica nel nostro Paese, però, dovrebbe indurre a una riflessione, preoccupata sì, ma forse non del tutto priva di qualche speranza.

Sembra sgretolarsi, infatti, quel muro di complicità, di interessi, di protezioni, di omertà che ha permesso a un ceto di politici, alti burocrati, vertici finanziari e bancari, giudici di corti amministrative e contabili, membri di autorità indipendenti, con una manovalanza di collaudati procacciatori d’affari, di costituire «cupole» di potere delinquenziale, inossidabili rispetto a qualsiasi cambiamento governativo e inscalfibili da qualunque controllo di legalità. Da decenni, questi centri di malaffare hanno dominato e imposto la loro volontà su tutte le opere pubbliche avviate in molte città e in varie regioni del nostro territorio. 

Gli esempi sono illuminanti, basta partire dalla capitale, dalla rete della cosiddetta cricca «Balducci e Anemone», rivelata dalle indagini sullo scandalo della ricostruzione dopo il terremoto dell’Aquila. Si può proseguire dalla signoria esercitata dalla Carige e dal suo dominus assoluto, Giovanni Berneschi, sulla Liguria, con l’appoggio dei fratelli Scajola e da quella del Monte dei Paschi su Siena, sotto il ferreo controllo della sinistra storica, padrona in quella città. Si può continuare con l’ex governatore del Veneto, il forzista Giancarlo Galan, per ben tre volte a capo della Regione, dotato di una tale consapevolezza di sé, del suo potere e di una tale impudicizia politica da intitolare, senza alcuna autoironia, una sua autobiografia, uscita nel 2008, «Il Nordest sono io». Per arrivare alla rete affaristica che aveva costituito l’ex presidente della provincia di Milano, il Pd Filippo Penati, svelata dalle inchieste che l’hanno costretto all’abbandono della vita politica. Infine, come summa esemplificatoria del sistema corruttivo politico che ha dominato l’Italia negli ultimi decenni, si deve citare il caso dello scandalo Expo, dove la persistenza di personaggi come Greganti e Frigerio al centro del malaffare lombardo rappresenta, del tutto plasticamente, la granitica invulnerabilità di tali «cupole» del potere delinquenziale.

 È probabile, allora, che l’incalzante smantellamento di queste capitali della corruzione politica, nazionale e locale, a cui stiamo assistendo, da parte delle inchieste giudiziarie di queste settimane, sia frutto di una certa rottura dei patti di complicità che legavano i suoi reggitori. Delazioni, confessioni, ammissioni aprono improvvisi varchi in quel muro di impenetrabilità che finora aveva resistito all’intervento della magistratura, forse proprio perché è cominciato un rinnovamento di ceto politico, sia a sinistra, sia a destra che fa venir meno le garanzie di protezione da parte della tradizionale classe politica. Una classe politica, quella della cosiddetta «Seconda Repubblica», tanto, a parole, impegnata in una guerra permanente tra i due schieramenti, quanto, nei fatti, legata a complicità trasversali occulte, in un costume di malaffare dilagante che coinvolge anche la società civile in pesanti responsabilità.

Un giro d’orizzonte nell’Italia di questi vent’anni vede a Roma, a Milano, a Genova, a Siena, nel Veneto come in Campania o come in Sicilia, una casta di ceto politico sempre legata agli stessi personaggi che, magari, si alternano sulle principali poltrone di potere, ma che, anche dopo le periodiche sconfitte elettorali, non escono mai dalla scena pubblica e, soprattutto, mai dal sottogoverno affaristico e clientelare. Si direbbe una complicità politico-generazionale che si avvale di una esperta rete di collaborazioni, attive o soltanto omissive, nei ministeri, nella comunità bancaria e finanziaria, tra i vertici delle forze dell’ordine, nelle alte magistrature civili, penali, contabili e amministrative. È possibile che in tale rete di relazioni, fondate su una lunga consuetudine di amicizie interessate allo scambio di favori e di denaro e, quindi, tesa alla ostinata conservazione dei privilegi corporativi, si sia diffusa la consapevolezza di un cambio di stagione ormai inevitabile e imminente. E sia partito, come sempre succede, il disperato «si salvi chi può».

Da - http://lastampa.it/2014/06/06/cultura/opinioni/editoriali/ma-il-muro-del-malaffare-sta-crollando-aIPrKhmns8huj95ofbQN9J/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Giovani, emergenza di tutti
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2014, 12:09:43 pm
Editoriali
28/06/2014

Giovani, emergenza di tutti

Luigi La Spina

C’è un’emergenza nazionale, urgente e grave, che determinerà il futuro dell’Italia: quella dei giovani. Se la classe politica e dirigente non avrà la consapevolezza di quanto sia drammatica la loro condizione e non provvederà a un drastico spostamento di risorse, pubbliche e private, per affrontare quello che è davvero il primo problema nazionale, la sorte dell’Italia è già segnata. 

E’ quella di un Paese nella serie B del mondo. Dove i giovani più fortunati, quelli nati in famiglie abbienti, saranno costretti a emigrare e, per gli altri, il destino è quello della sottoccupazione, sempre più precaria e meno qualificata.

Abbiamo già tradito una volta i nostri figli e i nostri nipoti, durante gli ultimi due o tre decenni dello scorso secolo, quando abbiamo riversato sulle loro spalle il più grande debito pubblico di uno Stato occidentale, un cappio al loro collo che li sta soffocando, perché ha ridotto in maniera intollerabile l’investimento sulla loro vita. Se non riconosciamo l’enorme responsabilità di questo primo tradimento nei loro confronti, se non cercheremo urgentemente di limitare i danni di questa gravissima colpa generazionale e di salvare in qualche modo il loro futuro, li tradiremo una seconda volta e, questa volta, in modo irrimediabile.

I numeri sono noiosi, ma in certi casi sono troppo eloquenti per non citarne almeno qualcuno. Perché non si tratta di discutere opinioni, ma di voler prendere atto di una realtà di fronte alla quale non bastano lamentazioni rituali, promesse elettorali, impegni di buone intenzioni. Occorre una ribellione della coscienza pubblica, in nome della nostra responsabilità più grande, quella di padri e di madri. Ecco alcuni dati, davvero sconvolgenti.

Il tasso di occupazione dei giovani diplomati e laureati italiani, con un titolo di studio conseguito da uno a tre anni prima, è arrivato al 48,3 per cento, inferiore di ben 27 punti rispetto alla media dei 28 Paesi Ue. La spesa pubblica per l’istruzione universitaria, rispetto al Pil, è in Italia 0,83. La media della zona euro è 1,27 e, tra tutti i 28 Paesi dell’Europa, siamo al penultimo posto, perché superiamo solo la Bulgaria. In ricerca e sviluppo il confronto è umiliante: la media dei 28 Stati Ue, sempre rispetto al Pil, è di 2,07; la nostra spesa è quasi la metà, 1,27. 

I giovani in Italia hanno una grave colpa: sono pochi e a nessuno interessa difenderli. La classe politica non li giudica un bacino di voti determinante, anche se il successo travolgente del movimento di Grillo tra di loro, documentato dalle analisi sui flussi elettorali, incomincia a suscitare qualche dubbio, almeno tra i politici più avvertiti. Il governo Renzi ha preferito privilegiare l’investimento nell’edilizia scolastica, per ragioni di occupazione in un settore in crisi e di visibilità mediatica, mentre sull’università l’ineffabile ministro Giannini è arrivata al punto di promettere, per basse ragioni elettorali, l’eliminazione del test d’ingresso a medicina. Un provvedimento irrealizzabile, tra l’altro, nelle condizioni dei nostri atenei, come qualunque persona che li conosca sa benissimo. È vero che l’avventata promessa non ha procurato voti al partito del ministro, ma quell’annuncio non fa ben sperare sulle sue intenzioni future.

I sindacati, poi, non hanno nessun interesse a sostenere le ragioni dei giovani, perché i loro iscritti sono pensionati e professori. Difendono quelle categorie con ostinazione conservatrice ma insuperabile e la loro potenza è tale da sfidare con successo qualsiasi intenzione innovativa e meritocratica venisse mai in mente a un ministro. Basti pensare alla sorte del povero Berlinguer, quando osò varare il famoso «concorsone». È vero che i sindacati, così, stanno mettendo a rischio il futuro delle loro organizzazioni, ma i dirigenti, come tutti i dirigenti, si occupano delle loro poltrone, non di quelle dei successori.

Anche gli imprenditori, a parole tanto preoccupati della formazione di quello che chiamano il «capitale umano», guardano solo alle esigenze contingenti e non a quelle che determineranno il futuro delle loro aziende. Cercano figure professionali che non trovano, tornitori e tecnici specializzati, ma non sono disponibili ad assumere diplomati e laureati, perché costano e, magari, pretendono di fare quello per cui hanno studiato. Senza pensare che, per sopravvivere sui mercati internazionali, il loro «capitale umano» deve raggiungere i livelli più alti di competenze scientifiche e tecnologiche.

Ecco perché senza una presa di coscienza dell’opinione pubblica nazionale che non si rassegni a vedere figli e nipoti emigranti senza ritorno o camerieri e guide turistiche per visitatori delle bellezze italiche, non ci sono speranze di interventi pubblici e privati capaci di invertire l’andamento di una condizione giovanile disperata, soprattutto al Sud del nostro Paese. Se le colpe della passata generazione non bastano a un atto doverosamente riparatorio verso la nuova, facciamo appello almeno all’egoismo, un vizio che, qualche volta, costringe persino a una costretta generosità. Qualcuno davvero può credere che i nostri pochi e precari giovani saranno in grado di pagare le pensioni ai tanti anziani, per di più e per fortuna, destinati a una lunga vecchiaia?

Da - http://lastampa.it/2014/06/28/cultura/opinioni/editoriali/giovani-emergenza-di-tutti-Aku4IeO9R62PGNSn4ZPE2I/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Gli assist del Colle al governo
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2014, 08:29:19 am
Gli assist del Colle al governo

25/10/2014
Luigi La Spina

C’è chi si stupisce per il linguaggio esplicito e per i toni persino ruvidi, insoliti nel lessico felpato di un presidente della Repubblica. E c’è chi giudica, con compiacimento o con rammarico, i due interventi di Napolitano, un giorno dopo l’altro, come quelli che in gergo calcistico si definirebbero formidabili assist al governo.

Segnali inequivocabili che tra il capo dello Stato e Renzi, dopo un periodo di rispettosa diffidenza reciproca, sia stata siglata un’alleanza di ferro. 

Come al solito, nella politica italiana le cose sono un po’ più complesse di come possano apparire e le semplificazioni non aiutano a comprendere lo scenario che ci aspetta tra l’autunno e l’inizio del prossimo anno.

Sia la robusta intemerata contro «i vecchi assetti di potere», pronunciata nell’intervento di giovedì davanti ai cavalieri del lavoro, sia il «basta austerità» lanciato ieri ai vertici dell’Unione europea, in occasione dell’incontro con i giovani, marcano il doppio binario di impegno presidenziale, già annunciato nel discorso di Napolitano alle Camere, in occasione della sua seconda elezione al Quirinale. La sua permanenza nella più alta carica della Repubblica avrebbe avuto fine, disse allora il capo dello Stato, quando le indispensabili riforme sarebbero state talmente avviate in Parlamento da assicurare, all’Italia, l’uscita dall’emergenza finanziaria e, ai cittadini, istituzioni più funzionali.

Ecco perché i due messaggi presidenziali nascono dalla preoccupazione di Napolitano che non solo ci siano ritardi inaccettabili nel varo del piano di riforme promesso da Renzi, ma che l’UE non sia disposta a creare le condizioni perché il nostro Paese possa attendere con fiducia che i cambiamenti necessari abbiano il tempo di produrre i risultati sperati. Le resistenze «corporative e conservatrici», sul fronte interno, e le esitazioni sull’urgenza di una svolta espansiva nella politica economica europea potrebbero contribuire allo sbocco che il presidente della Repubblica considera più nefasto per il nostro Paese: una crisi di governo senza alternative alle elezioni anticipate.

L’ipotesi, al Quirinale, è valutata con seria costernazione per le assai prevedibili conseguenze: uno spread alle stelle, con un parallelo drammatico appesantimento del debito per il rialzo dei nostri interessi, gravi contraccolpi sulla Borsa e sulla già precaria situazione economica e, soprattutto, lo stop al cammino delle riforme, con la prospettiva di elezioni anticipate che, non mutando sostanzialmente la composizione del Parlamento, ribalterebbero sulla prossima legislatura gli stessi problemi che quella vigente non riesce a risolvere.


È probabile, se questo scenario si dovesse davvero avverare, che Napolitano si rifiuterebbe di firmare lo scioglimento delle Camere e considererebbe conclusa la sua seconda esperienza al Quirinale, vista la clamorosa smentita alle garanzie che i partiti gli avevano assicurato per convincerlo a restare alla presidenza della Repubblica.

Non si può considerare Renzi, nell’ottica di Napolitano, alla stregua dei suoi predecessori, Monti e Letta, i cui governi si potevano definire «governi del presidente» e non è scoppiato alcun improvviso amore del capo dello Stato nei confronti del giovane leader dei democratici. Le leggi della politica italiana non ammettono sfumature sentimentali, ma seguono le ferree regole della necessità. Napolitano, da una parte, ammonisce le forze sociali a non difendere posizioni ormai insostenibili e quelle politiche a non ostacolare pregiudizialmente le proposte renziane. Ma, dall’altra, sollecita il presidente del Consiglio a non trascurare l’ascolto degli interlocutori, condizione indispensabile per dividere il fronte degli avversari e consentire un più rapido varo delle riforme.

Sulla politica italiana aleggia un sospetto, che non dovrebbe essere assente anche nei corridoi quirinalizi. Quello della grande tentazione di Renzi: di fronte alle rigidità dell’Europa e agli ostacoli che gli arrivano anche dal suo partito, il presidente del Consiglio potrebbe rovesciare il tavolo e lanciare un appello al Paese, una specie di referendum sul suo nome. In caso di vittoria anche in una consultazione nazionale, non solo con l’avallo del famoso 41 per cento ottenuto alle europee, con un gruppo ds alle Camere più compatto dietro di lui, potrebbe spazzare via qualunque resistenza alla sua azione. Per Renzi, una scommessa rischiosa, certamente, ma un azzardo che potrebbe sedurlo. Ma, per Napolitano, forse una scommessa che il Paese non si può permettere.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/25/cultura/opinioni/editoriali/gli-assist-del-colle-al-governo-R0EAtEAUxkT6lrRDrNs5EO/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - L’identikit del nuovo Presidente
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2015, 11:57:19 am
L’identikit del nuovo Presidente

14/01/2015
Luigi La Spina

L’elezione del Presidente della Repubblica, come quella del Papa, è del tutto imprevedibile e, al contrario di un conclave, non è neanche assistita dallo Spirito Santo. È vero che, come una partita di calcio, ci sono i favoriti, ma se, come si diceva una volta, «la palla è rotonda», anche la sfera di cristallo della politica si diverte spesso a smentire i pronostici. Così, è meglio diffidare di chi, alla vigilia, azzarda due o tre nomi «sicuri», come di chi, ai nastri di partenza, suggerisce di puntare su cavalli «sicuramente» vincenti. E neanche una scrupolosa analisi del passato serve a molto, perché non esistono regole per fare un Presidente, nonostante qualcuno si affanni a cercarle e pretenda di averle trovate.

Nonostante l’assenza di ispirazioni divine, in verità, c’è forse una regola che sembra individuabile nella caotica partita che oggi scatta ufficialmente e, se vogliamo continuare nel paragone un po’ blasfemo, potremmo parlare di una provvidenza laica. Quella che, dall’urna presidenziale, fa spuntare un nome corrispondente alle esigenze della storia. Il profilo del Presidente prossimo venturo, perciò, cambia continuamente, di elezione in elezione, approfittando della benemerita vaghezza che la Costituzione disegna per il suo ruolo. 

Notai, politici di professione, padri della Patria, economisti con la laurea in lettere classiche e persino costituzionalisti col piccone in mano si sono alternati al Quirinale secondo quello «spirito dei tempi» di hegeliana memoria. 

Ecco perché, invece di tuffarsi nella riffa dei nomi, candidati, pseudocandidati, autocandidati, forse sarebbe meglio trovare la bussola presidenziale partendo dalle caratteristiche necessarie, oggi, per poter far fronte ai compiti che, nei prossimi sette anni, dovrà assolvere il nuovo Capo dello Stato.

In una fase di profonda riforma costituzionale come quella che si annuncia, non si può pensare, innanzi tutto, a un Presidente che non abbia una competenza e una esperienza delle regole e delle procedure che stabiliscono i rapporti tra le istituzioni della Repubblica. Un garante, insomma, che i previsti mutamenti di alcuni tra i più importanti organi dello Stato non intacchino i principi sui quali è fondata la nostra Carta fondamentale.

A questa prima necessità se ne collega naturalmente un’altra, quella di una conoscenza del nostro mondo della politica, così peculiare in Italia e tale che un estraneo ai suoi costumi e malcostumi, alle sue abitudini, ai suoi meccanismi, palesi e occulti, farebbe davvero fatica a capire la nostra vita pubblica e a farsi capire dalla nostra politica, cioè a poter incidere con efficacia in una realtà molto complessa.

Le altre qualità che il prossimo Presidente dovrebbe possedere sono più legate, invece, ai cambiamenti che sono avvenuti in questi anni in due sfere più distanti dai palazzi nostrani del potere. Quella dei rapporti internazionali e quella della comunicazione con i cittadini italiani.

È ormai necessario che il capo di una nazione come l’Italia abbia una certa esperienza delle relazioni che avvengono tra i leader del mondo, che sia una personalità conosciuta e apprezzata. Non per una mera questione di prestigio, ma per poter esercitare quella funzione di una rappresentanza istituzionale che, al vertice dello Stato per un lungo periodo, possa costituire garanzia di stabilità, assicurazione di rispetto degli impegni, punto di riferimento per tutti, capi di governo, entità sovrannazionali, politiche ed economiche, ma anche leader religiosi. Infine, che possa pure impersonare quella figura dotata di autorevolezza morale e politica che sostenga l’immagine dell’Italia nel mondo. Un ruolo che Napolitano ha praticato così bene e in tempi così difficili per il nostro Paese in questi anni.

Ultima dote che il prossimo inquilino del Quirinale dovrebbe avere è proprio quella resa necessaria dalla modernità del rapporto tra Capo di Stato e cittadini. Cioè la capacità di istituire con gli italiani un legame di simpatia, spontanea e immediata, la capacità di comunicare con loro in maniera talmente diretta da supplire a quella distanza tra il mondo della politica, delle istituzioni e la sensibilità comune che, come le ultime elezioni dimostrano, si va approfondendo in modo molto preoccupante. Ormai, tocca al Presidente della Repubblica una funzione particolare, che non era affatto richiesta ai Capi di Stato del secolo scorso, quella di rappresentare la nazione soprattutto raccogliendo i sentimenti dei suoi cittadini, le loro speranze, le loro paure, i loro disagi, i loro bisogni di rassicurazione sul futuro. Essere, insomma, il primo difensore civico dei nostri concittadini. Ecco perché non basterà che ispiri fiducia agli oltre mille elettori delle Camere riunite, occorre che sappia ispirare fiducia agli italiani. Di questi tempi, non sarà facile.

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/14/cultura/opinioni/editoriali/lidentikit-del-nuovo-presidente-h30EGHXshjSxubEakAGB0H/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - La scomparsa sul territorio del vecchio Pci
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2015, 05:11:58 pm
La scomparsa sul territorio del vecchio Pci

16/06/2015
Luigi La Spina

È inevitabile, è intrigante, ma è inutile partire da questa doppia tornata di amministrative per prevedere il risultato del prossimo voto politico. Le variabili, a partire da una scadenza temporale prevista per il 2018 ma che potrebbe anche essere anticipata, sono numerose per azzardare pronostici. È vero che il metodo dei ballottaggi, adottato per le comunali, può richiamare quello dell’Italicum, il sistema col quale si dovrà votare per la Camera, ma c’è una differenza importante. 

In sede nazionale, al duello finale va un partito, non una coalizione. Vista la tendenza storica, poi, le astensioni saranno sì in crescita, ma è difficile che, in elezioni politiche, raggiungano il picco straordinario a cui si è arrivati domenica scorsa. Infine, la variabile più importante. Quale sarà, al tempo del voto nazionale, la salute del governo in carica? E, soprattutto, quale sarà la salute della nostra economia e dei portafogli degli italiani? 

I meteorologi del voto, perciò, rischiano di essere come quelli che, in pieno inverno, annunciano una estate caldissima. Se ci azzeccano, passano per profeti; se sbagliano, saranno assolti, perché «a lungo termine, non si può essere sicuri di nulla». Meglio, allora, invece di guardare al futuro, guardare in profondità e cercare di capire i mutamenti strutturali del sistema politico che le ultime votazioni hanno indicato.

Le elezioni di domenica hanno confermato la perdita anche dell’ultima eredità della prima Repubblica: il radicamento territoriale dell’unico superstite di quel periodo, il grande partito della storica sinistra italiana. Il Pd, figlio un po’ degenere, ma legittimo, del Pci, ha completato la sua metamorfosi ed è divenuto un partito d’opinione, con tutte le caratteristiche, nel bene e nel male, di tutti gli altri partiti dell’Italia d’oggi.

Il disconoscimento di quella eredità ha travolto tutti i miti di una lunga e anche gloriosa tradizione. A partire dall’universale rispetto, sempre confermato dai risultati elettorali, per la capacità di ben amministrare gli enti locali, per cui il voto delle comunali e delle regionali avvantaggiava regolarmente quel partito rispetto a quello politico nazionale. Adesso, gli scandali nelle giunte di tutt’Italia, comprese quelle di sinistra simbolicamente rappresentate dal caso di Roma, «mafia capitale», hanno sepolto quell’«alterità morale», vera o presunta, di cui i dirigenti locali di quel partito si vantavano. Insomma, l’antica e forte presenza territoriale del più grande partito della sinistra o è in disfacimento o viene utilizzata da satrapi di tessere e di consensi che, in piena e incontrollata autonomia, usano il simbolo nazionale in «franchising», piegandolo nelle forme e nei contenuti più convenienti al loro personale successo.

L’erosione elettorale delle fortezze della sinistra nelle cosiddette «regioni rosse» del centro Italia, ormai traballanti in Emilia, in Umbria e, in parte, nella Toscana, come dimostra il caso di Arezzo, è certamente significativa di questo mutamento nella «natura» di quel partito. Ma ancor più indicativo di questa trasformazione è, al contrario, il recente successo del Pd nel Sud d’Italia. Territorio dove la sinistra, in generale, non poteva vantare grandi risultati e dove, ora, fa addirittura il «pieno» di giunte regionali, evidentemente nella stessa logica elettorale per cui il meridione votava prima Dc e poi Berlusconi: la speranza che l’adeguamento politico al potere nazionale aiutasse la generosità del governo per le esigenze di assistenza e di finanziamento locale.

Renzi, così, subisce l’andamento classico del consenso a un partito d’opinione ed è costretto a subire i condizionamenti tipici di un partito d’opinione. Innanzi tutto, la volatilità di un suffragio che dipende dagli umori dei cittadini più che da quelli dei militanti. Un voto che va riconquistato ogni volta e che non è più conservato in cassetto sicuro dal quale attingere nei momenti difficili. Poi, l’indisciplina cronica e irriducibile dei dirigenti del Pd, proprio perché, in un partito del genere, appunto, non può esistere una «linea» alla quale tutti debbano uniformarsi. Anche perché la «linea» del Pd renziano è, anch’essa, piuttosto volatile.

Un partito con caratteristiche simili, però, non accetta neanche di diventare «un partito personale», la forma che, nell’era berlusconiana, si pensava fosse il modello del futuro pure per le altre formazioni politiche. Renzi è riuscito a «rottamare» la vecchia dirigenza ex Pci ed ex sinistra Dc, ma ha «rottamato» pure la struttura che, sull’intero territorio italiano, riconosceva l’autorità del leader nazionale. Magari, per obbligo e non per convinzione. Ecco la necessità, per lui, non solo di convincere, giorno per giorno, gli italiani della bontà delle sue politiche, ma anche di assicurare che, con lui, il partito vince sempre Perché è stato lui a legittimare la leadership del Pd solo dal timbro del successo elettorale.

Tempi duri si annunciano per il premier e segretario del «nuovo» partito della sinistra italiana. Ma sarebbe davvero paradossale che un personaggio come Renzi, in questi giorni amari, cedesse alla tentazione della nostalgia.

Da - http://www.lastampa.it/2015/06/16/cultura/opinioni/editoriali/la-scomparsa-sul-territorio-del-vecchio-pci-p6oFw48VQ9rxD7SCPeEqHK/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Inizia da noi l’argine al malaffare
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 05:59:12 pm

Inizia da noi l’argine al malaffare

newsletter
25/10/2015
Luigi La Spina

Da una parte, sembra che il dilagare nella società italiana della corruzione, ma anche del malcostume, pubblico e privato, sia talmente pervasivo da essere inarrestabile. 

 Come se quel mare della disonestà potesse venir asciugato col cucchiaino delle inchieste giudiziarie. Dall’altra, siamo costretti ad assistere al solito, desolante rimpallo di accuse tra la magistratura e la politica, un copione che, da almeno vent’anni, viene recitato dalle due parti con immutata liturgia e, purtroppo, con immutato esito: quello di non procurare alcun vantaggio al cittadino comune. Sì, perché a quel cittadino comune non interessa il risultato, altalenante, della partita di potere tra i cosiddetti «servitori dello Stato», ma che dallo Stato, appunto, abbia la garanzia di un processo che si concluda in tempi ragionevoli, di sentenze che non dipendano dalle opinioni dei giudici, ma da una coerente interpretazione del diritto, di un mercato dell’economia dove possa vincere il più bravo e non il più «furbo». Anche dalle cronache di questi giorni, ma soprattutto dall’esperienza quotidiana degli italiani, emerge con angosciante evidenza non solo che decenni di scontri polemici tra giudici e politici non hanno fatto migliorare l’efficienza e la certezza della nostra giustizia, ma che hanno portato alla rassegnazione le persone perbene e convinto i mascalzoni di poter contare su una immunità quasi assicurata.

 I mali sono sotto gli occhi di tutti, le ricette sono quasi tutte condivisibili, dalla semplificazione delle procedure al disboscamento di un mostruoso fardello di leggi. Eppure, l’impressione è che non bastino le promesse, le piccole correzioni normative e legislative e, tanto meno, lo scaricabarile delle colpe tra corporazioni in squallida gara a chi, più in fretta e più gravemente, perde la fiducia degli italiani. Occorre un impegno, collettivo e individuale, di tutta la società italiana che eviti di guardare, sempre e per prima cosa, ai propri diritti e ai doveri del vicino e cerchi, invece, di contribuire, con la concretezza di una personale responsabilità civile, a porre un argine al malaffare. 

A questo proposito, il ricordo va ad anni terribili, quelli del terrorismo, quando ci fu una reazione comune di rigetto contro il rischio di una disgregazione della nostra democrazia. Politici, magistrati, poliziotti e carabinieri, funzionari dello Stato, sindacalisti e imprenditori, avvocati, studenti e professori, giornalisti, tra i quali non possiamo non ricordare un vicedirettore di questo giornale, Carlo Casalegno, pagarono un altissimo prezzo in quella lotta per ripristinare una convivenza serena nel nostro Paese. 

Oggi, per fortuna, le condizioni per una analoga battaglia civile non sono così drammatiche e i rischi personali non sono, forse, così gravi; ma il pericolo di un inesorabile declino morale, con le relative conseguenze economiche e sociali, non è meno preoccupante. In questo scatto di responsabilità dovrebbero distinguersi un po’ tutti, a cominciare dai magistrati, naturalmente. E’ giusto che sollecitino leggi più severe e norme meno complesse, ma sono sicuri che facciano, tutti e di tutto, perché l’Italia possa avere una giustizia migliore, non allungando i processi con rinvii di udienze a tempi immemorabili, eliminando esibizioni di presuntuosa vanità mediatica, evitando interpretazioni suggestive e personali del diritto, e magari, dedicando un maggior impegno a un compito, soprattutto in questo momento, così importante per il destino del nostro Paese?

L’esame di coscienza e l’appello alla mobilitazione di ciascuno dovrebbero riguardare proprio tutti. In questi giorni colpisce, ad esempio, il contrasto tra l’atteggiamento del sindacato, sempre ai tempi del terrorismo, e quello dimostrato, ora, dai maggiori dirigenti delle nostre confederazioni. Tanto importante, coraggiosa ed efficace fu la reazione di tutto il sindacato italiano contro la strategia brigatista, fino al prezzo della vita, come quella di Guido Rossa, tanto tiepida, rituale, quasi distratta e imbarazzata è l’attenzione per il fenomeno del diffuso costume di disonestà. Proprio perché non è un alibi la corruzione della classe dirigente italiana, il sindacato dovrebbe rappresentare con forza i diritti della grandissima maggioranza dei lavoratori onesti a non essere coinvolti in un discredito ingiusto e generalizzato. Se non è vero «che così fan tutti», cominciamo a volerlo dimostrare senza sconti per nessuno.

Da - http://www.lastampa.it/2015/10/25/cultura/opinioni/editoriali/inizia-da-noi-largine-al-malaffare-eKpbHih3me2dQFentb0hYI/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - L’esasperazione che nutre il populismo
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 02, 2017, 06:35:19 pm
L’esasperazione che nutre il populismo

Pubblicato il 02/01/2017
Luigi La Spina

Quello che più ha colpito è stata la lontananza del discorso di Mattarella dai toni e dagli argomenti che, purtroppo, siamo avvezzi ad ascoltare da parte dell’attuale classe politica. Il messaggio del capo dello Stato agli italiani per il Capodanno 2017, infatti, ha soprattutto avuto il merito di cogliere e di denunciare il male più profondo del nostro Paese con parole serie, allarmate anche se non disperate, il rischio, cioè, di una crescente disgregazione della società italiana, generata da un’insopportabile disuguaglianza. 

Il tema di fondo dell’appello del presidente della Repubblica a partiti e leader che, accecati dalla nube quotidiana di polemiche autoreferenziali, non ne riescono a comprendere la gravità e l’urgenza, è stato illustrato, però, con una modernità di concezione che sfugge ai vecchi schemi classisti, fondati su analisi di società novecentesche. Ecco perché sarebbe profondamente sbagliato, o furbescamente strumentale, utilizzare il messaggio di Mattarella per un’indebita appropriazione di schieramento. L’accezione attuale di una disuguaglianza, che mina pure la coesione di gran parte delle società occidentali nel mondo, taglia i cittadini non solo nella tradizionale divisione tra ricchi e poveri, ma tra donne e uomini, tra le generazioni, tra le culture, tra i centri urbani più popolati e quelli più isolati, tra lavoratori, garantiti in modi ingiustamente difformi.

Il capo dello Stato, in questi quasi due anni di permanenza al Quirinale, ha evidentemente avuto modo di avvertire il vero motivo di quel clima avvelenato che si respira non solo nel dibattito politico, ma in tutte le manifestazioni del dialogo pubblico e privato, a cominciare dalla rete internet. Non si tratta, come superficialmente si dice, solo di un imbarbarimento del linguaggio, peraltro dal presidente puntualmente denunciato, ma del chiaro sintomo di una esasperazione sociale che nasce dal risentimento per quelle troppe disuguaglianze che, negli ultimi anni, si sono grandemente accresciute nel nostro Paese. Come anche l’inchiesta di Linda Laura Sabbadini, compiuta sul nostro giornale nei giorni scorsi, ha ampiamente illustrato.

L’effetto di questa tendenza preoccupa Mattarella perché le conseguenze, sia sulla vita pubblica, ma anche sul normale funzionamento delle nostre istituzioni, sono tali da alimentare quella demagogia antipolitica che, in nome del popolo, ne usurpa indebitamente la volontà. È questo il motivo per cui, in modi insoliti per la ritualità dell’occasione di fine anno, il presidente della Repubblica ha voluto spiegare agli italiani perché non ha voluto imboccare la strada, che pure ha definito «maestra» per una democrazia, delle elezioni. In realtà, senza un sistema elettorale coerente, rappresentativo delle varie opinioni dei cittadini, ma anche capace di rispondere ai loro desideri con l’efficacia di un governo basato su una solida maggioranza parlamentare, l’appello al responso delle urne avrebbe come risultato un vero tradimento di quella volontà popolare della quale, con ipocrisia, si invoca il rispetto.

È stato importante il riconoscimento, nel discorso di Mattarella, dei valori positivi di solidarietà, di generosità, di dedizione al bene pubblico che gli italiani, in molte occasioni, hanno dimostrato, perché è su queste risorse che possiamo contare per superare il momento difficile che il nostro Paese sta attraversando. La preoccupazione del capo dello Stato, infatti, si è associata alla convinta espressione di fiducia nei confronti della grande maggioranza dei nostri concittadini. Certo, se partiti o movimenti, esasperando il dibattito politico nel tentativo di cavalcare queste tensioni sociali, pensassero di lucrarne vantaggi elettorali, l’illusione sarà di breve durata, perché una generalizzata protesta e una rivolta con esiti imprevedibili li travolgerà tutti, senza eccezioni. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/02/cultura/opinioni/editoriali/lesasperazione-che-nutre-il-populismo-1Yj7cx5KNDYqf9NgQuqVIN/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il difficile doppio fronte di Matteo
Inserito da: Arlecchino - Giugno 03, 2017, 11:41:23 am

Il difficile doppio fronte di Matteo

Pubblicato il 01/06/2017

Luigi La Spina

Un inizio d’estate rovente, dal punto di vista meteorologico, ma anche da quello politico. È la previsione che sembra profilarsi in un’Italia dove a un improvviso accordo tra i maggiori partiti su una nuova legge elettorale, prodromo di elezioni anticipate, si affiancano altrettante improvvise minacce al progettato percorso di accelerazione della crisi coltivato da Renzi. 

Ieri, infatti, sono arrivati due inciampi che potrebbero complicare quella corsa alla rivincita elettorale che, dopo la sconfitta sulla riforma costituzionale, il segretario Pd vuole imboccare con il voto d’inizio ottobre. Il primo riguarda le difficoltà per non confermare il mandato di Ignazio Visco alla Banca d’Italia. Il secondo è costituito dal violentissimo attacco di Pier Camillo Davigo contro un centrosinistra che avrebbe «messo in ginocchio» la magistratura. 

Le due «spine» di Renzi, chiamiamole così, sono di natura, di significato e d’importanza molto diverse. La prima riguarda una questione molto delicata, perché la sostituzione di Visco con una figura estranea all’ambiente della Banca d’Italia potrebbe infliggere un colpo molto grave alla credibilità di una delle poche istituzioni che, dal dopoguerra in poi, ha costituito un punto di riferimento autorevole nella vita pubblica italiana.

Una mossa che potrebbe essere intesa come un attentato all’indipendenza della Banca, come il segno della volontà renziana di sottometterla ai voleri del potere esecutivo e che potrebbe ricordare la levata di scudi che si alzò quando Tremonti pensò di candidare Bini Smaghi a governatore. Rimozione che, perciò, sembrava già ardua, ma che ieri, con l’inusuale presenza del capo della Bce, Mario Draghi, in prima fila ad ascoltare l’annuale relazione del governatore, pare ancor più difficile. La partecipazione del presidente della Banca centrale europea, autorevole ex governatore a palazzo Koch, infatti, è parsa non solo, e forse non tanto, un silenzioso, ma significativo appoggio alla riconferma di Visco, ma l’ammonimento alla nostra classe politica contro ipotesi di improvvide candidature esterne all’istituzione e il segno di una specie di superiore garanzia europea sulla Banca d’Italia e sui suoi uomini. 

La risposta che l’attuale governatore ha fornito, durante la lettura dell’annuale relazione sullo stato della nostra economia, alle critiche sulla presunta mancata vigilanza della nostra Banca sulle malefatte di alcuni istituti di credito, indubbiamente, ha messo altri ostacoli a chi volesse negargli la conferma. Visco, infatti, ha difeso, come era scontato, l’operato suo e dei suoi collaboratori, ma non ha condannato esplicitamente l’ipotesi di elezioni anticipate, deludendo forse alcune attese, anche in alto loco. In più, con abile eleganza, ha ammesso che «dalla crisi economica e finanziaria di questi anni abbiamo tutti imparato qualcosa, compresa la Banca d’Italia». Non, quindi, una prevedibile arringa autoassolutoria, ma la giustificazione che la mancanza di strumenti adeguati per una vigilanza più severa, ora finalmente forniti, e l’imprevedibile gravità delle conseguenze di quella crisi sull’economia italiana hanno contribuito a impedire un’azione più decisa e più efficace contro le imprudenti e, in alcuni casi, fraudolente gestioni di manager bancari. 

Il roboante show di Davigo, davanti alla platea osannante dei grillini, invece, annuncia a Renzi una campagna elettorale di fuoco contro di lui e contro il Pd, ben lontana dalle illusioni di chi pensava che l’accordo col Movimento 5 stelle sulla nuova legge elettorale di stampo proporzionale fosse un segnale di un atteggiamento più «istituzionale» da parte dei seguaci di Grillo. Uno scontro, quindi, ancor più pericoloso del previsto e disseminato di trappole, magari pure in arrivo da qualche procura, che potrebbe indebolire le speranze di quella rivincita che Renzi sogna dalla quella «ingrata», almeno per lui, sconfitta del 4 dicembre. Insomma, da una parte l’offensiva dell’establishment tradizionale italiano ed europeo, dall’altra la guerriglia incendiaria e populista. Forse, anche per Renzi, è troppo.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/06/01/cultura/opinioni/editoriali/il-difficile-doppio-fronte-di-matteo-MdL7xQ3vbvZBLhBVcPhmsO/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Ora bisogna individuare i responsabili
Inserito da: Arlecchino - Luglio 30, 2017, 06:14:59 pm
Ora bisogna individuare i responsabili

Pubblicato il 22/07/2017 - Ultima modifica il 22/07/2017 alle ore 07:19

LUIGI LA SPINA

Errori, superficialità, sottovalutazioni, pigrizie.
La lettura delle testimonianze rese alla commissione consiliare del Comune di Torino che ha indagato sul disastro di piazza San Carlo lascia davvero stupefatti. Un evento che raccoglie più di 40 mila persone ammassate davanti a un solo maxischermo in una delle piazze storiche della città organizzato come neanche avviene per una piccola fiera di paese. Con conseguenze, lo ricordiamo, tragiche: una donna morta e oltre 1500 persone ferite. 

In attesa che l’autorità giudiziaria completi l’inchiesta sui fatti del 3 giugno, già la raccolta di queste carte chiarisce l’incredibile catena di irresponsabilità che grava sulla coscienza di amministratori locali, funzionari pubblici e dirigenti dello Stato.
 
Le relazioni che concludono le indagini di simili commissioni, con i faldoni che racchiudono le testimonianze di protagonisti e comprimari, in genere, segnano il punto finale di una vicenda.
In questo caso, si può parlare, invece, di un punto di partenza, dal quale si dovrà arrivare al vero traguardo finale, quello che tutta la città di Torino aspetta sia raggiunto, cioè l’individuazione delle specifiche responsabilità. 
L’impressione complessiva che emerge dalla lettura di queste carte, però, è quella di una tale confusione di competenze e di un tale incrocio di deleghe, maldestramente e superficialmente attribuite a chi non aveva esperienze e professionalità per esercitarle con autorevolezza ed efficienza, da rendere il lavoro dei magistrati molto difficile.
 
Ecco perché non bisogna cedere alla pur comprensibile impazienza di una opinione pubblica che vorrebbe subito conoscere i risultati delle indagini. La ricerca di uno o di più capri espiatori da offrire ai torinesi per rispondere alla loro indignazione non vuol dire fare giustizia, perché le responsabilità penali e civili sono sempre individuali e distribuire colpe e punizioni nel mucchio vorrebbe dire, paradossalmente, adeguarsi a quel metodo sommario, confuso e superficiale che è stato adottato per organizzare l’evento di piazza San Carlo.
 
In attesa delle conclusioni a cui arriverà la procura, in tempi comunque sperabilmente non lunghissimi, restano responsabilità politiche e amministrative sulle quali sindaca, giunta comunale, prefettura e questura dovrebbero valutare con senso di responsabilità istituzionale. Anche in questo caso, bisogna evitare che interessi di partito strumentalizzino una vicenda tragica sulla quale Torino rischia di pagare un’immagine negativa che non merita. Come non è tollerabile che il disastro di piazza San Carlo finisca nel solito polverone delle inchieste italiche, quello che arriva a una conclusione che conosciamo fin troppo bene: tutti colpevoli e, quindi, nessun colpevole.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/22/cultura/opinioni/editoriali/ora-bisogna-individuare-i-responsabili-5qEcW3EmhUdxT67o5PVwkL/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Le regole per il premier che verrà
Inserito da: Arlecchino - Agosto 03, 2017, 05:24:16 pm

Le regole per il premier che verrà

Pubblicato il 02/08/2017

Luigi La Spina

C’è un modo efficace per far credere all'opinione pubblica che una affermazione sia vera, anche se è del tutto falsa: quello di ripeterla ossessivamente e, per di più, con il tono di chi ribadisce un’ovvietà contro la quale nessuno potrebbe obiettare. Cultori assidui di tale trappola propagandistica sono, in questi giorni, soprattutto i leader di quei partiti che ambiscono al primo posto nella classifica delle prossime elezioni, Pd e Movimento 5 stelle. Costoro sostengono che spetti a chi guida la formazione politica che abbia raccolto più voti la poltrona di Palazzo Chigi. 

Peccato che questa tesi, irrefutabile in un sistema maggioritario, sia, in modo altrettanto irrefutabile, clamorosamente sbagliata in quello proporzionale. Nel primo, è affidato direttamente ai cittadini il compito di indicare il capo del futuro governo, nel secondo, sono i partiti che segnalano al presidente della Repubblica chi è in grado di raccogliere su di sé i consensi della maggioranza nei due rami del Parlamento.

La storia della nostra Repubblica, del resto, è troppo recente per essere dimenticata dai nostri fintamente smemorati leader. Nel sistema proporzionale, in vigore dal dopoguerra fino alla «rivoluzione maggioritaria», chiamiamola così, degli Anni Novanta, Craxi governò il Paese con circa l’undici per cento dei voti ottenuti dal Psi e, addirittura, Spadolini inaugurò le presidenze «laiche» del Consiglio con il tre per cento di consensi al suo partito, quello repubblicano.

Al contrario, Berlusconi e Prodi si alternarono a palazzo Chigi in virtù della maggioranza relativa ottenuta da uno dei due schieramenti di cui erano i leader.

Ecco perché con l’unico sistema di voto che la Corte Costituzionale ha reso praticabile e che i nostri partiti, nonostante i ripetuti appelli di Mattarella, non sono riusciti a modificare, quello spiccatamente proporzionale, la regola del «chi arriva primo, governa» ha il fascino della semplicità, ma il difetto di non avere i requisiti per raggiungere l’obbiettivo, cioè la maggioranza in Parlamento.

I leader dei partiti più grandi potrebbero sicuramente rendere valida tale regola con una intesa che riformasse in senso maggioritario il sistema elettorale risultante dalla sentenza della Corte. Tutti, esperti sondaggisti, acuti commentatori, saggi politici si proclamano allarmati dal rischio di una assoluta ingovernabilità dell’Italia, nella prossima legislatura, proprio a causa di un meccanismo di voto proporzionale applicato a un assetto sostanzialmente tripolare della nostra politica. Un futuro che, nell’ipotesi migliore, quella che potrebbe evitare un immediato ritorno dei cittadini al voto, vedrebbe un governo debolissimo, condannato all’immobilismo dai contrasti tra due schieramenti costretti a stare insieme per raggiungere più del 50 per cento dei voti in Parlamento, ma con visioni e programmi del tutto diversi.

Una prospettiva davvero funesta in questi tempi assai difficili per una Italia con una posizione molto scomoda: dal punto di vista geografico, perché ponte troppo affollato tra Africa ed Europa, da quello economico, perché fanalino di coda nella ripresa continentale, da quello politico, perché non più importante Paese di frontiera nella sfida tra Ovest ed Est del mondo, ma nazione che rischia l’irrilevanza strategica nei nuovi equilibri internazionali.

In queste condizioni, l’Italia ha bisogno di governi stabili, guidati da leader la cui autorevolezza nasca soprattutto da consensi elettorali ampi da parte dei cittadini. Se la nostra classe politica ritiene, com’è ragionevole, che questo risultato si possa ottenere con un sistema maggioritario, lo approvi. Se non è capace, o non vuole farlo, truccare le regole non vale.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/02/cultura/opinioni/editoriali/le-regole-per-il-premier-che-verr-d8ZNK75TAUXTZj7w7Z5tSO/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA. Alle origini della nostra decadenza
Inserito da: Arlecchino - Settembre 27, 2017, 12:37:59 pm
Alle origini della nostra decadenza

Pubblicato il 26/09/2017

LUIGI LA SPINA
Poteva essere solo un ricercatore di sangue inglese, almeno per metà, a stupirsi, indignarsi e denunciare. Negli atenei italiani le intese di spartizione degli incarichi e delle cattedre agli allievi di quelli che una volta erano chiamati i «baroni» universitari è abitudine antica e collaudata. Un malcostume che per essere giustificato, con qualche sorriso di compatimento per coloro che non lo accettano, viene persino nobilitato definendolo «cooptazione» e giudicandolo come il solo criterio realistico di selezione.

Tale sistema è diffuso in tutte le discipline accademiche. Meno, naturalmente, in quelle in cui il legame con una parallela attività professionale non è così stretto e frequente, come lettere o matematica; di più, in quelle, come economia o giurisprudenza, in cui spesso la carriera universitaria è funzionale strumento di redditizie consulenze o lucrosi incarichi. 

La colpevole tolleranza e la complice omertà che consentono a questa «prassi» di essere riconosciuta come una regola occulta, ma ferrea, nella vita nei nostri atenei, tale che le inchieste giudiziarie come quelle di Firenze costituiscono le classiche eccezioni che la confermano, hanno però, nella società italiana d’oggi, conseguenze molto più dannose e più estese di quelle del passato. Colpiscono, infatti, uno, se non il più importante male del nostro Paese, l’intreccio perverso di corruzione dilagante, selezione antimeritocratica, immobilità sociale e mediocrità della classe dirigente.
 
Il principio liberista della concorrenza, infatti, quello che dovrebbe favorire l’affermazione del migliore e del merito nella competizione del mercato, viene sempre più aggirato da motivi di successo che sostituiscono alla capacità professionale, alla preparazione culturale, alla profondità dell’esperienza e, magari, all’onestà personale, la supina fedeltà al capo, un beota conformismo, la servile disponibilità ad essere complice di traffici illeciti, una mediocrità intellettuale rassicurante. Queste «doti», chiamiamole così, sono sempre più utili per vincere un concorso, appunto, ma anche per aggiudicarsi un appalto, per conquistare un posto in un consiglio d’amministrazione, per una brillante carriera dirigenziale e, in qualche caso, anche per trionfare nelle aule dei tribunali. Perché più si estende la corruzione, come possiamo constatare tutti i giorni in tutti campi, e più il vecchio motto «vinca il migliore» contraddice le reali esigenze della nostra vita civile.
 
Se il merito diviene un ostacolo e non un vantaggio, i risultati sono evidenti: la selezione si attua solo attraverso altri criteri e, quindi, la mobilità sociale si blocca, perché sarà molto difficile che si possano superare scale di denaro e di potere che impediscono ai figli delle classi meno avvantaggiate di ascenderle con successo. Ma questo male ha conseguenze che stanno minando gravemente le capacità professionali, culturali, tecnologiche, in generale, intellettuali, della nostra classe dirigente e politica. Una decadenza che rischia davvero di impedire al nostro Paese di competere con le classi dirigenti e politiche delle altre nazioni, europee e non europee.
 
La desolazione e l’amarezza di queste considerazioni potrebbero indurre il lettore a un nocivo pessimismo sul nostro futuro. Si impone, allora, un qualche immediato rimedio. A questo scopo, è forse opportuno concludere con una famosa barzelletta consolatoria diffusissima nei nostri atenei, quella intitolata al nome di un celebre matematico italiano, «Il teorema di Pincherle sui concorsi». Dice così: un importante barone universitario va in pensione e sceglie al suo posto un discepolo un po’ meno bravo di lui, perché la sua figura giganteggi in un confronto nostalgico. Così fanno tutti quelli che si succedono in quella cattedra, finché ne arriva uno così stupido che non si accorge di lasciare la poltrona a un allievo davvero bravo.

Forse, in Italia uno stupido così non è ancora arrivato al potere.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/09/26/cultura/opinioni/editoriali/alle-origini-della-nostra-decadenza-g8gcIcd3nrY4XgZVkHrsdI/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - Il declino silenzioso di Torino, ora la città si sente tradita
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 09, 2017, 05:35:47 pm
Il declino silenzioso di Torino, ora la città si sente tradita
Politica senza visione, società civile abbandonata.
Appendino al bivio

I sondaggi.
Chiara Appendino, eletta nel 2016 e accolta con indici di gradimento altissimi nei sondaggi di inizio mandato, sta scendendo nelle classifiche del consenso

Pubblicato il 06/10/2017

LUIGI LA SPINA
TORINO
Ma che cosa sta succedendo a Torino? Dove è finita quella retorica di una città che aveva saputo allargare la sua vocazione manifatturiera al turismo e alla cultura, scoperta da turisti sorpresi e affascinati dalla sua bellezza, lanciata verso un futuro da protagonista nella competizione tra le metropoli del nuovo secolo? 

Una narrazione, pubblica e privata, che, ripetuta ossessivamente dai leader di un centrosinistra che aveva governato 25 anni, aveva finito per suonare persino troppo propagandistica e rituale per soddisfare i suoi abitanti, ma che aveva indubbiamente cambiato l’immagine di Torino agli occhi degli italiani. Perché la sindaca dei «5 Stelle», Chiara Appendino, accolta con indici di gradimento altissimi nei sondaggi di inizio mandato, sta scendendo vertiginosamente nelle classifiche del consenso? 
 
Perché sulla città, delle cui sorti si discuteva appassionatamente, dentro e fuori dai suoi confini, sembra calata una cappa di silenzio e di indifferenza, rotta soltanto dalle cronache di fatti tragici e dolorosi come quelli della notte di piazza San Carlo o degli incidenti di chi contestava il G7? 
 
Per avanzare qualche risposta a questi interrogativi, basta partire da un elenco dei fatti avvenuti in questi mesi, a partire dal più recente, l’annuncio, da parte della sindaca, di un taglio di 80 milioni al bilancio comunale, accusando i suoi predecessori di aver detto il falso sulla realtà finanziaria dei conti pubblici e attribuendo a loro la colpa di dover operare sanguinosi risparmi di servizi ai cittadini.
 
Un annuncio che, ricevendo la sferzante replica di Chiamparino, il primo imputato di questa grave denuncia, sanziona la fine di quella intesa istituzionale tra Comune e Regione, bollata dai critici dell’uomo ancora più popolare della sinistra torinese, come «un governo Chiappendino» sulle sorti delle due più importanti poltrone del Piemonte, che potrebbe avere conseguenze imprevedibili sul futuro della politica cittadina. 
 
Ultimi mesi, poi, costellati dagli allarmi, ripetuti e insistenti, dei leader delle categorie più importanti del mondo produttivo, professionale, commerciale, culturale torinese, dai presidenti degli industriali a quello dei costruttori, dagli albergatori a chi, con finanziamenti ridotti al lumicino, deve mantenere le attività di importanti musei, gallerie, teatri. Tutti sostanzialmente lamentando la mancanza di una chiara visione sul futuro della città, dovuta a una irrisolvibile contraddizione tra le due «anime» della maggioranza di governo «5 stelle», quella «movimentista» che fa capo al vicesindaco Montanari e quella «governativa», rappresentata da Appendino. Un carosello di preoccupazioni e di critiche che domani, con la presentazione del rapporto Rota, annuale autorevole bollettino dello stato della città, dovrebbe aggiungere dati inquietanti sulle prospettive di una Torino che ha perso definitivamente la rincorsa a Milano, ma che, addirittura, è sconfitta dal confronto con Firenze e Bologna, fino a potersi paradossalmente definire, dal punto socioeconomico, come la capitale del Sud d’Italia.
 
In attesa, dopo 4 mesi, che i parenti della vittima, i tantissimi feriti, l’opinione pubblica conoscano i primi risultati dell’inchiesta sui fatti di piazza San Carlo, risultati che potrebbero creare pure qualche difficoltà alle principali cariche delle istituzioni torinesi, la politica della città pare preda di un languore propositivo imbarazzante. La sindaca, come detto, cerca di destreggiarsi tra consiglieri che sfilano accanto ai movimenti radicali di contestazione «al sistema» e propensioni personali e familiari molto più istituzionali, ben lontane dalle tentazioni della cosiddetta «decrescita felice», ma senza concepire, o riuscire a comunicare, visioni convincenti di come ritenga possa delinearsi il futuro di Torino. Il centrosinistra sembra non aver ancor «elaborato il lutto» di una sconfitta clamorosa e imprevista, più ripiegato in se stesso che capace di offrire alla città una proposta chiara e realistica, tale da rianimare un elettorato diviso, incerto e deluso da polemiche quotidiane con gli avversari, sterili e noiose, tali da perdersi nel disinteresse generale. La destra, ininfluente da decenni sulla vita pubblica della città e priva di personalità dotate del necessario carisma, si adegua al mediocre clima generale.
 
La società cittadina, infine, quel ceto di classe dirigente che, nella svolta impressa dal sindaco Castellani a cavallo del secolo, aveva contribuito grandemente, prima ad elaborare la strategia e, poi, a collaborare alla realizzazione di quella importante e inedita esperienza di sviluppo cittadino, si sente abbandonata da una politica che non sa più né individuare un traguardo, né avere la credibilità e l’autorevolezza per suscitare attenzione e attivare l’impegno civile.
 
Si salda così, in modo curioso e sconcertante, la sensazione di un «tradimento» collettivo che accomuna ceti molto diversi. La borghesia, che in parte aveva votato Appendino al ballottaggio con Fassino, pur di scacciare il dominio «comunista» sulla città, è irritata da iniziative che colpiscono i suoi interessi, a partire dalla quadruplicata tariffa delle strisce blu per i residenti, ma e, soprattutto, dallo spettro di una città in declino, che non offre più opportunità di lavoro nel settore dell’edilizia pubblica e privata, ad esempio. Gli abitanti delle periferie, speranzosi per gli impegni elettorali della sindaca, non avvertono neppure i primi passi della promessa riqualificazione dei loro quartieri. I commercianti, vera base elettorale di Appendino, continuano a soffrire l’arrivo di nuovi supermercati e vedono inascoltati i loro allarmi sui piccoli, ma magari storici negozi, costretti a chiudere.
 
In una situazione che ricorda il vuoto dei partiti che favorì, appunto, l’avvento di Castellani nel 1993, forse toccherebbe proprio a quella società civile che si mobilitò, guidata da Salza, per supplire alla mancanza di leadership politica, prendere l’iniziativa di coordinare le tante e valide forze, produttive, professionali, le tante risorse intellettuali, tecnologiche, lavorative presenti in città per superare un momento così delicato per il futuro dei figli e dei nipoti di Torino.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/06/italia/cronache/il-declino-silenzioso-di-torino-ora-la-citt-si-sente-tradita-CUGYFc3PlDPZPI62DYjYpI/pagina.html


Titolo: Re: LUIGI LA SPINA -
Inserito da: Arlecchino - Novembre 04, 2017, 07:13:18 am
Un passo verso la verità
Pubblicato il 03/11/2017

LUIGI LA SPINA

La città, ma soprattutto i parenti della vittima, poi, la donna che è ancora tetraplegica e spera nel miracolo di una difficile guarigione, infine, i moltissimi feriti, a cinque mesi dalla terribile notte di piazza San Carlo, attendono una risposta giudiziaria che chiarisca le responsabilità di quella tragedia. Ora, la procura di Torino si appresta a formulare ipotesi di reato che potrebbero coinvolgere gran parte dei vertici cittadini in un’accusa molto grave, quella di omicidio colposo. 
 
C’erano due strade che i magistrati avrebbero potuto imboccare. La prima, la più facile, era quella di rispondere all’inquietudine dell’opinione pubblica con un giustizialismo sommario e frettoloso, offrendo uno o più capri espiatori alla condanna, peraltro preventiva, dei cittadini. La seconda, la più comoda, era quella di far prevalere il timore delle conseguenze, politiche e amministrative, di una indagine così delicata, sull’esigenza di un accertamento rigoroso delle responsabilità. Bisogna dare atto alla procura torinese di aver evitato entrambe queste tentazioni, resistendo alle sollecitazioni di chi lamentava presunti ritardi e presunte prudenze insabbiatrici, come di chi suggeriva cautele speciali per speciali protagonisti della scena pubblica cittadina.
 
La democrazia liberale, come diceva Norberto Bobbio, esiste se c’è l’assoluta trasparenza delle decisioni e l’assoluta divisione dei poteri. Torino deve avere l’ambizione di dimostrarlo.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/11/03/cultura/opinioni/editoriali/un-passo-verso-la-verit-D6q3NmEuNcHOHyQg5bduNO/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - La solitudine del Piemonte nell'emergenza
Inserito da: Arlecchino - Novembre 04, 2017, 07:21:15 am

La solitudine del Piemonte nell'emergenza

Pubblicato il 30/10/2017

Luigi La Spina
Non c’è bisogno di essere fisicamente sui monti che bruciano. Non c’è bisogno di dover scappare di casa perché le fiamme la lambiscono. Non c’è bisogno di abitare a Torino per scrutare con angoscia la nube rossastra e cupa che l’avvolge. Basta guardare le foto e i filmati agghiaccianti che compaiono sui giornali, in tv o sulla rete per comprendere la situazione drammatica in cui una Regione come il Piemonte si trova ormai da molti giorni e, purtroppo, senza che le previsioni meteorologiche, per altri giorni, offrano conforto.

Eppure, sembra che uno strano «silenziatore d’allarme» sia stato applicato a una emergenza così grave un po’ da tutte le autorità che dovrebbero intervenire con l’urgenza indispensabile, con tutti i mezzi disponibili, chiedendo l’aiuto e facendo ricorso a tutte le forze che un Paese come l’Italia dovrebbe mobilitare in un caso del genere. 

Hanno cominciato gli amministratori locali a non proporzionare le loro richieste di assistenza per i rischi che correvano i loro territori e i loro abitanti, forse un po’ per l’orgoglio di far da soli e un po’ per quella consueta ritrosia piemontese che rifugge il lamento.

Stessi atteggiamenti hanno mostrato autorità piemontesi e torinesi. Anche per costoro quel «silenziatore» può avere parecchie motivazioni. 

Da una parte, la presunzione, alimentata da scarsa consapevolezza della gravità dei pericoli e delle enormi difficoltà di far fronte alla vastità del territorio devastato dalle fiamme, di possedere forze sufficienti per il controllo e lo spegnimento degli incendi. Dall’altra, il timore, del tutto incomprensibile, di esagerare un allarme che, invece, aveva tutti i motivi per essere gridato con quella forza che la situazione richiedeva.

Così, davanti a questo «bon ton» piemontese e torinese, in questo caso tutt’altro che buono, il governo si è adeguato al generale tran-tran, sommesso e distratto. Né il presidente del Consiglio ha fatto sentire la sua voce e, soprattutto, ha assunto decisioni opportune in aiuto del Piemonte, né lo ha fatto il ministro dell’Interno, solitamente, bisogna ammetterlo, pronto ad adottare iniziative efficaci e tempestive. La ministra della Difesa, Pinotti, si è limitata ad accogliere la richiesta di 60 alpini per controllare che i piromani non proseguissero nelle loro folli imprese incendiarie. E ci mancava che dicesse di no. 

Da parte delle organizzazioni di volontariato, infine, che da Nord a Sud del nostro Paese si sono sempre mobilitate con grande entusiasmo, con grande senso di solidarietà, ma anche con grande capacità operativa, non sembra che, in questo caso, si sia avvertita la solita disponibilità a intervenire.

Ecco perché l’impressione è quella di una sostanziale solitudine della Regione di fronte a un’emergenza quale mai si è presentata in questo territorio, almeno in tempi recenti. Sarà colpa della proverbiale sobrietà sabauda. Sarà colpa dell’abitudine che il Piemonte ha dato all’Italia di non sollecitare un aiuto nazionale, neanche quando è indispensabile. Sarà colpa di una disattenzione generale che corrisponde, parliamoci chiaro, a un interesse particolare di molti italiani. Sarà colpa dello scarso timore delle autorità governative e dei partiti nazionali per reazioni di indignazione che gli abitanti di una Regione come il Piemonte non sono soliti manifestare. Ma è ora che tutti, in Italia, comprendano la gravità di quello che sta succedendo e che non continuino a volgere il capo da un’altra parte. 
   
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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/30/cultura/opinioni/editoriali/la-solitudine-del-piemonte-nellemergenza-gTVboU1Ji5mnRZ3Lrel8gJ/pagina.html


Titolo: LUIGI LA SPINA - I martiri dell’Italia che fatica
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 30, 2018, 12:53:46 pm
I martiri dell’Italia che fatica

Pubblicato il 26/01/2018

Luigi La Spina
La tragedia di una realtà quotidiana, cruda e inaccettabile, piomba e scuote un’Italia disgustata dalla falsità di una campagna elettorale piena di vane promesse e di vecchi rancori. Come a scavare un baratro di insensatezza tra la pesante fatica di tante mattine, buie e fredde, stretti su vecchi e affollati treni e le nostre sere, dove inutili parole si sprecano sugli schermi delle tv. E nemmeno davanti ai morti e ai moribondi si ferma il vergognoso rimpallo di responsabilità, disperato e sciocco tentativo di approfittare di morti e moribondi per guadagnare un piccolo pacchetto di voti. 

Risparmi sulla manutenzione, usura dei mezzi, trascuratezza nei controlli, errore umano. Sarà dovere della magistratura, naturalmente, accertare le cause del disastro ferroviario alla periferia di Milano e punire i colpevoli. Ma la pietà e la commozione per le vite interrotte all’alba di quella che doveva esser solo una giornata di lavoro devono toccare anche le altre esistenze, troppo dimenticate. Quelle di chi lega il sonno interrotto del mattino a quello incombente della sera, perché non si può permettere il costo di una casa vicina alla sede della fabbrica, dell’ufficio, del negozio, dell’università.

Vite disperse nella febbrile ansia per il solito ritardo, per il solito rabbuffo del capo e, magari, per la minaccia di un licenziamento. Ore e ore di fatica in più, senza alcuna ricompensa, se non il frettoloso saluto del consueto compagno di viaggio. Qualche volta conforto di una parola amica, qualche volta noioso rituale di reciproci lamenti. 

Quando tragedie come queste squarciano di verità le rappresentazioni illusorie che facciamo di noi stessi, delle nostre esistenze, avvertiamo come siano false persino le certezze rassicuranti su cui abbiamo coltivato stupidi orgogli, stupidi confronti, stupide speranze. Quelle, ad esempio, di un pezzo d’Italia dove la modernità, l’evoluzione tecnologica, la ricchezza del territorio, la competenza professionale escludono catastrofi ferroviarie ammissibili, con qualche ipocrita compatimento, solo in qualche sperduta zona del nostro profondo Meridione.

Quel Nord, troppo compiaciuto dei suoi successi per badare a chi non solo non ne gode i vantaggi, ma non è neanche in grado di vederli, perché i finestrini dei treni, nelle mattine d’inverno, sono sempre appannati. Quel Nord che troppo spesso si vanta di trainare il resto del Paese, ma non riesce a trainare tutti i suoi pendolari alle soglie del posto di lavoro. Quel Nord, troppo occupato di mirarsi allo specchio per poter guardarsi intorno. Invece no.

Non ci sono morti innocenti di serie A e di serie B in un Paese come l’Italia d’oggi. Non ci sono differenze davanti all’egoismo criminale di chi risparmia sulla sicurezza, di chi trascura le regole e le leggi, di chi ignora il dovere di garantire la vita di chi lavora. Non ci sono differenze neanche tra chi specula sui morti innocenti per motivi che usano una parola, la politica, come un vessillo di ignominia. Oggi, per costoro, c’è una sola via di fuga, il silenzio.

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