Titolo: SERGIO RIZZO Inserito da: Admin - Giugno 24, 2007, 04:27:22 pm Retroscena Tps sotto assedio: «Per qualcuno due più due fa cinque»
Il ministro prepara il Dpef. E conta sul sostegno dei riformisti contro gli autori della lettera ROMA — Domanda un ragazzo: «Ministro, qual è la legge fondamentale dell’economia? ». Tommaso Padoa-Schioppa prende un pennarello e scrive sulla lavagna di carta: 2+2=4. Poi dice: «Eccola.Ma qualcuno ogni tanto vorrebbe da me che due più due facesse cinque». La sintesi del Padoa- Schioppa pensiero è tutta qua, nella risposta data agli alunni di una scuola media che nei giorni scorsi sono andati da lui a intervistarlo per il periodico Focus junior. E la legge del 2+2=4 è la stessa che viene ripassata accuratamente, in queste ore, nelle stanze di via XX settembre, a Roma, dove il ministro dell’Economia sta preparando con i suoi più stretti collaboratori il Documento di programmazione economico-finanziaria che dovrà essere approvato giovedì dal Consiglio dei ministri. Compresi, ovviamente, i quattro esponenti della sinistra radicale che hanno mandato venerdì una lettera a Prodi contestando le scelte del titolare dell’Economia e chiedendo una svolta con il Dpef. Ieri mattina, sabato, Padoa-Schioppa era nella sua stanza, dopo una giornata, quella di venerdì, trascorsa in Austria a far visita a un amico: incurante, a quanto pare, della tempesta che si stava scatenando. Chi ha avuto occasione di parlarci l’ha trovato rilassato, come chi sa (o si illude?) di avere in tasca la carta giusta per sconfiggere giovedì il partito del 2+2=5.Ma quale sia questa carta magica, nessuno lo sa. Una telefonata «rassicurante» con Romano Prodi e poi una riunione, per mettere a punto il Documento di programmazione, insieme al sottosegretario Nicola Sartor, al direttore generale del Tesoro VittorioGrilli e a Lorenzo Cotogno, l’uomo del Dpef chiamato a via XX settembre da Giulio Tremonti poche settimane prima di lasciare l’incarico. Nessuno, durante quella riunione, ha sentito Padoa-Schioppa fare la benché minima allusione alla lettera dei quattro ministri, né alle prese di posizione in sua difesa dei riformisti della maggioranza. Neanche il minimo riferimento alla campagna martellante della sinistra radicale contro di lui, che non accenna a esaurirsi, e all’invito nemmeno troppo velato del Sole-24ore alle dimissioni nel caso in cui il governo fosse costretto a un compromesso inaccettabile. Il fatto è che il ministro dell’Economia l’eventualità delle dimissioni non l’ha mai presa seriamente in considerazione. Per un motivo molto semplice, di cui Padoa- Schioppa è evidentemente consapevole. In un momento come questo le sue dimissioni, se determinate da una rottura con la sinistra radicale, dovrebbero essere inevitabilmente accompagnate da quelle di Prodi. Il destino del governo è appeso al suo. Mai come ora, Padoa-Schioppa è stato sotto assedio da parte della sua stessa maggioranza. Mai come ora tuttavia la sua debolezza, accentuata dal non avere alcun partito dietro di sé, rappresenta una forza. Così al ministero dell’Economia c’è perfino la convinzione che la lettera dei quattro ministri di quello che ormai è battezzato come «il partito del 2+2=5», invece di indebolirlo l’abbia in realtà rafforzato, costringendo i riformisti a venire allo scoperto per difenderlo. Con il risultato che alla fatidica riunione di giovedì difficilmente anche loro, che pure sul tesoretto hanno progetti considerati da Padoa-Schioppa poco compatibili con i conti, potranno giocargli qualche brutto scherzo. La prova generale, comunque, sarà il Consiglio dei ministri di domani, che ha all’ordine del giorno il federalismo fiscale. Il ministro dell’Economia lo considera un punto di svolta fondamentale per la politica economica del governo Prodi. La premessa per normalizzare i martoriati rapporti con gli enti locali, che sono perenne motivo di tensioni nella maggioranza e fonte di diffidenze nei confronti di Padoa-Schioppa. Ma anche una nuovo capitolo della sfida al cosiddetto partito della spesa. Domanda un altro ragazzo: «Ministro, come si fa per far tornare a posto i conti dell’Italia?». Risponde Padoa-Schioppa: «Il modo migliore è aumentare un po’ le tasse, non a chi le paga già "giuste", ma agli evasori fiscali. Contemporaneamente, però, bisognerebbe ridurre le spese senza diminuire i "servizi" essenziali dello Stato, cioè la sicurezza, la giustizia, la scuola, ma semplicemente ottenerli a un costo minore». Sergio Rizzo 24 giugno 2007 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Inserito da: Admin - Luglio 24, 2007, 10:40:14 am Politica e tagli, il Senato istituisce una commissione ad hoc
Via alla commissione anti sprechi Dopo quelle su poveri e dentiere La moltiplicazione degli «organi di inchiesta». E Bossi ne chiese una sui soldi di Berlusconi ROMA - «Trattasi di un gruppo di svogliati selezionati da un gruppo di incapaci per il disbrigo di qualcosa di inutile». Ecco cos'è una «commissione» nella micidiale definizione di un antico e caustico editorialista del New York Times. Un giudizio forzato. Forse qualunquista. Ma che non può non tornare in mente (facciamo gli scongiuri) davanti alla decisione presa dal Senato di affrontare la questione incandescente dei costi della politica istituendo una apposita commissione conoscitiva da mettere al lavoro dopo le vacanze, la tintarella, i bagni. Il metodo più sicuro, spesso, per guadagnare tempo. COMMISSIONI UTILI - Si dirà: certe commissioni parlamentari hanno fatto un buon lavoro. Verissimo. Ottimo. Si pensi a quella sulla condizione contadina condotta alla fine dell'Ottocento da Stefano Jacini per denunciare la disperazione di un mondo di tuguri «ove in un'unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame». O quella sulla Questione Meridionale di Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino ed Enea Cavalieri. O ancora, in tempi più recenti, quella sulla P2 sotto la presidenza di Tina Anselmi. O quelle, soprattutto in certi anni durissimi, sulla mafia. Sia pure concluse, a volte, purtroppo, con l'epilogo sconcertante di relazioni di maggioranza e relazioni di minoranza. BOSSI E BERLUSCONI - Neppure i più accaniti teorici di questo strumento della democrazia, però, possono negare quanto esso sia andato via via alla deriva. Fino ad assumere, troppo spesso, altre funzioni. Non nobilissime. Di minaccia, di vendetta, di ricatto. Di pressione politica. Basti ricordare l'Umberto Bossi nella sua stagione di guerra al Cavaliere: «Parlare e discutere di par condicio è troppo poco. Io propongo una commissione parlamentare d'inchiesta sugli arricchimenti di Silvio Berlusconi. Da dove provengono i suoi soldi? Come ha costruito il suo impero televisivo? Come utilizza la politica per difendere gli affari personali?». O l'ambigua intimidazione di Luciano Violante: «Se facessimo come Berlusconi nella prossima legislatura, a elezioni vinte, potremmo istituire una commissione parlamentare su come è diventato ricco. Ha detto che andava in comune a Milano con l'assegno in bocca: a chi lo dava?». O ancora l'avvertimento dello stesso Cavaliere reduce dall'aver deposto al processo di Milano: «Faremo una commissione d'inchiesta sulla vendita della Sme». Per non dire dell'insistenza con cui pezzi della sinistra hanno premuto per una commissione sul G8 di Genova, la cui presidenza per Gigi Malabarba doveva andare alla madre di Carlo Giuliani. O delle polemiche divampate intorno alle commissioni sull'affare Mitrochin, su Telekom Serbia o perfino alle sole ipotesi di commissioni su Tangentopoli, sull'uso della giustizia negli anni di Mani Pulite o sulle scalate bancarie del 2005. COMMISSIONI PIGRE - Non bastasse, si sono viste commissioni parlamentari, regionali o comunali così pigre, assurde o traboccanti di poltrone da minare gravemente la fiducia dei cittadini. Come quella costituita anni fa in Calabria «per la qualità e la fattibilità delle leggi», i cui risultati (zero) sono sotto gli occhi di tutti. O quella sui fondi neri Iri, istituita nel gennaio 1987 e defunta senza mai riunirsi una sola volta. O quella dedicata all'ambiente che, stando al rapporto Legambiente 2001, riuscì in un anno a esaminare «solo gli emendamenti all'articolo 1» (su dieci) della Legge Micheli contro l'abusivismo. O le due «commissioni interministeriali sul latte microfiltrato» chiamate a pronunciarsi (giudizio favorevole) sul via libera al latte «frescoblu» sul quale Calisto Tanzi aveva scommesso decine di milioni di euro. L'ANTISPRECHI DEL VENETO - E la «commissione antisprechi» nella Sanità voluta dalla Regione Veneto nel 2003? Tre anni dopo, la Corte dei Conti riassumeva che era costata 340 mila euro e aveva prodotto (in tre anni!) due documenti, inutilizzati: che spreco! E le 24 commissioni permanenti o speciali (dalla «riforma della burocrazia » alla «garanzia e tutela della riservatezza della sfera personale e della privacy») del Lazio? E le 18 della Campania ridotte a 12 solo in seguito alle polemiche e alle risate sulla decisione di fare una «Commissione sul Mare» e una «Commissione sul Mediterraneo »? Fino al capolavoro, serissimamente descritto da un'agenzia del maggio 2002: «Parte operativamente da lunedì prossimo, con la prima riunione della speciale commissione che si riunirà al ministero della salute, il "progetto dentiera" voluto dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per dare agli anziani "edentuli" e indigenti le protesi, cioè le dentiere, che non si possono permettere». Tra quelle ordinarie, permanenti, speciali, bicamerali, conoscitive o di inchiesta, le commissioni avviate da Camera e Senato in questa solo legislatura risultano essere (dal ciclo dei rifiuti al servizio sanitario nazionale, dagli infortuni sul lavoro all'uranio impoverito) ben 56. C'è la commissione di vigilanza sulla Cassa depositi e prestiti, la banca del Tesoro, la cui vita è riassunta dal deputato Carmine Santo Patarino così: «Finora abbiamo fatto due o tre incontri, ma ancora l'attività istituzionale non è stata avviata». C'è la commissione mista per «l'accesso ai documenti amministrativi». C'è quella «consultiva per il riconoscimento di ricompense al valore e al merito civile». Quella dell'anagrafe tributaria, che fino a oggi si è riunita sei volte: poco più di una a trimestre. Quella per la «semplificazione della legislazione» che in un anno e passa è stata convocata 13 volte (totale: 10 ore) sotto la sapiente guida di Pietro Fuda il quale, uomo giusto al posto giusto, è stato dirigente della Cassa del Mezzogiorno e poi della Regione Calabria: due modelli di burocrazia agile e scattante. E via così... Sperano davvero i senatori, con questi precedenti, che i cittadini si entusiasmino alla nascita di questa nuova commissione, che peraltro si aggiunge a quella già varata dalla Camera? In bocca al lupo. Ammettano però che un po' di scetticismo... Sergio Rizzo Gian Antonio Stella 24 luglio 2007 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Inserito da: Admin - Settembre 13, 2008, 11:49:33 am I protagonisti
I capi della rivolta dei piloti tifano An Berti e Notaro al lavoro per cordate alternative. E l’ultimo assunto nella compagnia è il figlio del ministro Matteoli ROMA — Perché in Italia esistano ben due sindacati autonomi dei piloti d'aereo, per i più rimane un mistero. Tutto ha origine quando c'era ancora l'Ati. Quelli che guidavano gli aerei della compagnia domestica dell' Alitalia erano guardati come piloti di serie B e allora orgogliosamente presero le distanze dall'Anpac, fondando il sindacato che poi sarebbe diventato l'Unione Piloti. Da allora, i rapporti sono stati di forzata fratellanza. Differenze nelle piattaforme sindacali, praticamente nessuna: a parte qualche passato distinguo sui tempi della privatizzazione dell'Alitalia. E anche sulla tragedia della compagnia di bandiera, siamo più che altro alle sfumature. A Fabio Berti (42 anni), presidente dell'Anpac, non dispiaceva la soluzione Air France? Massimo Notaro (53 anni), capo dell'Unione Piloti, avrebbe preferito un matrimonio con l'Iberia o Lufthansa. O magari con russi o cinesi. Notaro voleva partecipare con i suoi iscritti e il sostegno finanziario delle banche di credito cooperativo alla gara per comprare l'Alitalia? Berti adesso rilancia pure lui allo stesso modo, lasciando intendere che dietro ha nientemeno che l'Unicredit di Alessandro Profumo (che ha però smentito). Ma sulla sostanza, e cioè che le buste paga dei piloti non si devono nemmeno sfiorare con il pensiero, la sintonia è assoluta. Inutile pure cercare differenze nei rispettivi punti di riferimento politici, che all'Alitalia, com'è noto, sono imprescindibili. Tanto l'Anpac quanto l'Unione Piloti hanno sempre guardato verso la stessa direzione: il centrodestra. Anzi, più destra che centro. Soprattutto adesso, che al governo è tornato Silvio Berlusconi e che al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, dicastero con compiti di vigilanza sulla compagnia di bandiera, si è insediato il sindaco di Orbetello Altero Matteoli, esponente di spicco di Alleanza nazionale e padre di Federico Matteoli: nome noto in azienda, se non altro perché è stato l'ultimo pilota assunto a tempo indeterminato dall'Alitalia dopo l'11 settembre 2001. Chi conosce bene Notaro riferisce dei suoi ottimi rapporti personali con il ministro Andrea Ronchi, uno degli uomini più vicini al Leader di Alleanza nazionale e presidente della Camera, Gianfranco Fini. Ma anche delle amichevoli relazioni che il capo dell'Unione piloti intratteneva con Luigi Muratori, parlamentare di Forza Italia e pilastro della commissione Trasporti della Camera al tempo del precedente governo Berlusconi. Di Berti si ricordano le circostanze che, nel 2004, proiettarono quel giovane pilota figlio d'arte, consapevole delle proprie qualità, ai vertici di quella che un tempo era conosciuta come "Aquila selvaggia". I maligni dicono che il suo predecessore, Andrea Tarroni, rimase vittima di una manovra di corridoio dopo aver messo in crisi l'operazione dell'acquisto da parte dell'Alitalia della compagnia Volare. Scombinando magari qualche progetto dei piani alti, se è vero, come dicono, che quell' operazione non dispiaceva al potente sottosegretario del governo Berlusconi, Aldo Brancher. Ma come sia andata davvero nessuno è in grado di dirlo. È però certo che Tarroni non avrebbe mai lasciato di propria iniziativa, e in quel modo, il vertice dell' Anpac. Ed è altrettanto certo che ora, affiancato dal vicepresidente Stefano Di Carlo, che nella scalata al vertice del sindacato avrebbe avuto un ruolo decisivo, al suo posto ci sia Berti. Nominato con l'84% dei consensi nel 2004 e riconfermato lo scorso anno con una maggioranza ancora più bulgara: 93%. Cose che capitano. Il risultato è comunque che la potente Anpac è riuscita ad allargare ancora la propria sfera d'influenza nell' azienda. A spese della più piccola Unione Piloti. Perché quello che c'è davvero dietro questa singolare duplicazione è la spartizione del potere interno. L'Anpac è in condizioni di influenzare le scelte degli uomini in molte direzioni chiave, e di fatto controlla le posizioni nevralgiche nel fondo di previdenza e nella cassa sanitaria. Qualche anno fa il sindacato aveva creato anche un piccolo gruppo societario con l'ambizioso progetto di sbarcare in forze nel mercato delle consulenze. Di quel gruppo, oggi sopravvive l'Anpac services, proprietaria dell'immobile del sindacato, che garantisce utili di 50 mila euro l'anno. Senza che nessuno, ovviamente, se ne lamenti. Ma che ne sarà di tutto questo, se non ci sarà più l'Alitalia? Sergio Rizzo 13 settembre 2008 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Inserito da: Admin - Settembre 22, 2008, 10:33:45 am A Fiumicino
E nasce il fronte del sì: Oggi «la marcia» dei piloti I confederali protestano: nel mirino l'Anpac Non sono quarantamila, come i quadri della Fiat che nel 1980 sfilarono per le strade di Torino sfidando il sindacato. E forse non faranno nemmeno una vera e propria marcia. Ma la mobilitazione dei piloti iscritti a Uil, Cisl e Ugl, settecento in tutto sui circa 2 mila della compagnia di bandiera, non può non suscitare analogie con quell’episodio. Se la marcia dei quarantamila passò alla storia come la ribellione dei dipendenti della Fiat che rivendicavano il diritto di lavorare, quello che comincia stamattina a Fiumicino ha tutto il sapore della rivolta dei piloti che hanno rotto il fronte del no, decidendo di aderire alla proposta di Roberto Colaninno. Una rivolta clamorosa, non soltanto perché scoppia in una categoria che per l'opinione pubblica è sempre stata tradizionalmente compatta, ma perché ha un obiettivo preciso: in primo luogo l'Anpac di Fabio Berti e Stefano De Carlo e poi la più piccola Unione piloti di Massimo Notaro, le associazioni professionali che hanno chiuso la porta alla Compagnia aerea italiana. «Vogliamo parlare con i nostri colleghi per riportare con i piedi per terra una categoria che sembra in preda a un'isteria collettiva», dice Alessandro Cenci, il rappresentante dei piloti che aderiscono alla Cisl. E Francesco Alfonsi, il segretario nazionale della Ugl trasporto aereo, aggiunge: «Siamo al limite del precipizio. Qui si rischia l'irresponsabilità ». Secondo Cenci i piloti sarebbero «vittime di una disinformazione incredibile. Si illudono che ci possano essere alternative, ma alternative non ce ne sono. Basterebbe ricordare che l'Alitalia sta volando con una licenza provvisoria. Ha capito bene, provvisoria». Chi sia l'imputato di aver fatto tanta disinformazia è presto detto. «L'Anpac», taglia corto Marco Veneziani, responsabile della Uil piloti, che per anni, come Cenci, è stato iscritto al sindacato ora guidato da Berti. «Sono loro che in azienda decidono tutto, nominano e cambiano i direttori nei posti chiave a loro piacimento. Ma lo sa che alcuni giorni fa hanno fatto una riunione e hanno dato ordine a capi piloti, istruttori e controllori di dimettersi da tutti gli incarichi?». Si parla di pressioni sui comandanti riottosi, di turni massacranti inflitti ai piloti che hanno tifato per Colaninno, girano voci di colpi bassi, volano parole pesanti. «Negli ultimi giorni mi hanno portato via trenta iscritti», denuncia Veneziani. Mentre all'Ugl dicono invece di aver accolto a braccia aperte un gruppetto di fuggiaschi dall'Anpac. Il fatto è che la vicenda Alitalia ha scoperchiato un vaso di Pandora. Una situazione nella quale i gangli vitali della compagnia, con la compiacenza di qualche capo azienda, sono finiti pian piano sotto l'influenza delle associazioni di categoria. E chi ne è fuori ha deciso che ora la misura è colma. Oggi si parte con la mobilitazione per convincere la base a dire sì alla Cai. Poi, per domani, Uil, Cisl e Ugl stanno organizzando l'assemblea generale dei piloti. E c'è chi spera nella resa dei conti. Sergio Rizzo 22 settembre 2008 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO. Epifani e Sacconi Ex socialisti Inserito da: Admin - Settembre 23, 2008, 10:36:08 am Epifani e Sacconi Ex socialisti
La barzelletta del ministro e le vite parallele Il duello infinito ROMA — Soltanto chi non li conosce bene può pensare che Guglielmo Epifani e Maurizio Sacconi si siano ritrovati nei panni dei duellanti per uno scherzo del destino. Il segretario della Cgil è di 111 giorni più anziano del ministro del Welfare. Entrambi sono socialisti ed entrambi, da giovani, lavorano alla Cgil. Con una differenza. Sacconi imbocca la strada della politica. Invece Epifani resta nella Cgil e sale tutti i gradini, fino a prendere il posto di Sergio Cofferati. Quando succede, il 20 settembre del 2002, Sacconi gli spedisce un telegramma affettuoso: «Caro Guglielmo, sono sinceramente lieto che tu assuma oggi la guida della Cgil. È un traguardo meritato che corona un lungo e non sempre agevole percorso. Le tante cose che ci hanno unito per molti anni ci aiuteranno ora a mantenere il filo del dialogo e ovviamente del reciproco rispetto. Un saluto fraterno da un amico di ieri e di oggi». Sembra difficile pensare che chi ha scritto queste frasi sia la stessa persona che ieri, nel corso di una tavola rotonda al Corriere, ha paragonato la Cgil di Epifani a «quel signore che guida contromano in autostrada e ascoltando l'annuncio della radio commenta: "Non c'è un pazzo, sono centinaia"». Prima di quel fatidico 2002, in realtà, le strade dei due si erano incrociate sporadicamente. Negli anni Ottanta Sacconi è un giovane sottosegretario al Tesoro con delega sulle banche. Socialista riformista, il suo punto di riferimento nel partito è Gianni De Michelis, di cui è stato consigliere insieme a Renato Brunetta. A differenza del suo leader, però, non ama le discoteche. Preferisce studiare: nel partito c'è chi lo considera il massimo esponente dell'ala «secchiona». Lui si vendica con telefonate nelle quali imita alla perfezione la voce di Bettino Craxi. Nel 1984 è uno degli artefici dell'accordo di San Valentino sulla scala mobile, che mette all'angolo il Partito comunista provocando pure la spaccatura della Cgil di Luciano Lama: nell'occasione la componente socialista di Ottaviano Del Turco, di cui fa parte Epifani, si schiera con Cisl e Uil e firma l'intesa. Ma è un caso più unico che raro di sintonia fra i nostri duellanti. I rapporti fra l'attuale ministro e la Cgil non erano certo ruvidi come oggi: «Maurizio Sacconi mi fu presentato da Cofferati», ricorda Giuliano Cazzola, anch'egli ex della Cgil e oggi parlamentare del Pdl. Ma poi, inevitabilmente, le cose cambiarono. Nel 1996 il ministro del Lavoro di Romano Prodi, Tiziano Treu, che lo stima, candidò Sacconi a capo dell'Ufficio internazionale del Lavoro, con il parere favorevole anche della Cgil. Però lui, diversamente da Epifani, insieme a molti altri socialisti stava già con il centrodestra. E nel 2001, tornato al governo come sottosegretario al Welfare, i contrasti con la Cgil divennero ben presto insanabili. Durissima fu la rottura sulla vicenda dell'articolo 18, vicenda resa ancora più drammatica dall'assassinio da parte delle Br del suo amico Marco Biagi. E con Cofferati si arrivò alle carte bollate. Arrivato Epifani, la musica cambiò solo impercettibilmente. Al primo sciopero del febbraio 2003, Sacconi accusò la Cgil di inseguire «un progetto ideologico e antagonista». Poi di fare «campagna elettorale». Quindi disse che vedeva «nel governo un nemico di classe». Fino ad affermare: «È tutto tranne che un sindacato». Senza risparmiare il suo segretario: «È un reazionario». E se durante la campagna elettorale del 2006 Sacconi era arrivato a dire che la Cgil aveva stretto «un patto scellerato con l'Unione», qualche mese più tardi commentò perfidamente l'assenza del socialista Epifani alla commemorazione di Craxi ad Hammamet: «Evidentemente non l'hanno lasciato venire». Da allora le scaramucce si sono moltiplicate. «Veltroni ed Epifani testimoniano il collateralismo fra Cgil e Pd». «Sacconi ha la rara capacità di fare e dire cose che non vanno dette». «La Cgil rischia la disfatta sindacale». «Sacconi con la Cgil ha un atteggiamento da crociato». E via di questo passo. Dice Pier Paolo Baretta, ex segretario generale aggiunto della Cisl, ora deputato del Pd, che conosce bene entrambi: «Credo che sia un errore appiccicare un'etichetta politica a qualsiasi sindacato. Ma forse pure la Cgil dovrebbe riflettere su questo modo di fare il sindacato». Sergio Rizzo 23 settembre 2008 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO I politici e i risparmi Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2008, 10:28:09 am I politici e i risparmi
E Lehman tradì anche Stefania Craxi La parlamentare di Forza Italia crede talmente nei «valori» occidentali da averci investito un patrimonio ROMA — Non è perché gli siano apparsi in sogno Buddha o Confucio, per i quali Giuliano Urbani confessa comunque di avere un debole. Se un «liberista » come lui ha deciso di investire proprio sulla Cina, spauracchio del suo collega di partito «colbertista » Giulio Tremonti, è soltanto per un fatto di mercato. «Questa crisi finanziaria è la dimostrazione ulteriore che l'Occidente si è seduto. Mentre Paesi come Cina e India sono capaci di rinnovarsi continuamente», spiega Urbani al telefono. Da Pechino, e non è un caso che sia lì. L'investimento di Urbani si chiama Clic srl, acronimo che sta per Club Italia Cina. È una società che il titolare di una delle prime tessere di Forza Italia («nata da un'idea comune di Silvio Berlusconi e del sottoscritto», sottolinea) ha costituito al 50% con suo figlio Simone per gestire «servizi turistici», compresi i «pacchetti di viaggio». Ovviamente per turisti italiani che vogliono andare in Cina, ma soprattutto per turisti cinesi che vogliono venire in Italia. Urbani senior e junior non si sono svenati: il capitale, per ora, è diecimila euro. Ma in futuro, chissà. Magari ci sarà la fila di investitori disposti a versare soldi a palate nella loro società. Magari. Stefania Craxi ha invece fatto una scelta opposta. La parlamentare di Forza Italia crede talmente nei «valori» occidentali da averci investito un patrimonio. Nell'ultima dichiarazione presentata alla Camera ha denunciato il possesso di 125 pacchetti azionari. E la figlia dell'ex leader socialista Bettino Craxi non si è davvero fatta mancare nulla. Nel suo cospicuo portafoglio, azioni Lehman Brothers, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Bank of America, Barclays e ThyssenKrupp. Che altro? Unicredit, Intesa Sanpaolo, Unipol... Anche Antonio Martino, altro liberista per antonomasia di Forza Italia, aveva un bel pacchetto di azioni di società americane, da Merrill Lynch a Texas Instruments a General Electric, insieme a titoli di banche italiane come Unicredit, Intesa Sanpaolo, Mediobanca, e anche Popolare di Sondrio: quest'ultima, la banca più amata dai politici di Forza Italia. Per gli investimenti, s'intende. Berlusconi ha lì in deposito «amministrativo» qualcosa come 896 mila azioni. E Tremonti, che a Sondrio è nato, ha affidato alla Popolare una «gestione patrimoniale dinamica», tiene a precisare, «con minima componente azionaria». Perché la prudenza non è mai troppa. Soprattutto di questi tempi. E se Martino ha opportunamente provveduto ad alleggerire il proprio portafoglio titoli, il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto, che era bello carico di azioni (da Telecom Italia all'Eni, passando per Mediobanca), mesi fa ha venduto tutto. Aveva sentito puzza di bruciato? «La situazione mi ispirava poco», dice. Ma poi spiega il vero motivo della sua decisione: «Non trovarmi più sui giornali, com'è successo, l'elenco dei miei investimenti. Mi è andata bene». E ora? «Titoli di Stato, pronti contro termine... ». Non altrettanto bene è andata a Stefano Saglia, presidente della commissione Lavoro della Camera, che con i derivati si è bruciato le mani: «Un broker di Fineco mi aveva consigliato di comprare alcuni titoli strutturati. Non le dico com'è andata a finire». Sono imprudenze che costano care. Forse anche per questo molti politici (prevalentemente a sinistra) si tengono accuratamente alla larga dalle nostre Borse. Nessuno però imitando Antonio Di Pietro, che ha investito in una società bulgara, la Suco di Varna (città che per sette anni, dal 1949 al 1956 si chiamò Stalin), di cui possiede il 50%. Vincenzo Visco, per esempio, ha soltanto immobili: nove, fra Roma, Pantelleria e Francavilla Fontana. Piero Fassino ha due appartamenti a Roma e Torino e un casale a Scansano, nella Maremma toscana. Anche Pier Ferdinando Casini ha due appartamenti (a Roma) ed è comproprietario di altri sette immobili a Bologna. Giuliano Cazzola, parlamentare del Pdl, ex sindacalista e già presidente del collegio sindacale dell'Inps che si professa favorevole alla «linea del conto corrente» (lasciando cioè i soldi in banca), dice che ha speso quasi tutto per comprare una casa a Roma. Una casa dell'Inps («ma ci abitavo da molto tempo prima di andare all'ente»), che era stata messa in vendita come abitazione di lusso. Quindi senza sconto. «Ma abbiamo fatto ricorso a Tar, Consiglio di Stato e Consulta e abbiamo vinto», spiega Cazzola. Che per questa vicenda si dichiara pure «perseguitato» dai giornali. L'ex ministro prodiano Giulio Santagata s'è comprato invece 22 metri quadrati a Parigi. Maurizio Leo (Pdl) ha investito in una casa a Malindi, in Kenya: «Costa meno di un monolocale ad Anzio, vuole mettere? E poi è un bel posto, si vive bene. Di questi tempi che cosa c'è di meglio del mattone?». Ma non ha certamente bisogno di convincere una vecchia volpe come il senatore del Pdl Giampiero Cantoni, presidente della commissione Difesa di palazzo Madama, già presidente della Bnl, che ha investito soldi in una discreta quantità di società immobiliari. E non è certamente l'unico. Perché crisi o non crisi, nel Palazzo i denari non mancano di certo. Ironizza Nicola Rossi: «Dico la verità. Non mi sembra di vedere fra i miei colleghi molte facce preoccupate». Sergio Rizzo 09 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO. Epifani: immigrati, la Bossi-Fini deve essere congelata per 2 anni Inserito da: Admin - Novembre 02, 2008, 11:33:58 am Nessuno si chiede cosa succede ai lavoratori stranieri quando perdono il lavoro
Epifani: immigrati, la Bossi-Fini deve essere «congelata» per 2 anni Il leader della Cgil: restituire il 70% dell'extragettito Irpef con le tredicesime ROMA - Prima il No alla Confindustria. Poi il No al contratto del pubblico impiego. Quindi l'abbraccio con il leader della Fiom Gianni Rinaldini che prepara lo sciopero delle tute blu. Ma la campagna d'autunno di Guglielmo Epifani riserva altre sorprese. Come la clamorosa richiesta al governo di sospendere per due anni la legge Bossi-Fini sull'immigrazione. E la proposta di distribuire sei miliardi con le tredicesime. Operazioni anche queste funzionali a «scalare il Partito democratico », progetto che gli attribuisce il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, l'uomo che finora ha invece detto sempre sì? «Scalare il Pd? Fandonie. L'unica tessera che ho in tasca è quella della Cgil. Cerco di fare il mio, senza interferire. Sono sempre stato fra quelli che consigliano prudenza. Le scelte del sindacato sono certamente politiche, ma non siamo né vogliamo diventare un partito», replica il segretario della Cgil. «L'atteggiamento di Bonanni», aggiunge, «è quello di chi cerca di cambiare discorso». Perché mai dovrebbe farlo? «La stanno buttando in politica invece di mettersi a ragionare seriamente sulla crisi. Noi gli chiediamo di fare una piattaforma comune per aprire con il governo un tavolo sulla situazione pesante nella quale sta precipitando l'economia reale, e loro in realtà sfuggono». Non sarà perché finora la Cgil ha detto soprattutto no? «La verità è che non abbiamo mai avuto l'opportunità di discutere. Da quando è scoppiata la bufera finanziaria il governo ha incontrato tutti ma non ha mai voluto parlare con il sindacato». Veramente pare che Giulio Tremonti sia andato a cena con Bonanni e Luigi Angeletti. «Con le cene separate a lume di candela non si risolve nulla. Qui bisogna aprire un tavolo trasparente con il governo e presentare proposte precise. Io finora non ho sentito alcuna proposta da Cisl e Uil». Se è per questo nemmeno la Cgil ne ha tirate fuori. «Lo faremo il 5 novembre e chiederemo anche a Cisl e Uil di discuterle e condividerle. Se la crisi è eccezionale, servono misure eccezionali». Del tipo? «Nessuno si chiede che cosa succede ai lavoratori stranieri nel momento in cui perdono il lavoro. Sono quattro milioni, sono stati assunti per fare lavori che nessuno avrebbe fatto, e producono il 10% del reddito nazionale». Dovrebbero essere rispediti ai Paesi d'origine? «Proprio così. In base alle norme attuali perderebbero insieme al lavoro anche il titolo per restare in Italia. Siccome sono persone che hanno lavorato, e lavorato bene, non avrebbe alcun senso mandarle via per poi richiamarle quando l'economia dovesse riprendere. Né per loro né per il nostro Paese». Allora? «Allora la Cgil proporrà di sospendere l'efficacia della legge Bossi-Fini per due anni, allo scopo di consentire a queste persone di trovare una nuova occupazione». Quanti si troverebbero in questa condizione? «Sicuramente decine di migliaia». Nessuno di loro avrebbe altre forme di tutela? «Anche se le avessero non servirebbero a nulla. L'indennità di disoccupazione agricola, per esempio, non sarebbe sufficiente a garantire il mantenimento del permesso di soggiorno, per il quale è necessario dimostrare ogni anno di avere un certo reddito. Aggiungo che sono state innalzate le soglie di reddito per il ricongiungimento familiare, il che complica ancora di più le cose. L'unica tutela, per loro, sarebbe la sospensione della Bossi- Fini per un certo periodo». Perché due anni? «Se non due anni, quindici mesi o il tempo che si riterrà necessario. Come per le altre misure che proponiamo, tutte transitorie. Occorre trovare più risorse per la cassa integrazione per le piccole e medie imprese. Ci sono dei fondi, ma non bastano. Quindi bisogna individuare qualche ammortizzatore sociale per i precari». Anche loro perdono il lavoro? «Abbiamo calcolato che nel settore privato ne sono già saltati duecentomila. Senza uno straccio di sostegno al reddito. C'è poi la questione della cassa integrazione: se dura troppo si pone un problema di reddito anche per i cassintegrati». Dove prendiamo le risorse? «Perché non usare i denari che si spendono oggi per la detassazione degli straordinari? Se la crisi ha queste proporzioni, che senso ha detassare il lavoro straordinario e contemporaneamente, magari nella stessa azienda, mettere la gente in cassa integrazione e licenziare i precari?». Sicuro che i soldi si trovino? «Nel primo semestre di quest'anno il gettito dell'Irpef è aumentato di 8 miliardi e mezzo. Siccome il 70% di questa imposta è pagato dai lavoratori dipendenti e dai pensionati, significa che a parità di salario pagano più tasse, come avevamo già denunciato. Allora noi proponiamo di restituire a lavoratori e pensionati tutto questo 70% a dicembre, ridistribuendolo sulle tredicesime». Un bel regalo di Natale. Si rende conto che sono quasi sei miliardi? «Con questa operazione si ottiene un doppio risultato: aiutare le famiglie nel periodo più difficile e dare una iniezione di fiducia». Venerdì scorso lei ha benedetto lo sciopero generale dei metalmeccanici della Fiom. Potrà diventare lo sciopero generale di tutta la Cgil? «Le iniziative che prenderà la Cgil, anche un eventuale sciopero, avranno come obiettivo le mancate risposte alla crisi economica e sociale». Ma quello delle risposte alla crisi non sembra un tema molto popolare neppure a sinistra. Le risultano proposte del Partito democratico? «Finora per tutti il tema è stato quello dell'emergenza. Ci sono frammenti di proposte. Il Pd ha chiesto di detassare le tredicesime. Ma certamente manca un disegno organico». Che l'opposizione sia in difficoltà non è un fatto nuovo. «Il risultato elettorale è stato molto pesante e non è facile riprendersi dopo una sconfitta simile, anche se la manifestazione del 25 ottobre è stata un successo. Ma bisogna anche considerare che c'è una difficoltà oggettiva a mandare avanti le proposte politiche». E sarebbe? «Come per il sindacato non ci sono tavoli di confronto, così il Parlamento non è più terreno di discussione. Alla maggioranza non interessa. Il governo va avanti a colpi di decreti legge». Non c'entra nulla la presunta debolezza della leadership del Pd? «Credo che Veltroni stia facendo bene, in condizioni difficili, con un partito complesso che deve ancora radicarsi, e dove esistono tante culture che debbono omogeneizzarsi. Ma le ricordo che sono il segretario della Cgil...». Sergio Rizzo 02 novembre 2008 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO I costi della politica: più 100 milioni Inserito da: Admin - Novembre 12, 2008, 06:01:10 pm Le uscite nel 2008 sono salite di 13 milioni.
Colpa dei nuovi vitalizi I costi della politica: più 100 milioni I Palazzi del potere hanno aumentato le spese Dalle agende alle liquidazioni, sprechi e privilegi Nelle bellissime agende da tavolo e agendine da tasca del Senato, appositamente disegnate per il 2009 dalla fashion house Nazareno Gabrielli, tra i 365 giorni elegantemente annotati ne manca uno. Il giorno con il promemoria: «Tagli ai costi della politica». A partire, appunto, dal costo delle agendine: 260.000 euro. Mezzo miliardo di lire. Per dei taccuini personalizzati. Più di quanto costerebbero di stipendio lordo annuo dodici poliziotti da assumere e mandare nelle aree a rischio. Il doppio, il triplo o addirittura il quadruplo di quanto riesce a stanziare mediamente per ogni ricerca sulla leucemia infantile la Città della Speranza di Padova, la struttura che opera grazie a offerte private senza il becco di un quattrino pubblico e ospita la banca dati italiana dei bambini malati di tumore. Sentiamo già la lagna: uffa, questi attacchi alle istituzioni democratiche! Imbarazza il paragone coi finanziamenti alle fondazioni senza fini di lucro? Facciamone un altro. Stando a uno studio del professor Antonio Merlo dell'Università della Pennsylvania, che ha monitorato gli stipendi dei politici americani, quelle agendine costano da sole esattamente 28.000 euro (abbondanti) più dello stipendio annuale dei governatori del Colorado, del Tennessee, dell'Arkansas e del Maine messi insieme. È vero che quei quattro sono tra i meno pagati dei pari grado, ma per guidare la California che da sola ha il settimo Pil mondia-le, lo stesso Arnold Schwarzenegger prende (e restituisce: «Sono già ricco») 162.598 euro lordi e cioè meno di un consigliere regionale abruzzese. Sono tutti i governatori statunitensi a ricevere relativamente poco: 88.523 euro in media l'anno. Lordi. Meno della metà, stando ai dati ufficiali pubblicati dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, degli emolumenti lordi d'un consigliere lombardo. Oppure, se volete, un quarto di quanto guadagna al mese il presidente della Provincia autonoma di Bolzano Luis Durnwalder, che porta a casa 320.496 euro lordi l'anno. Vale a dire quasi 36.000 euro più di quanto guadagna il presidente degli Stati Uniti.(...) Se è vero che non saranno le agendine o i menu da dieci euro a portare alla rovina lo Stato italiano, è altrettanto vero però che non saranno le sforbiciatine date dopo il deflagare delle polemiche a raddrizzare i bilanci d'un sistema mostruosamente costoso. Né tanto meno a salvare la cattiva coscienza del mondo politico. Certo, l'abolizione dell'insopportabile andazzo di un tempo, quando bastava denunciare la perdita o il furto di un oggetto per avere il risarcimento («Ho perso una giacca di Caraceni». «Prego onorevole, ne compri un'altra e ci porti lo scontrino»), è un'aggiustatina meritoria. Come obbligati erano la soppressione a Palazzo Madama del privilegio del barbiere gratuito e l'avvio di un nuovo tariffario (quasi) di mercato: taglio 15 euro, taglio con shampoo 18, barba 8, frizione 6... E così la cancellazione del finanziamento di 200.000 euro per i corsi di inglese che non frequentava nessuno. E tante altre cosette ancora. Un taglietto qua, una limatina là... (...) Sul resto, però, buonanotte. L'andazzo degli ultimi venti anni è stato tale che, per forza d'inerzia, i costi hanno continuato a salire. Al punto che i tre questori Romano Comincioli (Pdl), Benedetto Adragna (Pd) e Paolo Franco (Lega Nord), nell'estate 2008, hanno ammesso una resa senza condizioni scrivendo amaramente nel bilancio: «Non è stato possibile conseguire l'obiettivo di inversione dell'andamento della spesa in proposito fissato dal documento sulle linee guida». Risultato: le spese correnti di Palazzo Madama, nel 2008, sono salite di quasi 13 milioni rispetto al 2007 per sfondare il tetto di 570 milioni e mezzo di euro. Un'enormità: un milione e 772.000 euro a senatore. Con un aumento del 2,20 per cento. Nettamente al di sopra dell'inflazione programmata dell' 1,7 per cento. Colpa di certe spese non facilmente comprensibili per un cittadino comune: 19.080 euro in sei mesi per noleggiare piante ornamentali, 8.200 euro per «calze e collant di servizio» (in soli tre mesi), 56.000 per «camicie di servizio » (sei mesi), 16.200 euro per «fornitura vestiario di servizio per motociclisti ». Ma soprattutto dei nuovi vitalizi ai 57 membri non rieletti e dei 7.251.000 euro scuciti per pagare gli «assegni di solidarietà» ai senatori rimasti senza seggio. Come Clemente Mastella. Il cui «assegno di reinserimento nella vita sociale» (manco fosse un carcerato dimesso dalle patrie galere) scandalizzò anche Famiglia Cristiana che gli chiese di rinunciare a quei 307.328 euro e di darli in beneficenza. Sì, ciao: «La somma spetta per legge a tutti gli ex parlamentari». Fine. Grazie alle vecchie regole, il «reinserimento nella vita sociale» di Armando Cossutta è costato 345.600 euro, quello di Alfredo Biondi 278.516, quello di Francesco D'Onofrio 240.100. Un pedaggio pagato, ovviamente, anche dalla Camera. Dove Angelo Sanza, per fare un esempio, ha trovato motivo di consolazione per l'addio a Montecitorio in un accredito bancario di 337.068 euro. Più una pensione mensile di 9.947 euro per dieci legislature. Pari a mezzo secolo di attività parlamentare. Teorici, si capisce: grazie alle continue elezioni anticipate, in realtà, di anni «onorevoli » ne aveva fatti quattordici di meno. Un dono ricevuto anche da larga parte dei neo-pensionati che erano entrati in Parlamento prima della riforma del 1997 e come abbiamo visto si erano tirati dietro il privilegio di versare con modica spesa i contributi pensionistici anche degli anni saltati per l'interruzione della legislatura. Come il verde Alfonso Pecoraro Scanio, andato a riposo a 49 anni appena compiuti con gli 8.836 euro al mese che spettano a chi ha fatto 5 legislature pur essendo stato eletto solo nel 1992: 16 anni invece di 25. Oppure il democratico Rino Piscitello: 7.958 euro per quattro legislature nonostante non sia rimasto alla Camera 20 anni ma solo 14. Esattamente come il forzista Antonio Martusciello. Che però, con i suoi 46 anni, non solo ha messo a segno il record dei baby pensionati di questa tornata ma ha trovato subito una «paghetta» supplementare come presidente del consiglio di amministrazione della Mistral Air: la compagnia aerea delle Poste italiane. C'è poi da stupirsi se, in un contesto così, le spese dei Palazzi hanno continuato a salire? Quirinale, Senato, Camera, Corte costituzionale, Cnel e Csm costavano tutti insieme nel 2001 un miliardo e 314 milioni di euro saliti in cinque anni a un miliardo e 774 milioni. Una somma mostruosa. Ma addirittura inferiore alla realtà, spiegò al primo rendiconto Tommaso Padoa-Schioppa: occorreva includere correttamente nel conto almeno altri duecento milioni di euro fino ad allora messi in carico ad altre amministrazioni dello Stato. Ed ecco che nel 2007 tutti gli organi istituzionali insieme avrebbero pesato sulle pubbliche casse per un miliardo e 945 milioni. Da aumentare nel 2008 fino a un miliardo e 998 milioni. A quel punto, ricorderete, nell'ottobre 2007 scoppiò un pandemonio: ma come, dopo tante promesse di tagli, il costo saliva di altri 53 milioni di euro, pari circa al bilancio annuale della monarchia britannica? Immediata retromarcia. Prima un ritocco al ribasso. Poi un altro. Fino a scendere a un miliardo e 955 milioni. «Solo» dieci milioncini in più rispetto al 2007. Col Quirinale che comunicava gongolante di aver tagliato, partendo dai corazzieri (lo specchietto comunemente usato per far luccicare gli occhi delle anime semplici), il 3 per mille. Certo, era pochino rispetto ai tagli del 61 per cento decisi dalla regina Elisabetta, però era già una (piccola) svolta... Bene: non è andata così. Nell'assestamento di bilancio per il 2008 i numeri hanno continuato a salire e salire fino ad arrivare il 13 agosto a 2 miliardi e 55 milioni di euro. Cento milioni secchi più di quanto era stato annunciato in un tripudio di bandiere che sventolavano per festeggiare i «tagli». Risultato finale: l'aumento che avrebbe dovuto essere virtuosamente contenuto nello 0,5 per cento si è rivelato di almeno il 5,6: undici volte più alto. (Brano tratto da «La Casta», nuova edizione aggiornata) Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella 12 novembre 2008 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Il leader della Cisl «Un sindacato diviso non serve a nessuno» Inserito da: Admin - Novembre 30, 2008, 11:10:14 pm Il leader della Cisl «Un sindacato diviso non serve a nessuno»
Bonanni: pronto a un passo verso Epifani «Pd troppo condizionato: Veltroni la pensa come noi ma la Cgil lo mette in difficoltà» ROMA — «Cugini», li ha chiamati Raffaele Bonanni. E mai come in questo momento, con i rapporti fra la Cisl (che firma tutti gli accordi) e la Cgil (che non ne firma quasi nessuno) sono prossimi al minimo storico, la rima fra «parenti» e «serpenti » sembra azzeccata. «Cugini», ha ironizzato qualche giorno fa il segretario della Cisl, che «ogni tanto salutano senza dirlo e se ne vanno...». Dica la verità, Bonanni: era una battuta. Al pranzo di palazzo Grazioli con Berlusconi c'è andato lei, mica Guglielmo Epifani. «Ho detto pure che non si corre da soli». Forse vuole ricucire lo strappo? «Senz'altro. Un sindacato diviso non serve a nessuno, né ai lavoratori né al Paese. Se ci sono state sempre ragioni per stare insieme, oggi ce ne sono almeno dieci volte di più. Guardi come si stanno comportando i politici. Da tre mesi litigano per la presidenza della commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai e non concordano niente sulle strategie economiche per il futuro mentre sta per arrivare un annus horribilis». Anche le liti nel sindacato non sono male... «Adesso sento i miei amici della Cgil che dicono che bisogna fare un patto fra produttori. All'anima!». Ma non erano cugini? «I nostri cugini neanche vogliono condividere la definizione di un nuovo impianto contrattuale che inseguiamo da dieci anni. Altro che patto fra produttori. Il sindacato dev'essere unito, però un Paese pluralista nella politica e nel sociale è un Paese ricco. Ma a condizione che ogni volta si arrivi a una sintesi». Da una parte e dall'altra, no? «Certamente». Sul modello contrattuale Cisl e Confindustria hanno posizioni molto distanti da quella della Cgil. Forse se nessuno fa qualche passo avanti o indietro è difficile arrivare alla sintesi. «Si può fare tutto, purché in sintonia con il documento unitario della scorsa primavera firmato dai vertici di Cgil, Cisl e Uil. Suggerisco a tutti, ma proprio tutti, di rileggerlo e confrontarlo in controluce con le linee guida sottoscritte dalla Confindustria. L'80% delle questioni è lì. Nessuno può fare finta di niente. Inutile che ora mi si accusi che vado a fare gli incontri riservati, ammesso e non concesso che sia un errore». Scusi ma se lo doveva aspettare. «Il fatto è che la Cgil ha capovolto la sua posizione. Otto mesi fa erano in rotta di collisione con la Fiom. Ora la posizione è stata ribaltata. Allora Giorgio Cremaschi lo stavano buttando fuori, adesso Cremaschi inneggia alla posizione della Cgil». La Cgil ha confermato che farà lo sciopero. Me lei dice che si deve ricucire lo strappo. «Io sono pronto. La gente ci vuole uniti, è consapevole che se un sindacato confederale che rappresenta 12 milioni di persone prende una posizione unitaria può condizionare fortissimamente le opinioni del governo, dell'opposizione, della finanza. Oggi gli italiani sono impauriti e smarriti. Non l'hanno capito i governanti e i politici, che discutono come se fossimo negli Emirati arabi». Che c'entrano gli Emirati arabi? «I nostri politici ragionano come se l'Italia avesse risorse illimitate e non il debito pubblico che ha. Soprattutto, ci sono pezzi della politica per i quali o si fa come vogliono loro, o si rompe. È un vizio culturale presente anche nel sociale e nel sindacato ». Come se lo spiega? «Non hanno avuto la maturazione che li porta a una cultura riformatrice. Cito ogni volta Federico Caffè, secondo il quale il vero riformatore agisce giorno per giorno, al contrario di chi vuole risolvere tutti i problemi insieme ma poi li rimanda sempre a un momento che non verrà mai». Nomi e cognomi, per favore. «Basta vedere anche nell'opposizione. Governavano e avevano una opinione. Ora fanno gli oppositori e hanno cambiato completamente opinione. Lo stesso vale in relazione alle parti sociali». Sta dicendo che nel Partito democratico c'è pure un problema rispetto al sindacato? Non si fanno mancare proprio nulla... «Credo che il Pd sia uno sforzo importante in direzione riformista. Anche se risente ancora di questo condizionamento. La Cisl guarda con molta attenzione al rafforzamento di un partito democratico di opposizione, perché finché questo non si verifica non c'è simmetria nella politica italiana. Ci sono stati passi in avanti importanti ma bisogna ancora continuare. Posso dire che apprezzo la posizione di Walter Veltroni sulle politiche contrattuali, vedo che hanno opinioni molto simili a quelle che unitariamente abbiamo espresso questa primavera, e che il cambiamento della Cgil li ha messi in difficoltà». Concretamente, lei che cosa è disposto a fare? «Lavorerò per favorire il ritorno a una strategia unitaria del sindacato, anche sul nuovo modello contrattuale. Naturalmente a condizione che si tenga conto anche delle posizioni della Confindustria, perché gli accordi non si fanno tra di noi. Farò ancora dei passi in questi giorni». Quanto grandi? «Farò un passo intero. Spero che loro ne facciano almeno metà». Sergio Rizzo 30 novembre 2008 da corriere.it Titolo: Sergio Rizzo. Prodi: scelta Ue giusta «Mi impegnai a provvedere» Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2008, 12:06:15 pm IL CASO SKY
Prodi: scelta Ue giusta «Mi impegnai a provvedere» Ma sull'Iva più alta per le pay tv è lite a sinistra dal '95 ROMA — Ricorda Romano Prodi: «Le sollecitazioni dell'Unione europea perché fosse risolta l'asimmetria delle aliquote Iva per le televisioni in Italia ci furono. Una posizione assolutamente condivisibile, tanto che ci impegnammo a provvedere. Ma poi non entrammo mai nel merito». Erano giorni particolari. Il 29 gennaio di quest'anno, quando la lettera di impegno di palazzo Chigi partì alla volta di Bruxelles, il governo dell'Unione aveva esalato l'ultimo respiro da cinque giorni. Il premier Prodi era in carica solo per l'ordinaria amministrazione. E certamente la sua ultima preoccupazione era l'aliquota dell'Iva per le pay tv. Idem per i due che nel governo seguivano materialmente il dossier: il ministro delle Politiche europee, Emma Bonino, e il viceministro dell'Economia con delega per le Finanze, Vincenzo Visco. Anche perché soltanto un pazzo avrebbe potuto pensare di aumentare una sia pur piccola tassa alla vigilia delle elezioni, con Berlusconi pronto ad approfittare (come è accaduto) di ogni minimo errore dell'avversario. Soprattutto trattandosi di una materia che ha spesso fatto torcere le budella alla sinistra. Come accadde il 24 ottobre del 1995, dopo che i deputati di Rifondazione comunista avevano votato insieme al centrodestra per mitigare al 10% il rincaro dell'Iva sulle pay tv che i progressisti avrebbero voluto portare al 19%. Sentite che cosa disse Visco nell'occasione: «Il voto di Rifondazione conferma che il legame tra quel partito e il Polo è ben più strutturale di quanto si vorrebbe far credere». Parole pesanti, ma mai quanto quelle del responsabile comunicazione dell'allora Pds, Vincenzo Vita: «È squallido che Fausto Bertinotti abbia permesso un simile regalo a questo nuovo trust della comunicazione, figlio della Fininvest». Al governo c'era Lamberto Dini e dietro la pay tv tutti scorgevano nitida la figura del Cavaliere. Nonostante ciò Bertinotti fece lo sgambetto al Pds. Franco Giordano, che in seguito gli sarebbe alla guida del partito, rammenta: «Volevamo creare le condizioni per uscire dal duopolio. Così ci sembrò equa una misura intermedia fra il 19% proposta dagli stessi che ora sono nel Pd e adesso, contrariamente ad allora, non vogliono aumentare l'Iva, e il 4% che era in vigore». La misura del 4% era stata decisa nel 1991 dal governo di Giulio Andreotti, con il socialista Rino Formica alle Finanze «Si doveva lanciare un sistema televisivo nuovo», concede Visco. Non senza aggiungere che «quello fu un favore chiaramente fatto a Berlusconi». Una versione che però, diciassette anni più tardi, lo stesso Formica contesta: «Non feci altro che accogliere un parere unanime della commissione dei Trenta, allora presieduta da Mario Usellini, dove si sosteneva la necessità di applicare la stessa aliquota Iva agevolata in vigore per la Rai, che era appunto al 4%. Altro che regalo a Berlusconi. Per la precisione, ricordo che di quella commissione faceva parte anche Visco». Dopo la successiva decisione del governo Dini, per tredici anni l'Iva sulle pay tv non si schiodò dal 10%. «La verità», racconta oggi lo stesso Visco, «è che ogni volta che si deve fare una manovra economica viene compilato un elenco delle cose sulle quali si potrebbe agire. E storicamente c'è l'aumento dell'Iva sulle televisioni a pagamento. Gli uffici mi hanno sottoposto più volte questa eventualità, ma ho sempre rifiutato di farlo, considerando inopportuno adottare una norma che colpisse nella sostanza una sola azienda». Nella fattispecie, Sky Italia. Cioè la rete del magnate australiano Rupert Murdoch, che una volta poteva diventare alleato di Berlusconi e che ora è il suo più agguerrito concorrente, titolare, secondo il premier, di un «rapporto privilegiato» con la sinistra. «Scherziamo? La pay tv è rimasta l'unica alternativa reale al duopolio delle tv in questo Paese. La Sette — dice Visco — è stata bloccata e mi risulta che ci sarebbero ulteriori pressioni sulla proprietà». Da chi, scusi? «Da chi? Ma da mio nonno...». Sergio Rizzo 03 dicembre 2008 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO. Cinquemila manager licenziati Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2008, 12:52:27 am La situazione L'area milanese è quella più colpita: oltre mille risoluzioni di rapporto
Cinquemila manager licenziati In due anni a casa il 10% dei dirigenti È il dato record del 2008 in Italia. «C'è chi accetta incarichi inferiori per salvare il posto di lavoro» Davvero non ci può essere alcun dubbio: nel suo caso il licenziamento non ha proprio nulla a che vedere con la crisi. Con ogni probabilità Valerio Zappalà ha pagato il fatto di essere stato assunto dall'ex viceministro con delega alle Finanze Vincenzo Visco. Ma anche l'amministratore delegato della Sogei, già partner della Ernst Young, che il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ha dimissionato per rimettere su quella poltrona il suo predecessore Aldo Ricci (liquidato meno di due anni prima, secondo la Corte dei conti, con una faraonica buonuscita di 1,3 milioni) ha finito involontariamente per rendere il conto dei manager messi alla porta quest'anno ancora più salato di quanto già non sia. Il direttore generale di Federmanager, l'organizzazione che rappresenta i dirigenti d'azienda, Giorgio Ambrogioni, lo definisce «un fenomeno strisciante, nel quale la parola licenziamento è stata sostituita con la formula della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro ». Ma se non è zuppa è pan bagnato. E la formula serve soltanto a indorare un poco la pillola. Secondo una stima dell'associazione dei dirigenti, quest'anno sono stati licenziati dalle aziende italiane almeno 5 mila manager. È un calcolo che tiene conto dei 2.991 casi che sono stati gestiti direttamente dalle strutture più rappresentative che fanno capo alla Federmanager, ai quali si dovrebbero però aggiungere ancora altre 2 mila «risoluzioni del rapporto di lavoro» avvenute in aree più periferiche e non trattate in sede sindacale. Una cifra decisamente enorme, soprattutto se si tiene presente il suo peso relativo: i dirigenti d'azienda italiani sono in tutto circa 82 mila. Parliamo perciò di un taglio secco del 6%. Che sfiora addirittura il 10% prendendo in esame anche l'emorragia di poltrone già registrata nel 2007, quando sono stati «indotti» alla «risoluzione consensuale», cioè dimissionati dalle rispettive aziende, qualcosa come 3.000 dirigenti. Un altro chiaro segnale, se ce ne fosse ancora il bisogno, delle difficoltà crescenti del ceto medio. Con l'unica eccezione della situazione della zona industriale di Latina, dove sono stati mandati a casa a partire dallo scorso gennaio 55 dirigenti di imprese chimico-farmaceutiche, fra cui Pfizer e Abbott, le vicende più gravi si dipanano da Roma in su. È stato calcolato che soltanto nell'area del milanese i manager licenziati quest'anno abbiano raggiunto la cifra record di 1.050, prevalentemente nel settore dell'informatica e delle telecomunicazioni. La Federmanager non manca di segnalare situazioni critiche, fra l'altro, in Eds, Pirelli, Siemens e Fujitsu engineering. A Torino, dove la crisi ha cominciato a produrre effetti devastanti su tutte le imprese (il caso della Motorola ha fatto in queste settimane il giro d'Italia) il numero dei dirigenti che hanno perso il posto di lavoro è di 565, in larghissima parte, com'è comprensibile, nei settori collegati all'auto e all'informatica. Nell'area intorno a Roma i licenziamenti censiti dall'associazione dei manager sono stati addirittura 796. E anche nella capitale i settori maggiormente colpiti sono quelli dell'elettronica e delle telecomunicazioni. Poi 227 licenziati a Bologna, dove il comparto che ha sofferto di più è quello delle imprese metalmeccaniche. Ancora 103 a Genova, usciti da aziende come la Elsag, 77 a Firenze, estromessi da società tessili e meccaniche, 69 a Parma (coinvolta anche la Barilla), 49 a Verona (con la questione Glaxo in cima alla lista). Non vanno poi dimenticate le vicende che riguardano Alitalia, Telecom Italia, H3g. Le società alle prese con il problema degli esuberi dirigenziali sono in continua crescita. Con risvolti in qualche caso clamorosi. E destinati anche a dettare la linea. Racconta Mario Cardoni, vicedirettore dell'associazione dei dirigenti, che «a Telecom Italia, ma in qualche caso anche alle Poste, sia stata proposta ad alcuni manager la retrocessione invece delle dimissioni. Chi accetta, resta in azienda con la qualifica di quadro ». E, naturalmente, una consistente riduzione di stipendio. Spiega Ambrogioni: «Si tratta di figure più professionali che veri e propri manager. Tecnici magari assunti come quadri ai quali era stato concesso un avanzamento di carriera per non farli andare via dall'azienda. E ai quali ora, che la crisi impone pesanti ristrutturazioni, l'azienda chiede di fare il passo del gambero ». Episodi. Che tuttavia potrebbero sconvolgere un principio finora ritenuto intoccabile nei rapporti di lavoro dipendente: quello secondo il quale una volta raggiunto un determinato grado, nello stesso posto di lavoro non si può tornare mai indietro. Anche se dovessero cambiare le mansioni. Per alcuni che hanno accettato di essere degradati, tuttavia, rispetto a inesistenti prospettive di una rapida ricollocazione alle stesse condizioni, la retrocessione ha rappresentato comunque la salvezza. Dice Ambrogioni: «Siamo gli unici lavoratori dipendenti che pagano la mobilità ma poi non ne possono usufruire. Vista la situazione drammatica, ho chiesto al ministro del Welfare Maurizio Sacconi di introdurre nel decreto varato dal governo per fronteggiare la crisi una norma in grado di assicurare l'indennità di mobilità ai manager licenziati che abbiano superato i cinquant'anni». Ma chi l'avrebbe mai detto che un giorno anche i dirigenti d'azienda avrebbero avuto bisogno dei tradizionali ammortizzatori sociali, oltre a quelli che la categoria si autogarantisce? I dirigenti ultracinquantenni che perdono il lavoro hanno diritto a 1.500 euro lordi al mese per un anno. Quelli più giovani si devono invece accontentare di otto mesi. I soldi arrivano da un fondo finanziato dal contratto collettivo. «Quella che si sta verificando — afferma il direttore di Federmanager — non è la prima grave crisi per i dirigenti d'azienda. Va ricordato, per esempio, che all'inizio degli anni Novanta si persero 20 mila posti sui circa 100 mila di allora. Ma ora quello che colpisce è la vastità del fenomeno. Si accendono fuochi da tutte le parti. Prenda l'Alitalia: soltanto in quel-l'azienda stiamo gestendo 90 licenziamenti, visto che dei 150 dirigenti della compagnia di bandiera ne resteranno una sessantina. Poi c'è il polo chimico-farmaceutico, con 700 dirigenti a rischio fra aziende piccole e grandi e l'indotto. Per non parlare della durata dei rapporti di lavoro. Ormai i casi di manager che durano meno di un anno e vanno a casa soltanto con l'indennità di preavviso sono diffusissimi ». Ma c'è pure chi il posto non lo rischia affatto. Anzi. Qualcuno si trova perfino nella condizione di diventare manager pubblico senza aver fatto nemmeno un concorso. Direttamente dalla politica e grazie a una «retrocessione» in questo caso a dir poco curiosa. A maggio di quest'anno, mentre la situazione economica si stava facendo già difficile e anche le imprese molisane cominciavano a mandare a casa qualche manager, i consiglieri regionali del Molise approvavano una piccola modifica a una legge del 2007 che gli spalancava le porte a un brillante futuro dirigenziale. Stabilendo che gli stessi ex consiglieri o ex assessori, purché laureati e in carica per almeno cinque anni, avrebbero potuto ricoprire i più alti gradi dirigenziali dell'amministrazione regionale: direttore generale, oppure segretario generale del Consiglio, o ancora segretario generale della Giunta regionale. È o non è una beffa? Sergio Rizzo 18 dicembre 2008 da corriere.it Titolo: Bugiardoni alla Confindustria: «Non diffondere stime negative su crisi» Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2008, 12:54:34 am Berlusconi alla Confindustria:
«Non diffondere stime negative su crisi» ROMA (18 dicembre) - Il premier Silvio Berlusconi sparge ottimismo a piene mani. Agli ambasciatori d'Italia riuniti in conferenza alla Farnesina ripete il leit motiv di questi tempi di crisi: guai a dare corpo alle «self full feeling prophecy», le profezie negative che si autoavverano. Guai quindi a dire che le cose vanno male innescando un circolo vizioso. Berlusconi ce l'ha soprattutto con il Centro studi di Confindustria che vede nero per l'economia proprio ieri ha previsto due anni di recessione e 600mila posti di lavoro in meno: «Io non renderei note queste cose», afferma il giudizio del premier. «Il sistema bancario - ripete poi come un mantra il presidente del Consiglio, ammettendo però l'aprirsi di qualche crepa - è solido ed ha avuto le garanzie dello Stato. Il sistema delle imprese non dovrebbe soffrire di carenze di liquidità». «Proprio in questi giorni - spiega il Cavaliere - ci giungono notizie negative dalle Prefetture sulla sofferenza delle imprese» che non possono attingere dagli istituti di credito. Il governo ha infatti invitato le aziende a rivolgersi proprio ai prefetti per denunciare eventuali tagli di liquidità da parte delle banche. Ricapitolando davanti agli ambasciatori le tante cose fatte dall'esecutivo in politica interna ed internazionale, il premier cita il provvedimento appena adottato a Palazzo Chigi dal Cipe. «Abbiamo varato un primo stanziamento di 16,6 miliardi per le grandi infrastrutture», afferma. E poi rivela di aver raccolto il consenso di Consob ed Fmi su una sua «suggestione»: la proposta di limitare verso l'alto e verso il basso l'andamento delle contrattazioni borsistiche, per ancorare di più il valore della azioni a quello della reale produttività delle imprese. La conferenza alla Farnesina è infine scena di un siparietto con il sottosegretario Gianni Letta, di solito silente nelle pubbliche occasioni. «Il taglio dei tassi Usa da parte della Fed ha generato un paradosso -osserva il premier -. Con i tassi a zero il capitale non rende niente. Siamo al comunismo!». E Gianni Letta: «Il capitale devi investirlo perché renda...». Il premier ribatte: «Si. Ma non prestandolo, non depositandolo nelle banche. Il capitale soffre di inflazione». Berlusconi infine rivendica la scelta della social card per sostenere le famiglei più povere. «Ne abbiamo date più di un milione e 300 mila - afferma - ed è stato un grande successo. Sono anonime e quindi non toccano la dignità di nessuno. Infatti le poste sono state invase da un gran numero di persone che ne hanno fatto richiesta». da ilmessaggero.it Titolo: SERGIO RIZZO ... politici bocciati: trovano posto nelle società di Stato Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2008, 05:28:53 pm Centrodestra e centrosinistra applicano da anni lo stesso metodo dopo ogni elezione
Le poltrone libere per i politici bocciati: trovano posto nelle società di Stato Dai Beni culturali alla compagnia aerea delle Poste italiane, da Finmeccanica a Eni ed Enel Aspiravano a un seggio di palazzo Madama. Si dovranno accontentare invece del regalo di Natale: un poltrona in una società di Stato. Il 18 dicembre Mauro Mainardi, imprenditore con un debole per il Popolo della libertà, e Paolo Dalla Vecchia, avvocato, esponente di Alleanza nazionale, che già aveva tentato invano nel 1995 di conquistare la Provincia di Venezia, sono entrati nel consiglio di amministrazione di Arcus, società dei Beni culturali e delle infrastrutture. Entrambi accomunati dal medesimo destino. Candidati al Senato in Veneto, rispettivamente al decimo e al tredicesimo posto, per un soffio non ce l'hanno fatta. Ma ora potranno mettere la loro passione, congiunta, al servizio dell'arte e della cultura. Esattamente come Giacomo de Ghislanzoni, già parlamentare di Forza Italia, ex presidente della Commissione agricoltura della Camera: anche lui nominato nel consiglio di Arcus, su designazione del ministero dell'Economia. Se queste saranno state le scelte giuste lo dirà il tempo. Ma quel che è certo è che grazie ai politici la vita di Arcus è stata finora abbastanza tormentata. Prima le dimissioni in massa del consiglio, al tempo del ministro dei Beni culturali Rocco Buttiglione. Poi il commissariamento, affidato al consigliere giuridico dell'ex ministro della Margherita Francesco Rutelli. Quindi un nuovo commissario (Arnaldo Sciarelli), che si dichiarò subito «un vecchio socialista iscritto ai Ds e tra i più grandi sostenitori del Partito democratico». Ancora un terzo commissario nominato da Bondi, e infine un nuovo consiglio di amministrazione: per metà composto da politici della nuova maggioranza. Poteva andare diversamente? Poteva, se il ragionevole appello che aveva lanciato l'ex presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo quando ancora governava Romano Prodi («abbiamo o no il diritto di dire basta alle cariche pubbliche che con i soldi dei contribuenti fanno da discarica dei politici trombati?») non fosse caduto anche questa volta nel vuoto. Con una differenza: che nella «discarica» non finiscono più soltanto i politici «trombati», cioè quelli rimasti senza un posto. Vero è che nel consiglio dell'Ipi, l'istituto di promozione industriale controllato dal ministero dello Sviluppo, si è trovata una poltrona per l'ex deputato di Forza Italia Giovanni Marras, insieme a Marco Claudio Lupi, consigliere leghista del Comune di Sanremo (nella roccaforte elettorale del ministro Claudio Scajola), e all'imprenditrice Luisa Todini, un tempo parlamentare europea di Forza Italia. Come è vero che Antonio Martusciello, già potentissimo luogotenente di Berlusconi in Campania, attualmente privo di seggio parlamentare è stato prontamente recapitato alla presidenza di Mistral Air. Cos'è? Una compagnia aerea fondata nel 1981 da Bud Spencer, ma ora posseduta dalle Poste italiane, che assiste fra l'altro l'Opera romana pellegrinaggi nei collegamenti con Lourdes, Santiago de Compostela, Chestochowa... E sia. Ma perché Martusciello? Domanda, si badi bene, che potrebbe essere rivolta in moltissimi altri casi. Per esempio: perché nel consiglio di amministrazione della Tirrenia, compagnia di navigazione con base a Napoli, è stato nominato Giuseppe Venturini, ex consigliere regionale della Dc, oggi esponente di Forza Italia, veronese e presidente della società che gestisce gli immobili del Comune di Verona? Interrogativo ovviamente destinato, come il precedente, a restare senza una risposta plausibile. Caso destinato probabilmente a fare scuola è poi quello di Dario Galli. Senatore della Lega Nord per tre legislature, quest'anno ha deciso di cambiare aria. Lo scorso aprile si è presentato alle elezioni provinciali varesine e ha preso più del 64% dei voti. Nominato presidente della Provincia di Varese, questo non gli ha impedito, nemmeno due mesi più tardi, di avere l'incarico di consigliere di amministrazione della Finmeccanica, società controllata dal Tesoro e, dettaglio non trascurabile, quotata in Borsa. Altro che «trombato». Nessuno griderà allo scandalo: fra i consiglieri della Finmeccanica resiste anche un politico di lunghissimo corso come l'ex senatore democristiano Franco Bonferroni, all'epoca del Caf luogotenente di Arnaldo Forlani in Emilia. Ma, a differenza di Bonferroni, si dà il caso che il pur competente Galli (ha lavorato all'Aermacchi di Varese) sia un politico che ricopre un incarico istituzionale. Nemmeno di secondo piano. Il bello è che non è neanche l'unico. Da segnalare, all'Eni, la nomina di Paolo Marchioni, capogruppo della Lega nel consiglio provinciale di Verbano Cusio Ossola. Prima di lui, a rappresentare la Lega nel consiglio della compagnia petrolifera pubblica, c'era addirittura un senatore in carica (Dario Fruscio). All'Enel il Carroccio si è ritenuto soddisfatto, si fa per dire, con un posto assegnato a un consigliere comunale di Busto Arsizio: Gianfranco Tosi. Alle Poste, invece, è stato confermato il solito ex parlamentare della Lega Mauro Michielon, accanto all'ex sindaco forzista di Monza, Roberto Colombo. Non che il centrosinistra non abbia avuto il suo. Sulla presidenza delle Poste è planato Giovanni Ialongo, già segretario dei postali della Cisl. Sindacato che ha così coronato il sogno di entrare nella stanza dei bottoni. Scavalcando d'un balzo la barricata. Ialongo non è un politico di mestiere, ma la sua fede nel Partito democratico non è in discussione, come neppure il suo legame con l'ex presidente del Senato Franco Marini. Nemmeno Antonio Mastrapasqua, che ha un carnet di mezzo centinaio di incarichi, molti dei quali in società pubbliche, è un politico di professione. Ma se il governo l'ha spedito al vertice dell'Inps, ente previdenziale lottizzato per definizione, un motivo ci sarà pure. Anche se, dal punto di vista puramente estetico, fa forse più impressione la nomina al vertice dell'Inpdap, l'Istituto di previdenza dei dipendenti pubblici, di Paolo Crescimbeni: coordinatore regionale di Alleanza nazionale in Umbria, aveva inutilmente tentato la strada del Senato sia nel 2001 che nel 2006. Per due legislature ha avuto invece un seggio in Parlamento, nei banchi della Lega Nord, Marco Fabio Sartori, ora al vertice dell'Inail. Naturalmente ogni storia è diversa. Così la qualità, le competenze e le motivazioni delle persone. In qualche caso certe decisioni sono perfino inevitabili. Come sorprendersi, per citare un caso, del fatto che il nuovo ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, abbia nominato direttore dell'Agenzia per i giovani, dove Giovanna Melandri aveva collocato l'ulivista Luca Bergamo, il vicepresidente di Azione giovani (l'ex Fronte della gioventù), Paolo Di Caro? Ma si possono trovare tutte le giustificazioni: resta il fatto che la politica non ha smesso di penetrare anche nei gangli più remoti degli enti pubblici, delle società statali, delle municipalizzate. Talvolta pure quando meno te l'aspetti. La società Stretto di Messina, per esempio. Mentre il governo di Romano Prodi avrebbe voluto spazzarla via insieme al ponte, quello di Silvio Berlusconi, che il ponte vuole rilanciarlo, ha deciso di irrobustirla. Con un paio di nuovi e «pesanti» consiglieri di amministrazione. Il primo è l'ex parlamentare di Alleanza nazionale Guglielmo Rositani, settant'anni di Varapodio, in provincia di Reggio Calabria. Il secondo è nientemeno che il palermitano Antonio Pappalardo. Ex ufficiale del Cocer dei Carabinieri, è stato protagonista di un tumultuoso percorso politico che l'ha portato nel 1992 in Parlamento con il Partito socialdemocratico, quindi sottosegretario alle Finanze nel governo di Carlo Azeglio Ciampi, poi capolista al Comune di Roma contro Rutelli, in seguito nel Patto di Mario Segni, in Alleanza nazionale e di nuovo nei Carabinieri. Prima di fondare il movimento Popolari europei, fare l'occhiolino a Sergio D'Antoni e Antonio Di Pietro, candidarsi al Senato con la Lega d'Azione meridionale collegata a Giancarlo Cito, ritornare al Psdi con Franco Nicolazzi, partecipare al V-day e infine aderire al Movimento per l'autonomia di Raffaele Lombardo. Anche in questo caso, senza riuscire a essere eletto, ma guadagnando almeno l'investitura lombardiana per la società dello Stretto. Resisterà almeno sul ponte? Sergio Rizzo 29 dicembre 2008(ultima modifica: 30 dicembre 2008) da corriere.it Titolo: Ha finanziato Ca' Foscari avrà la laurea ad honorem Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2009, 05:24:23 pm Ha finanziato Ca' Foscari avrà la laurea ad honorem
Una laurea ad honorem per il mecenate Dall'ex presidente del porto, Zacchello, 800 mila euro di fondi pubblici. E l'Università lo fa dottore Un malloppo val bene una laurea. Così, colma di riconoscenza per un finanziamento di 800mila euro, l'università Ca' Foscari mette oggi all'ordine del giorno la laurea honoris causa del donatore, l'ex presidente dell'Autorità portuale di Venezia. Il quale aveva fatto il regalo coi soldi dell'ente che guidava. Una decisione che apre luminose prospettive a tutti i furbetti della pubblica amministrazione: come resistere alla tentazione di diventare «dottore ad honorem» regalando agli atenei un po' di pubblico denaro? Il protagonista della storia è Giancarlo Zacchello, 75 anni, un trevigiano che, nonostante grondi di incarichi italiani come un banano gronda di banane, risulta essere residente alla periferia di Villach, la prima cittadina austriaca dopo il confine italiano di Coccau. La stessa località in cui, stando al curriculum dato ai docenti di Ca' Foscari, ha sede la «Seaarland », una «società che fornisce servizi di gestione navale (commerciale, tecnica, armatoriale) per conto terzi» dalla quale sarebbe germogliata la «Seaarland Management Services» di Ginevra. Un imprenditore dai mille legami internazionali, dai mille interessi, dai mille agganci societari che spaziano dagli affari immobiliari al turismo, dalla tecnologia ai servizi, dalla ricerca medica all'energia e alle banche. Azionista diretto di una decina di società e indirettamente di almeno il doppio di imprese e finanziarie. Benedet- to oggi da dieci incarichi da presidente e quattro da consigliere. In grado di comprare nell'ultimo anno e mezzo un'azienda agricola di 146 ettari («Le Pezzate», a Pordenone) per 6 milioni 387.500 euro e l'albergo Capitol di San Giuliano a Mestre per dieci milioni e mezzo. Il tutto da solo o in parte, attraverso società spesso olandesi come la «Sc Ventures Bv» o la «San Marco Finanziaria», della quale è presidente e il cui capitale risulta custodito per il 97% dalla «Chirona International Bv» e per il 3% dal novantanovenne Antonio Zacchello. Insomma, un uomo ricco di spirito d'iniziativa. Con forti interessi, da solo o in società, spesso insieme con moglie e parenti vari, di hotel come il «Crowne Plaza Stabiae Sorrento Coast», compagnie di navigazione come «Motia», stabilimenti balneari con ristorante come a Castellammare, società immobiliari come la «Ca' Pianiga» di Mestre, imprese agricole a Musile di Piave con allevamento ittico, fabbriche per la produzione di impianti a cogenerazione di energia quali la «Genera srl» di Arzignano. Una miriade di iniziative che, a volte, gli ha tirato addosso anche roventi polemiche. Come quando, da presidente dell'Autorità Portuale di Venezia (poltrona affidatagli dall'allora ministro dei trasporti Pietro Lunardi su indicazione del governatore veneto Giancarlo Galan), fu al centro di un'affilata inchiesta de «l'Espresso» dedicata ai conflitti d'interesse tra le sue attività e il ruolo pubblico. In particolare, scrisse Gigi Riva, «disse di essersi liberato della “Multi Service”, azienda fondata da lui stesso e dai suoi familiari che poi, con Zacchello regnante sul porto, ha goduto dell'assegnazione di diverse aree su cui compiere affari d'oro. Fino all'iperbole di un'area comprata per 4 milioni e rivenduta dopo due anni per 15. Tutto bene se non fosse che un'accurata inchiesta condotta da Alessandra Carini per il quotidiano «La nuova Venezia», ha dimostrato come i legami tra Zacchello e la Multi Service non siano del tutto recisi se una società del presidente ha mantenuto un pegno che scade nel maggio 2008 a garanzia del pagamento di 1,4 milioni di euro». Ma veniamo alla laurea ad honorem. Punto di partenza, la convenzione firmata da Zacchello nella veste di presidente dell'Autorità Portuale e dal rettore dell'Università Ca' Foscari, Pier Francesco Ghetti. Dove si dice che, partendo da un accordo del 2001, l'Autority pubblica, «interessata allo sviluppo di competenze scientifiche nell'ambito della ricerca e dell'insegnamento del diritto amministrativo applicato al campo marittimo (…) è disposta ad integrare il finanziamento» dando dei soldi all'ateneo per assumere un «professore associato di diritto Amministrativo» e promuovere «un dottorato di ricerca nelle materie suddette». Quanto? «Euro 100.000,00 per ciascuno degli anni dal 2008 al 2015 a valere sugli impegni dei rispettivi anni e con liquidazione entro il 31 dicembre dell'anno di riferimento». Otto anni, ottocentomila euro. Per carità: tutto legittimo. Ma è la data in calce al documento a essere curiosa: 28 marzo 2008. Dieci giorni prima che a Zacchello scada il mandato. Di più: il ministro dei trasporti del governo prodiano, Alessandro Bianchi, ha già dichiarato di non avere alcuna intenzione di rinnovare l'incarico e neppure di concedere al presidente uscente la proroga richiesta di 45 giorni. Una decisione dettata da tutto tranne che da ostilità politiche. Tanto è vero che, pur essendo indicato come vicino a Forza Italia, il nostro aspirante «dottore» sarà scaricato anche dal governo berlusconiano, che il 13 maggio 2008, per mano di Altero Matteoli, metterà al suo posto l'ex sindaco veneziano ed ex ministro ulivista Paolo Costa. «Ingrati!», penserà il nostro sospirando sulle assunzioni di collaboratori destrorsi che gli avevano tirato addosso le accuse della sinistra. Evidentemente, però, non è ingrata l'Università. Dove il «beau geste » generosamente compiuto dall'amico Giancarlo con quegli ottocentomila euro donati a Ca' Foscari per assumere quel professore associato (e a questo punto sarà curioso vedere come verrà scelto…) non viene dimenticato. Tanto è vero che viene avviato l'iter per concedere all'ormai ex presidente una laurea specialistica ad honorem in «Economia degli scambi internazionali». La faccenda è all'ordine del giorno del Consiglio di facoltà, prima del passaggio al Senato Accademico, proprio questa mattina. Docente incaricato della laudatio: «il Direttore o altro docente del Dipartimento di Scienze Giuridiche ». Tema della lezione del laureando: «Lo sviluppo dei sistemi portuali tra logistica e mercato». Ma assolutamente spettacolare è la motivazione della laurea. Nero su bianco: «Ha finanziato la didattica e la ricerca nel campo del lavoro marittimo. Ha assicurato la propria disponibilità ad ulteriori finanziamenti per la didattica e la ricerca nel settore dei trasporti e del diritto marittimo ». E a questo punto avanziamo sommessamente al magnifico rettore una domandina: perché non dare una laurea «honoris causa» anche a tutti i cittadini italiani ai quali appartenevano quei soldi? Sergio Rizzo Gian Antonio Stella 14 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO «Bene Obama e la scelta di continuità con Bush» Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2009, 07:41:33 pm Crisi e ricette
Tremonti: il Paese tiene. Ora altri 8 miliardi per gli ammortizzatori «Bene Obama e la scelta di continuità con Bush» ROMA — La prima cosa che viene in mente a Giulio Tremonti pensando all'insediamento di Barak Obama alla Casa Bianca, è che il futuro presidente giurerà domani sulla Bibbia di Abramo Lincoln. Formalità che potrebbe apparire insignificante. Se non fosse che per il ministro dell'Economia ha un particolarissimo significato. «Prima le citerò Lincoln, poi un passo della Bibbia. Un giorno Lincoln disse: "Ho due grandi nemici, l'esercito del Sud davanti a me e le società finanziarie dietro di me. Dei due nemici, il secondo è il peggiore" ». Potrebbe averlo detto Karl Marx. «Non per caso Marx scrisse a Lincoln identificando nella bandiera a stelle e strisce un simbolo di speranza per i lavoratori». La citazione della Bibbia? «È nel Levitico, il passo sul sabbatico, sulla separazione fra il bene e il male». E Obama che c'entra? «La missione di Obama si pone nella dialettica fra la paura e speranza, tra crisi catastrofica, in atto o in potenza, e uscita salvifica. Certa la prima, ancora incerta la seconda. Si pone tra continuità su di una linea di intervento già sviluppato nel biennio 2007-2008 e rottura di continuità. Nel 2007-2008 è stato attivato l'intero armamentario della politica economica. Iniezioni di liquidità, manovra sui tassi d'interesse, abbattimenti fiscali...». Ricordo la promessa di Bush e Bernanke di distribuire dollari con gli elicotteri. «Ma non è servito a niente. Fallimenti bancari, salvataggi bancari, il piano Paulson. Siamo arrivati al tasso d'interesse uguale a zero che, se vuole, citando ancora Marx, nel terzo libro del Capitale è un elemento di comunismo. Comunque non è solo un fatto economico ma anche politico. Il sequitur è diverso per quantità, più grande, e per qualità: un terzo ancora fiscale, due terzi spesa pubblica keynesiana, e cioè opere pubbliche, investimenti pubblici». Ci crede che sarà un New Deal keynesiano? «Per la verità John Maynard Keynes non c'entra molto con il New Deal. In America lo fece Roosevelt per conto suo, come Hitler e Mussolini in Europa, ma senza aver letto la "Dottrina generale". In realtà Keynes si afferma in seguito, negli anni Cinquanta e Sessanta, e il keynesismo è la risposta socialista al marxismo. La politica di Obama sembra un po' essere nella continuità con il biennio precedente, con varianti quantitative e qualitative». Più soldi, più spesa pubblica... «E per inciso più deficit pubblico. La continuità è una ipotesi positiva, nella quale confidiamo fortemente e che ha elevate possibilità di successo. Ipotesi positiva oggettivamente, non necessariamente risolutiva. La speranza del mondo è che sia efficace nel biennio 2009-2010. Ma all'ottimismo della volontà si deve sempre accompagnare la cautela della ragione. Nelle strategie ci dev'essere sempre una uscita di sicurezza». Una specie di piano B? «Il male da contrastare non sta nell'economia, ma nella finanza. E ha un nome oscuro: derivati. Non per caso nessuno osa parlarne. La massa è in continua crescita, l'importo nozionale dei derivati è ormai pari a dodici volte e mezzo il Prodotto interno lordo del pianeta. l'importo netto oscilla fra i 20 e i 40 trilioni di dollari, mentre il piano Obama, è di un trilione. Ma importo lordo o netto che sia, nei derivati è insito il cosiddetto rischio incalcolabile, non sai a vantaggio di chi o a carico di chi finirà questa enorme mole di scommesse finanziarie fini a se stesse». C'è proprio da stare allegri. «Questa è la causa della sfiducia che domina la finanza. Un deficit di fiducia non si cura con il deficit pubblico. La prima ipotesi prima è che nel medio andare il risanamento dell'economia reale porti con sé il risanamento dell'economia finanziaria. La seconda ipotesi è che questa asimmetria non si chiuda così. Ecco perché l'uscita di sicurezza è finanza su finanza». Sarebbe a dire? «L'ipotesi di soluzione è nuovissima ed anzi vecchissima. È nella Bibbia, nell'immagine del sabbatico, della segregazione del male dal bene. Salvare tutto è compito divino, non umano. I governi possono salvare le famiglie, le imprese e la parte funzionale delle banche, quella che finanzia l'economia, non la parte che si presenta come finanza fine a se stessa». Di quella che ne facciamo? «La formula va definita, ma passando dalla Bibbia alla finanza lo schema è quello della bad bank. Costituire contenitori ad hoc, immetterci i derivati, eccetera, pianificare una lunghissima moratoria, modificare conseguentemente le regole contabili». Un altro salasso per i contribuenti? «Non servono capitali pubblici. Non ha senso utilizzare capitali pubblici per rilevare la finanza derivata a deviata, per due ragioni: perché non basterebbero e non sarebbe equo». Ma chi, e dove dovrebbe fare la bad bank? «Nelle giurisdizioni dove si è generato e radicato il fenomeno. Prevalentemente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ma non esclusivamente. Qualcosa di simile è stato fatto in Svizzera e Svezia». Si rende conto della difficoltà? «So bene che non è una scelta tecnica, ma politica. E tra le scelte politiche, una scelta radicale. L'alternativa del Diavolo sarebbe quella di lanciare una "grande inflazione"». Che cosa avrebbe di tanto diabolico questa alternativa? «Che l'inflazione la pagano tutti, senza che si risolva nulla». Dopo la Seconda guerra mondiale accadde una cosa del genere. E fu la premessa del boom economico in Europa. «In un mondo diverso. Allora c'era una sola moneta, il dollaro, e non c'erano le altre, perché erano distrutte. Adesso abbiamo l'euro ed è critica l'ipotesi della grande inflazione in una parte sola del mondo. Euro e Banca centrale europea sono l'opposto dell'inflazione. Quindi non resta che l'alternativa della Bibbia. In aggiunta, gente nuova e regole nuove». Anche per l'Italia? «Il nostro caso è radicalmente diverso. La crisi non si è prodotta Italia su Italia. È venuta da fuori sull'Italia e per ora più in termini di economia reale, non tanto per la caduta della domanda interna, che non c'è stata, quanto per la caduta dell'export ». Sui muri del Veneto è comparso un manifesto del Popolo della libertà. C'è scritto: «Grazie, Silvio, per aver salvato i nostri risparmi». Non è un po' prematuro? «L'opposizione ci ha fatto una doppia accusa: non siete intervenuti sulle banche come altri in Europa invece hanno fatto, e avete dato i soldi alle banche. Delle due l'una. In realtà Berlusconi non ha garantito le banche, ma il risparmio. E con il decreto anticrisi ha finanziato le imprese. In base alle informazioni che riceviamo dalla Banca d'Italia e dal mondo bancario, la posizione delle banche italiane è migliore di quella delle banche estere ». Una buona notizia. Ma siamo sicuri che importi tanto a chi non arriva alla fine del mese? «La crisi c'è ed è grave. Avendo scritto nel nostro programma elettorale già nel marzo 2008 "la crisi arriva e si aggrava", lo sappiamo bene. Ogni Paese ha le sue particolarità. L'Italia ha forza nella sua struttura sociale e produttiva, estesa dalle famiglie alle imprese, e debolezza nei conti pubblici, con il terzo debito pubblico del mondo. Il governo ha fatto la finanziaria a luglio e l'ha stabilizzata su tre anni prima che arrivasse la crisi. Senza sarebbe stato un disastro». Anche così le prospettive non sono molto rosee. Per la Banca d'Italia il Pil potrebbe calare quest'anno del 2%. «Il bilancio pubblico ha garantito e garantisce i fondamentali, dalla sanità, alle pensioni, alla scuola, alla sicurezza. Servizi pubblici continui e struttura sociale solida fanno dell'Italia un Paese socialmente saldo. In Italia non c'è solo un consenso politico verso un governo forte, ma anche un diffuso e generale consenso sociale. Questo insieme è valorizzato positivamente quando si fa il rating del-l'Italia che non per caso viene confermato, considerando l'alto debito pubblico ma anche il basso debito privato e la complessiva vitalità del sistema produttivo». Davvero questo le sembra un Paese tranquillo e dove regna il consenso sociale? Negli ultimi mesi scioperi e manifestazioni di piazza erano all'ordine del giorno. «La chimera del conflitto sociale può essere agitata, ma credo inutilmente. Non c'è da attendersi una rivolta dell'"esercito industriale", soprattutto perché interno al blocco sociale delle partite Iva, dove imprenditori e lavoratori vivono insieme. Non una rivolta dell'esercito dei lavoratori dipendenti privati e pubblici, ben consapevole della fortuna di conservare il lavoro, e sostenuto dal crescente potere d'acquisto perché i prezzi stanno scendendo...». Ma la rivolta dei precari, quella sì. «Più che rivolta, sofferenza. Ed è su questa area, proprio per evitare il conflitto, che siamo concentrando tutte le forze, potenziando gli strumenti di protezione sociale. La settimana prossima inizieremo incontri costruiti nella logica dell'economia sociale di mercato. Non faremo tutto il desiderabile ma tutto il possibile, e stiamo lavorando in squadra Claudio Scajola, Maurizio Sacconi, Renato Brunetta, Raffaele Fitto ed io». L'opposizione dice che finora non avete fatto abbastanza per rilanciare l'economia e sostenere le famiglie. «Alessandro Manzoni diceva: "Anche nelle maggiori strettezze, i denari del pubblico si trovano sempre per impiegarli a sproposito". E Carlo Azeglio Ciampi ha detto: "Per fortuna si è resistito alle sirene che spingevano per bruciare le esigue risorse disponibili in un generico aiuto ai consumi". I numeri sono questi: 16 miliardi per la tenuta del tessuto sociale e imprenditoriale, 16 miliardi per le infrastrutture e presto altri 8 miliardi aggiuntivi per gli ammortizzatori sociali. Con il prossimo Cipe arriveranno ulteriori e maggiori finanziamenti. Non solo. La nuova norma sui distretti industriali, lo sblocco delle procedure burocratiche sui lavori pubblici...». Ma c'è chi si è lamentato perché la sua social card era scarica. «La carta acquisti e il bonus che pensionati e lavoratori troveranno in busta paga tra febbraio e marzo sono strumenti addizionali, non sostitutivi. La carta acquisti è in experimentum in molti Paesi dell'Occidente. Abbiamo avuto difficoltà procedurali. Ma mezzo milione di carte in un mese, senza avere una banca dati, è poco? Mentre parliamo la distribuzione continua ed è in continua crescita. Normalmente le crisi generali sono crisi sociali e le crisi sociali sono causate da tagli sociali. Che non ci sono stati». Che cosa la preoccupa maggiormente? «Il Nord e il Centro hanno 38 milioni di abitanti e sono fra le aree più ricche d'Europa. Se fosse vero che in Italia non ci sono ricerca, produttività, istruzione, non sarebbe così. Il dramma dell'Italia è nel Sud, l'unica area europea che non ha una sua banca, ma soprattutto che vive un deficit sociale e culturale generale. E questa è una grande responsabilità della politica. Non c'è futuro per l'Italia se non c'è futuro per il Sud. Ed è questa la missione che sento più profondamente». Sergio Rizzo 18 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: Franco Debenedetti «Mio fratello, la politica e la lunga sfida con il Cavaliere» Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2009, 10:02:19 am Franco Debenedetti
«Mio fratello, la politica e la lunga sfida con il Cavaliere» Parla Franco Debenedetti: «Ragioni politiche contrastano spesso con ragioni industriali» ROMA — Franco Debenedetti confessa che quando ha appreso la notizia il passato gli è scorso davanti agli occhi come un rapidissimo flashback: «Una carrellata dei suoi successi e anche delle sue sconfitte, degli entusiasmi che ha suscitato, delle energie che ha catalizzato. Che vuole, abbiamo lavorato trentacinque anni insieme...». Fratelli con cognomi diversi. «Mio padre ha sempre scritto il suo cognome Debenedetti, tutto attaccato. Mio fratello Carlo ed io siamo registrati all'anagrafe così. Alcuni fratelli di mio padre scrivevano invece il cognome De Benedetti, staccato. Entrambe le versioni convivono all'interno della stessa famiglia». Quindi il vezzo non è suo. «Io mantengo la versione filologicamente corretta. Mio fratello è più pragmatico». Anche nel cognome? «Diciamo che ha grande intuito». Parla degli affari? «Non è da tutti partire da un'azienda di 80 persone e diventare uno dei moschettieri alla testa di uno dei grandi gruppi industriali ». Forse voleva dire «capitani»? «Allora si chiamavano moschettieri. L'era dei capitani, cosiddetti coraggiosi, è venuta dopo. Eugenio Scalfari e Carlo avevano già messo in piedi un'impresa editoriale con quello che è stato il più grande giornale italiano ». Però la strada del «moschettiere» e quella dei «capitani» si sono incrociate. Ricorda Colaninno? «Se allude alla vicenda Omnitel, Carlo ha iniziato quando Colaninno ancora faceva crescere l'azienda di filtri. L'introduzione della telefonia mobile è stato forse il più grande successo di mio fratello. Grazie anche alla mente di Elserino Piol». Cosa lo spinse verso i telefonini? «Olivetti fece una gara per la telefonia mobile in Germania. Fu persa, ma si fece esperienza e si costruì l'alleanza, il raggruppamento d'imprese con cui si vinse in Italia ». Aveva visto giusto? «Altroché. Come sulla Sme, il primo tentativo di fare una privatizzazione. Come sulla Mondadori...». Salvo poi andare a sbattere in entrambi i casi contro Berlusconi. «Per interposta persona: l'ostacolo vero era Bettino Craxi. Ma la vicenda Mondadori è più complessa, c'entrano vicende familiari... ». Poi De Benedetti e Berlusconi hanno rischiato di diventare soci. «È stato un episodio molto marginale. Management e Capitali è un fondo di private equity in cui mio fratello ha una quota non di controllo. Fa parte della storia recente, del Carlo finanziere, non industriale». Di chi fu l'idea? «Credo venisse da mio fratello, in un colloquio ». Rarissimo. E perché abortì? «Ragioni politiche contrastano spesso con ragioni industriali. È impossibile per il proprietario di Repubblica fare affari con Berlusconi». Lei che è stato parlamentare della sinistra, se ne fece un'opinione? «Sì, ma non gliela dico. Comunque, ci sono due zeta». Suo fratello passa per essere l'inventore delle scatole cinesi. «Quello era Enrico Cuccia» Ma lui ha imparato benissimo. «Quel sistema è stato, a ragione, ampiamente criticato soprattutto in seguito: ma quanto a rapporto di leva, mio fratello è stato ampiamente superato da chi è venuto dopo». La finanza, le auto, l'informatica, l'energia, i telefonini. Tutto questo non è stato dispersivo? «La critica ha fondamento. Probabilmente se l'operazione sulla Sgb in Belgio fosse andata in porto, poteva essere uno strumento potente per realizzare i suoi obiettivi di politica industriale. Il turnaround dell' Olivetti aveva limiti intrinseci, che si scontravano con i vincoli tipici dell'Italia. Ha presente l'articolo 18?». Allora tutti dovevano fare i conti con la politica. Anche suo fratello? «Parliamo degli anni Ottanta, anni decisivi per la storia di questo Paese. Bruno Visentini era presidente dell'Olivetti quando Craxi lo chiamò al governo, e lui si dimise. Carlo non ha mai nascosto le proprie idee,anche allora molto in sintonia con quelle che sosteneva Repubblica». Sarò più chiaro: ha avuto un rapporto organico con la sinistra? «Organico non certo. Ma era a favore dell'apertura al Pci. Si vedeva sovente con Tonino Tatò». Crede davvero che abbia lasciato per ragioni anagrafiche? «Non lo credo affatto. Mio fratello sta benissimo. È un uomo deciso nelle proprie opinioni. Non ci farà mancare i suoi commenti ». Allora c'è un nesso fra la sua decisione e i rigurgiti statalisti? «Mio fratello non solo ha fatto cose importanti, ma ha anche suscitato energie, coraggio di fare. Ora sarà più difficile, non tanto per i tempi, terribili in sé, ma per l'ondata di statalismo che renderà più arduo per tutti uscire dalla crisi. Serviranno anni per liberarsene. Mio fratello sta bene, ma a 74 anni non credo pensi a un'altra campagna del Belgio». Che cosa cambierà nell'editoria? «Carlo resterà nella Fieg. In conferenza stampa ha detto che il nuovo contratto dei giornalisti deve rappresentare una forte discontinuità. Mi dica: la sua decisione frena o accelera il cambiamento?». Sergio Rizzo 27 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO - E il Fisco potrebbe incassare quasi 30 milioni Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2009, 11:36:24 pm Stretta su scommesse e giochi via web. E il Fisco potrebbe incassare quasi 30 milioni
Carcere per il poker sui siti irregolari Ma nella proposta del governo ci sono sanzioni anche per i giocatori che frequentano le bische online non a norma La roulette online proposta da un casinò online americano. I giocatori italiani potranno rivolgersi solo a quelli che si adegueranno alle norme che il governo sta per varare Anche se di questi tempi non si butta via niente, con i 28 milioni che il governo conta di incassare quest'anno non ci risaneranno il bilancio dello Stato. Ma il punto non è questo: l'ultima mossa delle Finanze sui giochi via internet potrebbe aprire scenari diversi da quelli strettamente erariali. Il 21 gennaio il ministero dell'Economia ha depositato un emendamento chilometrico e piuttosto contorto alla legge comunitaria del 2008 in discussione al Senato. In quel testo, accanto ad alcune disposizioni fiscali di adeguamento alle norme europee, sono stati infilati anche una ventina di commi che con le questioni di Bruxelles c'entrano come i cavoli a merenda. Ma sono pieni zeppi di notizie sconvolgenti per i maniaci di scommesse e giochi on line, come pure per chi li gestisce. Un assaggio: i giocatori potranno accedere al sito, sempre che quello sia titolare di una regolare concessione, soltanto attraverso il portale dei Monopoli di Stato. Già questo potrebbe bastare. Per avere poi una delle 200 concessioni che le Finanze sono disposte a dare «in fase di prima applicazione» di questa specie di riforma, sarà necessario, per chi già non sia titolare di uno dei tradizionali permessi per le scommesse, i giochi a pronostico, il bingo, le lotterie e quant'altro, di una lunga serie di requisiti. Intanto avere hardware e software in un Paese dell' Unione. Quindi operare attraverso una società di capitali con fatturato biennale non inferiore a 1,5 milioni oppure in grado di fornire una garanzia bancaria per il medesimo importo, essere in regola con i requisiti di professionalità e affidabilità, garantire la sicurezza del browser e pagare un «contributo » al Fisco che può arrivare a 350 mila euro. Per i gestori dei siti che vogliono fare i furbi c'è il deterrente del carcere: da sei mesi a tre anni. Ma rischiano fino a tre mesi d'arresto, oppure un'ammenda fino a 2 mila euro, anche i giocatori. Costoro dovranno sottoscrivere con il gestore del sito un contratto per l'apertura di un «conto di gioco» sulla base di un modello predisposto dai Monopoli. Su quel conto transiteranno le puntate del giocatore, le vincite e le perdite. Trascorsi tre anni senza giocate, tutto quanto è rimasto sul conto verrà incamerato dall'Erario. Il governo motiva il giro di vite (comma 12 dell'emendamento) con l'esigenza di «contrastare in Italia la diffusione del gioco irregolare e illegale, nonché di perseguire la tutela dei consumatori e dell'ordine pubblico, la tutela dei minori e la lotta al gioco minorile e alle infiltrazioni della criminalità organizzata». Nella relazione tecnica si spiega poi che questo sporco giro d'affari via internet è di due miliardi di euro l'anno. E che questa operazione favorirà nel 2009 l'«emersione del gioco illegale» per 700 milioni di euro, facendo incassare allo Stato 21 milioni (più sette per le nuove concessioni). A regime, inoltre, gli incassi dovrebbero salire a 30 milioni. Stime che però il servizio bilancio del Senato mette palesemente in dubbio, sostenendo che «non è chiaro» come i calcoli siano stati fatti. Non entrano invece comprensibilmente nel merito, i tecnici di palazzo Madama, su dubbi di ben altro genere che inevitabilmente suscita la relazione tecnica del governo, quando afferma che alle stime di gettito dovuto all'emersione del gioco illecito «può aggiungersi anche una maggiore entrata derivante da una diversificazione in atto del portafoglio dei prodotti di giochi pubblici (giochi di carte, scommesse virtuali, scommesse a interazione diretta, ecc...)». Sergio Rizzo 05 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO. La diplomazia di Geithner, un americano a Roma Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2009, 03:28:01 pm Incontri
Niente passeggiate ma solo vertici per il debutto internazionale del segretario Usa al Tesoro La diplomazia di Geithner, un americano a Roma 787 milardi. Il valore del piano Usa varato ieri dal Congresso Impegni Niente jogging e shopping: solo «bilaterali» con i ministri del G7 per l’autore del nuovo piano americano anticrisi ROMA - Chi sperava di incrociare Timothy Geithner mentre passeggiava per i Fori imperiali mano nella mano con sua moglie Carole Sonnenfeld, o magari di stringergli la mano a piazza Navona, si è dovuto rassegnare. La prima giornata da americano a Roma del segretario al Tesoro, primo rappresentante di un’amministrazione democratica a tornare sulle sponde del Tevere dopo gli otto interminabili anni dell’epoca di George W. Bush, non poteva essere come quella, pirotecnica, di Bill Clinton, nel giugno del 1994: anche allora, con Silvio Berlusconi a palazzo Chigi. Niente jogging in calzoncini e maglietta Radio city a Villa Borghese con l’ambasciatore, che del resto ancora non c’è. Niente scambi di battute con i passanti. Niente caramelle con il simbolo della Casa Bianca distribuite ai bambini. Sia chiaro: non perché il segretario al Tesoro di Barack Obama non sia uno sportivo. Tutt’altro. Gioca a tennis, pratica il surf, sa andare sullo snowboard ed è anche un discreto praticante di softball. Ma nemmeno perché Geithner non sia un tipo espansivo. Coetaneo del presidente, del quale è appena 14 giorni più giovane, ha vissuto in Africa, India, Cina e Tailandia. Se il giovane Obama visse per quattro anni a Giacarta con la madre e il suo secondo marito, Geithner ha finito le scuola superiori a Bangkok. Ha studiato cinese e giapponese, ha la fama di persona ottimista e aperta e non dimostra la sua età. Dettaglio che qualcuno considera un difetto. «A 47 anni Tim ne dimostra 32, invece di questi tempi devi avere i capelli grigi e l’aria grave. Non è che non sia qualificato. È come appare...», ha detto di lui al Washington post Ken Duberstein, ex capo dello staff di Ronald Reagan. Il fatto è che Geithner, reclutato dalla Federal reserve di New York, di cui era presidente, non è un politico. È un banchiere centrale che aveva lavorato in precedenza al dipartimento del Tesoro con Robert Rubin e Lawrence Summers. Anche se nella sua storia da «civil servant» non manca un’ombra che negli Usa non è considerata proprio trascurabile: 35 mila dollari di dollari di contributi previdenziali non pagati quando era al Fondomonetario internazionale. Una scivolata a cui ha rimediato pagando e scusandosi, ma che è stata l’ennesima per il nuovo gabinetto, che ha perso il segretario designato alla Salute Tom Daschle, colpito dalle accuse di evasione fiscale, e Nancy Killefer, la garante governativa per i progetti economici che non aveva versato 900 dollari di contributi per la sua colf. Senza contare le dimissioni del senatore Bill Richardson, E poi lo stile obamiano ha oggettivamente poco a che vedere con quello clintoniano. Soprattutto oggi, a distanza di quasi 15 anni da quella prima volta da americano a Roma di Clinton. Allora non c’erano stati fallimenti bancari a ripetizione, l’economia mondiale non era in picchiata a causa dei disastri finanziari innescati proprio dagli Stati Uniti, e gli americani non dovevano difendersi dalle accuse di protezionismo che adesso piovono da tutte le parti. Lo struscio nel centro di Roma, insomma, sarebbe stato decisamente fuori luogo. Anche a prescindere dagli impegni fittissimi della giornata, con un pomeriggio pieno zeppo di colloqui bilaterali fra il segretario del Tesoro americano e i suoi colleghi degli altri Paesi. Per evitare di passare proprio inosservato è stata sufficiente una stretta di mano con il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, che Geithner conosce bene per averlo frequentato a lungo da capo della Fed e componente del Financial stability Forum, immortalata dai fotografi fuori dall’Hotel Excelsior, e qualche sorriso ai curiosi che osservavano la scena. Prima di andare al ministero dell’Economia per incontrare Giulio Tremonti e pranzare con lui, nella foresteria di via XX settembre. Forse, tra tutti i ministri di questo G8, quello con il quale il nuovo e più giovane segretario al Tesoro ha almeno una cosa in comune: il giorno del compleanno. Tremonti e Geithner sono entrambi nati il 18 agosto. Sergio Rizzo 14 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO. - E Tremonti elogiò l'ex nemico Prodi Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2009, 05:55:34 pm Saglia (Lavoro): giusto riconoscimento.
E Tremonti elogiò l'ex nemico Prodi Cazzola: ha dei meriti. Ma Della Vedova: evitiamo di santificarlo ROMA — Stefano Saglia dice di non avere alcuna difficoltà ad ammetterlo: «Dopo essere stato premier due volte, e soprattutto presidente della Commissione europea, Romano Prodi dev'essere necessariamente considerato una riserva della Repubblica. Indipendentemente dalle appartenenze politiche». Ne consegue che il presidente della commissione Lavoro della Camera non proverebbe stupore, afferma, se il governo di centrodestra decidesse di candidare l'ex capo dell'Ulivo per qualche prestigioso incarico internazionale. «Bene ha fatto Giulio Tremonti a rendergli merito», sottolinea. Del resto l'articolo sulla prima pagina del Messaggero di domenica 15 febbraio, nel quale Prodi ha elogiato i risultati del vertice G7 di Roma che avrebbe posto le basi per «preparare qualcosa di simile a una nuova Bretton Woods» con toni sembrati a molti un riconoscimento implicito all'azione del governo, non poteva passare inosservato. «Tra i G7», ha scritto l'ex presidente del governo di centrosinistra, «non è stato soltanto siglato un patto a combattere il protezionismo, ma anche a costruire nuove regole e standard più rigorosi per i mercati finanziari internazionali». Come del resto non poteva passare inosservata nemmeno la reazione del ministro dell'Economia Giulio Tremonti, che il giorno dopo ha dato atto all'ex premier, sullo stesso giornale, di aver scritto «un articolo che esprime la cifra della grande politica. Una cifra che somma due addendi essenziali. La visione e la cultura istituzionale». Commenta Luigi Casero: «Questa che stiamo vivendo è una crisi che nasce dalla mancanza di regole. Nel merito l'analisi di Prodi non può che essere condivisa. La sua è una posizione intelligente. L'economia deve comunque essere regolata, da solo il mercato non è sufficiente a garantire che non si ripeta quello che è già successo. E il fatto che il G7 abbia focalizzato la propria attenzione su questo aspetto è certamente positivo». Ma il sottosegretario all'economia aggiunge anche una considerazione di metodo: «Le parole di Prodi fanno sperare che su questo tema si possa finalmente uscire dalle inutili contrapposizioni». L'economista Mario Baldassarri, presidente della commissione Finanze del Senato, ricorda di aver scritto «un libro nel quale si sosteneva che la crisi sarebbe arrivata e che non ne saremmo mai usciti senza accettare l'idea della necessità di riscrivere le regole, tre anni fa». Dichiarandosi d'accordo sull'idea di rifare una nuova Bretton Woods planetaria al punto da aver sollecitato «un ordine del giorno del Senato». Ex viceministro dell'Economia nel precedente governo Berlusconi, Baldassarri conosce benissimo Prodi e non è sempre stato dalla parte opposta della barricata. Si può rammentare a questo proposito il manifesto per il rigore finanziario e il liberismo economico che i due economisti lanciarono sul Corriere nel dicembre del 1994, sul finire del primo governo Berlusconi, insieme al premio Nobel Franco Modigliani, a Paolo Sylos Labini e Franco Debenedetti. Saglia tuttavia mette in guardia dalla ricette semplicistiche: «Temo che le regole da sole non bastino. Il problema è la credibilità delle autorità di vigilanza che devono farle rispettare. Ho seguito la legge sul risparmio. Come tutti ho salutato positivamente l'approvazione del Sarabanes Oxley Act negli Stati Uniti, dopo lo scandalo Enron. E ne ho tratto una lezione. I mercati devono sapere che i responsabili vengono individuati e puniti severamente. Altrimenti la fiducia non tornerà». Mentre il vicepresidente del gruppo Pdl al Senato, Gaetano Quagliariello, presidente della Fondazione Magna Carta, arriva a scorgere addirittura «una linea di continuità» fra Prodi e Tremonti «nella convinzione comune che il debito pubblico sia il vero grande problema dell'Italia e che sia assolutamente necessaria una politica di rigore finanziario». Pur con enormi differenze: «Le situazioni sono state opposte. Tremonti ha il sostegno dell'intera coalizione. Il governo Prodi al contrario era frantumato e rissoso». L'idea di un impegno comune per arrivare a una nuova Bretton Woods sulla quale hanno convenuto tanto il ministro dell'Economia quanto l'ex presidente del Consiglio convince anche Benedetto Della Vedova, che tiene a precisare come «quegli accordi hanno dato all'economia mondiale un impianto liberista che ha retto per sessant'anni». Quanto alle «affettuosità» apparse sulle prime pagine del Messaggero, il parlamentare leader dei Riformatori liberali non risparmia qualche «affettuosa» frecciata: «Il professore non diventa un santo adesso soltanto perché non è più al governo. E poi credo che il confronto dovremmo averlo con il centrosinistra reale, non con il professor Prodi. Nel caso in cui però ci fosse l'opportunità di un incarico internazionale, credo che sarebbe molto fair da parte nostra indicare un autorevole componente dello schieramento opposto. Personalmente, tuttavia, preferirei Mario Monti. La sua esperienza alla Commissione europea è stata a dir poco impeccabile». Il bolognese Giuliano Cazzola, ex sindacalista della Cgil ora deputato del Popolo della libertà, è convinto che «sul professore il giudizio della storia sarà migliore di quello della cronaca. Prodi è l'uomo dell'euro e dell'allargamento dell'Unione, due passaggi storici fondamentali. Magari in politica non ci ha preso molto....» Anche se, ci ripensa, «il suo governo del 1996 fece la riforma delle pensioni e il pacchetto Treu, che ha sbloccato il mercato del lavoro prima ancora della riforma Biagi. Una sua rivalutazione, come anche una rivalutazione di Giuliano Amato, non potrebbe che trovarmi d'accordo. A proposito, sa che Prodi è stato in assoluto la prima persona a parlarmi bene di Silvio Berlusconi?» Sergio Rizzo 17 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO. La precarietà economica (32%) batte la criminalità Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2009, 11:50:12 pm Focus La vita nelle aree urbane
Le città hanno paura. Della crisi Sondaggio sulla insicurezza in undici grandi centri La precarietà economica (32%) batte la criminalità Torino è la città dove è più alto il numero di persone che hanno cambiato abitudini per la criminalità Alcuni dicono che la tempesta durerà tutto il 2009. Altri, invece, prevedono tempi molto più lunghi. Ma nessuno sa quanto servirà perché quel profondo senso di insicurezza che la crisi economica più grave dal dopoguerra ha generato abbandoni la società. Difficilmente, un anno fa, alla domanda «Che cosa le fa più paura?» la risposta più frequente sarebbe stata questa: «La precarietà economica e lavorativa». Il 32% degli abitanti delle grandi città italiane è spaventato più da questo che dalla criminalità (30%) e dal male tipico di ogni metropoli, la solitudine (12%). Se poi si somma anche il 18% che mette la «caduta del tenore di vita» in cima alla lista dei propri timori, ecco che oltre metà degli abitanti delle grandi città è preoccupato soprattutto per le proprie condizioni economiche. Ma non è soltanto per questo che i risultati di un sondaggio condotto a metà gennaio in undici città italiane su un campione di 3.700 persone da Res publica Swg per una ricerca dell’Anci sulle «dimensioni della insicurezza urbana» appaiono sorprendenti. In nessuna città italiana, per esempio, l’immigrazione viene indicata dagli intervistati (ai quali è stato chiesto di esprimere tre giudizi) come il fattore che alimenta maggiormente il senso di insicurezza dei cittadini. Siamo al 24%, contro il 37% della «scarsa efficacia della giustizia» e il 36% della «mancanza o della precarietà del lavoro». La città dove le carenze della giustizia sono più avvertite come fattore di insicurezza è Roma (42%). Napoli è invece, com’è ovvio, quella dove invece il problema più grosso per l’incertezza sociale è il lavoro (49%). Nel capoluogo campano l’immigrazione è considerata un fattore di insicurezza quasi inesistente (9%). Ma anche nelle città dove raggiunge i valori più elevati (Torino e Venezia con il 32%), resta ben lontano dalla cima della classifica. Ancora: se si sommano le risposte che indicano la «mancanza e la precarietà del lavoro» (36%) con quelle che individuano fra le tre maggiori cause di insicurezza «l’aumento delle diseguaglianze e la crisi economica » (26%) si arriva al 62%. Eppure il sociologo Aldo Bonomi non si mostra affatto meravigliato: «Ho sempre sostenuto che il problema della sicurezza non è una questione di ordine pubblico. Semmai rimanda al concetto della società dell’incertezza». «Il fatto è — argomenta Bonomi — che siamo passati gradualmente da una società con mezzi scarsi ma fini certi, a una società con mezzi sovrabbondanti ma fini incerti. Nella società industriale tradizionale si andava a lavorare in un’azienda e tendenzialmente ci si rimaneva tutta la vita. Si sapeva cosa ci sarebbe toccato dalla nascita alla morte. Ora abbiamo mezzi sovrabbondati, internet, televisioni, possiamo girare il mondo con i voli low cost. Ma abbiamo una totale incertezza dei fini. Questo produce la vera grande paura, non il singolo fatto o la patologia criminale». Non che il problema della criminalità non abbia il suo peso. Il 91% dei cittadini di Napoli avverte il proprio comune come «un luogo» insicuro. La stessa cosa pensano il 70% dei palermitani, il 62% dei baresi e il 55% dei romani. La città dove al contrario più predomina la sensazione di trovarsi in un «luogo» sicuro è Venezia (81%), seguita da Cagliari (77%) e Firenze (62%). Milano (considerata sicura dal 52%), Torino (51%) e Bologna (51%) sono al limite. Ma Milano, con Genova, ha anche un record negativo, fra tutte le 11 città prese in esame per la ricerca. Non c’è nessun milanese (come nessun genovese) che si senta di definire la propria città un luogo «molto sicuro». Anche se c’è da dire che se si eccettua Venezia (dove si sente «molto sicuro» l’11%), Firenze (7%) e forse Cagliari (5%), gli altri capoluoghi non sono in condizioni molto migliori. I giudizi «molto sicuro» sono il 3% a Bologna e Palermo, il 2% a Roma e Napoli, l’1% a Bari e a Torino. Roma e Napoli, l’1% a Bari e a Torino. Il 71% dei napoletani, inoltre, ritiene che la città sia meno sicura di qualche anno fa. Giudizio identico a quello del 64% dei bolognesi, del 53% dei fiorentini, del 52% dei genovesi, del 51% dei torinesi e del 48% dei milanesi. la città dove la situazione della sicurezza risulta meno peggiorata è Cagliari. Bologna è la città dove le molestie e le violenze sessuali sono il fattore che incide maggiormente (secondo solo allo spaccio di droga) sulla percezione della sicurezza urbana: 43%. Soltanto Roma, con il 38%, si avvicina a questo valore. Milano è al 32%. Bonomi invita a ricordare un articolo sul Corriere «nel quale Claudio Magris si diceva stupito perché la gente ormai piscia per strada senza nessun problema. Il fatto è che la società ha perso le proprie capacità sanzionatorie. Una volta se un cittadino si comportava male, veniva colpito dall’ostracismo. Ora non più. E si delega ai soggetti di forza. Tutti dicono di volere più sicurezza, ma invece della luna si guarda il dito». La percentuale maggiore di persone che a causa della scarsa sicurezza ha cambiato abitudini di vita è tuttavia a Torino: 62%, contro il 60% di Napoli e il 58% di Roma. Soltanto il 17% dei torinesi sarebbero tuttavia disponibili a partecipare alle ronde contro la criminalità. E nel capoluogo campano le ronde sono ancora meno popolari: 8%, contro il 10% di Roma, il 9% di Genova. E il 7% di Milano, il valore più basso insieme a Palermo, Venezia e Bologna. Lo spunto dal quale è partita l’indagine di Cittalia, la fondazione per le ricerche dell’Anci, sono le circa 600 ordinanze emesse dai Comuni dopo il provvedimento sul «sindaco sceriffo». Per i due terzi (il 66%) al Nord. I sindaci del Sud hanno varato appena il 13% delle ordinanze, esattamente come i loro colleghi del Centro e più del doppio in rapporto ai primi cittadini delle Isole (6%). Principale obiettivo, la prostituzione. Più dietro, l’abuso di alcolici, gli atti vandalici e l’accattonaggio. Ma le ordinanze dei sindaci sceriffi non sono considerate risolutive dai cittadini. A Milano e Napoli il 44% delle persone è convinto che colgano un problema reale, ma sono poco efficaci. A Genova questo valore scende al 42%. A Torino è al 38%, a Venezia al 36%, come a Roma. Nel capoluogo lombardo i cittadini persuasi che l’ordinanza del sindaco si possa rivelare risolutiva sono però appena il 15%, percentuale superiore soltanto a quella registrata a Napoli (13%). In nessuna città italiana il numero di cittadini convinti dell’efficacia di queste ordinanze è superiore a quello di quanti si mostrano parzialmente o completamente scettici. Sergio Rizzo 26 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Banca del Sud: Tremonti vede D'Alema Inserito da: Admin - Marzo 05, 2009, 09:18:37 am Retroscena
Banca del Sud: Tremonti vede D'Alema L'incontro segreto e le telecamere della fiction D'Alema e Giulio Tremonti avevano scelto per l'incontro un luogo riservato: una saletta dell'hotel Majestic, in via Veneto, nel centro di Roma. Non avrebbero mai pensato di trovarsi, alle 12.30 di ieri, sul set di Caterina e le sue figlie, una fiction di Canale 5 che in quel momento stavano girando nella hall dell'albergo. Commento fulminante di D'Alema, il primo a entrare, insieme al senatore del Pd Nicola Latorre: «Potevamo andare direttamente in teatro ». Un minuto dopo è entrato anche il ministro dell'Economia, con il fido deputato Marco Milanese, seguendo lo stesso percorso, attraverso gli sguardi sorpresi di macchinisti e comparse e poi su per le scale, fino al primo piano. Per un lungo faccia a faccia. Abbastanza inedito, per i rapporti (praticamente inesistenti) che oggi intercorrono fra il governo e l'opposizione. Avrebbero parlato per un'ora, alla vigilia del credit and liquidity day, la giornata dedicata dal Tesoro alla verifica dello stato di salute finanziaria delle imprese, della crisi finanziaria. Un argomento che è stato spesso terreno di aspro confronto fra i due. Basta ricordare la puntata di Matrix dell'inizio di gennaio quando D'Alema dipinse Tremonti «come uno di quelli che amano andare contromano in autostrada». Oppure l'intervento a un convegno del Pd, nel giorno di San Valentino, quando aveva invitato a «distinguere fra socialismo e neopatrimonialismo di Tremonti, perché sono due modi diversi di concepire l'azione pubblica». Ma dietro le schermaglie verbali il dialogo fra i due non si è mai spezzato. Ieri D'Alema era reduce da un viaggio a Bruxelles dove martedì aveva visto il commissario agli Affari economici Joaquín Almunia, con il quale ha spezzato una lancia in favore degli eurobond: le emissioni di titoli continentali attraverso cui si dovrebbero finanziare le grandi infrastrutture europee. «Uno strumento ragionevole», li ha definiti l'ex ministro degli Esteri del governo di Romano Prodi. Per inciso, l'idea degli eurobond, lanciata dall'ex presidente della Commissione Jacques Delors, è un cavallo di battaglia bipartisan degli italiani, sostenuto da Tremonti e Prodi, come dal vicepresidente del Parlamento europeo, il forzista Mauro Pepe, e dal capodelegazione democratico Gianni Pittella. Lo stesso Pittella autore, nel primo numero di quest'anno di Italianieuropei, bimestrale diretto da Giuliano Amato e D'Alema (che si apre fra l'altro proprio con un lungo articolo del ministro dell'Economia), di un preoccupato saggio nel «focus» sul Meridione. Il tema del Mezzogiorno sta particolarmente a cuore sia a Tremonti sia a D'Alema. Non senza qualche reciproca incomprensione. Per esempio, sul progetto di Banca del Sud, che durante l'incontro di ieri è stato comunque affrontato. Sabato 28 febbraio D'Alema non aveva risparmiato le critiche ai piani del Tesoro: «Il governo non può ritenere sufficiente la creazione della Banca del Sud per ripagare il Mezzogiorno degli otto miliardi di euro di fondi sottratti finora. Si tratterebbe solo di una mancia, buona a prendere il caffè. Qui non c'è bisogno del caffè. Ma di investimenti, sviluppo e lavoro». Ieri il chiarimento, con l'ex ministro degli Esteri che avrebbe chiesto impegni più consistenti per il Sud anche nell'ambito della strategia tremontiana. Se sono rose fioriranno. Sergio Rizzo 05 marzo 2009 da corriere.it Titolo: Hanno altre mansioni 68 tra deputati e senatori Inserito da: Admin - Aprile 12, 2009, 10:59:18 am Dai comuni alle province
Come vengono aggirate le norme Parlamentare e sindaco Il popolo del doppio incarico da Pontida a Catania Hanno altre mansioni 68 tra deputati e senatori ROMA — Era la sera dell’11 novembre 2008. Il Senato era alle prese con il decreto che avrebbe potuto salvare il dissestato Comune di Catania: per il sindaco Raffaele Stancanelli era questione di vita o di morte. Poteva allora il senatore Raffaele Stancanelli far mancare il proprio voto favorevole a un finanziamento di 140 milioni per la città etnea? Non poteva. Votò a favore e si congratulò con se stesso esprimendo «soddisfazione» per com’era andata a finire. Perché il sindaco di Catania e il senatore del Popolo della libertà sono la medesima persona. Domanda legittima: come fa Stancanelli a conciliare l’incarico parlamentare con quello, ancora più gravoso, di amministrare quella città di 313.110 abitanti nello stato in cui si trova? Non è semplice, come dice chiaramente il suo curriculum parlamentare di un anno. Un solo intervento in assemblea, il compito di relatore a un disegno di legge sulle pensioni dei militari, e nove disegni di legge: ma li ha soltanto firmati. Eppure i due incarichi sarebbero incompatibili. Le norme attualmente in vigore stabiliscono che chi occupa un seggio in Parlamento non possa fare il sindaco di una città con più di 20 mila abitanti, né il presidente di una giunta provinciale, né l’assessore, né il consigliere regionale. Ma si tratta di norme che si prestano a varie interpretazioni, così è facilmente possibile aggirarle. Di fatto, l’unica incompatibilità rispettata più o meno alla lettera è quella con gli incarichi nei consigli e nelle giunte regionali, grazie anche, al Senato, al limite tassativo di tre giorni per optare fra Parlamento e Regione che venne fissato dal presidente di palazzo Madama Renato Schifani e dal presidente della giunta delle elezioni Marco Follini. Per il resto, tutti o quasi hanno fatto spallucce. Anche di fronte al semplice buonsenso. Con il risultato che ora si contano 68 parlamentari che hanno altri incarichi istituzionali. Una quarantina fra sindaci e vicesindaci, e poi assessori, consiglieri comunali, consiglieri provinciali e perfino due presidenti di giunte provinciali: i deputati del Pdl Maria Teresa Armosino e Antonio Pepe, presidenti delle Province di Asti e Foggia. Di fronte a questa situazione surreale, perché mai Stancanelli avrebbe dovuto dimettersi? Tanto più se non l’hanno fatto nemmeno i suoi colleghi di Senato e di partito, Vincenzo Nespoli a Antonio Azzollini, rispettivamente sindaci di Afragola e Molfetta, entrambe città con oltre 62 mila abitanti. Considerando pure che Azzollini non è un senatore qualsiasi, ma addirittura il presidente di una commissione permanente di palazzo Madama, la commissione Bilancio. In quella veste, a febbraio, ha sollecitato per iscritto il ministro dell’Agricoltura, Luca Zaia, a mettere mano al portafoglio per dare sostegni al settore ittico. Per la gioia dei pescatori molfettesi. Non che alla Camera non ci siano casi simili. Eletto contemporaneamente sindaco di Brescia (187.567 abitanti) e deputato, il 18 aprile del 2008 Adriano Paroli ha dichiarato: «Se sarà utile alla città, resterò sindaco e parlamentare». Così è stato. C’è da dire che anche come deputato del Pdl s’è dato piuttosto da fare. Ha presentato otto sue proposte di legge, fra cui una per istituire un casinò stagionale nei comuni di San Pellegrino Terme (Bergamo) e Gardone Riviera (Brescia). Il suo collega deputato Giulio Marini, invece, si è concentrato (legislativamente parlando) sul personale delle Camere di commercio dopo aver conquistato insieme un seggio a Montecitorio e la poltrona di sindaco di Viterbo (59.308 abitanti), sconfiggendo un altro parlamentare: il tesoriere diessino Ugo Sposetti. I parlamentari che sono contemporaneamente sindaci di Comuni con oltre 20 mila abitanti sono cinque. Ma guidano un plotone di primi cittadini ben più numeroso, considerando i centri più piccoli. Fra Camera e Senato se ne contano 36. Di ogni schieramento, ma moltissimi della Lega Nord. Come per esempio il sindaco di Pontida, il deputato Pierguido Vanalli, e il primo cittadino di Varallo, Gianluca Buonanno, che si è reso protagonista nell’estate del 2007 di una stravagante iniziativa: l’istituzione dell’assessorato alla dieta, con premi in denaro pubblico fino a 500 euro per i cittadini che avessero perso cinque (le donne) o sei chili (gli uomini). Senza trascurare il centrosinistra. Il senatore Claudio Molinari, eletto nel 2005 sindaco di Riva del Garda (15.693 abitanti), è approdato nel 2006 e nel 2008 in Senato, conservando sempre lo scranno da primo cittadino con l’affermazione, risoluta, che non lascerà in anticipo rispetto alla scadenza naturale del 2010. C’è addirittura un senatore che somma all’incarico di parlamentare e primo cittadino anche quello di governo: il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, sindaco di Orbetello, città di 14.607 abitanti. Ci sono poi quattro vicesindaci: quelli di Roma (il senatore del Pdl Mauro Cutrufo), Milano (il deputato dello stesso partito Riccardo De Corato), Lecce (la senatrice Adriana Poli Bortone) e Caravaggio (il leghista Ettore Pirovano). A questi si sarebbe dovuta aggiungere, fino a qualche settimana fa, la senatrice Angela Maraventano, vicesindaco di Lampedusa alla quale a gennaio 2009 il sindaco Bernardino De Rubeis ha revocato le deleghe. Non mancano gli assessori comunali. Ce ne sono tre. Uno di loro è Vittoria D’Incecco, deputata del Partito democratico, che amministra la sanità nella città di Pescara (116.286 abitanti). Restando nei Comuni, si contano altri 17 consiglieri comunali, alcuni dei quali in grandi città. Gian Luca Galletti (Udc) a Bologna, Alessandro Naccarato (Pd) a Padova, Gaetano Porcino (Idv) a Torino, Gabriele Toccafondi (Pdl) a Firenze) e Matteo Salvini, capogruppo leghista a palazzo Marino, Milano. Caso singolare, quello del consiglio comunale di Borgomanero, in Provincia di Novara, che ospita ben due parlamentari donne: la deputata leghista Maria Piera Pastore, presidente del consiglio, e la senatrice democratica Franca Biondelli. Non meno singolare la situazione in cui si trova il deputato Armando Valli, detto Mandell, senatore della Lega Nord e componente di ben quattro commissioni parlamentari, consigliere comunale del suo paese d’origine, Lezzeno, e anche consigliere della Provincia di Como. Si dirà che sono cariche non incompatibili e che comunque la presenza degli amministratori locali in Parlamento assicura il necessario legame con il territorio. Ma la questione è sempre la stessa: anche ammettendo che amministrare un comune di 19.999 abitanti e uno di 20.001 siano due mestieri diversi, dove trovano il tempo? Sergio Rizzo 12 aprile 2009 da corriere.it Titolo: La svolta «operaista» di Di Pietro Inserito da: Admin - Aprile 14, 2009, 10:50:34 pm Strategie
La svolta «operaista» di Di Pietro Tour elettorale dell’ex pm nelle fabbriche di Brescia. La regia dell’ex Fiom Zipponi ROMA — L’offensiva parte dalla «solitudine dell’operaio», per usare una definizione cara a Maurizio Zipponi. Ex segretario della Fiom di Brescia, eletto in Parlamento nel 2006 con Rifondazione comunista, ora candidato alle Europee con l’Italia dei valori, è lui la punta di diamante della nuova strategia dipietrista nelle fabbriche. Un inedito assoluto, per il partito dell’ex pm di Mani pulite, che finora non aveva mai mostrato vocazione per il mondo delle catene di montaggio. «Oggi l’operaio si sente solo. Tremendamente solo. Ed è lì che la rendita di posizione del Partito democratico si sta pian piano sgretolando», dice Zipponi. Lasciando intendere che quel bacino di voti al quale ha già attinto a piene mani Umberto Bossi comincia a fare gola (e molta) anche ad Antonio Di Pietro. L’operazione scatterà il 20 aprile proprio dalla città di Zipponi. Mattinata nelle fabbriche, pomeriggio davanti ai cancelli dell’Iveco, il più grande stabilimento bresciano, serata con l’ex sindaco di Brescia Paolo Corsini e Di Pietro a parlare del libro scritto dall’ex ministro con Gianni Barbacetto: Il guastafeste. Non per caso. Perché in quel libro c’è un messaggio (la netta presa di posizione per l’«antifascismo » e «la costituzione repubblicana») indirizzato da Antonio Di Pietro a chi continua a rimproverargli di essere privo dei cromosomi della sinistra. «Il punto di snodo», spiega Zipponi, «è stato l’adesione dell’Italia dei Valori allo sciopero generale proclamato dalla Cgil il 12 dicembre dello scorso anno». Da allora i dipietristi hanno cominciato a mettere insieme i pezzi del nuovo puzzle, fino ad arrivare a condividere anche lo sciopero della Fiom e della Funzione pubblica Cgil del 13 febbraio e a mettere in campo una serie di proposte per le elezioni europee. Un pacchetto che comprende l’idea di un contratto unico europeo di lavoro per l’industria, ma anche la semplificazione dei contratti di categoria (dagli attuali 450 a quattro soli) e l’abolizione degli accordi di Basilea 2 che, sostiene Zipponi, «strozzano le piccole imprese, impedendogli l’accesso al credito». Che c’entra Basilea con gli operai? «Oggi l’operaio è il giovane che sta alla catena di montaggio, ma anche il lavoratore del call center, come pure il titolare di partita Iva...» dice l’ex sindacalista della Fiom, convinto che sia in atto una profonda mutazione genetica. «Le fabbriche sono piene di giovani. L’età media all’Ilva è di 35 anni. All’Alfa di Pomigliano, addirittura 32. Giovani che non hanno padri ideologici. Operai dentro, cittadini fuori. Stanno con il sindacato ma esprimono un voto non coerente con le scelte politiche dei dirigenti sindacali. Si pensava che il voto di costoro per la Lega Nord fosse un segno di protesta, invece no. Il voto del leghista di fabbrica si è strutturato». Perché allora non provare a giocarsi questa partita sul terreno un tempo egemonizzato dalla sinistra che «ora però parla soltanto di conservazione, senza mai incrociare la parola cambiamento »? E magari con parole d’ordine in grado di mettere seriamente in crisi pure le decisioni dei vertici del sindacato? Per esempio, la democrazia diretta in fabbrica sempre e comunque, con gli accordi sindacali sottoposti regolarmente al giudizio di tutti i lavoratori. E sorprese sempre più frequenti, come insegna la vicenda della Piaggio di Pontedera, dove la Fiom ha perso il referendum e ha dovuto firmare l’accordo sottoscritto da Cisl, Uil e Ugl. Per esempio, l’attacco frontale ad alcune prerogative delle organizzazioni, come la verifica periodica delle deleghe firmate dai pensionati che si ritrovano iscritti a vita al sindacato. Si attendono ora le contromosse del Partito democratico, che dopo la Lega Nord rischia ora di trovarsi nelle fabbriche un altro pericoloso concorrente. Pier Paolo Baretta, parlamentare del Pd e già segretario generale aggiunto della Cisl non nega che il problema esista. «Ma credo che la competizione sia più con la sinistra radicale che con noi», afferma. «E sarebbe un errore tragico», avverte Baretta, «mettersi a inseguire Di Pietro tentando di occupare lo spazio della contestazione. L’opposizione non si fa soltanto in quel modo. Il Partito democratico non può essere un semplice contenitore di dissenso, come invece è l’Italia dei valori. La nostra risposta è avere una fisionomia netta e proposte precise». Sergio Rizzo 14 aprile 2009 Corriere della Sera Titolo: SERGIO RIZZO L’eredità del barone Quintieri destinata ai non vedenti e finita... Inserito da: Admin - Aprile 15, 2009, 12:45:12 pm Il caso
L’eredità del barone Quintieri destinata ai non vedenti e finita alla Campania Un patrimonio immenso che doveva finire in beneficenza «bruciato» dalle malefatte della burocrazia Ecco, di seguito, un brano di «Rapaci» di Sergio Rizzo. Il barone Giovanni Paolo Quintieri non poteva prevedere un finale più acido. Non poteva, perché quando ha fatto testamento la Regione Campania non esisteva ancora. Mai avrebbe dunque immaginato che un giorno tutto il suo sterminato patrimonio sarebbe finito nelle mani dei politici. Anche se la politica, il barone Quintieri, l’aveva avuta in famiglia. Suo padre Angelo (...) fu deputato del parlamento del Regno d’Italia per sei legislature (...). Mentre lui si dava alla politica, sua moglie Evelina Casalis profondeva energie e soldi per i ciechi dell’istituto Paolo Colosimo di Napoli. Il figlio seguì con tale convinzione le benefiche orme della madre al punto che alla sua morte, avvenuta il 18 agosto del 1970, lasciò in eredità ogni cosa a loro. L’immenso patrimonio della famiglia Quintieri venne perciò inizialmente assorbito dal Patronato Regina Margherita pro ciechi Istituto Paolo Colosimo. Poi nel 1979 passò tutto alla Regione Campania. E qui comincia un’altra storia. Per «tutto» si intende quanto segue. Un enorme castello medievale, fra i più grandi e meglio conservati dell’Italia centrale, già appartenuto alle famiglie Colonna, Orsini e Rospigliosi, con intorno una tenuta agricola, a una trentina di chilometri da Roma, località Passerano: 900 ettari (...) con oliveti, coltivazioni a mais, orzo, grano e fieno, e quasi cinquecento capi di bestiame. Una seconda tenuta agricola di 160 ettari, sempre con relativo castello, nelle Marche, a Montecoriolano, nei pressi di Porto Potenza Picena (...). Una serie di possedimenti in Calabria. Un palazzo di 52 appartamenti costruito durante il fascismo a Roma, in via Panama, nel cuore del prestigioso quartiere dei Parioli. Oltre, naturalmente, agli arredi e alle suppellettili presenti nelle dimore. Nel 1996, quando alla presidenza della Regione c’è Antonio Rastrelli, si fa un inventario con 765 voci. Vasi cinesi. Lampadari di Murano. Tappeti persiani. Candelabri d'argento. Salotti d’epoca (...) E quadri. Tanti da riempire una pinacoteca. Quadri di Domenico Bartolomeo Ubaldini, detto Il Puligo, pittore del primo Cinquecento. Quadri di alcuni fra i più importanti pittori del Seicento e del Settecento. Andrea Vaccaro. Giacinto Diano. Francesco De Mura. Gaetano Gandolfi. Peter Roos, alias Rosa da Tivoli. Pacecco De Rosa. Giovanni Francesco Barbieri, detto Il Guercino. Jusepe de Ribera, detto Lo Spagnoletto. E Rembrandt. Già, anche un «Ritratto di gentiluomo a mezzo busto» dipinto nel 1635 dal celebre pittore olandese Rembrandt Harmeszoon Van Rijn. Il testamento del barone Quintieri stabilisce che il lascito serve a mantenere il Colosimo e i suoi ospiti non vedenti. Ma non dice come debba essere amministrato. Il condominio di Roma, i castelli, le ville, le tenute e quant’altro vengono quindi affidati alla Sauie, Società anonima urbana industria edilizia srl, una vecchia scatola creata dal barone proprio per gestire l’immobile di via Panama, che passa anch’essa sotto il controllo della Regione Campania e diventa la stanza dei bottoni per amministrare un patrimonio di centinaia di milioni di euro (...) Quale però sia il rendimento di questo incredibile tesoro, è un capitolo a parte(...) All’inizio degli anni Duemila inizi una battaglia a suon di interrogazioni condotta da un consigliere regionale di An, in seguito passato all’Udc, Salvatore Ronghi. Denuncia che l’Istituto per i ciechi ha ricevuto per vent’anni soltanto le briciole: 600 milioni di lire l’anno, per giunta soldi versati dagli enti locali e non proventi dell’eredità Quintieri. Che le pigioni sono ridicole, e porta l’esempio di un appartamento di cinque stanze al piano nobile di via Partenope affittato per anni a 85.535 lire al mese (...)Che «a seguito di tale, a dir poco, disinvolta amministrazione », gli eredi della famiglia Quintieri hanno fatto causa per rientrare in possesso dei beni «così malamente utilizzati». Ma Ronghi non si ferma a questo. Chiede di conoscere come sono gestite le aziende agricole, e perché 38 ettari di terreno in quella laziale sono stati affittati alla società Aviocaipoli, per realizzare una pista di volo per aerei ultraleggeri, a un canone provvisorio di 5 mila euro l'anno. Chiede di sapere il motivo per cui si spendono centinaia di migliaia di euro di consulenze. Chiede chiarimenti sulla lievitazione dei costi di alcuni appalti per sistemare locali. E cita come esempio di gestione «fallimentare » un fatto incredibile: la vendita di 30 mila bottiglie di vino Doc prodotto dall’azienda agricola marchigiana al prezzo di un euro l’una, «a fronte di un valore che va da 5,50 a 12 euro, con una perdita secca di 200 mila euro». Un quadro, quello dipinto da Ronghi (...) stupefacente. Condito da una quantità incredibile di particolari sconcertanti, come quello di un presunto furto di 37 vacche dalle stalle di Passerano, dove secondo un’altra sua interrogazione presentata a febbraio del 2009 sarebbero morti «oltre cento capi di bestiame». Magari i suoi sospetti sulla evaporazione di alcuni beni erano esagerati (...) Ma è difficile da credere che un privato avrebbe gestito peggio di così tutto questo ben di Dio. E l’Istituto Colosimo, con i suoi ospiti non vedenti, sarebbe letteralmente coperto d’oro. Sapete quanti sono oggi i ciechi per i quali viene giustificata l’esistenza in vita della società immobiliare della Regione, con i suoi amministratori, il collegio sindacale, i dirigenti, i dipendenti, i contabili, le aziende agricole, i castelli, i 52 appartamenti dei Parioli, le pratiche burocratiche, gli appalti e gli scontri furiosi in consiglio regionale? Sono quarantasette, dei quali appena trentuno a convitto. Quarantasette! Sergio Rizzo 15/04/2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Lo Stato paga dopo 138 giorni Inserito da: Admin - Aprile 22, 2009, 12:53:05 pm Ad essere in ritardo nei pagamenti sono soprattutto le Asl: Lo Stato paga dopo 138 giorni
È il tempo per saldare le fatture. Confindustria: 60 miliardi alle imprese. Il Tesoro: sono 30 «La presidenza del Consiglio dei ministri è estranea a ogni rapporto scaturente dalla presente ordinanza». Firmato: la presidenza del Consiglio dei ministri. Questo passaggio del provvedimento governativo con cui è stato nominato il nuovo commissario per l'emergenza rifiuti in Calabria basta da solo a spiegare che cosa sta succedendo alla Tec, una società che brucia nell'inceneritore di Gioia Tauro la spazzatura calabrese per conto del commissariato. Un paio d'anni fa il gruppo francese Veolia ha comprato dall'ex amministratore delegato della Cogefar Impresit Enso Papi, uno dei primi a finire nel ciclone di Mani Pulite, il 75% della Termomeccanica, ritrovandosi così proprietario anche dell'azienda calabrese. Florida sulla carta, inguaiata nella sostanza, visto che nessuno paga. Non paga lo Stato, ma neppure la Regione. I crediti della Tec superano ormai 90 milioni di euro. Una parte di essi, quella dei contributi regionali sulle tariffe, aspetta di essere saldata addirittura dal 2004. Con un paradosso: che gli interessi di mora adesso si sono mangiati anche la piccola fetta che era stata pagata. E il debito è tornato praticamente al livello iniziale. I responsabili dell'azienda hanno chiesto spiegazioni a Palazzo Chigi. Sentendosi rispondere dal sottosegretario Guido Bertolaso che non devono battere cassa da Silvio Berlusconi ma dal presidente della Regione Calabria Agazio Loiero. Da allora è cominciato un imbarazzante ping pong. Il governo avrebbe chiesto anche un parere al Consiglio di Stato su certe pendenze, con i francesi sempre più allibiti, al punto da non escludere, in assenza di risposte certe, di lasciare la Calabria. Gli si può dar torto? In Francia l'amministrazione di Nicolas Sarkozy ha appena fatto una legge che impone alle imprese (tutte, pubbliche e private), di pagare tassativamente entro 30 giorni. La Gran Bretagna ha addirittura ridotto il termine massimo per i pagamenti della pubblica amministrazione ai suoi fornitori da 30 a 8 (otto) giorni. E da noi, dove non hanno certamente tutti le spalle larghe come quelle di Veolia? Secondo un'indagine della Confartigianato che risale a due anni fa le pubbliche amministrazioni italiane pagano mediamente in 138 giorni, contro una media europea di 68 giorni. Peggio, soltanto il Portogallo. Vero è che in Italia nessuno paga sull'unghia. Anche le grandi imprese come la Fiat sono abituate a prendersela piuttosto comoda con i loro fornitori. Tanto più con la crisi. Ma c'è un limite a tutto. Sapete in quanto tempo mediamente (e si deve sottolineare il «mediamente») le aziende sanitarie locali molisane, secondo l'Assobiomedica, onoravano i propri impegni nel gennaio 2008? In 921 giorni. Proprio così: due anni, sei mesi e undici giorni. A febbraio 2009 si era scesi a 633 giorni. In linea con Calabria e Campania, le ultime della classe. Ma il bello è che non ci sono progressi reali. A febbraio del 2009 il ritardo medio dei pagamenti delle Asl risultava, sempre secondo l’Assobiomedica, di 288 giorni. Esattamente come nel dicembre del 1990. Perché? «Per due motivi. In primo luogo le pubbliche amministrazioni italiane non credono nel sistema, sono sempre state convinte che meno soldi danno più risparmiano. In secondo luogo la loro affidabilità viene valutata dalle agenzie di rating sulla cassa: meno spendono, più sono considerate affidabili, indipendentemente dal debito», dice il presidente dell’Assobiomedica Angelo Fracassi. Ma forse nel 1990 i volumi erano diversi. Nessuno è in grado di dire quanti debiti abbiano accumulato le pubbliche amministrazioni con le imprese, prevalentemente nei settori della sanità e dei servizi. E già questo è un fatto decisamente curioso. Ma lo è ancora di più che si litighi su dati che nessuno ha. Confindustria stima che l’esposizione totale sia pari a metà di quei 120 miliardi di euro che ogni anno Stato ed enti locali spendono per acquistare beni e servizi. Stima che il Tesoro contesta, preferendo parlare di una trentina di miliardi, forse meno. In ogni caso la cifra vale da un minimo di due fino a quattro punti di Prodotto interno lordo. Ma come si è potuti arrivare a questo punto? La colpa non è soltanto di una burocrazia ottusa che partorisce norme apparentemente strampalate come quella dell’ordinanza per i rifiuti della Calabria, che richiama alla mente il «Comma 22» del famoso film di Mike Nichols. Ricordate com’era formulato? «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo». Anche in Italia, pur senza voler considerare la direttiva europea che avrebbe fissato per tutti i Paesi il limite di un mese, esisterebbero un termine più o meno certo per i pagamenti della clientela pubblica: 90 giorni. Ma il condizionale è d’obbligo. I trasferimenti dello Stato arrivano sempre in ritardo. Poi le Regioni ci mettono del loro. Qualcuna si impegna soldi che non ha. E poi c’è sempre quel meccanismo bizantino del bilancio pubblico fatto sia sulla base della «cassa» che della «competenza » (la differenza fra i soldi che materialmente si devono tirare fuori e quelli che invece si devono solo impegnare sulla carta)a complicare le cose. Risultato: i mesi passano senza che nessuno faccia nulla. Nemmeno le imprese, che ormai (quelle che possono perché non devono pagare troppi stipendi) si sono abituate all’andazzo. Dopo 90 giorni, dice la legge, le aziende dovrebbero far scattare automaticamente gli interessi. Salatissimi. Ma non scattano quasi mai, perché le ditte hanno paura di essere penalizzate nei contratti futuri. Si è arrivati al paradosso che la Campania ha recentemente approvato una legge regionale (impugnata dal governo) con cui si stabilisce che ospedali e Asl non possono subire pignoramenti. Ogni tanto qualcuno solleva in Parlamento, con emendamenti e disegni di legge, il problema di uno Stato velocissimo a pretendere ma lentissimo a riconoscere i propri debiti. Uno per tutti: Nicola Rossi. Ma le sue proposte, manco a dirlo, non sono state nemmeno esaminate. Le hanno lasciate semplicemente ammuffire nel cassetto. Più comodo andare avanti così, nascondendo sotto il tappeto qualche miliardi di euro di debito pubblico. Pazienza se le imprese aspettano anche anni per incassare il dovuto. Sentite Fracassi, che è anche presidente della D-group, una impresa che opera nel settore dei sistemi per le analisi di laboratorio clinico: «Il Policlinico Umberto primo di Roma è fallito qualche anno fa. Hanno fatto un’azienda nuova e i fornitori della vecchia sono ancora in attesa. Io sto aspettando da dieci anni. Ma questo è ancora niente: sei mesi fa ho incassato crediti per 300 milioni delle vecchie lire dalla Regione Puglia che risalivano a prima del 1994. E ho dovuto rinunciare agli interessi». Per non parlare di quello che succede nel settore dei rifiuti. Nel Lazio gli enti locali hanno debiti per circa 200 milioni di euro: a dicembre del 2008 l’Ama, l’azienda municipalizzata di Roma, doveva a Manlio Cerroni, il titolare della discarica di Malagrotta, 135 milioni. A 900 milioni ammontano invece i debiti «pubblici» nei confronti delle aziende che smaltiscono i rifiuti in Sicilia. Regione dove c’è una situazione assurda: il 90% dei Comuni ha trasferito la competenza sui rifiuti alle autorità di bacino, insieme alla riscossione delle imposte. Ma ci si è dimenticati, piccolo particolare, che la Tarsu non copre che il 60% (quando va bene) del costo dello smaltimento. Perciò i soldi per pagare le imprese materialmente non ci sono. Si arrangino. Insomma, è un pandemonio. Aggravato da norme come quella rinverdita dal governo di Romano Prodi, che vieta alle amministrazioni pubbliche di pagare le imprese che abbiano una sia pur piccola pendenza con lo Stato. Per esempio, un contenzioso fiscale. Tutto questo, naturalmente, ha un costo che è stato calcolato in circa un miliardo di euro l’anno di maggiori oneri finanziari: 150 milioni per le sole imprese della Lombardia. Come uscirne da una faccenda tanto grave e complicata che l’Authority per i lavori e le forniture pubbliche presieduta da Luigi Giampaolino ha deciso di avviare un’indagine conoscitiva? Nel decreto anticrisi diventato legge alla fine di gennaio il governo ha inserito un paio di norme per agevolare la riscossione di quei crediti. E ora il Tesoro ha quasi completato la stesura dei regolamenti attuativi. La prima norma è la possibilità di far intervenire la Sace, compagnia assicurativa del Tesoro, per dare garanzia alle banche che concedano anticipazioni alle imprese creditrici o per riassicurare polizze stipulate dai creditori garantendosi dal rischio che il «pubblico» non paghi. Iniziativa singolare, considerando che così, anche se indirettamente, lo Stato garantisce il privato contro il rischio che lo Stato si riveli inadempiente. La seconda norma stabilisce invece che le Regioni e gli enti locali rilascino al creditore una «certificazione» per non avere difficoltà a scontare il credito in banca. Un modulo, come quello che già c’è per lo Stato, nel quale semplicemente si ammette l’esistenza del debito. Un’ovvietà. Se non fosse che quella «certificazione » trasformerebbe automaticamente il debito commerciale in debito pubblico. Motivo per il quale il Ragioniere generale dello Stato è molto preoccupato. Molto. Perché almeno due punti in più, di colpo, su un debito pubblico come il nostro non sono mai uno scherzo. Figuriamoci adesso. Sergio Rizzo 22 aprile 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Catania riscuote solo un affitto su dieci Inserito da: Admin - Maggio 12, 2009, 10:48:33 pm Sotto l’Etna il 23,9% degli inquilini non avrebbe i titoli per ottenere un alloggio
Le case popolari dei conti in rosso Catania riscuote solo un affitto su dieci Buco record di quasi 8 milioni di euro. Ma scatta la corsa a cento poltrone ROMA — La notizia è dentro una ricerca fatta dal Censis e Federcasa con Dexia Crediop: alle case popolari di Catania chi paga l’affitto è una mosca bianca. La morosità aveva raggiunto nel 2006 il 92,5%. Su 8 milioni 617.680 euro di canoni lo Iacp del capoluogo etneo ne aveva incassati in un anno intero 644.376. Una miseria. Soprattutto considerando il costo medio dell’affitto: 67 euro al mese. Una situazione oltre i limiti dell’incredibile, che non si spiega soltanto con l’abusivismo dilagante, ai livelli più alti d’Italia. Su 10.003 alloggi popolari, a Catania ce ne sono 2.386 occupati abusivamente. È il 23,9% del totale. Un record nazionale battuto soltanto da Palermo, dove le case popolari occupate da inquilini senza titolo per starci sono circa 3.000, ossia il 27,3% del totale. Di fronte a questo stato di cose sarebbe logico aspettarsi che qualcuno si rimboccasse le maniche. E non che invece, come sta accadendo in Sicilia, si discutesse di poltrone. Cento, per l’esattezza. Il caso è stato sollevato alla Regione da due «deputati» regionali del Popolo della libertà, Marco Falcone e Pippo Correnti. Sono stati loro a denunciare l’imminenza di una ondata di nomine agli Istituti autonomi delle case popolari siciliani. Gli enti sono dieci (uno per provincia più quello di Acireale), ognuno dei quali con dieci posti in consiglio di amministrazione: tre nominati dalla Provincia, tre dai sindacati, due dagli assessorati al Lavoro e ai Lavori pubblici, uno dalle associazioni degli inquilini e l’ultimo dagli ordini professionali. Una lottizzazione con il bilancino, dove al solito sono i politici a fare la voce grossa. Un caso per tutti: alla presidenza dello Iacp di Catania c’era fino a poco tempo fa Vincenzo Gibiino, parlamentare in carica eletto con il partito di Silvio Berlusconi. Il fatto è che la Sicilia è praticamente l’unica regione a trovarsi in questa situazione. Nell’isola la riforma del 1998 che ha spazzato via gli Iacp in quasi tutta Italia, passando la competenza alle Regioni e trasformandoli in aziende con un consiglio di amministrazione al massimo di cinque componenti, non è mai stata attuata. I vecchi istituti per le case popolari sono sopravvissuti a ogni timido tentativo di cambiamento. Nei mesi scorsi il presidente della Regione Raffaele Lombardo ha sostituito i presidenti con commissari ad acta. E ora sono partite le grandi manovre per rinnovare completamente i consigli di amministrazione. Uno scandalo, anche secondo il sindacato guidato da Guglielmo Epifani. Hanno denunciato Michele Palazzotto e Antonio Crispi della Cgil: «Gli Iacp rappresentano terreno di conquista per politici di ritorno e clientele politico affaristiche. In Sicilia ogni istituto ha ben dieci consiglieri, fra cui un presidente e un vicepresidente, tutti con status giuridico, indennità, diritto all’aspettativa e spese di missione». Di che cifre si sta parlando, lo spiega Falcone: «Con una legge regionale del 2008 gli emolumenti dei vertici degli Iacp siciliani sono stati parametrati a quelli dei vertici delle Province. La retribuzione del presidente di ognuno dei dieci istituti è pari al 75% di quella del presidente della Provincia». Facendo i conti, non meno di 7.500 euro al mese. «Lo Iacp di Catania, per esempio, potrà arrivare a costare 50 mila euro al mese per i compensi degli amministratori», sostiene il deputato regionale del Pdl. «L’esperienza dice che dove i vecchi Iacp sono diventati aziende e i consigli sono stati ridotti a tre, al massimo cinque componenti, si riesce a gestire il servizio senza contributi pubblici e magari ottenendo qualche piccolo utile. La Sardegna, per esempio, ha chiuso i vecchi Iacp e li ha riuniti in una sola azienda. In Liguria hanno fatto la scelta dell’amministratore unico. Come nelle Marche», dice Luciano Cecchi, il presidente di Federcasa, l’associazione che riunisce gli istituti riformati. Non che i problemi manchino neppure dove la legge del 1998 è stata attuata. Nel Comune di Roma, per esempio, le case popolari occupate abusivamente sono 5.863, l’11,1% del totale. A Milano, invece, 3.409, il 5,2%. E se a Palermo la morosità, pur notevolmente inferiore a quella di Catania, raggiunge comunque la vetta del 34,7%, a Roma si arriva al 41,2%, con 21 milioni di euro non incassati ogni anno, e a Cagliari si tocca il 44%. Ben più che a Torino (32,5%), e addirittura a Napoli, città nella quale non si riscuote circa il 24% degli affitti delle case popolari. Mentre a Milano la morosità è al 10,2%, ma fra il 2001 e il 2006 è raddoppiata. Sergio Rizzo 12 maggio 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Nei Comuni meno poltrone e sindaci a vita Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 02:56:20 pm Bozza di intervento sulle autonomie locali: nessun limite di mandato per i primi cittadini
Il piano-tagli: via 1.612 enti «dannosi» Nei Comuni meno poltrone e sindaci a vita Il progetto di Calderoli: addio alle comunità montane e ai difensori civici Dopo cinquantratrè anni di frustrante conflitto (la guerra è cominciata nel 1956) con gli enti inutili, ecco schiudersi un nuovo fronte. Quello contro gli enti «dannosi». Avete letto bene: «dannosi». Proprio così li definisce una bozza (anzi, una «bozzaccia » come la chiama il leghista Roberto Calderoli) di disegno di legge al quale il ministro della Semplificazione sta lavorando insieme ai suoi colleghi dell'Interno, Roberto Maroni, e degli Affari regionali, Raffaele Fitto. Enti non soltanto inutili, ma anche «dannosi»: quindi da chiudere e poi gettare via la chiave. «Norme di soppressione degli enti dannosi», recita testualmente il capo terzo della “bozzaccia”. Quali sono? I difensori civici, innanzitutto, che dovrebbero scomparire nel momento stesso in cui questa legge venisse approvata. Poi i commissariati per la liquidazione degli usi civici, la cui funzione deriva da una norma del 1927. E i tribunali delle acque pubbliche, istituiti come conseguenza di un provvedimento del 1933. Tuttavia questo non è che l'antipasto di una riforma destinata a rivoluzionare Comuni, Province e tutto quello che c'è intorno, ben più rapidamente della legge delega sul federalismo. Ma anche a scuotere la politica suscitando reazioni controverse. Un esempio? La «bozzaccia» del disegno di legge di riforma delle autonomie locali prevede l'abolizione del limite dei due mandati consecutivi per l'incarico di sindaco e di presidente della Provincia. Se la proposta passerà, si potrà fare il sindaco a vita, rimettendo indietro di anni l'orologio della nostra storia. Una modifica che è fortemente sostenuta dalla Lega Nord, ma che non piace invece al Pdl. E non sarà nemmeno facile far passare i tagli, sacrosanti, stabiliti per i consigli e le giunte comunali e provinciali. I consiglieri dei Comuni con oltre 500 mila abitanti non potranno superare il numero di 40. E così a scalare. Per i Comuni minori, fino a 3 mila abitanti, il limite massimo è di 6. I consiglieri provinciali non potranno in ogni caso essere più di 30. Fra sindaco e assessori le giunte comunali non dovranno avere più di 12 poltrone. Quelle provinciali, non più di 8. I Comuni fino a mille abitanti non avrebbero nemmeno la giunta, ma soltanto il sindaco. Non sono le uniche novità. La riforma stabilisce pure che Province e Comuni abbiano un segretario con l'incarico di controllare gli atti: nominato non dall'amministrazione ma da un organismo terzo, una speciale «Agenzia autonoma per l'efficienza degli enti locali». Facile immaginare le reazioni che provocheranno pure le altre sforbiciate previste dalla «bozzaccia». Forse ancora più dolorose di quelle appena descritte. Sforbiciate, in numero di ben 1.612 (tanti sono gli enti che verrebbero eliminati) recepite da una proposta di legge del deputato del Pdl Mario Valducci, ora convogliata pressoché integralmente in questa riforma, di cui rappresenta una delle parti più sostanziose. La tagliola calerà sulle 185 comunità montane. Identica sorte avrebbero i 63 «Bacini imbriferi montani», i 138 enti parco regionali, le 91 Ato, i 600 enti strumentali regionali. E i 191 consorzi di bonifica, pianeta tutto da scoprire. Un caso per tutti: il consorzio di bonifica delle colline livornesi ha 16 dipendenti ma 33 fra consiglieri delegati, deputazione amministratrice e collegio sindacale. Con regolare gettone di presenza. Calerà, la tagliola, anche sulla pletora dei consigli circoscrizionali. La «bozzaccia» prevede che sopravvivano soltanto nelle città con più di 250 mila abitanti: una riforma già tentata dal centrosinistra ma affossata nelle paludi della politica. E si capisce perché. Il testo unico del 2000 sugli enti locali stabilisce che ci siano le circoscrizioni soltanto nelle città con più di 100 mila abitanti, lasciando però spiragli anche per chi ha anche appena 30 mila residenti. Il risultato è che una città come Asti, con 70.598 abitanti, ha 110 consiglieri circoscrizionali. A Como, 8 mila anime più di Asti, sono 144. Come ad Ascoli Piceno, che è forse un caso limite. Perché nel capoluogo marchigiano, 50.135 abitanti, c'è un eletto ogni 348 cittadini, contro un rapporto di uno a 5.178 per Roma. E le Province? Dopo le vane promesse elettorali di abolirle («tutte», tenne a precisare Silvio Berlusconi) sono state salvate dalla legge sul federalismo. E pure da questa riforma. Anche se qualcuna potrebbe rischiare. Entro due anni il governo dovrà fare un decreto per razionalizzare le province, prevedendo fra l'altro la soppressione di quegli enti con un rapporto non ottimale fra popolazione ed estensione territoriale. Ne vedremo delle belle, sempre che la «bozzaccia» arrivi al Consiglio dei ministri, si prevede il mese prossimo, con tutto quello che c'è dentro adesso. Manca solo un argomento, forse il più spinoso: l'incompatibilità degli incarichi. Ma questo, in un Parlamento nel quale ci sono 70 deputati e senatori che fanno anche i sindaci, gli assessori, i consiglieri e perfino i presidenti di Provincia, è davvero un'altra storia. Sergio Rizzo 17 maggio 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Bloccate le nomine dei 16 commissari Inserito da: Admin - Maggio 25, 2009, 11:01:04 am GRANDI OPERE/IL CASO
Dal Ponte sullo Stretto al Mose Bloccate le nomine dei 16 commissari Fermata sul filo di lana la lista dei nomi Il decreto anticrisi approvato da sei mesi Il Mose - Manifestanti protestano contro la costruzione delle dighe mobili (Ansa) ROMA — La lista dei sedici nomi era pronta. Qualche alto papavero ministeriale, qualche superburocrate, qualche tecnico. Pronti per avere il bollo del governo: commissari alle grandi opere pubbliche. Uno per ognuna delle infrastrutture strategiche per il Paese. Impacchettata per il via libera del Consiglio dei ministri della scorsa settimana, all’ultimo momento è stata rimessa nel cassetto. Tutto rimandato. A quando? Appena possibile. Ma a questo punto, settimana più, settimana meno… Da quando il governo ha varato il decreto anticrisi con le misure urgenti (urgenti!) per far ripartire l’economia, fra cui figura proprio (articolo 20) l’istituzione dei commissari per mettere il turbo alle opere infrastrutturali che procedono a passo di lumaca, sono passati sei mesi. Quattro, invece, da quando il Parlamento ha convertito definitivamente in legge il provvedimento. Ma dei famosi commissari nemmeno l’ombra. Si dirà che per i tempi italiani, dove le decisioni si prendono al ritmo delle ere geologiche, quattro o sei mesi non sono niente. Peccato soltanto che gli effetti della crisi non aspettino i comodi della nostra burocrazia. Negli ambienti della maggioranza, dove i commissari vengono ovviamente difesi a spada tratta, si rigetta la tesi che tutto si sia bloccato a causa di contrasti politici o scontri fra poteri. I continui rinvii avrebbero a che fare piuttosto con altre questioni. Prima è sorto il problema di definire con esattezza le risorse a disposizione per il nuovo piano di infrastrutture: a un certo punto era stata ventilata l’eventualità di dirottare lì una parte dei soldi non utilizzati per gli ammortizzatori sociali. Poi c’è stato il terremoto dell’Abruzzo, che ha oggettivamente complicato tutto. Con la conseguenza di rendere più difficile la decisione sulle opere da accelerare. Quali affidare ai commissari? Il Ponte sullo Stretto di Messina? La Salerno-Reggio Calabria? Oppure il Mose? O magari la fantomatica autostrada Livorno-Civitavecchia, che sta tanto a cuore al ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, sindaco di Orbetello? Inutile dire che anche qui c’è stato un bel tira e molla. Non che non ci siano anche altri problemini. Vero è che i nuovi commissari si sono visti accrescere i poteri rispetto ai loro precedessori. Per esempio, potranno agire in deroga ad alcune norme vigenti, in caso di necessità. Ma anche intervenire quando ci si trovi di fronte a ritardi ingiustificati. E perfino proporre la revoca dei finanziamenti. Senza però avere in mano i cordoni della borsa, che restano saldamente in pugno alle cosiddette «stazioni appaltanti »: le Ferrovie, l’Anas… Un meccanismo che rischia di mettere oggettivamente i commissari in contrasto con i vertici di quelle «stazioni appaltanti ». Ecco perché Angelo Cicolani, ex direttore generale dell’Astaldi, parlamentare del Pdl considerato fra i massimi esperti di questo settore, aveva suggerito di nominare commissari proprio loro. Soluzione ora sempre possibile, ma non esplicitamente prevista. Esiste poi una pattuglia di burocrati frenatori che, in centro e in periferia, ha sempre considerato i commissari un’inutile iattura, buona soltanto a pestare i piedi ai provveditori alle opere pubbliche. Insomma, non manca nemmeno chi, sotto sotto, non ha mai smesso di remare contro. C’è da dire che i precedenti non sono esaltanti. I commissari alle grandi opere sono un’invenzione del primo governo di Romano Prodi, ministro l’ex sindaco di Venezia Paolo Costa. Senza grandi risultati. Non migliore fu l’esperienza dei commissari nominati nel 2003 dal secondo governo di Silvio Berlusconi, che con la legge obiettivo contava di rinverdire (parole dell’ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi) i fasti del Colosseo e delle Piramidi. «Avevano poteri limitati. E sono serviti concretamente in poche occasioni», ricorda oggi uno di loro: Aurelio Misiti, ex presidente del consiglio superiore dei Lavori pubblici, assessore della Regione Calabria, attualmente parlamentare dell’Italia dei Valori. Allora i commissari si dividevano cinque macroaree. A Misiti toccò il Sud e la Sicilia. Ma dopo qualche tempo si dimise in polemica con il governo avendo preso atto che, nonostante quanto era scritto nel piano delle grandi opere, non c’era alcuna intenzione di realizzare l’alta velocità ferroviaria fra Salerno e Palermo. Il secondo governo di Romano Prodi, estremamente diffidente nei confronti del piano infrastrutturale berlusconiano e diviso al proprio interno, dove i Verdi esercitavano un notevole potere di condizionamento, ereditò con il massimo scetticismo quei commissari. E alla scadenza degli incarichi non li rinnovò: da allora sono passati più di due anni. Sergio Rizzo 25 maggio 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO & Gian Antonio Stella. Aerei blu, corsi e ricorsi dei privilegi Inserito da: Admin - Giugno 02, 2009, 11:41:33 am IL CASO DEI VOLI DI STATO
Aerei blu, corsi e ricorsi dei privilegi I casi che hanno fatto discutere da Mastella ad Apicella Mastella arrivato a Linate con l'aereo di Stato per andare al Gp di Formula 1, a settembre 2007 (Sestini) «Tempo di rumba, tempo di te / Ballo e non ballo: ma perché?», si chiede Mariano Apicella in una canzone. Pare ora per quelle foto che lo mostrano mentre scende da un volo-blu, dei giudici potrebbero farlo «ballare» sul serio. Tanto più che in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti il menestrello del Cavaliere confidava già tutto: «Quando lui ha bisogno mi telefona Marinella, la segretaria: “Mariano, se non hai problemi il dottore ti vorrebbe stasera”. Io vado a Roma, poso la macchina a Ciampino e parto con lui sull’aereo presidenziale. Quasi sempre per la Sardegna, qualche volta per Milano». A spese dei cittadini. Si dirà: che c’entra? L’aereo pubblico partirebbe lo stesso e un passeggero in più non incide di un centesimo! È esattamente ciò che disse Clemente Mastella, nel settembre 2007, dopo essere stato denunciato dall’Espresso mentre saliva col figlio sul volo di Stato che portava Francesco Rutelli a Monza per il Gran premio di F1: «Mio figlio non lo vedo mai, che male c’è se l’ho portato al Gran premio? Tanto, se in aereo eravamo 10 o 15 non cambiava niente». Eh, no, è una questione di principio, titolò la Padania: «L’inGiustizia vola al Gran Premio ». Il Giornale berlusconiano rincarò: «Non dicevano di voler tagliare i costi della politica? Forse usare l'aereo di Stato più faraonico che ci sia per assistere al Gp di Monza non è il miglior modo di risparmiare. O no? Per dire: il Gran premio lo trasmettevano pure su RaiUno, il cui segnale, ci risulta, dovrebbe arrivare fino a Ceppaloni». E Alessandra Mussolini, furente: «Ho messo sul sito gli indirizzi e-mail di Rutelli e Mastella per consentire a tutti i cittadini di coprirli di “Vergogna!”» Dice oggi Palazzo Chigi che i «passaggi» offerti al cantautore personale del Cavaliere («Mi disse: “Vorrei avere qualcuno che mi fa un po’ rilassare nei fine settimana”») sono assolutamente legittimi: «La disciplina dell'impiego degli aerei di Stato è stabilità dalla Direttiva 25 luglio 2008, regolarmente registrata alla Corte dei Conti, che ne detta le regole per tutte le Autorità ammesse ad usufruirne». E cosa dice questa legge, che spazzò via quella più restrittiva fatta dal governo Prodi per arginare un andazzo che nel 2005 aveva visto impiegare i voli di Stato per 37 ore al giorno con una spesa di 65 milioni di euro pari al costo di 2.241 (duemiladuecentoquarantuno) biglietti andata e ritorno al giorno (al giorno!) da Milano a Londra con la Ryanair? Dice quella legge (bollata allora da Libero con il titolo «Onorevoli e vip: Silvio allarga gli aerei blu» sotto l’occhiello: «Voli di Stato: la Casta mette le ali») che quelli che Luigi Einaudi chiamava «i padreterni» possono imbarcare persone estranee «purché accreditate al seguito della stessa, su indicazione dell'Autorità, anche in relazione alla natura del viaggio e al rango rivestito dalle personalità trasportate ». Di più: «L'imbarco di persone estranee alla delegazione non comporta quindi alcun aggravio degli oneri comunque a carico dell'erario ». Appunto: la tesi di Mastella. Obiezioni? Ma per carità: la legge è legge. E non ci permettiamo di dubitare che sia stata rispettata fino in fondo. Un conto è il rispetto delle regole formali, però (tanto più se queste sono state cambiate apposta) e un altro è l'opportunità. È probabile che lo stesso Berlusconi avesse tutti i diritti mesi fa di prendere l’elicottero della protezione civile per andare a farsi un massaggio alla beauty farm di Mességué in Umbria, come documentò un filmato del TG3. L’opportunità, però è un’altra cosa. E dispiace che anche questi episodi, gravi o secondari che li si consideri, confermino una certa «rilassatezza» sui costi e i privilegi della politica. Come se la rovinosa sconfitta della sinistra alle elezioni dell'aprile 2008 avesse già saldato il conto tra la politica e i cittadini indignati. Che la sinistra, incapace di capire l'insofferenza montante, meritasse la batosta, lo hanno ormai ammesso in tanti. Compreso Fausto Bertinotti, finito nel mirino proprio per i voli blu: «I nostri gruppi dirigenti? Sganciati e lontani dalla realtà dei lavoratori, autoreferenziali, così si è venuta formando anche a sinistra una vera e propria casta, un ceto politico interessato solo alla propria sopravvivenza». Sarebbe davvero un peccato se la destra, che in gran parte cavalcò quei sentimenti di indignazione e oggi, secondo il Pd, triplica (da 150 a oltre 400 ore medie al mese) quei voli blu che ieri bollava con parole di fuoco, pensasse che la grande ondata di insofferenza si sia allontanata per sempre. Peggio ancora se pensasse che non c'è più bisogno di una robusta moralizzazione del sistema. Certo, alcune misure sono state prese. La Camera e il Quirinale, quest'anno, dovrebbero costare meno dell'anno scorso. Ma già al Senato, ad esempio, non sarà così. E molti episodi rivelano una sconfortante indifferenza nei confronti dei tagli e soprattutto delle riforme ancora necessari. Basti pensare alla recentissima denuncia dei «portaborse» secondo i quali i presidenti delle Camere, dopo avere «annunciato solennemente un giro di vite radicale contro lo scandalo dei collaboratori parlamentari assunti in nero», hanno riciclato «parola per parola, i contenuti di una missiva analoga spedita il 28 marzo 2007» e da loro stessi giudicati «inadeguati». O all’assenteismo dei nostri euro- parlamentari, 10 dei quali sono tra gli ultimi 20 nella classifica. O alla decisione di varare l'area metropolitana di Reggio Calabria nonostante sia per abitanti al 44º posto tra gli agglomerati urbani perfino dietro Aversa, Varese, Chiari, Vigevano… O ancora alla timidezza nel prendere di petto temi politicamente spinosi come la gestione di carrozzoni quali la Tirrenia o l’Amia, la società che dovrebbe occuparsi dei rifiuti da cui è sommersa a Palermo e i cui capi (tra i quali il presidente, promosso a senatore) andavano negli Emirati Arabi a «vendere» la raccolta differenziata «alla palermitana» spendendo anche 500 euro a pasto. Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella 02 giugno 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO La rivelazione del tesoriere Pd «In 5 anni ai partiti 941 milioni» Inserito da: Admin - Giugno 11, 2009, 05:38:39 pm Il libro
La rivelazione del tesoriere Pd «In 5 anni ai partiti 941 milioni» Mauro Agostini svela i meccanismi dei «rimborsi» e la difficile convivenza con i colleghi di Ds e Margherita ROMA - «Il tesoriere ha in mano i cordoni della borsa di un partito. Figura tradizionalmente oscura, un po’ sinistra, al punto da passare per colui che manovra non solo i denari ma anche i segreti più turpi della politica ». Tanto basterebbe a spiegare perché nessun tesoriere di partito abbia mai scritto un libro. Nessuno prima di Mauro Agostini, l’uomo che un anno e mezzo fa ha avuto (e ha tuttora) in mano i cordoni della borsa del Partito democratico: non si sa se per coraggio o incoscienza. Il suo libro, da cui sono tratte queste frasi, esce oggi in libreria, l’ha pubblicato Aliberti in una collana diretta da Pier Luigi Celli e si chiama semplicemente Il tesoriere. Da un titolo così è lecito attendersi anche qualche considerazione numerica. Che infatti non manca. A cominciare dal calcolo minuzioso di quanti soldi pubblici, attraverso il meccanismo ipocrita dei cosiddetti rimborsi elettorali, sono entrati nelle tasche dei partiti italiani soltanto negli ultimi cinque anni, dal 2004 al 2008. Reggetevi forte: 941 milioni 446.091 euro e 14 centesimi. Cifre senza eguali in Europa, se si eccettua, sostiene Agostini, la Germania. La ciccia, tuttavia, non è nei numeri. Il tesoriere sostiene che è necessario un sistema di finanziamento dei partiti «prevalentemente pubblico » senza più ipocrisie, ma con «forme di controllo incisive e penetranti » di natura «squisitamente pubblica» e il «vincolo esplicito» di una gestione sobria ed economica prevedendo anche «sanzioni reputazionali ». Ma al tempo stesso non può non ripercorrere la storia dei ruvidi rapporti con i suoi colleghi dei Ds, Ugo Sposetti, e della Margherita, Luigi Lusi, i due partiti che hanno dato vita al Pd. «Il nuovo partito nasceva senza un euro. L’obiettivo, mai esplicitato, ma evidente in comportamenti (...) dei tesorieri Ds e Margherita era quello di dare vita a una sorta di triumvirato nella gestione delle risorse, di cui però i veri sovrani avrebbero dovuto essere Ugo Sposetti e Luigi Lusi, in quanto titolari dei rimborsi elettorali. Con le conseguenze facilmente immaginabili: quando le cose sarebbero andate secondo i desiderata dei due vecchi azionisti, i soldi sarebbero affluiti regolarmente, in caso contrario no. È evidente che la questione rivestiva un valore (...) squisitamente politico e di autonomia del nuovo partito». Una ricostruzione che indica senza mezzi termini fra le cause delle difficoltà interne del Pd la sopravvivenza dei vecchi apparati di partito, con le rispettive munizioni finanziarie. Agostini ricorda che i Ds avevano provveduto a blindare in fondazioni «con un percorso opaco» migliaia di immobili. E che il tesoriere della Margherita, Lusi, aveva dato sì la disponibilità a contribuire al Pd con i rimborsi elettorali, «a condizione che anche i Ds avessero fatto la loro parte, in ragione di quaranta a sessanta per cento». Ma «l’impossibilità dei Ds» a mettere mano al portafoglio motivata da quel partito con il forte indebitamento «assolveva tutti dall’obbligo politico di sostenere il Pd». Questa vicenda è chiaro sintomo di quella che Agostini definisce «un’ambiguità di fondo mai esplicitata ma che percorrerà il progetto sotto pelle in tutto il suo primo anno di vita e che rischia di essere anche la causa profonda della crisi che sfocia nelle dimissioni di Walter Veltroni ». Ancora: «L’ispirazione sembra più quella di dare vita a una specie di consorzio o di holding i cui diritti principali restano in mano ai soci fondatori, piuttosto che fondare una nuova formazione politica». La notizia con la quale comincia Il tesoriere, e cioè che il Pd ha fatto certificare il bilancio 2008 dalla Price Waterhouse Coopers («la prima volta», rivendica con orgoglio Agostini, che un partito italiano sottopone i suoi conti a una verifica del genere), valga a questo punto come una consolazione. Perché se la diagnosi politica è giusta, la strada è ancora tutta in salita. Dettaglio non trascurabile: il libro viene presentato oggi dal segretario del Pd, Dario Franceschini. Sergio Rizzo 11 giugno 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Viaggiatori di serie B Inserito da: Admin - Giugno 16, 2009, 04:11:08 pm I PENDOLARI E I TRENI IN RITARDO
Viaggiatori di serie B «Mi fa male al cuore offrire un servizio non adeguato ai pendolari », ha confessato l’attuale presidente delle Ferrovie Innocenzo Cipolletta. Certamente non il primo a cospargersi il capo di cenere per i disagi inflitti a chi tutte le mattine prende il treno per andare al lavoro. «Sappiamo che abbiamo un debito con loro», aveva ammesso quattro anni fa il suo predecessore Elio Catania. Ma già nel 1997 Giancarlo Cimoli chiedeva pubblicamente «scusa ai passeggeri ». Promettendo almeno «l’aria condizionata in tutti i vagoni dei pendolari ». Anche se poi l’aria condizionata in «tutti» i vagoni non è mai arrivata. E i politici? Perfino inutile elencare le promesse, tante sono state. Ma «viaggiare su treni confortevoli, senza sovraffollamento e con il rispetto degli orari», per usare le parole dell’ex ministro Alessandro Bianchi, è sempre stata un’illusione. Nel 1993 l’allora titolare del dicastero dei Trasporti, Raffaele Costa, almeno ci mise la faccia. Salì su un treno di pendolari a Santhià e ne scese a Novara con i capelli dritti: «Su questo problema dovremo intervenire». Ma non ne ebbe l’occasione. Dodici anni dopo ci provò anche il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni. Appena messo il piede nel vagone alla stazione di Legnano fu accolto da una salva di commenti ironici: «Oggi c’è Formigoni e il treno ha soltanto cinque minuti di ritardo...». Ma neanche le iniziative più temerarie hanno smosso le acque. I pendolari bloccavano i binari per protesta a metà degli anni Settanta e i loro figli oggi fanno lo stesso. Soltanto, più organizzati. Ora hanno un Coordinamento che con la Federconsumatori ha sfornato una specie di «Libro nero» sulle magagne ferroviarie. A cominciare dai ritardi. Ogni viaggiatore «abituale» ne accumulerebbe mediamente 100 ore l’anno. E se nel 1980 si andava da Torino a Milano in un’ora e mezzo, il Coordinamento dice che oggi ci vuole almeno un quarto d’ora in più. Va detto che non si può caricare la croce tutta sulle spalle delle Fs e delle aziende di trasporto. L’Italia sconta ritardi storici della politica, accumulati per totale assenza di strategia. Intendiamoci: non che in questi ultimi due decenni i governi di turno abbiano lesinato i quattrini. Il fatto è che tutte le energie sono state assorbite dal progetto, anche mediaticamente molto redditizio, dell’alta velocità. Con il risultato che oggi l’Italia, finalmente, ha un treno in grado di fare concorrenza all’aereo fra Milano e Roma. Ma continua ad avere le Regioni del Nord intrappolate tutti i giorni nella morsa del traffico automobilistico anche perché i collegamenti ferroviari sono quello che sono. Inefficienti, disagevoli e anelastici: con carrozze a turno deserte o strapiene senza che si sia trovato il modo di far viaggiare treni più lunghi o più corti quando serve. E non parliamo di una zona depressa, ma dell’area più ricca e sviluppata d’Europa. Viene quasi l’idea che i nostri politici non abbiano mai preso un treno. Oppure non siano mai stati in Francia o Germania. Ma è netta anche la sensazione che la cultura ferroviaria non abbia ancora accettato del tutto il principio che i binari servono per trasportare persone o merci. E non per far comunque circolare i treni. Sergio Rizzo 16 giugno 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Niente alibi Inserito da: Admin - Luglio 01, 2009, 11:03:05 am Niente alibi
Lo scaricabarile. Ecco ciò che dev’essere evitato a ogni costo, per rispetto alle vittime del tragico incidente di Viareggio. Le responsabilità vanno accertate rapidamente e se qualcuno ha sbagliato deve pagare senza sconti. E se esiste un problema di sicurezza, si affronti senza indugio. È sempre stato detto che le ferrovie italiane sono fra le più sicure d’Europa e a sostegno di questa tesi si portano le statistiche ufficiali. Le stesse statistiche dicono che il trasporto delle merci su rotaia è decisamente più sicuro di quello su gomma: nel solo 2008 novemila persone in Europa hanno perso la vita in incidenti stradali con mezzi pesanti. Niente di paragonabile al pur gravissimo bilancio dell’incidente di Viareggio, il primo mortale per un treno merci dal lontano 2000. Sarebbe tuttavia un grave errore cercare consolazione nelle statistiche. Una settimana fa c’era stato un incidente analogo sulla linea Bologna-Firenze che aveva coinvolto un’altra cisterna, piena questa volta di acido fluoridrico. Anche in quel caso era stata noleggiata (ma da una società diversa) e l’amministratore delegato delle Ferrovie Mauro Moretti aveva fatto l’ipotesi del «cedimento strutturale del carro». Alla luce di questi fatti qualche riflessione è inevitabile. Storicamente il settore merci delle Fs è in una situazione a dir poco difficile. I carri sono antiquati e spesso fermi per manutenzione. Il calo della quota di mercato è inesorabile. Ragion per cui non è nemmeno conveniente investire soldi in carri cisterna e si preferisce affittarli. Il conto economico assomiglia a quello della vecchia fallita Alitalia. Basta dire che Moretti ha definito un «fortissimo recupero» l’essere riusciti chiudere il 2008 con un buco di soli 100 milioni di euro. C’è da credergli: si partiva da una voragine da 600. Colpa della carenza di risorse? O piuttosto della miopia strategica della politica italiana, che non produce un piano generale dei trasporti da dieci anni e ha ridotto il settore del trasporto pendolare nello stato disastroso documentato dalle inchieste del Corriere? Fatto sta che mentre le Ferrovie annaspano, gli operatori privati, ai quali la liberalizzazione ha spalancato il mercato, guadagnano bene. E le Fs, nel tentativo paradossale di non soccombere alla concorrenza, spendono soldi per campagne acquisti all’estero. Prima hanno comprato una società tedesca, la Tx Logistik. Ora puntano a rilevare Veolia Cargo in Francia. Ha detto Moretti: «Vogliamo giocare da attori protagonisti in Europa, sia nel mercato passeggeri che in quello merci». Va bene. Ma l’Italia? Sergio Rizzo 01 luglio 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO La Campania assume l’esercito dei «comandati» Inserito da: Admin - Luglio 20, 2009, 03:11:49 pm Al consiglio regionale posti ad hoc per gli amici dei politici
La Campania assume l’esercito dei «comandati» La denuncia del vicepresidente Ronghi: «infornata» di distaccati da società a partecipazione pubblica ROMA — Parolina magica: comandato. Per un dipendente pubblico essere comandato significa il trasferimento dall’amministrazione che lo ha assunto a un altro ufficio. Più comodo, più prestigioso, soprattutto meglio retribuito. Insomma, un destino super ambito. Anche perché dovrebbe essere riservato a pochi fortunati destinatari di incarichi che non si potrebbero ricoprire in altro modo. Tranne che al Consiglio regionale della Campania, dove i comandati da altre amministrazioni sono la bellezza di 223: per un costo di almeno una dozzina di milioni l’anno. Sono arrivati da tutte le parti. Dalle Asl. Dall’Inps. Dai ministeri dell’Istruzione, delle Infrastrutture, dell’Economia, dei Beni Culturali, della Difesa, della Giustizia. Dai Comuni: perfino da quello di Siena. Dalle Province. Dalle Università. Ma c’è chi è stato comandato al Consiglio regionale della Campania anche dalle Poste e dall’Atm: proprio così, anche l’azienda di trasporti controllata dal Comune di Milano. Siccome i distaccati dalle altre amministrazioni pubbliche non bastavano, allora con una leggina regionale del 2002 si è estesa la possibilità di far distaccare nel brutto palazzone del centro direzionale di Napoli dove ha sede il Consiglio, pure i dipendenti delle imprese pubbliche. Ma nemmeno controllate completamente dallo Stato o dagli enti locali, visto che per farsi recapitare nel dorato mondo della politica campana era sufficiente risultare dipendente di una società nella quale la partecipazione pubblica non fosse «inferiore al 49 per cento». Il giochino era semplice: bastava far assumere una persona da una società del Comune o della Regione, dove si può entrare per chiamata diretta, e farla poi distaccare presso la segreteria di un politico. Dove, guarda caso, si trova la maggior parte dei comandati. Scorrendo il loro elenco si scopre che i dipendenti di società, amministrazioni ed enti pubblici distaccati presso strutture politiche, come i gruppi dei partiti, sono circa 150. Alla segreteria di Alessandrina Lonardo, presidente del Consiglio regionale nonché consorte dell’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, ci sono 14 comandati. Quelli del gruppo Pd sono 22: fra loro, secondo la lista, ci sarebbe anche una persona proveniente da Enel distribuzione spa, società che fa parte di un gruppo nel quale la partecipazione pubblica è ben inferiore al 49% previsto dalla legge regionale. Ben otto sono nel gruppo del Nuovo Psi. Una dozzina in quello di Forza Italia. E ben sei sono alle dipendenze del questore al personale Fulvio Martusciello. Nel tentativo di mettere un freno a questo meccanismo infernale, qualche anno fa si decise di bloccare il flusso dei comandati dalle aziende pubbliche. Inutile dire che il promotore di questa iniziativa, il vicepresidente del consiglio regionale Salvatore Ronghi, ora esponente del Movimento per le autonomie, non si fece molti amici. Ma non aveva previsto l’inevitabile colpo di coda. Un giorno di gennaio del 2008, mentre si votava la legge finanziaria locale, passò senza colpo ferire un emendamento trasversale che prevede di fatto la stabilizzazione nei ruoli del consiglio regionale del personale in posizione di comando proveniente da altre amministrazioni: compresi, ovviamente, i circa 80 dipendenti delle imprese pubbliche e parapubbliche. Erano le tre del mattino. La norma in questione è l’articolo 44 della legge regionale numero 1 del 2008 e stabilisce che i comandati possono venire collocati in un’apposita graduatoria e accedere a «corsi concorsi» a loro riservati per passare a tutti gli effetti alle dipendenze del Consiglio. Per gestire questa procedura è stata nominata il 2 luglio scorso una commissione di nove (nove!) persone presieduta da un dirigente dell’amministrazione, Girolamo Sibilio, ma con forti venature politiche. Ovviamente bipartisan. Per dirne una, ne fa parte anche Anna Ferrazzano, vice presidente della giunta provinciale di Salerno, già commissario di Forza Italia nella città campana. Secondo Ronghi ce n’è abbastanza per far scoppiare uno scandalo, mettendo anche in azione la magistratura: «E’ del tutto illegale assumere in questo modo i comandati provenienti dalle aziende a partecipazione pubblica. La legge stabilisce che non si possa venire assunti in una pubblica amministrazione se non tramite concorso pubblico, e sottolineo pubblico. I corsi concorsi previsti dall’articolo 44 servono soltanto per aggirarlo facendo diventare dipendenti del consiglio regionale gli amici dei politici assunti fittiziamente dalle società miste». Non sarà un caso che da quando è nata la Regione Campania, nel 1970, nel consiglio regionale non è mai entrato un dipendente per concorso pubblico. Il primo concorso (per 36 posti) è stato bandito nel 2005, ma non è stato ancora fatto. E la prospettiva della stabilizzazione di tutti i comandati non lascia molte speranze a chi punta su quello per avere un lavoro. Anche perché costoro sono circa metà di tutti i dipendenti del consiglio. Che grazie ai comandi e ai distacchi sono diventati negli anni più numerosi di quelli di Buckingham Palace, e oltre il doppio, in proporzione agli eletti, rispetto alla Camera. Per ognuno dei 60 consiglieri regionali campani ci sono circa otto dipendenti, a fronte dei tre per ogni deputato che si contano a Montecitorio. Sergio Rizzo 20 luglio 2009 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO I 30 mila posti di lavoro che nessuno vuole Inserito da: Admin - Agosto 20, 2009, 05:23:36 pm Focus Occupazione e aziende
I 30 mila posti di lavoro che nessuno vuole Si cercano falegnami, meccanici, parrucchieri, elettricisti Senza risposta un terzo delle ricerche delle piccole imprese Va bene che molti giovani, dicono studi e sondaggi di ogni genere, sognano ancora il posto fisso. Meglio ancora se nella pubblica amministrazione. E va bene che quasi metà degli italiani, come afferma una recente ricerca dell’Eurobarometro, sono talmente restii all’idea del cambiamento da non riuscire nemmeno a scrollarsi di dosso l’idea che quel posto debba durare tutta la vita. Ma con la produzione industriale che arranca, la disoccupazione che galoppa, la cassa integrazione che non dà tregua, tutto ci si potrebbe aspettare tranne che le piccole imprese, proprio quelle che dovrebbero rappresentare il cuore pulsante dell’economia italiana, fossero a corto di braccia. Eppure, a giudicare almeno dai risultati di una inchiesta della Confartigianato sul fabbisogno di manodopera condotta in base ai dati dei primi sei mesi dell’anno, è proprio quello che sta accadendo. L’organizzazione presieduta da Giorgio Guerrini stima che nel 2009, nonostante la crisi, il sistema delle piccole imprese e dell’artigianato potrà creare 94.670 posti di lavoro. Quasi un terzo di questi, tuttavia, rischia di restare vacante: per quanto si cerchino persone in grado di occuparli, semplicemente non si trovano. Una emergenza al contrario, tanto più paradossale perché con l’imminenza dell’autunno si addensano nubi sempre più minacciose sul mondo del lavoro. Da Nord a Sud. In Piemonte ci sono 512 aziende in crisi, con 25 mila dipendenti in cassa integrazione. Anche in Emilia-Romagna i cassintegrati sono più di 20 mila nelle sole aziende metalmeccaniche. La Sicilia è in apprensione per lo stabilimento Fiat di Termini Imerese. Nel Lazio i posti a rischio sarebbero 70 mila. E nelle Marche sono quasi 8 mila i lavoratori messi in mobilità nei primi sei mesi di quest’anno. Soprattutto, però, le conclusioni dell’indagine sembrano stridere apertamente con i timori di quanti sono convinti che gli immigrati tolgano il lavoro agli italiani. Un luogo comune che trova conforto prevalentemente negli ambienti politici di fede leghista, ma che i risultati di uno studio della Banca d’Italia reso noto martedì sembrano invece smentire categoricamente. All’appello, secondo la Confartigianato, mancano 30.750 persone. Per avere un’idea della dimensione di questo fenomeno basta considerare che si tratta di un numero addirittura superiore a quello dei lavoratori (circa 30 mila) che al giugno scorso in tutta la Lombardia, prendendo per buoni i dati della Cgil, avevano avuto accesso alla cassa integrazione in deroga. I dati elaborati dall’ufficio studi dell’organizzazione degli artigiani informano che la carenza maggiore è quella dei falegnami o comunque di persone esperte nella lavorazione del legno. A fronte di un fabbisogno di 2.690 addetti, le piccole imprese ne cercano inutilmente 1.390, ovvero quasi il 52% del totale. Per non parlare poi dei parrucchieri e degli estetisti. In questo caso i posti di lavoro destinati con ogni probabilità a restare vuoti sono il 49% circa: ben 3.210. È in assoluto il buco numericamente maggiore fra tutti i comparti presi in esame dall’indagine. Ancora più grosso di quello che la Confartigianato denuncia per gli elettricisti. Rispetto alle esigenze dichiarate (9.850) ne mancherebbero infatti 2.840, pari al 28,8% del totale. Pesante risulterebbe anche la situazione delle officine per la riparazione delle auto, con un deficit di 1.640 meccanici. Problema di dimensioni più o meno simili a quello che viene accusato dalle piccole imprese informatiche (1.740) e dagli idraulici (ne mancano 1.560): mestiere, quest’ultimo, che ha fama di essere anche particolarmente redditizio una volta superata la fase dell’apprendistato. Soffre perfino l’edilizia, in assoluto il regno della flessibilità. Stando sempre ai dati della Confartigianato le piccole imprese sono riuscite a reclutare 3.160 carpentieri sui 4.500 che sarebbero necessari. Degli altri 1.340 ancora nessuna traccia. Ma anche il numero dei disegnatori industriali disponibili è inferiore al fabbisogno di ben 1.110 unità. La medaglia della crisi economica ha tuttavia una doppia faccia. Se nelle piccole imprese un posto su tre rimane vuoto perché non si trova chi lo possa (o voglia) occupare, e nonostante sopravviva ancora il mito del posto fisso, nell’ultimo anno c’è pure chi ha reagito alle difficoltà economiche con una scelta opposta: mettendosi in proprio. Sintomo del fatto che, trovandosi di fronte all’alternativa fra andare a lavorare alle dipendenze in una piccola impresa, magari con un contratto da precario, e rischiare invece in prima persona, qualcuno sceglie questa seconda strada. Non moltissimi, per la verità: nell’annus horribilis per il Prodotto interno lordo la stessa Confartigianato ne ha censiti 8.134. Ma con situazioni davvero curiose. Mentre infatti i parrucchieri cercavano inutilmente 3.210 dipendenti da avviare al lavoro, nei dodici mesi compresi fra la fine di giugno 2008 e la fine di giugno 2009 il numero dei barbieri e degli estetisti aumentava di 1.696 unità. Una crescita inferiore soltanto a quella del numero di quanti si sono buttati nella cosiddetta green economy (2.559) nonché del numero dei gelatai, dei panettieri e dei pasticcieri (2.082). Il bello è che alle gelaterie, alle pasticcerie e ai panifici artigianali mancano 1.140 dipendenti. C’è poi chi ha tentato l’avventura nell’informatica (462) o nei servizi di trasporto (800), oppure nelle piccole attività di restauro (104), o ancora nella tinteggiatura (681). I più creativi hanno scelto invece la strada della pubblicità e del design (119). E un pugno di temerari (39) ha messo la propria passione per gli animali al servizio del prossimo. Del resto, con questi chiari di luna tutto fa brodo. Sergio Rizzo 20 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO «Salari differenziati dai nuovi contratti o saltano gli sgravi... Inserito da: Admin - Agosto 24, 2009, 05:45:00 pm L’intervista
«Salari differenziati dai nuovi contratti o saltano gli sgravi alle retribuzioni» Sacconi: non vogliamo le gabbie, anche la Lega è per il modello delle intese decentrate Il ministro del Welfare: l’accordo tra imprese e sindacati va attuato. Sul banco di prova i negoziati per metalmeccanici e chimici ROMA — Per parlare con Maurizio Sacconi dell'autunno non si può prescindere da quanto ha detto al Corriere a Ferragosto il sociologo Giuseppe De Rita, convinto che quella stagione sarà «decisiva» per il breve e per il lungo periodo, ma pure che è illusorio credere nella virtù taumaturgica delle grandi riforme. «Ha ragione. Per la sopravvivenza oggi e la crescita domani servono atti e cambiamenti più concreti e profondi delle riforme legislative», sostiene il ministro del Welfare. Secondo De Rita il berlusconismo si sta sfarinando. «In quel punto della sua bella intervista, che peraltro riconosce i meriti del governo nella crisi, sbaglia quando risolve il berlusconismo con il richiamo alla libertà e responsabilità individuali. Nel centrodestra è maturata la consapevolezza che occorrono risposte collettive ai bisogni ma, come dice De Rita, non necessariamente statuali. Per questo è in noi diffuso il riferimento alla sussidiarietà ovvero alla capacità di fare sviluppo mobilitando le tante espressioni della comunità, dalle famiglie alle parti sociali, al terzo settore. E ciò è tanto più vero nel momento in cui dovremo saper crescere con il doppio vincolo del debito pubblico e del declino demografico. Non a caso nell'agenda dell'autunno avrà grande rilievo il capitale umano, in tutte le sue forme». Tema che qui non va molto di moda, a giudicare almeno da come (non) funziona la formazione. «L'integrazione fra apprendimento e lavoro è fra i problemi da affrontare». La Confartigianato dice che nonostante la crisi ci sono imprese che non riescono a trovare manodopera. «Appunto, si è persa la cultura del lavoro come parte fondamentale del processo educativo. In passato un giovane universitario poteva impiegare parte dell'estate a lavorare. C'era una giusta fretta nel lavorare, oggi c'è una propensione opposta » . Ci stiamo rammollendo? «No, per fortuna. C'è in alcuni segmenti giovanili, e non per loro colpa, minore disponibilità al lavoro manuale e alla fatica: vanno corretti i percorsi educativi. Con il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini realizzeremo una cabina di regia per integrare apprendimento scolastico e lavoro, rafforzando il progetto Excelsior Unioncamere per individuare il fabbisogno di specifiche professionalità. Ma vogliamo anche dare valore agli uffici di placement nelle scuole e nelle università». Uffici di collocamento direttamente a scuola? «Qualcosa di meglio: sono canali di comunicazione fra istituzioni educative e imprese. Si tratta di estenderli e rafforzarli. La legge Biagi, per esempio, ha introdotto un meccanismo, ancora realizzato in forma molto di nicchia, per conseguire titoli di studio con contratti di apprendistato in aziende convenzionate con le università». Nella lista dei problemi da affrontare ci sono anche i salari più bassi d'Europa? «Una giusta distribuzione della ricchezza si fonda sul riconoscimento dei meriti e dei bisogni. I salari vanno differenziati perché non siamo uguali. Il banco di prova autunnale, con i primi contratti di metalmeccanici, alimentaristi, chimici e comunicazioni, sarà l'attuazione dell'accordo sottoscritto da tutti tranne che dalla Cgil. Meno il contratto nazionale sarà invasivo, più ci sarà spazio per il contratto aziendale, detassato al 10%». Ma la Lega chiede paghe diverse al Nord e al Sud, evocando le gabbie salariali di 50 anni fa. «La Lega è d'accordo con il nuovo modello. Nessuno ha parlato di gabbie salariali, meccanismo centralistico fissato per legge. Se il contratto si decentra, ineluttabilmente è più sensibile alle differenze di costo della vita e di produttività. Il punto vero è che sindacati e imprese, dopo aver firmato l'accordo, non possono cedere. Siamo rispettosi dell'autonomia delle parti, ma non indifferenti agli esiti». Vale a dire? «Abbiamo messo sul piatto la detassazione del salario variabile. Ma nella misura in cui le parti la usano: altrimenti dovremmo ripensarci. In autunno ci devono dimostrare che l'egualitarismo non rientra dalla finestra dopo essere uscito dalla porta. Ne va della produttività e soprattutto del riconoscimento del diritto dei lavoratori a una giusta retribuzione. In questo ci confermiamo una coalizione laburista » . Centrodestra di sinistra? «Certamente attenta anche ai bisogni a partire dalla tutela di chi è costretto all'inattività con risorse per gli ammortizzatori sociali che confermo essere più che sufficienti. Faccio inoltre notare che questo governo ha introdotto la carta acquisti per la povertà assoluta. Ricordo — a chi con la puzza sotto il naso ha deriso gli 80 euro a bimestre — che stiamo per la prima volta individuando la platea del bisogno assoluto. E abbiamo creato un canale di comunicazione fra questa platea, le istituzioni e i donatori privati. Perché l'obiettivo del governo è anche stimolare la cultura del dono. Perché aiutando gli ultimi anche con la carità rafforziamo pure la comunità. Vede come la sussidiarietà torna continuamente?». Come si stimola il dono in un Paese dove i contributi alle organizzazioni benefiche sono fino a 51 volte meno favoriti fiscalmente rispetto ai fondi versati alla politica? «Certamente con interventi di defiscalizzazione. Ma anche con l'implementazione e la stabilizzazione dell'ottima idea tremontiana del 5 per mille. Peraltro abbiamo parlato di una nuova stagione costituente per il terzo settore. Il principio è sempre lo stesso: senza la sussidiarietà non si va da nessuna parte. Guardi i servizi per l'infanzia». Meglio di no. In questo siamo quasi ultimi nel continente. «Ebbene, noi vogliamo portare quei servizi a livelli superiori al 30%, ma ciò non si realizza solo con le strutture tradizionali, come gli asili nido pubblici e privati. Con la collega Mara Carfagna pensiamo a un grande piano di diffusione delle cosiddette mamme di giorno, termine mutuato dall'esperienza delle tagesmutter altoatesine. L'idea è quella di remunerarli attraverso i vaucher, i buoni prepagati. Ma sottolineo anche che il tema della natalità, come più in generale quello dello sviluppo umano, non può essere disgiunto da tutto ciò che riguarda il valore della vita». Il valore della vita? «Certamente. Sulla bioetica tutto il governo ha avuto finora posizioni laicamente unitarie, a volere difendere e attuare la legge 194 e rigorosamente verificare la compatibilità della pillola Ru486 con la legge stessa. Proprio perché riteniamo che si debbano salvaguardare i criteri che hanno evitato la solitudine della donna di fronte al dramma dell'interruzione di gravidanza. E per la regolazione della fine di vita tutto il governo si è espresso a favore del diritto inalienabile all'alimentazione e all'idratazione per chi non è autosufficiente. A questo proposito, per attenuare la conflittualità parlamentare, potremmo ipotizzare l'immediata approvazione di queste norme rinviando a soluzioni più condivise quelle relative alle dichiarazioni anticipate di trattamento». Ma cosa c'entra questo con il capitale umano? «C'entra, eccome. Il valore della vita è il presupposto necessario del vitalismo economico e sociale » . Paesi con regole assai diverse, come l'Olanda, non sono certo sottosviluppati. «Come il calvinismo è stato alla base dello spirito capitalistico di quel Paese, così i valori della nostra tradizione hanno sostenuto la diffusa impresa familiare » . Magari gli ospedali italiani funzionassero come lì. «Nel tema del capitale umano rientra anche lo stato di salute. A settembre riprende il tema delle Regioni commissariate e dei subcommissari, cioè i tecnici che saranno nominati per gestire in concreto i commissariamenti, e della verifica delle altre regioni. C'è un problema grosso di tutto il Centro Sud, che spesso non conosce la medicina del territorio e, in essa, il ruolo della famiglia e del volontariato. Anche per questo motivo si spende molto di più e si ha molto di meno. Qui emerge in tutta la sua drammaticità il problema del Sud, che spesso significa incapacità delle classi dirigenti di fare buona amministrazione ordinaria». Del resto, finché i primari saranno nominati in base alle tessere di partito... «La competenza sulla sanità è regionale. Noi appoggiamo le proposte legislative tese a rafforzare la oggettiva valutazione dei curricula dei candidati a direttore generale e a primario. Ma il commissariamento non è uno scherzo: è l'anticamera del fallimento politico». Sempre che poi i politici commissariati non vengano addirittura promossi. «Sono d'accordo. Nel Sud non mancano le intelligenze, dobbiamo soltanto affermare con il federalismo fiscale nuove regole del gioco nel segno della responsabilità. E non c'è migliore deterrenza dell'esautoramento di chi ha sbagliato. Con il ritorno alle urne e l'ineleggibilità degli amministratori falliti » . Sergio Rizzo 24 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: RIZZO Brunetta, la rivolta dei dirigenti e l’insofferenza degli altri ministri Inserito da: Admin - Settembre 02, 2009, 04:04:15 pm Il caso -
L’attivismo del responsabile della Pubblica amministrazione Brunetta, la rivolta dei dirigenti e l’insofferenza degli altri ministri I dubbi tra i colleghi di governo sulla strategia degli annunci ROMA — «Io, povero, non bello e non ricco, ho fatto il c... al mondo e sono la Lorella Cuccarini del governo Berlusconi». Esattamente un anno fa Renato Brunetta completava questi concetti espressi in una intervista a «Gente» definendosi «il più amato dagli italiani». Volava nei sondaggi, il ministro della Pubblica amministrazione, dopo aver dichiarato guerra ai fannulloni: secondo per popolarità soltanto a Silvio Berlusconi. Mentre gli assenteisti masticavano amaro e lo insultavano, la gente lo incitava per strada: «continui così». E qualche suo collega «rosicava». Un anno dopo il ministro già più amato dagli italiani si appresta ad affrontare un autunno con qualche insidia in più, e non certamente a causa di sondaggi meno generosi. Che i suoi rapporti con il ministro dell'Economia Giulio Tremonti siano complessi non è affatto un mistero: lo sono da tempo, anche da prima che i due si ritrovassero insieme al governo. Più recenti, e collegate alla sua azione governativa, sono invece le insofferenze che altri ministeri (certamente non il suo), e altri ministri, manifestano nei suoi confronti. Malignando che la strategia brunettiana abbia prodotto finora soprattutto annunci sensazionali a mezzo stampa. Culminati nella pubblicazione del libro «Rivoluzione in corso », che qualche invidia pure l'ha suscitata. Alle critiche lui ha sempre ribattuto con i dati che dimostrerebbero un calo a precipizio dell'assenteismo, ridottosi del 30% anche soltanto come effetto degli annunci. Il fatto è che decisioni sacrosante, come quella di non consentire la nomina a dirigente generale per coloro che distano dalla pensione meno di tre anni ha mandato letteralmente su tutte le furie le alte sfere della burocrazia, abituate a promuovere i fedelissimi pochi mesi prima del pensionamento per farli uscire dal ministero con la pensione dorata. Per modificare quella norma sarebbe intervenuta perfino la Ragioneria dello Stato. Né è stata del tutto digerita la disposizione per mandare in pensione chi ha raggiunto i quarant'anni di contributi. Ma Brunetta deve fronteggiare anche la rivolta dei travet, che non accenna a placarsi dopo il taglio della parte variabile della retribuzione in caso di malattia. Tanto più che la mannaia sui dirigenti, spesso i veri responsabili della scarsa efficienza della pubblica amministrazione, non è ancora calata. Tutto questo mentre del regolamento che dovrebbe stabilire quali alti papaveri pubblici devono essere sottoposti al tetto degli stipendi fissato dal governo di Romano Prodi, e che doveva essere pronto entro il 31 ottobre 2008, ancora nessuna notizia. «Ora li staneremo», ha promesso alla fine di luglio, riferendosi ai dirigenti responsabili delle inefficienze, il ministro a Vittorio Zincone sul «Magazine» del Corriere. Ricordando il prossimo varo di un organismo per la valutazione dei servizi. Un'idea nata in seguito alla proposta avanzata dal giuslavorista Pietro Ichino, ora senatore del Partito democratico, ma la cui attuale formulazione ha lasciato alquanto deluso anche chi, nel centrosinistra, aveva sostenuto senza riserve la crociata del ministro. Fatto sta che quella che doveva essere nelle intenzioni un'autorità indipendente vera e propria è diventato un organismo gestito in condominio da Brunetta e Tremonti. Circostanza che avrebbe snaturato il progetto. «L'apparato sta frenando la sua riforma», commentava già alla fine dello scorso aprile lo stesso Ichino, lasciando intendere che Brunetta avrebbe le mani legate. Osservazione rigettata dal ministro, che deve tuttavia fare i conti non soltanto con i sindacati «conservatori », i burocrati colpiti nella pensione, i consulenti che si sono visti pubblicare i compensi online, e i dipendenti inferociti. C'è anche chi gli rema contro nel suo stesso schieramento. Un mese fa, per esempio, si è scoperto l’emendamento di un senatore del suo partito che avrebbe cancellato la norma della trasparenza totale, quella secondo cui i cittadini dovrebbero poter conoscere con un semplice clic sul mouse del computer vita, morte e miracoli dei dirigenti pubblici. Lui ci ha messo una pezza, ma è chiaro che quella norma non avrà vita facile. Insomma, ce n'è abbastanza perché qualcuno interpreti la singolare «aspirazione» a fare il sindaco di Venezia, che il ministro ha recentemente espresso, come un auspicio. Sergio Rizzo 02 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO INTERVISTA AL MINISTRO DEL WELFARE, SACCONI (Feccia. Ndam) Inserito da: Admin - Settembre 06, 2009, 12:13:33 pm INTERVISTA AL MINISTRO DEL WELFARE, SACCONI
«Boffo non è un cattocomunista Colpito da chi è ostile a lui e a noi» «Lui vittima incolpevole del clima partito dall’aggressione a Berlusconi. Le polemiche sono nate in ambienti cattolici ostili a lui perché ancor più ostili a noi» ROMA — Nella bufera che si è abbattuta su Dino Boffo, il direttore dell’Avvenire dimissionario dopo gli attacchi del direttore del Giornale , Vittorio Feltri, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi non accetta di essere definito il capo del dissenso. «Al contrario!», dice, «dato che le mie convinzioni sono le stesse della larghissima maggioranza del centrodestra». Eppure lo scontro con la Chiesa ha generato nel suo schieramento toni al calor bianco. Come lo spiega? «Mi preme spiegare perché non soltanto il Pdl, ma l’intera coalizione di governo, tenendo conto anche delle recenti prese di posizione della Lega, siano naturalmente capaci di dialogare con la Chiesa rispetto ai grandi temi di suo prioritario interesse che si iscrivono nell’agenda di quella che possiamo chiamare biopolitica». Biopolitica? Che cos’è? «Nei paesi moderni la politica è investita da problemi che impongono in relazione all’evoluzione della scienza e dei comportamenti sociali di regolare — in modi essenziali — i nodi della procreazione e del confine tra la vita e la morte. Su questi temi il Pdl, essendosi configurato come il più grande movimento popolare in Italia, in grado quindi di raccogliere il suo consenso nell’Italia profonda, si ancora inevitabilmente ai valori della tradizione dei quali è orgogliosamente conservatore». E dove si trova questa Italia profonda? «Non è l’Italia metropolitana delle borghesie elitarie, ma quella fatta dalle piccole comunità e dalle periferie urbane, descritta anche recentemente da De Rita, ove vive la gran parte del nostro popolo fatto di gente semplice e vitale, perché solida nei valori di riferimento a partire da quelli della tradizione cristiana, a prescindere dal rapporto di ciascuno con la fede». Si prescinda pure, ma com’è possibile conciliare tutto questo con i principi di laicità fondamentali per tutti i Paesi occidentali sviluppati? «Il Pdl è in sintonia con il senso comune del popolo, piuttosto che con il luogo comune di quelle che si definiscono elite . In questo senso esso è si ispira ad una laicità adulta che in ogni caso non si confonde con la liceità». Sarebbe? «Laicità significa un approccio del decisore che quando regola pensa a credenti e non credenti, a persone che possono avere anche un diverso rapporto con la fede. Ma ciò non significa indifferenza a profili di carattere etico come quelli tipicamente cristiani codificati nella prima parte della costituzione». Nella prima parte della carta costituzionale il riferimento alle radici cristiane però manca del tutto. «Che principi anche propri della cultura cristiana siano presenti nella prima parte è assolutamente evidente. Basti pensare a quei diritti inviolabili dell’uomo che costituiscono la premessa per ritenere non negoziabile il fondamentale diritto all’alimentazione e all’idratazione. La costituzione fu frutto di un grande compromesso fra i grandi partiti popolari. Lo stesso Partito comunista, in quanto innervato in una parte importante del popolo, e’ sempre stato attento a non offendere i fondamentali valori della tradizione cristiana». Il Pdl come il Pci? Se la sente Berlusconi... «Certamente tutti e due movimenti di grande consenso popolare. Il Pdl, non tatticamente, è portatore di una laicità adulta che incorpora i fondamentali valori cristiani come la persona, la famiglia, la comunità. La stessa possibilità di costruire uno sviluppo sostenibile dopo la crisi non può prescindere dal riconoscimento del valore della vita. Non ci può essere vitalismo economico e sociale in una società scettica. Questo ci porta nella prossima agenda di governo a ritenere necessario difendere una regolazione della creazione della vita che rigetti ogni manipolazione genetica». Veniamo al sodo. «I principi che ho appena enunciato ci portano ad avere una fortissima diffidenza verso la pillola Ru486, con la quale si banalizza un atto che secondo la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza è un disvalore e potenzialmente potrebbe comportare la violazione del percorso previsto da quella legge». In che cosa si traduce questa diffidenza? «Laicamente verificheremo se l’impiego della pillola abortiva sia coerente con quella legge e con il suo obiettivo primario di evitare la solitudine della donna di fronte ad una scelta tanto drammatica. L’Aifa è impegnata a produrre entro settembre un protocollo rigorosissimo di corretto impiego della pillola in strutture ospedaliere a cura di ginecologi nel pieno rispetto della stessa legge». In una precedente intervista al «Corriere» lei ha lasciato intendere la possibilità di una possibile corsia preferenziale per la norma Englaro. Conferma? «Ho detto che se si fosse manifestata in Parlamento la difficoltà a un ampio consenso sulla legge che regola il fine di vita si potrebbe estrapolare dal testo del Senato per l’immediata approvazione quella parte — approvata all’unanimità dal Consiglio dei ministri — che colma il vuoto normativo creatosi a seguito del provvedimento creativo della magistratura sul caso Englaro, che ha introdotto per la prima volta un percorso eutanasico nel nostro Paese. Faccio una domanda: occorre la fede per voler evitare soluzioni eugenetiche o eutanasiche?». È cosciente del fatto che il governo sarà accusato di mettere tutto questo sul piatto della bilancia per recuperare il rapporto con la Chiesa? «Ho descritto un’agenda nata in tempi non sospetti rispetto alle più recenti vicende. Con la Chiesa c’è una consonanza profonda sul valore della vita, sulla famiglia, sulla sussidiarietà, che va oltre il tatticismo». Tatticismo od opportunismo? «Vedo molto più opportunismo quando alcuni segmenti della base ecclesiale sostengono nella candidatura a sindaco chi propugna le coppie omosessuali, o agisce in direzione opposta a quelli che sono temi fondamentali della Chiesa. In quel caso non posso non individuare uno scambio cinico, magari con piccoli favori amministrativi a strutture ecclesiali. Cosa diversa è il rapporto che nasce naturalmente perché quelli sono i nostri valori. Siamo un movimento politico laico e cristiano insieme». Nel centrodestra molti sono convinti che senza i cattolici il governo non starebbe in piedi. La sua opinione? «Credo che se questa maggioranza parlamentare si allontanasse dalle radici del nostro popolo, ne perderebbe il consenso come è accaduto al Pd rispetto al Pci. Ma il problema non è la formale coerenza con la Chiesa». Non vorrà negare che lo scontro con l’«Avvenire» abbia causato qualche problemino. Se non sbaglio lei stesso ha chiesto a Boffo di ritirare le dimissioni. «Boffo è stato vittima incolpevole di questo violento clima polemico partito dall’aggressione al presidente del Consiglio. A me dispiace perché ho un’amicizia personale con lui, mio conterraneo, ho sempre trovato in lui un cattolico liberale, non certo un cattocomunista». Questo ha un significato nella sua presa di posizione, ministro? «Certamente. Ma non voglio entrare nella vicenda che lo riguarda, anche se è evidente che queste polemiche giornalistiche sono nate dall’interno del mondo cattolico». Addirittura? Chi poteva nella Chiesa avere interesse a danneggiare il direttore del quotidiano della Conferenza episcopale? «Posso immaginare che tutto sia nato in ambienti cattolici ostili a lui perché ancor più ostili a noi». Sergio Rizzo 06 settembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO I condoni «mai più» e gli incassi dimenticati Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2009, 07:32:52 pm DOSSIER - I PRECEDENTI DELLO SCUDO FISCALE
I condoni «mai più» e gli incassi dimenticati Cinque anni dopo non ancora riscossi 5,2 miliardi della misura del 2003. Ogni volta la promessa: sarà l’ultimo. Risultati quasi sempre al di sotto delle stime Non chiamatelo condono. D’accordo, si potranno rimpatriare i denari sottratti al fisco pagando il 5%, meno di un quarto della più bassa aliquota Irpef. D’accordo, con quel misero 5% si potranno sanare reati penali e al riparo dell’anonimato. Ma non chiamatelo condono. Come potete chiamarlo, allora? Forse «un intervento che rientra nella strategia concordata a livello internazionale per combattere i paradisi fiscali», come l’ha definito Giulio Tremonti? O «sistemazione del passato», secondo lo strepitoso suggerimento del compianto deputato nazional alleato Pietro Armani? Ma potreste anche non chiamarlo affatto. «I condoni fatti da questo governo sono stati pochissimi e per casi limitatissimi. È la sinistra, con la sua propaganda, a parlare di condoni, in realtà mai avvenuti». Mai avvenuti. Lo disse il Guardasigilli Roberto Castelli il 31 marzo del 2006 a Radio Anch’io. Di lì a poco anche il nuovo governo di centrosinistra di Romano Prodi avrebbe fatto il suo bravo condono (l’indulto), ma sul fatto che durante i cinque anni precedenti non si fossero fatti condoni, beh… In un rapporto del novembre 2008 sulle sanatorie fiscali la Corte dei conti ne ha contati 13, soltanto fra il 2003 e il 2004. E lì i magistrati contabili non hanno avuto timore a chiamare «condono » anche il primo scudo fiscale, papà della nuova sanatoria per i capitali illegalmente esportati. Quella che l' Avvenire , il quotidiano dei vescovi, che ha definito «una beffa» perpetrata dal «furbetto del governino» dopo essere stato allargato in Parlamento anche ai reati penali. Una bella botta per Tremonti, che avendo all’inizio escluso tassativamente la non punibilità di nefandezze tipo il falso in bilancio, si è poi rassegnato: «Senza le modifiche del Parlamento lo scudo sarebbe stato un suicidio». Un suicidio? Già, «sarebbe stato un’autodenuncia penale». Ci sarebbe da domandarsi che fine abbiano fatto le telecamere alle frontiere (con la Svizzera?) che aveva promesso di installare dopo il primo «scudo fiscale del 2002-2003» per pizzicare gli spalloni che avessero continuato a frodare il fisco. Ma comunque, evviva la sincerità del ministro dell’Economia. Ma quella del deputato del Pdl Michele Scandroglio non è forse sincerità? «Non c'è dubbio che la teoria dei condoni sia passibile di critiche. Però non dobbiamo nasconderci dietro un dito: gli italiani sono anche questo. Noi dobbiamo rappresentare al meglio la realtà che abbiamo, si fa quello che si può con quello che siamo». Poco prima delle elezioni del 2008 Tremonti ha giurato davanti alle telecamere di Repubblica Tv: «Oggi non ci sono più le condizioni per fare i condoni, che non certo ho fatto volentieri ma perché costretto dalla dura necessità. I condoni sono una cosa del passato». Concetto ribadito addirittura dal futuro premier Silvio Berlusconi, questa volta durante una video chat con il Corriere. it: «Basta con la stagione dei condoni. La prossima sarà una stagione di forte contrasto all'elusione e all'evasione fiscale». (31 marzo 2008). Adolfo Urso, esponente di An ora viceministro, dichiarava un paio di mesi prima: «Vengo dalla cultura della legalità della destra e dico: mai più condoni di nessun tipo, nemmeno l’indulto». Poi, quando l’Unione europea bocciò il condono Iva varato dal precedente esecutivo di centrodestra nel 2003 ritenendo che avesse «seriamente» danneggiato il mercato comune e favorito i contribuenti colpevoli di frode fiscale, Tremonti commentò: «Messaggio ricevuto, per il futuro è impegno del governo escludere provvedimenti del tipo oggetto della sentenza». (luglio 2008). Ma non si potrebbe dire che il ministro dell’Economia non avesse mai manifestato ostilità verso le sanatorie. Diciotto anni fa, mentre l'ultimo governo di Giulio Andreotti stava per approvare la terza sanatoria fiscale della storia repubblicana Tremonti scrisse in un editoriale del Corriere: «In Sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni ma mutando i fattori il prodotto non cambia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge». Passato quel condono, l'allora segretario generale delle Finanze Giorgio Benvenuto, in seguito parlamentare del centrosinistra, promise: «Questo condono sarà l'ultimo ». Quattro anni più tardi arrivò il concordato fiscale. Ma il ministro Augusto Fantozzi sentenziò: «Credo che ormai l'epoca dei condoni sia tramontata ». Mai previsione fu meno azzeccata. Sei anni dopo, ecco lo scudo fiscale e la raffica di sanatorie tributarie. Le polemiche si erano appena smorzate quando, nell’estate del 2003, il sottosegretario Giuseppe Vegas oggi viceministro all’Economia, azzardò: «In futuro non ci saranno altri condoni». Mentre il capogruppo di Forza Italia Renato Schifani ammoniva: «Siamo di fronte all’ultimo giro di boa di una riforma fiscale. Il cittadino sa benissimo che una volta varata non ci sarà più spazio per la clemenza ». Pochi mesi dopo, la finanziaria 2004 reiterò il condono fiscale tombale. E toccò al successore di Tremonti, Domenico Siniscalco, ripetere ancora nel 2004: «La stagione dei condoni è finita » . Arriviamo quindi ai giorni nostri. Non che nel frattempo i vari condoni non siano stati rivendicati. Durante la campagna elettorale del 2006 Berlusconi arrivò ad affermare che «i condoni non sono poi così negativi, visto che l’Unità, l’Unipol e il signor Prodi, in una società in cui è presente un suo familiare, ne hanno usufruito». Per concludere: «I condoni hanno portato molti soldi all'erario e vi ha ricorso chi aveva evaso le tasse durante il governo Prodi » . Sul fatto che i condoni abbiano fatto ricco il Fisco, tuttavia, si potrebbe discutere. Secondo la Cgia di Mestre tutti i condoni, compresi quelli edilizi e previdenziali, varati dal 1973 a oggi avrebbero garantito un incasso, attualizzato in valuta 2005, di 104,5 miliardi di euro. Se fosse così, in trent’anni l'Erario avrebbe recuperato con le sanatorie l'evasione fiscale di un solo anno, che è appunto stimata in circa 100 miliardi di euro. Ma se fosse così. Una fonte al di sopra di ogni sospetto, e cioè la rivista on-line dell’Agenzia delle Entrate Fiscooggi. it ha calcolato invece che dal 1973 al 2003 lo Stato ha incassato con i principali condoni tributari, previdenziali, assicurativi, valutari ed edilizi 26 miliardi di euro. Fatevi i conti sul numero degli abitanti: 15 euro a testa l’anno. L’equivalente di una pizza e una birra, per fare strame di quel minimo di correttezza civica che esisteva in Italia. Soltanto in due casi, vale a dire con i condoni fiscali del 1982 e del 1992, si è superata la previsione di gettito. In altri casi, si è andati ridicolmente sotto le stime. Come se non bastasse, c’è stato pure chi ha aderito al condono ma poi non ha nemmeno pagato o pagato tutto. La Corte dei conti nel novembre 2008 ha rivelato che a quella data restavano da incassare ancora 5,2 miliardi di euro dei 26 miliardi attesi per il condono 2003-2004, in base alle dichiarazioni pervenute alle Finanze. Cinque miliardi su 26: il venti per cento. In quel rapporto si racconta anche un altro particolare. E cioè che 34 mila persone fecero il condono tombale in forma anonima, avvalendosi di una facoltà prevista da quella sanatoria: presentare al Fisco una «dichiarazione riservata », come per lo scudo fiscale. Con il risultato di restare nell’ombra pure in quel caso. Ma il numero di 34 mila è soltanto una stima. Quando il magistrato della Corte dei conti ha chiesto di avere i dati relativi a quelle dichiarazioni «riservate» si è sentito rispondere dall'Agenzia delle entrate che, «trattandosi di dati sensibili», erano «in possesso unicamente del ministro ». Ma potevano avere sulla coscienza 34 mila suicidi? Sergio Rizzo 04 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Rifondazione accusa: minaccia l'habitat dell'anfibio Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2009, 04:17:49 pm La storia
La strada da 62 milioni al km contestata per salvare i rospi Asti e la super tangenziale costosissima. E Rifondazione accusa: minaccia l'habitat dell'anfibio ROMA — Trecentosettantacinquemilioniottocento-ventitremiladuecentocinquanta euro. Una cifra che basterebbe per comprare trecento carrozze deluxe per i treni dei pendolari. O rimettere in sesto tutte le strutture universitarie scassate dell'Aquila, pagare per un anno le rette degli studenti e poi, con quel che avanza, acquistare tremila casette di legno per gli sfollati del terremoto. Tutti questi soldi saranno invece spesi per una strada, una piccola tangenziale a sud ovest di Asti. Un nastro d'asfalto lungo appena 5.329 metri che costa, considerando i 2.848 metri di bretelle e svincoli per collegarlo alla viabilità ordinaria, più di 60 milioni al euro al chilometro. Esattamente, 62,2 milioni. La breve tangenziale corre su un lungo viadotto e poi sotto terra: immaginate i denari che servono. La strada contestata La strada contestata Ma se non è la strada più cara del mondo, poco ci manca. Per capire: la Variante di Valico, che si sviluppa quasi tutta in galleria, vale 52 milioni al chilometro. Ed è probabilmente il più costoso tratto di strada mai realizzato in Italia, dove per costruire un chilometro di autostrada si spendono mediamente 32 milioni, contro i 14,6 milioni della Spagna. Senza considerare che la tangenziale sud ovest di Asti non è nemmeno un'autostrada in senso stretto, visto che per un terzo avrà una sola corsia per senso di marcia. Ma in un Paese che nonostante le promesse continua a costruire infrastrutture con il contagocce, sarebbe perfino una spesa benedetta (sempre giustificandone il livello astronomico). Se invece, come qualcuno sostiene, fosse una strada completamente inutile? Così almeno la pensa un comitato locale che da anni la contesta. E così la pensano anche alcuni consiglieri del Piemonte (per esempio Angela Motta del Pd, stesso partito del governatore Mercedes Bresso) pronti a dare battaglia in previsione del parere che a giorni emetterà la Regione. Per nulla scoraggiati dallo scontato «sì» regionale, epitaffio per le loro residue speranze, gli oppositori sono decisi a far valere tutte le loro ragioni. Il 22 settembre due consiglieri rifondaroli, Paola Barassi e Alberto Deambrogio, hanno presentato una mozione contro il progetto preliminare depositato dall'Anas ad agosto. Nell'elenco delle rimostranze, anche l'allarme per il rischio che correrebbe una «particolare e rara specie di rospo presente solo in due aree del territorio piemontese»: il pelobates fuscus insubricus, sopravvissuto all'alluvione del 1994, il cui habitat naturale verrebbe seriamente compromesso dalla nuova arteria. C'è da dire che l'anfibio avrebbe corso lo stesso rischio anche cinquant'anni fa, quando si cominciò a pensare a quella tangenziale e non esisteva nessun partito dei rospi. Le prime lettere di esproprio ai proprietari dei terreni partirono dal Comune di Asti nel 1960. Poi tutto si fermò. Finché nel 1974 la tangenziale spuntò nel piano regolatore della città. All'inizio attraversava gli orti a ridosso del centro abitato. Via via che il cemento invadeva il territorio, però, il tracciato veniva spostato sempre più in periferia. Mentre i costi del progetto si gonfiavano come un sufflè: l'ultima botta arrivò con l'alluvione del 1994 che ispirò un megaviadotto da oltre un chilometro. Tutto sulla carta, naturalmente, perché nessuno credeva davvero che la tangenziale si sarebbe mai fatta. Troppi soldi, troppo tempo, troppi problemi. Il partito del rospo, che intanto era sorto, si fregava le mani, ma non aveva fatto i conti con il progetto dell'autostrada Asti-Cuneo. Né, soprattutto, con il presidente della Provincia Roberto Marmo, forzista, che persuase l'Anas a fare la tangenziale con l'intento di collegare al casello di Asti Ovest l'Asti-Cuneo con la Torino-Piacenza. Entrambe gestite da società che fanno capo al potente concessionario privato Marcellino Gavio. Si fece quindi un progetto faraonico per un'autostrada a sei corsie. Ma nel 2002 il nuovo sindaco di centrosinistra Vittorio Voglino, uscito da una campagna elettorale nella quale quattro candidati su cinque, tutti tranne quello di Forza Italia, avevano promesso che se eletti non avrebbero fatto la tangenziale, lo bloccò. La motivazione? Per collegare le due autostrade si poteva bene utilizzare un'altra strada, già esistente, arrivando così al casello di Asti est. Soluzione considerata più facile e più logica. L'Anas avrebbe però dovuto ampliare quella strada. E come compensare Comune e Provincia? Semplice: realizzando la tangenziale della discordia ma con un progetto diverso, sul quale Marmo e Voglino stavolta si erano messi d'accordo. Un progetto forse più modesto, ma a quanto pare non meno costoso. E i soldi? Nessun problema: c'è la Legge obiettivo. Inutili le proteste degli oppositori, secondo cui non è stato mai fatto uno studio di viabilità, e quindi nessuno sarebbe in grado di dire quante macchine passeranno su quella strada. Inutili anche le osservazioni avanzate dal comitato su alcuni aspetti dell'operazione. Per esempio, la circostanza che la società Autostrada Asti-Cuneo del gruppo Gavio, concessionaria della tangenziale, sia partecipata al 35% dall'Anas, cioè dal concedente. Per esempio, che il progetto sia stato affidato a un'altra società del medesimo gruppo Gavio, la Sina spa, di cui è amministratore delegato Agostino Spoglianti, contemporaneamente pure presidente della Asti-Cuneo... Sergio Rizzo 07 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Lo scudo fiscale vale anche per le società Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2009, 06:58:54 pm Fisco - L’estensione ai soggetti riconducibili al dominus dell’impresa
Lo scudo fiscale vale anche per le società La circolare: le dichiarazioni personali non potranno essere utilizzate per gli accertamenti ROMA - La copertura dello scudo fiscale si estende anche alle società. Si tratta di un ampliamento «di fatto», previsto dalla tanto attesa circolare applicativa del decreto che ha spianato la strada alla terza regolarizzazione delle somme illecitamente esportate nel giro di appena sette anni, a cui i tecnici delle Finanze hanno lavorato per giorni e che potrebbe essere diffusa oggi. Il documento dell’Agenzia delle entrate chiarisce che le operazioni di rimpatrio o di regolarizzazione effettuate da una persona fisica non potranno essere utilizzate per far partire un accertamento fiscale o anche semplicemente nell’ambito di un controllo avviato magari per motivi diversi nei confronti di una società di capitali di cui quel contribuente è il dominus. Proprio così: il dominus . Termine latino che sta a indicare colui il quale esercita il controllo sull’azienda, come azionista di maggioranza o riferimento, oppure come amministratore. Va detto che nella circolare è ben spiegato come questa estensione di fatto ai soggetti «indirettamente riconducibili» al contribuente «dominus », cioè le società, sia valido esclusivamente ai «fini tributari ». Precisazione d’obbligo, tesa evidentemente a sgombrare il campo da ogni possibile equivoco. Soprattutto dopo le polemiche, violentissime, che hanno accompagnato la decisione della maggioranza di centrodestra di allargare lo scudo fiscale anche a gravi reati penali, come il falso in bilancio, l’occultamento e la distruzione di documenti contabili, fatture false e altro ancora. Per quale motivo gli uffici del Fisco hanno risolto di interpretare in senso ulteriormente estensivo lo scudo, è presto detto. L’assenza di una copertura per le società, sia pure indiretta, avrebbe potuto scoraggiare moltissimi piccoli imprenditori dall’utilizzare una sanatoria che li avrebbe messi personalmente al riparo dalle grane fiscali e giudiziarie, rischiando però di rivelarsi controproducente per la loro azienda, potendo rappresentare una vera e propria «notizia di reato» in grado di innescare pericolosi accertamenti tributari. L’Agenzia delle entrate tiene a precisare che questa disposizione si giustifica con la necessità di impedire che lo scudo possa essere impiegato dal Fisco in senso sfavorevole a chi ne ha usufruito, per esempio al fine di accertare violazioni fiscali che non sarebbero coperte da quella sanatoria. E questo in ossequio al principio, contenuto nel decreto approvato dal Parlamento, che le operazioni di emersione non possono in alcun caso essere utilizzate, con l’unica eccezione dei procedimenti in corso, con la finalità di colpire il contribuente. Più prosaicamente, l’obiettivo è quello di evitare una perdita di gettito rispetto alle stime. Si parla di possibili rientri di capitali per 100 miliardi di euro: somma che garantirebbe un introito di 5 miliardi per l’Erario. Lo scudo metterà poi al riparo dagli accertamenti, sottolinea il documento, anche i cosiddetti soggetti «interposti», cioè coloro attraverso i quali la persona fisica ha custodito all’estero i soldi o i beni. Il tutto partendo da un concetto fondamentale, ribadito con estrema chiarezza nella stessa circolare. E cioè che chi farà lo scudo potrà evitare di incorrere nella misura introdotta con un decreto legge di qualche mese fa: la cosiddetta inversione dell’onere della prova. Misura, che il Tesoro ritiene decisiva nella lotta ai paradisi fiscali, in base alla quale non sarà più lo Stato a dover dimostrare che i denari detenuti all’estero sono somme evase al Fisco, bensì il contribuente a dover fornire la prova che non sono frutto di evasione. Questo salvacondotto garantito ai contribuenti scudati riguarda anche i soldi depositati negli anni passati. Ieri il direttore dell’Agenzia delle entrate, Attilio Befera, ha specificato che l’importo del 5% (è il prezzo per aderire alla sanatoria) delle somme da rimpatriare o del valore dei beni da regolarizzare si dovrà pagare entro il prossimo 15 dicembre. «È evidente che terremo conto del fatto che il denaro non viene preso da sotto il materasso, ma ci sono delle tematiche tecniche. Il momento fondamentale è il momento del versamento. Tutti gli altri atti amministrativi necessari possono essere compiuti anche successivamente, in un ragionevole lasso di tempo», ha aggiunto. Sergio Rizzo 09 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO L’università che «regala» un anno agli iscritti della Uil Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2009, 05:39:09 pm I vertici del sindacato regionale valutano chi ha diritto allo «sconto»
L’università che «regala» un anno agli iscritti della Uil Sessanta crediti per il triennio in legge alla Parthenope ROMA — «Non c’è proprio niente di strano». Questo il commento del professor Federico Alvino quando, due anni fa, saltò fuori che nell’università con il record di docenti imparentati, la Parthenope di Napoli, anche lui, preside di giurisprudenza, poteva vantare una parentela coi fiocchi. Sua moglie Marilù Ferrara è infatti la figlia di Gennaro Ferrara, ininterrottamente da oltre un ventennio rettore dell’ateneo. Una parentela, inoltre, dalle spiccate venature politiche. Alvino è consigliere comunale di Napoli, capogruppo dell’Udc. Invece il suocero è vicepresidente della giunta provinciale. Deleghe: politiche scolastiche e diritto allo studio. Proprio niente di strano, per come funziona l’università italiana. Che dire allora dell’ultima perla di cui si può fregiare il trentasettenne Alvino, uno dei presidi più giovani d’Italia? Qualche settimana fa la Parthenope ha firmato con la Uil della Campania una convenzione che consentirà a chi ha in tasca la tessera del sindacato guidato da Luigi Angeletti di vedersi riconoscere fino a 60 crediti per il corso di laurea triennale in giurisprudenza. Uno sconto, secco, di un anno su tre. Come ottenerlo? Sentite che cosa dice la convenzione: «In considerazione delle conoscenze e delle abilità che i lavoratori iscritti alla Uil potranno certificare in ragione delle funzioni e delle mansioni a loro attribuite verranno riconosciuti 60 crediti al personale impegnato in attività di tipo tecnico, gestionale o direttivo...50 crediti al personale impiegato in attività caratterizzato da conoscenze mono specialistiche...» . Ma sapete chi stabilisce i requisiti per avere diritto allo sconto? Ecco l’articolo 2 della convenzione: «La Uil segreteria regionale della Campania si impegna a collaborare con l’Università nell'individuazione dei requisiti nella fase istruttoria delle richieste degli iscritti». Cioè la decisione viene presa insieme al sindacato. E se un iscritto alla Uil ha magari già fatto qualche esame in quella università e vuole vederselo riconosciuto? Stropicciatevi gli occhi: «Il riconoscimento degli esami stessi — ha scritto Luciano Nazzaro della Uil Campania ai suoi colleghi — sarà curato dalla stessa Uil». Ma per quanto possa sembrare inverosimile, convenzioni come quella appena stipulata dall’ateneo delle «dieci famiglie », come la definì nel giugno 2007 un articolo di Repubblica , nelle università italiane non sono affatto rare. Quando alla fine degli anni Novanta con la riforma voluta dal centrosinistra vennero istituite le lauree triennali, si decise di riconoscere crediti formativi accumulati con l’esperienza lavorativa. C’era una disposizione europea. Ma in Italia l’opportunità diventò ben presto occasione per i furbi. Da lì al malcostume vero e proprio il passo fu breve. E il malcostume dilagò. Si arrivò a regalare i pezzi di carta: c’erano convenzioni che consentivano di vedersi abbuonare anche tutti i crediti formativi del corso di laurea. Bastava discutere la tesi. E in qualche caso neanche quello. Naturalmente dietro pagamento di rette profumate. A che cosa servivano le lauree prese in questo modo? Prevalentemente a passare di grado nella pubblica amministrazione. Da impiegato a funzionario, da sottufficiale a ufficiale, da pizzardone a graduato. Con relativo incremento di stipendio. Quando Fabio Mussi, tre anni fa, arrivò al ministero dell’Università, trovò questo sfacelo e stabilì il limite tassativo di 60 crediti (che sono pur sempre un anno di studio), cercando pure di introdurre criteri rigorosi per concederli. Ma evitare che lo sconto tocchi anche a somari con il solo merito di avere un tesserino nel portafoglio si è in seguito rivelato pressoché impossibile. Il giro di vite ha appena intaccato l’andazzo. Chi si stupisce che due anni dopo la direttiva Mussi una università statale come la Parthenope di Napoli forse non sa che a metà 2007 l’Università statale di Messina ha fatto una convenzione simile con la Cisl: anche in quel caso 60 crediti. Bastava avere un diploma di scuola media superiore e un posto di lavoro alla regione, o in una Asl, oppure in un altro ente pubblico. Ma soprattutto essere iscritti al sindacato di Raffaele Bonanni, dettaglio essenziale per accedere direttamente al secondo anno di Scienze politiche, giurisprudenza, statistica, economia. Ma è niente in confronto alle convenzioni che hanno firmato alcune università private «telematiche». Convenzioni con la Uil Poteri locali, la Ugl enti pubblici, la Rsu della Provincia di Agrigento, l’associazione romana vigili urbani, l’associazione dipendenti del ministero dell’Interno, il centro formazione professionale Enti padri Trinitari... Davvero niente di strano? Sergio Rizzo 12 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Sergio RIZZO & Gian Antonio STELLA - Enti che dovevano essere aboliti e le ... Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2009, 10:30:30 pm Il numero è quasi raddoppiato dall’Unità d’Italia.
Adesso sono arrivate a 109 E i Camuni gridarono: una provincia anche a noi Gli enti che dovevano essere aboliti e le promesse infrante E i Camuni? Niente ai Camuni? Deciso a vendicare l’ingrata storia, il deputato leghista Davide Caparini ha deciso di tirare dritto: vuole a tutti i costi la nuova Provincia della Valcamonica. Capoluogo: Breno, metropoli di 5.014 anime. Direte: ancora un’altra provincia? Ma non avevano promesso quasi tutti di abolirle? Certo: prima delle elezioni, però. Promessa elettorale, vale quel che vale. Tanto è vero che il disegno di legge per sopprimerle, presentato alla Camera dalla strana coppia Casini & Di Pietro, è già morto. Se dovesse passare l’iniziativa camunica del parlamentare del Carroccio, quella con capitale Breno (inno ufficiale: «E su e giù e per la Valcamonica / la si sente la si sente...») sarebbe la provincia numero 110. Quando nacquero nel 1861, al momento dell’Unità d’Italia, erano quasi la metà: 59. Distribuite sul territorio con un criterio semplice: dovevi attraversare ciascuna in una giornata di cavallo. Nel 1947 erano già 91. E col passaggio dagli equini alle autoblu, hanno continuato ad aumentare, aumentare, aumentare a dispetto del proposito dei padri costituenti, che avevano previsto la loro abolizione con l’arrivo delle Regioni, fino a diventare 95 e poi 102 e su su fino a 109 grazie a new entry e soprattutto al raddoppio (da 4 ad 8) di quelle della Sardegna. La quale con l’Ogliastra (57.960 abitanti, due terzi di Sesto San Giovanni) mise a segno il capolavoro, la provincia a due teste: Tortolì (10.661 anime) e Lanusei, che di anime ne ha ancora meno: 5.699. Un record mondiale. Che con l’arrivo di Breno verrebbe stracciato in attesa di nuove province e nuove capitali tipo Quinto Stampi, Pedesina, Zungri, Maccastorna, Carcoforo... Direte: ma dai, Carcoforo! Perché no, scusate? Se la provincia è indispensabile per essere vicina ai cittadini, cosa han fatto di male i carcoforesi per non avere anche loro una provincia? Quanto costino lo ha calcolato l’anno scorso il Sole 24 Ore : 17 miliardi di euro. Con un aumento del 70% rispetto al 2000. Da dove arrivano i denari? Un po’ dai trasferimenti. Parte dal prelievo del 12,5% sull’assicurazione delle auto e delle moto: 2 miliardi nel 2007, il 54% in più rispetto al 2000. Più aumenta l’assicurazione, più intasca la Provincia. Altri quattrini arrivano dall’imposta provinciale di trascrizione: le annotazioni al Pubblico registro automobilistico che doveva essere abolito. Ci sono poi un’addizionale sulla bolletta elettrica e il tributo provinciale per l’ambiente. Come mai i cittadini non si arrabbiano? Occhio non vede, cuore non duole: sono tutte tasse dentro altre tasse. Non si notano. Va da sé che a quel punto, ignaro delle spese, il cittadino vede titillato il suo campanilismo. Come nel caso della provincia di Fermo nata dalla divisione di quella di Ascoli Piceno. Una specie di scissione dell’atomo: da una piccola provincia ne sono nate due minuscole. In compenso, al posto di un solo consiglio da 30 membri, ne sono nati due da 24: totale 48 poltrone. Per non dire della provincia a tre piazze di Barletta-Andria-Trani, chiamata così per non far torto ai permalosi cittadini dell’una o l’altra capitale. Quanti sono i comuni di quella nuova Provincia? Dieci in tutto, sono. Il che, diciamolo, aumenta la pena per i sette tagliati fuori dal nome: Bisceglie, Trinitapoli, Minervino Murge. E la targa automobilistica? «BT». Rivolta: «E Andria? Non si può fare “Bat”?». «No, quella è di Batman». C’è da sorridere? Mica tanto. Sull’abolizione delle province, infatti, fu giocato un pezzo dell’ultima campagna elettorale. «Aboliremo le Province, è nel nostro programma», disse Berlusconi a Porta a porta il 10 aprile 2008. «Ma la Lega sarà d’accordo?», eccepì Bruno Vespa. E lui: «La Lega è composta da persone leali». «Presidente, che cosa ha previsto per abbassare i costi folli della politica?», gli chiese la signora Ines nella chat-line al Corriere . E lui: «La prima cosa da fare è dimezzare il numero dei parlamentari, dei consiglieri regionali, dei consiglieri comunali». E le Province? «Non parlo delle Province, perché bisogna eliminarle». Mostrava di crederci al punto, il Cavaliere, che cercava sponde: «Se Veltroni ci darà una mano... ». La linea veltroniana, del resto, era già stata dettata: «Cominceremo da subito abolendo le Province nei grandi comuni metropolitani ». Posizione confermata a Matrix : «All’abolizione delle province penso ci si possa arrivare. Ma non sono un demagogo. È facile dirlo in campagna elettorale...». Il socio fondatore del Pdl Gianfranco Fini era d’accordo: «I carrozzoni non sono intoccabili e si possono abolire per esempio le Province». Una tesi già benedetta da altri. Come l’ex ministro degli Interni azzurro Giuseppe Pisanu: «Le Province ormai non hanno più senso». Qualche settimana dopo le elezioni il capo del Governo sventolava il primo trionfo, riassunto dai tg amici con titoli così: «Abolite nove Province». In realtà nove province cambiavano soltanto nome. D’ora in avanti si sarebbero chiamate aree metropolitane. Un ritocco semantico. Ma naufragato lo stesso. Poi cominciarono i distinguo. «C’è un solo punto nel programma in cui ho difficoltà serie con gli alleati, l’abolizione delle Province. La Lega ha una posizione molto ferma», confessò Berlusconi nel dicembre 2008. «Sono enti inutili, ma non riusciremo a cancellarli in questa legislatura», confermava Renato Brunetta. Di più: nel disegno di legge sulle autonomie locali definito dal ministro Roberto Calderoli non solo sopravvivevano. Venivano addirittura rafforzate, con la possibilità di riscuotere tasse proprie. Vero è che Bossi aveva eretto un muro insormontabile: «Le Province non si toccano». Ma che la marcia indietro collettiva sia stata dovuta solo all’altolà del Carroccio non si può dire. Basti rileggere quanto affermò il deputato del Pd Gianclaudio Bressa nell’ottobre scorso: «Non siamo d’accordo con l’abolizione delle Province, né abbiamo mai detto di esserlo in passato. È ora di finirla con questa mistificazione ». E quello che diceva Veltroni? Coro democratico: Veltroni chi? Ma è niente in confronto alle contraddizioni della maggioranza. Dove Sandro Bondi, da coordinatore forzista, era a pié fermo al fianco del Capo: «Aboliamo le Province. Sono un diaframma inutile fra i Comuni e le Regioni». Era il 14 luglio 2007: qualche mese dopo, con marmorea coerenza, si candidava alla presidenza della Provincia di Massa Carrara. E meno male anche per lui (oggi ministro) che non ce l’ha fatta. Sennò sarebbe andato a ingrossare la folta schiera dei fedeli di sant’Alfonso Maria de’ Liguori al quale Dio concesse il dono della bilocazione. Cioè quei politici che sono insieme assisi su due poltrone: quella di parlamentare e quella di presidente provinciale. La legge dice che il presidente di una Provincia o il sindaco di una città con oltre 20 mila abitanti non può essere eletto parlamentare? Sì, ma non dice il contrario. Così i casi di doppio o triplo incarico si sono moltiplicati. Adesso sono nove, di cui sei pidiellini: c’è il presidente foggiano Antonio Pepe, quella astigiana Maria Teresa Armosino, quello avellinese Cosimo Sibilia, quello salernitano Edmondo Cirielli, quello napoletano Luigi Cesaro, quello ciociaro Antonio Iannarilli... Poi ci sono gli «ubiqui » della Lega: il presidente biellese Roberto Simonetti, quello bergamasco Ettore Pirovano e quello bresciano Daniele Molgora, che è anche sottosegretario all’Economia: un esempio di trilocazione mai tentato neppure dal santo fachiro Sai Baba capace al massimo di apparire insieme nell’Andra Pradesh e a Toronto. Chiederete: ma come fa uno a stare in tre posti diversi? La risposta la può forse suggerire lo stesso Pirovano. Il quale il 27 luglio scorso, mentre teneva la giunta a Bergamo, votava alla Camera a Roma materializzandosi grazie al tesserino usato al posto suo dal collega Nunziante Consiglio. Il quale, pizzicato da Fini, disse: «Era un gesto innocente, pensavo stesse per arrivare... ». Ma se di lunedì ha la giunta! «Oh signur, credevo fosse martedì...». Sergio Rizzo Gian Antonio Stella 14 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO La denuncia a «Report» di due imprenditrici Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2009, 03:49:34 pm La denuncia a «Report» di due imprenditrici
Il distretto del divano di Forlì e l’assalto cinese: «Siamo un’altra Prato» La magistratura apre un’inchiesta per «turbativa del commercio e dell’industria» ROMA — Mancano soltanto i drappi rossi come quelli che i cinesi di Prato appendono fuori dal capannone appena conquistato, perché tutti sappiano che i lavoratori italiani sono andati via e adesso ci sono loro. Ma per i piccoli imprenditori e gli artigiani di quel distretto romagnolo del divano, un tempo ricco e fiorente, il fantasma della città toscana si è materializzato già da tempo. «Se va avanti così ci ritroviamo come a Prato», è sbottata davanti alle telecamere di Report Elena Ciocca, piccola imprenditrice che quello spettro l’ha visto da molto vicino. Ed è diventata, insieme a un’altra donna imprenditrice come lei, Manuela Amadori, protagonista e simbolo di una battaglia contro un sistema di illegalità e connivenze che sta mettendo in ginocchio una intera provincia. La stampa locale l’ha già battezzata Divanopoli, oppure Divani puliti. E non a caso. Intorno a Forlì c’è il distretto del divano, uno dei più importanti d’Italia, andato in crisi ancora prima che la tempesta finanziaria partita dagli Usa investisse l’Italia. Ma non una crisi di mercato o di commesse: il mercato delle poltrone e dei divani tiene e le commesse non hanno subito particolari flessioni. Da qualche anno però, ha raccontato l’inchiesta di Report andata in onda su Rai tre ieri sera, le piccole imprese italiane che lavorano per le grandi marche nazionali o francesi, come Poltronesofà o Roche Bobois chiudono a ripetizione, lasciando a casa i lavoratori. Perché al loro posto, anche qui, sono arrivati i cinesi. Poche regole o nessuna regola, lavoratori formalmente part-time che in realtà si trovano in situazioni ai confini dello schiavismo. Una infiltrazione rapida e profonda, che ha ben presto messo fuori mercato le piccole imprese locali impossibilitate a seguire la picchiata dei prezzi. Al punto che qualche «terzista » italiano, per non restare tagliato fuori, prende le commesse e le passa alle ditte controllate dal Dragone. Risultato: già nel 2006 nel distretto del «mobile imbottito» di Forlì avevano chiuso i battenti 50 imprese italiane, mentre il numero delle ditte cinesi aumentava del 135%. Senza che questo fenomeno, come del resto è accaduto a Prato, avesse destato particolare attenzione. Nell’anno in questione c’erano stati 12 controlli del locale ispettorato del lavoro. Ma anche se i 12 controlli avevano fatto scoprire ben 314 illeciti, 110 lavoratori irregolari e 23 clandestini, questo non aveva destato alcun allarme. Tanto che nel 2007 i controlli dell’ispettorato del lavoro, ha rivelato l’inchiesta di Report condotta da Sabrina Giannini, si erano ridotti a cinque. Tutto questo mentre Elena Ciocca e Manuela Amadori tempestavano sindacati, ispettorato del lavoro e le associazioni imprenditoriali. Denunce cadute a quanto pare nel vuoto, finché un esposto non è arrivato al questore Calogero Germanà e le due imprenditrici sono state chiamate a rendere la loro testimonianza. A quel punto è scoppiato il caso. Il sostituto procuratore della Repubblica di Forlì, Fabio Di Vizio, ha avviato un’indagine che ipotizza ben 78 violazione del codice penale: dal mancato rispetto delle norme di sicurezza alla turbativa di mercato. Secondo Report , l’indagine ha coinvolto almeno tre imprese italiane (Polaris, Cosmosalotto e Tre Erre) che lavorano direttamente o indirettamente per le multinazionali della poltrona. E si è conclusa nei giorni scorsi con un esito clamoroso. «Turbativa del commercio e dell’industria» è l’ipotesi di reato confermata al termine dell’inchiesta giudiziaria. Una ipotesi suffragata anche dall’esistenza, affermano i magistrati, di una «società di fatto» fra alcuni imprenditori italiani che avrebbero fornito alle ditte cinesi capannoni e macchinari, e le ditte cinesi che avrebbero fornito agli imprenditori italiani prodotti a prezzi stracciati. Ma in attesa che la giustizia faccia il suo corso, nel distretto del divano forlivese è cambiato poco o nulla. Le ditte cinesi coinvolte nell’inchiesta, ha documentato la trasmissione di Milena Gabanelli, hanno cambiato ragione sociale: e così continuano a lavorare per gli stessi committenti italiani. Sergio Rizzo 19 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO. Brunetta «Per il Sud nuova spedizione dei Mille» Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2009, 10:29:02 am Il nuovo saggio di Brunetta. Che apre alle «differenze di salario»
«Per il Sud nuova spedizione dei Mille» Il titolare della Pubblica amministrazione: lì non applicabili le regole del Nord sul mercato del lavoro ROMA — «Ogni libro sull’arretratezza del nostro Sud dovrebbe essere l’ultimo. Questo, invece, è il mio secondo, e ciò segnala un evidente fallimento della politica». Il saggio che l’editore Donzelli manda in libreria da domani, 30 ottobre con il titolo Sud, un sogno possibile (207 pagine, 16 euro) si apre con questo singolare mea culpa . Perché, pur essendo un economista, e personalmente di certo non responsabile del disastro del Mezzogiorno, l’autore del libro, cioè Renato Brunetta, ha responsabilità politiche in un partito che da quando lui è stato eletto al Parlamento europeo, nel 1999, ha governato l’Italia per oltre il 60% del tempo. Non per questo risparmia qualcuno. Per il ministro della Funzione pubblica il fatto che a distanza di sessant’anni dalla Cassa del Mezzogiorno, il prodotto interno lordo pro capite del Sud sia ancora del 40% inferiore a quello del resto d’Italia, gli studenti meno preparati, le infrastrutture scarse e malandate, il lavoro manchi e la criminalità la faccia da padrone, è la certificazione che «a fallire è stata la classe dirigente italiana, che non è stata in grado di adattare le politiche e le misure previste per il Nord e per l’Europa alla particolare realtà meridionale ». Sostiene Brunetta che fin dall’unità d’Italia non si tiene mai conto del Sud «quando si prendono le grandi decisioni nazionali: dalla scelta europea all’abolizione delle gabbie salariali, dallo Statuto dei lavoratori all’ingresso nello Sme...» E non cita a caso le gabbie salariali, che sono state il cavallo di battaglia estivo della Lega di Umberto Bossi. Brunetta ricorda che nel 1968 venne introdotta la fiscalizzazione degli oneri sociali per le fabbriche del Sud. «C’è da dire però», aggiunge, «che tale provvedimento aveva in gran parte natura compensativa della contemporanea abolizione, fortemente voluta dal sindacato, delle differenze provinciali di salario che avevano, fino ad allora, tenuto più basso e sensibilmente differenziato il costo del lavoro al Sud». Scrive più avanti il ministro: «Di nuovo, dopo cent’anni, si pensava illuministicamente che nuove regole comuni, e magari molto avanzate, come quelle nel mercato del lavoro, nella contrattazione e nei diritti dei lavoratori, avrebbero positivamente forzato l’economia del Sud. Si finì con l’ottenere, ancora una volta, esattamente l’effetto opposto, Le regole, inapplicabili, del Nord sul mercato del lavoro e sulle relazioni industriali produssero un sempre più profondo allontanamento del mondo del lavoro meridionale da quello del resto del Paese, attraverso il dilagare strutturale di attività sommerse, irregolari, marginali e precarie. Più le regole del Nord non erano applicabili, più cresceva il dualismo e la domanda sia di incentivi che di trasferimenti ». Non esiste purtroppo la controprova circa il fatto che con il permanere di condizioni diverse rispetto al Nord la situazione del Sud oggi sarebbe migliore. Ma non serve la controprova per «riconoscere», come fa Brunetta, «che il Sud ha, essenzialmente e prioritariamente, bisogno di una nuova classe dirigente». Come attuare il rinnovamento? «La qualità di un territorio la fa la sua gente », dice. Auspicando un «programma poliennale di investimenti anche e soprattutto in capitale umano che abbia come obiettivo il superamento del gap di legalità e fiducia nelle aree più a rischio del Mezzogiorno». Tenetevi forte: «Detto in altri termini», provoca il ministro, «serve una nuova spedizione dei Mille». Una invasione che dovrà puntare, come fece Garibaldi, sugli insorti locali. Stavolta nella pubblica amministrazione. «Mentre si cercheranno al Nord funzionari e dirigenti pubblici esperti e capaci da inviare al Sud», dovrà scattare quella che Brunetta chiama l’«Operazione Rosolino Pilo», dal nome del patriota siciliano che nel 1860, a prezzo della vita, spianò la strada alla conquista di Palermo, per «la creazione al Sud di una rete che finora non è esistita, fatta di dirigenti e funzionari preparati e onesti». Immaginiamo le reazioni. Perché Brunetta non si limita alle ricette per la sua pubblica amministrazione, ma interviene anche sulla Banca del Sud, sui problemi ambientali, sulle carenze delle infrastrutture. E si dà il caso che questo libro esca proprio mentre il fronte meridionale ha diviso in due il governo: da una parte Giulio Tremonti, dall’altra Claudio Scajola, Stefania Prestigiacomo, Raffaele Fitto e Gianfranco Micciché. Le ferite sono ancora aperte. Sergio Rizzo 29 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Bersani, ecco il tavolo dei suoi poteri forti Inserito da: Admin - Novembre 09, 2009, 03:05:01 pm Con le liberalizzazioni conquistò Confindustria e si fece nemici a destra e a sinistra
Bersani, ecco il tavolo dei suoi poteri forti Da Epifani a Montezemolo, da Catricalà a Colaninno a Vittadini: i supporter e le possibili sponde a sorpresa S'interrogavano sbigottiti, Dario Franceschini e i suoi, a proposito dell’incredibile dispiegamento di mezzi a favore di Pier Luigi Bersani nella campagna elettorale per la segreteria del Partito democratico, con l’Italia tappezzata di manifesti. Arrivando alla conclusione che l’«apparato » del vecchio Pci lavorava a pieno ritmo. Una macchina organizzativa micidiale, che non avrebbe dato scampo agli avversari del «Migliore », come ironizzò dopo il successo alle primarie l’eurodeputato pidiellino Mario Mauro, rivolgendo un perfido augurio di «buon lavoro al novello Togliatti ». Forse la prima volta che qualcuno nel centrodestra ha accostato Bersani a un capo comunista. LIBERALIZZAZIONI - Pensare che Silvio Berlusconi in persona un giorno del 2007 gli fece pubblicamente i complimenti: «È uno dei più bravi». E un’altra volta lo indicò come l’unico ministro di centrosinistra che avrebbe accolto nella propria squadra di governo. Inutile dire che Bersani cortesemente declinerebbe l’invito. Ma in un governo delle liberalizzazioni il nuovo segretario del Pd non sfigurerebbe certamente. Convinto che «liberalizzare è di sinistra», Bersani è stato spesso boicottato nella sua stessa maggioranza: da sinistra come da destra. Al punto che dopo due anni molto delle sue «lenzuolate » è rimasto sulla carta. Eppure era quello il frutto di un’alleanza strategica con il presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà, uno dei suoi migliori sostenitori. Eppure, al fianco aveva lo stato maggiore della Confindustria. «Siamo pronti a dare il massimo supporto a Bersani», disse Luca Cordero di Montezemolo quando arrivò la prima lenzuolata. Nel marzo 2008, quando il governo di centrosinistra stava esalando gli ultimi respiri, i due rievocarono così i due anni trascorsi dai lati opposti della barricata. Bersani: «Ringrazio Montezemolo del confronto, spesso animato, ma sempre civile. Abbiamo cercato di fare ciascuno qualcosa di buono». Montezemolo: «Posso contare sulle dita le volte in cui non mi sono trovato d’accordo con Bersani». Va detto che l’ex presidente degli industriali non è l’unico imprenditore con cui il segretario del Pd ha un rapporto speciale. C’è anche il suo partner in varie iniziative, Diego Della Valle. E l’attuale presidente dell’Alitalia Roberto Colaninno, padre del deputato Pd Matteo Colaninno (bersaniano), dieci anni fa protagonista della scalata a Telecom Italia. «Gli vanno riconosciuti dei meriti. Spero resti sulla scena », dichiarò Bersani quando nel 2001 Telecom Italia passò di mano. Una relazione inossidabile, come quella con la Lega delle cooperative di Giuliano Poletti. Mai ufficialmente schierata con Bersani, ma non per questo indifferente alla battaglia per la segreteria del Pd. DIVERSI FRONTI - Ma le lenzuolate bersaniane ebbero anche la sponda del governatore della Banca d’Italia. Che fu ricambiato con un pubblico apprezzamento: «Mi pare che Mario Draghi appoggi la nostra linea di riforme sul massimo scoperto e la trasferibilità dei mutui». Affettuosità ripetute a proposito del «no» del governatore alle gabbie salariali in salsa leghista. È successo all’ultimo meeting di Cl, dove il segretario del Pd è ospite fisso fin da quando era presidente della Regione Emilia-Romagna. Ha titolato l’Ansa : «Il popolo di Cl incorona Bersani segretario Pd. A Rimini una platea amica che potrà pesare sulle primarie». Se per la vittoria abbia dovuto ringraziare anche il suo amico Giorgio Vittadini, fra i capi storici di Cl e fondatore del meeting di Rimini, nonché presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, è difficile dire. Certamente un ringraziamento speciale è dovuto al segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani. Nella campagna a favore di Bersani il suo sindacato si è impegnato a fondo. Tranne il segretario della funzione pubblica Carlo Podda, erano tutti per lui. Dei dieci componenti della segreteria confederale ben sette, escludendo Epifani, Paola Agnello Modica e Morena Piccinini, si sono addirittura candidati nelle liste a sostegno di Bersani. Il paradosso è che i parlamentari provenienti dalla Cgil, a cominciare da Sergio Cofferati per arrivare a Paolo Nerozzi e Achille Passoni, appoggiavano invece Franceschini. Paradosso che potrà avere effetti sorprendenti. Per esempio che nella squadra di Bersani ci sia un posto per il deputato franceschiniano Pier Paolo Baretta, ex numero due della Cisl, e nessuno invece per i parlamentari ex Cgil. Non è neanche escluso, poi, che al fianco del nuovo segretario possa essere chiamato un altro parlamentare più legato alla precedente segreteria, il veltroniano Marco Causi, già assessore al bilancio del Comune di Roma. Accanto, ovviamente, ai fedelissimi di Bersani: Francesco Boccia, che nel 2005 contese a Nichi Vendola la candidatura alla presidenza della Regione Puglia, e Stefano Fassina, ex consigliere economico di Vincenzo Visco, in precedenza capo della segreteria di Laura Pennacchi al Tesoro e coordinatore del Gramsci Ventunesimo, associazione che riunì 200 giovani pidiessini a sostegno della linea di riforma del Welfare propugnata da Massimo D’Alema. Ovvero, il più grande elettore di Bersani. Sergio Rizzo 09 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Quel pasticciaccio brutto di «internet superveloce» Inserito da: Admin - Novembre 09, 2009, 03:06:01 pm Dal piano 2000 agli sprechi Infratel: 10 anni di promesse
Quel pasticciaccio brutto di «internet superveloce» Il progetto di superconnessione per tutti gli italiani non decolla. La Finlandia in pochi anni arriverà ai 100 Mega ROMA — Comprensibilmente irritato, l’attore Luca Barbareschi, oggi deputato Pdl e vicepresidente della commissione Comunicazioni non sa farsene una ragione: «Tutta questa storia è un mistero». Si riferisce alla decisione presa dal governo di congelare i finanziamenti (800 milioni di euro) per la banda larga «fino a crisi finita». A crisi finita? E chi decide quando finisce? Il pasticciaccio brutto della banda larga comincia una decina d’anni fa. Apprestandosi a vincere le elezioni del 2001, Silvio Berlusconi ha un piano. Digitalizzare l’Italia in un battibaleno, superando il divario che il Paese ha già accumulato con i concorrenti. Un anno prima delle elezioni il futuro superministro Giulio Tremonti ha già le idee molto chiare. Il 9 marzo 2000 dice a Dario Di Vico del Corriere : «Internet è quanto di più anti-giacobino possa esistere ed è ovvio che avvantaggi noi. La struttura delle vecchia società sta alla nuova come un vecchio calcolatore sta a Internet. Quello era verticale, rigido, piramidale. La rete è orizzontale, flessibile, anarchica, federale». E obsoleta. Per questo il governo è intenzionato a lanciare un formidabile piano di modernizzazione. Nomina perfino un ministro. Non uno qualunque: nientemeno che l’ex manager europeo dell’Ibm, Lucio Stanca. Ma passa un anno e mezzo, siamo nel dicembre del 2002, e del formidabile piano per digitalizzare l’Italia nemmeno l’ombra. E Stanca consegna la sua delusione alla stampa. «Contavo di avere più soldi, ma in questa situazione è andata fin troppo bene. L’innovazione non ha lobby, girotondi, gruppi di pressione... », si sfoga sempre con il Corriere. La verità è che non ha una lira. Mentre vede i soldi che gli erano stati promessi andare a ingrassare i bilanci dei partiti politici, o qualche clientela, potrebbe forse rovesciare il tavolo e andarsene. Invece resta lì, a galleggiare. Lanciando di tanto in tanto qualche polpetta alle masse. Come il primo agosto 2005: «La banda larga è un’assoluta priorità nell’agenda di governo, che ha varato una vera e propria riforma digitale per ampliare gli strumenti mediante i quali possono esercitare una piena cittadinanza». Diventerà poi senatore, quindi deputato, infine amministratore delegato dell’Expo 2015. Nel frattempo viene costituita pure una società, Infratel Italia, incaricata di cablare con la banda larga il Sud, colmando così il cosiddetto digital divide . La mettono dentro Sviluppo Italia: poltrone, assunzioni, consulenze. Inevitabilmente. Nel 2007 la Corte dei conti gli riserva questo trattamento: «Alla data del 31 dicembre 2006 sono stati realizzati 510 chilometri di infrastrutture, pari al 29% delle opere previste nel piano. Va evidenziato che i chilometri realizzati sono risultati inferiori a quelli programmati mentre i costi di realizzazione risultano superiori». A quella data erano abilitate alla banda larga il 23% delle aree comunali previste e delle 182 centrali telefoniche programmate per la fibra ottica ne erano coperte appena 36. Un «risultato poco soddisfacente», secondo la Corte dei conti, che rilevava pure come «la remunerazione del personale manageriale Infratel» era apparsa «particolarmente elevata tanto da arrivare a 1.200 euro al giorno» mentre per gli «incarichi di consulenza» (1.283.799 euro e un centesimo) si sottolineava che erano stati «effettuati intuitu personae, in violazione dei principi di pubblicità, concorrenza e trasparenza». In seguito le cose sarebbero andate un po’ meglio. Ma pur sempre nella precarietà finanziaria. Sapete quanti soldi aveva destinato a superare il cosiddetto divario digitale un Paese che è agli ultimi posti in Europa per la diffusione di Internet? 351 milioni. Che sono poi diventati 301, perché, beffa nelle beffe, 50 sono stati prelevati per la copertura dell’abolizione dell’Ici, promessa in campagna elettorale dall’attuale premier Silvio Berlusconi. Non che le cose andassero molto meglio durante il governo di Romano Prodi, al punto che il presidente dell’Autorità per le comunicazioni, Corrado Calabrò, il 24 luglio 2007, avvertiva: «Siamo al capolinea. La situazione del mercato italiano della larga banda non appare soddisfacente. La copertura, la diffusione, il livello concorrenziale delle offerte segnano il passo rispetto ai Paesi più virtuosi d’Europa. La diffusione è al 14,5%, il che ci piazza all’ultimo posto dei Paesi del G7 e anche dei 27 membri dell’Unione europea». Nel 2007 il tasso di crescita della banda larga in Italia era del 3%, il livello più basso d’Europa con l’eccezione del Lussemburgo. Poi è arrivato il nuovo governo e il viceministro alle Comunicazioni Paolo Romani, assessore del Comune di Monza, ha preparato un piano da 800 milioni in cinque anni. Entusiasta, ha dichiarato non più tardi del 25 settembre 2009: «Il governo ritiene di poter digitalizzare il Paese entro il 2012 e di farlo anche prima di altre nazioni». Quando però gli 800 milioni sono stati messi sul binario morto (servono forse per altre cose, come tappare il buco degli stipendi per i forestali calabresi?) non ha fatto una piega: «Il blocco dei fondi da parte del Cipe è un falso problema. Il piano è partito e va avanti». Campa cavallo. La Finlandia annuncia che fra qualche anno garantirà a tutti i cittadini la connessione a 100 mega e noi siamo sempre alle prese con le stesse sardine. Con tutto il rispetto per le sardine. Sergio Rizzo 09 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Il Senato moltiplica le poltrone: più segretari che alla Camera Inserito da: Admin - Novembre 20, 2009, 11:48:58 am Il Senato moltiplica le poltrone: più segretari che alla Camera
Scritto da: Sergio Rizzo alle 11:43 E l’Italia dei Valori? Perché l’Italia dei Valori deve stare a bocca asciutta, se financo la Sudtiroler Volkspartei ha il suo senatore segretario d’aula? L’interrogativo tormentava i dipietristi da molti mesi, da quando, in occasione della votazione per eleggere i segretari d’aula di palazzo Madama a inizio legislatura, gliel’avevano fatta sotto il naso. E ieri, finalmente, il tormento ha avuto fine. Come digestivo è stata servita ieri dopo pranzo al Senato una modifica del regolamento interno per ripescare un esponente del partito di Antonio di Pietro che era stato beffato sul filo di lana dall’autonomista Helga Thaler Ausserhofer. In che modo? Siccome il regolamento dice che risultano eletti segretari d’aula i dieci senatori ai quali sono andati più voti, e il dipietrista era scivolato all’undicesimo posto, è stato sufficiente sostituire la parola «dieci» con «dodici». Anche perché in questo modo è stato recuperato un altro posto per la maggioranza. In quattro e quattr’otto la votazione si è conclusa, con soli 12 contrari e 15 astenuti. Tutti i partiti d’accordo, se si eccettua la sparuta pattuglia radicale e qualche esponente democratico. Invano il senatore ex margheritino Riccardo Villari ha suggerito lo stesso metodo seguito per farlo fuori dalla presidenza della commissione parlamentare di vigilanza Rai: votare prima la decadenza degli attuali dieci commissari e quindi rivotare i nuovi dieci. Invano è stato proposto di mettere nero su bianco, semmai, che l’aumento dei segretari non avrebbe dovuto comportare oneri aggiuntivi. Già, perché due segretari d’aula in più sono anche spese in più. I senatori che hanno questo incarico sono tenuti a «sovrintendere alla redazione del processo verbale delle sedute pubbliche» oltre a «redigere quello delle sedute segrete». Poi fanno l’appello, leggono i verbali del giorno prima, accertano i risultati delle votazioni e vigilano che nessuno faccia il furbo con i pulsanti. Per queste incombenze hanno diritto a un ufficio, un budget di segreteria che gli consente di ingaggiare fino a tre collaboratori esterni ciascuno, all’uso dell’auto blu, al telefonino di servizio e a una indennità aggiuntiva a quella dei normali senatori, parametrata allo stipendio dei sottosegretari. Con la modifica approvata ieri, il loro numero è ora doppio rispetto a quello dei gruppi parlamentari di palazo Madama, che sono sei. Ma è anche superiore a quello dei segretari d’aula della Camera: undici in tutto. Ma per 630 deputati, invece di 321 senatori (compresi quelli a vita). Pubblicato il 19.11.09 11:43 da laderiva.corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Prima centrale nucleare al Nord Il dossier porta al Veneto Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2009, 04:32:06 pm Centrali -
Per il deposito delle scorie si sta studiando l’ipotesi di una località al Sud Prima centrale nucleare al Nord Il dossier porta alla Regione Veneto L'ipotesi di realizzare un sito nell’area del Polesine, vicino a Chioggia ROMA — «Se potessi scegliere dove mettere una centrale nucleare me la metterei nel giardino di casa». Parola di Claudio Scajola. Peccato che la casa del ministro dello Sviluppo economico si trovi in Liguria, regione che non avrebbe neanche un centimetro quadrato idoneo a ospitare un impianto atomico. Figuriamoci un giardino. Per giunta la Liguria, governata dal centrosinistra, è una delle dieci Regioni che hanno fatto ricorso alla Consulta contro la legge 99 con la quale il governo ha riaperto la strada al nucleare. Una iniziativa che, visti i precedenti, può rappresentare un ostacolo serissimo a tutta l'operazione. Intanto il tempo passa. Ed è sempre più vicina la scadenza del 15 febbraio, data entro cui dovrebbero essere pronti i quattro provvedimenti del governo necessari per poter costruire le nuove centrali. Serve una delibera del Cipe che dirà quali tecnologie si potranno impiegare, e probabilmente saranno ammesse tanto la francese (Epr) che l'americana (Ap 1000). Serve un decreto che dica dove si farà il deposito delle scorie, ed è un problema mica da ridere. Serve un decreto per decidere le compensazioni economiche per gli enti locali che accoglieranno gli impianti. Serve, soprattutto, il decreto sulle localizzazioni: un provvedimento che stabilirà non dove si possono fare, ma dove «non» si possono fare le centrali. Sulla base di questa mappa «al negativo», l'Enel e chi altro vorrà realizzare un impianto avanzerà proposte all’Agenzia per la sicurezza nucleare. Che dovrà dire sì o no. Soltanto a quel punto si potrà avere l’elenco dei siti. Da mesi circolano tuttavia presunte liste nelle quali figurano i luoghi dove erano già presenti i vecchi impianti. Oppure dove era stata avviata la costruzione di centrali quando, nel 1987, il referendum antinucleare bloccò tutto. Il quotidiano Mf ha rilanciato ieri i nomi di Trino vercellese, Caorso, Montalto di Castro, Latina e Garigliano: quelli di 22 anni fa. E sempre ieri il presidente dei Verdi Angelo Bonelli ha rivelato la dislocazione dei siti a sua conoscenza. Quali sarebbero? Gli stessi, più Oristano, Palma (in Sicilia, Agrigento) e Monfalcone. Località considerate idonee da trent’anni. Risale infatti al 1979 la mappa elaborata dal Cnen sulla base di alcuni parametri come il rischio sismico, la presenza dell’acqua, il tasso di urbanizzazione, l’esistenza di infrastrutture. Parametri che da allora possono essere anche molto cambiati. La portata idrica del Po, per esempio, non è più quella del 1979. Molte aree poco urbanizzate sono oggi iperabitate. E anche la carta del rischio sismico, con il progresso delle tecniche d’indagine, potrebbe riservare tante sorprese. Senza considerare che la scelta dei siti «idonei » non spetta formalmente all’Enel, che può soltanto proporli, ma all’Agenzia per la sicurezza nucleare che ancora dev’essere costituita. Non che qualche idea non ci sia già. Per esempio, un orientamento «politico» di fondo del governo: realizzare al Nord la prima delle quattro centrali previste dal piano. Dove, è difficile dire. Com’è comprensibile, nessuno parla: adducendo come motivazione la circostanza che la mappa del 1979 è in fase di aggiornamento. Ma si sa, per esempio, che l’area non dovrebbe coincidere con quelle che hanno già ospitato un vecchio impianto atomico e questo porterebbe a escludere Caorso e Trino. Se il sito in questione dev’essere poi in prossimità del mare, a causa delle sofferenze del Po, allora la ricerca si restringe. C’è la Toscana settentrionale con l’area di Cecina, città natale del ministro nuclearista Altero Matteoli, ma la regione è governata dal centrosinistra e ha già fatto ricorso contro la legge Scajola: la battaglia sarebbe durissima. Nella mappa dei siti possibili figura anche l’isola di Pianosa, ma oltre ai problemi di cui sopra ci sarebbe la controindicazione del costo esagerato. Minori difficoltà esisterebbero per la costa adriatica, in particolare quella Friuli Venezia Giulia e il delta del Po. Ma se la zona di Monfalcone è abbastanza congestionata, il Polesine, area a una trentina di chilometri da Chioggia, lo è molto meno. Va ricordato che a favore della localizzazione di una centrale atomica in Veneto si era già espresso il governatore Giancarlo Galan (uno dei pochi a non aver fatto ricorso alla Consulta) con riferimento alla conversione a carbone di Porto Tolle. Ovviamente contestato dagli ambientalisti. Per ora, comunque, restiamo agli indizi. L’Agenzia, che ha potere decisionale, non è ancora nata. Da settimane si attende la nomina dei suoi vertici: per la presidenza sarebbe ora in pole position il settantenne Maurizio Cumo, ex presidente della Sogin. Irrisolta resta anche la questione dei finanziamenti. L’Agenzia dovrebbe avere un centinaio di dipendenti ma non una lira in più delle risorse già esistenti. Un emendamento alla finanziaria che le destinava 3 milioni di euro è stato bocciato in extremis dal Tesoro. E non si sa nemmeno dove avrà sede. Il ligure Scajola preme per Genova, mentre il suo collega veneziano Renato Brunetta, che deve dare il proprio parere, punterebbe Slitta a dopo il voto la scadenza del 15 febbraio per i siti su Venezia. Per non parlare degli altri problemi politici. Il primo di tutti: le prossime elezioni regionali. Una scadenza troppo importante per non far scivolare a una data successiva la presentazione dei decreti del governo, prevista entro il 15 febbraio. Alla luce di quello che sta accadendo, spiegano al ministero, quel termine dev’essere considerato soltanto «ordinatorio». Se ne parlerà magari in aprile, se non a maggio. E ci sarà anche più tempo per risolvere il problema delle scorie. Se la prima centrale dovrebbe essere fatta al Nord, sembra garantito che il deposito delle scorie sarà al Sud. A quanto pare non più nel sottosuolo, ma in superficie. Contando su una reazione più blanda delle popolazioni coinvolte. Già. Ricordate Scanzano Jonico? Sergio Rizzo 09 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO I costi dei giornali e una proposta sui sussidi Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2010, 11:52:17 pm La lettera
Un gesto necessario I costi dei giornali e una proposta sui sussidi Caro direttore, siamo convinti che sarebbe stato meglio aspettare prima di alzare il prezzo del giornale. Sappiamo che la situazione di tutta la stampa italiana è difficile. Sappiamo che i conti economici delle aziende editoriali soffrono per il calo della pubblicità: un po’ per la crisi economica, un po’ per colpa di un sistema scientificamente costruito per dirottare le risorse verso la televisione. Però… Nel 2008, se abbiamo capito bene, i ricavi della Rcs quotidiani sono calati da 716 a 666 milioni di euro e il fatturato pubblicitario si è ridotto da 288 a 265 milioni: il tutto continuando a fornire con Corriere.it una informazione totalmente gratuita a un milione e mezzo di lettori on line. Nel 2009, poi, la situazione sarebbe ulteriormente peggiorata. Concordiamo: sono dati che non possono non preoccupare, nonostante i buoni segnali, a dispetto dei tempi non propizi, di aumenti delle vendite del Corriere. Dati che hanno costretto anche la redazione, con il buonsenso e lo spirito di sacrificio sempre dimostrati già in passato, a farsi carico di tagli dolorosi alle retribuzioni e ai posti di lavoro. Sappiamo anche che molti concorrenti hanno aumentato il prezzo a un euro e venti ben prima che lo facessimo noi: la Stampa, il Giornale, Libero... Altri ancora. E sappiamo che negli ultimi mesi in tutta Europa il prezzo dei giornali è aumentato, qua e là, anche di 50 centesimi. Né ignoriamo che il prezzo del Corriere era fermo da cinque anni, e che un euro del 2010, per quanto nel 2009 sia stata registrata l’inflazione più bassa da cinquant’anni a questa parte, non ha lo stesso valore di un euro del 2005. Ma 20 centesimi in più sono pur sempre un aumento del 20%. Non è poco. Si dirà che in realtà il ritocco è di poco superiore al 12%, tenuto conto del fatto che il giovedì e il sabato con i supplementi il prezzo resta invariato. Ma neanche il 12% è poco. Non è poco alla luce della situazione, molto pesante, di tante famiglie italiane. Ma anche alla luce di un dovere preciso che ha sempre avuto un quotidiano indipendente come il Corriere: offrire al suo lettore il meglio, nello spirito della concorrenza e del libero mercato. Di cui il prezzo è una componente non trascurabile. E veniamo al punto. Ricordiamo quanto disse il presidente di Rcs, Piergaetano Marchetti, all’assemblea degli azionisti del 28 aprile 2008, quando già la crisi economica mordeva: «Non vogliamo essere un’azienda che vive di sussidi perché non solo questo mette in dubbio la capacità di reddito che una società per azioni deve perseguire ma mette a rischio l’indipendenza », anche perché «non possiamo diventare parte di una casta assistita e parassitaria. È una condizione di coerenza». Giustissimo. Siamo costretti ad aumentare del 20% il prezzo del Corriere appellandoci al mercato e alla comprensione dei lettori? Bene, è l’occasione giusta per rinunciare parallelamente una buona volta al 4,4 per mille dei nostri ricavi: gli ultimi residui dei contributi e delle agevolazioni pubbliche. Certo, i contributi veri alla stampa indipendente sono finiti già nel 2006, con l’esaurimento delle agevolazioni per la carta, e sopravvivono solo sussidi che riguardano le tariffe telefoniche e facilitazioni del tutto secondarie. Come i sussidi per le vendite all’estero, vendite perseguite nonostante sia un gioco a perdere in nome della necessità di consentire a tanti italiani che vivono o viaggiano in Paesi extraeuropei di mantenere un legame con l’Italia. Ci sono le agevolazioni postali, è vero. Ma meritano un discorso a parte, perché sono un’anomalia nell’anomalia: lo Stato le riconosce infatti, con pelosa e ipocrita generosità, perché vuole tenersi stretto, per motivi squisitamente politici e clientelari, il «monopolio» delle Poste. Vogliamo scommettere che in un regime di concorrenza vera i giornali, senza più alcun «favore», ci guadagnerebbero sia sul piano economico sia nella puntualità delle consegne? All’estero funziona così. Lo Stato abolisca il «monopolio», abolisca le tariffe agevolate e vedremo se i giornali più sani non ci guadagneranno. Noi, ne siamo certi, stapperemmo una bottiglia. Bene, al netto di quella voce postale ci risulta che Rcs quotidiani abbia ricevuto dallo Stato nel 2008 contributi e agevolazioni per 2,9 milioni, che scenderebbero quest’anno a 2,4 milioni. Stiamo parlando del 4,4 per mille (per mille!) del fatturato della Rcs Quotidiani, ovvero l’uno per mille (per mille!) dell’intero fatturato della Rcs Mediagroup. Niente a che vedere con i sussidi destinati a giornali concorrenti che accedono a contributi di vario genere facendo lo slalom in mezzo a norme confuse e anacronistiche che partono dalla famigerata legge 250 del 1990, quella per la stampa di partito. C’è chi, magari facendo prediche sugli sprechi, incassa dallo Stato sotto varie forme di aiuti (che il Corriere non si è mai sognato non solo di avere ma men che meno di invocare) il 10 per cento del fatturato, chi il 16,3 per cento, chi addirittura il 20 per cento. Chiudiamola lì almeno noi, con quello 0,4 per cento e non se ne parli più. E potremo finalmente spazzare via tutte quelle chiacchiere pretestuose di chi, in perfetta malafede, vorrebbe lasciare le cose così come stanno con quegli «aiutini» a doppio taglio proprio per potere starnazzare di fantomatici e faraonici «soldi dello Stato» dati a chi preferirebbe di gran lunga regole chiare, patti chiari, concorrenza chiara. E vinca il migliore. Insomma, direttore, restiamo dell’idea che sarebbe stato meglio aspettare ad aumentare il prezzo del Corriere. E siamo consapevoli che ormai, fatto il passo, è difficile fare retromarcia. Ma un segnale, ai nostri lettori, glielo dobbiamo. Che sia la volta buona? Sergio Rizzo Gian Antonio Stella 07 gennaio 2010 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Calderoli, ministro della complicazione Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2010, 10:39:23 am ANNUNCI E REALTA'
Calderoli, ministro della complicazione Dopo il decreto taglia-leggi si è dovuto fare il decreto salva-leggi di Sergio Rizzo ROMA - Dal Carroccio aveva giurato battaglia, Alberto Da Giussano-Calderoli, alla burocrazia del Barbarossa romano. Mulinando sopra la testa lo spadone da ministro della Semplificazione Normativa: «Taglierò 50 mila poltrone! 34 mila enti impropri! 39 mila leggi inutili!». Ma di poltrone, finora, manco una. Degli enti impropri, poi, non ne parliamo. Sulle prime Roberto Calderoli li aveva definiti minacciosamente nel suo Codice delle Autonomie addirittura «enti dannosi»: consorzi di bonifica, bacini imbriferi, comunità montane, difensori civici, tribunali delle acque, enti parco… Poi, dopo aver cancellato con un tratto di penna quel termine «dannosi» (troppo crudo?) la lista degli enti da abolire è stata alleggerita fino a svanire completamente. Come neve al sole. Qualche taglietto era rimasto nella manovra del 2010? Via anche quello. Secondo Italia Oggi l’abolizione dei difensori civici (ma solo quelli comunali) e delle circoscrizioni nei Comuni slitterà di un anno grazie a un emendamento al decreto milleproroghe, varato dal governo tre giorni dopo la Finanziaria. E slitterà anche la prevista riduzione delle poltrone delle giunte e dei consigli degli enti locali. Mentre anche gli enti pubblici non economici che dovevano finire sotto la mannaia del cosiddetto taglia-enti hanno ottenuto una scappatoia per la sopravvivenza: gli è stato sufficiente presentare un piano riordino prima del 31 ottobre 2009. E la semplificazione delle leggi? Almeno quella è andata in porto, come ha orgogliosamente rivendicato il Nostro («Calderoli, missione compiuta, via 39 mila leggi», titolava l’Ansa il 19 ottobre 2009)? Dipende che cosa si intende per semplificazione. Eliminare migliaia di leggi inutili perché «esauste», che cioè hanno esaurito la propria funzione e quindi non sono più concretamente vigenti, anche se formalmente continuano a essere in vigore, è un’operazione di per sé inutile. Anche la legge che le elimina può quindi essere considerata una legge inutile. La prova? Siccome lo spadone del ministro era calato all’inizio anche su provvedimenti magari un po’ vecchiotti ma forse non proprio inutili, come la legge che ha abolito la pena di morte o quella che ha istituito la Corte dei conti, dopo il decreto taglia-leggi si è dovuto fare il decreto salva-leggi. Ben altro è semplificare. Significa scrivere norme chiare e comprensibili a tutti i cittadini. Come evidentemente sa bene anche Calderoli. Lui stesso ha voluto che in una legge approvata il 18 giugno dello scorso anno ci fosse un articolo intitolato: «Chiarezza dei testi normativi». Una norma draconiana, con la quale si stabilisce che quando si cambia o si sostituisce una legge, esercizio da noi piuttosto frequente, sia obbligatorio indicare «espressamente» che cosa viene cambiato o sostituito. E che quando in una legge c’è un «rinvio ad altre norme contenute in disposizioni legislative», si debba anche indicare «in forma integrale, o in forma sintetica e di chiara comprensione» il testo oppure «la materia alla quale le disposizioni fanno riferimento». Ma si afferma pure il principio che le disposizioni sulla chiarezza dei provvedimenti «non possono essere derogate, modificate o abrogate se non in modo esplicito». Ebbene, da quando queste norme sono state approvate, il governo del Semplificatore ha scritto leggi se possibile ancora più indecifrabili e complicate. L’ultima perla scintillante è il cosiddetto decreto milleproroghe. Un comma a caso. Il numero 14 dell’articolo 1: «Al comma 14 dell’articolo 19 del decreto legislativo 17 settembre 2007, n. 164, le parole: "Fino all’entrata in vigore dei provvedimenti di cui all’articolo 18 bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e comunque non oltre il 31 dicembre 2009, la riserva di attività di cui all’articolo 18 del medesimo decreto" sono sostituite dalle seguenti: "Fino al 31 dicembre 2010, la riserva di attività di cui all’articolo 18 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58..."». Che cosa vuol dire? Che fino a quando non sarà operativo l’Albo dei consulenti finanziari gestito dalla Consob, potrà fare il consulente finanziario soltanto chi già lo faceva alla data del 31 ottobre 2007. Un’altra norma a caso. Sempre articolo 1, comma 19: «All’articolo 3, comma 112, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 e successive modificazioni, le parole: "Per l’anno 2008" sono sostituite dalle seguenti: "Per l’anno 2010" e le parole "31 dicembre 2009" sono sostituite dalle seguenti: "31 dicembre 2010"». La traduzione? Il distacco di 21 dipendenti delle Poste presso la pubblica amministrazione viene prorogato di un altro anno. Se questo è il risultato, ministro Calderoli, non sarebbe stato meglio chiamare il suo dicastero in un altro modo? Magari «Ministero della Complicazione normativa»? 10 gennaio 2010 da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO I regali elettorali delle regioni Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2010, 02:24:51 pm I regali elettorali delle regioni
Se è vero che tre coincidenze fanno una prova, come diceva il grande principe del foro Carnelutti, che cosa succede quando le coincidenze sono decine? La Regione Lazio fa un concorso per assumere 141 impiegati e 25 dirigenti, si presentano in 94 mila e dei 116 già dichiarati vincitori ben 37 sono casualmente collaboratori dei politici: una decina riferibili al centrodestra e i restanti al centrosinistra. In Campania con una mano si tagliano le consulenze e con l’altra si confermano per tre anni 46 dirigenti in scadenza. La Liguria, ha raccontato il Sole 24 ore, bandisce un contratto per regolarizzare i precari regionali. Nelle Marche si approva un piano per stabilizzare i dipendenti a termine, senza escludere gli staff di assessori e consiglieri. Ma si potrebbe continuare, con i generosi stanziamenti anticrisi (1,2 miliardi) della Lombardia, il taglio dell’addizionale Irpef deciso dal Veneto... È in vista delle elezioni che molti amministratori locali danno il meglio di sé. Le sanatorie, per esempio, sono un classico. E non soltanto quando interessano i precari. Semplicemente memorabile quella approvata dalla Regione Campania nel 2000, che riguardava la bellezza di 25.368 alloggi pubblici occupati abusivamente. Era un venerdì. Il venerdì precedente la domenica delle elezioni regionali. Ma come si può pretendere che la classe dirigente regionale non cada in tentazione prima del voto, se l’esempio del livello istituzionale superiore è quel che è? Basta vedere cosa accade tutte le volte che si comincia a sentire odore di scioglimento delle Camere. Da scuola è il caso dell’abolizione del canone Rai per gli ultrasettantacinquenni non abbienti, previsto nella Finanziaria 2008 con uno stanziamento simbolico di 500 mila euro. Un mese dopo quella decisione improvvisamente si materializzavano le elezioni. Altrettanto improvvisamente, nel decreto milleproroghe, quei 500 mila euro diventavano 26 milioni, mentre spariva l’ostacolo rappresentato dall’obbligo di un successivo decreto per mettere in moto concretamente lo sgravio. L’obiettivo evidente era quello di rendere immediata l’esenzione, moltiplicare il numero dei beneficiari e incassare più voti. Ma non è andata esattamente così. Dei voti, neanche l’ombra. E due anni dopo, nell’indifferenza generale, i poveri anziani pagano sempre il canone nonostante siano esentati per legge: la Rai dice di aspettare ancora un decreto che nessuno sa di dover fare. Tutto questo a dimostrazione del fatto che talvolta scelte del genere possono essere perfino controproducenti. Anche se per chi le ha fatte non cambia niente. Il conto tocca all’amministrazione che verrà dopo. Se si vincono le elezioni, bene: altrimenti, poco male. I sei milioni e mezzo di spesa in più che l’attuale Consiglio regionale del Lazio lascia in eredità al prossimo (l’aumento è dell’8,1%, dieci volte l’inflazione del 2009), in qualche modo salteranno fuori. Come anche i denari necessari alle iniziative clientelari di altre Regioni. I cui promotori devono soltanto sperare che un bel giorno i contribuenti elettori non si accorgano che a rimetterci, in fondo, sono sempre soltanto loro. Ecco perché, se ancora c’è tempo, tutti quanti dovrebbero darsi una bella regolata. Sergio Rizzo 02 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Oltre allo «scudo» giudiziario ai commissari, competenze speciali.. Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2010, 10:59:32 pm I contenuti -
Anche il blocco agli interessi sui debiti insoluti nelle 97 pagine di articoli, poco amate nello stesso Pdl Nel testo super poteri e 150 assunzioni Oltre allo «scudo» giudiziario ai commissari, competenze speciali su carceri e Croce Rossa ROMA — Ci avevano già provato, in Senato, a smontare il giocattolo. Del decreto non piaceva, soprattutto, Protezione civile Spa, nuova società pubblica alle dipendenze dirette del già potentissimo sottosegretario alla presidenza Guido Bertolaso. L’opposizione gridava allo scandalo della «privatizzazione». Ma soprattutto nella maggioranza c’era chi bofonchiava. Due mesi prima il Parlamento aveva già dato via libera, non senza mal di pancia, a Difesa servizi, una società per azioni controllata dal ministero di Ignazio La Russa, e ora gli mettevano sotto il naso una seconda nebbiosa operazione. Nebbiosi soprattutto i suoi confini. Una nuova Italstat in grado di rinverdire i fasti dell’epoca di Ettore Bernabei, come temevano i costruttori, o piuttosto un innocuo contenitore di attività proprie del Dipartimento? Nebbioso anche l’obiettivo: forse quello di aggiungere altro potere a quello già enorme del capo supremo della Protezione civile, che con la scusa dell’emergenza si estende dal terremoto dell’Aquila al G8, agli eventi sportivi, fino alle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia? A scanso di equivoci la Protezione Spa è stata bersagliata ben bene di emendamenti, a rendere concreta la diffidenza palesata anche dal ministero dell’Economia di Giulio Tremonti. In attesa del nuovo prevedibile bombardamento alla Camera: c’è chi spera definitivo. Il clima di sospetto che l’inchiesta di Firenze sta addensando intorno agli appalti delle emergenze non aiuta. Ma se è vero che anche sondaggi riservati consiglierebbero prudenza, smantellare il provvedimento equivarrebbe a una clamorosa sconfessione di Bertolaso, intorno al quale la maggioranza avrebbe fatto muro seguendo il premier Silvio Berlusconi. La gragnuola di emendamenti approvati al Senato ha trasformato il decreto originario nel solito guazzabuglio di articoli e commi che occupano qualcosa come 97 pagine di bollettino parlamentare. Con formulazioni spesso astruse e incomprensibili, che costringono chi ci vuole capire qualcosa a risalire la corrente impetuosa di leggi e decreti e «successive modificazioni »: alla faccia delle norme approvate (e sbandierate) da questo stesso governo, che imporrebbero la trasparenza e la leggibilità dei provvedimenti. Dentro c’è posto per tutto. Perfino per una forma di «scudo» per mettere al ripario delle rogne il personale della Protezione civile. Fino al 31 gennaio 2011 «non possono essere intraprese azioni giudiziarie e arbitrali» nei confronti dei commissari e delle loro strutture, e anche «quelle pendenti sono sospese». Non basta, perché «i debiti insoluti non producono interessi, né sono soggetti a rivalutazione monetaria». E assunzioni: altre 150. E promozioni: anche al ministero dei Beni culturali, che potrà nominare dirigenti di prima fascia chi svolge da almeno cinque anni incarichi dirigenziali. E l’aumento dei componenti del governo: da 63 a 65. E nuovi poteri. Un esempio? La vigilanza sulla Croce Rossa italiana. Il cui commissario straordinario Francesco Rocca, ex stretto collaboratore del sindaco di Roma Gianni Alemanno che gli aveva affidato un importante incarico al Campidoglio, si è visto anche prorogare di due anni l’incarico proprio con questo decreto. Un altro esempio? Competenze speciali per la costruzione delle nuove carceri. Così speciali che il commissario straordinario per l’emergenza della sovrappopolazione carceraria può fare praticamente tutto: localizzare, espropriare, occupare. Così speciali che contro le sue decisioni si può ricorrere soltanto al giudice ordinario oppure, in casi davvero estremi, al presidente della repubblica. Niente Tar, meno che mai il Consiglio di Stato. Così speciali che la progettazione, la scelta delle ditte, la direzione dei lavori e la vigilanza saranno affidate a Protezione civile Spa. Guarda caso. In un Paese dove ogni cosa è ormai commissariata (le grandi opere, le carceri, gli eventi sportivi, perfino la Croce Rossa) non potevano mancare commissari per la realizzazione delle reti di distribuzioni dell’energia e delle centrali elettriche: non escluse quelle nucleari. Sono previsti da un decreto legge della scorsa estate. Siccome però le procedure di nomina sono evidentemente un po’ complesse, ecco che qui gli si fa un bel regalino. Passando sopra a un comico controsenso: a quei commissari straordinari, una figura prevista dalla legge di riforma della presidenza del Consiglio datata 1988, quella legge non si applica. A questo punto manca la ciliegina sulla torta. Da dove si prendono i 355 milioni di euro necessari per tutto questo? Ma dal famoso Fas, il fondo per le aree sottoutilizzate, quello dei soldi per il Sud: che domande... Sergio Rizzo 15 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Draghi alla Bce e il Gesto di Tremonti Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2010, 04:23:14 pm 18/02/2010
Draghi alla Bce e il Gesto di Tremonti Scritto da: Sergio Rizzo I rapporti fra Giulio Tremonti e Mario Draghi non sono mai stati particolarmente distesi. Anche per questo motivo, la dichiarazione del ministro dell' Economia, il quale ieri a Bruxelles ha assicurato che l' Italia «ha e avrà un ottimo candidato» per la Banca centrale europea è un bel segnale. Conosciamo la serietà con cui Tremonti ha sempre affrontato le questioni internazionali e la considerazione che gli viene riservata nelle cancellerie europee. E non dubitiamo che quando sarà il momento farà valere tutto il suo peso in una decisione tanto importante. Se una qualità va riconosciuta al ministro dell' Economia è quella di non essersi mai fatto condizionare, nelle scelte degli uomini, da simpatia personale o tessere politiche. Draghi non era il suo candidato alla Banca d' Italia: se alla fine del 2005 avesse potuto scegliere lui, a via Nazionale sarebbe andato Vittorio Grilli. Con l' attuale governatore, poi, ha avuto spesso visioni diverse delle cose. Per non dire opposte. Ancora ieri, all' «ottimo candidato» che sabato scorso all' assemblea dei cambisti del Forex aveva sottolineato come l' Italia stesse uscendo dalla crisi con una crescita economica «ai minimi europei», ha risposto per le rime. Ma Tremonti sa pure che se per la presidenza della Banca centrale europea può spuntarla un italiano, questa è un' occasione che il Paese non può farsi sfuggire. Con l' allargamento dell' Unione europea i posti a disposizione si sono drasticamente ridotti. E la logica della spartizione, a cui partecipano ora anche i piccoli Paesi, finisce per penalizzare soprattutto chi, come l' Italia, si è sempre storicamente disinteressata di avere un potere reale a Bruxelles, preferendo le poltrone italiane. Nel 1972 Franco Maria Malfatti lasciò improvvisamente la presidenza della Commissione delle Comunità economiche europee per partecipare alle elezioni politiche in Italia. E due anni fa Franco Frattini si è dimesso da commissario europeo alla Giustizia e vicepresidente dell' Ue per prendere le redini della Farnesina. Da allora abbiamo già incassato almeno due sconfitte: le mancate nomine di Mario Mauro alla presidenza del parlamento di Strasburgo e di Massimo D' Alema al posto di Mister Pesc, l' alto rappresentante per la politica estera dell' Unione europea. Ora c' è modo di rimediare. A patto di agire, una volta tanto, perseguendo un obiettivo che purtroppo in Italia molti politici perdono spesso di vista: si chiama interesse nazionale. da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO La malapianta del denaro Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2010, 05:34:29 pm CAPITALI ALL’ESTERO, REGOLE E CONTROLLI
La malapianta del denaro Politica, affari e ambienti fangosi: vanno ripristinate linee di confine morali diventate ormai impercettibili Le accuse dovranno naturalmente essere provate. Ma nella vicenda che ha portato i magistrati a chiedere 56 arresti disorientano l’incredibile ramificazione degli attori e le dimensioni del presunto riciclaggio, con ingranaggi ben innestati nella criminalità organizzata e perfino nella politica. Una fotografia, va detto, scattata qualche anno fa, quando le più recenti disposizioni contro il denaro sporco non erano ancora state approvate. L’impressione è comunque quella di un mondo nel quale i capitali mafiosi, come quelli dei trafficanti di droga o d’armi, possono penetrare in ogni fessura, come l’acqua. Al punto che viene da domandarsi se un Paese come l’Italia, dove le cosche arrivano a controllare intere fette di territorio, e l’economia irregolare o illegale è un terzo del reddito nazionale, faccia davvero tutto quello che dovrebbe fare. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha dichiarato guerra ai paradisi fiscali introducendo l’inversione dell’onere della prova: ora è chi esporta i capitali a doverne dimostrare la provenienza lecita. Sacrosanto. Nelle intenzioni dichiarate del governo anche lo scudo fiscale si inseriva in questa logica. Mario Draghi, però, non aveva nascosto le sue preoccupazioni chiedendo al Tesoro di chiarire gli obblighi antiriciclaggio imposti alle banche per il rientro dei capitali. Chiarimento arrivato nei giorni scorsi, mentre il governatore definiva il numero delle segnalazioni (50) arrivate finora dagli intermediari «esiguo». È l’aggettivo giusto? Le operazioni di rimpatrio sarebbero state circa 100 mila, mentre le segnalazioni antiriciclaggio arrivate nel 2008 alla Banca d’Italia sono state 14.602: su oltre 100 milioni di operazioni bancarie. Nelle regole c’è sempre qualcosa da rivedere. Draghi chiede un testo unico e più sanzioni. L’ex procuratore antimafia Pier Luigi Vigna auspica addirittura una legge che conceda sconti ai pentiti. Ma che ne sarà delle 50 segnalazioni, e che ne è stato delle altre 14 mila? Ci saranno indagini accurate e sanzioni esemplari? Qualcuno pagherà, questa volta con il carcere vero? O finirà ogni cosa, come spesso accade, a tarallucci e vino? Perché la domanda cruciale è la seguente: vogliamo davvero vincere questa guerra? Se la risposta è sì, e non può che essere quella, allora ci si deve rimboccare le maniche. È ora di dare segnali chiari e decisi. Oltre a rendere più stringenti le regole, di sicuro bisogna ottenere che in Europa tutti i Paesi si impegnino a tappare i buchi, anche i più piccoli, che ancora esistono nell’Unione: dove i capitali possono andare dappertutto, imitando l’acqua, mentre le banche di un Paese come l’Austria pubblicizzano sui loro depliant la garanzia costituzionale del segreto bancario. Non solo. È necessario anche intervenire senza pietà sui legami poco chiari fra una certa politica, un certo mondo degli affari e gli ambienti fangosi che li circondano. Vanno ripristinate linee di confine morali diventate ormai impercettibili. Perché i fatti delle ultime settimane ci raccontano un’Italia dove si sta tornando pericolosamente a respirare il clima degli anni bui. Un’Italia nella quale, diciamo la verità, le persone perbene hanno sempre più difficoltà a riconoscersi. Sergio Rizzo 24 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO - Una promessa da mantenere Inserito da: Admin - Marzo 03, 2010, 11:31:09 am ETICA PUBBLICA E NUOVE REGOLE
Una promessa da mantenere Ieri ci hanno promesso che la corruzione verrà colpita senza esitazione e che i parlamentari condannati non potranno essere candidati. Una promessa è una promessa e anche se i nostri politici non sono famosi per mantenerle, stavolta vogliamo crederci. Nel comunicato stampa di palazzo Chigi c’è una frase chiara: le iniziative contenute nel disegno di legge contro la corruzione «rispondono alla domanda di trasparenza e controllo proveniente dai cittadini». Pare di capire che senza gli scandali a ripetizione di queste settimane che hanno indignato l’opinione pubblica e riesumato il fantasma di Tangentopoli non si sarebbe fatto nulla. La credibilità del sistema politico non è mai stata così bassa dalla fine della cosiddetta prima repubblica. E l’unica cosa che può forse evitarle di precipitare definitivamente sotto i piedi è una legge che mostri in modo inequivocabile la volontà di rialzare il livello morale. Per questo la promessa merita attenzione. Ma l’istinto di sopravvivenza dei politici riuscirà a fare il miracolo? Purtroppo la strada è ancora molto lunga. Come è lunga quella dei disegni di legge che al pari di questo devono superare nell’identico testo l’esame della Camera e del Senato. Dove i parlamentari nei guai con la giustizia non mancano, e questo non è un presupposto ideale per immaginare un percorso in discesa. Ma soprattutto dove è passato il concetto che si possano pacificamente aggirare tutte le regole di ineleggibilità e incompatibilità semplicemente interpretando le leggi. E questo è un problema forse ancora più difficile da risolvere. Roberto Calderoli avrà dunque il suo da fare per convincere molti colleghi a votare l’emendamento che equipara le regole per le candidature a Camera e Senato a quelle previste per gli amministratori locali. Qualcuno, è vero, avrebbe voluto misure ancora più drastiche. Come l’ineleggibilità perpetua per i corrotti. «Era troppo», ha ammesso il ministro della Semplificazione. Si tratta comunque di paletti molto più rigidi rispetto a quelli (praticamente inesistenti) che finora devono superare gli onorevoli, visto che vietano l’elezione ai condannati in via definitiva per una serie di gravi reati, quali sono quelli contro la pubblica amministrazione. Ma che nemmeno ora, proprio mentre la politica italiana è alle prese con uno dei passaggi più difficili dalle inchieste di Mani pulite, hanno potuto evitare il solito brutto spettacolo. Basta dare un’occhiata alle liste per le elezioni regionali chiuse poche ore prima che il Consiglio dei ministri approvasse il disegno di legge. Dalla Campania, dove la capolista del Pdl Mara Carfagna, ministro delle Pari opportunità, si è battuta con impegno («applicheremo il codice etico in maniera diffusa»), arriva purtroppo una lezione assai istruttiva. Lì si è presentato, questa volta con il centrodestra, un consigliere regionale ex centrosinistra condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa già sospeso dall’incarico a maggio per decreto della presidenza del Consiglio. La sua candidatura è stata addirittura sconfessata dal possibile futuro governatore del suo schieramento, Stefano Caldoro, che ha pubblicamente dichiarato: «Non voglio i suoi voti». Ma Roberto Conte ha avuto ugualmente il posto in lista. E il vicepresidente del Consiglio regionale Salvatore Ronghi, dell’Mpa, per protesta non si è candidato. Sempre in Campania sono stati poi riproposti in lista due esponenti del centrodestra e uno del centrosinistra «avvisati» con l’ipotesi che abbiano riscosso indebiti rimborsi chilometrici dal Consiglio regionale. Per non parlare della polemica innescata dalla presidente del Consiglio, Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella. Destinataria di un «divieto di dimora» nell’ambito di un’inchiesta per cui è indagata, si è comunque ripresentata capolista dell’Udeur a Napoli e Benevento. Farà la campagna elettorale da Roma, e siccome non gli va giù se l’è presa con il candidato governatore della sinistra Vincenzo De Luca: «Lui può fare la sua campagna elettorale come se nulla fosse, nonostante abbia due procedimenti giudiziari in corso e io invece sono costretta all’esilio dalla mia terra». Che spettacolo! D’accordo che in base alle regole attuali l’ineleggibilità alla Regione scatta solo in caso di condanna definitiva. Ma la domanda finale resta: tutti segnali coerenti con le promesse? Sergio Rizzo 02 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO L’architetto Boeri - ... Inserito da: Admin - Marzo 08, 2010, 07:06:00 pm L’architetto Boeri - Dal progetto allo scandalo: «Ho dedicato un anno di lavoro e sono in perdita. I tecnici dell’Unità di missione vivevano nel lusso»
«Era lui alla Maddalena che controllava ogni cosa I costi lievitati del 57%» ROMA—Per chi ha progettato la parte centrale delle opere del G8 alla Maddalena, all’origine di un’indagine giudiziaria che da settimane sta facendo tremare il Palazzo, non dev’essere facile fare i conti con quello che è successo. Stefano Boeri ha comunque deciso che era arrivato il momento. E sul blog di Abitare, la rivista che dirige da quattro anni (www.abitare. it), potete trovare una sua ricostruzione dei fatti. Architetto Boeri, si è pentito? «Per aver dedicato un anno di intenso lavoro, con i miei 50 collaboratori, al recupero dell’Arsenale de La Maddalena lavorando in maniera intensa e onesta, assolutamente no. Per il fatto di essere stato involontariamente partecipe di una vicenda che oggi evidenzia lati indecenti e illegalità ingiustificabili non posso che rispondere: sì. Mi crederà se le dico che lo spirito di partenza era del tutto diverso?». Per i lettori non sarà facile, visto com’è andata. «L’idea iniziale, lanciata da Renato Soru, era quella di utilizzare un grande evento ormai inutile, come il G8 alla Maddalena, per recuperare un pezzo di territorio inquinato, bonificarlo e innescare un nuovo meccanismo di sviluppo per il nord Sardegna. Ci ho creduto, eccome. Quella era la vera sfida ed è stata vinta. Ma a che prezzo?». Forse però non era impossibile sentire puzza di bruciato. Eravate i progettisti ma lavoravate senza avere più il controllo del progetto. Non è così? «Eravamo di fatto esclusi dalle decisioni e dalle valutazioni economiche di cantiere. Se avessimo avuto anche soltanto una prova di quanto oggi è riportato dai giornali, ce ne saremmo subito andati via. Tenga presente che in Italia non esiste una legge che tuteli gli architetti, che gli consenta come in Francia di avere fino in fondo la responsabilità dell’opera. Perché allora ho accettato?». Mi ha tolto la domanda dalla bocca. «Oltre che per il desiderio di aiutare a realizzare un’architettura di alto valore civile, avevo le garanzie dei massimi livelli istituzionali: oltre al presidente della Regione Sardegna, il capo della Protezione civile e sottosegretario Guido Bertolaso, e Angelo Balducci, già Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Ci mancherebbe pure che si dovesse dubitare di una simile committenza». Si è spiegato come hanno fatto i costi delle opere a passare da 200 a 327 milioni? «Per quel che ne so buona parte di questo aumento è dovuto alle maggiorazioni già previste nell’appalto. Parliamo del 57% di aumenti dei compensi già previsti, per le difficoltà dovute all’urgenza ». Che difficoltà? «Il fatto che si lavorava su un’isola, i turni continui, il rispetto del cronoprogramma... ». Scusi, ma le imprese non lo sapevano in partenza? «Esatto. È un meccanismo assolutamente senza senso. Le maggiorazioni sono giustificabili per le vere (calamità) emergenze, che com’è noto sono cosa ben diversa dalle urgenze. In una situazione come quella del G8, hanno invece determinato margini ingiustificati di guadagno. Che premiavano solo le imprese, non i fornitori e tantomeno i progettisti...». Voi quanto avete intascato? «Abbiamo lavorato in cinquanta per meno di 100 mila euro al mese, e oggi avendo pagato tutte le spese e aspettando ancora il saldo finale, sono in rosso. Per me rischia di essere una piccola catastrofe economica. Forse a differenza di altri». Altri chi? «A quanto ne so gli stipendi dell’Unità tecnica di missione, la struttura di Angelo Balducci che aveva in mano tutto, erano alti, assolutamente incommensurabili rispetto ai nostri». Lei racconta che i tecnici dell’Unità di missione abitavano in ville affittate sulla costa e circolavano con le Bmw o le Audi, mentre gli architetti si dividevano appartamenti in paese. «Erano stili di vita molto diversi, due modi diversi di partecipare a quello che avrebbe dovuto essere una sfida comune ». Sicuro che fosse proprio «una sfida comune»? Dice queste cose come se si sentisse tradito. «Sì, ma in un senso più generale. Nei giorni dopo lo spostamento del G8 a l’Aquila, visitando nell’ex Arsenale di La Maddalena un cantiere finito in tempi miracolosi e pensando ai soldi pubblici spesi per realizzare le opere, mi sono chiesto quali fossero le ragioni vere di una scelta così assurda». Sul blog c’è scritto «uno spreco ingiustificabile di risorse». Ho letto male? «Alla Maddalena non c’era ostentazione di lusso che potesse offendere un Paese colpito dalla calamità del terremoto. E a l’Aquila c’era forse necessità di un piedistallo planetario che distraesse dalle tragedie della vita quotidiana? Ho cominciato in quei giorni a chiedermi se c’era una regia dietro una scelta che ha subito, troppo presto, convinto tutti». Non crede che questa brutta storia una cosa l’abbia almeno chiarita? Cioè che i grandi eventi non possono essere gestiti in questo modo, tanto meno dalla Protezione civile? «Sono d’accordo. Anche se va detto che a gestire l’operazione non è stata la Protezione civile». Come? «L’Unità di missione non è esattamente la stessa cosa. Non è la Protezione civile che interviene nei terremoti o nelle calamità naturali. Nel nostro caso era un gruppo di tecnici selezionati che faceva riferimento all’ingegner Balducci. Che aveva anche delle competenze e una consuetudine di rapporti, diversi dalla Protezione civile ». Come, come? «Solo la prima parte del progetto è stata elaborata assieme ai tecnici della Protezione Civile. Poi è subentrata l’Unità tecnica di missione, che è la stessa per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Loro erano sia stazione appaltante che coordinatori. La Protezione civile come la conosciamo noi non si è occupata del coordinamento dei cantieri del G8». Sergio Rizzo 08 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Quelle authority sotto tutela Inserito da: Admin - Marzo 17, 2010, 10:17:31 am Agcom, antitrust e la mano della politica
Quelle authority sotto tutela Le intenzioni di partenza erano ottime. Le authority dovevano essere gli anticorpi della società moderna contro i soprusi dei monopoli, l’avidità degli speculatori e le intrusioni improprie della politica. Compiti da far tremare i polsi a chiunque, in un Paese con una lunga tradizione statalista dove il mercato ha sempre faticato ad affermarsi. Il requisito fondamentale per assolverli con efficacia era l’indipendenza. Una indipendenza non soltanto formale: nomine non influenzate dalla politica, autonomia finanziaria e possibilità di mostrare i muscoli. Così doveva essere. Ma così non è stato esattamente. Le nostre authority hanno poteri limitati e spesso li esercitano timidamente. Anche perché le loro decisioni sono perennemente sotto il tiro dei ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. Per giunta, sono state anche ingolfate di competenze insensate, totalmente prive di alcun potere sanzionatorio, come quelle sul conflitto d’interessi appioppate all’Antitrust e al Garante per le comunicazioni. L’autonomia finanziaria è quella che è, se si pensa che alla fine dello scorso anno era stato proposto un fondo unico (non a tutti gradito) con l’idea di risolvere il problema e alla fine si è resa necessaria una colletta fra le autorità per soccorrere qualcuna di esse in difficoltà economica. Per non parlare poi dell’influenza della politica. I meccanismi di nomina, tutti diversi l’uno dall’altro, offrono ai partiti spazi di penetrazione enorme. Dei 58 commissari che governano le dieci autorità considerate «indipendenti», ben 17 sono di emanazione diretta della politica: ex parlamentari o ex esponenti dei governi di vario colore. Quasi uno su tre. Di questi, ben cinque su otto componenti sono nel solo Garante per le comunicazioni: dove il presidente è indicato dal governo e gli otto componenti sono nominati per metà dalla maggioranza e per metà dall’opposizione. Alla luce di ciò, ben si comprende perché non sia mai andata in porto la riforma, annunciata dal centrodestra e dal centrosinistra, che avrebbe dovuto rendere omogenei i criteri di nomina sottraendoli alle logiche spartitorie. E anche perché un’authority come quella dell’Energia, i cui componenti sono designati con un sistema bipartisan, cioè a maggioranza qualificata dalle commissioni parlamentari, sia monca di tre commissari su cinque da addirittura un quinquennio. Mentre negli ultimi due anni si sono registrati in Parlamento almeno quattro tentativi di limitarne i margini di manovra su suggerimento del governo. La verità è che una riforma del genere nessuno la vuole. Meglio avere a che fare con autorità «formalmente» indipendenti ma che nella sostanza sono permeabili dalla politica. O che almeno la politica può trattare come una comoda foglia di fico da mettere o togliere a piacimento. Con risvolti talvolta assurdi. Un caso? L’Autorità delle comunicazioni può sanzionare i programmi Rai che non rispettano in campagna elettorale le parità di condizioni fra i vari partiti, non può mettere bocca sulle regole della par condicio se queste riguardano la tivù di Stato. Di quelle si occupa la commissione parlamentare di vigilanza. Con il risultato che i talk show «privati» sono di competenza dell’authority e quelli «pubblici» del Parlamento. Con tutta la buona volontà, ma che senso ha? Sergio Rizzo 17 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Governatori freddi, Agenzia in ritardo Inserito da: Admin - Aprile 27, 2010, 12:00:55 pm Il dossier
Governatori freddi, Agenzia in ritardo La partenza nel 2013 obiettivo difficile No da molti presidenti pdl e pd. Veti incrociati sui 46 nomi in lizza per l'organismo di vertice ROMA — «Il nucleare nessuno lo vuole»: parola di Renata Polverini, neogovernatore del Lazio. «Non lo voglio io e non lo vuole Roberto Formigoni», ha precisato. Si potrebbe aggiungere che non lo vuole nemmeno il presidente del Veneto, Luca Zaia, secondo il quale la sua Regione «è autosufficiente». Autosufficiente, come presto sarà anche, dice Formigoni, la Lombardia. Mentre il governatore della Campania, Stefano Caldoro, sostiene che la sua Regione non è adatta a ospitare impianti atomici causa rischio sismico: identica motivazione addotta dal suo collega calabrese Giuseppe Scopelliti. Contrarissimi, e non poteva essere diversamente, sono poi i governatori del centrosinistra, dalla Liguria all'Emilia-Romagna. Per quanto riguarda invece i presidenti della Puglia Nichi Vendola e della Sardegna Ugo Cappellacci, ci ha pensato Berlusconi in persona a cavargli le castagne dal fuoco. Ecco che cosa ha detto il premier in una intervista pubblicata dalla Gazzetta del Mezzogiorno il 24 marzo 2010, quattro giorni prima delle Regionali: «La Puglia non ha bisogno di una centrale nucleare perché è già energeticamente autosufficiente». E che cosa aveva dichiarato in un'altra intervista alla Nuova Sardegna, il 24 gennaio 2009, in vista delle elezioni sarde: «Siamo nell'ambito della totale disinformazione. Non è esistita mai e mai esisterà nessuna ipotesi di centrale nucleare in Sardegna». Evviva la sincerità. Forse basta questo per capire quanto sarà difficile rispettare la promessa di iniziare entro tre anni la costruzione del primo impianto italiano. Difficile, per non dire impossibile. Se nessuno, a parte il presidente del Piemonte Roberto Cota («Meglio una nuova centrale in Piemonte che una vecchia nella vicina Francia») vuole il nucleare a casa propria, e se addirittura lo stesso Silvio Berlusconi, dovunque va, si sente in dovere di rassicurare tutti che lì l'energia atomica non arriverà mai, la partenza è decisamente in salita. Il fatto è che le resistenze politiche più complicate da superare, paradossalmente, vengono dal suo stesso schieramento. Nel centrosinistra, infatti, si prepara perfino a uscire allo scoperto un fronte più possibilista nei confronti dell'atomo, sull'esempio delle posizioni assunte dall'oncologo Umberto Veronesi, senatore democratico per il quale «attualmente il nucleare si presenta come una fonte di energia pulita, con rischi pressoché azzerati». Sarebbe in preparazione una lettera di alcuni parlamentari del centrosinistra indirizzata al segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, nella quale si chiederebbe ai vertici del partito un atteggiamento meno rigido rispetto a quello tenuto finora verso le proposte nucleariste. Se il primo scoglio è dunque politico, e si trova all'interno della stessa maggioranza di governo, non mancano neppure i problemi tecnici. Anche a prescindere dalle opposizioni dei sindaci e dei governatori, e dalla valanga di ricorsi giudiziari che erano stati già presentati ancora prima delle elezioni regionali, la scelta dei siti non si presenta proprio facilissima. Molte delle aree indicate come adatte nella mappa del 1979 sono state riempite di costruzioni. La situazione dei corsi d'acqua, la cui presenza è essenziale per quegli impianti, è in alcune circostanze assai diversa rispetto alla fotografia scattata trent'anni fa. Si è parlato di Montalto di Castro, nella Maremma laziale, da dove partì negli anni Settanta la contestazione al nucleare. Si è parlato del delta del Po, nei dintorni di Chioggia. Ma si è parlato anche della Sardegna. Secondo i nuclearisti più accaniti si potrebbe rimettere addirittura in funzione la centrale di Caorso. Ed è questa l'unica ipotesi che consentirebbe a Berlusconi di onorare la promessa di far ripartire il nucleare italiano entro tre anni. Il fatto è che, secondo chi ha fatto i calcoli del tempo necessario per tutti gli adempimenti, tre anni sarebbero appena sufficienti per avere tutte le autorizzazioni. Se naturalmente ce ne fossero le premesse. Prima di Natale del 2009 il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola si era sbilanciato: «Metteremo la prima pietra entro il 2013». Evidentemente però non aveva calcolato gli intoppi che già si manifestavano per la scelta dei siti, e non soltanto. La questione dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, per esempio. Senza quell'organismo non si può fare nulla. L'Enel o le altre imprese interessate a fare le centrali non sono in grado di fare nemmeno un passo, perché tutto dipende dalle decisioni che saranno adottate dall'Agenzia. Che però ancora non esiste. Doveva essere operativa già da qualche mese. Perché non lo è ancora? Si può supporre che sia per i veti incrociati sui nomi che di volta in volta sono stati fatti per le tre poltrone da occupare. Se Veronesi ha declinato l'offerta di fare il presidente, nemmeno l'ipotesi che sembrava più prossima, quella di collocare al vertice della struttura il settantunenne ingegnere nucleare Maurizio Cumo, si è ancora concretizzata. Forse soltanto perché dev'essere ancora individuato il resto della squadra, composta in tutto da cinque persone. Il ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo avrebbe proposto per l'agenzia che dovrebbe vigilare sull'energia atomica un magistrato amministrativo (il suo capo di gabinetto Michele Corradino) e un avvocato (il capo della sua segreteria tecnica Luigi Pelaggi, consigliere dell'Acea). Ma sono soltanto due nomi, nel mare magno delle candidature. Pare che circoli una lista di 46 aspiranti. Proprio così: quarantasei. Se il buongiorno si vede dal mattino... Sergio Rizzo 27 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: SERGIO RIZZO Alle radici della corruzione Inserito da: Admin - Maggio 07, 2010, 12:03:57 am POCHE REGOLE, SCARSA TENSIONE MORALE
Alle radici della corruzione POCHE REGOLE, SCARSA TENSIONE MORALE Un tumore maligno annidato in un organismo senza anticorpi. Ecco come i vertici della Corte dei conti definivano la corruzione che infesta il nostro Paese non più tardi di qualche settimana fa, quando già infuriava lo scandalo per gli appalti del G8 della Maddalena. Si fa fatica a pensare che cosa potrebbero affermare ora, dopo le ultime clamorose scoperte. Va detto subito che sui fatti spetterà alla magistratura fare chiarezza. Ma lo scenario che lasciano intravedere gli squarci aperti in questi giorni, al di là delle responsabilità individuali, è agghiacciante: se si trattava di un sistema generalizzato, dove si potrà arrivare? Anzi, dove si è già arrivati? La stessa Corte dei conti ha stimato in 60 miliardi di euro la «tassa occulta» che gli italiani pagano ogni anno a causa della corruzione: una somma che basterebbe quasi a ripagare gli interessi del nostro enorme debito pubblico. Una stima magari esagerata, come qualcuno sostiene. Resta il fatto che nel solo 2009 la Guardia di finanza ha accertato un aumento del 229% per i reati di corruzione e del 153% per quelli di concussione. E che nella classifica stilata da Transparency International sulla corruzione nel mondo l’Italia è scivolata in un solo anno dal cinquantacinquesimo al sessantatreesimo posto. A fianco dell’Arabia Saudita, e in fondo alle nazioni europee. Si dirà che queste classifiche lasciano il tempo che trovano, e forse è vero. Comunque, la dicono lunga sulla nostra reputazione internazionale in questa materia. Come non bastasse, le notizie che tristemente hanno affollato le cronache nell’ultimo anno ci informano che a diciott’anni dalla esplosione di Tangentopoli la corruzione italiana avrebbe raggiunto la maturità attraverso una inquietante «mutazione genetica ». Se una volta era soprattutto lo strumento per finanziare illecitamente i partiti, adesso serve esclusivamente all’arricchimento personale. Non che rubare per il partito anziché per il proprio portafoglio sia meno grave. Il reato è identico. Ma questa «mutazione genetica», soprattutto se saranno confermati i sospetti sulla dimensione dilagante del fenomeno, denuncia un crollo ulteriore della tensione morale e del profilo etico di parte della nostra classe politica. Che dovrebbe essere seriamente preoccupata, anche per le conseguenze a cascata che un simile andazzo può avere per un Paese già disorientato dalla crisi economica. E invece reagisce facendo spallucce. Illuminante la dichiarazione di Denis Verdini, coordinatore del Pdl tirato in ballo per alcuni appalti in Sardegna, il quale a chi gli chiedeva se avesse intenzione di dimettersi imitando Claudio Scajola ha risposto: «Non ho questa mentalità». Come se l’etica pubblica foss e u n a q u e s t i o n e d i mentalità… Appena insediato, il governo ha abolito l’Autorità anticorruzione, che con le poche risorse e i magri poteri di cui disponeva non poteva fare molto. Ma il «Servizio anticorruzione e trasparenza » istituito al suo posto, alle dipendenza del ministro Brunetta, può finora rivendicare un bilancio migliore? Il primo marzo il consiglio dei ministri, sull’onda degli scandali del G8, ha approvato un disegno di legge per combattere la piaga. Poi gli scandali sono spariti dalle prime pagine e anche quella promessa sembrava finita nel dimenticatoio. Due mesi dopo sta finalmente per iniziare l’iter parlamentare: un’occasione imperdibile per mandare un segnale chiaro agli italiani. Invece si è rivelato subito un nuovo pretesto per litigare all’interno del Pdl. Se ne sentiva proprio il bisogno. di SERGIO RIZZO 06 maggio 2010 http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_06/radici_corruzione_62563380-58cd-11df-ace4-00144f02aabe.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Le «gabbie fiscali» nel redditometro Inserito da: Admin - Maggio 30, 2010, 05:42:53 pm LA MANOVRA
Le «gabbie fiscali» nel redditometro Calcoli diversi tra Nord e Sud Studi di settore, verso lo stop per i professionisti. Subito al fisco le fatture elettroniche oltre 3 mila euro LA MANOVRA ROMA — Prima il controllo della Ragioneria sulle spese di Palazzo Chigi: dove, tanto per dirne una, i voli blu hanno ripreso i ritmi allegri del passato. Poi l’abolizione delle Province più piccole (e ti pareva…). Quindi il taglio del finanziamento pubblico alla politica, trasformato in una spuntatina quasi indolore, tenuto conto delle risorse che i partiti ingoiano. E alla fine hanno salvato pure l’Istituto per il Commercio con l’estero, in predicato per essere inglobato nella Farnesina e nello Sviluppo economico. Sopravvivrà. In una manovra impostata per mettere finalmente a dieta la spesa pubblica e colpire qualche intollerabile rendita di posizione, che ha cominciato a perdere pezzi ancora prima di arrivare in Parlamento, il pacchetto fiscale però regge ancora. Il nuovo fisco Qualcuno potrebbe considerarlo un mezzo miracolo, in un Paese dove il 27% del Prodotto interno lordo sfugge regolarmente al Fisco e l’evasione veleggia paciosamente (e sfrontatamente) verso quota 100 miliardi l’anno. O forse più. E tale sarà, se uscirà indenne dalla battaglia parlamentare che già si prepara. Perché le misure della manovra fiscale, va detto, sono oggettivamente senza precedenti per una maggioranza che nel passato aveva sostenuto la politica scriteriata dei condoni e delle sanatorie. Certo, si è dovuto rispolverare il principio, anche se in forma più morbida (il tetto massimo per l’uso “legittimo” dei soldi liquidi è fissato a 5 mila euro), della tracciabilità dei pagamenti su cui aveva puntato il centrosinistra. E che il centrodestra aveva spazzato via bollandolo come una forma insensata di controllo poliziesco sul denaro, sottolineando come in caso contrario il limite per l’utilizzo del contante sarebbe sceso progressivamente fino a 100 euro. Ma la tanto contestata tracciabilità, unita ad altri due meccanismi come il nuovo redditometro e la fattura telematica potrebbe davvero rappresentare, se non altro sulla carta, un deterrente micidiale per l’evasione. Il redditometro, innanzitutto. I tecnici di Attilio Befera, il capo dell’Agenzia delle Entrate, ci stanno lavorando da settimane. Per arrivare a una soluzione completamente diversa dall’ormai desueto meccanismomesso a punto negli anni Ottanta. La grossa novità è che sarà impostato su un criterio territoriale. Diverso quindi da regione a regione, ma anche da provincia e provincia, come da città e periferia. Il redditometro dei milanesi sarà differente da quello dei romani o dei palermitani. Secondo l’idea che un avvocato o un dentista di Milano ha di sicuro maggiori possibilità economiche rispetto a quelle di un suo collega di Napoli o Reggio Calabria. Una specie di “gabbia salariale” fiscale per i ricchi e i benestanti che funzionerà sulla base di numerosi parametri. Non più soltanto la barca, la Porsche o il cavallo nel maneggio, ma pure le crociere di superlusso, le scuole private con rette astronomiche, i circoli sportivi da vip, le palestre alla moda… Studi di settori e acquisti di lusso La prospettiva che lascia intravedere il Fisco con l’applicazione di questo redditometro è clamorosa: l’abolizione degli studi di settore, almeno per le categorie dei professionisti. Anche perché, se il sistema funzionerà come deve, non dovrebbero sfuggire agli uomini di Befera nemmeno le spese personali particolarmente elevate e gli acquisti di beni di lusso. Ciò a causa, o meglio per merito, della fattura elettronica, obbligatoria sopra i 3 mila euro. Il grossista sarà costretto a fatturare al dettagliante il quale, a sua volta, dovrà emettere fattura al cliente finale, anche se privato cittadino. E tutto, qui sta il segreto, non resterà negli archivi dei commercianti, ma finirà all’Agenzia delle Entrate, la quale potrà tenere sotto controllo l’intera filiera. In concreto: chiunque comprasse un Rolex d’oro, un anello di diamanti, una pelliccia o un costoso abito firmato, il Fisco verrebbe a saperlo. Sempre in teoria, naturalmente. La stretta sulle società In questo mondo “fiscalmente perfetto” non verranno risparmiate nemmeno le società che chiudono regolarmente in perdita. Sono metà di tutte quelle iscritte alle Camere di commercio: una percentuale da una quantità esagerata di tempo al centro del sospetto che i bilanci in perdita siano frutto di elusione fiscale piuttosto che di cattive performance economiche. Tanto più perché gran parte di esse hanno soltanto la funzione di custodire qualche proprietà immobiliare o lo yacht di famiglia. Senza parlare delle società che aprono e chiudono i battenti nel giro di un anno. O anche meno. Tantissime. Decisamente troppe per non far sorgere, anche qui, il dubbio che la loro vita effimera abbia spesso motivazioni truffaldine: per esempio la fabbricazione di fatture false. Ecco perché, assicura l’Agenzia delle Entrate, saranno oggetto di controlli a tappeto. La Guardia di finanza sarebbe già al lavoro. Banche sostituti d’imposta Altro capitolo, quello delle ristrutturazioni edilizie che ottengono il beneficio fiscale di uno sgravio del 36% a patto che i pagamenti avvengano tramite bonifico bancario. Il fatto è che i bonifici materialmente si fanno, e anche le fatture si emettono. Ma poi alcune di loro spariscono nelle nebbie. Che fare per arginare il fenomeno senza abolire l’agevolazione per chi rimette a posto casa? Con la manovra le banche diventeranno sostituto d’imposta: tratterranno il 20% dell’importo del bonifico, che verrà automaticamente girato al Fisco. Soltanto questo piccolo accorgimento vale, secondo l’Agenzia delle Entrate, qualcosa come un miliardo di euro. Ce n’è anche per i cittadini che si vedono recapitare a casa una cartella esattoriale. D’ora in poi si dovranno scordare di prendere un po’ di tempo facendo ricorso, perché con l’iscrizione a ruolo scatterà anche l’accertamento. E si dovrà pagare subito. Inutile dire che sarebbero tutti più contenti se contemporaneamente all’introduzione di questa norma draconiana si risolvesse anche il problema delle vessazioni, ben documentate da una inchiesta di «Report», la trasmissione di Milena Gabanelli su Raitre, alle quali talvolta vengono sottoposti i comuni mortali che hanno a che fare con multe o tasse già pagate, e di cui si pretende ingiustamente il pagamento. Sarà anche, come dicono al Fisco, un problema limitato a Napoli e Roma, e la cui responsabilità andrebbe attribuita soprattutto ai Comuni. Resta sempre il fatto che di questo, nella manovra, non c’è ahimè una sola riga. Sergio Rizzo 30 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/economia/10_maggio_30/le-gabbie-fiscali-nel-redditometro-calcoli-diversi-tra-nord-e-sud-sergio-rizzo_c3e02914-6bbd-11df-bd8b-00144f02aabe.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Spese pazze per 178 sedi nel mondo Inserito da: Admin - Giugno 23, 2010, 04:21:24 pm La Regione Marche ha 9 presenze all’estero, di cui ben quattro in Cina
Le Regioni e la «diplomazia fai-da-te» Spese pazze per 178 sedi nel mondo Veneto, Lombardia e Piemonte sono al top della classifica. E nessuno vuole rinunciare all'ufficio di Bruxelles ROMA - Seguendo le orme di Marco Polo anche i moderni Dogi del Veneto hanno fatto rotta a Oriente: puntando dritti alla Città Proibita. Magari, esagerando un tantino. Il leghista Luca Zaia si è quindi ritrovato a governare una Regione che ha 10 (dieci) uffici in Cina. Avete letto bene: dieci. Ma la moltiplicazione dei «baili», come si chiamavano anticamente gli ambasciatori della Serenissima, non si è certamente fermata lì. Poteva forse il Veneto rinunciare ad aprire un ufficetto in Bielorussia? O un appartamento in Bosnia? Un paio di punti d’appoggio in Canada? Tre in Romania? Quattro negli Stati Uniti e altrettanti in Bulgaria (sì, la Bulgaria)? Un pied à terre in Vietnam? Un appartamento in Uzbekistan? Una tenda negli Emirati arabi uniti? Un bungalow a Porto Rico? E un consolato in Turchia, alla memoria dell’ambasciata veneziana alla Sublime Porta, quello forse no? Si arriva così a 60 sedi in 31 Paesi: alla quale si deve aggiungere, ovviamente, quella di Bruxelles. E si sale a 61. Irraggiungibile, il Veneto: a elencarle tutte, sarebbe già finito l’articolo e non ci sarebbe spazio per raccontare quello che combinano invece le altre Regioni italiane. Perché scorrendo i dati che sono in un dossier del Tesoro su questo incredibile fenomeno della diplomazia regionale «fai da te», il Veneto è soltanto in cima a una piramide molto più grossa. Le Regioni italiane hanno all’estero qualcosa come 157 uffici, ai quali si devono aggiungere i 21 di Bruxelles. Per un totale di 178. Già: a un’antenna nel quartier generale dell’Unione europea non ha voluto rinunciare proprio nessuna. «D’altra parte», ha spiegato il governatore lombardo Roberto Formigoni, «è importante avere un presidio a Roma e Bruxelles. Non è affatto un lavoro inutile quello che i nostri funzionari svolgono organizzando a esempio numerosissimi incontri istituzionali per aziende, centri culturali, organizzazioni non governative e così via, che vengono supportati nel dialogo con le autorità nazionali ed europee». La Lombardia, che ha quasi 10 milioni di abitanti: ma il Molise? Che senso ha per una Regione con 320 mila abitanti come quella di Michele Iorio mantenere un ufficio a Bruxelles, peraltro pagato un milione 600 mila euro, oltre ai due di Roma? Per non parlare dei valdostani, che sono 124 mila. Peccato però che la Lombardia non abbia solo un presidio Roma e uno a Bruxelles. Bensì, secondo il Tesoro, altri 27 sparsi in giro per il mondo. Ce n’è uno in Argentina, un paio in Brasile e Cina, quattro in Russia (esattamente come la Regione Veneto), e poi uno in Giappone, Lituania, Israele, Moldova, Polonia, Perù, Uruguay, Kazakistan... E il Piemonte? Che dire del Piemonte? La Regione appena conquistata da un altro leghista, Roberto Cota, presidia 23 Paesi esteri. Con la bellezza di 33 basi. Frutto di scelte apparentemente sorprendenti. Per esempio, ce ne sono due in Corea del Sud. Altrettanti in Costa Rica (perché il Costa Rica?). Altri due in Lettonia (perché la Lettonia?). Roba da far impallidire i siciliani, che avevano riempito mezzo mondo di «Case Sicilia»: dalla pampa argentina a Boulevard Haussmann, Parigi. Poi la Tunisia, e New York, Empire state building. Ma volete mettere il fascino della Grande Mela? Dove gli uomini dell’ex governatore Salvatore Totò Cuffaro si ritrovarono in ottima compagnia. Quella dei dipendenti della Regione Campania, allora governata da Antonio Bassolino, che aveva preso in affitto un appartamento giusto sopra il negozio del celebre sarto napoletano Ciro Paone. Nientemeno. Costo: un milione 140 mila euro l’anno. A quale scopo, se lo chiese nell’autunno del 2005 Sandra Lonardo Mastella, in quel momento presidente del Consiglio regionale, visitando una struttura il cui responsabile, parole della signora, «viene solo alcuni giorni ogni mese ». Struttura per la quale venivano pagati tre addetti il cui compito consisteva nell’organizzare, per promuovere l’immagine regionale, eventi ai quali non soltanto non partecipava «alcun esponente americano », ma nessuno «che parlasse inglese». Quello che colpisce, però, sono sempre i luoghi. La Regione Marche, tanto per dirne una, ha nove basi all’estero. Di queste, ben quattro nella Cina. Il Paese decisamente più gettonato: alla Corte di Hu Jintao ci sono ben sette enti locali italiani, con addirittura ventitrè uffici. Il doppio che nella federazione russa. Quattro, in Cina, ne ha pure il Piemonte. Regione che si distingue da tutte le altre per avere attivato anche una sede a Cuba. Oltre a due in India, dove hanno un punto d’appoggio pure le Marche. Ma non l’Emilia-Romagna, che paradossalmente ha meno presidi esteri della piccola Regione confinante: cinque anziché nove, numeri a cui bisogna sempre aggiungere quello di Bruxelles. Quasi tenerezza fanno gli ultimi in classifica. Il Friuli-Venezia Giulia, che si «accontenta» (si fa per dire) di tre «consolati» oltre a quello europeo: in Slovacchia, Moldova e Federazione russa. La Basilicata, andata in soccorso ai lucani dell’Uruguay e dell’Argentina. La Valle D’Aosta, che non sazia della sede di Bruxelles ne ha pure una in Francia. Ma dove, altrimenti? Infine la Puglia: come avrebbe fatto senza un comodo rifugio dai dirimpettai albanesi? Quello che non dice, il dossier del Tesoro, è quanto paghiamo per tale gigantesca e incomprensibile Farnesina in salsa regionale. Per saperlo bisognerebbe spulciare uno a uno i bilanci degli enti locali. Dove intanto non è sempre facile trovare i numeri «veri». E soprattutto non è spiegato a che cosa serva tutto questo Ambaradam. A favorire gli affari delle imprese di quelle Regioni? Al prestigio dei governatori presenti o passati? A mantenere qualche stipendiato illustre? Il sospetto, diciamolo chiaramente, è che nella maggior parte dei casi l’utilità di tutte queste feluche di periferia sia perlomeno discutibile. Come quel Federico Badoere, nel 1557 ambasciatore veneziano a Madrid presso la corte di Filippo II, autore di una strepitosa relazione spedita al Senato della Serenissima nella quale liquidava come una trascurabile quisquilia ciò che stava succedendo dopo la scoperta dell’America, evento che un suo predecessore si era addirittura «dimenticato» di riferire a Venezia: «Sopra le cose delle Indie non mi pare di dovermi allargare, stimando più a proposito compatire il tempo che mi avanza a narrare le cose degli altri stati di Sua Maestà». Sergio Rizzo 23 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/economia/10_giugno_23/le_regioni_e_le_spese_pazze_per_178_sedi_nel_mondo_sergio_rizzo_3ca5e014-7e88-11df-b520-00144f02aabe.shtml Titolo: SERGIO RIZZO. - NOMINE E CONFLITTI D’INTERESSE Il valzer un po’ stonato Inserito da: Admin - Giugno 26, 2010, 06:19:27 pm NOMINE E CONFLITTI D’INTERESSE
Il valzer un po’ stonato L’invenzione di un ministero per Aldo Brancher al solo scopo di consentirgli di svicolare da un processo ricorrendo al «legittimo impedimento», operazione stigmatizzata ieri anche dal Quirinale, ha fatto sorgere il dubbio se il governo e la maggioranza abbiano davvero a cuore la gestione corretta ed efficiente della cosa di tutti. Dubbio che adesso rischia di rafforzarsi alla luce di quanto si preannuncia per la puntata successiva delle nomine pubbliche, dove sembrano prevalere logiche puramente personalistiche. Le cronache riferiscono di un probabile valzer di poltrone innescato dalla scadenza di alcune importanti cariche, prima fra tutte quella del presidente della Consob. Per Lamberto Cardia, che è nella commissione addirittura dal 1997, si profila all’età di 76 anni un singolare trasferimento al vertice delle Ferrovie dello Stato. Candidato a sostituirlo è l’attuale esperto presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà, che però lascerebbe libera una poltrona delicatissima. Destinata a chi? Fra i nomi che si fanno, quelli del segretario della Farnesina Giampiero Massolo e di Mauro Masi, direttore generale di una Rai in una situazione economica e di ascolti non certo scintillante, sommerso dalle critiche di chi gli imputa una gestione non esattamente imparziale della tivù di Stato. La quale, per giunta, è stata nell’ultimo anno multata ben due volte dalla stessa autorità Antitrust per pubblicità ingannevole (Ansa, 6 luglio 2009) e pratica commerciale scorretta (Ansa, 5 ottobre 2009). Insomma, proprio il viatico necessario per fare il Garante della concorrenza. Ma non è finita qui. Inopportunamente catapultato nel 2005 dal posto di sottosegretario alle Comunicazioni a quello di componente dell’Agcom, l’ex deputato di Forza Italia ed ex dirigente delle tivù di Silvio Berlusconi, Giancarlo Innocenzi si è dimesso dopo essere stato coinvolto nell’inchiesta avviata dalla Procura di Trani sulle presunte pressioni per far chiudere il programma di Michele Santoro «Annozero ». Non rimarrà disoccupato a lungo, se sono vere le voci che prevedono per lui una sistemazione sul ponte di comando di Invitalia, ovvero ciò che resta del carrozzone Sviluppo Italia. Il senso di questa nomina? Nessuno. È semplicemente la prima poltrona che si renderà disponibile, il 30 giugno. Lo stesso giorno scadono anche le convenzioni per le gestioni degli spazi commerciali nei musei, che vanno quindi rinnovate. Competente per questa partita è un direttore generale dei Beni culturali stimatissimo da Berlusconi: il bocconiano Mario Resca, già capo della McDonald’s in Italia e oggi protagonista di un caso di conflitto d’interessi a testata multipla. Nell’aprile 2009, tre mesi prima che la sua assunzione al ministero venisse ufficializzata, è stato rinominato consigliere di amministrazione della Mondadori, casa editrice di proprietà della famiglia del premier che attraverso la Electa è attiva nel campo dei servizi museali. Al pari di tante aziende aderenti alla Confimprese, associazione della quale, per inciso, Resca è anche presidente. Senza il minimo imbarazzo. Che in certi casi, è sicuro, sarebbe invece doveroso. Almeno quello. Sergio Rizzo 26 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_26/valzer_stonato_rizzo_0018048c-80e1-11df-9a47-00144f02aabe.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Se il Comune fa l'azienda Inserito da: Admin - Luglio 26, 2010, 11:14:12 pm I CONTI DELLE CITTA'
Centrali elettriche e casinò Se il Comune fa l'azienda Il miracolo di Ussita, nelle Marche, in vetta alla classifica delle entrate Tra le grandi, Roma supera Milano ROMA — La domenica mattina il sindaco è in ufficio. Siamo in piena estate, ma la stagione turistica invernale è dietro l’angolo. C’è da seguire il progetto del palazzo del ghiaccio e curare la manutenzione delle seggiovie. E poi la rete del gas, le centrali idroelettriche, i pannelli solari… Più che il sindaco, il primo cittadino di Ussita, 426 anime in provincia di Macerata, è l’amministratore delegato di un’azienda. Il bilancio del suo Comune è da leccarsi i baffi. Ogni anno entrano in cassa 6 milioni di euro: tre milioni e mezzo dalla produzione di energia elettrica, un milione dalla stazione sciistica, e qualche soldarello anche dalla gestione del gas. «Quando devo fare i conti», confessa Sergio Morosi, «non aspetto certo di conoscere quello che mi deve arrivare dallo Stato». Sfido: i trasferimenti pubblici non rappresentano che un quattordicesimo di tutti gli incassi. Morosi dice che questo si deve alla lungimiranza di un altro sindaco, Nicola Rinaldi, classe 1914, che fu deputato democristiano nel 1963 e del quale l’attuale primo cittadino è stato segretario. Fu lui a investire nell’elettricità. E ora si continua su quella strada. Sentite Morosi: «Stiamo acquistando un impianto fotovoltaico fuori dal territorio comunale. Cosa volete, se vogliamo finanziarci non possiamo che fare in questo modo. Diversamente i piccoli comuni sono destinati a sparire». E diversamente, si potrebbe aggiungere, Ussita non potrebbe nemmeno essere il Comune italiano con la spesa corrente pro capite più elevata (10.369 euro), ad eccezione di Campione d’Italia. E allora le multe Inutile dire che nel panorama dei municipi italiani un caso così è piuttosto raro. Perché se Ussita ricava da attività per così dire «collaterali» addirittura l’86% dei propri introiti, superato anche qui solo da Campione d’Italia, le entrate indipendenti dalle tasse locali o dai trasferimenti pubblici incidono nei bilanci comunali mediamente per il 20%. Si tratta di voci che vanno dalle rette scolastiche ai trasporti, dai dividendi dei pacchetti azionari alle concessioni, fino agli interessi sugli investimenti finanziari. Vero è che con questi chiari di luna ciascuno si arrangia come può. Le contravvenzioni, per esempio. Secondo uno studio condotto dalla fondazione Civicum, è Firenze la città più severa con gli automobilisti indisciplinati. Nel 2007 ha incassato 134 euro per ognuno dei suoi 356 mila residenti. Una bella batosta, che ha portato nelle casse del capoluogo toscano 47 milioni di euro. Ma è niente in confronto a Roma, che ha intascato con le contravvenzioni quasi 320 milioni: 125 euro ad abitante, cifra che colloca i romani al secondo posto nella classifica dei più multati. Al terzo i bolognesi (119 euro ciascuno), per un introito municipale di 44 milioni, e al quarto i milanesi (106 euro). Mentre a Napoli, notoriamente una delle città meno disciplinate dal punto di vista del traffico, l’incasso delle multe si fermava a 65 milioni, cioè 66 euro per cittadino, meno della metà di Firenze. Per non parlare di Palermo: 49 euro. Ci sono poi Comuni che riescono a far fruttare bene i loro mattoni. Ma sono pochi. Qualcuno, al Sud, ci rimette. Una indagine del 2007 della Corte dei conti sul patrimonio edilizio della Campania (su dati del 2003) ha rivelato che il Comune di Napoli era stato capace di perdere 16 milioni pur possedendo decine di migliaia di unità immobiliari. E non è un caso che le classifiche dei municipi più poveri siano piene di località del Mezzogiorno. Esemplare il caso di Ravanusa, 12.819 anime a 50 chilometri da Agrigento: appena 171 euro a testa di entrate tributarie e 12 di extratributarie. Ma riceve 542 euro pro capite di trasferimenti dallo Stato e dalla Regione e spende 746 euro per residente. Più assistenza che efficienza, una distanza siderale dai comuni che sembrano aziende. Non solo la citata Ussita. Per molte amministrazioni, soprattutto al Nord, le aziende locali sono una vera manna. Brescia, nel 2008, con gli utili delle società municipalizzate ha incassato 84 milioni. Nello stesso anno Milano 105 milioni. Ma il capoluogo della Lombardia può contare soprattutto sui proventi dei servizi pubblici: 253 milioni. Al pari di Campione d’Italia, anche Venezia ha poi un autentico tesoro: il casinò, che nel 2008 ha fruttato circa 190 milioni. A Maiolati Spontini, paese con 5.979 residenti che diede i natali al compositore Gaspare Spontini, non ci sono invece né slot machine né roulette né tavoli da baccarà. Ma una discarica per rifiuti urbani e industriali che fa intascare al municipio qualcosa come 6 milioni l’anno, a dimostrazione del fatto che il denaro non ha odore. Maiolati è stato premiato dal ministero dell’Economia come il Comune più virtuoso d’Italia. Medaglia d’argento Sirmione, che può contare su consistenti entrate dell’Ici per la seconda casa ma anche sui ticket dei parcheggi: 3 milioni per ognuna delle due voci. «Il 70% di tutte le entrate correnti», ha spiegato il sindaco Alessandro Mattinzoli ad Antonella Baccaro del Corriere. E, gonfiando il petto: «Qui non si è mai pagata l’addizionale Irpef». In più, rispetto a Sirmione, Livigno (Sondrio) può godere dello status di zona franca, una calamita per il «turismo commerciale ». Ma la graduatoria delle cosiddette entrate «extratributarie» delle città è guidata da Roma. Dove nel 2008, dice l’assessore al Bilancio Maurizio Leo, parlamentare del Pdl, «ai 70 milioni dei dividendi dell’Acea, che nel 2009 non ci sono stati, si sono sommate le entrate del condono edilizio». E veniamo ai tributi locali. L’abolizione dell’Ici sulla prima casa ha fatto comprensibilmente infuriare le amministrazioni comunali di tutta Italia perché hanno perso la fetta forse più grossa di autonomia impositiva. Quella che dovrebbero conquistare pienamente con la riforma federalista e il decreto legislativo ad hoc promesso dal governo, anche se i dati di bilancio dimostrano non solo che ci vorrà un fondo perequativo tra comuni ricchi e poveri, ma anche che per molti municipi, soprattutto nel Sud, la sfida della autonomia impositiva sarà dura: ci vorrà decisione nel chiedere le tasse ai compaesani e nel punire gli evasori. Non resta che la Tarsu Per ora, oltre all’Ici sulle seconde case, che è stata risparmiata, restano, è vero, altre tasse: quella sui rifiuti, sull’occupazione degli spazi pubblici, sulle insegne e la pubblicità e l’addizionale Irpef. Quest’ultima però ogni tanto viene bloccata dal governo per impedire che la pressione fiscale salga troppo. Adesso è ferma da un paio d’anni. Tranne in un caso: quello di Palermo. Un anno fa, per tappare la voragine aperta dall’azienda dei rifiuti, il sindaco ottenne dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi un’ordinanza che gli ha consentito di raddoppiare l’addizionale dallo 0,4% allo 0,8%. Anche se pochi mesi dopo l’amministrazione ha deciso di fare retromarcia su una misura così impopolare. Va detto che per scelta alcuni Comuni non hanno mai voluto introdurre l’addizionale sull’Irpef. Come Milano, che però può contare su cospicue entrare «alternative»: per esempio, come si è visto, i dividendi delle imprese pubbliche locali. Il capoluogo lombardo, tuttavia, è dopo Torino quello che ha l’indebitamento pro capite più elevato. Secondo il ministero dell’Interno, nel 2008 ogni cittadino milanese aveva sulle spalle una esposizione con le banche e con la Cassa depositi e prestiti di 2.938 euro. I torinesi 3.450 euro, contro una media nazionale di 1.207. Al terzo posto, secondo la classifica pubblicata dal Sole24 ore, Siena, con 2.515 euro. Ma i senesi possono dormire sonni tranquilli: più della metà di quei debiti sono coperti ogni anno dai contributi della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, l’ente che controlla una delle principali banche italiane. Grazie a questo introito la città è al secondo posto nella graduatoria delle entrate extratributarie. Il combinato disposto dell’abolizione dell’Ici prima casa e del blocco dell’Irpef ha avuto l’effetto di far lievitare la tassa sui rifiuti, l’unico tributo di una certa consistenza rimasto in mano ai sindaci. Lo scorso anno la Tarsu è salita mediamente del 23,1%. Una stangata di quasi 30 euro per ogni cittadino, che invece di 127,6 euro ne ha dovuti pagare 157,1. La botta più grossa l’hanno presa i beneventani, con un aumento del 70,2%. In quella città la tarsu è arrivata a 286 euro. Ma nemmeno a Napoli si scherza: 203 euro, con un aumento del 50,4%. Con quali risultati si sa. Enrico Marro Sergio Rizzo 26 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/economia/10_luglio_26/rizzo-marro-casino-centrali-elettriche-comuni-come-azienda_8d350950-9883-11df-a51e-00144f02aabe.shtml Titolo: SERGIO RIZZO In Calabria resta il segreto sul patrimonio dei consiglieri Inserito da: Admin - Agosto 12, 2010, 05:19:03 pm Sull' «anagrafe pubblica degli eletti»
In Calabria resta il segreto sul patrimonio dei consiglieri Silenzio anche per i politici di Caserta. A Roma mancano i dati del sindaco. I Radicali denunciano: la legge esiste da 28 anni, ma non viene applicata sull' «anagrafe pubblica degli eletti» ROMA - Volete conoscere se un consigliere regionale calabrese eletto dai cittadini possiede una casa, la villa al mare, un'auto, qualche società? Toglietevelo dalla testa: è top secret. Lo ha scoperto Giuseppe Candido, un militante radicale che ha chiesto, come prevede una legge dello Stato approvata ben ventotto anni fa (è la numero 441 del 1982), di avere notizie sulla situazione patrimoniale dei componenti del Consiglio regionale. Ricevendo una risposta sconcertante firmata dal segretario generale Giulio Carpentieri: «In riferimento alla sua istanza di accesso agli atti si comunica che la stessa non può trovare accoglimento, come si evince dal parere espresso dal settore legale». Eppure quella legge di ventotto anni fa è chiarissima. Entro tre mesi tutti i titolari di cariche elettive nazionali, regionali, provinciali e comunali devono presentare una dichiarazione con l'elenco dei beni mobili, immobili e partecipazioni societarie, oltre alla lista degli incarichi ricoperti e l'ammontare delle spese sostenute per la campagna elettorale. E «tutti i cittadini hanno diritto di conoscerle»: c'è scritto proprio così. Già per questo può sembrare singolare che si debba chiedere un parere all'ufficio legale. Ma è niente rispetto a quanto scritto in quel parere. Intanto «il diritto di accesso documentale richiederebbe la sussistenza in capo all'istante di un interesse qualificato strumentale alla tutela di una situazione giuridica soggettiva che, nel caso in questione, non risulta dimostrato». Ma soprattutto «l'accesso previsto dalla citata legge» non «appare allo stato concretamente esercitabile stante la mancata emanazione di una normativa regionale circa la pubblicazione della documentazione relativa alla situazione patrimoniale dei consiglieri regionali, ciò che ha impedito la pubblicazione sul Bollettino regionale dei dati in questione, modalità attraverso la quale andrebbe espletata la pubblicità». Riepilogando: a parte l'assenza di un interesse specifico per cui un cittadino debba sapere che cosa possiede un suo eletto (come si permette?) la Calabria non ha mai fatto una leggina che dice come quelle informazioni devono essere pubblicate sulla gazzetta regionale e siccome possono essere pubblicate soltanto lì... vi attaccate. A onor del vero va detto che l'avvocato della Regione dice di ritenere ormai «improrogabile» fare quella leggina, riconoscendo che esiste un problema di trasparenza. Ma tant'è. Per ora non c'è niente da fare. Dopo il parere dell'ufficio legale del Consiglio regionale calabrese aspettiamo ora di conoscere quello del ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, che sul Sole 24 Ore aveva risposto così alla questione sull'anagrafe patrimoniale degli eletti sollevata dall'editorialista Guido Gentili: «Vorrei ricordare che esiste già una legge, la 441/1982, che obbliga tutti gli eletti, a partire dal Comuni con più di 50 mila abitanti, a dichiarare la propria situazione patrimoniale. Ogni cittadino può chiederne una copia». Il bello è che non succede soltanto in Calabria. Da mesi il partito radicale ha avviato un'offensiva sull'«anagrafe pubblica degli eletti» in tutta Italia. E ne sono saltate fuori di tutti i colori. Il Comune di Caserta, per esempio, ha risposto: «Le disposizioni relative alla pubblicità della situazione patrimoniale si applicano sulla base delle modalità stabilite dai rispettivi consigli. Ad oggi tale disciplina non risulta adottata e, non avendo la disposizione trovato applicazione, non risultano agli atti gli elementi oggetto di richiesta». Traduciamo: non soltanto i dati non si possono comunicare, ma siccome non sono state stabilite le modalità tecniche, i consiglieri comunali non li presentano nemmeno. Da ventotto anni! E Roma? Che dire del Comune più grande d'Italia? Racconta il segretario radicale Mario Staderini: «Nell'elenco delle dichiarazioni patrimoniali non risulta quella del sindaco Gianni Alemanno, eletto più di due anni fa. Per non parlare di irregolarità, lacune e in qualche caso omissioni che riguardano molti altri consiglieri che, per esempio, non dichiarano le spese elettorali». Ma almeno, nel caso di Roma, le informazioni consentono ai cittadini di farsi un'idea sul tenore di vita dei loro rappresentanti e i costi della politica. Qualche caso di entrambi gli schieramenti? Il consigliere comunale del Partito democratico Mario Mei, funzionario del ministero dell'Interno, ha un reddito di 46.069 euro e ha dichiarato di aver sostenuto spese elettorali per 216.346 euro: un investimento notevole, da quattro anni e mezzo di stipendio. Il consigliere del Pdl Maurizio Berruti guadagna invece poco più della metà di lui, 27.164 euro. È il presidente di Coeuropa, cooperativa di tassisti: categoria che ha sostenuto fortissimamente Alemanno. Sergio Rizzo 12 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/cronache/10_agosto_12/rizzo-calabria-patrimonio-consiglieri_5a0974b0-a5dc-11df-8d3b-00144f02aabe.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Un giovane su sei risulta fuori da ogni attività Inserito da: Admin - Agosto 17, 2010, 09:23:14 pm I dati dell'ufficio studi della Confartigianato sulla generazione che va dai 15 ai 29 anni
I novecentomila «invisibili» senza studio né lavoro Un giovane su sei risulta fuori da ogni attività ROMA - Pure loro sono tecnicamente «invisibili». Ancora più degli esponenti di quelle tante categorie di lavoratori autonomi che non hanno protezione sociale. Invisibili per la scuola o l'università, l'Inps, il fisco. Perfino per gli uffici di collocamento. Sono i 641 mila giovani italiani fra i 15 e i 24 anni che non studiano, non lavorano ma nemmeno lo cercano, il lavoro. Un numero impressionante, considerando che si tratta del 10,5 per cento di tutte le persone di quell'età. E il bello è che di questi «invisibili» i due terzi circa sono al Sud: 415 mila, ovvero il 16,2 per cento di tutti i giovani meridionali. Quasi tre volte rispetto al Nord. Nelle regioni settentrionali coloro che si trovano in questa condizione sono 157 mila, ovvero il 6,5% del totale. Ancora meno, il 6,3 per cento, nel Centro: dove il loro numero non raggiunge i 70 mila, un sesto nei confronti del Mezzogiorno. Per un Paese sviluppato qual è il nostro si tratta di un fenomeno decisamente rilevante. Se poi la fascia d'età «giovanile» di estende dai 24 ai 29 anni, ecco che gli «invisibili» diventano addirittura 908 mila. E il loro peso sale ancora al 18,7% dell'intera popolazione italiana compresa in quella fascia d'età. Ciò significa che fino ai 29 anni è «invisibile» un giovane su sei. Un segnale chiaro, secondo l'ufficio studi della Confartigianato che ha elaborato questi dati: con la crisi si è ancora accentuato nel nostro Paese il fenomeno della concorrenza sleale nei confronti delle piccole imprese regolari. Segnale che troverebbe conferma in altri dati preoccupanti. Per esempio la diminuzione del tasso di attività fra gli italiani della fascia d'età 25-54 anni. Fra il primo trimestre del 2008 e lo stesso periodo di quest'anno è calato dell'1,2 per cento, passando dal 78,2 al 77 per cento. E questo mentre negli altri Paesi europei, dove il tasso di attività dei cittadini non più considerati in età scolare né ancora pensionabili è superiore a quello nostrano, si registravano aumenti pur modesti. Anche qui, se il peggioramento ha riguardato tutta Italia, è al Sud che il fenomeno si è sentito di più: nel Mezzogiorno la flessione è stata del 2,5 per cento. La Confartigianato ha stimato che durante la crisi economica ben 338 mila adulti fra i 25 e i 54 anni siano usciti dalla forza di lavoro, e di questi ben 160 mila donne: categoria che da noi ha il poco invidiabile primato europeo del minore tasso di attività (appena superiore al 46 per cento). Ben 230 mila sfortunati, pari al 68 per cento dell'intera platea, sono meridionali: 143 mila uomini e 97 mila donne. Considerando tutto il Paese, nel primo trimestre di quest'anno i maschi «inattivi» non più in età scolare ma non ancora pensionabili erano un milione 361 mila, contro 4 milioni 628 mila donne. Totale: 5 milioni 989 mila persone, il 10 per cento dell'intera popolazione italiana. Più di un milione dei quali (esattamente un milione 69 mila) nella sola Campania. In questa regione i maschi fra 25 e 54 anni «inattivi» sono 277 mila, il 21 per cento del totale. Per non dire poi dell'aumento del lavoro «autonomo» irregolare o «abusivo», come lo definisce l'organizzazione degli artigiani. La quale ha calcolato, sulla base dei dati dell'Istat, che tra il 2008 e il 2009 il numero degli occupati indipendenti non regolari è aumentato dal 9,2 al 9,4 per cento del totale della forza di lavoro autonoma, raggiungendo 639.900 unità. Parliamo di una cifra pari al 62 per cento di tutti gli occupati indipendenti nel settore manifatturiero. Si tratta anche di una quantità di persone pressoché identica a quella dei giovani «invisibili» fra i 15 e i 24 anni. Una semplice coincidenza, ma significativa. Secondo la Confartigianato il flusso del lavoro irregolare viene alimentato anche da politiche del welfare profondamente distorsive. L'indagine porta l'esempio dei sussidi di disoccupazione in agricoltura che spettano a chi ha lavorato in un anno almeno 51, 101 o 151 giornate secondo i casi. E non manca di citare il Rapporto di monitoraggio delle politiche occupazionali di due anni fa nel quale il ministero del Lavoro denuncia apertamente «distorsioni e comportamenti collusivi». Nel 2007 hanno goduto delle varie indennità di disoccupazione, secondo l'Inps, ben 504.377 individui, cioè il 48,9 per cento di tutti gli operai agricoli attivi in Italia. Ma se nel Nord Ovest la quota dei beneficiati non è andata oltre il 14,4 per cento, al Sud è arrivata a uno stratosferico 65,4 per cento del totale. Dei 504.377 operai agricoli sussidiati dall'Inps, ben 422.337, ossia l'83,7 per cento, è nel Mezzogiorno. Il top si tocca in Calabria, con 100.757 disoccupati: numero pari quasi ai tre quarti (il 74,3 per cento) di tutti gli operai agricoli calabresi. Su livelli paragonabili anche la Sicilia, dove i destinatari di trattamenti di disoccupazione sono stati nel 2007 ben 116.589, il 74,2 per cento del totale. Seguono la Puglia, con 111.049 beneficiati (il 60,3 per cento), e la Campania, con 63.982 disoccupati (65,7 per cento). All'opposto, la Lombardia, dove nel 2007 sono state corrisposte appena 5.024 indennità (l'11,1 per cento). Ma se le cose stanno così, come meravigliarsi se proprio la Calabria è l'area della penisola dove l'illegalità nel mercato del lavoro raggiunge i livelli più elevati? Sempre nel 2007, ha stimato l'Istat, i lavoratori «irregolari» erano in quella regione il 27,3 per cento di tutti quanti gli occupati. E quel che è più grave, il loro numero risultava superiore dell'1,3 per cento rispetto a quello del 2001, anno nel quale il governo (allora presieduto da Silvio Berlusconi) aveva approvato una legge con l'obiettivo di favorire l'emersione delle attività in nero. Provvedimento che si sarebbe però rilevato un sostanziale fallimento, come dimostrano proprio questi dati. Sergio Rizzo 17 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/cronache/10_agosto_17/sergio-rizzo-invisibili_0aedd022-a9cb-11df-8b1f-00144f02aabe.shtml Titolo: SERGIO RIZZO I dividendi dell'evasione Inserito da: Admin - Agosto 22, 2010, 09:09:34 pm I dividendi dell'evasione
Un impegno sul taglio delle tasse Il governo dovrà puntare al «pagare meno, pagare tutti» In un Paese come l'Italia, nel quale gli evasori sottraggono ogni anno ai loro concittadini onesti almeno 100 miliardi di euro, ovvero il 6 per cento del Prodotto interno lordo, la lotta all'infedeltà fiscale dev'essere un obbligo morale straordinario di qualsiasi governo. Per questo, quando il direttore dell'Agenzia delle entrate Attilio Befera invoca un radicale cambiamento culturale, come ha fatto giovedì scorso sul Sole 24 ore, non si può non dargli ragione. Il suo invito, ne siamo certi, è rivolto soprattutto alla politica, che per miopi convenienze elettorali ha tollerato colpevolmente per decenni l'evasione. ELUSIONE FAVORITA - Com'è andata, si sa. Non bastava un sistema sempre più contorto e vessatorio per i contribuenti rispettosi delle regole ma al tempo stesso tollerante e lassista con i furbacchioni. Il radicamento delle cattive abitudini nella società italiana è stato incoraggiato grazie all'introduzione di norme fatte apposta per favorire l'elusione. Senza parlare della devastazione culturale prodotta da condoni tombali e sanatorie di ogni tipo che hanno punteggiato gli ultimi quarant'anni di storia. Il lassismo nei controlli, la sostanziale mancanza di sanzioni e una giustizia tributaria lenta e inefficiente hanno fatto il resto, alimentando il senso di impunità. Ben venga, perciò, l'introduzione della fattura elettronica obbligatoria oltre i 3 mila euro. Ben venga il giro di vite sulle società di comodo che servono a mettere al riparo dal fisco i veri proprietari di yacht, ville e fuoriserie. Ben vengano i controlli sulle fiduciarie dietro le quali si possono nascondere (tutto legale, beninteso) i titolari dei grandi patrimoni. Ben venga il ripensamento sulla limitazione all'uso del contante voluta dal precedente esecutivo di centrosinistra e che gli attuali governanti, ricordarlo è d'obbligo, avevano bollato come una misura poliziesca, prima di farla propria. Ben venga il nuovo redditometro che dovrebbe permettere di scoprire se l'effettivo tenore di vita del contribuente è compatibile con quanto dichiara al fisco. E ben venga l'incrocio dei dati informatici: sia pure in ritardo di almeno vent'anni. L'IMPEGNO MANCANTE - Aspettiamo ora fiduciosi i risultati. Ma questa offensiva contro gli evasori ha un difetto. Manca un solenne impegno del governo: il taglio delle tasse, proporzionato alle somme recuperate. È un impegno doveroso, quello di destinare i dividendi della guerra all'evasione a vantaggio di chi in tutti questi anni ha sempre fatto il proprio dovere, pagando anche per coloro che non lo facevano. E ricevendo in cambio soltanto vuote promesse di riduzione delle imposte: considerate così scandalosamente alte che il premier Silvio Berlusconi (ricordate?) arrivò a giustificare «moralmente» gli evasori. I quali continuavano a crescere e moltiplicarsi: mentre la pressione fiscale saliva inesorabilmente con il risultato di deprimere ulteriormente stipendi già fra i più bassi d'Europa. Qualcuno potrà obiettare che lo stato attuale del bilancio statale non consente un ridimensionamento delle imposte. Argomento fondato. Il rigore nei conti pubblici è la migliore garanzia per la stabilità e la crescita. Ma i proventi della lotta all'evasione sono comunque risorse aggiuntive. E la guerra, una guerra che va assolutamente combattuta e vinta, avrà maggiori probabilità di successo se lo Stato saprà dimostrare che oltre a colpire i disonesti, sa premiare gli onesti. Pagare meno, pagare tutti: quale migliore rivoluzione culturale per chi si dice liberale? Sergio Rizzo 22 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/economia/10_agosto_22/un-impegno-sul-taglio-delle-tasse-sergio-rizzo_5bf98aac-adbc-11df-8e8b-00144f02aabe.shtml Titolo: SERGIO RIZZO DALLA CORRUZIONE ALLE PROFESSIONI Inserito da: Admin - Settembre 10, 2010, 11:19:47 pm DALLA CORRUZIONE ALLE PROFESSIONI
Le riforme fantasma Ricordiamo il contesto. La bufera sui Grandi Eventi affidati alla Protezione civile era da poco iniziata. I giudici di Firenze avevano scoperto gli affari della «cricca», squarciando il velo su una nuova trama del malaffare, impressionante per il numero e il calibro dei personaggi coinvolti: alti funzionari pubblici, imprenditori, politici, magistrati. Mentre la Corte dei Conti denunciava che il cancro della corruzione, mai sconfitto in questo Paese, ci costa ogni anno 60 miliardi di euro. Comprensibilmente scosso, il Palazzo sembrò reagire. Il primo marzo di quest’anno il Consiglio dei ministri approvò una legge che conteneva disposizioni senza precedenti: l’ineleggibilità degli amministratori corrotti, tanto per citarne una. E il giorno dopo questo giornale gliene diede atto. Senza però sospettare che quel provvedimento anticorruzione, com’è invece accaduto, sarebbe finito nel dimenticatoio. Fermo in Senato da più di sei mesi, in compagnia, purtroppo, di tante altre leggi. Leggi importanti, che stanno però diventando altrettanti fantasmi nel disinteresse di una maggioranza paralizzata a causa di uno scontro interno condito da miasmi e veleni. Qualcuno ha forse visto la famosa «legge sulla concorrenza », quella che dovrebbe essere fatta ogni anno (l’ha deciso questo governo) con lo scopo di rimediare alle storture del mercato denunciate dall’Antitrust? Doveva essere pronta prima dell’estate e ancora non se ne ha notizia. Del resto non c’è neppure chi dovrebbe firmarla: l’incarico di ministro dello Sviluppo economico è vacante dal 4 maggio. Per non parlare di altre cosette, come la riforma della professione forense, approvata dalla Camera e abbandonata quattro mesi fa in Senato. Oppure della legge che dovrebbe dare un colpo ulteriore all’usura, smarrita a Montecitorio dopo aver avuto il via libera di Palazzo Madama nell’aprile 2009. O ancora la riforma delle banche popolari, il cosiddetto «pacchetto professioni », l’«istituzionalizzazione » del 5 per mille dell’Irpef, la nuova normativa delle fondazioni… Si è perfino arenata la legge sugli indennizzi alle imprese italiane espropriate dal regime libico del colonnello Gheddafi, così amico del nostro presidente del Consiglio. L’inerzia politica è arrivata al punto di non riuscire a far decollare provvedimenti già approvati, ma che per essere attuati hanno bisogno di un decreto ministeriale o di un regolamento. La legge che consente di mettere il marchio made in Italy soltanto sui prodotti fatti prevalentemente in Italia, per esempio: le norme per metterle in moto erano attese entro il 23 agosto. Termine trascorso inutilmente. Stesso destino ha avuto la riforma delle Camere di commercio. Il rilancio dell’energia nucleare aspetta invece, da molti mesi, la nomina dell’Agenzia per la sicurezza. Si potrebbe andare avanti con il riordino della Sace, la riorganizzazione dell’Enea, la delega governativa per l’intervento nelle crisi aziendali (di cui si sono perse le tracce nell’ottobre 2009). E qualche volta, per trasformare le leggi in fantasmi, basta soltanto ignorarle. Come è accaduto alle norme (le ennesime) sullo sportello unico per le imprese: approvate dal Parlamento il 22 giugno, non sono ancora apparse sulla Gazzetta Ufficiale. Che questa sia la nuova via della semplificazione normativa, al posto della pira del ministro Roberto Calderoli? Sergio Rizzo 10 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_10/rizzo_riforme_fantasma_28ced67c-bc9a-11df-bb9d-00144f02aabe.shtml Titolo: SERGIO RIZZO I precari sono oltre mezzo milione. Per assumerli servono 30 anni Inserito da: Admin - Settembre 14, 2010, 08:09:35 am Il dossier
I precari sono oltre mezzo milione Per assumerli tutti servono 30 anni Quasi 230 mila gli iscritti in graduatoria. In Sicilia sono la metà dei docenti di ruolo Precario a 68 anni: se Giancarlo Montemarani non è ancora entrato nel Guinness dei primati, è soltanto per mancanza di una specifica classifica. Insegnante di francese in una scuola media di Macerata, ha passato tutta la vita senza poter diventare di ruolo finché nel 2007 l'hanno spedito in pensione. Soltanto facendo ricorso al Tar è poi entrato nelle graduatorie per uscire dal precariato. Ma il calvario, allarga le braccia chiamando in causa «i tempi biblici della giustizia amministrativa» il suo legale Narciso Ricotta, non è ancora finito. Montemarani è ancora lì, in attesa di poter andare finalmente in pensione, prima dei fatidici settant'anni, da «professore» non più precario. Buona fortuna. A lui e agli altri. Perché il punto è: quanti sono destinati a seguire il suo destino? Con l'aria che tira non sono pochi coloro che corrono il rischio di vedersi pensionare prima ancora di poter uscire da quella condizione. «Impossibile dire con esattezza quanto tempo servirà per assorbire tutti i precari. In alcuni casi, secondo i nostri calcoli, anche trent'anni e più», spiega Francesco Scrima, il segretario generale della Cisl scuola. Il quale prende a esempio il precariato nelle materne. Gli iscritti alle cosiddette graduatorie ad esaurimento per questo settore dell'istruzione sono 74.744. Una volta colmati i vuoti degli organici (circa 4 mila unità) e tenendo conto che d'ora in poi sarà possibile occupare al massimo soltanto i posti lasciati liberi dai pensionati, circa 2 mila l'anno, ciò significa che il serbatoio dei precari non si svuoterà completamente prima di trentacinque anni. Nel 2045. Non resta che augurare lunga vita agli ultimi della lista. Ma che cosa sono queste «graduatorie a esaurimento»? Si tratta di elenchi predisposti in seguito alla sanatoria approvata dal governo Prodi nel tentativo di regolarizzare una situazione assurda che si era determinata negli anni precedenti. Una situazione per la quale alla permanente lamentela di esuberi si rispondeva allargando a dismisura la zona grigia del precariato. Da tali elenchi, compilati rigorosamente sulla base di criteri oggettivi (l'anzianità, non il merito) si dovrà attingere per coprire il 50 per cento dei posti che di volta in volta risulteranno vacanti. Le «graduatorie» sono un numero enorme. Ben 8.433. E di queste più della metà, 4.456, sono considerate «molto affollate». E se il numero degli elenchi è enorme, figuratevi quello degli iscritti. Sapete quanti sono, secondo un dossier appena sfornato dalla Cisl? Sono 229.721. Con un rapporto di uno a tre rispetto all'organico del personale docente della scuola italiana, dalla materna al licei. Ai ritmi con cui procede lo smaltimento di questo arretrato umano (quest'anno sono stati regolarizzati in diecimila, fra il personale docente), va da sé che sarebbero necessari almeno 23 anni. Senza considerare poi che i precari non sono nemmeno tutti qui. Perché bisognerebbe aggiungerne ancora 20 mila circa, il numero di quanti sono iscritti a quelle «graduatorie» con riserva, perché in attesa di conseguire l'abilitazione. Volendo poi essere proprio pignoli non si potrebbero nemmeno escludere del tutto quelli che non sono nelle «graduatorie» perché non abilitati, ma che comunque fanno parte dell'area del precariato scolastico. Altri 300 mila, senza però al momento attuale alcuna speranza di avere un posto fisso. Almeno per i prossimi trenta o quarant'anni, visto che gli accessi alle «graduatorie» sono per legge bloccati. Tenendo in ogni caso conto anche di loro, il numero dei «docenti» della scuola precari raggiungerebbe le 550 mila unità, per superare di slancio le 600 mila mettendo nel calcolo anche il personale precario non docente: ben 64.770 persone. Un universo mostruoso, che rappresenta un problema mostruoso, soprattutto in alcune realtà locali. La Sicilia, per esempio. Restando ai 229.721 precari ufficiali, per intendersi quelli delle «graduatorie», i siciliani sono 33.474. È il numero più alto d'Italia. Superiore anche a quello di Regioni più popolose, come la Campania, che ne ha 32.597, il Lazio (21.664) e perfino la Lombardia (28.507), dove gli abitanti sono quasi il doppio. Ebbene, in Sicilia i precari ufficiali sono una quantità pari al 51,1% dell'organico di diritto della Regione. Per non parlare della guerra fra poveri che è scoppiata per il personale non docente, a causa di alcune decisioni politiche scellerate prese in passato e di una serie di sentenze giudiziarie. Tanto per dirne una, a Palermo è successo nel 2000 che con il trasferimento del personale scolastico allo Stato sono passate negli organici statali anche legioni di lavoratori socialmente utili, inquadrati con mansioni per le quali non hanno alcuna competenza. Ma negli organici ci sono e ci restano, e così bloccano la strada ai precari che potrebbero essere assorbiti. La regolarizzazione del personale non docente, tuttavia, è un problema che si può considerare trascurabile rispetto a quello di insegnanti e professori. Esclusa la possibilità che vengano incrementati gli organici, ipotesi che lo stesso sindacato definisce «irrealistica» considerando che la fredda legge delle cifre (il rapporto alunni-docenti) non concede margini di manovra, non restano cose come la rimodulazione dei tagli o qualche misura per allargare un po' le maglie della rete. Per esempio, propone la Cisl, attivando la mobilità verso altri settori (ma quanti accetterebbero?) o politiche «meno restrittive per la cessazione dal servizio» (i soliti prepensionamenti?). Vero, come sostiene il sindacato, che ci sarebbe una disponibilità teorica per 30 mila assunzioni: docenze attualmente non coperte da personale di ruolo. Ma i numeri sono pur sempre quelli che sono. Dall'arrivo del nuovo governo Berlusconi il personale docente della scuola ha perso quasi 50 mila posti di lavoro, riducendosi da 843.040 a 795.342 unità. Metà di questa emorragia ha riguardato proprio i precari, che sono passati da 141.735 a 116.976. Sono supplenti: chi è iscritto alle graduatorie a esaurimento, oltre a poter aspirare a un posto di ruolo, può accedere alle supplenze su posti liberi per tutta la durata dell'anno scolastico. Siccome però il numero dei supplenti è decisamente inferiore a quello degli iscritti nelle graduatorie, significa che circa 113 mila persone nell'area del precariato scolastico (cioè la differenza) sono senza lavoro. Sergio Rizzo 14 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/economia/10_settembre_14/rizzo_precari_oltre_mezzo_milione_9b85cad6-bfbf-11df-8975-00144f02aabe.shtml Titolo: Sergio Rizzo Il legale pagato due volte dallo Stato Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2010, 05:19:19 pm Dipendente in contemporanea di diversi enti pubblici.
«Restituisca due milioni» Il legale pagato due volte dallo Stato Giovanni Pascone, ex magistrato del Tar e consulente a Palazzo Chigi, ha collezionato 62 incarichi ROMA - Come la beata Maria del Gesù, capace di convertire un'intera tribù di Indios del Nuovo Messico senza mai muoversi dalla città spagnola di Agreda, Giovanni Pascone ha avuto per anni il dono dell'ubiquità. Avrebbe potuto altrimenti essere giudice del Tar, direttore della Siae, dirigente dell'Agenzia spaziale italiana, capo dell'Acquedotto pugliese, avvocato del Comune di Pomezia, funzionario dell'Istituto nazionale alta matematica, consigliere del governo e contemporaneamente svolgere decine e decine di incarichi pubblici e privati? Dall'alto delle sue quattro lauree lui non fa una piega. Intervistato qualche tempo fa da Gianfranco Compagno del Pontino.it, dopo essere diventato consulente del Comune di Aprilia, ha gonfiato il petto: «Sono stato giudice ordinario, magistrato del Tar, magistrato della Corte dei conti, consigliere parlamentare. Ho lavorato alla Banca d'Italia, al ministero dell'Interno e ho avuto tantissimi incarichi. Sono stato capo ufficio legislativo ai Lavori pubblici, consigliere giuridico di tutti i governi, di destra e sinistra». Alla faccia. Di incarichi, la Guardia di finanza ne ha contati sessantadue. Poi ha trasmesso tutto alla Corte dei conti. Dove stimano che tale fenomeno ai limiti del paranormale abbia prodotto un danno erariale di due milioni di euro. Ma come, vi chiederete, prima il governo dichiara guerra ai fannulloni e poi i giudici mettono in croce chi si ammazza di lavoro? Il fatto è che per svolgere tutte quelle attività collaterali Giovanni Pascone avrebbe avuto bisogno delle autorizzazioni dei suoi datori di lavoro pubblici. Quelli, per inciso, che gli pagavano lo stipendio. Invece le autorizzazioni, dice il giudice contabile, non c'erano. E gli incarichi erano così tanti che è lecito domandarsi dove il Nostro trovasse tempo ed energie. Anche perché, non pago delle consulenze, riusciva perfino a essere in contemporanea dipendente di due amministrazioni diverse. Nel 1991, non ancora trentenne vince il concorso al Tar, dove resta per dodici anni. Naturalmente, senza girarsi i pollici. Capo dell'ufficio legislativo dei Lavori pubblici nel governo Berlusconi, consulente di palazzo Chigi con Romano Prodi, direttore generale dell'Acquedotto pugliese... E poi le consulenze, come quelle per il gruppo edile Salini (che gli fruttano 354.685 euro), le Autostrade, l'Astaldi, la Regione Calabria... Finché, il primo agosto del 2003, è dichiarato «decaduto dall'impiego ai sensi dell'articolo 127, lett. c), del Testo unico 10 gennaio 1957, n. 3». Una misura che viene adottata, dice la norma, quando un dipendente pubblico «senza giustificato motivo, non assuma o non riassuma servizio entro il termine prefissogli, ovvero rimanga assente dall'ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni». Ma con tutto quello che Pascone aveva da fare... Comunque poco male, perché contestualmente all'uscita dal Tar si iscrive all'Ordine degli avvocati e viene assunto con contratto a tempo indeterminato dalla Siae come capo dell'ufficio legale. Il 6 dicembre 2004, però, lo licenziano. La motivazione: mentre era dipendente Siae aveva pure un incarico di dirigente dell'ufficio legale all'Agenzia spaziale italiana. A nulla serve una interrogazione parlamentare presentata contro questa decisione dal senatore aennino Euprepio Curto. L'esilio dai ranghi della pubblica amministrazione dura un paio di annetti. Nel frattempo Pascone, che ha avuto modo di frequentare a più riprese gli uffici governativi ed è stato anche consigliere di amministrazione della società pubblica Bagnolifutura, indicato dai Ds, non si perde d'animo in attesa di tempi migliori, che puntualmente arrivano. Il 2 novembre 2006 il Comune di Pomezia lo assume come direttore generale. Prima a termine e poi, dal primo agosto 2008, a tempo indeterminato. Intanto, il 26 aprile 2007, è entrato pure nei ranghi di un altro ente pubblico, l'Istituto nazionale di Alta matematica Francesco Severi. Dirigente di seconda fascia, e anche qui a tempo indeterminato. Mentre non si arresta il tourbillon di consulenze e incarichi. Aziende private e pubbliche, enti locali: i comuni di Cagliari, Latina, Dorgali, Aprilia, la Provincia di Milano, la Asl di Casale Monferrato... Ma proprio nel 2008 cominciano i guai. Il 26 settembre è sospeso dal servizio perché il Gip di Velletri gli ha imposto l'obbligo di dimora nel comune di residenza, cioè Roma: sulla giunta di Pomezia si è appena abbattuta un'inchiesta per un certo affare di campi da tennis. Pochi mesi dopo scoppia la grana di Tributi Italia, che coinvolge anche la società di Aprilia A.ser, di cui Pascone è presidente dal 2007. Ancora qualche settimana e arriva la bomba. Fabrizio Peronaci rivela sul Corriere che l'avvocato, consigliere giuridico del governo Berlusconi, già magistrato e amministratore pubblico, è accusato di evasione fiscale: non avrebbe dichiarato al Fisco compensi per 40 milioni di euro in due soli anni. E adesso la ciliegina sulla torta. Un ricorso del vice procuratore generale della Corte dei conti Bruno Tridico nel quale si chiede il sequestro conservativo delle proprietà di Pascone fino a un ammontare di 2 milioni 119 mila euro: i soldi incassati dall'avvocato per tutti gli incarichi e le consulenze non autorizzate, che il magistrato contabile considera alla stregua di un «danno erariale». Sequestro puntualmente ottenuto prima di dare fuoco alle polveri. L'udienza iniziale della causa è fissata per il 20 ottobre. E stavolta non c'è incarico che tenga. Sergio Rizzo 13 ottobre 2010 © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/cronache/10_ottobre_13/rizzo-legale-pagato-due-volte-dallo-stato_4dbef956-d68c-11df-831d-00144f02aabc.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Da Napoli a Vercelli i nomi dei politici «indegni» Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2010, 11:56:51 am «Sfuggiti» ai controlli
Tra i reati dei portatori di voti Dopo l'accusa di Pisanu («Amministrative, nelle liste candidati indegni») un dossier sui candidati-condannati. Da Napoli a Vercelli i nomi dei politici «indegni» ROMA - «Famme chello che vuò/ indifferentemente/ tanto o' saccio che so'/ pe' te nun so' cchiù niente/...». Il pubblico andava in estasi mentre Mara Carfagna e Pietro Diodato intonavano Indifferentemente, una delle canzoni più struggenti del repertorio musicale partenopeo, dal palco del Teatro Metropolitano di Napoli, luogo prescelto per la chiusura in grande stile (e con sorpresa) della campagna elettorale del Pdl per le regionali. L'euforia era palpabile. Il ticket composto dalla ministra e dal recordman delle preferenze alle precedenti elezioni si avviava a una schiacciante vittoria, nonostante il brivido iniziale. A Napoli era infatti circolata la voce di una probabile esclusione di Diodato dalle liste. Voce che provocò una clamorosa occupazione della sede campana del Pdl da parte dei suoi fan. Così, «indifferentemente», Diodato rientrò in lista. Avrebbe mai immaginato Mara Carfagna, la quale oltre alla faccia sui manifesti aveva messo anche la voce al servizio della causa, che lunedì scorso, appena sei mesi dopo quella festa in teatro, la Prefettura di Napoli avrebbe scritto alla Regione per ricordare che il consigliere, nel frattempo nominato anche presidente di Commissione, ha sulle spalle una condanna definitiva (con la condizionale) a un anno e mezzo per i disordini del 2001 nei seggi elettorali, ma soprattutto l'interdizione per cinque anni dai pubblici uffici? Una bella rogna, per il Consiglio regionale, dal quale sono stati già sospesi altri due consiglieri del centrodestra. Il primo è l'ex margheritino Roberto Conte, condannato in primo grado per concorso esterno in associazione camorristica, candidato in extremis per Alleanza di popolo (ed eletto), nonostante la tassativa opposizione del futuro governatore Stefano Caldoro: «Non voglio i suoi voti, e se risulteranno determinanti mi dimetterò». Il secondo è Alberico Gambino, del Pdl, condannato in appello con l'accusa di peculato. Ha dichiarato appena eletto: «Per ora mi godo la vittoria». Insieme al 50% dell'indennità (2.250 euro netti al mese), che per regolamento regionale spetta ai consiglieri sospesi dall'incarico. Potevano pensarci prima, i responsabili politici? Magari è proprio quello che hanno fatto, a giudicare dalle parole di Angela Napoli, capogruppo di Futuro e libertà nell'Antimafia, che ha stigmatizzato «la disinvoltura con la quale la politica forma le liste elettorali». Liste, aveva detto il presidente della commissione Beppe Pisanu, «gremite di persone che non sono certo degne di rappresentare nessuno». Ma che portano voti. Tanti voti, e su quelli nessuno ci sputa. Come aveva avuto modo di denunciare pubblicamente, già tre anni fa, il coordinatore campano di Forza Italia Fulvio Martusciello, parlando del «pressapochismo con cui vengono scelti i candidati, se è vero che nella zona a nord di Napoli la criminalità tentò di infilarsi all'interno dei partiti». Se ne infischiano perfino del codice di autoregolamentazione dell'Antimafia, che dovrebbe sbarrare la strada alle candidature di soggetti condannati. Figuriamoci quando non c'è nemmeno la sentenza di un tribunale. Le amministrative calabresi, per esempio. Alle ultime regionali si è presentato Tommaso Signorelli, ex Pd passato ai Socialisti Uniti (lista che sosteneva il centrodestra), arrestato nel 2008 quando era assessore del comune di Amantea, sciolto per infiltrazioni della 'ndrangheta. A niente è servita la dichiarazione di candidato «non gradito» formulata nei suoi confronti dal futuro presidente Giuseppe Scopelliti, il quale aveva minacciato: «Se necessario andrò personalmente ad Amantea per dire agli elettori di non votarlo». Dopo quella presa di posizione si è ritirato invece dalla corsa elettorale il candidato di Noi Sud Antonio La Rupa, figlio del consigliere regionale uscente Franco La Rupa, ex sindaco del paese calabrese e indagato nella medesima inchiesta. Un fenomeno, quello dei parenti in lista, così diffuso in alcune zone, come la Calabria, che la commissione antimafia di Pisanu ha chiesto alle prefetture di avere anche informazioni sui rapporti di parentela e le frequentazioni dei candidati. Sia ben chiaro: la decenza delle liste non è questione che si possa limitare alla zona grigia dei rapporti fra politica e criminalità organizzata. Ed è immaginabile che Pisanu non si riferisse soltanto a quell'aspetto, quanto piuttosto all'imbarbarimento generale che ha fatto saltare tutte le regole etiche, comprese quelle non scritte. Con il risultato che termini una volta sacri, come «opportunità», sono spariti dal vocabolario della politica. Due casi per tutti. Il presidente della Provincia di Vercelli Renzo Masoero era in piena campagna elettorale per le regionali quando l'hanno arrestato per concussione, accusa per la quale avrebbe poi patteggiato una condanna a due anni. Né il rinvio a giudizio per la droga del festino a luci rosse che lo vide protagonista in un albergo romano nell'estate del 2007 ha dissuaso l'ex deputato dell'Udc Cosimo Mele: che si è candidato in Puglia al fianco di Adriana Poli Bortone. Senza fare una piega. Sergio Rizzo 14 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/politica/10_ottobre_14/rizzo_candidati_6ff59cca-d761-11df-8fad-00144f02aabc.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Dopo l'accusa di Pisanu Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2010, 11:23:06 pm «Sfuggiti» ai controlli
Tra i reati dei portatori di voti Dopo l'accusa di Pisanu («Amministrative, nelle liste candidati indegni») un dossier sui candidati-condannati. Da Napoli a Vercelli i nomi dei politici «indegni» ROMA - «Famme chello che vuò/ indifferentemente/ tanto o' saccio che so'/ pe' te nun so' cchiù niente/...». Il pubblico andava in estasi mentre Mara Carfagna e Pietro Diodato intonavano Indifferentemente, una delle canzoni più struggenti del repertorio musicale partenopeo, dal palco del Teatro Metropolitano di Napoli, luogo prescelto per la chiusura in grande stile (e con sorpresa) della campagna elettorale del Pdl per le regionali. L'euforia era palpabile. Il ticket composto dalla ministra e dal recordman delle preferenze alle precedenti elezioni si avviava a una schiacciante vittoria, nonostante il brivido iniziale. A Napoli era infatti circolata la voce di una probabile esclusione di Diodato dalle liste. Voce che provocò una clamorosa occupazione della sede campana del Pdl da parte dei suoi fan. Così, «indifferentemente», Diodato rientrò in lista. Avrebbe mai immaginato Mara Carfagna, la quale oltre alla faccia sui manifesti aveva messo anche la voce al servizio della causa, che lunedì scorso, appena sei mesi dopo quella festa in teatro, la Prefettura di Napoli avrebbe scritto alla Regione per ricordare che il consigliere, nel frattempo nominato anche presidente di Commissione, ha sulle spalle una condanna definitiva (con la condizionale) a un anno e mezzo per i disordini del 2001 nei seggi elettorali, ma soprattutto l'interdizione per cinque anni dai pubblici uffici? Una bella rogna, per il Consiglio regionale, dal quale sono stati già sospesi altri due consiglieri del centrodestra. Il primo è l'ex margheritino Roberto Conte, condannato in primo grado per concorso esterno in associazione camorristica, candidato in extremis per Alleanza di popolo (ed eletto), nonostante la tassativa opposizione del futuro governatore Stefano Caldoro: «Non voglio i suoi voti, e se risulteranno determinanti mi dimetterò». Il secondo è Alberico Gambino, del Pdl, condannato in appello con l'accusa di peculato. Ha dichiarato appena eletto: «Per ora mi godo la vittoria». Insieme al 50% dell'indennità (2.250 euro netti al mese), che per regolamento regionale spetta ai consiglieri sospesi dall'incarico. Potevano pensarci prima, i responsabili politici? Magari è proprio quello che hanno fatto, a giudicare dalle parole di Angela Napoli, capogruppo di Futuro e libertà nell'Antimafia, che ha stigmatizzato «la disinvoltura con la quale la politica forma le liste elettorali». Liste, aveva detto il presidente della commissione Beppe Pisanu, «gremite di persone che non sono certo degne di rappresentare nessuno». Ma che portano voti. Tanti voti, e su quelli nessuno ci sputa. Come aveva avuto modo di denunciare pubblicamente, già tre anni fa, il coordinatore campano di Forza Italia Fulvio Martusciello, parlando del «pressapochismo con cui vengono scelti i candidati, se è vero che nella zona a nord di Napoli la criminalità tentò di infilarsi all'interno dei partiti». Se ne infischiano perfino del codice di autoregolamentazione dell'Antimafia, che dovrebbe sbarrare la strada alle candidature di soggetti condannati. Figuriamoci quando non c'è nemmeno la sentenza di un tribunale. Le amministrative calabresi, per esempio. Alle ultime regionali si è presentato Tommaso Signorelli, ex Pd passato ai Socialisti Uniti (lista che sosteneva il centrodestra), arrestato nel 2008 quando era assessore del comune di Amantea, sciolto per infiltrazioni della 'ndrangheta. A niente è servita la dichiarazione di candidato «non gradito» formulata nei suoi confronti dal futuro presidente Giuseppe Scopelliti, il quale aveva minacciato: «Se necessario andrò personalmente ad Amantea per dire agli elettori di non votarlo». Dopo quella presa di posizione si è ritirato invece dalla corsa elettorale il candidato di Noi Sud Antonio La Rupa, figlio del consigliere regionale uscente Franco La Rupa, ex sindaco del paese calabrese e indagato nella medesima inchiesta. Un fenomeno, quello dei parenti in lista, così diffuso in alcune zone, come la Calabria, che la commissione antimafia di Pisanu ha chiesto alle prefetture di avere anche informazioni sui rapporti di parentela e le frequentazioni dei candidati. Sia ben chiaro: la decenza delle liste non è questione che si possa limitare alla zona grigia dei rapporti fra politica e criminalità organizzata. Ed è immaginabile che Pisanu non si riferisse soltanto a quell'aspetto, quanto piuttosto all'imbarbarimento generale che ha fatto saltare tutte le regole etiche, comprese quelle non scritte. Con il risultato che termini una volta sacri, come «opportunità», sono spariti dal vocabolario della politica. Due casi per tutti. Il presidente della Provincia di Vercelli Renzo Masoero era in piena campagna elettorale per le regionali quando l'hanno arrestato per concussione, accusa per la quale avrebbe poi patteggiato una condanna a due anni. Né il rinvio a giudizio per la droga del festino a luci rosse che lo vide protagonista in un albergo romano nell'estate del 2007 ha dissuaso l'ex deputato dell'Udc Cosimo Mele: che si è candidato in Puglia al fianco di Adriana Poli Bortone. Senza fare una piega. Sergio Rizzo 14 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/politica/10_ottobre_14/rizzo_candidati_6ff59cca-d761-11df-8fad-00144f02aabc.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Nella «caverna di Alì Babà» Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2010, 11:56:14 am ANTIGUA E DINTORNI
Paradisi fiscali, evasione, affari Nella «caverna di Alì Babà» La globalizzazione ha abbattuto in tutto il mondo il tabù della libera circolazione dei capitali. Figurarsi perciò se l'Italia può impedire ai suoi cittadini di comprare ville ai Caraibi. Chi la governa ha però il dovere di verificare che gli investimenti siano fatti nel rispetto delle regole. Quasi sempre, tuttavia, è impossibile. Anche se quei Paesi hanno sottoscritto protocolli e accordi internazionali, poi concretamente non li applicano. Così, al riparo dei segreti bancari e delle società anonime continuano a essere un comodo rifugio per chi non paga le tasse o peggio. Si chiamano infatti paradisi fiscali. E giustamente il governo italiano li combatte con determinazione, al fianco di tutti gli altri Stati occidentali. Consapevole che si tratta di una battaglia planetaria per la civiltà. In un Paese con il record di evasione e dove la propensione all'esportazione illegale di denari non si è purtroppo fermata negli ultimi anni, come dimostra il «successo» dell'ultimo scudo fiscale, questo è un nervo scoperto. Sul quale il servizio di Report, la trasmissione di Milena Gabanelli andata in onda domenica sera, e prima ancora l'inchiesta di Luigi Ferrarella pubblicata su questo giornale, hanno avuto il merito di accendere un faro. Da qualche tempo ad Antigua, isola inserita dall'Ocse nella «lista grigia» dei paradisi fiscali, alcuni italiani stanno facendo grandi affari immobiliari. E li stanno facendo attraverso una società, la Flat point, con filiale a Torino ma sede legale in quel piccolo Stato, per la quale a quanto pare è impossibile risalire alla reale proprietà, nonostante fra chi la gestisce ci siano soggetti chiaramente di nazionalità italiana. Intendiamoci, il problema dei paradisi fiscali va ben oltre i confini angusti di un'isoletta caraibica. Per dire quanto sia complicato affrontarlo e risolverlo, esistono piccole sacche «paradisiache» anche a due passi da casa nostra e perfino all'interno delle nazioni più impegnate in questa battaglia: molte società di comodo di Calisto Tanzi avevano sede nello Stato americano del Delaware, dove il codice è particolarmente «flessibile». Dunque è chiaro che la battaglia richiede innanzitutto grande impegno da parte delle classi politiche. E qui una riflessione è d'obbligo. Fra i cittadini italiani che hanno investito nell'isola dei Caraibi c'è pure il nostro presidente del Consiglio: si parla di una somma superiore a 20 milioni di euro. Con i governanti di quel Paese, peraltro, Silvio Berlusconi aveva anche intrattenuto rapporti politici, se è vero che cinque anni fa si sarebbe speso per far ottenere in sede internazionale ad Antigua e Barbuda uno sconto del debito estero. Il suo avvocato Niccolò Ghedini ha ricordato che i terreni comprati dal premier ai Caraibi sono stati pagati con regolare bonifico e figurano nella dichiarazione dei redditi. Aggiungendo che «l'immobile è intestato regolarmente a Berlusconi e non già a fantomatiche società off shore. E con regolari fatture assistite da stati di avanzamento lavori sono stati pagati i lavori di costruzione e arredo». Fatture presumibilmente emesse dalla stessa Flat point... Elemento che ha indotto Milena Gabanelli a sollevare la questione dell'«opacità» tanto contestata da Ghedini. Ma qui non è in discussione la regolarità delle fatture. Perché si dà il caso che il Paese dove Berlusconi ha investito tutti quei soldi sia uno di quelli paragonati un giorno dal suo ministro dell'Economia alla «Caverna di Alì Babà», dove i Quaranta ladroni nascondevano il bottino. E alla luce del gravoso impegno internazionale che Tremonti ha assunto nella lotta ai paradisi fiscali, quell'investimento si può considerare opportuno? Sergio Rizzo 19 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/economia/10_ottobre_19/rizzo-paradisi-fiscali_b3114d0e-db41-11df-a6e9-00144f02aabc.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Camere paralizzate, in un anno 10 leggi Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2010, 06:50:07 pm Il caso L'attività è ridotta al minimo. Le cause? Pochi soldi, priorità e tempi dettati dal governo
Camere paralizzate, in un anno 10 leggi Dal 1° gennaio l'Aula di Montecitorio si è riunita 126 volte, il Senato 92 ROMA - Alla Camera dicono che succede, qualche volta. Succede quando arriva la Finanziaria, che adesso si chiama «legge di stabilità». Allora si ferma tutto, in religiosa attesa che la commissione Bilancio partorisca. Ecco spiegato perché almeno per tutta la prossima settimana le luci dell'Aula di Montecitorio resteranno spente. Con il risultato che molti deputati, come ha sottolineato ieri sul Messaggero Marco Conti, potranno godersi un periodo di ferie supplementari. Quella spiegazione «ufficiale», tuttavia, non spiega perché da tempo, ormai, i parlamentari non si ammazzano di lavoro. La verità è che non c'è il becco di un quattrino. Ma soprattutto che è il governo a dettare tempi, modi e priorità. Eppure, nonostante le difficoltà economiche, gli argomenti non mancherebbero. La commissione Giustizia della Camera, per esempio, ha praticamente concluso l'esame di un provvedimento antiusura già approvato dal Senato. Che però, senza apparenti motivazioni, procede lentissimo. Come anche il disegno di legge anticorruzione, approvato dal Consiglio dei ministri otto mesi or sono, e ora parcheggiato nelle commissioni di Palazzo Madama. A motori spenti. In questo caso però una ragione c'è. Si deve assicurare una corsia preferenziale al Lodo Alfano. Per rendersi conto dell'apatia nella quale sono immerse le Camere è sufficiente dare uno sguardo ai calendari. Il Senato sarà impegnato nella discussione di mozioni sulla politica agricola comune, poi di risoluzioni, interrogazioni e interpellanze. Invece la Camera, quando la vacanzina sarà finita, dovrà fare i conti con le norme di «sostegno agli agrumeti caratteristici». Senza contare il trasferimento della Consob da Roma a Milano, preteso dalla Lega. Tutto questo, naturalmente, sempre che l'esecutivo non decida di sconvolgere il ruolino di marcia. Ma nemmeno il governo «del fare» di Silvio Berlusconi, che pure ha appena ripromesso una raffica di riforme, sembra percorso da un frenetico attivismo. Per dirne una, è da 117 giorni che aspettiamo la nomina del presidente Consob. Se non si riesce a fare quella, figuriamoci la riforma fiscale... Cinque mesi sono passati da quando il presidente della Camera Gianfranco Fini sbottò pubblicamente («a meno che il governo non presenti qualche decreto c'è il rischio di una paralisi dell'attività legislativa della Camera!»), scandalizzato per il fatto che il lavoro dei parlamentari era ormai limitato a due giorni la settimana, e nulla è cambiato. Nei 298 giorni trascorsi dal primo gennaio l'assemblea di Montecitorio si è riunita 126 volte. Quella di Palazzo Madama ancora meno: 92. Il 18 ottobre la Gazzetta Ufficiale ha pubblicato una legge approvata l'8 ottobre scorso, l'ultimo dei 74 provvedimenti entrati e usciti dal Parlamento quest'anno. In quel numero sono compresi 18 decreti legge del governo e altri tre provvedimenti di routine, sempre di fonte governativa, come la legge comunitaria. Poi ci sono le 17 leggi di conversione di altrettanti decreti. Quindi 22 ratifiche di trattati internazionali: atti dovuti. Ne restano dunque 14, fra cui ci sono però anche provvedimenti nati da disegni di legge governativi. Per esempio quello del ministro dell'Interno Roberto Maroni sulla nuova disciplina antimafia. Delle dodici leggi «superstiti» fanno poi parte provvedimenti a uso e consumo dei partiti e della politica, come la legge sul legittimo impedimento che ha consentito al premier di non partecipare per motivi istituzionali ai processi che lo vedono imputato, o come la sanatoria delle liste elettorali per le Regionali. Ne restano dunque una decina. Una pattuglia sparuta, nella quale, oltre a provvedimenti di indubbio spessore sociale, come le disposizioni a favore dei malati terminali, dei sordociechi, o degli alunni dislessici, troviamo per esempio una legge che consente di nominare un finanziere comandante delle Fiamme Gialle, una norma sul personale dell'agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie... La carestia legislativa farà senza dubbio contento il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli, immortalato mentre inceneriva con un lanciafiamme migliaia di provvedimenti inutili. Eppure anche nel suo partito, la Lega Nord, qualcuno ha masticato amaro. L'avvocato messinese Matteo Brigandì, fiero delle 199 cause vinte in difesa del suo leader Umberto Bossi, con coraggio leonino ha annunciato un giorno il gesto clamoroso: «Mi dimetto perché non ha più alcun senso fare il parlamentare. Le Camere sono state svuotate di ogni loro funzione. Non hanno più alcun potere di iniziativa legislativa e sono state messe nella condizione di fare solo il notaio del governo». È decaduto dall'incarico il 30 luglio 2010. Giusto poche ore dopo essere stato eletto nel Csm dal Parlamento. Per inciso, Brigandì era stato uno dei proponenti del legittimo impedimento. Sergio Rizzo 26 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/politica/10_ottobre_26/camere-paralizzate_24364658-e0c2-11df-b5a9-00144f02aabc.shtml Titolo: SERGIO RIZZO L'umiliazione di Pompei Inserito da: Admin - Novembre 07, 2010, 07:09:06 pm L'AREA ARCHEOLOGICA IN ABBANDONO
L'umiliazione di Pompei Non passa giorno senza che qualcuno ci ricordi come l’Italia custodisca la maggior parte dei beni artistici e archeologici del pianeta. Ma meritiamo davvero un simile onore? Il dubbio sorge, osservando quello che accade a Pompei. Da tempo il Corriere del Mezzogiorno sta documentando lo scempio di alcuni «restauri » a base di colate di cemento e l’incuria che regna nell’area immensa degli scavi. Con la protesta montante attraverso i social network, come sta a dimostrare il record di adesioni a una pagina di Facebook che si chiama «Stop killing Pompei ruins». Al punto che viene da chiedersi: ma se quel tesoro ce l’avessero gli americani, oppure i francesi o i giapponesi, lo tratterebbero allo stesso modo? Il fatto è che quell’area archeologica unica al mondo è purtroppo il simbolo di tutte le sciatterie e le inefficienze di un Paese che ha smarrito il buon senso e non riesce più a ritrovarlo. O forse semplicemente non vuole, affetto da una particolare forma di masochismo. Che però ha responsabili ben precisi. «Le istituzioni preposte alla tutela dei beni culturali sono costantemente umiliate da interessi politici ed economici del tutto privi di attenzione per la salvaguardia di quella che è la maggiore ricchezza del nostro Paese» ha denunciato qualche tempo fa Italia Nostra. Ed è proprio difficile dargli torto, quando proprio a Pompei l’indifferenza della politica si tocca con mano. Per due anni, con la motivazione del degrado in cui versa l’area, hanno spedito lì il commissario della solita Protezione civile. Con il risultato di «commissariare » nei fatti anche la Sovrintendenza. E già questo non è normale (che c’entra la Protezione civile con gli scavi archeologici?). Ma ancora meno normale è il fatto che da mesi, ormai, Pompei sia senza una guida. A giugno il commissario è scaduto. Mentre a ottobre il sovrintendente ancora non c’è. O meglio, il posto è tenuto in caldo da un reggente in attesa del titolare. Che però il ministero dei Beni culturali non nomina. Perfino inutile interrogarsi sui motivi di questa paralisi. Viene addirittura il sospetto che nella stanza dei bottoni nessuno si renda conto di avere fra le mani una risorsa economica enorme in una regione che ha disperato bisogno di lavoro e sviluppo. Per dare un’idea dell’attenzione riservata a questa materia basterebbe ricordare che dal 2004 a oggi il governo non è stato nemmeno in grado di mettere in piedi un portale nazionale di promozione turistica degno di tal nome. Nonostante i milioni (non pochi) spesi. Per verificare, f a t e v i un giretto su www.italia.it, dove la pratica pompeiana è liquidata in 66 parole, senza nemmeno una foto: «Per l’eccezionalità dei reperti e il loro stato di conservazione, l’Unesco ha posto sotto la sua tutela l’Area archeologica di Pompei ed Ercolano, che nel 79 d.C. furono completamente distrutte dal Vesuvio. La lava vulcanica segnò la loro distruzione ma, solidificandosi, la stessa lava che le distrusse divenne un’eccezionale "protezione" che ha preservato gli straordinari reperti, riportati alla luce molti secoli dopo ». Stop. E poi c’è chi si lamenta che con il 70% delle bellezze artistiche e naturali di tutto il mondo continuiamo a scivolare in basso nelle classifiche internazionali del turismo... Sergio Rizzo 05 ottobre 2010(ultima modifica: 06 ottobre 2010) © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_05/rizzo-pompei_66762f30-d03f-11df-9b01-00144f02aabc.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Supercomputer e frigobar, indispensabili Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2011, 05:57:47 pm 16/11/2010
Supercomputer e frigobar, indispensabili Scritto da: Sergio Rizzo alle 13:12 Non lo sapevano. Non avevano idea di quanto la situazione finanziaria della loro Regione, la Campania, fosse spaventosa. Che i debiti iscritti nel bilancio fossero schizzati del 90% in soli quattro anni. Che l' esposizione complessiva avesse raggiunto 11 miliardi e mezzo, o forse dodici, tredici, nessuno può dirlo con esattezza. Che le società regionali perdessero decine di milioni l' anno. Che la liquidità fosse scesa al livello di guardia. Che la sanità fosse un buco nero pieno di molte sorprese, come quella dell' Asl napoletana che aveva accumulato mesi di ritardo nelle fatture ma poi ha pagato due volte lo stesso fornitore. E non spiccioli: dodici milioni. Non conoscevano, perché l' ispezione ancora non era conclusa, gli sconcertanti risultati della due diligence sui conti della Regione fatta dalla Ragioneria dello Stato su richiesta del governatore Stefano Caldoro. È l' unica spiegazione possibile. Altrimenti il Consiglio regionale avrebbe potuto approvare il 28 settembre scorso una delibera come quella rivelata ieri da Paolo Mainiero sul Mattino di Napoli? Televisore, studio dirigenziale con trittico di poltrone in pelle, Telepass per evitare le code ai caselli autostradali, computer fisso, Ipad o notebook: a scelta. Qualcosa, diciamo la verità, manca. Il frigobar, per esempio. Quello spetta soltanto ai consiglieri che hanno qualche incarico, cioè presidente, vicepresidente e componenti dell' ufficio dei presidenza, i capi del gruppi e i presidenti di commissione. «Soltanto» si fa per dire: perché sono 27 su 60, poco meno della metà di tutti quanti. Non erano al corrente, certamente, dei dettagli. Ma a pensare che credessero di vivere sul pianeta Papalla si farebbe un torto alla loro intelligenza. Ognuno di loro, del resto, prende una busta paga a fine mese e sa quello che c' è dentro: 4.500 euro netti più rimborsi spese che possono arrivare a 6.472 euro. Totale, 10.972 euro. Dieci mesi di stipendio di un operaio. Per non parlare degli alti papaveri. Fra indennità e rimborsi il presidente del Consiglio della Campania, carica attualmente ricoperta da Paolo Romano del Popolo della libertà, può arrivare anche a 12.388 euro al mese. Certo, secondo gli ultimi dati contenuti nel sito parlamentiregionali.it i suoi colleghi della Sicilia (14.329 euro), della Calabria (13.353) e del Lazio (12.548) guadagnano qualcosina in più. Ma ce n' è in ogni caso abbastanza anche per comprarsi il frigobar. Eventualità che non è stata però nemmeno presa lontanamente in considerazione. Del resto, cosa volete che siano 27 Ipad o altrettanti frigobar nel mare magno delle spese del Consiglio regionale campano? Un carrozzone con 500 dipendenti per 60 consiglieri, con un rapporto di oltre otto a uno. Per capirci, alla Camera dei deputati quel rapporto è di tre a uno. Idem al Senato. Cinquecento, e tutti entrati per distacco da altre amministrazioni pubbliche o società controllate da enti locali, distacchi poi sanati con leggine regionali. Per quarant' anni non è mai stato fatto un concorso per reclutare i dipendenti del Consiglio regionale campano, nonostante la Costituzione stabilisca che nella pubblica amministrazione si possa entrare soltanto dopo averne superato uno. Per onestà va detto che la Regione Campania è in buona compagnia. Con una spesa nettamente superiore alla somma dei bilanci di Montecitorio e palazzo Madama, i consigli regionali rappresentano una fetta decisamente importante dei costi della politica. Anche se è quella sulla quale mai si è intervenuto come si sarebbe dovuto fare per rispetto ai cittadini che pagano le tasse. Qualche caso? L' assemblea regionale siciliana ha 90 consiglieri: il 50% in più rispetto alla Campania, regione che ha una popolazione superiore del 15% a quella della Sicilia. Novanta consiglieri sono dieci più anche della Lombardia, dove i residenti sono addirittura il doppio della Sicilia. Ciascuno di loro, per giunta, ha un costo medio superiore a quello di un senatore. La Calabria ha 50 consiglieri regionali, dieci in meno della Campania, pur avendo circa un terzo della sua popolazione. Il consiglio ha un numero di dipendenti che si aggira intorno ai 350. Con un rapporto, anche qui, nettamente squilibrato rispetto alla Camera e al Senato: sette a uno. Che dire poi del Lazio? Prima delle ultime elezioni, il consiglio uscente ha approvato un bilancio che ha previsto per il 2010 un incremento delle spese dell' 8,1%. Sei volte l' inflazione. Sergio Rizzo RIPRODUZIONE RISERVATA Pubblicato il 16.11.10 13:12 | Permalink| Commenti(0) | Invia il post Condividi http://laderiva.corriere.it/ Titolo: SERGIO RIZZO Attività parlamentare al minimo Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2011, 04:21:51 pm Il bilancio
Da gennaio l'unico iter completato riguarda la conversione del decreto sui rifiuti Attività parlamentare al minimo Solo una legge dall'inizio dell'anno E nel 2010 approvate appena 10 norme proposte da deputati e senatori Riunioni lampo Sempre più brevi i Consigli dei ministri: l'ultimo è durato cinque minuti, la media supera di poco un'ora ROMA - Una sola legge sfornata in quarantaquattro giorni. E non siamo nel bel mezzo della calura estiva o nel pieno della campagna elettorale. Per giunta, non si può certamente dire che sia stato un provvedimento particolarmente impegnativo per il Parlamento: la conversione in legge di un decreto approvato dal governo a novembre dello scorso anno sui rifiuti della Campania. Il bilancio dell'attività legislativa di Camera e Senato dal primo gennaio 2011 è tutto qua. Un vuoto senza precedenti, che difficilmente sarà colmato. Date un'occhiata ai calendari: dopo la sfacchinata dal Milleproroghe, altro provvedimento con targa governativa sul quale i deputati si sono accapigliati nel tentativo di infilarci dentro di tutto, comprese norme maleodoranti come il blocco delle demolizioni delle costruzioni abusive in Campania o l'ennesimo condono edilizio, la Camera ha in programma la discussione di alcune interrogazioni, qualche mozione sonnacchiosa e disegni di legge parlamentari senza alcuna speranza di passare. Basta dire che durante tutto lo scorso anno di proposte non governative ne sono state approvate soltanto dieci. Il minimo storico. Come al minimo storico sono le sedute. Nei 409 giorni trascorsi dal primo gennaio del 2010 l'Aula di Montecitorio si è riunita in 171 occasioni. Ancora più sporadicamente quella di Palazzo Madama. Dove i giorni di seduta sono stati 129. Conosciamo le obiezioni. «L'attività parlamentare non si può limitare alle sedute. Per esempio, ci sono le commissioni...». Vero. Ma a parte la singolarità di certi organismi (nel Parlamento del Paese con le leggi più complicate del mondo c'è da anni anche una commissione per la semplificazione normativa, ed esistono ben due diverse commissioni d'inchiesta sulla sanità pubblica), il loro lavoro dovrebbe sfociare quasi tutto nell'Aula. Per non parlare dei casi in cui le commissioni fanno da tappo, com'è avvenuto in occasione del pareggio sul voto al federalismo. Un imprevedibile effetto degli scossoni politici che hanno investito il centrodestra, certo. Ma pur sempre un bel contributo alla paralisi che stiamo vivendo. La situazione non sarebbe tanto diversa se a votare le leggi fossero soltanto i capigruppo, come ha proposto un paio d'anni fa Silvio Berlusconi («era una provocazione, un paradosso», si corresse poi il premier). Per il semplice fatto che da votare c'è ben poco. Quanto sia ormai profondo il senso di inutilità e frustrazione dalle parti del Parlamento lo dice il clamoroso gesto di un senatore ritenuto rispettabile come Nicola Rossi. Che ha spiegato la sua decisione di gettare la spugna in questi termini: con questo sistema elettorale i parlamentari sono nominati dai partiti, e non avendo investitura popolare non possono avere indipendenza di giudizio, e senza di questa non si lavora. Stop. Preso atto che tale stato di cose non si può cambiare con un colpo di becchetta magica, non ha potuto fare altro che dimettersi. Non soltanto dal suo partito, con il quale si trovava comunque in dissenso per ragioni politiche, ma dal Senato. Consumando così fino in fondo il divorzio da un Parlamento la cui funzione principale è diventata quella di ratificare leggi preconfezionate a scatola chiusa dagli uffici governativi. Cosa che invece non hanno fatto altri, i quali pure a parole avevano manifestato disagio. Il leghista Matteo Brigandì, per esempio: «Mi dimetto perché non ha più alcun senso fare il parlamentare. Le Camere sono state svuotate di ogni loro funzione. Non hanno più alcun potere di iniziativa legislativa e sono state messe nella condizione di fare solo il notaio del governo», ha dichiarato un giorno. Ma poi è rimasto onorevole fino a quando non è stato nominato dallo stesso parlamento nel Consiglio superiore della magistratura. Per non parlare del recordman assoluto degli assenteisti, Antonio Gaglione, che è sbottato: «Stare in Parlamento è un lavoro frustrante, una perdita di tempo e una violenza contro la persona». Dimettendosi subito dopo dal partito, il Pd. Ma in Parlamento ci è rimasto. Anche la coerenza ha un prezzo: ovviamente inferiore all'appannaggio da deputato che il Nostro continua a intascare. Non che l'attività di governo sia particolarmente più frenetica. Con le energie tutte concentrate a parare i colpi della magistratura che indaga sui festini nelle residenze di Silvio Berlusconi, come dimostrano i recenti propositi di rimettere in cima all'agenda dell'esecutivo il processo breve o il decreto sulle intercettazioni, resta evidentemente poco carburante per altro. A giudicare dalla durata fulminea delle riunioni di Palazzo Chigi, le discussioni sulle questioni di merito dei singoli provvedimenti sono sempre più rapide. L'ultimo Consiglio dei ministri, quello sull'emergenza degli sbarchi a Lampedusa, è durato cinque minuti d'orologio: dalle 13.35 alle 13.40. Il 21 gennaio, per esaminare e approvare una decina di provvedimenti, fra cui quisquilie come il Piano sanitario nazionale e la disciplina degli sfratti, oltre a quindici nomine, ci hanno messo poco più di un'ora. La durata media delle 50 riunioni di governo dal primo gennaio 2010 a oggi è stata di 64 minuti, meno della metà di quella del precedente (e rissoso) esecutivo di centrosinistra. E questo di per sé potrebbe anche non essere un segnale negativo. Se non fosse però che mentre il dibattito interno si fa sempre più flebile, rimangono penosamente al palo progetti e riforme che rappresentavano l'ossatura del programma di governo. Rendendo forse ancora più inutile l'esistenza a Palazzo Chigi, già di per sé sorprendente, di ben due strutture incaricate di seguire il «Programma»: quella del ministro Gianfranco Rotondi e quella del sottosegretario alla Presidenza Daniela Garnero Santanchè. Qualche caso? Il rilancio dell'energia nucleare (in clamoroso ritardo) e il piano casa (un flop gigantesco). Mentre le iniziative per dare «una scossa all'economia», termine coniato dal governo Berlusconi sette anni orsono ma finora senza risultati, sono prigioniere della carenza di risorse economiche, quando non della necessità di recuperare consensi in pericolosa discesa o della mancanza di fantasia, come sta a dimostrare il riciclaggio di vecchie promesse mai decollate. Piani per il Sud, riforme fiscali... E siamo poi sicuri che i tempi di alcune proposte, per esempio la riforma della Costituzione nella parte che riguarda l'impresa, siano compatibili con il fiato corto di questa sedicesima legislatura? Sergio Rizzo 14 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/politica Titolo: SERGIO RIZZO Tasse e Federalismo Tariffe più Care Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2011, 12:18:11 pm I virtuosi in dissesto Gli enti locali
Tasse e Federalismo Tariffe più Care Per recuperare gettito le bollette aumentano il doppio dell’inflazione ROMA - In Italia capita anche questo. Succede che due Comuni praticamente falliti finiscano nell'elenco delle amministrazioni più virtuose, quelle premiate dallo Stato con la possibilità di spendere più soldi rispetto ai limiti ferocemente imposti dal Patto di Stabilità. Possibile che nella lista ci sia anche Catania? La città dove il neosindaco Raffaele Stancanelli, appena eletto a metà 2008, denunciò con le mani tra i capelli un miliardo di debiti nascosti nelle pieghe del bilancio? Dove il suo predecessore era inseguito da torme di creditori di tutte le specie, dai librai cittadini alle ballerine brasiliane? Dove le strade erano al buio perché non erano state pagate le bollette dell'Enel? E dove, per assurdo, il bilancio di quel 2008 appariva talmente in ordine da far guadagnare a Catania un premio da 983.411 euro? Premio, per inciso, negato a città mai censurate per cattiva amministrazione, come Sondrio, Belluno, Asti... Catania come Taranto. Comune dichiarato ufficialmente in dissesto finanziario e sommerso da un debito pazzesco di 616 milioni di euro, dove succedeva davvero di tutto. Perfino che 23 dipendenti, dopo essersi aumentati lo stipendio da soli rubando alle casse municipali 5 milioni, restassero miracolosamente al loro posto. Una città talmente sprofondata nel buco nero dei debiti, che i liquidatori ci hanno messo tre anni per ricostruire la contabilità e pagare i creditori. Con i denari dei contribuenti, naturalmente. Gli stessi quattrini che due anni dopo hanno permesso alla città di incassare un bel «premio» da 1.378.069 euro. Difficile spiegare tutto questo. Una sola cosa è certa: l'elezione diretta di sindaci e governatori e la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta nel 2001 dal centrosinistra, hanno dato agli amministratori locali maggiori poteri, ma non maggiori doveri. Da allora ad oggi metà della spesa pubblica è passata dal centro alla periferia, ma il compito di tassare i contribuenti è rimasto allo Stato, perché Regioni, Comuni e Province sono responsabili solo del 18% delle entrate. La finanza locale, già caotica, è diventata ancora più disordinata. E indebitata, perché mentre montava il caos normativo e istituzionale, da Roma, inseguendo il risanamento dei conti pubblici, hanno cominciato a tagliare i trasferimenti di bilancio. Fatto sta che oggi gli italiani si trovano appesantiti, solo a livello locale, da 45 fra tasse, tributi, canoni, addizionali, compartecipazioni, con la pressione fiscale complessiva che è schizzata nel 2009 al 43,5%, al terzo posto fra i Paesi dell'Ocse. Nonostante le promesse di riduzione e semplificazione che ci sentiamo ripetere da almeno dieci anni. Per raggranellare denaro i sindaci hanno dato sfogo alla fantasia. Alcuni hanno anche rispolverato la «tassa sull'ombra» del 1972, che colpisce «la proiezione sul suolo pubblico di balconi, tende e pensiline». Con le casse sempre più vuote, ma nessuna voglia di incidere sulle spese improduttive, gli enti locali hanno di fatto scaricato sui cittadini i sacrifici imposti dal governo centrale. Aggirando ad esempio il blocco delle addizionali comunali sull'Irpef, in vigore dal 2008, pompando le tariffe. Anche i governi, poi, ci hanno messo del loro. Per esempio con l'abolizione dell'Ici sulla prima casa, l'unica tassa «federalista» vigente in Italia, sacrificata sull'altare dell'ultima campagna elettorale. E pazienza se, come rivelava uno studio dell'Ifel, l'istituto di ricerca dell'Anci, tra il 2004 e il 2009 le tariffe comunali sono cresciute a una media del 3,5% annuo. Il doppio dell'inflazione, con punte stratosferiche per i rifiuti (+29% tra il 2004 e il 2009, e continuano ad aumentare) e i servizi idrici, le cui tariffe crescono in media del 5% l'anno. Dopo l'immondizia e l'acqua, l'ondata dei rincari nel 2010 e in questo primo scorcio del 2011 si è abbattuta su asili nido, mense scolastiche, piscine e impianti sportivi, musei, servizi cimiteriali, trasporto locale. E nel Milleproroghe, appena approvato dal Senato, c'è una nuova sorpresa: tutti i Comuni, anche quelli che non si trovano in emergenza rifiuti, potranno aumentare le tariffe fino a coprire l'intero costo del servizio. Incrociamo le dita. Il caso dell'Ama, che oltre ad essere l'azienda municipalizzata per l'ambiente del Comune di Roma è anche uno straordinario collettore di voti, forse vale per tutti come cattivo esempio di amministrazione. Il bilancio del 2008 si è chiuso con una perdita monstre di 257 milioni di euro. E il 2009 sarebbe stato archiviato con un altro buco di 70 milioni, senza il contributo di 30 milioni erogato dal Comune e l'aumento delle tariffe per ben 40,8 milioni di euro. E tutto questo mentre i crediti verso gli utenti morosi aumentavano, in dodici mesi, di 108 milioni, raggiungendo la cifra astronomica di 623 milioni di euro. La circostanza non ha comunque impedito all'azienda di assumere nuove legioni di dipendenti: 91 nel 2008, 489 nel 2009, 766 nel 2010. Impiegati, netturbini, perfino 164 spalatori di foglie ingaggiati in un colpo solo. Poi, naturalmente, anche parenti e amici dei politici. Per rendersi conto del disordine che regna negli enti locali del nostro Paese, del resto, è sufficiente dare uno sguardo a una tabella elaborata dal senatore del Pd, Marco Stradiotto, componente della Bicamerale sul federalismo, sui dati del ministero dell'Interno. Si scopre, per esempio, che su ogni cittadino di Cosenza grava un costo del personale comunale di 506 euro l'anno: quasi il doppio rispetto a una città poco più grande come Cesena (271 euro), e addirittura il 117% in più nei confronti di Catanzaro (233). Per non parlare delle differenze macroscopiche che ci sono fra Regione e Regione. La Sicilia, con metà dei residenti della Lombardia, sopporta una spesa per il personale regionale nove volte superiore (un miliardo 782 milioni contro 202 milioni). E investe nelle infrastrutture ferroviarie 13,9 milioni l'anno, 57 volte meno della Lombardia (786 milioni). Differenze eclatanti, che danno anche la dimensione dell'assistenzialismo in salsa locale. Il bello è che cominciano a saltare fuori solo adesso. Dopo che i tecnici della Commissione mista tra governo ed enti locali per l'attuazione del federalismo, guidata da Luca Antonini, sono quasi impazziti per riportare su base omogenea i bilanci dei Comuni, dove molte spese sono nascoste dall'esternalizzazione dei servizi, e delle Regioni, scritti in quindici modi diversi. In attesa di quello fiscale, in Italia regna da sempre il federalismo contabile, nel senso che ognuno si fa il bilancio a modo suo. E a nulla sono valsi, finora, i tentativi di mettere un po' d'ordine. Vi siete mai chiesti perché da qualche tempo in qua se un'amministrazione di destra sostituisce una di sinistra, o viceversa, la prima cosa che fa è mettere i libri contabili in mano a un ispettore del Tesoro? Certamente per scaricarsi delle responsabilità dei predecessori. Ma anche perché i bilanci sono così complicati e poco trasparenti che dentro ci si può nascondere di tutto. Dalla due diligence eseguita dalla Ragioneria generale dello Stato sui conti della Campania, richiesta dall'attuale governatore Stefano Caldoro, sono saltati fuori «bilanci di previsione fortemente sovradimensionati rispetto al reale andamento degli impegni, e pagamenti ancora più incoerenti». Per dire poi come sia possibile piegare i bilanci a ogni esigenza, la Regione, allora guidata da Antonio Bassolino, ha pagato spese che non potevano essere coperte facendosi prestare i soldi dalle banche. Come la manutenzione dei boschi (210 milioni), oppure il servizio di «monitoraggio» (21 milioni) del patrimonio forestale alla Sma Campania, società partecipata dalla Regione che aveva assunto 568 lavoratori socialmente utili. Le cose non vanno meglio con i bilanci dei Comuni. Nell'estate del 2010 la Corte dei conti ha trovato in quello di Foggia cose turche. Non esisteva un inventario dei beni comunali, ma in compenso c'era un contenzioso civile devastante, con decreti ingiuntivi per 30 milioni. Nel bilancio erano contabilizzate come residui «attivi» somme impossibili da incassare. Insomma, una baraonda totale. I decreti attuativi sul federalismo fiscale ora promettono di metterci una pezza, imponendo l'omogeneità dei bilanci. Ma non a tutti, perché per le Regioni a statuto speciale le regole sono dettate dagli Statuti, che hanno rilevanza costituzionale. Dietro l'angolo si profilano altre insidie, ma non si può che partire da qua. Facendo ordine nel caos dei numeri, mettendo al bando con la trasparenza i giochi di prestigio degli amministratori furbacchioni. Poi toccherà ai cosiddetti «fabbisogni standard», che dovrebbero far superare il principio della «spesa storica», grazie al quale vengono premiate le amministrazioni più spendaccione. Di che cosa si tratta? Si stabilisce sulla base di parametri economici e territoriali qual è il costo efficiente di un servizio: la polizia locale, l'asilo nido, l'impianto sportivo... Chi vuole spendere di più si arrangi. Dallo Stato non arriverà un euro in più: o si risparmia altrove, o bisognerà aumentare le tasse, e poi rendere conto, ai propri elettori. Ma questo, come vedremo nelle prossime puntate, non è affatto «federalismo». Anche Luca Antonini parla di «razionalizzazione della spesa pubblica». La devolution è un'altra cosa. Anche se ci ostiniamo a chiamarla così. Mario Sensini e Sergio Rizzo 17 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it/economia Titolo: SERGIO RIZZO Tasse e Federalismo Tariffe più Care Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2011, 04:45:58 pm I virtuosi in dissesto Gli enti locali
Tasse e Federalismo Tariffe più Care Per recuperare gettito le bollette aumentano il doppio dell’inflazione ROMA - In Italia capita anche questo. Succede che due Comuni praticamente falliti finiscano nell'elenco delle amministrazioni più virtuose, quelle premiate dallo Stato con la possibilità di spendere più soldi rispetto ai limiti ferocemente imposti dal Patto di Stabilità. Possibile che nella lista ci sia anche Catania? La città dove il neosindaco Raffaele Stancanelli, appena eletto a metà 2008, denunciò con le mani tra i capelli un miliardo di debiti nascosti nelle pieghe del bilancio? Dove il suo predecessore era inseguito da torme di creditori di tutte le specie, dai librai cittadini alle ballerine brasiliane? Dove le strade erano al buio perché non erano state pagate le bollette dell'Enel? E dove, per assurdo, il bilancio di quel 2008 appariva talmente in ordine da far guadagnare a Catania un premio da 983.411 euro? Premio, per inciso, negato a città mai censurate per cattiva amministrazione, come Sondrio, Belluno, Asti... Catania come Taranto. Comune dichiarato ufficialmente in dissesto finanziario e sommerso da un debito pazzesco di 616 milioni di euro, dove succedeva davvero di tutto. Perfino che 23 dipendenti, dopo essersi aumentati lo stipendio da soli rubando alle casse municipali 5 milioni, restassero miracolosamente al loro posto. Una città talmente sprofondata nel buco nero dei debiti, che i liquidatori ci hanno messo tre anni per ricostruire la contabilità e pagare i creditori. Con i denari dei contribuenti, naturalmente. Gli stessi quattrini che due anni dopo hanno permesso alla città di incassare un bel «premio» da 1.378.069 euro. Difficile spiegare tutto questo. Una sola cosa è certa: l'elezione diretta di sindaci e governatori e la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta nel 2001 dal centrosinistra, hanno dato agli amministratori locali maggiori poteri, ma non maggiori doveri. Da allora ad oggi metà della spesa pubblica è passata dal centro alla periferia, ma il compito di tassare i contribuenti è rimasto allo Stato, perché Regioni, Comuni e Province sono responsabili solo del 18% delle entrate. La finanza locale, già caotica, è diventata ancora più disordinata. E indebitata, perché mentre montava il caos normativo e istituzionale, da Roma, inseguendo il risanamento dei conti pubblici, hanno cominciato a tagliare i trasferimenti di bilancio. Fatto sta che oggi gli italiani si trovano appesantiti, solo a livello locale, da 45 fra tasse, tributi, canoni, addizionali, compartecipazioni, con la pressione fiscale complessiva che è schizzata nel 2009 al 43,5%, al terzo posto fra i Paesi dell'Ocse. Nonostante le promesse di riduzione e semplificazione che ci sentiamo ripetere da almeno dieci anni. Per raggranellare denaro i sindaci hanno dato sfogo alla fantasia. Alcuni hanno anche rispolverato la «tassa sull'ombra» del 1972, che colpisce «la proiezione sul suolo pubblico di balconi, tende e pensiline». Con le casse sempre più vuote, ma nessuna voglia di incidere sulle spese improduttive, gli enti locali hanno di fatto scaricato sui cittadini i sacrifici imposti dal governo centrale. Aggirando ad esempio il blocco delle addizionali comunali sull'Irpef, in vigore dal 2008, pompando le tariffe. Anche i governi, poi, ci hanno messo del loro. Per esempio con l'abolizione dell'Ici sulla prima casa, l'unica tassa «federalista» vigente in Italia, sacrificata sull'altare dell'ultima campagna elettorale. E pazienza se, come rivelava uno studio dell'Ifel, l'istituto di ricerca dell'Anci, tra il 2004 e il 2009 le tariffe comunali sono cresciute a una media del 3,5% annuo. Il doppio dell'inflazione, con punte stratosferiche per i rifiuti (+29% tra il 2004 e il 2009, e continuano ad aumentare) e i servizi idrici, le cui tariffe crescono in media del 5% l'anno. Dopo l'immondizia e l'acqua, l'ondata dei rincari nel 2010 e in questo primo scorcio del 2011 si è abbattuta su asili nido, mense scolastiche, piscine e impianti sportivi, musei, servizi cimiteriali, trasporto locale. E nel Milleproroghe, appena approvato dal Senato, c'è una nuova sorpresa: tutti i Comuni, anche quelli che non si trovano in emergenza rifiuti, potranno aumentare le tariffe fino a coprire l'intero costo del servizio. Incrociamo le dita. Il caso dell'Ama, che oltre ad essere l'azienda municipalizzata per l'ambiente del Comune di Roma è anche uno straordinario collettore di voti, forse vale per tutti come cattivo esempio di amministrazione. Il bilancio del 2008 si è chiuso con una perdita monstre di 257 milioni di euro. E il 2009 sarebbe stato archiviato con un altro buco di 70 milioni, senza il contributo di 30 milioni erogato dal Comune e l'aumento delle tariffe per ben 40,8 milioni di euro. E tutto questo mentre i crediti verso gli utenti morosi aumentavano, in dodici mesi, di 108 milioni, raggiungendo la cifra astronomica di 623 milioni di euro. La circostanza non ha comunque impedito all'azienda di assumere nuove legioni di dipendenti: 91 nel 2008, 489 nel 2009, 766 nel 2010. Impiegati, netturbini, perfino 164 spalatori di foglie ingaggiati in un colpo solo. Poi, naturalmente, anche parenti e amici dei politici. Per rendersi conto del disordine che regna negli enti locali del nostro Paese, del resto, è sufficiente dare uno sguardo a una tabella elaborata dal senatore del Pd, Marco Stradiotto, componente della Bicamerale sul federalismo, sui dati del ministero dell'Interno. Si scopre, per esempio, che su ogni cittadino di Cosenza grava un costo del personale comunale di 506 euro l'anno: quasi il doppio rispetto a una città poco più grande come Cesena (271 euro), e addirittura il 117% in più nei confronti di Catanzaro (233). Per non parlare delle differenze macroscopiche che ci sono fra Regione e Regione. La Sicilia, con metà dei residenti della Lombardia, sopporta una spesa per il personale regionale nove volte superiore (un miliardo 782 milioni contro 202 milioni). E investe nelle infrastrutture ferroviarie 13,9 milioni l'anno, 57 volte meno della Lombardia (786 milioni). Differenze eclatanti, che danno anche la dimensione dell'assistenzialismo in salsa locale. Il bello è che cominciano a saltare fuori solo adesso. Dopo che i tecnici della Commissione mista tra governo ed enti locali per l'attuazione del federalismo, guidata da Luca Antonini, sono quasi impazziti per riportare su base omogenea i bilanci dei Comuni, dove molte spese sono nascoste dall'esternalizzazione dei servizi, e delle Regioni, scritti in quindici modi diversi. In attesa di quello fiscale, in Italia regna da sempre il federalismo contabile, nel senso che ognuno si fa il bilancio a modo suo. E a nulla sono valsi, finora, i tentativi di mettere un po' d'ordine. Vi siete mai chiesti perché da qualche tempo in qua se un'amministrazione di destra sostituisce una di sinistra, o viceversa, la prima cosa che fa è mettere i libri contabili in mano a un ispettore del Tesoro? Certamente per scaricarsi delle responsabilità dei predecessori. Ma anche perché i bilanci sono così complicati e poco trasparenti che dentro ci si può nascondere di tutto. Dalla due diligence eseguita dalla Ragioneria generale dello Stato sui conti della Campania, richiesta dall'attuale governatore Stefano Caldoro, sono saltati fuori «bilanci di previsione fortemente sovradimensionati rispetto al reale andamento degli impegni, e pagamenti ancora più incoerenti». Per dire poi come sia possibile piegare i bilanci a ogni esigenza, la Regione, allora guidata da Antonio Bassolino, ha pagato spese che non potevano essere coperte facendosi prestare i soldi dalle banche. Come la manutenzione dei boschi (210 milioni), oppure il servizio di «monitoraggio» (21 milioni) del patrimonio forestale alla Sma Campania, società partecipata dalla Regione che aveva assunto 568 lavoratori socialmente utili. Le cose non vanno meglio con i bilanci dei Comuni. Nell'estate del 2010 la Corte dei conti ha trovato in quello di Foggia cose turche. Non esisteva un inventario dei beni comunali, ma in compenso c'era un contenzioso civile devastante, con decreti ingiuntivi per 30 milioni. Nel bilancio erano contabilizzate come residui «attivi» somme impossibili da incassare. Insomma, una baraonda totale. I decreti attuativi sul federalismo fiscale ora promettono di metterci una pezza, imponendo l'omogeneità dei bilanci. Ma non a tutti, perché per le Regioni a statuto speciale le regole sono dettate dagli Statuti, che hanno rilevanza costituzionale. Dietro l'angolo si profilano altre insidie, ma non si può che partire da qua. Facendo ordine nel caos dei numeri, mettendo al bando con la trasparenza i giochi di prestigio degli amministratori furbacchioni. Poi toccherà ai cosiddetti «fabbisogni standard», che dovrebbero far superare il principio della «spesa storica», grazie al quale vengono premiate le amministrazioni più spendaccione. Di che cosa si tratta? Si stabilisce sulla base di parametri economici e territoriali qual è il costo efficiente di un servizio: la polizia locale, l'asilo nido, l'impianto sportivo... Chi vuole spendere di più si arrangi. Dallo Stato non arriverà un euro in più: o si risparmia altrove, o bisognerà aumentare le tasse, e poi rendere conto, ai propri elettori. Ma questo, come vedremo nelle prossime puntate, non è affatto «federalismo». Anche Luca Antonini parla di «razionalizzazione della spesa pubblica». La devolution è un'altra cosa. Anche se ci ostiniamo a chiamarla così. Mario Sensini e Sergio Rizzo 17 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it/economia Titolo: SERGIO RIZZO Pale eoliche e pannelli solari sui tetti, la corsa (costosa) ... Inserito da: Admin - Marzo 03, 2011, 03:13:26 pm Il dossier
Pale eoliche e pannelli solari sui tetti, la corsa (costosa) all'energia rinnovabile Richieste per 130 mila megawatt, più di tutte le centrali costruite in cento anni ROMA - Il conto alla rovescia è cominciato già da qualche settimana, quando è stato chiaro che da un giorno all'altro, improvvisamente, poteva finire la pacchia. Quel giorno si stava pericolosamente avvicinando. Tremavano in migliaia. Tremavano le imprese che avevano costruito autentiche fortune. Tremavano le 20 mila persone che ruotano intorno a quel business. Tremavano perfino le banche, che avevano trovato nei finanziamenti alle fonti rinnovabili una lucrosa alternativa al credito tradizionale, azzannato dalla crisi. È successo che lo scorso anno si è deciso di mettere un limite agli incentivi concessi per realizzare impianti fotovoltaici. Incentivi che, per dirla con l'Authority, sono fra i «più profittevoli al mondo». Un assaggio: mentre il costo medio dell'energia in Italia si aggira sui 60-70 euro al megawattora, chi produce elettricità con il fotovoltaico intasca ancora oggi fino a 402 euro. Vi chiederete: chi paga? Ovviamente gli utenti. Gli incentivi finiscono per gravare sulla bolletta. E sono così grandi da aver generato una ubriacatura generale, di cui fa le spese l'intero sistema. Basti pensare che negli ultimi quattro anni sono state presentate domande di impianti alternativi per 130 mila Megawatt, a fronte di una potenza elettrica installata, nel corso dell'ultimo secolo, di 105 mila Megawatt. Una quantità assurda, che la nostra rete non potrebbe mai sopportare. Ma nel frattempo gli investitori prenotano le connessioni, anche se poi non produrranno un chilowattora. Tanto non costa nulla. Per scoraggiare i buontemponi l'Autorità per l'energia aveva decretato l'obbligo di fideiussioni bancarie che sarebbero state escusse nel caso di mancata realizzazione degli impianti. Ma il Tar ha sospeso tutto: e ti pareva? La corsa al pannello è stata così frenetica che quest'anno gli utenti dovranno pagare, fra maggiore costo della bolletta e quant'altro, una sovrattassa di 5,7 miliardi di euro per le energie alternative. Di cui soltanto 3 miliardi per il solo fotovoltaico. Nel solo 2009 se l'elettricità prodotta con fonti rinnovabili è salita del 13% e l'eolico è cresciuto del 35%, gli impianti solari hanno registrato un balzo clamoroso: +418%. Ecco perché nel 2010 si è stabilito un tetto. Una volta raggiunta la soglia di 8 mila Megawatt di potenza installata, stop. Gli incentivi sarebbero finiti. Il fatto è che per raggiungere quel limite ci sarebbe stato tempo fino al 2020, ma l'accelerazione che si è registrata negli ultimi tempi, legata anche al fatto che gli incentivi decrescono man mano che passa il tempo, ha fatto bruciare le tappe. E sarebbe stata solo questione di mesi. Secondo l'autorità per l'energia sarebbero stati già installati, al 31 dicembre 2010, 6.500 Megawatt. Ma stime di Alessandro Clerici, presidente del gruppo di studio del World Energy Council su «Risorse energetiche e tecnologiche» dicono che dovremmo essere già a 7.400 Megawatt. Per giunta avrebbe regnato l'incertezza più totale. Nei prossimi giorni dovrebbe essere pronto un nuovo decreto del governo per razionalizzare l'intera materia. E proprio lì c'è la soluzione al problema. Naturalmente al netto delle divergenze di opinioni che già si sono manifestate all'interno dell'esecutivo, perché un punto fermo sarebbe stato già acquisito: quel tetto di 8.000 megawatt non esiste più. Abbiamo scherzato. Per quel che ne sappiamo, inoltre, il provvedimento dovrebbe abolire il meccanismo dei certificati verdi, sistema con il quale sono incentivati anche gli impianti eolici. Di che cosa si tratta? Sono veri e propri titoli che si vendono e si comprano alla borsa elettrica. Mediamente valgono 80 euro a Megawattora, cui si aggiungono i soldi che il produttore incassa per l'energia messa in rete. Il decreto dovrebbe poi prevedere una barriera dimensionale degli impianti fotovoltaici (5 Megawatt), al di sopra della quale per accedere agli incentivi sarebbe necessaria una gara. Più o meno come in Francia. Piccolo particolare, sul livello dei futuri incentivi è buio totale. Quelli dovranno essere stabiliti con successivi decreti dai singoli ministeri: certo ne vedremo delle belle. Normale, per un Paese dove si passa facilmente da un estremo all'altro. E può davvero accadere di tutto. Il cosiddetto provvedimento Cip 6 del 1992, per esempio. Dopo la vittoria dei Sì al referendum antinucleare del 1987 venne stabilito di incentivare la produzione di energie rinnovabili. Ma al dunque una manina probabilmente indirizzata dai petrolieri aggiunse due paroline «e assimilate» che stravolsero il principio, aprendo la porta dei ricchi incentivi perfino agli scarti inquinantissimi delle raffinerie. Risultato, soltanto dal 2001 al 2010 il Cip 6 è costato agli utenti 22,8 miliardi di euro, per almeno metà finiti a chi produceva con combustibili fossili. Si sperava che la pacchia finisse subito dopo che l'Unione Europea aveva fissato l'obiettivo secondo il quale entro il 2020 il 17% di tutti i consumi energetici dovrebbe essere soddisfatto con fonti rinnovabili. Ma c'erano i vecchi contratti in essere. E a questi si sono aggiunti i nuovi superincentivi necessari, si diceva, per centrare l'obiettivo continentale. Peccato che siano superiori in media anche dell'80% a quelli concessi dagli altri Paesi europei, come ha dimostrato sul Corriere Massimo Mucchetti. Come risultato, l'Italia si è riempita in pochi anni di impianti fotovoltaici. E non soltanto sui tetti delle case, dove c'è circa metà della potenza installata. I pannelli hanno invaso pure il territorio. Del 295 Megawatt operativi in Puglia, 239 sono prodotti da 497 impianti collocati su 358 ettari di terreni agricoli. Per non parlare delle pale eoliche, diventate l'ossessione degli ambientalisti. Grazie a un sistema assurdo di incentivazione hanno finito per metterle anche dove tira una leggera brezza. Con la scusa poi delle carenze nella trasmissione, è stato previsto una specie di indennizzo di «mancata produzione» dovuta alla impossibilità di immettere l'elettricità nella rete. Nel 2009 sono stati pagati ai produttori 12,5 milioni. La verità è che le reti sono frequentemente sature non solo per ragioni strutturali, ma anche a causa dell'offerta elevatissima. La dimostrazione sta nella somma enorme che il Gestore dei servizi energetici (la società pubblica a cui fa capo la Borsa elettrica) paga per acquistare i «certificati verdi» invenduti: 940 milioni nel 2010, forse 1,4 miliardi quest'anno. Va da sé che con tutti questi soldi in ballo l'affare delle energie alternative ha attirato speculatori, faccendieri, e truffatori. Romani ha raccontato in una lettera al Corriere che a dicembre in Puglia un impianto aveva comunicato l'entrata in funzione di 8 Megawatt, ma quando i tecnici del ministero sono andati a fare una verifica, non hanno trovato che pannelli per 40 Kilowatt: 200 volte meno della potenza dichiarata. Per non parlare dell'offensiva delle organizzazioni criminali, dalla Sardegna alla Sicilia alla Puglia, partita dall'eolico e ora approdata all'energia solare. Durante una trasmissione di Radio 24 il magistrato della Procura antimafia Maurizio De Lucia ha azzardato il paragone con il sacco di Palermo. Un caso? Nella sola provincia di Siracusa la Finanza ha sequestrato impianti fotovoltaici mai entrati in funzione e ammessi a incentivi per 10 milioni di euro. Sergio Rizzo 03 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/economia Titolo: SERGIO RIZZO Il Nucleare e Noi Inserito da: Admin - Marzo 14, 2011, 12:19:58 pm Il Nucleare e Noi
Sarebbe sbagliato sottovalutare quello che sta accadendo alle centrali atomiche in Giappone, Paese che 65 anni fa ha già visto in faccia lo spettro dell'olocausto nucleare. Quello di Fukushima è uno dei più gravi incidenti che si ricordino. E non ne attenua la gravità il fatto che non sia stato causato dall'imprudenza umana, come a Chernobyl, né da un'avaria, come a Three Mile Island, ma da un terremoto devastante. Una prova ancora più tremenda di quante questa orgogliosa nazione ha dovuto affrontare nella sua storia, rialzandosi sempre. C'è stato chi, magari confortato dai 10 mila chilometri di distanza, ha detto che alle nostre future sicurissime centrali non potrà succedere. L'impianto di Fukushima è vecchio. E poi in Italia ci sono siti sicuri al riparo dai terremoti. Tutto vero. Resta il fatto che l'opinione pubblica ha il diritto di sapere che cosa si sta davvero rischiando. Senza reticenze. Al tempo stesso siamo convinti che non possa essere la comprensibile emotività suscitata da quella tragedia a determinare scelte fondamentali di politica energetica. L'abbiamo già fatto e ne siamo rimasti scottati. Il referendum antinucleare del 1987 passò con una maggioranza schiacciante per l'impressione suscitata da Chernobyl. Nessun partito, eccetto il repubblicano, osò sfidare l'impopolarità. Promisero che mettendo al bando l'atomo avremmo imboccato la via dell'energia pulita: siamo invece diventati il Paese europeo più inquinante, più dipendente dagli sceicchi e con le bollette più care. Finché, dopo aver riempito le tasche dei petrolieri, ci si è accorti che la Germania produceva 70 volte più energia solare dell'Italia, rimasta penosamente al palo nel campo delle rinnovabili. E per recuperare terreno abbiamo concesso incentivi fin troppo generosi a chi le produceva. Salvo poi chiudere i rubinetti dalla sera alla mattina. Così la stessa maggioranza che per cinque anni al governo si era ben guardata dall'avviare la pratica (ricordate il ministro Marzano? «Da noi non ci sono le condizioni per riaprire il discorso del nucleare», disse nel maggio 2001) l'ha scoperta priorità nel 2008. Giusto in tempo per le elezioni. Eppure oggi l'Agenzia per la sicurezza non ha ancora una sede e i suoi componenti, ha confessato il presidente Umberto Veronesi, s'incontrano al bar. Come stupirsi se da vent'anni aspettiamo inutilmente un piano energetico nazionale che dica come alimenteremo fabbriche, treni e frigoriferi nel futuro? Siamo il Paese dei controsensi, del tutto e del niente. Dove ogni decisione importante non viene presa in base a disegni strategici. Bensì sull'onda di un'emozione, di polemiche o interessi particolari. Anche se si tratta di scelte destinate a cambiare la vita dei nostri figli e nipoti. Sergio Rizzo 14 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali Titolo: SERGIO RIZZO - Saltano (di nascosto) i tagli alla politica Inserito da: Admin - Marzo 26, 2011, 11:56:58 am Il caso -
Dopo meno di un anno torna l'indennità per chi è eletto nelle circoscrizioni. Saltano (di nascosto) i tagli alla politica Nel decreto sul Fus scompare la riduzione dei consiglieri di Roma e Milano. L'«attenzione» del Colle Il precedente Il Quirinale si era già espresso contro l'alleggerimento delle assemblee delle grandi città e la norma era stata tolta ROMA - Trasudavano indignazione, le parole di Marco Marsilio: «Pretendere che lavorino gratis o rimettendoci di tasca loro significa allontanare i cittadini onesti e normali dalla politica e dalle istituzioni». Il deputato del Pdl ce l'aveva con la manovra economica di Giulio Tremonti che aveva abolito le indennità dei consiglieri circoscrizionali. Un segnale inequivocabile che tutti, in un momento di difficoltà economica, avrebbero dovuto stringere di un buco la cinghia. Ma scarsamente digeribile. «Ricordo che a Roma ognuno dei 19 municipi è esteso come Milano e abitato da una città come Bologna», insisteva Marsilio. Ma il suo grido di dolore non intenerì Tremonti. È durata poco: sei mesi dopo è arrivato il primo gesto riparatore. Nel silenzio più totale, con una norma infilata in uno degli ultimi provvedimenti, l'indennità è stata ripristinata, per il sollievo dei consiglieri circoscrizionali delle quindici città metropolitane. Poi, mercoledì 23 marzo, un secondo regaluccio. Ma questa volta soltanto per il Comune di Roma. Nello stesso decreto legge che con l'aumento della benzina ha restituito un po' di soldi al Fondo unico per lo spettacolo è spuntata una norma piccola piccola che triplica il numero di ore di permesso retribuito ai consiglieri circoscrizionali di Roma, portandole da un quarto di quelle spettanti ai consiglieri comunali a tre quarti. Cosa significa? Che se prima un consigliere circoscrizionale poteva assentarsi dal posto di lavoro per un'ora al giorno, oggi può ritornare dopo tre ore. E il costo relativo viene addebitato dal suo datore di lavoro al Comune. Come si motiva un privilegio che costringerà il Campidoglio a spendere il triplo? Con il fatto che Roma è «capitale»: ragion per cui i consiglieri circoscrizionali sarebbero più impegnati dei loro colleghi di Milano, Palermo o Genova. Difficile, per non dire impossibile, non intravedere in questa misura a dir poco singolare l'impronta digitale del sindaco di Roma Gianni Alemanno. Al quale non sarà certamente dispiaciuta una seconda sorpresa contenuta nel decreto di mercoledì. Si tratta dell'articolo con il quale viene stabilito che il taglio del 20% del numero dei consiglieri comunali deciso l'anno scorso ed entrato in vigore dal primo gennaio 2011 non si applica alle città con una popolazione superiore al milione di abitanti. Cioè Roma e Milano, entrambe amministrate dal centrodestra. Per un soffio (circa 30 mila abitanti) il Comune di Napoli, guidato dal centrosinistra, potrebbe invece essere fuori. Roma e Milano non saranno quindi costrette a ridurre da 60 a 48 componenti i loro consigli comunali e potranno avere fino a 15 assessori. Più il sindaco, naturalmente. Dice il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni: «Siamo alle solite. Anche stavolta non hanno mantenuto la parola. Ogni volta che c'e da tagliare sui costi della politica si rimangiano la parola. Il risultato è che aumentano pure le tasse per i cittadini. Una vergogna». Va detto che il tentativo di salvare una trentina di poltrone nelle due città più grandi del Paese non è una novità assoluta. La norma era stata già infilata di soppiatto nel famoso decreto milleproroghe approvato un mese fa. Poi però era improvvisamente saltata: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva imposto che venisse rimossa dal testo definitivo. La motivazione ufficiale? Lo stop alla cura dimagrante dei consigli comunali di Roma e Milano (e magari Napoli?) c'entrava come i cavoli a merenda con la materia di quel provvedimento, destinato a reiterare delle scadenze risultate impossibili da rispettare. Una motivazione che però doveva nascondere qualche perplessità ben più profonda, se il Quirinale ha messo un'altra volta sotto stretta osservazione il salvataggio di quelle poltrone: la cui urgenza, evidentemente tale secondo il governo da richiedere addirittura l'inserimento in un decreto legge nel quale si parla di tutt'altro, è davvero arduo giustificare. Senza considerare, poi, una questione di rispetto istituzionale. Il Quirinale chiede di togliere una norma da un decreto legge e nemmeno quattro settimane più tardi Napolitano se la ritrova sotto il naso in un altro decreto legge? Non sarebbe sorprendente se anche questo aspetto della vicenda venisse considerato inaccettabile. Sergio Rizzo © RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/politica/11_marzo_25/ 25 marzo 2011 Titolo: SERGIO RIZZO Camera e Senato, i nuovi sprechi Inserito da: Admin - Maggio 10, 2011, 10:37:19 pm Si pensa a redazioni e programmi Rassegna stampa
L'idea di «Parlamento channel» Camera e Senato, i nuovi sprechi Trattative con la Rai per due televisioni con tecnologia digitale ROMA - Che di questi tempi l'immagine del Parlamento italiano sia un poco appannata non è una novità. Del resto lo fanno capire senza reticenze i suoi stessi inquilini. Qualche mese fa il presidente della Camera Gianfranco Fini si è lamentato che ormai l'attività è ridotta all'osso con i deputati che arrivano a Roma il martedì e ripartono il giovedì, mentre il premier Silvio Berlusconi è arrivato a proporre per evitare sterili lungaggini di far votare i soli capogruppo. «Le assemblee pletoriche - ha chiosato - sono assolutamente inutili e addirittura controproducenti. Pensate che ci sono 630 parlamentari quando ne basterebbero 100». Cosa c'è allora di meglio, per risollevare la reputazione della nostra politica nella quale apparire è quasi tutto, di un bel canale televisivo? Anzi, due canali. Uno per la Camera e uno per il Senato. Direte: è uno scherzo. Niente affatto. Quel progetto esiste da tempo e ora, grazie al digitale terrestre, sta entrando nella fase concreta. Da qualche giorno a Montecitorio, dove gli esperti di comunicazione non mancano davvero, si è sentito il bisogno di ingaggiare per la bisogna anche un consulente esterno. Si chiama Pino Caiola: in passato ha lavorato a Telepiù, è stato il responsabile della comunicazione del gruppo parlamentare di Forza Italia e più recentemente portavoce del ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito. Collaborerà con la commissione interna incaricata di seguire le questioni della comunicazione, affidata al vicepresidente Maurizio Lupi, che si occupa anche delle faccende relative all'etere. Palazzo Madama ha invece una struttura dedicata specificamente all'argomento. È il «Comitato per lo sviluppo della comunicazione radiotelevisiva del Senato» costituito già nel luglio del 2009 dal consiglio di presidenza, del quale fanno parte il questore Benedetto Adragna, la vicepresidente Emma Bonino, e poi i senatori Alessio Butti, Silvana Amati, Paolo Franco e Lucio Malan. Le trattative con la Rai, che dovrebbe fornire la piattaforma tecnologica, procedono sulla base di varie opzioni, non esclusa quella di un canale comune per le due Camere. Forse la meno insensata (pure ammettendo che tutto ciò possa avere un senso) ma certo la meno praticabile. Il capo ufficio stampa della Camera Giuseppe Leone si dice sicuro che il tema sarà oggetto di consultazioni fra Montecitorio e Palazzo Madama. Resta il fatto che l'ipotesi di un unico «Parlamento channel», con Camera e Senato gelosissimi delle rispettive prerogative, che hanno impiegato anni soltanto per aprire una porta fra le loro due biblioteche, sembra piuttosto remota. A chi toccherebbe il direttore? E i dirigenti, in che modo verrebbero scelti? Senza entrare nel merito del palinsesto: chi ne avrebbe la responsabilità, e come potrebbe conciliare le rispettive esigenze? Domande certamente cruciali. Anche se ancora prima di queste ce ne sarebbe una fondamentale: il nostro Parlamento non ha niente di più utile da fare che pensare a una rete televisiva? A che cosa servirebbe, o meglio «servirebbero», visto che potrebbero essere addirittura due? E poi, a parte le ovvie considerazioni sull'audience, la Camera e il Senato forse non hanno già le proprie tivù? Da anni trasmettono su Internet e sul satellite la diretta delle sedute, con una spesa non proprio trascurabile. L'affitto dalla Rai della sola frequenza satellitare costa 395 mila euro l'anno alla Camera e 384.000 al Senato. Poi ci sono 30 mila euro circa per la web tivù, le spese per i dipendenti, l'elettricità, le attrezzature... Somme destinate a moltiplicarsi per svariate volte nel caso in cui andassero in porto i progetti dei nuovi canali digitali terrestri. Stime non ne esistono ancora. Ma che non si sborserebbero bruscolini è intuibile. Si tratterebbe di due reti tv in piena regola, con strutture organizzative, redazioni, programmi... E i costi non sarebbero che uno dei problemi. Si possono solo immaginare le difficoltà di realizzazione nel Paese del manuale Cencelli. Per non parlare del personale necessario. C'è da dire che già adesso gli apparati di comunicazione non sono propriamente esili. Gli uffici stampa di Camera e Senato hanno strutture imponenti. A Montecitorio ci sono un direttore e cinque capiredattori: e poi documentaristi, segretarie e commessi. Per un totale di 35 persone. A Palazzo Madama lo staff della comunicazione, che comprende un capo ufficio e tre vicedirettori, arriva invece a una trentina di unità. Due piccoli eserciti. Numeri che oggi si giustificherebbero, questa è almeno la vulgata, con la singolare situazione della rassegna stampa. Appaltata all'esterno ma di fatto confezionata all'interno. Camera e Senato hanno in essere uno storico contratto «necessitato» (così si definiscono quelli che hanno un fornitore obbligato) con una società specializzata, l'Eco della Stampa, che fornisce ogni giorno per via telematica centinaia di articoli. Un semilavorato poi scremato dagli uffici che provvedono ad assemblare la rassegna vera e propria. Tutto questo con un costo pari a 204 mila euro l'anno per il Senato e 427.000 per la Camera. Per un totale di oltre 630 mila euro. Sergio Rizzo 10 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/politica/11_maggio_10/ Titolo: S. RIZZO - Quei 250 milioni spesi per il ponte di Messina (che non si farà più) Inserito da: Admin - Giugno 27, 2011, 09:58:14 am Infrastrutture
La società va avanti: via all'esame del progetto definitivo Quei 250 milioni spesi per il ponte di Messina (che non si farà più) La crisi, il no della Lega. E l'opera non parte ROMA - «Costruiremo il ponte di Messina, così se uno ha un grande amore dall'altra parte dello Stretto, potrà andarci anche alle quattro di notte, senza aspettare i traghetti...» Da quando Silvio Berlusconi ha pronunciato queste parole, era l'8 maggio 2005, sono trascorsi sei anni, e gli amanti siciliani e calabresi sono ancora costretti a fare la fila al traghetto fra Scilla e Cariddi. Sul ponte passeranno forse i loro pronipoti. Se saranno, o meno, fortunati (questo però dipende dai punti di vista). La storia infinita di questa «meraviglia del mondo», meraviglia finora soltanto a parole, è nota, ma vale la pena di riassumerla. Del fantomatico ponte sullo Stretto di Messina si parla da secoli. Per limitarci al dopoguerra, la prima mossa concreta è un concorso per idee del 1969. Due anni dopo il parlamento approva una legge per l'attraversamento stabile dello Stretto. Quindi, dieci anni più tardi, viene costituita una società, la Stretto di Messina, controllata dall'Iri e affidata al visionario Gianfranco Gilardini. Che ce la mette tutta. Coinvolge i migliori progettisti, e per convincere gli oppositori arriva a far dimostrare che il ponte potrebbe resistere anche alla bomba atomica. Passerà a miglior vita senza veder nascere la sua creatura. La quale, nel frattempo, è diventata un formidabile strumento di propaganda. Ma anche un oggetto di scontro politico: mai un ponte, che per definizione dovrebbe unire, ha diviso così tanto. Da una parte chi sostiene che sarebbe un formidabile volano per la ripresa del Mezzogiorno, se non addirittura una sensazionale attrazione turistica, dall'altra chi lo giudica una nuova cattedrale nel deserto che deturperà irrimediabilmente uno dei luoghi più belli del pianeta. Fra gli strali degli ambientalisti, Bettino Craxi ci fa la campagna elettorale del 1992. E i figli del leader socialista, Bobo e Stefania, proporranno in seguito di intestarlo a lui. Mentre l'ex presidente della Regione Calabria Giuseppe Nisticò avrebbe voluto chiamarlo Ponte «Carlo Magno» attribuendo il progetto di unire Scilla e Cariddi al fondatore del Sacro Romano Impero. Nientemeno. Finché, per farla breve, arriva nel 2001 il governo Berlusconi con la sua legge obiettivo. Ma nemmeno quella serve a far decollare il ponte. Dopo cinque anni si arriva faticosamente a un passo dall'apertura dei cantieri, con l'affidamento dell'opera (fra polemiche e ricorsi) a un general contractor, l'Eurolink, di cui è azionista di riferimento Impregilo. Quando però cambia la maggioranza. Siamo nell'estate del 2006 e il ponte finisce su un binario morto. Il governo di centrosinistra vorrebbe addirittura liquidare la società Stretto di Messina, concessionaria dell'opera, ma il ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, sventa la mossa in extremis. Nessuno lo ringrazierà: ma se l'operazione non si blocca il «merito» è suo. Nel 2008 torna dunque Berlusconi e il progetto, a quarant'anni dal suo debutto, riprende vita. Certo, nella maggioranza c'è qualcuno che continua a storcere il naso. Il ponte sullo Stretto di Messina, la Lega Nord di Umberto Bossi proprio non riesce a digerirlo. Ma tant'è. Nonostante le opposizioni interne ed esterne, la cosa va avanti sia pure lentamente. E si arriva finalmente, qualche mese fa, al progetto definitivo. Nel frattempo, sono stati già spesi almeno 250 milioni di euro. Sarebbe niente, per un'opera tanto colossale, se però gli intoppi fossero finiti. Sulla carta, per aprire i cantieri, ora non mancherebbero che poche formalità, come la Conferenza dei servizi con gli enti locali e il bollino del Cipe, il Comitato interministeriale che deve sbloccare tutti i grandi investimenti pubblici. Sempre sulla carta, non sarebbe nemmeno più possibile tornare indietro e dire a Eurolink, come avrebbero voluto fare gli ambientalisti al tempo del precedente governo: «Scusate, abbiamo scherzato». Il contratto infatti è blindato. Revocarlo significherebbe essere costretti a pagare penali stratosferiche. Parliamo di svariate centinaia di milioni. Ma nonostante questo il percorso si è fatto ancora una volta più che mai impervio. Non per colpa dei soliti ambientalisti. Nemmeno a causa della crisi economica, il che potrebbe essere perfino comprensibile. Piuttosto, per questioni politiche. Sia pure mascherate da difficoltà finanziarie. Per dirne una, il «decreto sviluppo» ha materializzato un ostacolo imprevisto e insormontabile. Si è stabilito infatti che le cosiddette «opere compensative», quelle che i Comuni e gli enti locali pretendono per non mettere i bastoni fra le ruote al ponte, non potranno superare il 2% del costo complessivo dell'opera. E considerando che parliamo di 6 e mezzo, forse 7 miliardi di euro, non si potrebbe andare oltre i 130-140 milioni. Una cifra che, rispetto agli 800-900 milioni necessari per le opere già concordate con le amministrazioni locali, fa semplicemente ridere. Bretelle, stazioni ferroviarie, sistemazioni viarie.... Dovranno aspettare: non c'è trippa per gatti. Basta dire che il solo Comune di Messina aveva concordato con la società Stretto lavori per 231 milioni. Fra questi, una strada (la via del Mare) del costo di 65 milioni. Ma soprattutto il depuratore e la rete fognaria a servizio della parte nord della città, che ne è completamente priva: 80,7 milioni di investimento. Adesso, naturalmente, a rischio. Insieme a tutto il resto. Anche perché le opere compensative sono l'unica arma che resta in mano agli enti locali. Portarle a casa, per loro, è questione di vita o di morte. A remare contro c'è poi il clima politico. Dopo la batosta elettorale alle amministrative la Lega Nord, che già di quest'opera faraonica non ne voleva sentire parlare, ha alzato la posta e questa è una difficoltà in più. Fa fede l'avvertimento lanciato dal leghista Giancarlo Gentilini, vicesindaco di Treviso: «La gente non vuole voli pindarici, non è interessata a opere come il ponte sullo Stretto di Messina perché è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Quindi anche tu, Bossi, quando appoggi questi programmi da fantascienza, ricordati piuttosto di restare con i piedi per terra, perché gli alpini mettono un piede dopo l'altro». Con l'aria che tira nella maggioranza basterebbe forse questa specie di «de profundis» che viene dalla pancia del Carroccio per far finire nuovamente il ponte su un binario morto. Senza poi contare quello che è successo in Sicilia. Dove ora c'è un governo regionale aperto al centrosinistra, schieramento politico che al ponte fra Scilla e Cariddi è sempre stato fermamente contrario. Una circostanza che rende estremamente complicato al governatore Raffaele Lombardo spingere sull'acceleratore. E questo nonostante i posti di lavoro che, secondo gli esperti, quell'opera potrebbe garantire. Sono in tutto 4.457: un numero enorme, per un'area nella quale la disoccupazione raggiunge livelli record. Ma il fatto ancora più preoccupante, per i sostenitori dell'infrastruttura, è il disinteresse che sembra ormai circondarlo anche negli ambienti governativi. Evidentemente concentrati su ben altre faccende. La società Stretto di Messina ha diramato ieri un comunicato ufficiale per dare notizia che «il consiglio di amministrazione ha avviato l'esame del progetto definitivo del ponte». Un segnale che la cosa è ancora viva, magari nella speranza che Berlusconi si decida a rilanciare il ponte, annunciando l'ennesimo piano per il Sud? Forse. Vedremo quando e come l'esame si concluderà, e che cosa accadrà in seguito. Sempre che il governo vada avanti, sempre che si trovino i soldi per accontentare gli enti locali... Intanto nella sede messinese di Eurolink, dove lavoravano decine di persone, sembrano già cominciate le vacanze. Come avessero fiutato l'aria. Sergio Rizzo 24 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/cronache/11_giugno_24/il-ponte-di-Messina-250-milioni-e-non-si-fara-sergio-rizzo_1f39efc2-9e24-11e0-b150-aadf3d02a302.shtml Titolo: SERGIO RIZZO PIU' RIGORE PER DIFENDERE IL PAESE Inserito da: Admin - Giugno 30, 2011, 05:12:17 pm PIU' RIGORE PER DIFENDERE IL PAESE
La direzione del coraggio Non si è ancora visto in Italia un ministro tanto disponibile a proporre tagli al proprio ministero quanto solerte a indicare i presunti sprechi dei suoi colleghi. Giulio Tremonti lo ha sottolineato pubblicamente appena qualche giorno prima di sentirsi dare del matto da un collega di governo, sottosegretario alla Difesa (uno dei dicasteri più colpiti dall'austerità negli ultimi anni) nonché esponente del suo stesso partito. Circostanza che avrebbe avuto una sola conseguenza immediata, ovvero le dimissioni del sottosegretario, in qualunque altro Paese del mondo. Ma non in Italia. E questo la dice lunga sulla situazione paradossale in cui si sta dipanando la matassa della manovra. Non serve certo la palla di vetro per farsi un'idea di che cosa sia passato nella mente dei nostri ministri investiti dai tanto deprecati «tagli lineari» nelle 48 ore intercorse fra la presentazione della manovra e la sua discussione a Palazzo Chigi. In questi giorni sembra di rivedere le scene di un vecchio film proiettato esattamente sette anni fa sullo stesso schermo. Erano i primi giorni di luglio del 2004, Tremonti si trovava sotto assedio e con la scusa di quella parolina magica, «collegialità», fu costretto alle dimissioni. Certo, qualche differenza c'è. Allora chi pretese il suo scalpo era Gianfranco Fini. Oggi, nella maggioranza, sono molti di più. Il che rende l'aria intorno al ministro dell'Economia irrespirabile, come testimonia il trattamento che gli riservano i giornali vicini al centrodestra. I nostalgici di quel luglio 2004 dovrebbero però ricordare anche ciò che avvenne quattro giorni dopo le dimissioni di Tremonti: Standard & Poor's declassò il debito pubblico italiano. Quella decisione dell'agenzia di rating venne allora rabbiosamente liquidata dal governo con un'alzata di spalle. Reazione adesso improponibile. Perché si dà il caso che ora l'Italia, a differenza di sette anni fa, stia attraversando un momento che richiama un'altra sconcertante analogia estiva. L'anno era il 1992 e il nostro Paese si trovava sull'orlo della crisi finanziaria con la speculazione internazionale scatenata contro la liretta. Un dettaglio che potrebbe trasformare quel copione del 2004, recitato oggi, nella tempesta perfetta. Nella manovra ci sarebbero probabilmente molti ritocchi da fare. Anche se nella direzione del coraggio, dunque opposta a quella auspicata da molti ministri. Innanzitutto non ha torto chi nota come il peso più gravoso sia concentrato sul biennio 2013-2014. Perciò, scaricato su chi verrà dopo le prossime elezioni politiche. Tagli consistenti alla spesa pubblica corrente, poi, ancora non se ne vedono. Ma non è nemmeno lontanamente immaginabile ciò che potrebbe accadere sui mercati nel caso in cui Tremonti, l'uomo che in questo governo ha la maggiore credibilità internazionale, venisse messo alla porta e la sua Finanziaria fatta a pezzi per banali questioni di orticello. Peggio ancora, per salvare qualche misero privilegio. Altrettanto chiaramente va detto che la manovra non può nemmeno diventare terreno di regolamenti di conti politici (e personali) senza nessun legame con l'interesse collettivo. Chi tiene sotto controllo con apprensione i mercati in questi giorni sa che 100 punti di divario nel cosiddetto spread fra i rendimenti dei bund tedeschi e dei nostri titoli di Stato ci costano 16 miliardi l'anno. E che gli speculatori sono in agguato. Allora sì, che saranno dolori: per noi ma anche per l'euro. Perché l'Italia, con tutto il rispetto, non è la Grecia. Sergio Rizzo 30 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_giugno_30/rizzo-direzione-coraggio_13a75712-a2d9-11e0-9bbf-ebc35d9cc61e.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il doppio conto della manovra Inserito da: Admin - Luglio 17, 2011, 06:59:16 pm Finanza pubblica
Il doppio conto della manovra Interventi per 48 miliardi di euro, con effetti in quattro anni calcolabili in circa 80 miliardi ROMA - Se un segnale doveva arrivare agli italiani da una manovra che punta al pareggio di bilancio nel 2014 non era certamente questo. Mentre inasprivano i saldi, appesantivano i tagli, massacravano le detrazioni, soltanto una voce, magicamente, diventava più leggera: i sacrifici chiesti a Lor Signori. E chiesti, si badi bene, non da subito come a tutti i comuni mortali, ma dal prossimo giro, dalla prossima legislatura, dalle prossime nomine. Pur di far arrivare in porto la riforma che avrebbe adeguato i compensi di politici e burocrati, e i loro privilegi, alla media europea (una riforma per l'Italia certamente epocale, va riconosciuto, mai tentata prima), Giulio Tremonti aveva usato anche tale impopolare precauzione. Non è bastato. Gliel'hanno fatta sotto gli occhi: la norma è stata prima annacquata limitando la media europea a quella, testualmente, «dei sei principali stati dell'area euro». Poi ulteriormente diluita introducendo il concetto di media «ponderata rispetto al Pil». Un giochetto aritmetico che farebbe risparmiare a ciascuno dei nostri onorevoli, dice una indignata nota interna della Cisl, almeno altri 12 mila euro l'anno. Tanto da far commentare al segretario di quel sindacato, Raffaele Bonanni: «Serviva un segnale di responsabilità e di giustizia sociale da parte del ceto politico. Invece non è cambiato nulla. Maggioranza e opposizione hanno fatto ancora una volta quadrato per difendere privilegi che non hanno eguali in Europa. Chiediamo al presidente della Repubblica e ai presidenti di Camera e Senato di fare sentire la loro voce autorevole, innescando un cammino diverso. Bisogna tagliare i costi delle politica e i livelli amministrativi prima di chiedere sacrifici a lavoratori e pensionati». Secondo alcuni calcoli, il risparmio a regime della spesa per gli stipendi dei parlamentari si ridurrebbe della metà. Per non parlare di tutte le altre cariche beneficiate dai provvidenziali emendamenti del centrodestra. Il fatto è che nemmeno questa volta il governo è riuscito a tenere il punto su una questione definita pubblicamente essenziale dallo stesso ministro Tremonti per far digerire al Paese una manovra pesante ma inevitabile. Inevitabile, per mettere i conti pubblici al riparo dalla speculazione internazionale. Pesante, per raggiungere l'agognato pareggio di bilancio. Anzi, pesantissima: sia pur caricata, secondo una discutibilissima opportunità politica, sulle amministrazioni che verranno, anche qui, dopo le «prossime» elezioni politiche. Numeri sull'entità della correzione ne sono girati parecchi. Pure troppi. Restiamo dunque a quelli ufficiali. Nel 2014 la mazzata sarà da 47,9 miliardi: oltre due punti e mezzo del prodotto interno lordo di quell'anno. Con un crescendo rossiniano: 2,1 miliardi quest'anno, poi 5,6 nel 2012, fino a 24,4 nel 2013 e poco meno di 48, appunto, nel 2014, quando sarà a regime. Una dimensione doppia rispetto a quando l'intervento sui conti pubblici era stato ventilato (24 miliardi). Considerando che la correzione prevista per ciascun anno incorpora anche le misure, strutturali, dell'annualità precedente, la manovra economica approvata venerdì dovrebbe produrre nell'arco dei quattro anni effetti sui conti pubblici per una cifra complessiva di 80 miliardi. Un intervento senza precedenti, con l'obiettivo di mettere in sicurezza le nostre finanze. Ma basato prevalentemente su maggiori entrate (strutturali) piuttosto che sui tagli (strutturali) a una spesa pubblica galleggiante pericolosamente da anni intorno alla metà del prodotto interno lordo. Senza contare le timidezze sul versante delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni. Circostanze che non fanno certamente piazza pulita delle possibili incognite future, rese ancora più incerte dalla situazione internazionale. Chi può giurare che da qui al 2014 non saranno necessarie altre manovre? E che agli italiani nessuno chiederà ancora sacrifici a stretto giro di posta? Allora sì, che davvero con i numeri non ci si raccapezzerà più. Sergio Rizzo 17 luglio 2011 09:49© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/11_luglio_17/rizzo_doppio-conto-manovra_921d31d8-b045-11e0-b0ea-f35f7bc4068c.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Le attese deluse Inserito da: Admin - Agosto 04, 2011, 09:57:35 am Le attese deluse
Dunque la casa continua a bruciare senza che nessuno metta mano all'estintore. Dal discorso in Parlamento del presidente del Consiglio era lecito aspettarsi molto di più. La decisione di parlare solo dopo la chiusura dei mercati poteva far supporre perfino qualche clamorosa sorpresa. Invece niente. Neppure una timida ammissione, verso un Paese che arranca nel pantano della crisi bombardato da quelli che chiamano «speculatori», di aver sbagliato qualcosa. Semmai il contrario: i guai sono del mondo intero, a cominciare dai più bravi (gli Usa), l'Italia è solida, le sue banche sono solide, i conti pubblici stanno meglio di quelli altrui, il nostro sistema pensionistico è invidiato da tutti... Dulcis in fundo , il governo resterà al suo posto fino al 2013. Ma se il messaggio di stabilità che il premier intendeva lanciare ai mercati era tutto condensato in quell'« hic manebimus optime », stiamo freschi. Perché qui ha perfettamente ragione il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: per venire fuori da questa situazione serve uno sforzo straordinario di coesione nazionale. Alle sue parole ha fatto riferimento anche il Cavaliere, precisando che «oggi più che mai» è necessario «agire insieme» e che «tutti hanno il dovere di rimboccarsi le maniche». Peccato che il segretario del suo partito, Angelino Alfano, abbia speso quasi tutto il tempo della propria replica per lanciare bordate all'opposizione. E peccato che il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, per tutta risposta, si sia detto disponibile «a fare un passo avanti» soltanto dopo «un passo indietro» della maggioranza. Ossia le dimissioni di Silvio Berlusconi. Dall'appello di Napolitano siamo quindi lontani anni luce. Il Parlamento è spaccato e il governo senza idee. La strategia per fermare la tempesta perfetta va dai decreti sull'uso delle auto blu a improbabili tavoli con le parti sociali, peraltro immediatamente affondati da Bersani. Quando già un pezzo della manovra approvata un mese fa è evaporata con l'aumento vertiginoso degli interessi sui nostri titoli di Stato e lo stesso Berlusconi ha lasciato intendere che si dovranno fare interventi sul fabbisogno «nell'ultima parte dell'anno». Insomma, il peggiore segnale per gli «speculatori». Ma anche per un Paese, oggi migliore di chi lo dirige, che in questa situazione meriterebbe dalla classe politica una risposta ben diversa. Come un gesto immediato. Non domani: adesso, prima che il mercato (quello stesso mercato che Berlusconi, come si è premurato di ricordare egli stesso ieri alla Camera, conosce bene avendo «tre aziende quotate») ci spinga nel baratro. Per esempio, un decreto che anticipi gli effetti consistenti della manovra a prima del 2013-2014. Un provvedimento del quale qualcuno parla già, anche se incontrerebbe molti ostacoli nel governo, che tuttavia responsabilmente Pier Ferdinando Casini ieri si è detto disposto a «votare immediatamente». Non risolverebbe certo i nostri problemi alla radice. Ma almeno mitigherebbe la probabile delusione dei mercati. E con l'aria che tira, è già qualcosa. Sergio Rizzo 04 agosto 2011 08:06© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_04/rizzo-attese-deluse_ea57966a-be58-11e0-aa43-16a8e9a1d0c7.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Lo slogan: «Non metterò le mani nelle tasche degli italiani» Inserito da: Admin - Agosto 16, 2011, 04:03:16 pm Nel 2001 il contratto con gli italiani annunciava «l'abbattimento della pressione fiscale».
Il contrappasso del Cavaliere Deve aumentare le odiate tasse Dal '94 il sogno, mai realizzato, di ridurre le imposte. Lo slogan: «Non metterò le mani nelle tasche degli italiani» ROMA - Non più tardi del 3 agosto, davanti ai deputati, il Cavaliere prometteva «un regime di tassazione più favorevole alle famiglie, al lavoro e all'impresa». Promessa sempre più pallida e sbiadita, ora mandata in frantumi dalla lettera della Banca centrale europea. Che ha consegnato Silvio Berlusconi alla legge del contrappasso: quella per cui l'uomo che ha vinto tre elezioni dichiarando guerra alle tasse garantendo che non avrebbe mai messo «le mani nelle tasche degli italiani», ora in quelle tasche dovrà rovistarci a fondo. I maligni diranno adesso che almeno poteva risparmiarselo. Ieri lo attaccava perfino Libero , quotidiano berlusconiano a quattro ruote motrici. La parola «Tradimento» campeggiava sul titolo in prima pagina. E dentro, la pugnalata: un manifesto del Cavaliere sorridente (era la campagna elettorale del 2001) a fianco della scritta «Meno tasse per tutti». Già, il mitico 2001. Ricordate il contratto con gli italiani firmato a Porta a Porta? «Abbattimento della pressione fiscale», c'era scritto testualmente, «con l'esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire annui; con la riduzione al 23% per i redditi fino a 200 milioni di lire annui; con la riduzione al 33% per i redditi sopra i 200 milioni di lire annui». Sette anni prima aveva sbaragliato la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto garantendo la rivoluzione dell'aliquota unica al 33% sognata da Antonio Martino. Ma il suo governo era durato troppo poco. Senza perdersi d'animo, dall'opposizione aveva continuato a martellare. Fino a giustificare gli evasori «per necessità». «Ieri sono stato dal mio dentista e ho visto che paga il 63% di imposte e allora non volete che chi è sottoposto a un furto così non si ingegni? È legittima difesa», raccontò a Repubblica il 15 ottobre del 2000. Giusto qualche mese prima di tornare al governo, contratto con gli italiani in tasca. Da allora è stata una sfilza incredibile di propositi e annunci fantastici. Ma solo quelli. Come la volta, era il 5 luglio del 2002, che dichiarò: «Il Consiglio dei ministri che approverà oggi il Dpef darà anche il via libera alla riduzione delle tasse più grande della storia della Repubblica». O quando rivelò a Porta a Porta: «La pressione fiscale globale sulle famiglie si è già ridotta del 7,5%». Da dove arrivasse quella stima, non si è mai capito. Ma poco importava. Due mesi più tardi, a un convegno della Confindustria, si lanciò in una metafora calcistica: «Ora che l'economia verrà rilanciata con un deciso taglio delle imposte, l'Italia tornerà a vincere come il Milan, che vince e diverte». Intanto sventolava spavaldo il contratto firmato da Bruno Vespa: «Ho la speranza di arrivare al 23% e al 33% entro la fine della legislatura. Se non ci riuscirò non mi ricandido». Non ci riuscì, e a giugno del 2004, puntando l'indice contro gli alleati, ringhiava: «Se avessi avuto il 51% avrei già ridotto le tasse». Ma si ricandidò, dopo aver ottenuto dal Tesoro di Domenico Siniscalco una spuntatina all'Irpef, con l'aliquota massima ridotta al 43%: dieci punti sopra il fatidico 33% promesso. Taglio peraltro compensato da rincari di bolli e balzelli vari. La campagna elettorale incombeva e a Porta a Porta sparò: «Abbiamo ridotto la pressione fiscale dal 45% al 40,6%». La sparata non fu sufficiente. Romano Prodi vinse e rimodulò le aliquote abbattendo i benefici concessi ai più abbienti: venne crocifisso dalla destra e dai giornali vicini a Berlusconi. Su uno di questi comparve perfino un orologino che ogni giorno segnava la progressione del debito pubblico. E meno male che nessun giornale ha fatto lo stesso da quando, nel 2008, il Cavaliere è tornato a Palazzo Chigi. Promettendo, per la terza volta, di tagliare le tasse. Sappiamo com'è andata. La crisi americana, la recessione, la speculazione... «Nessuno più di me vuole ridurre le tasse», andava ripetendo ancora qualche mese fa. Mentre insieme a Umberto Bossi cercava di convincere Tremonti a usare il bisturi, dopo la batosta presa alle amministrative. Ma contro l'evidenza dei numeri. L'Istat dice che nel nostro Paese la pressione fiscale aveva raggiunto nel 2009 un livello del 43,2%, quasi quattro punti sopra la media europea. Per una ragione precisa: secondo la Banca d'Italia negli ultimi dieci anni la spesa corrente al netto degli interessi sul debito pubblico è salita di oltre sei punti sul Prodotto interno lordo, passando dal 37,6% al 43,8% fra il 2001 e il 2010. Con gli interessi, aveva raggiunto nel 2009 il suo massimo storico: 48,2%. Dal 2000 al 2008 il volume della spesa corrente è salito del 37,8%, quasi 16 punti più dell'inflazione (21,9%). Insomma, un macigno insormontabile, accumulato proprio durante gli anni del governo Berlusconi. Il quale, in un momento di realismo, il 13 gennaio del 2010, ha confessato forse per la prima volta: «La crisi non permette nessuna possibilità di riduzione delle imposte». Ma aumentarle, però... E tassare le rendite finanziarie come voleva fare Prodi, poi... Sergio Rizzo 13 agosto 2011 13:41© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/11_agosto_13/rizzo_contrappasso_cavaliere_09f630c2-c579-11e0-88c8-3552ba0345da.shtml Titolo: SERGIO RIZZO A Trento e Aosta il grande boom del nuovo capitalismo municipale Inserito da: Admin - Agosto 29, 2011, 10:52:33 am Le municipalizzate, La gestione degli enti locali, Gli investimenti e gli sprechi
Acqua, rifiuti, autobus in città Alti costi e scarsi servizi Immondizia, a Napoli spesa record. A Trento e Aosta il grande boom del nuovo capitalismo municipale ROMA - A Napoli si paga una tariffa sui rifiuti superiore del 48,4 per cento alla media nazionale. E quasi due volte e mezzo più cara rispetto a Firenze. Lì, per un appartamento di 80 metri quadrati, 135 euro l'anno. Nel capoluogo campano, 331. Difficile da credere che la città italiana dove la tassa sulla spazzatura è la più alta in assoluto sia proprio quella che ha più problemi con l'immondizia. Ma nel Paese dove il «capitalismo» municipale ha pian piano soppiantato il capitalismo di Stato, il sistema funziona così. Palermo, per esempio. Secondo le elaborazioni dell'ufficio studi della Confartigianato, effettuate sulla base dei dati del ministero dello Sviluppo economico e dell'Unioncamere, è la città dove il trasporto pubblico, pur non rappresentando sicuramente il massimo nazionale dell'efficienza, è invece mediamente più costoso: 515 euro per dieci abbonamenti mensili e 48 biglietti orari. Non c'è confronto con Genova (398), al secondo posto, ma nemmeno con Napoli (396), al terzo. Senza parlare di Milano: 338 euro, il 52,3% in meno. La scarsa concorrenza - Del resto, prendendo in esame un pacchetto di servizi pubblici locali (oltre al trasporto anche i rifiuti, l'acqua e l'energia) proprio Palermo è la città più cara d'Italia con l'unica eccezione di Cagliari (3.108 euro l'anno pro capite), che deve però fare i conti con l'estrema onerosità della distribuzione del gas. Nel capoluogo siciliano ogni cittadino sostiene mediamente, dicono i dati del 2009, un costo di 2.633 euro l'anno, contro 2.559 di Genova e 2.537 di Napoli. A Milano si spende il 42,6% meno che a Cagliari e il 20,8% meno che a Palermo. Ancora più impressionante, tuttavia, è il peso della spesa pro capite sul Pil «individuale». Il costo dei servizi pubblici locali si «mangia» a Napoli il 16,1% del Prodotto interno lordo pro capite, contro il 6% a Milano, l'8,3% di Firenze, il 7,1% a Bologna, il 7,6% a Roma, che certo non è fra le città meno care (2.461 euro). Come si spiega tutto ciò? Che ci sia un rapporto fra questa situazione e le mancate liberalizzazioni, come sostengono da tempo autorevoli istituzioni, è assodato. L'Ocse sottolinea, per esempio, come il costo dei servizi pubblici cresca nettamente più del costo della vita. A giugno si è registrato per questi un rincaro del 4,8%, oltre due punti sopra l'inflazione. Fra il 2000 e il 2010 le tariffe dei servizi pubblici locali, escludendo quelli energetici, sono salite del 54,2% a fronte di una crescita dei prezzi pari al 23,9%. Ed è stato un aumento astronomico anche rispetto alla media di Eurolandia, dove l'incremento delle tariffe si è attestato invece al 30,3%. La Banca d'Italia dice che nel nostro Paese i principali servizi hanno un cosiddetto «mark up», cioè la differenza fra il prezzo della prestazione erogata e il suo costo, superiore del 19,2% alla media dell'area euro. È ancora via Nazionale ad affermare in un proprio studio che riportando quel dato al livello europeo si potrebbe ottenere nei primi tre anni una crescita del Prodotto interno lordo pari al 5,4%. Stima che porta la Confartigianato a calcolare un Pil aggiuntivo di 36,7 miliardi per il solo primo anno seguente a quello nel quale fosse applicata una vera liberalizzazione di questo mercato. Il caro bolletta - I dati della Banca d'Italia sul «mark up» sono eloquenti. Le aziende che erogano servizi pubblici hanno sulla carta profitti ben più elevati della media europea, sebbene parametri di efficienza e conto economico non siano certo migliori. Con tutta evidenza la causa va ricercata in un costo della politica indiretto che fa leva proprio sulla mancanza di concorrenza. La prova? Fra il 2003 e l'anno che ha preceduto la nuova Grande Depressione, le aziende pubbliche locali hanno letteralmente allagato l'Italia. Nel 2007 l'Unioncamere ne ha censite 5.152, numero superiore dell'11,9% a quello di quattro anni prima. In dieci anni, dal 1999 al 2009, le imprese controllate dagli enti locali, ricorda la Confartigianato, hanno raddoppiato il loro peso sull'economia, dal 2,3% al 4,6% del Prodotto interno lordo. Tutto questo mentre la spesa delle amministrazioni scendeva dal 5,8% al 5,6% del Pil. La crescita si è rivelata particolarmente impetuosa al Nord e nelle Regioni autonome. Nella provincia di Trento le aziende pubbliche locali rappresentano ormai il 13,3% al Prodotto interno lordo, avendo aumentato in un decennio il proprio peso di ben 8,6 punti. In Valle D'Aosta il loro contributo all'economia ha raggiunto l'11,3% (+8,3 punti), in Liguria l'8,2%, nel Friuli-Venezia Giulia l'8,2%, nella Provincia di Bolzano il 7,2%, in Emilia-Romagna il 6,9% e in Lombardia il 6,1%. Un monitoraggio compiuto dall'Unioncamere su 4.018 di queste aziende, escludendo quelle finanziarie e in liquidazione, ha dimostrato che nel Centro Nord ognuna di esse ha chiuso il bilancio con un utile medio di 368.746 euro, contro un buco medio di 251.424 euro al Sud. E se nel Centro Nord gli utili per addetto sono cresciuti, nel quadriennio preso in esame, di ben tre volte, passando da 2.147 a 6.500 euro, nelle Regioni meridionali il deficit pro capite si è ampliato del 14,7%, da 2.822 a 3.239 euro. Il fatto è che mentre le aziende pubbliche locali del Sud aumentavano del 14,6% il costo del personale anche a causa di tre assunzioni in media per impresa, le loro consorelle centrosettentrionali lo diminuivano del 5,8%, grazie pure all'esodo medio di 9 addetti. Il clientelismo c'entra forse qualcosa? Giudicate voi - E l'efficienza? Lo studio della Confartigianato segnala il caso del trasporto pubblico locale, dove il costo medio per un chilometro di percorso urbano raggiunge in Campania 7,14 euro, 2 euro e 39 centesimi più della Lombardia, 3 euro e 8 centesimi più del Veneto e quasi il quadruplo rispetto all'Umbria. Numeri con un chiaro riscontro nel chilometraggio medio di ogni autista: 19.086 in Campania, 25.032 in Lombardia, 27.278 in Veneto, 43.255 in Umbria. Caso particolare, il Lazio, dove il costo per chilometro è appena inferiore a quello campano (6 euro e 68 centesimi) pur con un chilometraggio pro capite (26.513) superiore alla media nazionale. Cifre riferite al 2009, che evidentemente fotografano lo stato della gestione dell'Atac: al 31 dicembre di quell'anno l'azienda romana aveva accumulato un buco di circa 700 milioni di euro. Dal 2004 al 2009 alla crescita dei fatturati dei servizi pubblici locali non ha poi fatto riscontro un incremento degli investimenti. Diminuiti, anzi, dal 20,3% al 18,1% del giro d'affari. Un quarto circa degli stanziamenti viene assorbito proprio dal settore dei trasporti, che è al secondo posto. La maggior parte dei fondi, poco meno del 33%, è infatti destinato al servizio di distribuzione dell'acqua, bandiera dell'ultimo referendum sui servizi pubblici locali che ha registrato una schiacciante maggioranza di no alla privatizzazione. Lo spreco di risorse idriche - Ma per quanto siano percentualmente rilevanti, come stanno a dimostrare i dati pubblicati dalla Confartigianato, gli investimenti non riescono a modificare sostanzialmente una situazione davvero disastrosa: combinato disposto di una rete colabrodo e un'evasione tariffaria in alcuni casi allucinante. Almeno se è vero che nel 2008 a fronte di oltre 8,1 miliardi di metri cubi immessi nella rete di distribuzione, quelli fatturati sono stati poco più di 5 miliardi e mezzo. Il 32% dell'acqua potabile, quantità che il rapporto dell'organizzazione degli artigiani paragona alla portata annuale del fiume Brenta, si volatilizza letteralmente. L'elaborazione contenuta in quello studio, fatta sulla base dei dati Istat, mostra come ancora tre anni fa in Puglia per ogni 100 litri di acqua «erogata», se ne immettessero nella rete ben 87 di più. Non molto meglio andava in Sardegna, con 85 litri, in Molise (78), Abruzzo (77) e Friuli-Venezia Giulia. Nel 2009 questo andazzo è costato alle aziende locali che gestiscono il servizio idrico 2 miliardi e 947 milioni. Più dei soldi cui i Comuni hanno dovuto rinunciare a causa dell'abolizione dell'Ici sulla prima casa decisa dal governo di Silvio Berlusconi subito dopo le elezioni del 2008, più del giro di vite di 2 miliardi e mezzo imposto ai municipi dalla manovra dello scorso anno, più dei tagli lineari ai ministeri.... I «black out» senza preavviso - Che l'efficienza dei servizi pubblici locali non sia al top lo affermano poi gli stessi utenti. La percentuale di famiglie «molto o abbastanza soddisfatte» della loro qualità, sulla base delle statistiche ufficiali dell'Istat, è scesa fra il 2001 e il 2010 di 5,1 punti per l'energia elettrica, del 3,5% per il gas. Letteralmente precipitato l'indice che segnala la soddisfazione per la «comprensibilità» della bolletta, calato del 12,9% relativamente al gas e del 10,3% alla luce. Non bastasse, le rilevazioni dell'Autorità per l'energia informano che per 18 aziende su 32, ovvero il 56,3% del totale, l'indice di «qualità totale» rilevato presso i call center nel 2010 ha registrato un peggioramento. Per non citare la vicenda mai risolta delle interruzioni «senza preavviso» di energia elettrica, il cui livello medio ha raggiunto, sempre nel 2010, ben 89 minuti l'anno, dei quali 44 per responsabilità delle imprese distributrici. E va detto che al Sud i 44 minuti diventano ben 63, contro i 29 del Nord. Per le piccole imprese fino a 20 dipendenti è un inconveniente costato lo scorso anno, secondo la Confartigianato, un miliardo e 56 milioni di euro. Sergio Rizzo 29 agosto 2011 08:00© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/11_agosto_29/gestione-municipalizzate-rizzo_58178894-d200-11e0-a205-8c1e98b416f7.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Un tombino sul condono Inserito da: Admin - Settembre 03, 2011, 11:37:38 am TREMONTI PROMETTE: MAI PIÙ
Un tombino sul condono Giulio Tremonti ha precisato che nella manovra non ci saranno condoni «poiché si tratterebbe di un intervento una tantum che genera introiti di cassa, ma che non modifica l'assetto della finanza pubblica». Evviva. Niente di più condivisibile per chi, come noi, ha sempre criticato duramente la disastrosa politica delle sanatorie. Ma qui, inutile nasconderlo, il problema della credibilità che sempre accompagna simili impegnative dichiarazioni è ancora più grande. Da settimane si rincorrono le voci di un nuovo condono che potrebbe spuntare accanto al tremendissimo (forse) giro di vite sull'evasione fiscale con tintinnio di schiavettoni. Non servono soldi, tanti e subito? E poi, non fu così che andò anche all'inizio degli anni Ottanta, quando alla sanatoria tombale fu accoppiata la legge (pressoché inutile) sulle «manette agli evasori»? La dichiarazione di Tremonti, semmai, desta anche una legittima preoccupazione: che il partito del condono, agguerritissimo in Parlamento, sia già al lavoro. Convinto, magari, di non incontrare troppa resistenza. I precedenti la dicono lunga. Ricordiamo che cosa è successo otto anni fa, quando il governo Berlusconi, contrario a parole, si arrese immediatamente all'offensiva parlamentare sfociata non in una, ma in un diluvio di sanatorie. E non possiamo non rammentare come lo stesso ministro dell'Economia, che in quella occasione aveva confessato di essersi dovuto piegare suo malgrado alla ferrea legge dei numeri e dei denari necessari a tenere a galla i conti pubblici, tornando nel 2008 al governo avesse garantito che l'epoca dei condoni era definitivamente sepolta. Salvo poi varare un nuovo scudo fiscale consentendo a evasori che avevano illecitamente esportato capitali di regolarizzarli pagando un ventesimo di quanto versano i cittadini onesti. Tante volte si è detto di come i condoni abbiano profondamente compromesso la tenuta morale di un Paese dove già le tasse non sono mai state troppo popolari. L'hanno corrotta al punto che c'è chi li utilizza perfino per gabbarli, dimostrando che non sono credibili nemmeno le sanatorie. Quanti hanno chiesto di aderire al condono fiscale per poi dichiararsi falliti e non pagare? E quanti dopo aver pagato la prima rata, poi smettono di pagare, confidando magari in un'altra sanatoria, e poi in un'altra, e un'altra ancora? Non è un caso che al gettito previsto per il benevolo perdono del 2002 manchino almeno 4 miliardi di euro. Oggi, poi, c'è un dettaglio in più che chiama in causa la credibilità. Ed è il modo con cui sta procedendo la manovra d'agosto, presentata in pompa magna in una conferenza stampa ufficiale a Palazzo Chigi, e smontata nel giro di due settimane (il contributo di solidarietà per i redditi più elevati? Abbiamo scherzato... Il taglio delle Province? Abbiamo scherzato... L'accorpamento dei Comuni più piccoli? Abbiamo scherzato...). Quindi rismontata nuovamente il giorno dopo un vertice politico «decisivo» dal quale il governo, che aveva promesso di non toccare le pensioni, ne era uscito con l'idea bislacca di colpire i riscatti previdenziali per la laurea e il servizio militare. Perché mai dovremmo credere proprio questa volta che non ci metteranno sotto il naso l'ennesimo maleodorante condono? Sergio Rizzo 03 settembre 2011 08:46© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_03/un-tombino-sul-condono-sergio-rizzo_a2fb7f14-d5ed-11e0-a2ab-ce11126458a9.shtml Titolo: SERGIO RIZZO LE PROVINCE INTOCCABILI Inserito da: Admin - Settembre 22, 2011, 05:05:09 pm LA FINTA ABOLIZIONE DOPO LE PROMESSE
LE PROVINCE INTOCCABILI Dalla manovra che ci imporrà sacrifici micidiali sono miracolosamente evaporati i tagli «epocali», come li aveva definiti in prima pagina la Padania il 14 agosto, ai costi della politica. Compreso quello a parole più gettonato: l'eliminazione delle Province. «Sono tutte inutili e fonte di costi per i cittadini, pacifico che debbano essere abolite», prometteva Silvio Berlusconi il 5 marzo 2008, giurando che oltre all'Ici e al bollo auto avrebbe spazzato via anche quelle. Nella frenesia della campagna elettorale nessuno ricordò la confessione pubblica resa dal Cavaliere a Rovigo appena cinque mesi prima: «Eliminare le Province in Italia non lo potrà mai fare nessuno». A parte un dettaglio evidentemente trascurabile per i nostri politici, cioè la coerenza, mai profezia è stata più azzeccata. Le Province sono sopravvissute alla «riforma» federale. Quindi al «codice delle autonomie» che ammuffisce in Senato. Infine alla manovra economica più drammatica dal tempo in cui il governo di Giuliano Amato evitò la crisi finanziaria entrando nella carne viva dei contribuenti. Ma che nessuno avesse mai preso in esame l'idea di fare sul serio era evidente. La prova? Non più tardi del 27 maggio il decreto sul federalismo fiscale ha dato alle Province il potere di portare fino al 16% l'imposta del 12,5% sulla Rc auto che finisce nelle loro casse. E, senza farsi troppo pregare, ventinove di esse ne avevano già approfittato il primo agosto. Mentre dunque nel Palazzo qualcuno stava meditando di annunciarne l'abolizione, loro ingrassavano aumentandoci le tasse. Con la certezza che le nubi nere all'orizzonte si sarebbero presto dissolte. E i fatti gli hanno dato ragione. Il 13 agosto il ministro Roberto Calderoli si presentava in sala stampa a Palazzo Chigi comunicando al Paese che sarebbero sparite «tra 29 e 35 Province». L'8 settembre benediceva trionfalmente la retromarcia, decretandola «evoluzione federalista dell'ordinamento». Che genere di evoluzione, è presto detto. Stralciato dalla manovra che costringe tutti i cittadini a tirare la cinghia già da oggi, il capitolo delle Province è stato rinviato a un disegno di legge costituzionale, nel quale però quegli enti non saranno affatto eliminati. Passando dalla competenza dello Stato a quella delle Regioni, «evolveranno» semplicemente cambiando nome. Le chiameranno «Province regionali», «Aree vaste», o in qualche modo ancora più stravagante? Poco importa: potete stare certi che resteranno in vita. Una presa in giro, questa sì, davvero «epocale». Nel segno del Gattopardo. «Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi», dice il nobile siciliano Tancredi Falconeri nel celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ed è una regola, paradossale per questa maggioranza a trazione nordista, che funziona a puntino. Un altro esempio? Nelle stesse ore in cui la Camera approvava la manovra che liberalizza alcune professioni, il Senato discuteva una proposta di legge del centrodestra per istituire cinque nuovi ordini e venti albi: dietisti, podologi, igienisti dentali... Il prezzo di tutto questo? La credibilità. Meglio: le briciole che ne restano. Sergio Rizzo 16 settembre 2011 07:45© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_16/rizzo_province_intoccabili_ab000d90-e026-11e0-aaa7-146d82aec0f3.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il patrimonio venduto (a parole) Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2011, 04:45:02 pm PRIVATIZZAZIONI
Il patrimonio venduto (a parole) Venticinque anni di promesse, non è stata ceduta neppure una caserma ROMA - Gli avessero dato retta, quella volta, ad Attilio Bastianini... «Per ridurre il debito pubblico diminuendo il peso degli interessi dobbiamo mettere in vendita parte del nostro patrimonio pubblico», andava ripetendo a tutti il deputato del fu Partito liberale. Ma i suoi colleghi della maggioranza, c'era il pentapartito e il Pli partecipava al governo, facevano orecchie da mercante. Il presidente del Consiglio Giovanni Goria liquidò la proposta, come fosse una mezza sciocchezza, con il consueto garbo. Per dargli un contentino sarebbe stato successivamente messo in piedi l'ennesimo comitato interministeriale che avrebbe dovuto esaminare le eventuali procedure da seguire per la vendita degli immobili pubblici. Tecnica collaudatissima: quando in Italia non si vuole fare una cosa si crea una commissione. E la faccenda morì lì. Correva l'anno 1987. Durante i quattro anni del governo di Bettino Craxi il debito pubblico italiano era letteralmente esploso, arrivando a superare di slancio il 93% del Prodotto interno lordo. Il doppio rispetto a Francia e Germania, e già allora ben oltre il 60% che tre anni dopo sarebbe stato fissato a Maastricht come limite invalicabile per aderire alla futura moneta unica. Inutile aggiungere che gli interessi, spinti da tassi stratosferici, galoppavano. Nel 1988 pagammo l'equivalente attuale di 90 miliardi di euro. Più di quanto ci costano oggi (ma ancora per poco, se non ci si mette subito una pezza bella grossa). Qualche conto, i liberali se l'erano già fatto. A dire il vero i conti precisi li stava facendo una commissione presieduta dal costituzionalista Sabino Cassese, che calcolò in 651.044 miliardi di lire il valore del patrimonio pubblico. Rapportato ai valori di oggi, 702 miliardi di euro: 141 miliardi in più rispetto allo stock del debito pubblico, che allora toccava l'equivalente attuale di 561 miliardi. Un quarto di secolo dopo la situazione si è capovolta. E se ancora nel 2008 il procuratore generale della Corte dei conti regalava una suggestione al Cavaliere appena tornato al governo, spiegando che vendendo i beni di famiglia, valutati in circa 1.800 miliardi di euro, si sarebbe potuto «azzerare» la tremenda esposizione dello Stato italiano, oggi non è più nemmeno vero. Perché se quella valutazione può essere considerata ancora attendibile, il debito pubblico, è l'amara realtà, l'ha invece ormai superato di quasi un centinaio di miliardi. Certo, vendere i beni pubblici «non è facile», come un giorno ha ammonito il ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Il suo predecessore Vincenzo Visco confessò a Orazio Carabini, allora al «Sole 24ore», tutta la propria frustrazione per non essere riuscito a vendere le caserme inutilizzate dell'esercito per colpa del ministero della Difesa che gli metteva i bastoni fra le ruote. Le caserme...Quante volte, a parole, sono state vendute? Nel 2002 Tremonti disse che era stato «incivile» non aver pensato di valorizzare adeguatamente un patrimonio «che impaurirebbe perfino Paperon de' Paperoni». Due anni prima, annunciando di aver trovato un «buco» nei conti pubblici lasciati dal centrosinistra, aveva snocciolato la sua ricetta: «Bisogna operare dentro il patrimonio dello Stato con valorizzazione del patrimonio stesso, estrazione di dividendi, smobilizzo di risorse, accelerazione di privatizzazioni». Come si poteva dargli torto? Se nel 1988 il rendimento dei beni demaniali era stato dello 0,05%, quindici anni più tardi avrebbe raggiunto una vetta dello 0,72%. Ma se le intenzioni erano ottime, lo stesso non si potè dire per i risultati. Fra annunci, dichiarazioni e pubblicazione di sterminati e dettagliatissimi elenchi di beni demaniali decretati «cedibili», con l'inevitabile strascico di polemiche, quell'epoca sarà ricordata soprattutto per la cessione degli immobili degli enti previdenziali attraverso le famose cartolarizzazioni, sulle quali pende un giudizio poco lusinghiero della Corte dei conti. Pasqualucci ha tirato queste somme: «L'operazione, a fronte di un portafoglio di 129 miliardi, ha fruttato ricavi per 57,8 miliardi, con un rapporto ricavi/cessioni pari al 44,7%». E sarebbe meglio non ricordare, per carità di patria, il clamoroso fallimento dell'operazione Patrimonio spa, ovvero la società che era stata creata dal Tremonti, il quale l'aveva affidata a Massimo Ponzellini, proprio allo scopo di valorizzare e cedere i beni dello Stato, come ad esempio le vecchie carceri nel centro delle città. Missione penosamente fallita. Per non parlare di quello che è accaduto talvolta in periferia, quando gli enti locali hanno deciso di vendere. Per tutte valga la vicenda delle cessioni dei beni dell'Arsial, agenzia della Regione Lazio che un paio d'anni fa ha deciso di dismettere alcuni importanti cespiti. Fra questi una tenuta di 37 ettari con due casali di 400 metri quadrati nell'oasi naturalistica di Capocotta, a due passi dalla residenza presidenziale di Castelporziano: finita per la modica cifra di 483 mila euro, prezzo appena sufficiente per acquistare un appartamento decente nella periferia romana, a una società nella quale compare l'azionista di una ditta appaltatrice della stessa Regione. Ma non basta. Perché lo Stato che avrebbe dovuto dimagrire vendendo i propri immobili, invece ingrassava comprando a rotta di collo, indifferente al nostro debito che si gonfiava sempre di più. Comprava Fintecna, società pubblica erede dell'Iri che si è trovata in pancia di tutto: dai palazzi delle Finanze a un ex ospedale di Genova, e ora non sa più a chi dare tutta quella roba. Compravano gli enti locali. Comprava Palazzo Chigi, comprava il Senato, comprava la Camera. Nel quinquennio dei due precedenti governi Berlusconi non si badò certamente a spese. E mentre i palazzi della politica si moltiplicavano allagando il centro di Roma, dove le sedi della presidenza del Consiglio e delle due Camere sono ormai 52, si privatizzava soprattutto a parole. Pochi giorni prima delle Politiche del 2008, Berlusconi dichiarò a «Porta a Porta»: «Dalla vendita del patrimonio dello Stato avremo a disposizione un punto di Pil l'anno per la riduzione del debito pubblico del nostro Paese entro i limiti richiesti dall'Europa». Qualche mese prima il suo futuro avversario, Walter Veltroni, l'aveva anticipato: «Esiste la necessità di vendere il patrimonio immobiliare pubblico attraverso processi più efficaci e veloci di quelli finora messi in campo al fine di dare un contributo immediato alla riduzione dello stock del debito». Vinte le elezioni, il Cavaliere tornò alla carica a Santa Margherita ligure, davanti alla platea dei giovani imprenditori: «Abbiamo ereditato un debito che è al 105% del Pil, c'è un solo modo di operare, cioè mettere sul mercato parte del patrimonio pubblico. Per esempio le caserme nei centri città che non servono più a nulla». Applausi. Tre anni dopo il debito pubblico è al 120% del Pil e le caserme sono sempre lì, come le aveva lasciate Visco masticando amaro. E adesso? Adesso è arrivato finalmente il momento di fare «l'inventario». Proprio così. Ha detto Tremonti giovedì al Tesoro, aprendo la riunione sul patrimonio pubblico: «Oggi facciamo l'inventario». Sergio Rizzo 01 ottobre 2011 08:44© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_01/patrimonio-statale-venduto-parole-rizzo_49c61190-ebf8-11e0-827e-79dc6d433e6d.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il Parlamento? Solo 14 Leggi Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2011, 04:49:36 pm I COSTI DELLA POLITICA
Il Parlamento? Solo 14 Leggi Le norme promosse dalle Camere: dal nome del Parco del Cilento all'insalata in busta Volendo proprio mettere i puntini sulle i, in «una complessiva superficie di 178.172 ettari, gli Alburni offrono il 65% delle aree naturali, il Vallo di Diano offre la Certosa di Padula e alcuni monti, il Cilento la maggior parte delle aree costiere». E se l'ha addirittura scritto su una proposta di legge l'onorevole Mario Pepe, rieletto nel 2008 nelle liste del Pdl per scoprirsi tre anni dopo «Responsabile», dobbiamo crederci. Lui è di Bellosguardo, un paese che sta alle pendici dei monti Alburni. Chi dunque meglio di lui avrebbe potuto impegnarsi per sanare una clamorosa ingiustizia? La verità storica è stata ristabilita a febbraio, grazie appunto alla legge da lui proposta. Un provvedimento con il quale il Parlamento nel febbraio scorso ha cambiato il nome del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano in quello «più corrispondente alla realtà» di Parco nazionale degli Alburni, del Cilento e Vallo di Diano. Alleluia. Vi chiederete: e ci voleva una legge? Ci voleva. Ma è legittimo domandarsi se davvero non ci fosse niente di più urgente e importante. Tanto più considerando che questa è una delle sole quattordici leggi di iniziativa parlamentare approvate da gennaio a oggi. Quattordici, a incorniciare un'apatia senza precedenti. Già nel 2010 l'attività del Parlamento aveva toccato i minimi storici, con 58 provvedimenti varati nell'arco dei primi dieci mesi. Adesso siamo scesi addirittura a 50. Se poi dal totale si tolgono le ratifiche di trattati internazionali, atti dovuti che non comportano alcun impegno, si cala ancora a 31, contro 36 dell'anno scorso. E poi va detto che la maggior parte di queste leggi, diciassette, non sono altro che conversioni di decreti o frutto di altre proposte governative. Profetiche, le parole del presidente della Camera Gianfranco Fini, pronunciate a maggio del 2010: «A meno che il governo non presenti un decreto, c'è il rischio di una sostanziale paralisi dell'attività legislativa della Camera». Perché il rischio si fa sempre più concreto. In un Parlamento di nominati dai boss di partito, per il quale il premier Silvio Berlusconi era arrivato perfino a ipotizzare di dare il potere di voto esclusivamente ai capigruppo per evitare il fastidio dei lunghi dibattiti in assemblea, l'iniziativa è ridotta al lumicino. Non bastasse poi la quantità ridottissima delle leggi proposte dagli onorevoli che vengono sfornate da Camera e Senato, c'è anche il problema della qualità. Con tutto il rispetto, sia chiaro, per il Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano. Pardon: Parco nazionale degli Alburni, del Cileno e Vallo di Diano. Allora guardiamole, le leggi che in questi dieci mesi ha fatto il Parlamento senza che in nessuna di loro il governo ci abbia messo il suo zampino. Ce n'è una che riguarda le assunzioni obbligatorie dei disabili nella pubblica amministrazione: giustissima. Una seconda che fissa il principio secondo il quale le madri di bambini piccoli non possono essere detenute: sacrosanta. Una terza che stabilisce come i consigli di amministrazione delle società quotate debbano essere composti per il 30% da donne: finalmente, argomenteranno in molti. Una quarta grazie a cui verranno indennizzati i familiari delle vittime del disastro ferroviario del 2010 in Val Venosta: assolutamente doverosa. Certamente più di quella che contiene surreali «Disposizioni concernenti la preparazione, il confezionamento e la distribuzione dei prodotti ortofrutticoli di quarta gamma». Di che cosa parliamo? Dell'insalata lavata e imbustata, per esempio. Legge frutto della fusione di due diverse proposte. Primi firmatari: il deputato Sandro Brandolini del Pd, titolare fino a un annetto fa del 30% di una società alimentare (Gustitalia) recentemente entrata nell'orbita del gruppo Saclà, e l'onorevole leghista Fabio Rainieri, esponente di spicco dei Cobas del latte. Per non parlare della legge che aumenta di 1,7 milioni l'anno i contributi alla Biblioteca italiana per ciechi Regina Margherita di Monza, voluta dal leghista Paolo Grimoldi e da tre suoi colleghi di partito. O della impegnativa norma che riconosce alle associazioni «maggiormente rappresentative» dei mutilati e invalidi del lavoro una poltroncina nei comitati provinciali dell'Inail. Oppure del provvedimento che abroga una norma, approvata sei anni fa dallo stesso governo, che equiparava la laurea in scienze motorie a quella in fisioterapia: legge promossa dall'onorevole dipietrista Giuseppe Caforio, titolare di un piccolo impero nel campo delle protesi sanitarie. Se ne sentiva il bisogno. Ancora, nello scarno elenco troviamo una leggina che istituisce la «Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali», il quale dice più o meno questo: il 9 ottobre di ogni anno si possono fare delle manifestazioni per sollevare l'attenzione su questo tema, però senza spendere un euro di fondi pubblici e senza andare in vacanza. Ce n'è quindi un'altra che esclude dal diritto di percepire la pensione di reversibilità il familiare che ha assassinato il pensionato. Una che decreta lo sconto massimo che gli editori possono applicare al prezzo di copertina dei libri... Niente da dire, se però altre leggi, forse un tantino più decisive di queste, non arrancassero nelle Commissioni con il rischio di non riuscire a vedere l'approdo prima della fine della legislatura. Il disegno di legge anticorruzione, se lo ricorda qualcuno? Annunciato in pompa magna dal Consiglio dei ministri ormai 20 mesi fa, è stato approvato dal Senato ed è adesso nelle curve della Camera, dove sarà quasi certamente modificato per poi tornare a Palazzo Madama: se mai ne avrà il tempo. Il calderoliano codice delle autonomie che dovrebbe ridisegnare la nostra architettura istituzionale, quando sarà pronto? Il famoso disegno di legge sulla concorrenza, che fine ha fatto? E la riduzione del numero dei parlamentari, la vedremo mai? Sergio Rizzo 18 ottobre 2011 08:30© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_18/il-parlamento-solo-14-leggi-sergio-rizzo_2e850190-f948-11e0-bc4b-5084eabf7820.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il caso Inchiesta di Report in onda oggi Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2011, 05:37:35 pm Il caso Inchiesta di Report in onda oggi
Un'azienda del premier nel poker online Mondadori, conflitto di interessi L'azienda (privata) presieduta da Aldo Ricci che rappresenta la Sogei (pubblica) in un'altra società ROMA - Alla ricerca di nuovi business con un mercato editoriale sempre più asfittico, la Mondadori si è gettata dunque a capofitto nel lussureggiante mondo dei giochi via internet: poker online, casinò virtuali... La notizia non è nuova. Era contenuta in un comunicato stampa della casa editrice del 28 giugno scorso. Titolo dell' Ansa di quel giorno: «Mondadori: nasce Glaming, nuova società per giochi online». La cosa però, in quell'occasione, non ha avuto il risalto che invece sarebbe stato logico aspettarsi per tutta una serie di circostanze che questa sera svela un servizio di Sigfrido Ranucci per Report , la trasmissione di inchieste televisive di Milena Gabanelli che va in onda la domenica su Rai Tre. Glaming è controllata al 70% dalla Mondadori e al 30% da un altro soggetto, la Fun Gaming, il cui capitale è a sua volta custodito in due scatole: Buel srl (51%) e Entertainment and gaming invest (49%). Per quanto riguarda la seconda, è inutile affannarsi a cercare di scoprire il proprietario. Le quote sono infatti custodite in una fiduciaria. La Buel è invece di proprietà di una vecchia conoscenza del mondo della televisione come Marco Bassetti. Il quale, incidentalmente consorte del sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi, si ritrova ora in società con il premier Silvio Berlusconi, ossia il proprietario della Mondadori, in un business molto appetitoso, a giudicare dal bombardamento di spot che pubblicizzano sul piccolo schermo questo genere di divertimento. E fin qui, in questa Italia, non ci sarebbe forse niente di strano. A meno di non voler passare per moralisti sollevando una questione di opportunità per un presidente del Consiglio nel ritrovarsi azionista di una società che opera nel settore dei giochi d'azzardo, sia pure virtuali. Del resto, perché mai scandalizzarsi se perfino le Poste italiane sono in quel business? Il fatto è, tuttavia, che per entrare in questa attività è necessaria una concessione. E quella concessione la può dare soltanto l'amministrazione dei Monopoli di Stato. Ovvero un organismo, affidato all'ex capo dell'agenzia delle entrate Raffaele Ferrara, che dipende dal governo presieduto dal Cavaliere. In qualunque altro Paese al mondo questo sarebbe un classico episodio di conflitto d'interessi. Ma qui chi ci fa caso? La Glaming viene costituita il 21 aprile del 2011 sulla base di un progetto che il consiglio di amministrazione della Mondadori discute il 25 novembre del 2010: a quella riunione, dettaglio, è presente in videoconferenza anche un consigliere che ha un ruolo importante nel governo Berlusconi. Cioè il direttore generale del ministero dei Beni culturali Mario Resca. Dallo scorso mese di settembre la Gamling è finalmente nell'elenco dei soggetti aggiudicatari dei giochi online pubblicato sul sito dei Monopoli. Il servizio di Report non manca di far notare come a luglio proprio la Mondadori di Berlusconi abbia dovuto pagare a Carlo De Benedetti un risarcimento danni di 564 milioni di euro, sottolineando pure la forte crescita dell'indebitamento della casa editrice. «La ciambella di salvataggio», conclude Ranucci, «potrebbe venire proprio dai giochi». Ma in questa storia l'ombra del conflitto d'interessi è dietro ogni angolo e assume aspetti molteplici e imprevedibili. Si scopre, per esempio, che il presidente della Glaming risponde al nome di Aldo Ricci. Chi è costui? Per due volte è stato l'amministratore delegato della Sogei, la società pubblica che gestisce l'anagrafe tributaria: già protagonista di un doppio giro di valzer ai vertici di quella struttura (nominato da Giulio Tremonti, rimosso con liquidazione milionaria da Vincenzo Visco e rinominato da Tremonti) che ha coinvolto anche altri soggetti ed è costato all'erario, come ha segnalato la Corte dei conti in un suo rapporto, più di 11 milioni di euro. Rapporto, in seguito finito all'attenzione dei magistrati, nel quale erano contenuti anche alcuni particolari riguardanti la prima gestione Ricci. Una inchiesta interna voluta da Visco aveva infatti rivelato che il 90% degli appalti della Sogei erano stati frazionati sotto i 200 mila euro, e che le gare europee erano limitate al 15%. Un paio d'anni fa Ricci, il cui ritorno alla Sogei era stato sponsorizzato da Marco Milanese (l'ex braccio destro di Tremonti messo sotto inchiesta dalla magistratura che ne aveva perfino richiesto l'arresto) viene sostituito con soddisfazione del direttore dell'Agenzia delle entrate Attilio Befera. Ma riesce a rimanere ancora nell'orbita della Sogei. Attualmente figura ancora come consigliere di amministrazione di Geo Web, società controllata dal consiglio dei geometri di cui la Sogei ha il 40%. Riassumiamo. Ex responsabile di un pezzo cruciale dell'amministrazione finanziaria, Ricci è ora presidente di una società privata (di cui sono azionisti il premier e il marito del sottosegretario agli Esteri) titolare di una concessione per gestire giochi online rilasciata dalla stessa amministrazione finanziaria che Ricci continua a rappresentare in un'altra società. E tutto questo può essere considerato normale? Sergio Rizzo 30 ottobre 2011 10:28© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/11_ottobre_30/Un-azienda-del-premier-nell-affare-poker-online_8c94dbf0-02d7-11e1-8566-f96c33d2415f.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - Favori a pochi, danni per tutti Inserito da: Admin - Novembre 23, 2011, 12:25:03 pm Favori a pochi, danni per tutti
La prima imprevedibile emergenza di Mario Monti si chiama Finmeccanica. I fatti che stanno emergendo in queste ore ci offrono un quadro sconcertante nel quale le aziende pubbliche sono state utilizzate alla stregua di un bancomat da politici, faccendieri e affaristi senza scrupoli, grazie alla complicità di amministratori che definire spregiudicati sarebbe assai riduttivo. Prova ulteriore che l'epoca di Tangentopoli non si è mai chiusa e che il cancro della corruzione continua a corrodere le fondamenta morali del Paese, i conti pubblici e la nostra credibilità internazionale. Le grandi imprese italiane con un ruolo e un peso sullo scenario mondiale si contano sulle dita di una mano. Finmeccanica è una di queste. Azionisti del gruppo ancora controllato al 30% dal Tesoro sono alcune fra le principali istituzioni finanziarie planetarie, i fondi d'investimento inglesi e americani, alcuni governi. Il suo capo storico Fabiano Fabiani ne rivendicava già quindici anni fa il primato fra le imprese manifatturiere nazionali. Ma oggi la Finmeccanica è anche qualcosa di più: per l'industria italiana rappresenta un patrimonio tecnologico unico. Guai a perderla. Purtroppo la sua situazione, ben al di là dei presunti fondi neri e delle vicende che dovranno chiarire i magistrati, oggi non è facile. La Finmeccanica ha un indebitamento elevatissimo, causato da alcuni investimenti pagati carissimi. È il caso dell'acquisizione della Drs tech, gruppo statunitense dell'elettronica. Il suo costo, quasi 4 miliardi di euro: cifra che comprende anche una provvigione stratosferica per il «mediatore» Lorenzo Cola. L'ex consulente della Finmeccanica, che sta ora vuotando il sacco sui fondi neri e le tangenti ai politici, intascò per quell'affare concluso nel 2008 qualcosa come 11 milioni di euro. Un affare, si capì subito, che presentava molti problemi, al di là del prezzo astronomico pagato, con un premio del 32% sulle quotazioni di borsa. Dettaglio non trascurabile, alcune divisioni della Drs lavorano per l'intelligence americana. E il contratto d'acquisto prevede che quelle parti dell'azienda restino «secretate» perfino all'azionista italiano. Che ci deve mettere i soldi ma non può metterci la bocca. Ragion per cui il nuovo amministratore delegato Giuseppe Orsi è volato negli Stati Uniti nel tentativo di convincere gli americani ad accettare un divorzio parziale. Le condizioni finanziarie della Finmeccanica sono rese ancora più pesanti dallo stato di cose in cui versano altre parti del gruppo. Da anni le perdite dell'Ansaldo Breda viaggiano al ritmo di un centinaio di milioni l'anno: nonostante questo la presidenza del Consiglio avrebbe voluto far acquistare alla Finmeccanica la Firema, azienda privata produttrice di componenti ferroviarie. Un tentativo comunque fallito. Orsi vorrebbe cedere l'Ansaldo Breda: impresa però difficile, a patto di non mettere sul piatto anche qualche pezzo buono, come l'Ansaldo Sts. Poi c'è il caso dell'Alenia aeronautica. Basta dire che è stato necessario accantonare nei bilanci 783 milioni di euro in seguito a una «conciliazione» con la Boeing, che aveva contestato la qualità di alcune forniture provenienti dagli stabilimenti italiani e destinate a equipaggiare gli aerei civili della casa americana. A questo si aggiungano i problemi di liquidità della Grecia, impossibilitata a far fronte ai pagamenti degli aerei C27J già ordinati all'Alenia, nonché alcune questioni sorte con la Turchia a proposito di alcuni pattugliatori marini, e il quadro è completo. A quanto ammonta il buco? Difficile dire, ma c'è chi ipotizza una cifra non inferiore al miliardo 200 milioni. Pure per ragioni politiche e «sociali», la struttura produttiva dell'Alenia è troppo frammentata e disordinata, il che ha reso necessario un piano di riorganizzazione destinato a lasciare molti segni. Piano nel quale, tuttavia, ha trovato spazio anche l'incomprensibile trasferimento della sede legale (dovuto a ragioni politiche), da Napoli a Venegono Superiore in provincia di Varese: quartier generale della Lega Nord, partito che ha fortemente sostenuto la nomina di Orsi. Altrettanto disordinato è il comparto dell'elettronica. E veniamo alle vicende che più direttamente riguardano la famiglia Guarguaglini. Il gruppo Selex è composto da tre diverse aziende, con produzioni in qualche caso simili e che talvolta si fanno perfino concorrenza fra loro sui mercati internazionali. Da tempo circola l'idea di fonderle, operazione che avrebbe forse il vantaggio di razionalizzare il tutto ma contemporaneamente lo svantaggio di far sparire la Selex Sistemi integrati, azienda ora al centro delle indagini giudiziarie, e della quale è amministratore delegato Marina Grossi, la moglie di Guarguaglini. Il quale si è sempre opposto all'accorpamento. Non è quindi un caso che la fusione delle tre Selex sia la ragione dei contrasti fra lo stesso Guarguaglini e Orsi. All'ultimo consiglio, con all'ordine del giorno quella integrazione proposta dall'ostinato Orsi, Guarguaglini non si è nemmeno presentato. E il progetto è passato all'unanimità. Decretando, forse, la fine di un'epoca. La Finmeccanica è troppo importante perché interessi personali possano bloccare una svolta radicale. Si deve fare pulizia e subito, illuminando fino in fondo gli angoli ancora bui ed eliminando tutte le scorie della politica. Questo è compito del governo, che deve agire senza indugi: nell'interesse della società e del Paese. A Guarguaglini va dato atto che se la Finmeccanica è diventata, con tutti i suoi difetti, un gruppo di eccellenza tecnologica, questo è anche merito suo. Ma ciò non può cancellare responsabilità oggettive e pesanti. E il braccio di ferro privato che ha ingaggiato con il governo, annunciando di voler resistere, a questo punto non può che danneggiare l'azienda. Dai partiti, invece, ci aspettiamo un sussulto di dignità. Adesso tirino fuori il disegno di legge anticorruzione dai cassetti nei quali giace. Il governo di Silvio Berlusconi l'aveva annunciato in pompa magna il primo marzo del 2010 subito dopo lo scoppio di uno dei vari scandali, quello degli appalti dei Grandi eventi della Protezione civile. Dopo la prima lettura si è incagliato in Parlamento, mentre le Camere sfornavano leggi per regolamentare la commercializzazione dell'insalata in busta o per cambiare il nome al parco del Cilento. Va approvato in fretta, introducendo norme severissime per gli amministratori infedeli e i politici corrotti, prevedendo, oltre a sanzioni penali durissime senza il beneficio della condizionale, anche la loro radiazione dalla vita pubblica. Insieme al taglio dei costi insensati della politica è la cosa più urgente da fare se si vuole restituire un minimo di credibilità a un sistema che la sta perdendo del tutto. Sergio Rizzo 23 novembre 2011 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_23/favori-a-pochi-danni-per-tutti-sergio-rizzo_164ffecc-159a-11e1-abcc-e3bae570f188.shtml Titolo: SERGIO RIZZO È meglio se Milone rimane fuori Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2011, 04:25:32 pm Conflitto d'interessi
È meglio se Milone rimane fuori Da Tangentopoli a Fintecna gli affari del sottosegretario Nominato alla Difesa aveva un ruolo anche nella società del Tesoro MILANO - Da qualunque punto di vista si guardi la cosa, non è normale. Non è normale che un ministro dia udienza al suo sottosegretario e al termine dell'incontro il ministero emetta un comunicato. E di che tenore, poi. Ansa , primo dicembre: «Il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, ha ricevuto oggi il sottosegretario Filippo Milone. Durante il "cordiale colloquio" il sottosegretario ha voluto tra l'altro ringraziare il ministro "per le manifestazioni di considerazione e di fiducia che sono - riferisce il sottosegretario Milone - indispensabili per la proficua collaborazione"». Riletto in controluce, quel comunicato che getta acqua sul fuoco fa capire intanto una cosa. Che il fuoco c'è. Non era del resto difficile accorgersene. Era opportuno nominare sottosegretario alla Difesa l'ex consigliere dell'ex ministro Ignazio La Russa sei giorni dopo che già era stata resa nota quella intercettazione telefonica fra i manager di Finmeccanica Lorenzo Borgogni e Marco Forlani (costui incidentalmente figlio dell'ex segretario Dc Arnaldo Forlani)? Eccone un frammento. Marco: «Senti mi ha chiamato Filippo eh, che dice su, su quel discorso che facciamo ogni anno della loro offerta di partito a Milano eccetera...». Borgogni: «Di partito? Del ministero!». Marco: «...Credo sia una cosa del Pdl, no? Dice che te ne ha parlato a te pure». Il giorno seguente al giuramento dei sottosegretari Fiorenza Sarzanini riferisce sul Corriere che «durante l'interrogatorio di sabato scorso di fronte al pm Paolo Ielo a Borgogni è stato chiesto di chiarire a che titolo avrebbe versato soldi a Filippo Milone, ex capo della segreteria di La Russa». E per ora fermiamoci qui, in attesa dei risultati di quel chiarimento. Ma è appena il caso di sottolineare come la Finmeccanica sia il principale fornitore della Difesa. E come lo stesso Milone fosse consigliere di una società di quel gruppo, la Ansaldo Sts: settore trasporti. Incarico dal quale ha rassegnato le dimissioni una volta nominato al governo. Ma non l'unico che il sottosegretario, per la serie conflitti d'interessi, ha avuto nelle aziende pubbliche. Qualche anno fa, per esempio, è transitato nel consiglio di amministrazione delle Poste. Mentre non abbiamo ancora notizia ufficiale delle sue eventuali dimissioni dal collegio sindacale di una società che si chiama Quadrifoglio Real Estate srl. Collegio presieduto curiosamente dal presidente dell'Inps Antonio Mastrapasqua. La società in questione appartiene a Fintecna Immobiliare, cioè al Tesoro che è il proprietario del gruppo Fintecna. Holding statale che secondo gli esperti del settore potrebbe avere un ruolo importante nell'operazione di dismissione del patrimonio pubblico. Comprese magari le caserme della Difesa. Ma Milone occupa anche una seconda poltrona del giro Fintecna immobiliare. Si tratta di un posto nel consiglio di amministrazione di Alfiere spa. È la società che Fintecna ha al 50% assieme ad alcuni privati riuniti nella Progetto Alfiere spa. Sono la Lamaro appalti della famiglia Toti, la Astrim di Alfio Marchini, il fondo immobiliare Fimit guidato da Massimo Caputi, la Tecnimont, la Immobiliare Fondiaria Sai di Salvatore Ligresti e la Eurospazio, i cui azionisti sono custoditi in due fiduciarie. Alfiere è l'impresa che dovrebbe realizzare un massiccio investimento immobiliare a Roma, con la trasformazione di tre torri alte 62 metri e di altri edifici al quartiere Eur, dove un tempo c'era il ministero delle Finanze, su progetto di Renzo Piano. Un'operazione fondiaria appetitosa, che prevede fra l'altro la realizzazione di locali commerciali e ben 350 appartamenti. Che cosa c'entra Milone? C'entra evidentemente per Ligresti, costruttore e finanziere siciliano. Come siciliane sono le radici del sottosegretario, comunque milanese di nascita, e di La Russa. E la terra è un legame formidabile, a giudicare dai fatti. Il figlio di La Russa, Antonino Geronimo, è consigliere di amministrazione della holding di Ligresti Premafin. E Milone è presidente di Quintogest, impresa controllata da Fondiaria Sai. Nonché consigliere della Sviluppo Centro est, società fra Ligresti, Toti e i costruttori Santarelli. Ma in passato è stato molto di più. Negli anni ruggenti del tramonto della Prima Repubblica gestisce la Grassetto, poi finita come tutte le grandi imprese di costruzione nel vortice delle inchieste di Tangentopoli. E lui s'immola. A partire dal tintinnìo delle manette fino ai processi per corruzione subisce tutte le traversie di quella stagione. Da Messina a Napoli, ad Asti, a Padova. Sperimentando, a seconda dei casi, praticamente ogni brivido che la ruota della giustizia sa offrire: la prescrizione, l'assoluzione in secondo grado, la condanna definitiva con lo zuccherino della «riabilitazione». Per non farsi mancare proprio nulla, nel 1995 Milone arriva a mettere su con il futuro capo di una nuova Dc, Giuseppe Pizza, poi ritrovato nel 2008 al governo Berlusconi come sottosegretario all'Istruzione, una ditta di impianti elettrici. Che però dopo qualche anno va per aria. Niente paura: il Nostro è iper vaccinato. Si narra che la sua carriera nelle costruzioni sia cominciata nell'impresa di Gaetano Graci. Proprio lui, uno dei Cavalieri di Catania, costruttori siciliani per decenni sulla cresta dell'onda quando negli anni Novanta vengono investiti dalle tempeste giudiziarie. A un certo punto Milone si trova addirittura in mano una piccola quota del 5%, chissà perché, in un'azienda di commercio all'ingrosso di carni di Placido Filippo Aiello, il genero di Graci. Finché nel 1993 la Ge.c.al. (così si chiama quella) va in liquidazione. Per completezza d'informazione va detto che due anni dopo Aiello e il suocero si beccano una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. L'accusa dice che Cosa nostra aveva investito dei soldi nelle attività imprenditoriali di famiglia. Aiello patteggia 24 mesi. Passano dieci anni e la Guardia di Finanza lo accusa di aver trasferito in Svizzera 700 mila euro in barba alle regole del Fisco. Ma questa è un'altra storia. Composto l'intero quadro non può tuttavia che restare il dubbio: era proprio opportuna la nomina di Milone? Sergio Rizzo 3 dicembre 2011 | 8:53© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/11_dicembre_03/milone-sottosegretario-affari-rizzo_0ee64418-1d81-11e1-806b-ab0ba8b41272.shtml Titolo: SERGIO RIZZO. Un comma rinvia i tagli alle Province Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2011, 05:18:47 pm I COSTI DELLA POLITICA
Un comma rinvia i tagli alle Province I tempi saranno definiti con una legge. L'incognita del via libera dei partiti ROMA - Mario Monti ha imparato a proprie spese che cosa significhi toccare le Province. Tutti, a destra come a sinistra, sentenziano che sono inutili. Tutti, a sinistra come a destra, dicono che bisogna abolirle. Guai, però, soltanto a sfiorarle. Subito parte la sassaiola. Che mai è stata così violenta: questa volta avevano capito che si stava facendo sul serio, anche per l'urgenza di mandare un segnale chiaro e inequivocabile a Francoforte. Ricordate la famosa lettera della Banca centrale europea firmata congiuntamente dal presidente uscente Jean-Claude Trichet e dal suo successore Mario Draghi, pubblicata lo scorso 29 settembre dal Corriere ? Meno esplicito, il suggerimento che conteneva non poteva essere: «C'è l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)». E Monti l'ha preso talmente sul serio da aver trovato un grimaldello micidiale per assestare un colpo mortale a quegli enti, senza dover ricorrere a una faticosa modifica costituzionale. Ha semplicemente svuotato le Province dei loro scarsi poteri, disponendo per decreto la conseguente abolizione delle giunte e la drastica riduzione dei consigli provinciali. Difficile dire se avesse messo nel conto la pioggia di pietre che gli sono arrivate addosso da tutte le parti. Destra e sinistra ancora una volta davvero in sintonia. «Noi ce ne andiamo dall'Unione delle Province italiane», ha ringhiato il presidente della Provincia di Latina, Armando Cusani, pidiellino. «Tagliamo tutto quello che dobbiamo tagliare, ma non a casaccio», ha messo le mani avanti il leader della sinistra Nichi Vendola. Mentre dal segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, arrivava ai rivoltosi un messaggio di tangibile solidarietà: «Avete tutto il nostro sostegno. Vi appoggiamo perché la vostra è una battaglia di democrazia». Intanto il presidente della Conferenza delle Regioni, il democratico Vasco Errani, ammoniva: «Attenti. Ci possono essere costi più alti. Il personale, per esempio, dove va a finire?». E il deputato del Pd Enrico Gasbarra, ex presidente della Provincia di Roma, tagliava corto: «Cancellare gli eletti dal popolo senza che abbiano terminato il loro mandato la trovo una scelta demagogica e grave». Ma a Monti nemmeno il suo successore Nicola Zingaretti le mandava a dire: «Siamo quelli che di più si sono impegnati per ridurre o eliminare la spesa pubblica. Chi oggi guida le Province lo fa perché è stato votato da milioni di italiani». Senza contare poi altri aspetti non marginali del problema, come dimostra il caso della Provincia di Bologna, attualmente impegnata in un investimento di oltre 30 milioni per costruire una nuova sede. A quel punto assolutamente inutile. Nel Pd, insomma, il malumore cresceva fino a prendere la forma di una protesta semiufficiale contro la decadenza automatica e per decreto delle giunte e dei consiglieri. Idem capitava nel Pdl, dove volavano anche parole grosse all'indirizzo della decisione di Monti. «Gettano fumo negli occhi e fanno demagogia», ha commentato il presidente della Provincia di Milano Guido Podestà, berlusconiano di ferro. Né ha usato particolari diplomazie il presidente dell'Unione Province, Giuseppe Castiglione, pidiellino e presidente della Provincia di Catania: il quale ha minacciato il ricorso alla Corte costituzionale, anche dopo la notizia che il governo ci aveva ripensato. All'articolo 23 della versione definitiva del decreto «salva Italia» è infatti spuntato a sorpresa un comma con il quale si stabilisce che sarà una «legge dello Stato» a dire entro quale termine gli organi delle Province decadranno. Se sia stato il Quirinale a imporre questa modifica, preoccupato per le possibili proteste alla Consulta, oppure se sia il risultato delle pressioni inaudite che si sono scatenate, lo sapremo presto. Vero è che difficilmente, se fosse scoppiato un contenzioso davanti alla Corte costituzionale, la Corte suprema avrebbe potuto dare man forte al governo bocciando i ricorsi di consiglieri eletti per cinque anni e dimissionati per decreto. La conseguenza è che nel frattempo in 4.520 hanno tirato un bel respiro di sollievo. Tanti sono consiglieri e assessori che potenzialmente avrebbero rischiato di perdere la poltrona, come diceva la versione di partenza della norma, il 30 novembre 2012. E che adesso, invece, potranno sperare di arrivare almeno fino alla fine del loro mandato. Il che non è un dettaglio. La maggior parte delle giunte provinciali in carica ha ancora tre anni e mezzo di vita. Per allora potrà succedere di tutto. Questo è il vero rischio: il governo di Mario Monti non durerà oltre la primavera del 2013. E possiamo già scommettere che assisteremo a una estenuante melina per non far vedere la luce a quella legge prima di allora. L'importante è che questo imprevisto, che però non era nemmeno troppo complicato prevedere, non diventi la pietra tombale dell'operazione compromettendo la vera sostanza del provvedimento, cioè il trasferimento delle competenze provinciali a Comuni e Regioni entro il prossimo 30 aprile. Saranno quelli, e non i tagli delle poltrone (che la relazione tecnica alla manovra cifra in 65 milioni di euro), a dare i risparmi in prospettiva più consistenti. Meno passaggi intermedi, meno burocrazia, meno veti da dover rimuovere ogni volta che c'è da prendere una decisione. Vi pare poco? Sergio Rizzo 8 dicembre 2011 | 11:00© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/11_dicembre_08/sergio-rizzo-costi-politica-no-province_fd63d178-217d-11e1-97f3-fb4c853f7d5d.shtml Titolo: SERGIO RIZZO La norma sulla sanatoria e la ripresa della fuga dei capitali Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2011, 10:30:26 am IL DECRETO SALVA ITALIA
Dallo scudo agli enti inutili tutti i «buchi» della manovra La norma sulla sanatoria e la ripresa della fuga dei capitali Che il decreto «salva Italia» sia un esempio di semplicità e chiarezza, come prescrive una legge calderoliana di due anni fa, peraltro mai applicata, non si può proprio dire. Agli scettici suggeriamo di leggere gli articoli del «capo» intitolato «Misure per l'emersione della base imponibile e la trasparenza fiscale»: dove l'unico messaggio immediatamente comprensibile e inequivocabile, senza andare a consultare articoli di legge, regolamenti e decreti legislativi, è che la Guardia di finanza farà gli accertamenti presso le imprese, «per quanto possibile, in borghese». E siamo certi che molte sorprese ancora devono saltare fuori. Intanto però il decreto che avrebbe fermato l'Italia sull'orlo del baratro mostra già qualche crepa, che bisognerà riparare quanto prima per evitare il rischio di mettere in pericolo pezzi importanti della manovra. È il caso della sovrattassa dell'1,5% sui capitali rientrati, o meglio regolarizzati, con lo scudo fiscale. Addizionale che viene considerata da molti osservatori, a ragione, assolutamente insufficiente. Chi ha esportato illegalmente capitali all'estero se la caverà pagando il 6,5% in tutto, vale a dire un settimo di quanto avrebbe dovuto versare se avesse dichiarato quelle somme al fisco. Ma soprattutto, negli ambienti bancari circola un discreto scetticismo sulla reale applicabilità della soprattassa, per com'è formulata. Bisogna infatti ricordare che l'ultimo scudo fiscale del governo Berlusconi prevedeva l'anonimato assoluto. Ragion per cui il Tesoro non conosce i nomi dei beneficiari e ciò, oltre a essere un'anomalia tutta italiana, rappresenta anche un bel problema che andrebbe superato. Non è poi detto che i capitali rientrati o regolarizzati con quella meravigliosa agevolazione concessa agli evasori siano ancora nelle stesse banche dove sono tornati o che li hanno messi in regola. In moltissimi casi potrebbero essere anche tornati all'estero, soprattutto in Svizzera: se è vero, come si sussurra negli ambienti bancari ben informati, che nelle banche elvetiche le cassette di sicurezza da mesi registrano il tutto esaurito. E che la crisi finanziaria ha indotto molti cittadini non certo patriottici quanto facoltosi, a esportare in Svizzera volumi di denaro inimmaginabili: c'è chi parla addirittura di cifre record, circolano stime vertiginose, che arrivano a 800 miliardi di euro nell'ultimo anno e mezzo. Quell'1,5%, ammesso che si riesca a riscuotere, non gli fa nemmeno il solletico. C'è poi il delicato passaggio dei costi della politica. Il governo ha già dovuto fare una marcia indietro sulle Province, rimandando a una futura legge l'eliminazione delle giunte e il taglio dei consiglieri provinciali, mentre il giro di vite sulla previdenza ha risparmiato i privilegiatissimi dipendenti degli organi costituzionali come Camera e Senato. Altri buchi? La fusione fra Inps, Inpdap ed Enpals non sarà una passeggiata: non a caso il precedente progetto di integrazione, che portava il marchio del centrosinistra, è fallito. Per ora l'unico a guadagnarci davvero, se si eccettuano i dirigenti che non perdono il posto ma vengono semplicemente spostati, è il presidente dell'Istituto nazionale della previdenza sociale, che incassa una proroga monstre del suo incarico di 30 mesi. Dal suo punto di vista, è il decreto «salva Mastrapasqua». Già. Nominato dal governo Berlusconi, Antonio Mastrapasqua sarebbe scaduto a luglio prossimo: il suo incarico durerà invece fino al 31 dicembre 2014. Piuttosto complicato, diciamo la verità, sembra attuare anche la norma che stabilisce la fine del pagamento in contanti per le pensioni oltre 500 euro. Vi immaginate milioni di poveri vecchietti costretti ad aprire un conto in banca? E vi immaginate gli istituti di credito che non fanno loro pagare un euro di commissione? Boh... Non poche perplessità sollevano poi le norme che dovrebbero far pagare finalmente un po' di quattrini ai proprietari di lussuosi yacht. La tassa colpisce le barche ormeggiate nei porti italiani. E quelle ormeggiate nei porti di Paesi esteri, magari battenti bandiera straniera? E quelle parcheggiate in società di comodo con sede nei paradisi fiscali? Con una legge congegnata così può stare tranquillo anche Silvio Berlusconi, proprietario di uno splendido yacht di 48 metri acquistato da Rupert Murdoch nel 2000 al prezzo di 28 miliardi e mezzo di lire e intestato alla società Morning Glory Yachting limited, con sede alle Bermuda. Gli basterà tenersi alla larga dai porti italiani... E l'ex premier tycoon non è certo l'unico. Considerazioni analoghe si possono fare per la tassa sugli aerei e gli elicotteri privati, che riguarda solo i velivoli iscritti nel registro aeronautico nazionale. Gli altri? Ma non che non ci si renda conto delle difficoltà enormi a cui si va incontro quando si affrontano certi capitoli. Gli enti inutili, per esempio. Non c'è un governo che non ne abbia abolito qualcuno. Salvo poi fare marcia indietro. Il governo Monti non ha voluto essere da meno, decretando l'evaporazione dell'Enit, ente che avrebbe dovuto promuovere il turismo, e dell'Isa, società del ministero dell'Agricoltura con un consiglio di amministrazione lottizzato nel pieno rispetto dei rapporti di forza della maggioranza che sosteneva Berlusconi. Oltre che di alcuni organismi che rappresentano autentiche assurdità, come l'Agenzia per la regolamentazione sul settore postale, una specie di authority per le Poste creata in un battibaleno dal governo nonostante esistessero già l'Antitrust e l'Agcom, e al cui vertice era stato collocato il capo di gabinetto dell'ex ministro Renato Brunetta, il consigliere di Stato Carlo Deodato. Ma perché, mentre si procedeva a quelle sacrosante abrogazioni, far resuscitare con lo stesso decreto l'Istituto nazionale per il commercio estero, sotto forma di una nuova Agenzia? Sergio Rizzo 10 dicembre 2011 | 9:07© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/11_dicembre_10/dallo-scudo-agli-enti-inutili-tutti-i-buchi-della-manovra-sergio-rizzo_116999d0-22f7-11e1-bcb9-01ae5ba751a6.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Manager di Stato, super buste nel mirino Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2011, 06:09:59 pm «Vendetta»
Manager di Stato, super buste nel mirino Tagli (possibili) dai 50 ai 160 mila euro all'anno. Un altissimo burocrate: è una vendetta dei parlamentari ROMA - La tremarella è tornata. Lo spettro di un taglio delle buste paga ben più crudele di quello che le ha colpite finora si aggira per le pubbliche amministrazioni, le società di Stato, le authority. Trema il capo di gabinetto di Mario Monti, Vincenzo Fortunato, recordman della sua categoria. Ma anche il capo del Poligrafico dello Stato, Maurizio Prato. E perfino il presidente dell'Antitrust. Giovanni Pitruzzella aveva già subito un bel salasso: 60 mila euro. L'incarico di consigliere giuridico di Ferruccio Fazio è evaporato assieme alle dimissioni dell'ex ministro della Salute. Poco male. Nel cambio, l'avvocato siciliano tenuto in grande considerazione dal suo conterraneo presidente del Senato Renato Schifani, ci ha senz'altro guadagnato. Prima era a capo della commissione di garanzia degli scioperi: 118 mila euro. Arrivato Mario Monti a palazzo Chigi, il presidente dell'Antitrust Antonio Catricalà l'ha seguito e lui ha preso il suo posto: 475.643 euro e 38 centesimi. Ragion per cui rischia ora che gli venga chiesto un nuovo e più doloroso sacrificio. Sempre che, naturalmente, abbia successo, e fino in fondo, l'ultima trovata dei relatori della manovra governativa: mettere un limite alle retribuzioni di «chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali». Non potranno superare lo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione. Trecentoundicimila euro, più o meno. «È una vendetta dei parlamentari, che non digeriscono il taglio della loro indennità conseguente all'applicazione della media europea», ringhia un altissimo burocrate. Resta solo da vedere se questa volta, per tutti i manager pubblici che nonostante i tagli già fatti continuano a guadagnare più di quella cifra, sarà disperazione autentica. Perché quel tetto in realtà già esiste, anche se finora quasi nessuno se n'è accorto. L'aveva introdotto Romano Prodi, fra i mugugni di tanti. Poi era ritornato Berlusconi ed era iniziata una melina di due anni. Finalmente, nel giugno del 2010, il Consiglio dei ministri aveva sfornato il regolamento attuativo di quella norma. Che però salvava i contratti in essere. Escludendo anche la Banca d'Italia e le authority. Ecco dunque che Pitruzzella può sperare, nel caso ora andasse in scena lo stesso copione. Perché per stabilire come e a chi esattamente quel tetto si applicherà, sarà necessario attendere il solito decreto attuativo. Così non possiamo ancora dare nulla per scontato. Nella peggiore delle ipotesi, il presidente dell'Antitrust (inequivocabilmente pagato dalle pubbliche finanze, a differenza del presidenti delle altre authority) dovrà rinunciare a 160 mila euro lordi l'anno. Ma soffriranno anche i capi delle Agenzie fiscali, tutti retribuiti oltre quel limite. Il direttore dei Monopoli di Stato Raffaele Ferrara, titolare di una paga di 389 mila euro, dovrebbe perdere 78 mila euro. Idem il segretario generale della Farnesina, Giampiero Massolo. Il capo dell'Agenzia delle Entrate Attilio Befera ha emolumenti per 460 mila euro: non percepirà più il compenso di Equitalia (160 mila euro). Altrettanto dura sarà per il Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio, al quale spettavano prima dei tagli imposti 516 mila euro l'anno. Destino simile dovrebbe avere Fortunato. Il suo compenso non è disponibile sul sito istituzionale del ministero dell'Economia, come del resto accade (incredibilmente, alla faccia della trasparenza) per quelli di quasi tutti i capi di gabinetto e gli alti vertici delle burocrazie. È tuttavia noto che è di gran lunga il più elevato per l'incarico: non inferiore a quello percepito dal direttore generale del Tesoro (oltre mezzo milione di euro). Un taglio ben più pesante di quello che rischia Fortunato avrebbe già subìto la retribuzione di chi occupava fino a qualche giorno fa quel posto, vale a dire Vittorio Grilli. A lui, paradossalmente, il tetto gli fa un baffo: passato al ruolo di viceministro dell'Economia si è dovuto accontentare della paga governativa (circa 50 mila euro) più un'indennità pari a quella parlamentare, come spetta per legge a tutti i componenti dell'esecutivo non provenienti dal Parlamento. Grasso che cola se adesso racimola (si fa per dire) centottantamila euro. Ma le sorprese non finiscono qui. Perché l'emendamento «della vendetta» se la prende anche con i magistrati che hanno il doppio incarico. Capi di gabinetto e capi degli uffici legislativi, solitamente ingaggiati dai ruoli della Corte dei conti, dei Tar e del Consiglio di Stato non potranno più cumulare lo stipendio da magistrato «fuori ruolo» con il compenso governativo. Non tutto, almeno: soltanto il 25% di quello che già prendono dall'amministrazione di provenienza. Facciamo il caso non di un magistrato, ma di un ambasciatore: il consigliere diplomatico del ministero dello Sviluppo economico, ora retto da Corrado Passera. Ipotizzando che l'ambasciatore Daniele Mancini abbia dalla Farnesina uno stipendio (nel sito non figura, come al solito) di 200 mila euro, a questo aggiungerebbe la retribuzione di 102 mila euro prevista per il suo incarico allo Sviluppo. Ma siccome non potrebbe incassare più del 25%, allora dovrebbe subire un taglio di 50 mila euro. E non se la caverebbero neppure gli amministratori delle società pubbliche non quotate. A loro non si applicherà il limite dei 311 mila euro: verranno invece fissati tetti per fasce diverse, a seconda delle dimensioni della rispettiva azienda pubblica. Ma anche in questo caso deciderà un futuro decreto attuativo. Circostanza che rende la partita ancora apertissima: almeno per i contratti in essere. Che fine farà la retribuzione dell'amministratore delegato delle Poste Massimo Sarmi (un milione e mezzo l'anno)? E quelle del suo presidente Giovanni Ialongo, ex sindacalista della Cisl (635 mila euro, dice la Corte dei conti)? Dell'amministratore delegato di Fintecna Massimo Varazzani (750 mila)? Del capo della controllata Fintecna Immobiliare Vincenzo Cappiello (505 mila)? Dell'amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri (835 mila euro, rimborsi compresi, secondo la Corte dei conti)? O del suo collega della Fincantieri Giuseppe Bono, al quale spettano 600 mila euro l'anno senza considerare la parte variabile legata ai risultati? Belle domande... Sergio Rizzo 15 dicembre 2011 | 8:26© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/11_dicembre_15/rizzo_manager-di-stato-super-buste-nel-mirino_5fdbfac4-26e2-11e1-853d-c141a33e4620.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Tutti i super incarichi del «tecnico» trasversale Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2012, 10:48:15 pm Il ritratto
Tutti i super incarichi del «tecnico» trasversale La parabola Il suo curriculum va dalla fine della Prima Repubblica al governo di Romano Prodi Carlo Malinconico ha giocato, correttamente, d'anticipo. Appena saputo che per lui si sarebbero schiuse le porte del governo di Mario Monti si è affrettato a dimettersi da tutti gli incarichi. E non ne aveva certamente pochi, l'ex presidente della Federazione degli editori. Contemporaneamente presidente dell'Audipress, consigliere di amministrazione dell'Agenzia Ansa, di Autostrade per l'Italia e di Atlantia, la holding che controlla le stesse Autostrade. Ma anche amministratore della Malinconico e associati. Il 7 novembre il timone della sua società di consulenza aziendale è passato nelle mani della sua signora Grazia Graziani, con la quale aveva trascorso diversi weekend nell'esclusivo resort di Porto Ercole, il Pellicano di Roberto Sciò. Soggiorni pagati da Francesco De Vito Piscicelli, noto alle cronache per essere colui che la notte del terremoto in Abruzzo «rideva» al pensiero degli affari che la ricostruzione avrebbe garantito, per fare un favore, ha detto egli stesso ai giudici, ad Angelo Balducci, come gli era stato chiesto dall'appaltatore Diego Anemone. Comunque la si metta, un brutto scivolone per uno che adesso ha incarichi di governo. Il suo curriculum è lungo come la Quaresima. Le sue relazioni sono a 360 gradi. Con l'ex presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici Angelo Balducci, successivamente indagato con Anemone per gli affari della Cricca, i rapporti erano fraterni. Almeno a giudicare dalle intercettazioni telefoniche pubblicate dal Fatto Quotidiano da cui è scaturita la vicenda del Pellicano. Ce n'è una, per esempio, nella quale Malinconico parla con «Angelo», che chiama per nome, di «una spintarella». Un segnale «un po' da Oltretevere», spiega meglio un terzo partecipante a quella conversazione della mattina dell'8 maggio 2008, Calogero Mauceri detto Lillo. «Oltretevere» sta ovviamente per il Vaticano, dove il Gentiluomo di Sua Santità Angelo Balducci ha ottime aderenze. A che cosa sia potuta servire la «spintarella», non si sa. Si sa invece che qualche giorno fa Mauceri, dirigente di Palazzo Chigi (lo era anche all'epoca dei fatti) è stato nominato capo del Dipartimento degli Affari regionali. Carlo Malinconico Castriota Scanderbeg, questo è il suo nome completo, ha 61 anni, è avvocato ed è stato consigliere di Stato. Discende dalla nobile e antichissima famiglia albanese di Giorgio Castriota, eroe nazionale nella guerra contro i turchi. Più modernamente, nemmeno lui si è mai tirato indietro davanti a una sfida nella pubblica amministrazione, nei cui meandri si muove come pochi. Titolare della cattedra di diritto dell'Unione Europea a Tor Vergata, è l'unico italiano a essere diventato ordinario grazie a un meccanismo a dir poco curioso. Una leggina, poi abolita, che consentiva agli insegnanti nominati dal ministro del Tesoro alla Scuola superiore di Economia e Finanze di transitare automaticamente nei ruoli dei professori universitari. Al Tesoro c'era stato fra il 1995 e il 1996, con Lamberto Dini. Capo dell'ufficio legislativo, esperienza che aveva già provato nel 1990 alle Partecipazioni statali, durante l'agonia della Prima Repubblica: ultimo governo di Giulio Andreotti. In seguito, si sarebbe aperta per lui la stagione delle authority, all'Antitrust e all'Autorità dell'Energia. E Palazzo Chigi, fino ad arrivare al vertice dell'amministrazione. Segretario generale, una potenza assoluta. Aveva fatto il suo nome per quell'incarico il ministro per l'attuazione del Programma Giulio Santagata. C'era il governo di Romano Prodi e l'attuale sottosegretario vantava già una fiorente attività professionale. Che inevitabilmente, però, rischiava di entrare in rotta di collisione con il ruolo istituzionale. Come accadde. Lo studio Malinconico aveva avuto l'incarico di rappresentare Autostrade nel contenzioso che si era aperto a Bruxelles. La questione era pelosa, anche perché il governo, di cui Malinconico era al servizio, si era opposto alla cessione di Autostrade alla spagnola Abertis. Con la concessionaria autostradale c'era dunque in corso un pesante conflitto. E infatti Prodi, quella faccenda, non la digerì affatto. Nell'ottobre del 2007 fu la volta di un'altra singolarissima vicenda. Il costruttore Edoardo Longarini, nome noto alle cronache di Tangentopoli, aveva attivato un arbitrato per il vecchio piano di ricostruzione di Macerata chiedendo allo Stato 70 milioni di euro. La clausola era nel contratto e il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro era con le spalle al muro. Nominò come proprio arbitro l'avvocato dipietrista Domenico Condello. Longarini designò invece l'ex amministratore di Autostrade, Vito Gamberale. I due arbitri di parte nominarono quindi di comune accordo come presidente del collegio il nostro Carlo Malinconico. Una scelta, si disse, «di garanzia». Ma che non mancò di sollevare inevitabili polemiche. Anche perché un segretario generale di Palazzo Chigi nelle vesti di arbitro in una controversia privata ancora non si era visto. Un paio d'anni dopo, per la cronaca, Malinconico entrava nei consigli di Atlantia e Autostrade. Sergio Rizzo 10 gennaio 2012 | 8:39© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_10/tutti-i-super-incarichi-del-tecnico-trasversale-sergio-rizzo_6dd49654-3b5a-11e1-bd31-7de06b9c283b.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Rimborsi spese e portaborse: le nostre anomalie Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2012, 10:09:37 pm L'analisi E Le ambiguità della legge
Rimborsi spese e portaborse: le nostre anomalie Lo stipendio dei deputati italiani è, almeno, di tremila euro lordi al mese più alto di quello dei loro colleghi di altri Paesi ROMA - I dati della Commissione Giovannini, come premette lo stesso rapporto, vanno certamente presi con le molle. Mettiamoci il fatto che la norma con la quale la retribuzione (pardon, il costo...) dei nostri parlamentari dovrebbe essere equiparata alla media europea è chiarissima soltanto in apparenza: in realtà è il massimo dell'ambiguità. Aggiungiamoci poi che da mesi, avendo probabilmente fiutato l'aria, si moltiplicano gli studi di fonte non proprio imparziale tesi a dimostrare che contrariamente all'evidenza di un peso macroscopico sui contribuenti (per mantenere le due Camere ogni italiano spende 26,33 euro l'anno, il doppio di un francese, due volte e mezzo rispetto a un cittadino britannico!) deputati e senatori italiani costerebbero individualmente meno dei loro colleghi europei. La conclusione logica sarebbe che alla fine la montagna ha partorito un topolino. Invece i risultati della Commissione offrono all'evidenza per la prima volta in un documento con i crismi dell'ufficialità, alcune storture del nostro sistema che mettono seriamente in crisi il catenaccio avviato dai difensori dello status quo, pronti non soltanto a respingere qualsiasi taglio a indennità, rimborsi e prerogative, ma addirittura a rivendicare più soldi proprio in virtù della famosa media europea. Intanto è palese che lo stipendio nudo e crudo dei parlamentari italiani è di almeno 3 mila euro al mese (lordi, s'intende) più alto degli altri. Anche dei tedeschi, nonostante la Germania abbia un prodotto interno lordo procapite del 25% più alto dell'Italia. E senza considerare la Spagna, dove l'indennità dei deputati è decisamente più bassa. Ma soprattutto, sarà ora impossibile per la Camera e il Senato non fare i conti con alcuni scheletri nell'armadio da troppo tempo. Prendiamo la vicenda scandalosa dei collaboratori. Quello italiano è l'unico Parlamento in Europa nel quale deputati e senatori percepiscono una quantità non irrilevante di soldi con cui dovrebbero retribuire l'assistente personale. Sapevamo anche prima di leggere il rapporto della Commissione che i membri del Bundestag hanno diritto a una somma enormemente superiore. Ma c'è una differenza: i deputati tedeschi non toccano un euro. I loro collaboratori personali vengono infatti pagati direttamente dal Bundestag. Né più, né meno, come avviene altrove, a cominciare dal Parlamento europeo. I nostri, invece, in molti casi se li mettono in tasca: puliti, senza imposte. Di più. Quei soldi vengono da qualcuno utilizzati per fare il famoso versamento volontario al partito. Con il risultato che si può persino portare in detrazione dalle tasse il 19% dell'importo su una somma già esentasse. Molti assistenti intascano paghe da miseria e in nero. Non è un caso che i collaboratori ufficialmente riconosciuti siano meno di un terzo dei deputati. Speriamo che il rapporto Giovannini contribuisca finalmente a far cessare questo sconcio. Facendo venire al pettine pure altri nodi. Per esempio la questione della diaria, che incassano tutti forfettariamente. Di che cosa si tratta? Del rimborso per le spese sostenute a causa della permanenza a Roma nei giorni di lavoro. Per quale ragione questo contributo (esentasse) debba spettare senza alcuna differenza anche a chi abita nella Capitale, è francamente un mistero. Adesso toccherà al Parlamento tirare le somme. La Commissione non le ha tirate. E non è arbitrario ravvedere dietro questa ovvia omissione una scelta precisa. Dare anche un semplice suggerimento sull'interpretazione dei dati e delle varie voci sarebbe stato probabilmente irrituale. Ma anche rischioso, vista l'indignata determinazione con cui le Camere hanno rivendicato la propria autonomia quando nel decreto «salva Italia» aveva fatto capolino una norma che affidava al governo il compito di fare la media, nel caso in cui i dati non fossero stati disponibili per fine 2011. I numeri sono arrivati il 2 gennaio, pur con tutti i limiti di cui abbiamo parlato. Le Camere hanno voluto risolvere il problema da sole invocando l'«autodichia». E dandosi pure la zappa sui piedi, considerato che la media europea sarebbe dovuta scattare dalla prossima legislatura mentre ora il presidente di Montecitorio Gianfranco Fini ha promesso che si applicherà da subito. Dunque lo facciano: in fretta e senza fare ricorso alle solite piccole furbizie, quando si dovranno tirare le somme. Magari facendosi scudo di uno di quegli studi «imparziali» che mettono tutto nello stesso calderone, dall'indennità ai rimborsi spese fino ai costi del portaborse, per arrivare a una qualche conclusione gattopardesca. Non lo meritano i cittadini e non lo meritano le istituzioni democratiche. Per difendere il nostro Parlamento e restituire credibilità alla politica non c'è che una strada: quella della serietà e della trasparenza. Per favore, lasciate perdere i calderoni. Sergio Rizzo 3 gennaio 2012 | 9:02© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_03/rimborsi-spese-portaborse_1be3bc72-35d2-11e1-8614-09525975e917.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Regioni, In Sicilia e Sardegna stipendi record Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2012, 03:21:58 pm Il confronto tra le buste paga delle giunte locali
Regioni, la giungla dei privilegi In Sicilia e Sardegna stipendi record Tagli per Vendola e Chiodi. Ma a Cota vanno 1.779 euro in più della Bresso ROMA - Al governatore siciliano Raffaele Lombardo la sola definizione di gabbie salariali «fa schifo». La sua coerenza è da lodare. Alla guida di una Regione con un numero di abitanti pressoché identico a quello del Veneto, ma un costo della vita inferiore del 9,4%, Lombardo porta a casa fra indennità e rimborsi il 43% in più del suo collega Luca Zaia: 170.319 euro netti l'anno contro 118.703, secondo i dati contenuti nel sito ufficiale della conferenza dei governatori ( www.parlamentiregionali.it ). Senza considerare, poi, la differenza abissale nella ricchezza di quei due territori. Il prodotto interno lordo del Veneto, dice l'Istat, è del 75% superiore a quello della Sicilia. La verità è che in Italia le uniche gabbie salariali esistenti (quel sistema in voga un tempo per cui gli stipendi erano più bassi dove il costo della vita era inferiore) ce le hanno i politici. Però al contrario. Ha senso che un consigliere regionale molisano, dove la vita costa il 32,8% in meno, intaschi ogni mese fra indennità e rimborsi vari 10.125 euro netti contro gli 8.639 del suo collega della Liguria? E sorvoliamo sul fatto che il Molise ha un quinto degli abitanti della Liguria e una ricchezza procapite del 37% inferiore. Ha senso che un consigliere regionale dell'Emilia Romagna abbia un appannaggio netto pari a metà di quello del consigliere della Sardegna (5.666 euro contro 11.417)? O che la busta paga del governatore della Calabria, pure dopo essere stata tagliata di 27 mila euro, sia ancora di 43 mila euro l'anno superiore a quella del presidente della Toscana? Conosciamo le argomentazioni di chi difende il proprio status quo: i dati vanno presi con le molle, anche quelli ufficiali. Vero, ma anche con queste precauzioni certi numeri fanno sempre fare un salto sulla sedia. Per quanto il presidente della Provincia di Bolzano Luis Durnwalder si dica profondamente convinto di meritarsi i 25.620 euro che fra stipendio e rimborsi gli toccano ogni mese, perché lui lavora dall'alba a notte fonda, è stato rilevato che l'impegno del presidente degli Stati Uniti Barack Obama non è certamente inferiore al suo: per 2.600 euro di meno nella busta paga. Così, se si deve accogliere con un applauso l'affermazione del governatore sardo Ugo Cappellacci, il quale ha fatto presente di aver rinunciato «già da tempo all'indennità di presidente e anche all'auto blu per dare un segnale personale in un momento difficile per tutti», è impossibile non ricordare come per mantenere il Consiglio regionale ogni cittadino della Sardegna sopporti una spesa almeno sei volte superiore rispetto a ciascun lombardo o a ogni residente in Emilia-Romagna. Tanto che basterebbe semplicemente equiparare il costo dei 20 parlamentini regionali per far risparmiare ai contribuenti una somma tutt'altro che trascurabile: 606 milioni di euro l'anno. Anche perché se i Consigli regionali dell'Emilia-Romagna o della Lombardia funzionano bene con circa 8 euro per abitante, non si capisce perché per l'Assemblea regionale siciliana ne debbano servire quasi 35 e per il Consiglio della Valle D'Aosta addirittura 124. Il fatto è che troppo spesso, nelle Regioni Italiane, l'autonomia ha avuto risvolti insensati, dando vita a una giungla di privilegi e retribuzioni nella quale sarebbe opportuno mettere finalmente un po' d'ordine. L'occasione per uniformare voci come le indennità e i rimborsi poteva essere offerta dalla necessità di tagliare i costi della politica. È accaduto invece esattamente il contrario, e quella giungla è diventata se possibile ancora più fitta. Istruttivo è il confronto fra gli emolumenti massimi dei governatori e dei consiglieri di cinque anni fa e quelli di oggi, entrambi rilevati dalla stessa fonte: il sito www.parlamentiregionali.it . La tabella in questa pagina paragona gli «stipendi massimi» mensili, pubblicati dalla conferenza dei presidenti regionali nell'estate del 2007, e riportati dal Corriere il 2 agosto di quell'anno, con quelli aggiornati al 23 gennaio scorso. Dove per «stipendio massimo» si intende la somma della indennità di carica e dei rimborsi (massimi) consentiti. Fra i governatori, il taglio più consistente è quello subito dagli emolumenti di quello abruzzese. Roberto Chiodi ha diritto oggi a una retribuzione, comprensiva dei rimborsi, pari a 8.450 euro netti al mese: 5.394 euro in meno rispetto a quella spettante nel 2007 al suo predecessore di centrosinistra Ottaviano Del Turco. C'è poi la Puglia: al presidente della giunta regionale toccano 14.595 euro netti al mese. Fra indennità e rimborsi, Nichi Vendola ha ridimensionato il proprio assegno di 4.290 euro. Al terzo posto il Veneto, il cui governatore leghista, Luca Zaia, ha una busta paga più leggera rispetto a Giancarlo Galan, che guidava la giunta nel 2007, di 2.724 euro al mese. Una sforbiciata analoga a quella subita dagli emolumenti dei loro colleghi Vasco Errani (Emilia-Romagna, meno 2.238 euro) e Giuseppe Scopelliti (Calabria, meno 2.224). Fin qui i tagli più evidenti, ai quali si devono aggiungere quelli ancora più considerevoli apportati agli assegni dei consiglieri semplici emiliano-romagnoli (-5.387), abruzzesi (-7.283) e piemontesi (-8.975). In queste tre regioni le retribuzioni dei «peones» nei consigli regionali sono state ridotte di ben oltre la metà. A giudicare però dai dati forniti dalla conferenza dei governatori non si ride nemmeno in Puglia, i cui consiglieri hanno dovuto rinunciare a 3.398 euro netti al mese. E neppure nel Lazio, dove il giro di vite è stato di 2.747 euro mensili. Anche se in questo caso c'è da dire che la tosata interessa oggi praticamente un solo consigliere: Antonio Cicchetti, l'unico senza un incarico che dia luogo a qualche indennità supplementare. Fin qui le sforbiciate più appariscenti. Perché ci sono anche Regioni che al massimo hanno tagliato le doppie punte. Come la Sicilia: Raffaele Lombardo guadagna oggi 136 euro al mese in meno di Totò Cuffaro. O la Basilicata, che ha ridotto la paga del governatore di 285 euro al mese, da 9.506 a 9.221 euro netti. O ancora la Lombardia. Se Roberto Formigoni si è visto ridurre lo stipendio di 325 euro fra il 2007 e il 2012, un semplice consigliere regionale lombardo prende attualmente 12.523 euro al mese: 32 in meno nel confronto con cinque anni fa. Un caffè al giorno. E la sua retribuzione, considerando anche i rimborsi che gli spettano, è quella record fra tutte le Regioni. Di più: Lombardia e Puglia hanno un sistema di calcolo della liquidazione ben 2,4 volte più favorevole rispetto a quello delle altre assemblee legislative regionali, dello stesso Parlamento, nonché di tutti i comuni mortali. Lì, per ogni mandato di cinque anni, i consiglieri hanno infatti diritto a un anno di stipendio. Per non parlare di chi quelle paghe le ha fermate nel tempo, come la Sardegna. Mentre c'è chi è arrivato anche ad aumentarle. Secondo il sito della conferenza dei presidenti regionali il governatore del Piemonte Roberto Cota ha diritto oggi, fra indennità netta (5.506 euro) e rimborsi (7.543 euro) a emolumenti per un totale di 13.049 euro. Cifra superiore di 1.779 euro a quella che lo stesso sito riportava cinque anni fa, quando la giunta piemontese era guidata da Mercedes Bresso. Con un aumento di 501 euro al mese il presidente della giunta regionale dell'Umbria, ha quindi scavalcato il suo collega toscano che è scivolato così in fondo alla classifica delle retribuzioni. Nelle Marche c'è stato invece un ritocchino di 184 euro al mese, mentre in Friuli-Venezia Giulia i consiglieri «semplici» hanno superato la barriera degli 8 mila euro netti al mese grazie a un incremento di 685 euro. Idem in Basilicata. Ma qui l'aumento è stato di oltre mille euro. E continua a far sorridere il fatto che pur con tutti questi tagli i presidenti delle nostre Regioni restano ancora, e in qualche caso di gran lunga, più pagati dei governatori americani. Sergio Rizzo 27 gennaio 2012 | 8:50© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/12_gennaio_27/rizzo-regioni-giungla-privilegi_f69799ca-48af-11e1-b976-995c60acee8e.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - La contabilità delle ambizioni Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2012, 04:53:56 pm GRANDI PROGETTI E NUMERI INCERTI
La contabilità delle ambizioni Comprendiamo i musi lunghi delle nostre alte gerarchie sportive: non capita tutti i giorni di arrivare così vicini all'appuntamento della vita (professionale, s'intende) senza riuscire ad afferrarlo. Né ci sorprende il senso di frustrazione del sindaco di Roma Gianni Alemanno: dopo due weekend di fila sotto la neve e le polemiche sulla gestione dell'emergenza meteorologica, il «No» di Mario Monti alla candidatura della capitale per l'Olimpiade del 2020 è un colpo impossibile da assorbire. Temiamo tuttavia che abbia ragione l'organizzatrice di Torino 2006, Evelina Christillin. «Da sportiva ero assolutamente a favore di Roma 2020 e avrei sottoscritto l'appello firmato dai 60 campioni, ma sono più comprensibili le ragioni addotte da Monti», è stato il suo commento. Un realismo doloroso e appassionato, che fa il paio con quello di Pietro Mennea: «Mai potrò essere contrario all'Olimpiade. Ma ritengo che organizzare un evento come questo comporterebbe ulteriori sacrifici che potrebbero avere gravi conseguenze sul futuro». Il futuro, appunto. Quello che il premier afferma di non voler compromettere con un impegno finanziario che «potrebbe gravare in misura imprevedibile sull'Italia». Monti se la sarebbe potuta cavare dicendo che «mancano i soldi». Invece è andato oltre. «Imprevedibile» è una parola che denuncia la fragilità estrema del nostro sistema. Un fattore che nessuno, fra i tifosi di Roma 2020, è sembrato tenere in debito conto. Si è arrivati a sostenere che sarebbe stata un'operazione «a costo zero» con le spese coperte da introiti fiscali e incassi dei biglietti. Spese astronomiche già in partenza. Otto miliardi? Dieci? Quanti davvero? Il partito dei Giochi avrebbe dovuto ricordare che da troppi anni sbagliamo, e per difetto, ogni preventivo. Di soldi e di tempi. Non per colpa dei ragionieri, ma di una macchina impazzita che macina ricorsi al Tar, arbitrati, revisioni prezzi, varianti in corso d'opera, veti di chicchessia: dalle Regioni alle circoscrizioni. Un impasto mostruoso di burocrazia, interessi politici e lobbistici che spesso alimenta la corruzione e ci fa pagare un chilometro di strada il triplo che nel resto d'Europa. E in due decenni non è cambiato proprio nulla. Anzi. Per rifare gli stadi di Italia 90 abbiamo speso l'equivalente di un miliardo e 160 milioni di euro attuali, l'84% più di quanto era previsto? Nel 2009 ci siamo superati, arrivando ai mondiali di nuoto senza le piscine. In compenso, però, con una bella dose di inchieste giudiziarie. Questo è un Paese nel quale da dieci anni si monta e poi si smonta, quindi si rimonta, per poi smontarla di nuovo, la giostra del Ponte sullo Stretto di Messina: incuranti di penali monstre che nel frattempo lo Stato si è impegnato a pagare. Dove i costi della metropolitana C di Roma esplodono in modo così fragoroso che non è possibile immaginare quando e se la vedremo finita. E uno sguardo andrebbe rivolto anche all'Expo 2015 di Milano, per cui la Corte dei conti ha eccepito che «la complessità, l'onerosità e la ridondanza delle strutture» decisionali rischia di causare «difficoltà e disfunzioni sul piano operativo». Conosciamo l'obiezione: i precedenti disastrosi non sono un buon motivo per non fare le cose. Giustissimo. Ma sono un'ottima ragione per andarci con i piedi di piombo. Almeno quando rischiare una montagna di denari pubblici non è proprio necessario. Come adesso. Sergio Rizzo 15 febbraio 2012 | 8:12© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_15/la-contabilita-delle-ambizioni-sergio-rizzo_ac0fc88e-5799-11e1-8cd8-b2fbc2e45f9f.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - La contabilità delle ambizioni Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2012, 05:08:57 pm GRANDI PROGETTI E NUMERI INCERTI
La contabilità delle ambizioni Comprendiamo i musi lunghi delle nostre alte gerarchie sportive: non capita tutti i giorni di arrivare così vicini all'appuntamento della vita (professionale, s'intende) senza riuscire ad afferrarlo. Né ci sorprende il senso di frustrazione del sindaco di Roma Gianni Alemanno: dopo due weekend di fila sotto la neve e le polemiche sulla gestione dell'emergenza meteorologica, il «No» di Mario Monti alla candidatura della capitale per l'Olimpiade del 2020 è un colpo impossibile da assorbire. Temiamo tuttavia che abbia ragione l'organizzatrice di Torino 2006, Evelina Christillin. «Da sportiva ero assolutamente a favore di Roma 2020 e avrei sottoscritto l'appello firmato dai 60 campioni, ma sono più comprensibili le ragioni addotte da Monti», è stato il suo commento. Un realismo doloroso e appassionato, che fa il paio con quello di Pietro Mennea: «Mai potrò essere contrario all'Olimpiade. Ma ritengo che organizzare un evento come questo comporterebbe ulteriori sacrifici che potrebbero avere gravi conseguenze sul futuro». Il futuro, appunto. Quello che il premier afferma di non voler compromettere con un impegno finanziario che «potrebbe gravare in misura imprevedibile sull'Italia». Monti se la sarebbe potuta cavare dicendo che «mancano i soldi». Invece è andato oltre. «Imprevedibile» è una parola che denuncia la fragilità estrema del nostro sistema. Un fattore che nessuno, fra i tifosi di Roma 2020, è sembrato tenere in debito conto. Si è arrivati a sostenere che sarebbe stata un'operazione «a costo zero» con le spese coperte da introiti fiscali e incassi dei biglietti. Spese astronomiche già in partenza. Otto miliardi? Dieci? Quanti davvero? Il partito dei Giochi avrebbe dovuto ricordare che da troppi anni sbagliamo, e per difetto, ogni preventivo. Di soldi e di tempi. Non per colpa dei ragionieri, ma di una macchina impazzita che macina ricorsi al Tar, arbitrati, revisioni prezzi, varianti in corso d'opera, veti di chicchessia: dalle Regioni alle circoscrizioni. Un impasto mostruoso di burocrazia, interessi politici e lobbistici che spesso alimenta la corruzione e ci fa pagare un chilometro di strada il triplo che nel resto d'Europa. E in due decenni non è cambiato proprio nulla. Anzi. Per rifare gli stadi di Italia 90 abbiamo speso l'equivalente di un miliardo e 160 milioni di euro attuali, l'84% più di quanto era previsto? Nel 2009 ci siamo superati, arrivando ai mondiali di nuoto senza le piscine. In compenso, però, con una bella dose di inchieste giudiziarie. Questo è un Paese nel quale da dieci anni si monta e poi si smonta, quindi si rimonta, per poi smontarla di nuovo, la giostra del Ponte sullo Stretto di Messina: incuranti di penali monstre che nel frattempo lo Stato si è impegnato a pagare. Dove i costi della metropolitana C di Roma esplodono in modo così fragoroso che non è possibile immaginare quando e se la vedremo finita. E uno sguardo andrebbe rivolto anche all'Expo 2015 di Milano, per cui la Corte dei conti ha eccepito che «la complessità, l'onerosità e la ridondanza delle strutture» decisionali rischia di causare «difficoltà e disfunzioni sul piano operativo». Conosciamo l'obiezione: i precedenti disastrosi non sono un buon motivo per non fare le cose. Giustissimo. Ma sono un'ottima ragione per andarci con i piedi di piombo. Almeno quando rischiare una montagna di denari pubblici non è proprio necessario. Come adesso. Sergio Rizzo 15 febbraio 2012 | 8:12© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_15/la-contabilita-delle-ambizioni-sergio-rizzo_ac0fc88e-5799-11e1-8cd8-b2fbc2e45f9f.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Buste paga dei manager pubblici. Centinaia oltre i 300 mila euro Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2012, 05:25:43 pm Buste paga dei manager pubblici
Centinaia oltre i 300 mila euro Si apre il caso delle aziende controllate dallo Stato e dei «difficili» tagli ROMA - C'è un desiderio inconfessabile che unisce destra e sinistra: alleggerire gli stipendi degli alti burocrati di Stato. Buste paga in alcuni casi scandalosamente alte, che lievitano come panna montata grazie al cumulo degli incarichi o a codicilli che hanno finora consentito per esempio ai magistrati «fuori ruolo» impegnati negli incarichi di governo di portare a casa due stipendi facendo un solo lavoro. Vi sareste mai immaginati di veder salire proprio dal partito di Silvio Berlusconi l'onda della protesta, fino a chiedere a gran voce di ripristinare quella misura «stalinista» voluta da Romano Prodi ben quattro anni fa «ma mai attuata», si rammaricavano lo scorso agosto una quarantina di onorevoli pidiellini? E avreste mai pensato che il tetto alle retribuzioni dei manager pubblici sarebbe stato reintrodotto fra gli applausi della sinistra proprio dal governo delle liberalizzazioni? Dove, al solo pensiero di doverlo applicare, qualcuno ha già l'orticaria. «Credo che a causa del tetto faremo fatica a trovare professionalità di alto livello», ha confessato ieri Mario Monti. E non tarderà a verificarlo. In un altro momento si sarebbe formata una fila chilometrica davanti alla porta del ministero del Tesoro, che è alle prese con la scelta dell'amministratore delegato della Banca del Mezzogiorno. Ma non ora, che quel posto può valere al massimo... Già, quanto può valere? Perché a quanto pare non sanno nemmeno esattamente a quanto ammonta quel tetto, vista la quantità di cifre che sono circolate. Si va dai 311 mila ai 294 mila euro lordi all'anno, passando per 299 mila e 305 mila, a secondo dei gusti. Ma il numero di quanti, nella pubblica amministrazione, superano abbondantemente quella cifra, è certo impressionante. Se fa effetto la clamorosa denuncia dei redditi del capo di gabinetto del ministro dell'Economia Vincenzo Fortunato, che tre anni fa toccava un livello di 788 mila euro, semplicemente inconcepibile per un dirigente pubblico, non desta minore sorpresa l'incredibile sovrapposizione di incarichi del suo ex collega dell'ufficio legislativo del medesimo ministero, Gaetano Caputi: direttore generale della Consob (395 mila euro), componente dell'autorità per gli scioperi (altri 95 mila), nonché docente fuori ruolo ancorché retribuito dalla Scuola superiore di economia e finanze. Retribuzione a cinque zeri, dicono i bene informati, ma top secret . Ed è questo il punto. Se grazie alle norme volute dall'ex ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, possiamo conoscere (e giustamente) perfino lo stipendio dell'ultimo dirigente di seconda fascia, e anche la paga di un soggetto apicale qual è il Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio, accreditato di 516 mila euro l'anno (il vecchio miliardo di lire, tondo), a proposito delle reali retribuzioni non meno stellari dei più stretti collaboratori dei ministri si possono fare solo congetture. Una cosa inaccettabile, che fa salire ancora di più la temperatura. Così non meraviglia che molti parlamentari, i quali oltre a dover subire qualche sforbiciatina sono stati pure messi alla berlina, non vedano l'ora di vendicarsi a spese di una tecnocrazia sempre più opulenta e sempre meno trasparente. Anche se non si può escludere che quella lobby potentissima riesca a convincere i politici a far naufragare il tetto. Non è successo così forse anche con la norma voluta da Prodi? Il limite era lo stesso di oggi: ma alla fine di una melina durata più di due anni il regolamento attuativo partorito dal governo Berlusconi l'ha di fatto cancellato. Stabilendo che valeva solo per gli incarichi aggiuntivi. Dunque, senza sfiorare gli stipendi. Monti si trova in una situazione leggermente diversa. Siamo in piena recessione, il potere d'acquisto delle famiglie è in sofferenza, i poveri aumentano, la disoccupazione galoppa. Come spiegare agli italiani che c'è gente pagata dallo Stato che guadagna come trenta impiegati e non può rassegnarsi a incassare «soltanto» dieci di quegli stipendi? Ecco perché chi conta di salvarsi grazie alle «deroghe», ha probabilmente fatto male i propri calcoli. Monti non sarà così generoso. Come li ha sbagliati, a meno di sgradevoli sorprese, chi è sicuro di far passare il principio che il famoso tetto debba essere applicato soltanto a partire dai contratti futuri. Anche qui: come lo spiegherebbero agli italiani? Ma se il principio per cui nessuno stipendio potrà superare quello del primo presidente della Corte di Cassazione potrà essere faticosamente fatto digerire ai «pezzi da novanta» nei ministeri e nelle authority, problemi ben più grossi ci saranno nelle società pubbliche non quotate in borsa. Il tetto in teoria riguarda anche loro. E rischia di essere una questione complicatissima da risolvere, tanto più alla luce della confessione fatta ieri dal premier. Il regolamento che il ministro Filippo Patroni Griffi ha annunciato per maggio non sarà una passeggiata. Avete idea di quanti siano nelle aziende di Stato gli stipendi che superano i 300 mila euro l'anno? Centinaia. E non parliamo soltanto dei capi azienda. L'amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato Mauro Moretti nel 2008 guadagnava 871 mila euro: poco al di sotto di quel livello era il presidente Innocenzo Cipolletta, ora sostituito dall'ex presidente della Consob Lamberto Cardia. La retribuzione di Massimo Sarmi, amministratore delegato delle Poste, si aggira intorno al milione e mezzo di euro? Il presidente Giovanni Ialongo ha diritto secondo la Corte dei conti a 635 mila euro: un bel salto, rispetto a quando era segretario del sindacato postelegrafonico della Cisl. Per non parlare dei più alti dirigenti di quei gruppi. Decine di persone con retribuzioni certamente più alte di 300 mila euro. Ma andiamo avanti. L'amministratore delegato dell'Anas Pietro Ciucci intasca 750 mila euro. La stessa cifra del suo collega di Fintecna Massimo Varazzani, ex altissimo dirigente di Intesa San Paolo, paragonabile a quella del presidente del Poligrafico Maurizio Prato. Il capo della controllata Fintecna immobiliare Vincenzo Cappiello, una vita nelle partecipazioni statali, è fermo (si fa per dire) a 505 mila. Mentre l'amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri, già capo di Deloitte consulting, ha una retribuzione di 835 mila euro (rimborsi compresi). Ma è niente in confronto alla densità di buste paga galattiche riscontrabile in Rai. Il presidente Paolo Garimberti incassa 448 mila euro. Il predecessore di Lorenza Lei alla direzione generale guadagnava 715 mila euro. Che porzione di quel fantastico stipendio l'ha seguito alla Consap, altra società pubblica dove Mauro Masi ha traslocato? Boh. Ha raccontato poi nel 2010 Emiliano Fittipaldi sull' Espresso che l'ex direttore Claudio Cappon, rimasto senza un incarico corrispondente, continuava a percepire 600 mila euro. Per non dire dei giornalisti: la tivù di Stato ha decine di direttori, che non guadagnano certo soltanto come un presidente di Cassazione. E dei dirigenti di rete: si va dai 400 mila di Fabrizio del Noce ai 449 mila di Gianfranco Comanducci. E poi ci stupiamo che in Parlamento qualcuno pretenda gli elenchi dei candidati alla ghigliottina? Però fra questi, è bene che gli onorevoli ne prendano coscienza, non ci saranno i dipendenti degli organi costituzionali: lì si aprirebbe una pagina ancora più sconcertante, tenuto conto che la retribuzione media di un dipendente del Senato, commessi e barbieri compresi, è più alta dell'indennità parlamentare. E 300 mila euro è lo stipendio di un consigliere con 25 anni di anzianità. Il segretario generale della Camera Ugo Zampetti e la sua collega del Senato Elisabetta Serafin intascano più del doppio del capo dell'amministrazione del parlamento britannico. Che guadagna 235 mila euro: meno di uno stenografo di palazzo Madama . Sergio Rizzo 21 febbraio 2012 | 8:19© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/12_febbraio_21/buste-paga-manager-pubblici-rizzo_238d07b6-5c5c-11e1-beff-3dad6e87678a.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Gli imprenditori dove sono? Inserito da: Admin - Marzo 15, 2012, 12:23:15 pm LA DUCATI E I SIMBOLI DEL MADE IN ITALY
Gli imprenditori dove sono? Se con Google cercate la parola «Ducati» otterrete circa 123 milioni di risultati. Per capirci: «Ferrari», uno dei marchi italiani più famosi nel mondo, è a quota 548 milioni. Questo già fa capire quanto sia sbagliato considerare il passaggio di mano della casa di Borgo Panigale come un semplice affare fra privati. La Ducati ha una storia travagliata e magnifica. Nata nel 1926, fa apparecchi radio. Il suo fondatore Antonio Cavalieri Ducati muore l'anno seguente e l'azienda va ai figli. Poi la guerra, la fabbrica distrutta e la ricostruzione. Nel 1946 inizia a produrre piccole moto, ma di lì a poco finisce nel calderone delle Partecipazioni statali. Resta pubblica, passando dall'Efim alla Finmeccanica, per 35 lunghi anni, senza infamia né lode. Unica eccezione, i colpi di genio dell'ingegnere Fabio Taglioni che a fine anni Sessanta progetta un motore rivoluzionario, del tutto simile a quello ancora oggi montato sulle moto bolognesi. Dopo il parcheggio nella pancia dello Stato, la Ducati è messa male e rischia una fine ingloriosa. Ma nel 1985 i fratelli Castiglioni, quelli della Cagiva, la comprano. E si inizia a risalire la china. La chiave è nelle corse: nel 1988 inizia un nuovo campionato per moto estreme di serie e il bicilindrico progettato da Taglioni fa mangiare la polvere ai giapponesi. Delle ventiquattro edizioni della Superbike la Ducati ne vince quattordici. Arriva nel 2007 anche il titolo nella Motogp, la Formula Uno delle due ruote, a 33 anni dall'ultimo alloro italiano conquistato dalla Mv Agusta. Impresa fantascientifica, per una fabbrica che vende 40 mila moto l'anno, contro i 3 milioni della Honda. Artefice è Filippo Preziosi, un ingegnere di quarant'anni costretto sulla sedia a rotelle da un grave incidente motociclistico. Il quale riesce pure in una seconda impresa, fino ad allora impensabile: ingaggiare Valentino Rossi. I successi commerciali vanno di pari passo con quelli sportivi e la Ducati è ormai una icona planetaria. La «Ferrari delle moto», tanto assomiglia alla Rossa. Il rombo del bicilindrico di Borgo Panigale è brevettato in America, al pari di quello di un altro mito dell'industria motociclistica mondiale, la Harley Davidson. Nel frattempo, la società passa di mano altre due volte: prima va al fondo americano Tpg, quindi ad Andrea Bonomi. E ora tocca alla tedesca Audi. Bonomi ha fatto i suoi conti e li ha fatti bene. Incasserà il triplo di quanto speso solo sei anni fa. Bravissimo. Bravissimi pure quelli dell'Audi: vedono lontano. Meno bravi, invece, i tanti imprenditori che si lamentano perché l'alta tecnologia emigra, perché le aziende italiane soffrono di nanismo, perché perdiamo quote nel commercio mondiale. Salvo poi essere i primi ad abbandonare l'industria per rifugiarsi nelle comode rendite di posizione dei servizi pubblici, oppure a trasferire gli stabilimenti in Serbia o Romania. E addirittura girarsi dall'altra parte quando gli si offre l'occasione per non lamentarsi più. Lasciano basiti l'indifferenza e il silenzio che hanno accolto, fra i nostri industriali, la notizia della cessione. Impossibile credere che in Italia non ci sia nessuno disponibile a scommettere sulla Ducati, e che ci dovremo rassegnare a vedere Valentino Rossi sfrecciare su una moto «tedesca». Ma forse è inevitabile, in un Paese nel quale anche molti imprenditori hanno lo sguardo corto. Sergio Rizzo 14 marzo 2012 | 20:09© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_14/gli-imprenditori-dove-sono-rizzo_9134c3ae-6d9a-11e1-98c2-a788cd669a01.shtml Titolo: Alberto VACCHI. Le risposte degli imprenditori a SERGIO RIZZO Inserito da: Admin - Marzo 15, 2012, 12:25:16 pm L'editoriale di Sergio Rizzo
Le risposte degli imprenditori Bisogna ringraziare il Dott. Rizzo per il suo articolo, perchè è un contributo che guarda in faccia la realtà delle cose e la riporta per quella che è. E’ una dura verità da accettare ma è proprio così. Da dirigenti industriali che riportano ad un gruppo di capitali americano, sappiamo esattamente cosa significhi non trovare, nel proprio paese, interesse per la propria azienda. E’ successo anche a noi di Power-One. Sei anni fa eravamo parte del gruppo americano Magnetek, che entrò in crisi, e mise in vendita il suo goiello, cioè la nostra azienda qui ad Arezzo. Eravamo circa 400 persone e facevamo 140 mil di Euro. Cercammo di fare un management buy out ma non trovammo nessun imprenditore pubblico o privato, nè alcun istituto finanziario, che capì e che credette nel nostro progetto. Quindi ci acquistò l’americana Power-One che invece vide un grande potenziale nella nostra tecnologia e nei nostri prodotti. Adesso siamo 1200 persone e facciamo 585 mil di Euro (anno 2011). Quest’azienda poteva essere italiana e ciò per noi è un grande rimpianto. Ed è una storia che si ripete perchè, purtroppo, un sistema Italia non esiste e non esiste più, da decenni ormai, una politica industriale indirizzata allo sviluppo. Neanche Confindustria è in grado di svilupparne una, prigioniera com’e’ di lobby e interessi particolari, spesso in netto contrasto con politiche innovative e con visioni di lungo periodo. Questa è la vera ragione per cui in Italia non attiriamo investimenti stranieri: non esiste una politica industriale che stabilisca linee guida per il medio, lungo termine. L’Audi potrà anche comprare la Ducati, ma mai si sognerebbe di trasferire qui da noi un loro stabilimento. Se non riusciremo a rispondere a quella domanda (perchè l’Audi non porterebbe mai un loro stabilimento qui da noi) non riusciremo a risolvere il problema dello sviluppo industriale del paese. Il governo Monti ha promesso nuovo slancio e nuova definizione di politiche industriali e di sviluppo ma mi permetto di dire che è già partito male. I suoi interlocutori sono ancora, per lo più, le stesse vecchie associazioni di sempre e se ci aspettiamo che lasciando tutto invariato, qualcosa cambi, allora stiamo solo creando un’ illusione. Il governo farebbe bene a consultare nuove aziende: quelle che hanno investito in innovazione e ricerca e possono portare un contributo di nuove idee e nuovi modelli di sviluppo industriale per il bene del paese. Averaldo Farri Consigliere Delegato Power-One Italy Spa Gentile direttore, ho letto con attenzione l’articolo di Sergio Rizzo dall’eloquente titolo “Gli imprenditori dove sono?”. E mi permetto di rispondere che sono qui, direttore, a Roma a pochi centinaia di metri da Rizzo e in tante altre parti di questo Paese. Un Paese dove per fare impresa si deve fare molta più fatica non solo rispetto al mondo anglosassone ma anche al resto dell’area Euro per non parlare dei Nuovi mondi, i cosiddetti Bric. L’Italia è piena di imprenditori e di imprese come la nostra, la Salini costruttori Spa, che si fono fatte onore nel mondo e hanno portato ovunque con orgoglio il Made in Italy, spesso più apprezzate dove sono andate che nella terra d’origine. Noi abbiamo la gioia nel cuore di aver portato l’acqua e l’elettricità dove prima non c’era, di aver costruito infrastrutture dall’ Africa alla Cina e progresso e sviluppo in tante zone del Pianeta , con semplicità, con il nostro lavoro. Ogni giorno migliaia di nostri dipendenti, qui e altrove, iniziano la giornata sapendo di portare con sé un pezzo del nostro Paese, delle nostre capacità che ci hanno reso così speciali, della nostra storia.. Se mai Ducati andrà in mani straniere, sarà certamente un peccato. Ma mi permetto di concludere dicendo che sarebbe bene che i media e la politica italiani si ricordassero di chi fa impresa e la supportassero non solo quando c’è il rischio di perderne un pezzetto, ma tutti i giorni, nella vita quotidiana. Forse con questo aiuto sarebbe più facile mantenere in Italia i nostri gioielli di cui andiamo orgogliosi ed il nostro paese sarebbe più ricco di opportunità ed occasioni per i giovani. Pietro Salini Ad. Salini Spa “Dove sono gli imprenditori” si chiede Sergio Rizzo questa mattina sul Corriere, ricostruendo i passaggi di proprietà di uno dei nomi più gloriosi dell’industria metalmeccanica italiana, la Ducati. E la sua conclusione è inequivocabile: in questo Paese “molti imprenditori hanno lo sguardo corto”. LE DOMANDE - Non so quali imprenditori conosca Rizzo, ma prima di tutto vorrei replicare: dove sono le semplificazioni per chi fa impresa? Dove sono le infrastrutture e i servizi per facilitare insediamenti produttivi? Se ci guardiamo intorno, tutto ciò che si muove, ora, in Italia ruota intorno al mondo delle imprese, che proprio in Emilia-Romagna esporta nel mondo più del 70% della sua produzione, da tempo, e da solo. La nostra regione è una delle maggiori realtà produttive del paese, nonostante gli imprenditori, a differenza dei competitor stranieri, debbano continuamente fare i conti con nuove tasse, con un costo del denaro superiore alla media europea, districandosi in cento adempimenti burocratici, per ritagliarsi un minimo di condizioni che gli consentano di continuare a lavorare qui: vale a dire a lavorare in un Paese che sta chiedendo proprio a loro, ed al mondo del lavoro, gli sforzi maggiori, perchè da sè non ce la fa più. I SACRIFICI - I sacrifici per fronteggiare un mercato competitivo globale che ci sta schiacciando sono immensi: perchè quando c’è una sproporzione di uno a cento fra quello che il sistema fiscale ti prende e quello che lo Stato ti restituisce in termini di servizi, o quando i tuoi concorrenti si avvantaggiano di un sistema di costo del lavoro che è tre volte inferiore al tuo, la competitività è un miraggio. In altre parole, e per concludere: oggi gli imprenditori, tantissimi imprenditori, compresi molti che lavorano con la Ducati e per la Ducati, sono impegnati a continuare a creare “qui” benessere e sviluppo, e vogliono continuare a farlo. Così facendo, fanno valere ancor di più il nome dell’Italia in tutto il mondo, senza comode rendite, con grande senso di responsabilità. Alberto Vacchi Presidente di Unindustria Bologna 14 marzo 2012 | 23:00 da - http://www.corriere.it/economia/12_marzo_14/rizzo-imprenditori-risposte_c89c9ade-6e07-11e1-98c2-a788cd669a01.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Sui terreni di Stato sbocciano poltrone Inserito da: Admin - Marzo 20, 2012, 06:28:14 pm I costi della politica
Sui terreni di Stato sbocciano poltrone In 17 mila ettari un dedalo di enti Al vertice delle società pubbliche ex parlamentari e rappresentanti dei partiti. Tutto in mano a un ministero che un referendum nel '93 aveva cancellato ROMA - Rassegniamoci: i 7 milioni di ettari che il magnate brasiliano Cecilio do Rego Almeida comprò nel Mato Grosso sono inarrivabili. Però nemmeno i 338 mila che in Italia secondo la Coldiretti appartengono a soggetti pubblici, sono da buttare via. È una superficie più grande della Valle D'Aosta, con piazzamento assicurato nella top ten dei latifondisti mondiali. Molte terre coltivabili sono di proprietà di Regioni ed enti locali. Ma lo Stato centrale, da solo, ne possiede ben 17 mila ettari. Ossia cinque volte la tenuta di Maccarese, considerata la più grande azienda agricola italiana, ceduta dall'Iri ai Benetton a fine anni Novanta. Ironia della sorte: proprietario del ben di Dio è un ministero (l'Agricoltura) che gli italiani avevano cancellato per referendum nel 1993. E quei 17 mila ettari, dice un'indagine dei gruppi del Pd nelle Commissioni agricoltura di Senato e Camera guidati da Leana Pignedoli e Nicodemo Oliverio, sono ora uno dei problemi più grossi ereditati dal nuovo ministro Mario Catania insieme a una massa di enti (undici, più un dedalo di società controllate) che fanno capo al suo dicastero. Un groviglio proliferato negli anni per ragioni politiche, che ora i democratici chiedono di sciogliere, riassemblando tutto in soli quattro soggetti, con una proposta di legge per tagliare sovrapposizioni, sprechi e diseconomie. Prendiamo la ricerca. Il Cra (Consiglio per la ricerca in agricoltura) ha 1.800 dipendenti, 47 centri sparsi per l'Italia e 5.300 ettari a colture sperimentali. Fino al commissariamento è stato in mano all'ex senatore Domenico Sudano, professore di francese già segretario siciliano dell'Udc e in seguito coordinatore locale del Pid, il partito del ministro Francesco Saverio Romano che l'aveva nominato. Però anche l'Inea, con 300 dipendenti e 20 filiali regionali, opera nella ricerca: è presieduto dall'ex consigliere regionale veneto Tiziano Zigiotto, eletto nel 2005 con il listino del governatore e futuro ministro Giancarlo Galan, autore della sua nomina. E fa ricerca pure l'Inran, che ha 160 addetti e un cda dove hanno trovato posto un ex deputato Ds (Giuseppe Rossiello) e un ex candidato azzurro alle regionali venete (Amedeo Gerolimetto). L'Ismea, 153 dipendenti, finanzia invece l'acquisto dei terreni da parte degli agricoltori. E se gli acquirenti non riescono a rimborsarlo diventa padrone. In questo modo, avendo investito circa 1,5 miliardi, si ritrova proprietario di 11.309 ettari. Non bastasse, l'istituto presieduto da Amedeo Semerari, un tempo esperto agricolo di Forza Italia, controlla altre cinque società. Fra cui Buonitalia, ora in liquidazione. Liquidatore è Alberto Stagno D'Alcontres, fratello del deputato Francesco Stagno D'Alcontres eletto nel 2008 con il Popolo della libertà. Ma l'Ismea non è l'unica struttura «finanziaria» del ministero. C'è infatti l'Isa, l'Istituto di sviluppo agroalimentare creato nel 2004 dall'ex ministro di An Gianni Alemanno. Ha una quarantina di dipendenti e oltre a finanziare le imprese, detiene una manciata di partecipazioni in aziende agricole. Le risorse investite sono 650 milioni. Denari affidati all'amministratore delegato Annalisa Vessella, consigliere regionale della Campania e consorte del deputato Michele Pisacane, cofondatore del partito di Romano. Con lei, due leghisti (Nicola Cecconato e Giampaolo Chirichelli) e un ex deputato regionale siciliano (Decio Terrana) bocciato alle ultime elezioni. Il pezzo forte è però l'Agea, che distribuisce i fondi comunitari: sette miliardi l'anno. L'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, 300 dipendenti, agisce anche come esattore. Il che ha dato luogo a non pochi effetti collaterali. Come un clamoroso doppio ribaltone che ha riportato al vertice, dopo una sentenza del Tar, l'ex senatore della Lega Nord Dario Fruscio silurato dai suoi perché voleva far pagare le multe appioppate da Bruxelles agli allevatori che sforano le quote latte. I contributi sono pagati sulla base dei dati gestiti dalla Sin, società informatica posseduta al 51% ma sulla cui funzionalità esistono serie riserve da parte degli attuali vertici dell'Agea e dello stesso ministro. Rigorosamente bipartisan la governance: presidente l'ex europarlamentare Ds Francesco Baldarelli, vice l'ex presidente della Provincia di Ragusa Concetta Vidigni, candidata Udc alle europee del 2009 e già esponente del partito di Romano. Mentre le verifiche sono all'Agecontrol, che ha 25 sedi periferiche dalla Sicilia al Veneto e risulta paradossalmente controllata dalla stessa Agea, cioè dal soggetto che eroga i contributi. Presidente è l'ex candidato Udc alla presidenza della Provincia di Caltanissetta, Massimo Dell'Utri, e fra i consiglieri c'è l'ex deputato Ds Ugo Malagnino. Il massimo però è l'Unire, appena ribattezzata Assi, Agenzia per lo sviluppo del settore ippico. Con il tempo è diventata l'ingombrante presenza dello Stato nel mondo delle scommesse ippiche. Settore, peraltro, che versa in una crisi profonda e a quanto pare irreversibile. Gestisce i calendari delle corse e ha anche una televisione che trasmette le immagini degli ippodromi alle agenzie dove si raccolgono le puntate: dal 2006 al 2008, secondo quanto riferisce lo studio del Pd, ha bruciato 110 milioni di soldi pubblici. Occupa 195 persone e attualmente è in mano a un commissario, il consigliere di Stato Claudio Varrone. Il governo di Silvio Berlusconi l'ha nominato mentre ricopriva l'incarico di capo di gabinetto del ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla. Sergio Rizzo 20 marzo 2012 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/12_marzo_20/sui-terreni-di-stato-sbocciano-poltrone-in-17-mila-ettari-un-dedalo-di-enti-sergio-rizzo_a63ff052-7259-11e1-a140-d2a8d972d17a.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Lo Stato ambiguo e gli evasori Inserito da: Admin - Marzo 31, 2012, 10:03:48 pm IL COMMENTO
Lo Stato ambiguo e gli evasori Imprenditori, gioiellieri e ristoratori sull'orlo della miseria Con gli Studi di settore l0 Stato patteggia con gli evasori Sarebbe da chiedersi se mai qualcosa cambierà dopo aver avuto dai numeri delle ultime dichiarazioni dei redditi la conferma che un dipendente guadagna più del suo datore di lavoro. Fino a quando i gioiellieri si ostineranno a tenere aperte gioiellerie che gli danno a malapena da vivere, i ristoratori continueranno a servire pasti rimettendoci denaro e gli idraulici insisteranno a riparare bagni per beneficenza? Ci era sembrato che quell'epoca storica fosse ormai al capolinea, come se le incursioni della Finanza a Cortina o nelle strade della movida milanese avessero certificato un radicale cambiamento nel rapporto fra l'Italia e le tasse. Invece non era altro che un miraggio. Perché in un Paese nel quale un contribuente su quattro non paga un centesimo di Irpef e soltanto uno su cento dichiara oltre 100 mila euro, mentre quasi metà delle società di capitali chiude i bilanci in perdita, delle due l'una: o siamo poveri in canna oppure il Fisco continua a restare il nemico assoluto. Al punto che consola appena il dato dei 13 miliardi recuperati nel primo trimestre di quest'anno con la lotta all'evasione. I numeri del dipartimento delle Finanze ci dicono che la strada della pacificazione è ancora molto lunga. Ma c'è un aspetto che viene sempre ignorato ogni volta che vengono diffusi dati così macroscopicamente incoerenti con la realtà dei nostri consumi. Si chiama in causa l'infedeltà fiscale e si dipinge l'evasione alla stregua di uno sport nazionale, trascurando responsabilità altrettanto gravi di chi ha contribuito a trasformare il Fisco nel nemico assoluto. Per, esempio, quelle che Bruno Tonoletti, professore dell'Università di Pavia, definisce «politiche implicite». Traduzione: si persegue una politica per raggiungere «ufficialmente» un determinato obiettivo, ma gli effetti «ufficiosi» che se ne ottengono sono ben diversi. Talvolta perfino opposti. Un esempio? L'Italia ha probabilmente i regolamenti edilizi più rigorosi d'Europa. Ma la massa di disposizioni è così imponente e complicata, differente da Regione a Regione da Comune a Comune, e i controlli così inesistenti, che questa impalcatura finisce per favorire un abusivismo senza eguali nel continente. E poi, puntualmente, arrivano i condoni: tre negli ultimi trent'anni. In questo sistema gli italiani e chi li governa si trovano perfettamente a proprio agio. Anche le nostre regole fiscali non sfuggono alla logica diabolica delle «politiche implicite». La prova? Negli ultimi trent'anni ci sono stati regalati, oltre alle tre sanatorie edilizie, tre condoni fiscali tombali. Non bastasse lo sterminato groviglio di leggi e circolari, ecco i nostri «Studi di settore». Creati dopo il tentativo, andato a vuoto nel 1992, di introdurre la famigerata «minimum tax», allo scopo di far pagare le imposte ai lavoratori autonomi, si sono tradotti nella realtà in un patto con le categorie più vessate da adempimenti, gabelle e burocrazia, e di conseguenza più allergiche al Fisco. Il principio è a dir poco elementare: se paghi almeno un tot ti risparmiamo i controlli. Come se fosse il governo a stabilire una soglia minima di evasione «consentita». Il Fisco ha la coscienza a posto, il professionista o il commerciante pure. Una ipocrisia travestita con matematica precisione in un meccanismo che arriva a stabilire quanto almeno debba dichiarare il titolare di un esercizio in una certa strada di una certa città. Ma che frana miseramente di fronte alle 206 mila auto del prezzo superiore a 100 mila euro vendute ogni anno dalle concessionarie italiane. O a statistiche impietose, come quelle secondo cui il 64% degli yacht circolanti in Italia sono intestati a nullatenenti, ad arzilli prestanomi ultraottantenni se non a società di comodo italiane o estere. E viene puntualmente smascherata ogni volta che le Fiamme Gialle si accorgono nel corso delle loro indagini che mancano all'appello valanghe di scontrini fiscali. Oppure si scopre che nelle banche svizzere non ci sono più cassette di sicurezza disponibili. Non resta che aspettare il prossimo anno e sperare che finalmente gli imprenditori si decidano a guadagnare qualcosina più degli operai. Ma sappiamo che non succederà, se il primo a credere in questa possibilità non sarà proprio il Fisco. Sergio Rizzo 31 marzo 2012 | 8:08© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/12_marzo_31/lo-stato-ambiguo-e-gli-evasori-sergio-rizzo_0349723a-7af4-11e1-b4e4-2936cade5253.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Perché l'estero non investe in Italia Inserito da: Admin - Aprile 01, 2012, 12:06:20 pm Il dossier |
Trasporti costosi & Internet lento Perché l'estero non investe in Italia Determinanti anche durata dei processi e corruzione: dal 2001 al 2010 perse 38 posizioni nella graduatoria Transparency ROMA - Racconta Rodrigo Bianchi che da due anni non riesce a mettere un mattone dell'asilo nido per le mamme impiegate nella fabbrica di Pomezia della Jonhson&Johnson medical, azienda di cui è presidente e che ne sopporterebbe interamente la spesa. Il motivo? «Esplorazioni archeologiche, problematiche amministrative... Vai a sapere...». Fa presente Nando Volpicelli, amministratore delegato di Schneider electric industrie Italia come le nostre infrastrutture siano in una condizione tale che il costo di trasporto per unità di prodotto dallo stabilimento di Rieti della multinazionale transalpina è «di due euro più caro rispetto al Sud della Francia». Aggiunge il suo collega della Procter & Gamble Italia, Sami Kahale, che da noi costa di più anche la pubblicità per il lancio di una novità: mediamente del 30% rispetto alla Gran Bretagna. E il presidente della Ericsson telecomunicazioni Italia, Cesare Avenia, conclude che «il problema dell'Italia non è tanto l'articolo 18 quanto la certezza del diritto, se si considera che ci sono imprese obbligate a reintegrare dopo cause durate anche sette anni dei dipendenti in posti di lavoro che non esistono più». Tutto questo e altro ancora c'è in quel numero, 20 miliardi nel 2010 secondo l'Ice, che ci relega nelle posizioni di rincalzo della classifica dei Paesi destinatari degli investimenti esteri. Venti miliardi sono un terzo dei soldi che lo stesso anno sono andati in Francia o a Hong Kong. Un quinto rispetto alla Cina, meno della metà nei confronti della Gran Bretagna. E una cifra due volte e mezzo inferiore perfino a quella incassata dal Belgio. Ma i 20 miliardi del 2010, anno nel quale l'economia europea e mondiale sembrava aver dato segni di ripresa, sono al di sotto anche della media degli investimenti esteri arrivati in Italia fra il 2000 e il 2007. Il che la dice lunga su quanto la situazione si sia ormai incancrenita. Certo, abbiamo la palla al piede del Sud, dove in vaste zone i capitali stranieri sono frenati anche dal più potente dei dissuasori: la criminalità organizzata. Nel 2006, secondo la Svimez, tutte le Regioni meridionali non assorbivano che lo 0,66% degli investimenti esteri, contro il 68,21% della sola Lombardia. Regione nella quale, dice Invitalia, ci sono 4.433 imprese a partecipazione straniera, contro le 719 dell'intero Mezzogiorno. E se il numero delle aziende italiane nelle quali sono presenti azionisti esteri è aumentato rispetto al 2006 da 7.059 a 8.916, ciò è dovuto principalmente ad acquisizioni di società già esistenti, piuttosto che a nuove iniziative. Pesa il ritardo infrastrutturale. Se nel 1970 eravamo al terzo posto in Europa per dotazione autostradale in rapporto agli abitanti, ora siamo al quattordicesimo. Questo nonostante gli italiani vivano praticamente in automobile. Nel 1991 ce n'erano 501 ogni mille abitanti, nel 2010 eravamo arrivati a 606. Il top, a Roma: più di 700 auto ogni mille abitanti, oltre il doppio di Berlino, e in una città che ha 36 chilometri di metropolitana e 195 di ferrovie suburbane contro, rispettivamente, 145 e 2.811 chilometri della capitale tedesca. L'Italia è stato il primo Paese europeo a sperimentare l'Alta velocità ferroviaria: la costruzione della direttissima Roma-Firenze è iniziata nel 1970, quando il Tgv francese era ancora nei sogni. Oggi stiamo faticosamente recuperando un gap mostruoso con il resto del Continente, considerando che la Spagna, dove nel 1970 c'era ancora la dittatura franchista, ha 3.230 chilometri di linee veloci, contro gli 876 dell'Italia. E a che prezzo, sta avvenendo quel recupero: 48,9 milioni di euro al chilometro, a fronte dei 10,2 milioni della Francia e dei 9,8 della Spagna. Ma il resto della rete ferroviaria? Conosciamo il calvario al quale sono sottoposti, purtroppo, molti pendolari. Secondo un'indagine dell'Istat il grado di soddisfazione del servizio è sceso fra il 1995 e il 2009 dal 58,6 al 47,2%, toccando il fondo in Calabria: 28,8%. Mentre attraverso tutti i principali porti italiani, per i loro problemi strutturali, sono transitati nel 2009 meno container (9 milioni 321 mila teu, l'unità di misura del settore) che nel solo scalo olandese di Rotterdam (9 milioni 743 mila teu). Per non dire dell'infrastruttura oggi più importante: la rete informatica. La classifica 2010 di netindex.com sulla velocità media delle connessioni internet collocava l'Italia al settantesimo posto nel mondo, dietro Georgia, Mongolia, Kazakistan, Thailandia, Turchia e Giamaica. Ma sulla scarsa attrattività dell'Italia per gli investitori esteri pesa forse ancora di più la burocrazia. Per la Confartigianato rappresenta per le imprese un costo supplementare di 23 miliardi l'anno. Dati Cna e Confindustria ci dicono che per avviare un'attività in Italia sono necessari in media 68 adempimenti, con 19 uffici da contattare. Procedure, secondo il rapporto Doing business della Banca mondiale, che richiedono 62 giorni, contro i 36 della Grecia, i 53 della Francia, i 45 della Germania, i 16 dell'Irlanda, i quattro degli Stati Uniti e i due del Canada. Il che contribuisce a spiegare, almeno in parte, la cattiva reputazione dell'Italia in tema di libertà economica, ben rappresentata dal cinquantottesimo posto nella graduatoria stilata dalla Confindustria elaborando dati della Heritage foundation. E questo è niente, rispetto al dramma della giustizia civile. Per risolvere un'inadempienza contrattuale davanti al giudice ci vogliono 1.210 giorni: più di tre anni. Il quadruplo del tempo necessario in Francia e il triplo rispetto alla Germania. Addirittura avvilente è il confronto con Paesi come Gran Bretagna, dove sono sufficienti 229 giorni, Svezia (208) o Danimarca (190). Ancora più avvilente, e drammatica, è la faccenda dei pagamenti della Pubblica Amministrazione. Stato italiano ed enti locali onorano mediamente i propri impegni con i fornitori in 186 giorni, contro i 36 della Germania e i 30 stabiliti come termine tassativo da una direttiva dell'Unione europea. Chi viene pagato in sei mesi, però, può ancora ritenersi fortunato rispetto agli sventurati imprenditori che lavorano con la sanità pubblica: nelle Asl calabresi si arriva a tempi di attesa che sfiorano gli 800 giorni. E non esistono strumenti di autodifesa. Le norme in vigore impediscono di dare il via ad atti esecutivi nei confronti delle Regioni che hanno piani di rientro dal deficit sanitario. Ci sarà dunque un motivo se nella classifica della competitività internazionale del World economic forum non andiamo oltre la quarantaseiesima posizione. In una situazione del genere non può neppure meravigliare che la corruzione dilaghi, come ha ricordato giusto qualche settimana fa il presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino. Secondo i magistrati contabili è un macigno che pesa sui conti pubblici per 60 miliardi di euro l'anno. Ma quello che davvero brucia è il paragone con gli altri. Nel 2001 l'Italia era al ventinovesimo posto nella graduatoria di Transparency International della corruzione percepita. Ed era, già allora, messa peggio degli altri Paesi europei. La Germania, per esempio, era al ventesimo posto. Nel 2010 l'Italia è scesa al sessantasettesimo posto, mentre la Germania è risalita al quindicesimo. E anche gli altri partner continentali, pur avendo un pochino peggiorato il proprio ranking, sono ben distanti. Nel 2011, poi, un'altra piccola scivolata, al posto numero 69: quaranta posizioni più giù, e in soli dieci anni... Sergio Rizzo 1 aprile 2012 | 10:14© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/12_aprile_01/trasporti-costori-internet-lento-rizzo_699fc15e-7bc3-11e1-95a2-17cafbbd8350.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Partiti, un fiume di denaro scorre senza controllo. ... Inserito da: Admin - Aprile 10, 2012, 12:00:39 pm POLITICAI E REGOLE
Partiti, un fiume di denaro scorre senza controllo. E con il fisco a favore Soldi ai gruppi, sgravi e fondi ai giornali. Oltre ai rimborsi 220 milioni all'anno. Chi dona alla ricerca detrae 51 volte meno ROMA - Se non ora, quando? Quando si metterà fine a quel sistema indecente per cui un privato cittadino che finanzia un partito può beneficiare di uno sgravio fiscale 51 volte più favorevole rispetto a chi versa un contributo alla ricerca sulla leucemia infantile? Sono anni che la domanda «se non ora, quando?» risuona in Parlamento: senza risposta. Sono state presentate diverse proposte di legge per chiudere quello sconcio, senza che per nessuna di loro si sia aperto uno spiraglio. Ne ricordiamo in particolare una che ha più di quattro anni, firmata dall'attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno e dal capo dell'Italia dei valori, Antonio Di Pietro: mirava a mettere almeno sullo stesso piano le erogazioni liberali alla politica con quelle alle associazioni benefiche. Mai messa all'ordine del giorno, nonostante l'autorevolezza dei proponenti. Destino analogo a quello di un disegno di legge del dipietrista Antonio Borghesi, presentata a giugno del 2008. Così oggi chi dà 100 mila euro a un partito può continuare a risparmiarne 19 mila, visto che la detrazione del 19% è ammessa fino a un tetto di 103 mila euro, mentre chi dona la stessa cifra alla ricerca sulla distrofia muscolare ha uno sconto massimo di 392 euro: perché in questo caso il tetto della detrazione è di 2.065 euro. LA PROPOSTA - Ma se pensate di scorgere un rossore sulle guance dei politici che non hanno voluto cambiare finora questo stato di cose, vi sbagliate. Perché c'è perfino chi pensa che gli sgravi fiscali astronomici per i partiti siano insufficienti. Il deputato Daniele Galli e il suo collega Giancarlo Lehner, entrambi eletti con il Pdl e passati il primo al Fli e il secondo ai Responsabili hanno depositato il 13 febbraio una proposta di legge per ridurre, sì, i rimborsi elettorali, ma contemporaneamente innalzando dal 19 al 70 (settanta!) per cento la detrazione fiscale per i finanziamenti privati alla politica e portando il tetto per ottenere quel beneficio da 103 mila a 200 mila euro. Disegno di legge il cui esame è già iniziato insieme ad altri, con incredibile solerzia, alla commissione Affari costituzionali della Camera. Traduzione: mentre oggi chi versa 200 mila euro a un partito può risparmiare al massimo 19.570 euro, se passasse questa proposta potrebbe caricarne sulle spalle dei contribuenti 140 mila. MANI PULITE - Ecco il clima in cui sta iniziando, con imperdonabile ritardo, la discussione sulla trasparenza dei bilanci delle formazioni politiche e sui grassi contributi pubblici che queste ottengono. Sorvoliamo su un particolare: il referendum del 1993 con il quale 34 milioni 598.906 italiani bocciarono la legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Quasi il triplo dei 12,7 milioni di cittadini che nel 1946 votarono per la Repubblica. Sorvoliamo, anche se non si dovrebbe. Quel voto referendario di vent'anni fa fu la prevedibile conseguenza di una situazione profondamente degenerata. Le inchieste di Mani Pulite avevano squarciato il velo su una corruzione diffusa che stava corrodendo il sistema politico. E la risposta del Paese non poteva che essere categorica: basta soldi ai partiti. LA TESI - A distanza di vent'anni, se dobbiamo prendere per buone non le risultanze delle inchieste dei magistrati ma le denunce della Corte dei Conti, da ultima quella del suo nuovo presidente Luigi Giampaolino secondo il quale oggi il cancro della corruzione è più esteso di allora, c'è il rischio che la situazione sia perfino peggiore. Al punto da far apparire grottesca la giustificazione inconfessabile con la quale i partiti hanno fatto saltare due anni fa, riducendolo a un misero 10%, il taglio del 50% dei rimborsi elettorali proposto dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Circolava la tesi, in Parlamento, che una riduzione eccessiva dei fondi pubblici avrebbe rilanciato la corruzione: pensate! IL TETTO - Ma dopo aver sorvolato su quel referendum del 1993 non vorremmo assistere a qualche sgradevole sorpresa, e cioè che invece di ridurre un conto già salatissimo, si facesse semplicemente sparire la fattura. Magari spostandola dalla luce dei riflettori, oggi tutti concentrati a illuminare i «rimborsi elettorali», la definizione ipocrita che ha assunto dal 1993 continuando così a sopravvivere il famoso finanziamento pubblico, ad altre voci. Tipo detrazioni fiscali maggiorate, per intenderci. Perché i rivoli di denaro dei contribuenti che affluiscono nelle casse dei partiti sono molteplici. Uno di questi è rappresentato, appunto, dagli sgravi fiscali per i contribuiti privati. Quanti soldi sono, nessuno, tranne l'Agenzia delle Entrate, è in grado di dirlo. Con una leggina approvata all'inizio del 2006 è stato infatti portato da 2.500 euro alla rispettabile cifra di 50 mila euro il tetto al di sotto del quale una «erogazione liberale» a un politico o alla sua formazione può tranquillamente restare anonima. Di conseguenza anche la stima che si può fare sui versamenti denunciati ufficialmente alla Camera rischia di essere notevolmente inattendibile. Da questi risulta che nel 2010 privati cittadini e aziende hanno versato ai partiti circa 49 milioni di euro: il che significa un costo per il Fisco di almeno 9 milioni. Ma è inutile dire che potrebbe essere anche molto di più. LE ASSEMBLEE LEGISLATIVE - Fra quei contributi ci sono anche quelli dei parlamentari. Molti deputati e senatori girano ai partiti una parte dei loro emolumenti: su queste cifre hanno diritto anche loro al famoso sgravio del 19% fino al limite di 103 mila euro annui. Alcuni però attingono non dall'indennità, bensì dal fondo per il collaboratore parlamentare. Al partito vanno quindi soldi pubblici che sarebbero destinati a retribuire il cosiddetto portaborse, sui quali per giunta è possibile applicare una detrazione del 19% nonostante siano esentasse. Impossibile calcolare che cosa significhi questo per le casse di tutte le formazioni politiche. Molto più facile, invece, stimare l'impatto di altre voci. I contributi ai gruppi parlamentari di Camera e Senato non sono altro che un finanziamento pubblico supplementare ai partiti: circa 75 milioni l'anno. Idem vale per i contributi ai gruppi consiliari delle 20 Regioni italiane, il cui totale non è inferiore a quello del Parlamento. In tutto, dunque, alla politica vanno altri 150 milioni pubblici l'anno attraverso le assemblee legislative. GIORNALI DI PARTITO - Bisogna poi considerare i finanziamenti ai giornali di partito: una cinquantina di milioni l'anno. Se sommiamo tutte queste voci si può calcolare che ai rimborsi elettorali, ancora oggi e fino alle prossime elezioni politiche formalmente pari a 200 milioni l'anno, debbano essere aggiunti altri fondi pubblici per 210-220 milioni. Anche per questa ragione concentrare la discussione sui soli rimborsi rischia di essere riduttivo. Certo su quel versante c'è molto da fare, anche volendo far finta che il referendum del 1993 non ci sia mai stato. Intanto non si può chiamare «rimborso» l'erogazione di una somma a forfait senza alcuna relazione, come non si stanca di ripetere la Corte dei Conti, con i denari effettivamente spesi per la campagna elettorale. Inoltre è quantomeno singolare che questo «rimborso» a forfait venga calcolato anche per il Senato, eletto con il voto di chi ha almeno 25 anni d'età, sulla base del numero decisamente più grande degli elettori della Camera, dove com'è noto si vota a partire dai diciott'anni. Infine è surreale che per entrare in Parlamento occorra superare (finora) una soglia di sbarramento del 4% mentre per accedere ai famosi rimborsi sia sufficiente arrivare all'1%. LA CORSA IMPAZZITA, LA DIGNITA' - Ma soprattutto è assurdo che tutto questo fiume di denaro scorra senza controlli e nella più assoluta opacità. Qui sta il punto, e qui bisogna prima di tutto intervenire, scrivendo regole chiare e semplici che impongano ai partiti di mettere nei bilanci tutte le loro entrate reali, nero su bianco, e documentando le spese fino all'ultimo euro. Stabilendo dure sanzioni per chi non le rispetta, come il divieto a candidarsi a cariche elettive. Solo partendo da qui si può pensare di arrestare la corsa impazzita dei finanziamenti ai partiti, restituendo alla politica la dignità che merita. Se non ora, quando? Sergio Rizzo 10 aprile 2012 | 8:51© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/12_aprile_10/soldi-ai-gruppi-sgravi-e-fondi-ai-giornali-sergio-rizzo_588816d0-82cd-11e1-b660-48593c628107.shtml Titolo: SERGIO RIZZO UNA RESISTENZA ASSAI INGLORIOSA. I frenatori di Palazzo Inserito da: Admin - Aprile 24, 2012, 05:24:53 pm UNA RESISTENZA ASSAI INGLORIOSA
I frenatori di Palazzo Aprendo la fase due del suo governo, Mario Monti aveva annunciato «un lavoro intenso sulla spesa pubblica». Se lo aspettavano i mercati, ma soprattutto gli italiani. Dopo i sacrifici necessari per allontanare il Paese dall'orlo del baratro, dopo il giro di vite sulle pensioni, dopo l'aumento delle addizionali Irpef e dell'Iva, dopo i rincari della benzina, sarebbe finalmente arrivato il momento di tagliare sprechi e spese inutili: liberando così risorse per la crescita, asfittica da anni, e offrendo a tutti la speranza che si sarebbe potuta presto ridurre la pressione fiscale diventata insostenibile. Interessi sul debito compresi, la spesa pubblica supera abbondantemente il 50% del Prodotto interno lordo. Dal 2000 al 2011, secondo il centro studi Eutekne.info, è salita in termini reali di 124 miliardi di euro, mentre il nostro Pil pro capite , dicono i dati del Fondo monetario, è diminuito del 2,1%. Un macigno pesantissimo. Che alimenta lo spread fra i nostri Btp e i Bund tedeschi, tornato a livelli preoccupanti, nonché lo scetticismo internazionale circa la possibilità che l'Italia consegua il pareggio di bilancio nel prossimo anno. Di tutto questo Monti sembra perfettamente consapevole, almeno a giudicare da alcune iniziative. I voli blu, che nel 2009 avevano addirittura superato del 22% i livelli record del 2005, quando gli aerei della presidenza del Consiglio solcavano i cieli 37 ore al giorno, sono stati ridotti di oltre il 90%. Mentre le consulenze che Palazzo Chigi per una prassi tanto generosa, quanto irrispettosa del rigore, garantiva a funzionari già in pensione, sono state azzerate. Vorremmo però che altrettanto consapevoli, oltre ai politici arroccati a difesa dei propri privilegi e dei lauti rimborsi elettorali, fossero anche alcuni ministri e frenatori di cui è piena la pubblica amministrazione: centrale e locale. Il piano taglia-spese, frutto della famosa spending review , doveva partire alla fine di gennaio. Ora sembra che della «revisione della spesa» se ne parlerà a maggio. Inutile girarci intorno. Tutte queste difficoltà hanno a che fare con resistenze radicate e diffuse in una burocrazia potente e refrattaria ai cambiamenti. E che con ogni probabilità si sente ancora più forte nel momento in cui ai vertici politici dell'amministrazione ci sono «tecnici», beninteso validissimi, che ne sono espressione. Immaginiamo che non sia facile per un militare, qual è l'ammiraglio Giampaolo Di Paola, tagliare come dovrebbe le spese della Difesa. Né per un altissimo dirigente dell'Interno, come il prefetto Anna Maria Cancellieri, affondare quanto sarebbe necessario il bisturi nei conti del Viminale. E neppure per un diplomatico, nella fattispecie l'ambasciatore Giulio Terzi di Sant'Agata, infliggere qualche sana mutilazione al bilancio della Farnesina. Comprensibile che gli pianga il cuore. Ma sarà difficile spiegarlo agli italiani, schiacciati da una tassazione ai record europei con servizi da Terzo mondo. Il tempo della comprensione è scaduto: ora è quello dei tagli. Se ne facciano tutti una ragione. Sergio Rizzo 22 aprile 2012 (modifica il 24 aprile 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_22/frenatori-di-palazzo-rizzo_6e5f2586-8c44-11e1-a888-e468d0e8abab.shtml Titolo: S. RIZZO Nelle bozze discusse finora nessun cenno al rifiuto dei soldi di luglio Inserito da: Admin - Maggio 06, 2012, 10:46:49 am Partiti e fondi
E salta la rinuncia all'ultima tranche Nelle bozze discusse finora nessun cenno al rifiuto dei soldi di luglio MILANO - Avevano scherzato. Il congelamento della tranche di luglio dei «rimborsi elettorali», annunciato qualche settimana fa fra i mugugni, sembra destinato a evaporare nel percorso della legge che dovrebbe introdurre controlli sui bilanci dei partiti. Rinunciare a quei 182 milioni è evidentemente ritenuto un sacrificio inutile, ora che ha trovato posto l'idea, in linea con quella del Pd, di ridurre a metà il finanziamento pubblico. A partire da quando, chissà? In realtà la spiegazione forse è più semplice: quei soldi qualche partito li ha già spesi. Magari facendoseli anticipare dalle banche, come consente la legge. Ecco spiegato perché nella bozza del disegno di legge che circola in queste ore non c'è alcuna traccia dell'atteso «congelamento». Vedremo il testo definitivo, che non sarà reso noto se non dopo le elezioni amministrative di questo fine settimana. Era atteso per ieri, ma i due relatori Giuseppe Calderisi e Gianclaudio Bressa hanno chiesto più tempo per approfondire questioni «tecniche». SGRAVI FISCALI - Certo, gli aspetti «tecnici» non mancano. Per esempio la composizione della commissione esterna che dovrebbe controllare i bilanci, di cui faranno parte (per evitare gelosie) non più i presidenti delle varie magistrature, ma giudici designati da costoro. Per esempio, l'entità dello sgravio fiscale concesso a chi finanzia la politica: dovrebbe essere raddoppiato dall'attuale 19% al 38%, ma riservando lo stesso trattamento ai contributi versati a tutte le onlus. Se fosse così almeno si porrebbe fine all'odioso e inaccettabile sistema che concede ai finanziamenti alla politica erogati dai privati cittadini un vantaggio fiscale 51 volte più grande rispetto a quello consentito per le donazioni alla ricerca o alle associazioni benefiche. Staremo anche qui a vedere. SCANDALI - I nodi, però, sono chiaramente politici. Trascorsi ormai dalla presentazione della proposta alla Camera più di 20 giorni, ovvero quanti furono sufficienti al Parlamento nel 1974 per approvare la legge sul finanziamento pubblico dei partiti, si avverte l'ostilità crescente degli apparati. Poco o per nulla turbati, è la sensazione, dagli scandali a ripetizione: come l'ultimo, che investendo l'ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito ha provocato un terremoto ai vertici del partito di Umberto Bossi. Prima la decisione, imposta dalla stessa Lega assieme ad alcuni parlamentari fra cui qualche appartenente al gruppo dei cosiddetti Responsabili, di far deragliare la legge dalla corsia preferenziale dell'approvazione diretta in commissione. Deragliamento sostenuto senza mezzi termini anche da qualcuno nei partiti che avevano proposto la «legislativa», come il deputato del Pd Salvatore Vassallo. «Che cosa si può approvare di veramente urgente oggi che non possa essere approvato fra tre mesi?», era stata la sua reazione quando era stata ventilato il ricorso all'iter abbreviato. RINUNCIA - Del resto, che il congelamento della tranche di luglio sarebbe stato un boccone assai indigesto non l'aveva nascosto quasi nessuno, nei partiti della maggioranza che oggi sostiene il governo di Mario Monti. Il tesoriere del Pd Antonio Misiani aveva dichiarato: «Con onestà, diciamo di non poter rinunciare al rimborso di luglio». E ancora prima di lui il vice tesoriere del Popolo della Libertà Massimo Corsaro si era rifugiato in corner, definendo «tecnicamente complicata» la rinuncia alla prossima rata. Che cosa potessero significare queste affermazioni, rese da chi materialmente maneggia i quattrini, era intuibile. Come poi si è visto. Ora resta soltanto da capire se chi ha annunciato di non voler intascare quei soldi girandoli al ministro del Lavoro Elsa Fornero (Antonio Di Pietro) o dandoli in beneficenza (il leghista Roberto Maroni) manterrà la coerenza. OSTILITÀ - Ma l'ostilità crescente degli apparati a una riforma seria deve averla avvertita anche Monti, se ha ritenuto di dover affidare a Giuliano Amato l'incarico, testuale, «di fornire al presidente del Consiglio analisi e orientamenti sulla disciplina dei partiti per l'attuazione dei principi di cui all'articolo 49 della Costituzione, sul loro finanziamento nonché sulle forme esistenti di finanziamento pubblico, in via diretta o indiretta, ai sindacati». Una decisione accolta nel Palazzo con freddo siberiano. Se il sarcasmo del leader della Destra Francesco Storace («Da accapponare la pelle... Dracula all'Avis!») e dell'ex sottosegretario del Pdl Guido Crosetto («Sarei ugualmente polemico se mi proponessero Erode all'Unicef») poteva essere forse prevedibile, meno scontata era certamente la bora che ha investito l'ex premier dal suo stesso schieramento di centrosinistra. Una ventata gelida prontamente registrata da Europa , il quotidiano già della Margherita: per il cui ex tesoriere Luigi Lusi, coinvolto nello scandalo dei rimborsi elettorali, i magistrati ieri hanno chiesto l'arresto. A chi gli domandava se il suo partito avrebbe collaborato con Amato, il segretario democratico Pier Luigi Bersani ha replicato impassibile: «Abbiamo presentato la nostra proposta che è calendarizzata in Parlamento». Mica male, per essere l'inizio. Sergio Rizzo 4 maggio 2012 | 8:53© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/12_maggio_04/finanziamenti-partiti-Rizzo_192b6318-95b3-11e1-b2cf-0f42ed87ec02.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Lo scandalo dei contributi non utilizzati Inserito da: Admin - Maggio 13, 2012, 05:50:38 pm Bruxelles / Micro-interventi a pioggia, per il 40% non c'è una proposta scritta
Speso solo il 9% degli investimenti Ue Lo scandalo dei contributi non utilizzati Fra le 200 regioni del continente, quelle meridionali in dieci anni perdono quaranta posizioni per Pil pro capite ROMA - Ricordava soprattutto l'«imbarazzo», Carlo Azeglio Ciampi. Una sensazione sgradevole che provava quando a Bruxelles, da ministro del Tesoro, si sentiva dire che fra i Paesi europei l'Italia era quello «più indietro» nell'uso dei fondi comunitari. L'ex governatore della Banca d'Italia rese questa amara confessione a Nuoro, il 10 ottobre del 2000. A Roma c'era il governo di Giuliano Amato. Due anni prima l'attuale ministro della coesione Fabrizio Barca, chiamato al Tesoro proprio da Ciampi, aveva lanciato «Cento idee» per lo sviluppo del Sud. Fu accorata, la requisitoria del presidente della Repubblica, al Quirinale da appena un anno e mezzo. Accorata ma durissima contro il «grande spreco» dei soldi europei inutilizzati, che avrebbero potuto far crescere il Sud. Uno spreco ancora più insultante perché «sono in qualche modo soldi nostri, che vengono dalle nostre tasche, dal nostro lavoro». Ciampi disse che era arrivato il momento di voltare pagina, farla finita con le opere incompiute e mettersi d'impegno per usare i soldi. Perché «ognuno è artefice del proprio destino». Parole che potrebbero essere state pronunciate oggi: in questi dodici anni non è stato fatto neanche un piccolo passo avanti. E se il divario fra il Sud e il Nord si è fatto ancora più spaventoso la responsabilità è anche di chi non ha provveduto a sfruttare quel tesoro. Secondo la Svimez il Prodotto interno lordo medio delle Regioni meridionali era nel 1951 pari al 65,5% di quello del Centro Nord. Nel 2009, al culmine della recessione precedente, era sceso al 58,8%: appena sopra al 56% del 1995. Conseguenza della più bassa crescita, ovvio. Ma il confronto con le altre aree europee svantaggiate fa toccare con mano che cosa abbia significato per il Sud d'Italia «lo spreco» immane dei fondi europei inutilizzati denunciato nel 2000 da Ciampi. Nella graduatoria delle 208 regioni continentali meno sviluppate, quelle del Sud Italia si situavano nel 1995 tra il 112° e il 192° posto. Dieci anni dopo erano scivolate tra il 165°e il 200°. Dal 1999 al 2005 il Prodotto interno lordo di ogni singolo cittadino delle aree dell'«obiettivo 1» (le più arretrate) è cresciuto del 3%, in Italia dello 0,6%. Cinque volte di meno. Ci sono regioni che si erano affrancate da quel livello di povertà, traducibile per le statistiche comunitarie in una ricchezza media procapite inferiore al 75% della media continentale, e ci sono ripiombate. Nel 2001 la Basilicata aveva raggiunto l'83%, sei anni dopo era al 75%. La Sicilia è passata dal 75% al 66%. La Puglia, dal 77% al 67% del 2007. Va detto che quelli dell'Europa non sono gli unici denari a giacere nei cassetti. L'Associazione dei costruttori, per esempio, si lamenta che da agosto 2011 il Cipe ha stanziato 19 miliardi per le infrastrutture: tuttora fermi. Ma ha ragione Rita Borsellino, europarlamentare democratica e sorella del giudice Paolo Borsellino, a definire «irresponsabile» una certa gestione dei fondi strutturali europei: rammentando come in Sicilia al 30 giugno dello scorso anno fosse stato completato appena l'8% dei progetti finanziati a valere sui piani 2000-2006. Per rendersi conto di quanto la situazione sia grave basta leggere l'ultima relazione della Ragioneria generale dello Stato, sfornata giusto un anno fa. La massa finanziaria destinata all'Italia da Bruxelles per il periodo che va dal 2007 al 2013 è imponente: fra finanziamento comunitario e contributo nazionale ben 59,4 miliardi di euro, di cui ben 47 destinati al Sud. Ebbene, alla fine del 2010 soltanto un quinto di quella somma enorme era stato già impegnato. In tutto 12 miliardi, il 18,9% del totale. Ma i denari effettivamente spesi erano molti, ma molti meno: 5,9 miliardi, ovvero il 9%. Un bilancio imbarazzante, considerando che il primo triennio 2007-2010 era già scaduto. Semplicemente abissale, poi, la differenza fra Sud e Nord. Nelle Regioni meridionali la spesa reale era all'8,2%, contro il 16,3% del resto d'Italia. Tenendo conto delle risorse utilizzabili nel solo primo triennio, pari a 33,5 miliardi, ecco che le otto regioni meridionali erano riuscite a impegnarne il 23,6%, con una spesa effettiva, però, non superiore all'11,4%. E il bello è che le amministrazioni centrali, che tutti noi immaginiamo più efficienti rispetto alle strutture regionali, sono riuscite a fare appena meglio, con impegni pari al 41,2% e una spesa reale del 21%. Per fare un paragone, lo Stato ha realizzato una performance tripla rispetto alla Calabria, che si è fermata al 7%, ma soltanto un po' più decente di quella della Sardegna, regione che ha speso il 17,2%. Senza riuscire ad avvicinarsi al Veneto, dove l'utilizzo reale dei fondi europei si è attestato a un pur modesto 25,5%. Sulle cause si è discusso a lungo. Spesso si tira in ballo la scarsa (o scarsissima) capacità progettuale delle amministrazioni locali o centrali. Ma non c'è dubbio che ci sia anche il concorso dell'indolenza burocratica e di una certa miopia della politica. Le conclusioni a cui sono giunti i magistrati della Corte dei conti in una recentissima indagine sull'uso dei fondi comunitari nel periodo 2000-2006 da parte della regione siciliana sono illuminanti. Si parla di «eccessiva frammentazione degli interventi programmati e notevolissima presenza di progetti non conclusi, pari al 35 per cento della spesa certificata», che «hanno sfavorevolmente inciso sullo sviluppo locale e non hanno prodotto l'auspicato miglioramento delle condizioni di vita della popolazione». Non bastasse, i ricambi ai vertici delle strutture regionali seguiti alle vicende politiche, «hanno di fatto rallentato la spesa compromettendo l'efficacia del programma regionale» mentre il livello molto elevato di errori e irregolarità «denota la carenza dei controlli e una generale scarsa affidabilità degli stessi». L'Ifel, il centro studi dell'Associazione dei Comuni, sottolinea che gli interventi sono spesso troppo frammentati, con una generale incomprensione fra gestione a programmazione, quando i fondi non vengono utilizzati per progetti non strategici. L'Anci ha calcolato che i Comuni, destinatari di una trentina di miliardi per il periodo 2007-2013, hanno messo in cantiere qualcosa come 2.410 progetti distribuiti per 1.293 municipi. La dimensione media è infinitesima: il valore del 43,5% delle iniziative non supera 150 mila euro. Nella sola Calabria si sono mobilitati, sulla carta, 264 Comuni. La dimensione media è infinitesima: il 43,5% delle iniziative non supera nemmeno 150 mila euro. E poi ci si stupisce che per il 40% dei progetti non ci sia nemmeno una pagina scritta, né un segno sulla carta. Sergio Rizzo 12 maggio 2012 | 12:43© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/12_maggio_12/speso-poco-degli-investimenti-ue-rizzo_4fe7f472-9bfb-11e1-a2f4-f4353ea0ae1a.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Ogni cittadino spende 2.849 euro per i dipendenti pubblici Inserito da: Admin - Maggio 15, 2012, 11:39:21 am Il costo dello Stato
Ogni cittadino spende 2.849 euro per i dipendenti pubblici Corte dei conti: produttività in calo. E critica l'intesa sugli statali ROMA - Se si misura il costo degli stipendi pubblici in rapporto ai cittadini, noi italiani spendiamo decisamente più dei tedeschi: 2.849 euro ciascuno, contro 2.830 euro in Germania. Ovvio. Meno ovvio, forse, che la nostra spesa procapite sia superiore anche a quella di Grecia (2.436) e Spagna (2.708). Va detto che ci sono Paesi anche più generosi dell'Italia. Per esempio il Regno Unito (3.118) e l'Olanda (3.557). Per non parlare della Francia (4.001), dove peraltro dovrebbe salire quest'anno ancora di 4 miliardi. Il vero problema non è però il livello della spesa, peraltro perfettamente allineato alla media europea dell'11,1% del Prodotto interno lordo (anche se di ben 3,2 punti superiore alla Germania dove in dieci anni è calato dello 0,3% mentre da noi è salito dello 0,6%). Piuttosto, la sua efficienza, e qui sta il vero problema della pubblica amministrazione made in Italy. Lo dice senza mezzi termini un rapporto della Corte dei conti: «In un contesto caratterizzato dalla perdita di competitività del sistema Italia preoccupanti segnali riguardano la produttività del settore pubblico». In quella relazione appena sfornata dalla magistratura presieduta da Luigi Giampaolino c'è un grafico che mostra come proprio la produttività, cresciuta nel 2010 di oltre il 2%, sia tornata lo scorso anno a zero, ricominciando nel 2012 perfino a scendere «in linea con le stime dell'andamento del Pil». Dunque, il costo del lavoro per unità di prodotto riprende a salire. Di chi la colpa? L'assenza della meritocrazia. La relazione spiega che il blocco della contrattazione deciso nel 2010 per tamponare le spese ha «comportato il rinvio delle norme più significative in materia di valutazione del merito individuale e dell'impegno dei dipendenti contenute nel decreto legislativo n. 150 del 2009». Ma ha pure «impedito l'avvio del nuovo modello di relazioni sindacali delineato nell'intesa del 30 aprile 2009 maggiormente orientato a una effettiva correlazione tra l'erogazione di trattamenti accessori e il recupero di efficienza delle amministrazioni». Musica per le orecchie dell'ex ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, artefice di quella operazione. Mentre il successore Filippo Patroni Griffi, che era stato anche capo di gabinetto dello stesso Brunetta, non ha resistito: «Premiare i migliori e aumentare la produttività sono le nostre priorità. Bisogna metterle in pratica». Anche se i magistrati non ne sembrano proprio convinti, a giudicare dalle «perplessità» sul «contenuto della recente intesa fra Governo, Regioni, Province, Comuni e sindacati» manifestate nel rapporto. La Corte dei conti dice che quell'accordo, «azzerando il percorso» della riforma Brunetta, rischia di lasciare tutto com'è: consentendo cioè che nel pubblico impiego si privilegi la «distribuzione indifferenziata dei trattamenti accessori al di fuori di criteri realmente selettivi e premiali». Intanto però gli effetti del giro di vite deciso un paio d'anni fa si sono fatti sentire, eccome. Basta dire che per la prima volta, da quando è stata introdotta una specie di «privatizzazione» del rapporto di lavoro, il costo del personale pubblico nel 2010 è diminuito. Esattamente dell'1,5%, per un esborso complessivo di 152,2 miliardi. Niente di eclatante, ma per un Paese come l'Italia è un fatto storico. I dipendenti pubblici a fine 2010 erano 3 milioni 458.857. Ovvero, 67.174 in meno rispetto a un anno prima. Si è sforbiciato dappertutto, con un paio di eccezioni. Come le solite Regioni e Province a statuto speciale, che neppure nel 2010 hanno voluto rinunciare ad accrescere gli organici: anche in un comparto come la scuola. Mentre nel resto d'Italia il personale scolastico diminuiva di circa 32 mila dipendenti, negli istituti di Trento e Bolzano si gonfiava di 441 unità. E poi c'è Palazzo Chigi. Nell' annus horribilis del pubblico impiego, mentre scattava quel giro di vite senza precedenti, era l'unico posto dove paghe e dipendenti continuavano ad aumentare a ritmi forsennati. Alla presidenza del Consiglio dei ministri, nel 2010, si spendevano per gli stipendi al personale 198 milioni e 700 mila euro: l'11,2% in più in un solo anno. Depurando la cifra degli arretrati, si arriva addirittura al 15,5%. Semplicemente pazzesco l'aumento dell'esborso per le retribuzioni dirigenziali, cresciuto del 20%. Con punte astronomiche del 35,5% e del 57% rispettivamente per i dirigenti di prima e seconda fascia a tempo determinato. Il tutto mentre anche il numero dei cedolini saliva senza sosta. Alla fine dell'anno raggiungeva le 2.543 unità con un aumento del 7%, che toccava l'8,9% considerando il solo personale non dirigente. Motivo, la stabilizzazione di ben 142 precari. Com'è possibile che questo sia accaduto nonostante il blocco delle buste paga di tutti i dipendenti pubblici? Elementare: «Incrementando gli addetti della Protezione civile ed estendendo l'applicazione dei contratti collettivi del comparto al personale trasferito alla presidenza del Consiglio», fra cui «gli addetti alla segreteria tecnica del Cipe» e quelli «in servizio presso il dipartimento del Turismo e dello sport», spiega la relazione della Corte dei conti. Nella quale si sottolinea come nel 2010 siano state finalmente considerate in quella voce di spesa anche le retribuzioni dei collaboratori dei politici, estranei alla pubblica amministrazione. Il dato di quanti fossero nel penultimo anno del governo di Silvio Berlusconi non è conosciuto: né il rapporto rivela il numero dei dipendenti presi «in prestito» da altri uffici pubblici. Specificando però che questi, "pur in flessione», continuano «a rappresentare oltre il 40% del personale in servizio». Se questo è vero, nella miriade di uffici della presidenza del Consiglio disseminati per Roma lavorano non meno di 4.500 persone. Più o meno quante ne mancano nella pubblica amministrazione a causa dei permessi e dei distacchi sindacali. Rielaborando i dati della Funzione pubblica, la Corte dei conti giunge a questa conclusione: «la fruizione di aspettative retribuite, permessi, permessi cumulabili e distacchi relativamente al 2010 può essere stimata come l'equivalente all'assenza dal servizio per un intero anno lavorativo di 4.569 unità, pari a un dipendente ogni 550 in servizio». Con un costo «a carico dell'erario» pari a 151 milioni. E «al netto degli oneri riflessi». Sergio Rizzo 15 maggio 2012 | 7:27© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/12_maggio_15/rizzo-dipendenti-pubblici-sprechi-corte-conti_559fd1bc-9e4b-11e1-b8e5-2081876c6256.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il mercatino delle autorità Inserito da: Admin - Giugno 08, 2012, 05:41:50 pm SCELTE (NON TROPPO) INDIPENDENTI
Il mercatino delle autorità È davvero bizzarro un Paese nel quale si pensa di risolvere ogni problema creando una nuova authority . L'ultima in ordine di apparizione è l'organismo indipendente che Camera e Senato dovranno costituire per sorvegliare le pubbliche finanze, previsto dalla legge costituzionale con cui è stato introdotto il pareggio di bilancio. Non bastava la Corte dei Conti, cui la nostra Carta fondamentale assegna quel compito? Per non parlare della Ragioneria generale, considerato il gendarme dell'Erario. E senza considerare che ciascuno dei due rami del Parlamento ha già una propria struttura dedicata all'esame dei bilanci. Il tutto mentre lo Stato ha una vaga idea del perimetro della spesa pubblica, conosce a malapena il numero di stipendi pagati dai contribuenti e ignora perfino quanto guadagnano i suoi alti burocrati: al punto da dover chiedere a loro stessi, per poter applicare il tetto alle buste paga, di dichiarare la reale retribuzione percepita. In compenso, sappiamo con certezza come saranno individuati i membri di questa ennesima authority . Dopo aver visto che cosa è successo con il Garante delle comunicazioni non ci facciamo illusioni. Sia chiaro: nessuno ce l'ha con i singoli. Non con Antonio Martusciello, ex dipendente di Silvio Berlusconi ed ex onorevole azzurro sbalzato fuori ancora giovane dai ranghi più elevati del partito, che non poteva certo ritrovarsi, a soli 50 anni, nella penosa condizione di baby pensionato del Parlamento. Né con Antonio Preto, ex capo di gabinetto del commissario europeo Antonio Tajani e autore di saggi insieme all'ex ministro Renato Brunetta. Ma neanche con Francesco Posteraro, vice segretario generale di Montecitorio sponsorizzato da Pier Ferdinando Casini, che potrà sommare alla lautissima pensione della Camera anche i 260 mila euro dello stipendio da commissario Agcom. E neppure con Maurizio Dècina, considerato superesperto del settore, indicato dal Partito democratico. Ce l'abbiamo con chi li ha scelti, per il modo in cui l'ha fatto. Attendersi che questi partiti rinunciassero alle loro prerogative, magari designando i componenti dell' authority con bandi pubblici europei, era forse troppo. Ma è pacifico che quei 90 curriculum arrivati in Parlamento per la selezione delle candidature nessuno di chi ha avuto voce in capitolo li ha mai aperti. Nemmeno nel Pd. Tutto era stato già deciso nelle trattative interne e con gli altri leader di partito: sfogliando non le note caratteristiche dei candidati, ma il caro vecchio manuale Cencelli in base al quale nella prima Repubblica i partiti si dividevano le nomine nelle aziende pubbliche. Con l'obiettivo non secondario, concedendo a Casini la seconda poltrona dell'Agcom teoricamente di spettanza democratica, di spianare la strada per un posto all'Autorità della privacy al primario dermatologo Antonello Soro, l'ex capogruppo democratico che aveva dovuto liberare quella poltrona per Dario Franceschini. E gli altri, ovvio, non sono stati a guardare. La Lega ha piazzato alla Privacy Giovanna Bianchi Clerici, consigliere Rai. Mentre il partito di Silvio Berlusconi è stato soddisfatto con Augusta Iannini, capo dell'ufficio legislativo della Giustizia prima con Angelino Alfano e poi con Paola Severino, incidentalmente consorte del conduttore di «Porta a Porta», Bruno Vespa. La sceneggiata penosa dei curriculum, quella almeno ce la potevano risparmiare. Sergio Rizzo 7 giugno 2012 | 8:36 © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_07/mercatino-autorita-rizzo_538ed22a-b060-11e1-b62b-59c957015e36.shtml?fr=correlati Titolo: SERGIO RIZZO Sicilia, più dipendenti del Governo inglese Inserito da: Admin - Luglio 05, 2012, 11:55:36 am IL CASO - PALAZZO DEI NORMANNI
Sicilia, più dipendenti del Governo inglese La presidenza della Regione ne conta 1.385 - Downing Street si ferma a 1.337 ROMA - Esiste in Italia un ufficio pubblico dove c'è un dirigente ogni sei impiegati. Si trova a palazzo dei Normanni, Palermo: è la presidenza della Regione siciliana. Ma il governatore Raffaele Lombardo sappia che non è l'unico in Europa a guidare un esercito pieno zeppo di generali. Il premier britannico James Cameron è nelle sue stesse condizioni: anche a Downing Street ogni dirigente ha in media sei sottoposti. Il fatto è che pure i numeri sono più o meno gli stessi. Cameron ha 198 dirigenti, Lombardo 192. Quanto ai dipendenti il Cabinet Office, equivalente della nostra presidenza del Consiglio, ne ha 1.337: quarantotto meno dei 1.385 che la presidenza della Regione siciliana contava alla fine del 2011. Ciò basta per immaginare quali stupefacenti risultati potrebbe dare da queste parti una seria spending review . Afferma la relazione della Corte dei conti sul rendiconto del bilancio 2011 che la Regione siciliana ha ufficialmente 17.995 dipendenti. Su questo numero si è a lungo polemizzato, anche a proposito di paragoni che pure in Sicilia non vengono ritenuti congrui come quello con la Lombardia, Regione che ha il doppio degli abitanti ma un quinto del personale. Ma è una cifra che non dice ancora tutto. Intanto perché nel 2011, anno in cui riesplodeva la crisi economica più drammatica da un secolo a questa parte, ben 4.857 di questi dipendenti, in precedenza reclutati con contratto a termine, sono stati assunti in pianta stabile, a tempo indeterminato. Il che, argomentano i giudici contabili, non mancherà di avere ripercussioni future sui conti regionali. E poi perché a quei 17.995 se ne devono aggiungere altri 717 comandati e distaccati presso altre strutture che comunque fanno capo alla Regione. Oltre a 2.293 a tempo determinato il cui stipendio è pagato in qualche modo dall'ente. Totale: 21.005. Un totale, però, anch'esso incompleto. Dove mettiamo, infatti i 7.291 dipendenti delle 34 società controllate o collegate alla Regione siciliana? Se contiamo anche quelli arriviamo a 28.796. E facciamo grazia di forestali e lavoratori socialmente utili (24.880) in forza a molti Comuni, in parte a carico della casse regionali. Personale le cui retribuzioni sono state al centro di un durissimo scontro fra Lombardo e il commissario di governo che aveva impugnato l'ultima legge finanziaria nella quale era previsto il ricorso a un mutuo, anche per far fronte a quel problema, di 558 milioni. Una somma che avrebbe ingigantito ancora di più il debito della Regione, già cresciuto nel 2011 di altri 818 milioni arrivando al valore record di 5,3 miliardi. I soli dipendenti «ufficiali» assorbono 760,1 milioni, e si tratta di un costo superiore del 45,7% rispetto al 2001. Se però calcoliamo anche gli oneri sociali, allora si arriva a un miliardo 80 milioni. Cioè poco meno della metà del costo del personale delle quindici Regioni a statuto ordinario. Le quali hanno, tutte insieme, un numero di dirigenti pari a quello della sola Sicilia. Sono 1.836. Ce n'è uno ogni 9 impiegati, con vette di 5 o 6 in alcune strutture, come appunto la presidenza della Regione. L'anno scorso sono entrati in posizioni di responsabilità anche diversi soggetti esterni, circostanza che ha indotto la Corte dei conti a queste considerazioni: «È poco plausibile, a fronte di oltre 1.800 dirigenti di ruolo, ritenere che non siano già disponibili idonee professionalità all'interno dell'amministrazione. La mancata valorizzazione delle risorse interne è in definitiva la causa dei costi sostenuti per retribuire i dirigenti esterni per i cui emolumenti è previsto un tetto massimo di 250 mila euro, di gran lunga superiore alla retribuzione massima dei dirigenti generali interni». Per non parlare dei sette «uffici speciali» istituiti, secondo i magistrati, con «motivazioni alquanto generiche» e spesso «duplicazioni di funzioni già attribuite» ad altre strutture. Nel rapporto si cita a titolo di esempio l'ufficio speciale Energy manager , che ha funzioni del tutto analoghe a quelle del Dipartimento regionale per l'energia. Ma se al costo del personale «ufficiale» sommiamo anche quello dei dipendenti delle società partecipate (226 milioni) e dei dipendenti pensionati, che in Sicilia sono a carico della Regione (641 milioni), allora veleggiamo di slancio verso i due miliardi. Dal 2004 al 2011 la spesa previdenziale è cresciuta del 31%, anche a causa di alcuni privilegi assolutamente sorprendenti sopravvissuti fino allo scorso mese di gennaio e che avranno effetti a lungo, negli anni a venire. È appena il caso di ricordare che per i dipendenti della Regione la riforma Dini, quella che ha introdotto il metodo di calcolo basato non più sulla retribuzione ma sui contributi effettivamente versati, è entrata in vigore con otto anni di ritardo: il primo gennaio 2004, anziché il primo gennaio 1996 come per tutti i comuni mortali. Per giunta, fino all'inizio di quest'anno potevano andare in pensione con soli 25 anni di servizio tanto quelli colpiti da disabilità, quanto coloro che avevano un genitore disabile. Nel 2011 si sono pensionati anticipatamente perché figli di disabili 464 dipendenti regionali, contro 297 nel 2010, 230 nel 2009, 196 nel 2008, 165 nel 2007, 125 nel 2006, 138 nel 2005 e 121 nel 2004. Da quando, proprio nel 2004, è stata perfezionata questa disposizione, hanno avuto la baby pensione, con un crescendo rossiniano, in 1.736. Celebre il caso di Pier Carmelo Russo, pensionato a 47 anni per assistere il padre disabile, nominato però subito dopo assessore della giunta Lombardo. Alle polemiche, lui ha replicato: «Quando sono andato in pensione il mio stipendio era prossimo a diecimila euro ed ero segretario generale della Regione, il massimo livello della carriera burocratica. Ho preferito il mio amatissimo padre e sono orgogliosissimo di averlo fatto. Da quando faccio l'assessore non ho mai percepito un centesimo. Tutta la mia indennità (300.000 euro lordi annui) l'ho devoluta in beneficenza. Mi considero una persona oltremodo fortunata e desidero sdebitarmi con la Divina Provvidenza». Ai posteri l'ardua sentenza. Sempre che la Regione possa in futuro pagare anche le loro, di pensioni. Già oggi il tasso di copertura dei contributi non arriva che al 28,7%. Sergio Rizzo 5 luglio 2012 | 8:03© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/12_luglio_05/sicilia-piu-dipendenti-governo-inglese-rizzo_dfbf11cc-c660-11e1-8ab7-67e552429064.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - C’era una volta il terremoto Inserito da: Admin - Luglio 20, 2012, 10:19:07 am UN’EMERGENZA DA NON DIMENTICARE
C’era una volta il terremoto Due mesi fa il terremoto feriva l’Emilia e la Lombardia, sfiorando anche il Veneto. Le scosse sbriciolavano chiese e torri in piedi da centinaia d’anni, sfigurando città e paesaggi. La strage dei capannoni ci presentava un conto impressionante di vite perdute e metteva in ginocchio il cuore pulsante dell’Italia produttiva. La prima cosa che oggi va sottolineata è la dignità con la quale i nostri fratelli emiliani e lombardi stanno affrontando la prova terribile alla quale sono sottoposti. La seconda, che come nessun’altra calamità di analoghe proporzioni questo terremoto è stato velocemente dimenticato. Con qualche lodevole eccezione, l’attenzione su ciò che sta accadendo nelle zone colpite dal sisma si è affievolita progressivamente. Fino quasi a spegnersi. Ci sono frammenti importanti di quel dramma, l’ha già denunciato il Corriere, che sono stati relegati nella serie B mediatica. Per esempio, i terribili danni subiti dai Comuni del Mantovano. La tensione, insomma, si è allentata. Anche se questo non significa che lo Stato si sia disinteressato del terremoto padano. I Vigili del fuoco e la Protezione civile sono stati formidabili. E mettere sul tavolo due miliardi e mezzo, con l’aria che tira, non è stato proprio uno scherzo. Ma anche l’encomiabile decisione di pubblicare online tutti i dati sui contributi (e sui beneficiari) è senza precedenti. E le comunità locali? Ci sono Municipi con organici già al lumicino dove i pochi impiegati lavorano da due mesi diciotto ore al giorno. Mentre i capoluoghi di provincia si sono tenuti fuori dal cratere per non privare di risorse i piccoli centri più colpiti. Sapendo che il più difficile viene adesso e i problemi sono gli stessi di ogni terremoto. Le stime dei danni vanno a rilento perché si usa troppa carta e poca informatica. Le procedure burocratiche sono spesso complicate. I denari dell’emergenza, c h e non è esaurita, sono già finiti e quelli per la ricostruzione sicuramente non basteranno. Per i palazzi storici, poi, siamo in altissimo mare. E via di questo passo. Il terremoto dimenticato conferma che nell’emergenza siamo bravissimi. Peccato che subito dopo saltino fuori tutti i nostri difetti. Così anche nella gestione della cosa pubblica: prendiamo decisioni in un baleno, ma quando si tratta di applicarle finiamo nel pallone. Veti incrociati, ricorsi, inerzie della burocrazia... Tutto si ferma. Tutto continua come prima. È un destino del quale ci dobbiamo liberare, se vogliamo risollevarci. Tanto da un sisma squassante, come dalla più grande crisi economica dell’ultimo secolo. Perciò è importante non dimenticare. Anche se è più comodo il contrario: diversamente, avrebbero avuto il coraggio di allentare i vincoli edilizi sulle falde del Vesuvio, una delle aree più a rischio del mondo intero, dove vivono centinaia di migliaia di persone? Proprio adesso? Sergio Rizzo 20 luglio 2012 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_20/cera-una-volta-il-terremoto-rizzo_195e80dc-d22a-11e1-8c20-46cab27756be.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Gli smemorati del Belpaese Inserito da: Admin - Luglio 30, 2012, 09:40:07 am I RESISTENTI DELLA SPESA PUBBLICA
Gli smemorati del Belpaese Non serve la palla di vetro per immaginare come potrebbe andare a finire. Trasferendo le loro funzioni a Comuni e Regioni, il decreto salva Italia avrebbe cancellato di fatto le Province. Con la giustificazione di un ricorso pendente alla Corte costituzionale, anche se non si possono escludere pesanti pressioni politiche, il governo Monti aveva poi preferito imboccare con la spending review una strada diversa: non più l'abolizione, ma la riduzione del numero e l'accorpamento degli enti più piccoli. Una volta in Parlamento, si è però passati al semplice «riordino». Che non verrà deciso dall'esecutivo, ma dalle autonomie locali: cioè dalle stesse Province. Un po' come dare al cappone il potere di scegliere quando e in quale modo celebrare il Natale. Ecco la lezione impartitaci ancora una volta dalla tanto attesa revisione della spesa che si vota domani al Senato. Nel momento in cui siamo chiamati ad affrontare un'emergenza, dal terremoto alla crisi finanziaria, riusciamo a dare il meglio di noi stessi. Con il governo tecnico siamo perfino riusciti a reinterpretare in chiave moderna il ruolo di Cincinnato. Ma quando sembra che l'urgenza immediata sia passata, anche solo per un momento, allora salta fuori il lato peggiore. Bastano una dichiarazione di Mario Draghi, lo spread che allenta la morsa e un paio di giorni di euforia in Borsa per far tornare a galla, intatti e se possibile incattiviti, tutti i vecchi vizi. Veti incrociati, interessi corporativi, tornaconti personali. Alla faccia di un debito al 123,3 per cento del Prodotto interno lordo, della recessione, dei tassi d'interesse alle stelle. E se poi, fatalmente, lo spread dovesse riprendere la propria corsa, ci sono già i colpevoli pronti. Qualcuno tirerà in ballo la crudeltà mentale di Angela Merkel, che vuole impedire alla Banca centrale europea di aiutare i Paesi in difficoltà. Altri si rifugeranno nell'ovvietà: l'Italia non è la Grecia né la Spagna. Indignandosi perché ci hanno messo insieme ai Pigs , i «maiali» dell'Unione monetaria. Fioriranno dotte argomentazioni circa il fatto che la differenza di rendimenti fra Btp e Bund non riflette il vero stato della nostra economia reale. Né mancherà chi ci spiegherà che noi, i compiti a casa, li abbiamo già fatti, e semmai adesso tocca ai maestrini di Berlino. Aggiungendo magari che fra lo spread di Monti e quello di Berlusconi non c'è alcuna differenza: tanto valeva, perciò, tenerci il Cavaliere. In pochissimi diranno l'unica verità che vale la pena di ascoltare. Che se ci troviamo in questa situazione è perché i compiti a casa non li abbiamo fatti per vent'anni. E che la signora Merkel, alla quale si possono rimproverare tantissime cose, su un punto ha ragione da vendere: perché la moneta unica abbia un senso, chi ne fa parte deve avere i bilanci in ordine. Il tempo della finanza allegra è finito per tutti. Se l'Italia allineasse i costi per il funzionamento delle pubbliche amministrazioni a quelli della Germania il risparmio sarebbe di 50 miliardi l'anno. Far finta di ignorarlo è da irresponsabili. La revisione della spesa può essere l'occasione per una prova di maturità, dimostrando che siamo in grado di dare il meglio anche senza essere sull'orlo del baratro. Non sprechiamola. Sergio Rizzo 29 luglio 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_29/gli-smemorati-del-bel-paese-sergio-rizzo_f27c52be-d945-11e1-baf7-133d6e5f95b5.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il taglio impossibile delle Province tra ribellioni, cavilli e ... Inserito da: Admin - Agosto 16, 2012, 07:15:21 pm RIFORME A OSTACOLI
Il taglio impossibile delle Province tra ribellioni, cavilli e rinvii Anche gli enti che non vogliono sparire decideranno sul «riordino» ROMA - «Morituri te salutant». Apostrofava così i cronisti, nell'agosto dello scorso anno, Fabio Melilli, presidente della Provincia di Rieti: l'unica del Lazio che in base ai criteri studiati dall'allora ministro della Semplificazione Roberto Calderoli sarebbe stata azzerata. Beffardo, ma per nulla rassegnato. «La procedura è incostituzionale e non porterà da nessuna parte», sussurrava. I giorni seguenti gli avrebbero dato ragione, perché la proposta di riforma delle Province avanzata dal governo di Silvio Berlusconi scomparve prima ancora di aver visto la luce. Da allora sembra passato un secolo. Ma i salvavita che preservano lo status quo delle Province italiane continuano a entrare in azione. Ce n'è di ogni tipo: ricorsi al Tar, al Consiglio di Stato o alla Corte costituzionale, accordi sindacali... Adesso la valvola provvidenziale si chiama «Consiglio delle autonomie locali». Di che cosa si tratta? È l'organismo che in ogni Regione deve proporre non più «l'accorpamento» delle Province che non rispettano alcuni parametri, come era previsto nella prima versione del decreto sulla spending review, ma il loro «riordino», come invece stabilisce il testo emendato dal Senato. Prendiamo un caso: quello della Toscana, Regione dove in base ai criteri messi a punto dal ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi per tenere in vita una Provincia, non ne sopravviverebbe nessuna delle attuali. Tranne quella di Firenze, che peraltro dovrebbe essere trasformata in città metropolitana, non ce n'è infatti nemmeno una con almeno 350 mila abitanti e 2.500 chilometri quadrati di superficie. Il Consiglio delle autonomie locali qui è composto da 50 persone. Chi è il presidente? Marco Filippeschi, il sindaco di Pisa. Città capoluogo di una Provincia in predicato per essere dissolta e fusa con quella limitrofa di Livorno, che da secoli sfotte i cugini. La più gentile sfornata dai livornesi: «Meglio un morto in casa che un pisano all'uscio». Vi immaginate la prima riunione per decidere chi si «riordina» con chi? Ancora. Nel Lazio ci sono tre grossi problemi: quello di Latina, Viterbo e Rieti. Tre Province che non rispettano i limiti governativi e dovrebbero essere «riordinate». Nodi che anche in questo caso dovrà sciogliere il Consiglio delle autonomie locali, composto da 35 persone: e presieduto, guarda guarda, dal presidente della Provincia di Rieti, Melilli! Per non parlare degli altri casi, come quello della Lombardia, dove è stato insediato alla guida del locale Consiglio delle autonomie (58 componenti) il giovane leghista Fabrizio Cecchetti, già conduttore di Radio Padania libera, appartenente allo stesso partito di Dario Galli, il presidente della Provincia di Varese che giudicando non più tardi di quattro giorni fa «imbarazzante» il riordino delle Province, ha detto: «Visto che il Governo ha dato alle Regioni le competenze per la riforma delle Province, anche sulla base di un importante incontro avvenuto in Regione credo che la Lombardia non rispetterà i parametri imposti dal Governo, e Varese non si accorperà». Sarebbe il degno epilogo di una storia, questa sì, davvero imbarazzante. Basterebbe ricordare le posizioni assunte dai leader dei due principali partiti, il Pdl e il Pd, nella campagna elettorale del 2008. Quando Walter Veltroni prometteva l'abolizione delle Province «inutili» e Silvio Berlusconi rilanciava garantendo tabula rasa. Per tre anni si è fatto finta di niente. Poi, nell'estate del 2011, è spuntata una proposta: via tutte le Province che hanno meno di 300 mila abitanti o una superficie inferiore a 3 mila chilometri quadrati. Immediatamente sono cominciate le proteste e i distinguo: e da 37 i «morituri» sono scesi a 23. Una burla. E la proposta è passata in cavalleria. Finché Berlusconi non ha dovuto lasciare palazzo Chigi a Mario Monti. Erano le settimane terrificanti dello spread alle stelle fra i rendimenti dei nostri titoli di Stato e i bund tedeschi. Incombevano le prescrizioni contenute nella famosa lettera della Banca centrale europea, che suggeriva tra le varie misure proprio l'abolizione delle Province. E nel decreto «Salva Italia» comparve finalmente una tagliola. «Sarà la volta buona?» si domandavano i sostenitori della riforma. Tanto più fiduciosi perché sia il Pdl che il Pd, a parole favorevoli, questa volta sostenevano insieme il governo. Ma subito scoppiarono le proteste che costrinsero l'esecutivo a fare una mezza marcia indietro, concedendo un anno di tempo per fissare i criteri in base ai quali ridimensionare gli apparati delle Province, che sarebbero state trasformate da organismi elettivi in strutture di diretta emanazione comunale. Poi, questa estate, una nuova svolta. Allarmato da un ricorso alla Corte costituzionale contro la disposizione contenuta nel «Salva Italia» in discussione il prossimo 6 novembre, il governo Monti decide di cambiare strada: non più l'abolizione delle Province, che continuerebbero a esercitare funzioni come quelle ambientali e nei trasporti, ma la loro riduzione. Un taglio secco di almeno la metà: poi addirittura di 64 su 107. Anche in questo frangente, tuttavia, il partito delle Province non si rassegna. E al Senato riesce a ottenere che dall'«accorpamento» degli enti fuori dai parametri si passi al più morbido «riordino». Operazione che per giunta non sarà affidata allo Stato, ma alle stesse Province, attraverso i Consigli delle autonomie locali. Qualcuno, come il relatore al decreto, il pidiellino Gilberto Pichetto Fratin, comincia a profetizzare «un allungamento dei tempi». Ma che pure nel governo non siano completamente rilassati lo testimonia la nota con cui la Funzione pubblica sente il bisogno di precisare il 3 agosto che va considerata «inutile», parole dell'agenzia Ansa, «la compravendita di comuni di confine da parte delle Province per salvarsi dalla cancellazione prevista dalla spending review». Segno che qualche furbetto della Provincina si stava già attrezzando per aggirare i famosi parametri. Del resto, in qualche caso sarebbe sufficiente un'inezia. Alla Provincia di Arezzo, per esempio, servirebbero meno di 500 abitanti per scampare alla cancellazione. Basterebbe annettere un minuscolo Comune limitrofo della Provincia di Siena o di Perugia. Va detto che gli aretini non hanno mai ufficialmente preso in esame manovre del genere. Contrariamente a quanto è successo in Campania, dove il presidente della Provincia di Benevento Aniello Cimitile è furente all'idea che il suo ente sia l'unico fra tutti quelli della Regione a doversi sciogliere per il mancato rispetto dei limiti quantitativi imposti dal governo. «L'ipotesi da prendere in considerazione per lasciare in piedi anche la Provincia di Benevento», riferisce sempre l'Ansa citando una riunione della Conferenza permanente fra Regione e autonomie locali convocata dall'assessore regionale Pasquale Sommese, «sarebbe quella di un passaggio di Comuni da un territorio a un altro. Benevento potrebbe inglobare alcuni Comuni dell'Avellinese e, a sua volta, il territorio irpino guardare alla Provincia di Salerno». Non domo, Cimitile ha preannunciato intanto una causa al Tar e ha chiesto alla Regione di mettere in moto la Corte costituzionale. L'ennesimo ricorso. Ma il cambio di rotta del governo, dall'abolizione tout court delle Province alla loro riduzione, non doveva servire a evitare scontri davanti alla Consulta? Sergio Rizzo 13 agosto 2012 | 11:17© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/12_agosto_13/provincie_4f808b0c-e50c-11e1-97d9-de28e70d5d31.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Le mani bucate delle Regioni Inserito da: Admin - Agosto 23, 2012, 04:46:48 pm I MILLE RIVOLI DELLA SPESA PUBBLICA
Le mani bucate delle Regioni La vera spending review decisiva per tagliare seriamente una spesa pubblica capace di divorare metà della ricchezza prodotta nel Paese è quella che dovrebbero fare le Regioni. Tutte: dal Sud al Nord. Perché se è vero che nella Sicilia assurta a simbolo degli sprechi il governatore regionale vanta un numero di collaboratori superiore perfino a quelli del premier britannico, anche i faraonici e costosissimi piani di espansione immobiliare messi in atto da alcune Regioni nordiste lasciano il segno nelle tasche dei contribuenti. Al pari della superficialità con la quale si distribuiscono fiumi di denaro ai gruppi politici delle assemblee legislative o della sfrontatezza che spinge taluni amministratori a elargire consulenze inutili ad amici e parenti. Pessimi esempi, tutti diversi fra loro per gravità e dimensione. Ma che fanno parte della stessa aberrante logica per cui «il denaro di tutti è il denaro di nessuno», secondo una folgorante definizione di Tommaso Padoa-Schioppa. Un principio applicato «a tappeto» negli ultimi anni, che ha inflitto ferite profonde alle nostre finanze. Nei dieci anni fra il 2000 e il 2009 la spesa pubblica regionale è lievitata da 119 a 209 miliardi. L'aumento, per metà imputabile alla sanità, è stato del 75,6 per cento. Tre volte e mezzo l'inflazione, ma soprattutto il doppio rispetto alla crescita del 37,8 per cento registrata da tutta la spesa pubblica italiana nel suo complesso. La conclusione è semplice. Senza il contributo devastante delle Regioni il rapporto fra spesa pubblica e Prodotto interno lordo sarebbe, al netto degli interessi, più o meno lo stesso di una decina d'anni fa. E oggi, che ci costano almeno 90 miliardi in più, sicuramente le Regioni e la sanità non funzionano meglio di allora. Questo, sopra ogni altra cosa, dovrebbe far riflettere i profeti di un federalismo casereccio, convinti che per risolvere i problemi dei conti pubblici sia sufficiente decentrare sempre di più. Compresa quella sinistra che nel 2001, al solo scopo di rincorrere la Lega sul suo terreno nella speranza di evitare un tracollo elettorale al Nord, ha creato con la riforma del titolo V della Costituzione le premesse per il disastro: privando nei fatti lo Stato centrale del potere di controllo. La stessa sinistra, con il medesimo personale politico, che fra qualche mese si ricandiderà a prendere in mano le redini del Paese. Il fatto è che la sciagurata riforma di undici anni fa è stata soltanto la ciliegina sulla torta. Da quando le Regioni sono nate, oltre quarant'anni fa, sono più le cose che non hanno funzionato. I centri decisionali si sono moltiplicati, la pubblica amministrazione è sempre meno efficiente, le procedure più complesse, il groviglio di norme e competenze inestricabile. I veti incrociati paralizzano le scelte. A valle degli apparati regionali sono proliferati centinaia di enti e società che hanno alimentato sprechi e deprecabili pratiche di sottogoverno e clientelismo. L'autonomia si è rivelata talvolta un comodo paravento per dissipare denaro pubblico, senza che lo Stato possa mettere in atto contromisure. Vedremo in quali programmi elettorali ci sarà l'unica proposta sensata che può rimettere l'Italia in carreggiata, ovvero una revisione radicale del ruolo e delle funzioni delle Regioni. A cominciare dall'abolizione degli statuti speciali. Ma servirà coraggio. Tanto coraggio. Molto più di quello che si vede in circolazione. Sergio Rizzo 23 agosto 2012 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_23/mani-bucate-delle-regioni-sergio-rizzo_f12bfe2c-ece2-11e1-89a9-06b6db5cd36c.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Sedi e convegni: le folli spese del Lazio Inserito da: Admin - Settembre 14, 2012, 10:24:02 pm SPRECHI DELLA POLITICA
Sedi e convegni: le folli spese del Lazio Contributi pubblici più alti che alla Camera Lo scorso anno il bilancio del Consiglio regionale invece di diminuire è aumentato di sei milioni, un aumento del 7% di SERGIO RIZZO ROMA - La targa sopra il portone dice: «Carlo Goldoni, padre immortale della italiana commedia, dimorò in questa casa». Se avesse saputo cosa sarebbe accaduto fra quelle mura due secoli e mezzo dopo, il celebre drammaturgo veneziano vi avrebbe magari ambientato un atto unico. Protagonista: il solito Pantalone. Perché chi paga la ristrutturazione di un appartamento signorile della Regione Lazio nello stabile di largo Goldoni 47 all'angolo con via dei Condotti, a Roma, è sempre lui. Cioè noi. I condomini, dopo aver sventato il tentativo di piazzare tappeto rosso e palmizi stile Sanremo all'ingresso dopo l'avvenuta trasformazione in elegante «ufficio del centro» dell'ex ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo di un secondo alloggio regionale nel palazzo, paventano che i lavori siano il preludio per l'apertura di un'altra sede di rappresentanza ancora. Stavolta, della governatrice Renata Polverini. Fosse così, saremmo davvero alla commedia. Non soltanto perché quell'appartamento proviene da un antico lascito per opere di bene al Santo Spirito. Soprattutto perché a poca distanza, in via Poli, c'era già un ufficio «di rappresentanza» del consiglio regionale. Era stato affittato da Sergio Scarpellini, il proprietario dei palazzi affittati alla Camera e al Senato, al tempo della giunta di Francesco Storace e due anni fa si era deciso di rescindere il contratto: 320 mila euro l'anno. Una spesa demenziale, visto che il consiglio regionale del Lazio, come del resto la giunta, ha una più che confortevole sede a Roma. Chiudere quell'ufficio era il minimo. Peccato soltanto, lamenta Scarpellini nella causa civile intentata contro la decisione, che la rescissione sia avvenuta oltre i termini. E se il tribunale dovesse accogliere la tesi sarebbero dolori: 700 mila euro. Più la parcella del legale. Un avvocato esterno, ovvio. Ma ce ne fossero di rogne così, con l'aria che tira oggi dalle parti della Pisana. La storia incredibile dei finanziamenti pubblici ai gruppi consiliari innescata dai Radicali con la meritoria pubblicazione sul loro sito internet del bilancio 2011, è ormai una palla sempre più grossa che rotola a valle. Inarrestabile e minacciosa, come dimostra l'inchiesta per peculato che si è abbattuta sull'ex capogruppo del Pdl Franco Fiorito. Ma non servivano certo le cravatte di Marinella, le cene a base di ostriche, le bottiglie di champagne, i servizi fotografici, i Suv, né le altre spese sfrontate che hanno inghiottito i lauti contributi al partito di Silvio Berlusconi e sulle quali ora indaga la magistratura, per capire che si era passato il segno. E non era nemmeno necessario guardare, come molti fanno oggi con ipocrita stupore, quella cifra rivelata dai radicali, il cui gruppo composto da due persone, Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo, ha incassato nel solo 2011 ben 422 mila euro. Il quadruplo, in proporzione, dei soldi che la Camera dei deputati stanzia per i gruppi parlamentari. Era sufficiente, diciamo la verità, controllare i bonifici che arrivavano di volta in volta sul conto corrente. Per questo fanno sorridere oggi tanto il decalogo sui tagli dei costi della politica proposto dal consigliere udc Rodolfo Gigli quanto dichiarazioni come quelle del capogruppo del Pd Esterino Montino, che annuncia un tour de force per «ridurre le spese della giunta e del consiglio». Mentre alcune misure che avrebbero introdotto l'unico antidoto valido alla dissipazione di denaro pubblico, vale a dire la trasparenza, sono finite su un binario morto. È il caso della legge sull'anagrafe degli eletti e dei nominati, proposta sempre dai Radicali nel 2010 e arenata in qualche cassetto di qualche commissione. Ai gruppi finiscono cifre inimmaginabili. Tanti soldi che non si sa nemmeno come spenderli. Basta dare un'occhiata ai due bilanci dei gruppi finora resi noti: oltre a quello dei Radicali, quello del Partito democratico. Il gruppo del Pd ha incassato nel 2011 la bellezza di 2 milioni 17.946 euro. Che divisi per i 14 componenti fa oltre 144 mila euro pro capite: quasi il triplo dei contribuiti erogati da Montecitorio. Inutile allora stupirsi che i democratici spendano 210.207 euro (!) per «riunioni, convegni, conferenze, incontri», 622.083 euro (!!) per i collaboratori e 738.863 euro (!!!) per «diffusione attività del gruppo, stampa manifesti». E nonostante questo ci sono ancora in cassa 304 mila euro. Invece ai Radicali, che con i contributi al gruppo ci hanno pagato anche un convegno sui diritti civili a Tirana oltre ai congressi del partito a Chianciano e a Roma, sono avanzati 270 mila euro. Così da pensare che si possa ripetere la scena del ferragosto 1997, quando Marco Pannella in piazza del Campidoglio restituì i denari del finanziamento pubblico regalando 50 mila lire a chi mostrava un documento. Tanti soldi, che contribuiscono ad alimentare una macchina completamente impazzita. Basta dire che nessuno sa dire con esattezza quanta gente gira intorno al consiglio regionale. Lo scorso anno i dipendenti ufficialmente presenti in quella struttura erano 786. I collaboratori dei gruppi, 180. Le persone addette alle segreterie dell'ufficio di presidenza, 87. Quelle delle segreterie delle commissioni, 71. Ma è niente in confronto alle poltrone che danno diritto a chi le occupa di incassare un'indennità aggiuntiva rispetto a una retribuzione base minima di 7.211 euro netti al mese. Sono un'ottantina, decisamente più numerose dei 70 consiglieri. Ci sono 17 gruppi consiliari, otto dei quali composti da una sola persona. Fra commissioni e giunte se ne contano 21. Le sole commissioni permanenti sono sedici: due più della Camera, che ha però 630 deputati. Alcune, a dir poco stravaganti. C'è per esempio la commissione Affari comunitari e internazionali, presieduta da Gilberto Casciani della Lista Polverini: nel 2012 si è riunita quattro volte. E poi la commissione Piccola impresa che fa il paio con la commissione Sviluppo economico. Oppure la commissione Lavori pubblici, più la commissione Urbanistica, più la commissione Ambiente. Quest'ultima, però, si occupa pure, chissà in base a quale criterio, della «cooperazione tra i popoli». Avete letto bene: «cooperazione tra i popoli». Non rammentiamo più quante volte hanno promesso che le avrebbero ridotte. Ricordiamo invece bene le affermazioni rese dal presidente del consiglio Mario Abbruzzese il 22 dicembre 2011: «Quest'anno chiudiamo il bilancio con circa sei milioni di risparmi rispetto al 2010. Dà il senso della strada che abbiamo intrapreso». Il consuntivo dell'anno scorso, ancora non approvato, parla di impegni di spesa per 103 milioni 529.311 euro. Mezzo milione oltre le previsioni iniziali e ben sei milioni 772.701 euro in più nei confronti del 2010. L'aumento è del 7 per cento. Se questa è la strada... Sergio Rizzo 14 settembre 2012 | 10:56© RIPRODUZIONE RISERVATA http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/12_settembre_14/finanziamenti-pubblici-spese-folli-lazio-rizzo-2111814718103.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Piccoli faraoni in nota spese Inserito da: Admin - Settembre 16, 2012, 04:25:33 pm IL CASO DEL CONSIGLIO DEL LAZIO
Piccoli faraoni in nota spese Negli altri Paesi funziona in questo modo: davanti a un fatto che mette in discussione la credibilità delle istituzioni se ne traggono le conseguenze. Quando lo scandalo delle note spese gonfiate ha scosso il prestigio del Parlamento britannico, lo speaker della House of Commons, Michael Martin, figura corrispondente al nostro presidente della Camera, si è dimesso. Nonostante nei suoi confronti non esistesse alcun addebito specifico, ha ugualmente ritenuto di assumersi la responsabilità oggettiva. Ha pagato per tutti. E nessuno l’ha trattenuto. In sedicesimi, la squallida vicenda che ha investito il consiglio regionale del Lazio, con la rivelazione che i faraonici fondi destinati ai gruppi politici venivano dirottati su conti personali o utilizzati per pagare cene a base di ostriche e champagne o book fotografici, ricorda quella storia. Quanto però a trarne le conseguenze, siamo ancora ben lontani. Dodici ore non sono bastate ai vertici del Popolo della libertà per indurre il loro capogruppo Franco Fiorito, indagato per peculato dopo la scoperta di 109 bonifici bancari fatti a se stesso dal conto del partito sul quale affluivano i soldi dei contribuenti, a sollevare dall’imbarazzo l’istituzione di cui fa ancora parte (e vedremo come si comporteranno gli altri partiti, compreso il Pd). Tanto basta per rafforzare la convinzione che non soltanto non verrà imitato l’esempio britannico, ma nemmeno quello tedesco. Il ministro della Difesa Karl-Theodor Zu Guttenberg, astro nascente del partito della cancelliera Angela Merkel, si è dimesso per aver copiato parte della tesi di dottorato. Il presidente della Repubblica federale tedesca, Christian Wulff, ha rimesso il mandato dopo le polemiche su un prestito di favore avuto da un suo amico banchiere. E anni prima il ministro dell’Economia del Land di Berlino, Gregor Gysi, aveva gettato la spugna insieme ad altri suoi colleghi del Bundestag per aver utilizzato per biglietti aerei personali i punti mille miglia accumulati con i voli istituzionali. Perché in Germania, e non solo, le conclusioni si traggono anche a livello individuale, e per molto meno rispetto a quello che è successo al consiglio regionale del Lazio. Da noi, invece, non si arrossisce neppure. Principio sconosciuto, a certi nostri politici, quello secondo il quale l’istituto delle dimissioni fa parte della democrazia, e la rafforza: chi sbaglia paga, è la regola universale, Italia esclusa. Sconosciuto soprattutto a chi interpreta la politica come un mestiere nel quale l’obiettivo principale è il denaro, da raggiungere con qualunque mezzo. Ce ne sono tanti, di personaggi così, purtroppo, nelle Regioni, nelle Province, perfino nei Comuni. Lontano dai riflettori, puntati sempre sui costi e i privilegi del Parlamento, sono proliferate piccole Caste locali. Spregiudicate e fameliche, hanno responsabilità gravi: quella di aver ridotto la politica, nel punto in cui dovrebbe essere più vicina ai cittadini e ai loro problemi concreti, alla gestione di interessi personali quando non di veri e propri comitati d’affari. Ma ancora più pesanti sono le colpe dei partiti, che hanno assecondato per pure convenienze elettorali la formazione di una classe politica locale spesso indecente, girandosi dall’altra parte per non vedere. Tanto la situazione è compromessa che servirebbe ora un repulisti radicale. Il fatto è che dovrebbero farlo gli stessi partiti. Non resta che augurarci buona fortuna. Sergio Rizzo 15 settembre 2012 | 13:17© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_15/rizzo-piccoli-faraoni-nota-spese_c186aeb0-fef3-11e1-ac8a-69b762be71b6.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Polverini, se la minaccia di dimissioni diventa una inutile ... Inserito da: Admin - Settembre 20, 2012, 04:56:24 pm L'EDITORIALE
Polverini, se la minaccia di dimissioni diventa una inutile sceneggiata Renata mostra i denti ai colleghi del Pdl: «Andiamo tutti a casa». Poi però il tormentone dell'addio finisce nel solito teatrino, mentre la Regione Lazio affonda nel fango ROMA - C'è da chiedersi se ciò a cui i cittadini italiani stanno assistendo ormai da giorni sia una cosa seria o la solita sceneggiata. Dopo aver fatto sapere di essere pronta a dimettersi, Renata Polverini si presenta nel consiglio regionale del Lazio mostrando i denti. Formula una minaccia spaventosa: «Andiamo tutti a casa, oggi». A quel punto ti aspetti di veder rotolare qualche testa. Almeno quella di qualche responsabile delle ruberie dei soldi pubblici ai gruppi politici regionali. Niente. Passa la linea che si prosciuga il fondo dal quale si rubava e si tira la cinghia di qua e di là. Tutti contenti di essere ancora tutti interi e si va davvero a casa, ma per cena. Il giorno dopo bisognerebbe cominciare a maneggiare le forbici. Invece nemmeno quello: qualcuno si dev'essere fatto i conti di quanto ci rimetterebbe e parte una indecente melina per salvare il salvabile. La governatrice è fuori di sé. Lancia l'anatema: «Nel Pdl ci sono troppe mele marce». E ricomincia il tormentone delle dimissioni. Non le ha date il presidente del consiglio regionale, non le ha date il capogruppo del partito, non le ha date nemmeno il monumentale Franco Fiorito, quello dei 109 bonifici a se stesso con i soldi nostri, allora le darà lei. Per dimostrare di essere proprio determinata, va dal ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri. Le agenzie riportano che ha chiesto quando si può tornare a votare. Gira voce che gli assessori siano già in lutto, avendo avuto la comunicazione che la giunta è caduta. Gira voce che per prendere ispirazione Renata Polverini abbia chiesto di leggere la lettera di dimissioni di Piero Marrazzo. Gira voce di una conferenza stampa alle 18, poi alle 18,30, poi più niente. Arrivano le smentite: sono tutte voci, solo voci. La governatrice viene data in partenza per Palazzo Grazioli, dov'è in programma il confronto risolutivo con l'azionista di maggioranza, Silvio Berlusconi. Vertice in serata, riferiscono le agenzie. Ci risiamo: il solito stucchevole teatrino della politica mentre la Regione affonda nel fango. E avevano giurato che non l'avremmo più visto. Questa proprio non è una cosa seria. Le dimissioni sono una cosa seria. Soltanto le dimissioni: ma quelle vere. Sergio Rizzo 20 settembre 2012 | 7:58© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/12_settembre_20/rizzo-polverini-sceneggiate-2111892972637.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Le «missioni» all'estero delle Regioni Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2012, 11:31:05 am In passato il Lazio pagò per mandare in orbita sulla Soyuz i cibi locali «Ambasciate»
Super viaggi in Indonesia e Australia Le «missioni» all'estero delle Regioni A Bruxelles ogni Regione e le due Province autonome di Trento e Bolzano hanno sedi di rappresentanza Si poteva forse non ricambiare la visita della delegazione dei governatori delle Regioni indonesiane? Il sacrificio è toccato al vicepresidente del consiglio regionale del Lazio Raffaele D'Ambrosio, decano dell'Udc, che alla fine di aprile ha dovuto imbarcarsi su un aereo e andare a Giacarta. Questo il resoconto dell'impegnativa missione: «Nel corso della visita è stato ricevuto dal sultano di Ternate Mudaffar Sjiah e da altre autorità del luogo. Il vicepresidente ha incontrato anche il maraja Raja Agung e al termine della sua visita è stato ricevuto a Giacarta dal viceambasciatore Mario Alberto Bartoli con il quale si è intrattenuto a colloquio». Stop. Dure incombenze della politica. Da quando le Regioni hanno deciso che fanno anche loro politica estera è un via vai continuo. D'Ambrosio vola in Indonesia? Isabella Rauti, consigliera pidiellina della Regione Lazio, va in Libano per incontrare la giornalista Jocelyne Khoueiry, esponente dei movimenti laici e la parlamentare Sethrida Geagea, impegnata a combattere la violenza sulle donne. Mentre il direttore generale dell'assessorato al Lavoro della Regione Sardegna Massimo Temussi partecipa con Fabio Meloni, addetto stampa dell'assessore all'emigrazione/immigrazione Antonello Liori, «impossibilitato a partecipare» come si premura di farci sapere l'agenzia Ansa (!!!), a una visita-incontro con i sardi residenti in Australia. E il consigliere regionale della Calabria ex nazional alleato Alfonsino Grillo parte alla volta di Montreal per un vertice con la Federazione calabro-canadesi Est Canada. Né Orfeo Goracci, presidente del consiglio regionale umbro dell'emigrazione, può rinunciare a una missione della Regione, sempre in Canada, però a Toronto: per incontrare gli emigrati umbri. Ma quanto ad attività diplomatico-commerciale la Regione di Grillo non la batte proprio nessuno. Giugno 2011, Ucraina: Kiev, Donetsk e Mariupol. Febbraio 2012: Brasile, con l'assessore all'Internazionalizzazione Fabrizio Capua. Maggio 2012: Australia, con il nuovo assessore all'Internazionalizzazione, Luigi Fedele. Luglio 2012: Russia, sempre con il medesimo Fedele. Obiettivo, invadere il mondo di squisitezze agroalimentari calabresi. Gettonatissima, l'Australia. Basta dire che a febbraio di quest'anno, prima della delegazione della Calabria, ne sono arrivate ben due della Regione Puglia, per promuovere anche le loro golosità. Ma si tratta di semplici dilettanti, in confronto a Francesco Storace. Quando c'era lui a governare la Regione Lazio, i prodotti tipici regionali uscivano dall'atmosfera terrestre, altro che Australia. Non ci credete? Ansa del 5 ottobre 2004: «La Regione Lazio andrà nello spazio in una missione congiunta che porterà in orbita la navicella Soyuz con a bordo il cosmonauta viterbese Roberto Vittori. Oltre a finanziare parte della missione, la Regione Lazio metterà a disposizione lo spazio a bordo per alcuni esperimenti scientifici nella ricerca di base, alimentare e medica». Che genere di esperimenti? Ansa del 13 aprile 2005, vigilia del decollo: «Vittori e i suoi colleghi sperimenteranno poi in orbita i cibi tipici del Lazio, con il vassoio progettato per la dieta degli astronauti e basato su prodotti come ricotta, olive di Gaeta, tozzetti di Viterbo, miele di acacia, caciottina di bufala e pecorino della Sabina». Buon appetito, assenza di gravità permettendo. Non dite che erano soldi buttati. Certo, ci sarebbe da chiedersi perché proprio la Regione Lazio abbia dovuto contribuire al finanziamento di una missione spaziale. Anche se conosciamo la ragione: il cosmonauta viterbese. Ma quanto a utilità per i cittadini che forse dalla Regione si aspettano altre cose, c'è poi così tanta differenza con certe missioni? Memorabile la spedizione della Campania a New York per il Columbus day, con sfilata sulla Quinta strada. Conto finale: 680 mila euro. Altrettanto indimenticabile l'inaugurazione della sede della stessa Regione Campania a Manhattan, che costava di solo affitto un milione 140 mila euro l'anno. A quale scopo se lo chiese nell'autunno del 2005 Sandra Lonardo (la consorte di Clemente Mastella) che era allora presidente del consiglio regionale, visitando una struttura il cui responsabile, parole sue, «viene solo alcuni giorni ogni mese» e per la quale venivano pagati tre addetti il cui compito consisteva, allo scopo di promuovere l'immagine della Campania, nell'organizzare eventi ai quali non soltanto non partecipava «alcun esponente americano», ma nessuno «che parlasse inglese». Alla faccia. Vogliamo parlare delle ambasciate? Un paio d'anni fa il ministero dell'Economia, c'era ancora Giulio Tremonti, ha contato 178 fra «antenne», uffici o vere e proprie sedi estere. A Bruxelles ogni Regione ha la sua. Sono ventuno, considerando le due Province autonome di Trento e Bolzano. E non sono certamente gratis. Esempi? La Regione siciliana ha acquistato tre anni fa una nuova sede di rappresentanza di 650 metri quadrati, pagando 2 milioni 600 mila euro: un bel risparmio, considerando che prima spendeva 300 mila euro l'anno di affitto. Per il suo ufficio la Regione Veneto ha speso ancora di più: 3 milioni 600 mila. Ma a che cosa servono tutte quelle sedi? Fra chi se lo è sempre chiesto c'è Paola Brianti, che nella scorsa legislatura era presidente della commissione per gli Affari comunitari del consiglio laziale. In una lettera spedita al Corriere un paio d'anni fa ha spiegato che s'era messa in testa di approfondire la motivazione in base a cui la Regione doveva spendere 2 milioni l'anno per mantenere un ufficio con otto-persone-otto a Bruxelles che costano solo di stipendi 900 mila euro l'anno. Senza però giungere mai a capo della questione: «Chiamata in audizione presso la mia commissione, la direttrice dell'ufficio si risolse a venire dopo innumerevoli richiami ma nel corso della seduta non riuscì a illustrare efficacemente la presenza a Bruxelles di quel nostro ufficio e si limitò a presentare le sue lamentele al presidente della Regione (Piero Marrazzo, ndr ) per il disturbo che le era stato arrecato». La direttrice era Cinzia Felci, collocata da Storace a capo di quell'ufficio e poi confermata da Marrazzo. Rientrata a Roma, ha avuto un incarico direttivo dalla giunta di Renata Polverini che le dà diritto a 155 mila euro annui. Sergio Rizzo 2 ottobre 2012 | 8:25© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_02/viaggi-indonesia-regioni-australia_fc2ec228-0c4f-11e2-a61b-cf706c012f27.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - I dubbi, le conseguenze Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2012, 06:00:34 pm I dubbi, le conseguenze
Abbiamo capito perché la commissione Grandi rischi si chiama così. I Grandi rischi sono quelli che corrono i suoi componenti, come si deduce dalla sentenza che li ha condannati a sei anni di prigione per non aver previsto il devastante terremoto dell'Abruzzo. Qui non è in discussione il merito della decisione dei giudici, a proposito della quale va comunque ricordato che non esiste alcun precedente a livello mondiale. Ma le conseguenze di una tanto singolare interpretazione del concetto di giustizia non possono essere taciute. La più immediata è la delegittimazione della stessa commissione Grandi rischi, che stando a quella sentenza sarebbe formata da incompetenti assoluti. La più evidente è invece lo sconcerto planetario suscitato dalla notizia che in Italia esperti considerati responsabili della mancata previsione di un terremoto, a differenza dei loro colleghi giapponesi o americani che a casa loro non hanno evidentemente saputo fare di meglio, vengono spediti in galera per omicidio. La più preoccupante, tuttavia, è che d'ora in poi non ci sarà uno scienziato disposto a far parte di quella commissione, sapendo di poter andare incontro a pesantissime condanne penali per non aver indovinato il verificarsi di una scossa catastrofica. Sanzioni che invece non hanno mai neppure sfiorato i veri responsabili dei disastri. Per esempio, certi amministratori che non si sono accorti di palazzine spuntate come funghi nei letti dei fiumi. Per esempio, i politici nazionali che pensando soltanto al consenso hanno approvato tre condoni edilizi, e quelli locali che ne hanno promessi decine, alimentando così la piaga dell'abusivismo: ben sapendo come in un Paese fragilissimo si sarebbero condonate milioni di costruzioni prive di qualunque precauzione asismica. Per esempio, gli autori di piani regolatori sconsiderati che hanno consentito all'Italia di conseguire il deprecabile record nel consumo del suolo, in molti casi senza nemmeno verifiche geologiche accurate né prescrizioni di elementari prudenze costruttive. Non ci dice forse questo l'ultimo terribile, e già dimenticato, terremoto dell'Emilia-Romagna e della Lombardia con la strage dei capannoni industriali? Per riparare ai danni di tutti gli eventi sismici che si sono susseguiti dal 1968 al 2003, non considerando quindi le tragedie dell'ultimo decennio, abbiamo speso l'equivalente di 162 miliardi di euro. Senza calcolare ovviamente le vite umane: quelle non hanno prezzo. Avendo più cura per l'ambiente e il modo di costruire, forse, non si sarebbe potuto evitare tutto questo. Ma buona parte sì. Secondo i tecnici sarebbero stati sufficienti fra i 25 e i 41 miliardi per mettere in sicurezza sismica il patrimonio edilizio. Risparmiando tanto dolore. E di una cosa almeno siamo sicuri. Se non è stato fatto, non è per colpa di scienziati incapaci di prevedere i terremoti. Sergio Rizzo 23 ottobre 2012 | 8:46© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_23/i-dubbi-le-conseguenze-sergio-rizzo_e0ecae0a-1cce-11e2-99b8-aac0ed15c6ac.shtml Titolo: SERGIO RIZZO. - I dubbi, le conseguenze Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2012, 05:38:37 pm I dubbi, le conseguenze
Abbiamo capito perché la commissione Grandi rischi si chiama così. I Grandi rischi sono quelli che corrono i suoi componenti, come si deduce dalla sentenza che li ha condannati a sei anni di prigione per non aver previsto il devastante terremoto dell'Abruzzo. Qui non è in discussione il merito della decisione dei giudici, a proposito della quale va comunque ricordato che non esiste alcun precedente a livello mondiale. Ma le conseguenze di una tanto singolare interpretazione del concetto di giustizia non possono essere taciute. La più immediata è la delegittimazione della stessa commissione Grandi rischi, che stando a quella sentenza sarebbe formata da incompetenti assoluti. La più evidente è invece lo sconcerto planetario suscitato dalla notizia che in Italia esperti considerati responsabili della mancata previsione di un terremoto, a differenza dei loro colleghi giapponesi o americani che a casa loro non hanno evidentemente saputo fare di meglio, vengono spediti in galera per omicidio. La più preoccupante, tuttavia, è che d'ora in poi non ci sarà uno scienziato disposto a far parte di quella commissione, sapendo di poter andare incontro a pesantissime condanne penali per non aver indovinato il verificarsi di una scossa catastrofica. Sanzioni che invece non hanno mai neppure sfiorato i veri responsabili dei disastri. Per esempio, certi amministratori che non si sono accorti di palazzine spuntate come funghi nei letti dei fiumi. Per esempio, i politici nazionali che pensando soltanto al consenso hanno approvato tre condoni edilizi, e quelli locali che ne hanno promessi decine, alimentando così la piaga dell'abusivismo: ben sapendo come in un Paese fragilissimo si sarebbero condonate milioni di costruzioni prive di qualunque precauzione asismica. Per esempio, gli autori di piani regolatori sconsiderati che hanno consentito all'Italia di conseguire il deprecabile record nel consumo del suolo, in molti casi senza nemmeno verifiche geologiche accurate né prescrizioni di elementari prudenze costruttive. Non ci dice forse questo l'ultimo terribile, e già dimenticato, terremoto dell'Emilia-Romagna e della Lombardia con la strage dei capannoni industriali? Per riparare ai danni di tutti gli eventi sismici che si sono susseguiti dal 1968 al 2003, non considerando quindi le tragedie dell'ultimo decennio, abbiamo speso l'equivalente di 162 miliardi di euro. Senza calcolare ovviamente le vite umane: quelle non hanno prezzo. Avendo più cura per l'ambiente e il modo di costruire, forse, non si sarebbe potuto evitare tutto questo. Ma buona parte sì. Secondo i tecnici sarebbero stati sufficienti fra i 25 e i 41 miliardi per mettere in sicurezza sismica il patrimonio edilizio. Risparmiando tanto dolore. E di una cosa almeno siamo sicuri. Se non è stato fatto, non è per colpa di scienziati incapaci di prevedere i terremoti. Sergio Rizzo 23 ottobre 2012 | 8:46© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_23/i-dubbi-le-conseguenze-sergio-rizzo_e0ecae0a-1cce-11e2-99b8-aac0ed15c6ac.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Ambiente - Siamo i maggiori consumatori di suolo in Europa Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2012, 10:45:17 pm Ambiente - Siamo i maggiori consumatori di suolo in Europa
Quelle Regioni che fermano la legge Salva-paesaggio Gli interessi e i blocchi. Errani invoca gli urbanisti ROMA - Colpa delle elezioni troppo vicine? Anche. Non è un caso che di questi tempi ogni iniziativa del governo tecnico di Mario Monti sia destinata a trasformarsi in un Calvario. Tanto più se tocca le Regioni, come si è visto con la clamorosa bocciatura del decreto sui costi della politica. Ma nel tentativo, ormai smaccato, di far arenare il disegno di legge presentato dal ministro Mario Catania per frenare lo scellerato consumo del suolo e la distruzione del paesaggio e dell'agricoltura, c'è qualcosa di più. Troppo grossi gli interessi in gioco per accontentarsi delle giustificazioni con cui le Regioni hanno trasformato il cammino di quel provvedimento in un percorso di guerra. L'ultima mina: una telefonata di Vasco Errani, con la quale il presidente della conferenza delle Regioni ha comunicato al ministro dell'Agricoltura che senza il via libera degli urbanisti non si va avanti. La melina dunque ricomincia. Non stiamo affermando che manchi la sensibilità, sia chiaro. Errani è lo stesso che durante l'ultima campagna elettorale per le regionali proclamava nei suoi comizi: «Dobbiamo fare una scelta radicale, ma dobbiamo farla. Basta consumare territorio in questa regione, investire sulla qualificazione urbana, sul recupero degli spazi, ma il territorio è una risorsa finita». Salvo poi, qualche mese più tardi, sostenere pubblicamente: «Noi abbiamo detto che vogliamo fermare, e lo ribadisco, il consumo del territorio. Pensate che possiamo farlo, semplicemente con una legge? No, è impossibile farlo con una legge, dobbiamo essere realisti». Di quel «realismo» ne sa qualcosa. Da ben tredici anni Errani è governatore di una Regione, l'Emilia-Romagna, che secondo Legambiente ha conquistato il quinto posto nella poco invidiabile classifica della cementificazione dopo Lombardia, Veneto, Campania e Friuli-Venezia Giulia, con quasi il 9 per cento di territorio non più naturale. Una graduatoria scalata a morsi, invadendo la pianura padana di enormi e talvolta inutili capannoni industriali. Senza nemmeno troppe precauzioni, come ha dimostrato il terremoto di maggio. E i numeri certo dicono più di tante parole. Dicono, per esempio, che il Paese più fragile d'Europa, cioè il nostro, ha la minore crescita demografica del continente e il maggiore consumo di suolo. Dal 1950 la popolazione è aumentata del 28 per cento, mentre la cementificazione è progredita del 166 per cento. Ogni giorno, informa uno studio dell'Istituto superiore per la ricerca ambientale, vanno in fumo cento ettari, ovvero dieci metri quadrati al secondo. In un solo anno il cemento impermeabilizza una superficie pari al doppio della città di Milano. A scapito, sì, del nostro meraviglioso paesaggio, dell'ambiente, delle risorse turistiche e dell'assetto idrogeologico, ma anche dell'agricoltura, cui sono stati sottratti in quarant'anni cinque milioni di ettari, facendo dell'Italia una nazione in fortissimo deficit alimentare: se fossimo costretti per qualche ragione a chiudere improvvisamente le frontiere non avremmo di che sfamare un quarto della popolazione. E le palazzine orrende che dilagano nelle periferie e nelle campagne, restando spesso senza acquirenti né occupanti, non si possono certo mangiare. I numeri dicono, ancora, che il 7,3 per cento del territorio italiano, una superficie grande come la Toscana, è ormai cementificato. Per giunta sono dati vecchi di due anni: di questo passo avremmo già quasi doppiato la media europea di consumo del suolo, pari al 4,3 per cento. L'offensiva è particolarmente violenta al Nord. Il 16,4 per cento della pianura padana, una delle aree agricole un tempo più vaste e produttive del continente, è coperta da costruzioni. La Provincia più cementificata d'Italia è Monza, dove il 54 per cento del territorio è artificiale. Segue quella di Napoli, con il 43 per cento. Ma subito dietro c'è Milano, con il 37 per cento: quasi il doppio rispetto a Roma, attestata sul 20. E poi Varese (29), Trieste (28), Padova (23), Como (19), Treviso (19), Prato (18)... Siamo un Paese popoloso con un Nord molto industrializzato, certo. Ma lo è anche la Germania, dove abitano 229 persone al chilometro quadrato contro le 200 dell'Italia e c'è una industria ancora più sviluppata. Di più: il 35,2 per cento del territorio tedesco non è, come quello italiano, di montagna. Eppure la Germania ha consumato il 6,8 per cento del suo territorio contro il nostro 7,3. Realizzando pure le infrastrutture che noi non abbiamo fatto. Un processo guidato dalla speculazione, ancor più dell'abusivismo, le cui responsabilità maggiori ricadono proprio su chi detiene le competenze nella gestione del territorio. In primo luogo, proprio le Regioni. Chi si meraviglia delle difficoltà che sta incontrando ora la legge proposta da Catania farebbe bene a ricordare quello che accadde a Fiorentino Sullo mezzo secolo fa. Quando l'allora astro nascente della Democrazia cristiana commise l'imprudenza di proporre una legge urbanistica che avrebbe reso più difficile la speculazione edilizia: il provvedimento non passò e lui scomparve dalla scena politica. Altri tempi, naturalmente. Ma la storia sembra ripetersi. Non appena Catania gli sottopone il testo, le Regioni eccepiscono: così non va. Da destra e da sinistra. Il coordinatore degli assessori regionali all'Agricoltura Dario Stefano, esponente di Sinistra, ecologia e libertà, dichiara che c'è «una montagna di problemi» che lo rende «inapplicabile». Primo: lo Stato non può prendere decisioni che invece spettano a Regioni ed enti locali, come appunto il consumo del suolo. Secondo: «la terminologia». La terminologia? Sì, le parole. Non sono quelle adatte. Ecco allora che il 10 ottobre, tre settimane dopo il varo della legge da parte del consiglio dei ministri, Regioni, Province e Comuni si riuniscono ed emettono la sentenza: «il testo va completamente riscritto insieme a noi». Ci si mette al lavoro, con la promessa di rispettare tassativamente la scadenza del 18 ottobre per far approdare la legge in Parlamento. Anche perché il tempo stringe. Qualcuno arriva a ventilare perfino l'ipotesi di un decreto legge: non era stato forse lo stesso Mario Monti a dire «avremmo dovuto mettere queste norme nel decreto Salva Italia»? Ma è un gioco delle parti. Il 18 passa inutilmente, mentre si prepara la mossa successiva. Il 25 ottobre l'assessore all'urbanistica della rossissima Regione Toscana, Anna Marson, demolisce dalle fondamenta la legge sul Corriere Fiorentino . Argomenta che oltre a essere inutile e verticistico, il provvedimento potrebbe ottenere persino l'effetto contrario. Il giorno prima, mentre il suo intervento va in stampa, Errani telefona a Catania spiegando la novità. Ovvero, che adesso è necessario il placet degli urbanisti. E se il biglietto da visita è quell'articolo... Sergio Rizzo 29 ottobre 2012 | 8:28© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/cronache/12_ottobre_29/rizzo-regioni-fermano-legge-salva-paesaggio_a4fe34d4-2194-11e2-867a-35e5030cc1c9.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Un primato avvilente Inserito da: Admin - Novembre 23, 2012, 01:23:46 am RIFIUTI ALL'ESTERO, RICCHEZZA PER ALTRI
Un primato avvilente In Germania finisce sotto terra meno del 3 per cento dei rifiuti urbani. In Italia oltre il 50 per cento Ultimi per crescita economica, occupazione e produttività, ci presentiamo in Europa con un avvilente primato: quello dell'export dei rifiuti. Da anni Napoli e la Campania spediscono la spazzatura ai termovalorizzatori sparsi per il continente. La più recente destinazione conosciuta è l'Olanda, che si offre di bruciarla al modico prezzo di 150 euro la tonnellata. E adesso tocca persino all'immondizia di Roma finire sul mercato. L'azienda municipalizzata del Comune ha indetto una gara europea per lo smaltimento di 1.200 tonnellate al giorno: andranno a chi pretenderà la cifra più bassa per trasformarle in energia elettrica. Da tre anni non si riesce a individuare il sito, dicono provvisorio, per i rifiuti che l'ormai satura discarica di Malagrotta, la più grande d'Europa, non può più accogliere. Così il Campidoglio si è arreso: la raccolta differenziata è stimata al 25 per cento, 40 punti in meno rispetto al valore da raggiungere in base alle norme europee entro dicembre, e mancano gli inceneritori. A Parma, invece, l'impianto verrà completato ma non brucerà i rifiuti della città. Al massimo quelli degli altri Comuni del circondario. Il sindaco Federico Pizzarotti, del Movimento 5 Stelle, non può bloccare l'inceneritore, visto che la competenza è della Provincia, ma intende tener fede alla promessa elettorale. Sarà dunque per paradosso esportata anche la spazzatura dei parmigiani, magari insieme a quella della Valle D'Aosta che con un referendum votato dal 94 per cento dei cittadini domenica ha detto no al «pirogassificatore»? Nessun altro Paese d'Europa ha una situazione come la nostra. In Germania finisce sotto terra meno del 3 per cento dei rifiuti urbani. In Italia oltre il 50 per cento, e poco importa che entro il 2020 le discariche (come pure gli inceneritori) dovranno essere bandite. Il territorio nazionale ne è disseminato, con devastazioni ambientali inimmaginabili e rischi gravissimi per la salute. Secondo i magistrati siciliani la discarica di Bellolampo, in cui per anni è stata sversata la spazzatura di Palermo, avrebbe inquinato le falde acquifere nei pressi della quinta città italiana nella più completa indifferenza degli amministratori. Storie purtroppo tragicamente normali per questa Italia, incapace di affrontare e gestire anche problemi apparentemente semplici per qualunque Paese civile. Un'Italia dove i livelli decisionali sono troppi, confusi e perennemente in lotta tra di loro. Dove tutto diventa sempre emergenza, generando spinte emotive che la politica, prigioniera di veti incrociati che paralizzano ogni scelta, non è in grado di governare. E dove quindi cose altrove normalmente realizzabili si rivelano missioni impossibili. La mediocrità della classe dirigente è insieme causa e conseguenza di questo stato di cose. Il ministro Corrado Passera ha parlato di una situazione causata a Roma da «anni e anni di non azione», durante i quali era molto più facile, e sul momento anche meno costoso, gettare i sacchetti dell'immondizia in discarica anziché affrontare seriamente il problema. Di volta in volta passando il cerino acceso ai successori. Bel modo di amministrare. Come è davvero una bella figura quella che ora facciamo davanti a tutto il continente chiedendo se qualcuno ci può aiutare a smaltire l'immondizia della capitale. Pensate un po', proprio nel bel mezzo della «Settimana europea della riduzione dei rifiuti», una campagna sostenuta da Bruxelles per sensibilizzare al problema i cittadini dei 27 Paesi dell'Unione. Che tempismo... Sergio Rizzo 21 novembre 2012 | 12:50© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_21/un-primato-avvilente-rizzo_cf12e286-33a2-11e2-a480-b74fe153b15c.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Quelle 90 poltrone in più per tagliare i parlamentari Inserito da: Admin - Novembre 23, 2012, 09:31:02 pm Il caso
Quelle 90 poltrone in più per tagliare i parlamentari Primo sì a un ddl per eleggere una commissione di riforma della Costituzione. Con stipendi da deputati: indennità incluse Di SERGIO RIZZO ROMA - L'ultimo a rammaricarsi pubblicamente è stato Gianfranco Fini: «Abbiamo perso una grande occasione. La politica non ha capito che si doveva fare di più, per esempio con il taglio dei parlamentari». Dichiarazione di due mesi fa, quando il presidente della Camera certo ignorava l'esistenza di un'ipotesi suggestiva. Cioè che le politiche di marzo ci potrebbero regalare un numero di eletti addirittura superiore a quello attuale: 1.035 anziché 945. Novanta poltrone in più. Non è uno scherzo. È quello che stabilisce un disegno di legge approvato a razzo dalla commissione Affari costituzionali del Senato con l'unica opposizione dell'Italia dei valori, il cui rappresentante Francesco «Pancho» Pardi ha invano cercato di demolirlo, e subito fiondato in Aula dove giovedì ha rischiato di essere ratificato al volo. Che cosa dice? Prevede semplicemente l'elezione a suffragio universale di una commissione Costituente che dovrebbe occuparsi della revisione della seconda parte della Carta costituzionale. Ne dovrebbero far parte novanta persone, che non potrebbero ricoprire altri incarichi elettivi, come quello di parlamentare o consigliere regionale. Con il risultato inevitabile di far crescere, sia pure per un solo anno (tanto dovrebbe durare l'incarico) il numero delle poltrone. A loro saranno affidati interventi come il taglio dei parlamentari, l'abolizione del bicameralismo perfetto, i poteri del presidente della Repubblica... Il tutto mentre nei cassetti di Palazzo Madama giacciono proposte di legge a bizzeffe sugli stessi argomenti. Sulla riduzione del numero dei parlamentari si era perfino raggiunto un accordo fra tutti i partiti: 508 deputati e 254 senatori. Poi la cosa era sfumata. Dunque il Parlamento non riesce a tagliare il numero degli eletti, pure in presenza di un accordo, poi però riesce a istituire a tempo di record, guarda caso, una commissione di novanta membri che deve provvedere al taglio. Il disegno di legge è frutto dell'unificazione di numerose proposte variamente datate. E destinate probabilmente a sonnecchiare fino al termine della legislatura se il leader dell'Api Francesco Rutelli, autore di una di esse e relatore insieme a Pasquale Viespoli (prima Pdl, poi Fli, quindi Responsabile), non le avesse improvvisamente rianimate chiedendo e ottenendo il primo agosto scorso la corsia preferenziale della procedura d'urgenza. Che ha però conosciuto un intoppo ieri quando è mancato il numero legale. Se ne riparlerà la prossima settimana, e non si può escludere il moltiplicarsi dei mal di pancia, finora piuttosto isolati. Anche perché c'è la questione dei soldi. Questa commissione Costituente avrà infatti un costo che dovrà essere coperto, in parti uguali, dalla Camera e dal Senato. E lo stipendio dei Novanta? «Il trattamento economico dei membri della commissione Costituente è pari a quello dei membri della Camera dei deputati, ivi comprese le indennità accessorie», hanno proposto Luciana Sbarbati e il suo collega Giampiero D'Alia. Il conto? Una ventina di milioni in un anno. Per fare una riforma che, come ha ricordato Pardi, secondo l'articolo 138 della Costituzione è invece compito del Parlamento. Un po' caruccio di questi tempi, no? 23 novembre 2012 | 7:45 da - http://www.corriere.it/politica/12_novembre_23/poltrone-parlamentari-rizzo_55b08756-3535-11e2-a6ed-6f1dca7ec717.shtml Titolo: SERGIO RIZZO IL CASO RIVA E IL RUOLO DI FERRANTE Inserito da: Admin - Novembre 29, 2012, 06:51:17 pm IL CASO RIVA E IL RUOLO DI FERRANTE
L'imprenditore e l'ex prefetto Sono tante le ragioni per cui Fabio Riva deve consegnarsi immediatamente alla giustizia. Ma la prima è il rispetto di un principio fondamentale del vivere civile troppo spesso considerato un optional: la legalità. La sua azienda attraversa il momento più difficile della propria storia. Al punto che la stessa esistenza dell'Ilva di Taranto viene messa in discussione, con il rischio della desertificazione industriale di una delle poche aree del Sud dov'è presente la grande impresa. Il passaggio è delicatissimo, visto che si tratta di conciliare l'imprescindibile tutela della salute con la difesa di migliaia di posti di lavoro: un'emergenza sociale, che spinge il governo a prendere un provvedimento senza precedenti come un decreto legge per impedire (trombe d'aria a parte) la serrata degli impianti. Le accuse sono pesantissime. I magistrati arrivano a parlare di «infiltrazione e manipolazione delle istituzioni da parte dei vertici Ilva» per ottenere autorizzazioni ambientali compiacenti. Fatti che vanno accertati al più presto, disinnescando quella bomba sociale che rischia di esplodere dopo la decisione di chiudere gli stabilimenti, contestuale all'ultima iniziativa della Procura. Soprattutto, avendo ben chiaro che la necessaria assunzione di responsabilità non prevede la fuga all'estero dell'imprenditore. E che la fine della sua latitanza favorirebbe anche le ragioni dell'impresa, in un Paese dove per meccanismi assai singolari la magistratura finisce per assumere ruoli propri di altri pezzi dello Stato. Una contumacia, quella di Riva, tanto più grave se si considera che il legale rappresentante della sua impresa è stato per trent'anni un uomo delle istituzioni: il presidente Bruno Ferrante. È l'ex vice capo della polizia ed ex prefetto di Milano, il quale nel corso della sua lunga e molto apprezzata carriera pubblica ha ricoperto incarichi importantissimi. Per esempio, quello di capo di gabinetto dell'attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano quando questi era ministro dell'Interno, oppure quello di alto commissario di governo per la lotta alla corruzione. Nel 2006 ha pure conteso senza successo a Letizia Moratti la poltrona di sindaco di Milano, dopo aver sconfitto alle primarie del centrosinistra il premio Nobel Dario Fo. Proprio durante quella campagna elettorale ha dichiarato in un'intervista a Repubblica: «Ho vissuto tutta la mia vita credendo nel rispetto della legalità e delle regole». Può un ex prefetto restare presidente di un'azienda il cui imprenditore è destinatario di un ordine di cattura e sceglie la strada della latitanza? Crediamo di no. Qui si capisce quanto certe scelte «professionali» possano risultare insidiose. Quando un ex servitore dello Stato passa a occuparsi di interessi privati può capitargli di trovarsi un giorno dalla parte opposta della barricata. Anche soltanto mettendo la propria firma sui ricorsi contro le decisioni dei magistrati. E non deve succedere. Chi ha avuto responsabilità pubbliche di questo calibro dev'essere ben conscio che esiste un serissimo problema di opportunità nel caso in cui si accetta un incarico privato. Perché oltre alla coerenza personale c'è in ballo il prestigio delle istituzioni che si sono servite. Sergio Rizzo 29 novembre 2012 | 8:59© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_29/imprenditore-ex-prefetto-rizzo_7352e5f6-39ef-11e2-8e20-34fd72ebaa93.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Dal Cavaliere a Cicchitto: vanno eliminate Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2012, 07:44:03 pm Retroscena
Province, le promesse del 2008 e la vittoria del partito anti abolizione Dal Cavaliere a Cicchitto: vanno eliminate Ma in Parlamento il Pdl ha scongiurato i tagli ROMA - E' noto che in Italia le promesse fatte in campagna elettorale valgono quel che valgono. Parole al vento, il più delle volte. Ma sarà interessante, in questa occasione, vedere se Silvio Berlusconi ripeterà quello che disse nel 2008 alla signora Ines di Forte dei Marmi durante una chatline al Corriere : «Non parlo delle Province, perché bisogna eliminarle». E non era certo l'unico, nel suo Popolo della libertà, a pensarla così. Di più: della stessa idea non erano i peones del partito, ma i pezzi da novanta a lui fedelissimi. Il superberlusconiano capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto sentenziava il 29 novembre 2008: «L'appello sull'abolizione delle Province va preso in seria considerazione. C'è un gran bisogno di qualche altro taglio di spesa». E il ministro Renato Brunetta, competente per quella materia, gli faceva eco il 4 dicembre: «Le Province? Sono enti inutili, non servono». Proprio vero... Come è andata, lo sappiamo. E si potrebbe amaramente concludere: lo avevamo detto. La maggioranza di centrodestra si è ben guardata dall'affrontare una questione sulla quale si erano detti d'accordo quasi tutti anche a sinistra. Se si eccettua l'uscita dell'ex ministro Roberto Calderoli, nell'agosto 2011, che aveva proposto di chiudere soltanto le Province più piccole. Idea subito smontata e quindi abortita. Erano le settimane in cui l'Italia si affacciava pericolosamente sull'orlo del baratro. In una lettera alla quale aveva dato un robusto contributo la Banca d'Italia, la Bce chiedeva al governo italiano durissimi interventi, sottolineando la necessità di riforme quali appunto l'abolizione delle Province. E con l'uscita di scena del Cavaliere e l'arrivo di Mario Monti la musica sembrava cambiata. Il decreto salva Italia aveva ridotto le Province a enti non più elettivi, privi di qualunque funzione: la premessa per la loro scomparsa. Sarebbe stata però necessaria un'altra legge entro il 2012 per fissare le modalità della dissoluzione dei consigli. Inutile dire che le Province non se ne sono rimaste con le mani in mano. Subito è partito un ricorso alla Corte costituzionale. Ed è stato così che nella scorsa estate, anche con la motivazione di evitare la scure della Consulta, il governo ci ha ripensato: anziché l'abolizione, la riduzione per decreto. Più o meno con il vecchio e discutibile metodo Calderoli, ma fermo restando per le Province sopravvissute il principio di avere organi di governo non più eletti a suffragio universale. Peccato che anche questo progetto, sostenuto a parole, abbia incontrato fortissime resistenze nei corridoi del Palazzo. Dove il partito delle Province, forte di una decina di presidenti di giunte provinciali seduti in Parlamento, ha sempre manovrato, agguerritissimo, per guadagnare tempo. Perché più le elezioni si avvicinano, più le leggi che tagliano poltrone perdono forza. Questa è la regola in Italia. Tuttavia è certo che in nessun Paese normale a pronunciare la condanna a morte di un simile provvedimento sarebbe stato proprio il partito il cui leader aveva promesso agli italiani l'abolizione delle Province. Perché è questo il significato della pregiudiziale di incostituzionalità presentata a palazzo Madama dal pidiellino Filippo Saltamartini addirittura prima che Monti annunciasse le sue dimissioni. Pur sapendo che il gesto costerà 500 milioni l'anno: tanto, dice il ministro Piero Giarda, sarebbe il risparmio dovuto all'accorpamento delle Province. Molto più di quanto sarebbe costato rinunciare all'election day, che il segretario del Pdl Angelino Alfano aveva rivendicato proprio con l'esigenza di evitare inutili sprechi. Ma poco importa. Tirerà un respiro di sollievo il deputato del suo partito Antonello Iannarilli, presidente della Provincia di Frosinone che per protesta ha mandato giù un bel sorso di olio di ricino. Davanti al Senato, pensate un po'! Idem potrà fare il sindaco di Prato, Roberto Cenni, protagonista di una sconcertante conferenza stampa seduto su una tazza da gabinetto a segnalare la propria indignazione davanti alla prospettiva di vedere la sua Provincia tornare sotto Firenze. Come al tempo dei Medici, non sia mai! E pure Cosimo Sibilia, figlio dell'ex patron dell'Avellino calcio Antonio Sibilia, e come Iannarilli parlamentare e presidente di Provincia: Avellino, appunto. Si è dannato l'anima per far saltare il decreto che l'avrebbe costretto a fondersi con Benevento. Gli irpini insieme ai sanniti? Contro natura! Brinderà, Sibilia, con Ciriaco De Mita, ottantaquattrenne eurodeputato dell'Udc che forse non si voleva rassegnare a cedere il capoluogo al rivale beneventano Clemente Mastella: anch'egli, grazie alla prodigiosa regola secondo cui certi politici non possono mai restare a spasso, parlamentare (per il Pdl, dopo l'evaporazione del suo Udeur) a Strasburgo. E brinderanno tutti insieme al senatore Claudio Fazzone, potente capo del partito a Latina, tanto ostile al decreto del ministro Filippo Patroni Griffi da farsi autore di 400 dei 700 emendamenti che gli sono piovuti addosso in Senato. Magari ci sarà anche Antonio D'Alì, il quale nei mesi scorsi aveva chiesto che fossero considerate nei parametri minimi di superficie anche le piattaforme marine antistanti le Province: lui è di Trapani. E chissà se accetterà l'invito il relatore del Pd Enzo Bianco convinto che dagli accorpamenti debbano essere escluse le Province confinanti fra loro per meno di 25 chilometri. Come Viterbo e la più piccola Rieti, che finirebbe per essere annessa: ma si dà il caso che la prima sia in mano al Pdl, mentre presidente della seconda è il democratico Fabio Melilli. Margheritino d'origine, proprio come Bianco. Guarda un po'... Sergio Rizzo 10 dicembre 2012 | 17:43© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_10/province-promesse-vittoria-anti-abolizione_a6b843e0-42e7-11e2-af33-9cafd633849d.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Le scialuppe di salvataggio Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2012, 03:55:28 pm LA RICERCA DEL CONTENITORE POLITICO
Le scialuppe di salvataggio «Monti è ok, la sua agenda è la nostra»: parola di Renato Brunetta. Chi ieri ha letto questo tweet dell’ex ministro della Funzione pubblica si dev’essere chiesto se l’ha scritto lo stesso Brunetta che soltanto quattro giorni prima rivendicava sul Corriere di aver convinto Silvio Berlusconi a staccare la spina. «Sostenere Monti non è stata solo una cosa assolutamente sbagliata, ma anche spaventosamente negativa per il Pdl e per l’Italia», sentenziava Brunetta ricordando di aver fatto per tredici mesi le pulci al suo governo con «238 slide di PowerPoint senza aver mai ricevuto una sola smentita». Il giorno dell’insediamento del professore a Palazzo Chigi l’aveva addirittura diffidato dal farsi tentare da future candidature politiche. Perfino lui si è ora convinto. Monti è diventato il salvatore della patria del centrodestra, il possibile «federatore di tutti i moderati», come Brunetta ha spiegato al Secolo XIX. Anche se al posto di «federatore » sarebbe più appropriato un altro termine: scialuppa di salvataggio. Perché l’esplosione del centrodestra, con i sondaggi che da mesi descrivono un Popolo della libertà in picchiata, sommata alla fortissima crescita del Movimento 5 Stelle, rischia serissimamente di far naufragare le certezze di quanti fino a un anno fa davano per scontata la propria riconferma parlamentare. Il solo seggio di Silvio Berlusconi, in quello schieramento, può considerarsi al sicuro: ma per il puro consenso personale di cui ancora gode il Cavaliere. Ecco dunque che Monti è visto da tanti, suo malgrado, come il possibile traghettatore verso una nuova vita politica. Nel centrodestra, e pure nel centrosinistra. C’è da dire che la scialuppa era già abbastanza affollata. Quando i primi dissidenti hanno cominciato a migrare dal Pdl al gruppo misto della Camera preparandosi a salirci, come l’ex pasionaria berlusconiana Isabella Bertolini ora portavoce di Italia libera, c’erano già casiniani e finiani. Poi, alla spicciolata, sono arrivati altri pezzi del Pdl, compresi nemici giurati di Gianfranco Fini e avversari di Pier Ferdinando Casini. C’è Italia popolare, che va dal sindaco di Roma Gianni Alemanno al capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto, passando per Franco Frattini, Maurizio Lupi, Gaetano Quagliariello, Maurizio Sacconi... C’è Gabriele Albertini, che punta a diventare presidente della Regione Lombardia. Ci sono due ormai ex governatori con zero possibilità di riconferma, quali Roberto Formigoni e Renata Polverini. Ma pende dalle labbra di Monti pure qualcuno dei Responsabili: «Se Monti scende in campo cambia tutto», si è augurato il portavoce di Popolo e territorio, Francesco Pionati. Mentre il segretario repubblicano Francesco Nucara si appellava al premier «perché guidi il Paese portando a termine il risanamento». E se il leader dell’Api Francesco Rutelli aveva già annunciato a settembre «porte aperte» al prolungamento dell’esperienza montiana, ha sorpreso tutti nel Partito democratico l’uscita del suo ex collega margheritino Giuseppe Fioroni, per il quale «è indispensabile lavorare alla costituzione di un soggetto moderato-progressista intorno a Monti». Come faranno tutti questi a stare insieme, ammesso che il premier se la senta di fare il timoniere e accetti di imbarcarli, è un bel mistero. Una scialuppa così piena non rischia di capovolgersi? Sergio Rizzo 17 dicembre 2012 | 8:16© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_17/scialuppe-salvataggio_a7f1c9dc-4811-11e2-9b8b-e1acb7544763.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Dal peso delle tasse agli oneri aggiuntivi, ecco il conto delle ... Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2013, 06:26:12 pm Dal peso delle tasse agli oneri aggiuntivi, ecco il conto delle famiglie
I costi occulti delle bollette del gas, perché l'aumento non si ferma L'incremento delle tariffe è stato 4 volte superiore all'inflazione, spunta un'assicurazione aggiuntiva che costerebbe 800 milioni ROMA - Premessa: stiamo parlando di una faccenda che muove poteri economici e interessi ciclopici. Immaginate quindi le pressioni che possono scatenare. Ma di tutti i misteri italiani quello attualmente più misterioso è la bolletta del gas (guarda la tabella su corriere,it). Da due anni il prezzo del metano sui mercati internazionali è in picchiata, ma 26 milioni di famiglie e quattro milioni di piccole imprese non se ne sono accorti. Anzi. Si è provveduto, se possibile, a tosarle ancora di più: perché dal gennaio 2011 a oggi le bollette sono rincarate, tenetevi forte, del 23,7 per cento. Più o meno quattro volte l'inflazione. Tutto questo mentre il prezzo spot pagato dai venditori di gas sul mercato all'ingrosso italiano, ci spiega il superesperto della Staffetta quotidiana Gionata Picchio, è sceso di circa il 15 per cento soltanto nell'ultimo anno. Ci sono ragioni congiunturali, come la flessione della domanda europea, ma anche strutturali: per esempio la raggiunta autosufficienza degli Stati Uniti. Fatto sta che qualcuno, in questa situazione, sta facendo soldi a palate. Dall'inizio del 2011 l'Autorità dell'energia continua a rincarare i prezzi. Ed è appena il caso di notare che gli ultimi due anni sono stati i più difficili per le famiglie italiane. L'ultimo aumento è di qualche giorno fa: +1,7 per cento. E qui la materia prima non c'entra niente. C'entra la distribuzione. Il paradosso è che meno gas passa nei tubi, più cresce il costo unitario del servizio. E dato che bisogna garantire ai distributori identici ricavi, se vogliamo che investano nella rete e facciano arrivare il metano alla caldaia, ecco che le tariffe salgono anziché scendere. Andrebbe benissimo, se non fosse per un paio di dettagli. Primo: l'infrastruttura pagata con i soldi degli utenti non è pubblica, ma resta di proprietà dei distributori privati (come i loro profitti). Secondo: il rischio d'impresa per costoro è praticamente azzerato. È il dilemma di tutte le reti, diranno gli esperti. Ma raccontatelo ai 26 milioni di famiglie di cui sopra. Soprattutto, spiegategli perché, se è vero che i criteri con i quali vengono decisi questi aumenti sono stati adottati anni fa, quando alla presidenza dell'Autorità non c'era ancora Guido Bortoni, non sono stati modificati negli ultimi due anni. Fosse solo per alleviare il peso della crisi sui bilanci familiari. Il sistema di calcolo del prezzo della materia prima, quello invece è stato appena ritoccato. Anche qui, però, c'è qualcosa di difficile da far capire a chi si vede recapitare bollette sempre più salate. I giganti come Eni ed Enel operano prevalentemente con i contratti take or pay . Sono accordi pluriennali con fornitori internazionali, con la formula che si paga comunque, anche se il gas non viene ritirato tutto. Ne ha parlato il 16 dicembre la trasmissione Report di Milena Gabanelli, ricordando che l'amministratore delegato dell'Eni Paolo Scaroni ha rinegoziato con la Russia un onerosissimo contratto take or pay prolungandone la durata a trent'anni. È accaduto nel 2009, con straordinario tempismo: poco prima della vertiginosa caduta del mercato libero. Ebbene, proprio per tener conto di questo calo, come ha disposto il governo di Mario Monti nel decreto cresci Italia, l'Autorità ha deciso di considerare nel calcolo del prezzo anche le quotazioni spot. Oggi pesano per il 5%, contro il 95% misurato con una formula che simula il prezzo (altro mistero misteriosissimo) take or pay legato all'andamento delle quotazioni del petrolio, dell'olio combustibile e del gasolio (!). Il fatto è che il gas acquistato sul mercato spot che corre nei nostri tubi va ben oltre quel misero 5%. Di più. Picchio ricorda che secondo una recentissima indagine dell'Autorità il prezzo medio spot è stato nel 2011 e nel 2012 rispettivamente del 16% e del 26% inferiore a quello calcolato con il sistema precedente a quel contentino del 5%. Il succo è il seguente: tenere il prezzo non troppo distante da quello dei contratti take or pay limita i danni per i grandi operatori, che possono compensare le perdite di quegli accordi con i super profitti del gas acquistato sul mercato libero e fa fare un mucchio di quattrini a chi (come alcune municipalizzate) compra esclusivamente spot e vende agli utenti finali con tariffe astronomiche. Va da sé che è una situazione insostenibile. E lo sanno anche all'Authority, tanto da aver proposto una nuova formula di calcolo per allineare il prezzo della materia prima, che pesa per circa la metà sulla bolletta, a quella del mercato libero. Finalmente, direte. E avendo saputo che la stessa Autorità ha respinto la richiesta avanzata da Scaroni di far gravare sulle tariffe le perdite generate dai contratti con la Russia (un miliardo e mezzo, mica bruscolini) potreste tirare un altro respiro di sollievo. Se non fosse per una sorpresina annidata in quella proposta. Siccome nessuno garantisce che il mercato spot sarà sempre così favorevole, ecco che gli utenti si devono caricare sulle spalle una bella assicurazione obbligatoria a favore dei signori del gas. Uno scherzetto che vale 800 milioni, e visto che ne beneficerebbero i titolari dei famosi contratti take or pay come appunto l'Eni, i piccoli sono imbufaliti. Ma anche fra i componenti dell'Autorità non sono mancate le discussioni. Per non parlare dei consumatori, che si vedrebbero ridurre il beneficio in bolletta dal teorico 10 per cento al 6, forse 7 per cento. La pratica si è quindi fermata: il taglio era previsto per aprile e certamente slitterà. Nel frattempo, le bollette continuano a correre. Ciò nonostante chi si ostina a vedere il bicchiere mezzo pieno. Argomentando che sull'allineamento del prezzo italiano a quelli europei sono stati fatti sforzi sovrumani. Che le pressioni dell'Eni non hanno fatto breccia. E che se le tariffe del gas sono aumentate, proprio la piccola modifica al metodo di calcolo del prezzo ha fatto scendere dell'1,4 per cento le tariffe elettriche. Staremo a vedere se a questo zuccherino per le famiglie ne seguiranno altri più sostanziosi. La speranza è l'ultima a morire. Intanto non si può non notare, come ha fatto la Staffetta quotidiana , che nell'ultimo anno i provvedimenti dell'Autorità a tutela dei consumatori sono stati appena l'11,3% del totale, contro il 17,7% del 2011 e il 25,8% del precedente collegio presieduto da Alessandro Ortis. Che in sette anni ha appioppato agli operatori multe per 200 milioni, a un ritmo di 28,5 milioni l'anno. Mentre dal 2011 l'Authority di Bortoni non è andata oltre i 7 milioni: 3 e mezzo l'anno. L'indipendenza non si può misurare soltanto con la violenza delle bacchettate, certo. Soprattutto in un mondo come quello dell'energia dove le multe fanno il solletico. Verissimo. Ma ci sono fatti, piccoli fatti, che comunque pongono per il presidente di un organismo «indipendente» una questione di opportunità. Come quella storia sollevata da un'interrogazione parlamentare nella quale si chiedeva al ministro Corrado Passera conferma del fatto che «alcuni funzionari e dirigenti ora distaccati presso l'Autorità» da Gse e Acquirente Unico, fossero stati assunti dalle due società pubbliche «pochi giorni prima di tale distacco». Una decina di persone in tutto: fra queste anche l'assistente personale di Bortoni, che era già con lui al ministero dello Sviluppo, di cui era stato nominato direttore generale nel 2009 da Claudio Scajola, per essere poi da lì direttamente paracadutato nel 2011 al timone dell'Authority. Si chiama Cecilia Gatti, ed è incidentalmente la figlia di Giuseppe Gatti, amministratore delegato di Gdf Suez energia Italia: quarto produttore italiano di energia termoelettrica, terzo venditore di gas naturale nel nostro Paese dopo Eni ed Enel. Sergio Rizzo 6 gennaio 2013 | 9:37© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/13_gennaio_06/costi-occulti-bollette-gas-aumento_01abaff0-57db-11e2-9a31-1eca72c52858.shtml?fr=box_primopiano Titolo: SERGIO RIZZO - IL RITARDO CRESCENTE DEI PAGAMENTI Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2013, 07:04:56 pm IL RITARDO CRESCENTE DEI PAGAMENTI
La tartaruga più antipatica Centonovantatré giorni. Qualcuno in meno rispetto ai 226 impiegati sette anni fa dal vogatore solitario Alex Bellini per andare con una barca a remi da Genova a Fortaleza, in Brasile. Il doppio, addirittura, di quanti ne sono bastati nel 1990 a Reinhold Messner per attraversare a piedi l'Antartide. Imprese estreme: mai però come le sfide che propone di continuo la nostra pubblica amministrazione. Centonovantatré giorni, ha calcolato l'ufficio studi della Confartigianato, è il tempo che serve in media a una fattura emessa da un fornitore per trasformarsi in denaro. Sei mesi e mezzo. Nel frattempo l'impresa fallisce e i suoi lavoratori si ritrovano sul lastrico. Oppure, per tirare avanti, può indebitarsi fino al collo: trovando però, il che non è assicurato, qualche banca disposta a fare credito. In caso contrario ci sono sempre gli strozzini. Questa faccenda va avanti da una vita. Correva l'anno 1997 quando le statistiche europee denunciarono come la nostra pubblica amministrazione saldasse le fatture mediamente in 87 giorni. Appena sette in meno della Grecia, allora a quota 94. Trascorsi quindici anni e alcune stagioni politiche, scandite da sei anni di centrosinistra, otto e mezzo di centrodestra e uno di coabitazione, eccoci a 193. Sei in più perfino rispetto alla Grecia. Nel solo semestre finito a novembre del 2012, periodo di crisi economica feroce, i tempi medi di pagamento pubblici si sono allungati ancora di ben 54 giorni rispetto ai 139 del maggio scorso. E senza contare le forniture alla sanità, ormai regolate a ritmi biblici: la media è di 269 giorni, ma si arriva a 425 nel Sud, con punte di 793 in Calabria, 755 in Molise, 661 in Campania. Gli effetti sono devastanti. Si calcola che i debiti commerciali accumulati dalla pubblica amministrazione abbiano raggiunto 79 miliardi, dei quali 35,6 soltanto verso i fornitori del servizio sanitario. Un macigno che si ingigantisce a velocità impressionante e nessuno, a dispetto delle promesse condivise da tutti, vuole davvero rimuovere. La motivazione? Inconfessabile: pagare i fornitori farebbe esplodere un debito pubblico già cresciuto nell'ultimo anno, secondo la stessa Confartigianato, di 187.008 euro al minuto. Anche se è impossibile ignorare le conseguenza catastrofiche sul sistema delle imprese, cui i ritardi di pagamento costano quasi due miliardi e mezzo l'anno solo di maggiori oneri finanziari. Ma adesso siamo al dunque. E ancora una volta le nostre cattive abitudini si scontrano con il vincolo esterno. Ovvero, le regole europee. Proprio mentre scopriamo che i tempi medi di pagamento si sono allungati ulteriormente di quasi due mesi dobbiamo fare i conti con la normativa comunitaria in vigore dal primo gennaio che impone di saldare i conti entro trenta giorni. I partiti che si stanno affrontando in campagna elettorale non possono eludere questo argomento cruciale. O liquidarlo con i soliti vaghi propositi. Occorrono impegni precisi. Perché non è soltanto un problema economico. È una questione di civiltà. E ciò, sia chiaro, vale tanto per lo Stato quanto per i molti privati da tempo purtroppo assuefatti alle pessime usanze pubbliche. Un Paese nel quale non si onorano gli impegni in tempi certi non è degno di dirsi civile. Sergio Rizzo 7 gennaio 2013 | 9:21© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_07/tartaruga-antipatica_00cbc9da-5894-11e2-b652-002bcc05a702.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Ora diteci chi paga le spese dei candidati Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2013, 07:46:19 pm Finanziamenti
Ora diteci chi paga le spese dei candidati Scandali inutili, le spese dei partiti restano top secret In una campagna elettorale nella quale poco o nessuno spazio hanno i contenuti, rispetto alle chiacchiere su tattiche e alleanze, c'è un altro latitante speciale: le spese dei partiti. Anche se dopo quanto è accaduto, dalla storia dei rimborsi elettorali della Margherita agli spericolati investimenti dell'ex tesoriere della Lega Nord, fino agli scandali che hanno travolto i gruppi del consiglio regionale del Lazio, sarebbe stato lecito attendersi un cambio di passo. Per esempio, la pubblicazione sui siti Internet dei budget dei vari partiti per le spese della campagna elettorale, con la contestuale indicazione delle fonti di finanziamento: pubbliche e soprattutto private. Informazioni che oggi è possibile conoscere, e non con la dovuta assoluta trasparenza, soltanto a consuntivo attraverso i bilanci e le dichiarazioni giurate. I contribuenti privati, per esempio. Esiste, è vero, l'obbligo di comunicarli alla Camera, dove diventano di dominio pubblico: però con una procedura complessa, che prevede la presentazione agli uffici, e di persona, di una domanda scritta. Ma non c'è regola che impone la diffusione online dei finanziamenti liberali in tempo reale. Cosa che, crediamo, sarebbe doverosa. Al di là degli obblighi di certificazione dei bilanci dei partiti, e dei controlli recentemente introdotti a furor di popolo dopo le sconcertanti vicende dei fondi della Margherita e della Lega Nord, questo consentirebbe ai cittadini di apprendere immediatamente (e prima del voto) quali interessi si materializzano dietro un candidato. Come negli Stati Uniti. Se prima delle elezioni del 2012 avreste voluto sapere quanti contributi avesse ricevuto il senatore del Massachusetts nonché futuro segretario di Stato americano John Kerry, per il fondo destinato alla sua campagna elettorale, sarebbe stato semplicissimo. Esiste un sito Internet con l'elenco dei lobbisti che hanno sostenuto lui e gli altri candidati, con le relative cifre. Nei due anni precedenti la campagna 2012 Kerry ha avuto 128.300 dollari da 56 persone: si va dai 9.600 dollari di Vincent Roberti ai 200 (circa 140 euro) di Edward P. Faberman. Chi è Roberti? Ancora più semplice. Basta cliccare sul suo nome per venire a conoscenza che rappresenta due società di lobbying, la Navigators global LLC e la Vincenti associated. I cui clienti sono At&t, Citigroup, Oracle America, General motors... Tutto (abbastanza) alla luce del sole. E in Italia, dove non esiste nulla di tutto questo, di luce sulle fonti di finanziamento ne avremmo davvero bisogno. Soprattutto in una campagna elettorale nella quale alcuni contendenti non hanno avuto accesso in precedenza ai fondi statali. Mentre altri hanno letteralmente mandato in orbita anno dopo anno le proprie spese elettorali grazie proprio a «rimborsi» elettorali pubblici scandalosamente generosi. In occasione delle precedenti elezioni politiche del 2008 il Popolo della libertà ha investito la somma astronomica di 68 milioni 475.132 euro. Cifra ben 13,6 volte superiore rispetto a quella spesa nel 1996, dice il rapporto della Corte dei conti, da Forza Italia e Alleanza nazionale messe insieme. I contributi pubblici, al tempo stesso, sono passati da 18,6 a 206,5 milioni. Le spese elettorali del Partito democratico si sono attestate invece nel 2008 a 18 milioni 418.043 euro, contro i 7 milioni 839.653 euro investiti dodici anni prima da Ds, Margherita e Ulivo. Per contributi pubblici saliti da 17 a 180,2 milioni. Numeri che fanno ben capire l'impazzimento verificatosi a partire da metà degli anni Novanta. E che non si è certamente esaurito con le elezioni politiche del 2008. Basta dare un'occhiata alle risorse messe in campo dai partiti per le elezioni regionali del 2010: più di 62 milioni. Il Partito democratico ha investito 14,2 milioni, una somma non troppo distante da quella spesa per le Politiche di due anni prima. Il Pdl ha sborsato addirittura 20,9 milioni. Per non parlare di alcune liste locali. Quella che ha sostenuto nel Lazio la candidatura di Renata Polverini ha speso la bellezza di cinque milioni e mezzo di euro. Cifra comunque pari alla metà dei contributi (circa 11 milioni di euro) assicurati a Letizia Brichetto Moratti dal suo consorte Gian Marco Moratti, industriale petrolifero, nella sfida elettorale perduta nel 2011 con Giuliano Pisapia per il Comune di Milano. Sergio Rizzo 21 gennaio 2013 | 8:38© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_21/rizzo-spese-candidati_f72dd062-6397-11e2-9016-003bf863ea6b.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Le dimissioni di Mussari dall’Abi Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2013, 03:26:35 pm IL COMMENTO
Le dimissioni di Mussari dall’Abi Il Montepaschi e l’imbarazzo del Pd Inutile negarlo: per il Pd la vicenda dei derivati che sarebbero stati sottoscritti «segretamente» nel 2009 dal Monte dei Paschi di Siena, con le conseguenti dimissioni di Giuseppe Mussari dalla presidenza dell’Abi, adesso proprio non ci volevano. Non in piena campagna elettorale. Non quando c’è in ballo pure il voto al Comune di Siena, roccaforte diessina prima e democratica poi, dal mese di giugno 2012 senza giunta dopo che il Pd locale si è dilaniato proprio a causa della banca. Ma l’imbarazzo in questo caso era inevitabile. Sappiamo che le privatizzazioni non hanno fatto uscire del tutto la politica dalle banche. Attraverso le Fondazioni, che ne controllano quote cospicue, i partiti continuano in qualche caso ancora a condizionarne le scelte. C’è perfino chi teorizza il diritto della politica a farlo. Un paio d’anni fa il leader leghista Umberto Bossi emanò il seguente editto: «Le banche più grosse del Nord avranno uomini nostri a ogni livello». E certo a Piero Fassino resterà per sempre appiccicata quella sciagurata domanda («Abbiamo una banca?») sfuggitagli al telefono con Giovanni Consorte durante la scalata dell’Unipol alla Bnl… Nel Montepaschi, però, la presenza della politica non è relegata a una partecipazione di minoranza, per quanto di peso, come accade a Unicredit o Intesa San Paolo. E neppure a una battuta tanto infelice quanto innocua. La banca senese è controllata da una Fondazione, a sua volta controllata dal Comune, a sua volta feudo Pd: prima appunto che gli ex margheritini e gli ex diessini litigassero ferocemente a proposito del destino del Monte e di certe poltrone. I sindaci che negli ultimi vent’anni hanno preceduto il dimissionario Franco Ceccuzzi, erano anche dipendenti del Monte. A dimostrazione di un rapporto simbiotico fra città, banca e partito. Oltre a rappresentare una seria ipoteca sullo sviluppo, viste le tante discutibili operazioni del passato dettate dalla politica, una presenza così forte dei partiti ha riflessi sulla gestione. Quando qualche mese fa è arrivato, l’attuale presidente Alessandro Profumo ha trovato nelle controllate una trentina di caselle occupate con nomine politiche. Il Monte è una società quotata in borsa: ma finora non c’è stato verso di convincere la politica a fare un passo indietro. E adesso i nodi vengono al pettine, nel momento peggiore. Servirà almeno di lezione? Sergio Rizzo 23 gennaio 2013 | 8:56© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/13_gennaio_23/rizzo-dimissioni-mussari_5cbd2a22-6523-11e2-a9ef-b9089581fbcf.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Montepaschi: le colpe non viste Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2013, 03:42:16 pm Montepaschi: le colpe non viste
Nessuno può chiamarsi fuori dalla vicenda che coinvolge il Monte dei Paschi di Siena. Non il governo, e ciò vale tanto per quello passato quanto per quello ancora in carica: se nonostante la crisi devastante del 2008-2009 la bomba dei derivati rimane innescata, come sanno bene anche i tanti enti locali che hanno rischiato di rimetterci l’osso del collo, è perché non si sono prese le contromisure necessarie. Non la Consob: che dovrebbe sorvegliare i mercati tutelando i risparmiatori, ma spesso si addormenta. Non la Banca d’Italia: alla quale spetta il compito di vigilare sulle banche e non vede sempre tutto, anche se va precisato che l’istituto di via Nazionale non ha poteri di polizia giudiziaria. Non il sistema bancario, cui il terremoto finanziario sembra non aver insegnato niente: i rubinetti del credito verso le imprese sono ben chiusi mentre la macchina della finanza creativa ha ripreso a girare a pieno ritmo. Meno che mai i politici, soprattutto quelli senesi, possono dire: io non c’entro. Ma il fatto che siano tutti in una certa misura responsabili, e in un sistema finanziario sempre più integrato vanno chiamate in causa probabilmente anche le carenze europee, non può significare che nessuno è responsabile. Tutt’altro. Questa vicenda non può essere archiviata come uno dei tanti incidenti di percorso del nostro sgangherato sistema finanziario. Né le dimissioni di Mussari dall’Abi possono essere considerate una sanzione sufficiente. Non fosse che per un motivo. Dev’essere ricordato come, ancor prima che saltasse fuori lo scandalo dei derivati, per tirare fuori la banca dai guai causati da una serie di errori della sua precedente gestione, il contribuente ha versato nelle casse del Monte 3,9 miliardi. Per quanto le polemiche elettorali sollevate da chi ha accusato il governo di aver introdotto l’Imu per salvare «la banca del Pd» siano del tutto prive di fondamento, considerando che su quel prestito l’istituto paga al Tesoro un interesse del 9 per cento, e non c’è investimento sicuro che renda una simile cifra, si tratta pur sempre di soldi pubblici. E non può assolutamente passare il messaggio che con i soldi dei contribuenti, sia pure pagati a caro prezzo, le banche possono tappare i buchi di speculazioni finanziarie sbagliate. Se poi si scoprisse che mentre il Monte era allo stremo alcuni soggetti avessero continuato a godere di un trattamento di favore, con conti correnti a reddito elevato e garantito, sarebbe gravissimo. Ecco perché siamo convinti che il governo non si possa limitare a gettare la palla nel campo di qualcun altro, come ha fatto ieri il ministro del Tesoro Vittorio Grilli puntando il dito contro la Banca d’Italia. Mario Monti, che si candida a rimanere a palazzo Chigi, non può ignorare che questa storia coincide con il debutto della vigilanza europea sulle grandi banche, e per l’Italia non è davvero un bel viatico. Da lui ci aspettiamo una presa di posizione risoluta, come premier ancora in carica. Certo fa sorridere che il primo fra i suoi sostenitori a sollecitare «chiarezza» sulla vicenda chiedendo a ognuno «di assumersi le proprie responsabilità politiche» sia stato Alfredo Monaci. Ovvero, un tipico esponente della classe politica locale che per anni ha retto Mussari e che ora è candidato della lista Monti in Toscana. Presidente della Mps immobiliare e dirigente del Monte, è il fratello minore di Alberto Monaci: a sua volta ex dipendente della banca, ex deputato dc, oggi presidente (democratico) del Consiglio regionale toscano. Monaci senior già vedeva come il fumo negli occhi lo sbarco a Siena di Alessandro Profumo. Ma dopo che è sfumata la vicepresidenza per suo fratello Alfredo è scoppiata una guerra interna al Pd che ha fatto saltare per aria la giunta comunale. Questa poco edificante lotta di potere contribuisce a far capire perché siamo arrivati qui. Il fatto è che il Monte è un formidabile strumento di welfare cittadino. Finanzia il Comune, la squadra di calcio, quella di basket, gli stessi cittadini. A Siena dà lavoro a circa 5 mila persone: quasi il 10 per cento dell’intera popolazione. Per non parlare delle decine di poltrone nei consigli di amministrazione. Nonché del fiume di denaro che attraverso la fondazione si è riversato, anno dopo anno, nel territorio circostante. Intendiamoci, questo non è un problema limitato alla sola Siena: sono le scorie della vecchia riforma che ha fatto nascere in tutta Italia le fondazioni bancarie dalle ceneri delle vecchie banche pubbliche. Sarebbe anche ingiusto negare che i contributi del Monte abbiano messo in moto iniziative di pregio, come la realizzazione di strutture sanitarie d’eccellenza e di centri di ricerca all’avanguardia. Ma è chiaro che adesso Siena e la sua banca sono a un bivio. Paradossalmente, dunque, questo scandalo dei derivati offre un’occasione da non perdere per cambiare registro. A tutti: al Monte, al sistema bancario, agli organi di vigilanza. E alla politica. Sempre che la sappiano (e la vogliano) cogliere. Sergio Rizzo 25 gennaio 2013 | 7:33© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_25/colpe-non-viste_59daf872-66b6-11e2-95de-416ea2b54ab7.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Così la banca si «sgancia» da Siena Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2013, 05:54:51 pm La storia - Il corto circuito nel Pd cittadino
Stop a contrade, squadre e cedole Così la banca si «sgancia» da Siena Riuscirà Profumo a staccarsi dalla politica? «Sono un uomo fortunato» In questa storia del Monte de Paschi di Siena la politica è una foglia di fico ed è bene non farsi fuorivare. Perché copre beghe locali, interessi di contrada e di corporazione. Anche di logge, dicono i bene informati. Alessandro Profumo si considera «un uomo fortunato». Tanto fortunato da poter rinunciare allo stipendio da presidente del Monte dei Paschi di Siena. La sua retribuzione è il gettone da consigliere di amministrazione: 60 mila euro l'anno. Se lo può permettere, certo. Ma se il banchiere un tempo fra i più potenti d'Europa ha deciso di essere oggi il meno pagato del mondo non è certo, crediamo, perché abbia deciso di iscriversi a un club filantropico. Sembra piuttosto legittima difesa. Perché il minimo che possa capitare qui a un signore che ha appena ricevuto da UniCredit un benservito da 38 milioni di euro e viene messo alla presidenza del Monte dei Paschi, per giunta senza essere senese, è finire sui carboni ardenti. Non che Profumo non ci sia passato comunque, sulla graticola. Anzi. C'era chi considerava la nomina uno scandalo: il suo sostenitore Franco Ceccuzzi, ex segretario diessino locale, ex deputato democratico e sindaco di Siena, ha pagato a carissimo prezzo. Questo l'antefatto. La scorsa primavera il partito democratico, che ha la maggioranza in Comune, è andato in mille pezzi. La scintilla è stata la decisione di Ceccuzzi di mandare in tilt il patto tutto interno al centrosinistra senese che da 12 anni garantiva gli equilibri del Monte dei Paschi, di fatto l'ultima banca pubblica controllata dalla politica. Il patto coincide con l'uscita di scena dell'ex sindaco Pierluigi Piccini, diessino, bloccato da un anatema romano quando stava per diventare presidente della Fondazione azionista della banca. Quella poltrona fu invece affidata al suo avvocato Giuseppe Mussari, anch'egli diessino. Dopo cinque anni, la staffetta. Mussari alla presidenza della banca e al suo posto, in Fondazione, Gabriello Mancini: uomo del potentissimo capo della Margherita locale, l'ex dipendente del Monte ed ex deputato dc Alberto Monaci, presidente del consiglio regionale toscano. Ma sbaglierebbe chi la considerasse una faccenda che riguarda solo i partiti. In questa storia la politica è una foglia di fico, ed è bene non farsi fuorviare. Perché copre beghe locali, interessi di contrada e di corporazione. Anche di logge, dicono i bene informati. E se era chiaro che l'arrivo di Profumo avrebbe messo in discussione quel patto dalle sfaccettature più svariate, la decisione di negare la poltrona di vicepresidente del Monte ad Alfredo Monaci, il presidente della società immobiliare del gruppo bancario nonché fratello minore di Alberto, è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Gli ex margheritini del Pd non hanno votato il bilancio e la giunta Ceccuzzi è saltata per aria. Con effetti collaterali micidiali. Per dirne una, ci ha rimesso il posto anche il direttore della «Nazione» Mauro Tedeschini: reo di aver dato conto dei contrasti fra la Fondazione e il Comune, si era già complicato la vita con una inchiesta sui costi della Regione Toscana che Monaci senior non aveva esattamente gradito. Per dirne un'altra, Monaci junior, trombato alla vicepresidenza della banca, è ora candidato al Parlamento nella lista Monti. Ceccuzzi, invece, si è presentato alle primarie del centrosinistra e le ha vinte: ma in un momento che non potrebbe essere peggiore. In piena campagna elettorale, lo scandalo dei derivati ha scatenato una tempesta sul Partito democratico e ogni giorno propone nuove rivelazioni. Fino al sospetto di tangenti corse intorno all'affare della banca Antonveneta. Un acquisto sciagurato da 10 miliardi. Non bastasse la spesa, fatto in contanti: il che ha messo letteralmente in ginocchio la banca. Insomma, una situazione oggettivamente difficilissima. Ma la bufera, è ciò di cui si lamenta Profumo, oscura quanto è stato fatto negli ultimi sette-otto mesi. Lui ci tiene a sottolineare che è stato chiuso un accordo con i sindacati, sia pure senza la firma della Cgil, per ridimensionare il costo del lavoro. Che cento dirigenti su 490 sono stati avvicendati. Che i consiglieri «esterni», spesso di nomina politica, delle società controllate, sono stati sostituiti (finora una trentina) con dipendenti della banca. E che si è già decisa la dismissione di un centinaio di filiali sulle 400 previste dal piano industriale. Per non parlare delle sponsorizzazioni. Il Monte foraggia con otto milioni l'anno il Siena calcio della famiglia di costruttori Mezzaroma, e di cui la Fondazione possiede anche una quota di minoranza: il contratto scade a fine stagione e non sarà rinnovato. Stessa sorte subirà nel 2014 l'accordo per la sponsorizzazione della pluridecorata squadra di basket. Ma anche il generosissimo rubinetto della Fondazione, che secondo il sito «Lettera43» di Paolo Madron ha distribuito sul territorio negli ultimi dieci anni qualcosa come un miliardo di euro, ovvero 4 mila euro per ognuno dei 270 mila abitanti della Provincia di Siena, è destinato a inaridirsi. Quest'anno, niente dividendi. E con l'aumento di capitale di un miliardo la quota nella banca scenderà dall'attuale 34 al 25 per cento. Il Tesoro ha già avvertito la stessa Fondazione che non potrà più avere in futuro come unico asset la partecipazione nel Monte. Giovedì scorso, poi, Ceccuzzi ha sparato un bel siluro, dichiarando che se verrà riconfermato sindaco il prossimo presidente della Fondazione potrebbe anche non essere senese. Segnali che qualcosa sta cambiando nel rapporto fra la città, la banca e certa politica? Profumo si dice sicuro che quel legame sia già di fatto spezzato, in modo irreversibile. Perché per Siena e i senesi è preferibile un Monte dei Paschi sano ed efficiente a una banca che distribuisce un po' di becchime nel circondario ma procede senza rotta. Con il risultato che alla fine si va a sbattere. A parte gli ultimi scandali, la storia recente è costellata di scelte «industriali» a dir poco discutibili. Come l'incorporazione a carissimo prezzo della Banca 121 o la mancata acquisizione della Bnl, per fare solo un paio di esempi. Per giunta, la vicenda del Monte dei Paschi piomba come un macigno sugli accordi che centralizzano nella Bce di Mario Draghi la vigilanza sulle grandi banche. Suscitando timori e perplessità a proposito del ruolo del nostro Paese in questo passaggio cruciale. Ma riattizzando anche certe nordiche diffidenze, mai del tutto scomparse, a proposito della teoria secondo la quale le banche italiane sarebbero uscite dalla crisi finanziaria mondiale del 2008-2009 meglio degli altri istituti europei perché meno contagiate dai derivati. Fino a qualche giorno fa Giuseppe Mussari non era forse il presidente dell'Abi, ovvero la persona che aveva condotto le trattative sulle nuove regole di Basilea? E se questo succedeva proprio nella banca del capo dei banchieri italiani.... Sergio Rizzo 27 gennaio 2013 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/cronache/13_gennaio_27/montepaschi-derivati-contrade-squadre-cedole_8df94676-6851-11e2-b978-d7c19854ae83.shtml Titolo: SERGIO RIZZO IL CASO MONTEPASCHI Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2013, 11:31:37 pm IL CASO MONTEPASCHI
Debiti e amicizie in Fondazione Analisi di una colossale anomalia È normale per una Fondazione, ente sulla carta senza scopo di lucro, ritrovarsi con centinaia di milioni di debiti sul groppone? La risposta è ovvia: no. Ovunque, ma non a Siena. Pur di mantenere la maggioranza, anche se non più assoluta, del Monte dei Paschi, non hanno esitato a indebitarsi. Fino al collo. Per partecipare all'aumento di capitale da 2,1 miliardi che ha tenuto a galla per un po' la banca, la Fondazione ha dovuto chiedere a 11 banche 600 milioni di euro. Chi mai avrebbe potuto rifiutarle un finanziamento? Il pacchetto del 34 per cento di azioni del Monte che l'ente ha ancora in portafoglio copre ampiamente i debiti. Anche se questa singolare operazione ha soltanto rinviato l'inevitabile resa dei conti. E alla fine la toppa si è rivelata anche peggiore del buco. Il bilancio 2011 della Fondazione si è chiuso con un disavanzo di 331 milioni, da sommare ai meno 128 milioni del 2010: e tutto a causa della svalutazione di quei titoli del Monte che i vertici dell'ente si sono ostinati a difendere. Svenandosi. I generosi contributi destinati tradizionalmente al territorio si sono quasi dimezzati, da 232 a 126 milioni. Una catastrofe, per una Fondazione che in dieci anni aveva distribuito una media di 4 mila euro per ognuno dei 270 mila abitanti della Provincia. Quest'anno, poi, le cose certo non miglioreranno: dalla banca non arriverà neanche un euro di dividendi. Qualcuno argomenterà che nessuno poteva prevedere che il Monte finisse al centro di un imbarazzante caso che sta assumendo proporzioni internazionali. E non è una spiegazione tanto assurda, se si pensa alla prospettiva provinciale da cui in Fondazione si è sempre guardato alle vicende della banca. Anche se i risultati dell'ispezione della Banca d'Italia qualche dubbio, e anche piuttosto serio, dovevano farlo venire. Certo, la faccenda dei derivati era stata ben nascosta, se i magistrati indagano anche sull'ipotesi di false comunicazioni agli organi di vigilanza. Ma a chi ritiene se stesso in grado di amministrare il pacchetto di maggioranza della terza banca italiana, che ha appena fatto un'operazione finanziariamente spericolata come l'acquisizione per cassa dell'Antonveneta, le perplessità emerse nel corso dell'ispezione dovevano per forza mettere la pulce nell'orecchio. E invece, niente. Di certo comunque a Siena molte cose sono destinate a cambiare. Non soltanto perché la quota della Fondazione, così accanitamente difesa a forza di debiti, fatalmente si ridurrà e di molto. Fra qualche mese, la prossima estate, scadono gli amministratori. E se alle elezioni comunali vincerà ancora Franco Ceccuzzi, disarcionato sei mesi fa in seguito a manovre interne al suo partito, si preannuncia un azzeramento pressoché totale. Le poltrone della «deputazione generale» sono 16. Otto le sceglie il Comune, cinque la Provincia e una la Regione. Le rimanenti due spettano alla Curia e all'Università. Questa governance ha garantito al centrosinistra locale per anni il controllo dell'ente e perciò della banca, con un patto che da cinque anni assegna la presidenza della fondazione, come tante volte abbiamo ricordato in questi giorni, alla componente della ex Margherita nella persona di Gabriello Mancini, fedelissimo del presidente del consiglio regionale toscano Alberto Monaci, ex dipendente del Monte ed ex deputato Dc. Degli otto attuali componenti di nomina locale, uno solo è stato designato dall'amministrazione targata Ceccuzzi, al posto di un dimissionario. Si tratta di Alessandra De Marco, dirigente di Palazzo Chigi priva di rapporti con gli ambienti senesi. Una specie di prova generale? Di sicuro Ceccuzzi ha già fatto sapere che non riterrà uno scandalo la sostituzione di Mancini con un «non senese». Applicando così anche alla Fondazione lo schema a lui caro che ha portato Alessandro Profumo alla presidenza della banca. Una operazione contrastatissima da Monaci, e che con ogni probabilità è stato il motivo principale della caduta della giunta comunale, dopo il voto contrario al bilancio proprio della componente del Pd che fa riferimento al presidente del consiglio regionale, insieme ad altre concause. Come per esempio la sostituzione, espressamente richiesta da Ceccuzzi alla Regione, del direttore generale dell'azienda ospedaliera di Siena. Lì dove è impiegata l'influente moglie di Monaci, Anna Gioia, agguerrita consigliere comunale della suddetta corrente Pd che ha bocciato il bilancio. Altro capitolo di un'assurda guerra locale intorno alla quale incredibilmente si giocano i destini di una delle più importanti banche italiane. E che si combatte senza esclusione di colpi. Anche quelli sotto la cintura. Per avere un'idea del livello dello scontro, valga l'episodio di un ricorso legale sulle primarie del Partito democratico in vista delle elezioni senesi, vinte da Ceccuzzi contro il candidato vendoliano. A presentarlo, pur senza fortuna, è stato il giovane vicepresidente della Provincia di Siena, Alessandro Pinciani, già coordinatore comunale della Margherita. Incidentalmente, figlio di Anna Gioia e del suo primo marito Sergio Pinciani. Sergio Rizzo 28 gennaio 2013 | 7:58© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/13_gennaio_28/debiti-findazione-analisi-rizzo_52e2de76-6914-11e2-a947-c004c7484908.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Montepaschi: le colpe non viste Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2013, 01:02:14 am Montepaschi: le colpe non viste
Nessuno può chiamarsi fuori dalla vicenda che coinvolge il Monte dei Paschi di Siena. Non il governo, e ciò vale tanto per quello passato quanto per quello ancora in carica: se nonostante la crisi devastante del 2008-2009 la bomba dei derivati rimane innescata, come sanno bene anche i tanti enti locali che hanno rischiato di rimetterci l’osso del collo, è perché non si sono prese le contromisure necessarie. Non la Consob: che dovrebbe sorvegliare i mercati tutelando i risparmiatori, ma spesso si addormenta. Non la Banca d’Italia: alla quale spetta il compito di vigilare sulle banche e non vede sempre tutto, anche se va precisato che l’istituto di via Nazionale non ha poteri di polizia giudiziaria. Non il sistema bancario, cui il terremoto finanziario sembra non aver insegnato niente: i rubinetti del credito verso le imprese sono ben chiusi mentre la macchina della finanza creativa ha ripreso a girare a pieno ritmo. Meno che mai i politici, soprattutto quelli senesi, possono dire: io non c’entro. Ma il fatto che siano tutti in una certa misura responsabili, e in un sistema finanziario sempre più integrato vanno chiamate in causa probabilmente anche le carenze europee, non può significare che nessuno è responsabile. Tutt’altro. Questa vicenda non può essere archiviata come uno dei tanti incidenti di percorso del nostro sgangherato sistema finanziario. Né le dimissioni di Mussari dall’Abi possono essere considerate una sanzione sufficiente. Non fosse che per un motivo. Dev’essere ricordato come, ancor prima che saltasse fuori lo scandalo dei derivati, per tirare fuori la banca dai guai causati da una serie di errori della sua precedente gestione, il contribuente ha versato nelle casse del Monte 3,9 miliardi. Per quanto le polemiche elettorali sollevate da chi ha accusato il governo di aver introdotto l’Imu per salvare «la banca del Pd» siano del tutto prive di fondamento, considerando che su quel prestito l’istituto paga al Tesoro un interesse del 9 per cento, e non c’è investimento sicuro che renda una simile cifra, si tratta pur sempre di soldi pubblici. E non può assolutamente passare il messaggio che con i soldi dei contribuenti, sia pure pagati a caro prezzo, le banche possono tappare i buchi di speculazioni finanziarie sbagliate. Se poi si scoprisse che mentre il Monte era allo stremo alcuni soggetti avessero continuato a godere di un trattamento di favore, con conti correnti a reddito elevato e garantito, sarebbe gravissimo. Ecco perché siamo convinti che il governo non si possa limitare a gettare la palla nel campo di qualcun altro, come ha fatto ieri il ministro del Tesoro Vittorio Grilli puntando il dito contro la Banca d’Italia. Mario Monti, che si candida a rimanere a palazzo Chigi, non può ignorare che questa storia coincide con il debutto della vigilanza europea sulle grandi banche, e per l’Italia non è davvero un bel viatico. Da lui ci aspettiamo una presa di posizione risoluta, come premier ancora in carica. Certo fa sorridere che il primo fra i suoi sostenitori a sollecitare «chiarezza» sulla vicenda chiedendo a ognuno «di assumersi le proprie responsabilità politiche» sia stato Alfredo Monaci. Ovvero, un tipico esponente della classe politica locale che per anni ha retto Mussari e che ora è candidato della lista Monti in Toscana. Presidente della Mps immobiliare e dirigente del Monte, è il fratello minore di Alberto Monaci: a sua volta ex dipendente della banca, ex deputato dc, oggi presidente (democratico) del Consiglio regionale toscano. Monaci senior già vedeva come il fumo negli occhi lo sbarco a Siena di Alessandro Profumo. Ma dopo che è sfumata la vicepresidenza per suo fratello Alfredo è scoppiata una guerra interna al Pd che ha fatto saltare per aria la giunta comunale. Questa poco edificante lotta di potere contribuisce a far capire perché siamo arrivati qui. Il fatto è che il Monte è un formidabile strumento di welfare cittadino. Finanzia il Comune, la squadra di calcio, quella di basket, gli stessi cittadini. A Siena dà lavoro a circa 5 mila persone: quasi il 10 per cento dell’intera popolazione. Per non parlare delle decine di poltrone nei consigli di amministrazione. Nonché del fiume di denaro che attraverso la fondazione si è riversato, anno dopo anno, nel territorio circostante. Intendiamoci, questo non è un problema limitato alla sola Siena: sono le scorie della vecchia riforma che ha fatto nascere in tutta Italia le fondazioni bancarie dalle ceneri delle vecchie banche pubbliche. Sarebbe anche ingiusto negare che i contributi del Monte abbiano messo in moto iniziative di pregio, come la realizzazione di strutture sanitarie d’eccellenza e di centri di ricerca all’avanguardia. Ma è chiaro che adesso Siena e la sua banca sono a un bivio. Paradossalmente, dunque, questo scandalo dei derivati offre un’occasione da non perdere per cambiare registro. A tutti: al Monte, al sistema bancario, agli organi di vigilanza. E alla politica. Sempre che la sappiano (e la vogliano) cogliere. Sergio Rizzo 25 gennaio 2013 | 7:33© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_25/colpe-non-viste_59daf872-66b6-11e2-95de-416ea2b54ab7.shtml Titolo: SERGIO RIZZO I truffatori delle quote latte ci sono costati 4,5 miliardi Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2013, 12:01:17 am L'infrazione delle norme europee ha prodotto un danno di 75 euro per ogni italiano
I truffatori delle quote latte ci sono costati 4,5 miliardi Nel 2009 l'allora ministro leghista Zaia salvò gli «splafonatori» privando Equitalia del potere di riscossione La giustizia farà certamente il suo corso. Confidiamo che i magistrati impegnati nell'inchiesta sulle quote latte, che nei giorni scorsi ha scatenato una tempesta politica, individueranno e puniranno i responsabili di una delle più clamorose truffe del nuovo secolo. Nel frattempo, ai cittadini italiani resta sul groppone il conto astronomico che i furbetti del latticino hanno fatto pagare finora allo Stato. Tenetevi forte: 4 miliardi 494 milioni 433.627 euro e 53 centesimi. Ovvero, 75 euro e 62 centesimi per ogni italiano, neonati compresi. Una somma che basterebbe a soddisfare il fabbisogno di latte fresco dell'intera nazione per un anno. Il calcolo l'ha fatto la Corte dei conti in una relazione appena sfornata, nella quale, oltre a numeri terrificanti, c'è una cattiva notizia. Rassegniamoci: recuperare quei soldi sarà quasi impossibile. Esattamente trent'anni fa, nel 1983, la Commissione europea stabilì per la produzione di latte delle quote nazionali, con la motivazione che un'eccessiva quantità sul mercato avrebbe fatto crollare i prezzi. Per chi non avesse rispettato il plafond erano previste multe salate. L'assegnazione delle quote, com'era intuibile, finì per favorire i Paesi nordici. Ma i produttori italiani, invece di adeguarsi alla nuova situazione, continuarono come se nulla fosse accaduto. Risultato: dopo 12 anni si erano accumulate multe per l'equivalente attuale di circa 2 miliardi di euro. Il caos era totale. C'erano ritardi nell'adeguamento delle normative, dati taroccati, latte che arrivava dall'estero ma figurava italiano, quantitativi enormi di prodotto non fatturato... Che fare? Il governo accollò il conto all'Erario. Da allora in poi, però, gli allevatori che non avessero rispettato le quote, avrebbero dovuto pagare. Eccome. Peccato che quasi nessuno, dal 1996, ha pagato. Mentre l'Unione europea continuava a incassare dallo Stato italiano i soldi delle multe, che scontava direttamente dai trasferimenti dovuti ai nostri agricoltori. La Corte dei conti dice che dal 1996 al 2010 «l'onere che l'Italia ha sopportato» per «gli esuberi produttivi accertati è quantificato dai 2.537 milioni di euro, versati alla Commissione». Denari che, prevede la legge, avrebbero dovuto restituire gli allevatori «splafonatori», ai quali sono state concesse ripetute agevolazioni, come quella di pagare in comode rate. Ma finora «il recuperato effettivo», avverte la Corte, «è trascurabile». Il fatto è che ogni mezzo è stato buono per aggirare gli obblighi. Proroghe su proroghe, inefficienze degli organi preposti a far pagare, ricorsi e controricorsi. Per non parlare del valzer dei commissari ad hoc nominati di volta in volta dal governo. E dell'incredibile vicenda toccata all'ex senatore leghista Dario Fruscio, messo dal suo partito a capo dell'Agenzia incaricata di riscuotere le multe, e prontamente rimosso quando si è scoperto che le voleva far pagare sul serio. Ecco che cosa scrivono i magistrati contabili: «Costante è risultata, nel corso degli anni, l'interpretazione delle leggi vigenti da parte delle amministrazioni a favore dei produttori eccedentari». Fino all'ultima norma passata nel 2009, quando era ministro dell'Agricoltura il leghista Luca Zaia, attuale governatore del Veneto, che ha privato Equitalia del potere di riscossione. Riesumando addirittura, per il recupero delle somme dovute, le procedure bizantine di un regio decreto del 1910: centrotré anni fa. Niente male, considerando che qui hanno scorazzato indisturbati anche i truffatori, responsabili di aver caricato sulle spalle degli ignari contribuenti centinaia di milioni di multe non pagate. Cooperative nate e fallite a ripetizione, migrando per tutto il Nord da Cuneo a Pordenone, inseguite dalla Finanza, dai giudici contabili, dai magistrati. E tutto alla faccia degli allevatori onesti. I quali hanno anche sborsato, dice la Coldiretti, la bellezza di 1,8 miliardi per rilevare o affittare le quote. In tutta questa storia, anche se la Corte dei conti lo fa appena intuire, ci sono precise ed enormi responsabilità politiche. Perfino rivendicate da Umberto Bossi, il quale due anni fa prometteva sul pratone di Pontida ai Cobas del latte: «Non vi ho dimenticati. La Lega risolverà i vostri problemi». Il rapporto fra Carroccio e Cobas è stato sempre strettissimo. Lo dimostrano i finanziamenti al partito da parte di associazioni quali la Emilat del parlamentare leghista Fabio Ranieri. Ed è incarnato, quel rapporto, nella figura di Giovanni Robusti, storico leader dei Cobas, nel 1994 senatore della Lega cui venne perfino affidato l'incarico di presidente della commissione d'inchiesta sull'Aima, poi nel 2008 europarlamentare. Giusto un mese fa la procura della Corte dei conti ha chiesto di condannarlo a risarcire 182 milioni all'erario per la vicenda delle quote latte in Piemonte dove alcune cooperative battezzate «Savoia» figuravano fittiziamente come acquirenti del latte prodotto in eccesso da alcuni allevatori. A fine giugno 2012 Robusti si era già beccato quattro anni e mezzo di carcere nel processo d'appello che lo vedeva imputato. Sergio Rizzo 1 febbraio 2013 | 7:54© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/13_febbraio_01/truffatori-quote-latte_a443a8ca-6c3b-11e2-9729-7dce41528d1f.shtml Titolo: SERGIO RIZZO I truffatori delle quote latte ci sono costati 4,5 miliardi Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2013, 05:52:57 pm L'infrazione delle norme europee ha prodotto un danno di 75 euro per ogni italiano
I truffatori delle quote latte ci sono costati 4,5 miliardi Nel 2009 l'allora ministro leghista Zaia salvò gli «splafonatori» privando Equitalia del potere di riscossione La giustizia farà certamente il suo corso. Confidiamo che i magistrati impegnati nell'inchiesta sulle quote latte, che nei giorni scorsi ha scatenato una tempesta politica, individueranno e puniranno i responsabili di una delle più clamorose truffe del nuovo secolo. Nel frattempo, ai cittadini italiani resta sul groppone il conto astronomico che i furbetti del latticino hanno fatto pagare finora allo Stato. Tenetevi forte: 4 miliardi 494 milioni 433.627 euro e 53 centesimi. Ovvero, 75 euro e 62 centesimi per ogni italiano, neonati compresi. Una somma che basterebbe a soddisfare il fabbisogno di latte fresco dell'intera nazione per un anno. Il calcolo l'ha fatto la Corte dei conti in una relazione appena sfornata, nella quale, oltre a numeri terrificanti, c'è una cattiva notizia. Rassegniamoci: recuperare quei soldi sarà quasi impossibile. Esattamente trent'anni fa, nel 1983, la Commissione europea stabilì per la produzione di latte delle quote nazionali, con la motivazione che un'eccessiva quantità sul mercato avrebbe fatto crollare i prezzi. Per chi non avesse rispettato il plafond erano previste multe salate. L'assegnazione delle quote, com'era intuibile, finì per favorire i Paesi nordici. Ma i produttori italiani, invece di adeguarsi alla nuova situazione, continuarono come se nulla fosse accaduto. Risultato: dopo 12 anni si erano accumulate multe per l'equivalente attuale di circa 2 miliardi di euro. Il caos era totale. C'erano ritardi nell'adeguamento delle normative, dati taroccati, latte che arrivava dall'estero ma figurava italiano, quantitativi enormi di prodotto non fatturato... Che fare? Il governo accollò il conto all'Erario. Da allora in poi, però, gli allevatori che non avessero rispettato le quote, avrebbero dovuto pagare. Eccome. Peccato che quasi nessuno, dal 1996, ha pagato. Mentre l'Unione europea continuava a incassare dallo Stato italiano i soldi delle multe, che scontava direttamente dai trasferimenti dovuti ai nostri agricoltori. La Corte dei conti dice che dal 1996 al 2010 «l'onere che l'Italia ha sopportato» per «gli esuberi produttivi accertati è quantificato dai 2.537 milioni di euro, versati alla Commissione». Denari che, prevede la legge, avrebbero dovuto restituire gli allevatori «splafonatori», ai quali sono state concesse ripetute agevolazioni, come quella di pagare in comode rate. Ma finora «il recuperato effettivo», avverte la Corte, «è trascurabile». Il fatto è che ogni mezzo è stato buono per aggirare gli obblighi. Proroghe su proroghe, inefficienze degli organi preposti a far pagare, ricorsi e controricorsi. Per non parlare del valzer dei commissari ad hoc nominati di volta in volta dal governo. E dell'incredibile vicenda toccata all'ex senatore leghista Dario Fruscio, messo dal suo partito a capo dell'Agenzia incaricata di riscuotere le multe, e prontamente rimosso quando si è scoperto che le voleva far pagare sul serio. Ecco che cosa scrivono i magistrati contabili: «Costante è risultata, nel corso degli anni, l'interpretazione delle leggi vigenti da parte delle amministrazioni a favore dei produttori eccedentari». Fino all'ultima norma passata nel 2009, quando era ministro dell'Agricoltura il leghista Luca Zaia, attuale governatore del Veneto, che ha privato Equitalia del potere di riscossione. Riesumando addirittura, per il recupero delle somme dovute, le procedure bizantine di un regio decreto del 1910: centrotré anni fa. Niente male, considerando che qui hanno scorazzato indisturbati anche i truffatori, responsabili di aver caricato sulle spalle degli ignari contribuenti centinaia di milioni di multe non pagate. Cooperative nate e fallite a ripetizione, migrando per tutto il Nord da Cuneo a Pordenone, inseguite dalla Finanza, dai giudici contabili, dai magistrati. E tutto alla faccia degli allevatori onesti. I quali hanno anche sborsato, dice la Coldiretti, la bellezza di 1,8 miliardi per rilevare o affittare le quote. In tutta questa storia, anche se la Corte dei conti lo fa appena intuire, ci sono precise ed enormi responsabilità politiche. Perfino rivendicate da Umberto Bossi, il quale due anni fa prometteva sul pratone di Pontida ai Cobas del latte: «Non vi ho dimenticati. La Lega risolverà i vostri problemi». Il rapporto fra Carroccio e Cobas è stato sempre strettissimo. Lo dimostrano i finanziamenti al partito da parte di associazioni quali la Emilat del parlamentare leghista Fabio Ranieri. Ed è incarnato, quel rapporto, nella figura di Giovanni Robusti, storico leader dei Cobas, nel 1994 senatore della Lega cui venne perfino affidato l'incarico di presidente della commissione d'inchiesta sull'Aima, poi nel 2008 europarlamentare. Giusto un mese fa la procura della Corte dei conti ha chiesto di condannarlo a risarcire 182 milioni all'erario per la vicenda delle quote latte in Piemonte dove alcune cooperative battezzate «Savoia» figuravano fittiziamente come acquirenti del latte prodotto in eccesso da alcuni allevatori. A fine giugno 2012 Robusti si era già beccato quattro anni e mezzo di carcere nel processo d'appello che lo vedeva imputato. Sergio Rizzo 1 febbraio 2013 | 7:54© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/13_febbraio_01/truffatori-quote-latte_a443a8ca-6c3b-11e2-9729-7dce41528d1f.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Distruzioni di valore Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2013, 11:28:08 pm CATTIVI ESEMPI DI GESTIONE AZIENDALE
Distruzioni di valore Leggendo le cronache di questi giorni c'è da rabbrividire. I magistrati sospettano che al Monte dei Paschi di Siena agisse una banda del 5 per cento, destinataria di una tangente su ogni operazione. Comprese quelle che danneggiavano la banca. La Seat Pagine Gialle, venduta nel 1996 dal Tesoro per 850 milioni, ha fruttato ai privati nei vari passaggi di mano almeno 12 miliardi. E sta ora scivolando in un penoso concordato dopo aver subito una colossale distruzione di valore, dai 23 miliardi dell'epoca d'oro a 17 milioni. Su quel cadavere già spolpato a dovere volteggiano consulenti, professionisti, banche d'affari. Perché quando succede una cosa del genere state sicuri che lì intorno si muovono un sacco di soldi. Ha fatto scalpore la cifra impegnata nei primi due anni per la liquidazione Parmalat affidata a Enrico Bondi, pari a 32 milioni. Ma altrettanti ne avrebbe distribuiti in consulenze il liquidatore dell'Alitalia Augusto Fantozzi che, dopo aver ricevuto 6 milioni di compensi, ne avrebbe pretesi altri 3 successivamente alle dimissioni causate dalla decisione del precedente governo di sostituire il commissario unico con una terna. Tre commissari, tre compensi: mentre gli italiani già tiravano la cinghia. Va detto che sarebbe ingiusto non considerare anche i risultati ottenuti, per esempio il salvataggio della Parmalat (poi finita ai francesi). Ma se in Italia le procedure di liquidazione durano decenni un motivo c'è, ed è legato ai soldi. In ogni caso l'ordine di grandezza di alcuni compensi ha oltrepassato di gran lunga la soglia moralmente accettabile. E le astronomiche parcelle delle banche d'affari? Per i derivati del Comune di Milano, oggetto di un processo concluso in primo grado con la condanna di quattro istituti, l'accusa stimava 80-90 milioni. Gli advisor finanziari incaricati di seguire la ristrutturazione del debito Seat, ha scritto il Sole 24Ore, hanno portato a casa ben 40 milioni: e non è servito a evitare il concordato. Mentre 20 milioni di commissione avrebbe incassato per l'ormai famoso «Fresh» del Monte dei Paschi, finito nel mirino della magistratura, l'americana JPMorgan. La medesima banca che, dopo aver gestito quel singolare prestito obbligazionario, all'inizio di gennaio abbassava il rating dell'istituto senese. Strabiliante. Duecento milioni sono invece i balzelli pagati a banche e studi legali per l'acquisizione di Fonsai da parte di Unipol. Per non parlare del pregresso. Dal 2005 al 2011 la famiglia di Salvatore Ligresti ha guadagnato 407 milioni grazie a operazioni concluse dalla Fonsai «con parti correlate», come l'acquisto di immobili della stessa famiglia. Di più. La società che negli ultimi due anni perdeva 2,7 milioni al giorno versava 42 milioni per «consulenze» al suo azionista di riferimento e 11 milioni di buonuscita all'amministratore delegato. Alla faccia dei risparmiatori che avevano comprato le azioni in Borsa. C'è da domandarsi che cosa sia successo a questo Paese, per essere diventato terreno di tali scorribande. E se pure questo non abbia a che fare con il degrado morale della politica e della vita civile. Di una cosa però siamo sicuri: senza un recupero di etica anche da parte di un altro pezzo della nostra classe dirigente, dalla grande finanza alle potenti corporazioni, ai professionisti e agli imprenditori, sarà molto difficile risollevarsi. Sergio Rizzo 7 febbraio 2013 | 7:54© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_07/distruzioni-valore_c7ad72ce-70ef-11e2-9be5-7db8936d7164.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Latitanti sono le regole Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2013, 09:11:57 pm Il caso finmeccanica
Latitanti sono le regole Dopo l'arresto di Giuseppe Orsi la sospensione dei pagamenti alla Finmeccanica da parte dell'India era scontata. Non finirà lì, temiamo. Si parla di un'azienda pubblica nel cui capitale sono presenti molti investitori privati, che opera in un settore strategico e ha una fortissima proiezione internazionale, con rapporti anche governativi. È impossibile prevedere quali ripercussioni avrà questa vicenda in quei contesti. Ma nell'opera di ricostruzione dell'immagine aziendale i nuovi vertici dovranno impegnarsi a fondo. La Finmeccanica ha 70 mila dipendenti, rappresenta il cuore tecnologico dell'industria italiana ed è espressione di quel poco che ancora ci resta della grande impresa manifatturiera. Le implicazioni rischiano dunque di rivelarsi ben più pesanti di una giornata di passione in Borsa. Anche perché, in concomitanza di una campagna elettorale che getta un'ombra di incertezza sulla stabilità di qualunque futuro governo inquietando i mercati, quella della Finmeccanica non è l'unica ferita a grondare sangue. Paolo Scaroni, amministratore delegato dell'Eni, altra grande impresa pubblica il cui ruolo viene spesso paragonato a quello di un vero e proprio ministero degli Esteri «parallelo», è indagato per una faccenda di presunte tangenti algerine. Mentre l'ex presidente della terza banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena, è sotto inchiesta per aver nascosto agli organi di vigilanza alcune operazioni che hanno causato gravi perdite: con l'aggravante, per Giuseppe Mussari, di essere stato per tre anni il capo dei banchieri italiani, incaricato di trattare in nome e per conto di tutti loro gli accordi di Basilea. Lo scandalo senese, poco ma sicuro, non migliorerà i rapporti internazionali delle nostre banche. In questa tempesta perfetta non mancano pesanti responsabilità. Così premurosa quando si tratta di spartire poltrone nelle aziende pubbliche e in certe banche, la nostra politica non mostra mai identica reattività quando sarebbe necessario. Nel caso del Monte dei Paschi, ha tollerato il permanere di un rapporto perverso fra banca e partiti locali. Per non parlare della colpevole inerzia del governo di fronte al dilagare del tumore dei derivati. Nel caso della Finmeccanica, invece, ha chiaramente sottovalutato il rischio. Si poteva intervenire prima? Probabilmente si doveva. Difficilmente, in Paesi come la Germania o il Regno Unito, l'azionista pubblico sarebbe rimasto completamente indifferente davanti a un'accusa di corruzione internazionale formulata dalla magistratura già molti mesi fa. Non fosse altro, per tutelare entrambi: l'azienda e l'accusato. In Italia, invece, no. Anziché intervenire per tempo, qui si preferisce fare esercizi di dietrologia. Sempre dopo. C'è chi si chiede se lo scandalo del Monte non sia scoppiato ad arte proprio ora per mettere in difficoltà il Pd, e chi sospetta che l'arresto di Orsi nasconda un siluro alla Lega Nord, partito certo non ostile a quel manager, il cui leader Roberto Maroni punta a governare la Lombardia. Altri non escludono che pure l'inchiesta sull'Eni faccia parte di un'offensiva dei magistrati in piena campagna elettorale... L'unico fatto sicuro è che quando in certi casi la politica non agisce tempestivamente lo spazio vuoto viene occupato dalla magistratura. Lo sappiamo da almeno vent'anni. Peccato che la lezione non sia servita a niente. Sergio Rizzo 14 febbraio 2013 | 10:49© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_14/Orsi-finmeccanica-latitanti-regole-Rizzo_1f3e7c1c-766e-11e2-bad5-bab3677cbfcd.shtml Titolo: Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. - DEMOCRAZIA E COSTI DELLA POLITICA Inserito da: Admin - Marzo 02, 2013, 03:25:53 pm DEMOCRAZIA E COSTI DELLA POLITICA
Un taglio serio (ora o mai più) Ma come è venuto in mente a quelli della Conferenza delle Regioni di rimuovere dal sito la tabella con gli stipendi e le diarie dei governatori e dei consiglieri? Diranno: ora ci sono link delle leggi locali. Cliccate a caso: uno scroscio di commi, codicilli, subordinate... Non è trasparenza: è una presa in giro dei cittadini. Prima potevano confrontare vicepresidente e vicepresidente, assessore e assessore... Ora no. Davano fastidio le tabelle insolitamente chiare? Le hanno tolte per toglier acqua ai pesci dell'«antipolitica»? È sbalorditivo che dei «professionisti» (presunti) non capiscano i danni che fanno alla politica con errori così madornali. Di questi tempi, poi... Tutti lì a chiedersi sgomenti: e ora, cosa fare? Cambiate, è la risposta. Il risultato delle urne, oltre a un mucchio di problemi, offre a un sistema in crisi l'occasione di sterzare prima dell'abisso. Facendo finalmente cose indispensabili non per tirar su una diga contro l'ondata grilliana ma per recuperare un rapporto decente coi cittadini. Proprio il trionfo di Grillo, senza manifesti, spot o camion-sandwich, smonta la tesi abusata che «i costi della politica» (esagerazioni e privilegi compresi) siano «i costi della democrazia». Non è così. Mentre il Pil precipitava sotto ai livelli del 2001, i costi del Palazzo hanno continuato a salire: del 65% in un decennio le spese correnti del Senato, del 43% il costo del consiglio regionale del Lazio solo dal 2007 in qua. Mentre imponevano agli italiani tagli drastici e immediati, «loro» contenevano o rimandavano i propri. Tanto che i consiglieri uscenti stanno facendo le pratiche per vitalizi regionali che qua e là si possono avere ancora a 50 anni. Proprio l'obbligo di recuperare la fiducia dei cittadini nella politica impone misure urgentissime anti Casta. Intorno cui cercare intese. Certo, alcune richiedono modifiche costituzionali. Ma se c'è la volontà, si è visto sull'obbligo del pareggio di bilancio, si fanno in fretta. Per rivendicare la propria centralità il Parlamento deve cambiare se stesso. Siamo gli unici al mondo a imporre a un governo di guadagnarsi due fiducie in due Camere. Non ce lo possiamo più permettere. I parlamentari devono far chiarezza sugli stipendi loro e dei collaboratori. Fanno un lavoro importante, hanno diritto a buste paga decorose. Ma basta con le ambiguità sui collaboratori. E basta con l'andazzo dei due mestieri insieme, magari usando il ruolo parlamentare a favore dei clienti privati. Nei Paesi seri chi fa il deputato fa quello e basta. Così magari s'attacca meno alla poltrona. Vale per Roma, vale per le Regioni. Ancora: va spezzato quel rapporto anomalo costruito da una classe politica mediocre con la burocrazia. Più gli eletti sono scadenti, più devono affidarsi a burocrati (spesso strapagati) che diventano gli unici in grado di fare e poi interpretare gli atti. E dunque hanno interesse a rallentare ogni svolta vera che li renda meno indispensabili. Ma il punto di partenza, insieme con atti di rottura quali l'abolizione delle Province visto che tranne la Lega si dicono tutti d'accordo, deve essere la trasparenza. Tutto online. Senza furbizie. Dai bilanci (leggibili però...) degli organi costituzionali a quelli delle municipalizzate, dai finanziamenti ai partiti fino ai patrimoni di ministri e parlamentari: gli italiani devono poter sapere come sono spesi i loro soldi e da chi. Non sarà semplice? Non lo sarà neanche per i cittadini recuperare la fiducia perduta. Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella 2 marzo 2013 | 8:42© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_02/un-taglio-serio_1c5507b6-82fb-11e2-839d-17a05d1096bb.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Regione Lazio, quei 18.660 euro investiti in penne Montblanc Inserito da: Admin - Marzo 04, 2013, 07:14:55 pm Il dossier
Regione Lazio, quei 18.660 euro investiti in penne Montblanc Le spese di rappresentanza di Mari Abruzzese. Il taglio (insufficiente) dei rimborsi elettorali e le Regioni «buco nero» Diciottomilaseicentosessanta euro: una goccia nel mare magno della spesa pubblica. Per dare un'idea, la somma equivale a sei mesi di stipendio di un impiegato statale. Ma perché il presidente di un Consiglio regionale li debba spendere per acquistare 67 penne Montblanc da 278 euro ciascuna, non lo capiremo mai. Così come per i 100 (cento) cesti natalizi costati 21.408 euro. Oppure i 76.791 euro impegnati per un non meglio precisato numero di «agende da tavolo». O ancora i 10.560 investiti in biglietti di auguri: diecimilacinquecentosessanta euro! Il palazzo della Regione LazioIl palazzo della Regione Lazio Si chiamano «spese di rappresentanza del presidente del Consiglio regionale» della Regione Lazio. Il suo nome: Mario Abbruzzese. Nel 2011, anno di fallimenti a catena, disoccupazione galoppante, taglio delle pensioni, aumento delle tasse, gli impegni per questa voce hanno toccato, tenetevi forte, un milione 987.092 euro. Venticinque volte il budget concesso al presidente della Repubblica federale tedesca, Paese nel quale il Prodotto interno lordo saliva intanto del 3 per cento: una crescita che qui ci sogniamo da 12 anni. Questo confronto dice tutto. Non soltanto rende chiaro perché noi, oggi, non siamo la Germania. Spiega l'indignazione popolare che ha catapultato in parlamento le «orde» grilline. Spiega la sordità di certa classe politica alle urla disperate di un Paese dove i giovani non trovano lavoro e gli anziani lo perdono, i consumi calano e le imprese chiudono. Spiega perché oggi quella decisione presa appena sette mesi fa sull'onda degli scandali dei fondi della Margherita e della Lega Nord, cioè il dimezzamento dei rimborsi elettorali, non basta più. Nel Palazzo si è lavorato sperando di rinviare l'inevitabile resa dei conti per troppi anni. Anche durante l'ultimo, di lacrime e sangue. Ricordate com'è finita con l'abolizione delle Province? Sono ancora tutte lì. La riduzione del numero dei parlamentari, qualcuno l'ha vista? E la nuova legge elettorale, qualcuno ha visto anche quella? Troppi soldi pubblici, troppo arbitrio nel loro uso, troppa poca trasparenza. Lo denunciavano inascoltati già nel 2006, dovrebbe rammentare chi oggi tira in ballo l'antipolitica e il populismo, non i seguaci di Beppe Grillo, ma due parlamentari della sinistra: Cesare Salvi e Massimo Villone, autori de «Il costo della democrazia». Tutto questo ha scavato un solco profondo fra la società e i partiti, che il taglio tardivo dei rimborsi elettorali e l'introduzione, probabilmente altrettanto tardiva, di controlli più stringenti, difficilmente riuscirà a colmare. Anche perché tanti quattrini hanno contribuito al rigonfiamento di apparati che invece avrebbero dovuto dimagrire, mentre la crescita esponenziale delle disponibilità finanziarie ha generato un'esplosione delle spese tale da alimentare un indotto perverso che ormai vive sulla politica. Un esempio? Basta scorrere le notizie sfornate ogni minuto dai giornali su scandali e scaldaletti disseminati in tutte le Regioni italiane, dove si parla di aperitivi «rinforzati» da 1.500 euro e cene a base di sushi da 800 euro per avere una sia pur pallida idea del giro d'affari dei ristoranti. Si può stimare che in anni d'oro come il 2008, quando diventò operativa una leggina poi fortunatamente abolita con la quale si sono garantiti i contributi anche nel caso di scioglimento anticipato delle Camere, il finanziamento pubblico «reale» dei partiti si aggirasse intorno ai 500 milioni l'anno. Mezzo miliardo, fra rimborsi elettorali (quell'anno 292 milioni), contributi ai gruppi parlamentari (che il referendum del 1993 aveva abolito ma che poi sono inspiegabilmente sopravvissuti), fondi ai gruppi politici regionali e locali, soldi ai giornali di partito, sgravi fiscali, sconti postali... Senza che nemmeno sia stato raggiunto l'obiettivo per cui il finanziamento pubblico dei partiti fu introdotto: la fine della corruzione. La legge del 1974 fu la risposta allo scandalo dei petroli che coinvolse i partiti allora al governo. In Parlamento tutti, tranne i liberali, concordarono: «finirà il malaffare». Diciotto anni più tardi scoppiava Tangentopoli, e ventuno anni dopo l'arresto di Mario Chiesa, quando il conto dei finanziamenti pubblici incassati in 39 anni considerando anche i contributi alla stampa veleggiava ormai verso i sette miliardi di euro, la Corte dei conti ha ricordato che la corruzione italiana rappresenta il 50 per cento di tutta quella europea. Lo squarcio aperto dalle vicende degli ultimi mesi sta poi a dimostrare quanto sia diffusa l'idea di considerare il «denaro di tutti come se fosse il denaro di nessuno», per usare l'immagine folgorante di Tommaso Padoa-Schioppa. Con un'indifferenza che lascia sbigottiti. Grazie ai soldi destinati al partito un consigliere regionale sardo ha montato i sensori acustici per la retromarcia sull'auto del figlio. Un suo collega lombardo ha invece acquistato cartucce da caccia. E un consigliere del Friuli-Venezia Giulia, entrato anch'egli in armeria, ha comprato una pistola. Per saperlo c'è voluta la Guardia di Finanza. E passi. Ma il fatto è che pure per venire a conoscenza di quelle spese di rappresentanza delle quali parlavamo all'inizio è stato necessario l'intervento della Corte dei conti. Nel bilancio ufficiale del Consiglio regionale del Lazio non troverete traccia delle penne Montblanc né dei cesti natalizi. È tutto accorpato in macrovoci. Per quale motivo? Forse perché certe spese sarebbero controllabili, rendendo inevitabili certe domande? Nella lista acquisita dai giudici contabili incaricati di indagare sulle spese del Consiglio sciolto dopo lo scandalo dei 13,9 milioni di fondi ai gruppi politici regionali usati anche per acquistare auto di lusso e pagare conti astronomici in ristoranti di lusso, c'è per esempio una sfilza di contributi ad enti e associazioni locali. Cose del tipo «I love Alatri», «Dorado fishing club», «Tarquinia allegra», «Passione cavallo», «Comitato sagra della bistecca»... Pochi soldi: mille, duemila euro. Sparsi però come una pioggerellina fitta e uniforme su vari collegi elettorali. E poi servizi fotografici, spese per il «buffet del presidente», l'acquisto di «30 piattini» al modico prezzo di 60 euro cadauno... Nonché un investimento librario di 23 mila euro nella stampa di «Cassino e i suoi monumenti»: città natale di Abbruzzese. Al quale, per inciso, la scabrosa vicenda dei finanziamenti ai gruppi consiliari distribuiti dall'ufficio da lui presieduto non ha affatto politicamente nuociuto. Nel tracollo del centrodestra è stato rieletto con 15.469 preferenze. Il popolo è sovrano... Sergio Rizzo 4 marzo 2013 | 8:50© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/13_marzo_4/rizzo-taglio-insufficiente-rimborsi-elettorali-2127542972.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Taglio ai costi delle Camere, si gioca tutto sui dipendenti Inserito da: Admin - Aprile 02, 2013, 12:17:42 pm Lo stipendio medio è di circa 150 mila euro, 5 volte la paga di un impiegato
Taglio ai costi delle Camere, si gioca tutto sui dipendenti Sindacati già preoccupati dopo il «richiamo» della Boldrini. L'ufficio di presidenza discute del taglio di indennità ROMA - Inutile illudersi: la bacchetta magica non esiste. Intendiamoci, non che siano mancate le buone intenzioni. A parole. Perché per i contribuenti il costo del Parlamento, in 65 anni, non è mai calato. Nel 2013, per la prima volta nella storia, la Camera ha chiesto meno soldi al Tesoro: da 992,8 a 943,6 milioni. Finalmente, direte. Ma si tratta di una cifra pur sempre superiore, e di molto, al costo degli altri Parlamenti europei. Le uscite correnti di Montecitorio depurate della spesa pensionistica (altrove pagano gli enti di previdenza) sono state pari nel 2010 a 752 milioni, contro 576 del tedesco Bundestag, 498 della britannica House of Commons e 473 della francese Assemblée Nationale. Numeri che stonano di brutto con l'affermazione contenuta nel documento dell'ufficio di presidenza della Camera del 30 gennaio 2012: «I costi complessivi di un deputato italiano risultano in linea con quelli sostenuti per i parlamentari nei principali Paesi europei e nel Parlamento europeo, anzi sono nella maggior parte inferiori». Da allora è passato un anno, ma sembra un secolo. Mentre annunciava fra le ironie grilline l'autoriduzione dell'indennità di carica del 30%, la presidente della Camera Laura Boldrini ha detto che anche l'amministrazione dovrà tirare la cinghia. «Con l'accordo dei sindacati», ha precisato. Non riuscendo a evitare il panico a Montecitorio, dove le 9 (nove) sigle sindacali sono già sul piede di guerra. Perché è chiaro che se davvero si vogliono ridurre le spese del Parlamento è lì che inevitabilmente si arriva. Le retribuzioni del personale peseranno nel 2013 sul bilancio della Camera, dicono le previsioni, per 231,1 milioni: il che, diviso per le attuali 1.541 buste paga significa uno stipendio medio di 150 mila euro. Parliamo di una somma pari a circa 5 volte la paga media di un dipendente pubblico e quasi il quadruplo rispetto allo stipendio di un dipendente del parlamento inglese, che si aggira sui 40 mila euro annui. Ma affrontare questo capitolo sarà una rogna non da poco per Laura Boldrini, e soprattutto per i tre nuovi questori. Si tratta dell'ex magistrato antimafia Stefano Dambruoso, eletto con i montiani, del democratico Paolo Fontanelli, ex sindaco di Pisa, e di Gregorio Fontana, uno dei fondatori di Forza Italia. Esperto soprattutto l'ultimo dei tre, unico rieletto. Proprio l'esperienza tuttavia insegna che ogniqualvolta hanno tentato di frenare le retribuzioni del personale, sono stati respinti con perdite. Tanto alla Camera, che al massimo ha limitato qualche automatismo (ma non l'aumento del 3% scattato un paio d'anni fa) quanto al Senato. Dove nel 2008 un tentativo di rallentare la progressione degli stipendi fu in seguito annullato dalla commissione che ha il compito di regolare le controversie con il personale. L'autore, il questore Ds Gianni Nieddu, rimase senza seggio. Della serie: chi tocca i fili muore? Causa blocco del turnover i dipendenti di Montecitorio sono oggi 400 in meno rispetto al 2003, ma la spesa complessiva non è affatto calata. Come si spiega? Intanto con l'aumento degli stipendi. Poi con l'incremento del numero dei pensionati. E siccome le pensioni dei dipendenti le paga il Parlamento, il risultato non cambia. Nel 2012 la Camera ha speso 238,5 milioni per gli stipendi e 216 per le pensioni: nel 2014 pagherà 232 milioni di stipendi e 226,9 di pensioni. Per una spesa che invece di calare dovrebbe salire da 454,5 a 458,9 milioni. Qualcuno pensa che sia momento di abolire quantomeno la quindicesima mensilità. Ma la cosa è stata liquidata come una battuta di cattivo gusto. Ecco spiegata la partenza soft . Oggi l'ufficio di presidenza è convocato per discutere il taglio delle indennità aggiuntive e dei contributi ai gruppi parlamentari. Parliamo di una posta di bilancio, quest'ultima, di 35,1 milioni, per cui il preventivo della Camera approvato a settembre scorso prevede nel 2014 una riduzione comica di 100 mila euro. Il tutto con il fucile spianato del vicepresidente (del M5S) Luigi Di Maio, che vuole discutere il piano grillino per ridurre le spese di 42 milioni. Ci sarà da divertirsi. Di sicuro i tagli non risparmieranno alcuni privilegi inconcepibili: per esempio gli appartamenti di servizio. Che toccavano anche ai questori. Circostanza surreale, quella per cui i deputati incaricati di gestire con oculatezza i soldi di tutti risultavano fra i più privilegiati dell'intero parlamento. Ora tutti, a partire da Laura Boldrini, vi hanno rinunciato, senza che però sia stato ancora decisa la destinazione di quegli alloggi. Questione alquanto problematica. E c'è già chi sostiene che la rinuncia all'appartamento potrebbe far aumentare le spese, invece di abbatterle. Storie già sentite... Sergio Rizzo 2 aprile 2013 | 7:31© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/13_aprile_02/taglio-costi--delle-camere-rizzo_1388316e-9b54-11e2-9ea8-0b4b19a52920.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Abbruzzese, dallo scandalo fondi al voto sul Quirinale: ... Inserito da: Admin - Aprile 10, 2013, 06:37:51 pm Il commento| la scelta di Mario Abbruzzese come grande elettore nel Lazio
Abbruzzese, dallo scandalo fondi al voto sul Quirinale: Fiorito già dimenticato? Inimmaginabile che l'ex presidente di quel consiglio regionale dimissionario partecipi all'elezione Presidente di SERGIO RIZZO ROMA - Dopo lo scandalo dei contributi ai gruppi politici del consiglio del Lazio, che ha provocato la caduta della giunta Polverini e la fine anticipata della legislatura regionale, avevamo auspicato che nessuno dei protagonisti, né dei comprimari di quella poco onorevole pagina, venisse ricandidato. Così non è stato. Ma che addirittura l'ex presidente di quel consiglio regionale dimissionario, ovvero il capo dell'ufficio di presidenza nel quale si decideva la ripartizione fra i gruppi di quelle somme all'origine dello scandalo, fosse nominato fra i tre grandi elettori della Regione incaricati di partecipare all'elezione del presidente della Repubblica, rasenta l'inimmaginabile. Immaginiamo la replica: Mario Abbruzzese non è accusato di alcun reato in relazione a quella vicenda, della quale devono invece rispondere l'ex capogruppo del suo partito, Franco Fiorito, nonché l'ex capogruppo dell'Italia dei Valori, Vincenzo Maruccio. Dunque non c'è alcun ostacolo a che, dopo essere stato rieletto, rappresenti la Regione Lazio nella scelta del successore di Giorgio Napolitano. Quelli del Pdl l'hanno votato in massa. Vero: Abbruzzese non è parte in causa in quel giudizio. Ma è sul secondo punto che non si può in alcun modo essere d'accordo. Perché un conto è la responsabilità penale, un altro quella politica. Ed è difficile credere che il presidente di un consiglio regionale travolto da una storia come quella possa sfuggire a questo genere di responsabilità. Potremmo citare innumerevoli casi nei quali chi era a capo di un'istituzione, di fronte a uno scandalo nel quale non aveva colpe dirette, ne ha tratto comunque le conseguenze politiche. Caso di scuola, le dimissioni del portavoce della House of Commons, Michael Martin, quando il prestigio della Camera bassa del Parlamento britannico venne stato messo in serio pericolo dall'episodio delle note spese gonfiate. L'Italia non è la Gran Bretagna, si sa. Infatti Abbruzzese all'epoca dei fatti non si dimise e poi si è anche ricandidato. Questo è un Paese nel quale per stabilire che una persona condannata, ma soltanto in via definitiva, per un reato grave come la corruzione, e comunque a una pena non inferiore a due anni, non può essere candidato in Parlamento, si è dovuta fare una legge. Una legge! Approvata per giunta con il mal di pancia di mezzo Parlamento. Una legge per stabilire un principio che dovrebbe essere nel dna di tutti i partiti e che comunque spiana la strada della rappresentanza parlamentare ai condannati per reati gravi ma a pene considerate «leggere». All'estero non ci credono... Impossibile dunque stupirsi se qui non esista sanzione politica, e se quando essa è prevista si tentino tutte le strade possibili per aggirarla. Ma non può certo essere una giustificazione. Non può esserlo in questo caso. Non può esserlo soprattutto nel momento in cui i cittadini chiedono a gran voce cambiamento e recupero di moralità. Quanto accaduto ieri dimostra che purtroppo parlano ai sordi. 10 aprile 2013 | 9:19 da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/13_aprile_10/abbruzzese-grande-elettore-212572541180.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Politici , il nuovo che non avanza Inserito da: Admin - Maggio 07, 2013, 11:08:39 pm NUOVE CARICHE DOPO LA BOCCIATURA
Politici , il nuovo che non avanza I ripescati dopo il flop elettorale Dalla Regione Lombardia al governo Letta, il vizio bipartisan di restare sempre in carica ROMA – Il nuovo che avanza, in Lombardia, ha il volto di Romano Colozzi da Cesena. Sessantatrè anni, è in politica da trentotto. Ha cominciato con la Dc nel consiglio comunale della sua città natale, 1975. Nel 1990 è sbarcato nel consiglio regionale dell’Emilia Romagna, per diventare sei anni dopo consulente di Roberto Formigoni. Da allora è stato la sua ombra più cara, quella che aveva in tasca le chiavi della cassaforte regionale. Assessore al bilancio e alle finanze per due mandati, Colozzi non ha mancato di collezionare anche incarichi nazionali: dall’Unione incremento Razze equine all’Agenzia del farmaco, al cda della Cassa depositi e prestiti. Una volta tramontato il regno di Formigoni poteva forse restare senza uno strapuntino? Eccolo dunque segretario generale del consiglio regionale. E pazienza se non conta come un assessorato: sempre un posto è. RIPESCATI - Anche Andrea Gibelli, in Lombardia, è il nuovo che avanza. Leghista a quattro ruote motrici, è stato deputato per una decina d’anni, durante i quali ha beccato un paio di cartellini rossi. L’ultimo nel 2007, quando era capogruppo del Carroccio durante una clamorosa protesta in aula contro l’indulto culminata nell’ostensione di un cartello con su scritto: «Governo fuori dalle balle». Governo Prodi, naturalmente. Dopo la Camera, l’approdo nel consiglio regionale e l’ingresso nella giunta, nientemeno che come vice di Formigoni. Alle elezioni politiche di febbraio ha tentato di tornare a Montecitorio ma è stato trombato. Non restava, a quel punto, che sperare in un ripescaggio. Puntualmente arrivato: il successore di Formigoni, Roberto Maroni, suo compagno di partito, l’ha nominato segretario generale della giunta. UN «VIZIO» BIPARTISAN - Ma dopo le elezioni ripescare è lo sport più praticato in tutti gli schieramenti. Prendete Alessio D’Amato, già consigliere regionale della sinistra per due legislature fino al 2010: il governatore Nicola Zingaretti l’ha messo a capo della cabina di regia per la sanità. Antonio Rosati è invece il nuovo commissario dell’Arsial, l’agenzia di sviluppo dell’agricoltura della Regione. Nella giunta provinciale di Roma guidata da Zingaretti era assessore: al Bilancio. C’è poi chi dalla Regione Lazio, seguendo il modello lombardo, non si è mai mosso. Per esempio Roberto Buonasorte, ex componente del consiglio azzerato dallo scandalo di Batman & co di cui presiedeva la commissione urbanistica. Esperto del ramo, in quanto titolare di una piccola impresa di costruzioni. Il suo partito, la Destra, l’aveva candidato al Senato: ma nonostante il cognome ben augurale è stato trombato. Ora farà il capo della segreteria dell’ex governatore Francesco Storace. Meglio che a spasso: paga sempre la Regione. NEL GOVERNO - Sorte decisamente migliore ha avuto Sabrina De Camillis. E dire che per lei s’era messa proprio male. Candidata alla Camera in Molise per il Pdl, non ce l’ha fatta per uno strano scherzo del destino: il seggio che doveva occupare è andato a un eletto dell’Umbria. Non ha abbozzato, scatenando una tempesta di ricorsi. Prima di essere recuperata, a sorpresa, addirittura nel governo di Enrico Letta. Sottosegretaria alla presidenza del Consiglio delegata ai Rapporti con il parlamento, nientemeno. Difficile che possa recriminare. FEDELI E FEDELISSIME - L’ex senatore pidiellino Giampaolo Bettamio ha invece tutte le ragioni per lamentarsi. Dopo che Franco Carraro gli aveva soffiato il seggio, poteva almeno aspirare a essere riciclato in Senato come direttore «esterno»del gruppo del Pdl. Ma è andata male. Il nuovo capogruppo Renato Schifani ha preferito puntare sulla continuità garantita dalle sue fedelissime. Come Daniela Lucentini, preziosa contabile di fiducia, sotto la sua precedente presidenza, prima del gruppo di Forza Italia quindi del Pdl. E Annamaria Palma, sua ex capo di gabinetto da presidente del Senato, incidentalmente consorte dell’ex sottosegretario alla Salute Adelfio Elio Cardinale. E la fidatissima segretaria personale Letizia Cicinelli, incidentalmente compagna dell’ex sottosegretario, ex dirigente di palazzo Madama ed ex senatore, nonché attuale presidente della Consob Giuseppe Vegas. E l’ascoltatissima consulente per la comunicazione culturale Tiziana Ferrari, cittadina svizzera. E l’esperta delle relazioni esterne Alessandra Necci, scrittrice e figlia dell’ex capo delle Ferrovie Lorenzo Necci. Alla sua vice Simona Vicari, invece, dovrà probabilmente rinunciare: è entrata anche lei nella squadra di governo, come sottosegretario allo Sviluppo, ministero competente per l’energia. Al Senato la senatrice del Pdl era stata collocata dal presidente Schifani alla guida del comitato per il risparmio energetico. Sergio Rizzo 6 maggio 2013 (modifica il 7 maggio 2013)© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_maggio_06/elezioni-regioni-politici-ripescati_fd245aea-b66c-11e2-9456-8f00d48981dc.shtml Titolo: SERGIO RIZZO La maxifattura per il ponte che non ci sarà mai Inserito da: Admin - Maggio 27, 2013, 04:37:11 pm La storia
Il consorzio di costruttori Eurolink ha già chiesto risarcimenti per 700 milioni La maxifattura per il ponte che non ci sarà mai Con i contenziosi internazionali costi di almeno un miliardo per l'opera sullo Stretto di Messina ROMA - Correva l'anno 1980: l'Italia era sconvolta dalle stragi di Ustica e di Bologna e New York dall'assassinio di John Lennon, mentre a Danzica nasceva Solidarnosc e Ronald Reagan entrava alla Casa Bianca. La Sir di Nino Rovelli, detto il Clark Gable della Brianza, finiva in liquidazione e la società Stretto di Messina non era neppure in fasce. Trentatré anni dopo anche la concessionaria del ponte subisce la medesima sorte. E la liquidazione della Sir va avanti. Due casi certo non paragonabili. Ma con la durata delle liquidazioni in questo Paese l'unica cosa che non deve temere Vincenzo Fortunato è di doversi cercare un'altra occupazione da qui alla pensione. L'ex capo di gabinetto del ministero dell'Economia è stato nominato liquidatore della Stretto di Messina, società controllata dall'Anas e fino a ieri incaricata di realizzare il ponte sospeso fra Scilla e Cariddi, il 22 aprile: sei giorni prima che il governo di Mario Monti uscisse definitivamente di scena. Consapevole che passerà alla storia. La vicenda del ponte sullo stretto è senza precedenti e, confidiamo, irripetibile. Da qualunque punto di vista la si osservi, tanto da quello dei favorevoli quanto da quello dei contrari, il risultato è lo stesso. Si tratta di una sconcertante dimostrazione di superficialità, incapacità decisionale e dilettantismo politico. Quello che è peggio, con i soldi dei cittadini. Il conto di questa insensata avventura raggiungerà cifre inimmaginabili. Il ponte che non sarà mai fatto potrà costare ai contribuenti anche più di un miliardo di euro. Ai 383 milioni spesi per il progetto e il mantenimento della società Stretto di Messina si deve aggiungere il costo dell'inevitabile contenzioso, che potrebbe avere sviluppi sorprendenti. Il consorzio Eurolink, general contractor dell'opera guidato dalla italiana Impregilo, ha già invocato un risarcimento danni di 700 milioni più gli interessi. E le implicazioni internazionali? Per un Paese nel quale gli investimenti esteri già arrivano con il contagocce, quanto accaduto non è una gran pubblicità. Di certo non la potranno fare i partner esteri del consorzio Eurolink, la spagnola Sacyr e la giapponese Ishikawajima-Harima Heavy Industries. Rimaste letteralmente di sasso, a veder evaporare per una pillola avvelenata messa in una legge dal governo italiano un contratto da alcuni miliardi di euro firmato con il governo italiano. Gli spagnoli hanno espresso il loro disappunto tramite l'ambasciata, non prima di aver presentato un bel ricorso all'Unione Europea. È stata raccontata mille volte la lunga storia del ponte, insieme alle promesse, spesso fatue, di politici di ogni colore che l'hanno accompagnata. Ma con l'ultimo capitolo si è andati ben oltre. Eurolink firma il contratto nel 2006: premier è Silvio Berlusconi, ma siamo alla vigilia del ritorno al governo di Romano Prodi. Che blocca tutto. La Stretto di Messina vede la liquidazione ma il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro si oppone. Dice che si rischia un contenzioso infinito e spedisce alla concessionaria una lettera nella quale indica che il personale dovrà essere ridotto al lumicino. Sette persone in tutto. Nel 2008 ecco ancora il Cavaliere e il successore di Di Pietro, Altero Matteoli, scrive alla società: «Ripartiamo di corsa». Ci sono i soldi e i tecnici si rimettono al lavoro. Il progetto definitivo è pronto a dicembre 2010, senza un giorno di ritardo rispetto alla tabella di marcia. A quel punto, però, succede qualcosa. Le trattative con gli enti locali e i lavori preparatori procedono, è vero. Ma uno strano disinteresse intorno a quell'opera si percepisce anche nel governo del Cavaliere. I segnali sono inequivocabili: si arriva al punto che una trattativa con i cinesi viene lasciata inspiegabilmente cadere. La mazzata arriva a ottobre 2011 con una mozione dei dipietristi che chiede di sopprimere i finanziamenti pubblici. Inspiegabilmente passa con 284 favorevoli e un solo contrario. Oltre allo scontato sì dei leghisti, c'è anche quello del governo per il tramite del sottosegretario Aurelio Misiti, poi sconfessato dal ministro Matteoli. Il quale evidentemente non sa che i suoi parlamentari si sono astenuti in massa, ma qualcuno ha anche votato a favore. Per esempio, il coordinatore del Pdl Denis Verdini, i ministri Mariastella Gelmini e Michela Vittoria Brambilla, nonché uno stuolo di sottosegretari. Arriva il governo di Mario Monti e la faccenda si trascina stancamente, insieme a una nuova valutazione d'impatto ambientale richiesta dal ministero competente che durerà ben 18 mesi, contro i 4 previsti dalla legge obiettivo. Uscirà dai cassetti a marzo 2013, quando i giochi ormai sono fatti. Perché nel frattempo, il 2 novembre 2012, ricorrenza dei morti, spunta un decreto che ridefinisce il percorso di approvazione dell'opera, stabilendo che entro il primo marzo 2013 il general contractor sottoscriva un altro cosiddetto «atto aggiuntivo» impegnandosi con quello a rinunciare agli adeguamenti economici legati all'inflazione fino alla delibera definitiva del Cipe e anche a eventuali risarcimenti nel caso in cui l'opera venga cassata. Con lo Stato pronto a riconoscere, in caso di mancata firma, soltanto i costi progettuali maggiorati del 10 per cento. Il 12 novembre Eurolink contesta per iscritto la legittimità del decreto, comunicando di voler recedere dal contratto. E partono le carte bollate. La vera domanda da porsi dopo tutto questo? Se, indipendentemente dal tempo e dai soldi necessari, il nostro Paese sia ancora in grado di realizzare opere pubbliche tanto impegnative. Quesito ben più importante di quello che per decenni ha diviso l'Italia. Cioè se quel ponte si debba fare oppure no. Sergio Rizzo 26 maggio 2013 | 9:49© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/cronache/13_maggio_26/maxifattura-per-ponte-stretto-messina-rizzo_210f3972-c5cf-11e2-91df-63d1aefa93a2.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Immobili, debiti e liti per i soldi Inserito da: Admin - Giugno 03, 2013, 04:45:12 pm Approfondimenti I conti delle forze in Parlamento (e di quelle scomparse)
Immobili, debiti e liti per i soldi I «pesanti» bilanci della politica Tra cifre astronomiche, fideuissioni personali e indebitamenti Gli enormi patrimoni dei partiti «scomparsi» ROMA - L'aveva scritto, il commissario di Forza Italia Sandro Bondi, che sarebbe stato il disastro. Messo bene in chiaro, nell'ultimo bilancio. Il taglio dei contributi elettorali avrebbe avuto effetti pesantissimi sui conti di quel partito ormai defunto, che già non erano brillantissimi, anche per via dei 55 milioni di debiti bancari in bilancio a fine 2011: con la certezza di vederli crescere ancora, a causa della rinuncia all'ultima tranche dei rimborsi elettorali imposta con la legge del luglio dello scorso anno. Un passaggio che il tesoriere del Popolo della Libertà Rocco Crimi non aveva esitato a definire «traumatico», confessando che quei soldi il suo partito li aveva già spesi, dopo aver ceduto alle banche crediti verso lo Stato per almeno 20 milioni che però non avrebbe più potuto riscuotere. Soprattutto considerando i costi delle campagne elettorali, che nel 2011, anche se ridotti di 11 milioni rispetto al 2010, non erano comunque scesi sotto i 14 milioni e mezzo. E le spese per mantenere 92 sedi: 4 milioni 340 mila euro soltanto per quelle di via dell'Umiltà e di palazzo Grazioli, a Roma, dov'è la residenza privata di Silvio Berlusconi. Nonché 117 coordinatori e 84 dipendenti, dei quali 34 assunti a tempo indeterminato, in un solo colpo, da Forza Italia. Un conto astronomico, che i 32 milioni l'anno di «rimborsi» elettorali coprivano per neppure due terzi. Né la precaria situazione finanziaria impietosiva gli eletti del partito. Tenuti a dare ciascuno un contributo, il 34 per cento dei parlamentari risultava in ritardo con i pagamenti, il 21 per cento non aveva mai, ma proprio mai, messo mano al portafoglio. Totale degli arretrati, compresi i consiglieri regionali: 4 milioni 646 mila euro. Bondi e Crimi non potevano sapere che Silvio Berlusconi avrebbe ben presto affiancato Beppe Grillo nell'invocare l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Proprio lui, il capo del movimento politico che fra tutti, dall'inizio del secolo, aveva ingoiato la maggiore quantità di denaro pubblico. Senza riuscire a saziarsi. Così da dover colmare il fabbisogno di Forza Italia con i debiti, garantiti da una fideiussione personale del Cavaliere per ben 174 milioni. Ma non tutti hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Anche perché di denari statali ne arrivavano in tale quantità da non riuscire nemmeno a spenderli tutti. Dal 1974 a oggi il finanziamento pubblico ha fatto piovere nelle casse dei partiti, sotto varie forme, non meno di 10 miliardi di euro attuali. Tanti soldi non potevano che drogare il sistema, da destra a sinistra: provocando casi di pericolosa assuefazione con progressivo e inesorabile distacco dalla realtà. La Margherita, partito estinto quattro anni prima, aveva ancora a fine 2011 sei dipendenti e 19,8 milioni liquidi in banca più 371.743 euro investiti in una gestione patrimoniale Ras. Il tutto, dopo che 22 milioni erano già spariti nella vicenda che ha coinvolto l'ex tesoriere Luigi Lusi. Basterebbero questi numeri a spiegare perché nel 2007, quando è venuto alla luce il Partito democratico, i suoi genitori abbiano scelto il regime della separazione dei beni. Ma per chi non fosse ancora convinto del peso determinante che hanno avuto i quattrini nel contratto di matrimonio con clausola di divorzio incorporata fra Ds e Margherita, valga la storia della sede centrale del partito, in via delle Fratte a Roma. L'immobile è di proprietà della Fondazione collegio Nazareno, che l'ha affittato per 652.933 euro l'anno alla Margherita, da cui il Pd lo subaffitta pagando però 1.292.339 euro. I soldi, tanto, sono dei contribuenti. Non basta. Il Pd ha pure dovuto versare al partito morto, che l'ha fondato, una cauzione di 207 mila euro oltre a prestare una fideiussione di 414 mila euro con la Banca popolare di Milano. Per la serie: fidarsi è bene, non fidarsi è pure meglio. I Democratici di sinistra, del resto, hanno ugualmente accettato di buon grado l'idea di non fare cassa comune. Ma gli eredi del Partito comunista possedevano qualcosa in più dei "rimborsi" elettorali: 2.399 immobili, gran parte dei quali sono sedi del Pd ma ci sono pure uffici e locali commerciali, la cui proprietà è stata blindata dal tesoriere del partito Ugo Sposetti in oltre 50 fondazioni costituite dalle federazioni locali. A differenza della Margherita, priva di esposizione bancaria, i Ds avevano poi debiti per 150 milioni, dei quali 101 risalenti alla vecchia gestione del quotidiano l'Unità che il partito aveva deciso di accollarsi. Ma con un paracadute già pronto, rappresentato dalla garanzia dello Stato prontamente introdotta con un'apposita leggina. Che basti questo a giustificare un contratto di matrimonio con clausola di divorzio incorporata, non si può dire. Viene soprattutto da domandarsi se la storia del Pd sarebbe stata la stessa nel caso in cui fosse andata in porto una comunione dei beni che nessuno voleva. È certo però che lo schema si è ripetuto, identico, a destra. Dove c'era, anche lì, un partito con un bel patrimonio: tenuto accuratamente, fra le polemiche e le carte bollate, ben lontano dagli sposi dell'epoca, Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Si tratta degli immobili di Alleanza nazionale, ereditati dal Movimento sociale italiano, frutto il larga misura, al pari delle proprietà dei Ds, di donazioni e lasciti di militanti e simpatizzanti nel corso degli anni. Il famoso appartamento di Montecarlo venduto per 300 mila euro e nel quale si è scoperto che alloggiava il fratello della compagna di Fini, per esempio. Ma anche la prestigiosa sede di Roma, in via della Scrofa. Il partito è finito in liquidazione pieno zeppo di soldi dei rimborsi elettorali. Nel 2010, pur essendo già deceduto da ben tre anni aveva in cassa disponibilità liquide, tenetevi forte, per 74 milioni 644.996 euro. Somma che un anno dopo si era ridotta a 11 milioni 876.217 euro. Nel frattempo il 14 dicembre 2011 tutto il patrimonio di An, costituito dalle tre società immobiliari Nuova Mancini, Italimmobili e Venezia estuario, dagli stabili romani di via Paisiello e via Fratelli Bandiera, più arredi e automezzi vari è finito in una Fondazione. I proprietari? Presidente è l'ex senatore di An Franco Mugnai, e nel comitato esecutivo insieme all'amministratore Donato Lamorte compaiono colonnelli del vecchio partito quali Maurizio Gasparri, Gianni Alemanno, Altero Matteoli e Ignazio La Russa, ora a capo di Fratelli d'Italia. Valore dei beni trasferiti: 61 milioni. Valore di libro, ovviamente. Il che significa che va moltiplicato per svariate volte. Trecento milioni? Quattrocento? Cinquecento? Comunque un'enormità. Blindata. Inevitabile che su questa vicenda volassero gli stracci fra le gerarchie presenti e passate del fu Movimento sociale. Ma se c'è qualcosa su cui i nostri politici riescono a litigare con maggiore impegno rispetto alle ben più importanti questioni di linea politica, sono proprio i denari. Dopo la puntata di Report di Milena Gabanelli che ha raccontato il turbinio di proprietà immobiliari intorno ad Antonio Di Pietro, l'Italia dei Valori ha rischiato di andare in pezzi. Risultato è che in parlamento adesso non c'è nemmeno un dipietrista. E di rimborsi elettorali, che comunque dovrebbero cessare del tutto fra quattro anni, neanche l'ombra. Non resta che tirare la cinghia, dopo anni di vacche grasse che hanno lasciato il segno. Alla fine del 2012 l'Italia dei Valori poteva pur sempre contare su un patrimonio netto di 16,6 milioni: 4,4 milioni in banca e 8 milioni investiti in prodotti finanziari fra cui i 7,3 alla Eurizon capital, società di gestione del risparmio del gruppo Intesa San Paolo. Rendono il 3,56 per cento netto. Di sicuro non come certi investimenti fatti dal precedente tesoriere della Lega Francesco Belsito, che aveva spedito quattrini in Tanzania o a Cipro e acquistava diamanti e lingotti d'oro. Bei tempi, ma irripetibili. Perché adesso è vietato per legge. Ai partiti è concesso investire unicamente in titoli di Stato dei Paesi dell'Unione europea. E i fondi al Carroccio non mancano proprio. Al 31 dicembre 2011 aveva 12,8 milioni in banca e ben 20,3 milioni investiti in titoli, pronti contro termine e certificati di deposito. Per non parlare del patrimonio immobiliare, iscritto a bilancio per 8,3 milioni, e dei sette milioni e mezzo di partecipazioni azionarie. Ma nessuna voce poteva sorprendere più del valore degli automezzi di un partito che contava un anno fa 72 dipendenti: un milione 241.307 euro. Con quei soldi, Beppe Grillo avrebbe finanziato sei campagne elettorali come quella che ha portato il Movimento 5 Stelle oltre il 25 per cento... Sergio Rizzo 2 giugno 2013 | 13:20© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_02/immobili-debiti-e-liti-per-i-soldi-i-pesanti-bilanci-della-politica-sergio-rizzo_ff52bd44-cb3d-11e2-8266-15b8d315b976.shtml Titolo: SERGIO RIZZO . Roma, se il Comune paga 106 milioni d'affitto Inserito da: Admin - Giugno 04, 2013, 11:39:34 pm Il caso - Il patrimonio immobiliare della Capitale nel caos da 20 anni. E senza un'anagrafe
Roma, se il Comune paga 106 milioni d'affitto Il paradosso: è costretto a occupare immobili privati mentre concede case e bar a in centro a prezzi stracciati ROMA - La lettera è di tre righe: «Si comunica che il sito istituzionale del Dipartimento patrimonio è tuttora in via di perfezionamento. Pertanto, i dati completi e/o parziali verranno inseriti dallo scrivente non appena possibile». Stop. Un perfezionamento quanto mai laborioso, considerato che la legge con la quale è stato imposto ai Comuni di pubblicare sui propri siti internet notizie e cifre relative agli immobili presi in affitto da privati, compresi ovviamente l'importo dei canoni pagati, ha ormai più di un anno. Quel provvedimento è stato infatti approvato dal Parlamento il 24 marzo del 2012. Ma per ora il segretario dei radicali romani Riccardo Magi, che da mesi chiedeva all'assessorato al patrimonio del Campidoglio notizie sui contratti di due stabili affittati per le necessità del consiglio comunale dalla società Milano 90 dell'immobiliarista Sergio Scarpellini, deve accontentarsi di quelle tre misere righe vergate diligentemente dallo «scrivente» dipartimento. Con lui, fatto più importante, si devono accontentare anche tutti i cittadini della capitale d'Italia. Nonostante una legge stabilisca che debbano essere informati su come vengono impiegati i loro soldi. Tanti soldi. Nel 2012 il Comune di Roma ha speso per affittare immobili dai privati (e senza considerare gli affitti delle municipalizzate) una cifra stratosferica: 106 milioni e 780 mila euro, dicono le delibere. Che fa 38 euro per ogni abitante. Sappiamo che nel totale sono compresi anche i canoni pagati per far fronte a situazioni di disagio sociale. Ma è una somma comunque sbalorditiva, se confrontata alle dimensioni di un patrimonio cittadino dell'ordine delle trentamila unità immobiliari fra appartamenti, uffici, edifici e locali commerciali. Non lo è, al contrario, ricordando le stime impressionanti di quanto Stato, enti pubblici, Regioni e amministrazioni locali versano complessivamente ogni anno ai privati per gli affitti: una dozzina di miliardi. Senza che neppure esista un quadro unitario e preciso di tutta questa incredibile massa di contratti. Dunque non può meravigliare che la città di Roma non abbia un'anagrafe pubblica del proprio patrimonio immobiliare. Che per complicare un po' le cose è pure gestito da tre soggetti diversi: un dipartimento comunale, i vari municipi e la società privata Romeo. Il problema è aperto da un ventennio. Ma la delibera che istituisce quell'anagrafe è stata approvata soltanto a settembre del 2012 e a distanza di un anno e mezzo da quando l'aveva proposta il consigliere Alessandro Onorato. Senza astenersi nell'occasione dal girare il coltello in un'antica piaga mai sanata. «Ci sono centinaia di appartamenti e negozi affittati a pochi euro. Come una piccola abitazione a piazza Navona affittata a 79 euro al mese e un bar su piazza Santa Maria in Trastevere che ne paga 52, solo per fare alcuni esempi», denunciava l'allora capogruppo dell'Udc. Rendendo in questo modo ancora più lampante la sproporzione fra il rendimento del patrimonio e l'esborso per gli affitti passivi. Si dirà che con 25 mila dipendenti, tanti sono quelli dell'amministrazione capitolina, è inevitabile fare ricorso anche a immobili di proprietà privata. Sarà. Ma qui si parla di un costo procapite per dipendente che si aggira intorno ai 4 mila euro l'anno. Non è oggettivamente sorprendente? E può essere ritenuto normale che la missione di tenere i collegamenti fra la miriade di uffici comunali sia affidata a un centinaio di quelli che una volta si definivano i «camminatori», persone incaricate di portare le carte da un ufficio all'altro? Non a piedi, naturalmente: le dimensioni urbane sono tali da imporre l'uso delle vetture di servizio. In una città che conta 15 municipi, con altrettanti presidenti, 90 assessorini e relativi uffici, non ci sono alternative. A meno di non voler usare di più e meglio le tecnologie, per esempio la posta certificata. Ma poi che ne sarebbe di tutto il resto? Secondo un articolo pubblicato dal Messaggero nell'agosto del 2011, il Comune di Roma spende 17 milioni l'anno per far marciare 226 auto, di cui 109 di rappresentanza. Cifra ovviamente comprensiva dei 9 milioni necessari a pagare i 254 autisti. Sergio Rizzo 4 giugno 2013 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/13_giugno_4/20130604NAZ06_16-2221470917608.shtml Titolo: SERGIO RIZZO La nomina di Zampini nell'appunto di Epifani Inserito da: Admin - Giugno 07, 2013, 06:49:45 pm Finmeccanica e le altre aziende di Stato
La nomina di Zampini nell'appunto di Epifani Sul biglietto anche Cdp e Sogin ROMA - Sarà stata anche una chiacchierata in birreria, quella fra Guglielmo Epifani e Pier Luigi Bersani. Ma mentre il Tesoro sta mettendo a punto i criteri per designare i vertici delle aziende pubbliche con l'intento di farla finita con la lottizzazione, l'occhio non può non cadere sulle ultime tre righe del foglio ripiegato in quattro che l'ex segretario della Cgil tiene nella mano sinistra. C'è scritto: «Nomine». E poi accanto: «Scelte radicali». Difficile dire a che cosa si alluda. Qualche indizio però c'è, sempre in quelle poche righe. Per esempio c'è un nome: «Zampini». Verosimilmente Giuseppe Zampini, amministratore delegato di Ansaldo Energia, fiero oppositore di Giuseppe Orsi, il precedente amministratore della Finmeccanica, la grande conglomerata ancora controllata dallo Stato per circa un terzo del capitale. Il suo, insieme a quello di Orsi e dell'attuale amministratore delegato Alessandro Pansa, era finito nella terna dei nomi proposti nel 2011 al governo di Silvio Berlusconi per il posto di capo della holding tecnologica pubblica. Senza fortuna. Ma ora la situazione è completamente cambiata, e il nome di Zampini è tornato a circolare per una delle posizioni di vertice della Finmeccanica. Il governo Letta avrebbe già dovuto provvedere alla nomina del presidente e di un consigliere, ma ha deciso di rinviare le nomine per stabilire quei criteri di cui sopra validi per ogni azienda pubblica. Se ne parlerà all'inizio di luglio, e da questo indizio sembra di capire che Zampini potrebbe essere della partita. Come presidente o con incarichi perfino più operativi? E quel nome dell'amministratore delegato dell'Ansaldo energia, acerrimo nemico dei piani di dismissione delle attività civili, può essere interpretato come una suggestione strategica? Sul foglio ci sono poi altre parole. «Sogin». E accanto: «cambiare». La Sogin è una società pubblica presieduta dall'ex ambasciatore Giancarlo Aragona. Si occupa dello smantellamento delle centrali nucleari chiuse un quarto di secolo fa ed è alimentata con fondi presi dalle bollette elettriche. Anche qui l'intero consiglio è in scadenza. Qual è poi il significato di quelle tre lettere che compaiono sul foglio appena sopra alla parola Sogin, ovvero «Cdp»? Possibile che sia l'acronimo della Cassa depositi e prestiti, il forziere dov'è custodito il risparmio postale. Una banca pubblica che controlla la Sace, compagnia assicurativa per l'export guidata da Alessandro Castellano, fonte di centinaia di milioni l'anno di utili, anch'essa con il consiglio da rnnovare. E «Monopoli»? Si riferisce ai Monopoli di Stato? O è il plurale di «monopolio»? Oppure si riferisce semplicemente al gioco: «Monopoli», appunto? Sergio Rizzo 7 giugno 2013 | 12:37© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_07/la-nomina-di-zampini-nell-appunto-di-epifani-sergio-rizzo_c881b44a-cf2b-11e2-b6a8-ee7758ca2279.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il caso Di Pietro jr esce dal gruppo Idv: 800 euro in più al mese Inserito da: Admin - Giugno 09, 2013, 11:04:08 am Il caso
Di Pietro jr esce dal gruppo Idv: 800 euro in più al mese Il figlio del fondatore finisce nel «misto» in consiglio regionale. E aumenta la busta paga ROMA - «Bisogna fare di più», incitava Antonio Di Pietro dal proprio blog il 30 settembre dello scorso anno. Erano i giorni in cui il governo tecnico preparava il giro di vite sui politici locali, imponendo tagli ai finanziamenti e controlli della Corte dei conti sui bilanci dei gruppi dei consigli regionali per evitare il ripetersi di scandali come quelli che stavano esplodendo in tutta Italia, a partire dal Lazio. La vicenda di Franco Fiorito, alias il Batman di Anagni, ricordate? E avendo spronato Mario Monti ad affondare il bisturi con ancora maggior decisione, una volta appreso del coinvolgimento del capogruppo dell'Italia dei Valori Antonio Maruccio nella vergognosa vicenda laziale, tuonava «Non ci possono essere sconti per nessuno!». Quale sarà ora la reazione dopo la notizia arrivata dalla sua terra, il Molise? Perché i magistrati della Corte dei conti, cui spetta da qualche mese il compito di passare al setaccio i bilanci dei gruppi del Consiglio regionale, hanno debuttato bersagliando proprio quello dell'Idv. «Non regolare», l'hanno dichiarato i controllori. Secondo loro la rendicontazione di ben 89.733 euro e 99 centesimi, cioè quasi il 40 per cento dei 230.836,49 euro di fondi pubblici incassati dal gruppo dipietrista nel 2012, non può essere considerata «ammissibile». Per prima cosa, afferma la delibera approvata nell'adunanza del 3 aprile scorso (alla quale i responsabili del gruppo non si sono presentati), ci sono 15.894 euro di spese prive di giustificativi. Cui si devono aggiungere 73.939 euro di altre spese che i giudici incaricati dei controlli hanno ritenuto non ammissibili, pur ricordando come la legge regionale con la quale sono stati stabiliti i contributi ai gruppi consiliari molisani considera quei soldi, pensate un po', «spendibili senza vincolo di destinazione». I magistrati argomentano che questa singolare assenza di limiti all'impiego dei denari dei contribuenti non può comunque prescindere dai «più elementari criteri di ragionevolezza»: dunque non possono essere accettabili «le spese assistite dai giustificativi» che non riguardino il gruppo, i consiglieri o il personale di supporto dello stesso gruppo. Per esempio, i denari che sono stati girati direttamente al partito. In questo caso non c'è legge regionale che tenga: il decreto ministeriale del 21 dicembre 2012 con cui è stata attuato quel giro di vite voluto dal governo Monti, lo esclude esplicitamente. Eppure di quei 230.836 euro destinati al gruppo ben 36.100 sono finiti nelle casse del partito. Prova provata che i contributi ai gruppi sono a pieno titolo una delle tante voci del finanziamento pubblico dei partiti. Il bello è che il rendiconto era stato redatto secondo le regole previste proprio da quel decreto, senza che per l'esercizio 2012 fosse ancora obbligatorio. Ma la Corte dei conti ha escluso dalla rendicontazione anche un certo numero di semplici scontrini del Pagobancomat per 439 euro (che cosa era stato acquistato?), rimborsi spese per 16.408 euro a chi prestava attività volontaria, rimborsi dei pasti di oltre 1.800 euro per cui erano state presentate pezze d'appoggio illeggibili se non doppie, rimborsi di carburante al personale del gruppo mancanti dei dati sui tragitti e le auto, tre biglietti aerei emessi a favore di personale estraneo allo stesso gruppo... Va da sé che tutto questo non sarebbe accaduto se non fossero arrivati tutti quei soldi. Perché 230.836 euro sono una cifra enorme. Considerando che il gruppo Idv era costituito da tre persone, sono 76.945 euro procapite, quasi 20 mila in più rispetto ai finanziamenti concessi ai gruppi parlamentari della Camera, pari nel 2012 a 57.539 euro per ogni eletto. Calcolando poi che fino allo scorso anno i consiglieri molisani erano 30, significa che ai gruppi politici di una Regione con circa 320 mila abitanti sono andati 2,3 milioni di euro. Una cifra senza senso. Per inciso, di quel gruppo faceva parte anche Cristiano Di Pietro, figlio del leader del partito, approdato finalmente nella precedente tornata elettorale al consiglio regionale, dopo essere passato per il consiglio provinciale e per quello comunale. Il 2 novembre 2012, mentre infuriava lo scandalo del Lazio, dichiarava risoluto: «Dopo i tristi esempi provenienti da alcune Regioni possiamo andare controcorrente e dimostrare che non tutti i consiglieri sperperano il denaro pubblico». Faceva parte del gruppo, abbiamo detto, perché ne è uscito qualche settimana fa dopo che un candidato dell'Idv rimasto fuori dal Consiglio alle ultime elezioni ha presentato un ricorso al Tar. Lui non ha gradito e ha imboccato la porta. Uscendo dal gruppo ma non dal partito, beninteso. È soltanto emigrato al gruppo misto, che prima non esisteva. Lui l'ha costituito, ne è l'unico componente nonché il presidente: incarico, per inciso, che vale 800 euro netti in più al mese. Tanto per Di Pietro junior come per altri suoi 15 colleghi. Perché con la nascita del misto i gruppi politici della Regione Molise sono infatti diventati 16, per 21 consiglieri. In media, 1,31 per ogni gruppo. Sergio Rizzo 9 giugno 2013 | 9:41© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_09/dipietro-junior-esce-idv_1d0a8206-d0be-11e2-9e97-ce3c0eeec8bb.shtml Titolo: SERGIO RIZZO In cinque anni 288 nuove norme fiscali Inserito da: Admin - Giugno 11, 2013, 05:42:38 pm II dati nello studio Confartigianato
Le aziende e il record della burocrazia In cinque anni 288 nuove norme fiscali Pressione tributaria al 68,3%. Allo Stato 1,7 milioni al minuto di tasse ROMA - «Semplificare»: non c'è politico o governante che non abbia pronunciato almeno una volta questa parola. L'ex ministro leghista Roberto Calderoli, per rafforzare il concetto, si fece immortalare nel cortile di una caserma dei pompieri mentre dava fuoco con un lanciafiamme a 375 mila leggi inutili. Nemmeno troppo tempo fa: il 24 marzo del 2010. Poi è toccato al governo Mario Monti, per bocca del ministro Corrado Passera, lanciare un «urlo di dolore» per le complicazioni della burocrazia, invocando «semplificazioni» al più presto (8 novembre 2012). E ora è la volta del ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, annunciare che l'esecutivo di Enrico Letta «sta lavorando a un'operazione di semplificazione molto forte che dovrebbe vedere la luce a brevissimo» (4 giugno 2013). Auguri. Perché da quando è cominciata la precedente legislatura, nella primavera del 2008, sono state varate qualcosa come 288 norme fiscali che hanno avuto come conseguenza quella di complicare la vita alle imprese. E' un numero pari al 58,7 per cento di tutte le disposizioni di natura tributaria (491) introdotte attraverso 29 differenti provvedimenti. Oltre quattro volte superiore a quello delle 67 «semplificazioni» fatte nello stesso periodo: ogni norma approvata per snellire la burocrazia ne ha quindi portate con sé 4,3 capaci di riversare altra sabbia negli ingranaggi. E forse non è un caso, sottolinea l'ultimo rapporto della Confartigianato che contiene questo dato scioccante, che «la pressione burocratica abbia lo stesso ritmo di crescita della pressione fiscale». Ha raggiunto il 44,6 per cento, livello mai visto dal 1990, anno d'inizio della serie storica . Con un picco negli ultimi tre mesi 2012, durante i quali per ogni minuto che trascorreva il Fisco incassava un milione 731.416 euro. L'ufficio studi della Confartigianato ricorda che tra il 2005 e il 2013, secondo le stime Ue, le entrate fiscali sono salite del 21,2 per cento, pari a 132,1 miliardi: cifra esattamente corrispondente all'aumento nominale del Pil, diminuito però in termini reali. Per ogni euro di crescita apparente, dunque, l'Erario ha intascato un euro in più: è l'eredità di quello che nel rapporto viene definito «il ventennio perduto», iniziato nel 1993 e proseguito con 12 differenti governi. Senza che nemmeno gli esecutivi tecnici siano riusciti a invertire la rotta. Negli ultimi 600 giorni, 530 dei quali governati da Monti, il numero delle imprese è calato dell'uno per cento, il Pil è diminuito del 3,4 per cento, il credito al sistema produttivo ha subito una flessione di 65 miliardi, il debito pubblico è aumentato di 122 miliardi, la pressione fiscale è cresciuta dell' 1,8 per cento, la disoccupazione giovanile si è ingigantita dell' 8,5 per cento. Il numero delle persone senza lavoro è lievitato di 728 mila unità. La pressione fiscale sulle imprese risulta ben più elevata di quella per le famiglie: è arrivata al 68,3 per cento. Misura che vale il primato europeo e la quindicesima piazza mondiale. In Francia, dove pure non scherzano, il total tax rate sulle imprese è del 65,7 per cento. Ma in Germania scende al 46,8 per cento, per calare ancora in Spagna al 38,7 e planare nel Regno Unito al 35,5 per cento. «In Italia sembra si faccia apposta per penalizzare il patrimonio produttivo. Non possiamo sempre cercare scuse o alibi. Chi governa deve assumersi le proprie responsabilità. Ci vuole meno fisco, meno burocrazia, più credito, servizi pubblici efficienti. Se muoiono le imprese, muore il Paese», dice Giorgio Merletti. Ma se l'Italia, a sentire il presidente della Confartigianato, è un Paese fiscalmente e burocraticamente ostile all'impresa, non lo è certo meno rispetto al lavoro. Lo dicono chiaramente le tasse. Le imposte sul lavoro sono pari mediamente al 42,3 per cento, sono 4,6 punti al di sopra della media dell'Eurozona. Ancora. Il rapporto sottolinea come a una crescita del 4,5 per cento registrata in Italia a partire dal 1995, ha fatto riscontro un calo europeo di un punto. Risultato è un ulteriore ampliamento della forbice per il cosiddetto cuneo fiscale e contributivo, salito qui al 47,6 per cento per un dipendente a medio reddito senza figli, contro il 35,6 per cento della media Ocse. Non bastasse, dobbiamo fare i conti anche con un curioso controsenso: l'aumento inarrestabile delle tariffe dei servizi pubblici locali per famiglie e imprese, cominciato proprio dalla seconda metà degli anni Novanta, in coincidenza con l'avvio delle liberalizzazioni. Fatto sta che dal 1997 al 2012 si è assistito a una crescita del 66,4 per cento, 26,7 punti in più dell'inflazione. La tassa sui rifiuti, per esempio, recentemente inasprita con l'introduzione della Tares alla fine del 2011 con il decreto «salva Italia»: negli ultimi dodici anni le imposte sulla spazzatura hanno mostrato una progressione del 76,3 per cento. Su alcune categorie di imprese, poi, l'impatto della Tares è pesantissimo, con aumenti dell'imposta sui rifiuti che arrivano fino al 301,1 per cento. E di nuovo è avvilente il paragone con la Germania, dove dalla fine del 2007 all'inizio di quest'anno quella tassa è calata mediamente dello 0,2 per cento, mentre in Italia saliva del 22,9 per cento. Ma si capisce il perché confrontando l'andamento della spesa pubblica nei due Paesi. Mentre in Germania, considerando il periodo che va dal 2001 al 2011, diminuiva di 1,7 punti di Prodotto interno lordo, qui al contrario cresceva di 4 punti. Se la spesa pubblica italiana avesse seguito l'andamento tedesco, avremmo potuto risparmiare in un decennio 93,9 miliardi, quasi 9,4 l'anno. Perché non ci siamo riusciti? Si dice che la nostra spesa pubblica sia in larga misura «incomprimibile». Sarà. Resta però «incomprensibile» il fatto che nelle venti Regioni, le cui uscite incidono per oltre un quarto sul totale, ci siano livelli tanto differenti. Ecco allora che allineando semplicemente i livelli di spesa per le retribuzioni dei dipendenti e le forniture a quelli degli enti più virtuosi si potrebbero ottenere risparmi rilevantissimi. L'ufficio studi della Confartigianato li cifra in 20 miliardi 193 milioni. Ovvero, l'intero gettito previsto lo scorso anno per l'Imu dal governo Monti. © Sergio Rizzo 10 giugno 2013 | 8:17© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/13_giugno_10/aziende-record-burocrazia_f5d46d76-d18c-11e2-810b-ca5258e522ba.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - TAGLI POCHI, PRIVATIZZAZIONI DIMENTICATE Inserito da: Admin - Giugno 28, 2013, 06:30:02 pm TAGLI POCHI, PRIVATIZZAZIONI DIMENTICATE
Spendere meno non è proibito Aspettiamo ora con ansia di sapere come il Tesoro intende chiudere il buco. Perché di buco si tratta. Non serve una laurea per capire che la decisione di coprire il rinvio dell'aumento dell'Iva anticipando il pagamento delle tasse su redditi non ancora maturati causerà un problema nei conti pubblici a giugno del prossimo anno, quando i contribuenti avrebbero dovuto saldare il 100 per cento delle imposte dovute, e non invece il 110 per cento che verrà richiesto loro sette mesi prima della scadenza, a novembre. Richiesta per giunta beffarda, perché il peso di una tassa destinata a colpire chi consuma graverà indistintamente su tutti. Poco importa. È noto che insieme alla sospensione dell'Imu sulla prima casa la sterilizzazione dell'aumento dell'Iva rappresenta il prezzo da pagare alla stabilità del governo di larghe intese: un prezzo rincarato, fra l'altro, dopo la recente condanna inflitta dal Tribunale di Milano a Silvio Berlusconi. Ma qualunque opinione si possa avere sui destini dell'esecutivo, c'è da chiedersi se non ci fosse un modo più serio per pagarlo. Certo, sarebbe ingiusto caricare sulle spalle di Enrico Letta tutto il fardello delle non scelte fatte dai suoi predecessori. La Corte dei conti ha ricordato ieri che la spesa pubblica è in diminuzione, ma fra il 2001 e il 2011 è salita di 197 miliardi portando la pressione fiscale a livelli insostenibili, senza peraltro che la crescita forsennata sia riuscita ad arrestare il calo del Pil pro capite reale, franato nell'arco di quegli undici anni in Italia (unica nell'Eurozona) del 3,8 per cento. Le privatizzazioni sono paralizzate da un decennio. L'ultima, quella dell'azienda dei tabacchi, risale al 2003: era stata avviata cinque anni prima. Le cessioni del patrimonio degli enti previdenziali hanno generato grandi profitti privati senza intaccare il debito pubblico, il quale anzi continuava a salire. Nel frattempo lo Stato ha ripreso a dilagare nell'economia con la proliferazione di migliaia di società di capitali controllate dalle amministrazioni locali che hanno garantito poltrone, gettoni e stipendi a un esercito di 38 mila fra amministratori, sindaci e alti dirigenti scelti dai partiti. Incalcolabile è lo spreco di risorse, mentre ogni tentativo serio di liberalizzazione è stato sempre respinto e il costo dei servizi pubblici ha battuto ogni record continentale. I famosi prezzi standard del servizio sanitario, ricordate? Nessuno ne parla più. Così come la concentrazione degli acquisti pubblici che potrebbe far risparmiare 30 miliardi l'anno è vanificata, rimarca la Corte dei conti, dalla polverizzazione allucinante delle stazioni appaltanti: oltre 23 mila. Neppure la revisione della spesa, avviata nel 2007 da Tommaso Padoa-Schioppa e ripresa da Mario Monti nel 2012, ha dato esiti concreti. Magra consolazione, la miglior conoscenza dei mille meccanismi di uso inefficiente, quando non di sperpero, del nostro denaro. Le alternative dunque non mancavano. Bisognava però avere il coraggio (e la forza) di partire da qua, senza esitazioni. Diranno che non c'era tempo: l'Iva sarebbe balzata al 22 per cento il 1° luglio. Forse è vero. Ma siamo certi che di fronte alla prospettiva di un taglio rapido e consistente alla spesa pubblica improduttiva e di un corrispondente calo della pressione fiscale non sarebbe stato digeribile perfino un aumento temporaneo dell'Iva? Sempre meglio che tappare una falla aprendone un'altra. SERGIO RIZZO 28 giugno 2013 | 9:30© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_28/spendere-meno-non-proibito_41ba5a16-dfac-11e2-b1a7-8dfb006d0609.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Province salve e Italia paralizzata Inserito da: Admin - Luglio 05, 2013, 11:50:12 am Tagli cancellati
Province salve e Italia paralizzata La conferenza stampa dei ministri del governo Monti, Cancellieri e Patroni Griffi, sul riordino delle province: era il 31 ottobre 2012La conferenza stampa dei ministri del governo Monti, Cancellieri e Patroni Griffi, sul riordino delle province: era il 31 ottobre 2012 Ne siamo certi: la Corte costituzionale avrà avuto le sue buone ragioni. Non per nulla molti davano per scontata la bocciatura sia della riforma delle Province contenuta nel decreto salva Italia, sia del successivo più morbido tentativo di riordino con l'accorpamento di alcuni enti. La Consulta ha ritenuto illegittimo il ricorso al decreto legge per interventi di tale portata, visto che quello strumento dovrebbe essere limitato ai casi di straordinaria necessità e urgenza. Per avere una più completa conoscenza delle motivazioni bisognerà aspettare il deposito della sentenza. Certo, una riforma come l'abolizione delle Province, che doveva essere fatta più di 40 anni fa contestualmente alla nascita delle Regioni, non poteva essere ritenuta tanto impellente da giustificare un decreto. Anche se forse sarebbe il caso di ricordare il contesto in cui il decreto salva Italia vide la luce. C'era appunto, da salvare il Paese che in quel momento si trovava in una situazione così difficile da dover affidare il proprio destino a un governo tecnico, con la necessità di prendere nel giro di poche ore provvedimenti in grado di placare i mercati resi pazzi dalle furiose spallate della speculazione internazionale. Di più. Rimettere in carreggiata l'Italia era un passaggio cruciale per la sopravvivenza stessa della moneta unica, tanto erano drammatici i toni della lettera che il 5 agosto del 2011 arrivò all'Italia dalla Banca centrale europea. Con suggerimenti di misure durissime da adottare immediatamente, e fra queste si citava proprio l'abolizione delle Province, sempre promessa da tutti i partiti ma mai realizzata. Alla luce dei fatti, quella riforma poteva essere o meno considerata urgente? Al di là del merito, comunque, la sentenza della Corte costituzionale conferma se ce ne fosse stato ancora il bisogno che l'Italia è un Paese in preda a una totale paralisi. Non c'è decisione che non corra il rischio di finire sotto la tagliola della Consulta, del Tar o del Consiglio di Stato. Può capitare indifferentemente alla riforma delle Province, come alla vendita di un immobile dell'Inps, o alla costruzione di un elettrodotto, oppure alla delibera di un'authority, quando non al licenziamento di un dipendente pubblico corrotto. È successo perfino al taglio del 10 per cento degli stipendi dei magistrati, cassato dalla suprema Corte perché ledeva l'indipendenza dei giudici, Colpa di una legge scritta male, di una sciatteria burocratica, di un errore formale. Talvolta addirittura di una fantasiosa interpretazione delle norme. Una giustificazione c'è sempre. Fatto sta che non abbiamo più alcuna certezza: inutile lamentarsi del tempo biblico per fare un'opera pubblica, degli anni che necessari a risolvere un contenzioso, degli investimenti esteri sempre più impalpabili. Così non si va da nessuna parte. Ed è bene esserne tutti coscienti, giudici compresi. Sergio Rizzo 4 luglio 2013 | 8:04© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/13_luglio_04/province-salve-nuovo-capitolo-dell-Italia-paralizzata-rizzo_4418466c-e46e-11e2-8ffb-29023a5ee012.shtml Titolo: SERGIO RIZZO AMMISTRAZIONE E SPRECHI Inserito da: Admin - Luglio 11, 2013, 11:48:45 pm AMMISTRAZIONE E SPRECHI
Aumenta la spesa pubblica ma crescita economica e occupazione restano al palo Report del Centro studi economia reale: in dodici anni il costo della burocrazia è raddoppiato, arrivando a quota 805 miliardi Brutta bestia, la spesa pubblica made in Italy. Nessuno in Europa è stato capace quanto noi di bruciare risorse senza avere in cambio almeno un po’ di crescita economica, di occupazione, di speranza. Il perché lo spiega con i numeri uno studio elaborato per l’Associazione dei costruttori dal Centro studi economia reale dell’economista Mario Baldassarri, ex senatore di Fli: più che mai esperto del ramo, essendo stato per cinque anni, dal 2001 al 2006, vice ministro dell’Economia. Nei dodici anni intercorsi fra il 2001 e il 2012 la spesa pubblica è passata da 536 a 805 miliardi, con un aumento del 50,1 per cento. In termini reali, tenendo conto cioè dell’inflazione, il progresso è stato del 15,9 per cento. Ma questa crescita ha riguardato esclusivamente la spesa corrente, lievitata da 485 a 759 miliardi, mostrando un incremento monetario del 56,5 per cento e reale del 20,8 per cento. CROLLO DEGLI INVESTIMENTI - E mentre la burocrazia si gonfiava a dismisura, ingoiando valanghe di denari pubblici così da superare per voracità addirittura le entrate fiscali (l’aumento degli introiti pubblici fra tasse e contributi previdenziali è stato di 228 miliardi contro 274 miliardi delle uscite correnti), gli investimenti pubblici crollavano. La spesa in conto capitale è scesa infatti da 51 a 46 miliardi, con un calo del 9,8 per cento. In termini reali, però, la flessione è risultata di ben diversa entità: -30,3 per cento. La spesa corrente è salita a un ritmo forsennato, addirittura superiore a quello delle entrate statali. Nel periodo considerato ha registrato un aumento di 274 miliardi, a fronte di un incremento dell’incasso generato da imposte e contributi previdenziali pari a 228 miliardi. Per Baldassarri perfino l’ultimo governo tecnico affidato a Mario Monti ha fatto crescere di 8 miliardi in un solo anno la spesa corrente. Ma è niente al confronto dei 60 miliardi in più accumulati in due anni (e mezzo) del centrosinistra. E soprattutto della crescita di ben 206 miliardi dei denari divorati dalla burocrazia negli otto anni (e mezzo) del centrodestra. Durante i quali, tuttavia, anche gli investimenti pubblici in infrastrutture hanno toccato il livello massimo del periodo preso in esame. Fu nel 2004, con 37,4 miliardi. Da allora una lenta ma inesorabile discesa: 35,9, 34,1, 33,1, 30,7, 28,6, 25,3, 22,6, 20,2. Per planare, quest’anno, a 18,9. PROVVEDIMENTI MANCATI - Tanto da chiedersi: ma se l’andamento degli investimenti infrastrutturali fosse rimasto finora allo stesso livello del 2004, il che significa una maggiore spesa in conto capitale di 87,5 miliardi in nove anni, la situazione della nostra economia sarebbe la stessa? Secondo Baldassarri la risposta è no. La sua simulazione dice che senza tagli agli investimenti in opere pubbliche l’Italia avrebbe avuto un deficit pubblico e un rapporto fra debito e pil pressoché identici. Ma in compenso una maggiore crescita del Prodotto interno lordo del 3,4 per cento al 2013, il che avrebbe quantomeno mitigato il calo drammatico della ricchezza prodotta nel nostro Paese dal 2007 (meno 8 per cento). Più soldi, più lavoro, più occupazione: 400 mila posti di lavoro al 2013 e 700 mila al 2018. Con un tasso dei senza lavoro che sarebbe rimasto al di sotto del 10 per cento (esattamente 9,8) anziché superare il 12 per cento. Le cose, poi, sarebbero migliorate ancora in prospettiva. Entro il 2018 la disoccupazione si sarebbe ridotta all’8,7 per cento, il deficit sarebbe migliorato di quasi un punto e il debito pubblico di ben dieci punti rispetto al Pil. 9 luglio 2013 (modifica il 10 luglio 2013) © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo da - http://www.corriere.it/economia/13_luglio_09/spesa-pubblica-sprechi-burocrazia_50324e80-e8cd-11e2-ae02-fcb7f9464d39.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Così la burocrazia ci fa perdere 30 miliardi Inserito da: Admin - Luglio 19, 2013, 11:59:35 am Il Paese bloccato
Una legge semplifica, quattro complicano Così la burocrazia ci fa perdere 30 miliardi Per toccare con mano la paralisi, recarsi a Laino Borgo, duemila anime in provincia di Cosenza, nel cuore del meraviglioso Parco del Pollino. Nei pressi del paese c'è una vecchia centrale elettrica, spenta nel 1993 perché non più economica. L'Enel vorrebbe ora riconvertirne una parte a biomasse, ma il progetto è imprigionato in un inestricabile dedalo di pareri, autorizzazioni, veti incrociati e carte bollate. Tutto comincia nel 2001. Sei anni dopo le pratiche sono esaurite (sei anni!), ma quando si sta per girare l'interruttore, una nuova direttiva europea impone un altro passaggio formale. E la giostra infernale si rimette in moto. I documenti restano nei cassetti della Provincia di Cosenza per due anni e mezzo, mentre l'Ente Parco, undici giorni dopo aver concesso il quarto via libera, ci ripensa. Piovono i ricorsi e la schermaglia che già era iniziata si trasforma in una guerra termonucleare. In 5 anni si contano 14 fra sospensive, ordinanze e sentenze. L'ultimo pronunciamento del Consiglio di Stato, nell'agosto 2012, ribalta la precedente decisione del Tar favorevole all'impianto azzerando tutte le autorizzazioni. E dopo 12 anni si ricomincia daccapo. Non vogliamo entrare nel merito della faccenda. Ma che nella settima, ottava o nona potenza economica del mondo quale dovrebbe essere l'Italia non si riesca a decidere in 12 anni se una vecchia centrale spenta possa o meno essere riaccesa, è davvero il colmo. Anche perché quell'insensato spreco di tempo lo paghiamo tutti noi. Sperare però che questo impietosisca una burocrazia ossessiva capace di trasformare l'Italia in un Paese bloccato è davvero troppo. Lo stesso Parlamento resta vittima di quel meccanismo infernale, come dimostra l'incapacità di fare le riforme. Prendiamo la più urgente di tutte: l'abolizione del bicameralismo perfetto, che rende l'approvazione di ogni legge un autentico calvario. Se ne parla da anni senza costrutto, nonostante si dicano tutti d'accordo. Nella scorsa legislatura la commissione affari costituzionali del Senato ci ha lavorato a lungo: fatica sprecata. Ora si riparte da zero. Tre mesi già se ne sono andati per nominare quaranta saggi cui è stato affidato il dossier delle riforme istituzionali. Piccolo particolare, fra di loro ci sono anche tre principi del foro schierati dalle Regioni nella causa alla Consulta contro la riforma delle Province: Beniamino Caravita di Toritto, Massimo Luciani e Giandomenico Falcon. D'altra parte, come non ricordare che il ministro della Funzione pubblica Gianpiero D'Alia, oggi favorevolissimo all'abolizione delle Province, fu orgoglioso autore nel 2006 di un emendamento alla finanziaria per salvare la chiusura delle prefetture minori? Leggi, commi e decreti Il simbolo più eclatante della sconfitta subita dalla politica a opera della burocrazia è senza dubbio il ministero della Semplificazione, ora pietosamente sepolto. Mentre il ministro Roberto Calderoli menava inutilmente fendenti su 375 mila leggi inutili, la macchina della Complicazione andava a pieni giri. Un documento appena sfornato dall'ufficio studi della Confartigianato diretto da Enrico Quintavalle racconta che dal 2008 a oggi sono state approvate 491 norme tributarie, delle quali 288 hanno reso la vita più difficile alle imprese, contro le 67 che invece sulla carta le semplificavano. Bilancio: 4,3 complicazioni per ogni semplificazione. Lui, Calderoli, ci provò a fare una legge per stabilire che le leggi dovevano essere scritte in modo chiaro e comprensibile. Quell'obbligo esiste da quattro anni. Ma sfogliate una Gazzetta ufficiale , a caso, e controllate quante volte è stato rispettato. Praticamente mai. Le leggi continuano a essere un groviglio incomprensibile di commi, lettere e rimandi ad altre leggi modificate da altri introvabili commi. Per avere norme semplici e comprensibili bisognerebbe forse cambiare chi le scrive. Che invece sono sempre gli stessi. Magistrati e altissimi burocrati detentori dei gangli del potere: capi di gabinetto e degli uffici legislativi, commissari straordinari, consiglieri di ministri e sottosegretari, ai vertici delle authority. Il fulcro della burocrazia. Tecnici e politici al tempo stesso, con entrature di peso nei partiti e nelle loro correnti. Anche loro una lobby, per dirla con Anna Maria Cancellieri? Di sicuro un pacchetto di mischia solido e compatto. Un esempio? Nella legge anticorruzione compare una pillola avvelenata: i magistrati non potranno restare fuori ruolo per più di 10 anni. Fine degli incarichi extragiudiziali a vita. Spunta però un comma previdenziale che esenta dal tetto i membri del governo. Ovvero, i consiglieri di Stato Antonio Catricalà e Filippo Patroni Griffi, allora rispettivamente sottosegretario alla presidenza e ministro della Funzione pubblica: nel successivo governo di Enrico Letta il primo è diventato viceministro dello Sviluppo e il secondo è andato al posto del primo. Non basta. Il decreto attuativo non è mai stato approvato, con il risultato che sugli altri incarichi degli altri magistrati decide sempre il relativo organo di autogoverno. Al Csm si è già stabilito che nei dieci anni non sono compresi i periodi di aspettativa. I decreti attuativi sono una caratteristica tipica delle leggi italiane, il meccanismo con cui il parlamento consegna il proprio potere legislativo alle burocrazie. Perché la legge, se non c'è il decreto ministeriale, resta lettera morta. E i decreti li scrivono gli uffici. Soltanto la legge varata nell'estate del 2012 per rilanciare lo sviluppo ha avuto bisogno per essere attuata di 74 norme di secondo livello. Un livello che spesso interviene pesantemente, modificandolo nella sostanza, anche sul primo. La lentezza è uguale per tutti A forza di moltiplicare centri decisionali che si ostacolano l'un l'altro, di fare leggi e circolari che contraddicono altre leggi e altre circolari, nonché di aggiungere enti, società, agenzie, authority, era inevitabile che si arrivasse alla paralisi. Tutto, in Italia, diventa oggetto di contenzioso. Non mancano casi in cui lo Stato fa causa allo Stato, come dimostra la surreale vicenda legale che oppone la Finmeccanica al suo azionista Tesoro. Una storia nata da un disaccordo sulla liquidazione di una società costituita nel 2005 per fare la carta d'identità elettronica cui la Finmeccanica partecipa insieme al Poligrafico dello Stato e alle Poste, e sfociata in tribunale. Carte d'identità prodotte: zero virgola zero. In compenso, 876 mila euro sono andati agli avvocati. Adesso siamo in appello. Prima udienza fissata per il 22 novembre del 2016. La giustizia non è forse uguale per tutti, Stato compreso? La durata media di un procedimento civile per inadempienza contrattuale qui è di 1.210 giorni, più del triplo rispetto a Germania, Francia e Regno Unito (394, 390 e 399 giorni). Una procedura fallimentare va avanti in media per 2.567 giorni, ma ci sono casi, come quello di una piccola ditta pugliese fallita nel 1962, che hanno segnato record di 48 anni cui si è sfiorato il mezzo secolo. Una pacchia forse per gli avvocati, tanto numerosi da superare nella sola città di Roma quelli di tutta la Francia, certo non per le imprese. Né italiane, né straniere, che infatti hanno ridotto al lumicino gli investimenti nel nostro Paese. Uno zaino pieno di sassi Il gravame giudiziario è uno dei tanti pesi che la burocrazia made in Italy carica sulle spalle di chi produce. Folgorante la battuta del segretario dell Confartigianato Cesare Fumagalli: «È come se nella competizione internazionale i nostri corressero con uno zaino pieno di sassi». La sua organizzazione ha calcolato che il costo burocratico per le imprese sfiora ormai i due punti di Pil: 30 miliardi e 980 milioni. Parliamo di 7.091 euro in media per ogni azienda al di sotto dei 250 dipendenti. Fra i sassi, ovviamente, c'è anche quello dell'arretratezza tecnologica della pubblica amministrazione. Dicono gli artigiani che sono appena 928 su oltre 8 mila i Comuni in grado di svolgere tutte le pratiche per via telematica, pagamenti compresi, mentre solo 2.449 intrattengono con i fornitori rapporti di fatturazione elettronica: il che contribuisce ovviamente al ritardo enorme con cui il pubblico onora i propri impegni, in media 180 giorni con punte di 800 nella sanità. La burocrazia è così fitta che le amministrazioni pubbliche, dopo aver accumulato un debito con i fornitori di oltre 100 miliardi, ora che potrebbero ripianarne almeno una parte sono costrette a uno slalom procedurale assurdo per pagare le imprese. Vittime così di una ulteriore crudele beffa. Ancora. In Italia i giorni necessari per ottenere permessi edilizi sono in media 234, contro i 184 della Francia, i 99 del Regno Unito e i 97 della Germania. Senza citare l'inconcepibile quantità di strumenti urbanistici attraverso cui bisogna districarsi nel caso di opere appena più complesse di una semplice ristrutturazione: l'imprenditore campano Alfredo Letizia ne ha censiti 62. Vincoli che non hanno impedito al Paese più iper regolato di diventare campione europeo di illegalità e abusivismo edilizio, ma che rendono ancora più tortuoso ogni processo decisionale, condizionato da un numero incredibile di soggetti competenti. Alla conferenza dei servizi della Stazione dell'alta velocità di Roma Tiburtina hanno partecipato in 38, ciascuno dotato di un potere di veto più o meno piccolo. Per fotocopiare e distribuire a tutti il progetto sono stati spesi 456 mila euro, poi altri 22 mila per distruggere le fotocopie. Inutile meravigliarsi, poi, se per far partire un'opera pubblica servono in una Regione come la Sicilia più di 1.500 giorni. E se un chilometro di autostrada o ferrovia costa il triplo che in Francia o Spagna: 32 milioni contro 10. Il Paese dei 23 mila appaltatori Inutile meravigliarsi, soprattutto, che la spesa pubblica abbia superato di slancio il 50 per cento del Pil, senza aver fatto crescere la ricchezza nazionale. Anzi. Fra il 2001 e il 2012, mentre la spesa lievitava di 200 miliardi, il Pil pro capite a prezzi costanti crollava del 6,5 per cento. La colpa? Certo la riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra ha moltiplicato i centri di spesa privandoli dei necessari controlli dal centro. Si è arrivati a contare 23 mila stazioni appaltanti, con conseguenze a dir poco perverse come nella sanità, che rappresenta oltre metà del mastodontico esborso regionale e dove si continua a tagliare mentre le spese crescono senza sosta. Basta dire che all'eliminazione di 5 mila posti letto nel solo Lazio ha corrisposto, per quanto sia difficile da credere, un aumento del 17 per cento della spesa per l'acquisto di beni e servizi. La spesa per la sanità pubblica è salita di 50 miliardi in dieci anni senza che la qualità sia migliorata. Secondo l'Istat, nel 2012 il 50,8 per cento dei pazienti in fila alla Asl ha atteso oltre 20 minuti. Rispetto al 2002 il tempo di attesa medio si è allungato dell'11,9 per cento. Per di più, mentre si riducono i posti letto degli ospedali, la sanità pubblica continua a foraggiare una marea di strutture private convenzionate: soltanto in Sicilia sono 1.476. Cifra che rende necessaria una diversa interpretazione dei dati sul personale pubblico. E non soltanto nelle Asl. Quanti sono davvero i dipendenti pubblici? Le statistiche ufficiali dicono che il numero dei nostri dipendenti pubblici è perfettamente in linea con la media europea. Ma pur avendo più o meno lo stesso personale del Regno Unito (tre milioni e mezzo), non abbiamo la stessa qualità dei servizi. Quanto abbia contribuito nei decenni una certa politica sindacale priva di qualunque suggestione meritocratica è sotto gli occhi di tutti. In Italia i dipendenti pubblici ricevono un incentivo alla «presenza», cioè per il solo fatto di timbrare il cartellino. E poi le «progressioni orizzontali» (banalmente, gli aumenti di stipendio) uguali per tutti com'era regola anni fa alla Regione Campania, i giudizi sempre ottimi per tutti i dirigenti basati sulla valutazione di se stessi, quando non accordi sindacali che escludevano addirittura la possibilità di dare insufficienze ai subalterni. Il principio della deresponsabilizzazione ha letteralmente dilagato dai massimi gradi dirigenziali fino ai livelli inferiori. Né i tentativi di riforma sono stati in grado di imprimere una svolta. In questo sistema tutto italiano si è trovato anche il modo per aggirare i blocchi alle assunzioni. Così sono nate migliaia di società controllate dagli enti locali, con moltiplicazione di competenze, sovrapposizione di funzioni, sprechi indicibili. Altre spese, altra burocrazia. Ma stavolta «societaria», e con un vantaggio: assumere senza concorso né incappare nel divieto del turnover. Nel 2008 la Corte dei conti calcolava che questa massa informe di imprese pubbliche occupasse 255 mila persone, oltre a 38 mila fra consiglieri di amministrazione, revisori contabili e alti dirigenti. Ciascuna con una media di 68 dipendenti e ben 12 persone in posizioni di comando. Per avere un'idea del peso di queste società, si consideri che il Comune di Roma ha 25 mila dipendenti e 37 mila stipendi pagati da municipalizzate o aziende partecipate. Totale, più di sessantamila. Sessantamila... Sergio Rizzo 8 luglio 2013 | 11:51© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_08/burocrazia-leggi_c81d03c2-e78d-11e2-898b-b371f26b330f.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Scandalo da 87 milioni nel Lazio Inserito da: Admin - Luglio 20, 2013, 07:37:01 pm L'INCHIESTA
Rimborsi d'oro per la riabilitazione Scandalo da 87 milioni nel Lazio Prestazioni gonfiate al San Raffaele di Cassino. La Corte dei conti accusa gli Angelucci e la Regione Lazio: restituiscano i soldi Sergio Rizzo Per i 460 lavoratori del San Raffaele di Cassino, che a fine maggio scioperavano dopo essere rimasti senza stipendio per tre mesi, è altro sale sulle ferite. La Procura della Corte dei conti ha citato in giudizio la società proprietaria della casa di cura e sedici persone che negli anni si sono avvicendate ai vertici dell'azienda sanitaria di Frosinone, perché rispondano di un danno erariale astronomico: 86 milioni 931.219 euro e 54 centesimi. Non una società qualunque. Perché il San Raffaele fa capo alla famiglia del deputato del Popolo della libertà Antonio Angelucci, re delle cliniche private convenzionate con la sanità pubblica nonché editore di Libero e azionista dell'Alitalia. L'iniziativa dei magistrati contabili, innescata da due denunce del presidente del collegio sindacale dell'Asl di Frosinone Edoardo Cintolesi nel luglio del 2010, riguarda una vicenda già in parte nota. Il procuratore regionale Angelo Raffaele De Dominicis ne aveva accennato all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 segnalando come la Corte dei conti avesse chiesto, e ottenuto, il sequestro conservativo di beni immobili per 126,5 milioni della società San Raffaele «a garanzia del danno subito dal servizio sanitario regionale per effetto di un'indagine sulla fittizia o irregolare erogazione di prestazioni di riabilitazione eseguite in particolare presso la casa di cura di Velletri». Indagine estesa anche alla clinica di Cassino con accertamenti affidati ai carabinieri dei Nas dai quali sarebbero emerse, raccontava De Dominicis, irregolarità tali da determinare un danno erariale enorme conseguente «non solo alla violazione sistematica delle convenzioni sanitarie ma soprattutto all'omissione di controllo sulla conformità e sulla regolarità delle prestazioni» rimborsate. E qui si arriva alle presunte pesantissime responsabilità e connivenze dei dirigenti pubblici. Primo fra tutti, l'ex direttore generale della Asl Carlo Mirabella, deceduto qualche mese fa. Personaggio noto alle cronache: occupava quel posto al tempo della giunta di Francesco Storace, ma era stato rimosso da Piero Marrazzo. Per tornare alla guida della Asl con Renata Polverini. Il suo sponsor, Franco Fiorito, «Er Batman» di Anagni, che dovendo rinunciare alla poltrona di assessore all'Agricoltura, aveva ottenuto di designare il direttore dell'Asl della propria zona d'influenza. Piazzando lì, oltre a Mirabella, anche il direttore amministrativo: l'ex segretario comunale di Anagni, città della quale Fiorito era stato sindaco. Tutto comincia nel 2005, quando Storace sta per lasciare la Regione. Mirabella firma un protocollo d'intesa con gli Angelucci che prevede la riconversione di 40 posti letto, sui 60 disponibili, da «Residenza sanitaria assistita» (Rsa) a «Riabilitazione alta intensità» (Rai) e «Lungodegenza alta intensità» (Lai). Due sigle esistenti solo nella regione Lazio, ma che garantiscono tariffe elevatissime. Per avere un'idea, si parla di cifre superiori alle 250 euro al giorno contro 100-110 euro della Rsa. Il Protocollo viene ratificato dal medesimo Mirabella il 14 febbraio del 2005 e lo stesso giorno, con rara e fulminea sollecitudine, la giunta Storace approva la relativa delibera, nonostante manchi il parere obbligatorio del direttore sanitario Sandra Spaziani. La quale, interrogata in seguito dai magistrati contabili, dirà di aver subìto numerose pressioni e riferirà anche di una telefonata di Antonello Iannarilli, allora assessore regionale all'agricoltura, futuro presidente della Provincia di Frosinone e deputato del Pdl: «Qua è passata una delibera della Asl e la firma tua non c'era... ». Dalle verifiche descritte nella citazione salta fuori di tutto. Prestazioni non erogate. Personale non abilitato ma adibito all'assistenza diretta ai pazienti. Cartelle cliniche con firme «identiche e seriali». Somme ingenti per prestazioni oltre budget liquidate alla casa di cura: quasi 54 milioni dal 2006 a oggi, a fronte di un fatturato riabilitazione pari a 124,3 milioni. Cambi di regime di ricovero dei pazienti con le tariffe più elevate non decisi dai medici ma dal personale amministrativo. Perfino «l'alterazione delle scale di Barthel», ovvero dell'indicatore di disabilità, non era stabilita dai sanitari. La rivelazione è sorprendente: «Uno dei soggetti che ha effettuato la maggior parte delle modifiche delle scale di Barthel», scrivono i giudici, «risulta inserito nell'elenco delle timbrature come addetto alle pulizie». Quando Cintolesi decide di dare fuoco alle polveri, avendo scoperto lo sforamento del budget , si scopre che non solo le prestazioni «incriminate» sono identiche a quelle già contestate alla clinica di Velletri, ma che il direttore sanitario della Asl frusinate Raffaele Ciccarelli «presente alle trattative regionali per il riconoscimento dei pagamenti over budget alla San Raffaele Cassino proveniva proprio dalla struttura San Raffaele Velletri». La Corte dei conti chiede chiarimenti a Renata Polverini, nella convinzione che le irregolarità dovrebbero comportare, oltre al «recupero delle somme percepite illegittimamente», la «revoca immediata dell'accreditamento» e l'azzeramento del budget . Ma questo non accade. «Anzi», ricordano i giudici, «veniva emanato dall'ex governatore «apposito decreto che prevedeva per la Casa di cura San Raffaele di Cassino l'istituzione di nuovi posti letto in medicina, in precedenza tagliati alle altre strutture pubbliche della Regione Lazio». Va precisato che gli 86 e rotti milioni di presunto danno erariale, su cui i giudici si esprimeranno il 17 dicembre, riguardano i soli tre anni dal 2007 al 2009, a cavallo fra le giunte Marrazzo e Polverini. 20 luglio 2013 | 7:32 © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/13_luglio_20/20130720NAZ01_35-2222251729771.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il blitz sulle pensioni d'oro. Inserito da: Admin - Agosto 09, 2013, 04:52:25 pm Gennaio '94, Gazzetta Ufficiale
Il blitz sulle pensioni d'oro La «leggina» più veloce della Repubblica Da Agnes a Gamberale, la corsa al fondo Inps. Tabacci: imporre la scelta tra assegni (pubblici) elevati e stipendi 91mila euro la pensione mensile che percepisce Mauro Sentinelli, ex manager Telecom (sinistra). 75 milioni di lire al mese è la pensione da cui è partito nel 1990, a 55 anni, Vito Gamberale (al centro)91mila euro la pensione mensile che percepisce Mauro Sentinelli, ex manager Telecom (sinistra). 75 milioni di lire al mese è la pensione da cui è partito nel 1990, a 55 anni, Vito Gamberale (al centro) «L' Italia è il Paese che amo...» erano le prime parole che Silvio Berlusconi pronunciava nel videomessaggio registrato che il pomeriggio del 26 gennaio 1994 annunciava la sua «discesa in campo». Nello stesso Paese, in quelle stesse ore, mentre in Parlamento suonava la campanella del «liberi tutti», sulla Gazzetta Ufficiale compariva una leggina di dieci righe, approvata dal Parlamento il giorno prima a tempo di record e a tempo di record pubblicata. Si sparse subito la voce che era stata fatta apposta per Biagio Agnes, l'ex direttore generale della Rai che da qualche anno aveva traslocato alla Stet, la finanziaria telefonica pubblica. Non era una malignità infondata. Quella leggina favoriva il passaggio al fondo dei telefonici presso l'Inps di chi godeva già di una pensione di una gestione diversa, magari di un altro fondo dello stesso istituto di previdenza. Fu così che Biagio Agnes, pensionato dal 1983, riuscì a decuplicare il suo assegno: da 4 milioni di lire a 40 milioni 493.164 lire al mese. Decorrenza, marzo 1994. Un mese dopo l'approvazione della legge. La cosa non passa inosservata. I Cobas del pubblico impiego diramano un comunicato al fulmicotone, rivelando che la ricongiunzione costerà alla Stet, cioè allo Stato (nel 1994 i telefoni sono ancora pubblici) e ai risparmiatori che hanno comprato il titolo in borsa, qualcosa come 5,8 miliardi di lire. Oggi sarebbero più di quattro milioni e mezzo di euro. Qualche giorno dopo che quelle dieci righe hanno tagliato in Senato l'ultimo traguardo, Dino Vaiano spiega sul Corriere com'è andata. Cominciando dagli autori. Il primo a correre in soccorso dell'irpino Agnes è il lucano Romualdo Coviello, deputato di Avigliano, in provincia di Potenza. Democristiano di sinistra come Biagione, non tradirà mai la causa. Dalla Dc ai popolari, alla Margherita. Racconta Vaiano: «Sono giorni caldi, le commissioni lavorano come slot machine, strizzando l'occhio alle lobby e alle categorie che potrebbero garantire voti. Le leggi decollano, fedeli all'equazione degli anni ruggenti della partitocrazia: spesa pubblica uguale voti. Perfino gli attenti funzionari parlamentari ammettono di non averci capito quasi nulla. Ma la rapidità è da record. La leggina sulle pensioni d'oro corre come Speedy Gonzales...» Il primato di velocità è tuttora imbattuto. Non così l'assegno. Abbiamo infatti scoperto che nel 2013 c'è chi, l'ex manager della Telecom inventore della «carta prepagata» Mauro Sentinelli, porta a casa 91.337 euro al mese. Il triplo di quanto varrebbe oggi la pensione di Agnes, che allora sembrava stratosferica. E il doppio di quella, addirittura extraterrestre, cui ha diritto dal 1999, quando aveva 55 anni, il suo ex capo Vito Gamberale: partiva da 75 milioni e 600 mila lire al mese. La leggina di cui stiamo parlando, in realtà, non fece che aggiungere un altro privilegio a quello monumentale già riservato al fondo Inps dei telefonici. Al quale non si applicava il tetto massimo dei 200 milioni di lire l'anno. La ragione? Semplice: nessuno dei dipendenti arrivava a quella cifra. Soltanto che a quel fondo si erano iscritti anche i manager. Tutti, anche se in teoria avrebbero dovuto versare i contributi all'Inpdai. Ma dato che all'Istituto previdenziale dei dirigenti d'azienda alle pensioni d'oro era in vigore appunto quel limite, avevano evidentemente preferito confondersi con gli operai e gli impiegati nel fondo dei telefonici. E quando gli stipendi hanno cominciato a lievitare come la panna montata, l'ondata di piena è stata terrificante. Anche perché le regole del contributivo garantivano pensioni praticamente identiche all'ultimo stipendio. Il capo della Sip Paolo Benzoni andò via con 39,2 milioni di lire al mese. Ernesto Pascale con 42. Francesco Chirichigno con 36. Umberto Silvestri con 38,5. Francesco Silvano con 37,3. L'elenco delle superpensioni telefoniche è sterminato, ed è arrivato fino a noi. Senza offrire risposta alla domanda più banale: perché in tanti anni non sono mai state cambiate le regole? Difficile dire. Certo, però, nel Bengodi pensionistico made in Italy i telefonici sono sempre stati in buona compagnia. Tetto o non tetto. Basterebbe ricordare i sontuosi trattamenti previdenziali dei dirigenti dell'Enel, che potevano aggirare il limite dei 200 milioni annui grazie a un faraonico fondo integrativo aziendale pagato dagli utenti con le bollette. Memorabili alcune pensioni, come quelle dei due direttori generali che si sono succeduti prima della trasformazione in spa, Alberto Negroni e Alfonso Limbruno, che si ritirarono entrambi con assegni da 37 milioni (di lire) al mese. Somme certamente enormi. Che fanno però sorridere al confronto di certe pensioni garantite, secondo regole che nessuno ha mai voluto mettere davvero in discussione, dallo Stato. L'ex segretario generale del Senato Antonio Malaschini, ex sottosegretario alla presidenza con Mario Monti, ha dichiarato di percepire una pensione di 519 mila euro lordi l'anno. Somma alla quale si deve aggiungere ora lo stipendio da Consigliere di stato. Perché le pensioni d'oro, da noi, hanno una particolarità: spesso chi le incassa continua a lavorare, talvolta ricoprendo incarichi pubblici altrettanto dorati. Per non parlare di altre micidiali stravaganze. La nomina a capo dell'Agenzia siciliana dei rifiuti, l'avvocato Felice Crosta, dirigente della Regione, fu accompagnata da un emendamento approvato anch'esso in un baleno dall'assemblea regionale grazie al quale gli venne riconosciuta di lì a poco una pensione di 460 mila euro. Dopo un'estenuante battaglia legale quell'assurdità è stata cancellata. Ma la storia la dice lunga su come funziona ancora l'Italia: tutto sommato, non è poi così diversa da quella della leggina che favorì Agnes e forse pochi altri. Ed è per questo che nel Paese dove le persone normali la pensione se la sognano, mentre le pensioni d'oro si accompagnano di regola a una retribuzione sontuosa, sarebbe forse il caso di prenderla seriamente in considerazione, la proposta avanzata da Bruno Tabacci, Angelo Rughetti, Andrea Romano e Fabio Melilli in una lettera al Corriere: i pensionati d'oro che intascano stipendi (pubblici) d'oro scelgano fra la pensione e lo stipendio. È una richiesta così scandalosa? 9 agosto 2013 | 8:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo da - http://www.corriere.it/cronache/13_agosto_09/pensioni-oro-blitz-per-legge-veloce_a3a66b18-00b6-11e3-8892-6722e21d9990.shtml Titolo: SERGIO RIZZO I controllori sono anche i controllati Inserito da: Admin - Agosto 14, 2013, 11:25:02 pm Costi pubblici
I controllori sono anche i controllati Gli incarichi multipli di politici e funzionari Dai sindaci in Parlamento ai collezionisti di presidenze e cda «Ma lei non ci dorme la notte?». Rispose così, Vincenzo De Luca, a un cronista del Fatto quotidiano che chiedeva al viceministro delle Infrastrutture se mai avrebbe lasciato l'incarico di sindaco di Salerno. «In Italia nessuno si è turbato della questione della mia incompatibilità, tranne qualche sfaccendato», chiosò. Non si è appurato se fosse riferito ai giornalisti che avevano sollevato il caso, sottolineando come gli capitassero casualmente sul tavolo da viceministro dossier riguardanti proprio la sua città (tipo la metropolitana leggera di Salerno) o ai politici che lo punzecchiavano fin dal giorno della sua nomina governativa. Per esempio l'ex guardasigilli berlusconiano Francesco Nitto Palma, che insorse perché, mentre De Luca se ne stava placidamente seduto sulle due poltrone, il suo Partito democratico presentava in Campania due mozioni contro gli assessori regionali Marcello Taglialatela e Giovanni Romano, rispettivamente deputato del Fli e sindaco di Mercato San Severino, un Comune di oltre 22 mila abitanti. Qualche «sfaccendato» alla Camera e poi al Senato, tuttavia, ha per fortuna fatto secco quell'emendamento malandrino al «Decreto del Fare» (ma perché da qualche tempo in qua le leggi hanno tutte un soprannome?) che gli avrebbe consentito di conservare il doppio incarico. Così De Luca dovrà lasciare, e quegli impiccioni della stampa dormiranno tranquilli. I bei tempi in cui alle polemiche sui doppi e tripli incarichi si replicava con un'alzata di spalle sono ormai lontani. È finita l'epoca del Parlamento pieno zeppo di sindaci di grandi città, da Palermo a Brescia e Catania, e di presidenti di Provincia, da Napoli a Caserta e Bergamo. Al massimo si può incontrare il primo cittadino di qualche centro più piccolo, qual è Simonetta Rubinato: deputato Pd e sindaco di Roncade, 14 mila abitanti in provincia di Treviso. Nel governo, i ministri Flavio Zanonato e Graziano Del Rio non sono più sindaci di Padova e Reggio Emilia. Il solo sottosegretario agli Affari regionali Walter Ferrazza, arrivato al governo per un irripetibile caso della vita, conserva ancora l'incarico di sindaco. Il suo paese è Bocenago, 396 anime in provincia di Trento. Nemmeno un pezzo da Novanta come l'ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni, una volta diventato senatore ha potuto conservare l'incarico di commissario generale dell'Expo 2015. Ha tentato. Ma il vento era cambiato e non c'è stato nulla da fare. Antonio Verro, invece, non ha neppure provato a tenere il piede in due staffe: era una missione impossibile. Deputato di Forza Italia per due legislature, nel 2008 era rimasto fuori dal Parlamento. Risarcito con un posto da consigliere Rai, a febbraio del 2013 è stato rieletto, stavolta al Senato. Il bello è che candidandosi non aveva nemmeno dovuto rinunciare alla poltrona. Così tre mesi dopo le elezioni si è potuto dimettere da senatore annunciando la decisione di voler restare alla tivù di Stato. Mistero circa i motivi che hanno determinato questa curiosa conversione a U: ma la vicenda, inconcepibile in qualunque altro Paese occidentale sviluppato, è la riprova che la Rai è, e resta, una faccenda privata dei partiti. Perfino le potenti categorie dei magistrati, cui è stato imposto con fatica l'obbligo del collocamento fuori ruolo per alcune mansioni extragiudiziali, hanno ora difficoltà a mantenere incarichi multipli. Il segretario generale dell'Antitrust Roberto Chieppa non potrà continuare a fare contemporaneamente il consigliere di Stato. Né Gaetano Caputi ricoprire insieme il ruolo di direttore generale della Consob e componente dell'authority per il diritto di sciopero. Capiamoci: non che il «fuori ruolo» abbia chiuso del tutto la stagione dei centauri. Ci sono sempre gli incarichi «gratuiti», come quello di presidente della Corte di giustizia federale della Federcalcio (Gerardo Mastrandrea, consigliere di Stato). O altre mansioni istituzionali: il giudice del Tar Calogero Piscitello è presidente del collegio dei revisori dell'Istat. Per non parlare della messe di incarichi governativi, o di consulenza nelle autorità indipendenti: comitati del precontenzioso, consiglieri giuridici... E i prefetti? Per ben otto mesi Umberto Postiglione è stato prefetto di Palermo e commissario governativo della Provincia di Roma. Attualmente somma questo secondo incarico con la direzione degli affari interni del ministero, quella che si occupa di vigilare sugli enti locali. Come appunto le Province. Stakanovista non da oggi: per dieci anni è stato sindaco di Angri, un Comune di 30 mila abitanti, senza andare in aspettativa dal ministero dell'Interno. Basta poi che la luce dei riflettori si allontani perché tutto assuma contorni più impalpabili e sfumati. Giovanni Romano, per esempio, resiste: assessore all'Ambiente della Campania e sindaco di Mercato San Severino. Resiste anche Mario Mantovani, ex senatore ed ex sottosegretario, oggi vicepresidente della Regione Lombardia, di cui è consigliere e assessore alla Sanità, nonché sindaco di Arconate. Di più: alla di lui famiglia fanno capo undici strutture sanitarie convenzionate con la sua Regione, per un totale di 830 posti letto. Resiste Daniele Molgora, che era arrivato a cumulare la presidenza della Provincia di Brescia al seggio parlamentare e allo scranno da sottosegretario all'Economia: oggi, oltre alla guida della giunta provinciale, ha un posto da consigliere nella società dell'autostrada Brescia-Padova. Resiste l'ex parlamentare Valentina Aprea, assessore della Lombardia e consigliere di Finlombarda insieme all'ex onorevole leghista, e assessore a sua volta, Massimo Garavaglia. Si dirà che è normale, in periferia. Chi deve stare nelle società partecipate, se non gli amministratori? Poco male se poi i controllori diventano anche controllati... Questione di punti di vista. Certo è ancor meno normale che il presidente della Provincia di Varese (oggi commissario), qual è l'ex parlamentare del Carroccio Dario Galli, sia anche consigliere di amministrazione della Finmeccanica, oltre che presidente dell'Agenzia per il turismo provinciale e del cosiddetto «ambito territoriale ottimale» varesino. Oppure che un consigliere regionale della Campania, nella fattispecie Annalisa Vessella, ricopra insieme l'incarico di amministratore delegato della Isa, società controllata dal ministero dell'Agricoltura che distribuisce decine di milioni l'anno. Ma questa è l'Italia. Dove in un amen, si può diventare collezionisti di poltrone pubbliche. Senza che ci sia una scadenza. Ricordate Andrea Monorchio? Indimenticato ex Ragioniere generale dello Stato, incarico che ha lasciato 12 anni orsono, attualmente è presidente della società assicurativa pubblica Consap nonché capo dei revisori di Telespazio (Finmeccanica), Fintecna e Fintecna immobiliare (Tesoro). Ricordate l'espertissimo e potentissimo Vincenzo Fortunato? Negli ultimi 12 anni è stato capo di gabinetto di cinque diversi ministri dell'Economia e di un ministro delle Infrastrutture. Uscito dalle scene ministeriali, ha avuto subito tre incarichi: presidente di Investimenti immobiliari italiani, la nuova società del Tesoro che dovrà «valorizzare» (parola che fa venire i brividi, visti i precedenti) immobili pubblici per un miliardo e mezzo, liquidatore della Stretto di Messina (quella che avrebbe dovuto fare il famoso ponte) e capo del collegio sindacale di Studiare sviluppo, una società di consulenza del ministero dell'Economia. Nessuno, tuttavia, potrà mai toccare le vette raggiunte dal presidente dell'Inps Antonio Mastrapasqua. Quando è stato nominato dal governo di Silvio Berlusconi, nel 2008, occupava una quarantina di poltrone. Pubbliche e private. Adesso, con tutto quello che ha da fare dopo la fusione fra l'Inps e l'Inpdap, gliene sono rimaste quindici. Ma che poltrone. C'è, fra le tante, la presidenza della società di gestione di fondi immobiliari Idea Fimit. C'è la vicepresidenza di Equitalia. C'è la presidenza dei collegi sindacali di Adr engineering, Aquadrome ed Eur Tel (Tesoro). Ci sono gli incarichi da revisore nelle Autostrade, Coni servizi e Loquendo (Telecom). Dulcis in fundo, c'è pure un posto da direttore generale: all'Ospedale israelitico di Roma. 13 agosto 2013 | 7:42 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_13/i-controllori-sono-anche-i-controllati-gli-incarichi-multipli-di-politici-e-boiardi-sergio-rizzo_9ea1f9fc-03d1-11e3-b7de-a2b03b792de4.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Licio Gelli non è più commendatore Inserito da: Admin - Agosto 16, 2013, 09:26:55 am IL «VENERABILE»
Licio Gelli non è più commendatore La (lentissima) scoperta della burocrazia Onorificenza revocata 32 anni dopo il caso delle liste P2 Sergio Rizzo Licio Gelli (Ansa/Degl'Innocenti)Licio Gelli (Ansa/Degl'Innocenti) Si sono ricordati di lui, Licio Gelli, a 94 anni suonati. È stato così che il Venerabile Maestro della loggia Propaganda 2 ha perso il titolo di commendatore della Repubblica italiana. Succede anche questo, nell’Italia dove per ogni cosa il tempo si dilata all’infinito: un’autorizzazione, una licenza, un processo, perfino la revoca di un’onorificenza. Basta dire che dalla scoperta delle liste della P2, avvenuta il 17 marzo 1981 a Castiglion Fibocchi in seguito a una perquisizione ordinata dai giudici Gherardo Colombo e Giuliano Turone che indagavano sul finto rapimento del bancarottiere Michele Sindona, sono trascorsi 32 anni, quattro mesi e tradici giorni. Mentre sono quattro le condanne ormai passate in giudicato, fin dagli anni Novanta. Ebbene, della perdita dell’onorificenza di commendatore apprendiamo dalla Gazzetta ufficiale del 29 luglio 2013, che pubblica uno scarno comunicato del segretariato generale del Quirinale, competente per la materia: il capo dello Stato è infatti il Gran Maestro dell’Ordine al Merito della Repubblica. C’è scritto che «su disposizione del Cancelliere dell'Ordine, ai sensi dell'art. 11 del decreto del Presidente della Repubblica 13 maggio 1952, n. 458, si è provveduto all'annotazione delle sentenze di condanna e del provvedimento di unificazione pene emesse dal Procuratore generale della Procura generale della Repubblica presso la Corte di appello di Milano, con le quali il sig. Licio Gelli è stato condannato, a seguito di vari reati, ad anni 30 di reclusione, nonché, tra le altre cose, alla pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, che comporta, ope legis, la perdita dell'onorificenza». Precisa ancora, il comunicato, che «al sig. Licio Gelli era stata conferita l'onorificenza di commendatore con decreto del Presidente della Repubblica 2 giugno 1966». Capo dello Stato era il socialdemocratico Giuseppe Saragat. Simon & Garfunkel pubblicavano The sound of silence, colonna sonora del Laureato, negli Stati Uniti la televisione trasmetteva la prima puntata di Star Trek, l’Arno straripava a Firenze. Gelli aveva 47 anni, e per altri 47 si è potuto fregiare del titolo di commendatore della Repubblica. Finché la nostra burocrazia ha avuto un sussulto di memoria. Meglio tardi che mai. 30 luglio 2013 | 15:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_30/licio-gelli-revoca-commendatore_2db59f3a-f91a-11e2-a534-1599fd49895b.shtml Titolo: SERGIO RIZZO LA SVENDITA AI FRANCESI E i «patrioti» abbandonarono Alitalia Inserito da: Admin - Settembre 24, 2013, 04:36:57 pm LA SVENDITA AI FRANCESI
E i «patrioti» abbandonarono Alitalia di SERGIO RIZZO Il tricolore dell'Alitalia sarà dunque ammainato, al modico prezzo di cinque miliardi per gli italiani. Le indiscrezioni che circolano da settimane portano a una sola conclusione: l'avventura dei nostri «patrioti», come il Cavaliere definì quegli imprenditori che cinque anni fa si misero al servizio dell'operazione di «salvataggio» della compagnia di bandiera dalle grinfie francesi, è avviata al capolinea. L'Alitalia finirebbe all'Air France-Klm per un piatto di lenticchie decisamente più misero di quello che ci avrebbero offerto allora. E a sentire i giornali parigini, dovremmo perfino ringraziare la compagnia franco-olandese di prendersi questa rogna. Per capire che sarebbe andata così, purtroppo, non ci voleva la palla di vetro. La storia dell'Alitalia è costellata d'incredibili errori manageriali, spesso conseguenza delle spregiudicate incursioni d'una politica totalmente disinteressata all'azienda e al Paese. Ma di tutti gli infortuni, l'ultimo è senza alcun dubbio il più clamoroso. Nel 2008 la nostra compagnia di bandiera, reduce dai trattamenti cui abbiamo accennato, era sull'orlo del fallimento. Air France-Klm si offrì di rilevarla pagando lo Stato italiano in azioni, con una quota di minoranza del grande gruppo nel quale sarebbe confluita, per un controvalore di 140 milioni. Avrebbe quindi investito un miliardo di euro nell'azienda, accollandosi pure 1,4 miliardi di debiti. Si sarebbero per giunta evitati il fallimento e la liquidazione, presumibilmente infinita, dell'Alitalia, con costi forse altrettanto infiniti per le pubbliche casse. Il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, dopo aver inutilmente fatto il giro delle sette chiese per trovare qualche imprenditore italiano disposto a rilevare la compagnia, s'era rassegnato alla soluzione francese. Da italiano, senza fare salti di gioia. Confessò di sentirsi «come il guidatore di un'ambulanza che sta correndo per portare il malato nell'unica clinica disposta ad accettarlo». La campagna elettorale però infuriava e a Silvio Berlusconi non sembrò vero che gli venisse consegnata su un piatto d'argento un'arma tanto affilata per la sua offensiva propagandistica contro la sinistra accusata di voler «svendere» l'Alitalia ai francesi. Sappiamo com'è andata: il centrodestra vinse le elezioni, la vendita sfumò, la compagnia fu messa in liquidazione e si diede vita ad un'Alitalia bis guidata da Roberto Colaninno. Berlusconi non poteva venir meno alle promesse fatte prima delle elezioni e impegnò a fondo l'apparato (e il portafoglio) pubblico. Niente debiti, cassa integrazione per ben cinque anni, bonus per le assunzioni, deroghe alla concorrenza... Il disegno però non sarebbe andato a buon fine senza l'appoggio determinante del futuro ministro Corrado Passera, che collocò la sua Banca Intesa-San Paolo in prima fila fra gli azionisti. Alcuni dei quali, perfino concessionari dello Stato. A cinque anni di distanza, ecco l'inevitabile resa dei conti. Magra consolazione per chi fin dall'inizio avvertiva (e temeva) che il conto dell'operazione «patrioti» lo avrebbero pagato gli italiani. Su questo giornale, Antonella Baccaro ha calcolato che il presunto salvataggio dell'Alitalia ci sia già costato 3,2 miliardi. Senza considerare il mancato incasso per la vendita, la liquidazione della vecchia compagnia, i maggiori oneri per gli utenti causati dal monopolio triennale sulla tratta Milano-Roma, gli scioperi del personale... E la bolletta per i contribuenti sarebbe stata ancora più salata se l'amministratore delegato d'Invitalia Domenico Arcuri e l'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, non avessero resistito alle pressioni di Palazzo Chigi che voleva far intervenire accanto ai «patrioti» la società pubblica. Ma anche senza quel supplemento, s'è arrivati a una cifra non troppo lontana dai 5 miliardi. Somma ben superiore, va ricordato, al gettito Imu per la prima casa. Noi ce ne ricordiamo. Però vorremmo che se ne ricordassero anche i responsabili di quell'immane spreco. E magari chiedessero scusa, prima di pretendere l'abolizione dell'imposta su tutte le case di residenza e il blocco dell'aumento Iva. Perché ad appesantire il macigno di quelle tasse c'è una pietruzza che hanno messo loro. da - http://www.corriere.it/economia/13_settembre_24/i-patrioti-abbandonarono-alitalia_be3a832a-24d2-11e3-bae9-00d7f9d1dc68.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il federalismo alla rovescia Debito pubblico Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2013, 05:28:52 pm COMUNI IN ROSSO E DEBITI DI STATO
Il federalismo alla rovescia Debito pubblico Il nostro curioso federalismo alla rovescia non smette di presentare conti salatissimi ai contribuenti. Dopo le Regioni alle prese con deficit sanitari allucinanti, tocca ora ad alcuni grandi Comuni battere cassa per tappare le voragini dei loro conti. Succede a Roma dove il sindaco appena arrivato chiede aiuto per sanare il passivo ereditato: 867 milioni. Ma arriva dopo, Ignazio Marino, rispetto ai suoi colleghi di Napoli e Catania. Senza poter escludere che altri ne seguiranno l’esempio. La galleria degli orrori che ieri ha pubblicato Il Sole 24 Ore passa da Palermo e Genova, sfociando in una Milano che deve reperire circa 500 milioni entro fine anno. I Comuni incolpano il taglio dei trasferimenti, sostenendo di aver sborsato il prezzo più caro per risanare le finanze pubbliche. Vero. Anche se poi questo prezzo finisce ribaltato in buona parte sullo Stato centrale. Il che dovrebbe indurre certi amministratori a un serio esame di coscienza. Chi rivendica autonomia avrebbe l’obbligo di ricordare che questa implica responsabilità. Il federalismo da molti invocato dovrebbe basarsi su tale principio basilare. È diventata invece una parola vuota, comodo paravento per gestioni sconsiderate e clientelari senza essere chiamati a risponderne. Peggio ancora: scaricando pure gli effetti sull’intera collettività. Valga per tutti il caso di Roma, scossa negli ultimi anni dalla Parentopoli di migliaia di assunzioni nelle municipalizzate. Il Campidoglio ha 25 mila dipendenti, numero cui si deve aggiungere quello del personale delle partecipate, che il sito Internet indica in 37 mila. La sola azienda di trasporto locale, l’Atac, paga circa 12 mila stipendi e dal 2008 ha accumulato 600 milioni di perdite. Per offrire un servizio che certo non può essere considerato degno della capitale d’Italia. Sappiamo che è un problema di ogni città, piccola e grande. Senza contributi pubblici nessuna azienda di trasporto locale avrebbe conti in equilibrio. Chi sale su un autobus, un tram o una metropolitana paga infatti un prezzo politico che copre una frazione del costo effettivo. Il fatto è che non di rado quella frazione, per come sono gestite moltissime aziende, è infinitesima. Il resto viene così caricato sulle spalle di tutti gli italiani: chiamati quindi a sopportare non solo il peso legittimo del servizio universale, ma anche quello illegittimo di sprechi, inefficienze e clientele locali. Al riguardo, i dati della Confartigianato parlano chiaro. Fra il 2000 e il 2010 le tariffe dei servizi pubblici locali sono cresciute in Italia del 54,2 per cento, il doppio dell’inflazione e ben 24 punti in più rispetto alla media europea: nel periodo dal 2003 al 2013 la sola tassa sui rifiuti è lievitata del 56,6 per cento, contro il 32,2 per cento dell’eurozona. E ciascuno può giudicare se la qualità sia migliorata in proporzione. Una tassa occulta gigantesca non più accettabile. Da spazzare via obbligando tutti i Comuni alla trasparenza assoluta dei costi dei servizi, affinché i cittadini possano regolarsi di conseguenza quando sarà l’ora del voto, e approvando senza indugio la norma che imporrebbe la liquidazione delle municipalizzate in dissesto. Se si vuole restituire alla parola «federalismo » il suo vero significato, è il minimo che si possa fare. 07 ottobre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_07/federalismo-rovescia-49afc04c-2f13-11e3-bfe9-e2443a6320c1.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - REGIONI E SPRECHI INSOSTENIBILI Dimagrire senza proteste Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2013, 05:23:59 pm REGIONI E SPRECHI INSOSTENIBILI
Dimagrire senza proteste Alla sua prima legge di Stabilità il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni ha imparato quanto sia complicato nel nostro Paese usare le forbici. Ma al tempo stesso come si possa aggirare il problema inventando nuove tasse, nazionali e locali: che suscitano proteste decisamente meno rumorose e ingombranti rispetto a quelle che si scatenano quando qualunque governo fa balenare l’ipotesi di un giro di vite alle spese. Le Regioni sono arrivate a minacciare la rivolta di fronte alla prospettiva di tagli alla Sanità che il loro rappresentante Vasco Errani ha giudicato senza timori come «insostenibili». Fare di tutta l’erba un fascio è sempre sbagliato. E certi tagli sconsiderati possono creare danni superiori al risparmio mettendo a repentaglio servizi essenziali. Ma con altrettanta chiarezza va detto che se c’è una cosa davvero non più «sostenibile» per chi paga le tasse è il livello raggiunto dalla spesa pubblica in rapporto alla qualità spesso scadentissima dei servizi stessi. Molte Regioni, da questo punto di vista, sono un autentico buco nero. Dal 2000 al 2010 la spesa pubblica regionale ha superato di slancio i 200 miliardi di euro. La crescita è stata di 89 miliardi, che corrisponde a un incremento del 75 per cento monetario e del 45,4 per cento oltre l’inflazione. Questo aumento abnorme sarebbe giustificato dal trasferimento di competenze dallo Stato centrale alle Regioni determinato dalla riforma del titolo V della Costituzione. Una scelta politica che secondo logica avrebbe dovuto causare una corrispondente riduzione del bilancio statale: più spese in periferia, dunque meno spese al centro. È accaduto invece il contrario. All’esplosione delle spese periferiche ha corrisposto anzi un ulteriore aumento di quelle centrali. Mentre le uscite regionali aumentavano del 45,4 per cento, la parte restante della spesa pubblica segnava una crescita reale del 17,7 per cento, con una progressione sconosciuta in Europa. Ovvio che per alimentare una macchina impazzita, capace di ingoiare nel 2010 ben 245 miliardi in più rispetto a dieci anni prima, la pressione fiscale sia andata letteralmente in orbita. Il doppio fallimento del centrosinistra che volle imporre a maggioranza la riforma del titolo V alla vigilia della disfatta elettorale del 2001, e del centrodestra che ha poi governato per la stragrande maggioranza del tempo lo Stato centrale e molte Regioni, è tutto in questi numeri. E veniamo alla Sanità. La crescita della spesa regionale in un decennio è per circa 50 miliardi attribuibile al servizio sanitario. Che purtroppo, almeno in un bel pezzo d’Italia, non si può dire sia migliorato in proporzione. Tutt’altro. L’ultimo rapporto della commissione parlamentare d’inchiesta conferma l’esistenza di un divario territoriale inaccettabile, con un rischio per la salute triplo al Sud nei confronti del Nord e sprechi inimmaginabili. Perché il problema non è soltanto quanti soldi vengono spesi, ma come. Quando si protesta contro i tagli bisognerebbe anche ricordare questo princi-pio elementare. Soprattutto se per limitare le sforbiciatine arrivano nuove tasse. 15 ottobre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_15/dimagrire-senza-proteste-cb5c034e-3558-11e3-9c0c-20e16e3a15ed.shtml Titolo: Sergio Rizzo. Il sogno di abbattere il debito dello Stato Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 09:31:39 am Gli obiettivi: vendite per ridurre il debito pubblico e contenere il deficit.
Carceri, scuole,ospedali e palazzi nel superfondo degli immobili di stato Il sogno di abbattere il debito dello Stato Nel centro del centro di Roma c’era una volta un ospedale. San Giacomo, si chiamava. Finché un bel giorno il governatore del Lazio, Piero Marrazzo, decise di chiuderlo. Apriti cielo! Chi protestava che il centro storico della Capitale veniva privato del pronto soccorso. Chi sosteneva che si voleva infliggere un colpo mortale alla sanità pubblica. Chi sospettava una manovra per favorire la speculazione edilizia… Risultato: che da cinque anni il San Giacomo, uno stabile enorme fra via di Ripetta e via del Corso, è vuoto. E Dio solo sa quanto costa alla Regione per evitare che cada a pezzi. Perché un tale patrimonio non viene riutilizzato? Vi spiegheranno che la faccenda è complicata. L’immobile è vincolato e poi c’è la questione sollevata da Olivia Salviati, discendente del cardinale Antonio Maria Salviati che al tempo lo regalò allo Stato pontificio: sostiene che fu donato esplicitamente per usi benefici e non può essere impiegato che per quelli. Insomma, se qualcuno ha pensato di trasformarlo in uffici, o peggio ancora di metterci un albergo, se lo può scordare. Anche se in questi frangenti far risparmiare qualche euro alla collettività, diciamo la verità, può ben essere considerata un’opera benefica. E pazienza se l’ultimo Papa Re è sceso dal trono un secolo e mezzo fa e l’ospedale è finito in proprietà prima al Regno d’Italia e successivamente alla Regione Lazio. Il fatto è che per cinque lunghi anni nessuno si è occupato di risolvere la faccenda. Gli immobili dello Stato in vendita Quale sia il motivo, se le inerzie burocratiche o altro, poco importa. La storia del San Giacomo spiega bene quanto sia complicato in Italia gestire l’immenso patrimonio pubblico senza rimetterci l’osso del collo. Alla fine degli anni Novanta una commissione guidata dall’ex ministro della Funzione pubblica Sabino Cassese lo valutò in una somma equivalente a oltre 700 miliardi di euro attuali. Stime successive hanno calcolato per i beni pubblici effettivamente cedibili un valore compreso fra 300 e 400 miliardi. Eppure, mentre la rendita di un patrimonio tanto imponente è inesistente, lo Stato e le amministrazioni pubbliche locali spendono 12 miliardi l’anno per affittare locali dai privati. Un’analisi svolta dal gruppo di lavoro di Pietro Giarda ha appurato che soltanto la polizia e i carabinieri sopportano per canoni passivi un esborso superiore a 600 milioni l’anno. Gli immobili trasferiti a Cdp Ecco perché, dopo averle pensate tutte, il ministero dell’Economia si è risolto a giocare l’ultima carta, quella del fondo dei fondi. Qualche mese fa ha costituito una Sgr, Società di gestione del risparmio, battezzata Invimit, e l’ha affidata all’ex direttrice dell’Agenzia del Demanio Elisabetta Spitz con il ruolo di amministratore delegato, affiancata da una vecchia conoscenza del ministero con l’incarico di presidente: Vincenzo Fortunato, per dodici anni consecutivi capo di gabinetto del Tesoro di Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Mario Monti e Vittorio Grilli con un breve intermezzo biennale alle Infrastrutture di Antonio Di Pietro. Obiettivo, far risparmiare un po’ di soldi ai contribuenti e magari dare un colpettino al nostro immenso debito pubblico. In che modo? Gestendo direttamente, o anche attraverso altre Sgr (magari private) una serie di fondi immobiliari nei quali lo Stato, o magari le Regioni e gli enti locali, riversano pezzi del loro patrimonio perché venga o valorizzato oppure ceduto. Un esempio? Le scuole. Ce ne sono tante non più utilizzate mentre mancano i soldi per riparare il tetto o mettere a norma gli impianti delle altre o costruirne di nuove e più moderne. La Provincia X potrebbe allora costituire un fondo immobiliare al quale apportare tutti gli edifici scolastici: quelli non più usati verrebbero riconvertiti, affittati ai privati come uffici o venduti, e con il ricavato si realizzerebbero strutture nuove. Tutto semplice, sulla carta: salvo poi fare i conti con la solita burocrazia (permessi, cambiamenti di destinazione d’uso…) quando non con le resistenze locali. Scontate. Il piano d’azione della Invimit, che ha avuto dieci giorni fa il benestare della Banca d’Italia, prevede soprattutto, che la Sgr, oltre a gestire direttamente questi fondi, possa trovare sul mercato soggetti privati disponibili a investirvi. E per soggetti privati s’intende non soltanto italiani. Il piano cita espressamente le casse di previdenza private, le compagnie di assicurazioni ma anche gli investitori finanziari esteri. Le dimensioni cui pensano i responsabili dell’operazione lo giustificherebbero. Lo stesso piano prevede infatti che entro il 2017 i fondi collegati alla Invimit arrivino a contenere immobili pubblici per un controvalore di 6 miliardi e 100 milioni di euro. Quattro miliardi riguarderanno i cosiddetti fondi diretti, ai quali parteciperanno conferendo i propri immobili Inps, la Regione Lazio, l’Unioncamere e l’Inail. La partecipazione di quest’ultimo ente, però, non si limiterà ai mattoni. Siccome per partire serviranno delle risorse liquide, a queste si provvederà proprio attingendo al tesoretto dell’Inail, che ci metterà qualcosa come un miliardo e 800 milioni. Il primo di questi «fondi diretti» avrà dentro immobili dell’Inps per 1,9 miliardi. Poi toccherà alla Regione Lazio apportare beni per 800 milioni. L’ente governato ora da Nicola Zingaretti ha un patrimonio sterminato. Dell’ex ospedale San Giacomo si è già detto: ma non è l’unico. C’è l’ex nosocomio Santa Maria della Pietà a Monte Mario, come pure l’ex Forlanini. E ci sono poi altri immobili in zone prestigiose, quali il palazzo di via Maria Adelaide occupato dalla associazione Action dell’ex pugile Andrea Alzetta detto «Tarzan» (valore, 28 milioni di euro) o lo stabile in via della Mercede, a due passi dalla Camera dei Deputati, che ospita il teatro Sala Umberto. Ancora. Fra il 2016 e il 2017 toccherà al patrimonio Inail: 1,4 miliardi. L’elenco degli immobili di pregio nel portafoglio dell’istituto è lunghissimo, a cominciare da un grande palazzo che affaccia su piazza Cavour, a Roma. Ci sono poi i cosiddetti Fondi dei fondi, per un totale di 1,8 miliardi. Come appunto il Fondo scuole, cui abbiamo già accennato, per il quale sono stati già individuati dei complessi a Bologna e Firenze. E come il Fondo carceri, nel quale confluiranno inizialmente le case circondariali di Venezia e di Catania. Oppure il Fondo Beni pubblica amministrazione che conterrà stabili demaniali da destinare a uffici pubblici. E a questo punto è d’obbligo dare risposta a una domanda: che cosa ci guadagnerà in concreto lo Stato? Si è parlato di una riduzione del debito pubblico conseguente alle cessioni. Il destino di molti immobili contenuti in quei fondi, come per esempio le carceri senza detenuti o le caserme senza soldati, saranno vendute e il ricavato dovrà abbattere il debito pubblico. Difficile valutare ora il reale impatto di tale capitolo, come non è semplice calcolare di quanto questa iniziativa potrà alleggerire il deficit pubblico. Ma fra gli obiettivi c’è anche questo. Aumentare la redditività del patrimonio di un ente previdenziale, per fare un esempio, avrebbe come conseguenza la corrispondente riduzione dei trasferimenti pubblici. Così come trasferire un ufficio pubblico da un immobile di proprietà privata a un palazzo demaniale farà risparmiare la spesa dell’affitto. Senza poi considerare gli effetti sui costi di manutenzione e delle utenze della riduzione del numero dei contratti di fornitura, già sperimentati recentemente al Consiglio nazionale delle ricerche dove si sono ottenuti risparmi considerevoli. Ma a guadagnarci saranno anche i privati. Un simile affare prevede non soltanto l’acquisizione di quote di questi fondi da parte di investitori italiani ed esteri, e l’affidamento della loro gestione tramite gara a Sgr terze, ma pure il coinvolgimento di professionisti del ramo immobiliare. Staremo a vedere se le previsioni contenute nel piano saranno rispettate. Possiamo solo sperare che questa iniziativa segni un effettivo cambiamento di rotta nella gestione del patrimonio pubblico. E che alla parola «valorizzazione» seguano i fatti. Perché non si può dire che i tentativi di mettere a frutto gli immobili pubblici abbiano dato finora risultati particolarmente lusinghieri. Basta pensare al fallimento di operazioni come Patrimonio spa, la società creata dieci anni fa dal Tesoro e affidata a Massimo Ponzellini con la missione di privatizzare le vecchie carceri. Oppure come Metropolis, ideata più di vent’anni fa per valorizzare e cedere gli immobili delle Ferrovie dello Stato. O ripercorrere la storia delle cartolarizzazioni, che avrebbero dovuto contribuire alla sostanziosa riduzione del debito pubblico, attirandosi invece giudizi ingenerosi della Corte dei conti. Per non parlare della sabbia che gli interessi particolari hanno sempre gettato negli ingranaggi ogni volta che c’era in ballo qualche operazione virtuosa sul patrimonio pubblico: fossero le caserme, gli ospedali o perfino i terreni agricoli. Che serva di lezione. 21 ottobre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo http://www.corriere.it/economia/13_ottobre_21/carceri-scuoleospedali-palazzi-superfondo-immobili-stato-501b1666-3a12-11e3-970f-65b4fa45538a.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - Inefficienze per 2,6 miliardi Inserito da: Admin - Novembre 04, 2013, 05:36:22 pm I calcoli sui vantaggi economi del taglio delle province
Oltre 11 mila nuovi posti negli asili nido con il taglio della politica nelle Province Dalle consulenze alle spese correnti, le stime dei ministeri sui benefici del la soppressione. Inefficienze per 2,6 miliardi È una sfiancante guerra di trincea, quella che si combatte sul destino delle Province. Una guerra cui neppure i calcoli sui risparmi che si potrebbero ottenere eliminando i soli apparati politici, equivalenti secondo un dossier del ministero degli Affari regionali a 11.300 nuovi posti negli asili nido italiani, afflitti da un deficit drammatico, riesce a imprimere una svolta. Una guerra nella quale un Paese che ha un disperato bisogno di tagliare la spesa pubblica è invischiato ormai da anni, nonostante non ci sia stata una forza politica che non si sia schierata per l’abolizione di quegli enti. E le armi più acuminate sono i numeri che si scambiano i due schieramenti opposti. Da una parte i bellicosi esponenti del partito delle Province, rianimati dalla sentenza della Consulta, affermano che la soppressione produrrebbe un aumento dei costi (tesi cara all’Upi). Un paio di miliardi l’anno, addirittura. L’obiettivo è almeno allungare i tempi della legge del ministro Graziano Delrio per arrivare fino alla prossima primavera, contando che a quel punto sarà impossibile non andare a votare per rinnovare più di 70 consigli provinciali: con il risultato di mettersi al sicuro per altri cinque anni. Delrio: «Svuota province da approvare entro dicembre, se si votasse a primavera sarebbe una beffa» Dall’altra chi è determinato a fiaccarne la resistenza, con l’obbligo di far passare prima di Natale quel provvedimento, oggetto di una estenuante melina in commissione alla Camera presieduta dal pidiellino Francesco Paolo Sisto, snocciola dati completamente diversi. A cominciare dai 113 milioni e 630 mila euro stimati dalla Bocconi come costo per le sole indennità degli oltre 4.200 politici provinciali: dai presidenti delle giunte ai consiglieri. Somma che come dicevamo potrebbe essere investita secondo il ministero di Delrio in 11.300 nuovi posti negli asili nido. Oppure nel dissesto idrogeologico del Paese, considerando che lo stanziamento statale per affrontare quel gravissimo problema non raggiunge un quarto di tale cifra. Ma è niente, rispetto ai risparmi che quel dossier ministeriale ipotizza. Province: spese, inefficienze e risparmi Province: spese, inefficienze e risparmi Per esempio, le spese correnti amministrative delle Province. Ammontano a 2,3 miliardi: dei quali sarebbero aggredibili un miliardo 335 milioni, considerando che il costo del personale, pari al 43 per cento del totale, non verrebbe toccato: i dipendenti resterebbero in carico alla Provincia, trasformata in organismo non più elettivo con funzioni ridotte, o transiterebbero in forza ad altri enti. Di più. L’analisi condotta dalla Sose (Soluzioni per il sistema economico), società di consulenza e servizi controllata dal ministero dell’Economia e dalla Banca d’Italia, nel 2012 ha stimato per la spesa di beni e servizi delle Province un tasso di inefficienza pari al 31,44 per cento, calcolando un risparmio possibile di 2 miliardi 612 milioni di euro a fronte di una massa di risorse pari a 8 miliardi 297 milioni. Dalle sole spese per gli organi istituzionali, le consulenze, le collaborazioni e i contratti di cosiddetto «global service» si potrebbero recuperare oltre 553 milioni, considerando una inefficienza addirittura superiore. Pari in questi campi, secondo Sose, al 55,36 per cento. Per tutta risposta, l’Unione delle Province argomenta che l’aumento dei costi colpirebbe settori nevralgici, come quello delle scuole. Dice l’associazione guidata dal democratico presidente della Provincia di Torino Antonino Saitta che la spesa per riscaldarle, una volta che la funzione venisse trasferita ai Comuni, lieviterebbe del 53 per cento: 424 milioni in più. Opposta la tesi del dossier Delrio, che porta alcuni esempi. Come un paragone fra le scuole gestite dalla nuova Provincia di Fermo e dai Comuni che la compongono: considerando tra l’altro che metà delle scuole «provinciali» si trova proprio nella città di Fermo. Comune che spende per riscaldare i propri plessi scolastici 7,48 euro al metro quadrato contro gli 8,55 della Provincia. La differenza è del 13 per cento, che però sale al 28 per cento se si prende in esame il dato del Comune più virtuoso. Lo stesso accade anche in altre Province. Quella di Treviso spende per riscaldare le scuole il 22 per cento più del Comune di Vittorio Veneto, quella di Reggio Emilia il 33 per cento più del Comune di Novellara, quella di Milano il 46 per cento in più rispetto a Sesto San Giovanni, quella di Parma il 68 per cento più di Sorbolo... «Se adottiamo lo stesso criterio utilizzato dall’Upi e calcoliamo la media dei risparmi dei Comuni virtuosi», conclude il dossier del ministero degli Affari regionali, «avremo dunque un risparmio medio del 39 per cento corrispondente, rispetto ai costi sostenuti dalle Province nel 2012 per riscaldare tutti gli edifici scolastici, pari a 312 milioni)». Per non parlare poi dei risparmi indiretti che si conseguirebbero con la riduzione dei livelli amministrativi e la dismissione di un patrimonio immobiliare spesso ridondante. Nonché la probabile (e auspicabile) eliminazione di uno strato di centinaia di società pubbliche spesso funzionali al solo mantenimento di poltrone, quando non inutili o in perdita. Per avere un’idea delle dimensioni di questo aspetto, si consideri che la sola Provincia di Bergamo ha 33 partecipazioni in società di capitali. Mentre la Provincia di Reggio Calabria controlla il 69 per cento della società che gestisce il locale piccolo aeroporto, in grado di accumulare nei dieci anni dal 2001 al 2010 perdite per 27 milioni senza mai chiudere un esercizio in utile. Sappiamo che l’abolizione delle Province, o almeno la loro trasformazione in «agenzie di area vasta» non può essere la soluzione definitiva di un problema molto più complesso, che riguarda l’assetto di un sistema istituzionale disarticolato, confuso e costosissimo, con inutili duplicazioni e sovrapposizioni di competenze, e un numero assurdo di livelli amministrativi. Ma è comunque un passo avanti ineludibile. Poi si dovrà necessariamente mettere mano a funzioni e ruolo delle Regioni: molto più potenti e agguerrite delle Province. 04 novembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo Da - http://www.corriere.it/economia/13_novembre_04/oltre-11-mila-nuovi-posti-asili-nido-il-taglio-politica-province-972f28b6-451c-11e3-9115-48b024bd67ed.shtml Titolo: SERGIO RIZZO I primi tagli del governatore: per ridurre da 88 a 13 le poltrone Inserito da: Admin - Novembre 17, 2013, 06:23:45 pm L’INCHIESTA /
Dall’ ambiente ad agricoltura e finanza, tutti i satelliti mangiasoldi dell’ente Voragine Lazio, la Regione spende 50 milioni 13_novembre_11 Nel portafoglio della Pisana 103 partecipazioni in società; con enti vari si arriva a un totale di 7.361 dipendenti. I primi tagli del governatore: per ridurre da 88 a 13 le poltrone ROMA - Se 50 milioni vi sembrano pochi, confrontateli con i 30 stanziati dalla legge di stabilità per gli interventi contro il dissesto idrogeologico in tutto il Paese: tanto la coperta è diventata corta. Ma non ancora abbastanza, evidentemente, per le Regioni. Almeno se è vero che cinquanta milioni corrispondono alla somma che Nicola Zingaretti ha dovuto tirare fuori solo per tappare i buchi delle società regionali da quando, otto mesi fa, è diventato governatore del Lazio. Trovandosi davanti un organismo che assomiglia sempre più al mostro di Frankenstein, fabbricato pazientemente aggiungendo pezzo a pezzo. Una dimostrazione concreta della folle deriva che ormai travolge l’intero sistema delle Regioni italiane, dove le sole società a controllo regionale diretto superano il numero di seicento. LA «CREATURA» MOSTRUOSA - Le dimensioni raggiunte dalla «Creatura» nel Lazio in pochi anni, a dispetto dei proclami di riduzioni dei costi della politica, sono impressionanti. Nel portafoglio della Regione si contano 103 (centotrè) partecipazioni, dirette e indirette, in società di capitali: cui si devono poi aggiungere agenzie ed enti vari. Per un totale di 7.361 dipendenti. Ovvero più del doppio del personale in forza alla stessa Regione, quantificato dalla Ragioneria generale dello Stato in 3.613 unità. Numero, peraltro, già superiore del 91%, in rapporto agli abitanti, rispetto ai 3.371 impiegati della Lombardia. IL CASO LAZIOAMBIENTE - Per spiegare come si sia potuti arrivare a quelle cifre è sufficiente il caso di Lazioambiente, una società creata dalla giunta di Renata Polverini pochi mesi prima di essere costretta alle dimissioni, con il solo obiettivo di riassumere i 487 dipendenti (dei quali 37 in cassa integrazione da tre anni) di un gruppo di società ambientali fallite che facevano capo a una cinquantina di comuni laziali. Spesa secca, 20 milioni. Sbalorditivo il costo di questo assurdo apparato: 510 milioni l’anno. EMORRAGIA COTRAL: 71 MILA e AL DI’ - E poi ci sono, appunto, le perdite. Come l’emorragia di 71.120 euro al giorno dell’azienda di trasporto Cotral, che a fine 2012 aveva un patrimonio netto negativo per 15 milioni. O la voragine dell’Arsial, l’agenzia regionale creata per sostenere l’agricoltura, commissariata da qualche mese, che ha 17 milioni di debiti. Un decimo dei quali sul groppone di un ristorante. Che ci fa un ristorante fra le proprietà di una Regione? Bella domanda, da girare a Francesco Storace. Era lui il governatore del Lazio quando nel 2003 aprì l’Enoteca regionale, nientemeno che in via Frattina a Roma. L’enoteca regionale in via Frattina a Roma (Jpeg)L’enoteca regionale in via Frattina a Roma (Jpeg) RISTORANTE IN PERDITA - Parliamo di una delle strade più commerciali del centro della capitale, a due passi da piazza di Spagna. Anche impegnandosi, perdere soldi con un ristorante in quel posto, è impossibile. Ma la Regione c’è riuscita. E senza neppure dover pagare l’affitto dei locali, di sua proprietà. Certo, 21 persone a lavorare lì forse erano un po’ troppe, ma la due diligence disposta dalla nuova amministrazione fa capire che un sacco di altre cose non andavano. A cominciare dall’inventario cartaceo del magazzino 2012, introvabile. Per continuare con l’assenza di «un monitoraggio degli ordini di acquisto». O con le fatture ancora da emettere per centinaia di migliaia di euro risalenti addirittura a prima del 2007. Oppure con le centinaia di pasti consumati gratis da assessori e politici. O ancora, con la chiusura per ferie nelle settimane di maggior affluenza turistica. Da qui ad accumulare un milione e mezzo di debito con i soli fornitori il passo è davvero breve. Mentre breve, purtroppo, non sarà il lavoro per sistemare i problemi che saltano fuori ogni minuto. QUOTE IN SOCIETA’ PRIVATE - Prendiamo Sviluppo Lazio. Nella sua pancia ci sono 76 pacchetti azionari, come il 10 per cento di Investimenti spa, società controllante della vecchia Fiera di Roma che ha chiuso l’ultimo bilancio con un buco da 31 milioni. Ben 47 delle partecipazioni in questione fanno capo alla Filas, la Finanziaria laziale di sviluppo che compra quote di minoranza in imprese private, di cui scopriremo fra poco qualche interessante dettaglio. Il sito di Banca impresa Lazio Il sito di Banca impresa Lazio INSOSTENIBILE BANCA IMPRESA LAZIO - Nell’attesa, raccontiamo che cosa hanno trovato gli ispettori della Banca d’Italia passando al setaccio, nell’estate del 2012, le carte di Banca Impresa Lazio (Bil). E’ una delle altre società di Sviluppo Lazio che ha il compito di garantire prestiti concessi alle piccole imprese dalle quattro banche che ne sono anche azioniste di minoranza: Intesa, Unicredit, Bnl e Banca di credito cooperativo. Lavoro analogo, praticamente, a quello che dovrebbe svolgere Unionfidi Lazio, anch’essa partecipata dalla stessa Sviluppo Lazio. La Vigilanza descrive «criticità della complessiva situazione aziendale» e «lacunosa struttura contrattuale» affidata a un consiglio di amministrazione con «insufficiente capacità di supervisione strategica», il che «ha determinato un’involuzione caratterizzata da una redditività strutturalmente negativa, nonostante le ampie provvidenze assicurate dalla Regione». In tre parole, non sta in piedi. 29 PRATICHE L’ANNO A DIPENDENTE - La Bil ha risposto predisponendo un nuovo piano industriale, che la Banca d’Italia ha rispedito al mittente giudicandolo «aleatorio». E tanto basta. Né gli esperti della giunta Zingaretti sono arrivati a conclusioni molto diverse. Con 103 mila euro di spesa media procapite per il personale, doppio rispetto ai 52 mila euro dei principali concorrenti, un numero di dirigenti e quadri pari al 73,6% del totale, un costo per pratica di 6.200 euro a fronte di 1.000 del mercato, e 29 pratiche l’anno lavorate per dipendente contro 120, non si va da nessuna parte. Infatti la perdita di 617 mila euro degli ultimi due anni ha intaccato seriamente il patrimonio netto. STRADE SENZA SBOCCO - Intendiamoci, ci sono società regionali in situazioni anche peggiori. L’Azienda strade Lazio, per dirne una, ha perso nel 2012 10,3 milioni e ha un patrimonio netto negativo per 3,5 milioni. E anche in questo caso leggere la due diligence compilata dai revisori della società specializzata Bdo fa venire qualche brivido. Come quello che dà la cifra di quasi 7 milioni di crediti non incassati, senza che la dirigenza sia stata in grado di fornire spiegazioni adeguate. Quanto poi al fatto che la Regione, avendo già dal 2002 una società che si occupa di progettare e gestire strade abbia sentito nel 2008 il bisogno di crearne un’altra con l’Anas (Autostrade per il Lazio spa che nel 2012 ha perso quasi 400 mila euro), beh, è mistero. IL FALLIMENTO DELLA INCENTIVE - Poi, dicevamo, c’è la Filas con le sue 47 partecipazioni. Ma 3 sono in società pubbliche. Altre cinque sono in liquidazione o concordato preventivo, mentre ben 12 sono fallite. Il 30 maggio scorso è toccato alla Incentive di Antonio De Martini (15% la quota della Regione) il cui principale azionista era la Motori mentali srl, che annovera nella compagine sociale l’ex parlamentare ed ex consigliere regionale del Lazio Luca Danese, nipote di Giulio Andreotti, nonché Stefania Tucci, incidentalmente ex consorte di Gianni De Michelis ed ex compagna di Luigi Bisignani, condannata a cinque anni in primo grado dal tribunale di Napoli il 24 ottobre scorso, come riferisce l’Ansa, per una vicenda relativa alla storica tangentona Enimont. PARTECIPATE IN SICILIA E PUGLIA - Sette, poi, non hanno neanche sede nella Regione o svolgono comunque attività fuori dai confini regionali. Che cosa c’entrano con lo «sviluppo» del Lazio dovrebbero spiegarlo. Tre sono a Napoli, una gestisce call center in Sicilia e Puglia, una quinta sta a La Spezia, la sesta è bergamasca e l’ultima, la Mediapharma srl, ha base a Chieti: fra gli azionisti c’è anche il gruppo di Carlo Toto, quello dell’Air one ora Alitalia. Delle tre napoletane, va menzionata la società di ricerca K4A srl, dove la Regione Lazio ha il 13,5%. Non fosse altro perché il 24% del capitale è posseduto da Danilo Broggi, attuale amministratore delegato dell’Atac nominato a luglio dal sindaco di Roma Ignazio Marino, mentre una quota identica è nelle mani di Dario Scalella, amministratore di una società di pulizie del Comune di Napoli. TORREFAZIONI IN PORTAFOGLIO - Nel portafoglio della Filas non manca davvero niente. Ci sono partecipazioni in aziende informatiche, ditte che producono videogiochi, torrefazioni di caffè, servizi per disabili, società di consulenza, e di ricerca medica qual è la Lay line genomics: dov’è a capo dei revisori Piergiacomo Jucci, figlio dell ex comandante dell’arma dei carabinieri Roberto Jucci incidentalmente imparentato con Andreotti (per via delle rispettive mogli, cugine), che in passato aveva condiviso interessi farmaceutici con Giuliana Iozzi, consorte di Cesare Geronzi, da sempre considerato il banchiere andreottiano per eccellenza. IL CRAC DEL GRUPPO OPERAE - La Finanziaria della Regione Lazio detiene persino il 21% della Holding di iniziativa industriale nella quale, oltre a Generali e Unicredit figurano l’immobiliarista Vittorio Casale, finito nei guai un paio d’anni fa a causa del crac del suo gruppo Operae, Piero Coin e Matteo Marzotto. Naturalmente ci sarebbe da chiedersi se iniziative del genere debbano rientrare nei compiti di un ente di pura programmazione quale dovrebbe essere una Regione. LE POTATURE DI ZINGARETTI - Che però sia difficile andare avanti così lo capirebbero anche i bambini. Zingaretti ha già cominciato a chiudere, commissariare a potare. L’azienda per la sanità pubblica è stata internalizzata, le società di Sviluppo Lazio verranno fuse nella capogruppo, le imprese di trasporto concentrate in una sola, con il risultato di ridurre da 88 a 13 le poltrone di vertice e risparmiare diversi milioni. Per le partecipazioni non considerate strategiche è prevista la cessione. Ma l’impressione è che l’operazione sarà lunga e faticosa, fra pressioni politiche e carte bollate. C’è solo da sperare che il fisico regga. Auguri. 11 novembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo Da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/economia/13_novembre_11/voragine-lazio-regione-spende-50-milioni-tappare-buchi-partecipate-9257f986-4aca-11e3-bfcf-202576418f24.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - Quel no dei grillini alla legge taglia-poltrone Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2013, 03:39:31 pm Il caso
Quel no dei grillini alla legge taglia-poltrone Cancellerebbe trentadue nomine: ma il Movimento ha depositato contro un migliaio di emendamenti Messaggio su Twitter del capogruppo grillino nel consiglio regionale del Lazio Davide Barillari: «Il Pd è alla frutta. Mi incrocia Vincenzi e dice: “Tanto la legge la portiamo a casa”. Si, ma ad aprile». La legge che il suo collega democratico Marco Vincenzi vuole portare a casa è quella con cui la giunta di Nicola Zingaretti ha deciso di fondere in una sola le cinque società direttamente controllate da Sviluppo Lazio, tagliando 32 poltrone. Con un risparmio, dicono, di 3 milioni. Operazione che dovrebbe essere seguita da fusioni analoghe nella giungla delle partecipazioni regionali, con il risultato di falcidiare i posti di consiglieri di amministrazione e revisori. La cosa va avanti da sei mesi, su e giù fra giunta e consiglio. «Evviva!» si penserebbe che debbano gridare quelli del Movimento 5 Stelle. Tutto il contrario, invece. Perché ora che si è arrivati al dunque, sulla legge all’esame definitivo dell’assemblea regionale si è abbattuta una valanga di 1.300 emendamenti: un migliaio dei grillini, uniti in un’apparentemente surreale alleanza con le truppe dell’ex governatore Francesco Storace, che al proliferare di quella giungla societaria aveva già dato un fattivo contributo. L’ostruzionismo è feroce, sia pure con motivazioni distinte. Il centrodestra si oppone allo smantellamento della sua creatura, i grillini temono che con le fusioni arrivino potentissimi supermanager. E minacciano una guerra di posizione che può durare mesi. Poco importa se le fusioni in sequenza si dovrebbero risolvere in una riduzione di 75 poltrone: da 88 a 13. Poco importa se quelle società, a cominciare dal gruppo di Sviluppo Lazio, siano zeppe di bubboni. Tanto da far pensare che ai consiglieri del Movimento 5 Stelle impegnati a scavare le trincee sia sfuggita la relazione nella quale il procuratore della Corte dei conti Angelo Raffaele De Dominicis sancisce lo stato fallimentare della Regione Lazio, dedicando passaggi ustionanti a certi modi discutibili con cui venivano coperte le perdite delle aziende regionali. Perché le società partecipate di perdite ne avevano eccome. Da quando la nuova giunta è arrivata, otto mesi fa, ha dovuto sborsare 50 milioni per tappare i loro buchi. Le partecipazioni dirette e indirette in società di capitali sono 103, cui si devono aggiungere agenzie ed enti vari. Per un totale, reggetevi forte, di 7.361 dipendenti. Numero più che doppio rispetto a quello del personale in forza alla stessa Regione, pari a 3.613 unità: il rapporto con gli abitanti è superiore del 91% rispetto ai 3.371 impiegati della Lombardia. Come si è arrivati a quelle cifre è presto detto. Basta ricordare il caso di Lazioambiente, società creata nel 2011 con il solo obiettivo di riassumere i 487 dipendenti di un gruppo di società ambientali fallite che facevano capo a una cinquantina di comuni laziali. Spesa secca, 20 milioni. E poi ci sono le perdite, su cui ha acceso il faro la Corte dei conti. Per esempio i 10,3 milioni di rosso accumulati nel solo 2012 dall’Azienda strade Lazio, cui si sommano i 400 mila di Autostrade per il Lazio. Per esempio, l’emorragia di 71.120 euro al giorno dell’azienda di trasporto Cotral, che a fine 2012 aveva un patrimonio netto negativo per 15 milioni. O la voragine dell’Arsial, l’agenzia agricola regionale, commissariata da mesi con 17 milioni di debiti. Un decimo dei quali sul groppone di un ristorante aperto dalla Regione nel 2003 a via Frattina, nel cuore di Roma, che è riuscito nella missione impossibile di aprire un buco di 1,7 milioni. Anche grazie a centinaia di pasti somministrati gratis a politici e assessori. Ma la rogna più impellente è ora quella di Sviluppo Lazio. Nella sua pancia ci sono 76 pacchetti azionari, fra cui quello di Banca impresa Lazio (Bil), costituita anni fa per garantire prestiti concessi alle piccole imprese dalle quattro banche che ne sono anche azioniste di minoranza: Intesa, Unicredit, Bnl e Banca di credito cooperativo. Lavoro analogo, praticamente, a quello che dovrebbe svolgere Unionfidi Lazio, anch’essa partecipata da Sviluppo Lazio. Una duplicazione assurda. Nell’estate 2012 gli ispettori di Bankitalia hanno fatto a pezzi la Bil. La spesa media procapite per il personale è doppia rispetto ai concorrenti, dirigenti e quadri sono il 73,6% del totale, ogni pratica costa sei volte il prezzo di mercato, e ciascun dipendente lavora 29 pratiche l’anno contro 120. Poi c’è la Filas, la finanziaria «di sviluppo». Dove sviluppo significa mettere un po’ di soldi in imprese private prendendo quote di minoranza. Ne ha 47. Ma 3 sono in società pubbliche. Altre 5 sono in liquidazione o concordato preventivo, mentre ben 12 sono fallite. E 7, invece, non hanno nemmeno sede nella Regione o comunque svolgono attività fuori dei confini regionali. Nell’arcipelago dei soci privati della finanziaria non mancano nomi di un certo spessore. Uno su tutti, per l’incarico pubblico ora ricoperto: quello dell’attuale amministratore delegato di Atac Danilo Broggi, titolare del 24% della società di ricerca KA4, di cui la Regione ha il 13%... 04 dicembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_04/quel-no-grillini-legge-taglia-poltrone-ed02b7f6-5cac-11e3-a319-5493e7b80f59.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - Gli affitti intoccabili dei palazzi del potere Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 06:39:36 pm Il caso - Soppresso in soli sei giorni l’emendamento del deputato del M5S Fraccaro.
Gli affitti intoccabili dei palazzi del potere Il Senato cancella il recesso a tempo di record Quindici anni fa la Camera stipulò senza gara una serie di contratti con la società Milano 90, che metteva a disposizione di Montecitorio quattro immobili ROMA - «L’articolo 2-bis del decreto legge 15 ottobre 2013, n. 120, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 dicembre 2013, n. 137, è soppresso». Chi ancora ha il coraggio di sostenere che il nostro sistema legislativo è lento e macchinoso si dovrà ricredere davanti a questo capolavoro di Palazzo Madama. Dove è stata cancellata al volo una norma che lo stesso Senato aveva approvato sorprendentemente soltanto sei giorni prima. La cosa era passata nel silenzio generale fra le pieghe di un provvedimento battezzato «manovrina», grazie a un emendamento presentato alla Camera dal deputato del Movimento 5 Stelle Massimo Fraccaro. Testuale: «Le amministrazioni dello Stato, le Regioni e gli enti locali, nonché gli organi costituzionali nell’ambito della propria autonomia, hanno facoltà di recedere, entro il 31 dicembre 2014, dai contratti di locazione di immobili in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Il termine di preavviso per l’esercizio del diritto di recesso è stabilito in trenta giorni, anche in deroga a eventuali clausole difformi previste dal contratto». Una bomba. Con un bersaglio preciso, come dimostra il passaggio sugli «organi costituzionali»: i palazzi Marini, quegli stabili che ospitano gli uffici dei deputati, presi in affitto con il meccanismo del «global service» dall’immobiliarista e grande allevatore di cavalli Sergio Scarpellini, munifico elargitore di contributi liberali ai partiti di destra e sinistra. È un’operazione che ha origine alla fine degli anni Novanta quando la Camera, d’accordo centrosinistra e centrodestra, decise di stipulare senza gara una serie di contratti con la società Milano 90, che metteva a disposizione di Montecitorio quattro immobili e relativi servizi. A un prezzo, oltre 500 euro annui al metro quadrato, tale da ripagare abbondantemente i mutui bancari contratti dal privato per acquistare le mura. Fatto sta che la Camera avrebbe speso in 18 anni ben 444 milioni solo per i canoni d’affitto, senza ritrovarsi in tasca un solo mattone. Una vicenda divenuta ben presto l’emblema degli sprechi del Palazzo, contro cui si erano scagliati a ripetizione con interrogazioni e denunce pubbliche i radicali. Ma inutilmente. Come inutili si erano rivelati i mal di pancia avvertiti da molti parlamentari consapevoli dell’abnormità della storia. A tutti era stato risposto che non c’era niente da fare: i contratti andavano rispettati e amen. Dopo molti sforzi si era riusciti a disdettarne almeno uno. E l’emendamento Fraccaro, divenuto legge il 13 dicembre scorso a Palazzo Madama con l’approvazione senza modifiche della «manovrina» uscita da Montecitorio, avrebbe fatto cadere tutti gli ostacoli per la rescissione degli altri tre, che pesano sulle casse pubbliche 26 milioni per i soli canoni. Se però il giovedì seguente non fosse stato recapitato in Senato nella leggina di conversione di un decreto sulle «misure finanziarie urgenti in favore di regioni ed enti locali», un provvidenziale emendamento che sopprime quella disposizione passata sempre al Senato il venerdì precedente. Modifica prontamente approvata dalla maggioranza senza battere ciglio: con qualche voto in più, sembra, rispetto a quelli prevedibili. La battaglia si sposta adesso alla Camera, dove Fraccaro riproporrà tale e quale la norma bocciata. Ma intanto il segnale arrivato dalle Larghe intese, per paradosso proprio mentre Matteo Renzi, il nuovo segretario del Pd loro principale azionista dichiara pubblicamente guerra ai costi della politica, si può interpretare in modo inequivocabile: gli affitti dei palazzi del potere non si toccano. Altra motivazione non ci sarebbe. E l’impronta digitale della maggioranza, del resto, è facilmente riconoscibile. L’emendamento porta la firma della relatrice del provvedimento, circostanza che qualifica l’emendamento come iniziativa non personale. Ma essendo la senatrice del Pd Magda Zanoni esperta di contabilità statale, visto che il suo curriculum la qualifica come «consulente di bilanci pubblici», certo non ne può ignorare le conseguenze. E cioè che oltre a mettere in pericolo i contratti blindati e dorati dei palazzi Marini, quella perfida norma grillina consentirebbe a molte amministrazioni di liberarsi di onerosi contratti incautamente sottoscritti senza clausola di recesso: è appena il caso di ricordare che spendiamo circa 12 miliardi l’anno per gli affitti degli uffici pubblici. Chissà perché nessuno ci aveva pensato prima. 21 dicembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_21/gli-affitti-intoccabili-palazzi-potere-senato-cancella-recesso-tempo-record-f8cca1bc-6a05-11e3-aaba-67f946664e4c.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - Da salva Roma a salva tutti Assalto per i milioni a pioggia Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 11:53:09 pm Decreti e lobby
Da salva Roma a salva tutti Assalto per i milioni a pioggia Fondi per i treni valdostani, per il paese di Padre Pio e per i teatri di Napoli e Venezia ROMA - «Nelle lanterne semaforiche, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, le lampade ad incandescenza, quando necessitino di sostituzione, devono essere sostituite con lampade a basso consumo energetico, ivi comprese le lampade realizzate con tecnologia a Led». Con una prosa piuttosto incerta e supremo sprezzo del ridicolo, nel passaggio in Senato del decreto cosiddetto salva Roma hanno infilato anche questo. Certo è arduo immaginare che in un Paese normale serva una legge approvata dal Parlamento per cambiare le lampadine fulminate dei semafori. Ma questa è la prova che di normalità, quando qui si fanno le leggi, è davvero difficile parlare. Prendiamo il decreto di cui sopra. Il governo l’aveva fatto per risolvere la rogna degli 864 milioni di debiti spuntati nei conti di Roma Capitale, ma già sapendo di far partire una diligenza destinata all’assalto generalizzato. E a palazzo Madama ci è stato caricato di tutto. Venti milioni per tappare i buchi del trasporto pubblico calabrese. Ventitré per i treni valdostani. Mezzo milione per il Comune di Pietrelcina, paese di Padre Pio. Uno per le scuole di Marsciano, in Umbria. Un altro per il restauro del palazzo municipale di Sciacca. Ancora mezzo per la torre anticorsara di Porto Palo. Un milione a Frosinone, tre a Pescara, 25 addirittura a Brindisi. Quindi norme per il Teatro San Carlo di Napoli e la Fenice di Venezia, una minisanatoria per i chioschi sulle spiagge, disposizioni sulle slot machine, sulle isole minori, sulla Croce Rossa, sul terremoto dell’Emilia-Romagna, sui beni sequestrati alla criminalità organizzata. E perfino l’istituzione di una sezione operativa della Direzione investigativa antimafia all’aeroporto di Milano Malpensa per prevenire le infiltrazioni mafiose nell’Expo 2015. Per non parlare di alcune perle, nel solco della tradizione di estrema trasparenza delle leggi made in Italy. Esempio: «All’articolo 1 del decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 febbraio 2012, n. 14, il comma 4-bis è abrogato». Abrogato al pari del «terzo comma dell’articolo 2 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 10 aprile 1948, n. 421, ratificato, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 1957, n. 104». Chi ci capisce qualcosa? Alla faccia di quella norma approvata dal Parlamento quattro anni fa, che imporrebbe di scrivere le leggi in modo chiaro e comprensibile a tutti, senza costringere i cittadini a scavare nei codici e nelle Gazzette ufficiali di cinquant’anni prima per capire di che si tratta. Ma tant’è. Quella norma, voluta dall’ex ministro della Semplificazione Roberto Calderoli, non è mai, e sottolineiamo mai, stata applicata. Né hanno avuto seguito i reiterati richiami dei presidenti della Repubblica, prima Carlo Azeglio Ciampi e poi Giorgio Napolitano, a evitare di produrre grovigli sterminati di norme incomprensibili che si sovrappongono ad altre norme incomprensibili, con rimandi a decreti ministeriali che espropriano il Parlamento del potere legislativo e talvolta non vengono neppure emanati. Non è servita di lezione nemmeno la vicenda incredibile della finanziaria 2007, costituita da un unico articolo di 1364 commi. La sera prima dell’approvazione si seppe che nella confusione generale una manina aveva inserito una norma per tagliare le unghie alla Corte dei conti. Il premier Romano Prodi andò su tutte le furie e impose di eliminarla. Gli esperti degli uffici legislativi la cercarono nel testo tutta la notte senza però riuscire a trovarla. La finanziaria fu così approvata con il comma incriminato (il numero 1346) che fu eliminato il giorno dopo, una volta finalmente rintracciato, con un altro decreto legge. L’autore del misterioso geroglifico era un senatore della maggioranza, Pietro Fuda: presidente della commissione parlamentare per la Semplificazione della legislazione. Nientemeno. Ma c’è ben poco da fare. Senza eliminare il bicameralismo perfetto, che esaspera i passaggi parlamentari in un ping pong infinito fra Camera e Senato, sarà impossibile uscirne. Anche se, a giudicare da quello che capita nelle Regioni dove quel problema non esiste, qualche grossa responsabilità ce l’hanno di sicuro le persone. Il bilancio della Regione Lazio che si discute in queste ore, per esempio. Sul testo della giunta si è riversata una massa di 5.300 emendamenti capaci di far dilatare il fascicolo d’aula a 8.172 pagine. Denuncia nel suo sito la consigliera regionale Teresa Petrangolini che i 653.760 fogli necessari a stampare le 80 copie di quel fascicolo saranno abbattuti 8,28 pini alti quindici metri. Non c’è governo che negli ultimi anni non abbia dovuto mettere in campo maxiemendamenti con relativi voti di fiducia per far passare finanziarie, decreti omnibus, leggi milleproroghe... Un delirio legislativo al quale nessuno è riuscito a sottrarsi. Ci aveva provato Giulio Tremonti, trasformando la legge finanziaria in «legge di Stabilità». Doveva essere una semplice tabellina di numeri sul modello della legge britannica: prendere o lasciare. Aveva faticato non poco, il superministro delle stagioni berlusconiane. Di «legge di stabilità» ne aveva parlato per primo Giuliano Amato, in quel terribile 1992. Poi Tremonti aveva rilanciato il concetto nel 2002, riuscendo però a imporla solo nel 2009. Ma a poco a poco il Parlamento e le lobby se la sono mangiata, cosicché di «stabilità» rimane solo il titolo. Siamo dunque tornati alla vecchia finanziaria, l’ultimo treno che passa e sicuramente arriva in stazione: perciò i vagoni devono essere capienti e ospitali. Esattamente come quelli degli altri provvedimenti che necessariamente vanno approvati, tipo il decreto salva Roma o la legge milleproroghe, ormai un classico dell’orrore cui già si sta pensando di rifilare le cose non partite con i convogli precedenti. La frenesia è tale che i vagoni vanno pericolosamente a sbattere gli uni contro gli altri, manovrati da interessi contrapposti. E la confusione, niente affatto casuale, è tale da permettere ogni colpo basso. Dice tutto il caso degli affitti d’oro. Nella «manovrina» approvata dal Senato il 13 dicembre spunta una norma grillina che dà allo Stato diritto di recesso con soli trenta giorni di preavviso dai contratti d’affitto stipulati con privati. Se un locale non serve più, la pubblica amministrazione lo può lasciare senza essere costretta a pagare l’affitto fino alla scadenza del contratto. Il minimo sindacale, insomma. L’obiettivo? I lucrosi contratti della Milano 90 srl di Sergio Scarpellini con la Camera per gli uffici dei deputati. Ma il 19 dicembre, sempre al Senato, ecco un emendamento del Pd, catapultato in un altro decreto, che la cancella. La cosa finisce sui giornali e scoppia un putiferio: il 21 dicembre la norma viene ripristinata alla Camera in un terzo decreto ancora, quel salva Roma di cui parlavamo. Senza però sapere che nel frattempo si era già provveduto, prima della guerra degli emendamenti, ad aprire un paracadute nella legge di Stabilità. In che modo? Escludendo dal diritto di recesso non solo i palazzi dei ricchi fondi immobiliari, ma anche quelli di proprietà di chi ha investito negli stessi fondi. Si mormora che l’inciso possa rappresentare un assist a Scarpellini. Sarà vero? Viene in mente la celebre battuta di Giulio Andreotti: «A pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca...» 23 dicembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_23/salva-roma-decreto-salva-tutti-b238de90-6b96-11e3-82ae-77df18859bd6.shtml Titolo: SERGIO RIZZO. Claudio Fazzone, da uomo scorta di Nicola Mancino alla sua ... Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2014, 04:44:10 pm Il ritratto
Lazio, da Fondi a coordinatore di Forza Italia la scalata del poliziotto «signore dei voti» Claudio Fazzone, da uomo scorta di Nicola Mancino alla sua (discussa) ascesa politica ROMA - Per ricostruire la macchina elettorale di Forza Italia nel Lazio la scelta di Silvio Berlusconi non poteva che cadere su di lui: Claudio Fazzone. Non un uomo, un partito. Il quarto della Provincia di Latina, dicevano nel 2000 quando il Nostro fece sfracelli alle Regionali. Da solo, Fazzone portò al centrodestra tanti voti quanti quelli dei Democratici di sinistra. Tanti da incoronarlo, a 38 anni, presidente del Consiglio regionale. E proiettarlo successivamente in Senato: per tre volte di seguito. Un numero impressionante di preferenze, collezionato negli anni, pazientemente, partendo dalla militanza nella Democrazia cristiana. «Il mio maestro è stato Nicola Mancino», disse all’epoca al «Corriere». Spiegando di essere stato spinto a passare a Forza Italia nel 1994 dallo spostamento a sinistra del Partito popolare. C’è chi, come la giornalista Anna Scafati, lo ricorda «quando faceva l’agente di scorta dell’allora ministro dell’Interno» poi diventato presidente del Senato. Senza immaginare che il curioso sodalizio si sarebbe trasformato per quel «tipetto non alto e paffuto (definizione della medesima Scafati, ndr )» in un formidabile trampolino di lancio per una insospettabile carriera nel Palazzo. Oggi la città natale di Fondi è il cuore del suo feudo politico, che abbraccia l’intera Provincia di Latina con profondissime propaggini romane. E che feudo. Lì c’è il secondo mercato ortofrutticolo d’Europa dopo quello di Parigi, dove lavora il 10 per cento della popolazione (38 mila anime): un giro d’affari talmente grosso, hanno sostenuto gli inquirenti, da aver attirato perfino le attenzioni dei clan camorristici del vicino casertano. Infatti nel 2009 il prefetto di Latina Bruno Frattasi chiede al ministro dell’Interno Roberto Maroni, alleato di governo del senatore Fazzone, lo scioglimento del Comune di Fondi. Pesantissimo il sospetto: infiltrazioni mafiose. Secondo il prefetto erano «emerse chiaramente le connessioni fra la famiglia di Tripodo Domenico (boss mafioso di prima grandezza) e soggetti legati per via parentale anche a figure di vertice del Comune». La reazione è immediata. Il poliziotto Fazzone Claudio contesta pesantemente le conclusioni del prefetto di Latina arrivando a chiedere una commissione d’inchiesta nei suoi confronti. Ed evidentemente è anche più potente di un ministro, visto che le proposte di Maroni si arenano ripetutamente in consiglio dei ministri. Finché quando proprio lo scioglimento sembra inevitabile, su consiglio di Fazzone che nessuno si sogna di discutere, la giunta guidata dal geometra Luigi Parisella si dimette, per evitare il commissariamento e andare invece alle elezioni. Vinte di nuovo, manco a dirlo, dai fedelissimi del senatore. Con un altro schiaffo al ministro dell’Interno: il plebiscito per il nuovo sindaco Salvatore De Meo. Ovvero l’assessore all’urbanistica della stessa giunta che Maroni voleva sciogliere. Dice tutto, quella storia, del potere di Fazzone. Compreso un dettaglio che fa capire quanto solido sia il cemento che lo tiene insieme. Perché il senatore che il Cavaliere ha appena nominato coordinatore di Forza Italia per il Lazio è socio in affari proprio dell’ex sindaco Parisella e di un imprenditore ortofrutticolo, Luigi Peppe. La loro società si chiama S.I.L.O. srl, e ha avuto in passato anche un finanziamento statale di 983 mila euro a valere sulla legge 44/86 sull’imprenditorialità giovanile al Sud. Oggetto sociale, «lavorazione e conservazione di frutta e ortaggi». Anche se piuttosto misterioso nelle dimensioni, visto che il fatturato degli ultimi due bilanci è pari a euro zero virgola zero. Ma se c’è una cosa cui Fazzone non ha mai voluto rinunciare è stare, come si dice, «sul pezzo». Guai a toccargli i suoi concittadini. L’ex sindaco di Fondi Onoratino Orticello si trova in difficoltà? Eccolo dirigente del consiglio regionale del Lazio non appena Fazzone ne diventa il presidente. I Comuni della Provincia di Latina costituiscono una società con un partner francese per gestire il ciclo idrico? Ecco Fazzone sedersi sulla poltrona di presidente, pur essendo onorevole in carica, sfidando l’indignazione dei comunisti con l’allora segretario di Rifondazione a denunciare di aver «scoperto che un senatore di Forza Italia becca anche un compenso in quanto presidente di Acqualatina: 100-150 mila euro l’anno». La cosa non gli ha fatto né caldo né freddo. Al pari delle polemiche suscitate dall’indagine giudiziaria innescata tre anni fa per alcune raccomandazioni alla Asl di Latina. Inchiesta cui Fazzone ha replicato con queste parole testuali, riportate dall’«Ansa»: «Resta singolare che il giudice decida di aprire un caso per accertare l’esistenza di un reato che, se eventualmente commesso dal sottoscritto, sarebbe già prescritto». Niente male, per un funzionario di polizia in aspettativa... 04 gennaio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo Da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/14_gennaio_04/lazio-fondi-coordinatore-forza-italia-scalata-poliziotto-signore-voti-c44219f2-751a-11e3-b02c-f0cd2d6437ec.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - Claudio Fazzone, da uomo scorta di Nicola Mancino alla sua ... Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2014, 06:09:55 pm Il ritratto
Lazio, da Fondi a coordinatore di Forza Italia la scalata del poliziotto «signore dei voti» Claudio Fazzone, da uomo scorta di Nicola Mancino alla sua (discussa) ascesa politica ROMA - Per ricostruire la macchina elettorale di Forza Italia nel Lazio la scelta di Silvio Berlusconi non poteva che cadere su di lui: Claudio Fazzone. Non un uomo, un partito. Il quarto della Provincia di Latina, dicevano nel 2000 quando il Nostro fece sfracelli alle Regionali. Da solo, Fazzone portò al centrodestra tanti voti quanti quelli dei Democratici di sinistra. Tanti da incoronarlo, a 38 anni, presidente del Consiglio regionale. E proiettarlo successivamente in Senato: per tre volte di seguito. Un numero impressionante di preferenze, collezionato negli anni, pazientemente, partendo dalla militanza nella Democrazia cristiana. «Il mio maestro è stato Nicola Mancino», disse all’epoca al «Corriere». Spiegando di essere stato spinto a passare a Forza Italia nel 1994 dallo spostamento a sinistra del Partito popolare. C’è chi, come la giornalista Anna Scafati, lo ricorda «quando faceva l’agente di scorta dell’allora ministro dell’Interno» poi diventato presidente del Senato. Senza immaginare che il curioso sodalizio si sarebbe trasformato per quel «tipetto non alto e paffuto (definizione della medesima Scafati, ndr )» in un formidabile trampolino di lancio per una insospettabile carriera nel Palazzo. Oggi la città natale di Fondi è il cuore del suo feudo politico, che abbraccia l’intera Provincia di Latina con profondissime propaggini romane. E che feudo. Lì c’è il secondo mercato ortofrutticolo d’Europa dopo quello di Parigi, dove lavora il 10 per cento della popolazione (38 mila anime): un giro d’affari talmente grosso, hanno sostenuto gli inquirenti, da aver attirato perfino le attenzioni dei clan camorristici del vicino casertano. Infatti nel 2009 il prefetto di Latina Bruno Frattasi chiede al ministro dell’Interno Roberto Maroni, alleato di governo del senatore Fazzone, lo scioglimento del Comune di Fondi. Pesantissimo il sospetto: infiltrazioni mafiose. Secondo il prefetto erano «emerse chiaramente le connessioni fra la famiglia di Tripodo Domenico (boss mafioso di prima grandezza) e soggetti legati per via parentale anche a figure di vertice del Comune». La reazione è immediata. Il poliziotto Fazzone Claudio contesta pesantemente le conclusioni del prefetto di Latina arrivando a chiedere una commissione d’inchiesta nei suoi confronti. Ed evidentemente è anche più potente di un ministro, visto che le proposte di Maroni si arenano ripetutamente in consiglio dei ministri. Finché quando proprio lo scioglimento sembra inevitabile, su consiglio di Fazzone che nessuno si sogna di discutere, la giunta guidata dal geometra Luigi Parisella si dimette, per evitare il commissariamento e andare invece alle elezioni. Vinte di nuovo, manco a dirlo, dai fedelissimi del senatore. Con un altro schiaffo al ministro dell’Interno: il plebiscito per il nuovo sindaco Salvatore De Meo. Ovvero l’assessore all’urbanistica della stessa giunta che Maroni voleva sciogliere. Dice tutto, quella storia, del potere di Fazzone. Compreso un dettaglio che fa capire quanto solido sia il cemento che lo tiene insieme. Perché il senatore che il Cavaliere ha appena nominato coordinatore di Forza Italia per il Lazio è socio in affari proprio dell’ex sindaco Parisella e di un imprenditore ortofrutticolo, Luigi Peppe. La loro società si chiama S.I.L.O. srl, e ha avuto in passato anche un finanziamento statale di 983 mila euro a valere sulla legge 44/86 sull’imprenditorialità giovanile al Sud. Oggetto sociale, «lavorazione e conservazione di frutta e ortaggi». Anche se piuttosto misterioso nelle dimensioni, visto che il fatturato degli ultimi due bilanci è pari a euro zero virgola zero. Ma se c’è una cosa cui Fazzone non ha mai voluto rinunciare è stare, come si dice, «sul pezzo». Guai a toccargli i suoi concittadini. L’ex sindaco di Fondi Onoratino Orticello si trova in difficoltà? Eccolo dirigente del consiglio regionale del Lazio non appena Fazzone ne diventa il presidente. I Comuni della Provincia di Latina costituiscono una società con un partner francese per gestire il ciclo idrico? Ecco Fazzone sedersi sulla poltrona di presidente, pur essendo onorevole in carica, sfidando l’indignazione dei comunisti con l’allora segretario di Rifondazione a denunciare di aver «scoperto che un senatore di Forza Italia becca anche un compenso in quanto presidente di Acqualatina: 100-150 mila euro l’anno». La cosa non gli ha fatto né caldo né freddo. Al pari delle polemiche suscitate dall’indagine giudiziaria innescata tre anni fa per alcune raccomandazioni alla Asl di Latina. Inchiesta cui Fazzone ha replicato con queste parole testuali, riportate dall’«Ansa»: «Resta singolare che il giudice decida di aprire un caso per accertare l’esistenza di un reato che, se eventualmente commesso dal sottoscritto, sarebbe già prescritto». Niente male, per un funzionario di polizia in aspettativa... 04 gennaio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo Da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/14_gennaio_04/lazio-fondi-coordinatore-forza-italia-scalata-poliziotto-signore-voti-c44219f2-751a-11e3-b02c-f0cd2d6437ec.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Contraddizioni di una riforma Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2014, 10:31:50 pm Stato e regioni, il caso puglia
Contraddizioni di una riforma Il governatore della Puglia Nichi Vendola si dice sicuro «che la popolazione alla fine vincerà questa battaglia». E dunque la Trans adriatic pipeline che dovrebbe portare 10 miliardi di metri cubi di metano l’anno dalle regioni del Mar Caspio all’Europa sbarcando dall’Adriatico sulla costa del Salento soccomberà all’offensiva dei «No Tap». Destino analogo, con tutta probabilità, a quello del rigassificatore di Brindisi, affogato 11 anni dopo l’avvio del progetto della British Gas in un gorgo di veti locali, cavilli burocratici, nulla osta promessi e mai concessi. In entrambi i casi l’opposizione è stata ufficialmente motivata dalle preoccupazioni ambientali. Particolarmente serie per quanto riguarda il gasdotto del quale si parla ora, considerando il valore paesaggistico del litorale salentino. Perciò da non sottovalutare. Al tempo stesso, però, bisogna domandarsi perché in una Regione cui sta tanto a cuore il rispetto dell’ambiente da riuscire a bloccare con una lunga guerra di logoramento impianti destinati secondo gli esperti ad aumentare la concorrenza e l’efficienza riducendo i costi dell’energia, abbiano devastato una campagna meravigliosa con migliaia di pale eoliche, spesso inutili. Alla fine del 2012 ce n’erano in Puglia ben 1.985. Più che in qualsiasi altra Regione, e su un territorio pressoché piatto come un tavolo da biliardo. In un anno ne sono spuntate 592. Nel solo Comune di Sant’Agata, in provincia di Foggia, se ne contano 111: una ogni 19 anime. Per non parlare delle sterminate distese di pannelli fotovoltaici che hanno sottratto centinaia di ettari all’agricoltura. Anche qui la Puglia è prima in classifica con 2.497 megawatt installati: un impianto ogni 106 abitanti. Succede in Puglia, e succede in Sicilia. Dove hanno piantato pale eoliche anche in posti noti per l’assenza di vento, fino a insidiare il record pugliese toccando quota 1.749. E hanno fermato pure lì un rigassificatore, a Priolo, come risultato di una estenuante conferenza dei servizi. Cinquantaquattro giorni impiegati solo per la stesura del verbale nel quale si imponeva l’interramento dell’impianto in una zona industriale: condizione capestro che ha fatto sfumare l’investimento Erg-Shell da un miliardo. Sono le due facce dell’incredibile pasticcio che la riforma del titolo V della Costituzione, decretando «il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia» materia di legislazione concorrente fra Stato e Regioni, ha contribuito a rendere irrisolvibile. Le Regioni e gli enti locali hanno gli strumenti per paralizzare un’opera d’interesse dell’intero Paese ma non impediscono scempi indicibili in casa loro. In tale contesto la politica energetica dell’Italia, che dovrebbe essere ancora fra le prime dieci potenze industriali del mondo, è semplicemente inesistente. Dipende dagli umori dei Comuni o degli enti che prima danno i permessi e poi li revocano. Dipende da interminabili conferenze di servizi dove ognuno pesta i piedi al proprio vicino. Dipende dai cicli elettorali e dai politici locali a caccia di consensi dribblando le responsabilità: in barba al sano principio che vanno ascoltate le ragioni di tutti, ma poi si deve decidere. Finendo così per diventare prigioniera delle lobby. E senza che nessuno abbia finora pensato di porvi rimedio, imprese e cittadini continuano a pagare bollette salatissime. 08 gennaio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA SERGIO RIZZO Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_08/contraddizioni-una-riforma-79acb2a4-782a-11e3-8d51-efa365f924c5.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Stato e regioni, il caso Puglia Contraddizioni di una riforma Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2014, 11:38:46 am Stato e regioni, il caso Puglia
Contraddizioni di una riforma Il governatore della Puglia Nichi Vendola si dice sicuro «che la popolazione alla fine vincerà questa battaglia». E dunque la Trans adriatic pipeline che dovrebbe portare 10 miliardi di metri cubi di metano l’anno dalle regioni del Mar Caspio all’Europa sbarcando dall’Adriatico sulla costa del Salento soccomberà all’offensiva dei «No Tap». Destino analogo, con tutta probabilità, a quello del rigassificatore di Brindisi, affogato 11 anni dopo l’avvio del progetto della British Gas in un gorgo di veti locali, cavilli burocratici, nulla osta promessi e mai concessi. In entrambi i casi l’opposizione è stata ufficialmente motivata dalle preoccupazioni ambientali. Particolarmente serie per quanto riguarda il gasdotto del quale si parla ora, considerando il valore paesaggistico del litorale salentino. Perciò da non sottovalutare. Al tempo stesso, però, bisogna domandarsi perché in una Regione cui sta tanto a cuore il rispetto dell’ambiente da riuscire a bloccare con una lunga guerra di logoramento impianti destinati secondo gli esperti ad aumentare la concorrenza e l’efficienza riducendo i costi dell’energia, abbiano devastato una campagna meravigliosa con migliaia di pale eoliche, spesso inutili. Alla fine del 2012 ce n’erano in Puglia ben 1.985. Più che in qualsiasi altra Regione, e su un territorio pressoché piatto come un tavolo da biliardo. In un anno ne sono spuntate 592. Nel solo Comune di Sant’Agata, in provincia di Foggia, se ne contano 111: una ogni 19 anime. Per non parlare delle sterminate distese di pannelli fotovoltaici che hanno sottratto centinaia di ettari all’agricoltura. Anche qui la Puglia è prima in classifica con 2.497 megawatt installati: un impianto ogni 106 abitanti. Succede in Puglia, e succede in Sicilia. Dove hanno piantato pale eoliche anche in posti noti per l’assenza di vento, fino a insidiare il record pugliese toccando quota 1.749. E hanno fermato pure lì un rigassificatore, a Priolo, come risultato di una estenuante conferenza dei servizi. Cinquantaquattro giorni impiegati solo per la stesura del verbale nel quale si imponeva l’interramento dell’impianto in una zona industriale: condizione capestro che ha fatto sfumare l’investimento Erg-Shell da un miliardo. Sono le due facce dell’incredibile pasticcio che la riforma del titolo V della Costituzione, decretando «il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia» materia di legislazione concorrente fra Stato e Regioni, ha contribuito a rendere irrisolvibile. Le Regioni e gli enti locali hanno gli strumenti per paralizzare un’opera d’interesse dell’intero Paese ma non impediscono scempi indicibili in casa loro. In tale contesto la politica energetica dell’Italia, che dovrebbe essere ancora fra le prime dieci potenze industriali del mondo, è semplicemente inesistente. Dipende dagli umori dei Comuni o degli enti che prima danno i permessi e poi li revocano. Dipende da interminabili conferenze di servizi dove ognuno pesta i piedi al proprio vicino. Dipende dai cicli elettorali e dai politici locali a caccia di consensi dribblando le responsabilità: in barba al sano principio che vanno ascoltate le ragioni di tutti, ma poi si deve decidere. Finendo così per diventare prigioniera delle lobby. E senza che nessuno abbia finora pensato di porvi rimedio, imprese e cittadini continuano a pagare bollette salatissime. 08 gennaio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA SERGIO RIZZO Titolo: SERGIO RIZZO Incarichi e nomine dei manager. - L’eterno scandalo delle ... Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2014, 04:31:07 pm POSTI E PRIVILEGI
Incarichi e nomine dei manager. - L’eterno scandalo delle regole ignorate I trucchi per aggirare le norme e il valzer delle designazioni di primavera. Nonostante la legge di Stabilità Quando chiesero ad Annalisa Vessella, consorte dell’allora onorevole dei «Responsabili» Michele Pisacane, come riuscisse a conciliare il ruolo di consigliere regionale della Regione Campania con il posto di amministratore delegato della società Isa (160 mila euro l’anno) che le aveva dato il ministro dell’Agricoltura, Francesco Saverio Romano, amico e collega di partito di suo marito, lei non fece una piega. Rispondendo che ne aveva tutti i requisiti, come se fosse appena una questione di curriculum. A due anni di distanza, la signora Vessella che nel 2010 si presentò sui manifesti elettorali come Annalisa Pisacane, perché fosse chiaro a tutti che era la moglie del deputato, continua a ricoprire il doppio incarico. Cosa cui aspirerebbe anche Vicenzo De Luca nonostante una sentenza del tribunale. Perché quando il giudice ha accolto l’esposto del Movimento 5 Stelle sentenziando che in effetti la legge è la legge e dunque De Luca non può fare contemporaneamente il sindaco di Salerno e il viceministro delle Infrastrutture, lui non l’ha presa bene e ha fatto ricorso. Coerente almeno nell’ostinazione con cui ha sempre difeso la sua condizione di centauro. Capiamolo: in Italia nessuno si era mai scandalizzato davanti ai doppi o tripli incarichi pubblici. Semmai il contrario. Così come nessuno, almeno fino al pronunciamento ieri di Enrico Letta, nei tre governi che si sono avvicendati dal 2008, ha mai voluto affrontare il caso di Antonio Mastrapasqua. Quando è stato nominato presidente dell’Inps a palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi e lui aveva una quarantina di poltrone. Oggi, che in più controlla anche l’ex Inpdap, ne occupa quindici. Qualche assaggio? La presidenza della società di gestione di fondi immobiliari Idea Fimit. La vicepresidenza di Equitalia. La presidenza dei collegi sindacali di Adr engineering, Aquadrome ed Eur Tel (Tesoro). Quindi gli incarichi da revisore nelle Autostrade per l’Italia, Coni servizi e Loquendo (Telecom). Dulcis in fundo, c’è pure un posto da direttore generale: all’Ospedale israelitico di Roma. Dov’è stata aperta l’inchiesta su una presunta storia di cartelle cliniche truccate. Sarebbe ingiusto dire che non si è fatto nulla per mettere un freno a questo costume. Dando attuazione alla legge anticorruzione il governo di Mario Monti ha stabilito con un decreto legislativo una lunga serie di incompatibilità fra ruoli politici, poltrone nelle società pubbliche e alti incarichi burocratici. Peccato che appena due mesi dopo, nel giugno 2013, con il governo di Letta insediato da poche settimane, il Parlamento l’abbia smontato di fatto, fissando il principio che quei limiti diventeranno operativi solo a partire dalle nomine future. E peccato che a ottobre scorso il ministero dell’Economia abbia deciso con una propria circolare che il divieto di sommare le poltrone non si applica ai direttori e ai vicedirettori delle agenzie fiscali: una circolare che supera una legge! Dimostrazione di quanto sia complicato in un Paese tanto refrattario alle regole, e impregnato di conflitti d’interessi, far passare un principio elementare come l’incompatibilità fra i vari incarichi pubblici. E se è così difficile al centro, figuriamoci in periferia. Capita perciò che il sindaco di Arconate, Mario Mantovani, alla cui famiglia fanno capo oltre 800 posti letto di residenze per anziani convenzionate con la Regione Lombardia, sia assessore della medesima Regione. Alla Sanità, per l’esattezza. Oppure succede che il presidente della Provincia di Brescia, l’ex sottosegretario leghista all’Economia Daniele Molgora, abbia un posto nel consiglio di amministrazione della società che gestisce l’autostrada Brescia-Padova. O che l’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni, emigrato al Senato, sia rimasto per mesi attaccato allo scranno di commissario generale dell’Expo 2015. Ed è niente al confronto di quello che accade nella burocrazia, lontano dai riflettori. Per otto lunghi mesi la Provincia di Roma, commissariata dopo le dimissioni dell’attuale presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, è stata retta dal prefetto di Palermo Umberto Postiglione. Mentre all’ex capo di gabinetto del ministero dell’Economia, l’esperto Vincenzo Fortunato rimasto senza incarico di governo, è stata affidata la complicata liquidazione della concessionaria del Ponte sullo stretto di Messina (che non si farà mai), ma anche la presidenza di Investimenti immobiliari italiani, il fondo che dovrà gestire la privatizzazione e la valorizzazione di un bel pezzo di patrimonio pubblico, nonché il collegio sindacale di una terza societa’ del Tesoro: Studiare sviluppo. E i magistrati? A chi meglio di loro mettere in mano (gratuitamente, s’intende) la delicata materia della giustizia sportiva, come prova l’incarico di presidente della corte della Federcalcio assegnato al consigliere di Stato Gerardo Mastrandrea? Il fatto è che certa burocrazia è abilissima a muoversi nelle pieghe della legge. Sfruttando a proprio vantaggio anche le apparenti avversità. Ne è testimonianza un comma della legge di Stabilità che contiene una disposizione sacrosanta: chi percepisce una pensione statale non può cumulare a quella un altro stipendio dello Stato che gli faccia superare il tetto massimo di 302 mila euro stabilito per le retribuzioni dei manager pubblici. Disposizione che però non vale, anche questa, per «gli incarichi e i rapporti in essere»: con il sospetto che questa frase serva a salvare dalla tagliola le paghe super di certi consiglieri di Stato che lavorano per la politica. Dunque si fissa una regola e poi si concede la possibilità di aggirarla agli stessi che l’hanno scritta. Tanta ipocrisia non poteva risparmiare le nomine pubbliche. La scorsa primavera il Tesoro rinviò la designazione dei vertici della Finmeccanica con la motivazione di dover prima mettere a punto requisiti di assoluta moralità e professionalità. È finita con la nomina dell’ex capo della polizia ed ex sottosegretario Gianni De Gennaro alla presidenza della holding militare e tecnologica, e con la conferma dei vecchi amministratori in tutte le altre società statali. Compreso Giancarlo Innocenzi, ex dipendente del gruppo Fininvest di Berlusconi, ex onorevole, ex sottosegretario ed ex componente dell’Agcom da cui si era dovuto dimettere in seguito alle polemiche circa le presunte pressioni esercitate per far chiudere la trasmissione «Anno zero» di Michele Santoro: confermato alla presidenza di Invitalia, società pubblica per l’attrazione degli investimenti esteri. Non che le cose vadano diversamente nelle autorità indipendenti, dove spesso l’indipendenza è una variabile secondaria. L’ultima in ordine di apparizione, l’Authority dei trasporti: dove fra i componenti è spuntato un altro politico di lungo corso: l’ex deputato di Forza Italia Mario Valducci. Adesso non resta che attendere con ansia le nomine alla Rai. Succulento antipasto di quelle in arrivo nelle grandi società di Stato: Eni ed Enel, dove Paolo Scaroni e Fulvio Conti hanno fatto tre mandati triennali, o le Poste, dove Massimo Sarmi sta completando addirittura il quarto. Chi scommette su un altro giro di valzer? 27 gennaio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA SERGIO RIZZO Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_27/incarichi-nomine-manager-l-eterno-scandalo-regole-ignorate-ce835de4-872c-11e3-b7c5-5c15c6838f80.shtml Titolo: SERGIO RIZZO La burocrazia Capi di gabinetto e dirigenti inamovibili Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2014, 06:41:23 pm La burocrazia
Capi di gabinetto e dirigenti inamovibili Il potere ombra cresciuto nei ministeri Il nuovo premier e l’idea di una direttiva per sbarrare la strada ai consiglieri di Stato Licenziabilità e rotazione Tra le ipotesi anche la licenziabilità o l’obbligo di rotazione degli incarichi dopo un massimo di sei anni Non sappiamo ancora se quella lettera partirà mai. Ma che nelle ore precedenti alla formazione del governo fosse circolata l’idea di emanare come primo atto dell’epoca renziana una direttiva per sbarrare la strada verso i vertici dei ministeri ai consiglieri di Stato e ai giudici dei Tar, è garantito. Atto senza precedenti, capace di ribaltare i rapporti fra la politica e un grumo di potere che da decenni ha in mano le leve operative dell’esecutivo con l’egemonia incontrastata sugli incarichi da capo di gabinetto o degli uffici legislativi. Una burocrazia che si sovrappone alla burocrazia, tenendosi per mano e passandosi spesso il testimone da un ministero all’altro. Alcuni casi hanno letteralmente fatto scuola. Uno per tutti, quello di Corrado Calabrò: nel 1963 era già con Aldo Moro a Palazzo Chigi, un trampolino che gli ha consentito in seguito di attraversare tutto l’universo governativo, alla guida dei gabinetti di Bilancio, Mezzogiorno, Sanità, Industria, Agricoltura, Marina Mercantile, Poste, Istruzione, Politiche comunitarie, Riforme... Monumento ineguagliato a una potente stirpe di ministri ombra cresciuta irresistibilmente fino ai giorni nostri, di incarico in incarico. Soltanto nel primo semestre del 2013, periodo che registra le nomine coincidenti con l’insediamento dell’esecutivo di Enrico Letta, sono stati conferiti a consiglieri di Stato o del Tar 54 incarichi governativi, il 37,5% di tutti quelli extragiudiziali assegnati negli stessi mesi a 113 diversi magistrati. Compresi, fra questi, due esponenti del governo: il viceministro dello Sviluppo Antonio Catricalà e il sottosegretario alla Presidenza Filippo Patroni Griffi. E compresi anche i magistrati ingaggiati dai ministri del vecchio esecutivo che Matteo Renzi ha confermato. Come il capo dell’ufficio legislativo delle Infrastrutture di Maurizio Lupi, Gerardo Mastrandrea, che dieci anni fa entrò negli uffici di Porta Pia in qualità di esperto legislativo del viceministro Mario Tassone. O come il suo collega Giuseppe Chiné che fa lo stesso lavoro alla Salute di Beatrice Lorenzin, la quale ha collocato al posto di capo di gabinetto un altro consigliere di Stato, Mario Alberto Di Nezza. Ecco spiegato il motivo per cui, anziché una disposizione formale che impedisca la consueta migrazione di mandarini da palazzo Spada al governo, c’è da attendersi piuttosto una moral suasion per indurre i ministri a scegliersi per quei ruoli chiave figure un po’ diverse. Per capire l’aria che tira, del resto, è sufficiente dare un’occhiata in cima alla piramide. Dove c’è il braccio destro di Renzi Graziano Delrio, ex ministro degli Affari regionali e ora sottosegretario alla Presidenza: il suo capo di gabinetto al ministero risponde al nome di Mauro Bonaretti, era direttore generale del comune di Reggio Emilia con Delrio sindaco. Segno inequivocabile che anche a Palazzo Chigi molte cose sono destinate a cambiare. A cominciare da alcune posizioni strategiche occupate, manco a dirlo, da altrettanti consiglieri di Stato. Per esempio, quella di capo dell’ufficio legislativo affidata in precedenza a Carlo Deodato. O quella del segretario generale della Presidenza, incarico ricoperto nel governo Letta da Roberto Garofoli, già capo di gabinetto di Patroni Griffi alla Funzione pubblica. Si tratta di una figura chiave, che deve far funzionare una struttura cruciale e complessa, nel tempo diventata gigantesca: 4.500 persone, più del triplo rispetto al Cabinet Office del premier britannico David Cameron. Ragion per cui la persona più accreditata per ricoprire quel ruolo è lo stesso Bonaretti. Ma è circolato anche il nome dell’ex segretario generale dell’Anci Angelo Rughetti, deputato del Pd fra i più vicini a Renzi e Delrio. Ce n’è abbastanza, insomma, perché la vecchia guardia sia in subbuglio. Tanto più, dopo aver letto i nomi dei nuovi ministri, per la mancanza di punti di riferimento. Ma la fibrillazione si è estesa anche ai ministeri, che rischiano di venire investiti da un altro terremoto. Entro tre mesi dovranno essere confermati o sostituiti, in base alle norme che regolano lo spoils system in salsa italiana, gli altissimi dirigenti. E qui si apre la partita dei segretari generali, che si presenta intricata per molti aspetti e per la caratura dei personaggi. Michele Valensise, che era stato nominato da Giulio Terzi ed era rimasto con Emma Bonino, continuerà il suo incarico alla Farnesina con Federica Mogherini? E come sarà il rapporto fra Antonio Lirosi, ex mister consumatori considerato molto vicino all’ex segretario democratico Pier Luigi Bersani, nominato da Flavio Zanonato segretario generale del ministero dello Sviluppo economico neppure due settimane prima delle dimissioni del governo, e il nuovo ministro Federica Guidi? Per non parlare di altri pezzi da novanta. Persone sconosciute ai più, talvolta defilate, ma più potenti degli stessi ministri. Valga per tutti l’esempio del quasi settantenne Ercole Incalza, l’uomo che con Lorenzo Necci ha gestito la controversa, quanto a modalità e costi, operazione dell’alta velocità ferroviaria made in Italy. «Quattordici volte inquisito e quattordici volte prosciolto», ha ricordato il Fatto quotidiano, nonché inquilino ministeriale a più riprese a partire da quando ai Trasporti c’era il socialista Claudio Signorile, è da tre lustri l’eminenza grigia delle Infrastrutture. Sopravvissuto a una mezza dozzina di ministri, è stato confermato da quello attuale, Lupi, alla testa della struttura che si occupa delle grandi opere. Intoccabile, ha una influenza enorme. Eppure quella sulla quale siede Incalza non è nemmeno una di quelle venti poltrone considerate nevralgiche per il potere ministeriale. Alcune delle quali occupate da persone di recente inserimento nell’amministrazione. La più ingombrante è quella del direttore generale del Tesoro, tradizionalmente uno degli inamovibili: da due anni l’incarico è nelle mani di Vincenzo La Via. E poi il Ragioniere generale dello Stato: altra posizione ultralongeva oggi ricoperta da Daniele Franco, arrivato con l’ex ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni. Resisterà al suo posto o cederà alla tentazione di rientrare nei ranghi della Banca d’Italia, da cui proviene? Mentre per il responsabile della spending review (la revisione della spesa) Carlo Cottarelli si potrebbe profilare un trasferimento dall’Economia a Palazzo Chigi. Magari a capo di quel dipartimento economico che era stato in grande spolvero negli anni 90 al tempo di Stefano Parisi e che ora potrebbe ritrovare l’antico smalto. Ma se nella riorganizzazione del governo la presidenza del consiglio è destinata ad avere più voce in capitolo sulle questioni economiche, al tempo stesso Palazzo Chigi vedrà scomparire strutture la cui esistenza separata dai tradizionali ministeri ben poco si giustifica, come l’Integrazione (che andrà al Lavoro?) o l’Editoria (ai Beni culturali?). Inutile dire che il cambiamento vero della pubblica amministrazione parte da qua: l’alta burocrazia. Ed è certo che la portata innovativa del governo Renzi su questo fronte si giudicherà dalle prime mosse. Vedremo se il ministro Marianna Madia darà seguito ai propositi di introdurre misure per l’Italia sconvolgenti come la licenziabilità dei dirigenti o l’obbligo di rotazione degli incarichi dirigenziali dopo un massimo di sei anni. Un grimaldello che potrebbe mettere in crisi incrostazioni di potere tipo quelle sedimentate intorno a figure come Incalza. Anche se per sbriciolarle completamente manca un passaggio. Ovvero, che le leggi siano scritte in modo chiaro e trasparente, e soprattutto che per essere attuate non abbiano bisogno di decreti, norme o circolari ministeriali: un sistema che espropria il Parlamento del potere di legiferare affidandolo a meccanismi nebbiosi manovrati da una burocrazia spesso ottusa e autoreferenziale, corresponsabile dell’immobilismo. Con il risultato che tutto finisce nel pantano. A ottobre 2013 il Sole24ore ha calcolato che per rendere operative leggi emanate a partire dal governo Monti mancavano 469 provvedimenti di attuazione. 23 febbraio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_23/capi-gabinetto-dirigenti-inamovibili-potere-ombra-cresciuto-ministeri-5de9eed4-9c6e-11e3-bf70-ea8899950404.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Dalle Poste a Eni e Enel: quei 350 manager da nominare Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2014, 07:22:34 pm La lista
Dalle Poste a Eni e Enel: quei 350 manager da nominare Per la prima volta da 12 anni tocca a un governo di centrosinistra. Renzi punta a un rinnovamento profondo La lista delle 350 nomine con cui Renzi dovrà ben presto fare i conti comincia imprevedibilmente dalla A di Arcus. Si chiama così una società dei Beni culturali costituita dieci anni fa per distribuire ogni anno milioni, con un consiglio lottizzato, senza passare per le procedure ordinarie. Tanto da aver suscitato serie perplessità sulla sua stessa esistenza, culminate nella sacrosanta soppressione decisa dal governo Monti. Ma prima che Arcus potesse esalare l’ultimo respiro, eccola resuscitare grazie a un provvidenziale emendamento al decreto «Del Fare» firmato nell’estate 2013, in piena stagione di larghe intese, dalla berlusconiana Elena Centemero, di professione insegnante. Ed essendo tornata operativa, anche questa società rientra ora nel più grande giro di nomine pubbliche da molti anni a questa parte. L’ambasciatore Ludovico Ortona, che in vista dello scioglimento di Arcus era stato nominato da Monti amministratore unico, è il primo dei manager pubblici in scadenza che dovrebbe essere rinnovato o sostituito. Sono, appunto, 350. La fetta più grossa è costituita dai 74 consiglieri di amministrazione del gruppo Enel, a cominciare dai nove della holding, con in testa l’amministratore delegato Fulvio Conti. Seguono le società partecipate dalla Cassa depositi e prestiti: 51 poltrone, comprese quelle delle imprese del Fondo italiano d’investimento. E poi il gruppo Anas (43), la Finmeccanica (35), l’Eni (29), le Poste (29) e le controllate delle Ferrovie (24) e di Invitalia (15). Partite in qualche caso delicatissime, considerando che è la prima volta negli ultimi dodici anni che un governo a guida di centrosinistra ha la responsabilità di designare i vertici delle più grandi aziende di Stato. Dunque un banco di prova determinante per il governo di Matteo Renzi, che ha fatto trapelare l’intenzione di procedere a un rinnovamento profondo. Il grimaldello, per quello che se ne sa, potrebbe essere l’applicazione di un criterio generale secondo il quale la durata massima delle cariche dovrebbe essere limitata a due mandati triennali. Un automatismo che garantirebbe il ricambio, ma che difficilmente si potrebbe applicare alle società quotate, dove la sostituzione di un manager «anziano» ma capace potrebbe non essere apprezzata dal mercato. Senza considerare che nella precedente tornata di nomine, lo scorso anno, hanno ottenuto la conferma anche capi azienda che avevano già oltrepassato quel limite, come gli amministratori delegati delle Ferrovie, Mauro Moretti, e di Invitalia, Domenico Arcuri. Il tema che si profila è perciò come combinare la necessità di cambiare l’aria, in qualche caso assai stantia, con l’esigenza di preservare il merito. E vedremo pure se, e in che modo, i partiti continueranno ad avere voce in capitolo. I fedelissimi del Cavaliere, per esempio, si dicono certi che tanto Conti quanto soprattutto il suo collega dell’Eni Paolo Scaroni, entrambi nominati e confermati due volte da governi targati Silvio Berlusconi, non usciranno di scena. C’è chi sibila di garanzie arrivate dal fronte renziano. Solo fantasie? Vedremo. Di sicuro scorrendo la lunga lista dei nomi in scadenza si può valutare la dimensione della partita che Renzi ha di fronte. Nel consiglio dell’Eni c’è per esempio Mario Resca, uno dei manager più apprezzati da Berlusconi, che l’ha voluto nel consiglio della Mondadori e alla direzione generale dei Beni culturali. Fra le varie società in attesa di rinnovo c’è poi la Consap, presieduta dall’ex Ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio e amministrata dall’ex direttore generale della Rai Mauro Masi. Alla Finmeccanica scadono tutti, anche il presidente nominato lo scorso anno dal governo Letta, che risponde al nome di Gianni De Gennaro, ex capo della polizia ed ex sottosegretario di Monti. Scade anche il consiglio di Italia Lavoro, dove troviamo Maria Lucia Galdieri: assessore al Lavoro e alla Pace, in carica (!), alla Provincia di Napoli governata dal centrodestra. E poi una piccola società dell’Eni, la Servizi fondo bombole metano, che ha riservato una poltroncina, udite udite, per Pasqualino De Vita, 84 anni suonati, ex capo dell’Agip e poi per tre lustri monarca dei petrolieri. Quindi Fs sistemi urbani, presieduta dal presidente delle Ferrovie Lamberto Cardia confermato nell’incarico giusto un anno fa, ex numero uno della Consob, ottant’anni il prossimo maggio. E Centostazioni, al cui vertice siede l’ex braccio destro di Biagio Agnes, Paolo Torresani. E la società Ricerca sul sistema energetico, con l’ex tesoriere di Forza Italia alla Camera, Alberto Di Luca. E la Banca del Mezzogiorno, con il segretario generale della Fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy. E la compagnia aerea delle Poste Mistral Air, con l’ex senatore Andrea Corrado, leghista al pari del presidente di Posteshop, Mario Cavallin. E Difesa Servizi, società creata dall’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, nella quale trovano posto il suo ex consigliere Giovanni Bozzetti e il segretario generale della Fondazione Alleanza nazionale, Antonio Giordano. Per non parlare dell’Istituto sviluppo agroalimentare, società del ministero dell’Agricoltura amministrata da Annalisa Vessella, consigliere regionale in carica (!) della Campania e consorte dell’ex onorevole Responsabile Michele Pisacane.... Un lavoro immane, capace di mettere a dura prova i coraggiosi propositi del governo renziano. Che poi così solidi, alla prima verifica, non si sono certo rivelati. La dimostrazione? Per mandare subito un segnale era stata ventilata addirittura una direttiva ai ministri chiedendo loro di non scegliere stretti collaboratori provenienti dal Consiglio di Stato. Ebbene, è di ieri la notizia che il ministro più importante, il responsabile dell’Economia Pier Carlo Padoan, avrebbe scelto come capo di gabinetto il consigliere di Stato Roberto Garofoli, segretario generale di palazzo Chigi con l’ex sottosegretario Filippo Patroni Griffi, a sua volta consigliere di Stato. 27 febbraio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Sergio Rizzo Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_27/dalle-poste-eni-enel-quei-350-manager-nominare-903416ba-9f77-11e3-b156-8d7b053a3bcc.shtml Titolo: Fabrizio Massaro e Sergio Rizzo. Sorgenia e il salvataggio pagato dallo Stato Inserito da: Admin - Marzo 02, 2014, 05:27:14 pm Debiti per 1,9 miliardi: l’aiuto dello Stato è una possibilità già diventata un caso politico
Il premier, Sorgenia e il salvataggio pagato dallo Stato Il nodo della remunerazione pubblica per le centrali del gruppo De Benedetti Si chiama in gergo tecnico capacity payment, ed è un salvagente formidabile per quanti oggi producono ancora energia elettrica con il gas: a causa del boom delle energie rinnovabili e della crisi economica che ha affossato i consumi di energia le loro centrali restano spente la maggior parte del tempo. E i bilanci vanno a picco. Ecco allora spuntare quella miracolosa formula inglese, che si può tradurre così: i proprietari degli impianti termoelettrici vengono pagati lo stesso anche se le turbine non girano, semplicemente perché potrebbero produrre. Una specie di imposta sulla riserva di capacità produttiva che entrerebbe in azione quando ce ne fosse la necessità, in grado di dare un bel sollievo ai conti malandati di alcuni produttori. Quella tassa esiste già, ma i produttori vogliono molto più dei 150 milioni del vecchio capacity payment . Secondo Assoelettrica ed Energia concorrente, per tenerli a galla servono almeno 600 milioni l'anno fino al 2017. L'hanno scritto in un dossier di una decina di pagine spedito nelle stanze che contano con la dicitura «Riservato». Chi sta peggio di tutti è Sorgenia, gruppo che fa capo alla Cir di Carlo De Benedetti, editore di Repubblica e del gruppo L'Espresso. Si trova a un passo dall'avvitamento finanziario: fra tre settimane finirà i soldi in cassa. Il debito sfiora quota 1,9 miliardi. A metà degli anni Duemila le banche le avevano concesso generosi finanziamenti per realizzare centrali a turbogas. Ma allora il mercato tirava. Poi, in soli cinque anni, è cambiato tutto. Alla crisi economica e al boom delle rinnovabili si è aggiunto l'alto costo dei contratti di acquisto del gas a lungo termine, i cosiddetti take or pay. Risultato: con una produzione ridotta al 20 per cento e un debito diventato insostenibile per almeno 600 milioni, nel solo terzo trimestre 2013 Sorgenia ha messo a bilancio una perdita di 434 milioni: cento in più di quanti De Benedetti ne abbia incassati da Silvio Berlusconi dopo la sentenza sul caso Mondadori. E qui si apre uno scenario incandescente. Con tre protagonisti: il premier, l'editore di Repubblica e il suo avversario di sempre, Berlusconi. Il marchio di fabbrica è come sempre di Beppe Grillo: «Mettete Renzi e al posto del burattino Pinocchio e Berlusconi e De Benedetti nei ruoli del Gatto e della Volpe». Rispettando il gioco delle parti, da settimane i giornali e i commentatori della destra non danno tregua a De Benedetti, individuato come il manovratore occulto del governo di Matteo Renzi. E non soltanto da loro, se è vero che «il Secolo XIX», certo non un quotidiano berlusconiano, raccontando come ai colloqui per il governo avesse partecipato nella delegazione socialista Vito Gamberale, amministratore del fondo F2i «in trattativa con il gruppo «L'Espresso» per il nuovo operatore delle frequenze digitali», commenta: «Una presenza che non contribuisce ad allontanare l'ombra di De Benedetti dal tentativo di Renzi». Tutto parte dall'ormai famosa telefonata di Fabrizio Barca con l'imitatore di Nichi Vendola mandata in onda dalla «Zanzara», in cui l'ex ministro parlava delle pressioni subite «dal padrone di Repubblica, con un forcing diretto di sms, attraverso un suo giornalista» per accettare l'incarico di responsabile dell'Economia. Ma poi la cosa dilaga. Il tam tam è inarrestabile. Intervistato dal giornale online ilsussidiario.net l'economista Francesco Forte, editorialista del «Foglio» di Giuliano Ferrara, si chiede: «Non è un caso che la nomina di Renzi sia arrivata, con un'accelerata, nel momento delle nomine? Lui, forse, quest'accelerata, non la desiderava neanche ma ora sarà tenuto a renderne il servizio...» E dopo che «Repubblica», a poche ore di distanza dalla formazione del governo, ha puntato il dito contro il conflitto d'interessi del ministro dello Sviluppo, l'ex presidente dei giovani di Confindustria Federica Guidi, stigmatizzandone anche le presunte simpatie berlusconiane, il «Giornale» della famiglia Berlusconi titola: «Repubblica attacca la Guidi per i debiti di De Benedetti». Sottolineando proprio la difficile situazione di Sorgenia. Il fatto è che questa vicenda è destinata a incrociare tanto la strada del governo Renzi quanto quella delle prossime nomine pubbliche nelle aziende di Stato. E magari anche quella del Cavaliere. Ma qui è necessario fare un passo indietro, tornando alle ultime settimane del governo di Enrico Letta. Le pressioni della Confindustria perché si risolva quel problemino dei produttori termoelettrici sono incessanti. Finché nella legge di Stabilità spunta una norma che apre la strada proprio a quella formuletta inglese: «capacity payment». Fissando però soltanto il principio: a stabilire quanti soldi e a chi concretamente andranno, toccherà al ministero dello Sviluppo, sentita l'Authority, entro la fine di marzo 2014. Al ministero c'è il bersaniano Flavio Zanonato, attorniato da altri bersaniani. Il segretario generale è Antonio Lirosi e il capo di gabinetto Goffredo Zaccardi, che aveva lo stesso incarico con Pier Luigi Bersani: il quale non può certo essere considerato nemico di De Benedetti. Anzi. Sorgenia esiste proprio grazie alle liberalizzazioni introdotte dall'ex ministro dell'Industria Bersani. E ora il salvataggio è nelle mani di Renzi e Guidi. Il nemico rischia di essere il tempo. Le banche hanno chiuso i rubinetti, il socio austriaco Verbund non vuole più tirare fuori un euro e Rodolfo De Benedetti, il figlio di Carlo, è disposto a mettere nel buco nero soltanto un centinaio di milioni. Il rischio di dover portare i libri in tribunale è reale. E l'eventuale fallimento non risparmierebbe le banche, la cui esposizione è vertiginosa. Tanto che queste stanno valutando la possibilità di trasformare parte dei loro crediti in capitale, ripetendo il copione già sperimentato con l'immobiliare Risanamento di Luigi Zunino e con la Tassara di Romain Zaleski. Se ne parlerà domani a un vertice forse decisivo. Ben sapendo due cose. La prima: senza l'aiutino dello Stato Sorgenia rischia comunque di andare a picco, come riconosce lo stesso piano finanziario della società. La seconda: la soluzione definitiva è la cessione del gruppo energetico che fa capo a De Benedetti. E di candidati italiani con le spalle abbastanza grandi non ce n'è che uno. L'Eni di Paolo Scaroni: un manager che nel 2002 è stato designato alla guida dell'Enel e che poi è stato nominato per ben tre volte ai vertici del grande gruppo petrolifero ancora controllato dal Tesoro. Cementando anche attraverso l'assidua presenza dell'Eni in Russia i rapporti tra l'ex premier Silvio Berlusconi e Vladimir Putin. Corre voce che nei colloqui con Matteo Renzi il Cavaliere abbia chiesto (e ottenuto?) un impegno a preservare, con le nomine che il governo dovrà fare nelle prossime settimane, le posizioni di Scaroni e dell'attuale capo dell'Enel Fulvio Conti all'interno del sistema delle grandi aziende pubbliche. Da una parte il capacity payment rinforzato. Dall'altra l'intervento successivo dell'Eni. Gli ingredienti per uno dei classici feuilleton all'italiana, nei quali la politica e gli affari si amalgamano in un abbraccio incestuoso, ci sono tutti. Con effetti pirotecnici a cascata. Perché se trasformando i crediti in azioni le banche diventeranno proprietarie di Sorgenia, magari lo Stato, attraverso l'Eni, darà un aiutino determinante anche a loro. Il secondo, dopo quello della rivalutazione delle quote di Bankitalia che ha fatto imbestialire i grillini. La prima della lista, la più esposta di tutte? Il Monte dei Paschi di Siena, nelle mani di una fondazione già a trazione Pd... 02 marzo 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Fabrizio Massaro e Sergio Rizzo Da - http://www.corriere.it/economia/14_marzo_02/premier-sorgenia-salvataggio-pagato-stato-c3a9e07a-a1e2-11e3-adcb-9ee016b80fee.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Saccomanni: «Hanno avuto paura dei nostri conti» Inserito da: Admin - Marzo 10, 2014, 12:19:08 pm CONTI PUBBLICI
Saccomanni: «Hanno avuto paura dei nostri conti» Il racconto dei dieci mesi con Letta. «Padoan è molto apprezzato ma anche lui dovrà fare attenzione» di Sergio Rizzo Il bilancio? «Un’esperienza positiva. Ma avessi saputo che sarebbe durata dieci mesi non so se avrei accettato. Per impostare un lavoro così complicato come quello affidato al ministro dell’Economia e portare a casa un risultato, servono due anni». L’ex direttore generale della Banca d’Italia precisa di parlare «da economista», che non aveva certo bisogno di un breve passaggio sulla scrivania di Quintino Sella per coronare la carriera. Ma si capisce che il brusco epilogo brucia ancora di più dopo quanto è successo nelle ultime ore. Con il commissario europeo Olli Rehn che retrocede l’Italia nel girone dei Paesi con «squilibri eccessivi». E il premier Matteo Renzi che dice: «Sapevamo che i numeri non erano quelli che Letta raccontava, ma siamo gentiluomini e non abbiamo calcato la mano…». Saccomanni risponde con voce ferma: «È una scorrettezza. L’ipotesi che Letta abbia raccontato storie è assolutamente non vera. Noi abbiamo sempre esattamente detto come stavano le cose». Gli ultimi rilievi europei, però, sono pesanti. La Commissione accusa l’Italia di non aver messo in campo riforme in grado di tirarci fuori dalla palude della scarsa produttività e della crescita inesistente. «Il fatto è che loro hanno interpretato come stime i nostri obiettivi: due cose che sono evidentemente molto diverse. Nel documento di economia e finanza ho scritto che il governo italiano si poneva per il 2014 l’obiettivo di una crescita dell’1,1 per cento. E a novembre mi sembrava di aver convinto la Commissione e Olli Rehn che le misure previste dalla legge di stabilità e da altri provvedimenti avrebbero fatto ripartire la nostra economia a quel ritmo. Magari è obiettivo che il governo Renzi può giudicare insufficiente. Ma affermare che si è nascosta la realtà è scorretto. Vorrei ricordare che nella riunione dell’Eurogruppo del 22 novembre scorso si era chiaramente arrivati alla conclusione che non ci sarebbe stato bisogno di alcuna manovra» replica Saccomani. Le preoccupazioni europee riguardano soprattutto il debito pubblico, il cui rapporto rispetto al Pil ha raggiunto un livello superiore di undici punti al record di vent’anni fa. Sono convinti che la correzione dei conti prevista per quest’anno non basterà a intaccarne le enormi dimensioni. «Ma dovrebbero sapere che il Prodotto interno lordo è sceso» argomenta l’ex ministro «non a causa di chissà quali politiche folli, ma per colpa della crisi. E che il debito è aumentato anche perché abbiamo dovuto pagare i conti lasciati con i fornitori dai governi precedenti, che si erano ben guardati dall’onorarli. Quello di Enrico Letta è stato il primo governo che ha restituito i soldi alle imprese. Per non dire dei 50 miliardi di indebitamento che ci siamo accollati per le operazioni di salvataggio di Paesi come Grecia o Irlanda e per alimentare il meccanismo europeo di stabilità…». Resta il fatto che da novembre a oggi la Commissione europea ha peggiorato il proprio giudizio sulle condizioni della nostra finanza pubblica. «Olli Rehn conosce perfettamente la situazione di oggi, perché gli è stata illustrata nei dettagli. A metà febbraio gli ho mostrato tutto, compresi i conti della spending review che prevedono tagli di spesa crescenti fino al 2 per cento del Pil nel 2016. Parliamo di risparmi per 33 miliardi. Carlo Cottarelli ha fatto un lavoro molto diverso rispetto ai suoi predecessori, un’analisi capillare stabilendo insieme alle amministrazioni periferiche le aree d’intervento: dalla riduzione del costo di acquisto di beni e servizi, all’eliminazione dei sussidi, alla chiusura di enti inutili. Questo improvviso cambio di giudizio mi pare incomprensibile». Chissà allora che a Bruxelles non abbiano voluto mettere le mani avanti, per prevenire l’offensiva annunciata da Renzi per attenuare le regole capestro sui bilanci pubblici. «Non esiste una possibilità su un milione che vengano cambiate» è persuaso Saccomanni. «Per ottenere questo risultato è necessaria l’unanimità, che non ci sarà mai. È vero che le regole si possono pure infrangere, andando però incontro alle sanzioni della Commissioni e dei mercati. Ma volendo rispettare il rigore dei conti pubblici si può solo cercare di stabilire un profilo di rientro del debito pubblico più a lungo termine, attraverso un’agenda di riforme». Non è d’accordo, l’ex direttore della Banca d’Italia, con le tesi espresse da illustri personaggi, per esempio l’ex presidente della Commissione Romano Prodi che un’alleanza dei Paesi mediterranei potrebbe piegare le resistenze tedesche e del fronte rigorista: «Il problema non è solo la Germania. Ci sono Paesi fondatori dell’Unione, come l’Olanda, che hanno problemi interni fortissimi a spiegare agli elettori che si devono spendere denari pubblici per Paesi incapaci a tenere sotto controllo i conti pubblici. Chi poi pensa a un fronte comune con Francia e Spagna deve sapere che i francesi non faranno mai nulla contro la Germania: lo spread della Francia è un quarto del nostro perché loro hanno convinto i mercati che resteranno per sempre agganciati alla locomotiva di Berlino. E la Spagna ha avuto dall’Europa 40 miliardi per salvare le sue banche: impensabile che sia disponibile a posizioni antitedesche. Ma poi diciamola tutta. La fissazione italiana che si debba aumentare il disavanzo pubblico per avere più crescita è un’autentica fesseria». E deve pensarla come lui anche il suo successore Pier Carlo Padoan. Al «Sole 24 ore» ha dichiarato che non c’è nessuna intenzione di oltrepassare la soglia del 3 per cento imposta dal trattato di Maastricht. «Pier Carlo è molto apprezzato a Bruxelles. Non credo avrà problemi. Ma gli occhi dell’Europa sono molto attenti, e con quell’attenzione dovrà inevitabilmente fare i conti», lo mette in guardia Saccomanni. Che dice: «A pensare male si potrebbe immaginare che l’accelerazione nel cambio di governo sia stata determinata dalla paura che Letta raggiungesse risultati troppo favorevoli: lo spread in discesa, l’economia in ripresa… A quel punto, fra un anno, sarebbe stato molto più difficile mandarci via» scherza Saccomanni. Ma non più di tanto… 7 marzo 2014 | 07:24 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/14_marzo_07/saccomanni-hanno-avuto-paura-nostri-conti-03450836-a5bc-11e3-b663-a48870b52ff3.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - Le norme sulle retribuzioni aggirate dai premi variabili. Inserito da: Admin - Marzo 24, 2014, 05:09:05 pm Le norme sulle retribuzioni aggirate dai premi variabili.
Il caso delle società quotate La beffa del tetto agli assegni d’oro Funziona solo per Ciucci e Arcuri Il governo Monti aveva stabilito nel 2011 che nessun manager pubblico avrebbe guadagnato più dei giudici della Consulta. Non è andata così di SERGIO RIZZO «Credo sarebbe un bel segnale se si chiedesse ai manager delle società di Stato di rinunciare completamente alla retribuzione fissa e accettare di essere pagati solo in funzione dei risultati di bilancio. Meglio: in funzione dei benefici, reali e misurabili, prodotti per la collettività». Questo proponeva due anni fa, in una lettera a «Repubblica», l’amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri. Erano i giorni in cui infuriavano le polemiche sul tetto agli stipendi fissato dal governo di Mario Monti al livello del presidente della Cassazione e quella provocazione scivolò via come l’acqua sul selciato. Ma Arcuri aveva centrato il problema. Destino ha voluto che fra i manager delle principali società di Stato sia stato praticamente l’unico, insieme al capo dell’Anas Pietro Ciucci, a vedersi ridurre la retribuzione a 302 mila euro. L’antefatto. Siamo alla fine del 2011: Monti stabilisce che nessun burocrate statale potrà guadagnare più della Suprema corte. Il principio dovrebbe valere anche per i manager delle aziende pubbliche, ma siccome è un aspetto particolarmente peloso si decide di mandare la palla in tribuna: il regolamento lo farà il Tesoro. Insomma, campa cavallo. Per giunta, le migliaia di società locali non sono nemmeno sfiorate. Ma mentre in tanti già si fregano le mani per lo scampato pericolo, ecco il colpo di scena: in Parlamento passa un emendamento della leghista Manuela Dal Lago che fa scattare la tagliola per tutti. Il Tesoro riesce a metterci una pezza per le società quotate come Eni, Enel, Finmeccanica e Terna, che vengono così salvate. Passa poi qualche mese e spunta magicamente un altro emendamento, con il quale si escludono dal tetto anche le società non quotate ma che hanno emesso «strumenti finanziari» sui mercati non regolamentati. Una fattispecie del tutto inedita, che però consente di tirare fuori dal mazzo le Ferrovie dello Stato con gli 873.666 euro di Mauro Moretti, la Cassa depositi e prestiti con il milione 35 mila euro di Giovanni Gorno Tempini, e le Poste con il milione e mezzo di Massimo Sarmi. Ma non è ancora finita. Perché un ennesimo emendamento precisa, a scanso di equivoci, che il tetto non vale nemmeno per le loro controllate. Di conseguenza, quando nel 2013 si arriva al dunque gli stipendi al top che vengono tagliati sono soltanto quelli di Arcuri e Ciucci. Meglio che niente, dirà qualcuno. Ma certo fa ridere che su 7.411 società pubbliche il tetto dei 302 mila euro abbia dispiegato concretamente i propri effetti solo in un paio di casi. Il fatto è che la questione è tremendamente seria e andrebbe affrontata con la dovuta serietà. Nel 1987 il presidente dell’Eni Franco Reviglio guadagnava 250 milioni di lire, cifra pari a 285.000 euro del 2012. Ovvero, meno di un ventiduesimo di quello che è stato nello stesso anno il compenso del suo omologo attuale Paolo Scaroni. Certo l’Eni del 1987 non è quello di oggi, ma la cosa fa impressione. Tanto più che la stessa cosa, a cascata, è accaduta in tutte le società pubbliche: anche quelle non quotate. Nel 1992 anche il capo delle Fs Lorenzo Necci guadagnava 250 milioni di lire, cioè meno di 220 mila euro di oggi. Esattamente un quarto rispetto alla paga di Mauro Moretti che minaccia di fare le valige se gliela taglieranno. Ma addirittura, stando a notizie mai smentite, un tredicesimo di quella (2,5 milioni) del suo predecessore Elio Catania, che peraltro lasciò le Fs nel 2006 con una buonuscita di 7 milioni nonostante un buco di bilancio di quasi 2 miliardi. L’origine di questo impazzimento? C’è chi la fa risalire alla scelta di consentire alla Pubblica amministrazione di assumere manager dall’esterno a tempo determinato. Preparatissimi ma anche pagatissimi. Mettendo immediatamente in moto un perverso gioco degli specchi che ha fatto lievitare all’inverosimile gli stipendi dirigenziali. Al centro e in periferia. Per le società pubbliche le privatizzazioni hanno poi fatto il resto: la quotazione in Borsa ha fatto allineare i compensi delle imprese pubbliche con quelli delle aziende private anche quando non ce n’era oggettivamente ragione. E pure qui tanto al centro quanto in periferia. L’amministratore delegato e direttore generale dell’Acea, per esempio, guadagna in tutto 1,3 milioni di euro. Il quintuplo di quello che un tempo era lo stipendio del presidente dell’Iri. La società è quotata, ma la maggioranza è in mano al Comune di Roma e l’azienda gestisce servizi in monopolio. Ancora: l’ex amministratore delegato della Sea, gestore monopolista degli aeroporti milanesi, Giuseppe Bonomi, ha incassato nel 2011 ben 900 mila euro. E non sono stati da meno molti altri suoi colleghi nelle varie aziende locali spuntate come i funghi. Spesso utili solo a corrispondere laute buste paga. Esattamente com’è accaduto nello Stato, grazie a un meccanismo apparentemente meritocratico: quello della parte variabile dello stipendio. Prendiamo il Gse, società pubblica unica nel panorama energetico europeo, con 1.186 dipendenti e costi a carico delle bollette. Il suo amministratore Nando Pasquali nel 2012 ha percepito 520 mila euro, di cui 238 mila come parte «variabile», cioè relativo ai risultati del 2011 e del 2012. Siamo certi che l’ha meritati. Ma alzi la mano il manager che non ha incassato sempre il 100% della retribuzione accessoria. E qui torniamo alla provocazione di Arcuri. Perché invece di fissare un tetto che si troverà sempre il modo di aggirare, non paghiamo i manager solo sulla base del merito, abolendo la parte fissa della retribuzione e valutando in modo rigoroso e trasparente i risultati della gestione? Questo naturalmente, dopo aver azzerato le tantissime società inutili che versano ai loro manager compensi magari inferiori allo stipendio della Cassazione, ma regalati. E non fra un mese, domani mattina. 23 marzo 2014 | 08:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/14_marzo_23/beffa-tetto-assegni-d-oro-funziona-solo-ciucci-arcuri-07a1837c-b25b-11e3-a842-5090550d57eb.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - Criteri chiari e scelte serie Inserito da: Admin - Aprile 11, 2014, 11:50:03 pm Criteri chiari e scelte serie
di SERGIO RIZZO Da settimane il governo di Matteo Renzi manda un messaggio ai vertici delle grandi aziende pubbliche in vista delle nomine imminenti: dopo tre mandati si va a casa. Con il risultato di innescare interpretazioni curiose. Tre mandati sulla stessa poltrona, o nella medesima azienda? Ed è un principio applicabile solo alle società interamente statali, come Poste Italiane, o anche a quelle quotate in Borsa, quali Eni, Enel, Terna e Finmeccanica? Speranze, più che domande, puntualmente rimbalzate sui giornali. Le speranze di quanti, insediati ormai da un decennio (e oltre) ai vertici delle imprese pubbliche, contano di poter restare ancora al loro posto a dispetto di tutto. Chi sostiene la necessità di salvaguardare continuità aziendali. Chi fa presente i rischi di un cambio in corsa. Chi poi rivendica risultati strabilianti. Offrendo in qualche caso anche una comoda soluzione: passare dall’incarico di amministratore delegato a quello di presidente. Per affidare poi la propria poltrona ancora tiepida a qualche fedelissimo, e immaginare di continuare a comandare per interposta persona. Stendiamo un velo pietoso sui disastrosi effetti di tali staffette. Ricordate com’è andata a finire alla Finmeccanica dove nel 2011 Pier Francesco Guarguaglini, dopo tre mandati da capo azienda, venne confermato alla presidenza con un successore scelto fra tre nomi da lui indicati? Un disastro. Il fatto è che sulle nomine Renzi si gioca un bel pezzo della propria credibilità di premier del cambiamento, forse ancor più che su certe riforme promesse. Perché il primo segnale concreto del nuovo «verso» non può che arrivare da lì. E che nelle aziende pubbliche ci sia una disperata necessità di ricambio del sangue è fuor di dubbio. Se dunque ci dev’essere un rinnovamento, che questo sia reale e radicale. Senza manovre gattopardesche che finiscono per lasciare le cose come stanno, talvolta in conflitto con gli stessi «orientamenti» aziendali. Basta pensare che solo un mese fa il consiglio dell’Enel ha approvato un «orientamento» (simile a quello adottato dall’Eni), regolarmente comunicato al mercato, per cui il futuro presidente dovrebbe essere «indipendente all’atto della prima nomina». Caratteristica che evidentemente mal si concilia, come ha affermato anche la Commissione attività produttive del Senato, con quella di amministratore esecutivo. Per cambiare non è neppure necessario inventarsi regole e principi che potrebbero anche risultare incomprensibili al mercato, come ad esempio un limite al numero dei mandati. Serve soltanto il coraggio delle proprie azioni, senza subire i soliti compromessi indigeribili con i partiti, le fazioni, le lobby. Il coraggio di affermare gli interessi dell’azionista pubblico rispetto a quelli delle filiere di potere che in tanti anni si sono stratificate intorno alle grandi imprese di Stato e dispongono di una micidiale forza di interdizione. Ma anche il coraggio di scelte indipendenti, legate esclusivamente alle capacità e al merito. Dove per indipendenti s’intende dalle pressioni politiche: comprese quelle travestite. Proprio qui sta il punto. Indicare le persone che avranno il compito di gestire grandi imprese quotate in Borsa presuppone rispetto del mercato e degli investitori, tanto più nel caso di aziende come Eni, Enel e Finmeccanica che hanno una parte rilevante di azionisti stranieri. Ecco allora che questo passaggio sarà per il governo Renzi anche una impegnativa prova di maturità. Ben al di là dell’immagine, dell’anagrafe, e perfino dei necessari equilibri di genere. © RIPRODUZIONE RISERVATA 9 aprile 2014 | 08:26 DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_09/criteri-chiari-scelte-serie-1ae8456a-bfa8-11e3-a6b2-109f6a781e55.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Novità positive e MOLTI dubbi Interrogativi su una svolta Inserito da: Admin - Aprile 16, 2014, 06:08:03 pm Novità positive e MOLTI dubbi Interrogativi su una svolta
di Sergio Rizzo Se volgiamo lo sguardo al decennio passato dobbiamo riconoscere che all’infornata delle nomine renziane non mancano tratti coraggiosi. La prova era certamente cruciale. E Matteo Renzi avrà pure provato sulla propria pelle cosa significhi sfidare certi gruppi di pressione. La fuoruscita dei vecchi amministratori delegati, in qualche caso seduti sulle poltrone pubbliche da ben oltre il limite dei tre mandati, è certo una grossa novità. Altrettanto lo è la presenza delle donne, da sempre tenute ai margini della stanza dei bottoni: si tratti del governo, delle aziende statali, degli enti e perfino delle authority. Prima di questa tornata di nomine occupavano il 20,2 per cento delle poltrone nei consigli di amministrazione delle 25 società non quotate direttamente controllate dal Tesoro, e questo solo grazie alla legge che ha imposto di riservare loro, progressivamente, almeno un terzo dei posti nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali. Ma il peso specifico del genere femminile, al di là delle percentuali, risulta ovunque pressoché inesistente. Appena tre presidenze per 25 società: il 12 per cento del totale. Nelle quattordici autorità indipendenti, comprendendo fra queste anche la Banca d’Italia, le donne sono appena nove su 57 componenti, e nessuna di loro occupa il posto di presidente. Zero su quattordici. In un’Italia nella quale il potere si è sempre declinato esclusivamente al maschile, l’arrivo delle donne ai vertici delle grandi aziende pubbliche potrebbe dunque essere visto come qualcosa di rivoluzionario. Anche se poi i nomi sono quasi sempre gli stessi che girano da anni, e a nessuna è stato affidato il timone aziendale. La triste verità, e lo confermano le scelte degli amministratori esecutivi e il faticoso percorso con cui si è arrivati a farle, è la generale povertà della nostra classe manageriale. Si potrebbe discutere a lungo sui motivi, del resto comuni a quelli che hanno reso l’attuale ceto dirigente italiano (tutto intero) il più debole del dopoguerra. Ogni ricambio si rivela sempre estremamente difficile: nelle imprese pubbliche, poi, assume spesso i contorni di una missione impossibile. Le scuole manageriali, quale per esempio era l’Iri, sono chiuse da un pezzo. E in quelle della pubblica amministrazione la direzione aziendale non è materia d’insegnamento. I pochi manager giovani e di valore preferiscono l’estero o il privato e non sono attirati da incarichi pubblici nei quali rischiano di subire i condizionamenti politici e delle lobby. Prova ne siano i rifiuti che Renzi ha dovuto incassare. Ecco allora che in questa carenza di capitale umano si finisce per avvicendare i vecchi amministratori con maturi dirigenti interni cresciuti alla loro scuola, come è accaduto all’Eni con la promozione del delfino di Paolo Scaroni, Claudio Descalzi. O per spostare amministratori da una casella all’altra, con migrazioni assai singolari. Tale è il passaggio di Mauro Moretti dalle Ferrovie dello Stato alla Finmeccanica, posto di grande respiro internazionale, in sostituzione di un Alessandro Pansa estromesso dopo un anno senza particolari demeriti. Per Moretti, che guida le Fs dal 2006, è la quinta nomina consecutiva da amministratore delegato: molto sostenuta all’interno del Pd da Massimo D’Alema. A dimostrazione che fra cacciatori di teste e comitati di saggi ancora con la politica, in fondo, si sono dovuti fare certi conti. 15 aprile 2014 | 07:32 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_15/editoriale-interrogativi-su-una-svolta-sergio-rizzo-ca59c88a-c45c-11e3-9713-8cc973aa686e.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Le tangenti e l’expo Legalità e buona volontà Inserito da: Admin - Maggio 12, 2014, 04:54:39 pm Le tangenti e l’expo
Legalità e buona volontà Di Sergio Rizzo Davanti a un’emergenza non c’è mai niente di meglio che invocare misure straordinarie, come quella «task force anticorruzione» a cui qualcuno pensa per curare la nuova ferita inferta a Milano dalla cricca delle tangenti. Peccato soltanto che queste toppe siano spesso risultate peggiori dei buchi. Si pensi all’esito del commissariamento di Pompei. O ai Grandi eventi gestiti dalla Protezione civile vecchio stile: uno scandalo che quattro anni fa ha indotto il governo, guarda un po’, proprio a varare una legge contro la corruzione. Misura che evidentemente è servita ben poco, a giudicare dalle notizie di questi giorni. Le quali, va detto, di straordinario hanno davvero poco. Sono anni che la Corte dei conti mette in guardia sulle dimensioni abnormi raggiunte dal malaffare. Anni che i magistrati prospettano il rischio di corruzione e infiltrazioni criminali nei grandi appalti, compresi quelli dell’Expo. Anni che la politica, indifferente all’abisso che ormai la separa dal Paese, è impegnata in una immorale escalation affaristica. Anni che scivoliamo sempre più in basso nelle classifiche della corruzione percepita stilate da Transparency international . Nel 1995, quando i più importanti processi di Mani pulite erano ancora in pieno svolgimento, l’Italia occupava la casella numero 33; diciotto anni dopo eravamo precipitati al sessantanovesimo posto. Dopo Ghana, Arabia Saudita e Giordania; distanziati di 39 posizioni dalla Spagna, 47 dalla Francia, 57 dalla Germania. Che altro serviva per capire? Se qualcosa di paradossale c’è semmai nella vicenda dell’Expo, è che in un Paese refrattario a ogni cambiamento perfino i signori collettori delle tangenti sono sempre gli stessi di 22 anni fa. Più canuti e incartapecoriti, ma non meno famelici ed efficienti: per la gioia di chi ha sempre negato l’esistenza di Tangentopoli. Anziché a improbabili misure straordinarie, ora si deve pensare a chiudere in fretta e con meno danni possibili questa pagina. La città di Milano non merita un fallimento clamoroso agli occhi del mondo. Non lo meritano i milanesi, come non lo meritano tutti gli italiani: perché questa è una faccenda che vale l’orgoglio e la reputazione di un intero Paese. C’è una persona che ha l’incarico di condurre in porto il progetto, Giuseppe Sala. Sia messo nelle condizioni di lavorare al meglio, con collaboratori capaci e leali. Facciano tutti la loro parte, chi deve completare l’opera e i magistrati che devono fare pulizia. Ma soprattutto la politica. Perché se siamo arrivati a questo punto la colpa è innanzitutto di quanti in tutti questi anni occupavano la stanza dei bottoni. L’Expo è stata gestita come una fiera di paese, solo per spartire posti e affari. Privi di visione, ripiegati su tornaconti personali e di bottega, i politici hanno sprecato un’altra grande occasione per dimostrare di avere a cuore l’interesse generale. Ricordiamo le liti per l’occupazione delle poltrone, gli scontri continui fra le istituzioni e la guerra delle aree, con gli speculatori costantemente in agguato. Uno spettacolo così poco edificante per tutti noi quanto assai invitante per faccendieri, corrotti e corruttori. Gli ideatori dell’Esposizione universale del 1906, che impose Milano agli occhi del mondo come capitale industriale ed economica del Paese, si rivolteranno nelle tombe. © RIPRODUZIONE RISERVATA 12 maggio 2014 | 07:42 Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_12/legalita-buona-volonta-f8a93d5a-d993-11e3-8b8a-dcb35a431922.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - Ali indebitate memorie corte Le responsabilità del caso Alitalia Inserito da: Admin - Giugno 04, 2014, 07:05:49 pm IL COMMENTO
Ali indebitate memorie corte Le responsabilità del caso Alitalia di Sergio Rizzo Alla notizia della lettera con cui la compagnia degli Emirati arabi Etihad ha confermato l’interesse ad acquisire Alitalia, Maurizio Lupi ha tirato un respiro di sollievo: «Oggi è un giorno decisivo per la nostra compagnia di bandiera». Siamo sollevati con il ministro delle Infrastrutture. C’è però da dire che se siamo arrivati a questo punto, è anche per colpa di chi nel 2008 impedì il passaggio dell’Alitalia all’Air France. Per chi ha la memoria corta, ricordiamo la risoluta opposizione orchestrata in campagna elettorale a quella operazione da Silvio Berlusconi, senza che nel coro del suo partito si udisse una sola stonatura. Lo stesso Lupi, ora esultante di fronte alla prospettiva dei 600 milioni di investimenti promessi dagli emiri, la bollò come «un regalo ai francesi», che allora di milioni ne avrebbero investiti 1.140. Facendo pure digerire il boccone amaro ai loro soci olandesi della Klm, che erano stati già scottati dieci anni prima dall’indecisione dei nostri politici, al punto da scappar via dall’Italia a gambe levate. Sorvoliamo pure sul fatto che la fusione con Air France ci avrebbe fatto risparmiare un numero imprecisato di miliardi. Ma almeno una piccola autocritica, accanto all’esultanza, sarebbe stata doverosa. Ancora di più, tuttavia, avremmo apprezzato il mea culpa dei sindacati. Perché se il Cavaliere e i suoi contrastarono la cessione ai francesi per puro calcolo elettorale, chi tecnicamente la fece saltare furono loro. Con in testa la Cgil. Forse pensavano che, messo alle strette, ci avrebbe pensato ancora una volta Pantalone a tenere in piedi una baracca che faceva acqua da tutte le parti dopo due decenni di scorribande dei partiti e di scelte manageriali sbagliate con la fattiva collaborazione sindacale. Senza pensare che in quel modo non si sarebbe potuto andare avanti all’infinito: prima o poi la resa dei conti sarebbe arrivata. Ma nelle vicende dell’Alitalia la lungimiranza non è mai stata il loro forte. Per non parlare dei «patrioti» chiamati da Berlusconi a far rinascere dalle ceneri la nuova Alitalia, con la vecchia precipitata nel gorgo infinito (e dorato) della liquidazione. Una cordata nella quale l’interesse per il business del trasporto aereo era assai meno prevalente rispetto a quello per ritorni di altro genere, ai quali tipicamente aspira chi fa un investimento al solo scopo di compiacere un governo. Non certo la migliore fra le iniziative fortissimamente sostenute dal futuro ministro delle Infrastrutture Corrado Passera, al tempo amministratore delegato di Banca Intesa. Come purtroppo si è visto in seguito. Una composizione azionaria raffazzonata, dove spuntarono concessionari pubblici e imprenditori in affari con lo Stato, in larga misura disinteressata al progetto, non poteva che produrre una strategia effimera e di retroguardia: puntare gran parte del successo sul monopolio della rotta Milano-Roma proprio quando l’alta velocità ferroviaria era già sulla rampa di lancio. Non basta. Perché mentre ci si apprestava a «salvare» la compagnia di bandiera garantendo sette-anni-sette di cassa integrazione agli esodati, sgravi pubblici alle assunzioni, zero debiti e zero concorrenza sulla Linate-Fiumicino, si erano già poste le premesse perché in ogni caso la nuova Alitalia finisse nelle braccia dell’Air France. Che non a caso, della cordata patriottica era azionista di riferimento. Ma quando finalmente sembrava arrivato il momento di passare di nuovo la mano a Parigi, ecco un nuovo sussulto di italianità che ha lasciato i «patrioti» con il cerino in mano. Perché a quel punto per Air France l’operazione non era più conveniente. E siamo a oggi. Per aver voluto difendere strenuamente l’italianità della nostra compagnia dai francesi la venderemo agli arabi. Con il consueto strascico di altra cassa integrazione pagata, a quanto pare, dai viaggiatori con una tassa supplementare sui biglietti. Ma con una differenza: che i sindacati questa volta dovranno ingoiare un boccone decisamente più amaro di quello che gli sarebbe toccato sei anni fa. Ci sta, visto com’è andata. Ma ci starebbe ancora meglio se i responsabili di questo fallimento politico, sindacale e imprenditoriale chiedessero una volta tanto scusa agli italiani. © RIPRODUZIONE RISERVATA 4 giugno 2014 | 07:26 DA - http://www.corriere.it/economia/14_giugno_04/ali-indebitate-memorie-corte-e7df472e-eba6-11e3-85b9-deaea8396e18.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Avvocati dello Stato, addio premi E partono tre giorni di sciopero Inserito da: Admin - Giugno 17, 2014, 05:14:20 pm Il caso Nel decreto è prevista la riduzione del bonus legato alle cause
Avvocati dello Stato, addio premi E partono tre giorni di sciopero Il nodo degli onorari d’oro per i 347 legali pubblici Il taglio Il decreto: quando il giudice compensa le spese, gli avvocati dipendenti dello Stato non avranno diritto a premi Di SERGIO RIZZO ROMA - Il decreto sulla Pubblica amministrazione ancora fisicamente non c’è. Ma la cosa che li ha mandati letteralmente in bestia è un passaggio del quale da giorni si parla. Le versioni (e le voci) cambiano di ora in ora. La sostanza, però, quella non cambia di molto, visto che comunque si risolverà in una bella mazzata alle retribuzioni. Diciamo subito che non si tratta di stipendi esattamente modesti. E soprattutto parliamo di una categoria di persone, gli avvocati dello Stato, che fa parte della crema della nostra burocrazia. Due circostanze che rendono assolutamente clamorosa l’iniziativa di protesta presa dai loro sindacati: uno sciopero di tre giorni. I 347 avvocati dello Stato sono un corpo d’élite con il compito di patrocinare le Pubbliche amministrazioni nelle cause e fornire loro pareri legali. Al pari del Consiglio di Stato o della Corte dei conti, rappresentano un serbatoio dal quale i governi attingono per gli incarichi fiduciari. Per avere un’idea del loro peso basta il curriculum dell’attuale Avvocato generale Michele Dipace: dal 1981 al 2005 quasi ininterrottamente al fianco di ministri di ogni schieramento. Il loro costo (fonte il sito Internet dell’Avvocatura) è di 81,3 milioni l’anno: il che significa 234 mila euro mediamente l’anno a cranio. In casi come questi è sempre opportuno ricordare la famosa storia dei polli di Trilussa: anche se la media dice uno a testa, c’è chi ne mangia due e chi nessuno. In ogni caso sono retribuzioni collocate nella fascia alta del pubblico impiego. Tanto più che la busta paga ha anche una succulenta appendice. E proprio questo è il punto Una norma risalente al 1933 e poi modificata in seguito stabilisce infatti che agli avvocati dello Stato venga corrisposto anche un onorario per le cause vinte o per quelle nelle quali il giudice abbia stabilito la compensazione delle spese fra le parti (in pratica ognuno si paga i suoi legali). Quanti soldi? Negli ultimi due anni, 87 milioni e mezzo. Ossia fra i 43 e i 44 milioni l’anno. Che divisi per 347 fa più di 126 mila euro l’anno per ciascuno in media. E sottolineiamo «in media». Vi domanderete: che senso ha pagare anche l’onorario a un avvocato assunto a tempo indeterminato che già prende uno stipendio non proprio trascurabile? Domanda assolutamente plausibile, che ha una risposta. Avrebbe il senso di rappresentare un incentivo per vincere le cause, come se lo stipendio non fosse incentivante a sufficienza. Ma è una tesi evidentemente non condivisa proprio a fondo dal governo di Matteo Renzi. Il decreto stabilirà dunque che quando il giudice compensa le spese, gli avvocati dipendenti dello Stato non avranno più diritto ad alcun onorario. Nel caso invece di cause vinte con liquidazione della parcella ai legali del vincitore, l’onorario dovrebbe essere ridotto in misura drastica: anche al 10 per cento. E dato che le cifre derivanti dalle compensazioni sono di gran lunga le più rilevanti (quasi 70 milioni su 87 e mezzo nel biennio 2012-2013), ecco che il bonus oltre lo stipendio si potrebbe rimpicciolire in modo mostruoso. Spiegano che il provvedimento riconosce per la prima volta all’Avvocatura dello Stato, una macchina che oltre ai 347 burocrati conta 772 dipendenti disseminati in 26 sedi nel territorio nazionale, «autonomia amministrativa finanziaria e contabile». Questo vuol dire che i denari delle parcelle «private» anziché passare come ora attraverso l’Erario, e arrivare spesso con il contagocce, verrebbero incassate subito e senza intermediari. Ma questo evidentemente non è servito a mitigare gli animi. Né servirà, probabilmente, scoprire che il giro di vite potrebbe avere effetti non soltanto sull’Avvocatura, ma su tutti gli uffici legali degli enti pubblici e magari anche degli enti locali. Dove il modello degli avvocati dello Stato è stato recepito e talvolta esaltato al punto che il reddito dei legali dipendenti pubblici è oggi decisamente superiore a quello della media di chi esercita la professione privata. In più, con la sicurezza del posto di lavoro. Come l’Inps, che stipendia più di 300 avvocati. O come il Comune di Roma, dove grazie agli onorari «privati» il compenso dei legali nel 2012 è arrivato in qualche caso a superare 300 mila euro. 17 giugno 2014 | 08:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/14_giugno_17/avvocati-stato-addio-premi-partono-tre-giorni-sciopero-83a7b77a-f5e5-11e3-9bf3-84ef22f2d84d.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - Troppe misure solo su carta Inserito da: Admin - Luglio 13, 2014, 11:20:58 am Troppe misure solo su carta
Di Sergio Rizzo Le ferie estive, in Italia, sono sacre. Sacre nelle industrie, come pure sacre nei ministeri, e sacre nel Palazzo. Non sono sacre, a quanto pare, soltanto per i due Papi: né per Francesco, né per il suo predecessore Benedetto XVI. I quali hanno deciso, a quanto pare, di farne volentieri a meno. Due esempi che suggeriamo caldamente di imitare. Le riforme, come ha ricordato il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan su questo giornale, sono urgenti e decisive per il futuro immediato del Paese? L’arretrato ministeriale, con centinaia di decreti attuativi che non hanno ancora visto la luce (ce n’è qualcuno che dev’essere emanato, ha ricordato l’ex premier Romano Prodi, addirittura dal 1997), è spaventoso? L’agenda del semestre italiano è così densa, e il confronto con i rigoristi di Bruxelles tanto duro, da non poterci permettere di rinviare le scadenze a settembre? Abbiamo noi la soluzione: tagliamo le ferie, come hanno deciso di fare Jorge Mario Bergoglio e Joseph Ratzinger. E come si farebbe in qualunque altro Paese europeo date le stesse condizioni. Le ferie dei politici, dei burocrati, degli alti vertici ministeriali. Quelli che devono esaminare e approvare i provvedimenti di riforma, scrivere le centinaia di decreti di cui sopra, studiare la strategia per vincere il braccio di ferro in Europa. Due settimane, meglio se spezzate, sono più che sufficienti per ritemprare il fisico e rinfrancare lo spirito, senza interrompere in modo drastico il ritmo delle cose da fare. Evitando quindi non soltanto la serrata, ma anche il solito rallentamento dell’attività che precede la pausa estiva e il classico vuoto inevitabile che la segue con i motori che faticano sempre a riavviarsi, se non quando l’autunno è ormai alle porte. Risultato, due o tre mesi buttati: accade solo in Italia. E non succederebbe nel caso in cui si tagliassero le ferie degli apparati. Vi assicuriamo che si può fare. Si fece, per rammentare un episodio relativamente vicino, tre anni fa, in quell’estate del 2011 torrida soprattutto per il clima economico e politico infuocato. Ricordate i fatti? Il governo di Silvio Berlusconi aveva appena sfornato una manovra economica che alla prova dei mercati si era rivelata del tutto insufficiente. Le borse erano in fibrillazione, lo spread fra i Btp e i Bund tedeschi veleggiava in modo inarrestabile: duecento, trecento, quattrocento... Con somma indifferenza rispetto al rischio (decisamente concreto, come si sarebbe visto in seguito) che la crisi finanziaria degenerasse, i deputati avevano programmato ben cinque settimane di ferie, agganciando alla tradizionale sosta dei lavori parlamentari un pellegrinaggio in Terra Santa: il che avrebbe comportato la chiusura della Camera fino al 12 settembre. Progetto fallito grazie a un sussulto di responsabilità che fece comunque storcere la bocca a qualcuno. E anche, va detto, grazie alle pressioni esterne: il 5 agosto 2011 arrivò la famosa lettera della Bce che indusse il governo italiano a fare una manovra bis a Ferragosto. Iniziativa che non fu certamente risolutiva ma senza di cui la situazione, già abbastanza grave, sarebbe diventata ancor più drammatica di quella che avrebbe trovato tre mesi dopo Mario Monti. Non siamo nelle stesse condizioni di allora, è chiaro. E meno male, aggiungiamo. Ma il terreno da recuperare è talmente tanto che conviene dare retta ai due Papi: un sacrificio estivo, neppure troppo doloroso, agli italiani lo si deve. O no? 7 luglio 2014 | 08:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_07/troppe-misure-solo-carta-784e79d8-0597-11e4-9ae2-2d514cff7f8f.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Giro di vite su Regione, Comuni e stipendi Inserito da: Admin - Luglio 18, 2014, 08:57:31 am Costi della politica
Giro di vite su Regione, Comuni e stipendi Ecco cosa c’è nel dossier cui costi della politica di SERGIO RIZZO La prudenza. La necessità di non incattivire i rapporti con le Regioni mentre si ammorbidisce il Titolo V della Costituzione. O la voglia di non farsi altri nemici. Di ragioni per giustificare che il rapporto sui costi della politica sia in un cassetto anziché sul web come vorrebbe Carlo Cottarelli, ce n’è un migliaio: magari plausibili. Ma non accettabili. Non sono ragioni accettabili da un governo che ci ha promesso trasparenza assoluta e annunciato guerra agli sprechi. Anche perché se quella roba non diventa di pubblico dominio è come se non fosse mai esistita. Ma cosa c’è in quel documento pronto da quattro mesi e ancora misteriosamente ignoto, come ha denunciato ieri con irritazione su questo giornale da Riccardo Puglisi, uno del gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon che l’ha curato? Per esempio, il fatto che il problema principale, come molti del resto ormai sostengono, è rappresentato dalle Regioni. Da qui la proposta di allineare il costo degli apparati politici regionali a parametri standard. Il che non significa soltanto gli stipendi degli eletti, ma anche il loro numero e quello del personale che gli ruota intorno, con tutte le spese relative. Garantirebbe un risparmio di almeno 300 milioni l’anno, e sarebbe un’operazione di puro buonsenso. Portata alle conseguenze più radicali potrebbe anche modificare la geografia politica. Un esempio? Secondo il rapporto la Regione Molise non avrebbe ragione di esistere. Ancora: chi ricopre un incarico pubblico ed elettivo non può avere uno stipendio e una pensione o un vitalizio, o magari addirittura due, come non raramente capita. Il tutto accompagnato anche da un articolato di legge bell’e pronto messo a punto con la collaborazione del predecessore del commissario alla spending review Cottarelli, Piero Giarda. Il gruppo di lavoro incaricato di mettere a nudo gli aspetti più delicati (e scabrosi) di un sistema impazzito segnala circostanze incresciose nelle quali sono state rifiutate loro le informazioni. Il che tuttavia non ha impedito di scoprire come in molti casi norme moralizzatrici quali quelle del decreto Monti del 2012 sono state aggirate con autentiche furbate che hanno limitato la riduzione dei consiglieri prevista dalla legge, fatto rientrare dalla finestra spese uscite dalla porta, vanificato l’innalzamento dell’età pensionabile. Un fatto, quest’ultimo, clamoroso: Monti aveva previsto che dal 2012 in poi nessun consigliere regionale avrebbe più intascato il vitalizio prima di 66 anni, e ancora oggi alla Regione Lazio è invece possibile incassarlo a 50 grazie alla sopravvivenza delle vecchie regole. Per non parlare della Sardegna, dove l’ex presidente dell’assemblea regionale Claudia Lombardo, di Forza Italia, percepisce da pochi mesi un vitalizio da 5.129 euro all’età di 41 anni. Il rapporto scomparso non risparmierebbe nemmeno i Comuni (un mondo da cui proviene il premier Matteo Renzi e alcuni dei suoi collaboratori più stretti a cominciare da Graziano Delrio) per i quali stima un minore esborso annuale di qualche centinaio di milioni grazie a una rigorosa politica di accorpamenti per quelli al di sotto dei 5 mila abitanti, i quali assorbono il 54 per cento della classe politica locale. Numerosissima, stando ai dati contenuti nella relazione della Corte dei conti sul rendiconto dello Stato, pubblicata qualche settimana fa. I politici comunali sono 138.834: uno ogni 427 cittadini italiani. Tanti. Troppi, anche se il loro costo unitario non è paragonabile a quello delle altre istituzioni. Con qualche significativa eccezione. Il documento cita il caso del Trentino Alto Adige, per sostenere la necessità, anche qui, di allineare gli esorbitanti stipendi dei suoi sindaci a quelli del resto d’Italia: considerando che il primo cittadino di Merano guadagna 3 mila euro al mese più di quello di Milano, città 35 volte più popolosa. Per la Corte dei conti gli apparati politici comunali costano 1,7 miliardi l’anno, contro il miliardo e mezzo circa di Camera e Senato, che hanno 945 onorevoli più i senatori a vita, e il miliardo delle Regioni, dove si contano 1.270 fra eletti e assessori. Solo per pagare stipendi e pensioni di deputati e senatori si sono spesi nel 2013 ben 447 milioni, con un aumento di 8 milioni sul 2012. Ciò esclusivamente a causa della crescita della spesa per i vitalizi, pari ormai a metà del totale (220 milioni). Compresi gli europarlamentari e gli apparati provinciali, i politici italiani sono in tutto 145.591. Uno ogni 407 residenti nel nostro Paese. Il che la dice lunga sul peso della politica in Italia. I magistrati contabili riconoscono che nonostante l’aumento dei vitalizi le spese di Camera e Senato nel 2013 si sono ridotte rispettivamente del 5 e del 4 per cento. Inoltre il taglio dei vertiginosi stipendi del personale delle due Camere (arrivati a superare la media per dipendente di 150 mila euro l’anno) sarebbe ormai avviato. Mentre mancano pochi giorni alla rescissione dei costosissimi affitti dei palazzi Marini dell’immobiliarista Sergio Scarpellini, resa possibile da una legge voluta dal Movimento 5 stelle, che farebbero risparmiare a Montecitorio fra 32 e 37 milioni l’anno. Al netto s’intende, delle inevitabili cause giudiziarie che saranno intentate contro questa decisione. Vedremo. L’impressione è che per allineare davvero le uscite di Camera e Senato a quelle degli organismi equiparabili di altri Paesi la strada sia ancora lunga e insidiosa. E se «il costo relativo al 2013» del Quirinale è stato di 228 milioni di euro, cioè «pari a quanto speso l’anno precedente», la Corte dei conti non manca di sottolineare che nel 2013 la presidenza del Consiglio ci è costata 458 milioni, con un aumento dell’11 per cento, e che gli apparati politici dei ministeri «hanno comportato una spesa di oltre 200 milioni». Le sforbiciatine saranno state dunque volenterose, ma di sicuro non sufficienti considerando la mole delle uscite delle sole strutture politiche istituzionali: 6 miliardi. Lo scorso anno le quelle centrali (Camera, Senato, Quirinale, Palazzo Chigi...) sono costate circa 3 miliardi, con un calo del 4 per cento sul 2012. Altri 3 miliardi sono stati spesi per mantenere quelle locali, giunte e consigli di Regioni, Province e Comuni: in flessione, secondo i magistrati contabili, del 5 per cento. Troppo poco, dopo un’indigestione di quella portata. I costi della politica «rappresentano una voce di spesa significativamente maggiore rispetto a quella sostenuta nei paesi demograficamente confrontabili con l’Italia, quali Germania, la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna. Ne consegue l’esigenza, non ulteriormente procrastinabile, di un’adozione di misure contenutive coerenti», conclude la Corte dei conti. Senza citare, per carità di patria, l’indotto. Innanzitutto quello dei partiti: sul quale si è fatta fin troppa melina. Tanto per dirne una, aspettiamo ancora la famosa legge attuativa dell’articolo 49 della Costituzione, quella che dovrebbe regolamentare dopo quasi settant’anni natura e funzioni dei partiti. E la legge che ha riformato il finanziamento pubblico continua a suscitare perplessità. Non a caso quel rapporto svanito propone di anticipare l’abolizione dei rimborsi elettorali... 16 luglio 2014 | 07:58 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_luglio_16/giro-vite-regione-comuni-stipendicosti-polica-1e31b826-0cad-11e4-b4c9-656e12985e4f.shtml Titolo: SERGIO RIZZO L’ora dei tagli, 1.213 società sono soltanto scatole vuote Inserito da: Admin - Agosto 09, 2014, 06:02:21 pm Il commissario alla spending review presenta il piano per i risparmi sulle municipalizzate
L’ora dei tagli, 1.213 società sono soltanto scatole vuote Ai Comuni fanno capo oltre 33 mila aziende. Fabbriche di poltrone in perdita. La linea di Cottarelli: vanno accorpate per eliminare i consiglieri Di Sergio Rizzo Carlo Cottarelli ne è perfettamente cosciente: il problema più grosso non è scovare le migliaia di società pubbliche inutili, ma come liberarsene. Venderle? Impossibile trovare qualche pazzo suicida disponibile a farsene carico. Chiuderle, allora? Ne sa qualcosa chi ci ha provato. Valga per tutte l’esempio della Siace, ovvero la Società per l’industria agricola, cartaria editoriale, di proprietà della Regione siciliana. L’hanno messa in liquidazione nel 1985, quando il Verona di Osvaldo Bagnoli vinceva lo scudetto, un commando palestinese sequestrava l’Achille Lauro e Michail Gorbaciov diventava segretario del Pcus. E ancora non ne sono venuti a capo. In molti casi, allora, la soluzione non potrà che essere quella di accorpare, accorpare e accorpare ancora, prima di liquidare. Per tagliare intanto le poltrone nei consigli di amministrazione. Quindi i posti di lavoro inventati e clientelari. Ma non crediate che siano operazioni semplicissime. Nemmeno per quelle 2.761 società che, dice il rapporto Cottarelli sulle partecipate pubbliche, hanno più amministratori che dipendenti. Come Rete autostrade mediterranee: la quale, udite udite, non è di un ente locale sprecone, e neppure di una Regione spendacciona. Ma del Tesoro. Creata dieci anni fa dal governo di centrodestra per il progetto delle autostrade del mare, gestisce le istruttorie per i contributi dovuti ai tir che viaggiano sulle navi anziché intasare le strade. Ha cinque amministratori e quattro dipendenti, di cui tre a tempo determinato. Più alcuni contratti a progetto. Con una spesa per i compensi degli amministratori che nel 2012 superava di 55 mila euro quella per le retribuzioni del personale. Il solo amministratore delegato Tommaso Affinita, dirigente del Senato che era stato capo di gabinetto dei ministri Agostino Gambino e Pinuccio Tatarella nonché presidente dell’autorità portuale di Bari, percepiva secondo i dati pubblicati dal Tesoro un compenso di 246 mila euro. E non sarà una passeggiata, purtroppo, neppure mettere mano alle 1.213 società che sono soltanto scatole vuote. Hanno, sì, gli amministratori. Ma nemmeno una segretaria. Il fatto è che se lo Stato centrale controlla 50 gruppi, con 526 società di secondo livello, il resto della faccenda sta tutta in periferia, e ha dimensioni enormi. Ben prima del commissario alla spending review la Corte dei conti ha provato a tracciarne i contorni. Arrivando a un livello di approssimazione che fa venire i brividi, come ha raccontato il procuratore generale Salvatore Nottola in occasione dell’approvazione del rendiconto statale, il 26 giugno scorso. Perché alle 576 società che fanno capo allo Stato ne bisogna sommare altre 5.258 di Regioni, Province e Comuni, più 2.214 «organismi di varia natura». Consorzi, enti, agenzie, che porterebbero il totale a 8.048. Con un dedalo inestricabile di partecipazioni: secondo la Corte dei conti le singole quote azionarie in mano ai soli Comuni sarebbero qualcosa come 33.065. Il condizionale è d’obbligo. Sentite che cosa scrive Cottarelli nel suo blog: «Si è parlato di ottomila società, consorzi, enti vari partecipati degli enti locali, comuni e regioni soprattutto. Ma sono certo di più», In questa «giungla molto variegata», come il commissario uscente la definisce, c’è davvero di tutto. Perfino, sottolinea, società che vendono «ciò che è già offerto dal mercato» privato. Già. Come l’Enoteca laziale, un ristorante di proprietà della Regione Lazio, dove però certo assessori mangiavano gratis con ospiti e amici: e infatti si è scoperto che aveva accumulato un milione e mezzo di debiti. Ma senza arrivare a questi estremi, sarebbe comunque da chiedersi perché il Tesoro debba controllare una società di consulenza (Studiare Sviluppo, si chiama), o possedere ancora il 90% di Eur spa, immobiliare che ha raccolto l’eredità dell’ente che doveva organizzare l’Esposizione universale del 1942 a Roma. Che ovviamente non si tenne mai, causa seconda guerra mondiale. Proprio qui sta il punto: le Regioni e gli enti locali hanno utilizzato le società partecipate spesso per aggirare le norme statali, come il blocco delle assunzioni, alimentare il consenso o pagare dazi politici. E per lo Stato centrale intervenire su certe situazioni può rivelarsi complicato. Soprattutto quando c’è di mezzo l’autonomia. Dice tutto la vicenda della Sicilia, che fra tutte le Regioni italiane ha il record delle partecipazioni. Le società regionali hanno 7.300 dipendenti e sono costate per il solo personale, nei quattro anni dal 2009 al 2012, un miliardo e 89 milioni. Più 87 milioni per retribuire, nello stesso periodo, una pletora di amministratori: con una spesa media annua, per ogni società, di 768 mila euro. Per non parlare del miliardo e 91 milioni sborsato per farle funzionare, e dei 75 milioni di perdite nei conti economici. Perdite «costanti e rilevanti», affermano i giudici contabili, evidenziate «per tutte le società a capitale interamente pubblico» della Regione. E non succede soltanto in Sicilia se risulta in perdita, secondo Nottola, addirittura un terzo delle imprese controllate dagli Enti locali. Allucinante. Al punto da far sorgere un sospetto. Cioè che sia la loro missione: perdere soldi. 7 agosto 2014 | 06:51 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da -http://www.corriere.it/politica/14_agosto_07/ora-tagli-1213-societa-sono-soltanto-scatole-vuote-8002bbee-1ded-11e4-832c-946865584d19.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Se i superbonus (per merito) finiscono a tutti Inserito da: Admin - Agosto 20, 2014, 07:20:00 pm Il caso
Se i superbonus (per merito) finiscono a tutti I premi in busta paga ai dirigenti pubblici e il discutibile metodo di valutazione Di SERGIO RIZZO Al commissario della spending review Carlo Cottarelli si deve una spiegazione. Se come ci ha detto i dirigenti pubblici italiani hanno uno stipendio pari a 10,17 volte il reddito medio di un comune mortale, che significa il doppio rispetto alla Francia e alla Gran Bretagna e due volte e mezzo in confronto alla Germania, c’è un motivo: sono bravissimi. Prendete ad esempio quelli della Regione Liguria. Racconta Emanuele Rossi sul Secolo XIX che i nove superdirigenti della giunta di Claudio Burlando hanno avuto anche l’ultimo anno valutazioni quasi al top. Novantasei su cento per otto di loro, il che vale un incentivo del 21,12 per cento in più sullo stipendio di circa 140 mila euro. Con il nono bravo bravissimo, Roberto Murgia, che li guarda dall’alto da uno stratosferico punteggio di ben novantasette. Per lui, un bonus del 21,34 per cento. Complimenti a tutti quanti. Anche se, diciamo la verità, quel novantasei collettivo, con un novantasette fuori ordinanza, assomiglia tanto a cose già viste. Ricorda, per dirne una, quel mitico 2006: quando si scoprì che non c’era uno solo, fra i 3.769 dirigenti massimi della nostra pubblica amministrazione, che non avesse raggiunto il punteggio massimo per garantirsi integralmente la parte variabile della retribuzione prevista dal contratto. Una coincidenza formidabile, ma resa possibile da un meccanismo di valutazione che lasciava senza parole. I dirigenti pubblici dovevano compilare una scheda di autovalutazione (autovalutazione, avete capito bene), che toccava al dirigente superiore vidimare. E così via, fino in cima alla piramide. Facile comprendere che di fatto avrebbe fatto fede solo il giudizio che il singolo dirigente dava di sé. Idem nelle aziende pubbliche. Normalmente il compenso dei manager di Stato o delle imprese controllate da Regioni ed enti locali è suddiviso in due parti: quella fissa e quella variabile. E basta dare un’occhiata alle relazioni della Corte dei conti per verificare che tutti, almeno negli anni più recenti, hanno sempre incassato il massimo di quella fetta dello stipendio che dovrebbe essere vincolata ai risultati. Il cento per cento. Ma è più che comprensibile, se non si sa nemmeno chi dovrebbe fare le valutazioni. E se chi dovrebbe farle, poi non le fa. O non le può fare come dovrebbe, considerando che i manager delle imprese pubbliche sono scelti dalla politica: di conseguenza, quali sono i risultati reali che devono raggiungere? Un conto economico brillante, dei servizi decenti, o piuttosto l’esecuzione delle direttive del partito che lo ha piazzato in quella posizione? Bella domanda... Soltanto in questo modo si possono conciliare due cose apparentemente inconciliabili. Il più alto livello europeo di retribuzioni della dirigenza con il più basso livello di efficienza dei servizi della pubblica amministrazione centrale e locale. A questa situazione incresciosa avrebbe dovuto metterci una pezza l’authority per la pubblica amministrazione, la cosiddetta Civit. Concepita per rappresentare il guardiano della meritocrazia, non ha mai svolto quella funzione. Ora è stata riconvertita in autorità anticorruzione affidata al magistrato Raffaele Cantone, sanando una ferita che risale al 2008, quando quel Garante previsto dagli accordi internazionali era stato improvvisamente abolito. Ma il problema delle valutazioni (vere) e dei controlli (reali) delle performance, in piena epoca di spending review, è ancora tutto lì. Al centro come in periferia. L’anno scorso il Corriere del Mezzogiorno ha rivelato che nella Regione Campania quasi tutti i dirigenti avevano maturato il diritto a percepire gli incentivi previsti. E la Lombardia? «Mentre i 270 impiegati sono impegnati in una estenuante trattativa per il rinnovo del contratto integrativo», ha scritto in un articolo su Repubblica Matteo Pucciarelli lo scorso 30 maggio, «a 27 dirigenti amministrativi sono stati liquidati i premi di risultato 2013: in media, 20 mila euro a testa». E l’Emilia Romagna? Per i premi dirigenziali, ha spiegato il Resto Del Carlino «si spenderanno quest’anno 600 mila euro in più, da 2,6 a 3,2 milioni. Sul podio ci sono 184 dirigenti. L’ultima volta erano 160. In futuro c’è la promessa di usare criteri più oggettivi, dicono in Regione, ma per ora nulla è cambiato: a sette dirigenti su dieci viene assegnata la valutazione massima». Ma così fan tutti. Dove per tutti non si intendono le fasce dirigenziali, ma il complesso dei dipendenti pubblici. Un esempio? Nell’autunno del 2012 la giunta dimissionaria della Regione Lazio guidata da Renata Polverini firmò con i sindacati un contratto integrativo per il personale regionale semplicemente surreale. La possibilità di accedere agli incentivi economici era legata alla compilazione di una scheda di valutazione nella quale non esisteva neppure la casella «insufficiente». Per non parlare delle cosiddette «progressioni orizzontali», ovvero gli aumenti di stipendio concessi ai dipendenti di alcune amministrazioni. L’ispettore della Ragioneria generale dello Stato che ha passato al setaccio i conti della Regione Calabria ha descritto uno scenario impressionante. Per i circa 3 mila dipendenti di quell’ente si sono registrati dal 1999 al 2010 qualcosa come 17.946 «progressioni economiche orizzontali». Sfidiamo chiunque a dimostrare che a quegli aumenti di stipendio ha corrisposto un aumento della qualità dei servizi erogati a imprese e cittadini calabresi. Allo stesso modo, gli ispettori spediti dalla Ragioneria a esaminare nel 2010 i conti della Regione Campania denunciarono in un rapporto ustionante che negli anni precedenti tutti gli oltre 7 mila dipendenti regionali ne avevano beneficiato a più riprese. Unici esclusi, coloro che avevano riportato condanne penali o sanzioni amministrative pesanti. Nemmeno tutti, però. Come del resto prevedeva un contratto integrativo, firmato qualche anno fa sempre dai sindacati dell’Ama, l’azienda municipalizzata dei rifiuti di Roma, con i vertici aziendali dell’epoca. Contratto che prevedeva la corresponsione di un premio di produttività a chi si fosse presentato al lavoro almeno metà del tempo e non avesse accumulato più di sei giorni di sospensione disciplinare. Fannulloni e castigati, ma premiati lo stesso. 18 agosto 2014 | 07:20 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/14_agosto_18/se-superbonus-per-merito-finiscono-tutti-2d112f90-2696-11e4-bbeb-633ac699516c.shtml Titolo: SERGIO RIZZO La resistenza delle vecchie Province La legge Delrio ancora nel ... Inserito da: Admin - Agosto 23, 2014, 12:36:01 pm Il caso
La resistenza delle vecchie Province La legge Delrio ancora nel limbo La strada della riforma costituzionale per l’abolizione vera e propria è molto lunga. Mancano i decreti attuativi, gli Enti conservano le loro competenze Di SERGIO RIZZO Che fine ha fatto l’abolizione delle Province? Ascoltiamo che cosa ha detto il 6 agosto il senatore democratico Paolo Russo: «Dicevano che era solo una sceneggiata, che la legge 56 che aboliva le Province, e di cui sono stato anche relatore al Senato, non avrebbe cambiato nulla. E invece qualche minuto fa, votando l’articolo 28 della riforma del Senato, abbiamo definitivamente cancellato le Province anche dalla Costituzione». Comprendiamo l’entusiasmo. Ma non condividiamo tanto ottimismo. La strada della riforma costituzionale purtroppo è ancora molto lunga, come Russo non può non sapere. Ben che vada, le Province spariranno definitivamente nel giro di qualche anno. E poi la famosa legge 56 non ha affatto abolito le Province. Ma ne ha cambiato la natura. In più adesso si è scoperto che mancano i decreti attuativi per cui neanche le modifiche previste da quella legge sono mai diventare operative: dovevano essere pronti per luglio, ma non se ne avrà notizia, pare, prima di settembre. Eppure i cambiamenti di quella legge non sarebbero nemmeno marginali. Saremmo infatti ingenerosi se non ammettessimo che eliminando il livello elettivo provinciale è stato raggiunto un risultato importante. Perfino epocale, per come vanno le cose in Italia. Certo, il meccanismo va messo a punto. E non vorremmo che alla fine le vecchie logiche dei partiti, pur senza l’elezione diretta da parte dei cittadini, finissero per sopravvivere. Il sospetto viene, leggendo la nota della Provincia di Modena con la quale si comunica il rinvio al 4 ottobre delle elezioni del nuovo presidente e dei nuovi 12 consiglieri che dovranno essere designati (a Modena come in tutte le altre Province) da 697 fra sindaci e consiglieri comunali: rinvio necessario «al fine di concedere alcuni giorni in più ai gruppi politici per la raccolta delle sottoscrizioni e la presentazione delle candidature». Come se non ci fosse stato abbastanza tempo: la legge 56 è stata approvata il 7 aprile scorso, quasi cinque mesi fa. C’è poi la faccenda che riguarda le funzioni. È chiaro che finché non verranno ripartite fra i Comuni e le Regioni, le Province continueranno tranquillamente a vivere, sia pure formalmente un po’ diverse. Quasi tutte: vale la pena di ricordare che nella Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, dove le disposizioni sull’abolizione del livello elettivo diretto provinciale non erano state recepite, i cittadini sono stati chiamati a rinnovare il consiglio provinciale di Udine neppure un anno fa. A dimostrazione del fatto che il partito delle Province è tutt’altro che sconfitto. Un nodo cruciale, questo. Perché se dovesse andare in porto, come ci auguriamo, la riforma della Costituzione, si tratterà di vedere come la scomparsa delle Province dalla carta fondamentale potrà conciliarsi con una legge che continua a riconoscere a quegli enti competenze come la viabilità, i trasporti, l’ambiente, le scuole... Non a caso gli esperti del gruppo coordinato da Massimo Bordignon, incaricato dal commissario della spending review Carlo Cottarelli di analizzare i costi della politica a livello locale, suggeriscono nel loro rapporto di «prevedere che una volta abolite le Province sul piano costituzionale e deciso quali funzioni e risorse ritornano nell’alveo statale, tutte le funzioni e le risorse residue passino alle Regioni, lasciando poi a queste decidere come delegare funzioni e risorse. Questo andrebbe anche nella direzione di semplificare e ridurre il numero di decisori locali e la sovrapposizione di funzioni fra livelli di governo». Saranno ascoltati? E la faccenda delle città metropolitane, che dovrebbero sostituire le Province nei grandi agglomerati urbani, non è meno spinosa, come sottolinea sempre il rapporto Bordignon. Intanto per la curiosa indicazione di alcune zone da eleggere ad aree metropolitane: per esempio, Reggio Calabria. A dimostrazione del fatto che si è trattato di una scelta basata su considerazioni politiche «piuttosto che parametri oggettivi». Ma poi per il fatto che il territorio dovrebbe coincidere con quello delle vecchie province, «anche se non è ovvio che le funzioni proprie delle città metropolitane siano adeguate per il vecchio territorio provinciale». In tutto questo c’è chi insiste, come il governatore della Campania Stefano Caldoro, perché invece delle Province vengano abolite le Regioni. Ma questa è un’altra storia. Nemmeno troppo campata per aria: solo molto, ma molto più complicata. 23 agosto 2014 | 07:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_23/resistenza-vecchie-province-legge-delrio-ancora-limbo-44cddd42-2a86-11e4-9f31-ce6c8510794f.shtml Titolo: SERGIO RIZZO NORME COMPLICATE, CITTADINI INDIFESI Inserito da: Admin - Agosto 31, 2014, 09:07:04 am NORME COMPLICATE, CITTADINI INDIFESI
Sommersi da una valanga di regole fiscali Di Sergio Rizzo Bravissimi a «incasinare le cose semplici», abbiamo «un sistema fiscale che è quanto di più assurdo, farraginoso e devastante si possa immaginare». Diagnosi pressoché perfetta, quella di Matteo Renzi. Così perfetta che di fronte a questa realtà certe promesse, condite dalla convinzione che «se ci impegniamo le tasse possiamo pagarle con un sms» sembrano fantascienza. Inarrestabile nel fare la pulci alla burocrazia, l’ufficio studi della Confartigianato si è preso la briga di contare le norme in materia fiscale che sono state emanate di volta in volta dai quattro governi che si sono succeduti dal 29 aprile 2008 all’8 agosto 2014. Sono la bellezza di 691, in 46 diversi provvedimenti. Una massa imponente di regole e disposizioni che si sono andate ad aggiungere al mucchio, già inverosimile, di leggi e circolari. E di quelle 691 norme, ben 418 hanno avuto un impatto burocratico sulle imprese, rendendo ancora più complessi gli adempimenti. Il tutto mentre le disposizioni che avrebbero dovuto facilitargli la vita, sempre fiscalmente parlando, si sono fermate a 96. Facendo la differenza fra i due dati, salta fuori un «saldo burocratico», come lo definisce la Confartigianato, di 322. Il che fa concludere che nei 2.292 giorni presi in esame il nostro Fisco si è complicato al ritmo di una norma alla settimana. Esattamente, una ogni 7,1 giorni. Sabati, domeniche e feste comandate comprese. E poco importa che la maggioranza delle regole «complicatrici» abbia avuto effetti contenuti, considerando che quelle il cui impatto è considerato tragicamente insostenibile sono «soltanto» 29 su 418. Il fatto è che quella «tela di Penelope» capace di rendere il sistema sempre più intricato, lento e costoso hanno continuato imperterriti a tesserla di giorno e smontarla di notte. Se è vero, nei sei anni presi in esame, che per ogni norma di semplificazione ne sono state approvate 4,3 di complicazione. Il record assoluto è stato conseguito nel 2013, anno per due terzi governato da Enrico Letta. L’organizzazione degli artigiani ha calcolato un «saldo burocratico» di ben 93 norme. Una ogni 3,9 giorni. Al secondo posto il 2012, interamente sotto la responsabilità del governo di Mario Monti, con il «saldo burocratico» arrivato a 70. Vero è che anche l’esecutivo di Silvio Berlusconi ci aveva messo del suo, con un «saldo» pari a 142. Ma in tre anni e mezzo. E Renzi? Il governo dell’ex sindaco di Firenze, afferma il dossier della Confartigianato, «ha emanato sette provvedimenti con 75 norme di carattere fiscale di cui 24 semplificano, 11 sono neutre e 40 hanno impatto burocratico sulle imprese». C’è però da dire che le semplificazioni sono quasi tutte concentrate (23 su 24) nel decreto sulle dichiarazioni precompilate esaminato dal Consiglio dei ministri a giugno ma ancora da approvare. Forse domani: vedremo. E se nella valanga abbattutasi dal 2008 sulle imprese potrebbe essere quello il provvedimento con il migliore «saldo burocratico», alla luce dell’andazzo di questi sei anni non possiamo che considerarlo per ora solo un segnale. La corda è davvero tesa all’inverosimile. Il segretario generale della Confartigianato Cesare Fumagalli sostiene che non c’è da perdere un minuto: «Il gioco di ridurre una tassa e poi aumentarne altre perché serve gettito per coprire le spese sta ammazzando le pecore, tosate già oltre ogni limite. Senza interventi immediati che riducano gli oneri fiscali per le imprese si rischia davvero grosso. Se non ora, quando?». Tornano alla mente le parole con cui il ministro delle Finanze Antonio Gava debuttò in un’audizione parlamentare: «La prima cosa, urgentissima, per potenziare la lotta all’evasione fiscale, è la semplificazione del sistema tributario». Correva l’anno 1987. Sei anni dopo, era il 1993, il suo successore Franco Reviglio firmava il decreto istitutivo di una commissione per la semplificazione della normativa fiscale. Finita nel nulla. Neanche quindici mesi e il primo governo Berlusconi, ministro il «Reviglio boy» Giulio Tremonti, faceva trapelare un progetto superavveniristico. Titolo dell’Ansa del 5 agosto 1994: «Fisco, verso pagamento tasse con bancomat». Rincarava la dose il ministro Augusto Fantozzi, il 24 maggio 1995: «Grosse novità dal ddl semplificazione fiscale». E nel 2001, mentre gli sportelli automatici delle banche erano in attesa di avvistare il primo contribuente e delle «grosse novità» non c’erano ancora tracce, Tremonti dichiarava: «Grazie al regolamento sulla semplificazione del Fisco in Italia si avranno 190 milioni di atti amministrativi in meno». Da allora non c’è stato governo che non abbia garantito un Fisco più facile e amico dei cittadini e delle imprese. L’ha promesso il centrodestra e l’ha promesso il centrosinistra. L’ha promesso il governo tecnico e l’ha promesso quello delle larghe intese. Ma ondeggiando arditamente fra bancomat, sms e dichiarazioni precompilate alla francese, siamo sempre lì. Sempre più sommersi da commi, circolari e regolamenti. Inchiodati a quel 1987, quando la semplificazione era considerata urgentissima. Quando Reagan e Gorbaciov firmavano il trattato sugli euromissili, la Cbs trasmetteva in America la prima puntata di Beautiful, al maxiprocesso di Palermo la cupola di Cosa nostra veniva condannata all’ergastolo... 28 agosto 2014 | 10:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_agosto_28/sommersi-una-valanga-regole-fiscali-b0c38218-2e82-11e4-866c-ea2e640a1749.shtml Titolo: SERGIO RIZZO A ogni città il suo vocabolario: norme edilizie, invincibile Babele Inserito da: Admin - Settembre 06, 2014, 05:03:21 pm A ogni città il suo vocabolario: norme edilizie, invincibile Babele
Di SERGIO RIZZO Un problema «formale» l’ha definito il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Quale sia la «formalità» così decisiva da far saltare la semplificazione più importante contenuta nel decreto «sblocca Italia», non è dato sapere. L’unica cosa certa è che la norma con la quale si stabiliva che gli 8 mila Comuni italiani avrebbero avuto un regolamento edilizio uguale per tutti è misteriosamente scomparsa nella notte fra lunedì e martedì. Evaporata, volatilizzata, dissolta. Lupi dice che se ne parlerà in sede di conversione del decreto nel Parlamento. Oppure in un altro provvedimento. Che cosa è successo? Lupi fa capire che ci potrebbe essere stato il solito problema della Ragioneria: per una norma che non ha costi e che farebbe perfino risparmiare. C’è invece chi dice che gli uffici (quali uffici?) avrebbero sollevato un problema di conflitto con le amministrazioni locali, visto che la materia è di competenza regionale. E non manca chi suggerisce che non avendo una norma del genere carattere di urgenza, non si può adottare per decreto: come se non fosse urgente dare a tutti gli italiani la possibilità di avere un permesso edilizio al massimo in 110 giorni, la media europea, anziché il 239, la media italiana. Perché questo sarebbe successo se quella norma, sulla quale tutti (ma forse solo apparentemente) si erano dichiarati d’accordo, fosse sopravvissuta. Per quel malinteso senso dell’autonomia che sconfina nel grottesco, è successo che ogni Comune si è fatto un regolamento proprio, diverso da quello del paese o della città vicina. Si comincia dall’elemento più banale: il vocabolario. La stessa cosa si può chiamare con termini differenti. La superficie di un’abitazione che a Milano si chiama «pavimentabile», altrove è «calpestabile», oppure «netta». Qualcuno arriva perfino a definire maniacalmente certe disposizioni igieniche, come il bagno che per legge (per legge!) dev’esser piastrellato fino a una certa altezza, o «rivestito di materiale lavabile». Il guazzabuglio di norme comunali è talmente complicato che nello stesso ufficio tecnico municipale c’è chi arriva a interpretare una regola in modo diverso dal suo collega di stanza. Quando addirittura, come nel caso di Roma, ci sono regole diverse da una circoscrizione all’altra. Prevedibilissime e devastanti le conseguenze. Una burocrazia asfissiante e talvolta senza alcuna certezza, tanto è soggettiva l’interpretazione delle regole. Con tempi indefiniti e costi allucinanti a carico dei cittadini. Che per ogni più piccolo intervento sono costretti a rivolgersi a specialisti e azzeccagarbugli: gli unici capaci a districarsi nella giungla delle norme. Per non parlare del problema di alcuni diritti fondamentali dei cittadini, diseguali da città a città. Si potrebbe aggiungere che questo sistema rappresenta un incentivo formidabile per la corruzione, il che già basterebbe per cambiarlo radicalmente. Inevitabile il sospetto che siano proprio questi i motivi che hanno finora impedito di metterci mano. Gli apparati burocratici locali sarebbero così felici di perdere tutto questo potere di tracciare norme e regolamenti che viaggiano dagli uffici comunali a quelli regionali in un vortice infinito, senza considerare la quantità di personale che si ritroverebbe improvvisamente senza occupazione? E i consulenti che prosperano grazie alla complicazione dei regolamenti comunali, pensate che accetterebbero volentieri di vedersi privare di una fonte di reddito così generosa? Per ora si deve prendere atto come il governo di Matteo Renzi, che al suo debutto aveva dichiarato guerra alla burocrazia promettendo semplificazioni a tappeto, ha spedito un’altra palla in tribuna. Del regolamento edilizio comunale unico ne parleranno forse nella legge di Stabilità, se qualche temerario non oserà riproporla in Parlamento. Insomma, campa cavallo. Mentre nel decreto «sblocca Italia» la norma a dir poco controversa che consentirà la proroga delle concessioni autostradali non ha subito al contrario alcun incidente di percorso nelle segrete delle burocrazie ministeriali. Guarda un po’... 5 settembre 2014 | 10:35 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_05/a-ogni-citta-suo-vocabolario-norme-edilizie-invincibile-babele-c3398c30-34d6-11e4-8bde-13a5c0a12f77.shtml Titolo: SERGIO RIZZO In Calabria un «esubero» ogni 1.200 abitanti, il triplo che in ... Inserito da: Admin - Settembre 06, 2014, 05:52:02 pm Province, i numeri delle clientele
Con la riforma 20 mila da ricollocare In Calabria un «esubero» ogni 1.200 abitanti, il triplo che in Lombardia Di Sergio Rizzo Graziano Delrio dice che per portare a casa i risultati non basta far passare un provvedimento. Ma «bisogna stare sul pezzo». Vale anche per l’abolizione delle Province elettive, trasformate in enti di area vasta da una legge nota ormai con il suo nome. Dovrebbero essere poco più che agenzie nominate dai sindaci, in attesa che la riforma costituzionale faccia sparire definitivamente la parola «Province» dalla nostra carta fondamentale. Non resta che aspettare giovedì 11 settembre, data per cui a sentire il sottosegretario alla presidenza («il ministro Maria Carmela Lanzetta me l’ha promesso e io sto lì tutti i giorni a sollecitare») saranno partoriti i famosi decreti attuativi. Un parto non proprio semplicissimo, se ci sono voluti cinque mesi dall’approvazione della legge per sfornarli. Nel frattempo una società del Tesoro e della Banca d’Italia, la Sose, ha fatto con il centro studi bolognese Nomisma una simulazione del personale e dei costi necessari a questi enti di area vasta. Arrivando alla conclusione che dei 47.862 dipendenti provinciali censiti nel 2010 nelle sole quindici Regioni a statuto ordinario basterebbero, per assolvere le funzioni demandate loro dalla legge Delrio, 27.269: ipotizzando che la situazione rimanga tale e quale a quella attuale nelle dieci Province di cui è previsto il passaggio a città metropolitane. Un elenco che oltre a Roma, Milano, Bologna, Firenze, Bari, Genova, Venezia, Napoli e Torino include anche (curiosamente) Reggio Calabria per un numero totale di 13.392 dipendenti. Tenendo presente che il fabbisogno di personale in tutte le altre è valutato in 13.611 unità, più le 266 ritenute ottimali per le tre ex Province qualificate come «montane», ovvero Sondrio, Belluno e Verbano-Cusio-Ossola, il risultato è che ci sarebbero almeno 20.593 persone di troppo. E senza considerare l’impatto della riforma nelle cinque Regioni a statuto autonomistico come Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta: ancora tutto da valutare. Le prime tre dovranno adeguarsi entro un anno a partire dall’8 aprile scorso. Per le ultime due la legge Delrio sarà applicabile solo «compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti». Il che lascia, com’è ovvio, margini enormi di sopravvivenza del vecchio sistema. Basta dire che mentre la legge si discuteva in Parlamento la Provincia di Udine andava tranquillamente alle elezioni senza porsi minimamente il problema: il consiglio provinciale scade nell’aprile 2018. Almeno 20.593 persone da licenziare, dunque? Nemmeno per idea. «Da riallocare», precisa lo studio di Sose e Nomisma in perfetta sintonia con quanto a suo tempo precisato dal governo, «fra Regioni e Comuni». E sono numeri che oltre a dare l’idea delle dimensioni del taglio inferto alle vecchie Province, fanno anche capire la portata delle clientele locali. Per 2.955 esuberi nelle Province lombarde, (Milano a parte), ce ne sono 1.620 in quelle calabresi (Reggio Calabria a parte). Un esubero ogni 3.364 abitanti in Lombardia, uno ogni 1.208 in Calabria. Ma anche uno ogni 1.201 residenti nelle Marche, ogni 1.551 nel Molise, ogni 1.621 in Toscana, ogni 2.060 in Emilia Romagna. Sorprende il dato del Lazio, dove c’è un esubero ogni 5.746 abitanti. Ma è un numero evidentemente collegato al peso nella Regione della Provincia di Roma, che ha 3.106 dipendenti: cifra paragonabile a quella del personale dell’intera Regione Lombardia. Va anche detto che la Provincia di Milano compila ogni mese 1.889 buste paga. Con un rapporto di un dipendente provinciale ogni 1.681 abitanti, inferiore del 17 per cento appena alla Provincia di Roma, che ne ha uno ogni 1.391 residenti. Divario in parte giustificabile con il fatto che la superficie romana è più che tripla rispetto a quella milanese. Ciò che invece nessun parametro fisico può spiegare è come mai la Provincia di Reggio Calabria abbia in proporzione ai suoi abitanti un numero di dipendenti dieci volte superiore alla Province di Roma o Torino, e addirittura dodici volte a quella di Milano. Sono 1.057, uno ogni 135 abitanti. Circostanza che rafforza ancora di più, se possibile, le legittime perplessità manifestate sulla trasformazione in città metropolitana dagli esperti della spending review. Meno dipendenti e funzioni ridotte, senza più i vecchi apparati politici significa ovviamente anche minori costi. Prima della riforma la spesa corrente delle quindici Regioni a statuto ordinario ammontava (dato 2010) a 8 miliardi e 58 milioni l’anno. La previsione con il nuovo assetto è di un miliardo 524 milioni; ma sempre senza considerare le famose dieci città metropolitane, le cui uscite correnti sono pari a 2 miliardi 679 milioni. La differenza è quindi pari a 3 miliardi 855 milioni. Ma guai a chiamarlo risparmio. Il rapporto Sose-Nomisma lo definisce: «spesa da ricollocare fra gli altri enti territoriali». Perché c’è pur sempre il personale in esubero. E volete che con questi chiari di luna Regioni e Comuni rinuncino a spartirsi le altre spoglie? 3 settembre 2014 | 08:12 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_03/province-numeri-clientele-la-riforma-20-mila-ricollocare-00f93c6e-332e-11e4-9d48-ef4163c6635c.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Aerei cancellati, turisti a terra Le cattive abitudini di Fiumicino Inserito da: Admin - Settembre 07, 2014, 05:14:04 pm Trasporti Un mese fa l’odissea dei viaggiatori senza bagaglio per un altro sciopero
Aerei cancellati, turisti a terra Le cattive abitudini di Fiumicino Nuovi disagi per l’agitazione dei controllori di volo. L’aeroporto romano è il volto del Paese per milioni di persone che vengono in Italia di SERGIO RIZZO Succede anche nelle migliori famiglie. «Caos nei cieli d’Europa per sciopero controllori Francia», titolava l’Ansa il 25 giugno scorso. E anche allora disagi negli aeroporti di tutta Europa, centinaia di voli cancellati, proteste delle compagnie. Succede, da che esiste l’aviazione civile. I meno giovani ricorderanno come per stroncare lo sciopero degli uomini radar che aveva messo in ginocchio gli Stati Uniti il presidente Ronald Reagan ne licenziò d’un colpo decine di migliaia. Succede. Ma quello che è accaduto in Francia due mesi e mezzo fa, con ripercussioni economiche ben maggiori, non è minimamente paragonabile agli effetti dello sciopero indetto ieri da un paio di sigle sindacali dei nostri controllori di volo. Loro sono la Francia, e noi l’Italia. A loro si perdona più facilmente un disservizio, una protesta, un ritardo. E poi a Parigi, sciopero o no, si ritorna sempre. Mentre a Roma... Giusto un mese fa era in pieno svolgimento a Fiumicino lo sciopero bianco dei lavoratori dell’handling Alitalia contro gli esuberi previsti per l’acquisizione della compagnia italiana da parte dell’araba Etihad. Migliaia di bagagli di viaggiatori appena arrivati all’aeroporto o in partenza dallo scalo romano rimasero a terra, ammucchiati negli androni e nei magazzini. Per restituirli ai legittimi proprietari, la stragrande maggioranza dei quali (ovviamente) turisti, si caricarono su tir e si spedirono in giro per gli aeroporti italiani ed europei mentre il capo della rivolta, intervistato in forma anonima da Repubblica , prometteva lotta senza quartiere. A oltranza. Si trova in una situazione oggettivamente difficile, quel signore, insieme ai suoi colleghi nella lista degli esuberi. Ma qui non vogliamo entrare nel merito delle motivazioni di quell’agitazione di un mese fa, o dello sciopero degli uomini radar. In entrambi i casi si è trattato di proteste tutto sommato limitate. Tuttavia la domanda alla quale si deve rispondere è: con la reputazione che hanno i nostri servizi pubblici, ci possiamo permettere di avere il principale aeroporto del Paese - e molti altri sparsi per tutta la penisola, visto che ieri sono saltati decine di arrivi e decolli da Venezia a Catania passando per Orio al Serio - che per un motivo e per l’altro funziona a corrente alternata? E proprio nei giorni più delicati per gli spostamenti dei turisti stranieri? Andrebbe ricordato come nel 2013, un anno nel quale il turismo mondiale ha registrato un autentico boom con un aumento delle presenze in Europa del 2,6 per cento, l’Italia abbia subito, unica fra i 28 Paesi dell’Unione, un calo di ben il 4,6 per cento. Il che la dice lunga su come funzionano da noi le cose. Allo sciopero di sabato, dicono i dati, ha aderito appena un controllore di volo su quattro. Di più: la protesta era stata anticipata con un congruo anticipo, a differenza di quella del mese scorso. Ma questo non ha impedito alle compagnie internazionali low cost quali Easyjet e Ryanair di cancellare un numero impressionante di voli. Sappiamo come funziona. Le agitazioni vengono anche utilizzate da certe compagnie per risparmiare tagliando rotte anche quando magari non è necessario. E scaricando la responsabilità sulle proteste: in questo caso, sui soliti italiani incapaci e scansafatiche. Fin troppo facile. Gli effetti di un’agitazione come quella di un mese fa o di sabato vanno però ben oltre le loro semplici conseguenze economiche. Certamente rilevanti, se si pensa che per restituire i bagagli non consegnati ad agosto l’Alitalia ha speso oltre un milione, e che soltanto Ryanair ha annullato ieri 96 voli da e per l’Italia (ma nel complesso, solo a Fiumicino, sono stati 130 quelli cancellati). Perché l’aeroporto Leonardo Da Vinci non è soltanto il principale scalo italiano, ma è la faccia del Paese agli occhi di milioni di persone che vengono in Italia. E non è, diciamo la verità, una gran bella faccia per un Paese che già non è considerato al top dell’efficienza. Oggi lo sciopero dei controllori di volo, mentre i turisti ritornano a casa. Ieri i bagagli che restano a terra, proprio nel giorno in cui l’amministratore delegato della Etihad viene a chiudere l’accordo per comprare la nostra compagnia di bandiera sull’orlo del crac. Tutti i giorni, viaggiatori ignari che arrivano e devono scucire un patrimonio per farsi portare dal taxi in città. O rassegnarsi a prendere un trenino che a tutto assomiglia tranne che a una metropolitana: avvilente, rispetto ad aeroporti come quello di Madrid. Anche se non peggiore rispetto allo stato disastroso del trasporto pubblico urbano di Roma. Ci si può allora lamentare se la storia finisce, com’è finita, sui giornali e sui siti internet stranieri come emblema di tutti peggiori i luoghi comuni sull’Italia? 7 settembre 2014 | 11:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/14_settembre_07/aerei-cancellati-turisti-terra-cattive-abitudini-fiumicino-4c75d300-366c-11e4-b5da-50af8bd37951.shtml Titolo: SERGIO RIZZO IL GOVERNO E LE SCELTE ALL’ENI Inserito da: Admin - Settembre 14, 2014, 06:41:30 pm IL GOVERNO E LE SCELTE ALL’ENI
Inchieste, contese e grandi aziende. Il coraggio mancato in quelle nomine Di Sergio Rizzo Quando l’attuale governo decise di avvicendare i vecchi amministratori delegati delle grandi aziende pubbliche, il premier Matteo Renzi parlò fra gli applausi generali di «rinnovamento totale». Una dichiarazione, affermammo nell’occasione, che appariva però seriamente in contrasto almeno con una nomina: quella di Claudio Descalzi al vertice dell’Eni. Per il semplice fatto che l’attuale amministratore delegato della compagnia petrolifera, la più delicata e sensibile fra le imprese di Stato per proiezioni e relazioni internazionali, altro non rappresentava che la continuità integrale con la precedente gestione, durata nove anni, di Paolo Scaroni. Una gestione gravida tanto di profitti miliardari quanto di polemiche su alcune iniziative adottate dal management, e di certe atmosfere che negli anni si erano stratificate intorno al ponte di comando aziendale. A cominciare dalle dispute velenose sui rapporti d’affari sempre più stretti con la Russia di Vladimir Putin, sollevate dalla sinistra causa il sodalizio fra il presidente russo e Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio che per tre volte aveva confermato Scaroni. Per continuare poi con l’inopportuna ma a quanto pare influente onnipresenza, in alcuni momenti decisivi quali le nomine, di personaggi come il «mediatore» Luigi Bisignani, condannato per le vicende della tangente Enimont e autore di un patteggiamento a un anno e sette mesi per lo scandalo della cosiddetta P4. Di fatto, dunque, Descalzi era stato designato da Scaroni, che ancor prima della scelta di Renzi lo aveva indicato come il proprio candidato ideale alla successione. Non conosciamo le ragioni alla base di una decisione che al premier era stata caldamente sconsigliata senza infingimenti da più parti. Forse i tanti rifiuti incassati, primi fra tutti quelli del capo di Vodafone Vittorio Colao e dell’amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra, chissà. Forse qualche strana promessa, vai a sapere. Fra le varie voci circolate in proposito non sono mancate quelle circa un presunto addendum degli accordi fra l’ex sindaco di Firenze e Silvio Berlusconi, che avrebbe riguardato proprio il futuro assetto dell’Eni in chiave di continuità non tanto aziendale quanto scaroniana. Fantasie? E a questo proposito sarebbe anche interessante conoscere fino in fondo quale fosse la posizione dell’azionista, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, al momento della scelta. Di sicuro non poteva essere ritenuta motivazione accettabile la necessità di garantire un passaggio di consegne senza scossoni. Quel principio poteva essere salvaguardato anche in un modo diverso. All’Enel, per esempio, si è scelto un manager interno, ma non indicato dal capo azienda uscente Fulvio Conti. Francesco Starace era considerato un suo oppositore, ma non per questo nemico dell’azienda: anzi. Il ricco serbatoio manageriale dell’Eni non offriva opportunità alternative a Descalzi in grado di assicurare un rinnovamento reale e concreto? Si potrebbe aggiungere che il suo predecessore e sponsor Scaroni era già finito sul registro degli indagati per una vicenda algerina. E che l’Eni si era già trovata a dover affrontare un pesante contenzioso giudiziario in Nigeria, con strascichi finanziari ragguardevoli. Mentre la storiaccia delle tangenti nigeriane per la quale Descalzi si trova sotto inchiesta ora insieme a Bisignani ,come ci hanno raccontato ieri su questo giornale Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella, non era affatto sconosciuta nel momento in cui il governo Renzi aveva deciso le nomine all’Eni, la scorsa primavera. Se n’era addirittura accennato in un’audizione parlamentare e durante l’assemblea della compagnia petrolifera. Non aveva la palla di vetro, il presidente del Consiglio, per poter prevedere che l’amministratore delegato della principale azienda pubblica sarebbe scivolato nel tritacarne. Ne siamo coscienti. Ma se invece di quella singolare continuità con l’epoca precedente si fosse imboccata la strada di un taglio netto con il passato, magari il rischio si sarebbe evitato. E non è un rischio marginale dal punto di vista reputazionale agli occhi degli investitori internazionali, nel caso in cui come qualcuno dice si decidesse davvero di rilanciare le privatizzazioni. Per non parlare di un altro dettaglio. Ricordate quando Scaroni protestò perché il governo aveva chiesto di introdurre negli statuti delle imprese di Stato norme etiche rigidissime, affermando che tali regole non esistevano in nessun Paese del mondo? Renzi commentò: «Ha ragione Scaroni. Ma quelle regole noi siamo contenti di averle». Descalzi è appena stato indagato e la strada per arrivare all’eventuale applicazione di quelle regole è ancora lunghissima. Quelle parole, però, non si può fare a meno di rammentarle: soltanto quattro mesi dopo che erano state pronunciate, senza lontanamente immaginare che si potessero un giorno riferire a qualcuno che in quel momento stava per essere nominato. E pensare che per evitare tutto questo sarebbe bastato un po’ di coraggio in più. Soltanto un po’ di coraggio. 12 settembre 2014 | 09:35 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_12/inchieste-contese-grandi-aziende-coraggio-mancato-quelle-nomine-0bdb7076-3a49-11e4-8035-a6258e36319b.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Coraggio, tagli senza illusioni Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2014, 04:37:34 pm Coraggio, tagli senza illusioni
La manovra da 30 miliardi con riduzione di imposte per 18 sarà finanziata allargando i cordoni della borsa? O ridimensionando in modo intelligente la spesa pubblica? Di Sergio Rizzo Matteo Renzi dice che «sarà la più grande opera di taglio delle tasse mai tentata». Non possiamo che augurargli (e augurarci) successo. Ma abbiamo il dovere di chiedere chiarezza su certi numeri. La manovra da 30 miliardi con riduzione di imposte per 18 sarà finanziata allargando i cordoni della borsa? O ridimensionando in modo deciso e intelligente la spesa pubblica improduttiva, come sarebbe doveroso? Il sospetto che prevalga la prima ipotesi non può essere scartato. Spiega il premier che la spending review prevede tagli per 16 miliardi. Ed è proprio questo il punto più delicato: si ha la sensazione che dietro a quel numero ci sia ben poco. Alla notizia che Cottarelli avrebbe gettato la spugna, Renzi era rimasto impassibile. Promettendo: «La spending review la faremo anche se lui va via». E aggiungendo: «Abbiamo una strategia». Ma quale fosse non è mai stato chiarito. Il piano che avrebbe dovuto far risparmiare 34 miliardi in tre anni è finito in chissà quale cassetto. Mentre arriva semmai qualche segnale opposto e disarmante. Le famose partecipate, per esempio. Punto qualificante della spending review di Cottarelli era il taglio della pletora di società pubbliche spesso tenute in vita solo per assicurare poltrone a ex politici, amici e sodali. Con il risultato di portarle dalle attuali 8 mila a circa mille, ottenendo risparmi miliardari. Obiettivo sacrosanto condiviso da Renzi in pubbliche dichiarazioni. Intanto però il solito deprecabile andazzo proseguiva. Qualche caso? In agosto la Sogesid, società che nonostante 118 dipendenti nel 2013 ha pagato 380 consulenze spendendo 8,5 milioni e che il governo Monti avrebbe voluto chiudere ritenendola inutile, è stata rianimata e affidata a una vecchia conoscenza: il supercasiniano Marco Staderini. Un mesetto prima l’ex deputato del Pd Pier Fausto Recchia, rimasto senza seggio, era diventato ad di Difesa servizi: spa inventata dall’ex ministro La Russa fra le feroci contestazioni della sinistra. Oggi, magicamente svanite. Sempre in agosto ecco alla presidenza di Mistral Air, compagnia aerea delle Poste di cui si ipotizzò lo scioglimento in Alitalia, un altro ex onorevole pd cessato dal mandato nel 2013: Massimo Zunino. La storia si ripete. E il verso, lo diciamo con amarezza, sembra sempre lo stesso. 14 ottobre 2014 | 07:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_14/coraggio-tagli-senza-illusioni-50b08ea4-5360-11e4-a6fc-251c9a76aa3c.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Cinque anni e zero fondi: il salvavita di Genova appeso a un bando Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2014, 11:28:11 pm Appalti
Cinque anni e zero fondi: il salvavita di Genova appeso a un bando folle Per costruire lo scolmatore che avrebbe evitato la tragedia del 10 ottobre sono state indette ben due gare. Ma l’opera, urgente, non arriverà comunque prima di 1.846 giorni. E sui contributi pende un ricorso del Comune di Salerno Di Sergio Rizzo Segni del destino. Mentre venerdì scorso il Bisagno seminava fango e distruzione a Genova, scadeva il termine per la partecipazione alla nuova gara d’appalto bandita dal Comune per la «galleria scolmatrice». Ossia, il canale capace di assorbire l’acqua in eccesso che si scarica nel torrente in caso di alluvioni. L’opera chiave mai eseguita per mettere in sicurezza quel pezzo di città evitando disastri come quello del 10 ottobre. Ma la lettura di quel secondo bando di gara dice tanto a proposito del peccato originale del sistema degli appalti made in Italy. A cominciare dai tempi. Tre anni ci sono voluti soltanto per arrivare a scrivere il bando di gara. Per quanto riguarda l’opera, si parte con una previsione di durata dei lavori di 1.846 giorni. Cinque anni e un mese per realizzare un tratto di galleria che dovrebbe costare 40 milioni. Per il progetto esecutivo invece sono concessi appena 60 giorni. Il che significa una corsa a perdifiato per definire nei minimi particolari una struttura complessa, che richiede competenze specialistiche non marginali. Se poi qualcosa in un progetto chiuso con tanta fretta non funziona, niente paura. Ci sono sempre le modifiche, le migliorie, le varianti. E in ogni caso c’è sempre il Tar, e poi il Consiglio di Stato, e via così. Un effetto collaterale scontato anche quando nella gara va tutto liscio. Così si finisce spesso per dare la colpa alle lungaggini della giustizia amministrativa. Che ne ha molte, e sono indiscutibili. Ma i ricorsi, come in questa vicenda che ha ben descritto ieri sul Corriere Marco Imarisio, si fanno (e nel 90% dei casi si vincono) perché i bandi sono confezionati male e di conseguenza i progetti non stanno sempre in piedi come dovrebbero. La ragione di tutto questo? Sciatteria, certo. Impreparazione degli uffici tecnici degli enti locali, di sicuro. E in qualche caso forse anche di peggio. Ma la questione di fondo è che in Italia ci sono troppe stazioni appaltanti: con capacità, ovvio, sovente assai discutibili. I soggetti pubblici che possono bandire una gara sono 32 mila. Ovvero, uno ogni 1.875 abitanti. Renzi ha promesso ora che la musica cambierà: il numero sarà drasticamente ridotto. Peccato che il giro di vite sia stato già rinviato al primo luglio del prossimo anno, e il partito degli enti locali stia già lavorando perché anche questa scadenza salti. Il tutto in un dedalo infernale di norme nelle quali districarsi è un’impresa. Il presidente dell’ordine degli architetti di Genova, Natale Raineri, allarga le braccia: «Ci siamo impantanati. Siamo passati dalla Merloni, che con tutti i suoi difetti funzionava, al codice De Lise degli appalti pubblici. Abbiamo una complessità di disposizioni semplicemente pazzesca». Il codice De Lise prende il nome dal suo autore principale: l’ex presidente del Tar del Lazio e del Consiglio di Stato, Pasquale De Lise. Più volte modificato nel corso degli anni, ha 257 articoli. Il regolamento a valle, invece, è composto di circa 600 norme. Un brodo di coltura perfetto anche per illegalità e corruzione, come purtroppo dicono le cronache di qualunque opera pubblica: che in Italia costa più di atti giudiziari che di cemento. Nel caso della nuova gara per la «galleria scolmatrice» del Bisagno c’è poi un ulteriore dettaglio surreale che riguarda i soldi. La voce «Altre informazioni» in fondo al bando precisa che il decreto ministeriale con cui lo Stato ha stanziato 25 dei 40 milioni necessari per fare l’opera «è stato impugnato al Tar del Lazio con ricorso proposto dal Comune di Salerno». La faccenda riguarda la ripartizione di finanziamenti per un totale di 224 milioni distribuiti dal governo di Mario Monti a varie città italiane, operazione dalla quale era stato escluso il capoluogo campano: il cui sindaco Vincenzo De Luca, ironia della sorte, sarebbe diventato viceministro delle infrastrutture nel successivo governo di Enrico Letta. «Pertanto», prosegue il bando, «qualora in esito a tali giudizi il suddetto finanziamento non risultasse più disponibile, si procederà a ritirare il presente bando, ovvero revocare l’affidamento o ancora risolvere il contratto senza che i concorrenti, o l’affidatario, abbiano nulla a che pretendere». Traduzione: se il Tar dà ragione a Salerno, allora abbiamo scherzato. E dopo il Tar c’è sempre il Consiglio di Stato e poi magari di nuovo il Tar e chissà, forse anche la Corte costituzionale. Ma si può scrivere un bando così? I soldi ci sono, ma forse no... E non è tutto qui. Perché a questo contenzioso amministrativo potrebbero in futuro sommarsi anche nuovi ricorsi per la nuova gara. Generando un micidiale cortocircuito giudiziario. In un Paese normale, penserete, di fronte a un’opera così urgente, quando c’è di mezzo l’incolumità pubblica, un’amministrazione se ne potrebbe anche infischiare dei giudizi del Tar. Poi si tratterà magari di risarcire il ricorrente che ha vinto, come succede in altri Paesi. Soluzione perfetta, se non fosse per il seguente particolare. In base alle norme vigenti un amministratore responsabile di una simile scelta, nel caso in cui la giustizia decida a favore di chi ha presentato il ricorso, rischia di essere chiamato dalla Corte dei conti a rispondere di danno erariale, con il proprio patrimonio. 15 ottobre 2014 | 10:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_15/cinque-anni-zero-fondi-salvavita-genova-appeso-un-bando-folle-9577806e-5438-11e4-ac5b-a95e1580fe8e.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - Spese e sprechi delle Regioni Non è un delitto tagliare del 2% Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2014, 05:18:57 pm Spese e sprechi delle Regioni
Non è un delitto tagliare del 2% Di Sergio Rizzo Facciamo davvero fatica, e tanta, a comprendere il lamento delle Regioni dopo che il governo di Matteo Renzi ha chiesto loro di tagliare 4 miliardi. Il sacrificio equivale a circa il 2 per cento di una spesa pubblica regionale che da quando nel 2001 è stato approvato il nuovo Titolo V della Costituzione è andata letteralmente in orbita. In un solo decennio la crescita reale, depurata cioè dell’inflazione, è stata di oltre il 45 per cento. Con una qualità dei servizi che certo non ha seguito lo stesso andamento. I presidenti delle Regioni minacciano ripercussioni sulla Sanità. Argomento cui si ricorre spesso quando viene paventato un giro di vite, nella speranza di conquistare il sostegno dei cittadini. I quali però avrebbero anche diritto di conoscere le cifre. Nel 2000, prima dell’entrata in vigore del famoso Titolo V che ha esteso in modo scriteriato le autonomie regionali, la spesa sanitaria era di poco superiore a 70 miliardi. Nel 2015 ammonterà invece a 112 miliardi. L’aumento monetario è del 60 per cento, che si traduce in un progresso reale del 22 per cento.Si potrà giustamente sostenere che in quindici anni sono cambiate molte cose: la vita media si è allungata e la popolazione è più anziana. Per giunta, la Sanità italiana è considerata fra le migliori d’Europa, al netto delle grandi differenze territoriali al suo interno che si traducono in un abisso del diritto fondamentale alla salute tra il Nord e il Sud: altro effetto inaccettabile del nostro regionalismo.Resta il fatto che nel 2000 la spesa sanitaria pro capite era di 1.215 euro e oggi è di 1.941, con un aumento monetario del 59,7 per cento e reale del 26,7. La differenza di qualità del servizio è tale da giustificarlo? Con un documento di qualche settimana fa il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha spiegato che in un anno è riuscito a ridurre di 181 milioni la bolletta sanitaria senza colpo ferire: solo razionalizzando acquisti e spesa farmaceutica. Dal canto suo la Consip, la società statale che gestisce gli acquisti della pubblica amministrazione, ha fatto risparmiare 100 milioni su 320 soltanto con la fornitura centralizzata delle strisce per la misurazione della glicemia, comprate a un prezzo unitario di 19 centesimi mentre prima si andava da un minimo di 45 centesimi a un massimo di un euro e 10. Tanto basta per far capire quanto grasso ci sia ancora nei conti della Sanità. Ma il grasso della Sanità è niente rispetto al resto. Il fatto è che la riforma del Titolo V ha scatenato un terremoto molto più dirompente di quanto non fosse prevedibile a causa della maggiore autonomia concessa alle Regioni. Queste hanno cominciato subito a comportarsi come piccoli Stati indipendenti i cui amministratori, ribattezzati pomposamente «governatori» con la colpevole complicità della stampa, non avevano però il dovere di rispondere agli elettori, visto che i soldi venivano pressoché tutti distribuiti attraverso lo Stato centrale. Una sindrome dagli effetti sconcertanti, come dimostra la costosissima proliferazione di sedi estere, da Bruxelles al Sudamerica alla Cina: come se ogni Regione dovesse avere una sua politica internazionale. Si è arrivati perfino a creare strutture come il Centro estero per l’internazionalizzazione piemontese che ha come obiettivo quello di «rafforzare il made in Piemonte». Mentre la vicina Regione Lombardia lanciava il progetto «made in Lombardy».Le conseguenze sono state nefaste. Al Nord come al Sud. I rigagnoli di spesa si sono moltiplicati, diventando fiumi in piena. Gli organici sono stati gonfiati a dismisura. Sul totale di 78.679 dipendenti regionali (Sanità esclusa), la Confartigianato ha calcolato esuberi teorici del 31 per cento: 24.396 unità. Ipotizzando un risparmio annuo possibile di 2 miliardi e 468 milioni. Il record spetta al Molise, con esuberi teorici del 75,4 per cento, seguito della Valle D’Aosta (71,2). Le cronache offrono casi formidabili. Nella Calabria dove ci sarebbero 1.184 dipendenti di troppo, l’ispettore spedito dal Tesoro, come ha raccontato sul Corriere di Calabria Antonio Ricchio, ha scoperto cose turche. Per esempio 1.969 promozioni in un solo anno (il 2005 delle elezioni regionali) da lui ritenute illegittime, al pari degli aumenti di stipendio retroattivi assegnati a 85 impiegati dei gruppi politici.Nel Lazio, invece, per tutti gli anni Duemila si è registrata un’impennata pazzesca del personale dei parchi: nel 2009 erano 1.271. Di cui 99 dirigenti. Per non parlare delle società controllate e partecipate. La Corte dei conti ha appurato che quelle della sola Regione Siciliana occupano 7.300 persone, con una spesa di un miliardo e 89 milioni nel quadriennio 2009-2012 per le buste paga. Nello stesso periodo la Regione aveva versato nelle loro casse un miliardo e 91 milioni, cifra che secondo i giudici contabili comprende anche «il ricorso reiterato e improprio a interventi di mero soccorso finanziario a società prive di valide prospettive di risanamento». E la politica? I consigli regionali, privati di ogni controllo centrale, hanno rivendicato prerogative pari a quelle del Parlamento nazionale, cominciando dall’autodichìa. Ovvero, l’insindacabilità assoluta su come spendono i soldi. Scandali a parte, è potuto accadere così che il consiglio regionale del Lazio abbia sfornato in meno di 40 anni 40 leggi locali ognuna delle quali ha accresciuto i privilegi retributivi e pensionistici dei consiglieri.Il risultato è che oggi un terzo del bilancio del consiglio laziale se ne va per pagare i vecchi vitalizi. Grazie alle antiche regole mai cambiate c’è pure chi continua a prendere l’assegno a cinquant’anni e dopo una sola seduta.Le Regioni spendono per i vitalizi 173 milioni l’anno. Cifra che sale in continuazione ma che potrebbe essere ridotta di almeno 50 milioni, dice il finora inascoltato rapporto sulla spending review , senza gettare sul lastrico nessuno. Ma su questo, da chi si straccia le vesti per i tagli chiesti dal governo, neppure un sussurro. 18 ottobre 2014 | 07:46 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_18/non-delitto-tagliare-2percento-c94900d8-5687-11e4-ad9c-57a7e1c5a779.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il nome sul libretto di circolazione? Per 7 righe 65 pagine di ... Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 05:21:57 pm Il caso
Il nome sul libretto di circolazione? Per 7 righe 65 pagine di spiegazioni L’assurda burocrazia della Motorizzazione per una norma che non è applicabile Di Sergio Rizzo Se esistesse l’Oscar della Burocrazia, non potrebbe mancare fra le nomination 2014 quella di Maurizio Vitelli, architetto, direttore generale della Motorizzazione. In soli tre mesi e mezzo ha sfornato due inarrivabili circolari, per regolamentare l’applicazione di un comma del codice della strada. Lunghezza del comma: sette righe. Lunghezza delle circolari: 65 pagine. Tutto comincia nel 2010, quando nel codice della strada compare una norma che impone l’annotazione sul libretto di circolazione del nominativo di chi, non essendone proprietario né parente convivente, utilizzi il mezzo per un periodo superiore a trenta giorni. Una norma finalizzata a limitare le truffe e ad agevolare l’identificazione dei reali responsabili degli incidenti. Ma che per ora è soltanto riuscita a produrre l’ennesima vertigine kafkiana. La disposizione dovrebbe entrare in vigore già dall’estate del 2010, ma due anni dopo ancora niente. Il 6 dicembre 2012 l’architetto Vitelli scrive alla Polizia stradale comunicando che «le procedure informatiche necessarie al fine della concreta applicazione della nuova disciplina sono in corso di realizzazione» e che dunque è impossibile aggiornare i libretti di circolazione «con conseguente inapplicabilità delle sanzioni». Che sono pure salate: vanno da 705 a 3.526 euro con ritiro del libretto, per sovrappiù. Ma chi crede che nel frattempo gli uffici siano rimasti con le mani in mano si sbaglia di grosso. Perché, «al fine di consentire l’attuazione della predetta norma», spiega la lettera, «si è resa necessaria una modifica del d.p.r. n, 495/1992, adottata con il d.p.r. 28 settembre 2012, n. 198, che ha introdotto l’art. 247-bis, pubblicato sulla G.U. n. 273 del 22 novembre 2012 e in vigore dal 7 dicembre 2012». Nientemeno. Passa ancora un anno e mezzo e finalmente il 10 luglio 2014 ecco la prima monumentale circolare applicativa, che fissa per la partenza del nuovo sistema il giorno 3 novembre. Ovvero, domani. Quarantasette pagine, quindicimila parole e nove allegati, con dentro una gragnuola di nuovi adempimenti e oneri anche economici per le aziende e i privati cittadini. Moduli da compilare, bollettini da pagare, comunicazioni da effettuare tassativamente entro 30 giorni «naturali e consecutivi». Si va dal comodato dei veicoli aziendali fino all’intestazione «di veicoli di proprietà di soggetti incapaci di agire», passando per le «competenze degli studi di consulenza automobilistica» per planare, udite udite, sulla «Locazione senza conducente di veicoli da destinare ai corpi di Polizia Locale». L’intestazione temporanea tocca anche ai vigili urbani. Un autentico capolavoro, nel solco della gloriosa tradizione del vecchio codice della strada, che arrivava a definire per legge le caratteristiche della ruota: «La superficie di rotolamento deve essere cilindrica, senza spigoli, sporgenze o discontinuità». Nemmeno quel diluvio di carta, però, riesce a saziare la fame del burosauro. Così il 27 ottobre ne arriva un’altra, di circolare. Questa volta le pagine sono diciotto, le parole circa seimila e gli allegati «soltanto» due. Ma l’oggetto non ha bisogno di commenti: «Intestazione temporanea di veicoli - circolare prot. N.15513 del 10 luglio 2014 - Chiarimenti applicativi». Cioè, una circolare per chiarire il contenuto di una precedente circolare emanata per chiarire il contenuto di una norma del codice della strada. E non è finita qui. Perché restano ancora fuori dall’applicazione di questa assurda disposizione veicoli come i taxi e gli autotreni, in attesa che la Motorizzazione si decida a definire anche per loro adeguate procedure. Il bello è, fa rilevare la Confartigianato, che per come sono scritte quelle meravigliose circolari, la norma non sarà concretamente applicabile: «Come le autorità accerteranno la violazione dell’obbligo? Semplicemente in nessun modo. Toccherà all’utente dimostrare di non essere l’utilizzatore abituale da oltre trenta giorni di un veicolo che non gli appartiene». Dimostrazione indimostrabile. Se una pattuglia della stradale fermasse uno che si trova al volante di una vettura non sua, e l’agente gli chiedesse se la sta guidando da più di trenta giorni «naturali e consecutivi», quale pensate che sarebbe la risposta? 2 novembre 2014 | 10:00 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/14_novembre_02/nome-libretto-circolazione-7-righe-65-pagine-spiegazioni-926c8174-626d-11e4-9f8e-083eb8ae3651.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Abolizione dello scontrino: l’ennesimo annuncio Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:05:19 am IL FISCO CHE COMPLICA INVECE DI SEMPLIFICARE
Abolizione dello scontrino: l’ennesimo annuncio Di Sergio Rizzo La direttrice dell’agenzia delle Entrate Rossella Orlandi ha annunciato che presto sarà abolito lo scontrino fiscale. I commercianti esulteranno. Le imprese che producono le macchinette per emettere gli scontrini, un po’ meno. I professionisti delle note spese, sulle prime, saranno sconcertati. E molti cittadini che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo resteranno invece rabbiosamente interdetti, sospettando che si voglia far sparire l’unico strumento che costringe artigiani e negozianti a compiere il proprio dovere con il Fisco. Niente di tutto questo, ovvio: ci assicurano che è soltanto semplificazione. Dalla carta alla tracciabilità elettronica. Il premier Matteo Renzi non aveva forse promesso di portare l’Italia fuori dal medioevo digitale? Benissimo, allora. Se non fosse che quando il Fisco parla di cambiare le regole, o peggio ancora accenna a qualche semplificazione, vengono i brividi. Non c’è ministro delle Finanze che da quarant’anni a questa parte non abbia annunciato una riforma fiscale. Con il solo risultato di accrescere gli adempimenti, aumentare la burocrazia e far salire dunque i costi per le imprese e i cittadini e per lo Stato. Quante volte sono cambiate le regole fiscali non lo sa nemmeno chi si accanisce a inondarci di norme e circolari. Corre quindi l’obbligo di ricordare i numeri contenuti in uno studio della Confartigianato, secondo cui nei 2292 giorni intercorsi fra il 29 aprile 2008 e l’8 agosto 2014, periodo durante il quale anche il nome dell’attuale direttrice delle Entrate compariva negli organigrammi dei vertici degli apparati fiscali, sono stati emanati 46 provvedimenti contenenti 691 norme di natura tributaria. Della quali ben 418 hanno complicato la vita a cittadini e aziende, contro le 96 che l’hanno semplificata e le 177 che non hanno avuto particolari effetti burocratici. Negli ultimi sei anni e mezzo il Fisco ha sfornato una complicazione alla settimana: lo sa Rossella Orlandi? 8 novembre 2014 | 08:54 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/14_novembre_08/abolizione-scontrino-l-ennesimo-annuncio-47730096-671b-11e4-afa4-2e9916723e38.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Spending review: le partecipate resistono e diventano un ... Inserito da: Admin - Novembre 12, 2014, 04:14:49 pm Spending review: le partecipate resistono e diventano un rifugio di «ex»
Tutti gli incarichi dei riciclati nelle società che Cottarelli voleva chiudere Il commissario alla revisione della spesa voleva ridurre da 8 mila a 1.000 le società partecipate. Si illudeva: sono un paracadute per gli esodati della politica Di Sergio Rizzo Dare l’esempio. Magari poteva servire, pensava il commissario alla spending review Carlo Cottarelli. Alle prese con la grana delle società partecipate dal pubblico, ne aveva scoperte 2.671 con più consiglieri che personale. Una l’aveva il Tesoro. Rete autostrade mediterranee, creata dieci anni fa dal governo di Silvio Berlusconi: un dipendente fisso e dieci fra consiglieri e sindaci. Cottarelli ne proponeva la liquidazione, illudendosi. Ecco allora che invece di tirare giù la saracinesca, a fine settembre il governo ha nominato i nuovi vertici. Non più cinque, perché c’è pur sempre la spending review, ma soltanto tre. Non tre qualsiasi. Presidente è Antonio Cancian, detto Toni. Reperto della vecchia Dc per cui venne eletto alla Camera nel 2002, poi deputato europeo del Pdl, quindi passato armi e bagagli nelle schiere di Angelino Alfano, aveva tentato a maggio la riconferma a Strasburgo. Senza successo. Prontamente le larghe intese (versione renziana) gli hanno offerto un minuscolo risarcimento. Cancian guiderà la società con un solo dipendente in organico insieme al vicepresidente (!) Christian Emmola, presidente (renziano) dell’assemblea del Pd trapanese, e alla consigliera Valeria Vaccaro, dirigente del Tesoro e incidentalmente moglie dell’ex braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Pinto, attuale consigliere Rai. Per dare l’esempio, appunto. E di storie finite così ce ne sono ancora. Ricordate Arcus, società che distribuisce soldi dei Beni culturali e che il governo Monti voleva seppellire? Resuscitata dal Parlamento prima delle esequie, non si sarebbe salvata una seconda volta se avessero dato retta a Cottarelli. Non l’hanno fatto, e l’amministratore unico Ludovico Ortona, 72 anni, ex ambasciatore e già capo ufficio stampa di Francesco Cossiga al Quirinale è sempre lì: riconfermato. E la Sogesid, società distributrice nel 2013 di 380 consulenze, che sempre il governo Monti voleva sopprimere? Altro che soppressione. Al suo vertice è arrivato il casiniano Marco Staderini, già consigliere delle Ferrovie e della Rai. E Studiare Sviluppo, società di consulenza del Tesoro per cui il commissario ipotizzava analogo destino? Sopravvive alla grande con un consiglio di amministrazione rinnovato. Ma qui almeno la scelta è caduta su tre dirigenti ministeriali. Magra consolazione, in un andazzo generale che sottolinea il contrasto profondo fra i propositi (verbali) di rinnovamento e le azioni concrete. Qualche caso? L’ex direttore generale della Rai nominato da Berlusconi, Mauro Masi, è stato confermato amministratore delegato della Consap, ultimo baluardo pubblico nelle assicurazioni: in aggiunta l’hanno fatto presidente. Con lui è entrato in consiglio il segretario della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy, per di più amministratore della Banca del Mezzogiorno di Poste italiane. Gruppo di cui nella scorsa primavera l’ex portavoce di Pier Ferdinando Casini nonché ex deputato Udc Roberto Rao è diventato consigliere. Tre mesi dopo alla presidenza della compagnia aerea delle stesse Poste, la Mistral Air, è sbarcato l’ex onorevole Pd Massimo Zunino. Intanto al vertice di Poste Assicura arrivava Danilo Broggi, oggetto di apprezzamenti politici trasversali: è amministratore delegato dell’Atac, la claudicante azienda di trasporto del Comune di Roma. Fra i consiglieri di Poste Vita è comparsa invece Bianca Maria Martinelli, dirigente delle Poste medesime e candidata senza fortuna alle politiche 2013 per Scelta civica. E se l’ex deputato Pd Pier Fausto Recchia ha conquistato la poltrona di amministratore delegato di Difesa servizi, quella di capo dell’Istituto sviluppo agroalimentare è toccata a Enrico Corali, nominato a suo tempo consigliere dell’Expo 2015 dal dalemiano Filippo Penati. Mentre all’ex commissario della Consob di nomina berlusconiana Paolo Di Benedetto, incidentalmente marito dell’ex ministro della Giustizia Paola Severino, è stato assegnato un posto nel cda del Poligrafico. Per non parlare delle periferie, dove questo schema viene applicato senza soluzione di continuità. Capita così di scorgere fra i nomi dei nuovi consiglieri di Finlombarda quello dell’esponente di Forza Italia Marco Flavio Cirillo: trombato alle politiche del 2013, nominato sottosegretario all’Ambiente nel governo Letta e lasciato a casa da quello di Renzi. Ma anche di veder salire alla presidenza della Fincalabra, finanziaria di una Regione senza governatore e gestita da una reggente in attesa delle elezioni, Luca Mannarino: coordinatore regionale dei Club Forza Silvio. Il seguito, temiamo, alla prossima puntata sui riciclati. 12 novembre 2014 | 08:20 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_12/tutti-incarichi-riciclati-e4fa3146-6a3a-11e4-bebe-52d388825827.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Vitalizi, quel segnale che arriva dal Lazio Inserito da: Admin - Novembre 15, 2014, 05:42:37 pm Privilegi
Vitalizi, quel segnale che arriva dal Lazio Una legge approvata dal consiglio regionale con voto unanime prevede che dal 1° gennaio nessuno potrà incassare vitalizi se non dopo i 65 anni. È il buco nella diga dei «diritti acquisiti» che si credeva compatta Di Sergio Rizzo Nel consiglio regionale del Lazio qualcuno, alle due del mattino di ieri, ha tirato un respiro di sollievo. Olimpia Tarzia, capogruppo della Lista Storace e dunque di se stessa, che ne è l’unico componente (Francesco Storace è anch’egli capogruppo di se stesso, ma a nome del suo partito La Destra) si è augurata che quella legge approvata nottetempo metta la parola fine alle polemiche sui vitalizi dei consiglieri regionali. Un caso che ha assunto nel Lazio i contorni di un autentico scandalo legalizzato, grazie a norme che hanno consentito finora agli ex politici locali di intascare assegni pari a diversi multipli della pensione media dell’Inps avendo versato 5 anni di contributi, ma addirittura con soltanto qualche settimana di mandato alle spalle. E magari a 50 anni d’età. Ora l’andazzo, garantiscono, finirà. La legge passata con il voto unanime di tutto il consiglio, grillini compresi, prevede che dal primo gennaio nessuno potrà più incassare il vitalizio se non dopo aver compiuto 65 anni. I baby ex consiglieri che già lo riscuotono dovranno pagare un contributo di solidarietà ancora più salato per chi di vitalizi ne incassa due (o magari tre) grazie all’assenza di regole che gli stessi beneficiari non hanno mai voluto fare. La svolta era inevitabile. I 272 vitalizi pagati oggi nel Lazio assorbono un terzo del bilancio del consiglio regionale e da qui al 2032 altri 42 ex consiglieri avrebbero beneficiato dell’assegno a 50 anni. Intollerabile. Diciamo subito che siamo ancora lontani da una vera soluzione. Tanto per cominciare, il cumulo dei vitalizi non dovrebbe essere penalizzato, bensì vietato del tutto. Ma di fronte all’ostinazione con cui lor signori hanno difeso fino allo stremo questo sistema, la legge della Regione Lazio ha del miracoloso. Perché è come un buco in una diga che si credeva compatta e infrangibile. Ovvero, la diga dei diritti acquisiti: eretta sempre dai diretti interessati con lo spauracchio dei ricorsi al Tar o alla Consulta ogni volta che si cercava di mettere mano a privilegi inaccettabili per un Paese in crisi nera da sei anni. Non sappiamo se chi oggi si mostra sollevato dall’incubo di ritrovarsi oggetto dell’indignazione popolare abbia fatto mente locale su questo particolare. Ci aspettiamo però che il dettaglio non sfugga al governo e al parlamento. Con la messa in discussione dei diritti acquisiti niente ora impedisce che si faccia una legge nazionale con la quale i trattamenti previdenziali presenti e futuri di tutte le Regioni siano finalmente equiparati. Stabilendo alcuni principi fondamentali. Come appunto il divieto di cumulo dei vitalizi plurimi, e l’incompatibilità fra l’assegno e i redditi da lavoro. Soprattutto quando il datore è pubblico. Conosciamo situazioni di funzionari pubblici che tuttora percepiscono contemporaneamente il vitalizio regionale e lo stipendio magari dalla stessa soggetto che paga loro la pensione politica. Una follia. Ma fermarla sarebbe semplicissimo. Basterebbe per prima cosa estendere ai politici eletti nelle Regioni le regole già introdotte nel 2008 per gli ex parlamentari. Ai quali viene sospesa l’erogazione del vitalizio nel caso in cui abbiano il diritto a una retribuzione pubblica. I casi non mancano. Si potrebbero citare quelli del presidente del Cnel Antonio Marzano, del presidente della Consob Giuseppe Vegas e del commissario dell’Agcom Antonio Martusciello. Del resto non si capisce perché una signora o un signore che non ha ancora raggiunto l’età pensionabile e ha un posto di lavoro debba percepire anche un assegno previdenziale privilegiato. Per quanto riguarda poi l’entità dei vitalizi rispetto ai contributi versati, che in alcuni casi, come quello dei baby ex consiglieri laziali, può anche raggiungere in base all’aspettativa media di vita il rapporto di venti a uno, va ricordata la proposta del team di esperti di Massimo Bordignon, incaricato dall’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli di indagare sui costi della politica. Secondo costoro si potrebbero ricalcolare gli assegni in essere su base contributiva, con un taglio valutato in 50 milioni l’anno sui circa 180 di costo complessivo di tutti i vitalizi regionali. Un risparmio del 28 per cento. Soprattutto, però, un bel guadagno di credibilità per la politica locale. Che ne ha davvero un gran bisogno. 14 novembre 2014 | 09:28 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_14/vitalizi-quel-segnale-che-arriva-lazio-810bce56-6bd4-11e4-ab58-281778515f3d.shtml Titolo: SERGIO RIZZO La battaglia legale contro i tagli parte dalla Lombardia. Inserito da: Admin - Novembre 22, 2014, 06:40:20 pm Nessuno vuole rinunciare a una quota di trattamenti ormai inaccettabili
Gli ex consiglieri regionali: i vitalizi di lusso sono «diritti acquisiti» La battaglia legale contro i tagli parte dalla Lombardia. Ma ovunque sono pronti i ricorsi Buona parte dei costi delle associazioni di ex eletti è sostenuta dalle Regioni Di Sergio Rizzo Al grido «i diritti acquisiti non si toccano!», gli ex consiglieri regionali che ogni mese incassano i vitalizi, hanno dissotterrato l’ascia di guerra. La valanga dei ricorsi per sommergere ogni tentativo di limitare certi trattamenti ormai scandalosi e inaccettabili, per un Paese incapace di crescere e devastato dalla disoccupazione, non si arresta. La slavina è partita dalla Lombardia, dove sono scattati i ricorsi al Tar contro il taglio del 10 per cento degli assegni. Poi il fenomeno si è esteso al Trentino-Alto Adige, dove ben 51 ex consiglieri hanno avviato una battaglia giudiziaria contro la richiesta di restituire parte delle somme incassate la scorsa estate come bonus per aver accettato il taglio dei vitalizi in pagamento: li assiste l’ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick. Le cifre, in qualche caso superiori al milione, si erano rivelate troppo generose e la Regione voleva indietro la differenza. In media il 28 per cento. Loro però si sono opposti, rivendicando come sempre accade il rispetto dei diritti acquisiti. Adesso è la volta degli ex consiglieri della Regione Lazio, che in base alle vecchie norme potevano riscuotere il vitalizio a cinquant’anni di età e dopo il versamento di appena cinque anni di contributi. La settimana scorsa, alle due di notte, i loro successori hanno approvato all’unanimità, Movimento 5 Stelle compreso, una legge che innalza da 50 a 60 (e non 65 come era parso di capire all’inizio...) l’età minima per intascare l’assegno, introducendo un contributo di solidarietà per chi già lo incassa. E gli ex non l’hanno mandata giù. Alcuni di loro, ancor prima che quel provvedimento venga pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, hanno preannunciato ricorsi a raffica contro tutto ciò che osi mettere in discussione il dogma dei «diritti acquisiti». Com’è stato già sottolineato su queste pagine, quel provvedimento è ancora lontano dal rappresentare la vera soluzione del problema, che potrà arrivare soltanto con una legge nazionale. Su tanti aspetti di quelle norme varate nottetempo dai consiglieri laziali ci sarebbe anzi da discutere: per esempio, quel passaggio che consente a chi ha il diritto al doppio vitalizio di rinunciare all’assegno regionale ma a patto che gli vengano resi i contributi versati, intende la restituzione al lordo o al netto di quanto già incassato? Perché se si intendesse al lordo, assisteremmo al paradosso di persone che hanno già incassato tutto, o magari anche più di quanto versato, ai quali verrebbe concesso un bonus supplementare. Ma quelle norme almeno hanno il merito di mettere in discussione per la prima volta il tabù dei diritti acquisiti dei politici. Diritti finora intangibili, a differenza per esempio di quelli delle centinaia di migliaia di esodati o degli alti dirigenti statali ai quali è stato tagliato lo stipendio, nonostante la loro particolarità: perché parliamo di diritti che i titolari hanno garantito a se stessi con leggi votate da lor signori. Fatti incontrovertibili, incapaci tuttavia di scalfire le convinzioni del «Coordinamento nazionale delle associazioni di consiglieri ed ex consiglieri regionali e di ex deputati delle assemblee regionali» guidato dall’ex consigliere della Regione Calabria Stefano Arturo Priolo. Il quale, una decina di giorni fa, ha spedito al presidente della Conferenza delle Regioni, Sergio Chiamparino, e a tutti i governatori una lettera al fulmicotone, preannunciando un diluvio di carte bollate «per resistere in giudizio ovunque contro l’attacco a giusti e legittimi diritti acquisiti». Vedremo. L’unica cosa che però non vorremmo è che le munizioni per sostenere quelle battaglie legali venissero fornite ancora una volta dai contribuenti. In ogni Regione esiste un’associazione degli ex consiglieri, che non si mantiene soltanto con le quote dei soci, ma pure con i contributi dei consigli regionali a cui vorrebbero fare causa nel caso di «attacco ai diritti acquisiti». E che oltre ai soldi mettono a disposizione di quelle associazioni strutture, spazi e personale. Un esempio per tutti? L’associazione degli ex consiglieri del Lazio che tuonano contro la legge appena approvata ha avuto a dicembre 2013 l’ultimo contributo di 10 mila euro, e occupa attualmente alcuni locali negli uffici che ospitano il centro studi Arturo Carlo Jemolo della Regione. Con tanto di segretaria: dipendente e ovviamente stipendiata dal consiglio regionale. 22 novembre 2014 | 07:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_22/gli-ex-consiglieri-regionali-vitalizi-lusso-sono-diritti-acquisiti-a257aa20-7210-11e4-9b29-78c5c2ace584.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Condoni e punti ai relatori I corsi burletta per giornalisti Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2014, 04:52:56 pm Il caso
Condoni e punti ai relatori I corsi burletta per giornalisti La formazione obbligatoria tra norme surreali e pochi controlli Sanzioni. Chi non segue i corsi compie per legge un illecito ma non esistono vere sanzioni Di Sergio Rizzo Capita anche questo, nel teatrino della formazione continua per giornalisti. Capita di assistere a un corso di deontologia organizzato nella sede e con esponenti del Parlamento europeo (il cui portavoce, per inciso, deontologicamente non rende noti i nomi degli ex eurodeputati che incassano il vitalizio perché «coperti dalla privacy») dal titolo alla Massimo Troisi: «Giornalismo ed Europa. Si riparte da Tre». Succede pure che il suddetto corso faccia da cornice alla consegna del premio «Capitani dell’anno 2014 all’on. Antonio Tajani, vicepresidente vicario del Parlamento europeo, per le sue efficaci iniziative a sostegno dell’imprenditoria». E alla fine, crediti formativi per tutti! Anche ai formatori: cioè i relatori. Il premiato Tajani, giornalista tuttora iscritto all’Albo, li avrà avuti anche lui? L’episodio dice tutto della piega grottesca che ha preso questa faccenda. Tanto da far dire a Carlo Picozza, responsabile della formazione all’Ordine di Roma: «Sono schifato». Invece la presidente Paola Spadari si paragona al bambino olandese Hans Brinker che tappa con il dito il buco nella diga: «Solo nel Lazio dovremmo erogare più di un milione di crediti in tre anni». Siccome però il dito non può reggere all’infinito, fatalmente la diga viene giù. Così il 19 dicembre chi dei 20 mila iscritti all’Ordine dei giornalisti del Lazio non si è ancora accaparrato il minimo dei 15 crediti stabiliti, può partecipare a un Credit-Day durante il quale si procederà alla distribuzione gratis dei punti mancanti. Un condono in piena regola. Ma partiamo dall’inizio. È settembre del 2011: lo spread galoppa e l’ultimo governo di Silvio Berlusconi deve mettere mano all’ultima disperata manovra. Lì dentro spunta a sorpresa una norma attuativa di una direttiva comunitaria, con la quale si decreta l’obbligo della formazione continua per gli iscritti a ogni Ordine professionale. Giornalisti compresi. Norma assurda, perché la direttiva ha lo scopo evidente di tutelare i clienti delle professioni, mentre i giornalisti non hanno «clienti» in senso stretto. Di più. «Il fatto di essere iscritti a un Albo fa dei giornalisti italiani gli unici in Europa soggetti a quell’obbligo», aggiunge la segretaria dell’Ordine del Lazio Silvia Resta. Nessuno però si commuove. L’Ordine nazionale partorisce un regolamento prevedendo l’obbligo di collezionare almeno 60 crediti in tre anni, con un minimo annuo di 15. Come si raccolgono? Innanzitutto con i corsi del medesimo Ordine. Gratuiti, ovvio (anche se quello organizzato a giugno dall’Ordine della Lombardia con docente Raffaele Fiengo, già giornalista del Corriere e storico sindacalista del nostro giornale, costava 50 euro). Poi frequentando convegni. Pure «in qualità di relatore», com’è per esempio avvenuto al corso con premio incorporato del quale abbiamo parlato, dove relazionava il vice dell’Ordine laziale Gino Falleri: semplicemente surreale. Finisce così che si raccattano crediti partecipando alle presentazioni di libri (surreale bis!), come pubblico e come presentatore. Mentre per regolamento, ovvio, ne ha diritto pure l’autore. Per non parlare di chi insegna all’università, oppure segue corsi di formazione «organizzati da aziende, istituzioni pubbliche e private e altri soggetti». E qui l’Ordine emana prontamente una serie di «disposizione attuative» per stabilire chi può tenere quei corsi. A pagamento, s’intende: ogni corso può costare fino a 220 euro a persona. Facile immaginare ciò che si scatena. Soltanto l’Ordine nazionale concede ben 44 autorizzazioni. Ci sono alcune università. Il Centro documentazione giornalistica, che edita l’Agenda del giornalista. Il Sole 24ore della Confindustria. Il Campus Multimediale che fa capo a Mediaset e alla Iulm. La Pegaso di Napoli: ateneo telematico che gestisce Accademia Forza Italia, scuola di formazione politica di Berlusconi. La Espero srl di proprietà di Luigi Danieli, consigliere comunale milanese del Pd. La Mc relazioni pubbliche di Sassari, specializzata nella «formazione medico scientifica» (ha fatto corsi per la Asl di Cagliari), al pari della Hc training di Roma. E ancora la Ad Formandum di Trieste, esperta nella formazione di scuola alberghiera. E la Know-k di Foggia che ha nell’oggetto sociale «servizi informatici e commercio all’ingrosso» di macchine per ufficio. E la Fondazione Courmayeur Mont Blanc. E la Umana Forma di Luigi Brugnaro. E la Greenaccord di Roma, «associazione culturale per la salvaguardia del Creato» che espone fra i soci onorari, le massime autorità religiose e una gragnuola di politici: da Renato Schifani a Stefania Prestigiacomo a Piero Marrazzo a Enrico Gasbarra... Che senso ha tutto ciò? Non ce l’ha per i giornalisti: anche perché nessuno controlla la qualità di questa formazione. Né per il pubblico, che non avrà un’informazione migliore. Ce l’ha invece per il costoso e pletorico Ordine dei giornalisti, governato da 120 (centoventi) consiglieri nazionali, la cui discutibile utilità è stata rianimata da una più che discutibile legge. Come ce l’ha, eccome, per chi si mette in tasca i soldi contando sul timore dei giornalisti di subire sanzioni. Che però non esistono. E qui si tocca l’apice. La legge dice che non formarsi è un illecito disciplinare che gli Ordini devono punire, ma tutto finirà nella solita burletta. Possiamo scommetterci. Il regolamento dei giornalisti prevede questa unica sanzione: «Il mancato assolvimento dell’obbligo formativo è ostativo all’attribuzione di incarichi deliberati dal Consiglio nazionale». No corso? Ahi, ahi, ahi... No poltrona! 30 novembre 2014 | 09:27 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/14_novembre_30/condoni-punti-relatori-corsi-burletta-giornalisti-fa422a40-7868-11e4-9707-4e704182e518.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Roma, salvataggio costoso e inutile Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2014, 05:44:17 pm La Capitale e i debiti
Roma, salvataggio costoso e inutile Di Sergio Rizzo C’ è un dubbio che oggi, dopo il raccapricciante spettacolo di Mafia Capitale, a maggior ragione ci attanaglia. Siamo sicuri che aver salvato Roma dal fallimento sia stata una scelta giusta? Il commissario al debito Massimo Varazzani argomenta che con il dissesto della capitale d’Italia si sarebbe rischiato il declassamento del debito sovrano, con relativa impennata della spesa per interessi e costi ancora maggiori. Pericolo che del resto, vista la nostra situazione economica, è perennemente incombente. E ieri ne abbiamo avuto la prova. Ma il ragionamento di Varazzani non fa una piega. Al tempo stesso non si può, né si deve, sorvolare sulle conseguenze di quei salvataggi. L’ispettore spedito un anno fa dalla Ragioneria a fare le bucce al bilancio del Campidoglio ha concluso che il commissariamento del debito con gli interessi accollati allo Stato si sia tradotto in un incremento della spesa corrente arrivato nel 2012 a ben 641 milioni: il costo di 13 mila dipendenti comunali. Per non parlare delle municipalizzate, con l’Atac bisognosa di continue trasfusioni di denaro. Mentre per l’Ama, l’azienda dei rifiuti già affidata a quel Franco Panzironi stipendiato con 545 mila euro e ora fra i nomi di spicco dell’inchiesta, parlano chiaro le slavine di 1.644 assunzioni e 1.700 stabilizzazioni di precari. E se non c’è la prova che un fallimento (per cui all’epoca secondo gli ex esponenti della giunta Veltroni messa sotto accusa da Alemanno non esistevano presupposti) avrebbe impedito corruzione, ruberie e malversazioni, di sicuro le avrebbe rese più difficili. Possiamo giurare che non avremmo neppure corso il rischio di un nuovo crac, un anno fa, con il risultato di un nuovo salvataggio per legge al ritmo del solito slogan: «La capitale non può fallire!». Stavolta gridato dalla sinistra come sei anni fa si era levato dalla destra. Con la certezza che il paracadute si debba per forza aprire. Così gli enti locali malgestiti difficilmente saltano per aria. Così agli amministratori incapaci non vengono pressoché mai applicate le sanzioni previste per legge. Così dopo le inchieste presentate come «un’occasione per fare pulizia» (parole del prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro) si scopre che di polvere sotto il tappeto ne rimane ogni volta troppa. In certi casi, è l’amara lezione di questa vicenda, un paracadute che si apre sempre e comunque può fare perfino più danni di un’agenzia di rating. 6 dicembre 2014 | 08:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_06/roma-salvataggio-costoso-inutile-7341c50a-7d13-11e4-878f-3e2fb7c8ce61.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - Spunta la grande sanatoria per favorire giochi e Fisco Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2014, 11:36:20 am Spunta la grande sanatoria per favorire giochi e Fisco
Legalizzate 7 mila sale. Giudici in pensione per le concessioni Di Sergio Rizzo Incalzato dai grillini al Senato, Matteo Renzi tuonò: «Adesso basta con le marchette in Parlamento!». Sentendosi rinfacciare sulla «Stampa» da uno del suo partito, il presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia: «Veramente il primo a fare le marchette è stato il governo. Al Senato ha presentato novanta emendamenti...». Alcuni del quali con nome e cognome. Per esempio, quello sui giochi messo a punto dagli uffici delle Finanze, che ha un destinatario preciso: la Sisal, società concessionaria presieduta dall’ex ministro delle Finanze ed ex commissario dell’Alitalia Augusto Fantozzi, controllata dalla holding lussemburghese Gaming invest. L’obiettivo è rianimare il Superenalotto, ormai da tempo in caduta verticale. La ragione è che si vince troppo poco in rapporto con altri giochi d’azzardo. Per metterci una pezza non resta che consentire di aumentare la percentuale di vincita con, testuale, «l’adozione di ogni misura utile di sostegno della offerta di gioco». Interventi che però potrebbero anche avere ripercussioni sul gettito erariale: in un senso positivo, ma come pure nel senso opposto. Che fare, allora? Siccome nessuno ha la palla di vetro, ecco che nell’emendamento salta fuori una innovazione formidabile, tenuto conto dell’inflessibilità con cui i guardiani dei nostri conti dispensano il prezioso bollino. Qui, infatti, il problema della copertura non solo non viene preso in considerazione, ma si precisa che considerati «obiettivi e ineliminabili margini di aleatorietà» delle scelte che saranno fatte, «i provvedimenti adottati ai sensi del presente comma non comportano responsabilità erariale quanto ai loro effetti finanziari». Un capolavoro. In quell’emendamento, in realtà, c’è anche una specie di sanatoria per le migliaia di negozi di scommesse privi di concessione statale ai quali verrebbe offerta «una opportunità di redenzione nella direzione del circuito ufficiale e legale di raccolta di scommesse». In che modo? Pagando una certa somma entro la fine di gennaio 2015 come tassa di ingresso nel sistema alla luce del sole. La questione ha almeno una decina d’anni e non è mai stata risolta: nasce da una serie di ricorsi presentati a Bruxelles da soggetti che si ritenevano discriminati, e per questo hanno ritenuto di poter operare anche senza aver ottenuto (ma neppure chiesto) la prevista autorizzazione. Parliamo di un fenomeno che negli anni ha raggiunto proporzioni enormi, se si pensa che il volume delle scommesse raccolte da costoro è dell’ordine di 2 miliardi e mezzo l’anno contro i 3,7 miliardi dei negozi regolari: semplicemente astronomica l’evasione fiscale connessa a questo sistema parallelo. La relazione tecnica quantifica lo stima in circa 7 mila punti, a fronte dei 7.400 legali, distribuiti sull’intero territorio nazionale. Anche se «dagli accertamenti condotti dalla guardia di Finanza emerge che la rete degli operatori non autorizzati è principalmente localizzata nelle grandi aree urbane e nelle zone meridionali, dove la raccolta media è di gran lunga più alta». Accertamenti che peraltro hanno innescato una forma di intimidazione senza precedenti nei confronti dei dirigenti dell’Agenzia dei Monopoli e dei finanzieri incaricati dei controlli e del recupero delle imposte non pagate presso questi negozi non autorizzati, che si sono visti recapitare almeno 160 cause e atti di diffida individuali. Tutto questo avviene sullo sfondo di un passaggio cruciale. È quello del rinnovo delle concessioni in scadenza sia per i giochi numerici cosiddetti «a quota fissa» che per il lotto. E qui gli emendamenti del governo contengono un’altra sorpresa. Non per la durata delle concessioni, fissata in nove anni, né per la base d’asta stabilita in 700 milioni di euro, e neppure per il livello degli aggi o per gli altri obblighi imposti agli eventuali partecipanti. Ma per la composizione della commissione di gara: che dovrà essere «composta di cinque membri di cui almeno il presidente e due componenti scelti tra persone di alta qualificazione professionale (e i due rimanenti?, ndr ), inclusi magistrati o avvocati dello Stato in pensione». Ricordiamo male o il governo aveva deciso di vietare l’affidamento di incarichi pubblici ai pensionati statali? Verissimo. Salvo poi concedere, com’è stata concessa, una deroga per i componenti delle commissioni. La ragione? Che si fa fatica a convincere i dipendenti pubblici a farne parte, causa la modestia dei compensi. Allora, porte aperte ai pensionati... 23 dicembre 2014 | 07:32 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/14_dicembre_23/spunta-grande-sanatoria-favorire-giochi-fisco-34309ad4-8a6b-11e4-9b75-4bce2f4b3eb9.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Biglietti bus a Roma, lo strano affare della multinazionale... Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2014, 11:40:15 am Il caso
Biglietti bus a Roma, lo strano affare della multinazionale australiana L’appalto agli australiani e la consociata italiana che compra quote a 6 mila euro e vende a 375 mila Il dettaglio Il servizio non cambia ma la lievitazione del prezzo avviene in appena 18 mesi Di Sergio Rizzo ROMA - Alla fine Mauro Bevilacqua si è dovuto rassegnare al concordato preventivo. Non riusciva a tirare avanti. Colpa della difficile situazione del mercato, certo. Ma anche dei pagamenti sempre più tardivi dell’Atac. Perché dal 2007 era uno dei fornitori della municipalizzata romana: 10 milioni di euro valeva il contratto per l’installazione dei tornelli alla metropolitana di Roma. Al Campidoglio governava Walter Veltroni, che di lì a poco avrebbe lasciato la poltrona di sindaco a Gianni Alemanno. Dall’Agcom ai biglietti Atac Ed è proprio all’inizio di quella stagione che la strada della Expotel, questo il nome della società di Bevilacqua, incrocia sul medesimo scenario dell’Atac quella di una grande multinazionale. Si tratta del gruppo australiano Erg, che qualche tempo prima ha vinto l’appalto per i sistemi informatici della bigliettazione elettronica dell’azienda di trasporto. L’esperienza dell’ingegner Bevilacqua è fuori discussione. È stato revisore di Telecom, Italcable e Telespazio, nonché componente del consiglio superiore delle Poste e Telecomunicazioni. Anche questo spinge Alleanza nazionale, nel 1998, a proporlo come componente del primo collegio dell’Autorità delle Comunicazioni. Del resto la vicinanza al partito di Gianfranco Fini è ben testimoniata dalla presenza del suo nome nella compagine azionaria della società che edita il quotidiano Il Roma , insieme ai colonnelli di An: da Ignazio La Russa a Italo Bocchino, Ugo Martinat, Domenico Nania, Altero Matteoli... Ma Bevilacqua regge soltanto sei mesi. Poi si dimette per ragioni di salute e viene sostituito all’Agcom da Alessandro Luciano. Arriva Expotel Dieci anni dopo lo ritroviamo fornitore dell’Atac per i tornelli della metropolitana. E da lì parte una nuova e ben più singolare avventura. Tutto comincia il 17 luglio del 2008, quando la multinazionale australiana che si è aggiudicata la gara del software per i biglietti elettronici decide di costituire una consociata italiana. Si chiama Erg transit system Italy, capitale sociale di 10 mila euro. Oggetto sociale: bigliettazione elettronica. Il 3 aprile del 2009 ecco spuntare la Expotel di Bevilacqua, che acquista il 60 per cento della nuova società creata dagli australiani per un prezzo di 6 mila euro. Un affare mica da ridere, considerando che la Erg Italy, della quale l’ex commissario Agcom è ora azionista di maggioranza, rappresenta il perno di un accordo «finalizzato alla creazione di una joint venture operativa nel mercato dei sistemi di bigliettazione elettronica». Per capirci, è il soggetto destinato a rilevare il contratto con l’Atac. E così accade. L’accordo viene firmato il 17 giugno. Il 18 giugno la Erg Italy cambia nome in Claves srl e lo stesso giorno la multinazionale australiana cede alla Claves il ramo d’azienda che si occupa della bigliettazione e dunque gestisce l’appalto dell’Atac. La girandola di societàLa cessione viene condizionata all’approvazione «anche tacita», c’è scritto negli atti societari, della stessa Atac. Dove però non si limitano al silenzio-assenso, ma a stretto giro di posta, il 16 luglio 2009, danno via libera al «subentro della Claves nella titolarità dei contratti in corso» con la multinazionale australiana in una riunione del consiglio di amministrazione allora presieduto da Massimo Tabacchiera con Gioacchino Gabbuti amministratore delegato. Subentro piuttosto originale, considerando che nella società subentrante l’aggiudicatario dell’appalto è l’azionista di minoranza con il 40 per cento. Il sodalizio fra gli australiani e il nuovo partner italiano non è tuttavia destinato a durare. La «joint venture nel mercato dei sistemi di bigliettazione elettronica» si scioglie come neve al sole appena 11 mesi più tardi. Il 15 giugno 2010 la quota del 60 per cento della Claves in mano alla Expotel passa infatti a una fiduciaria, la Finnat della famiglia Nattino, alla quale già fa capo il 50 per cento della società di Bevilacqua. Prezzo di vendita: sempre 6 mila euro. Il concordato preventivo Ancora 18 mesi e il 28 febbraio 2012 l’intero pacchetto azionario della Claves ritorna agli australiani. Ma stavolta per un prezzo ben diverso: 375 mila euro. Mentre il 20 agosto 2013 Bevilacqua chiede al Tribunale l’ammissione al concordato preventivo a causa «di una grave crisi aziendale dovuta anche ai ritardi dei pagamenti della società Atac...». 22 dicembre 2014 | 08:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://roma.corriere.it/cronaca/14_dicembre_22/biglietti-bus-roma-strano-affare-multinazionale-australiana-0ac0c678-89a9-11e4-a99b-e824d44ec40b.shtml Titolo: SERGIO RIZZO I vigili romani sono il doppio dei milanesi e fanno un terzo ... Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2015, 04:10:07 pm Il caso DI CAPODANNO A ROMA
Vigili: gag, disavventure e scandali - I retroscena dello scontro con Marino I vigili romani sono il doppio dei milanesi e fanno un terzo delle multe. L’intervento di Cantone Di Sergio Rizzo ROMA - Scherzi del destino. Per aver osato scrivere che dei vigili urbani a Roma si nota soprattutto l’assenza, il giornalista del Corriere Maurizio Fortuna è stato querelato da ventotto di loro. Pochi giorni dopo il recapito della citazione, ecco la notizia che la sera di San Silvestro l’83,5% degli agenti in servizio era scomparso. Chi si dava malato, chi donava il sangue, chi stava con la mamma inferma... La multa di Sordi a De Sica Questa «diserzione di massa», per dirla con il comandante Raffaele Clemente, è l’ennesimo episodio della guerra dichiarata a Ignazio Marino. Certo non per la bacchettata a un agente troppo galante con una bella automobilista senza patente, come quella appioppata nel film «Il vigile» al pizzardone motociclista Otello Celletti, alias Alberto Sordi, dal sindaco Vittorio De Sica: prontamente ricambiato con una multa per eccesso di velocità. Qui il conflitto è di ben altre proporzioni. E c’è da augurarsi che non vada a finire allo stesso modo, con la macchina del sindaco nella scarpata e il vigile che lo scorta all’ospedale. Il culmine dello scontro, a novembre: quando Marino e Clemente hanno deciso la rotazione degli incarichi. L’iniziativa, senza precedenti, ha scatenato una rivolta. Capitolo chiuso con l’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone che ha definito la rotazione non solo «legittima», ma «un meccanismo a tutela delle persone per bene». Però gli animi non si sono placati affatto. Il caso Liporace Il rapporto fra i vigili e Marino è sempre stato turbolento. Un mese dopo il suo insediamento il loro capo Carlo Buttarelli, messo lì da Gianni Alemanno, se n’è andato sbattendo la porta. Al suo posto è stato chiamato un colonnello dei carabinieri selezionato con procedura pubblica. Nonostante tre lauree, però, Oreste Liporace non aveva tutti i requisiti previsti e ha dovuto gettare la spugna. Allora è arrivato un poliziotto della squadra anticrimine della Questura di Roma: Clemente, appunto. Senza provocare, anche in questo caso, manifestazioni di giubilo da parte di quanti hanno interpretato tale nomina, al pari di quella tentata in precedenza, come un gesto di aperta sfiducia verso la polizia municipale. Il cui capo proveniva di regola dai ranghi interni. Anche se poi non sempre tutto filava liscio. Le disavventure dell’ex comandante Catanzaro Dicono tutto le disavventure del predecessore di Buttarelli, il comandante dei vigili urbani Angelo Giuliani incaricato di sostituire quel Giovanni Catanzaro pizzicato dal Messaggero a parcheggiare la sua Alfa Romeo in una zona off-limits vicino a piazza di Spagna: sul cruscotto un permesso per disabili. Rimosso da Walter Veltroni, Catanzaro sfiora nel 2008 la candidatura al consiglio comunale con l’Udc. Dieci mesi fa Giuliani viene arrestato con l’accusa di corruzione. Dicono i giudici che prendeva tangenti dalla società incaricata di ripulire l’asfalto dopo gli incidenti stradali. Lui si proclama estraneo: «Sono sempre stato ligio ai miei doveri». Il concorso nel caos Mesi prima, un’altra disavventura. Lo scenario, questa volta, un concorso per 300 aspiranti vigili. Giuliani presiede la commissione d’esame quando parte un’inchiesta della Procura di Roma nella quale si ipotizza il reato di falso ideologico. Alemanno revoca tutti e comincia un autentico Calvario. Da allora si sono alternate ben tre commissioni ma i risultati del concorso, bandito ormai cinque anni fa, non ci sono ancora. Le indagini che riguardano Giuliani, invece, si stanno per chiudere. Nemmeno il rapporto degli ispettori inviati dal Tesoro a verificare i conti della capitale è tenero nei giudizi. Sostiene per esempio che dal 2010 al 2013 siano state erogate ai vigili indennità di responsabilità per quasi 23 milioni in eccesso rispetto ai livelli considerati legittimi. Segnalando anche una serie di anomalie come la maggiorazione notturna concessa per le fasce orarie 16-23 e 17-24, nonostante i contratti nazionali la prevedano solo dalle 22 alle 6 del mattino. I numeri dei vigili in strada A Roma i vigili sono potentissimi: addirittura più del sindaco, si è sempre detto. Se ne contano 6.077. Tuttavia ce ne sono costantemente in giro per la città che ha il più alto numero al mondo di auto (oltre 70 ogni cento abitanti) da un minimo di 105, la sera, a un massimo di 993, la mattina. Ovvero, dall’1,7 al 16,3% della forza complessiva. Il tutto fra strade disseminate di vetture in seconda fila e mai una contravvenzione sotto il tergicristallo, neppure davanti a un comando della polizia municipale. E la produttività? Spiega molte cose il confronto con Milano contenuto nello studio Sose-Ifel sui costi standard. Mentre Roma spendeva per gli stipendi dei vigili il 14,5% più del «fabbisogno standard», Milano risparmiava il 38,3%. Con 154 multe mediamente a testa fatte a Roma contro le 370 di Milano. E le 27.990 sanzioni di altro genere elevate dai seimila vigili romani contro le 79.870 dei poco più di tremila loro colleghi milanesi. Il vigile di piazza Venezia Talvolta, dobbiamo riconoscerlo, le condizioni non sono facili. Come capita a chi deve misurarsi con un infernale caos di lamiere: ricorrendo a gesti e movenze tanto eleganti da affascinare perfino Woody Allen. Che nel suo film «To Rome with love» ha immortalato la scena del bravissimo vigile Pierluigi Marchionne sulla pedana di piazza Venezia mentre dirige il traffico, nemmeno fosse un direttore d’orchestra. Proprio lì, dove una volta il giorno della Befana si portavano regali ai pizzardoni in segno di riconoscenza. Altri tempi... 3 gennaio 2015 | 08:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_03/vigili-gag-disavventure-scandali-retroscena-scontro-marino-be16eb66-9314-11e4-8973-ae280e1dba84.shtml Titolo: SERGIO RIZZO In un giorno 393 assunzioni Quel rapporto del Tesoro su Roma Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2015, 05:02:00 pm In un giorno 393 assunzioni
Quel rapporto del Tesoro su Roma Dal 2000 al 2012, quasi 95 mila aumenti. Solo tra il 2008 e il 2012 sono stati impegnati per il salario accessorio dei dipendenti comunali 340 milioni di euro Di Sergio Rizzo Davvero un mercoledì da leoni, quel 25 novembre del 2009, per 393 vigili urbani con contratto a termine. Nel giro di una mattinata presentavano domanda di assunzione a tempo indeterminato, l’ufficio del personale verificava simultaneamente il possesso dei requisiti e il Comune di Roma sfornava istantaneamente il provvedimento di stabilizzazione. Firmato: Mauro Cutrufo, senatore del Pdl e vicesindaco. Peccato che la rapidità da salto nell’iperspazio di questa apparentemente complessa procedura faccia a pugni con quanto affermato nell’ormai arcinoto rapporto degli ispettori del Tesoro sui conti della Capitale. Cioè che in base alle norme allora vigenti quelle stabilizzazioni erano illegittime. Giudizio estendibile a tutte le 2.781 pratiche del genere, di cui ben 500 relative ai vigili urbani, concluse fra il 2007 e il 2010. Il personale Che nella gestione del personale il Comune di Roma non rappresentasse il top del rigore, era risaputo. Ma lo scenario delineato in quel rapporto, soprattutto per gli anni che hanno preceduto l’attuale amministrazione, va oltre ogni immaginazione. E ben si comprende il sindaco Ignazio Marino, che descrive l’inqualificabile diserzione dei vigili la sera di San Silvestro come «una ritorsione» per aver lui voluto cambiare certe regole inconcepibili, quali per esempio quelle che garantiscono una valanga di indennità: le più assurde. Perché a toccarle, tutti i 26 mila dipendenti del Comune, tanti quanti i lavoratori della Fiat in Italia, ci rimetterebbero qualcosa. Il salario accessorio A cominciare da quel salario accessorio che dovrebbe essere collegato a mansioni specifiche ed è sempre stato invece distribuito a chiunque senza particolari motivi. Una pioggerellina fitta e incessante che ha innaffiato tutti dal 2008 al 2012 con oltre 340 milioni di euro. Del resto, che il merito sia sempre stato una variabile ininfluente nel folle panorama retributivo del Comune di Roma lo dimostra una nota del Dipartimento risorse umane del dicembre 2011, nella quale si precisa che per non intascare il compenso di produttività bisogna «aver riportato una valutazione inferiore a 66 punti» e «aver lavorato un numero di giornate inferiore a 110». Cioè, essersi presentati sul posto di lavoro meno della metà del tempo stabilito per contratto. Regole, dunque, che giustificano l’assenteismo e il lassismo. Tanto più, notano gli ispettori, che non è prevista alcuna differenza nella somma corrisposta a chi viene valutato 66 e chi invece prende 100. Le «progressioni» Ma chi bada mai a una simile inezia, quando la pioggerellina è studiata apposta per bagnare indistintamente ognuno? Prendete le «progressioni orizzontali», termine che definisce i semplici aumenti di stipendio. Dal 2000 al 2012 sono state distribuite ben 5 volte, per un totale di 94.994 gratifiche: effetto di 94.994 valutazioni positive sul rendimento individuale. Quelle negative, 15. E sarebbe interessante sapere che cosa avevano combinato per meritarsele. Sputato in faccia al direttore? Mai andati a lavorare? Rubato? Spesa complessiva, 245,8 milioni fra il 2008 e il 2012. Alla quale si deve sommare quella per un’altra pioggerellina altrettanto stupefacente e copiosa per il capitolo delle indennità. Spesso e prelibato come un millefoglie. Indennità legata all’effettiva presenza in servizio, ovvero una somma erogata in più oltre allo stipendio per il semplice fatto di andare a lavorare. Indennità manutenzione uniforme. Indennità per l’attività di sportello al pubblico. Indennità oraria pomeridiana. Indennità annonaria. Indennità decoro urbano. Indennità di disagio: anche se non si capisce, sottolinea il rapporto, di quale disagio si tratti. E le promozioni, usate esclusivamente «per aumentare la retribuzione ordinariamente corrisposta ai dipendenti». Una slavina, a dire degli ispettori, non proprio legittima: 2.721, nei soli anni 2010 e 2011. E le assunzioni a tempo determinato fatte «intuitu personae» anche quando non riguardavano solo lo staff di fiducia dei politici. E le retribuzioni accessorie dei dirigenti, andate in orbita fra il 2001 e il 2012 passando in media da 45.640 a 88.707 euro l’anno pro-capite con una impennata del 94,3%. Premiando, per giunta, pure chi avrebbe dovuto essere sanzionato: «Non risulta», sostiene il rapporto, «che a nessun dirigente sia stata negata l’erogazione della retribuzione di risultato». Gli incentivi Qualche papavero comunale, poi, prendeva pure compensi dalle società municipalizzate che si andavano ad aggiungere a uno stipendio già non particolarmente modesto. Il che prefigura, dicono gli ispettori, la violazione del principio «di onnicomprensività della retribuzione». Un caso? Il rapporto cita la partecipazione alla Commissione di accordo bonario di Roma metropolitane, la società incaricata di tenere i rapporti con il general contractor della Metro C, del capo dell’Avvocatura comunale Andrea Manganelli. Il quale «nel solo 2013 avrebbe percepito la somma di 53.614 euro e 14 centesimi», anche se «la natura di società in house di Roma metropolitane», stigmatizza il documento del Tesoro, «non sembrerebbe consentire la corresponsione di simili compensi». Fatti singolari. Come «singolare» viene giudicato l’aumento di 1,7 milioni del fondo per gli incentivi economici dei dirigenti, per di più «proprio nell’anno, il 2008, in cui lo Stato si è accollato il debito del Comune di Roma». Una goccia nel mare, in grado però di spiegare molte cose. Per esempio, come sia stato possibile che nel 2012 la spesa corrente di Roma capitale fosse superiore «di circa 900 milioni», per gli ispettori, a quella del 2007. Mentre sull’efficienza delle strutture comunali e la qualità dei servizi offerti ai cittadini, per carità di Patria, forse è meglio sorvolare. 4 gennaio 2015 | 09:19 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_04/giorno-393-assunzioni-quel-rapporto-tesoro-roma-3bebcdf8-93e8-11e4-8745-dbfbe9a3a0e4.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Cantieri Salerno-Reggio Calabria, la beffa dei continui annunci Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2015, 05:08:46 pm IL COMMENTO
Cantieri Salerno-Reggio Calabria, la beffa dei continui annunci Spesso i comunicati sono fuorvianti, mancano resoconti dettagliati sulla situazione reale Di Sergio Rizzo ROMA - Non c’e’ niente di peggio che certi annunci. Prendete il comunicato con il quale prima di Natale l’Anas ha informato gli automobilisti che i cantieri su tutti i macrolotti della Salerno Reggio Calabria erano «sostanzialmente completati». Chi si fosse messo in viaggio ne avrebbe tratto la sensazione che il Calvario di quell’autostrada fosse finalmente del tutto concluso. Purtroppo non è così. Le promesse non mantenute Conosciamo le difficoltà che ha presentato l’opera, a cominciare da un contesto ambientale non proprio ideale per gli appalti pubblici. Per non parlare del fatto che in molti tratti il tracciato non è un semplice ampliamento di quello originario ma è nuovo di zecca, il che comporta ben altri problemi. Però sappiamo pure che i lavori vanno avanti dalla fine degli anni Novanta, e che non sono ancora finiti. Eppure continuiamo ad assistere a dichiarazioni, comunicati e previsioni (come quella secondo cui l’opera doveva essere completamente realizzata entro il 2013) che nella migliore delle ipotesi risultano fuorvianti. Ecco perché quando viene sfornato un comunicato ufficiale, ci aspetteremmo che accanto alla notizia della chiusura di questo o quel cantiere, comparisse anche un resoconto dettagliato della situazione reale: quanti chilometri ancora a corsia unica, quanti ancora da appaltare, a che punto sono i progetti per i pezzi ancora mancanti. Se non altro, per una questione di serietà. 4 gennaio 2015 | 20:12 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_04/cantieri-salerno-reggio-calabria-97a506f0-943d-11e4-8745-dbfbe9a3a0e4.shtml Titolo: SERGIO RIZZO - Il favore alle autostrade contenuto nel decreto Milleproroghe Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2015, 10:00:18 am PROVVEDIMENTI DI LEGGE
Il favore alle autostrade contenuto nel decreto Milleproroghe Altri sei mesi di tempo per le concessioni. E arriva anche la richiesta di aumentare i pedaggi Di Sergio Rizzo Dunque ci risiamo. Puntuale e inesorabile come l’alternarsi delle stagioni, le fasi lunari e i cicli della vita, anche quest’anno è arrivata la richiesta di aumentare i pedaggi autostradali. Una richiesta che finora nessun governo, di destra o di sinistra, ha mai potuto rifiutare. Plastica dimostrazione del potere della lobby dei concessionari, incarnata dalla figura imponente del capo della loro associazione Aiscat, il vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona, ex presidente margheritino della Provincia di Alessandria. E possiamo scommettere che neppure nel 2015, sulle autostrade, si cambierà verso. Di più. Con il consueto decreto Milleproroghe approvato dal consiglio dei ministri la sera del 24 dicembre, i concessionari hanno avuto anche un regalino di Natale. Vale a dire altri sei mesi di tempo, fino al 30 giugno prossimo, per mettere a punto le proposte di integrazione fra diverse tratte che offrirebbe loro, come previsto da una contestatissima norma del cosiddetto Sblocca-Italia, la possibilità di prorogare automaticamente e senza gara le concessioni a fronte di una promessa di nuovi investimenti. Conseguentemente, anche il termine per i nuovi piani finanziari slitta al 31 dicembre 2015. La ragione? Evidentemente c’è bisogno di più tempo per far digerire l’operazione, che favorirebbe soprattutto il gruppo Gavio, le Autovie Venete e l’Autobrennero, alla Commissione europea. Dove non è un mistero che ci sia una certa riluttanza a mandar giù norme poco profumate di concorrenza. Come appunto questa, che ha già incassato il giudizio fortemente negativo della nostra Autorità dei trasporti presieduta da Andrea Camanzi. Naturalmente, per ciò che può valere: poco o nulla. E qui è d’obbligo ricordare un altro regalino prenatalizio che il governo, in quel caso targato Monti, aveva già fatto ai medesimi concessionari nel dicembre 2011. Perché la norma del Salva-Italia che istituì l’authority fece decorrere (guarda caso) la competenza sulle tariffe autostradali a partire dalle concessioni future. Quindi, se scatteranno anche le proroghe automatiche senza gara previste dallo Sblocca-Italia renziano, campa cavallo. Con il risultato che quando si parla di autostrade Camanzi è ancora di fatto completamente esautorato. Il che contribuisce a spiegare perché ogni anno i pedaggi salgono, e salgono, e salgono. Dal 1999, anno della privatizzazione della concessionaria statale, e fino al 2013, i prezzi sono cresciuti del 65,9% a fronte di una inflazione del 37,4%. Conseguenza di un sistema assurdo tutto favorevole ai concessionari, ai quali consente di scaricare sulle tariffe anche gli extracosti di opere e investimenti anche se procedono al passo della lumaca. Il tutto sotto lo sguardo mai arcigno del governo di turno. Nel 2014, a fronte della richiesta di aumenti medi del 4,8 %, il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi ha concesso «solo» il 3,9%: appena due volte e mezzo l’inflazione programmata. Esultando per il risparmio (se un mancato rincaro si può definire risparmio...) «di 50 milioni» in favore de agli automobilisti senza però poter dire di quanto i profitti delle concessionarie sarebbero cresciuti. Peccato poi che quel tasso programmato, cioè l’1,5%, si sia rivelato ben superiore a quello reale. Ora l’inflazione annua è allo 0,2 %: venti volte inferiore all’aumento medio concesso dal governo . E siamo al nuovo round. Ovvero, gli aumenti richiesti per il 2015. Rosario Trefiletti di Federconsumatori e l’ex senatore Elio Lannutti (Adusbef) affermano scandalizzati che i concessionari pretenderebbero stavolta aumenti fino al 9%. Il top, a quanto pare, per l’autostrada Roma-Pescara di cui è concessionario il costruttore abruzzese Carlo Toto, consigliere Aiscat. Tanto da far imbestialire il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente: «Gli ennesimi aumenti sull’autostrada sono una vergogna, è ora di dire basta». Per tutta risposta Lupi dice che il governo, irremovibile, non è disposto a concedere aumenti superiori al famoso tasso programmato: ancora l’1,5%. Ovvero, almeno sette volte l’inflazione reale. Questa volta le ragioni dei concessionari sarebbero anche nel calo del traffico causato dalla crisi economica. Meno auto, meno incassi, meno profitti: dunque se ne facciano carico gli utenti. Ai quali però si dovrebbe pure spiegare come mai quando il traffico invece aumentava, gli incassi salivano e i profitti volavano, le tariffe aumentavano lo stesso. 27 dicembre 2014 | 07:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/14_dicembre_27/favore-autostrade-milleproroghe-751b0772-8d91-11e4-8076-7a871cc03684.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Consiglieri, commessi e segretari Ecco il Parlamento dei parenti Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2015, 06:55:51 pm Il caso
Consiglieri, commessi e segretari Ecco il Parlamento dei parenti La burocrazia più ricca di intrecci familiari d’Italia? È quella delle Camere. Legami L’ex tesoriere della Margherita Lusi aveva il fratello in Senato e il cognato alla Camera Di Sergio Rizzo ROMA - Chi guarda con apprensione alla fusione fra le amministrazioni di Camera e Senato, per possibili traumi o crisi di rigetto, si può tranquillizzare. Il ruolo unico è già stato realizzato, con reciproca soddisfazione, per via familiare. La recente nomina all’impegnativo incarico di segretario generale di Montecitorio di Lucia Pagano, figlia dell’ex consigliere della Camera Rodolfo Pagano e moglie del nuovo capo dell’informatica di Palazzo Madama, Mauro Fioroni, ne è la certificazione più limpida. In Italia non esiste burocrazia con intrecci parentali e dinastici così diffusi e profondi come in quella del Parlamento. A tutti i livelli: da quelli più bassi ai più elevati. E altri casi, oltre a quello di Lucia Pagano, rendono bene l’idea. Figli e mogli, il Parlamento dei parenti L’ascensore sociale Il suo vice Aurelio Speziale, per esempio, è sposato con Gloria Abagnale, consigliere del Senato. Giovanni Gifuni, consigliere della Camera, è figlio dell’ex potentissimo segretario generale di Palazzo Madama Gaetano Gifuni. Mentre l’ex vicesegretario generale della Camera Carlo Goracci è il papà di Alessandro Goracci, alto funzionario del Senato. E se il padre di Ugo Zampetti, fino a qualche giorno fa capo indiscusso della burocrazia di Montecitorio, era il responsabile della biblioteca di Palazzo Madama, quello dell’attuale segretario generale del Senato Elisabetta Serafin era solo un commesso. Commesso come anche il papà di Daniela D’Ottavio, consigliera d’Aula. A dimostrazione del fatto che l’ascensore sociale, fermo ormai ovunque, qui non è mai andato in manutenzione. Nel passato matrimonio «vietato» Anche se qualche volta s’inceppa. Figlio di un ex consigliere della Camera, Fabrizio Castaldi ne sarebbe diventato a 43 anni uno dei segretari generali più giovani di sempre se la sua candidatura non fosse naufragata in extremis. Come quella di Giacomo Lasorella, incidentalmente fratello della giornalista Rai Carmen Lasorella. E quella del possibile terzo incomodo Costantino Rizzuto Csaky, consorte di Maria Teresa Stella, consigliera della Camera al servizio biblioteca. Parentela, quest’ultima, che ci riporta a un illustre caso del passato. Fece scalpore, cinquant’anni orsono, il matrimonio fra Antonio Michela-Zucco, nipote dell’omonimo inventore della rivoluzionaria macchina di stenotipia, e Magda Sammartino. Erano entrambi stenografi del Senato e la cosa venne considerata causa di incompatibilità. Per rimuoverla fu deciso il trasferimento della moglie alla Camera. Dove Magda Sammartino fu protagonista di una splendida carriera arrivando, prima donna nella storia, all’incarico di vicesegretario generale. Ma erano altri tempi. I coniugi di oggi Oggi la presenza di coniugi nelle stanze dei bottoni della stessa amministrazione non scandalizza più davvero nessuno. Marito e moglie sono il capo servizio controllo parlamentare Carlo Lomaglio e la direttrice dell’ufficio pubblicazioni della Camera Consuelo Amato: figlia del magistrato ed ex capo dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato. Marito e moglie sono Stefano Cicconetti, dirigente di Montecitorio ora in pensione, e la sua collega ancora in servizio Maria Teresa Calabrò: figlia del potentissimo ex presidente del Tar Lazio e dell’Agcom Corrado Calabrò. Marito e moglie sono Alessandro Palanza, ex vicesegretario generale della Camera e la funzionaria Martina Mazzariol. Attualmente vicepresidente della Fondazione Italiadecide di Luciano Violante, Palanza ha guidato a lungo un’amministrazione nella quale aveva un ruolo di rilievo anche sua sorella Maria Rita. Marito e moglie sono Pietro Calandra, alto dirigente del Senato poi finito all’autorità di vigilanza dei lavori pubblici su indicazione del Pd e la funzionaria di Palazzo Madama Stefania Boscaini. Gli intrecci con la politica Ma si potrebbe andare avanti chissà quanto, notando come il gioco degli intrecci e delle parentele non sia limitato ai soli burocrati. Dice tutto quello intorno alla funzionaria della Camera Giuliana Coppi. Figlia del principe del Foro Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, è sposata a sua volta con un altro avvocato. Non uno dei tanti. Il suo nome è Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia eletto al consiglio superiore della magistratura in quota al partito di Berlusconi. Si potrebbe anche ricordare come il vicesegretario della Camera Guido Letta sia il nipote di Gianni Letta e cugino di Enrico Letta. Oppure che il funzionario del Senato Luigi Ciaurro sia figlio dell’ex ministro liberale Gianfranco Ciaurro, scomparso ormai quindici anni fa. O che Valentina Loiero, figlia dell’ex governatore della Calabria Agazio Loiero, e Giulia Laganà, figlia dell’ex parlamentare del Pd Tana De Zulueta, facciano parte dello staff della presidente Laura Boldrini. La cui segreteria, peraltro, era stata per otto mesi guidata da Marco Cerase, genero di Alberto Asor Rosa, prima che venisse trasferito ad altro incarico per far posto all’astro emergente Castaldi. Come dimenticare poi che l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, ex senatore, aveva il fratello direttore del servizio del Senato, mentre suo cognato Francesco Petricone è funzionario della Camera? E che Cristiano Ceresani, un altro funzionario della Camera già vicecapo legislativo di Gaetano Quagliariello e oggi addirittura capo con il ministro Maria Elena Boschi, è il marito di Simona De Mita, quindi genero dell’ex presidente del Consiglio e attuale sindaco di Nusco Ciriaco De Mita? 19 gennaio 2015 | 07:50 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da -http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_19/consiglieri-commessi-segretari-ecco-parlamento-parenti-424c0af0-9fa5-11e4-84eb-449217828c75.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Addio ai Palazzi Marini: la mensa resta e costerà 1 milione per... Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2015, 11:37:02 am Sprechi
Addio ai Palazzi Marini: la mensa resta e costerà 1 milione per un mese Il calcolo Il questore Dambruoso (Sc): 73 euro a pasto. Replica della Camera: no, sono 17,50 euro Di Sergio Rizzo Settantatré euro. Per quanto sia davvero difficile immaginare che un singolo pasto in una mensa di un ufficio pubblico, per quanto di livello extra, possa costare ai contribuenti una cifra simile, sarebbe questo uno dei sorprendenti effetti collaterali della rescissione dei contratti per i palazzi Marini da parte della Camera. Parliamo di quei quattro stabili che una quindicina d’anni fa l’amministrazione di Montecitorio aveva preso in affitto dall’immobiliarista nonché allevatore di cavalli Sergio Scarpellini per dare una scrivania a ogni deputato. A un costo medio annuo di 547 euro al metro quadrato, più il prezzo dei servizi. Per un totale sborsato, in tre lustri, di gran lunga superiore al mezzo miliardo: cifra che sarebbe stata più che sufficiente per acquistare tutti quegli immobili. Finché un bel giorno, grazie soprattutto alle denunce pubbliche sull’enormità di quella spesa e al pressing determinante del Movimento 5 Stelle, che l’anno scorso è riuscito non senza resistenze a far passare una legge per consentire allo Stato di interrompere gli affitti passivi prima della scadenza pur in assenza di clausole precise, la Camera ha deciso di rescindere i contratti risparmiando una montagna di quattrini. E il 21 gennaio scorso sono state restituite le chiavi. Ma con una piccola coda: uno strascico da un milioncino di euro. Nel più grande dei palazzi Marini c’è anche la mensa per i dipendenti. Il servizio è curato da 45 dei 426 lavoratori della società Milano 90 di Scarpellini che potrebbero perdere il posto in seguito alla rescissione dei contratti. Per questo da mesi stanno andando avanti le trattative con i sindacati e per cercare di tamponare la situazione è scesa in campo anche la Regione Lazio che sta esaminando la possibilità di metter in campo le procedure di mobilità. Nel frattempo gli uffici dei deputati sono stati trasferiti in un altro stabile della Camera, a vicolo Valdina. E in attesa di perfezionare l’operazione del trasloco con un nuovo appalto per i servizi, si è deciso di far funzionare ancora la mensa fino alla fine del mese di febbraio. Qui però viene il bello. Perché per tenere aperta la mensa e assicurare l’agibilità dei locali la società di Scarpellini ha richiesto il pagamento dell’affitto per tutto l’immobile, che resterà comunque completamente inutilizzato. O meglio, ci saranno i 45 addetti alla mensa più altri 45 lavoratori di solito impiegati nei servizi al piano. I quali però, com’è facilmente intuibile, non avranno proprio nulla da fare. «Uno spreco assolutamente insensato di denaro pubblico», per il questore di Scelta civica Stefano Dambruoso che ha votato contro la decisione presa dall’ufficio di presidenza della Camera. Non prima di aver messo per iscritto il proprio dissenso in una lettera girata a tutti i suoi componenti. Nella quale ha anche fatto i conti. Sommando all’onere del servizio mensa il canone per il palazzo vuoto, «l’operazione avrebbe un costo complessivo di 991.291,14 euro». Siccome poi «la media giornaliera dei pasti presso la mensa di palazzo Marini 3 mi viene riferito essere di 399, è facile calcolare che il costo di un singolo pasto, attesa la durata contrattuale di 34 giorni, sarebbe di 73 euro, considerando anche l’apertura il sabato e la domenica». Immediata la replica della Camera: «quei conti sono sbagliati, ogni pasto costa 17,50 euro». E la saga continua... 24 gennaio 2015 | 08:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_24/palazzi-marini-mensa-camera-roma-a6c91b70-a393-11e4-808e-442fa7f91611.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il buco nero dei servizi pubblici In rosso anche le farmacie Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2015, 08:09:16 am Il caso
Il buco nero dei servizi pubblici In rosso anche le farmacie Atac, gli autisti guidano la metà che a Milano. Quasi 200 milioni spesi in attività finanziarie. E Roma è l’unico Comune ad avere una compagnia assicurativa «in casa» Di Sergio Rizzo ROMA - Chiudere baracca e burattini. Per quanto fosse l’unica soluzione accettabile, nessuno prima d’ora aveva mai voluto guardare in faccia la realtà. Caso unico sul pianeta, il Comune di Roma possiede una propria compagnia assicurativa che copre dai rischi tutti i suoi veicoli. Ma a un costo assurdo. Il Campidoglio paga infatti alle Assicurazioni di Roma (Adir) premi 3,2 volte più cari rispetto al Comune di Milano. E liquida sinistri ancora più salati, con un rapporto rispetto al capoluogo lombardo di 4,2 a uno. Fece scalpore un paio d’anni fa l’indennizzo astronomico di 1,2 milioni versato senza battere ciglio dalla compagnia comunale allora presieduta da Marco Cardia, figlio dell’ex presidente della Consob Lamberto Cardia, al tronista di «Uomini e Donne» Karim Capuano che era andato a sbattere con la sua Smart contro un autobus. Ma altrettanto scalpore avrebbero dovuto provocare i 92.662 euro di costo pro-capite di ogni dipendente, contro una media di 68 mila delle compagnie private, e con «prestazioni di lavoro autonomo» salite del 42% in due anni. Oppure i 194,6 milioni investiti in attività finanziarie, dice un esplosivo dossier degli uffici comunali, ben più rischiose dei Bot. Non sta in piedi. Come non sta in piedi la Farmacap, azienda che gestisce 44 farmacie con 358 dipendenti, le uniche in Italia sempre in perdita che hanno costretto il Comune sei mesi fa a tirare fuori 15 milioni per tappare i buchi. Anche qui non c’è che una strada possibile: vendere. Perché non sia stata percorsa prima, come del resto la liquidazione della Adir, è presto detto. I partiti non l’avrebbero permesso. E nemmeno ora lo vorrebbero consentire, a giudicare dalle reazioni al massiccio piano della giunta di Ignazio Marino di dismissioni e chiusure delle Municipalizzate romane, da Risorse per Roma al Centro Carni, dalle controllate dell’Ama a quelle dell’Atac, passando per le assicurazioni. Un universo gigantesco e dai confini imprecisati di oltre un centinaio di sigle, intorno al quale ruotano 37 mila stipendi per un costo di 1,4 miliardi l’anno, ma che non regge più. La situazione è al collasso, prova tangibile del degrado in cui la città è piombata, e non certo da ora. Fino a livelli dai quali risollevarla rischia di essere un’impresa quasi disperata. Lo squilibrio strutturale del Campidoglio, valutato in 550 milioni l’anno, è frutto anche di questo. Non c’è forse città nella quale sprechi e inefficienze delle società comunali siano così storicamente radicati, fra clientele e ombre di corruzione. Sinistri scricchiolii si avvertono dappertutto. Il Tesoro, che ne è azionista al 90%, ha deciso di portare in tribunale i libri della super indebitata Eur spa, società amministrata fino a un anno fa da un fedelissimo del sindaco Gianni Alemanno: quel Riccardo Mancini accusato di tangenti per i filobus dell’Atac e ora finito in carcere per lo scandalo Mafia Capitale. Ma fa venire i brividi anche la situazione dell’Ama, un gruppo con oltre 11 mila dipendenti. La città ferita da Mafia Capitale è sporca, talvolta al limite dell’indecenza. Nel rapporto scritto un anno fa dagli ispettori della Ragioneria ci sono pagine che fanno riflettere a proposito della controllata Multiservizi, società che si occupa della pulizia delle scuole e alla quale partecipa la Manutencoop della Lega con il 45,5% e una ditta privata (La Veneta servizi) con il 3,5%. Si racconta di un rapporto con il Campidoglio costellato di irregolarità, con gare dall’esito stridente, affidamenti diretti e proroghe discutibili. E poi l’Atac. Non esiste al mondo città più congestionata di Roma. Due milioni e 800 mila veicoli per poco più di due milioni e 800 mila persone è un record inarrivabile. Ce ne sono 978 per ogni mille abitanti, con 700 mila fra moto e scooter. Una follia. A Parigi i veicoli circolanti ogni mille residenti sono 415. A Londra, 398. Si calcola che nella città di Roma il traffico faccia perdere 135 milioni di ore l’anno. Come se ogni cittadino, dai neonati agli ultracentenari, restasse imprigionato due giorni nell’auto. Un miliardo e mezzo di euro evapora così. Più il miliardo e 300 milioni del costo degli incidenti: nel 2012 ce ne sono stati 15.782, con 154 morti e 20.670 feriti. Incalcolabili il prezzo per l’ambiente e le conseguenze per la salute dei cittadini, mentre l’uso del trasporto pubblico è trascurabile. Nelle ore di punta non va oltre il 28%. E pensare che l’Atac paga 12.184 stipendi, mille più dell’Alitalia. Duemila, anzi, considerando l’appalto delle linee suburbane: i sindacati erano riusciti pure ad affrancare i loro iscritti dell’Atac dal fastidio di guidare in certe periferie. Incombenza quindi affidata, dietro compenso annuo di 107 milioni, al consorzio privato Tpl. Negli ultimi cinque anni l’Atac ha accumulato perdite per 997 milioni. L’azienda gestisce 330 linee di superficie contro le circa 100 di Milano, che ha però una robusta ed efficiente rete di metropolitane, incassando circa metà dei biglietti della milanese Atm. Gli autisti guidano mediamente 32 ore alla settimana, con un massimo giornaliero di 6 ore e 20, mentre nel comparto tram e metro le ore di guida annue pro-capite non superano le 736, contro 850 a Napoli e 1.200 a Milano. Il tutto grazie ad accordi sindacali negoziati direttamente con il livello politico. Le sigle sindacali sono 13 e gli iscritti 9.684, più dell’80%. Sulla base delle vecchie intese le ore annue di permesso sindacale erano 153 mila, corrispondenti a 90 persone sempre assenti dal lavoro. Quando Marino si è insediato, gli autisti temporaneamente inidonei alla guida erano poco meno del 10% dei circa 4.500 in forza all’azienda. Poi c’è la città. Con le strade distrutte e buche e voragini che massacrano i mezzi. Con le macchine perennemente in seconda fila a ostruire il traffico, fra l’indifferenza dei vigili urbani, dei quali ce ne sono in strada al massimo mille su seimila. Con 100 chilometri appena di corsie preferenziali, meno della metà rispetto a Milano: l’1,8 per cento dell’intero sviluppo viario del territorio comunale. Non che a fronte di un tale disastro non si stia facendo nulla. Ci sono più controllori, l’assenteismo è calato, diversi dirigenti sono stati accompagnati alla porta, le perdite sono calate. Gli accordi sindacali integrativi sono stati disdettati. Il nuovo piano industriale prevede che si guidino gli autobus 36 ore alla settimana e la metro 900 ore l’anno, una lotta più dura all’evasione, la vendita di immobili per 190 milioni... Ma la buona volontà non cancella il sospetto che al punto in cui siamo servirebbe forse uno choc ancora più violento. E non solo all’Atac. Dove per inciso c’è un amministratore delegato che a quell’incarico ne somma altri sette, fra cui la presidenza di Poste assicura, del gruppo Poste italiane. «Prendo 67.500 euro lordi l’anno. Al sindaco ho detto che avrei accettato l’incarico solo a patto di poter continuare a svolgere la mia attività», spiega Danilo Broggi. Ne conveniamo: resta il dubbio se sia giusto pagare chi è chiamato a gestire un’azienda pubblica, e nelle condizioni dell’Atac, meno della metà di un commesso anziano del parlamento. Ma che possa essere amministrata part time, è un fatto altrettanto singolare. 2 febbraio 2015 | 08:24 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_febbraio_02/buco-nero-servizi-pubblici-rosso-anche-farmacie-6ca98d5e-aaa9-11e4-87bf-b41fb662438c.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Enti, fondazioni e authority Il collocamento dei non rieletti PD Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:45:36 pm I COSTI DELLA POLITICA il DOSSIER
Enti, fondazioni e authority Il collocamento dei non rieletti pd Uno su due ha avuto un posto tra società pubbliche e impieghi «politici» Di Sergio Rizzo Di esperienza sul campo ne aveva da vendere. Era lui che dagli schermi di Video Calabria conduceva Calabria Verde, trasmissione d’inchiesta sull’agricoltura calabrese. A Francesco Laratta detto Franco mancava solo un adeguato riconoscimento istituzionale. Mai dire mai: a settembre del 2014 ha avuto un posto nel consiglio di amministrazione dell’Ismea, l’istituto pubblico per i servizi nel mercato agricolo. Trombato alle politiche del 2013, il coordinatore regionale di Areadem, componente del Pd che fa riferimento a Dario Franceschini, è stato uno degli ultimi ex onorevoli del partito di maggioranza a trovare una ricollocazione. Sia pure come semplice consigliere di un ente statale non di primo livello. - I NUMERI: ECCO I DEM FUORI DAL PARLAMENTO … Non si può lamentare. A causa di un ricambio generazionale senza precedenti il giorno dopo le elezioni ben 165 onorevoli democratici della scorsa legislatura si sono trovati senza seggio. Considerando le componenti esterne, vedi i radicali che facevano parte del gruppo Pd, o quanti rimasti fuori dal Parlamento per scelta personale che certo non aspirano alla poltroncina di una società pubblica, si riducono a 135. Ma sono comunque un esercito. E chi si aspettava cambiamenti con la nuova stagione politica deve ricredersi. Perché la realtà dei fatti è ben diversa dalle dichiarazioni di principio. Tanto più che nel 2013 è intervenuto un fatto nuovo e non trascurabile: l’impossibilità per gli ex onorevoli di riscuotere il vitalizio prima dei sessant’anni. Così pure in questi due anni si è assistito a una strisciante e metodica opera di risistemazione dei parlamentari bocciati o esclusi dalle liste. E se il termine «riciclati» può apparire in qualche caso esagerato, vero è che una buona metà ha avuto un incarico pubblico o ha intercettato un ruolo legato in qualche modo alla politica. In sei sono stati ricandidati o rieletti in altri partiti, salvo poi (qualcuno) rientrare nel Pd. Altrettanti hanno avuto incarichi nelle amministrazioni locali, e non parliamo soltanto dei sindaci di Roma (Ignazio Marino) o di Catania (Enzo Bianco): ma anche di Giovanni Lolli, assessore alla Ricostruzione della Regione Abruzzo, e di Alberto Fluvi, capo segreteria dell’assessore al Bilancio della Toscana Vittorio Bugli. Sono per ora tredici, invece, i destinatari di incarichi di partito. E anche qui c’è incarico e incarico, perché una cosa è fare come l’ex senatore Fabrizio Morri il segretario provinciale a Torino o come l’ex deputato Stefano Graziano il presidente del partito in Campania, e un altro conto essere direttore generale del gruppo pd alla Camera, qual è Oriano Giovanelli. In cinque si sono trasferiti al governo con ruoli che vanno da viceministro dell’Economia (Enrico Morando), a consigliere del ministro della Giustizia Andrea Orlando (Guido Calvisi), a capo della segreteria tecnica del sottosegretario alla presidenza con delega ai servizi segreti Marco Minniti. Quest’ultimo è il caso di Achille Passoni, ex senatore di provenienza Cgil, marito della neoeletta senatrice Valeria Fedeli, già sindacalista Cgil e ora vicepresidente di Palazzo Madama. Ancora. A diciotto ex parlamentari del Pd sono stati attribuiti incarichi in fondazioni, authority, enti e organismi pubblici di vario tipo. Sia pure con enormi differenze fra ruoli simbolici e posti di grande potere. Mario Cavallaro è diventato presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Antonello Soro, presidente dell’Autorità garante della privacy. L’ex senatrice e insegnante Marilena Adamo, presidente della Fondazione scuole civiche del Comune di Milano. L’ex segretario della Cisl e già viceministro Sergio D’Antoni, presidente del Coni Sicilia. L’ex deputata Rosa De Pasquale, direttore dell’ufficio scolastico della Toscana: nomina alla quale la Corte dei conti, come ricordato dal Fatto Quotidiano, ha rifiutato la registrazione. L’ex senatore Carlo Chiurazzi, trombato alle Politiche 2013, presidente del Consorzio di sviluppo industriale di Matera. Mariapia Garavaglia, consigliere della Fondazione Arena di Verona. L’ex onorevole Federico Testa, commissario dell’Enea. L’ex ministro Luigi Nicolais, presidente del Consiglio nazionale ricerche: nomina che al pari di quella di Soro ha preceduto di poco le elezioni. Idem per Giovanna Melandri, passata direttamente da Montecitorio alla presidenza del Maxxi. Giovanni Forcieri, che ha preso il suo posto, era presidente dell’Autorità portuale di La Spezia. E su quella poltrona è stato ricollocato senza alcuna difficoltà dopo la breve parentesi parlamentare. Mentre troviamo Luciana Pedoto, laureata in Economia e specializzata in «epidemiologia dei servizi sanitari», ex segretaria di Giuseppe Fioroni ed ex onorevole non rieletta, all’Istituto nazionale di astrofisica. È responsabile di trasparenza e anticorruzione. Competenze a parte, su cui pure ci sarebbe molto da dire, il punto è il metodo con cui vengono fatte certe scelte. Le società e le aziende pubbliche, per esempio. Pure lì, dove secondo i piani del governo dovevamo assistere a tagli impietosi, si è assistiti all’inesorabile migrazione degli ex. Di Pier Fausto Recchia alla guida di Difesa servizi abbiamo parlato in varie occasioni. Come dell’assunzione a Invitalia di Costantino Boffa dopo selezione ministeriale ad hoc. Poco, invece, si è detto delle nomine della Regione Lazio alle presidenze delle Ipab: all’Istituto Sacra Famiglia è stato collocato Jean Léonard Touadi; a Santa Maria in Aquiro, Massimo Pompili. Oppure della designazione di Sandro Brandolini alla vicepresidenza di Cesena Fiera. O dello sbarco di Maria Leddi al posto di amministratore unico di Ftc holding, serbatoio di partecipazioni del Comune di Torino. E dei tre incarichi all’ex deputato Ivano Strizzolo: presidente dei revisori della Unirelab S.r.l., società del ministero dell’Agricoltura (di cui figura procuratore Silvia Saltamartini, sorella l’ex portavoce alfaniana Barbara Saltamartini al tempo stretta collaboratrice dell’ex responsabile di quel dicastero Gianni Alemanno) nonché sindaco di Istituto Luce e Postecom. La presidenza di un’altra società delle Poste, la compagnia aerea postale Mistral Air, è toccata a Massimo Zunino. Il quale, uscito dalla Camera, ha costituito anche una società di consulenza, la Klarity innovaction consulting, insieme a due suoi colleghi di partito rimasti anche loro senza seggio. Ovvero, Michele Ventura e Andrea Lulli. Modo alternativo, sembrerebbe, con cui può fruttare la ricca esperienza parlamentare. Un po’ come è capitato a coloro che hanno assunto per strade diverse incarichi «privati» ma non proprio estranei alla storia politica di ciascuno. L’ex ministro Giulio Santagata, prodiano senza se e senza ma, è consigliere delegato di Nomisma, la società di consulenza fondata da Romano Prodi. Due mesi fa l’ex prefetto e senatore Luigi De Sena è stato cooptato nel consiglio del Colari, la società di smaltimento dei rifiuti che fa capo a Manlio Cerroni, come garante degli accordi con la municipalizzata romana Ama. Per non parlare degli incarichi di curatore fallimentare (Cinzia Capano) o di liquidatore di cooperative sociali (Ezio Zani, subentrato a Soro e poi trombato alle elezioni). E senza contare chi, rieletto, al seggio ha preferito il «privato»: la senatrice Rita Ghedini, ora presidente di Legacoop Bologna. 8 febbraio 2015 | 08:19 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_08/enti-fondazioni-authority-collocamento-non-rieletti-pd-parlamentari-f9433bf4-af61-11e4-bc0d-ad35c6a1f8f9.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il commissario al debito Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2015, 07:59:07 am Il commissario al debito
Il funzionario licenziato dallo Stato ma costretto a continuare a lavorare Massimo Varazzani è stato rimosso dopo il ricorso vinto dal suo predecessore Oriani, che però non ha ripreso l’incarico. Il caso finito alla Consulta Di Sergio Rizzo ROMA - Un alto funzionario licenziato dallo Stato può essere costretto dal medesimo Stato a continuare a lavorare? Impossibile, penserete. Invece è proprio la situazione kafkiana nella quale si trova Massimo Varazzani, il commissario governativo al vecchio debito del Comune di Roma. Circa un mese fa il governo di Matteo Renzi ha revocato il decreto con il quale l’esecutivo di Silvio Berlusconi gli aveva affidato quell’incarico, al posto del magistrato della Corte dei conti Domenico Oriani. Quella decisione è stata presa per evitare una figuraccia allo Stato italiano, anticipando la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio dove pende un ricorso contro quel provvedimento del 2011. L’esito negativo di quel giudizio sarebbe infatti scontato, a causa di una sentenza sacrosanta della Corte costituzionale. Il caso alla Consulta Ricordiamo com’è andata. Nel 2010 il ministro dell’Economia Giulio Tremonti affida l’incarico di commissario a Varazzani, reduce dalla Cassa depositi e prestiti. Lo fa con un decreto di nomina che stabilisce contestualmente la revoca di Oriani. Il quale non ci sta e fa immediato ricorso, puntualmente accolto dal Tar. I geni del ministero dell’Economia pensano allora di correre ai ripari infilando nella legge «Milleproroghe» a cui siamo da anni ormai abituati, una norma che impone per l’incarico di commissario al debito di Roma una precedente esperienza nel campo privato. Che Varazzani, già dirigente di rango di Intesa San Paolo ha. E Oriani invece no. Inevitabile un nuovo ricorso e inevitabile pure che la cosa finisca alla Consulta. Dove nel luglio 2014 i giudici non possono che stabilire l’incostituzionalità di una disposizione in base alla quale un incarico pubblico dovrebbe essere condizionato a una precedente esperienza privata. Con il risultato che il Tar, nell’udienza prevista per il 28 gennaio 2015, sarebbe obbligato ad annullare il secondo decreto di nomina di Varazzani, rimettendo in sella per la seconda volta Oriani. La beffa per il Commissario Vista la mala parata, il governo sceglie di abrogare di propria iniziativa quel vecchio provvedimento, evitando così il giudizio. Ma qui c’è una nuova sorpresa, perché all’udienza del 28 gennaio nella quale al Tar si dovrebbe prendere atto che il Tesoro ha gettato la spugna e la faccenda si chiude per cessata materia del contendere, i legali di Oriani si oppongono al decreto che licenzia Varazzani. Per ragioni che fatichiamo a capire vogliono una sentenza. Perciò la Corte dei conti, della quale Oriani è presidente onorario, non registra il decreto. E il Tar rinvia tutto alla fine di aprile. Il risultato è che Varazzani, pur avendo l’incarico revocato, è costretto a continuare a fare abusivamente il commissario, firmando atti necessari a evitare il rischio di default: andrebbe ricordato che ci sono in ballo miliardi di euro. Finché non c’è il successore non può abbandonare la cassa. Ma del sostituto, per ora, nemmeno l’ombra. Su quella poltrona che scotta non rivedremo certamente Oriani, che ha compiuto 79 anni a ottobre ed è in pensione. Si fa il nome, fra gli altri, del segretario generale del Comune di Roma Liborio Iudicello. I costi per i contribuenti Dopo quanto è accaduto, però, è tutto in alto mare. E non si può che ripensare al tempo perso in una vicenda giudiziaria surreale dovuta alla superficialità dei mandarini che hanno combinato il pasticcio ma non saranno chiamati a risponderne. Una vicenda della quale hanno fatto le spese soltanto i diretti interessati e soprattutto i contribuenti: ai quali l’incompetenza di burocrati lautamente retribuiti è costata un sacco di soldi. 15 febbraio 2015 | 09:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_febbraio_15/funzionario-licenziato-stato-ma-costretto-continuare-lavorare-7da64240-b4e6-11e4-b826-6676214d98fd.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il manager della Fiera licenziato e la demagogia sugli stipendi ... Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2015, 04:44:56 pm Il COMMENTI
Il manager della Fiera licenziato e la demagogia sugli stipendi d’oro Il dg è stato licenziato in tronco perché ha rifiutato il taglio della retribuzione da 280 a 81 mila euro Di Sergio Rizzo ROMA - Segno dei tempi. Il direttore di Investimenti spa, una società pubblica controllata dalla Camera di commercio di Roma, di cui sono azionisti anche la Regione Lazio, il Comune e la Provincia di Roma, è stato licenziato per essersi rifiutato di ridurre il proprio stipendio. Le agenzie di stampa che hanno dato la notizia informano che la sua retribuzione era stata già ridotta da 300 mila a 280 mila euro l’anno, ma la richiesta del consiglio di amministrazione era quella di allineare il compenso al livello di quello dell’amministratore delegato: 81 mila euro. Paghe astronomiche e demagogia Fino a un anno fa, c’è da giurarci, una decisione del genere non sarebbe mai stata presa. Ma il direttore generale di un’azienda pubblica non avrebbe neppure ricevuto una richiesta simile in termini tanto perentori. E la dice lunga pure il fatto che Vincenzo Alfonsi, questo il suo nome, non verrebbe rimpiazzato: fatto dal quale si potrebbe dedurre che quella poltrona è ritenuta di scarsa utilità. Segno dei tempi, dunque. Tempi segnati dalla crisi più grave da un secolo a questa parte e dalla giusta necessità di farla finita con certi privilegi quali le paghe astronomiche e non di rado ingiustificate di manager e burocrati pubblici. Segnati però, in certi casi, anche da una discreta dose di demagogia. Legare stipendi ai risultati Non conosciamo nei dettagli il caso di Alfonsi, quali fossero le sue competenze specifiche e le sue responsabilità. Abbiamo però contezza di quale macigno abbia sulle spalle l’amministratore delegato di un’azienda come l’Atac: basta dire che il numero dei dipendenti è superiore a quello dell’Alitalia e i problemi di sicuro non sono molto inferiori. Ebbene, le norme stabiliscono che chi la guida non può guadagnare più dell’80 per cento del sindaco. Ovvero, 67.500 euro lordi l’anno. E dato che il bilancio è strutturalmente in perdita, l’amministratore delegato dell’Atac non può incassare premi di produttività. Accontentandosi quindi di portare a casa meno di un quarto di uno degli avvocati dipendenti del Comune di Roma. Assurdo. La cosa più logica sarebbe modificare il sistema introducendo la regola che i pubblici amministratori vengano retribuiti non secondo tetti prestabiliti ma sulla base dei risultati reali ed effettivi: non soltanto quelli dei bilanci aziendali ma anche sul fronte dell’efficienza e della qualità dei servizi. Sappiamo che cedere alla demagogia, soprattutto in momenti come questo, è molto più facile. Ma con la realtà, alle volte, bisogna fare i conti. 13 febbraio 2015 | 08:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_febbraio_13/manager-fiera-licenziato-demagogia-stipendi-d-oro-5747f1d6-b34f-11e4-8ea5-42a1b52c991f.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il mausoleo dei Plautii è una discarica a cielo aperto Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2015, 04:28:15 pm Il mausoleo dei Plautii è una discarica a cielo aperto
Il tesoro romano di Tivoli violato Di Sergio Rizzo «Idea! Mettiamoci un paio di oblò...». L’idea venne a qualcuno alla Regione Lazio, con l’illusione di placare le proteste contro il muro della vergogna. Succedeva dieci anni fa, quando la barriera di cemento armato che avrebbe dovuto salvare dai frequenti allagamenti un’area a ridosso del fiume Aniene era stata appena tirata su. Gli oblò avrebbero dovuto permettere ai turisti di dare una sbirciatina (sigh!) al di là del muro, dove lo spettacolare mausoleo dei Plautii, che con la celebre tomba di Cecilia Metella sull’Appia Antica è uno dei rarissimi esempi di sepolcri monumentali delle famiglie nobiliari romane dell’età tardo repubblicana, stava precipitando nel degrado. Gli oblò ebbero il buon gusto di risparmiarceli. Il muro, invece, è ancora lì. E gli allagamenti puntualissimi. La storia di questa follia può essere presa a esempio degli sprechi insensati che produce l’ottusità di certe burocrazie, ma anche di quello che succede al nostro e prezioso patrimonio quando ci sono in ballo interessi economici privati. Il mausoleo dei Plautii era il primo monumento che veniva incontro ai viaggiatori del Grand Tour, di cui Tivoli era tappa fondamentale. Per arrivare a Villa Adriana, maestosa residenza dell’imperatore Adriano, Wolfgang Goethe e Giovan Battista Piranesi ci passavano davanti appena dopo aver attraversato il ponte Lucano, costruito fra il crepuscolo della repubblica e l’alba dell’impero romano. Su quel ponte che si poteva ancora attraversare in auto trent’anni fa e oggi ha tre delle cinque arcate sepolte dai materiali trasportati dal fiume, come i detriti scaricati dalle industrie di travertino e mai rimossi, si incontrarono papa Adriano IV e Federico I Barbarossa: incontro che sancì una cosetta da nulla come la nascita del Sacro romano impero. Tanto basterebbe perché quel ponte e tutto quello che c’è intorno, compreso lo straordinario mausoleo dei Plautii con iscrizioni ancora quasi perfette nelle quali si citano l’impresa militare della conquista della Britannia, fosse considerato un’attrazione formidabile custodita con la massima cura. E anche una fonte di reddito e lavoro non indifferente. Accadrebbe in qualunque altro Paese civile al quale fosse capitato di avere un’eredità tanto preziosa. Ma non in Italia. Non a Tivoli, che pure fu il cuore dell’impero romano nei suoi anni più smaglianti. Ponte e mausoleo sono inaccessibili, chiusi da quel muro che taglia in due l’antica via Tiburtina e da una barriera di lamiera arrugginita. Intorno, ovunque immondizia che nessuno raccoglie: bottiglie di plastica, lattine, stracci, siringhe, cartacce, liquami. Da un lato, i ruderi di una vecchia osteria seicentesca diroccata che non crollano del tutto soltanto perché indecorosamente puntellati. Alle sue spalle, una orrenda superfetazione abusiva abusivamente occupata da alcuni rom. E poi il mausoleo: il basamento sepolto da una colata (abusiva) di cemento mentre la parte che ne è stata risparmiata viene divorata dalla vegetazione. Non che prima della costruzione di quel muro la cura di quel sito, che oggi è per l’organizzazione americana World Monument Fund fra i cento monumenti del pianeta da salvare, fosse molto migliore. La dimostrazione è che quella straordinaria area archeologica è da decenni stritolata fra capannoni industriali e brutture edilizie di vario genere. Ma il muro è stato un autentico colpo di grazia. I lavori vengono completati dall’Ardis, l’Agenzia per la difesa del suolo della Regione Lazio, nell’estate del 2004, con la giustificazione che la barriera dovrebbe difendere la zona dalle esondazioni dell’Aniene. Sindaco di Tivoli è l’attuale capogruppo del Partito democratico al consiglio regionale del Lazio, Marco Vincenzi. Ministro dei Beni culturali è Giuliano Urbani di Forza Italia, che evidentemente non può opporsi. La Regione costruisce il muro riempiendo anche l’area di cemento senza il benestare della Soprintendenza, e una successiva denuncia al tribunale di Italia Nostra e del Wwf viene archiviata con la motivazione pilatesca che le opere «costituiscono esercizio di discrezionalità amministrativa». Peccato che non sia mai stato fatto uno studio sulle cause delle esondazioni. E peccato che quella «discrezionalità amministrativa» che tanto diligentemente ha sottolineato il magistrato nella sua sentenza non abbia neppure risolto il problema. Perché manca un collettore fognario, e continua ad allagarsi tutto all’interno e all’esterno del muro. Incuranti del ridicolo, alla Regione hanno allora pensato di risolvere la faccenda installando delle pompe idrovore che aspirano l’acqua dalla strada e la sputano verso il ponte e il mausoleo. Il tutto senza che quell’opera, a dieci anni di distanza, sia stata ancora collaudata. Chi mai potrebbe collaudare un tale abominio? Più che logica, quindi, la decisione del nuovo arrabbiatissimo sindaco di Tivoli, Giuseppe Proietti, finalmente determinato a prendere di petto la questione, che nel luglio scorso ha chiesto alla Regione di revocare la vecchia pratica di eliminazione del vincolo di esondazione: con la motivazione che quella roba non serve a niente. I quattro milioni e mezzo di euro spesi non sono nemmeno serviti a evitare che il Comune sia sommerso da cause di risarcimento per i danni provocati dagli allagamenti. Con esborsi milionari anno dopo anno. Mentre il protocollo d’intesa per il recupero dell’area, firmato addirittura nel 2005 sull’onda delle proteste dei cittadini e delle associazioni ambientali, è ancora lettera morta. E qui, riavvolgendo il nastro, vengono tanti pensieri. Pure che lo scempio non sia solo frutto di umana stupidità e incoscienza. Il problema di quel tratto dell’Aniene è noto da decenni: ha a che fare con il restringimento artificiale del fiume causato dai detriti. Per risolverlo non serve un muro, ma una seria opera di bonifica e il rispetto del divieto (esistente per legge) di scaricare materiali nell’alveo. Lo capirebbe anche un bambino. Perché allora si è scelto di alzare una barriera di cemento armato di quattro metri, spendendo inutilmente tutti quei soldi? C’è chi ha tirato in ballo la legge in materia di difesa idraulica emanata dopo il disastro della frana di Sarno, nel 1998. E c’è chi, come Italia Nostra e Wwf che l’hanno scritto nell’esposto rigettato dal tribunale di Tivoli, ha avanzato il sospetto che l’obiettivo non era tanto quello di evitare le esondazioni quanto quello di far venir meno il vincolo alla zona antistante Villa Adriana. Per dare via libera a una lottizzazione. Pura fantasia, dicono... Anche se qualche volta la realtà supera la fantasia. 22 febbraio 2015 | 20:50 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/inchieste/mausoleo-plautii-discarica-cielo-aperto/a725697a-baae-11e4-9133-ae48336c4c83.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Quote latte, costo infinito: punita la «grazia» agli allevatori... Inserito da: Admin - Marzo 07, 2015, 04:25:40 pm Il caso
Quote latte, costo infinito: punita la «grazia» agli allevatori multati Deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia per non aver recuperato dagli allevatori, che avrebbero sforato le quote latte imposte dall’Europa, multe per 1,3 miliardi Di Sergio Rizzo Roma, confederazione italiana degli agricoltori protesta a Montecitorio contro il decreto sulle quote latte (Jpeg) Roma, confederazione italiana degli agricoltori protesta a Montecitorio contro il decreto sulle quote latte (Jpeg) Non serviva certo la palla di vetro per sapere come andava a finire. Era scontato il deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia per non aver recuperato dagli allevatori che avrebbero sforato le quote della produzione di latte imposte dall’Europa multe per 1,3 miliardi già pagate dallo Stato. La melina era andata avanti per anni, confidando che la patata bollente sarebbe toccata al prossimo governo, o al successivo ancora. Nonostante richiami sempre più severi: due lettere di messa in mora avevano preceduto il deferimento annunciato ieri da Bruxelles dopo aver riscontrato la mancanza di «alcun progresso significativo nel recupero». La ragione, fin troppo facile da comprendere: pretendere quelle multe era impopolare. Tanto più pretenderle da coloro ritenuti i più fedeli fra i propri elettori. Fedeli al punto che il leader dei Cobas del latte Giovanni Robusti, inguaiato pure con i giudici ordinari e contabili, era stato senatore della Lega Nord nel 1994 ed europarlamentare nel 2008. E se il Carroccio si metteva di traverso, non è che gli altri partiti si stracciassero le vesti perché non si chiedevano i soldi agli allevatori. Poco importa se l’inerzia dettata dal tornaconto politico caricava sulla collettività un peso finanziario immane e il rischio di una sanzione europea salatissima. Pagheranno i contribuenti, come sempre. Anche perché per questo genere di faccende, a differenza di quanto spesso accade qui, la prescrizione non opera. Solo che questa volta il destino ha giocato uno scherzo beffardo, facendo scattare il deferimento quando è in carica un governo che quelle multe si è mostrato deciso a farle pagare. Il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, secondo cui il segretario leghista Matteo Salvini ora dovrebbe mettersi una felpa con su scritto «scusa», dice che in questi giorni sono partite le cartelle indirizzate a 1.300 allevatori che dovrebbero all’erario 832 milioni. Altri 507 milioni sono invece incagliati nella solita giungla di ricorsi: e lì allarga le braccia. Ma temiamo che non basti per impietosire Bruxelles. Meglio prepararsi al peggio. 27 febbraio 2015 | 09:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/15_febbraio_27/quote-latte-costo-infinito-punita-grazia-allevatori-multati-686d9928-be5a-11e4-abd1-822f1e0f1ed7.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Trani, agenzie di rating Un processo e domande scomode Inserito da: Admin - Marzo 09, 2015, 05:03:51 pm Trani, agenzie di rating
Un processo e domande scomode di Sergio Rizzo Al processo di Trani contro le agenzie di rating accusate di manipolazione del mercato per i declassamenti del nostro debito pubblico avvenuti nel 2010 e nel 2011 il governo italiano non si è costituito parte civile, sollevando pesanti critiche della destra. Critiche, riteniamo, non proprio campate in aria. In un suo recente parere l’Avvocatura dello Stato ha affermato: «La costituzione di parte civile risulta opportuna qualora vengano in rilievo interessi pubblici, patrimoniali e non patrimoniali, di rilevanza talmente elevata da postulare come necessario l’affiancamento del pubblico ministero nel processo penale». E in questo caso gli interessi patrimoniali dello Stato non si possono certo definire irrilevanti, a cominciare dall’aggravio della spesa per interessi che quelle decisioni hanno causato. La pubblica accusa ha sottolineato che dopo il declassamento da parte di Standard & Poor’s da A a BBB+ del debito italiano, il governo di Mario Monti dovette pagare in base a una clausola del contratto di finanziamento ben 2,5 miliardi di euro alla Morgan Stanley. Banca d’affari americana che è fra gli azionisti di Mc Graw Hill, proprietario della medesima agenzia di rating. Andrebbe però pure ricordato che all’epoca dei fatti nessun leader politico di spicco prese la faccenda sul serio: né a destra, né a sinistra. D avanti al fatto che a indagare fosse un pubblico ministero, Michele Ruggiero, di una procura di periferia come quella di Trani, facevano tutti spallucce. Tutti, tranne il deputato del Pd Francesco Boccia, pugliese, che invocò invano la costituzione di un’agenzia di rating europea per liberarsi dal giogo delle società americane, e tranne il suo collega del Pdl Francesco Paolo Sisto, pugliese anch’egli, che capitanò un manipolo di onorevoli del centrodestra pronti a costituirsi loro parte civile. Fecero spallucce anche uffici giudiziari ben più blasonati. L’inchiesta, come spesso accade in Italia, partì da un esposto presentato da alcune associazioni dei consumatori nel quale si sosteneva che i declassamenti del debito italiano erano funzionali a un’enorme speculazione ai nostri danni orchestrata dai colossi finanziari in combutta con le agenzie di rating. La denuncia era stata recapitata a una decina di procure della Repubblica, da Roma a Milano, ma soltanto quella di Trani la prese in considerazione. Beccandosi anche in seguito gli sfottò di influenti magistrati che l’accusavano neanche troppo velatamente di protagonismo. Convinti com’erano, evidentemente, che tutto sarebbe a finito in una bolla di sapone. Si sbagliavano di grosso: l’inchiesta è sfociata nel rinvio a giudizio di due analisti di Fitch e di sei esperti di Standard & Poor’s. Siamo dunque nuovamente alla decisione del governo di non costituirsi parte civile. Su quella storia si possono avere opinioni politiche diverse. Anche ritenere il procedimento infondato. Magari tutto si concluderà con un’assoluzione e gli imputati ne usciranno immacolati. Glielo auguriamo di cuore. Ma si dà il caso che ci sia un processo in corso nel quale gli interessi dello Stato non sono affatto trascurabili. Indipendentemente dal dibattimento e dai suoi esiti, qui si pone tuttavia un’altra serie di problemi. Che le valutazioni delle agenzie di rating siano talvolta basate su stime così datate nel tempo da risultare poco aderenti alla realtà del momento in cui avviene il declassamento, è stato oggetto di ampia discussione. Come è conclamato che in capo a quelle società s’intreccino conflitti d’interessi mai risolti, capaci di gettare ombre sulle decisioni. Basterebbe rammentare le figuracce rimediate nei casi Enron e Parmalat. Elementi di cui tutti i governi sono sempre stati a conoscenza, e che avrebbero dovuto consigliare in questo frangente maggiore prudenza e minore indifferenza. Il fatto è che l’inchiesta di Trani dovrebbe spingere a fare finalmente luce su quelle vicende del 2010-2011 anche i loro protagonisti. Per sgombrare il campo, se non altro, dai sospetti sorti in questi anni alimentando l’idea che la finanza sia diventata soltanto un gioco di biechi complotti. Alcuni sospetti certamente risibili, come il fatto che il declassamento fosse parte di un disegno planetario ordito per far cadere il governo di Silvio Berlusconi e sostituirlo con un esecutivo prono ai diktat di Berlino e agli interessi degli speculatori mondiali. Altri, invece, assai meno infondati. Esiste davvero una profonda e inconfessata sudditanza del nostro potere politico, di quale orientamento poco importa, nei confronti della grande finanza internazionale? Un atteggiamento che potrebbe essere motivato dai 160 miliardi di derivati emessi da quei soggetti che il Tesoro ha in portafoglio, e come sta a dimostrare il caso Morgan Stanley possono rivelarsi una bomba a orologeria: meglio allora non farli arrabbiare. Comprensibile, forse. Impossibile, però, non notare come molti dei nostri ex ministri ed ex direttori generali del Tesoro, per non parlare di qualche ex presidente del Consiglio, abbiano avuto in passato o abbiano tuttora rapporti di consulenza o dipendenza con le merchant bank che ci hanno finanziato o hanno prestato servizi lautamente retribuiti dallo Stato italiano. Anche questo aspetto andrebbe chiarito una volta per tutte. 9 marzo 2015 | 08:12 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/15_marzo_09/processo-domande-scomode-6b17371a-c620-11e4-80fc-ae05ebe65fb1.shtml Titolo: SERGIO RIZZO La ragnatela dei mandarini Il potere (eterno) dei burocrati Inserito da: Admin - Marzo 19, 2015, 06:07:17 pm L’editoriale
La ragnatela dei mandarini Il potere (eterno) dei burocrati Di Sergio Rizzo La chiave della storia che vede protagonista Ercole Incalza è tutta in una frase che dice al telefono il ministro Maurizio Lupi, minacciando la crisi di governo in caso di chiusura della struttura in mano al suo «consulente». Dal che è agevole dedurre chi dei due, nel suo ministero, avesse il potere reale. Lupi stava lì da nemmeno un paio d’anni. Incalza frequentava il palazzone di Porta Pia da più di trenta. In ogni democrazia sana ed efficiente c’è un principio fondamentale che ne regola il funzionamento: l’esistenza di un confine chiaro e invalicabile fra politica e burocrazia. Una frontiera che in Italia si è andata via via indebolendo, fino a diventare in alcuni casi impalpabile. E questo caso ne è la dimostrazione lampante, anche se non l’unica. Le conseguenze di un’anomalia tutta italiana, come purtroppo emerge dalle inchieste giudiziarie, possono risultare estreme. Non c’è indagine sulle opere pubbliche dove non emerga una perversa confusione di ruoli fra la sfera della politica e quella di burocrati sempre più ingombranti e potenti, tanto da essere loro stessi a dirigere l’orchestra dei grandi appalti. In questa «gelatina», termine con cui gli inquirenti avevano magistralmente definito il sistema nel quale operava la Cricca dei Grandi eventi un tempo gestiti dalla Protezione civile, si mischia tutto e facilmente proliferano complicità e malaffare. Si potrà dire che è colpa della debolezza della politica italiana (e della sua palese mediocrità, per dirla con il politologo della Pennsylvania University Antonio Merlo) se i «mandarini» arrivano a soppiantarne le funzioni. Di sicuro, almeno da un quarto di secolo, la commistione è sempre più profonda e inquietante, favorita anche dalla frequente interruzione delle legislature e dunque dalla breve durata in carica dei ministri che ha rafforzato l’inamovibilità degli inquilini dei piani alti dei ministeri. Attraverso lo stesso processo di formazione delle leggi si è consegnato un potere crescente ai funzionari dello Stato, delegandoli a scrivere i famosi decreti attuativi di quei provvedimenti. Con il risultato che se le burocrazie remano contro, le leggi non vengono attuate o lo sono in modi esclusivamente funzionali agli interessi di quelle stesse burocrazie. La caduta del confine comincia da questo punto: il Parlamento che abdica alle proprie prerogative legislative in favore dei burocrati. Loro scrivono le norme, negli uffici legislativi dei ministeri, e loro consentono che divengano operative o meno. Da qui a invadere il campo della politica il passo è davvero breve. Con ogni genere di distorsione anche sul versante istituzionale. È successo che direttori generali di ministero siano passati direttamente a occupare la poltrona di ministro (e un seggio in Parlamento). Abbiamo visto anche funzionari diventare Guardasigilli, prefetti ministri dell’Interno, avvocati dello Stato ministri della Pubblica amministrazione, consiglieri di Stato sottosegretari alla presidenza e a loro volta ministri e viceministri, dirigenti del Senato ministri delle Finanze. E in seguito magari deputati o senatori per volontà del capo partito, grazie a un sistema elettorale che ha privato i cittadini del diritto di scegliere i propri candidati. Per combattere la corruzione non basta certamente mettere in discussione l’inamovibilità degli alti dirigenti pubblici: onestissimi nella stragrande maggioranza, ovvio. Ma restare troppo a lungo nelle stesse posizioni di potere può fatalmente produrre incrostazioni pericolose. Non sappiamo se con la rotazione degli incarichi o con altri meccanismi da studiare, che comunque devono assolutamente preservare l’indipendenza delle amministrazioni. Sappiamo però che quel confine fra politica e burocrazia va ristabilito. Al più presto. 18 marzo 2015 | 09:30 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_18/ragnatela-mandarini-180be302-cd48-11e4-a39d-eedcf01ca586.shtml Titolo: SERGIO RIZZO. Expo, il Padiglione Italia e le difficoltà di arrivare pronto... Inserito da: Admin - Aprile 04, 2015, 12:01:40 pm Un ritardo che non è scusabile Expo, il Padiglione Italia e le difficoltà di arrivare pronto alla data di apertura Di Sergio Rizzo I vertici di Expo 2015 giurano che siamo al rush finale. Ma è chiaro che per completare in tempo Padiglione Italia servirebbe qualche cosa di più. Un miracolo, dice qualcuno. Dobbiamo dunque sperare nell’intervento divino, che comunque non abbiamo meritato. Domani, 31 marzo, sono sette anni precisi dal fatidico giorno in cui l’allora sindaco Letizia Moratti annunciò trionfante che la città di Milano aveva vinto la sfida con Smirne. Era ancora in carica il governo Prodi e il presidente della Provincia Filippo Penati rimarcava orgoglioso come gli ispettori del Bureau International des Expositions fossero rimasti impressionati dalla «coesione istituzionale». Non c’è che dire: nelle apparenze i nostri politici sono sempre stati bravissimi. Peccato che quando si deve passare dalle parole ai fatti la «coesione istituzionale» vada regolarmente a farsi friggere. Come nel caso dell’Expo. Dove le cose sarebbero andate ancora peggio se dopo gli scandali non fosse intervenuta tempestivamente l’Autorità anticorruzione, con modalità tali da meritare il riconoscimento dell’Ocse. Pur fra mille difficoltà forse anche sorprendenti. Si duole il presidente dell’Anac Raffaele Cantone nel libro Il Male italiano scritto con Gianluca Di Feo di «aver incontrato i problemi maggiori proprio in due cantieri simbolo dell’Expo, i due progetti che più di ogni altro dovrebbero rappresentare il nostro Paese agli occhi del mondo: il Padiglione Italia e il cosiddetto Albero della Vita. In entrambi i casi i lavori erano in ritardo sulla tabella di marcia e pian piano sono emersi non pochi problemi». C antone parla di insofferenze verso i controlli, superficialità nell’affidamento dei contratti, anomalie nelle procedure. Il tutto giustificato evidentemente con la necessità di fare in fretta per recuperare il troppo tempo perduto, anche se ormai irrecuperabile. Dei sette anni passati dal 31 marzo 2008 più di metà se ne sono evaporati in contrasti fra i partiti, lotte di potere interne, guerre di poltrone. Prima lo scontro sull’amministratore delegato della società. Poi la battaglia per i terreni, in vista delle future appetitose speculazioni immobiliari. Quindi commissari generali che si sovrapponevano ai commissari straordinari e gli inevitabili conflitti. Per non citare le deroghe infinite (e sospette) al codice degli appalti, con i lavori dell’Expo esentati da ben 78 articoli di quel monumentale regolamento. Una corsia preferenziale tanto larga da provocare le proteste dell’Associazione dei costruttori proprio a proposito dell’appalto da 25 milioni per il solito Padiglione Italia: subito rintuzzate da uno stizzito Antonio Acerbo, il direttore di quell’opera che avrebbe poi patteggiato una condanna a tre anni. E intanto i giorni passavano. Mentre la corruzione dilagava, come fosse il capitolo conclusivo, e naturale, di questo incredibile copione. Adesso che manca un mese al 1° maggio, la memoria non può che andare all’altra Esposizione universale milanese, quella di oltre un secolo fa. Fu un successo senza smagliature, preceduto dalla costruzione del traforo del Sempione: realizzato in poco più di sei anni, era il più lungo del mondo e permetteva il collegamento ferroviario diretto con Parigi. L’Expo del 1906 viene ricordato come l’evento che certificò l’ingresso della giovane Italia unita nel novero delle nazioni industrializzate e l’investitura di Milano come città simbolo di quella svolta. Non vorremmo che l’Expo del 2015 passasse invece alla storia quale prova della italica incapacità a rispettare gli impegni. Anche i più banali, per esempio finire in tempo di arredare casa nostra. 30 marzo 2015 | 09:04 © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_30/ritardo-che-non-scusabile-161ad50a-d69c-11e4-a883-4c9c44a1b2f9.shtml Titolo: SERGIO RIZZO La selva oscura delle fondazioni e quel controllo che non c’è Inserito da: Admin - Aprile 04, 2015, 12:19:31 pm Partiti e correnti
La selva oscura delle fondazioni e quel controllo che non c’è Di Sergio Rizzo Che una cooperativa finanzi una fondazione politica, come sembrava essere nei progetti della Cpl Concordia finita nell’inchiesta sulle mazzette al sindaco pd di Ischia, non è affatto uno scandalo. Nelle democrazie occidentali è questa la forma con cui i privati contribuiscono anche alla formazione della classe dirigente dei partiti. Ma in piena trasparenza. Proprio quella che invece in Italia manca: alimentando il sospetto che la funzione principale di queste fondazioni, moltiplicatesi in modo esponenziale negli ultimi anni proprio mentre l’opinione pubblica premeva per imporre ai partiti regole più stringenti, sia decisamente più prosaica. Ai magistrati che indagano su Mafia capitale Franco Panzironi, ex segretario generale della Nuova Italia di Gianni Alemanno e insieme collaboratore della Alcide De Gasperi di Franco Frattini, ha raccontato che le fondazioni politiche sono un comodo salvadanaio dove gli imprenditori mettono soldi in cambio dell’accesso a un sistema di relazioni. Lungi da chi scrive il voler fare di tutta l’erba un fascio. Ma il problema esiste, e lo sanno bene i partiti. Che però di metterci mano seriamente non ne hanno alcuna intenzione. Nel 2012, mentre si discuteva alla Camera il taglio dei rimborsi elettorali, un emendamento pensato da Linda Lanzillotta e Salvatore Vassallo che mirava a imporre le stesse regole di trasparenza previste per i partiti anche alle fondazioni, fu impallinato da destra e da sinistra. Due anni più tardi, nella legge sulla presunta abolizione del finanziamento pubblico, ecco spuntare finalmente quell’obbligo. Peccato che sia inapplicabile. La norma di cui parliamo dice che sono soggette agli obblighi di trasparenza validi per i partiti le fondazioni i cui «organi direttivi» siano nominati «in tutto o in parte» dai partiti medesimi. Neppure una di quelle esistenti ricade in questa fattispecie. E siccome chi l’ha scritta non ha l’anello al naso, la norma aggiunge che le regole di trasparenza, (per esempio la pubblicazione online di tutti i contributi di entità superiore a 5.000 euro) si applicano anche a quelle fondazioni che destinano più del 10 per cento dei proventi al finanziamento di attività politiche. Si tratta soltanto di stabilire come e chi controlla che quel limite non venga superato. Ma di questo non si fa cenno. Fatta la legge, non si deve neppure fare la fatica di trovare l’inganno. Quante fondazioni resterebbero in vita se le regole della trasparenza venissero correttamente applicate e fatte rispettare, non possiamo dirlo. Ma sul fatto che sia ormai necessario intervenire senza furbizie ci sono pochi dubbi. Lo sostiene con fermezza anche il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Che per questo si è beccato una punzecchiatura dalemiana dalla Velina rossa con l’invito a far pubblicare tutti i contributi alle fondazioni, “anche a quelle di Firenze». Bersaglio: Matteo Renzi. Ma forse Pasquale Laurito, autore della Velina, non aveva consultato il sito della renziana Fondazione Open. Avrebbe trovato una lunga lista di finanziatori. Dai 175 mila euro del patron del fondo Algebris Davide Serra ai 50 mila dell’ex presidente Fiat Paolo Fresco e della sua consorte Marie Edmée Jacqueline, ai 60 mila della Isvafim di Alfredo Romeo, ai 62 mila del finanziere molisano Vincenzo Manes... Va però detto che non compaiano i nomi di chi non ha dato l’assenso alla pubblicazione. Come se la privacy possa valere per i finanziamenti a una fondazione che fa riferimento al premier e con un consiglio direttivo nel quale accanto al suo amico del cuore Marco Carrai ci sono il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, il sottosegretario alla presidenza Luca Lotti e l’avvocato Alberto Bianchi, nominato dal governo nel consiglio di amministrazione dell’Enel. Nessuna lista abbiamo trovato invece nel sito della Italianieuropei presieduta da Massimo D’Alema, di cui Claudio Gatti e Ferruccio Sansa ricordano nel loro libro «Il sottobosco» alcuni finanziatori: gli imprenditori Alfio Marchini e Claudio Cavazza, i gruppi Pirelli e Asea Brown Boveri, nonché le immancabili Coop, queste ultime per 103.291 euro. Per la sinistra Italianieuropei è stata un formidabile rompighiaccio. Da allora è stato un fiorire di fondazioni, associazioni, centri studi, think tank. Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco hanno messo su Nuova economia nuova società. Anna Finocchiaro la Fondazione Cloe. Walter Veltroni la scuola di politica Democratica, che ha cambiato nome in Idemlab. Impossibile poi non citare Astrid di Franco Bassanini e Glocus di Linda Lanzillotta. Come pure le associazioni Riformismo e solidarietà dell’attuale sottosegretario (all’Economia) Pier Paolo Baretta e Libertà Eguale del viceministro (stesso ministero) Enrico Morando. E il network trasversale di Enrico Letta e Angelino Alfano, Vedrò. La destra non è stata certo da meno. Ecco allora la Free Foundation di Renato Brunetta. Poi la già citata Nuova Italia di Alemanno, adesso orfana di quel Panzironi finito nella bufera giudiziaria romana: al suo posto Claudio Ferrazza, avvocato dell’ex sindaco di Roma. Orfana del medesimo soggetto pure la Alcide De Gasperi di Frattini, dove Panzironi, ha raccontato l’ex ministro degli Esteri, era arrivato dietro consiglio di Alessandro Falez, imprenditore della sanità con solidissimi rapporti vaticani. Quindi la Cristoforo Colombo per le Libertà di Claudio Scajola, con un comitato politico presieduto dall’ex ministro Mario Baccini: il quale a sua volta ha una propria fondazione, la Foedus. Ecco poi la Fondazione della Libertà per il Bene Comune: presidente l’ex ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, al suo fianco il costruttore suo braccio destro Erasmo Cinque insieme a Roberto Serrentino e Giovan Battista Papello, entrambi già piazzati all’Anas dalla destra. Ecco ancora Italia Protagonista di Maurizio Gasparri. E Riformismo e Libertà di Fabrizio Cicchitto. Mentre si chiama Europa e civiltà la fondazione di cui è presidente onorario Roberto Formigoni. Per non parlare di Magna Carta di Gaetano Quagliariello, che ha il merito di esporre gli stemmi (ma non i contributi) dei soci fondatori, fra cui Erg e Mediaset: mentre non troviamo più l’elenco dei soci aderenti, dove tre anni fa figurava anche la holding pubblica Finmeccanica. Esiste ancora il Movimento delle Libertà dell’ex parlamentare di Forza Italia Massimo Romagnoli. Come Città Nuove, embrione di quello che poteva essere il partito della ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini. E sopravvive pure Costruiamo il futuro, forse un tantino abbacchiata dopo quello che è successo al suo presidente (autosospeso) Maurizio Lupi. 1 aprile 2015 | 08:46 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_01/selva-oscura-fondazioni-quel-controllo-che-non-c-e-6915ab98-d838-11e4-9d80-6397ff38e0a5.shtml Titolo: SERGIO RIZZO I dubbi sulle nomine per De Gennaro Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 11:49:31 am Il commento
I dubbi sulle nomine per De Gennaro Di Sergio Rizzo Nella sentenza che ha confermato le condanne per alcuni responsabili delle efferatezze alla scuola Diaz la Cassazione scrive che quei fatti «hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero». Ma si sa che in Italia le parole scorrono come l’acqua fresca. Ora però la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha stabilito che quelle persone (non meritano di essere chiamati poliziotti) si macchiarono di un crimine orrendo qual è la tortura. E questo giudizio è decisamente più pesante, per gli effetti reputazionale sul Paese. Al punto da far sorgere una domanda che già si doveva porre dopo la sentenza italiana. Qualcuno in effetti la fece. Prima i deputati Andrea Sarubbi e Furio Colombo, poi il loro collega Ermete Realacci. Inutilmente, però. La domanda riguarda l’opportunità di certe scelte. È opportuno che la presidenza della Finmeccanica, società pubblica più esposta ai giudizi internazionali insieme all’Eni, sia stata affidata a chi era capo della polizia mentre si consumava quella pagina nera della democrazia italiana? Conosciamo la giustificazione: De Gennaro è stato pienamente assolto da ogni accusa. Siamo felici per lui. Ma non ci sfugge nemmeno la differenza che passa fra responsabilità penale e oggettiva. Che vanno sempre tenute ben distinte. Dopo i fatti del G8 De Gennaro è salito al vertice dei servizi segreti, poi a Palazzo Chigi con Monti. Infine alla presidenza della Finmeccanica con Letta, confermato da Renzi. E con tutto il rispetto per l’ex capo della polizia e i suoi meriti professionali, ci permettiamo di insistere: è stato opportuno? 8 aprile 2015 | 15:17 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/15_aprile_08/i-dubbi-nomine-de-gennaro-0fbd1e52-ddef-11e4-9dd8-fa9f7811b549.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Pedaggi lievitati del 70% in 15 anni Così paghiamo 2 volte... Inserito da: Admin - Aprile 20, 2015, 05:57:38 pm Il caso
Pedaggi lievitati del 70% in 15 anni Così paghiamo 2 volte le autostrade Nella Sblocca-Italia una norma che consente la proroga automatica delle concessioni in caso di accorpamenti delle tratte. I costruttori attaccano: società di gestione favorite Di Sergio Rizzo È lì soltanto da pochi giorni e il nuovo ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio già deve affrontare un paio di faccende mica da ridere. La più impellente è la sostituzione del presidente dell’Anas Pietro Ciucci. Ma quanto a difficoltà non è niente al confronto della battaglia sulle concessioni autostradali. Urge un riepilogo. La scorsa estate la potente lobby dei gestori mette a segno un colpo da maestro. Il governo Renzi fa passare nella cosiddetta legge Sblocca-Italia una norma che consente la proroga automatica delle concessioni in caso di accorpamenti delle tratte. La motivazione è quella di favorire gli investimenti, ma questo non impedisce che scoppino furiose polemiche. Anche perché salta fuori che dal ‘99 (anno della privatizzazione della società Autostrade) al 2013 le tariffe sono salite del 65,9% a fronte di un’inflazione del 37,4%. E che nel 2014 c’è stato un altro aumento medio del 3,9 contro un rincaro del costo della vita dello 0,2. Bilancio finale: in 15 anni i pedaggi sono lievitati quasi del 70%, praticamente il doppio dell’inflazione. Le super proroghe delle concessioni Ma il governo non si fa impietosire, e in Parlamento l’ammorbidimento della norma è pressoché impalpabile. Per riaprire i giochi ci vuole il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone, che bolla quel beneficio assegnato dalla legge ai concessionari come contrario alla concorrenza. Siamo all’inizio di febbraio scorso, e il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi fa elegantemente spallucce, ricordando come Bruxelles abbia appena approvato una proposta del governo francese del tutto simile a quella italiana. La risposta di Lupi non dice però che le concessioni francesi sono state ottenute con una gara a monte, cosa che non vale per molte concessioni italiane, frutto invece di semplici acquisizioni. Né dice che le proroghe delle concessioni francesi sarebbero mediamente di 2 anni e 11 mesi, mentre da noi si andrebbe ben oltre. I gestori italiani hanno presentato tre domande, sottoposte al vaglio dell’Ue. Mentre non è nota la proroga della concessione delle Autovie Venete, impegnate a un miliardo e mezzo di investimenti, per le sette concessioni del gruppo Gavio sarebbe in media di 16 anni a fronte di 5,2 miliardi di investimenti. Per l’Autobrennero l’allungamento risulterebbe addirittura di 20 anni, con 3 miliardi di lavori. Gli appalti esterni Non bastasse la presa di posizione di Cantone, ecco l’uscita di scena dello stesso Lupi a rendere lo scenario ancora più fluido. Al punto che ogni pronostico sulla sopravvivenza di quella proroga automatica è ora assai difficile. Per non parlare della nuova offensiva dei costruttori contro i gestori. Ai parlamentari che lo convocano in audizione, il presidente dell’Ance Paolo Buzzetti porta un documento ustionante di 23 pagine. Lì si ricorda che nel 2009, quando al governo c’era Silvio Berlusconi e alle Infrastrutture Altero Matteoli, passò la regola che consentiva ai concessionari di realizzare il 60% dei lavori «in house», cioè usando esclusivamente le proprie aziende. La motivazione fu che era necessario garantire gli investimenti previsti dalle convenzioni. Peccato però, sostiene l’Ance, che da allora quegli investimenti sono stati realizzati solo per poco più di tre quarti: 78%. La prova? I dati secondo cui gli appalti esterni dei concessionari autostradali sarebbero diminuiti da un miliardo 403,3 milioni del biennio 2007-2208 ad appena 119,8 milioni nel periodo 2013-2014. L’esposto dell’Ance L’Ance cita il caso Pavimental, controllata del gruppo Atlantia-Autostrade, che grazie ai lavori in house ha avuto dalla casa madre commesse per 1 miliardo e 133 milioni in cinque anni, scalando la classifica delle maggiori imprese italiane fino al posto numero 12. Spiegazione dell’amministratore delegato di Autostrade, Giovanni Castelucci: «Con Pavimental i tempi medi di esecuzione sono stati di tre anni, con soggetti terzi da cinque a nove anni. L’Ance ci chiede di rivolgerci a Pavimental perché così i subappaltatori vengono pagati». Ma se le imprese terze toccano poche palle, fa capire il documento dei costruttori, i concessionari autostradali guadagnano due volte. La prima con le tariffe, la seconda con i lavori assegnati a se stessi. Cosa che ha indotto l’Ance a presentare un esposto europeo nei confronti della Società autostrada tirrenica, concessionaria (grazie a ripetute proroghe) fino al 2046 della Civitavecchia-Livorno, che sta realizzando in house il tratto fra Civitavecchia e Tarquinia: fino a tre anni fa controllata da Autostrade, ora metà del capitale è controllato dal gruppo Caltagirone e dalle coop. Da 13 anni è presieduta da Antonio Bargone, ex sottosegretario ai Lavori pubblici con Prodi, D’Alema e Amato. 17 aprile 2015 | 08:01 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/15_aprile_17/pedaggi-lievitati-70percento-15-anni-cosi-paghiamo-2-volte-autostrade-05f8a30a-e4c5-11e4-845e-5bcd794907be.shtml Titolo: S. RIZZO Buchi neri di clientele e scandali Viaggio nel fallimento delle Regioni Inserito da: Admin - Aprile 25, 2015, 04:43:54 pm Il caso
Buchi neri di clientele e scandali Viaggio nel fallimento delle Regioni Nel libro di Buccini il sistema degenerato attraverso le esperienze dei governatori Galan: andrebbero abolite. Oppure va abolito lo Stato. Uno dei due è di troppo Di Sergio Rizzo Le parole che non t’aspetti sulle Regioni le pronuncia un incarognito Giancarlo Galan: «Andrebbero abolite. Oppure va abolito lo Stato. Uno dei due è di troppo». Quantomeno irriverente, penserete, da parte di chi è stato un decennio potentissimo presidente della Regione Veneto e poi ben due volte ministro prima di essere azzoppato dall’inchiesta giudiziaria sulle tangenti del Mose. Ma il suo sfogo dagli arresti domiciliari con il giornalista del Corriere Goffredo Buccini che lo intervista per il suo libro «Governatori - così le Regioni hanno devastato l’Italia», edito da Marsilio e da oggi in libreria, è la fotografia più nitida dell’assurda deriva imboccata dal nostro Paese con un regionalismo protervo a accattone. Il crollo della partecipazione al voto alle ultime elezioni in Emilia-Romagna e Calabria è un sintomo che dovrebbe preoccupare una classe politica miope e distratta. Mai come in questo momento, alla vigilia di una tornata elettorale cruciale, le Regioni sono state in crisi di popolarità e di identità. Fra scandali sull’uso oltraggioso dei denari pubblici, sprechi vergognosi di risorse collettive e inefficienze nella sanità, hanno toccato il punto più basso dalla nascita, nel 1970. Tanto da far sorgere interrogativi sulla loro stessa esistenza. «Se la democrazia italiana non si libererà dalla zavorra delle Regioni», scrive Buccini, «le Regioni trascineranno a fondo la democrazia italiana. Accomunate dal brutto neologismo di Rimborsopoli o da scandali altrettanto devastanti, le Regioni sono fumo negli occhi per sei italiani su dieci secondo l’Istat. Nel 2000 il 44 per cento degli italiani se ne fidava, nel 2008 il 39 per cento, nel 2014 solo il 14 per cento. Almeno trecento sono stati i consiglieri regionali inquisiti. Le leggi regionali vigenti sono oltre ventimila e il contenzioso Stato-Regioni è arrivato a pesare per un terzo sul lavoro della Corte costituzionale (...) Ma soprattutto, a marcare la differenza fra il prima e il dopo, è la nascita di venti piccoli capi di Stato...». Quelli ormai diventati, in un immaginario collettivo deformato dai media i «governatori». Sono i protagonisti di questo libro sorprendente, che attraverso le loro parole e le storie di ognuno mette a nudo le metastasi di un sistema degenerato. Perché dietro a tutto ci sono gli uomini e le donne. C’è l’ex presidente della Lombardia, il «Celeste» Roberto Formigoni che paragonava se stesso a Gesù («...anche lui ha amato intensamente ma vissuto virginalmente»). L’uomo che è stato al potere per diciotto anni consecutivi, più di ogni altro politico italiano nel dopoguerra. Incurante del diluvio di polemiche e indagini. Per quelle, si appella alla legge dell’Altissimo: «Sono un peccatore, non un colpevole». Nemmeno Galan, con il suo «sguardo da lampadina fulminata», nella gabbia dei domiciliari, si reputa colpevole. Dice che ha patteggiato la condanna per costrizione. Ammette che se in Italia c’è oggi aria da 1992 è colpa anche dei politici. Ma poi ringhia che «il popolo ama Gheddafi fino al giorno prima e poi lo uccide barbaramente con i suoi figli. Il popolo è Robespierre». Sarà per risentimento verso gli elettori giacobini che non si è ancora dimesso da presidente della commissione Cultura della Camera? C’è Piero Marrazzo, travolto dalla vicenda delle sue frequentazioni con transessuali, che ancora non sembra aver realizzato che cosa davvero ha combinato. «D’accordo, ho sbagliato come persona pubblica (...) però quello che mi è successo (...) non è successo in una Regione italiana ma nella vita di una persona, hanno solo colpito un uomo e la sua famiglia». C’è pure chi di Marrazzo ha preso il posto, Renata Polverini: «Non è una donna, è un’unità combattente». Che però non riesce ad arginare la frana che travolge prima il consiglio regionale e poi la sua giunta. C’è Antonio Bassolino, a sua volta travolto dalla valanga immane dei rifiuti che sommerge la Campania otto anni dopo. E adesso recrimina: «Se avessi potuto rifare il sindaco... altro che presidente di Regione. Quella era la mia vita!». C’è Giuseppe Scopelliti, «Peppe o’ dj», simbolo vivente del naufragio della Calabria, con il suo «incedere curiale, una stretta di mano morbida, rotondità da antico democristiano». C’è Nichi Vendola, che confessa di non aver mai pianto in vita sua come quando è finito il grande freddo con i genitori sconvolti dalla rivelazione della sue omosessualità. Fu un giorno che sentirono alla radio il suo discorso al Gay Pride del 2000. «Mi telefonò mia madre: “Papà ha detto che ti dobbiamo chiedere perdono”». E racconta che la sua battaglia più grande «è sempre stata contro il centrosinistra. Era più facile battere Fitto che non D’Alema». C’è Rosario Crocetta, il «Poeta tragediatore», gay dichiarato al pari di Vendola, che vuole cambiare «una Regione nella quale, degli ultimi due presidenti, uno è in galera e l’altro sotto processo per questioni legate alla mafia...» Ma deve fare i conti con la maledizione di un’autonomia che ha ridotto la sua Sicilia a un rovinoso buco nero di clientele. C’è Vasco Errani, estromesso per una condanna: lascia a Stefano Bonaccini un’Emilia-Romagna che gli elettori hanno abbandonato. Sovvertendo l’adagio andreottiano secondo cui «il potere logora chi non ce l’ha». Né poteva mancare Roberto Cota, eclissato da un paio di mutande color verde leghista. Che grazie a questo libro scopriamo non essere mai state proprio verdi. E nemmeno mutande. «Erano pantaloncini», dice lui. «Di che colore?», fa Buccini. «Non so, di diversi colori. A fiori. Da bagno, capito?». Buccini insiste, senza pietà: «Coi fiori. Fondo verde?» «Non me lo ricordo. Ma non erano verdi! Quando si è avviata l’inchiesta ho fatto mente locale, erano finiti per sbaglio nei rimborsi. Ho rimediato, ripagato. Prima dell’avviso di garanzia. Quindi non esiste neanche il fatto che fossero pagati con soldi pubblici, che poi erano privati». Privati, sì: ma dei privati contribuenti, caro Cota. © RIPRODUZIONE RISERVATA 23 aprile 2015 | 07:52 Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_aprile_23/buchi-neri-clientele-scandali-viaggio-fallimento-regioni-ff83d300-e979-11e4-8a77-30fcce419003.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Incendio in aeroporto, aerei in tilt: tutta colpa di un frigori Inserito da: Admin - Maggio 11, 2015, 10:50:03 am IL COMMENTO
Incendio in aeroporto, aerei in tilt: tutta colpa di un frigorifero Il Leonardo da Vinci vuole triplicare il numero di passeggeri. Ma basta un corto circuito per paralizzare i voli Di Sergio Rizzo La società che gestisce l’aeroporto di Fiumicino garantisce: l’allarme ha funzionato. Siamo sollevati. Anche se non possiamo fare a meno di pensare a che cosa sarebbe accaduto se invece l’allarme non avesse funzionato. Perché le conseguenze dell’incidente non sono state esattamente trascurabili. Lo scalo aereo più grande d’Italia è rimasto paralizzato per ore. Paralizzati anche i collegamenti ferroviari e stradali. Ma è ancora niente, in confronto alle ripercussioni che il blocco di Fiumicino ha avuto sul traffico aereo internazionale. Tutta colpa di un frigo E tutto per un frigorifero in corto circuito. Tre anni fa Aeroporti di Roma ha presentato un ambizioso progetto di ampliamento che dovrebbe triplicare la capacità di traffico portandola a 100 milioni di passeggeri. L’investimento è in linea con quelle ambizioni. La previsione è di 12 miliardi di euro. Una somma pari al Prodotto interno lordo di Stati come il Mozambico, il Senegal o l’Islanda. Nuove piste, nuovi piazzali, nuovi hangar: fantastico. E poi il potenziamento dei collegamenti stradali e ferroviari: meraviglioso. Per non parlare di nuovi alberghi, nuovi business center, nuovi parcheggi: sublime. Ma anche nuovi frigoriferi, ci auguriamo. 7 maggio 2015 | 13:51 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_maggio_07/incendio-aeroporto-aerei-tilt-tutta-colpa-un-frigorifero-6d96c070-f4ae-11e4-83c3-0865d0e5485f.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Cinque governi e 33 rapporti: ma la spesa pubblica sale di 107... Inserito da: Admin - Maggio 19, 2015, 09:56:16 am L’inchiesta
Cinque governi e 33 rapporti: ma la spesa pubblica sale di 107 miliardi Confartigianato: se l’Italia avesse seguito la media Ue avrebbe risparmiato 23,2 miliardi. Nel 2015 la riduzione dei tassi sul debito farà però calare la spesa pubblica Di Sergio Rizzo «Tesoro: parte la revisione della spesa, nominata commissione di esperti». Titolava così l’agenzia Ansa il 16 marzo del 2007. Governava Romano Prodi con Tommaso Padoa-Schioppa ministro dell’Economia e la «revisione della spesa» era un oggetto così misterioso che la principale agenzia di stampa del Paese aveva fino ad allora pubblicato appena cinque notizie contenenti le parole inglesi spending review. Revisione della spesa, appunto. Ovvero, il procedimento di matrice anglosassone per rendere più efficiente la spesa pubblica ed eliminare gli sprechi. Elementare. Così elementare che da quel momento l’inondazione non si è più fermata. La formula spending review è stata citata in 9.844 lanci dell’Ansa, a una media di 3,29 citazioni al giorno. In cinque differenti governi si sono alternati 15 fra commissari e consiglieri: con la parentesi dei quattro anni dell’esecutivo di Silvio Berlusconi. Prima il pool di dieci consiglieri incaricati da Padoa-Schioppa. Quindi, nel 2012, Enrico «mani di forbice» Bondi. Poi il ragioniere generale dello Stato Mario Canzi. Per arrivare al ministro Piero Giarda e quindi, con il governo di Enrico Letta, a Carlo Cottarelli. E infine a Yoram Gutgeld e Roberto Perotti, installati al timone della spending review da Matteo Renzi. Con un simile spiegamento di parole e di risorse umane, viene da domandarsi, chissà quali risultati saranno stati raggiunti. La risposta è in un dossier dell’Ufficio studi della Confartigianato. Eccola: 33 rapporti scritti, per un totale di 1.174 pagine. Un diluvio di parole. Tutto qui? In sostanza, sì. Ha calcolato l’organizzazione degli artigiani che dal 2007 la spesa pubblica corrente primaria è salita di 107,2 miliardi di euro, con un incremento del 18,1 per cento in sette anni. In parallelo, la spesa per gli investimenti è scesa di 9,2 miliardi, con una flessione superiore al 20 per cento, mentre le entrate hanno registrato un’impennata di 77,2 miliardi. Il che ha confermato all’Italia il primato assoluto continentale nell’aumento della pressione fiscale. Il tutto senza alcun effetto positivo sulla crescita economica, se è vero che nel periodo in esame il Prodotto interno lordo è sceso in termini reali di ben l’8,2 per cento: nell’eurozona nessuno ha fatto peggio di noi. La spesa pubblica, insomma, continua a restare qui un macigno impossibile da scalfire. Anche se, ricorda il presidente della Confartigianato Giorgio Merletti, «senza risparmi e maggiore efficienza nell’uso delle risorse pubbliche rischiamo di incappare nelle clausole di salvaguardia imposte dal Patto di stabilità. Non vorremmo essere costretti a riparare sprechi e inefficienze con nuove tasse e imposte». Nel 2015 è previsto che la spesa pubblica si attesti a 827 miliardi e 146 milioni, pari al 50,5% del Pil, con un calo di 0,6 punti rispetto all’anno scorso: ma senza considerare l’impatto della sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il blocca degli adeguamenti pensionistici decretato dal governo Monti. E se un calo modesto si verificherà lo dovremo soprattutto alla riduzione della spesa per gli interessi sul debito, stimati in 69,3 miliardi contro i 75,2 del 2014. Merito della discesa dei tassi e della moneta unica, che ci ha consentito l’unico vero risparmio mai registrato negli ultimi 15 anni. Nonostante l’aumento enorme del debito oggi spendiamo per gli interessi, in termini reali, una trentina di miliardi in meno rispetto al 2001. E vediamo che cosa hanno fatto, al contrario, gli altri Paesi. Dice il dossier Confartigianato che fra il 2010, quando cioè è iniziato l’aggiustamento dei bilanci pubblici conseguente alla grande crisi dei debiti sovrani, e il 2015, la spesa pubblica primaria dell’eurozona è rimasta pressoché stabile, con un incremento di appena lo 0,1 per cento. In Germania, per esempio, si taglia dell’1%. Mentre in Italia la spesa corrente sale dell’1,5%. Il confronto porta alla conclusione che se avessimo seguito non l’andamento della più virtuosa Germania, bensì quello della media della zona euro, oggi spenderemmo 23,2 miliardi di euro in meno. E non è tutto. Perché un paragone fra la spesa pubblica italiana e quella degli otto principali Paesi della moneta unica aveva indotto gli esperti coordinati dall’ex commissario Cottarelli a prevedere una possibile correzione strutturale valutabile in 42,8 miliardi. Ma tant’è. Cottarelli predicava nel deserto. Il fatto è che alcune voci del bilancio pubblico, lui l’aveva detto, crescono in modo inarrestabile. Come le pensioni, per effetto dell’invecchiamento della popolazione: e questo è forse comprensibile. Assai di meno, invece, è l’esplosione dei trattamenti di invalidità civile, nonostante l’emergere sempre più frequente di scandali e abusi e l’intensificazione dei controlli. Fra il 2003 e il 2013 il loro numero è aumentato da un milione 834.208 a 2 milioni 781.621: +51,7%. Quasi un milione di invalidi civili in più in soli dieci anni. E per un costo annuale lievitato di 6 miliardi 836 milioni rispetto al 2003. Non solo spendaccioni e improduttivi, dunque. Siamo anche il Paese degli invalidi: c’è un invalido civile ogni 21 abitanti, neonati e bambini compresi. E questo forse dice tutto del perché in Italia spending review sia soltanto un termine inglese molto in voga negli ambienti giornalistici. 18 maggio 2015 | 10:41 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/15_maggio_18/cinque-governi-33-rapporti-ma-spesa-pubblica-sale-107-miliardi-d52704f6-fd38-11e4-b490-15c8b7164398.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Pensioni, un guazzabuglio imprigiona il Paese Inserito da: Admin - Maggio 25, 2015, 11:18:28 am I privilegi insostenibili
Pensioni, un guazzabuglio imprigiona il Paese L’Italia spende per la previdenza più di ogni altra nazione avanzata. Non solo: lo fa male, perché le categorie forti si sono fatte regole più vantaggiose degli altri Di Sergio Rizzo Dice l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli che l’Italia spende per la previdenza il 16,5 per cento del Prodotto interno lordo, record continentale assoluto. L’Ocse calcola invece che sia pari al 14 per cento, ma contro una media dei Paesi industrializzati del 7,2. Si tratta di stime contestate da molti esperti, nonché dai sindacati, con la motivazione che nel calderone figurano voci diverse dalle pensioni. Tenendo conto di ciò, è la tesi, si avrebbe un risultato in linea con il dato medio europeo: ogni allarme è quindi infondato. Resta però un fatto. Fra il 2001 e il 2011, prima del blocco degli adeguamenti all’inflazione decretato da Monti e bocciato dalla Corte costituzionale, la spesa pubblica al netto degli interessi è salita in termini reali di circa 62 miliardi di euro: di questi, ben 57 miliardi per il solo capitolo «Protezione sociale», rappresentato per la stragrande maggioranza proprio dalle pensioni. Sono dati della Ragioneria, facilmente verificabili. Dai quali si desume che quel capitolo rappresentava, nel 2011, oltre il 40 per cento della spesa pubblica complessiva. Che si spenda tanto e sempre di più, dunque, è accertato. Peggio ancora, però, spendiamo male. Anzi, malissimo. Per questo la cosa peggiore che la classe politica potrebbe fare oggi sarebbe quella di limitarsi a tappare i buchi aperti nel bilancio pubblico dalla sentenza della Consulta, senza coglierne il messaggio profondo. Cioè che un sistema così pieno di assurde disparità e folli contraddizioni alla lunga non potrà reggere. Lo sosteneva già nel 1997 un ben più giovane Stefano Fassina allora impegnato nella battaglia «meno ai padri, più ai figli» di blairiana (e anche dalemiana) memoria: «Il problema principale è smantellare un sistema previdenziale corporativo e iniquo. In Italia ci sono cinquantadue regimi pensionistici diversi, e ciò è dovuto al fatto che le categorie più forti si sono fatte regole migliori rispetto a quelle più deboli». Una verità illuminante, purtroppo, ancora oggi. L’elenco di quelle regole, molte abolite dalle varie riforme ma che ancora dispiegheranno i propri effetti per decenni, è sterminato. Ci sono le leggi che hanno garantito le baby pensioni, i trattamenti privilegiati dei militari e l’assegno sociale da subito ai dipendenti pubblici che non avevano accumulato un minimo di contributi. C’è la legge Mosca che ha regalato migliaia di trattamenti previdenziali a politici e sindacalisti sulla base di semplici dichiarazioni avallate dal partito o dal sindacato. Ecco quindi le regolette che hanno spalancato la strada alle pensioni d’oro dei telefonici, i pareri del consiglio di Stato che l’hanno concessa ai commissari delle authority (alcuni sono consiglieri di Stato), i codicilli che consentono ai dipendenti di Camera e Senato di andare ancora in pensione a 53 anni con assegni superiori allo stipendio, o che hanno rinviato di otto anni l’applicazione della riforma contributiva Dini per i dipendenti della Regione Siciliana... Oppure i prepensionamenti senza soluzione di continuità, grazie a cui abbiamo poligrafici pensionati dall’età di 52 anni mentre i manovali sono costretti a volteggiare sui ponteggi fino a 67. E poi le furbizie piccole e grandi occultate nelle pieghe delle normative, grazie a cui un avvocato comunale ha potuto riscuotere una pensione tripla rispetto allo stipendio. O i meccanismi curiosi delle casse autonome, ognuna delle quali segue proprie regole, come quella dei giornalisti. Per non parlare della miriade di pensioni bassissime distribuite a pioggia senza un solo contributo versato, come pure degli assegni di invalidità, cresciuti del 52% in dieci anni. Con il risultato che oggi in Italia c’è una pensione di invalidità ogni 21 abitanti. Su tutto, la politica: vitalizi parlamentari che si possono liberamente cumulare a vitalizi regionali, a vitalizi europei e a pensioni regalate a lor signori dai contribuenti con il meccanismo odioso dei contributi figurativi. Ma guai a toccarli. Subito i beneficiari insorgono a difesa dei presunti diritti acquisiti e dell’autodichia: principio in base al quale la politica decide per sé in totale autonomia e le sue decisioni non sono sindacabili. Un enorme guazzabuglio nel quale privilegi, clientele e assistenzialismi si mischiano a orribili ingiustizie che riguardano soprattutto i giovani e i precari. Il tutto basato su un principio di fondo: l’assenza per la maggior parte delle pensioni pagate oggi e ancora a lungo nel futuro di qualunque rapporto con i contributi versati. Dice tutto il rapporto presentato da Antonietta Mundo al congresso nazionale degli attuari di due anni fa. Nel 2015 le pensioni contributive sono appena l’1,1% del totale, contro l’86,9% di quelle retributive pure. Ma ancora nel 2050 non raggiungeranno che il 40,4%. Con la popolazione sempre più anziana, il lavoro sempre più intermittente, e i versamenti contributivi sempre meno ricchi. Renzi ora promette flessibilità. Benissimo. Ma certo non basta. Per quanto possiamo ancora permetterci un sistema simile? Non sarà il caso di studiare, e in fretta, i correttivi necessari? Forse non lo dobbiamo ai nostri figli? 22 maggio 2015 | 08:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/15_maggio_22/pensioni-guazzabuglio-imprigiona-paese-cccc8892-004b-11e5-9620-f7b479d580d7.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Rubati» 236 miliardi al Pil: Il costo di evasione e corruzione Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 05:27:19 pm Rubati» 236 miliardi al Pil:
Il costo di evasione e corruzione Il rapporto del centro studi Economia reale di Baldissarri rivela come la lotta agli sprechi in 13 anni avrebbe fatto salire il Pil da un minimo di 128 a un massimo di 141 miliardi Di Sergio Rizzo Immaginate un Paese dove il debito pubblico sia al 58,3% di un Pil superiore di qualcosa come 236 miliardi al nostro di oggi. Roba da far schiattare d’invidia tutta la cancelleria tedesca, cominciando da Angela Merkel. Quel Paese sarebbe l’Italia, se solo si fosse fatta una lotta seria a sprechi, corruzione ed evasione fiscale. La stima è nell’ultimo rapporto sull’Italia del centro studi Economia reale dell’economista Mario Baldassarri. Neppure stavolta mancherà chi di fronte a calcoli del genere scrolla le spalle, riesumando il formidabile aforisma di quel Pier Peter impersonato dieci anni orsono dal comico Antonio Albanese: «L’economia è una cosa troppo seria per lasciarla fare agli economisti». Ma qui purtroppo c’è davvero poco da ridere. I numeri, innanzitutto. Baldassarri parte dal presupposto che sprechi e corruzione siano direttamente proporzionali all’andamento della spesa pubblica corrente. E per valutare che cosa sarebbe accaduto dal 2002 al 2014 se si fosse davvero dichiarata la guerra a questa piaga ha fatto due ipotesi, entrambe agganciate a drastici interventi sulla spesa pubblica corrente. La prima, il taglio secco di 45 miliardi, da destinare per 40 miliardi alla riduzione delle tasse (25 di Irap e 15 di Irpef) e per 5 miliardi agli investimenti. La seconda il congelamento della spesa corrente ai livelli del 2002 e l’eliminazione dei 25 miliardi di trasferimenti a fondo perduto. Le proiezioni sono impressionanti. In tredici anni il Pil sarebbe salito da un minimo di 128 a un massimo di 141 miliardi. I posti di lavoro sarebbero cresciuti fino a un milione e 180 mila posti di lavoro, con un deficit pubblico ridotto fino a 105 miliardi e un debito pubblico ridimensionato di una somma enorme: compresa fra 530 e 840 miliardi. E la lotta all’evasione, continua la simulazione di Baldassarri, avrebbe fatto il resto. In questo caso l’ipotesi è una sola: controlli incrociati severissimi utilizzando tutte le banche dati disponibili e l’introduzione di meccanismi di deduzione per alimentare il conflitto d’interessi. Il concetto è semplice: se so che posso detrarre dalle tasse il conto dell’idraulico, gli chiederò la fattura e lui pagherà le tasse. Grazie a questo piano d’azione, stima l’economista, sarebbe stato possibile recuperare una decina di miliardi circa per dieci anni consecutivi. Con il risultato che il nostro Pil potrebbe essere ora più alto di 95 miliardi e il debito pubblico più basso di 266. Fosse andata davvero così, chiosa il documento che viene presentato domani a Roma, l’Italia avrebbe potuto rispettare senza alcuna difficoltà il «famigerato» Fiscal compact e la nostra economia, navigherebbe in acque ben più tranquille: con un Prodotto interno lordo superiore del 17 per cento circa a quello attuale. Se poi a tutto questo si fosse aggiunta una condizione astrale favorevole, ovvero un euro non così sopravvalutato rispetto al dollaro, ecco che si sarebbero schiuse le porte del paradiso. Secondo il rapporto del centro studi Economia reale il super-euro ci è costato dal 2002 al 2014 ben 168 miliardi di Pil e 403 miliardi di debito pubblico. Ma purtroppo non è andata così. E Baldassari, che per ben cinque di quegli anni ha avuto una responsabilità diretta, come viceministro dell’Economia del governo di Silvio Berlusconi, non esita a ricordare nel rapporto anche quella fase piena di scelte controverse e titubanze, e poi di contrasti nell’esecutivo, con minacce di dimissioni reciproche mai portate a compimento, sfociati in una pace che non ha portato a nessun cambiamento concreto. Tanto sul piano della lotta agli sprechi e alla corruzione quanto su quello del contrasto vero all’evasione. «Perché non si è mai fatto nei quindici anni passati e non si profila tuttora che qualcuno intenda farlo, almeno per i prossimi cinque anni?», si chiede Baldassarri. «Semplice: è un nodo squisitamente e profondamente politico, o meglio è un nodo di interessi contrapposti. Da un lato ci sono i circa 2 milioni di italiani che in tutti questi anni hanno continuato a prosperare ed accumulare patrimoni illeciti con gli sprechi e le ruberie di spesa pubblica e con l’evasione fiscale. Dall’altro lato ci sono gli altri milioni di italiani che hanno subito e subiscono la crisi e la disoccupazione con prospettive disarmanti per i giovani che scappano sempre più all’estero. Questi ultimi hanno perso tra il 2002 ed il 2014 circa 250 miliardi di Pil, hanno subito il raddoppio della disoccupazione e nonostante le sempre precarie condizioni della nostra finanza pubblica, hanno anche subito pesanti aumenti della tassazione». Una situazione, conclude il rapporto, destinata a non durare a lungo senza gravi conseguenze. «L’Italia potrà anche galleggiare, ma certamente il Paese continuerà a subire un processo di bradisismo economico e sociale». 5 luglio 2015 | 09:12 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_05/rubati-236-miliardi-pil-costo-evasione-corruzione-777e3cf0-22e2-11e5-85fc-cb21ea68cb1f.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Le ragioni (smarrite) della Ue Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 06:05:32 pm L’editoriale
Le ragioni (smarrite) della Ue Di Sergio Rizzo Il diffondersi del timore «che l’euro non sia irreversibile». È questo che dal precipitare della crisi greca teme il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, più che gli effetti sui nostri conti pubblici. «Non irreversibile». È un termine che evoca scenari inquietanti, ben oltre le implicazioni dell’eventuale uscita della Grecia dalla moneta unica. Perché se l’euro fosse davvero «non irreversibile», potrebbe mai esserlo la stessa Unione Europea? Per quanto si stenti ancora a prenderne coscienza, c’è questo in ballo nella partita fra Atene, Francoforte e gli altri Paesi dell’eurozona. E la sensazione che si stia giocando con il fuoco sulla pelle dell’Europa è sempre più netta. L’ escalation dei toni con cui Alexis Tsipras prefigura per domenica una scelta senza ritorno, dopo aver rivendicato nei giorni scorsi addirittura il pagamento dei danni della Seconda guerra mondiale, e di rimando il gelo di Berlino spargono un odore sinistro. Lo stesso odore che aveva ammorbato il Continente per secoli e secoli, ed è per non sentirlo più che i padri fondatori avevano fatto nascere la Comunità europea. Decretando che le ragioni per stare insieme in pace sono immensamente più numerose e importanti di quelle che avevano insanguinato fino ad allora l’Europa. Ragioni ora smarrite nell’insorgere degli egoismi nazionali: come quelli di certi Paesi ex comunisti inondati di contributi europei che però sbattono la porta in faccia a un migliaio di rifugiati. Oppure soffocate da regole che rendono l’Europa una camicia di forza insopportabile. O di più, schiacciate da un rigore dei conti pubblici sacrosanto, ma la cui applicazione pratica non prevede il buonsenso. Con il risultato che basterebbe una scintilla per mandare in fumo tutto. Tsipras ci pensa? L’abisso che sembra adesso dividere dall’Europa anche i più europeisti ha certo molti colpevoli. Il principale però è l’ignoranza. Dalla nascita della Cee sono trascorsi 58 anni, e ben 23 da quando c’è l’Unione. Esiste anche una bandiera: per legge campeggia sulla facciata degli edifici pubblici. Ma quanti cittadini europei sanno che cosa davvero rappresenta? Prendiamo l’Italia. Non c’è una legge che imponga nelle scuole l’insegnamento della storia e delle istituzioni dell’Unione. Solo due mesi fa il dipartimento delle politiche europee ha firmato con il ministero dell’Istruzione, il Parlamento di Strasburgo e la commissione Ue un «accordo di programma» per istituire «un partenariato strategico allo scopo di garantire nelle scuole italiane l’Educazione civica europea». Bene. Ma l’orizzonte per colmare finalmente la lacuna non è vicino: il governo «spera» nel 2020. D’altra parte, dice Palazzo Chigi, «molti docenti sono digiuni di nozioni basilari sull’Ue e quindi non riescono a inserire unità didattiche ad essa relative nelle loro programmazioni». Dovremo dunque attendere cinque anni perché i nostri figli (o forse i loro) imparino che cosa sono il Parlamento e la Commissione europea? Ma soprattutto perché è nata l’Unione (mai più guerre in casa nostra!) e qual è la nostra storia? Cinque anni, e il mondo cambia in 5 giorni. Ci fosse stata la volontà di farlo, si sarebbe introdotto da tempo l’insegnamento di Istituzioni e Storia d’Europa. Magari con una delle tante riforme della scuola: utilizzate invece per demolire i programmi e risolvere i problemi dei professori anziché quelli degli studenti. 9 luglio 2015 | 09:22 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cultura/15_luglio_09/ragioni-smarrite-ue-90f702ea-25fb-11e5-9a08-f80f881ecc8e.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il Giubileo per Marino è l’ultima occasione Inserito da: Admin - Luglio 30, 2015, 10:18:12 pm Nuova giunta
Il Giubileo per Marino è l’ultima occasione Marino ha cambiato squadra e forse formula Si tratta di un affiancamento o di un commissariamento? Dipenderà dalla scelta di Palazzo Chigi sul responsabile della gestione dell’Anno Santo, sempre più imminente Di Sergio Rizzo Auguri a Ignazio Marino e al suo nuovo vicesindaco Marco Causi. Altro non si può dire dopo l’annuncio del debutto della nuova giunta comunale di Roma. L’augurio è che si arrivi in fondo ad almeno uno dei propositi che sono stati ripetutamente enunciati in questi due anni: cosa che finora non è riuscita. Ma non solo. I teorici dello stato di perenne belligeranza fra il sindaco di Roma e Matteo Renzi, capaci di cogliere in un movimento delle sopracciglia del premier i cambiamenti del clima fra i due, diranno che l’«affiancamento» assomiglia tanto all’anticamera del «commissariamento». Se addirittura non è un commissariamento mascherato. Fantasie? Si vedrà probabilmente fra qualche giorno, quando si deciderà (a Palazzo Chigi...) come (e chi) avrà la responsabilità di gestire il Giubileo che inizia fra quattro mesi. Certo è che se Silvia Scozzese era arrivata un anno fa con l’incarico di assessore al Bilancio con l’imprimatur dei fedelissimi renziani, anche il suo successore Causi sbarca al Campidoglio con una procedura non troppo dissimile. Vicesindaco, per di più, proposto da Renzi e dal commissario del Pd romano, Matteo Orfini. Chi conosce bene com’è andata nelle ultime settimane, dal crac dell’Atac allo psicodramma del licenziamento a mezzo conferenza stampa dell’assessore ai Trasporti Guido Improta, fino alle dimissioni di Silvia Scozzese e di tutta la sua squadra, azzarda che forse è l’estrema mossa per evitare l’irreparabile. Per come si sono messe le cose, non soltanto Marino rischia di vedersi caricare sulle spalle, con un minimo contributo personale di errori e titubanze, colpe non sue, ma lo stesso Partito democratico potrebbe pagare un conto elettorale salatissimo a causa dello stato di degrado in cui versa la Capitale. Se poi dovesse fallire anche il Giubileo (e in Vaticano non si nasconde una sensazione di disagio per il vuoto di decisioni che tuttora aleggia intorno all’evento) la catastrofe sarebbe assicurata. Né far precipitare la situazione, al punto in cui è arrivata, sarebbe stata considerata, nonostante l’impulso, una soluzione accettabile. Tutt’altro. Meglio cercare di rimettere insieme i cocci, affidandosi a qualcuno che sa dove mettere le mani, e più in fretta possibile, in quel pandemonio dove si scaricano tutte le tensioni e le possibilità di prendere la scossa sono all’ordine del giorno. Chi, allora, se non colui che già ce le ha messe in passato? Anche se la scelta di Causi è destinata inevitabilmente a far discutere. E non potrebbe essere diversamente: anche lui ne è consapevole. Oggi parlamentare democratico, è stato infatti assessore al Bilancio della giunta di Walter Veltroni. La stessa a cui venne imputata nel 2008 dal centrodestra, vincitore delle elezioni con Gianni Alemanno, la responsabilità di un indebitamento della Capitale così imponente da indurre il governo a nominare un commissario per consegnare i conti comunali immacolati al nuovo sindaco. Da allora Causi si è dovuto ripetutamente difendere dalle bordate dell’attuale opposizione. Che d’ora in poi, non stentiamo a crederlo, si faranno sempre più intense. Già vediamo qualcuno pronto a puntare il dito per indicare chi ritorna sul luogo del presunto delitto. E bordate arriveranno, per Marino, anche da sinistra, e nel suo stesso partito. Il nuovo assessore ai Trasporti Stefano Esposito è l’autore del libro Tav sì, apertamente favorevole alla linea ferroviaria Torino-Lione, contestatissima dalla medesima sinistra, scritto a quattro mani con Paolo Foietta. La nuova giunta che dovrebbe evitare al Pd un tracollo politico nella Capitale con possibile reazione a catena rischia dunque di trovarsi stretta in una tenaglia micidiale. Non senza strascichi insidiosi. Di che tipo? Tanto Marco Causi quanto Stefano Esposito sono parlamentari. E per quanto nessuna norma impedisca loro di mantenere il seggio, il problema della compatibilità fra l’incarico da onorevole e il governo municipale esiste eccome. Non fosse altro per un problema di impegno, che farebbe crollare verticalmente l’indice di produttività di entrambi, con Causi certamente costretto ad abbandonare il podio della classifica Openpolis, dove oggi è terzo assoluto. Questione che già aveva ripetutamente sollevato critiche da parte della sinistra quando a ricoprire il doppio incarico erano stati gli esponenti della destra, e proprio a Roma. Per esempio Mario Cutrufo, che si trovava in una situazione pressoché identica a quella di Causi essendo vicesindaco e assessore nonché senatore, e Alfredo Antoniozzi, il quale sommava al seggio da europarlamentare il posto da componente della giunta di Gianni Alemanno. 29 luglio 2015 (modifica il 29 luglio 2015 | 09:29) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_luglio_29/giubileo-marino-l-ultima-occasione-8e2196ae-35c1-11e5-b050-7dc71ce7db4c.shtml Titolo: SERGIO RIZZO La Capitale questione nazionale Inserito da: Admin - Agosto 22, 2015, 05:15:16 pm La Capitale questione nazionale
Di Sergio Rizzo Il Comune di Roma ha cambiato nome per legge il 3 ottobre 2010. Oggi, a cinque anni di distanza, sarebbe interessante conoscere il numero di italiani al corrente del fatto che da allora si chiama «Roma capitale», com’è scritto sulle fiancate della auto della polizia municipale, sulle pagine del sito ufficiale del Campidoglio e sui documenti dell’amministrazione comunale romana. Anche se possiamo presumere che quel numero sia piuttosto esiguo. Il fatto è che non basta cambiare nome a una città perché diventi quello che già è da quasi un secolo e mezzo, ma che nell’immaginario collettivo di moltissimi nostri concittadini non è mai stata: la capitale d’Italia. Al punto da chiedersi se non sia arrivato il momento di far diventare la questione romana una questione nazionale. Sorge il sospetto che solo per esorcizzare questo sconcertante dato di fatto che rende Roma l’unica capitale-non capitale d’Europa la nostra storia recente sia stata costellata da una sequela di provvedimenti, spesso improbabili. Leggi speciali, riforme costituzionali che garantiscono particolari autonomie alla città, fino al cambiamento del nome. Questa gara non ha mancato di regalarci pagine indimenticabili. Per tutte valga la legge di un solo articolo approvata nel gennaio 2012 dal Consiglio regionale del Lazio, Regione allora governata dal centrodestra. Testuale: «Roma è la capitale d’Italia e sede del governo e dei ministeri». Come se non esistesse una Costituzione che già lo prevede. E forse per ribadire che è l’etichetta a contare più della sostanza, i consiglieri di Roma capitale si fregiano ancora oggi, senza essere assaliti dal dubbio di collocarsi in questo modo almeno sopra le righe, dell’appellativo di «onorevoli» che dovrebbe spettare di regola ai parlamentari. Certo, se guardiamo al passato la mitologia di Roma capitale non ha offerto spunti meno singolari. Basterebbe ricordare che nel 1861 il Parlamento di palazzo Carignano a Torino approvò una mozione che proclamava solennemente Roma capitale del neonato Regno d’Italia. Quando la città, per inciso, era ancora capitale di una nazione straniera, lo Stato della Chiesa di Pio IX. La prima di ben tre proclamazioni, seguita dalla legge di dieci anni dopo e dalla Costituzione del 1948. Il diluvio secolare di mozioni, norme costituzionali, leggi nazionali e locali non ha però mai cambiato la sua condizione di capitale-non capitale. Non staremo qui a rammentarne le ovvie ragioni storiche. Ma certo a partire dal 1870, e al di là di una retorica fine a se stessa a tratti stucchevole e grottesca, Roma è stata considerata non una capitale, ma soprattutto una città grande, piena di occasioni meravigliose per gli speculatori e ricca di problemi che non potevano, perché non dovevano, essere risolti. Tanto che ancora oggi sono ben lontani dall’esserlo. Un trattamento analogo le ha riservato anche la politica. E non da ora. Prova ne è che la carica di sindaco della capitale d’Italia non è mai stata particolarmente ambita, al contrario delle altre capitali europee, dalle personalità di maggior livello del panorama politico, qui più interessate ad altri obiettivi istituzionali. Questo, naturalmente, sempre con le dovute (e sparute) eccezioni. Ma quando è avvenuto, è stato frutto più di scelte personali che di considerazioni strategiche. Si può dire che la politica, con i partiti romani più simili a comitati d’affari che a organizzazioni dedite a rappresentare i cittadini, non si sia affatto adoperata perché i mali di Roma non si radicassero così in profondità. Offrendo anzi in qualche caso un contributo determinante. Nessuno, sia chiaro, può chiamarsi fuori. Non lo può fare la sinistra, che ha governato la città ininterrottamente per tre lustri spesso a briglia sciolta. Non lo può fare la destra, che qui di recente ha avuto il potere per cinque anni, e la città ne porta ancora i segni profondi. Né lo possono fare coloro che in questi anni hanno lucrato consensi con lo slogan di «Roma ladrona», senza riuscire a cambiare il Paese, meno che mai a cambiare Roma. Le storie di Mafia Capitale (e non è un caso se anche la parola mafia si è guadagnata l’appellativo di capitale...) sono il risultato di tutto questo. Quelle storie offrono un quadro allucinante dell’impasto fra clientele politiche, corruzione, affari privati, interessi torbidi e criminalità, non troppo diverso da quello mirabilmente descritto da Roberto Mazzucco nel romanzo storico I sicari di Trastevere , ambientato nel 1875. Come se nulla in 140 anni fosse cambiato. E nulla potesse mai cambiare. Tanto che in una città nella quale un killer della banda della Magliana ha trovato per decenni sepoltura in una chiesa cristiana prima che la salma venisse rimossa - e soltanto in seguito a furiose polemiche - a distanza di pochi anni si celebra un funerale in stile Padrino per rendere omaggio a un boss defunto dei Castelli. Difficile immaginare una scena del genere a Parigi, Londra, Berlino o Madrid. Così come Parigi, Londra, Berlino o Madrid non hanno avuto bisogno che il loro nome fosse accompagnato dal sostantivo «capitale» per essere riconosciute come luoghi e simboli dell’unità delle rispettive nazioni. Non sappiamo ora se la decisione di affrontare il Giubileo con un metodo simile a quello seguito per l’Expo sia un segnale. Speriamo. Ma certo il governo di Matteo Renzi farebbe male a non cogliere la gravità della situazione in cui Roma è precipitata. E continuare come i predecessori da cinquant’anni a questa parte a considerare i suoi problemi come problemi dei romani anziché di tutti gli italiani. Mai come adesso, ne siamo convinti, l’emergenza romana dev’essere un’emergenza nazionale. 22 agosto 2015 (modifica il 22 agosto 2015 | 07:23) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_22/roma-capitale-questione-nazionale-editoriale-rizzo-corriere-3205c30a-488a-11e5-adbb-a52649bc660c.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Quella leggina che concede soldi pubblici ai partiti ... Inserito da: Arlecchino - Settembre 11, 2015, 11:08:56 am Quella leggina che concede soldi pubblici ai partiti (senza controlli)
Di Sergio Rizzo Non è una cosa seria. E viene il sospetto che non lo sia mai stata fin dall’inizio. Da quando tre anni fa, sull’onda dell’indignazione popolare, il Parlamento approvò una legge che dimezzava i rimborsi elettorali, doppiata un anno dopo da un provvedimento che ci è stato venduto come «l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti». La prova che non è una cosa seria è nella leggina maleodorante che consentirà il versamento dei soldi pubblici spettanti per il 2013 e il 2014 pur in mancanza del visto di conformità della commissione incaricata di verificare i rendiconti. Prima i partiti approvano in Parlamento una legge che mette nelle mani dei magistrati il potere di controllare i loro bilanci per poter incassare i denari. Poi però si scopre che la commissione di quei magistrati non ha il personale sufficiente per esaminare le carte, le fatture e gli scontrini fiscali. E il bello è che non si scopre tre giorni o tre settimane più tardi, ma tre anni dopo! Sembra uno scherzo. Quando poi il presidente lo denuncia, spunta addirittura una proposta di legge: una legge del Parlamento per affiancare ai magistrati una decina di impiegati! In soli tre mesi, però, da giugno a oggi, non se ne viene fuori. Allora ecco l’inevitabile sanatoria. Un classico dell’orrore, che sembra studiato a tavolino: si approva una legge sapendo già in partenza che non sarà applicata. E poco importa se questo fiaccherà ancora di più la fiducia degli italiani, già al lumicino, nei politici. Purtroppo anche in quelli onesti e capaci, e per fortuna ce ne sono, che saranno purtroppo gli unici a farne davvero le spese. Ci permettiamo soltanto di dare un consiglio a Lor Signori: quando l’affluenza alle urne crollerà di nuovo e i sondaggi diranno che i cittadini non ne possono più di questi partiti, perché andando avanti di questo passo fatalmente accadrà, non date colpa a ciò che chiamate antipolitica. Perché l’antipolitica siete voi. 10 settembre 2015 (modifica il 10 settembre 2015 | 13:49) © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/politica/15_settembre_10/altro-colpo-poca-fiducia-forze-politiche-512a6f72-5782-11e5-b3ee-d3a21f4c8bbb.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Politici e vitalizi, l’ipotesi di una sforbiciata da 100 milioni Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2015, 03:10:32 pm Pensioni
Politici e vitalizi, l’ipotesi di una sforbiciata da 100 milioni A 2 mila di loro assegni ribassati del 50%: così si dovrebbe ridurre il divario fra il vecchio metodo di calcolo retributivo e il nuovo sistema contributivo Di Sergio Rizzo C he si tratti solo di un’idea, o che la cosa sia destinata ad assumere la forma di un nuovo piano per le pensioni in vista delle legge di Stabilità pare essere un dilemma ancora da sciogliere. Ma di sicuro all’Inps i calcoli si stanno facendo, eccome, per vedere come si possa introdurre il principio dell’«equità attuariale». Principio sacrosanto, che dovrebbe ridurre il divario attualmente esistente fra il vecchio metodo di calcolo retributivo, cioè basato soltanto sullo stipendio percepito dal lavoratore, e il nuovo sistema contributivo: quello cioè che tiene conto esclusivamente dei contributi versati. E se è fin troppo facile prevedere che il presidente dell’istituto di previdenza Tito Boeri non sia allergico all’ipotesi di dare una sforbiciatina alle pensioni retributive d’oro, eventualità del resto alla quale aveva pensato anche l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, in questo schema non manca a quanto pare una sorpresa anche per i vitalizi dei politici. E che sorpresa. L’ipotesi è di intervenire con il ricalcolo attuariale sui vitalizi di ex parlamentari ed ex consiglieri regionali di importo superiore ai 63.700 euro lordi annui, circa 5.300 euro mensili. Le persone coinvolte sarebbero 2 mila e i loro assegni, secondo le stime, potrebbero subire tagli molto consistenti. Dell’ordine del 49-50 per cento. Con un risparmio certo modesto, in confronto alle esigenze del bilancio statale, ma niente affatto trascurabile considerando il piccolo universo che verrebbe interessato: un centinaio di milioni. Ciò significa che l’esborso pubblico per i vitalizi parlamentari e regionali, oggi pari a 400 milioni, si ridurrebbe di un quarto. Si tratterebbe di una iniziativa senza precedenti. Non soltanto per la caratura dei personaggi interessati dalla misura. Nell’elenco dei vitalizi pubblicata tempo fa da Primo Di Nicola sull’Espresso il club degli over 5.000 euro netti comprende nomi come quello di Massimo D’Alema, Gianfranco Fini, Luciano Violante, Carlo Vizzini, Walter Veltroni, Achille Occhetto, Beppe Pisanu... e tanti altri. Il fatto è che mai il governo è intervenuto con una propria proposta su una materia di competenze esclusiva del parlamento, dove vige ancora la rigida (e anacronistica) regola dell’autodichìa. Ma adesso le condizioni potrebbero essere diverse, soprattutto se il taglio dei vitalizi rientrasse nell’alveo di un intervento più generale sulle pensioni retributive ricche: le quali, ovviamente, subirebbero decurtazioni per nulla rapportabili a quelle assai rilevanti degli ex onorevoli. I quali, oltre a beneficiare di trattamenti senza alcuna proporzione con i versamenti, avevano anche in molti casi il privilegio di non dover rispettare requisiti anagrafici. Da tempo i vitalizi sono nel mirino dell’opinione pubblica, al punto che i consigli regionali sono stati indotti ad abolirli partendo da questa legislatura. Mentre a Montecitorio e palazzo Madama sono stati sostituiti con decorrenza 2012 da trattamenti contributivi, per quanto ancora più favorevoli rispetto a quelli dei comuni mortali. Tuttavia per i vitalizi del passato nulla o quasi era stato fatto, nonostante lo squilibrio enorme con le normali pensioni. Le regole perverse hanno consentito per esempio fino a pochi anni fa di ritirare l’assegno senza limiti di età, e di fatto senza limiti minimi di mandato. In alcune regioni, poi, quei criteri assurdi sono rimasti in vigore. Nel 2013 ha fatto scalpore che l’ex presidente del consiglio regionale della Sardegna Claudia Lombardo abbia cominciato a riscuotere a soli 41 anni di età un vitalizio superiore ai 5 mila euro mensili netti. Mentre nel Lazio, dove la base per il calcolo del vitalizio comprendeva anche la diaria (cioè le spese per il ristorante e l’albergo!), ancora pochi mesi fa c’era chi poteva incassare a 50 anni 2.167 euro netti al mese per aver passato appena tre anni da consigliere. Per non parlare delle possibilità di cumulo. Chi aveva fatto il parlamentare e il consigliere regionale portava a casa due vitalizi. E magari anche il terzo, del parlamento europeo. In più, la pensione ordinaria regalata: per gli eletti è infatti previsto che l’ente di previdenza provveda ad accreditare virtualmente i contributi di spettanza del datore di lavoro. Il taglio dei vitalizi per legge è forse l’unica strada percorribile. Ma certo non si presenta in discesa. Già vediamo il diluvio di ricorsi per aver lo Stato leso i diritti acquisiti, come accaduto già in alcune regioni. Il Lazio, per dirne una, aveva stabilito un ridimensionamento del 17 per cento e in più di settanta ex consiglieri si sono rivolti al Tar. Che ha bocciato il loro ricorso. Non domi, hanno minacciato di rivolgersi alla Corte dei diritti umani di Strasburgo. Quella che condanna la tortura, pensate... 6 ottobre 2015 (modifica il 6 ottobre 2015 | 08:00) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/15_ottobre_06/parlamentari-vitalizi-l-ipotesi-una-sforbiciata-100-milioni-682a679c-6be9-11e5-bbf5-2aef67553e86.shtml Titolo: SERGIO RIZZO L’esito finale di scelte pasticciate Inserito da: Arlecchino - Novembre 02, 2015, 08:39:31 pm L’esito finale di scelte pasticciate
Roma e il caso Marino, dalle primarie al notaio: fallimento da non ripetere Di Sergio Rizzo A Roma la festa della democrazia, perché tale è l’elezione di un sindaco scelto con il libero voto, finisce dunque nel peggiore dei modi. Ovvero, davanti al notaio incaricato di registrare le dimissioni dei consiglieri: l’epilogo meno democratico possibile. Ignazio Marino esce di scena accompagnato da uno strascico velenoso di scontrini ma senza altra colpa se non quella grave di non avere forse avuto il fisico adatto e i nervi saldi per governare la città più ingovernabile del Paese. Marino esce di scena, in più, con il paradosso che al suo posto arriva il prefetto di Milano, città che al contrario di Roma secondo Raffaele Cantone ha gli anticorpi contro la corruzione. Decisione che pare simbolicamente sovrapporre il successo dell’Expo al rischio di insuccesso del Giubileo. Questo esito avvilente per la stessa democrazia ha un punto di partenza preciso: le primarie del Pd. Lo strumento che dovrebbe garantire agli elettori il diritto a scegliere è servito invece spesso a coprire ipocritamente operazioni di bieco potere interno. Anche lo sbarco di Marino a Roma va ascritto a questo meccanismo. «Il primo sindaco di Roma libero dai partiti», come egli stesso si è definito, non è affatto un marziano. Si aggancia al Pd attraverso un politico non esattamente di primo pelo come Massimo D’Alema. Da parlamentare si candida addirittura alla segreteria del partito. Sconfitto, scende in lizza per diventare sindaco della capitale. Alle primarie, assente il favorito Nicola Zingaretti ormai governatore della Regione Lazio, lui sbaraglia tanto David Sassoli quanto Paolo Gentiloni: certo non grazie alle sue radici genovesi ma a una delle volpi più scafate della vecchia politica romana. Goffredo Bettini gli confeziona la vittoria. Il che non scoraggia Marino dall’utilizzo in campagna elettorale di slogan populisti come «Non è politica, è Roma». Il suo sponsor poi lo scaricherà prontamente dopo i primi infortuni, a conferma ulteriore che questa vicenda celebra il fallimento definitivo delle primarie made in Pd. Avendone preso atto, a un partito serio non resterebbe che assumersi la responsabilità di scegliere la persona giusta senza foglie di fico per mascherare manovre di corridoio. Nel rispetto, se non altro, degli elettori. 31 ottobre 2015 (modifica il 31 ottobre 2015 | 07:25) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_31/roma-primarie-notaio-pd-marino-sindaco-889ab196-7f97-11e5-8b57-f1b8d18d1f0e.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Trasporti campani e il Casinò Tutti gli sprechi Regione per Regione Inserito da: Arlecchino - Novembre 04, 2015, 06:23:58 pm Il dossier
I trasporti campani e il Casinò Tutti gli sprechi Regione per Regione La spesa sanitaria gestita dalle regioni italiane ha registrato nei primi dieci anni di questo secolo una crescita forsennata, in rapporto al crollo della ricchezza nazionale Di Sergio Rizzo Fra Matteo Renzi e Sergio Chiamparino non sappiamo chi riderà di più. Una cosa però è certa: il divertimento sarà assicurato. Le Regioni lamentano di essere da anni sotto pressione, così da rischiare, denuncia il dimissionario presidente della loro Conferenza, la stessa sopravvivenza. I tagli, affermano, sono insostenibili al punto che in certi casi non sarebbe possibile garantire servizi sanitari essenziali. Roba da far venire i brividi. La verità è che dal 2010, anno in cui la spesa per la sanità aveva toccato il tetto di 117,2 miliardi, nel 2016 lo stanziamento pubblico si fermerà a quota 111. Meno 5,3%: calo che però in termini reali, tenendo conto dell’inflazione, arriva all’11,6%. Raccontato così, i brividi vengono eccome. Ma la prospettiva cambia decisamente se allarghiamo l’orizzonte temporale del confronto. Nel 2000 la spesa si attestò a 71,2 miliardi: il che significa che nel 2016 il costo reale per il mantenimento del sistema sanitario risulterà del 18,8 per cento superiore a quello di una quindicina d’anni prima. Quando l’età media della popolazione era di sicuro inferiore, ma probabilmente non lo era la qualità del servizio, che del resto disponeva di un numero di posti letto ben maggiore. Il fatto è che la spesa sanitaria gestita dalle regioni ha registrato nei primi dieci anni di questo secolo una crescita forsennata, non soltanto al confronto di un’inflazione inferiore di quasi 19 punti, ma soprattutto del crollo della ricchezza nazionale. Il Fondo monetario stima per il prodotto interno lordo pro capite reale un calo del 6,1% fra il 2000 e il 2016, con un gap di quindi ben 25 punti rispetto alla dinamica dei costi della sanità. Sappiamo che le statistiche internazionali non considerano il dato italiano fuori linea rispetto alla media dell’Unione europea. Ma questi numeri non fanno sospettare se non altro sprechi e inefficienze, e non sono forse sufficienti per una riflessione seria, soprattutto considerando come in Italia esistano venti sanità con differenze abissali? Per non parlare poi di altre voci della spesa regionale. Tornato alla sua prima vita di professore universitario a Bologna, l’ex deputato del Pd Salvatore Vassallo si è messo a lavorare a un libro bianco sulla governance delle regioni. Lo ha fatto partendo da uno degli enti territoriali considerati in assoluto più efficienti, l’Emilia Romagna. E nonostante questo il lavoro del suo staff ha fatto emergere una serie di «patologie burocratiche». Per esempio la gestione della dotazione informatica, delle sedi (in alcune realtà numerosissime e costosissime) e delle società partecipate: sulle quali aveva acceso invano un riflettore anche l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli. Inutile aggiungere, come fa Vassallo, che certe patologie possono tranquillamente essere estese, in modo maggiore o minore, a tutte le altre Regioni. Alle società partecipate la Corte dei conti ha dedicato nello scorso mese di luglio un lungo e dettagliato rapporto, ricordando che recentemente le sezioni locali hanno formulato pressoché dappertutto una serie impressionante di rilievi alla loro gestione. Si va dalle perdite, in alcuni casi rilevantissime come nella Regione Campania, dove la gestione delle società di trasporto pubblico si è rivelata un bagno di sangue con un buco di 100 milioni nel solo 2010. Per arrivare a «carenze nell’esercizio delle verifiche». Fino all’aumento dell’indebitamento regionale finalizzato a tappare i buchi delle società. E qui saltano fuori casi spettacolari, come quello della ricapitalizzazione del Casinò de la Vallée di Saint Vincent costata alla Regione Valle D’Aosta una cinquantina di milioni: 390 euro per ogni valdostano. A dimostrazione del contributo formidabile che può arrivare dalle partecipate, la cui utilità è spesso assai discutibile, al rigonfiamento dei bilanci regionali. Dove il grasso, a dispetto delle grida di dolore che si levano davanti a ogni taglietto, non manca certo. Qualche mese fa la Confcommercio ha deciso di calcolare quanto ci costano le inefficienze nella gestione di quegli enti territoriali partendo dal presupposto che tutte le Regioni funzionassero come la Lombardia. Ne è scaturito un conto stellare di 82,3 miliardi, dei quali oltre metà (42 miliardi) attribuibili a sole quattro regioni: nell’ordine, Sicilia (13,8), Lazio (11,1), Campania (10,7) e Calabria (6,4). E il bello è che fra le inefficienze non sono nemmeno comprese quelle che per giunta ci fanno perdere un sacco di soldi europei. Al 31 maggio del 2015, secondo il sito Opencoesione, avevamo speso 34,3 miliardi degli importi disponibili per i programmi 2007-2013: nemmeno il 74 per cento del totale. E se per 23 di quei programmi il livello previsto era stato oltrepassato, per altri 22 non si era raggiunto nemmeno il minimo sindacale nell’impiego delle risorse. 4 novembre 2015 (modifica il 4 novembre 2015 | 10:07) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/15_novembre_04/tutti-sprechi-regione-regione-trasporti-campani-casino-de-vallee-9fa7a286-82d0-11e5-a218-19a04df8a451.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il sindacato vince i ricordi e fa perdere la fiducia Inserito da: Arlecchino - Novembre 24, 2015, 06:31:29 pm Il corsivo del giorno
Il sindacato vince i ricordi e fa perdere la fiducia Se servivano altre ragioni per affossare di più la fiducia dei cittadini italiani nel sindacato, eccole Di Sergio Rizzo Si potrebbe tirare in ballo anche in questo caso la facilità con cui in Italia i Tribunali del Lavoro danno sempre ragione ai dipendenti. E di sicuro la storia raccontata da Ernesto Menicucci sul Corriere di giovedì scorso ne offrirebbe una facile occasione. Accade infatti che il suddetto Tribunale annulli il sacrosanto obbligo alla rotazione delle zone di competenza imposto ai vigili urbani di Roma dall’ex sindaco Ignazio Marino. Obbligo, peraltro, al quale si era arrivati anche in seguito a un pronunciamento dell’autorità nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone. La ragione della rotazione è intuitiva: un vigile che presta servizio per troppo tempo nello stesso territorio può essere più facilmente indotto in tentazione. Si tratta dunque di una misura tesa non solo a ostacolare la corruzione spicciola ma anche a tutelare l’onorabilità degli stessi vigili urbani, preservando i valori etici. La cosa però non è piaciuta ai sindacati. I quali, non potendo per evidenti ragioni eccepire nel merito, si sono appigliati alla forma. E il giudice ha dato loro ragione condannando il Comune per «comportamento antisindacale»: non aveva informato il sindacato prima di approvare il Piano anticorruzione nel quale era prevista la rotazione dei vigili, ma soltanto il giorno dopo. Non fa una grinza. Così ora si può festeggiare: per le vecchie e rassicuranti rendite di posizione il pericolo è cessato. Complimenti dunque al Tribunale. Ma complimenti anche a chi al Comune ha alzato il pallonetto ai sindacati, non rispettando per filo e per segno le procedure: un comportamento tanto maldestro da far pensare a una mossa studiata. Soprattutto, però, complimenti alla Uil che ha promosso il ricorso. Se servivano altre ragioni per affossare di più la fiducia dei cittadini italiani nel sindacato, eccole. 21 novembre 2015 (modifica il 21 novembre 2015 | 09:33) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/15_novembre_21/sindacato-vince-ricordi-fa-perdere-fiducia-738c9326-9029-11e5-ac55-c4604cf0fb92.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Il silenzio dei politici sul processo in Vaticano Inserito da: Arlecchino - Novembre 26, 2015, 05:52:25 pm Il silenzio dei politici sul processo in Vaticano
Di Sergio Rizzo Se c’è una cosa che i politici non negano mai a nessuno è una dichiarazione di solidarietà. Il che rende ancora più sconcertante il silenzio di governanti, capibastone e perfino peones di partito, al cospetto della vicenda che vede coinvolti Emanuele Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi. Due cittadini italiani inquisiti con modalità assolutamente pretestuose da una magistratura estera per aver rivelato nei loro libri fatti, peraltro mai smentiti, di assoluto interesse pubblico per tutti coloro che si professano cattolici: almeno un miliardo di persone. Anche senza voler rispolverare i fantasmi dell’Inquisizione, non c’è dubbio che il rinvio a giudizio disposto dai giudici vaticani per due giornalisti accusati solo di aver fatto il proprio lavoro emani uno sgradevole odore di Cancelleria e roghi di libri messi all’Indice. Tanto più perché i nostri concittadini sono privati di alcuni diritti fondamentali della difesa previsti in uno Stato democratico. Non possono essere rappresentati al processo da avvocati di fiducia, ma esclusivamente da quelli che seguono le cause davanti alla Sacra Rota. Né possono leggere le carte al di fuori degli uffici dei legali, meno che mai averne copia. Dulcis in fundo, è già previsto che la sentenza venga emanata entro l’8 dicembre, data d’inizio del Giubileo. La condanna dunque appare già scritta. Su questa farsa non serve spendere altre parole. Dobbiamo invece farlo ancora sull’assordante silenzio dei nostri politici, così loquaci e striduli davanti alle telecamere dei talk show quando si litiga sul nulla. Un silenzio certo per qualcuno dettato da chissà quale calcolo, forse per altri dal momento particolare, e magari per altri ancora dalla sudditanza mai riposta nei confronti delle gerarchie clericali. Ma che ha il solo risultato di offendere sonoramente la nostra Costituzione. Dove, per chi non lo sapesse, c’è scritto: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero…». 26 novembre 2015 (modifica il 26 novembre 2015 | 07:51) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_26/silenzio-politici-processo-vaticano-5d5e1238-9406-11e5-be1f-3c6d4fd51d99.shtml Titolo: SERGIO RIZZO I verbali dei Consigli dei ministri sono coperti da segreto. Inserito da: Arlecchino - Dicembre 19, 2015, 05:28:51 pm IL CORSIVO DEL GIORNO
Un registro delle presenze al Consiglio dei Ministri I verbali dei Consigli dei ministri sono coperti da segreto. Così come l’elenco dei presenti alle riunioni, anch’esso oggi grottescamente secretato Di Sergio Rizzo Un suggerimento a Matteo Renzi: se non vuole pubblicare sul sito di Palazzo Chigi i verbali dei Consigli dei ministri, che con nostra grande sorpresa abbiamo scoperto essere coperti da segreto (!) ci metta almeno l’elenco dei presenti alle riunioni, anch’esso oggi grottescamente secretato (!!). Si eviterebbero così certi sospetti su decisioni che coinvolgono interessi personali dei membri del governo. Sarebbe per esempio del tutto legittimo sapere se alle riunioni in cui il Consiglio ha discusso dei provvedimenti bancari che riguardano anche Banca Etruria c’era il ministro Maria Elena Boschi, figlia del vicepresidente di quell’istituto, Pier Luigi Boschi. Lei nega, ma c’è chi non le crede. E il comunicato stampa, unico documento ufficiale di quella riunione, non scioglie un dilemma che invece si risolverebbe con un po’ di trasparenza. Concetto, però, al quale la nostra politica continua a essere fieramente allergica, soprattutto quando c’è in ballo il conflitto d’interessi. Prova ne è l’assurdo numero di leggi (almeno sei) con cui è stato infarcito il nostro ordinamento: tutte tese a contrastare quel virus nella forma senza però colpirlo nella sostanza. La prima risale al 1947, seguita nel 1953 dalle norme sulle incompatibilità parlamentari, nel 1957 dal testo unico che regola i rapporti fra i politici e le concessioni, nel 2000 dalla legge sugli enti locali, nel 2004 dalla legge Frattini e nel 2012 dalla legge Severino con relativa valanga di decreti attuativi. Una bulimia normativa che non ci ha impedito di detenere ancora oggi il record di Paese occidentale con il sistema politico più imbevuto di conflitto d’interessi. L’esatto contrario di nazioni nelle quali quel cancro viene combattuto sul serio e dove, come nel Regno Unito, a nessuno è mai venuto in mente di fare una legge. Semplicemente perché non ce n’è bisogno. Come non c’è bisogno di secretare i verbali delle riunioni di governo. 18 dicembre 2015 (modifica il 18 dicembre 2015 | 07:38) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_18/registro-presenze-consiglio-ministri-42606f20-a54b-11e5-a238-fd021b6faac8.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Le banche e l’ipocrisia dei moduli Inserito da: Arlecchino - Dicembre 19, 2015, 05:37:12 pm L’editoriale
Le banche e l’ipocrisia dei moduli Il funzionario di Banca Etruria che disse al pensionato suicida: «Le pare che se fosse una truffa le farei tenere tutti questi soldi lì?» Di Sergio Rizzo C’è una frase, nei resoconti del tragico suicidio del pensionato di Civitavecchia, che dice tutto a proposito del dramma di chi ha perso i risparmi investendo nelle obbligazioni subordinate. È attribuita a quel funzionario di Banca Etruria a cui Luigi D’Angelo si era rivolto per sentirsi rassicurare dopo aver ricevuto la lettera con la quale gli comunicavano che il «profilo di rischio» del suo investimento era peggiorato assai. «Le pare che se fosse una truffa le farei tenere tutti questi soldi lì?», gli dice il funzionario. E vogliamo credere che fosse in buona fede, almeno se è vero che anche i suoi genitori, come si premura di precisare, avrebbero comprato gli stessi titoli. Ma le sue parole rivelano quanto sia profonda l’ipocrisia occultata dietro certi formalismi. Chiunque oggi voglia investire i risparmi subisce in banca un lungo interrogatorio teso ad accertare la sua propensione al rischio, e deve poi sottoscrivere un questionario chilometrico spesso incomprensibile se non agli investitori professionisti. E siccome costoro non hanno alcun bisogno di compilare questionari, va da sé che la procedura riguarda esclusivamente i semplici risparmiatori, anche quelli che mettono da parte poche migliaia di euro. La firma sotto quel documento serve ad ammettere la propria ignoranza in materia di investimenti finanziari e a liberare quindi la banca da ogni responsabilità. Se il questionario dice che puoi al massimo acquistare dei Bot avendo precisa consapevolezza di ciò che stai acquistando, e invece poi compri delle obbligazioni subordinate, sono fatti tuoi. Eri stato avvertito. Ecco la risposta che il sistema ha dato agli scandali Cirio e Parmalat, nonché alle vergognose scorribande dei tanti titoli spazzatura che hanno massacrato per anni, a cominciare dai famosi bond argentini, i risparmiatori italiani. Peccato che tale risposta abbia il solo scopo di mettere le banche al riparo dalle conseguenze giudiziarie senza tutelare concretamente la generalità dei risparmiatori. Quanti di loro, dopo aver firmato l’ammissione di assoluta ignoranza, hanno poi fatto investimenti rischiosissimi, convinti allo sportello da argomentazioni come quelle usate, magari in buonafede, con Luigi D’Angelo? E quanti sono stati invece vittime di una strategia in piena regola, che non prevedeva nemmeno la buonafede? Il fatto è che i formalismi introdotti a salvaguardia delle banche non hanno onorato il compito che ci si doveva aspettare, ovvero garantire l’assoluta trasparenza su ciò che viene venduto ai risparmiatori, assolvendo perfino certe discutibili modalità con cui determinati prodotti vengono piazzati ai più fragili e incauti. Il commissario europeo ai servizi finanziari Jonathan Hill ieri si è spinto a dire che le quattro banche hanno venduto «prodotti non adatti a persone che forse non sapevano cosa stessero comprando», proprio come ai tempi dei bond Cirio e Parmalat. E non è una coincidenza, sostengono gli osservatori più esperti, se il fenomeno è andato diffondendosi negli ultimi tempi più nei piccoli centri e negli istituti di provincia. Che il mancato salvataggio delle quattro banche avrebbe avuto conseguenze ancora più gravi, come afferma il governo, può forse essere vero. Ed è inaccettabile che l’Unione Europea, dopo che la Germania ha impiegato 270 miliardi di risorse pubbliche per evitare (e in certi casi a più riprese) il crac delle proprie banche, opponga ora questioni di lana caprina a questo intervento. Ma è altrettanto palese che non ci si può illudere di risolvere così il problema, facendo pagare il conto più grosso ai risparmiatori e ad azionisti nella grande maggioranza, riteniamo, alquanto ignari. Soprattutto perché sarebbe socialmente insopportabile il ripetersi di fatti simili, su scala simile. E qui è innanzitutto il sistema bancario a doversi far carico delle proprie responsabilità: le ipocrisie formali non servono a nulla se il rapporto con la clientela non è limpido. Quanto al governo e alla Banca d’Italia grava su di loro il compito di garantire ai risparmiatori che la trasparenza sia un dogma irrinunciabile per chiunque venda loro un qualsiasi prodotto finanziario. Con pene esemplari, e applicate veramente, in caso contrario. Soltanto così, dopo questo ennesimo scandalo, si potrà ristabilire davvero la piena fiducia nel mercato. 11 dicembre 2015 (modifica il 11 dicembre 2015 | 08:04) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_11/banche-l-ipocrisia-moduli-f501297e-9fd0-11e5-9e42-3aa7b5e47d96.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Casinò, calciatori, festival, cori e bande: stabilità, le mance... Inserito da: Arlecchino - Dicembre 26, 2015, 11:19:28 pm Le norme
Casinò, calciatori, festival, cori e bande: stabilità, le mance di una legge da 35 miliardi Risorge la vecchia finanziaria delle lobby sotto le ceneri della «Stabilità». Nove milioni andranno a Campione d’Italia dove la casa da gioco ha perso 105 milioni Di Sergio Rizzo Il buon Natale agli elettori siciliani l’ha regalato il deputato democratico loro conterraneo Angelo Capodicasa. Con un emendamento ha fatto prorogare per un anno i contratti di settemila precari nei Comuni falliti o sull’orlo del dissesto. «E senza neppure dover attendere il milleproroghe!» ha esultato l’onorevole che fu per una breve stagione, alla fine degli anni Novanta, addirittura presidente della Regione siciliana. Ma sul fatto che assomigli tanto alla solita grande operazione clientelar-assistenziale c’è poco da esultare. Esattamente come per i 20 milioni elargiti dalla medesima legge di Stabilità ai forestali calabresi. Ancora una volta, come sempre, da tempo immemore. A dimostrazione del fatto che non basta cambiare il nome a una legge perché la legge cambi davvero. Correva l’anno 2009 e Giulio Tremonti descriveva l’assalto alla diligenza che stava accompagnando la legge di bilancio in parlamento per l’ennesima volta come «un film dell’orrore che non vogliamo più proiettare». Mesi più tardi la finanziaria diventava così «legge di Stabilità». Un provvedimento «totalmente tabellare», ispirato quindi alle sobrie leggi di bilancio britanniche inemendabili, precisava l’ex ministro dell’Economia che vedeva materializzarsi un sogno inseguito dal 2002. Ma che invece continua a rivelarsi, anno dopo anno, un autentico incubo. La prima finanziaria risale al 1978: sessanta articoli e quattro tabelle. Da allora è stato un crescendo inarrestabile fino ai 1.364 indecifrabili commi della legge di bilancio 2007, la prima del secondo governo Prodi. A nulla sono serviti gli appelli del Colle, da quel messaggio alle Camere trasudante indignazione di Carlo Azeglio Ciampi nel 2004, alle reprimende del suo successore Giorgio Napolitano. E la parolina magica, «stabilità», si è rivelata una illusione assoluta. Alla faccia della stessa norma grazie alla quale la vecchia finanziaria è diventata cinque anni fa «legge di Stabilità», e secondo cui il provvedimento di bilancio non può contenere disposizioni localistiche o microsettoriali, oggi la seconda «legge di Stabilità» targata Renzi si avvia a salire sul podio delle finanziarie più obese della storia. È entrata infatti in aula alla Camera con 993 commi. Appena dietro i 1.364 della legge di bilancio 2007 e i 1.193 di quella dell’anno seguente. Una creatura mostruosa uscita da quello che ha definito «un suk indecente in commissione bilancio» il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta. Che però deve aver scordato l’indecenza del medesimo suk quando era il suo partito a menare la danza. La prova che si sapeva fin dall’inizio come sarebbe andata a finire, del resto, sta tutta in quello che si chiama «fondo per gli interventi strutturali di politica economica»: 150 milioni a disposizione della Camera e altrettanti del Senato per soddisfare le richieste degli onorevoli. Con la presenza di quell’aggettivo, «strutturali», che conferisce amara comicità a questo serbatoio delle marchette parlamentari. Ecco allora spuntare, accanto a cose che molto hanno fatto discutere come i 500 euro ai diciottenni e i 100 milioni del 2 per mille alle associazioni culturali, anche 9 milioni per il comune di Campione d’Italia: dove la locale casa da gioco in dieci anni ha perso 105 milioni. Perdite, quelle sì, «strutturali». È l’emblema della morale a doppio senso di uno Stato che mentre dice di voler colpire il gioco d’azzardo ripiana le perdite del casinò di proprietà di una società pubblica. Per giunta avendo stabilito che gli enti locali devono cedere le partecipate non coerenti con l’attività istituzionale. E c’è forse qualcosa di meno coerente di un casinò? Impossibile che in cima all’elenco delle mance impietosamente compilato dal Movimento 5 Stelle non finisse quel finanziamento. Insieme ai 20 milioni per i collegamenti aerei con la Sicilia, ai 15 del Fondo per la montagna, ai 10 del Comitato per le Olimpiadi di Roma 2014, ai 10 per Radio Radicale, ai 5 per la bonifica della Valle del Sacco, allo sconto fiscale sulla compravendita dei calciatori... Per non parlare di briciole ancora più minute contenute in quella lista. Come i soldi per finanziare festival, cori e bande: 3 milioni in tutto. O il milioncino al Club alpino e al Centro ricerca Ebri, i 500 mila euro alla Fondazione Maxxi e all’Istituto Suor Orsola di Benincasa, i 300 mila per la sopravvivenza della società Dante Alighieri, fino ai 70 mila al museo della civiltà istriano-fiumano-dalmata. Interventi, ne siamo sicuri, in qualche caso anche doverosi al di là delle scontate critiche grilline. Ma che con la «legge di Stabilità» c’entrano come i cavoli a merenda. 20 dicembre 2015 (modifica il 21 dicembre 2015 | 11:06) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/15_dicembre_20/casino-calciatori-festival-cori-bande-stabilita-mance-una-legge-35-miliardi-58f7574c-a6ec-11e5-9876-dad24a906df5.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Un euro di imposte per ogni litro In Italia la benzina più cara... Inserito da: Arlecchino - Gennaio 25, 2016, 11:30:41 pm L’INCHIESTA
Un euro di imposte per ogni litro In Italia la benzina più cara d’Europa Rispetto al 2008 il costo del barile è sceso del 19%, ma le accise sono aumentate del 46%. Date le quotazioni attuali del greggio, alla pompa non dovrebbe superare i 44 centesimi, ma poco meno del 70% va dritto al fisco Di Sergio Rizzo Si mettano l’anima in pace, gli automobilisti. Perché se anche il prezzo del petrolio dovesse sfondare il suo minimo storico, che fu toccato il 10 dicembre 1998 quando le quotazioni del brent calarono a 9 dollari e 55 centesimi, mai e poi mai la benzina costerà meno di un euro al litro. Sospettano i maligni che sia tutto un gioco delle compagnie petrolifere, lestissime a rincarare se il greggio sale e invece lentissime a tagliare se il greggio scende. Nel conto c’è da mettere pure questo, ad essere sinceri. Ma la vera colpa ce l’hanno le tasse. Negli ultimi anni, con un processo carsico, sfuggito quindi all’attenzione di quasi tutti gli italiani, il gravame fiscale sui carburanti è salito in modo vertiginoso, inarrestabile e furbesco. Al punto che oggi le imposte rappresentano ben oltre i due terzi del costo alla pompa di un litro di gasolio. La pervicacia con cui il fisco si è accanito sui derivati del petrolio viene fuori con tutta la sua arrogante evidenza da un confronto che ha fatto l’ufficio studi della Confartigianato diretto da Enrico Quintavalle fra i prezzi attuali e quelli di sette anni fa. Quando il costo del petrolio sui mercati internazionali era pressoché agli stessi livelli. Allora, nel dicembre 2008, tenendo conto che la moneta europea era decisamente più forte di oggi sul dollaro, le quotazioni del brent si attestavano intorno ai 29 euro e il prezzo medio alla pompa del gasolio per autotrazione era di un euro e 111. Oggi, con un costo medio del petrolio a circa 30 euro, il prezzo medio della nafta è invece di un euro e 251: il 12,6% in più. E questo, si badi bene, nonostante il prezzo al netto delle imposte sia del 18,8 per cento inferiore. Il che significa un rincaro del 31,4% esclusivamente attribuibile alle tasse: niente affatto sorprendente, se si pensa che in 7 anni le accise sono cresciute del 46% e il carico dell’Iva è aumentato a sua volta del 21,8 per cento. Grazie anche a un marchingegno tutto da spiegare. Nel dicembre 2008 le accise pesavano su un litro di gasolio per 42,3 centesimi. C’erano poi da sommare 18,53 centesimi di Iva: non il 20 per cento (livello dell’aliquota dell’imposta sul valore aggiunto allora vigente) rispetto ai 50,34 centesimi che all’epoca costituivano il prezzo della nafta al netto del carico fiscale, bensì quasi il doppio. Esattamente, il 36,8 per cento. La ragione? L’Iva non si applica soltanto sul prodotto industriale, ma anche sulle accise: con il risultato surreale che qui si tassano anche le tasse, per la maggior gloria del fisco. A conti fatti, le imposte, più naturalmente le imposte sulle imposte, toccavano 60,82 centesimi, il 57,4%del totale. Mentre ora si è arrivati a 84,31, e siamo al 67,4%del totale. Una differenza di quasi 23,5 centesimi per litro, che proiettata sulle 22 milioni di tonnellate di gasolio consumate annualmente in Italia significa per il fisco un maggiore introito di quasi 5,2 miliardi di euro ogni 12 mesi. E non è cosa da poco, soprattutto considerando il subdolo meccanismo che abbiamo raccontato. Il solo effetto delle tasse sulle tasse è di quasi 14 centesimi al litro, pari a circa 3 miliardi di euro sui consumi totali di gasolio. Poi c’è la benzina, e le cose non vanno assolutamente meglio. Perché qui le accise gravano su un litro per 72,8 centesimi, e se si aggiunge anche l’Iva, considerando anche in questo caso l’impatto delle tasse sulle tasse, il peso del prelievo fiscale sfiora un euro su un costo medio alla pompa di un euro e 421. Dato che senza imposte e con le quotazioni attuali del greggio un litro di benzina non dovrebbe costare più di 44 centesimi, se ne deduce che poco meno del 70%del prezzo finale va al fisco. La conclusione a cui arriva l’ufficio studi della Confartigianato è che i consumatori italiani pagano il gasolio più caro di tutta Europa, con le uniche eccezioni di Svezia e Regno Unito, nonostante un costo nudo e crudo del carburante che è appena al ventesimo posto nel continente. E pagano anche la benzina più cara di tutta l’Unione, escludendo i soli Paesi Bassi. Negli Stati Uniti un litro costa 47 centesimi di euro, in Arabia Saudita 23 centesimi. Né manca una beffa finale: perché la differenza fra il nostro prezzo della «verde» e la media europea, pari a un euro e 273, è dovuta interamente a quel meccanismo perverso dell’Iva calcolata anche sulle accise di cui abbiamo parlato. Un fatto francamente inaccettabile, da far inorridire anche la costituzione. 23 gennaio 2016 (modifica il 23 gennaio 2016 | 08:14) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/16_gennaio_23/euro-imposte-ogni-litro-italia-benzina-piu-cara-d-europa-abacbd4e-c19d-11e5-b5ee-f9f31615caf8.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Dieci milioni al giornale che «fabbricava» pubblicisti In 6 anni.. Inserito da: Arlecchino - Gennaio 30, 2016, 12:37:27 pm CONTRIBUITI ALL’EDITORIA
Dieci milioni al giornale che «fabbricava» pubblicisti In 6 anni i soldi pubblici sono arrivati al «Corriere laziale», piccolo giornale sportivo romano che ha sfornato 560 tesserini: esposto dell’ordine dei giornalisti Di SERGIO RIZZO Dieci milioni 254.825 euro di soldi pubblici. Tanti ne ha incassati in sei anni, dal 2006 al 2011, un piccolo giornale sportivo romano che fa capo a una cooperativa, la Edilazio ‘92. Si chiama Corriere laziale, e in quanto vestito da coop è stato ammesso a godere delle laute provvidenze a carico dei contribuenti previste dalle leggi per l’editoria. Piccolo, ma dotato di una impressionante produttività di tessere professionali, considerando che ha sfornato da solo qualcosa come 560 (cinquecentosessanta!) pubblicisti. Come sia stato possibile, è scritto in un esposto che la presidente dell’ordine dei giornalisti di Roma, Paola Spadari, ha presentato alla Procura della Repubblica. Con tanto di testimonianze e verbali. Nella denuncia si ricorda come l’ex direttore responsabile Eraclito Corbi, amministratore unico della cooperativa editrice del giornale nonché marito dell’attuale direttore Marcella Coccia, e per giunta già consigliere nazionale dell’ordine, sia stato sospeso per un anno dall’albo in seguito a un provvedimento disciplinare avviato dal predecessore di Paola Spadari, Bruno Tucci, decano del Corriere della Sera. Decisione confermata la scorsa primavera in secondo grado. Con una sanzione che sarebbe stata ancora più pesante, si dice nelle carte, se non esistesse quella regola piuttosto singolare per cui le sentenze dei ricorsi contro i provvedimenti disciplinari dell’ordine dei giornalisti non possono risultare peggiorative. Quale l’accusa? Quella di aver messo in piedi una specie di fabbrica di pubblicisti, con una catena di montaggio funzionante a pieno ritmo. Ma a spese degli operai. La tesi fatta propria dal consiglio di disciplina dell’ordine è che il giornale reclutava giovani aspiranti giornalisti da impiegare per realizzare le cronache degli avvenimenti sportivi locali nel Lazio. Il loro compenso? Spiegano gli atti che consisteva solo nella documentazione necessaria per avere la sospirata iscrizione all’albo, che per i pubblicisti consiste in un certo numero di articoli pubblicati, a patto che siano regolarmente retribuiti. E questo è l’aspetto più delicato della faccenda, perché fra le testimonianze raccolte durante l’istruttoria sfociata nella sanzione inflitta a Corbi, c’è anche quella di chi ha dichiarato di aver dovuto firmare attestazioni di pagamenti mai avvenuti. Per il consiglio di disciplina il meccanismo sarebbe stato gestito da un’impresa familiare in piena regola, con l’ex direttore coadiuvato dai tre figli. Il tutto, con il corollario di quei generosi contributi pubblici incassati in sei anni. La nuova presidente dell’Ordine di Roma ha ora ritenuto che ci fossero gli estremi per far uscire la vicenda dal recinto professionale, investendone i pm. In un clima di guerra totale con il Corriere laziale. Perché quel giornale specializzato nel seguire le serie calcistiche minori si sta impegnando a fondo da settimane in uno sport completamente diverso e del tutto inedito: il tiro all’Ordine. Ultimo capitolo, il titolone a tutta pagina del numero nel quale si riprende un articolo pubblicato una decina di giorni fa dal Fatto Quotidiano che dava conto di rilievi sollevati da uno dei sindaci revisori su certe voci di spesa: «Odg sotto accusa. Quanti sprechi!». La battaglia infuria, senza esclusione di colpi. Non passa giorno senza bordate all’indirizzo tanto di Paola Spadari, quanto del precedessore Tucci. Bordate in certi casi talmente eleganti da aver indotto la presidente a querelare il giornale. Mentre Corbi, abruzzese di Avezzano, l’avverte a mezzo stampa che da «lupo marsicano» si è trasformato «in cinghiale» pronto a caricare. E «credetemi», aggiunge, «le furie di un cinghiale sono spaventose» ... 21 marzo 2014 | 10:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/14_marzo_21/dieci-milioni-giornale-che-fabbricava-pubblicisti-9055b7b6-b0d4-11e3-b958-9d24e5cd588c.shtml Titolo: SERGIO RIZZO «Così l’immigrazione può diventare un’opportunità per l’Italia» Inserito da: Arlecchino - Maggio 09, 2016, 06:12:11 pm MIGRANTI
«Così l’immigrazione può diventare un’opportunità per l’Italia» L’inchiesta di Report: basta cooperative, lo Stato gestisca i rifugiati utilizzando le caserme vuote Per accogliere 200 mila persone l’anno servirebbero 400 immobili Di Sergio Rizzo Quattrocentosettanta chilometri di filo spinato. Una lunghezza pari a quasi quattro volte quella del primo muro tirato su in Europa, 19 secoli fa: il Vallo di Adriano. Due millenni più tardi le barriere di reti e acciaio spuntano in tutto il Continente. Cento chilometri fra Bulgaria e Turchia, 175 fra Ungheria e Serbia, una trentina fra Austria e Slovenia, 166 fra Slovenia e Croazia. E dove non ci sono muri fisici ecco le frontiere, e alle frontiere le divise, i fucili spianati, i controlli. «Schengen è morto», sentenzia il deputato del partito del popolo danese Kenneth Kristensen Berth con l’inviata di Report Claudia Di Pasquale. Quel partito rappresenta la destra antieuropea, vero. Ma la realtà dei fatti è che la libera circolazione delle persone nel nostro continente non esiste più. L’emergenza immigrazione ha risvegliato pulsioni nascoste: egoismi e nazionalismi che rischiano di far naufragare gli ideali stessi alla base dell’Unione. In questa crisi senza precedenti dei principi che da sessant’anni ci tengono insieme, l’Italia è il classico vaso di coccio. Con ottomila chilometri di frontiere liquide, impossibili da controllare, e la rotta dei Balcani ormai sbarrata, l’urto dell’immigrazione è tutto sulle nostre spalle, oltre che su quelle della Grecia. Un problema enorme da fronteggiare. A meno che non diventi un’opportunità. In che modo hanno provato a immaginarlo quelli di Report di Milena Gabanelli nella puntata che va in onda domenica sera su Raitre. L’idea è quella di riportare la gestione dei rifugiati nelle mani dello Stato. Basta con gli affidamenti a certe cooperative: la storia del Cara di Mineo insegna. Basta con i finanziamenti agli alberghetti trasformati in ostelli degradati. Basta con il torbido intreccio su cui si allunga l’ombra di interessi politico-affaristici. Le strutture pubbliche L’Italia è piena di strutture pubbliche che potrebbero essere utilizzate per i compiti di accoglienza dei rifugiati. Caserme vuote ce ne sono dappertutto, e molte neppure in condizioni pessime. Alcune hanno cucine e servizi igienici funzionanti. Oltre a locali utilizzabili per i corsi di lingua, educazione civica e formazione professionale. Per accogliere 200 mila persone l’anno servirebbero 400 immobili. Il costo per rendere idoneo a tale funzione questo patrimonio pubblico si potrebbe aggirare, secondo le stime degli esperti consultati da Report (fra cui l’urbanista Paolo Berdini), intorno ai 2 miliardi. Altri 2 miliardi e 165 milioni l’anno sarebbero necessari per il mantenimento delle strutture, compreso lo stipendio per 25 mila addetti e 400 medici. Chi pagherebbe? «Se l’Italia mettesse in piedi un piano nazionale complessivo e il governo lo facesse suo presentandolo ufficialmente agli organi europei competenti, sarebbe senz’altro recepito positivamente. Se sono necessari più soldi ne discutiamo nel dettaglio, i soldi ci sono», risponde il commissario europeo all’immigrazione Dimitris Avramopoulos a Giuliano Marucci di Report. Potrebbe pagare dunque l’Europa. I rifugiati richiedenti asilo sarebbero accolti in strutture adatte e organizzate nel nostro Paese, per poi essere smistati secondo le quote nei vari paesi: identificati, preparati, istruiti e coscienti dei diritti e dei doveri europei. In cambio, una volta finita l’emergenza, ci resterebbe un patrimonio immobiliare pubblico ristrutturato e di valore enormemente accresciuto. Conosciamo l’obiezione: per la politica (e la burocrazia) italiana è una sfida impossibile. E non è campata per aria. Ma perché non provarci? © RIPRODUZIONE RISERVATA 7 maggio 2016 (modifica il 8 maggio 2016 | 08:34) Da - http://www.corriere.it/cronache/16_maggio_08/cosi-l-immigrazione-puo-diventare-un-opportunita-l-italia-c4d45364-1494-11e6-b0b7-529290156e84.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Lo scontro fra treni in puglia La grave sciagura della non politica Inserito da: Arlecchino - Luglio 14, 2016, 04:55:13 pm Lo scontro fra treni in puglia
La grave sciagura della non politica Sono stati realizzati i lavori per l’Alta velocità, in compenso, ci siamo del tutto e volutamente dimenticati della parte numericamente più rilevante dell’utenza, ovvero quei milioni di pendolari che prendono ogni giorno il treno. In condizioni non sempre degne del genere umano Di Sergio Rizzo In una sfolgorante mattina di luglio hanno ferito a morte l’Italia intera. Non l’Italia dell’Alta velocità, delle carrozze con le poltrone in pelle, sala cinema e prosecco ghiacciato. Ma l’Italia degli studenti, dei pendolari, dei pensionati, dei poliziotti. Non può consolare sapere che secondo le statistiche il sistema ferroviario italiano è considerato fra i più sicuri d’Europa. Né che una collisione del genere non si verificava da nove anni. E neppure che dei 59 morti per incidenti ferroviari nel 2015 (meno di un cinquantesimo rispetto alle vittime della strada) 57 sono stati travolti sui binari. Se la causa sia da ricercare nell’errore umano o degli strumenti, speriamo venga presto accertato. Ma un colpevole oggettivo lo conosciamo già: la sciagurata non politica del non trasporto pubblico. L’ultimo rapporto Pendolaria di Legambiente ci dà un quadro desolante. Il servizio ferroviario regionale ha subito dal 2010 a oggi tagli valutabili nel 6,5 per cento, mentre le tariffe continuavano ad aumentare. È successo in tutta Italia, ma il Sud è stato letteralmente massacrato: -9,8 per cento in Abruzzo, -12,1 in Sicilia, -15,1 in Campania, -18,9 in Basilicata, -26,4 in Calabria... E anche se la Puglia se l’è cavata con un modesto -3,6, i biglietti sono comunque rincarati di oltre l’11 per cento. Questa storia viene da molto lontano. Comincia già negli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia quando il Sud, con un livello di infrastrutture ferroviarie pari a un decimo del Centro-Nord, viene pesantemente penalizzato negli investimenti. E continua dopo la Repubblica, quando al ferro dei treni (l’ideale per un Paese stretto e lungo, sostengono gli esperti), si preferisce la gomma delle auto e dei camion. Per arrivare al disastro definitivo con le Regioni, alle quali lo stato centrale demanda la gestione del trasporto locale. Il risultato? Investimenti irrilevanti e qualità del servizio penosa. Una situazione che prefigura, analogamente a quanto accade nella sanità, differenze rilevanti nei diritti costituzionalmente garantiti fra pezzi dello stesso Stato. Per non parlare delle conseguenze sugli stessi livelli di sicurezza. Esistono ormai tecnologie tali da rendere il traffico ferroviario sicuro quasi al cento per cento, con sistemi capaci, in caso di pericolo, di bloccare automaticamente il convoglio. Che su quella linea della tragedia, peraltro ancora a binario unico nonostante un progetto di raddoppio partito addirittura nel 2007, non ci sono. Perché per averli bisogna investire: se i soldi non ci sono, o peggio ancora vengono sprecati come accadeva alle Ferrovie del Sud-Est nella stessa Puglia della tragedia del Barese, ecco che gli investimenti non si possono fare. Di conseguenza ci può andare di mezzo anche la sicurezza. E qui viene fuori tutta la responsabilità della politica, incapace di concepire un disegno strategico per una funzione sociale così importante e delicata, che non sia quello dei tagli. Ricorda sempre Pendolaria che negli ultimi cinque anni sono stati chiusi 1.189 chilometri di ferrovie, con la soppressione di linee un tempo fondamentali per il Sud, come la Pescara-Napoli. Nel frattempo non si può dire che i cordoni della borsa siano rimasti sigillati. Tutt’altro. Abbiamo infatti costruito l’Alta velocità, anche se a un costo triplo rispetto a Paesi quali la Spagna e la Francia. A parte quel dettaglio non esattamente trascurabile, da sommare ai vent’anni che ci sono voluti, siamo ovviamente felici che sia stata fatta. Almeno da questo punto di vista l’Italia si è avvicinata all’Europa. In compenso, ci siamo del tutto e volutamente dimenticati della parte numericamente più rilevante dell’utenza, ovvero quei milioni di pendolari che prendono ogni giorno il treno. In condizioni non sempre degne del genere umano. La mancanza di una seria politica del trasporto locale li ha precipitati in un girone dantesco fatto di carrozze sfasciate gelate d’inverno e roventi d’estate, convogli sudici, stracolmi e perennemente in ritardo. Un girone nel quale si accalcano operatori improbabili, non importa se pubblici o privati. Il tutto in una demenziale ripartizione regionale frutto di un federalismo insensato e accattone. E se non esiste neppure un divario apprezzabile fra Nord e Sud (prova ne sia il fatto che dal 2010 sono state eliminate 15 linee in Piemonte, dove le tariffe sono salite del 47 per cento), di sicuro il Mezzogiorno è sempre più vicino all’Inferno. Adesso ascolteremo le promesse di rito. La cosa grave, temiamo, è che domani, dopo il dolore e i funerali, tutto tornerà come prima. 12 luglio 2016 (modifica il 12 luglio 2016 | 21:40) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_luglio_13/puglia-grave-sciagura-non-politica-10bded44-4866-11e6-9c18-dd6019c078c3.shtml Titolo: SERGIO RIZZO Non è l’Europa che fa crollare le scuole (Neppure Renzi però) Inserito da: Arlecchino - Novembre 05, 2016, 10:48:56 am IL CORSIVO DEL GIORNO
Non è l’Europa che fa crollare le scuole Fa rabbia confrontare la situazione deprecabile in cui versa la nostra edilizia scolastica con il vergognoso spreco di fondi comunitari. Altro che dare la colpa al patto di Stabilità Di Sergio Rizzo Assai arduo sostenere, come ha fatto ancora Matteo Renzi, che «è impensabile» veder crollare le nostre scuole «per la stabilità europea». Perché questa non c’entra proprio nulla con gli edifici scolastici che vengono giù come castelli di carte a ogni scossa di terremoto. Non è certo responsabile il patto di Stabilità se nel 2002 la scuola di San Giuliano di Puglia ha schiacciato una intera prima elementare: unico edificio di quel paese a crollare. Come non si può imputare ai rigori di bilancio imposti da Bruxelles il crollo della scuola di Amatrice, peraltro oggetto di un «miglioramento antisismico» giusto prima del terremoto del 24 agosto. Il presidente del Consiglio dovrebbe puntare piuttosto il dito contro la sconcertante indifferenza con cui il Paese tratta da decenni il proprio futuro. Già nel 2007 una indagine del governo di Romano Prodi aveva accertato che ben oltre metà degli edifici scolastici non era a norma. Proprio ieri Legambiente ha poi diffuso un rapporto sull’edilizia scolastica dal quale risulta che lo stato delle scuole nella regione Lazio, dove il rischio sismico è particolarmente elevato, risulta letteralmente disastroso. La provincia di Rieti, cui appartiene Amatrice, è al cinquantesimo posto fra tutte quelle italiane. La ragione? Pochi soldi, d’accordo, ma anche spesi male: con programmi eccessivamente frammentati e senza un coordinamento. Una follia. Alla quale si è cercato ora di porre rimedio creando una unità di missione per gestire il piano da un miliardo e 680 milioni messo in campo dal governo. Di cui finora si è riusciti a impiegare 902 milioni. Quanto all’Europa, fa rabbia confrontare la situazione deprecabile in cui versa la nostra edilizia scolastica con il vergognoso spreco di fondi comunitari. Altro che dare la colpa al patto di Stabilità. 3 novembre 2016 (modifica il 3 novembre 2016 | 21:34) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cultura/16_novembre_04/non-l-europa-che-fa-crollare-scuole-39925434-a1f9-11e6-9c60-ebb37c98c030.shtml Titolo: SERGIO RIZZO La vittoria del No, salvacondotto a vita per un Senato intoccabile Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2016, 11:26:55 am Dopo il voto
La vittoria del No, salvacondotto a vita per un Senato intoccabile Chi avrà mai la forza di riproporre un sia pur minimo ridimensionamento dei poteri della Camera alta, dopo quello che è successo? Di Sergio Rizzo Dopo la vittoria del No si sono sparse notizie di calorosi festeggiamenti al Cnel redivivo. Reazioni più sobrie, invece, al Senato. Dove qualcuno non ha comunque risparmiato ironie. Maurizio Gasparri, per esempio, ha twittato: «Il Senato c’è, Renzi non c’è più». Niente di più vero. Il Senato c’è e ci sarà sempre, perché il No è soprattutto un salvacondotto perpetuo per Palazzo Madama. Giusta o sbagliata che fosse la riforma, il risultato non può essere che questo. Chi avrà mai la forza di riproporre un sia pur minimo ridimensionamento dei poteri della Camera alta, dopo quello che è successo? E quanti sostengono che ora «si potrà fare una riforma seria» lo sanno benissimo. Il meccanismo della conservazione, in questo Paese resistente a ogni cambiamento, è super collaudato. In un senso come nell’altro. Basterebbe ricordare in che modo si è salvato il ministero dell’Agricoltura dopo che un referendum popolare l’aveva abolito: semplicemente cambiando nome in «ministero delle Politiche agricole e forestali». O come i rimborsi elettorali siano esplosi proprio dopo un referendum che avrebbe dovuto cancellare il finanziamento pubblico dei partiti. Idem accadrà per le Regioni, luoghi nei quali l’opposizione a ogni cambiamento è ancor più radicata. Vivrà in eterno quell’assurdo titolo V voluto nel 2001 da un centrosinistra in affanno nel disperato tentativo di arginare l’ondata leghista e poi incredibilmente confermato al successivo referendum dai cittadini ignari (come in questo caso) tanto del merito quanto delle conseguenze. Di più. Non solo le Regioni manterranno l’insensata competenza esclusiva su alcune materie quali turismo o energia, ma il voto del 4 dicembre varrà anche per loro come salvacondotto perpetuo nei confronti di qualunque tentativo di riforma futura. I consiglieri regionali, poi, sono finalmente al sicuro: nessuno potrà più imporre loro tetti alle generose buste paga, né vietare i contributi ai gruppi politici consiliari al centro di gravissimi scandali. L’ex commissario alla spending review Roberto Perotti ci ha già mostrato, del resto, con quale abilità i signori consiglieri siano riusciti ad aggirare il tetto alle retribuzioni imposto dal governo di Mario Monti. Che dire infine delle Province? Sopravvivranno anch’esse nei secoli a venire. E quei martiri della democrazia che in Calabria hanno affisso una lapide nella sede della ex Provincia con scolpiti i nomi degli ultimi consiglieri «eletti a suffragio universale», troveranno un motivo di riscatto. Perché oggi nessuno si stupirebbe davanti a una proposta di abrogazione della legge Delrio che facesse tornare nuovamente elettivi quegli incarichi. 7 dicembre 2016 (modifica il 7 dicembre 2016 | 19:18) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_dicembre_08/vittoria-no-salvacondotto-vita-un-senato-intoccabile-aff7bc44-bca8-11e6-9c31-8744dbc4ec0a.shtml Titolo: SERGIO RIZZO I tagli mai fatti: ogni giorno una società pubblica in più Inserito da: Arlecchino - Luglio 16, 2017, 04:57:57 pm I tagli mai fatti: ogni giorno una società pubblica in più
Lo studio Ires-Cgil: sono quasi 9mila, 5mila nate solo tra il 2000 e il 2014. Gli enti locali assumono beffando le leggi. Record in Val d’Aosta con una partecipata ogni 1.929 cittadini. E una su 5 è inattiva Di SERGIO RIZZO 13 luglio 2017 La società delle Terme di Salsomaggiore è in rosso dal 2008 La pioggia delle società pubbliche, indifferente al clima politico e ai rovesci dell’economia, non si è mai fermata. Una al giorno, ne è nata. Per anni e anni, fino ad allagare Regioni, Province, Comuni. La fotografia scattata dalla Cgil con il suo centro studi Ires in un approfondito studio di 60 pagine, ci consegna oggi un’immagine mostruosa. Uno scenario popolato da 8.893 società partecipate dalle pubbliche finanze e cresciute a un ritmo impressionante: circa 5mila nel solo periodo compreso fra il 2000 e il 2014, fino a raggiungere uno spettacolare rapporto di una ogni 6.821 abitanti. Con i suoi amministratori, i suoi revisori, i suoi dirigenti: spesso soltanto quelli. E punte inarrivabili. Come nel Trentino Alto Adige, dove si sono contate 498 scatole societarie create con i soldi dei contribuenti. Ovvero, una ogni 2.126 residenti. Ma ancor più in Valle D’Aosta, la Regione più piccola d’Italia che detiene il record di società pubbliche in rapporto ai propri residenti. Una per ogni 1.929 valdostani. La riforma delle autonomie La Cgil dice che l’inondazione è cominciata negli anni Novanta con la riforma delle autonomie locali. Da lì è partita la febbre che sempre più rapidamente ha contagiato gli enti locali, con la scusa di rendere più efficienti i servizi pubblici vestendoli con un abito privatistico. Ma è dal decennio successivo che il termometro ha preso a salire senza più controllo, complici i vari blocchi delle assunzioni di personale pubblico. E grazie pure ad alcune mosse legislative a dir poco discutibili, come la famosa riforma del titolo V della Costituzione voluta da un centrosinistra all’inseguimento forsennato della Lega Nord, che ha ampliato a dismisura le prerogative della politica locale alimentandone le tentazioni più inconfessabili. Le poltrone ai trombati Le società pubbliche sono così diventate un comodo strumento per aggirare i divieti a gonfiare gli organici delle amministrazioni, per giunta senza dover fare i concorsi: con il risultato che oggi il numero dei loro dipendenti ha raggiunto 783.974 unità, più degli abitanti di Bologna e Firenze messi insieme. Non soltanto. Soprattutto questo sistema ha consentito di dare una poltrona a politici trombati o in pensione, onorare impegni elettorali, garantire segretaria e auto di servizio agli amici. Qualche anno fa la Corte dei conti ha stimato in 38 mila il numero delle figure apicali in quelle società. Talvolta in proporzione perfino superiore a quello degli stessi dipendenti. Questo spiega perché risultano inattive ben 1.663 delle 8.893 società partecipate. Il 18,7 per cento di scatole vuote. Con vette in Molise (31 per cento), Calabria (38 per cento) e Sicilia, dove si supera il 40 per cento. Persino in Trentino Alto-Adige è inattiva una su dieci. Per non parlare di quante, pur apparendo formalmente attive, non hanno neppure un dipendente. Sono 1.214 di cui, precisa il documento, 1.136 partecipate esclusivamente dagli enti locali, con una concentrazione nelle Regioni a guida leghista, quali Veneto (106) e Lombardia (136), ma anche in quelle considerate tradizionalmente rosse come Toscana (114) ed Emilia Romagna (122). Ce ne sono poi 274 con più amministratori che dipendenti, 234 che nei quattro anni compresi fra il 2011 me il 2014 hanno chiuso i conti in perdita e 1.369 che hanno un fatturato inferiore a 500 milioni. La proliferazione del fenomeno. La giungla ha tratti geografici assai variegati, capaci anche di sovvertire alcuni luoghi comuni. Per esempio, non è affatto vero che la densità di società sia maggiore al Sud, come la qualità di certe amministrazioni lascerebbe immaginare: in Campania se ne trova una ogni 14.554 abitanti, il valore minimo in assoluto. Circa metà rispetto alla Lombardia, dove è possibile contarne una ogni 7.419 residenti. Va detto che neppure la crisi, né i vari provvedimenti presi a partire dal 2007 e tesi a scoraggiare la proliferazione di questo fenomeno l’hanno potuta frenare. Perché se è vero, come argomenta la Cgil in questo dettagliato dossier, che fra le società non attive bisogna considerare le 828 congelate o messe in liquidazione a partire dal 2010, è anche vero che da quell’anno e fino a tutto il 2014 ne sono state costituite 1.173 nuove di zecca. E il ritmo delle nascite si è appena rallentato. Eppure è da molti anni che nella normativa i governi di turno cercano di infilare qualche pillola avvelenata. La quale subisce però sempre il medesimo destino, quello di venire immediatamente sterilizzata. Le ragioni sono facilmente intuibili. La politica locale rischia di dover rinunciare a muovere potenti leve clientelari. Pratica, ahinoi, assai diffusa. Qualche anno fa si scoprì che presso i gruppi politici del consiglio regionale della Campania erano distaccati 150 dipendenti di società pubbliche. Pagati dai contribuenti ma al servizio di partiti e loro capicorrente. La mancata spending review Come stupirsi, allora, del fatto che qualunque tentativo di cambiare finisca nelle sabbie mobili? La legge 190 del dicembre 2014 prevedeva che gli enti locali predisponessero piani di razionalizzazione delle partecipate entro il marzo dell’anno seguente: ebbene, la Corte dei conti ha rilevato che due mesi dopo quella scadenza soltanto 3.570 soggetti sugli 8.186 interessati dalla disposizione l’avevano osservata. Quanto agli affondi della spending review, il processo di revisione della spesa pubblica avviato formalmente ormai da tempo, sono rimasti del tutto inefficaci. A questo proposito bisogna ricordare che l’ex commissario Carlo Cottarelli nel suo rapporto presentato all’inizio del 2014 aveva stimato in 2 miliardi l’anno i possibili risparmi derivanti dal disboscamento di tale giungla. Auspicando una strage: il numero delle partecipate si sarebbe dovuto ridurre a non più di mille. Né minori difficoltà ha avuto la riforma di Marianna Madia, ideata per mettere in funzione finalmente una tagliola efficace. Ma prima si è incagliata alla Corte Costituzionale, quindi è finita nel tritacarne di una estenuante trattativa fra governo e poteri locali. Mentre i sindacati l’aspettano al varco insieme alle regole per la mobilità del personale. Un’altra rogna in vista della partita che si apre a settembre, quando vedremo se ancora una volta la realtà avrà più forza della legge. Dopo almeno dieci anni di indecente melina. Il miraggio del Ponte sullo Stretto Avendo ben chiaro un particolare non indifferente, che se pure tutto dovesse andare per il verso giusto mettere mano al taglio delle società partecipate sarà un’opera immane. La durata delle liquidazioni nel nostro Paese, da questo punto di vista, parla chiaro. Le procedure possono durare decenni, e anche quando è la legge a fissare i paletti, quelli servono davvero a poco o nulla. Valga per tutti l’esempio della società pubblica Stretto di Messina, controllata dall’Anas, che avrebbe dovuto gestire la realizzazione del ponte fra Scilla e Cariddi opera miseramente archiviata da un lustro. Il governo di Enrico Letta aveva fissato il 15 aprile 2013, per la sua liquidazione affidata all’ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti, Vincenzo Fortunato, il limite massimo di un anno. Di anni ne sono passati invece già più di quattro e siamo ancora a carissimo amico. Con il conto già arrivato a 13 milioni. © Riproduzione riservata 13 luglio 2017 Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/07/13/news/i_tagli_mai_fatti_ogni_giorno_una_societa_pubblica_in_piu_-170664048/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1 Titolo: SERGIO RIZZO La resistenza dei dirigenti di Stato, sono i più pagati d’Occidente Inserito da: Arlecchino - Luglio 18, 2017, 04:34:59 pm La resistenza dei dirigenti di Stato, sono i più pagati d’Occidente
Nonostante il tetto ai compensi introdotto nel 2014 lo stipendio dei mandarini italiani è superato solo dagli australiani. Intanto una pioggia di ricorsi blocca la pubblicazione dei patrimoni Di SERGIO RIZZO 17 luglio 2017 L'ULTIMA rilevazione dell'Ocse sulle retribuzioni dei dirigenti pubblici dice quanto la trasparenza sia preziosa, e per alcuni versi anche dolorosa. Grazie a lei sappiamo che i mandarini italiani sono i più pagati del mondo sviluppato, con la sola esclusione dell'Australia. Affermare tuttavia che con il tetto agli stipendi dei funzionari pubblici fissato tre anni fa in 240mila euro lordi l'anno non sia cambiato nulla sarebbe ingeneroso: qualche busta paga scandalosa (e immeritata) è stata per fortuna ridimensionata. Ma è sempre la media, con o senza quel tetto, che continua a fregarci. I confronti parlano chiaro. La retribuzione media delle nostre figure burocratiche apicali è scesa fra il 2011 e il 2015 da 339.249 a 212.132 euro lordi. Il calo non è stato affatto trascurabile: meno 37,4 per cento. Nonostante una simile sforbiciata, però, siamo ancora ben al di sopra di quella dannata media dei Paesi sviluppati che aderiscono all'Ocse. Fissata, secondo la rilevazione di cui parliamo, in 160.627 dollari: 132.315 euro lordi. Decisamente meglio è andata ai dirigenti di prima fascia, quelli immediatamente al di sotto del massimo livello apicale. Dopo l'introduzione del famoso tetto le loro retribuzioni medie, sempre secondo i calcoli dell'Ocse, sono infatti addirittura aumentate, seppur di poco: l'incremento dai 197.962 euro del 2011 ai 199.330 (lordi, ovvio) del 2015 è dello 0,7 per cento, che sale all'1,5 con la metodologia di calcolo Ocse, che tiene conto anche dei contributi previdenziali e dell'orario effettivo di lavoro. A questo proposito andrebbe ricordato che l'ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, prendendo proprio spunto dal raffronto internazionale aveva previsto risparmi di mezzo miliardo l'anno già a partire dal 2014. Ebbene, almeno in questo caso è accaduto il contrario. E qui siamo di nuovo al punto cruciale: la trasparenza. In questo nuovo studio, che peraltro ricalca i risultati della precedente analisi del 2013, l'Ocse precisa che non tutti i Paesi riportano nelle loro analisi i dati effettivi, come fa invece l'Italia. Da quattro anni, infatti, qui vige il principio della pubblicità dei compensi dei dirigenti pubblici. È la conseguenza di un decreto, il numero 33 del 2013, che però non è stato digerito da tutti gli interessati. Ma è nulla al confronto di ciò che è successo nel momento in cui si è deciso di estendere l'obbligo di trasparenza anche alle informazioni patrimoniali. Allora sono scoppiate improvvise allergie. Letteralmente incontenibili. La battaglia comincia il 25 maggio 2016, quando la Funzione pubblica approva un decreto legislativo che impone ai dirigenti la pubblicazione della propria situazione economica e reddituale sui siti internet ufficiali di ogni singola amministrazione. E con le variazioni intervenute anno dopo anno. Nello stesso provvedimento viene specificato che la cosa riguarda tutti, ma proprio tutti, gli incarichi di livello dirigenziale: per capirci, anche quelli che vengono assegnati per decisione politica. Tanto basta per innescare l'immancabile ricorso al Tribunale amministrativo, che il 2 marzo sospende senza battere ciglio l'efficacia della nuova misura. Affermano i giudici che è necessario considerare la "consistenza delle questioni di costituzionalità e di compatibilità con le norme di diritto comunitario sollevate nel ricorso", specificando di aver preso la travagliata decisione dopo aver valutato "l'irreparabilità del danno paventato dai ricorrenti discendente dalla pubblicazione online, anche temporanea, dei dati per cui è causa". Non bastasse, ecco un altro ricorso, stavolta del sindacato al quale si associano pure quattro burocrati, che contesta le linee guida emanate dall'Autorità nazionale anticorruzione per l'attuazione della norma del 2013 che prevede la trasparenza degli atti relativi agli incarichi di natura politica e dirigenziale. A quel punto l'Anac di Raffaele Cantone non può che fermare le macchine e sospendere tutto, in attesa del sospirato giudizio di merito del Tar. Che si prende tutto il tempo necessario, e forse anche qualcosina in più: sette mesi. I giudici amministrativi hanno fissato la relativa udienza per martedì 10 ottobre 2017. Ovvero, 222 giorni dopo aver deliberato la sospensiva e a quasi un anno e mezzo dal decreto che imporrebbe l'obbligo di far conoscere ai cittadini anche i patrimoni dei dirigenti pubblici e la loro evoluzione durante lo svolgimento dell'incarico. Mentre tutti continuano a ripetere che la trasparenza è il migliore antidoto contro il cancro della corruzione. © Riproduzione riservata 17 luglio 2017 Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/07/17/news/la_resistenza_dei_dirigenti_di_stato_sono_i_piu_pagati_d_occidente-170953043/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6-S1.8-T1 Titolo: SERGIO RIZZO L'Italia dei condoni Mansarde, villette e seminterrati. Inserito da: Arlecchino - Agosto 03, 2017, 05:43:33 pm L'Italia dei condoni
Mansarde, villette e seminterrati. Regione che vai, sanatoria che trovi. La motivazione è sempre la stessa: "Contenere il consumo del suolo”. In realtà spesso è la formula usata dalla politica per aggirare le norme e aggiustare gli abusi edilizi Di SERGIO RIZZO 31 luglio 2017 LA FOGLIA di fico è sempre la stessa, e quando la mettono si aspettano persino l'applauso: "Contenere il consumo del suolo". C'è scritto questo nella sanatoria delle mansarde, che la Regione Lazio sta prorogando da otto anni a questa parte, e c'è scritto questo pure nella sanatoria delle cantine, fresca di pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione Abruzzo. Avete capito bene: le cantine. Chi non sottoscriverebbe una legge regionale sul "Contenimento del consumo del suolo attraverso il recupero dei vani e locali del patrimonio edilizio esistente"? Leggendo il titolo si potrebbe immaginare un provvedimento per favorire il riuso degli immobili abbandonati, spesso così belli da lasciare senza fiato, dei quali l'Italia è piena. Prima però di aver scorso il testo, scoprendo che delimita invece quel recupero ai "vani e locali seminterrati " da destinare "a uso residenziale, direzionale, commerciale o artigianale ". Ma non religioso: sia chiaro. Perché la sanatoria delle cantine decretata dalla Regione Abruzzo esclude invece espressamente, all'articolo 3, la possibilità di cambiare la destinazione d'uso dei seminterrati "per la trasformazione in luoghi di culto". Insomma, fateci tutto, anche un bed & breakfast (non è forse attività residenziale?). Tranne che una moschea. Certo, per ottenere questo curioso condono (termine che di sicuro i proponenti rigetteranno sdegnati) bisognerà pagare gli "oneri concessori". Se però l'intervento riguarda la prima casa è previsto uno sconto del 30 per cento. Va pure da sé che i locali debbano avere determinate caratteristiche. Per farci abitare gli esseri umani sono necessari impianti di "aero-illuminazione" (testuale nella legge) e l'altezza dei locali non può essere inferiore a due metri e quaranta. Ma a trovarle, cantine così alte... Niente paura. Anche in questo caso la legge della Regione Abruzzo offre una elegante scappatoia. Eccola: "Ai fini del raggiungimento dell'altezza minima è consentito effettuare la rimozione di eventuali controsoffittature, l'abbassamento del pavimento o l'innalzamento del solaio sovrastante ". Il vostro scantinato tocca a malapena uno e novanta? Niente paura: scavate un altro mezzo metro o alzate il solaio di cinquanta centimetri. Sempre rispettando "le norme antisismiche ", però. Dopo quello che è successo in Abruzzo, è il minimo. Già... Ma colpisce che nemmeno il terremoto sia stato capace di frenare lo stillicidio delle sanatorie. Anzi. Qualche mese fa c'è stato chi ha rivelato che i contributi pubblici per il sisma non avrebbero discriminato le case abusive. Suscitando la reazione risentita delle strutture commissariali, anche se nessuna smentita ha potuto cambiare la realtà dei fatti: per ottenere i denari statali è sufficiente autocertificare che l'abitazione andata distrutta non era interamente abusiva. E poi presentare domanda di sanatoria. La prova, se ce ne fosse ancora il bisogno, che abusivismo e condoni se ne infischiano anche delle scosse telluriche del settimo grado. Il vecchio caro condono edilizio ha così pian piano cambiato pelle. Sbarrata la strada in Parlamento, si è aperto la via nelle pieghe delle leggi regionali assumendo le forme più subdole e creative. Non soltanto per i sottotetti, come nel Lazio e in Lombardia (Regione che ha deliberato anch'essa il salvataggio delle mansarde), o per le cantine, come in Abruzzo. Emblematico è il caso della Campania, dove il Consiglio regionale ha appena sfornato una legge per l'adozione di "linee guida per supportare gli enti locali che intendono azionare misure alternative alla demolizione degli immobili abusivi". Tradotto dal burocratese, sono le direttive alle quali si devono attenere i Comuni per evitare di buttare giù le costruzioni illegali. Per esempio, si deve valutare "il prevalente interesse pubblico rispetto alla demolizione". Come pure tenere debitamente conto dei "criteri per la valutazione del non contrasto dell'opera con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell'assetto idrogeologico ". E che dire dei "criteri di determinazione del requisito soggettivo di 'occupante per necessità"? Ecco dunque gli abusivi per bisogno, quella figura mitica capace di spazzare via ogni tabù ambientale con relativo senso di colpa. In Campania sono il corpo elettorale fra i più consistenti e la tentazione di grattargli la pancia, tipica di certa destra, ha ormai fatto breccia anche presso certa sinistra. I Verdi hanno adesso chiesto al governo di Paolo Gentiloni di impugnare la legge votata dalla Regione governata dal suo compagno di partito Vincenzo De Luca e di stroncare insieme anche la sanatoria delle cantine che ha fatto breccia nel cuore dell'Abruzzo presieduto da un altro dem: Luciano D'Alfonso. Arduo prevedere con quali speranze di successo. Probabilmente non più di quante ne abbiano gli oppositori di una recentissima leggina della Regione Sardegna, ora governata dal centrosinistra di Francesco Pigliaru, per bloccare la possibile invasione delle coste dell'isola con bungalow e casette di legno. Nel provvedimento sul turismo è spuntata infatti la possibilità per i camping isolani di piazzare costruzioni mobili (ma nella versione iniziale erano ammesse anche nella versione non amovibile) al fine di "soddisfare esigenze di carattere turistico". Le quali, precisa il disegno di legge, "non costituiscono attività rilevante ai fini urbanistici ed edilizi". Sono quindi case vere e proprie, ma è come se non lo fossero. Bisogna ricordare che questa non è una novità assoluta. Anche in precedenza le leggi regionali consentivano di impiantare strutture del genere nei camping. Ma all'inizio non si poteva superare il 25 per cento della capacità ricettiva di un campeggio. Poi si è saliti al 40. E ora al 45. Arrivare al 100, di questo passo, sarà uno scherzo... © Riproduzione riservata 31 luglio 2017 Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2017/07/31/news/l_italia_dei_condoni-172043709/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-L Titolo: SERGIO RIZZO Evasione i record dell'Italia in fuga dal Fisco 111 miliardi l'anno Inserito da: Arlecchino - Ottobre 04, 2017, 11:03:23 am Evasione, i record dell'Italia: in fuga dal Fisco 111 miliardi all'anno
L'inchiesta. Dall'Unità a oggi 80 condoni. Il Paese ha deciso che la lealtà nel pagare le tasse non è un valore. Esattori in tilt: incassano solo l'1,13% delle somme da riscuotere contro il 17% Ocse Di SERGIO RIZZO 04 Ottobre 2017 Coprire le spese sanitarie della nazione per un anno intero. Oppure mettere in sicurezza tutto il patrimonio edilizio italiano. O ancora, tagliare almeno un quinto delle tasse. Lasciamo alla fantasia ciò che si potrebbe fare con più di cento miliardi. Quei soldi appartengono solo alla sfera dell'immaginario. Secondo i calcoli della commissione governativa sull'economia sommersa sono i denari che ogni dodici mesi sfuggono al fisco. Sottratti alla collettività da un esercito di evasori: quel che è più grave, senza colpo ferire. Perché qui lottare contro i furbetti è come svuotare il mare con il colabrodo. In Italia si riscuote appena l'1,13 per cento del carico fiscale affidato all'esattore, contro una media Ocse del 17,1 per cento. Anno dopo anno, infatti, il maltolto aumenta: 107,6 miliardi nel 2012, 109,7 nel 2013, 111,7 nel 2014. E sia pure in diminuzione i dati provvisori del 2015, contenuti nella nota di aggiornamento al Def, non fanno presagire un cambio sostanziale di rotta come ha anticipato qualche giorno fa il nostro Roberto Petrini. Il calo risulterebbe infatti di 3,9 miliardi e non c'è ancora una valutazione esatta del mancato introito Irpef dei lavoratori dipendenti irregolari, pari nel 2014 a 5,1 miliardi. Ben che vada, si tornerebbe quindi ai livelli del 2012. Una situazione tale da far dire ieri al presidente dell'Istat Giorgio Alleva che la lotta all'evasione "è strategica". Ovvio. Il problema è come farla. Perché il sostegno al conseguimento del risultato è corale, come fa capire una relazione del sostituto procuratore di Pistoia Fabio Di Vizio, uno dei più esperti magistrati del ramo evasione, riciclaggio & affini. Quelle 50 pagine piene di numeri e tabelle scritte in occasione di un suo intervento alla bolognese InsolvenzFest, organizzata ogni anno dall'Osservatorio sulla crisi d'impresa, tracciano lo scenario di un Paese che in tutte le sue componenti ha coscientemente deciso che la lealtà fiscale non fa parte dei valori della convivenza civile. È bastato mettere in fila circostanze, fatti e dati per nulla riservati, rintracciabili negli atti e nei documenti ufficiali. A patto, naturalmente, di saperli e volerli leggere. Si scoprirebbe, per dirne una, che la propensione a evadere l'Irpef da parte del lavoro autonomo ha raggiunto nel 2014 un impressionante 59,4 per cento. Significa che entrano nelle casse pubbliche solo quattro euro su dieci delle imposte sul reddito dovute da chi esercita un'attività non dipendente. Il 3,5 per cento non viene versato, ma il 55,9 per cento neppure dichiarato. Trenta miliardi e 736 milioni evaporati ogni anno, ma la cosa davvero preoccupante è che in cinque anni l'aumento di questa evasione, dicono i dati della commissione presieduta da Enrico Giovannini, ha superato il 50 per cento. Nel 2010 la calcolatrice si era fermata a 20 miliardi e 149 milioni. Per non parlare dell'Iva. Qualche giorno fa da Bruxelles è arrivata la brutta notizia che l'Italia è il Paese europeo che detiene il record dell'evasione di questa imposta. Ma purtroppo non è una notizia nuova, perché è così da sempre. Il differenziale fra l'Iva dovuta e quella effettivamente pagata sfiora il 30 per cento: 29,7, esattamente. Altri 40,1 miliardi sfumati. Cinque anni prima erano 37,4. È colpa della crisi, deduzione ovvia. Ma fino a un certo punto. Perché la crisi da sola non spiega il fatto che l'Italia rappresenti quasi un quarto dell'evasione Iva dell'Unione europea, contro il 15,3 per cento della Francia e il 3,9 per cento della Spagna, che dalla stessa crisi non sono state certo risparmiate. Se a quelli delle imposte dei lavoratori autonomi e dell'Iva si aggiungono i buchi sui redditi d'impresa, dell'Irap e dei contributi previdenziali, arriviamo appunto ai 111,7 miliardi cui sopra. Una cifra enorme. Che in più si riferisce per oltre due terzi alle tasse non pagate dai fantasmi: cioè da coloro che per il fisco nemmeno esistono. In media, 75 miliardi e mezzo l'anno. Somma pari al 15 per cento di tutte le entrate tributarie. Basterebbe questo per mettere in dubbio la tesi di chi assolve l'infedeltà fiscale considerandola alla stregua della legittima difesa contro uno Stato ingordo. E assolvendola, per giunta, dai vertici dello Stato stesso. "L'evasione di chi paga il 50 per cento dei tributi non l'ho inventata io. È una verità che esiste. Un diritto naturale che è nel cuore degli uomini": sono le parole memorabili pronunciate da Silvio Berlusconi ai microfoni di Radio Anch'io il 18 febbraio 2004. Ripetute più volte dal Cavaliere prima, durante e dopo le sue permanenze a palazzo Chigi. Senza che in tutti quegli anni la pressione fiscale sia calata e gli evasori si siano dati una regolata. Sul fatto che in Italia l'imposizione fiscale sia per tutti troppo pesante, davvero non ci piove. La stessa Corte dei conti certifica un dato mostruoso che era stato già calcolato da Confartigianato: su un'impresa di medie dimensioni grava un carico fiscale complessivo del 64,8 per cento, superiore di quasi 25 punti alla media europea (40,6). Né le cose vanno meglio per il cuneo fiscale, che con il 49 per cento oltrepassa di dieci punti il valore medio continentale (39). E se la pressione del fisco, che statisticamente si è aggirata negli anni più recenti intorno al 43 per cento (decimale più, decimale meno), risulta inferiore a quella di Danimarca, Francia, Belgio, Finlandia e Austria, non si può non considerare che a sostenerla è una platea di contribuenti in proporzione nettamente più ridotta. Per non parlare della qualità dei servizi offerti con quel costo ai cittadini italiani. Ma ciò non può giustificare affatto quanti si sottraggono ai propri obblighi verso la collettività. Né, a maggior ragione, giustificare chi li giustifica. Certo, qualcuno potrebbe tirare in ballo questioni che sconfinano nell'indole degli italiani. Come la storica avversione per le tasse, oggetto persino di proverbi popolari. Ma se quel sentimento esiste, va detto pure che è stato sempre coccolato dalla politica, fin dai tempi antichi. Con i condoni. Il primo è del 118 dopo Cristo. Autore l'imperatore di origini iberiche Adriano, che rinunciò a riscuotere le tasse ancora non pagate dai cittadini dell'impero nei 16 anni precedenti: 900 milioni di sesterzi. Ricorda Di Vizio che dall'unità d'Italia a oggi si possono contare 80 (ottanta) condoni fiscali sotto varie forme. Anche la rottamazione delle cartelle esattoriali, a modo suo, può rientrare in questa fattispecie. E per avere un'idea del rapporto fra gli italiani e il fisco basti dire che ne 2016 erano 21 milioni i residenti con una pendenza aperta a Equitalia: che in ogni caso, per il 54 per cento di loro, non superava i mille euro. Il fatto è che all'evasione contribuisce un sistema pubblico obeso e inefficiente che affoga nelle follie burocratiche. Cervellotico e strampalato al punto da imporre a chi vuol pagare le tasse rateizzandole un interesse di dilazione pari al 4,50 per cento, cioè addirittura più alto rispetto a quello di mora a carico di chi le imposte non le paga affatto: 3,50. E questo semplicemente perché quei tassi sono fissati da due leggi diverse, che nessuno ha mai pensato di rendere coerenti l'una con l'altra. Troppa fatica. Succede così, sottolinea Di Vizio nel suo studio, che in un Paese nel quale l'economia sommersa vale il 21,1 per cento del prodotto interno lordo e l'evasione fiscale incide per il 24 per cento sul gettito potenziale, siano necessarie mediamente 269 ore l'anno per adempiere a tutti gli obblighi fiscali, contro le 173 della media europea. Mentre il sistema di riscossione fa acqua da tutte le parti. Inaccettabile il balletto che avviene fra l'accertamento e la riscossione. Dal 2000 al 2016 gli enti creditori hanno affidato a Equitalia 1.135 miliardi di euro da riscuotere: una cifra pari alla metà dell'attuale debito pubblico. Di questi, una parte è stata annullata dagli stessi creditori e una piccola fetta riscossa negli anni, con un residuo contabile che oggi ammonta a 817 miliardi. Ma 147,4 riguardano soggetti falliti, 85 i morti, 95 i presunti nullatenenti, 348 posizioni per cui si è già tentato invano il recupero, 26,2 sono oggetto di rateizzazioni e 32,7 non sono riscuotibili a causa di norme favorevoli ai debitori. Di quella enorme massa, grazie anche al contributo dei ricorsi tributari che hanno visto nel 2016 l'amministrazione soccombente in terzo grado nel 62 per cento dei casi, restano così aggredibili 51,9 miliardi, con una previsione di concreto realizzo che si riduce a 29 miliardi. Nella migliore delle ipotesi potrebbe rientrare il 3,5 per cento. Da chiarire come ciò si possa conciliare con i roboanti risultati nella lotta all'evasione (una ventina di miliardi introitati, secondo Maria Elena Boschi). E veniamo ai controlli. Di Vizio segnala che nel 2016 gli accertamenti dell'Agenzia delle entrate sono calati del 33,8 per cento, passando da 301.996 a 199.990. Logico, perciò, che gli introiti siano diminuiti del 17,2 per cento, da 7,4 a 6,1 miliardi. Al netto, va precisato, della cosiddetta "voluntary disclosure". Qui sta il bello. Perché dietro a quelle due paroline inglesi apparentemente misteriose si nasconde la spiegazione di dove sparisce una bella fetta dei soldi rubati al Paese. Ma questa è un'altra storia. Fiscoevasione fiscale © Riproduzione riservata04 Ottobre 2017 Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/10/04/news/evasione_i_record_dell_italia_in_fuga_dal_fisco_111_miliardi_all_anno-177304834/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T1 Titolo: SERGIO RIZZO La verità sul conflitto d’interessi Inserito da: Arlecchino - Maggio 13, 2018, 05:56:54 pm La verità sul conflitto d’interessi
10 MAGGIO 2018 DI SERGIO RIZZO Tuonava Luigi Di Maio il 26 aprile: "Metteremo fine al conflitto d'interessi. Roba da far venire i sudori freddi a Silvio Berlusconi, che infatti schiumava rabbia: "Vuole fare un esproprio proletario anni Settanta, è un pericolo per la democrazia e la libertà". Il Cavaliere era riuscito a tenere a bada la sinistra per un quarto di secolo e ora, all'improvviso, si trovava davanti un'orda intenzionata a seguire senza se e senza ma la linea scandita da Beppe Grillo in persona: "Qui o si risolve il conflitto d'interessi o continueremo a prenderlo in quel posto" (2007). Da mesi il nervo scoperto del Cavaliere veniva stuzzicato. "Se qualcuno mi vota la legge sul conflitto d'interessi mi ci metto insieme", prometteva Roberta Lombardi un mese prima delle elezioni. E un mese dopo il voto lo stesso Di Maio annunciava che "nel contratto di governo alla tedesca ci sarà la fine del conflitto d'interessi". Dando il via al martellamento, fino all'acme di quel 26 aprile. Ma in quei giorni il forno con il Partito democratico era in piena funzione. Chiuso quello, e riaperto con successo il forno dei leghisti alleati di Berlusconi, la promessa rischia ora di evaporare con rapidità superiore a quella con cui un camaleonte cambia il colore della pelle. Lo si capisce dai toni. Il conflitto di interessi "resta sul tavolo del programma", ci hanno fatto sapere ieri, anche se Di Maio risponde a chi lo incalza come avrebbe fatto Arnaldo Forlani ai tempi del Caf: "Discuteremo di tutto quello che c'è nei rispettivi programmi con pazienza perché il contratto che ne uscirà sarà l'unione di due programmi non sempre compatibili". Se faccia parte, o meno, del prezzo da pagare al Cavaliere per la sua "benevolenza critica" da assicurare al governo Lega-M5S non è chiaro. Di sicuro è un brutto copione già visto in troppe occasioni. Questa rischia di essere la settima evaporazione consecutiva dal 1994. Alla sua "discesa in campo" Berlusconi, in quanto proprietario di tre reti tivù in concessione pubblica, sarebbe ineleggibile: naturalmente se fosse interpretata nel modo corretto una disposizione del 1957. Invece fanno finta di niente, tanto la gioiosa macchina da guerra dei progressisti è sicura del successo: ma perde. Due anni più tardi l'Ulivo annuncia sfracelli in caso di vittoria: però parte la bicamerale D'Alema-Berlusconi per le riforme mentre in parlamento arriva fra gli ulivisti anche un certo Vittorio Cecchi Gori, che ha appena comprato tre reti televisive e la giunta delle elezioni non ci trova niente da ridire. Nel 2001 Berlusconi fa cappotto e le Camere approvano una legge sul conflitto d'interessi grottesca e inutile, considerato che non prevede alcuna sanzione: al massimo una sculacciata, toccata peraltro solo a un anonimo sottosegretario e a un commissario governativo. Nel 2006 torna Prodi con un governo che ha dentro due partiti comunisti, ma dura troppo poco e poi nessuno ha davvero voglia di smuovere le acque. Due anni più tardi riecco Berlusconi, e la faccenda finisce ancor più nel dimenticatoio. Nel 2013, poi, Forza Italia va addirittura al governo con il Partito democratico. E siamo al 2018, con il conflitto d'interessi che rischia di svanire per la settima volta in un Paese nel quale la politica è talmente ipocrita da averne fatti almeno cinque, in sessant'anni, di provvedimenti per regolare i rapporti fra chi ha incarichi pubblici e i propri affari. Ma sempre riuscendo, insieme, a porre le condizioni per non applicarli. E prendere così in giro, di volta in volta, gli italiani. Che non accada più. Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2018/05/10/news/_la_verita_sul_conflitto_d_interessi-196050368/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_11-05-2018 |