Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS.. Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2008, 12:17:36 am Chiagne e fotte
Paolo Flores d´Arcais «Chiagne e fotte» (anche contratto in «chiagn’e fotte») è una delle più note espressioni del dialetto napoletano. Indica una persona che gode di privilegi e ciononostante si lamenta, quasi fosse discriminato. Un privilegiato a cui non basta mai, insomma. Non utilizzeremo questa perspicua ed efficacissima manifestazione del logos partenopeo a proposito della recente uscita del cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Santa Romana Chiesa (quasi un vice-Papa, per capirsi), perché le attuali norme sul celibato ecclesiastico renderebbero di cattivo gusto accostare a un prelato un qualsiasi riferimento sessuale, fosse anche giocoso o metaforico. E tuttavia, sentirlo dichiarare solennemente che «il Partito democratico non deve mortificare i cattolici», quando lo sport quotidiano in detto partito sembra semmai quello del «bacio della pantofola» e di ogni altro esagerato ossequio verso la Chiesa gerarchica, lascia davvero senza parole. Cosa vuole di più il cardinal Bertone dal neo-segretario Veltroni, con il quale dice di essersi lamentato per le «derive» («laiciste», ça va sans dire) del nuovo partito, tali che gli fanno rimpiangere Gramsci e Togliatti (sic!)? Non gli basta che il centrosinistra abbia già scaricato in soffittaun pur timidissimo disegno di legge sui Dico o Pacs o come altro li si vuol innominare? Non gli basta che dopo aver doverosamente ascoltato la richiesta dell’Europa, che chiede a tutti i Paesi membri di non accettare discriminazioni tra le diverse preferenze sessuali (richiesta che l’Europa avanza col sostegno di gran parte delle forze politiche di destra), il centrosinistra si sia già rimangiato quel gesto di elementare civiltà, con risibili scuse tecnico-procedurali? Non gli basta che il governo continui a traccheggiare di fronte a una legge ignobile, che costringe le coppie che ricorrono alla fecondazione artificiale a rischiare di concepire bambini con gravissime malformazioni, legge che per fortuna più di un tribunale ha interpretato alla luce della Costituzione? Non gli basta che il centro-sinistra continui a impinguare e locupletare le scuole clericali, in spregio di un articolo della Costituzione che più chiaro non si può? Non gli basta che nella scuola pubblica (pubblica?) siano stati fatti entrare in ruolo migliaia di insegnanti di religione nominati dalla Cei, che potranno eventualmente passare a insegnare filosofia, storia, italiano (sempre restando di ruolo, senza concorso)? Non gli basta che in barba alla famosa commissione Levi-Montalcini, si continui a NON insegnare il darwinismo nei primi anni di scuola e fino all’adolescenza (contribuendo a farli restare bamboccioni)? Non gli basta un meccanismo truffaldino dell’otto per mille che regala alla stessa Cei ogni anno qualcosa come un miliardo di euro (per non parlare dell’esenzione dall’Ici e altre regalie feudali)? Non gli basta una televisione pubblica (a chiacchiere) dove l’editorialista quotidiano dei Tg non è un giornalista, per lottizzato che sia, ma il Sommo Pontefice (di cui ci viene propinato ogni discorso, dichiarazione, elucubrazione, anatema, glossa) e dove la fiction ormai ha superato in devozione la «Legenda aurea» di Jacopo da Varazze, e in ogni dibattito “scientifico” è presente un esorcista? Non gli basta. Tutta la Chiesa gerarchica - e il Papa in primo luogo - si accontenterebbe infatti solo di un programma davvero minimo: l’imposizione per legge a tutti i cittadini dei «valori non negoziabili», cioè della morale clericale su vita, morte, sessualità, educazione, ricerca scientifica. E questo centro-sinistra su qualche dettaglio ancora recalcitra. Sempre meno, del resto, visto che di fronte all’affondo anti-aborto del trio Ferrara-Ruini-Bondi (in ordine rigorosamente cronologico) e alla dichiarazione sanfedista della senatrice Binetti che voterà con Forza Italia, nessuno ha pronunciato l’ovvio “non possumus” laico, col suo inevitabile corollario: o lei (e altri sanfedisti come lei) o noi. Le pretese di Bertone (che sono poi quelle di Ratzinger) non fanno che riportare in auge gli anatemi del Sillabo. I «valori non negoziabili» sono gli stessi di allora, solo che ora non li si invoca più contro le democrazie, si vorrebbe che diventassero la Costituzione stessa delle democrazie. Di fronte a tanta totalitaria pretesa, quello che lascia sgomenti è proprio la mancanza di reazione di chi si professa democratico.Perché, la laicità o il laicismo coerenti, che esigono uno Stato neutrale rispetto alle diverse morali di gruppo e personale, dove dunque si legiferi secondo il principio di Grozio («Etsi Deus non daretur», come se Dio non ci fosse), non costituiscono un estremismo ateo di segno analogo e contrario all’estremismo clericale che vuole imporre a tutti la propria morale per legge. L’opposto speculare di tale pretesa sarebbe quella di uno Stato che pretenda di imporre per legge, a tutti, l’aborto in caso di malformazione, o dopo «x» figli (per via della sovrapopolazione). O vieti l’insegnamento della religione, e a scuola abbia un’ora di «ateismo» settimanale. O in nome di una morale edonista esiga l’eutanasia per tutti i malati terminali in balia della sofferenza. O che, per stroncare la piaga delle ragazze madri, renda obbligatorio l’uso della pillola per tutte le minorenni. E via costringendo. Tutte cose che un laico non si sognerebbe mai di chiedere. Perché laico significa democratico, e democratico significa laico. In una democrazia liberale i due termini si implicano a vicenda. E significano uno Stato che non impone a nessuno la morale di altri, ma rispetta la morale autonoma di ciascuno (fino a dove non distrugge l’autonomia dell’altro, ovviamente). Dunque, uno Stato che non impone a nessuno il divorzio, ma a nessuno impone l’indissolubilità del matrimonio. A nessuno impone la contraccezione, ma non impone le contorsioni dell’Ogino-Knaus a chi la contraccezione (sicura) la vuole praticare. A nessuno impone l’aborto terapeutico, ma a nessuno impone la nascita di un figlio non voluto. A nessuno impone l’eutanasia, ma a nessuno impone la tortura di una sofferenza terminale inenarrabile. A ciascuno, invece, garantisce la libertà di scelta. Questa è l’autentica moderazione del laicismo più intransigente, il suo «giusto mezzo»: non tollerare che una parte della società imponga all’altra la propria morale, che un gruppo prevarichi facendo del proprio volere morale il dovere della totalità dei cittadini, ma rispettare l’autonomia morale di tutti e di ciascuno. Questi sono gli unici valori non negoziabili che dovrebbero accomunare, senza se e senza ma, tutti i democratici, di tutti i partiti (e più che mai di chi così ha deciso di chiamarsi). Pubblicato il: 04.01.08 Modificato il: 04.01.08 alle ore 9.02 © l'Unità. Titolo: Paolo Flores d´Arcais - La mossa Montezemolo Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2008, 05:03:48 pm La mossa Montezemolo
Paolo Flores d´Arcais La campagna elettorale è già cominciata. E i politici, quanto più hanno in mente solo i loro interessi di bottega, tanto più vociferano di «bene del Paese». Vedi Fini e Berlusconi, quest’ultimo addirittura minacciando oceaniche marce su Roma se il presidente Napolitano non indice le elezioni seduta stante. Eppure, anche i sassi sono consapevoli che una campagna elettorale con la attuale «legge porcata» (definizione dei suoi autori di centro-destra, non nostra) sarebbe foriera solo di un aggravarsi della situazione italiana già precaria, più che precaria, quasi disastrosa. Che andare subito alle urne sarebbe una iattura non lo dice solo Veltroni (che potrebbe parlare pro domo sua) ma un qualsiasi osservatore europeo conservatore e di destra. Ma il Presidente Napolitano ha le mani legate, si dirà. Se il padrone di Forza Italia non vuole, nessun “governo per un anno” è impossibile fare altrimenti. Non è così. Una adeguata “moral suasion” renderebbe il Cavaliere di Arcore non solo disponibile al “governo per un anno”, ma ne farebbe anzi un entusiasta di tale ipotesi. Siamo perfino in grado di dimostrarlo. Eugenio Scalfari ha autorevolmente ricordato domenica su la Repubblica che se dalle consultazioni non emerge nessun nome in grado di ottenere la fiducia in Parlamento, il Presidente della Repubblica non è affatto tenuto ad indire le elezioni con il governo attualmente in carica. Ha tutto il diritto, se ritiene che così si salvaguardino meglio gli interessi della nazione (della cui unità la Costituzione lo rende garante), di affidare l'incarico ad una nuova personalità. Se poi le forze politiche si assumeranno la responsabilità di bocciarla, è con questo nuovo governo che si andrà alle elezioni. Poniamo che il Presidente Napolitano faccia capire che, in assenza di una maggioranza bipartisan su un nome istituzionale “per un anno”, è sua intenzione incaricare una personalità fuori del Parlamento, e con questo governo, se i partiti lo insisteranno con i loro interessi di bottega (e lo bocceranno) si andrà alle elezioni. Non in primavera ma in estate, nella data più lontana che le leggi consentano. Poniamo che faccia capire che questo nome è quello di Luca Cordero di Montezemolo, il quale gli consegnerebbe una lista di ministri di una quindicina di personalità di altissimo profilo, tutte estranee ai partiti (e magari per metà donne). Cioè esattamente lo stato maggiore del famoso nuovo Partito di Centro di cui si parla da oltre un anno. Sono (quasi) certo che sarebbe lo stesso Berlusconi a proporre il governo istituzionale “per un anno” (col programma minimo di una nuova legge elettorale, che magari restituisca agli elettori un briciolo di potere, e altre essenziale misure urgenti), minacciando magari oceani di folle a Roma se il Presi-dente della Repubblica non accoglie la “sua” proposta. Un governo Montezemolo a me non piacerebbe affatto, sia chiaro. Ma a Berlusconi piacerebbe ancora meno. Con quasi quattro mesi di esposizione mediatica massiccia, e con il discredito di cui gode l’intero ceto politico (ciascun segmento presso il proprio potenziale elettorato di riferimento), il governo di un centro confindustrial-sindacal-ecclesiale (Pezzotta e il suo family day, nuove leve alla Marcegaglia e tecnocratici del calibro di Mario Monti), che al momento di presentare le liste diventasse Partito, toglierebbe al Cavaliere la maggioranza dei suoi elettori. E per Berlusconi, politicamente, sarebbe la fine. Un governo Montezemolo risulterebbe detestabile anche al centro-sinistra, probabilmente. Significherebbe una sconfitta ancora più cocente di quella che i suoi dirigenti sembrano ormai avere messo in un rassegnato conto. L’ostilità nei confronti del Presidente Napolitano sarebbe quindi perfettamente bipartisan, ma il Presidente avrebbe tutto il diritto di passarci sopra (Scalfari docet, e un’ampia casistica nei sessant'anni passati), se i grandi partiti di destra e di sinistra non sono in grado di proporgli una soluzione comune “per un anno”, e lo costringono a indire comunque le elezioni. Non possono costringerlo, infatti, ad andarci col governo che loro preferiscono. Fantapolitica? E perché mai? Di fronte al vero e proprio avvitamento della crisi italiana, che è morale, sociale, economica, politica, solo l’esercizio di una notevole “immaginazione istituzionale” (per parafrasare un grandissimo sociologo dell’immediato dopoguerra) può evitare la catastrofe. Il Presidente della Repubblica è autorizzato dalla Costituzione ad esercitarla. p.s. Se invece tutto avverrà in obbedienza ai veti incrociati dei partiti, è bene sapere che ci si profila il seguente tunnel: Berlusconi promette a Fini che a metà legislatura gli cede la Presidenza del Consiglio, Berlusconi e Fini stravincono le elezioni (con Casini e Bossi subalterni), Berlusconi passa la staffetta al quarto anno (magari quarto e mezzo) e alla fine della legislatura si fa eleggere Presidente della Repubblica. Al termine dei suoi dodici anni di potere la democrazia italiana assomiglierà a quello che è l’ideale di democrazia da Berlusconi fin troppo sbandierato: la democrazia della Russia di Putin. Pubblicato il: 29.01.08 Modificato il: 29.01.08 alle ore 8.15 © l'Unità. Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS.. Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 04:47:53 pm Lettera a Veltroni: «Torniamo in piazza»
Paolo Flores d´Arcais Caro Walter, le ultime mosse legislative del governo Berlusconi in tema di giustizia costituiscono o no un vulnus gravissimo alle fondamenta liberaldemocratiche di una convivenza civile? La risposta che si fornisce è decisiva per il tipo di opposizione che di conseguenza si sceglierà. A me sembra che il disegno di legge sulle intercettazioni, e il decreto sulla sicurezza (con l’emendamento ad personam blocca-processi) costringa ormai a parlare di fascismo strisciante. Non credo proprio si tratti di esagerazioni polemiche. Perfino una personalità di proverbiale saggezza e prudenza, che non ha mai amato la politica girotondina e ha sempre aperto generosissimi crediti alla credibilità dei partiti di centro-sinistra, dai tempi di Berlinguer e passando per tutte le metamorfosi del Pci fino a Veltroni (senza dimenticare l’appoggio a De Mita) - sto parlando di Eugenio Scalfari - è arrivato a dire che se quello di Berlusconi non è già fascismo è qualcosa che sempre più pericolosamente gli si avvicina e gli assomiglia. Già da molti giorni, consapevoli della gravità della situazione, tre parlamentari dell’opposizione (che prendono il termine nell’accezione del vocabolario della lingua italiana, nel quale si menziona «un’azione di contrasto e di critica» - Devoto-Oli - ma mai di dialogo), l’on. Furio Colombo, l’on. Giuseppe Giulietti e il sen. Francesco Pardi detto Pancho, hanno reso pubblica attraverso il sito www.micromega.net una lettera a te e Antonio Di Pietro, nella vostra qualità di capi del Partito democratico e dell’Italia dei valori, nella quale vi invitavano ad indire una manifestazione pubblica (a scendere in piazza, insomma) che vedesse insieme opposizione parlamentare e società civile (quella definita «giustizialista», sottolineavano i tre parlamentari, a scanso di equivoci). Lettera sostenuta da personalità come Margherita Hack, Andrea Camilleri, Antonio Tabucchi, e da migliaia di cittadini che stanno firmando sul sito www.micromega.net. Antonio Di Pietro ha risposto positivamente, a nome del suo intero partito. Di una tua risposta, invece, sui due principali quotidiani di giovedì 19 giugno, non c’è ancora traccia alcuna. Forse perché la nota che hai diramato alle agenzia costituisce un perfetto esempio di risposta-non-risposta. In essa infatti si legge che «il leader del Partito democratico condivide le ragioni che hanno spinto a promuovere l’appello. Rispetto all’iniziativa di piazza, tuttavia, almeno per il momento Veltroni non aderisce». Almeno per il momento. Che vuol dire? Che in futuro potresti? E quando, se non ora? Oggi che tutti fanno a gare per dichiararsi cristiani, credo che un tratto squisitamente evangelico dovremmo assumerlo tutti, politici in primis: «il tuo dire sia sì sì no no, perché il di più viene dal maligno» (Matteo, 5,37). Oltretutto, in politica la scelta dei tempi è cruciale, e rispetto al disegno di legge sulle intercettazioni, che fa strame del principio secondo cui «la legge è eguale per tutti», e rende di fatto impossibile ogni indagine per tutti i crimini di establishment, la scadenza per una manifestazione è dettata dal calendario parlamentare. Questa legge-canaglia va in discussione tra due settimane, o si scende in piazza un minuto prima che la discussione inizi oppure vuol dire che alle manifestazioni si vuole rinunciare. E per manifestare tra due settimane, e in modo unitario, opposizione parlamentare accanto a società civile «giustizialista», bisogna cominciare a lavorare subito, a organizzare subito, a mobilitarsi subito. Altrimenti è preferibile un chiaro e rotondo no, in cui ciascuno si assume le sue responsabilità (per atti od omissioni) di fronte al baratro morale e costituzionale in cui Berlusconi sta trascinando il paese. I cittadini democratici, per i quali «la legge uguale per tutti» non costituisce un optional, troveranno comunque i modi per testimoniare pubblicamente, anche da soli, contro questo strame di legalità. Ma le forze politiche che questa protesta lasceranno senza rappresentanza in parlamento perderanno per sempre ogni credibilità di fronte ai tanti, tantissimi elettori (sempre più ex-elettori), che non capiscono l’ossimoro di una «opposizione che non esclude il dialogo». Un caro saluto Pubblicato il: 20.06.08 Modificato il: 20.06.08 alle ore 8.37 © l'Unità. Titolo: Appello a Veltroni: Malgrado tutto andiamo uniti Inserito da: Admin - Luglio 02, 2008, 06:31:50 pm Appello a Veltroni: Malgrado tutto andiamo uniti
Paolo Flores d´Arcais Walter Veltroni non verrà alla manifestazione che Furio Colombo, Pancho Pardi e io abbiamo lanciato per l’8 luglio, a Roma, alle ore 18 a piazza Navona, contro le leggi-canaglia con cui Berlusconi vuole mettere la parola fine al libero giornalismo e al principio irrinunciabile di ogni civile convivenza, la legge eguale per tutti. Il rifiuto di Veltroni mi ha addolorato ma non mi ha stupito. Senza perifrasi voglio però dire che mi hanno invece stupito (e indignato) le parole usate per pronunciarlo, quel rifiuto (sempre che non si tratti di parole inventate dai giornalisti, nel qual caso immagino sarà già partita la smentita di Walter). Che senso ha parlare dei promotori come dei “soliti noti” se non un senso volutamente dispregiativo? E che senso ha aggiungere che un grande partito come il Pd non partecipa “aggratis” a manifestazioni indette da altri (che poi sarebbero i “soliti noti”, cioè Furio Colombo, Pancho Pardi e io)? Prendo le parole dalla cronaca di Repubblica, non da una testata scandalistica. Un tono così offensivo mi spingerebbe a rispondere per le rime, a dire che “in cambio”, visto che “aggratis” non viene, siamo disposti a offrire tutto quello che abbiamo, anche se le nostre risorse sono solo la credibilità democratica e la coerenza civile di un’intera vita, e dunque non saranno mai, per genere e quantità, paragonabili a quelle che offre Berlusconi... Ma non risponderò invece alle offese, perché qui è in gioco il cuore della Costituzione, e di fronte alla minaccia più grave che la nostra democrazia ha corso nell’intero dopoguerra tutto diventa secondario e risibile, e l’unica cosa essenziale diventa la necessaria unità per dire NO!, tutti insieme, alle leggi-canaglia del governo Berlusconi. E per dire questo no! ORA. Se non ora, quando? Ora infatti, non a ottobre, il governo sta facendo strame della libera stampa, dell’indipendenza della magistratura, della legge eguale per tutti. A ottobre sarà troppo tardi, ci sarà già un’altra Italia, sfigurata, e un’altra Costituzione di fatto, irriconoscibile rispetto a quella voluta sessant’anni fa dai padri costituenti usciti dalla Resistenza. Per evitare un suo processo, Berlusconi impone la sospensione, almeno per un anno, di tutti i processi per reati che vanno dal sequestro di persona all'associazione per delinquere, dallo stupro all’usura, dal traffico dei rifiuti ai maltrattamenti in famiglia, passando ovviamente per la bancarotta fraudolenta, la corruzione in atti giudiziari, il peculato, le frodi fiscali... In Italia la giustizia è già intasata, la certezza della pena una chimera, la sospensione (almeno per un anno) è per i delinquenti una pacchia, una manna, una promessa di impunità. Staranno brindando. Con questa logica, volta a volta, con legge ordinaria, la maggioranza di governo deciderà quali reati perseguire e quali no. Alla faccia della “tolleranza zero”. E di fronte a questa vera e propria legge di “istigazione a delinquere”, è davvero “eccessivo” scendere in piazza ORA? Oltretutto la seconda legge-canaglia, che va in discussione alla Camera proprio l’8 luglio, è se possibile ancora più pericolosa. Toglie alla magistratura, per una serie lunghissima di gravi reati, la possibilità di fare intercettazioni, cioè uno strumento essenziale per scoprire quegli stessi reati. E impedisce ai giornalisti di rendere conto delle poche intercettazioni legali residue. Non solo di pubblicarle, si badi, ma perfino di farne cenno. Pena alcuni anni di galera. Con questa legge non avemmo mai saputo dell’esistenza di Tangentopoli o dell’ospedale-macelleria di Milano, dei furbetti del quartierino e di tutto il marcio di questi anni. Diventeremmo cittadini ridotti come le tre scimmiette: ciechi, sordi e muti. E di fronte a fatti così inauditi, inconcepibili in qualsiasi sistema liberale occidentale, anche il più conservatore, è “eccessivo” scendere in piazza ORA? Furio Colombo, Pancho Pardi ed io crediamo il contrario. E con noi i tantissimi che stanno aderendo alla manifestazione. Andrea Camilleri l’8 luglio dal palco di piazza Navona leggerà alcune delle sue nuove “poesie incivili” (quindici di esse aprono il numero appena uscito di MicroMega), da quel palco Marco Travaglio spiegherà la nascita di una vera e propria “Costituzione ad personam” e con loro parleranno Moni Ovadia, Lidia Ravera, e tanti altri le cui adesioni si stanno accumulando ora per ora, anche mentre scrivo. E ci sarà Antonio Di Pietro, e l’intera “Italia dei valori”, che fin dall’inizio hanno dato pieno e generoso sostegno alla manifestazione. Partecipano “aggratis”, e anzi di più, senza corporativismi di partito. E ci saranno, credo, numerosi parlamentari del Partito democratico, perché, cito sempre da Repubblica, lo stesso Veltroni ha sottolineato che “ovviamente ciascun piddì è libero a livello individuale di fare come crede”. Io tuttavia, continuerò ogni giorno, con un video dal sito www.micromega.net, a invitare Veltroni a darmi una sola “buona ragione” per non partecipare, ad accettare un pubblico confronto, a ripensarci. Che senso ha parlare della necessità di una dura opposizione e poi rifiutarsi di manifestare oggi? Solo lottando uniti da subito le lotte potranno avere in autunno maggiore efficacia. Disertare la piazza oggi significa indebolire già oggi quella di ottobre. Spero che alla fine il richiamo dell’unità, il valore più tradizionale di tutta la storia della sinistra, trascinerà anche Walter in piazza con noi l’8 luglio. Pubblicato il: 02.07.08 Modificato il: 02.07.08 alle ore 8.18 © l'Unità. Titolo: Paolo Flores d´Arcais. Quello che Nanni non sa Inserito da: Admin - Luglio 12, 2008, 11:09:21 pm Quello che Nanni non sa
Paolo Flores d´Arcais Ho evitato ogni polemica, nei giorni precedenti la manifestazione di Piazza Navona - benché non mancassero le falsità, le manipolazioni, le insinuazioni (e perfino gli insulti) cui replicare -, per non offrire pretesti a chi questa manifestazione voleva ostacolare. Eviterò ogni polemica ora, dopo che una partecipazione di cittadini andata al di là delle più temerarie speranze ha dato vita a una giornata di straordinaria risposta democratica e di resistenza civile al gorgo di «putinizzazione» nel quale Berlusconi, a forza di leggi-vergogna, sta trascinando l’Italia. Una partecipazione di cittadini clamorosa per numero, almeno centomila, con la piazza stipata modello «sardine» e le vie circostanti piazza Navona colme di persone che non riuscivano a entrare. Ed emozionante per generosità, passione politica, indomita volontà di non assuefarsi alle sirene confortevoli del conformismo e della passività. Alla grande tentazione che sempre minaccia le democrazia, quella della «servitù volontaria». Molti cittadini sono venuti da città lontane, perfino dalle isole, sacrificando un giorno di ferie, spendendo tempo e denaro, pur di non rimandare a quando potrebbe essere troppo tardi, il loro grido di libertà e di dignità. Poiché mi sono imposto di evitare polemiche, per rispetto dei centomila cittadini che hanno manifestato a piazza Navona, registro e accantono acriticamente le affermazioni di Nanni. Ma visto che, contro la putinizza-zione dell’Italia, sarebbe necessario scendere in piazza ogni giorno, sono certo che la prossima grande manifestazione democratica sarà Nanni - generosamente - a organizzarla. Nessuna polemica, dunque. Qualche riflessione tuttavia si impone, «sine ira et studio». Quanti sono i mass-media che hanno riferito in modo onesto della manifestazione? Ce ne sono stati certamente, e non parlo solo dell’Unità, ma quanti? E stando alla Tv-Unica sembra invece che in quella piazza siano risuonate solo alcune frasi di due o tre interventi. E tutto il resto? E le altre tre ore e oltre? E le straordinarie poesie incivili di Camilleri? E le vere lezioni di democrazia «poetica» di Moni Ovadia e Ascanio Celestini? E il collegamento di commovente lucidità di Rita Borsellino? Tutti gli interventi, uno per uno, andrebbero citati, per la ricchezza di spunti che hanno offerto. E non doveva forse essere il silenzio dei media su tutto questo il principale motivo di indignazione? Non voglio però evitare di affrontare i temi che sono stati presi a pretesto per un linciaggio della manifestazione spesso precostituito in anticipo. Dunque, Beppe Grillo avrebbe offeso il capo dello Stato. Non ripeterò le argomentazioni sulla differenza tra offesa e critica, già svolte ieri analiticamente da Marco Travaglio. Voglio solo ricordare una circostanza di fatto. Una settimana fa il quotidiano Il Manifesto è uscito con una prima pagina dove campeggiava una foto enorme di Giorgio Napolitano e, a mo’ di unico titolo, una grande e inequivoca scritta: «L’ammorbidente». È più pesante il Napolitano-Morfeo evocato da Grillo o il perfido strale satirico delManifesto? Eppure nessuno dei media, per fortuna, si è stracciato le vesti per quella prima pagina assolutamente eloquente. A cosa è dovuto questo ennesimo «due pesi e due misure»? Detto questo, a me lo stile e la logica politica di Beppe Grillo non piacciono. Non ho partecipato ai suo «V-day». Non considero il «vaffa» una conquista nella storia dell’eloquenza democratica. Ma abbiamo accettato, tutti noi promotori, che portasse in diretta il suo saluto alla manifestazione. Che Grillo porti un saluto alla Grillo mi sembra una tautologia, era del tutto immaginabile. Rispetto al suo standard di «vaffa» si è anzi contenuto, basta visitare il suo blog quotidiano per rendersene conto. Fargli portare il saluto è stato un erro-re, una concessione allo show-business, come scrive Curzio Maltese su Repubblica? È possibile, come tutte le cose controverse. Se non lo volevamo, però, dovevamo deciderlo prima e non invitarlo. Quanto alla satira di Sabina Guzzanti, il suo stile attuale appartiene ad un genere «cattivissimo» che negli Usa (e non solo) ha pieno riconoscimento di legittimità, grandissimo spazio e milioni di spettatori, e nessuna «unanime indignazione». Durante la recente visita di Ratzinger negli Stati Uniti, oltretutto, si sono dette e scritte - in quella democrazia da tutti ipocritamente proclamata a modello - contro il Romano Pontefice cose infinitamente più pesanti della «condanna all’inferno» pronunciata da Sabina. Ma di quegli attacchi, il regime di Tg-Unico nulla ha mai fatto sapere ai telespettatori italiani. Del resto, chi dissente in genere fischia, lo hanno fatto perfino i commercianti con Berlusconi. A piazza Navona fischi non ce ne sono stati. Resta però, cosa di cui si preferisce non parlare ma di cui è doveroso parlare - col nostro linguaggio e il nostro stile - il problema della firma del Presidente della Repubblica al lodo-Alfano. Io voglio attenermi allo stile inderogabile della logica. E allora: cento costituzionalisti, a partire da numerosi presidenti emeriti della suprema corte, hanno alcuni giorni fa stilato un appello che dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio come il lodo-Alfano sia anticostituzionale. Di più: nello stesso appello hanno dimostrato analoga anticostituzionalità della norma cosiddetta blocca-processi. Tale appello è stato controfirmato sul sito web di Repubblica, al momento in cui scrivo, da oltre 136 mila cittadini. Saranno molti di più quando leggerete questo articolo. Ora, delle due l’una. Posto che il Capo dello Stato è, secondo una definizione da tutti ripetuta, il «custode della Costituzione», o hanno ragione i cento costituzionalisti (la stragrande maggioranza della comunità degli studiosi della disciplina) e allora il presidente Napolitano non deve firmare le due leggi anticostituzionali in questione. Oppure non è censurabile che le firmi, anzi il suo è un atto dovuto, e allora hanno torto marcio quasi tutti i costituzionalisti italiani, e poiché tra loro ci sono numerosi ex-presidenti della Consulta, vorrebbe dire che la più alta corte della Repubblica è stata per anni in mano ad incompetenti. La logica non lascia scampo. Si scelga il corno dell’alternativa che si preferisce, ma non possono essere entrambi veri. Personalmente, gli argomenti dei cento costituzionalisti mi hanno convinto al centouno per cento. Pubblicato il: 12.07.08 Modificato il: 12.07.08 alle ore 14.12 © l'Unità. Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. PD: “Usque tandem abutere patientia nostra?”. Inserito da: Admin - Luglio 14, 2008, 05:48:02 pm Clamoroso sondaggio: un terzo degli elettori con gli “estremisti” di piazza Navona
di Paolo Flores d'Arcais Renato Mannheimer ha pubblicato sul “Corriere della sera” del 13 luglio un sondaggio clamoroso sulla manifestazione di piazza Navona. Sulla base di un campione rappresentativo – per sesso, età, titolo di studio, professione, area geografica, ampiezza del comune di residenza - dell’intero corpo elettorale, solo il 55.3% giudica la manifestazione negativamente, il 15,3% non esprime giudizi, e un incredibilmente alto 29,4% la giudica positivamente. Si badi, questi giudizi non vengono espressi sulla base di una conoscenza diretta di quanto avvenuto a piazza Navona (una diretta tv, per esempio), ma di una informazione (per la maggior parte degli italiani esclusivamente televisiva) che ha violentemente manipolato e distorto i fatti, ha “demonizzato” l’evento, ha cancellato come inesistente la maggior parte degli interventi, e ha ridotto quella che – se fosse giornalismo - dovrebbe essere una cronaca imparziale, ad alcune battute estrapolate da due interventi di due comici. Malgrado questo, malgrado la tv abbia fatto di tutto (e di più) per presentare la manifestazione come ignobile, vergognosa, estremista (senza mai dire nulla dei suoi veri contenuti), le cifre del giudizio del corpo elettorale lasciano felicemente sbalorditi. Proviamo a confrontare i numeri di Mannheimer con i risultati elettorali di alcuni mesi fa. Il 15,3% che si astiene dal giudizio corrisponde, se si votasse, a chi non si reca alle urne, o vota scheda bianca e scheda nulla. Perciò il 29,4% che approva la manifestazione equivarrebbe, in termini di voti validi, al 34,7%. Il partito di Veltroni, alle scorse elezioni, ha ottenuto il 33,2. Altro che estremisti isolati, dunque. Oltre un terzo del corpo elettorale che si esprime, sta dalla parte di piazza Navona. Neppure ai tempi di piazza san Giovanni nel 2002 il riscontro di opinione era stato tanto positivo. E allora i cittadini avevano potuto seguire la manifestazione in diretta su “La7” e i telegiornali, benché non abbiano praticato neppure allora una “imparzialità anglosassone”, erano restati ben lontani all’indecenza di manipolazione del TgUnico dei giorni scorsi. Ma ancora più clamorosi sono i dati di Mannheimer nella loro forma disaggregata, riferita ai vari settori del corpo elettorale. Sempre trascurando gli astenuti, e quindi ricalcolando le percentuali in relazione ai soli “voti validi”, il 23% degli elettori leghisti (praticamente uno su quattro!) “vota” per piazza Navona. E a favore della manifestazione si esprime perfino il 14% degli elettori di Berlusconi/Fini (probabilmente molti di più tra gli ex di Alleanza nazionale che non di Forza Italia). E’ evidente, insomma, che un’opposizione coerente e intelligente, capace di mostrare come “giustizialismo” e “garantismo” siano due facce di una sola medaglia, quella di una intransigente POLITICA DELLA LEGLITA’, può strappare consensi popolari, di massa, nello schieramento opposto, tra cittadini illusi dalle sirene populiste ma rapidamente delusi (se l’opposizione si oppone, anziché dialogare e offrire puntelli) dalla evidente logica dell’interesse “particulare” di Berlusconi a cui si piega tutta la sua coalizione. Infine, tra noi “estremisti” di piazza Navona (ripeto: nella versione demonizzante delle tv) e Veltroni che quella manifestazione condanna, la maggioranza degli elettori di Veltroni non ha dubbi, sta con piazza Navona, 48,2 contro 39,2, il che, ricalcolato senza tener conto del 12,4 di astenuti, significa 55% con piazza Navona contro il 45% col segretario del Pd. Che dunque, contro un candidato di piazza Navona, perderebbe oggi le primarie dentro il suo stesso partito! Chi ha parlato di fallimento della manifestazione, e di irresponsabilità di chi l’ha promossa, ha materia su cui riflettere, se gli resta ancora qualche oncia di buonafede. Perché un conto è sostenere che in una manifestazione politica si preferirebbe ascoltare certi accenti e toni piuttosto che altri, fin qui siamo nel campo delle preferenze soggettive (io stesso ho le mie, molto nette). Un conto è parlare di fallimento e di irresponsabilità, con il che, in genere, si pretende di dare un giudizio “oggettivo”, che trascura le intenzioni (anche le migliori) e guarda alle conseguenze, ai risultati (voluti o non voluti, previsti o non previsti: non averli saputi prevedere costituirebbe, appunto irresponsabilità). I risultati sono ora sotto gli occhi di tutti. Lo stesso Mannheimer ne sembra impressionato, e riconosce che “un orientamento critico verso l’operato del Cavaliere … sta emergendo anche all’interno la maggioranza” il che “rappresenta un fatto nuovo nel panorama politico che si è evidenziato proprio a seguito dell’evento di piazza Navona” (sott. mia). Tutto questo grazie all’impegno di quattro gatti per un paio di settimane, impegno che è bastato a far da catalizzatore alle infinite energie sopite della società civile democratica, che si sono rapidamente auto-organizzate con generosità e sacrificio personale. Che cosa potrebbe fare un’opposizione degna del nome, con le gigantesche risorse del Pd e non dei quattro gatti, lo capisce chiunque. Ecco perché ho parlato tante volte di “inciucio per omissione”. Ma temo che ora Veltroni, D’Alema, Rutelli, di nuovo in reciproco sgambetto permanente, abbiano deciso qualcosa di peggio: l’alleanza organica con il Partito di Cuffaro (pseudonimo: Udc). Speriamo che i militanti del Pd sappiano - prima che il Pd sia definitivamente ingaglioffito a nuova Dc - lanciare l’ultimatum: “Usque tandem abutere patientia nostra?”. (14 luglio 2008) Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Eluana, quale volontà? Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2009, 12:32:50 pm Eluana, quale volontà?
di Paolo Flores D'Arcais «Sia fatta la volontà di Eluana» o «sia fatta la volontà di Dio»? La famiglia Englaro aveva chiesto il silenzio stampa. "Famiglia cristiana” lo ha rotto, per mettere a frutto (clericale) le emozioni delle festività natalizie, con un editoriale tanto lugubre quanto falso (“Tutto pronto per l’«esecuzione»”) che ha un solo e irrinunciabile merito, aver posto in modo netto e non più aggirabile che due soli sono i termini del dilemma: appunto, «sia fatta la volontà di Eluana» o «sia fatta la volontà di Dio»? Tra queste due possibilità si tratta di scegliere, al di là di questo singolo e terribile caso, mettendo al posto di Eluana il nome di un qualsiasi cittadino, per legiferare. Risulta infatti ormai evidente come la prima linea delle obiezioni clericali (la volontà di Eluana non è stata accertata oltre ogni ragionevole dubbio) fosse poco più di un pretesto. Fosse stata anche messa per iscritto, filmata, certificata presso un notaio, l’ostilità clericale alla decisione dei magistrati sarebbe restata tale e quale. Tanto è vero che la legge che il governo proporrà, grazie all’attivismo infaticabile del sottosegretario Eugenia Roccella incoraggiato dai quotidiani interventi di oltretevere, stabilisce che il nutrimento artificiale sarà comunque obbligatorio, anche contro la volontà solenne del paziente. Ogni ricamo retorico è ormai perciò inutile e non potrebbe confondere nessuno. La volontà del cittadino o la volontà di Dio? Questa, e nessun’altra, è la decisione che si deve prendere. In uno Stato laico la risposta dovrebbe suonare ovvia. La volontà di Dio si esprime sempre e solo attraverso la voce di un uomo, la volontà finitamente umana di chi pretende di parlare in Suo nome, e ha un significato solo per il credente e non può vincolare che lui, e del resto è diversa quanto diversi sono i gruppi di credenti a la loro ermeneutica della volontà divina. I cristiani valdesi ammettono il diritto all’eutanasia, e altrettanto fanno cristiani cattolici come Hans Küng, Giovanni Franzoni e tantissimi altri nell’Urbe e nell’Orbe. La Costituzione italiana, non a caso, stabilisce in modo inoppugnabile che è diritto di ogni cittadino rifiutare qualsiasi genere di cure, anche se tale rifiuto porta a morte certa, e ripetute sentenze della magistratura, fino alla Cassazione, hanno ormai sistematicamente applicato il principio. La giaculatoria ricorrente, secondo cui la vita è un bene “indisponibile”, è solo l’ultimo sotterfugio con cui si tenta colpevolmente di rovesciare il dettato costituzionale. Applicare o togliere una macchina, senza la quale la vita cesserebbe, è sempre una decisione, che verrà perciò presa da qualcuno. La decisione, e la vita, è sempre e comunque, perciò, nella disponibilità di qualcuno, ci si trovi di fronte al malato terminale o al neonato che abbandonato alla “natura” non sopravviverebbe. Perciò, se la tua vita non è nella tua disponibilità, caro lettore (adulto e titolare dei diritti di cittadino), sarà inevitabilmente nella disponibilità di qualcun altro, essere umano finito e fallibile come te. Dichiarare che di fronte alla possibilità di accanimento terapeutico il tuo testamento biologico non può dire “no” anche alla nutrizione artificiale (che come dice la parola stessa non ha nulla di “naturale”), perché la tua vita è comunque “indisponibile”, è solo il modo ipocrita per dichiarare che essa è a disposizione degli ideologi clericali e della decisione che essi vogliono imporre a te come sovrana. Ipocrisia, ma anche viltà: dichiarano la vita “indisponibile” perché non hanno più neppure il coraggio di affermare che la tua vita non appartiene a te ma appartiene a Dio, e che della volontà di Dio, che perfino a molti credenti appare indecifrabile (e a ogni teologia risulta imperscrutabile quanto al senso del male), essi sono gli unici depositari autorizzati. Trascuriamo pure i sintomi di delirio di onnipotenza che sarebbero lecitamente sospettabili in chiunque presuma di conoscere la volontà di Dio, cioè di un Essere per definizione non assimilabile alla finitezza della ragione umana (e tra un essere finito e infinito non è questione di gradi ma di salto ontologico). Qui si tratta semplicemente di decidere tra libertà democratiche e pretese di teocrazia. Il nudo fatto che se ne debba discutere dimostra già l’incredibile abisso di arretramento storico e civile che sta vivendo il nostro paese. Su diritti così elementari come la propria vita non dovrebbe potersi mai esercitare la volontà di altri, fossero pure una schiacciante maggioranza (altrimenti perché non anche sulle decisioni come matrimonio, professione, partito politico, religione, ecc., che costituiscono solo aspetti della propria vita?). Ma se l’oltranzismo clericale arriverà alla dismisura di voler davvero imporre per legge, a tutti, diversamente credenti e diversamente miscredenti, la loro – relativa e parziale - morale di fine vita, e non ci fosse una Corte Costituzionale capace di abrogare all’istante un così inqualificabile tentativo di restaurazione teocratica, bisognerà che tutti i cittadini democratici si sentano fin da ora mobilitati al referendum. 06 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Il cardinale Barragán non è un pedofilo Inserito da: Admin - Marzo 17, 2009, 04:04:29 pm Il cardinale Barragán non è un pedofilo
(esattamente come Beppino Englaro non è un assassino) di Paolo Flores d'Arcais, da l’Unità, 13 marzo Se un personalità italiana molto importante, e magari con un altissimo incarico istituzionale o governativo, per alcune settimane si permettesse in modo sistematico, attraverso comunicati stampa, interviste ai quotidiani, dichiarazioni televisive, di sostenere che “il cardinal Barragán è un pedofilo”, i nostri politici e i loro media giudicherebbero tali esternazioni come la lecita manifestazione di una libera opinione, oppure troverebbero normale che parta una denuncia per diffamazione e calunnia, con l’augurio di una condanna esemplare? Noi staremmo dalla parte di Barragán, toto corde. Ora, la pedofilia è un crimine gravissimo e odiosissimo, anzi mostruoso, ma non risulta che l’omicidio sia poi tanto meno grave. Eppure, per settimane il cardinal Barragán, e altri cardinali, e un codazzo di parlamentari e di “buoni maestri” di tutte le risme, non hanno fatto altro che trattare da assassino, omicida, killer, Beppino Englaro, e i medici e gli infermieri, e i magistrati di tutte le istanze (fino alla Cassazione) che hanno infine consentito che le volontà di Eluana Englaro sul proprio corpo fossero rispettate. Nessuno si è stracciato le vesti. Nessuno si è indignato per una diffamazione con i toni del linciaggio. Nessuno nell’establishment, vogliamo dire. Anzi, l’accusa di omicidio formulata da un gruppo di cittadini di una delle tante organizzazioni clericali che usurpano il diritto di parlare “a nome della vita”, salvo voler togliere a ciascuno la possibilità di decidere sulla propria e arrogarselo per sé (millantano infatti un filo diretto con Dio), ha dato luogo da parte della procura di Udine all’iscrizione di Beppino Englaro nel registro degli indagati. Come “atto dovuto”, si è detto. E quando Beppino Englaro, tacciato da delinquente, ha fatto sapere che i suoi avvocati stanno decidendo se e come far partire una serie di querele (che nel caso ovviamente riguarderebbero anche i cardinali calunniatori) il tono prevalente sui media ha oscillato tra l’imbarazzo e la deprecazione: Beppino Englaro è un esagerato, come minimo, in realtà ora si mette a far politica, ad aggredire la Chiesa con gli strumenti giustizialisti, eccetera. Se fossimo cristiani dovremmo sottolineare che tutti questi cardinali (e onorevoli al seguito) sembrano decisi fino alla protervia nel praticare una regola (“fai agli altri quello che NON vorresti fosse fatto a te”) che rovescia completamente quanto i vangeli attribuiscono alla predicazione di Gesù il Galileo. Dunque, o non conoscono i vangeli, o li detestano. Speriamo che qualche cristiano si ribelli, e soprattutto che la giustizia di una Repubblica che dovrebbe essere laica e democratica rifiuti i “due pesi e due misure”. (13 marzo 2009) da temi.repubblica-online.it Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. La piscina col velo islamico, ovvero la santa alleanza... Inserito da: Admin - Aprile 30, 2009, 05:07:35 pm Laicità
La piscina col velo islamico, ovvero la santa alleanza dei clericalismi di Paolo Flores d'Arcais La decisione della piscina “Siloe” di Bergamo, di riservare un’ora al nuoto “islamicamente corretto” (solo donne, costume testa-piedi approvato dai mullah) costituisce l’ennesimo episodio di sudditanza della convivenza civile al clericalismo. Il fatto che si tratti di clericalismo islamico non cambia nulla: sempre una resa dello Stato laico è. Un clericalismo di minoranza non cessa di essere clericalismo, e la somma di due clericalismi non diventa tolleranza, e meno che mai integrazione. L’integrazione si realizza solo sulla base del pieno dispiegarsi dei diritti individuali, della autonomia di ciascuno (uomo e donna), non sul moltiplicarsi delle sudditanze e dei divieti. E la ghettizzazione delle donne è l’esatto opposto della autonomia. E’, al massimo, servitù “volontaria”, dove il carattere “volontario” va corretto dalle infinite virgolette di una condizione materiale, sociale, culturale, che vanifica la possibilità di libera scelta. Che la piscina in questione sia di proprietà della curia di Bergamo, sia insomma uno degli infiniti beni immobili della Chiesa cattolica gerarchica, è sommamente significativo. L’ora natatoria islamico-clericale, promossa dai vertici diocesani clerico-cattolici, verrà sbandierata come un fulgido esempio di dialogo interreligioso, di iper-ecumenismo, alla faccia dei critici (soprattutto cristiani) di Papa Ratzinger, che hanno osato parlare di un suo “abbandono” del Concilio Vaticano II. E di un ancor più fulgido esempio del magistero civile della Chiesa, ultimo baluardo ormai agli egoismi, divisioni e derive di razzismo che stanno saturando la società italiana. Balle. Quali che siano le intenzioni (che vogliamo considerare buone, anzi eccellenti, e perfino progressiste, aprioristicamente), ciò che si è realizzato è solo una santa alleanza dei clericalismi che ribadisce la subordinazione della donna in seno a una parte (probabilmente non piccola) delle famiglie di immigrati, e anzi tale subordinazione legittima e santifica, lanciando così un messaggio ai tantissimi nostalgici italici delle prevaricazioni di sesso (ancora fin troppo correnti, malgrado la parità giuridica). A conferma, se ce ne fosse bisogna, che laicità ed eguaglianza fanno corpo unico, non si può ricercare l’una senza l’altra. E che non si può combattere un clericalismo e difenderne un altro (sia detto per i leghisti d’ordinanza, che per gli immigrati non vogliono l’eguaglianza laica ma la falsa “integrazione” cattolica). (30 aprile 2009) da repubblica.it Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Fini, i laici e i diktat vaticani Inserito da: Admin - Maggio 21, 2009, 02:53:18 pm 21/5/2009
Fini, i laici e i diktat vaticani PAOLO FLORES D'ARCAIS Sullo strappo del presidente Gianfranco Fini, «La fede fuori dalle Camere» (La Stampa di martedì) abbiamo pubblicato ieri una lettera di Giovanni Gennari, il Rosso Malpelo corsivista dell’«Avvenire». Oggi interviene Paolo Flores d’Arcais, direttore di «MicroMega». Il presidente della Camera, on. Gianfranco Fini, ha pronunciato nei giorni scorsi un’assoluta ovvietà, che la legge dello Stato non deve ispirarsi ai precetti di una religione. Ovvietà in democrazia, beninteso. In una teocrazia farebbe notizia e scandalo (nell’Iran khomeinista con un’affermazione del genere finisci in galera, se ti va bene). Ora, l’ovvietà di Fini, anziché passare inosservata, è finita sulle prime pagine, ha fatto scandalo, ha scatenato lo «stracciarsi le vesti» ormai d’ordinanza. Applichiamo perciò la logica più elementare: se quella che in democrazia è un’ovvietà, ma in una teocrazia è una notizia, da noi suscita clamore, vuol dire che questo Paese già non è più una democrazia, e che nell’establishment le pulsioni teocratiche sono assai forti, e in Parlamento addirittura maggioritarie. Va da sé: la pulsione teocratica in Italia non si esprime nella forma khomeinista canonica («il Corano è la nostra Costituzione» - anche perché: ve li immaginate Berlusconi e Bagnasco a prendere sul serio il Vangelo?), ma come servitù volontaria ai diktat del Vaticano. Che hanno solo la sottigliezza teologica di non presentarsi come precetti della fede, dogmi del Ratzinger di turno, ma come «evidenze» della «natura umana». Se non è zuppa è pan bagnato: la «natura umana» secondo un laico libertario ha «evidenze» opposte a quelle della Chiesa gerarchica. I laici libertari non appartengono dunque al genere «sapiens sapiens»? Ora, benché sfugga ai Gennari, Formigoni e altre Roccella, in una democrazia liberale la maggioranza dei voti non è tutto, prima di tutto viene l’autonomia di ciascuno sulla propria vita e la propria libertà. Se una maggioranza parlamentare, anche schiacciante, votasse il battesimo cattolico obbligatorio per ogni nascituro, noi non saremmo più una democrazia, meno che mai se un successivo referendum ratificasse plebiscitariamente questa teocratica violenza. A maggior ragione sulle questioni «eticamente sensibili». Sulla tua vita (e dunque anche fine-vita), amico lettore, o decidi tu o decide un altro. Ma se sulla nostra vita può decidere sovranamente l’on. Lupi, sulla sua potrà domani decidere la tua volontà, o la mia, o di chiunque detenga una transitoria maggioranza. Mostruosità. Che i nipotini di don Giussani (o di mons. Escrivá de Balaguer) accettano solo in una direzione. Stalin voleva imporre a tutti l’ateismo di Stato. I catto-khomeinisti di Berlusconia vogliono imporre a tutti i malati terminali (o vegetativi permanenti) la tortura di Stato. No. da lastampa.it Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Marino, il Pd e la quadratura del cerchio Inserito da: Admin - Luglio 09, 2009, 10:23:42 pm 9/7/2009
Marino, il Pd e la quadratura del cerchio PAOLO FLORES D'ARCAIS Ignazio Marino, candidato alla segreteria del Partito democratico, è solo un «terzo incomodo» o ha delle effettive possibilità di riuscire? Provo ad esaminarle, queste possibilità, sine ira et studio, prescindendo cioè da ostilità o simpatia verso la politica e le qualità umane del candidato (benché, per trasparenza: la mia simpatia è netta e dichiarata). Basandoci sulle precedenti esperienze, se le primarie saranno un successo vedranno una partecipazione popolare oscillante tra i quattro e i sei milioni di cittadini. Marino, per diventare segretario, dovrà raccogliere due o tre milioni di consensi. Una cifra enorme, in apparenza assolutamente proibitiva per chi non dispone di nessun apparato e meno che mai di significativi appoggi mediatici. Impresa da superman Tra quanti si recheranno ai gazebo vi sarà una quota di cittadini che alle scorse elezioni hanno votato Pd in modo convinto. Tra loro Marino non potrà raccogliere consensi, in questo settore saranno Bersani e Franceschini a dividersi l’en plein. Diversamente tra quanti hanno votato Pd «turandosi il naso». Qui Marino dovrà essere in grado di competere e magari superare i suoi antagonisti, di risultare più credibile come innovatore radicale rispetto alle divisioni tradizionali di una nomenklatura tanto rissosa quanto sclerotica (e sistematicamente perdente). Ma neppure questa notevole performance basterebbe a farlo prevalere nel conteggio finale. Per vincere Ignazio Marino dovrà essere capace di un autentico exploit: portare ai gazebo centinaia e centinaia di migliaia di cittadini (in realtà più di un milione, almeno) che ormai il Partito democratico neppure lo votano, che di quel partito detestano l’intera casta dirigente, che alle europee hanno preferito votare Di Pietro (magari con mille riserve) o i due partitini della sinistra (malgrado la quasi certezza di un mancato quorum), o addirittura sono restati a casa, condannando Pd e Berlusconi come sostanzialmente equivalenti. Se non riesce in questo, Marino è condannato a una presenza di testimonianza. Più o meno dignitosa ma programmaticamente perdente. Buona per garantire un futuro e una forza di «corrente» a qualche ambizioso «giovane» o meno giovane, ma nulla di più. Ignazio Marino è stato tuttavia tassativo: questo obiettivo non lo interessa. Vuole diventare segretario per voltare pagina e dare vita ad un Pd con una sola corrente, quella dei circoli, dei militanti di base, del popolo delle primarie. Tiriamo le ineludibili conseguenze logiche. Il 25 ottobre Marino dovrà aver convinto due o tre milioni di persone, in larga misura cittadini «anti-politica» o «anti-partito», secondo le definizioni correnti e d'ordinanza (altamente ingannevoli, in realtà). E molte decine di migliaia dovrà addirittura convincerli ad iscriversi al Pd entro il 21 luglio, cioè subito, per partecipare alla prima fase congressuale (nella quale si deve raggiungere una certa percentuale di delegati, altrimenti si viene esclusi dalle primarie). Dalla parte dei sognatori E’ dunque a questi cittadini, in genere stigmatizzati dai vertici Pd come girotondini, giustizialisti, sognatori estremisti, e chi più ne ha più ne metta, che Marino deve in primo luogo e prevalentemente rivolgersi, se davvero vuole vincere. Di più: deve convincerli, coinvolgerli, galvanizzarli, entusiasmarli. Essere ai loro occhi assolutamente e costantemente credibile, poiché si tratta di cittadini che fin troppe volte si sono spesi con passione civile e generosità e sono stati sistematicamente delusi e traditi da vertici che santificano un solo principio: «tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». Si dirà che è la quadratura del cerchio, perché Marino è un moderato e «quelli» sono estremisti. Falso. Il presunto estremismo di girotondi e giustizialisti si riduce nel considerare l’applicazione coerente della Costituzione il programma massimo per oggi e per domani, e la legge eguale per tutti, cioè egualmente garantista (o severa) per lo scippatore da strapazzo o gli infiniti Madoff nostrani, una politica irrinunciabile e non una chiacchiera retorica. E il welfare un bene da radicare e allargare, non da gettare al macero. E ogni posto e concorso da assegnare secondo merito, non secondo nepotismo (o peggio, «mignottocrazia», secondo la definizione di un berlusconiano d’annata quale Paolo Guzzanti, vicedirettore di Il Giornale). Non credo proprio che Ignazio Marino trovi qualcosa di estremista in queste articolazioni di patriottismo costituzionale. La sua differenza radicale, quasi antropologica, rispetto a uomini e donne di nomenklatura e casta, è la serietà, la coerenza tra dire e fare, il sì sì, no no del vangelo di Matteo, «perché il di più viene dal maligno». Che è anche la bussola girotondina e giustizialista. Marino può farcela, la quadratura del cerchio è possibile. Basta che lo voglia. da lastampa.it Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Pd: istruzioni dettagliate per estromettere i dirigenti.. Inserito da: Admin - Agosto 02, 2009, 02:56:39 pm Pd: istruzioni dettagliate per estromettere i dirigenti con cui “non vinceremo mai”
di Paolo Flores d'Arcais Cari amici e compagni, ma soprattutto concittadini, vi chiedo solo alcuni minuti di attenzione. Con questi dirigenti (del Partito democratico) non vinceremo mai. Se non vogliamo tenerci Berlusconi a vita, dunque, questi dirigenti dobbiamo estrometterli tutti. Il meccanismo del congresso e delle primarie lo consente. Oltre ai due candidati di nomenklatura ve ne è un terzo, Ignazio Marino, che viene dalla società civile. Il regolamento congressuale prevede che ogni candidato possa essere sostenuto da più liste. Propongo di dare vita ad una lista dal nome provvisorio “girotondi per Marino”, per indicare un sostegno che viene da quanti hanno rifiutato con le lotte ogni ipotesi di inciucio, perché giudicano quello di Berlusconi un regime putiniano che sta riducendo l’Italia in macerie (morali, istituzionali, sociali, culturali, economiche…). Per questa lista propongo undici semplici ma irrinunciabili impegni programmatici, che potrete leggere qui sotto. Un programma esaustivo imporrebbe molti altri temi, ma di programmi chilometrici e puntualmente disattesi ne abbiamo visti fin troppi. Il meccanismo per presentare una lista impone che si trovino mille candidati per l’Assemblea nazionale (che verrà eletta dalle primarie), divisi nei diversi collegi elettorali. Tali collegi corrispondono in genere alle province, tranne alcune province dove in proporzione alla popolazione vi saranno più collegi. Queste liste di collegio dovranno essere controfirmate da cinquanta iscritti al Pd dello stesso collegio. Grosso modo si dovranno trovare circa 7/8 mila firme. Il tutto entro settembre. Tutto ciò è difficile ma non è impossibile. Per questo chiedo a coloro che condividono gli undici punti e sono iscritti al Pd di mandare all’indirizzo girotondipermarino@gmail.com nome, cognome, provincia e città di residenza, circolo del Pd a cui si è iscritti, disponibilità a firmare ma anche ad essere candidati, e altri elementi della propria biografia di impegno politico che ritengano utile comunicare. A loro, e a coloro che non sono iscritti al Pd, chiedo di far circolare il più possibile questo appello (pubblicato anche su facebook) attraverso tutti i canali di cui dispongono: indirizzari mail e sms, siti web, gruppi di facebook, ecc. Coinvolgere ottomila persone, senza uno straccio di apparato organizzativo, per pura passione civile, senza prospettive di cariche e prebende, sembra una follia. Ma sono milioni i concittadini democratici che vorrebbero un nuovo partito senza i dirigenti con i quali “non vinceremo mai”. Nell’ultimo anno l’esodo dei voti dal Pd ad altre liste o al non-voto è stato esattamente di quattro milioni. Questa follia è dunque possibile. Possiamo estrometterli dal Pd e fare di questo partito uno strumento per cacciare Berlusconi. Se ciascuno di voi si impegna davvero ci riusciremo. E allora il Palavobis, piazza san Giovanni, piazza Navona, e tante altre manifestazioni, non saranno state inutili. Aspetto con fiducia le vostre mail. UNDICI PUNTI 1 - Misure anti-Casta: abolizione delle province, una sola Camera legislativa di cento deputati, un Senato di “difensori civici” formato dai sindaci delle prime 50 città e da quelli di altre 50 a sorte e rotazione fra tutti i comuni con più di 5 mila abitanti. Riduzione del numero dei consiglieri nelle assemblee regionali e comunali, e nessuna retribuzione (neanche sotto forma di rimborsi spese). Limitazione o abrogazione delle varie assemblee di circoscrizione o municipio. Proibizione di consulenze, le istituzioni si servono dei loro funzionari. Tetto al numero di impiegati comunali, e soprattutto di dirigenti e manager, in rapporto al numero di abitanti (oggi in Sicilia 5 o 6 volte di più rispetto a comuni “virtuosi” del nord). Abolizione di benefit per gli ex (oggi un ex presidente del consiglio di un’era fa ha ancora diritto all’autista). Legge elettorale con primarie incorporate al primo turno e dunque vincolanti. 2 - Opposizione intransigente e sistematica, senza alcuna tentazione di inciucio anche soft. Utilizzazione di tutti gli strumenti legali, parlamentari e nella società civile (dal filibustering parlamentare alle manifestazioni di piazza, alle campagne telematiche di denuncia, alla creazione di una televisione d’opposizione sul digitale…), per liberare l’Italia dal regime putiniano di Berlusconi, che sta riducendo il paese a un cumulo di macerie sotto il profilo morale, costituzionale, sociale, culturale, economico. 3 - Per il Partito democratico, proposta di tenere primarie di coalizione per la scelta dei candidati già alle prossime regionali (con ciò si apre già all’unità con i potenziali alleati, tra i quali NON può essere l’Udc di Casini e Cuffaro). Impegno generale: sì sì, no no (Mt. 5,37) e mai più “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Valutare su questo criterio le persone che aspirano a fare politica. Assoluta coerenza rispetto ai valori della Costituzione. Ovviamente nessun candidato che abbia avuto anche solo un rinvio in giudizio (tranne casi clamorosi di persecuzione politica, e per tali eccezioni assumersi la responsabilità con una campagna di denuncia). 4 - La legge eguale per tutti in garantismo e/o in severità. Di conseguenza: abrogazione di tutte le leggi ad personam, abrogazione della prescrizione una volta che ci sia il rinvio a giudizio, riduzione di un grado di giudizio (appello solo in casi “americani”, unificato con Cassazione), reintroduzione per la falsa testimonianza della severità di alcuni anni fa, aggiunta dei reati (da considerare gravi) di oltraggio alla corte e ostruzione di giustizia (manovre dilatorie, ecc.), raddoppio (o almeno incremento del 50%) delle risorse per la giustizia. 5 - Sicurezza per il cittadino comune, abolizione dei tre anni di indulto e della reiterabilità della condizionale, e delle pene ridicole per una serie di reati di violenza, a partire dal teppismo serale di gruppo. Introduzione del reato di riduzione in schiavitù, con ergastolo, per la tratta di prostitute dall’estero con inganno, minacce, violenza, e per il lavoro nei campi (raccolta pomodori, ecc.) in condizioni di ricatto e minacce. Tipologie e pene per i reati economici alla Madoff, a partire dal falso in bilancio. Speciale omicidio colposo per gli omicidi bianchi, con pene di carcere severe per tutta la filiera dei responsabili. Azione contro il lavoro nero e clandestino che colpisca il datore di lavoro al punto da dissuaderlo (unica via per diminuire il flusso di clandestini: è in questa chiave che va presentata, per disinnescare il leghismo). 6 - Azione sistematica contro l’evasione fiscale, presentata come un vero e proprio furto “ai vostri danni”. Patto esplicito di utilizzare metà dell’evasione recuperata per ridurre le tasse per i redditi fino a 40 mila euro annui. Semplificazione delle procedure per la denuncia dei redditi del lavoro non dipendente. Riduzione del 25% delle tasse per il reddito da commercio e piccolissima impresa (rispetto allo stesso reddito da lavoro dipendente o di libero professionista), ma misure semplici e rigorose, e duramente sanzionate, insomma draconiane, per l’evasione. Proibizione di conti e società nei paradisi fiscali. Salvaguardia dei piccoli negozi tradizionali e proibizione di nuovi supermercati (se non fuori dei “raccordi” che delimitano le città). Mercati rionali solo per produttori diretti e biologici (saltando le mediazioni). 7 - Energie rinnovabili e smaltimento rifiuti, applicazione in Italia di esperienze già fatte all’estero (e che alcune ditte italiane propongono senza successo, perché farebbero risparmiare, cioè ridurrebbero costi e relative tangenti per comuni, province, regioni: posso fornire alcuni contatti). 8 - Informazione: principio generale, concorrenza pluralista massima nel settore privato (vero capitalismo e vero mercato!). Servizio pubblico su modello BBC e Bankitalia, sottratto effettivamente alla politica (ma prima va fondato, su basi di imparzialità, abrogando la Rai e sostituendola con un ente completamente nuovo). Riduzione radicale degli spazi pubblicitari, al minimo consentito dalla normativa europea, in modo che molte risorse si trasferiscano al cartaceo. Abrogazione di qualsiasi sostegno pubblico alle pubblicazioni private e politiche, ma incentivazione agli abbonamenti attraverso la quasi-gratuità e la puntualità del recapito. 9 - Contro il lavoro precario, abolizione del lavoro in affitto e delle forme di intermediazione speculativa (oggi un infermiere pagato 10 riceve poco più che 5, il resto va alla sua “agenzia” che lo ha affittato, e così in tutti i subappalti). Realizzazione di una agenzia per trovare e offrire lavoro, pubblica e competitiva rispetto a qualsiasi intermediazione privata. 10 - Diritti civili a partire dal principio che nessun gruppo può imporre la propria morale, e che l’individuo decide in totale autodeterminazione per tutto ciò che lo riguarda, con l’unico limite che non leda analoga autodeterminazione altrui. 11 - Laicità, applicazione della Costituzione per le scuole private (senza oneri per lo Stato, oneri di qualsiasi genere). Abrogazione dell’ora di religione. Introduzione del darwinismo fin dalla più tenera età (vedi articolo di Pievani su MicroMega che riporta esperienze pedagogiche internazionali sull’argomento). Abrogazione della presenza di autorità religiose alle cerimonie pubbliche, e di simboli religiosi in qualsiasi luogo pubblico. Email: girotondipermarino@gmail.com Aderisci al gruppo su Facebook e passaparola! (30 luglio 2009) da repubblica.it Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Lo sconcertante rinvio della manifestazione di sabato 19 Inserito da: Admin - Settembre 18, 2009, 11:48:10 am Lo sconcertante rinvio della manifestazione di sabato 19
Flores d’Arcais: Il cordoglio e l’umana pietà per i militari italiani morti a Kabul sono incompatibili con la difesa della libertà di stampa? Il cordoglio e l’umana pietà per i militari italiani morti a Kabul sono incompatibili con la difesa della libertà di stampa? Solo a chi coltiva a una follia del genere poteva venire in mente di spostare la manifestazione di sabato, quasi che essa, in quanto di denuncia dell’attuale governo (anzi regime) debba essere vissuta come ipso facto anti-nazionale, anziché in sommo grado patriottica, come in effetti era, poiché con l’obiettivo di salvare il paese dall’abiezione in cui il berlusconismo lo sta precipitando. La verità è che da molti quella manifestazione era stata indetta controvoglia. Nella Federazione della Stampa convive di tutto, infatti, dai giornalisti-giornalisti agli aficionados del killeraggio mediatico contro gli oppositori del regime (o anche i sostenitori del governo che solo accennino alla fronda), passando per tutte le gradazioni del giornalismo d’establishment. Le cause milionarie (megamiliardarie, se calcolate in vecchie lire) con cui l’egocrazia vuole piegare ogni residuo di libertà critica non sono cominciate infatti con i recenti casi di l’Unità e la Repubblica. Ne sanno qualcosa Antonio Tabucchi, per il quale si sono mobilitati scrittori di tutto il mondo, o Gianni Barbacetto, per non parlare delle infinite cause intentate contro Marco Travaglio. Ma non risulta che fino ad oggi la Federazione della Stampa si sia mossa in loro difesa, chiamando a manifestare. La verità è che la manifestazione avrebbero dovuto indirla i partiti dell’opposizione, dispiegando tutte le loro forze organizzative e comunicative, affidando poi ai tre giuristi dell’appello che sta sfiorando 400 mila adesioni, Cordero, Rodotà e Zagrebelsky, tre tra le figure più alte dell’Italia di oggi, ogni decisione sugli interventi dal palco e lo svolgimento della manifestazione. Rinunciando alla manifestazione non si dimostra un maggior cordoglio per i soldati italiani uccisi a Kabul. Si confessa solo il timore per il linciaggio mediatico che il regime avrebbe scatenato proprio con questo aberrante pretesto. Si confessa cioè la propria inadeguatezza a contrastarlo e rovesciarlo, quel linciaggio, facendo appello alla ragione e alla passione civile di decine di milioni di italiani che sarebbero stati certamente in grado di capire, e di condannare con ancora più forte convinzione un regime che avesse cinicamente strumentalizzato i morti per oltraggiare una manifestazione di libertà. (17 settembre 2009) da temi.repubblica.it di Paolo Flores d'Arcais Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Perché “Panorama” spaccia fiction per realtà? Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 10:59:35 pm Disinformacija di regime
Perché “Panorama” spaccia fiction per realtà? di Paolo Flores d'Arcais A Giorgio Mulè, direttore del settimanale “Panorama” Egregio direttore, leggo nel numero di “Panorama” appena uscito un articolo di Giovanni Fasanella (“Scacco a Tonino in due mosse”) che riferendosi all’inchiesta sull’Italia dei valori pubblicata dalla rivista MicroMega, che ho l’onore di dirigere, ricostruisce i “retroscena” dell’inchiesta con le seguenti parole: “Raccontano che l’attacco di Flores fosse stato progettato e preparato immediatamente dopo il risultato delle europee, in una riunione alla quale avrebbero partecipato, oltre il direttore della rivista, lo stesso De Magistris, la neo-parlamentare Sonia Alfano, il deputato campano Francesco Barbato e Marco Travaglio”. Questa la fiction del Fasanella. In realtà: ho visto De Magistris una sola volta, a casa mia, prima delle elezioni europee. Ho registrato con lui il dialogo che appare nello stesso numero di MicroMega per telefono, senza dargli in lettura neppure una pagina dell’inchiesta (che era in corso), inchiesta che De Magistris ha potuto leggere solo acquistando MicroMega in edicola. Conosco Sonia Alfano e Franco Barbato da lettore di giornali, non avendoli mai incontrati e neppure mai sentiti telefonicamente. Mi sento molto spesso con Marco Travaglio, che oltre ad essere da oltre 13 anni una colonna della rivista è un carissimo amico, ma anche Marco ha visto l’inchiesta per la prima volta leggendo la rivista, e la sua partecipazione ad una riunione, dati i suoi impegni, la può ipotizzare solo un giornalista di fantascienza, non un giornalista-giornalista. Il Fasanella riporta poi le parole di Aurelio Misiti, che sostiene di conoscermi “benissimo fin dagli anni settanta”, quando a suo dire militavo in Lotta Continua, di cui può così riportare un documento del 1971 in cui si parla della necessità di “porsi all’avanguardia politica e militare” del movimento, come se io condividessi (facendomi passare – l’intenzione è trasparente - per quasi terrorista). Peccato che non solo io non sia mai stato in Lotta continua, ma che nella rivistina che dirigevo negli anni citati, “Soviet”, sia stata pubblicata l’intera ultima pagina con una “risoluzione” (28 febbraio 1971) sulla necessità della “lotta politica contro l’avventurismo”, cioè contro posizioni analoghe a quelle riportate dal Misiti. La ricostruzione della riunione, inventata dal Fasanella, parte da un “raccontano”. Chi? Certamente si tratta di persone che “ricordano benissimo” perfino peggio di Misiti. Il Fasanella sostiene che l’inchiesta di MicroMega riferisce solo “episodi già noti”. Buon per lui. Se per il suo articolo avesse seguito anche solo in dosi omeopatiche il metodo di Marco Zerbino, che per MicroMega ha fatto riscontri incrociati su decine di episodi, il Fasanella avrebbe evitato di spacciare fiction per cronaca. Bastava, in fondo, che mi facesse una telefonata per verificare. Nel giornalismo-giornalismo si usa ancora. (2 ottobre 2009) da micromega-online Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Caro Di Pietro l’Idv non basta Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2010, 11:49:49 am Caro Di Pietro l’Idv non basta
di Paolo Flores d’Arcais, da "Il Fatto Quotidiano", 29 dicembre 2009 Antonio Di Pietro è sempre più al centro di un vergognoso tiro incrociato di menzogne, intimidazioni, contumelie, a cui si dedicano con pari abnegazione i pasdaran berlusconiani – maestri nell’odio – e le suorine inciuciste del Pd, che alla sola parola “opposizione” intonano il “vade retro!”. Il perché di questa aggressione bipartisan è semplice: Di Pietro è ormai l’unico politico a ribadire alcune verità di fatto su cui è scesa la cappa di piombo del totalitarismo televisivo: dal carattere anticostituzionale delle leggi contro la giustizia alle frequentazioni mafiose di premier e più intimi sodali, dallo sfruttamento sempre più indecente dei ceti operai e “precari” all’arricchimento esponenziale di corrotti, grandi evasori e altri gaglioffi. Questa semplice POLITICA DELLA VERITÀ fa paura, perché raccoglie consensi crescenti e può diventare punto di riferimento delle nuove generazioni che il 5 dicembre a Roma, con il milione e mezzo di cittadini in piazza San Giovanni, hanno dichiarato solennemente la loro volontà di contare nella vita politica. Questa situazione offre a Di Pietro una irripetibile opportunità, ma lo carica anche di una responsabilità inesorabile. Il regime berlusconiano conta infatti su due guardaspalle: il totalitarismo televisivo e la non-opposizione del Pd. Dar vita ad una nuova opposizione è dunque un compito improcrastinabile. Opposizione larghissima nel paese, assente in Parlamento. Ne va della salvezza, anzi della restaurazione, della stessa democrazia. Di fronte a tale compito, un mero congresso di “rinnovamento”, da parte dell’Italia dei valori, è meno di un’aspirina per curare un cancro. Passare dal 7% al 9% non cambia nulla. L’Italia ha un DISPERATO bisogno di una grande opposizione civile, di un grande Partito della Costituzione. Di una forza che può già ora raccogliere un italiano su quattro, e in un domani non lontano ambire alla maggioranza. Mi domando perché Di Pietro tentenni ancora, di fronte alla strada maestra dello scioglimento del suo partito dentro un crogiuolo da lui stesso proposto e che veda co-protagonisti i movimenti della società civile, le lotte sindacali che si moltiplicano, le nuove generazioni “viola”, la cultura “azionista” e la scienza “illuminista”. Caro Tonino, solo se avrai il coraggio e la lungimiranza di proporre questo Big Bang – per oggi, non per un fumoso domani – diventerai lo statista che puoi essere, e un’alternativa a Berlusconi. (29 dicembre 2009) da temi.repubblica.it/micromega-online Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Il “partito dell’amore” tra Orwell e Ceaucescu Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2010, 08:08:40 am Il “partito dell’amore” tra Orwell e Ceaucescu
di Paolo Flores d’Arcais, da "Il Fatto Quotidiano", 2 gennaio Quella del “Partito dell’amore” è una trovatina che farebbe acqua perfino nella più insulsa comicità da oratorio o nel più triviale umorismo da Bagaglino. Da scompisciarsi per la vergogna, insomma. Se i media la prendono per buona è solo in virtù (cioè in vizio) di un controllo ormai orwelliano – alla lettera – esercitato dal regime sui canali televisivi. Al punto che Berlusconi, vittima del dissennato lancio di souvenir da parte di uno psicolabile, pretende oramai alla santificazione, nemmeno avesse ricevuto le stigmate. A quando il moltiplicarsi delle reliquie, le boccette di terra di Arcore, le spine di cactus di Villa Certosa, i preservativi di Palazzo Grazioli? La vendita delle indulgenze è invece fiorente da tempo. Siamo alla pretesa di un culto della personalità rivoltante, in perfetto stile Ceausescu. Del resto, la definizione di Berlusconi come un “Ceausescu buono” è del suo fedelissimo Confalonieri, che lo conosce da una vita e sa quel che dice. E che per correggere l’incresciosa definizione ha spiegato che voleva intendere uno “tipo il Re Sole”! Se questo è Berlusconi, uno che si crede il Re Sole, perché nella prossima riforma istituzionale bipartisan, non si stabilisce che l’inquilino di Palazzo Chigi venga sorteggiato fra quanti, scolapasta in testa o meno, credono di essere Napoleone? C’è poco da scherzare, infatti. Siamo al delirio quotidiano, reso possibile da una menzogna mediatica talmente onnipervasiva che ha trasformato in realtà l’incubo orwelliano della neolingua, nella quale le parole “significavano quasi esattamente l’opposto di quel che parevano in un primo momento” – il mafioso diventa eroe, l’odio amore, la latitanza esilio – ma il cui fine “non era soltanto fornire un mezzo di espressione alla concezione del mondo del Regime, ma soprattutto rendere impossibile ogni altra forma di pensiero”. Ci siamo già dentro, se i Galli della Loggia, Panebianco e altri Ostellino insistono dal pulpito sempre più teocon del Corriere della Sera a farfugliare la leggenda nera delle colpe della sinistra, ostaggio dei “cattivi” (Travaglio, Di Pietro, Santoro. E i magistrati che non guardano in faccia a nessuno, naturalmente) perché non ancora sufficientemente conquistata all’amoroso arrembaggio bipartisan contro la Costituzione repubblicana. Proviamo perciò ad uscire dall’incantesimo totalitario della neolingua (“altre parole erano ambivalenti e avevano significato positivo se applicate al Partito e ai suoi membri e negativo se applicate ai loro nemici”). In buon italiano le cose stanno così: lasciati definitivamente alle spalle gli anni di piombo – Brigate rosse e stragi di Stato – nella politica del nostro Paese l’odio era per fortuna e da tempo solo un ricordo. I politici godevano di un crescente disprezzo, a dire il vero meritatissimo, ma nulla di più. È stato Berlusconi, solo ed esclusivamente Berlusconi, con i suoi alleati e signorsì mediatici, a reintrodurre nella vita pubblica questo sentimento. E nel momento di più autentica pacificazione, gli esordi di Mani Pulite, quando ogni sondaggio raccontava l’afflato quasi unanime del Paese intorno ai magistrati del pool di Borrelli, che applicavano senza sconti la stella polare di ogni liberaldemocrazia, la legge eguale per tutti. In quel corale anelito del Paese per fare pulizia di corruzione e altra criminalità politica, se vi fu qualche voce stonata, inclinante all’odio, non fu certo il tintinnar di monetine di fronte all’hotel Raphael, innocua manifestazione di disprezzo per il partitocrate Craxi, ma il cappio sventolato in parlamento da quelli che col tempo sono diventati alleati “perinde ac cadaver” del berlusconiano “Partito dell’amore”, attraverso una sequenza di amorevolezze in dolce stilnovo, pulirsi il culo col tricolore e far pisciare maiali su terreni destinati a luogo di culto religioso. È Berlusconi e solo Berlusconi, con i suoi alleati e signorsì mediatici, ad aver di nuovo trasformato in nemici gli avversari politici. E, prima ancora, i più onesti servitori dello Stato, i magistrati integerrimi che non si facevano piegare né da minacce né da lusinghe (e magari scoprivano e dunque incriminavano i loro colleghi corrotti proprio dalle aziende di Berlusconi). È questo mondo che ha inveito al grido di “killer”, dai pollici catodici del santificando di Arcore, contro magistrati che nella lotta alla mafia rischiavano ogni giorno la vita. Mentre ad Arcore, non ancora Unto del Signore, il signore della menzogna televisiva aveva già tenuto come commensale uno stalliere poco aduso ai cavalli, Attilio Mangano, che finirà i suoi giorni all’ergastolo per mafia. A meno che i “cavalli” di Mangano non fossero le partite di droga, come sostenuto da Borsellino nella sua ultima intervista, in cui fa anche i nomi di Dell’Utri e Berlusconi. È Berlusconi che ha radunato la piazza intorno a una gigantesca bara che auspicava la morte di un imbelle Prodi. Inutile continuare: grazie a Travaglio e Gomez i lettori di questo giornale hanno trovato un elenco assai ampio – e tuttavia niente affatto esaustivo – delle sistematiche manifestazioni di odio con cui Berlusconi ha imbarbarito lo scontro politico. Nulla di tutto ciò sanno invece quanti traggono l’informazione esclusivamente dai telegiornali, circa nove italiani su dieci. Ed è allucinante che nel maggiore (speriamo ancora per poco) partito di “opposizione” si continuino a considerare democratiche delle competizioni elettorali che si svolgono dentro questo incubo orwelliano, trasformato in realtà anche per la loro acquiescenza. Del resto, è il mondo berlusconiano che ha cancellato dalla scena pubblica (che oggi quasi coincide con quella televisiva) ogni residuo di argomentazione razionale, addestrando allo squadrismo dell’interruzione e del “man-darla in vacca” manipoli di cloni della menzogna über alles (“al membro del partito” si richiede la capacità di “esprimere opinioni corrette in modo automatico, come un fucile mitragliatore una scarica di pallottole… Si sperava, da ultimo, di far articolare il discorso nella stessa laringe, senza che si dovessero chiamare in causa i centri del cervello”). Questo odio si è fatto programma, reso esplicito di fronte ai parlamentari europei del Partito popolare (l’internazionale Dc, per capirsi): violentare la Costituzione repubblicana fino a sfigurarla, col vetriolo che costringa la “balance des pouvoirs” di magistrati e giornalismo al bacio della pantofola verso un governo “legibus solutus”. Il totalitarismo mediatico della menzogna onnipervasiva per tornare indietro di oltre tre secoli, prima di Jefferson e Montesquieu, in una parodia degradante e vomitevole della corte di Versailles. L’odio berlusconiano contro la Costituzione – fondamento della nostra convivenza civile, che nasce dalla Resistenza, “questo patto/giurato fra uomini liberi/che volontari si adunarono/per dignità e non per odio” immortalato da Piero Calamandrei – è talmente attivo che ha costretto un cautissimo Presidente della Repubblica a denunciare il “violento attacco contro le fondamentali istituzioni di garanzia” perpetrato da Berlusconi, e un ondivago Fini a intimare “chiarimenti” (ma prendersi in risposta lo sputo di un “basta ipocrisie”, e rientrare nei ranghi). È dunque da quella solenne – e colpevolmente rimossa – denuncia di Napolitano che l’Italia non ancora mitridatizzata nel gorgo orwelliano del totalitarismo televisivo deve ripartire (e il suo Presidente per primo): fermare l’odio significa infatti fermare questa violenza contro la Costituzione, le leggi ad personam e altri “vulnera”, non firmarle, e prima ancora non votarle. (4 gennaio 2009) da temi.repubblica.it Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Scambio epistolare con i Viola... Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2010, 11:59:04 am 30 gennaio e 6 marzo, il popolo viola torna a manifestare
Pubblichiamo un commento di Paolo Flores d'Arcais sulle prossime mobilitazioni decise dal popolo viola. E, a seguire, una lettera di precisazioni da parte del "coordinamento viola" e la risposta del direttore di MicroMega. di Paolo Flores d'Arcais, da "il manifesto", 12 gennaio Il movimento viola (quello della straordinaria manifestazione del 5 dicembre) ha riunito sabato scorso a Napoli i suoi rappresentanti. In realtà un movimento, a differenza di un partito o di un corpo elettorale, non può essere «rappresentato», i viola sono i primi a saperlo. Un movimento non è un insieme definito di persone, abitanti di una circoscrizione o titolari di una tessera. È un insieme indefinito di lotte: gli unici che lo rappresenteranno davvero saranno i promotori delle battaglie di domani. Ma questo, ripeto, mi sembra che i viola siano i primi a saperlo. Tanto è vero che la loro giornata di confronto si è conclusa con quattro decisioni: un più ampio incontro nazionale di rappresentanti per il 20 marzo, ma solo a conclusione di due scadenze di lotta, una a fine gennaio, con presidi simbolici in difesa della Costituzione davanti alle prefetture e una il 6 marzo, una giornata nazionale che dovrebbe replicare per importanza, ma con modalità differenti, il milione e mezzo di persone in piazza il 5 dicembre. La quarta decisione è un coordinamento di sette persone, in funzione di queste scadenze e a garanzia della più ampia circolazione di idee e informazioni sugli strumenti web del movimento (il facebook del popolo viola, per dire, ha quasi duecentomila iscritti, quello specifico per la manifestazione circa mezzo milione). Queste decisioni, sobrie e precise, fanno ben sperare, e invitano a qualche riflessione: partecipata e coinvolta. Il movimento ha evitato il ripiegamento autoreferenziale, le fiaccanti elucubrazioni sulla propria identità, e si è concentrato sulle future iniziative. Le uniche, del resto, che ne definiranno l'identità e la capacità di avere un futuro. Contraddittorio, da questo punto di vista, è, semmai, il ventilato «manifesto viola» che dovrebbe essere elaborato (da chi?) nei prossimi giorni. Che senso ha, quando si è detto e ribadito che la difesa e realizzazione della Costituzione repubblicana è la stella polare del movimento? Elencare i valori che sono alla base della Costituzione, nata dalla Resistenza antifascista, è sempre un esercizio utile. Ma a parole tutti sono deferenti verso quei valori, salvo poi calpestarli nella pratica. Un manifesto avrebbe senso perciò solo se, in coerenza con quei valori, delineasse un articolato progetto politico per il futuro, ma il movimento rifiuta - almeno per l'oggi, e ragionevolmente - una dimensione che lo trasformerebbe in qualcosa di simile a un partito. Il vero manifesto viola saranno perciò le iniziative di lotta a cui il neonato coordinamento chiamerà i cittadini. La prima è fra poco più di due settimane. Sarà necessariamente simbolica e non di massa, ma ciò non significa che non possa diventare rilevante (come quella che ha visto qualche giorno fa a Milano la società civile protestare contro la minacciata «via Craxi»). Le modalità dei presidi costituzionali davanti alle prefetture sono ancora vaghe, speriamo che la fantasia del tam tam su internet produca anche questa volta innovazioni interessanti. Inutile nascondersi, però, che il banco di prova e la cartina di tornasole sarà la nuova giornata nazionale del 6 marzo. Media di regime e simpatizzanti di ogni inciucio saranno pronti a cogliere qualsiasi sintomo di indebolimento rispetto al clamoroso successo del 5 dicembre. E non basterà neppure che quel successo venga ripetuto (benché sarebbe la dimostrazione di una straordinaria vitalità dell'opposizione civile che anima il paese). Purtroppo queste iniziative subiscono la logica delle utilità marginali: decrescenti, se non riescono ogni volta a produrre qualcosa di «più» e di «nuovo». Il popolo viola, perciò, se vuole avere un futuro da protagonista, deve attrezzarsi a vincere questa sfida, a fare del 6 marzo una giornata di festa e di protesta che sia più grande, più significativa, più incisiva di quella già straordinaria del 5 dicembre. Che abbia, per dirla senza perifrasi, maggior peso politico. Le idee fin qui fatte trapelare sono suggestive ma vaghe, una rete che non più su internet ma fisicamente, tra città e città (lunghe catene umane, c'è in questo innegabilmente una certa eco dei girotondi, su scala moltiplicata) unisca i cittadini in un web sul territorio, a difesa della Costituzione e delle sue istituzioni (l'autonomia dei suoi magistrati, in primo luogo). Credo sarebbe però opportuno che il tema della difesa della Costituzione diventi d'ora in avanti quello della realizzazione della Costituzione. I cui valori sono largamente disattesi. E in qualche caso addirittura contraddetti nella stessa Costituzione (vedi articolo 7, Concordato). Ma soprattutto, sarà decisivo che i viola sappiamo coinvolgere nella giornata del 6 marzo tutte, ma proprio tutte, le forze di opposizione civile presenti (e troppo spesso latenti) nella società italiana. Che sappiano trovare le forme convincenti per qualcosa che vada oltre l'appello generico agli intellettuali, alla cultura-scienza-spettacolo. Qualcosa che riesca invece a coinvolgere direttamente questi mondi - non attraverso qualche singolo esponente, ma con la stragrande maggioranza degli artisti, scienziati, filosofi - nella preparazione e realizzazione della giornata. E che lo stesso coinvolgimento, la stessa con-partecipazione protagonista, sappia realizzare con le lotte sociali che si vanno moltiplicando nel silenzio censorio dei media, e con i (non molti) settori sindacali che non le trascurano. Una giornata che veda infine nelle piazze gremite di tutte le città capoluogo di ogni regione, fra loro collegate, l'intera Italia civile unita intorno al progetto Costituzione e dunque contro l'attuale regime. I rappresentanti viola hanno già dimostrato di sapere mantenere nei confronti dei partiti l'atteggiamento più equilibrato: chiedere senza complessi e pubblicamente il massimo sostegno finanziario e organizzativo (del resto i soldi che ai partiti arrivano sono i soldi degli elettori, i nostri soldi), anche ribadendo che dai palchi si esprimerà la società civile e non i partiti (i cui leader più intelligenti sanno del resto che saranno comunque interpellati dai media). E sottolineando le contraddizioni di quelle forze che, pur dichiarandosi di opposizione, non volessero dare alla manifestazione autonoma il doveroso sostegno materiale e morale. Al 6 marzo mancano sette settimane e mezza. Non molto, per realizzare «più» del 5 dicembre. Speriamo che già nei prossimi giorni la rete viola sappia muoversi nella giusta direzione, dimostrandosi un vero catalizzatore dell'Italia civile. --- Lettera aperta a Flores D'Arcais del "coordinamento viola" Caro Paolo, abbiamo letto il tuo intervento apparso sul Manifesto del 12 gennaio e che sta girando in rete in queste ore e vorremmo fare alcune precisazioni. Noi abbiamo lanciato la manifestazione del 30 gennaio in difesa della Costituzione per far sì che sia un grande successo di mobilitazione nazionale. Leggiamo che tu la consideri “costituita da presidi simbolici e non di massa”, ma crediamo che tu abbia interpretato male la volontà sancita anche dalla decisione dell'Assemblea nazionale di Napoli. In quella sede è stato stabilito che l'iniziativa del 30 gennaio sia l'inizio di un percorso che vede nel sancire l'applicazione delle regole costituzionali un unico obiettivo. Quindi dire – come tu fai – che il 30 gennaio “sarà una manifestazione costituita da presidi simbolici e non di massa e quella del 6 marzo, viceversa, la cartina al tornasole dello stato di salute del Popolo Viola” è un equivocare le vere intenzioni che ci hanno motivato ad indire le iniziative. D’altra parte, pensiamo che, né noi, né tu, né nessun altro, possa stabilire con tanta naturalezza, e a priori, quale delle due iniziative citate sia “la cartina di tornasole” e “il banco di prova” per il futuro del Popolo Viola. Certo che vogliamo essere in tanti il 6 marzo. Ma vogliamo essere tantissimi il 30 gennaio e per questo ci stiamo adoperando assieme a centinaia di comitati locali del Popolo Viola e di altri nati spontaneamente per questa grande e per noi decisiva occasione. Vogliamo riempire le piazze di ogni città d’Italia. Sempre… e sempre saranno i cittadini a decidere. Noi crediamo che tu ci conosca abbastanza, avendoci sempre seguito, da sapere che siamo insofferenti, e ci scuserai per questo, a briglie di qualunque tipo. Ci è difficile comprendere perché la manifestazione "Un sit-in in difesa della Costituzione" debba "necessariamente" essere simbolica. Ci dici che se la nostra manifestazione diventerà rilevante potrà essere paragonata alla manifestazione contro la minacciata via di Craxi. Noi avremmo altre speranze. Noi abbiamo supportato a spron battuto quella di Milano contro la via a Craxi, ma ammetterai che una manifestazione in tutta Italia, in tutte le città, se diventerà rilevante, avrà (e lo speriamo tutti) ben altra risonanza. Noi vogliamo, come te (ne siamo sicuri) che il tema della difesa della Costituzione diventi d'ora in avanti quello della realizzazione della Costituzione e proprio per questo contiamo su di te e su MicroMega per sostenere con forza anche questa nostra grande iniziativa nazionale del 30 gennaio. Un caro saluto, Coordinamento nazionale Popolo Viola --- La risposta di Paolo Flores d'Arcais Cari concittadini del “coordinamento”, grazie per la lettera. Voi, e oltre un milione di italiani, tra cui io, essendoci impegnati nella entusiasmante manifestazione del 5 dicembre, apparteniamo tutti al popolo viola, e che nessuno fra noi soffrirebbe “briglie” da parte di nessun mi sembra talmente ovvio che suona ridondante. Tutti, nel popolo viola, dobbiamo avanzare proposte, suggerimenti, critiche. L’assemblea di delegati ha proposto due scadenze di lotta, una più riavvicinata e una più lontana, dando l’impressione (non solo a me, ma a tutte le persone con cui ne ho parlato) di proporre un “crescendo”. Del resto è semplice buon senso, è difficile svolgere in due settimane e in due mesi lo stesso sforzo organizzativo. Mi auguro anche io che già il 30 gennaio la partecipazione sia molto grande, ma sarebbe irrealistico pensare che possa, con pochi giorni di tempo, bissare l’oltre un milione di partecipanti del 5 dicembre. Tutto qui. Mentre continuo a pensare che per il 6 marzo quello debba essere l’obiettivo, altrimenti non solo i media ma gli stessi partecipanti non vivrebbero la giornata come un successo. Perché, ci piaccia o meno, o un movimento si supera o rischia un declino. Penso che il 30 gennaio un’idea potrebbe essere di chiamare i migliori attori italiani a leggere integralmente la Costituzione di fronte alle prefetture “presidiate”. Aspetto l’appello del “coordinamento” per il 6 marzo, che è stato annunciato, per ogni altra idea e proposta, MicroMega ed io (come migliaia di concittadini) ci sentiamo già mobilitati, come parte del popolo viola, per la riuscita delle due manifestazioni. Finché c’è lotta c’è speranza. Un abbraccio Paolo Flores d’Arcais (13 gennaio 2010) da temi.repubblica.it/micromega-online Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Fosse comuni a due passi dal mare ... Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2010, 05:38:52 pm A due passi dalle acque cristalline dei caraibi, centinaia di camion portano i cadaveri
Si scava con le ruspe e si sepellisce in fretta. Uno scenario apocalittico Fosse comuni a due passi dal mare E' Titanyen, la collina dei morti In questo luogo i killer al servizio dei Duvalier portavano le loro vittime dal nostro inviato ALBERTO FLORES D'ARCAIS TITANYEN - Il camion bianco ha finito di scaricare i cadaveri nella profonda buca di venti metri quadrati, la grande ruspa gialla li copre con il terreno fangoso. Prima di scomparire risucchiati nella terra sono un groviglio informe di corpi decomposti, gambe che si intrecciano, i colori lividi della morte. Titanyen, quindici chilometri a nord di Port-au-Prince è l'ultima destinazione per le decine di migliaia di vittime del terremoto, il popolo dei diseredati, quelli senza identità e quelli che un nome lo hanno ma il funerale, con i fiori, i parenti e gli amici non lo avranno mai. Le grandi fosse comuni si stendono su una collinetta a duecento metri dal mare. Se guardi da un lato vedi l'acqua azzurra e limpida, di fronte una dozzina di isolotti verdi, una spiaggia, il tipico paradiso caraibico; se ti volti dall'altro vedi pile di cadaveri ammucchiati in attesa che la terra li copra per l'eternità, senti il terribile odore della morte, lo stesso che si respira in mezzo ai detriti di Port-au-Prince. Un confronto che fa impressione. "Quanti? E chi lo può dire". La donna in tuta arancione che muove la ruspa è al suo secondo giorno di questo triste lavoro: "Ne arrivano a centinaia, ieri quaranta-cinquanta camion. Cerchiamo di fare tutto il più velocemente possibile, è una zona isolata, non abbiamo problemi, anche se i curiosi come vede non mancano". I curiosi sono due dozzine di ragazzi e un paio di vecchi, che indicano altre fosse più piccole un centinaio di metri più avanti, in una buca che sembra scavata con le mani ci sono solo due corpi imputriditi mangiati dagli animali. Di loro non sembra occuparsi nessuno. La collina di Titanyen la conoscono tutti. Perché sotto quelle tonnellate di terra non ci sono solo i morti del terremoto. Le fosse comuni di oggi sono state scavate su altre fosse comuni, quelle delle migliaia di oppositori della dittatura Duvalier (padre e figlio) che per tre decenni ha spadroneggiato ad Haiti, facendo massacrare dai machete dei Tonton Macoutes chi non si piegava. Al burocrate governativo che ha scelto il luogo deve essere sembrata la soluzione più semplice, fosse comuni su fosse comuni. "Abbiamo iniziato da venerdì, io ho fatto avanti e indietro almeno dieci volte, ne avremo portati almeno trentamila". L'autista del camion bianco si abbassa la mascherina, "i cadaveri li raccogliamo lungo le strade di Port-au-Prince, quelli che ci vengono segnalati e quelli che troviamo per caso. I familiari? Quelli che aspettano vegliando i corpi spesso ci chiedono di venire, ma naturalmente non è possibile. Per la grande maggioranza non c'è nessuno. Guardi laggiù il mare che bello, lo sa che questo è un luogo che porta fortuna?". Non è una battuta quella dell'autista, le acque turchesi lì a poche decine di metri e quella piccola insenatura sono il luogo dove i più disgraziati vengono a bagnarsi, una vecchia credenza popolare dice che se hai perso il lavoro o l'amore, se sei malato, un bagno a "source piante" ti toglierà il malocchio. "È vero", conferma la donna della ruspa, "c'è sempre gente che viene qui, anzi veniva. Con quello che è successo, adesso dovrebbe venire l'intera città. Invece arrivano solo i morti". Secondo le prime confuse stime a Titanyen sono stati seppelliti almeno quarantamila dei settantamila morti accertati, un numero che è a sua volta un terzo di quello reale (oltre duecentomila) stimato dagli americani. Difficile giudicare da quello che si vede qui, alcune fosse sono molto grandi, anche se ricoperte se ne possono intuire i contorni, altre sono più piccole. Poco più in là un'altra ruspa scava per prepararne di nuove, profonde circa tre metri. Cinquantamila seppelliti senza un funerale, spesso senza un'identità, cosa che ad Haiti non si dovrebbe fare mai. Va contro la religione maggioritaria, un misto di cattolicesimo e credenze vodoo; non avere un funerale coi fiocchi, quello in cui i poveracci finiscono per spendere tutto quello che hanno, rende impossibile la comunicazione tra chi resta nel mondo terreno e chi va nell'aldilà. In un paese dove l'aspettativa di vita è poco sopra i quarant'anni e che ha una mortalità infantile altissima, la morte e i suoi rituali sono pane quotidiano. "Li seppelliscono come animali", scuote il capo il vecchio che con un lungo bastone cerca chissà che in mezzo ai sassi e alla sterpaglia, "solo i ricchi muoiono bene". I ricchi sono quelli che oggi possono permettersi un funerale, una bara di legno e i fiori rossi, quelli che ottengono il permesso impossibile di far entrare i propri cari al cimitero in mezzo alla città. Ufficialmente non c'è più un posto disponibile, ma lungo la "Rue de l'Enterrement", la strada delle pompe funebri che arriva fino al cimitero cinque bare sono in mezzo alla strada in attesa del proprio turno. Davanti l'ingresso del camposanto anche il guardiano conferma ("non ci sono posti"), ma poi indica col cenno del capo un gruppo di persone che sono in attesa di entrare. In mezzo a loro è poggiata a terra una bara di metallo, fra pochi minuti almeno uno tra le migliaia di morti avrà una sepoltura come si deve. © Riproduzione riservata (20 gennaio 2010) Tutti gli articoli di Esteri da repubblica.it Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Caro De Magistris in Campania adesso tocca a te Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2010, 12:15:49 am Flores d’Arcais: Caro De Magistris in Campania adesso tocca a te
di Paolo Flores d'Arcais, da "Il Fatto Quotidiano", 3 febbraio 2010 Dalla farsa alla tragedia: questo rischia di diventare l’appuntamento elettorale in Campania. Il regime di Berlusconi voleva candidare l’on. Cosentino, su cui pende un mandato d’arresto per camorra confermato dalla Cassazione. Ha deciso di soprassedere, ma solo per far scegliere a Cosentino medesimo da chi farsi sostituire. Un gioco da ragazzi, perciò, per un’opposizione appena dentro la media del quoziente d’intelligenza: si presenta un candidato ineccepibile quanto a moralità ed efficienza, e si vince in carrozza. Ma nel Pd il segretario Bersani è evidentemente intenzionato a strappare a D’Alema l’oscar della stupidità politica, e quindi in Campania ha candidato il dalemiano De Luca, due rinvii a giudizio per associazione a delinquere, concussione, falso e truffa. Avremo perciò il mondo alla rovescia: un candidato di Berlusconi incensurato e un candidato “democratico” azzoppato in partenza dai carichi processuali. Ci vuole genialità per farsi del male in questo modo. Questo scempio può essere ancora fermato. La farsa, anziché in tragedia, può trasformarsi in speranza. Luigi De Magistris deve annunciare la sua candidatura. Le personalità pubbliche della Campania democratica devono attivarsi con un’ondata di pressioni tale da costringerlo, il “popolo viola” deve aprire su Facebook “De Magistris candidato” che con un’alluvione di adesioni lo spinga a “gettare il cuore oltre l’ostacolo”. Di fronte alla candidatura De Magistris, anche gli strateghi del Pd potrebbero capire che alla sconfitta certa di un bi-rinviato a giudizio, e conseguente sputtanamento del partito, è preferibile puntare sulla vittoria di un ex magistrato che difende la Costituzione. Se poi decidessero per il “perseverare diabolicum”, De Magistris e la sua lista di società civile renderebbero comunque una vittoria di Pirro il trionfo annunciato del regime e della Camorra. Il candidato di Cosentino non raggiungerebbe la maggioranza assoluta, e il successo di De Magistris su De Luca aprirebbe, dopo la disfatta di D’Alema di fronte a Vendola, una pagina interamente nuova per l’opposizione democratica. De Magistris ha ribadito la necessità di un “nuovo inizio”, che oltre l’Idv coinvolga associazionismo laico, base Pd, Sinistra radicale, “grillini”, insomma la società civile che resiste. Parole sacrosante, parole da leader. Ma leader si diventa con l’azione, e oggi l’emergenza democratica si chiama Campania. Concittadino De Magistris, non puoi sottrarti. (3 febbraio 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/flores-darcais-caro-de-magistris-in-campania-adesso-tocca-a-te/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. È ora di dire basta allo squadrismo tv Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2010, 09:42:15 am Annozero e l'aggressione a Marco Travaglio
È ora di dire basta allo squadrismo tv di Paolo Flores d’Arcais, da Il Fatto Quotidiano, 21febbraio 2010 Questo giornale ha dovuto rammentarlo fin troppe volte: anche i rarissimi spazi televisivi non ancora appaltati al minculpop berlusconiano sono sistematicamente teatro di squadrismo mediatico, che tenta censura e bavaglio contro quanti – pochissimi – si ostinano ad argomentare razionalmente anziché berciare a dieci decibel. L’aggressione di cui è stato oggetto Marco Travaglio nell’ultima puntata di “Anno Zero” è solo l’ennesimo episodio, benché il più grave perché insistito e consentito oltre ogni limite di decenza. Lo squadrismo mediatico funziona così: a chi prova con l’argomentazione razionale, e quindi rischia di convincere qualche milione di concittadini, il berlusconiano d’ordinanza tappa la bocca con l’olio di ricino della glossolalia di regime (glossolalia: s.f. La coniazione, talvolta patologica, di associazioni sillabiche prive di senso. Devoto-Oli, dizionario della lingua italiana) o col manganello di ingiurie e false accuse, vomitate come un mantra. Mai che ad una argomentazione, fatta esprimere liberamente e ascoltare compiutamente, la “mascherina” di regime risponda con una argomentazione. La sua unica argomentazione è l’interruzione, la potenza delle corde vocali a surrogato dell’impotenza della ragione. Che senso ha, con questo andazzo, discutere ancora di par condicio? Perché si tollera, anche nelle ultime “riserve” di un giornalismo ormai in estinzione, la censura contro chi è ancora pensante, e vuole praticare il dialogos ad armi pari? Perché anche questo genere di ospite non viene garantito nel suo diritto alla parola? Chi vuole imporre la violenza della censura dovrebbe esserne impedito, e nulla è tecnicamente più facile da realizzare in uno studio televisivo. Basta che il microfono aperto, oltre al conduttore, lo abbia un ospite alla volta, è la scoperta dell’acqua calda. E per favore non si tiri fuori la solfa che una trasmissione in cui ci si alterna a ragionare, senza schiamazzi e aggressioni, sarebbe noiosa. E’ vero il contrario, lo squadrismo mediatico che imbavaglia l’altrui parlare col rumore del proprio nulla belluino, toglie a chi ascolta il piacere di assistere ad una vera controversia, niente affatto “pacata”, aspra e anzi asperrima di giudizi e di argomenti, e di farsi poi una propria ponderata opinione. Sia chiaro, lo squadrismo fisico è, per un individuo che lo subisca, assai peggiore di quello mediatico. E ancora non siamo a tanto. Ma dal punto di vista degli effetti politici quello mediatico è equivalente. E se lo si lascia tracimare prepara il terreno per lo squadrismo tout court. In passato, amici con cui ho sollevato questo tema hanno avanzato una variante dell’argomento del “male minore”: se i conduttori delle rare trasmissioni ancora di giornalismo, anziché di regime, si azzardassero a impedire le interruzioni-bavaglio dei Berlusconi-boys, anche le ultime “riserve wwf” del giornalismo-giornalismo televisivo verrebbero immediatamente chiuse. Questo argomento (come del resto tutta la tastiera del “male minore”) non mi ha mai convinto. La volontà del regime, di chiudere ogni spazio che non sia prono al capovolgimento orwelliano della realtà, è conclamata. Ad arginarla sono solo le pressioni dell’opinione pubblica (oltre alle sentenze della magistratura). Non cedimenti corrivi ai rissosi del wrestling propagandistico e altri energumeni del “meno male che Silvio c’è!”. Anzi, un po’ di “immaginazione democratica” potrebbe tentare una meritoria operazione “ex malo bonum”, di fronte al tentativo della Commissione parlamentare di vigilanza di ostracizzare durante il periodo elettorale le poche trasmissioni non ancora minzolinizzate. L’on. Marco Beltrandi, radicale, relatore sulla misura in questione, ad una mia precisa domanda risponde via mail (scripta manent): “sicuramente le trasmissioni di approfondimento se scegliessero di non ospitare politici potrebbero andare in onda senza problemi”. Perché non approfittarne? Perché anzi non rendere stabile una situazione che oggi potrebbe essere assunta per dribblare un diktat censorio? I politici, infatti, dovrebbero parlare con il loro agire, non con gli effetti annuncio delle chiacchiere televisive, smentite da chiacchiere altrettanto “solenni” del giorno dopo. Del resto, le “trasmissioni di approfondimento” si differenziano da quelle di “comunicazione politica”, secondo la classificazione ufficiale della Commissione di vigilanza, proprio per l’assenza dei politici. Ecco, trasmissioni di approfondimento, cioè discussioni di politica senza politici, e senza bavagli da interruzioni squadriste: sono certo che anche l’Auditel salirebbe. (22 febbraio 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/e-ora-di-dire-basta-allo-squadrismo-tv/ Titolo: Colombo e Flores d’Arcais rispondono a Santoro Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2010, 06:00:14 pm Annozero e squadrismo tv
Lesa maestà catodica. Colombo e Flores d’Arcais rispondono a Santoro da il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2010 MA LE CRITICHE SONO ANCORA LECITE? di Paolo Flores d’Arcais Michele Santoro ha totalmente ragione. Poiché mi sono permesso una critica e un suggerimento alla sua “gestione” degli ospiti di “Anno zero”, dove alcuni invitati tolgono ad altri il diritto alla parola con interruzioni ininterrotte, insulti ululanti e sovrapposizione di voce, Michele Santoro ha decretato che sono “un membro perfetto dell’Agcom” (non ho idea di cosa sia, ma è certamente una cosa brutta) e “un apologeta del Berlusconi-pensiero sul ‘pollaio’”. Ben mi sta. Ho commesso il delitto di lesa Maestà catodica (ormai anzi al plasma), ho dimenticato che un conduttore di programma televisivo è come lo zar autocrate di tutte le Russie, solo lui conosce cosa sia il bene del suo popolo, e chi si azzarda a qualcosa che ecceda l’umile supplica è ipso facto un malvagio (in questo caso un apologeta del Berlusconi-pensiero). Non provo neppure a scusarmi, il delitto di lesa Maestà è per definizione e da secoli inescusabile in terra, come inespiabile è in cielo quello contro lo Spirito. Del resto, per una buona confessione, come ci hanno insegnato al catechismo, non basta la contrizione per la colpa commessa, è necessario anche il “fermo proposito” di non peccare più, e io credo che invece mi capiterà ancora di inciampare nel temerario pensiero che tutte le Maestà, e financo i conduttori televisivi, siano esseri umani fallibili e limitati come noi, polvere che tornerà polvere, e dunque scambiarsi critiche e suggerimenti sia la normalità di una civile esistenza. Perché il problema esiste, anche se Michele Santoro prende cappello al solo menzionarlo: un ospite che impedisce ad un altro ospite di argomentare, sovrapponendo la sua voce, le sue interruzioni sguaiate, i suoi insulti bercianti, realizza lavoro di censura che spesso sconfina in un vero e proprio manganello e olio di ricino mediatico. Cose che accadono sempre più spesso, e sempre in una sola direzione, con “personaggi” ormai perfettamente addestrati al ringhiare e ragliare che imbavaglia l’opinione altrui e comunque schiaccia sul nascere ogni possibilità di controversia “ad armi pari”. Suggerire di far qualcosa perché il confronto anche il più aspro avvenga invece sempre per argomentazione razionale e nel rispetto delle “modeste verità di fatto” (in mancanza del quale rispetto, scriveva Hannah Arendt, il totalitarismo è già in marcia) non mi sembra un bizzarro chiedere la luna, ma l’abc della democrazia liberale. E forse anche della buona televisione. Michele Santoro ha il merito di fare dell’ottima televisione, con inchieste giornalistiche esemplari. E tanto più il suo lavoro è meritorio in quanto, nel deserto informativo dell’Impero berlusconiano, senza Gabanelli, Iacona e Santoro gli italiani che non leggono un quotidiano (nove su dieci) nulla verrebbero a sapere del groviglio di cloache sulle quali poggia lo sbrilluccichio di cartapesta dell’Italia raccontata minzolinescamente, groviglio che sta portando rapidamente allo smottamento definitivo del paese. Proprio perché ha saputo innovare e fare scuola sul giornalismo d’inchiesta, però, Michele Santoro potrebbe riflettere se non valga la pena inventare e sperimentare inedite modalità di “gestione” degli ospiti, che realizzino davvero e per tutti il diritto all’argomentazione. E che magari avrebbero il plauso di milioni di cittadini telespettatori. E che in un vicino domani potrebbero a loro volta essere considerate esemplari. Michele Santoro non accresce invece i suoi già cospicui meriti o la sua autorevolezza, se reagisce alle critiche e ai suggerimenti con l’albagia e gli anatemi di un Bruno Vespa qualsiasi. p.s. Michele Santoro ha iniziato la sua risposta a Marco Travaglio scrivendo che “siamo diversi e con diverse opinioni su molte cose: legalità, moralità, libertà e televisione”. Trascuro la televisione, metto tra parentesi le libertà e la moralità, sul cui significato esistono discussioni che riempiono biblioteche, ma la legalità? Incuriosisce davvero in cosa possa consistere tale differenza, visto che la “opinione” di Marco in proposito è semplicemente e limpidamente quella standard di quanti si riconoscono nei valori della Costituzione repubblicana. E’ davvero e solo una curiosità, sinceramente e senza secondi fini. TALK-SHOW ÜBER ALLES --- di Furio Colombo Santoro, tante volte giustamente difeso in nome della libertà del suo lavoro e del suo programma, pensa che questa difesa sia una dichiarazione di sacralità, una sorta d’inchino collettivo. Questa persuasione divide il mondo (o almeno la sua audience) in credenti e miscredenti. I miscredenti gli sono antipatici anche se hanno fatto la fortuna di Annozero. Per esempio Marco Travaglio, a cui Santoro sembra dedicare la classica frase delle aziende di Confindustria al bravo manager improvvisamente licenziato: “Mio caro, nessuno è indispensabile”. È una frase da Luiss nei giorni peggiori, ma a Santoro piace. E infatti nella sua lettera un po’ padronale così si rivolge – imprudentemente – a Travaglio, la persona che gli spettatori di Annozero, il giovedì sera aspettano di più. In questa lettera però il condottiero di Annozero non può perdonare la mancanza di adorazione neppure a chi, come Paolo Flores d’Arcais, ha riempito piazze e numeri di MicroMega in difesa di Santoro e della sua televisione. E a me dedica la frase che segue e che un po’ sfida il buon senso, un po’ la comune conoscenza dei fatti, un po’ il pubblico stesso di Annozero: “Un apologeta del Berlusconi-pensiero sul ‘pollaio’. Proprio come Furio Colombo e le sue invettive contro i talk-show”. Noto, con tristezza, l’uso della parola “invettiva” in luogo della parola “critica”, un’involontaria concessione al linguaggio pacato di Bondi. Continua Santoro: “D’Arcais e Colombo sono convinti che debba regnare l’ordine del discorso (scritto) che, ovviamente per loro, non è quello del telegiornale di Minzolini ma quello di Report, celebratissimo esempio di trasmissione basata sul principio d’identità e non contraddizione”. L’argomento è utile per capire. Contrappone chiarezza e contraddittorio, come se si trattasse di una scelta (o l’una o l’altro) tra incompatibili opposti e illustra i principi a cui Santoro (ma anche gli altri conduttori di talk-show) ispira il suo lavoro che sente come “insostituibile” e unico. Sulla qualità non c’è discussione. Persino Porta a Porta è un programma tecnicamente molto buono. E se si potessero doppiare gli interventi, come nei film americani, si avrebbe un buon programma. Quanto a Ballarò colpisce la felicità giovane e orgogliosa del conduttore Floris per il suo programma. Passeggia nell’etere di RaiTre con lo stesso gusto vincitore con cui si porta in giro in città la prima bella ragazza conquistata nella vita, esibita con un silenzioso e infantile “vedete? È mia!”. Ormai bisogna valutare l’insieme di questi programmi perché l’oltraggio di non considerarli la fine del mondo dell’informazione politica li ha fortemente legati. Esempio: martedì sera (23 febbraio) Floris a Ballarò ha dato al suo programma una copertina alla copertina del bravissimo comico Crozza. Il protagonista era Roberto Natale (Federazione della stampa) invitato in modo un po’ perentorio a dire come sarà povera la televisione e il mondo quando Ballarò e i suoi fratelli saranno sospesi per insufficienza di rappresentanza politica. Al suo Ballarò, Roberto Natale se l’è cavata bene. Ha suggerito “grandi temi importanti per tutti senza invitare i politici”. Buona idea, non per far felice la Commissione di Vigilanza, non per antipolitica, ma per salvarsi dalla claustrofobia, unica in occidente, dei talk-show italiani. Floris stava chiedendosi in pubblico e senza imbarazzo che cosa ci riserva il destino se improvvisamente dal Suo, o da altri programmi analoghi, mancassero “loro”. Chi sono loro? Sono “gli ospiti”, sono sempre gli stessi, chi per intere legislature, chi per lunghi anni, a cavallo fra un governo e l’altro. Ed ecco gli ospiti di Floris la sera del 23 febbraio: Bersani (invece di Franceschini), Scaiola (invece di Bondi), Bocchino (invece di Cicchitto), Polito (invece di Adornato), Todini, giovane imprenditrice carina (invece di Guidi, giovane imprenditrice carina, invece di Marcegaglia che non può esserci sempre). Fate presto a immaginare i nomi di riserva, non più di dieci in uno stretto elenco senza eccezioni. Dai rispettivi elenchi nessuno sgarra mai. Floris si pone come fine massimo l’accostare le due parti e indurle a “fare insieme”. Vespa punta con accortezza al trionfo del regime. Santoro è un domatore nato: vuole scontro e sangue ma tocca a lui tenere a bada le belve. Delle eventuali vittime (la reputazione di Travaglio) gli importa poco. Ma le sue belve sono sempre le stesse, come gli ospiti del salotto di Vespa, una “short list” che fa ruotare sempre le stesse persone fidate, dieci politici su mille in servizio, e tutto il resto del mondo escluso. Infatti i conduttori, per sopravvivere, scelgono i politici assieme ai politici. E i politici scelgono sempre se stessi. Sicuro che non abbia ragione Roberto Natale quando dice: “Grandi temi, niente politici, come nei talk-show nel resto mondo”? (25 febbraio 2010) da http://temi.repubblica.it/micromega-online/lesa-maesta-catodica-colombo-e-flores-darcais-rispondono-a-santoro/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Decreto salva liste : Napolitano come Facta? Inserito da: Admin - Marzo 07, 2010, 11:41:28 pm Decreto salva liste, Flores d’Arcais: “Napolitano come Facta?”
di Paolo Flores d'Arcais Voglio evitare in una situazione così drammatica dei toni che potrebbero sembrare esageratamente polemici. Ma non posso fare a meno di dire che il comportamento del presidente Napolitano ricorda in modo impressionante il comportamento del governo Facta ai tempi della marcia su Roma. In un paese democratico esistono delle leggi, leggi che i politici stessi in Parlamento hanno fatto e che sono tenuti a rispettare. Non è accettabile la logica che le leggi si fanno rispettare per i nemici e si interpretano per gli amici, perchè questa è la fine dello stato di diritto. Di fronte all'incapacità e alla cialtroneria di gruppi dirigenti regionali del partito di Berlusconi, che non sono riusciti a presentare regolarmente le loro liste, l'unica via da seguire era quella della legge, ovvero ciascuno ha diritto a fare dei ricorsi e vi sono dei magistrati deputati a decidere. Cercare di stravolgere questo procedimento democratico significa infliggere alla democrazia liberale un vulnus gigantesco. Il fatto che poi si dica che le regole sono cose secondarie rispetto alla sostanza indica il baratro in cui ormai il nostro Paese è arrivato. Mi domando se non sarebbe responsabile da parte delle opposizioni dichiarare apertamente che in queste condizioni saranno loro a ritirare tutte le liste dalle elezioni e a non parteciparvi. (6 marzo 2010) da temi.repubblica.it Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Pedofilia, dal Vaticano un sabba di menzogne Inserito da: Admin - Maggio 03, 2010, 08:37:44 am Pedofilia, dal Vaticano un sabba di menzogne
di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2010 Contro la pedofilia dei suoi preti, sembra proprio che il Papa voglia fare sul serio. Perché allora continua a occultare la verità sul passato e ha messo online un falso? Padre Federico Lombardi, infatti, non agisce di testa propria, è il portavoce della Santa Sede, e inoltre è persona di squisita gentilezza. Se dunque non ha risposte alle “quattro domande cruciali” che con una mia lettera aperta questo giornale gli ha rivolto una settimana fa non è perché non ha voluto, è perché non poteva: non aveva la “licenza de’ superiori”. Avesse potuto, infatti, avrebbe dovuto confessare quanto segue: la frase chiave “Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte” contenuta nelle famose “linee guida” sulla pedofilia, messe online sul sito ufficiale del Vaticano lunedì 12 aprile, e presentate da padre Lombardi come “disposizioni diramate fin dal 2003” (sito dell’Avvenire, quotidiano della Cei) non risale affatto al 2003 ma è stata coniata nuova di zecca nel weekend del 10-11 aprile. Al responsabile dell’autorevolissima agenzia internazionale “Associated Press”, Victor Simpson, che chiedeva lumi sulla posizione della Chiesa in fatto di pedofilia, padre Lombardi inviava infatti il venerdì 9 aprile un documento in inglese identico a quello messo online il lunedì successivo, tranne la frase chiave di cui sopra, che non compariva. E che perciò è stata partorita durante il weekend. Come altro si può chiamare in buon italiano una manipolazione del genere se non un “falso” (“falso: non corrispondente al vero in quanto intenzionalmente deformato”, Devoto-Oli)? Perché tutto l’interesse di quel documento si concentrava nella famosa frase chiave, che non a caso è stata sbandierata come la dimostrazione di una volontà della Chiesa – da anni – di collaborare con le autorità civili, rispettandone le leggi anche quando esse impongono a un vescovo di denunciare alla magistratura inquirente il suo prete sospetto di pedofilia. E’ dunque falso, assolutamente falso, che la Chiesa cattolica gerarchica avesse già nel 2003 fatto obbligo ai suoi vescovi e sacerdoti di “dare seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”. All’epoca era vero, anzi, il tassativo obbligo opposto: tacere assolutamente alle autorità civili, in ottemperanza al “segreto pontificio”, che comporta addirittura un giuramento al silenzio fatto solennemente sui vangeli, la cui formula terribile abbiamo riportato in un precedente articolo (cfr. Il Fatto del 10 aprile). E’ perciò altrettanto falso quanto ha sostenuto mons. Scicluna nei giorni scorsi, secondo cui “accusare l’attuale pontefice [per quando era cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede] di occultamento è falso e calunnioso (…) in alcuni paesi di cultura giuridica anglosassone, ma anche in Francia, i vescovi, se vengono a conoscenza di reati commessi dai propri sacerdoti al di fuori del sigillo sacramentale della confessione, sono obbligati a denunciarli all’autorità giudiziaria”. Questa non è la dichiarazione di un carneade qualsiasi, perché, come spiega il suo intervistatore Gianni Cardinale “monsignor Charles J. Scicluna è il ‘promotore di giustizia’ della Congregazione per la Dottrina della Fede. In pratica si tratta del pubblico ministero del Tribunale dell’ex sant’Uffizio”. Che l’affermazione di monsignore sia falsa lo prova ad abundantiam la testimonianza dei giorni scorsi del cardinale Dario Castrillon Hoyos, tuttora tra i più stretti collaboratori di Papa Ratzinger, che ha ricordato come fosse stato Giovanni Paolo II in persona a fargli scrivere una lettera di solidarietà e sostegno a un vescovo francese che per il rifiuto a testimoniare contro un suo prete pedofilo era stato condannato a tre mesi con la condizionale. Padre Federico Lombardi ha opposto un “no comment” alle affermazioni (palesemente inoppugnabili) del porporato colombiano, ma ha aggiunto che l’episodio “dimostrava e dimostra l’opportunità della unificazione delle competenze in capo alla Congregazione per la Dottrina della Fede”. Non rendendosi conto che tale “unificazione” avviene nel maggio del 2001, mentre la lettera del cardinale, per volere di Papa Wojtyla, è del settembre dello stesso anno, dunque è successiva, e conferma l’unica interpretazione che di quella “unificazione” si può dare: il più assoluto segreto era assolutamente centralizzato per renderlo ancora più catafratto. Perché perciò tutto questo sabba di menzogne, visto che Benedetto XVI sembra davvero intenzionato a cambiare atteggiamento, e a non occultare più alle autorità secolari i casi di pedofilia ecclesiastica (il vescovo di Bolzano e Bressanone ha inviato in procura le prime denunce)? Perché scegliendo la Verità dovrebbe riconoscere che il suo predecessore aveva ribadito come dovere sacrosanto l’omertà rispetto a magistrati e polizia, e difficilmente dopo tale ammissione potrebbe elevare Karol Wojtyla all’onore degli altari. Perché dovrebbe confessare Urbi et Orbi che la svolta è di questi giorni, e che egli stesso, come cardinale Prefetto (e in larga misura anche nei primi anni del Pontificato) non ha trovato il coraggio di chiedere coram populo (non sappiamo cosa pensasse in interiore homine) una politica della trasparenza e della denuncia ai tribunali, contribuendo con ciò all’impunità di un numero angoscioso di pedofili, che se prontamente messi in condizione di non nuocere avrebbero risparmiato la via crucis di migliaia di vittime. Perché dovrebbe ammettere che a tutt’oggi il suo portavoce si è prodigato in un lavoro di raffinata disinformacija, e consentirgli (o intimargli: non sappiamo se padre Lombardi soffra per quanto ha dovuto manipolare) di cambiare registro. Perché… (28 aprile 2010) da temi.repubblica.it/micromega-online Titolo: ALBERTO FLORES D'ARCAIS. La Bp: "Cupola per imbrigliare la perdita" Inserito da: Admin - Maggio 03, 2010, 08:40:02 am DISASTRO AMBIENTALE
Il Mississippi aspetta l'impatto La Bp: "Cupola per imbrigliare la perdita" Sul delta del fiume si attende con frustrazione l'arrivo della marea nera. Per i pescatori l'incubo della bancarotta totale. La macchia continua a crescere. Oggi a Venice anche l'amministratore delegato della Bp dal nostro inviato ALBERTO FLORES D'ARCAIS VENICE - Migliaia di litri di solventi chimici versati in mare aperto e all'imbocco dei canali, barriere galleggianti che formano un muro di gomma sulla superficie delle acque, incendi in mare aperto. Sul delta del Mississippi si aspetta con ansia e frustrazione l'impatto della gigantesca marea nera e l'inevitabile disastro ambientale. La grande macchia continua a crescere, ha già superato i 10mila chilometri quadrati, ma a poche ore dall'arrivo del presidente Obama non ha ancora impattato in modo decisivo con le coste della Louisiana. Gli sforzi per contenere il flusso di greggio ha prodotto per ora risultati limitati. Le fragili barriere naturali delle paludi del delta, il brutto tempo e le onde marine alte oltre due metri rendono tutto più complicato mentre cresce la rabbia della gente del luogo contro la British Petroleum (principale responsabile, anche per la reticenza iniziale) e la Casa Bianca, accusata di essersi mossa troppo in ritardo. Oggi il tempo peggiorerà ancora, su tutta la zona sono previste forti tempeste e anche il programma di Obama, che arriverà nella tarda mattinata, potrebbe subire qualche contrattempo. E dalla Bp arrivano messaggi contraddittori. Uno dei più alti dirigenti ha detto al New York Times che il colosso petrolifero ha "usato praticamente tutti i mezzi a disposizione". Ma qualche ora dopo il colosso petrolifero ha annunciato che potrebbe andare a buon fine in una settimana il tentativo di ingabbiare la perdita con una cupola. "Le coste sono state solo parzialmente toccate", sostiene l'ammiraglio Thad Allen, comandante della guardia costiera, da ieri capo dell'unità di crisi chiamata a gestire il disastro annunciato. Nelle sue parole non molto ottimismo: "Sono in corso operazioni massicce", ma è "logico" prevedere che la marea "arriverà sulla terraferma" e potrebbe anche "condizionare la navigazione in tutta l'area". Il vento che soffia da sudest la spingerà per settimane anche verso Mississippi, Alabama e Florida e nello scenario più drammatico potrebbe provocare un disastro ambientale fino alle barriere coralline delle Keys a sud di Miami. Per i pescatori del delta del Mississippi l'incubo è quello della bancarotta totale e della perdita del lavoro per anni, se non per decenni, qualcuno ipotizza che potrebbe essere "peggio dell'uragano Katrina". Cercano di salvare tutto il salvabile, raccolgono i gamberi, le ostriche, i granchi prima che sia troppo tardi, molti hanno firmato un accordo con la Bp che gli ha offerto un lavoro temporaneo per "ripulire il mare", altri hanno rifiutato. In mare aperto le barche non ci vanno più, è possibile solo fare un giro di un paio d'ore lungo i corsi d'acqua che formano il delta del più grande fiume degli Stati Uniti e anche inoltrandosi un po' tracce del greggio non se ne vedono ancora. Come ancora non c'è traccia, aparte casi isolati che si contano seulle dita di una mano, di animali colpiti dalla marea. A Venice la situazione è un po' surreale, tutti sanno quello che sta per accadere ma di visibile c'è poco o nulla. Oggi, quasi in contemporanea all'arrivo del presidente americano, sarà a Venice anche l'amministratore delegato della Bp. I costi che la società petrolifera è chiamata a sostenere sono immensi, oltre un milione e mezzo di dollari al giorno solo per tamponare l'avanzata della marea e decine di cause collettive che potrebbero costargli diversi miliardi di dollari. Il governatore repubblicano della Louisiana Bobby Jindal si è fatto paladino della rabbia della gente accusando la Bp ma anche la Casa Bianca. "Sono stanco di aspettare che Bp tiri fuori un piano e che la guardia costiera lo approvi, faremo il possibile per proteggere le nostre coste anche a costo di farlo da soli". Per Jindal, che potrebbe essere un candidato repubblicano alla presidenza nel 2012, la marea nera "rappresenta "una minaccia non solo per le nostre coste ma anche per la nostra cultura e il nostro modo di vita". Come è stato possibile arrivare a questo punto? Come si può fermare il disastro prima che diventi ancora peggiore? Sono queste le due domande che tutti si fanno e a cui nessuno è stato ancora in grado di dare una risposta e che provocano le proteste della gente della Louisiana e degli altri Stati coinvolti. Ieri sera la guardia costiera ha ammesso che è "praticamente impossibile" quantificare le migliaia di barili di greggio che fuoriescono dalla piattaforma affondata. Si era partiti con mille, poi cinquemila, adesso potrebbero essere tre o quattro volte tanto. Se, come ha previsto Hans Graber, oceanografo del Center for Southeastern Tropical Advanced Remote Sensing dell'Università della Florida, la marea nera dovesse essere intercettata dalla corrente del Golfo, il disastro ambientale non si fermerà fino all'Oceano Atlantico: "non è più questione di se ma è questione di quando". (02 maggio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/esteri/2010/05/02/news/obama_louisiana-3758614/ Titolo: Governissimo, sì o no? Dibattito tra Paolo Flores d’Arcais e Luca Telese Inserito da: Admin - Maggio 16, 2010, 11:53:36 am Governissimo, sì o no?
Dibattito tra Paolo Flores d’Arcais e Luca Telese da Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2010 Transizione necessaria Perché possano svolgersi elezioni vere bisogna prima risolvere tre questioni: legalità, informazione imparziale, nuova legge elettorale di Paolo Flores d’Arcais Governo tecnico? Dipende. L’emergenza che vive l’Italia è un’emergenza democratica, il passaggio già avvenuto dal malgoverno (che non sarebbe una novità, è praticamente la costante dell’ultimo mezzo secolo) al regime, e la sua rapida trasformazione in peggio (perché al peggio non c’è mai fine) attraverso innesti già programmati di vero e proprio fascismo, come la legge sulle intercettazioni che garantisce la galera ai giornalisti ancora giornalisti (il loro mestiere sarebbe infatti informare) e impedisce ai magistrati di indagare seriamente su tutti i reati per i quali le intercettazioni sono “conditio sine qua non”, calpestando con ciò il dettato costituzionale della “obbligatorietà dell’azione penale”. Da questo avvitamento antidemocratico, i cui modelli sono del resto due fraterni amici di Berlusconi, Putin e Gheddafi, l’Italia non uscirà certo grazie all’opposizione, secondo il modello dell’alternanza in uso nelle democrazia liberali europee anche le più malmesse, visto che da noi l’opposizione è un simulacro, ha la consistenza dei lemuri, non agisce e neppure parla, qualche volta semmai pigola e cinguetta, tranne quando i gerarchetti sopravvissuti si insolentiscono (obliquamente) l’un l’altro. Dalla morta gora della ruberia di cricche e caste l’Italia perciò uscirà, se uscirà anziché finire in un precipizio di stile greco, solo attraverso la crisi interna dell’attuale maggioranza di malgoverno. Crisi della quale si vanno accumulando motivi e sintomi ma per la cui apertura manca ancora l’ingrediente irrinunciabile, un barlume di coraggio e di coerenza tra il dire e il fare di una fronda, quella di Fini e dei “suoi” (non sappiamo quanti), che fin qui da brava fronda si è limitata a stormire. Se in politica valesse la regola di una razionalità anche minima, la crisi dovrebbe aprirsi sul federalismo o sulla giustizia, visti gli appelli alle ragioni della nazione e della legalità repubblicana che lo stormire di Fini e dei suoi ha replicato in ogni trasmissione tv. Ma l’incidente scatenante potrebbe invece avvenire sulla proverbiale buccia di banana di una questione assolutamente minore, come pure il governo potrebbe continuare a malgovernare per i prossimi tre anni senza inciampare mai nell’auspicabile (per quel che resta della nostra convivenza civile) capitombolo di un voto sfavorevole che costringa il caimano alle dimissioni. Qualora il fausto evento accadesse davvero, però, il problema posto ipoteticamente dall’immarcescibile Pier Ferdinando Casini, e sdegnosamente snobbato dal suo alter ego di partitocrazia Walter Veltroni, diventerebbe la non aggirabile questione del giorno. Nella speranza che gli eventi ci sorprendano dal punto di vista del calendario, proviamo a discuterne per non trovarci “sorpresi” politicamente, dovesse una volta tanto accadere il meglio e non il peggio. Quel giorno, infatti, il dilemma sarebbe proprio: elezioni o governo di transizione? Dipende. Le due cose, a voler essere dei democratici coerenti, non sono infatti in contrapposizione ma anzi debbono integrarsi necessariamente. Perché per “elezioni” dobbiamo intendere delle elezioni democratiche, mentre quelle che si dovessero svolgere “sic stantibus rebus” assomiglierebbero all’accezione di democrazia cara al caro amico Putin. Tre sono infatti le questioni da risolvere preliminarmente, perché possano svolgersi delle elezioni democratiche non solo di nome ma, approssimativamente almeno, anche di fatto. Legalità, informazione imparziale, nuova legge elettorale. Già nelle passate elezioni la situazione dei media era di uno squilibrio ingiurioso in sé e offensivo per i criteri minimi di qualsiasi democrazia occidentale (non a caso siamo stati retrocessi al 72° posto, come paese dove l’informazione è solo “parzialmente libera”). Nel frattempo l’occupazione “manu militari” dell’etere è minzolianamente proseguita con gli stivali delle sette leghe, e dovesse passare la legge sulle intercettazioni saremmo addirittura alla fascistizzazione “in progress”. Perché ci siano elezioni democratiche, perciò, è inutile continuare a nascondersi dietro un dito: bisogna liberare l’etere (bene comune esattamente come l’aria) dall’attuale manomorta berlusconiana, dall’esproprio feudale compiuto in nuce un quarto di secolo fa con la legge Mammì e perfezionato anno dopo anno (la voracità del caimano c’era già tutta, bella e squadernata). Questo in primo luogo. Ma bisogna anche garantire che valga il principio “una testa un voto”, anziché quelli alquanto incompatibili con la democrazia liberale che suonano “una pallottola un voto”, “una bustarella un voto”, “un ricatto un voto”, che sono invece ormai una presenza dilagante nell’Italia devastata da mafie, corruzione e altre lepidezze per le quali l’impunità di regime è sempre più garantita. Il che significa, se non si vuole affrontare un cancro con l’aspirina o peggio l’omeopatia, che si tratta di tornare alla situazione legislativa del ’92, abrogando con un sol tratto di penna tutte le norme, troppo spesso bipartisan, penali e procedurali, che hanno regalato ai delinquenti ogni ben di Dio impunitario e a magistratura e polizia frustranti e punitive camicie di forza. Dando vita, infine, a una legge elettorale, uninominale o proporzionale (o mista) che sia, ma rispettosa del principio di rappresentanza, oltre che dell’obiettivo della governabilità. La quale ultima, come è noto, la sanno raggiungere anche le dittature. Quando parla di governo tecnico, Casini ha in mente queste misure, preliminari ad un ritorno alle urne? Sarebbe allora opportuno chiamarlo con il suo vero nome: governo di lealtà costituzionale. Casini però pensa a qualcos’altro, tutto interno alla Casta e ai suoi maneggi. Non è un buon motivo, comunque, perché questo “governo di lealtà costituzionale” non sia fin da ora l’obiettivo e il “tormentone” di ogni democratico. --- Così si regala l’anticasta a B. Questa soluzione non paga sul piano della tattica né su quello dell’utilità e del gioco machiavellico. Ma soprattutto, non funziona su quello democratico di Luca Telese C’è un 40 per cento buono di italiani che – più o meno da quindici anni – fa questo sogno: svegliarsi una mattina e ritrovarsi a Palazzo Chigi un nuovo Comitato di Liberazione nazionale, una union sacrée democratica, un governo di salvezza nazionale che metta tutti insieme per cacciare “Il puzzone”, per far cadere Silvio Berlusconi e sostituirlo con qualsiasi cosa, pur di allontanarlo dalla stanza dei bottoni. Bello (di sicuro) impossibile (forse). Ma anche sbagliato (soprattutto). Le motivazioni per coltivare questa amena speranza, ovviamente, non mancano. Anche chi pensava malissimo dei dirigenti del centrodestra non immaginava che sette esponenti del governo sarebbero finiti contemporaneamente sotto inchiesta per reati gravi (o gravissimi). O che avremmo assistito al puerile balletto di “A mia insaputa” Claudio Scajola. Nessuno, nemmeno armato di grande fantasia, avrebbe mai ipotizzato che un sottosegretario fosse giudicato incandidabile (per i suoi rapporti con la camorra) dalla sua stessa maggioranza , o immaginato il diluvio delle leggi ad personam, liberticide o ammazza inchieste scomode che ci sono state regalate in questa porzione di legislatura. Poi – per giunta – a far cadere in tentazione i sognatori, sono arrivate le due ciliegine sulla torta: la ribellione di Gianfranco Fini e il vaticinio di Pier Ferdinando Casini. Domenica, ospite di Lucia Annunziata, Casini ha rinfocolato la speranza dell’Italia del quaranta per cento: “Un governo tecnico di salute pubblica, primo o poi è inevitabile”. Ora, tutte queste speranze e ragioni sono espresse con molta efficacia, qui a lato, da Paolo Flores d’Arcais. Se c’è “un’emergenza democratica” – ragiona Paolo in estrema sintesi – a brigante brigante e mezzo: qualsiasi cosa pur di ripristinare la legalità. Credo che questo suo articolo aprirà un grande dibattito, un dibattito necessario e utile. Ma confesso che leggendo le sue motivazioni ho detto – nella nostra riunione di redazione – che mi sento combattuto come l’omino di Altan, quello che soavemente confessa: “A volte ho dei pensieri che non condivido”. Ecco: leggo, capisco, sono tentato di condividere, ma allo stesso tempo non ce la faccio. In primo luogo perché li ho seguiti da cronista, tutti i governi tecnici di questo sgarrupatissimo ventennio di transizione italiana. Quello di Ciampi – oggi idolatrato da una nube di nostalgia retroattiva superiore ai suoi meriti – non lasciò leggi memorabili al Paese, se non altro perché non poteva prendere grandi decisioni: era un governo in cui la politica entrava di contrabbando, e in cui non si sapeva da chi provenisse il mandato né quale fosse. Quello di Dini, venne inaugurato drammaticamente dal “bacio del rospo”, dalle lacrime in aula di Marida Bolognesi (alcuni “eroi” di Rifondazione, fra cui Nichi Vendola ruppero con il loro partito per farlo nascere) e da un grido di battaglia contro i berluscones che nell’emiciclo di Montecitorio in bocca al suo premier suonava simpaticamente improbabile (“Adesso mi sono rotto il cazzo!”). Ricordo la fila di deputati leghisti nell’ufficetto di Bossi che all’epoca diceva cose godibilissime: “Basta con il mafioso di Arcore” e “A Silvio bisogna segare il balconcino da piccolo Duce”. Il bilancio si chiude con Umberto “il miglior alleato” di Berlusconi e Dini che ritorna “a casa”, come Lassie, nel centro-destra (a via della Conciliazione era quello appisolato vicino a Fini, mentre lui ululava). È stato bello, ci abbiamo sperato, ma non c’è nulla da fare. Il governo D’Alema – strano caso di auto-cannibalismo a sinistra ai danni di Prodi – riuscì a regalare la pallida esperienza “del D’Alema bis” con la caccia ai voti, il sottosegretario missino Misserville (simpaticissimo, ma costretto alle dimissioni in 24 ore per aver portato il busto del Duce nel primo esecutivo post comunista del dopoguerra) e una dimenticabile parentesi di calciomercato parlamentare, con il gruppo misto che cresceva ogni giorno come una metastasi. Ci siamo divertiti, è vero, a raccontarlo quel suq trasformista. In cui – come nell’ultimo Prodi – si andava a caccia di voti con il pallottoliere, finendo a regalare gli sgravi benzina in Trentino e Val d’Aosta per ottenere una fiducia dall’Svp o dell’Union Valdôtaine. Adesso, per favore basta: non si può più. Io non so perché Casini – una vita per costruirsi fama da moderato – abbia scelto proprio la locuzione estrema della “salute pubblica”, che evoca Madame de Guillotine e il Terrore. Ma in ogni caso bisogna che i sognatori si rassegnino all’idea: non si esce dal berlusconismo con una scorciatoia o un golpe. Non c’è un intermezzo della salute pubblica che prepara un nuovo inizio. Il berlusconismo (e il leghismo) hanno costruito in questo paese un blocco sociale vero, una solida coalizione di interessi. Hanno costruito una leadership, hanno ottenuto un mandato. Pensare che i 20 “vietcong finiani” possano diventare il piede di porco con cui si scardina questa maggioranza (intanto bisogna vedere se loro sono d’accordo, e non sembra) è una trappola onirica. E poi Berlusconi si può battere, ma non si può rimuovere. Ricordo che per anni si parlava di come sarebbe scomparsa la Lega senza il carisma di Bossi: ebbene, nel 2004 Bossi fu colpito dall’ictus, la Lega rimase un anno senza padre, alle Europee il partito crebbe. Il governo tecnico non paga sul piano della tattica, quindi, ne su quello dell’utilità e del gioco machiavellico. Ma soprattutto, non funziona su quello democratico. Regalerebbe a Berlusconi una campagna elettorale anti-Casta. E regalerebbe ala sinistra la parte della Casta. Come se ce ne fosse bisogno. (11 maggio 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/governissimo-si-o-no-dibattito-tra-paolo-flores-darcais-e-luca-telese/ Titolo: La “teocrazia debole” di Ratzinger, una minaccia per la democrazia. Inserito da: Admin - Maggio 16, 2010, 11:54:32 am La “teocrazia debole” di Ratzinger, una minaccia per la democrazia.
Flores d’Arcais replica a Navarro-Valls di Paolo Flores d'Arcais, da Repubblica Joaquìn Navarro-Valls ha pubblicamente confessato il programma di "teocrazia debole" che la Chiesa gerarchica di Karol Wojtyla prima, e quella di Joseph Ratzinger oggi, stanno tenacemente perseguendo. Con esiti fin qui fallimentari nel mondo, ma di peculiare successo nella "eccezione" Italia. Non meraviglia perciò che l' articolo dell' ex portavoce di Giovanni Paolo II, ancora oggi autorevolissimo nell' esprimere umori e "desiderata" della Chiesa vaticana, prenda le mosse proprio dall' apologia del "caso italiano", osannato perché «è veramente considerevole il ruolo assunto dalla religione» nel dibattito (e soprattutto nella realtà del potere, ma su questo Navarro-Valls sorvola), per cui «l' enorme complessità e originalità di questo Paese» (cioè le macerie morali e materiali a cui l' ha ridotto il berlusconismo) «costituisce una ricchezza stimolante che altrove manca del tutto». All' ex portavoce di Wojtyla l' Italia appare dunque il luogo provvidenziale in cui sperimentare l' obiettivo che il cattolicesimo gerarchico ha scelto come stella polare: «Una democrazia deve riconoscere il valore di verità, naturale e generale, della religiosità umana, considerandolo un diritto comune, indispensabile cioè per il bene di tutti». Papale papale. Con questa logica, però, l'ateo, lo scettico, il miscredente, insomma il cittadino che non si riconosca in alcuna "religiosità umana", verrebbe irrimediabilmente colpito da ostracismo, e declassato a cittadino di serie B. Il suo ateismo, infatti, non solo non troverebbe posto in questo discriminatorio "diritto comune", ma verrebbe implicitamente tacciato di essere contrario al "bene di tutti". Tanto perché non ci siano equivoci, infatti, Navarro-Valls aggiunge che «non è possibile, in effetti, escludere il valore politico e solidale della religione senza estromettere, al contempo, anche la giustizia dalle leggi dello Stato». E perché mai? Veramente Thomas Jefferson, eminente padre della democrazia americana - paese sempre citato come eden di libertà fondata su una religiosità onnipervasiva - , garantiva l' opposto: «Il manto della protezione costituzionale copre il giudeo e il gentile, il cristiano e il maomettano, l' indù e il miscredente di ogni genere» proprio perché la Costituzione «ha eretto un muro di separazione tra Chiesa e Stato». Wojtyla e Ratzinger hanno invece sistematicamente gettato l' anatema su ogni versione di «libera Chiesa in libero Stato». Una legge che prescinda dalla religione avrebbe niente meno che «estromesso la giustizia», riassume con precisione Navarro-Valls, renderebbe illegittima la democrazia trasformandola in un vaso di iniquità. È esattamente quanto sostenne Papa Wojtyla di fronte al primo parlamento polacco democraticamente eletto, se la maggioranza parlamentare avesse promulgato una legge sull' aborto difforme dal diktat della morale vaticana. In perfetta sintonia papale la conclusione di Navarro-Valls: «La consapevolezza democratica di base» deve riconoscere che «la religione è un valore umano fondamentale e inevitabile, il quale deve essere valorizzato e garantito legalmente nella sua rilevanza pubblica» (sottolineatura mia). Con l' aggiunta finale di un criptico ma inquietante «a prescindere dal resto». E invece no, dal "resto" non si può affatto prescindere. Perché il "resto" è che la democrazia si fonda sull' autos nomos di tutti i cittadini, singolarmente e collettivamente presi. Nella democrazia sono i cittadini che «si danno da sé la legge». E nessun altro prima o sopra di loro. Se i cittadini non potessero decidere la legge liberamente, ma obbedire a una legge già data (dall' Alto, dall' Altro), non sarebbero sovrani, «per la contraddizion che nol consente», secondo un padre Dante molto tomistico e che quindi dovrebbe andar bene anche a Navarro-Valls. Che la giustizia secondo il dettame della religione diventi tassativa e vincolante per la democrazia significa espropriare il cittadino della sovranità e riconsegnarla a Dio. Tecnicamente si chiama alienazione: alienare i famosi diritti inalienabili. Alienazione che coincide con l' annientamento stesso della democrazia. Insomma e senza perifrasi: la sovranità di Dio è incompatibile con la sovranità dell' uomo, in cui consiste la democrazia. Dovrebbe essere una ovvietà, da oltre un paio di secoli. Ma nell' italica «ricchezza stimolante che altrove manca del tutto» tutto è invece permesso. E sia. Quale Dio, però? Il Dio cristiano dei valdesi - compassionevole - riconosce ai suoi figli il diritto all' eutanasia, quello di Ratzinger - gelido - lo nega, quello di Küng (cristiano cattolico come Ratzinger) di nuovo lo consente, il Dio dei "Testimoni di Geova" proibisce ogni trasfusione di sangue anche a costo della vita, il Dio di altri (sempre lo stesso, perché l' Uno) esige invece mutilazioni sessuali per le bambine. E si potrebbe continuare. Quale di queste incompatibili verità dovrà assumere lo Stato nella sua legge, per ottemperare alla pretesa di Navarro-Valls di «concepire la religione come un valore assoluto»? Senza dimenticare che a pretendere che sia fatta la volontà di Dio, anziché quella democratica dei cittadini, c'è poi sempre in agguato un "Gott mit uns" che battezzerà di giustizia religiosa ogni terrena efferatezza. Naturalmente, in una democrazia liberale i cittadini non possono stabilire per legge "qualsiasi cosa", neppure con maggioranze plebiscitarie. Ma il limite all' esercizio della loro autonomia è la loro autonomia stessa, non un' eteronoma volontà di Dio (magari agghindata da "legge naturale"). Che è poi la volontà di chi pretende di conoscere la volontà di Dio e parlare in suo nome (in psichiatria si chiama delirio di onnipotenza). Non si possono, a maggioranza, violare i diritti individuali sulla vita, la libertà, eccetera, di ciascuno, perché del ciascuno si distruggerebbe o amputerebbe la sovranità, dunque l' autonomia. Dio e la religione, come si vede, non c' entrano un bel nulla. L' anti-relativismo della democrazia sta tutto e solo nel comune riconoscimento - interiorizzato come ethos repubblicano - delle inalienabili libertà di ciascuno (fino a che non violano identica libertà altrui: dalla vignetta blasfema all' eutanasia, esattamente come non si proibisce la superstizione della Sindone o la sofferenza terminale volontaria). "Religiosità" civile, se si vuole. Che la "teocrazia debole" di Ratzinger e Navarro-Valls pretende invece di sovvertire. (12 maggio 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-teocrazia-debole-di-ratzinger-una-minaccia-per-la-democrazia-flores-darcais-replica-a-navarro-valls/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Da che pulpito verrà la predica Inserito da: Admin - Maggio 23, 2010, 11:00:48 am Da che pulpito verrà la predica
Il Cavaliere moralizzatore, l’ultima fiction del Regime di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2010 Chi lancerà nei prossimi giorni a reti unificate un solenne e accorato anatema contro i ladri della Casta? Avete sbagliato. Sarà Silvio Berlusconi. Non sganasciatevi, non è una battuta, è la nuova tattica annunciata dal Caimano medesimo attraverso una velina (nel senso originale del termine: verità ufficiosa di regime). Il Capo ha infatti minacciato che d’ora in poi non coprirà più i cortigiani che rubano: grazie a lui “hanno avuto soldi e onori”, e se l’avidità li acceca li licenzierà in tronco e con ignominia. Come fa un Padrone, del resto, col maggiordomo che ruba le posate d’oro. Con questa scelta tattica, l’aspirante Duce ha in realtà aperto la campagna elettorale. Cavalcare lo schifo che monta nel Paese contro la grassazione permanente ed esponenziale delle cricche (che – alla lettera – si arricchiscono sul sangue: di lavoratori non pagati, che per disperazione si suicidano), e anzi di questo schifo farsi l’unico paladino. Infatti, Lui si è fatto straricco da sé (e la legge Mammì e altri decreti Craxi?), dunque non ha bisogno di rubare, gli elettori lo sanno e per questo si fidano, addirittura felici di farsi sudditi, purché Lui butti a mare qualche scherano preso con troppe dita nella marmellata, e ormai impresentabile. È una tecnica vecchia come la prepotenza e la manipolazione dei dispotismi. I servi della gleba in Russia per secoli hanno continuato a maledire i boiardi come causa delle proprie disgrazie, e a venerare invece come loro difensore (e anzi “piccolo padre”) il capo di quei boiardi, lo zar autocrate. Che ogni tanto ne faceva fuori qualcuno, prendendo i classici due piccioni: accrescere il proprio potere rispetto ai feudatari e la propria popolarità presso il popolino. Non disdegnò la stessa tecnica Mussolini, “si parva licet”, con i gerarchi. Erano loro i colpevoli delle cose storte, lo tenevano all’oscuro e lo consigliavano male, per stupidità o per tradimento. L’Uomo della Provvidenza, invece, lavorava per il bene di tutti fino a notte fonda. Insomma, la storia ci dimostra che per far credere l’incredibile – nel caso di Berlusconi, che il nemico giurato della Cricca dei papponi che sta spolpando l’Italia è lo stesso Caimano della Cricca – basta poco: il monopolio della comunicazione. Di cui l’aspirante Egocrate è lussuosamente e orwellianamente provvisto. Per diventarne dotato TOTALMENTE vuol fare approvare entro giugno la legge che toglie ai magistrati la possibilità di scoprire i papponi di regime, e manda in galera i giornalisti che racconteranno ancora qualcosa. Un tassello di fascismo vero e proprio. Chi non lo impedirà sarà peggio che servo: complice. (15 maggio 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/da-che-pulpito-verra-la-predica/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Pedofilia, dal Vaticano un sabba di menzogne Inserito da: Admin - Giugno 07, 2010, 09:30:31 am Pedofilia, dal Vaticano un sabba di menzogne
di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2010 Contro la pedofilia dei suoi preti, sembra proprio che il Papa voglia fare sul serio. Perché allora continua a occultare la verità sul passato e ha messo online un falso? Padre Federico Lombardi, infatti, non agisce di testa propria, è il portavoce della Santa Sede, e inoltre è persona di squisita gentilezza. Se dunque non ha risposte alle “quattro domande cruciali” che con una mia lettera aperta questo giornale gli ha rivolto una settimana fa non è perché non ha voluto, è perché non poteva: non aveva la “licenza de’ superiori”. Avesse potuto, infatti, avrebbe dovuto confessare quanto segue: la frase chiave “Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte” contenuta nelle famose “linee guida” sulla pedofilia, messe online sul sito ufficiale del Vaticano lunedì 12 aprile, e presentate da padre Lombardi come “disposizioni diramate fin dal 2003” (sito dell’Avvenire, quotidiano della Cei) non risale affatto al 2003 ma è stata coniata nuova di zecca nel weekend del 10-11 aprile. Al responsabile dell’autorevolissima agenzia internazionale “Associated Press”, Victor Simpson, che chiedeva lumi sulla posizione della Chiesa in fatto di pedofilia, padre Lombardi inviava infatti il venerdì 9 aprile un documento in inglese identico a quello messo online il lunedì successivo, tranne la frase chiave di cui sopra, che non compariva. E che perciò è stata partorita durante il weekend. Come altro si può chiamare in buon italiano una manipolazione del genere se non un “falso” (“falso: non corrispondente al vero in quanto intenzionalmente deformato”, Devoto-Oli)? Perché tutto l’interesse di quel documento si concentrava nella famosa frase chiave, che non a caso è stata sbandierata come la dimostrazione di una volontà della Chiesa – da anni – di collaborare con le autorità civili, rispettandone le leggi anche quando esse impongono a un vescovo di denunciare alla magistratura inquirente il suo prete sospetto di pedofilia. E’ dunque falso, assolutamente falso, che la Chiesa cattolica gerarchica avesse già nel 2003 fatto obbligo ai suoi vescovi e sacerdoti di “dare seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”. All’epoca era vero, anzi, il tassativo obbligo opposto: tacere assolutamente alle autorità civili, in ottemperanza al “segreto pontificio”, che comporta addirittura un giuramento al silenzio fatto solennemente sui vangeli, la cui formula terribile abbiamo riportato in un precedente articolo (cfr. Il Fatto del 10 aprile). E’ perciò altrettanto falso quanto ha sostenuto mons. Scicluna nei giorni scorsi, secondo cui “accusare l’attuale pontefice [per quando era cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede] di occultamento è falso e calunnioso (…) in alcuni paesi di cultura giuridica anglosassone, ma anche in Francia, i vescovi, se vengono a conoscenza di reati commessi dai propri sacerdoti al di fuori del sigillo sacramentale della confessione, sono obbligati a denunciarli all’autorità giudiziaria”. Questa non è la dichiarazione di un carneade qualsiasi, perché, come spiega il suo intervistatore Gianni Cardinale “monsignor Charles J. Scicluna è il ‘promotore di giustizia’ della Congregazione per la Dottrina della Fede. In pratica si tratta del pubblico ministero del Tribunale dell’ex sant’Uffizio”. Che l’affermazione di monsignore sia falsa lo prova ad abundantiam la testimonianza dei giorni scorsi del cardinale Dario Castrillon Hoyos, tuttora tra i più stretti collaboratori di Papa Ratzinger, che ha ricordato come fosse stato Giovanni Paolo II in persona a fargli scrivere una lettera di solidarietà e sostegno a un vescovo francese che per il rifiuto a testimoniare contro un suo prete pedofilo era stato condannato a tre mesi con la condizionale. Padre Federico Lombardi ha opposto un “no comment” alle affermazioni (palesemente inoppugnabili) del porporato colombiano, ma ha aggiunto che l’episodio “dimostrava e dimostra l’opportunità della unificazione delle competenze in capo alla Congregazione per la Dottrina della Fede”. Non rendendosi conto che tale “unificazione” avviene nel maggio del 2001, mentre la lettera del cardinale, per volere di Papa Wojtyla, è del settembre dello stesso anno, dunque è successiva, e conferma l’unica interpretazione che di quella “unificazione” si può dare: il più assoluto segreto era assolutamente centralizzato per renderlo ancora più catafratto. Perché perciò tutto questo sabba di menzogne, visto che Benedetto XVI sembra davvero intenzionato a cambiare atteggiamento, e a non occultare più alle autorità secolari i casi di pedofilia ecclesiastica (il vescovo di Bolzano e Bressanone ha inviato in procura le prime denunce)? Perché scegliendo la Verità dovrebbe riconoscere che il suo predecessore aveva ribadito come dovere sacrosanto l’omertà rispetto a magistrati e polizia, e difficilmente dopo tale ammissione potrebbe elevare Karol Wojtyla all’onore degli altari. Perché dovrebbe confessare Urbi et Orbi che la svolta è di questi giorni, e che egli stesso, come cardinale Prefetto (e in larga misura anche nei primi anni del Pontificato) non ha trovato il coraggio di chiedere coram populo (non sappiamo cosa pensasse in interiore homine) una politica della trasparenza e della denuncia ai tribunali, contribuendo con ciò all’impunità di un numero angoscioso di pedofili, che se prontamente messi in condizione di non nuocere avrebbero risparmiato la via crucis di migliaia di vittime. Perché dovrebbe ammettere che a tutt’oggi il suo portavoce si è prodigato in un lavoro di raffinata disinformacija, e consentirgli (o intimargli: non sappiamo se padre Lombardi soffra per quanto ha dovuto manipolare) di cambiare registro. Perché… (28 aprile 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/pedofilia-dal-vaticano-un-sabba-di-menzogne/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Il "colpo di Stato strisciante" e il ruolo del Quirinale Inserito da: Admin - Giugno 27, 2010, 09:28:53 am Il "colpo di Stato strisciante" e il ruolo del Quirinale
Flores d’Arcais a Napolitano: “Presidente, perchè ha nominato Brancher ministro?” di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2010 Caro Presidente, unanime è lo sdegno per il comportamento di spudorato dileggio delle istituzioni messo in atto dal neoministro Aldo Brancher, che ancora fresco di giuramento, utilizza la nuova carica non già per onorare “fedeltà alla Repubblica e osservanza della Costituzione” ma per sottrarsi a un tribunale della medesima Repubblica, cioè per calpestare e irridere il principio che è solennemente scolpito in tutte le aule di tale istituzione: “La legge è eguale per tutti”. Unanime lo sdegno, si può ben dire, visto che le critiche alla “fuga” dalla giustizia del neoministro Brancher sono esplicite anche in almeno due settori della maggioranza, quelli che fanno riferimento alla “Lega” e al presidente della Camera on. Fini e perfino in un “Giornale”. Del resto, caro Presidente, lei sa bene che Aldo Brancher è noto alla giustizia penale italiana fin dal 1993, quando i magistrati del Pool di Milano trovano le prove di due “mazzette” da 300 milioni versate dal Brancher (braccio destro di Confalonieri alla Fininvest) al Partito socialista e al ministro liberale della sanità De Lorenzo. Lei sa bene, Presidente, che il Brancher fu condannato in primo grado e in appello, e riuscì a non scontare la condanna solo per via di una prescrizione e di una depenalizzazione nel frattempo intervenute, di cui la Cassazione dovette prendere atto. Intervenute non per grazia dello spirito santo, ma di un potere politico che aveva ormai nel proprietario della Fininvest (poi Mediaset) un “padrone” di crescente prepotenza. Quello perciò che non possa fare a meno di chiederle, Presidente, è perché lei abbia nominato un personaggio del genere come ministro. E “ministro per l’Attuazione del federalismo”, oltretutto, ministero di pura invenzione, ministero sfacciatamente “ad personam”, visto che il ministro per il federalismo esiste già, è l’on. Bossi, il quale ha immediatamente ribadito il suo ruolo unico su tale tema. Insomma, caro Presidente, era chiaro a lei come era chiaro a tutti che il ministero a cui Berlusconi le chiedeva di nominare Aldo Brancher era solo un “ministero di legittimo impedimento”, un ministero per potersi rifiutare – in barba alla “legge eguale per tutti” – di andare in un’aula di tribunale a difendersi da accuse assai pesanti (“appropriazione indebita”, non certo un delitto “politico” o di opinione ). Perché, nonostante tutto ciò, lei ha deciso di nominare Brancher ministro? L’articolo 92 della Costituzione è infatti esplicito: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri”. Il soggetto e protagonista costituzionale di tutto questo agire è il Presidente della Repubblica, cioè lei. Ovvio che le “proposte” che il Presidente del Consiglio avanza non si possono cassare per mero capriccio, ma ancora più ovvio che cassare si possono (e forse moralmente si devono) se per puro capriccio il capo del governo le ha avanzate, o per motivi tanto palesi quanto palesemente inconfessabili, perché costituzionalmente abietti. Ora che Aldo Brancher fa della sua nomina l’uso per il quale quel ministero inesistente, doppio e fantasma, era stato da Berlusconi inventato (i suoi costi sono invece reali e materialissimi, prelevati “mettendo le mani in tasca agli italiani”), monta l’unanime indignazione. Tardiva, come la proverbiale chiusura delle stalle a buoi già scappati (così come apprezzabile, ma a detta degli esperti inattuabile, la nota con cui lei giudica non ammissibile questo ricorso del ministro al “legittimo impedimento”). E monca, visto che poi tutti si guardano bene dall’avanzare a lei la domanda che questo giornale, con assoluto rispetto, già le ha posto ieri con l’editoriale del direttore. E su cui, sempre con lo stesso rispetto, crediamo doveroso insistere. È infatti sacrosanta, e adeguata alla “cosa stessa”, l’escalation lessicale che si leggeva ad esempio ieri sul più autorevole quotidiano italiano, il quale denunciava “con quali metodi e complici e violenze Silvio Berlusconi ha messo insieme il suo impero”, e “in quale abisso di degradazione sono state precipitate le nostre istituzioni”, e nel sito parlava di “uso privato delle istituzioni” e “ignominia di questa nomina”, che lei avrebbe “firmato con la morte nel cuore”. Del resto, anche i più moderati definiscono “regime” quello berlusconiano e Umberto Eco addirittura di “colpo di Stato strisciante”. Di fronte a quella che viene dunque ormai descritta – giustamente – come vera e propria eversione, l’unica possibilità di salvezza – oltre all’impegno di milioni di cittadini, il cui “resistere, resistere, resistere” continua a manifestarsi nelle piazze, negli appelli, nei blog – è costituito dal “resistere” di tutte le istituzioni di garanzia, i cui poteri la nostra bellissima e invidiabile Costituzione ha voluto a salvaguardia delle libertà di tutti. Tra questi, Presidente, in primo luogo i suoi poteri. Lei, tramite il suo ufficio stampa, non ha mancato di palesare irritazione profonda contro il richiamo critico che da queste pagine più volte è venuto nei suoi confronti, per l’uso a nostro giudizio minimalistico che lei ha fatto dell’articolo 74, secondo cui “il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione” (non solo dunque la palese anticostituzionalità: qualunque motivo che il Presidente ritenga seriamente argomentabile). Speriamo che in questa circostanza non risponda né con nuova irritazione né con un ancor più preoccupante silenzio. Vede signor Presidente, a differenza di quanti dichiarano in pericolo la Repubblica, ma che ritengono che proprio per questo lei non vada in nessun modo chiamato in causa, perché costituisce l’estremo usbergo delle libertà repubblicane, io sono profondamente convinto che tacere non sarebbe sintomo di rispetto, ma semmai di disprezzo o comunque di colpevole noncuranza per ciò che lei rappresenta, l’istituzione più alta, “l’unità nazionale” nel vincolo della Costituzione. Quest’unità, questa Costituzione, sono quotidianamente profanate dall’attuale governo. Contro tali profanazioni lei ha la possibilità di esercitare poteri spesso dalla immediata efficacia pratica, sempre dall’altissimo peso simbolico. E il peso simbolico è nella vita politica spesso decisivo. Perciò la logica, e ancor più il rispetto che porto alla sua Presidenza, mi fanno dire: o i discorsi che sempre più unanimemente sentiamo, e di cui ho citato sopra solo un autorevolissimo esempio, sono irresponsabile demagogia, oppure, se sono veri (e io credo che siano verissimi) la difesa della convivenza civile, garantita dalla nostra Repubblica grazie alla Costituzione nata dalla Resistenza, ha bisogno che lei usi pienamente dei poteri che tale Costituzione le assegna. È già accaduto nella storia della nostra patria che il mancato esercizio di poteri legittimi abbia consentito a prepotenze illegittime di conquistare il potere, e di legalizzare così la loro illegalità – non ho certo bisogno di ricordarle l’inazione di Luigi Facta, da tutti i democratici retrospettivamente sempre condannata. Lei è di tempra completamente diversa, e per questo mi rivolgo a lei. Entro l’estate si pretenderà la sua firma ad una legge che, impedendo ai magistrati indagini efficaci su crimini gravissimi e mandando in galera i giornalisti che informano, costituisce – tecnicamente parlando – un primo elemento di fascismo vero e proprio. Carlo Marx scriveva che nella storia le cose si ripetono sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Io non lo credo, perché sono meno ottimista. In Europa scrivono di continuo che l’Italia con Berlusconi sta vivendo nella farsa. Impedire che si trasformi in tragedia dipende da tutti noi, noi cittadini, in primo luogo, e da lei, Presidente, che per tutti gli italiani che ancora credono nella Costituzione è non a caso il “primo cittadino” . Quando, all’inizio del suo mandato, le rivolsi una “lettera aperta” le chiesi, attraverso il suo addetto stampa, se dovessi usare il “tu” a cui eravamo abituati o il “lei” che mi sembrava più consono dato il suo nuovo ufficio. Mi fece sapere che preferiva continuassi a rivolgermi a lei con il “tu”. Così ho dunque sempre fatto. Se ora trasgredisco, la prego di credermi che non è certo per sottolineare una distanza o una freddezza di affetto personale. Anzi, sono più che mai solidale con la fatica e l’angoscia che l’esercizio della più alta carica le costa in tempi tanto calamitosi per le libertà repubblicane. Lo faccio solo per sottolineare il rispetto con cui, da cittadino a “primo cittadino”, le rivolgo questo invito accorato e allarmato a fare uso pieno dei suoi poteri contro il “macero delle istituzioni” con cui il governo sta travolgendo il paese. Prima che sia troppo tardi. (26 giugno 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/flores-darcais-a-napolitano-presidente-perche-ha-nominato-brancher-ministro/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Il presidente Napolitano ha messo il bavaglio al Csm. Inserito da: Admin - Luglio 20, 2010, 11:16:06 pm Napolitano mette il bavaglio al Csm
Il presidente Napolitano ha messo il bavaglio al Csm. Questa la nuda verità, se non vogliamo usare perifrasi. Il consigliere Livio Pepino aveva chiesto una seduta plenaria urgente per affrontare la questione morale tra i giudici, visto quello che è emerso con la P3. Il vicepresidente Mancino aveva bloccato gli interventi degli altri consiglieri, mandando una lettera a Napolitano. Il quale ha risposto: no, non con questo Csm. Ha risposto così non perché, come ha ricordato Marco Travaglio, “sarebbe curioso se, a rimediare allo scandalo, fossero attuali consiglieri che s’intrattenevano al telefono o al bar col geometra irpino Pasqualino Lombardi e altri pitreisti”, ma con una motivazione esattamente opposta. Nella sua lettera il presidente Napolitano è infatti tassativo: bisogna stare “bene attenti a non gettare in alcun modo ombre sui comportamenti di quei consiglieri che ebbero a pronunciarsi liberamente, al di fuori di ogni condizionamento, su quella proposta di nomina concorrendo alla sua approvazione”, e questo deve valere non solo per l’attuale Csm, che dunque non se ne dovrà occupare, ma anche per quello di prossimo insediamento. A cui viene dettata con “alto monito” una linea di “troncare sopire”. Perché è ovvio che il Csm, di oggi come di domani, e qualsiasi altro magistrato che stia svolgendo indagini penali su tale marciume, non getteranno mai ombre su chi ha scelto Marra liberamente, preferendolo per libera ma pessima valutazione a chi aveva meriti infinitamente superiori. Ma è altrettanto certo, perché registrato indelebilmente sui nastri delle intercettazioni, che la P3 si è mossa per rovesciare una scelta che sembrava nelle ovvietà delle cose pulite, e ci è riuscita: qualcuno che basandosi sui meriti intendeva votare Renato Rordorf si è inopinatamente convinto della improbabile superiorità di Alfredo Marra. Scoprirli e sanzionarli, senza guardare in faccia a nessuno: questo dovrebbe essere il compito del Csm, se vuole restituire credibilità alla magistratura. Questo era l’alto monito che ci si poteva attendere da Napolitano. E invece… Paolo Flores d'Arcais http://temi.repubblica.it/micromega-online/napolitano-mette-il-bavaglio-al-csm/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Il vero fascista è lui. Inserito da: Admin - Agosto 15, 2010, 04:30:34 pm Contro B. Fini può vincere
Ai suoi “alleati” Berlusconi chiede solo tre cose: credere, obbedire, combattere. Il vero fascista è lui. Per Berlusconi non esistono alleati: o sei un servitore o sei un nemico. Per Berlusconi non esistono lo Stato e le sue istituzioni: esistono solo le sue proprietà, governo compreso. Il paradosso è che contro Berlusconi oggi sono schierate – speriamo sempre più efficacemente – persone che nel Msi stavano all’estrema destra, con Rauti, mentre l’ex-Pci sta a cuccia sotto le ali dell’ex-giovane di bottega di Forlani (ricordate il Caf?), Pierferdinando Casini. E quattro chiacchiere di quattro Serracchiani non cambieranno un bel nulla, fino a che non si trasformano in opposizione-rottura nei confronti dei D’Alema e Veltroni (e relative controfigure). Contro Berlusconi Fini può perfino vincere. Se davvero manterrà la promessa intransigenza sulla legalità. Perché allora si presenteranno a bizzeffe i provvedimenti berlusconiani che della legalità fanno strame, su cui sarà costretto a far cadere il governo. A quel punto dovrà scegliere tra governissimo, cioè mega-inciucio, e governo di lealtà costituzionale, che tolga a Berlusconi il maltolto, l’etere televisivo che è di tutti e che Berlusconi grazie a Craxi ha espropriato annettendolo a Villa Certosa. Speriamo che Fini non si faccia consigliare da D’Alema, e segua solo la logica. Ho detto “speriamo”: non è una previsione, è una possibilità, che l’azione della società civile democratica – se riprenderà le lotte – può rendere meno improbabile. Paolo Flores d'Arcais (3 agosto 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/contro-b-fini-puo-vincere/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Risposta a Scalfari Inserito da: Admin - Settembre 22, 2010, 11:51:53 pm Risposta a Scalfari
Caro Eugenio, all’opposizione serve un “Papa protestante” di Paolo Flores d’Arcais, da "Il Fatto Quotidiano", 22 settembre 2010 Caro Eugenio, domenica, nel tuo consueto editoriale su Repubblica, hai affrontato la questione politica cruciale: “La sinistra non trae finora alcun beneficio dal marasma della maggioranza. Perché?”. Per formulare una diagnosi, ma soprattutto per indicare una terapia, hai creduto di poter dividere “il popolo di sinistra” secondo “due diverse tipologie: chi vuole sognare e chi vorrebbe progetti concreti”, che puntualmente elenchi. Ma il dramma, concludi, è che “finora i cuochi [la nomenklatura Pd] si sono occupati d’altro. Non si sa bene di che cosa”. Conclusione impietosa ma ineccepibile (di cosa si siano occupati in realtà è noto: carriere e altri interessi personali, non sempre confessabili). Credo invece che fuorviante sia la polarità che istituisci tra sognatori e realisti. Del resto ammetti tu stesso che “spesso il desiderio di programmi concreti e di sogni alberga nella stessa persona”. E un classico della Realpolitik come Max Weber ammoniva che “è perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”. Atteniamoci comunque al più occhiuto realismo. Tu insisti, giustamente, che anche in politica, e forse più che mai in politica, almeno quella democratica, bisogna chiamare le cose col loro nome. Che un’arancia è un’arancia. E un riformista? Un politico che realizza riforme, direi. Sui sedici anni che ci dividono dalla famosa “discesa in campo” di Berlusconi, circa la metà hanno visto il centrosinistra al governo. Riforme? Nessuna. E dire che non c’era poi molto da sforzarsi. Cominciando dal famoso “conflitto di interessi” per il quale la legge c’è già, risale al 1957, esclude dalla vita politica i privati che abbiano concessioni pubbliche (di valore superiore a una tabaccheria, fu spiegato allora). Sulla base di quella legge Berlusconi non era eleggibile. Bastava che la giunta parlamentare per le elezioni la rispettasse. Non lo fece, neppure col centrosinistra in maggioranza. Calpestando la “legge eguale per tutti” che è scritta nelle aule dei tribunali, avallando l’opposta “Costituzione materiale” secondo cui “Berlusconi è più eguale degli altri”. Che coincide – mi insegni – con quella della geniale Fattoria degli animali di Orwell (dove gli animali “più eguali” sono i maiali). Né fu distrutto il duplice e mortificante monopolio televisivo: di Berlusconi sulla tv privata e della lottizzazione partitica su quella “pubblica”. Anzi, il centrosinistra varò un provvedimento (ad personam! Ad Berlusconem!) per vanificare la sentenza che aveva riconosciuto il diritto di Europa 7 di avere le frequenze abusivamente utilizzate da Rete 4. E nulla fece, va da sé, per eliminare il monopolio della pubblicità, che è lo scrigno di sicurezza contro ogni pluralismo televisivo. Quanto alla giustizia, riformismo significa far concludere (che è l’opposto di far morire) i processi in tempi ragionevoli, cioè brevi. Basterebbe calcolare la prescrizione sul rinvio a giudizio, e gli azzeccagarbugli degli imputati eccellenti non avrebbero più interesse a tirar le cose in lungo. E introdurre il reato di “ostruzione di giustizia”, sul modello e con la severità anglosassone, mentre invece si è depenalizzato di fatto quello di falsa testimonianza. E garantire le intercettazioni legali a costo zero, come dovere delle compagnie telefoniche che ottengono le lucrosissime concessioni pubbliche, punendo invece con durezza inaudita quelle illegali degli infiniti Pio Pompa, amorevolmente protette anche dal centrosinistra col segreto di Stato. Non parlo del raddoppio delle risorse materiali per l’amministrazione della giustizia e per l’azione delle forze dell’ordine (cancellieri che scrivono a mano, benzina per le volanti pagate di tasca propria...) perché sento già l’obiezione: mancano le risorse. Mancano? E i 275 miliardi annui (annui! Calcolo della Confindustria che corregge la precedente stima di “soli” 125 miliardi) rubati dall’evasione non sono risorse pubbliche? Perché nei sette anni dei due governi Prodi e del governo D’Alema ne sono stati recuperati solo alcuni insignificanti coriandoli? Non dovrebbe essere questa la prima azione del più moderato dei riformismi? Sai bene, caro Eugenio, che potrei continuare a lungo. Del resto il giornale che tu hai fondato è costretto a ricordare costantemente la latitanza di riforme necessarie, e assolutamente possibili. Smettiamola almeno, perciò, di parlare di riformismo e di riformisti per i dirigenti del centrosinistra, TUTTI, visto che hanno governato a lungo quanto Berlusconi e non hanno riformato un prospero (su scuola e laicità hanno toccato l’efferatezza). Sono degli inguaribili NON-RIFORMISTI: un’arancia è un’arancia. Ma Prodi la seconda volta aveva la sincera intenzione di fare sul serio, sostengono i suoi nostalgici, solo che non aveva i numeri. È proprio vero che le nere disgrazie del presente colorano di rosa le grigie mediocrità del passato. Se Prodi ebbe al Senato solo un paio di voti di vantaggio, non dipese da un destino cinico e baro e meno che mai dagli elettori, ma da una decisione delle nomenklature del centrosinistra, che Prodi puntualmente ingoiò. Erano infatti pronte quasi dappertutto le “Liste civiche regionali”, accreditate di risultati variabili tra il 4% e il 12%: bastava presentarle in tre Regioni e al Senato Prodi avrebbe avuto la stessa maggioranza che alla Camera. Erano liste sul modello di quelle sperimentate in molte comunali, non liste “girotondine”. Tuttavia la nomenklatura dei D’Alema e Veltroni disse no. E alla richiesta di spiegazioni del rifiuto, visto che venivano accolte nell’alleanza le liste dei pensionati e dei consumatori (risultati previsti: da prefisso telefonico): perché loro sono un problema tecnico, voi potreste essere un problema politico. Tradotto: non vogliamo alleati che non siano totalmente proni alle nostre nomenklature. E così si sono consegnati mani e piedi allo statista di Ceppaloni. Ne converrai anche tu: lungimiranza e realismo non abitano presso i nostri non-riformisti. Un’arancia è un’arancia. Quanto al ritorno sulla scena di Veltroni l’Africano, sottoscrivi la sua proposta di ricorrere a un “Papa straniero”, cioè, fuor di metafora, a un leader della coalizione che venga dalla società civile anziché dai partiti. La proposta non è nuova, venne avanzata qualche mese fa proprio dal direttore del tuo giornale, Ezio Mauro. Figurati se non sono d’accordo anch’io, che ho cominciato a proporre un “partito azionista di massa” – che nascesse dal crogiuolo di sinistra de-nomenklaturizzata e movimenti della società civile – già all’origine di MicroMega, ormai un quarto di secolo fa. Il problema è CHI. Perché Veltroni ha già dimostrato cosa intenda per società civile con le nomine parlamentari dei Colaninno jr e dei Calearo. Questo’ultimo, benché in formato mignon, perfino più reazionario di Marchionne. Non è certo piegandosi ancora di più all’orizzonte dei (dis)valori berlusconiani che il centrosinistra sconfiggerà Berlusconi. Perciò è essenziale che il “Papa straniero” sia soprattutto un “Papa protestante”. Altrimenti tra il regime Berlusconi-Marchionne e una sua copia appena inzuccherata di veltronismi gli elettori del centrosinistra resteranno a casa a milioni. Che è quanto sta accadendo da anni e che costituisce il vero problema, come tu stesso sottolinei: un terzo di coloro che andranno a votare non ha ancora deciso. È dunque semplice dabbenaggine quella dei politici che calcolano il 50% più uno, necessario per vincere, come somma delle quote attuali dei partiti. Imbarcare Casini conta zero. Conta solo convincere quell’elettore su tre ancora indeciso. Contano perciò i (pochi) obiettivi programmatici, e la credibilità di chi governando promette di realizzarli. I nomi, per un “Papa protestante” non mancano: economisti, giuristi, giornalisti, scienziati, magistrati (niente imprenditori o finanzieri, per favore). Quanto al programma, ha ragione Michele Serra, la firma oggi più amata (dopo Altan) del giornale che hai fondato, quando sostiene che “la benzina politica e culturale per reagire al degrado... negli ultimi vent’anni è stata reperibile soprattutto nei movimenti della società civile” e che “il dramma del Pd è il suo moderatismo congenito”, mentre “con la fine del vecchio mondo bipolare serviva una nuova radicalità democratica”. Un’arancia è un’arancia. Realizzare la Costituzione, il programma già c’è. L’opposto di quanto il centrosinistra ha fatto nei suoi sette anni di governo. Se non era utopistico nel ’48, oggi dovrebbe essere addirittura ovvio. Non è perciò con alchimie partitocratiche, che finirebbero nel nulla dei veti reciproci e delle ambizioni incrociate, che si troverà il leader capace di unificare il “popolo della Costituzione”. Ma con un grande sommovimento di opinione pubblica (e di lotte e movimenti nella società civile), che metta capo a primarie vere, aperte, senza vantaggi per i candidati di apparato. Un sommovimento nel quale una testata come quella che hai fondato ormai giocherà un ruolo esplicito, dopo il tuo “endorsement” al Papa straniero. Repubblica è certamente un grande giornale. Pure, non solo Il Fatto rappresenta l’unico successo editoriale in una stagione di crisi, ma l’unica voce che sta coinvolgendo nuovi giovani lettori, ormai tutti in fuga verso il Web. Ecco perché conto che una tua risposta costituisca l’inizio di un più ampio e serrato confronto, che faccia da catalizzatore del sommovimento di opinione pubblica con cui – attraverso i giornali, i siti Internet, il mondo del volontariato, le lotte civili e sociali – potremo far uscire l’opposizione dal suo stato attuale di cronica minorità. (22 settembre 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/caro-eugenio-all-opposizione-serve-un-papa-protestante/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Orfani di leadership Inserito da: Admin - Settembre 22, 2010, 11:52:45 pm Orfani di leadership
La svolta impressa da Fini alla legislatura e l’assenza di una figura che unisca le diverse forze contro Berlusconi. Ecco una breve rassegna dell’appeal e delle magagne di ciascuna. di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2010 L’offerta politica d’opposizione non è mai stata così ampia, variegata, lussureggiante, eppure mai come ora il cittadino che si oppone a Berlusconi si è sentito tanto orfano di rappresentanza. Se questa lancinante contraddizione non viene sanata prima delle elezioni, Berlusconi vincerà di nuovo e realizzerà la trasformazione del suo attuale regime in un totalitarismo vero e proprio. Diverso da quelli del secolo scorso, postmoderno e luccicante, ma egualmente mostruoso. Oggi di opposizioni a Berlusconi (ciascuna con il suo leader) ne esistono almeno sei. Ecco una breve rassegna dell’appeal e delle magagne di ciascuna. L’opposizione oggi più rilevante, e sulla cresta dell’onda mediatica, è quella di Gianfranco Fini, a realizzazione del detto “gli ultimi saranno i primi”. Non si può però dimenticare che Fini era nella Genova del G8, durante la mattanza della caserma Diaz, e ha continuato a difendere i funzionari che per quell’abominio sono stati condannati in appello. A Mirabello Fini ha rivendicato come antecedente ideale Almirante (il “fucilatore Almirante”, non sono consentite amnesie) e fatto tributare l’ovazione a Mirko Tremaglia, volontario repubblichino non pentito (anzi). E ha continuato a sostenere che Berlusconi, fino a che è primo ministro, deve essere sottratto ai processi (un’opinione, benché aberrante e in contrasto con i richiami alla legalità) sul modello di altre democrazie europee (un fatto, ma falso). E tuttavia non sono pochi gli elettori tradizionalmente di sinistra (del Pd ma perfino di Rifondazione), che mai voterebbero Casini e che invece dichiarano che oggi, sic stantibus rebus, voterebbero Fini. Perché ha affermato senza troppi giri di frase che: Berlusconi ha una concezione proprietaria dello Stato, dunque agli antipodi di qualsiasi democrazia liberale; Berlusconi non capisce né la divisione dei poteri né il primato della legalità, che sono invece valori non negoziabili; Berlusconi usa i media per distruggere chi non si prostra ai suoi voleri; Berlusconi è uno stalinista. Fini insomma ha detto ciò che avrebbe dovuto dire qualsiasi oppositore. Lo dice con quindici anni di ritardo, ma nel Pd queste cose continua a non dirle nessuno. Il Pd, dunque, ovvero il maggior partito della (non) opposizione. Il suo vizio di fondo è tutto qui. Eppure continua a raccogliere un quarto abbondante dei consensi di quanti dichiarano che parteciperanno al voto. E che tuttavia non perdono occasione per far capire ai dirigenti del partito che vorrebbero una politica ben diversa, definitivamente scevra da inciuci. E si ritrovano invece a dover ingoiare, nella “loro” festa, la presenza degli Schifani, come fossero degli statisti. Ma sui vizi ormai strutturali del ceto politico del Pd, comprese le new entries che spesso fanno rimpiangere i bolsi burocrati delle generazioni che li precede (sembra impossibile, ma è così) è inutile dilungarsi. Questo giornale è costretto a farlo ogni giorno. Resta la divaricazione – crescente – tra dirigenti (nazionali, regionali, provinciali, di quartiere, fatte salve le eccezioni canoniche e sempre più da lanternino) e militanti, tra dirigenti e potenziali elettori. Che restano un patrimonio insostituibile per l’opposizione, anche se oggi è un patrimonio congelato o sperperato, grazie a quei dirigenti che non riescono a rovesciare e che non si decidono ad abbandonare. La riprova di questo scarto è la travolgente simpatia che accoglie e circonda Nichi Vendola nelle feste dell’Unità e in ogni occasione a forte presenza di base Pd. Simpatia meritata e significativa. Meritata, perché Vendola incarna un riformismo che rifiuta l’inciucio, e può esibire un buongoverno regionale introvabile nel sud e sempre più raro anche altrove (probabilmente la Toscana e l’Emilia, e poco più). Significativa, perché Vendola ha vinto le primarie contro il Pd, e anzi direttamente contro D’Alema, ma con i voti di gran parte del “popolo Pd”. È convinto di poter ripetere il risultato della Puglia a livello nazionale. Ma qui viene fuori la debolezza della sua “narrazione”, difficilmente in grado di riunificare tutti i motivi di opposizione positiva a Berlusconi. Non per troppa radicalità, sia chiaro, ma per troppa vaghezza, di programmi e di staff. In concorrenza con Vendola c’è inoltre Di Pietro. La sua opposizione è l’unica che in Parlamento abbia coerenza, e a questo si deve perciò il raddoppio (e oltre) di voti alle elezioni europee, ma tale coerenza viene poi contraddetta con le scelte in fatto di dirigenti locali, in genere primatisti della transumanza da un partito all’altro, veri e propri fari di opportunismo e di imenoplastica politica. Di recente, dopo l’ennesimo scandalo che ha portato all’abbandono da parte di un parlamentare per diatribe interne Di Pietro, immaginando di formulare una domanda retorica, ha esclamato: dovrei cacciarli tutti? E invece la risposta è “sì”, un rotondo SI’, perché solo liberandosi della gran parte dei dirigenti locali entrerebbero finalmente nell’Idv le energie dei nuovi elettori, nate nei movimenti di impegno civile, che lo schifo per i cacicchi locali tiene lontane dalla “militanza” nell’Idv. Resta l'opposizione di Grillo. Che però rifiuta programmaticamente alleanze possibili con chicchessia, nella convinzione che l’autoreferenzialità sarà il veicolo di un consenso al suo “movimento cinque stelle” tale da travolgere non solo Berlusconi ma ogni berlusconismo anche senza il ducetto di Arcore. Temo si tratti di un wishful thinking. Della sesta “opposizione”, quella “centrista”, quella di Cuffaro-Casini e di Rutelli-Montezemolo non vale davvero la pena parlare. Solo la stupidità ormai ciclopica dei dirigenti Pd può dare a tali figure un credito qualsivoglia. Dunque, sovrabbondanza di opposizioni, ma in realtà indigenza a tutt’oggi assoluta per la prospettiva di un’opposizione vincente. Alle sei figurine pubblicate ieri in prima pagina dovrebbe perciò essere aggiunto una casella bianca, un profilo vuoto con un punto interrogativo. Nessuno di quei sei leader può essere il leader che unifichi e porti alla vittoria una maggioranza “per la Costituzione”, i suoi valori e la sua realizzazione, che nel paese credo sia invece schiacciante. Come trovarlo, quel leader? Innanzitutto bisogna aver chiaro che non potrà nascere da alchimie partitocratiche. Troppo spesso si ragiona – con perfetta mancanza di realismo – come se i partiti fossero proprietari dei rispettivi pacchetti di voti. E dunque, il Pd più l’Udc fa... Invece i partiti prendono quei voti, ma da elettori totalmente disaffezionati (tranne ristrettissime clientele), elettori che non intendono affatto ubbidire alle manovre e agli accordi tra le varie oligarchie e nomenklature della casta. Elettori che il leader capace di sconfiggere se lo vogliono scegliere. Altrimenti molti di loro alle urne neppure ci andranno (il Pd in un pugno di anni ha perso qualcosa come cinque milioni di voti!). Ma questa non-rappresentatività dei partiti ha il suo lato positivo. Infatti ci sono incompatibilità fra gruppi dirigenti che non hanno un corrispettivo di incompatibilità tra gli elettori. Insomma, Bersani non riuscirà mai ad allearsi contemporaneamente con Di Pietro e con Casini, ma molti elettori di questi tre partiti non avranno alcuna difficoltà a unirsi sotto una leadership credibile per la realizzazione di un programma di “giustizia e libertà”. Perché quegli elettori, nella maggioranza dei casi, sono cittadini “senza collare”, senza fedeltà di appartenenze. La più estrema mobilità elettorale è oggi la costante. Le masse operaie di Sesto San Giovanni (la “Stalingrado d’Italia”!) sono passate a Forza Italia, alla Lega, poi di nuovo al centrosinistra, e magari schifate ora resteranno a casa. E la stessa cosa vale ormai ovunque nel Paese. Perciò il leader capace di unificare la voglia crescente e smisurata di archiviare per sempre il regime delle cricche e delle menzogne, non potrà che essere individuato fuori degli apparati, non potrà che venire dalla società civile, da un grande movimento e sommovimento di opinione pubblica. E infine, attraverso primarie vere. (10 settembre 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/orfani-di-leadership/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Il Giornale e la libertà di stampa Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2010, 09:23:13 am Il Giornale e la libertà di stampa
Per favore, non ci vengano a dire che la procura di Napoli minaccia la libertà di stampa! L’inchiesta che vede sotto accusa la direzione del Giornale non ha nulla a che fare con la libertà di stampa e tutto a che fare con ciò che nel linguaggio corrente si chiama ricatto e in linguaggio giuridico l’accusa di “concorso in violenza privata”. Che viene infatti rivolta dalla procura di Napoli a Sallusti e Porro, direttore e vicedirettore del Giornale. Un giornale ha il diritto, anzi il dovere – cui pochissimo ottemperano – di fare inchieste scomode per i potenti. Ma per pubblicarle, non per usarle ad altri scopi. Guardiamo perciò la sequenza degli eventi. Marcegaglia, presidente di Confindustria, pubblica sul Corriere della Sera un’intervista considerata come un duro attacco al governo Berlusconi. Parte un sms di Porro all’assistente di Marcegaglia, Renato Apisella, con un inequivocabile “Ciao Rinaldo domani super pezzo giudiziario sugli affari della family Marcegaglia”. Segue telefonata fra i due in cui Porro spiega “Adesso ci divertiamo per venti giorni romperemo il cazzo alla Marcecaglia come pochi al mondo!” e per fare buon peso aggiunge che non sta affatto scherzando. La Marcegaglia chiama il braccio destro di Berlusconi da una vita, Fedele Confalonieri, perché intervenga. Seguono nuove telefonate di Porro a Apisella, in cui propone: “Dobbiamo trovare un accordo perché se no non si finisce più, qui…la signora se vuole gestire i rapporti con noi deve saper gestire”. Specificando: “Quello che cercavo di dirti è che dobbiamo cercare di capire come disinnescare in maniera reciprocamente vantaggiosa, vantaggiosa nel senso diciamo delle notizie delle informazioni della collaborazione no”. Se fosse un telefilm si tratterebbe della famosa e definitiva “pistola fumante”. Ma Porro, sostenuto da Feltri, la butta in pochade. E’stato tutto uno scherzo per divertirsi alle spalle di Apisella. Alla Marcegaglia proprio uno scherzo non era sembrato, visto che fa mettere a verbale dalla procura di Napoli che “dopo il racconto che Arpisella mi fece, ho sicuramente percepito l’avvertimento di Porro come un rischio reale e concreto per la mia persona e per la mia immagine… “Il Giornale” e il suo giornalista hanno dunque tentato di costringermi a cambiare il mio atteggiamento … Non mi era mai capitato che un quotidiano ovvero qualsivoglia altro giornale tentasse di coartare la mia volontà con queste modalità per ottenere una intervista ovvero in conseguenza di dichiarazioni da me precedentemente rilasciate”. Ma visto che al “Giornale” dicono di essere giornalisti e basta, aspettiamo che pubblichino le venti puntate di inchiesta solennemente annunciate. Paolo Flores d'Arcais (7 ottobre 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-giornale-e-la-liberta-di-stampa/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Tiro alla Fiom, sport nazionale Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2010, 09:23:57 am Verso il 16 ottobre
Tiro alla Fiom, sport nazionale di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2010 La Fiom è sotto tiro, contro l’organizzazione dei metalmeccanici e contro i suoi dirigenti è iniziata una vera e propria campagna di criminalizzazione. Siamo ormai alle velate accuse di proto-terrorismo, mentre quelle di violenza e di squadrismo si sprecano. Il pretesto sono due episodi avvenuti a Roma e a Merate (provincia di Lecco) due giorni fa. Ma il “la” era stato già dato in precedenza dal Corriere della Sera con un articolo in prima pagina di Dario Di Vico (ex dirigente della Uil ed ex vicedirettore del quotidiano) dall’appetitoso titolo “La Fiom e la strategia delle uova”, nel quale si addebitavano senza tante distinzioni a Maurizio Landini e all’organizzazione che dirige la responsabilità di “ripetuti assalti alle sedi della Cisl” (a Treviglio e a Livorno). Ora, è ben noto che “le parole sono pietre” e parlare di “assalti a sedi sindacali” significa rievocare lo squadrismo di Mussolini che devastava con gli opimi finanziamenti degli agrari gli ultimi ridotti delle organizzazioni dei lavoratori. Ma tutto quello che è stato invece imputato ai lavoratori di Treviglio, perfino secondo la ricostruzione unilaterale della Cisl, è un lancio di uova dai trenta metri di “debita distanza” cui li teneva un cordone di polizia. Quale “assalto” si possa compiere in tali condizioni è più enigmatico della sfinge. Stessa storia per l’analogo episodio a Livorno. Quando la verità raccontata è di parte Quanto a Merate, “le cose sono andate in tutt’altro modo” come ha spiegato puntualmente il segretario generale della Fiom Lombardia, Mirco Rota (noto oltretutto come esponente dell’ala più moderata del sindacato): “Fosse vera l’irruzione nella sede Cisl, si tratterebbe di un atto gravissimo. Ma a Merate le cose sono andate in tutt’altro modo. Lo dicono i fatti, non la Fiom. Attorno alle 10, quattro lavoratori – tra i quali due delegati della Fiom – si sono presentati davanti alla sede della Cisl. Dopo aver preavvisato le forze dell’ordine, due di loro – sotto gli occhi della forza pubblica – sono entrati nei locali e hanno consegnato un volantino. Gli altri due sono rimasti all’esterno. La storia è finita. Non abbiamo altro da aggiungere, se non il nostro profondo dissenso verso qualunque forma di protesta non civile, sbagliata e dannosa”. A Roma, poi, l’estraneità della Fiom alle scritte che hanno imbrattato la sede Cisl è addirittura conclamata, visto che tali scritte sono firmate “Action diritti in movimento” (sigla enigmatica, ma certamente non Fiom) e che Maurizio Landini ha condannato “con la più netta contrarietà gli episodi di intolleranza che hanno interessato sedi della Cisl”. (Poiché, aggiungiamo noi, ogni gesto di violenza è demenza). Perché allora questa insistenza insensata – attenendosi ai fatti sul clima di violenza e squadrismo che verrebbe alimentato dalla Fiom? In realtà, il motivo per cui è iniziata la campagna di criminalizzazione contro il sindacato metalmeccanico era stato “confessato” nell’articolo di Di Vito: i dirigenti Fiom sono refrattari a piegarsi alle “relazioni industriali orientate alla collaborazione”, nel senso preteso da Finmeccanica e Confindustria secondo il ben noto e anticostituzionale diktat Marchionne. Ecco perché Landini, Cremaschi e gli altri dirigenti Fiom vengono accusati di “surriscaldare la temperatura in fabbrica”, come se non fossero Marchionne e Sacconi e la loro politica selvaggiamente anti-operaia a far salire la tensione. Ecco perché vengono accusati di voler impedire che si firmino i contratti di altre categorie, come se non si trattasse esattamente dell’opposto: la Fiom non rifiuta né la contrattazione né il suo esito positivo (un sindacato fa questo per mestiere), rifiuta invece che l’esito delle prossime vertenze segni un arretramento delle condizioni dei lavoratori di oltre mezzo secolo, arretramento tale da far rimpiangere addirittura la politica anti-sindacale dell’ingegner Valletta. Quanto all’accusa contro la Fiom di “presentare Raffaele Bonanni come il nuovo campione del sindacalismo giallo”, non sono certo i dirigenti metalmeccanici a farlo, sono semmai molti lavoratori a pensarla così. La criminalizzazione secondo Di Vico Infine la Fiom va criminalizzata perché, come sottolinea Di Vico, sta diventando il punto di riferimento e di aggregazione di altri settori sindacali, anche non operai, quello del pubblico impiego e soprattutto quello della scuola. Insomma, la Fiom va criminalizzata perché potrebbe diventare il modello di un sindacato che lotta, pensate un po’! Eppure proprio di questo hanno bisogno i lavoratori, le cui condizioni salariali e normative hanno conosciuto un peggioramento tragico proprio mentre cricche di grassatori e di evasori prosperano con redditi (illegali) a sei zeri. Proprio di questo, anzi, ha bisogno l’intero Paese. Infine, non è certamente un caso – anzi è una sincronia evidente – che la campagna di criminalizzazione del sindacato di Maurizio Landini (“che fa rima con la vecchia segreteria di Rinaldini”, accusa Di Vito, come se Rinaldini non fosse ancor oggi il miglior candidato alla segreteria generale della Cgil, come se il passaggio dalla segreteria Fiom a quella Cgil non fosse stata la norma in tutti i decenni della “grandezza” del sindacato fondato da Di Vittorio) si apra quando mancano pochi giorni alla manifestazione Fiom del 16 ottobre a Roma, attorno a cui si sta mobilitando – per la liberazione dal regime di Berlusconi-Marchionne e per la realizzazione della Costituzione – l’intera società civile, dai cristiani di base ai precari della scuola, dalle associazioni antimafia ai gruppi viola. Una manifestazione a cui hanno aderito Altan e Tabucchi, Sabina Guzzanti e Ascanio Celestini, Moni Ovadia e Corrado Stajano, Sonia Alfano e Luigi De Magistris, Furio Colombo e Pancho Pardi, Gianni Vattimo e Lidia Ravera, Giorgio Parisi e Carlo Lizzani, Giuliano Montaldo e Valerio Magrelli, per non parlare di don Mazzi, don Farinella, don Barbero, don Fiocchi, don Sudati, don Fiorini, don Antonelli... La Fiom non è affatto isolata. Sono anzi certo che la mobilitazione dell’Italia civile accanto e in sinergia con la Fiom crescerà ancora, anche per rispondere alla criminalizzazione di cui viene fatta oggetto. (8 ottobre 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/tiro-alla-fiom-sport-nazionale/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Le contraddizioni di Bersani e Galli della Loggia Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2010, 09:08:54 am Le contraddizioni di Bersani e Galli della Loggia
Per una bizzarra sincronia, ieri tanto Bersani quanto Galli della Loggia hanno sferrato un durissimo attacco alla logica e alle sue regole più elementari. Il primo lo ha fatto in una intervista a “la Repubblica” dedicata alla manifestazione Fiom, il secondo con un editoriale del “Corriere della sera” dedicato a Berlusconi. Bersani sostiene che il Pd deve stare sia con la Fiom che con Bonanni. Solo che Bonanni ha concluso la manifestazione Cisl a piazza del Popolo (quattro gatti) al marchionnistico grido di “dieci, cento, mille Pomigliano!”, Landini quella della Fiom (un mare incontenibile di operai e cittadini) chiedendo lo sciopero generale contro il “modello Pomigliano”, proponendo il salario sociale, l’obbligo per legge che ogni contratto venga approvato (o respinto) dal voto della base operaia, e il contratto nazionale unico per grandi comparti (industria, commercio, ecc.), cioè l’opposto della frammentazione contrattuale che tanto piace alla marchionnistica combriccola Bonanni, Sacconi e altri Angeletti. Bersani dovrebbe leggersi almeno un verso di padre Dante per sapere che non può cavarsela con la solita chiacchiera ecumenica, non può tenere insieme la strategia Fiom e la capitolazione Bonanni, “per la contradizion che nol consente”, Inferno, canto XXVII, v.120, cerchio dei “fraudolenti”. Galli della Loggia si toglie invece il prosciutto dagli occhi e spiega ai suoi lettori – con soli sedici anni di ritardo – che “il Pdl (così come prima Forza Italia) … nel caso migliore è una coorte di seguaci ciechi e muti scelti inappellabilmente dal capo; nel caso peggiore una corte d’intrattenitori, nani, affaristi, ballerine, di addetti alle più varie intendenze”. Di modo che “l’operazione storica di sdoganamento della destra compiuta da Berlusconi nei confronti del sistema politico italiano… rimasta per sua stessa colpa a metà … rischia dunque di finire con Berlusconi”. A Galli della Loggia non passa neppure per la testa che la destra sdoganata da Berlusconi è proprio quella degli “affaristi”, delle cricche degli appalti, dell’impunità per le ruberie, degli scudi fiscali, insomma la destra di Mackie Messer, tanto è vero che Fini sente la tentazione di rompere (quanto ai “nani e ballerine” di cui parlava Rino Formica a proposito del Psi di Craxi, rispetto alle Brambilla e agli Alfano, insomma al personale politico “sdoganato” da Berlusconi, fanno ormai la figura dei giganti). Ammonisce ineffabile Galli della Loggia che quella di Berlusconi fu “un’operazione storica: riconoscerlo è un obbligo di obiettività che anche la sinistra sarebbe ora sentisse”, peccato che per il momento sia rimasta a metà. Figuriamoci se dovesse riuscire fino in fondo. Paolo Flores d'Arcais (19 ottobre 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-contraddizioni-di-bersani-e-galli-della-loggia/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. La Piazza Fiom: cosa viene dopo Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2010, 09:09:42 am La Piazza Fiom: cosa viene dopo
di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2010 Per capire se la manifestazione della Fiom di sabato sia stata solo un grande successo o costituisca invece una potenziale svolta storica per la vita politica e sociale del paese è necessario approfondire cinque punti: dimensioni numeriche della partecipazione, strategia sindacale radicalmente alternativa avanzata dal segretario Fiom Landini, capacità o meno di unificare lavoratori occupati con disoccupati e precari, capacità di unificare lotte sociali e lotte civili, implicita necessità di una proiezione politica di tutto ciò. COMINCIAMO dai numeri. I mass media non hanno potuto disconoscere il successo, ma ne hanno oscurato sapientemente le dimensioni, che sono state invece del tutto fuori dell’immaginabile. Eppure tutti i giornalisti hanno visto quello che Luca Telese ha puntualmente raccontato ai lettori de Il Fatto: dopo quattro ore di manifestazione, quando durante l’ultimo discorso, quello di Epifani, molta gente cominciava a tornare a casa, via Merulana era gremita dal corteo, la cui coda doveva ancora muoversi da piazza Esedra. Ma gli altri giornalisti si sono ben guardati dal riferire la circostanza ai rispettivi lettori e telespettatori. Perché ciò avrebbe implicato il riconoscimento che neppure il Circo Massimo sarebbe stato sufficiente per quel mare di dimostranti. E poiché la manifestazione di otto anni fa al Circo Massimo con Cofferati era stata riconosciuta come la più grande nella storia della nostra Repubblica ... Quella dei numeri non è dunque questione filologica o maniacale. Se la dimensione della manifestazione non fosse stata occultata, se ci fosse stata una diretta, con le canoniche riprese dall’alto, tutti sarebbero oggi costretti a discutere sulla “scandalosa” capacità di consenso di una forza sindacale data come “isolatissima” e sul carattere di punto di riferimento generale e nazionale che la sua piattaforma “radicale” si è conquistato. PERCHÉ è verissimo che Maurizio Landini ha fatto un discorso privo di divagazioni ideologiche, da leader sindacale tutto concretezza, ma proprio in questa concretezza sono ritornate parole ormai scomparse da anni presso i vertici della Cgil, come “ribellione” e “sfruttamento”, ed è stata delineata una linea sindacale organica e alternativa su almeno tre questioni: primo, la contrattazione deve sempre più andare in direzione di grandi contratti nazionali, addirittura per compartimenti produttivi (industria, commercio, ecc.) anziché per categorie (metalmeccanici, chimici, tessili, ecc.). Questo significa che un contratto nazionale dell’industria è il minimo vincolante per tutti gli imprenditori, senza possibilità di deroghe, poiché le uniche ammesse saranno quelle migliorative dei contratti integrativi settoriali o locali. Con il che siamo agli antipodi del modello Pomigliano, siamo allo scontro frontale con Finmeccanica e Confindustria, siamo alla rottura con Bonanni che grida “dieci, cento, mille Pomigliano”. SECONDO, la proposta di un salario “di cittadinanza” per tutti, che dunque vada oltre la cassa integrazione, che tuteli in radice il disoccupato. Novità radicale nelle strategie sindacali italiane, fin qui sempre sospettose sul tema, che invece in gran parte dei Paesi d’Europa è conquista storica irrinunciabile (accettano solo che si discuta come rafforzarla evitando al contempo alcuni possibili effetti perversi di “disoccupazione volontaria”). Proposta accompagnata a quella del salario minimo per tutti i comparti produttivi, alla impossibilità che il lavoro precario venga remunerato meno di quello fisso, alla distruzione della frammentazione contrattuale nella stessa fabbrica tra chi dipende dall’azienda, dalla “cooperativa” di un subappalto, ecc. Anche qui siamo esattamente agli antipodi del modello che invece governo e padroni (parola che alla Fiom si usa ancora) pretendono venga accettato come necessità “obiettiva” imposta dalla globalizzazione. TERZO, l’obbligo (addirittura per legge) della democrazia contrattuale, cioè del voto della base dei lavoratori su qualsiasi contratto, nazionale o integrativo. Il che significa l’impossibilità di firmare contratti separati con Cisl e Uil e il dovere di lasciare ai lavoratori l’ultima parola anche per vertenze concluse con la firma unanime dei sindacati. Una vera e propria “rivoluzione copernicana” che ricrea le premesse per una unità dal basso, radicata negli interessi dei lavoratori e che batterebbe in breccia gli interessi di burocrazie sindacali troppo impegolate con l’establishment. È questa strategia alternativa ad essere stata consacrata dall’inaudito successo della manifestazione di sabato. È su queste posizioni di sindacalismo innovativo che è stato “incoronato” Maurizio Landini. Non perché “radicali” ma perché le posizioni del gruppo dirigente Fiom hanno dimostrato di essere le uniche a poter unificare tutto il mondo del lavoro occupato (non a caso a riconoscersi nella lotta dei metalmeccanici c’erano dalle tessili dell’Omsa ai chimici di Porto Torres), cioè a realizzare come dirigenti metalmeccanici quello che dovrebbe essere il compito della Cgil. MA LA STRATEGIA della Fiom si è dimostrata anche l’unica capace di parlare ai precari e ai disoccupati, compiendo quello che sembrava un impossibile miracolo: colmare tra lavoratori “garantiti” e non, un fossato che sembrava destinato inesorabilmente ad accrescersi fino a diventare baratro anche esistenziale. Questa è forse la novità più carica di conseguenze e la meno evidenziata: il sindacato storico dell’industria più “fordista” che si dimostra capace di unificare sotto la sua egida (“egemonia”, verrebbe da dire, ma di tipo davvero nuovo) i lavoratori del precariato post-moderno, raccontati come individualisti strutturalmente refrattari alla dimensione delle lotte solidali. LA CAPACITÀ di difendere “interessi generali” proprio dando respiro strategico alla difesa dei lavoratori che direttamente si rappresenta è da sempre il “salto mortale” che a pochissime organizzazioni sindacali storicamente riesce. Ma la Fiom sabato è riuscita a fare perfino di più: ha dimostrato come possano essere unificate le lotte sociali, di cui il sindacato è istituzionalmente protagonista (o almeno dovrebbe), con le lotte per obiettivi di civile progresso, per diritti civili individuali e collettivi. Aprendo con ciò una prospettiva davvero inedita, che non era riuscita neppure alla Cgil di Cofferati nel suo momento di massima capacità rappresentativa. Non si tratta solo di avere dato spazio al movimento per l’acqua pubblica e al pacifismo attivo di Emergency, ai movimenti contro le mafie e al dovere dell’antirazzismo nella sinistra ufficiale completamente edulcorato (per usare un eufemismo), alle lotte degli studenti e alle necessità della ricerca scientifica, ma di averlo fatto indicando una serie di obiettivi irrinunciabili per il movimento sindacale in quanto tale e che – radicate nella concretezza sindacale – costituiscono già una SFIDA POLITICA. Di questo infatti si tratta, quando il segretario del sindacato metalmeccanico decide di porre DIGNITÀ e LEGALITÀ come temi cruciali della rivendicazione operaia e li correda con la richiesta che meno tasse per i salari dei lavoratori dipendenti vengano com-pensati da “più tasse per i ricchi”. ECCO PERCHÉ, nella manifestazione più inequivocabilmente OPERAIA da molti anni a questa parte, si è avuta la partecipazione massiccia di settori consistenti di piccola e media borghesia, di quel mondo “moderato” che tutti dicono di voler rappresentare, scambiando l’essere moderati con l’essere affascinati dalla nullità dei Montezemolo o dai politicantismi dei Casini (che i voti li prendeva grazie ai Cuffaro). LA LEZIONE della Fiom è dunque anche quella di uno straordinario realismo, che conferma come solo la strategia della intransigenza rispetto ai valori costituzionali sia capace di allargare le alleanze sociali. Fino ad ora avevamo una riprova per negativo: ammiccando alla destra i consensi dei “moderati” non si conquistavano affatto. Ora abbiamo, grazie alla Fiom, la cartina di tornasole in positivo: una politica bollata come “radicale” o addirittura “estremista” non isola affatto, anzi consente di trascinare con sé strati sociali che si stavano perdendo nell’apatia e nella rassegnazione. Per dirla nel modo più semplice, il gruppo dirigente della Fiom ha dimostrato cosa voglia dire praticare davvero una “vocazione maggioritaria”. QUALSIASI politica sindacale ha necessità di una sua proiezione politica. Quella della manifestazione di sabato più che mai, visto che entra in rotta di collisione con la pretesa “oggettività” della globalizzazione e dunque esige una sovranità popolare che non sia succube della “libertà” di derubare la famosa “azienda Italia” di interi impianti industriali, trasferiti in qualche Serbia per avidità di iperprofitti aggiuntivi. Ma con ciò arriviamo all’ultima questione, che dovrà essere affrontata in un altro articolo. Qui possiamo solo fissare i termini ineludibili dell’interrogativo: dai partiti del centrosinistra attualmente esistenti non può venire la risposta politico-elettorale non solo necessaria ma ormai improcrastinabile. E meno che mai potrà venire dal qualunquismo con cui Beppe Grillo sta ibernando nell’avvitamento del “vaffa” le energie giovanili degli elettori “cinque stelle”. Bisognerà che le forze più consapevoli della società civile, in primo luogo le testate giornalistiche della carta e del Web, riescano a inventare modalità fin qui inesplorate per risolvere l’equazione della democrazia. (20 ottobre 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-piazza-fiom-cosa-viene-dopo/ Titolo: Flores d’Arcais: Di Pietro porta l’Idv al suicidio Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2010, 11:25:55 pm Idv e questione morale, Flores d’Arcais: “Di Pietro porta l’Idv al suicidio”
di Alessandro Calvi, da Il Riformista, 24 dicembre 2010 Paolo Flores d’Arcais, allora, c’è o no una questione morale nell’Italia dei Valori? Sì. E a differenza di voi del Riformista guardo alla cosa con grande preoccupazione perché la crisi dell’Italia dei Valori indebolisce quel che resta della democrazia nel nostro Paese. E di chi è la responsabilità di questa crisi? La responsabilità è sempre di chi ha più peso, quindi nell’Idv è di Antonio Di Pietro. Ma si può condividere o è soltanto sua? Sua. Flores d’Arcais, filosofo e direttore di MicroMega, si riferisce al manifesto “L’Idv e la questione morale”, firmato da Luigi De Magistris, Sonia Alfano e Giulio Cavalli. Si tratta di nomi di peso, slegati dalla “vecchia politica” e che rappresentano l’ala più movimentista del partito. Citando Enrico Berlinguer, i tre partono dal caso Scilipoti-Razzi e chiedono «una brusca virata». «Abbiamo un patrimonio da cui ripartire - scrivono - ed è quella “base” pensante e operativa, che non ha timore di difendere a spada tratta il suo leader Di Pietro ma nemmeno di rivolgersi direttamente a lui per chiedere giustizia e legalità all’interno del partito “locale”». Quando nasce la crisi dell’Idv? Nasce con il successo alle europee. Raddoppia i voti perché inserisce candidature di grande valore simbolico, De Magistris e Alfano in primo luogo, che aprono ai movimenti della società civile. A quel punto Di Pietro ha solo due strade: consentire che i nuovi elettori possano fare irruzione anche nel partito in quanto militanti, o illudersi di continuare ad accrescere la messe elettorale mantenendo gruppi dirigenti locali spesso di provenienza Udeur e comunque adusi alla transumanza politica e del tutto estranei alle lotte radicali della società civile, fatte salve le solite eccezioni. E lui ha scelto la seconda strada. Lo dimostra in primo luogo l’ultimo congresso dell’Idv, un’autentica parodia di democrazia. I “tradimenti” sono solo l’ovvia conseguenza di un partito il cui ceto politico locale, per benedizione e volontà di Di Pietro, è ancora largamente mastelliano. La transumanza è terminata o invece il rubinetto potrebbe riaprirsi? Dati i personaggi, potrebbe aprirsi ancora, in qualsiasi momento. Ritiene che vi sia un problema soltanto di calsse dirigente o anche di scelte e di linea politica? C’è problema di struttura del partito, non di linea politica. Il tanto deprecato giustizialismo di Di Pietro è invece l’unica forza di questo partito (semmai è quello che manca al Pd). Questo comporta però uno scarto ormai diventato abisso fra una linea politica sacrosanta di opposizione frontale al regime e una conduzione del partito a livello nazionale e locale che la contraddice radicalmente. Cosa dovrebbe fare allora Di Pietro? Quello che avrebbe dovuto fare dopo le elezioni europee con il congresso: un grande big bang che rifondasse l’Idv con i movimenti derla società civile. È questo che chiede quel manifesto? Sì. Mi domando però se ormai non sia già troppo tardi. Siamo di fronte a una rottura? La risposta di Orlando, Donadi e Pedica - che, fatte le debite proporzioni, ricorda alla lettera l’atteggiamento del Pci nei confronti dei dissidenti del manifesto - fa pensare che Di Pietro voglia andare al suicidio. Senza gli elettori conquistati dalle candidature di movimento tornerebbe verso un innocuo 3 o 4 per cento. Lei era stato il primo a porre certe questioni. Errare humanum, perseverare diabolicum. Con un Idv che si avvia al suicidio e il Pd che è qullo che è, che scenario si apre? Quello di un regime in decomposizione che punta ormai a misure fasciste per sopravviere. E di una opposizione vera che ormai esiste solo nel paese e nelle sue lotte, quelle dei metalmeccanici Fiom come due mesi fa, e quelle degli studenti in questi giorni. (24 dicembre 2010) http://temi.repubblica.it/micromega-online/idv-e-questione-morale-flores-darcais-di-pietro-porta-l%E2%80%99idv-al-suicidio/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Un sindaco Fiom per Torino. Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2011, 11:19:46 am Sì ai diritti, No ai ricatti
Un sindaco Fiom per Torino. Le opposizioni dovrebbero riconoscere nel sindacato un alleato contro il berlusconismo di Paolo Flores d’Arcais, Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2011 Per vincere un referendum basta un voto oltre il 50 per cento. Ma quello di Mirafiori non era un referendum. Doveva essere un plebiscito. Un plebiscito ottenuto col ricatto, anzi con la rappresaglia preventiva di massa: se vince il No siete licenziati tutti, perché portiamo via la Fiat da Torino. I “sindacati di comodo” avevano perfino fissato l’asticella dell’umiliazione che avrebbe dovuto annientare la Fiom: un 80 per cento di Sì. Sappiamo come è andata. Il Sì ha ottenuto il 54%, ma solo grazie al voto dei quadri e impiegati (che hanno approvato i sacrifici di chi sta alla catena, non i propri!). Fra gli operai avrebbe prevalso di nove voti, e nei reparti dove il diktat si applicherà davvero, lastratura e montaggio, ha vinto nettamente il No. Questo risultato, comunque modestissimo per la volontà di potenza di Marchionne, è stato ottenuto non solo con l’immondo ricatto di rappresaglia preventiva che abbiamo ricordato, ma con il linciaggio morale che additava nei lavoratori delle carrozzerie i responsabili dei licenziamenti di massa dell’indotto (cinque per ogni licenziato Fiat, si diceva, con linguaggio da decimazione), con l’intimidazione vera e propria ai sindacalisti Fiom che distribuivano volantini (“se vince il No veniamo in massa a casa tua, perché ci dovrai mantenere tu”), con il dispiegamento di tutta la potenza di fuoco mediatica di un regime che si è immediatamente riconosciuto nella prepotenza anti-operaia di Marchionne (il Dna anticostituzionale non è acqua). E con l’ostilità puntuale e masochistica del maggior partito di opposizione (presunta), che si è bensì diviso, ma tra l’infamia del “sì a Marchionne senza se e senza ma” di un puffo rottamatore in foia di carriera, di un sindaco di Torino appiattito sullo slogan padronale degli anni Cinquanta (“ciò che va bene per la Fiat va bene per l’Italia”) e lo slalomismo ponziopilatesco dei big del partito, che comunque “se fossi un operaio Fiat voterei Sì”. Per non parlare della Cgil e del suo neosegretario generale, Susanna Camusso, che ha bensì alzato la voce contro Marchionne, ma solo in zona cesarini e nel disfattismo di uno sciopero generale rifiutato, benché il suo predecessore e sponsor Epifani lo avesse promesso (a nome della Cgil, non suo personale) a un milione di manifestanti Fiom il 16 ottobre in piazza san Giovanni. Il risultato del voto è perciò questo: Marchionne non ha più alibi, deve mantenere la solenne promessa dell’investimento annunciato, e articolarla nel piano industriale fin qui custodito come un ennesimo segreto di Fatima. Mentre la Fiom, isolata e aggredita – anche nel mondo del centrosinistra che pure dovrebbe vivere quel sindacato come una propria costola – dimostra non solo di essere in modo schiacciante il sindacato più rappresentativo dei lavoratori, ma raccoglie anche rispetto e consenso crescenti, in modo esponenziale, nella società civile democratica. L’organizzazione di Landini, di Airaudo, di Cremaschi, dimostra di avere la capacità di difendere i sacrosanti diritti degli operai che rappresenta, e al contempo di difendere gli interessi generali costituzionali, a repentaglio definitivo nella convergenza a tenaglia tra concezione padronale dello Stato del Putin di Arcore e concezione aziendale “credere obbedire produrre” dell’italiano di Detroit. Perché, come è evidente a chi conosca appena le tabelline, il diktat di Marchionne non nasce da calcolo economico. È stato lui stesso, qualche anno fa, a dichiarare che il costo del lavoro incide nel prodotto Fiat per un modestissimo 7%. Se dunque ora gli operai alla catena verranno spremuti anche un 5% in più (il che per la qualità della loro vita sarà tremendo), la competitività dell’auto modello Marchionne aumenterebbe dello 0,35%. Tre o quattro decine di euro per vettura. Niente, insomma. Marchionne non mirava in primo luogo a prodotti più competitivi, ma all’annientamento della Fiom, al dominio in fabbrica senza possibilità di contestazione organizzata e organizzabile, alla “obbedienza pronta, cieca e assoluta” degli operai, ora e sempre, nei confronti delle mutevoli esigenze del padrone. È quello che NON ha ottenuto. La Fiom è più forte che mai. E lo scontro sul diktat Marchionne, ormai presentato come il modello di tutte le relazioni industriali e anche di quelle costituzionali (“Marchionnizzare l’Italia” è il titolo ormai quasi quotidiano dell’apertura del “Foglio” di Giuliano Ferrara), non può che spostarsi a livelli più generali. Nelle fabbriche, con lo sciopero nazionale dei metalmeccanici del prossimo 28 gennaio. E nel paese, nella politica, nelle vicende elettorali. Perché, se lasciati soli, alla lunga (e anche alla breve, purtroppo), gli operai saranno sconfitti, e con loro i precari, e gli studenti, e tutti i democratici. Ma se le opposizioni riconosceranno nella Fiom la punta di diamante dell’Italia che può risorgere dalle macerie cui l’ha ridotta il berlusconismo, la “vittoria” più che dimezzata di Marchionne potrebbe inaugurare la caporetto anche di Berlusconi. Ecco perché sarebbe auspicabile, e anzi necessario, che un sindacalista Fiom si candidasse alle primarie di Torino contro lo spento e subalterno Fassino, per sconfiggere poi il berlusconian-leghista d’ordinanza. Il nome, sotto la Mole, lo conoscono tutti. (16 gennaio 2011) http://temi.repubblica.it/micromega-online/un-sindaco-fiom-per-torino/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Gioie del sesso e devoti di regime Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2011, 10:50:27 pm Rubygate
Gioie del sesso e devoti di regime di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto quotidiano, 12 febbraio 2011 “In mutande ma vivi” è l’esibizionistico titolo che Giuliano Ferrara ha voluto dare alla manifestazione indetta “contro il moralismo puritano e ipocrita” di chi si ostina a pensare che il comportamento di Berlusconi sia incompatibile con i requisiti minimi di un politico (“statista” sarebbe parola grossa) delle liberaldemocrazie occidentali. L’iniziativa si svolgerà questo pomeriggio a Milano al Teatro Dal Verme, nome perfettamente propiziatorio e provvidenzialmente adeguato (dappoiché nomina sunt consequentia rerum). Lo scopo dell’adunata di cotanta goliardia tristemente appassita nel servo encomio di “Lui Culomoscio” (definizione di una fan e pupilla del medesimo – la classe non è acqua – non di esecrabili “azionisti”) è fornire ai minzolini di tutte le testate di regime l’occasione per svillaneggiare in anticipo la manifestazione promossa da alcune donne, non certo in nome del moralismo e nemmeno della moralità, ma della necessità di una seppur minima decenza nel comportamento sulla scena pubblica (che del resto è richiesta dall’articolo 54 della Costituzione – anche per questo invisa alle cheerleader di Forza Arcore? – che recita: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”). Manifestazione che domenica dilagherà in decine e decine di piazze con centinaia di migliaia di partecipanti, nel minimalismo dei pennivendoli di regime. Del resto, la manifestazione “Dal Verme” è solo il diapason di una campagna che la setta dei libertini devoti, falsamente libertini ma effettivamente devotissimi al già menzionato “Lui C.”, va sviluppando da mesi sul superdeficitario Foglio (malgrado i milioni elargiti ogni anno dal governo e pescati nelle tasche degli irrisi non-evasori), e che ha segnato una trafelata accelerazione da quando Ilda Boccassini, Pietro Forno e Antonio Sangermano, hanno doverosamente aperto un’inchiesta per una concussione platealmente rivelata dal medesimo “Lui” – altresì “utilizzatore finale” (l’espressione è del suo avvocato onorevole Ghedini) di una prostituta, questa volta minorenne – con una telefonata alla Questura di Milano (su una linea ufficiale che registra): per ottenere, grazie al peso della sua carica, una “altra utilità”, cioè l’indebito rilascio della minorenne che avrebbe potuto inguaiarlo. Il manipolo dei finti libertini di Giuliano Ferrara vuole infatti da mesi far credere che gli avversari (soprattutto le avversarie) del regime liberticida di Berlusconi, in gioventù sessantottina teorizzanti e talvolta anche praticanti “porci con le ali” delle gioie della liberazione sessuale, si siano trasformate/i in occhiuti bacchettoni e laide beghine e vogliano imputare a “Lui”, in sinergia con i “guardoni” delle procure, quanto vorrebbero ancora ma non possono. Invidia e risentimento, insomma, altro che legalità e moralità. Ferrara e la sua coorte di devotissimi di “Lui” sanno benissimo di mentire per la gola. Ma con la cassa di risonanza di un controllo televisivo quasi totalitario è molto facile far diventare bianco il nero. Contano su questo, sull’incubo orwelliano della neolingua sontuosamente realizzato da “Lui-con-quel-che-segue”. E invece. Libertari e garantisti siamo rimasti (e libertini talvolta, ma questa è irrinunciabile privacy). Libertari: pensiamo che in fatto di sesso, tra adulti consenzienti, di tutto e di più. Adulterio, masturbazione, orge, sadomasochismo, uso di pornografia e “gadget” sessuali, scambio di coppie, prostituzione, financo sesso con animali (se non si dà luogo a maltrattamento), e chi più ne ha più ne metta, il tutto sia in chiave etero che omo che transessuale. Nessuno, magistrato o giornalista che sia, in questa sfera privata deve poter mettere becco. Le righe che precedono le ho scritte oltre un mese fa, sul sito del Fatto (quasi duecentomila visitatori al giorno), e gli unici dissensi sono stati di qualche lettore animalista. Bacchettoni e beghine, si tranquillizzi il devotissimo Ferrara, non albergano da queste parti. Quanto alla tutela della privacy, noi giustizialisti-giacobini-girotondini-azionisti (sempre e comunque trinariciuti nel nostro affetto per la Costituzione nata dalla Resistenza), siamo più rigidi della Comunità europea, per non parlare degli Usa (“che hanno sempre ragione” secondo il lapidario servilismo di “Lui”, prono-americano solo se si tratta di guerre) dove la tutela della privacy della persona pubblica è per legge infinitamente minore di quella del privato cittadino. Noi no. Noi pensiamo che debba essere la stessa, catafratta, e che solo il politico possa stabilire le eccezioni che lo riguardano. Se fa della difesa della famiglia un tema per ottenere consensi, legittima qualsiasi domanda o inchiesta sulle proprie infedeltà. Se si dedica a campagne contro i gay non può invocare la privacy qualora si scopra un suo penchant omosessuale, se propone leggi draconiane contro la prostituzione (clienti compresi) ogni sua utilizzazione di prostituta diventa fatto pubblico, se dichiara che certe cose non le ha mai fatte, anziché limitarsi al secco “fatti miei”, rende legittima la curiosità giornalistica sull’eventuale menzogna. Altrimenti no. Chiaro il criterio, devotissimo Ferrara? Quanto alla gioiosa libertà sessuale: cosa c’entra il sesso libero, che è condiviso e reciproco piacere per il piacere (o per amore, o per curiosità, gioco, sperimentazione...) con l’acquisto a ore di un corpo, o di un’infornata di corpi, mossi non già da gioiose voglie ma da “danaro o altra utilità”, auri sacra fames capace di compensare lo schifo, confessato pre e post alle amiche, per le carni in smottamento alla cui virilità chimico-meccanicamente artefatta devono dedicarsi? Se non capisci la differenza lascia perdere, devotissimo Ferrara: non parlare di cose che non conosci. (12 febbraio 2011) da - temi.repubblica.it Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. La Chiesa simoniaca di Ratzinger, Bertone e Bagnasco Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2011, 03:30:51 pm La Chiesa simoniaca di Ratzinger, Bertone e Bagnasco
La Chiesa simoniaca di Ratzinger Bertone e Bagnasco sabato ha riscosso il suo prezzo: il forsennato attacco di Berlusconi alla scuola pubblica (“travisato”, ovviamente: peccato ci sia la registrazione video), dopo che il suo governo ha coperto la scuola clericale d’oro e altre utilità. E’ il prezzo dell’indulgenza, per il silenzio della Chiesa gerarchica sulle colpe di Berlusconi, l’ultima delle quali è il sesso (oltretutto posticcio): ben più gravi lo spergiuro, i furti delle cricche, l’odio contro i diversi e gli ultimi. Il prezzo dell’indulgenza: siamo tornati, cioè, alla vendita delle indulgenze, un regresso di alcuni secoli, altro che prima del Concilio di Papa Roncalli. La Chiesa simoniaca, appunto. Possibile che contro la deriva anticristiana della Chiesa di Ratzinger Bertone e Bagnasco, che ha accompagnato sistematicamente gli scandali del regime di Berlusconi, fin qui si abbia notizia di una sola iniziativa pubblica del mondo cattolico? Quella presa dal “Centro giovanile Antonianum” e che ha raccolto nel silenzio dei media ormai oltre mille adesioni su https://sites.google.com/site/anchenoiabbiamounsogno/home. Dove si dice: “Siamo convinti che come cristiani non si possa più tacere di fronte a quanto sta accadendo nel nostro paese'”. E amaramente aggiunge: “Un giorno chi guida la Chiesa in Italia riuscirà a denunciare i comportamenti inaccettabili con chiarezza e determinazione, perché avrà come unico interesse l'annuncio della Buona Notizia. In situazioni come quelle odierne, dirà che chi offende ed umilia le donne in modo così oltraggioso non può governare un paese. Dirà che coinvolgere minorenni in questo mercato sessuale è, se possibile, ancora più sconcertante. Dirà che chi col denaro vuol comprare tutto, col potere vuol essere al di sopra delle leggi, con i sotterfugi evita continuamente di rendere conto dei propri comportamenti, costui propone e vive una vita che è all'opposto di quanto insegna il nostro maestro Gesù. Per evitare ambiguità dirà chiaramente che questa persona è il nostro Primo Ministro”. Possibile che i tanti gruppi, purtroppo fra loro divisi, di cattolici cristiani, epperciò laici, non trovino il modo di comunicare, coordinarsi, unirsi? Il sito www.micromega.net mette a loro disposizione la sezione “altra chiesa” per-ché questo mondo di credenti democratici cessi di essere una “Chiesa del silenzio”, e pubblicizza intanto il sito dell’appello dell’Antonianum perché tutti i credenti refrattari a un cattolicesimo di “scribi farisei e sepolcri imbiancati” lo inondino di firme. https://sites.google.com/site/anchenoiabbiamounsogno/home. Paolo Flores d’Arcais (28 febbraio 2011) da - temi.repubblica.it/micromega-online Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Primarie vere, subito Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2011, 10:13:28 am Primarie vere, subito
di Paolo Flores d'Arcais, da il Fatto quotidiano, 13 ottobre 2011 Due zombie tengono sequestrato il Paese. Berlusconi e Bossi stanno costringendo l’Italia allo sfacelo, pur di non cedere il potere nemmeno ai propri complici di ogni omertà (il famoso “passo indietro”). Che si tratti di due zombie è ormai certo al di là dell’idiomatico “ragionevole dubbio”. Nessun voto di fiducia cambierà questa realtà, se un governo può finire in minoranza ogni giorno perché uno Scilipoti si ritiene non sufficientemente ripagato e un Tremonti adulato. Ma i due zombie, proprio perché ormai politicamente dei “morti viventi”, possono procurare al paese ulteriori sciagure, visto che istituzionalmente sembra impossibile fermarli. Tra un paio di settimane il Parlamento assisterà all’ennesimo scempio: una maggioranza di lacchè che manda al macero migliaia di processi (denegando giustizia a migliaia di vittime e familiari) pur di salvare lo zombie di Arcore dalla condanna che lo aspetta nel processo Mills. Non possiamo immaginare che il Presidente della Repubblica firmerà una legge che della legge fa strame, ci sentiremmo offensivi solo a pensarlo, ma proprio questa è invece la “road map” di Berlusconi: impunità nei processi in corso, crisi “amica” a gennaio e voto a marzo con la legge elettorale “porcata”. Sembra inaudito che a dettare l’agenda politica possano essere ancora l’amico di Putin e il suo compare “ditomedio”, ma i frondisti democristiani e leghisti, e le loro sussurrate minacce, hanno credibilità e consistenza ameboidi. Sarà bene prepararsi, perciò, perché marzo è vicinissimo. Berlusconi ha già “in pectore” “Forza Silvio”, dove troveranno posto solo troiette e prosseneti, ma soprattutto criminali e piduisti. Bossi farà piazza pulita di chi non abbia i requisiti dell’uomo vichiano “tutto stupore e ferocia”. La società padronale ha già i suoi Montezemoli e Marcegaglie e Della Valle in pole position. E l’opposizione democratica? Il Pd nel giro di un paio di settimane dispiega la sua opulenza con i raduni concorrenziali dei veltroniani, degli ex-rottamatori soft (Civati e Serracchiani), dei diversamente berluschini (Matteo Renzi), dei succubi di Bagnasco (in ritiro bipartisan a Todi). Un orizzonte di masochismo che lascia sgomenti. Bersani, Di Pietro e Vendola devono perciò convocare – ora, subito – le primarie per gennaio, altrimenti a gennaio, quando il caimano aprirà la sua crisi, D’Alema ci dirà che è troppo tardi. Primarie vere, cioè primarie aperte – senza condizioni – ai candidati della società civile. Che questa volta non starà a guardare, si spera. (13 ottobre 2011) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/primarie-vere-subito/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Finale col trucco? Inserito da: Admin - Novembre 12, 2011, 09:54:00 am Finale col trucco?
di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 10 novembre 2011 Berlusconi non si è dimesso. Ha promesso che lo farà, e le sue promesse sono meno autentiche dei suoi capelli. Berlusconi in realtà vuole continuare a comandare, ad esercitare la smisurata e anticostituzionale concentrazione di potere che ha precipitato l’Italia in un regime. Ha cercato di tirare a campare mantenendo il gioco nelle sue mani, il famoso maxi-emendamento a cui condizionare le dimissioni. Magari infilandoci i soliti provvedimenti ad personam per le sue aziende e il suo testamento (contro Veronica e i di lei figli), e per la sua impunità giudiziaria. Lo ha fatto in passato, perché mai non anche ora? Berlusconi ha provato addirittura a commissariare Napolitano, intrecciando maxi-emendamento “europeo”, dimissioni e voto anticipato in un’unica e indissolubile vicenda. Il presidente della Repubblica, concedendogli le dimissioni in differita, ha forse sottovalutato una volta di più che Berlusconi è animale politico della specie caiman crocodilus, famiglia alligatoridae, che già un anno fa utilizzò lo spostamento di un mese del voto di fiducia per comprarsi i voti mancanti. Se ne deve essere accorto, se ha diffuso la nota tagliente e irrituale con cui dà l’altolà agl’incombenti trucchi di Berlusconi. Se ne devono essere accorti anche le opposizioni, pronte purtroppo a digerire il maxi-emendamento senza nessuna dose di equità, che hanno però imposto un calendario a tappe forzate: voto al Senato venerdì, alla Camera sabato, dunque domenica Berlusconi già fuori da Palazzo Chigi. Berlusconi giura e spergiura (le due cose in lui fanno tutt’uno) che non si ricandiderà, ma si può scommettere che farà carte false e gesti da piromane per impedire che le dimissioni significhino la sua fine politica (e del potere anticostituzionale accumulato), per prolungare l’agonia e cercare di rovesciare i verdetti. Lo spread è a livelli da default, da rovina per i milioni di italiani che possiedono titoli di Stato. L’essenziale della (im)moralità di Berlusconi è tutta qui: per evitare la propria fine, ben venga la catastrofe del Paese. Contro i prossimi trucchi criminali di questo Mackie Messer, è sperabile che l’opposizione sia pronta e agguerrita. p.s. Come volevasi dimostrare: appena ha capito che Napolitano darà comunque a Monti l’incarico, Berlusconi ha scoperto che “Monti è una scelta ineludibile”, e si prepara a condizionarlo: vuole che al ministero della Giustizia resti il “suo” Nitto Palma. Naturalmente a far cambiare opinione (è il suo nuovo “giuro e spergiuro”: ieri sulle elezioni anticipate, domani chissà) a Berlusconi non sono stati i destini dell’Italia ma il crollo in borsa di Mediaset, che per lui sono la stessa cosa. Ora vedremo cosa faranno Napolitano e Monti, per la giustizia e per il sistema televisivo, le due uniche cose che interessino a Berlusconi. Alla speculazione finanziaria l’impunità di Berlusconi e la negazione della giustizia eguale per tutti, ovviamente non importano nulla. Ma agli italiani in carne ed ossa sì. Sarà una cartina di tornasole per il nuovo governo, almeno quanto la “equità” (che non ci sarà) sui provvedimenti economici. Se Napolitano e Monti daranno su questo garanzie a Berlusconi vorrà dire che si saranno piegati: oggi la loro credibilità presso gli italiani è altissima (non sempre meritatamente, a modesto parere di chi scrive), ma sull’impunità a Berlusconi e il monopolio ai vari Minzolini potrebbe crollare di colpo. (10 novembre 2011) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/finale-col-trucco/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Il rischio di Monti Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2011, 10:56:36 pm Il rischio di Monti
di Paolo Flores d’Arcais, da Il Fatto quotidiano, 8 dicembre 2011 Se il decreto “salva Italia” resta quello che è (un decreto “salva privilegiati”) il governo dei tecnici rischia grosso, addirittura di fallire già nella culla. A Monti la sorte (e Napolitano) ha offerto una opportunità straordinaria, quella di potere decidere in assoluta libertà e secondo coscienza i contenuti della manovra: i due partiti maggiori, Pd e Pdl, la fiducia l’avrebbero votata comunque, magari “obtortissimo collo”, per non andare a elezioni immediate col marchio di affossatori dei titoli pubblici (che sarebbero precipitati con “effetto Argentina”). Dal professore della Bocconi non si pretendeva neppure la tanto sbandierata (e nei fatti svillaneggiata) “equità”, ma molto meno: un colpo al cerchio e uno alla botte. Purché eguali per intensità, energia e “cattiveria”. Il colpo alla botte, al “terzo Stato”, è arrivato: tutto e subito. Con aspetti addirittura odiosi: l’adeguamento delle pensioni già ora copre solo il 70% dell’aumento del costo della vita, il che significa l’impoverimento anno per anno. Bloccarlo per due anni significa rivoltare il coltello nella piaga di chi è alle soglie della povertà, e ogni lacrima in proposito – per quanto sincera – è lacrima di coccodrillo. Il colpo al cerchio dei privilegiati invece non si è visto affatto. Bastava aumentare le aliquote Irpef per i redditi alti (sopra i 75 mila euro all’anno, e aliquote progressivamente incrementate per chi ne guadagna 200, 500...), prelevare una “una tantum” sulle pensioni più ricche (alcune fino all’indecenza) e sulle “buonuscite” milionarie (Guarguaglini docet). E soprattutto sui capitali “scudati”: la tassa dell’1,5% dimostra che un prelievo non è affatto incostituzionale (mai lo avrebbero proposto i Tecnici e firmato il Custode della Costituzione), e visto che gli antipatrioti dei capitali all’estero avevano pagato il 5% anziché il 30% preteso dai governi moderati e di destra di Cameron e Merkel c’era un margine del 25% in cui pescare senza fare torto alcuno ai suddetti fedifraghi fiscali. Il governo può ancora correggersi, dappoiché “errare humanum, perseverare diabolicum”. E dovrà comunque decidere della propria “natura” sulla questione delle frequenze tv digitali (che al valore di mercato porterebbero in cassa 4 o 5 miliardi: esattamente la grassazione compiuta contro i pensionati). Se saranno regalate a Berlusconi sarà inevitabile che il governo Monti finisca per apparire come un mero “berlusconismo dal volto educato”. Consegnandosi ai desiderata del Caimano, il governo rischia di cadere non appena al Caimano farà comodo. (8 dicembre 2011) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-rischio-di-monti/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Senza legalità nulla cambia Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2012, 07:45:40 pm Senza legalità nulla cambia
di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 3 gennaio 2012 L’emergenza è lo “spread”? Anche. Ma la vera emergenza strutturale in cui l’Italia si avvita da un ventennio, e la cui mancata soluzione rende impossibile affrontare tutte le altre urgenze, dal debito pubblico all’occupazione, dal fisco allo sviluppo, dalle grandi opere alla sicurezza e al welfare, ha un solo nome: legalità. La legalità è il “grande rimosso” del discorso politico e della coscienza collettiva, il grande assente nell’azione di governo e nel dibattito sui media. Il Capo dello Stato ammonisce che evasione fiscale e corruzione sono pratiche intollerabili, ma sono vent’anni che lo sentiamo ripetere, rischia di essere una giaculatoria se alle parole non seguono immediatamente i fatti. Il governo Monti simpatizza col modello danese di flessibilità del lavoro, ma un ex-ministro rivela che dopo averlo studiato in loco il governo Prodi rinunciò a importarlo, perché mancavano le condizioni culturali che ne impedissero l’abuso: un diffuso senso dello Stato e della legalità, appunto. Ora si parla di “crescita”, dunque di opere pubbliche, di incentivi, di liberalizzazioni e privatizzazioni, ma un chilometro di ferrovia o di autostrada costa in Italia due o tre o quattro volte più che in Francia o Germania: il costo della mancata legalità. E in passato ogni bene pubblico è stato svenduto, coniugando impoverimento dello Stato, nuove inefficienze, indecenti arricchimenti di amici degli amici: su scala ridotta, il modello degli oligarchi putiniani. Per indigenza di legalità, anche qui. Diventa retorico e rischia di apparire insultante, perciò, pronunciare una volta di più la parola “equità” se non si mette mano a una vera e propria “rivoluzione della legalità”. Sono due facce della stessa medaglia, esattamente come giustizia e libertà. La rivoluzione della legalità oltretutto, è l’unica riforma a costo zero. Anzi, a introito sicuro, progressivo, ciclopico. Tra evasione, corruzione, mafie, ogni anno vengono sottratte ricchezze equivalenti a cinque o dieci manovre “lacrime e sangue”. In questi vent’anni – esattamente il 17 febbraio del 1992 veniva arrestato Mario Chiesa e cominciava “Mani Pulite” – la politica ha fatto di tutto per favorire i “mariuoli” anziché la legalità. Portando l’Italia sul lastrico. Se il governo Napolitano-Monti-Passera vuole essere credibile, ed evitare la sacrosanta rabbia del “Terzo Stato” che monta, ha una strada maestra: abrogazione delle leggi ad personam, manette a evasori e per falso in bilancio e ostruzione di giustizia. Eccetera. La legalità presa sul serio. (3 gennaio 2012) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/senza-legalita-nulla-cambia/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Scalfaro: Il senso dello Stato e i suoi nemici Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2012, 11:22:12 pm MicroMega ricorda Oscar Luigi Scalfaro, un Presidente davvero Custode della Costituzione
Scalfaro: Il senso dello Stato e i suoi nemici di Oscar Luigi Scalfaro, da MicroMega 2/2001 La strategia degasperiana Dalla Provvidenza ho avuto il dono grandissimo di essere stato vicino a De Gasperi. Molto vicino. E anche un secondo dono, di cui non ho merito alcuno: che De Gasperi non mi ha fatto sottosegretario. Dunque, il fascino della sua figura, che ho sentito fortissimo – giusto o sbagliato che fosse – non è influenzato da alcun dare/avere, per quanto pulito e ineccepibile. La sua prima caratteristica era l’enorme equilibrio nel cercare sempre con gli altri un denominatore comune fondato su una grande ricchezza umana. Di De Gasperi mi aveva colpito l’impostazione strategica, di grandissima apertura d’ali. I francesi parlerebbero di envergure. C’erano molti problemi urgenti. Li potremmo riassumere sotto la dizione generica di «giustizia sociale». Nei giorni e nei primi anni successivi alla Liberazione, indubbiamente il problema più sentito era primum vivere, perché cruciale, il tema della libertà. L’Unione Sovietica era in mano a Stalin, le notizie ancora non erano chiare, lo stesso famosissimo libro di Kravcenko Ho scelto la libertà non era ancora uscito, ma la scelta strategica di De Gasperi di privilegiare la libertà e di puntare sulla politica estera fu fondamentale. Sia chiaro: con gli Stati Uniti non ha mai avuto atteggiamenti che non fossero di altissima dignità. Non li ha mai considerati infallibili. Ma gli Stati Uniti non hanno peccato contro la libertà. Ecco il perché della scelta atlantica. Risento in me i suoi discorsi di politica estera. Ne rivedo il volto e il modo di parlare: sembrava lo scultore che prepara la grande arcata. Da qui anche le alleanze nella politica interna, con i partiti di sicura sensibilità in tema di libertà e di democrazia: liberali, repubblicani, e anche demolaburisti e azionisti, che rappresentavano una posizione molto a sinistra, ma inattaccabili sulle questioni di libertà. Mi ricordo che De Gasperi, nel consultare l’opposizione sulle questioni di politica estera, secondo la grande tradizione democratica occidentale, ha sempre chiamato Nenni, mai Togliatti, per l’opposta concezione dell’uomo e dello Stato e per la marcata sudditanza in politica estera con l’Unione Sovietica. Bisogna tener conto che ai tempi dell’Assemblea Costituente eravamo un po’ tutti chiusi nelle nostre reciproche torri. A me e a molti miei colleghi cattolici, perciò, colpiva vedere il dc Campilli passeggiare sotto braccio al comunista Pesenti, nel salone dei passi perduti a Montecitorio. La separazione era rigida, secondo la logica comunista che anche un rapporto umano finiva per indebolire una posizione politica. Una volta, a confermarmi questa tesi, fu Davide Lajolo, nome di battaglia nella Resistenza «Ulisse», allora direttore dell’Unità. Fu ancora lui a dirmi, di Togliatti, che mancava di sentimento umano ed era uomo di considerevole aridità. Eppure il degasperismo, e la sua grandezza, è stato anche questo: aver scritto la Costituzione insieme a uomini come Togliatti. Una pagina incredibile. Io sono stato all’Assemblea Costituente, come un allievo, a cercare di non perdere quella grande lezione: l’incontro di tre grandi culture, quella cattolica, quella marxista-leninista, quella laica moderata. Il dialogo con i diversi schieramenti Eravamo inesperti in fatto di dialogo, dunque carenti di una particolare ricchezza umana. Però c’erano quelli che erano stati in montagna insieme, alcuni che già si erano incontrati. Ricordo il vescovo di Novara, un cappuccino eroico, monsignor Leone Ossola, già prigioniero degli inglesi in Africa, che mandò i sacerdoti della sua diocesi in montagna, dove si moriva tutti i giorni, a stare vicini ai partigiani. Li inviò non come preti combattenti (anche se ve ne furono) bensì come preti-preti, per condividere in un rapporto umano e spirituale particolarmente ricco la vicenda di chi combatteva. Fu una pagina estremamente positiva. Fu proprio monsignor Ossola a presentarmi, nel periodo clandestino, il comandante partigiano comunista Cino Moscatelli. La Resistenza combattuta insieme ha voluto anche dire condividere sofferenze, e questo è un grande patrimonio, una ricchezza che crea legami formidabili. Credo di aver raccontato più volte un episodio davvero significativo: De Gasperi era ministro degli Esteri, e attraverso gli scarsi mezzi della diplomazia nascente, della Croce Rossa e del Vaticano, cercò notizie di una figlia di Nenni, deportata nei lager e di cui non si sapeva più nulla. Alla fine De Gasperi fu informato che era stata trovata morta. Il ministero degli Esteri era dove adesso c’è la presidenza del Consiglio, e il quotidiano Avanti! che Nenni dirigeva era a tre o quattro minuti da lì, dietro via del Vicario. Quando venne informato che era stata trovata morta mi disse: ho telefonato a Nenni e gli ho detto: vengo da te! Lui ha capito. E poi: cosa può dire un padre ad un altro padre in queste circostanze, anche perché lui, che è molto rispettoso del sentimento religioso, non ha però fede. Mentre continuavo a pensare ho attraversato la piazza, ho fatto questa scaletta, mi sono trovato, abbracciato, a piangere insieme. E poi aggiunse: queste cose, sai, né lui né io le potremo dimenticare mai. Il valore della sofferenza Tutte le sofferenze condivise nella Resistenza, dalle montagne al Laterano, hanno creato un patrimonio comune che ha reso possibile la grande pagina della Costituente. Veramente grande pagina. Ecco perché l’antifascismo è il punto di origine, il fondamento della nostra Repubblica che non si può cancellare. Oggi siamo invece arrivati ad affermazioni di incredibile gravità. Quando il capo dell’opposizione minaccia che cambierà la Costituzione – anche nella prima parte – con la sua sola maggioranza, sostenendo che questa prima parte ha sapore di comunismo, si tratta, in termine tecnico, di ignoranza crassa, cioè ignoranza pesante e colpevole, che esclude la buona fede. Perché basta leggerla, la Costituzione, non è neanche necessario conoscere le vicende storiche da cui è nata, per sapere che nessun valore di libertà, nessun diritto è in essa stato compromesso. Quindi, quando si parla in quel modo si compie un attentato alla Costituzione. Un conto è proporre modifiche – in questo caso devono essere prese in considerazione – un altro è minacciare con evidente tracotanza di sovvertire la Costituzione con una qualsiasi maggioranza. La prima parte della Costituzione non si può toccare. Non si deve toccare. I valori fondamentali, che in essa sono scritti, possono anche essere indicati come la proclamazione dei diritti della persona umana. Sono dunque intoccabili. Diversamente, si compie un attentato contro la civiltà di un popolo. Non c’è dubbio. Verità e chiarezza per la pacificazione Questo taglio delle radici, questo parificare tutto, democrazia e dittatura, è inaccettabile. Vuol dire innanzi tutto negare la storia, negare la verità. Per questo ritengo che sono state pronunciate frasi rischiose, perché non sufficientemente chiare, quando si è parlato dei giovani che scelsero la Repubblica di Salò. Un giovane può avere un numero indefinito di attenuanti. Abbiamo avuto in Parlamento giovani che avevano fatto i Littoriali… e ci sono stati quelli che si sono rifiutati… Il sottoscritto, da studente universitario, si dispiacque quando nacque il nuovo codice per celebrare il ventennio del fascismo con la collaborazione di tanti giuristi cattedratici. Altri docenti universitari hanno preferito perdere la cattedra, piuttosto che giurare fedeltà al fascismo: li ammiro profondamente. La pacificazione può nascere solo dal rispetto della verità. Ci sono stati degli eccessi, e anche fatti criminosi, da parte di partigiani. Questo è tanto più grave perché veniva da chi si batteva per la libertà. Io lo considero perfino una aggravante, proprio perché i partigiani erano schierati dalla parte giusta, dalla parte della libertà. Gli altri, che hanno scelto Salò, erano dalla parte sbagliata, dalla parte della dittatura contro la libertà. Possono aver vissuto momenti eroici ed eroicamente averci lasciato la pelle, ma erano dalla parte sbagliata. Non è un’accusa, è una constatazione. Se non si rispetta questa realtà, questa verità, viene meno ogni base per un retto giudizio e ogni fondamento per la pacificazione. Salta tutto: ogni rapporto umano, ogni dialogo. C’è stata, purtroppo, già alla Costituente, la forzatura polemica delle sinistre di identificare il «fascismo» con la destra: la destra è sempre fascista, inserendo con ciò un elemento di confusione molto grave. In un paese libero una posizione di destra, anche dura, è legittima e direi necessaria. Siamo fuori dell’ordine costituzionale, appena ci si rifà alla dittatura. Ma anche una posizione di sinistra può diventare illegittima: quando la sinistra finisce in Br, evidentemente siamo fuori dell’ordine costituito. Libertà e giustizia Torniamo alla libertà come tema strategico prioritario. Su di esso nasce la socialdemocrazia. Quella scissione fu un atto di coraggio enorme compiuto da Saragat. Ma è evidente che la vita quotidiana di un popolo, specie di un popolo che esce dalla guerra, è una vita dove conta, e molto, anche la giustizia, che è parte integrante del concetto di libertà. Entrambe discendono dalla verità, non solo secondo il concetto evangelico. Il problema, allora, era drammatico. C’era tanta gente in condizioni non già di povertà ma di vera e propria miseria. Ricordo, come fosse ieri, quando De Gasperi ci raccontò che aveva telefonato a Fiorello La Guardia, già sindaco di New York, responsabile degli aiuti del piano Marshall, dicendogli: sono il presidente del Consiglio dell’Italia, lei è italiano e so che ama l’Italia. Se qui le navi arrivano con viaggio normale arrivano dopo sette-otto giorni, e intanto potrebbe scoppiare la rivoluzione, perché abbiamo pane per due giornate. Fiorello La Guardia dirottò le navi. Arrivarono a Palermo, a Venezia, a Genova: fu una cosa veramente commovente. Dunque, nel momento in cui si affrontano i temi di giustizia sociale, qual è il denominatore comune coi liberali, persone degne (basti pensare non solo ad Einaudi, ma a Badini Confalonieri, Villabruna)? La libertà non poteva restare l’unico criterio. Bisognava varare immediatamente anche grandi riforme sociali. Ricordo che in Consiglio dei ministri ci fu una sfuriata di Scelba, ministro dell’Interno, perché la riforma agraria faticava tanto a nascere. E intanto c’erano i morti a Melissa nelle manifestazioni per la terra ai contadini. A questo punto il denominatore comune si estendeva alla sinistra, perché nessuno può negare l’impegno e la combattività delle sinistre su questo tema. Quando dissi queste cose a un congresso della Dc a Roma, nei primi anni Cinquanta (si teneva al Teatro dell’Opera e presi la parola dopo Giovanni Gronchi), malgrado fossi un giovane deputato poco conosciuto, terminai il discorso accolto da un’ovazione a non finire. Lo stesso De Gasperi mi abbracciò. Un manifesto fascista, invece, diffuso in tutta Italia mi accusava di comunismo. Io lo vidi in Sicilia. Del resto De Gasperi lo disse chiaramente: la Democrazia cristiana è un partito di centro che guarda verso sinistra, che si muove verso sinistra. E io, con la semplicità e l’impreparazione di un giovane, durante l’Assemblea Costituente, parlando al gruppo Dc, avevo proposto: prendiamo le encicliche sociali e il radiomessaggio di Pio XII per il 40° della Rerum novarum; in un dialogo con un liberale serio, quanti di quei principî potevano essere condivisi? E quale denominatore comune potevano trovare presso uomini della sinistra, anche marxisti ma riformisti, con tutta la loro ricchezza umana? Ma parliamo di liberali. Oggi si può dire che c’è un mondo liberale? No. Quel mondo ormai – almeno per ora – in questa destra non trova posto (forse qualcuno uti singulus…). Che un liberale riesca a sentirsi a casa sua con questa destra mi pare davvero un controsenso. Oltre a quanto detto sopra a proposito della prima parte della Carta Costituzionale, è tutto il modo di agire di questo schieramento che non ha nulla a che fare con i principi liberali. Parla e decide uno solo! E parla solo per slogan. Ci sono docenti universitari, in quello schieramento, che non dicono più una parola. E l’unico che parla se ne esce con espressioni non condivisibili. Con quale coraggio può dire di avere come punti di riferimento De Gasperi e Sturzo? Liberismo senza etica Mi fermo, con molto rispetto, alle soglie del discorso economico, che non è il mio. Anche qui, però: nemmeno da un punto di vista di un mero ed esasperato liberismo, questa destra e il suo leader hanno le carte in regola. In tutto il mondo, infatti, liberismo vuol dire antitrust e soluzione del conflitto di interessi. Su questo il centro-sinistra ha sbagliato. Il conflitto di interessi è un tema che, in democrazia, non ammette compromessi. Consentire che tale conflitto permanga, fa saltare il patto di convivenza fra cittadini anche sul piano economico. È una cosa molto grave e non può essere tema di transazione. Il dialogo con l’opposizione è sempre auspicabile, e dunque bisogna mettere in conto compromessi e accomodamenti. Ma questa era ed è una questione di principio. Assoluta. È stato gravissimo non imporre la soluzione di quel conflitto subito dopo la vittoria dell’Ulivo. È stato un secondo errore riproporla a poche settimane dalle elezioni, fornendo l’occasione pretestuosa all’opposizione di presentarsi come vittima. Sappiamo che c’è una legge del 1957 che definisce l’ineleggibilità e l’incompatibilità. In parlamento, in quegli anni, io succedetti all’onorevole Lucifredi come presidente della Giunta per le elezioni, che dichiarò la incompatibilità per circa 120 parlamentari, di cui almeno una settantina appartenenti al mio partito. Era motivo di incompatibilità, per esempio, far parte del consiglio di amministrazione di una banca, e per molte altre cariche, tutte di peso assolutamente inferiore all’attuale concessione delle frequenze di tre reti televisive. Facevano eccezione solo gli enti morali, quali una casa per anziani, un asilo infantile. A Zaccagnini, capogruppo Dc, che insisteva perché accettassi la presidenza della Giunta, avevo risposto in modo negativo dicendo chiaramente: io applico la legge, ma temo che non se ne desideri l’applicazione. Poi dovetti assumermene la responsabilità. Fui «imputato» di fronte al presidente della Camera Bucciarelli Ducci. Mi ricordo un’altra polemica in proposito, sui sindacalisti parlamentari che erano nei consigli di amministrazione di enti di previdenza. Camera e Senato, sottolineando che per gli enti di assistenza era prevista la compatibilità con il mandato parlamentare, vi avevano assimilato gli enti previdenziali. Io mi opposi, poiché assistenza e previdenza sono due concetti per nulla assimilabili, e ottenni dalla Giunta che tutti i sindacalisti eletti si dimettessero da presidenze e consigli di quegli enti. Altrimenti sarebbero stati dichiarati decaduti da parlamentari. Ma ciò non avvenne al Senato. Anche all’estero, sia chiaro, non sempre il problema è risolto. Ci sono intrallazzi ed escamotage, e la potenza delle lobby. Basti pensare che quando il presidente Clinton ha cercato di intervenire sulla libera vendita delle armi, è stato schiacciato dalla forza della lobby dei fabbricanti, malgrado il susseguirsi di episodi tragici. Il senso dello Stato Per un liberale vero l’elemento irrinunciabile è il senso dello Stato. E lo Stato non può essere trattato come un’azienda, perché così si perde proprio il senso dello Stato. Einaudi, che era liberale e liberista, sostenne che l’economia è ancella della politica. Non la padrona. Naturalmente, capire e tener fermo il senso dello Stato è faticoso. Ma irrinunciabile. Anche nella storia del mio partito, la Democrazia cristiana, ci sono stati momenti di caduta del senso dello Stato. Di contaminazione con interessi privati. Una delle contaminazioni peggiori che possano esserci. Io penso addirittura, e non da oggi, che in un cittadino che è titolare di un’enorme ricchezza già vi sia uno status che non lo rende idoneo a governare. Ma senso dello Stato vuol dire anche rigoroso rispetto del potere autonomo della magistratura. E su questo tema basterebbe richiamare la recente aggressione del capo dell’opposizione contro la Corte Costituzionale: evidentemente cosa assai grave. La Corte non ritiene di difendersi: rimane bersaglio dell’accusatore. Non è la prima volta che avviene. Ricordo che io fui costretto a intervenire severamente, quando ero al Quirinale, per stigmatizzare un incredibile attacco contro la Corte che a breve distanza di tempo sarebbe stata chiamata a decidere sull’ammissibilità o meno di alcuni referendum. In quella difesa fui, allora, lasciato più o meno solo. Riprendendo il discorso sul senso dello Stato, non si possono approvare gli attacchi alla magistratura di chi dà la sensazione che autonomi, indipendenti e imparziali siano i magistrati quando gli danno ragione. La Chiesa ha impiegato anni per apprezzare il sistema democratico. Ne sono certo: lo ha fatto con una bellissima motivazione che è espressa nel finale della Centesimus annus. Nel capitolo «Stato e cultura» la democrazia è vista come l’irrinunciabile spazio della partecipazione. Che è esercitata nelle scelte politiche, nella possibilità di eleggere i governanti e di verificarne l’operato. Di cambiarli, anche. Ma la distinzione dei poteri – fondamentale – quella c’è già nella Rerum novarum, a dimostrazione della sua essenzialità. Certo, a tener fermo il senso dello Stato ci si scontra con una mentalità diffusa. Ho parlato di senso dello Stato per far capire che partecipazione e responsabilità sono le condizioni perché lo Stato funzioni. Inutile nascondersi, però, che si è insinuata un’onda di sostegno a posizioni che giudico inaccettabili. C’è un certo mondo, anche cattolico, che dice: questo Scalfaro che ha portato i comunisti alla testa del governo… L’Osservatore Romano scrisse che il capo dello Stato aveva deciso di dare l’incarico a Massimo D’Alema. Il capo dello Stato, in realtà, aveva appena proposto all’attuale suo successore, Ciampi, allora ministro del Tesoro, di presiedere un governo per far approvare la legge finanziaria e arrivare alle elezioni europee. Ciampi si era dichiarato disponibile quando, con incredibile immediatezza e conseguente sorpresa, fui avvertito che in parlamento era già nata una nuova maggioranza: con il contributo di Cossiga insieme con Mastella. Unanimemente designava Massimo D’Alema Presidente del Consiglio. Secondo la nostra Costituzione quando il parlamento genera una maggioranza e questa esprime un premier, il capo dello Stato può solo prenderne atto. Che si fosse fatta una nuova maggioranza lo dimostrano le cifre: perché Romano Prodi cadde per mancanza di un voto. Il nuovo governo nacque con trenta voti di maggioranza, che non sono pochi. Eppure anche Ciampi avrebbe avuto una maggioranza per la fiducia: di questo resto convinto. Anche perché in quei frangenti sul parlamento agisce, giustamente (lo sottolineo in modo positivo), la paura dello scioglimento, e il parlamento, saggiamente, difende la sua sopravvivenza. Nel mio settennato ho detto mille volte una cosa: primo dovere del capo dello Stato è fare l’impossibile perché le istituzioni vivano il loro tempo fisiologico. Ho ceduto quando? Quando c’è stato quel voto referendario dell’80 e più per cento in favore della legge elettorale maggioritaria. In quel caso era doverosa la domanda su quale fosse la legittimazione del parlamento in carica. Non potevo prendere la legge che dal referendum scaturiva e metterla in un cassetto: sarebbe stato veramente un atto non costituzionalmente corretto. Ma altrimenti ho sempre difeso a oltranza la scadenza naturale del mandato parlamentare. Altro che «ribaltone»! Quando nel dicembre del ’94 l’attuale capo dell’opposizione mi chiese di sciogliere le Camere, per via di quello che poi è stato chiamato il ribaltone, mi rifiutai. Cosa è un ribaltone? Che si tolga la maggioranza a chi ce l’ha e la si passi agli altri. La «maggioranza» del ’94 era FI più An in contrasto con Bossi. E Bossi aveva detto contro Fini, in campagna elettorale, tutte le ingiurie possibili. Perciò quando Bossi, nel dicembre, cioè dopo nove mesi dalle elezioni, toglie la fiducia, il presidente del Consiglio sale al Quirinale e dice: mi dimetto, perché non ho più la maggioranza. Infatti la maggioranza si era dissolta. Poi ritorna al Quirinale e chiede tre cose: scioglimento delle Camere, elezioni anticipate, e «le elezioni le faccio io». In queste condizioni si va alle urne: con un parlamento che non ha un anno di vita? Siccome io rimasi ad ascoltare queste richieste, l’interlocutore riprese e disse testualmente: ti ho chiesto tre cose, ti ho fatto tre domande, cosa rispondi? E questa è la registrazione, puntuale, di quei pochi momenti. Risposta: rispondo tre no, perché se io dovessi rispondere sì tradirei la Costituzione, perché finirei per compiere un atto, lo scioglimento, che sarebbe fatto solo in favore della tua parte. Questo non è lecito per il capo dello Stato che su questa Carta ha giurato fedeltà. Ricordo che, pochi giorni dopo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, non sentii quasi la relazione: tanto avevo la testa che continuava a ruminare per cercare una via idonea alla soluzione della crisi. Ho avuto gravi preoccupazioni in questa grande crisi politica: con due grandi partiti che si disgregano c’è il rischio della rivoluzione, e se la rivoluzione fosse scesa in piazza, inimmaginabili sarebbero state le conseguenze. Assai fondato in me era il timore della disgregazione dello Stato. Anche la moneta crollava. Un giorno, l’attuale capo dello Stato, allora governatore della Banca d’Italia, mi venne a dire: ho messo in vendita questa mattina i titoli di Stato, nessuno li ha comprati. Ho telefonato alle banche che comprino e io pago le banche. Cioè: lo Stato mette in vendita i suoi titoli e lo Stato se li ricompra, credo che sia peggio della moneta che crolla, peggio, perché è la sfiducia totale. Questi due pericoli, con l’aiuto di Dio, e con l’autentico impegno di quanti, nelle responsabilità e tra la gente, vi hanno creduto, siamo riusciti a superarli. Ma sono stati pericoli veri. Fortissimi. Questo era lo sfondo di una realtà tremenda. Una proposta senza precedenti: il premier indicato dalla minoranza Torniamo alla inaugurazione dell’anno giudiziario 1995. Dissi: presidente, viviamo ancora una situazione tesa, a rischio. Non posso sciogliere le Camere e seguire le altre tue richieste, la Costituzione non me lo consente. Devi perciò fare un passo indietro. Prendi atto che sei in minoranza e io farò un passo che non ha precedenti nella storia d’Italia. Anche se sei in minoranza, sarai tu a darmi il nome della persona che devo chiamare per fare il governo; è essenziale che teniamo insieme questo nostro paese. E su sua indicazione ho chiamato Dini. In realtà aveva fatto anche il nome di Cossiga, poi però lo aveva escluso. Oltre al nome di Dini aggiunse: facciamo un governo distaccato dai partiti, quindi anche senza nessuno ministro dell’attuale governo. Ventiquattr’ore dopo o giù di lì, viene da me Dini che mi aveva già presentato una lista di ministri. È stato detto e scritto che io avevo imposto a Dini una mia lista. Non me lo sono neppure sognato. Mai. Ma i falsi sono di casa in un certo giornalismo. Dini mi disse questa frase: presidente, ormai sono anch’io un traditore. Sono stato chiamato dal presidente del Consiglio dimissionario, presente il comando supremo del suo movimento. Mi hanno chiesto di inserire nella compagine cinque ministri del governo in carica: il presidente del Consiglio, quindi, aveva già cambiato totalmente idea. Dini allora mi disse: io rimetto il mandato. Ho risposto: questa cosa con me non può capitare, perché sono sempre stato contrario alle crisi fatte in sede di partito e fuori del parlamento. Nella legislatura precedente c’è una proposta di modifica costituzionale che porta il mio nome. È stata votata alla Camera ma seppellita al Senato. Specificava come ogni crisi di governo dovesse necessariamente passare per il parlamento. Quindi ho detto a Dini: ti presenti in parlamento. Otterrai la fiducia perché il parlamento non vuole lo scioglimento delle Camere. Ed ha ragione. Al presidente dimissionario avevo già detto: se tu voti questo governo, lo rendi tuo, metti la tua mano a sua tutela. E il giorno che si ritiene che si debba dimettere – Dini è persona di tua fiducia, l’hai fatto tu ministro del Tesoro – gli fai sapere che l’esperienza di governo ha fatto il suo tempo. Certamente Dini la chiuderà. Ma se non lo sostieni, ti sfugge totalmente. Dopo di che loro non lo votarono. Il famoso ribaltone, che non è mai esistito, fu realizzato a fronte di un governo che aveva perso la maggioranza, con il presidente del Consiglio che si era – giustamente – dimesso, con una proposta di soluzione della crisi che usciva da tutti gli schemi: con il nuovo premier indicato da quello dimissionario e ormai in minoranza. Senza contare che, in tutte le democrazie occidentali, dove vige il maggioritario secco, la crisi di governo non porta automaticamente allo scioglimento delle Camere. Non esiste questa procedura. In Italia il cosiddetto «ribaltone» è solo un prodotto aziendale. È un prodotto confezionato dal bombardamento dei mezzi di comunicazione. (conversazione con Paolo Flores d’Arcais) (30 gennaio 2011) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/scalfaro-il-senso-dello-stato-e-i-suoi-nemici/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Senza legalità nulla cambia Inserito da: Admin - Marzo 14, 2012, 11:03:23 am Senza legalità nulla cambia di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 3 gennaio 2012 L’emergenza è lo “spread”? Anche. Ma la vera emergenza strutturale in cui l’Italia si avvita da un ventennio, e la cui mancata soluzione rende impossibile affrontare tutte le altre urgenze, dal debito pubblico all’occupazione, dal fisco allo sviluppo, dalle grandi opere alla sicurezza e al welfare, ha un solo nome: legalità. La legalità è il “grande rimosso” del discorso politico e della coscienza collettiva, il grande assente nell’azione di governo e nel dibattito sui media. Il Capo dello Stato ammonisce che evasione fiscale e corruzione sono pratiche intollerabili, ma sono vent’anni che lo sentiamo ripetere, rischia di essere una giaculatoria se alle parole non seguono immediatamente i fatti. Il governo Monti simpatizza col modello danese di flessibilità del lavoro, ma un ex-ministro rivela che dopo averlo studiato in loco il governo Prodi rinunciò a importarlo, perché mancavano le condizioni culturali che ne impedissero l’abuso: un diffuso senso dello Stato e della legalità, appunto. Ora si parla di “crescita”, dunque di opere pubbliche, di incentivi, di liberalizzazioni e privatizzazioni, ma un chilometro di ferrovia o di autostrada costa in Italia due o tre o quattro volte più che in Francia o Germania: il costo della mancata legalità. E in passato ogni bene pubblico è stato svenduto, coniugando impoverimento dello Stato, nuove inefficienze, indecenti arricchimenti di amici degli amici: su scala ridotta, il modello degli oligarchi putiniani. Per indigenza di legalità, anche qui. Diventa retorico e rischia di apparire insultante, perciò, pronunciare una volta di più la parola “equità” se non si mette mano a una vera e propria “rivoluzione della legalità”. Sono due facce della stessa medaglia, esattamente come giustizia e libertà. La rivoluzione della legalità oltretutto, è l’unica riforma a costo zero. Anzi, a introito sicuro, progressivo, ciclopico. Tra evasione, corruzione, mafie, ogni anno vengono sottratte ricchezze equivalenti a cinque o dieci manovre “lacrime e sangue”. In questi vent’anni – esattamente il 17 febbraio del 1992 veniva arrestato Mario Chiesa e cominciava “Mani Pulite” – la politica ha fatto di tutto per favorire i “mariuoli” anziché la legalità. Portando l’Italia sul lastrico. Se il governo Napolitano-Monti-Passera vuole essere credibile, ed evitare la sacrosanta rabbia del “Terzo Stato” che monta, ha una strada maestra: abrogazione delle leggi ad personam, manette a evasori e per falso in bilancio e ostruzione di giustizia. Eccetera. La legalità presa sul serio. (3 gennaio 2012) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/senza-legalita-nulla-cambia/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. (SCIOPERO FIOM ... ma ci sei o ci fai) Inserito da: Admin - Marzo 17, 2012, 11:48:00 am Sciopero Fiom, l’intervento di Paolo Flores d’Arcais
Proponiamo il video e il testo dell'intervento del direttore di MicroMega alla manifestazione della Fiom a piazza san Giovanni a Roma, venerdì 9 marzo 2012. di Paolo Flores d'Arcais Un certo signor Marchionne ha accusato la Fiom di fare politica. Una certa signora Marcegaglia si lamenta che la Fiom fa politica. Un certo cavalier Berlusconi ha sempre trattato la Fiom come il demonio, perché fa politica, chiedendo esorcismi ai Sacconi, i Brunetta e altri chierichetti del suo regime. Buon ultimo è arrivato l’onorevole Bersani, che ha vietato ai dirigenti del Pd di partecipare a questa manifestazione, perché la Fiom fa politica, anzi una brutta politica, visto che da questo palco parlerà anche un dirigente del Pd della Val di Susa, ex sindaco e più che mai No Tav. Vorrei dirlo sommessamente, con i toni sobri che sono di prammatica da quando abbiamo un nuovo governo: questi signori, ogni volta che si stracciano le vesti perché la Fiom fa politica, hanno la faccia come il culo. Non fa forse politica Marchionne, quando col sostegno di qualsiasi governo e dei media asserviti, impone che nelle fabbriche la Costituzione diventi carta straccia? Non fa politica la Confindustria, un giorno sì e l’altro pure, che dai governi pretende sempre favori per i padroni (con i soldi nostri) e sacrifici per gli operai? Non fanno politica i grandi banchieri, al punto che uno di loro è ormai il ministro più potente del governo “tecnico”? E il partito di Bersani non ha candidato nelle sue liste i Calearo e i Colannino (bella roba, sia detto en passant, per un partito che si dice riformista e forse di sinistra), ritenendo normale che gli imprenditori facciano politica? E per quale motivo, allora, per quale discriminazione, per quale ontologica indegnità, non dovrebbero fare politica i metalmeccanici e i loro dirigenti? Per un unico motivo, forse. Che la loro politica (cioè la vostra) è una buona politica, che la politica della Fiom è una bella politica, la politica dei lavoratori per i lavoratori, dei cittadini per i cittadini. Lontana mille miglia, anzi opposta e alternativa, alla politica delle cricche e delle ruberie, delle nomenklature e delle corruzioni, che fanno costare agli italiani ogni chilometro di opera pubblica cinque volte di più che ai francesi, o tedeschi o spagnoli. Giuliano Ferrara, un altro che considera la Fiom una iattura, anni fa, discutendo di Mani Pulite con Piercamillo Davigo, ha spiegato che il politico esemplare deve essere ricattabile. Proprio così: ricattabile. E’ stato prontamente accontentato. Nella presidenza della regione Lombardia quattro politici su cinque hanno guai con la giustizia. Esiste un quartiere malfamato, il più malfamato che si possa immaginare, in cui l’80% della popolazione abbia guai con la giustizia? Nemmeno in quelli della Chicago di Al Capone. Ma nel Pirellone di Formigoni, sant’uomo di Comunione e Liberazione, sì. C’è da stupirsi se poi qualche satirico parla di Comunione e Fatturazione? La verità è che, politici o tecnici che siano, vogliono impedirvi di fare politica per tenerla in monopolio, per farla fare solo ai banchieri che strangolano il credito, agli imprenditori che licenziano, ai parassiti che evadono e ai padroni delle tessere che inciuciano. Vogliono che la politica rimanga “cosa loro”, e la sovranità del cittadino, cioè di ciascuno di voi, che pure è solennemente ricamata in ogni Costituzione, sia solo una beffa. Vogliono che a fare il premier sia sempre uno di loro, mai uno dei vostri, mai un sindacalista. Voi, col vostro sciopero, avete detto NO! a questa pretesa indecente e antidemocratica. Se un banchiere può essere premier, a maggior ragione può esserlo un sindacalista, visto che l’Italia è “una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. La politica moderna è nata in Europa col suono di tre parole: Libertà, Eguaglianza, Fratellanza. Voi col vostro sciopero e le vostre lotte state semplicemente riproponendo i valori più autentici della vera politica. Voi volete che queste tre parole – così insopportabili per i gerarchi dell’establishment – tornino a rappresentare il futuro, non la nostalgia del passato. Oggi tutta l’Italia democratica vi deve ringraziare. Voi siete la speranza, perché siete la lotta. (9 marzo 2012) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/sciopero-fiom-lintervento-di-paolo-flores-darcais-video/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Usciamo dal gorgo Inserito da: Admin - Aprile 21, 2012, 03:55:29 pm Usciamo dal gorgo
di Paolo Flores d’Arcais, da "Il Fatto quotidiano", 17 aprile 2012 La parte migliore dell’Italia rischia di essere trascinata in un gorgo dove l’unica alternativa alla disperazione sembra la rassegnazione o addirittura la fuga dalla realtà. Sempre più spesso, persone che mai avevano rinunciato alla passione civile, alla razionalità critica, all’impegno, annunciano agli amici l’intenzione di “dimettersi” dalla cittadinanza attiva: da anni non ascoltavano i Tg, perché megafoni “falsi e bugiardi” dell’establishment, ma ora non leggeranno più neppure quel quotidiano e mezzo che racconta il mondo vero, perché questo mondo vero è troppo disperante, alla ripugnanza del regime di Berlusconi è seguito un governo Napolitano-Monti-Passera che ne perpetua l’iniquità con uno stile meno sboccato e più accattivante, e poiché nessuna opposizione “repubblicana” si profila all’orizzonte, meglio “evadere” con qualche buon libro o addirittura qualche serie tv a lieto fine, altrimenti si finisce nel suicidio (e le cronache ci ammoniscono che non è un modo di dire). Cosa si può rispondere, che non sia omiletico cataplasma consolatorio, per convincere questa Italia a “non mollare”? Perché la diagnosi, se non imbellettiamo la realtà, è davvero disperante. Manette agli evasori, abrogazione della prescrizione, pene “americane” per il falso in bilancio e l’intralcio alla giustizia, tolleranza zero verso il “concorso esterno”, restano un “vade retro Satana” per quel governo che non ha esitato a salassare esodati e pensionati, poveri e ceti medi. A che serve ribellarsi, senza una forza politica che trasformi la rivolta in voti, e dunque in un governo di “giustizia e libertà”? Verissimo: questa forza non c’è, e il catalizzatore che la farà nascere non si crea a tavolino. Ma intanto va coltivato il brodo di coltura in cui potrà cristallizzare: la rete di lotte diffuse, iniziative individuali, rivendicazioni locali, i club, la scelta di un giornale, l’esercizio della critica e della solidarietà sul territorio e nel web, dipendono esclusivamente da noi, dalla nostra “inventività civica”. Sembrano impotenti perché frammentarie e isolate. Ma dieci anni fa bastò il catalizzatore di un “resistere, resistere, resistere” e di un “con questi dirigenti non vinceremo mai” per ritrovarsi in piazza in oltre un milione. Oggi può avvenire lo stesso, a partire da una testata giornalistica, un sindacato che non si piega, un appello contro un’indecenza di establishment che passi il segno, il combinato disposto di questi o altri fattori. Non sappiamo quando, ma il brodo di coltura lo creiamo noi, quotidianamente. (17 aprile 2012) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/usciamo-dal-gorgo/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. (SENZA COMMENTO NON LO MERITA) Inserito da: Admin - Aprile 26, 2012, 06:11:14 pm Il nostro 25 aprile
Lettere dai partigiani: "Cari ragazzi, ricordatevi del 25 aprile" di Paolo Flores d’Arcais, da Il Fatto quotidiano, 25 aprile 2012 L’antifascismo non è un optional. La convivenza civile si basa sulle leggi, le leggi sulla Costituzione, la Costituzione solo su un fatto storico che la legittima e che regge dunque l’intero ordinamento. Per l’Italia democratica questo fatto si chiama Resistenza antifascista. Se viene meno il riconoscimento della Resistenza crolla l’intero castello di legittimità. Per questo il 25 aprile è festa nazionale: perché l’identità dell’Italia democratica, della nostra Patria, ha il suo ultimo fondamento nella vittoria della Resistenza antifascista, nella frase “Aldo dice 26x1”, con cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia dà l’ordine dell’insurrezione generale e i partigiani liberano le grandi città del nord da nazisti e fascisti prima dell’arrivo delle truppe alleate. Patriottismo costituzionale a antifascismo fanno dunque tutt’uno. I funzionari pubblici che giurano sulla Costituzione compiono spergiuro ogni volta che non sono coerenti con i valori della Resistenza. E anche il semplice a-fascismo segnala drastica indigenza di patriottismo. Chi non è antifascista non è un autentico italiano. Chi poi è anti-antifascista è semplicemente un nemico della Patria. Oggi purtroppo l’antifascismo è in minoranza, maggioritaria è la morta gora dell’indifferenza. I giovani nulla sanno dell’epopea della Resistenza a cui devono la libertà di cui godono. Colpa delle generazioni che avrebbero dovuto educarli, di un establishment che ha seppellito l’antifascismo nella retorica di celebrazioni bolse ed ipocrite, o peggio. I governi democristiani, da perfetti sepolcri imbiancati, commemoravano il 25 aprile mentre trescavano con ogni risma di neofascisti e rottami repubblichini. Il regime berlusconiano ha voluto azzerare ogni memoria antifascista, portando “risma e rottami” al governo, in un progetto coerente di sovversione della Costituzione. La nostra convivenza civile poggia oggi sul vuoto. Ricostruire quel supremo “bene comune” che è l’identità della Patria repubblicana è perciò un compito morale, culturale e politico prioritario e di lunga lena. Che deve bandire la retorica, restituire ai giovani l’epos di rivolta che è stata la Resistenza e sopratutto la sua attualità in ogni lotta odierna per “giustizia e libertà”. da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-nostro-25-aprile/ Titolo: Firenze, sabato 28 aprile, verso una nuova sinistra. NE AVREMMO BISOGNO. Inserito da: Admin - Aprile 26, 2012, 06:13:01 pm 26
apr 2012 Un Nuovo Soggetto Politico e la fiducia dei cittadini Firenze, sabato 28 aprile, verso una nuova sinistra. Non un’altra entità politica. Ma un soggetto in grado di instaurare “uno stile di relazione e di azione” completamente nuovo per restituire spessore a “una vita pubblica logorata”. Dopo il Manifesto lanciato all’inizio di aprile, il Soggetto Politico Nuovo parte da Firenze. Da un’assemblea, prevista per il 28 aprile, in cui sperimentare un metodo di lavoro democratico e partecipativo. Per arginare la crisi del sistema dei partiti e restituire fiducia ai cittadini nei confronti del sistema parlamentare. E dopo la vittoria di Hollande al primo turno delle presidenziali francesi cresce l’idea di mettere in cantiere una nuova sinstra. Partecipazione e cittadinanza. Crisi della democrazia, dei diritti sociali, del lavoro, del Welfare. E poi la crescita, smisurata, delle “diseguaglianze e delle ingiustizie sociali, l’insostenibilità della situazione economica”. L’obiettivo: la costruzione “di uno strumento costituzionale di partecipazione della cittadinanza alla vita democratica del paese, che intende essere protagonista non marginale né minoritario della lotta politica”. Uno strumento democratico nei suoi assetti interni, “orientati al rigoroso principio di legalità e a un’assoluta trasparenza e condivisione dei processi decisionali”. Il programma. Cinque i punti all’ordine del giorno: Il nome da dare al movimento, il modo di “stare dentro la battaglia in corso per i diritti del lavoro, e in particolare il tentativo di liquidare, o di limitare, le garanzia dell’art.18”. Poi il tema delle elezioni – “perché quanto avverrà in Italia nel 2013 avrà un effetto decisivo sul destino della nostra democrazia” – e quello dell’individuazione di “quadri di senso programmatici, per l’altra Italia e l’altra Europa che vogliamo”. Infine l’organizzazione: “Dovremo strutturare la nostra presenza a rete nei territori, e trovare una forma di coordinamento dando vita ad una struttura non centralistica, ma neppure acefala. Cosa bella a dirsi, difficile a farsi”. Qui il sito del Nuovo Soggetto Politico. Tra i primi firmatari del Manifesto: Paul Ginsborg, Ugo Mattei, Luciano Gallino e Stefano Rodotà. da - http://saviano.blogautore.repubblica.it/2012/04/26/un-nuovo-soggetto-politico-e-la-fiducia-dei-cittadini/?ref=HREA-1 Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Bersani, Vendola e Di Pietro, adesso tocca a voi Inserito da: Admin - Maggio 10, 2012, 11:34:05 pm Bersani, Vendola e Di Pietro, adesso tocca a voi
di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 10 maggio 2012 Cari Bersani, Di Pietro, Vendola (e naturalmente D’Alema, Veltroni e compagnia cantando), vi rendete conto che ormai il problema siete voi? Vi è rimasta un’oncia di lucidità per capire che il futuro del centrosinistra dipende dalla vostra disponibilità a passare il testimone promuovendo gruppi dirigenti radicalmente nuovi? Se vi poniamo queste domande non è per polemica, e meno che mai per provocazione, ma per REALISMO, come doverosa presa d’atto di una situazione ormai chiarissima, che solo i ciechi riescono a evitare di vedere. In due parole: sono vent’anni che vince le elezioni chi conquista (almeno nell’immaginario) la piazzaforte dell’antipolitica. Berlusconi si presentò come “imprenditore”, contro Occhetto “politicante”. E Prodi vinse enfatizzando il “valore aggiunto” di società civile dell’Ulivo rispetto ai partiti della coalizione. Ora siamo al passo successivo: tutta la partita si gioca nell’antipolitica, cioè nell’altrapolitica, rispetto alla morta gora che sono (con buona pace di Napolitano) i partiti esistenti. Berlusconi lancerà una nuova “forza”, perché il Pdl è ormai vissuto come un partito. Casini ha ammesso che il terzo polo non nascerà, e la nuova “forza” conservatrice la potranno fondare solo Passera&Co., i “tecnici” non i politici, candidando Monti alla presidenza della Repubblica. A sinistra, se non vi levate di torno (voi e tutta la nomenklatura dei burocrati grandi e piccoli, allevati come “polli in batteria” nelle manovre di corridoio e nelle stanze dei bottoni, compresi gli infiniti “giovani” nati vecchi, alla Renzi e Civati) sarà un esodo biblico verso il Movimento 5 Stelle, che coinvolgerà anche chi trova detestabile la dittatura carismatico-mediatica di Beppe Grillo, ma riconosce (e simpatizza con) la pulizia e la passione civile dei candidati del suo movimento. È sperabile perciò una vostra “Damasco”, che vi liberi dalla tentazione di restare abbarbicati alle poltrone e agli strapuntini, alle interviste e ai talk-show. C’è da domandarsi, anzi, perché non ve la impongano i militanti di base del Pd, Sel, Idv, che pure esistono (questo giornale li ha incontrati, a centinaia, ogni volta che ha organizzato un dibattito), che spesso assomigliano in energia e pulizia alle giovani leve di M5S, ma che con la loro passività diventano corresponsabili delle nomenklature nell’harakiri in atto. Dite “basta!”, imponete primarie vere, con pari risorse e pari chance: un candidato della società civile le vincerebbe a mani basse. Solo così la sinistra avrà la possibilità di prevalere sulle destre vecchie e nuove. (10 maggio 2012) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/bersani-vendola-e-di-pietro-adesso-tocca-a-voi/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. - (se questa è la sinistra poveri noi). Inserito da: Admin - Maggio 21, 2012, 05:46:42 pm Contro la strategia della tensione, rivolta democratica
di Paolo Flores d'Arcais Non è vero che non abbiamo paura. Abbiamo paura eccome! Non aver paura sarebbe folle. Chi ha compiuto l’atroce e lurido crimine di Brindisi è convinto dell’impunità, altrimenti non avrebbe osato un delitto talmente esecrando ed esecrato (perfino dalla criminalità comune) che, se scoperto, promette il linciaggio in carcere. Chi ha compiuto l’orrore sa di avere spalle coperte, copertissime. E’ certo di far parte di una potentissima “strategia della tensione”, informale o formale che sia. Abbiamo paura e rabbia, un’infinita e democratica rabbia. Vogliamo trasformare entrambe in azione politica di democratica rivolta. In Italia orrori di così ributtante cinismo li abbiamo già visti troppe volte: nell’immediato dopoguerra, quando a Portella della Ginestra si vuole terrorizzare il movimento sindacale e la speranza/incubo (dipende per chi) di un domani “rosso”. Negli anni successivi al ’69, da piazza Fontana a Milano a piazza della Loggia a Brescia, la strage è di Stato, un intreccio di criminali neofascisti, mafie, servizi deviati (e politici di riferimento), con cui i settori eversivi (molto ampli) dell’establishment (non solo politico) esorcizzano nel sangue il timore di un rinnovamento democratico sull’onda lunga del sessantotto studentesco e operaio. Nel ’91-’93 le stragi sono il volto osceno di una trattativa tra mafie e establishment (soprattutto politico, ma non solo) per paralizzare nel sangue, una volta di più, un rinnovamento democratico che il tracollo del Caf fa avvertire plausibile e prossimo. Poi il quasi ventennio berlusconiano, regime in cui i settori eversivi (molto ampli) dell’establishment vanno direttamente al governo e la strategia della tensione e delle stragi sarebbe autolesionista. Ora la strategia della tensione è tornata, strategia di morte puntuale come la morte, perché le macerie cui il berlusconismo ha ridotto il paese, e la mancanza di un’alternativa parlamentare (l’opposizione Pd invischiata fino al midollo in due decenni di inciuci e leggi bipartisan contro la legalità), hanno portato la fiducia dei cittadini nei partiti (complessivamente presi!) ad un comatoso quattro per cento. E perciò da questa crisi verticale potrebbe uscire come soluzione anche un rinnovamento vero della democrazia italiana, la realizzazione della Costituzione anziché il suo affossamento (la parola “crisi” in cinese è composta da due ideogrammi, “pericolo” e “opportunità”, che in politica equivale a speranza). Non ha senso azzardare chi specificamente abbia realizzato l’infame attentato di Brindisi, ma sarebbe assurdo non dire quello che anche un bambino capisce: la paura di una soluzione democratica della crisi alle prossime elezioni, con una maggioranza in cui una presenza massiccia di società civile garantisca la fine del berlusconismo e dello spadroneggiare delle illegalità di ogni risma, costituisce un incubo incombente e immediato per i mille strapoteri che sulla illegalità lucrano e metastatizzano. Da esorcizzare, una volta di più, nel sangue di cittadini innocenti: dall’impudenza di colpire le due personalità più scortate del paese (Falcone e Borsellino) a quella di uccidere ragazze adolescenti che entrano a scuola. E’ l’impudenza illimitata di chi pensa che detterà sempre e comunque le proprie condizioni, e può spingersi perciò a qualsiasi orrore perché non pagherà mai. Perché nessuno ha pagato, per tutto il sangue del dopoguerra. Tranne qualche pesce piccolo, qualche “scartina”. Gli assi, i re, i jolly di questo mostruoso “gioco al massacro” sono sempre restati e restano più che mai i padroni del tavolo. Riveriti, anzi. Omaggiati. Chiamati in mille interviste e porte a porte a fare gli oracoli su come combattere il potere illegale ed eversivo che essi stessi sono. Che sia iniziata una “seconda trattativa” perché l’Italia delle ingiustizie conosca come unico rinnovamento possibile quello del gattopardo, è l’ipotesi che razionalità e storia impongono. Saremo felici se dovremo riconoscere di esserci sbagliati, e che si tratti di un crimine orrendo ma senza “santi in paradiso”. Ma troppe volte abbiamo visto in questi decenni che solo i depistaggi di establishment hanno – anche molto a lungo, purtroppo – consentito versioni del genere. Oltre all’impegno per smascherare ogni depistaggio (che si realizza per atti ma anche per omissioni) da parte di ciò che resta in Italia di giornalismo degno del nome, e che si spera avrà un sussulto anche al di là di quel paio e poco più di testate che il giornalismo già onorano, urgentissima è la necessità di una risposta democratica di massa. Nessun rituale “unitario” però: è davvero mera retorica, anche qualora sincera, pretendere di “unire tutti gli italiani”, quando se si vuole unire il 90% (si spera che tanti siano gli italiani onesti) bisogna voler combattere senza infingimenti e senza compromessi, con intransigente “tolleranza zero”, quel restante 10% di intreccio affaristico/politico/ istituzional-deviato/criminale. Il che significa una grande manifestazione di massa, subito, sabato prossimo a Roma, da affidare – per le decisioni su chi parlerà – a una figura incontestabile come don Luigi Ciotti, e che imponga al governo pochi e non negoziabili misure: dall’abrogazione di tutte le leggi ad personam alla reintroduzione con pene “americane” del falso in bilancio e della falsa testimonianza, all’introduzione (sempre con pene “americane”) di quello di “ostruzione di giustizia e alle altre misure che tutti conoscono e troppi nell’establishment (anche non “colluso”) non vogliono realizzare per una affinità di classe che di fronte alla barbarie di Brindisi non è più tollerabile. Vedremo allora alla prova dei fatti chi vuole liberare l’Italia e chi ha scelto invece la convivenza con i “mostri” della continuità del potere. ps. L’ipotesi di un “crimine locale”, che è circolata e circola e che non voglio affatto trascurare, non alleggerirebbe di un etto l’angoscia democratica per la situazione nazionale sopra descritta. Se a realizzare un crimine talmente mostruoso fosse stata una banda locale, vorrebbe dire che ormai è talmente diffusa nella malavita dell’intero paese la percezione che le autorità di governo hanno rinunciato ad un effettivo contrasto contro criminalità e illegalità (perché in tale criminalità e illegalità sono invischiati ormai pezzi decisivi e diffusi di “classe dirigente”), che anche una banda locale si lancia in gesta criminali che un tempo solo un potentissimo intreccio mafia/fascisti/apparati deviati si sarebbe permesso. (20 maggio) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/contro-la-strategia-della-tensione-rivolta-democratica/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Liste civiche, istruzioni per l’uso Inserito da: Admin - Giugno 04, 2012, 09:43:58 am Liste civiche, istruzioni per l’uso
di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 2 giugno 2012 D’improvviso “tutti le chiedono, tutti le vogliono...”. Stiamo parlando delle liste civiche, diventate di colpo, proprio come il Figaro rossiniano, “il factotum della città”, cioè della politica. Fino a ieri, invece, per chi le proponeva erano solo frizzi e lazzi, o peggio: un irridente silenzio. Questo giornale, praticamente dalla nascita, insiste sulla necessità di liste autonome della società civile (e su primarie vere di coalizione) come antidoto all’avvitamento e imbarbarimento della politica in partitocrazia. Ora si svegliano tutti. Come mai? E soprattutto con quali intenzioni? Il “come mai?” è semplice e si chiama Movimento 5 Stelle. Ai partiti il disprezzo degli elettori “non scuce un baffo” fino a che si traduce in assenteismo dalle urne (tanto, anche se vota la metà degli elettori, i seggi se li occupano e spartiscono tutti). Se però una percentuale a due cifre trasmigra verso Grillo, per le nomenklature sono dolori: la torta si riduce. Ora, lasciamo perdere il mondo berlusconiano e quello dei finti tecnici, insomma l’establishment e le due destre. Che senso possono e debbono avere, invece, liste civiche e primarie per la rappresentanza del Terzo Stato e per una politica di “giustizia e libertà”? Eugenio Scalfari vuole una lista civica propiziata da Saviano (anche se non si candida), e caratterizzata da una pregiudiziale: il sostegno al governo Monti. Proprio quello che non vuole la società civile mobilitata nelle lotte e nelle campagne di opinione. Scalfari, in sostanza, vuole una lista di “portatori d’acqua” al Pd, piena di bei nomi e che faccia il pieno dei voti in fuga da Bersani &C. E non parla di primarie. Lo fanno, invece, i “giovani” della fronda Pd (Civati, Concia, Scalfarotto, ma soprattutto l’anziano Parisi, prodiano doc e fondatore del Pd) che in compenso rifiutano le liste civiche. Ma primarie e liste civiche (al plurale) non possono essere messe in contrapposizione. Sono entrambe necessarie perché nella loro sinergia restituiscano agli elettori democratici un briciolo di sovranità. Altrimenti questi ultimi restano a casa o emigrano chez Grillo. La coalizione di centrosinistra può vincere solo se si apre alla società civile da anni critica e ostile alle scelte di inciuci e subalternità (si chiamino Berlusconi, Marchionne, Monti, anche se non assimilabili). Solo se accetta vere primarie di coalizione, che affidino agli elettori la decisione sul programma politico, di cui i candidati premier in concorrenza – dirigenti di partito, sindacalisti, giuristi, preti... – saranno l’espressione. Bersani accetta la sfida? (2 giugno 2012) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/liste-civiche-istruzioni-per-l%E2%80%99uso/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Il Terzo Stato della Fiom e l’alternativa di governo ... Inserito da: Admin - Giugno 17, 2012, 06:37:40 pm Il Terzo Stato della Fiom e l’alternativa di governo che ancora non c’è
di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano Quello organizzato dalla Fiom sabato 9 giugno è stato un vero e proprio vertice pubblico di tutte le forze della sinistra. A discussione avvenuta, è doveroso trarne “bilanci e prospettive”. Primo. Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, ha presentato un vero e proprio programma di governo. È partito dalle condizioni dei lavoratori in fabbrica (il che significa anche in mobilità, cassa integrazione, precarietà, disoccupazione), dimostrando come non si cambino (in meglio) queste condizioni senza affrontare i temi della legalità, della rappresentanza, dell’informazione, della scuola, della ricerca, dell’ecologia, della “governance” europea... E su ciascuno di questi temi ha dato indicazioni assai chiare sull’orientamento che deve avere un programma di governo nel quale la parola “equità” non sia una beffa. Infine, e come logica conseguenza, Landini ha spiegato che per la Fiom è all’ordine del giorno la necessità che con questo programma si realizzi la rappresentanza elettorale-parlamentare di lavoratori, precari, disoccupati, pensionati… insomma del Terzo Stato. Che oggi non c’è. Secondo. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha risposto no a tutti i punti programmatici qualificanti. Un no talvolta mascherato (“sull’articolo 18 abbiamo ottenuto una difesa sostanziale…”, e giustamente arrivano i fischi) ma nella sostanza inequivocabile. I due programmi, della Fiom e del Pd, sono diversi e perfino alternativi. Di Pietro ha già rivendicato i comportamenti del suo partito in linea con la linea Fiom (Ferrero e Diliberto, per quel che conta, l’hanno sottoscritta perinde ac cadaver), Vendola ha invece fatto lo slalom, con quel linguaggio fumoso che scambia per poesia. Ma alla fine dovrà decidere. Terzo. È possibile una convivenza tra le forze che queste due organizzazioni, Fiom e Pd, rappresentano? Oppure, anche in presenza della legge elettorale maggioritaria “Porcata”, è inevitabile che vadano alle urne divise, propiziando una vittoria delle destre? Naturalmente si può obiettare che un sindacato non può occuparsi di elezioni parlamentari, ma è evidente che quando, partendo dalle condizioni di fabbrica, si arriva – giustamente – a ritenere ineludibili determinati temi programmatici politico-generali, quel sindacato è obbligato a dare indicazioni elettorali. Tanto più che è diventato, per le sue lotte e la sua coerenza, un punto di riferimento per una opinione pubblica assai vasta (e per molte lotte della società civile). Quarto. Con l’attuale “Porcata” una divisione sarebbe ovviamente una iattura. Ma l’unico modo perché non si consumi è che l’alleanza elettorale che dovrebbe tenere unite Pd Fiom e altre forze sia affidata, per la scelta del programma e dei candidati, ai cittadini stessi. Primarie, insomma. Primarie vere. Bersani ha promesso le primarie, ma nel solito involucro di nebbia, cioè di ambiguità quanto alla sostanza. Perché ha parlato di primarie “aperte”, il che in buon italiano significa che può partecipare chiunque rientri nell’ampio e variegatissimo spettro del centrosinistra, ma uno dei suoi più “fedeli”, Stefano Fassina (da ultimo onnipresente nelle tv), ha spiegato che prima si decide il programma e poi solo chi lo sottoscrive può partecipare alle primarie. Non ha spiegato, però, CHI lo decide il programma, se le primarie devono essere “aperte”. Perché se il programma lo decide il Pd, o un vertice tra Pd e Vendola, anziché gli elettori stessi del centrosinistra, le primarie non sarebbero affatto “aperte” ma sarebbero “chiuse”, e anzi assai più “chiuse” della famose “case” prima che arrivasse la legge Merlin. Quinto. I vari “attori” della discussione a sinistra, o almeno qualcuno di essi , sono pronti a decidere su questo punto cruciale senza ulteriori ambiguità? Sono pronti a parlare secondo Matteo 5,37, “il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal Maligno”? Di Pietro, Vendola, e soprattutto la Fiom, sono decisi a porre la questione delle primarie-per-il-programma (oltre che per i nomi, evidentemente: ma legati ai programmi) in modo ultimativo? Se non lo fanno consegnano ai vertici del Pd (per altro rissosi e divisi) il patrimonio di credibilità fin qui accumulato, e dunque lo disperdono, poiché il risultato sarà milioni di cittadini di sinistra che si rifugiano nell’astensione o votano faute de mieux il movimento di Beppe Grillo. Come si potrebbe dar loro torto? Sesto. Forse già troppo tardi. Tuttavia il sondaggio realizzato da Pagnoncelli per Ballarò indica quali margini ancora sussistano: nelle primarie a sinistra il primo posto viene conquistato dal “candidato della società civile ancora sconosciuto”. In altri termini: se ci saranno primarie vere, e in esse ci sarà un candidato credibile della società civile (proposto o comunque “catalizzato” dalla Fiom, unico soggetto organizzato che abbia oggi l’autorità morale necessaria) potrebbe fermarsi il mare di consensi in emigrazione verso Grillo e non-voto, e potrebbe essere sventato il rischio della vittoria delle destre “decenti”, la cui nuova configurazione si va delineando (il partito cattolico di Passera-Bonanni benedetto da Bagnasco, la lista dei tecnici di Monti in tutte le varianti immaginabili, ecc.). Insomma: perché al governo vada l’alternativa della “democrazia presa sul serio” e del Terzo Stato “giustizia e libertà” è necessario che si pronuncino subito in modo “chiaro e distinto” Landini/Airaudo, Di Pietro, Vendola, ma anche gli intellettuali – presenti o meno al convegno – che rappresentano aree di opinione vaste e identificabili (“Libertà e Giustizia”, “Alba”, “Libera”, ecc.). E i sindaci, De Magistris in primis. Altrimenti per la sinistra ci sono solo le calende greche, come dire il giorno del mai. (16 giugno 2012) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-terzo-stato-della-fiom-e-lalternativa-di-governo-che-ancora-non-ce/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Chi indebolisce le istituzioni? Inserito da: Admin - Luglio 18, 2012, 11:08:52 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Paolo Flores d'Arcais >
Chi indebolisce le istituzioni? di Paolo Flores d'Arcais | 18 luglio 2012 Domani si commemorano a Palermo i venti anni dall’eccidio di via D’Amelio, la strage in cui vengono trucidati Paolo Borsellino e gli uomini e donne della sua scorta. La strage con cui la mafia si libera di un uomo delle istituzioni, di un servitore integerrimo dello Stato che perciò si oppone a ogni trattativa tra Stato e mafia, trattativa che avvilisce lo Stato davanti a un anti-Stato che si farà ancora più tracotante. Con che coscienza, domani, si potrà dire nei discorsi ufficiali che lo Stato vuole continuare nell’impegno contro la mafia con l’intransigenza che fu di Falcone e Borsellino? Con che coscienza si potrà domani riaffermare che lo Stato vuole davvero tutta la verità su quella trattativa ormai accertata, ed evidentemente indecente, se altissimi funzionari coinvolti continuano a negarla, e in ogni accenno di telegiornale viene pudicamente derubricata a “presunta”? Qui vogliamo prescindere da ogni polemica sulla decisione del Quirinale di aprire un conflitto contro la Procura di Palermo presso la Corte costituzionale. Illustri giuristi hanno già spiegato perché sia improponibile, e altri che non vogliono rinunciare alla logica e al diritto lo faranno nei prossimi giorni. Ma assumiamo come ipotetica del terzo tipo che la mossa di Napolitano sia giuridicamente difendibile, che cosa indebolirebbe di più la credibilità dell’istituzione più alta, la trasparenza su quanto è intercorso tra Mancino e il Presidente o la pervicace volontà che tutto resti piombato nel segreto? Lo domandiamo a Michele Ainis, Carlo Galli, Stefano Folli e Ugo Di Siervo, che sui quattro più diffusi quotidiani del paese (Corriere della Sera, Repubblica, Sole 24 Ore, Stampa) affermavano ieri all’unisono che il problema cruciale è impedire che il Colle sia indebolito come “punto di equilibrio del sistema”. Benissimo. Ma è un fatto che Mancino ha parlato almeno otto volte col consigliere giuridico di Napolitano, il quale nelle registrazioni afferma costantemente di essersi consultato col Presidente nell’attivarsi secondo i desiderata del Mancino stesso. D’Ambrosio millantava e il Presidente era all’oscuro di tutto? O, messo al corrente, ha dato disposizioni che a un molesto Mancino venisse cortesemente messa giù la cornetta? E proprio questo magari si evincerebbe dalle due telefonate dirette tra Mancino e Napolitano? Non sarebbe meglio, proprio per non indebolire il Colle, una parola chiara del Presidente che ribadisca come, esattamente nella sua funzione di “punto di equilibrio del sistema”, ogni suo discorso con Mancino era ineccepibile, a prova di divulgazione? Il Fatto Quotidiano, 18 Luglio 2012 da - http://www.ilfattoquotidiano.it/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Cari presentabili, dite qualcosa Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2013, 04:41:31 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Paolo Flores d'Arcais >
Cari presentabili, dite qualcosa di Paolo Flores d'Arcais | 16 gennaio 2013 Un magistrato, Pietro Grasso, tre giornalisti, Massimo Mucchetti, Rosaria Capacchione e Corradino Mineo, due filosofi, Michela Marzano e Franco Cassano, ma si potrebbe continuare. Sono solo alcuni dei nomi che danno lustro alle liste del Partito democratico, personalità della società civile che hanno più che meritato nel loro campo professionale, e che dunque con le loro ineccepibili credenziali costituiscono l’atout irrinunciabile con cui il Pd prova a far dimenticare a tanti elettori, delusi e tentati dal non-voto, anni di inciuci, di subalternità, di latitanza (“Di’ qualcosa di sinistra” e “Con questi dirigenti non vinceremo mai” sono i fotogrammi indelebili di quegli anni). Sono i fiori all’occhiello senza i quali le liste del Pd risulterebbero indigeribili anche agli stomachi più avvezzi ai grigiori di apparato e alle mediocrità di nomenklatura. Bersani ha svolto personalmente un lavoro di convincimento, perfettamente consapevole che senza questo “pacchetto di mischia” della società civile diffuso in tutte le circoscrizioni non avrebbe recuperato – malgrado il fuoco d’artificio delle primarie – neppure un’oncia dei milioni di elettori perduti negli scorsi anni. Dunque, ciascuna delle personalità che abbiamo citato possiede, anche singolarmente e più che mai assieme alle altre, un potere enorme, una vera e propria golden share: possono dire a Bersani “o noi o loro” ed essere sicuri di vincere qualsiasi resistenza, di vedere la loro richiesta accolta integralmente. “Loro” sono, ovviamente, gli impresentabili, quella lunga processione di candidati che smentiscono i principi etico-politici che il Pd ricamerà su ogni manifesto e di cui il segretario Bersani e ogni altro dirigente si riempie la bocca in ogni talk show. Vladimiro Crisafulli detto Mirello è diventato il loro simbolo, ma i molti altri segnalati puntualmente su questo giornale non sono certo da meno. Non hanno condanne definitive, sfuggono alle maglie assai larghe del “codice etico” del Pd, ma costituiscono antropologicamente (e talvolta lombrosianamente) la perfetta antitesi dei Grasso, Mucchetti, Capacchione, Mineo, Marza-no, Cassano… Dipende solo da questi ultimi, se i Crisafulli & Co. entreranno in Parlamento a discreditarlo ulteriormente o saranno lasciati a casa. Basta che dicano con semplicità e fermezza a Bersani “o noi o loro”, e saranno esauditi all’istante, magari facendo felice un Segretario a cui era mancato il coraggio. Avete in mano la carta della decisione, potete davvero far finta di nulla? In coscienza, ve la sentite? Il Fatto Quotidiano, 15 Gennaio 2013 da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/16/cari-presentabili-dite-qualcosa/471190/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Che aspetta il Ppe a cacciare Berlusconi? Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2013, 11:30:39 pm Che aspetta il Ppe a cacciare Berlusconi?
di Paolo Flores d’Arcais*, da Libération, 28 gennaio 2013 Nella “resistibile ascesa di Silvio B”, che ha ridotto l’Italia a macerie morali e culturali, oltre che economiche e istituzionali, il Partito Popolare Europeo ha non poche responsabilità. La legittimazione di Berlusconi, voluta soprattutto dalla signora Merkel e dal premier spagnolo Aznar, addirittura tra fanfare di entusiasmo, ma avallata da tutti i partiti membri del Ppe, compresa dunque l’Ump di Sarkozy e di Copé, ha aiutato in modo decisivo il Cavaliere di Arcore a superare alcuni momenti di crisi che senza l’appoggio internazionale avrebbero anche potuto decretarne la fine politica (il che, sia chiaro, non diminuisce di un grammo la colpa dei milioni di italiani che colpevolmente lo hanno votato, in un tripudio masochistico di “servitù volontaria”). Ora il Ppe sembra pentito, sembra domandarsi se espellere Berlusconi, avendo scelto di giocare, in Italia, la carta di Monti e della sua nuova alleanza “centrista”. Ma lo fa alla sua maniera: poiché è un partito europeo di ispirazione cristiana, cerca di adeguarsi al modello di una figura del Vangelo. Peccato che abbia scelto un “non protagonista”, il procuratore di Giudea Ponzio Pilato. Il Ppe, insomma, della questione Berlusconi “se ne lava le mani”, almeno prima delle elezioni. Avesse scelto il protagonista vero, un profeta apocalittico di Galilea ai suoi tempi semisconosciuto, Yeoshua ben Joseph, giustiziato sulla croce come “lestos” (bandito) ai tempi dell’imperatore Tiberio, il Ppe si sarebbe attenuto ad uno dei suoi insegnamenti, che recita “il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal Maligno” (Mt 5,37). E’ infatti ormai chiaro a tutti che Berlusconi e il suo partito (come del resto la Lega Nord una volta di più sua alleata) non ha nulla a che vedere con la democrazia, neppure nella sua accezione di destra, e costituisce invece la versione italiana del lepenismo (o del putinismo, se si preferisce): l’aggressione populistica, nutrita anche di razzismo e se necessario di clericalismo, contro la costituzione repubblicana. Una miscela eversiva che cerca di vellicare i fondali psichici più inconfessabili degli elettori, e che nel caso di Berlusconi può disporre anche di ricchezze illimitate e del monopolio della televisione commerciale, una concentrazione di poteri che già di per sé costituisce un vulnus per la democrazia liberale (anche se B. non avesse un ruolo politico). Aspettando i risultati elettorali per porre l’espulsione di Berlusconi all’ordine del giorno, il Ppe compie – questa volta per omissione – un nuovo gesto di sostegno a uno dei politici più inguaribilmente e antropologicamente ostili alle regole della convivenza civile, visto il crescendo di violenza verbale e di aggressione mediatica che Berlusconi ha scatenato contro i magistrati che fanno il loro dovere. Non solo, il Ppe continua di fatto a legittimare un personaggio politico che ormai rivolge accuse di golpismo, di complotti e insomma di grande delinquenza proprio ad altri dirigenti europei del suo stesso partito, in primo luogo alla cancelliera tedesca (le accuse alla signora Merkel sono in genere accompagnate anche da ingiurie di tipo personale). Come possa il Ppe tollerare tutto questo resta misterioso, a meno che Berlusconi non sia in grado di ricattare qualche personalità di vertice di tale partito. Altra spiegazione logica infatti non c’è. Ormai Berlusconi spara a zero sulle istituzioni europee, sull’euro, sulle banche tedesche pubbliche e private, cerca di fomentare rigurgiti di sciovinismo che suonano ridicoli fino a che non si rivelano pericolosi, ma il Ppe per il momento tace, rimanda, procrastina, benché sia evidente che non possa nemmeno invocare l’alibi della non-interferenza. Il diritto-dovere all’interferenza è infatti sancito sia a livello di istituzioni europee (ed è grave che le sanzioni prese contro Haider non siano state prese anche contro i governi di Berlusconi) sia a livello dei partiti sovranazionali quale appunto è il Ppe. Nei suoi statuti è solennemente sancita l’incompatibilità fra la propria carta dei valori e il comportamento di menzogne e aggressioni (anche personali) e di vera e propria ostilità contro gli ordinamenti della democrazia liberale (compresa la divisione dei poteri) che è ormai il quotidiano pane (meglio: caviale e champagne) del Cavaliere. Vista l’ispirazione cristiana del Ppe, sarebbe opportuno che i suoi dirigenti si rileggessero il Catechismo, dove è detto in modo inequivocabili che si pecca – con la stessa gravità e meritando lo stesso inferno – tanto per opere che per omissioni. Il Ppe, perciò, alla campagna elettorale in Italia sta già partecipando: al fianco di Berlusconi, per omissione, per non averlo ancora espulso. E di ogni voto che Berlusconi raccoglierà, Merkel e Copé e Rajoy saranno perciò, moralmente e politicamente, corresponsabili. * questo articolo è stato scritto una settimana fa (28 gennaio 2013) DA - http://temi.repubblica.it/micromega-online/che-aspetta-il-ppe-a-cacciare-berlusconi/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Berlusconi va cacciato dal Parlamento Inserito da: Admin - Marzo 02, 2013, 03:23:44 pm Berlusconi va cacciato dal Parlamento
All’opposto di quel che sostengono i teorici dell’inciucio, l’abc della governabilità consiste nel dare a Berlusconi un definitivo ostracismo. Come? Semplicemente applicando la legge del 1957 che dichiara ineleggibile chiunque goda di una concessione statale. Al Pd scegliere se stare con la legalità (e con M5S) o con l’illegalità del Cavaliere. di Paolo Flores d’Arcais Eugenio Scalfari – dallo schermo di Repubblica tv – ha trattato a pesci in faccia Bersani per la timidissima apertura a Grillo, e ha lanciato il suo ukase: s’ha da fare un governo di alleanza del Pd con Berlusconi e Monti, perché governabilità e stabilità sono il bene supremo. Scalfari da tempo è il più stretto compagno d’armi di Napolitano, le sue parole apodittiche suonano perciò come autorevolissima “sponda” a quella parte di nomenklatura del Pd, D’Alema in primis, che vuole l’inciucissimo. All’intelligenza di Scalfari sfugge tuttavia che l’abc della governabilità e della stabilità consiste nel dare a Berlusconi un definitivo ostracismo, lasciandolo fuori dal parlamento, e dunque anche “eguale di fronte alla legge” e a eventuali mandati di cattura. Se infatti Berlusconi esce definitivamente dalla scena politica crolla anche la sua coalizione, e lo spettro di nuove elezioni perde una parte del suo colore apocalittico. Questo abc è del resto facilissimo da realizzare, esiste la legge 361 del 1957 che dichiara ineleggibile chiunque goda di una concessione statale sia in proprio (proprietà effettiva) che come amministratore o manager. Questa legge deve essere applicata dalla Giunta delle elezioni, anziché da un magistrato, e dunque è stata sistematicamente violata. Ma al Senato la somma di centro-sinistra e M5S garantisce una forte maggioranza, si tratta solo di vedere se il Pd questa volta sceglierà di stare con la legalità (e con M5S) o con Berlusconi, calpestando la legge una volta di più. Questo abc di ogni possibile “stabilità” non solo è dunque facilmente realizzabile, non solo è democraticamente doveroso, poiché si tratta solo di rispettare la legge anziché sputacchiarla, ma oltretutto sarebbe anche nell’interesse del partito di Bersani (e di quello di Monti) perché porrebbe fine all’ipoteca putiniana su un quarto dell’elettorato, favorendo come nuovo centro-destra quello in loden e “presentabile”. Naturalmente Berlusconi e le sue Santanché farebbero fuoco e fiamme, di fronte ad uno scenario di legalità parlamentare finalmente rispettata. E allora? E poi? Chiamerebbero alla piazza? Forse, ma sarebbe un flop. Mentre immediatamente si scatenerebbe la diaspora tra le fila berlusconiane, definitivamente in rotta perché questa volta senza più speranza di essere risuscitate da bicamerali provvidenziali. Perfino i mercati reagirebbero meglio (o meno peggio), visto che da settimane la loro stampa internazionale non faceva che auspicare la fine politica del Cavaliere. Cosa osta, a tutto ciò (che va certamente in direzione dell’interesse nazionale, generale, e chi più ne ha più ne metta)? Solo quel po’ di demenza anti-repubblicana che evidentemente circola nel centro-sinistra, dove speriamo nessuno rispolvererà la giaculatoria “vogliamo battere Berlusconi per via politica e non con la legge”, come se il rispetto della legge non fosse un imperativo politico in democrazia ineludibile. Speriamo perciò che questa volta accada il miracolo del rispetto della legge, con i cittadini del M5S eletti al Senato che mettono i loro colleghi del centro-sinistra con le spalle al muro. p.s. da domani MicroMega lancerà su questo tema una campagna di opinione, con un appello, la raccolta di firme via web e altre iniziative. (28 febbraio 2013) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/berlusconi-va-cacciato-dal-parlamento/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Berlusconi ineleggibile, verso le 200 mila firme! Inserito da: Admin - Marzo 13, 2013, 05:31:54 pm Berlusconi ineleggibile, verso le 200 mila firme! Ma Napolitano mette il veto
Il direttore di MicroMega parlerà dell'appello oggi alla Zanzara (Radio 24, ore 18,30) e a Otto e mezzo (La7) in controversia con Sallusti. Tra le nuove adesioni segnaliamo quella di Luigi Zanda, senatore Pd: "Firmo il vostro appello. Ai sensi delle leggi italiane Berlusconi non è eleggibile in Parlamento. Se sarò chiamato al voto, mi comporterò di conseguenza". di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 13 marzo 2013 Il marcio ventennio berlusconiano può davvero finire tra pochi giorni. Ma Napolitano ha posto il veto: “bisogna garantire al Cavaliere la partecipazione politica”, così l’Ansa sintetizza nel titolo il senso di questa Immoral Suasion del Colle. Invece, 190 mila cittadini hanno già aderito, in poco più di una settimana, all’appello che tramite www.micromega.net Andrea Camilleri e Dario Fo, Margherita Hack e Barbara Spinelli, Franca Rame e Vittorio Cimiotta, e infine il sottoscritto, hanno lanciato perché il nuovo Parlamento finalmente rispetti la legge 361 del 1957 che rende Berlusconi inequivocabilmente NON eleggibile, e della quale uno spregevole inciucio ha fatto strame nelle passate legislature. Il primo ricorso, nel 1994, e il secondo nel 1996, ho avuto l’onore di firmarli insieme agli indimenticabili Alessandro Galante Garrone, Antonio Giolitti, Vito Laterza, Paolo Sylos Labini, Aldo Visalberghi. Che nel 1994 una maggioranza berlusconiana calpestasse la legge era purtroppo prevedibile: l’espressione “in proprio”, fu “miracolata” dalla Giunta delle elezioni in “in nome proprio”, con una interpretazione alla azzeccagarbugli, pretendendo che la ineleggibilità valesse per amministratori e manager ma non per i proprietari, per Confalonieri e non per Berlusconi. Che la stessa ingiuria alla legalità venisse inflitta nel 1996 dalla maggioranza dell’Ulivo resta invece un triste abominio, che il centro-sinistra ha purtroppo reiterato nella successiva vittoria elettorale. Ora Napolitano ci mette il suo carico da undici. Ma due giorni fa Vito Crimi, cittadino del M5S eletto al Senato, ha ufficialmente annunciato che i membri del M5S nella Giunta delle elezioni voteranno per il rispetto della legge e per dichiarare dunque Berlusconi NON eleggibile e NON eletto. Questa decisione ufficiale cambia completamente il quadro politico. E infatti: da molte parti si invoca un “dialogo” tra M5S e Pd, ma un dialogo sulle cose il M5S lo ha già avviato, su almeno tre questioni altamente qualificanti : rinuncia ai rimborsi elettorali (e successiva legge che li abroghi), accettazione di una presidenza della Camere, purché senza trattative, e infine la NON eleggibilità di Berlusconi. A questo punto è Bersani che deve rispondere, con un evangelico “sì sì, no no” (“perché il di più viene dal demonio”, Matteo 5,37) senza ciurlare nel manico. Quando la giunta delle elezioni del Senato si riunirà, gli esponenti del Pd voteranno insieme a quelli del M5S o a quelli del cieco di Arcore? Se voteranno per la legalità, affiancandosi al M5S, Berlusconi uscirà di colpo dalla scena politica, e di fronte alla legge, alle inchieste, ai processi, alle sentenze, sarà un cittadino eguale a tutti gli altri. Se fossi Nostradamus scommetterei che il giorno dopo la decisione del Senato (forse un minuto dopo) il putiniano di Arcore sarebbe già all’estero, malgrado l’uveite. Questa clamorosa svolta nella politica italiana è dunque a portata di mano, e si deciderà tra pochi giorni. Il moltiplicarsi delle firme all’appello di MicroMega è lo strumento perché l’indignazione democratica si trasformi in azione e costringa Bersani, Vendola e Renzi a dire senza più infingimenti se vogliono che l’Italia esca dalla vergogna delle macerie morali e materiali cui l’hanno portata Berlusconi e gli inciuci senza complessi di D’Alema, oppure se i loro “8 punti”, “rottamazioni” e altre” narrazioni” sono il solito ritornello gattopardesco con cui si vuole puntellare un potere di establishment avvitato nell’indecenza. Non si facciano illusioni: ogni titubanza, ogni contorsionismo verbale, ogni tentativo di procrastinare la decisione del Senato, saranno vissuti dai cittadini che ancora credono nella Costituzione repubblicana come complicità e omertà con Berlusconi e i suoi bravi. Perché di questo in effetti si tratterebbe. È semmai incredibile che lo squadrismo in botulino con cui i parlamentari Pdl hanno aggredito il palazzo di giustizia di Milano e l’autonomia della magistratura non abbia avuto risposta adeguata da parte del Pd. Non si tratta di un golpe, infatti, solo perché i protagonisti sono a livello della pochade, ma la volontà eversiva c’è eccome. Contro la quale in piazza il 23 dovrebbero magari scendere gli amici della Costituzione. (13 marzo 2013) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/berlusconi-ineleggibile-verso-le-200-mila-firme-ma-napolitano-mette-il-veto/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Ineleggibilità: domani due piazze, due Italie Inserito da: Admin - Marzo 24, 2013, 05:02:34 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Paolo Flores d'Arcais
Ineleggibilità: domani due piazze, due Italie di Paolo Flores d'Arcais | 22 marzo 2013 Domani a Roma ci saranno due piazze, due modi di intendere la politica, due Italie. A piazza del Popolo gli arruolati del berlusconismo, in una dovizia incommensurabile di mezzi finanziari e di potere mediatico, animati dal disprezzo verso la Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza antifascista e dall’odio verso i magistrati che obbediscono solo alla legge. Dall’altra a piazza Santi Apostoli, alle 17, i cittadini che chiedono la realizzazione della Costituzione e dei suoi valori di “giustizia e libertà”, in un clima francescano di povertà assoluta, aggrediti dal silenzio e dalla censura del monopolio Rai-Mediaset, che si vanno auto-organizzando attraverso l’invio di mail, sms, twitter, messaggi facebook, telefonate, per compensare con la passione civile la mancanza di mezzi e di informazione. Questa manifestazione sei tu. Ma sia chiaro: a piazza Santi Apostoli non si tratterà solo di “testimoniare” una scelta etica, bensì anche di intervenire nella politica, esserne protagonisti, contare. Perché la parola chiave della politica italiana suona oggi inequivocabile: ineleggibilità. Segna uno spartiacque che non consente più equivoci al Pd: o di qua o di là, o con il rispetto della legge 361 del 1957, che mette Berlusconi fuori del Parlamento, o con la perpetuazione di un immondo inciucio Pd-Pdl (una sorte di bicamerale 2!) che faccia risorgere il Le Pen di Arcore ancora una volta. La decisione di Bersani sull’ineleggibilità condizionerà in modo decisivo anche la soluzione della crisi di governo. Il M5S ha dichiarato il giorno stesso dell’apertura delle Camere che chiederà l’applicazione della legge. E il Pd? È ovvio che se “salvasse” di nuovo Berlusconi (calpestando la legge!), perderebbe la faccia e ogni credibilità acquisita con l’elezione di due figure non di apparato alle presidenze del Parlamento. E Bersani non può nemmeno praticare la politica di Ponzio Pilato, o cercare di tirare in lungo le cose nella “Giunta delle elezioni” del Senato. Qui la presidenza spetta all’opposizione: il Pd la darà al Pdl o al M5S? È lapalissiano che se consentisse l’elezione di un berlusconiano ogni ponte e ogni filo con il M5S, per quanto labile e ipotetico, sarebbe distrutto per sempre. Fin qui un solo dirigente del Pd ha scelto la via della legalità, cioè della ineleggibilità di Berlusconi, il senatore Luigi Zanda, che ha aderito molti giorni fa all’appello di MicroMega (ormai oltre le 230 mila firme). Zanda è stato successivamente eletto capogruppo Pd al Senato, segnale di ottimo auspicio. Ma tutto il resto del partito tace, a cominciare da Bersani. Per ragioni di evidente opportunità, è stato detto, visto che chiede l’incarico per formare il nuovo governo. A me sembra che proprio per questo la sua posizione sull’ineleggibilità di Berlusconi dovrebbe essere cristallina: per tagliare ogni ponte con le tentazioni di “governissimo” (eufemismo per “inciucissimo”) che pure albergano nel suo partito. Per battere in breccia i troppi che nel Pd sono pronti a confondere opportunità con opportunismo, e sperano che Napolitano prima o poi pieghi Bersani al “governissimo di scopo”. Ma tale “scopo” è stato sbandierato urbi et orbi da Berlusconi: un governo appoggiato da Pd e Pdl che garantisca al Cavaliere l’impunità tombale, attraverso il combinato disposto di interventi di Immoral Suasion sui magistrati e di leggi di amnistia e indulto. Bersani ha giurato “mai più con Berlusconi”. Si comporti allora di conseguenza. Faccia come il senatore Zanda. Assuma una posizione adamantina, dichiari che non solo il Pd voterà per la ineleggibilità di Berlusconi nella “Giunta delle elezioni” ma si impegnerà perché i lavori di tale commissione siano i più celeri possibili. E se si ritiene che l’etichetta istituzionale comporti che tra i vicepresidenti, questori, presidenti di commissioni, vi debbano essere anche dei parlamentari del Pdl (cosa niente affatto scontata, nei confronti di una forza politica che definisce i magistrati “cancro da estirpare” e “associazione mafiosa”), si eviti anche il minimo sospetto che si tratti di un segnale del Pd di equidistanza tra il M5S e lo squadrismo in botulino della gazzarra berlusconiana contro il palazzo di giustizia di Milano. da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/22/ineleggibilita-domani-due-piazze-due-italie/539232/ Titolo: FLORES D´ARCAIS Nuovo governo i saggi dell’inciucio e la salvezza di Berlusconi. Inserito da: Admin - Aprile 01, 2013, 06:11:02 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Paolo Flores d'Arcais >
Nuovo governo, i saggi dell’inciucio e la salvezza di Berlusconi di Paolo Flores d'Arcais | 30 marzo 2013 E’ difficile dire se i nomi proposti da Napolitano per le due “commissioni” costituiscano una indecenza o una esplicita provocazione contro milioni e milioni di cittadini che chiedono che si volti pagina. Si tratta infatti di “commissioni” per l’inciucio più spudorato, non per la soluzione dei problemi del paese. La commissione “istituzionale” vede il sen. Mario Mauro (cioè Monti), il sen. Gaetano Quagliariello (cioè Berlusconi) e il prof. Luciano Violante (che non rappresenta neppure il Pd, ma solo l’ala più becera del Pd). Secondo Napolitano il M5S non fa parte del Parlamento? Una epurazione del genere è al limite del golpismo. Quanto all’unico “intellettuale” o “tecnico”, l’ultima esternazione del professor Onida è avvenuta su Radio Popolare, rilanciata prontamente ed entusiasticamente dal Giornale (di Berlusconi) per sostenere che Berlusconi è perfettamente eleggibile (ma pensa un po’). Avevo sostenuto che Napolitano stava disputando a Cossiga il titolo di peggior Presidente della Repubblica, ma è ormai palese che lo ha definitivamente superato. Spero che una grande ventata di democratica indignazione sia già cominciata a soffiare tra i cittadini italiani che hanno ancora a cuore la Costituzione e i suoi valori di giustizia e libertà. Sia chiaro, Grillo e Casaleggio hanno fatto malissimo a non proporre loro un nome per la Presidenza del Consiglio, limitandosi a ripetere che “deve dare il governo a noi” (se non fate un nome per il Presidente del Consiglio nessuno può dare al M5S nessun incarico), ma è ormai lapalissiano che Napolitano vuole semplicemente salvare Berlusconi, malgrado in Parlamento vi sia per la prima volta una maggioranza potenziale che potrebbe decretarne l’ineleggibilità, liberando il paese dai miasmi di un quasi ventennio di illegalità, rendendo possibile una inedita soluzione governativa e consentendo all’Italia di tornare ad essere credibile in Europa. da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/30/nuovo-governo-saggi-dellinciucio-e-salvezza-di-berlusconi/547575/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. I cittadini chiedono un Presidente fuori dalla Casta! Inserito da: Admin - Aprile 05, 2013, 06:06:16 pm E ora un Presidente antiberlusconiano
I cittadini chiedono un Presidente fuori dalla Casta! di Paolo Flores d’Arcais, da Il Fatto quotidiano, 4 aprile 2013 Al Quirinale deve andare un Custode della Costituzione e dei suoi valori, unico pegno perché nei prossimi sette anni siano garantiti in modo eguale i diritti di tutti i cittadini. Accadesse diversamente sarebbe un’indecenza. È perciò doveroso che sul Colle più alto venga insediato un Presidente ostile a Berlusconi, visto che della nostra Costituzione repubblicana Berlusconi è un nemico dichiarato e sfacciato: ha cercato di calpestarla e sopprimerla, l’ha aggirata infinite volte (senza trovare al Quirinale i necessari “altolà!”), ha vilipeso i magistrati ligi solo alla “legge eguale per tutti” come mafiosi e metastasi, ha santificato i grassatori che derubano con l’evasione fiscale i cittadini onesti, ha esaltato come eroi i suoi stallieri/capicosca, ha riempito il Parlamento per quasi un ventennio di lenoni e prostitute, trasformandolo in una suburra, umiliando tale istituzione oltre ogni limite quando ha ottenuto che la sua maggioranza dichiarasse solennemente una meretrice “nipote di Mubarak” e dunque caso diplomatico. Nell’attuale Parlamento ci sono ampiamente i numeri per un Presidente di svolta, di restaurazione democratica, prodromo necessario perché l’Italia esca dal quasi ventennio di abiezione che l’ha ridotta a macerie. Berlusconi pretende invece un Presidente d’Immunità, l’opposto di un Presidente “giustizia e libertà” che i valori della Costituzione e il voto degli italiani esigono. Bersani e Grillo si assumerebbero una responsabilità imperdonabile, se – per opere o per omissioni – non eleggessero un tale Presidente, visto che ne hanno i numeri. L’eletto al Quirinale condizionerà almeno due legislature, oltre che le scelte immediate (il governo, e il se e quando di elezioni anticipate). Senza arrivare a definirli Presidenti d’Immunità (i potenti oggi hanno la querela facile, e tutti i nomi che faremo sono di gentiluomini) risulta lapalissiano anche ai bambini e ai sassi, che i prossimi sette anni sarebbero diversissimi per la vita civile, politica, sociale, se al Quirinale andassero Grasso anziché Caselli, Marini anziché Zagrebelsky, Veltroni anziché Laura Boldrini, Amato anziché Rodotà, Violante anziché Cordero, o un riconfermato Napolitano anziché Barbara Spinelli. E non dimentichiamo D’Alema anziché Prodi. Il Pd e il M5S hanno le carte di molti nomi per far vincere la prima mano all’Italia che vuole la rivoluzione morale della legalità e della lotta ai privilegi e alla corruzione. Non ascolti il Pd le sirene delle “larghe intese”, non ascolti il M5S le sirene dell’autoreferenzialità. (4 aprile 2013) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/e-ora-un-presidente-antiberlusconiano/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Berlusconi ineleggibile: Bersani si decida! Inserito da: Admin - Aprile 11, 2013, 11:45:07 am Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Paolo Flores d'Arcais >
Berlusconi ineleggibile: Bersani si decida! di Paolo Flores d'Arcais | 9 aprile 2013 Bene, benissimo! Un gruppo parlamentare dichiara solennemente che la decisione sulla ineleggibilità di Berlusconi va presa subito, che traccheggiare nella formazione della “Giunta delle elezioni” sarebbe uno scandalo, che di fronte a tale scandalo diventano giustificate proteste anche irrituali ed “estreme”, come l’occupazione delle aule parlamentari. Il M5S, nella conferenza stampa di ieri, per bocca dei suoi capigruppo, ha annunciato proprio questo. Costringendo il presidente del Senato Grasso a una contorta risposta, tutta sulla difensiva, e alla convocazione della “Giunta del regolamento” per decidere come procedere. Il regolamento del Senato è però chiarissimo: “Il Presidente, non appena costituiti i Gruppi parlamentari, nomina i componenti della Giunta per il Regolamento, della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari e della Commissione per la biblioteca e per l’archivio storico, dandone comunicazione al Senato”. I Gruppi sono stati costituiti il 19 marzo, Grasso poteva aver nominato la “Giunta delle elezioni” quasi tre settimane fa, la “Giunta del regolamento” è stata infatti già nominata. Perché questo ritardo? Lo capiscono anche i sassi: perché la “Giunta delle elezioni” può decidere, anche in tempi rapidissimi, l’esclusione di Berlusconi dal Parlamento, liberando il panorama politico italiano dal quasi ventennale incubo dell’illegalità e dell’inciucio. Nella “Giunta delle elezioni”, infatti, Pd e M 5 S hanno un’ampia maggioranza. Il M5S ha reiterato ancora ieri che voterà ovviamente per Berlusconi ineleggibile, prendendo sul serio la legge 361 del 1957, calpestata nelle precedenti legislature dal combinato disposto Caimano/D’Alema. Il capogruppo al Senato del Pd, Luigi Zanda, ha ripetuto la stessa cosa più volte, aderendo all’appello di MicroMega (250 mila firme) e addirittura regalando alla manifestazione di piazza Santi Apostoli le copie della Costituzione con cui tale manifestazione si è autofinanziata. I senatori del Pd vogliono smentire il loro capogruppo? Gli elettori Pd li inseguirebbero coi forconi. A questo punto Bersani non può più tacere. La “Giunta delle elezioni” può infatti decidere anche su modalità e ritmi del proprio lavoro. Se c’è la volontà politica di rispettare la legge (in una democrazia liberale dovrebbe andare da sé), Berlusconi può essere cacciato da Palazzo Madama entro qualche settimana. Bersani parli, dunque, perché un solenne impegno su Berlusconi ineleggibile avrebbe inevitabile influenza (benefica) anche sulla scelta per l’inquilino del Colle più alto. Il Fatto Quotidiano, 9 Aprile 2013 da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/09/berlusconi-ineleggibile-bersani-si-decida/557075/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Presidente della Repubblica: i nomi a 5S che Bersani ... Inserito da: Admin - Aprile 14, 2013, 11:18:55 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Paolo Flores d'Arcais >
Presidente della Repubblica: i nomi a 5S che Bersani non può rifiutare di Paolo Flores d'Arcais 14 aprile 2013 Il Movimento 5 Stelle ha offerto ieri alla politica italiana la chiave per una svolta che eviti al Paese il baratro e dia inizio alla ricostruzione. Nessuno, questa volta, potrà accusare il movimento di Grillo e Casaleggio di essere solo “distruttivo”. I dieci nomi usciti on line sono in schiacciante maggioranza adamantini nel loro essersi costantemente opposti al regime di Berlusconi che calpestava la Costituzione repubblicana e nell’essersi sottratti alle lusinghe dell’inciucio, anche quando inzuccherate di Alti Richiami al senso di responsabilità, autentica intimidatoria sequenza di Immoral Suasion per connubi contro natura tra “homo democraticus” e Caimano. Perciò l’Italia tra una settimana può davvero voltare pagina, uscire dall’incubo del quasi ventennio di regresso e di macerie, cominciare una faticosa ma finalmente possibile rinascita. Morale, economica, culturale, sociale, istituzionale. Ambiti indissolubilmente intrecciati, cui solo un Presidente intransigente nella fedeltà all’ethos repubblicano di giustizia e libertà può fornire l’orizzonte per l’improcrastinabile “nuovo inizio”. Basterà che il Pd metta da parte egoismi fratricidi, interessi di Casta, subalternità allo sbraitare berlusconiano. E che il M5S resti coerente con la splendida capacità propositiva appena dimostrata. Ci sono nomi talmente inattaccabili sotto ogni profilo etico e politico, tra quelli “nominati” dal M5S, che un rifiuto del Pd di votarli risulterebbe indecente fino all’incomprensibile: uno schiaffo ai propri elettori, oltretutto, vista la popolarità di cui godono nella base di Pd e Sel uno Zagrebelsky o un Rodotà o un Caselli. Un Pd che potendo portarli al Quirinale, preferisse “amorosi sensi” con Berlusconi per avere sul Colle più alto un D’Alema-Amato-Marini-ecc. di garanzia per il Caimano, firmerebbe il proprio suicidio, letteralmente “a furor di popolo”. Per il M5S coerenza significa invece non “impiccarsi” al nome che vincerà il ballottaggio: farne una bandiera per le prime tre votazioni, non un boa constrictor per le successive. L’Altra Italia di un’Altra Politica è a portata di mano, ma Berlusconi continua a far ululare folle prezzolate sulla solfa “anche noi al governo o elezioni a giugno” come fosse ancora il padrone del paese, sicuro di un potere di intimidazione che le reiterate aperture di Bersani per un “nome condiviso” alimentano. Ma il Presidente deve garantire i cittadini uniti dai valori della Costituzione, non i suoi affossatori a rota di impunità. Pd e M5S facciano la volontà dei propri elettori: un Presidente contro l’inciucio. il Fatto Quotidiano, 14 Aprile 2013 DA - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/14/presidente-della-repubblica-i-nomi-a-5s-che-bersani-non-puo-rifiutare/562101/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Ora il governo ombra dell’opposizione Inserito da: Admin - Aprile 30, 2013, 12:01:53 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Paolo Flores d'Arcais >
Ora il governo ombra dell’opposizione di Paolo Flores d'Arcais | 25 aprile 2013 Nella più antica democrazia d’Europa, quella anglosassone, dopo le elezioni non viene formato un governo: ne vengono formati due. La maggioranza dà vita all’esecutivo di Sua Maestà britannica, e l’opposizione al “governo ombra”. I cittadini possono in questo modo vedere confrontarsi giorno per giorno provvedimenti di legge in alternativa e contrapposizione, e valutare la credibilità morale e politica dei ministri che i due schieramenti propongono. Sarebbe dimostrazione di grande caratura istituzionale e coerenza democratica, oltre che di lungimirante intelligenza tattica, se i parlamentari del M5S si riunissero oggi (oggi, perché in politica è decisivo l’attimo fuggente, il kairòs che non perdona) per chiedere solennemente a Stefano Rodotà di formare il governo ombra di Sua Maestà il popolo sovrano. Nell’Italia dell’Inciucio, infatti, a differenza che in Albione, il governo Letta jr. rappresenta la minoranza del paese, anche se verrà plebiscitato dagli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama. La metà dei parlamentari che quegli scranni occupa è stata eletta nelle liste del Pd, da cittadini che avevano udito Bersani giurare “con Berlusconi mai, nessun accordo per nessun motivo” e promettere “una vera svolta”, più profonda (garantiva Bersani) di quella agitata da Grillo. Due italiani su tre hanno votato per voltare pagina, per chiudere col quasi ventennio di ruberia e impunità, che ha ridotto l’Italia a macerie. Si ritrovano invece con un governo Napolitano/Berlusconi (prossimo senatore a vita?), forse con la finta opposizione della Lega, per non dare alla vera opposizione del M5S le presidenze Copasir e Vigilanza che per regolamento gli spettano. Un governo ombra Rodotà sarebbe perciò l’adamantina risposta costituzionale, l’entusiasmante risposta politica, l’ineccepibile risposta parlamentare e istituzionale, al deprecabile “voltar gabbana” dell’intero ceto dirigente del Pd, che ha ingiuriosamente stracciato la parola data agli elettori e tradito la loro inequivoca volontà. Allargando a baratro il fossato profondissimo che già divide i cittadini dal Palazzo. Un governo ombra Rodotà otterrebbe non solo il sostegno di M5S e Sel, ma anche della pattuglia dei dissidenti del Pd che troveranno indecente condividere il governo con Mussolini e Santanchè, Cicchitto e Scilipoti. E soprattutto garantirebbe che la sacrosanta protesta popolare, che le misure del governo Letta jr./Alfano non faranno che alimentare e invelenire, saranno incanalate nell’alveo propositivo del vero riformismo, altrove introvabile. @Flores_dArcaisP Il Fatto Quotidiano, 25 Aprile 2013 ... da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/25/ora-il-governo-ombra-dellopposizione/574959/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Conflitto d’interessi, vietato parlarne Inserito da: Admin - Maggio 01, 2013, 11:09:58 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Paolo Flores d'Arcais >
Conflitto d’interessi, vietato parlarne di Paolo Flores d'Arcais | 1 maggio 2013 Siamo in piena “neolingua”, quella del Grande Fratello di orwelliana memoria: ieri sono state cancellate dall’italiano la locuzione “conflitto d’interessi” e il lemma “ineleggibilità”, i concetti stessi devono diventare impensabili, benché (o forse proprio perché) lungo tutta la campagna elettorale il Pd avesse giurato e spergiurato che porre fine al conflitto d’interessi era una questione sia di civiltà istituzionale che di efficienza economica, dunque cruciale e improcrastinabile. Immediatamente dopo le elezioni, il braccio operativo di Bersani, senatore Migliavacca, aveva anzi garantito che il Pd avrebbe votato per l’arresto di Berlusconi in caso di motivata richiesta di un pm, e il presidente dei senatori, Luigi Zanda, che Berlusconi andava dichiarato ineleggibile. Poi la rielezione di Napolitano e il “contrordine compagni!” con cui il Pd ha completato la sua mutazione antropologica in partito do-roteo postmoderno. “Con la lotta al conflitto d’interessi non si mangia”, è la giaculatoria d’ordinanza e d’amorosi sensi col Caimano, con cui la Casta-Pd cerca di tagliare la lingua a chi gli ricorda le promesse appena gettate al macero. Ma è proprio un liberista doc come Luigi Zingales, laurea alla Bocconi, PhD al Mit di Boston, professore all’Università di Chicago, editorialista del quotidiano della Confindustria, promotore della destra civile “Fermare il declino”, che va ripetendo in ogni talk show come ogni conflitto d’interessi produca impoverimento materiale, come il monopolio televisivo di B. generi mostri (anche economici), come l’Italia non possa uscire dalla crisi finanziaria e produttiva, e dalla cronica inefficienza dell’amministrazione pubblica, senza mandare sistematicamente in galera i ladri, i corrotti e gli “amici degli amici” di ogni specie e rango. Otto milioni e mezzo di italiani hanno votato il Pd credendo di votare anche per queste misure. Scoprono invece che le loro schede fanno mucchio con quelle andate a Cicchitto e Santanchè, Alfano e Scilipoti, per innalzare il Conflitto d’Interessi nella sua forma personificata (tecnicamente: Ipostasi), Silvio Berlusconi, a Presidente della Convenzione che riscriverà la Costituzione. Nell’intera storia d’Italia un voltafaccia del genere non ha precedenti, il trasformismo di Depretis al confronto sembra una gemma di coerenza. Il ceto politico del Pd che ha votato la fiducia ha firmato la propria ignominia morale, e stabilito che qualsiasi cosa dica in futuro un dirigente Pd la sua credibilità è per definizione zero, flatus vocis per gonzi. il Fatto Quotidiano, 1 Maggio 2013 DA - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/01/conflitto-dinteressi-vietato-parlarne/580226/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Caro Grillo, contro l’establishment, non contro... Inserito da: Admin - Giugno 15, 2013, 08:40:19 am Caro Grillo, contro l’establishment, non contro il dissenso!
Approfondimenti Con una lettera inviata al blog di Beppe Grillo, il direttore di MicroMega dice la sua sulla polemica contro la senatrice Adele Gambaro convinto che “una nuova politica debba considerare il dissenso parte integrante della propria ricchezza”. E auspica per il futuro un cambio di rotta del M5S: “Deve essere meno autoreferenziale e collaborare nelle varie battaglie con altri soggetti. Solo così potrà vincere l’Altrapolitica” di Paolo Flores d'Arcais Caro Beppe, ho letto il tuo post di giovedì 13 giugno, in cui chiedi a chiunque faccia parte della “voce esplosa a fine febbraio, con nove milioni di voti al MoVimento 5 Stelle” e “poi diventata più flebile” di FAR SENTIRE LA PROPRIA VOCE (ovunque: “nei bar, nei taxi, al lavoro, negli studi televisivi, in rete, nei tribunali …”). Poiché cerco di farlo senza interruzione da 52 anni (la prima manifestazione a cui partecipai è del 1961, quando avevo 17 anni, per la libertà in Spagna), accolgo molto volentieri il tuo invito, ed essendo uno dei nove milioni che ha votato M5S mando questo post al tuo blog, sperando che tu voglia pubblicarlo, prendendo alla lettera quello che tu anche oggi ribadisci: “Ognuno deve valere uno per riportare la democrazia in questo Paese”. In realtà, dal punto di vista della possibilità di comunicare, tu ed io siamo dei privilegiati, abbiamo più strumenti per essere ascoltati di un cittadino nella media (tu naturalmente molto più di me), e questo aumenta le nostre responsabilità, che sono proporzionali alla visibilità che abbiamo. La prima responsabilità è quella di dire la verità, tutta la verità niente altro che la verità, e la seconda di fare in modo che quei 9 milioni di voti non si disperdano, non diminuiscano, anzi si accrescano, per portare l’Italia a quella svolta che l’establishment del privilegio chiama “antipolitica” e che invece è solo “Altrapolitica”, contro corruzione, mafie, Casta. Oggi quei nove milioni non ci sono già più, questa è la prima, benché amara, verità da cui dobbiamo partire. Perché in tre mesi si sono ridotti alla metà, e in alcune zone (comprese Roma e la Sicilia) a un terzo? Una parlamentare del M5S, la senatrice Adele Gambaro (una militante della prima ora) tra queste cause ha messo “i toni” della tua comunicazione. Può essere che sbagli del tutto o che abbia ragione solo parzialmente o che abbia messo il dito sulla piaga. Se si vuole discutere seriamente bisogna farlo senza tabù. E se ci si prende sul serio, se “ognuno vale uno”, la semplice logica impone che nessuno possa dire che “qualcuno vale niente”. Personalmente non credo che si tratti solo dei “toni” della tua comunicazione. Perché sono anche quei “toni”, che hanno trasformato il tuo “tsunami tour” in uno tsunami nelle urne delle politiche di tre mesi fa, con più di un elettore su quattro a votare M5S. Quei “toni” tre mesi fa raccoglievano consensi ciclopici, oggi però non più. Cosa è successo? In un tuo blog di quattro giorni fa (“C’è chi ha votato il M5S perché …”) sono elencate tutte le ragioni per cui elettori molto diversi e con diverse motivazioni hanno realizzato lo tsunami dei nove milioni di voti. Erano comunque uniti su un punto: volevano che quei voti contassero, subito. Non per fare accordi da vecchia politica, ma per incidere contro la vecchia politica senza aspettare le calende greche del 51% (la demenza tipo partito a vocazione maggioritaria lasciamola a Veltroni). In tre mesi non è accaduto. Un mare di polemiche autoreferenziali, “chi fa x è fuori”, “chi dice y è fuori”, mentre una politica nuova sa essere molto più libera della falsa libertà dei partiti, e dunque non solo tollera il dissenso ma lo considera parte integrante della propria ricchezza. In questi tre mesi è mancata l’azione. Fuori, ancor più che dentro il parlamento. Fuori, esistono molti movimenti (di lotta su temi diversi, di opinione, di piazza, sul web), ma il M5S partecipa pressoché esclusivamente alle proprie iniziative, non cerca mai di promuoverne con altri “soggetti” anche quando ne condivide pienamente gli obiettivi. Due soli esempi: a Bologna si è svolto un referendum in difesa della scuola pubblica, Davide contro Golia, trenta cittadini comuni contro tutti i poteri della città, dal vescovo Cl (cardinal Caffarra) al sindaco Pd alla Confindustria alle coop. I consiglieri comunali M5S stavano con il comitato laico, beninteso, ma nelle piazze e nella mobilitazione il M5S in quanto tale non si è visto. A Roma qualche settimana prima MicroMega ha organizzato a piazza Santi Apostoli una manifestazione per la ineleggibilità di Berlusconi, dopo aver raccolto 250 mila firme sul web. C’erano militanti del M5S, ma a titolo personale. Eppure quella sulla ineleggibilità è una battaglia del M5S. Perché non farla insieme? MicroMega la conduce dal 1994. Perché ogni tentativo di iniziative comuni ottiene un “fin de non recevoir” tanto silenzioso quanto eloquente? Gli esempi si potrebbero moltiplicare, con moltissimi altri “soggetti”, sigle, movimenti. La scelta di votare Rodotà per la presidenza della Repubblica è stata un gesto esemplare, perché rovinarlo insolentendolo alla prima affermazione critica nei tuoi confronti? Cosa vogliamo, gli intellettuali organici, come nel vecchio Pci, o obbedienti “perinde ac cadaver” come nella Compagnia di Gesù? Di cose da discutere, e da fare, insieme, ce ne sono moltissime, ma di queste in prossimi e specifici blog che mi impegno a mandare, nella speranza che ora la discussione e la partecipazione, che invochi nel tuo blog di oggi, possa cominciare davvero, e davvero secondo il principio che uno vale uno. Un carissimo saluto Paolo Flores d’Arcais (14 giugno 2013) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/caro-grillo-contro-lestablishment-non-contro-il-dissenso/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Cari “dipendenti”, finitela di deluderci Inserito da: Admin - Giugno 17, 2013, 06:46:17 am Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Paolo Flores d'Arcais >
Cari “dipendenti”, finitela di deluderci di Paolo Flores d'Arcais | 16 giugno 2013 Tre mesi fa quasi nove milioni d’italiani hanno investito il M5S con uno tsunami di responsabilità. Hanno affidato ai parlamentari di quel movimento il crogiuolo della loro rabbia e delle loro speranze, di un bisogno ormai disperato di “liberazione” dalla politica come corruzione e come chiacchiera, come menzogna e come trattativa con le mafie, come privilegio e come autoreferenzialità. Vi hanno delegato per amore di “giustizia e libertà”, i valori fondanti della Costituzione repubblicana che il governo Berlusconi-Napolitano (eufemisticamente, per i più piccini, governo Letta-Alfano) vuole ripudiare. Quasi nove milioni di cittadini vi hanno chiesto di inaugurare e realizzare un’Altrapolitica. Sembra invece che quella straordinaria ricchezza di rabbia e di speranze abbiate deciso di dissiparla, di gettarla al macero. Non ne avete il diritto. Non potete trattare il tesoro di passione civile e di rivolta morale che gli italiani vi hanno consegnato, come fosse un bottino che potete sperperare ad libitum. Voi siete, per usare una definizione di Beppe Grillo, i nostri “dipendenti” (e Grillo, dunque, parafrasando la Chiesa per il Papa, il dipendente dei dipendenti del sovrano elettore). Non dovete rispondere a qualche migliaio di attivisti che votano in rete, ma a nove milioni di cittadini che non potete oltraggiare con l’ennesima delusione. Lo state già facendo, però. Altrimenti a Roma non vi avrebbero abbandonato in tre mesi due elettori su tre, e a Catania nove su dieci. Ne tradirete, e perderete, molti altri, se continuerete a trastullarvi col vostro ombelico nella tristezza delle espulsioni e nell’indecenza degli anatemi. La senatrice Gambaro dice che i toni di Grillo fanno perdere consensi. Può avere torto marcio, ragione solo in parte, o aver messo il dito nella piaga. Ma è demenziale anche solo pensare di cacciarla, perché la “lesa maestà” è diventata obsoleta con la presa della Bastiglia, e l’obbedienza perinde ac cadaver è la divisa della Compagnia di Gesù, non dell’Altrapolitica. Sento dire che andrebbe espulsa non per l’attacco a Grillo, ma per averlo pronunciato in tv. Per favore! L’avesse scritto in un blog (ripreso ovviamente da tv e giornali) Grillo avrebbe elegantemente incassato e magari seriamente discusso? Siate perciò responsabili. Finitela con la litania dei “chi dice x è fuori”, “chi non fa y è fuori”, dedicatevi all’azione comune con i cittadini che vi hanno eletto e che si aspettano di avervi al loro fianco nelle lotte e nelle proposte, non che vi auto-umiliate nella miseria delle scomuniche. Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2013 DA - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/16/cari-dipendenti-finitela-di-deluderci/627839/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Dirigenti del Pd, dove arriva il vostro masochismo. Inserito da: Admin - Agosto 06, 2013, 11:46:14 am Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Paolo Flores d'Arcais
Signori dirigenti del Pd, dove arriva il vostro masochismo? di Paolo Flores d'Arcais | 4 agosto 2013 Berlusconi è ormai, e definitivamente, un delinquente patentato. Un imprenditore, dice lui. Non certo in senso weberiano, semmai un “imprenditore” alla Mackie Messer, il bandito-squalo dell’Opera da tre soldi di Brecht, sentenzia la Corte di Cassazione, confermando la condanna per una ciclopica frode fiscale. Fin qui l’unica condanna definitiva, minimizza qualche mentecatto, dimenticando che anche Al Capone fu condannato solo per evasione fiscale. E che Berlusconi è stato in realtà riconosciuto colpevole di moltissimi altri reati, ma non condannato solo per intervenuta prescrizione o depenalizzazione del reato medesimo, attraverso le famigerate e ripetute “leggi ad personam”. La grazia al Delinquente di Arcore, che definisce “cancro” la magistratura, sarebbe un incentivo alla guerra civile evocata con ricatto eversivo dal coordinatore del Pdl Bondi. Signori dirigenti del Pd, come potete restare un minuto di più al governo con un delinquente? Vi fate un vanto della vostra appartenenza all’Internazionale socialista, ma c’è uno di quei partiti che accetterebbe di governare con chi ha subito la stessa condanna di Al Capone? Come potete pensare di continuare a cincischiare, quando la situazione è di una semplicità addirittura manichea? Chi resta al governo con un delinquente diventa suo complice, gli regge il sacco. Punto. Lo capisce anche un bambino, lo sanno anche i sassi. Alla fine dello scorso anno avete votato una legge bipartisan in forza della “non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a 2 anni di reclusione”, e ora la dovrete “implementare” (è un atto dovuto) con un voto in Senato che dichiari Berlusconi decaduto. Voto immediato, poiché secondo la legge il Caimano “non può ricoprire la carica” non appena la sentenza sia definitiva, il che è avvenuto alle 19,40 di giovedì 1 agosto. Tergiverserete, la tirerete in lungo, o addirittura farete mancare i voti per l’espulsione di Berlusconi da Palazzo Madama? Non è pensabile, sarebbe eversione, sarebbe golpismo. E cacciandolo dal Parlamento, potete pensare di restare al governo con i suoi scherani, che stanno scatenando già indecenti gazzarre, mentre i suoi mass media istigano a ennesime aggressioni contro i magistrati? Regalereste a Berlusconi l’ultimo atout: decidere lui quando far cadere il governo, dimostrare che è ancora il Padrone della politica perché anche vostro padrone, perché in grado di dettarvi i tempi, i modi, i temi dell’agenda. Il vostro masochismo è così sconfinato? Il Fatto Quotidiano, 4 agosto 2013 Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. La grazia per Berlusconi? Un golpe bianco Inserito da: Admin - Agosto 14, 2013, 11:14:13 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Paolo Flores d'Arcais
La grazia per Berlusconi? Un golpe bianco di Paolo Flores d'Arcais | 14 agosto 2013 La situazione politica non è mai stata così semplice e cosi chiara. Il capo di una delle tre principali forze elettorali del paese è stato condannato in via definitiva ad una pena superiore ai due anni di carcere, e in forza di una legge votata anche dal suo partito pochi mesi fa non può più essere membro del parlamento. Neppure la grazia presidenziale, scandalosa e inconcepibile, o un’amnistia ad hoc, altrettanto indecente, cambierebbero questo fatto ormai irreversibile: Berlusconi non godrà più della immunità parlamentare. “La legge è eguale per tutti” significa infatti che è eguale per chi dispone di un solo voto e per chi ne raccoglie alcuni milioni. Ovvietà talmente lineare e lapalissiana che non dovrebbe sfuggire neppure a Giuliano Ferrara, e financo a Pigi Battista, forse (intanto sul “Corriere” se ne è accorto Galli della Loggia: accontentiamoci). Ogni azione per aggirare o annullare l’estromissione definitiva del Delinquente di Arcore dal Palazzo si qualifica perciò come tentativo di ‘golpe bianco’. Di conseguenza la politica italiana, se resta nell’alveo dell’ordinamento costituzionale, dovrà svolgersi senza Berlusconi. Che probabilmente si darà alla latitanza: dei suoi crimini noi conosciamo sola la punta dell’iceberg rivelata dalle inchieste giudiziarie, mentre l’ex Cavaliere li conosce tutti, e se paventa che un gup potrebbe farlo arrestare ne avrà ben donde. Il suo partito dovrà perciò attrezzarsi ad esistere con lui latitante – come già avvenne per il Psi di Craxi – o comunque fuori dai giochi. Se ci riuscirà. Altrimenti la destra italiana dovrà darsi altri strumenti elettorali, magari meno eversivi. A parte i suoi scherani, i ruffiani e le cheerleader mediatiche, non si vede chi altro dovrebbe adoperarsi per impedire che la normalità legale e costituzionale della vicenda Berlusconi segua il suo corso. Ad affannarsi per l’impunità del Delinquente di Arcore possono essere solo due categorie: i complici e i ricattati. Se i dirigenti del Pd non fanno parte né degli uni né degli altri (un SE da scrivere in maiuscole), la smettano di tracheggiare, riducano i tempi all’osso, come chiede il M5S, e Berlusconi in politica resti solo un disgustoso ricordo. I suoi lacché faranno cadere il governo? Ci sono altre due maggioranze possibili: un bel governo Rodotà o Zagrebelsky senza ministri di partiti o un brutto governo Pd con gli sbandati del berlusconismo pronti a riciclarsi. da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/08/14/la-grazia-per-berlusconi-un-golpe-bianco/684307/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Nuovo governo o elezioni? Lettera ai parlamentari M5S Inserito da: Admin - Agosto 29, 2013, 04:32:55 pm Nuovo governo o elezioni? Lettera ai parlamentari M5S
di Paolo Flores d'Arcais Cari parlamentari eletti nelle liste del M5S, leggo di profonde divisioni tra voi che ci rappresentate (non so quanto corrispondenti a eventuali divisioni fra noi vostri elettori, da voi rappresentati), nel caso (auspicabilissimo, almeno a mio parere) dovesse cadere il governo Letta e si ponesse la scelta tra un nuovo governo e elezioni immediate con il “Porcellum”. Faccio ovviamente la tara delle disinformazioni giornalistiche, che in molte testate assumono ormai la menzogna come norma. Schematicamente, la mia opinione di elettore, su cui spero avrò le vostre reazioni, è la seguente: Una alleanza con il Pd per un governo Letta bis, o comunque con premier Pd e anche solo con ministri Pd sarebbe subalterna e perciò insensata. E probabilmente segnerebbe la fine politica sia del M5S sia di quella parte che vi si prestasse. Votare con il “Porcellum” sarebbe in contraddizione con quanto promesso, e sarebbe altrettanto insensato (ma anche il vecchio Mattarellum lo sarebbe) perché ogni maggioritario ad un turno, quando vi siano più di due grandi forze in lizza (e oggi sono tre) trasforma le elezioni in pura roulette e gioco d’azzardo (per uno 0,1% in più o in meno si prende tutto, anche avendo meno di un terzo dei voti). Il M5S può evitare questo Scilla e Cariddi di insensatezze diventando protagonista e avanzando una sua proposta di governo. “Sua” può avere un duplice senso: Premier e ministri del M5S, ma non ci sono i numeri e quindi è comunque matematicamente improponibile. Oppure un premier proposto da M5S che possa ottenere un voto di fiducia in Parlamento. Questa seconda eventualità, che avrebbe una portata “rivoluzionaria”, è difficilissima ma ha dalla sua alcuni atout. Il M5S aveva già scelto (con il voto on line ristretto ad alcune migliaia di militanti) alcuni nomi per la presidenza della Repubblica, che hanno tutte le caratteristiche per poter essere ottimi premier di rottura rispetto a partitocrazia, inciucio e altri regimi: Rodotà e Zagrebelsky. Sono persone che sceglierebbero come ministri il meglio in fatto di eccellenze nei vari settori che oggi si dia in Italia, e in fatto di programma da sempre si battono per alcuni tra i punti che il M5S ha reiteratamente considerato qualificanti. Un governo del genere metterebbe il Pd con le spalle al muro e forse lo spaccherebbe, perché dire di no a personalità che appartengono alla migliore storia della sinistra italiana, e a ministri le cui capacità (oltre che onestà) sarebbero incontestabili e certamente apprezzata dalla schiacciante maggioranza degli elettori Pd, costituirebbe per i dirigenti Pd un finale harakiri. Per evitarlo dovrebbero subordinarsi loro alle proposte e scelte del M5S e dunque si spaccherebbero, ma forse un numero di parlamentari sufficiente alla fiducia del governo da voi proposto ci sarebbe, data la pressione dei loro elettori. Una iniziativa di questo genere porterebbe comunque al M5S milioni di consensi. Nel caso riesca, perché si dovrebbe a una decisione del M5S il miglior governo della storia italiana. Nel caso non riuscisse (per il catafratto e quasi unanime rifiuto del Pd), perché risulterebbe evidente la serietà e il realismo del M5S a fronte della pretestuosità e irresponsabilità del Pd. In questi giorni in cui è in atto un tentativo ormai sbandierato di “golpe bianco” (perché tale sarebbe anche solo ogni dilazione e rinvio del voto della Giunta del Senato che deve certificare la decadenza del sen. Berlusconi, di cui Violante si è fatto ortabandiera), la capacità di offrire a tutti gli italiani una prospettiva chiara e concreta di definitiva liberazione dal berlusconismo attraverso un governo (abissalmente migliore di tutti i precedenti) e non solo attraverso elezioni anticipate (col “Porcellum” del tutto aleatorie quanto al risultato) farebbe di voi parlamentari del M5S il punto di riferimento di ogni elettore onesto e democratico. Con fiducia e speranza Paolo Flores d’Arcais (28 agosto 2013) DA - http://temi.repubblica.it/micromega-online/nuovo-governo-o-elezioni-lettera-ai-parlamentari-m5s/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Amnistia, un ricatto golpista Inserito da: Admin - Agosto 29, 2013, 04:34:54 pm Amnistia, un ricatto golpista
di Paolo Flores d’Arcais, da Il Fatto quotidiano, 25 agosto 2013 L’ultimo ukase parla di amnistia. E’ il più indecente, un’amnistia ad personam non si è mai vista. Berlusconi pretende da Napolitano e Letta un golpe bianco. I suoi squadristi al botulino lo battezzano “agibilità politica”, ma in buon italiano di golpe si tratta. Controlliamo sul vocabolario Treccani: “golpe bianco: colpo di stato svolto senza ricorso alla forza da parte di un governo che eserciti il potere in modo anticostituzionale”. Alla lettera quello che Berlusconi e le sue cheerleader mediatiche vogliono imporre. Sarebbe “esercitare il potere in modo anticostituzionale” se la legge Severino, di cui Alfano menava vanto e primogenitura, non venisse applicata per Berlusconi, considerandolo “legibus solutus” perché unto da milioni di schede. “La legge è eguale per tutti” solo se vale allo stesso modo per chi dispone di un voto e per chi ne raccoglie milioni. Disattendere questo principio significa scalzare il fondamento dell’ordinamento giuridico. Lascia allibiti che semplicemente se ne discuta. Che su una pretesa golpista si invochi “la trattativa” o anche una semplice “pausa di riflessione”, come vanno blaterando quasi tutti i mass media. Napolitano, Letta, Epifani hanno ribadito che il ricatto (o “l’agibilità” o cade il governo) è irricevibile. Dichiarazioni che vanno prese alla lettera in tutta la loro impegnativa solennità, perché il mero sospetto che alle parole non seguano comportamenti coerenti suonerebbe offesa nei loro confronti. Deve essere perciò chiaro che l’inizio del golpe bianco sarebbe segnato da qualsiasi rinvio che la giunta del Senato concedesse il 9 settembre. Ogni giorno e anzi ogni ora di dilazione costituirebbe un bacio della pantofola alla protervia eversiva del Delinquente. Ogni minuto sottratto alla legalità repubblicana una complicità golpista. Oltretutto, lo sfregio andrebbe ripetuto per ogni prossimo processo berlusconiano con eventuale condanna: un salvacondotto tombale di impunità ad personam, un golpe bianco permanente. Intanto una scheggia di golpe, che Napolitano, Letta ed Epifani passano sotto silenzio, è già la mancata tutela nei confronti del giudice Esposito da parte del Csm. Quanto alla minaccia di far cadere il governo, si accomodino: è una sciabola di cartapesta, solo che Napolitano, Letta ed Epifani non tradiscano la parola data. Ci sono altre due maggioranze possibili, infatti: un bel governo senza ministri di partito, presieduto da Rodotà o Zagrebelsky, o un brutto governo Letta-bis con qualche decina di sbandati del berlusconismo pronti a riciclarsi. Al ricatto di Berlusconi e manutengoli può dare ascolto solo chi è ricattabile. (26 agosto 2013) DA - http://temi.repubblica.it/micromega-online/amnistia-un-ricatto-golpista/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. NON CI PROVATE Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2013, 05:23:52 pm NON CI PROVATE
di Paolo Flores d'Arcais Non ci provate! Non provate a far slittare ancora la cacciata del Delinquente di Arcore da Palazzo Madama. La giunta si riunisce venerdì, può decidere di lavorare con una seduta ad oltranza, e dunque venerdì stesso (o in nottata, se gli avvocati di Berlusconi si presentassero e facessero un’arringa-fiume) votare la proposta della decadenza. Comunicandola immediatamente al presidente del Senato. Il quale deve convocare la seduta per il voto definitivo “entro venti giorni”. Il che significa da un minuto dopo a venti giorni. E poiché la legge Severino dice “immediatamente”, il presidente del Senato Pietro Grasso ha il dovere di optare per “un minuto dopo” anziché “venti giorni” o qualsiasi lungaggine intermedia. Calendario alla mano, questo significa sabato 5 ottobre, san Placido (“martire” solo secondo una leggenda, in realtà mai martirizzato dai saraceni ma fidato collaboratore di san Benedetto e patrono dei novizi dell’ordine. Il finto martirio si adatta perfettamente al padrone di Dudù). Nel prossimo week end il voto segreto annienterebbe così definitivamente l’immunità ventennale di Berlusconi (a meno che i 101 pd berlusconiani di complemento non accoltellino la legalità nel buio dell’urna, ma allora sarebbero centinaia di migliaia di italiani a scendere in piazza). Deve essere chiaro che se il presidente Grasso allungherà i tempi rispetto a sabato, o se prima di lui lo farà la Giunta, saranno responsabili di un vulnus contro lo spirito e la lettera della legge (che dice IMMEDIATAMENTE, ripetiamolo per chi finge di non sapere) e della Costituzione fondata sull’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla medesima. Sono perciò i senatori Stefàno e Grasso e le loro decisioni che i cittadini italiani, umiliati e vilipesi da vent’anni di impunità berlusconiana e inciucesca, ma che sono stati capaci di “resistere, resistere, resistere”, osserveranno con intransigente attenzione. Il famoso “usque tandem Berlusconi abutere patientia nostra?”, se Stefàno e Grasso saranno leali alla Costituzione e alla legge, ha ormai una data: questo week end. http://temi.repubblica.it/micromega-online/non-ci-provate/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. In alto i calici! Berlusconi è un Caimano / Delinquente.. Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2013, 05:02:40 pm In alto i calici! Berlusconi è un Caimano / Delinquente / Mackiemesser / Eversore, ora lo dicono tutti.
Traiamone le conseguenze di Paolo Flores d’Arcais Che il comportamento di Berlusconi e dei suoi dipendenti configuri eversione del nostro ordinamento costituzionale viene ormai proclamato ad alta voce anche da coloro che, in campo politico e giornalistico, hanno sistematicamente trattato MicroMega e il suo direttore da estremisti dell’antipolitica proprio perché dicevano la stessa cosa, e ne traevano le logiche conseguenze: se Berlusconi è un Mackie Messer della politica, se è un Delinquente ormai addirittura patentato da una condanna definitiva, se è un eversore che tenta in permanenza un golpe bianco che gli garantisca impunità tombale, che senso ha intrecciare con lui e i suoi dipendenti il più soft degli inciuci, la più light delle intese, larghe o strette che siano, soprattutto se in una situazione di emergenza, che esige il massimo di lealtà repubblicana da parte di tutti i contraenti, e quando ci sarebbe stata una maggioranza per eleggere Rodotà Presidente della Repubblica (bastava che il Pd, del cui antecedente Rodotà è stato proprio Presidente, avesse sommato i propri voto a quelli del M5S), con successive “praterie” per un governo Zagrebelsky o Settis? Però non faremo polemiche, neppure all’acqua di rose: non siamo credenti ma ricordiamo troppo bene la parabola del figliol prodigo, e dunque ci rallegreremo e basta – festa grande, vitello grasso e in alto i calici – di questa unanime resipiscenza che sta felicemente saturando l’intero orizzonte del centro-sinistra. Con la speranza che non sia prodromo di altre sviste e successive resipiscenze, per quanto riguarda la crisi di governo che il Caimano/Delinquente/Mackiemesser/Eversore – come tutti ormai lo etichettiamo – ha aperto per sfuggire alla galera o alla latitanza. (En passant: è implicito nella ormai unanime definizione di Berlusconi Caima-no/Delinquente/Mackiemesser/Eversore che qualsiasi salvacondotto, comunque mascherato – dal traccheggiare nella decadenza da senatore alle amnistie e indulti – sarebbe vulnus sanguinosissimo all’ordinamento liberaldemocratico e offesa altrettanto sanguinosissima contro tutti i cittadini onesti). Un governo è indispensabile perché al voto si deve andare (al più presto), senza Porcellum e avendo approvata la legge di stabilità, o manovra o finanziaria che sia. Per questo governo provvisorio sono possibili due soluzioni (lo andiamo dicendo da quando è nato il Letta-Alfano, perché era evidente come fosse contro natura e che il Caimano/Delinquente/Mackiemesser/Eversore lo avrebbe fatto cadere il giorno stesso in cui i suoi guai giudiziari fossero venuti al pettine): o una maggioranza Pd con Scelta civica e transfughi Pdl, o un governo Rodotà, Zagrebelsky, Settis ecc. Nel primo caso la sua solidità (o il suo carattere di governicchio) dipenderà dal numero dei transfughi, che è a sua volta funzione del carattere più o meno definitivo e catastrofico del tracollo di Berlusconi. Se viene dichiarato decaduto da senatore a tambur battente, approssimando quella immediatezza (fin qui disattesa) che la legge Severino impone, i Quagliariello e Lupi potrebbero diventare valanga, perché il Cavaliere assai probabilmente sceglierebbe la latitanza, vista la paura, che manifesta come certezza, di mandati di cattura in arrivo (lui sa quanti articoli del codice ha violato e quante volte). La solidità di un Letta bis dipenderà dunque – paradossi della storia – dal tasso di giustizialismo (cioè di “legge eguale per tutti”) che animerà le prossime settimane. Per realizzare il secondo basterà invece che Pd e M5S, restando abissalmente lontani e magari in continua polemica, propongano entrambi un governo con le personalità di più adamantina caratura repubblicana e di più ineccepibile levatura professionale, estranee alle cabale e agli intrighi della politica politicosa e partitocratica che tanto disgusta ormai la quasi totalità dell’opinione pubblica, intesa come cittadini in carne e ossa. Quale delle due soluzioni sia la migliore per la “serva Italia” lo capisce anche un bambino e lo sanno anche i sassi. Ma ben venga (“ben” è un modo di dire) anche il meno peggio, con tutti i suoi miasmi, se solo questo il Pd è in grado di volere, purché implichi per Berlusconi l’uscita definitiva dalla scena pubblica, senza speranza alcuna di farvi più neppure capolino. Non si dimentichi che una manovra finanziaria improntata all’equità (possiamo esser certi che il vocabolo verrà strombazzato comunque urbietorbi) potrebbe avvalersi del 25% dei famosi capitali scudati (rientrati praticamente a tassazione gratuita) e del pagamento dell’Imu da parte della Chiesa, con il che saremmo già a 30 miliardi! Si aggiunga quanto dovrebbero i biscazzieri delle slot machine, e magari la confisca dei conti all’estero che non venissero immediatamente denunciati, e non sarebbe necessaria nessuna manovra “lacrime e sangue” perché saremmo anzi al “grasso che cola” (ma l’elenco delle misure di equità potrebbe facilmente continuare). Quanto alla legge elettorale, c’è la possibilità del proporzionale nella versione quasi tedesca ventilata dal M5S, o l’uninominale a due turni come per i sindaci (ballottaggio tra i due più votati), dipende se si vuole privilegiare il peso del cittadino nello scegliere i rappresentanti (che daranno vita al governo secondo alchimie post-suffragium) o nello scegliere il governo e la sua maggioranza. Un governo di alto profilo con i Rodotà, Zagrebelsky, Settis, ecc. avrebbe l’autorità morale per uscire comunque dallo stallo suino del Porcellum. Insomma, ora che siamo tutti d’accordo che un ventennio è trascorso sotto l’egemonia (anche quando non era al governo) di un Caimano/Delinquente/Mackiemesser/Eversore, si può voltare davvero pagina e aprire un libro nuovo, che abbia come titolo realizzare la Costituzione e i valori di giustizia e libertà che la permeano (tranne l’articolo 7, a dire il vero). Basterà essere logicamente coerenti con quanto finalmente si è ammesso. Noi di MicroMega (e tanti altri, cioè pochi altri) che la coerenza logico-politica l’abbiamo sempre praticata anche quando faceva scattare la polemica d’ordinanza contro l’estremismo-giustizialismo-girotondismo non pretendiamo autocritiche e meno che mai medagliette. Continueremo a fare i portatori d’acqua per “realizzare la Costituzione”, sperando che la coerenza logico-politica sia a partire da oggi la bussola del ravvedimento operoso di quanti hanno finalmente riconosciuto la natura caimandelinquenzialmackiemesserianeversiva di Berlusconi e del berlusconismo, la cui egemonia è durata vent’anni solo grazie alla corrività dell’inciucio e altre intese. Twitter: Flores_dArcaisP Il 10 ottobre sarà in libreria con l’editore Laterza il nuovo libro di Paolo Flores d’Arcais, “La democrazia ha bisogno di Dio. Falso!” (30 settembre 2013) da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/in-alto-i-calici-berlusconi-e-un-caimano-delinquente-mackiemesser-eversore-ora-lo-dicono-tutti-traiamone-le-conseguenze/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. - Cancellieri, dimissioni subito Inserito da: Admin - Novembre 04, 2013, 05:32:46 pm Cancellieri, dimissioni subito
di Paolo Flores d’Arcais “Qualsiasi cosa io possa fare, conta su di me”. E’ questa la risposta standard del ministro della Giustizia Cancellieri a qualsiasi familiare di qualsiasi detenuto che denunci condizioni psicosomatiche di grande sofferenza per la condizione di carcerazione? E qualsiasi familiare di detenuto ha la certezza – di cui evidentemente gode la famiglia Ligresti – di passare il filtro dei centralini e delle segreterie (o addirittura può avere a disposizione il cellulare del ministro per chia-marlo direttamente)? Se la risposta a entrambi i quesiti è un rotondo SI’ le richiesta di dimissioni al ministro della Giustizia possono effettivamente palesare malevolenze strumentali. Se invece non è così, se la famiglia della detenuta Ligresti ha avuto un interessamento che sia anche “tanticchia” (come direbbe Salvo Montalbano) diverso e migliore di quelle dei detenuti “comuni”, allora il ministro Cancellieri deve dimettersi e anzi avrebbe dovuto già farlo, e suona incredibile che non lo abbia ancora chiesto il premier Letta e che non sia già risuonato il doveroso monito d’ordinanza del Quirinale. Perché la legge è eguale per tutti, e se per i Ligresti è un po’ più eguale che per gli altri non stupiamoci poi se Berlusconi pretende che per lui sia ancora molto più eguale assai. Ma queste cose possono avvenire nella “Fattoria degli animali” di Orwell, dove i maiali sono più eguali degli altri, in un paese democratico non sono tollerabili. Le dimissioni del ministro Cancellieri dovrebbero essere ovvie. Del resto le hanno chieste due testate spesso in polemica fra loro come “La Repubblica” e “Il Fatto quotidiano” (a dimostrazione di come le posizioni politiche non c’entrino ma si tratti di elementare DECENZA). Quest’ultimo nell’editoriale di ieri di Marco Travaglio (“In un paese normale il ministro della Giustizia non parla con i parenti di un’amica arrestata per gravi reati, rassicurandoli con frasi del tipo: “Qualsiasi cosa io possa fare, conta su di me”. Né tantomeno chiama i vicedirettori del Dipartimento Amministrazione penitenziaria per raccomandare le sorti dell’amica detenuta. Ma, se lo fa e viene scoperto da un’intercettazione telefonica (sulle utenze dei familiari della carcerata), si dimette un minuto dopo”), il primo qualche ora dopo nell’editoriale del sito www.repubblica.it, editoriale non firmato e dunque attribuibile al direttore Ezio Mauro (“Annamaria Cancellieri nega interferenze sul caso Ligresti. Ma non spiega la contraddizione di un ministro della Giustizia che subito dopo un arresto telefona in famiglia per dare “solidarietà”. Da quella telefonata nascerà una richiesta d’aiuto dei Ligresti: “faccia qualcosa”. Da qui la segnalazione da parte del ministro al Dap. E infine l’sms di Antonino Ligresti che chiede conto al ministro: “Novità”? E la pronta risposta: “Ho fatto la segnalazione”. C’è una sola cosa che la Cancellieri non ha mai detto davanti alle richieste dei Ligresti, la più semplice: sono il Guardasigilli, ho dei doveri di Stato. Questa mancanza e quella premura imbarazzano le istituzioni. Il ministro ne tragga le conseguenze”). Non c’è davvero nulla da aggiungere. A parte una valanga di indignazione di cittadinanza, di mail da inviare a Palazzi, Colli e giornali, perché nelle prossime ore avvenga quello che in ogni altro paese europeo sarebbe già avvenuto. (2 novembre 2013) http://temi.repubblica.it/micromega-online/cancellieri-dimissioni-subito/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Tsipras alla Commissione Europea, l’appello degli... Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 12:28:39 am Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Paolo Flores d'Arcais >
Tsipras alla Commissione Europea, l’appello degli intellettuali di Paolo Flores d'Arcais | 18 gennaio 2014 Oggi rendiamo pubblico questo appello corredato dalle sole firme dei suoi estensori. Nei prossimi giorni renderemo pubblica anche la lista delle adesioni che stiamo raccogliendo, e che sono già ora, prima ancora del suo lancio, molto numerose e qualificate. La lista per le elezioni europee a cui proponiamo di dar vita con questo documento sarà una lista di cittadinanza assolutamente autonoma, promossa da personalità della cultura, dell’arte e della scienza e da esponenti di comitati, associazioni, movimenti e organismi della società civile che ne condividono gli obiettivi e i contenuti, e che non verrà “negoziata” con alcun partito. Questo sia per segnare una netta discontinuità con il passato, sia per sottolineare la novità di questa proposta: l’adesione a questa lista elettorale non deve essere confusa con l’affiliazione ad alcuno dei partiti esistenti o in fieri e non ha alcuna pretesa identitaria. Questa lista avrà un comitato di garanti formato tra i firmatari dell’appello, che non si candideranno. Avrà un comitato promotore, con compiti operativi. Su questa base le realtà organizzate come i partiti, o loro strutture, le associazioni politiche o culturali, i centri sociali – che vorranno sostenere questo progetto sono le benvenute e possono contribuire al suo successo anche presentando proposte di candidatura di propri iscritti, purché rispondenti alle caratteristiche indicate nell’appello. E potranno sostenere la lista, la raccolta delle firme e le attività connesse alla campagna elettorale, costituendosi in uno o più comitati di sostegno dotati della più ampia autonomia, seguendo il modello già adottato nella campagna per i referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei sevizi pubblici locali, modalità che ha garantito il successo in quella iniziativa referendaria. L’Europa al bivio L’Europa è a un bivio, i suoi cittadini devono riprendersela. Dicono i cultori dell’immobilità che sono solo due le risposte al male che in questi anni di crisi ha frantumato il progetto d’unità nato a Ventotene nell’ultima guerra, ha spento le speranze dei suoi popoli, ha risvegliato i nazionalismi e l’equilibrio fra potenze che la Comunità doveva abbattere. La prima risposta è di chi si compiace: passo dopo passo, con aggiustamenti minimi, l’Unione sta guarendo grazie alle terapie di austerità. La seconda risposta è catastrofista: una comunità solidale si è rivelata impossibile, urge riprendersi la sovranità monetaria sconsideratamente sacrificata e uscire dall’Euro. Noi siamo convinti che ambedue le risposte siano conservatrici, e proponiamo un’alternativa di tipo rivoluzionario. È nostra convinzione che la crisi non sia solo economica e finanziaria, ma essenzialmente politica e sociale. L’Euro non resisterà, se non diventa la moneta di un governo democratico sovranazionale e di politiche non calate dall’alto, ma discusse a approvate dalle donne e dagli uomini europei. È nostra convinzione che l’Europa debba restare l’orizzonte, perché gli Stati da soli non sono in grado di esercitare sovranità, a meno di chiudere le frontiere, far finta che l’economia-mondo non esista, impoverirsi sempre più. Solo attraverso l’Europa gli europei possono ridivenire padroni di sé. Per questo facciamo nostre le proposte di Alexis Tsipras, leader del partito unitario greco Syriza, e nelle elezioni europee del 25 maggio lo indichiamo come nostro candidato alla presidenza della Commissione Europea. Il suo paese, la Grecia, è stato utilizzato come cavia durante la crisi ed è stato messo a terra: in quanto tale è nostro portabandiera. Tsipras ha detto che l’Europa, se vuol sopravvivere, deve cambiare fondamentalmente. Deve darsi i mezzi finanziari per un piano Marshall dell’Unione, che crei posti di lavoro con comuni piani di investimento e colmi il divario tra l’Europa che ce la fa e l’Europa che non ce la fa, offrendo sostegno a quest’ultima. Deve divenire unione politica, dunque darsi una nuova Costituzione: scritta non più dai governi ma dal suo Parlamento, dopo un’ampia consultazione di tutte le organizzazioni associative e di base presenti nei paesi europei. Deve respingere il fiscal compact che oggi punisce il Sud Europa considerandolo peccatore e addestrandolo alla sudditanza, e che domani punirà, probabilmente, anche i paesi che si sentono più forti. Al centro di tutto, deve mettere il superamento della disuguaglianza, lo stato di diritto, la comune difesa di un patrimonio culturale e artistico che l’Italia ha malridotto e maltrattato per troppo tempo. La Banca centrale europea dovrà avere poteri simili a quelli esercitati dalla Banca d’Inghilterra o dalla FED, garantendo non solo prezzi stabili ma lo sviluppo del reddito e dell’occupazione, la salvaguardia dell’ambiente, della cultura, delle autonomie locali e dei servizi sociali, e divenendo prestatrice di ultima istanza in tempi di recessione. Non dimentichiamo che la Comunità nacque per debellare le dittature e la povertà. Le due cose andavano insieme allora, e di nuovo oggi. Oggi abbiamo di fronte una grande questione ambientale di dimensioni planetarie, che può travolgere tutti i popoli, e un insieme di politiche tese a svalutare il lavoro, mentre una corretta politica ambientale può essere fonte di nuova occupazione, di redditi adeguati, di maggiore benessere e di riappropriazione dei beni comuni. È il motivo per cui contesteremo duramente il mito della crescita economica così come l’abbiamo fin qui conosciuta. Esigeremo investimenti su ricerca, energie rinnovabili, formazione, trasporti comuni, difesa del patrimonio culturale. Sappiamo che per una riconversione così vasta avremo bisogno di più, non di meno Europa. Proprio come Tsipras dice riferendosi alla Grecia, in Italia tutto questo significa rimettere in questione due patti-capestro. Primo, il fiscal compact: il pareggio di bilancio che esso prescrive è entrato proditoriamente nella nostra costituzione, l’Europa non ce lo chiedeva, limitandosi a indicare sue «preferenze». Secondo, il patto di complicità che lega il nostro sistema politico cleptocratico alle domande dei mercati: chiediamo una politica di contrasto contro le mafie, il riciclaggio, l’evasione fiscale, la protezione e l’anonimato di capitali grigi, la corruzione, in un’Europa dove non sia più consentito opporre il segreto bancario alle indagini della magistratura. Significa infine difendere la Costituzione nata dalla Resistenza, e non violarne i principi base come suggerito dalla JP Morgan in un rapporto del 28 maggio 2013, cui i governanti italiani hanno assentito col loro silenzio. Significa metter fine ai morti nel Mediterraneo: i migranti non sono un peso ma il sale della crescita diversa che vogliamo. Significa darsi una politica estera, non più al rimorchio di un paese– gli Stati Uniti– che perde potenza ma non prepotenza. La pax americana produce guerre, caos, stati di sorveglianza. È ora di fondare una pax europea. Le larghe intese, le rifiutiamo in Italia e in Europa: sono fatte per conservare l’esistente. Per questo diciamo no alla grande coalizione parlamentare che si prepara fra socialisti e democristiani europei, presentandoci alle elezioni di maggio con una piattaforma di sinistra alternativa e di rottura. Nostro scopo: un Parlamento costituente, che si divida fra immobilisti e innovatori. Siamo sicuri fin d’ora che gran parte dei cittadini voglia proprio questo: non l’Unione mal ricucita, non la fuga dall’Euro, ma un’altra Europa, rifatta alle radici. La chiediamo subito: il tempo è scaduto e la casa di tutti noi è in fiamme, anche se ognuno cercasse rifugio nella sua tana minuscola e illusoria. L’Italia al bivio Questo è l’orizzonte. A partire da qui avanziamo la proposta di dare vita in Italia a una lista che alle prossime elezioni europee faccia valere i principi e i programmi delineati. Una lista promossa da movimenti e personalità della società civile, autonoma dagli apparati partitici, che sia una risposta radicale alla debolezza italiana. Una lista composta in coerenza con il programma, che candidi persone, anche con appartenenze partitiche, che non abbiano avuto incarichi elettivi e responsabilità di rilievo nell’ultimo decennio. Una lista che sostiene Tsipras ma non fa parte del Partito della Sinistra Europea che lo ha espresso come candidato. I nostri eletti siederanno nell’europarlamento nel gruppo con Tsipras (GUE-Sinistra Unitaria europea). Una lista che potrà essere sostenuta, come nel referendum acqua, dal più grande insieme di realtà organizzate e che non si manterrà con i rimborsi elettorali. Una lista che con Tsipras candidato mobiliti cittadine e cittadini verso un’Altra Europa. Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/18/tsipras-alla-commissione-europea-lappello-degli-intellettuali/848479/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Tsipras alla Commissione Europea ben venga lo straniero Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2014, 05:07:35 pm Sei in: Il Fatto Quotidiano > Blog di Paolo Flores d'Arcais >
Tsipras alla Commissione Europea, ben venga lo straniero di Paolo Flores d'Arcais 8 febbraio 2014 E’ il “nemico numero uno dell’Europa” secondo la testata tedesca Der Spiegel. In realtà Alexis Tsipras, leader della coalizione greca “Syriza” (in testa ai sondaggi) ama moltissimo l’Europa. Non quella dei banchieri che giocano alla roulette con le nostre vite, però. Quella dei cittadini. E dunque una “Europa dei cittadini” vuole cominciare a costruirla non solo per i cittadini ma con i cittadini. Ieri è stato in Italia, prima alla “Stampa estera”, poi al teatro Valle occupato (pieno come un uovo, anzi in realtà debordante, compreso il foyer, e con centinaia e centinaia di persone che sono rimaste in strada), infine alla trasmissione Otto e mezzo di Lilli Gruber, insieme a Barbara Spinelli. Ha spiegato il suo progetto, che prevede “più Europa”, ma un’Europa radicalmente diversa da quella attuale, e in assoluta contrapposizione non solo alla signora Merkel ma anche a quella “sinistra di establishment” che con la Merkel ha realizzato in Germania la “Grosse Koalition” e che in Italia pratica da un ventennio l’indecoroso (è un eufemismo) inciucio con Berlusconi. Un’Europa da edificare rimettendo in discussione gli attuali trattati, negoziando una non-restituzione del debito di almeno il 60% (questa la percentuale che negli anni ’50 l’Occidente “abbuonò” proprio alla Germania!), rendendo davvero democratiche le istituzioni di Strasburgo e di Bruxelles con trasformazioni radicali di tipo costituzionale. E ha ufficializzato la nascita della lista che in Italia candiderà il suo nome per la Presidenza della Commissione: una lista della società civile, una lista di cittadinanza attiva, una lista rigorosamente autonoma dai partiti, che è stata promossa da Andrea Camilleri, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale (e da chi scrive), che ha superato già le 20 mila adesioni (puoi aderire qui), che ha raccolto il sostegno di personalità di orientamento assai diverso (ma tutte ovviamente nell’arco della democrazia presa sul serio e della Costituzione quale via maestra da percorrere realizzandola anziché “rottamandola”) come Furio Colombo e Michele Serra, Curzio Maltese e Andrea Scanzi, Moni Ovadia e Carlo Freccero, Gustavo Zagrebelsky e Lorenza Carlassare, Roberta De Monticelli e Massimo Carlotto, Corrado Stajano e Nadia Urbinati … I sei promotori saranno i garanti dell’intero processo con cui la lista verrà realizzata. In realtà saranno in sette, perché proprio Tsipras ha accettato di essere accanto a loro il settimo garante, perché questa lista non ripeta fallimentari esperienze minoritarie del passato. Il nome della lista sarà scelto nei prossimi giorni con un referendum tra tutti coloro che hanno aderito (il cui numero sta crescendo a vista d’occhio, vedi su www.micromega.net). Una lista che dovrà raccogliere 150mila firme per essere presentata. Un impegno improbo (i partiti presenti in parlamento, che cercano di mantenere il monopolio della politica come “cosa loro”, ovviamente sono esentati dalla raccolta delle firme), ma un “sogno” realizzabile. Tsipras ha ricordato che ancora poco tempo fa, quando la sua coalizione era al 3,4% ma lui indicava una politica di governo alternativo, gli davano del pazzo. Ora i sondaggi lo vedono al primo posto. E un sondaggio di La7 riportava questo dato: il 53% degli italiani non si riconosce né nell’europeismo filo-establishment del Pd, né nelle scelte reazionarie delle destre, né nell’euroscetticismo di Grillo. Lo spazio per una “lista Tsipras” della società civile c’è. Lo stesso Tsipras, che è un leader di sinistra, ha ricordato che si tratta di andare anche oltre la sinistra, non però con la “moderazione” a cui invitano i genuflessi davanti agli establishment. E ha aggiunto che se a questa intransigente ma inclusiva radicalità ha già aderito un commissario di polizia come Salvo Montalbano, possiamo farcela. Ora dobbiamo costruirla insieme, questa lista: i protagonisti siete voi. Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/08/tsipras-alla-commissione-europea-ben-venga-lo-straniero/874378/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Renzi, perché non vuole fare sul serio contro il... Inserito da: Admin - Giugno 07, 2014, 09:23:30 am Presidente Renzi, perché non vuole fare sul serio contro il partito dell’impunità?
Pubblichiamo uno stralcio del lungo editoriale di Paolo Flores d’Arcais che aprirà il numero 4/2014 di MicroMega in uscita il 17 giugno. di Paolo Flores d'Arcais, twitter.com/Flores_dArcais Il voto europeo in Italia ha un solo vincitore, anzi un solo nome: Matteo Renzi. […] Proprio perché “Matteo” ha sbancato, dato scacco matto, fatto en plein, inflitto il cappotto, o quale altra metafora si preferisca (astenersi “asfaltato”, per favore: stilisticamente disgustoso), il grande problema per lui comincia ora. Chi ha tutto il potere non ha più nessun alibi. Quello che non fa, va tutto a carico suo. Ora, il problema economico dell’Italia si chiama evasione fiscale, corruzione, mafia, il resto è epifenomeno. Una massa monetaria enorme, equivalente a una decina di “manovre fiscali” tipo “lacrime e sangue”, viene rapinata ogni anno da quei tre fenomeni. Grassazione gigantesca e permanente, che basterebbe aggredire significativamente (la metà, perfino un terzo della ricchezza comune saccheggiata), per disporre di risorse tali da soddisfare contemporaneamente aneliti alla sicurezza e pulsioni allo sviluppo, meno diseguaglianza e più crescita: salario di cittadinanza, incentivi a piccole e medie imprese, investimenti massicci in cultura istruzione e ricerca, boom di autostrade telematiche e di energie rinnovabili … e via riformando. Grassazione che, oltretutto, seleziona gli imprenditori seconda la capacità di “essere ammanicati” anziché secondo le tradizionali doti weberiane o schumpeteriane – propensione al rischio, innovazione, per non parlare della razionalità ascetica – distorcendo e ammorbando il mercato in direzione Mackie Messer. La chiave di volta della ripresa economica, per uscire dalla crisi economica, perciò, in Italia si chiama giustizialismo: una rivoluzione della legalità, intransigente nel colpire invischiati con mafie (o comunque corrivi), corrotti, evasori: cominciando dai piani alti, dai ricchi e potenti, politici finanzieri e imprenditori, dall’establishment insomma (altrimenti non è intransigenza, e rende il tartassato da Equitalia una vittima o un eroe). [En passant: giustizialismo e garantismo sono la stessa cosa, se i termini non vengono manipolati: la legge eguale per tutti, per l’ultimo dei “villani” e il primo di “lorsignori”. Poiché “giustizialismo” è stato usato da berlusconiani e inciucisti come anatema contro coloro che, semplicemente, “hanno fame e sete della giustizia” (beati, secondo Gesù, Matteo 5,6), assumiamolo con orgoglio, quel termine, facciamone una bandiera]. La stessa “rottamazione” delle forme più ottuse ma onnipervasive di burocratismo, e del familismo amorale che strangola in culla ogni meritocrazia, non verrà neppure avviata, senza una stagione di giustizialismo, che garantisca manette ai grandi evasori (in primis per conti cifrati all’estero), abrogazione della prescrizione dopo il rinvio a giudizio, introduzione del reato di intralcio alla giustizia, autoriciclaggio, ecc., oltre alle restaurazione e/o ampliamento e/o inasprimento per falso in bilancio, voto di scambio, aggiotaggio e tutta la panoplia dei crimini da colletti bianchi. Esattamente quanto Renzi NON intende fare. […] Renzi si racconta favole, se pensa di poter ammodernare il paese senza aggredire con roncola e anzi machete il viluppo affaristico/politico/criminale, senza bonificare la melmosa morta gora in cui sono avvilite le capacità imprenditoriali e santificate le rapacità criminali, tra “autorities” complici sempre e comunque, e una “informazione” simile alle tre scimmiette. La vigente “costituzione materiale” italiana, avvolgente muro di gomma che vede irresponsabilità burocratica, illegalità e favoritismo, saturare, in amorosi sensi, ogni poro della vita istituzionale e sociale. Renzi sembra intenzionato a fare qualche pulizia: dei piccoli privilegi, però, non dei grandi. Che si chiamano impunità, in tutte le sua articolazioni e proteiformi varianti. Giovanni Berneschi, boss finanziario di Banca Carige e “inamovibile vicepresidente dell’Abi”, proprio di questo si vantava in ogni telefonata (per fortuna intercettata) con i suoi pari della Specie (di cui la Casta è solo una sezione). Non si vantava, anzi: descriveva una situazione ambientale. Pensare che la stragrande maggioranza dei banchieri non si collochi – quanto a pratica della corruzione – nel corpaccione centrale della curva statistica di Gauss, non sarebbe neppure ingenuità ma volontà complice di non sapere. Agli albori della irresistibile ascesa di Matteo Renzi, scrivevamo (prendendolo molto molto sul serio, vista l’analogia): “Il liberale Gobetti sapeva che in Italia un capitalismo moderno, e una borghesia non di rapina, poteva affermarsi solo in alleanza con forze in rivolta morale e materiale contro l’esistente stato di cose. E il liberale Renzi, che anzi si picca di essere più progressista di un liberale tout court? La struttura di classe della società italiana è del tutto incomparabile con quella di quasi un secolo fa, va da sé, ma il problema delle alleanze, sociali e di opinione, si pone in modo fortemente analogo”. Il terreno ineludibile di questa alleanza si chiama giustizialismo, ma Renzi NON vuole scendere in questo campo, dove si gioca la partita decisiva. Post scriptum L’articolo che apre il prossimo numero di MicroMega (in edicola a metà giugno) è stato chiuso il 29 maggio. Prima del clamoroso “caso Mose”, e conseguente ultima retata di establishment. Tutte le donne e gli uomini del Presidente, e infine anche Renzi in prima persona, appena avuta notizia dei 35 arresti, hanno dichiarato la volontà di “tolleranza zero” verso la corruzione, e proclamano anzi che le misure che già stanno realizzando valgono come esempio e vanno in tale direzione. Purtroppo non è vero. La legge delega 67, del 28 aprile, già approvata alla Camera, elimina la carcerazione preventiva per reati con pene fino a cinque anni: se fosse stata approvata anche dal Senato, quelli del “Mose” sarebbero tutti a spasso a fare dichiarazioni contro la persecuzione giudiziaria! Approvarla ora sarebbe delinquenziale. Ma non risulta che lei, Presidente Renzi, abbia dichiarato che la 67/28 aprile muore qui. Lei, presidente Renzi, ha detto che la corruzione politica andrebbe punita come l’alto tradimento. Se davvero vuole mandare all’ergastolo i politici corrotti (l’ergastolo è infatti previsto per l’alto tradimento), non saremo certo noi “giustizialisti” a opporci. Tuttavia basterebbe assai meno. Con i fatti, però, non con le dichiarazioni per i Tg. Se lei vuole effettivamente combattere la corruzione ci sono misure stranote (e a costo zero) di sicura efficacia (proprio per questo l’establishment corrotto le ha sempre bloccate). Mi permetto di farle un succinto elenco (non esaustivo), noto anche ai sassi: (1) abrogazione della prescrizione non appena intervenga il rinvio a giudizio; (2) gare d’asta “chiuse”, senza possibilità di rivedere i costi in corso d’opera; (3) ritorno alla concussione prima dello “spacchettamento” (che ha diminuito le pene per i politici); (4) possibilità di intercettazione per tutti i reati corruttivi e “manageriali” (oggi solo se il massimo è superiore ai 5 anni); ritorno al falso in bilancio nella forma più severa degli scorsi decenni; (5) idem per la falsa testimonianza (un tempo era previsto l’arresto immediato in flagranza); (6) introduzione del reato di intralcio alla giustizia, con ampiezza di fattispecie e pene deterrenti di stile anglosassone; (7 … 12) mi fermo qui, ma altre misure analoghe sono perfettamente note, mentre solo l’autoriciclaggio sembra previsto da una prossima legge, e intanto la legge pseudo-antimafia ha poche settimane fa reso indagini e contrasto più ardui anziché più facili. Insomma, rinunci pure all’alto tradimento e relativo ergastolo, se si limitasse a una dozzina di provvedimenti veri come quelli che abbiamo richiamato l’Italia cambierebbe radicalmente verso. Mi permetto di dubitare che avrà il coraggio di questa dozzina di misure. Se avessi torto ne sarei felice, e come me milioni di italiani onesti, e le chiederemmo scusa coram populo per aver dubitato della sua coerenza tra dire e fare. (6 giugno 2014) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/presidente-renzi-perche-non-vuole-fare-sul-serio-contro-il-partito-dell%E2%80%99impunita/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Contro l’inciucio Renzi-Berlusconi c’è una battaglia... Inserito da: Admin - Settembre 07, 2014, 05:51:47 pm Contro l’inciucio Renzi-Berlusconi c’è una battaglia che si può vincere subito
Di Paolo Flores d’Arcais Nell’accordo piduista Renzi-Berlusconi, benedetto da Napolitano, c’è molto di peggio che non il Senato dei nominati (il Senato andava semplicemente abolito e contemporaneamente il numero dei deputati portato a cento). Il vero elemento golpista del patto piduista del Nazareno è costituito invece dalla legge elettorale, che consentirà a una forza di minoranza un controllo totale non solo del legislativo ma anche delle istituzioni di garanzia: Presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale. Nell’ambito di questa legge elettorale super truffaldina e micidiale per la democrazia, l’elemento più grave è dato dalla vera e propria istigazione a delinquere rappresentata dall’incentivo alla presentazione di liste locali di clientelismo mafioso e liste nazionali di indecenza corporativa. Sarà infatti vantaggioso presentare liste che non hanno alcuna possibilità di eleggere un deputato ma che concorreranno alla somma dei voti con cui la coalizione potrà ottenere i premi di maggioranza truffaldini. Liste improbabili e impensabili in paesi civili ma che nelle prossime elezioni saranno presenti davvero, tipo la lista “Forza Dudù”, che Berlusconi ha già fatto sottoporre a test dalla sua sondaggista di fiducia, con raccapriccianti esiti positivi. E altrettanto vantaggioso sarà presentare in ogni circoscrizione liste di mozzaorecchi locali coalizzate con i partiti principali dell’uno o dell’altro schieramento, liste che sul piano nazionale conteranno per lo zero virgola qualcosa ma su quello locale possono anche raggiungere consensi a due cifre. Basterà perciò avere una lista di clientelismo locale affaristico e/o mafioso in ogni circoscrizione e l’incremento nazionale per una coalizione potrebbe toccare il 10 per cento! Di questo sconcio che fomenterà una vera e propria metastasi letale per la democrazia, i gettonatissimi politologi di establishment alla D’Alimonte & Co. nulla dicono, vuoi perché nella loro insipienza non se ne sono neppure accorti, vuoi perché lo sanno ma establishment oblige. Eliminare la possibilità che questi due tipi di lista possano concorrere alla somma dei voti delle coalizioni è imprescindibile se non si vuole portare a dismisura lo sfregio alla democrazia che comunque questa legge elettorale realizzerà. Dovrebbe perciò essere obiettivo primario delle opposizioni, e innanzitutto del M5S che resta l’unica attuale opposizione effettiva all’establishment (Lega e Sel ne fanno sontuosamente parte), imporre un emendamento che stabilisca la soglia minima di voti (due o tre per cento a livello nazionale, meglio ancora il quattro o la soglia che verrà stabilita per avere deputati) al di sotto della quale una lista non concorre alla determinazione della somma di una coalizione. È una battaglia di elementare civiltà, ma è anche una battaglia che può essere vincente, perché sarà difficile perfino per i pasdaran dell’inciucio Berlusconi-Renzi difendere una norma di così sfacciata valenza clientelar-affaristico-mafiosa. E tale battaglia avrà l’ulteriore effetto virtuoso, se condotta con l’intransigenza doverosa e anche con il sacrosanto can-can dell’ostruzionismo parlamentare più chiassoso e mediaticamente pagante, di sbattere in faccia agli italiani che ancora si illudono del carattere riformista del governo Renzi e magari imputano al M5S di saper dire solo dei “no”, come il “fare” del governo sia sempre più spesso la prosecuzione, perfino allargata, delle “porcate” dell’epoca berlusconiana (altro che rottamazione!) e come l’opposizione sappia invece essere propositiva e radicale: unica forza davvero riformista. Infine, è incomprensibile come una tale battaglia non l’abbiano già lanciata “dissidenti” del Pd come Casson e Mucchetti, che pure hanno alzato le barricate per ignominie assai meno ignominiose. (4 agosto 2014) DA - http://temi.repubblica.it/micromega-online/contro-l%E2%80%99inciucio-renzi-berlusconi-c%E2%80%99e-una-battaglia-che-si-puo-vincere-subito/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Il torto di Marco Travaglio nella sua disputa con Santoro Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2014, 11:24:47 am Il torto di Marco Travaglio nella sua disputa con Santoro
Di Paolo Flores d’Arcais Marco Travaglio ha torto. Infatti ha evidenziato il motivo del suo contendere con Santoro in questi termini: “Esiste ancora nel talk show uno spazio indipendente per il talk inteso come racconto di fatti veri al riparo dallo show, cioè del pollaio gabellato per ‘contraddittorio’ e ‘ascolto’ dove chi ha torto e mente passa dalla parte della ragione e della verità? (...) Prima di domandarsi se il collaboratore fa la pace col conduttore e torna a bordo, andrebbe sciolto un rebus: cosa rimane, del giornalismo come lo conosciamo tutti, nei talk show?”. Nulla, ovviamente. Ma la degradazione della verità di fatto a mera opinione, e dunque la correlativa santificazione di ogni menzogna a opinione che vale quanto l’altra, non è questione che mette a repentaglio solo il giornalismo, bensì costituisce in sé un colpo durissimo e diretto assestato contro la democrazia in quanto tale. Dunque Marco Travaglio ha torto a “minimizzare” come problema del giornalismo qualcosa che riguarda invece l’essenza stessa della democrazia: Santoro, trattando Travaglio – che cerca ostinatamente di dare voce alle modeste verità di fatto – come un “opinionista” alla stregua dei Burlando, Santanchè, Brunetta, Minzolini, Fassino/a e altri habitué del pollaio/ring (mentre è uno dei pochissimi cronisti, cioè trascrittori fedeli di fatti, che ancora restino nel giornalismo italiano), spaccia overdose di una convinzione per la democrazia mefitica e micidiale. Hannah Arendt lo ha spiegato in modo definitivo già mezzo secolo fa, dimostrando e sottolineando che mettere sullo stesso piano le opinioni, inevitabilmente soggettive e arbitrarie, con le verità di fatto significa già compiere un passo cruciale verso il precipizio del totalitarismo. Nel saggio “Verità e politica scrive”: “Ciò che appare ancora più inquietante [ha appena parlato della Germania di Hitler e della Russia di Stalin] è che nei paesi liberi, nella misura in cui verità di fatto sgradite vengono tollerate, esse sono spesso, consciamente o inconsciamente, trasformate in opinioni”. Ma in questo modo “è in gioco la stessa realtà comune fattuale”, il nostro essere-insieme, cioè il tessuto minimo e irrinunciabile di una convivenza che non sia alla mercé di pochi (i padroni-manipolatori della “verità”, appunto). Da qui la conclusione, tanto perentoria quanto argomentata per pagine e pagine: “la libertà di opinione è una farsa a meno che l’informazione fattuale non venga garantita e i fatti stessi siano sottratti alla disputa”. E’ quanto cerca di fare (e fa) ostinatamente Marco Travaglio, cui non riesce di confondere – come avviene invece a tutti i conduttori televisivi – l’imparzialità (che significa il riconoscimento sovrano delle modeste verità di fatto) con l’equidistanza (che significa che se in una giornata di sole Burlando sostiene contro Travaglio che piove, vuol dire “pioggia qua e là, bello altrove”, se poi la “disputa” è tra due politici, e sia Burlando che Scajola sostengono che piove, pioggia è, al di la di ogni ragionevole dubbio). Opinioni e verità di fatto sono di natura radicalmente eterogenea, tanto è vero che “nessuna epoca passata ha tollerato tante opinioni diverse su questioni religiose o filosofiche; la verità di fatto, però, qualora capiti che si opponga al profitto e al piacere di un dato gruppo, è accolta oggi con un’ostilità maggiore che in passato”. Ecco perché la resistenza delle modeste verità di fatto alla loro assimilazione a mere opinioni, resistenza che dovrebbe essere l’abc morale di ogni giornalista e insieme il suo più elementare ferro del mestiere, costituisce più che mai la cartina di tornasole dello stato di salute o di estinzione di una democrazia. Dunque, ecco perché mi auguro che Marco Travaglio continui a difendere quei pochi minuti di verità fattuali e di giornalismo che ancora albergano nello show di Santoro, ormai indistinguibile da quelli di Vespa&Co. Naturalmente, come osservava amaramente Hannah Arendt “le probabilità che la verità di fatto sopravviva all’assalto del potere sono davvero esigue”. A ciascuno di noi, secondo le sue possibilità, fare in modo che aumentino. Chi tace acconsente. Da - MicroMega newsletter Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Parlamentari M5S, il tempo stringe: giustizia e libertà.. Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2014, 04:40:59 pm Parlamentari M5S, il tempo stringe: giustizia e libertà o harakiri
di Paolo Flores d’Arcais Cari rappresentanti eletti nelle liste del M5S (mi rivolgo ovviamente a tutti, anche se successivamente “espulsi” o usciti, poiché con il mio voto ho contribuito ad eleggervi tutti), secondo quando solennemente affermato più volte da Beppe Grillo voi siete i dipendenti di oltre otto milioni e mezzo di cittadini che hanno votato M5S. Dunque, nella stessa quota parte della mia sovranità (un ottoemezzomilionesimo) anche miei dipendenti. Io tuttavia preferisco restare al dettato costituzionale, e considerarvi i miei rappresentanti senza vincolo di mandato, persone cioè che si sono impegnate a rappresentare chi li avesse votati (a “implementare” la loro sovranità attraverso la delega) sulla base del programma reso pubblico e della capacità a interpretarne coerentemente i valori a fronte delle situazioni inedite che in politica si danno continuamente. Credo sia evidente, perciò, che le critiche e le preoccupazioni che esporrò non sono ubbie personali mie, visto che tanto i risultati elettorali quanto i sondaggi indicano che una metà di quegli oltre otto milioni e mezzo di cittadini non rinnoverebbe il suo voto al M5S, e non pochi fra coloro che lo confermerebbero lo farebbero solo faute de mieux, per mancanza di alternative, obtorto collo. Per realismo, insomma: perché non votare equivale a parcellizzare il proprio voto fra tutte le liste, secondo le percentuali di chi ha infilato la scheda nell’urna. Io sono fra quanti, sic stantibus rebus, ancora voterebbe M5S. Ma, come ho scritto nell’editoriale del numero di MicroMega appena uscito, “consapevole però di esprimere in tal modo non già una compiuta politica ma un rutto (sacrosanto) verso gli altri partiti, e nulla più”. È invece a qualcosa di più, molto di più, che vorrei servisse il mio voto: ad alimentare attraverso una concreta azione politica giorno per giorno, la speranza di un futuro in cui il tasso di giustizia e libertà della nostra vita associata aumenti anziché diminuire. Voi potevate essere questa politica e questa speranza, ma sembrate ferocemente intenzionati a rinunciare ad ogni azione politica, a cancellare la speranza, a dilapidare il patrimonio che con i nostri milioni di voti vi abbiamo consegnato. Che sia così ve ne siete accorti voi stessi, siete divenuti voi stessi (una parte di voi, almeno: crescente, mi sembra) portatori delle inquietudini e/o della delusione e/o della rabbia di tanti che vi hanno votato, al punto che una crisi che si ispessiva per stagnazione e autoparalisi e inibizione di vero dibattito è comunque e finalmente precipitata, costringendovi all’occasione di onorare le promesse fatte agli elettori o di piombare nell’avvitamento che prelude alla fine. Ve le ricordo queste promesse, quelle essenziali, almeno: capovolgere il rapporto instaurato dai partiti tra base e vertici, sia nel senso di militanti e dirigenti che di elettori ed eletti, facendo del M5S uno strumento in mano ai cittadini stessi (sia gli attivisti dei meet up e gruppi di base sia i simpatizzanti non organizzati sia gli elettori-e-basta). A questo scopo (questo!) utilizzare la “rete”, per fare in modo che effettivamente uno valga uno. Costruendo così un fare politica fondato non più sulla possibilità di fare carriera, che anzi viene uccisa in culla, ma quale semplice servizio civile per i cittadini stessi. Insomma la passione politica, non i privilegi della Casta. Anzi, la passione politica per abrogare i privilegi della Casta. Per cui nel programma che i comizi di Grillo hanno esposto agli elettori (i programmi scritti non li legge nessuno, infatti) quello che più ha risuonato è stato: una grande redistribuzione della ricchezza in senso egualitario attraverso il salario di cittadinanza e la cancellazione delle pensioni d’oro e degli stipendi altrettanto d’oro (oltre a una miriade di “altre utilità” locupletate oggi a Casta e dintorni), la sostituzione delle opere faraonico-corruttivo-mafiose (ponte sullo stretto e altre Tav) con le grandi opere diffuse davvero necessarie (cablaggio dell’intero paese, assestamento e manutenzione dell’equilibrio idrogeologico, salvaguardia e valorizzazione del patrimonio culturale …), la lotta senza quartiere a corruzione, criminalità organizzata e intreccio affaristico-politico (quell’insieme di norme e di comportamenti coerenti che la Casta definisce giustizialismo). Queste le promesse. E invece: una decisione cruciale come quella di dar vita a una sorta di politburo di cinque persone (inutile nascondersi dietro un dito, trasparenza vuol dire chiamare le cose con il loro nome, e in un vertice collettivo anche ristretto di per sé non c’è nulla di male: neppure in un leader, anzi, dipende se poi “uno vale uno” viene comunque rispettato) viene decisa dalla trojka Grillo/Casaleggio/Casaleggo jr (quest’ultimo a che titolo: dinastico, imprenditoriale, imprenditorial-dinastico? Sempre a strame di democrazia minima, comunque), e sottoposta alla “rete” in confezione a pacchetto chiuso e inemendabile, da votare ad horas, ma proprio nel senso letterale: entro le 19. Che i sì siano oltre il 90% va da sé (meglio faceva solo Stalin, che riusciva anche a superare il 100% dei voti, e i suoi epigoni della schiatta di Kim-il-Sung). Tutto questo si chiama plebiscitarismo e costituisce la negazione compiuta di ogni idea di democrazia. Se “uno vale uno”, la necessità di un politburo si discute, consentendo a tutti di intervenire con proposte fra loro alternative, e se poi lo si costituisce il numero delle candidature deve essere aperto, i nomi proposti discussi pubblicamente argomentando pro e contro, meriti e difetti, e il voto limitato (2 o 3 voti per eleggerne 5): sono ovvietà che non bisognerebbe neppure richiamare. Del resto. È tutta la vita democratica di cui il M5S ha garantito di volersi fare strumento che latita: in che modo gli elettori possono far sentire la loro voce? Il sito www.beppegrillo.it è gestito come una casamatta assediata o un ufficio postale sotto censura militare. In che modo i militanti possono decidere, se contano solo i “certificati” sul web a una certa data, a prescindere dal lavoro reale sul territorio? E chi certifica i certificatori? E in che modo un cittadino comune può “iscriversi” al movimento? Cosa contano ormai anche deputati e senatori, visto che Grillo può decidere di fare carta da cesso della regola per cui ogni proposta di espulsione deve passare dai gruppi parlamentari prima di andare al voto in rete (e di ogni altra regola, secondo umore e digestione)? Molti mesi fa (forse più di un anno fa) ho proposto a tutti voi una serie di incontri tra parlamentari e persone della società civile impegnate nelle varie lotte (di opinione e sociali), che MicroMega era disponibile a organizzare. Credo di aver avuto due risposte. Ma senza uno scambio continuo tra eletti ed elettori, tra parlamentari e società civile, diventate autoreferenziali come i partiti che giustamente stigmatizzate. In questa direzione MicroMega (e io personalmente) tornerà alla carica, con proposte puntuali di seminari, convegni, dibattiti, azioni comuni (raccolte di firme, proposte di legge) sui temi cruciali della nostra vita politica. Spero che la decisione di Grillo di nominare cinque suoi rappresentanti (di questo infatti si tratta) abbia presso di voi l’effetto di un “tana libera tutti” per una discussione libera, non autoreferenziale, argomentata (troppo spesso, non solo sul web, si riduce invece a viscerali like/not like dove logica e fatti brillano per assenza), anziché segnare l’accelerarsi di una diaspora inevitabilmente opportunistica e di un arroccamento inevitabilmente settario (le due facce di una stessa occasione perduta). Non avete molto tempo. Non abbiamo molto tempo. (29 novembre 2014) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/parlamentari-m5s-il-tempo-stringe-giustizia-e-liberta-o-harakiri-2/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Il M5S deve essere decisivo (dipende solo da lui) Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2014, 05:32:33 pm Legge elettorale, Roma, Presidente della Repubblica: il M5S deve essere decisivo (dipende solo da lui)
Dall’impasse di Renzi e Berlusconi sulla legge elettorale alla situazione del comune di Roma dopo l’esplosione di Mafiacapitale, fino all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. Ecco come il Movimento 5 Stelle potrebbe essere protagonista in modo straordinariamente efficace. Perché continua a giocare di rimessa? di Paolo Flores d'Arcais Cari parlamentari eletti nelle liste M5S, come vostro rappresentato vi sottopongo alcune riflessioni che certamente terrete in considerazione. La forza che col nostro voto vi abbiamo dato può esercitarsi nella attuale situazione – di crisi morale politica ed economica sempre crescente – in modo straordinariamente efficace. Faccio solo tre esempi: la legge elettorale, la situazione del comune di Roma dopo l’esplosione di Mafiacapitale, l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. La legge elettorale continua ad essere elemento cruciale della trattativa tra Renzi e Berlusconi, e una pietra d’inciampo dell’accordo politico-istituzionale tra i due. Il M5S potrebbe, come si dice nell’unico gergo con cui ormai i media parlano di politica, quello calcistico, entrare a gamba tesa, o con una metafora scacchistica, compiere la “mossa del cavallo”, insomma diventare protagonista, utilizzando i nostri voti, anziché spettatore passivo, ibernandoli o dissipandoli. E partecipare come protagonisti non significa affatto edulcorare la propria radicalità, ma anzi esercitarla davvero anziché conservarla nella teca delle parole. Cosa che invece il M5S continua a fare, ripetendo come un mantra che sul sistema elettorale la decisione è già stata presa perché “rete locuta causa finita”. Ma con queste superstizioni non si fa politica radicale, perché per essere radicale una politica deve essere innanzitutto azione. Ora, proprio l’impasse in cui Renzi e Berlusconi si trovano per la legge elettorale vi offre (ci offre!) l’occasione di diventare protagonisti, di lanciare voi (noi!) una proposta che ponga il M5S al centro della scena politica e costringa gli altri a misurarsi con la propria (vostra, nostra) radicalità. Basterebbe mettere sul tappeto il sistema uninominale a due turni, con ballottaggio al secondo fra i due più votati al primo (erroneamente lo si definisce “alla francese” benché in Francia al secondo turno possano passare anche un terzo e un quarto candidato, se hanno ottenuto il 12,50% al primo, con possibilità di pastette fra partiti per il “désistement”). È il sistema con cui si eleggono i sindaci. Oltretutto è proprio il sistema che ha permesso al M5S di compiere il grande salto (prima della vittoria di Pizzarotti a Parma le prospettive non erano certo un quarto e oltre dei voti), inoltre è il sistema elettorale più amato dagli italiani poiché per i sindaci funziona benissimo, e infine Renzi e Berlusconi dovrebbero arrampicarsi sugli specchi per rifiutarlo, perché in vari momenti i rispettivi partiti lo hanno magnificato (anche se ora per calcoli di bottega immediati non lo vogliono più). Perché dunque non fare di questo tema un vostro (nostro!) agire politico, anziché lasciare campo libero alle varie componenti della Casta? Roma, devastata da Mafiacapitale, offre un’occasione ancora più imperdibile. Marino è persona onesta, e costantemente in conflitto col Pd (che aveva ormai deciso di farlo fuori). Ha commesso e continua a commettere gaffes, stupidaggini, errori. Ma è pur sempre giulebbe rispetto a quello che passa il convento partitocratico affaristico-criminale (ora tutti i media si sbracciano a dire che erano cose note, ma quando alcune rarissime testate parlavano della destra di Alemanno come criminale, e di mezzo Pd anche, era tutto uno stracciarsi di vesti contro i “giustizialisti”, “manettari” e “girotondini-giacobini”). Perché il M5S continua a giocare di rimessa anziché ad agire da protagonista? Infatti significa giocare di rimessa lasciare che le proposte (perfino alquanto ragionevoli) vengano da Rutelli e siano riprese da Marino, mentre sarebbe agire da protagonisti prendere l’iniziativa e proporre in modo ultimativo e credibile a Marino la costituzione di una “giunta degli onesti”, cambiando tutti gli assessori, discutendoli insieme a partire dalle competenze presenti nella società civile, che lo stesso M5S dovrebbe individuare e proporre. Che senso ha ridursi invece ad un altro mantra, quello dello scioglimento o commissariamento, che in concreto significa affidare il governo della città ad una persona scelta dal ministro dell’Interno, il cui nome è Angelino Alfano? Cosa è più radicale? Oggi uno dei “cinque” del direttorio ha giustamente chiesto per il M5S la presidenza dell’assemblea comunale e della commissione alla trasparenza. Ma perché chiamarsi fuori da una “giunta degli onesti”? Non nel senso di farne parte con propri esponenti (neanche esponenti del Pd dovrebbero farne parte) ma di indicarne e discuterne i nomi tratti dalle competenze della società civile. Quanto alla Presidenza della Repubblica: perseverare diabolicum, come è noto. E si rischia di perseverare se si continua a dire che nella scorsa occasione si è fatto il massimo e il meglio in coerenza con i valori del movimento. Non è vero. Si poteva, e si può, fare di più, senza perdere di radicalità, anzi. Si tratta, come al solito, di occupare il luogo strategico dello scontro, anziché giocare di rimessa o collateralmente, accomodandosi nella mera testimonianza. Se se vuole fare decidere alla rete la rosa dei primi dieci nomi, si faccia, ma assai più seriamente. Con una discussione sul sito che cominci subito, che comporti proposte argomentate, e discussioni su ciascuno di essi altrettanto argomentate, che sia aperta agli elettori e non solo ai militanti (oltretutto quelli “certificati” e entro una certa data), che veda esprimersi apertamente i vari deputati. Allora, a conclusione di questa elaborazione collettiva di settimane, il voto avrebbe un significato non occasionale, non semplicemente emotivo, non prono alla mera notorietà mediatica (e anzi di quel medium che è un sito generalmente troppo autoreferenziale: quel sito infatti sarebbe stato aperto quanto più possibile a simpatizzanti ed elettori). A questo punto i dieci nomi dovrebbero essere affidati ai parlamentari, per dare al M5S i margini di manovra necessari in qualsiasi azione che si svolga in Parlamento, e massime in una elezione del Presidente della Repubblica, dove votazione per votazione cambia lo scenario e la possibilità di incidere efficacemente. I parlamentari ovviamente si sentirebbero moralmente obbligati a rispettare le indicazioni della rete, ma tra un indicato al primo posto che dopo varie votazioni non ha alcuna possibilità, e uno al terzo o quarto, che può diventare un outsider con effettive probabilità per i veti reciproci con cui gli altri partiti hanno bruciato i rispettivi candidati, consentire ai gruppi parlamentari di poter decidere non sarebbe certo opportunismo “contro la rete” ma possibilità di rendere efficaci le decisioni della rete, anziché velleitarie e di mera testimonianza. (6 dicembre 2014) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/legge-elettorale-roma-presidente-della-repubblica-il-m5s-deve-essere-decisivo-dipende-solo-da-lui/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Mafia capitale e le chiacchiere degli smaliziati Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2014, 05:53:48 pm Un Paese ad alta digeribilità
Mafia capitale e le chiacchiere degli smaliziati L’inchiesta su Roma Di Ernesto Galli della Loggia Non è più Tangentopoli, ormai. È Mahagonny, la città immaginata dalla fantasia di Brecht e Weill dove è legge l’assenza di legge (Mahagonny: e dunque chi se ne importa se il termine «mafia» non è proprio quello filologicamente più appropriato). Non è più, insomma, la collusione dell’epoca di Mani pulite tra industriali senza scrupoli e politici pronti a vendere e a vendersi. Ormai è l’intreccio sempre più organico tra politica, amministrazione e malavita. È - si direbbe - la fase immediatamente precedente la conquista del potere direttamente da parte del crimine. Chiamiamo le cose con il loro nome: almeno fino alla settimana scorsa a Roma, nella capitale d’Italia, non era proprio questo all’ordine del giorno? Non è vero che la politica, perlomeno quella nazionale - come ci viene detto - è sbalordita, è sconvolta, è pronta a correre ai ripari. Non ha forse il ministro dell’Interno Angelino Alfano detto l’altro ieri che «Roma non è una città marcia, Roma non è una città sporca, è una citta sana»? E come no, deve essere senz’altro così, visto che nessuno dei tanti personaggi importanti che si sono mossi per anni su quella scena - da Veltroni a Zingaretti, dalla Meloni a Tajani, da Gasparri a Sassoli - ha mai fatto una piega, si è mai accorto di nulla, ha mai detto qualcosa. E visto che in tutto questo periodo neppure ad uno dei tanti egregi procuratori della Repubblica succedutisi a Roma prima di quello attuale è mai capitato d’interessarsi di quanto sta venendo fuori oggi. Così come del resto a nessuno, a Roma o fuori Roma, sembra che abbia mai interessato il fatto che da anni, ogni volta che c’è un caso di corruzione politico-affaristica (dall’Expo al Mose, a Roma, appunto), ogni volta spunta immancabile lo zampino di qualche società affiliata alla Lega delle cooperative. Chissà come mai. In Italia funziona così. Porre questioni scomode o guardare in fondo alle cose non usa, in politica meno che altrove. Ovvio dunque che di fronte all’arrembaggio capitolino di galantuomini come «er cecato» e «er maialotto», si pensi che la risposta adeguata sia una manciata di autosospensioni e dimissioni o lo scioglimento di una federazione di partito (quella del Pd romano: peraltro già ridotta da tempo a un Ok Corral per politicanti affamati di quart’ordine): misure già tutte viste e riviste mille altre volte in mille occasioni analoghe. E di cui tutti, quindi, sono in grado di apprezzare l’efficacia. L a verità è che finché al centro della scena c’era Berlusconi, ogni caso di pubblica corruzione suscitava, per ragioni ben note, un dibattito accesissimo tra presunti «garantisti» e presunti «giustizialisti», e rispettive vaste tifoserie, divenendo immediatamente un terreno di scontro politico. Oggi invece, tramontata la presenza dell’ex Cavaliere, e spappolatosi il centrodestra, di fronte a fatti come quelli di Roma non sembra esserci più posto, nel campo della politica, che per una maggioritaria tendenza alla sordità, a «ridimensionare», e per quanto riguarda il modo di reagire, ad attenersi, come si dice, al «minimo sindacale». Prevale ormai tra gli addetti ai lavori il partito trasversale degli «smaliziati». Quelli che per l’appunto, di fronte a mezzo Comune di Roma al servizio del malaffare, irridono alla «Corleone dei cravattari», fanno un sorriso di sufficienza ogni volta che sentono risuonare dopo un sostantivo l’aggettivo «morale», e giudicano dall’alto in basso gli sprovveduti che di politica capendoci poco, sono solo capaci di augurarsi, molto banalmente, che ci sia in giro un minimo di decenza. Gli «smaliziati» di professione, i quali - mischiando l’ottimismo craxiano-berlusconiano di un tempo con l’antigufismo renziano attuale - non sopportano giustamente che si parli di declino dell’Italia, di crisi storica del Paese, facendosi beffa di qualunque ragionamento critico cerchi di guardare oltre l’oggi, di chiunque evochi i problemi antichi della Penisola. Perché conta solo la politica. Naturalmente la politica che c’è: cioè la politichetta de’ noantri , quella della chiacchiera non stop giornalistico-televisiva-romana, 24 ore su 24. Quella politica che si ostina a non capire che il Paese ha certo bisogno delle riforme istituzionali e della ripresa economica, del Jobs act, di un altro Parlamento, degli 80 euro e via di seguito. Ma che nulla di tutto ciò servirà minimamente, si può essere certissimi, se non ci sarà qualcosa d’altro. Chiamiamola come vogliamo - uno scatto morale, un nuovo sentimento nazionale, una voglia collettiva di riscatto - ma insomma qualcosa a cui la politica deve essere capace una buona volta di dare voce, un segnale da trasmettere alle menti e ai cuori di quei milioni di «sprovveduti» che pur con tutti i limiti e le contraddizioni che conosciamo costituiscono la maggioranza degli italiani. Un segnale forte di serietà, di decisione, e una buona volta di capacità di colpire per primi. Siamo stufi di vedere all’attacco sempre gli «altri» e «noi» colpire sempre di rimessa. 7 dicembre 2014 | 09:57 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_07/mafia-capitale-chiacchiere-smaliziati-39f69cf8-7de0-11e4-9639-7f4a30c624ee.shtml Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Terrorismo, Dio, laicità Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2015, 10:04:05 pm 10 gennaio 2015 | micromega.net
Terrorismo, Dio, laicità Qui di seguito l’editoriale del direttore di MicroMega Paolo Flores d’Arcais e gli interventi di Valerio Magrelli, Vinicio Capossela, Marco d’Eramo, Raffaele Carcano, Angelo d’Orsi, Pierfranco Pellizzetti, Alessandro Robecchi, Cinzia Sciuto, Alessandro Esposito. di Paolo Flores d'Arcais Eroi delle libertà democratiche, pronunzia tempestivamente il presidente Hollande. È vero. Wolinski e i suoi compagni di Charlie Hebdo erano infatti libertini sessuomani, estremisti di sinistra, atei, anarchici-e-comunisti, e infine irresponsabili, come recitava cristallinamente e orgogliosamente il sottotitolo del settimanale. Oggi ne fanno il ditirambo governanti reazionari e giornalisti d’establishment, despoti e finte sinistre, Papi e Leghe arabe, con tassi di ipocrisia diversi e che non proviamo neppure a misurare. Meglio così, devono ora tutti allinearsi a difesa del diritto alle “enormità” con cui gli “estremisti” irresponsabili appena assassinati avevano caratterizzato le loro vite, riempito le pagine di Charlie e nutrito le nostre libertà. Mentre avevano ancora la matita in mano li hanno solo attaccati, mal sopportati, diffamati. L’elogio che obtorto collo devono farne oggi è perciò la vignetta e l’editoriale che Wolinski e Charb avrebbero potuto scrivere sull’ipocrisia del potere. Non dimentichiamolo. La strage è stata fatta in nome di Dio, il dio monoteista, creatore e onnipotente, il Dio di Maometto, Allah il Clemente e Misericordioso (sono i primi due dei suoi novantanove nomi). L’islam dunque, ma quello fondamentalista e terrorista, si è detto. L’altro islam è una vittima, si sottolinea. Senza dubbio. Ad un patto: che questo altro islam parli in modo forte, chiaro, senza contorsionismi semantici, e con adamantina coerenza di comportamenti. Non basta perciò che condanni come mostruosa la strage di rue Nicolas Appert 10 (ci mancherebbe!) è ineludibile che riconosca la legittimità e la normalità democratica di quanto Charlie praticava in modo esemplare per intransigenza: il diritto di criticare tanto i fanti che i santi, fino alla Madonna, al Profeta e a Dio stesso nelle sue multiformi confessioni concorrenziali. Anche, e verrebbe da dire soprattutto, quando tale critica è vissuta dal credente come un’offesa alla propria fede. Questo esige la libertà democratica, poiché tale diritto svanisce se dei suoi limiti diviene arbitro e padrone il fedele. Il cristianesimo per fortuna è stato costretto a venire a patti con la democrazia laica, benché ancora non la accetti pienamente. Il fondamentalismo alberga perciò nel suo seno in dosaggi infinitamente minori di quello islamico, questo è certo e nessuna comparazione è possibile, non dimentichiamo però che sono stati cristiani militanti quelli che hanno assassinato negli Usa medici e infermieri che rispettavano la volontà di abortire di alcune donne. Donne, medici, infermiere che Wojtyla e Ratzinger hanno bollato più volte come responsabili del “genocidio del nostro tempo”, nazisti postmoderni, insomma. La laicità più rigorosa, che esclude Dio, qualsiasi Dio dalla vita pubblica (scuole, tribunali, comizi elettorali, salotti televisivi, ecc.), è perciò l’unica salvaguardia contro l’incubazione di un brodo di coltura clericale che inevitabilmente può diventare pallottola fondamentalista. www.micromega.net Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Il Vaffanculicum di Renzi e la robbbetta di opposizione Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 12:36:25 pm Il Vaffanculicum di Renzi e la robbbetta di opposizione
Di Paolo Flores d'Arcais Sulla legge elettorale “Italicum” (che la Boschi della vignetta del geniale Mannelli su Fatto quotidiano ribattezza “Vaffanculicum”) Matteo Renzi va allo scontro frontale. Quando stampa e tv non siano totalmente plaudenti, due tamburellanti interrogativi caratterizzano i commenti: perché il Premier cerca questo “scontro finale” su un tema che interessa poco e niente alla stragrande maggioranza degli italiani? E fare dell’Italicum/Vaffanculicum una sorta di piccolo Armageddon della politica nostrana è segno di forza o di debolezza? Sul primo punto la risposta è facilissima: Renzi cerca la battaglia campale su un tema i cui contenuti non interessano, e quindi sfuggono ai più, proprio per questo: che sarà vissuta come una battaglia in cui i contenuti contano pressoché zero, e dunque per i cittadini conteranno solo le “posture” e le “virtù” che in tale battaglia si manifesteranno: la coerenza dei propositi contro la tradizione delle lungaggini, l’energia contro la palude, il nuovo contro il vecchio, la riforma contro la conservazione, il coraggio di rischiare contro la vocazione a rassicuranti compromessi, ecc. Insomma la durlindana rottamatrice contro la melmosità delle nomenklature. Renzi perciò ne uscirà benissimo, vinca o perda (molto probabilmente vince). Tanto più che i suoi antagonisti nel centro-sinistra sono giganti della tempra di Bersani e Letta, D’Alema e Bindi, e infine Speranza (vi rendete conto?!), robbbetta che nessuno che abbia residui di lucidità può prendere minimamente sul serio, e la cui rottamazione resta una delle “gesta” che hanno fornito a Renzi il suo primigenio patrimonio di credibilità e consensi. Altra cosa sarebbe stata se nel centro-sinistra l’opposizione si fosse manifestata in modo netto e coerente (al momento di ogni voto) su tutte le questioni cruciali, a cominciare dal problema del problema, la giustizia, e con esso quello dei media (e la legge bavaglio che li connette), e insomma fosse stata frontale fin dall’inizio, visto che il disegno di Renzi era evidente e organico. Ma un’opposizione capace di fare questo non sarebbe stata capace, quando era al governo (per quasi otto anni, in epoca berlusconiana) di tutto il miserrimo cabotaggio, e il berlusconismo di risulta, e la mimesi di corruzione, e insomma sarebbe stata una cosa completamente diversa fatta da persone completamente diverse. Mentre la robbbetta questo era in grado di dare, al governo e all’opposizione: in termini di libertà e giustizia, anche in dosi omeopatiche, il nulla. A questo punto è chiaro che l’Armageddon formato twitter che vuole realizzare Renzi è una prova di forza, non di debolezza. Una prova con un margine di rischio, ovviamente, ma una prova di forza. E’ il compimento della rottamazione. Ottenuta in una sola mossa insieme a una trasformazione strutturale che rende l’esecutivo padrone dell’intera vita politica del paese: un regime plebiscitario di minoranza, dove con un terzo dei voti, e se le altre forze sono divise, si controlla il parlamento manu militari, si nominano tutti gli organismi di garanzia, si domina la tv di Stato, insomma si fa il bello e il cattivo tempo senza “lacci e lacciuoli”. Il berlusconismo realizzato. Grazie a quanti (la famosa robbbetta e anche qualcuno in più) hanno per anni e anni stigmatizzato come estremista chi combatteva senza transigere il regime di Arcore, hanno addirittura considerato “demonizzazione” e fanatismo l’uso del termine regime, e si sono dati voluttuosamente a ogni genere di inciucio, spacciandolo per genialità strategica e convincendo non pochi guru-gonzi del sistema mediatico e di “opinione”. Oggi siamo una non-democrazia senza opposizione, e quelle che passano per tale sono talvolta mero fascismo e/o razzismo rimpannucciato (Salvini, Meloni, ecc.), o pezzi di nomenklatura di finta sinistra non certo migliore della robbbetta (Vendola & Co). Resta il M5S, con le stranote contraddizioni, volatilità, dogmatismi, irrazionalità esoteriche, ma anche passione civile della base. Motivi di speranza pochi, dunque. Pochissimi. A incrementarli può esserci solo l’inventiva e le iniziative concrete che ciascuno di noi saprà costruire, per quanto in apparenza isolate e impotenti, senza aspettare che “arrivi” da chissà dove un nuovo strumento di azione politica di massa. (29 aprile 2015) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-vaffanculicum-di-renzi-e-la-robbbetta-di-opposizione/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS Renzi l'iperberlusconiano Inserito da: Admin - Settembre 01, 2015, 04:52:28 pm “Riprendiamo dal sito www.micromega.net”
29 agosto 2015 | micromega.net Renzi l'iperberlusconiano Di Paolo Flores d'Arcais Al meeting di CL Matteo Renzi ha confessato pubblicamente di essere la prosecuzione del berlusconismo con altri mezzi. Dalla giustizia all’informazione, dal lavoro alla riforma istituzionale, non c’è un solo elemento della lobotomizzazione della democrazia tentata da Berlusconi che Renzi non stia realizzando. Contro la quale ora ha però poco senso indignarsi. Occorre invece riflettere sul perché le straordinarie energie che l’antiberlusconismo aveva saputo suscitare nella società civile non abbiano trovato adeguata espressione politica. [Questo articolo può essere ripreso anche integralmente, purché preceduto (preceduto) dalla dicitura “riprendiamo dal sito www.micromega.net” e fatto seguire dalla dicitura “copyright © Paolo Flores d’Arcais”] Se si trattasse di omosessualità diremmo che è stato un coming out. Ma trattandosi di un cattolico praticante, ed essendosi svolta in una location che più cattolica non si può, il meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, è d’uopo invece parlare di CONFESSIONE. Matteo Renzi ha confessato pubblicamente: di essere la prosecuzione del berlusconismo con altri mezzi, anzi di essere la realizzazione del berlusconismo adeguata ai tempi, cioè alla non implementazione del berlusconismo con i mezzi di Berlusconi (l'intermezzo dei governi-nullità Monti e Letta non merita menzione: de minimis non curat praetor). Confessione solenne, coram populo e urbi et orbi, che non a caso uno dei bracci armati del berlusconismo, le falangi devote di CL e del cattolicesimo di Mammona, ha salutato canonizzando il nuovo leader post Pd a punto di riferimento. Che la confessione ci sia stata, e inequivocabile, si dimostra per tabulas. Nell’immediato dopoguerra, quando il regime di Mussolini è spazzato via dalla vittoria della Resistenza nell’ambito della vittoria militare alleata (Roosevelt Churchill Stalin), dopo la Liberazione cui fa seguito la Repubblica e la sua Costituzione (firmatari il comunista Terracini e il democristiano De Gasperi, giurista di riferimento l’azionista Calamandrei), i fascisti che vogliono combattere la Rottura e trovare i mezzi efficaci per ristabilire una Continuità non sono i rottami nostalgici di Salò ma quanti predicano l’ideologia delle non ideologie: oltre sia il fascismo che l’antifascismo. Così Renzi col berlusconismo e l’antiberlusconismo, papale papale. Ovviamente senza la tragedia del fascismo, i morti i torturati gli incarcerati gli esiliati … il berlusconismo non è stato il fascismo [“Fascismo e berlusconismo”, MicroMega 1/2011] è stato “l’equivalente funzionale e postmoderno del fascismo” (ivi) e il renzismo ne costituisce l’apoteosi effettiva (come già analiticamente dimostrato in “Sinistra e parresia”, MicroMega 8/14). In realtà, quando dice che ci si deve liberare del berlusconismo e dell’antiberlusconismo Renzi ha di mira solo quest’ultimo, non c’è un solo elemento del berlusconismo che non abbia fatto proprio e non stia realizzando: giustizia, informazione, lavoro, riforma istituzionale, i quattro capisaldi della lobotomizzazione della democrazia (già in crisi da decenni di partitocrazia) tentata dal Cavaliere per antonomasia poi Criminale qualificato. Lobotomizzazione che implica la distruzione di tutti i contrappesi che fanno della democrazia liberale un sistema di governo limitato: magistratura autonoma, informazione indipendente, sindacati rappresentativi e forti, impossibilità di occupare a maggioranza le istituzioni di garanzia. Di fronte a questa realizzazione del berlusconismo ha però poco senso indignarsi. È addirittura offensivo e vergognoso se a farlo sono quanti propiziarono o subirono le stagioni dell’inciucio (si pecca egualmente per atti e per omissioni, e più che mai per viltà). Non dimentichiamo che la “sinistra” di establishment è stata al governo quasi otto anni in questi ultimi venti, che pure chiamiamo giustamente “ventennio berlusconiano”, visto che tali governi niente hanno fatto “di sinistra” (il governo Prodi col suo pessimo ministro della giustizia si segnalò per una persecuzione contro "Mani pulite" da far invidia al precedente governo Berlusconi). I pochi che invece parlarono di regime, come era doveroso vista che si trattava di una verità fattuale, e che poi pochi non erano (oltre un milione a san Giovanni a Roma il 14 settembre del 2002 in una indimenticabile “festa di protesta”, ad esempio), benché da trovare col lanternino tra intellettuali e altri “opinion maker”, anziché piegarsi nella nostalgia dovrebbero provare a capire perché quelle straordinarie energie che suscitarono e catalizzarono nella società civile non hanno trovato espressione politica. Espressione politica adeguata, che il 25% di voti al Movimento 5 Stelle è ancora l’onda lunga di quella stagione di lotta, dai girotondi ai popoli viola alle manifestazioni contro il bavaglio ai se non ora quando, ma un'onda che non metterà palafitte e dunque non sarà mai alternativa (benché in mancanza di essa resti il solo voto possibile del non piegarsi e non mollare). Questa riflessione abbiamo già avviato per tempo, nel numero 1/14 (dialogo con Rodotà) e nel numero 8/14 (Sinistra e Parresia), ma bisognerà tornarci, soprattutto dopo l’articolo di Rodotà su Repubblica del 25 agosto, che giustamente si scaglia contro “il risveglio tardivo dei critici di Renzi”, ricordando che “in politica i tempi contano per chi agisce e per chi discute” e “non basta fare la buona battaglia, bisogna farla al momento giusto”. Bisognerà tornarci, e presto, perché riguarda tutti noi che abbiamo combattuto Berlusconi e che quella alternativa non abbiamo saputo o voluto costruire, o addirittura abbiamo distrutto alternative in cantiere, malgrado ci siano state offerte parecchie occasioni, anche nei due o tre anni più recenti. (29 agosto 2015) “Copyright © Paolo Flores d’Arcais” www.micromega.net Da - https://mail.google.com/mail/u/0/?pc=it-ha-emea-it-bk&shva=1#inbox/14f79567d8e56 Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS in marcia verso il nulla ... Inserito da: Arlecchino - Novembre 29, 2015, 05:30:50 pm Da Ingroia a Tsipras fino a Grillo, Flores d’Arcais in marcia verso il nulla
Il Fattone L’endorsement del direttore di Micromega mette in difficoltà perfino Di Battista C’è qualcosa di commovente in Paolo Flores d’Arcais, il direttore di MicroMega, qualcosa che ispira tenerezza in chi lo ascolta: come l’omino Duracell è sempre in marcia, con la risolutezza un po’ cocciuta di chi pensa soltanto a sé nella convinzione che il mondo prima o poi si adeguerà, e ogni volta che cambia direzione – il che gli accade molto spesso – è il mondo che ha cambiato verso, mentre lui, impettito, riprende la sua marcia lineare verso il nulla. Ieri, ci riferisce il Fatto, ha invitato Stefano Rodotà e Alessandro Di Battista alla presentazione del nuovo numero di MicroMega, e per l’occasione si è solennemente dichiarato grillino: “A sinistra non ci sono più corpi da rianimare. I Cinque stelle sono l’unico movimento votabile, e lo faccio convintamente da anni”. Naturalmente non è affatto vero: alle ultime europee Flores è stato fra i garanti della Lista Tsipras, alle precedenti politiche dichiarò di aver votato la “Rivoluzione civile” di Ingroia – due successi clamorosi, davvero difficili da dimenticare. Ma Flores sbianchetta il proprio passato, forse per ingraziarsi il suo nuovo eroe, Beppe Grillo, e convintamente spiega che “c’è solo una forza che rappresenta le istanze di rappresentanza e legalità, ed è il M5s”. Neppure il cronista del Fatto riesce a rimanere serio, e nel riportare le parole di Flores osserva: “Troppa grazia, per Di Battista”, descrivendolo “con postura da studente rispettoso” ma anche un pochino preoccupato: “Incassa, ma deve fugare subito sospetti di deriva sinistroide”, e dunque ribadisce che “il Movimento è oltre le ideologie, sinistra e destra sono corpi morti”. Ma Flores-Duracell è già in cammino e non c’è modo di fermarlo: “Il M5s non deve essere autoreferenziale, deve passare all’offensiva”. Come? “Raccogliendo migliaia di firme sul web”. Questa Di Battista deve averla già sentita: ma è un ragazzo educato, e aspetta educatamente che il dibattito finisca. Da - http://www.unita.tv/opinioni/da-ingroia-a-tsipras-fino-a-grillo-flores-darcais-in-marcia-verso-il-nulla/ Titolo: Paolo Flores d’Arcais Giustizialismo e (è!) garantismo Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2016, 06:24:56 pm Giustizialismo e (è!) garantismo
[Questi testi possono essere ripresi anche integralmente da qualsiasi testata, purché con puntuale riferimento alla fonte] Di Paolo Flores d’Arcais Pubblichiamo volentieri questo intervento duramente critico di Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, contro il saggio del dottor Gratteri che costituisce uno degli assi portanti dell’ultimo numero di MicroMega. E, ovviamente, la risposta di Gratteri. Quale sia la posizione della rivista si evince in modo cristallino dal titolo che abbiamo dato a questo scambio di interventi. Che riguarda due temi: il nodo giustizialismo/garantismo in generale, e la questione del lavoro nelle carceri. Gonnella dopo una serie di affermazioni tanto polemiche (al limite dell’ingiuria) quanto apodittiche sul primo tema, si concentra soprattutto sul secondo. La discussione rimane in proposito aperta, anche se il parallelo fatto dal dottor Gratteri col lavoro non retribuito nei centri di disintossicazione avrebbe dovuto suggerire a Gonnella maggior cautela, anziché spericolate analogie con lager e gulag, visto che in alcun di questi centri addirittura si paga per essere “costretti” a lavorare e visto che esistono già casi in cui un detenuto può scegliere di scontare una parte della pena in regime di disintossicazione attraverso il lavoro anziché in carcere. Quanto al più generale nodo giustizialismo/garantismo: Che parecchi decenni fa “giustizialismo” significasse l’ideologia del peronismo non dice nulla sulla “cosa” di cui si tratta oggi. La storia di ogni lingua è piena di lemmi che hanno avuto significati assai diversi nel tempo e privi di connessioni reali fra loro. “Giustizialismo” è l’etichetta polemica e nelle intenzioni ingiuriosa che il regime di Berlusconi, e assai spesso anche l’inciucio dalemiano e post, ha utilizzato contro i magistrati, i giornalisti e la parte di opinione pubblica (cioè i cittadini) che hanno preso sul serio il dettato costituzionale della “legge eguale per tutti”. MicroMega ha deciso di fare propria con orgoglio questa etichetta, anziché ridursi alla posizione difensiva di altri settori dell’opinione pubblica comunque fedeli al dettato costituzionale, proprio per smascherare il carattere propagandistico dell’accusa e volgerla contro gli autori, dimostrando come il “giustizialismo” per il quale si stracciavano farisaicamente le vesti costituisse in realtà il massimo di garantismo realizzato nelle vicende giudiziarie italiane. Lo abbiamo fatto in numerosi articoli e saggi che hanno dimostrato dati alla mano come il trattamento giudiziario degli imputati di Mani Pulite abbia costituito, statisticamente parlando, un “sogno” ahimè inarrivabile per la maggior parte degli imputati nel nostro paese, proprio sotto il profilo del rispetto dei diritti della difesa e del rapporto tra condanne e accuse, che indica come molto raramente (cioè molto ma molto più raramente che nella media italiana) vi siano state incriminazione che non hanno retto alla prova dei tre gradi di giudizio. Quando perciò Gonnella parla di giustizialismo (compreso quello di MicroMega, a e anzi in primis, visto che sul sito di MicroMega scrive, e fa riferimento a un numero della rivista pubblicizzato con “Solo il giustizialismo ci può salvare!”) come di “una sorta di avallo acritico al lavoro di una parte della magistratura” di acritica c’è solo la sudditanza culturale e psicologica che in questo caso Gonnella manifesta rispetto al pensiero unico berlusconian-inciucista. Noi le sentenze, o le incriminazioni – e insomma il lavoro dei magistrati in qualsiasi fase – le critichiamo tutte le volte che ci sembrano non rispettare i fatti e la logica, le leggi e la Costituzione. Attenendoci sempre al principio garantista che la colpevolezza va dimostrata “al di là di ogni ragionevole dubbio” (benché tale espressione non caratterizzi l’ordinamento italiano, molto meno tassativo, ma quello anglosassone) e anzi all’antico e per millenni non applicato “in dubio pro reo”. Con la differenza che riteniamo ineludibile che nella argomentazione processuale e giuridica la logica bisogna usarla davvero, senza confonderla con la capziosità azzeccagarbugliosa che abbiamo visto all’opera in tante difese di personaggi del regime, e purtroppo anche in talune assoluzioni di questo ventennio che non passa. Sfugge poi del tutto a Gonnella il paradosso in cui lo porta il suo anti-giustizialismo: poiché infatti “il garantismo penale è una teoria nobile che ci protegge dai soprusi di Stato, dagli abusi delle autorità, dalla violenza istituzionale della tortura”, dovrebbe essere agli antipodi, ad esempio, della recentissima sentenza con cui nessuno è stato condannato per l’assassinio di Stefano Cucchi. E che invece è stata salutata da tutti i “garantisti” come un luminoso esempio di liberazione dalle ipoteche giustizialiste che troppo a lungo, sull’onda di Mani Pulite, avrebbero avuto corso nel nostro paese. Resto invece dell’idea che tale sentenza non sia affatto garantista ma semplicemente ingiusta, e che tale fosse per metà anche la sentenza di primo grado, che aveva assolto i poliziotti che Cucchi hanno avuto “in cura”. Proprio logica e fatti avrebbero dovuto portare a sentenze di condanna. Ma se si continua invece con la canea anti-giustizialista questi sono poi gli ineludibili frutti, e i “garantisti”, non solo in versione berlusconiana ma anche in versione pannellian-manconiana, a queste sentenze di assoluzione (o altre di avvelenatori industriali e di assassini per lucro sulle misure di sicurezza) hanno il dovere di fare un monumento. Contro il giustizialismo Di Patrizio Gonnella * La teoria del garantismo penale come teoria che pone limiti al potere affonda le sue radici nell’illuminismo giuridico e nell’opera eccezionale e attuale di Cesare Beccaria di cui ricordiamo i 250 anni di vita. «Ogni pena che non derivi dall'assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica; proposizione che si può rendere più generale così: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall'assoluta necessità è tirannico». Il garantismo penale è una teoria nobile che ci protegge dai soprusi di Stato, dagli abusi delle autorità, dalla violenza istituzionale della tortura. Ogni sua interpretazione nel segno della impunità dei potenti, come quella che abbiamo assistito negli ultimi due decenni, è una manipolazione frutto di strumentalizzazioni da parte dei politici. Il giustizialismo era il nome della dottrina politica peronista a sua volta intrisa di populismo. È filosoficamente, politicamente, culturalmente, storicamente, giuridicamente agli antipodi rispetto a quanto Beccaria scriveva in ‘Dei delitti e delle pene’. Il giustizialismo nella sua versione più recente italiana indica una sorta di avallo acritico al lavoro di una parte della magistratura. Esso è in conflitto ontologico con la limpidezza illuminista dell’opera di Cesare Beccaria fondata sulla dignità umana, sull’uguaglianza e sulla consapevolezza della crudeltà delle pene in quanto tali. Qualora poi il giustizialismo si dovesse concretizzare nelle affermazioni che andrò qui di seguito testualmente a riportare esso di fatto andrebbe a coincidere con il ritorno alla pre-modernità giuridica, ovvero a quel panorama di pene corporali e supplizi di cui abbiamo letto in ‘Sorvegliare e punire’ di Foucault. Così scrive Nicola Gratteri nell’ultimo volume di MicroMega dedicato alla ‘Giustizia’, esponendo un suo programma di quasi-ministro nonché di presidente di una commissione nominata da Matteo Renzi per rendere più efficiente la macchina della giustizia e per contrastare il crimine organizzato. «La stessa cosa dovrebbe fare il detenuto in carcere, e cioè lavorare, ma sempre tenendo presente che il lavoro dev’essere concepito come terapia, come elemento cardine di una rieducazione e di un reinserimento sociale. Quando si dice che il detenuto, se lavora, dev’essere pagato e noi non abbiamo i soldi per pagare 40 mila detenuti, si tratta di un ragionamento sbagliato, perché il lavoro dev’essere qui concepito appunto come terapia, senza pensare a una sua remunerazione. Far valere questo principio sarebbe una rivoluzione all’interno dell’universo carcerario. Si pensi a quei tanti detenuti che hanno ormai 50, 55 anni e che non hanno mai lavorato in vita loro. Oltretutto, in questo modo potremmo impiegare una quantità di persone in lavori socialmente utili, facendo pulire loro tutte le spiagge, le fiumare, i fiumi e le montagne del paese, che diventerebbe a quel punto il paese più pulito del mondo. Allo stesso tempo, si tratterebbe di qualcosa che, per il detenuto, ha una valenza terapeutica». Sorvolo su quanto scrive prima intorno alla riapertura delle carceri nelle isole di Pianosa e Asinara, luoghi dove la Corte Europea dei Diritti Umani nei casi Labita e Indelicato riscontrò la tortura sistematica. Sorvolo su proposte che abbiamo sentito da decenni ripetere da esponenti principalmente della destra (‘rimandare gli immigrati a scontare la pena nei loro paesi’) e che non hanno riscontro nella pratica giudiziaria, amministrativa e nelle relazioni pubbliche e internazionali (infatti va ricordato che i Paesi di provenienza spesso non li vogliono, che in quei Paesi i detenuti potrebbero essere a rischio di tortura, che ci sono 3 mila e 500 detenuti italiani all’estero che a questo punto dovremmo riprenderci in virtù delle clausole di reciprocità). Sorvolo sulla proposta di chiudere tutte le carceri con meno di 100 posti (una visita a Secondigliano o Poggioreale forse sarebbe utile a comprendere cosa accade e come si vive nelle carceri dove c’è l’internamento di massa). Mi soffermo sull’idea del lavoro come terapia e dunque del lavoro gratuito. Il lavoro gratuito come terapia degrada il detenuto kantianamente a cosa. Il detenuto sarebbe dunque un malato da curare. Il lavoro sarebbe la medicina. Il lavoro gratuito non è altro che lavoro coatto. Il diritto internazionale vieta i lavori forzati. La storia delle tirannie – nazionalsocialista ma anche stalinista – è una storia iconograficamente nota al mondo anche tramite le immagini dei lavori forzati. Auschwitz-Birkenau era un campo di lavori forzati. Così recitano le Regole Penitenziarie Europee: «Il lavoro penitenziario deve essere considerato come un elemento positivo del trattamento, della formazione del detenuto e della gestione dell’istituto… Nella misura del possibile, il lavoro deve essere tale da conservare e aumentare la capacità del detenuto di guadagnarsi normalmente la vita dopo la sua dimissione... L’organizzazione e il metodo di lavoro negli istituti devono avvicinarsi, nella misura del possibile, a quelli che regolano un lavoro nella società esterna, al fine di preparare il detenuto alle condizioni normali del lavoro libero… Deve essere previsto un sistema equo di remunerazione del lavoro dei detenuti». Lo dice l’Europa dunque che il lavoro non può che essere retribuito. Lo dicono secoli di storia di sfruttamento umano. Lo afferma perentoriamente l’articolo 8 del Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966 entrato in vigore in Italia nel 1976: «A nessuno può essere richiesto di svolgere lavoro forzato». Non vi sono eccezioni. Il lavoro gratuito e terapeutico non è altro che un altro modo di qualificare il lavoro forzato. D’altronde in una società libera neanche le imprese vogliono il lavoro coatto e gratuito in quanto si andrebbe a manipolare il mercato all’esterno rendendolo non competitivo. L’unico lavoro gratuito ammissibile dal mercato resterebbe quello non produttivo, inutile. Sorprende che un ritorno alla pre-modernità penale arrivi da chi presiede una commissione nominata dalla presidenza del consiglio dei ministri. La questione penitenziaria è una questione complessa che ha a che fare con la società, con il diritto interno e internazionale, con i diritti umani, con l’urbanistica e l’architettura, con il welfare, con il fisco, con la sicurezza. Per poterla affrontare non basta avere fatto l’investigatore, seppur ai massimi livelli. Il sistema penitenziario italiano non ha bisogno di taumaturghi, di litanie, di soluzioni giustizialiste. Necessita di razionalità e umanità, doti presenti in tanti operatori – direttori, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi, criminologi, volontari, religiosi, poliziotti – che da decenni si sbattono e battono per una pena rispettosa dell’articolo 27 della Costituzione. A me la parola rieducazione non piace. A maggior ragione se vi si lega la parola terapia. Ricorda cose tristi di un passato tirannico dove la pena era connotata da contenuti etici, religiosi e medici. A me piace la parola dignità. Fortunatamente è anche la parola che piace alle Corti interne e internazionali. Il programma di Nicola Gratteri assomiglia molto a quello dell’ex ministro Castelli. Abbiamo già dato. Irresponsabile confondere garantismo e impunità Di Nicola Gratteri ** Le categorie del garantismo penale invocate da Gonnella fanno parte del bagaglio di ogni giurista moderno che operi in una realtà democratica e rispettosa dei diritti individuali come quella italiana. Di esse mi sono sempre fatto interprete, e nel momento in cui ho accettato l’incarico di presiedere la Commissione sulle riforme voluta da Renzi mi sono posto anche il problema di tutelare i diritti e le garanzie individuali dell’imputato e del detenuto. Altra questione è l’ordine logico e cronologico della tutela dei diritti individuali, all’interno dello Stato di diritto. Se non v’è dubbio sul fatto che nessuno deve compiere abusi e vessazioni sui reclusi, va però ricordato che il diritto penale trova la propria origine nel bisogno di tutelare i beni giuridici di coloro che sono stati offesi dal reato, sia come individui, sia come appartenenti ad una collettività, che è lo Stato in cui noi tutti ci riconosciamo. Ben vengano dunque i contemperamenti del garantismo al dovere dello Stato di perseguire i reati, ma attenzione a non superare la soglia della rinuncia alla difesa dei diritti violati degli individui. Perché altrimenti verrebbe negata la funzione stessa dello Stato di diritto e ad esso si sostituirebbe l’arbitrio dei criminali, tutelati a prescindere nel loro agire contro le regole, già prima di commettere i reati e così incentivati nel compimento di atti antisociali. Ragionare sul garantismo è dunque importante, ma ispirare le riforme sul presupposto di ritenere prevalenti le ragioni di chi delinque su quelle di chi subisce reati è da irresponsabili. Non è una questione politica – o comunque non solo – è una questione di rispetto della Costituzione e delle priorità in essa previste nella tutela dei beni giuridici. Con buona pace di Gonnella, chi ha commesso uno stupro non avrà mai più ragione di chi lo ha subito, e non potrà averne fino al punto di chiedere un risarcimento alla società o di essere messo agevolmente in condizione di commetterne altri. Questo perché il diritto è contemperamento degli interessi che vengono in conflitto – ed è dunque anche cura dei diritti del detenuto – ma non mai sovvertimento degli stessi, come si finisce per auspicare, pur partendo le mosse dai nobili principi del garantismo. Lo sforzo che intendo compiere come magistrato ed all’interno della Commissione che presiedo non è finalizzato ad occupare posti di potere o ad indirizzare verso scelte ideologicamente orientate, ma solo a far funzionare la Giustizia nell’interesse di cittadini. A far si che le lungaggini non impediscano il raggiungimento del fine di giustizia e che una efficienza rispettosa dei diritti di tutti si sostituisca alla babilonia in cui è precipitato il sistema penale, col concorso involontario del disinteresse della politica, dell’incapacità dell’amministrazione e degli interessi delle organizzazioni criminali. Ragionando con le categorie estremiste di chi paragona al nazionalsocialismo lo sforzo di quanti si battono per una Giustizia che funzioni si potrebbe agevolmente ribattere che proporre la liberazione di assassini e stupratori – prendendo a presupposto l’inciviltà, tutta da dimostrare, del nostro sistema penale – richiama principi di anarchismo parimenti antidemocratici ovvero corrisponde agli interessi della criminalità mafiosa e organizzata in genere. Ma farebbe torto alle ragioni del diritto replicare con argomenti che recano offesa all’interlocutore. Gonnella non è un giurista e gli possono essere perdonate le ampie approssimazioni del suo ragionamento. Persino gli può esser perdonato l’aver egli confuso l’obbligo del lavoro, - inteso come necessità di dar prova della volontà di reinserirsi attraverso comportamenti di pubblica utilità, prova che uno Stato che si rispetti deve pretendere nel corso di una pena che “tenda alla rieducazione” - con i lavori forzati che sono ben altra cosa. Ma non gli si può consentire di dire che non gli piace la “rieducazione”. Perché quella finalità è scritta nella Costituzione proprio per segnare un punto di equilibrio e di rispetto delle regole dello Stato e dei beni giuridici di cui esso si fa portatore. E se dunque non gli piace la Costituzione e neppure lo Stato di diritto rimangono solo l’ideologia e il pregiudizio, e allora tutto per il lettore sarà più semplice da comprendere. * presidente di Antigone, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale” ** magistrato, procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria e presidente della Commissione per l’elaborazione di proposte di riforma per il contrasto della criminalità organizzata (3 novembre 2014) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/giustizialismo-e-e-garantismo/ Titolo: Paolo Flores d’Arcais Roma, il M5S corre verso il disastro Inserito da: Arlecchino - Settembre 10, 2016, 10:34:49 pm Roma, il M5S corre verso il disastro
Di Paolo Flores d'Arcais Ben tre settimane fa, il 15 agosto, ho messo in rete il seguente tweet: "Se il sindaco #Virginia #Raggi continua con il 'raggialemanno magico' (#Marra #Romeo #Viggiano ...) porta la #giunta e il M5S al disastro". Dieci giorni prima, esattamente un mese fa, il tweet era invece stato: "Se il #sindaco #Virginia #Raggi continua a servirsi anche di una sola persona del giro #Alemanno tradisce coloro che l'hanno votata". Il "raggialemanno magico" è più che mai dominante nella giunta, è riuscito a far fuori tutti i possibili "competitor", in compenso la giunta è a pezzi e il M5S rischia il disastro. L'assessore Muraro è indifendibile, e ogni ora di sua permanenza e arroccamento del sindaco sul suo nome peggiora una situazione già disastrosa. Indifendibile non tanto per l'indagine (dipende dall'imputazione e dagli elementi a carico) ma per la plateale e reiterata menzogna, e soprattutto per le frequentazioni, le scelte, le decisioni, spesso scellerate, nel caso Ama, che l'esemplare articolo di Iacoboni, che riportiamo qui sotto, documenta dettagliatamente. E la nomina di De Dominicis al bilancio, un ex magistrato della Corte dei Conti consigliato dall'avvocato Sammarco e ammiratore sfegatato e ditirambico di Giulio Andreotti (altro che rifiuto dei "poteri forti"!) aggiunge buio a buio. Sembra che purtroppo i "competitor" possibili in seno alla giunta, il superassessore Marcello Minenna e il capo di gabinetto Carla Raineri, fossero sensibili alle sirene delle Olimpiadi-Malagò e altri richiami di establishment. Sembra insomma che di uno scontro tra due pezzi di establishment (anche se "diversamente impresentabili") si sia trattato, mentre gli elettori che hanno votato M5S a Roma lo hanno fatto per voltare radicalmente pagina, cioè per avere una giunta radicalmente libera da qualsiasi "inciucio" con qualsiasi establishment. I vertici nazionali del M5S sono stati assolutamente incapaci, "per opere o per omissioni", come si dice nel catechismo (anche nel M5S ai vertici nazionali e locali i cattolici assai fedeli sono in sovrabbondanza), con le due personalità di punta, Di Maio e Di Battista, che ricordavano i surplace di Maspes e Gaiardoni anziché la capacità di decisione e responsabilità politica degli statisti. Questo il quadro. Desolante. E tuttavia al momento il voto M5S resta l'unico possibile, visto che le alternative sono il disastro in atto di mediocrità autoritaria e vuoto arrogante e ipocrisia e menzogne in quantità industriale dei Renzi e Berlusconi (che vuole tornare per interposta persona). Oggi la lucida disperazione impone di votare ancora M5S, anche perché il sindaco di Roma non è quello di Torino, ma il consenso per disperazione (ancorché lucida) non dura a lungo. Nella società civile le risorse cui potrebbe attingere il M5S ci sono, e abbondantissime. Una stolta autoreferenzialità sta portando invece questo movimento/speranza a innescare un processo di implosione: autoreferenzialità che al dunque diventa inciucio con poteri opachi e brutti assai, come il caso di Roma sta evidenziando. * * * Le mani della Muraro sull’Ama. Ecco la lista delle epurazioni di Jacopo Iacoboni, da La Stampa, 5 settembre 2016 Il boccone è Ama. Ma il boccone è anche uno strumento: per controllare la politica, avere voti e stare nelle partite economiche. Attorno ai rifiuti, a Roma si è giocata e si sta giocando una partita feroce e sanguinosa, per le sorti della giunta Raggi, del suo assessore all’ambiente e naturalmente per la qualità del servizio ai romani. Paola Muraro si è scontrata pesantemente con Marcello Minenna sul piano di ristrutturazione dell’azienda, che l’assessora ha scritto e La Stampa è in grado ora di raccontare nel dettaglio. Un progetto che finirà sul tavolo dei pm, in cui non c’è alcun riferimento alla ristrutturazione industriale, né un piano economico-finanziario, né delle linee guida strategiche o un ripensamento della macrostruttura, ma emerge invece prepotente un’urgenza: epurare i dirigenti nemici e sostituirli con dirigenti fidati. Per assecondare alcune logiche che qui possiamo spiegare. Le mani di Paola Muraro su Ama si allungano risolutivamente in una riunione del 26 agosto. Alla riunione partecipano Marcello Minenna e la Muraro, dal Campidoglio, Alessandro Solidoro e Stefano Bina (presidente e dg) in collegamento telefonico. Il verbale viene trasmesso dal gabinetto del sindaco all’azienda (col protocollo Roma Capitale, Gabinetto del sindaco, 27 agosto 2016, N. Prot. RA/55796). La trasmissione è firmata Marcello Minenna. Il primo a essere rimosso è Pietro Zotti, direttore industriale da cui dipendono anche i due impianti di trattamento biomeccanico dei rifiuti di Ama (il dirigente è Marco Casonato, anche lui rimosso). Rimuovere Zotti significa togliergli qualunque arma di difesa, un domani qualunque cosa dicesse contro la Muraro passerebbe per la vendetta di un dirigente rimosso. Il secondo è Leopoldo D’Amico, già fatto fuori da Panzironi, il presidente dell’era Alemanno, e tornato, nella gestione Fortini, come capo del progetto degli Ecodistretti. Non un fulmine di guerra, ma una persona di cui tutti in azienda parlano bene. La sua rimozione serve a Muraro nel quadro del mantenimento del consenso interno con i comitati di Rocca Cencia. Il terzo da far fuori è Saverio Lopes, 41 anni, proveniente da Acea e poi Atac, direttore delle risorse umane. E qui la storia incrocia direttamente interessi elettorali. Lopes è giovane, capace. Ma ha tanti nemici. Facendo fuori Lopes, Muraro fa cosa gradita alle Usb e ad Alessandro Bonfigli, il potente capo della Cisl in Ama e amico di Marcello De Vito, una comune simpatia ideologica (a destra). Lopes è particolarmente inviso perché la sua battaglia cardine è stata contro l’assenteismo e il consociativismo nella gestione aziendale; Lopes denunciò brogli nell’accaparramento delle deleghe sindacali, e favorì il licenziamenti dei 41 di Parentopoli. Favorì, anche, una scissione sindacale che portò via 500 tessere dalla Cisl di Ama (tessere che valgono 120mila euro all’anno). Bonfigli, che chiede e ottiene la testa di Lopes, era stato estromesso dalla Cisl nel maggio 2016; ma a giugno vince la Raggi, e contemporaneamente lui torna in sella in come capo Cisl in Ama. Insomma: destra (network Alemanno), carabinieri, sindacati di base e pezzi (non i migliori) di Cisl sono sullo sfondo di questa Muraro story, e dei voti che essa significa per Virginia Raggi. In quella riunione del 26 agosto, Muraro decide dunque di togliere Zotti e D’Amico (le loro deleghe vanno tutte al nuovo dg Bina, che non ne è affatto contento, perché si trova gravato di un carico enorme di responsabilità, e connessi rischi giudiziari), e soprattutto di epurare Lopes. Solidoro, allora presidente, e Minenna, sono contrari a rimuovere Lopes (addirittura pensavano di nominarlo dg), ma la Muraro fa la voce grossa, alla sua maniera. A quel punto lo scontro è totale. Minenna, amico e mentore di Solidoro, qualche giorno dopo si dimette. Solidoro strappa l’ordine di servizio per la rimozione di Lopes e si dimette pure lui. Tutto da rifare? No. Muraro riconvoca tutti i dirigenti Ama il 2 settembre - agendo come fosse l’amministratore dell’azienda, non l’assessore - e comunica che in Ama ci sarà anche Giancarlo Ceci, responsabile della programmazione del M5S, a darle una mano. Un’occupazione stile prima repubblica. Infine, Muraro chiama Giuseppe Rubrichi, 66 anni, oggi dirigente per la sicurezza sui luoghi di lavoro, e gli offre il posto di Lopes. Rubrichi nel 2000 finì nell’inchiesta per l’inceneritore di Colleferro, dove bruciavano rifiuti che non dovevano essere bruciati. Non tirò in ballo nessun altro, allora. Una sua nomina potrebbe far rientrare di fatto in gioco, a dirigere gli impianti, quell’Alessandro Muzi, in buoni rapporti con Manlio Cerroni, l’imprenditore “re delle discariche” romane, che nella prima uscita pubblica della Raggi con Muraro, a Rocca Cencia, si fece fotografare accanto a sindaco e assessora esibendo potenza e copertura politica. È un grosso boccone, Ama. Chi controlla Ama ha in mano mezza Roma. (6 settembre 2016) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/roma-il-m5s-corre-verso-il-disastro/ Titolo: Paolo Flores d'Arcais La contro-riforma putiniana di Renzi, Boschi e Verdini Inserito da: Arlecchino - Novembre 22, 2016, 05:44:45 pm La contro-riforma putiniana di Renzi, Boschi e Verdini
Di Paolo Flores d'Arcais, da Repubblica Amici lettori, pensate davvero che la “riforma” costituzionale Renzi-Boschi-Verdini non costituisca un pericolo per le vostre libertà? Provate a ragionare su questi ineludibili dati di fatto. Oggi in Italia vi sono tre schieramenti che ottengono grosso modo il 25/30% dei voti (il resto si disperde tra forze minori). Poiché ormai un terzo degli italiani non va a votare (e il fenomeno è in crescita), con la “riforma” suddetta e la concomitante nuova legge elettorale (sia nella versione Italicum che, forse ancora peggio, in quella “corretta Cuperlo”), chi rappresenta solo il 17/20% dei cittadini otterrà una schiacciante maggioranza assoluta in Parlamento (di nominati, dunque fedeli al Capo “perinde ac cadaver”), il controllo della Corte Costituzionale, del Consiglio Superiore della Magistratura (da cui dipendono tutte le nomine ai vertici di Procure Tribunali e Cassazione), la scelta del Presidente della Repubblica (e la possibilità di facile impeachment nel caso non piacesse più e non si “allineasse”), il controllo della Rai, tutte le nomine delle Authority di “garanzia” (Consob, Privacy, ecc.), oltre ovviamente al governo. Potrebbe vincere Renzi, potrebbe vincere Grillo, potrebbe vincere la destra-destra (in declinazione Berlusconi/Salvini o Berlusconi/Parisi, a seconda degli umori di Arcore). Io voterò M5s, come faccio già da tempo, ma avrei paura se a questa forza andassero i poteri previsti dalla contro-riforma (chiamiamola col suo nome, vivaddio!) Renzi-Boschi-Verdini. E ne avrebbero anche i “cinquestelle”, responsabilmente, visto che hanno proposto una legge elettorale “proporzionale corretta” (tipo Spagna e in parte Germania) e sono impegnati per il No. Perché con la contro-riforma costituzional-elettorale (le due cose sono inscindibilmente intrecciate proprio nel disegno dei promotori), un leader da 17/20% di consenso dei cittadini avrebbe un potere che sfiora quello di Putin e di Erdogan, senza necessità di ricorrere alla galera e alla violenza. E, ripeto, chi sia questo leader dipenderebbe da spostamenti minimi di voti (nel caso del turno unico saremmo addirittura alla roulette). Davvero questa prospettiva non vi gela il sangue? Se non vi fa paura vuol dire che avete superato in atarassica serenità zen il più “disincarnato” dei monaci orientali, il che sarà magari ottimo per la vostra psiche e le vostre future reincarnazioni, ma per il funzionamento di una democrazia è micidiale. In ogni democrazia fondamentale è il rispetto delle minoranze, le garanzie per i bastian-contrari, i diritti civili e gli spazi di comunicazione reale di quella minoranza delle minoranze che è il singolo dissidente. Niente di tutto questo resta in piedi con le contro-riforme Renzi-Boschi-Verdini. Vi flautano nelle orecchie: ma è il prezzo da pagare per l’efficienza, per la velocità del processo legislativo. Davvero ci siete cascati? Non l’avete ancora letto l’articolo 70 controriformato? Claudio Santamaria lo ha recitato in pubblico, alla manifestazione indetta da MicroMega con Maltese, Rodotà, Zagrebelsky, Carlassare, Ovadia e tanti altri, lo ha letto come si conviene a un grande attore e come esige la punteggiatura di quella pagina e mezzo (attualmente l’articolo 70 è di una riga): un incomprensibile labirinto mozzafiato di commi e sottocommi, su cui i giuristi hanno già dato una dozzina di interpretazioni diverse, una sbobba procedurale che garantirà ricorsi su ricorsi fino alla Corte Costituzionale. Santamaria ha detto che sembrava scritta da Gigi Proietti in uno dei suoi momenti satirici di grazia. Forse, ma certamente con la collaborazione del notissimo e manzoniano dottor Azzeccagarbugli. Vi sventolano davanti agli occhi lo specchietto per le allodole dei costi della politica che diminuiscono, davvero ve la siete bevuta? Qualche decina di milioni in meno: costa assai di più ogni settimana semplicemente tener in vita l’ipotesi del Ponte sullo Stretto (se poi, con il Sì nelle vele, lo costruiranno davvero, saremmo a una tragedia da piangere per generazioni). E se i senatori saranno un pochino di meno, in compenso i politici regionali e comunali che andranno in quegli scranni godranno del premio più ambito per i troppi politicanti che della politica fanno mercimonio e profitto: l’amatissima immunità. I costi della politica si tagliano in radici riducendo a zero le migliaia e migliaia di consigli di amministrazioni delle “partecipate”, le migliaia e migliaia di consulenze di nomina politica, il groviglio ciclopico di enti inutili, e insomma i milioni di persone che “vivono di politica”, e lautamente, per meriti che con il merito hanno ben poco a che fare. Millantano che con il Sì combatterete la Casta, ma la Casta sono loro, ormai, il giglio magico e le sue infinite propaggini, l’indotto di nuovi piccoli satrapi messo in moto dalle Leopolde, le incredibili mediocrità assurte a posizioni apicali, le imbarazzanti nullità innalzate nell’Olimpo dell’intreccio affaristico-politico, che ormai fanno apparire uno statista perfino Cirino Pomicino. Col No, il No che conta, vince invece la società civile di questo quarto di secolo di lotte. Che ha come programma l’unica grande riforma necessaria: realizzare la Costituzione, che i conservatori di sempre hanno bloccato, edulcorato, sfigurato, avvilendola nella camicia di forza della “Costituzione materiale”, democristiana prima, del Caf (Craxi Andreotti Forlani) poi, infine di Berlusconi (che con le sue televisioni ammicca al Sì e a chiacchiere sta col No, il solito piede in due scarpe), e oggi del suo nipotino Renzi. Se col tuo voto vincerà il No, amico lettore, non ci sarà nessuna instabilità, semplicemente diventerà inevitabile un governo di coerenza costituzionale, e si aprirà la strada per l’unico rinnovamento di cui l’Italia ha bisogno, quello che porta scritto “giustizia e libertà” e come stella polare ha l’eguaglianza incisa nella Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. (21 novembre 2016) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-contro-riforma-putiniana-di-renzi-boschi-e-verdini/ Titolo: Paolo Flores d'Arcais La fascista non ha vinto. Ma il sonno della memoria ... Inserito da: Admin - Maggio 08, 2017, 10:37:37 am Francia
La fascista non ha vinto. Ma il sonno della memoria produce mostri Di Paolo Flores d'Arcais L’orrore è stato evitato, il candidato fascista non salirà i gradini dell’Eliseo. Un grande sospiro di sollievo dunque, ma da entusiasmarsi c’è poco. Se nel cuore storico della democrazia europea, la Francia di “liberté, égalité, fraternité” che deve la legittimità delle sue istituzioni ai sanculotti del 1789 e ai resistenti del maquis e del governo in esilio contro il tradimento di Vichy, il candidato di un partito intasato di negazionisti in nostalgia di Petain e di cattolici vandeani, prende un terzo dei consensi, sarebbe più serio mantenere un certo timore, oltre che qualche oncia di vergogna. E capire come sia stato possibile arrivare a tanto, andando alle radici per poter reagire. Prima che sia troppo tardi. Perché è già molto tardi. Lo dice la noncuranza di massa (e anche di élite) che ha minimizzato o negato, in realtà rimosso, il carattere fascista del partito Fn, nella continuità tra Le Pen padre, figlia e nipotina Marion. E che ancor più lo farà, ora che “Marine la Patriota” cercherà di accreditarsi tale addirittura “rifondando” con nuovo nome e nuovi apporti il Fn. Noncuranza che si lascia imbambolare da qualche frase ad effetto, belletto e botulino ideologici, e sarebbe il meno, ma che si radica soprattutto per affatturazione della sirena sociale e collasso dello spessore storico, massime nella generazioni più giovani. Circolano massicciamente posizioni del tipo “il nazi-fascismo - salvo frange minoritarie di nostalgiche macchiette - è un fenomeno del secolo scorso”, oggi esistono solo “destre sociali”, “il revisionismo storico è una posizione culturale, all’operaio che vede ridursi i suoi diritti non importa niente di cosa Le Pen pensi di Giulio Cesare”. Destra sociale? I fascismi si sono sempre dichiarati sociali, dalla parte dei lavoratori e dei disoccupati. Hitler aveva chiamato il suo partito “nazional-socialista” (nazismo è la contrazione). Abbindolate le masse, hanno sistematicamente e regolarmente distrutto ogni organizzazione di lavoratori, intrecciato valzer e amorosi sensi con i più biechi poteri finanziari e industriali, distrutto ogni possibilità legale di lotta per i non privilegiati. È evidente e sacrosanto che prima viene la pancia piena e poi la morale (citazioni di Brecht a bizzeffe, volendo), e che anzi il grande capitale e la grande finanza, quando messi alle strette, tra un’avanzata democratica di oppressi ed emarginati e la soluzione fascista hanno troppo spesso preferito quest’ultima. E allora? E’ un buon motivo per fare harakiri e immaginare che il DNA della Resistenza antifascista non sia più necessario? La pancia vuota che si lascia affatturare da un fascista resterà vuota, e non potrà neppure lottare, se non a rischio di carcere tortura e vita. Ma ogni generazione sente il prepotente bisogno di ripetere gli errori delle generazioni precedenti. Anche Mussolini, e Hitler, e i loro scherani, a molte personalità e persone comuni dell’epoca apparivano delle “macchiette”: in pochi anni hanno ridotto l’Europa in macerie e fame. Oggi queste consapevolezza storica minima si è perduta, e il sonno della memoria, come quello della ragione, produce mostri. Purtroppo, in Francia, come in Italia, come in Europa tutta, si sconta un peccato originale, non aver dato vita nel dopoguerra alla necessaria epurazione antifascista in tutti gli apparati dello Stato (ma anche nel giornalismo e nella cultura). Non aver realizzato quella damnatio memoriae tassativamente ineludibile, che non garantisce contro ritorni di fascismo (la pulsione di servitù volontaria possiede circuiti neuronal-ormonali più antichi e radicati di quelli illuministico-democratici, ahimè), ma ne riduce le probabilità per il possibile. Invece, nei decenni, con lenta ma infine inesorabile crescita, si è tollerato che partiti e movimenti fascisti si ricostruissero, si legittimassero per partecipazione elettorale, divenissero per mitridatizzazione parte del panorama ordinario del nostro habitat politico e sociale. È stata questa l’altra faccia di una politica di establishment che per guerra fredda prima e liberismo selvaggio poi ha impedito che venissero realizzate nelle leggi e nella pratica di governo le solenni promesse contenute nelle Costituzioni nate dalla vittoria contro i fascismi. In Italia fu chiaro da quasi subito, purtroppo. Il 2 giugno 1951 Piero Calamandrei, che della Costituente era stato uno dei massimi protagonisti, già doveva stigmatizzare che mentre nella Costituzione “è scritta a chiare lettere la condanna dell’ordinamento sociale in cui viviamo”, la politica del governo andava in direzione opposta, e il vero nome della festa della Repubblica era perciò “La festa dell’Incompiuta”. E rivolgendosi ai giovani nel 1955, a Milano, ribadiva: “La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma solo in parte. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”. In Italia, come in Francia, come in Europa, siamo più che mai a questo, e la convinzione ormai dilagante che i fascismi siano lontani dal nostro orizzonte possibile quanto Giulio Cesare, fornisce ai reazionari e conservatori un’ulteriore arma di narcolessia di massa. Macron non è la soluzione, a meno che da Presidente non diventi un Macron inedito, perché la finanza (e più in generale la politica economica) liberista è il motore della crisi sociale e della deriva politica che, per hybris di diseguaglianze, infesta e mina le democrazie. Rispetto ai lepenismi (in Europa si sono ormai moltiplicati sotto le più diverse e accattivanti fogge, ma sempre humus fascista veicolano), la vittoria di Macron potrebbe confermarsi solo il laccio emostatico che tampona l’emorragia in attesa dell’intervento chirurgico. Ora si tratta di realizzarne gli strumenti, quella sinistra illuminista egualitaria e libertaria oggi purtroppo introvabile in forma politica organizzata, ma diffusa in forma sommersa o carsica nelle società civili di molti paesi d’Europa. (7 maggio 2017) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-fascista-non-ha-vinto-ma-il-sonno-della-memoria-produce-mostri/ Titolo: Paolo FLORES D'ARCAIS. 4 marzo: al voto tra peggio, più peggio e peggissimo Inserito da: Arlecchino - Febbraio 28, 2018, 11:24:06 pm 4 marzo: al voto tra peggio, più peggio e peggissimo
Questo articolo può essere riprodotto anche integralmente, purché preceduto dalla dicitura “riprendiamo questo testo dal sito www.micromega.net” e seguito dalla dicitura ©Paolo Flores d’Arcais. Di Paolo Flores d’Arcais Troppi dicono che domenica 4 marzo l’unica sarà votare il meno peggio. Ottimisti. Alle urne un democratico potrà scegliere tra il peggio, il più peggio, il peggissimo. O per maggiore precisione filologica: tra lo schifo, il più schifo, lo schifissimo. Il Movimento 5 stelle fa schifo. Il rosario delle evidenze avrebbe più grani di quello delle beghine (del resto Di Maio biascica di peggio quando va a baciare la superstiziosa ampolla di un santo mai esistito, con tanto di salamelecchi al cardinale). La cartina di tornasole è la moltiplicazione dei candidati immondi e perciò espulsi. Vuol dire che demenziale, o peggio, è il sistema di selezione dei candidati. Peggio, perché scegliere attraverso un casting di tre minuti di video autoincensatori e successivi clic di “like” (talvolta poche decine per diventare sindaco di una città di medie dimensioni) significa piegarsi a quanto di più antidemocratico e di meno meritocratico, di più corrivo verso la politica spettacolo, ulteriormente degradata a finzione pura. E fermiamoci qui. Che la destra di Berlusconi Salvini Meloni faccia schifissimo, se prendiamo minimamente in considerazione la Costituzione, cioè il patto solenne che ci rende concittadini anziche homines hominibus lupi, è dimostrabile per tabulas e per quotidiane scelleratezze politiche. Ormai il razzismo è incensato a senso comune, e Macerata farà scuola, e si sognano ulteriori diseguaglianze e degradi sociali, culturali, ambientali, con flat tax e condoni edilizi e fiscali. Il sistema planetario renziano, con i zero virgola Lorenzin e prodiani e la mistificazione pluridecennale Bonino (per cascarci ancora si deve avere una golosità inossidabile, ossessiva, inguaribile, per le fette di Parma sugli occhi e la cera di Ulisse nelle orecchie), per non parlare dello specchietto per allodole Gentiloni, merita il “più schifo” per tutto quanto ha fatto e ha omesso: ha realizzato su (in)giustizia, (dis)informazione e umiliazione del lavoro quanto Berlusconi ha tentato con intimidazioni e fanfare riuscendovi però con frustrante (per lui e l’establishment) parzialità. Stavo dimenticando Liberi e Uguali, e sarebbe ingeneroso. Bisognerà allora ricordare che D’Alema è stato la “sinistra” dell’inciucio, Vendola quella del lingua in bocca telefonico con Girolamo Archinà braccio destro dei Riva (Ilva di Taranto), e Pietro Grasso il magistrato che a Palermo si scontrava quasi sistematicamente con Gian Carlo Caselli e i suoi “allievi” Scarpinato e Lo Forte sul processo Andreotti (si legga ora l’irrinunciabile libro di Caselli e Lo Forte edito da Laterza). E sarebbe diventato Procuratore nazionale antimafia grazie a una legge berlusconiana ad personam (anzi contra) che escludeva Caselli, salvo rispondere, anni dopo e già in sella, alle critiche di Travaglio sospirando che quella legge era proprio brutta. Meglio non infierire. Ciascuno perciò deciderà cosa tra schifo, più schifo e schifissimo preferirà. Non votare, o annullare il voto, dal punto di vista dei risultati è infatti impossibile. Costituisce solo autoinganno e autoillusione. Il non voto non fa che sanzionare la distribuzione dei saggi secondo quanto stabilito dai voti degli altri cittadini. Il non voto è dunque il conformismo per eccellenza, funzionalmente equivale a dare oltre un terzo della propria scheda a Berlusconi Salvini Meloni, un po’ meno di un terzo a Di Maio e un quinto a Renzi e satelliti. Se a qualcuno piace dare questo voto, decida pure di non votare o annullare la scheda. Chi poi si immagina che un alto tasso di astensioni possa preoccupare l’establishment e i partiti ha mente più fervida dell’hidalgo coi mulini a vento. L’establishment, ecco un punto che potrebbe spingere a decidersi tra peggio più peggio e peggissimo. Le destre di Berlusconi e Salvini e la destra di Renzi Gentiloni e Bonino sono l’establishment. Il Movimento 5 Stelle no, o per essere più lucidi non ancora, non sempre (a Roma la giunta Raggi è ormai l’ennesima giunta dei palazzinari, vedi il documentatissimo libro dell’architetto Paolo Berdini). Per il momento sono una pietra d’inciampo per l’establishment, più sono i voti pentastellati e minore per l’establishment la tanto concupita stabilità. In realtà un voto che si sottrae allo schifo ci sarebbe, anche se con programmi claudicanti e ideologia contraddittoria. Potere al Popolo. Con l’attuale sistema elettorale e la non copertura mediatica è pressoché certo che non arriverebbe al quorum, dunque funzionalmente equivarrebbe al non voto. Tuttavia se è un miracolo il san Gennaro ossequiato da Di Maio potrebbe succedere anche questo. E uscire dalla cabina elettorale senza conati di vomito non è indifferente alla salubrità dell’esistenza. “Questo voto è una scelta di campo”, ha tuonato l’innocuo Gentiloni. In effetti: tra establishment e non. Tra il certissimamente certo dello schifo che abbiamo vissuto da un quarto di secolo e l’incertezza, il rischio, l’azzardo, l’incognita, l’alea. Il peggissimo o il peggio. (25 febbraio 2018) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/4-marzo-al-voto-tra-peggio-piu-peggio-e-peggissimo/ Titolo: Paolo FLORES d’ARCAIS. Dopo il 4 marzo: eguaglianza o barbarie? Inserito da: Arlecchino - Marzo 09, 2018, 06:14:28 pm Dopo il 4 marzo: eguaglianza o barbarie? Il M5S e la necessaria mossa del cavallo
Oggi in Occidente, e soprattutto in Italia, ci sono solo due politiche possibili: per la barbarie dei capri espiatori o per l’eguaglianza. Anche il M5S dovrà scegliere: al governo con la Lega o con quanto resta di Pd e LeU. Da Zagrebelsky a Davigo, ecco i nomi della società civile a cui il Movimento, se avrà lungimiranza e coraggio, dovrebbe guardare per un governo davvero contro diseguaglianze, corruzione ed evasione. Questo articolo può essere riprodotto anche integralmente, purché preceduto dalla dicitura “riprendiamo questo testo dal sito www.micromega.net” e seguito dalla dicitura ©Paolo Flores d’Arcais. Di Paolo Flores d’Arcais Ha vinto Salvini, che umilia Berlusconi con oltre 3 punti di vantaggio. Ancora di più ha vinto Di Maio e il Movimento 5 stelle. Che ha il diritto di governare, e soprattutto non può ora sottrarsi al dovere di governare. I numeri azzardano solo due possibilità: una maggioranza di governo con la Lega e una maggioranza che inglobi quanto resta di Pd e LeU. L’alleanza con la Lega sembra la via più facile, propiziata anche da corrispondenze di amorosi sensi sia programmatiche che umorali. Per il Movimento 5 stelle sarebbe però investire la vittoria in titoli tossici e preparare l’harakiri. Salvini diventerebbe il vero protagonista, per la coerenza con cui vellica l’intero armamentario di pregiudizi, capri espiatori, spurghi emotivi del cittadino malpensante, anche razzista, ma con rosario e crocefisso. La moneta cattiva, come diceva il banchiere Thomas Gresham oltre mezzo millennio fa, scaccia quella buona, ma in politica anche quella così così. Il lepenismo sfrontato di Salvini metterebbe nell’angolo gli alleati cinque stelle con i loro ammiccamenti titubanti verso sovranismi e basta tasse. Di Maio premier dovrebbe subire Salvini come vicepresidente del governo e un terzo di ministri leghisti, capaci di oscurarlo con overdosi di demagogia. A prima vista l’alleanza con Pd e LeU sarebbe per il M5S ancora più difficile. Renzi ha un gruppo parlamentare suo e catafratto, le finte dimissioni indicano che vuole lo stallo/sfascio per andare alla rivincita elettorale. Un vice premier e alcuni ministri Pd (con uno strapuntino per Grasso o D’Alema) risulterebbero indigeribili. L’unica possibilità per Di Maio resta perciò sarebbe la mossa del cavallo: una scelta inaspettata, spiazzante, al limite del temerario. Proporre al capo dello Stato un governo con gli elementi portanti del programma dei cinque stelle, che per trovare in parlamento i voti per il 51% sia affidato a una personalità fuori dei partiti, che scelga ministri tutti della società civile. Per i deputati Pd, anche se renziani, sarebbe difficile dire no a una proposta che il Presidente Mattarella presentasse con intensa e inesausta moral suasion come la soluzione migliore per l’interesse generale (in effetti lo sarebbe). Mossa temeraria, perché per i dirigenti 5 stelle vorrebbe dire comportarsi per la prima volta da statisti, rinunciando al narcisismo identitario (e anche personale) pur di realizzare contenuti importanti del loro programma. Lasciando sconcertata fino all’ostilità la base e probabilmente anche “Beppe”. Convincerli sarebbe la prova del fuoco per conquistare un’autorevolezza politica non effimera e con futuro. Quali aspetti del programma? Quelli, radicalissimi, che picconino l’hybris di diseguaglianze, taglino artigli alle prepotenze finanziarie e marchionnesche, straccino i ponti sugli stretti, concentrino le risorse su ricerca scientifica e cultura, sistema idrogeologico e paesaggio (contro la speculazione edilizia, ovviamente), e non più dichiarino ma realizzino guerra permanente ai grandi evasori recuperando pacchi di miliardi, e senza quartiere la facciano a mafie e corruzione. I nomi di governo non si devono fare, sostiene chi vuole la politica come “arcana imperii”, e invece sono il banco di prova di un voltar pagina nella trasparenza. Su MicroMega li abbiamo sempre fatti, nella mia generazione di terza età Gustavo Zagrebelsky e Salvatore Settis, in quella successiva Tomaso Montanari (del resto a Davigo e Montanari Di Maio si è già rivolto). Diranno sempre di no, fino a che la prospettiva di un governo di svolta egualitaria e civile non venga proposta con convinzione, e non come ripiego, dai cinque stelle. L’alternativa sono nuove elezioni a breve. Ma è ragionevole tornare alle urne senza una nuova legge elettorale (su cui l’accordo è improbo) mentre ovviamente la speculazione finanziaria non resisterà a focalizzarsi sull’Italia anello debole? E come reagirebbero gli elettori se dovessero votare proprio in tale temperie? L’establishment sembra ormai cieco di fronte a quanto è da tempo ovvio (si leggano le annate di MicroMega), in Europa, anzi in Occidente, e in modo particolarissimo in Italia, ci sono solo due politiche possibili, entrambe radicali: per l’eguaglianza o per la barbarie dei capri espiatori. Un po’ di ragionevolezza sarebbe sperabile nel “potere d’opinione”, che dell’establishment non dovrebbe essere parte (il giornalismo “persegue una missione estremamente utile, estremamente grave e faticosa, quella d’una censura continua sugli atti del potere” diceva il grande Jules Michelet centosessant’anni fa). L’obbrobrio di diseguaglianze sfrenate (Valletta guadagnava cinquanta volte un operaio, Marchionne mille, e c’è di peggio) per fortuna non viene sopportato più da ondate tumultuose di cittadini, sempre più decisi ad aggredirlo. La protesta può assumere la bandiera del razzismo, dell’intolleranza, dello sgangherato plebeismo, oppure delle misure egualitarie, che per gli happy few risulteranno evidentemente dolorose. Storicamente la borghesia ha sempre scelto la prima strada, sacrificare le libertà pur di impinguare i profitti. Eguaglianza o barbarie, oggi nessun tertium è dato. I pannicelli caldi che il pensiero “ragionevole” o di “buon senso” degli Scalfari o dei Severgnini ha continuato (e temo continuerà) a propinarci, non sono nemmeno callifugo contro un’epidemia, ormai sono l’Lsd che spinge a credere di poter volare e, posseduti dalle proprie visioni psichedeliche, a convincere tutti gli altri perché si buttino dalla finestra. (6 marzo 2018) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/dopo-il-4-marzo-eguaglianza-o-barbarie-il-m5s-e-la-necessaria-mossa-del-cavallo/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS: Abominevole l’intesa con la Lega. Il M5S ne uscirà con.. Inserito da: Arlecchino - Maggio 12, 2018, 05:58:41 pm Flores d'Arcais: “Abominevole l’intesa con la Lega. Il M5S ne uscirà con le ossa rotte”
Intervista a Paolo Flores d'Arcais di Andrea Carugati, da La Stampa, 11 maggio 2018 Paolo Flores d’Arcais, direttore di MicroMega. Come giudica il nascente governo M5S-Lega? «Per quello che se ne può giudicare allo stato attuale è abbastanza abominevole». Sarà il governo più a destra dell’Italia repubblicana? «Salvini rappresenta in Italia il lepenismo, cioè il fascismo postmoderno. Questo basterebbe. Ma in più c’è il fatto che tratta con Di Maio anche a nome di Berlusconi, mentre milioni di elettori hanno votato M5S per chiudere un quarto di secolo di egemonia di Berlusconi sulla vita pubblica, esercitata dal governo e dall’opposizione attraverso la legittimazione del conflitto di interessi e leggi che hanno reso più difficile la lotta alla mafia e alla corruzione. Come può dunque un governo siffatto rispondere alle motivazioni che hanno spinto gli elettori a votare M5S?». Il Movimento sostiene che nel contratto di governo ci sarà anche la voce conflitto d’interessi. Si fida? (Ride con difficoltà a frenarsi) Pensa che questo esecutivo aiuterà le fasce più deboli? «Salvini vuole la flat tax, che è incostituzionale e regalerà altri soldi ai ricchi. Che altro c’è da aggiungere? In più ci sarà l’opposizione benevola di Berlusconi!». Crede che i 5 Stelle usciranno con le ossa rotte da questa avventura? «Penso proprio di sì». Questo esito è responsabilità del Pd renziano? «Hanno fatto di tutto per arrivarci e l’hanno pure dichiarato. Si illudono che l’inevitabile malgoverno che tradirà le aspettative degli elettori del Movimento offrirà una rivincita a Renzi. Si può solo dire “Quos vult Jupiter perdere dementat prius” (A quelli che vuole rovinare, Giove toglie prima la ragione, ndr)». Un’esperienza di governo negativa Di Maio-Salvini non potrebbe riportare voti al Pd? «Gli umori degli elettori oggi sono molto volatili e imprevedibili. Ma la credibilità dell’entourage di Renzi e dei suoi finti oppositori dentro il Pd è al livello delle suole delle scarpe». Prevede una reazione della base grillina contro Salvini? «Non mi aspetto nulla. Spero che prima o poi ci sia un risveglio della società civile, a partire dalla generazione dei ventenni e dei trentenni. Per quanto possiamo contare, con MicroMega continueremo a fare il possibile perché questo accada...». (11 maggio 2018) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/flores-darcais-abominevole-l-intesa-con-la-lega-il-m5s-ne-uscira-con-le-ossa-rotte/ Titolo: Paolo Flores d’Arcais. Il blog che da oggi affidiamo a Emanuela Marmo, Pappessa Inserito da: Arlecchino - Settembre 23, 2018, 04:51:10 pm Il blog che da oggi affidiamo a Emanuela Marmo, Pappessa della Chiesa dello Spaghetto Volante, cioè della religione pastafariana, non ha nulla di scherzoso. È una scelta serissima e meditata, in difesa di uno dei temi, anzi dei valori cruciali, che fin dall’inizio (ormai oltre trentadue anni fa) caratterizzano l’impegno etico e culturale di MicroMega: l’eguale libertà di ogni religione e di ogni critica della religione (anche quando tale critica suoni offesa per il credente).
La Chiesa di cui Emanuela Marmo è Pappessa è la branca italiana della “Church of the Flying Spaghetti Monster” fondata nel 2005 da Bobby Henderson, uno scienziato che intendeva in questo modo protestare contro la decisione dello Stato del Kansas di insegnare nelle scuole la teologia dell’Intelligent Design allo stesso titolo dell’evoluzione darwiniana. In Nuova Zelanda i pastafariani hanno il diritto di celebrare matrimoni come i pastori delle altre fedi. In uno Stato americano (se non mi sbaglio) hanno ottenuto di poter essere fotografati per il passaporto con il loro copricapo rituale, uno scolapasta, esattamente come ad altre religioni è concesso il turbante, ecc. Non appena ne sono venuto a conoscenza, ho citato la Chiesa dello Spaghetto Volante in un paio di miei libri, perché con la sua pratica (ha tutte le caratteristiche di una Chiesa, compresi i suoi eretici) ha reso con evidenza cristallina l’assurdità, dal punto di vista democratico, del trattamento privilegiato che viene riservata alle altre religioni, come se fossero le sole “vere”. Né, per tale discriminazione che in genere vuole favorire ebraismo, cristianesimo, islam, induismo, buddismo, si può invocare l’antichità delle fedi (che comunque sarebbe un criterio illogico), visto che i Mormoni hanno solo due secoli e la Chiesa Avventista del settimo giorno molto meno. Dunque se anche i fedeli del “Flying Spaghetti Monster” manifestano una ironia e una allegria di cui in genere le altre religioni si mostrano indigenti, ciò non svaluta affatto la caratura della loro religione, né può indurre a trattarla come “setta”. Un carattere settario, al limite (e talvolta oltre, come da scaffali di documentazioni) dell’assoggettamento (plagio non mi piace) e della circonvenzione di capace, sprizza semmai da istituzioni santamente accreditate come i Legionari di Cristo, l’Opus Dei, et similia. E del resto uno spaghetto è fatto di acqua e farina, esattamente come l’ostia. Benvenuta dunque Emanuela Marmo tra i nostri blogger. Paolo Flores d’Arcais *** Perché il pastafarianesimo non è trattato al pari di altre religioni? Lettera a "Repubblica" EmarmoGentile redazione de «La Repubblica», sono “tal” Pappessa Scialatiella Piccante I, guida spirituale della Chiesa Pastafariana Italiana, al secolo Emanuela Marmo. Scrivo in riferimento all’articolo di Pietro Del Re datato 17 agosto 2018. Giacché la notizia riguarda la religione professata dalla mia Chiesa e considerando che sono espressamente citata dal vostro articolo, mi sento autorizzata a chiedere che la vostra testata pubblichi questa lettera. Ho il dovere di esprimere un’opinione su quanto la frittella olandese subisce, rappresentando il mio sentito appoggio a Mienke de Wilde. Ho il dovere di dare riscontro ai frittelli italiani che mi domandano di intervenire perché sia fatta una informazione più obiettiva. Parto da alcune evidenze pragmatiche. I pastafariani non sono organizzati in sette, bensì in ciurme. In Italia le ciurme danno vita a Pannocchie e, via via, a centri di fede più complessi. Il termine “seguace” non è appropriato. Sarebbe più consono quello di “fedele” o “credente “. Non comprendo in base a quali criteri la richiesta di indossare il nostro copricapo appaia uno scherzo. La nostra religione ha vissuto per millenni all’oscuro di molti. Posso immaginare la sorpresa che ha colto la comunità mondiale alla rivelazione del nostro profeta Bobby Henderson. Non vedo altri motivi di stupore. Cosa c’è di sorprendente nel nostro abbigliamento sacro? Turbanti, corone piumate, maschere e tiare sono davvero più ordinarie e discrete? Perché pastafariani è scritto tra virgolette? Non è slang. Non è gergo. Usate le stesse cautele ortografiche con le altre minoranze etniche o religiose? Perché “Pappessa” è scritto con l’iniziale minuscola? Quali sono i fattori che riconoscono dignità e spazio d’esistenza a una cultura? Il potere, il governo dovranno indicare alla stampa i formulari cerimoniali con cui rivolgersi a questa o quella guida spirituale? In assenza di tale indicazioni, che si fa? Potremmo affermare che l’attenzione e l’approfondimento sono da assicurare senza pregiudizio? Sono domande lecite, eppure sono certa che l’autore dell’articolo non sia in malafede. Credo si sia sentito libero di adottare un tono scanzonato, rilassando ogni nervo formale, perché ha senz’altro ravvisato nel linguaggio pastafariano benevolente semplicità. Ha fatto bene. Tuttavia, altrettanto allegramente, provo ad approfittare della fortunata attenzione che oggi ci coinvolge. Perché il pastafarianesimo non è trattato al pari di altre religioni? Sono la storia, la durata della tradizione, il valore economico dei beni posseduti da una chiesa, sono i privilegi, la capacità di venire a patti con i governi, determinando gli usi, i costumi e i diritti dei cittadini, a dare misura del senso di una religione? O hanno pari valore la facoltà di determinare un pensiero, il discernimento del singolo che intorno a concetti e ideali condivisi stringe relazioni fino a formare gruppi dotati di coscienza civile? Le chiese cristiane, su base biblica, esistono in qualsiasi luogo ove due sono riuniti in nome di Cristo. Ebbene, molti si riuniscono in nome del Prodigioso sulla base di un testo che è oggetto di studio e culto. Così come il crocifisso da tanti è inteso quale simbolo sacro e al contempo culturale, il colandro pastafariano è strumento liturgico quotidiano e anche icona che, attraverso la metafora del nutrimento e della convivialità, trasmette all’esterno i principi religiosi e gli ideali sociali dei pastafariani. La vita spirituale dei pirati pastafariani non è diversa da quella di fedeli di altri culti. Si svolge illuminata da credenze, si consuma attraverso rituali e celebrazioni. La vita pubblica pastafariana appare effettivamente più singolare, perché caratterizzata da un modus operandi razionalista, ironico, possibilista. Per questo motivo l’elemento satirico rinvigorisce molta parte della nostra comunicazione pubblica, offrendo una possibilità di superare ed elaborare le divergenze evitando di imporre le proprie convinzioni. Esplorare la vita con gioia, disincanto e dubbio non è un atteggiamento poco serio. Puntare le vele nella coscienza della propria libertà e responsabilità, dando attenzione e valore alla vita terrena e presente, non è una scelta poco seria. Comunicare e percepire gli altrui messaggi senza cedere il fianco alla propaganda o a coloro ai quali è concesso il lusso di entrare nell’esistenza dell’individuo quando questo non ha ancora raggiunto l’età per fare valutazioni razionali e autonome, non è poco serio. Che ciò accada, ad esempio, davvero non è uno scherzo, eppure, vedete, se non ci fossero bricconi come noi non farebbe notizia. La via pastafariana alla convivenza pacifica e alla pari suggerisce l’estensione dei diritti, al di là di ogni pregiudizio di immagine. Agli occhi di chi guarda da lontano, il digiuno, la castità, la fustigazione, la fede nel miracolo o nelle apparizioni appaiono egualmente scherzi della ragione. Se l’uomo cerca la pace in un’ostia o all’ombra di una pietra caduta dal cielo, chi siamo noi per giudicarlo? Chi sono loro per giudicare il Vulcano eruttante birra, mentre eterna, sessuale e voluttuosa, innocente e prelibata, si svolge la danza di uomini e donne prodigiosi? Vi raggiunga la mia pennedizione, con l’augurio che bendiate l’occhio abituato a procedere automatico e scopriate il piacere di essere vedette: in alto si sta benissimo, se è per vedere meglio. Con ammmore (tre emme), Pappessa Scialatiella Piccante I (15 settembre 2018) Scritto sabato, 15 settembre, 2018 alle 09:30 nella categoria Emanuela Marmo. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito. Da - http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=25746 Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Gli attacchi di Di Maio alla stampa sono un insulto... Inserito da: Arlecchino - Ottobre 10, 2018, 12:28:12 pm Gli attacchi di Di Maio alla stampa sono un insulto alla Costituzione
Di Paolo Flores d’Arcais Questo pomeriggio, martedì 9 ottobre 2018 alle ore 15, nella sede della FNSI, in corso Vittorio Emanuele II 349, a Roma si terrà una conferenza stampa dal titolo “Giù le mani dall'informazione!”. Iniziativa logica e doverosa, dopo gli spurghi di incontinenza antidemocratica con cui il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio ha creduto di insultare il settimanale L’Espresso e il quotidiano La Repubblica, insultando invece la Costituzione italiana e milioni di elettori che hanno votato il Movimento 5 Stelle, spesso proprio per i solenni richiami al rispetto e alla realizzazione della Carta che i suoi candidati andavano reiterando. Chi ha un incarico di governo ha potere. Alle critiche della stampa che del governo metta in luce misfatti o omissioni ha dunque il dovere di rispondere con l’azione riformatrice, non con l’insulto che vuole intimidire. La democrazia è un sistema di poteri plurali che si limitano reciprocamente. Per dirla con il più grande storico del XIX secolo, Jules Michelet, “la stampa persegue una missione estremamente utile, estremamente seria e faticosa, quella d’una censura continua sugli atti del potere”. L’unica risposta legittima che il potere politico può dare è dimostrando con i fatti, con i buoni fatti, che l’accusa di misfatti e omissioni era infondata e pretestuosa. Ma evidentemente sono proprio i buoni fatti ciò che Di Maio non è in grado di esibire. Fin qui gli unici fatti certi (non gli annunci) realizzati dal governo di cui fa parte sono tre o quattro miliardi di minor gettito fiscale per l’ennesimo condono garantito agli evasori (definito con perversione di neo-lingua orwelliana “pace fiscale”!), e l’ondata di razzismo che i beceri e disumani diktat del suo collega Salvini ha puntualmente diffuso nel sentire comune. Pensare di occultare questa tragedia, per cui il M5S è attualmente solo un portatore d’acqua del governo Salvini, attraverso una escalation emetica di ingiurie contro la stampa, è francamente puerile. La funzione di pronubo di consensi e voti pro-Salvini, che Di Maio per dichiarazioni e omissioni va sempre più svolgendo, è disgustoso sotto il profilo democratico, ma sotto l’egoistico interesse di partito dovrebbe preoccupare in modo incombente e minaccioso gli altri dirigenti del M5S. (9 ottobre 2018) http://temi.repubblica.it/micromega-online/gli-attacchi-di-di-maio-alla-stampa-sono-un-insulto-alla-costituzione/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Al governo Salvini succederà il governo Salvini 2. Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2019, 06:26:25 pm Buon Anno: il 2019 sarà peggio
Di Paolo Flores d’Arcais Il 2019 sarà peggiore. Al governo Salvini succederà il governo Salvini 2. Per elezioni anticipate o per transumanze parlamentari. Immediatamente prima o immediatamente dopo le elezioni europee, comunque entro i due equinozi o solstizi. Un governo senza il M5S, con le frantumaglie delle destre berlusconiane e meloniane. Oppure, perfino peggio, ancora con il M5S, ridotto da partner subalterno qual è oggi a puro zerbino, alibi dove pulirsi gli stivali del prefascismo. Perché Salvini fascista non è, sia chiaro. Analiticamente parlando è pre-fascista. Esattamente nel senso di alcune specifiche formazioni cellulari degenerative: può essere che non metamorfizzino mai in tumore, ma annunciano la sua possibilità con alte probabilità, e impongono terapie preventive e comunque radicali mutamenti degli stili di vita. Lo sfogo “liberatorio” e legittimato agli spurghi razzisti dei fondali psichici, l’esibizione d’accatto di presunte Hulk-muscolature nelle trattative internazionali, con relative fanfare d’orgoglio patrio e confessionale posticci, l’odio per tutto ciò che è intelligenza, cultura, spirito critico, il vellicamento corrivo della melma interclassista dell’evasione fiscale, l’impunità progressiva per le classi possidenti (tanto più … quanto più …), la politica sistematica dei capri espiatori e la loro intercambiabilità, il calcio dell’asino ai residui di giornalismo e informazione già al lumicino per la sequenza Berlusconi e nipote (i. e. Renzi), tutto ciò è già distruzione in profondità di tessuto e anzi trama e ordito democratici, è già brodo di coltura di fascismi possibili. Eppure schifo scoramento e nausea non riescono a diventare indignazione, e laddove indignazione autentica nasca, non riesce a diventare lotta. E la melma maleodorante di un governo di plumbea mediocrità, inettitudine iperbolica, menzogna sghignazzante, razzismo avanzante, ignoranza esultante, feroce diseguaglianza non scalfita, sembra diventare rassegnato orizzonte naturale, da qui alle calende greche. Perché? Perché nessuna indignazione autentica sarà possibile, fino a che circolerà ancora influente la finta indignazione di chi questa melma ha preparato con un quarto di secolo e più di menzogne, accomodamenti, tradimenti. L’indignazione che diventi lotta nulla può avere in comune, ma proprio nulla, con gli alti lai che oggi penosamente si levano da chi ha tollerato il berlusconismo e il renzismo, vi ha fatto accordi e magari li ha anche esaltati, con chi oltre un quarto di secolo fa ha voluto affossare la rivoluzione della legalità, l’unica di cui questo paese ha bisogno, che Mani pulite poteva annunciare, se la politica che si definiva di sinistra avesse proseguito con determinazione, con i mezzi della politica, appunto, la pulizia delle stalle d’Augia dell’establishment inaugurate dal pool di Milano e dal pool di Palermo. Abbiamo visto invece l’opposto, compresi quei prodromi golpisti striscianti che sono stati e permangono i depistaggi e gli intrecci e i silenzi sulla Trattativa, scattered nelle istituzioni, dagli angiporti ai colli più alti, senza che mai le mele marce siano state tolte da tavolo. Come può nascere la spinta a tornare in piazza, malgrado le brucianti e pesanti ragioni per farlo, se pensi che potresti trovarti mescolato ai D’Alema e ai Veltroni, ai Fassino e ai Bersani (mi limito ai segretati delle metamorfosi Pci), alle Boldrini e ai Bertinotti (dei Calenda e altri non voglio neppure dire), e insomma al nulla di “sinistra” che imperversando in inciucio, alla “opposizione” o al governo, ha nutrito e pasciuto l’eruzione populista per cui ora si straccia ipocritamente le vesti? Questa è la semplice, razionale, spiegazione del perché oggi contro il governo Salvini e la sua melma non c’è lotta e sembra non esserci speranza. Ma le condizioni perché diventi prepotentemente necessaria diventeranno nel 2019 ogni giorno più acute. Nel M5S è iniziata l’effetto Dorian Gray, la lenta ma inarrestabile decomposizione dell’intero organismo, ancorché per il momento invisibile al soggetto stesso. Che ha perduto ogni sua ragione vitale, essendo diventato parte del privilegio che aveva giurato di combattere. Dopo aver vinto le elezioni (dove avevano il doppio dei consensi di Salvini!) hanno sbagliato tutto. I voti raccolti esprimevano speranze precise (in promesse altrettanto altisonanti): ogni giorno, con assoluta coerenza e senza guardare in faccia a nessuno, meno diseguaglianza, più giustizia (quella che l’establishment chiama giustizialismo), niente lottizzazione, lotta spietata a mafie, corruzione, evasione fiscale … Non basta, avevano promesso come ministri (e per ogni incarico pubblico) i migliori, una élite, facendo a iosa nomi come Davigo e Montanari. Bastava che fossero coerenti. Che non divorziassero i fatti dalle parole. Che enunciassero dieci punti irrinunciabili, ma non generici, puntuali quasi in articolato di legge, con chi li sottoscrive si governa, e magari tra i nomi d’élite indicando anche un premier, a dimostrazione che a loro non interessano le poltrone ma i cittadini, altrimenti fatevelo voi un governo, per noi si può tornare anche al voto. Avrebbero messo il Pd spalle al muro (e milioni di voti in prospettiva). E Salvini anche, impedendogli ogni velleità di egemonia rovesciata. E invece con Salvini si sono accucciati, coda tra le gambe e bava per i ministeri, innocui col loro doppio di parlamentari. Salvini ha potuto così esibire coerenza, cioè razzismo e fatti giustizia da solo e magari riapriamo anche i casini, il M5S non ha avuto nemmeno la decenza di imporre un paio di riforme a costo zero (niente prescrizione dopo il rinvio a giudizio, introduzione del reato di ostruzione alla giustizia, dichiarazione di ogni bene all’estero, sequestro e manette per i grandi evasori, misure antimafia anche per i reati di corruzione …). Risultato ovvio: Salvini missile nei sondaggi, M5S in caduta libera, e ogni giorno sarà peggio: per paura di elezioni più succubi che mai, con relativo avvitamento nei consensi. Tutto questo significa un futuro prossimo di molti altri milioni di voti in libertà, perché sono tempi di sfrenata volatilità del consenso. Due anni fa la Lega era al 4 per cento, sette anni fa il M5S al 3. Milioni di voti alla ricerca di un’espressione politica. Che non potrà in nessun modo essere una qualsiasi forma, accorpamento, metamorfosi, scomposizione, belletto&botulino, dei centro-“sinistra” deja-vu del trascorso trentennio, cascami ultimi alla Calenda compresi. Era già destra una “sinistra” partitocratica, lo scrivevamo esattamente trentadue anni fa, prima annata di MicroMega, e sempre più destra è diventata, fino a sbandierarsi come tale nelle intenzioni del Renzi in delirio macroniano. Sempre trentadue anni fa scrivevamo che la sinistra vera c’era, una sinistra sommersa, presente e viva nella società civile, priva di rappresentanza politica. Quella sinistra si è manifestata in questi tre decenni con forza sempre maggiore, anche se in forma carsica. Oggi più che sommersa è dispersa, frammentata, polverizzata in mille civilissime iniziative locali e settoriali, gelose e sospettose di ogni proiettarsi in politica. Pour cause. Ma positivamente esistente. Per diventare forza politica, unica possibile alternativa di governo, aspetta un catalizzatore. Dunque, è alla ricerca di una élite. Perché le forze politiche non nascono dal basso. Dal basso possono nascere le lotte, i movimenti, le esplosioni di collera. Ma una forza politica nasce sempre dall’alto. Da un gruppo dirigente, perfino da un singolo leader. E da circostanze inattese, che la leadership fanno emergere. Inutile perciò almanaccare sul come e il chi, leadership e forza politica non si creano in vitro. L’unico realismo consiste nell’estote parati (più probabile che saranno trentenni o ventenni anziché quarantenni), nell’essere pronti a cogliere e accogliere l’attimo, nel prepararne il terreno. Con la chiarezza delle idee, la critica delle ambiguità che ne soffocherebbero nascita e sviluppo, l’azione intanto possibile nel proprio raggio di influenza. Perché c’è élite ed élite, caro Ernesto (Galli della Loggia), società civile e società civile, magistrati e magistrati, intellettuali e intellettuali (imprenditori e imprenditori, piacerebbe poter dire, e sui margini del grosso è perfino così), le categorie general-generiche non spiegano un bel nulla e intorbidano l’intelligenza delle cose, ad maiorem Dei gloriam, dove il Deus è l’establishment, l’intreccio politico-finanziario-monopolmediatico che ci sgoverna da un quarto di secolo e di cui Salvini, da quando seguiva Bossi in calzoni corti, è stato sul piano politico pedone e alfiere e infine regina (abbiamo dimenticato l’alleanza organica della Lega con Berlusconi e i fascistissimi?). Chiarezza nelle idee vorrà dire perciò lavorare a liberare la carsica sinistra dispersa dalle tentazioni e miasmi reazionari che costantemente e illogicamente la lusingano, il multiculturalismo e il rifiuto della scienza, per dirne due ricorrenti, che negano emancipazione ed eguaglianza in nome di identità di fede sangue e suolo, gerarchiche nel midollo e nel midollo sprezzanti per le donne, e propiziano oscurantismi nuovi e revival dei più vetusti e retrivi. Chiarezza nell’azione vorrà dire lucidità intransigente nel non mescolarsi più, per quanto nobili le cause o “realistici” appaiano a prima vista i motivi, con l’intero (intero!) mondo e demi-monde delle finte sinistre di establishment e partitocrazia (anche mini) che in un supponente harakiri venticinquennale hanno impinguito Berlusconi e Renzi preparando infine l’apokolokyntesis altrimenti resistibilissima di Salvini. L’alternativa sarà rigorosamente egualitaria e libertaria, inflessibilmente laica e illuminista, o non sarà, non sarà di massa almeno, non sarà vincente. Buon Anno, perciò, a tutte le donne e gli uomini di questa buona volontà. (1 gennaio 2019) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/buon-anno-il-2019-sara-peggio/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Ha vinto il pre-fascismo. E non sarà il Pd a fermarlo Inserito da: Arlecchino - Giugno 03, 2019, 02:11:32 pm Ha vinto il pre-fascismo. E non sarà il Pd a fermarlo
Di Paolo Flores d’Arcais Ha vinto il pre-fascismo. Salvini e Meloni (34,26+6,45) superano da soli, la percentuale che con l’attuale legge elettorale per le politiche garantisce con altissima probabilità la maggioranza assoluta. Del resto, possono imbarcare anche ciò che si decomporrà di Forza Italia, con Berlusconi totem inoffensivo. Avranno i numeri per cambiare la Costituzione (repubblicana antifascista) che detestano. Potranno dilagare nella Corte Costituzionale e nel Csm, asservendo la magistratura. Il pre-fascismo non è il fascismo, ovviamente, e potrebbe non diventarlo. Ma ne contiene già tutti gli ingredienti costitutivi, razzismo, sciovinismo, clericalismo, rapporto diretto viscerale acritico subordinato Capo/popolo (Capo, in latino Dux, in tedesco Führer), disprezzo per le minoranze, medioevo per i diritti civili, subalternità delle donne, odio per gli intellettuali … La cecità di editorialisti e politologi si ostina a non vedere il repentaglio. Salvini con il voto di domenica è il mazziere del gioco, il padrone che dà le carte. Può decidere se andare subito alle elezioni o se gli convenga ancora l’alleanza con un M5S tappetino, su cui scaricare magari lo scontento per l’inevitabile finanziaria. Era tutto scritto. Lo avevamo scritto, del resto, perché non era necessario essere Nostradamus. Il 6 marzo 2018, a risultati appena noti, scrivevamo che un governo con Salvini “per il Movimento 5 stelle sarebbe investire la vittoria in titoli tossici e preparare l’harakiri. Salvini diventerebbe il vero protagonista, per la coerenza con cui vellica l’intero armamentario di pregiudizi, capri espiatori, spurghi emotivi del cittadino malpensante, anche razzista, ma con rosario e crocefisso”. E il 23 aprile insistevamo che “se fosse andato in porto il governo Di Maio/Salvini, con quest’ultimo ministro dell’Interno e caccia ai migranti, sarebbe stata la coerenza lepenista del secondo a tenere banco e imprinting del governo presso gli elettori”. L’11 maggio, su “La Stampa” definivo “abbastanza abominevole” il nascente governo (“abbastanza” era ironico), e il 1 giugno radicalizzavo il giudizio esaminando uno per uno i ministri leghisti (e più d’uno dei 5S). Il 1 gennaio 2019, nel “Buon Anno” ai lettori scrivevo: “Il 2019 sarà peggiore. Al governo Salvini succederà il governo Salvini 2. Per elezioni anticipate o per transumanze parlamentari. Immediatamente prima o immediatamente dopo le elezioni europee. Un governo senza il M5S, con le frantumaglie delle destre berlusconiane e meloniane. Oppure, perfino peggio, ancora con il M5S, ridotto da partner subalterno, qual è oggi, a puro zerbino, alibi dove pulirsi gli stivali del prefascismo”. Perché ciò che era lapalissiano non lo si è voluto vedere? Perché ci si è resi ciechi di fronte al fatto che decenni di spaventosa crescita delle diseguaglianze, di sfrenato liberismo, dove “arricchitevi!” e “guai ai vinti!” sono due facce della stessa politica, avrebbe potuto avere due soli sbocchi: una politica di radicale redistribuzione in direzione egualitaria, attraverso tassazione superprogressiva e politiche di welfare spinto, oppure una politica dei capri espiatori, dei penultimi messi in conflitto con gli ultimi e risarciti con il privilegio di cartapesta delle identità vicarie (“prima gli italiani”, “migranti a casa loro”, “spara a casa tua”). Le sinistre hanno smesso di essere i partiti dell’eguaglianza, fino a dimenticare la parola stessa e trovarla fastidiosa e financo sudicia. Del resto erano ormai ceto politico, “Casta” o “minicaste” autoreferenziali, strutturalmente parte del privilegio. Il M5S ha presunto che si potesse essere “oltre” rispetto a destra e sinistra. Vero, se con questi termini si intendevano le forze politiche organizzate, tragicamente falso se riferito ai valori culturali e agli interessi materiali. Perciò è finito in un magma (un blog!) indistinto, fino all’indifferenza e alla collusione con l’ostilità propria della Lega, sui valori di fondo: laicità, diritti civili, eguaglianza delle donne, amore per la scienza e la cultura … Perciò il suo prevedibile e previsto harakiri (e mettiamoci l’assurdità della selezione dei loro dirigenti, per reality anziché per lotte e capacità, su cui abbiamo scritto ennesime volte). Immaginare che un argine (parlare di alternativa è oltre il ridicolo) all’attuale dominio pre-fascista possa venire dal Pd di Zingaretti è l’ultima, e forse più pericolosa, illusione. In secondo luogo, rispetto a un anno fa, il Pd ha perso 111.545 voti. L’aumento in percentuale è solo perché meno elettori in generale si sono recati alle urne. In primo luogo, il Pd è alla radice dei problemi che hanno portato all’attuale catastrofe: il Pci aveva gravissimi difetti e tare, da Togliatti a Berlinguer, ma la metamorfosi Pci>Pds>Ds>Pd, per cui una forza di sinistra è diventata una forza della destra perbenista e benpensante (chiamiamoli col loro nome, basta parlare per il Pd di sinistra) è la causa prima e cruciale di quanto avvenuto negli ultimi trent’anni. L’argine, la resistenza, l’alternativa, potranno perciò venire solo dalla nascita di una forza coerentemente “giustizia e libertà”. Che rispetto alle “sinistre” degli ultimi decenni, però, anche “estreme”, sia libera da ogni tentazione del multiculturalismo e del politically correct (comprese alcune versioni di ideologie femministe reazionarie), che sia antipartitocratica e contro gli attuali establishment, che sia per la scienza. Egualitaria, illuminista, laicissima. Come possa nascere non è prevedibile, che esista in forma dispersa nel paese è probabilissimo. Ma dispersa, appunto, elettoralmente invisibile perché quasi tutta rifugiata nel non voto. A farla nascere potrà essere solo un catalizzatore oggi imponderabile, ma il brodo di coltura in cui si produca il big bang dobbiamo lavorare ad incrementarlo e arricchirlo ogni giorno, ciascuno nella sfera d’azione che riuscirà a crearsi. Qualche ipotesi in una riflessione successiva. (28 maggio 2019) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/ha-vinto-il-pre-fascismo-e-non-sara-il-pd-a-fermarlo/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Il M5S può ancora sopravvivere come protagonista? Inserito da: Admin - Giugno 11, 2019, 11:40:16 pm Il M5S può ancora sopravvivere come protagonista?
Il M5S è finito. Comunque si muova, continuerà nel suo precipitare, iniziato da quando non è più una forza anti-establishment ma lo stuoino di Salvini. Di Maio pensa di rimediare con una Grande Riorganizzazione che aggira però le questioni cruciali: la contrapposizione destra/sinistra, le modalità di selezione dei quadri dirigenti e la democrazia interna. Di Paolo Flores d’Arcais Da parecchi giorni i democratici più sinceri si stanno prodigando in consigli al M5S su come invertire la rotta che in un anno ha portato sei milioni di italiani (sei milioni!, un salasso permanente, praticamente un elettore ogni cinque secondi) a ritirare il consenso appena dato, e rivolgersi alla Lega oppure disertare le urne. Attenzione sacrosanta, poiché solo il M5S sembra ancora costituire un freno al dilagare del pre-fascismo di Salvini. Prodigarsi che trascura però il più pesante e palese dato di realtà: il M5S è finito. Purtroppo. Questo purtroppo è da sottolineare, perché al momento altri argini al pre-fascismo di Salvini e dei suoi molti alleati nei “poteri forti” non si vedono proprio. Il risultato delle europee per il M5S non è una rotta. Perché a Caporetto può seguire il Piave, e poi la vittoria (ormai le metafore militari stanno scalzando quelle calcistiche, il degrado del linguaggio continua). Quello che sta vivendo il M5S è invece l’avvitamento, che in aeronautica indica quando il precipitare di un aereo raggiunge il punto di non ritorno, e nessuna manovra e nessun miracolo potrà più salvare il veicolo. Qualsiasi linea scelgano infatti Di Maio e/o Casaleggio jr., il M5S continuerà nel suo precipitare. Se rompe con Salvini e si va a elezioni anticipate l’emorragia di consensi continuerà. Se rompe con Salvini e si forma una coalizione di centro destra con tanti “responsabili” transfughi dal M5S che non vogliono perdere il seggio, la catastrofe sarà ancora più rapida. Se rompe con Salvini e nasce un “governo del Presidente” per fare una finanziaria con il solito “lacrime e sangue” (che tradotto vuol dire, paga chi ha meno, s’impingua chi ha di più), dimostrerà la sua impotenza e irresponsabilità (se va all’opposizione) o la sua impotenza e acquiescenza verso i poteri forti (se vota il governo). Se non rompe con Salvini ma continua a governarci insieme, dovrà inchinarsi a una dieta di rospi quotidiani che delle promesse elettorali faranno strame fino in fondo. Comunque si muova, il M5S è nella condizione del dilemma siberiano: “Qualora il ghiaccio si rompa e tu cada nell’acqua ghiacciata, se in quattro minuti non ti tirano fuori sei morto, ma se ti tirano fuori, nell’aria ghiacciata, sei morto comunque in due minuti”. Il 24 aprile 2018, prima che nascesse il governo Salvini (Conte), scrivevamo: “In Siberia il M5S di Di Maio ci si è messo da solo”. L’avvitamento è iniziato allora, quando il M5S ha scelto di andare al governo con un partito che aveva programmi, passato, radici, valori, opposti ai propri. E ha finto che si potesse stabilire invece un programma comune. Il famoso “contratto”, che Salvini ha considerato carta straccia da subito, facendo del governo Conte il suo governo, dell’odio per il migrante lo specchietto per le allodole, dell’odio per i magistrati e dell’amore per i padroni del cemento e degli appalti la stella polare della continuità con Berlusconi, e della spartizione in Rai e in ogni carica dove il governo ha voce l’unico terreno effettivo di accordo tra i due partiti. In un sabba di oscenità (tranne rarissime nomine di meritevoli). Salvini è ormai l’uomo di Confindustria e di tutti i poteri che non vogliono il controllo di legalità come orizzonte ineludibile di una democrazia. A questa quintessenza del berlusconismo aggiunge il “libera tutti!” rispetto agli spurghi psichici indotti dalla paura in tanta parte dell’elettorato. La politica della paura ha infatti lo scopo di spostare il bersaglio della sacrosanta rabbia popolare dall’establishment al capro espiatorio. Il M5S ha fatto lo stuoino di Salvini, puntando tutto sul salario di cittadinanza, che ha dovuto però rimpicciolire ed edulcorare fino a farne poco più di una elargizione di emergenza per alcune delle fasce più deboli (sempre meglio che niente, sia chiaro). E ha invece rinunciata a fare le battaglie qualificanti sbandierate nella campagna elettorale e unificate nel ritmato “onestà, onestà!”. Che in effetti sarebbe – eccome! – un programma di governo, implicando guerra senza quartiere alle mafie, al loro brodo di coltura, grande evasione, riciclaggio, segreto bancario, corruzione, e poi fine di ogni lottizzazione in Rai e in ogni funzione pubblica, rigorosa politica ecologica, valorizzazione (l’opposto della mercificazione!) dei beni culturali, e via articolando. E invece ingoieranno anche la Tav, la seconda per inutilità delle grandi opere (la prima è il ponte sullo stretto di Messina, la cui società ancora non è stata azzerata). E hanno ingoiato il go-go di condoni, liberi subappalti e ogni altra nefandezza di berlusconiana origine e memoria. Ovvio che polemizzare con Salvini nelle ultime settimane di campagna elettorale è servito solo ad accrescere il discredito: nessuno ti prende sul serio con l’antifascismo in zona Cesarini, o con quattro ciance sull’eguaglianza, mentre continui ad accettare che si discuta di flat tax, cioè del più gigantesco regalo che si possa fare ai ceti abbienti (la Costituzione, non a caso, esige una fiscalità progressiva, per trasferire danaro dai più ricchi ai meno fortunati). Ora Di Maio, insieme al suo “fratello” Di Battista (evitiamo blague sui fratelli coltelli), pensa di rimediare con una Grande Riorganizzazione. Che aggira le due questioni cruciali. La prima: la contrapposizione destra/sinistra è superata. E’ vero il contrario. Vale infatti solo se per destra e sinistra si intendono i partiti che tradizionalmente si sono dichiarati o si dichiarano tali (spesso con il pudibondo prefisso di centro-…). In chiave di valori e interessi, invece, l’opposizione è sempre più significativa e anzi spinge alla polarizzazione. Salvini ha così trasformato una Lega settentrionale in un partito iper-lepenista su scala nazionale, inverando il berlusconismo in salsa razzista e di finto anti-establishment (la volgarità o l’odio per le élite quale calderone indistinto sono l’opposto della lotta contro l’establishment, cioè il privilegio dei veri ricchi-e-potenti e la sua hybris). Insomma, incarna nel modo più (pre)potente la destra, unificata sotto l’egemonia più estrema. Il M5S ha un futuro solo se sapesse incarnare l’alternativa a questo potere dei poteri forti occultato dai modi plebei e dal furore contro i capri espiatori. Cioè i valori e gli interessi di sinistra, perché contro i privilegi d’establishment. I valori giustizia-e-libertà intransigenti e praticati coerentemente. Ma il M5S non è nato con questa cultura, e se ne ha assunto qualche spezzone (anche qui: meglio che niente), lo ha fatto in un quadro ideologico di penoso ciarpame antiscientifico, complottismo puerile, con annesso anti intellettualismo e ibridazione con ogni opportunismo democristiano o sbandamenti da vera destra. La seconda questione cruciale è intrecciata alla prima, in una debilitante sinergia al peggio: le modalità della selezione dei quadri dirigenti e la democrazia interna. Una forza anti-establishment, cioè giustizia-e-libertà, dovrebbe selezionare i suoi quadri e dirigenti attraverso la partecipazione alle lotte, il contributo di impegno pratico e culturale, la credibilità e coerenza dei propri tragitti in questi ambiti. I meet-up potevano essere l’embrione delle istanze di base di un tale progetto. Le “parlamentarie” sono invece delle specie di provini per mini-reality o uomini/donne stile De Filippi (che rispetto alle “parlamentarie” è cinema da oscar), o spot per aspiranti influencer, in cui con qualche decina di like, cioè di amici facebook, si diventa candidati (bloccati) per essere eletti sindaco o parlamentare. Un terno al lotto, una cuccagna, che con la caratura dell’impegno politico non hanno parentela alcuna. Naturalmente viene fuori anche qualcuno (rara avis, comunque) di valore. Ma accadrebbe anche estraendo i candidati a sorte. Quanto alla democrazia interna, l’impermeabilità alle critiche, e anzi il riflesso pavloviano per cui chi non si allinea perinde ac cadaver è un nemico o un traditore, hanno fatto il resto. Un deserto di elaborazione e confronto collettivo. I risultati si sono visti, e hanno mortificato, avvilito e infine distrutto, alcune intuizioni sacrosante che hanno fatto la fortuna del movimento: il rifiuto della partitocrazia e della politica come mestiere, per trasformarla invece in alcuni anni, non ripetibili, di “servizio civile costituzionale” nelle istituzioni. Con il loro fallimento i 5S gettano il discredito su misure antipartitocratiche che invece restano più che mai attuali. L’avvitamento del M5S potrà durare più o meno a lungo (fino a che non nascerà un’alternativa possibile, e continuerà a ingrossarsi il partito del non voto). La possibilità che sia un protagonista della vita politica e soprattutto della sua urgentissima ri-democratizzazione è invece definitivamente tramontata. A meno di credere ai miracoli, stile apertura del mar Rosso. Non è il nostro caso di atei incalliti. E soprattutto non c’è nessun Mosè alle viste. (In un prossimo articolo le colpe della società civile, ovvero le nostre responsabilità). (7 giugno 2019) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-m5s-puo-ancora-sopravvivere-come-protagonista/ Titolo: Paolo FLORES D´ARCAIS. Le Sardine di Piazza Maggiore e la sinistra sommersa Inserito da: Admin - Novembre 21, 2019, 11:24:12 am Le sardine di Piazza Maggiore e la sinistra sommersa
Di Paolo Flores d’Arcais Quanto sarà effimero il movimento delle “sardine”? O fino a che punto si moltiplicherà per contagio e si radicherà per organizzazione? Lo vedremo presto con i prossimi flashmob di Modena e Firenze. Intanto l’exploit di Bologna ha dimostrato una verità politica, o meglio l’ha ribadita in forma perentoria: per dar vita a una mobilitazione democratica (di “sinistra”, insomma) bisogna prescindere dai partiti. Quattro amici e un appello progressista sul web possono creare un’iniziativa, se avessero voluto coinvolgere un partito (il Pd, ormai) immaginando di avere il valore aggiunto di una forza organizzata, si sarebbero assicurati un flop. Il Pd, per una mobilitazione democratica, non costituisce un valore aggiunto ma la macina al collo, un handicap che garantisce il fallimento. Per un motivo assai semplice: il Pd, come insieme dei suoi dirigenti, anche locali, come apparato nel senso più ampio e articolato del termine (decine di miglia di persone) è totalmente screditato sotto un profilo democratico progressista, è vissuto (lucidamente o inconsciamente, ma comunque giustamente, esattamente) come parte integrante dell’establishment, come un “loro” estraneo alla cittadinanza attiva, un pezzo della Casta, insomma. Gettando un alone negativo e un’ombra di vituperio anche sugli eventuali quadri di base che magari vivono coerentemente l’impegno democratico progressista d’antan. Il movimento delle “sardine” (d’ora in avanti senza virgolette), se anche Modena e Firenze saranno un successo (è una concreta speranza), costituiranno l’ultimo episodio di una lunga serie di protagonismo auto-organizzato della società civile progressista, quella che prende più che mai sul serio i valori della Costituzione repubblicana. Un fenomeno oramai quasi ventennale, dove ciascun episodio ha le sue assolute specificità, ma che evidenzia un filo rosso da analizzare. Anno Domini 2002, i Girotondi. A seguire “Il popolo viola” (due volte, se non ricordo male), poi le donne di “Se non ora quando”, poi le mobilitazioni anti legge bavaglio (e a inframmezzare, qualche ondata di lotte studentesche), solo per ricordare le tappe più rilevanti di grandi piazze gremite. Nell’età dell’amnesia che è la nostra, queste vicende, che pure hanno avuto carattere di massa perfino grandioso (la manifestazione dei Girotondi a Roma, san Giovanni, il 14 settembre 2002 dilagò in un intero quartiere coinvolgendo quasi un milione di persone) vengono dimenticate già l’indomani. Oltre all’azzeramento dello spessore storico che il mondo dei social ha ormai nebulizzato nelle due generazioni più giovani, ha però giocato un altro elemento: nessuna di queste mobilitazioni ha lasciato traccia, è diventata movimento, ha sedimentato in presenza politica. Una fiammata, anche ciclopica, sempre entusiasmante, che un deposito lo lascia certamente negli animi dei partecipanti, ma politicamente parlando poi più nulla. Tutte queste mobilitazioni della società civile, in sostanza, erano affette da un limite, che politicamente ha pesato come menomazione insormontabile e dissipativa. Hanno sempre oscillato tra l’idea di costituire un pungolo di rinnovamento (anche radicale, ma possibile) dei partiti della sinistra esistenti (in primis i Ds>Pd) o di doverne rappresentare un’alternativa, data l’irrecuperabilità degli apparati. La prima ipotesi è stata sistematicamente vanificata dai Ds>Pd stessi, il cui apparato non hai mai tollerato innesti dalla società civile che intaccassero anche marginalmente il sistema interno di potere. La seconda ipotesi non ha potuto vedere la luce neppure in forma embrionalissima per la catafratta Nolontà di questi di partecipare in modo costruttivo e progettuale alla vita politica, che in una democrazia parlamentare significa dar vita a liste elettorali. Il M5S è nato, e ha dominato per dieci anni la vita politica della protesta popolare, esattamente per quel vuoto, perché ha evitato di cadere nell’illusione di un rinnovamento/palingenesi del Pd, e perché molto rapidamente ha accompagnato le sue mobilitazioni di protesta con la presentazione di liste locali e infine nazionali nelle competizioni elettorali. Per questo, del resto, ha drenato in più occasioni milioni e milioni di voti del Pd (altri milioni sono finiti nell’astensione). Altri errori, però – anzi vera e propria tabe originaria bicorne – hanno segnato la fine del M5S, come ho ricordato nel mio precedente articolo: il rifiuto di riconoscere l’antagonismo (valoriale e di interessi sociali, non di schieramenti tutti ormai partitocratici) tra destra e sinistra, e la demenziale e avvilente selezione dei candidati attraverso provini da “reality” e voti-like da amici di facebook. Due foto di piazza Maggiore a Bologna evidenziano plasticamente, carnalmente, il declino irreversibile del M5S: Beppe Grillo dentro un canotto sopra una folla debordante (2010), 15 mila cittadini in gioioso ritrovarsi progressista col tam tam digitale di quattro amici, e un M5S che in piazza non porterebbe nessuno e medita addirittura di disertare le urne. L’inaspettato e galvanizzante esito di massa del flashmob delle sardine palesa perciò che esiste la SINISTRA SOMMERSA, una sinistra nella e della società civile, totalmente autonoma dal Pd. Magmatica, ma profondamente radicata nelle coscienze, nella capacità di indignazione, nella volontà e aspirazione ad un impegno concreto per “giustizia-e-libertà”, sempre più “giustizia-e-libertà”, per l’attuazione integrale della Costituzione, insomma. Che spesso esercita questi valori quotidianamente, nel volontariato, nella serietà professionale, nel rigore della ricerca. Magmatica, ma soprattutto carsica: sembra scomparire, ma sta semplicemente scorrendo sotto terra, custodita in milioni di coscienze, pronta a riemergere non appena si presenti l’occasione, quando in modo per lo più imprevisto un evento o un gruppo di amici fanno da catalizzatore a questa massa di energie egualitarie e libertarie diffuse, anche se troppo spesso frustrate. E quando una nuova generazione prende il testimone si ritrova accanto quelle scese in piazza dieci, venti, trent’anni prima. Speriamo che le sardine dilaghino a macchia d’olio. Se accadrà, è sperabile che non commettano il duplice errore con cui, dai Girotondi in poi, le mobilitazioni della società civile si sono sempre esaurite: immaginare di trasformare i partiti della sinistra, rinunciare al momento della verità dell’alea elettorale. Che è un salto mortale, ovviamente, senza il quale, tuttavia, di una grande ondata di mobilitazione democratica, che a Bologna speriamo abbia avuto solo il suo esordio, non resterebbe nulla, una volta di più. Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa non ameranno ricevere consigli, come quasi sempre accade a chi realizza una iniziativa politica inedita. In parte a ragione, perché la tentazione di “recuperare” una mobilitazione, “metterci il cappello”, e insomma farla lavorare per un proprio progetto, non solletica solo i partiti ma può albergare anche negli intellettuali. E tuttavia qualche consiglio lo darò, perché in realtà è un auspicio, una speranza, o forse un wishful thinking, quello di vedere finalmente una mobilitazione progressista che non sia solo entusiasmo coinvolgente ma effimero, che metta invece radici e possa invertire la tendenza (non solo italiana) secondo cui ormai le masse vanno a destra (destra, cioè establishment, di cui molta “sinistra” è parte integrante). Avete registrato il marchio, siete quindi consapevoli che può avere un valore, che in politica significa avere un futuro. Lo avete già concesso a chi sta promuovendo analoghe mobilitazioni a Modena e Firenze, e avete dichiarato che “siete subissati di richieste”. Arricchitelo con un progetto programmatico, almeno con il suo scheletro, perché non resti un movimento solo “contro” (identificare i nemici è importante, sia chiaro), ma anche “per”. I materiali di analisi per un programma di sinistra non mancano, anzi abbondano. I più recenti sono quelli elaborati dal seminario contro le diseguaglianze coordinato da Fabrizio Barca. MicroMega vi ha dedicato due interi corposissimi volumi, nel 2011 e nel 2018, più una quantità di saggi sparsi lungo oltre trent’anni di vita (mediamente quella delle quattro Sardine, lo dico con ammirazione, il contrario del paternalismo). L’abbondanza di analisi ha bisogno di tradursi in un programma politico. Per approssimazioni successive, ovviamente. Cominciate a realizzare questa traduzione. Parallelamente alla mobilitazione, coinvolgete quanti nelle varie città si dimostreranno, con l’azione, sulla vostra stessa lunghezza d’onda, anche nella comune elaborazione di un programma. Per punti essenziali, ma non generici (quali misure per combattere la diseguaglianza? Quali capisaldi per una riforma della giustizia? E per la guerra alla grande evasione? Ecc.). Naturalmente senza trasformarvi in professionisti della politica, che non solo vi muterebbe umanamente, esistenzialmente, ma vi impoverirebbe anche politicamente. A enunciarla sembra la quadratura del cerchio, e invece fa parte dell’orizzonte del possibile. Auguri, allora, perché il vostro successo e il vostro futuro ci riguarda tutti. (18 novembre 2019) Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-sardine-di-piazza-maggiore-e-la-sinistra-sommersa/ |