Titolo: VITO MANCUSO - LA MENTE INNAMORATA DI GIORDANO BRUNO Inserito da: Arlecchino - Marzo 12, 2023, 04:59:07 pm VITO MANCUSO
LA MENTE INNAMORATA DI GIORDANO BRUNO Nell’epistola dedicatoria della sua commedia intitolata Candelaio, composta nel 1582 a trentaquattro anni e dedicata a una non meglio conosciuta «signora Morgana B.», Giordano Bruno presenta l’oggetto della sua mente innamorata. Innamorata di cosa? Di una visione della vita secondo la quale persino la falce del tempo è al servizio di un senso più ampio che è Dio, concepito (in modo ben diverso dal Dio biblico) come unità di tutte le cose, come l’eterno, l’uno. Ecco le sue parole, di cui ancora oggi si avverte l’ispirazione: «Ricordatevi, signora, di quel che credo che non bisogna insegnarvi: – Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annihila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesmo. – Con questa filosofia l’animo mi s’aggrandisse, e me si magnifica l’intelletto». È molto bello avere una filosofia che ingrandisce l’animo e magnifica l’intelletto. È la mente innamorata. Quando la filosofia è vera, vera non nel senso di esatta ma nel senso di autentica, radicata profondamente nell’esistenza di una persona così da trasformarne l’essere, quando è cioè filosofia di vita, essa ha effettivamente questo potere. È un’esperienza spirituale. La filosofia diviene spiritualità, un modo complessivo di essere e di sentire, un habitus integrale dell’esistenza. E per questo ingrandisce l’animo e magnifica l’intelletto: perché innamora la mente. Nel 1599, diciassette anni dopo la lettera alla signora Morgana B., il cardinale Roberto Bellarmino, allora gesuita e inquisitore, oggi santo e dottore della Chiesa, offrì a Giordano Bruno imprigionato da otto anni nelle carceri dell’Inquisizione la possibilità di salvarsi la vita a condizione di abiurare otto proposizioni tratte dalle sue opere. Per qualche tempo il filosofo prese sul serio tale possibilità di sopravvivenza, poi però rifiutò e affrontò la morte minacciatagli dal cardinale, arso vivo il 17 febbraio 1600 a Roma in Campo de’ fiori, all’età di cinquantadue anni. Perché non abiurò? Probabilmente perché sopraggiunse in lui la forza della filosofia di cui era innamorato e che gli fece sperimentare ancora una volta la fortificazione dell’animo e la magnificenza dell’intelletto, conferendogli l’energia necessaria per dire di no e non rinnegare le idee per le quali aveva vissuto, mettendolo in grado di affrontare la morte con dignità e coraggio esemplari. Dell’innamoramento della mente Giordano Bruno parlava in termini di «furore», più precisamente di «eroici furori». Questo concetto non ha nulla a che fare con l’irrazionalità né con visioni misticheggianti; si tratta piuttosto di una razionalità potenziata dal calore del sentimento, di una ragione intesa non solo come calcolo ma anche come intuizione, nella quale la spinta non è data solo dal raziocinio ma anche dalla passione e dall’amore, così che l’essere umano mette in gioco tutto se stesso. Interprete radicale di Copernico, Bruno rifiutava il geocentrismo e l’antropocentrismo tradizionali sostenendo che la Terra non è al centro dell’universo e che gli esseri umani non sono dei privilegiati ma condividono con tutti gli altri viventi la condizione da lui denominata «mutazion vicissitudinale del tutto». In tale universo infinito e senza centro, in cui nessuno occupa una posizione privilegiata e ogni cosa muta secondo incontrollate vicissitudini, si tratta di trovare un orientamento nella vita e questo lo si può fare connettendosi con il divino: era questa connessione lo scopo della filosofia di Bruno, come egli ribadisce in numerosi passi delle sue opere, tra cui questa solenne dichiarazione: «Il mio primo e principale, mezzano et accessorio, ultimo e finale intento in questa tessitura fu et è d’apportare contemplazion divina». Tale contemplazion divina però non si ottiene andando in chiesa e partecipando ai sacramenti, come vogliono i cattolici; meno che mai leggendo la Bibbia come propongono i protestanti, che anzi sono «gli maggior asini del mondo». Si ottiene piuttosto con il «metter avanti a gli occhi et orecchie altrui furori non de volgari, ma eroici amori». Sono questi furori che derivano dagli eroici amori a dare pienezza alla vita, facendole sperimentare il suo senso più compiuto e quindi connettendola con la compiutezza dell’essere che è Dio. Tra vita naturale e divinità non c’è quindi nessuna separazione; al contrario, Bruno riteneva che «la divina luce è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte a le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive». Si tratta solo di aprirsi totalmente alla pienezza della vita. A tale scopo gli esseri umani devono mettere in gioco tutte le loro facoltà, non solo la ragione ma anche le emozioni e i sentimenti. E quando la ragione si unisce alla sfera emotiva e sentimentale si ha quella particolarissima condizione, integrale e totalizzante, che Bruno denomina per l’appunto furore. Esso è la piena attualizzazione di tutte le potenze dell’essere umano: non è la soppressione del raziocinio a favore dell’emotività e del sentimento, come avviene per lo più nella vita ordinaria; né è la soppressione dell’emotività e del sentimento a favore del raziocinio, come avviene per lo più in filosofia; né è la soppressione di entrambe, ragione ed emotività, a favore dell’obbedienza della fede, come avviene per lo più nella religione tradizionale, soprattutto nel cristianesimo riformato di Lutero e di Calvino. È piuttosto l’esaltazione massima sia di una sfera sia dell’altra e la loro concertazione armoniosa. Anzi, amorosa. La mente innamorata quindi è tutt’altro che cieca, come ritiene «il cieco volgo» portato a pensare che l’amore sia «insano e cieco». Bruno al contrario ritiene che «l’amore non è cieco in sé», ma «illustra, chiarisce, apre l’intelletto e fa penetrar il tutto». Gli eroici furori, nome bruniano per la mente innamorata, «non son oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e buono». Egli ne parla anche in termini di «impeto razionale», quello slancio che proviene dalla conoscenza integrale che è «apprension intellettuale del buono e del bello». E come ogni forma di amore, anche tale impeto mira all’unione, per cui chi lo sperimenta si unisce con il bello e con il buono, e così, grazie a questa unione, muta la sua natura, divenendo a sua volta bello e buono, cioè divino. Ecco le parole di Bruno (nel cui italiano cinquecentesco diviene è doviene): «Doviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non ha pensiero che de cose divine». Chi prova in pienezza l’esperienza detta furore è quindi oggetto di vera e propria divinizzazione: «Si fa un Dio: perché contrae la divinità in sé». E ancora: «Il corpo dunque è ne l’anima, l’anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Dio, come disse Plotino». La mente come Dio, o in Dio, è la mente innamorata. Chi sperimenta tale pienezza della mente inizia a pensare non più a partire da sé, ma a partire dall’unità di tutte le cose, per cui la sua visione del mondo muta radicalmente. La pienezza della mente innamorata però non si limita per Bruno al solo piano intellettivo: distaccando dalla sensibilità comune, essa infonde un coraggio tale da collocare il soggetto al di sopra dei piaceri ordinari e persino della paura della morte. Ecco le sue parole: «E mostrasi insensibile et impassibile in quelle cose che comunemente massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de la vita». Pur combattendo la fisica tradizionale geocentrica e antropocentrica fino a pagarne le conseguenze, Giordano Bruno non venne mai meno nell’altissimo apprezzamento della mente umana e dell’amore che essa può ricevere e generare. Anzi, stimò sempre immensamente la natura umana, equiparando la mente innamorata pervasa da eroici furori alla stessa natura di Dio. Valgono per lui queste parole di Albert Einstein: «Grandi spiriti religiosi di tutti i tempi si sono distinti per questo tipo di sentimento religioso che non conosce né dogmi né un Dio concepito a immagine dell’uomo; così non vi può essere una Chiesa i cui insegnamenti centrali vi siano basati. Perciò è proprio fra gli eretici di ogni epoca che troviamo uomini carichi del più alto sentimento religioso e che erano visti dai loro contemporanei come atei, ma talvolta anche come santi». (La mente innamorata di Vito Mancuso) da FB |