Titolo: Fausto Durante (segr.Fiom) - I doveri dell’azienda Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2007, 05:13:34 pm I doveri dell’azienda
Fausto Durante* La morte di Giuseppe Demasi, fino a ieri l'ultimo sopravvissuto al rogo della ThyssenKrupp, suggella nel peggiore dei modi un 2007 che i lavoratori italiani - e in particolare i metalmeccanici, a Torino e non solo - non dimenticheranno facilmente. Anche quest'anno, infatti, il tributo di morti, feriti e invalidi per lavoro è di dimensioni insopportabili: più di mille morti. La strage di Torino, gravissima per la perdita di vite umane e per la dinamica del disastro, rende ancora più drammatico e amaro questo bilancio. Quando nel luglio scorso venne firmato, anche da chi scrive, l'accordo per la chiusura dell'acciaieria ThyssenKrupp di Torino, niente avrebbe fatto pensare ad un avvenimento così tragico. In realtà quell'accordo - di carattere difensivo, come purtroppo tutte le intese che sanciscono la chiusura di uno stabilimento produttivo - era nel complesso positivo. Ciò in quanto prevedeva adeguate tutele e garanzie per i lavoratori a seguito della decisione aziendale di cessare la produzione a Torino, per concentrare a Terni tutte le attività legate all'acciaio inossidabile e per fare del sito ternano il centro e il punto di riferimento europeo di ThyssenKrupp, cioè di una multinazionale tra le prime al mondo nella siderurgia. È evidente che, alla luce della gravità e della portata di quanto avvenuto, quell'intesa - pur approvata a suo tempo dalla stragrande maggioranza dei lavoratori interessati - è superata e va ridiscussa. Per quel che ci riguarda - nel confermare la nostra piena fiducia nel lavoro della magistratura e nel chiedere verità e giustizia per i morti di Torino, con l'accertamento di tutte le responsabilità e con la condanna esemplare dei responsabili - la ThyssenKrupp dovrà innanzitutto farsi carico del futuro delle famiglie e dei figli degli operai morti nell'incendio e dei feriti. Oltre a ciò, vi sono questioni sindacali e di politica industriale su cui è necessario concentrarsi. All'azienda spetterà garantire il reddito dei dipendenti ancora in forza a Torino, in attesa che scattino i necessari ammortizzatori sociali nell'ambito della gestione di un piano che, contestualmente, contempli l'individuazione a Torino di nuove attività industriali possibili nel quadro dei diversi settori di attività di ThyssenKrupp in Italia. Ciò atteso che l'acciaieria non riaprirà se non per la movimentazione del materiale e per il trasferimento dei macchinari a Terni e che l'azienda opera nel nostro Paese anche in ambiti diversi da quello siderurgico. Inoltre, ThyssenKrupp dovrà mantenere ed onorare tutti gli impegni assunti per il sito di Terni. Una realtà che ha già dovuto fare i conti con la perdita delle produzioni dell'acciaio magnetico e che oggi corre il rischio di veder scaricare sulle proprie prospettive future gli errori e le lacune di un management che appare proteso in modo miope verso il profitto a tutti i costi. Management che, forse, non è ancora pienamente consapevole della portata della tragedia di Torino ed è ancora in ritardo per ciò che concerne la qualità delle relazioni industriali necessarie in un'azienda del livello e delle dimensioni di ThyssenKrupp. Non si spiega diversamente il fatto che, nonostante quanto successo, l'azienda abbia chiesto la disponibilità dei dipendenti di Terni al lavoro volontario per Capodanno, saltando completamente il confronto con il sindacato e con le rappresentanze dei lavoratori. E dispiace, considerando che i sindacati metalmeccanici sono unitariamente impegnati in una difficile vertenza per il rinnovo del contratto anche con il blocco degli straordinari e delle flessibilità, che a tale richiesta dell'azienda solo la Fiom abbia chiaramente detto di no. Stiamo parlando, per Terni e per Torino, di una realtà industriale importante per l'Italia. Per questo, c'è da augurarsi che anche il Governo dia un segnale di attenzione e predisponga le sedi e i tavoli di un confronto volto ad assicurare, in entrambe le realtà, quel lavoro e quelle prospettive industriali che ThyssenKrupp deve all'Italia. * Segretario Fiom Pubblicato il: 31.12.07 Modificato il: 31.12.07 alle ore 6.37 © l'Unità. Titolo: Oreste Pivetta - Le fabbriche dimenticate Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2007, 05:15:44 pm Le fabbriche dimenticate
Oreste Pivetta Sette morti, uno dietro l’altro, come un rosario. Un’altra tragedia nel calendario nero del lavoro. Mille e più morti in un anno. Sette in una fabbrica soltanto, la TyssenKrupp, che ha un nome pesante da grande industria straniera, qualcosa che sembra giunto da noi a rapinare le nostre vite. È stata la sequenza interminabile, dal 6 dicembre, a impedire che presto tutto venisse dimenticato. Giuseppe Demasi è l’ultimo, dopo Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo e Rosario Rodinò. Aveva ventisei anni, un ragazzo morto all’età in cui molti dei suoi coetanei stanno per lasciare l’università e, magari, non ancora la casa di famiglia. Nel dolore per quelle morti, c’è anche la scoperta di quel lavoro e di quelle condizioni. Nell’idea di molti la fabbrica è diventata un corpo estraneo, aree dismesse e imprese da “dislocare”, intanto lontano dalle città, poi lontane in chissà quale paese. Cancellando le fabbriche s’è preteso di cancellare alcune parole: sfruttamento, ad esempio. Parola vecchia, come altre rimpiazzata da un vocabolario fatto di flessibilità e produttività e naturalmente di modernità e competitività, che evidentemente dovrebbero miracolosamente guarirci dall’eterna malattia dei bassi salari, della precarietà, della fatica sporca. Il vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, ancora ieri in un’intervista, invitava a discutere di contrattazione aziendale senza «sottolineature demagogiche sui salari più bassi» (dimenticando peraltro che il premio di risultato esiste dal 1993). I sette della TyssenKrupp avevano a loro modo fatto i conti con i «salari più bassi» e senza nessuna demagogia: accettavano in una fabbrica in via di smantellamento gli straordinari per coprire i buchi d’organico, un turno dopo l’altro, con la produttività che sale come vorrebbe appunto Confindustria. «Così si guadagnava bene», raccontava un operaio di Torino e ne sarà stato anche felice. Fino a milleseicento euro al mese. Peccato che i padroni non dicano mai quanto investono per inseguire produttività e competitività. Sono traguardi che si raggiungono anche migliorando le macchine e l’organizzazione, persino ripulendo le stanze dove si lavora. Sul sagrato del Duomo di Torino, dopo i funerali dei primi quattro caduti, ci è capitato di sentire un anziano operaio lamentare con altri anziani operai anche questo: quanto fossero sporchi di unto e grasso quei locali della TyssenKrupp. A Torino ne sono morti sette in una sola fabbrica. In Italia ne sono morti mille in tante fabbriche e in tanti cantieri. Alla fine le cause della strage sono sempre le stesse. Si muore cadendo da una impalcatura o schiacciati da una lama d’acciaio che crolla da un gru, se un cavo si spezza. O bruciati se un tubo si buca. Torino e TyssenKrupp diventeranno un luogo nella memoria nazionale, non si può dire quanto condivisa però. Come Marcinelle, la tragedia dell’Italia dei migranti, quando in una miniera di carbone mezzo secolo fa morirono 262 minatori, 136 italiani. Come Mattmark, in Svizzera, quasi dieci anni dopo, quando una valanga d’estate travolse le baracche dei muratori che stavano costruendo una diga sopra Saas Fee: cento morti, la metà italiani. O come, di recente, un decennio fa, Ravenna: tredici bruciarono nel fuoco del serbatoio di una nave che stavano ripulendo. E poi ci sono i morti, avvelenati lentamente, dai fumi o dalle scorie che penetrano nei polmoni, al Petrolchimico o all’Eternit. Nella tragica incultura di questo paese, anche l’indifferenza trova il suo posto. Ci sarà una fine? Si può promettere tutto. Ma è difficile per chiunque promettere una fine. Quarant’anni fa, e torniamo ai nostri Sessanta, quando ancora le fabbriche producevano e quando ancora non si usava “dismissioni”, forse tirava un’aria diversa: la bandiera dei diritti sventolava anche per la salute nel lavoro e per la sicurezza nel lavoro. Poi le crisi ripetute spensero poco alla volta quelle tensioni e un’inversione culturale sembra abbia spento anche la voglia di battersi per i propri diritti. La vicenda di Torino, accanto alle lacrime, alla solidarietà, alla protesta, ci lascia una lezione: si possono pretendere dai padroni accordi più favorevoli, si può chiedere allo Stato più forza nei controlli, più efficacia nelle leggi, più rigore nelle sanzioni, però c’è il rischio che comunque qualcosa o molto sfuggano e si aprano varchi che lasciano morti: come spiegano la TyssenKrupp o i tanti cantieri del subappalto e del lavoro nero. Alla fine i lavoratori devono “contare” su se stessi, sulla propria voglia di cambiare le cose, ripristinando la loro scala dei valori: prima viene la vita (e magari una vita decente), poi viene la produttività e chi può impedirci di credere che una vita decente sia una delle prime ragioni di produttività. Sapendo di poter “contare” se c’è unità, se c’è un sindacato forte e forte in ogni luogo di lavoro, sindacato dentro l’azienda, di reparto in reparto. Pubblicato il: 31.12.07 Modificato il: 31.12.07 alle ore 6.35 © l'Unità. |