LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Dicembre 27, 2007, 10:56:17 am



Titolo: LUCA RICOLFI -
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2007, 10:56:17 am
27/12/2007
 
Un governo per crescere
 
LUCA RICOLFI

 
La minaccia al premier è un classico di questa legislatura: se non fai come dico io non ti sostengo più, e se io non ti sostengo tu sei costretto a fare le valigie. Più o meno scopertamente l’hanno esercitata un po’ tutti, partiti, sindacati, ministri, sottosegretari, singoli politici della maggioranza. Che ora ci riprovi per l’ennesima volta Lamberto Dini non sarebbe una notizia, se non fosse che - con l’approvazione della Finanziaria - la minaccia è diventata improvvisamente credibile. Fino a ieri si scherzava, perché tutti avevano qualche motivo - talora buono, più spesso cattivo - per evitare il naufragio della Finanziaria.

E con essa della solita miriade di provvedimenti di spesa caldeggiati da partiti, correnti, gruppi, singoli parlamentari. Ma adesso non più, il carrozzone è ormai transitato e possiamo ricominciare finalmente a litigare sul serio. Dini, dopo aver ingoiato il rospo della Finanziaria, ha fatto la prima mossa del nuovo gioco, gli alleati gli sono subito volati contro, l’opposizione di centro-destra gongola. Forse Prodi cadrà e nel giro di qualche mese avremo un nuovo governo, nuove elezioni, o entrambe le cose. Anno nuovo governo nuovo. Sarebbe un bene per l’Italia?

Non è affatto detto, anche se è difficile immaginare un esecutivo ancora più dannoso e scomposto di quello che ci ha governati in questa legislatura. Se Prodi dovesse cadere lo scenario più probabile sarebbe quello di un governo che dimentica i (noiosi) problemi della gente comune - potere di acquisto, sicurezza, Stato sociale, infrastrutture - e si concentra sulle delizie dei professionisti della politica: riforme istituzionali, legge elettorale, regolamenti parlamentari. Insomma, un 2008 divertentissimo per loro e noiosissimo per noi. Perché è improbabile che un nuovo governo affronti i problemi che più stanno a cuore alla gente comune?

Una prima ragione è che i nostri politici si sono autoconvinti che se non riescono a decidere non è colpa loro, ma delle istituzioni. Si sentono come Schumacher alla guida di una Cinquecento. Non riuscendo a fare un solo metro di strada, aspettano che il Parlamento regali loro una Ferrari - ossia istituzioni nuove di zecca - per farci vedere di che cosa siano capaci. Ma c’è una ragione più seria che mi rende scettico sulle chance di un nuovo governo. Se Prodi cadrà, sarà per mano del «partito del rigore», anche se - verosimilmente - la colpa verrà addossata a Rifondazione comunista e ai suoi satelliti. Il nuovo esecutivo, di fatto, governerà contro Rifondazione e i sindacati, e proverà a fare quel che Prodi e Padoa-Schioppa hanno sempre promesso nei loro Dpef, senza però mai mantenere l’impegno a causa dell’opposizione della sinistra estrema: una politica tecnocratica, che punta a risanare i conti tenendo alta la pressione fiscale e tagliando la spesa corrente. È facile prevedere che una simile politica, anche ammesso che sia ragionevole, non avrebbe alcuna possibilità di passare in un Paese con i problemi dell’Italia di oggi. Ma è ragionevole una simile politica?

A mio parere no. La sinistra estrema ha torto a snobbare il problema del debito pubblico, a invocare ogni volta nuove spese senza mai concedere contropartite, a credere che le risorse che mancano si possano mettere sul piatto semplicemente evocando Robin Hood, ossia un trasferimento massiccio di quattrini dai ricchi ai poveri, dai profitti ai salari. Ma la sinistra estrema ha perfettamente ragione a ricordarci che il potere di acquisto delle famiglie è drammaticamente insufficiente e ha subito proprio quest’anno una serie di colpi gravissimi. Così come ha ragione a ricordarci che lo Stato sociale italiano è sì sprecone ma è anche incompleto: mancano asili nido, servizi agli anziani, ammortizzatori sociali, politiche contro la povertà, tutte cose che i difensori del rigore non amano sentirsi ripetere.

Il problema centrale che un nuovo governo dovrebbe affrontare, in altre parole, non è di liberarci finalmente dalla sinistra estrema, ma di prenderne sul serio i problemi senza sposarne le soluzioni.

Insomma, liberarci dal partito della spesa senza consegnarci a quello dei banchieri. Questa doppia liberazione richiederebbe, a mio parere, tre impegni fondamentali. Il primo è di non destinare i risultati della lotta all’evasione a nuove spese bensì ad azioni incisive di promozione della crescita, a partire da una vera riduzione delle imposte che gravano sulle attività produttive (il contrario di quel che si è fatto con le ultime due finanziarie), per poi passare a sgravi in favore delle famiglie. Il secondo impegno è quello di rafforzare lo Stato sociale esclusivamente mediante meccanismi virtuosi, come l’obbligo di copertura di qualsiasi nuova spesa mediante una quota rilevante - ad esempio il 70% - ricavata dall’eliminazione di sprechi. In concreto, un meccanismo abbastanza simile al cosiddetto cofinanziamento: il ministro X vuole spendere 100 per un nuovo servizio, il governo gli concede 30 ma solo dopo che il ministro ha già raccolto 70 eliminando sprechi in un servizio preesistente (secondo valutazioni prudenti, gli sprechi eliminabili senza ridurre i servizi erogati superano ampiamente i 50 miliardi di euro all’anno). Il terzo impegno è a non bruciare l’intero avanzo primario per la riduzione del debito, puntando invece sulla crescita e - fintantoché la crescita da sola non bastasse - su un piano oculato di dismissioni e privatizzazioni (a qualcuno sembrerà sorprendente, ma un misero 0.8% in più di crescita del Pil sarebbe bastato, negli ultimi dieci anni, ad abbattere il rapporto debito/Pil dell’Italia senza alcun sacrificio aggiuntivo).

Un programma del genere, allo stato attuale, non piace né alla destra né alla sinistra, perché non promette miracoli a nessuno. Esso ha però forse il vantaggio di salvare le ragioni che hanno condotto tanti italiani a sperare nel centro-sinistra, e al tempo stesso di non ignorare le ragioni che portano oggi tre italiani su quattro a voltare le spalle al governo Prodi.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI.
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2008, 07:58:00 pm
10/2/2008
 
Incantesimo finito
 
LUCA RICOLFI
 
Nessuno sa ancora con certezza che cosa troveremo sulla scheda elettorale.

Può darsi che il Partito democratico (Pd) si presenti in perfetta solitudine.


O alleato con un piccolo numero di partiti satelliti, come l’Italia dei Valori, i Socialisti, i Radicali. Può darsi che il nuovo partito di Berlusconi e Fini (Pdl) si presenti da solo, o alleato con un numero più o meno grande di partiti piccoli e piccolissimi, come la Lega, l’Udc, il Partito di Mastella, quello di Storace, e così via. Può darsi che la politica di domani si riveli un po’ migliore di quella di oggi, come può darsi che - dopo le elezioni - tutto torni come prima. E tuttavia c’è un punto sul quale, comunque vadano le cose, non possiamo non essere grati a Veltroni, quali che siano le nostre idee. La mossa di Veltroni (ma sarebbe più giusto dire: la mossa di Veltroni e Rutelli, che per primo ebbe il coraggio di parlare di «alleanze di nuovo conio»), ha mostrato qualcosa che fino a poche settimane fa nessuno voleva vedere, e cioè che la legge elettorale era un falso problema, per non dire un alibi della classe politica. Sì, avevamo e abbiamo una cattiva legge elettorale, ma il cuore del problema italiano non è la legge elettorale bensì l’immobilismo della sua classe politica. È bastato che un singolo uomo politico, investito della responsabilità di guidare il maggiore partito della sinistra, trovasse il coraggio di fare un gesto chiaro e forte, che tutto si è rimesso improvvisamente in movimento.

Il nostro vituperato «bipolarismo muscolare», di cui quasi tutti incolpavano la legge elettorale, si è rivelato per quello che è: lo specchio delle paure della nostra classe politica, incapace di assumere dei veri rischi, lanciare delle vere sfide, compiere delle scelte chiare. Dopo il gesto di Veltroni, gli elettori hanno la prova tangibile che la vera origine dei nostri mali non sono le regole (che possono solo aggravarli) ma sono gli uomini. Dopo Veltroni, nessun leader degno di questo nome potrà dire, fatalisticamente: «vorremmo fare diverso, ma finché c’è questa legge elettorale non possiamo che fare così». No, cari uomini politici, il gesto di Veltroni vi ha ricordato che la politica la fate voi, e che l’impotenza della politica non era l’esito inevitabile di regole sbagliate, ma il frutto amaro delle vostre non scelte. È vero, la politica è l’arte del possibile, ma i confini fra ciò che è possibile e ciò che non lo è non sono dati una volta per tutte, perché dipendono in modo cruciale da quel che i politici osano immaginare.

Vista da questa angolatura, la sfida di Veltroni segna la fine di un incantesimo. Essa, che Veltroni lo voglia o no, permette all’elettore di sinistra di rivedere in una luce radicalmente nuova il film della legislatura che ora si chiude. Per due lunghi anni Prodi ci ha raccontato che erano i partiti a imporgli di moltiplicare i ministeri, erano i partiti a frenare l’azione del suo governo, erano i partiti a costringerlo a estenuanti mediazioni. Eppure quei medesimi partiti, dopo la crisi di un anno fa, avevano solennemente promesso che in casi di dissidi si sarebbero rimessi alla sua autorità. Perché Prodi non ha mai usato questa investitura, e ha preferito mettere in frigorifero tutte le questioni più spinose? Chissà, forse perché Prodi, a differenza di Veltroni, accetta che siano gli altri a stabilire i confini del possibile.

Ma la sfida di Veltroni rompe anche un altro incantesimo, quello dell’ineluttabilità dell’assetto storico del centro destra. È perfettamente possibile (e a mio parere anche probabile) che Berlusconi non abbia il medesimo coraggio di Veltroni, e che la nuova alleanza che si va definendo in questi giorni finisca per somigliare molto a quelle del 2001 e del 1994: i soliti quattro partiti, i soliti quattro leader, le solite parole d’ordine. Però anche in questo caso nulla sarebbe come prima. Il mero fatto che Berlusconi abbia dovuto prendere in considerazione l’eventualità di andare da solo, gli toglie automaticamente la giustificazione da tutti usata in questi anni: se gli altri fanno così noi non possiamo fare diverso, con questa legge elettorale non si possono evitare le grandi ammucchiate. Se Berlusconi riproporrà le solite alleanze, dovrà spiegare perché lo ha fatto e che cosa ci garantisce che i conflitti interni del 2001-2006 (ricordate il «subgoverno» di An e Udc?) non si ripetano nella prossima legislatura.

D’ora in poi, qualsiasi cosa facciano Veltroni e Berlusconi, sarà ad essi che gli elettori potranno e dovranno chiedere conto. E anzi, da questo punto di vista il fatto che la legge elettorale non permetta agli elettori di scegliere i candidati, renderà ancora più significative le scelte dei maggiori leader. Se Berlusconi candiderà Mastella e Storace, sarà difficile credergli quando prometterà di eliminare gli sprechi della Sanità. E se Veltroni accoglierà nelle sue liste politici rinviati a giudizio o condannati, sarà difficile credergli quando proverà a incantarci con la «bella politica». Naturalmente, quello di Veltroni è solo un primo passo, ma è un passo importante. Esso ha mostrato a tutti che l’impotenza della politica non dipende dal «sistema» ma dalla politica stessa. Speriamo che questa scoperta aiuti i cittadini a diventare meno scettici e i politici a diventare meno irresponsabili.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI Elezioni e promesse dei leader
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2008, 12:20:34 am
18/2/2008
 
Elezioni e promesse dei leader
 
LUCA RICOLFI

 
Veltroni ha presentato sabato le promesse del Partito democratico (Pd), fra una settimana circa Berlusconi presenterà quelle del Popolo della libertà (Pdl). È probabile che, al netto delle parole in cui saranno avvolte, le promesse finiscano per rivelarsi affini. Più sicurezza, meno tasse, sostegno ai redditi bassi, aiuti alla famiglia, contenimento della spesa pubblica, misure per la competitività, alleggerimenti fiscali sugli straordinari: chi avrà il coraggio di non ripetere le solite promesse?

Il punto dunque non è che cosa Pd e Pdl ci promettono, ma che garanzie offrono di mantenere le promesse. Di solito chi solleva questo problema aggiunge che ogni promessa costosa (come la soppressione dell’Ici sulla prima casa, o il bonus per i nuovi nati) dovrebbe essere accompagnata da un'indicazione precisa delle relative «coperture», ossia dei soggetti su cui verrebbe fatto gravare il peso finanziario della promessa. Giustissimo, ma da sempre i politici hanno escogitato un modo sicuro per aggirare la domanda. Alla richiesta di indicare le coperture rispondono: a) recupero di evasione fiscale; b) riduzione degli sprechi nella pubblica amministrazione; c) maggiore crescita. E il discorso finisce lì.

Andrà così anche in questa campagna elettorale, e quindi non proviamo nemmeno a scongiurare i politici di rivelarci «dove prenderanno i soldi» per fare le meravigliose cose che ci promettono. Non ce l’hanno mai detto, non ce lo diranno mai. Perciò siamo e resteremo indifesi di fronte al fiume in piena delle promesse. C'è una cosa, tuttavia, che può aiutarci a capire se un programma è credibile oppure non lo è: la sincerità con cui ci racconta il nostro passato e il nostro presente.

Non possiamo sapere che cosa Veltroni o Berlusconi ci riservano per il futuro, ma possiamo capire se ci trattano come bambini ingenui o come persone mature. Se si prendono gioco di noi oppure ci rispettano. Come ha scritto recentemente sul Sole - 24 Ore Franco Debenedetti, il punto di partenza di una stagione politica finalmente costruttiva è la condivisione dei «giudizi che si danno sul passato». Probabilmente non riusciremo a metterci d'accordo sul futuro, ma almeno mettiamoci d’accordo sul passato.

Prendiamo Berlusconi. Nei giorni scorsi gli abbiamo sentito dire in tv che il suo governo aveva realizzato l'85% del programma del 2001 - il famoso contratto con gli italiani - e che il «pezzettino» non realizzato (appena il 15%) era rimasto sulla carta per colpa degli alleati. Bene, allora è forse il caso di ricordargli che le due promesse principali del suo programma sono state clamorosamente disattese: l’aliquota Irpef massima non è stata ridotta al 33%, i delitti anziché diminuire sono aumentati. Per non parlare delle grandi opere, anch’esse realizzate in misura ben inferiore alle promesse. Perché raccontarci di aver onorato il «contratto» all’85% se non è vero? Gli italiani non sono ciechi, e se nel 2006 hanno tolto la fiducia a Berlusconi è anche perché si sono accorti che il contratto non era stato rispettato.

Per Veltroni il passato da indorare è quello di Prodi. Ma un conto è sorvolare signorilmente su qualche scivolone o su qualche punto marginale, un conto è capovolgere la trama della storia economico-sociale recente. Veltroni dice: ridurre le tasse e aumentare i salari si può, e si può proprio perché il governo Prodi ha condotto una lotta vittoriosa contro l’evasione fiscale (almeno 20 miliardi di gettito recuperati, secondo il governo uscente). Peccato che questa ricostruzione del nostro passato recente non sia compatibile con quel che si sa dell’andamento dell’economia negli ultimi due anni. Vediamo perché.

Lotta all’evasione. La cifra di (almeno) 20 miliardi recuperati è altamente controversa, ed è stata messa in dubbio da vari analisti e centri di studio indipendenti. Per il 2006, unico anno per il quale si dispone già di dati completi, non è nemmeno certo che esista un effetto-Visco (la mia miglior stima fornisce un recupero di evasione di appena 1,7 miliardi). Quel che in compenso è certo è che il governo Prodi ha sempre tenuto basse le previsioni sulle entrate fiscali, e proprio grazie a questo artificio contabile ha fatto emergere i vari «tesoretti».

Uso dell’extragettito. Quale che sia l’origine del cosiddetto extragettito (gettito non previsto dal governo), è incontrovertibile che i contribuenti non hanno visto sgravi fiscali per 20 miliardi di euro (la lotta all’evasione fiscale non doveva servire a ridurre le tasse ai contribuenti onesti?). Essi hanno invece assistito, nel corso del 2007, a una sistematica opera di dissipazione del gettito non previsto. Visco metteva i soldini nel salvadanaio, i «ministri di spesa» lo rompevano tutte le volte che si accorgevano che era pieno (Dl 81, Dl 159, Finanziaria 2008).

Situazione attuale. Nessuno, nemmeno il ministro dell’Economia, sa dire ancora con certezza se esiste un ulteriore gettito non previsto del 2007 (gli ultimi dati ufficiali dell’Agenzia delle entrate sono fermi al 30 novembre scorso). Quel che si può dire con certezza, invece, è che ci sono 7-8 miliardi di spese prevedibili ma non messe a bilancio, che l'andamento del gettito delle imposte indirette (il più sensibile all'andamento dell’economia) è in costante calo dal gennaio del 2007, e che a partire dallo scorso ottobre il gettito cresce meno del reddito nominale. In concreto questo vuol dire che, se l’economia dovesse continuare ad andare male, il gettito 2008 potrebbe risultare minore del previsto, anziché maggiore come è stato negli ultimi due anni.

Morale. Il governo Prodi consegna all’Italia una situazione nella quale non c’è più alcun extragettito da spendere e, se anche qualche risorsa dovesse mai spuntar fuori, verrebbe immediatamente bruciata per coprire i 7-8 miliardi di spese non messi a bilancio dalla Finanziaria 2008. Capisco che Veltroni sia così gentile da non voler vedere questa triste eredità, ma se si vuol essere nuovi bisogna esserlo anche sulle cose che contano: non basta mettere i giovani in lista, occorre anche cominciare a dire la verità.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. Promesse e ancora promesse
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2008, 09:21:32 am
1/3/2008
 
Promesse e ancora promesse
 
LUCA RICOLFI

 
Non erano passate ventiquattro ore dall’invito di Montezemolo a «dire la verità» sulla situazione dell’Italia che già i due leader del centro-destra e del centro-sinistra si lanciavano in ogni sorta di promesse. Fra le più mirabolanti di ieri, la promessa berlusconiana di portare la pressione fiscale al di sotto del 40% in 5 anni (attualmente è al 43,3%) e la promessa veltroniana di una sorta di ritorno dell'età dell'oro, curiosamente identificata con l'era del primo centro-sinistra, quello degli Anni 60 (i meno giovani ricorderanno che quell'era prese avvio con la crisi economica del 1963, che segnava la fine del «miracolo economico» e non certo l'inizio di un’epoca felice).

Non provo nemmeno a fare la lista delle decine e decine di benefici che i due programmi promettono a famiglie e imprese: li ascolteremo e riascolteremo ogni giorno per un mese e mezzo. Ciò su cui vorrei attirare l'attenzione, invece, sono quelle che scherzosamente si potrebbero definire le «minacce» implicite in entrambi i programmi. È vero che sia il Pdl sia il Pd (ma dovevano proprio scegliere due sigle così simili?) auspicano di finanziare parte delle promesse con maggiore crescita e misure di contrasto all’evasione fiscale.

Ma è anche vero che sia il Pdl sia il Pd paiono rendersi conto che quei tipi di misure (pro-crescita e anti-evasione) non basteranno, e occorrerà quindi fare parecchie scelte dolorose. Entrambi prevedono dismissioni del patrimonio pubblico, entrambi prevedono riduzioni della spesa corrente. Nel programma di Berlusconi, ad esempio, si parla di un «grande e libero patto» fra Stato e governi locali per attuare il federalismo fiscale e vendere parte del patrimonio pubblico, facendo capire che saranno soprattutto questi ultimi - Regioni, Province e Comuni - a doversene fare carico. Nel programma di Veltroni si parla di un taglio della spesa corrente primaria di circa 40 miliardi di euro (2.5 punti di Pil) nel breve volgere di tre anni.

Quel che resta nell'ombra, tuttavia, è la situazione di partenza dell'Italia, che invece è l'elemento che più di ogni altro ci permette di farci un'idea di quel che ci aspetta. Giusto ieri l'Istat ha certificato che nel 2007 il deficit pubblico è andato meglio del previsto (1.9% anziché 2.4% del Pil), ma l'economia è cresciuta meno delle attese e la pressione fiscale ha toccato il livello record del 43.3%. Quanto al 2008 gli organismi internazionali pronosticano un allargamento della forbice fra il nostro tasso di crescita e quello dell'Eurozona (da -0.7 a -1.1). Nel frattempo il cambio fra euro e dollaro ha sfondato quota 1.5, mentre il prezzo del petrolio ha oltrepassato la barriera dei 100 dollari a barile. In queste condizioni lo scenario più realistico, almeno a breve, non è quello di un «rilancio dello sviluppo», ma quello di un peggioramento del rapporto deficit/Pil, dovuto sia alla minore crescita sia ai circa 7 miliardi di spesa pubblica preventivati ma ancora privi di copertura.

Se più o meno questa è la situazione, diventa molto più importante guardare alle minacce che alle promesse dei programmi elettorali. Non potendo contare su una rapida ripresa dell'economia, sia Berlusconi sia Veltroni, dopo aver concesso qualcosa alle rispettive basi sociali (abolizione dell'Ici sulla prima casa, salario minimo per i precari), dovranno mettere mano alla parte dolorosa del loro programma: vendita del patrimonio pubblico e contenimento della spesa pubblica corrente.

Nel caso delle dismissioni il problema sarà superare le resistenze dei governi locali, che negli ultimi anni - come si ricorda nel programma del Popolo della libertà - sembrano aver imboccato prevalentemente la strada opposta (pubblicizzare anziché privatizzare). Nel caso dei tagli di spesa il non detto di entrambi i programmi è che, se si faranno sul serio, colpiranno soprattutto le regioni del Mezzogiorno, nelle quali gli sprechi (e l'evasione) sono molto più diffusi che nel resto del paese.

Comunque, tranquillizziamoci: di questo piccolo particolare geografico non si parla né nel programma del Pd, né in quello del Pdl. Quindi lo scenario più verosimile è il solito: di lotta agli sprechi si parlerà in generale, molto in generale. E al momento buono - quando si tratterà di recuperare effettivamente gettito - pioverà sul bagnato, ossia sui soliti «contribuenti onesti». Come è accaduto sempre e, temo, accadrà ancora a lungo.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. I partiti, gli sprechi e il '68
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2008, 12:11:25 pm
23/3/2008
 
I partiti, gli sprechi e il '68
 
 
LUCA RICOLFI
 
Letti e riletti i programmi del Partito democratico e del Popolo della Libertà, mi sono convinto anch'io che sono abbastanza simili. Entrambi, come di consueto, si preoccupano più delle famiglie che delle imprese.

Entrambi promettono ogni sorta di interventi a favore di innumerevoli categorie di soggetti. Entrambi, infine, pensano di finanziare le promesse con il consueto cocktail a tre ingredienti: dismissioni del patrimonio pubblico (che piacciono soprattutto al Pdl), contrasto all'evasione fiscale (che piace soprattutto al Pd), lotta agli sprechi della Pubblica Amministrazione (che piace a entrambi).

Sfortunatamente, i primi due ingredienti sono molto difficili da maneggiare. Tremonti pensa di spostare sugli Enti locali la patata bollente del debito pubblico, ma anche se ci riuscisse (cosa di cui dubito, se non altro perché la maggioranza di essi è governata dalla sinistra), impiegherebbe comunque anni di estenuanti trattative e schermaglie prima di concludere il «grande e libero patto» che consentirebbe di alienare parte del Patrimonio pubblico di Regioni, Province e Comuni. Veltroni pensa, grazie alla «lotta all'evasione fiscale», di mantenere il ritmo tendenziale di aumento delle entrate del 30-40% al di sopra del ritmo di crescita del Pil, illudendosi che anche gli anni a venire, nonostante la crisi e a dispetto dell'iper-salasso del 2006-2007, possano riservarci un flusso costante di extragettiti.

Resta il terzo ingrediente, la lotta agli sprechi nella Pubblica Amministrazione. Stante la difficoltà di percorrere le prime due vie, è proprio qui - sui tagli alla spesa pubblica - che chi governerà sarà costretto a giocare le sue carte. Vediamole, allora, queste carte. Il Partito democratico pensa a una cura shock, con un contenimento della spesa corrente primaria di almeno 40 miliardi di euro nei primi 3 anni. Il Popolo della libertà, invece, pensa a un intervento decisamente più leggero, pari a 20-30 miliardi spalmati su 5 anni. Diciamo, giusto per dare un'idea, che nei primi tre anni di legislatura i «risparmi» (eufemismo per tagli) potrebbero essere pari a 15 miliardi l'anno se vince Veltroni, e pari a 5 miliardi l'anno se vince Berlusconi.

Così stando le cose, ci si poteva aspettare che i mezzi per tagliare la spesa pubblica immaginati dal Pd fossero molto più drastici di quelli immaginati dal Pdl. E invece - sorpresa! - sembrerebbe proprio il contrario, almeno a giudicare dalle spiegazioni fornite dagli estensori dei programmi del Pdl (Giulio Tremonti) e del Pd (Enrico Morando). Tremonti, che vorrebbe tagliare la spesa di «solo» 5 miliardi l'anno, dichiara che si tratta di un'operazione inconcepibile senza una battaglia culturale che renda possibile «abrogare il risultato del '68 attraverso leggi che ricostituiscano le catene di comando, di controllo e di responsabilità dentro la Pubblica Amministrazione, riportando d'attualità la figura centrale del capoufficio». Morando, che vorrebbe tagliarla al formidabile ritmo di 15 miliardi l'anno, si limita a fare degli esempi di risparmi di spesa, a quanto pare senza avvertire l'enormità del compito.

Curioso. A giudicare dagli obiettivi dei due schieramenti mi sarei aspettato esattamente l'opposto: che il centro-destra si limitasse ai soliti esempi (informatizzazione degli uffici, acquisti centralizzati, accorpamento di enti, premi di produttività), visto che non promette sfracelli; e che il centro-sinistra giocasse l'arma totale dei licenziamenti, o quantomeno della mobilità non contrattata con i sindacati, vista l'ampiezza dei risparmi di spesa che promette (o minaccia).

Ma soprattutto mi sarei aspettato una maggiore attenzione alla complessità tecnica e politica di un'operazione di contenimento della spesa pubblica. Le stime più prudenti degli sprechi nella Pubblica Amministrazione suggeriscono che, a parità di servizi erogati, i risparmi possibili si aggirano intorno agli 80 miliardi di euro l'anno: un risultato che indubbiamente dà qualche sostegno alla vena efficientista di Veltroni. Per risparmi possibili, però, si intende quelli che si otterrebbero se tutti i territori si adeguassero alle pratiche organizzative dei territori più virtuosi. Di qui il problema: come si fa a «costringere» un territorio inefficiente a spendere di meno senza ridurre i servizi? Se accettiamo la domanda, è difficile non rispondere alla Tremonti: obiettivi di risparmio territoriali (ossia diversi da luogo a luogo) implicano valutazione dei dirigenti pubblici sulla base dei risultati, ma anche piena libertà - per i dirigenti stessi - di riorganizzare alla radice il lavoro dei dipendenti.

Tutto ciò, è inutile nasconderlo, significa mobilità non contrattata, premi individuali, ridimensionamento del potere sindacale. E naturalmente significa concentrare la maggior parte dei tagli sulle regioni meridionali, visto che il grosso degli sprechi è concentrato lì. Sono pronti gli italiani per un simile passo?

Berlusconi e Tremonti sembrano pensare di no, e si apprestano quindi ad agire in modo graduale, anche se geograficamente selettivo: penalizzare i territori spreconi, però poco per volta. Veltroni, invece, sembra pensare di sì (yes, we can...), ma forse non ha fatto bene i suoi conti. Se tagliasse 15 miliardi di spesa pubblica l'anno in modo equo, ossia colpendo principalmente il Sud, si troverebbe a fronteggiare i blocchi stradali (come capitò a Berlusconi con i forestali della Calabria). Se tagliasse 15 miliardi l'anno in modo iniquo, ossia colpendo indiscriminatamente regioni virtuose e regioni sprecone, ridarebbe fiato alle spinte separatiste delle regioni del Nord. Insomma, la mia impressione è che «abrogare il ’68» nella Pubblica Amministrazione sia (forse) fin troppo se ci accontentiamo di risparmiare 5 miliardi l'anno, ma sia il minimo necessario se ne vogliamo risparmiare 15. Altrimenti, il rischio è che i territori cui vengono imposti i tagli più severi, anziché riorganizzarsi per spendere di meno, non trovino di meglio che ridurre i servizi erogati. Il che sarebbe il colmo, visto il basso livello di partenza di molti di tali servizi e l'incompletezza del nostro Stato sociale.

Anche se la vittoria del Pd è improbabile, forse un chiarimento su questo punto non guasterebbe. Così, giusto per avere un'idea più concreta di quel che ci aspetta.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Sondaggi e "partiti maledetti"
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 02:16:33 pm
17/4/2008
 
Sondaggi e "partiti maledetti"
 
LUCA RICOLFI

 
Il risultato elettorale ha preso alla sprovvista un po’ tutti, ma fra i cosiddetti osservatori - giornalisti, commentatori, studiosi, sondaggisti - lo sgomento è particolarmente acuto. Possibile che nessuno avesse intuito che cosa bolliva nella pentola della società italiana? Come mai, a due soli anni dalla catastrofe del 2006, la maggior parte degli exit-poll e dei sondaggi non sono riusciti a prevedere il risultato finale?

Ma soprattutto: perché, nelle previsioni, la sinistra è spesso sopravvalutata e la destra sottovalutata? Nel 2006 i sondaggi prevedevano una comoda vittoria di Prodi, mentre il risultato è stato un pareggio quasi perfetto. Nel 2008 i sondaggi degli ultimi giorni prevedevano una vittoria risicata di Berlusconi, o addirittura un pareggio, mentre il risultato finale è stato un trionfo della destra. Perché?

La risposta più onesta è che non lo sappiamo, e possiamo solo fare delle congetture. Fra le molte ragioni che possono aver determinato questi due scacchi consecutivi, tuttavia, ve n’è una che a me pare più importante delle altre. Gli psicologi sociali la chiamano «desiderabilità sociale», Marcello Veneziani parecchi anni fa parlò - più crudamente - di «razzismo etico». In breve si tratta di questo: quando una persona viene intervistata le sue risposte non sono influenzate solo da quel che l’intervistato pensa, ma anche da quel che l’ambiente intorno a lui gli suggerisce di pensare. Proprio così. La società, il gruppo di riferimento, i media definiscono continuamente ciò che è bene, ciò che è appropriato, ciò che è corretto, ciò che è «in». Simmetricamente definiscono ciò che è male, ciò che è inappropriato, ciò che è scorretto, ciò che è «out». Se in una società le istituzioni richiamano continuamente determinati valori (ad esempio la solidarietà) e stigmatizzano sistematicamente determinati atteggiamenti (ad esempio l’ostilità verso gli immigrati), una parte degli intervistati preferisce non rivelare le proprie preferenze se esse sembrano confliggere con ciò che è considerato socialmente desiderabile.

Che centra tutto questo con il voto di domenica? C’entra, ma bisogna far intervenire nel discorso il razzismo etico. Una parte della società italiana è afflitta da razzismo etico, nel senso che considera moralmente inferiore chi vota per forze politiche cui essa - la parte sana del Paese - non riconosce piena legittimità democratica. Specie fra coloro che esercitano professioni artistiche o intellettuali dichiararsi di destra, o peggio votare un partito come la Lega, o Forza Italia, o la Destra provoca imbarazzo, sdegno, costernazione, incredulità. Di fronte a certe persone, confessare di aver insidiato una bambina è meno imbarazzante che confessare di aver votato per il partito di Calderoli.

Questo sentimento di disapprovazione non è quasi mai esplicito, ma genera un clima che definirei di intimidazione dolce. Tutti possono dire e fare quel che vogliono, ma sanno anche che - in molti contesti - saranno giudicati severamente se confesseranno di aver votato determinati partiti. In breve, c’è una parte del Paese che si sente nella posizione di giudicare gli altri, e c’è una parte del Paese che - proprio per questo - si sente permanentemente sotto esame. In questo diabolico meccanismo è caduto persino Veltroni, che pure aveva fatto del rispetto dell’avversario una delle novità fondamentali della sua campagna elettorale: qualche giorno prima del voto, sfidando Berlusconi a sottoscrivere quattro principi di «lealtà repubblicana», si è posto nella posizione di chi, in quanto depositario del bene, si sente autorizzato a fornire patenti di legittimità democratica all’avversario politico (da questo punto di vista le posizioni girotondine appaiono molto più coerenti, o meno insincere: chi pensa che Bossi e Berlusconi siano due pericoli mortali per la democrazia, giustamente considera un errore politico la linea del pieno rispetto dell’avversario).

Può sembrare incredibile, ma le ricerche degli studiosi dimostrano che - quando è intervistata - la gente si vergogna di un sacco di cose, comprese le più innocenti (ad esempio guardare parecchia televisione). Del resto ce l’aveva già spiegato Altan molti anni fa, con la famosa vignetta in cui il militante di sinistra confessa a se stesso: «A volte mi vengono delle idee che non condivido». Se le cose stanno così, il fallimento dei sondaggi diventa meno inspiegabile. Nella cultura italiana i luoghi comuni della sinistra «politicamente corretta» sono diffusi in modo leggero ma capillare. Per molti cittadini progressisti o illuminati se voti Forza Italia come minimo sei un affarista, un mafioso, o un abbindolato. Se voti Lega sei una persona rozza, egoista e intollerante. Se voti i post-fascisti non hai diritto di sedere al desco dei veri democratici. Se sei di sinistra e ti capita di comprare il Giornale ti guardano come se avessi acquistato un rotocalco pornografico (è successo a me).

Insomma, non è sempre e ovunque così ma lo è spesso, specie nei luoghi che contano. Molti elettori di destra se ne infischiano, ma una parte non trascurabile di essi preferisce tenere coperte le proprie carte. Sul lavoro, nelle cene, al bar, ma anche nei sondaggi. Se pensi di votare un partito «democratico» o pienamente sdoganato non hai seri timori a rivelare la tua scelta, ma se hai in animo di votare un «partito maledetto» - ossia un partito di cui i «sinceri democratici» dicono tutto il male possibile - puoi essere tentato di non scoprirti, magari dichiarandoti indeciso, o astensionista, o sostenitore di un partito né carne né pesce (è per questo che, in passato, i Verdi erano sempre sopravvalutati nei sondaggi). Qualche anno fa mi è capitato di scrivere, anche sulla base di una analisi degli atteggiamenti dell’elettorato italiano, che il «complesso dei migliori» era una delle grandi malattie della cultura di sinistra. Il fatto che ancor oggi tante persone preferiscano non rivelare il loro voto quando esso si indirizza verso i «partiti maledetti» mi fa pensare che, nonostante Veltroni (o grazie a lui?), da quella malattia l’Italia non sia ancora uscita.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. Il loft e il Paese
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2008, 12:12:31 pm
25/4/2008
 
Pd, macchè rimonta
 
LUCA RICOLFI

 
Se fra uno o due anni si tornasse a votare, non mi stupirei che l’Udc sparisse, la sinistra estrema tornasse in Parlamento, e il Pd perdesse fra il 5 e il 10% dei suoi consensi attuali. Sto scherzando, naturalmente, perché chissà quante cose saranno successe nel frattempo. Ma queste tre finte profezie mi aiutano a dire che cosa, secondo me, si nasconde negli ultimi risultati elettorali. L’Udc, è vero, è riuscita a restare in Parlamento, ma nel valutare il suo risultato si dimentica che - lista di Giuliano Ferrara a parte - votare Udc era l’unico modo che i cattolici avevano a disposizione per esprimersi: nel 2006 c’erano anche l’Udeur, la Dc di Rotondi, la Margherita.

Già oggi gli elettori che hanno votato Udc sia nel 2006 sia nel 2008 sono meno del 4% dei votanti, cui si aggiunge un 2% scarso di transfughi da altri partiti, cattolici e non: se il bipolarismo Pd-Pdl dovesse rafforzarsi, e inoltre l’Udc dovesse risultare tagliata fuori dai giochi di governo, è verosimile che molti elettori cattolici tornino a scegliere fra i due poli principali, per non disperdere il proprio voto. Diversa è la situazione dell’estrema sinistra. A mio parere essa finirà per restare fuori del Parlamento, ma solo perché è guidata da persone del tutto prive di senso comune, e non perché gli elettori di sinistra siano scomparsi come i dinosauri. Già oggi la sinistra estrema - sommando Sinistra Arcobaleno e formazioni minori - raccoglie oltre il 4% dei voti, mentre un altro 2% o 3% potrebbe tornare all’ovile, dopo essere stato inutilmente sacrificato sull’altare del Pd per «sconfiggere Berlusconi».

In breve: se restasse tutta unita, e fosse guidata da una persona normale (non satura di ideologia), la sinistra estrema potrebbe tornare in Parlamento e - aggiungo io - farebbe anche del bene alla nostra democrazia.

Resta il Pd. Capisco che i suoi dirigenti non possano che ripetere quel che ripetono: il Pd ha suscitato entusiasmo e speranze, la nostra rimonta è stata formidabile, il risultato finale è buono, in così poco tempo non si poteva fare di più, eccetera eccetera (curioso, comunque, dopo mesi di slogan come «yes we can», o «si può fare»). Però ora abbiamo i dati delle elezioni politiche, i risultati di alcune consultazioni amministrative, le stime dei flussi elettorali. Ebbene, se analizzati con cura quei dati tracciano un quadro un po’ diverso da quello ottimistico che molti vi hanno voluto vedere (eccezione importante, un articolo di Roberto Gualtieri sul Riformista). Primo. L’arretramento della sinistra nel suo insieme è drammatico. Il distacco fra destra e sinistra, che era pari a zero nel 2006, in soli due anni è salito a quasi 11 punti, ed è oggi molto maggiore di quello del 2001, quando Berlusconi stravinse le elezioni (allora il distacco era dell’ordine di 2-5 punti, a seconda del metodo di calcolo). Tanti elettori di sinistra hanno votato a destra, pochi elettori di destra hanno votato a sinistra.

Secondo. Della famosa super-rimonta di Veltroni non c’è traccia nei sondaggi della campagna elettorale, che talora segnalano un piccolo recupero, talaltra segnalano addirittura un lieve arretramento. Terzo. Secondo le analisi di flusso, che misurano gli spostamenti effettivi (fra 2006 e 2008), il Pd è riuscito ad attirare da destra a sinistra solo l’1,5% dei voti, per lo più sottraendoli ad An, mentre è parzialmente riuscito nell’opera di «cannibalizzazione» delle altre formazioni di sinistra, estrema e non. Quarto. Se si tiene conto che il Pd, oltre a Ds e Margherita, ha incorporato sotto il proprio simbolo i radicali, i voti del Pd nel 2008 sono di pochi decimali al di sopra di quelli del 2006. Quinto. Sottraendo i voti presi in prestito alla Sinistra Arcobaleno, il risultato del Pd nel 2008 risulta decisamente peggiore di quello del 2006 (-2,8), e ciò vale sia al Nord, sia al Centro, sia al Sud: al netto del «soccorso rosso», il «valore aggiunto» del Pd pare dunque negativo (con tre eccezioni: la circoscrizione Lazio 1, la Basilicata, la Puglia). Ecco perché penso che, se si votasse oggi, il Pd perderebbe colpi e si attesterebbe intorno al 30% (il valore storico del vecchio Pci), mentre la Sinistra Arcobaleno potrebbe anche tornare in Parlamento: per determinare questo esito, infatti, basterebbe che la metà di quanti hanno prestato il loro voto per «fermare Berlusconi» ritirassero il prestito, e decidessero di impiegarlo per garantire la sopravvivenza di una lista di estrema sinistra.

Si potrebbe concludere che la vittoria di Berlusconi è stata un trionfo, e che il «buon risultato» di Veltroni in realtà nasconde una disfatta. C’è una piccola complicazione, però. I sondaggi degli ultimi mesi segnalano piuttosto chiaramente che la fiducia dell’elettorato di centro-destra in Berlusconi è sempre rimasta decisamente bassa, più o meno ai livelli cui era scesa alla fine del quinquennio 2001-2006. Ciò significa che il repentino e massiccio «spostamento a destra» che appare dai risultati elettorali (oltre 10 punti rispetto al 2006) non è il frutto dell’ennesimo innamoramento degli italiani per Berlusconi, bensì del fatto che il messaggio di Veltroni è risultato ancora meno credibile di quello del suo «principale competitore». Ci sarà tutto il tempo per capire come mai un popolo non certo entusiasta di Berlusconi ha preferito affidarsi per la terza volta a lui piuttosto che mettersi nelle mani di Veltroni. Per riuscire nell’intento, tuttavia, occorrerà dismettere del tutto la retorica dell’autoconsolazione, e cominciare a guardare in faccia i due dati fondamentali del voto del 13 aprile: il risultato della sinistra è stato un disastro, il «valore aggiunto del Pd» resta un teorema in attesa di dimostrazione.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. Il loft e il Paese
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2008, 11:38:21 pm
30/4/2008
 
Il loft e il Paese
 

 
LUCA RICOLFI
 
La cosa che più colpisce, in questi giorni, non è quel che si dice sulle cause della doppia disfatta Veltroni-Rutelli, ma lo stupore con cui se ne parla. Non si può dire che la sconfitta fosse perfettamente prevedibile, ma sembra che le sue dimensioni abbiano preso un po’ tutti alla sprovvista, come se politici, giornalisti, commentatori, studiosi non si fossero accorti di quel che passava per la testa della gente.

Tale stato d’animo degli osservatori rischia di portare fuori strada nella ricerca delle ragioni di questo improvviso ribaltamento degli orientamenti politici dei cittadini. Chi è stupito va a caccia di cause nascoste, sottili, difficilmente visibili a occhio nudo. C’è chi dice che Veltroni avrebbe copiato Berlusconi, inducendo gli elettori a snobbare la copia e preferire l’originale. C’è chi dice che Rutelli avrebbe strizzato l’occhio ai preti, e troppo disdegnato i temi laici: il consiglio è di fare come Zapatero. C’è chi invoca l’effetto band wagon: da sempre gli italiani hanno il vizio di saltare sul carro del vincitore. C’è chi, in modo vagamente tautologico, invoca un generico «vento di destra»: l’Italia va a destra perché così soffia il vento. C’è chi, infine, si rammarica che solo Berlusconi sappia «interpretare la pancia del Paese»: a quanto pare quando vince la destra è la pancia che parla, quando vince la sinistra è la testa che ragiona.

Ma forse, più semplicemente, abbiamo trascurato due fatti macroscopici, che non hanno attirato su di sé l’attenzione proprio per la loro ovvietà ed evidenza. Il primo fatto macroscopico è il discredito del governo Prodi, legato all’indulto, all’esplosione della criminalità, agli aggravi fiscali e burocratici, al drammatico aumento delle famiglie in difficoltà (+57% negli ultimi 12 mesi). A quanto pare i dirigenti del Pd non si sono resi conto di quel che la gente ha passato negli ultimi due anni. Naturalmente gli sbagli del governo non sono l’unica causa delle sofferenze e delle paure degli italiani, ma ignorarne la portata è stato una imperdonabile leggerezza politica. Giusto o sbagliato che fosse, dopo due anni di governo dell’Unione gli italiani sentivano il bisogno di voltar pagina: come si poteva pensare che si affidassero a chi instancabilmente ripeteva che quel governo aveva ben operato?

Il secondo fatto macroscopico è in realtà un non fatto, ovvero una clamorosa omissione. La sinistra italiana, a differenza della sinistra inglese a metà degli Anni 90, non ha ancora voluto compiere la sua rivoluzione antisnob, ossia quel percorso di rottura con il mondo dei salotti che - secondo Klaus Davi - fu una delle carte vincenti con cui Tony Blair riuscì a resuscitare il consunto Labour Party, riavvicinandolo alla gente comune e riportandolo al governo del Paese dopo il lungo regno della Thatcher (Di’ qualcosa di sinistra, Marsilio, 2004). Omissione curiosa, visto che - sul piano comunicativo - il primo problema della sinistra italiana è la sua immagine elitaria e anti-popolare, il suo presentarsi come una squadra di autocrati illuminati, di seriosi e impermeabili custodi del bene.

Di questa drammatica distanza dalla sensibilità popolare, di questo deficit di radici sociali, Veltroni è parso del tutto ignaro. Cercando di conciliare tutto e tutti, nascondendo sistematicamente le difficoltà in cui il governo uscente aveva cacciato il Paese, pensando di maneggiare con semplici esercizi verbali la protesta delle regioni più operose, Veltroni ha mostrato di non aver capito né quanto profondamente il governo Prodi avesse diviso l’Italia, né quanto i simboli del Palazzo e della politica romana siano invisi alla gente comune (era proprio il caso di chiamare Loft la nuova sede del Partito democratico? E di chiamare «caminetti» le riunioni dei dirigenti che contano?).

Con l’immagine salottiera e poco ruspante che la sinistra post-berlingueriana si ritrova addosso, con la sua mancanza di radicamento nel territorio, con la sua distanza culturale dalle regioni del Nord, presentarsi alle elezioni con un candidato premier che è la quintessenza del bel mondo di Roma, delle sue terrazze e dei suoi salotti, era già un azzardo notevole. Non rendersi conto dell’azzardo, e non prendere alcuna contromisura compensatrice, è stata un’incomprensibile follia.

Qualcuno, già me lo sento, dirà che la politica seria è un’altra cosa, e che è da qualunquisti rimproverare a Bertinotti le frequentazioni mondane, o ai dirigenti del Pd di riunirsi davanti a un caminetto, in un appartamento che amano chiamare il Loft. È vero, quel che conta è capire la realtà, e se ti riesce meglio davanti a un caminetto non c’è niente di male. Il punto, però, è che questi signori il contatto con la realtà sembrano averlo perso completamente. A forza di parlarsi tra loro non sanno più in che Paese vivono. Se la gente li vede come una casta, non è tanto per i loro privilegi, ma perché i loro simboli sono quelli di un mondo inarrivabile e separato, lontano mille miglia dal mondo di tutti noi.
 
DA lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI Voti del Sud
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2008, 05:10:36 pm
29/5/2008
 
Un lungo cammino
 
 
LUCA RICOLFI

 
Non è certo nuovo il quadro che l’Istat traccia nel suo Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2007. Non è nuova, in particolare, l’analisi che denuncia le difficoltà economiche delle famiglie, il cui tenore di vita è sicuramente peggiorato in relazione a quello medio europeo, ma probabilmente anche in assoluto: un trend, quello del deterioramento del potere di acquisto, che le statistiche dell’inflazione rendono invisibile ma è invece decisivo per capire la gravità della sofferenza economica delle famiglie italiane (come mai le statistiche sottostimino l’inflazione lo aveva spiegato diversi anni fa il professor Campiglio, purtroppo inascoltato).

Quel che rende interessante il Rapporto, però, è soprattutto il momento in cui esce, ovvero all’inizio di una nuova legislatura, con un governo appena insediato e che probabilmente resterà in sella per cinque anni. Discutere dello stato dell’Italia in questo momento, in altre parole, significa chiedersi da che lato il nuovo esecutivo vorrà e potrà affrontare i problemi che da anni ci affliggono. Ho detto vorrà e «potrà» perché l’esperienza insegna che l’azione effettiva di un governo dipende sia dalla sua determinazione sia dalle resistenze e aspettative che incontra.

E ho l’impressione che, di resistenze e aspettative, questo governo ne incontrerà parecchie.

Ci sono, tanto per cominciare, le organizzazioni sindacali e i lavoratori da esse rappresentati. Qui si annuncia burrasca, perché due anni di fantasie su extra-gettito, tesoretto, risorse da distribuire hanno convinto molti che ci siano i margini per un aumento generalizzato di salari, stipendi e pensioni. Purtroppo non è così, i conti pubblici del 2008 non sono molto migliori di quelli del 2006 e anzi potrebbero peggiorare ulteriormente quando il gettito fiscale comincerà a risentire del rallentamento dell’economia, e inoltre il governo dovrà reperire i 6-7 miliardi necessari per coprire le spese aggiuntive «dimenticate» nell’ultima Finanziaria. A quel punto qualsiasi cosa desideri fare il governo (contratto degli statali, investimenti pubblici, detassazioni) le risorse dovrà cercarle eliminando inefficienze e sprechi della Pubblica amministrazione, con conseguenti levate di scudi dei dipendenti toccati da razionalizzazioni e tagli (una prima avvisaglia l’abbiamo avuta ieri stesso, con la decisione della Cgil e di un sindacato di base di disertare l’incontro con il ministro Brunetta).

Ma ci sono anche le imprese e le loro organizzazioni. Qui il problema non sono le resistenze delle categorie, ma semmai le loro aspettative sbagliate. Una lunga storia fatta di rapporti privilegiati con il potere politico le ha rese più inclini a puntare su benefici particolaristici che su regole e incentivi di tipo universalistico. Salvataggi, cassa integrazione, mobilità lunga, rottamazioni, agevolazioni settoriali, commesse pubbliche sono entrate nella forma mentis di molti imprenditori, mentre la battaglia semplice e limpida per un fisco meno oppressivo è stata combattuta più nelle ovattate sale degli uffici studi e delle conferenze stampa che nell’arena, aspra e difficile, della contrattazione con il governo e le parti sociali. Un’attitudine, quella di contrattare sui benefici settoriali più che sulle regole, che ha sempre trovato una sponda nella vocazione assistenziale dei governi di ogni colore politico e ha finito per danneggiare gravemente soprattutto il sistema delle piccole imprese. Ci sono, infine, i giovani e le loro famiglie, cui nessun politico pare intenzionato a rivelare che se la produttività del nostro Paese cresce tanto più lentamente di quella degli altri Paesi europei è anche perché lo stato dell’istruzione effettiva in Italia è drammatico: siamo agli ultimi posti nella percentuale di diplomati e laureati, ma siamo agli ultimi posti anche nei risultati ai test «Pisa», dove i nostri studenti vengono sistematicamente scavalcati dai loro coetanei europei. La distruzione della scuola e dell’università, durata trent’ anni ma portata a una perfezione mirabile nell’ultimo decennio, ci ha consegnato un handicap da cui è impensabile liberarci in meno di una generazione.

Vedremo come il governo saprà muoversi di fronte a questo intrico di ritardi, di storture e - perché no - anche di abitudini mentali dei cittadini. Ma credo che la condizione senza la quale non faremo un passo sia di renderci conto che di passi ne dovremo fare davvero molti, e che nessuno di essi potrà essere un salto, né potrà dare risultati immediati. Ha fatto bene il governo a intervenire sui mutui e sugli straordinari, ma ha fatto ancora meglio a non presentare tali provvedimenti (sicuramente più utili di quello sull’Ici) come portatori di cambiamenti decisivi nella vita delle famiglie. Fa male, anzi malissimo, chiunque fomenta l’idea che vi siano risorse nascoste o facilmente scongelabili, e che il tenore di vita degli italiani possa cambiare significativamente in meno di un decennio. Dopo anni di dissipazione, superficialità e incoscienza, quel che abbiamo di fronte è un cammino decisamente lungo, in cui dovremo fare qualche sacrificio, abbandonare qualche abitudine, esporci a qualche rischio. Meglio rendersene conto subito che cullarci (e lasciarci cullare) nell’ennesima illusione.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI Un lungo cammino
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2008, 11:26:33 pm
29/5/2008
 
Un lungo cammino
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Non è certo nuovo il quadro che l’Istat traccia nel suo Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2007. Non è nuova, in particolare, l’analisi che denuncia le difficoltà economiche delle famiglie, il cui tenore di vita è sicuramente peggiorato in relazione a quello medio europeo, ma probabilmente anche in assoluto: un trend, quello del deterioramento del potere di acquisto, che le statistiche dell’inflazione rendono invisibile ma è invece decisivo per capire la gravità della sofferenza economica delle famiglie italiane (come mai le statistiche sottostimino l’inflazione lo aveva spiegato diversi anni fa il professor Campiglio, purtroppo inascoltato).

Quel che rende interessante il Rapporto, però, è soprattutto il momento in cui esce, ovvero all’inizio di una nuova legislatura, con un governo appena insediato e che probabilmente resterà in sella per cinque anni. Discutere dello stato dell’Italia in questo momento, in altre parole, significa chiedersi da che lato il nuovo esecutivo vorrà e potrà affrontare i problemi che da anni ci affliggono. Ho detto vorrà e «potrà» perché l’esperienza insegna che l’azione effettiva di un governo dipende sia dalla sua determinazione sia dalle resistenze e aspettative che incontra.

E ho l’impressione che, di resistenze e aspettative, questo governo ne incontrerà parecchie.

Ci sono, tanto per cominciare, le organizzazioni sindacali e i lavoratori da esse rappresentati. Qui si annuncia burrasca, perché due anni di fantasie su extra-gettito, tesoretto, risorse da distribuire hanno convinto molti che ci siano i margini per un aumento generalizzato di salari, stipendi e pensioni. Purtroppo non è così, i conti pubblici del 2008 non sono molto migliori di quelli del 2006 e anzi potrebbero peggiorare ulteriormente quando il gettito fiscale comincerà a risentire del rallentamento dell’economia, e inoltre il governo dovrà reperire i 6-7 miliardi necessari per coprire le spese aggiuntive «dimenticate» nell’ultima Finanziaria. A quel punto qualsiasi cosa desideri fare il governo (contratto degli statali, investimenti pubblici, detassazioni) le risorse dovrà cercarle eliminando inefficienze e sprechi della Pubblica amministrazione, con conseguenti levate di scudi dei dipendenti toccati da razionalizzazioni e tagli (una prima avvisaglia l’abbiamo avuta ieri stesso, con la decisione della Cgil e di un sindacato di base di disertare l’incontro con il ministro Brunetta).

Ma ci sono anche le imprese e le loro organizzazioni. Qui il problema non sono le resistenze delle categorie, ma semmai le loro aspettative sbagliate. Una lunga storia fatta di rapporti privilegiati con il potere politico le ha rese più inclini a puntare su benefici particolaristici che su regole e incentivi di tipo universalistico. Salvataggi, cassa integrazione, mobilità lunga, rottamazioni, agevolazioni settoriali, commesse pubbliche sono entrate nella forma mentis di molti imprenditori, mentre la battaglia semplice e limpida per un fisco meno oppressivo è stata combattuta più nelle ovattate sale degli uffici studi e delle conferenze stampa che nell’arena, aspra e difficile, della contrattazione con il governo e le parti sociali. Un’attitudine, quella di contrattare sui benefici settoriali più che sulle regole, che ha sempre trovato una sponda nella vocazione assistenziale dei governi di ogni colore politico e ha finito per danneggiare gravemente soprattutto il sistema delle piccole imprese. Ci sono, infine, i giovani e le loro famiglie, cui nessun politico pare intenzionato a rivelare che se la produttività del nostro Paese cresce tanto più lentamente di quella degli altri Paesi europei è anche perché lo stato dell’istruzione effettiva in Italia è drammatico: siamo agli ultimi posti nella percentuale di diplomati e laureati, ma siamo agli ultimi posti anche nei risultati ai test «Pisa», dove i nostri studenti vengono sistematicamente scavalcati dai loro coetanei europei. La distruzione della scuola e dell’università, durata trent’ anni ma portata a una perfezione mirabile nell’ultimo decennio, ci ha consegnato un handicap da cui è impensabile liberarci in meno di una generazione.

Vedremo come il governo saprà muoversi di fronte a questo intrico di ritardi, di storture e - perché no - anche di abitudini mentali dei cittadini. Ma credo che la condizione senza la quale non faremo un passo sia di renderci conto che di passi ne dovremo fare davvero molti, e che nessuno di essi potrà essere un salto, né potrà dare risultati immediati. Ha fatto bene il governo a intervenire sui mutui e sugli straordinari, ma ha fatto ancora meglio a non presentare tali provvedimenti (sicuramente più utili di quello sull’Ici) come portatori di cambiamenti decisivi nella vita delle famiglie. Fa male, anzi malissimo, chiunque fomenta l’idea che vi siano risorse nascoste o facilmente scongelabili, e che il tenore di vita degli italiani possa cambiare significativamente in meno di un decennio. Dopo anni di dissipazione, superficialità e incoscienza, quel che abbiamo di fronte è un cammino decisamente lungo, in cui dovremo fare qualche sacrificio, abbandonare qualche abitudine, esporci a qualche rischio. Meglio rendersene conto subito che cullarci (e lasciarci cullare) nell’ennesima illusione.

 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI Non solo veline
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2008, 06:41:48 pm
3/7/2008
 
Non solo veline
 
 
LUCA RICOLFI
 

La luna di miele fra l’Italia e il governo sta volgendo al termine. Non c’è bisogno di fare sondaggi per accorgersene: chi ha votato a sinistra pensa di aver fatto l’unica cosa possibile, mentre molti elettori di destra non nascondono la loro delusione e i loro dubbi. Eletto per occuparsi di noi, Berlusconi sembra preoccuparsi solo di sé: prima Rete 4, poi le intercettazioni, poi il processo Mills, poi il disegno di legge salva-premier, poi di nuovo le intercettazioni, i giornalisti, i magistrati.

Però non è così. Mentre noi ci godiamo il calcio e il reality delle attricette raccomandate il governo sta lavorando alacremente, e quel che sta facendo in questo periodo avrà conseguenze durature sulla nostra vita. Il governo ha approvato un decreto sulla sicurezza e un decreto fiscale, ha presentato il Documento di programmazione economico-finanziaria (Dpef), si appresta a varare anticipatamente la legge finanziaria. Inoltre ha deciso che questa volta la manovra non riguarderà solo l’anno a venire (2009), ma inciderà direttamente anche sugli anni successivi.

Che cosa ci riservano tutte queste iniziative? Spero di sbagliarmi, ma a occhio e croce direi che il governo sta silenziosamente tradendo le speranze di chi l’ha votato. Non tanto perché si appresta a varare l’ennesimo pacchetto di leggi ad personam (questo, colpevolmente, interessa poco gli italiani, e pochissimo gli elettori di centro-destra), ma perché più o meno esplicitamente sta facendo marcia indietro sui tre fronti che - appena tre mesi fa - lo avevano visto vincere la sfida con il centro-sinistra.

Il primo fronte sono le tasse. Ho letto attentamente il Dpef e con grande sorpresa ho scoperto che la pressione fiscale non diminuirà nemmeno entro il 2013, e sarà allora più o meno la medesima di oggi, appena ereditata da Prodi (circa il 43% del pil). In poche parole per i prossimi cinque anni le tasse non scenderanno, mentre in campagna elettorale il centro-destra aveva promesso di ridurle progressivamente al di sotto del 40% del Pil (almeno 50 miliardi di euro di tasse in meno, ai prezzi attuali). Coerentemente, il tasso di crescita dell’Italia previsto per i prossimi anni è modestissimo (meno dell’ 1,5%), e resta ampiamente al di sotto di quello dell’Eurozona. In materia di tasse l’unica luce che si intravede all’orizzonte è la semplificazione degli adempimenti fiscali, che speriamo possa procedere senza intoppi e produrre qualche effetto benefico.

Il secondo fronte è la sicurezza. Qui spiace fare la Cassandra, ma per cancellare il mio pessimismo qualcuno dovrebbe spiegarmi come si fa ad avere più giustizia e meno criminalità finché: a) si riducono le risorse alle forze dell’ordine; b) non si fanno investimenti massicci nell’edilizia carceraria; c) si limitano le intercettazioni senza conferire risorse economiche sostitutive; d) si vara una sospensione dei processi che diminuirà l’efficienza della giustizia (un punto rilevato da molti, ma magistralmente spiegato nei dettagli da Bruno Tinti qualche giorno fa su questo giornale).

L’ultimo fronte è la lotta agli sprechi. Non ho dubbi che ministri come Renato Brunetta (Funzione pubblica) e Mariastella Gelmini (Istruzione e università) siano armati delle migliori intenzioni, ma vorrei ricordare che il problema degli sprechi della Pubblica Amministrazione è concentrato in determinati territori (spesso al Sud, ma non solo), e che il ministro Tremonti aveva preso l’impegno di fissare obiettivi di risparmio geograficamente differenziati. Mi auguro di essere smentito, ma mi pare che finora il riferimento alle differenze regionali sia rimasto un po’ generico (si parla di una grande discussione d’autunno sul federalismo fiscale), e che anzi qualche volta si sia riaffacciato lo spettro del «metodo Gordon Brown», ossia di tagli generalizzati o proporzionali alla spesa storica.

Niente diminuzione delle tasse. Improbabile aumento della sicurezza. Scarsa riduzione degli sprechi. Questo mi sembra quel che rischiamo nei prossimi anni. E tutto perché, mentre su questo si decideva, eravamo concentrati tutti quanti su un solo sia pure importantissimo nodo politico: la 374esima puntata della serie tv «Io, le veline e i magistrati».

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. I democratici e la sindrome del rospo
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 09:27:16 am
20/7/2008
 
Guerra agli sprechi
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Tagli alla sanità. Tagli alla scuola. Tagli all’università. Tagli alla giustizia. Tagli alle forze dell’ordine. Tagli agli enti locali. La manovra per il triennio 2009-2011 che il governo sta completando in questi giorni sembra un bollettino di guerra. E come una guerra, infatti, la vivono gli interessi colpiti: le università protestano, medici e magistrati minacciano scioperi, i governatori litigano con il ministro dell’Economia, i sindaci si arrabbiano, i poliziotti manifestano contro il governo. Per le opposizioni è una pacchia: finalmente tutti in piazza. Alla manifestazione delle forze di polizia persino Di Pietro e Veltroni - giusto freschi di divorzio - si ritrovano di nuovo insieme, o «uniti nella lotta» come si diceva una volta.

Però c’è qualcosa che non torna. Prima delle elezioni Veltroni aveva promesso (o minacciato...) di ridurre la spesa pubblica a un ritmo di 15 miliardi l’anno, oggi il governo sta intervenendo a un ritmo un po’ più lento. In poche parole, il governo di centro-destra sta facendo meno di quel che il Partito democratico aveva intenzione di fare se avesse vinto le elezioni. Piacerebbe sapere se il Pd ha cambiato idea sui conti pubblici. O se Veltroni protesta perché - secondo lui - bisognerebbe tagliare ancora di più (ma allora perché manifesta con chi si oppone ai tagli?).

Si potrebbe obiettare che, in realtà, il Partito democratico non è contrario ai tagli in sé, ma vorrebbe che andassero a colpire gli sprechi e solo gli sprechi, lasciando invariati i servizi ai cittadini. Benissimo, ma allora non capisco perché, anziché indicare con precisione i settori su cui intervenire e gli strumenti per farlo, si preferisce cavalcare la protesta delle categorie colpite. Perché l’opposizione non dà battaglia sulla struttura dei tagli, anziché fomentare la naturale resistenza delle corporazioni toccate dalla manovra?

Dico questo perché, purtroppo, da questo punto di vista la manovra del governo di limiti ne ha molti. Andando all’osso, direi che il difetto di fondo della manovra è che inizia la guerra contro gli sprechi senza aver predisposto i mezzi per vincerla. Quindi, probabilmente, finirà per perderla, con vantaggio (immediato) per le opposizioni, e danno permanente per il futuro dell’Italia.

Per capire che cosa manca all’azione di governo bisogna prima fare un passo indietro e dire qualcosa sull’entità e la distribuzione degli sprechi. Una valutazione molto prudente degli sprechi della Pubblica Amministrazione suggerisce che essi siano pari ad almeno 80 miliardi di euro l’anno, ossia circa dieci volte i tagli previsti per il 2009 in tutti i ministeri. Tali sprechi, tuttavia, non sono distribuiti in modo uniforme né per funzione né - soprattutto - per territorio.

Non solo ci sono territori virtuosi e territori inefficienti, ma la graduatoria di efficienza cambia da settore a settore. Nella regione in cui abito (il Piemonte), ad esempio, ci sono pochi sprechi nella scuola, pochissime pensioni a falsi invalidi, ma grandi sprechi nella sanità. In altre regioni (ad esempio la Lombardia) gli sprechi sono al minimo in quasi tutti i settori. In altre ancora (ad esempio la Calabria) sono enormi un po’ in tutti i settori. Conclusione: le differenze fondamentali sono di natura territoriale, specie fra Centro-Nord e Mezzogiorno, ma a seconda degli ambiti la graduatoria degli sprechi può variare sensibilmente. Per aggredire le inefficienze della Pubblica Amministrazione occorrono dati di sfondo analitici e condivisi, e obiettivi di riduzione degli sprechi differenziati almeno per settore e per territorio. Sulla sanità, ad esempio, è perfettamente ragionevole che le regioni che hanno meglio amministrato pretendano premi (più risorse per investimenti) e non abbiano alcuna intenzione di pagare per i disastri delle regioni in dissesto.

Ma non basta. Anche se il governo avesse la capacità di localizzare con esattezza i punti di massimo spreco, resterebbe il problema di dare agli amministratori periferici - siano essi il governatore di una regione, il direttore di una Asl o il preside di una scuola - gli strumenti politici, amministrativi e giuridici per rimettere le cose a posto in un tempo ragionevole. Per fare un esempio: va bene imporre risparmi alle Università, magari non rimpiazzando tutti i professori che vanno in pensione, ma è iniquo imporre una regola uniforme su tutto il territorio, visto che ci sono università (relativamente) virtuose e università che hanno irresponsabilmente dilapidato le risorse pubbliche.

Queste cose molti ministri le sanno perfettamente, e le hanno spesso ripetute. Fu Tremonti, in campagna elettorale, a parlare di obiettivi di risparmio differenziati territorialmente. Ed è stato il medesimo Tremonti, pochi giorni fa alla Camera, a dire a proposito del futuro assetto federale: «Non partiamo dalla spesa storica, che contiene le distorsioni storiche». Così come si potrebbero citare innumerevoli interventi di Brunetta, Sacconi, Gelmini, Calderoli, che vanno nella medesima direzione. Il problema, però, è che un conto sono i principi, un conto è la loro traduzione concreta in leggi, norme, regolamenti, circolari. È su questo secondo piano che la manovra mi pare insoddisfacente, per non dire improvvisata.

Senza obiettivi di risparmio disaggregati per territorio e per settore, senza nuovi strumenti di governo della Pubblica Amministrazione, i tagli - specie quando intervengono sui consumi intermedi, dalle stampanti per i tribunali alla benzina per le volanti della polizia - rischiano di mettere altra sabbia negli ingranaggi di una macchina già fin troppo arrugginita e logora. Né si dica che, tanto, in autunno è in arrivo il federalismo: il problema è precisamente il raccordo (anche tecnico) fra manovra centrale e federalismo, sempre che quest’ultimo non si areni nelle secche delle discussioni parlamentari. La manovra c’è ma il suo impianto resta prevalentemente macro-economico, il federalismo le affiancherà micro-meccanismi territoriali (si spera) virtuosi, ma non è ancora nato.

Spero di sbagliarmi, ma la mia impressione è che - nonostante l’introduzione di alcuni incentivi e disincentivi, ad esempio in materia di sanità e di costi della politica - i tagli restino poco selettivi e i premi alle amministrazioni virtuose decisamente inadeguati, se non altro perché spesso non sono premi ma «sconti di pena» (minori tagli). Può sembrare soltanto una questione di «giustizia territoriale», ma non è così. Esaurite quasi del tutto le armi della politica monetaria e della politica fiscale, per far ripartire l’Italia ci resta una sola carta importante: rendere molto più efficiente la Pubblica Amministrazione, eliminando gli sprechi e solo gli sprechi. Solo così sarà possibile ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese, solo così sarà possibile completare lo stato sociale, dagli asili nido agli ammortizzatori sociali. E poiché gli sprechi variano enormemente da territorio a territorio, un po’ di «giustizia territoriale» è precisamente quel che ci serve.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. I democratici e la sindrome del rospo
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 10:56:33 am
27/7/2008 - SENZA OPPOSIZIONE
 
I democratici e la sindrome del rospo
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Forse è colpa del clima vacanziero, ma l’impressione è che stiamo diventando un Paese senza opposizione.
Nel giro di soli due mesi il governo è riuscito a intervenire sulla giustizia (lodo Alfano, sospendi-processi), sull’immigrazione e la sicurezza (impronte digitali, poteri ai sindaci, stato di emergenza), sulle tasse (Robin tax, soppressione dell’Ici), sulla spesa pubblica (manovra finanziaria). E, ora si scopre, anche sul precariato. In autunno si ripromette di intervenire sulle intercettazioni, sulla magistratura, sul federalismo, sui servizi pubblici locali, sullo Stato sociale (è di ieri la pubblicazione del Libro verde sulla «vita buona» del ministro Sacconi). Berlusconi si è liberato dei magistrati e, con i suoi ministri più attivi, sta per rivoltare l’Italia come un calzino. E il principale partito di opposizione che fa? Il Partito democratico sembra affetto dalla sindrome del rospo. Avete presente il rospo, che resta fermo e immobile mentre il bimbo lo prende a sassate? E più viene colpito più si pietrifica, tentando (invano) di rendersi invisibile?

Non c’è atto del governo che non susciti il dissenso o la preoccupazione del partito di Veltroni, ma ciononostante il massimo di opposizione che il Pd riesce a immaginare è una «grande manifestazione» in autunno, quando tutti i buoi saranno scappati dalle stalle. Nel frattempo, non passa giorno senza che qualche esponente del partito di Di Pietro, dei girotondi, della «società civile» o di qualche minoranza interna dello stesso Pd non riversi la sua ira e la sua amarezza sulla non conduzione politica del nuovo (?) partito. La gente di sinistra si chiede dove la stia portando Veltroni, e la risposta che si sente ripetere è la solita: noi non siamo giustizialisti, né moralisti, né massimalisti, noi siamo riformisti e la nostra opposizione è seria e responsabile. Ma è davvero così?

Secondo me no, l’opposizione del Pd non è seria bensì inesistente. Se fosse seria dovremmo osservare cose che invece non accadono, e non dovrebbero accadere cose che invece osserviamo. Fra le cose che ci piacerebbe osservare c’è, ad esempio, la costruzione di un partito davvero nuovo. E’ mai possibile che, dopo aver affermato di non volere i voti della mafia, dopo avere invocato fino alla noia l’esigenza di rinnovare la politica, di restituirle moralità e purezza di intenti (ricordate i discorsi alati sulla «bella politica»?), Veltroni non abbia mai pensato di cominciare a fare un po’ di repulisti in casa propria? Non voglio togliere a Marco Travaglio il suo mestiere, e quindi non elencherò le decine e decine di casi, individuali e collettivi, nei quali esponenti di Ds e Margherita sono tristemente coinvolti in brutte storie di corruzione, affarismo, clientelismo, mala sanità, pessima amministrazione. Mi limito a poche e semplici domande: possibile che il nuovo partito non senta anche sulla propria pelle il bruciore della questione morale? O basta a consolarlo il fatto che i partiti di centro-destra abbiano ancora più inquisiti e condannati ? E’ mai possibile che, anziché prendere solennemente le distanze dalle molte storie di cattiva politica che coinvolgono il Pd, si stia discutendo se salvare Bassolino dai suoi guai giudiziari con un seggio al Parlamento europeo? Possibile che non ci si renda conto che la magistratura tende a esondare dai suoi limiti anche perché la politica non fa nulla per autocorreggersi?

Ma supponiamo per un attimo che queste siano domande ingenue, dettate da moralismo o «dipietrismo latente». Veniamo alla politica vera, quella che si occupa di riforme, economia, Stato sociale, sicurezza. Qui, più che le omissioni, è quel che osserviamo che lascia interdetti. Il Partito democratico per ora non vuole scendere in piazza, ma in compenso non manca di dare la sua solidarietà a tutte le categorie in lotta contro la manovra finanziaria, un po’ come Alleanza nazionale due anni fa, quando aizzava i taxisti contro il ministro Bersani. La critica principale del governo ombra alla manovra è che ci sono troppi tagli, mentre non c’è nulla per salari, stipendi, pensioni, quando proprio la crisi economica suggerirebbe politiche anticicliche, di sostegno ai redditi delle famiglie.

Incredibile. Il partito di Veltroni, che pure aveva provato a prendere le distanze dal governo Prodi, finge irresponsabilmente che due anni di centro-sinistra abbiano lasciato al governo entrante un margine (extragettito, o tesoretto) per aumentare i redditi fissi, e così alimenta le illusioni di famiglie e sindacati. Critica la manovra non per la struttura dei tagli alla spesa pubblica, ma per la loro entità, sorvolando sul fatto che in campagna elettorale il Pd aveva promesso tagli ancora più pesanti. Sostiene che le riforme vadano fatte con le categorie interessate, ma dimentica che, se una parte delle resistenze al cambiamento è guidata da preoccupazioni del tutto ragionevoli, un’altra parte è puramente corporativa, ossia dettata dalla difesa di abusi, storture e privilegi.

E dire che di critiche riformiste e costruttive alla linea del governo vi sarebbe un immenso bisogno. Non solo sul versante delle mancate o troppo timide liberalizzazioni, ma sul terreno fondamentale della riduzione e ricomposizione della spesa pubblica. Qui il problema vero è che i tagli finora varati dal governo non sono abbastanza selettivi: nonostante alcune lodevoli eccezioni, molti di essi colpiranno troppo le amministrazioni più virtuose e non colpiranno abbastanza quelle più dissennate. Un vero partito riformista non cavalcherebbe demagogicamente la protesta delle categorie, ma premerebbe sull’esecutivo per rendere i tagli più profondi e più giusti, nonché per usare al meglio le risorse così liberate: abbiamo un disperato bisogno di asili nido, ammortizzatori sociali, politiche contro la povertà.

Ma una linea del genere richiederebbe forse una dose eccessiva di onestà intellettuale: al partito nuovo spetterebbe anche riconoscere di aver sbagliato negli anni scorsi quando, per tenere in piedi un governo paralizzato dai suoi contrasti interni, i dirigenti di Ds e Margherita permisero a Prodi e Padoa-Schioppa di sprecare l’unica vera occasione - la congiuntura favorevole del 2006-2007 - per incidere davvero sulla voragine della spesa pubblica. Se lo si fosse fatto allora, oggi il deficit sarebbe più vicino a zero che al limite del 3%, e l’invocazione di misure a sostegno delle famiglie suonerebbe meno ipocrita.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. Le anatre zoppe
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2008, 12:18:28 pm
3/8/2008
 
Le anatre zoppe
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
E’ stata, quest’ultima, la settimana del dialogo, o meglio del tentato dialogo. Fermamente caldeggiato dal Presidente della Repubblica, ripetutamente auspicato dai presidenti di Camera e Senato, preparato da incontri-colloqui-colazioni con i principali leader dell’opposizione, il dialogo sulle riforme sta tenendo banco nonostante lo scetticismo più volte manifestato da Silvio Berlusconi. Molti parlano di Legislatura costituente, qualcuno - come Emanuele Macaluso su questo giornale - propone addirittura di eleggere un’Assemblea («costituente» anch’essa) con il compito di riscrivere le regole fondamentali della Repubblica.

Il ragionamento dei «costituenti» è perfettamente logico, e si può riassumere così. Le regole del gioco non funzionano più, perciò dobbiamo cambiarle. Per riuscire a farlo senza lacerazioni deve esserci un larghissimo consenso. Ma mentre sui contenuti, ossia sulle politiche, è perfettamente naturale che la destra e la sinistra abbiano idee molto diverse su quel che andrebbe fatto per rilanciare l’Italia, sulle regole è invece indispensabile un accordo il più ampio possibile fra maggioranza e opposizione.

Insomma: una volta fissate le regole, ognuno faccia il suo gioco, ma nessuno pretenda di cambiare le regole senza il consenso dell’avversario.
Come tutti i ragionamenti logici, quello dei costituenti non fa una grinza. Anch’io penso che le regole non funzionino più, e che per farle funzionare decentemente dovremmo toccare almeno sei nodi nevralgici: bicameralismo, tipo di assetto federale, legge elettorale, regolamenti parlamentari, potere dell’esecutivo, rapporti fra magistratura e politica. A differenza dei costituenti, tuttavia, ho un sospetto da cui non riesco a liberarmi, e cioè che - nella situazione presente - per maggioranza e opposizione sarebbe molto più facile (o meno difficile) convergere sui contenuti del gioco che sulle sue regole. Fuor di metafora: sarebbe molto più facile cooperare sulle riforme economico-sociali che sulla riforma delle istituzioni.

Una parte del mio scetticismo deriva, lo ammetto, dal fatto che sono troppo vecchio per non sentire un brivido alla schiena tutte le volte che sento ripetere con baldanza «questa sarà una legislatura costituente!»: l’ho ascoltata troppe volte quella frase, specie negli ultimi vent’anni, per non provare incredulità e fastidio ogni volta che la risento pronunciare con solennità, e senza alcun imbarazzo retrospettivo. Una parte dei miei dubbi, tuttavia, deriva da considerazioni meno emotive. Ad esempio dal fatto che è proprio sulle regole che i due schieramenti hanno oggi il massimo di divergenze difficilmente componibili, o componibili in modo discutibile. Esempi?

Rafforzamento dell’esecutivo e regolamenti parlamentari più snelli: in astratto la sinistra è d’accordo, ma come potrà accettarli all’inizio di una legislatura in cui lamenta le tendenze neo-autoritarie, la dittatura della maggioranza, il «golpe finanziario», l’esproprio del Parlamento, il «presidenzialismo strisciante», insomma l’eccesso di potere del premier?
Riforma della giustizia e del Csm: Berlusconi è deciso a ridurre il potere e la discrezionalità dei magistrati, ma Veltroni avrebbe il coraggio di dire apertamente quel che molti nel Pd pensano, e cioè che i magistrati e le loro organizzazioni sono corresponsabili del cattivo funzionamento della giustizia?

Legge elettorale: qui, almeno rispetto alle imminenti elezioni europee, un accordo più o meno segreto fra Pdl e Pd pare esserci, quello di mettere uno sbarramento al 4-5% in modo da impedire l’elezione di rappresentanti di Rifondazione comunista e degli altri partiti piccoli e piccolissimi. Ma siamo sicuri che sarebbe un bene?

Resterebbe il federalismo, ma in questo caso il problema delle riforme istituzionali è indissolubilmente intrecciato a quello delle riforme economico-sociali. E la ragione è molto semplice: con una crescita vicino a zero e una pressione fiscale al 43% l’unico vero margine di manovra del governo è ridurre la spesa pubblica corrente, e il federalismo - se ben disegnato - è oggi l’unico strumento che potrebbe raggiungere quel risultato.
Perché governo e opposizione dovrebbero trovare un’intesa su federalismo e riforme economico-sociali, visto che è già tanto difficile mettersi d’accordo sulle regole del gioco?
Tutto sta a intendersi su quel «dovrebbero». Se devo azzardare una previsione, confesso che mi aspetto ben poco: il governo cercherà prima di tutto di restare in sella, e l’opposizione di sfruttare le debolezze del governo per vincere le elezioni del 2013. Se però, per un momento, proviamo a prendere in parola Pd e Pdl e confrontiamo i loro comportamenti attuali con le promesse di pochi mesi fa, non possiamo non notare che entrambi si stanno muovendo come anatre zoppe, ossia in un modo che tradisce gli elettori e alla lunga non produce consenso, ma semmai lo erode progressivamente. Ancora ieri sera Berlusconi ha spiegato perché dobbiamo tirare la cinghia (i conti pubblici sono ancora in rosso…), ma finora il governo non è stato in grado di prospettare al paese qualche contropartita tangibile e relativamente vicina nel tempo, salvo la cosiddetta social card di Tremonti (500 euro l’anno per un milione di bisognosi). Il Partito democratico ha annunciato battaglia sui tagli alla spesa pubblica, ma non ha spiegato né perché ha improvvisamente deciso di osteggiarli (pochi mesi fa, in campagna elettorale, aveva promesso la bellezza di 15 miliardi di tagli l’anno) né che cosa di veramente diverso si potrebbe fare oggi senza mettere a repentaglio l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2011.

Destra e sinistra, in altre parole, stanno mettendo in atto solo negazioni (i tagli) e negazioni della negazione (l’opposizione ai tagli), senza tuttavia riuscire a trasmettere ai cittadini-elettori nessuna idea positiva del futuro che ci preparano. Eppure basterebbe rileggere i programmi dei due schieramenti per scoprire che le azioni positive c’erano, e spesso erano del tutto simili. Il denominatore comune dei programmi del Pd e del Pdl era e resta la scommessa sulla responsabilità e sul merito, ossia precisamente quella stella polare che finora risulta poco visibile sia nell’azione di governo sia nelle critiche dell’opposizione. In entrambi i programmi c’era l’idea di risparmiare risorse tagliando gli sprechi, ma in entrambi i programmi c’erano anche tre idee fondamentali: che i tagli non dovessero colpire le amministrazioni virtuose, che i meritevoli dovessero ricevere premi, che lo Stato sociale dovesse essere completato con ammortizzatori sociali, asili nido, politiche contro la povertà, misure per i non autosufficienti.

Detto in termini macroeconomici: va bene che una parte dei risparmi di spesa vada a riduzione del debito pubblico, ma una parte non irrisoria di essi dovrebbe andare a beneficio di chi si è comportato in modo virtuoso o è in condizioni di assoluto bisogno. Se aumentano le tasse universitarie, devono aumentare le borse di studio per i giovani senza mezzi ma capaci e meritevoli. Se si tagliano le risorse alle Regioni con la sanità in rosso, si devono sostenere gli investimenti di quelle che hanno messo in atto le «migliori pratiche». Se si aumenta la flessibilità sul mercato del lavoro, bisogna completare la legge Biagi con quegli ammortizzatori sociali sempre promessi e mai attuati. Se si riducono i posti di lavoro nella scuola e nell’università, non lo si può fare con meccanismi di rallentamento del turnover uguali per tutti. Se si puniscono i fannulloni, bisogna trovare meccanismi efficaci e visibili per premiare i meritevoli, possibilmente subito e non solo «in prospettiva».

Su tutte queste cose i margini per dialogare e convergere ci sono, a patto che destra e sinistra non rinneghino quel che hanno detto in campagna elettorale, e tornino a guardare alla loro comune stella polare: la promozione della responsabilità e del merito. E chissà che, cominciando a capirsi sulle cose che interessano la gente (le riforme economico-sociali), alla fine non si finisca per capirsi di più anche su quelle che appassionano i politici di professione, le famose «regole del gioco».


da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI La giungla federale
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2008, 10:44:27 pm
22/8/2008
 
Tre missioni per l'Italia federale
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Quando si parla di federalismo, siamo portati a pensare che - in buona sostanza - il problema sia di mettere in riga il Mezzogiorno. Le regioni del Sud spendono e sprecano troppe risorse, che sono sottratte alla crescita e al benessere delle regioni del Nord. Né si può dire che il «sacrificio» del Nord sia compensato da una sia pure lenta riduzione del cosiddetto «divario Nord-Sud»: gli squilibri di oggi sono più o meno gli stessi di sempre. In questo senso, una maggiore responsabilizzazione del Mezzogiorno non andrebbe vista come la punizione di un territorio felicemente seduto sulla ricchezza e sul lavoro altrui, bensì come una preziosa occasione di rimontare finalmente la china.

Ma le cose stanno così? In parte sì, perché effettivamente non vi è una sola regione del Mezzogiorno che produca di più di quello che riceve. Tutte sono in rosso, nel senso che ricevono - sotto forma di spesa pubblica - più di quello che danno sotto forma di tasse (in termini tecnici: hanno un «residuo fiscale» negativo). È vero inoltre che in quasi tutti i campi - sanità, istruzione, assistenza, giustizia - le regioni meridionali sprecano una quota considerevole delle risorse che ricevono (per sprecare intendo: usano più persone e risorse di quante sarebbero necessarie per produrre i medesimi servizi). Però il discorso si ferma qui: lo schema manicheo Nord-Sud non funziona più secondo le attese non appena proviamo a guardare le cose con un po’ più di dettaglio.

Intanto occorre notare che, in fatto di sprechi, le grandi differenze non sono solo fra Centro-Nord e Sud, ma sono interne alle due aree. Nel Centro-Nord la differenza fondamentale è fra il Lombardo-Veneto (l’area più virtuosa del Paese) e tutto il resto, regioni rosse comprese. Nel Sud la differenza fondamentale è fra le tre regioni ad alta intensità mafiosa (l’area meno efficiente del Paese) e tutto il resto del Mezzogiorno. In diversi campi ci sono alcune regioni del Sud (per esempio la Puglia) che - tenuto conto delle risorse di cui dispongono - risultano più efficienti di alcune regioni del Nord (per esempio la Liguria).

C’è poi la complicazione delle risorse pro-capite disponibili in ogni territorio. Qui, con qualche imbarazzo, i fautori del federalismo anti-meridionale si stanno rendendo conto che le prime regioni che dovrebbero pagare salato se si instaurasse un federalismo equo sono le regioni a Statuto speciale del Nord, che dispongono di risorse molto maggiori di quelle delle altre regioni del Centro-Nord. La Valle d’Aosta brucia ogni anno circa 22.000 euro pro-capite, il Trentino Alto Adige 17.000, il Friuli Venezia Giulia 16.000, contro i 13.000 delle tre grandi regioni del Nord (Piemonte, Lombardia e Veneto) e i poco più di 9.000 della Campania e della Puglia. Certo i servizi pubblici delle piccole regioni autonome sono decisamente migliori di quelli delle regioni del Sud, ma è tutto da dimostrare che siano anche più efficienti, ossia non solo di buona qualità ma di livello adeguato rispetto alle risorse di cui dispongono: che cosa sarebbe la Puglia se lo Stato e gli enti locali spendessero il doppio di quel che spendono, ossia non 9.000 euro pro-capite ma 17 mila euro come la Valle d’Aosta?

La realtà è che le missioni del federalismo sono almeno tre, e sono piuttosto diverse fra loro. La prima è di ridurre l’enorme evasione fiscale del Mezzogiorno, facendo sì che la cosiddetta perequazione fiscale (o solidarietà dei territori ricchi verso quelli poveri) si trovi a dover correggere solo gli squilibri nei poteri di acquisto, e non - come accade oggi - anche quelli connessi a furbizia, lavoro nero, economia criminale: il successo di questa missione inevitabilmente costituirà un costo per i cittadini del Mezzogiorno (speriamo compensato da un buon uso delle tasse finalmente riscosse e parzialmente trattenute in loco). La seconda missione è di mettere a disposizione di tutte le regioni - del Nord e del Sud, a statuto ordinario e speciale - uno zoccolo minimo di risorse relativamente uniforme, e comunque ancorato alle caratteristiche oggettive di ogni territorio (per esempio la percentuale di anziani): il successo di questa missione favorirà il Sud, che oggi riceve troppo poco, e danneggerà le regioni a statuto speciale del Nord, che oggi ricevono troppo. La terza missione è di aumentare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche, riducendo gli sprechi e creando un meccanismo capace di punire i cattivi amministratori e premiare quelli che fanno bene il loro mestiere: il successo di quest’ultima missione gioverà a tutte le regioni, aiuterà l’Italia a tenere in ordine i conti pubblici, e danneggerà soltanto i cattivi politici.

Può darsi che il federalismo abortisca, perché le tre missioni sono facili da enunciare, ma difficili da mettere in pratica. Però l’eventuale successo del federalismo non sarebbe una vittoria del Lombardo-Veneto contro le regioni meridionali, ma semmai un successo storico di queste ultime. Perché la «missione delle missioni» non è di restituire al Lombardo-Veneto il maltolto, bensì di aiutare tutti i territori ad avvicinarsi un po’ di più all’area più ricca ed efficiente del Paese. Se avesse successo, il federalismo potrebbe regalare all’Italia quel che sessant’anni di intervento pubblico nel Mezzogiorno non sono riusciti a realizzare: il graduale superamento della «questione meridionale».
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. Governativi per forza
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2008, 10:35:13 am
31/8/2008 - CORDATA ALITALIA
 
Governativi per forza
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Faceva una certa impressione, nei giorni scorsi, leggere le interviste di Colaninno padre e Colaninno figlio. Entrambi schierati a sinistra, ma impegnati su due fronti dialettici opposti.
Il primo, in veste di futuro capo della nuova Alitalia, a spiegare al direttore di Repubblica come si può dare una mano a Berlusconi restando fedeli ai propri ideali, ai propri valori, alla propria etica.

Il secondo, in veste di neoparlamentare del Partito democratico, a spiegare alla stampa come si possa condividere l’analisi del proprio partito - secondo cui l’operazione Alitalia è un danno per il Paese - ma anche approvare il comportamento del proprio genitore, che di quell’operazione è il tassello fondamentale.

Siamo talmente abituati ai contorsionismi della politica che si potrebbe chiudere il discorso qui, e archiviare il tutto sotto la voce: la solita arte sofistica, i soliti ossimori, la solita incapacità di deporre il veltroniano «ma anche».

Se però proviamo a guardare le cose in una prospettiva appena più larga, forse dobbiamo registrare anche un fatto nuovo e diverso. Dopo anni di politicizzazione, di rapporti privilegiati con l’uno o l’altro schieramento politico, la maggior parte dei grandi imprenditori e banchieri italiani sembrano aver definitivamente superato la dicotomia destra-sinistra. La Confindustria di D’Amato aveva un asse privilegiato con Berlusconi, quella di Montezemolo guardava forse più a Prodi, ma oggi si ritorna al passato, quando gli industriali erano semplicemente «filogovernativi per forza». Le appartenenze ideologiche sbiadiscono, il pragmatismo è la vera stella polare che guida le scelte imprenditoriali. Come dice efficacemente Colaninno padre, non si può decidere che cosa fare o non fare stando a vedere ogni volta se il semaforo della politica è rosso o verde: la politica offre delle opportunità, e gli uomini d’affari le colgono se le giudicano profittevoli, indipendentemente dal colore politico dei governi.

Mentre l’opinione pubblica, i giornalisti, gli intellettuali continuano a stupirsi delle spericolate alleanze che si fanno e si disfano sotto i loro occhi, gli operatori economici e i gruppi di interesse sono già oltre. Accade così che la «Fenice» (il piano di salvataggio di Alitalia) possa piacere a chi dovrebbe osteggiarla e dispiacere a chi dovrebbe sostenerla: l’imprenditore Colaninno (sinistra) sta dalla parte di Berlusconi perché sente profumo di profitti, il sindaco di Roma Alemanno (destra) si mette di traverso perché sa che il ridimensionamento di Fiumicino gli toglierà consensi.

Insomma, quel che sembra strano se guardiamo la realtà con le lenti dell’ideologia, diventa comprensibilissimo se ci convinciamo che la classe dirigente italiana fa semplicemente il proprio gioco, come del resto ha fatto quasi sempre nella storia d’Italia. C’è stato un breve periodo, grosso modo dal 2000 al 2007, nel quale il gioco ha comportato anche di scommettere su una parte politica (sulla destra quando Berlusconi prometteva miracoli, sulla sinistra quando ci si rese conto che quei miracoli non sarebbero mai arrivati), ma oggi è chiaro a tutti che né la destra né la sinistra sono un investimento sicuro. Perciò, meglio navigare a vista, e cercare di entrare in sintonia con il ceto politico che c’è, a prescindere dalle idee di cui si ammanta.

Si potrebbe pensare che, dopo tutto, questo sia un progresso. Modernizzazione significa anche scrollarsi di dosso il peso delle ideologie. Però temo che, in questo caso, il crescente realismo della classe dirigente non porti nulla di buono al Paese. Che imprenditori e banchieri facciano i propri interessi e solo quelli non dovrebbe scandalizzare nessuno. Che ci vengano a raccontare che lo fanno con i propri ideali, o per senso di responsabilità, o con animo sollecito verso i deboli può farci piacere, e certamente procurerà loro ingenti benefici spirituali, terreni e forse anche ultraterreni. Ma il punto decisivo non è con che animo si perseguano i propri legittimi interessi. Il punto decisivo è con quali regole, o meglio con quale sistema di regole. Ci sono sistemi universalistici, in cui le regole sono relativamente semplici, generali e automatiche: la politica cambia alcune regole del gioco, ma non lo fa in continuazione e soprattutto non lo fa nel dettaglio, intervenendo in modo discrezionale caso per caso. Ci sono sistemi particolaristici, o corporativi, in cui moltissimo dipende dai legami con il potere politico, e assai poco dal talento individuale, dall’innovazione, dal duro lavoro: le regole si fanno e si disfano continuamente, e la discrezionalità di politici e amministratori è massima, perché c’è una giungla di concessioni, autorizzazioni, deroghe, concertazioni, agevolazioni, incentivazioni. Il caso Alitalia, in cui le regole antitrust sono state sospese per favorire un disegno politico, è un esempio da manuale di come operano i sistemi di questo secondo tipo.

Nei sistemi universalistici il mercato funziona bene e dà i suoi frutti, in termini di benessere e di crescita. Nei sistemi particolaristici il mercato funziona male, perché soffoca la concorrenza e penalizza gli operatori che non hanno relazioni politiche privilegiate, come le piccole imprese, gli artigiani, i lavoratori autonomi in genere. In Italia c’è stata un’effimera stagione in cui è sembrato che anche la Confindustria, che rappresenta soprattutto gli interessi dei gruppi maggiori, puntasse realmente su modificazioni delle regole generali: liberalizzazioni, flessibilità sul mercato del lavoro, riduzione delle tasse, rinuncia totale agli incentivi discrezionali in cambio di aliquote societarie più basse. Era una visione lungimirante, perché avrebbe permesso di introdurre un po’ più di concorrenza e creare un po’ più di sviluppo. Ma quella stagione è ormai alle nostre spalle, se mai è veramente esistita. I grandi gruppi hanno capito che per stare sui mercati internazionali non si può fare a meno di innovare e competere, ma hanno anche capito che per stare sul mercato interno la via maestra restano i cartelli, gli accordi, i patti di sindacato, gli incroci azionari, le desistenze, e soprattutto gli scambi con il potere politico.

Di chi è la colpa?
Di nessuno in particolare. Gli industriali hanno preso atto che nessun governo si interessa veramente dell’impresa, e che quindi la riduzione delle tasse sulle attività produttive è una chimera: piuttosto che niente, meglio la Fenice di Berlusconi. Noi cittadini, a nostra volta, abbiamo continuato a dare i nostri voti a due schieramenti che fingono di combattersi ma hanno un solo vero punto in comune: la diffidenza per la cultura liberale, con il suo immancabile rovescio, la credenza nel primato della politica.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI La giungla federale
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2008, 09:09:29 am
6/9/2008
 
La giungla federale
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
L’altro giorno mi è capitato di ascoltare un’animata conversazione al bar: c’era un tale che raccontava di aver cambiato già tre volte gestore telefonico, ogni volta persuaso dalle mirabili e «convenientissime» offerte del nuovo gestore. Risultato del cambiamento: nessun vero risparmio e, anzi, servizi telefonici forse un po’ più cari di prima.

Questa conversazione mi è tornata prepotentemente alla mente ieri, alla fine della lettura del nuovo «Schema di disegno di legge» sul federalismo fiscale, altrimenti noto come «bozza Calderoli-bis», che ritocca e integra la versione precedente (del 24 luglio). Prima di spiegare perché, una premessa indispensabile: sono un federalista convinto, e spero che il governo - questo o un altro - ce la faccia a darci un buon assetto federale.

Però, dopo aver letto la bozza Calderoli, mi è sempre più chiaro che gli scettici sulle virtù del federalismo hanno molte ragioni per restare tali.

Un federalismo ben fatto è probabilmente l’unica via che resta all’Italia per uscire dalle secche in cui si è incagliata. Ma un federalismo «mal fatto» (ossia sbagliato nei meccanismi e nei dettagli) potrebbe rivelarsi un rimedio peggiore del male.

Perché il nostro federalismo rischia di riuscire male?

Fondamentalmente perché immagina un meccanismo di controllo da parte dei cittadini che non ha nessuna chance di funzionare come ci si attende. La filosofia di base del federalismo si può riassumere così: diamo agli enti territoriali la responsabilità di decidere sia le tasse sia la spesa, e vincoliamoli al pareggio di bilancio. Così se un territorio non funziona (o perché tassa troppo, o perché spende male) i cittadini se ne accorgono e puniscono con il voto chi ha male amministrato.

Fin qui benissimo, ma in pratica?

In pratica bisogna fare un sacrificio sovrumano e leggere attentamente lo schema di disegno di legge. Se trovate il coraggio di farlo (il testo è scritto in un italiano inquietante), scoprite diverse cose.

Primo, i territori che hanno responsabilità amministrative si situano a ben 5 livelli diversi: Stato, Regioni, Province, Comuni, Città metropolitane, cui nella nuova versione della bozza si aggiunge un sesto livello, quello di «Roma capitale» (art. 13). Il cittadino che, grazie al potere punitivo del voto, dovrebbe far funzionare il federalismo fiscale, dovrebbe anche essere in grado di sapere, per ogni servizio (e sono almeno una ventina quelli importanti), da quale dei cinque livelli amministrativi è gestito, senza contare il problema di quei servizi che resteranno di fatto gestiti in modo misto, ossia da due o più livelli. Se non sai a chi dir grazie, come fai a punire elettoralmente i cattivi amministratori?

Ma le ricerche indicano che la maggior parte dei cittadini non ha un’idea precisa di quali servizi siano in carico allo Stato, quali alla Regione, quali alla Provincia, quali al Comune, quali siano in condominio e fra chi. Mi sembra decisamente utopistico, specie se i livelli di governo saranno ben cinque, immaginare una cittadinanza molto più istruita e attenta di quella attuale.

Ma ammettiamo che l’utopia si realizzi, e che i cittadini prendano nota attentamente di cosa funziona e cosa no, individuino il colpevole, facciano una media ponderata di quel che va male e quel che va bene (se Dio vuole nessun amministratore riesce a fallire in tutto), valutino se un cambio di governo locale migliorerebbe o peggiorerebbe le cose. C’è un secondo problema, però: i cittadini non dovrebbero soltanto giudicare i servizi, ma anche valutare se per quei servizi pagano troppe tasse. Qui a prima vista le cose sono più semplici: se a Torino l’aliquota Irpef per un certo scaglione di reddito è al 30% e a Milano è al 32%, a Torino si pagano meno tasse. Ma la situazione reale non è questa. A Torino come a Milano ci sono già oggi una quantità incredibile di tributi locali: Ici, Tarsu, addizionali comunali e regionali Irpef, addizionale Irap, e chi più ne ha più ne metta.

Ci si poteva aspettare che la bozza Calderoli dicesse: bene, per aiutare cittadini e imprese a confrontare la pressione fiscale di territori diversi unifichiamo le decine di tributi pre-esistenti, e introduciamo una tassa unica regionale, una tassa unica provinciale, una tassa unica comunale, con un unico parametro-aliquota che permette di sapere dove si paga di più e dove si paga di meno. E invece no, la bozza Calderoli, anche nella nuova versione, che pure auspica una razionalizzazione dei tributi locali (art. 10), prevede addirittura la nascita di «panieri di tributi», nonché la possibilità degli enti locali di introdurre «tributi di scopo», manipolare le basi imponibili (ossia decidere come si calcola il reddito o il patrimonio su cui si pagano le tasse), fissare tariffe, disporre agevolazioni, esenzioni, sgravi di ogni genere e sorta. Esattamente quello che fanno i gestori dei telefoni, con il risultato che il povero cittadino fra promozioni, fasce di orario, tipi di telefonata non è mai in grado di calcolare davvero se gli conviene un gestore oppure un altro.

Ma non basta. Nello schema di disegno di legge c’è almeno un altro punto preoccupante: il periodo di transizione durerà ben cinque anni anziché tre come previsto in un primo momento (art. 17).

Ed ecco allora l’incubo. Cinque anni di continui cambiamenti e aggiustamenti normativi. Tasse locali e «panieri di tributi» che spuntano come funghi. Ritocchi continui a tariffe, agevolazioni, basi imponibili. Imprese che devono fare calcoli complicatissimi per capire se conviene localizzarsi in un territorio o in un altro. Cittadini disorientati dalla giungla di nuove tasse e nuove regole di calcolo. Competenze che si trasferiscono dal centro alla periferia con lentezza e continui attriti fra Stato ed Enti territoriali. Negoziazioni infinite fra «conferenze» di tutti i soggetti interessati: governo centrale, governatori delle Regioni a statuto ordinario, governatori delle Regioni a statuto speciale, presidenti di Provincia, sindaci. Nuovi costi dovuti all’attuazione della legge (in barba all’articolo 21 che tenta di evitarli). Litigi istituzionali sull’interpretazione della legge e conseguente pioggia di ricorsi per ottenere più risorse o devolverne meno. Insomma una transizione infinita, nel più classico caos italiano.

Naturalmente il ministro negherà tutto, e dirà: vedrete che ce la faremo. Me lo auguro anch’io.
 
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI Voti del Sud
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2008, 04:56:11 pm
15/9/2008 - SCUOLA
 
Voti del Sud
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Oggi la macchina della scuola riprende a girare in quasi tutta Italia. Ma quest’anno, all’inizio dell’anno scolastico, il sentimento dominante sembra essere l’apprensione: gli insegnanti temono di perdere il posto (o di non trovarlo), i genitori di non poter lasciare i figli a scuola anche il pomeriggio, i figli di dover sgobbare di più per essere promossi. A differenza che in passato, infatti, sembra che il governo voglia fare sul serio: gli studenti se ne sono già accorti con i nuovi esami di riparazione, insegnanti e famiglie hanno capito che i tagli di organico e di orario ci saranno davvero. Nel frattempo l’ultimo rapporto Ocse sull’istruzione, pubblicato pochi giorni fa, ci ricorda per l’ennesima volta qual è il problema fondamentale dell’Italia: la bassissima qualità delle scuole del Mezzogiorno. Senza il Sud, l’Italia non è affatto indietro rispetto agli altri Paesi sviluppati, e anzi in alcune zone, in particolare nel Nord-Est, tocca livelli di eccellenza.

Perché il Sud non ce la fa?
Alla Gelmini, forse in un attimo di sincerità, è sfuggita la risposta politicamente scorretta: perché gli insegnanti meridionali sono meno preparati (da cui l’idea, immediatamente rimangiata, di corsi di aggiornamento e riqualificazione riservati ai docenti del Sud). A questa diagnosi la maggior parte dei commentatori di sinistra ha opposto la consueta spiegazione pseudo-sociologica: è il «contesto complessivo» del Mezzogiorno, fatto di povertà, degrado, sottosviluppo, che spiega l’insuccesso degli studenti meridionali nei test oggettivi somministrati da vari organismi nazionali e internazionali (Invalsi, Pisa, Pirls, Timss).

Chi ha ragione?
Probabilmente entrambi e nessuno. Che gli insegnanti delle scuole meridionali possano essere meno preparati di quelli delle scuole del Centro-Nord è quasi un’ovvietà. Se l’output della scuola (qualità dei diplomati) è peggiore al Sud, non si vede come potrebbero non risentirne quegli studenti meridionali che proseguono gli studi e diventano insegnanti restando nel Mezzogiorno. Altrettanto logica è la spiegazione «di sinistra»: a parità di altre condizioni, essere figli di un disoccupato e studiare in una scuola fatiscente (circostanze entrambe più frequenti al Sud) non può che ostacolare l’apprendimento. E tuttavia entrambe queste diagnosi, pur segnalando meccanismi reali, non fanno i conti con alcuni dati di fondo.

Innanzitutto non è vero che la scuola italiana sia messa così male a tutti i livelli. Nei primi anni della scuola elementare gli studenti italiani ottengono risultati eccellenti, ampiamente al di sopra di quelli della maggior parte dei Paesi sviluppati, inclusi Francia, Germania, Spagna, Svezia. È dopo, a partire dalla scuola media inferiore, che si assiste al crollo della scuola. Ma la cosa più interessante è che, nella maggior parte delle rilevazioni e per la maggior parte delle materie, i risultati degli scolari meridionali nelle elementari sono addirittura superiori a quelli degli studenti del Centro-Nord, in barba al sottosviluppo, al degrado delle scuole, alla presunta cattiva qualità degli insegnanti. Anche qui è dopo, ossia a partire dalla scuola media, che il divario diventa favorevole al Nord e aumenta con il passare degli anni di scuola. Nella scuola secondaria superiore le differenze fra studenti del Nord e del Sud diventano enormi, ma contrariamente a quel che si potrebbe pensare non spariscono affatto se si considerano famiglie con il medesimo tenore di vita e il medesimo livello di istruzione: anche a parità di condizione sociale, gli studenti del Nord vanno sempre molto meglio dei loro coetanei del Sud.

Ecco perché dicevo che sia la spiegazione basata sulla qualità degli insegnanti, sia quella basata sul sottosviluppo, pur essendo entrambe ragionevoli, non sono sufficienti. Se all’inizio la scuola del Sud sembra funzionare addirittura meglio di quella del Nord (nonostante i suoi insegnanti e il suo «degrado») e solo poi - a partire dalla media inferiore - il divario cambia di segno e si mantiene in tutti i ceti sociali, probabilmente dobbiamo rivolgere la nostra attenzione altrove. Ma dove?

Secondo me precisamente nel punto che ha suggerito al ministro Gelmini di dare l’esame da avvocato al Sud piuttosto che al Nord. Per spiegare perché i ragazzi del Sud, con il procedere degli studi, vengono staccati sempre di più da quelli del Nord basta supporre che gli insegnanti del Sud usino una scala di valutazione diversa, e più benevola, di quelli del Nord: mediamente un compito che al Sud vale 9 al Nord vale 7, un compito che al Nord vale 4 al Sud può valere tranquillamente 6. Poiché la sufficienza è 6 in tutte le scuole della Repubblica, questa semplice «staratura» dello strumento di misurazione, che inflaziona i voti scolastici di una parte del Paese, basta a spiegare perché al Sud la qualità media degli studenti sia sempre più bassa a mano a mano che si procede negli studi. Anche se gli insegnanti che lavorano nel Mezzogiorno fossero preparati esattamente come quelli del Nord, il risultato sarebbe analogo: concedendo il 6 molto più facilmente che al Nord, gli insegnanti del Sud innescano un meccanismo automatico di amplificazione dei divari, che i test oggettivi puntualmente registrano e che solo apparentemente favorisce gli studenti del Sud (con voti scolastici inflazionati è più facile essere promossi oggi, ma sarà più difficile trovare un lavoro soddisfacente domani).

Se la doppia scala di valutazione è il problema dei problemi, non si può non vedere con favore la svolta rigorista del ministro, nonostante la giustezza di molte obiezioni che le vengono rivolte, prima fra tutte l’assenza (per ora) di un compiuto progetto culturale di riforma dell’istruzione. Per portare fino in fondo quella svolta, tuttavia, il ministro Gelmini dovrebbe avere il coraggio che è mancato ai suoi predecessori di sinistra e di destra: rendere pubblici i risultati dei test Invalsi (punteggi medi in italiano, matematica e scienze) a livello di singolo istituto scolastico anziché solo a livello provinciale. Negli anni scolastici 2004-’5 e 2005-’6 l’ex ministro Moratti fece eseguire i test nella totalità delle scuole elementari e medie e in buona parte delle scuole superiori, ma non ebbe mai il coraggio di renderli pubblici a livello di singola scuola. Il suo successore, il ministro Fioroni, non solo rinunciò anch’egli a pubblicarli, ma soppresse le rilevazioni a tappeto (in tutte le scuole) a favore di un’indagine a campione (in alcune scuole estratte a caso), del tutto inefficace per dare agli insegnanti e alle famiglie dei segnali utili.

Eppure è proprio di questo che avremmo bisogno. Non per valutare i singoli insegnanti attraverso i risultati dei loro allievi (cosa assurda, perché i risultati dei ragazzi dipendono anche dall’ambiente sociale… e dai ragazzi stessi!), ma per dare a famiglie e insegnanti il polso della situazione: se so che in un liceo scientifico il punteggio medio di matematica ai test nazionali è 85 e in un altro è 70, non saprò forse mai di chi è il merito ma almeno saprò che nella prima scuola i ragazzi vengono portati a un livello più alto. Se sono il preside o un insegnante di matematica del liceo più debole, quell’informazione mi servirà da pungolo, se sono un genitore mi aiuterà a scegliere la scuola per mio figlio.

Perciò, caro ministro, smettiamola di tenere nel cassetto i risultati degli ultimi test a tappeto, quelli dell’anno scolastico 2005-2006, e reintroduciamoli nell’anno che sta iniziando. Gliene saremo grati tutti, e avremo la certezza che qualcosa di importante stia cambiando davvero.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. Berlusconi tra fascisti e qualunquisti
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2008, 10:40:26 am
18/9/2008
 
Berlusconi tra fascisti e qualunquisti
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Riassunto delle ultime puntate: da alcune settimane, fra una gaffe e l’altra, fra una provocazione e una replica indignata, fra una dichiarazione e una smentita, è risuscitato in Italia un surreale dibattito su fascismo e antifascismo. Le gaffe principali sono di Alemanno e La Russa: il primo ha provato a sottilizzare, distinguendo fra leggi razziali (cattive) e fascismo (fenomeno «più complesso»), il secondo ha improvvisato una difesa dei ragazzi della Repubblica Sociale che «combatterono credendo nella difesa della patria». La provocazione è del presidente di Azione Giovani che nei giorni scorsi ha pubblicato una lettera in cui, dopo una rassegna delle violenze che i giovani di destra hanno subito per mano di «antifascisti», concludeva sconsolato: «Ce l’ho messa tutta per trovare un motivo valido per essere antifascista, ma non l’ho proprio trovato, anzi ne ho trovati molti per non esserlo».

Altri esponenti della destra, come Gianfranco Fini (An), Altero Matteoli (An), Claudio Scajola (Forza Italia), sono intervenuti per ristabilire risolutamente la scelta di campo, democratica e antifascista, dei rispettivi partiti nonché del nuovo partito - il Popolo della libertà - che sta sorgendo dalla loro confluenza.

Nel frattempo il povero Giuliano Amato, impressionato dalle gaffe del neo-sindaco di Roma Alemanno (prima sull’imprudenza dei turisti olandesi, poi sulla «complessità» del fenomeno fascista), ha rinunciato a presiedere la commissione Attali, che avrebbe dovuto favorire una discussione aperta e serena sul futuro di Roma. In mezzo a questa piccola tempesta mediatica non poteva mancare la voce di Silvio Berlusconi, che ha sostanzialmente snobbato la questione con un paio di dichiarazioni: «Se qualcuno è nostalgico verso i propri padri credo che non abbia importanza» e «Io penso solo a lavorare e a risolvere i problemi degli italiani».

Devo confessare che, lì per lì, l’atteggiamento di Berlusconi non mi è dispiaciuto. Intanto perché la maggior parte dei cittadini italiani ha ben altri problemi, e trova poco utili questo genere di diatribe. Poi perché troppe volte lo schermo dell’antifascismo è stato usato per azioni nefande o per campagne di disinformazione e di odio. E infine perché le parole stesse antifascismo e antifascista sono ambigue, dal momento che designano sia la ferma volontà di impedire qualsiasi ritorno di una dittatura fascista, sia la faziosità, l’intolleranza e la chiusura mentale di una parte dell’antifascismo militante (non per nulla, nella cultura politica italiana, ci sono anche gli anti-antifascisti).

Né si può negare a Berlusconi di aver spiegato bene il suo pensiero, almeno a Porta a Porta, quando ha aggiunto: «Non voglio dire che è una cosa di poco conto, ma è una cosa scontata e non vedo come ci possano esser dubbi su questo. (...) È importante che qualcuno si senta pienamente democratico e legato ai principi che sono alla base dello Stato e della democrazia e contenuti nella Costituzione e che in questi si riconoscano. Lascio la discussione sul passato ad altri».

E tuttavia, ripensandoci, mi resta il dubbio che avrebbe potuto (dovuto?) essere ancora più chiaro e più netto. Sia perché è il presidente del Consiglio, sia perché è il leader del primo partito italiano, un partito che sta nascendo proprio in questi giorni e quindi - come tutte le cose che prendono forma - ha bisogno di tracciare nettamente e nitidamente i propri confini. Berlusconi fa benissimo a dedicare il 99 per cento delle sue energie a risolvere i problemi di oggi, ma non sarebbe male che un 1 per cento fosse dedicato a dire in modo risoluto che - nel Pdl, il nuovo partito di cui sarà il fondatore e il leader - non c’è posto né per la destra nostalgica di Storace e Santanchè, né per chi la pensa come il presidente di Azione Giovani, perché il nuovo partito della destra italiana - come i suoi confratelli europei - non ha alcun dubbio su quale fosse la parte giusta ai tempi della Resistenza e della Repubblica Sociale. È chiedere troppo?
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. Il mito della scuola elementare
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2008, 12:01:45 pm
25/9/2008
 
Il mito della scuola elementare
 

LUCA RICOLFI


 
Ci sono, nelle politiche governative in materia di istruzione, parecchie cose che mi lasciano perplesso. Ad esempio la mancanza di una diagnosi convincente dei mali della nostra scuola e della nostra università. Il vuoto di iniziative forti per aumentare il numero di asili nido, specialmente nel Mezzogiorno (uno dei cosiddetti obiettivi di Lisbona: portare la copertura al 33% entro il 2010, contro l’11% attuale). Soprattutto non mi piace per niente il fatto che all’Università (dove lavoro) i tagli della manovra finanziaria 2009-2011 siano uguali per tutti gli Atenei, quando da anni - grazie ad una serie di ottime ricerche - si sa con precisione quali sono gli atenei che spendono (relativamente) bene i loro fondi e quali li dilapidano in una corsa senza senso all’aumento del personale e agli avanzamenti di carriera.

E tuttavia, nonostante queste riserve, stento a capire l’incredibile pioggia di critiche, insulti, manifestazioni, sceneggiate, lezioni di pedagogia (e talora di democrazia) che sono state riversate sul neo-ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini non appena ha cominciato a occuparsi di scuola, e in particolare di quella elementare (per una rassegna consiglio di vistare il sito del Partito democratico e quello della Cgil-scuola, ora ridenominata Flc).

Il mio stupore nasce da due ragioni distinte. La prima è che, andando a controllare le cifre (DL 112, art. 64, comma 6), si scopre che la maggior parte dei numeri spaventa-famiglie che sono stati agitati sono semplicemente falsi. Non è vero che il bilancio della scuola subirà tagli per 8 miliardi: il taglio del prossimo anno sarà inferiore a 0,5 miliardi (1% del budget), i tagli netti previsti per il triennio 2009-2011 sono pari a 3,6 miliardi spalmati su tre anni. Non è vero che saranno licenziati 87 mila insegnanti: la riduzione del numero di cattedre avverrà limitando le nuove assunzioni, la cifra di 87 mila insegnati in meno si raggiungerà nel 2012 e include nel calcolo le riduzioni già pianificate da Prodi (circa 20 mila unità, a suo tempo giudicate insufficienti nel Quaderno bianco sulla scuola pubblicato giusto un anno fa dal precedente governo). Non è vero che, nelle scuole elementari, sparirà il tempo pieno e tutti i bambini dovranno tornare a casa alle 12,30: l’introduzione del maestro unico, con conseguente soppressione delle ore di compresenza, libererà un numero di ore più che sufficiente ad aumentare le ore di tempo pieno eventualmente richieste dalle famiglie. Né si vede su quali basi l’opposizione agiti lo spettro di una riduzione degli insegnanti di sostegno, o della chiusura delle scuole di montagna (nessuna norma della Finanziaria lo prevede, e il ministro ha esplicitamente escluso tale eventualità).

Ma c’è un secondo motivo per cui mi è incomprensibile lo tsunami anti-Gelmini di queste settimane: i critici danno per scontato che la scuola elementare così com’è vada bene, e che l’introduzione del maestro unico sia una scelta didatticamente sbagliata. Può darsi, ma non ne sarei così sicuro, e vorrei spiegare perché. Se la scuola elementare italiana fosse così ben congegnata come ripetono i suoi paladini, forse non osserveremmo quotidianamente quel che invece osserviamo. E cioè che sia nelle scuole medie sia (incredibilmente) all’università tantissimi ragazzi, oltre a fare errori di grammatica e ortografia con cui un tempo nessuno avrebbe preso la licenza elementare, non sanno organizzare un discorso né a voce né per iscritto, non sono in grado di progettare una tesi o una tesina, non conoscono il significato esatto delle parole, fanno sistematicamente errori logici, non sanno spiegare un concetto né costruire un’argomentazione, insomma non capiscono e non riescono a farsi capire se non in situazioni ultra-semplici (in una parola sono «ignoranti», secondo la bella definizione del libro di Floris uscito in questi giorni: La fabbrica degli ignoranti, Rizzoli). In breve i ragazzi spesso sono debolissimi proprio nell’organizzazione del pensiero e nella padronanza del linguaggio, ossia precisamente in ciò che avrebbero dovuto acquisire nei cinque anni di scuola elementare. Il sospetto è che la scuola elementare di oggi, pur essendo perfetta come luogo di socializzazione e di ricreazione, sia ben poco capace di trasmettere conoscenze e formare capacità, ivi compresa la capacità di concentrarsi, di ordinare le idee, di autovalutarsi, di mettere impegno in attività non immediatamente gratificanti.

A questa osservazione si potrebbe obiettare, e certamente qualcuno obietterà, che sia i test nazionali (Invalsi) sia i test internazionali (Pirls, Timss, Pisa) ci restituiscono un’immagine ben più ottimistica della scuola elementare italiana. Ma questo è vero solo in parte. I test internazionali condotti sui bambini in quarta elementare danno risultati opposti a seconda degli ambiti considerati (l’Italia è ai primi posti nei test di lettura, ma precipita agli ultimi sia in quelli di matematica sia in quelli di scienze). Quanto ai test nazionali essi indicano che il declino dei livelli di apprendimento fra i 7 e i 16 anni è costante e inizia già nelle elementari (in quarta i bambini vanno sensibilmente peggio che in seconda). Forse la cattiva fama della scuola media inferiore e dei suoi insegnanti è in parte immeritata: è vero, i risultati dei ragazzi delle medie sono pessimi, ma forse lo sono proprio perché la scuola elementare - con la sua impostazione ludica - non li prepara alle prove che dovranno affrontare quando entreranno in un mondo vero, meno protetto, in cui ci sono anche frustrazioni e si deve essere capaci di studiare da soli (cosa che molti bambini non imparano mai a fare: un effetto perverso del tempo pieno?).

Conclusione? Nessuna, solo una preghiera: anziché fare dello spirito sul grembiulino e del terrorismo sul tempo pieno, proviamo a riflettere seriamente - ossia senza preconcetti ideologici - sui vizi e le virtù della nostra scuola elementare.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. Riforma col buco
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2008, 12:25:50 am
4/10/2008
 
Riforma col buco
 
 
LUCA RICOLFI
 
prima vista, quella di ieri dovrebbe essere ricordata come una vittoria storica per i fautori del federalismo: il Consiglio dei ministri, infatti, ha dato il via libera definitivo al relativo disegno di legge delega, ossia all’ultima versione della «bozza Calderoli». Se tutto andrà per il verso giusto il federalismo sarà legge entro Natale, poi comincerà la pioggia dei decreti delegati (che dovrebbero essere completati entro due anni), infine - a partire dal 1° gennaio 2011 - prenderà avvio una lunga fase di rodaggio e di messa a punto, che dovrebbe concludersi fra il 2015 e il 2020. A ben guardare, tuttavia, non si può escludere che, fra una decina di anni, quella «vittoria storica» ci appaia piuttosto come una vittoria di Pirro, o addirittura come una beffa. Naturalmente spero di sbagliarmi, ma allo stato attuale ci sono almeno due ragioni che mi inducono al pessimismo. La prima è che proprio le vicende dell’ultima settimana, che hanno convinto Regioni, Province e Comuni (e persino una parte dell’opposizione) a sostenere la bozza Calderoli, sono un pessimo biglietto da visita per il decollo di un progetto federale serio. Nel volgere di pochissimi giorni abbiamo assistito a un’incredibile sequenza di «erogazioni» o promesse di fondi: erogazioni al Comune di Catania, mandato in dissesto da anni di centro-destra; erogazioni al Comune di Roma, mandato in dissesto da anni di centro-sinistra. Erogazioni alla sanità laziale, sfasciata da Storace e (a giudizio del governo) ben poco raddrizzata dal governatore-commissario Marrazzo; erogazioni ai Comuni prima vessati dalla Finanziaria e poi miracolati dal governo.
È naturale che gli elettori, e in particolare quelli del Nord, si chiedano: come possiamo aver fiducia nel federalismo se il governo che lo sostiene si mostra così arrendevole con chi ha dissipato il denaro pubblico? Che fine hanno fatto le belle parole sul principio di «responsabilità», sui politici che devono pagare i loro errori? Domande non dissimili a quelle che, proprio in questi giorni, si fanno gli amministratori che hanno i bilanci in ordine: che senso ha risparmiare e razionalizzare se poi il governo è sempre pronto a ripianare i debiti frutto di cattive gestioni? Ma c’è anche una seconda ragione per cui, pur avendo il massimo della simpatia per il federalismo, sono pessimista sui frutti che potrà dare: ho letto attentamente la bozza Calderoli, e credo di aver capito perché il ministro è riuscito nel miracolo di convincere un po’ tutti, compresi coloro che - sulla carta - avrebbero tutto da perdere dal federalismo. La ragione per cui la bozza Calderoli piace anche ai politici dei territori meno efficienti (primi fra tutti quelli delle regioni meridionali) è che essa ha buone probabilità di aumentare - e non diminuire, come ingenuamente pensano gli elettori della Lega - le risorse a loro disposizione. Perché? Perché molte Regioni meridionali sono sì inefficienti, ma non in quanto ricevono troppe risorse, bensì perché utilizzano malissimo le risorse che ricevono. Quindi per esse il passaggio dalla spesa storica ai costi standard implica un aumento delle risorse nonostante finora abbiano dimostrato di non saperle usare. Per essere chiaro faccio un esempio. La Regione A (in genere la Lombardia, o il Veneto) riceve 100 e produce 100, la Regione X (una tipica regione del Sud) riceve 90 ma produce 50: il federalismo le conviene perché con il criterio del costo standard le farà arrivare 100 (anziché 90), senza tuttavia imporle di produrre 100 come la regione A. Ecco perché la scelta della Regione modello è cruciale: se anziché la Regione A si sceglie la Regione B, che è un po’ meno efficiente, il federalismo diventa addirittura una pacchia per le Regioni sprecone. Vediamo perché, di nuovo con un esempio. La Regione B (tipicamente l’Emilia, o la Toscana) produce 100 come la regione A ma spende 110: a questo punto il costo standard è salito a 110 e la Regione X, inefficiente ma sottofinanziata, riceverà 110 (anziché 90), con un «guadagno» rispetto alla spesa storica che è salito da 10 a 20. Nella bozza Calderoli non vi è nulla che garantisca che il rifinanziamento delle Regioni sprecone ma sottofinanziate avvenga solo dopo apprezzabili e documentati aumenti di efficienza. Di qui l’entusiasmo dei territori inefficienti per il federalismo, e la loro opposizione a quanti (ad esempio il ministro Sacconi) si preoccupano che la Regione modello sia la Regione A e non la Regione B. Le simulazioni mostrano che se, come probabile, i ministri del rigore saranno sopraffatti, il federalismo comporterà un aumento anziché una diminuzione della spesa pubblica. Ma non è tutto. Nella bozza Calderoli, e più in generale nelle discussioni sul federalismo, si parla di capacità fiscale nonché del dovere dei territori forti (ad alta capacità fiscale) di «aiutare» i territori deboli (a bassa capacità fiscale). C’è un piccolo problema, però: non si chiarisce mai se per capacità fiscale si intende il gettito potenziale di un territorio oppure il suo gettito effettivo.

Il primo dipende solo da quanto si guadagna, il secondo anche da quanto si evade. Se le Regioni inefficienti hanno anche un livello di evasione fiscale molto maggiore delle Regioni efficienti, che cosa garantisce che la «solidarietà» dei territori forti non sia chiamata a coprire anche l’eccesso di evasione fiscale di quelli deboli? Di nuovo, allo stato non si vede alcun meccanismo che induca i territori ad alta evasione fiscale a non pesare oltre il giusto sui territori più virtuosi. Ed è possibile che anche questa assenza di meccanismi sanzionatori contribuisca a rendere il federalismo accettabile ai territori più deboli, nonché a neutralizzare un’opposizione spesso prigioniera di una visione distorta del dovere della solidarietà. Ripeto, spero di sbagliarmi, e mi auguro che Tremonti, Sacconi e Brunetta - almeno in futuro - sappiano resistere alle gigantesche pressioni del partito della spesa. Ma resto pessimista, perché constato che la diga governativa è fragile, il federalismo emendato e annacquato ha ricompattato la casta, e la Lega - partito di popolo, ma anche di sindaci, ministri e sottosegretari - ormai ne è divenuta parte integrante. Probabilmente, dopo il referendum che ha abolito la devolution, Bossi ha capito che se il federalismo è vero non può passare. E se deve passare, ahimé, non può essere vero.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. Demagogia e populismo
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2008, 09:51:55 am
13/10/2008
 
Demagogia e populismo
 
 
LUCA RICOLFI
 
Io penso che il cosiddetto dialogo sia non solo utile, ma indispensabile - strettamente indispensabile - per affrontare i principali problemi dell’Italia. Per «dialogo» intendo non tanto il rispetto reciproco fra governo e opposizione (che è solo un prerequisito ovvio, ed è questione di maturità politica), quanto la capacità di governo e opposizione di mettere da parte le divisioni nei casi in cui sono in gioco gli interessi di lungo periodo dei cittadini.

Nel corso di questa legislatura, nonostante alcuni tentativi, il dialogo non è mai decollato seriamente e ora - con l’approssimarsi della manifestazione del 25 ottobre - pare destinato ad arenarsi definitivamente. Perché il dialogo non decolla? Perché, nonostante in tanti ci auguriamo una stagione di ragionevolezza, i due maggiori partiti non riescono a instaurare fra loro un rapporto che non sia troppo dannoso per noi?

La risposta, a mio parere, è molto diversa per la destra e per la sinistra.

Il «male» della destra, ossia il tratto della destra stessa che maggiormente danneggia l’Italia, è il populismo. Il populismo in salsa berlusconiana è la credenza di poter fare a meno dell’opposizione in quanto si detiene una maggioranza sia in Parlamento sia nel Paese. Di qui il fastidio per ogni offerta di dialogo, l’insofferenza per le lungaggini parlamentari, la tentazione ricorrente di tirare dritto ignorando le ragioni dell’opposizione, forti soltanto del mandato popolare e dei sondaggi.

Questa sorta di sindrome di autosufficienza, a sua volta, deriva probabilmente da una sottovalutazione della complessità dei problemi dell’Italia, ma forse anche da una sottovalutazione delle proprie buone ragioni.

I politici di destra, salvo qualche importante eccezione, si muovono come se le proprie idee non fossero abbastanza valide da meritare una battaglia culturale né abbastanza forti da portare l’opposizione stessa a fare i conti con esse (come, per fare un esempio, fece la Thatcher, le cui idee contaminarono positivamente Tony Blair). Deficit di egemonia, avrebbe detto Gramsci; miope preferenza per il puro e semplice mantenimento del potere, direbbe oggi un osservatore malizioso. Può sembrare paradossale, ma a me sembra che la tendenza a snobbare l’opposizione non sia segno che la destra è sicura di poter cambiare l’Italia da sola, ma - tutto al contrario - che ha già rinunciato a tentare l’impresa.

Radicalmente differente è il problema della sinistra. Il «male» della sinistra, il suo tratto che più danneggia l’Italia, è la vocazione demagogica. La demagogia in salsa veltroniana è la tendenza a illudere i propri elettori ignorando o deformando i fatti, l’attitudine a manipolare la verità se questo giova alla causa: probabilmente l’aspetto in cui il Partito democratico è rimasto più simile al vecchio Partito comunista. Veltroni ha sicuramente ragione quando osserva che è ben difficile dialogare con chi non perde occasione per irridere l’opposizione e il suo leader. E tuttavia pare non rendersi conto che i leader politici non sono le «comari di un paesino», come le chiamava Fabrizio De André. Esistono certo presupposti psicologici del dialogo (tu ti offendi se l’altro ti tratta male), ma esistono anche - e sono decisamente più importanti - presupposti logici del dialogo: dire la verità, o perlomeno qualcosa che non ne sia troppo distante, è la condizione preliminare minima per affrontare i problemi del Paese.

Sfortunatamente per tutti noi, invece di fare questo, Veltroni e il gruppo dirigente del Pd dipingono un’immagine radicalmente distorta della situazione in cui ci troviamo e delle ragioni per cui vi siamo immersi fino al collo. Lasciamo perdere le vere e proprie bugie che si possono leggere sul sito del Pd, o che ci è capitato di ascoltare in tv (ad esempio: «150 mila insegnanti messi per strada», «tagli alla scuola per 8 miliardi nel triennio 2009-11»). Lasciamo anche perdere l’infantile affermazione per cui «la crisi è colpa della destra» e del suo sfrenato liberismo: come se, dopo gli anni di Reagan e della signora Thatcher, Europa e Stati Uniti non avessero anche avuto una lunga stagione di amministrazioni progressiste; come se - almeno in Italia - la sinistra riformista non fosse più liberista della destra; come se una crisi quale quella che travolge il mondo intero potesse essere imputata a una parte politica. Concentriamoci, invece, sui dati di fondo della situazione italiana.

Veltroni e i suoi parlano di stipendi, salari e pensioni come se ci fossero risorse per aumentarli, e dimenticano che fu lo stesso Padoa-Schioppa, ancora all’inizio di quest’anno, a negarne l’esistenza di fronte ai sindacati che esigevano un intervento sui redditi da lavoro dipendente: farebbero meglio a dire la verità, e cioè che ci vorranno anni di crescita e di sacrifici perché il potere di acquisto delle famiglie italiane recuperi le posizioni inesorabilmente perdute negli ultimi quindici anni, quale che fosse il colore dei governi. Veltroni e i dirigenti del Pd parlano della politica scolastica come se la svolta rigorista non fosse iniziata con il precedente governo (commissari esterni, esami a settembre), e come se le misure di risparmio di oggi non fossero analoghe a quelle previste a suo tempo da Padoa-Schioppa (Finanziaria 2007), e ampiamente spiegate nel Quaderno bianco sulla scuola preparato dal governo Prodi: farebbero meglio a riconoscere che in Italia gli insegnanti sono davvero troppi (come rivelano i dati Ocse) e che purtroppo una parte di essi non è all’altezza del compito (come constata chiunque abbia figli in età scolare). Più in generale, Veltroni e il Pd criticano ossessivamente i tagli, in qualsiasi campo avvengano (scuola, università, forze dell’ordine, giustizia, sanità, enti locali), e preferiscono rimuovere il dato cruciale: i tagli alla spesa corrente sono necessari, tanto è vero che, in campagna elettorale, il partito di Veltroni ne prometteva per circa 40 miliardi in un triennio, contro i 30 previsti dalla Finanziaria di Tremonti.

Naturalmente si possono avere idee diverse su come intervenire sui problemi strutturali dell’Italia, e ci sono ottimi motivi per essere critici su molto di ciò che passa il convento governativo: tagli poco o per niente selettivi, passi indietro nella disciplina dei servizi pubblici locali, confusione in materia di federalismo, scarsi investimenti nei settori strategici, insufficienze e ritardi nelle misure di carattere sociale (come la social card). Ma se si vuole essere credibili, occorre smetterla di illudere gli italiani trattandoli come bambini: far credere che i tagli siano evitabili, che ci siano soldi per i redditi da lavoro dipendente, o che la crisi sia «colpa della destra», significa solo fare della demagogia. Una demagogia cui Berlusconi non potrà che rispondere con dosi crescenti di populismo. Che a loro volta rafforzeranno Veltroni nella convinzione che il male sia «questa destra». La quale destra avrà la prova provata che con «questa sinistra» non si può dialogare. E così via per saecula saeculorum. Perciò imploriamo entrambi: possiamo cambiare film?
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. Due patti scellerati
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2008, 11:13:59 am
30/10/2008
 
Due patti scellerati
 

LUCA RICOLFI
 
Il decreto Gelmini è stato convertito in legge, scuola e università sono in agitazione. Il mondo della scuola scenderà in piazza oggi (chissà perché dopo e non prima dell’approvazione del decreto?), mentre l’Università si mobiliterà il 14 novembre, per combattere tagli che furono decisi fra giugno e agosto, quando il Partito democratico riteneva inopportuno scendere in piazza («Noi manifesteremo il 25 ottobre»). Misteri della politica italiana.

Ma parliamo della sostanza. Che cosa sta succedendo nella scuola e nell’università? Perché studenti, docenti e genitori paiono trovarsi dalla medesima parte della barricata?

Quel che sta succedendo è relativamente chiaro, almeno per chi conosce i dati di fondo dell’istruzione in Italia e riesce a non farsi accecare dalle proprie credenze politiche. Sia la scuola sia l’università dissipano una quota di risorse pubbliche considerevole, nel senso che spendono più soldi di quanti, con un’organizzazione più efficiente, basterebbero a garantire i medesimi servizi. Su questo, quando si trovano al governo, destra e sinistra la pensano allo stesso modo.

Chi avesse dei dubbi può consultare due documenti del governo Prodi (il «Quaderno bianco sulla scuola» e il «Libro verde sulla spesa pubblica»). Credo non si sia lontani dal vero dicendo che, con una migliore allocazione delle risorse, sia la spesa della scuola sia la spesa dell’università potrebbero essere ridotte di almeno il 10 per cento a parità di output.

La novità di questi mesi non sta nella diagnosi, ma nella determinazione con cui si sta passando dalle parole ai fatti: la destra al governo sta facendo con la consueta ruvidezza molte cose che la sinistra stessa, magari con più garbo, avrebbe fatto se ne avesse avuto la forza, il tempo e il coraggio (fra queste cose c’è, ad esempio, il rispetto delle norme Bassanini sul numero minimo di allievi per scuola, varate dal centro-sinistra ben 10 anni fa). Del resto fu lo stesso Padoa-Schioppa, all’inizio della scorsa legislatura, ad avvertirci che certi sprechi non possiamo più permetterceli e a ricordarci che il problema di eliminarli dovremmo porcelo comunque, persino se avessimo i conti perfettamente in ordine: ogni spesa, infatti, ha un «costo opportunità», ossia è sottratta ad impieghi alternativi (se buttiamo al vento 8 miliardi per false pensioni di invalidità, automaticamente rinunciamo a una cifra equivalente in asili nido, sussidi di disoccupazione, aiuti ai poveri, sostegno ai non autosufficienti ecc.).

Su questo il governo ha ragioni da vendere, anche se non si può non rilevare che molte misure - pur condivisibili negli obiettivi - diventano criticabili per il modo in cui sono messe in pratica. È il caso, per fare l’esempio più importante, dei tagli all’università, che sarebbero ben più accettabili se punissero ancora più duramente gli atenei in dissesto, ma premiassero con più e non meno soldi gli atenei virtuosi.

Ma quella degli sprechi è solo una delle due facce del problema dell’istruzione in Italia. L’altra faccia è il tragico declino dei livelli di apprendimento, la scarsissima preparazione dei nostri diplomati e laureati, specialmente nelle regioni meridionali. Di questo sono corresponsabili ministri e docenti, ma anche gli studenti e soprattutto le loro famiglie. Il sistema dell’istruzione in Italia si regge su due patti scellerati: nella scuola, il patto fra insegnanti e famiglie, nell’università il patto fra docenti e studenti. Il cardine del primo patto è: l’importante è che il ragazzo sia sereno, vada avanti senza soffrire troppo, prenda il diploma; che poi impari molto o poco conta di meno. Il cardine del secondo patto è: l’importante è arrivare alla laurea, non importa in quanto tempo e imparando che cosa; noi professori pretendiamo sempre di meno da voi studenti, voi studenti non ci importunate e vi accontentate di quel poco che riusciamo a trasmettervi. Naturalmente ci sono anche - nella scuola come nell’università - isole felici e importanti eccezioni, ma il quadro generale è purtroppo diventato questo.

Sono precisamente i due patti non scritti che spiegano l’inconsueta alleanza fra una parte dei docenti, una parte degli studenti e una parte dei genitori.

I docenti difendono i posti di lavoro (nella scuola) e le carriere (nell’università). I genitori difendono una scuola che insegna poco e male, ma in compenso non stressa i ragazzi e risolve non pochi problemi reali delle famiglie, specie quando la madre lavora. I ragazzi sono preoccupati per l’avvenire e temono di essere le uniche vittime dei cambiamenti che si stanno preparando per loro.

E hanno perfettamente ragione. Solo che indirizzano la loro ira verso il bersaglio sbagliato. Se fossero calmi e lucidi avrebbero già capito che il futuro non glielo ruba la Gelmini, ma glielo hanno già rubato molti degli adulti al cui fianco marciano con tanta convinzione. La precarietà dei giovani e il ristagno del sistema Italia sono anche il risultato non voluto e non previsto di una lunga e colpevole disattenzione per la qualità dell’istruzione.

Il governo non è certo innocente, perché non c’è quasi nulla nei provvedimenti di cui da mesi si discute che lasci prefigurare un innalzamento apprezzabile del livello degli studi, e c’è persino qualcosa che fa temere un ulteriore declino. Ma coloro che aizzano bambini e ragazzi contro le misure del governo non la contano giusta: se davvero avessero a cuore il futuro dei nostri giovani si batterebbero come leoni per tagliare i rami secchi e rendere gli studi molto più seri, più rigorosi, più profondi. Perché lo smarrimento e l’angoscia di questa generazione sono genuini e pienamente comprensibili, ma sono anche il frutto della superficialità con cui gli adulti hanno permesso la distruzione della scuola e dell’università.

 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI. L'università i tagli e il consenso
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2008, 10:57:53 am
3/11/2008
 
L'università i tagli e il consenso
 

LUCA RICOLFI

 
Fino a un paio di settimane fa Berlusconi si vantava di avere il 72 per cento dei consensi. Da qualche giorno, invece, forse complici le due grandi manifestazioni di fine ottobre promosse dal Partito democratico e dai sindacati, nel governo si stanno facendo strada atteggiamenti più guardinghi. Pare che Bossi sia preoccupato dei tagli ai bilanci degli atenei e che Berlusconi si stia chiedendo se bloccare la Gelmini, congelando i provvedimenti sull’università attesi per i giorni prossimi.

I timori di Berlusconi sono basati sui sondaggi, che in effetti non vanno troppo bene per il governo. La luna di miele con gli elettori sembra finita e l’opposizione pare recuperare qualche punto nelle intenzioni di voto degli italiani. A quanto pare Berlusconi teme la piazza, mentre Veltroni spera di continuare a cavalcarla. Lo stop del premier alla Gelmini e agli interventi sull’università sembra una mossa pensata apposta per togliere all’opposizione il cavallo su cui sta per montare. Tutto chiaro, a prima vista: il movimento degli studenti sta procurando i primi grattacapi seri al governo, e così finisce col rianimare l’esangue partito di Veltroni. Ci sono alcune complicazioni, però.

Prima complicazione: è bene distinguere tra consenso assoluto e consenso relativo.

Il consenso assoluto per uno schieramento (di governo o di opposizione) è la differenza fra la percentuale di elettori che ne giudicano positivamente l’operato e la percentuale di elettori il cui giudizio è negativo. Il consenso relativo di uno schieramento rispetto all’altro, invece, è la differenza fra i rispettivi consensi assoluti. Ebbene, la stranezza del momento politico attuale è che oggi stanno diminuendo sia il consenso assoluto verso il governo, sia quello verso l’opposizione. La sfiducia complessiva degli italiani nell’azione politica, di destra e di sinistra, sta tornando a livelli altissimi, a un passo dal record toccato l’anno scorso, ai tempi della Casta di Stella e Rizzo e del «vaffa-day» di Grillo. Quanto al consenso relativo, nelle ultime settimane sta premiando l’opposizione, ma solo perché tra maggio e settembre era scesa a un livello così basso che le è ormai difficile perdere ulteriori colpi, mentre il governo ha ancora uno «spazio di caduta» ragguardevole, visto che solo ora sta uscendo definitivamente dalla luna di miele. Di qui il progresso nelle intenzioni di voto registrato dagli ultimi sondaggi. Nonostante tale progresso, tuttavia, il consenso relativo dell’opposizione resta tuttora inferiore a quello di qualche mese fa, al momento del voto. Nulla, per ora, autorizza a credere che, se si rivotasse oggi, il risultato dell’opposizione sarebbe migliore di quello di aprile. Insomma: il governo ha ragione di temere la piazza, ma l’opposizione si illude se pensa di avere il consenso necessario per egemonizzare la protesta.

Seconda complicazione: non è detto che bloccare le misure sull’università sia una buona idea, né dal punto di vista del governo né da quello degli studenti. Allo stato attuale, infatti, bloccare il riordino dell’università non significa cancellare i tagli - che sono scolpiti nel marmo della legge finanziaria fin dal giugno scorso - bensì rinunciare a «modularli», ossia a differenziarli secondo criteri ragionevoli. Se non si fa nulla, i tagli restano, e restano «uguali per tutti», quindi assolutamente iniqui date le enormi differenze nel livello e nel tipo di inefficienze dei vari atenei sparsi per la Penisola. Se invece si fa qualcosa, si può provare ad aprire sul serio la partita della lotta agli sprechi e alle malversazioni, che almeno a parole accomuna tutti: studenti, docenti, rettori, politici di destra e di sinistra.

Ciò appare tanto più necessario se si riflette sul fatto che esiste una fondamentale differenza fra le inefficienze della scuola e quelle dell’università. L’inefficienza del sistema scolastico è solo molto marginalmente dovuta a gestioni dissennate delle risorse pubbliche, dal momento che il grado di autonomia e di discrezionalità degli istituti è molto limitato. L’inefficienza del sistema universitario, invece, è innanzitutto la conseguenza di un pessimo uso dell’autonomia che la legge assegna agli atenei. Ci sono atenei che, pur con tutti i difetti e i limiti della nostra corporazione, hanno fatto un uso relativamente virtuoso dell’autonomia loro concessa, ci sono atenei che ne hanno fatto un uso dissennato (e qualche volta persino criminoso). Ecco perché i cosiddetti tagli lineari, o uguali per tutti, sono molto più iniqui nell’università che nella scuola.

Naturalmente la strada della lotta agli sprechi richiede da parte di tutti un minimo di buona volontà e ragionevolezza. Gli studenti dovrebbero capire che tagli severi ma selettivi e ben studiati sono nel loro interesse. Il governo dovrebbe valutare se lo scalino del 2010 (700 milioni di euro in meno) non sia troppo ripido, e al tempo stesso varare una serie di «patti di stabilità» pluriennali, convogliando verso gli atenei virtuosi una parte dei fondi negati agli atenei spreconi. Il Pd dovrebbe incalzare il governo, richiedendo che una parte delle risorse risparmiate siano reimmesse nel circuito dell’università, favorendo il reclutamento dei giovani studiosi e aumentando (anziché diminuendo) i fondi per il diritto allo studio. Sono certo che non succederà. Ma sono altrettanto certo che, se mai succedesse, l’opinione pubblica ci starebbe e restituirebbe alle forze politiche un po’ del rispetto che hanno perduto.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Il lato buono della crisi
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2008, 10:25:49 am
10/11/2008
 
Il lato buono della crisi
 
LUCA RICOLFI
 

Siamo tutti preoccupati per la crisi, se non altro perché non sappiamo ancora né quanto durerà né quanto sarà profonda. C’è chi pensa che fra sei mesi l’economia ripartirà, e c’è chi teme che ci vorranno anni per uscire dal tunnel, come nel 1929. Gli economisti, con grande soddisfazione dei non-economisti (vedi il sociologo Ulrich Beck su La Repubblica di qualche giorno fa), si mostrano divisi su quasi tutto: cause della crisi, ruolo della speculazione, responsabilità della politica, rimedi a livello globale, rimedi nei singoli Stati (sull’Italia, solo nelle ultime settimane, ho contato almeno cinque ricette diverse). C’è un punto, però, su cui forse potremmo riflettere tutti, indipendentemente dal lavoro che facciamo e dalle convinzioni che professiamo: le crisi economiche non sono mai un bene ma, una volta che ci finiamo dentro, diventano anche straordinarie opportunità, che sarebbe un peccato sciupare.

In che senso la crisi, questo male oscuro che si è impadronito delle nostre vite e delle nostre menti, è anche un’opportunità? A mio modo di vedere in due sensi fondamentali. Il primo è stato forse illustrato nel modo più chiaro dagli economisti della cosiddetta «scuola austriaca», come von Hayek e Schumpeter. Essi non si illudevano che il capitalismo fosse una macchina perfetta, capace di procedere senza scosse lungo un sentiero di crescita permanente (questa illusione, semmai, è tipica dei loro critici). Il capitalismo è invece un modo di produzione che procede alternando fasi di prosperità, in cui gli squilibri si formano e si aggravano, e fasi di crisi, in cui gli squilibri si attenuano e si correggono, preparando le condizioni per una nuova fase di prosperità. Vista da questa prospettiva, la crisi non è semplicemente un male più o meno evitabile ma è il momento necessario e insostituibile della «distruzione creatrice», quella fase cioè in cui il sistema si autocorregge eliminando le inefficienze, tagliando i rami secchi, rinnovando le tecnologie, aprendosi a nuovi soggetti, ricchi di idee e voglia di metterle alla prova.

Lo sottolineava a modo suo Montezemolo in un’intervista di qualche settimana fa, quando faceva notare che le fasi di prosperità del capitalismo sono anche fasi di «degenerazione», mentre quelle di crisi sono di «rigenerazione». Può sembrare paradossale, ma da questo punto di vista la crisi è (anche) un bene: non solo produce una riallocazione più efficiente delle risorse economiche, ma riduce molti degli squilibri sociali che abbiamo accumulato negli anni precedenti. E infatti i primi a pagare la crisi sono gli speculatori, i manager che hanno male amministrato le loro aziende, i ceti elevati (il cui portafoglio ha una quota maggiore di azioni e titoli a rischio), i lavoratori autonomi che hanno gonfiato i prezzi e ora fanno i conti con il calo dei consumi e i primi segnali di deflazione (nel bimestre settembre-ottobre l’indice dei prezzi è sceso rispetto al livello di agosto). La crisi, naturalmente, genera anche nuove diseguaglianze ma il saldo complessivo è una riduzione degli squilibri fra Paesi e interni ai Paesi: chi è vissuto chiedendo denaro in prestito (come governo e consumatori americani) dovrà restituire una parte dei propri debiti, chi ha costruito imperi di carta vedrà ridimensionati il proprio potere e la propria ricchezza.

Ma c’è anche un secondo senso in cui la crisi è un’opportunità. La crisi può essere l’occasione che ci costringe a compiere finalmente le scelte che avremmo dovuto già fare nei periodi di prosperità ma che, senza la crisi, non avremmo mai trovato la forza di fare. Anche questo può apparire paradossale, ma la realtà è che le scelte coraggiose i nostri governi non sono mai riusciti a farle quando sarebbero costate di meno (ad esempio nel 2006-2007, quando l’economia era tornata a crescere), ma sono invece stati talora indotti a compierle sotto la spinta degli eventi, ossia proprio quando costavano di più (ad esempio nel 1992-1995, durante l’ultima grande crisi della lira: ricordate la «stangata» di 90 mila miliardi del governo Amato?). Quello che stiamo attraversando è uno di questi momenti, in cui intervenire costa di più, ma nello stesso tempo è più facile perché ci si rende conto che certe scelte non possiamo più rimandarle.

Quali scelte?

Fondamentalmente due, una negativa e l’altra positiva. Quella negativa è stata descritta chiaramente, qualche giorno fa, dall’economista Alberto Bisin su questo giornale: «Le recessioni sono momenti in cui il sistema economico “si ripulisce”. Le imprese che non producono reddito falliscono e liberano risorse che sono riallocate alle imprese più produttive. Questo processo è necessario perché un’economia sia sana e produttiva nel lungo periodo: non va assolutamente impedito».

Ma evitare gli aiuti di Stato inutili o controproducenti non basta. La scelta positiva che non possiamo più ritardare è quella di trasformare il nostro Stato assistenziale in un vero Stato sociale. Gli sprechi nella pubblica amministrazione, secondo le stime più prudenti, ammontano a 80 miliardi di euro l’anno. Recuperandone, gradualmente, anche solo la metà, potremmo assicurare ai cittadini le quattro cose essenziali che sono tuttora drammaticamente carenti in Italia: asili nido, assistenza agli anziani (e ai non autosufficienti), politiche contro la povertà, ammortizzatori sociali per tutti i lavoratori e non solo per chi ha la fortuna di lavorare in una grande impresa. Quest’ultimo punto, probabilmente, è il più importante in questo particolare momento, in cui le prime imprese cominciano a chiudere, le ore di cassa integrazione aumentano, la disoccupazione torna pericolosamente a salire: proprio perché, per riprendere a crescere, le imprese inefficienti vanno lasciate al loro destino, è essenziale garantire a chi perde il lavoro una rete di protezione universale, facendo cadere una volta per tutte l’odiosa distinzione fra lavoratori di serie A, difesi dalla legge e dai sindacati, e lavoratori di serie B, dimenticati da Dio e da tutti.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Università, due vie senza uscita
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2008, 12:18:41 pm
15/11/2008
 
Università, due vie senza uscita
 
LUCA RICOLFI

 
Lunedì il governo ha varato un decreto-legge sull’Università che accoglie, sia pure parzialmente, alcune delle critiche che le forze di opposizione avevano sollevato nei mesi scorsi. Le «conquiste» principali sono quattro: minori tagli per gli atenei efficienti, misure per il diritto allo studio (edilizia e borse), 530 milioni assegnati in base ai risultati, sorteggio delle commissioni di concorso. A queste misure, già incassate, nei giorni scorsi il ministro Gelmini ha aggiunto la promessa di ulteriori concessioni future, specie in materia contrattuale. E’ poco? E’ tanto?

Secondo i rettori, secondo la Cisl, secondo lo Snals, secondo la Ugl, è un buon inizio: i tre sindacati hanno quindi revocato lo sciopero dell’università, che si è svolto ieri. Secondo la Cgil (cui si è unita la Uil), come per gli studenti in lotta, le misure varate dal governo sono invece «del tutto insufficienti»: di qui la conferma dello sciopero e della manifestazione, che si è svolta tranquillamente ieri a Roma.

Naturalmente tutti hanno ragione, dal loro punto di vista. La Cgil pensa che i tagli previsti dalla finanziaria siano evitabili e che l’eventuale trasformazione delle università in Fondazioni sia un male per la didattica e la ricerca.

Date queste premesse, è logico che chieda il ritiro integrale dei tagli e si batta per vietare la trasformazione delle Università in Fondazioni (la legge voluta dal governo, tuttora priva dei decreti attuativi, non impone la trasformazione in Fondazioni ma semplicemente la consente a certe condizioni).

I fautori del dialogo, come Bonanni (leader Cisl) e la conferenza dei rettori, non negano gli sprechi ma pensano che tagli pesanti come quelli annunciati a partire dal biennio 2010-2011 (oltre 1 miliardo di euro, su una base di circa 7) non possano aiutare la guarigione dell’Università ma solo accelerarne la morte. Date queste premesse, plaudono ai primi timidi tentativi di limitare gli sprechi, ma si battono per attenuare l’entità dei tagli.

Quanto al governo, pare convinto che gli sprechi siano così ampi e diffusi da giustificare il piano di tagli draconiani varato da Tremonti con la Finanziaria 2009. Se ha ceduto, un po’ è perché è stato convinto (ad esempio sull’opportunità di differenziare i tagli), un po’ è perché è stato costretto dalla piazza, ovvero dalla paura di perdere consensi. E’ difficile che conceda ancora molto.

Ma come stanno effettivamente le cose nelle università?

A me pare che, se si analizzano senza pregiudizi i bilanci e i risultati (cose entrambe possibili, grazie ad anni di lavoro di varie istituzioni e comitati), si arrivi inesorabilmente a una conclusione che non può piacere a nessuno dei tre attori politici in campo: né ai duri e puri della Cgil, né ai dialoganti, né al governo. E’ una conclusione drammatica, che quindi risulterà sgradita a tutti, ma mi sembra l’unica compatibile con i dati di cui disponiamo. Ebbene la conclusione è questa: è vero che l’Università pubblica non è in grado di sopravvivere ai tagli di Tremonti, ma è contemporaneamente vero che ne meriterebbe di ancora più profondi.

Provo a spiegare i due pilastri della mia conclusione. L’università non può sopravvivere ai tagli dei fondi pubblici perché il peso degli stipendi è così forte (circa l'89% del finanziamento ordinario, a sua volta un po’ meno del 50% del budget), e soggetto ad automatismi così implacabili, che nemmeno il blocco totale del turnover (con conseguente esclusione delle nuove leve) consentirebbe di garantire anche solo la metà delle economie previste dalla Finanziaria. La massa stipendiale che l’università risparmia ogni anno per i pensionamenti, infatti, è dello stesso ordine di grandezza degli aumenti più o meno automatici legati a scatti di anzianità e inflazione, e quindi è destinata a rimanere sostanzialmente invariata nel tempo anche se d’ora in poi non venisse assunto più nessuno. Fin qui hanno ragione gli oppositori ragionevoli del governo.

C’è però anche l’altra faccia del problema, ovvero gli sprechi. Negli ultimi dieci-quindici anni l’università non solo è cresciuta male, nel senso che non ha reclutato i migliori (ed è un grande merito di studenti e mass media averlo denunciato), ma è cresciuta troppo, nel senso che si è preoccupata molto delle carriere e poco del reclutamento e dei servizi agli studenti. Questa iper-crescita è stata generalizzata, ma in alcuni territori e in alcuni atenei ha raggiunto livelli assolutamente abnormi, sfasciando i conti e creando veri e propri carrozzoni. I confronti fra istituzioni sono sempre difficili da condurre in modo rigoroso, ma provando e riprovando in vari modi possibili (con il passato, con altri paesi, fra atenei) ho maturato la convinzione che le risorse economiche di cui l’università italiana può disporre sono poche rispetto al prodotto interno lordo, ma sono tantissime rispetto a quello che produce (quantità e qualità dei laureati). Non arrivo a sostenere, come fa Roberto Perotti nel suo bel libro (L’università truccata, Einaudi 2008), che la nostra spesa per studente sia fra le più alte del mondo, ma non posso non rilevare che il nostro output, misurato nel modo più elementare, ossia come percentuale di giovani che conseguono la laurea, è poco più della metà della media Ocse. La conclusione è amara ma inevitabile: se in passato avessimo adottato pratiche più virtuose, oggi potremmo avere il medesimo output con molti meno quattrini, o avere un output decisamente maggiore a parità di risorse. Da questo punto di vista ha perfettamente ragione il governo a stigmatizzare il cattivo uso che gli atenei hanno fatto della loro autonomia.

Il problema politico, dunque, è che c’è molto di vero sia nella diagnosi degli oppositori dialoganti (à la Bonanni) sia in quella dei ministri ragionevoli (à la Gelmini). E’ vero che l’università non può reggere i tagli previsti, ma è anche vero che - per essere efficiente - dovrebbe farne ancora di più. Come se ne esce ?

Personalmente penso non se ne uscirà, perché sia il governo sia i suoi oppositori hanno una sola vera stella polare: massimizzare il consenso, conservare il potere di cui dispongono. Se però se ne volesse uscire una via ci sarebbe. E’ il tempo il fattore chiave. Il governo deve rendersi conto che le razionalizzazioni richiedono tempo, molto tempo, tanto più in un paese in cui la macchina burocratica rallenta qualsiasi processo, virtuoso o vizioso che sia. Gli atenei, a loro volta, non possono pretendere di ottenere ulteriori risorse prima di aver mostrato di essere capaci di tagliare i rami secchi (dove ci sono, naturalmente) e di fare qualche sacrificio (magari partendo da stipendi e carriere). Decidano come farlo, si prendano il tempo necessario, ma lo facciano. Altrimenti nessuno potrà difenderli dal discredito che si sono attirati in questi lunghi anni di follia.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - L'agonia dello Stato minimo
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2008, 02:11:04 pm
24/11/2008
 
L'agonia dello Stato minimo
 
LUCA RICOLFI

 
In questi giorni tutti i giornali parlano della tragedia di Rivoli, ma non vorrei che ce ne dimenticassimo troppo presto, come purtroppo è successo tante volte in passato.

Perché tendiamo a dimenticare? E perché, soprattutto, non impariamo mai dall’esperienza? Lo stato disastroso dei nostri edifici scolastici era noto da tempo, come è documentato da varie accurate rilevazioni del ministero della Pubblica Istruzione (vedi i servizi alle pagine 2 e 3), nonché dalla lunga serie di interventi legislativi che in materia di edilizia e di sicurezza si sono susseguiti nell’ultimo quindicennio, a partire dalla legge 626 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Nonostante ciò, e a dispetto di alcune lodevoli eccezioni (tra cui quella del Comune di Torino), pochissimo è stato fatto. Lo stato delle nostre scuole, specie nel Mezzogiorno ma anche in parecchie realtà del Centro-Nord, è spesso poco degno di un Paese civile: difettano protezioni contro i sismi, gli incendi, i cedimenti strutturali, i cortocircuiti elettrici, ma mancano anche, semplicemente, le condizioni minime di decoro, tutto ciò che può ricordare ai ragazzi che il luogo in cui studiano non è un luogo qualsiasi ma è un’istituzione, che merita il loro pieno rispetto. Un analogo degrado pervade in misura inaccettabile quasi tutti i grandi pilastri della vita sociale. Gli ospedali, ad esempio, alle volte malandati perché troppo vecchi, a volte malandati perché mai nati (sono oltre 100 gli ospedali finanziati e mai completati). O le caserme, i posti di polizia, i palazzi di giustizia, gli uffici che ti fanno sentire suddito più che cittadino.

Per non parlare delle aule universitarie ricavate in cinema, capannoni, o semplici alloggi. O delle carceri, che tutti i governi hanno lasciato in uno stato di deplorevole degrado. O delle strade pericolose, delle ferrovie antiquate, delle discariche illegali. Dei treni sudici, dei bagni sempre guasti, delle strade coperte di immondizia. Non è solo la scuola che è in stato di abbandono, ma lo sono quasi tutte le grandi infrastrutture fisiche del paese. È di qui che dobbiamo ripartire se vogliamo che tragedie come quella di Rivoli o di San Giuliano non si ripetano più. Quel che dobbiamo chiederci non è semplicemente perché tante scuole siano fatiscenti, ma è come mai, lentamente, le grandi strutture materiali del Paese - il suo hardware, verrebbe da dire - si stiano sbriciolando come grissini.

Una prima ovvia risposta è che l’hardware si sbriciola perché pensiamo quasi soltanto al software. Da almeno quindici anni, ossia da quando il debito pubblico è diventato la priorità delle priorità, la politica economica risparmia sistematicamente sulla manutenzione delle infrastrutture fisiche (l’hardware del sistema Italia), e dilapida le poche risorse disponibili in spese improduttive e stipendi pubblici (il software del sistema Italia). La storia sarebbe lunga da raccontare tutta quanta e nei dettagli, ma la realtà è che negli ultimi quindici anni - quale che fosse il colore politico dei governi - in quasi tutti i settori della pubblica amministrazione la maggior parte delle risorse disponibili sono state convogliate sugli avanzamenti di carriera e sottratte agli investimenti e agli acquisti.

È accaduto così che tra avanzamenti automatici, corsi di formazione più o meno fasulli, lauree facili (primo fra tutti lo scellerato programma «laureare l’esperienza»), la piramide gerarchica della pubblica amministrazione è stata stravolta, con due conseguenze fondamentali: una contrazione delle ordinarie risorse per il funzionamento (dalla benzina, alla carta, ai computer) e una grave perdita di efficienza organizzativa (perché un esercito di generali non combatte). In questa triste vicenda la scuola è stata colpita due volte: come gli altri settori della pubblica amministrazione è rimasta a corto di ossigeno sul versante degli investimenti edilizi e su quello delle risorse per il funzionamento, ma a differenza degli altri settori della pubblica amministrazione non ha potuto beneficiare di significativi avanzamenti perché non esiste una vera e propria carriera degli insegnanti, come ne esistono invece per i medici, i professori universitari, i magistrati, i militari, i poliziotti, i burocrati.

Dobbiamo dunque prendercela con i politici, ciechi di fronte ai veri interessi del paese?

Forse no, se riflettiamo su come funziona l’opinione pubblica e su cosa davvero riesce a scuotere la cosiddetta società civile. L’opinione pubblica dimentica con sorprendente rapidità le tragedie collettive, quelle che oggi ci fanno stringere intorno alle famiglie dei ragazzi di Rivoli, ma è estremamente vigile sugli interessi particolari delle innumerevoli categorie, corporazioni, lobby che si contendono quel che resta della nostra povera Italia. Se i politici, quando hanno 100 euro da spendere, ne destinano così pochi all’hardware del paese e così tanti al suo software, è perché hanno capito che quest’ultimo ci interessa molto più del primo. Possiamo indignarci quando crolla una scuola, quando deraglia un treno, quando un ospedale è invaso dagli scarafaggi, ma non siamo disposti a rinunciare a un pezzettino del nostro modesto benessere per vivere in un paese in cui queste cose non succedano più. I consumi privati ci interessano di più degli investimenti pubblici, lo Stato sociale, fatto di sanità, pensioni e assistenza, ci interessa di più dello Stato minimo, fatto di infrastrutture fisiche e funzioni fondamentali.

Proviamo a immaginare che cosa succederebbe se un ministro dicesse: la messa in sicurezza delle scuole costa 5 miliardi, per finanziarla propongo di bloccare tutti gli aumenti retributivi nel pubblico impiego (ad esempio: 1 anno gli stipendi bassi, 2 quelli medi, 3 quelli alti). Ci sarebbe una sollevazione, e mille eloquenti argomentazioni e sottili distinguo farebbero immediatamente naufragare la proposta, o qualsiasi altra idea consimile. I politici l’hanno capito, sanno perfettamente che l’agonia dello Stato minimo non è la prima delle nostre preoccupazioni. Sta a noi dimostrare che si sbagliano.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Il sentimento del Nord
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2008, 09:54:24 am
29/11/2008
 
Il sentimento del Nord
 
LUCA RICOLFI

 
E’ un bel po’ di anni che se ne parla, ma nell’ultima settimana - dopo l’intervista di Sergio Chiamparino a questo giornale - se ne discute di più. Di un partito del Nord distinto dalla Lega, relativamente libero nelle sue alleanze, si cominciò a ragionare più o meno quindici anni fa, quando la Lega di Bossi fece cadere il primo governo Berlusconi (1994), e per circa cinque anni rimase «in sospensione» fra sinistra e destra, fino al rientro nell’alveo del centro-destra (2000). Poi il tema scivolò fuori del dibattito, salvo riaffacciarsi timidamente nel 2007, dopo le sconfitte della sinistra nelle elezioni amministrative di primavera. Pochi mesi dopo, con la costituzione del Partito democratico (autunno 2007) il tema pareva di nuovo e definitivamente sepolto, perché tutti i leader del Nord, compresi quelli che ora vagheggiano un distacco dal Pd romano, preferirono accontentarsi della promessa veltroniana di una «forte struttura federale» piuttosto che lanciarsi nell’avventura di un partito veramente autonomo. Non ho mai capito perché, allora, Cacciari, Chiamparino, Penati e gli altri principali dirigenti del Nord si siano lasciati incantare da Veltroni: che la confluenza nel Pd fosse uno schiaffo alle aspirazioni del Nord era più che evidente a qualsiasi osservatore disincantato. Quindi, pur essendo fra quanti hanno ripetutamente caldeggiato la nascita di un Partito del Nord, capisco ancora meno l’improvvisa conversione di questi giorni. Chissà, forse è solo una questione di voti, che ieri ci si illudeva di agganciare con la nuova creatura veltroniana, e oggi si è compreso benissimo che non torneranno mai più all’ovile.

Al di là delle beghe interne al Partito democratico, tuttavia, la domanda resta: vale la pena dar vita a un partito del Nord distinto dalla Lega? Dipende. In termini di carriere politiche è sicuramente indispensabile: la sinistra aveva perso la maggioranza dell’elettorato del Nord già nel 1948, e dopo il 1994 non ha fatto che perdere ulteriore terreno. Chi vuole fare politica al Nord senza confluire né nella Lega né nel partito di Berlusconi è dunque costretto a pensare a un contenitore nuovo. Ma per noi elettori è veramente utile? O meglio ancora: c’è spazio, oggi, per una nuova formazione politica che abbia il suo baricentro nel Nord e non sia l’ennesimo partitino? Secondo me sì, anche se tale spazio - per ora - non è grandissimo (diciamo che è fra il 10% e il 20% dei voti validi). Lo spazio si è creato poco per volta, ma le vicende politiche degli ultimi anni lo hanno notevolmente allargato. Oggi è molto più chiaro di ieri che né la destra né la sinistra attuali sono in grado di entrare in sintonia con il sentimento centrale delle regioni settentrionali, uno stato d’animo che è ampiamente diffuso nel Nord ma, sia pure in diversa misura, è presente in tutte le aree del Paese e in tutti gli strati sociali. Ci sono molti modi di mettere a fuoco tale sentimento, ma quello più chiaro a me pare efficacemente racchiuso in un’espressione di Lucia Annunziata ai tempi del governo Prodi, quando ebbe a parlare di un «generale senso di ingiustizia» serpeggiante nel Paese. Tale sentimento è particolarmente diffuso nel Lombardo-Veneto perché, qualsiasi campo si consideri, la scuola, l’università, la sanità, l’assistenza, la burocrazia, quei territori sono al tempo stesso i più virtuosi del Paese e i meno rappresentati dalla politica (a dispetto dei lombardi presenti nel governo nazionale). Ma è diffuso anche altrove, ovunque ci si rende conto che il merito è calpestato, gli sprechi e i privilegi sono inestirpabili, gli umili soccombono ai prepotenti, gli onesti sono calpestati dai furbi. Il Paese non chiede semplicemente meno tasse e migliori servizi, ma più equità e più responsabilità individuale. Di fronte a questa domanda, che spira impetuosa dal Nord ma esiste ovunque, un cittadino si aspetta dagli altri quel che pretende da sé stesso, le forze politiche si mostrano incapaci di fornire risposte convincenti. Nessuna di esse ha interesse a ripulire le istituzioni dall’invadenza dei partiti, come mostrano le non-riforme in campi vitali quali la sanità, la Rai, ma soprattutto i servizi pubblici locali, che solo Linda Lanzillotta provò (invano) a sottrarre alla voracità dei politici locali. L’azione della destra è paralizzata dal peso degli interessi egoistici e clientelari del Mezzogiorno, che hanno già indotto la Lega stessa ad annacquare enormemente il suo modello di federalismo fiscale. La sinistra, anziché combattere questa deriva conservatrice della destra, la asseconda in nome di un malinteso principio di solidarietà, che la porta a tutelare i territori inefficienti e a ignorare la domanda di equità che proviene da quelli virtuosi. La sinistra, in altre parole, confonde l’equità con la solidarietà, e sembra non capire che il Nord non è nemico della solidarietà, ma della sua versione incondizionata: se le risorse sono scarse, non puoi donare senza condizioni, ma hai il dovere civile di pretendere che non vadano dissipate. Queste, a mio parere, sarebbero le sole ragioni per far nascere un partito del Nord. Un partito del Nord ha senso se riesce a essere, al tempo stesso, più aperto e più rigoroso della Lega. Più aperto con l’altro, a partire dagli immigrati e dai «non padani». Più rigoroso sui temi del merito e della giustizia territoriale, ossia più e non meno federalista della Lega. Ma il conservatorismo mentale della sinistra e dei suoi uomini è così grande, che dubito che una rivoluzione simile possa essere compiuta nel breve volgere di una stagione politica.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Le parole tra noi leggere
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2008, 09:54:57 am
8/12/2008 - I GUAI DEL PD
 
Le parole tra noi leggere
 
LUCA RICOLFI
 

Genova, Firenze, Perugia, Roma, Napoli. Per non parlare dell’Abruzzo e della Calabria. Da Nord a Sud, ma specialmente nelle regioni rosse e nel Mezzogiorno, le inchieste giudiziarie stanno travolgendo il partito di Veltroni.

Gli elettori di sinistra sono, per l’ennesima volta, sgomenti e stupefatti. Eppure non dovrebbero esserlo più di tanto. Lo spettacolo cui oggi assistiamo, infatti, non è iniziato nelle ultime settimane, ma continua ad andare in scena da anni. Ed era largamente prevedibile, perché le sue radici non stanno in qualche errore dell’oggi, ma in meccanismi e scelte politiche che risalgono molto indietro nel tempo.

La reazione a Tangentopoli (1992), innanzitutto. Se oggi siamo a questo punto è anche perché la politica - tutta la politica, non solo quella della sinistra - anziché reagire a Tangentopoli tentando un’autoriforma preferì battere un’altra strada: la legalizzazione dell’abuso di potere. Un tassello dopo l’altro, un intero sistema di norme penali e amministrative venne riconfigurato per rendere possibile il finanziamento e l’espansione del potere dei partiti anche senza violare la legge: chi è curioso di sapere come questo capolavoro normativo venne messo a punto può leggere l’eccellente ricostruzione fornita già qualche anno fa da Salvi e Villone nel loro libro Il costo della democrazia (Mondadori, 2005; vedi in particolare i capitoli 6, 7, 8). La bellezza di questa ricostruzione, dovuta a due docenti di diritto, entrambi di sinistra ed entrambi provenienti dalle file dei Ds, è che essa spiega sia l’aumento dei comportamenti contrari all’interesse generale, sia la loro scarsa perseguibilità da parte della magistratura.

All’analisi di Salvi e Villone, che già allora profetizzavano l’imminente impantanamento morale del futuro Partito democratico, è forse il caso di aggiungere che la storia continua, e continua in termini rigorosamente bipartisan: proprio perché il ceto politico è innanzitutto una corporazione, né la destra né la sinistra hanno mai provato a cambiare veramente le regole della sanità, né a varare una riforma incisiva dei servizi pubblici locali, come mostra la triste storia del disegno di legge Lanzillotta. Se lo avessero fatto, avrebbero chiuso, o perlomeno inaridito, i due principali rubinetti da cui il ceto politico locale trae le «risorse» per autofinanziarsi e per espandere il proprio potere. L’importanza dell’analisi di Salvi e Villone, come di altre metodologicamente consimili (penso ad esempio al recente libro di Roberto Perotti L’università truccata, o al volume Toghe rotte di Bruno Tinti, procuratore aggiunto a Torino) è che esse non si limitano a denunciare la disonestà dei protagonisti, ma mostrano come certe macchine che non funzionano - le amministrazioni locali, la magistratura, l’università - non falliscano semplicemente perché ci sono in giro troppi disonesti, bensì perché sono «programmate per non funzionare», come ha giustamente rilevato Marco Travaglio nell’introduzione al libro di Tinti.

Ci sono poi le scelte politiche e culturali. Nonostante Tangentopoli, e a molti anni di distanza, né la sinistra nel suo insieme né il Partito democratico hanno mai rinunciato veramente al mito di un primato morale della sinistra. Non lo ha fatto Fassino, non lo ha fatto Prodi, ma non lo ha fatto nemmeno Veltroni, che anzi per certi versi ha rilanciato l’idea che la «bella politica» - fatta di onestà e trasparenza, democrazia interna e partecipazione - potesse essere la marca distintiva del partito nato dalla fusione di Ds e Margherita. Questo è stato un errore madornale, perché certe parole non si possono pronunciare invano: se un partito è fatto di gente capace e disinteressata non ha bisogno di proclamarlo, ma se lo proclama non può assolutamente permettersi di non esserlo. Soprattutto non può permettersi quel che Veltroni ha permesso in questo primo anno di guida del Pd: non solo decisioni verticistiche e beghe correntizie, ma sostanziale rinuncia a fare pulizia in casa propria, ossia l’unica cosa che un partito può tentare finché le regole restano quelle che sono.

Spiace ritornare sul punto più spinoso, quello delle candidature e degli eletti, ma occorrerà pure farsi qualche domanda. Perché, quando si è trattato di scegliere i candidati alle ultime elezioni politiche, il Pd non ha deciso di escludere non dico tutti gli inquisiti, ma tutti i rinviati a giudizio, o almeno tutti i condannati? O dobbiamo pensare che l’opinione che i dirigenti del Pd hanno della magistratura è così negativa, e così diversa da quella proclamata in pubblico, da suggerire di ignorare completamente gli indizi che emergono dalla sua attività? Non ci si rende conto che, specie con una legge elettorale che sottrae ai cittadini-elettori ogni possibilità di scelta dei candidati, mettere in lista persone condannate, prescritte o rinviate a giudizio contraddice i propositi di moralizzazione così copiosamente sbandierati in campagna elettorale? O basta a consolare i dirigenti del Pd il pensiero che le file della destra sono ancora più inquinate delle loro?

Per non parlare del caso Bassolino, e più in generale del disastro della Campania, a partire dallo scandalo dei rifiuti. Veltroni e i suoi hanno una vaga idea di quel che passa per la mente di un elettore di sinistra quando, a più riprese e senza smentita, deve leggere sui giornali che il Pd pensa di far dimettere Bassolino in cambio di un seggio di parlamentare europeo, dove potrà riposarsi percependo qualcosa come 200 mila euro l’anno? Da quanto tempo ormai sappiamo in che condizioni il sistema di potere di Bassolino ha ridotto la Campania?

Non sono tra coloro che rimpiangono lo stalinismo, e non vorrei mai sentire la parola espulsione. Ma sento una sproporzione, uno stridore insopportabile, fra il trattamento di Bassolino e quello di Villari, reo di non essersi dimesso dalla presidenza della commissione di Vigilanza della Rai. Il partito di Veltroni è così debole che dopo anni di malgoverno della Campania non riesce nemmeno a sospendere Bassolino dal Pd, mentre impiega pochi giorni a espellere il «cattivo» Villari, senza dargli nemmeno il tempo di malgovernare la Rai?

Così, alla fine, non posso non sottoscrivere le meste parole con cui ieri, sul Corriere della Sera, Arturo Parisi descriveva la situazione del Partito democratico: «Son le parole che con troppa leggerezza abbiamo lanciato verso il cielo, a ricadere come macigni pesanti sulle nostre teste». Già, certe parole - onestà, democrazia, trasparenza, etica, bella politica - non si possono dire spensieratamente, pensando di non essere presi in parola. L’elettorato di sinistra, specie quello militante, è spesso ingenuo e idealista, ma proprio per questo non è preparato alle sorprese più amare.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Occorre una visione del futuro
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2008, 05:57:24 pm
15/12/2008
 
Occorre una visione del futuro
 
LUCA RICOLFI
 

Zig-zag. Stop and go. Tatticismo. Navigazione a vista. Politica degli annunci. Gioco delle tre carte. Incursioni e marce indietro. Potete usare le parole che preferite, però l’impressione resta quella: il governo appare in preda a continui «strattonamenti», che trasmettono all’elettorato una sensazione di precarietà e sostanziale debolezza. È il caso, per citare esempi recenti, delle più o meno effettive marce indietro su università, scuola, sconti fiscali per le ristrutturazioni «ecologiche».

Ma è anche il caso dei ripetuti rinvii della riforma della giustizia, del disegno di legge delega sul federalismo fiscale, per non parlare della riforma organica del Welfare, in particolare in materia di ammortizzatori sociali.

Di fronte a questo spettacolo, l’interpretazione che prevale nei commenti è che il centro-destra si stia rendendo conto che, senza concedere qualcosa a opposizione e sindacati, sia difficile mantenere il consenso dell’elettorato. Di qui il passaggio da una stagione di riforme dall’alto, imposte con blitz legislativi, a una stagione di riforme balbettate, abbozzate o «facoltative», come le ha sarcasticamente bollate Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. L’interpretazione tatticista, per cui il governo agirebbe come agisce essenzialmente per non far salire troppo la tensione nel Paese, è più che ragionevole (nessun governo può prescindere completamente dal consenso) ma non mi convince fino in fondo. La mia impressione è che l’erraticità del comportamento del governo abbia radici al tempo stesso più banali e più profonde.

Radici banali, innanzitutto. Sarò forse un ingenuo, ma a me certi «errori» legislativi paiono semplicemente frutto di fretta, superficialità e impreparazione tecnica. Voglio dire che certe marce indietro non mi paiono vere concessioni all’opposizione, bensì semplici tributi al buon senso, ossia correzioni di errori che si sarebbero tranquillamente evitati se i ministri studiassero i problemi prima di decidere, e disponessero di staff tecnici più competenti.

Faccio solo tre esempi di provvedimenti chiaramente mal concepiti, ma successivamente corretti: il blocco uniforme del turnover nell’università, che puniva anche gli atenei «virtuosi»; la riduzione degli incentivi fiscali alle ristrutturazioni «ecologiche», che aveva persino aspetti aberranti, come la retroattività e il silenzio-diniego; le riforme scolastiche, prive di garanzie esplicite alle famiglie (tempo pieno) e di una dettagliata valutazione tecnica dei tempi e dei modi di attuazione (con conseguente rivolta degli enti locali).

A questi tre esempi di fragilità tecnica se ne dovrebbe forse aggiungere un quarto, di enorme importanza: a tutt’oggi sembra ancora in alto mare la costruzione di quella «base di dati condivisa» che giustamente il ministro Tremonti vede come precondizione di avvio del federalismo. In breve, a me sembra che di fatto il governo stia facendo un po’ come quei produttori di software che, dovendo rispettare una certa data per mettere sul mercato nuovi prodotti, o nuove versioni dei prodotti precedenti, usano gli utenti come cavie, contando di riparare i «bachi» in un secondo momento, quando le cavie avranno segnalato tutti i malfunzionamenti dei nuovi sistemi. Fuor di metafora: non sarebbe meglio che i governi (il discorso vale anche per il passato) studiassero attentamente l’impatto delle norme prima di vararle, anziché ricorrere sistematicamente a emendamenti del governo stesso, più o meno suggeriti dall’opposizione e dalla piazza?

Ma non c’è solo questo, forse. L’erraticità dell’azione di governo ha anche radici più profonde. Anche qui potrei sbagliarmi, ma la mia sensazione è che il governo di centro-destra non abbia né la convinzione né le capacità - la cultura, verrebbe da dire - che sarebbero necessarie per difendere le proprie scelte, o meglio ancora la propria visione del futuro del Paese. Se tanto spesso il governo è indotto a rivedere le proprie decisioni, comunicando così una sensazione di debolezza, non è solo perché si trova costretto a correggere ex post errori commessi per fretta o superficialità, ma perché questo governo, o forse sarebbe meglio dire questa destra, riesce ad avere torto anche quando ha sostanzialmente ragione. Certe marce indietro sono dovute al fatto che, arrivato al dunque, il governo si rende conto che l’opinione pubblica non capirebbe, e non capirebbe perché non è preparata a determinate scelte. Ma perché l’opinione pubblica non è preparata?

È qui che le spiegazioni del governo diventano carenti. Berlusconi dice che sono stati fatti errori di comunicazione. La Gelmini dice che è colpa dell’informazione, che non fa il suo mestiere. Hanno entrambi ragione, come non ho mancato di rilevare più volte io stesso quando ho denunciato il mare di falsità che sindacati, opposizione e stampa partigiana hanno diffuso in questi mesi sulla riforma della scuola. Però accusare gli altri non basta: i timori delle famiglie sul tempo pieno, o sul destino dei ragazzi nel pomeriggio, non possono essere dissolti solo con comunicati, interviste, conferenze stampa, se poi quelle assicurazioni non hanno un riscontro preciso e inequivocabile nelle norme di legge. Altrimenti succede quel che è successo nei giorni scorsi in materia di riforme scolastiche: il governo mantiene l’80% di quel che aveva deciso (compreso maestro unico e abolizione del «modulo», ossia dei 2 insegnanti per 3 classi), ma quel che passa nell’opinione pubblica è che l’opposizione avrebbe costretto il governo alla ritirata, quando la realtà è molto più prosaica: la riforma Gelmini non è mai stata brutta come l’opposizione amava dipingerla, e già prima della presunta retromarcia era evidente (almeno a chi avesse avuto la pazienza di fare i conti) che i risparmi di spesa consentiti dall’eliminazione delle compresenze erano sufficienti ad aumentare il numero di classi a tempo pieno.

Insomma, a me pare che il governo stenti a capire quanto importante sia oggi preparare l’opinione pubblica alle riforme, ben prima e al di là della doverosa informazione sulle singole leggi e riforme. Non solo perché la cultura riformista è minoranza nel Paese, ma perché in un periodo di crisi la gente ha più che mai bisogno di ragionevoli certezze, di sapere dove il timoniere intende portare la nave. Visione, la chiamerebbe forse Tremonti; egemonia, l’avrebbe chiamata Gramsci. Se non c’è tutto questo, è inutile invitare la gente a sperare, ad avere fiducia, a essere ottimisti, e tanto meno a investire e spendere in regali di Natale.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Elettori in ritirata
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2008, 10:43:32 am
22/12/2008
 
Elettori in ritirata
 
LUCA RICOLFI
 

Ormai la tendenza degli italiani è piuttosto chiara: se domani si tornasse a votare, l’unico partito che potrebbe sfidare il Popolo della Libertà di Berlusconi è il partito del non voto. È già oggi così in Piemonte, dove un recente sondaggio di «Contacta» per La Stampa ha rivelato che astensionisti e indecisi sono più numerosi di quanti intendono votare Pdl.

E’ già così in Abruzzo dove le elezioni regionali hanno consegnato poco meno di 300 mila voti al candidato del centro-destra, mentre gli astensionisti sono stati quasi 600 mila.

Se queste tendenze dell’opinione pubblica dovessero consolidarsi, e l’offerta politica dovesse restare quella di oggi, nel giro di breve tempo potremmo assistere a uno scenario surreale: un partito maggioritario ma privo di rappresentanza parlamentare, costituito dagli italiani che non scelgono alcun partito; un partito sistematicamente vincente, il Pdl, che però rappresenta meno del 30% degli italiani; un partito sistematicamente perdente, il Pd, che rappresenta a stento il 20% degli italiani; e infine un branco di partiti inseguitori o concorrenti, nessuno dei quali capace di rappresentare più del 10% dell’elettorato.

Quando ci si domanda perché stiamo arrivando a questo punto, la risposta che ascoltiamo più di frequente è che gli italiani hanno ormai perso ogni fiducia nel ceto politico e sono disgustati dal periodico riemergere della questione morale. Soprattutto a sinistra, si tende ad autoflagellarsi, e si imputa a Veltroni di non aver saputo garantire quel rinnovamento che con tanta enfasi era stato promesso. Tutto vero e tutto giusto, naturalmente. Però, se vogliamo capire quel che sta succedendo, forse è il caso di osservare più da vicino la dinamica elettorale recente. Il crollo dei consensi a sinistra non è avvenuto adesso, con la sconfitta in Abruzzo, ma otto mesi fa, con le elezioni politiche di aprile. È lì che il messaggio del centro-sinistra ha fatto cilecca, anche se non è facile stabilire perché (eccessiva continuità con Prodi? Candidature calate dall’alto? Troppi inquisiti nelle liste?). La controprova è che domenica scorsa, in Abruzzo, la sinistra nel suo insieme è andata avanti rispetto al livello delle politiche di aprile (come percentuale di voti validi), e questo nonostante l’arresto del governatore uscente Del Turco (targato Pd) e l’esplodere di ogni sorta di scandali in regioni governate dalla sinistra come la Toscana, la Campania, la Calabria.

Più che punire la sinistra, il voto abruzzese sembra avere punito il partito di Veltroni e premiato tutte le liste satelliti, dall’Italia dei Valori all’estrema sinistra, cresciute non solo rispetto alle Politiche del 2008 ma anche rispetto alle Regionali del 2005. Corrispondentemente, il peso del Pd sull’insieme della sinistra è sceso sotto il 42%, contro il 73% delle Politiche (2008) e il 62% delle Regionali (2005). L’impressione di una avanzata della destra, dunque, è frutto di un’illusione prospettica, dovuta al fatto che si guarda solo alla variazione 2005-2008 (Regionali su Regionali), senza riflettere sul crollo del numero assoluto di consensi avvenuto fra aprile e dicembre di quest’anno, ma soprattutto sul fatto che tale crollo è stato ancora più drammatico a destra che a sinistra, nonostante gli ultimi scandali abbiano colpito quasi esclusivamente la sinistra.

In breve, la mia impressione è che la questione morale, in quanto riemersa soprattutto a carico del Pd, ha per ora l’effetto di occultare una crisi di consenso che riguarda anche la destra. Il ritiro della partecipazione elettorale, annunciato nei sondaggi e già praticato nelle urne, coinvolge infatti sia la destra sia la sinistra, seppure per ragioni diverse.

A sinistra esso è prima di tutto il frutto delle non-scelte di Veltroni, non solo sul terreno etico (poco coraggio sugli inquisiti e sui cattivi amministratori) ma in materie politiche ordinarie come scuola, università, Welfare, federalismo, giustizia, bioetica: il popolo di sinistra è demoralizzato da una direzione che gli appare confusa e perennemente oscillante fra le sirene del dialogo e le tentazioni demagogiche. A destra, invece, il ritiro della partecipazione è il frutto dell’incapacità del governo - ma forse sarebbe meglio dire: della classe dirigente nel suo insieme - di fornire agli italiani le garanzie e le certezze di cui sentono il bisogno. Troppi, in questo drammatico periodo di crisi, sono stati i segnali di improvvisazione e di incertezza: decreti votati in gran fretta e poi modificati, annunci non seguiti da azioni concrete, inviti al dialogo alternati ad attacchi durissimi a sindacato e opposizione, senza parlare dei ripetuti segnali di discordia interni alla maggioranza (Bossi contro Berlusconi), o fra i supremi custodi dell’economia (Tesoro contro Banca d’Italia). Il governo pare non rendersi conto che, in una situazione di gravissima crisi dell’economia, questo stillicidio di provvedimenti, non sostenuti dalla capacità di indicare al Paese una strada, erode innanzitutto il consenso del governo stesso, e che la salute di cui Berlusconi pare godere nei sondaggi sulle intenzioni di voto è drogata dal discredito che l’inconcludente disputa Veltroni-Di Pietro getta su tutta la sinistra.

Vedremo chi si logorerà prima, se gli italiani puniranno di più l’incapacità dell’opposizione di darsi una linea politica o l’incapacità del governo di ridurre l’incertezza dei cittadini. Ma potrebbe anche accadere che, alla lunga, gli italiani finiscano per punire entrambi, ingrossando i ranghi del partito del non voto. In quel caso non è escluso che la transizione verso un «bipolarismo maturo» si interrompa bruscamente e, come quindici anni fa, sulla scena politica irrompano attori radicalmente nuovi, o che perlomeno proveranno a sembrarlo.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Le due verità
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2008, 05:34:29 pm
24/12/2008 - LUCA RICOLFI
 
Le due verità
 
 
Ieri le prime pagine di quasi tutti i quotidiani riportavano la notizia secondo cui più di un milione di famiglie «non ha i soldi per mangiare», e ben 15 famiglie su 100 «faticano ad arrivare a fine mese». Di qui una serie di dichiarazioni preoccupate di politici e sindacalisti sulla gravità della crisi e la drammaticità della situazione delle famiglie italiane. Fonte della notizia: l’ultima indagine Istat sui redditi e le condizioni di vita in Italia, da cui effettivamente risulta che una famiglia su sette non riesce a quadrare il bilancio. Solo i due principali quotidiani della destra, Il Giornale e Libero, con due editoriali di Nicola Porro e Gian Luigi Paragone, hanno provato a raccontare un’altra verità, anch’essa sorretta da numerosi dati di segno contrario. Gli italiani, sostengono i due quotidiani vicini al governo, si preparano a trascorrere un Natale non molto diverso dal precedente, il numero dei vacanzieri è in aumento, i buoni affari - favoriti da massicci sconti - si moltiplicano, le prenotazioni nelle località di montagna sono su buoni livelli, le rate dei mutui stanno scendendo e i prezzi delle case pure. Chi ha ragione? Che cosa sta realmente succedendo? Hanno ragione entrambi, naturalmente, perché i dati sono dati, ed entrambe le letture poggiano su dati sufficientemente attendibili. Però i dati, se mi permettete il gioco di parole, hanno anche una data, come il latte, lo yogurt e le merendine. Il sapore di uno yogurt non è esattamente lo stesso se la confezione è integra, o invece è scaduta da un anno abbondante. È quel che è successo ieri con i dati Istat, che sono stati diffusi a fine 2008 ma erano stati rilevati nell’autunno del 2007 (più di un anno fa), in un momento in cui si cumulavano quattro gravissimi fattori di sofferenza per le famiglie: una fiammata inflazionistica, l’aumento del costo dei mutui, i primi effetti della crisi dei mutui subprime, la stangata fiscale della prima Finanziaria del governo Prodi. Da allora la situazione è completamente cambiata, nel bene e nel male. Vediamo rapidamente come. Sul versante occupazionale le cose vanno decisamente peggio, perché parecchi lavoratori hanno perso il lavoro, le ore di cassa integrazione sono in rapido aumento, moltissimi contratti stanno per scadere e solo una parte verrà rinnovata.

Nessuno è in grado di prevedere con ragionevole accuratezza quanti nuovi disoccupati avremo l’anno prossimo, ma ben pochi dubitano che saranno parecchie centinaia di migliaia. Non per nulla il tema degli ammortizzatori sociali e la proposta di settimana corta (lavoriamo meno, lavoriamo tutti) sono balzati ai primi posti nell’agenda della politica. Altrettanto male vanno le cose nei piani alti della stratificazione sociale: chi aveva in portafoglio azioni e obbligazioni «pericolose» ha dimezzato il suo capitale di rischio, imprenditori e commercianti fanno i conti con un calo della domanda che, senza essere ancora drammatico, sta comunque erodendo i loro margini di guadagno. È possibile che il 2009 sia un anno molto duro per molti, sia in basso (disoccupati, precari, piccoli esercenti) sia in alto (imprenditori, commercianti, lavoratori autonomi in genere). Però, attenzione a non generalizzare. Disoccupati, precari e lavoratori indipendenti non sono tutta la società. La maggior parte dei capifamiglia rientrano in due altre grandi categorie: i lavoratori dipendenti (pubblici e privati) e i pensionati. Per essi, almeno finché conservano un reddito, da alcuni mesi la situazione sta sensibilmente migliorando, perché i loro redditi nominali sono in aumento (come sempre avviene per vari automatismi e trascinamenti) mentre i prezzi - per la prima volta dal 1959 - stanno diminuendo. Difficile dire di quanto, vista la scarsa sensibilità dell’indice Istat ai movimenti effettivi dei prezzi, ma non si può escludere che lo stiano facendo più in fretta di quanto suggeriscano le statistiche ufficiali: accanto a beni che aumentano di prezzo, ci sono voci di bilancio importanti come la benzina, il riscaldamento, le bollette della luce e del gas, i mutui, i viaggi, i pacchetti turistici, i prodotti nei supermercati, che stanno offrendo ai consumatori opportunità fino a ieri impensabili. Insomma, se è vero che una parte delle famiglie passa un momento difficile, è anche vero che i percettori di redditi fissi stanno aumentando il proprio potere di acquisto. Può darsi che questo momento duri poco, ma resta il fatto che per adesso è così. La controprova? Ieri l’Isae, una delle fonti statistiche più preziose per seguire la congiuntura economica in tempo reale, ha reso noti i dati di dicembre sui bilanci familiari. Ebbene essi mostrano che il momento peggiore, ancora peggiore di quello dell’autunno 2007 (periodo della rilevazione Istat), è stata la prima metà del 2008, in cui la percentuale di famiglie in difficoltà ha raggiunto il massimo storico da quando esiste l’indagine (1999), toccando - a luglio - il livello record del 22% di famiglie costrette, per quadrare il bilancio, a fare debiti o ricorrere ai risparmi. Da allora, ossia nel giro di poco più di un trimestre, il numero di famiglie in difficoltà è sceso con impressionante rapidità, passando dal 22% di luglio al 17% di ottobre al 13% di dicembre.

In breve: le famiglie in difficoltà sono quasi dimezzate in 5 mesi; rispetto al 2007, anno dei drammatici dati Istat di ieri, sono diminuite (e non aumentate, come credono i sindacati); infine, non erano mai state così poche dal 2006, unico anno di sollievo da quando l’introduzione dell’euro tagliò bruscamente il potere di acquisto degli italiani. Dobbiamo essere per questo ottimisti? Assolutamente no, perché il 2009 non promette nulla di buono. Ma, almeno, non fasciamoci la testa prima di essercela rotta. Questo è un momento strano perché convivono due verità: una grave recessione in arrivo, e un periodo - non sappiamo ancora quanto lungo - di aumento del potere di acquisto (deflazione), che dà un briciolo di ossigeno alle famiglie. Se vogliamo capire quel che succede, forse è meglio raccontarle entrambe, anziché fissarci su quella che più si accorda con i nostri pregiudizi.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Danzare sul Titanic
Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2008, 12:12:35 pm
31/12/2008 (7:53) - MANUALE DI SOPRAVVIVENZA

Danzare sul Titanic
 
DOSSIER 2009, manuale di sopravvivenza 
 
LUCA RICOLFI


Ci chiediamo tutti come sarà il 2009, ma a differenza che in passato non c’è nessuno (salvo forse i soliti astrologi) che abbia le carte in regola per formulare una previsione attendibile. Non sappiamo se ci sarà un collasso dell’economia, non sappiamo se la crisi durerà 1, 2, o 10 anni, non sappiamo se il prezzo del petrolio salirà o scenderà, non sappiamo se ci sarà inflazione o deflazione, se le Borse si risolleveranno, se l’euro si rafforzerà o si indebolirà. Non sappiamo se Israele o gli Usa attaccheranno l’Iran, non sappiamo se India e Pakistan entreranno in guerra. Non sappiamo nada de nada perché non sappiamo a chi credere, e non lo sappiamo perché la stragrande maggioranza degli esperti e delle grandi istituzioni internazionali non hanno saputo prevedere quasi nulla di ciò che è successo negli ultimi 18 mesi.

Ho fatto questa premessa perché, alle volte, la politica italiana mi pare un po’ come la danza sul Titanic. Può darsi che non si sia tutti quanti sul Titanic, e che nel giro di un anno la tempesta si plachi, ma finché non avremo la ragionevole certezza di esserne fuori sarebbe forse auspicabile un po’ di understatement, o semplicemente un po’ meno di provincialismo. C’è anche un’altra ragione per prendere con le molle i temi di cui animatamente si parla in questi giorni: federalismo, riforma della giustizia, cambiamento della forma dello Stato corrono il forte rischio di essere solo ossi gettati quotidianamente a una stampa famelica di notizie, mentre i veri cambiamenti si stanno preparando, silenziosamente, in altri luoghi e per altre vie. Voglio dire che, anche se i prossimi anni non ci riservassero scenari drammatici, e la crisi dovesse riassorbirsi in un paio d’anni, non è detto che l’Italia cambierà davvero sotto la spinta delle tre riforme di cui oggi tanto si parla. La mia impressione è che la riforma presidenzialista non si farà (o verrà abrogata da un referendum), mentre le altre due riforme - federalismo e giustizia - si faranno in modo così pasticciato e ideologico che porteranno più svantaggi che vantaggi. Dal federalismo è purtroppo lecito aspettarsi un aumento della pressione fiscale, perché l’aumento della spesa pubblica - al momento - pare il solo modo per ottenere l’accordo di tutto il ceto politico. Dalla riforma della giustizia verrà (speriamo) una maggiore tutela della privacy, ma quasi certamente al prezzo di un ulteriore aumento della criminalità di politici, amministratori e colletti bianchi in genere: non si vede, infatti, come questa magistratura potrà perseguire i reati contro la pubblica amministrazione se il ceto politico la priverà dell’odioso ma efficace strumento delle intercettazioni.

Mentre queste tre riforme - federalismo, giustizia, presidenzialismo - occuperanno il centro del dibattito pubblico, è probabile che altre riforme e altri problemi, a prima vista meno importanti, incidano assai di più e più a lungo sulla nostra vita. Penso alla riforma della scuola e dell’università (Gelmini), a quella degli ammortizzatori sociali (Sacconi), a quella della Pubblica Amministrazione (Brunetta). Si tratta di tre riforme di cui si parla più sottovoce ma che, se andranno in porto, avranno effetti molto più importanti, e a mio parere più positivi, di quelli prodotti dalle riforme maggiori. Forse non a caso già oggi istruzione, mercato del lavoro e pubblica amministrazione sono i terreni su cui, sia pure un po’ di soppiatto, l’opposizione sta collaborando più costruttivamente con il governo. Se il confronto andrà avanti su basi serie, fra qualche anno potremmo avere un sistema dell’istruzione più meritocratico, maggiori tutele per chi perde il lavoro, una pubblica amministrazione più trasparente e quindi più rispettosa dei diritti dei cittadini.

Ma il lato nascosto dei processi politici che ci attendono non si limita alle riforme ingiustamente percepite come minori. Ci sono anche temi oggi sottovalutati ma presumibilmente destinati ad esplodere. Ne ricordo solo due: il controllo dei flussi migratori e il sovraffollamento delle carceri. Sono problemi di cui si parla relativamente poco non perché siano secondari, ma perché nessuno ha interesse a farlo. Il governo non ha interesse a parlarne perché dovrebbe riconoscere un fallimento: gli sbarchi sono raddoppiati e le carceri stanno scoppiando esattamente come ai tempi dell’indulto (2006). La sinistra non può parlarne perché ormai sa che le sue soluzioni - più apertura, più tolleranza, più integrazione - riscuotono consensi solo nei salotti intellettuali. Eppure è molto probabile che l’estate prossima, con l’aumento estivo degli sbarchi, le carceri stipate di detenuti, i centri di accoglienza saturi, il governo si trovi ad affrontare un’emergenza drammatica.

Insomma, a me pare che in Italia molto di quel che realmente si muove si intraveda appena, e molto di quel che si vede non muova realmente granché. Peccato, perché a forza di guardare solo dove i politici ci chiedono di guardare, rischiamo di perderci i passaggi più interessanti, o quantomeno quelli che ci toccano più da vicino. Auguri!

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - La carta della fiducia
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2009, 11:37:50 am
6/1/2009
 
La carta della fiducia
 
LUCA RICOLFI
 

Se ripensiamo alle notizie economiche delle ultime settimane c'è da restare sconcertati. La maggior parte dei mezzi di informazione ha prima annunciato un crollo dei consumi (-20% a Natale) e un aumento della povertà (il 15% della famiglie «non ha i soldi per mangiare»), per poi accorgersi che i consumi erano sostanzialmente stabili e le notizie sulla crescita della povertà erano un po’ vecchiotte, visto che risalivano al biennio 2006-2007, ossia alla scorsa legislatura. Prima l’idea sconsolata del Natale povero, poi le immagini delle fiumane di gente in coda per le strade davanti ai negozi, pronta a spendere centinaia di euro a testa in saldi.

Ma non si tratta solo di dati detti e contraddetti. Quando non è il dato ad essere controverso, è la sua interpretazione che diventa ballerina. Nei giorni scorsi abbiamo appreso che il deficit dello Stato nel 2008, il cosiddetto fabbisogno, è risultato di quasi 8 miliardi superiore al previsto. Per alcuni è l’ennesima conferma che Tremonti sa solo sfasciare i conti pubblici, per altri è segno che il governo ha già fatto quello che l’opposizione da tempo gli chiede di fare, ossia allargare i cordoni della borsa per combattere la crisi.

Questa altalena di fatti e contro-fatti, interpretazioni e contro-interpretazioni, rende estremamente difficile orientarsi per capire quel che realmente sta succedendo nel nostro Paese. A mio parere, in questo momento, l’errore di prospettiva più grande che stiamo commettendo è quello di proiettare le nostre paure per eventuali guai futuri sulla realtà, più modesta e meno allarmante, dei segnali che attualmente ci stanno arrivando. Il fatto che nei prossimi mesi possa esserci qualche nuovo crack (come Lehman Brothers), o una crisi di panico dei risparmiatori, o una guerra nucleare fra Israele e Iran, non autorizza a pensare che già ci siamo dentro, né a ignorare i segnali positivi che continuano ad affiancare quelli negativi.

I segnali negativi sono ben noti e ribaditi ad ogni piè sospinto: aumento dei disoccupati e delle ore di cassa integrazione, difficoltà di accesso al credito, crollo della borsa, caduta della produzione industriale e più in generale dell’attività economica. A questi segnali, tuttavia, si affiancano anche parecchi segnali di segno opposto, che tendiamo a ignorare ma su cui sarebbe invece opportuno riflettere.

Primo, e più importante: negli ultimi 6 mesi, soprattutto grazie alla diminuzione dei prezzi (confermata giusto ieri dall’Istat), il numero di famiglie che non riescono a quadrare il bilancio si è ridotto di circa il 30% (indagini Isae di luglio-dicembre 2008), riportandosi al livello del 2006, ossia dell’anno migliore dai tempi dell’introduzione dell’euro (2002). Secondo: finora, le domande per la social card sono poco più di 1/3 del previsto, un fatto che è difficile spiegare solo con i ritardi delle istituzioni e la «vergogna» dei potenziali beneficiari. Terzo: nel corso del 2008 i bandi di gara per le grandi opere hanno avuto un incremento record, pari al 26,9% (dati Crem diffusi pochi giorni fa). Quarto: nonostante la crisi, fra il 2007 e il 2008 l'occupazione dipendente è aumentata di oltre 300 mila unità (ultima indagine Istat, 18 dicembre). Quinto: benzina, gasolio, energia elettrica, mutui, case stanno diminuendo di prezzo. Sesto: a dicembre, per la prima volta da 9 mesi, l'indice Pmi del settore manifatturiero, che misura le aspettative dei responsabili acquisti delle imprese, è salito anziché continuare la sua corsa verso il basso.

Bastano questi segnali a convertire il nostro pessimismo in ottimismo? No, e non solo perché in qualsiasi momento lo tsunami può piombarci addosso dall’esterno, ma perché vi sono rischi strettamente interni che, al momento, paiono sottovalutati dal governo. Il primo, ben noto, è il rischio di un aumento della disoccupazione dovuto al licenziamento di operai e impiegati non tutelati dalla legislazione e dai sindacati: non solo lavoratori atipici, ma anche semplicemente dipendenti in imprese medie e piccole. Il secondo rischio, assai meno noto, è che il rallentamento dell’attività economica costringa a chiudere centinaia di migliaia di artigiani e di piccole imprese, oltre alle più di 200 mila che hanno già chiuso nell’ultimo anno e di cui nessuno parla. Il terzo rischio, forse il più importante, è che anche chi non perderà il posto ma semplicemente teme di perderlo, sia indotto a comportamenti di consumo e di investimento eccessivamente prudenti, contribuendo così, senza volerlo, ad aggravare la recessione in corso. È paradossale, ma dal punto di vista macroeconomico, ovvero del sostegno della domanda, è più importante tranquillizzare i 20 milioni di occupati che si salveranno, che aiutare 1 milione di occupati che il posto lo perderanno davvero.

È dunque su questo versante, quello delle garanzie a chi rischia di perdere il lavoro, che i nostri governanti - ma anche un'opposizione costruttiva - hanno una grande responsabilità. I provvedimenti finora varati, a partire dall’estensione degli ammortizzatori sociali, vanno senz’altro nella direzione giusta, ma sono largamente insufficienti se il loro scopo non è semplicemente di tappare qualche falla futura, ma di creare fin da ora un clima di serenità e di fiducia generalizzato. Se si vuole che i comportamenti economici tendano a normalizzarsi, non basta invitare gli italiani a spendere e consumare come se nulla fosse, ma occorre dare un chiaro segnale di attenzione nei confronti di chi teme di perdere il lavoro, sia esso lavoratore atipico o normale, dipendente o indipendente. E l’unico segnale che può funzionare, lo sappiamo tutti, è che gli ammortizzatori sociali diventino automatici, permanenti e universali. Non a caso, nel giro di pochi mesi, il lavoro è divenuto di gran lunga la preoccupazione centrale degli italiani (vedi l’ultimo sondaggio pubblicato da Mannheimer sul Corriere della Sera).

Certo, un’operazione del genere avrà un costo elevato, né potrà essere condotta in pochi mesi o senza fare qualche sacrificio su altri versanti. Ma sono certo che, se il punto di arrivo sarà chiaro, per governo e opposizione sarà più facile trovare un ragionevole accordo, e a quel punto la fiducia, premessa cruciale della ripresa economica, lentamente ma inesorabilmente tornerà a scorrere nelle vene della società italiana.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Cambio di stagione
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2009, 03:25:19 pm
15/1/2009
 
Cambio di stagione
 
LUCA RICOLFI
 
Ha fatto un certo scalpore la notizia, peraltro ampiamente prevedibile e prevista, che per il 2009 pagheremo ancora più tasse che per il 2008. Secondo il Corriere Economia il cosiddetto «Tax freedom day» - ossia il giorno di liberazione dalle tasse, in cui finalmente cominciamo a lavorare per noi stessi anziché per lo Stato - si è spostato di altri 2 giorni in avanti: quest’anno dovremo aspettare fino al 23 giugno, un vero record (dall’Unità d’Italia a oggi solo il governo D’Alema, nel 2000, riuscì a fare peggio). Né possiamo consolarci pensando che le cose siano destinate presto a cambiare: anche per i restanti anni della legislatura il Dpef prevede una pressione fiscale costante, attestata intorno al 43%, nonostante il programma elettorale del centro-destra confidasse in un calo della pressione fiscale di almeno 3 punti di Pil, dal 43% al 40%.

Qualcuno, come Alberto Mingardi sul Riformista, interpreta questo ennesimo raffreddamento dell’anima liberale del centro-destra come la conferma definitiva della fine di una stagione, la stagione iniziata nel 1994 con Berlusconi leader di una destra anti-fiscale, campione della società contro lo Stato, dell’individuo contro la burocrazia degli apparati. Rispetto alla coppia libertà-sicurezza, il centro-destra attuale penderebbe sempre di più verso la sicurezza, l’ordine, la tradizione. Forse è così, ma quel che è interessante è che i risultati non si vedono nemmeno lì.

Naturalmente non è colpa di un governo appena insediato se gli sbarchi raddoppiano, la criminalità è ai massimi storici (superata solo dal picco post-indulto del 2007), l’affollamento delle carceri è tornato a livelli drammatici, gli stessi - circa 60 mila detenuti per 43 mila posti - che nel 2006 indussero il povero Prodi a promulgare l’indulto. Però è difficile sfuggire all’impressione che il governo non sappia come gestire la situazione, nonostante l’impegno di Maroni: i posti nelle carceri sono sempre quelli, quelli nei Cpt - paradossalmente - sono destinati a diminuire proprio a causa dell’aumento dei tempi di permanenza (se un clandestino viene trattenuto 10 mesi anziché 2, la capacità di accoglienza si riduce proporzionalmente). Nel programma si parlava di «costruzione di nuove carceri», «aumento delle risorse per la giustizia», «garanzia della certezza della pena», tutto fa pensare invece che nel 2009 il governo sarà costretto a nuovi provvedimenti di emergenza, presumibilmente destinati a scattare l’estate prossima, quando le presenze in carcere (e forse anche nei Cpt, ora ridenominati Cie) toccheranno livelli insostenibili.

Ma non è tutto. I cavalli di battaglia elettorali del centro-destra non erano solo la riduzione delle tasse e la lotta a criminalità e immigrazione irregolare. C’era anche un terzo cavallo di battaglia, che stava particolarmente a cuore alla Lega e all’elettorato «padano»: l’adozione da parte del Parlamento nazionale della proposta di legge sul federalismo fiscale della Regione Lombardia (votata il 19 giugno 2007). Pure questo cavallo è nel frattempo caduto, anche se pochi se ne sono accorti: la «bozza Calderoli», che ha sostituito la proposta lombarda, è un drammatico passo indietro rispetto al progetto originario, e infatti ha ottenuto il consenso di tutte le forze che in origine si opponevano al federalismo, soprattutto governatori del Mezzogiorno e importanti settori della sinistra. Per non parlare dei recenti ripianamenti dei deficit di Catania, di Roma, della sanità laziale, o della costosissima conclusione di vicende come Alitalia e Malpensa. È grazie a questo genere di passaggi che il federalismo, che in origine era un’opportunità per diminuire la spesa e le tasse, ha oggi molte più probabilità di aumentarle entrambe.

Uno-due-tre: meno tasse, più sicurezza, federalismo «lombardo». Su queste tre cose, a mio giudizio le più qualificanti (anche se non necessariamente le più condivisibili) del programma di centro-destra, non si vede proprio come Berlusconi abbia la possibilità di onorare le promesse. Ciononostante il consenso a Berlusconi resta molto alto, anche se da qualche tempo in calo. Perché? Per due ragioni almeno. La prima è ovvia: il tradimento del programma per ora è evidente solo sul versante delle tasse, e in questo momento - con la recessione economica incombente - la gente chiede più protezione, non più libertà. I guai veri verranno se e quando esploderà il problema delle carceri e il federalismo, nonostante l’uscita dalla recessione, si mostrerà incapace di ridurre davvero le tasse e la spesa.

Ma la ragione più importante del perdurante consenso del centro-destra è un’altra: il Pdl non ha seri nemici a destra, esattamente come il Pci non ne aveva (e non ne tollerava) a sinistra. È questa la ragione politica per cui i fallimenti del governo non si traducono in consenso all’opposizione: federalismo vero, meno tasse, linea dura su criminalità e immigrazione sono «missioni» che interessano una parte considerevole dell’elettorato, ma non le forze di opposizione, che semmai considerano positivo il fatto che il centro-destra stia annacquando il suo programma. Gridare alle tasse troppo alte, alla pericolosità delle città, al pasticcio federalista non è congeniale a un’opposizione che pensa che le tasse siano «bellissime», gli immigrati «buonissimi», e il federalismo rischiosissimo a meno che noi illuminati lo rendiamo «equo e solidale». Insomma, il curioso della situazione è che il centro-destra sta abbandonando le sue bandiere, ma non c’è nessuno che abbia la voglia o la possibilità di raccoglierle. Per questo, almeno per ora, Berlusconi può dormire sonni tranquilli. Un po’ meno gli elettori che lo hanno votato sperando che, questa volta, avrebbe mantenuto le promesse.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Anno Zero, emozione e sentimento
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2009, 03:40:54 pm
17/1/2009
 
Anno Zero, emozione e sentimento
 
 
LUCA RICOLFI
 
Non conosco personalmente Lucia Annunziata, nonostante abbiamo più o meno la stessa età, proveniamo da ambienti politici affini, scriviamo sullo stesso giornale. In vita mia le ho parlato due o tre volte al telefono, per lavoro.

Però stamattina la prima cosa che ho fatto quando sono arrivato nel mio ufficio all’università è stata di procurarmi il suo numero e chiamarla. Avevo visto la trasmissione di Santoro sulla guerra israelo-palestinese a Gaza, ed ero rimasto sbalordito.

Sbalordito per la partigianeria della trasmissione, accuratamente costruita per vedere le buone ragioni dei palestinesi e ignorare quelle degli israeliani. Sbalordito per il pochissimo spazio concesso al ragionamento e l’enorme spazio lasciato alle viscere. Sbalordito per la strumentalizzazione del genuino e umanissimo dolore di due ragazze, una palestinese e una israeliana, cinicamente buttate nell’arena come fanno gli organizzatori di combattimenti fra galli. Sbalordito per l’incapacità di Santoro di ascoltare una critica (a mio parere giustissima, ma comunque cortese e civile) all’impostazione della sua trasmissione. Sbalordito per la violenza con cui il conduttore, abusando del suo potere, ha più volte coperto la voce di chi esprimeva, o meglio tentava di esprimere, opinioni non conformi (Lucia Annunziata, prima; Tobia Zevi verso la fine della trasmissione). Sbalordito per le parole sprezzanti con cui Santoro ha risposto alle argomentazioni di Lucia Annunziata, accusata di ripetere «le solite scemenze» su Annozero, e addirittura di voler acquisire meriti presso qualche potente (presso chi? che cos’è questo modo obliquo di alludere?). Sbalordito di fronte al comizio finale, in cui Santoro si produceva in una eruzione di indignazione, accusando tutto e tutti (tranne se stesso, eroe incontaminato) di non aver fatto nulla per fermare la guerra.

Ma non era il mio sbalordimento che volevo comunicare a Lucia. Era la mia gratitudine come telespettatore e cittadino. Lucia ha fatto la cosa giusta non solo ad andarsene quando è stata offesa e ricoperta di male parole dal padrone di casa, ma ha fatto bene ad assumersi - finché ha avuto la forza di nuotare controcorrente - il compito, inevitabilmente sgradito e poco «in» dentro quella trappola mediatica, di provare a riportare tutti alla ragione, mettendo fra parentesi le emozioni estreme. Io sono grato a Lucia Annunziata, perché ha tentato di ricordarci una cosa fondamentale: se abbiamo qualche speranza di spegnere gli odi e le incomprensioni che sconvolgono il mondo, in Palestina come nella nostra povera Italia, è in quanto troviamo il modo di raffreddare gli animi, di dar voce a chi ancora cerca di capire le ragioni dell’altro, e di toglierne a chi gli animi cerca di scaldarli, e sa esprimere solo odio, rancore, rabbia, indignazione a senso unico.

Le emozioni, specialmente quelle più o meno artificiosamente esasperate dalla tv, sono quasi sempre brevi, violente, cieche, con un retrogusto amaro. Ecco, c’erano tante emozioni ieri da Santoro, ma così poco sentimento. Perché chi pensa solo a esprimere, a buttar fuori le sue emozioni, può amare o odiare, essere felice o disperato, ma non ha sentimento. Il sentimento comincia quando riesci, almeno un po’, ad essere anche nella testa e nel cuore dell’altro. Quando ascoltare ti interessa di più che parlare. Quando il dolore del tuo nemico diventa anche un po’ tuo. Quando sei capace di patire con lui. È a questo, a trasformare le emozioni in sentimento, che serve il richiamo alla ragione, un richiamo che nello zoo di Annozero molti ospiti avrebbero accettato di buon grado, se solo il domatore non avesse preferito aizzarli, gli uni contro gli altri.

Non so che cosa pensiate voi, cari lettori. Ma dopo tanti anni che seguo la politica, compresa quella che tormenta Israele e la Palestina, io mi sono convinto che se i grandi drammi del mondo non si risolvono mai è anche perché, in questo mondo, la gente normale, umile e semplice, che vorrebbe solo amare, lavorare e vivere in pace, non conta nulla e non ha quasi mai voce. Mentre contano moltissimo tutti coloro che la voce la sanno alzare, che sanno farsi sentire, scaldare gli animi, seminare odio, incomprensione, fanatismo. E in questo loro delirio di onnipotenza cercano ogni volta di trascinare anche i semplici e gli ignari, colpevolizzando chi non capisce e intimidendo chi non ci sta.

È uno spettacolo triste, che va in scena da tempo immemorabile e produce solo odio e morte, checché ne pensino i suoi ambiziosi produttori e registi. Lucia ha fatto bene a ricordarcelo, a mettersi di traverso, a dire «io non ci sto», sobbarcandosi la parte di quella che rompe il gioco e quindi è giudicata «stronzissima» (così si è ironicamente autodefinita lei stessa) da chi il gioco lo ha organizzato e truccato. Peccato non ce l’abbia fatta, perché - se avesse vinto lei - la trasmissione di Santoro avrebbe potuto prendere un’altra piega e diventare un contributo alla comprensione reciproca, anziché l’ennesima istigazione all’odio. Santoro l’ha conclusa dicendo che nessuno fa nulla per fermare la guerra, e rivendicando - almeno lui - di aver tentato di fare qualcosa. Penso sia vero esattamente il contrario: molti, come Manuela Dviri e tante associazioni silenziose, stanno facendo quel che possono per tenere accesa la speranza del dialogo, nonostante tutto e tutti. Quanto a Santoro, un’occasione per aiutare la pace l’avrebbe avuta: non fare una trasmissione come quella che ha fatto, e avere un po’ più di rispetto per chi ha opinioni diverse dalle sue.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Federalismo rischi di flop
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2009, 03:38:28 pm
22/1/2009
 
Federalismo rischi di flop
 
 
  LUCA RICOLFI
 
Ieri al Senato Tremonti ha illustrato piuttosto ampiamente le intenzioni del governo in materia di federalismo fiscale.

Il nocciolo dell’intervento del ministro dell’Economia mi sembra questo. Cari amici, il governo si rende perfettamente conto che introdurre il federalismo fiscale in un momento come questo, con una grave crisi alle porte, può essere rischioso, ma state tranquilli perché i decreti attuativi non saranno varati prima di avere valutato molto attentamente il loro impatto e le loro interazioni reciproche, nonché gli eventuali aggiustamenti suggeriti dall’evoluzione dell’economia.

Quanto alla pretesa di determinare ora, ex ante, gli effetti macro-economici di questa riforma, ci sono almeno due buoni motivi per respingerla. Primo: il disegno di legge sul federalismo ha un impianto estremamente complesso, fatto di 12 tributi, 5 soggetti della riscossione, 2 fondi di sussidiarietà, 11 principi e criteri generali, 8 tipi di procedure attuative, varie commissioni e livelli decisionali, per cui le variabili di cui si dovrebbe tenere conto in un eventuale calcolo sono «un numero elevatissimo». Secondo: non esiste ancora una base di dati omogenei e condivisi, e «avere dei dati ma non omogenei e non condivisi è come non avere dei dati». Quest’ultimo argomento, naturalmente, taglia la testa al toro: se non ci sono ancora dati decenti non si può prevedere nulla, quindi l’opposizione - che vuol vederci chiaro - sta chiedendo la luna. E tuttavia forse qualche osservazione critica si può fare lo stesso.

Intanto trovo stupefacente che, dopo quasi dieci anni di prove di federalismo fiscale, con due cambiamenti della Costituzione già attuati (di cui uno tuttora vigente), né il centro-destra né il centro-sinistra si siano ancora preoccupati di predisporre la base di dati che occorre. So che è un compito molto complesso (perché io stesso me ne sto occupando da anni), ma mi sembra che il non averlo ancora completato introduca un preoccupante elemento di incertezza sia nel discorso politico sia nel cammino del federalismo. Detto fuori dei denti: perché tanta fretta di approvare un disegno di legge se non si è ancora in grado di valutarne l’impatto? Probabilmente perché i politici pensano che i dati siano innanzitutto qualcosa su cui occorre mettersi d’accordo (dati «condivisi»), anziché qualcosa che occorre predisporre al riparo da ogni negoziato politico (dati «omogenei»).

Ma il punto decisivo non è di tempi, bensì di sostanza. A me pare che il fatto di non avere ancora messo dei «numeri» nel progetto federalista, e di rimandare tutti i dettagli a una serie di futuri decreti attuativi, non sarebbe inquietante solo se il disegno di legge contenesse già in sé un sistema di anticorpi capaci di impedire la futura degenerazione del federalismo stesso in una mostruosa macchina per: a) aumentare la spesa; b) aumentare la pressione fiscale; c) paralizzare la pubblica amministrazione. In assenza di una esplicita e rigorosa previsione di tali anticorpi, i timori di chi vede il federalismo come una ghiotta occasione per tutta la classe politica locale di incrementare il proprio potere appaiono purtroppo giustificati.

Ma quali potrebbero essere gli anticorpi che nel disegno di legge attuale non si vedono? Essenzialmente due. Il primo è un vincolo macroeconomico di riduzione parallela della spesa e della pressione fiscale, senza il quale il federalismo tradisce la sua missione-chiave: ridare ossigeno a famiglie e imprese (meno tasse), e migliorare i servizi pubblici (più efficienza). Il secondo anticorpo è un principio chiaro di responsabilità territoriale, per cui la perequazione, o riequilibrio, che le zone forti del Paese sono tenute a compiere a favore di quelle deboli sia volta a compensare le differenze di reddito percepito, ma sia indifferente alle differenze di evasione fiscale e di efficienza della macchina pubblica. Detto in altre parole, al federalismo non è giusto richiedere di coprire le enormi differenze di gettito dovute ad evasione fiscale, e tanto meno le enormi differenze di servizi dovute a spreco di risorse pubbliche. In concreto questo significa che ai territori che devono «rientrare» perché evadono troppo, o perché sprecano le risorse che ricevono, non si possono attribuire nuovi compiti o nuove risorse finché non hanno iniziato a ridurre evasione fiscale e sprechi. Altrimenti il rischio è che si ripeta quel che è già accaduto trent’anni fa con l’istituzione delle Regioni: lo spostamento di compiti dal centro alla periferia ha ampliato i divari territoriali anziché contribuire a ridurli.

Vedremo, alla fine del voto parlamentare, che tipo di legge uscirà. Ma se, come è verosimile, di tali anticorpi nel testo definitivo non vi sarà traccia, allora il rischio di un flop potrebbe diventare davvero molto serio. Alla fine della fiera, ossia a fine legislatura, potremmo trovarci con più tasse, più spesa, più debito pubblico, più conflitti dentro la Pubblica Amministrazione: l’esatto contrario di ciò per cui i fautori del federalismo affermano di battersi.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Le tre libertà
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2009, 11:42:16 am
31/1/2009
 
Le tre libertà
 
 
LUCA RICOLFI
 
Sulle intercettazioni gli altolà al governo si sprecano. Ieri, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, sono intervenuti nientemeno che il Procuratore generale della Cassazione (Vitaliano Esposito), il primo presidente della Cassazione (Vincenzo Carbone), il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura (Nicola Mancino), il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Luca Palamara). Nei giorni scorsi era già intervenuto il presidente della Corte Costituzionale (Giovanni Maria Flick). Tutti, in un modo o nell’altro, hanno espresso preoccupazioni per le possibili conseguenze del disegno di legge governativo. Sono fondate tutte queste preoccupazioni? Dipende dal bene che si intende tutelare.

Se il bene è il diritto alla privacy, le preoccupazioni sono ovviamente infondate, perché il disegno di legge - limitando i casi in cui si può intercettare e pubblicare - ha precisamente lo scopo di aumentare le garanzie dei cittadini in materia di privacy e segretezza delle comunicazioni, garanzie esplicitamente previste dalla Costituzione (art. 15) ma di fatto sospese ogni qual volta il superiore interesse delle indagini autorizza i magistrati a usare l’arma impropria delle intercettazioni.

Se il bene da tutelare è il diritto all’informazione le cose si fanno più complicate. Indubbiamente le norme di cui si discute limitano gravemente il diritto dei cittadini a essere informati tempestivamente sul corso delle indagini, anche se si potrebbe obiettare che attualmente, quando scoppia uno scandalo, quella che viene fornita dai mezzi di comunicazione di massa è tutto tranne che un’informazione accurata, imparziale, completa. Detto altrimenti: la scelta effettiva non è fra sapere e non sapere, ma fra sapere solo dopo l’inizio del processo (come vorrebbe il governo), o avere fin da subito dei frammenti arbitrari di informazione - talora utili, talora fuorvianti - come oggi accade.

Se infine il bene da tutelare è il diritto alla sicurezza dei cittadini le preoccupazioni espresse dalle maggiori cariche dell’ordine giudiziario mi paiono pienamente giustificate. Non v’è dubbio, infatti, che la drastica riduzione delle possibilità di intercettare prevista dal disegno di legge governativo in molti casi diminuirà la possibilità di scoprire e punire i colpevoli di reati.

È inutile pensare che ci sia una posizione giusta, o una soluzione ottimale. Le tre libertà che ci stanno a cuore - non essere spiati, venire informati, essere sicuri - non possono essere tutelate tutte e tre contemporaneamente e nella stessa misura. La drastica limitazione delle intercettazioni che si profila all’orizzonte rafforzerà la nostra privacy, ridurrà le nostre informazioni (non necessariamente vere, ma pur sempre informazioni), diminuirà la nostra sicurezza. Se teniamo più alla privacy che alla sicurezza possiamo anche rallegrarci con il governo, se teniamo più alla sicurezza che alla privacy non possiamo che condividere le preoccupazioni dei vertici della magistratura.

Personalmente mi sento più in sintonia con le preoccupazioni dei magistrati che con gli improvvisi aneliti libertari del governo. Vorrei aggiungere un’osservazione, però. Le obiezioni dei magistrati sarebbero più convincenti se essi, oltre a ripetere a iosa la verità - e cioè che senza intercettazioni moltissimi colpevoli non verrebbero individuati -, mostrassero di rendersi conto che gli abusi ci sono stati, ci sono, e un qualche mezzo per limitarli andrà comunque trovato. I dati sulle intercettazioni non sono molti e non sono di grande qualità, ma quei pochi di cui disponiamo ci permettono di dire alcune cose.

Nei due periodi per cui esistono dati relativamente omogenei, ossia il quinquennio 1992-1996 e il settennio 2001-2007, il numero di intercettazioni è esploso: nel primo periodo sono più che raddoppiate, nel secondo sono più che quintuplicate. Una parte di questo aumento si può giustificare con l’aumento dei delitti, un’altra parte con la crescita del numero di utenze a persona, ma siamo sicuri che una parte non sia dovuta al fatto che l’intercettazione è semplicemente il mezzo più comodo (e anche più economico, checché ne dicano i suoi detrattori) per raccogliere prove?

Le intercettazioni possono sembrare poche se commisurate al numero totale dei procedimenti (una statistica spesso astutamente usata dai magistrati per minimizzare il problema) ma non sono affatto poche se le commisuriamo al numero di procedimenti penali, e peggio ancora se le commisuriamo ai procedimenti per reati che le autorizzano (non tutti i reati sono intercettabili).

Infine, la distribuzione territoriale. Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2007, mostrano che nei 29 distretti di corte d’Appello in cui è diviso il territorio italiano la propensione a intercettare ha una variabilità enorme: il distretto che intercetta di più lo fa 13-14 volte di più di quello che intercetta di meno. E anche all’interno delle grandi zone geopolitiche le differenze sono enormi, con distretti meridionali che intercettano 10 volte di più di altri situati nella medesima area geografica.

Insomma i magistrati hanno ragione, ma sembrano vedere solo una faccia della Luna. Quanto alle forze politiche principali, la mia impressione è che nessuna di esse abbia intenzione di trovare un compromesso ragionevole. Con un singolare scambio di ruoli, il centro-destra si fa paladino della privacy, e in questo improvviso afflato libertario si trascina dietro il drappello dei radicali; mentre il Pd, con Veltroni, ribadisce una linea già espressa nel programma elettorale: «La nostra posizione è per la massima libertà di intercettare, evitando però che il contenuto delle telefonate finisca impropriamente sui giornali, e questa è una posizione del Pd e anche, vorrei ricordarlo, dell’Italia dei valori».

Così il governo cerca di nascondere che le sue proposte produrranno più criminalità, il Partito democratico sembra non comprendere il grave vulnus alla libertà che l’esistenza stessa delle intercettazioni comporta. Il primo vincerà perché ha i numeri, il secondo si salverà l’anima votando contro. A noi spettatori resterà solo un dubbio: perché il Partito democratico non confluisce nell’Italia dei valori?

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Non possiamo saperlo
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2009, 06:29:06 pm
8/2/2009
 
Non possiamo saperlo
 
 
LUCA RICOLFI
 
Immaginate un uomo facoltoso che sta morendo. In tanti gli hanno voluto bene, perché l’hanno conosciuto in vita e ne hanno apprezzato le qualità umane.

Qualcuno prega, qualcuno riflette, qualcuno piange, tutti sentono dentro di sé pietà e timore: pietà per chi li sta lasciando, timore di fronte al mistero della morte, l’unica cosa che - purtroppo - accomuna tutti. In un’altra stanza, però, mentre lui lentamente si avvia verso la fine, i familiari più stretti cominciano ad accapigliarsi per l’eredità. Volano parole grosse, si sentono insulti, minacce, recriminazioni, accuse reciproche. I parenti stretti litigano, gli amici ammutoliscono. Così è stato ed è per Eluana. Laici convinti e cattolici ortodossi ingaggiano oggi sotto i nostri occhi una mortificante guerra politica, di cui la persona di Eluana è strumento. E’ puro mezzo per fini che stanno altrove, fuori di lei e al di là di lei.

Una guerra i cui ingredienti essenziali sono due certezze uguali e contrarie: la Chiesa e i suoi sostenitori più fanatici sono certi che togliendo l’alimentazione ad Eluana si stia uccidendo una persona, il mondo laico è certo che così non si fa altro che rispettare la sua volontà. Gli uni dicono che Eluana morirà fra atroci sofferenze, gli altri si proclamano certi che Eluana abbia perso la facoltà di provare dolore. Gli uni poggiano le loro certezze su dichiarazioni di amici e di neuroscienziati, gli altri su dichiarazioni diametralmente opposte di altri amici e altri neuroscienziati. Così quella che era e resta una persona viene trasformata in un simbolo, pretesto e occasione per dare libero sfogo alle convinzioni di ognuno. Questo spettacolo è triste e grottesco. Ma è anche indebito. A dispetto delle apparenze, i due popoli che si affrontano armati delle loro certezze sono solo due dannose minoranze.

La maggioranza delle persone, su vicende come quella della povera Eluana, non ha certezze ma solo dubbi. Nessuno di noi sa che cosa si prova in uno stato vegetativo persistente, né se si provi qualcosa, né chi lo provi. Che cosa davvero significhi soffrire senza essere cosciente, o provare dolore senza pensare, ricordare, comunicare. Nessuno può sapere che cosa abbia sentito Eluana negli ultimi 17 anni, e se l’agonia pilotata di questi giorni sia una liberazione o l’ennesima e definitiva violenza sul suo corpo. Nessuno può sapere con certezza quale fosse la vera volontà di Eluana quando ha avuto l’incidente, e tanto meno quale sarebbe la sua volontà oggi, ammesso che possa ancora averne una. Per questo la maggior parte delle persone, anche quando ha delle opinioni, si rende conto che si tratta - appunto - soltanto di opinioni, che non può esistere, in casi come questo, una verità unica e incontrovertibile. Non così gli esponenti delle due chiese che in questi giorni si affrontano sui giornali e sulle tv.

Nonostante non esista alcuna certezza, quasi tutti parlano come se sapessero, senza l’umiltà e quel senso dell’umana finitudine che alla laicissima eppur religiosa Natalia Ginzburg faceva dire, in una poesia dedicata a Dio: «Non possiamo saperlo». Non possiamo sapere se Dio «è piccolo come un granello di sabbia», se «ha gli occhiali neri e due volpini al guinzaglio» o se invece «muore di fame, e ha freddo, e trema di febbre». Così come non possiamo sapere se per Eluana sia meglio vivere o morire. Se c’è una cosa che faremmo bene a imparare dal caso Englaro è che su questioni che toccano in profondità la coscienza e la sensibilità di ciascuno, la politica dovrebbe fare un passo indietro. Un passo indietro deciso e radicale. Una sorta di gesto di rispetto, come quando ci si toglie il cappello in chiesa o davanti a un morto. Mi ha fatto pena (e rabbia) il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, messa da Berlusconi di fronte all’aut aut: obbedire alla propria coscienza (non votando il decreto salva-Eluana) oppure dimettersi da ministro.

E mi risultano ancora meno comprensibili le convulsioni del Pd sui cosiddetti temi etici, come se un partito dovesse e potesse avere una linea anche su questioni che attengono alla coscienza individuale. Quando si parla di aborto, fecondazione assistita, testamento biologico, eutanasia, qualsiasi legge non potrà non urtare la sensibilità e le convinzioni profonde di una parte cospicua del Paese, spaccare i partiti, dividere persone che su tutto il resto sembrano andare d’accordo. Fare leggi sui temi etici è forse indispensabile, ma pensare che possa sempre esistere una legge giusta, valida per tutti, è solo un’illusione, come l’esempio dell’aborto illustra nel modo più chiaro: definire l’aborto un infanticidio è ovviamente inaccettabile per chi considera il feto soltanto un insieme di cellule, ma renderlo legittimo è inaccettabile per chi pensa che il feto sia già una persona, portatrice di sensibilità e diritti.

Da dilemmi come questi, purtroppo, non si esce mai con una legge giusta, ma solo con una legge rispettosa, che cioè rispecchi il più fedelmente possibile la sensibilità prevalente in una certa società e in un certo tempo, e possibilmente non umili la sensibilità di chi pensa controcorrente. Per questo è essenziale depoliticizzare il dibattito pubblico. Se sai che non può esistere la soluzione giusta, se sai che il tuo punto di vista non è l’unico possibile, se sai che la risposta alla maggior parte delle tue domande è «non possiamo saperlo», diventa naturale abbandonare il linguaggio della certezza e dello scontro, e passare al più civile registro del dubbio. Non cercare di imporre le certezze della maggioranza parlamentare, ma cercare di ascoltare i dubbi della minoranza. Anche perché, non appena si parla di temi come questi, i concetti di maggioranza e minoranza diventano assai fluidi: il governo potrebbe avere i numeri per imporre una legge in Parlamento, ma un referendum potrebbe riservargli un’amara sorpresa.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Gli stranieri e la mecca del crimine
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2009, 06:39:22 pm
21/2/2009
 
Gli stranieri e la mecca del crimine
 
LUCA RICOLFI
 

Periodicamente l’opinione pubblica si allarma per il problema della criminalità e della violenza. I giornali soffiano sul fuoco. Il governo tenta di fare qualcosa (è di ieri l’approvazione in Consiglio dei ministri del decreto anti-stupri). Maggioranza e opposizione tirano acqua ai rispettivi mulini. Quando al governo c’è la sinistra e all’opposizione c’è la destra, il copione è già scritto: la sinistra minimizza e la destra drammatizza. Quando invece, come oggi, i ruoli di governo e opposizione sono invertiti, il copione va in crisi. La sinistra vorrebbe cavalcare la paura, ma non può farlo perché i suoi riflessi condizionati buonisti le suggeriscono di sdrammatizzare. La destra, per contro, vorrebbe tanto drammatizzare, ma deve trattenersi perché è al governo e teme di essere considerata responsabile di quel che succede. Dopo i recenti casi di stupro a danno di donne italiane e straniere siamo dunque tornati a farci le solite domande. La criminalità è in aumento? Gli stranieri delinquono di più degli italiani? I romeni hanno una speciale vocazione per i reati di violenza sessuale? O sono tutte «percezioni»? Sull’andamento della criminalità non si può dire molto. Con i dati finora disponibili (non definitivi e fermi al 1° semestre 2008) possiamo solo fissare qualche punto. La criminalità è aumentata molto subito dopo l’indulto: +15,1% in un anno, fra il primo semestre 2006 e il primo semestre 2007. Nel primo semestre del 2008 è diminuita rispetto al 2007, presumibilmente a causa dell’elevato numero di «indultati» recidivi, liberati e poi riacciuffati dalle forze dell’ordine. Ma la diminuzione non è stata sufficiente a compensare l’impennata del 2007, cosicché due anni dopo l’indulto il numero di delitti era un po’ maggiore di quello pre-indulto. Per esempio abbiamo più rapine (+4,9%), più omicidi volontari consumati (+7,7%), più truffe e frodi informatiche (+10,7%). In breve: le carceri sono strapiene, esattamente come lo erano prima dell’indulto (60 mila detenuti), e il numero di delitti è un po’ maggiore di allora. Sul tasso di criminalità dei cittadini stranieri è difficile lavorare con statistiche precise, perché si ignora il numero esatto degli irregolari, però la situazione è piuttosto chiara.

Il tasso di criminalità degli stranieri regolari è 3-4 volte quello degli italiani, il tasso di criminalità degli stranieri irregolari è circa 28 volte quello degli italiani (dati 2005-6). Fino a qualche anno fa la pericolosità degli stranieri, pur restando molto superiore a quella degli italiani, era in costante diminuzione, ma negli ultimi anni questa tendenza sembra essersi invertita: la pericolosità degli stranieri non solo resta molto superiore a quella degli italiani, ma il divario tende ad accentuarsi. Resta il problema della violenza sessuale e degli stupri. Qui la prima cosa da dire è che i mass media sono morbosamente attratti dalle violenze inter-etniche - lo straniero che stupra un’italiana, l’italiano che stupra una straniera - e riservano pochissima attenzione alle violenze intra-etniche, che a loro volta sono spesso intra-famigliari (donne violentate da padri, zii, suoceri, partner più o meno ufficiali). Ma i mass media, a loro volta, amplificano una distorsione che è già presente nelle denunce: l’assalto di un branco di adolescenti a una ragazzina all’uscita da scuola ha molte più probabilità di essere denunciato di quante ne abbiano le vessazioni di un padre-padrone, non importa qui se dentro un campo nomadi o in una linda villetta piccolo borghese. Basandosi esclusivamente sulle denunce, quel che si può dire è che la propensione allo stupro degli stranieri è 13-14 volte più alta di quella degli italiani (dato 2007), e che - anche qui - il divario si sta allargando: l’ultimo dato disponibile (2007) indicava un rischio relativo (stranieri rispetto a italiani) cresciuto di circa il 20% rispetto a tre anni prima (2004). Infine, i romeni. In base ai pochi dati fin qui resi pubblici, la loro propensione allo stupro risulta circa 17 volte più alta di quella degli italiani, e una volta e mezza quella degli altri stranieri presenti in Italia. Lo stupro non è però il reato in cui i romeni primeggiano rispetto agli altri stranieri. Nella rapina sono 2 volte più pericolosi degli altri stranieri (e 15 volte rispetto agli italiani), nel furto sono 3-4 volte più pericolosi degli altri stranieri (e 42 volte rispetto agli italiani). Nel tentato omicidio e nelle lesioni dolose, invece, sono leggermente meno pericolosi degli altri stranieri, ma comunque molto più pericolosi degli italiani (7 e 5 volte di più rispettivamente). Si può discettare all’infinito sul perché il tasso di criminalità degli stranieri, anche regolari, sia così più alto di quello degli italiani. Razzisti e xenofobi diranno che l’alta propensione al crimine di determinate etnie dipende dai loro usi e costumi, se non dal loro Dna.

Ma la spiegazione più solida, a mio parere, è tutta un’altra: se gli stranieri delinquono tanto più degli italiani non è perché noi siamo buoni e loro cattivi, ma perché i cittadini stranieri che arrivano in Italia non sono campioni rappresentativi dei popoli di provenienza. Con la sua giustizia lentissima, con le sue leggi farraginose, con le sue carceri al collasso, l’Italia è diventata la Mecca del crimine. Un luogo che, oltre a una maggioranza di stranieri per bene, attira ingenti minoranze criminali provenienti da un po’ tutti i Paesi, e così facendo crea l’illusione prospettica dello straniero delinquente. Perciò hanno perfettamente ragione gli italiani che hanno paura degli immigrati, ma hanno altrettanto ragione gli stranieri onesti che si sentono ingiustamente guardati con sospetto. I cittadini italiani privi di paraocchi ideologici non possono sorvolare sul fatto che uno straniero è dieci volte più pericoloso di un italiano. Ma farebbero ancor meglio a rendersi conto che ogni comunità straniera è costituita da due sottopopolazioni distinte: gli onesti attirati dalle opportunità di lavoro, e i criminali attirati dalla debolezza delle nostre istituzioni. Il problema è che le due sottopopolazioni non si possono distinguere a occhio nudo, e quindi - in mancanza di segnali che consentano di separarle - la diffidenza diventa l’unico atteggiamento razionale. Un atteggiamento che non si supera con lezioncine di democrazia, tolleranza e senso civico, ma solo rendendo l’Italia un paradiso per gli stranieri di buona volontà e un inferno per i criminali, stranieri o italiani che siano.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Primo: non confidarsi in pubblico
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2009, 10:41:36 am
1/3/2009
 
Primo: non confidarsi in pubblico
 
LUCA RICOLFI
 
Dev’essere rimasta di sale Kimberley Swann, la ragazza inglese di cui parlavano ieri un po’ tutti i giornali. Assunta da pochi mesi come impiegata presso una ditta privata che si occupa di rapporti con l’Asia, ha ricevuto una lettera di licenziamento con una motivazione inconsueta: aver screditato l’azienda parlandone male su Facebook, il sito Internet di «socializzazione» più di moda del momento (175 milioni di utenti).

Facebook è un luogo in cui si scambiano ogni sorta di informazioni-emozioni-proposte fra persone conosciute e sconosciute, fra vecchi amici e amici nuovi, fra professionisti della rete e semplici navigatori. Di qui l’equivoco: presumibilmente la ragazza inglese ha usato Facebook come si usa un canale privato (posta, telefono, e-mail).

Senza rendersi conto che Facebook è un luogo pubblico, sia pur governato da particolari regole e limitazioni. Kimberley, si potrebbe dire, ha avuto l’audacia di confidarsi in pubblico, incappando così in un vero e proprio ossimoro della vita sociale. La confidenza, infatti, è per sua natura personale, privata, vincolata alla riservatezza, e quindi l’idea di confidarsi in pubblico è tanto strampalata quanto quella di parlare a un cactus (l’attività preferita di Spike, mitico fratello di Snoopy).

Non so come siano andate esattamente le cose, ma l’episodio è rivelatore. Chi incappa in un incidente del genere sembra non rendersi conto del lato oscuro della società della comunicazione. Siamo abituati a pensare che l’interconnessione universale sia un pasto gratis, una meravigliosa possibilità regalata a tutti di poter trasmettere e ricevere informazioni, conoscere persone, operare a distanza. E invece essa è anche una cosa diversa, che richiederà molto tempo ancora per essere pienamente compresa nei suoi effetti.

Del resto è sempre stato così. Le società imparano molto lentamente a fare i conti con le conseguenze delle rivoluzioni tecnologiche. Quando Gutenberg inventò la stampa, intorno al 1450, nessuno poteva prevedere che in futuro essa avrebbe alimentato l’etica protestante e reso possibili le democrazie di massa. Così, quando le tecnologie di riproduzione dei suoni e soprattutto delle immagini (fotografia e cinema) resero illimitatamente riproducibili le opere d’arte, Walter Benjamin fu tra i pochi a intravedere le profonde conseguenze che questo avrebbe avuto sulla fruizione delle opere stesse, prima fra tutte la «perdita dell’aura», ossia di quell’alone di sacralità, autorevolezza, unicità che aveva da sempre circondato i capolavori artistici (il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è della metà degli Anni 30).

Oggi, con il trionfo di Internet e delle telecomunicazioni, siamo ancora meno preparati a capire tutti gli effetti della rivoluzione tecnologica in atto, specialmente quelli inquietanti. L’altra faccia dell’interconnessione globale, quella che i cantori delle virtù della rete non vedono, è la distruzione della privacy. Se Walter Benjamin fosse vivo oggi, forse scriverebbe La privacy nell’epoca della sua impossibilità tecnica.

Perché la società della comunicazione distrugge la privacy? Una ragione ovvia, visibile a occhio nudo, è che tutti i nostri comportamenti sono diventati «tracciabili». Qualsiasi cosa facciamo - telefonare, usare una carta di credito, entrare in un negozio video-sorvegliato, compilare un modulo di acquisto, collegarsi a Internet, usare un personal computer - depositiamo tracce informatiche indelebili del nostro passaggio, per non parlare delle tracce biologiche che continuamente lasciamo sugli oggetti, le persone, gli ambienti, e che l’analisi del Dna rende utilizzabili a fini di identificazione. Qualsiasi cosa facciamo può essere ripresa da un telefonino, di cui manco ci accorgiamo. Qualsiasi cosa diciamo può essere catturata da un registratore, a nostra insaputa. Qualsiasi immagine o voce ci abbiano carpito, può tranquillamente finire su YouTube, o essere riprodotta, diffusa, venduta nei circuiti più impensabili.

Ma c’è una ragione più profonda che mina la privacy, e quella ragione siamo noi stessi, o meglio i nostri comportamenti quotidiani. Nel giro di pochissimi decenni la nostra privacy ha subito l’onda d’urto del nostro esibizionismo. Proprio mentre da ogni parte veniva proclamato il diritto alla riservatezza, fino al punto da considerare invasiva la pubblicazione dei voti finali sui tabelloni scolastici, l’evoluzione del costume procedeva in direzione diametralmente opposta. Il proprio privato, per quanto insignificante o addirittura riprovevole, viene continuamente e rumorosamente spiattellato all’attenzione di tutti, in treno come in aereo, al bar come al ristorante, in televisione come su Internet. Il sentimento del pudore si è ritirato come un ghiacciaio attaccato dal riscaldamento globale. Il «lei» sta soccombendo al «tu», nonostante le resistenze di alcuni (l’altro giorno alla radio ho sentito Cruciani, l’ottimo conduttore della Zanzara, costretto a chiedere a un telespettatore che gli dava del tu: scusi, lei ed io ci conosciamo?). Insomma, come in una scatola di sardine, siamo tutti vicini a tutti, continuamente invasi e sempre potenzialmente invasori. Il medesimo studente che chiede privacy quando si tratta della sua pagella, non esita a riversare su Internet le immagini a luci rosse di compagne e fidanzate. Il cittadino che non vuole essere spiato o intercettato è il primo a sognare di finire su YouTube.

È vero, con una e-mail possiamo contattare chiunque a costo zero. Ma proprio perché riceviamo decine, centinaia, migliaia di e-mail il nostro tempo è sequestrato da un lavoro opprimente di selezione, autodifesa, smistamento, che sottrae energia a occupazioni ben più degne. Lo spazio della nostra privacy si sta consumando, ma noi non siamo nella condizione di accorgercene. Non solo perché siamo inebriati dalla libertà che la rete ci promette. Ma perché confessarci, esporci, mostrarci ci piace. E quindi confondiamo spazio privato e spazio pubblico. Non ci rendiamo conto che la privacy, il diritto alla privacy, è tante cose insieme. Diritto a non rivelare tutto di noi. Diritto a non far sapere a tutti quel che facciamo sapere a pochi. Ma anche diritto a non sapere i fatti altrui. A non interagire con tutti. A non essere invasi. Insomma, diritto a una distanza che, con il passare del tempo, sta diventando il bene più raro.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Un assegno che non piace ai politici
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2009, 10:08:10 am
4/3/2009
 
Un assegno che non piace ai politici
 
LUCA RICOLFI
 

Può piacere o non piacere Dario Franceschini, il nuovo segretario del Partito democratico.
Si possono nutrire seri dubbi sulla sua preparazione economica, visto il modo in cui si fece strapazzare da Tremonti in tv qualche mese fa a proposito di Pil, deficit e dintorni. Per non parlare del semplicismo della sua ultima proposta: fare un decreto legge per dare un assegno a tutti i disoccupati e finanziarlo con i proventi della lotta all’evasione fiscale. Però è difficile negare che da quando c’è lui - ossia da poco più di una settimana - la musica nel Pd sembra cambiata. Il nuovo segretario appare meno indeciso, meno condizionato dalla nomenklatura di partito (forse anche perché non ambisce a essere confermato a ottobre), meno oscillante fra dialogo e non dialogo, meno romanocentrico, ma soprattutto sembra avere interrotto o perlomeno attenuato la sindrome da incertezza che affliggeva il Pd su quasi tutto.

Su testamento biologico, collocazione nel Parlamento europeo, rapporto con i sindacati, referendum elettorale e così via. In più, come ha capito subito l’esperto Berlusconi, Franceschini sa stare in tv.

Fra tutte le mosse del neo-segretario, quella dell’assegno per tutti i disoccupati (non solo per le fasce protette) è decisamente la più importante, perché interessa la gente, mette in difficoltà il governo, e costringe un po’ tutti a prendere posizione. Vediamole dunque queste posizioni.

Posizione A: si può fare, ma per adesso si deve fare in deficit, recuperando i soldi nei prossimi anni, ad esempio con i proventi della lotta all’evasione fiscale. Per quel che capisco, è la posizione prevalente nel Pd e nei sindacati (e anche quella di Franceschini).

Posizione B: si può fare, ma non in deficit, i soldi si possono trovare riformando le pensioni (ad esempio abrogando la contro-riforma di Prodi). È la posizione dell’Udc, della Confindustria, di Enrico Letta e dell’ala liberal-riformista del Pd.

Posizione C: non ci sono né i tempi né i soldi, non si può fare. È la posizione di molti esponenti del governo, compreso Berlusconi.

Ciascuna di queste posizioni ha dalla sua diverse buone ragioni. È vero, ad esempio, quel che dice il ministro Sacconi, e cioè che una riforma degli ammortizzatori sociali organica richiederebbe troppo tempo, mentre il problema di sostenere il reddito di chi perde il lavoro va affrontato subito, quindi inevitabilmente con gli strumenti che già ci sono. Così come è vero che qualsiasi riforma degli istituti attuali - assegno di disoccupazione, cassa integrazione ordinaria e straordinaria, mobilità breve e lunga, ecc. - dovrebbe eliminare una miriade di abusi (da parte delle parti sociali) e inadempienze (da parte della pubblica amministrazione): lavoratori in cassa integrazione che lavorano in nero, proroghe concesse per pressioni politiche, borsa del lavoro incapace di far incontrare domanda e offerta. È altrettanto vero che lo stato dei nostri conti pubblici rende estremamente rischioso un finanziamento in deficit e suggerisce piuttosto di puntare su un riequilibrio del sistema pensionistico, che sarebbe ben accolto dai mercati e potrebbe rendere meno vulnerabili i nostri conti pubblici (grazie a una riduzione del differenziale fra titoli di stato italiani e bund tedeschi). È verissimo, infine, che in un momento di crisi è dura chiedere ulteriori sacrifici ai lavoratori.

In tutta questa discussione, però, resta in ombra - almeno nel dibattito politico - un punto a mio parere assolutamente centrale, e cioè che in gioco non ci sono solo una decina di miliardi di euro (le valutazioni del costo della riforma oscillano fra i 5 e i 15 miliardi di euro) ma anche un principio di enorme portata psicologica: l’automatismo o la discrezionalità del sostegno. Attualmente buona parte dei cosiddetti ammortizzatori si attivano e si prorogano in base a scelte discrezionali della politica, come risultanti di complessi negoziati fra sindacati, Confindustria, governo, amministrazioni locali. Inevitabilmente tali scelte premiano gli attori e i territori forti a discapito di tutti gli altri. Proprio per questo il sistema attuale non dispiace alla politica, intesa in senso lato, e penalizza enormemente gli attori deboli: giovani precari, artigiani, piccole imprese e loro dipendenti. Il sistema alternativo, ossia quello dell’assegno unico e automatico per tutti coloro che hanno perso un precedente lavoro, ha invece il grande vantaggio di codificare un diritto individuale che non andrebbe negoziato con nessuno, e quindi toglierebbe molto potere alle istituzioni e alle lobby che - aprendo e chiudendo infiniti tavoli di trattativa - amministrano l’esistenza dei lavoratori, per lo più tutelando i forti e dimenticando i deboli. Ma c’è un altro preziosissimo vantaggio del sistema dell’assegno unico e automatico: rendendo universale e certo il godimento del beneficio in caso di necessità, l’assegno unico contribuirebbe a ridurre l’incertezza delle famiglie, ossia una delle cause che oggi deprimono la fiducia e per suo tramite i consumi.

Che fare, dunque? Una modesta proposta potrebbe essere questa. Governo e opposizione si diano un termine certo, per esempio il 30 settembre di quest’anno, per approvare in Parlamento un disegno di legge condiviso per il riordino e l’unificazione degli attuali ammortizzatori sociali (molti progetti esistono già, si tratta solo di integrarli e soprattutto di scrivere le norme attuative, fondamentali se non si vuole che l’entrata in funzione vada alle calende greche). Quanto al finanziamento del nuovo istituto, la base minima potrebbe essere costituita dalla somma dei costi degli istituti pre-esistenti, pari a parecchi miliardi di euro. Il resto sia tratto dalla riforma della previdenza, in una misura che potrà aumentare man mano che ci decideremo a ritoccare il nostro sistema previdenziale, rendendolo più sostenibile. Se una certa riforma fa risparmiare la cifra X, mettiamo quella cifra nel «salvadanaio» del nuovo assegno di disoccupazione. Gli iperprotetti pagheranno qualcosina, ma in compenso giovani e fasce deboli avranno finalmente un minimo di tutela.

Naturalmente non se ne farà nulla, perché politici, amministratori locali, sindacati vari preferiranno continuare a sedersi intorno a un tavolo per negoziare tutto. Ma è bello qualche volta immaginare di vivere in un mondo diverso da quello reale. Un mondo in cui la politica, che proprio grazie alla crisi vede continuamente crescere il proprio potere, sia capace anche - per una volta - a fare un piccolo passo indietro. Per il bene dei più indifesi, e forse persino per il bene della politica stessa.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - La guerra di Dario e Silvio
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2009, 10:09:34 am
16/3/2009
 
La guerra di Dario e Silvio
 
LUCA RICOLFI
 
A giudicare dai sondaggi, il segretario del partito democratico Dario Franceschini piace agli elettori del Pd e non dispiace al resto della popolazione. Secondo una recente indagine di Mannheimer la maggior parte dei sostenitori del Pd pensa che il nuovo leader abbia sufficiente carisma e che condurrà il partito in modo «del tutto diverso» dal suo predecessore, riuscendo così a portare nuovi consensi.

E’ realistica questa immagine di una luna di miele fra il nuovo leader e l’elettorato del Pd?

Secondo me sì, per almeno tre buoni motivi. Il primo è che, nonostante il suo volto sia ormai noto da qualche anno, Franceschini non è percepito come un vecchio notabile della sinistra, come accade invece a tutti quanti i politici di lungo corso dei Ds e della Margherita: Massimo D’Alema, Romano Prodi, Piero Fassino, Walter Veltroni, Francesco Rutelli, Anna Finocchiaro, Giuliano Amato, Rosy Bindi, Franco Marini, Pier Luigi Bersani, Livia Turco, Luciano Violante. Fino a cinque anni fa la stragrande maggioranza dei comuni cittadini non sapeva chi fosse Dario Franceschini, né conosceva il suo aspetto, quella faccia da bravo ragazzo che - a dispetto dei suoi 50 anni - aiuta a differenziarlo dal resto dell’establishment democratico, fatto di gente visibilmente corrosa dalle fatiche della politica.

Il secondo motivo per cui Franceschini piace è che è veloce: decide, prende posizione, polemizza, è tagliente, non gira troppo a lungo intorno alle questioni. Adriano Celentano, inventore della dicotomia rock/lento, avrebbe detto di lui che è «rock»: tutto il contrario dello stile ellittico e sospensivo con cui da dieci anni i «lenti» leader democratici hanno affrontato (o meglio eluso) i nodi politici fondamentali della sinistra. Ma il motivo vero, il motivo più importante, per cui Franceschini piace è che ha cominciato a curare la più grave delle malattie della sinistra: il linguaggio oscuro, criptico, involuto, astratto, lontano dal senso comune. Franceschini usa parole che tutti possiamo capire, fa proposte di cui riusciamo a immaginare gli effetti, è quasi sempre concreto. Insomma si preoccupa innanzitutto di arrivare alle persone normali, e solo in seconda battuta di lanciare messaggi in codice agli addetti ai lavori. Sul piano della comunicazione, è il leader più simile a Berlusconi che la sinistra post-comunista abbia avuto finora, e proprio per questo funziona. Penso che ciò sia un bene, per l’Italia e per la sinistra: farsi capire, rivolgersi all’elettorato prima che al Palazzo è una virtù, indipendentemente dai motivi più o meno nobili per cui lo si fa.

C’è un piccolo però, tuttavia. Per quel che abbiamo sentito in queste prime settimane, Franceschini assomiglia a Berlusconi anche da un altro punto di vista: la sua stella polare è il consenso, non la modernizzazione dell’Italia. Se osservate attentamente le azioni dei due leader, è piuttosto evidente che entrambi amano le mosse demagogiche o populiste, ed evitano accuratamente le scelte coraggiose, che farebbero bene al Paese ma potrebbero mettere a repentaglio la stabilità del governo o il potere dell’opposizione. È stata demagogica la soppressione integrale dell’Ici attuata dal governo, visto che i poveri erano già stati sgravati (da Prodi) e gli effetti sulla propensione al consumo non potevano che essere trascurabili. È demagogica la richiesta di Franceschini di aumentare l’aliquota Irpef per i redditi sopra i 120 mila euro, vista la modestia del relativo gettito e visto che la stragrande maggioranza dei redditi alti non vanno in dichiarazione, in quanto tassati alla fonte con aliquote decisamente convenienti, di gran lunga inferiori a quella massima (un punto opportunamente richiamato dal professor Uckmar giusto ieri sul Corriere della Sera). Ma ancor più delle scelte, sono significative le non scelte. Destra e sinistra hanno paura di liberalizzare i servizi pubblici locali, perché distruggerebbero decine di migliaia di poltrone negli enti locali. Il governo non vuole ammortizzatori sociali di carattere universalistico (assegno di disoccupazione automatico, per tutti i settori e tutti i contratti di lavoro) perché sa che uno strumento del genere ridurrebbe fortemente il potere discrezionale della politica. L’opposizione, per bocca di Franceschini, propone sì l’assegno di disoccupazione per tutti, ma rifiuta di coprirne i costi riformando le pensioni, una patata bollente che anche il governo non ha la minima intenzione di toccare sul serio.

Visto da quest’altra angolatura, il nuovo corso di Franceschini appare assai meno nuovo di quanto poteva sembrare a prima vista. Certo, alcune idee meriterebbero di essere valutate attentamente, come l’abbinamento del referendum elettorale alle elezioni Europee, o la riduzione al 20% dell’anticipo Irpef di giugno. Ma complessivamente la direzione di marcia prevalente sembra riproporre schemi vecchiotti: visto che al centro non si riesce a sfondare, spostiamo il partito (un pochino) a sinistra per recuperare voti fra i delusi, i nostalgici di Prodi, i dipietristi arrabbiati, i laici doc, i girotondini, gli anti-berlusconiani in genere. Insomma, la priorità delle priorità è evitare che le Europee si trasformino in una Waterloo per il partito democratico, a costo di interrompere - per l’ennesima volta - il cammino riformista timidamente iniziato tanti anni fa.

È una scelta sociologicamente comprensibile, perché basata sull’istinto di sopravvivenza da cui nessun apparato burocratico è immune, anche quando proclama ideali ben più alti della mera conservazione di sé stesso. Il dubbio, semmai, è se una scelta così conservatrice sia veramente efficace per salvare il Pd da un declino irreversibile. Pensare sempre, come Ds e Margherita hanno fatto negli ultimi anni, esclusivamente all’immediato futuro - le prossime elezioni, il prossimo congresso, le imminenti primarie, la stabilità di un governo amico - può rallentare il declino, ma forse non è il mezzo più adatto a invertire una tendenza. D’altronde, per invertire una tendenza, ci vorrebbero partiti vivi, in cui minoranze combattive lottano per affermare una nuova visione politica, per contrastare un gruppo dirigente, e infine per sostituirlo con una nuova élite. Se questo non accade, e in Italia non accade più da tempo in nessun partito, è inutile aspettarsi qualcosa di più di quello che il buon Franceschini sta facendo per il suo sfortunato partito. Se mai qualcosa di nuovo apparirà sotto il sole, con ogni probabilità verrà da fuori.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Conservatori e liberali
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2009, 03:56:04 pm
28/3/2009
 
Conservatori e liberali
 
LUCA RICOLFI
 

Da oggi Forza Italia e Alleanza nazionale non ci sono più, e al loro posto esiste un unico partito della destra, il Popolo della Libertà: lo sta creando ancora una volta Silvio Berlusconi, che proprio ieri - davanti a una platea entusiasta - ha inaugurato a Roma la tre giorni che sancirà la definitiva unificazione fra il partito del premier e il partito del presidente della Camera. Ha fatto bene Berlusconi, ha fatto bene Fini. Soppesati i pro e i contro, la fusione fra Forza Italia e Alleanza nazionale mi sembra un evento positivo un po’ per tutti. È positivo per il partito di Fini, altrimenti votato a un destino di subalternità a Forza Italia: a differenza della Lega, An non ha un insediamento territoriale forte, né alleati possibili diversi da Forza Italia. È positivo per il partito di Berlusconi, perché senza la «trasfusione di militanza» assicurata dai nuovi venuti, Forza Italia correrebbe il rischio di un drastico ridimensionamento al momento dell’uscita di scena di Berlusconi. È positivo per l’Italia, perché in un contenitore unico le (modeste) differenze ideologiche e programmatiche fra i due principali partiti della destra avranno più possibilità di esprimersi su un piano puramente politico, anziché essere artificiosamente amplificate a fini elettorali (come è successo, ad esempio, in materia di sicurezza).

Tanto più che, proprio per il carisma di Berlusconi, tali differenze non avranno il potere paralizzante che le differenze hanno invece sempre avuto a sinistra, dove la divisione fra sinistra riformista e sinistra estrema ha abbattuto due governi Prodi (nel 1998 e nel 2008), mentre le «diverse sensibilità» interne al neonato Pd sono bastate a far naufragare un progetto covato oltre un decennio. Che un solo partito sia meglio di due non significa, tuttavia, che il quadro politico che esce dalla festa di questi giorni sia particolarmente incoraggiante per il Paese. Il partito democratico di Veltroni e Franceschini ha già dimostrato ampiamente di non essere il partito riformista, coraggioso e liberale, che le sue migliori intelligenze hanno sognato per anni. Ma il Pdl non sembra dare molte garanzie in più. Alleanza nazionale non è mai stato un partito modernizzatore, Forza Italia lo è stato per una decina d’anni, fino a quando - complice il ristagno economico e l’intransigenza sindacale - ha capito che spingersi troppo in là sulla strada delle riforme avrebbe compromesso le basi del proprio consenso elettorale. Non a caso, in questi giorni, la definizione del nuovo partito più ascoltata è stata «casa dei moderati», un’etichetta impensabile quindici anni fa, quando Forza Italia sembrava promettere una rivoluzione liberale (un impegno ritualmente evocato da Berlusconi anche ieri, ma reso poco credibile dalle promesse mancate del 2001-2006, per non parlare delle pulsioni stataliste di oggi). La realtà, purtroppo, è che le forze che puntano sulla modernizzazione dell’Italia sono in minoranza sia nel Paese sia in Parlamento, e lo sono da sempre. C’è stata, è vero, una breve stagione, grosso modo il decennio 1994-2004, nella quale sia la destra sia la sinistra hanno provato a modernizzare l’Italia, ma quella stagione - vista nella prospettiva della lunga durata - è stata come un breve squarcio di sole in una giornata nuvolosa. La nostra cultura politica resta, nonostante ogni velleità modernizzatrice, fondamentalmente figlia delle tre grandi ideologie del secolo scorso, il comunismo, il fascismo, il cattolicesimo. Oggi la patina ideologica si è ritirata quasi completamente, come un ghiacciaio sciolto dall’effetto serra, ma la scorza più dura - fatta di statalismo, dirigismo, paternalismo - è ben in vista, e si sta anzi irrobustendo: la crisi economica aumenta la domanda di protezione e di tutela, mentre la libertà individuale sta diventando una sorta di bene di lusso, che viene dopo la sicurezza economica e personale. Se lasciamo perdere i soliti schemi astratti - destra e sinistra, laici e cattolici - e guardiamo a quel che i partiti sono effettivamente diventati nella seconda Repubblica, il quadro che l’elettore ha di fronte non è dei più ricchi. Tutti i partiti, compresa la Lega, sono impegnati innanzitutto a tutelare il potere degli amministratori locali, e si oppongono tenacemente a qualsiasi norma che rischi di ridurre le risorse a loro disposizione, o di diminuire il loro potere di nomina: non per nulla né il centro-sinistra né il centro-destra hanno avuto il coraggio di varare una riforma incisiva dei servizi pubblici locali, non per nulla il federalismo fiscale è stato progressivamente annacquato per venire incontro al ceto politico dei territori più spreconi. Quanto ai due maggiori partiti, il Pd e il Pdl sono entrambi - oggi - due partiti conservatori di massa, che si differenziano fra loro essenzialmente per gli interessi verso cui hanno un occhio di riguardo: la sinistra non ha la minima intenzione di disturbare la sua base sociale, fatta di pensionati e lavoratori «garantiti», la destra non ha la minima intenzione di disturbare la propria, fatta di partite Iva, ceti professionali, imprenditori. La sinistra non avrà mai il coraggio di riformare il mercato del lavoro, sfidare i sindacati, abbandonare le corporazioni dei magistrati, degli insegnanti, dei professori universitari. La destra non avrà mai il coraggio di combattere l’evasione fiscale, estirpare il lavoro nero, liberalizzare il commercio e le professioni, difendere i consumatori contro gli abusi delle imprese, grandi o piccole che siano. Così le cose buone che piacerebbero agli uni sono destinate a restare lettera morta per il veto degli altri. E viceversa. Possiamo pensare che sia un male, perché l’Italia avrebbe bisogno d’innovazione più che di conservazione dell’esistente. Si può pensare anche, tuttavia, che la comune ispirazione conservatrice della destra e della sinistra non sia altro, in fondo, che l’espressione politica di quel che noi stessi siamo. Un popolo in cui l’aspirazione al cambiamento si manifesta a ondate improvvise, come ribellismo anarcoide, su un sottofondo costante, duraturo, pietroso fatto di particolarismo, di tenace attaccamento ai nostri interessi immediati, individuali e di gruppo. Se questo è ciò che siamo, non deve stupire che - da noi - le forze del cambiamento siano minoranza sia a destra sia a sinistra, e che alla fine della storia, dopo un quindicennio di seconda Repubblica, la competizione politica fondamentale sia diventata una sfida fra due conservatorismi. Ancora un anno e mezzo fa avevamo Ds, Margherita, Forza Italia, An. Oggi abbiamo solo Pd e Pdl. Non è un passo indietro, perché le differenze che le due grandi fusioni cancellano - fra Ds e Margherita, fra An e Forza Italia - erano marginali, talora persino artificiose, mentre Pd e Pdl sono due partiti realmente diversi, per visione del mondo, per mentalità, per priorità politiche. Ma non è neppure un grande passo avanti, perché sono diversi soltanto per le cose che vogliono conservare. Così, chi vuole un vero cambiamento non sa chi votare, e chi vuole votare non può aspettarsi un vero cambiamento.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Domande agli scienziati
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2009, 10:53:02 am
12/4/2009
 
Domande agli scienziati
 

LUCA RICOLFI
 
Oggi non è il tempo delle polemiche, delle recriminazioni, delle accuse reciproche. Dopo la tragedia del terremoto abruzzese, maggioranza e opposizione hanno scelto la compostezza, e noi non possiamo che essergliene grati. Come non possiamo che essere riconoscenti alla Protezione civile, ai volontari, a quanti hanno fatto di tutto per lenire le sofferenze delle popolazioni colpite. Verrà un momento, tuttavia, in cui dovremo trarre qualche conseguenza da quel che è successo. Dovremo decidere, ad esempio, se continuare a «chiudere un occhio» sulle migliaia di situazioni in cui si accettano dei rischi solo perché affrontarli costa troppo, in termini di soldi o di consenso politico: è il caso di migliaia di edifici scolastici pericolosi, è il caso delle tante abitazioni private - spesso abusive - lasciate proliferare in zone a rischio sismico conclamato, come le pendici dei nostri maggiori vulcani.

C’è però forse anche qualcos’altro su cui, prima o poi, dovremo cominciare a darci delle risposte. Questo qualcos’altro si riassume in una domanda drammatica: a chi dobbiamo credere?

Lo so, a prima vista la risposta è ovvia: dobbiamo fidarci della scienza, che è imparziale e autorevole. E in linea di massima è davvero così. Quando una decisione - ad esempio sgomberare una città - dipende da valutazioni tecniche complesse, è ragionevole che i politici ascoltino gli scienziati, e non corrano ciascuno dietro al proprio esperto di fiducia, o credano al primo portatore di verità pseudo-scientifiche alternative a quelle ufficiali. Insomma, nel caso del terremoto dell’Aquila non credo che i politici potessero agire diversamente, e trovo ingiusto accusarli di avere colpevolmente sottovalutato i rischi del sisma. Per il ruolo che ricoprono politici e amministratori non hanno scelta: pensate che cosa succederebbe se uno di essi ignorasse il parere della comunità scientifica, e la sua decisione - di agire, o non agire - si rivelasse catastrofica.

A chi dobbiamo credere?
Ma c’è anche un’altra domanda, che non riguarda i politici bensì il pubblico: a chi dobbiamo credere noi comuni cittadini, che non abbiamo responsabilità istituzionali, ma semmai abbiamo il problema di proteggere noi stessi e i nostri cari? La fiducia che i politici sono tenuti a riporre nei confronti della scienza ufficiale è pienamente giustificata?

Qui credo che una riflessione non guasterebbe. La mia impressione è che in molti campi gli esperti siano assai meno depositari di certezze di come noi ingenui cittadini li percepiamo. Ci sono ambiti nei quali le valutazioni degli scienziati sono pienamente affidabili, pensiamo ad esempio ai calcoli di un ingegnere che progetta un ponte o di un fisico che manda in orbita un satellite. Ma ci sono ambiti in cui, per le ragioni più disparate (dati insufficienti, teorie incomplete, complessità intrinseca dei fenomeni), le affermazioni degli scienziati sono altamente incerte e controvertibili, tanto è vero che ci sono scuole di pensiero, sottoscuole, minoranze dissenzienti, fazioni in lotta più o meno aperta fra loro. È il caso, ad esempio, del problema del riscaldamento globale, un fenomeno che la maggioranza degli studiosi ritiene dovuto essenzialmente all’azione dell’uomo e una minoranza considera invece dovuto a cause naturali, o semplicemente a un mix sconosciuto di cause naturali e umane. O il caso dell’economia e dei mercati finanziari, per i quali semplicemente non esistono modelli di previsione affidabili, né teorie abbastanza consolidate da suggerire terapie ben definite.

Il doppio paradosso
In questi casi si crea un doppio paradosso. L’autorità di stabilire il confine fra il vero e il falso continua ad essere monopolio della scienza ufficiale, anche se la scienza ufficiale stessa non ha (o non ha ancora) ciò che le conferisce tale autorità, e che noi istintivamente tendiamo ad attribuirle automaticamente: la capacità di fare predizioni corrette o suggerire terapie valide. Simmetricamente può succedere che dilettanti, impostori o semplici outsider riescano a fare meglio della scienza ufficiale, talora per puro caso o fortuna, talora perché in certe circostanze una teoria può essere meglio di nessuna teoria, talora perché un outsider può aver capito cose che l'establishment accademico può non aver capito. Nel caso della crisi economica, ad esempio, nessuna istituzione ufficiale ha neanche lontanamente previsto quel che sarebbe successo, e molte hanno continuato a sfornare predizioni errate, anche a crisi ampiamente in corso; mentre chi avesse creduto ad analisi di esperti non ufficiali (perché non economisti) come il matematico Benoît Mandelbrot (2004) o il politologo Robert Gilpin (2000) avrebbero avuto dubbi solo sul momento esatto del collasso, e sarebbero corsi ai ripari ben prima dell'estate del 2007.

E nel caso del terremoto abruzzese ?
A ben guardare a me sembra che ci troviamo di fronte, per una volta, a un doppio errore. La scienza ufficiale, una settimana prima del disastro, ha formulato una valutazione che, a posteriori, si è rivelata errata: «Lo sciame sismico che interessa L'Aquila da circa tre mesi è un fenomeno geologico tutto sommato normale, che non è il preludio ad eventi sismici parossistici, anzi il lento e continuo scarico di energia, statistiche alla mano, fa prevedere un lento diradarsi dello sciame con piccole scosse non pericolose». Quanto al paladino delle proprietà predittive del radon, il tecnico Giampaolo Giuliani, ha mostrato di sopravvalutare le capacità profetiche della sua creatura: il terremoto previsto a Sulmona per il 29 marzo non si è verificato, mentre il suo secondo allarme (quello lanciato nella notte del 5-6 aprile a L'Aquila ai propri vicini e familiari) si è purtroppo rivelato fondato.

Nessuno pienamente attendibile
In breve, a me pare che nessuno si sia mostrato pienamente attendibile. Il tecnico Giuliani perché per rendere credibile un qualsiasi metodo scientifico ci vogliono ben più prove di quelle di cui disponiamo fin qui a proposito del nesso fra radon e terremoti. La scienza ufficiale perché, quando dice che i terremoti non si possono prevedere puntualmente (luogo e ora), si trincera dietro un’ovvietà, che vale anche per la pioggia e i fulmini ma che non ci impedisce di essere inondati da «previsioni del tempo». Più che certezze, insomma, quel che la tragedia aquilana ci lascia in eredità sono tante domande, domande vere e non retoriche su come si possono gestire situazioni come quella abruzzese. Molto sommessamente vorrei proporne tre.

Prima domanda: siamo sicuri che le ricerche sulle proprietà predittive delle emissioni di radon siano così poco promettenti da giustificare la scarsa attenzione ad esse finora riservata dalla ricerca ufficiale in Italia?

Seconda domanda: siamo sicuri che almeno le variazioni (nel tempo e nello spazio) della probabilità di un terremoto non possano essere valutate con il radon o con altri «precursori»? Possibile che, dopo anni di studi sui precursori, non si sia ancora in grado di stabilire non dico dove e quando ci sarà la catastrofe ma se, in un dato momento e in un dato luogo, il rischio sia salito troppo?

Terza e decisiva domanda: siamo sicuri che, di fronte a un forte aumento del rischio di un evento catastrofico segnalato dagli strumenti, la sola alternativa sia fra non fare nulla e sgomberare un'intera città? Possibile che non esistano vie di mezzo?

Un grande dubbio
In poche parole io resto con un grande dubbio. Mi chiedo se, almeno in futuro, scienziati ed autorità non potrebbero decidersi a valutare con più attenzione, o meno sufficienza, i segnali premonitori deboli (ossia non sorretti da una teoria scientifica consolidata), nonché le misure intermedie fra immobilismo ed evacuazione totale. Fra queste ultime, ad esempio, ce n'è una che molti cittadini usano spontaneamente quando hanno paura di un terremoto, e che ad alcuni aquilani ha persino salvato la vita: scendere in strada o nei campi, senza abbandonare definitivamente le proprie abitazioni. Un po' come si faceva durante la guerra, quando le sirene annunciavano l'eventualità di un bombardamento aereo e la gente si riparava nelle cantine e nei rifugi antiaerei. Anche allora le autorità avrebbero potuto dire: «allo stato attuale delle conoscenze non è possibile realizzare una previsione deterministica della localizzazione, dell'istante e della forza dell'evento». Ma non lo dicevano, e i cittadini decidevano se correre il rischio.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Sinistra, paura di un vero leader
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2009, 04:44:18 pm
20/4/2009
 
Sinistra, paura di un vero leader
 

LUCA RICOLFI
 
Ci sono idee che non vanno mai via. E infatti le chiamiamo «fisse». Ne abbiamo un po’ tutti nella vita di ogni giorno, e ci prendiamo anche un po’ in giro quando le scopriamo negli altri: Alberto ha la fissa delle vacanze intelligenti, Peppino mangia spaghetti anche in Burundi, Loredana ha l’ossessione dei pipistrelli che ti si attaccano ai capelli (fa anche rima). Ultimamente, però, mi sono accorto che le idee fisse, o fissazioni, ci sono anche nei cieli della politica. Non parlo delle fissazioni ovvie, cioè quelle ossessioni che le forze politiche alimentano consapevolmente, per darsi un’identità o per fare proseliti.

Quelle ci sono sempre state, e rientrano perlopiù nella vasta categoria della «costruzione del nemico»: i comunisti, gli immigrati, gli islamici, gli ebrei e, naturalmente, Berlusconi, il nemico per eccellenza. No, le fissazioni di cui parlo io sono più sottili, sono idee, convinzioni, credenze che - chissà perché - sono diventate inamovibili, inespugnabili, scontate come lo sono i riflessi condizionati, irrinunciabili come lo sono i pilastri della nostra identità.

Che ci siano convinzioni inossidabili me lo ha fatto capire Enrico Letta qualche giorno fa, con un bell’articolo uscito su questo giornale. Di fronte all’osservazione che la sinistra non ha né un leader capace di mettere d’accordo le sue mille anime, né un metodo per dirimere le controversie, Enrico Letta su un punto solo non pare attraversato da dubbi: Berlusconi è un unicum irripetibile, ed è illusorio sperare di costruire una «alternativa vincente» a Berlusconi sul terreno della leadership. Per Letta «l’operazione alternativa non potrà che giocarsi su un campo differente dal suo», perché «sul suo vincerà sempre lui».

Non sono un politico e non so se Letta abbia ragione. Mi incuriosisce molto, però, questo rifiuto a priori dell’idea di un leader come cemento di un’alleanza. È anni che sento ripetere, in pubblico e nelle conversazioni private, che la pluralità della leadership è una risorsa della sinistra, che l’assenza di un capo è una virtù, che la discussione aperta e «franca» è una forza della cultura progressista. E mi sovviene quel che diceva Montanelli nel 2001, per spiegare ai suoi lettori come mai lui, uomo culturalmente di destra, avrebbe votato per il centro-sinistra, allora guidato da Rutelli: «Naturalmente la mia scelta è più che discutibile perché l’esercito di Rutelli è una brancaleonesca accozzaglia di forze (si fa per dire) impegnate a combattersi tra loro, come sempre è avvenuto nel campo delle Sinistre, senza che mai riuscissero a darsi un capo e un programma. Mentre quelle della destra, il Polo, sono molto più compatte, come lo erano, ai loro tempi, quelle fasciste e naziste. [...]

Sicché l’Italia si trova di fronte alla solita eterna scelta: una Destra che regolarmente finisce per elevare a oggetto di culto il manganello, e una Sinistra con la vocazione del bordello. [...]

«Ora, nella mia lunga vita, io ho già fatto esperienza di entrambe le cose. Da ragazzo ho visto volteggiare molti manganelli, e ne ho conservato un ricordo ispirato al disgusto. Poi sono stato un buon frequentatore di bordelli, e ne ho conservato un ricordo ispirato al rimpianto. Ecco il motivo della mia attuale scelta. Questa sinistra (con i suoi gaglioffi alla Bertinotti), non mi fa nessuna paura: non tanto perché è destinata alla sconfitta, quanto perché, anche se arriva al cosiddetto Potere, non riesce a usarlo. La Destra, se ci arriva, ha in mano tutti gli strumenti per restarci. E che volto abbia la destra italiana, che ha perfino il coraggio di proclamarsi “liberale”, lo abbiamo ben visto in questi ultimi giorni. No, meglio - cioè meno peggio - il bordello».

Ebbene, capisco più Montanelli che Letta. Montanelli parteggiava per il «bordello» della sinistra perché gli sembrava la garanzia che la sinistra stessa, a differenza della destra attratta dal «manganello», non sarebbe stata in grado di mettere in atto le idee bacate di cui era portatrice, una certezza che a Montanelli derivava dagli ultimi cinque anni di governo, rassicuranti proprio per la loro inconcludenza (un programma largamente disatteso, 4 governi in 5 anni). Ma i politici di sinistra che si dicono riformisti possono accontentarsi delle ragioni di Montanelli? Chi pensa che l’Italia debba essere modernizzata, che abbia bisogno come il pane di riforme liberali, può consolarsi pensando che avere tanti leader in competizione reciproca ci vaccina contro il rischio di una dittatura? Se un leader che faccia il leader non è la soluzione, qual è lo strumento che ne fa le funzioni? Ma soprattutto: da dove viene questa fobia per la figura del leader? Perché Blair e Obama vanno bene, ma da noi - in Italia - un leader non ci può essere, e quando prova a esserci viene rapidamente logorato e sostituito? Perché la destra può avere un leader nonostante l’ombra di Hitler e Mussolini, e la sinistra che ne ha sempre avuti - da Stalin a Togliatti a Berlinguer - ora lo teme come la peste?

Può darsi che mi sbagli, ma la mia impressione è che la repulsa della cultura di sinistra per il leader abbia una radice profondissima e tragica. Questa radice si chiama, nel lessico marxista, falsa coscienza. I politici sono, come è naturale, guidati quasi sempre e innanzitutto dal loro interesse egoistico, che è quello di fare carriera, gestire potere, ottenere benefici privati, in denaro e in natura. A differenza di quelli di destra, però, i politici di sinistra non cessano di raccontare a se stessi e agli altri la fiaba secondo cui il loro impegno è disinteressato, volto a perseguire il bene comune: se occupano poltrone lo fanno solo per «spirito di servizio» (o perché il partito chiama, come ha detto Cofferati per giustificare la sua aspirazione a un seggio al Parlamento europeo). Questa idea eroica di se stessi non è particolarmente deplorevole (dopo tutto l’autoindulgenza è uno dei tratti umani più comuni), però ha conseguenze logiche pericolose. Una di esse è di far sì che coloro che la professano, anche quando si accapigliano per i posti, si sentano portatori di «valori non negoziabili», rappresentanti unici del bene pubblico, naturalmente inteso in una decina di accezioni diverse, da quella di Bertinotti a quella di Prodi, da quella di Pecoraro Scanio a quella di Di Pietro, da quella di Pannella a quella della Binetti. E allora si capisce perfettamente perché non ci può essere un capo: se nessuno si sente, prosaicamente e semplicemente, rappresentante di determinati interessi, ma tutti quanti si sentono, poeticamente e grandiosamente, portatori di altissimi principi, è logico che non abbiano alcuna intenzione di tradire la propria fede, di venire a patti con le tante eresie di cui è fatta la storia della sinistra. Ve li vedete voi il Papa, il patriarca russo, gli ayatollah, i rabbini, gli innumerevoli rappresentanti delle altrettanto innumerevoli religioni di questa terra cedere il loro potere oligopolistico sulla definizione del «bene», di ciò che è buono e giusto, in favore di un potere monopolistico superiore, un capo di tutte le religioni incaricato di dirimere le controversie?

Insomma, la mia sensazione è che la fobia della sinistra italiana per la figura del capo in quanto tale non sia figlia soltanto della naturale avversione per la gerarchia, ma anche del suo arcaismo, del suo sentirsi ancora depositaria di valori assoluti e irriducibili, mentre è invece soprattutto ceto politico portatore di interessi personali e di gruppo, ormai incapace di ricondurli a quella che Norberto Bobbio considerava l’unica vera stella polare della sua storia: l’idea di uguaglianza. Un male in certo modo speculare a quello della destra, in cui gli ideali - che pure non mancano - lasciano fin troppo facilmente il posto al negoziato sugli interessi, come la vicenda della Bossi-tax (soldi pubblici per interessi di partito) sta illustrando giusto in questi giorni.

Montanelli diceva che la scelta era Tra manganello e bordello. Oggi, forse, constaterebbe che la scelta è diventata tra commercio e fede: una destra fin troppo capace di mediare tra interessi pur di restare al potere, e una sinistra anch’essa attentissima agli interessi ma così poco capace di mediare tra fedi inconciliabili da rischiare perennemente di perderlo, il potere. O, ancor peggio, di non saperlo usare nei rari momenti in cui ce l’ha.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - La sinistra degli snob
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2009, 04:20:06 pm
12/5/2009

La sinistra degli snob
   
LUCA RICOLFI


Respingimento. Su questa parola altamente evocativa gli animi si stanno dividendo. Da una parte il ministro dell’Interno Maroni e la Lega, orgogliosi che l’Italia sia riuscita - per la prima volta - a impedire a diverse imbarcazioni cariche di migranti di raggiungere illegalmente le nostre coste. Dall’altra la Chiesa, le organizzazioni umanitarie e ieri anche il Consiglio d’Europa.

Preoccupati che fra i migranti vi possano essere persone che, una volta sbarcate in Italia, avrebbero chiesto e ottenuto asilo politico. In mezzo, su posizioni leggermente meno estreme, si collocano i nostri due maggiori partiti, il Popolo della libertà e il Partito democratico, il primo tentato di inseguire la Lega (nonostante i distinguo di Fini), il secondo tentato di inseguire la Chiesa (nonostante i distinguo di Fassino).

Che i partiti di governo, nonostante qualche timido mugugno, plaudano all’azione del ministro dell’Interno è del tutto naturale. La sicurezza è uno dei punti chiave del programma del centro-destra, e sarebbe strano che il «respingimento» dei barconi nei porti di partenza non fosse salutato con un sospiro di sollievo. Quel che a me pare invece meno scontato è l’accanimento con cui il Pd e il suo neosegretario da tempo combattono qualsiasi idea venga partorita dal ministro Maroni. Non solo non mi pare né ovvio né normale, ma mi pare estremamente interessante, per non dire rivelatorio. L’ostinazione con cui la sinistra respinge al mittente qualsiasi proposta concreta in materia di sicurezza, senza essere minimamente sfiorata dal dubbio di aver torto, ci fornisce una preziosa radiografia dei suoi mali.

L’astrattezza, prima di tutto. Astrattezza vuol dire non voler vedere la dimensione pratica, concreta, materiale di un problema. Se non fossero ammalati di astrattezza i dirigenti del Pd capirebbero che il problema dell’Italia è che attira criminalità e manodopera clandestina più degli altri Paesi perché non è in grado di far rispettare le sue leggi, e che l’unico modo di scoraggiare l’immigrazione irregolare è di convincere chi desidera entrare in Italia che può farlo solo attraverso le vie legali. A questo serve il «respingimento», ma a questo serviva anche la norma che prolunga da 2 a 6 mesi la permanenza nei centri di raccolta degli immigrati (i vecchi Cpt, ora ridenominati Cie), una norma necessaria ma ottusamente combattuta dall’opposizione. Senza il respingimento (in mare) i trafficanti di immigrati continuerebbero a scaricarli sulle nostre coste, senza il prolungamento dei tempi di permanenza (nei Cie) l’identificazione sarebbe perlopiù impossibile, e continuerebbe la prassi attuale, per cui il clandestino viene trattenuto qualche settimana e poi rimesso in circolazione senza possibilità di riaccompagnarlo in patria. Io capisco che si possano avere seri dubbi sulle cosiddette ronde, o sui medici-spia (denuncia dei malati clandestini) o sui presidi-spia (denuncia dei genitori clandestini di bambini accolti nelle nostre scuole), e io stesso ne ho molti. Ma non capisco il rifiuto pregiudiziale di provvedimenti di puro buon senso, la cui unica funzione è di ristabilire quello che tutti i governi degli ultimi vent’anni avevano sbriciolato, ossia un minimo di deterrenza. Tra l’altro questo è uno dei pochi punti fermi degli studi sulla lotta al crimine: minacciare pene più severe serve pochissimo, quel che serve è rendere credibile la minaccia.

Ma non c’è solo astrattezza, c’è anche molta presunzione, per non dire molto snobismo. Lo sa il segretario del Pd che la maggior parte degli italiani approva l’azione del ministro Maroni?

Sì, probabilmente lo sa, ma si racconta la solita fiaba autoconsolatoria. Gli italiani non sono quelli di una volta, Berlusconi li ha rovinati, la Lega li ha incattiviti, noi politici illuminati non possiamo farci guidare dai sondaggi, noi dobbiamo riforgiare le coscienze, corrotte e intorpidite da vent’anni di berlusconismo. E’ la solita storia: «alla sinistra non piacciono gli italiani», come scrisse fulmineamente Giovanni Belardelli quindici anni fa, allorché la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto, sconfitta e umiliata, non si capacitava che un rozzo imprenditore lombardo avesse potuto sconfiggere una classe politica colta e raffinata qual era quella del vecchio Pci.

E qui si arriva all’ultimo e più grave male della sinistra, la sua distanza dai problemi delle persone normali, specie se di modeste origini o di modesta cultura. Quando si parla di criminalità, di sicurezza, di immigrazione clandestina, nella gente c’è certamente anche molto cattivismo gratuito, molta insofferenza, molta intolleranza. Ma una forza politica dovrebbe sapere che i cattivi sentimenti non vengono dal nulla, e quelli buoni hanno talora origini imbarazzanti. L’insofferenza verso gli immigrati è più forte nei ceti popolari perché è nei quartieri degradati che la sicurezza è un problema grave; ed è innanzitutto per chi non ha grandi risorse economiche che la concorrenza degli stranieri per il posto di lavoro e per servizi pubblici può diventare un problema serio. L’apertura verso gli stranieri, il sentimento di solidarietà, l’attitudine a tutti accogliere albergano invece in quelli che lo storico inglese Paul Ginsborg ha battezzato i «ceti medi riflessivi», e raggiungono l’apice fra gli intellettuali, dove - soddisfatti i bisogni primari - ci si può dedicare all’arredamento della propria anima: chi ha un lavoro gratificante e un buon reddito, chi può permettersi di vivere nei quartieri migliori di una città, chi non deve combattere per un posto all’asilo o per una prenotazione in ospedale, può coltivare più facilmente un sentimento di apertura.

Insomma, l’insofferenza degli uni è spesso frutto dell’emarginazione, il solidarismo degli altri è spesso frutto del privilegio. Possibile che la sinistra, che pure continua a dire di voler rappresentare gli umili, non riesca a rendersi conto del paradosso? Ma forse in questi giorni assistiamo anche, lentamente, quasi impercettibilmente, a uno smottamento. Nel Pd qualche timida voce di concretezza e di pragmatismo si è pur fatta sentire: prima Fassino, poi Parisi, poi Rutelli. Speriamo che non siano rapidamente sopraffatti dalla forza del passato, dai tanti luoghi comuni che essi stessi hanno alimentato e che ora frenano il cambiamento.

da lastampa.it


Titolo: LETTERA DI PIA LOCATELLI A “LA STAMPA”
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2009, 10:43:59 pm

LETTERA DI PIA LOCATELLI A “LA STAMPA”

12 maggio 2009, | Stefania Lopedote


Egregio direttore,
 
ho letto l´articolo di Luca Ricolfi comparso su La Stampa di oggi,  e vorrei aggiungere qualcosa. Parlando di immigrazione clandestina sarebbe bello se si cominciasse dai fatti per non correre il rischio di farsi condizionare dagli interessi elettorali di una parte politica, per esempio la Lega, che oggi esprime il ministro dell´Interno. Spagna, Italia, Malta e Grecia, hanno dichiarato che nel 2008 sono entrate inEuropa, via mare, 67.000 persone. Un terzo circa è entrato nel nostro Paese, ovvero poco più di ventimila in un anno, solo in parte successivamente espulse. Il fenomeno dunque non ha le dimensioni apocalittiche che ci vogliono far credere. È vero invece che se un immigrato clandestino viene raccolto da una motovedetta italiana, dunque su suolo italiano, e sbarcato in Libia, si viola il diritto e la legge. Intanto il porto di partenza è solo presunto, poi non viene accertata la sua nazionalità e terzo, la cosa davvero più grave, il suo eventuale diritto di asilo. Ricolfi, non senza qualche ragione, obietta che l´opposizione ha il vizio dell´astrattezza e che bisogna pur scoraggiare il fenomeno degli sbarchi clandestini. Giusto, ma troviamo degli strumenti meno rozzi perché non c´è nulla di astratto nel difendere principi liberali di civiltà, di democrazia e diritto. Nel 2006 Human Rights Watch ha accusato Tripoli di arresti arbitrari e torture nei centri di detenzione per stranieri, e non penso che da allora la situazione sia granché migliorata. Mettiamo, per ipotesi, che tra quei 226 sbarcati a forza in Libia cifosse stato anche un solo oppositore di Gheddafi, il ministro Maroni si sentirebbe con la coscienza a posto? Sono di sinistra, sono socialista, e non mi piace passare per snob, ma mi preoccupa assai di più correre il rischio di diventare complice di qualche dittatura, petrolifera o meno che sia.
 
Pia Locatelli
candidata per “Sinistra e Libertà”, europee 2009


Titolo: LUCA RICOLFI - Sicurezza, l'ultima illusione
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2009, 12:33:23 pm
15/5/2009
 
Sicurezza, l'ultima illusione
 

LUCA RICOLFI
 
Un maledetto irrisolvibile problema idraulico. È triste dirlo, ma al 90% il problema della sicurezza non è un problema politico, ma un problema di flussi e di stock, di capienze e di velocità. Per capire come mai, bisogna mettere da parte il 10% politico del problema, su cui ovviamente ognuno ha le sue preferenze e le sue sensibilità (a me, ad esempio, non piacciono le ronde). E occorre munirsi di santa pazienza e ripassare qualche numero, senza pretese di precisione ma giusto per farci un’idea degli ordini di grandezza.

Le persone denunciate in Italia sono oltre 500 mila all’anno, ossia circa 1 cittadino su 100. Un quarto circa, quasi interamente costituito da persone con precedenti penali, viene condannato da un giudice a una pena detentiva. Ma le probabilità di scontare la pena in carcere sono minime, per un complesso di ragioni istituzionali ben spiegato dal procuratore Bruno Tinti in un suo fortunato libro (Toghe rotte, Chiarelettere). La ragione più importante, però, è di natura materiale: non ci sono abbastanza posti nelle carceri. A meno di tre anni dall’indulto (estate 2006), i detenuti sono già 20 mila più di quanti le carceri potrebbero contenerne: 62 mila persone per 43 mila posti.

Equasi 2 posti su 3 non sono occupati da persone condannate, ma da imputati in attesa di giudizio o sottoposti a misure cautelari. La conseguenza è che i pochi detenuti che effettivamente scontano una pena liberano pochissimi posti all’anno, proprio perché la loro pena è lunga (chi ha una pena breve di norma non la sconta in carcere). In poche parole: le condanne a pene detentive sono più di 100 mila all’anno, ma i posti che si liberano effettivamente sono poche migliaia.

Si potrebbe pensare che, almeno per quanto riguarda gli immigrati, una soluzione potrebbero essere i centri di permanenza temporanea (Cpt), ora ridenominati Cie (Centri di identificazione ed espulsione). A parte il fatto che un Cie non è un luogo deputato a scontare una pena, è di nuovo l’idraulica a lasciare senza speranze: con meno di 2000 posti disponibili, le persone che possono transitare nei Cie sono meno di 10 mila all’anno, e diminuiranno drasticamente con l’allungamento dei tempi massimi di permanenza da 2 a 6 mesi deciso in questi giorni.

È strano che il ministro Maroni, che pure da molto tempo sta progettando di allungare i tempi di permanenza nei Cie per rendere possibili le operazioni di identificazione ed espulsione, non abbia provveduto - prima - ad almeno triplicare la loro capienza. Lì per lì non ci si pensa, ma la regola idraulica è implacabile: se il tempo di permanenza in una struttura aumenta di N volte, la sua capacità annua di accoglienza si riduce nella stessa proporzione. Se prima potevi ricevere 300 nuove persone al mese tenendole 2 mesi ciascuna, adesso puoi immetterne solo 100 al mese, perché ciascuna di esse si fermerà il triplo del tempo, ossia 6 mesi anziché 2. Insomma le stanze restano 300, ma più a lungo le si occupa meno nuove persone potranno transitarvi in un dato intervallo di tempo: se vuoi che il transito resti costante, allora devi triplicare la capienza della struttura. L’aritmetica dei flussi non lascia scampo.

Si potrebbe pensare che, comunque, un passo avanti sia stato fatto con l’accordo con la Libia, grazie al quale gli sbarchi in Italia dovrebbero diminuire drasticamente. Questo è vero, ma ancora una volta sono gli ordini di grandezza che fanno riflettere. Gli immigrati, specie se clandestini, sono indubbiamente più pericolosi degli italiani, ma occupano solo 1/3 dei posti in carcere, e soprattutto non vengono dal mare: gli ingressi con i barconi sono circa 1/7 del totale degli ingressi (o permanenze) irregolari. Il «respingimento in mare» degli stranieri è senz’altro utile, ma è solo una piccola frazione del problema della criminalità in Italia, diciamo un 5 per cento. Ricordo queste cifre non certo per svalutare l’azione del governo, o per minimizzare il ruolo della criminalità straniera in Italia.

Contrastare gli sbarchi illegali e rendere possibili le identificazioni sono provvedimenti ragionevoli, anche per il loro potere deterrente, e secondo me Maroni ha fatto bene a tenere duro su entrambi. Quello di cui dovremmo renderci conto, tuttavia, è che alla lotta contro il crimine mancano ancora i due tasselli fondamentali: una giustizia molto più efficiente, un piano di edilizia carceraria ben più incisivo di quello prospettato dal governo alcuni mesi fa (13 mila posti entro il 2012). Un calcolo prudente suggerisce che tra ristrutturazioni delle carceri esistenti (spesso indegne di un Paese civile) e costruzione di nuove carceri occorra prevedere almeno 50 mila posti aggiuntivi, con un costo che è dell’ordine di 5 miliardi di euro. Finché ciò non avverrà - ed è difficile pensare che, anche con la migliore volontà politica, occorrano meno di una decina d’anni - nessun inasprimento di pena, nessun nuovo reato, nessun giro di vite potrà produrre risultati apprezzabili. Meno che mai possiamo aspettarci miracoli dall’introduzione del reato di immigrazione clandestina, giusto ieri sancita dal voto della Camera. Anzi, il rischio è che proprio i continui annunci di misure drastiche ma materialmente inattuabili rendano ancora meno credibili le nostre istituzioni.

Ma di tutto questo ci renderemo conto, probabilmente, solo fra qualche anno. Solo allora, quando avremo assistito a un’ennesima rivolta nelle carceri, quando saremo stati costretti a varare l’ennesimo indulto o amnistia, quando avremo constatato che l’idraulica del circuito della sicurezza non permette a nessun governo, di qualsivoglia colore politico, di ottenere risultati tangibili in pochi anni, solo allora questa stagione ci apparirà in tutta la sua paradossalità. Perché quello di questi giorni, il «respingimento» dei barconi e l’approvazione del disegno di legge sulla sicurezza, è probabilmente il massimo successo mediatico del governo Berlusconi, ma potrebbe rivelarsi anche, alla lunga, la più grande illusione (l’ultima?) che il Cavaliere ha consegnato agli italiani.
 
da lastampa.it


Titolo: Luca Ricolfi e Renato Brunetta a confronto
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2009, 12:17:47 pm
28/5/2009 (7:33) - IL DIALOGO RICOLFI - BRUNETTA


Ululatori del bosco andate a lavorare!
 
Luca Ricolfi e Renato Brunetta a confronto
 
Follie, paradossi e vizi della pubblica amministrazione. Il sociologo e il ministro a confronto


Pubblichiamo un dialogo tra l’editorialista della Stampa e docente di analisi dei dati all’Università di Torino, Luca Ricolfi, e il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta, in occasione dell’uscita del libro La rivoluzione in corso. Il dovere di cambiare dalla parte dei cittadini (Mondadori, 18 euro, pag. 280).

In questo volume il ministro racconta come si propone di rendere più efficiente la macchina amminsitrativa del nostro Paese, riducendone assenteismo e sprechi.


RICOLFI - «Signor Ministro, il suo libro Rivoluzione in corso (Mondadori 2009) è un racconto di quel che lei ha fatto, sta facendo e farà al Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione. Però è anche un diario, pieno di aneddoti gustosi, al punto che qualche volta non ho capito se lei descrive la realtà o la inventa per farsi capire meglio. Ad esempio: chi sono gli “ululatori nei boschi”»?
BRUNETTA - «Bella domanda, la stessa che mi sono fatto quando li ho visti fra i consulenti della pubblica amministrazione (con loro tantissimi altri: l’esperto in mandolino, il collaudatore delle scarpe dei vigili, l’addetto al censimento dei cormorani, gli storiografi dei Beatles...). Non ho ancora trovato una risposta convincente ma è anche vero che non sono un esperto, né in boschi né in ululati. Può darsi che siano utili, ma ho qualche dubbio. Non ne ho nessuno, invece, sul fatto che le consulenze chieste dalle amministrazioni pubbliche siano talora grottesche, spesso inutili e, cosa ancora peggiore, in grado di duplicare i costi, chiedendo ad esterni di fare quel che già degli impiegati interni sono pagati per realizzare. Non tutte le consulenze, naturalmente, meritano degli ululati ma la trasparenza, che abbiamo subito imposto, ha aiutato e aiuterà a disboscare».

R. - «Insisto, a nome dei lettori della Stampa: qual è il territorio e l’amministrazione pubblica che ha dato consulenze per “ululatori nei boschi”»?
B. - «Insiste? E sia: La Valle d’Aosta pagò 8.750 euro per “monitorare la specie lupo (canis lupus) mediante il wolf-howling”. L’impresa, non so dirle se ardua o meno, fu affidata a un professore universitario. Un collega. Un altro collega, del resto, questa volta in Val Cavallina, studiò la possibile “mitigazione dell’impatto del traffico stradale sulle popolazioni anfibie”, che, più o meno, sarebbe lo sforzo di mettere meno rospi sotto le macchine. Meritorio, ne sono certo, ma forse si potrebbe dirlo anche in lingua italiana e non pagarlo 3.000 euro».

R. - «Nel suo libro si parla di cambiamenti drastici, in materia di assenze, salario accessorio, risarcimenti del cittadino, trasparenza e varie altre materie. Qual è, fra tutti, quello che lei considera più rivoluzionario?»
B. - «Ciascuna è una tessera del mosaico, ancora non terminato, e da nessuna si può prescindere. La chiave che ha aperto molte porte, però, è la trasparenza. Per durare, la mala amministrazione ha bisogno dell’ombra, della riservatezza. Il cittadino, che è pagatore e cliente, non deve vedere e non deve sapere. Deve prendere il disservizio come un dato strutturale, naturale. Deve rassegnarsi. Noi abbiamo fatto l'esatto contrario, accendendo tutte le luci e cercando di dirigerne il cono rivelatore in tutte le direzioni. C'è molto lavoro ancora da fare, perché la luce non è mai troppa».

R. - «Come lei sa uno dei problemi della Pubblica Amministrazione è che i trasferimenti e i cambiamenti di mansioni sono difficilissimi da attuare, e sono praticamente impossibili senza l'assenso dei sindacati e dei diretti interessati. Con la sua legge delega di riforma della pubblica amministrazione, cambierà qualcosa al riguardo?
B. - «Cambierà tutto, perché si premierà seriamente il merito, rompendo l’immobilismo della stagnazione egualitaria. Un equilibrio nefando, che sembra ispirato alla giustizia, si autodefinisce tale ma, in realtà, favorisce l’incapacità e la svogliatezza, punendo la competenza e la buona lena. D’ora in poi la disponibilità a trasferirsi diventerà un elemento di valutazione positiva che giocherà a favore del dipendente. Ho letto, nelle parole di certi sindacalisti, che premiare il risultato sarebbe una "logica aziendalista". A me sembra logica, e basta».

R. - «Provo a tradurre: anche in futuro, come oggi, nessun dirigente potrà trasferire d’autorità un dipendente della Pubblica amministrazione, in compenso potrà premiare quelli disponibili a trasferirsi. Insomma lei punta più sui premi che sulle punizioni: ho capito bene?».
B. - «Intanto, il fatto che si sia ragionato sui premi e sugli incentivi dimostra quanto sia stata falsa la lunga campagna propagandistica secondo la quale sembrava quasi volessi mangiare gli impiegati. Invece siamo stati noi, assieme alle diverse operazioni trasparenza, a lanciare quella "non solo fannulloni", mettendo in evidenza i molti casi d’eccellenza ed impegno. Detto ciò, i premi funzionano dal punto di vista della retribuzione, mentre un serio disincentivo alla nullafacenza si vedrà sul terreno della carriera. È ora che i dirigenti abbiano responsabilità reali, fra le quali quella di esprimere giudizi significativi sui collaboratori. Nel provvedimento è comunque stabilito un catalogo di infrazioni particolarmente gravi che possono dar luogo al licenziamento per motivi disciplinari: tra questi, l’ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze del servizio».

R. - «Su molte cose che lei scrive io concordo, però adesso devo dirgliene alcune che non mi convincono, come cittadino e come studioso. Come cittadino non mi è piaciuto il capitolo sulla giustizia, per il tono un po’ sprezzante con cui parla dei magistrati, e per la poca conoscenza dei dettagli del funzionamento della macchina della giustizia. Naturalmente io parlo da cittadino del Nord, però le assicuro che dalle nostre parti se i magistrati rispettassero rigorosamente l’orario d’ufficio, senza portarsi il lavoro a casa, l’output della magistratura crollerebbe. Detto in parole povere: negli uffici come sono oggi è molto difficile scrivere le motivazioni delle sentenze, e il magistrato-tipo lavora ben più di 40 ore la settimana».
B. - «Con altrettanto rispetto, naturalmente, dissento dal suo dissentire e osservo che lei non ha seguito la vicenda con la dovuta attenzione. Se lo avesse fatto avrebbe appreso che proprio in un tribunale del nord non solo ogni giudice (parliamo del giudicante, in questo caso) ha la propria stanza e il proprio computer, ma si è dovuto creare un apposito "ufficio intestazione sentenze", perché chi è incaricato di redigere le motivazioni delle sentenze ometteva di farlo. Ora, se ci sono l’ufficio e le strutture, nonché il personale amministrativo di supporto, perché porti a casa le carte? «Temo, insomma, che via sia una leggenda - che ha fatto presa anche su di lei - secondo la quale fare il magistrato sia una specie di lavoro strutturalmente precario, senza mezzi e affidato alla buona volontà dei singoli. E' totalmente falso. La informo, inoltre, che la nostra è una delle magistrature più informatizzate del pianeta. Allora, se le cose stanno così, perché amministrare la giustizia nel tinello di casa? Con ciò non solo non nego che vi siano magistrati assai impegnati e volenterosi, oltre che competenti. Nego però che si possa porre fine ai guasti enormi della giustizia italiana se si continua a ragionare sui luoghi comuni, anziché sulla realtà.

R. - «Adesso le parlo come studioso. Lei dice che la produttività della Pubblica Amministrazione potrebbe crescere del 50%, o che si potrebbe spendere la metà. È un po’ di anni che studio il problema, e le mie stime degli sprechi sono diverse: sanità 18%, scuola 25%, giustizia civile 34%, università 29%. Cifre preoccupanti, ma molto più basse delle sue. Non sarebbe più saggio seguire il motto "esageruma nen" del nostro sindaco Chiamparino? Ma soprattutto non sarebbe il caso di evitare i discorsi generali? Le differenze territoriali di efficienza sono enormi...».
B. - «Mai esagerato, quindi confermo quel che ho detto. Una cosa sono gli sprechi, un’altra la produttività. Si tratta non solo di aumentare le ore lavorate effettive (si guardi alle percentuali relative all’assenteismo recuperato), che hanno un effetto sulla produttività per addetto. Ma anche di aumentare la produzione di servizi per unità di fattore lavoro e capitale impiegato, compresa la qualità dei servizi. E questa qualità/quantità dei servizi della Pubblica amministrazione, come è noto, deve essere misurata, nei diversi comparti, anche sulla base della loro maggiore produttività come input importanti per tutti i settori produttivi che li utilizzano. Il vero problema è che non vi è abitudine a misurare il prodotto delle amministrazioni pubbliche come lo si fa con altri settori dei servizi, anche perché non è facile. Ci si limita invece alla misurazione di sprechi e spesa. Ma questo è un approccio riduttivo al problema, spesso troppo trascurato dagli economisti. In realtà, l’aumento della produttività nel pubblico può portare a recuperare una parte importante del divario di crescita di cui l’Italia soffre rispetto agli altri paesi europei».

R. - «Faccio lo studioso anche io, ma l'accademia non deve perdere di vista le cose ovvie. Pochi giorni fa il Consiglio dei Ministri ha deciso di stralciare dalla riforma la class action dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione, rimandandola a tempi migliori: la considera una parziale sconfitta?».
B. - «No. Come da impegno del presidente del Consiglio Berlusconi, l’azione collettiva nel settore pubblico entrerà in vigore dal primo gennaio 2010. Il relativo schema di decreto legislativo è già predisposto e verrà mandato al Consiglio di Stato nei prossimi giorni e, sulla base di questo parere, comincerà il suo iter parlamentare probabilmente già prima della pausa estiva. Nessuna sconfitta o cedimento, quindi, ma solo volontà di fare presto e bene ciò che il governo Prodi aveva peraltro colpevolmente stralciato dal suo scalcagnato provvedimento sulla class action».

R. - «La cosa che più mi ha colpito nel suo libro è il resoconto dei suoi rapporti con i riformisti del Pd (Veltroni, Fassino, Damiano), che in privato la incoraggiano ad andare avanti e in pubblico mostrano di osteggiarla. Io mi sono fatto un’idea: finché la sinistra riformista farà il doppio gioco, seguendo la doppia parola, la doppia morale, la doppia verità, non ce la farete mai a cambiare l’Italia».
B. - «Concordo con lei, ma con una diversa lettura: questo non è il "doppio gioco", è un modo per mettersi "fuori gioco". Loro sanno benissimo che il vecchio modo d’amministrare la cosa pubblica non può essere conservato ma sentono di esservi legati, anche a causa dei condizionamenti corporativi. Piuttosto che evolversi e cambiare, quindi, preferiscono non giocare».

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - La vittoria del partito che non c'è
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2009, 05:44:13 pm
11/6/2009
 
La vittoria del partito che non c'è
 
LUCA RICOLFI
 

Che cosa sia successo alle Europee è piuttosto chiaro: il Pdl e il Pd sono andati male entrambi, ma mentre il Pdl è arretrato solo rispetto alle politiche del 2008 (mentre ha guadagnato qualcosa rispetto alle Europee del 2004, e sta vincendo le amministrative), il Pd è franato sia rispetto alle politiche dell’anno scorso, sia rispetto alle precedenti Europee (-5%). In compenso l’alleato principale del Pd (l’Italia dei valori di Di Pietro) è cresciuto di più dell’alleato principale del Pdl (la Lega di Bossi). E’ come se si fossero intrecciati due match: uno scontro Berlusconi-Franceschini vinto nettamente da Berlusconi, e uno scontro Bossi-Di Pietro vinto da Di Pietro.

Se sommiamo i risultati dei protagonisti principali, infine, il verdetto diventa più nitido: fatta 100 la forza dei tre principali partiti di centro-destra (Forza Italia, An, Lega), la coalizione rivale formata dal Pd, dai radicali e dall’Italia dei valori valeva 95 nel 2004, valeva 82 nel 2008 e vale 80 oggi. Il ritmo di caduta medio del consenso è del 3,3% all’anno, il che - tradotto in voti - significa che i partiti di centro-sinistra che si candidano a governare l’Italia perdono circa 400 mila elettori all’anno, quasi 1000 voti al giorno.

Fin qui la parte immediatamente visibile del voto di domenica. C’è anche una parte nascosta, tuttavia, e forse è la più interessante. Per riconoscerla dobbiamo dimenticare le percentuali di voti validi, su cui si appuntano tutti i commenti, e concentrarci sul corpo elettorale, formato da circa 50 milioni di elettori. Ebbene, se ragioniamo su questa base possiamo notare alcuni fatti.

Il primo è che, nonostante i tentativi di rendere bipartitico il sistema elettorale, Pd e Pdl attirano al più 1 elettore su 2 (per l’esattezza il 54,7% del corpo elettorale nel 2008, e il 38,2% oggi). In concreto questo vuol dire che alle ultime Europee poco più di 1 elettore su 3 si è scomodato per andare a votare uno dei due partitoni, Pdl e Pd, che ambiscono a contendersi il governo del Paese. Per rendersi conto di quanto poco il sistema stia evolvendo in senso bipartitico basti pensare che 5 anni fa, quando ancora non era nato il Pdl e Forza Italia correva ancora da sola, le due liste principali messe insieme - ossia Forza Italia stessa e Uniti nell’Ulivo - raccoglievano già allora il 35% del corpo elettorale: insomma, nonostante la nascita del Pdl, il bipartitismo non è decollato, perché la fusione fra An e Forza Italia è stata cancellata dall’implosione del Pd.

La creazione dei due super-partiti Pd e Pdl, in compenso, ha avuto un interessante effetto anestetico, o di occultamento. Grazie alla confluenza di An e Margherita nei due partiti maggiori, ossia in Forza Italia e nei Ds, oggi è difficile accorgersi di quanto il consenso verso i due partiti leader sia sceso in basso. Ho provato a stimare quanto avrebbero raccolto Forza Italia e Ds se non si fossero presentati con le stampelle di An e Margherita, e il risultato è drammatico. Forza Italia raccoglierebbe il 22-23% dei voti validi, i Ds il 14-15%: in breve, Forza Italia starebbe appena al di sopra del suo minimo storico (il 21,1% della «discesa in campo», 1994), mentre i Ds starebbero addirittura al di sotto dei due minimi storici toccati nel 1992, ai tempi di Occhetto (16,1%), e nel 2001, ai tempi di Veltroni (l6,6%). Se oggi Berlusconi e Franceschini possono arrampicarsi sugli specchi, minimizzando la severità del verdetto elettorale, è anche perché nessun segnale univoco li avverte che le due ammiraglie storiche della seconda Repubblica - Forza Italia e Ds - si sono incagliate nelle secche.

Ma nelle secche di che cosa?

Nelle secche del nostro scontento, è ovvio. E qui sta l’ultimo dato invisibile delle elezioni Europee. In queste elezioni il primo partito non è stato il Pd, non è stato il Pdl, ma è stato il partito che non c’è, il partito che potremmo definire del «non voto volontario». Un partito certo eterogeneo, fatto di persone deluse, arrabbiate, stanche, ma tutte accomunate dal fatto che hanno scelto di non votare un partito vero e proprio. Persone che non sono andate a votare non perché non potevano, ma perché non volevano. Una stima molto prudente del loro numero, basata su un classico lavoro di Mannheimer e Sani (Il mercato elettorale, Il Mulino 1987), che giustamente ci ricordano che fra gli astenuti ci sono anziani e persone che materialmente non possono recarsi alle urne, suggerisce che il «non voto per scelta» possa coinvolgere oggi circa il 30% del corpo elettorale, ossia 15 milioni di persone: un numero mai così alto nella storia repubblicana, e che nessun partito, nemmeno la Dc di De Gasperi nel 1948, nemmeno il Pci nel 1984 (dopo i funerali di Berlinguer), nemmeno Forza Italia nel 2001 (ai tempi del «Contratto con gli italiani»), è stato finora in grado di raggiungere.

Adesso mi aspetto che i colleghi politologi mi spieghino che quella che è nata non è una nuova stella del firmamento politico, che il non voto è fisiologico in tutte le democrazie più moderne (Usa, Regno Unito, Svezia), che il partito del non voto non è un vero partito, perché ha dentro di sé troppe anime: ci sono gli ostili e i lontani, il disgusto e l’indignazione, la passione e l’apatia, l’opzione voice (protesta) e l’opzione exit (defezione), per usare le fortunate categorie di Albert Hirschman. Tutto giusto, ma il punto è un altro. Nel nostro sistema politico c’è chi pensa di avere un consenso popolare così ampio da esimerlo in qualche modo dal dovere del confronto con il Parlamento, con le forze sociali, con la macchina della giustizia. Ebbene, i dati ci dicono che - su 100 italiani - 22 hanno votato Pdl, circa 14 avrebbero votato Forza Italia se si fosse presentata da sola, e meno di 6 (sei) hanno espresso un voto di preferenza per Berlusconi. Fino a ieri si poteva (forse) obiettare che gli italiani che hanno votato per l’opposizione sono ancora di meno. Da oggi, mi pare, chiunque vorrà autoattribuirsi un mandato popolare dovrà fare i conti con le crude cifre del partito che non c’è.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - La legge che piace alla casta
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2009, 06:28:28 pm
15/6/2009
 
La legge che piace alla casta
 
 
LUCA RICOLFI
 
Sembra che, sulle intercettazioni, si sia in dirittura di arrivo. Dopo un anno di aggiustamenti e di ritocchi, il relativo disegno di legge è stato approvato alla Camera giovedì (con il voto di fiducia), e da domani inizia il suo iter in Senato. La sostanza delle nuove norme si può riassumere in quattro punti. Primo: per un pubblico ministero diventerà molto più complicato richiedere e ottenere l’autorizzazione a intercettare (ci vorrà il parere di tre giudici, anziché di uno soltanto come oggi). Secondo: in molti casi le intercettazioni diventeranno semplicemente impossibili.

O perché il procedimento è contro ignoti (e manca l’autorizzazione della persona offesa), o perché non esistono «evidenti indizi di colpevolezza» (prima bastavano «gravi indizi di reato»). Terzo: dopo il 60° giorno le intercettazioni dovranno comunque essere interrotte. Quarto: la pubblicazione del contenuto delle intercettazioni sarà sottoposta a forti restrizioni, con severe sanzioni a carico dei trasgressori (giornalisti e editori).

Indubbiamente la nuova disciplina rafforza la privacy e indebolisce il diritto di cronaca, uno scambio questo che fa imbufalire i giornalisti ma piace ai cittadini, almeno a giudicare dai risultati del sondaggio appena condotto da Ipsos per Il Sole - 24 Ore: i cittadini contrari alla pubblicazione delle conversazioni sono più del doppio di quelli favorevoli. Forse gli italiani sono meno assatanati di gossip di quanto li si immagina, o forse si sono convinti che in troppi casi la stampa non ha fatto un buon uso della libertà di cui godeva.

L’aspetto più importante del disegno di legge sulle intercettazioni, tuttavia, a me pare quello che riguarda la sicurezza. Qui è indubbio che l’effetto delle nuove norme sarà di rendere molto più difficile l’identificazione dei colpevoli di un delitto. Limitando l’uso di uno strumento investigativo fondamentale, le nuove norme aumenteranno la nostra privacy ma al prezzo di una minore sicurezza, di un minore contrasto nei confronti della criminalità in tutte le sue forme, da quella di strada a quella dei colletti bianchi e dei politici. E infatti i magistrati sono preoccupatissimi, come chirurghi cui è stato sottratto il bisturi, mentre i politici - pur non potendo sempre proclamarlo in pubblico - vedono assai bene una legge che ridurrà il rischio di essere «messi in piazza», e aumenterà il livello (già pericolosamente alto) di impunità nel caso commettano dei reati. Che la nuova legge piaccia ai politici, del resto, è rivelato da un fatto che ha sorpreso molti, e che dovrebbe farci riflettere: nel voto di fiducia di giovedì scorso, una ventina di deputati dell’opposizione hanno votato con il governo, ossia a favore delle norme che limitano la libertà dei magistrati di ricorrere alle intercettazioni. Quanto ai cittadini, il sondaggio citato rivela che in maggioranza stanno con i magistrati e contro il governo: preferiscono sacrificare un po’ di privacy pur di avere più sicurezza. Insomma: che i magistrati intercettino pure, ma che i giornalisti non esagerino con la diffusione del contenuto delle conversazioni.

Ci troviamo così di fronte a due fatti entrambi spiazzanti. Il primo è che la maggior parte dell’opinione pubblica è e resta giustizialista, nonostante i dati sulle intercettazioni mostrino in modo inequivocabile che vi è stato sia abuso sia arbitrio nel ricorso a esse: abuso, perché tra il 2001 e il 2007 (ultimo dato disponibile) il loro numero è esploso, senza un nesso plausibile con l’andamento dei delitti (le intercettazioni sono cresciute del 300%, i delitti del 30%); arbitrio, perché il ricorso alle intercettazioni è altissimo in alcuni distretti giudiziari e bassissimo in altri, con squilibri che non è possibile giustificare con le differenze nei «panieri» di reati tipici di ciascun distretto (il distretto che intercetta di più lo fa 13-14 volte di più del distretto che intercetta di meno). Peccato non esista un’opinione pubblica liberale: se ci fosse chiederebbe ai magistrati di darsi una regolata (meno intercettazioni, e più equità nella loro distribuzione fra i 29 distretti di Corte d’Appello), ma inorridirebbe di fronte al goffo tentativo dei politici di mettere sabbia negli ingranaggi della giustizia.
Il secondo fatto spiazzante riguarda il governo. Eletto anche grazie alla promessa di combattere la criminalità, sta per varare delle norme che ridurranno la sicurezza dei cittadini, e lo sta facendo in barba ai sondaggi, secondo cui la maggior parte degli italiani sono favorevoli alle intercettazioni come strumento di lotta al crimine.

Perché il governo, assai prudente in materia di riforme economico-sociali, nel caso della sicurezza pare invece deciso a correre il rischio dell’impopolarità?
Probabilmente per un complesso di ragioni. Una l’abbiamo già vista: questa legge piace ai politici, perché riduce il rischio di incorrere in guai giudiziari. Una seconda possibile ragione è che l’effetto della legge sarà di alleviare la pressione su un sistema carcerario avviato al collasso: meno intercettazioni significa meno colpevoli scoperti, quindi meno condanne, quindi meno ingressi in carcere. Una boccata d’ossigeno per un governo che non vuole varare un nuovo indulto, non osa depenalizzare parte dei reati, ma nello stesso tempo è incapace di aumentare i posti in carcere.

La vera ragione per cui il governo va avanti per la sua strada, però, a me sembra un’altra ancora, ed è la mancanza di concorrenza. A parole la sicurezza interessa a tutte le forze politiche, ma non vi è nessun partito importante pronto a sfidare il governo su questo terreno. La lotta al crimine resta, nonostante tutto, un tema «di destra», che ai partiti di sinistra non interessa, o interessa solo a parole, o interessa solo a condizione che le politiche anti-crimine siano cattivissime con i reati dei mafiosi e dei colletti bianchi, e buonissime con quelli di immigrati e criminali comuni. Così, quando fra quattro anni si farà il bilancio di questa legislatura, non ci sarà nessuno - dall’opposizione - che rimprovererà il governo di non essere stato abbastanza duro con la criminalità.

Dunque, dal suo punto di vista, Berlusconi fa bene a mettere in difficoltà la magistratura. Tutela se stesso. Tutela la casta, compresi i politici dell’opposizione inguaiati con la giustizia. Ha persino ragione su diverse cose. E comunque, quando verrà il momento di tirare le fila di cinque anni di governo, nessuno avrà le carte in regola per chiedergli il conto.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Ma il Pd non sa contare
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2009, 04:25:27 pm
24/6/2009
 
Ma il Pd non sa contare
 
LUCA RICOLFI
 
Declino della destra? Se non lo avessi visto e ascoltato lunedì sera dal vivo, mentre lo diceva in tv, non ci avrei creduto. Avrei pensato che i giornali avevano frainteso le dichiarazioni del segretario del Partito democratico, o le avevano forzate un po’, come troppo spesso accade. E invece no, Franceschini aveva detto proprio così: queste elezioni sono andate bene, «è iniziato il declino della destra».

Allora vediamole le cifre di questo declino della destra. Per ora il quadro è completo solo per le 62 Province e i 30 Comuni capoluogo (più lunga e complessa l’analisi dei risultati dei Comuni minori). Per capire dove tira il vento della politica c’è un sistema molto semplice: contare in quanti casi c’è stato un cambiamento di colore politico, e confrontare il numero di amministrazioni conquistate dai due schieramenti, ossia i passaggi da destra a sinistra e viceversa. Ebbene l’esito non potrebbe essere più chiaro: su 32 amministrazioni che hanno cambiato colore non ve n’è neanche una che sia passata da destra a sinistra, perché tutte - ossia 32 su 32 - sono passate da sinistra a destra.

Né si può dire che esista un’area del paese in cui la sinistra abbia tenuto: al Nord la destra ha conquistato 11 Province e 5 Comuni, nelle «regioni rosse» ha conquistato 2 Province e 1 Comune, nel Centro-Sud (dal Lazio alla Sicilia) ha conquistato 10 Province e 3 Comuni. Il risultato è che ora il centro-destra, tradizionalmente forte nelle elezioni politiche e debole in quelle amministrative, governa oltre il 50% delle Province e dei Comuni capoluogo in cui si è votato, mentre prima ne governava meno del 16%. Simmetricamente, il centrosinistra scende dall’84% al 48% e oggi governa in meno della metà delle realtà in cui si è votato.

Naturalmente può darsi benissimo che il consenso alla destra sia in declino, e che le prossime elezioni le vinca la sinistra, specie se si dovesse votare fra quattro anni e nel frattempo il governo non fosse riuscito a combinare granché, o Berlusconi - travolto dai suoi scandali e dai suoi guai giudiziari - fosse stato costretto a un’uscita di scena poco onorevole. E tuttavia per vedere nei risultati di questa tornata amministrativa i segni del declino del centrodestra mi pare ci voglia una fantasia decisamente fervida. Se fossi un dirigente del Pd, rifletterei semmai su questa circostanza: la disfatta per 32 a zero che il centrosinistra ha subito in questa tornata amministrativa non si è consumata in un momento politicamente felice per il centrodestra, bensì in un momento di difficoltà e debolezza. Debolezza per le vicende del premier (processo Mills, caso Noemi, caso Patrizia), che secondo i sondaggi hanno allontanato una parte dell’elettorato, soprattutto cattolico. Ma debolezza anche perché, come giustamente notava ieri Massimo Giannini su Repubblica, è probabile che una parte dei leghisti se ne siano andati al mare «preferendo l’affondamento del referendum al sostegno del candidato dell'alleanza di centrodestra».

Se il centrosinistra ha perso, e perso così sonoramente, nonostante l’avversario fosse in un momento di difficoltà, quel che viene da chiedersi non è se sia iniziato il declino del centrodestra ma, tutto all’opposto, se stia continuando quello del centrosinistra. La mia impressione è che la risposta sia affermativa, e che gli anni che abbiamo davanti saranno molto duri per il partito di Franceschini. Duri perché è possibile che, a differenza di quanto avvenne nella legislatura 2001-2006, le tornate amministrative intermedie (a partire dalle Regionali dell’anno prossimo) riservino amare sorprese a un partito che ha nel controllo delle amministrazioni locali una delle sue ragioni di esistenza. Duri perché d’ora in poi il partito di Franceschini dovrà convincere gli italiani non solo a preferirlo al Pdl, ma a preferirlo abbastanza da indurli a recarsi alle urne, visto che il «non voto per scelta» sta diventando un’opzione seria per molti cittadini stanchi di questa politica. E duri, infine, perché sarà difficile che qualcosa cambi davvero a sinistra se il Pd e i suoi mezzi di informazione conserveranno la più tenace fra le eredità dello stalinismo: l’indifferenza ai fatti, la mirabile capacità di capovolgere i crudi dati della realtà.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Nordisti e sudisti d'Italia
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 12:12:50 pm
19/7/2009
 
Nordisti e sudisti d'Italia
 
LUCA RICOLFI
 

Forse questa volta fanno sul serio. Sì, perché la mera comparsa di movimenti e partiti «del Sud» non è certo una novità. Ci provò quasi vent'anni fa un certo Cito, proprietario di una Tv locale, poi sindaco di Taranto, infine processato e condannato per i suoi rapporti con la criminalità organizzata: il suo partito si chiamava «Lega d’azione meridionale» e arrivò a conquistare oltre 200 mila voti alle Europee del 1994. In anni più recenti altri movimenti e partiti del Sud vennero fondati senza ottenere, finora, un seguito nazionale apprezzabile: nel 2002, a Gaeta, in provincia di Caserta, nasce il «Partito del Sud - Alleanza meridionale»; nel 2005, in Sicilia, nasce il Movimento per le Autonomie (MpA) di Raffaele Lombardo, che oggi raccoglie circa 400 mila voti e ha 10 parlamentari; sempre nel 2005, a Napoli, nasce il partito «per il Sud» (piS), una piccola formazione con sede principale a Foggia, e che - finora - ha lasciato ben poche tracce di sé; qualche mese fa, a Lecce, Adriana Poli Bortone (ex Alleanza nazionale, già sindaco di Lecce), presenta il movimento «Io Sud»; quanto a Bassolino (ex Ds, tuttora governatore della Campania) da tempo sta lavorando alla costituzione di «Sudd», un’associazione di sinistra la cui sigla significa «Sinistra Unita Democrazia e Diritti».

La novità di oggi, dunque, non è che sia in atto l’ennesimo tentativo di costruire un «partito del Sud», ma è che questa volta l’operazione potrebbe anche riuscire, con conseguenze imprevedibili sul quadro politico nazionale. A questo punto della vicenda, le ipotesi sul tappeto paiono tre.

Prima ipotesi: la lobby del Sud. Costruire un gruppo di pressione che, nell’ambito del centro-destra, sposti «a Sud» l'asse della politica del Governo, da molti giudicata troppo sbilanciata a favore degli interessi del Nord; secondo un commentatore attento come Francesco Verderami non si può escludere che questa operazione - pilotata da Micciché e Dell’Utri - sia in realtà gradita a Berlusconi, che potrebbe utilizzare i mugugni dei parlamentari meridionali per ridurre il potere e l’influenza di Tremonti, ormai visto da molti come il vero rappresentante della Lega dentro il centro-destra. A occhio e croce, sembra questa l’idea prevalente fra i politici che si sono riuniti nei giorni scorsi a Sorrento, con l’intento di creare «un nuovo soggetto politico adeguato alle richieste di partecipazione vera e di protagonismo del Sud».

Seconda ipotesi: la Lega Sud. Costruire un partito vero e proprio, che funzioni - nel Mezzogiorno - come la Lega di Bossi funziona nel Centro-Nord. Un partito, dunque, alleato con il Pdl ma che sia capace di sottrarre al Pdl stesso una parte considerevole del voto meridionale. È chiaro che, per Berlusconi e il suo partito, questa ipotesi è la vera «alternativa da evitare» nel gioco politico dei prossimi anni, a partire dalle elezioni regionali del 2010.

Terza ipotesi: il Partito del Sud. Costruire un partito la cui unica missione sia la tutela dell’identità e degli interessi del Sud, senza un asse privilegiato con uno dei due schieramenti principali (un po’ come la Lega delle origini). Un partito, dunque, in cui potrebbero trovar posto sia personaggi politici provenienti dal centro-destra, sia personaggi politici provenienti dal centro-sinistra, come il governatore della Campania Bassolino o quello della Calabria Agazio Loiero. Di questa terza ipotesi, Raffaele Lombardo - fondatore dell’Mpa e governatore della Sicilia - pare l’interprete più autorevole e determinato.

Perché l’eventualità di un nuovo soggetto politico, la cui missione sia la tutela degli interessi del Sud, sta diventando sempre più attuale? Lasciando da parte le ragioni più spicciole, prima fra tutte l’urgenza per decine e decine di politici in difficoltà di riciclarsi in un contenitore nuovo, la ragione più importante mi sembra piuttosto evidente: i quattrini. O, come ci hanno abituati a chiamarli, le «risorse», ovvero le decine e decine di miliardi di euro che da questo autunno, con l’entrata in vigore del federalismo fiscale, verranno contesi fra le regioni «virtuose», che pagano molte tasse e spendono bene i quattrini che riescono a trattenere sul loro territorio, e le regioni «viziose», che hanno alti tassi di evasione e indici di efficienza decisamente bassi. Una prospettiva aggravata dal fatto che, nei prossimi anni, tutto fa pensare che la torta da spartire non crescerà, e sarà comunque inferiore a quella del 2006-2007, ultimi anni in cui il Pil ha dato segni di vita. Detto ancora più esplicitamente: poiché il grosso delle regioni virtuose sta nel Centro-Nord, e il grosso di quelle viziose sta al Sud, il timore dei politici meridionali è che la Lega - grande vincitrice delle ultime tornate elettorali - imponga un riequilibrio svantaggioso per il Mezzogiorno. Giusto per dare un’idea degli ordini di grandezza: il drenaggio di risorse dalle regioni virtuose alle altre, sotto forma di evasione fiscale differenziale e di spesa pubblica, è di almeno 50 miliardi l’anno.

Ma è giustificato questo timore delle regioni meridionali di essere penalizzate dalla riforma federalista del centro-destra ?

Secondo me lo è, ma solo fino a un certo punto. È giustificato perché, se non vuole che il Nord gli volti le spalle, il centro-destra qualche concessione alle regioni virtuose, e segnatamente a Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, dovrà farla per forza. Ma è forse eccessivo se riflettiamo su due circostanze. La prima è che questo governo è abbastanza conservatore (o prudente, se preferite) da muoversi comunque con i piedi di piombo: lo scenario più probabile non è quello di un trasferimento secco di risorse da Sud a Nord, ma semmai quello di una miriade di annunci seguiti da pochi fatti e da una lenta, ulteriore, crescita della spesa pubblica. La seconda circostanza è che, anche nel caso Tremonti decidesse di fare sul serio (cosa di cui dubito), non è detto che il federalismo si risolva in una punizione del Sud: almeno cinque regioni non virtuose sono collocate nel Centro-Nord, e ci sono realtà meridionali - come la Puglia e l’Abruzzo - che si discostano sensibilmente (in positivo) dal nucleo delle regioni viziose. In uno scenario di risorse costanti o decrescenti, imparare a spendere meno e meglio è l’unica vera opportunità dei territori più spreconi, a Nord come a Sud.

Semmai, il pericolo che si intravede all’orizzonte è un altro. Se il Pd dovesse continuare nella sua corsa verso l’autoannientamento, e il Pdl dovesse subire un salasso elettorale per il successo di un «partito del Sud», nel giro di pochi anni l’Italia potrebbe precipitare in una situazione come quella del Belgio, dove lo scontro fra Fiamminghi e Valloni prevale sulla normale dialettica politica e mette a dura prova l’unità del Regno. Da noi, quel che potrebbe accadere è che il confronto fra destra e sinistra si trasformi, di fatto, in uno scontro fra una coalizione nordista e una sudista. Niente male per un paese che si avvia, nel 2011, a festeggiare il centocinquantenario dell’Unità d'Italia.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - La scuola ha smesso di insegnare
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2009, 10:56:26 am
23/7/2009
 
La scuola ha smesso di insegnare
 

LUCA RICOLFI
 
Sulla scuola e l’università ognuno ha le sue idee, più o meno progressiste, più o meno laiche, più o meno nostalgiche. C’è un limite, però, oltre il quale le ideologie e le convinzioni di ciascuno di noi dovrebbero fermarsi in rispettoso silenzio: quel limite è costituito dalla nuda realtà dei fatti, dalla constatazione del punto cui le cose sono arrivate. Quale che sia l’utopia che ciascuno di noi può avere in testa, la realtà com’è dovrebbe costituire un punto di partenza condiviso, da accettare o combattere certo, ma che dovremmo sforzarci di vedere per quello che è, anziché ostinarci a travestire con i nostri sogni.

Queste cose pensavo in questi giorni, assistendo all’ennesimo dibattito pubblico su scuola e università, bocciature e cultura del ’68, un dibattito dove - nonostante alcune voci fuori dal coro - la nuda realtà stenta a farsi vedere per quella che è. La nuda realtà io la vedo scorrere da decenni nel mio lavoro di docente universitario, la ascolto nei racconti di colleghi e insegnanti, la constato nei giovani che laureiamo, la ritrovo nelle ricerche nazionali e internazionali sui livelli di apprendimento, negli studi sul mercato del lavoro. Eppure quella realtà non si può dire, è politicamente scorretta, appena la pronunci suscita un vespaio di proteste indignate, un coro di dotte precisazioni, una rivolta di sensibilità offese.

Io vorrei dirla lo stesso, però. La realtà è che la maggior parte dei giovani che escono dalla scuola e dall’università è sostanzialmente priva delle più elementari conoscenze e capacità che un tempo scuola e università fornivano.

Non hanno perso solo la capacità di esprimersi correttamente per iscritto. Hanno perso l’arte della parola, ovvero la capacità di fare un discorso articolato, comprensibile, che accresca le conoscenze di chi ascolta. Hanno perso la capacità di concentrarsi, di soffrire su un problema difficile. Fanno continuamente errori logici e semantici, perché credono che i concetti siano vaghi e intercambiabili, che un segmento sia un «bastoncino» (per usare un efficace esempio del matematico Lucio Russo). Banalizzano tutto quello che non riescono a capire.

Sovente incapaci di autovalutazione, esprimono sincero stupore se un docente li mette di fronte alla loro ignoranza. Sono allenati a superare test ed eseguire istruzioni, ma non a padroneggiare una materia, una disciplina, un campo del sapere. Dimenticano in pochissimi anni tutto quello che hanno imparato in ambito matematico-scientifico (e infatti l’università è costretta a fare corsi di «azzeramento» per rispiegare concetti matematici che si apprendono a 12 anni). A un anno da un esame, non ricordano praticamente nulla di quel che sapevano al momento di sostenerlo. Sono convinti che tutto si possa trovare su internet e quasi nulla debba essere conosciuto a memoria (una delle idee più catastrofiche di questi anni, anche perché è la nostra memoria, la nostra organizzazione mentale, il primo serbatoio della creatività).

Certo, in mezzo a questa Caporetto cognitiva ci sono anche delle capacità nuove: un ragazzo di oggi, forse proprio perché non è capace di concentrazione, riesce a fare (quasi) contemporaneamente cinque o sei cose. Capisce al volo come far funzionare un nuovo oggetto tecnologico (ma non ha la minima idea di come sia fatto «dentro»). Si muove come un dio nel mare magnum della rete (ma spesso non riconosce le bufale, né le informazioni-spazzatura). Usa il bancomat, manda messaggini, sa fare un biglietto elettronico, una prenotazione via internet. Scarica musica e masterizza cd. Gira il mondo, ha estrema facilità nelle relazioni e nella vita di gruppo. È rapido, collega e associa al volo. Impara in fretta, copia e incolla a velocità vertiginosa.

Però il punto non è se siano più le capacità perse o quelle acquisite, il punto è se quel che si è perso sia tutto sommato poco importante come tanti pedagogisti ritengono, o sia invece un gravissimo handicap, che pesa come una zavorra e una condanna sulle giovani generazioni. Io penso che sia un tragico handicap, di cui però non sono certo responsabili i giovani. I giovani possono essere rimproverati soltanto di essersi così facilmente lasciati ingannare (e adulare!) da una generazione di adulti che ha finto di aiutarli, di comprenderli, di amarli, ma in realtà ha preparato per loro una condizione di dipendenza e, spesso, di infelicità e disorientamento.

La generazione che ha oggi fra 50 e 70 anni ha la responsabilità di aver allevato una generazione di ragazzi cui, nei limiti delle possibilità economiche di ogni famiglia, nulla è stato negato, pochissimo è stato richiesto, nessuna vera frustrazione è mai stata inflitta. Una generazione cui, a forza di generosi aiuti e sostegni di ogni genere e specie, è stato fatto credere di possedere un’istruzione, là dove in troppi casi esisteva solo un’allegra infarinatura. Ora la realtà presenta il conto. Chi ha avuto una buona istruzione spesso (non sempre) ce la fa, chi non l’ha avuta ce la fa solo se figlio di genitori ricchi, potenti o ben introdotti. Per tutti gli altri si aprono solo due strade: accettare i lavori, per lo più manuali, che oggi attirano solo gli immigrati, o iniziare un lungo percorso di lavoretti non manuali ma precari, sotto l’ombrello protettivo di quegli stessi genitori che per decenni hanno festeggiato la fine della scuola di élite.

Un vero paradosso della storia. Partita con l’idea di includere le masse fino allora escluse dall’istruzione, la generazione del ’68 ha dato scacco matto proprio a coloro che diceva di voler aiutare. Già, perché la scuola facile si è ritorta innanzitutto contro coloro cui doveva servire: un sottile razzismo di classe deve avere fatto pensare a tanti intellettuali e politici che le «masse popolari» non fossero all’altezza di una formazione vera, senza rendersi conto che la scuola senza qualità che i loro pregiudizi hanno contribuito ad edificare avrebbe punito innanzitutto i più deboli, coloro per i quali una scuola che fa sul serio è una delle poche chance di promozione sociale.

Forse, a questo punto, più che dividerci sull’opportunità o meno di bocciare alla maturità, quel che dovremmo chiederci è se non sia il caso di ricominciare - dalla prima elementare! - a insegnare qualcosa che a poco a poco, diciamo in una ventina d’anni, risollevi i nostri figli dal baratro cognitivo in cui li abbiamo precipitati.

 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Economia, si naviga a vista
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2009, 04:12:29 pm
1/8/2009
 
Economia, si naviga a vista
 
LUCA RICOLFI
 
Il tormentato iter del decreto anti-crisi si concluderà oggi con un espediente tecnico rocambolesco: il decreto legge 78 (1 luglio 2009), che traduce in misure specifiche la filosofia del Dpef 2010-2013, verrà convertito in legge stamattina al Senato (con il voto di fiducia), ma un’ora dopo il Consiglio dei ministri si riunirà per varare un decreto legge «correttivo» che - di fatto - impedirà l’entrata in vigore delle norme più controverse del primo decreto appena approvato (competenze del ministero dell’Ambiente, scudo fiscale, poteri della Corte dei Conti). Una sorta di uccisione in culla, o di soppressione del nascituro prima che possa fare danni. Ora che l’iter del Documento di Programmazione Economico-Finanziaria (Dpef 2010-2013) si è concluso, vale forse la pena soffermarsi - più che sulle decine e decine di misure varate - sulla filosofia di fondo che lo ispira. Che a me pare più o meno questa: «Lasciamo perdere le traversate oceaniche, navighiamo a vista». Perché parlo di navigazione a vista? Essenzialmente per i contenuti del cosiddetto «quadro programmatico aggiornato» (pag. 1 del Dpef) dove si apprende che: a) nemmeno nel 2013 avremo i conti pubblici in pareggio (deficit previsto per il 2013: -2,4%); b) il debito, tornato oggi in prossimità del massimo storico, vi resterà per tutta la legislatura; c) la pressione fiscale fluttuerà intorno al 43% (anziché scendere sotto il 40% come promesso in campagna elettorale); d) la spesa pubblica corrente, dopo il picco del 2009 (43,4%), resterà prossima al 42%, 2 punti al di sopra del livello cui l’avevano lasciata Prodi e Padoa-Schioppa; e) spesa sanitaria e pensioni continueranno a crescere a un ritmo superiore al 3%, senza ridurre la loro incidenza sul Pil.

Quanto al breve periodo, la manovra di politica economica - fino al 2011 - non prevede alcun effetto (in più o in meno) sul deficit pubblico, ma semplici spostamenti di entrate e uscite da un capitolo all’altro, secondo una logica che è soprattutto di tamponamento delle situazioni sociali più allarmanti: chiusura di fabbriche, messa in cassa integrazione di operai e impiegati, mancato rinnovo di contratti a tempo determinato, scarsità di credito alle imprese. Difficile immaginare uno scenario più mesto, nonché più lontano dalla baldanza del 2001, quando - incautamente - il «Contratto con gli italiani» prometteva abbattimento della pressione fiscale, piani grandiosi sulle infrastrutture, milioni di posti di lavoro, riduzione del numero di reati. Ridotto all’osso, il Dpef ci dice che - per ora - quel che si può fare è lenire le ferite aperte dalla crisi, senza impegolarci in politiche troppo ambiziose.

Questa mestizia può anche essere giudicata positivamente, almeno in confronto alle promesse mai mantenute dai governi precedenti, sia di destra sia di sinistra. Così come si può considerare saggia, o realistica, la scelta del Dpef (esplicitata a pag. 29) di non incorporare nel quadro programmatico né gli eventuali benefici del federalismo fiscale, né i risparmi di spesa che potrebbero derivare da un futuro accordo con i sindacati sulla spesa pensionistica. Meglio non vendere la pelle dell’orso prima di averlo preso, deve aver pensato il prudente Tremonti; e se poi qualcosa di meglio si riuscirà a fare, tanto di guadagnato. E tuttavia il dubbio resta: forse fra l’euforia irresponsabile del 2001 e la mestizia ragionieristica del 2009 una via di mezzo si potrebbe anche cercare. Ma quale via?

In realtà se ne possono immaginare tante, ma il punto centrale - come osservava qualche tempo fa Mario Monti - è quello di ridare agli italiani una prospettiva, una direzione di marcia, mete e scadenze con cui misurarsi. Ad esempio: una riforma degli ammortizzatori sociali che riduca l’incertezza e dia a tutti i lavoratori un briciolo di tranquillità; un obiettivo preciso di riduzione della pressione fiscale su famiglie e imprese, che renda più comprensibili i tagli di spesa presenti e futuri; un po’ di chiarezza nei conti del federalismo fiscale, nonché sulle regole con cui dovremo passare dalla spesa storica ai costi standard. Ma soprattutto: qualche segnale meritocratico in più, sul genere di quello che pochi giorni fa il ministro Gelmini ha indirizzato alle Università, quando ha deciso di premiare gli atenei virtuosi e penalizzare quelli inefficienti. Gli sprechi, le inefficienze, gli abusi non ci sono solo nell’Università e nella scuola, ma anche nella sanità, nell’assistenza (false pensioni di invalidità), nella giustizia civile e penale, nelle carceri, nella burocrazia pubblica. Forse è venuto il momento di dirlo a voce alta, con la chiarezza dei numeri. E di farci capire che, ormai, quegli sprechi e quelle inefficienze non possiamo più permettercele.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Copiare come e perché
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2009, 03:19:40 pm
12/8/2009
 
Copiare come e perché
 
LUCA RICOLFI
 
Ieri tutti i quotidiani riportavano la seguente notizia: i ragazzi di terza media, valutati con test uniformi predisposti dall’Invalsi, risultano più preparati al Sud che al Nord, ma questa vittoria del Sud dipende - in realtà - dal fatto che in troppe classi del Mezzogiorno gli insegnanti lasciano copiare o suggeriscono essi stessi le risposte, falsando così la comparazione fra ragazzi del Nord e ragazzi del Sud.

La vera notizia, però, la notizia che ha creato sconcerto in una parte del pubblico, è che il ministero dell’Istruzione (attraverso i tecnici dell’Invalsi, il nostro istituto nazionale di valutazione dell’apprendimento) si era permesso di ritoccare o correggere i risultati e le graduatorie, ristabilendo la superiorità dei ragazzi del Nord, più volte certificata dalle indagini internazionali.

Di qui l’ennesima accusa al governo di nutrire pregiudizi antimeridionali, quasi che i tecnici dell’Invalsi, e in particolare il suo presidente, il dott. Piero Cipollone (imprestato all’Invalsi dalla Banca d’Italia), avessero modificato i risultati semplicemente perché poco graditi a un governo molto schiacciato sulle posizioni della Lega. Questo sospetto è semplicemente assurdo, e provo brevemente a spiegare perché. Bisogna premettere, innanzitutto, che la «correzione» dei risultati di sondaggi, test di atteggiamento o prove di abilità, è la norma. Il grande pubblico non lo sa, ma esistono collaudati strumenti matematico-statistici che permettono di scoprire - ad esempio - se un intervistato mente, o risponde a caso, o prende in giro l’intervistatore. Così come esistono tecniche di analisi dei dati capaci di scoprire e correggere i risultati dei test di abilità, in particolare nel caso in cui i rispondenti copino o ricevano un «aiutino» da insegnanti compiacenti o desiderosi di autopromuoversi (un esempio americano molto interessante in Freakonomics, di Levitt e Dubner, Sperling & Kupfer, 2006). Io stesso ne ho messa a punto una l’anno scorso, per analizzare e correggere i dati Invalsi sui livelli di apprendimento dei bambini di scuola elementare (anno scolastico 2005-2006).

Ebbene, il risultato interessante è che, nonostante sia i soggetti studiati sia il metodo di correzione siano diversi, i miei risultati di allora (2006) sui bambini delle scuole elementari ricalcano sostanzialmente quelli attuali dell’Invalsi sui ragazzi delle scuole medie. La graduatoria delle zone geopolitiche, dalle più scrupolose alle più disinvolte, è infatti del tutto simile: nel Triveneto e in Lombardia si bara pochissimo (2%, secondo le mie stime); in Piemonte, in Liguria e nelle regioni rosse si bara un po’ di più (intorno al 5%), ma sempre poco; nel Centro-Sud si bara molto di più (intorno al 20%), con un picco impressionante (quasi il 30%) nelle tre regioni ad alta presenza della criminalità organizzata, ossia Calabria, Sicilia e Campania. Se una differenza fra i due studi emerge, semmai, è che la correzione effettuata dall’Invalsi appare estremamente contenuta, e comunque minore di quella suggerita dalla mia analisi dei dati del 2006 sui bambini delle elementari; insomma, se proprio fossi obbligato a fare un rilievo all’Invalsi, non sarebbe di aver corretto troppo, ma semmai di aver corretto troppo poco (naturalmente per valutare in modo non impressionistico se la correzione è stata eccessiva o insufficiente occorrerebbe conoscere i dettagli degli algoritmi di correzione).

La tenacia con cui gli insegnanti colludono con gli studenti durante i test dipende, come ovvio, dall’idea che una «classe che va male» segnali un «insegnante che non sa insegnare». Idea sbagliatissima, ma inestirpabile dal senso comune di molti insegnanti perché per anni la pedagogia dominante ha battuto sul medesimo tasto: gli studenti hanno «diritto al successo formativo», e se un ragazzo non ce la fa la colpa è innanzitutto della scuola, che non l’ha motivato, non l’ha sostenuto, non l’ha aiutato, non l’ha recuperato. Con questa idea bacata in testa è estremamente difficile convincere un insegnante che un test sui suoi allievi non sia anche un test su di lui, ossia sull’insegnante che li ha preparati (detto per inciso, questa è anche l’origine di anni di opposizione sindacale ai test Invalsi, percepiti come mezzi per giudicare e discriminare gli insegnanti). Eppure l’idea è del tutto infondata, e ha fatto bene il presidente dell’Invalsi, nella sua intervista di ieri a Repubblica, a spiegarci il perché: «La scuola che ha avuto un punteggio basso non vuol dire che sia peggiore di un’altra con una valutazione più alta. Bisogna analizzare qual è il punto di partenza del singolo istituto e misurare il valore aggiunto che riesce a mettere in campo. Diversa è una scuola media di Scampia da una del centro storico di Roma, Bologna o Milano». Come se ne esce, dunque? Come produrre risultati attendibili e comparabili fra scuole diverse?

Personalmente non credo alla possibilità di ottenere la piena collaborazione degli insegnanti (tasso di copiatura prossimo a zero), perché comunque ci sarà sempre un incentivo a «fare bella figura». Ma nemmeno credo alla possibilità di ottenere, in tempi ragionevoli, un tasso di copiatura omogeneo su tutto il territorio nazionale, così da rendere automaticamente comparabili i risultati di territori diversi. Il tasso di copiatura, infatti, è distribuito fra le regioni italiane in modo incredibilmente simile al tasso di spreco della Pubblica amministrazione, il che fa sorgere il sospetto che entrambi dipendano - in ultima analisi - dal senso di responsabilità individuale, ossia da qualcosa che difficilmente può cambiare in pochi anni. Se si vuole che le scuole sappiano la verità su se stesse, la via maestra è un’altra: mettere l’Invalsi in grado di effettuare le rilevazioni con personale proprio, come già avviene in altri Paesi europei, anziché costringerlo (per mancanza di fondi) a usare gli insegnanti come somministratori dei test. Una scelta del genere, che permettesse all’Invalsi di costruire una rete nazionale di rilevatori professionisti, avrebbe naturalmente un costo, ma si tratterebbe di un costo modestissimo se comparato a quello dei piani faraonici di cui tanto si parla in materia di pensioni, infrastrutture, ammortizzatori sociali, sviluppo del Mezzogiorno.

Non saprei dire se la decisione di rinforzare l’Invalsi dipenda soprattutto da Berlusconi, da Tremonti o da Brunetta, ma sarei abbastanza tranquillo sul fatto che gli italiani la apprezzerebbero: sapere dove mandiamo i nostri figli a studiare è qualcosa che interessa tutti, e conoscere i risultati effettivi dei ragazzi può aiutare le scuole a migliorare se stesse.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - L'ortodosso, il liberale, il tradizionalista
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2009, 10:31:04 am
22/10/2009 - PRIMARIE DEL PD

L'ortodosso, il liberale, il tradizionalista
   
LUCA RICOLFI


E’ andata. C’è voluto un mese di lavoro, ma alla fine abbiamo avuto le risposte di tutti e tre. Non davamo per scontato che rispondessero al questionario della Stampa.

Questo perché un politico ha il diritto di scegliere se, quando e a chi rispondere, così come i cittadini hanno tutto il diritto di giudicarlo in base alle sue eventuali non-risposte. Perciò, innanzitutto: grazie a tutti e tre!

C’è un’altra cosa che non davamo per scontata, e cioè che emergessero differenze significative fra i tre candidati. E invece alcune differenze ci sono, e si vedono a occhio nudo.

Differenze politiche, innanzitutto. Solo Marino è a favore dell’abolizione del valore legale della laurea e punta su una sensibile riduzione delle tasse. E ancora solo Marino ha una posizione netta sul testamento biologico, rigorosamente imperniata sulla volontà del malato. Solo Franceschini dice in modo chiaro ed esplicito che punterebbe su un aumento dei posti in carcere. Solo Marino vorrebbe il salario minimo fissato per legge e uguale su tutto il territorio nazionale, Bersani e Franceschini non lo vorrebbero per legge ma «per via di contratto». Solo Bersani e Franceschini dicono chiaramente che sono contrari alle adozioni da parte di coppie omosessuali, e ancora solo Bersani e Franceschini dicono esplicitamente che le intercettazioni non sono troppe.

Le differenze sono così tante che viene da chiedersi: ma c’è anche qualcosa su cui i tre candidati alla segreteria del Pd sono d’accordo ? Sì, ma non è moltissimo. Su 12 domande, sono solo due quelle che hanno ricevuto la medesima risposta: sì al voto agli immigrati, no alla separazione delle carriere dei magistrati. Ce ne sono poi altre due, sulle pensioni e sul nucleare, in cui Marino e Franceschini sono d’accordo (sì all'aumento dell’età pensionabile, no assoluto al nucleare), mentre Bersani preferisce aggirare la domanda. Su tutto il resto le opinioni divergono, come il lettore può constatare confrontando le risposte riportate qui accanto. Se avessi a disposizione una sola parola per segnalare le differenze fra i tre candidati li definirei l'ortodosso (Bersani), il liberale (Marino), il tradizionalista (Franceschini).

Ma la scoperta più interessante, almeno per me, non è stata di contenuto, bensì di stile. I tempi di attesa, per cominciare: Marino ha mandato le sue risposte per primo, poi è arrivato Franceschini, infine - giusto in tempo - sono arrivate le risposte di Bersani. E poi, cosa ben più informativa, il modo in cui i tre candidati hanno «preso» l’idea del questionario, in particolare la circostanza che la maggior parte delle domande fossero a risposte chiuse.

Franceschini è stato il solo ad accettare il questionario per quello che è: uno strumento imperfetto per capire, all’ingrosso, le posizioni dei vari candidati. Bersani e Marino no, per loro la gabbia del questionario era troppo stretta. È accaduto così che il questionario di Franceschini contenesse 11 riposte «secche» (senza precisazioni) su 12, quello di Marino 4, quello di Bersani 3. Quanto alle risposte che, in un modo o nell’altro, finiscono per eludere la domanda, io non ne ho trovata nessuna in Franceschini, ne ho trovate 3 in Marino, almeno 4 in Bersani. Ma naturalmente il lettore può essere di diverso avviso, e trovare schematiche le risposte di Franceschini, profonde e articolate le riflessioni di Marino e Bersani, riportate integralmente qui a fianco.

Quel che posso aggiungere, a titolo assolutamente personale, è che la lettura del questionario ha modificato la mia immagine dei tre candidati come personaggi pubblici. Sapevo che Bersani era un politico, ma non mi ero reso conto che fosse così politico nel linguaggio e nelle risposte. Quanto a Marino, che erroneamente supponevo un po’ inesperto, ho scoperto che è già diventato un politico a tutti gli effetti. L'esatto opposto di Franceschini, che ho sempre immaginato come un politico navigato, e che oggi invece - dopo aver letto le risposte al questionario - scopro semplice e quasi indifeso, senza la corazza delle precisazioni e dei distinguo. Insomma, non so se lo sceglierei come segretario del Pd, ma almeno credo di aver capito quello che pensa.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Nella direzione giusta
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2009, 10:25:42 am
29/10/2009

Nella direzione giusta
   
LUCA RICOLFI


Ieri, con il via libera del Consiglio dei ministri, è iniziato il cammino della Riforma universitaria, che dovrà approdare in Parlamento.

Poi dovrà essere discussa, eventualmente emendata, e infine approvata dalle due Camere. È presto dunque per formarsi un’opinione definitiva. Come professore universitario posso però testimoniare su un punto: il clima è già profondamente cambiato. Ho partecipato giusto qualche giorno fa a un incontro di Facoltà sui criteri di valutazione della didattica e della ricerca, e ho constatato che un po’ tutti - anche gli oppositori della riforma - sono consapevoli che, comunque le cose vadano a finire nei dettagli (importantissimi, in questo caso), un’epoca è finita e tutto sommato è un bene.

Quale epoca?

L’epoca in cui le università avevano mano libera nella promozione dei candidati locali, spesso pessimi. Un’epoca in cui i clan accademici la facevano da padroni, e nessuno era veramente tenuto a rendere conto del proprio operato. Un’epoca in cui si sapeva che i bilanci in rosso sarebbero stati ripianati, sempre e comunque. Un’epoca in cui, in nome di una malintesa autonomia, si potevano moltiplicare impunemente corsi di laurea e insegnamenti. Un’epoca in cui la valutazione si cominciava, faticosamente, a fare, ma i suoi risultati non venivano utilizzati per premiare i migliori. Un’epoca in cui i fondi seguivano la spesa storica (e i suoi sfondamenti) anziché premiare le università migliori. Un’epoca in cui, a dispetto del dettato costituzionale (art. 34), quasi nulla veniva fatto a favore dei «capaci e meritevoli».

Quell’epoca è al tramonto non per merito di una riforma che non c’è ancora, ma perché i disastri delle riforme precedenti (e innanzitutto del 3+2) sono sotto gli occhi di tutti. Perché più l’Università si apre all’estero, più diventa difficile evitare il confronto, o continuare a lodarsi da soli. E infine perché i soldi sono sempre di meno, e lentamente si sta capendo che non possiamo più permetterci di gettarli al vento.

Però va detto che la riforma del ministro Gelmini, nonostante i limiti che ognuno di noi può trovarvi (io ad esempio avrei qualche domanda sul valore legale della laurea e sulle tasse universitarie), va nella direzione giusta, almeno nell’impianto generale e nei principi ispiratori. La stella polare della riforma è la piena responsabilizzazione delle istituzioni e degli individui. Se i dettagli saranno ben congegnati, cosa non scontata, le università non potranno dissipare risorse come in passato, le prepotenze nei concorsi incontreranno qualche ostacolo, il merito individuale sarà premiato un po’ più di prima (del resto non ci vuole molto). Ci vorranno anni, ma la direzione è questa.

Naturalmente è anche possibile che non se ne faccia niente. La riforma potrebbe non passare in Parlamento. Gli emendamenti di maggioranza e opposizione, anziché migliorarla, potrebbero stravolgerla. I professori potrebbero trovare il modo di continuare a pilotare i concorsi, come prima e più di prima. Gattopardescamente, potrebbe anche accadere che tutto venga cambiato perché tutto resti come prima. E’ questo, a mio parere, il rischio più grande.

Ma se questo rischio si vuole evitare, occorre che tutti facciamo la nostra parte. Il ministro dovrebbe sempre tenere presente che la macchina che ha deciso di toccare è delicatissima, e che il rischio di non rendersi conto delle conseguenze pratiche delle norme che si introducono è sempre molto alto. L’opposizione, anziché demonizzare la Gelmini, farebbe bene a prenderla in parola, vigilando sul fatto che le intenzioni si traducano in norme davvero efficaci: l’ha già fatto quando con Pietro Ichino (senatore del Partito democratico) ha contribuito a migliorare la riforma della Pubblica amministrazione del ministro Brunetta, può benissimo rifarlo oggi nel caso dell’Università. E infine noi, docenti, studenti e personale dell’Università, dovremmo smetterla di pensare che tutto dipende dalle leggi, dalle norme e dai regolamenti: la qualità della riforma dipenderà certo dal fatto che non contenga sciocchezze e aberrazioni, ma molto dipenderà anche da noi, dal modo in cui sapremo parlarne, farla nostra, usarla per costruire un’Università più degna di un Paese civile.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Carceri ipocrisia bipartisan
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2009, 09:55:28 am
3/11/2009

Carceri ipocrisia bipartisan
   
LUCA RICOLFI


Nei giorni scorsi l’opinione pubblica era turbata dal caso di Stefano Cucchi, il giovane morto in circostanze tuttora non chiarite dopo un’allucinante odissea nelle istituzioni (caserma, tribunale, carcere, ospedale). Ieri la notizia del suicidio in carcere della brigatista rossa Diana Blefari, pochi giorni dopo la conferma della condanna all’ergastolo per la sua partecipazione all’assassinio di Marco Biagi, ha riportato drammaticamente l’attenzione sul problema delle carceri. E naturalmente è partito il solito copione: i parenti accusano le istituzioni, le istituzioni si difendono ma assicurano che faranno «piena luce», la sinistra si infiamma, la destra si barcamena. E’ facile prevedere che fra una settimana non se ne parlerà più, fino al prossimo caso dotato di sufficiente interesse mediatico.

E invece sarebbe utile provare a parlarne al di là dei casi singoli. Perché il problema delle carceri ha due facce entrambe drammatiche, ma in qualche modo connesse. La prima faccia è quella della sicurezza.

Non da ieri, bensì da molti anni, i posti non bastano per contenere l’enorme flusso di detenuti (spesso semplicemente in attesa di giudizio) che transitano ogni anno nelle carceri italiane. Da oltre un decennio i posti sono fermi a quota 42-43 mila, mentre i detenuti sono arrivati a quota 65 mila e aumentano a un ritmo di 700 al mese. Vuol dire che nel 2013, a fine legislatura, saranno 90-100 mila.

La seconda faccia, non meno importante della prima in un Paese civile, è quella della dignità dei detenuti, un valore tutelato dalla Costituzione (art. 27). Con 43 mila posti in strutture carcerarie sovente fatiscenti non si possono tenere in carcere 65 mila persone senza provocare gravissimi problemi di convivenza, malattia e degrado, fino al dramma dei suicidi (a quanto pare in aumento, per quel che si può desumere dalle informazioni disponibili, scarse e di bassa qualità). Un problema, quello dello scarso spazio in carcere, che ci è già costato una condanna dell’Unione Europea, e che pare appassionare ben poco le forze politiche (con l’importante eccezione dei radicali, da anni costantemente impegnati su questo fronte). Il sovraffollamento è un problema anche in altri Paesi europei, ma nessuno (salvo forse la Grecia) ha un eccesso di detenuti paragonabile al nostro. Anzi la maggior parte dei Paesi dell’Europa occidentale possiede semmai un eccesso di capacità: in Svezia e Germania la quota di posti liberi è intorno al 3%, in Inghilterra e Galles al 4%, in Portogallo al 7%, in Irlanda all’8%, in Danimarca al 10%, in Olanda al 19% (dati 2007, gli ultimi disponibili).

Di fronte a questi due enormi problemi destra e sinistra hanno approcci opposti, ma comportamenti sostanzialmente indistinguibili. La destra fa la faccia feroce e vorrebbe più severità, la sinistra pensa di alleggerire le carceri essenzialmente con le pene alternative (ad esempio gli arresti domiciliari) e la depenalizzazione dei reati minori. Rispondendo alle domande della Stampa ai tre candidati del Pd, solo Franceschini (lo sconfitto) ha avuto il coraggio di dire - contro il politicamente corretto di sinistra - che per combattere la criminalità punterebbe soprattutto su «un piano straordinario di edilizia carceraria, adeguando la capienza delle carceri all’aumento dei detenuti».

Quel che è veramente interessante, però, sono i comportamenti. Nella Seconda Repubblica destra e sinistra sono state al governo sette anni ciascuna ma, se andiamo al sodo, le loro politiche sulla sicurezza sono state estremamente simili. Non siete convinti? E allora ricapitoliamo i fatti, lasciando perdere annunci e dichiarazioni.

Capienza delle carceri. E’ la stessa da 15 anni, nessuno ha messo in atto alcun piano di edilizia carceraria di qualche impatto, e questo nonostante i detenuti siano più dei posti almeno dal 1992.

Sanatorie e regolarizzazioni. Nella Seconda Repubblica ce ne sono state tre, le più importanti sono quella del 1998 (legge Turco-Napolitano) e del 2002 (legge Bossi-Fini), la prima varata dal governo Prodi, la seconda dal governo Berlusconi.

Indulti. Anche qui uno a testa, nel 2003 il cosiddetto indultino di Berlusconi, nel 2006 l’indultone di Prodi, peraltro sostenuto anche da Forza Italia.

Sbarchi. Sia i governi di destra sia quelli di sinistra hanno tentato accordi con i governi dei Paesi di partenza, entrambi sono incappati in drammatici episodi di respingimento, con morti e dispersi: sotto Prodi (1997) una corvetta italiana affondò un barcone albanese in acque internazionali, sotto Berlusconi - quest’anno - varie navi di disperati in fuga dall’Africa sono state ricondotte forzosamente in Libia, suscitando un vespaio di proteste (Europa, Chiesa, Onu).

Se lasciamo perdere le parole, gli appelli, le «differenti sensibilità», la realtà nuda e cruda è che sia la destra sia la sinistra sono paralizzate dalla mancanza di soldi, di idee e di coraggio. Berlusconi in campagna elettorale ha promesso più posti in carcere ma per ora, a un anno e mezzo dalla vittoria elettorale, ha partorito solo un piano (di nuovo parole!) che, se anche dovesse effettivamente partire e miracolosamente rispettare i tempi previsti (2012), non coprirebbe nemmeno l’incremento di detenuti prevedibile fra oggi e allora: si è parlato di 12, 17, 18 mila posti aggiuntivi, ma i nuovi detenuti saranno 25-30 mila. Quanto alla sinistra, aborre l’idea di spendere miliardi per nuove carceri, ma non ha il coraggio di seguire la via dei Radicali e delle sue componenti più laiche e libertarie: indulti, pene alternative, depenalizzazioni. Teme che l’opinione pubblica, diseducata da «questa destra» razzista e forcaiola, non capirebbe.

Io dico solo questo. Un Paese civile non può tenere le persone in carcere nelle condizioni in cui da anni le tiene l’Italia, indipendentemente dal colore dei governi. Riportare in equilibrio il numero dei posti e il numero dei detenuti è un fatto di civiltà, ed è la pre-condizione minima per contenere il dramma umano dei suicidi e della violenza. Lo si può fare aumentando i posti, diminuendo i detenuti, o con un mix delle due misure. Se si pensa che la via maestra siano nuove carceri le si costruisca: per tener dietro all’aumento della criminalità il minimo è raddoppiare la capienza attuale, e il costo è di circa 4 miliardi. E se si pensa che la via maestra siano indulti, depenalizzazioni e pene alternative al carcere si abbia il coraggio - come i Radicali - di gridarlo in faccia all’opinione pubblica. Il resto è ipocrisia.

(con la collaborazione di Tania Parisi)
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - La giustizia non si salva con i processi cancellati
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2009, 11:47:32 am
13/11/2009 (7:11)  - DOSSIER

La giustizia non si salva con i processi cancellati

Gli effetti collaterali del ddl: criminali favoriti, vittime penalizzate

Bolzano e Torino insegnano come si possono ridurre davvero i tempi

LUCA RICOLFI
ROMA


Se il Parlamento approverà il disegno di legge sul «processo breve» ancora una volta Silvio Berlusconi potrà sottrarsi ai procedimenti giudiziari in cui è coinvolto, ossia processo Mills e fondi neri Mediaset. Questo, apparentemente, è il succo di quel che sta accadendo. Se fosse solo questo, però, non ci sarebbe proprio nulla di nuovo, visto che sono anni e anni che, di riffa o di raffa, il nostro dinamico presidente del Consiglio riesce a sgusciare come un’anguilla fra le trappole che i magistrati depongono gentilmente lungo il suo cammino.

E sono anni e anni che gli italiani lo rivotano e lo rieleggono serenamente, per niente turbati dal conflitto di interessi, dallo strapotere mediatico, dalla guerra alla magistratura. E invece non si tratta solo di questo. Liberare Berlusconi dai suoi processi era il succo del cosiddetto lodo Alfano, recentemente bocciato dalla Corte costituzionale. Se fosse passato, l’unico effetto tangibile sarebbe stata la non procedibilità del presidente del Consiglio, visto che le altre cariche dello Stato protette dal lodo Alfano non hanno guai con la giustizia. Con il «processo breve» è diverso. La sfida di Berlusconi alla Giustizia fa un salto di qualità. Perché se passerà il disegno di legge presentato ieri l’effetto più importante non sarà di salvare Berlusconi (che un modo per salvarsi comunque lo trova sempre) ma sarà di umiliare e scassare ulteriormente la macchina della Giustizia. Il processo breve, infatti, si applica ai processi futuri, ma anche a una parte dei processi in corso. Difficile dire fin d’ora a quanti e a quali, ma è certo che molti processi salteranno, con il duplice effetto di rimettere in libertà dei delinquenti e di non rendere giustizia alle loro vittime.

Una lista circolata in queste ore include quelli su scalate bancarie (furbetti del quartierino) e affare Telecom (dossier illeciti). Secondo i vertici del sindacato dei magistrati, sono a rischio di prescrizione una moltitudine di procedimenti che riguardano reati gravi quali: abuso d’ufficio, corruzione semplice e in atti giudiziari, rivelazione di segreti d’ufficio, truffa semplice o aggravata, frodi comunitarie, frodi fiscali, falsi in bilancio, bancarotta preferenziale, intercettazioni illecite, reati informatici, ricettazione, vendita di prodotti con marchi contraffatti, traffico di rifiuti, vendita di prodotti in violazione del diritto d’autore, sfruttamento della prostituzione, violenza privata, falsificazione di documenti pubblici, calunnia e falsa testimonianza, lesioni personali, omicidio colposo per colpa medica, maltrattamenti in famiglia, incendio, aborto clandestino.

Forse i magistrati esagerano, ma è difficile negare che una sorta di amnistia, o di depenalizzazione di fatto, potrebbe graziare migliaia di imputati. Niente male per un governo che ha fatto della lotta alla criminalità uno dei propri obiettivi prioritari. Ma non è tutto. Insieme al danno arriva la beffa. Ci raccontano infatti che le norme sul processo breve vengono introdotte per «adeguarci all’Europa», che ci ha redarguiti innumerevoli volte per la lentezza dei nostri processi. Così, per una sorta di miracolosa «eterogenesi dei fini», una norma concepita per un fine particolare (salvare Berlusconi) si rivelerebbe, a ben guardare, di interesse generale (dare ai cittadini una giustizia più veloce). È vero, un po’ di delinquenti eviteranno il carcere ma almeno i cittadini avranno, finalmente, una Giustizia efficiente e veloce.

Basta però avere un minimo di conoscenza dei problemi della Giustizia per sapere che non è così. Se i processi sono lenti dipende certo anche dalle procedure, come amano pensare i politici, e dalle risorse economiche, come amano pensare i magistrati. Ma la causa più importante, nel senso che ha l’impatto più grande sulla durata, è la disorganizzazione degli uffici, sia nella giustizia civile sia in quella penale.

Lo dimostrano i rari esempi di ristrutturazioni di successo (Torino con il procuratore Maddalena e il presidente Barbuto, Bolzano con il procuratore Tarfusser), ma soprattutto lo dimostrano gli enormi divari di produttività fra distretti di Corte d’Appello (vedi cartine). Come è possibile che, a parità di risorse, l’output della giustizia civile di Torino sia 7 volte quello di Caltanissetta? Com’è possibile che, sempre a parità di risorse, l’output della giustizia penale in Lombardia sia 5 volte quello del Mezzogiorno? Stabilire per legge che i processi non possono durare più di un certo tempo massimo (6 anni, o qualsiasi altro «tetto») può avere un valore simbolico, di principio, ma di per sé non ha effetti pratici rilevanti se non quelli di vanificare una enorme quantità di lavoro già fatto e aumentare l’insicurezza dei cittadini.

Per questo capisco l’amarezza dei magistrati, che pure hanno non poche responsabilità nell’attuale disastro della giustizia. Ma ancora di più capisco l’amarezza dei cittadini, o perlomeno di quella parte di essi che si sente presa in giro. So bene che salvare o no Berlusconi dai processi che lo perseguitano è questione che non interessa a tutti, e su cui le opinioni divergono. Almeno, però, non ci vengano a dire che lo fanno per amore nostro.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Ma il tappo non è Tremonti
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2009, 10:50:09 am
23/11/2009

Ma il tappo non è Tremonti
   
LUCA RICOLFI

Tre sono, in natura, le strategie di sopravvivenza: l’attacco, la fuga, la simulazione della morte. La tigre attacca, la gazzella fugge, ma il caso più interessante è quello degli animali che - di fronte al pericolo - assumono una postura di perfetta immobilità, o per mimetizzarsi con l’ambiente circostante o per fingersi morti. E' il caso di molti rettili, del rospo, del camaleonte africano, del martin pescatore.

Nella politica economica succede la stessa cosa. Se guardiamo alla storia della seconda Repubblica, non è difficile riconoscere le tre strategie. Nella breve stagione che va dal 1992 al 1998, ossia dalla svalutazione della lira all’ingresso in Europa, prevaleva l’attacco. I problemi venivano riconosciuti e affrontati a viso aperto, indipendentemente dal colore politico dei governi.

Sono gli anni della finanziaria da 90 mila miliardi (governo Amato), della riforma delle pensioni (governo Dini), del protocollo sulla politica dei redditi (governo Ciampi), della modernizzazione del mercato del lavoro (governo Prodi), dell’ingresso in Europa (ancora Ciampi e Prodi). Nel biennio 2006-2008, invece, prevalse la fuga. Il secondo governo Prodi anziché approfittare della congiuntura favorevole scelse di aggravare i problemi: con la Finanziaria 2007 aumentando una pressione fiscale già altissima e affrettando la crisi; con quella del 2008 pianificando un deficit maggiore di quello tendenziale e contro-riformando le pensioni.

In tutto il resto dell'ormai lungo periodo che va da Mani pulite (febbraio 1992) a oggi la strategia dominante è la simulazione della morte. Nonostante alcuni timidi tentativi di affrontare i nodi strutturali dell'Italia (soprattutto nel biennio 2003-2004), il registro dominante è il non fare, o meglio il fare tante, tantissime, piccole cose, nessuna delle quali va al cuore dei problemi. E' solo con gli ultimi due anni, tuttavia, che questa attitudine mai esplicitamente dichiarata diventa una strategia esplicita, una sorta di credo. Sia nel 2008 sia nel 2009, tornato Tremonti al timone dell'economia, il cardine della legge Finanziaria è il non intervento, la ferma volontà di non modificare gli andamenti tendenziali dell'economia. Né la pressione fiscale, né la spesa pubblica, né i saldi fondamentali vengono toccati in modo significativo dall'azione di governo. Siamo in apnea, aspettiamo che torni l'ossigeno, nel frattempo qualsiasi movimento va evitato perché può risultare controproducente. Un mirabile esempio di simulazione della morte.

La politica che non affronta i problemi non mi è mai piaciuta. Da Tremonti e dai suoi predecessori mi sono aspettato sempre molto di più di quello che hanno fatto. E tuttavia devo confessare che ultimamente capisco sempre di più l'inerzia di Tremonti. Non mi piace ma la capisco. Quel che mi ha fatto cambiare atteggiamento è che ho smesso di confrontare le idee di Tremonti con quelle dei suoi critici accademici (che parlano senza avere responsabilità istituzionali), e mi sono preso la briga di analizzare le alternative reali alla linea di Tremonti, ossia quelle sostenute da veri soggetti politici. Per alternative reali intendo le contro-proposte di politica economica avanzate in questi mesi sia dall'opposizione (soprattutto quelle del Pd) sia dalla fronda interna alla maggioranza (ad esempio la contro-finanziaria di Baldassarri, o le richieste del cosiddetto partito del Sud). Ebbene, a mio parere ciascuna di esse avrebbe avuto ed avrebbe conseguenze macro-economiche nefaste: le proposte del Pd sono pericolose sul fronte dei conti pubblici, quelle di Baldassarri (in particolare il taglio dei consumi intermedi) metterebbero in ginocchio la Pubblica amministrazione, quelle del partito del Sud farebbero esplodere la spesa. Insomma, mi verrebbe da parafrasare Sartori, che qualche anno fa - in piena bufera su Oriana Fallaci - titolò un suo articolo: «Uditi i critici, ha ragione Oriana».

Con ciò non voglio certo difendere il non fare, che anzi mi sembra a sua volta molto dannoso per il Paese (oltreché per il centrodestra, che grazie ad esso si avvia a perdere le elezioni politiche del 2013). Quello che però vorrei dire è che forse, tutti quanti, non valutiamo a sufficienza un punto: in politica le alternative non sono fra quel che il governo fa e quel che le menti illuminate pensano. In politica le alternative vere sono solo fra forze in campo, fra gruppi e schieramenti realmente esistenti. E finora le forze che hanno combattuto Tremonti lo hanno fatto quasi sempre in nome di politiche che, se messe in atto, sarebbero risultate più dannose della linea di contenimento praticata dal Tesoro.

Ora però il quadro sta cambiando, e non è forse casuale né intempestiva l'uscita di ieri del ministro Brunetta, che - in un'intervista al Corriere della Sera - ha vigorosamente invitato il Governo a cambiare passo. Brunetta in teoria ha ragione, il momento peggiore della crisi sembra passato (anche se le sue conseguenze dureranno ancora un bel po'), è tempo di riprendere il cammino di modernizzazione dell'Italia e, perché no, «di aprire una grande discussione nel Paese, che coinvolga tutte le intelligenze, comprese quelle, tanto vituperate, degli economisti». E' venuto il momento di tornare a una strategia di attacco, come nei primi Anni 90, lasciandoci alle spalle questi due anni di «simulazione della morte». L'occasione è ghiotta perché, per la prima volta nella storia della seconda Repubblica, il governo non solo ha una schiacciante maggioranza in Parlamento, ma ha davanti a sé la strada spianata dall'assenza di elezioni: dal 22 marzo prossimo fino alla fine della legislatura (3 anni dopo) non ci saranno più test elettorali importanti, visto che non solo le Europee ma anche le Regionali saranno alle nostre spalle.

E tuttavia c'è qualcosa che Brunetta e i critici del Tesoro non sembrano vedere: le riforme non sono una bottiglia di champagne, e non è il tappo di Tremonti che impedisce il brindisi. Se le riforme non decollano è innanzitutto perché gli italiani che le temono sono di più di quelli che sarebbero pronti a sostenerle davvero, accettandone i rischi, le tensioni, i prezzi da pagare. E proprio per questo uno schieramento politico riformista diverso dal partito della spesa, al momento, non esiste ancora. Le riforme che servirebbero richiedono coraggio, e nessun governo ne avrà mai abbastanza finché l'opposizione sarà come quella, faziosa e pregiudiziale, che Prodi e Berlusconi hanno incontrato sui rispettivi cammini. Né si vede come questo dato di fondo della politica italiana possa cambiare rapidamente. L'agenda del centro-destra è continuamente stravolta dalla necessità di salvare Berlusconi dai suoi processi. Quella del centro-sinistra dall'imperativo categorico di impedire che Berlusconi la faccia franca. Nessuno è disposto a interrompere il circolo vizioso. Nessuno ha la forza di rimuovere l'ostacolo che blocca il confronto, nemmeno Tremonti. Peccato, perché più passa il tempo e più arduo sarà venir fuori dal pantano in cui la politica ha precipitato il Paese.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Pd, il partito né di lotta né di governo
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2009, 11:19:06 am
7/12/2009

Pd, il partito né di lotta né di governo
   
LUCA RICOLFI


Comunque la si giudichi, non vi sono molti dubbi che la manifestazione di sabato contro Berlusconi - il cosiddetto «No B-day» - abbia spiazzato il partito di Bersani. Non certo per il numero di partecipanti, presumibilmente non lontano dalle 200 mila unità, ma per il fatto stesso che un evento del genere possa aver avuto luogo. Che cosa c’era di tanto spiazzante nella manifestazione di sabato?

Intanto la mancanza di uno sponsor o di un promotore forte, sostituiti da una rete di contatti via Internet. Non solo niente sigle di partito, ma anche niente movimenti e niente leader. Tutte le grandi adunate degli ultimi anni, anche le meno convenzionali, un catalizzatore lo avevano sempre avuto: Wojtyla e la gioventù cattolica (2000), Cofferati e il popolo della sinistra (2002), Pezzotta e il family day (2007), Grillo e il vaffa-day (2007). Qui invece niente, un appuntamento nato senza l’aiuto di nessuna star religiosa, politica o mediatica.

Poi lo stile. A quel che riferiscono le cronache il tono dominante è stato l’allegria, o forse il senso di liberazione. Nessun incidente, nessuna bandiera americana bruciata, nessuna offesa al Capo dello Stato, solo la condanna intransigente del premier, considerato non degno di occupare la carica che occupa. Nessuna voce ai tanti politici che hanno provato a esserci, alcuni non senza imbarazzo.

Ma l’elemento più spiazzante della manifestazione di sabato, rilevato da molti commentatori, è stato che essa ha messo a nudo la debolezza politica del Partito democratico. Che non sta nel non aver aderito alla manifestazione, ma nel fatto di non essere in grado di spiegare le ragioni della sua assenza. Se la manifestazione avesse preso una piega violenta, qualunquistica, antiistituzionale oggi il Pd potrebbe tirare un sospiro di sollievo e dire: ve l’avevo detto. Ma non è andata così, e l’elettore di sinistra fa fatica a capire perché Bersani, leader del Pd, ha disertato una manifestazione in cui c’era anche Franceschini (ex segretario, ora capogruppo Pd alla Camera), c’era anche Marino (uno dei tre candidati alla segreteria), c’era anche Rosy Bindi, che del Partito democratico è niente meno che il presidente.

Naturalmente i dirigenti del Pd una spiegazione sono in grado di darla, ma il punto è che si tratta di una spiegazione in codice, piena di sottigliezze e di distinguo.
Ne abbiamo avuto un saggio qualche sera fa in tv, quando Rosy Bindi ha provato a spiegare perché non sarebbe andata alla manifestazione, salvo poi cambiare idea e andarci: segno che la spiegazione non aveva convinto neppure lei.

Da dove viene tanta confusione di idee nel principale partito di opposizione?

Io un’ipotesi ce l’avrei, anche se non sono affatto sicuro di essere nel giusto. La mia ipotesi è che nel Pd prevalga ancora, con effetti paralizzanti, la dottrina Veltroni dei due tipi di riforme. Secondo tale dottrina, da lui enunciata non appena gli venne affidato il comando del Pd, una dialettica sana fra governo e opposizione poggia su due principi: condivisione e convergenza sulle regole del gioco, scontro anche aspro sui programmi e sui contenuti. Il Pd attuale sembra ancora ipnotizzato dalla dottrina Veltroni: infatti cerca disperatamente un accordo sulla giustizia, sulle riforme istituzionali, e in prospettiva sulla legge elettorale, mentre critica duramente il governo sulla politica economica, sull’evasione fiscale, sulla scuola, sull’università, sulla sicurezza, sulla criminalità, sull’immigrazione, sul terremoto, insomma praticamente su tutto quel che fa.

Io penso che la dottrina Veltroni sia errata, e che le cose stiano semmai al contrario: il dialogo (quasi) impossibile è quello sulle regole, il confronto possibile è quello sulle riforme economico-sociali (come è già successo, quasi di nascosto, con la riforma Brunetta-Ichino della Pubblica amministrazione). Ma il punto che qui mi interessa non è se la dottrina Veltroni sia giusta o sbagliata, ma quali conseguenze produce.

Se credi di poterti mettere d’accordo sulla giustizia (meno intercettazioni, limiti al potere dei Pubblici ministeri, salvacondotto per Berlusconi), accordo che, stante il numero di politici inquisiti, è interesse comune del ceto politico di destra e di sinistra, devi «abbassare i toni» sulle questioni di principio e non puoi aderire a una manifestazione che - per quanto civile e ordinata - esclude ogni forma di collaborazione con il governo. Se credi di non poterti mettere d’accordo sulle riforme economico-sociali, e che anzi sia proprio quello il terreno su cui costruire l’identità del nuovo partito, diventa naturale criticare il governo qualsiasi cosa esso faccia o non faccia, denunciarne continuamente i fallimenti, nella speranza che a forza di disastri e insuccessi gli elettori si decidano a cambiare governo, come in effetti hanno sempre fatto nella seconda Repubblica.

Ed ecco le conseguenze.
Agli occhi degli elettori l’opposizione del Pd appare al tempo stesso «inciucista» e disfattista, pavida e anti-italiana. Inciucista e pavida perché non osa unirsi alla protesta di piazza contro le leggi ad personam, disfattista e anti-italiana perché le sue critiche alle cose che il governo fa sono spesso pregiudiziali e inconsistenti. Di qui la paralisi di un partito che non riesce a fare politica né in piazza né in Parlamento, perché la dottrina Veltroni gli vieta sia la piazza (sulle regole dobbiamo andare d’accordo), sia il Parlamento (sulle cose da fare dobbiamo distinguerci). Di qui il paradosso di un partito che regge come intenzioni di voto (oggi il Pd è tornato intorno al 30%) ma di cui gli elettori non apprezzano il modo di fare opposizione (i giudizi positivi sul governo sono oltre il 50%, quelli sull’opposizione sono sotto il 25%).

Forse, per il bene stesso del Partito democratico, è giunto il momento di farsi qualche domanda sulla dottrina Veltroni.

DA lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Il Cavaliere nemico perfetto
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2009, 03:12:13 pm
16/12/2009

Il Cavaliere nemico perfetto
   
LUCA RICOLFI


Sono passati quasi vent’anni dalla fine della prima Repubblica, ne sono passati più di quindici dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi. La legislatura finirà nel 2013, giusto nel ventennale della discesa in campo.

Come racconteranno questo lungo periodo gli storici di domani?

Fino a qualche tempo fa pensavo che questi anni sarebbero stati ricordati come l’era del berlusconismo. Un periodo in cui il costume ha subito mutazioni profonde, la politica si è personalizzata, i media sono stati militarizzati, la Tv è diventata sempre più volgare, il privato ha invaso la sfera pubblica, i rapporti fra le istituzioni si sono ingarbugliati. Un periodo in cui la figura del leader politico è cambiata profondamente: non più espressione di un partito e di un’ideologia, ma personaggio carismatico che trae il suo consenso dal rapporto con la «gente».

Ma molti dei caratteri che si è soliti associare al berlusconismo si sono manifestati ben prima del suo avvento e non solo in Italia.
La deriva delle Tv (il Grande Fratello è un format internazionale), la messa in scena del privato (Bill Clinton e Monica Lewinsky), il declino dei partiti tradizionali, la personalizzazione della politica, il modo di porsi dei leader, la ricerca del contatto con la gente, l’insofferenza per i protocolli, l’informalità, gli atteggiamenti irrituali: tutte cose che esistono da tempo anche all’estero, e che in Italia sono cominciate con i presidenti della Repubblica Pertini e Cossiga (non per nulla chiamato il «picconatore»), e sono culminate nel pontificato di papa Wojtyla.

Ecco perché, oggi, penso invece che lo specifico del ventennio 1992-2013 gli storici del futuro lo troveranno semmai nell'antiberlusconismo, inteso come imperativo etico e come stato d’animo collettivo. E’ questo, almeno sulla scena politico-culturale, il tratto dominante dell’epoca che ora va tramontando in Italia. E lo è per le ragioni che in questi giorni cominciamo lentamente a mettere a fuoco: quale che sia la responsabilità degli attori in campo, non esiste, nella storia repubblicana, alcun leader presente o passato che abbia attirato sulla propria persona tanto astio, disprezzo e odio. Né Togliatti né Moro, né Andreotti né Cossiga, né Craxi né Prodi sono mai stati investiti da un simile sentimento di ostilità. Un sentimento certo coltivato soltanto da una minoranza (a mio parere valutabile fra l'1% e il 5% del corpo elettorale), ma pur sempre una minoranza cospicua. L'ostilità reciproca fra i due schieramenti corre sia lungo la direttrice che va da destra a sinistra, sia nella direttrice opposta. Da questo punto di vista anti-comunismo e anti-berlusconismo sono speculari e gemelli. Ma solo in quest’ultimo caso, quello del sentimento antiberlusconiano, la corrente dell’ostilità si coagula contro un solo individuo, percepito come la personificazione e la sintesi di ogni male. Non era mai successo in passato, non succede in nessun altro Paese democratico.

Perché l’odio va a bersaglio solo a destra?

Ci sono ragioni ovvie. La prima è che Berlusconi non è solo un leader politico, ma è innanzitutto il padrone di un impero economico-mediatico. La seconda è che Berlusconi è sospettato di gravi reati e si sottrae ai processi. Ma esiste anche un’altra ragione, su cui è venuto il tempo di farsi domande vere, non retoriche. Dietro l’odio per Berlusconi, che quotidianamente si manifesta su Internet ed episodicamente si incarna nel gesto di qualche sconosciuto (ieri il lancio del treppiede, oggi quello della statuetta del Duomo di Milano), c'è un’analisi precisa della società italiana. Io ho cominciato ad ascoltarla con le mie orecchie nel lontano 1994, quando il mio preside, un illustre storico della Resistenza, cominciò ad arringare il Consiglio di Facoltà perché in Italia stava rinascendo il fascismo: la colpa di Berlusconi, allora, era quella di aver sdoganato Fini, quello stesso Fini che oggi con autoironia la sinistra chiama «compagno Fini».
Poi vennero gli allarmi sul razzismo, perché Berlusconi era tornato con la Lega, quella stessa Lega che poco prima, dopo la rottura fra Bossi e Berlusconi, D'Alema aveva definito «una costola della sinistra». Poi, prima delle elezioni del 2001, vennero l’appello di Bobbio per salvare la democrazia e l’appello-profezia di Umberto Eco: secondo lui, se il centro-destra avesse vinto (come in effetti avvenne), Berlusconi sarebbe divenuto proprietario di tutti i principali quotidiani e periodici, Corriere della Sera, La Stampa, Repubblica, Unità, Espresso. Ora si parla di regime, dittatura dolce, grave pericolo per le istituzioni democratiche. Ma anche di indulgenza verso gli evasori, rapporti con la mafia, responsabilità nelle stragi del 1992-1993. Persino gli effetti della crisi, i licenziamenti, le difficoltà economiche, l’inquinamento atmosferico sono messi in conto a Berlusconi: il governo «sta rovinando l’Italia», e sarebbe questo che spiegherebbe il clima di ostilità nei suoi confronti. E il bello è che questa incessante attività di costruzione di una certa rappresentazione della società italiana non è condotta da un’équipe di studiosi, fatta di storici, sociologi, economisti, scienziati politici, statistici, criminologi, bensì da una compagnia di giro formata in massima parte da giornalisti, conduttori televisivi, politici, cantanti, attori, registi, comici, vignettisti, scrittori, letterati, filosofi.

Ebbene, di fronte a questa opera dell’ingegno collettiva è difficile sfuggire al dilemma. O l’analisi è sostanzialmente esatta, e allora è venuto il momento di imbracciare le armi e iniziare la resistenza. Come ha ricordato Antonio Polito ieri sul Riformista, «persino la dottrina liberale prevede il tirannicidio»: se credessimo anche solo alla metà di quello che più o meno obliquamente ci suggeriscono i detrattori di Berlusconi, sarebbe naturale emigrare o darsi alla macchia. Sottoscrivere quell’analisi e invocare il confronto civile è semplicemente illogico, e infatti il confronto civile non decolla mai.

Oppure quell'analisi è gravemente distorta, e allora è venuto il momento di separare le critiche che stanno in piedi (e che sono tante) dal quadro apocalittico che le incornicia e che alimenta un clima da ultima spiaggia, da resa dei conti finale. Se non lo faremo, anche le critiche più serie finiranno per apparire sterili e preconcette. E gli appelli ad «abbassare i toni», a tornare a un confronto civile, non sortiranno alcun effetto: perché è vero che alla fine del suo lungo percorso l’antiberlusconismo si è raggrumato in un sentimento viscerale, ma all’origine è stato soprattutto un’idea, una costruzione intellettuale, una descrizione dell’Italia lungamente coltivata e ribadita.

E’ con questa ricostruzione che è arrivato il momento di fare i conti, con pacatezza e amore per la verità.

da lastampa.it
   


Titolo: LUCA RICOLFI - Sulla crisi una lezione dagli immigrati
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2009, 10:01:14 am

27/12/2009
 
Sulla crisi una lezione dagli immigrati
 

LUCA RICOLFI
 
Nessuno sa se la crisi è davvero finita, né quando l’economia mondiale tornerà a correre, né se capiterà ancora di sperimentare lunghi periodi di crescita. Quel che invece si può già tentare è un primo bilancio della crisi in Italia, a oltre due anni dal suo inizio oltreoceano, quando scoppiò la bolla dei mutui immobiliari americani (agosto 2007).
Sull’impatto della crisi circola da tempo una diagnosi - accreditata da diverse e autorevoli istituzioni, dalla Chiesa alla Banca d’Italia - secondo cui la crisi avrebbe colpito soprattutto i deboli. Ma è davvero così?

Molti elementi fanno pensare il contrario. Il primo impatto della crisi, si ricorderà, fu di tipo finanziario, con il crollo dei titoli azionari: questo meccanismo colpì innanzitutto i ceti superiori, ben più esposti a questo genere di rischi di quanto lo siano i piccoli e medi risparmiatori. Poi, poco per volta, la crisi si estese all’economia reale, in alcuni casi distruggendo posti di lavoro, in altri casi congelandoli attraverso la messa in cassa integrazione di operai e impiegati. Ma quali furono i gruppi sociali maggiormente colpiti? I cittadini del Mezzogiorno o quelli del Nord? I lavoratori dipendenti o quelli indipendenti? Gli stranieri o gli italiani?

Qui i dati riservano diverse sorprese. Secondo la serie storica dell’Isae le famiglie in difficoltà, quelle che «non arrivano a fine mese», sono da sempre più numerose al Sud che nel Nord, ma durante la crisi sono aumentate più al Nord che al Sud, con conseguente riduzione del divario. La crisi sembra dunque aver ridotto le diseguaglianze territoriali, probabilmente anche grazie alla social card, il cui meccanismo di accesso non tiene conto del costo della vita, molto minore nelle regioni meridionali: e infatti il Sud, con il 45% dei poveri, ha ottenuto il 70% delle social card.

Ancora più sorprendenti i dati dell’occupazione. In due anni, ossia fra l’estate del 2007 e quella del 2009, l’occupazione totale è diminuita di 407 mila unità, ma le vittime di questo calo non sono stati i gruppi sociali considerati più deboli, bensì quelli più forti.
Per operai e impiegati i nuovi posti di lavoro hanno sostanzialmente eguagliato i posti di lavoro perduti (il saldo è negativo per sole 5 mila unità). Per i lavoratori indipendenti, invece, le chiusure di attività hanno largamente superato le aperture, con un saldo negativo di 402 mila unità. Una parte di queste chiusure è costituita da contratti di lavoro parasubordinato non rinnovati, ma la parte preponderante è dovuta alle difficoltà finanziarie delle partite Iva, strangolate dalle restrizioni creditizie e dai ritardi nei pagamenti, a partire da quelli della Pubblica amministrazione.

Quanto alla nazionalità dei lavoratori coinvolti nella crisi, i dati Istat ci riservano l’ultima sorpresa: gli oltre 400 mila posti di lavoro perduti sono il saldo fra un crollo per gli italiani (quasi 800 mila posti di lavoro in meno) e un sensibile aumento per gli stranieri regolari (quasi 400 mila posti di lavoro in più). Insomma, comunque lo si rigiri, il prisma della crisi mostra invariabilmente la debolezza dei gruppi sociali forti: i ricchi possessori di attività finanziarie, il Nord, le partite Iva, gli italiani se la sono cavata peggio dei piccoli risparmiatori, del Sud, dei lavoratori dipendenti, degli stranieri. A due anni della crisi siamo mediamente più poveri, ma c’è meno disuguaglianza. Un esito che contrasta con la retorica della crisi («la crisi colpisce soprattutto i deboli»), ma non con ciò che si sa del funzionamento dei sistemi sociali di mercato, in cui è del tutto normale che la crescita amplifichi gli squilibri e la crisi li attenui.

Quello che invece non è scontato, e merita forse una riflessione, è la divaricazione fra i destini degli italiani e quelli degli stranieri. Perché la crisi colpisce di più gli italiani?
Le ragioni possono essere tante, ma quella di fondo mi sembra questa: il nostro sistema economico riesce a creare quasi esclusivamente posti di lavoro poco appetibili, che gli italiani rifiutano e gli stranieri accettano. E tuttavia, attenzione, questo non avviene perché gli italiani siano troppo istruiti bensì, semmai, per la ragione opposta. La nostra forza lavoro ha un livello medio di preparazione bassissimo: abbiamo la metà dei laureati rispetto agli altri Paesi sviluppati, e i nostri studenti medi fanno una pessima figura nei confronti internazionali (vedi i risultati dei test Pisa). Se i nuovi posti di lavoro creati fossero davvero di qualità, probabilmente mancherebbero tecnici, ingegneri, bravi insegnanti, e così via. E infatti i nuovi posti sono spesso di livello modesto, e finiscono per essere accettati soltanto dagli stranieri. Non per la ragione che molti immaginano, però, ossia a causa della bassa qualificazione degli stranieri. Il livello di istruzione degli stranieri è analogo a quello degli italiani (10,2 anni di studio contro 10,9). La differenza è che «loro» vivono in un altro tempo, che noi abbiamo dimenticato. Un tempo in cui l’importante era avere un lavoro, non importa quanto adeguato alla nostra immagine di noi stessi, un tempo in cui fare sacrifici era normale, un tempo in cui il benessere non era considerato un diritto.

In questo senso gli stranieri, con i loro 400 mila nuovi posti di lavoro conquistati nel bel mezzo della crisi, ci stanno impartendo una meritata lezione. Una lezione su cui, a conclusione di questo drammatico 2009, varrebbe forse la pena riflettere.

da lastampa.it
 



Titolo: LUCA RICOLFI - L'irripetibile congiunzione astrale delle riforme
Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2009, 05:04:24 pm
31/12/2009

L'irripetibile congiunzione astrale delle riforme
   
LUCA RICOLFI

Con la fine del 2009 si chiude il peggior anno dalla fine della Seconda Guerra mondiale, non solo in Italia ma in tutte le economie sviluppate. Difficile dire se, quando e come ne usciremo sul piano economico, perché dipenderà poco da noi e molto dal resto del mondo.
Sul piano politico, invece, qualcosa si riesce a intuire fin da ora.

A prima vista si direbbe che, dopo l'aggressione a Berlusconi, qualcosa stia cambiando nel clima politico generale, che gli inviti alla ragionevolezza e al rispetto reciproco qualche risultato lo stiano ottenendo. Si riparla di «riforme condivise» e qualcuno, forse immemore degli innumerevoli fallimenti passati, si spinge persino a parlare di «legislatura costituente», auspicando che - finalmente - destra e sinistra riescano a mettersi d'accordo sulle regole del gioco: poteri del premier, assetto istituzionale, rapporti fra politica e giustizia, legge elettorale.

E tuttavia l'aggressione al premier non è, a mio parere, la ragione principale per cui la politica, in questi ultimi scampoli del 2009, sta mostrando un volto più civile. La ragione di fondo è che l'Italia, per la prima volta da oltre 30 anni, sta per entrare in una congiuntura astrale specialissima e difficilmente ripetibile: un triennio senza elezioni di portata nazionale, e dunque senza micidiali occasioni di contrapposizione e di scontro. Gli appuntamenti elettorali con valenza politica nazionale sono infatti solo di tre tipi: le elezioni politiche, le elezioni regionali, le elezioni europee. Ebbene, noi ci siamo appena lasciati alle spalle sia le elezioni europee (nel 2009) sia le elezioni politiche (nel 2008) e fra meno di tre mesi, ossia alla fine del prossimo mese di marzo, ci saremo lasciati alle spalle anche le elezioni regionali. Dopo il 21 marzo 2010, quando rinnoveremo la maggior parte dei consigli regionali, per oltre tre anni la politica italiana sarà del tutto priva di test elettorali nazionali: un’occasione unica per iniziare un confronto politico non inquinato dall’obbligo di litigare in vista delle prossime elezioni.

Che cosa succederà dunque a partire dal 2010?

Fino al 21 marzo 2010, data dello scontro per le Regionali, possiamo star certi che non succederà nulla di significativo.
I partiti torneranno a combattersi più o meno aspramente, il governo non rivelerà in quali regioni intende costruire le centrali nucleari, il federalismo resterà ibernato come lo è rimasto in tutta questa prima parte della legislatura. Poi, però, a partire dalla primavera del nuovo anno, cominceremo a vedere le carte dei giocatori in campo. La maggioranza, che finora ha navigato a vista e non ha certo grandi risultati da esibire, dovrà usare i tre anni che le rimangono per convincere gli italiani a confermarle la fiducia che le hanno finora concesso. La Lega, in particolare, non può permettersi di arrivare al 2013 senza qualche prova tangibile che il federalismo dà i suoi frutti: meno tasse, servizi migliori, più crescita. Quanto all'opposizione, finora anch’essa ha navigato a vista, ed è impensabile che si presenti all'appuntamento del 2013 senza un profilo assai più chiaro di quello di oggi. Se Bersani non dovesse riuscire in un simile compito, le uniche chance della sinistra di tornare al governo risiederebbero nel fallimento del centro-destra e nella stanchezza degli elettori, una ben triste prospettiva per tutti noi.

L’immobilismo, dunque, non serve né agli uni né agli altri. Questo però non basta a garantire che qualcosa si muoverà. Lo scenario più verosimile, a mio parere, è che le divisioni interne ad entrambi i campi paralizzino sia il governo sia l'opposizione.
A sinistra l'ossessione di «farla pagare» a Berlusconi renderà difficile il confronto anche sulle cose su cui un accordo sarebbe possibile, ossia su alcune regole del gioco e su tutte le più importanti riforme economico-sociali. E’ strano che se ne parli così poco, ma già oggi maggioranza e opposizione dialogano (o hanno dialogato) sulla riforma della Pubblica amministrazione, sul federalismo, sull’Università, sui nuovi ammortizzatori sociali, sulle pensioni (è di questi giorni una proposta comune Pd-Pdl, a firma Cazzola e Treu).
E sulle regole del gioco l'unico ostacolo veramente insormontabile sono le leggi ad personam (legittimo impedimento e «lodo Alfano costituzionale»), che la destra non sembra disposta ad abbandonare e la sinistra non sembra disposta a stralciare da tutto il resto.

A destra la tentazione di far da soli è sempre molto forte, anche se si presenta talora in vesti curiose.
Marcello Pera, ad esempio, qualche giorno fa ha duramente criticato la dottrina delle «riforme condivise», e ha contrapposto ad essa il progetto di fare finalmente - a colpi di maggioranza - la «rivoluzione liberale» promessa da Berlusconi fin dal 1994 e mai attuata né allora, né nel 2001-2006, né oggi.

L'ex presidente del Senato, tuttavia, non ci spiega come mai tale rivoluzione non sia mai stata attuata, né perché proprio ora il centro-destra dovrebbe trovare la determinazione che gli è sempre mancata finora.

Una possibile risposta a questa domanda è che i fautori di una rivoluzione liberale sono minoranza sia nel centro-destra sia nel centro-sinistra. In entrambi gli schieramenti la tentazione egemone, quella che finora ha prevalso, è stata sempre quella di aumentare l'interposizione pubblica - tasse, spesa, deficit pubblico - in modo da rafforzare il potere discrezionale della politica. Si può ritenere che, anche alleandosi fra loro, i liberali dei due schieramenti peserebbero comunque troppo poco, così come si può paventare che siano gli elettori stessi a preferire le promesse di protezione ai rischi di una autentica rivoluzione liberale, che valorizzasse il merito e la responsabilità individuale. Ma è lecito dubitare che una simile rivoluzione il centro-destra sarebbe in grado di attuarla senza una sponda sul versante del Partito democratico, che dopotutto come segretario ha appena eletto Bersani, il più liberale fra i suoi uomini che contano.

Come cittadino, mi auguro naturalmente che i due schieramenti si mettano d'accordo sulle regole del gioco.

Ma ancora di più mi auguro che, anziché continuare a delegittimarsi a vicenda, approfittino della miracolosa congiunzione astrale che ci attende - tre anni senza elezioni - per competere fra loro nel compito che entrambi assegnano a se stessi, quello di rendere l'Italia di domani un po’ più moderna e più libera dell'Italia di oggi.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Emma e Renata per tutti
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2010, 05:00:49 pm
7/1/2010
 
Emma e Renata per tutti
 

LUCA RICOLFI
 
Forse quando leggerete questo articolo si saprà già come sono andate le cose nel Pd. Sapremo cioè se a sfidare Renata Polverini, candidata del centro-destra per la Regione Lazio, sarà Emma Bonino.

O se invece il Pd avrà deciso di puntare su qualcun altro, più gradito all’Udc. Io spero che a spuntarla sia Emma Bonino, non per ragioni strettamente politiche bensì per un motivo personalissimo, interiore, intimo mi verrebbe da dire. Un motivo che è più facile raccontare che spiegare.

Bene, ho appreso che Emma Bonino si candidava a governare il Lazio quasi per caso, accendendo distrattamente la radio in auto martedì pomeriggio. Lì per lì non ho capito che non era stato il Pd a candidarla, né che il Pd si fosse immediatamente messo alla ricerca di un altro candidato: alle ultime elezioni politiche i Radicali stavano nelle liste del Pd, quindi davo per scontato che a candidare Emma Bonino fosse stato il Pd stesso (naturalmente questo dipende anche dalla mia ignoranza: abito a Torino, e seguo poco le vicende romane). A un elettore normale non viene neanche in mente che il Pd possa non sostenere una persona - Emma Bonino - che aveva fortissimamente voluto nelle proprie liste meno di due anni fa, quando Veltroni tentava di dare un’identità al suo partito. La Bonino che corre senza l’appoggio del Pd, il Pd che, all’ultimo momento, le contrappone un candidato alternativo, sono scenari semplicemente incomprensibili, al limite del grottesco. Così grottesco che una simile eventualità a me, elettore un po’ distratto, non era neppure passata per la mente.

Ma il motivo vero, il motivo più profondo per cui spero che sia proprio Emma Bonino a sfidare la Polverini sta in ciò che quella notizia ha provocato nella mia mente di cittadino chiamato al voto: ho provato invidia per i romani, anzi per i laziali. E sapete perché?
Perché mi sono detto: se avessi la residenza nel Lazio sarei, per la prima volta nella mia storia di elettore, completamente sereno. E lo sarei perché a sfidarsi sono due persone come si deve, educate e appassionate, che hanno il rispetto di tutti, e si stimano fra di loro (la stima per Renata Polverini è fra le prime cose dichiarate da Emma Bonino nelle interviste). Due persone che, poste al governo del Lazio, ovviamente non farebbero le stesse identiche cose, ma difficilmente si rivelerebbero cattive amministratrici, animate dall’interesse personale o compromesse con clientele e comitati di affari: e l’esperienza insegna quanto, nei governi locali, la qualità complessiva dell’amministrazione sia l’elemento decisivo, ben più delle piccole differenze negli indirizzi politici generali.

Per un cittadino normale, non imbevuto di ideologia, vivere in Veneto o in Emilia, due regioni di opposto colore politico, è sostanzialmente la stessa cosa, perché sono regioni entrambe ben governate. Ed è diversissimo rispetto al vivere in una qualsiasi delle regioni di mafia, indipendentemente dal fatto che a mal governarla sia il centro-destra o il centro-sinistra. Naturalmente la scelta fra Polverini e Bonino non è indifferente, e se abitassi a Roma cercherei di capire le differenze fra i rispettivi programmi (innanzitutto sulle politiche familiari), ma alla fine non è più drammatica della scelta fra vivere in Veneto o in Emilia, in Lombardia o in Piemonte, in Friuli o in Trentino.

Queste cose pensavo a caldo. E poi, voglio confessare proprio tutto, nella mia mente è partita una fantasticheria, una sorta di sogno ad occhi aperti. Che bello sarebbe se, anche nelle altre regioni, anche nella competizione per le elezioni politiche, potessimo scegliere fra candidati così. Che bello sarebbe se, anziché parlare a vanvera di rinnovamento, si avesse un po’ più di cura nello scegliere i candidati. Che bello sarebbe se il rispetto che il nostro candidato riceve dagli «altri», ossia dall’elettorato che non lo voterà, fosse un metro importante per sceglierlo. Somiglieremmo un po’ di più alle grandi democrazie, il cui tratto distintivo, al di qua come al di là dell’Atlantico, è il fatto che la maggior parte degli elettori non esclude affatto di cambiare schieramento, né vive come una catastrofe la vittoria dello schieramento avverso: in Francia la vittoria di Sarkozy non è stata un dramma per gli elettori progressisti, negli Stati Uniti la vittoria di Obama non è stata un dramma per gli elettori repubblicani, in Germania la vittoria della Merkel non è stata un dramma per gli elettori socialdemocratici.

Come cittadino sono abbastanza stanco, e persino irritato, di ascoltare continuamente inviti ad «abbassare i toni». Più che abbassare i toni, alziamo la qualità dei candidati, e non ci sarà più bisogno di abbassare alcunché. Candidando Renata Polverini, il Pdl ha già fatto la sua parte. Presto vedremo se anche il Pd vorrà fare la sua.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Controllori latitanti
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2010, 05:30:31 pm
13/1/2010

Controllori latitanti
   
LUCA RICOLFI


Poco per volta il fumo si dirada. A quasi una settimana dai fatti di Rosarno, le letture più stereotipate, una dopo l’altra, si sciolgono come neve al sole.

Più si raccolgono testimonianze e indizi, più difficile diventa spiegare tutto con la ’ndrangheta, o con il razzismo, o con il coraggio civico anti-mafioso degli africani (abbiamo sentito anche questa).

Quel che è successo a Rosarno è difficile da inquadrare perché i torti e le ragioni sono tremendamente ingarbugliati. Ma anche perché continuiamo a pensare solo ai torti e alle ragioni di due comunità che si sono scontrate violentemente, e non alle responsabilità delle istituzioni che su quelle comunità avrebbero dovuto vigilare. Eppure questo è il nodo centrale. Soprattutto, questa è la dimensione nazionale del problema.

I disordini di Rosarno sono sorti in un contesto peculiare, perché la Calabria è una delle tre regioni ad alta intensità mafiosa (le altre due sono Sicilia e Campania), e anche in questo poco invidiabile ambito ha alcuni record, primo fra tutti quello dell’evasione fiscale. L’economia è assistita, le truffe ai danni della Pubblica Amministrazione e della Comunità europea sono all’ordine del giorno, e i proventi di tali truffe costituiscono una delle fonti di reddito fondamentali (vedi Giuseppe Salvaggiulo ieri su questo giornale).

Nonostante tutte queste peculiarità, c’è nella vicenda di Rosarno almeno un elemento che, purtroppo, ha carattere nazionale. Questo elemento è la latitanza delle istituzioni di fronte a situazioni di illegalità conclamata. E’ vero quel che faceva notare ieri sul Foglio Giuliano Ferrara, e cioè che nelle regioni del Centro-Nord, compreso il Lombardo-Veneto tante volte descritto come leghista, xenofobo e razzista, gli immigrati sono trattati molto meglio che nel Sud, sono relativamente ben integrati e spesso convivono felicemente con gli italiani. E’ però anche vero che in tutte le grandi città del civilissimo Centro-Nord ci sono zone franche, quartieri, piazze, caseggiati in cui il controllo del territorio è della criminalità, comune e organizzata, italiana e straniera: si spaccia, si scippa, si estorce, si maramaldeggia. E nel medesimo civilissimo Centro-Nord prosperano i cantieri edili che reclutano i manovali (stranieri e italiani) con il caporalato, subappaltano i lavori a imprese fantasma, violano le norme previdenziali, ignorano le più elementari regole di sicurezza.

Ora, il punto è che queste situazioni non sono annidate negli anfratti della vita sociale, non sono nicchie invisibili, non sono aghi nel pagliaio. Sono invece situazioni arcinote a tutti, sulle quali cronisti coraggiosi hanno fatto inchieste, spesso fingendosi immigrati, manovali, tossicodipendenti. Situazioni documentate, ripetutamente denunciate da singoli cittadini e da associazioni. Situazioni su cui talora sono stati scritti libri, con racconti spesso drammatici (su Torino, ad esempio, un classico è Non sulle mie scale, di Italo Fontana).

Eppure nulla accade. Le istituzioni, pur sapendo, quasi sempre intervengono solo quando scoppiano disordini, o quando i cittadini esasperati inscenano una protesta, o quando una sparatoria, un’aggressione, un morto sul lavoro segnalano che si è oltrepassato il limite. E quando dico le istituzioni dico tutte le istituzioni: quelle che dipendono dallo Stato (polizia, carabinieri, Inps, ispettori del lavoro), quelle che dipendono dalle Regioni (Asl), quelle che dipendono dagli enti locali (polizia municipale). Insomma la realtà è che il territorio italiano è un colabrodo, in cui non solo è possibile intrufolarsi di nascosto ma è possibile costituire esplicitamente, sfrontatamente, isole extraterritoriali, sottratte al controllo dello Stato o, più sottilmente, cogestite dalla criminalità e dalle istituzioni, in un regime che si potrebbe definire di «sovranità limitata reciproca», in quanto retto da un patto tacito di non intervento: io chiudo un occhio, tu non esageri.

Per questo trovo assurdo, e anche un po’ spudorato, l’attuale scaricabarile fra istituzioni. La destra, che imputa ai governi passati i problemi che non sa risolvere, dimentica che dal 2001 a oggi la sinistra è stata al governo del Paese per soli 20 mesi (tanto è durato il governo Prodi), e che tutte le più importanti norme che regolano e hanno regolato l'immigrazione, a partire dalla cosiddetta Bossi-Fini, hanno il timbro della destra stessa. La sinistra dimentica che i problemi messi in evidenza da Rosarno riguardano anche le istituzioni locali, e che in tutti questi anni il potere amministrativo in Comuni, Province e Regioni è stato più in mano alla sinistra che alla destra.

Forse, anziché accusarsi reciprocamente, sarebbe più utile che destra e sinistra cominciassero a chiedersi come mai, in vent’anni, quale che fosse il colore politico dei governi, le uniche due ricette che le istituzioni sono state in grado di trovare ai problemi della criminalità e dell’immigrazione sono state sempre solo due: piccole e grandi sanatorie per gli stranieri irregolari, piccoli e grandi indulti per i criminali in carcere (italiani e stranieri). Se si facessero questa domanda destra e sinistra comprenderebbero di più perché i cittadini normali, quelli che chiedono innanzitutto di poter vivere in una società decente, sono sempre più rassegnati di fronte all’impotenza dei poteri costituiti. E forse, riflettendo su questo fallimento che le accomuna, troverebbero anche più facilmente quella strada del confronto costruttivo che ogni giorno ripetono di voler percorrere.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Rafforzare stato e mercato
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2010, 02:30:29 pm
14/1/2010 - IL GRADO DI INTEGRAZIONE: LA LEZIONE DEI NUMERI E DEL MODELLO DEL NORD-EST
 
Rafforzare stato e mercato
 
LUCA RICOLFI
 
Giuliano Ferrara lunedì sul Foglio ha posto la domanda giusta: «Mi volete spiegare come mai nell'eterno sud populista, lassista, familista, pauperista succede quello che succede, guerriglia civile, ferocia scatenata, rivolta e controrivolta, infine deportazione forzata dei neri raccoglitori di agrumi da un inferno all'altro? Mentre nel Veneto gretto, piccolo borghese, minimprenditoriale, piastrellaro, razzista, xenofobo, leghista, e in particolare a Treviso dove non comandano i progressisti che hanno letto Giustino Fortunato ma i reazionari che parlano come l'ex sindaco Gentilini; come mai dunque a Treviso decine di migliaia di immigrati sono via via integrati nel sistema dell'economia di mercato, nella società civile dove non ci sono Libera e i don Ciotti e i volontari benemeriti di ogni sorta di assistenza, ma fabbrichette, capannoni, consumatori, esportatorie altra vil razza dannata del capitalismo dei distretti industriali? »

La domanda è giusta non solo perché dopo i fatti di Rosarno sono proprio questi i pensieri che ci ronzano in testa, ma perché quel che scrive Ferrara parlando di un episodio specifico ha una valenza del tutto generale. Un modo semplice di misurare il grado di integrazione degli immigrati è quello di fare il rapporto fra due numeretti: il peso degli studenti stranieri sul totale degli studenti, e il peso dei detenuti stranieri sul totale dei detenuti. Se facciamo questa operazione scopriamo che, da anni, il grado di integrazione nelle regioni del centro-nord è circa il quadruplo di quello delle regioni del Mezzogiorno, che in Veneto è il doppio che in Calabria, e che in Lombardia e nelle regioni rosse è ancorapiù alto che nel Nord-Est.

Come mai?

Per tanti motivi, presumibilmente. Ma il motivo di fondo è che nel centro-nord, oltre a una genuina cultura dell'accoglienza (specialmente forte nelle regioni rosse), convivono due condizioni fondamentali. Tanto mercato e poca assistenza, come giustamente sottolinea Ferrara.Ma anche la precondizione irrinunciabile di un buon funzionamento del mercato: uno Stato menoassente. Senza questa precondizione anche il mercato non può funzionare, e la xenofobia diventa la risposta istintiva alla mancanza di regole.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Cari bamboccioni impreparati
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2010, 05:05:07 pm
19/1/2010

Cari bamboccioni impreparati
   
LUCA RICOLFI


La maturità di un ceto politico, così come quella di un individuo, si misura anche dalla capacità di cogliere l’ironia, lo scherzo,
l’umorismo, più in generale di capire in che registro avviene un discorso. La stessa frase, ad esempio «vorrei essere in Antartide con i pinguini», a seconda del tono, del contesto e di chi la pronuncia può significare che mi sto preparando a un viaggio avventuroso ma anche, più banalmente, che i miei commensali sono di una noia mortale.

Purtroppo la capacità di riconoscere e usare i registri è fra le facoltà che stiamo perdendo, come giustamente ci ha ricordato Cesare Segre in un bell’articolo di pochi giorni fa sul «Corriere della Sera». Una conferma di tale perdita ci viene dalle reazioni alla proposta del ministro Brunetta di stabilire «per legge» che a 18 anni i giovani devono lasciare la famiglia. Non è bastato che il ministro stesso, forse consapevole del livello di immaturità del circo mediatico, abbia specificato subito che lo diceva «un po’ scherzando».

Nonostante l’evidente natura paradossale della proposta (una norma dirigista e illiberale proposta da un liberale come Brunetta!), si è immediatamente scatenato il putiferio del dibattito, delle accuse, delle messe a punto, delle prese di distanza. Giornalisti, ministri, parlamentari, dopo una settimana di cronache sul terremoto di Haiti, hanno immediatamente preso la palla al balzo per posizionarsi e criticare Brunetta, credendo o fingendo di credere che davvero il ministro avesse in mente una legge capace di costringere i genitori a espellere di casa i figli al compimento del diciottesimo anno di età. E’ un peccato, perché la provocazione di Brunetta tocca un tema serissimo, su cui vale la pena farci qualche domanda vera. Da molti anni le statistiche ci dicono che in nessun Paese occidentale i figli restano in casa con mamma e papà così a lungo come in Italia. Perché?

Per anni l’interpretazione dominante è stata che le cause sono essenzialmente economiche: poche occasioni di lavoro, mercato degli affitti congelato, proliferazione delle «università sotto casa». Da un po’ di tempo si stanno facendo largo anche letture meno economiciste, che avanzano il sospetto che c’entrino anche il familismo e il deficit di responsabilità individuale tipici della società italiana. Alberto Alesina e Andrea Ichino, ad esempio, in un bel libro appena uscito da Mondadori (L’Italia fatta in casa) ipotizzano che la lunga permanenza in famiglia sia anche il frutto di una scelta, ossia delle preferenze degli italiani. E Lucetta Scaraffia sul Riformista, citando una ricerca dell’Istat, fa notare che quasi metà dei «bamboccioni» restano in famiglia non per necessità, ma perché in casa si trovano fin troppo bene.

C’è un aspetto, tuttavia, che resta quasi sempre in ombra, e che invece a mio parere meriterebbe più attenzione: le scelte scolastiche dei giovani italiani. Fra i molti record negativi dell’Italia c’è anche il fatto che in nessun altro Paese sviluppato sono così tanti i giovani che potremmo definire nullafacenti, nel senso che né lavorano né studiano. Se a questo aggiungiamo il fatto che il numero di giovani che riescono a laurearsi è circa la metà di quello medio europeo, e che ai test PISA sui livelli di apprendimento i risultati dei nostri quindicenni ci collocano agli ultimi posti in Europa, forse riusciamo a vedere un’altra faccia del problema dei bamboccioni. E cioè che il guaio dei giovani italiani non è solo l’attaccamento a mamma e papà, la preferenza per i comodi della vita familiare, il deficit di responsabilità individuale, ma il fatto che la loro preparazione media è così bassa da impedire loro l'accesso a posti di lavoro di qualità. Detto più brutalmente, siamo noi che li stiamo ingannando, è la finta istruzione che forniamo loro a renderli così deboli. Quel che è successo è che da molti anni la scuola e l’università italiane non solo rilasciano pochi diplomi e poche lauree, ma rilasciano titoli formali più alti del livello di istruzione effettivamente raggiunto. La conseguenza è che abbiamo un esercito di giovani che, per il fatto di avere un titolo di studio relativamente elevato (diploma o laurea), aspirano a un posto di lavoro di qualità, ma per il fatto di essere più ignoranti del giusto difficilmente riescono a trovare quello che cercano. Un sistema di istruzione ipocritamente generoso illude i giovani e ne innalza il livello di aspirazione, un mercato del lavoro spietato li riporta alla realtà. Con tre conseguenze empiriche, che le cronache di questi giorni propongono crudamente alla nostra attenzione.

Primo. In un concorso pubblico per vigili urbani nemmeno i laureati riescono a superare decentemente le prove scritte, e quindi nessuno viene ammesso agli orali, e tanto meno assunto (concorso di Grosseto). Secondo. Ancora una volta un genitore si trova condannato dalla magistratura a mantenere figli ultratrentenni che non trovano un lavoro «adeguato» (l’ultimo caso a Bergamo).

Terzo. Nella crisi gli italiani perdono il lavoro (800 mila posti di lavoro in meno in 2 anni) mentre gli immigrati lo guadagnano (400 mila posti di lavoro in più in 2 anni).

Si potrebbe pensare che dipenda solo dal fatto che gli immigrati sono meno istruiti degli italiani, e per questo motivo si accontentano di lavori poco qualificati. Ma non è così, perché il livello di istruzione medio di italiani e stranieri è quasi identico. La differenza è che gli immigrati vogliono innanzitutto lavorare, e per questo accettano posti molto inferiori al loro livello di qualificazione. Mentre gli italiani pretendono di lavorare in posti adeguati alla loro istruzione formale, e raramente si chiedono se c'è una ragionevole corrispondenza con la loro istruzione effettiva.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - I cittatini complici
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2010, 03:55:39 pm
29/1/2010

I cittatini complici
   
LUCA RICOLFI

Qualche giorno fa, a Favara, in provincia di Agrigento, due sorelline hanno trovato la morte per il crollo di una casa fatiscente.

A Giampilieri nel Messinese, pochi mesi prima, un’alluvione aveva provocato una frana, la distruzione di molte case, 31 morti.
In Abruzzo il terremoto dell’anno scorso ha causato più di 300 morti anche perché troppi edifici, compresi quelli pubblici, erano usati nonostante violassero le più elementari norme di sicurezza. Andando a ritroso con le cronache, di episodi di questo genere ne ritroviamo purtroppo tantissimi, e infatti i giornalisti si sono ormai abituati a classificarli come «tragedie annunciate».

Viste da questa angolatura le vicende di questi giorni non fanno che certificare una situazione purtroppo ben nota.
Una frazione considerevole del nostro territorio è a rischio idrogeologico, una frazione non trascurabile delle nostre abitazioni è abusiva (e spesso a rischio proprio per il luogo in cui è stata edificata), una frazione tutt’altro che piccola dei nostri edifici pubblici - a partire dalle scuole - viene utilizzata nonostante si sappia da anni che mette in pericolo la vita di chi ne usufruisce. Fin qui, è terribile dirlo, niente di nuovo.

E tuttavia, sottotraccia, la cronaca di questi giorni ci fornisce anche qualche chiave interpretativa sul perché nulla cambi, sul perché le tragedie continuino a ripetersi, sul perché non impariamo mai nulla dall’esperienza. Una parte della risposta è tanto ovvia quanto sconfortante: per rimettere in sesto il nostro territorio - case, edifici pubblici, fiumi - ci vorrebbero somme enormi (Bertolaso qualche mese fa azzardò: 25 miliardi), risorse che semplicemente non ci sono. Ma una parte della risposta è più inquietante: se nulla cambia è anche colpa nostra, delle nostre scelte e delle nostre cecità. E quando dico «nostra» intendo sia dei cittadini sia dei politici che li governano. Per capire perché basta riflettere su due fatti, entrambi balzati alle cronache in queste ore. Il primo è la ribellione di una parte degli abitanti di Ischia contro l’ordine di abbattimento di una casa abusiva e a quanto pare anch’essa a rischio. Il secondo è l’analisi del bilancio del Comune di Favara (dove il crollo di una casa ha appena fatto due vittime).

Ebbene la rivolta degli abitanti di Ischia (dove le case a rischio demolizione sono parecchie centinaia) illustra nel modo più chiaro che una parte del problema deriva dal patto tacito che lega cittadini e amministrazioni locali: la disponibilità dei politici a «chiudere un occhio », a concedere deroghe, proroghe e condoni da sempre si tramuta miracolosamente in voti. E’ anche per questo che, dopo le disgrazie, tutti invocano rigore, ma appena lo Stato, timidamente, prova a far rispettare le leggi, in tanti si ribellano, protestano, remano contro, chiedono condoni, eccezioni e sanatorie. Quanto al bilancio di Favara, dove mancano i soldi per le bollette della luce ma non per le spese di rappresentanza, esso è solo la punta dell’iceberg. Innumerevoli inchieste mostrano che è la Sicilia nel suo insieme, naturalmente con le dovute eccezioni, a fare un uso dissennato del denaro pubblico (vedi il servizio di Laura Anello). E i risultati delle inchieste sono, purtroppo, pienamente confermati dalle stime macroeconomiche. Il peso della spesa pubblica discrezionale rispetto al reddito prodotto, che è del 15% in Lombardia, tocca il livello record del 45% in Sicilia (più che in qualsiasi altra Regione), il tasso di spreco nell’erogazione dei servizi pubblici, che in Regioni come la Lombardia, il Veneto o l’Emilia Romagna non raggiunge il 10%, in Sicilia si aggira intorno al 50% (e così in Calabria, Basilicata e Sardegna). In concreto significa che si potrebbe spendere molto di meno, perché i medesimi servizi potrebbero essere prodotti con la metà dei quattrini che si impiegano oggi.

In breve, a me pare che le cronache di questi giorni ci consegnino anche una lezione. Con 1800 miliardi di debito pubblico è impensabile che lo Stato trovi, d'un tratto, i soldi per la messa in sicurezza dell’Italia. Qualcosa lo Stato centrale può fare (e in parte sta già facendo, nel caso degli edifici scolastici), ma molto dipende anche da noi, dove «noi» significa noi cittadini, ma significa anche i nostri politici, soprattutto locali. Noi dovremmo smetterla di fare i rigoristi quando gli oneri (ad esempio una demolizione) toccano agli altri, salvo diventare anarchici quando toccano a noi. Ma i politici che dissipano il denaro pubblico dovrebbero rendersi conto che la festa è finita. Qualsiasi cosa si voglia fare - e rimettere in sesto il territorio è certamente una delle cose da fare - le cosiddette risorse, cioè i quattrini, potranno saltare fuori solo ristrutturando radicalmente la spesa pubblica discrezionale, ossia riducendo gli sprechi. Secondo una stima prudente gli sprechi nella Pubblica Amministrazione ammontano a 80 miliardi di euro l’anno: basterebbe recuperarne un quarto per fare molte delle cose che periodicamente invochiamo.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - No alla guerra santa del nord
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2010, 09:27:58 am
3/2/2010

No alla guerra santa del nord
   
LUCA RICOLFI


Quando ho iniziato a ricostruire gli squilibri fra le regioni italiane, a raccogliere le cifre per il mio libro, non mi aspettavo un risultato così clamoroso: 50,6 miliardi all’anno è una cifra grossa, è l'equivalente di due o tre finanziarie.

Eppure è questo l'ordine di grandezza del flusso di risorse che, silenziosamente, ogni anno lascia le regioni del Nord e si dirige prevalentemente verso il Sud e il Lazio.

Di questi 50 miliardi, 20 sono dovuti al fatto che il resto del Paese è meno efficiente nell’erogazione dei servizi pubblici; 18 sono dovuti al fatto che il resto del Paese si permette una maggiore evasione; e 12 sono dovuti al fatto che nel resto del Paese la spesa pubblica discrezionale è eccessiva. La somma di queste tre voci fa, appunto, 50 miliardi di euro all’anno, che il Nord potrebbe recuperare se ci fosse un po’ più di giustizia territoriale. Scoprire tutto questo è stato uno choc anche per me, se non altro perché il calcolo che conduce a questa cifra non è stato condotto ipotizzando un federalismo fiscale spinto, o radicale, o egoista, bensì immaginando il più solidarista fra gli infiniti federalismi possibili. Se avessi assunto un modello di federalismo poco o per niente solidarista il credito del Nord sarebbe risultato ancora maggiore, circa 80 miliardi all'anno.

E tuttavia attenzione. Ricostruendo i conti di ogni regione italiana, e facendolo separatamente per l'evasione fiscale, il parassitismo, gli sprechi nella pubblica amministrazione, non si scopre semplicemente che esiste una enorme ingiustizia nell’allocazione territoriale delle risorse, una ingiustizia che penalizza il Nord e avvantaggia (soprattutto) il Sud, ma si scopre che esistono altre linee di frattura, diverse da quella Nord-Sud, e che Nord e Sud non sono affatto omogenei al loro interno.

Le regioni autonome, ad esempio, sono meno virtuose delle regioni limitrofe a statuto ordinario, sia al Nord sia al Sud. Ciò vale in modo particolare per Valle d'Aosta e Trentino Alto Adige al Nord, per Sardegna e Sicilia al Sud. Ci sono poi le differenze interne alle due grandi aree del Paese, il Centro-Nord e il Sud. Il Centro-Nord ha le sue regioni relativamente viziose, come Liguria, Umbria e Lazio. E il Sud ha le sue regioni relativamente virtuose, come la Puglia e l'Abruzzo. Per non parlare delle differenze dentro le singole regioni, che emergono quando si hanno dati a livello provinciale o comunale: nella Campania sommersa dai rifiuti c'è anche Salerno, il comune capoluogo più virtuoso in materia di raccolta differenziata.

Tutto questo non cancella lo squilibrio Nord-Sud, che resta enorme e certamente va attenuato, sia pure con saggezza e gradualità. Però ci mostra un lato importante del problema politico del federalismo: se vuole far strada, il federalismo non può fondarsi sul patriottismo efficientista del Nord, chiamato a una sorta di guerra santa contro il Sud sprecone. E questo non tanto e non solo perché il patriottismo del Nord provocherebbe una reazione uguale e contraria del Sud, con la nascita di un contro-patriottismo conservatore e corporativo (il «partito del Sud», di cui ogni tanto si sente parlare). Ma perché, se l'obiettivo è ristabilire un po’ di giustizia territoriale, allora non possiamo ignorare che alcuni territori del Nord hanno ancora molta strada da fare, e alcuni territori del Sud ne hanno già fatta una parte. Insomma, è vero che il grosso dell'aggiustamento che dovremo mettere in atto corre lungo la frattura Nord-Sud, ma non si può ignorare che una parte non trascurabile di esso taglia trasversalmente sia il Nord sia il Sud.

Visto da questa angolatura il problema dei prossimi anni non è di spostare direttamente, con atto d’imperio, risorse economiche da Sud a Nord, ma è di costruire un sistema di premi e punizioni che renda conveniente per tutti diventare più efficienti, più parsimoniosi, più rispettosi dei doveri fiscali. L'amministratore che razionalizza la spesa ospedaliera, investe nella raccolta differenziata, combatte il lavoro nero, non può essere trattato come quello che sperpera il denaro pubblico. I codici etici e gli inviti alla moralità servono a ben poco: quel che ci vuole - perché può funzionare - è un meccanismo che renda politicamente remunerative le virtù pubbliche. Ci vuole una sfida dello Stato centrale agli amministratori locali, una sfida che li costringa a giocare un nuovo gioco: il gioco della modernizzazione del Paese.

Se la politica saprà fare questo non ci sarà nessuna spaccatura Nord-Sud, e vedremo nuove alleanze, convergenze inedite, come è capitato a me qualche giorno fa in un dibattito radiofonico con il sindaco di Verona Flavio Tosi e il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca. Uno della Lega, l'altro del partito democratico, uno del Nord, l'altro del Sud, non solo non litigavano fra loro, ma erano d'accordo su tutto. E sapete perché?

Perché entrambi avevano accettato la sfida, entrambi stavano già provando a giocare il nuovo gioco.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - L'abisso morale del Paese
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2010, 02:56:16 pm
18/2/2010

L'abisso morale del Paese
   
LUCA RICOLFI

Non sono giorni allegri quelli che stiamo vivendo. Prima arresti e denunce di uomini politici, di destra e di sinistra, per episodi di corruzione e malgoverno. Poi il crollo del mito Bertolaso, travolto dallo scandalo della Protezione civile. Infine, giusto ieri - 18° anniversario di Mani Pulite - la Corte dei conti rivela l'esplosione, fra il 2008 e il 2009, delle denunce per fatti di corruzione, concussione, abuso d'ufficio.

Qualcuno si comincia a chiedere se non siamo per caso di fronte a una Tangentopoli 2, un nuovo tsunami giudiziario destinato a travolgere la politica come nel 1992.

In questa situazione la tentazione di prendersela con il ceto politico e contrapporgli le virtù della società civile è molto forte, e ha fatto bene Ernesto Galli della Loggia ieri a ricordarci, dalle colonne del Corriere della Sera, che è la società italiana a essere marcia. Non solo perché per certi reati, come la corruzione e la concussione, bisogna essere in due, il politico e l'imprenditore, ed è quindi puerile addossare tutte le colpe a uno soltanto dei «mariuoli», come li chiamava Craxi. Ma perché sono innumerevoli i settori della vita sociale in cui le più elementari regole del vivere civile - non evadere le tasse, promuovere i migliori - sono sistematicamente violate senza che la politica c'entri minimamente. Il professore che trucca un concorso, il commerciante che non emette lo scontrino, l'imprenditore che fa lavorare in nero i suoi operai non sono vittime della politica ma, semmai, beneficiari della sua assenza.

E tuttavia, se vogliamo che qualcosa cambi, non possiamo limitarci a guardare con costernazione all'abisso morale in cui è precipitata la vita del nostro Paese. Non possiamo continuare a contare soltanto su un sussulto delle coscienze, su un moto di indignazione, su una rigenerazione dello spirito civico troppe volte invocata e sempre mancata. Forse dobbiamo cominciare anche, più prosaicamente, a ragionare in termini di vincoli e di incentivi, come fanno (giustamente) gli economisti. Pensare che il problema si riduca a scegliere bene i candidati, a selezionare le persone giuste, a cacciare i disonesti, a mio parere è un po’ ingenuo (chi garantisce che l'allenatore scelga i giocatori giusti? e chi è l'allenatore?). Ben più importante sarebbe chiedersi quali sono i meccanismi che con tanta e crescente frequenza generano i comportamenti di cui l'opinione pubblica è ciclicamente chiamata a scandalizzarsi. Perché se identifichiamo i meccanismi possiamo provare a cambiarli. E un politico che ha la convenienza ad amministrare bene dà più garanzie di un politico che ostenta o promette moralità.

Per quel che riesco a capire, direi che questi meccanismi sono almeno tre. Il primo, ben descritto da Cesare Salvi e Massimo Villone in un loro libro di qualche anno fa (Il costo della democrazia, Mondadori 2005), è il complesso di norme e di strumenti con cui, dopo Tangentopoli, i politici - anziché riformare la politica - si sono assicurati la possibilità di continuare a rubare e sistemare clienti, spesso in perfetta legalità. Ad esempio le cosiddette «società miste», perlopiù figlie delle vecchie aziende municipalizzate, che per molti politici sono diventate un vero e proprio «personal business» (cito Cesare Salvi), terreni di caccia privilegiati in cui essi possono spartirsi poltrone, gettoni, assunzioni, commesse.

Il secondo meccanismo è la rinuncia, prima da parte del governo Prodi, poi da parte del governo Berlusconi, a varare una riforma incisiva dei servizi pubblici locali, basata su gare trasparenti e aperte anziché su affidamenti a trattativa privata (ricordate la fine ingloriosa del disegno di legge Lanzillotta, vanificato dal governo di centro-sinistra di cui essa stessa faceva parte? e gli interventi della Lega per annacquare la riforma dei servizi pubblici locali del centro-destra?).

Ma forse il meccanismo più importante è un altro ancora: la crescita costante, inesorabile, dell'interposizione pubblica, ossia dell'attività di intermediazione dello Stato e degli Enti territoriali (Regioni, Province, Comuni), che giusto nell'anno appena trascorso ha toccato il massimo storico, con un'accelerazione senza precedenti (sarà anche per questo che, proprio nel 2009, sono esplose le denunce di corruzione, concussione, abuso d'ufficio?). Questo meccanismo è il più importante non solo perché sono ormai molti milioni - e crescono ogni anno di numero - gli italiani le cui opportunità di guadagno e carriera dipendono pesantemente da decisioni discrezionali di funzionari, dirigenti e amministratori pubblici, ma perché è questo il vero costo che la politica, spesso con la piena ed entusiastica complicità dei cittadini, impone al sistema Italia. Una stima prudente degli sprechi nella Pubblica Amministrazione - sanità, scuola, università, giustizia, burocrazia, assistenza (falsi invalidi) - suggerisce che essi siano pari ad almeno 80 miliardi di euro l'anno, qualcosa come cinque o sei Finanziarie. E tutto fa pensare che una frazione molto consistente di questa enorme voragine sia prodotta, più che dall'ampiezza dell'interposizione pubblica (un flusso di 1500 miliardi l'anno, fra entrate ed uscite), dal fatto che troppe decisioni di spesa non sono governate da regole automatiche e meccanismi trasparenti, bensì da tortuosi processi nei quali il negoziato, l'influenza personale, i rapporti di conoscenza diventano le variabili decisive.

E' stato valutato che i costi diretti della politica, fra eletti, portaborse e consulenti, si aggirino intorno ai 4-5 miliardi l'anno: tanti, certamente, ma una goccia nel mare degli sprechi che la discrezionalità della politica produce ogni anno in tutti i campi in cui ha un ruolo decisivo. E' questo mare che dovremmo innanzitutto cercare di prosciugare. E per prosciugarlo, forse, creare regole e incentivi funzionanti può essere più importante che esortare il mondo politico a ritrovare la moralità perduta, ammesso che ne abbia mai avuta una.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Intercettare a patto di razionalizzare
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2010, 09:35:16 am
25/2/2010

Intercettare a patto di razionalizzare
   
LUCA RICOLFI

Ci risiamo. Ogni volta che, sui giornali o in tv, escono spezzoni di intercettazioni scottanti, il riflesso condizionato è sempre quello: la politica dissotterra uno dei molti disegni di legge per «limitare» le intercettazioni, i magistrati e una parte dell’opinione pubblica si ribellano, i giornalisti entrano in fibrillazione perché temono di perdere uno degli ingredienti più croccanti del loro lavoro.

A rigore, il problema è semplicemente insolubile. Nessuna disciplina delle intercettazioni, infatti, può tutelare, contemporaneamente, i tre diritti che sono in gioco: quello alla privacy, quello alla sicurezza, quello all'informazione. Si tratta dunque di scegliere, o meglio di trovare un compromesso il più ragionevole possibile fra i tre diritti.

Prima di scegliere, tuttavia, varrebbe forse la pena fare i conti con alcuni dati di fatto. La storia recente delle intercettazioni, innanzitutto. Nel 2001 i bersagli intercettati erano 32.000, da allora il loro numero è aumentato sempre, a un ritmo medio del 23% all’anno. Così in 7 anni, dal 2001 al 2008, sono più che quadruplicati. Forse le intercettazioni sono davvero troppe, a meno di pensare che le esigenze investigative siano anch'esse più che quadruplicate in soli 7 anni. Un secondo dato su cui riflettere è la distribuzione territoriale delle intercettazioni. Comunque la si misuri, la densità delle intercettazioni ha una enorme variabilità territoriale: come è possibile che in un distretto di corte d'appello il rapporto fra bersagli intercettati e procedimenti penali sia 15 volte più alto che in un altro? Possibile che le esigenze investigative siano così diverse da un posto all'altro?

C'è infine l'atteggiamento dell'opinione pubblica. Due sere fa, a Ballarò, Nando Pagnoncelli (presidente della società di sondaggi Ipsos), ha presentato dei risultati molto chiari: la maggioranza degli italiani non vuole che si limiti il potere dei magistrati di ricorrere alle intercettazioni, ma nello stesso tempo è favorevole a limitare la pubblicazione delle intercettazioni sui giornali. A quanto pare gli italiani danno molta importanza alla sicurezza (le intercettazioni non si toccano perché servono a scoprire i colpevoli) ma, quanto alla privacy, pensano che il mezzo più efficace per tutelare la privacy stessa non sia ridurre le intercettazioni, bensì mettere dei paletti alla pubblicazione del loro contenuto sui giornali, in particolare quando coinvolgono persone che non c’entrano.

Tenuto conto di tutto ciò, mi sentirei di proporre una semplice soluzione. La politica si astiene dal modificare i criteri di autorizzazione (tipi di reati, gravità degli indizi) e lascia le cose esattamente come stanno quanto alla definizione del quando si può intercettare e quando no. Nello stesso tempo, però, la politica si prende il diritto di riportare gradualmente il numero totale delle intercettazioni a un livello più ragionevole di quello di oggi (per esempio al livello del 2005, in cui i bersagli intercettati erano poco più di 100 mila, contro i quasi 140 mila attuali).

Come? È semplice: fissando uno stock di intercettazioni nazionale, e affidando al Consiglio superiore della magistratura o a un organismo indipendente il compito di ripartire tale stock fra i 29 distretti giudiziari, in funzione del numero e del tipo di reati tipici di ciascuno di essi. Questa semplice misura, come qualsiasi misura di «razionamento», avrebbe automaticamente effetti di razionalizzazione, perché, in presenza di uno stock limitato di bersagli intercettabili, le procure avrebbero tutto l’interesse a non mettere a repentaglio il proprio potenziale investigativo futuro con autorizzazioni concesse in casi in cui non sono strettamente necessarie. In questo modo la politica garantirebbe ai cittadini una maggiore privacy, grazie alla possibilità di fissare un tetto al numero annuo di intercettazioni. La magistratura, a sua volta, vedrebbe pienamente tutelata la propria autonomia perché manterrebbe il pieno controllo sulla allocazione territoriale della «risorsa scarsa» intercettazioni.

E noi cittadini?

Quanto a noi, forse potremmo prendere sul serio il parere della maggioranza degli italiani, chiaramente espresso nel sondaggio Ipsos. Che la politica metta i bastoni fra le ruote delle procure, restringendo i casi in cui si può intercettare, non ci va, tanto più dopo tutto il marcio che è emerso in queste ultime settimane. Però un po' di prudenza sui giornali non ci dispiacerebbe affatto, e non ci sembrerebbe di per sé una limitazione del nostro sacrosanto diritto di essere informati. I processi sui quotidiani e in tv, condotti con spezzoni di frasi e arditi teoremi di innumerevoli tenenti Colombo improvvisati, non sono vera informazione - scrupolosa, onesta, leale - ma rumore giudiziario, polverone mediatico, inquinamento delle nostre menti.

Certo, vogliamo essere informati, leggere le intercettazioni, capire che cosa è successo, ma non in questo modo, che distrugge la vita di tante persone senza dare a noi nessuna certezza, né politica, né giudiziaria, né umana. Insomma, vogliamo sapere, anche nei dettagli, ma possiamo aspettare un po’. Se una legge votata dal Parlamento dirà che i giornali possono pubblicare quello che vogliono, ma solo dopo una certa fase del procedimento penale (ad esempio l'inizio del dibattimento), ce ne faremo una ragione. L'importante è apprendere la verità, tutta la verità (compresi i testi delle intercettazioni, purché non coinvolgano soggetti estranei al processo), in un tempo ragionevole. Sapere prima, o meglio illudersi di sapere prima, non soddisfa il nostro diritto a essere informati, ma solo la nostra impazienza.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Intercettazioni e proposte mai fatte
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2010, 10:17:58 am
5/3/2010

Intercettazioni e proposte mai fatte
   
LUCA RICOLFI

Caro Direttore, circa una settimana fa ho scritto su La Stampa un pezzo sulle intercettazioni, nel quale facevo due proposte:

a) Razionare il numero delle intercettazioni, affidando al Consiglio Superiore della Magistratura o ad altro organismo la loro allocazione (attualmente del tutto squilibrata) fra i 29 distretti giudiziari; a titolo di esempio suggerivo che potrebbero essere portate gradualmente a 100 mila (dalle 140 mila del 2008, contro le 32 mila del 2001);

b) Consentire ai giornali di pubblicarle, ma solo se depurate dei riferimenti a soggetti che non c’entrano, e soprattutto solo a partire da un certo stadio dell’azione penale (ad esempio: dall’inizio del dibattimento).


Pochi giorni dopo, leggendo l'editoriale della domenica di Scalfari, vedo che mi critica severamente (fin qui tutto ok) ma attribuendomi due proposte che non ho mai fatto:

a)«Creare un apposito organo di regolamentazione autonomo rispetto alla magistratura e cogente verso i giornali»;

b)«Consentire ai giornali l’accesso alle fonti in fase istruttoria e riferirne “a rotazione periodica" tra le varie testate».

Lì per lì ho pensato che qualche giornalista o commentatore avesse effettivamente fatto queste due proposte, e che Scalfari, per errore o distrazione, le avesse attribuite a me. Ho pensato questo perché sono abituato ad assumere che il mio interlocutore:
1) padroneggi la lingua italiana;
2) non sia in mala fede.

Poi ho controllato su Internet, e non v'è traccia delle due proposte che Scalfari attribuisce a me. Nessuno pare averle fatte. Quindi Scalfari parlava proprio di me. Che cosa devo pensare?

Giustamente Scalfari considera «barocca» la prima proposta, «ridicola» la seconda: il punto però è che io non le ho mai fatte. E nota: non si può dire che Scalfari forzi o deformi il mio pensiero. Lui inventa di sana pianta, addirittura riportando fra virgolette un’espressione che non ho mai usato: «A rotazione periodica».

La sua conclusione è che il potere ha corrotto il mio cervello. Sono senza parole. E’ questa la professione giornalistica?
Perché i lettori di Repubblica, che spesso leggono solo Repubblica, devono pensare che io sia così sprovveduto?

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - La sinistra e la paura di cambiare
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2010, 11:22:43 am
4/4/2010

La sinistra e la paura di cambiare

LUCA RICOLFI

Ci sono voluti alcuni giorni, ma alla fine anche nel Partito democratico la verità comincia a farsi strada.
La sinistra è andata come era prevedibile (un po’ meglio che un anno fa, perché anche Berlusconi comincia a stancare), ma il Pd è andato decisamente male. Nonostante le difficoltà del centro-destra, nonostante le elezioni intermedie siano un’occasione d’oro per le opposizioni, il Pd non è stato in grado di approfittarne. Qualcuno dà la colpa a Bersani, ma molti dirigenti e militanti del partito si rendono conto che il vero problema non è il segretario, ma la mancanza di idee, e che senza idee non si andrà da nessuna parte.

Da che cosa deriva la mancanza di idee del Pd ?
Un po’ deriva, ovviamente, dalla cultura politica della sinistra, che spesso confonde gli slogan con le idee. Parole d’ordine come inclusione, solidarietà, integrazione, difesa dei deboli, non sono idee politicamente efficaci finché non si è capaci di tradurle in obiettivi chiari, convincenti, raggiungibili. Ma la vera origine della mancanza di idee del Pd, a mio parere, è soprattutto un’altra: è l’assenza di una diagnosi condivisa sulla società italiana. Senza una diagnosi medica, nessuna terapia. Senza una diagnosi politica, nessuna strategia. Questa assenza di una diagnosi, tuttavia, non è l’espressione di un vuoto, ma la risultante di due visioni dell’Italia che si elidono tra loro, e determinano la paralisi del partito (e con essa l’impotenza del centro-sinistra).

La prima visione si potrebbe definire dell’emergenza democratica. Secondo questo modo di vedere le cose, in Italia la democrazia è in pericolo, e lo è su tre fronti fondamentali: la libertà dell’informazione, l’autonomia della magistratura, l’assetto istituzionale.

I fautori di questa visione ritengono che Berlusconi stia scientemente e inesorabilmente erodendo le nostre libertà fondamentali, e che quindi nessun dialogo o accordo sia possibile con il Cavaliere. Quanto ai suoi alleati e partner principali, Bossi e Fini, i custodi della democrazia diffidano del primo (Bossi), perché detestano la sua xenofobia e il suo antimeridionalismo; e confidano nel secondo (Fini), perché trovano affascinanti le sue uscite eterodosse, ora a difesa degli immigrati, ora a difesa della Magistratura, ora a difesa del Mezzogiorno. La convinzione profonda di questa componente del Pd è che nulla di buono sia possibile finché c’è Berlusconi, e che quindi - fino alla sua definitiva uscita di scena - l’unica cosa da fare sia «resistere, resistere, resistere», secondo il celebre imperativo di Borrelli. Per chi sottoscrive questa visione del Paese le riforme più temibili sono quelle delle regole del gioco, e il vero pericolo è che le riforme si facciano, perché sarebbero inevitabilmente pro-Berlusconi.

La seconda visione si potrebbe definire della modernizzazione mancata. Secondo questo modo di vedere, il problema fondamentale dell’Italia è la sua incapacità di crescere, un’incapacità che dura da quasi un ventennio non per colpa del solo Berlusconi, bensì a causa della timidezza di tutto il ceto politico, di destra e di sinistra. Per i fautori di questa visione il federalismo fiscale è innanzitutto un’opportunità per tornare a crescere, e una sfida che la buona politica lancia alla cattiva. Quindi la Lega, più che come un nemico, è percepita come un interlocutore con cui dialogare e competere. Simmetricamente il «compagno Fini» viene visto come una sponda nei rari momenti in cui frena le pulsioni anti-istituzionali di Berlusconi, ma come un grave ostacolo sulla via della modernizzazione del Paese quando, in prima persona o attraverso i suoi fedelissimi eletti nel Sud, appare sensibile alle richieste del partito della spesa. Chi adotta questa seconda visione, attenta alle ragioni della crescita, punta soprattutto sulle riforme economico-sociali, e vede il federalismo come la più fondamentale di tutte le riforme.

Dopo le elezioni regionali, e il conseguente rafforzamento della Lega, la convivenza fra queste due visioni è diventata sempre più difficile. Chi sottoscrive la diagnosi dell’emergenza democratica non può che vedere con sospetto qualsiasi dialogo con un governo presieduto da Berlusconi; chi sottoscrive la diagnosi della modernizzazione mancata è naturalmente portato a prendere sul serio la scommessa del federalismo fiscale. Per i paladini della democrazia il pericolo è che Berlusconi passi dalle parole ai fatti, perché il loro incubo è il fascismo strisciante che avanza; per i paladini della crescita il rischio è che Berlusconi non passi dalla parole ai fatti, perché il loro incubo è la prosecuzione del declino, l’argentinizzazione lenta dell’Italia.

È probabile che la prima visione, quella dell’emergenza democratica, sia ancora egemone nel Pd. E tuttavia mi sembra che la seconda visione, più pragmatica e meno drammatizzante, stia guadagnando qualche posizione nel partito, specie fra gli amministratori locali. Recentemente mi è capitato di ascoltare le parole di tre sindaci del Pd, uno del Nord (Chiamparino, Torino), uno del Centro (Renzi, Firenze), uno del Sud (De Luca, Salerno). Tutti e tre si auguravano che il federalismo funzionasse davvero, e vedevano il progetto della Lega non come una minaccia ma come una sfida da raccogliere. Per loro la colpa più grande di Berlusconi non è di aver reso l’Italia meno democratica, ma di non aver mantenuto nessuna delle sue migliori promesse: più liberalizzazioni, più meritocrazia, più crescita, meno tasse, meno sprechi, meno burocrazia.

Hanno ragione, in tanti anni non abbiamo visto realizzata nessuna di queste cose. Eppure la promessa di una «rivoluzione liberale» risale al 1994. Nel 2013, quando torneremo a votare, saranno passati vent’anni (tanti quanti ne durò il fascismo), di cui gli ultimi dodici quasi interamente sotto la stella di Berlusconi. Forse è venuto il momento che il Partito democratico si ricordi delle ragioni per cui è nato, e anziché criticare Berlusconi qualsiasi cosa faccia, cominci a pretendere che le cose le faccia davvero. Almeno quelle - sacrosante - che non stanno solo nel programma originario di Forza Italia, ma sono nel Dna di un partito autenticamente riformista

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Pd e Pdl due partiti nati vecchi
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2010, 09:39:33 am
19/4/2010

Pd e Pdl due partiti nati vecchi
   
LUCA RICOLFI

Apparentemente nulla di nuovo. Anche nella legislatura 2001-2006 la destra al governo era dilaniata dai conflitti interni. Ricordate la defenestrazione del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, accusato di prevaricare gli altri ministri? E le continue punzecchiature di Marco Follini (allora segretario dell’Udc) nei confronti del premier Berlusconi? E poi, alla fine di quella legislatura, la campagna elettorale con l’attacco «a tre punte» (Berlusconi, Fini e Casini), un modo calcistico per dire a Berlusconi che non era l’unico leader, e che la corsa per la successione era iniziata?

Eppure oggi è diverso. Non so come andrà a finire la disfida tra Fini e Berlusconi, e non ho la minima idea delle motivazioni personali del presidente della Camera, che potrebbero spaziare dalla comprensibile irritazione per gli sgarbi di Bossi e Berlusconi verso la terza carica dello Stato, alla legittima aspirazione a divenire Presidente della Repubblica nel 2013, con il concorso dei voti delle opposizioni. Però sono convinto di una cosa: comunque vada a finire, nulla sarà come prima, né a destra né a sinistra.

Perché, con il trionfo della Lega alle Regionali di marzo, tutto è cambiato, non solo nei rapporti interni al centro-destra, ma nella struttura profonda del sistema politico italiano.

Se dovessi sintetizzare in una formula il cambiamento, direi: dopo il voto di marzo è diventato evidente che la posta in gioco fondamentale del conflitto politico non ha più nulla a che fare con la classica opposizione fra destra e sinistra. Oggi è molto più chiaro di ieri che nel sistema politico italiano si giocano due partite distinte, nessuna delle quali ha a che fare con destra e sinistra: la prima partita è quella del federalismo, divenuto improcrastinabile dopo il successo della Lega; la seconda è quella delle regole del gioco, ovvero riforma della giustizia, presidenzialismo, legge elettorale. Ora, il problema è che su questi due fondamentali terreni di gioco le varie forze politiche non si distinguono più sull’asse destra-sinistra; non solo, ma i due principali partiti, Pdl e Pd, risultano profondamente divisi al loro interno. Di qui le spinte scissioniste presenti in entrambi, non solo nel Popolo della libertà. Oggi parliamo di una possibile scissione all’interno del Pdl da parte dei nostalgici di An, guidati da Fini. Ma fino a pochi giorni fa parlavamo di una possibile scissione all’interno del Pd da parte dei sognatori di un «Partito democratico del Nord», guidati da Cacciari e Chiamparino.

Sembrano due cose diverse, ma è lo stesso processo. La vittoria della Lega, combinata con la prospettiva di tre anni (2010-2011-2012) sgombri da elezioni, ha improvvisamente riportato al centro del dibattito politico il federalismo, e questo semplice fatto sta costringendo i due maggiori partiti a fare due conti. Una parte del Pdl si rende conto che l’asse Bossi-Berlusconi porterà a un’emorragia di voti nel Sud: non per nulla i finiani chiedono innanzitutto «maggiore attenzione» per il Mezzogiorno. Simmetricamente una parte del Pd si rende conto che senza una svolta federalista il Pd stesso è destinato a scomparire dal Nord: ora che gli elettori del Centro-Nord stanno voltando le spalle al partito, non sono solo più Illy e Cacciari a rivendicare «maggiore attenzione», in questo caso alle istanze del Nord.

Se Pdl e Pd scricchiolano, dunque, non è solo perché i loro dirigenti sono litigiosi e irresponsabili. La ragione vera è che Pd e Pdl, per quanto appena nati, sono già due partiti vecchi. Credono di rappresentare la sinistra e la destra, in un momento in cui il conflitto centrale non è fra eguaglianza e libertà, ma molto più prosaicamente fra interessi dei territori produttivi (non tutti nel Nord) e interessi dei territori assistiti (non tutti nel Sud). Se Fini e Chiamparino facessero il grande passo, quello cui potremmo assistere è un pericoloso conflitto fra uno schieramento «nordista», formato da Lega, Pd del Nord e Pdl (senza i finiani), e uno schieramento «sudista», formato dalla resuscitata Alleanza nazionale, dall’Udc e dal Pd nazionale (privato della costola del Nord).

Non è tutto, però. A complicare il gioco c’è la seconda grande posta in palio, quella delle regole. Qui il conflitto fondamentale è fra le istanze decisioniste e populiste del premier, assecondate dalla Lega, e le preoccupazioni per l’equilibrio dei poteri, che accomunano la sinistra, il centro cattolico, i finiani di Alleanza nazionale. Il tutto ingarbugliato dal fatto che, nel campo degli oppositori di Berlusconi, alcuni hanno nostalgia della prima Repubblica e altri sognano la terza; alcuni sono intransigenti nella difesa della magistratura, altri sono critici verso di essa. Di qui la paralisi del Pd, indotto a vedere Fini come una sponda quando si parla di riforme istituzionali, e come un nemico delle istanze modernizzatrici del Centro-Nord quando si parla di federalismo.

Il rischio, a mio parere, è che questa incapacità di Pd e Pdl di rappresentare le effettive poste in gioco ci precipiti in un marasma mediatico e istituzionale, in cui per tre anni si combatteranno - probabilmente senza vincitori né vinti - due battaglie entrambe pericolose: quella fra Nord e Sud e quella fra picconatori e conservatori della Costituzione. Quando invece la battaglia decisiva è una sola, perché l’Italia ha bisogno di modernizzazione sia in campo economico-sociale (fare il federalismo) sia in campo istituzionale (cambiare la Costituzione). Purtroppo una forza politica che rappresenti compiutamente questa doppia esigenza non esiste. A sinistra prevale la paura di cambiare, perché le istanze del cambiamento sono rappresentate dalle pulsioni anti-meridionaliste della Lega e da quelle anti-istituzionali di Berlusconi, un cocktail sufficiente a paralizzare il partito di Bersani e a scatenare il conservatorismo di sinistra. A destra prevale la voglia di cambiare, ma il cambiamento assume spesso tratti inquietanti: la Lega vuole soprattutto più potere nelle amministrazioni locali, come si è subito capito dalle sparate di Bossi sulle banche («ci tocca anche una fetta di banche»); quanto al Pdl, è piuttosto chiaro che la madre di tutte le priorità è proteggere il premier dall’azione dei giudici. Così nulla cambia, e il nostro Paese, mestamente e inesorabilmente, prosegue nel sentiero di declino che ha imboccato da qualche anno.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI L'equivoco del centro
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2010, 11:29:04 pm
24/4/2010

L'equivoco del centro

LUCA RICOLFI

Dopo le scene di guerra totale offerte da Fini e Berlusconi il quadro politico è di nuovo in movimento. Il premier dovrà trovare un modo per neutralizzare i finiani, che sono pochi ma sufficienti per gettare sabbia negli ingranaggi parlamentari. Il Partito democratico dovrà darsi una linea, decidendo se e quanto puntare sul «compagno Fini». E’ facile prevedere, infine, che si moltiplicheranno i tentativi di costituzione di un terzo polo, ovvero di un centro capace di interporsi fra la destra e la sinistra. Queste manovre, per la verità, sono già iniziate da tempo. I liberali di Zanone sono confluiti nella neonata Alleanza per l’Italia (Api) di Rutelli e Tabacci, che a sua volta dialoga con l’Udc di Casini, che a sua volta dialoga con Fini e i finiani, che a loro volta pare abbiano un asse con le forze che contano in Sicilia (l’Mpa di Lombardo, il Pdl-Sicilia di Miccichè).

Diverse fondazioni, da FareFuturo (Fini) a Italia futura (Montezemolo), sono anch’esse in movimento con documenti, convegni, dibattiti, articoli, interviste, prese di posizione. E giusto qualche giorno prima del duello finale tra Fini e Berlusconi, dai sondaggisti sono venute le prime valutazioni: se Fini (ri)facesse An prenderebbe il 7%, se si alleasse con Casini e Rutelli arriverebbe al 13%, se poi anche Montezemolo fosse della partita tutti insieme potrebbero puntare al 16%. In breve: il bacino elettorale del centro sarebbe quasi il triplo di quello dell’Udc, e un eventuale partito dei moderati potrebbe diventare il terzo partito, e forse persino contendere al Pd il ruolo di secondo partito. Una prospettiva come questa, per quanto oggi possa apparire fantapolitica, è tutt’altro che inverosimile, e avrebbe persino una sua logica. Se nel Pd dovesse prevalere la linea dell’emergenza democratica, secondo cui il supremo interesse dell’Italia è liberarsi da Berlusconi, non possiamo escludere lo «scenario Cln», del resto già evocato nei mesi scorsi: un Comitato di Liberazione Nazionale, questa volta non sotto forma di alleanza Pci-Dc, partiti estinti, bensì come patto fra i loro esausti eredi, il Pd di Bersani e un neonato o redivivo partito di centro, uniti dal comune interesse a cacciare l’occupante (nella visione emergenziale Berlusconi è come una potenza straniera, che ha occupato le istituzioni).

Il cemento di tale alleanza, oltre alla deposizione del tiranno, non potrebbe che essere la difesa delle istituzioni democratiche, a partire dall’autonomia della Magistratura, nonché una prudente rivalutazione della prima Repubblica, specie in materia di legge elettorale (ritorno al proporzionale, voto di preferenza). Per quanto tutt’altro che privo di un suo senso politico, e anche di una sua nobiltà di intenti - primo fra tutti quello di riportare un po’ di civiltà nel confronto politico - lo scenario Cln ha almeno due punti deboli. Il primo è che non è affatto detto che Berlusconi ne uscirebbe sconfitto, specie se si votasse già quest’anno. Il problema del Cln, infatti, è che non può pensare di vincere senza allargarsi a Di Pietro e all’estrema sinistra, ma più si allarga più evoca nell’elettorato lo spettro dell’armata Brancaleone, ossia del disastroso biennio dell’ultimo governo Prodi.

Non solo, ma in caso di voto anticipato le opposizioni non avrebbero buon gioco ad accusare Berlusconi di non aver fatto nulla, perché due anni sono troppo pochi per giudicare un governo, tanto più se fin dall’inizio ha dovuto navigare nelle acque procellose della peggiore crisi economica mondiale dal 1929. Il secondo punto debole dello scenario Cln si potrebbe definire l’equivoco del centro. L’idea di coalizzare la sinistra e il centro contro la destra sembra trascurare il fatto che, sotto il profilo dell’insediamento territoriale, e quindi inevitabilmente anche del programma, il centro di cui si sta parlando è soprattutto una manifestazione del «partito del Sud», per non dire del partito della spesa. Non a caso il nucleo politico duro del discorso di Fini è stato il nodo del Mezzogiorno, ovvero il timore che il federalismo prosciughi il fiume di risorse che alimentano la spesa pubblica nelle regioni meridionali, le stesse da cui Alleanza nazionale ha sempre ricavato il grosso dei propri consensi.

Non a caso i più preoccupati del conflitto fra Fini e Berlusconi sono i politici della Lega. E ancor meno a caso i consensi dell’Udc e dell’Api, come quelli di An, sono concentrati nel Sud: l’Udc è anche il partito di Totò Cuffaro, ex governatore della Sicilia condannato in appello a sette anni di reclusione (per favoreggiamento aggravato per aver agevolato Cosa Nostra); quanto al partito di Rutelli, non ha presentato liste in nessuna regione del Nord, e ha ottenuto consensi significativi solo in Basilicata e Campania. Visto da questa angolatura il progetto di una «terza forza centrista», nato per contrastare, mitigare o neutralizzare il federalismo, cozza con un altro segmento fondamentale del centro, inteso come l’insieme degli elettori che stentano a riconoscersi sia in questa destra sia in questa sinistra. Questo secondo segmento del centro è costituito da quanti rimproverano sia al Pd sia al Pdl di avere sostanzialmente tradito la promessa di una rivoluzione liberale, che trovi finalmente il coraggio di fare le riforme economico-sociali di cui l’Italia ha bisogno: meno burocrazia, meno tasse, meno sprechi, migliori servizi pubblici.

I sondaggi suggeriscono che questo secondo tipo di centro, di ispirazione liberista e liberale, sia maggiormente insediato nel Nord, e che guardi con simpatia il federalismo, visto (forse troppo ottimisticamente) come uno strumento per contenere il partito della spesa e far ripartire la crescita. Per questo tipo di elettorato, una parte del quale oggi vota ancora Pd, le riforme economico-sociali sono più importanti di quelle istituzionali, e il dialogo con la Lega di Bossi appare più utile di quello con il nascente partito di Fini. Insomma, il punto è che ci sono due centri. Il centro moderato, per cui la priorità è sconfiggere l’estremismo politico, incarnato innanzitutto da Bossi e Berlusconi, ma anche dal populismo di sinistra, da Di Pietro a Beppe Grillo. E il centro radicale, per cui la priorità è sconfiggere il moderatismo del non-fare in campo economico-sociale, scuotere dalla sua inerzia un ceto politico che da vent’anni promette di modernizzare il Paese senza riuscirci. L’incubo del centro moderato è che il federalismo si faccia, e che possa punire il Sud: non per nulla un anno fa l’Udc di Casini votò contro la legge Calderoli, per quanto ampiamente annacquata rispetto al testo originario.

L’incubo del centro radicale, al contrario, è che il federalismo non si faccia, o si faccia male, vanificando le speranze del Nord di essere liberato dal giogo della spesa improduttiva. I due centri sono incompatibili, perché hanno priorità opposte e insediamenti territoriali speculari. Possiamo preferire l’uno o l’altro, ma sarebbe già un grande passo avanti se smettessimo di confonderli.

da lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - La medicina per i mali dell'Italia
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2010, 11:01:39 pm
14/5/2010

La medicina per i mali dell'Italia
   
LUCA RICOLFI

L’Europa ha deciso, per ora, di salvare la Grecia dal collasso finanziario. Dopo l'annuncio della costituzione di un maxifondo di garanzia di oltre 700 miliardi di euro, le Borse hanno reagito positivamente, i titoli del debito pubblico dei principali paesi a rischio hanno recuperato terreno, la speculazione sembra battere in ritirata. Il clima che si respira, insomma, è da scampato pericolo. E tuttavia il sospiro di sollievo che aleggia nei governi e nelle opinioni pubbliche europee è a sua volta una nuova fonte di rischi, se non la principale.

Passata la paura, infatti, si fa più probabile l'eventualità che, rincuorati dal successo dell'operazione di salvataggio della Grecia, i governi si comportino come se la causa delle nostre difficoltà fosse la speculazione, e concentrino tutti i loro sforzi sulla regolazione dei mercati finanziari (sicuramente opportuna), anziché sulla rimozione degli squilibri strutturali che forniscono alla speculazione le sue armi. Il rischio, in altre parole, è che ci si preoccupi molto di tenere bassa la febbre, e assai meno di curare la malattia.

Nel caso dell'Italia le malattie sono essenzialmente due: un difetto di competitività e una pubblica amministrazione ipertrofica e inefficiente. Le due malattie sono intimamente collegate: la scarsa competitività delle nostre imprese dipende anche, se non soprattutto, dall'enorme massa di risorse che una pubblica amministrazione inefficiente sottrae ai produttori, in particolare alle imprese dell'economia emersa, che stanno sul mercato, pagano le tasse e cercano di competere. A quanto ammonta questa enorme massa di risorse sottratte alla crescita?

Un calcolo di larga massima dà i seguenti risultati. Gli sprechi nella pubblica amministrazione, presenti ovunque ma particolarmente ampi nel Lazio e nelle regioni del Sud, ammontano ad almeno 80 miliardi di euro l'anno. L'evasione fiscale e contributiva, che induce i governi a tenere alte le aliquote, ammonta ad almeno 120 miliardi di euro. In tutto fa 200 miliardi di euro che, ogni anno, vengono sacrificati per mantenere il patto scellerato su cui è basato il nostro Stato assistenziale: io ti permetto di evadere le tasse, ma ti inondo di agevolazioni, incentivi e sussidi. Il costo per il Paese è altissimo, perché una burocrazia arrogante e inefficiente, una giustizia civile lentissima, un territorio parzialmente sottratto al controllo dello Stato scoraggiano gli investimenti (in particolare quelli esteri) e disincentivano il fare impresa. E un'evasione fiscale record - solo la Grecia ha un sommerso più ampio del nostro - impedisce di dare ossigeno alle imprese regolari, mediante tagli robusti alle imposte societarie (Ires e Irap) e al cuneo fiscale.

Naturalmente so bene che è impossibile (e forse anche inopportuno) azzerare l'evasione fiscale, come è impossibile che la pubblica amministrazione sia ovunque efficiente come nei territori più virtuosi. E tuttavia per mettere l'Italia in condizione di tornare a crescere basterebbe molto di meno. Se, nel giro di qualche anno, si recuperasse anche solo un terzo dell'evasione fiscale (40 miliardi su 120) ci sarebbero le condizioni per abbattere le imposte sulle imprese, a partire dall'Irap, e per rendere un po' più pesanti le buste paga, oggi saccheggiate da un cuneo fiscale fra i più alti d'Europa. E se, anche grazie al federalismo, si dimezzassero gli sprechi, avremmo altri 40 miliardi di euro, con i quali potremmo dedicarci a completare il nostro Stato sociale. Sì, perché il paradosso dell'Italia è che essa ha lo Stato sociale più costoso del mondo (in relazione al Pil) ma si è dimenticata di costruirne dei pezzi importanti: asili nido, ammortizzatori sociali automatici e generali (estesi alle piccole imprese e ai precari), strumenti di lotta alla povertà e di sostegno degli anziani non autosufficienti. E infine, come ha più volte ricordato il ministro Brunetta, si possono varare le riforme a costo zero, a partire da quella della Pubblica amministrazione e dalle liberalizzazioni.

Ma qui, sul terreno delle cose da fare per non finire come la Grecia, si annida forse il pericolo più grande. Il rischio è che qualcosa per raddrizzare i nostri conti si faccia ma, per mancanza del necessario consenso, questo qualcosa sia la solita minestra: qualche ritocco dell'imposizione fiscale per rimpinguare le entrate, qualche taglio ulteriore (ma poco selettivo) della spesa pubblica corrente, qualche annuncio di risparmi futuri legati al federalismo fiscale. Il rischio, insomma, è che all'Italia, come ad altri Paesi europei con i conti in disordine, venga (giustamente) impedito di continuare a vivere al di sopra dei propri mezzi, ma in una spirale di deflazione anziché in un quadro di rilancio della crescita. In questo caso potremmo forse anche, fra qualche anno, ritrovarci con i conti pubblici in (relativa) sicurezza, con un deficit al 3% e un debito sotto il 100% del Pil, ma al prezzo della stagnazione. Uno scenario che può sembrare soltanto un brutto sogno, ma è semplicemente la prosecuzione delle tendenze degli ultimi anni. Fino al 2001 l'Italia cresceva meno del resto d'Europa, ma comunque cresceva, dal 2001 invece la crescita si è semplicemente bloccata. Da allora la produttività è ferma, e il Pil pro capite non aumenta più, e tutto ciò già nel periodo 2001-2008, ossia prima del grande tonfo del 2009. Questo è il problema, questa è la sfida che abbiamo davanti a noi.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7350&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Quanto costa davvero la politica
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2010, 06:49:46 pm
17/5/2010
Quanto costa davvero la politica

LUCA RICOLFI

E’ un po’ di giorni che se ne parla: l’idea del ministro Calderoli di tagliare gli stipendi di ministri e parlamentari piace molto.
La gente semmai obietta che «tanto non lo faranno», e che gli emolumenti dei politici sono talmente scandalosi che bisognerebbe tagliare molto di più. Anch’io penso che l’idea di Calderoli sia da sottoscrivere.

C’è un aspetto, tuttavia, dei ragionamenti che circolano in questi giorni, che non mi convince affatto. Molti tendono a credere, o a far credere, che una misura del genere potrebbe avere effetti apprezzabili sui conti pubblici, contribuendo in misura rilevante alla manovra da 25 miliardi di euro (in 2 anni) che il governo sta mettendo a punto in queste settimane.

Ebbene bisogna dire risolutamente che questo non è assolutamente vero. Innanzitutto perché la proposta, anche se venisse estesa ai grandi dirigenti e funzionari pubblici riguarderebbe poche migliaia di persone. In secondo luogo perché andare al di là di questo è molto difficile, dal momento che proprio l'autonomia delle Regioni e degli enti locali rende praticamente impossibile far calare dall’alto (cioè dal centro) un provvedimento di contenimento di tutti gli emolumenti legati alla funzione politica. E infine, punto decisivo, perché anche se si riuscisse a colpire tutta la politica, e cioè amministratori locali, portaborse (ipotesi del tutto irrealistica), i risparmi sarebbero irrisori rispetto all'entità della manovra che ci attende.

Per capire come mai, basta riflettere sul fatto che il costo globale del ceto politico, anche inteso nella sua accezione più ampia (incluse le consulenze), non supera i 4 miliardi di euro all'anno, il che significa che un taglio del 5% frutterebbe 200 milioni di euro (sul punto si veda l'ottimo libro di Salvi e Villone, Il costo della democrazia, Mondadori, 2005).

Una bella cifra, direte voi. Sì, ma non sulla scala dei nostri problemi di aggiustamento dei conti pubblici. Duecento milioni sono 0,2 miliardi di euro, ossia meno dell'1% di quello che ci serve (25 miliardi di euro). Anche ammesso di cominciare subito, senza dilazioni e senza deroghe, colpendo tutti, ma proprio tutti, fino all'ultimo consigliere comunale, in 2 anni si potrebbero risparmiare circa 0,5 miliardi di euro, ossia il 2% di quel che ci serve per tenere i conti pubblici in (relativo) ordine.

E il restante 98%?

Il restante 98% per cento sarà richiesto soprattutto a noi cittadini comuni. E infatti si parla di intervenire soprattutto su stipendi pubblici e pensioni, un'eventualità che ha già messo in allarme i sindacati.

Se ne potrebbe concludere che la proposta di Calderoli è pura demagogia, e che non merita di esser presa sul serio. Ma sarebbe una conclusione sbagliata. La proposta Calderoli, a mio parere, dovrebbe essere sostenuta e semmai rafforzata, ma non per il suo impatto sui conti pubblici. Una riduzione degli emolumenti dei politici nazionali, specie se estesa agli alti dirigenti, sarebbe importante soprattutto per il suo significato simbolico, come un (minimo) segnale di serietà che la classe politica lancia al Paese. Un punto, questo, che è stato colto molto bene dal leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che ieri in un'intervista a questo giornale ha dichiarato la propria disponibilità a contribuire a «spegnere l'incendio della speculazione» e a «blindare i conti», purché il governo dia segnali chiari di voler intervenire sulle situazioni più scandalose. Ci sono politici e manager pubblici che hanno stipendi privi di qualsiasi ragionevolezza, non solo in relazione a quelli dei comuni cittadini ma innanzitutto in relazione a quelli dei politici e funzionari di pari livello degli altri Paesi. Dare una robusta sforbiciata a tali stipendi non permetterà mai di raddrizzare i conti pubblici, ma è la condizione minima per rivolgersi ai cittadini in un momento difficile come questo.

Quanto ai cittadini, forse sarebbe meglio che si levassero definitivamente dalla testa l'idea che i conti pubblici siano in disordine perché la politica costa troppo, e che basti affamare i politici per rimettere in sesto le finanze pubbliche. I veri costi della politica non sono quelli diretti, ossia l'ammontare degli stipendi della casta, ma i suoi costi indiretti, ossia lo spreco di risorse pubbliche che corruzione e malgoverno infliggono ogni anno al Paese. A fronte di 4 miliardi di costi diretti, la politica ci costa ogni anno qualcosa come 80 miliardi per la sua incapacità di spendere oculatamente il denaro pubblico, per non parlare di quel che ci costa la sua timidezza nel combattere l'evasione fiscale. Su questo Bonanni ha perfettamente ragione: è di qui che si deve partire.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7360&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - La posta in gioco
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2010, 03:46:27 pm
24/5/2010

La posta in gioco
   
LUCA RICOLFI


Ci siamo. Oggi la commissione Giustizia del Senato dovrebbe completare la votazione degli emendamenti al disegno di legge sulle intercettazioni. Poi il testo approderà in aula, e la battaglia avrà inizio.

Ma battaglia su che cosa?

Il governo risponde: per la difesa della privacy. I giornalisti e gli editori ribattono: per la difesa del diritto all’informazione. Ma sono due letture unilaterali, perché nascondono troppe cose.

I difensori della legge non ci spiegano come mai, per tutelare il diritto alla privacy, non si sono limitati a proibire la pubblicazione dei testi delle intercettazioni, in particolare nei casi in cui sono penalmente irrilevanti o coinvolgono persone che nulla hanno a che fare con le inchieste. Se davvero questo - difendere la privacy dei comuni cittadini - fosse stato l’obiettivo della legge, essa non conterrebbe norme che addirittura impediscono di parlare delle inchieste, né sarebbe costellata da una miriade di ostacoli alle indagini, primo fra tutti l’impossibilità di intercettare per più di 75 giorni. Se davvero la tutela della privacy fosse il motivo ispiratore della legge, c’erano altri mezzi per assicurarne il rispetto, ad esempio la distruzione delle trascrizioni irrilevanti, come da più parti è stato ripetutamente suggerito.

Quanto ai critici della legge, in particolare i giornalisti, troppo spesso dimenticano che sono anche i loro comportamenti ad aver appiccato l’incendio che ora rischia di bruciare tutto e tutti. Quante volte abbiamo letto (o ascoltato alla radio, o visto in televisione) veri e propri processi di piazza? Quante volte presunti innocenti sono stati trattati come sicuri colpevoli? Quante volte abbiamo letto ricostruzioni tendenziose, accuse oblique, teoremi privi di solidi riscontri? Quante volte la vita di persone estranee alle indagini è stata sconvolta dalla pubblicazione delle intercettazioni? Su questo ha perfettamente ragione Piero Ostellino, che giusto ieri sul Corriere della Sera scriveva: «I processi, in uno Stato di diritto, si fanno in tribunale, non sui giornali, alcuni dei quali inclini, per ragioni editoriali o politiche, a fare strame della civiltà del diritto».

Ma non occorre scomodare un liberale doc come Ostellino per riconoscere come sono andate finora le cose. Pochi giorni fa, intervistato dal «Fatto quotidiano», Giulio Anselmi, presidente dell’Ansa, dichiarava testualmente: «Ci sono alcuni comportamenti che noi non avremmo dovuto tenere e rispetto ai quali ora si manifestano timide ammissioni. Adesso si cominciano a sentire giornalisti che dicono: abbiamo pubblicato intercettazioni inutili, coinvolgendo persone estranee alle indagini, per storie pruriginose. Mi piacerebbe che noi fossimo capaci di autoregolamentazione, sarebbe la via preferibile. Però non ho molta fiducia né nella nostra capacità di darci codici cui attenerci, né nell’Ordine dei giornalisti. Con rammarico - lo dico perché vorrei che ce la cavassimo da soli - credo si debbano accettare forme di tutela legale della privacy».

Per parte mia vorrei aggiungere: i giornalisti parlano come se oggi vigesse un regime di libertà di informazione, in cui i cittadini - grazie all’onestà intellettuale e al coraggio dei giornalisti - sono correttamente informati, in cui un’opinione pubblica «avvertita e consapevole» è in grado di «esercitare il controllo democratico sul comportamento di eletti e amministratori», come spesso si sente ripetere. Ma non è così, i cittadini italiani vivono in un sistema dei media inquinato dalla faziosità e dalla leggerezza, spesso poco o mal documentato, comunque lontanissimo dagli standard degli altri Paesi democratici. E a proposito di intercettazioni: non è strano che negli altri Paesi se ne pubblichino così poche, nonostante il diritto dell’opinione pubblica di sapere sia assai più tutelato che in Italia? Non sarà che la democrazia è compromessa innanzitutto dal fatto che, sia pure con le dovute eccezioni (Milena Gabanelli, per esempio), i nostri giornalisti indagano poco e si schierano troppo? Anche su questo la penso come Giulio Anselmi, che nella medesima intervista mestamente riconosceva: «Il giornalismo italiano non è mai stato uno straordinario cane da guardia della democrazia».

Attenzione, però. Dalla indifendibilità della «retorica democratica» dei giornalisti, che confondono il destino della loro corporazione con quello della democrazia, non discende in alcun modo che quella sulle intercettazioni sia una buona legge. No, è una legge pessima, ma non solo perché limita il diritto di cronaca e pone barriere eccessive all’attività dei giornalisti. Il primo motivo per cui quella legge è pessima non è il fatto che limita ulteriormente il nostro diritto di sapere, peraltro già gravemente compromesso dalla cattiva qualità dell’informazione che attualmente riceviamo. Il primo motivo per cui la legge sulle intercettazioni è una legge pessima è che essa è meticolosamente costruita per ostacolare il lavoro della magistratura e della polizia giudiziaria, una preoccupazione questa espressa anche dal capo della polizia Antonio Manganelli. Se quella legge passerà, le intercettazioni, che a parole quasi tutti riconoscono come un insostituibile strumento di indagine, non verranno semplicemente ridimensionate un po’, come è ragionevole (ci sono stati abusi da parte dei magistrati) e come in parte sta già avvenendo spontaneamente (nel 2009 sono diminuite, dopo quasi vent’anni di crescita ininterrotta: vedi grafico a pag. 5), ma subiranno un vero e proprio tracollo, in quantità e in efficacia. Il limite dei 75 giorni, le condizioni restrittive per richiederle, l’iter necessario per ottenere le autorizzazioni e le proroghe, sono congegnati in modo tale da rendere la vita impossibile alle procure della Repubblica. Questa, e non la libertà dell’informazione, è la vera posta in gioco. Per eccesso di autoreferenzialità il mondo dell’informazione non pare capirlo. Sta conducendo una battaglia per la difesa di qualcosa che non esiste (un’informazione completa, corretta e imparziale), mentre non sembra accorgersi che i principali bersagli della legge non sono i giornalisti bensì i magistrati, cui sarà sempre più difficile scoprire i colpevoli, siano essi criminali comuni, mafiosi, o politici corrotti. Per vincere la battaglia sulla libertà dell’informazione, rischiamo di perdere la guerra più importante, quella per una giustizia messa nelle condizioni di perseguire il crimine.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7392&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - La posta in gioco
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2010, 12:16:08 am
24/5/2010

La posta in gioco
   
LUCA RICOLFI


Ci siamo. Oggi la commissione Giustizia del Senato dovrebbe completare la votazione degli emendamenti al disegno di legge sulle intercettazioni. Poi il testo approderà in aula, e la battaglia avrà inizio.

Ma battaglia su che cosa?

Il governo risponde: per la difesa della privacy. I giornalisti e gli editori ribattono: per la difesa del diritto all’informazione. Ma sono due letture unilaterali, perché nascondono troppe cose.

I difensori della legge non ci spiegano come mai, per tutelare il diritto alla privacy, non si sono limitati a proibire la pubblicazione dei testi delle intercettazioni, in particolare nei casi in cui sono penalmente irrilevanti o coinvolgono persone che nulla hanno a che fare con le inchieste. Se davvero questo - difendere la privacy dei comuni cittadini - fosse stato l’obiettivo della legge, essa non conterrebbe norme che addirittura impediscono di parlare delle inchieste, né sarebbe costellata da una miriade di ostacoli alle indagini, primo fra tutti l’impossibilità di intercettare per più di 75 giorni. Se davvero la tutela della privacy fosse il motivo ispiratore della legge, c’erano altri mezzi per assicurarne il rispetto, ad esempio la distruzione delle trascrizioni irrilevanti, come da più parti è stato ripetutamente suggerito.

Quanto ai critici della legge, in particolare i giornalisti, troppo spesso dimenticano che sono anche i loro comportamenti ad aver appiccato l’incendio che ora rischia di bruciare tutto e tutti. Quante volte abbiamo letto (o ascoltato alla radio, o visto in televisione) veri e propri processi di piazza? Quante volte presunti innocenti sono stati trattati come sicuri colpevoli? Quante volte abbiamo letto ricostruzioni tendenziose, accuse oblique, teoremi privi di solidi riscontri? Quante volte la vita di persone estranee alle indagini è stata sconvolta dalla pubblicazione delle intercettazioni? Su questo ha perfettamente ragione Piero Ostellino, che giusto ieri sul Corriere della Sera scriveva: «I processi, in uno Stato di diritto, si fanno in tribunale, non sui giornali, alcuni dei quali inclini, per ragioni editoriali o politiche, a fare strame della civiltà del diritto».

Ma non occorre scomodare un liberale doc come Ostellino per riconoscere come sono andate finora le cose. Pochi giorni fa, intervistato dal «Fatto quotidiano», Giulio Anselmi, presidente dell’Ansa, dichiarava testualmente: «Ci sono alcuni comportamenti che noi non avremmo dovuto tenere e rispetto ai quali ora si manifestano timide ammissioni. Adesso si cominciano a sentire giornalisti che dicono: abbiamo pubblicato intercettazioni inutili, coinvolgendo persone estranee alle indagini, per storie pruriginose. Mi piacerebbe che noi fossimo capaci di autoregolamentazione, sarebbe la via preferibile. Però non ho molta fiducia né nella nostra capacità di darci codici cui attenerci, né nell’Ordine dei giornalisti. Con rammarico - lo dico perché vorrei che ce la cavassimo da soli - credo si debbano accettare forme di tutela legale della privacy».

Per parte mia vorrei aggiungere: i giornalisti parlano come se oggi vigesse un regime di libertà di informazione, in cui i cittadini - grazie all’onestà intellettuale e al coraggio dei giornalisti - sono correttamente informati, in cui un’opinione pubblica «avvertita e consapevole» è in grado di «esercitare il controllo democratico sul comportamento di eletti e amministratori», come spesso si sente ripetere. Ma non è così, i cittadini italiani vivono in un sistema dei media inquinato dalla faziosità e dalla leggerezza, spesso poco o mal documentato, comunque lontanissimo dagli standard degli altri Paesi democratici. E a proposito di intercettazioni: non è strano che negli altri Paesi se ne pubblichino così poche, nonostante il diritto dell’opinione pubblica di sapere sia assai più tutelato che in Italia? Non sarà che la democrazia è compromessa innanzitutto dal fatto che, sia pure con le dovute eccezioni (Milena Gabanelli, per esempio), i nostri giornalisti indagano poco e si schierano troppo? Anche su questo la penso come Giulio Anselmi, che nella medesima intervista mestamente riconosceva: «Il giornalismo italiano non è mai stato uno straordinario cane da guardia della democrazia».

Attenzione, però. Dalla indifendibilità della «retorica democratica» dei giornalisti, che confondono il destino della loro corporazione con quello della democrazia, non discende in alcun modo che quella sulle intercettazioni sia una buona legge. No, è una legge pessima, ma non solo perché limita il diritto di cronaca e pone barriere eccessive all’attività dei giornalisti. Il primo motivo per cui quella legge è pessima non è il fatto che limita ulteriormente il nostro diritto di sapere, peraltro già gravemente compromesso dalla cattiva qualità dell’informazione che attualmente riceviamo. Il primo motivo per cui la legge sulle intercettazioni è una legge pessima è che essa è meticolosamente costruita per ostacolare il lavoro della magistratura e della polizia giudiziaria, una preoccupazione questa espressa anche dal capo della polizia Antonio Manganelli. Se quella legge passerà, le intercettazioni, che a parole quasi tutti riconoscono come un insostituibile strumento di indagine, non verranno semplicemente ridimensionate un po’, come è ragionevole (ci sono stati abusi da parte dei magistrati) e come in parte sta già avvenendo spontaneamente (nel 2009 sono diminuite, dopo quasi vent’anni di crescita ininterrotta: vedi grafico a pag. 5), ma subiranno un vero e proprio tracollo, in quantità e in efficacia. Il limite dei 75 giorni, le condizioni restrittive per richiederle, l’iter necessario per ottenere le autorizzazioni e le proroghe, sono congegnati in modo tale da rendere la vita impossibile alle procure della Repubblica. Questa, e non la libertà dell’informazione, è la vera posta in gioco. Per eccesso di autoreferenzialità il mondo dell’informazione non pare capirlo. Sta conducendo una battaglia per la difesa di qualcosa che non esiste (un’informazione completa, corretta e imparziale), mentre non sembra accorgersi che i principali bersagli della legge non sono i giornalisti bensì i magistrati, cui sarà sempre più difficile scoprire i colpevoli, siano essi criminali comuni, mafiosi, o politici corrotti. Per vincere la battaglia sulla libertà dell’informazione, rischiamo di perdere la guerra più importante, quella per una giustizia messa nelle condizioni di perseguire il crimine.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7392&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - L'eterna attesa della Lega
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2010, 10:07:36 am
31/5/2010

L'eterna attesa della Lega

LUCA RICOLFI

Sono giorni decisivi per il futuro della Lega. A nessun partito italiano, credo, è mai successo di vedere la propria ragion d’essere messa così a rischio. Alla Lega, invece, sta succedendo. Nei prossimi 12 mesi la Lega si gioca tutto. E la manovra di questi giorni è la prima, vera, prova del fuoco.

La ragione è semplice. Negli ultimi 10 anni la Lega è stata sempre al governo, eccetto la breve parentesi dell’esecutivo Prodi, rimasto in sella per meno di due anni. La Lega esiste per far passare il federalismo, ed ha già mancato l’obiettivo una volta, nel 2005, quando provò ad imporlo a colpi di maggioranza, salvo dovervi rinunciare appena un anno dopo, nel 2006, quando il referendum confermativo cancellò quella riforma. In questa legislatura è già riuscita a far passare la legge 42 del 2009, che contiene i principi generali del federalismo, ma è dannatamente indietro su tutto il resto: decreti delegati (c’è solo quello sul federalismo demaniale), riforma dei bilanci pubblici (mancano i decreti delegati), basi di dati aggiornate (siamo fermi al 2008), piani dettagliati di riduzione degli sprechi (manca quasi tutto).

Ora si mette di mezzo anche la manovra di aggiustamento dei conti pubblici, che di federalista sembra contenere ben poco.

Di qui l’imbarazzo della Lega, che non può permettersi un secondo fallimento. Questo imbarazzo, tuttavia, si manifesta in modi molto diversi ai vari livelli dell’organizzazione. I politici che hanno maggiori responsabilità, in particolare ministri e governatori neo-eletti, tentano di rassicurare gli elettori ma sono a corto di argomenti. Quando Calderoli, anziché provare a spiegare in che modo la manovra tutelerebbe le ragioni del Nord, si giustifica dicendo che «la Lega non avrebbe mai potuto votare una manovra economica che potesse in qualche modo mettere a rischio il federalismo», di fatto invoca una delega in bianco, una sorta di fiducia ad occhi chiusi. Posso testimoniare, perché proprio in questi giorni ho avuto occasione di incontrare molti politici e amministratori locali del Nord, spesso appartenenti o vicini alla Lega, che questa fiducia non c’è affatto, e c’è invece molta preoccupazione. Tutti capiscono che i massimi dirigenti della Lega non possono dire in pubblico tutta la verità, ma molti temono che, alla fine, il federalismo non si potrà fare o non funzionerà. Non a caso, negli ultimi giorni, gli unici politici che hanno denunciato in modo chiaro il rischio che il federalismo finisca in un vicolo cieco sono stati i governatori della Lombardia (Formigoni) e dell’Emilia Romagna (Errani), ossia due politici che guidano le regioni più vessate del Paese (secondo le mie stime il loro credito verso le altre regioni è di 40 miliardi di euro l’anno), ma soprattutto due uomini che non si sentono tenuti a «coprire» il governo centrale e la Lega (Formigoni è del Pdl, Errani è del Pd). È paradossale, ma i difensori più risoluti del federalismo stanno diventando i politici non leghisti del Nord, perché solo essi capiscono le buone ragioni della Lega e nello stesso tempo non sentono l’obbligo di difenderne l’operato.

Ma al di là del dramma che molti amministratori locali vivono, è la base leghista che in questo momento vive un passaggio cruciale. Il militante della Lega, è stato osservato da più parti, per diversi aspetti assomiglia al militante comunista dei tempi di Berlinguer. È onesto, appassionato, sacrifica il suo tempo e le sue energie alla causa in cui crede. E, come il militante del vecchio Pci, ha una stella polare, che qui si chiama federalismo, mentre là si chiamava socialismo. C’è una differenza fondamentale, tuttavia, su cui forse i dirigenti della Lega farebbero bene a meditare. I partiti socialisti e comunisti hanno potuto tenere i loro militanti incatenati ai loro sogni per più di un secolo perché, in attesa del «sol dell’avvenire», si erano mostrati capaci di guadagnare ai ceti subordinati una straordinaria sequenza di conquiste, sui diritti sindacali e politici, sull’orario di lavoro, sui salari, sulla previdenza, sulla sanità, sulla salute in fabbrica. Il militante comunista degli Anni 60 e 70 era spesso un idealista, ma nello stesso tempo toccava con mano robusti assaggi di ciò cui aspirava: una società più giusta, in cui il lavoro avesse piena dignità e rispetto.

Il militante leghista è meno fortunato. I suoi obiettivi ultimi non sono poi così diversi da quelli del tipico militante Pci, solo che lui, anziché essere un operaio, spesso è un artigiano, un lavoratore autonomo, una partita Iva, o semplicemente un ex operaio che si è messo in proprio. Anche chi vota Lega sogna una società più giusta, in cui il lavoro, la responsabilità e il sacrificio non siano mortificati ogni giorno. E tuttavia il sogno del simpatizzante della Lega non è né ultraterreno, né lontanissimo nel futuro, ma molto concreto, qualche volta fin troppo. Gli hanno fatto credere che il federalismo (a differenza del socialismo), si può ottenere in pochi anni, e che allora - quando il federalismo sarà realtà - i produttori potranno ritornare in possesso di quello cui hanno diritto, i frutti del loro lavoro saccheggiati dalle tasse e dagli sprechi. Nel frattempo, però, non gli hanno fornito né gloriose conquiste, né robusti premi di consolazione, ma solo una grande promessa, il federalismo come realizzazione di un ideale di giustizia territoriale.

Per questo, ora che il federalismo è in forse, anche il consenso alla Lega e al governo vacilla, come rivelano gli ultimi sondaggi di Renato Mannheimer. Proprio perché finora ha ottenuto ben poco, la pazienza dell’elettore della Lega non può essere (quasi) infinita come lo era quella dei vecchi, eroici, militanti del partito comunista. I leghisti sono persone concrete. Il dubbio è che i loro dirigenti non siano, a loro volta, abbastanza concreti per accorgersene.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7424&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - La sinistra alla destra di Tremonti
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2010, 12:06:59 pm
11/6/2010

La sinistra alla destra di Tremonti

LUCA RICOLFI

Vedremo alla fine, quando la manovra diventerà legge, quale sarà il suo contenuto effettivo: quali tagli, quali meccanismi per ripartirli, quante tasse in più.

Nessuno dubita, tuttavia, che il risultato finale non potrà essere molto diverso dal punto di partenza: alla fine, ossia nel 2012, la manovra provocherà un taglio della spesa pubblica di 15 miliardi di euro, e un aumento della pressione fiscale di 10 miliardi. Detto in altri termini, la riduzione di 25 miliardi del deficit pubblico è fatta per il 60% (15 miliardi su 25) di minori spese, per il 40% di maggiori entrate (10 miliardi su 25).

Molto è stato detto, finora, sull’iniquità della manovra, sulla sua incapacità di colpire davvero gli sprechi, nonché sulla sua intrinseca ingiustizia territoriale. Proprio in questi giorni sono state rese pubbliche le prime stime degli effetti della manovra, ed è divenuto evidente il paradosso che essa racchiude: giusto alle soglie del federalismo fiscale, il governo si appresta a varare misure incapaci di premiare i territori virtuosi, che poco sprecano e poco evadono le tasse, e di punire quelli viziosi, che molto sprecano e molto evadono le tasse. Vedremo nei giorni prossimi se a questi difetti della manovra il Parlamento sarà in grado di porre qualche rimedio.

Qui vorrei invece sollevare un altro ordine di interrogativi. Ammettiamo per un attimo che, alla fine, grazie a un qualche «miracolo politico», la manovra risulti perfettamente equa, e chiediamoci: può funzionare? 15 miliardi di spese in meno e 10 miliardi di tasse in più sono in grado di sortire gli effetti sperati? Esiste un’alternativa credibile alla manovra?

La prima risposta che mi viene è una parafrasi di quel che Giovanni Sartori ebbe a scrivere a proposito delle tesi un po’ estremistiche, e certamente politicamente scorrette, di Oriana Fallaci sull’Islam: «uditi i critici, ha ragione Oriana». Sì, uditi i critici di Oriana-Tremonti, mi viene da dare ragione al ministro dell’Economia. L’osservazione principale dei critici è che la manovra si preoccupa solo del risanamento dei conti pubblici, aumenta ulteriormente una pressione fiscale che è già vicina al massimo storico, e potrebbe avere effetti recessivi. Anche se spesso avvolta in parole meno crude, la sostanza del discorso è questa: caro Tremonti, tu vuoi abbassare il rapporto fra deficit e Pil riducendo il deficit, ma così facendo freni anche il Pil. Detto ancora più esplicitamente: da anni le tasse soffocano la crescita e la manovra non farà che peggiorare ulteriormente la situazione, perché i risultati della lotta all’evasione fiscale (8 miliardi) non saranno usati per ridurre le aliquote che gravano sull’economia regolare, e inoltre i tagli a Regioni, Province e Comuni costringeranno gli enti locali a «mettere le mani nelle tasche degli italiani». Insomma: più tasse e tariffe, meno deficit, ma anche meno crescita, quindi alla fine della fiera sacrifici inutili.

E’ sbagliata la diagnosi dei critici?

Nessuno può dirlo con sicurezza, ma a me pare non priva di fondamento. Il tasso di crescita del Pil dipende negativamente dalle tasse, in particolare dall’aliquota societaria (Ires + Irap) e dal cuneo fiscale. E’ inutile illudersi: finché non abbassiamo (sensibilmente) l’una e l’altro non torneremo a crescere a un ritmo sufficiente a ridurre il debito, per quante «riforme a costo zero» facciamo, tipo liberalizzazioni e deburocratizzazioni (che comunque sono utili e vanno fatte al più presto, anziché essere sempre annunciate e mai portate fino in fondo). E se non torneremo a crescere il cosiddetto risanamento si farà semplicemente facendo tirare la cinghia alla gente, in un Paese incamminato su un sentiero di dolce (perché lento) declino.

Dove i critici non mi convincono, e mi inducono (provocatoriamente) a dare ragione a Tremonti, è sulle alternative. Dopo un paio di anni passati a invocare «stimoli all’economia», quasi tutti si sono resi conto che, se Dio vuole, Tremonti non ha dato retta ai suoi critici, e che se lo avesse fatto saremmo nell’occhio del ciclone come la Grecia. Ora i medesimi critici dicono a Tremonti che il gettito sottratto agli evasori deve destinarlo alla riduzione delle aliquote, anziché riversarlo nel calderone della riduzione del deficit pubblico. Qualche giorno fa, a Ballarò, l’ha detto molto esplicitamente - in faccia al ministro dell’Economia - l’onorevole Enrico Morando, illustre esponente del Partito democratico. Tremonti gli ha risposto più o meno così: dunque volete tagliare la sanità, proprio voi di sinistra! Perché se i soldi della lotta all’evasione fiscale (8 miliardi) me li fate usare per ridurre le aliquote, allora devo trovarne altrettanti per ridurre il deficit, e quindi diventa inevitabile colpire anche la sanità, che noi (governo) abbiamo invece voluto salvare.

Ma ci rendiamo conto? Abbiamo un governo di centro-destra che difende lo Stato sociale, e un’opposizione di centro-sinistra che, almeno nella sua componente liberal, fa una critica «di destra» alla politica economica del governo, accusandola di soffocare la crescita, ma poi non ha il fegato di trarne le conseguenze: per poter abbassare le aliquote, la spesa pubblica va tagliata di più e non di meno di quello che il governo sta cercando di fare.

Ecco perché, alla fine, Oriana-Tremonti ha sempre ragione. La parola «crescita» è il mantra di tutti i critici. Molti di essi, da ultimi Carlo De Benedetti (proprietario di Repubblica) e Stefano Fassina (responsabile economia del Pd) l’accompagnano con la richiesta esplicita di abbassare le tasse sui produttori. Ma nessuno completa il discorso, perché completarlo significherebbe proporre sacrifici ancora più duri di quelli che il «cattivo» Tremonti sta imponendo agli italiani.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7463&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Una manovra che punisce i virtuosi
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2010, 09:33:53 am
15/6/2010
 
Una manovra che punisce i virtuosi
 
LUCA RICOLFI
 
Dopo che il governo centrale ha annunciato tagli alle Regioni per 10 miliardi di euro, molti presidenti di Regione hanno dichiarato che l’entità della manovra è insostenibile: costringerà ad aumentare le tasse e a ridurre quantità e qualità dei servizi pubblici. Fra i governatori, alcuni hanno criticato soprattutto le dimensioni della manovra, sostenendo che pesa troppo sulle Regioni, e troppo poco sullo Stato centrale. Altri, in particolare Formigoni, hanno anche sottolineato la sua iniquità, ossia il fatto che colpisce indiscriminatamente Regioni virtuose (specie le grandi Regioni del Centro-Nord) e Regioni viziose. Vista da questa angolatura, la manovra sarebbe la pietra tombale del federalismo, almeno finché per federalismo intendiamo un meccanismo capace di ridurre gli squilibri, punire lo sperpero del denaro pubblico, premiare i territori virtuosi.

Formigoni non ha ragione. Ha più che ragione. E vorrei provare a spiegare in dettaglio perché. Il motivo per cui il federalismo è una grande opportunità per l’Italia è, paradossalmente, proprio il fatto che nel nostro Paese esistono margini di parassitismo, di spreco e di evasione fiscale enormi.

La sola evasione fiscale si aggira intorno a 120 miliardi di euro, mentre gli sprechi nella Pubblica amministrazione superano gli 80. In tutto fa, come minimo, 200 miliardi. Recuperare anche solo un quarto di questa somma (50 miliardi), significherebbe mettere sul piatto risorse sufficienti ad abbattere le aliquote fiscali e irrobustire lo Stato sociale (che è ipertrofico nella spesa, ma largamente incompleto nei servizi erogati). Di qui deriverebbe una maggiore spinta alla crescita (oggi frenata da aliquote troppo alte) e un maggiore benessere per la popolazione, specie nel Mezzogiorno (la principale determinante della povertà sono i cattivi servizi pubblici).

C’è un problema, però. La manovra, per quel che se ne sa finora, chiede a tutti i territori un contributo analogo, mentre le riserve da cui attingere non sono distribuite uniformemente sul territorio nazionale. Ci sono Regioni che hanno enormi margini di recupero, proprio perché hanno livelli di parassitismo altissimi (Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Sardegna, Sicilia) o perché hanno tassi di evasione spettacolari (Calabria, Sicilia, Campania) o perché hanno tassi di spreco scandalosi (Sardegna, Calabria, Sicilia, Basilicata). Ci sono invece Regioni che, proprio perché sono state bene amministrate per decenni, hanno margini di recupero minimi, per non dire irrisori: sono limoni spremuti. I loro amministratori, equamente divisi fra destra e sinistra, hanno già fatto (quasi) tutto il possibile, hanno già tagliato, razionalizzato, potato, ristrutturato. E’ il paradosso di questa manovra: assorbire i tagli di Tremonti è più arduo per le Regioni formica che per le Regioni cicala. Non è tanto una questione di giustizia territoriale, quanto innanzitutto di fattibilità: i territori più spremuti non solo non meritano altri prelievi di risorse, ma - semplicemente - sono meno in grado di sostenerli.

Fra le Regioni che molto hanno già dato, le più virtuose sono la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna, seguite a una certa distanza da Piemonte, Toscana, Marche, Friuli-Venezia Giulia. Quello della Lombardia, però, è davvero un caso limite. In Lombardia sono ridotte all’osso, ossia minori che in qualsiasi altra Regione, l’intensità dell’evasione fiscale, le false pensioni di invalidità, la spesa pubblica discrezionale, gli sprechi nell’erogazione dei servizi. In concreto questo significa che non c’è più quasi niente da rosicchiare, a meno di voler azzoppare la locomotiva del Paese. E giusto per dare un ordine di grandezza degli squilibri: la Lombardia stacca già, ogni anno, un assegno di oltre 32 miliardi di euro a beneficio dei territori più deboli, contro un assegno di 10 miliardi del Veneto e uno di 8 miliardi dell’Emilia Romagna.

Personalmente, anziché stupirmi della protesta di Formigoni, trovo miracoloso che si limiti a chiedere un contenimento dei sacrifici chiesti ai cittadini lombardi, anziché pretendere che inizi la restituzione di almeno una parte delle risorse che ogni anno la Lombardia trasferisce ai territori meno produttivi. Quel che può stupire, semmai, è la prudenza dei governatori delle altre Regioni virtuose, apparentemente assai meno preoccupati dei sacrifici che saranno costretti a infliggere ai rispettivi cittadini. Ma a questi silenzi e a queste prudenze dovremo abituarci. Sono silenzi e prudenze politici. Due governatori sono della Lega, e non possono credere che sia la Lega stessa, dal centro, a sabotare il federalismo. Altri governatori sono del Partito democratico e, in nome di un (secondo me) malinteso principio di solidarietà verso i territori più deboli, tendono a procrastinare indefinitamente il giorno in cui le cicale dovranno rendere conto alle formiche.

Così nessuno sembra voler vedere ciò che Formigoni vede a occhio nudo: il federalismo sta evaporando prima ancora di nascere, e i cittadini della Lombardia rischiano, alla fine, di trovarsi a pagare il prezzo più alto.
 
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7476&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Il sogno federalista si allontana
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2010, 05:32:06 pm
5/7/2010

Il sogno federalista si allontana

LUCA RICOLFI

Ghe pensi mi, ci penso io, ha detto Berlusconi pensando alla settimana di fuoco che inizia oggi. E in effetti nelle prossime settimane si deciderà la sorte di due provvedimenti fondamentali, il disegno di legge sulle intercettazioni e la manovra economica, con i suoi possibili assaggi di federalismo (minori tagli alle Regioni virtuose).

Il momento è dei più rischiosi per il governo, perché su entrambi i testi di legge potrebbero esserci defezioni e proteste da parte di importanti settori della maggioranza. Il decreto sulle intercettazioni, specie dopo le osservazioni critiche del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, è osteggiato apertamente dai cosiddetti finiani (seguaci di Fini), che vedono in esso un pericolo per la legalità e per la lotta al crimine. Quanto alla manovra, le parole di Tremonti sulla «cialtroneria» della classe politica meridionale hanno scaldato ulteriormente gli animi dei governatori del Sud, già molto preoccupati per l’entità dei tagli che la manovra prevede per le Regioni. Quel che potrebbe accadere, in altre parole, è che nei prossimi giorni i due tipi di protesta - finiani e politici del Mezzogiorno - si saldino, magari in nome di qualche più o meno astratto principio di coesione nazionale.

E che tale saldatura, anziché risolversi in un voto parlamentare di sfiducia al governo, si concretizzi invece - molto italianamente - in qualche scambio e concessione reciproca. Fra tutti gli scambi possibili, il più perverso - a mio parere - sarebbe quello fra intercettazioni e federalismo. E cioè che i finiani accettassero un cattivo compromesso sulle intercettazioni, in cambio di un gesto di clemenza nei confronti delle Regioni meridionali in dissesto. In parole povere: noi diamo soddisfazione a Berlusconi sul terreno della giustizia (intercettazioni), lui mette un freno a Tremonti sul terreno dell’economia (manovra e federalismo fiscale). Una scena, del resto, già vista ai tempi del secondo governo Berlusconi, quando - nel giro di una notte - Tremonti fu costretto alle dimissioni da Fini.

Perché dico che questo scambio sarebbe perverso?
Per le conseguenze che produrrebbe su tutti noi. Se sulle intercettazioni dovesse prevalere la linea dei falchi governativi, e soccombere quella dei seguaci di Fini, avremmo sicuramente più privacy, ma anche più intralci alla magistratura, meno strumenti di lotta alla criminalità, in definitiva meno legalità e meno sicurezza. Da questo punto di vista considero un grave errore politico dell’opposizione (e della stampa) aver chiamato legge-bavaglio la legge sulle intercettazioni, come se l’informazione ne fosse la prima vittima. No, dovevano chiamarla legge-mordacchia, perché la prima vittima della legge sarebbe la capacità di mordere della magistratura, e con essa la sicurezza dei cittadini.

Quanto alla manovra, se dovesse prevalere ancora una volta la linea dello sconto alle Regioni in dissesto, patrocinata innanzitutto dai governatori di tali Regioni, ne sarebbe gravemente compromesso il cammino verso il federalismo. Anziché iniziare un percorso di risanamento e di responsabilizzazione, verrebbe reiterato e ripetuto il classico segnale che negli ultimi decenni ha distrutto i conti pubblici: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. È questo, in ultima analisi, che invocano gli amministratori degli enti in dissesto, quando si proclamano «non colpevoli» dei dissesti che hanno ereditato, e disquisiscono sulla distinzione fra amministrazioni viziose e comportamenti viziosi, come se un governatore che eredita un dissesto non fosse chiamato a farsene carico.

Su questo punto, invece, hanno sostanzialmente ragione Tremonti e il governo quando stabiliscono che un’amministrazione che dissipa risorse pubbliche ha solo due alternative, eliminare gli sprechi o alzare le tasse, e che l’alternativa di far pagare i territori-formica anche per gli sperperi dei territori-cicala non esiste. E questo per almeno tre buoni motivi.

Primo: gli sprechi di un territorio sono anche privilegi, sotto forma di posti di lavoro superflui, commesse e acquisti generosi con i fornitori, favori di ogni tipo agli amici degli amici; dunque gli aumenti di tasse imposti ai territori in dissesto compensano anni e anni di privilegi indebitamente goduti. Secondo: là dove ci sono meno sprechi, ci sono meno margini per fare tagli, là dove ci sono più sprechi ci sono più margini per riorganizzare, e semmai il punto è che chi è chiamato a farlo dovrebbe disporre di maggiori poteri. Terzo: quando Marchionne si è assunto il compito di rimettere in sesto la Fiat, si è ben guardato dal trincerarsi dietro la «pesante eredità» lasciatagli dai suoi predecessori; sarebbe bello che i governatori delle Regioni in dissesto affrontassero il loro mandato con il medesimo spirito, visto che è anche per rimettere i conti in sesto che hanno chiesto il voto.

Ma l’eventualità di una saldatura tra finiani e meridionalisti non è solo rischiosa per il governo (perché lo indebolirebbe), e pericolosa per il Paese (perché potrebbe finire in un compromesso perverso). È anche una mina vagante per l’opposizione, e in particolare per il Pd. La tentazione di allearsi con i finiani per scacciare il tiranno è molto forte, e si è già manifestata esplicitamente con la promessa di Franceschini di votare tutti gli emendamenti dei finiani al disegno di legge sulle intercettazioni. Il suo prezzo, però, potrebbe essere l’ennesimo rinvio del federalismo, che i finiani, il partito di Casini e una parte dello stesso Pd vedono come una minaccia alla coesione sociale, se non come un attentato all’unità nazionale.

Così il rebus di luglio è completo. Qualsiasi cosa facciano i finiani, il federalismo è in pericolo. Se cedono a Berlusconi sulle intercettazioni, è difficile non pretendano una contropartita, sotto forma di una robusta frenata al federalismo, con conseguente ridimensionamento di Tremonti e ampie concessioni ai governatori del Centro-Sud. Se accettano i voti dell’opposizione per cambiare la legge sulle intercettazioni, è difficile che il nuovo asse politico tra finiani, Pd e Udc non operi nella medesima direzione, quella di un freno al rigore antimeridionalista di Tremonti. Alla fine, chi rischia veramente è la Lega, cui il sogno federalista potrebbe sfuggire ancora una volta proprio sul filo di lana.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7557&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Il decentramento ha sfasciato i conti pubblici
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2010, 11:25:10 pm
6/7/2010 (7:11)  - ANALISI

Il decentramento ha sfasciato i conti pubblici
   
L'albero storto della finanza

LUCA RICOLFI

Esattamente 40 anni fa, il 6 luglio del 1970, in Lombardia, si insediava il primo Consiglio regionale, dando così avvio alla stagione del decentramento amministrativo, prevista dai padri costituenti (art. 5, 114-133) ma rimandata per quasi un quarto di secolo. Oggi, su quella stagione e sui suoi esiti ci invita a riflettere la relazione del governo, presentata al Parlamento una settimana fa, secondo i tempi dettati dalla legge sul federalismo fiscale (Legge 42, 5 maggio 2009). Perché la nascita delle Regioni e il decentramento amministrativo hanno contribuito a sfasciare i conti pubblici? E perché mai il federalismo dovrebbe essere capace di invertire la tendenza? Questi sono i due grandi interrogativi cui la relazione governativa prova a rispondere, in modo più o meno completo e convincente. La ragione di fondo per cui il decentramento amministrativo ha messo in crisi i conti pubblici è che l’aumento delle competenze degli Enti territoriali - Regioni, Province, Comuni - non si è accompagnato a un parallelo aumento della loro autonomia fiscale, sicché ogni Ente si è trovato a poter incrementare le spese senza dover pagare alcun prezzo politico in termini di inasprimento delle tasse locali. Di qui si sarebbe sviluppato «l’albero storto» della finanza pubblica italiana, con alcuni passaggi decisivi: la riforma tributaria del 1971/73, i decreti Stammati (1977/78), le cosiddette leggi Bassanini (1997/99), la riforma del titolo V della Costituzione (2001), imposta dal centro-sinistra.

Una ricostruzione questa sostanzialmente corretta nelle sue linee generali, ma alquanto omissiva nei passaggi intermedi: ci sono stati anche importanti movimenti in senso contrario (come l’introduzione dell’Ici e dell’Irap negli Anni 90), né si può dimenticare che allo squilibrio fra competenze (in materia di spesa) e tributi propri ha recentemente contribuito l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, iniziata con il governo Prodi e completata dal presente governo. Possiamo pensare che il federalismo invertirà la tendenza? Secondo il governo sì, perché il federalismo prevede un aumento dell’autonomia impositiva degli enti territoriali, e quindi una loro maggiore responsabilizzazione. La tesi è plausibile, ma anche qui occorrerebbe forse aggiungere qualche caveat. Il primo è che per rendere gli enti territoriali veramente responsabili occorrerebbe un rafforzamento ben più radicale della loro autonomia tributaria, con una drastica limitazione non solo dei trasferimenti statali ma anche delle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali e dei meccanismi perequativi, che rischiano di riprodurre - sotto un’etichetta nuova - i vecchi trasferimenti statali. Il secondo caveat riguarda la devoluzione di ulteriori funzioni agli Enti territoriali. Una delle cause dell’esplosione della spesa nei decenni passati è stata la duplicazione dei costi, ossia il fatto che al passaggio di competenze dallo Stato agli Enti territoriali non si è accompagnata la integrale cancellazione delle corrispondenti spese centrali, con relativa chiusura di uffici e trasferimenti di personale: un rischio che si ripresenterà non appena il federalismo, oltre a razionalizzare spesa ed entrate, si occuperà anche di assegnare nuove competenze a Regioni, Province e Comuni. Infine, un ultimo dubbio riguarda la volontà politica di fare sul serio, senza deroghe, senza sconti, senza dilazioni, senza estenuanti negoziati.

Nessun governo, finora, si è sottratto alla tentazione (o alla necessità) dei ripiani dei deficit, con operazioni a carico della fiscalità generale. Dissesti come quelli di Catania, di Palermo, o della sanità del Lazio, della Campania, della Sicilia finora sono stati coperti in misura cospicua con fondi nazionali, ossia a spese di tutti i contribuenti. Sarò pessimista, ma qualcosa mi dice che di operazioni di questo genere ne vedremo ancora parecchie. E più ne vedremo, più diventerà lecito chiedersi: a che serve il federalismo?

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/201007articoli/56489girata.asp


Titolo: LUCA RICOLFI - La fine di una stagione
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2010, 05:18:27 pm
16/7/2010

La fine di una stagione

LUCA RICOLFI

Come ampiamente previsto, ieri la manovra economica ha ottenuto la fiducia in Senato e, salvo sorprese molto improbabili, entro fine mese otterrà la fiducia anche alla Camera.

È una buona manovra?

Dipende dai punti di vista. Sul piano macroeconomico era una manovra necessaria, e se una critica si può avanzare è semmai che è stata troppo leggera: si poteva tagliare di più la spesa pubblica corrente, e fare qualcosa di incisivo per la crescita, ad esempio più investimenti in istruzione e meno tasse sui produttori.

Se però andiamo ai dettagli della manovra, e in particolare alla distribuzione dei risparmi di spesa, il bilancio si fa decisamente negativo. Dico questo non dal mio personale punto di vista, che è di nessuna rilevanza, bensì dal punto di vista del governo stesso, o meglio della cultura politica di cui il centro-destra ha provato in questi anni a farsi interprete. Secondo questa visione, la missione centrale di questo governo era di introdurre nel Paese massicce dosi di meritocrazia, di premialità, di responsabilità, di equità, a partire dalla scuola, dall’università, dai bilanci degli enti locali.

Ebbene, rispetto a questo ideale, per cui non pochi ministri si sono coraggiosamente battuti in questi anni, le manovre degli ultimi anni rappresentano un mortificante salto all’indietro.

Nelle università i tagli sono stati sostanzialmente lineari, senza alcun riguardo alle enormi differenze di efficienza fra i diversi atenei e le diverse facoltà. Nella scuola, la promessa di destinare il 30% delle risorse risparmiate con i tagli della prima manovra (estate 2008) ad un premio per gli insegnanti più meritevoli è stata sospesa per salvare gli scatti stipendiali automatici del corpo insegnante. Quanto alle Regioni, il governo si è ben guardato dallo specificare in che modo i tagli dovranno risparmiare le Regioni più virtuose (l’art. 14 è un capolavoro di vaghezza). Per non parlare dei ripiani più o meno parziali dei debiti degli enti locali, che hanno visto via via graziati Catania, Palermo, Roma. O della possibilità, concessa solo alle Regioni a statuto speciale (notoriamente più sprecone delle altre), e in particolare alla Sicilia, di prorogare i contratti a tempo determinato. E infine, dulcis in fundo: la dilazione del pagamento delle multe per le quote latte, un favore a un manipolo di allevatori del Nord che mortifica tutti i produttori onesti, che hanno rispettato le quote.

Si può obiettare, naturalmente, che la politica è l’arte del possibile, e che per presentarsi in Europa con i conti in ordine e salvare la pace sociale il governo ha dovuto fare qualche concessione alle lobby e alle forze politico-sindacali che lo tengono sotto scacco. Può darsi, ma il punto è che così facendo il governo ha purtroppo contribuito con le proprie stesse mani a segnare la fine di una stagione, anzi di quella che doveva essere la «sua» stagione. I segnali iniqui e antimeritocratici contenuti nelle tre grandi manovre che si sono succedute in questi primi due anni e mezzo sono così intensi che ben difficilmente il governo potrà, su questo terreno, riguadagnare la credibilità perduta. Se è bastato il fronte delle Regioni a impedire tagli selettivi, sarà ben difficile che quel che non è stato possibile oggi - premiare i territori virtuosi - divenga possibile domani in conferenza Stato-Regioni, o con i decreti attuativi del federalismo. Se la decisione già presa di premiare gli insegnanti migliori ha dovuto essere sospesa per salvare gli automatismi di carriera, non si vede quando mai sarà possibile introdurre un po’ di meritocrazia nella scuola. E se poche decine di allevatori sponsorizzati dalla Lega sono stati sufficienti a introdurre una norma iniqua come quella sulle quote latte, non si vede come sarà possibile agire domani, quando si dovranno colpire interessi ben più estesi e organizzati.

Ma forse la verità che sta dietro tutte queste vicende è che - nonostante i benefici di un’opposizione imbarazzante nella sua pochezza - il governo è debole, molto più debole che qualche mese fa. Così debole che basta la fronda dei finiani a costringerlo a una raffica di dimissioni (Scajola, Brancher, Cosentino), che ancora poche settimane fa venivano sdegnosamente escluse. Così debole che ogni alzata d’ingegno della Lega, dalla difesa delle Province alla tutela corporativa degli allevatori, è in grado di condizionare la politica economica. Così debole che non riesce a introdurre tagli veramente selettivi nelle università, nelle Regioni, negli enti locali. Così debole da prendere in seria considerazione sia l’ipotesi di allargare la maggioranza all’Udc, sia l’ipotesi di riportare il Paese al voto nonostante una maggioranza parlamentare senza precedenti.

Chi è abituato a ragionare in termini ideologici o di schieramento potrà rallegrarsi che il governo Berlusconi sia entrato in una fase di stallo, se non di crisi aperta. Chi sogna il «grande centro» o governi di «responsabilità nazionale» potrà pensare che l’ora delle terze forze è finalmente arrivata. Io sono molto più scettico e penso invece che la triste parabola del governo Berlusconi confermi solo che il rebus italiano non ha soluzioni, come la quadratura del cerchio. Il centrodestra non ha la forza per fare le riforme che mille volte ha promesso al Paese, prime fra tutte la riduzione delle tasse, il federalismo, la riforma meritocratica della Pubblica amministrazione. Un governo più largo, di responsabilità nazionale, avrebbe forse la forza di parlare al Paese ma sarebbe paralizzato dalle divisioni interne e dai veti incrociati. Quanto alla sinistra, basta il ricordo del governo Prodi per toglierci ogni illusione. Così quel che ci resta è solo una montagna di parole, e la stanchezza di constatare che sono sempre le stesse.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7602&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Meno ascoltati, ma meno sicuri
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2010, 12:21:37 pm
25/7/2010

Meno ascoltati, ma meno sicuri
   
LUCA RICOLFI

Dopo un iter durato due anni il disegno di legge sulle intercettazioni sembra arrivato in dirittura finale (la Camera dovrebbe iniziare la discussione già la prossima settimana). Ma com’è il nuovo testo licenziato dalla commissione Giustizia? Per valutarlo dobbiamo ricordare quali sono i tre «beni» in gioco: la privacy, la libertà di informazione, la sicurezza.

Sul primo punto, la privacy, è difficile non dare un giudizio positivo. Se il disegno di legge sarà approvato nella nuova versione, la privacy ne risulterà rafforzata sotto almeno due profili: diminuirà il numero di cittadini ascoltati, perché per i magistrati diventerà più difficile intercettare; verrà limitato il coinvolgimento delle persone estranee alle inchieste, perché un'apposita udienza-filtro provvederà a distruggere le conversazioni irrilevanti. Da questo specifico punto di vista, la tutela della privacy, gli unici che potrebbero dolersi della nuova disciplina sono i fautori dello sciagurato slogan «intercettateci tutti», espressione - come minimo - di una visione illiberale della democrazia.
Sul secondo punto, la libertà di informazione, il giudizio dipende da come si valuta la qualità dell’informazione giudiziaria nel nostro Paese.

Nel testo attuale vengono indubbiamente introdotte limitazioni alla libertà dei giornalisti di pubblicare, ad esempio perché dopo la cosiddetta udienza-filtro le conversazioni irrilevanti vengono distrutte, o perché le sanzioni verso giornalisti ed editori, pur meno pesanti di quelle previste inizialmente, restano comunque in piedi. In breve c'è meno libertà di pubblicare, ma è tutto da dimostrare che la libertà di cui i giornalisti godevano prima non fosse eccessiva, o che i giornalisti stessi non abbiano ampiamente abusato di tale libertà.

E' sul terzo punto, la sicurezza, che cominciano invece le dolenti note. La nuova versione del disegno di legge licenziata dalla Commissione Giustizia può sembrare accettabile se la si compara alla prima versione, quella approvata dal Senato a giugno, ma solo perché tale versione era del tutto priva di logicità e ragionevolezza. Se invece la si compara con la legislazione attuale, non possiamo non preoccuparci. Il nuovo testo, infatti, prevede una serie notevole di limitazioni ed ostacoli all'attività investigativa delle procure, e verosimilmente indebolirà l'azione di contrasto alla criminalità. In poche parole: saremo meno ascoltati, ma anche meno sicuri.

Si potrebbe obiettare che questo è il prezzo della tutela della privacy. Ma non è precisamente così. Perché, anche ammesso che il numero di intercettazioni fosse eccessivo, come i dati suggeriscono e molti magistrati (anche di sinistra) ammettono, mettere i bastoni fra le ruote all'attività delle procure non era l'unica via per limitare gli abusi. Se lo scopo era di ridurre il numero delle intercettazioni era sufficiente contingentarle, ossia mettere un tetto al loro numero totale, in modo da costringere i magistrati a usarle oculatamente, come spontaneamente avviene con le risorse scarse.

Lo strumento di contrasto alle intercettazioni privilegiato dal disegno di legge è invece quello di sottrarre al Gip del tribunale locale il potere di autorizzarle, per trasferirlo a un collegio di tre giudici del tribunale del capoluogo distrettuale. Secondo la maggior parte dei magistrati, ivi compreso il Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, questa norma comporterà "enormi difficoltà organizzative", con un'ulteriore caduta di efficienza della macchina della giustizia. E' come se, per far andare più piano un conducente spericolato, anziché dargli una vettura meno veloce si procedesse a disseminare la sua strada di buche, curve ed ostacoli. Peccato, perché con forme di razionamento il numero di intercettazioni si poteva ridurre senza infliggere gravi danni collaterali alle indagini.

Perché la traiettoria del disegno di legge sulle intercettazioni ha condotto a sacrificare il bene della sicurezza sull'altare della privacy?

Una ragione ovvia è che esiste un interesse del ceto politico, di tutto il ceto politico, a proteggere sé stesso arginando il potere di indagine della magistratura e ponendo dei limiti alla libertà di informazione. Ma esiste anche una ragione meno evidente che ha condotto a sacrificare in misura così cospicua il bene della sicurezza, ed è il tipo di battaglia politica che editori e giornalisti hanno condotto contro il disegno di legge sulle intercettazioni. Quando quella battaglia è partita era evidente che gli sconfitti sarebbero stati i magistrati, e i vincitori sarebbero stati i giornalisti. E questo già solo per il nome che la stampa di opposizione coniò per descrivere la legge, subito definita "legge bavaglio". Chiamarla così equivaleva a dire che la posta in gioco principale non era l'efficacia delle indagini bensì la libertà di informazione: diritto dei giornalisti di pubblicare tutto e subito, diritto dei cittadini di leggere quello che i giornalisti avessero ritenuto di pubblicare e scrivere.

E invece non era così, o perlomeno alcuni di noi possono ritenere che non fosse esattamente così. Come operatori dell'informazione, potevamo anche fare una battaglia meno autoreferenziale, meno corporativa, e riconoscere che troppo spesso della libertà a noi concessa abbiamo abusato e continuiamo ad abusare. Potevamo preoccuparci di più del bene comune, o perlomeno di quello che la maggioranza degli italiani considera tale: nei sondaggi la gente si mostra più interessata all'efficacia delle intercettazioni nel contrasto del crimine che alla libertà di leggerne il contenuto sui giornali. Potevamo considerare, infine, che nella battaglia contro il pessimo testo di legge licenziato dal Senato, i giornalisti erano la parte forte e i magistrati quella debole (anche per loro colpe), tendenzialmente destinata a soccombere se priva di un vigoroso sostegno della stampa e dell'opinione pubblica.

Così, se non interverranno cambiamenti importanti - primo fra tutti la caduta della norma che prevede tre giudici del capoluogo distrettuale per autorizzare le intercettazioni - ci avviamo verso una nuova stagione. Il numero delle intercettazioni diminuirà, la stampa dovrà accettare alcune restrizioni (non tutte ragionevoli), i cittadini avranno un po' più di privacy.

Il prezzo sarà una giustizia meno efficiente e meno efficace, in poche parole un ridimensionamento del potere delle procure. Un vero peccato per un governo che ha fatto della lotta alla criminalità una delle sue principali bandiere. Un autentico paradosso per un'opposizione che, creando il mito della legge bavaglio, ha contribuito non poco a far andare le cose come sono andate

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7636&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Le ragioni di politica e giustizia
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2010, 09:33:28 am
30/7/2010

Le ragioni di politica e giustizia

LUCA RICOLFI

Sono venti anni, più o meno dai tempi di Tangentopoli, che i rapporti fra la magistratura e la politica non riescono a funzionare.

I politici sono invisi ai magistrati (e ai cittadini) anche perché, come anguille, riescono quasi sempre a sgusciare via, sottraendosi all’azione della giustizia. Se leggete i libri di Marco Travaglio quel che vi colpisce di più non è quanti politici abbiano avuto problemi con la giustizia, ma quanti politici siano riusciti a risolvere brillantemente i loro problemi giudiziari, e non già perché risultati innocenti bensì grazie a immunità, prescrizioni, leggi ad hoc, ricandidature. Io ho smesso di leggerli, i libri di Travaglio, tanta è la nausea che mi suscitavano queste storie di impunità.

Da parte loro i magistrati sono invisi ai politici perché, come zanzare, infastidiscono senza tregua il corso della politica. Non c’è anno, né mese, né settimana, in cui un qualche politico o amministratore, nazionale o locale, grande o minuscolo, non incappi in un’indagine giudiziaria. Il corso della politica, in Italia, è punteggiato quasi quotidianamente da vicende giudiziarie, che interferiscono con il suo normale corso, e qualche volta lo deviano pesantemente. Le forze politiche non esitano a usare le vicende giudiziarie per delegittimare gli avversari, e anche la lotta interna ai partiti fa un uso spregiudicato delle indiscrezioni provenienti dalle inchieste.

Gli ultimi anni e mesi non hanno fatto eccezione. Se ci limitiamo ai personaggi più noti finiti nelle inchieste, oltre al solito Berlusconi, possiamo ricordare - in ordine alfabetico - Antonio Bassolino, Guido Bertolaso, Italo Bocchino, Aldo Brancher, Nicola Cosentino, Totò Cuffaro, Flavio Del Bono, Vincenzo De Luca, Ottaviano Del Turco, Claudio Scajola, Denis Verdini. Sono i primi nomi che mi vengono in mente, e come si vede ce n'è per la destra, per il centro e per la sinistra.

Di fronte a questo stillicidio, che si ripete incessantemente da vent’anni, una parte della casta - specie a destra, ma non solo - invoca il proprio sacrosanto diritto di fare politica al riparo dalle zanzare della magistratura. Un’altra parte, specie a sinistra, usa invece la magistratura come arma politica, chiedendo le dimissioni (o la non candidatura) dei politici indagati ogni volta che a cascare nella rete è uno degli avversari. Quanto alla furia giustizialista, per cui basta essere indagati per dover fare un passo indietro, essa svolazza dove il vento dell’opportunità politica la porta: Di Pietro era intransigente, ma ha cessato di esserlo quando gli è convenuto (alle ultime regionali l’Italia dei valori ha sostenuto Vincenzo De Luca, nonostante fosse rinviato a giudizio per vari reati); Fini e i finiani hanno digerito di tutto in passato, ma ora fanno i moralisti con il sottosegretario Giacomo Caliendo, esortato a dimettersi prima ancora di essere rinviato a giudizio.

E’ evidente che c’è qualcosa che non va. Finché l’azione dei magistrati viene usata strumentalmente per la lotta politica, non possiamo stupirci che qualcuno teorizzi l’indifferenza alle inchieste giudiziarie, il diritto della politica a non farsi commissariare dalla magistratura. D’altro canto, finché la politica non prende l’iniziativa e si decide una buona volta a fare pulizia al proprio interno senza aspettare le zanzare delle procure, è inevitabile che gli indagati siano percepiti - innanzitutto dall’opinione pubblica - più come probabili colpevoli che come presunti innocenti. Sono troppo numerosi i politici su cui emergono vicende inquietanti, sono troppo frequenti i casi in cui politici indagati riescono a farla franca solo grazie a ogni sorta di furbizie e protezioni.

Come si esce dalla spirale?

Qualcuno dice con regole ferree, che impongano ai politici indagati di fare un passo indietro, e ai partiti di non candidare politici indagati. Ma è una linea molto discutibile, perché presuppone l’infallibilità (e l’imparzialità) delle procure. Nella realtà effettuale, ossia nelle condizioni dell’Italia com’è e non come dovrebbe essere, significherebbe introdurre un’ennesima arma impropria nella lotta politica. L’automatismo delle dimissioni, anche se venisse spostato più avanti (ad esempio al momento del rinvio a giudizio), consegnerebbe la politica alla magistratura, un esito che una democrazia liberale dovrebbe fuggire come la peste.

Molto più ragionevole sarebbe che la politica si guadagnasse sul campo il diritto, quando lo ritiene giusto, di difendere le proprie scelte e i propri uomini dall’azione della magistratura. La magistratura non è infallibile, e forse non è sempre imparziale. Però anche la politica deve prendersi le sue responsabilità. Per potersi difendere senza essere percepita come una corporazione che si sente al di sopra della legge, occorrerebbe che la politica - prima di chiedere un passo indietro alla magistratura - facesse lei un passo avanti, e si occupasse di fare pulizia in casa propria senza aspettare che siano le procure della Repubblica a rivoltare i tappeti. Solo se prima avrà avuto il coraggio di liberarsi dei suoi uomini più disinvolti, indipendentemente dal fatto che abbiano commesso reati o «solo» scorrettezze, la politica potrà risultare credibile al momento di difendere un proprio uomo contro eventuali sbagli (o anche solo atti dovuti) della magistratura.

I casi in cui bisogna difendersi da errori o automatismi della magistratura ci sono, ma per farlo credibilmente i partiti debbono avere le carte in regola. Mi sono chiesto spesso perché un uomo come Bassolino, nonostante i suoi trascorsi amministrativi e giudiziari, abbia avuto vita politica così lunga nel Pd. Altrettanto sovente mi sono chiesto perché il Pdl e l’attuale governo siano rimasti ostinatamente indifferenti alla richiesta di arresto per il sottosegretario Nicola Cosentino, una richiesta per concorso esterno in associazione mafiosa confermata dalla Corte di Cassazione. Così mi sono chiesto, tante volte, perché l’Udc abbia sempre difeso a spada tratta Totò Cuffaro, ora condannato per mafia. Tutti errori giudiziari?

Non lo so. So però che se, a suo tempo, questi partiti avessero fatto scendere dai rispettivi carri un po’ di gente (questi o altri personaggi, non sta a me dirlo), oggi li prenderei più sul serio quando difendono qualche loro uomo finito nelle maglie delle procure.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7656&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Il federalismo è la vera posta in gioco
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2010, 09:39:42 am
2/8/2010

Il federalismo è la vera posta in gioco
   
LUCA RICOLFI


E adesso? Nessuno oggi è in grado di prevedere quali conseguenze avrà la rottura del rapporto fra Berlusconi e Fini. Alcuni pensano che alla fine Berlusconi riuscirà a racimolare i voti necessari per governare, un po’ attingendo al centro, fra i parlamentari legati a Casini e Rutelli, un po’ recuperando qualche finiano indeciso. Altri pensano che Berlusconi non ce la farà, e torneremo alle urne abbastanza presto, forse già in autunno o al più tardi in primavera (durante i festeggiamenti dell’Unità d’Italia?!). Altri ancora pensano che Berlusconi abbia rotto con Fini proprio per tornare alle urne, e che i voti di deputati e senatori fingerà di cercarli, ma in realtà sarà ben contento - alla prima occasione - di cadere per colpa del «traditore» Fini.

Personalmente trovo che quest’ultima lettura sia più plausibile delle altre, per almeno tre motivi. Il primo è che se si votasse nel 2013 Berlusconi affronterebbe la campagna elettorale in condizioni peggiori di quelle attuali. In assenza di risultati tangibili, il consenso per il governo è destinato a declinare da qui al 2012, secondo una parabola ben nota agli studiosi del ciclo elettorale. E poiché è molto difficile che tali risultati possano essere ottenuti in appena due anni, con una maggioranza parlamentare risicata, e con l’economia che non consente né la riduzione delle tasse né un avvio dolce del federalismo, è ragionevole pensare che il tempo giochi contro Berlusconi, e che Berlusconi voglia perciò «fermare il tempo» della legislatura tornando al voto.

Si potrebbe obiettare che votando a metà legislatura Berlusconi sancirebbe il fallimento della sua esperienza di governo, come abbiamo sentito ripetere più volte nell’ultimo anno. Qui però entra in campo un secondo motivo di accelerazione: Fini fino a ieri era una spina nel fianco ma, se il governo dovesse cadere per il «tradimento» dei finiani, potrebbe trasformarsi in un utilissimo capro espiatorio. Berlusconi direbbe di avere fatto molto, e che tutto quel che non è riuscito a fare è per colpa dell’alleato infedele, che non ha perso occasione per metterlo in difficoltà. Insomma, Berlusconi potrebbe rivolgersi al corpo elettorale chiedendo di restituirgli i voti che i finiani traditori gli hanno proditoriamente sottratto.

Una strategia comunicativa del genere può sembrare rozza e infantile, ma lo è solo fino a un certo punto. La posizione di Fini, e questo è il terzo motivo che spinge alle urne, è ragionevole di fronte agli elettori moderati e a quelli progressisti, ma non lo è affatto fra i sostenitori del governo. Le ragioni di Fini, infatti, o riguardano cose che avrebbe dovuto sapere al momento di cofondare il Pdl insieme a Berlusconi, o riguardano questioni su cui Fini e i finiani avevano già vinto e stravinto. Fra le prime - le cose risapute - rientrano la concezione berlusconiana della democrazia, l’ostilità nei confronti della magistratura, la leggerezza nell’imbarcare inquisiti, rinviati a giudizio e condannati: possibile che Fini e i suoi le abbiano scoperte solo ora?

Fra le seconde - le questioni politiche - rientrano innanzitutto la legge sulle intercettazioni e il federalismo. Ebbene Fini e i suoi avevano vinto su entrambe, almeno stando al programma di governo sottoscritto all’inizio del 2008, in vista delle elezioni politiche. Basta rileggerselo, quel programma articolato in sette missioni, per scoprire che su entrambi i terreni - intercettazioni e federalismo - il programma è stato effettivamente tradito, ma andando nella direzione auspicata da Fini, non certo in quella auspicata da Berlusconi. La legge sulle intercettazioni delineata nel programma del centro-destra (missione 3) era molto più berlusconiana di quella poi uscita dalla commissione Giustizia, massacrata dagli emendamenti dei finiani e dell’opposizione (e infatti uno sconfortato Berlusconi aveva confessato la tentazione di ritirare il disegno di legge). Quanto al federalismo (missione 6), il programma del Popolo della libertà prevedeva di recepire la severa proposta di legge della Lombardia, mentre la legge poi effettivamente varata dal governo era molto più morbida proprio in quanto recepiva, di nuovo, le osservazioni dei finiani e dell’opposizione. In breve a me pare che, nel merito delle questioni che solleva, Fini possa avere tutte le ragioni di questo mondo, ma nel metodo seguito - fare il presidente della Camera e nello stesso tempo prendere sistematicamente le distanze dal governo - sia facilmente attaccabile di fronte al «popolo» di centrodestra.

Che a Berlusconi possa convenire andare al più presto al voto, naturalmente, non implica che le cose andranno effettivamente così. La partita vera, infatti, non si gioca certo sulla questione morale, sulla legge elettorale, sulle regole della democrazia, sulla riforma della giustizia, sulle intercettazioni. La partita vera si gioca sulla posta fondamentale della legislatura, ossia sul destino del federalismo. E sul federalismo gli attori in campo non sono solo Fini e Berlusconi, ma anche Bossi e Bersani.

Per Bossi andare al voto senza aver incassato i decreti delegati sul federalismo (il cui termine di emanazione ultimo è il 5 maggio 2011) sarebbe un rischio molto grave: potrebbe suonare come l’ennesimo insuccesso, o se preferite come l’ennesima vittoria di Pirro. Nel 2005 la Lega aveva ottenuto la devolution, poi cancellata dalla vittoria del centro-sinistra e dal referendum del 2006. Oggi la storia potrebbe ripetersi con la «legge Calderoli», approvata nel maggio del 2008 ma tuttora priva dei principali decreti attuativi. Se si tornasse a votare subito, il partito di Bossi sarebbe costretto a presentarsi senza il trofeo del federalismo fiscale, ma se si votasse fra un anno o due il rischio potrebbe essere persino maggiore: il federalismo non può dare grandi benefici subito, e più si avvicina la fine della legislatura più gli elettori pretendono di vedere fatti concreti.

Per Bersani e il Pd le scelte sono ancora più difficili. La tentazione di far cadere il governo è molto forte, ma - soprattutto nelle regioni settentrionali - altrettanto forte è il timore di affossare il federalismo, una riforma su cui molti nel Pd hanno puntato. Se il Pd vuole la caduta del governo non può che cercare un asse con i finiani e i centristi di Casini e Rutelli, forze politiche notoriamente ostili o critiche verso il federalismo. Ma se da tale asse dovesse nascere un’alleanza politica, il baricentro di questo vasto schieramento «moderato» non potrebbe che essere il Mezzogiorno, un’arena in cui da tempo si esercitano movimenti e forze politiche che, sia pure con accenti diversi, vagheggiano la nascita di un «partito del Sud». Se il Pd si ponesse alla testa di un tale schieramento, potrebbe (forse) vincere le elezioni, ma il prezzo sarebbe la morte del federalismo e la propria cancellazione dal Nord.

Così, al di là dell’euforia per la possibile caduta di Berlusconi, il futuro del Pd appare quanto mai incerto. Se non vuole sparire dal Nord deve tornare a guardare verso la Lega ma, se la Lega continua a puntare su Berlusconi, per il partito di Bersani sarà difficile evitare l’abbraccio con il nascente (e antifederalista) partito del Sud.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7668&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Il tassello che manca al federalismo fiscale
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2010, 02:56:54 pm
6/8/2010

Il tassello che manca al federalismo fiscale
   
LUCA RICOLFI

Apparentemente, il cammino del federalismo fiscale procede spedito. Sono già quattro i decreti delegati varati dal governo, ultimo quello sul «fedealismo municipale», in via di definizione in questi giorni. Altri decreti seguiranno a breve, a completamento di una riforma che è la ragion d'essere della Lega.

C'è un problema, però. Per quanto quasi tutti i politici si esercitino in giudizi (positivi per la maggioranza, negativi per l'opposizione), la realtà è che il cammino del federalismo fiscale è semplicemente N.C. (non classificabile), come certi allievi a fine quadrimestre, quando hanno un numero di interrogazioni e compiti in classe troppo esiguo per consentire all'insegnante di calcolare una media.

Perché è difficile formulare un giudizio?

Perché il federalismo va avanti per scatole vuote di numeri. La legge delega (5 maggio 2009) era naturalmente e giustamente una scatola vuota, perché conteneva solo principi generali, come si addice a una legge delega. Ma anche la Relazione sul Federalismo Fiscale presentata dal Governo il 30 giugno scorso, assolutamente meritoria per lo sforzo di dipanare in qualche modo la giungla della finanza pubblica, era tuttavia di nuovo una scatola sostanzialmente vuota, perché - pur piena zeppa di utilissime tabelle - non conteneva né costi standard né obiettivi di bilancio precisi per Regioni, Province e Comuni, bensì solo vaghe indicazioni di metodo, nonché la specificazione di quali Enti dovranno in futuro fare i calcoli.

In questo caso la mancanza di indicazioni quantitative precise era assai meno giustificata. Il grave, però, è venuto con i primi decreti delegati, anch'essi vuoti di numeri e pieni di rimandi a passaggi successivi. Qui l'assenza di cifre precise e di regole stringenti non era prevista e non è giustificata, anche se non è difficile comprenderne le ragioni: quasi nessuno, fra i politici, sembra aver capito in tempo che per decollare sul serio il federalismo fiscale avrebbe dovuto essere studiato nei minimi dettagli per almeno 2-3 anni.

Stante questa assenza di indicazioni quantitative non me la sento di dare alcuna valutazione sull'ultimo decreto delegato, quello relativo al fisco municipale, che dovrebbe dettare le regole di finanziamento delle spese dei comuni, ma in realtà ancora una volta rinuncia a mettere dei numeri precisi nelle caselle chiave. Eppure è quello che avrebbe dovuto fare. Se non fossimo terribilmente indietro, leggendo il decreto delegato sul fisco municipale il cittadino di ogni singolo comune dovrebbe venire a conoscenza di almeno due cifre: quanto il comune è autorizzato a spendere (y), quante imposte dovrebbero versare i suoi cittadini (x). Queste due cifre non si sanno, e chissà quanti mesi o anni dovranno passare prima che si conoscano.

Ma non è tutto. Se il federalismo fosse oggi qualcosa di più che una manifestazione di intenti, i decreti delegati avrebbero già sciolto i due nodi fondamentali della sua applicazione, che chiamerò nodo della perequazione e nodo della chiusura.

Nodo della perequazione. E' ragionevole che i territori più poveri, avendo un gettito potenziale minore, ricevano una sorta di contributo di solidarietà da un fondo perequativo, alimentato dal gettito dei territori più ricchi. Ma non è mai stato chiarito in modo esplicito se la perequazione dovrà colmare la capacità fiscale mancante, dovuta al fatto che il territorio debole ha redditi più bassi, o dovrà colmare invece il gettito mancante, che spesso dipende anche, in misura tutt'altro che trascurabile, dalla maggiore evasione fiscale.

Esempio: il comune X ha un fabbisogno standard di 100, una capacità fiscale di 70, un gettito di 40 (perché l'evasione fiscale è molto alta). Il fondo perequativo gli assegna solo 30 (100-70=30) o gli assegna 60 (100-40=60) ? Nel primo caso si crea un incentivo a combattere l'evasione fiscale, nel secondo caso l'evasione fiscale è premiata. Il primo meccanismo è virtuoso, ma difficile da mettere a punto perché presuppone la conoscenza della capacità fiscale di un territorio relativamente a uno specifico gruppo di imposte (quelle immobiliari, nel caso dei comuni). Il secondo meccanismo è vizioso, ma facile da applicare perché il gettito, a differenza della capacità fiscale, è perfettamente noto. Il rischio è che si vada verso una soluzione ibrida, in cui il meccanismo vizioso (basato sul solo gettito) viene corretto con un meccanismo premiale, che dà qualche contentino ai comuni che riescono a dimostrare di aver contribuito alla lotta all’evasione fiscale. Sarebbe una vera sciagura, se non altro perché la determinazione delle cifre spettanti a ogni comune - anziché essere automatica - avrebbe una componente negoziale molto rilevante, con conseguente aumento dell'arbitrarietà e dell'incertezza legate ai capricci della politica.

Nodo della chiusura. Contrariamente al governo, non penso che il difetto principale della "finanza derivata", ossia del sistema che è stato in vigore in Italia negli ultimi 40 anni, sia il peso eccessivo dei trasferimenti statali rispetto alle entrate proprie delle amministrazioni locali. E conseguentemente non penso che, riducendo i trasferimenti dal centro e aumentando i tributi locali, Regioni, Province e Comuni si metteranno in quadro. Il vero difetto del vecchio sistema, che potrebbe benissimo riprodursi nel nuovo, è la mancanza di un meccanismo automatico - fissato da una norma perentoria e inaggirabile - che specifichi come si chiudono i conti. Un meccanismo che escluda l'intervento salvifico dello stato centrale e obblighi l'amministratore locale responsabile del deficit a far pagare ai suoi cittadini un'imposta specifica, esplicitamente collegata al deficit stesso. Una sorta di "imposta di ripiano" (IdR), che scatta immediatamente e inesorabilmente dopo la pubblicazione del bilancio consuntivo di ogni anno. Un'imposta che potrebbe anche, in caso di avanzo di bilancio, capovolgersi in un'imposta negativa, ossia in un assegno (beneficio) staccato a ogni cittadino a certificazione del buon governo.

Conclusione ?

Nessuna, per ora. Solo la convinzione che senza numeri precisi, senza meccanismi automatici - primo fra tutti l'imposta di ripiano - la nostra fiducia nei benefici del federalismo fiscale resta un puro atto di fede.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7685&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Internet e il prezzo delle libertà
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2010, 08:06:37 am
18/8/2010 - LE IDEE

Internet e il prezzo delle libertà

LUCA RICOLFI

Da circa una settimana il mondo di Internet è in allarme. Un articolo uscito sul Washington Post, firmato dagli amministratori delegati di Google e Verizon, due colossi delle comunicazioni che insieme fatturano più di 100 miliardi di dollari, ha cautamente lanciato l’idea di mantenere il «principio di neutralità» solo sulla rete fissa (che collega fra di loro i computer via cavo telefonico) e di abbandonarlo sulla rete mobile (che collega cellulari e computer via etere, o «senza fili»). Ma che cosa significa che una rete è «neutrale»?
L’interpretazione prevalente del concetto di neutralità è che tutti i pacchetti di dati vengono trasmessi al loro destinatario senza discriminazioni.

Ossia senza assegnare priorità ad alcuni di essi a scapito di altri. Né il contenuto di un pacchetto di dati né il prezzo eventualmente pagato per l’accesso alla rete sono in grado di accelerare o rallentare la trasmissione. Ora tutto ciò pare destinato a tramontare, almeno sulla rete mobile. La proposta di Google e Verizon, infatti, è di conservare intatta la neutralità sulla rete fissa, ma di sospenderla sulla rete mobile. Se la proposta dovesse essere accolta dalle autorità che sovrintendono al funzionamento della rete, domani potremmo avere due Internet: Internet 1, che funzionerebbe come oggi (sulla rete fissa), e Internet 2, in cui i gestori della rete mobile potrebbero governare il traffico, ad esempio in funzione della natura dei servizi offerti e delle tariffe pagate dagli utenti. Di qui l’idea che l’era di Internet come l’abbiamo conosciuta fin qui - ossia libera, democratica e gratuita - stia inesorabilmente finendo, con grave danno per molti.

Questa ricostruzione dei termini del problema, pur non essendo del tutto sbagliata, a mio parere è altamente fuorviante. Essa si basa su una mitizzazione di Internet come è oggi, per lo più visto come un mondo aperto, magico e buono. Eppure non è così. Già oggi, prima di ogni eventuale futuro sconvolgimento delle regole della rete, Internet non è né gratuita, né democratica, e tantomeno libera.

Internet non è gratuita per almeno due motivi fondamentali. Primo, la connessione si paga, e si paga tanto più cara quanto più si desidera velocità e affidabilità. Quindi anche ammesso che i governatori del traffico, i cosiddetti provider, non discriminino fra pacchetti (come secondo alcuni già fanno, violando la neutralità), la velocità di trasmissione/ricezione dipende già oggi dalla qualità del collegamento, quindi anche da quanto si paga. Secondo, una volta pagata la connessione, molti servizi si pagano a parte, specie se sono pregiati (provate ad accedere all’archivio di un quotidiano).

Internet non è nemmeno democratica. Di democratico c’è solo il fatto che, una volta pagato (o scroccato) il collegamento, chiunque può navigare e dire la propria senza censure. Attenzione, però, perché anche qui - senza accorgercene - paghiamo, sia pure in natura anziché in denaro. In che modo la rete ci fa pagare? Innanzitutto imponendoci la pubblicità, spesso fastidiosa e ineliminabile. Poi chiedendoci di registrarci quando cerchiamo di visitare determinati siti, il che equivale a regalare i nostri dati personali a soggetti che per lo più li venderanno o ne faranno un uso commerciale. E infine mediante la cosiddetta attivtà di profiling da parte dei motori di ricerca come Google, una sorta di schedatura di massa con cui vengono registrate tutte le nostre abitudini di navigatori: quali siti visitiamo, quali servizi acquistiamo, con quali utenti ci colleghiamo, che musica ascoltiamo, che film scarichiamo. Tutte queste informazioni, spesso raccolte a nostra insaputa e in violazione della privacy, possono essere vendute o trasmesse ai grandi apparati - multinazionali, governi, servizi segreti - senza alcun controllo da parte degli utenti che le forniscono (su questo si veda l’eccellente inchiesta di Fabio Tonacci e Marco Mensurati, uscita venerdì scorso su Repubblica).

Ma almeno possiamo dire che Internet è libera?

Nemmeno questo si può dire, secondo me. Libertà, certo, significa poter andare dove si vuole, collegarsi con chiunque, far circolare le proprie idee senza censure, accedere alla immensa massa di informazioni gratuite disseminate nella rete. Ma la «libertà di», o libertà positiva, come ci ha insegnato Isaiah Berlin, non è l’unica libertà, e forse non è neppure la più importante. Esiste anche la «libertà da», la libertà negativa. Libertà dalle molestie e dalle imposture, ad esempio. Libertà di sceglierci gli interlocutori. Libertà di non essere sistematicamente interrotti. Libertà, in una parola, di disporre del nostro tempo senza essere invasi.

Questo secondo tipo di libertà, la «libertà da», la stiamo inesorabilmente perdendo. La vita e il lavoro sono sempre più infestati, quotidianamente, ora per ora, da una selva di contatti indesiderati ma inevitabili, di notizie false ma incontrollabili, di informazioni inaccurate ma indistinguibili da quelle esatte. Perché quella che va in scena ogni giorno su Internet, come ha brillantemente spiegato Marco Niada, è una guerra permanente di tutti contro tutti per la conquista dell’attenzione (Il tempo breve, Garzanti 2010). Una guerra in cui un tempo sproporzionato viene allocato per interagire, spesso con soggetti che mai avremmo cercato autonomamente, e pochissimo tempo resta per fare, creare, pensare, riposare, stare in disparte.

Dobbiamo concluderne che Internet è un male?

Assolutamente no. I benefici restano ancora largamente superiori agli inconvenienti, specialmente agli estremi della scala sociale, ossia per la classe dirigente, per cui la connessione è arma irrinunciabile del comando, e per i soggetti più marginali, per cui la connessione è strumento di socialità e di informazione (e non solo «sfogatoio» delle frustrazioni, come amano pensare i nemici di Internet). Quello su cui forse dovremmo riflettere, semmai, è il nesso nascosto che collega «libertà di» e «libertà da». Se la nostra «libertà da» sta riducendosi pericolosamente, è anche perché la nostra «libertà di» è andata troppo avanti. Sia l’intasamento della Rete, sia l’estrema difficoltà di isolare le informazioni affidabili, sono una conseguenza, ben nota agli studiosi di signalling theory, dell’assenza di barriere all’entrata e di filtri alla circolazione: la probabilità di incorrere in contatti irrilevanti o informazioni inaccurate esplode quando i costi di produzione e contraffazione dei segnali si abbassano troppo, facendo così cadere un potentissimo meccanismo che inibisce l’emissione di segnali irrilevanti o falsi.

Vista da questa angolatura, la proposta di Google e Verizon, per quanto certamente dettata da interessi commerciali, andrebbe guardata con grande attenzione. Oggi noi tendiamo, istintivamente, a vederla solo come un attentato alla libertà di Internet, o come una cospirazione delle multinazionali contro gli inermi cittadini, ma forse sarebbe più accurato vederla anche come un primo, cauto, tentativo di mantenere intatti i benefici di Internet senza subirne gli effetti collaterali più dannosi. Insomma una riscossa della «liberta da», dopo due decenni di espansione della «libertà di».

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7720&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Il partito che non c'è
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2010, 09:08:55 pm
22/8/2010

Il partito che non c'è

LUCA RICOLFI

Al momento è difficile capire se, alla fine, il dissidio tra Fini e Berlusconi ci porterà ad elezioni anticipate oppure no. Se a questo esito si dovesse arrivare con l’offerta politica attuale, per molti cittadini non sarebbe semplice scegliere da che parte stare. Alla fine molti andrebbero comunque a votare, ma solo per minimizzare i danni, visto che - nonostante tutto - sono ancora parecchie le persone che credono di sapere quale sarebbe il peggior male possibile, quella che in teoria dei giochi si chiama l’alternativa da evitare: Berlusconi, la Lega, i post-comunisti, i post-fascisti, i neo-democristiani, il clericalismo, il laicismo, eccetera eccetera.

Rispetto alle contese elettorali passate, però, c’è secondo me un elemento nuovo. Oggi, forse anche perché ci stiamo avvicinando al centocinquantenario dell’Unità d’Italia, la posta in gioco fondamentale è l’idea di unità nazionale. E, rispetto a questa posta, la confusione e l’ambiguità dell’offerta politica stanno toccando il loro massimo. La ragione è semplice: continuiamo a parlare come se lo scontro fosse fra destra e sinistra, mentre ormai le linee di divisione fondamentali sono altre.

Una linea di divisione va in scena tutti i giorni sui media, e riguarda il modo di concepire la legalità, le istituzioni, la democrazia. Su questa barricata, che appassiona le élite politico-intellettuali ma secondo tutti i sondaggi lascia sostanzialmente indifferenti gli elettori, si scontrano la visione plebiscitaria e populista di Bossi-Berlusconi e il conservatorismo costituzionale di quasi tutti gli altri.

Una seconda linea di divisione, meno visibile ma politicamente importantissima, riguarda il federalismo e il ruolo della Lega. Su questa barricata ci sono due sole posizioni chiare, e in un certo senso estreme: quella della Lega, che vede il federalismo innanzitutto come difesa degli interessi del Nord, e quella del nascente polo di centro, i cui esponenti hanno invece sempre diffidato del federalismo, visto come un castigo del Mezzogiorno e quindi come una minaccia all’unità nazionale. Una linea di pensiero cui più volte (anche nei giorni scorsi) ha dato manforte la Chiesa, con esternazioni tanto accorate quanto prive di concretezza. In mezzo, fra il nordismo della Lega e il sudismo dei moderati, si collocano i due partiti nazionali, il Pdl e il Pd, che su questo asse della politica italiana sono il vero centro, il vero elemento equilibratore, i soli che hanno tentato - ciascuno a modo suo, e forse entrambi senza riuscirvi - di tenere conto sia degli interessi del Nord sia di quelli del Sud. Il Pdl frenando la Lega ma riconoscendone le buone ragioni, il Pd oscillando fra condivisione e diffidenza nei confronti del progetto federalista. Ora però questa loro funzione nazionale è posta di fronte a sfide difficili, che nascono sia dal lato dell’offerta politica che dal lato della domanda.

Sul versante dell’offerta, è probabile che alle prossime elezioni troveremo sulla scheda anche una terza coalizione, o Terzo polo, per la quale il nemico da battere sarà la Lega e la stella polare saranno gli interessi del Mezzogiorno. Una coalizione che si presenterà come «garante dell’unità nazionale», ma di fatto interpreterà la sua missione innanzitutto come difesa del Sud dai guasti del federalismo. È chiaro che una coalizione del genere avrebbe la Lega come nemico numero uno, e chiunque volesse averne i voti in Parlamento dovrebbe rompere con il partito di Bossi. Dunque un rischio per il Pdl, che difficilmente potrebbe rinunciare all’alleanza con la Lega, una tentazione per il Pd, in cui l’anima antifederalista potrebbe prendere il sopravvento, attratta dall’idea di mandare a casa Berlusconi grazie alla santa alleanza di tutti i suoi nemici.

Sul versante della domanda, invece, le novità e le sfide vengono tutte dal Nord. Mentre al Sud la nascita di un Terzo polo fortemente caratterizzato in senso meridionalista determinerà un eccesso di offerta politica, con Pd, Pdl e Terzo polo ferocemente impegnati a contendersi i voti, al Nord avremo il problema opposto, ossia un deficit di offerta politica, con conseguente quasi-monopolio dei consensi da parte della Lega (il che spiega l’impazienza di Bossi di andare ad elezioni). Con uno scontro politico polarizzato sull’asse Nord-Sud, è possibile che il cittadino di destra si senta più garantito dalla Lega che dal Pdl, mentre quello di sinistra rischia di non sentirsi garantito da nessuno. È sorprendente che i dirigenti romani del Pd non se ne rendano conto, ma la realtà è che al Nord anche la base del Pd è convintamente federalista, e persino sull’immigrazione e sulla sicurezza spesso si ritrova più nella linea dura della Lega che nel buonismo ideologico della cultura di sinistra. L’elettore di sinistra non ama le guasconate della Lega, detesta la volgarità di alcuni suoi esponenti, è rimasto scandalizzato dalla vicenda delle quote latte, vorrebbe piena eguaglianza fra italiani e immigrati regolari, trova indegno lo stato delle nostre carceri e dei nostri centri di raccolta dei clandestini. Però, specie in Lombardia e nel Nord-Est, sui due punti fondamentali della Lega, sul nucleo duro della sua visione del mondo, è sostanzialmente d’accordo: l’immigrazione irregolare va contrastata con fermezza, il Nord non può continuare a mantenere il Sud tollerando sprechi ed evasione fiscale.

Così l’analisi della domanda e dell’offerta politica ci restituisce un problema. Questo tipo di cittadini del Nord, ma ve ne sono molti anche al Centro e al Sud, non hanno un partito che li rappresenti. Alcuni, forse la maggioranza, non andranno a votare. Altri voteranno Pd per disperazione antiberlusconiana. Altri salteranno il fosso e voteranno Lega, obtorto collo e fra mille riserve e distinguo (turandosi il naso, avrebbe detto Montanelli). Eppure, essi come tanti altri, voterebbero ben volentieri un partito che, come la gloriosa rivista liberal-democratica di politica e cultura fondata da Francesco Compagna a Napoli nel 1954, si chiamasse «Nord e Sud», e avesse il federalismo - un federalismo fatto bene - come sua prima missione. Un partito critico con la Lega, ma non ostile al federalismo. Un partito di uomini del Nord e uomini del Sud, che riconoscesse che la vera frattura, oggi, non è fra Nord e Sud, e nemmeno fra destra e sinistra, ma fra i tanti produttori, che lavorano duro e rispettano la legge, e i troppi parassiti, che dissipano le risorse comuni e disprezzano le regole del gioco.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7733&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - La sfida di Chiamparino al Pd "Non possiamo vivere in difesa"
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2010, 05:56:27 pm
5/9/2010 (7:55)  - OPPOSIZIONE. LA RECENSIONE

La sfida di Chiamparino al Pd "Non possiamo vivere in difesa"

Nel libro-intervista del sindaco di Torino un ultimo messaggio al Pd e (forse) un'autocandidatura al comando del centro-sinistra

LUCA RICOLFI

Un ultimo, accorato, messaggio al Pd, e forse un’autocandidatura al comando del centro-sinistra. Così definirei «La sfida» di Sergio Chiamparino, il libro che Einaudi manda in libreria nei prossimi giorni.

Un libro-intervista bello, incisivo, pieno di idee politicamente scorrette enunciate in un linguaggio politicamente corretto. Vediamole, queste idee politicamente scorrette (ma secondo me del tutto ragionevoli) che il sindaco di Torino ha esposto nel suo libro, rispondendo a una raffica di domande di Paolo Griseri. L’idea più importante mi sembra questa: «La sinistra, almeno in Italia, è credibile per difendere l’esistente, assai meno come agente di cambiamento. È paradossale ma è così. Proviamo. La difesa della Costituzione, la difesa della magistratura, la difesa dei diritti, la difesa dello Stato sociale, la difesa della scuola e via difendendo. Tutto (o quasi) giusto, tutto necessario, ma può essere credibile un partito che si propone sostanzialmente di lasciare le cose come stanno, perché questo alla fine è il messaggio che passa?».

I due snodi
Al centro di questa difesa dell’esistente si trova, naturalmente, lo Stato sociale, quello che Chiamparino chiama «il giardino del welfare». Un giardino in cui sono ammessi i garantiti, i cosiddetti insider: dipendenti pubblici, pensionati, addetti delle grandi e medie imprese. E da cui sono più o meno esclusi i non garantiti, i cosiddetti outsider: giovani, donne, operai e impiegati delle piccole aziende, lavoratori autonomi, partite Iva.

Di qui due problemi cruciali. Da quando la crescita si è bloccata, la difesa dei diritti dei garantiti non può che avvenire a scapito dei non garantiti. E poiché il Pd - il partito di Chiamparino - è il partito in cui sono confluite le forze politiche che hanno costruito il giardino, ossia il Pci e la Dc, il Pd è naturalmente, geneticamente mi verrebbe da dire, un partito conservatore. Un partito il cui istinto è salvare il giardino e i suoi occupanti, che infatti hanno capito l’antifona e lo votano proprio per questo.

Da questa diagnosi di fondo, che nel libro si focalizza sull’Italia ma in realtà si potrebbe estendere a buona parte della sinistra in Europa, si dipanano varie conseguenze. La più importante, difficile da digerire per il pubblico di sinistra, è che oggi la destra è l’unica forza del cambiamento. Un cambiamento in parte illusorio, in parte non condivisibile, ma comunque un cambiamento. Il problema del Pd, secondo il sindaco di Torino, sarebbe quello di offrire un’altra idea di cambiamento, altre soluzioni, altre priorità, abbandonando il ruolo di guardiano dell’esistente che, in nome della guerra a Berlusconi, esso si è ritagliato in questi anni. Il nucleo forte di questa idea alternativa di cambiamento, per come l’ho capita io, è una sorta di ossimoro politico: un comunitarismo aperto, o se preferite un leghismo educato. Accettare le buone ragioni della Lega, ma depurandole completamente dei loro accenti xenofobi, intolleranti, difensivi. Fare sul serio e bene il federalismo, dismettere il buonismo in materia di criminalità e immigrazione; ma al tempo stesso non temere il mondo esterno, favorire al massimo l’integrazione degli stranieri, dalla cui voglia di lavoro e di riscatto dipende il nostro stesso futuro. Stranieri su cui Chiamparino ha parole piene di stima e di ammirazione, per non dire di rimpianto: «L’immigrato è quasi sempre una persona che vuole migliorare la sua condizione di partenza, che si porta addosso l’energia e quella tensione verso il cambiamento che molti italiani non hanno più».

La scossa esterna
Ma come si fa a cambiare il Dna della sinistra? Come si fa a cambiare il Pd?
La formula del libro, enunciata fin dall’introduzione, è «oltre il Pd per ritrovare il Pd», forse l’unica seria concessione al politichese in un libro che non sembra scritto da un politico. Proviamo a tradurre, prendendo spunto da alcuni passaggi dell’intervista. Per il sindaco di Torino l’ideale sarebbe una scossa esterna, che costringesse il partito a guardarsi allo specchio. Ma poiché le ripetute sconfitte elettorali non hanno fornito tale scossa, e anzi Bersani mette tutto il suo impegno nel nascondere la realtà, nel produrre miti di autoconsolazione, l’unica via è che - in vista delle prossime elezioni, non importa quanto anticipate - parta un confronto aspro e a tutto campo nello schieramento di sinistra. Un confronto aperto all’esterno, con idee forti, candidature vere, leader credibili, perché il primo problema della sinistra oggi è la credibilità della sua classe dirigente: «oggi si votano le facce e le persone», e «io non credo che oggi si possa sfuggire al problema di avere una figura di riferimento che ti rappresenta». Perché negli ultimi venti anni è la politica ad essere cambiata e i partiti sono ormai solo «i magazzini degli attrezzi che servono all’elaborazione politica per le facce e le persone che si candidano». Una verità che Berlusconi capì subito, e che la sinistra stenta ad accettare ancora adesso.

Insomma, tornando al Pd e al suo destino, «non ci mancano le proposte concrete ma la credibilità per avanzarle. Dobbiamo trovare al nostro interno qualcuno in grado di interpretare questa esigenza di rottura nella società italiana, qualcuno capace di condurre la battaglia contro le gabbie che bloccano il nostro sistema sociale e contro l’italietta che sull’esistenza di quelle gabbie ha costruito la sua fortuna».

Il vento nuovo
Sul fatto che Sergio Chiamparino abbia la credibilità e le idee necessarie per questa battaglia non ho molti dubbi. È sul suo partito che sono scettico. E lo sono proprio perché la diagnosi di Chiamparino è convincente: non si può richiedere agli eredi del Pci e della Dc di andare oltre il giardino del welfare, perché sono essi stessi i giardinieri che l’hanno creato. Ma soprattutto non si può chiedere a un apparato di potere, com’è il Pd e come sono tutti i partiti, di mettersi al servizio di un leader che non ne è l’artefice, e semmai ne è la cattiva coscienza. Abbiamo visto che fine i «compagni» hanno fatto fare a Prodi, una prima volta nel 1998 e una seconda nel 2008. E sappiamo tutti qual è il destino che l’apparato del Pd ha riservato a Veltroni, che pure era stato chiamato come salvatore della patria.

In breve, la mia impressione è che l’occasione che l’Italia di oggi offre ai politici che la pensano come Chiamparino non sia quella di gestire il declino del Pd, ma quella di contribuire alla nascita del «partito che non c’è»: un partito aperto e tollerante, che non demonizzi la Lega e la destra, ma offra soluzioni migliori ai problemi che esse hanno sollevato in questi anni. Se si vuole un cambiamento vero, non ci sono scorciatoie. Quando ha voluto scendere in campo, Berlusconi si è preso i suoi rischi e ha creato Forza Italia, senza cercare investiture dai partiti esistenti. Una lezione che resta valida ancora oggi, almeno per chi in politica vuole portare un vento nuovo.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58243girata.asp


Titolo: LUCA RICOLFI - Non ci sono abbastanza liberali
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2010, 09:08:40 am
8/9/2010

Non ci sono abbastanza liberali

LUCA RICOLFI

Mai dire mai. Chi lo sa, potrebbe anche succedere. E se succedesse sarei il primo a rallegrarmene. Parlo della nascita, in Italia, di un «partito liberale di massa». Un partito anti-assistenziale, fiducioso nel libero mercato, determinato a modernizzare il Paese. E che, nonostante la sua vocazione a cambiare l’Italia, avesse un seguito elettorale largo. Un partito, per intenderci, che non fosse la riedizione dei suoi progenitori liberali, repubblicani, radicali, i quali - anche considerati tutti assieme - non arrivarono mai al 10% dei consensi.

E tuttavia, ora che quel sogno viene disseppellito da più parti, ora che tutte le novità politiche si autodipingono come liberali, mi si permetta di esternare un po’ di scetticismo. Si autoproclamano liberali i centristi di Casini e di Rutelli, impegnati (con Montezemolo?) a costruire il «Partito della nazione». Si autoproclamano liberali gli uomini di Fini, che si accingono a costituire il nuovo partito Futuro e libertà. Ed è sostanzialmente un progetto liberale quello con cui Chiamparino ha lanciato la sua Opa, la sua «Offerta pubblica di acquisto» sul Partito democratico, accuratamente argomentata nel suo libro-intervista appena uscito (La sfida, Einaudi).

Ma sono credibili queste sfide? Siamo sicuri che gli osservatori e gli studiosi che danno tanto credito a questi progetti non confondano i propri sogni con la realtà? Siano sicuri che quello del «partito liberale di massa» non sia essenzialmente un mito degli intellettuali, una proiezione dei loro desideri più che una possibilità concreta?

Insomma io sono perplesso, pur facendo parte della schiera di quanti pensano che l’Italia avrebbe solo da guadagnare dalla nascita di una simile creatura politica. Sono perplesso, innanzitutto, dal lato dell’offerta politica. Non ho mai creduto, ad esempio, che da due partiti illiberali, come il Pci e la Dc, potesse nascere un partito che avesse il liberalismo nel suo Dna; o, se preferite, che da due chiese potesse nascere una non-chiesa. Per questo penso che l’Opa di Chiamparino non potrà funzionare: il corpaccione del Partito democratico è troppo intossicato dal passato ideologico dei suoi fondatori, post-comunisti e post-democristiani, per reggere l’urto laico del sindaco di Torino (dove per me laicità non significa anticlericalismo, bensì libertà mentale). Allo stesso modo non penso che un partito di ispirazione genuinamente liberale possa nascere dagli eredi centristi della Dc, o dagli eredi post-fascisti dell’Msi. Non perché gli esponenti di questi partiti non lo vogliano, ma perché a frapporsi al progetto sono la loro storia, il loro insediamento prevalente nelle regioni assistite, la rete delle loro clientele nel Centro-Sud.

Non per nulla tutte le componenti del nascente Terzo polo (Udc, Api, Fli, Mpa) sono risolutamente antifederaliste, una circostanza che dovrebbe suscitare qualche interrogativo visto che, al momento, il federalismo è l’unico progetto politico organico di razionalizzazione della spesa pubblica e di contenimento della pressione fiscale, i due capisaldi di qualsiasi politica economica liberale.

La mia impressione è che, in questi giorni, si stia consumando un grande equivoco: chi sogna una destra europea, rispettosa delle istituzioni, aperta al dissenso, conservatrice ma non populista, tende a vedere il nuovo partito di Fini come la possibile incarnazione di una tale destra, ma al tempo stesso vuol credere che una tale destra - che io definirei semplicemente normale - sia destinata a evolvere in partito liberale di massa, come se l’essenza del liberalismo fosse solo lo «Stato di diritto» e non anche la difesa della concorrenza e la lotta senza quartiere al parassitismo economico. Detto altrimenti: è possibile che Fini dia vita (finalmente) a una destra classica, diversissima da quella di Berlusconi, ma questo non implica né che tale destra sia destinata ad assumere tratti liberali, né che sia capace di diventare di massa.

E qui veniamo alla seconda perplessità, questa volta dal lato della domanda politica. Su questo terreno, chiunque ci voglia provare - Fini, Chiamparino, Rutelli, Casini, Montezemolo - dovrà fare i conti con i numeri. E i numeri, basati su un’infinità di sondaggi e analisi delle preferenze elettorali, dicono una cosa piuttosto chiara: finché esistono un polo di destra e un polo di sinistra, lo spazio di un eventuale Terzo polo non può andare molto al di là del 20%, di cui solo la metà (circa il 10%) occupato da una eventuale formazione liberal-democratica. Lo dicono i sondaggi di questi mesi, lo rivelava già tre anni fa un esperimento condotto dalla rivista «Polena» per misurare il potenziale elettorale del centro cattolico e di un eventuale «partito di Montezemolo», di ispirazione liberaldemocratica.

Piaccia o no, in Italia i partiti di massa tendono a essere illiberali, e i partiti di ispirazione liberale tendono a non essere di massa. Ma soprattutto il problema è che i diversi ingredienti del liberalismo si trovano per così dire sparpagliati nel sistema politico, anziché riuniti in un unico partito. Se parliamo di immigrazione, di carceri, di diritti individuali, i più liberali sono i radicali, i seguaci di Vendola e i comunisti. Se parliamo di Stato di diritto, di separazione dei poteri, di senso delle istituzioni, i più liberali sono il Pd e il nascente partito di Fini. Se parliamo di politica economica, i più liberali (o i meno illiberali) sono i leghisti e i riformisti «coraggiosi» del Pd e del Pdl, da Ichino a Brunetta.

Insomma, la mia impressione è che lo spazio per un partito liberale di massa non ci sia. Ci provò Berlusconi nel 1994, e in quasi vent’anni non c’è riuscito nemmeno lontanamente, come ormai riconoscono anche i suoi. Ci provarono a modo loro, da sinistra, le menti più aperte del Partito democratico: Arturo Parisi, Michele Salvati, Walter Veltroni. Anche lì, niente da fare. L’idea piace, seduce, ma non passa. Forse è giunto il tempo di prenderne atto e darsi obiettivi più limitati. Quel che non è riuscito al Pd e al Pdl, difficilmente potrà nascere dalle schegge partitiche che, per le ragioni più diverse, non hanno voluto lasciarsi inglobare nei due partiti maggiori.

La domanda politica per un partito liberaldemocratico in Italia non manca, specie nel Centro-Nord. E sono convinto che esso farebbe bene al sistema politico italiano, che di iniezioni di liberalismo ha un disperato bisogno. Dunque qualcuno lo faccia, questo benedetto partito. Quello di cui non sono convinto è che a riuscire nell’impresa possano essere le forze politiche che attualmente si proclamano liberali, e tanto meno che il suo seguito possa essere di massa. Realisticamente, oggi in Italia lo spazio elettorale di una formazione compiutamente liberaldemocratica è quello di un partito medio, del 10-15%. E il suo ruolo possibile è il medesimo che esso svolge nella maggior parte dei sistemi politici in cui un tale partito esiste: quello di una forza che, alleata con la destra o con la sinistra, prova ad accelerare la modernizzazione economica e civile del Paese.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7798&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Ma la Lega è ancora federalista?
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2010, 10:32:06 am
10/9/2010

Ma la Lega è ancora federalista?

LUCA RICOLFI

E’ un po’ che me lo chiedo: la Lega è davvero interessata al federalismo?
I primi dubbi li ebbi un paio di anni fa, quando venne varata la legge sui servizi pubblici locali. Da un partito che vuole eliminare gli sprechi e le inefficienze nella pubblica amministrazione mi aspettavo scelte assai più radicali in materia di concorrenza, e invece la Lega frenò lasciando passare una legge piuttosto timida. Un parlamentare lombardo della Lega mi spiegò poi perché: è vero che facendo gare aperte si possono ottenere tariffe più basse per i cittadini, ma il rischio era che gli appalti li prendessero aziende straniere, con tanti saluti alle ditte e dittarelle locali. Per questo la Lega scelse di frenare.

Poi, quando si cominciò a parlare di manovra e di sacrifici, e qualcuno propose di abolire le «Province inutili» (uno degli impegni del centrodestra in campagna elettorale), fu di nuovo la Lega a frenare.

Se la proposta fosse passata, sarebbero state soppresse anche alcune Province del Nord, con tanti saluti alle poltrone di un buon numero di amministratori leghisti. Di qui lo stop: il provvedimento venne stralciato e messo in un binario morto.

Un altro dubbio mi venne la primavera scorsa, quando la sacrosanta protesta dei sindaci del Nord contro i vincoli del patto di stabilità ebbe ad incontrare la sorda ostilità dei dirigenti nazionali del Carroccio. Ma il dubbio più grande lo ebbi in occasione della recente manovra estiva, fondamentalmente basata su tagli «lineari» (eguali per tutti) a Regioni, Province e Comuni. Da un partito federalista mi sarei aspettato una dura battaglia per distribuire i tagli in modo da premiare i territori virtuosi e punire quelli spreconi, se non altro perché per un’amministrazione che ha già tagliato è molto più difficile continuare a farlo. Invece, nonostante qualche timido tentativo del governatore del Piemonte Roberto Cota, la Lega si defilò, lasciando passare un maxi-emendamento che permetterà ancora una volta di rimandare un intervento incisivo e selettivo sugli sprechi.

Negli ultimi giorni però i miei dubbi e le mie perplessità stanno diventando delle quasi-certezze. C’è una crisi di governo, l’eventualità di andare alle urne già in autunno è molto concreta. Contrariamente a quanto affermano diversi esponenti della Lega, il federalismo non è affatto al sicuro. Non tanto perché diversi decreti delegati devono ancora essere emanati, ma perché anche i decreti delegati sono impostati senza numeri, sono scatole vuote che indicano alcuni meccanismi e soggetti che dovranno attuare il federalismo, ma lasciano del tutto aperti i due punti centrali: quanto dovranno risparmiare le varie amministrazioni, quanta evasione fiscale andrà recuperata in ogni territorio. Detto brutalmente, i decreti delegati sono a loro volta più somiglianti a ulteriori leggi-delega che a norme dotate di un contenuto macroeconomico preciso e vincolante. E dal momento che la base tecnico-statistica per attuare il federalismo fiscale non esiste ancora (né potrebbe essere diversamente, perché una classe politica irresponsabile ha passato quindici anni a discutere di principi, e quasi nulla ha fatto per renderli concretamente attuabili), ci vorranno ancora almeno un paio di anni per far partire il federalismo e per cominciare a capire come esso verrà effettivamente attuato.

Ebbene, in questa situazione la Lega non si preoccupa di attuare il federalismo, ma di tornare al voto al più presto. E racconta ai suoi ingenui elettori che il federalismo è al sicuro, è «in cassaforte», perché nelle prossime settimane verranno approvati gli ultimi decreti delegati. Non è così. I decreti delegati, anche se riuscisse il miracolo di approvarli tutti prima dello scioglimento delle Camere, saranno inevitabilmente semi-vuoti, nel senso che toccherà ai prossimi esecutivi riempirli di contenuti, sempre ammesso che i prossimi governi vogliano insistere su una riforma già abortita tre volte. Ma nulla assicura che i nuovi equilibri parlamentari che usciranno dal voto saranno più favorevoli al federalismo di quelli attuali, e anzi molti indizi fanno pensare il contrario. Lo scenario più probabile prevede che Pdl e Lega conquistino il premio di maggioranza alla Camera, ma al Senato siano costretti a stringere alleanze con una parte della sinistra (Pd?) o con una parte del Terzo polo (Udc?).

Di qui il mio mega-dubbio: se il voto mette a repentaglio il federalismo, perché la Lega vuole le elezioni a tutti i costi, fino al punto di minacciare di far cadere il governo?
La risposta è semplice: perché nel gioco attuale della politica la situazione della Lega è win-win: la Lega vince comunque, perché se ci sarà una maggioranza Pdl-Lega anche in Senato Berlusconi e Bossi torneranno da trionfatori al governo, mentre se tale maggioranza non ci sarà la Lega potrà consolarsi con un aumento spettacolare del suo numero di seggi parlamentari, per lo più strappati al Pdl e al Pd del Nord. In breve il rischio del voto è enorme per Berlusconi, che comunque perderebbe seggi in Parlamento, e minimo per Bossi, che rischia «solo» di perdere il federalismo, nel caso fosse impossibile continuare con l’alleanza attuale.

Ma perché la Lega non teme di perdere il federalismo, proprio ora che è a un passo dalla meta?

L’unica risposta non ideologica che vedo è che per la Lega, ormai, il federalismo è diventato meno importante dell’allargamento della sua presenza nella pubblica amministrazione, dai Comuni alle Province, dalle Regioni al Parlamento, quella stessa amministrazione che la Lega delle origini voleva bonificare, e che ora sembra lentamente ma inesorabilmente trasformarsi in un terreno di pascolo, come accade a qualsiasi normale apparato di partito. Il federalismo all’inizio era prevalentemente un fine, ora sta diventando un mezzo, uno strumento di propaganda.
Non dobbiamo stupircene, perché succede in tutti i partiti, e la Lega non fa eccezione. La notizia è solo che, crescendo, la Lega sta diventando un partito come gli altri. Un vero peccato, perché il federalismo è (era?) una buona meta, e sono ancora tantissimi i politici e gli amministratori che - nella Lega come negli altri partiti - fanno il loro dovere con serietà e con passione.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7805&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Federalismo, la partita si gioca al Sud
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2010, 06:19:56 pm
19/9/2010

Federalismo, la partita si gioca al Sud
   
LUCA RICOLFI


Per capire la politica siciliana bisogna, come minimo, essere siciliani e fini conoscitori della realtà dell’isola. Perciò non proverò nemmeno ad azzardare un’interpretazione della complessa partita che lì si sta giocando in questi giorni, né a decodificare i segnali che il presidente del Consiglio - di passaggio a Taormina - ha lanciato ieri ai vari politici dell’isola.
Quel che però mi sembra di poter dire, dal nebbioso Nord in cui sono sempre vissuto, è che la partita siciliana è solo un episodio di una partita molto più generale, una partita che si gioca un po’ in tutte le regioni meridionali ma in realtà ci riguarda tutti. Questa partita si chiama «futuro del Sud», e alla lunga avrà ripercussioni sull’Italia intera, se non altro perché il destino del Centro-Nord dipenderà dal modo in cui - non in un lontano futuro, ma nei prossimi mesi - la classe politica imposterà la questione del Sud.

Perché nei prossimi mesi?
Perché nei prossimi mesi, se il governo non cadrà prima di Natale, saranno emanati tutti o la maggior parte dei decreti delegati della legge sul federalismo fiscale.
E anche se il governo dovesse cadere, sarà sul federalismo che si combatterà un’eventuale campagna elettorale. Vista da Roma, la crisi della maggioranza è una puntata della guerra Fini-Berlusconi, e la posta in gioco è lo scudo giudiziario per il presidente del Consiglio. Ma vista dalle rive del Po la crisi della maggioranza è soprattutto un passaggio cruciale nella vicenda del federalismo. Dalle convulsioni di questi giorni si può uscire con un rafforzamento delle forze che più o meno apertamente osteggiano il federalismo, oggi raggruppate sotto l’etichetta del Terzo polo, oppure con un successo delle forze che puntano su una sua applicazione rigorosa, non solo la Lega ma anche consistenti settori del Pdl e del Pd, specie al Nord.

Il problema politico, tuttavia, è che in questa partita il vero arbitro non è né il governo né il Parlamento, ma è l’elettorato meridionale. E questo non solo perché è al Mezzogiorno che il federalismo chiede i cambiamenti più radicali, ma perché da quando siamo entrati nella seconda Repubblica è sempre il Mezzogiorno che decide chi vince le elezioni: il Nord vota stabilmente a destra, le «regioni rosse» del Centro votano stabilmente a sinistra, il Sud oscilla e con il suo oscillare decide il vincitore. Al limite si potrebbe far votare solo gli elettori meridionali, tanto il voto del resto del Paese - sclerotizzato com’è - è sostanzialmente ininfluente.

Il problema è dunque: che cosa farà il Sud? O meglio: che cosa faranno le forze politiche per orientare il voto del Sud? O ancora: quale idea del futuro dell’Italia vincerà fra gli elettori del Sud? Accetteranno la sfida del federalismo o faranno resistenza passiva, cercando di mandare a monte i sogni della Lega?

Ecco perché è importante capire il gioco delle forze politiche, ma anche i sentimenti in campo nella società civile. E qui vorrei riferire una sensazione personale, basata sui contatti che ho avuto negli ultimi anni con persone del Sud, ma anche sui numeri e sulle statistiche. Ebbene, la mia impressione è che noi del Nord abbiamo una visione molto, troppo stereotipata della realtà meridionale. Una visione che sottovaluta le enormi differenze interne del Mezzogiorno. Differenze fra regioni ad alta e a bassa densità mafiosa, innanzitutto.
Ma anche differenze interne alle stesse regioni di mafia (Benevento non è Caserta). Quando il ministro Brunetta dice che alcuni territori sono «un cancro sociale e culturale», e che se essi si comportassero come il resto del Paese l’Italia sarebbe al livello dei più avanzati Paesi europei, non solo dice una cosa esatta, che studiosi avvertiti come Paolo Feltrin ripetono da anni, ma fa un’enorme apertura al resto del Mezzogiorno. Perché se Brunetta ha ragione, vuol dire che dentro il Sud ci sono realtà molto differenziate, alcune delle quali non lontane dagli standard medi nazionali. Prendiamo l’intensità dell’evasione fiscale: nei due territori indicati da Brunetta (la Calabria e la conurbazione Napoli-Caserta) è quasi il doppio della media nazionale, ma nelle cinque regioni a bassa densità mafiosa (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Sardegna) è di poco superiore alla media italiana. Prendiamo le estorsioni, il più tipico reato connesso alla criminalità organizzata: fatta 100 la media nazionale, i territori-cancro di Brunetta sono a livello 273, le regioni del Sud a bassa intensità mafiosa sono a livello 116, appena al di sopra della media nazionale. Così per molti altri indicatori, che invariabilmente mostrano che l’enfatizzatissima distanza Nord-Sud è minore della distanza che, dentro il Sud, separa i territori normali dai territori «speciali».

Lo stesso discorso si potrebbe ripetere per l’efficienza delle amministrazioni locali, dove - accanto ai frequenti casi di dissipazione del denaro pubblico - non mancano esempi di amministrazioni virtuose. Così come sono sempre più numerosi i politici che, anziché demonizzare la Lega Nord, preferiscono raccoglierne la sfida, riconoscendo gli errori del passato e attrezzandosi a non ripeterli nel futuro. Insomma, voglio dire che una parte della classe politica meridionale ha capito che i quattrini sono finiti, che come prima non si può andare avanti, che il vittimismo non paga più, e che il federalismo può essere un’opportunità per il Sud. Di donne e uomini così negli ultimi tempi mi è capitato di conoscerne parecchi, ed è stata una sorpresa molto piacevole. Essi non chiedono di fermare il federalismo, ma pretendono che - se e quando il ceto politico meridionale saprà fare la sua parte - anche lo Stato centrale faccia la sua, a partire dalle infrastrutture e dagli investimenti pubblici, drammaticamente e colpevolmente dimenticati negli ultimi 10 anni.

Di fronte a questa realtà, come si pone la politica nazionale?
La mia impressione è che, proprio perché sarà il Sud a decidere le elezioni politiche, per i nostri due maggiori partiti e i loro leader non sarà facile far leva sulle forze migliori presenti nel Mezzogiorno. Berlusconi sa che per restare in sella deve concedere qualcosa agli uomini del Sud (parlamentari e cittadini), e il rischio che conceda le cose sbagliate è molto forte. Quanto a Bersani non ha nulla da concedere, ma può promettere molto, ad esempio che la santa alleanza fra sinistra e Terzo polo annacqui o congeli la riforma federalista.

Eppure quella di aiutare le energie migliori del Sud è l'unica strada. Se la politica non saprà fare questo - risparmi severi sulla spesa corrente, investimenti coraggiosi in infrastrutture - il Sud non ne verrà fuori. E, a quel punto, non ne verremo fuori neppure noi, perché un Mezzogiorno così com’è oggi è un lusso che il Nord non si può più permettere.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7848&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - L'Italia immaginaria della sinistra
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2010, 04:48:39 pm
24/9/2010

L'Italia immaginaria della sinistra

LUCA RICOLFI

Una settimana fa Walter Veltroni ha scritto un manifesto, firmato da 75 parlamentari del Partito democratico, in cui analizza la società italiana, solleva severe critiche alla gestione Bersani del partito, indica una via alternativa per il futuro. Il documento ha provocato una grave lacerazione nel partito, che ieri la Direzione del Pd è riuscita in qualche modo a ricucire con uno dei soliti riti della vita interna dei partiti (voto a favore della relazione del segretario, con astensione delle minoranze dissidenti).

I giornali non hanno riportato gran che dei contenuti del documento, quindi sono andato a leggermelo su Internet (l’ho trovato subito con Google, ma ho faticato molto a «ripescarlo» dal sito del Pd, dove si trova, per così dire, un po’ acquattato). Lì ho scoperto che tra i firmatari del manifesto ci sono parecchie persone di cui ho la massima stima, come Pietro Ichino, Maria Leddi, Nicola Rossi, Enrico Morando. Una ragione di più per leggerlo attentamente.

Però alla fine, letto il documento e il corredo di interviste che l’ha circondato, ne sono uscito perplesso. Credo di aver capito, e persino di condividere, le preoccupazioni strettamente politiche del documento.

Anche se non lo dicono in modo esplicito, i veltroniani hanno due timori grossi come una casa, che riassumerei così. Primo timore: Bersani «gna fa», per dirla alla Funari. E non ce la può fare, a battere Berlusconi, non solo per mancanza di carisma, ma perché quel che il leader del Pd sembra avere in mente - un’alleanza che va da Vendola e Di Pietro fino a Casini - non potrebbe non rievocare la fallimentare esperienza del governo Prodi, che Veltroni vede (giustamente, secondo me) come il macigno che alle elezioni politiche del 2008 sbarrò la strada al «suo» Partito democratico. Secondo timore: la fine del bipolarismo, attraverso la nascita di un «centro» del 15-20%, il cosiddetto Terzo polo, arbitro dei giochi politici.

Quel che non mi convince, invece, è l’analisi della società italiana che il documento delinea. Un’analisi che, in molti passaggi, non è diversa da quella che abbiamo sentito in tutti questi anni, o quantomeno non ne prende a sufficienza le distanze. Perché, a mio parere, il problema di fondo del Pd non è che non riesce a proporre soluzioni convincenti alla crisi italiana, ma che ha un’idea errata, ovvero distorta e tendenziosa, della società italiana. Il problema, in breve, è innanzitutto la diagnosi, prima ancora della terapia.

Facciamo qualche esempio. Nel documento si dice che la disuguaglianza è «crescente», e che la frattura Nord-Sud «è tornata ad accentuarsi» (la tesi è decisamente audace, diversi indicatori suggeriscono il contrario, almeno dal 1998 a oggi). Si riconduce l’aumento del debito pubblico alla presenza del centro-destra al governo, come se il balzo degli ultimi anni non dipendesse essenzialmente dalla crisi economica internazionale. Si parla di riforme nel settore pubblico come se Brunetta - e Ichino! - non avessero fatto nulla.

Si parla della «battaglia per la legalità nel Mezzogiorno» come se fosse perduta, senza una parola per lo straordinario lavoro di questi anni contro la criminalità organizzata. Si fanno proposte di investimento e di spesa (in istruzione, ricerca, ammortizzatori sociali) che costerebbero miliardi e miliardi, come se ci fossero le risorse per portarle avanti, o come se trovare tali risorse non comportasse sacrifici enormi e di lunga durata.

Soprattutto non si esplicita il fatto che alcune idee dei veltroniani, solo accennate nel documento ma molto chiare in vari interventi pubblici, sono indigeribili per il centro-sinistra com’è oggi. Mi riferisco, ad esempio, al finanziamento selettivo degli atenei e delle scuole, con conseguente penalizzazione degli atenei inefficienti e dei docenti poco produttivi. O alla neutralizzazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per i nuovi assunti, con l’istituzionalizzazione di forme di «flessibilità tutelata» (flexsecurity). Per tacere del federalismo, su cui il documento non spende nemmeno una parola ma che - se attuato seriamente - susciterebbe vivaci resistenze in una parte del Pd, specie nel Mezzogiorno.

Insomma, mi pare che il manifesto veltroniano, a dispetto del riformismo radicale di alcuni suoi firmatari, non ci fornisca una diagnosi dei mali del Paese poi tanto diversa da quella che - con malinconica monotonia - il centro-sinistra ripete dal 2001, e il Pd di Bersani continua meccanicamente a fare propria. Eppure, se quella diagnosi è giusta, se la maggior parte dei nostri mali discendono dalla disastrosa conduzione del governo da parte di Berlusconi e Tremonti, allora il problema numero uno dell’Italia è togliere il tappo del berlusconismo, e la linea sostanzialmente frontista di Bersani, alleanze le più larghe possibile per liberarci del tiranno, è la linea che logicamente ne consegue.

Ma se invece si ritiene che Bersani sbagli, allora forse bisogna avere il coraggio di riconoscere un’altra immagine dell’Italia, di esplicitare un’altra diagnosi dei nostri mali. Una diagnosi in cui, ad esempio, non si abbia timore di indicare i lussi che non possiamo più permetterci: andare in pensione a 60 anni, spendere 100 per servizi che potremmo produrre con 70, stabilizzare centinaia di migliaia di precari per mantenere il consenso politico ai governanti, di destra o di sinistra che siano. Il problema è che una diagnosi più realistica, che non riconducesse tutti i mali economico-sociali del Paese alla devastazione del berlusconismo, avrebbe sì il pregio di rendere evidente il semplicismo della linea attuale del Pd, ma renderebbe anche molto più difficile tenere unito il partito. Dopo vent’anni di analisi a senso unico, ci sono verità che al popolo di sinistra non si possono dire, e infatti non vengono dette. E ci sono terapie che si possono sussurrare nei seminari, nei convegni, nelle commissioni parlamentari, ma non si possono proporre nei comizi, nelle piazze, nelle feste di partito. Quali verità e quali terapie?

Ad esempio, che la spesa pubblica va ridotta ancora di più di quanto abbia fatto Tremonti, altrimenti non abbasseremo mai le tasse sui produttori. Che il lavoro che fanno Brunetta e Gelmini in materia di pubblico impiego può essere fatto meglio, forse molto meglio, ma comunque va fatto. Che il Mezzogiorno non può continuare ad assorbire risorse che non produce, se non altro perché i quattrini sono finiti. E che, sulla mafia, quel che ci auguriamo è che un futuro governo di centro-sinistra non faccia rimpiangere Maroni.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7870&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Nord, Sud e il rebus dei tre poli
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2010, 03:53:07 pm
1/10/2010

Nord, Sud e il rebus dei tre poli
   
LUCA RICOLFI


Incassata la fiducia anche al Senato, il governo Berlusconi ci riprova. Se i finiani lo lasceranno lavorare, tenterà di governare fino al 2013. Altrimenti si andrà al voto molto presto, presumibilmente già la primavera prossima.

Ma come siamo arrivati a questo punto? Come è stato possibile che la più larga maggioranza conferita dagli italiani a un governo si sciogliesse come neve al sole? Apparentemente è successo per ragioni personali, per la rivalità fra i due cofondatori del Pdl, Berlusconi e Fini. Il primo incapace di sopportare il dissenso politico interno, il secondo preda di ripensamenti politico-morali sull’uomo Berlusconi, dipinto come leader autoritario, manovratore dei media, ostinato nel sottrarsi ai processi, irrispettoso della magistratura e delle istituzioni.

Quella delle rivalità personali, però, è una spiegazione molto parziale. Può darsi che Berlusconi e Fini non si siano mai stati simpatici. Ed è probabile che a far precipitare la situazione sia stata anche la percezione, da parte di Fini, che non sarebbe stato lui il successore di Berlusconi alla guida del centro-destra. E tuttavia, se ripercorriamo la storia di questi anni, è evidente che la rottura di oggi ha anche, se non soprattutto, genuine radici politiche.

Fra Berlusconi e Fini (ma si potrebbe allargare il discorso: fra il duo Berlusconi-Bossi e il duo Fini-Casini) c’è sempre stata una differenza nel modo di fare politica, di comunicare con gli elettori, di stare nelle istituzioni: populisti, scanzonati e irridenti Berlusconi e Bossi, tradizionali, ingessati e seriosi Fini e Casini. Con tutto quel che ne segue quanto al senso delle regole, al rispetto delle forme, ai rapporti con gli altri poteri, a partire da quelli del Presidente della Repubblica, del Parlamento, della Magistratura. Queste diversità, di stile ma anche di sostanza, sono sempre esistite, e non hanno mancato di creare tensioni, nonché alleanze inedite, anche in passato. Ricordate il sub-governo Fini-Casini-Follini alla fine della legislatura 2001-2006, quando Tremonti venne costretto alle dimissioni? E l’ipotesi (poi tramontata) di alleanza elettorale Casini-Fini alla fine del 2007, dopo essere stati messi davanti al fatto compiuto del nuovo partito di Berlusconi, con il famoso «discorso del predellino»? Per non dire delle più antiche tentazioni centriste e moderate di Fini, come la fallita alleanza con Mario Segni ai tempi dell’Elefantino (Europee del 1999).

Perché in passato queste differenze sono sempre state superate e ricomposte, mentre oggi tendono a esplodere, fino a delineare la nascita di un Terzo polo centrista? La ragione principale, a mio modo di vedere, è che ai vecchi motivi di attrito, legati essenzialmente a differenti concezioni della politica e delle istituzioni, se ne è aggiunto ora uno molto più concreto e tangibile: il federalismo. O meglio, il rischio che dalla fase delle enunciazioni di principio e dei discorsi alati su solidarietà e responsabilità, si passi alla bassa cucina dei decreti delegati, con tagli e sacrifici per tutti, tanto più grandi quanto più in passato si è speso, sprecato ed evaso. Un rischio che la crisi economica internazionale ha reso più acuto, e che potrebbe pesare soprattutto sul Sud, non già come risultato di una volontà politica anti-meridionale, ma come conseguenza aritmetico-contabile del fatto che lì, nelle regioni del Mezzogiorno, e segnatamente in quelle di mafia, si concentrano la maggior parte delle storture della Pubblica amministrazione. E poiché è nel Sud che i partiti del Terzo polo raccolgono la maggior parte dei loro voti, ecco che le frizioni fra il duo Berlusconi-Bossi, prevalentemente insediato al Nord, e il duo Fini-Casini, prevalentemente insediato al Sud, trovano una seconda, ben più corposa, sorgente di alimentazione: accanto alle antiche diversità nel modo di stare nelle istituzioni, le nuove diversità legate agli interessi e ai territori rappresentati. In questo senso il Terzo polo potrebbe diventare il collettore di due diversi segmenti elettorali: i moderati, à la Indro Montanelli, culturalmente di destra ma insofferenti del radicalismo anti-istituzionale di Berlusconi; e i nemici del federalismo, che molto si preoccupano della coesione nazionale ma ancor più temono la chiusura dei rubinetti della spesa pubblica nel Sud.

Se è innanzitutto la diffidenza per il federalismo ciò che ha fatto precipitare le cose, allora lo scenario che ci attende alle prossime elezioni è davvero del tutto inedito. Siamo abituati a pensare che lo scontro sia fra destra e sinistra, con il centro in mezzo. Ma se la posta in gioco cruciale sarà il federalismo, allora i due estremi dello spettro politico non potranno che essere la destra di Bossi e Berlusconi, insediata al Nord e custode del progetto federale, e il Terzo Polo di Fini-Casini (ma anche di Lombardo, e forse di Rutelli), insediato al Sud e nemico giurato della Lega. E la sinistra, insediata nelle regioni rosse dell’Italia centrale? Divisa com’è fra fautori e detrattori del federalismo, non potrà che stare in mezzo, fra il federalismo della destra nordista e l’antifederalismo dei centristi del Terzo polo.

Insomma un bel rebus. Perché nessuno dei tre poli avrebbe la maggioranza dei consensi (Pdl-Lega: 40%; Sinistra: 40%; Terzo polo: 20%). Perché chi conquista il premio di maggioranza alla Camera potrebbe benissimo non avere la maggioranza dei seggi anche al Senato. E, infine, nessuna delle tre super alleanze possibili fra i tre nuovi poli darebbe la benché minima garanzia di saper governare l’Italia.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7901&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Berlusconi a sorpresa: governo di destra, successi "di sinistra"
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2010, 09:40:56 am
10/10/2010 (7:13)  - LEGISLATURA AL GIRO DI BOA

Berlusconi a sorpresa: governo di destra, successi "di sinistra"

L'avvento della crisi ha cambiato l'agenda politica

LUCA RICOLFI
TORINO

La XVI legislatura è arrivata esattamente a metà del suo corso, e già si parla di elezioni anticipate. Ma qual è il bilancio a metà del guado? Lo vedremo dettagliatamente ogni giorno della prossima settimana. Passando allo scandaglio le sette “missioni” sulle quali – due anni e mezzo fa – Berlusconi chiese la fiducia degli italiani. Qui vorrei solo comunicare un paio di impressioni che, alla fine di un lungo lavoro di analisi, si sono per così dire depositate in me.

La prima è che tutto si possa dire del Governo, tranne che sia stato con le mani in mano: riforma della Pubblica amministrazione (Brunetta), riforma delle pensioni (Sacconi-Tremonti), riforme della scuola e dell’Università (Gelmini), federalismo (Calderoli-Bossi), riforma dei servizi pubblici locali. Comunque le si giudichi – e non mancano coloro che le giudicano negativamente – sono almeno sei le grandi riforme già varate o comunque in dirittura d’arrivo a metà legislatura. E questo nonostante il Parlamento e l’opinione pubblica siano stati impegnati per un tempo sproporzionato sui temi della giustizia, peraltro senza portare a casa né una decente riforma della giustizia stessa, né uno scudo giudiziario funzionante per il premier.

La seconda impressione è che, giudicato sulla base del programma e delle cose fatte e non fatte, questo sia stato uno strano governo.
Nella primavera del 2008 il centro-destra aveva basato la sua campagna elettorale sulle parole d’ordine consuete: meno sprechi, meno tasse, più carceri, linea dura su immigrazione e criminalità comune. Non è andata così, anche per colpa della crisi (che però, vorrei ricordarlo, durante la campagna elettorale del 2008 era già in corso da più di sei mesi). La riduzione degli sprechi attende l’avvio del federalismo (previsto per il 2013), le tasse che paghiamo sono più o meno quelle di prima, i posti in carcere sono aumentati in misura irrisoria, mentre i penitenziari straboccano di detenuti, spesso in condizioni non degne di un paese civile. I reati sono diminuiti, ma solo rispetto al picco post-indulto: rispetto al 2005, ultimo anno pre-indulto, i delitti totali sono leggermente aumentati.

Questo vuol dire che il centro-destra ha fallito? No. Alcune cose buone, anzi ottime, il centro-destra le ha fatte. Solo che sono cose di sinistra, cose di cui Prodi o Padoa-Schioppa menerebbero vanto, se le avessero fatte loro. Tanto per cominciare la stabilizzazione dei conti pubblici, fatta senza colpire la sanità e con il plauso di tutte le istituzioni sovranazionali. Non è vero che l’Italia esca dalla crisi meglio degli altri principali paesi europei, ma è vero che Tremonti ha contenuto il deficit pubblico abbastanza da evitare una crisi di fiducia dei mercati internazionali come quella che ha colpito gli altri “PIGS”, acronimo di Portogallo, Grecia, Irlanda, Spagna.

C’è poi il capitolo della lotta alla criminalità organizzata. Era stato Veltroni, nella campagna elettorale del 2008, a dire che i voti della mafia lui non li voleva, ed era stato prontamente accontentato: nel centro-sud i risultati elettorali peggiori la sinistra li ha ottenuti proprio in Calabria, Sicilia e Campania. E invece è stato sotto il ministro Maroni che mafia, camorra e ‘ndrangheta hanno ricevuto i colpi più duri.

Per non parlare degli ammortizzatori sociali. Certo il governo non ha avuto il coraggio di fare – in piena crisi – quella riforma organica degli ammortizzatori sociali che la sinistra invoca da anni (e che essa stessa si era ben guardata dal varare nei due anni del governo Prodi). Però cassa integrazione in deroga, estensione degli assegni di disoccupazione, social card, sussidi alle famiglie e ai non autosufficienti sono misure che hanno attenuato sensibilmente l’impatto della crisi, come mostra piuttosto inequivocabilmente la serie storica Isae delle famiglie in difficoltà, calate proprio nel momento più basso della congiuntura (fra la metà del 2008 e la metà del 2009). E infine la grande sanatoria delle badanti, chiamata pudicamente “regolarizzazione”: provvedimento ragionevole, pragmatico, ma che ti aspetteresti più da un governo di sinistra, buonista e aperto alle ragioni dell’integrazione, che non da uno di destra, cattivista e severo con i clandestini.

Che cosa concludere, dunque ? Direi questo.
A giudicare dai fatti, e solo dai fatti (quelli importanti), le persone di destra dovrebbero essere abbastanza arrabbiate, con questo governo. Quelle di sinistra dovrebbero essere moderatamente soddisfatte. Ma le persone che non ragionano in termini di destra e sinistra, quelle che vorrebbero solo che l’Italia tornasse a crescere e a sperare, non possono che essere alquanto deluse, da questo governo non meno che da quelli che l’hanno preceduto. I fattori fondamentali che frenano l’Italia sono essenzialmente tre: troppe tasse e adempimenti sui produttori, pochi investimenti in capitale umano, una giustizia civile al collasso. Su questo, ossia sulle determinanti della crescita, nessuno dei governi degli ultimi anni è riuscito a incidere in modo apprezzabile. Ed è un vero peccato, perché senza crescita quasi tutto il resto serve a poco, o è destinato a restare nel novero dei sogni.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201010articoli/59267girata.asp


Titolo: LUCA RICOLFI - La stretta via per ridare fiato al paese
Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2010, 10:05:33 am
18/10/2010

La stretta via per ridare fiato al paese

   
LUCA RICOLFI

La nostra inchiesta sulla prima metà della legislatura è terminata, speriamo che i dati e le analisi che per una settimana abbiamo pubblicato sulla Stampa abbiano aiutato il lettore a formarsi un’opinione fondata, non puramente impressionistica, su come le cose sono andate fin qui, sui meriti e sui demeriti del governo in carica.

A questo punto, però, il problema diventa il resto della legislatura: che cosa ci attende, che cosa ragionevolmente si può ancora fare, quali sono le priorità.

Che cosa ci attende, dunque? In parte non lo sappiamo e non possiamo saperlo. Non sappiamo se l’economia del pianeta si riprenderà in un tempo ragionevole.

Non sappiamo come finirà la guerra strisciante in atto fra le principali valute del mondo, e in particolare non sappiamo se l’euro si indebolirà, dando ossigeno all’export, o invece si rafforzerà ulteriormente, aggravando la crisi delle nostre imprese esportatrici.

Alcune cose invece le sappiamo. Sappiamo ad esempio che l’Europa, non paga della stretta sui conti pubblici imposta a primavera, ci chiederà ulteriori sacrifici, sotto forma di un piano pluriennale di riduzione del debito pubblico. Si parla di 40 miliardi l’anno, ma anche fossero «solo» 10 già sarebbe un problema non banale, se solo si pensa che dalla vendita delle frequenze del digitale terrestre (una misura miracolistica di cui molto si parla in questi giorni) non ci si aspetta di incassare più di 3 miliardi. Sappiamo anche che le amministrazioni pubbliche a tutti i livelli (Stato, Regioni, Province, Comuni) sono sommerse dai debiti e quindi ritardano sistematicamente i pagamenti, così mettendo in crisi i fornitori. Sappiamo anche che il ritardo nei pagamenti si propaga da impresa a impresa e che, combinato con la prudenza delle banche nel concedere credito, è una delle cause di molte crisi aziendali, con il loro triste seguito di cassa integrazione e licenziamenti. E sappiamo infine che il problema di fondo di molte aziende non è il costo del lavoro, ma è la debolezza degli ordinativi, che costringe a un sottoutilizzo della capacità produttiva, non di rado anticamera della chiusura definitiva. Insomma è il debito pubblico la nostra più grande palla al piede, ma è solo il ritorno alla crescita che può aiutarci a uscire dai nostri guai.

Che cosa può fare un governo in una situazione del genere?

Assai poco, a mio parere, e considero un segno di grave immaturità delle opposizioni aver fatto credere alla gente che esistessero alternative serie ai tagli di Tremonti: si può discutere a lungo della ripartizione dei tagli, ma quanto alla loro entità ci sarebbe semmai da chiedersi se possano bastare, e se alla prossima bufera finanziaria non si rischi di doverne fare di ancora maggiori.

Però, fortunatamente, ci sono anche alcune cose che si possono fare. Non solo le liberalizzazioni e semplificazioni normative, di cui molto si parla ma che, nonostante siano a costo zero, procedono a passo di lumaca chiunque sia al governo, e finora non hanno mai prodotto una riduzione significativa degli adempimenti delle imprese. Ma anche interventi più radicali, capaci di incidere rapidamente sulla crescita. Il primo è un drastico e generalizzato abbassamento delle imposte sui produttori, a partire da Irap e Ires, finanziato con un disboscamento della selva degli incentivi alle imprese, ivi compresi gli innumerevoli regimi fiscali agevolativi (una strategia spesso invocata da imprenditori e politici, e di recente ventilata dallo stesso ministro dell’Economia e che potrebbe evitare fughe di imprese all’estero come racconta l’inchiesta di Marco Alfieri che pubblichiamo alle pagine 4 e 5). È una cosa che si può fare subito, senza aspettare l’estenuante balletto di incontri, tavoli tecnici e negoziali, che inevitabilmente accompagnerà il sogno di Tremonti di ridisegnare il nostro fisco.

Il secondo intervento è un abbassamento, finanziato con parte dei proventi della lotta all’evasione fiscale, delle imposte che gravano sull’energia, che rendono proibitivo il prezzo del kilowattora italiano e pesano come un macigno sui conti delle piccole imprese, come più volte denunciato e documentato da Confartigianato (un’idea potrebbe essere quella di destinare a questo scopo una quota delle somme recuperate grazie alle nuove norme sulle compensazioni Iva).

Ma c’è anche un terzo intervento che potrebbe avere effetti benefici sulla crescita. Il governo potrebbe decidere, senza aspettare le tirate d’orecchi dell’Europa, di mandare un segnale di «virtuosità finanziaria» ai mercati internazionali, varando un piano ventennale di dismissioni del patrimonio pubblico (la quota collocabile sul mercato è di diverse centinaia di miliardi di euro). Privatizzazioni e dismissioni sono sostanzialmente ferme dal 2006, e questo a dispetto dell’impegno a farle ripartire sottoscritto nel programma elettorale del centro-destra. Rispettare quell’impegno renderebbe i conti pubblici dell’Italia meno vulnerabili alla speculazione internazionale, limitando i rischi di un innalzamento dei tassi di interesse sui nostri titoli pubblici. Ma avrebbe anche un potente effetto di rassicurazione all’interno, verso famiglie e imprese, ove fosse accompagnato dall’impegno solenne a interrompere la deriva attuale, in cui la tenuta dei conti pubblici è assicurata da tagli e dilazioni dei pagamenti, in buona sostanza dal soffocamento dell’economia.

È realistica questa via? È davvero possibile, contemporaneamente, dare ossigeno alle imprese e aggredire il debito pubblico?

Difficile dirlo, ma due riflessioni mi fanno pensare che possa esserlo. La prima è che il patrimonio pubblico è dello stesso ordine di grandezza del debito (1800 miliardi) e la parte di esso che è effettivamente collocabile sul mercato non è affatto trascurabile (almeno 400 miliardi di euro secondo le valutazioni degli specialisti). Venderne una parte non basterebbe a portarci al 60% del Pil, come vorrebbero le regole europee, ma scendere sotto il 100% sarebbe già un grande risultato. Senza considerare che un contributo non irrisorio alla riduzione del debito pubblico potrebbero darlo anche sequestri e confische dei patrimoni della criminalità organizzata, il cui ammontare è sconosciuto ma presumibilmente non inferiore a parecchie centinaia di miliardi.

Ma la riflessione più importante è un’altra. Le strade alternative per tornare a crescere, ossia investimenti in capitale umano e federalismo fiscale, sono entrambe fondamentali, ma potranno dare i loro frutti solo fra una decina d’anni. Noi tutto questo tempo non l’abbiamo, o meglio non l’abbiamo più. Il nostro declino, relativo e assoluto, è iniziato intorno al 2001, circa dieci anni fa: non possiamo aspettarne altrettanti per invertire la rotta.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7968&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - La differenza tra immunità e impunità
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2010, 08:48:13 am
23/10/2010

La differenza tra immunità e impunità
   
LUCA RICOLFI

In tutta Europa si parla di cose serie, di come gestire la crisi economica e possibilmente uscirne. Anche in Italia se ne parla molto, e con grande preoccupazione, sulla grande stampa non meno che fra la gente. Non così nei palazzi della politica, dove quotidianamente va in scena il conflitto fra Pdl e Fli, ovvero la disfida fra Berlusconi e Fini. Mi sono sempre occupato poco di queste beghe, convinto che i problemi più gravi dell’Italia, quelli da cui dipende la nostra vita di tutti i giorni, siano quelli economico-sociali, e che un governo vada giudicato innanzitutto per come affronta quel tipo di problemi. E proprio in questo spirito, nelle ultime due settimane La Stampa ha messo molte delle sue energie su un duplice obiettivo: un bilancio di metà legislatura delle cose fatte fin qui, e un inventario delle cose ancora da fare. Ora però è diverso. Le beghe fra Pdl e Fli sono arrivate a un punto tale da mettere a repentaglio qualsiasi speranza di veder affrontati i nostri veri problemi. E il patto che si va profilando fra Berlusconi e Fini va, a mio parere, oltre qualsiasi ragionevole soglia di decenza.

Provo a dire perché. Berlusconi, lo sappiamo tutti, ha avuto ed ha una serie di problemi giudiziari. La maggior parte li ha scansati come un'anguilla, per lo più attraverso varie leggi ad personam, ma altri restano in piedi, ed altri ancora si profilano all'orizzonte. Alcuni ritengono che dovrebbe affrontare i processi, ora e subito, anche se questo dovesse rendergli estremamente difficoltoso esercitare le sue funzioni di presidente del Consiglio. Altri pensano che una parte della magistratura perseguiti Berlusconi, e che questo lo autorizzi a sottrarsi ai processi vita natural durante. Fra queste due posizioni estreme, tuttavia, da tempo si è fatta strada una posizione intermedia, che chiamerei la «soluzione Sartori», perché fu appunto Giovanni Sartori ad enunciarla con la massima chiarezza in un editoriale del Corriere della Sera di qualche anno fa. Secondo questa posizione un politico eletto, che sta governando, di fronte a un rinvio a giudizio che lo costringerebbe ad affrontare un processo dovrebbe avere la facoltà di scegliere fra due alternative: affrontare il processo subito, oppure ottenerne la sospensione fino al termine del proprio mandato. La ratio di questa soluzione è duplice: da un lato tutela il potere politico rispetto al potere giudiziario, dall’altro tutela le scelte dell’elettorato, impedendo che un governo liberamente eletto possa divenire ostaggio delle iniziative di singoli magistrati.

Nello stesso tempo, prevedendo comunque l’obbligo per il politico di affrontare il processo al più tardi alla fine del proprio mandato, tutela il principio costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Fino a qualche giorno fa sembrava questa la filosofia prevalente non solo in una parte dell’opposizione, segnatamente nel partito di Casini, ma anche fra i politici della maggioranza, non solo quelli di Futuro e libertà ma anche quelli del Pdl. Che infatti non si sono mai stancati di ripetere, in innumerevoli occasioni, che la richiesta di immunità per il premier non era una pretesa di impunità. Ora però non è più così. Nella commissione Affari costituzionali del Senato la maggioranza ha approvato, con il concorso degli uomini di Fini, una versione del cosiddetto lodo Alfano costituzionale che non solo prevede uno scudo per Berlusconi fino al termine del suo attuale mandato (2013), ma anche la reiterabilità dello scudo, ossia la possibilità di sospendere i processi più volte. In concreto significa che Berlusconi potrebbe sottrarsi ai suoi processi semplicemente facendosi rieleggere presidente del Consiglio o Presidente della Repubblica, carica da cui decadrebbe nel 2020, alla veneranda età di 84 anni.

Non solo, ma una volta approvato il lodo nell’attuale forma, sarebbe la Costituzione stessa a prevedere la possibilità di usare l’accesso alle più alte cariche dello Stato come strumento per sfuggire ai processi. Una norma pensata per salvare un singolo uomo politico determinerebbe un cambiamento permanente del Dna della nostra Carta fondamentale. A me pare troppo. Pur non votando mai per lui, non sono mai stato fra i demonizzatori di Berlusconi. Spesso mi è capitato di scrivere, sulla base dei miei studi e delle mie ricerche empiriche, che i suoi governi avevano fatto molto meno di quanto aveva promesso, ma anche molto di più di quanto i suoi avversari fossero disposti a riconoscergli. Inoltre non amo il «conservatorismo costituzionale» di tanti miei amici e colleghi, perché la Costituzione del 1948 mi pare superata e, come dicevano i comunisti italiani a proposito dell'Unione Sovietica, non priva di «tratti illiberali». Però quel che è troppo è troppo.

Capisco che per i finiani di Futuro e libertà l'opportunità politica e le ambizioni di partito facciano aggio su qualsiasi considerazione di correttezza istituzionale, di giustizia, di ragionevolezza. Capisco che i politici di Fli preferiscano glissare sulla distinzione fra uno scudo a tempo (che Fini stesso aveva promesso a Berlusconi) e uno scudo eterno, che nessuno si era sognato di promettere a chicchessia. E capisco pure il ragionamento politico - svolto ieri dal Secolo d'Italia, quotidiano vicino a Fini - per cui pur di avere le mani libere domani si è disposti a pagare il «dazio» dello scudo per Berlusconi oggi. Ma per noi cittadini è diverso. Per noi, o almeno per quanti di noi vogliono continuare a credere nell’uguaglianza di tutti, politici e comuni mortali, di fronte alla legge, la distinzione fra immunità e impunità è chiarissima. Sull’immunità si può discutere, se non altro perché è un istituto presente anche in altre democrazie. Sull’impunità diventa difficile, molto difficile, anche con la migliore buona volontà. Almeno finché vogliamo vivere in uno Stato di diritto.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7990&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - La differenza tra immunità e impunità
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2010, 03:40:41 pm
23/10/2010

La differenza tra immunità e impunità
   
LUCA RICOLFI

In tutta Europa si parla di cose serie, di come gestire la crisi economica e possibilmente uscirne. Anche in Italia se ne parla molto, e con grande preoccupazione, sulla grande stampa non meno che fra la gente. Non così nei palazzi della politica, dove quotidianamente va in scena il conflitto fra Pdl e Fli, ovvero la disfida fra Berlusconi e Fini. Mi sono sempre occupato poco di queste beghe, convinto che i problemi più gravi dell’Italia, quelli da cui dipende la nostra vita di tutti i giorni, siano quelli economico-sociali, e che un governo vada giudicato innanzitutto per come affronta quel tipo di problemi. E proprio in questo spirito, nelle ultime due settimane La Stampa ha messo molte delle sue energie su un duplice obiettivo: un bilancio di metà legislatura delle cose fatte fin qui, e un inventario delle cose ancora da fare. Ora però è diverso. Le beghe fra Pdl e Fli sono arrivate a un punto tale da mettere a repentaglio qualsiasi speranza di veder affrontati i nostri veri problemi. E il patto che si va profilando fra Berlusconi e Fini va, a mio parere, oltre qualsiasi ragionevole soglia di decenza.

Provo a dire perché. Berlusconi, lo sappiamo tutti, ha avuto ed ha una serie di problemi giudiziari. La maggior parte li ha scansati come un'anguilla, per lo più attraverso varie leggi ad personam, ma altri restano in piedi, ed altri ancora si profilano all'orizzonte. Alcuni ritengono che dovrebbe affrontare i processi, ora e subito, anche se questo dovesse rendergli estremamente difficoltoso esercitare le sue funzioni di presidente del Consiglio. Altri pensano che una parte della magistratura perseguiti Berlusconi, e che questo lo autorizzi a sottrarsi ai processi vita natural durante. Fra queste due posizioni estreme, tuttavia, da tempo si è fatta strada una posizione intermedia, che chiamerei la «soluzione Sartori», perché fu appunto Giovanni Sartori ad enunciarla con la massima chiarezza in un editoriale del Corriere della Sera di qualche anno fa. Secondo questa posizione un politico eletto, che sta governando, di fronte a un rinvio a giudizio che lo costringerebbe ad affrontare un processo dovrebbe avere la facoltà di scegliere fra due alternative: affrontare il processo subito, oppure ottenerne la sospensione fino al termine del proprio mandato. La ratio di questa soluzione è duplice: da un lato tutela il potere politico rispetto al potere giudiziario, dall’altro tutela le scelte dell’elettorato, impedendo che un governo liberamente eletto possa divenire ostaggio delle iniziative di singoli magistrati.

Nello stesso tempo, prevedendo comunque l’obbligo per il politico di affrontare il processo al più tardi alla fine del proprio mandato, tutela il principio costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Fino a qualche giorno fa sembrava questa la filosofia prevalente non solo in una parte dell’opposizione, segnatamente nel partito di Casini, ma anche fra i politici della maggioranza, non solo quelli di Futuro e libertà ma anche quelli del Pdl. Che infatti non si sono mai stancati di ripetere, in innumerevoli occasioni, che la richiesta di immunità per il premier non era una pretesa di impunità. Ora però non è più così. Nella commissione Affari costituzionali del Senato la maggioranza ha approvato, con il concorso degli uomini di Fini, una versione del cosiddetto lodo Alfano costituzionale che non solo prevede uno scudo per Berlusconi fino al termine del suo attuale mandato (2013), ma anche la reiterabilità dello scudo, ossia la possibilità di sospendere i processi più volte. In concreto significa che Berlusconi potrebbe sottrarsi ai suoi processi semplicemente facendosi rieleggere presidente del Consiglio o Presidente della Repubblica, carica da cui decadrebbe nel 2020, alla veneranda età di 84 anni.

Non solo, ma una volta approvato il lodo nell’attuale forma, sarebbe la Costituzione stessa a prevedere la possibilità di usare l’accesso alle più alte cariche dello Stato come strumento per sfuggire ai processi. Una norma pensata per salvare un singolo uomo politico determinerebbe un cambiamento permanente del Dna della nostra Carta fondamentale. A me pare troppo. Pur non votando mai per lui, non sono mai stato fra i demonizzatori di Berlusconi. Spesso mi è capitato di scrivere, sulla base dei miei studi e delle mie ricerche empiriche, che i suoi governi avevano fatto molto meno di quanto aveva promesso, ma anche molto di più di quanto i suoi avversari fossero disposti a riconoscergli. Inoltre non amo il «conservatorismo costituzionale» di tanti miei amici e colleghi, perché la Costituzione del 1948 mi pare superata e, come dicevano i comunisti italiani a proposito dell'Unione Sovietica, non priva di «tratti illiberali». Però quel che è troppo è troppo.

Capisco che per i finiani di Futuro e libertà l'opportunità politica e le ambizioni di partito facciano aggio su qualsiasi considerazione di correttezza istituzionale, di giustizia, di ragionevolezza. Capisco che i politici di Fli preferiscano glissare sulla distinzione fra uno scudo a tempo (che Fini stesso aveva promesso a Berlusconi) e uno scudo eterno, che nessuno si era sognato di promettere a chicchessia. E capisco pure il ragionamento politico - svolto ieri dal Secolo d'Italia, quotidiano vicino a Fini - per cui pur di avere le mani libere domani si è disposti a pagare il «dazio» dello scudo per Berlusconi oggi. Ma per noi cittadini è diverso. Per noi, o almeno per quanti di noi vogliono continuare a credere nell’uguaglianza di tutti, politici e comuni mortali, di fronte alla legge, la distinzione fra immunità e impunità è chiarissima. Sull’immunità si può discutere, se non altro perché è un istituto presente anche in altre democrazie. Sull’impunità diventa difficile, molto difficile, anche con la migliore buona volontà. Almeno finché vogliamo vivere in uno Stato di diritto.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Le ragioni del partito del Sud
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2010, 12:05:10 pm
1/11/2010

Le ragioni del partito del Sud
   
LUCA RICOLFI


È passata relativamente in sordina, sui grandi quotidiani di ieri, la notizia della nascita di Forza del Sud, un nuovo partito che aspira a rappresentare la Sicilia ma anche a propagarsi e replicarsi nelle altre regioni del Mezzogiorno: potenzialmente una Lega Sud, una copia speculare della Lega Nord di Umberto Bossi. Il fondatore del partito, Gianfranco Miccichè, è anche membro dell’attuale governo, ed è il politico che nel 2001 regalò a Forza Italia la vittoria per 61 collegi a zero in Sicilia.

È possibile che l’esperimento fallisca, o serva soltanto al suo promotore a diventare governatore della Sicilia, quando nell’isola si tornerà a votare per eleggere l’Assemblea Regionale. Così dicono i nemici e i maligni. Però secondo me faremmo male a sottovalutare l’evento, sia sul piano strettamente politico sia sul piano più ampiamente culturale.
Sul piano politico, a dispetto dello sconcerto di alcuni uomini vicini al premier, che hanno visto l’iniziativa di Miccichè come un tradimento, Forza del Sud potrebbe rivelarsi l’asso nella manica del centro-destra alle prossime elezioni, la carta che scongiura lo scenario più temibile per Berlusconi.

Che Pdl e Lega si ripresentino alleati, senza tuttavia l’appoggio delle due componenti meridionaliste del centro-destra, ossia l’Udc di Casini e Futuro e libertà di Fini. Un’eventualità che toglierebbe credibilità al centro-destra nelle regioni meridionali, e che potrebbe sfociare in una catastrofe elettorale per Bossi e Berlusconi nel caso la rappresentanza del Mezzogiorno venisse monopolizzata dagli altri due probabili poli elettorali, ossia l’alleanza di sinistra Pd-Sel-Idv (Bersani-Vendola-Di Pietro) e l’alleanza di centro Udc-Fli-Api-Mpa (Casini-Fini-Rutelli-Lombardo). In questo scenario Pdl e Lega farebbero il pieno dei voti nel Nord ma perderebbero il Mezzogiorno, perché il Pdl non può presentarsi al Sud alleato con la Lega e al tempo stesso privo di una credibile gamba meridionale. Di qui l’utilità potenziale del partito di Miccichè per il centro-destra, e la sua pericolosità per il Terzo Polo e, indirettamente, per la sinistra stessa, attualmente impegnata in Sicilia in uno spettacolare esperimento trasformistico (governare con le forze anti-berlusconiane del centro-destra). Se Forza del Sud (Fds) crescesse in Sicilia e si espandesse in altre regioni meridionali, potrebbe fornire a Berlusconi la copertura di cui ha bisogno se desidera mantenere l’alleanza con la Lega e non sparire dal Sud. E la simpatia con cui alcuni illustri esponenti del governo, per esempio Stefania Prestigiacomo e Mara Carfagna (entrambe della Fondazione Liberamente), hanno guardato alla nascita di Forza del Sud fa pensare che l’ipotesi di un tridente Pdl-Lega-Fds alle prossime elezioni non sia del tutto campata per aria.

Ma non è tutto. Il partito di Miccichè andrebbe seguito con attenzione anche perché, a mio parere, alcuni tasselli della sua analisi dei problemi del Mezzogiorno non sono infondati. E più in generale perché, al di là di quello che Miccichè ha detto l’altro ieri a Palermo, è la cultura del Mezzogiorno in quanto tale, con le sue istanze e le sue analisi, che meriterebbe di essere presa più sul serio di quanto solitamente facciamo, specie qui al Nord. Ho passato un paio di anni a documentare il disastro delle regioni meridionali, e il processo di vera e propria spoliazione che il Nord subisce ogni anno da parte del resto d’Italia, ivi compreso il Mezzogiorno. Sono in tutto 50 (cinquanta) miliardi che ogni anno lasciano il Nord per foraggiare il resto del Paese. L’ho ribadito più volte, e l’ho documentato in un libro recente (Il sacco del Nord). E tuttavia questo fatto macroscopico, che riguarda la spesa corrente e a cui si dovrà prima o poi porre qualche rimedio, non deve farci dimenticare altri fatti, altrettanto importanti se si vogliono affrontare i problemi del Mezzogiorno in modo costruttivo, e soprattutto con spirito equanime, senza forzature campanilistiche.

Il primo fatto è che, per una parte della storia d’Italia, il vittimismo delle popolazioni meridionali è sostanzialmente giustificato. È vero, ad esempio, che buona parte del divario Nord-Sud non esisteva al momento dell’Unità d’Italia ma si è prodotto nei primi 90 anni, dal 1861 al 1951: così rivelano le ricostruzioni più recenti degli storici dell’economia. Quanto alla seconda parte della nostra storia, dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi, è vero che la Cassa per il Mezzogiorno prima e la «Nuova programmazione» poi hanno invertito la tendenza, nonché largamente (e spesso malamente) risarcito il Mezzogiorno, ma è anche vero che negli ultimi anni, mentre la spesa pubblica corrente continuava a favorire il Sud, quella in conto capitale (che finanzia gli investimenti e le infrastrutture) lo ha invece gravemente penalizzato.

Il secondo fatto su cui riflettere riguarda la struttura degli squilibri territoriali, che contrappongono le regioni del Nord a quelle del Sud. Qui, contrariamente a quanto venti anni di propaganda anti-meridionale hanno indotto a credere, lo squilibrio fondamentale non consiste nella quantità di risorse pubbliche che affluiscono alle regioni meridionali, alcune delle quali sono anzi addirittura sotto-finanziate (così come, simmetricamente, al Nord sono sovra-finanziate tutte e tre le regioni a statuto speciale). I due squilibri fondamentali da rimuovere sono piuttosto l’evasione fiscale e lo spreco di risorse pubbliche, quest’ultimo sia sotto forma di sussidi indebiti (falsi invalidi, imprese fantasma, finti corsi di formazione), sia sotto forma di pessimi servizi pubblici, una delle più potenti cause di povertà ed emarginazione.

Ma c’è un ultimo ordine di fatti su cui vorrei attirare l’attenzione, perché ne sono stato testimone diretto parlando con politici, amministratori e comuni cittadini del Mezzogiorno. Il Mezzogiorno non è tutto uguale, e soprattutto non è fermo. Esistono anche realtà ben amministrate (persino nelle regioni di mafia), ma soprattutto c’è una parte della classe dirigente meridionale che si rende perfettamente conto che i soldi sono finiti, che non si può andare avanti come in passato, e che il fallimento delle politiche per il Mezzogiorno è prima di tutto responsabilità del Mezzogiorno stesso, dei suoi politici, imprenditori, comuni cittadini. Questo pezzo di Sud non rifiuta affatto la sfida della Lega, il suo invito al buon governo e al rispetto delle leggi, ma pretende che anche lo Stato centrale torni a fare la sua parte, ad esempio sbloccando gli investimenti in infrastrutture. Una buona politica economica nel Mezzogiorno dovrebbe partire proprio da questi due pilastri: più e non meno rigore sulla spesa corrente, scommesse più generose in conto capitale, a partire dallo sblocco dei fondi europei.
Non so se Forza del Sud saprà essere tutto questo, un partito consapevole della forza del Mezzogiorno ma anche delle sue responsabilità e delle sue ragioni. Ancor meno so se un tale partito darebbe più fastidio all’attuale destra o all’attuale sinistra. Ma so che non saremmo in pochi, al Nord come nel resto del Paese, a guardarlo con simpatia e con speranza

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8025&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Le elezioni divideranno l'Italia in due
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2010, 06:12:45 pm
9/11/2010

Le elezioni divideranno l'Italia in due
   
LUCA RICOLFI

E’ comprensibile che il mondo politico sia eccitato. Fini sta consumando il suo strappo, e Berlusconi - dopo quasi vent’anni - potrebbe anche essere costretto a uscire di scena. Vedremo.

Sulla carta la fine del regno di Berlusconi presenta almeno un aspetto positivo: quello di togliere dalla scena la principale fonte di divisione degli italiani.

E’ lecito sperare che, venuto meno il pomo della discordia, si possa tornare a ragionare di politica in modi non dico un po’ meno incivili (su questo è inutile farsi illusioni), ma almeno un po’ meno partigiani. E tuttavia basta osservare con un minimo di distacco il modo in cui il regno di Berlusconi sta tramontando per spegnere non pochi ottimismi sul dopo. Già, perché la qualità del «dopo» dipenderà molto dalle modalità della deposizione del monarca.

C’è una prima possibilità, e cioè che sia Futuro e libertà, il partito di Fini, a far cadere il governo. In questo caso si aprirebbe una drammatica resa dei conti all’interno del centrodestra, perché il gesto di Fini - per le modalità con cui si sta consumando - non potrebbe non essere vissuto dai fedeli di Berlusconi come un tradimento, come Bruto che pugnala Cesare.

E questo per l’ottima ragione che quasi tutto ciò che oggi Fini rimprovera a Berlusconi (a partire dalla «vergogna» della legge elettorale), fino a ieri era condiviso da Fini stesso.
Ma un centrodestra spaccato fra seguaci di Fini e nostalgici del Cavaliere, fra antiberlusconiani e anti-antiberlusconiani sarebbe una sciagura per il nostro sistema politico.

C’è una seconda possibilità, ed è che a chiudere l’era di Berlusconi sia il temutissimo (da lui) governo tecnico, un Comitato di Liberazione Nazionale con dentro tutti i nemici del premier, da Di Pietro a Fini. Se Napolitano ne consentisse la nascita non farebbe che applicare procedure previste dalla Costituzione, ma è difficile non vedere che in un simile esecutivo, in cui chi ha perso elezioni governa contro chi le ha vinte, metà degli italiani scorgerebbe un tradimento del mandato popolare, mentre l’altra metà non potrebbe che vedervi l’ennesima conferma dell’incapacità dell’opposizione di battere Berlusconi politicamente, senza bisogno di magistrati, veline e ribaltoni parlamentari.

C’è infine un’ultima possibilità, e cioè che la caduta di Berlusconi, chiunque ne sia l’artefice, ci porti dritti a nuove elezioni, giusto in concomitanza con i festeggiamenti per l'Unità d’Italia. Ma anche questo scenario non è rassicurante. Non solo per la prevedibile reazione negativa dei mercati, con conseguente aumento del costo del nostro debito pubblico, ma per lo scenario politico che si aprirebbe davanti a noi. Che cosa potremmo aspettarci, infatti, da una competizione elettorale condotta dagli attori attualmente in campo?

La previsione più realistica mi pare quella di una polarizzazione del conflitto politico sull’asse Nord-Sud, con il Pdl e la Lega sostanzialmente schierati con il Nord, i partiti del terzo Polo decisi a fermare il già impervio cammino del federalismo, e la sinistra in mezzo, a bagnomaria fra la fedeltà al progetto federale e la necessità di allearsi con i suoi nemici.
In buona sostanza un match Bossi-Berlusconi-Tremonti contro Fini-Casini-Bersani.

Se così dovessero andare le cose, l’Italia ne uscirebbe più debole e divisa che mai, e questo a prescindere da quale dei due schieramenti dovesse prevalere nel confronto elettorale.
Quel che due schieramenti del genere avrebbero in comune, infatti, è precisamente la mancanza di una visione unitaria dell’interesse nazionale. Lo schieramento del Nord non vede i legittimi interessi del Sud, che sono innanzitutto di veder aumentare gli investimenti pubblici in infrastrutture. Lo schieramento del Sud non vede i legittimi interessi del Nord (primo fra tutti il federalismo), e interpreta come interessi del Mezzogiorno quelli che, in realtà, sono soltanto gli interessi di chi lo ha mal governato finora: i cittadini del Sud non hanno bisogno di meno federalismo ma, semmai, di una classe dirigente che ponga termine alla dilapidazione delle risorse pubbliche, e si metta finalmente in grado di erogare servizi all’altezza di un Paese moderno.

Ciò di cui oggi si avverte la mancanza è proprio questo: un partito, o un’alleanza, che non giochi sulla divisione Nord-Sud, ma sappia affrontare gli squilibri territoriali in tutta la loro complessità tecnica e istituzionale, al di fuori delle vuote formule con cui, in questi giorni, politici di ogni provenienza e colore stanno conducendo il loro misero gioco.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8059&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Pdl e Pd, tramonti paralleli
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2010, 06:17:37 pm
28/11/2010

Pdl e Pd, tramonti paralleli

LUCA RICOLFI


Non so se andremo a nuove elezioni presto, ad esempio il 27 marzo 2011, come ipotizzano in molti.
Però mi pare improbabile, molto improbabile, che la legislatura duri fino al suo termine naturale, nella primavera del 2013.

E questo a prescindere da come andrà a finire il B-day (14 dicembre), ovvero il giorno in cui, su Silvio Berlusconi e il suo governo, si pronunceranno sia la Corte costituzionale (sul «legittimo impedimento», l’attuale scudo giudiziario del premier), sia il Parlamento, con un doppio voto di fiducia (al Senato) e sfiducia (alla Camera).

L’attuale impossibilità di governare, infatti, sembra destinata a perpetuarsi quale che sia l’esito di quel voto: se Berlusconi dovesse essere sfiduciato potrebbe sopravvivere solo imbarcando Fini e/o Casini, con conseguente abbandono del punto più importante del programma di governo (il federalismo); se viceversa dovesse ottenere la fiducia, la situazione sarebbe ancora più precaria.

Perché il margine di voti in Parlamento sarebbe così piccolo e incerto da precipitarci in una nuova era Prodi, fatta di piccole manovre politiche e sostanziale paralisi.
Meglio nuove elezioni, dunque?

Non è detto, purtroppo. Il mero fatto di interrompere anticipatamente la legislatura potrebbe esserci fatale, perché nei molti mesi che intercorrerebbero fra la caduta di Berlusconi e l’insediamento del suo successore i mercati finanziari potrebbero disfare in poche settimane l’opera di tamponamento pazientemente compiuta da Tremonti in questi due anni. Un’opera su cui si possono avere opinioni diverse, ma che comunque ha finora permesso all’Italia di stare al riparo dalla speculazione internazionale, evitando una lievitazione del costo del debito pubblico.

Ma supponiamo per un attimo che un simile pericolo non esista e che, miracolosamente, l’Italia si possa permettere il lusso di affrontare i prossimi sei mesi in uno stato di apnea, in attesa che il ritorno alle urne ci restituisca un governo nuovo di zecca. Che cosa ci garantisce che, una volta tornati a galla dopo il voto, avremmo un tale governo?

Gli esperti di cose elettorali concordano almeno su una cosa: né il centro-destra né il centro-sinistra potrebbero ottenere la maggioranza dei seggi sia alla Camera sia al Senato. E questo, è importante sottolinearlo, non perché la legge elettorale è «una porcata» (come molti amano ripetere) ma, paradossalmente, perché non lo è abbastanza. La presenza del premio di maggioranza nazionale alla Camera rende la legge iniqua (si può avere il 55% dei seggi con il 35% dei voti), ma la sua assenza al Senato tende a produrre ingovernabilità, perché nessun meccanismo assicura che chi ottiene la maggioranza dei seggi alla Camera possa averla anche al Senato.

Se ne potrebbe concludere che il problema è la legge elettorale, e che dunque la soluzione è vararne una nuova. Ma non è così. La legge elettorale è un problema, se non altro perché allontana (comprensibilmente) i cittadini dalla vita politica. Ma non è il problema, perché nessuna legge elettorale può darci, nella stagione di tramonto del berlusconismo, quello di cui avremmo davvero bisogno. E cioè un’alternativa politica e culturale al berlusconismo stesso. Potrà sembrare strano dire quel che sto per dire, ma le vicende di questi mesi ci mostrano invariabilmente due tendenze apparentemente inconciliabili: la mesta fine del berlusconismo e l’appannamento di qualsiasi credibile alternativa ad esso. E, quel che è ancora più strano, ci mostrano inquietanti somiglianze fra i due modi dell’antiberlusconismo, quello di destra (guidato da Fini) e quello di sinistra (guidato da Bersani).

Entrambi oscillano fra il piccolissimo cabotaggio delle imboscate parlamentari, delle formule astratte, dei segnali in codice, e il demagogico sostegno alle proteste di piazza. Basta leggere le cronache di questi mesi per misurare in tutta la sua drammaticità l’assenza di una vera classe dirigente. Mentre tutta l’Europa si chiede come salvare l’euro, come evitare una nuova tempesta finanziaria, come tornare a crescere in una situazione in cui le risorse stanno diminuendo per tutti, i politici che aspirano a prendere il posto di Berlusconi si rivelano ancora più berlusconiani di lui. Anziché trovare il coraggio di dire agli italiani quanto è drammatica la situazione in cui versa l’Europa, e quanto sia stato irresponsabile da parte di Berlusconi minimizzare la gravità dei nostri mali, preferiscono cavalcare l’onda della protesta, sui tetti delle facoltà occupate, nelle piazze, sui giornali, nelle trasmissioni televisive. Come se oggi, in Italia, ci fossero le risorse per soddisfare le più che comprensibili richieste di tutti. Come se oggi, in Italia, non vi fosse innanzitutto un drammatico problema di dissipazione delle risorse pubbliche, dagli ospedali alle università, dalla giustizia alle (false) pensioni di invalidità.

Una deriva demagogica che, probabilmente, è inevitabile per gli uomini di Fini, il cui primo problema è esistere, non sparire dalla scena della politica. Ma che non è affatto obbligata per la sinistra, che esiste da sempre, e semmai ha un altro problema, quello di offrire al Paese un’alternativa per il dopo-Berlusconi. Qui davvero non capisco. Come è possibile che, in presenza della più grave crisi del berlusconismo, i dirigenti del Partito democratico passino il loro tempo a baloccarsi con riti identitari e ad almanaccare sulla politica delle alleanze, quando la domanda che gli elettori si fanno è una sola: ma voi, se andaste al governo, che cosa sareste in grado di fare di diverso e di meglio di quel che offre l’attuale governo?

Una domanda che ha sotto di sé tante altre domande, tanti altri dubbi. Qual è la vostra idea del futuro dell’Italia? Come pensate di far ripartire la crescita? Avete qualcosa di concreto da dire anche ai cittadini del Nord? Smonterete o manterrete quel poco di federalismo che ha messo in piedi la Lega? Dove li prenderete i soldi per fare le mille cose che rimproverate a Tremonti di non aver fatto? A quali gruppi sociali chiederete di pagare il conto? Ma soprattutto, domanda delle domande: visto che (per ora) non siete d’accordo su quasi nulla, che cosa ci garantisce che, una volta vinte le elezioni, non sarete paralizzati dalle vostre divisioni interne, come ai tempi del governo Prodi?

Finché Bersani non proverà a rispondere a queste domande, e per rispondere intendo rispondere sul serio, senza battute e formule vuote, non potremo che continuare ad osservare ciò che da un anno a questa parte osserviamo: che il partito di Berlusconi perde inesorabilmente consensi, ma nessuno di essi si dirige verso il partito di Bersani

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8142&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Il palazzo degli incredibili
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2010, 05:23:10 pm
13/12/2010

Il palazzo degli incredibili

LUCA RICOLFI

C’è qualcosa di surreale nel dibattito di questi mesi in Italia. Se provate a fare una statistica delle parole più ripetute da giornali e televisioni troverete che sono parole come Berlusconi, Fini, Bocchino, Fli, fiducia, sfiducia, maggioranza, voto. Da mesi l’Italia è appesa a un malsano sentimento di sospensione, di incertezza, di attesa. Prima l’attesa per il discorso di Fini a Mirabello (5 settembre), poi quella per il discorso di Berlusconi in parlamento (voto di fiducia del 29 settembre), poi quella per il discorso di Fini a Bastia Umbra (7 novembre), infine quella per il discorso che Berlusconi terrà domani, seguito dal doppio voto di fiducia (al Senato) e di sfiducia (alla Camera). In mezzo le esternazioni di Bersani, di Casini, di Bocchino, le decine e decine di interviste dei leader minori, per non parlare delle penose conferenze stampa dei parlamentari in procinto di cambiare bandiera.

E tutto questo per che cosa?
Per un voto che, comunque vada, servirà solo a decidere una manche della partita a tennis che Berlusconi e Fini da due anni stanno giocando sulla pelle di tutti noi. Vista dall’esterno, ad esempio da un qualsiasi Paese europeo, è una situazione ridicola, per non dire tragica.

Mentre il mondo vive una delle più drammatiche crisi dei rapporti internazionali dai tempi della caduta del Muro di Berlino, mentre le economie avanzate si trovano di fronte a rischi immensi (da una stagnazione di anni, fino al crollo dell’euro e del dollaro), mentre gli esperti si dividono sulle migliori terapie da adottare, noi - e dicendo noi parlo innanzitutto dell’informazione - perdiamo ancora del tempo e dell’attenzione a interpretare una frase di Bocchino, a decodificare una battuta di Bossi, a indovinare le intenzioni di un parlamentare «corteggiato» (per non dire altro). Un doppio provincialismo attanaglia il discorso pubblico: siamo provinciali perché parliamo sempre e solo dell’Italia, ma siamo provinciali anche perché, con gli immensi problemi economico-sociali che l’Italia ha di fronte, con le enormi difficoltà che ci attendono, permettiamo al nostro ceto politico di baloccarsi nei suoi giochi di palazzo, nelle sue vanità, nelle sue miserevoli rivalità personali, senza mai metterlo di fronte alle sue responsabilità vere. Che non sono di salvare un governo, o di costituirne uno nuovo, ma di offrire soluzioni credibili. Possibilmente più credibili di quelle che l’attuale governo ha fornito fin qui. A me non pare che i protagonisti dell’attuale tempesta in un bicchier d’acqua parlamentare lo stiano facendo. Non mi pare che siano minimamente credibili.

Non è credibile Berlusconi, che si è permesso il lusso di governare mediocremente in una situazione che avrebbe richiesto ben altre priorità (quanto tempo è stato dissipato sui problemi giudiziari del premier?) e ben altro coraggio (come si può pensare di combattere gli sprechi con i tagli lineari?).

Non è credibile Fini, la cui giusta battaglia per una destra moderna (e normale) è compromessa dai modi in cui viene combattuta e dai soggetti che la conducono. Agli osservatori non accecati dalla passione politica è fin troppo evidente che la scoperta dei limiti del berlusconismo è tardiva, strumentale e insincera. E ancor più evidente è la scorrettezza di combattere una rancorosa guerra politico-personale dalla posizione di presidente della Camera, una scorrettezza istituzionale che le opposizioni non stigmatizzano solo perché, in questa fase, fa loro gioco.

Ma non è credibile, purtroppo, neppure Bersani. Il quale ha perfettamente ragione quando dice che, con i mercati finanziari in agguato, con gli enormi problemi del nostro debito pubblico, non possiamo permetterci di andare alle urne ora. Ma dimentica di aggiungere che, altrettanto se non più pericolosa per la stabilità dell’economia, è la prospettiva su cui l’opposizione di sinistra mostra di giocare le sue carte: quella dell’apertura di una «fase nuova», una stagione di negoziati e manovre politiche il cui sbocco sembra essere un governo degli sconfitti alle ultime elezioni, pudicamente battezzato «governo di responsabilità istituzionale».

Non sono fra quanti assumono che siamo ormai fuori dal regime parlamentare, e che quindi la caduta di un governo implichi automaticamente il ritorno alle urne. Su questo la penso come Giovanni Sartori: la flessibilità dei regimi parlamentari, in virtù della quale, caduta una maggioranza, si può tentare di costituirne un’altra, non è un difetto ma semmai un pregio di tali regimi. Però est modus in rebus. Un conto è ritoccare una maggioranza, un conto è capovolgerla. E, anche ammesso che si voglia e si possa varare un governo degli sconfitti, il punto essenziale è uno solo: un governo per fare cosa?

E’ qui che l’opposizione rivela tutta la sua inconsistenza. Non solo perché è divisa persino sulla legge elettorale (l’unico suo vero cavallo di battaglia), ma perché nessuno ha finora prodotto risposte convincenti alle domande fondamentali. Ad esempio: sulla politica economico-sociale seguireste le idee di Ichino o quelle di Vendola? Quelle dell’ala riformista del Pd o quelle della Cgil? Ancora più sacrifici per ridurre le tasse sui produttori, o più spesa per salvare l’università, la ricerca, la cultura? Un federalismo più responsabile o più solidale? E soprattutto, visto che la torta non cresce più, dove trovare i quattrini di cui c’è bisogno?

Né basta rispondere con le solite formule: riduzione dei costi della politica, contrasto all’evasione fiscale, lotta alle rendite. Su quei versanti le risorse ulteriori che si possono reperire in tempi brevi sono molto scarse (costi della politica), o sono già contabilizzate fin troppo ottimisticamente nella manovra finanziaria (evasione fiscale), o sono armi a doppio taglio (che ne sarebbe delle aste sui titoli di Stato se, in questo frangente, l’Italia decidesse di tassarli di più?). Sono convinto anch’io che ci voglia una nuova agenda economica, e che il prudente attendismo di Tremonti non basti più. Ma il punto è che chiunque aspiri a guidare una nuova politica economica e sociale non può cavarsela con formule propagandistiche. Perché il primo problema di qualsiasi governo europeo in questa fase non è di convincere i propri cittadini, ma di convincere anche i mercati. La mia impressione è che molti critici di Tremonti semplicemente non si rendano conto degli ordini di grandezza in gioco: mentre si discute di alcune centinaia di milioni in più o in meno a qualche ente locale o ministero o istituzione, non ci si rende conto che un aumento anche di un solo punto del costo del nostro debito pubblico ci può presentare, di colpo, un conto da 18 miliardi di euro all’anno, una somma pari ad una Finanziaria e 50-100 volte superiore alle cifre di cui con tanto accanimento si parla e si negozia in questa stagione di tagli.

Per questo la vacuità dell’opposizione è un problema per l’Italia. Se cacciare Berlusconi, o «aprire una nuova fase», bastasse per avviarci a una soluzione dei nostri problemi, non troveremmo nulla di preoccupante nella deriva identitaria del Pd, nel tentativo di Bersani di «scaldare i cuori» più e meglio di Nichi Vendola. Ma purtroppo non è così. Il rischio non è che Berlusconi resti in sella, visto che al suo disarcionamento stanno già lavorando il tempo, la (non infinita) pazienza degli italiani, nonché la sua attitudine ad «autoribaltarsi», come causticamente ha fatto notare Bersani. Il rischio vero è che, nel momento in cui Berlusconi sarà costretto a farsi da parte, non ci sia nessuno abbastanza credibile, e abbastanza ferrato, da saper portare la nave dell’Italia al riparo dalla tempesta che l’attende.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Fini può essere un problema nel terzo polo
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2010, 05:15:37 pm
18/12/2010

Fini può essere un problema nel terzo polo

LUCA RICOLFI

Ora che il fumo e la polvere si sono un po’ diradati dai molti campi di battaglia - Parlamento, piazze, mass media - forse si può cominciare a trarre qualche lezione da quello che è successo martedì, quando è fallito l’ultimo tentativo di disarcionare il Cavaliere.

La lezione più importante mi sembra questa: forse non vedremo mai la sconfitta politico-elettorale di Berlusconi. Dopo l’ultima, infruttuosa, sfida di Veltroni (elezioni del 2008), i tentativi di porre fine alla stagione del berlusconismo sono stati solo di quattro tipi, non propriamente politici: giudiziario, mediante i processi; mediatico, mediante le campagne di stampa; fisico, mediante il lancio di oggetti contundenti; parlamentare, mediante il passaggio all’opposizione di deputati e senatori di maggioranza. Né le dichiarazioni delle opposizioni dopo la sconfitta suggeriscono che, per il futuro, le vie privilegiate si discosteranno dalle solite: spasmodica attesa per il verdetto della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento, manovre di palazzo, imboscate parlamentari quotidiane. Il «vasto programma» dei principali leader di opposizione, infatti, si sostanzia essenzialmente in una sequela di annunci di guerra: ora ci divertiamo, aspettatevi un «Vietnam parlamentare», non potete fare niente se non trattate con noi.

Tutto ciò, a mio parere, allontana di molto l’eventualità che alle prossime elezioni vi sia un’alternativa credibile all’attuale centro-destra. E nondimeno il modo in cui il problema si pone nelle due opposizioni, quella di sinistra e quella del Terzo polo, è alquanto diverso. A sinistra il problema di fondo è la conclamata incapacità di un gruppo dirigente, ormai consunto dai propri riti e prigioniero della sua storia, di abbandonare rivalità interne, settarismi, riflessi condizionati, abitudini mentali, prima fra tutte quella di ragionare per alleanze e per formule astratte. Più che mai resta vero, quasi dieci anni dopo, quel che profeticamente ebbe a dire Nanni Moretti: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!».

Nel caso del Terzo polo, invece, il problema non è quello di costruire un’alternativa al centro-destra, bensì quello di correggerne l’evoluzione o, se preferite, di pilotare la nascita della sua variante post-berlusconiana. Il problema di Fini e Casini, non da oggi, non è solo (e forse nemmeno prevalentemente) il legittimo desiderio di succedere a Berlusconi, ma è il tipo di centro-destra che Bossi e Berlusconi hanno costruito intorno a sé stessi. Un centro-destra cui, non senza motivo, vengono rimproverati il populismo, lo scarso rispetto per le istituzioni, l’ostilità verso gli immigrati, la disattenzione per il Mezzogiorno, e infine di aver tradito la promessa di una «rivoluzione liberale». Anche se quest’ultimo rimprovero non può certo essere riservato a Bossi e Berlusconi (in passato i partiti di Fini e Casini sono stati ancora più statalisti e spendaccioni), è vero che la maggior parte dei rimproveri non sono infondati. Si possono condividere oppure no le ragioni di Fini e Casini, ma resta il fatto che la loro visione della politica, la loro idea di centro-destra, i valori che essi difendono, sono perfettamente ragionevoli. Meritano una discussione seria. Hanno tutto il diritto di aprire una riflessione.

È qui, però, che interviene una complicazione non da poco. La credibilità di Casini e quella di Fini sono del tutto diverse. Casini ha iniziato la sua battaglia da molti anni, fin da quando era Presidente della Camera (legislatura 2001-2006). Il suo comportamento, sia come terza carica dello Stato, sia come leader dell’Udc, è stato sempre corretto, e fondamentalmente leale verso gli alleati. Quando non è stato più in sintonia con Berlusconi, ha scelto di correre da solo, ed è stato all’opposizione sia contro il centro-sinistra sia contro il centro-destra. La sua opposizione è stata quasi sempre costruttiva. Le cose che dice ora le ripete da molti anni.

Non così Fini. Il suo punzecchiamento nei confronti di Berlusconi è iniziato poco dopo lo scioglimento di An nel Pdl. I motivi del suo passaggio all’opposizione sono stati troppo evidentemente strumentali, tardivi, e difficili da conciliare con le sue scelte passate, sempre largamente in sintonia con quelle di Berlusconi. Una certa mancanza di pudore, o di buon gusto, gli ha impedito di arrossire al momento di denunciare cose da lui stesso ampiamente approvate (l’orribile legge elettorale) o giustificate (le leggi ad personam). Soprattutto, nessuno ha capito perché il suo nuovo partito, dopo avere dato la fiducia a Berlusconi sui famosi cinque punti (29 settembre), anziché spiegare in che cosa il governo li stesse tradendo, ed eventualmente aprire una battaglia sui contenuti, abbia preferito ingaggiare un confronto di principio, tutto interno al codice della politica, e come tale intraducibile nel linguaggio della gente comune: ci vuole una «discontinuità», non ci fidiamo di Berlusconi ma siamo «disponibili a un Berlusconi-bis», si deve «aprire una nuova fase», ci vuole «un governo che governi» (paradossale detto da chi lo paralizza da mesi).

Di qui un problema grande per il Terzo Polo. Molte cose che i suoi esponenti dicono sono più che sensate. Diverse critiche a Berlusconi e al berlusconismo sono preziose per uscire dalle secche in cui siamo incagliati. La loro visione della politica e del futuro dell’Italia merita rispetto e considerazione. Però il modo in cui i temi cari al Terzo Polo sono stati portati nel dibattito politico da Fini e dal suo partito rischiano di bruciarli. La spregiudicatezza dell’operazione condotta da Futuro e Libertà rischia di gettare discredito su una visione della politica e del mondo che tanti altri, con più pazienza e più rispetto per gli avversari, difendono da anni e anni.

Non resta che augurarsi che l’opinione pubblica non getti il bambino con l’acqua sporca. E che il bambino - l’idea di una destra diversa da quella che abbiamo conosciuto - riesca a fare qualche passo nella politica italiana.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Gli ostacoli che frenano il paese
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2011, 11:04:54 am
16/1/2011
 
Gli ostacoli che frenano il paese
 
LUCA RICOLFI
 
Come era prevedibile, un minuto dopo la vittoria dei sì nel referendum di Mirafiori, si erano già formati due partiti, entrambi convinti di aver vinto: i sostenitori del sì, contenti di averla spuntata (54% di sì), e quelli del no, contenti di essere stati sconfitti di misura (fra gli operai il sì è prevalso per appena 9 voti).

Ma è inutile chiedersi a questo punto che cosa sarebbe stato meglio, se una vittoria dei sì o una vittoria dei no (io ho tifato per il sì, ma è del tutto irrilevante). Quel che è importante adesso è fare i conti con la realtà, e la realtà è che i sì hanno vinto, e Marchionne dovrà mantenere l’impegno a investire su Mirafiori. L’interesse comune è che l’investimento si faccia, e dia i suoi frutti anche in termini di occupazione e di salari. Possibilmente, che inneschi un circolo virtuoso, aiutando l’Italia ad uscire da un decennio di stagnazione. E allora una cosa è bene dirla subito, in modo chiaro e forte: a questo punto sono gli altri, tutti gli altri, a dover fare la loro parte. Perché Marchionne la sua l’ha fatta. I sindacati anche (con la sola eccezione della Fiom). E, più di tutti, la loro parte l’hanno fatta gli operai e gli impiegati di Mirafiori, che hanno preso su di sé la responsabilità di una decisione difficile.

Andando a votare in massa, e a maggioranza hanno accettato la sfida.

È il resto del Paese, e innanzitutto la sua classe dirigente, che la sua parte non l’ha ancora fatta, o non l’ha fatta abbastanza. Ed è fondamentale che la faccia ora, per non vanificare né la scommessa della Fiat, né le speranze dei lavoratori che hanno votato sì. Perché il problema dell’Italia è di tornare a crescere, ma l’ostacolo che l’accordo Fiat si ripromette di rimuovere è solo uno dei quattro grandi ostacoli che, da ormai molti anni, ostruiscono il nostro cammino, scoraggiando imprenditorialità e investimenti. Marchionne ha agito sui turni, sulla pause, sugli straordinari, sull’assenteismo, sulle regole della conflittualità perché quelle cose si possono regolare con i contratti, indipendentemente da quanto pensano e decidono tutti gli altri soggetti in campo. Ma le relazioni industriali sono solo uno degli ostacoli, che non scalfisce l’enorme potere frenante degli altri tre. Quali sono gli altri tre? Il più importante, a mio parere, è costituito dai costi delle imprese. Sui bilanci delle imprese italiane, e quindi sulla loro competitività, gravano troppo tre voci di costo: il prezzo dell’energia, l’aliquota societaria (Ires e Irap), le tasse sul lavoro (contributi sociali e Irpef). E tutti e tre, anche i costi dell’energia, dipendono da un’imposizione fiscale eccessiva. È ora che gli sbandieratissimi successi della lotta all’evasione fiscale siano dirottati, almeno in parte, ad alleggerire la pressione sui ceti produttivi.

Il secondo ostacolo sono gli adempimenti burocratici, ossia scadenze continue, versamenti, certificazioni, scritture. Lo sanno i nostri politici che molte imprese italiane stanno delocalizzando non in Cina, non in Serbia, non in Romania ma in Svizzera (dove i salari non sono certo più bassi che da noi), perché quel governo promette tasse leggere per 5 o 10 anni, tariffe speciali per l’affitto dei terreni ma, soprattutto, garantisce di accollarsi interamente - e rapidamente: in 3 mesi - gli oneri burocratici connessi all’insediamento di un’impresa straniera su territorio elvetico? Dov’erano i nostri fautori di una rivoluzione liberale quando, giusto pochi mesi fa, il nostro governo varava una legge che obbliga tutte le imprese (anche piccole e piccolissime) a oneri di certificazione dello «stress lavoro-correlato», l’ennesimo adempimento che costerà tempo, denaro (e stress!), senza poter incidere né sulle situazioni in cui lo stress c’è davvero ma è ineliminabile, come alla catena di montaggio, né su quelle in cui il problema sono gli incidenti mortali, come in edilizia?

E infine, terzo ostacolo fondamentale, la giustizia, la sua inefficienza, la sua lentezza, la sua farraginosità, la sua incertezza. Quanti anni ci vogliono per un fallimento? Quanto costa, in tempo, denaro e arrabbiature, far valere le proprie ragioni in una causa civile? Quanta incertezza, nelle cause di lavoro, è connessa al potere discrezionale dei giudici? Quanti anni sono necessari per recuperare un credito? E quanti per far rispettare un contratto? Non per nulla l’Italia è in coda in tutte le classifiche internazionali che valutano competitività, libertà economica, e più in generale le condizioni per attrarre investimenti. Non per nulla siamo agli ultimi posti negli investimenti diretti esteri (Ide), un chiaro segnale che ci vuole molto coraggio per scegliere di produrre in Italia. Non per nulla i nostri giovani che possono permetterselo, perché hanno studiato più degli altri e hanno una famiglia agiata alle spalle, stanno prendendo sempre più la via dell’estero.

L’accordo Fiat ha richiamato, giustamente, l’attenzione di noi tutti sull’arretratezza delle relazioni industriali in Italia. La maggioranza dei lavoratori ha accettato l’accordo, ha raccolto la sfida, ha puntato sul futuro. Ora si tratta di non lasciarli soli. E il modo migliore per farlo è che chi ha le redini del Paese si decida, finalmente, a fare le altre cose che vanno fatte. A partire da quelle che sono necessarie, assolutamente necessarie, se vogliamo aiutare chi lavora e chi produce a interrompere il declino del nostro Paese. 

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Titolo: LUCA RICOLFI - Le armi a doppio taglio del Pd
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2011, 12:05:35 am
26/1/2011

Le armi a doppio taglio del Pd

LUCA RICOLFI


Da qualche giorno si torna a parlare di Walter Veltroni. C’è chi dice che la grande adunata di sabato scorso al Lingotto, con il tentativo di resuscitare lo spirito del «suo» Pd, sia il prologo di un’autocandidatura di Veltroni a guidare il centrosinistra, e forse un futuro governo in caso di vittoria elettorale. C’è chi dice che Veltroni stia per fare quello che Nenni fece nel 1976, allorché lanciò Craxi contro il segretario del Psi di allora, Francesco De Martino, spodestato nella «notte del Midas» (l’albergo nel quale i socialisti tenevano il loro Comitato centrale). Oggi la storia starebbe per ripetersi, con Veltroni che spodesta Bersani lanciando un giovane (Renzi, sindaco di Firenze) o un «non vecchio» (Zingaretti, presidente della Provincia di Roma).

C’è chi pensa che Veltroni sia semplicemente tornato a fare politica, riproponendo le sue idee di tre anni fa: riformismo radicale e vocazione maggioritaria. E c’è, infine, chi pensa che Veltroni sia l’unico leader riformista capace di far sognare il popolo di sinistra, sottraendolo all’attrazione fatale dell’altro sognatore, l’amatissimo ma assai poco riformista Nichi Vendola. Ho letto attentamente il lungo intervento di sabato al Lingotto e, confesso, mi sono ritrovato abbastanza nel commento di Pierluigi Bersani: «Nemmeno un Nobel riuscirebbe a trovare la differenza tra di noi». A dispetto di quanto affermano gli analisti più raffinati, che definiscono «introverso» il Pd di Bersani, e «estroverso» quello di Veltroni (così Roberto D’Alimonte sul «Sole 24 Ore»), a me i due Pd paiono molto simili. Il fatto stesso che, per cogliere le differenze, si debbano evocare categorie psicologiche, come l’estroversione e l’introversione, ma soprattutto il fatto che il destinatario della presunta critica (Bersani) si complimenti con chi la formula (Veltroni), ci rivela più di qualsiasi analisi politica: il Pd di Bersani e quello di Veltroni si somigliano come due gocce d’acqua, e si somigliano per la semplice ragione che sono entrambi vecchi. Due organismi vecchi e stanchi, appesantiti da un linguaggio che non se ne vuole andare, un linguaggio ormai logoro, fatto di formule generiche e messaggi in codice, così in codice che i due contendenti possono persino sembrare d’accordo su tutto. Lo sono davvero?

In un certo senso sì. Perché già solo il fatto di non darsi battaglia in campo aperto, dicendo in modo chiaro su che cosa non sono d’accordo, non fa che rafforzare nell’opinione pubblica l’impressione che il Pd non abbia nulla di veramente nuovo da dire.

Ma c’è anche un altro elemento di somiglianza, e di vecchiaia: proprio gli argomenti di cui si discute con più passione, come le primarie o la moralità del premier, hanno un inconfondibile sapore di strumentalità e di muffa. Di primarie, nonostante le accuse ricorrenti di brogli e voti pilotati (come in questi giorni a Napoli), si parla essenzialmente per trovare il modo di bloccare Nichi Vendola, che rischia di vincerle sia contro Bersani sia contro Veltroni. Quanto alla moralità del premier, né Veltroni né Bersani si mostrano capaci di resistere alla madre di tutte le tentazioni per un uomo politico: usare i guai extra-politici dell’avversario per «infilzarlo» politicamente, come ha mestamente rilevato Pierluigi Battista sul «Corriere della Sera». Ancora una volta, l’elettorato progressista deve amaramente constatare che il maggior partito della sinistra non è in grado di battere politicamente Berlusconi, e perciò ci prova con le armi di sempre: magistratura e scandali. Senza avvedersi che, su questo, l’elettorato è molto più avanti, molto più laico e maturo, del ceto politico. Contrariamente a quanto pensano gli osservatori stranieri, l’elettorato italiano non è indifferente agli scandali, ma semplicemente evita di politicizzarli oltre un certo limite. L’ultimo sondaggio di Renato Mannheimer lo certifica nel modo più clamoroso: il prestigio del premier è in calo, il numero di elettori che vorrebbero Berlusconi sempre in sella è diminuito, ma il consenso al suo partito, il Pdl, è addirittura cresciuto. Mentre il consenso al Pd non solo non è aumentato, ma sembra in ulteriore flessione. Come se gli elettori, a differenza dei media, fossero molto restii a mescolare morale e politica.

Accecati dal disprezzo per Berlusconi, i dirigenti della sinistra non sembrano rendersi conto che la loro scelta di cavalcare gli scandali sessuali per disarcionare il capo del governo è un’arma a doppio taglio. Non solo perché indirettamente rivela che essi non hanno molti altri argomenti da spendere, ma perché proprio la politicizzazione delle vicende private del premier può portare voti al suo partito, come Bossi - con il suo innato fiuto politico - ebbe immediatamente ad avvertire. Capisco che chi non è abituato ad entrare nella testa degli altri stenti a farsene una ragione, ma bisognerà pur rendersi conto, prima o poi, che quando il dispiegamento di mezzi («l’ingente mole di strumenti di indagine», come l’ha definita il cardinal Bagnasco) supera una certa soglia, e l’uso politico della morale diventa troppo spregiudicato, nel pubblico scattano reazioni diverse da quelle ordinarie. Se la magistratura avesse operato con mezzi più sobri, e i suoi avversari non avessero preteso di incassare subito il dividendo politico dello scandalo, lasciando che il Cavaliere consumasse da sé la propria parabola, oggi probabilmente l’opposizione sarebbe più forte. Avendo invece deciso di cavalcare un’azione giudiziaria già di per sé fuori misura, l’opposizione ha scatenato anche la reazione opposta: quella di chi vede Berlusconi come vittima, o semplicemente pensa che i giudici abbiano esagerato, e che quel che è toccato a Berlusconi potrebbe capitare a chiunque. Un’osservazione che Gianni Agnelli ebbe occasione di fare ai tempi dello scandalo Lewinsky, quando così ebbe ad esprimersi sul malcapitato Bill Clinton: «Un Presidente venuto dal nulla, che si è fatto da solo e che finisce maciullato nei verbali. Come capiterebbe a chiunque, intendiamoci, se le sue cose intime finissero squadernate, sezionate e amplificate da inquisitori, giornali, televisioni e Internet».

E un segnale che qualcosa del genere stia succedendo nel pubblico, lo rivelano - di nuovo - proprio i dati dell’ultimo sondaggio di Mannheimer. Da cui risulta che, contrariamente a quanto si poteva supporre, l’elettorato di centrodestra non si sta rifugiando nei partiti alleati, esenti dagli scandali (Lega Nord e Futuro e libertà), ma semmai sta rientrando nel Pdl, quasi a serrare le file. Un altro capolavoro degli strateghi del Pd.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8336&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCA RICOLFI - Federalismo, i nuovi oppositori
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2011, 11:32:27 am
31/1/2011

Federalismo, i nuovi oppositori

LUCA RICOLFI

«Item di tipo Thurstone». Nella disciplina alquanto esoterica che insegno all’università (Analisi dei dati) si parla di «item di tipo Thurstone» quando, su un certo tema, si può essere ostili a qualcosa per ragioni opposte. In politica, ad esempio, fascisti e comunisti erano entrambi ostili alla Dc, ma su sponde antitetiche. E oggi, per fare un altro esempio, chi è contro l’Unione europea può esserlo perché rimpiange gli Stati nazionali indipendenti, o viceversa perché vorrebbe un vero governo sovrannazionale, con più e non meno poteri dell’attuale Parlamento europeo.

Da qualche giorno questo genere di pensieri mi ronza nella mente, e non solo perché sto per iniziare il mio corso. È la traiettoria del federalismo che me li sta imponendo. Presi dal caso Ruby non ce ne stiamo accorgendo, ma sotto i nostri occhi si sta delineando un nuovo tipo di opposizione al federalismo. Un’opposizione diversa da quella classica, perché basata su argomenti non semplicemente diversi, ma del tutto antitetici a quelli degli anti-federalisti tradizionali. Il federalismo sta diventando un «item di tipo Thurstone».

Vediamo un po’. Finora il nucleo dell’opposizione al federalismo è sempre stato di matrice sudista-solidarista. I nemici del federalismo, più che combatterlo, cercavano di frenarlo, mitigarlo o temperarlo. Il timore era che il federalismo potesse funzionare fin troppo bene, con la conseguenza di spostare risorse dai territori attualmente privilegiati (Mezzogiorno e regioni a Statuto speciale del Nord) verso le grandi regioni del Nord, attualmente gravemente penalizzate dagli sprechi e dall’evasione fiscale di quasi tutte le altre.

Oggi non è più così. Da alcune settimane, accanto a questa opposizione classica al federalismo fiscale se ne sta costituendo una nuova, di segno del tutto opposto. Gli alfieri di questa nuova opposizione non sono i nemici storici del federalismo, ma alcuni fra i suoi più convinti sostenitori. Persone che da anni si occupano del problema, che hanno sempre difeso le buone ragioni del progetto federalista, ma ora vedono con raccapriccio che quello che si sta consumando a Roma, fra infinite riunioni, tavoli tecnici, negoziati non è l’ultimo passaggio di un lungo cammino, ma è una mesta, lenta e non detta agonia del sogno federalista. I dubbi degli studiosi sulla legge 42 e sui decreti delegati non sono una novità, e sono stati espressi più volte in questi anni nelle sedi più diverse (alcuni dei miei sono raccolti sul sito www.polena.net). A tali dubbi, nelle ultime settimane, se ne sono aggiunti molti altri, e due in particolare hanno allarmato un po’ tutti: il timore che l’esigenza, tutta politica, di ottenere l’ok dell’Anci (l’associazione dei Comuni) porti a un ulteriore aumento della pressione fiscale; l’obbrobrio anti-federalista per cui i comuni si finanzieranno con tasse pagate dai non residenti (imposta di soggiorno e Imu sulle seconde case), con tanti saluti al principio del controllo dei cittadini sui loro amministratori. Un frutto avvelenato, quest’ultimo, dell’abolizione dell’Ici sulla prima casa, provvedimento demagogico voluto dal governo Prodi e completato dal governo Berlusconi.

Dunque oggi fra coloro che si oppongono ai decreti sul federalismo ci sono, è vero, i «soliti noti» di sempre, a partire dai partiti del Terzo polo, tutti insediati più al Sud che al Nord, ma ci sono per la prima volta anche i veri federalisti, coloro che al federalismo hanno sempre creduto più della Lega stessa. Politici, amministratori, studiosi, commentatori politici, il cui timore non è che il federalismo possa funzionare, eliminando ogni forma di parassitismo e assistenzialismo, ma che il federalismo possa non funzionare affatto, lasciando le cose così come sono, o addirittura peggiorandole, ad esempio con più tasse e più spese, o semplicemente con una selva di norme ancora più barocche e intricate di quelle che cerchiamo di lasciarci alle spalle. Oggi capita sempre più frequente di leggere e di sentir dire, non già «sono contro il federalismo, quindi mi oppongo al decreto sul federalismo municipale», ma piuttosto, «sono federalista, quindi non posso votare questo decreto».

Naturalmente mi rendo conto che, dietro all’appoggio come dietro all’opposizione al federalismo, ci possono essere e ci sono le ragioni meno nobili. I comuni possono approvarlo solo perché sono riusciti a strappare più quattrini allo Stato centrale, il Pd può affossarlo solo perché la cosa può aiutare a far cadere Berlusconi (come ha velatamente riconosciuto Sergio Chiamparino in un’intervista a Repubblica). E tuttavia vorrei fare presente che, accanto a chi strumentalizza la questione a fini politici, esistono anche i federalisti sinceramente, disinteressatamente e motivatamente preoccupati.

Preoccupati che la riforma non passi, ma anche preoccupati che non funzioni, o che dia frutti perversi. Perché la novità è questa: oggi chi è veramente federalista non può non chiedersi se sia meglio (meno peggio) che il federalismo «à la Calderoli» passi, o sia meglio che tutto venga affossato per l’ennesima volta. Io, che ho sempre difeso il federalismo, il dubbio ce l’ho. E vi posso dire che altri federalisti convinti, almeno in privato, confessano di augurarsi che tutto si blocchi, tali e tante sono le concessioni che gli artefici del federalismo sono stati costretti a fare alla rivolta degli interessi costituiti e alla miopia del ceto politico locale.

È una conclusione amarissima. Perché non è dettata da alcuna convinzione specifica pro o contro l’idea federalista, ma solo dalla constatazione che la classe politica non è capace di discutere una riforma così cruciale per il futuro di tutti noi sollevandosi, almeno un pochino, al di sopra dei propri meschini interessi di bottega. Pensando per un attimo solo al bene dell’Italia, di cui pure si appresta a celebrare il 150esimo anno dall’Unità.

No, purtroppo i nostri parlamentari non ce la faranno a guardare un po’ oltre. È inutile farsi illusioni. Sia il decisivo voto di giovedì sul federalismo municipale, sia gli appuntamenti parlamentari successivi, saranno governati dai calcoli del governo per restare in sella, e da quelli delle opposizioni per disarcionarlo. È triste ammetterlo, ma anche su questo, su una riforma che aspettiamo da vent’anni, siamo nelle mani di Ruby.

da - lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - Il malgoverno pagato sempre dai cittadini
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2011, 05:30:25 pm
2/2/2011

Il malgoverno pagato sempre dai cittadini

LUCA RICOLFI

Si torna a parlare di una patrimoniale, ma le proposte sul tappeto sono almeno quattro. In principio fu Giuliano Amato.

La sua idea era semplice: abbattiamo il debito pubblico di un terzo (600 miliardi di euro, su 1800), colpendo solo il ceto medio-superiore, ovvero il terzo più ricco degli italiani, con un’imposta media di 75 mila euro a famiglia. Poi venne il banchiere Pellegrino Capaldo, anche lui - riferiscono i giornali - vicino al centro-sinistra, con la proposta-monstre di prelevare qualcosa come 900 miliardi di euro (metà del debito, più di metà del Pil), questa volta però molto democraticamente spalmati su tutti i possessori di immobili: il che fa «solo» 50 mila euro a famiglia. Poi venne Walter Veltroni, che nel discorso del Lingotto riprese la proposta Amato, immaginando un governo di illuminati che - forte di altre misure di contenimento del deficit - chiedesse «al decimo più fortunato degli italiani» di aiutare il governo stesso a «far scendere il debito in modo rapido verso dimensioni più rassicuranti». L’idea era di abbattere il debito di 600 miliardi (proposta Amato), ma con due importanti varianti: colpendo solo i ricchi (il 10% di «fortunati»), e ricorrendo anche ad altre misure. Immaginando una patrimoniale che incidesse «solo» per 200 miliardi (anziché per 900 o 600, come nelle proposte Amato-Capaldi), farebbe 80 mila euro a famiglia. E infine (nei giorni scorsi) venne Pietro Ichino, che ci assicurò che la patrimoniale di Veltroni è solo una delle misure per abbattere il debito (le altre sono: dismissioni del patrimonio pubblico e tagli draconiani di spesa), e che quanto all’importo ci si poteva accontentare di 30-40 miliardi in 2 anni, concentrati su 2,5 milioni di famiglie ricche. Come dire una patrimoniale che «fa il solletico» al debito, visto che 30-40 miliardi lo limerebbero del 2%.

In breve: Capaldo vuole colpire tutti i possessori di case (80% degli italiani), Amato solo il ceto medio-superiore (33% degli italiani), Veltroni solo i «ricchi» (10% degli italiani). Non voglio qui entrare nel merito della giustezza o praticabilità di questo genere di proposte, su cui sono già intervenuti criticamente molti autorevoli osservatori, fra cui Franco Debenedetti, Dario Di Vico, Francesco Forte, Gilberto Muraro, Alessandro Penati, Michele Salvati. Il tema che vorrei sollevare è, per così dire, anteriore a ogni discussione di merito. E consiste in una semplice domanda: che cosa pensa realmente il Pd, visto che Veltroni e Ichino ne fanno parte, e Amato è una delle principali personalità del centro-sinistra?

Pierluigi Bersani, Enrico Letta e Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, si sono già precipitati a dissociarsi dalla proposta di imposta patrimoniale. Probabilmente si rendono conto che il solo usare la parola «patrimoniale» è il più straordinario assist che si possa fare a un Berlusconi in difficoltà sul caso Ruby. Una campagna elettorale contro «i comunisti che ci vogliono espropriare» è il più bel regalo che il Cavaliere potesse sperare dall’opposizione. Che, puntualmente, appena si sono delineate le elezioni anticipate, glielo ha offerto su un piatto d’argento.

E tuttavia ormai il problema di Bersani non è smentire, ma convincere. Non è chiarire, ma farlo in modo credibile. Perché ci sono due piccoli problemi di logica. Problema numero uno: come fa il Pd a dire che non vuole la patrimoniale, quando la sostengono con tanta convinzione esponenti così importanti del partito?

Si dirà che sono voci individuali, e su un problema così delicato conta solo la voce del segretario Pierluigi Bersani. Ma proprio qui interviene il secondo problema. Bersani si è già espresso a favore della patrimoniale almeno in due occasioni. Una prima volta un anno e mezzo fa, in un convegno dei Giovani di Confindustria, quando correva per diventare segretario del Pd; e una seconda volta un paio di settimane fa, in occasione del Lingotto 2, il grande raduno dei veltroniani a Torino. E’ lì che Veltroni fece sua l’idea di una patrimoniale sugli «italiani più fortunati», ed è lì che Bersani pronunciò la storica frase: «Nemmeno un Nobel riuscirebbe a trovare la differenza fra di noi».

Adesso quella differenza negata rischia di essere fin troppo visibile, o di sparire senza convincere. Perché il problema della sinistra è sempre quello. Con la nobile giustificazione che «fra noi si discute e si dibatte» non si capisce mai su che cosa i suoi leader siano davvero d’accordo, e su che cosa siano irrimediabilmente in disaccordo. Un male che ora, proprio sulla patrimoniale, si sta estendendo anche alle forze del nascente Terzo polo, con dichiarazioni che si suddividono equamente in favorevoli, contrarie, imbarazzate.

E’ una situazione avvilente, soprattutto per chi vorrebbe voltare pagina. Nel momento in cui la stella di Berlusconi declina, e in molti sentono l’esigenza di un cambiamento, il principale partito della sinistra si infila nella serie peggiore possibile di mosse autolesioniste. Prima salta sul caso Ruby con una veemenza che non aveva mostrato su temi ben più cruciali per la vita dei cittadini. Poi, quando finalmente qualcuno prova a toccare temi concreti, ripropone la più scivolosa, discutibile, controversa fra le misure di risanamento possibili. Una misura che, se anche fosse equa, sacrosanta, efficace (cosa di cui è più che lecito dubitare), inevitabilmente suscita nell’elettore la domanda: ma come, è da trenta anni che tutti, destra, sinistra e centro, dilapidate le risorse del Paese per conquistare voti e clientele, e ora chiedete a noi di riparare il disastro che avete provocato?

Su questo ha ragione Pietro Ichino. Sensata o insensata che sia, un’imposta patrimoniale straordinaria - che scarica sulle famiglie i debiti dello Stato - può permettersi di chiederla solo un governo che, prima, abbia fatto fino in fondo la sua parte, interrompendo risolutamente quel cammino di dissipazione del denaro pubblico che ci ha portati all’attuale disastro.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Ma l'Italia è davvero berlusconiana?
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2011, 10:58:56 am
15/2/2011

Ma l'Italia è davvero berlusconiana?

LUCA RICOLFI

Da quando nella politica italiana è entrato Silvio Berlusconi, ossia dal 1994, la cultura di sinistra ha sviluppato un suo peculiare racconto dell'Italia. Secondo questo racconto chi vota a sinistra sarebbe «la parte migliore del Paese», mentre la parte che sceglie il centrodestra sarebbe la parte peggiore, evidentemente maggioritaria.

La teoria delle due Italie scattò subito, nel 1994, allorché la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto fu inaspettatamente sconfitta dal neonato partito di Silvio Berlusconi.

E da allora mise radici, costruendo pezzo dopo pezzo una narrazione della storia nazionale al centro della quale vi è l'idea di una vera e propria mutazione antropologica degli italiani, traviati fin dagli anni 80 dal consumismo e dalla tv commerciale. Una narrazione che, nel 2001, si arricchirà di un nuovo importante tassello, con la teoria di Umberto Eco secondo cui gli elettori di centrodestra rientrerebbero in due categorie: l'Elettorato Motivato, che vota in base ai propri interessi egoistici e a propri pregiudizi contro stranieri e meridionali, e l'Elettorato Affascinato, «che ha fondato il proprio sistema di valori sull'educazione strisciante impartita da decenni dalle televisioni, e non solo da quelle di Berlusconi».
Due elettorati cui non avrebbe neppure senso parlare, visto che non si informano leggendo i giornali seri e «salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina».

Vista da questa prospettiva, la vittoria del 1994, come tutte quelle successive, non sarebbe un incidente di percorso, ma l'amaro sbocco di processi di degenerazione del tessuto civile dell'Italia iniziati molti anni prima. Uno schema, quello dell'Italia traviata dal consumismo e dai media, apparentemente nuovo ma in realtà già allora vecchio di trent'anni. Era stato infatti Pasolini, molti anni fa, a denunciare - ma senza disprezzo, e con ben altra umanità - la «scomparsa delle lucciole», immagine con cui soleva descrivere la dissoluzione dell'umile Italia fin dai primi anni 60, con l'estinzione delle culture popolari sotto l'incalzare del benessere e delle migrazioni interne.

Insomma, voglio dire che è mezzo secolo che «alla sinistra non piacciono gli italiani», per riprendere il titolo del saggio con cui, fin dal 1994, lo storico Giovanni Belardelli (sulla rivista «il Mulino») fissò la sindrome della cultura di sinistra, incapace di darsi una ragione politica dei propri insuccessi, e perciò incline a dipingere l'Italia come un Paese abitato da una maggioranza di opportunisti, di malfattori, o di ignavi. E tuttavia ora, forse per la prima volta, qualcosa si sta muovendo. Qualcosa, molto lentamente, sta cambiando. Non già nei piani alti della politica, nelle segreterie dei partiti, nei palazzi del potere, bensì fra la gente comune, e fra le energie più giovani del Paese. Roberto Saviano, ad esempio, l'altro giorno al Palasharp, alla manifestazione per chiedere le dimissioni del premier, ha sentito il bisogno di dire: «Smettiamo di sentirci una minoranza in un Paese criminale, siamo un Paese per bene con una minoranza criminale». Se Saviano ha sentito il bisogno di esortare il popolo di sinistra a «smettere di credere» di essere una minoranza, vuol dire che quella credenza ancora c'è, sopravvive, nelle menti e nei cuori: una sorta di «pochi ma buoni», una rabbiosa riedizione del «molti nemici, molto onore» di mussoliniana memoria.

La sindrome della «minoranza virtuosa» è tuttora molto radicata nella cultura politica della sinistra. Ma anche qui, persino fra i politici di professione, qualcosa si sta muovendo. L'alibi dell'indegnità degli italiani comincia a scricchiolare. Matteo Renzi, sindaco di Firenze, rimproverato da un po' tutti i suoi compagni di partito (compreso il giovane «rottamatore» Pippo Civati) per essersi contaminato incontrando Berlusconi ad Arcore, ha risposto ai suoi critici più o meno così: se vogliamo vincere non possiamo partire dall'assunto che l'altra metà degli italiani, quella che non ci vota, sia costituita da cittadini irrecuperabili, dobbiamo rispettarli e conquistarli.

Saviano e Renzi hanno ragione. Così come hanno ragione quanti, in piazza o non in piazza, non si stancano di ripetere che l'Italia non è quella che emerge dai festini di Arcore e dalle intercettazioni, o quella che la cultura di sinistra si figura ogni volta che l'esito del voto punisce i progressisti. L'Italia non è berlusconiana quanto si pensa sul piano del costume (un recente sondaggio di Mannheimer certifica che il sogno di una carriera nel mondo dello spettacolo attira effettivamente solo 1 ragazza su 100). Ma non lo è neppure sul piano del consenso elettorale. Contrariamente a quanto molti credono, il berlusconismo - inteso come fiducia incondizionata nei confronti di Berlusconi - è sempre stato un fenomeno marginale. Fatto 100 il corpo elettorale, il voto al partito di Berlusconi non è mai andato oltre il 20%, e il sostegno esplicito al leader, espresso in un voto di preferenza (come alle ultime Europee), si aggira intorno al 6%. Per non parlare del trend più recente, che mostra un Pdl che attira circa il 18% del corpo elettorale, e un premier che ottiene la sufficienza da meno di un cittadino su tre.

Se questa è la realtà, occorre che la sinistra faccia un serio esame di coscienza. Che provi a inventare un altro racconto degli ultimi trent'anni. Un racconto senza alibi e autoindulgenze, un po' più rispettoso degli italiani e un po' più abrasivo su sé stessa. Perché se l'Italia non è, né è mai stata, il Paese moralmente degradato tante volte descritto in questi anni. Se il consenso al leader Berlusconi non è mai stato plebiscitario. Se i suoi fan non sono mai stati tantissimi. Se oggi 2 italiani su 3 non danno la sufficienza a Berlusconi, e appena 1 su 20 lo promuove a pieni voti. Se, a dispetto di tutto ciò, i sondaggi rivelano che il giudizio dei cittadini sull'opposizione è ancora più negativo - molto più negativo - di quello sul governo. Beh, se tutto questo è vero, allora vuol dire che i problemi politici dell'Italia non stanno solo nei comportamenti del premier e nelle insufficienze del suo governo, ma anche nella difficoltà dell'opposizione di trovare, finalmente, un'idea, un programma e un volto che convincano quella metà dell'Italia che non è berlusconiana ma, per ora, non se la sente di votare a sinistra.

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Titolo: LUCA RICOLFI Mezzogiorno, le radici del nostro scontento
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2011, 12:19:37 am
UNITA' ITALIA

13/03/2011 - ANALISI

Mezzogiorno, le radici del nostro scontento


Deficit e tasse in continuo aumento: il patto tra Nord e Sud non regge più La mancata soluzione ha bloccato la crescita e mette in pericolo il futuro

LUCA RICOLFI

Nel 1861, al momento della proclamazione del Regno d'Italia, il 70% degli occupati lavorava in agricoltura, e il tenore di vita medio della popolazione era bassissimo. Oggi il 70% degli occupati lavora nei servizi, l'agricoltura assorbe meno del 4% della forza lavoro, e il nostro tenore di vita è uno fra i più alti del mondo. In mezzo c'è stato il lungo processo di industrializzazione del paese, poi la scolarizzazione di massa, l'esplosione dei consumi, la conquista di un benessere diffuso ancorché non generalizzato .

Eppure non siamo soddisfatti di noi. Un disagio sottile si è impadronito del paese, e col passare degli anni assume tratti sempre più mesti. Da dove viene questo sentimento?

Ovviamente da un mix di fattori, non ultimo il fatto che stiamo diventando un paese di vecchi, che ai giovani non offre un futuro di libertà e di autonomia, ma solo una rete di appoggi e benefit familiari, spesso fondati sul lavoro di un paio di generazioni. Ma se proviamo a guardare più indietro, ai cambiamenti strutturali dell'Italia, a me pare che il grande nodo del paese, il suo peccato originale, sia uno soltanto: la sua incapacità di risolvere la «questione meridionale». Una incapacità che, all'inizio degli anni '90, ci ha regalato l'improvvisa trasformazione della «questione meridionale» in «questione settentrionale», con la nascita della Lega Nord e il lento ma inesorabile diffondersi di sentimenti antimeridionali ben al di là del perimetro di quel partito. Sentimenti che ora, a 150 anni dalla nascita dell'Italia, hanno un loro puntuale contraltare nel Mezzogiorno, dove il disagio per i sacrifici imposti dal dissesto delle finanze pubbliche e dalla crisi rinfocolano i vissuti di privazioni presenti fra le popolazioni del Sud, per non parlare del revival neo-borbonico che si avverte in tanti libri recenti.

Perché l'incapacità di risolvere la questione meridionale è il nodo centrale dell'Italia di oggi?

Perché la maggior parte dei nostri guai vengono di lì. Le serie storiche del Pil procapite mostrano chiaramente che, contrariamente a quanto pensano molti storici, la questione meridionale non è stata ereditata dai Savoia, bensì in gran parte creata da essi, innanzitutto con le tasse e la politica doganale. Nei primi 90 anni della storia d'Italia, ossia dal 1861 al 1951, il divario del Mezzogiorno rispetto al resto del paese, assai modesto al momento dell'unificazione, è cresciuto ininterrottamente, con due drammatiche accelerazioni nell'ultimo ventennio dell'800 e sotto il fascismo. Poi, grazie alla riforma agraria e alla Cassa del Mezzogiorno, il trend si è invertito, consentendo al Mezzogiorno di risalire in parte la china, specie nel ventennio 1951-1971. Ma questa parziale risalita è stata attuata secondo modalità perverse: il recupero del Sud è avvenuto più in termini di reddito, consumo e potere di acquisto, che non in termini di prodotto procapite. Sicché oggi il tenore di vita medio delle regioni meridionali è comparabile a quello del CentroNord (secondo alcune valutazioni è addirittura superiore), mentre il loro contributo produttivo è drammaticamente inferiore, con un prodotto per abitante che non raggiunge il 60% di quello del Nord.

Il problema è che questo risarcimento tardivo e parziale del Mezzogiorno, per cui a una parte del paese veniva concesso il lusso di consumare, evadere il fisco, dissipare risorse pubbliche senza un apporto produttivo corrispondente, a partire dall'inizio degli anni '70 si è fondato su un meccanismo diabolico: l'espansione senza limiti del debito pubblico. Grazie al debito e alla spesa allegra, per trent'anni la classe politica è riuscita nella doppia impresa di alimentare clientele (specie al Sud, con i trasferimenti e i sussidi) e distribuire rendite (specie al Nord, con gli alti interessi su Bot e Cct). Questo meccanismo di espansione dei ceti parassitari entra in crisi verso la metà degli anni '80, quando la voragine del debito non basta più a nutrire il minotauro statale. Non sazia delle risorse rastrellate emettendo debito pubblico, la classe politica ora comincia a drenare quattrini anche attraverso l'aumento delle tasse. Nel giro di appena 8 anni, dal 1985 al 1993, la pressione fiscale passa dal 35% al 43%, mentre il debito pubblico, anziché diminuire, tocca il suo massimo storico, pari al 120% del Pil.

Il giocattolo è definitivamente rotto. Il patto fra Nord e Sud, mediato dal ceto politico della prima Repubblica, non regge più. Spesa in deficit e tasse non bastano a sussidiare il Mezzogiorno, ma sono sufficienti a frenare la crescita delle regioni più produttive del paese, alimentando un malcontento che solo nella Lega Nord sembra trovare un (parziale) sbocco politico. Dal 1990 l'Italia, che per mezzo secolo era cresciuta di più del resto dell'Europa, comincia a crescere di meno. Poi, a partire dai primi anni 2000, entra in stagnazione. E anzi, in termini di reddito pro-capite, addirittura fa qualche passo indietro, già prima della crisi del 2008-2009.

Ma il paese non reagisce. C'è amarezza, scetticismo, disincanto, ma non c'è una risposta. Una sorta di fatalismo, un malessere sottile e impalpabile, pervade tutto e tutti. Alcuni politici provano a consolarci dicendoci che, in fondo, il Centro-Nord è allineato sui migliori standard europei, e che il problema è solo il Sud, o il Sud ad alta presenza mafiosa. Ma in un certo senso è proprio questo il problema: in Italia non c'è una reazione, una risposta, un giusto livello di allarme, precisamente perché buona parte del paese è ancora a livelli europei. Siamo cresciuti troppo in fretta nei primi 45 anni della Repubblica (fino al 1990), e stiamo declinando troppo lentamente negli ultimi 15, per accorgerci veramente del piano inclinato su cui siamo incamminati. La ricchezza che abbiamo accumulato, le nostre rendite, le risorse della famiglia e del volontariato, ci consentono di reggere ancora per parecchio tempo, non benissimo certo, ma comunque senza traumi. Andando indietro, ma senza avvedercene troppo. Sciogliendoci come un ghiacciaio che si ritira di un metro l'anno, e ogni anno non sembra così diverso dall'anno prima. Di tutto ciò possiamo continuare a incolpare la classe dirigente del paese, politici, industriali, banchieri, sindacalisti.

Ma forse la realtà è più semplice: l'inerzia della classe dirigente, il suo ostinato conservatorismo, sono il riflesso del nostro attaccamento a ciò che siamo diventati, della nostra indisponibilità a rischiare e rimetterci in gioco. Più o meno divisi fra Nord e Sud, fra destra e sinistra, fra scettici e impegnati, ma unitissimi nella volontà di non cambiare le nostre vite. E' soprattutto per questo che i nostri problemi sono sempre lì, primo fra tutti quello dei rapporti fra ceti produttivi e parassitari. Un nodo la cui mancata soluzione ha ucciso la crescita, vent'anni fa. E ora, per responsabilità di tutti, rischia di compromettere il futuro.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Agli stranieri i nuovi posti di lavoro
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2011, 09:47:01 am
2/4/2011
 
Agli stranieri i nuovi posti di lavoro
 
 
LUCA RICOLFI
 
La situazione a Lampedusa si complica. Il mare grosso impedisce l’arrivo di nuovi migranti, ma anche il trasferimento sul continente delle migliaia di persone sbarcate nelle ultime settimane. Le navi che dovevano assicurare «in 48-60 ore» (parole di Berlusconi) lo sgombero dell’isola non riescono nemmeno ad attraccare, mentre i tunisini ammassati nella tendopoli pugliese di Manduria fuggono (o sono lasciati fuggire?) scavalcando esili reti di recinzione, o passando attraverso varchi lasciati aperti. Quanto alle Regioni che avevano dato la loro disponibilità a gestire i nuovi arrivati, una dopo l’altra fanno marcia indietro, o come minimo costellano di innumerevoli paletti e distinguo la loro volontà di accoglienza: sì ma solo i rifugiati politici, sì ma non nelle tendopoli, sì ma solo se nessun'altra regione si tira indietro.

Bruttissime figure, dunque, sono in arrivo per il governo in generale (l’ennesima promessa tradita) e per la Lega in particolare, pronta a fare la faccia feroce in campagna elettorale, ma impotente - come chiunque - al momento di affrontare il problema dell’immigrazione.
Già, ma qual è il problema? In questi giorni ho sentito due versioni. Una dice: se l’Europa se ne lava le mani, e noi italiani non riusciamo a rimandarli indietro rapidamente, il segnale di impotenza che inviamo a tutti i disperati del Nord Africa avrà conseguenze catastrofiche, perché i 20 mila migranti di questi mesi (tanti ma non tantissimi) potrebbero rapidamente diventare 50 mila, 500 mila, 1 milione. Per non parlare dei problemi di legalità: uno Stato serio non può accettare che sul proprio territorio circolino o transitino migliaia di persone non identificate, non tutte alla ricerca di un lavoro con cui campare.

C’è anche una seconda versione, che capita di ascoltare soprattutto in casa leghista: li vogliamo rimandare a casa perché in Italia c’è la crisi, manca il lavoro, e quel poco che c’è non basta nemmeno agli italiani. Insomma, i tunisini li vogliamo mandare via non perché siamo razzisti, ma perché c'è la disoccupazione. La prima versione del problema immigrati - un Paese ha diritto di limitare gli ingressi e far rispettare le leggi - pone un mucchio di problemi morali, giuridici, pratici, ma è comprensibile, al limite del puro buonsenso. Sulla seconda versione, che sottolinea la mancanza di lavoro, ho invece molti dubbi. Sembra logica anch’essa, ma lo è meno di quanto appaia a prima vista.

Giusto ieri l’Istat ha comunicato i dati definitivi sull’andamento dell’occupazione nel 2010, nonché i dati provvisori dei primi due mesi dell’anno. Ebbene, quei dati ci forniscono un quadro del mercato del lavoro tutt’altro che sorprendente per gli studiosi, ma in forte contrasto con molte credenze diffuse nel mondo della politica e dei media. Proviamo a sintetizzare. Nei primi tre anni della crisi, ossia fra la fine del 2007 e la fine del 2010, l’occupazione in Italia è diminuita di circa 400 mila unità (senza contare la cassa integrazione). Quella variazione, tuttavia, è il saldo fra un crollo dell’occupazione degli italiani, che hanno perso quasi 1 milione di posti di lavoro, e un’esplosione dell’occupazione degli stranieri, che ne hanno conquistati quasi 600 mila. Nel 2007, prima della crisi e dopo quasi vent’anni di immigrazione, gli stranieri occupati in Italia erano circa 1 milione e mezzo, tre anni dopo erano diventati 2 milioni 145 mila, quasi il 40% in più. Un boom di posti di lavoro nel pieno della più grave crisi dal 1929.

Come è possibile? In parte lo sappiamo: gli italiani, pur non essendo molto più istruiti degli stranieri regolarmente residenti in Italia, non sono disposti a fare tutta una serie di lavori che gli stranieri invece accettano. Ma questa non è una novità. La novità è che durante la crisi l’occupazione straniera è esplosa, e continua a crescere a un ritmo elevatissimo. Anche nell’ultimo anno, con i primi timidi segnali di ripresa, gli italiani hanno perso qualcosa come 166 mila posti di lavoro, mentre gli stranieri ne hanno guadagnati ben 179 mila (+9,1%).
È possibile che una parte dei nuovi posti di lavoro siano state semplici regolarizzazioni, soprattutto relative a «badanti» già occupate. Ma questo meccanismo può spiegare solo una parte dell’aumento, visto che - nonostante la drammatica crisi dell’edilizia - l’occupazione degli stranieri maschi è aumentata di quasi il 30% in soli 3 anni, e continua ad aumentare anche in questi mesi.

La realtà, forse, è un’altra, più difficile da digerire per noi italiani. Nella crisi, il nostro sistema produttivo è diventato ancor meno capace di prima di generare posti accettabili per gli italiani. È per questo che gli immigrati regolari stanno lentamente, ma implacabilmente, diventando uno dei segmenti più dinamici e attivi della società italiana, come mostrano l’andamento del tasso di disoccupazione (in calo per gli stranieri ma non per gli italiani), il contributo al Pil, il valore delle rimesse verso i Paesi d’origine, il moltiplicarsi in ogni parte d’Italia delle partite Iva e delle micro-imprese gestite da immigrati: negozi, bar, officine, aziende di trasporti e di servizi. È triste ammetterlo, ma gli stranieri occupati in Italia sono diversi da noi non già perché «loro» sono meno istruiti e meno ricchi, ma perché somigliano a quel che noi stessi eravamo negli Anni 50: un popolo uscito da mille difficoltà e determinato a conquistarsi un futuro a colpi di sacrifici e duro lavoro.

Visto da questa angolatura il problema dell’immigrazione assume contorni un po’ diversi. Sul versante del mercato del lavoro, il problema dell’Italia - per ora - non è di essere invasa dagli stranieri, ma di essere più adatta agli stranieri che agli italiani. Il nostro guaio non è che gli stranieri ci portano via i posti di lavoro, ma che ci ostiniamo a creare posti che né noi né i nostri figli sono disposti a occupare. Camerieri, pizzaioli, fattorini, autisti, badanti, muratori continuano a servire al sistema Italia. Molto meno ingegneri, tecnici specializzati, ricercatori, tutti mestieri per i quali - se si è davvero bravi - forse è meglio guardare alle opportunità che si creano negli altri Paesi avanzati che sulla scuola, la ricerca e la cultura hanno puntato più di noi.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Il vero sforzo che serve all'Italia
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2011, 11:29:59 am
13/4/2011 - I LAMENTI DELLE IMPRESE

Il vero sforzo che serve all'Italia

LUCA RICOLFI

Gli imprenditori italiani si sentono soli, abbandonati dalla politica. Così lamenta Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria. E come darle torto? Come non essere sensibili al «grido di dolore» che viene dalle imprese? E tuttavia c’è qualcosa, nel discorso degli imprenditori, che mi lascia vagamente perplesso. Non mi riferisco alle prese di posizione di questi giorni, ma a quelle degli ultimi anni. E non mi riferisco solo agli imprenditori ma anche agli studiosi, agli osservatori, agli analisti (me compreso) che si sono affaccendati intorno al malato Italia, e a più riprese si sono chiesti perché questo Paese da 15 anni cresca meno degli altri, e negli ultimi 10 abbia semplicemente smesso di crescere.

Ebbene, qual è stata finora la diagnosi prevalente? Nessuno si offenda, ma mi sembra di poter dire che - ormai - più che di una diagnosi si tratta di una litania, per non dire una giaculatoria. I nostri mali, o meglio i nostri handicap rispetto agli altri Paesi, sono stati minuziosamente individuati, e vengono ripetuti con impressionante monotonia da almeno un decennio: eccesso di pressione fiscale, di pressione contributiva, di adempimenti burocratici; inefficienza della giustizia civile; sprechi nella Pubblica amministrazione; insufficiente qualità e quantità dei servizi pubblici.

E poi ancora, bassa qualità del capitale umano; scarsi investimenti in ricerca e sviluppo; costi eccessivi dell’energia e dei servizi bancari; gravi deficit infrastrutturali, specie al Sud; mancate liberalizzazioni; corruzione dei funzionari pubblici; infiltrazioni della criminalità organizzata nell’economia; eccessiva protezione dei garantiti, insufficiente tutela dei nuovi entrati sul mercato del lavoro.

Una prima osservazione: se tutti questi fattori sono davvero importanti, i nostri imprenditori sono semplicemente dei superman. Un malato che riesca a sopravvivere con un simile cumulo di acciacchi deve avere una tempra eccezionale.

Seconda osservazione: alcuni di questi handicap sono nazionali, ma molti sono specifici del Mezzogiorno, penso in particolare al gap infrastrutturale, alla qualità dell’istruzione (test Pisa), al funzionamento della giustizia e della burocrazia, all’efficienza dei servizi pubblici, alla presenza della criminalità organizzata. Eppure, negli ultimi 10-15 anni, il Pil del Nord non è cresciuto di più di quello del Sud, e anzi, in termini pro capite, il Mezzogiorno è cresciuto più del Nord. Come mai? Forse nella nostra diagnosi c’è qualcosa che non va, forse stiamo sopravvalutando alcuni fattori e ne stiamo sottovalutando altri.

Ed eccoci al punto. Siamo sicuri che si possa «tornare a crescere» riproponendo la litania? Non siamo troppo d’accordo su tutto, e da troppi anni? Perché, se i mali sono così chiari, nessuna medicina è ancora stata somministrata al malato-Italia? Non sarà che manca una gerarchia, che mancano delle priorità? Anche ammesso che tutti i freni alla crescita appena enumerati siano importanti, non sarà arrivato il momento di fissare delle priorità?

Io penso che, se il mondo delle imprese non ottiene dalla politica le risposte che vorrebbe, è anche perché non ha le idee chiare, o semplicemente non può averle. Oggi non c’è una battaglia vera, una battaglia fatta di obiettivi concreti, su cui il mondo dei produttori abbia voglia di impegnarsi e di rischiare. Oggi imprenditori e sindacalisti ripetono parole stanche, parole passepartout, come meritocrazia, competitività, innovazione, fare sistema, puntare sul futuro. Ma non c’è né il coraggio di riconoscere quanto è drammatica la situazione in cui ci siamo cacciati, né la chiarezza di battersi per qualcosa di ben definito, di raggiungibile in tempi ragionevoli, e che sia considerato più importante del resto. Soprattutto, io sento la mancanza di domande vere, domande di fondo, rivolte al ceto politico.

Faccio degli esempi. Il governo vanta di aver contenuto la spesa pubblica e recuperato svariati miliardi con la lotta all'evasione fiscale. È accettabile che non un solo euro vada a ridurre le tasse sui produttori? Siamo tutti d’accordo che ogni euro risparmiato vada usato per colmare la voragine del debito pubblico? È ragionevole che non resti mai un centesimo per investimenti e riduzioni delle aliquote?

Se è così, le sole riforme possibili sono quelle a costo zero: liberalizzazioni e semplificazioni. Ma siamo sicuri che questo ceto politico possa fare le riforme a costo zero? E siamo sicuri che molte resistenze alle riforme a costo zero non si annidino proprio nel mondo dei produttori, sempre attenti a difendere i propri privilegi e le proprie rendite?

E ancora: ci sta bene un federalismo che, se tutto andrà dritto, partirà alla fine del decennio, quando l’economia italiana potrebbe essere implosa da tempo? Guidalberto Guidi, ex vicepresidente di Confindustria, avrà pure esagerato un po’, ma che ne pensiamo della sua previsione, secondo cui con questo fisco («da soffocamento») fra 7-8 anni metà delle imprese italiane sarà stata costretta a gettare la spugna?

E per finire. Non passa giorno che qualche mente illuminata riproponga il contratto unico (a tempo indeterminato) per i giovani che iniziano a lavorare, in cambio di minori tutele per gli attuali iper-garantiti. Che ne pensa Confindustria? È anche una sua battaglia, oppure tiene talmente alla pace sindacale da sacrificare il futuro delle giovani generazioni?

Insomma, forse sono eccessivamente pessimista, ma la mia impressione è che tutti gli attori in campo siano stati e restino troppo politici. Politici nel senso che non rischiano, non conducono battaglie alte e chiare, non sono disposti a pagare dei prezzi per quello che vogliono. Per tutti - governo, opposizione, sindacati, imprese - la posta è troppo alta, il rischio è troppo forte. Per questo ascoltiamo molti lamenti, assistiamo a mille scaramucce e negoziati, ma non vediamo mai una battaglia vera. Una battaglia in cui si capisca per cosa si combatte, ci siano delle priorità chiare, e i protagonisti si mettano in gioco fino in fondo. Finché a questo non arriveremo, temo che la ruota dell’Italia continuerà a girare a vuoto.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Nord e Sud il paradosso della crescita
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2011, 04:49:41 pm
18/4/2011

Nord e Sud il paradosso della crescita

LUCA RICOLFI

C’è un’idea su cui sembrano d’accordo quasi tutti, e che ormai è diventata un ritornello: il problema numero uno dell’Italia è il Sud. Se si considera solo il Nord, siamo una fra le realtà più avanzate d’Europa, se si considera solo il Sud siamo una delle realtà più arretrate. Dunque il problema è di consentire al Sud di agganciare il resto del Paese.

Questa diagnosi è vera solo a metà: se guardiamo al reddito per abitante, al tasso di disoccupazione, ai livelli di apprendimento degli studenti, all’occupazione femminile, effettivamente il Nord (a differenza del Sud) se la cava più che bene nel confronto con i maggiori Paesi europei. Ma c’è un punto fondamentale su cui, contrariamente a quanto si crede, il Nord non è affatto in vantaggio sul Sud. Questo punto è la crescita: dal 1995 a oggi il prodotto interno lordo (Pil) del Nord non è affatto cresciuto più di quello del Sud, e in termini pro capite è cresciuto decisamente di meno. E questo è vero non solo per gli anni della crisi (dopo il 2007), ma per il lungo periodo che va dalla fine delle svalutazioni della lira (1995) all’ultimo anno pre-crisi (2007). In quel dodicennio il Pil pro capite del Sud è cresciuto a un tasso medio dell’1,4%, quello del Nord a un tasso compreso fra lo 0,7% e lo 0,8%, dunque circa la metà di quello del Mezzogiorno. Insomma è in parte vero, come spesso sentiamo dire ai nostri politici, che l’economia italiana si muove «a due velocità».

Ma non è vero che il Nord corre e il Sud arranca, semmai è vero il contrario.

Se i dati Istat non sono troppo lontani dalla realtà, e il Pil per abitante del Sud cresce più di quello del Nord, allora non possiamo non notare un paradosso. Per anni ci siamo raccontati che la crescita è frenata da fattori come la mancanza di infrastrutture, la lentezza della giustizia civile, la criminalità organizzata, l’inefficienza della Pubblica amministrazione, la bassa qualità delle istituzioni scolastiche. Per anni abbiamo ripetuto che tutti questi handicap sono tipicamente concentrati nel Mezzogiorno. Ma ora scopriamo che, nonostante tutti questi fattori che indubbiamente ostacolano la crescita, il Sud cresce più del Nord. Com’è possibile? Se è vero che il Nord è più attrezzato del Sud per crescere, come mai da quindici anni cresce di meno?

Prima di provare a dare una risposta, un’osservazione importante. Tornare a crescere di almeno il 2% l’anno (anziché dell’1% attualmente previsto) è assolutamente vitale per il nostro Paese. Per quanto una differenza fra una crescita dell’1% e una del 2% possa sembrare poca cosa, essa è invece decisiva: come ci ha ricordato qualche giorno fa il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, tornare a crescere sopra il 2% è l’unica strada che ha l’Italia per evitare un lungo periodo di implosione della sua economia. Solo così, infatti, possiamo sperare di ridurre il nostro enorme debito pubblico senza incamminarci in una lunga stagione di stagnazione e di sacrifici.

Torniamo ora all’enigma della crescita del Sud. A me sembra che l’apparente anomalia di un Sud che cresce più del Nord ci fornisca anche la chiave per capire qual è la strada che dobbiamo imboccare per tornare a crescere. Se il Sud cresce più del Nord nonostante tutti gli handicap che lo affliggono, vuol dire che - accanto a questi handicap - ci devono essere anche alcuni vantaggi. E questi vantaggi devono essere così importanti da compensare i moltissimi handicap di cui il Sud soffre. Più esattamente, devono avere un impatto (positivo) ancora maggiore di quello (negativo) dei fattori frenanti di cui il Sud è costellato. Se il Sud è frenato dai suoi handicap, come tutti gli studiosi affermano risolutamente, e ciononostante il suo Pil pro capite cresce di quasi 0,7 punti in più di quello del Nord, allora la forza contraria che sostiene il Sud deve essere molto potente. Supponiamo, a titolo di esercizio, che messi tutti insieme gli handicap del Sud valgano anche soltanto mezzo punto percentuale di crescita (-0,5%): se con un handicap di 0,5 il Sud batte il Nord di 0,7, la forza che sostiene la sua crescita deve essere di almeno l’1,2%. E, si noti, questo 1,2% è giusto la spinta di cui l’Italia avrebbe bisogno per crescere oltre il 2%, come auspica il governatore Draghi.

Ma quale può essere questa forza misteriosa che spinge il Sud ma non il Nord?

La teoria economica al riguardo ha una risposta canonica. Una risposta che, pur non condivisa da tutti gli studiosi, ha dalla propria parte una robusta evidenza empirica. La forza misteriosa che stiamo cercando di identificare non è altro che la pressione fiscale sui produttori. Una pressione fatta di due ingredienti fondamentali: la selva degli adempimenti burocratici, e i prelievi che più direttamente gravano sui fattori produttivi (Irap, Ires, cuneo fiscale e contributivo). Questo, a mio parere, è il solo terreno su cui il Sud gode di un vantaggio enorme rispetto al resto del Paese, e in particolare nei confronti del Nord. Non tanto a causa di agevolazioni e sgravi, quanto semplicemente per la diversa propensione a pagare le tasse. Si possono usare molti indicatori ma, quale che sia quello prescelto, la graduatoria è sempre la stessa: l’intensità dell’evasione fiscale è massima nel Mezzogiorno (intorno al 55% secondo le mie stime), intermedia nel centro (27%), minima nel Nord (19%). È come se, di fronte all’incapacità di tutti i governi, di destra e di sinistra, di ridurre in modo apprezzabile le aliquote fiscali che gravano su lavoratori e imprese, una parte del Paese se le fosse autoridotte senza aspettare alcuna riforma. Curioso, e sconcertante: la secessione fiscale, che Bossi minaccia da vent’anni di praticare in Padania, è già in atto da molti decenni nelle regioni del Sud. I nessi causali sono sempre incerti, ma i non molti dati disponibili sui tassi di crescita del Pil delle regioni e delle province italiane suggeriscono che l’autoriduzione delle aliquote è un fondamentale fattore di crescita: a parità di altre condizioni, crescono di più i territori in cui la pressione fiscale di fatto, grazie all’evasione, risulta più bassa che altrove.

C’è una conclusione?

No, soltanto una congettura. Forse, di tutti i numerosissimi fattori che vengono elencati per spiegare la non crescita dell’Italia, adempimenti burocratici e pressione fiscale sui produttori sono i due più influenti. Difficile dire quanto pesino, ma i numeri del confronto Nord-Sud fanno venire il sospetto che pesino più di quanto la politica sia disposta ad ammettere. Probabilmente influiscono sulla crescita per più dell’1%, anche a giudicare dall’esperienza dei Paesi che hanno abbassato significativamente le aliquote. Ma l’1% è precisamente l’accelerazione di cui avremmo bisogno per portare il tasso di crescita dell’Italia oltre il 2%, precondizione minima per cominciare ad affrontare con qualche probabilità di successo i nostri problemi economico-sociali, a partire da quello del debito pubblico.

Capisco che scommettere sul 2% di crescita sia politicamente rischioso. Usare i proventi della lotta all’evasione e i risparmi di spesa anche per ridurre le aliquote, anziché continuare a riversarli tutti nel grande calderone della riduzione del debito, può sembrare azzardato. Ma limitarsi a mettere delle pezze ai nostri conti pubblici, senza un obiettivo credibile di ritorno alla crescita, può rivelarsi ancora più rischioso. O meglio può rivelarsi prudente per i politici, sempre attenti a non creare tensioni sociali, ma disastroso per il Paese, cui forse - ben più che le solite rassicurazioni - servirebbero parole di verità e scelte coraggiose.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Destra-sinistra le paralisi incrociate
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2011, 06:30:06 pm
29/4/2011 - LE IDEE

Destra-sinistra le paralisi incrociate

LUCA RICOLFI

E’ tempo di elezioni, fra poco si vota a Milano, Torino, Bologna, Napoli e altre città. Perciò i sondaggi elettorali si moltiplicano, spesso su campioni nazionali. Il voto dei prossimi mesi è solo amministrativo, ma la curiosità per l’esito di una eventuale consultazione politica spinge a commissionare sondaggi nazionali. E’ il caso del sondaggio del Cise (il centro studi elettorali dell’Università Luiss), condotto nei giorni scorsi per «Il Sole 24 Ore».

Un sondaggio interessante, perché non limitato alle solite domande sulle scelte di voto e molto attento alle percezioni degli elettori: problemi sentiti come prioritari, immagine del centro-sinistra e del centro-destra, rispettive capacità di affrontare i problemi del Paese.

Il sondaggio riserva qualche sorpresa.
Non per le percentuali di consenso ai vari partiti e coalizioni, che sono da molti mesi sempre le stesse: il centro-sinistra e il centro-destra valgono un po’ più del 40%, il Terzo polo (Casini-Fini-Rutelli) vale un po’ meno del 15%. Quel che colpisce, invece, è come gli elettori valutano i problemi dell’Italia, e quale fiducia hanno nella capacità delle forze politiche di risolverli. Per l’elettore italiano medio il problema numero 1 è il lavoro (55%), il problema numero 2 è lo sviluppo economico (10%), il problema numero 3 è l’immigrazione (9%), e tutto il resto - legalità e giustizia incluse - conta pochissimo. Ma quando agli intervistati viene chiesto chi sarebbe più capace di affrontare i due problemi principali dell’Italia, ossia lavoro e sviluppo economico, cominciano le sorprese. Secondo gli elettori italiani per affrontare il problema dell’occupazione funzionerebbe meglio il centro-sinistra (24,5% contro 13,1%), per affrontare quello dello sviluppo economico funzionerebbe meglio il centro-destra (24,6% contro 16,6%). In breve l’elettore percepisce il centro-sinistra come specializzato sui problemi occupazionali, il centro-destra come specializzato sui problemi della crescita. Come dobbiamo leggere questo risultato?

Fra gli studiosi prevale l’idea che, almeno per il futuro, occupazione e crescita economico siano strettamente legati: senza crescita non ci sarà nuova occupazione. Invece, a quanto pare, l’elettore sembra pensare che i due problemi siano distinti, tanto che per risolvere l’uno punta sul centro-sinistra, per risolvere l’altro sul centro-destra. E’ come se si credesse che possa esservi crescita senza nuova occupazione, o nuova occupazione senza crescita. Come se una parte degli italiani si preoccupasse solo dell’occupazione, l’altra solo della crescita economica.

Mi sembra preoccupante.
Non perché, in certe circostanze, i due aspetti non possano andare ciascuno per suo conto. Nel passato è già successo, anche se a protagonisti invertiti: gli anni del primo centro-sinistra (1996-2001) non furono certo anni gloriosi per l’occupazione, e quelli del secondo centro-destra (2001-2006) non lo furono per la crescita. Quel che è preoccupante è che i due schieramenti politici siano visti entrambi in modo così unilaterale, per non dire monco. A quanto pare l’elettore italiano si aspetta che la sinistra al governo si occupi essenzialmente di creare posti di lavoro (primato dell’occupazione sulla crescita), la destra di aumentare la produttività (primato della crescita sull’occupazione).

Ma sono entrambe prospettive fallimentari.
Occupazione senza crescita, infatti, significa una cosa soltanto: più assistenzialismo, più posti di lavoro fasulli, peggiori conti pubblici. Crescita senza occupazione significa perseguire guadagni di efficienza e di competitività senza allargare la platea dei percettori di reddito, con conseguente probabile aggravamento delle disuguaglianze. Non possiamo permetterci di imboccare solo la prima strada (quella attribuita alla sinistra) o solo la seconda (quella attribuita alla destra), perché la nostra unica via di uscita è di imboccarle entrambe. L’Italia ha bisogno di tornare a crescere a un ritmo così sostenuto (almeno il 2%) da garantire sia un aumento dell’occupazione, un’occupazione fatta di posti veri, sia un aumento della produttività. Solo così avremo qualche speranza di ridurre il nostro debito pubblico, solo così avremo qualche possibilità di tornare ai livelli di benessere anteriori alla crisi del 2008-2009.

Da questo punto di vista quel che dobbiamo augurarci è che la percezione che gli elettori hanno delle due coalizioni di centro-sinistra e centro-destra siano errate. Perché una sinistra incapace di promuovere lo sviluppo economico e una destra incapace di rilanciare l’occupazione non potrebbero che condannare l’Italia a restare nelle secche in cui è incagliata da oltre un decennio. Mentre una classe dirigente che si facesse carico di entrambi i problemi, l’occupazione e lo sviluppo, avrebbe qualche possibilità di riportarci in mare aperto.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Troppi test banalizzano la scuola
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2011, 12:02:35 pm
10/5/2011

Troppi test banalizzano la scuola

LUCA RICOLFI

Le scuole di ogni ordine e grado sono in subbuglio. Il ministro Gelmini è riuscita (finalmente?) a far partire una prima massiccia ondata di test di apprendimento, i cosiddetti test invalsi, non solo nelle scuole elementari e medie inferiori, ma quest'anno per la prima volta anche nelle scuole superiori. Una parte degli studenti e dei docenti si sta ribellando, con gli argomenti più svariati. Ad esempio: i test sarebbero «una premessa alla valutazione e gerarchizzazione retributiva dei docenti» (tradotto: pagare meglio gli insegnanti ritenuti più bravi). Oppure: i test sono dannosi emotivamente (provocano «stress da quiz»). Oppure: violano la privacy, perché le prove non sono anonime. E ancora: sono un fallimento scientifico, trasformano dall'interno lo statuto delle discipline, esasperano la competizione, non misurano la buona didattica, trascurano i disabili, eccetera eccetera. Un vero e proprio fuoco di sbarramento ha accolto il decollo dei test, che nei prossimi giorni dovrebbero coinvolgere qualcosa come 100 mila classi e 2 milioni di alunni.

Insomma: il mondo della scuola ha paura dei test. Non è una novità e non è una prerogativa della scuola. E' sempre stato così, in Italia. Il sistema è abituato agli automatismi di carriera e all'appiattimento delle ricompense un po' in tutti i campi: scuola, università, magistratura, burocrazia.

Appena qualcuno, timidamente, prova a introdurre elementi di apertura e di meritocrazia si assiste immediatamente a una levata di scudi. E questo succede non solo quando il governo è di destra, ma persino quando è un governo amico: ricordate il «concorsone» per gli insegnanti voluto da Berlinguer, ai tempi del centro-sinistra? Il ministro fu travolto (e costretto alle dimissioni) dalla sua stessa base, incautamente toccata nell'interesse più caro: una carriera blindata, ermeticamente protetta dalla concorrenza dei nuovi venuti.

Insomma, il nucleo politico essenziale di questa protesta è il solito: la paura della meritocrazia, e il conseguente rifiuto di ogni forma di controllo dei risultati del proprio lavoro. Un'opposizione la cui ispirazione fondamentale è corporativa e conservatrice. Il fatto che i motivi dominanti della protesta siano essenzialmente autodifensivi, tuttavia, non significa che tutte le perplessità sollevate dagli insegnanti siano irragionevoli. Né che una parte dell'opposizione ai test non possa riflettere anche genuine preoccupazioni per il futuro della scuola. A costo di fornire io stesso altra benzina a una protesta di cui non condivido lo spirito, vorrei richiamare almeno quattro criticità dei test.

Primo. Il Ministero non ha mai chiarito (probabilmente perché non lo sa ancora) fino a che punto i risultati degli allievi ai test saranno usati per premiare in termini economici le singole scuole e i singoli insegnanti. Esistono gli strumenti statistici per farlo in modo appropriato, ma ci sono anche gravi insidie in un simile uso dei test, prima fra tutte il fatto che la precisione dei test (molto alta quando si confrontano regioni o province) può divenire piuttosto bassa quando si valuta la singola scuola, la singola classe, o il singolo allievo. Una valutazione dei singoli insegnanti mediante il loro «valore aggiunto conoscitivo» (ossia sui progressi dei loro allievi) si può fare, ma è dubbio possa raggiungere una precisione sufficiente a regolare stipendi e carriere.

Secondo. Per risparmiare il Ministero ha scelto di far somministrare la stragrande maggioranza delle prove direttamente agli insegnanti, anziché a personale specializzato dell'Invalsi. L'esperienza passata ha mostrato in modo incontrovertibile che questa pratica produce risultati distorti, perché una parte degli insegnanti (specie nel Mezzogiorno, ma anche in alcune regioni del centro-Nord) aiuta gli allievi a compilare il test, con la conseguenza di assegnare vantaggi e svantaggi indebiti agli allievi, non tutti così fortunati da avere un insegnante complice. Le «correzioni» matematico-statistiche adottate per tenere conto di questo effetto possono anche funzionare a livelli molto aggregati (per una regione), ma sono pericolose e potenzialmente inique a livello individuale.

Terzo. I test, non solo in Italia ma in tutta Europa, tendono a valutare capacità diverse da quelle che una buona scuola dovrebbe fornire, e comunque non corrispondenti a ciò che gli insegnanti trasmettono. Nel successo ai test oggi in voga pesano troppo la velocità mentale e troppo poco capacità come ragionamento, astrazione, organizzazione mentale, sensibilità estetica, senso critico.

Quarto. L'introduzione massiccia dei test produce una gravissima distorsione nel comportamento degli insegnanti, nonché differenze ingiustificate fra gli allievi. Alcuni insegnanti rinunciano a importanti contenuti del loro insegnamento per concentrarsi nella preparazione ai test, divenendo allenatori dei propri studenti. Altri insegnanti si rifiutano di fare gli allenatori, ma in questo modo mettono a rischio la prestazione dei loro allievi ai test, con conseguenze paradossali: tendenzialmente un allievo di un insegnante «normale» saprà più matematica e italiano dell'allievo di un insegnante-allenatore, ma in compenso andrà peggio ai test.

Quest'ultimo effetto dei test è a mio parere il più deleterio, ed è drammaticamente rinforzato dal fatto che - come già succede all'università da quando esistono i test di ingresso - nei mesi precedenti al test girino «manuali di allenamento» (i cosiddetti Alpha Test) con esempi di domande analoghe a quelle che verranno somministrate nelle prove reali. In prospettiva, quel che si delinea è una vera e propria mutazione delle materie, che - come ha documentato Giorgio Israel per il caso della matematica in Finlandia (Il Foglio, 23 aprile 2011) - sono tentate di evolvere per compiacere i test: non si fa la matematica che serve a diventare un buon matematico, ma si stravolge il contenuto della matematica per agevolare il superamento dei test.

Chi avesse qualche dubbio al riguardo può consultare i libri di preparazione alle prova di lettura (italiano) per rendersi conto che la mutazione è già in atto anche da noi: nelle domande che dovrebbero saggiare la cultura, la capacità di comprensione, la ricchezza lessicale, la finezza argomentativa, compaiono esercizi di problem solving come mettere i simboletti delle nuvole e del sole in una cartina dato un testo di previsioni atmosferiche, usare una piantina di Roma per andare a un concerto allo Stadio Flaminio, e simili amenità forse umilianti per un ragazzo di quindici anni.

Quel che sta succedendo sotto i nostri occhi è che i contenuti dell'insegnamento cambiano non perché qualcuno l'ha deciso consapevolmente e se ne è assunto la responsabilità, ma semplicemente per inseguire la logica dei test. Questo è molto pericoloso: ci sono capacità che in un test sono difficili o impossibili da accertare, ma non per questo meritano meno attenzione nella formazione di un ragazzo.

Ecco perché la protesta degli insegnanti non può essere liquidata con un'alzata di spalle. Nei termini in cui stanno prendendo piede nella scuola italiana, i test rischiano di accelerare lo svuotamento e la banalizzazione dei contenuti dello studio, già in atto da molti anni. Ma basta leggere i documenti e i volantini che circolano in questi giorni, per rendersi conto che la protesta degli insegnanti ha ben altre preoccupazioni. E' un peccato. La scuola italiana avrebbe bisogno di una vigorosa protesta degli insegnanti. Ma non di questa protesta. Perché il vero male della scuola non sono i tagli economici di questi anni, o i timidi tentativi di premiare gli insegnanti migliori, ma i tagli culturali di decenni e decenni. Una vicenda in cui troppi insegnanti (e genitori) non sono stati vittime ma protagonisti.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Dissoluzione di due leadership
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2011, 11:06:38 am
28/5/2011

Dissoluzione di due leadership

LUCA RICOLFI

Contrariamente a quanto pensano molti miei amici, non credo sia bene che le elezioni amministrative vengano trasformate in elezioni politiche. Quando si sceglie un sindaco, Berlusconi e Bersani non c’entrano nulla. E la qualità della nostra democrazia sarebbe assai migliore, la nostra vita politica assai più sana e civile, se tutti quanti la smettessimo di pensare ogni volta che «sono in gioco i destini del Paese», che «la partita è decisiva per il futuro dell’Italia», che se vincono «loro» è una catastrofe nazionale.

Preferirei vivere in un mondo à la Gertrude Stein, per cui «una rosa è una rosa è una rosa è una rosa», e dunque «un sindaco è un sindaco è un sindaco è un sindaco». La iper-politicizzazione delle campagne elettorali, trasformando la persona concreta del candidato in un simbolo astratto di un’idea generale, in un baluardo contro la vittoria dei barbari, produce l’importante effetto collaterale di rendere i cittadini indifferenti a ciò che il candidato effettivamente ha fatto o farà. E per questa via rende i politici, tutti i politici (i nostri e i loro), perfettamente immuni alle critiche: qualsiasi nefandezza abbia fatto o rischi di fare il nostro candidato, noi lo votiamo lo stesso, né mettiamo in discussione il suo operato, perché non possiamo permettere che vincano «gli altri».

Purtroppo non viviamo in un mondo à la Gertrude Stein, bensì in un mondo in cui tutti politicizzano tutto. E queste elezioni amministrative non fanno eccezione. Berlusconi ha voluto politicizzarle, esattamente come una decina di anni prima aveva fatto D’Alema, allora presidente del Consiglio. E così come allora la sconfitta del centro-sinistra provocò le dimissioni di D’Alema, oggi l’esito di una semplice tornata amministrativa, e segnatamente di due ballottaggi (Milano e Napoli), rischia di produrre effetti politici molto rilevanti. Ma quali effetti?

Effetti sul Pdl e la Lega, innanzitutto. Se il centro-destra dovesse perdere Milano e Napoli, gli effetti sulla maggioranza di governo potrebbero essere molto incisivi. La guerra per bande in atto nel Pdl troverebbe nuovo alimento, le manovre per la successione a Berlusconi si moltiplicherebbero, l’attività legislativa subirebbe un ulteriore rallentamento. Quanto alla Lega, si farebbe più forte la tentazione di scendere dalla nave che affonda, prima che sia troppo tardi. Il partito di Bossi potrebbe partecipare con convinzione alle manovre (già in corso) per cambiare la legge elettorale, magari per tornare ai collegi uninominali del Mattarellum. Incassata una legge senza premio di maggioranza, Bossi tornerebbe ad accarezzare l’idea di correre da solo, trasformando le elezioni politiche in una prova di forza del Nord contro il resto del Paese, una sorta di Nord pride in salsa padana, o neo-separatista. Uno scenario meno fantapolitico di quanto potrebbe apparire, se solo si riflette su due circostanze. Primo, i dati delle tasse e degli sprechi mostrano che le ragioni del Nord sono fondatissime, per non dire sacrosante. Secondo, oggi la Lega è più forte di 15 anni fa, allorché - alle Politiche del 1996 - l’avventura della corsa solitaria la portò a incassare il 10% dei consensi, con un mucchio di candidati eletti in Parlamento.

E a sinistra?
Sono in molti a pensare che una eventuale vittoria della sinistra ai ballottaggi rafforzerebbe il Partito democratico, che finalmente vedrebbe aprirsi una possibilità concreta di battere Berlusconi - un Berlusconi umiliato e ammaccato - non già o non solo per via giudiziaria, ma in un scontro politico aperto, al termine di questa legislatura (nel 2013 o, più plausibilmente, già la primavera prossima). E’ possibile, ma esiste anche uno scenario meno roseo.

Se a dare la vittoria al centro-sinistra fossero i ballottaggi di Napoli e Milano, con annesso trionfo di De Magistris e Pisapia, il risultato sarebbe anche un rafforzamento delle forze politiche alla sinistra del Pd, ovvero Idv (Di Pietro) e Sel (Vendola). Ed è difficile pensare che, a quel punto, Vendola non riproporrebbe la propria candidatura a guidare il centro-sinistra alle prossime politiche. Con l’esito paradossale di trasformare un successo del centro-sinistra, tenacemente perseguito da Bersani con le sue aperture a Di Pietro e Vendola, in un indebolimento della leadership di Bersani stesso. Né si può dire che l’eventuale sfida di Vendola a Bersani, indipendentemente dalla forma che dovesse assumere (partito unico Pd-Sel, primarie del Pd aperte), sarebbe frutto di hybris, di irragionevole orgoglio, o di eccessiva considerazione di sé. Decine di ricerche e sondaggi mostrano che il baricentro dell’elettorato del Pd è più a sinistra, molto più a sinistra, di quello dei suoi dirigenti, e che in caso di separazione fra la sinistra assennata (riformisti del Pd, che guardano all’Udc di Casini) e quella più radicale (Idv, Sel, Verdi, partiti comunisti vari) sarebbe quest’ultima a raccogliere i maggiori consensi.

Vedremo come andrà a finire. Ma la mia impressione è che, se la sfida dei ballottaggi fosse vinta nettamente dal centro-sinistra, quello cui assisteremmo non sarebbe il sorpasso del Pd nei confronti del Pdl ma, semmai, la dissoluzione parallela di entrambe le leadership che finora sono riuscite a tenere insieme questi due partiti. Un processo che potrebbe durare abbastanza a lungo, e avere un’incidenza non da poco sulla fisionomia futura del nostro sistema politico.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Il vincitore nascosto delle elezioni
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2011, 05:39:47 pm
1/6/2011

Il vincitore nascosto delle elezioni

LUCA RICOLFI

Berlusconi voleva politicizzare le elezioni amministrative, voleva farne una sorta di giudizio di Dio su di sé e sul governo. C'è riuscito perfettamente, e ha perso anche per questo. Sconfitta chiara, campale e logica. Su questo non ci sono molti dubbi.

I dubbi, invece, cominciano quando si cambia la domanda. Se anziché chiederci «chi ha perso?» proviamo a chiederci «chi ha vinto?», tutto si complica. Perché di vincitori ce ne sono fin troppi, e forse nessuno lo è fino in fondo. Vediamoli tutti, questi vincitori presunti. Il primo a passare all’incasso è ovviamente il Partito democratico. Per Bersani e per i suoi è evidente che il vento è cambiato, che anche il Nord non si fida più del centro-destra, che il Paese è pronto a cambiare governo (e infatti ieri Bersani ha chiesto le dimissioni di Berlusconi).

E tuttavia il conto delle amministrazioni vinte, indubbiamente favorevole al Pd e ai suoi scalpitanti alleati (Di Pietro e Vendola), al momento non segnala un apprezzabile rafforzamento del partito di Bersani, la cui forza sembra tuttora abbondantemente al di sotto di quella che aveva nel 2008, ai tempi della corsa (quasi) solitaria di Veltroni.

Soddisfatti del risultato paiono anche i leader del Terzo polo, che molto avevano puntato su una sconfitta di Berlusconi, vista come precondizione per superare l’assetto bipolare del sistema politico uscito dalla seconda Repubblica. Anche qui, però, c'è un problema: è vero che, almeno rispetto alle Politiche del 2008, i due partiti maggiori - Pdl e Pd - si sono entrambi indeboliti a favore dei rispettivi alleati, ma i loro voti sono confluiti sulle liste civiche e sui partiti più arrabbiati, non certo sui partitini di Casini, Fini e Rutelli. La percentuale di consensi di Udc, Fli, Api uscita dalle urne è di poco superiore a quella della sola Udc nel 2008. Il che, a mio parere, indica una cosa soltanto, e cioè che a distanza di quasi mezzo secolo resta vera la spietata diagnosi di Giovanni Sartori, secondo cui il nostro sistema politico non era e non è un caso di «bipartitismo imperfetto» bensì un caso di «pluralismo polarizzato». Gli spiriti animali dei nostri politici spingono alla contrapposizione, alla frammentazione e all’estremismo, non certo al confronto fra due grandi partiti egemoni sui rispettivi alleati. Viste da questa prospettiva le elezioni del 2011 sembrano infrangere sia i sogni dei nostalgici della prima Repubblica, sia quelli dei vagheggiatori della seconda. A quanto pare gli italiani non si lasciano sedurre né dai due partiti maggiori, Pdl e Pd, né da chi vorrebbe superarli in nome di un «grande centro», rifugio dei moderati e delle persone assennate.

Resterebbe il cosiddetto «partito di Santoro», quello degli ospiti eccellenti della trasmissione Anno Zero. Partiti e leader di partito, come Di Pietro e Vendola. Agitatori come Beppe Grillo, che ha lanciato le liste Cinque Stelle (10% nella rossa Bologna!). Giornalisti come Marco Travaglio e i colleghi del Fatto quotidiano. Ma anche folle, piazze, categorie, territori in collegamento con il conduttore e gli ospiti in studio.

Il partito di Santoro non è solo il luogo di precipitazione dell’antiberlusconismo, ma è stato anche, in questi anni, la voce - una voce talora faziosa e unilaterale - delle mille realtà che l'informazione ufficiale tende a ignorare: penso, per fare l'esempio più clamoroso, alla protesta di un’intera regione, la Sardegna, vessata dallo zelo degli esattori del fisco (è un caso che, dopo 17 anni, il centrodestra abbia perso Cagliari?).

Sono dunque loro, Santoro e i suoi, i veri vincitori di questo passaggio elettorale?

A giudicare dai dati, mi sembra che si debba dire di sì. Se consideriamo i consensi ricevuti dalle liste di partito, le sole forze politiche che hanno sfondato sono quelle della protesta (Vendola e Grillo), una protesta fatta di populismo, idealismo, romanticismo anti-economico. Ed è forse non privo di significato che, fra le forze più tradizionali, a reggere non siano stati i partiti-cardine del sistema politico, gli assennati Pd e Pdl, ma i loro alleati più indisciplinati e riottosi, la Lega di Bossi e l'Italia dei valori di Di Pietro.

Così lo scenario che il voto ci consegna è più ricco di interrogativi che di certezze. Berlusconi ha perso, ma solo il partito di Santoro ha vinto. Questa è certamente una buona notizia per i molti nemici di Berlusconi, ma non è detto che lo sia per il centrosinistra. A mio parere, infatti, il ruolo storico del partito di Santoro è sempre stato duplice: avvicinare il momento dell’uscita dal berlusconismo, allontanare il momento in cui il centrosinistra saprà prendere in mano il destino dell’Italia; rendere più probabile la caduta del centrodestra, rendere più difficile la sua sostituzione con un governo di centrosinistra.

Oggi siamo a un bivio cruciale. La vittoria del centrosinistra rende più probabile la caduta del governo. La «gioiosa macchina» da guerra con cui ci stiamo preparando alla defenestrazione di Berlusconi rende più probabile l’eventualità che quella di oggi, alla lunga, si riveli una vittoria di Pirro. Perché domani, quando Berlusconi sarà uscito di scena, il gioco sarà diverso da quello del «ventennio» berlusconiano: non più uno scontro fra berlusconiani e anti-berlusconiani, ma il confronto fra una destra e una sinistra entrambe deberlusconizzate. E a quel punto quel che conterà non sarà (solo) chi ha buttato giù Berlusconi, ma chi ha le carte più in regola per prendere il timone della nave.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Se i politici seguono il gregge
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2011, 02:15:35 pm
7/6/2011

Se i politici seguono il gregge

LUCA RICOLFI

E’ abbastanza mortificante lo spettacolo cui dobbiamo assistere in questi giorni, gli ultimi prima dell’appuntamento dei referendum.
In un Paese serio si discuterebbe del merito dei quattro quesiti, e cercheremmo tutti di farci un’idea dei pro e dei contro, dei benefici e dei costi, delle opportunità e dei rischi.

Opportunità e rischi che, contrariamente a quello che immaginano i fanatici, ci sono sempre, qualsiasi cosa decidiamo di votare.

Quello che si svolge sotto i nostri occhi, invece, è un penoso tentativo del ceto politico di non farsi travolgere dal sentimento popolare, percepito come favorevole a un quadruplice sì ai quesiti referendari. Anziché cercare di guidare l’opinione pubblica, facendola ragionare, i politici la seguono acriticamente, come un pastore che rincorre il suo gregge di pecore.

Si potrebbe fare, ed anzi qualcuno lo ha già fatto, un elenco dei politici che hanno cambiato posizione, terrorizzati dal clima d’opinione che si è installato in Italia dopo le due Fukushima: quella vera, che ha reso più radioattivo il pianeta, e quella dei ballottaggi, che ha reso radioattivo Berlusconi. Molti dei mutanti sono politici di sinistra, che hanno fiutato il vento e sono improvvisamente diventati referendari, dopo aver a lungo snobbato i referendum. Ma molti sono anche politici di destra, che fino a ieri appoggiavano con convinzione le scelte del governo in materia di acqua e di nucleare, e ora sono assaliti dai dubbi. I primi hanno capito che, in questo momento, i referendum possono risultare utilissimi per disarcionare Berlusconi, i secondi sono in piena «revirgination», per dirla con Luciana Littizzetto: sperano che la verginità acquistata oggi votando qualche sì, o almeno mostrandosi pensosi, li salvi dal disastro quando Berlusconi sarà costretto a lasciare.

Ma lasciamo perdere, e non facciamo nomi. Solo una cosa, vorrei dire: chi non perde occasione per difendere la democrazia, la laicità, la qualità della discussione pubblica, non dovrebbe prestarsi a questo gioco. Perché dei quattro referendum solo uno è puramente politico, quello sul legittimo impedimento. Qui l’effetto giuridico del voto è nullo (la Corte Costituzionale ha già di fatto bocciato la norma che si vuole abrogare) e la scelta è quindi solo simbolica, un sì o un no a Berlusconi. Ma gli altri tre referendum no, il loro esito ha anche effetti importanti sulla vita di tutti noi. E non è affatto evidente come dovrebbe votare un cittadino che avesse a cuore solo il bene comune.

Sul nucleare è relativamente chiaro quali siano i rischi di una scelta a favore delle centrali, ma è assai meno evidente quali siano i costi di un voto che bloccasse qualsiasi programma nucleare futuro. Quale ulteriore rallentamento della crescita economica dell’Italia? Quali difficoltà per la nostra bilancia commerciale? Quali sovraccosti dell’energia? Quanti posti di lavoro in meno nei prossimi anni?

Sono interrogativi su cui poco si ragiona, non solo perché andrebbero contro il sentimento romantico e anti-industriale prevalente al momento, ma perché risposte precise nessuno ne ha. E non mi riferisco solo ai referendari, ma anche ai difensori del nucleare, i quali - ad esempio - usano spesso l’argomento dell’attuale sovrapprezzo dell’energia, ma quasi sempre dimenticano che una parte di quel sovrapprezzo non dipende dalla rinuncia al nucleare ma dal livello delle tasse sull’energia.

Quanto all’acqua le cose sono ancora più intricate. Si può benissimo essere per il sì ai due quesiti sull’acqua (ad esempio perché molte liberalizzazioni e privatizzazioni del passato ci hanno resi diffidenti), ma l’argomento della «privatizzazione dell’acqua» è basato su una forzatura del significato delle parole, visto che quel che sì renderebbe (parzialmente) privato non è il bene acqua bensì il servizio di distribuzione dell’acqua stessa. Un servizio che ora costa molto, disperde una quantità inaccettabile delle nostre risorse idriche, e in molti contesti - proprio grazie alla sua gestione pubblica - fornisce ai politici una preziosa (per loro) riserva di poltrone, posti di lavoro, incarichi e commesse.

Ma in fondo non dobbiamo lamentarci troppo. Se i politici seguono il gregge, è perché il gregge è gregge. Finché ci lasceremo suggestionare dagli slogan, finché saremo accecati dalle nostre simpatie e antipatie, la politica non smetterà di usarci. I politici di destra, che ora cavalcano le paure di Fukushima, domani torneranno a spiegarci che la scelta nucleare è inevitabile, se l’Italia vuole tornare a crescere e creare occupazione per i giovani. E i politici di sinistra, gli stessi che ora ci chiedono di votare contro la «privatizzazione dell’acqua», appena avranno cacciato Berlusconi e riconquistato il governo del Paese torneranno a intonare l’inno delle liberalizzazioni, delle «lenzuolate» che dovrebbero far ripartire l’Italia.

Auguri!

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Titolo: LUCA RICOLFI - L'opposizione neo-romantica
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2011, 12:15:54 pm
22/6/2011
 
L'opposizione neo-romantica
 
 
LUCA RICOLFI
 
A dieci giorni dai referendum, con un governo che ha ammesso la sconfitta e riconosciuto la propria crisi di consenso, è forse possibile cominciare a ragionare con serenità della «vittoria» referendaria e del suo significato.

Personalmente sono sbalordito dalla convergenza dei commenti di tanti osservatori, siano essi politici, giornalisti, intellettuali.
Secondo la visione prevalente, la schiacciante vittoria dei quattro sì al referendum segnerebbe non solo la sconfitta del berlusconismo (e fin qui nulla da dire), ma una sorta di risveglio democratico degli italiani, anzi del «popolo» italiano. Per Barbara Spinelli, ad esempio, con la vittoria referendaria sarebbe nientemeno che «una filosofia politica a franare, come la terra che d’improvviso si stacca dalla montagna e scivola». Il voto del 13 giugno rappresenterebbe «il futuro che d'un tratto irrompe», perché «il popolo è uscito dai dogmi», «ha deciso di occuparsi lui dei beni pubblici, visto che il governo non ne ha cura». Sulla stessa lunghezza Roberto Saviano, per il quale «un popolo si è messo in marcia», e «quello che sta avvenendo è una sorta di mutazione dell’indifferenza», qualcosa che «ha un sapore rivoluzionario»; qualcosa che «sa di rivoluzione liberale così come la intendeva Gobetti». Né si sottrae alla tentazione di evocare il popolo il solitamente assai sobrio Massimo Mucchetti, che - dopo avere denunciato sul Corriere della Sera la demagogia dei referendum sull’acqua - ora riconosce nell’esito di quei medesimi referendum l’espressione della «cultura di un popolo», che prende congedo dai miti del pensiero unico liberista, e «manifesta la sua preoccupazione per l’influenza enorme che conserva l’industria finanziaria».

Se si tolgono alcune eccezioni, fra cui quelle di Luigi la Spina (La Stampa del 18 giugno) e Giuseppe De Rita (Corriere della Sera del 20 giugno), la chiave dei commenti è per lo più quella. Dopo un lungo letargo, gli italiani sarebbero finalmente tornanti alla politica, la società civile si sarebbe risvegliata, la domanda di partecipazione sarebbe risorta. E alla base di tanti ritorni, risvegli e risorgimenti ci sarebbe lei, la rete, con la sua straordinaria capacità di fare politica, animare le discussioni, alimentare la comunicazione, muovere le coscienze, suscitare rivoluzioni più o meno silenziose, più o meno cruente.

Ma ne siamo sicuri? Non c’è un tantino di overstatement in questa pioggia di analisi concordanti?

Non ho molti dubbi sul fatto che gli elettori si siano stancati di Berlusconi, se non altro perché non ho mai creduto al mito degli italiani incantati da lui (una mia vecchia stima del numero effettivo di fan del Cavaliere dava: 6% del corpo elettorale); perché era almeno un anno che tutti i sondaggi registravano l’inesorabile erosione della fiducia nel premier; perché, secondo i medesimi sondaggi, il sorpasso della sinistra nei confronti della destra si era già consumato nelle settimane prima del voto amministrativo. Il congedo da Berlusconi era nell’aria, e credo sia non solo incontrovertibile, ma anche definitivo. Quello su cui ho dei dubbi è che un’opinione pubblica che fino a ieri veniva descritta come carente di spirito civico, apatica, anestetizzata, manipolata dai giornali e dalle tv, si sia improvvisamente trasformata in una comunità virtuosa di cittadini preoccupati del bene comune. I miei dubbi, lo confesso, in parte riposano su convinzioni (indimostrabili) sul carattere degli italiani, sulla lentezza dei processi di maturazione dello spirito civico, sui tempi lunghi che i cambiamenti culturali - quelli veri e profondi - richiedono per affermarsi. In parte, però, i miei dubbi riposano su semplici, elementari dati di fatto: i referendum su cui eravamo invitati a votare erano quattro, diversissimi fra loro nel contenuto, ma la percentuale di sì è risultata sostanzialmente la stessa, il 95%. Come è possibile se l’opinione pubblica è critica, informata, riflessiva, capace di valutare i pro e i contro delle varie scelte?

Qualcuno dice che è il meccanismo del quorum. Ma perché mai? Se non fosse stato essenzialmente un voto contro Berlusconi, avremmo avuto tantissimi sì sul legittimo impedimento (sacrosanti), tanti sì sul nucleare (comprensibilissimi, dopo Fukushima), ma sull’acqua e sui servizi pubblici locali avremmo avuto delle percentuali normali, quelle che si registrano sempre quando su un tema controverso discutono cittadini ben informati, secondo i principi della democrazia deliberativa lanciati da James Fishkin. Quando un tema è complesso e ci sono molti argomenti pro e molti contro, gli esiti sono del tipo 60-40, oppure 70-30, al limite 80-20. Ma mai 95-5. Se succede così, vuol dire che - per un complesso più o meno evidente di cause - il contesto della discussione è stato poco democratico: i media latitavano, i partiti non hanno saputo fare il loro mestiere, le informazioni erano insufficienti o unilaterali, la gente non aveva tempo o voglia di documentarsi, le pressioni di gruppo a conformarsi all’opinione della maggioranza erano soverchianti. Sulle questioni importanti, sui problemi veri, le «percentuali bulgare» non sono mai un bel segnale, un segnale di vitalità della democrazia. E anche ammesso che le percentuali bulgare (95 a 5) si spieghino con il fatto che chi era per Berlusconi è stato a casa, resta il fatto che la maggioranza democratica che è andata a votare ha mostrato una sorprendente incapacità di distinguere, ragionare sulle cose, valutare i pro e i contro delle varie opzioni. Tutte capacità che, a mio parere, costituiscono il nucleo portante di una opinione pubblica democratica, informata, esigente con la politica e con sé stessa.

Spero di sbagliarmi, ma la mia sensazione è che quello cui stiamo assistendo sia sì un risveglio, ma non della democrazia e della partecipazione. Un risveglio dal sonno dell’era berlusconiana, che tuttavia sembra sospingerci in un nuovo sonno, quello di un’opposizione neo-romantica, in cui la gente esprime umori, sentimenti, emozioni, stati d’animo, credenze, convinzioni morali, ma non si preoccupa granché di valutare le conseguenze delle proprie scelte. Per dirla con Max Weber, una sorta di primato dell’etica della convinzione su quella della responsabilità.

E’ questa, a mio parere, l’eredità più negativa dell’era berlusconiana. Aver trasformato la politica in uno scontro di fazioni, in cui conta solo annientare l’avversario, e nulla valgono le idee, i contenuti, le proposte, i dettagli. E mi preoccupa molto che nel principale partito di opposizione, in nome della spallata a Berlusconi, tanti riformisti siano finiti in minoranza, schiacciati da un apparato sempre pronto a cambiare linea e parole d’ordine non appena le circostanze lo rendano conveniente. Può anche darsi che, passata l’euforia del momento, il Partito Democratico torni sui suoi passi, e - pagato pegno alla piazza - ricominci a parlare di liberalizzazioni, efficienza dei servizi, costi dell’energia, mercato del lavoro, senza tabù e senza schemi ideologici. Ma mi sembra più probabile che Bersani sia travolto dai fantasmi che ha evocato, e la deriva neo-romantica dell’opposizione prenda il sopravvento. In quel caso la soddisfazione di avere chiuso l’era berlusconiana ci consolerà per un po’, ma ben presto potremmo accorgerci che i problemi dell’Italia sono rimasti quelli di sempre, e non c’è ancora una classe politica all’altezza di essi.

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Titolo: LUCA RICOLFI - L'inevitabile rag. Tremonti
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2011, 04:36:00 pm
28/6/2011

L'inevitabile rag. Tremonti

LUCA RICOLFI

Ha fatto scalpore l’intervista di Guido Crosetto, sottosegretario alla difesa ed ex coordinatore di Forza Italia per il Piemonte, pubblicata ieri sulla Stampa.

Sfrondato delle venature polemiche nei confronti di Tremonti, il discorso di Crosetto è semplice: finora i conti pubblici sono stati governati imponendo restrizioni di bilancio a 360 gradi, senza agire selettivamente sulla spesa pubblica, ma non si può andare avanti sempre a forza di «tagli lineari alla spesa, quando il problema invece è eliminare le cose che producono spesa». Dice Crosetto: «Ogni volta si taglia un po’, lasciando in piedi le cose inutili e danneggiando quelle utili (...). E invece di tagliare la spesa in modo serio e programmato si sforbicia ogni anno un pezzetto». E’ vero, «Tremonti ha tenuto in vita il Paese, ma mettendolo in coma farmacologico, senza capire che l’economia reale andava aiutata». E l’economia reale, per Crosetto, è innanzitutto quella dei «piccoli»: «Vengo da una realtà fatta di artigiani, commercianti, piccoli imprenditori e devo risposte a loro, che creano ricchezza. In questi anni gli abbiamo aumentato la pressione fiscale, annullato lo Statuto del Contribuente, li abbiamo fatti diventare tutti solo evasori da massacrare, non abbiamo alleggerito la burocrazia».

Crosetto, a mio parere, ha perfettamente ragione. Se l’Italia non cresce, e i nostri guai sono rimasti in gran parte quelli di 20 anni fa, è proprio perché finora i governi - tutti i governi della seconda Repubblica hanno snobbato il mondo dei produttori, piccoli e grandi, tollerando il permanere di un livello di oppressione fiscale sulle imprese che non ha eguali in nessun altro Paese occidentale. E probabilmente Crosetto ha anche ragione a lamentare un approccio un po’ meccanico o «ragionieristico» da parte di Tremonti al problema dei tagli di spesa. E’ possibile che la testa del ministro dell’Economia sia perennemente rivolta all’Europa e ai mercati, e che la bassa cucina dei tagli non interessi più di tanto un uomo le cui curiosità intellettuali paiono più simili a quelle degli storici della longue durée che a quelle degli studiosi di politiche pubbliche.

E tuttavia vorrei dire a Crosetto, a proposito di tagli lineari e non, che le cose sono più complicate, molto più complicate, di come appaiono. E’ ingenuo, per non dire demagogico, suggerire l’idea che oggi giugno 2011 - la politica abbia di fronte a sé due vere alternative: tagli lineari e tagli selettivi. L’opzione dei tagli non lineari, o selettivi, pavlovianamente invocata dall’opposizione e dai sindacati appena Tremonti fa «bau», semplicemente non esiste. E lo dico con la morte nel cuore, perché mi occupo di sprechi nella pubblica amministrazione, e studiare gli sprechi significa precisamente valutare quanto, che cosa e dove si può tagliare.

Se l’opzione tagli non lineari non esiste è, innanzitutto, per una ragione tecnica. Una ragione con cui io stesso ho fatto i conti quando l’attuale governatore del Piemonte mi prospettò di occuparmi di tagli nella sanità regionale, e io decisi di rinunciare al compito. Ho fatto in passato degli studi sugli sprechi nella sanità, e so come si può stimare quanto spreca una Regione (più di 1 miliardo di euro nel caso del Piemonte, chiunque fosse al governo dell’ente). Ma un conto è sapere quanto si dovrebbe tagliare globalmente, un conto è sapere esattamente dove, in che modo, con che tempi. Uno studio di questo tipo richiede un’équipe di specialisti (di cui alcuni provenienti dal mondo della sanità) e almeno due anni di intenso lavoro. Invece la politica ha sempre fretta, e 2-3 anni di lavoro le sembrano un’eternità. Eppure un paio di anni è il tempo minimo per preparare un dossier operativo serio, capace di individuare chirurgicamente gli sprechi e le soluzioni. Vale per la sanità, così come per la scuola, l’università, la giustizia, le carceri, i trasporti, la burocrazia.

La sinistra spesso invoca con rimpianto la spending review, ossia il lavoro di revisione della spesa pubblica iniziato dal compianto ministro Padoa-Schioppa con la Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica (Ctfp, o Commissione Muraro), ma troppo spesso si dimentica che persino quel meritorio lavoro era appena agli inizi, e non aveva ancora prodotto le centinaia di dossier operativi, di manuali di «istruzioni per l’uso», che sarebbero stati necessari se davvero si fosse voluto varare una politica di tagli selettivi. Ora siamo più indietro di allora (perché questo governo ha soppresso la Commissione Muraro), ma siamo indietro persino se immaginiamo a un futuro governo, che si insedi fra un anno e mezzo al posto di quello attuale. Se la sinistra intendesse davvero, una volta vinte le elezioni, procedere lei a tagliare gli sprechi in modo selettivo, avrebbe già creato decine e decine di gruppi di lavoro per individuare come, dove e quanto tagliare.

Ma immaginiamo invece che, per miracolo, i dossier siano già sul tavolo del governo. Che il governo sappia con precisione dove colpire. C’è la lista degli enti inutili da sopprimere e quella degli enti da rafforzare. C’è la lista dei ministeri da far dimagrire, e quella dei ministeri da rifinanziare. C’è la lista degli atenei da chiudere e quella degli atenei da potenziare. C’è la lista dei tribunali da accorpare. C’è la lista degli ospedali inefficienti e pericolosi da chiudere. C’è la lista delle agevolazioni ed esenzioni da sopprimere. Ci sono stime accurate dei tassi di spreco di ogni regione, provincia, Comune, e un piano decennale che prevede progressive riduzioni dei trasferimenti per gli enti che dissipano denaro pubblico, ma anche progressivi aumenti delle dotazioni per gli enti virtuosi. Ebbene, provate a immaginarvelo un governo serio e determinato, crosettianamente pronto a iniziare una politica di tagli selettivi (per inciso: la manovra che ci chiede l’Europa è di 40 miliardi in 3 anni, gli sprechi della pubblica amministrazione superano gli 80 miliardi). Che cosa credete che succederebbe?

Ogni categoria, ente, territorio colpito mobiliterebbe sindacati, associazioni di categoria, tribunali, televisioni, quotidiani per salvare se stesso, naturalmente invocando l’assoluta indispensabilità delle funzioni che esso svolge, naturalmente nell’esclusivo interesse della comunità. Un coro generale si leverebbe contro il governo, l’indignazione popolare monterebbe, il lavoro dei tecnici sarebbe duramente contestato da altri tecnici, si sentirebbe di nuovo parlare di «macelleria sociale», «attacco al welfare» e alle conquiste dei lavoratori, eccetera eccetera. E allora, se le cose stanno così, come possiamo stupirci che Tremonti pensi a semplici, modesti, tagli lineari, con l’aggiunta di una spruzzatina di demagogia anti-casta, tipo limatura dei compensi ai politici?

Tremonti, probabilmente, pensa a tagli lineari perché quella è la sua forma mentis. Ma il guaio è che, giunti a questo punto, con un Paese cui è stato raccontato che nella crisi l’Italia tutto sommato se l’è cavata bene, nessun governo sarebbe in grado di imporre le misure che servirebbero, anche se nel frattempo avesse elaborato un piano, fatto di dossier precisi, seri, dettagliati. Ed è questa, a mio parere, l’eredità più nefasta che il centro-destra lascia al governo che verrà, di destra o di sinistra che sia: gli italiani sono stati convinti che la situazione è sotto controllo, e quindi giustamente non vedono proprio perché dovrebbero cambiare il loro tran-tran.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Carceri, la catastrofe umanitaria
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2011, 10:35:41 am
3/7/2011

Carceri, la catastrofe umanitaria

LUCA RICOLFI

Credo che ben pochi italiani abbiano avuto notizia dello sciopero della fame di Marco Pannella, iniziato il 20 aprile scorso, dunque 75 giorni fa. Pannella e i Radicali protestano contro la situazione inumana delle carceri italiane, un problema che si protrae ormai da anni, e ogni estate assume tratti drammatici.

Nelle carceri italiane sono rinchiusi quasi 70 mila detenuti, a fronte di una capienza che non raggiunge i 45 mila posti. Molte strutture sono fatiscenti, i detenuti sono costretti a convivere in spazi angusti e sovraffollati, largamente al di sotto degli standard minimi europei (7 metri quadri a detenuto in cella singola, 4 in cella multipla), con servizi igienici e condizioni di accesso ai medesimi spesso umilianti. Il tasso di suicidio è circa 20 volte quello del resto della popolazione. Da anni e anni innumerevoli rapporti, ricerche, studi, resoconti di visitatori testimoniano quale inferno siano diventate tante carceri italiane (non tutte, per fortuna). E la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già richiamato più volte l’Italia per le condizioni dei detenuti nelle carceri.

Nonostante tutto ciò il tema non è mai, non dico al centro, ma neppure alla periferia del dibattito politico. Semplicemente non se ne parla, salvo nei rarissimi momenti in cui il governo annuncia misure di svuotamento delle carceri o fantomatici piani di edilizia carceraria (i nuovi posti promessi sono sempre tantissimi, quelli effettivamente realizzati negli ultimi anni sono poche migliaia, circa un decimo del fabbisogno).

L’inerzia dei media, per una volta, accomuna tutti indistintamente: destra, centro e sinistra; televisione, giornali, Internet. Se tacessero anche i Radicali e alcune rare, isolatissime voci di singole personalità, il silenzio sarebbe totale. Come è possibile ?
Una spiegazione è che all’opinione pubblica italiana delle condizioni di vita dei detenuti semplicemente non importi un fico secco. O, se vogliamo essere più benevoli, che il problema delle carceri - pur essendo noto a molti - sia entrato nel novero dei fatti cui la gente si è abituata al punto da considerarli ormai alla stregua di eventi naturali. I politici rubano, i fiumi esondano, le scuole sono a rischio sismico, i napoletani non fanno la raccolta differenziata. E, naturalmente, le carceri scoppiano: del resto siamo in Italia, il Paese più bello del mondo.

Non so se le cose stiano così (sospetto che sì). Ma quale che sia l’atteggiamento prevalente nell’opinione pubblica, a me pare che una classe dirigente che ignori il problema dell’inferno carcerario non sia all’altezza del proprio ruolo. Ci permettiamo di criticare la violazione dei diritti umani in Cina, in Russia, in Libia, in Siria. Ci scandalizziamo ogni volta che un leader occidentale visita un Paese totalitario (con cui tuttavia ci piace commerciare) e omette di fare il suo bravo discorsetto sui diritti umani. Abbiamo avuto il coraggio (o la faccia tosta?) di entrare in guerra con la Libia «per evitare una catastrofe umanitaria», con il risultato di provocare e tenere in piedi una guerra civile che è già costata migliaia di morti. Però non vediamo la catastrofe umanitaria che noi stessi apparecchiamo e tolleriamo ogni giorno nelle nostre carceri, e che è lì, davanti ai nostri occhi, solo che ci degniamo di prestarvi attenzione.
No, c’è qualcosa che non va. L’eventuale indifferenza dell’opinione pubblica non assolve la classe dirigente, e quando dico classe dirigente non parlo solo dei politici, ma della sensibilità di tutti coloro che hanno responsabilità nelle imprese, nelle banche, nei sindacati, nelle associazioni, nei media, nelle università, nelle professioni.

Si possono avere i dubbi e le riserve più radicali sulle proposte di Pannella, e io stesso non condivido almeno la metà delle cose che dice e pensa, a partire dall’idea che la soluzione del problema del sovraffollamento carcerario sia una grande amnistia. Però non si può ignorare il problema che Pannella solleva, perché quella delle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane è una questione di civiltà. Una questione che si può affrontare lungo linee libertarie (depenalizzazioni, indulti, amnistie, misure alternative al carcere), oppure lungo linee sicuritarie (ammodernamento delle carceri esistenti, costruzione di nuove carceri), o ancora con una miscela dei due approcci. E che tuttavia un Paese occidentale non può permettersi di rimuovere, o di vivere come qualcosa che non tocca la sua identità, la sua morale, la sua coscienza collettiva.

Si parla tanto di modernizzazione dell’Italia, della necessità di riforme che ci consentano di tornare a crescere. E tuttavia in questo gran parlare di riforme, cui io stesso non di rado prendo parte con i miei studi, forse si sta lasciando un po’ troppo in ombra un aspetto, e cioè che modernizzazione non significa solo modernizzazione economica, e che in Italia esiste anche un drammatico problema di modernizzazione civile. Un problema che ovviamente chiama in causa i comportamenti di ognuno, ma che è prima di tutto un problema di civiltà giuridica nei rapporti fra lo Stato e i singoli cittadini.

Oggi in Italia, di fronte allo Stato e ai suoi apparati, troppe volte il singolo cittadino è inerme, sottoposto a ogni tipo di vessazione, arbitrio, ricatto, abuso, negligenza, sordità. Sotto questo profilo, a 150 anni dall’Unità d’Italia siamo ancora sudditi, e non cittadini. E lo siamo ovunque, sia quando siamo ancora liberi e ci troviamo di fronte ad apparati che violano le regole e abusano del loro potere, sia quando incappiamo nelle maglie della giustizia e, fin dalla condizione di detenuti in attesa di giudizio, sperimentiamo l’inferno delle carceri italiane.
Perciò, non auto-inganniamoci. Lo sciopero della fame di Marco Pannella sembra parlare solo dei detenuti, ma parla anche di noi.

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Titolo: LUCA RICOLFI - Rassegnati alle troppe tasse
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2011, 10:07:49 am
18/7/2011

Rassegnati alle troppe tasse

LUCA RICOLFI

Quella che si apre oggi è una settimana importante per valutare le prospettive dell’Italia dopo la manovra-lampo approvata nei giorni scorsi. Non è detto che i mercati siano i migliori giudici della bontà delle nostre politiche, ma non v’è dubbio che - finché le utopie di chi sogna istituzioni economiche europee funzionanti non si saranno realizzate - è con i mercati che dovremo fare i conti.

Le previsioni degli osservatori, in proposito, non sono particolarmente ottimistiche. La manovra allestita in fretta e furia dal governo, e «responsabilmente» lasciata passare in tempi rapidissimi dalle opposizioni, non è piaciuta innanzitutto per la sua iniquità, ossia per la sua incapacità di distribuire in modo razionale e selettivo i sacrifici richiesti, con l’aggravante di avere ridotto al minimo quelli richiesti alla casta dei politici, un vero e proprio schiaffo in faccia ai cittadini. Ma non è piaciuta nemmeno sotto il profilo della sua capacità di calmare i mercati e rassicurare gli investitori, ricostituendo un po’ di fiducia nel sistema Italia.

Quasi tutti gli analisti hanno individuato tre punti deboli della manovra. Primo: è di entità risibile nel 2011-2012, mentre diventa draconiana solo nel 2013-2014, il che significa che i suoi effetti certi sono minimi, mentre gli effetti significativi non sono certi (gli impegni del 2013-2014 molto difficilmente potranno essere onorati, visto che non si sa nemmeno chi dovrà farlo: dalla fine del 2012 saremo in campagna elettorale). Secondo: una componente della manovra, quella fiscale, non solo è spostata avanti nel tempo, ma è di contenuto sconosciuto, in quanto affidata a una delega fiscale. Terzo: la manovra è troppo incisiva dal lato delle entrate (tasse), e lo è troppo poco dal lato delle uscite (spesa pubblica).

Di qui il timore che la manovra ottenga il doppio effetto di non convincere i mercati, con conseguente innalzamento del costo del nostro debito pubblico, e di azzoppare l’economia, già sufficientemente in difficoltà prima della manovra. Non sono particolarmente ottimista sulla reazione dei mercati, che non mi paiono così ingenui da non accorgersi del bluff di un pacchetto inflazionato di semplici intenzioni future. E’ questa preoccupazione che ha indotto non pochi osservatori, anche di sinistra come Eugenio Scalfari, a invocare un significativo anticipo di sacrifici al 2011-2012.

Quanto al rischio che la manovra soffochi del tutto la crescita il mio pessimismo è invece totale, e discende da un fatto (incontestabile) e da un’opinione, ovviamente discutibilissima. Il fatto è che nessun Paese sviluppato ha una pressione fiscale sui produttori alta come la nostra (il Total Tax Rate è al 68,6%), una circostanza aggravata dagli elevatissimi costi dell’energia e dalla doppia zavorra degli adempimenti burocratici e dell’inefficienza della giustizia civile. L’opinione (discutibile, ma supportata da qualche evidenza empirica) è che il fardello che un Paese impone ai produttori lavoratori e imprese - sia di gran lunga la causa più importante del suo ristagno. Molto, ma molto più importante di tutti gli altri fattori che - sotto la voce riforme mancate vengono ritualmente elencati, e da cui a mio parere ci si aspetta troppo.

Vista da questa angolatura, quella della permanente mortificazione di chi produce ricchezza, la storia delle ultime settimane è semplicemente agghiacciante. Ancora a giugno si dibatteva di riduzione della pressione fiscale, di un possibile ritorno del Pdl allo spirito originario del 1994. Poi si è cominciato a dire che la pressione fiscale non poteva scendere, ma che si poteva redistribuire il carico, spostandolo dalle persone (Irpef) alle cose (Iva), con ben poca attenzione al fatto che la crescita non dipende genericamente dalle «persone» ma da chi genera ricchezza, ossia lavoratori e imprese. E infine, nei giorni scorsi, ci si è arresi al fatto che le tasse non solo non potranno essere diminuite, ma dovranno salire. Nel giro di un mese un micidiale 1-2-3 si è abbattuto sulle prospettive dell’economia italiana, di cui - a me sembra - si continua a sottovalutare il problema centrale: a queste condizioni ci vuole una dose spropositata di coraggio per operare in Italia, come del resto mostra al di là di ogni ragionevole dubbio il livello risibile degli investimenti diretti dall’estero.

Ed è sorprendente, almeno ai miei occhi, che una tale sottovalutazione della crucialità del problema delle tasse, e della drammaticità della situazione di chi cerca di stare sul mercato, non provenga solo dagli attori da cui ce lo aspettiamo, ossia sinistra, sindacati, pubblico impiego, ma anche da settori importanti dell’accademia e del mondo economico-finanziario. Io leggo tutti i giorni «Il Sole - 24 Ore», quotidiano vicino al mondo delle imprese, e sono perennemente stupito dalla profluvio di discorsi, inviti e ammonimenti a «fare le riforme» e dalla relativa rarità delle richieste di ridurre significativamente la pressione fiscale, quasi che uno strano cocktail di rassegnazione e senso di responsabilità nazionale avesse convinto gli stati maggiori dell’economia italiana che, per ora, su quel fronte nulla è possibile. E quando leggo che, di fronte a una manovra tutta sbilanciata dal lato delle entrate, la presidente degli industriali dichiara «abbiamo l’impressione che ci possa essere un aumento delle tasse», irresistibile mi si accende nella mente l’immagine di Titti, il canarino perennemente inseguito da Gatto Silvestro, che dice «oh, oh, mi è semblato di vedele un gatto».

Insomma, la mia sensazione è che spesso anche chi fatica, compete, e si batte ogni giorno per non far affondare la barca sia ormai da molti anni assuefatto a questo ceto politico, a questo Stato, e non percepisca fino in fondo il tasso di eroismo che oggi è richiesto in Italia a chi intende lavorare e produrre nella legalità, senza scorciatoie e protezioni politiche. Né mi sembra si possa escludere che la severità dei mercati nei confronti dell’Italia abbia anche qui una delle sue radici. Pensare che il debito pubblico si possa abbattere senza crescita, semplicemente azzerando il deficit, è già alquanto azzardato, ma pensare che la crescita possa ripartire con questo livello di pressione fiscale sui produttori lo è forse ancora di più. C’è solo da augurarsi che questa non sia la visione dei mercati, perché se lo fosse ben presto l’Italia potrebbe ritrovarsi nella tempesta.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8992


Titolo: LUCA RICOLFI - Un Paese senza
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2011, 11:34:02 am
8/8/2011

Un Paese senza

LUCA RICOLFI


Siamo abituati a pensare che ad ogni problema corrisponda una soluzione. Ma ci sono anche rebus che non hanno soluzioni: ad esempio la quadratura del cerchio, o l'equazione di quinto grado. Fra i rebus senza soluzione, a mio parere, c'è anche il problema politico italiano, almeno per ora.

Possiamo prendercela fin che vogliamo con la speculazione, l'irrazionalità dei mercati finanziari, la perfidia delle agenzie di rating (è di ieri la notizia che, per la prima volta, il debito statunitense ha perso la tripla A, almeno nel giudizio di Standard & Poor's). Ma la realtà è che, anche se i mercati si dessero una calmata (cosa che prima o poi succederà), né il mondo, né l'Europa, né l'Italia avrebbero per ciò stesso risolto i loro problemi. Le malattie che la febbre dei mercati mette in evidenza sussistono indipendentemente dal nervosismo dei mercati stessi. E si tratta di malattie molto gravi.

Il mondo è malato perché, dopo aver goduto dei benefici della globalizzazione, non ha trovato - né forse ha veramente cercato - il modo di contenerne alcuni drammatici effetti collaterali, come l'amplificazione degli squilibri economici fra Paesi e l'ipertrofia dei mercati finanziari.

Mercati che sono arrivati a pesare 8 volte il Pil mondiale e quindi (come notava sabato Morya Longo su Il Sole 24 Ore) ormai in grado di incidere sui fondamentali delle economie, anziché limitarsi a misurarne più o meno accuratamente lo stato di salute. E non va certo ad onore della classe dirigente mondiale il fatto che, a quattro anni dallo scoppio della crisi, così poco sia stato fatto per riportare un po' di ordine e di trasparenza nelle transazioni finanziarie.

L'Europa è malata perché è come l'Italia. L'edificio dell'euro non funziona per gli stessi motivi per cui non ha funzionato l'unità d'Italia. Quando si impone un mercato e una moneta unica a territori che hanno enormi divari di produttività, di modernizzazione, di cultura civica, solo un processo di convergenza economica e sociale accelerata può evitare la formazione di squilibri drammatici. L'unificazione monetaria, infatti, sopprime l'unico meccanismo di riequilibrio incisivo, ossia la svalutazione della moneta nazionale. Private della possibilità di svalutare, le economie deboli tendono a importare più di quanto esportino, ed accumulano deficit e debiti pubblici sempre più grandi per potersi permettere un tenore di vita che va al di là di ciò che il Paese effettivamente produce. In queste condizioni, per contenere gli squilibri c'è solo la via della modernizzazione del territorio più debole, ma questa via - in Europa - è stata percorsa pienamente solo da alcuni Paesi dell'Est, e segnatamente dalla Germania orientale nell'ambito della riunificazione tedesca. Le economie deboli del Mediterraneo - Italia, Spagna, Grecia, Portogallo - sono entrate tutte nell'euro, ma ben poco hanno fatto per meritarsi l'appartenenza all'eurozona. Un processo molto simile a quello che, nell'Italia repubblicana, ha fatto fallire tutti i tentativi di annullare il divario fra Nord e Sud del Paese. Con una differenza importante: che non esistendo un mercato dei titoli di Stato delle Regioni, le nostre nove regioni in deficit (Lazio più tutto il Sud) hanno potuto mascherare il loro status di territori-cicala molto più a lungo di quanto siano riuscite a fare Grecia, Portogallo, Spagna e Italia.

Quanto all'Italia, la sua malattia è simile a quella delle altre economie deboli, ma presenta almeno due complicazioni importanti. La prima è che una parte del Paese, ovvero tutto il Nord inclusa l'Emilia Romagna (ma esclusa la Liguria), ha istituzioni di livello europeo, e tassi di crescita più bassi del resto d'Europa solo perché - attraverso il massiccio prelievo fiscale cui è soggetta - è costretta a sostenere i consumi delle regioni meno produttive.

La seconda complicazione è la nostra classe dirigente, che - a mio parere - ha cessato di essere tale intorno al 1998, appena perfezionato il nostro ingresso in Europa. La stagione che va da Mani pulite e dal tracollo della lira (1992) alla caduta del primo governo Prodi (1998) fu ancora, nonostante vari limiti ed incertezze, una stagione di riforme, di cambiamenti, di tentativi di modernizzazione. E lo fu indipendentemente dal colore politico dei governi, e con il contributo sofferto, ma tutto sommato costruttivo, delle principali forze sociali, a partire dai sindacati. Non così il dodicennio che va dal 1999 ad oggi, in cui la nostra classe dirigente ha progressivamente abbassato le ambizioni riformiste, fino allo stallo degli ultimi due esecutivi (Prodi e Berlusconi), capaci di competere fra loro solo nell'arte del non governo.

Ed eccoci arrivati al perché il rebus politico italiano non ha alcuna soluzione. Il governo Berlusconi ha negato sistematicamente la gravità della situazione, e proprio sulla base di questa diagnosi errata ha ritenuto di potersi permettere una manovra risibile, in cui l'85% dell'aggiustamento necessario per azzerare il deficit veniva scaricato sulle spalle dei governi futuri. Sarebbe stato stupefacente che i mercati non si accorgessero del bluff. Ed è un bene (o meglio è il male minore) che l'Europa, imponendo l'anticipo al 2013 del pareggio di bilancio, abbia di fatto commissariato l'Italia, sostituendosi a un governo paralizzato. Dunque è vero, questo governo è diventato un problema, se non il problema.

Il nostro guaio, sfortunatamente, è che questa opposizione - anzi queste opposizioni - non sono la soluzione, ma una parte del medesimo problema. E' almeno due anni che l'opposizione è convinta dell'inadeguatezza di questo governo, ma neppure in un tempo così lungo è stata in grado di approntare una diagnosi condivisa e una terapia credibile. E' scoraggiante, in questi giorni, leggere sui giornali la cacofonia di valutazioni e di proposte che arrivano da ogni angolo del cantiere delle opposizioni. E ancora più scoraggiante è la genericità, per non dire il vuoto spinto, dei documenti delle cosiddette parti sociali.

La realtà è che nessuno, oggi, è in grado di dire se le attuali opposizioni sarebbero capaci di formare un governo, e tantomeno che cosa un tale governo ci riserverebbe, al di là delle solite chiacchiere su costi della politica, lotta agli sprechi, contrasto all'evasione fiscale. Eppure il rebus è chiaro: se non vogliamo essere in balia dei mercati bisogna trovare 50 miliardi di euro (più tasse e meno spese), e inoltre bisogna trovarli senza provocare né una recessione né una rivolta sociale.

Ecco perché penso che il rebus sia insolubile. Un'impresa come quella oggi richiesta all' Italia potrebbe tentarla solo una classe dirigente credibile. Dove per credibile non intendo solo un po' meno corrotta e squassata dagli scandali, ma soprattutto più lucida, più unita, più coraggiosa, meno ossessionata dalla ricerca del consenso a breve termine. L'immobilismo e l'impotenza di Berlusconi sono diventati il problema dell'Italia, ma la tragedia del Paese è che le opposizioni non hanno usato il lungo tempo del crepuscolo berlusconiano per diventare, esse, la soluzione che il Paese attende.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9074


Titolo: LUCA RICOLFI - Il rischio di sacrifici inutili
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2011, 10:49:00 pm
14/8/2011

Il rischio di sacrifici inutili

LUCA RICOLFI

Lì per lì, sentite le prime notizie sulla super-manovra, mi sono detto: saranno pure sacrifici, e sacrifici alquanto impopolari, ma meglio tardi che mai. In fondo erano almeno tre anni, dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008, che quasi tutti gli analisti indipendenti scongiuravano il governo di non mettere la testa sotto la sabbia, di smetterla con gli annunci e le dilazioni (vedi l’annacquamento del federalismo), di agire subito e con determinazione. Ora anche Berlusconi e Tremonti l'hanno capita, e si apprestano ad affrontare i gravissimi problemi della nostra economia. Spiace riconoscerlo, ma ai mercati è riuscito quello che alle menti illuminate dei riformisti di destra e sinistra non era mai riuscito: convincere un governo immobilista (come gli ultimi cinque, dal ‘98 a oggi) che non si può restare oltre con le mani in mano, paralizzati dalle divisioni e dagli interessi privati del premier. Poi però, accanto a questo sentimento di relativa soddisfazione, se ne è installato un altro, di segno opposto. Che cosa mi ha fatto cambiare atteggiamento?

In primo luogo, la faccia tosta di Berlusconi e Tremonti, che - dopo aver per anni disprezzato e sbeffeggiato chiunque osasse mettere in dubbio la solidità dei conti pubblici italiani - ora ci raccontano la favoletta secondo cui «la situazione è cambiata», la tempesta che ha investito borse e titoli di Stato «non era prevedibile», e via cadendo dalle nuvole.

Eh no, tutto si può dire ma non che non foste stati avvertiti. La stragrande maggioranza degli studiosi, in questi anni, mesi, settimane e giorni era assolutamente concorde sulla diagnosi di base: i conti pubblici italiani non sono affatto in sicurezza, l’entità del nostro debito pubblico ci rende permanentemente vulnerabili, la manovra varata un mese fa era una presa in giro dei mercati e delle istituzioni europee, perché rimandava l’85% dell’aggiustamento al 2013-14, quando non si sa nemmeno chi governerà, né di conseguenza si può avere la minima garanzia che rispetterà gli impegni presi oggi.

Ricordate lo «scalone» delle pensioni? Anche allora, eravamo nel 2004, Tremonti lo varò per legge rimandandone però l’applicazione al 2008, e il governo successivo - come si poteva facilmente prevedere - se lo rimangiò in un sol boccone. E anche per quanto riguarda la manovra di luglio, che il governo si è finalmente deciso ad anticipare di un anno, vorrei ricordare quello che Roberto Perotti e Luigi Zingales scrivevano più di un mese fa, quando era già del tutto evidente che i mercati non credevano alle vaghe promesse del nostro governo: «Esiste quindi una sola via d'uscita, che ci metta al riparo dalla volatilità del mercato: raggiungere il pareggio di bilancio nell’arco diciamo di un anno».

Se anziché accontentarsi della solidarietà e dell’approvazione dei colleghi europei, i nostri governanti avessero preso un po’ più sul serio i mercati, avrebbero agito molto prima, e oggi il prezzo che sono costretti a chiedere ai cittadini sarebbe minore. Insomma, aver rimandato i sacrifici significa averli aggravati. Questa è una gravissima responsabilità, un errore che una classe dirigente degna di questo nome non avrebbe fatto. Anche se va aggiunto, per amore di verità, che la timidezza del governo è anche il risultato dell’immaturità dell’opposizione: se Tremonti e Berlusconi avessero agito in tempo e con il rigore richiesto dalla situazione, opposizioni e parti sociali li avrebbero massacrati.

E’ paradossale, e duro da accettare, ma la lezione di questi giorni è anche questa: la paura suscitata dai mercati rende possibili oggi al governo scelte che - senza quella paura - sarebbero state semplicemente impraticabili, perché avrebbero richiesto un’opposizione seria, disponibile al dialogo sulle riforme economico-sociali anziché ossessionata dall’incubo della democrazia in pericolo.

Ma non è solo la sfrontatezza del governo che mi ha fatto cambiare atteggiamento sulla manovra. E’ la lettura dei suoi contenuti che mi ha lasciato alquanto perplesso. E questo sotto almeno tre profili: equità, rigore, futuro.

Equità. Ci sono anche cose ragionevoli, per non dire sacrosante, ma la misura centrale, il «contributo di solidarietà» sui redditi superiori a 90 mila euro, è profondamente ingiusta. Essa infatti colpisce una minoranza di cittadini (poco più dell’1%) che ha due sole colpe: guadagnare più di 4000 euro netti al mese, e pagare le tasse. A parte l’ipocrisia della parola solidarietà (la solidarietà non può essere coatta), un prestito semantico necessario per ingraziarsi i sindacati e nascondere che si tratta - né più né meno - di un innalzamento dell’aliquota marginale Irpef, la misura è iniqua perché i ricchi «nominali» sono una piccola frazione (tra il 5% e il 10%) dei ricchi «reali».

Bastano pochi elementari confronti - ad esempio sui consumi di lusso, o sui patrimoni finanziari e immobiliari - per capire che almeno il 90% dei veri ricchi sono evasori fiscali, che vivono nell’abbondanza ma dichiarano redditi da ceto medio. Meglio, molto meglio anche sotto il profilo del gettito, sarebbe stato agire con una piccolissima imposta sul patrimonio (tipo il 5 per 10.000). Almeno avrebbero pagato anche gli evasori.

Così, sempre sotto il profilo dell’equità, sarebbe stata doverosa una esplicita differenziazione fra territori-formica, che producono molto ed evadono poco, e territori-cicala, che producono poco ed evadono molto. Alle amministrazioni più virtuose, proprio perché hanno già razionalizzato la spesa, non si possono imporre gli stessi tagli che si chiedono alle amministrazioni che hanno ancora un lungo cammino di risanamento da compiere.

Rigore. Qui le obiezioni sarebbero moltissime, per cui mi limito a quattro esempi: manca un piano di dismissioni del patrimonio pubblico; manca un intervento incisivo sulla previdenza (in particolare su chi è andato in pensione prima dei 50 anni); diverse misure, a partire dal contributo di solidarietà, non hanno carattere strutturale; l’idea di togliere le tredicesime ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche che spendono troppo è peregrina in assenza di obiettivi di budget ben studiati e se prima non si ristabilisce il «comando» nei pubblici uffici, due precondizioni che mancano del tutto.

Futuro. Ma è soprattutto sulle prospettive future del Paese che la manovra, così come si profila in queste ore, appare più deludente. Il nostro problema centrale, la nostra palla al piede, è il debito pubblico. Pensare di risolvere questo problema senza accelerare la crescita, senza portarla dallo stentato 1% attuale ad almeno il 2%, è pura illusione. Se non torneremo a crescere a un ritmo decente non ci saranno né posti di lavoro per i giovani e per le donne, né soldi per completare il nostro stato sociale, che è ipertrofico dal lato delle pensioni ma rachitico su tutto il resto.

Ma nella manovra, per riconoscimento unanime, quel che manca sono proprio le due misure fondamentali per la crescita: riduzione della pressione fiscale sui produttori, abbattimento del numero di adempimenti per le imprese. E al loro posto, incredibilmente, compaiono ulteriori aggravi per lavoratori autonomi e società: dalla «rimodulazione» degli studi di settore per i primi, alla riduzione - per le seconde - della possibilità di abbattimento delle perdite.

Può darsi che quel che non si vede oggi spunti domani dalla delega fiscale. Può darsi che il governo si decida ad alzare l’Iva sui beni di lusso, a ridurre la selva delle esenzioni ed agevolazioni dei regimi fiscali. Ma se una parte cospicua di questi risparmi non verrà usata per dare ossigeno all’Italia che produce e che compete, se - come purtroppo è avvenuto finora - ogni centesimo di gettito recuperato andrà a finire nel calderone del bilancio pubblico senza alleggerire la pressione fiscale sui produttori, allora temo che anche i sacrifici che ora ci vengono richiesti finiranno per essere stati vani.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9093


Titolo: LUCA RICOLFI - I mercati non sono stupidi
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2011, 10:43:00 am
29/8/2011

I mercati non sono stupidi

LUCA RICOLFI

Inostri politici pensano che i mercati siano stupidi? E che i cittadini siano completamente rassegnati a subire qualsiasi vessazione?

Direi proprio di sì. Nelle scorse settimane, scrivendo su questo giornale, ho avuto parole piuttosto dure sulle due manovre messe a punto dal ministro Giulio Tremonti, quella di luglio e la manovrabis di agosto.

Come la maggior parte degli studiosi, le ritenevo inique, insufficienti, sbilanciate dal lato delle entrate, moderatamente recessive, carenti di misure strutturali, del tutto disattente alle esigenze della crescita.

E purtroppo la mia previsione che i mercati non si sarebbero lasciati ingannare si è rivelata fondata: né la prima manovra, né quella aggiuntiva, sembrano aver convinto gli investitori della serietà delle intenzioni dell’Italia.

Ora, tuttavia, mettendo in fila le proposte alternative dei critici della manovra, proposte che vengono sia dalle opposizioni sia dall’interno della maggioranza (in particolare dalla Lega), non posso che riconoscere: uditi i critici, era meno peggio il menu confezionato da Tremonti.

Le contro-proposte, o contro-manovre, sono infatti largamente peggiorative. Quanto a quella del Partito democratico, è difficile non condividere il severo giudizio espresso nei giorni scorsi da Tito Boeri, sulle colonne di «Repubblica»: le misure proposte dal Pd sono ancora meno incisive di quelle di Tremonti, e inoltre hanno il grave difetto di spostare il baricentro della manovra ancor più dal lato delle entrate.

Quanto alle contro-proposte del soggetto politico più agguerrito, la Lega, la loro logica è fin troppo chiara. Qui i capisaldi sono tre.

Primo, impedire la distruzione di poltrone riservate ai politici locali: a ciò serve la rinuncia a sopprimere i Comuni sotto i 1000 abitanti, ma soprattutto la sostituzione della misura (semplice e immediatamente attuabile) della riduzione del numero di province, con la misura (complicatissima, e indefinitamente rinviabile) della loro soppressione totale mediante disegno di legge costituzionale.

Secondo, impedire che i tagli alle risorse degli Enti locali costringano gli amministratori a spendere meno. È questo l’obiettivo principale cui sono volte proposte come l’aumento dell’Iva e la «patrimoniale contro gli evasori». Una proposta contro natura, se si pensa che la retorica della Lega è sempre stata: riduciamo gli sprechi, dando meno risorse agli amministratori inefficienti (per lo più concentrati al Sud, ma non solo).

Terzo, lasciare intatto il nostro sistema pensionistico, tuttora ricco di privilegi (a partire da quello delle pensioni di anzianità), pur di non perdere consensi fra i propri elettori: una quota molto elevata dei pensionati è concentrata al Nord.

Questo è il tipo di nobili istanze su cui i politici si azzanneranno in Parlamento nei prossimi giorni e settimane. A nessuna forza politica pare venire in mente che, se l’Italia vuole uscire dalla crisi deve tassativamente tornare a crescere e che, se non cresce, è perché mancano le condizioni strutturali che promuovono l’attività economica: non solo le riforme a costo zero, ma una pressione fiscale sui produttori accettabile, molti meno adempimenti per lavoratori autonomi e imprese, una giustizia civile rapida, una burocrazia meno ubiqua ed opprimente. D’altronde la spudoratezza con cui le forze politiche eludono il problema della crescita ha la sua base nella immaturità dei cittadini-contribuenti. L’unico tema che sembra davvero appassionare i cittadini è chi dovrà pagare di più: il Nord o il Sud, i pensionati o i lavoratori, i dipendenti o gli autonomi, i ricchi o i poveri, gli evasori o gli onesti. Mentre il punto centrale per il futuro di tutti noi è un altro: non tanto se le misure saranno giuste, ma se saranno efficaci. Ed è su questo, solo su questo, che - temo - ci giudicheranno i mercati.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9141


Titolo: LUCA RICOLFI - Sprecata l'ultima munizione
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2011, 04:27:12 pm
8/9/2011

Sprecata l'ultima munizione

LUCA RICOLFI

Di cose da dire sulla manovra ce ne sarebbero tantissime. Ad esempio che nessuno ci ripagherà mai dell’enorme costo, innanzitutto economico, che graverà sulle famiglie italiane per l’incredibile leggerezza dei nostri governanti: il fatto di avere rimandato così a lungo le decisioni, il fatto di avere montato e smontato la manovra per troppe volte, il fatto di avere tagliato così poco la spesa pubblica e incrementato così tanto le tasse, tutti questi fatti costeranno molti miliardi di euro, e saremo noi cittadini - non certo i politici - a pagare il conto.

Per non parlare dello spettacolo di poca serietà dato nella selezione dei provvedimenti da salvare o da far cadere: i provvedimenti di limitazione dei privilegi della politica - abolizione delle Province, dimezzamento dei parlamentari - sono ormai derubricati a promesse per il futuro (e sa il Cielo quanta credibilità abbiano le promesse dei nostri politici!), mentre molti dei provvedimenti cancellati lo sono stati non perché iniqui o inefficaci, ma per la rivolta delle lobby (esercizi commerciali, farmacie, avvocati) o, incredibilmente, perché a un certo punto ci si è accorti che una determinata misura toccava troppi elettori.

È il caso della cancellazione degli anni di università riscattati, che è diventata iniqua solo quando ci si accorti che colpiva molti cittadini, ma è anche il caso del cosiddetto contributo di solidarietà, che era iniquo finché colpiva i «ricchi onesti», ma è improvvisamente diventato equo quando, alzando la soglia a 300 mila euro, si è deciso di punire solo i «ricchissimi onesti».

Ma lasciamo perdere le singole misure, e concentriamoci sull’impianto, sul nucleo fondamentale della manovra. Che cos’è che funziona e che cos’è che non funziona nell’ultimo aggiustamento?

Quel che funziona è che, grazie alle ultime misure - ma in realtà essenzialmente grazie al gettito di un unico provvedimento, quello dell’aumento dell’Iva - si rafforzano le garanzie che il deficit si azzeri nel 2013, un risultato che fino all’altro ieri appariva assai aleatorio, per non dire del tutto improbabile. Speriamo che i mercati apprezzino questo aspetto della manovra, e che gli interessi che il Tesoro deve pagare sui nostri titoli pubblici comincino a scendere naturaliter, ossia senza il misericordioso intervento della Banca Centrale Europea. Altrimenti il complesso delle manovre, manovre-bis, manovre-ter e neo-manovre messe in campo negli ultimi mesi non potrebbe che apparirci come un’immane fatica di Sisifo inflitta al Paese.

Detto questo, però, c’è la parte che non funziona della manovra. E questa parte, temo, peserà molto sul nostro futuro. Per capire che cosa non va, tuttavia, bisogna fare una premessa: i nostri conti pubblici sono a rischio non tanto a causa del deficit (che è uno dei meno preoccupanti d’Europa), quanto a causa del debito, ossia della somma dei deficit accumulati nei decenni, che ci vedono superati in questa triste graduatoria all’incontrario solo dall’inguaiatissima Grecia. E’ lo stramaledetto debito al 120% del Pil ciò per cui i mercati ci guardano in cagnesco, e sono sempre pronti a colpirci con una zampata fatale. Quel che i mercati temono non è che l’anno prossimo lo Stato italiano spenda qualcosina in più di quel che incassa (deficit), ma che non riesca a restituire i prestiti che ha contratto, e continui ancora a lungo ad avere sulla gobba del Pil un debito che è più grande dell’intero reddito prodotto dall’Italia in un anno (è questo che significa avere un rapporto debito/Pil maggiore del 100%).

Ora, il punto è che per far scendere sotto il 120% il rapporto debito/Pil non basta smetterla una buona volta di fare nuovo deficit, cosa in cui la manovra potrebbe anche avere successo, ma occorre che cresca sensibilmente il Pil nominale, ossia il denominatore del rapporto debito/Pil. Ma da che cosa dipende la crescita del Pil nominale?

Essenzialmente da due parametri: la crescita del prodotto in termini reali (il famigerato incremento del Pil) e la crescita dei prezzi, che ha l’effetto di svalutare la massa del debito, che non è indicizzata all’inflazione. E’ da questo punto di vista che la manovra rischia.

Rischia perché, per riconoscimento unanime degli esperti, il suo effetto complessivo è di ridurre il tasso di crescita. Una manovra che aumenta le tasse per tutti, consumatori e produttori, riduce la domanda di beni e attenua lo stimolo a investire ed intraprendere. Un effetto che non è mitigato da una decisa politica di liberalizzazioni (su cui, semmai, le ultime correzioni della manovra hanno fatto significativi passi indietro), e non sparisce certo per il fatto che si colpiscano gli evasori piuttosto che i cittadini onesti: più tasse significa meno spese, e poco importa che a tirare la cinghia sia l’impiegato delle poste o il piccolo commerciante.

Ma la manovra rischia anche per un motivo più specifico. Con la scelta di aumentare l’Iva per tappare i buchi di una manovra i cui saldi sono apparsi fin da subito troppo ballerini, il governo ha sprecato l’ultima munizione di cui disponeva, una munizione che - se le forze sociali fossero state concordi e determinate - avrebbe potuto essere usata per rilanciare la crescita e aggiustare i conti. Usando il gettito dell’aumento dell’Iva per ridurre le aliquote che gravano sui produttori, si sarebbero ottenuti alcuni effetti quasi tutti benefici per la nostra economia. Innanzitutto una maggiore crescita, grazie agli sgravi fiscali su chi produce. In secondo luogo un moderato effetto inflazionistico, con conseguente miglioramento del rapporto debito/ Pil. In terzo luogo un miglioramento della nostra bilancia commerciale, perché l’Iva colpisce i prodotti importati ma non quelli esportati. Il tutto senza gravi effetti redistributivi, non solo perché intervenendo sull’aliquota massima (20%) si colpiscono prevalentemente beni di fascia medio-alta, ma perché maggiore crescita significa più posti di lavoro (se le cose dovessero andare benino), o meno licenziamenti (se le cose dovessero mettersi male).

Ora che l’ultima munizione importante (l’Iva) è stata sprecata, ora che liberalizzazioni e privatizzazioni sono sostanzialmente passate in cavalleria, ora che il governo ha mostrato fino in fondo le sue divisioni ed incertezze, non ci resta che sperare che i mercati e l’Europa si accontentino. In caso contrario potremmo scoprire ben presto che, anche per i governanti, gli esami non finiscono mai. E che per noi cittadinicontribuenti-elettori, a non finire mai sono i sacrifici che una politica irresponsabile continua a pretendere per riparare i propri errori e le proprie omissioni.


da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9173


Titolo: LUCA RICOLFI - L'inganno dell'evasione fiscale
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2011, 04:49:24 pm
26/9/2011

L'inganno dell'evasione fiscale

LUCA RICOLFI

Da un po’ di mesi a questa parte il tema dell’evasione fiscale è tornato alla ribalta. Ma è un ritorno strano. A differenza di un tempo, neanche poi tanto remoto, in cui la lotta all’evasione fiscale era una bandiera della sinistra, mentre la destra mostrava una certa indulgenza, oggi il tema dei miliardi (circa 130) sottratti ogni anno al fisco è diventato uno strumento di agitazione politica universale. Lo usa come sempre l’opposizione di sinistra, ma lo usa anche la Chiesa per impartirci lezioni di moralità, lo usano gli indignati di ogni colore politico, lo usa la destra di governo alla disperata ricerca di soldi per tappare le falle dei conti pubblici.

Accade così che, poco per volta, alle preoccupazioni per i sacrifici che la manovra ci impone, si mescoli e si sovrapponga un malessere sordo, una specie di risentimento, che alimenta un clima vagamente maccartista, di moderna caccia alle streghe. Gli evasori sono visti sempre più come la causa di tutti i nostri mali, la loro individuazione diventa una missione morale, e ci capita persino vedere un governo di destra - che ha sempre strizzato l’occhio all’evasione - accarezzare l’idea di fare gettito mediante la delazione.

Meno male, verrebbe da dire. Era ora, finalmente ci decidiamo a combattere questa piaga. Quando avremo vinto questa battaglia, l’Italia sarà finalmente un Paese civile e prospero.

E invece, su questa visione dei nostri problemi, vorrei insinuare qualche dubbio. Se quello che vogliamo è solo sentirci migliori del nostro vicino, la caccia alle streghe va benissimo. Ma se per caso il nostro sogno fosse anche di rimettere in carreggiata l’Italia, quella medesima caccia andrebbe reimpostata radicalmente. Perché l’evasione è un fenomeno che va innanzitutto spiegato e compreso, prima di combatterlo a testa bassa. Altrimenti la testa rischiamo di rompercela noi, anziché romperla (metaforicamente) agli evasori.

In Italia l’evasione fiscale ha due facce. La prima è quella che fa imbestialire i lavoratori dipendenti in regola: c’è chi potrebbe benissimo pagare le tasse, e non lo fa semplicemente perché vuole guadagnare di più. Questo tipo di evasione, da mancanza di spirito civico, si combatte con due strumenti: più controlli e aliquote ragionevoli. Se la si combatte solo con più controlli, il risultato è prevalentemente un aumento dei prezzi, come sa chiunque abbia a che fare con idraulici e ristoratori. Detto per inciso, è il ragionamento che - implicitamente fanno milioni di cittadini di fronte alla domanda: preferisci pagare 100 senza fattura o 140 con fattura?

C’è poi un secondo tipo di evasione fiscale, di sopravvivenza o di autodifesa. È l’evasione di quanti, se facessero interamente il loro dovere fiscale, andrebbero in perdita o dovrebbero lavorare a condizioni così poco remunerative da rendere preferibile chiudere l’attività. In questo caso quel che serve è innanzitutto una drastica riduzione delle aliquote che gravano sui produttori, altrimenti il risultato della lotta all’evasione è semplicemente la distruzione sistematica di posti di lavoro, un’eventualità che peraltro si sta già verificando: le regioni in cui Equitalia ha ottenuto i maggiori successi, sono le stesse in cui ci sono stati più fallimenti (vedi il dramma recente della Sardegna).

Immagino l’obiezione a questo ragionamento: «It’s the market, stupid!». Detto altrimenti: è un bene che nei periodi di crisi ci siano fallimenti, perché questo significa che il mercato riesce a far uscire le imprese meno efficienti, e a sostituirle con altre più dinamiche e competitive. Ma questa obiezione, che si basa sul concetto schumpeteriano di «distruzione creativa», vale solo se i regimi fiscali sono comparabili e ragionevoli. Oggi in Italia ci sono aziende in crisi che starebbero tranquillamente sul mercato se il nostro Ttr (Totale Tax Rate) fosse quello dei Paesi scandinavi, e simmetricamente ci sono floride aziende scandinave che uscirebbero dal mercato se le aliquote fossero quelle dell’Italia. Il mercato è un buon giudice dell’efficienza solo se le condizioni in cui le imprese operano sono comparabili. E in Italia le condizioni in cui le imprese sono costrette ad operare sono così sfavorevoli per tasse, adempimenti e infrastrutture, che la domanda vera non è «perché le imprese italiane arrancano?», bensì «perché ne sopravvivono ancora così tante?».

Ecco perché l’idea di risolvere i nostri problemi intensificando la lotta all’evasione fiscale andrebbe maneggiata con cura. Quello di far pagare gli evasori non è solo il sogno degli onesti, ma è l’ultima zattera con cui un ceto politico che non sa più che pesci pigliare cerca di salvare sé stesso e sfuggire alle proprie responsabilità. Incapaci di varare le riforme promesse, inadatti a prendere qualsiasi vera decisione, irresoluti a tutto, i nostri politici, di governo e di opposizione, hanno trovato nell’evasore fiscale il capro espiatorio con il quale distrarre l’opinione pubblica.

Ma è un grande inganno. Se la lotta all’evasione viene condotta unicamente per aumentare le entrate è inevitabile che essa produca effetti recessivi: disoccupazione (specie al Sud), aumenti di prezzo, contrazione dei consumi. Non solo, ma nulla assicura che l’obiettivo di far cassa venga raggiunto: quando la pressione fiscale sui produttori è già altissima (e quella italiana lo è: nessun Paese avanzato ha un Ttr più elevato), non è detto che il gettito che si recupera grazie a nuovi balzelli e più controlli superi il gettito che si perde a causa dei fallimenti e dei passaggi all’economia sommersa. Tanto più in un periodo come questo, in cui è già in corso una drammatica riduzione della base produttiva.

Se però ogni euro recuperato dall’evasione fosse destinato - per legge - a rendere meno difficile la vita a lavoratori e imprese, allora otterremmo almeno due risultati, uno economico e uno morale. Il risultato economico è che, poco per volta, i produttori di ricchezza che le tasse le pagano potrebbero finalmente rialzare la testa, consentendo all’Italia di tornare a crescere. Il secondo è che, con aliquote via via più ragionevoli, l’evasione fiscale non solo diverrebbe meno conveniente, ma perderebbe ogni giustificazione morale. Il «mostro» dell’evasione fiscale non ha un solo genitore, ma ne ha due. Ed è solo quando la mancanza di cultura civica (la madre) si sposa ad un fisco oppressivo (il padre) che il ragazzaccio diventa un mostro.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9243


Titolo: LUCA RICOLFI - Non c'è lotta se non vanno giù le aliquote
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2011, 06:27:21 pm
3/10/2011

Non c'è lotta se non vanno giù le aliquote

LUCA RICOLFI

Giusto una settimana fa avevo provato, con un articolo, a sollevare qualche interrogativo sulla crociata anti-evasione in corso in Italia. Oggi è giunto il momento di tornare sull’argomento, rispondendo ai commenti comparsi su questo giornale a firma Stefano Lepri, Alberto Bisin, Alberto Mingardi, Franco Bruni.

Non è facilissimo, perché dopo averli letti e riletti non mi sembra di dissentire con nessuno. A parte Lepri, che non deve aver letto attentamente il mio articolo, visto che mi attribuisce l’idea che l’evasione fiscale non andrebbe repressa con maggior forza (io sostengo esattamente il contrario, aggiungo solo che i proventi dovrebbero essere usati per abbassare le aliquote), tutti paiono condividere il punto principale della mia analisi, e cioè che in Italia la pressione fiscale sulle imprese è eccessiva, e che se si vuole far ripartire la crescita le aliquote sui produttori devono scendere.

Per il resto, vedo solo sfumature dettate da sensibilità politico-culturali. Alberto Mingardi, ad esempio, è preoccupato che l’Italia diventi uno «Stato di polizia tributaria», con un finanziere ad ogni angolo di strada. Tutto all’opposto, Franco Bruni se la sente di difendere lo Stato esattore anche se provoca il fallimento di molte imprese: «Non si deve lasciar intendere che il rispetto degli obblighi fiscali sia negoziabile, nemmeno per chi, se non evadesse, soccomberebbe e sparirebbe dal mercato». Questioni di punti di vista, c’è chi crede nel primato dell’individuo sullo Stato, e chi crede nel primato dello Stato sull’individuo.

Solo Alberto Bisin resta sul terreno a me più congeniale, quello dell’analisi dei fatti e dei meccanismi di funzionamento del sistema economico-sociale. Bisin pare condividere i due punti fondamentali della mia analisi. Primo: le aliquote sui produttori sono troppo alte. Secondo: se non le abbassiamo, la lotta all’evasione fiscale rischia di produrre solo fallimenti (dove c’è concorrenza) e aumenti dei prezzi (dove la concorrenza manca). Però aggiunge un terzo punto molto importante, toccato anche da Lepri e Bruni: l’evasione è spesso associata a inefficienza, cattiva organizzazione, dimensioni troppo piccole.

Sì, questo è un punto importante, che meriterebbe di essere approfondito dati alla mano. È possibile che una parte del problema stia proprio qui, e che sarebbe bene dare una robusta potatura al mondo delle piccole imprese, dei professionisti, degli artigiani, delle partite Iva in genere. E tuttavia anche questo argomento, a mio parere, andrebbe maneggiato con molta attenzione.

Se la pensiamo così (e sono dispostissimo a pensarla così, se qualcuno mi presenta un’analisi empirica convincente) dobbiamo smetterla con le mitologie sul «ruolo della piccola impresa», sul «futuro artigiano» (titolo di un bel libro di Stefano Micelli sulle prospettive dell’artigianato), sulla flessibilità e il dinamismo dei «piccoli», come li chiama un altro libro, di Dario Di Vico. Dobbiamo avere il coraggio di favorire la scomparsa delle piccole unità produttive, puntando sulla nascita di grandi imprese e organizzazioni.

Ma come? E con quali risultati?

Da quel che capisco, qui le strade si dividono, e in qualche modo si torna al punto di partenza della mia analisi. Perché non è affatto chiaro come si dovrebbe fare per favorire un aumento di efficienza dell’apparato produttivo attraverso il taglio dei rami secchi (produttori inefficienti). C’è chi crede che il passaggio essenziale sia reprimere gli evasori. C’è chi crede sia invece di liberalizzare i mercati. E c’è chi, come me e Bisin, crede che la sacrosanta lotta all’evasione fiscale «senza una appropriata riduzione del carico fiscale avrebbe costi enormi sul sistema produttivo del Paese»: va bene far fallire le imprese inefficienti, ma siamo sicuri che - con le tasse che ci sono in Italia - ci saranno nuovi imprenditori pronti a sostituirle?

Quel che vorrei fosse chiaro, comunque, è che il punto non è se l’evasione fiscale sia giustificata oppure no. Questa non è una questione empirica, ma una questione ideologica. Non mi interessa, almeno qui. A me interessa solo che cosa succede inasprendo la caccia agli evasori, e se l’Italia possa permettersi di condurla senza abbassare le aliquote. E quale sia la mia impressione (perché nessuno sa veramente come stanno le cose) riesco a spiegarlo meglio con una specie di apologo.

C’è una gara di velocità. Dieci corridori sono ai blocchi di partenza. Parte la gara, e uno dei dieci corridori arriva ultimo, molto staccato dagli altri. La gara si ripete molte volte, ma quel corridore arriva sempre ultimo. E allora si comincia a discutere del perché. C’è chi dice che ha sbagliato scarpe, le sue sono con i tacchetti di gomma, quelle degli altri hanno i chiodi d’acciaio, che mordono molto di più sul terreno di gara. C’è chi nota che maglietta e calzoncini non sono aerodinamici, non aderiscono abbastanza al corpo. C’è chi osserva che il corridore rimasto indietro è leggermente sovrappeso, ha un paio di chili di troppo. C’è chi rivela che l’allenatore del corridore perdente si accontenta di due soli allenamenti la settimana. Stranamente, però, nessuno nota che il perdente corre con uno zaino sulle spalle, e che nello zaino sono stati messi dieci chilogrammi di zavorra.

Ecco, a me pare questo lo stato del dibattito sulla crescita. Sono convinto anch’io che con scarpette migliori, calzoncini più aderenti, una dieta appropriata, un allenatore esigente, il nostro corridore potrebbe migliorare molto. Ma vorrei mettervi una pulce nell’orecchio: non pensate che, fino a che gli imporrete di correre con quello zaino di dieci chili sulle spalle, non riuscirà mai a vincere una gara?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9273


Titolo: LUCA RICOLFI - La politica del nulla
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2011, 05:18:00 pm
14/10/2011

La politica del nulla

LUCA RICOLFI

Ho seguito il discorso di Berlusconi alla Camera dall'inizio alla fine, parola per parola.

Ho persino preso appunti, come uno scolaretto. Mi sono sforzato di ascoltare, capire, indovinare qualcosa di nuovo: un segnale di apertura, un impegno, un cambiamento. La situazione dell’Italia lo richiedeva e lo richiede, le migliori menti e le istituzioni più autorevoli del Paese da tempo lo invocano.

E invece no. Niente. Assolutamente niente. Il vuoto spinto. Nessuno dei luoghi comuni dell’autocelebrazione berlusconiana è stato omesso, non un solo pensiero nuovo è stato enunciato.

Uno spettacolo anche scenograficamente desolante: Bossi, seduto a fianco di Berlusconi, che sbadiglia più volte, con lo sguardo stanco, spento, annoiato di chi pensa a tutt’altro, ed è lì solo perché non può farne a meno.

Chi vuol credere che Berlusconi abbia ancora qualcosa da dire al Paese, che possa rilanciare la «rivoluzione liberale» che i suoi governi hanno tradita, dovrebbe ascoltarlo e guardarlo attentamente, il video di quel discorso.

Così mi ritrovo - io che detesto i discorsi vuoti e prediligo le analisi basate sui dati - a commentare il nulla. Il nulla di un governo che non crede più in sé stesso, il nulla di un’opposizione divisa su tutto, compresa la scelta di disertare l’Aula (i radicali erano presenti, il resto dell’opposizione era assente per protesta). Che si può dire, di fronte al nulla? Forse semplicemente quello che non c’era ma avrebbe potuto esserci. Le nostre ingenue speranze, i nostri più utopistici desideri. Non certo le dimissioni del governo (il mantra di Bersani): le dimissioni sarebbero davvero un atto di responsabilità solo se esistesse fin da ora una alternativa credibile, eventualità da cui siamo purtroppo lontanissimi. Quello che da Berlusconi ci si poteva ragionevolmente attendere erano affermazioni più di sostanza, che preludessero a gesti di certo meno drastici delle dimissioni, ma comunque utili al Paese. Vorrei indicare almeno tre punti di questo discorso mancato, che avrei voluto ascoltare ma non ho ascoltato, tre vie possibili e auspicabili, tre bagliori nel buio, per così dire.

Un primo punto sarebbe stato quello di «fare come Zapatero», ossia dichiarare esplicitamente che non si ricandiderà alle prossime elezioni, e magari che è disposto ad anticiparle di un anno, al 2012 anziché al 2013. Non è implausibile, infatti, quello che alcuni osservatori sostengono, e cioè che se oggi - a differenza di ieri - i mercati giudicano la Spagna meglio dell’Italia (come risulta dall’andamento degli spread) sia anche perché la promessa di Zapatero di farsi anticipatamente da parte è comunque un segnale di apertura, una finestra sul futuro. Il Financial Times di ieri arriva ad ipotizzare che il «Berlusconi premium» stia costando all’Italia qualcosa come 100 punti base, circa 20 miliardi di euro all’anno a regime. Difficile dire se questa valutazione sia fondata, ma è ancor più difficile non vedere quanto Berlusconi sia ormai diventato un fattore di immobilismo e di congelamento per la politica italiana.

Il secondo punto sarebbe stato di assumere almeno un impegno che desse un segnale forte di discontinuità, che mostrasse una reale volontà di cambiare rotta. So bene che su questo terreno circolano idee diverse: liberalizzare del tutto le professioni? abolire il valore legale del titolo di studio? ridurre drasticamente le pensioni di anzianità e le false pensioni di invalidità per estendere gli ammortizzatori sociali? cancellare tutti gli incentivi discrezionali alle imprese per abbattere l’Irap o l’Ires (una vecchia proposta di Montezemolo, a suo tempo uccisa dal governo Prodi)?

Non sta certo a me dire che cosa dovrebbe fare il governo. Ma qualcosa avrebbe dovuto dire di voler fare. Come cittadino non posso non notare che, sul terreno delle azioni da compiere subito per invertire la rotta, non una sola idea nuova è stata enunciata, non un solo impegno solenne e verificabile è stato preso dal presidente del Consiglio.

Una terza possibile via sarebbe stata di chiamare l’opposizione a condividere con il governo la responsabilità di qualche misura impopolare, ma utile per far uscire l’Italia dalle secche in cui è incagliata. Un’eventualità che suona del tutto irrealistica, visto che l’opposizione ieri non era neppure presente in Aula.

Ma proprio il fatto che oggi, in Italia, non sia nemmeno concepibile che governo e opposizione concordino su qualcosa, o cerchino un accordo minimo e temporaneo per il bene comune, dà la misura di quanto le cose siano andate avanti. E forse anche di quanto, viste da questa prospettiva, maggioranza e opposizione si assomiglino. Entrambe sono paralizzate dalle loro divisioni interne, entrambe si preoccupano solo di non dare qualche dispiacere ai propri elettorati di riferimento. Non paiono avvedersi che, per questa via, esse non fanno altro che alimentare lo scetticismo e la disillusione, e alla lunga finiranno per prosciugare le acque in cui oggi ancora nuotano.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9318


Titolo: LUCA RICOLFI - Dodici quesiti al governo che verrà
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2011, 11:01:43 pm
6/11/2011

Dodici quesiti al governo che verrà

LUCA RICOLFI

Berlusconi potrebbe lasciare, travolto dal precipitare degli eventi. Questa eventualità appare sempre più verosimile, ma nessuno può - al momento - prevedere quali sarebbero le reazioni dei mercati. Può darsi prevalga il sollievo per la rimozione di un ostacolo alle riforme, come può darsi prevalga il timore per la paralisi decisionale che - inevitabilmente - accompagnerà i rituali di una crisi di governo.

Credo che tutte le persone di buon senso, e innanzitutto i risparmiatori, si augurino che non si installi un sentimento di incertezza e di paura, e prevalga invece il sollievo per l’uscita di scena di un uomo che, comunque si giudichino i suoi meriti e demeriti passati, oggi è manifestamente incapace di tenere ferma la barra del timone della nave Italia. Ma da che cosa dipenderà la reazione dei mercati?

Fondamentalmente, da una cosa soltanto: dall’esistenza di un’alternativa credibile al governo Berlusconi. Per alternativa credibile non intendo, necessariamente, un governo capace di recepire e applicare le ricette dell’Europa, ma - prima ancora - un governo dotato di idee chiare e della fermezza necessaria per attuarle. Esattamente quel che, per ora, non si intravede minimamente.

In attesa che questa condizione prenda forma, c’è almeno un esercizio che si può tentare subito: elencare le cose controverse, su cui sarebbe bene che l’esecutivo che verrà avesse idee chiare e distinte. L’elenco che vi propongo non è in alcun modo esaustivo, ma è fatto di punti critici, o rivelatori: saper prendere posizioni chiare su questi punti significa avere un’idea del futuro dell’Italia, tentennare o girare intorno alle questioni significa non essere pronti ad assumere la guida del Paese.

Uno. Il nuovo esecutivo considera intangibili le pensioni di anzianità, o intende intervenire in modo significativo su di esse? E se sì per quanti miliardi di euro nel prossimo anno?

Due. Il nuovo esecutivo intende attuare un piano di dismissioni del patrimonio pubblico più ampio o più leggero di quello (5 miliardi l’anno) previsto dal governo attuale? Se è favorevole alle dismissioni, intende mettere sul mercato solo immobili o anche aziende a controllo pubblico, come Eni, Enel e Finmeccanica?

Tre. Il nuovo esecutivo è contrario o favorevole al disegno di legge Ichino sul mercato del lavoro?

Quattro. Il nuovo esecutivo è favorevole o contrario all’abolizione del valore legale del titolo di studio?

Cinque. Il nuovo esecutivo intende introdurre un’imposta patrimoniale? Se sì, di che tipo? Una tantum o permanente? Su tutto il patrimonio o solo su una componente, ad esempio gli immobili? Di quale entità? E a partire da quale soglia di reddito?

Sei. Se favorevole all’imposta patrimoniale, come intende usare il ricavato? Riduzione del debito, redistribuzione a favore dei ceti deboli, alleggerimento della pressione fiscale sulle imprese?

Sette. In che modo intende, il nuovo esecutivo, reperire i 20 miliardi di maggiori entrate e/o minori spese previsti dalla delega fiscale-assistenziale?

Otto. Come risultato finale dell’attuazione della delega fiscale-assistenziale, il nuovo esecutivo pensa di essere in grado di alleggerire la pressione fiscale sui produttori, con particolare riguardo alle aliquote Ires e Iva?

Nove. Se sì, in quale misura e attraverso quali risorse? E’ previsto un ulteriore aumento dell’Iva?

Dieci. Il nuovo esecutivo intende sottoscrivere l’impegno del precedente governo ad azzerare il deficit nel 2013?

Undici. A giudizio del nuovo esecutivo i tagli di spesa pubblica previsti dal precedente governo, al di là della composizione, sono eccessivi o insufficienti?

Dodici. Se nel corso del 2012 si rendesse necessaria una manovra aggiuntiva pari a 1 punto di Pil (15 miliardi), in quale proporzione il nuovo esecutivo ricorrerebbe a nuove tasse e in quale proporzione a nuovi tagli di spesa?

Naturalmente ci sarebbero anche altre domande, in parte ancora più aride (condoni, liberalizzazioni, infrastrutture, servizi pubblici locali…), in parte più romantiche (energie rinnovabili, Internet, coppie di fatto, costi della politica…). Ma qui non sto discutendo di programmi elettorali, o di parole d’ordine acchiappa-voti. Non sto parlando del software del sistema sociale, ma del suo hardware. Della capacità di una classe dirigente di salvare il proprio paese da un disastro prima economico, poi sociale, e alla fine esistenziale.

Il successo o il fallimento di una simile impresa non dipenderà da belle parole, «scatti di reni», esortazioni e indignazioni varie, ma da gesti molto concreti, che chi ci governerà nei prossimi mesi potrà essere o non essere in grado di compiere. E’ facile prevedere che da domani, con la riapertura dei mercati, i nostri politici ripeteranno come un mantra che sono «preoccupati per il futuro del Paese», e molti di essi - con aria grave e pensosa - ci assicureranno di essere «pronti ad assumersi le proprie responsabilità». Io mi accontenterei di sentire qualche risposta non evasiva alle dodici domande che ho provato a mettere in fila

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9401


Titolo: LUCA RICOLFI - La ricetta che serve al Paese
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2011, 10:39:28 am
18/11/2011

La ricetta che serve al Paese

LUCA RICOLFI

Sì, le parole pronunciate ieri da Mario Monti al Senato sono quelle che, da anni, aspettavamo di sentir pronunciare da un presidente del Consiglio. E questo non tanto per i temi che ha toccato, per gli obiettivi che ha indicato, per i principi che ha enunciato. Molte delle cose sentite ieri, negli ultimi dodici anni le avevamo già ascoltate da Berlusconi e da Prodi: la promessa di abbassare le aliquote, ad esempio, è stata la parola d'ordine di tutti i governi di centro-destra, mentre la formula trinitaria «rigore-crescita-equità» è stata il leit motiv dell'ultimo governo di centro-sinistra.

No, la novità del discorso di Monti è un'altra. La novità sta nell'assemblaggio, ben più che negli ingredienti. Quel che Monti ci ha offerto ieri è una visione dei problemi della società italiana al tempo stesso scontata e nuovissima. Scontata perché, come ha sottolineato egli stesso in un passaggio del suo discorso, le misure per uscire dalla crisi sono le stesse che «gli studi dei migliori centri di ricerca italiani» invocano da anni. Nuovissima perché mai, in nessun discorso dei precedenti presidenti del Consiglio, le priorità del Paese sono state enunciate con altrettanta forza, e in un ordine così preciso.

In questo senso la discontinuità c'è stata davvero, ed è stata una discontinuità con tutti i governi dell'ultimo decennio, non solo con l'ultimo governo Berlusconi.

Qual è il nucleo di tale discontinuità? Qual è l'idea forte, non ovvia, del governo cui il Parlamento si appresta ad accordare la fiducia?

Ognuno di noi, è chiaro, non può che aver provato un moto di gioia, per non dire di felicità, al solo sentir enunciare credibilmente, alcune idee-chiave: responsabilità, promozione del merito, lotta contro i privilegi, riduzione dei costi della politica, valorizzazione del talento dei giovani e delle donne. Però il punto cruciale, il punto che segna una vera svolta rispetto al passato, è la priorità assegnata alle misure per la crescita. Una priorità basata su una amara, per non dire spietata, constatazione riguardo al passato: «l'assenza di crescita ha annullato i sacrifici fatti». E al tempo stesso un messaggio di speranza, perché non si limita ad annunciare nuovi sacrifici, ma ci chiama tutti a raccolta, per far sì che i sacrifici servano a migliorare la nostra vita e quella dei nostri figli. Non a caso, cercando di definire il nuovo esecutivo, Mario Monti ha scelto l'espressione «Governo di impegno nazionale», a sottolineare il contributo attivo che spetterà ad ognuno di noi.

Nel suo discorso di insediamento Monti ha detto in modo piuttosto chiaro che il problema del nostro enorme debito pubblico non lo risolveremo né con una gigantesca imposta patrimoniale, né con lo smantellamento dello Stato sociale, né con la lotta all'evasione fiscale, ma adottando tutte le misure necessarie per modernizzare finalmente l'Italia e consentirle così di tornare a crescere. E fra tali misure ha indicato non solo quelle che producono effetti nel periodo mediolungo, come le liberalizzazioni, ma anche l'unica misura che ha qualche possibilità di produrre effetti significativi nel breve periodo: un significativo abbassamento delle aliquote che gravano sui produttori di ricchezza, ossia lavoratori e imprese.

L'idea centrale di Monti, in altre parole, pare essere quella di utilizzare sia i proventi della lotta all'evasione, sia i margini di manovra impliciti nella delega fiscale, per cambiare radicalmente la composizione del gettito: aliquote più basse su lavoratori e imprese, finanziate contrastando il sommerso e aumentando il prelievo su consumi e patrimoni. Sottostante a tale idea vi è la convinzione che la montagna del debito pubblico italiano - quasi 2000 miliardi di euro - non possa essere seriamente intaccata imponendo anni e anni di lacrime e sangue ai contribuenti, ma solo chiamando le migliori energie del Paese a far crescere un'altra montagna, quella della ricchezza prodotta. Tanto più che di tale ricchezza vi sarà sempre più necessità, visto che il nostro Stato sociale è largamente incompleto, privo com'è di ammortizzatori sociali universali e di politiche contro la povertà e la non autosufficienza.

«Vasto programma», avrebbe forse detto il generale De Gaulle. Ma è precisamente quello di cui l'Italia ha bisogno.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9449


Titolo: LUCA RICOLFI - L'equità e la scommessa della crescita
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2011, 04:49:31 pm
4/12/2011

L'equità e la scommessa della crescita

LUCA RICOLFI

Domani Mario Monti esporrà in Parlamento le linee guida della nuova, ennesima, manovra economica, un pacchetto di misure che l’Italia è costretta a varare per salvare non solo se stessa, ma anche l’euro e le principali economie del mondo, che certamente non uscirebbero indenni da un collasso della moneta unica. L’attesa per quello che Monti dirà, e soprattutto per quello che farà, è accentuata dal particolare momento che l’Europa sta attraversando.

Anche se è ormai da diversi anni che, ad ogni piè sospinto, sentiamo ripetere che «siamo a un passaggio decisivo», che il Paese è «sull’orlo del baratro», che sta passando «l’ultimo treno», l’impressione è che questa volta si sia davvero a un bivio, a uno di quei momenti in cui, per riprendere un’immagine cara a Max Weber, il treno della storia può imboccare binari radicalmente differenti. Lo si capisce dall’attenzione quotidiana, quasi spasmodica, dei giornali stranieri alle vicende dell’economia italiana.

E lo si deduce dal clima di attesa per il Consiglio europeo di giovedì e venerdì prossimi, un appuntamento il cui esito potrebbe precipitare l’Europa in una crisi definitiva, oppure - speriamo - aprire una fase sostanzialmente nuova, di rafforzamento accelerato delle istituzioni economiche europee, superando la fase di incertezza e paralisi che ci ha portato al marasma attuale.

In questo clima di preoccupata attesa colpisce la «piccolezza» del dibattito italiano, il consueto riproporsi delle preoccupazioni elettorali dei partiti che sostengono il governo Monti. L’attenzione sembra quasi interamente concentrarsi su questioni di equità, che naturalmente ognuno intende a modo proprio, nel senso che «equi» appaiono solo i provvedimenti che non colpiscono la propria base elettorale. Eppure la vera posta in gioco di questa manovra non è affatto l’equità, ma è il futuro del Paese. L’equità può essere importante per far accettare i provvedimenti più impopolari, ma la qualità della nostra vita futura non dipenderà da quanto la manovra sarà stata «giusta» (qualsiasi cosa ognuno di noi intenda con questo termine), ma da quanto sarà stata efficace.

Ma che cosa può rendere efficace la manovra?
Secondo diversi osservatori (fra i più autorevoli, Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera di venerdì scorso) il punto fondamentale non è l’entità della manovra, ossia il fatto che la correzione sia di 15, 20 o 25 miliardi, ma è la chiarezza con cui si riesce a comunicare ai mercati che l’Italia «ha capito l’origine dei suoi mali», che questa volta fa sul serio, che è disposta a cambiare rotta e a fare i necessari sacrifici. I mercati, e famigerati spread (il sovracosto del nostro indebitamento pubblico), «sono influenzati molto da aspetti psicologici, dalle aspettative sul futuro, dalla fiducia nel Paese». Di qui la speranza che, anche se le riforme liberali annunciate dal governo potranno produrre effetti reali solo fra qualche anno, il loro effetto segnaletico, o di annuncio, basti a calmare i mercati, ridurre gli spread, abbassare il costo del debito pubblico, liberare risorse per il credito alle aziende.

Io mi auguro che questa visione ottimistica del funzionamento delle economie si riveli sostanzialmente corretta. Mi auguro che il prestigio di Monti, il miglior presidente del Consiglio che il Paese poteva scegliere in questo momento, basti a convincere gli «altri», ossia istituzioni europee, mercati, investitori, a scommettere sull’Italia. Ma mi permetto di insinuare un dubbio: non si tratta solo di convincere, di persuadere, di lanciare segnali di affidabilità. Se l’Italia non cresce più, e anche per il futuro è destinata a non crescere, è certamente a causa delle riforme mancate (infrastrutture, liberalizzazioni, giustizia, burocrazia, eccetera), ma è anche - forse ancora di più - a causa di un problema semplice, elementare, che capirebbe anche un bambino: l’insostenibilità dei suoi costi di produzione.

Finché i nostri produttori di ricchezza avranno un handicap dell’ordine del 30% su tutte le voci di costo fondamentali (energia elettrica, imposte societarie, contributi sociali) il nostro tasso di crescita resterà sempre indietro rispetto a quello degli altri, anche dovessimo attuare tutte le riforme a costo zero che tecnocrati e professori predicano da decenni. Se quasi nessun produttore straniero investe in Italia, se anche chi già c’è e sarebbe disposto a rimanerci non si stanca di far intendere che potrebbe levare le tende (vedi le polemiche di questi giorni sulle dichiarazioni di Marchionne), non è solo perché in Italia non si può licenziare, c’è la cattivissima Fiom, la giustizia civile è lenta e il fardello burocratico è da manicomio. Il fatto che in Italia ci siano pochi posti di lavoro (specie per giovani e donne), e pochissimi investimenti stranieri, dipende pesantemente dal mero fatto che da noi produrre costa troppo.

Ecco perché, alla fine, la prima cosa che cercherò di capire della manovra che si sta per varare non sarà se è equa, o se dà più fastidio agli elettori di Alfano o a quelli di Bersani, ma se ha ragionevoli possibilità di far ripartire la crescita. Possibilità basate non solo sulla volubilità psicologica dei mercati (pronti ad apprezzare ogni segnale di serietà) ma, più prosaicamente e ragionieristicamente, sulla dura realtà dei conti aziendali. Quale che sia il saldo finale, la domanda cruciale è: quanto costerà la manovra in termini di provvedimenti (come la riduzione dell’Irap) il cui effetto sia di incidere direttamente sui costi di produzione?
Se la risposta sarà «solo 2-3 miliardi», mi sarà difficile, visto che la manovra sarà comunque una mazzata sui consumatori, non pensare che i suoi effetti recessivi siano destinati a prevalere su quelli di rilancio della crescita. Se la risposta fosse invece «più di 5 miliardi», con conseguente boccata di ossigeno a chi ha ancora voglia di lavorare e produrre in Italia, qualche speranza mi sentirei di coltivarla. Se non altro perché, per quanto suggestionabili, i mercati qualche calcolo lo sanno ancora fare.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9511


Titolo: LUCA RICOLFI - Abbiamo illuso i giovani
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2011, 12:39:39 pm
22/12/2011

Abbiamo illuso i giovani

L'orientamento è pubblicità

Su La Stampa di lunedì 19 il lettore «Ermanno» raccontava il suo percorso scolastico, la scelta delle superiori, la delusione per il livello di preparazione e l’impossibilità di accedere a molte facoltà universitarie. Oggi fa il panettiere


Caro Direttore,
mi sono commosso e arrabbiato, leggendo la lettera di Ermanno pubblicata lunedì nella tua rubrica. Ermanno, che ha oggi 24 anni, proviene da una famiglia operaia e dice di avere fatto l’errore più grande iscrivendosi al liceo sociopsicopedagogico. Un liceo che gli ha insegnato ben poco, e proprio per questo gli ha sbarrato la strada alle facoltà universitarie «più quotate in termini di aspettativa professionale». Oggi fa il panettiere, e vorrebbe salvare almeno chi quella scelta non l’ha ancora fatta: per questo ti ha scritto, per questo conclude la sua lettera invocando la chiusura di quel tipo di liceo (oggi pretenziosamente ribattezzato «liceo delle scienze umane»).

Io insegno una materia difficile (Analisi dei dati) in una facoltà considerata relativamente facile (Psicologia), una di quelle facoltà cui dovrebbe preparare il liceo che Ermanno ha frequentato. Ebbene, a me da anni capita questo, durante gli esami: quando ho di fronte uno studente che ha capito poco o nulla della mia materia, è a disagio con le formule matematiche più semplici, non sa esprimersi nella lingua italiana né argomentare in modo logico, quasi automaticamente, alla fine dell’esame, mi scatta la domanda: «Scusi, che scuola superiore ha fatto?». E quasi sempre la risposta è: «Ho fatto il sociopsicopedagogico». Non conosco dal di dentro questo tipo di scuola, che avrà forse virtù che non so apprezzare, ma i risultati cognitivi che osservo direttamente sono questi.

A Ermanno vorrei dire che la situazione è ancora più brutta di quella che lui dipinge. Mediamente, il liceo sociopsicopedagogico non solo non apre le porte delle facoltà «toste», professionalizzanti, con il numero chiuso, ma non prepara bene neppure allo studio delle materie «leggere» di cui fornisce un’infarinatura. E infatti basta che una facoltà considerata facile (come sociologia, o psicologia) preveda anche solo un paio di esami difficili per rendere la vita impossibile a quegli sfortunati ragazzi che hanno scelto quel tipo di scuola superiore.
Tu a Ermanno rispondi che l’importante è l’orientamento, che le famiglie vanno «accompagnate» nella scelta delle scuole superiori o delle facoltà universitarie. Non so, a me quella dell’orientamento pare un’utopia. Prendetela come un’opinione personale e ultra-discutibile, ma lasciatemelo dire: l’orientamento oggi tende ad essere pubblicità. Nessuno può dire in pubblico la verità: quella facoltà è una buffonata, in quella scuola non si impara niente, il tale docente non sa spiegare, il tale corso di laurea è un’insalata di materie sconnesse. Esattamente come, nella sanità, nessuno può dire in pubblico - anche quando lo sa perfettamente - che un certo ospedale, un certo reparto, un certo chirurgo è pericoloso per la salute del paziente. Eppure, prima o poi, il coraggio della verità bisognerà che qualcuno se lo dia. Almeno quando si tratta dei nostri giovani, che troppe volte abbiamo illuso.

LUCA RICOLFI

Ringrazio il professor Ricolfi per avermi chiesto di intervenire rispondendo con schiettezza - da docente di una delle facoltà cui il liceo psicopedagogico dovrebbe essere propedeutico - al lettore che sulla «Stampa» di lunedì aveva sollevato il problema dell’orientamento professionale.

da - http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=273


Titolo: LUCA RICOLFI - Come ragiona la mente dei mercati
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2012, 06:48:55 pm
31/12/2011

Come ragiona la mente dei mercati

LUCA RICOLFI


Anche ieri, come ormai succede da diverse settimane, i mercati hanno mostrato di non aver fiducia nell’Italia. Per prestare denaro a lungo termine al nostro Stato pretendono 5 punti percentuali di interesse in più (il famigerato spread) che per prestarlo alla Germania, e quasi 2 punti in più che per prestarlo alla Spagna. Ancora pochi mesi fa il nostro spread con la Germania era inferiore a 2 punti, e i mercati preferivano prestare soldi all’Italia piuttosto che alla Spagna.

E’ comprensibile che il governo e i suoi sostenitori cerchino di convincerci che lo spread non è poi così importante, che la situazione non va drammatizzata, che se dopo l’insediamento di Monti e la nuova manovra le cose non sono migliorate (anzi sono peggiorate) la colpa non è dell’Italia ma delle autorità europee.

Pier Ferdinando Casini, ad esempio, ha dato la colpa alla Banca Centrale Europea, che ultimamente ha fortemente ridotto gli acquisti dei nostri titoli di Stato. Il presidente del Consiglio, per parte sua, ha chiamato in causa soprattutto il Consiglio Europeo dell’8-9 dicembre, colpevole di aver immesso troppo pochi quattrini nel fondo salva-Stati, e ha anch’egli menzionato la riduzione degli interventi della Bce a sostegno dei nostri titoli. Da più parti si continua a ripetere che la sfiducia dei mercati nell’Italia non ha riscontro nei fondamentali dell’economia, che sono molto migliori di quanto lo spread suggerirebbe.
So di avventurarmi su un terreno scivoloso, perché non ci sono abbastanza dati per valutare la plausibilità delle varie interpretazioni di quel che sta succedendo, ma vorrei egualmente porre alcune domande.

Domanda numero 1. Perché la sostituzione di Berlusconi con Monti, nonostante l’indubbia maggiore credibilità internazionale di quest’ultimo, si è accompagnata ad un aumento dello spread anziché a una sua diminuzione? Perché non si è realizzata la profezia delle opposizioni secondo cui la «discontinuità» politica rappresentata dalla rimozione di Berlusconi avrebbe ristabilito un po’ di fiducia sui mercati?
Certo si può dire che la credenza delle opposizioni era ingenua o strumentale, e che aveva perfettamente ragione Barack Obama quando diceva che i problemi dell’Italia non sarebbero certo svaniti d’incanto con la caduta di Berlusconi. E tuttavia un problema resta: perché le cose vanno peggio ora, visto che Monti è indubbiamente percepito da tutti i soggetti che contano (mercati e autorità europee) come più capace di Berlusconi di mantenere gli impegni presi?

Domanda numero 2. Se la ragione per cui il nostro spread non scende è davvero la riluttanza delle autorità europee a irrobustire il fondo salva-Stati, perché lo spread della Spagna oscilla senza una netta tendenza all’aumento o alla diminuzione, mentre il nostro mostra una chiara tendenza all’aumento? Perché fino a pochi mesi fa il nostro spread era migliore di quello spagnolo e ora è peggiore? Basta l’allentamento del sostegno della Bce a spiegare la svolta a nostro sfavore?

Domanda numero 3. Perché la situazione relativa di Italia e Spagna si è deteriorata drammaticamente nelle ultime quattro settimane, che hanno visto il nostro spread rispetto alla Spagna passare da 66 punti base a 174? Come mai questo deterioramento si è prodotto nel momento meno logico, ossia proprio quando, finalmente, un governo autorevole e nuovo di zecca varava una manovra di grande portata? Basta il comportamento delle banche spagnole, più manovrabili dal governo centrale, a spiegare la tenuta dei titoli di Stato iberici? O è il fatto di avere un’intera legislatura di fronte ad avvantaggiare il premier spagnolo, mentre il nostro presidente del Consiglio non sa se e quando i partiti che lo sostengono gli staccheranno la spina?

Non conosco la risposta a queste domande, ma un’ipotesi l’avrei. Più che un’ipotesi è un dubbio, o un tarlo. Detto nel modo più crudo, il tarlo è questo: non sarà che, ci piaccia o no, nei momenti di crisi la mente dei mercati funziona molto diversamente da come se la immaginano politici ed autorità europee?

Per essere più precisi. Non sarà che i mercati danno poca importanza all’entità degli aggiustamenti di bilancio (i saldi della manovra) e molta importanza alla sua composizione? Non sarà che, nella seconda metà di novembre, in Spagna e in Italia sono avvenuti due cambiamenti che i mercati giudicano in modo opposto?

In Spagna c’è stato un cambio di governo, da sinistra a destra, che promette di aggiustare il bilancio prevalentemente dal lato della spesa, alleggerendo vincoli e pressione fiscale sulle imprese. In Italia c’è stato un cambio di governo da destra a «non-destra» che, nonostante il contesto in cui operano le nostre imprese sia molto più sfavorevole di quello spagnolo, ha già dimostrato di puntare il grosso delle sue carte sull’aumento delle tasse (come succedeva con il precedente governo). E’ vero che la manovra Monti prevede sgravi fiscali sulle imprese per 2,5 miliardi, ma tali sgravi sono annullati dalle molte misure che aumentano i costi di produzione di lavoratori autonomi e imprese, come la maggiorazione delle aliquote contributive, le nuove imposte sugli immobili, gli aumenti del costo dell’energia.

Forse, se i mercati hanno punito l’Italia non è nonostante la manovra di Monti, ma - in un certo senso - a causa di essa. La credibilità di Monti, la sua serietà, il suo coraggio, non sono bastati per la semplice ragione che i mercati hanno colto l’impianto recessivo della manovra, nonché il carattere tuttora evanescente della cosiddetta «fase 2», quella che dovrebbe rilanciare la crescita. Spiace doverlo constatare, ma in fatto di crescita i mercati paiono credere poco agli annunci dei governi, e abbastanza alle previsioni dei grandi organismi internazionali, tipo Ocse o Fondo Monetario Internazionale.

E tali previsioni parlano chiaro: per la Spagna la crescita attesa del Pil nel 2011 è stabile a +0,8 e quella del 2012 resta positiva (+0,5). Per l’Italia la previsione 2011 è già stata ridotta di mezzo punto (da +1,1 a +0,6), mentre per il 2012 si prevede una contrazione del Pil, pari a -0,5 secondo l’Ocse e addirittura a -1,6 secondo il Centro Studi Confindustria.
Che sia per questo, perché hanno capito che in Italia - chiunque governi - la crescita è solo uno slogan, che i mercati continuano a non fidarsi di noi?

da - lastampa.it


Titolo: LUCA RICOLFI - E ora difendiamo chi produce
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2012, 07:50:01 pm
5/1/2012

E ora difendiamo chi produce

LUCA RICOLFI

Lo so, ci sono cose che oggi non si possono dire. Non si può parlare dell'articolo 18, non si può dire quel che ha detto Grillo, non ci si può sottrarre alla guerra santa contro gli evasori e gli speculatori, non si possono difendere i ricchi (un clima così pesante e antiliberale da indurre Alesina e Giavazzi a ricordare che la ricchezza non è una colpa). Abbiamo bisogno di certezze e di capri espiatori. La certezza di non perdere quel che abbiamo. I capri espiatori su cui scaricare ogni responsabilità per i tempi duri che viviamo.

Così, una plumbea nuvola di cecità e di conformismo sta lentamente avvolgendo un po’ tutto e tutti.

Il governo sta finalmente, faticosamente e meritoriamente aprendo il dossier delle liberalizzazioni, ma il clima che si respira è di prudenza e di sospetto, specie in materia di mercato del lavoro. Gli altolà e gli avvertimenti scattano automatici, non per quel che uno ha fatto effettivamente, ma già solo per quello che potrebbe aver pensato, o avere in animo di pensare (vedi quel che è successo al ministro Elsa Fornero, rea di aver osato dire che si doveva parlare di mercato del lavoro «senza tabù»).

In un clima siffatto, io vedo il pericolo che, nel dibattito pubblico dei prossimi mesi, si mettano da parte alcuni dati di fondo, che sono cruciali per prendere decisioni sagge, ma appaiono urticanti o «politically taboo» a quasi tutti i soggetti in campo. Quali dati? Il primo dato è che la pressione fiscale sull'economia regolare è la più alta del mondo sviluppato (intorno al 60%), e così il livello di tassazione sulle imprese, il cosiddetto Total Tax Rate (68.6%). Questo è un handicap di fondo dell'Italia, che è stato ulteriormente aggravato dalle manovre finanziarie di Berlusconi, e in misura ancora maggiore da quella di Monti. Questo livello abnorme di tassazione si accompagna da sempre a norme vessatorie nei confronti di qualsiasi violazione (anche solo formale, o di entità irrisoria) delle regole fiscali, per non parlare dei comportamenti arroganti, intimidatori, o semplicemente umilianti degli emissari del fisco, che ovviamente non sono la regola ma di cui esistono purtroppo innumerevoli testimonianze, talora drammatiche e commoventi. Mi spiace doverlo dire, ma mi sono convinto che oggi in Italia un sentimento di paura verso l'Amministrazione pubblica sia ampiamente giustificato anche quando non si sia commesso alcun errore, reato o violazione. E tutto mi fa pensare che, affamato da decenni di spesa pubblica in deficit, lo Stato stia in questi anni accentuando il suo volto rapace e intimidatorio.

Il secondo dato di fondo è la strabica selettività della repressione dell'evasione. Ci sono intere zone del Paese in cui quasi tutto è in nero, si sa perfettamente dove si annidano gli abusi più clamorosi (compreso il caporalato e varie forme di sfruttamento del lavoro degli immigrati che ricordano i tempi della schiavitù), ma si preferisce chiudere ipocritamente un occhio, concentrando l'azione sulle porzioni del Paese in cui l'evasione c'è, ma è molto più contenuta. Pur di salvare il principio astratto che il lavoro deve essere pagato decentemente e iperprotetto, Stato e sindacati tollerano di buon grado che in un quarto del territorio nazionale si possa operare in modo del tutto irregolare, non solo sul versante dei salari ma su quasi tutto il resto (dal mancato pagamento del canone Rai alla violazione di ogni norma igienica, di sicurezza, antinfortunistica, etc.). Il fatto è che se volesse intervenire contro l'illegalità, lo Stato dovrebbe militarizzare circa un quarto del territorio nazionale, e distruggere un paio di milioni di posti di lavoro, che si reggono sui bassi salari.

C'è un terzo dato di fondo, che mi pare fondamentale ora che si sta per aprire lo spinoso capitolo del mercato del lavoro: da un paio di anni l'Italia sta riducendo la sua base produttiva. Fallimenti, chiusure volontarie di attività, bassi investimenti, distruzione di posti di lavoro, si stanno susseguendo senza interruzione dal 2008. Un po' dipende da un fatto nuovissimo, e cioè che questa crisi è, dal 1945, la prima in cui si prende in considerazione non solo l'eventualità di un double dip (doppia recessione, la prima nel 2009, la seconda nel 2012), ma anche l'ipotesi che la crescita non tornerà mai più, come ha già tristemente sperimentato il Giappone negli ultimi due decenni. In queste condizioni a molti pare inutile resistere in attesa di una ripresa che forse non ci sarà né l'anno prossimo né mai. Un po', però, dipende anche da un altro dato che ci si rifiuta di vedere, e cioè che lavorare e produrre in Italia sta diventando sempre più proibitivo sul piano dei costi di produzione.

Quando dico costi di produzione, però, non intendo solo le voci che sono al centro della prossima trattativa governo-Confindustria-sindacati. E' chiaro che salari e profitti sono troppo tassati, è chiaro che le imprese medio-grandi hanno troppi vincoli, è chiaro che in Italia si fa troppo poca ricerca, è chiaro che c'è troppo poca concorrenza sul mercato interno, è chiaro che bisogna aumentare la produttività del lavoro. E tuttavia, attenzione, non possiamo esagerare con la colpevolizzazione dei produttori, siano essi le imprese (cui si rimprovera cattiva organizzazione e scarsa innovazione), i lavoratori autonomi (cui si rimprovera di evadere le tasse), o i lavoratori dipendenti (cui si rimprovera di non essere abbastanza produttivi). Come tutti, vedo anch'io diversi furbi e farabutti che evadono spudoratamente il fisco, ma sempre più frequentemente mi capita di incontrare persone per bene, che gestiscono in modo efficiente un'attività, ma si trovano ormai di fronte al dilemma se chiudere o «fare del nero», e per lo più - proprio perché sono persone oneste - scelgono di chiudere.

Il tasso di occupazione, la produttività e la competitività non dipendono solo dai rapporti fra capitale e lavoro, come sembra suggerire l'attuale enfasi sulle relazioni industriali, ma anche da alcune fondamentali condizioni esterne all'impresa: il costo dell'energia, il costo del credito, i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, il costo degli adempimenti burocratico-fiscali, l'efficienza della giustizia civile. E' ingenuo pensare che l'operaio tedesco, che guadagna di più di quello italiano, sia più produttivo essenzialmente perché più stakanovista o meglio attrezzato dal suo datore di lavoro. Il valore aggiunto di un'impresa è la differenza fra il valore della sua produzione e i suoi costi, e lo svantaggio dell'Italia su questi ultimi è abissale. Fatti 100 i costi unitari dei Paesi a noi più comparabili (Germania, Francia, Regno Unito, Spagna), i costi dell'Italia sono circa 120 per la benzina, 170 per il gasolio, 250 per l'energia elettrica, 300 per i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, 400 per il rispetto dei contratti (senza contare gli ulteriori aggravi prodotti dalle recenti manovre «salva Italia»).

Se poi a tutto questo aggiungiamo la tassazione più pesante del mondo sviluppato, la rigidità del nostro mercato del lavoro regolare, l'enorme prelievo sul reddito e sulla ricchezza operato con le ultime manovre, il quadro si capovolge: la domanda non è più perché l'Italia non cresce, ma perché i produttori non hanno ancora gettato la spugna. Da questo punto di vista i governi che si sono succeduti negli ultimi anni mi paiono tutti molto simili. Sotto la pressione dei mercati, non hanno mancato di chiederci dei sacrifici, per «rimettere a posto i conti pubblici». Ma ben poco hanno fatto per abbassare in modo apprezzabile i costi di chi produce ricchezza, quasi a lasciar intendere che il problema della produttività riguardi essenzialmente le parti sociali. Temo sia stato un errore, e che la chiusura di tanti negozi, attività, imprese, che osserviamo così spesso oggi nelle nostre città, ne sia l'amara conseguenza.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9615


Titolo: LUCA RICOLFI - Occupati più italiani meno stranieri
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2012, 05:42:11 pm
9/1/2012

Occupati più italiani meno stranieri

LUCA RICOLFI


Forse non l’abbiamo ancora notato, ma nei dati su occupazione e disoccupazione comunicati pochi giorni fa dall’Istat c’è una grossa novità. Per capirla, tuttavia, dobbiamo fare un piccolo ripasso della crisi italiana.

Sul piano economico, le cose sono cominciate ad andare male nel 3˚ trimestre del 2007, con la crisi dei mutui subprime americani. Sul piano dell’occupazione, invece, la svolta negativa è intervenuta circa un anno dopo, verso la fine del 2008. In due soli anni, fra il 3˚ trimestre del 2008 e il 3˚ trimestre del 2010, sono andati in fumo circa 750 mila posti di lavoro (cui andrebbero aggiunti quelli rimasti solo nominalmente in piedi, grazie alla cassa integrazione).

Contrariamente a quello che molti credono, però, la crisi ha colpito più duramente gli italiani che gli stranieri. Nel «biennio nero» 2008-2009 gli italiani hanno perso circa un milione di posti di lavoro, mentre gli stranieri ne hanno guadagnati quasi 300 mila. In un certo senso si potrebbe persino dire che la recessione ha colpito solo gli italiani, visto che anche dopo lo scoppio della crisi l’occupazione degli stranieri non ha mai cessato di crescere, portandosi da 1 milione e 590 mila unità (inizio crisi, 3˚ trimestre 2007) a 2 milioni e 276 mila unità (ultimi dati Istat, 3˚ trimestre 2011).

Iniziata nel 3˚ trimestre del 2008, la distruzione di posti di lavoro occupati da italiani è proseguita ininterrottamente per 12 trimestri, ovvero per 3 anni pieni. Ed eccoci alla novità di cui abbiamo detto all’inizio: nell’ultima indagine Istat, relativa al terzo trimestre del 2011, per la prima volta da 3 anni l’andamento tendenziale dell’occupazione degli italiani ha riconquistato il segno «più». Nel 3˚ trimestre del 2011 (ultimo dato disponibile) il numero di italiani occupati, infatti, è aumentato di 39 mila unità rispetto a un anno prima, interrompendo una serie di variazioni negative che durava dalla seconda metà del 2008.

Ma come dobbiamo leggere questo dato? Dobbiamo leggerlo come un segnale positivo, di progressiva uscita dalla crisi?

Temo di no, ma per spiegare perché dobbiamo tornare sull’andamento rispettivo dell’occupazione straniera e italiana in questi anni, distinguendo più accuratamente le varie fasi della crisi. L’occupazione straniera è sempre cresciuta da quando esistono dati attendibili (2004) fino a oggi. L’occupazione italiana, invece, dopo essere cresciuta anch’essa negli anni pre-crisi, dalla seconda metà del 2008 (fallimento di Lehman Brothers) ha sempre perso colpi, anche se con un ritmo diverso nelle varie fasi della crisi. Fra il 3˚ trimestre del 2008 e il 3˚ trimestre del 2009 il numero di occupati italiano è diminuito a un ritmo via via più rapido. A partire dalla fine del 2009, invece, il ritmo di caduta è progressivamente rallentato, fino all’inversione di tendenza segnalata dall’ultima indagine Istat: nel 3˚ trimestre del 2011, per la prima volta da 3 anni e mezzo, al consueto aumento dei posti di lavoro occupati dagli stranieri (+120 mila) si affianca un sia pur modesto aumento di posti di lavoro occupati dagli italiani (+39 mila). Per parte loro, gli stranieri nel corso del 2011, pur continuando a conquistare posti, hanno visto assottigliarsi progressivamente i loro incrementi occupazionali: 276 mila unità nel primo trimestre dell’anno (rispetto a un anno prima), 168 mila nel secondo, 120 mila nel terzo.

Che cosa sta succedendo, dunque? Probabilmente sta accadendo qualcosa di inedito nei rapporti fra italiani e stranieri sul mercato del lavoro: dopo anni di crisi, gli italiani hanno cominciato a rendersi che non possono permettersi il lusso di andare in pensione in anticipo, accettare solo lavori qualificati, o vivere di rendita in attesa di tempi migliori. Certo non siamo ancora alla concorrenza diretta e generalizzata per i medesimi posti, ma pare abbastanza verosimile che molti italiani stiano reagendo alla crisi sia diminuendo la domanda di lavoro straniero (ad esempio licenziando colf e badanti, o diminuendone gli orari) sia cercando essi stessi di conquistare o non abbandonare posti di lavoro. Un processo di cui è forse un indizio il fatto che, negli anni della crisi, il tasso di occupazione degli anziani anziché diminuire sia aumentato, passando dal 33% al 38%.

L’impressione, insomma, è che nel mercato del lavoro le cose stiano cambiando molto rapidamente. Gli ultimi dati disponibili su base mensile (novembre) segnalano che la crisi, che nella prima parte del 2011 aveva concesso una tregua, sta tornando a distruggere posti di lavoro (-67 mila rispetto a novembre 2010). Nello stesso tempo, l’andamento rispettivo dell’occupazione italiana e straniera suggerisce che gli italiani non siano più intenzionati a stare alla finestra (non se lo possono più permettere!), e che probabilmente la fin qui inarrestabile conquista di posti di lavoro da parte degli stranieri è destinata a rallentare sensibilmente, se non a interrompersi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9628


Titolo: LUCA RICOLFI - Due ragioni per essere ottimisti
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2012, 09:29:57 am
23/1/2012

Due ragioni per essere ottimisti

LUCA RICOLFI

Con il decreto-legge sulle liberalizzazioni, che il governo preferisce chiamare «pacchetto di riforme strutturali per la crescita», è ufficialmente iniziata la «fase 2» del governo Monti, volta a far ripartire l’economia italiana. Nel giudicare l’efficacia delle misure fin qui delineate, tuttavia, sarebbe bene distinguere nettamente fra effetti a breve termine ed effetti di periodo medio-lungo.

Nel breve periodo sarebbe sbagliato aspettarsi grandi risultati. La realtà, purtroppo, è che la «fase 1» (la manovra di fine anno), con le sue pochissime riduzioni di spesa e i suoi moltissimi aumenti di entrata, ha avuto un impianto fortemente recessivo. Il che significa, in concreto, che le misure della «fase 2», più che far ripartire la crescita, si limiteranno ad attenuare la recessione preparata dalla «fase 1».

Altrettanto sbagliato, tuttavia, sarebbe non vedere la straordinaria opportunità che le misure delineate nel decreto-legge di venerdì scorso offrono all’Italia nel periodo medio e lungo.

Se quelle misure non saranno abbandonate o annacquate dal parlamento, e diventeranno invece il primo tassello di una strategia di scongelamento del sistema Italia, i loro frutti potrebbero essere generosi, anche se – realisticamente – credo sarà difficile raccoglierli prima di 2-3 anni.

Che cosa mi induce, contrariamente al mio solito, a un sia pure cauto ottimismo?

Essenzialmente due considerazioni. La prima è che, nonostante le previsioni di crescita dell’Italia nel 2012 si siano ancora deteriorate nelle ultime settimane, passando da –0.5% a –2.2%, il rendimento dei nostri titoli di Stato ha finalmente cominciato a scendere, non solo nel confronto con la Germania, ma anche in quello con paesi europei a noi più comparabili, come la Spagna, la Francia, il Belgio. Da circa due settimane lo spread italiano non si limita a beneficiare della boccata di ossigeno che i mercati stanno concedendo a diversi Paesi dell’area Euro, ma sta migliorando la sua posizione relativa rispetto a diversi paesi. Se anziché calcolare lo spread (rispetto alla Germania) calcoliamo lo «spread dello spread», ossia il nostro grado di penalizzazione rispetto alla media di Spagna, Francia e Belgio, non possiamo non registrare con soddisfazione che nelle ultime due settimane la nostra situazione è migliorata di 54 punti base, che salgono a 76 se il confronto è con la sola Spagna, un Paese rispetto al quale, fino a pochissimo tempo fa, eravamo invece in costante peggioramento. È difficile stabilire con certezza a che cosa si debba questa sorta di inversione del giudizio dei mercati, ma è difficile negare che gli ultimi segnali siano relativamente confortanti: la situazione è sempre gravissima (paghiamo oltre 4,3 punti di interesse più della Germania), ma il trend delle ultime due settimane è decisamente incoraggiante.

C’è anche un’altra considerazione che mi rende meno scettico del solito. Il decreto sulle liberalizzazioni, proprio perché è incompleto, pieno di limiti e di omissioni, offre a tutti gli attori in campo, e innanzitutto ai partiti, la possibilità di scegliere fra due strategie: prendere le distanze dal decreto perché si spinge troppo in là, facendo molto di più di quanto centrosinistra e centrodestra hanno saputo fare negli ultimi 15 anni, oppure andare oltre il decreto, combattere perché lo spettro delle liberalizzazioni sia più completo. Ferrovie, porti, aeroporti, mercato del lavoro, valore legale del titolo di studio, per fare solo qualche esempio, sono tutti ambiti su cui il decreto interviene poco o niente, e che invece meriterebbero di essere investiti da ulteriori ondate di liberalizzazioni.

Il presidente del Consiglio, con la sua dichiarazione di ieri sulla non intangibilità dell’articolo 18, sembra più che mai determinato ad andare avanti nella sfida delle liberalizzazioni, senza cedere alla retorica degli «opposti distinguo», secondo cui «questo si deve fare, quest’altro non è una priorità».

Più difficile è valutare le strategie di Pd e Pdl. Il Pd, almeno a parole, sembra criticare il governo perché non liberalizza abbastanza. Il Pdl, invece, sembra preoccupato che si liberalizzi troppo. Ma entrambi potrebbero scambiarsi i ruoli non appena si parlerà di mercato del lavoro e di articolo 18, con Bersani pronto ad isolare i riformisti à la Pietro Ichino, e Berlusconi tentato di sostenere una riforma radicale del mercato del lavoro.

Vedremo come andrà a finire. Però fin da ora almeno una cosa possiamo dirla. Il peggio per l’Italia sarebbe che i due maggiori partiti cercassero di riconquistare consensi cavalcando il malcontento delle rispettive basi sociali, con Berlusconi che soffia sul fuoco della protesta di taxisti e professionisti, e Bersani che legittima le resistenze sindacali a una riforma vera del mercato del lavoro. Il meglio per l’Italia sarebbe che Monti portasse fino in fondo la strategia delle liberalizzazioni, e i due maggiori partiti raccogliessero la sfida, pungolando il governo a fare di più e non di meno di quello che sta facendo.

Detto in modo più brutale, il peggio per l’Italia sarebbe che Pd e Pdl cercassero di arrivare alle elezioni con l’intento di cambiare nettamente rotta rispetto al governo Monti, interrompendo un’azione che ha disturbato troppi interessi. Mentre il meglio sarebbe che cercassero di arrivare alle elezioni competendo fra loro per portare il più avanti possibile un’opera che ha dovuto attendere la nascita di un governo di professori per essere avviata, ma che alla fine toccherà alla politica portare a termine.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9683


Titolo: LUCA RICOLFI - Disoccupati e la strada verso il nulla
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2012, 03:54:45 pm
5/2/2012

Disoccupati e la strada verso il nulla

LUCA RICOLFI

Disoccupazione giovanile, articolo 18. Prima di discuterne, forse bisogna ricordare alcune verità.

La prima è che i giovani disoccupati non sono affatto 1 su 3, come da mesi si sente ripetere senza tregua, ma 1 su 14. Per l’esattezza: non il 33%, bensì il 7,1% della popolazione nella fascia dai 15 ai 24 anni. Più o meno quanti erano nel 2006-2007 quando l’economia cresceva, molti di meno che negli Anni Novanta e nei primi Anni Duemila. In Spagna, i giovani disoccupati sono circa il triplo che da noi (20%), nel Regno Unito il doppio (14%), in Grecia e Portogallo sono il 12%, in Svezia e Danimarca il 10%, in Francia, Finlandia e Belgio l’8%.
Fra i Paesi con cui di solito ci compariamo, solo la Germania sta meglio di noi, con il suo 4,8% di giovani disoccupati.

Da dove salta fuori l’idea che «un giovane su tre è senza lavoro»? Deriva dal fatto che, anziché prendere come base il numero totale di giovani, si prende il numero di giovani «attivi» sul mercato del lavoro (occupati o in cerca di lavoro), che in Italia sono appena il 25% del totale, mentre in Paesi come la Germania o il Regno Unito sono più del doppio. Poi, nel fare i titoli su giornali e televisioni, ci si «dimentica» che si sta parlando di una minoranza attiva (1 giovane su 4), e si parla del tasso di disoccupazione giovanile come se descrivesse la condizione dei giovani in generale, anziché quella dei giovani che hanno scelto di lavorare.

E qui veniamo alla seconda verità che, a quanto pare, non incontra il favore dei media. L’anomalia dell’Italia non è che i suoi giovani non trovano lavoro, ma il fatto che non lo cercano. Fortunatamente non sono presidente del Consiglio, e quindi non sarò costretto a smentire quella che - detta da un politico - suonerebbe come una tremenda gaffe, ma che invece è la pura verità: nel confronto internazionale i nostri giovani si distaccano da quelli della maggior parte dei Paesi avanzati non certo perché più colpiti dalla tragedia della disoccupazione, ma precisamente per la ragione opposta: perché ritardano enormemente il loro ingresso nel mercato del lavoro.

Nei Paesi normali ci si laurea intorno ai 22-23 anni, e si comincia a lavorare relativamente presto, spesso contribuendo al bilancio familiare e alle spese dell'istruzione, che non sono basse come da noi. In Italia ci si laurea tardi, spesso in prossimità dei 30 anni, e si comincia la ricerca di un lavoro a un’età in cui negli altri Paesi si è accumulata una cospicua esperienza professionale. E quel che è ancora più drammatico è che, nonostante la loro relativa assenza dal mercato del lavoro, i giovani italiani sono molto indietro nei livelli di apprendimento già a 15 anni (vedi i risultati dei test Pisa), e hanno maggiori difficoltà a conseguire una laurea, per quanto a lungo ci provino. E infatti la gioventù italiana un primato ce l’ha: è quello del numero di giovani perfettamente inattivi, in quanto non lavorano, né studiano, né stanno apprendendo un mestiere (sono i cosiddetti Neet: Not in Education, Employment or Training).

Questo, sfortunatamente, è lo scenario sul quale si sta aprendo la discussione sul mercato del lavoro. Uno scenario di cui i giovani non sono direttamente responsabili, perché - come ha giustamente osservato Antonio Polito qualche giorno fa sul Corriere della Sera - se le cose sono arrivate a questo punto lo si deve innanzitutto «a noi, la generazione dei baby boomer, la prima generazione ad aver disobbedito ai padri e la prima ad aver obbedito ai figli».

Siamo noi che, con i nostri partiti e sindacati, abbiamo edificato un sistema per garantire il lavoro, l’inamovibilità, la pensione ai più organizzati fra noi stessi. Siamo noi che, nella scuola e nell’università, abbiamo permesso che si abbassasse drammaticamente l’asticella del livello degli studi, trasformando istituzioni un tempo funzionanti in vere e proprie fabbriche di ignoranza. E siamo sempre noi che, nella famiglia, «invece di fare i genitori ci siamo trasformati a poco a poco nei sindacalisti della nostra prole, sempre pronti a batterci perché venga loro spianata la strada verso il nulla» (sono sempre parole di Polito).

Ed eccoci al punto. Io spero e confido che il governo Monti non perda per strada la determinazione che finora lo ha indotto a promettere una vera riforma del mercato del lavoro. Ma nessuna riforma cambierà davvero le cose se anche noi, tutti noi, giovani e adulti, non ci renderemo conto che un intero modo di pensare, un’intera mentalità tipica del nostro Paese è giunta al capolinea. Continuare come in passato non è più possibile. Far credere ai giovani che potranno godere degli stessi privilegi della nostra generazione significa solo prolungare l’inganno che ci ha condotto alla situazione attuale. Una situazione retta da un patto scellerato fra due generazioni: la generazione dei padri e delle madri, iperprotettiva e per nulla esigente, e la generazione dei figli, spensierata finché l’età e le risorse familiari glielo consentono, e disperata quando deve cominciare a marciare sulle proprie gambe.

Il mercato del lavoro italiano, da decenni diviso fra garantiti e non garantiti, è il luogo nel quale il patto scellerato ha preso forma e si è cristallizzato. Di quel patto scellerato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è il tassello principale, ma solo il simbolo. Farlo lentamente evaporare non potrà produrre né le devastazioni previste dai sindacati, né la crescita immaginata dagli imprenditori. E tuttavia non toccarlo per niente, oltre a mandare un segnale negativo ai mercati, rischierebbe di rimandare ancora una volta il momento in cui - finalmente - cominceremo a fare un vero bilancio e ad affrontare a viso aperto i nostri figli.

I quali hanno tutto il diritto di entrare in un mercato del lavoro più dinamico e più equo, in cui ci siano più opportunità e l’inamovibilità dei padri non sia pagata dalla precarietà dei figli. Ma hanno anche il diritto di sapere quel che finora gli abbiamo nascosto: che studiare sotto casa, poco, male, e irragionevolmente a lungo conforta le loro mamme ma non spiana loro alcuna strada.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9736


Titolo: LUCA RICOLFI - Ma non siamo ancora fuori pericolo
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2012, 04:50:06 pm
24/2/2012

Ma non siamo ancora fuori pericolo

LUCA RICOLFI

A 100 giorni dal suo insediamento, sembra naturale fare un primo bilancio del governo Monti. Ma non è facile, perché tutto dipende dalla prospettiva che si adotta. Perciò dichiarerò subito la mia: la mia prospettiva è il confronto con quel che c’era prima. Da questa angolatura, è difficile non tirare un sospiro di sollievo: finalmente abbiamo un governo non imbarazzante, e non mi riferisco solo all’ultimo Berlusconi, ma a quel cocktail di furbizia, incompetenza e immobilismo che - secondo diverse miscele e proporzioni - ha caratterizzato tutti i governi degli ultimi 15 anni. Nei suoi primi tre mesi di attività il governo Monti ha cambiato radicalmente lo stile della politica, ha preso alcune decisioni coraggiose (pensioni), e altre si appresta a prenderne (mercato del lavoro), se le cosiddette parti sociali non lo bloccheranno.

La stessa critica che più mi sentirei di muovergli, e cioè di non avere fatto abbastanza in materia di concorrenza, liberalizzazioni e pressione fiscale sui produttori, perde gran parte della sua forza se si pensa alla timidezza, all’opportunismo e all’impotenza dei governi precedenti.

Anche se i maggiori frutti dell’azione di questi mesi si potranno vedere solo fra qualche anno, resta il fatto che i segnali che il «governo dei tecnici» ha mandato al Paese sono di enorme importanza: gli italiani stanno capendo che un altro modo di fare politica è possibile, e in molti cominciamo a pensare che - alle prossime elezioni - nessuno riuscirà a farci ingurgitare la solita minestra, sia essa di centro, di destra o di sinistra.

Persino la decisione di ritirare la candidatura dell’Italia a ospitare le Olimpiadi del 2020, contestata da molti politici ma approvata dalla maggior parte dei cittadini, ha un importantissimo valore simbolico. Essa certifica che certi lussi del passato non possiamo più permetterceli, e che la situazione economica del Paese resta grave. Ma quanto grave? Su questo, e solo su questo, vorrei permettermi di sollevare qualche dubbio. A mio parere il clima di scampato pericolo che si respira in questi giorni, dopo l’ennesima toppa alla situazione greca, non è pienamente giustificato. Da più parti si sente affermare che, grazie al prestigio di cui il governo Monti gode, lo spread - questa misura della sfiducia dei mercati nell’Italia - è crollato di 200 punti, ed è destinato a cadere di altri 200 punti nel caso l’imminente riforma del mercato del lavoro risulti incisiva, con annessa abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Non so quanto sia giustificata quest’ultima aspettativa, né penso che lo sapremo mai, perché ritengo che Monti - a causa dell’opposizione dei sindacati - non potrà seguire i consigli dei suoi colleghi Alesina e Giavazzi, che da settimane lo implorano di intervenire sulle regole del mercato del lavoro in modo radicale, evitando di varare una riforma troppo timida e prudente, e perciò dannosa.

Sul primo punto, ossia sull’idea che il governo Monti abbia «tirato giù» lo spread di 200 punti, mi sentirei invece di sollevare più di una perplessità. Per valutare l’impatto del nuovo governo, la misura migliore non è lo spread dell’Italia rispetto alla Germania, che dipende anche dalla fiducia nell’euro e dalle preoccupazioni di un tracollo della moneta unica, ma è lo spread dell’Italia rispetto a quello dei Paesi a noi più comparabili, in quanto né virtuosi come la Germania, né sull’orlo del baratro come Grecia, Portogallo e Irlanda. Penso alla Spagna, ma anche a Francia e Belgio, i cui tassi di interesse sui titoli pubblici seguono uno schema non dissimile da quello dei titoli italiani. Ebbene, se si calcola questo secondo tipo di spread - una sorta di «spread dello spread» (SdS), ovvero di spread dell’Italia rispetto a Spagna-Belgio-Francia, si scoprono alcune cose interessanti.

La prima, molto positiva, è che a partire dalla metà di gennaio, e cioè da almeno 5 settimane, lo spread dello spread è in costante diminuzione: era a quota 263 nella settimana dal 9 al 13 gennaio, è sceso di quasi 100 punti (SdS=168) la scorsa settimana, ed è ulteriormente sceso nei primi giorni di questa settimana (ieri era a 164). Accanto a questo dato confortante, che ci fa sperare che il trend continui nelle prossime settimane, non si possono non registrare almeno tre motivi di preoccupazione. Il primo è che, rispetto al picco toccato a metà novembre, quando il presidente Napolitano e i mercati indussero Berlusconi a rassegnare le dimissioni, lo spread dello spread non è affatto sceso di 200 punti, ma solo di 70 punti (da 234 a 164). Il secondo è che, a tutt’oggi, lo spread dello spread resta peggiore che nella drammatica crisi di inizio agosto 2011, quando il Parlamento fu riaperto precipitosamente per fronteggiare un’emergenza finanziaria che poteva avere esiti drammatici: allora aveva toccato il livello record di 149, oggi - nonostante il netto miglioramento delle ultime settimane - resta a livello 164, ossia 15 punti peggiore di allora. Il fatto è che, contrariamente a quanto si è indotti a credere dal favore di stampa di cui gode il governo Monti, il momento peggiore degli ultimi 12 mesi non è stato né durante la crisi di agosto (SdS=149), né durante quella di novembre (SdS=234), bensì nell’ultima settimana dell’anno, quando - con il governo Monti insediato da cinque settimane - lo spread dello spread sfiorò i 300 punti (Sds=294), per poi iniziare la discesa che nelle ultime settimane lo ha portato vicino a 160.

C’è poi un terzo e ultimo motivo di preoccupazione. Fino a 6 mesi fa (prima settimana di agosto), il nostro spread rispetto alla Germania era sempre stato migliore di quello della Spagna che - nel giudizio dei mercati è il Paese a noi più comparabile. Ma da allora, né sotto Berlusconi né sotto Monti, siamo mai riusciti a riprenderci questo sia pure modesto primato. Questa settimana, nonostante quasi un mese e mezzo di costanti progressi, lo spread dell’Italia è ancora 39 punti-base sopra quello della Spagna. Ciò significa che, nonostante apprezzino gli sforzi del nuovo governo italiano, i mercati giudicano la situazione debitoria del nostro Paese tuttora più preoccupante di quella spagnola, dove il neoeletto governo di Rajoy sta tentando di varare alcune importanti riforme.

Questi motivi di preoccupazione, più che indurci al pessimismo, dovrebbero farci riflettere su quanto sia ancora lungo il cammino che sta davanti al nostro Paese. Un importante pezzo di strada è già stato percorso, i mercati e la comunità internazionale apprezzano quello che l’Italia sta facendo, ma sarebbe un errore - un tragico errore - fermarci qui, solo perché non siamo più sull’orlo del baratro.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9811


Titolo: LUCA RICOLFI - Né destra né sinistra: meno tasse
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2012, 04:40:21 pm
19/3/2012

Né destra né sinistra: meno tasse

LUCA RICOLFI

Ogni tanto se ne riparla. La settimana scorsa, poi, è stato un profluvio: quasi simultaneamente, Corte dei Conti, Banca d’Italia, Garante per la privacy l’hanno ripetuto: in Italia le tasse sono troppo alte, mentre le garanzie a tutela del cittadino onesto sono insufficienti, nonché in preoccupante declino.

Poi però, come è appena successo nei giorni scorsi, il tema rientra e si torna a dibattere delle solite cose, rimandando al futuro ogni intervento di riduzione delle aliquote.
Insomma, possiamo anche rallegrarci che ogni tanto se ne riparli, ma dovremmo essere coscienti che sono parole al vento. I governi hanno altre priorità, e i cittadini probabilmente anche.

Perciò, anziché lodare l’ennesimo effimero sussulto anti-tasse, vorrei cercare di rispondere alla domanda: perché, verosimilmente, non se ne farà nulla nemmeno questa volta?
Una prima ragione, a mio parere, è che il tema delle tasse ha un sapore ideologico troppo forte. Diciamolo brutalmente: se chiedi meno tasse sei bollato come uno «di destra», nella migliore delle ipotesi come un «vecchio liberale».

Sì, certo, c’è stato anche un tempo - dopo i successi delle rivoluzioni liberiste di Reagan e della Thatcher - in cui lo slogan «meno tasse» si era fatto strada nella cultura progressista, quantomeno nei paesi in cui la sinistra non era troppo conservatrice. Ma quel tempo ora è finito, e la sinistra di oggi è completamente rientrata nei ranghi: ridurre le tasse non è una sua priorità, e persino la destra - spaventata dalla crescita del debito pubblico - preferisce dedicarsi a temi meno scottanti. Ridurre le tasse è tornato ad essere uno slogan di destra, che - tuttavia - la destra stessa ha paura di agitare.

C’è però un’altra ragione, molto più importante perché più concreta, per cui i governi riescono solo a parlare di riduzione delle tasse, raramente passando dalle parole ai fatti: ed è che tutti i governi, quale che sia il loro colore politico, letteralmente vivono di tasse. È grazie alle tasse che possono spendere, ed è spendendo che si procacciano i voti degli elettori, ossia la base stessa del proprio potere. La macchina dei favori elettorali richiede sempre più soldi, e i soldi si possono trovare solo in due modi: facendo debiti e mettendo più tasse. Finita l’era dei debiti - perché i mercati hanno detto basta - restano solo le tasse.

Ma la ragione più insidiosa che rende permanentemente inattuale il programma della riduzione delle aliquote è, a mio parere, di natura culturale, per non dire teorica. Ed è che la teoria che dovrebbe stare alla base di un programma politico di riduzione delle tasse è oggi minoritaria, non solo in Italia ma nella maggior parte delle società avanzate. Non saprei dire perché sia così, ma è così.

L’unico argomento veramente forte a favore della riduzione delle tasse è che aliquote troppo alte soffocano la crescita e noi - con il debito pubblico che ci ritroviamo - non possiamo permetterci un altro decennio di stagnazione. Il problema è che questo tipo di analisi, che sarebbe parsa semplicemente ovvia anche solo una decina di anni fa, oggi non è più tale. Oggi il senso comune di osservatori, studiosi e analisti è completamente cambiato. Per molti vale l’ingenuo corto-circuito che collega le minori tasse alla rivoluzione liberista, e la rivoluzione liberista alla crisi degli ultimi anni: se il liberismo ci ha portati all’attuale disastro, pensano costoro, non è ripristinandolo che ne usciremo. Ma anche fra gli studiosi, che non si basano su impressioni ma su ricerche, le cose sono molto cambiate da allora. Oggi la teoria della crescita snobba le tasse, e punta tutte le sue carte su leve come capitale umano, innovazione, tecnologie informatiche, investimenti in ricerca e sviluppo, liberalizzazioni, concorrenza. Tutte cose che o non costano nulla (liberalizzazioni), o comportano più spese (capitale umano), non certo un minore prelievo fiscale.

Si potrebbe dire, semplificando un po’ per chiarire, che il pendolo ideologico della teoria della crescita si è spostato. La teoria della crescita ha avuto quasi sempre un’anima liberale, perché non ha mai smesso di credere nel ruolo cruciale del mercato, della concorrenza, del libero scambio, fino alla recente totale adesione al paradigma della globalizzazione. Ma accanto a questo nucleo teorico liberale (di cui molti esponenti dell’attuale governo italiano sono convinti assertori) nel dibattito sulla crescita degli ultimi cinquant’anni sono sempre stati presenti almeno due altri elementi portanti: l’idea della basse aliquote, e l’idea degli investimenti in capitale umano. Insomma un’anima che i più considererebbero di destra (meno entrate fiscali) e un’anima che considererebbero di sinistra (più spese per l’istruzione). Negli Anni 90 il pendolo della teoria oscillava verso destra, oggi oscilla verso sinistra.

Io penso però che sia sbagliato, in questo campo, scegliere secondo parametri ideologici. Non solo perché l’evidenza empirica disponibile suggerisce che tutti e tre i gruppi di fattori - istituzioni economiche efficienti, alta qualità dell’istruzione, basse aliquote sui produttori - hanno un impatto elevato (e di entità comparabile) sul tasso di crescita, ma perché un paese che vuole tornare a crescere dovrebbe partire - innanzitutto da un’analisi spietata dei propri ritardi. La prima cosa che un Paese dovrebbe chiedersi non è se preferisce una politica di destra o di sinistra, ma qual è la leva più potente che ha a disposizione, e quanto tempo ha di fronte a sé. Nel caso dell’Italia la risposta è che, se come termine di paragone si prendono le economie avanzate (Paesi Ocse), i suoi due ritardi fondamentali - e dunque le leve su cui ha maggiori margini di miglioramento - sono le mancate liberalizzazioni e l’elevatissima pressione fiscale sui produttori. Con un’importante differenza, tuttavia: che le liberalizzazioni non potranno produrre effetti apprezzabili prima di 5-10 anni, mentre una riduzione incisiva delle aliquote sui produttori può darci un 1% di crescita in più nel giro di 1-2 anni.

In breve, vorrei dire che sulla crescita sarebbe bello che si cominciasse a ragionare in termini più empirici e pragmatici. Si può essere di destra o di sinistra, ma si dovrebbero preferire le politiche di cui il proprio paese ha bisogno in un dato momento storico. Essere europei, forse, significa anche questo. Un cittadino europeo, oggi, dovrebbe preferire politiche «di sinistra» dove e quando la crescita è frenata dalla bassa qualità del capitale umano, politiche «di destra» dove e quando la crescita è soffocata dalle tasse che gravano su chi produce ricchezza. E l’Italia, che piaccia o no, non ha (ancora) il record dell’ignoranza, ma detiene saldamente quello delle tasse.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9899


Titolo: LUCA RICOLFI - Chi difende le ragioni del Nord
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2012, 11:55:37 am
7/4/2012

Chi difende le ragioni del Nord

LUCA RICOLFI

In politica c’è sempre uno zoccolo duro di militanti «senza se e senza ma», completamente indifferenti ai fatti, del tutto impermeabili ai test di realtà. Per cui non si può escludere che, nonostante la vergogna di questi giorni, la Lega resista ancora un po’ di anni, come i nostri vari partiti comunisti, sopravvissuti quasi vent’anni alla caduta del muro di Berlino e al collasso dell’Unione Sovietica. E tuttavia, dal punto di vista politico, l’esperienza della Lega va considerata al capolinea.

Non solo perché il cocktail di nepotismo, arroganza e cialtroneria scoperchiato dall’inchiesta è difficile da digerire per qualunque palato, ma perché c’è una differenza anche politica - non solo morale - con i partiti comunisti duri e puri, alla Bertinotti e Diliberto.
Anzi, per molti versi il caso della Lega è l’esatto opposto di quello dei partiti comunisti. I partiti «falce e martello» sono scomparsi per eccesso di fedeltà all’utopia del comunismo, un’idea che ormai non reggeva più. La Lega è destinata a uscire di scena non solo per gli scandali di questi giorni ma perché ha tradito troppo presto il sogno federalista, un’idea più che mai attuale.

Per capire come e perché la Lega si sia allontanata dal suo sogno dobbiamo tornare un po’ indietro e mettere in fila alcuni fatti politici, tutti ben anteriori alle vicende di questi giorni.
Il primo in ordine di tempo è l’abbandono, poco dopo la vittoria elettorale del 2008, della proposta di legge federalista della Regione Lombardia, nonostante quel progetto - risalente all’estate del 2007 - facesse parte integrante del programma elettorale della Casa delle Libertà. La legge che ne prende il posto (legge 42 del 5 maggio 2009) è già un notevole passo indietro rispetto alla proposta originaria, perché ne annacqua tutti i meccanismi fondamentali, cancellandone gli automatismi e restituendo un ruolo centrale alla mediazione politica. Ma perché la Lega accetta di annacquare il suo disegno originario, e si imbarca in una estenuante trattativa con le forze che remano contro il federalismo?

Una ragione fondamentale è il ricordo dello smacco dell’autunno 2006, quando un referendum istituzionale indetto dall’opposizione aveva cancellato d’un colpo la «devolution», ossia la legge costituzionale che la Lega aveva imposto alla fine della legislatura 2001-2006 a colpi di maggioranza. Ma non è il solo motivo. Negli anni la Lega è cambiata, è diventata - al tempo stesso - sempre più ministeriale e sempre più attenta a preservare il potere locale dei suoi amministratori. Questo, in concreto, significa che i suoi dirigenti nazionali ormai si concentrano su due soli obiettivi: portare a casa una legge federalista purchessia, senza molta attenzione ai contenuti, e tutelare gli interessi del proprio ceto politico, che nel frattempo si è insediato in molti comuni, province e regioni del Centro-Nord.

E qui veniamo a un secondo ordine di fatti che scandiscono l’inizio della legislatura 2008-2013. La Lega non solo accetta di varare una legge meno incisiva di quella che aveva promesso in campagna elettorale, ma erige essa stessa una serie di ostacoli sul cammino del federalismo. Rientra in questa condotta frenante, ad esempio, il tentativo (riuscito) di annacquare la riforma dei servizi pubblici locali, un comportamento che all’inizio non riuscivo a capire, ma che mi venne chiaramente spiegato da un deputato del Nord, durante un fuorionda di una trasmissione televisiva. Quel deputato mi disse in sostanza: è vero, se introducessimo più concorrenza nei servizi pubblici locali le tariffe di luce, gas, acqua, trasporti, raccolta rifiuti potrebbero diminuire, ma a rischio di vedere molte nostre imprese (padane!) perdere gli appalti a favore di più efficienti imprese straniere. Un ragionamento che, presumibilmente, era sostenuto anche da un retropensiero meno confessabile: se introduciamo più concorrenza nei servizi pubblici molte imprese attualmente controllate dagli Enti locali potrebbero perdere gli appalti, e noi politici avremmo meno poltrone e posti di lavoro da distribuire.

Ma quella che abbiamo chiamato, forse un po’ eufemisticamente, la «condotta frenante» della Lega non si è purtroppo limitata ai servizi pubblici locali. Fin dalla primavera del 2010, di fronte ai tagli ai trasferimenti agli Enti locali, parte una mobilitazione dei sindaci del Nord, in particolare della Lombardia. I sindaci richiedono al governo centrale che i tagli non siano lineari, e tengano conto della maggiore efficienza delle amministrazioni del Nord. Guida la protesta Attilio Fontana, sindaco di Varese, presidente dell’Anci Lombardia e membro della Lega. Ma in quella occasione, come in altre mobilitazioni successive, i dirigenti nazionali della Lega non reagiscono difendendo «a Roma» le richieste degli amministratori del Nord, bensì cercando in ogni modo di dissuadere i sindaci dal manifestare il loro dissenso. Non solo. La Lega non si limita a ostacolare le richieste di «giustizia federalista» dei sindaci del Nord, ma si fa paladina delle peggiori istanze degli amministratori locali. Quando si riparla, finalmente, di ridurre i costi della politica e abolire o sfoltire le province (un altro punto del programma elettorale del centro-destra nel 2008), la Lega si batte contro i tagli al numero delle province e riesce a bloccare ogni cambiamento.

Il fatto che però, più di tutti, dà la misura dell’abbandono del sogno federalista da parte della Lega si consuma tra l’autunno del 2010 e la primavera del 2011, quando - con i primi decreti attuativi del federalismo - diventa chiaro che i tempi della riforma saranno lunghissimi: non più pochi anni come si riteneva all’inizio, non più cinque anni come si poteva desumere dalla legge 42 del 2009, bensì una decina d’anni, visto che tra decreti delegati, regolamenti, fasi transitorie varie si parla ormai di un’entrata a regime fra il 2018 e il 2019, un decennio dopo l’approvazione della legge delega sul federalismo (maggio 2009).

Ecco perché, dicevo, se la Lega scomparirà non sarà perché troppo estremista o radicale, bensì per la ragione opposta, perché troppo presto contaminata con i peggiori meccanismi della politica, e perciò dimentica della sua primaria ragione di esistenza. Chi è sempre stato anti-leghista ne gioirà, perché ha sempre considerato gli aspetti peggiori della Lega: l’ostilità al Mezzogiorno, il linguaggio volgare, la demonizzazione degli immigrati. Chi invece ha sempre visto anche le buone ragioni della Lega, ossia la critica del parassitismo e dell’eccesso di pressione fiscale, potrà solo consolarsi pensando che quelle buone ragioni la Lega le aveva ormai dimenticate da tempo.

Ma tutti, amici e nemici della Lega, almeno di un fatto dovremmo renderci conto: c’è una parte del Paese, quella più dinamica e produttiva, che continua a non riuscire a far sentire la sua voce, né con la Lega né senza, né prima di Monti né con Monti. Questa parte, ormai, era rappresentata dal partito di Bossi solo nominalmente, e in questo senso lo scandalo di questi giorni si è limitato a togliere di mezzo un equivoco. Ma il problema di dare una rappresentanza a quella parte del Paese resta, e diventa più grave ogni giorno che passa, perché è nei territori cui la Lega si rivolgeva che si produce la maggior parte della ricchezza di cui tutti beneficiamo. L’Italia può fare benissimo a meno della Lega, ma difficilmente tornerà a crescere se dimenticherà le ragioni da cui il «partito del Nord» ha preso le mosse.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9970


Titolo: LUCA RICOLFI - Il sogno svanito del federalismo
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2012, 11:49:23 am
13/4/2012

Il sogno svanito del federalismo

LUCA RICOLFI


Pubblichiamo un estratto della nuova introduzione della rinnovata edizione del libro di Luca Ricolfi «Il sacco del Nord» (Guerini editore). Il volume torna in libreria in questi giorni per la grande attualità del tema.

Sono passati solo due anni, ma a me sembrano un'eternità. Quando, nel 2010, uscì la prima edizione de Il sacco del Nord, la crisi sembrava in via di superamento, Berlusconi era ancora in sella, e io stesso - pur esprimendo tutto il mio pessimismo - non escludevo completamente la possibilità che il federalismo a un certo punto decollasse, in qualche versione più o meno incisiva.

Ora siamo nel 2012, e la situazione è completamente cambiata. Il posto di Berlusconi è stato preso da Monti, e dei tre scenari che avevo ipotizzato si è chiaramente imposto quello meno favorevole al federalismo, uno scenario che allora avevo battezzato "scenario A" perché lo consideravo il più probabile dei tre. In effetti, in soli due anni le probabilità che l'antico disegno della Lega vedesse la luce si sono praticamente azzerate. Dopo venti anni di progetti e discorsi inconcludenti, l'eventualità di vedere, finalmente, un'Italia rifondata e risanata dal federalismo è completamente evaporata.

Ma come siamo arrivati a questo punto? E soprattutto, perché le cose sono andate così? Si potrebbe pensare che l'eclissi del federalismo sia la naturale conseguenza della caduta di Berlusconi e della sua sostituzione con Monti. Una interpretazione che pare supportata da due circostanze:

a) il nuovo governo è nato senza l'appoggio della Lega, che è immediatemente divenuta la principale forza di opposizione;

b) l'unico tema importante accuratamente evitato da Mario Monti nel suo discorso di insediamento è stato proprio il federalismo.

Per quanto a prima vista plausibile, questa interpretazione è però profondamente sbagliata. Non perché Monti sia un fervente federalista, ma perché, di fatto, il federalismo era già stato sostanzialmente svuotato dal precedente governo e dalla Lega stessa. (....)

A forza di parlare di federalismo (è da vent’anni che lo si fa), rischiamo di dimenticare qual è la sua origine, ovvero quali sono i problemi per risolvere i quali il disegno federalista ha preso piede in Italia all'inizio degli Anni 90. Se andiamo alle radici e lasciamo da parte il folclore - Roma ladrona, i terroni, la Padania è piuttosto chiaro che la ratio principale del federalismo non era, all’origine, quella di rendere più efficiente la pubblica amministrazione, o di restituire alle Regioni settentrionali il maltolto (circa 50 miliardi di euro, secondo le stime più prudenti contenute in questo libro). No, la funzione e lo scopo del federalismo erano più semplici e più fondamentali: permettere ai territori più dinamici e produttivi del Paese di tornare a crescere a un ritmo ragionevole, liberandoli da un’oppressione fiscale che - nei primi Anni 90 - stava ormai soffocando l'economia italiana, sempre meno capace di espandere l’occupazione, reggere la concorrenza internazionale, innovare prodotti e processi.

Detto in altre parole: il federalismo non era principalmente un fine, un ideale politico, bensì un mezzo, un potente strumento di raddrizzamento dell’economia e della società italiana. E’ in quanto il sistema economico nazionale stava perdendo colpi, e le Regioni del Nord non riuscivano più a farsi carico degli sprechi e delle inefficienze di quelle del Sud, che il federalismo cominciò ad apparire a molti come una soluzione interessante e possibile. Anche se le cifre degli sprechi, dell’evasione fiscale, e soprattutto dell’immane trasferimento di risorse da Nord a Sud - 50 miliardi di euro l’anno - si conosceranno solo diversi anni dopo, fin da allora la diagnosi di fondo era più che chiara: se l’Italia vuole fermare il declino e tornare a crescere, di quei 50 miliardi almeno una parte deve rientrare al Nord, e deve servire a rimettere i produttori in condizione di fare il loro mestiere.

Ecco perché dico che, anche nell’ipotesi improbabile che fra una decina d’anni il federalismo dovesse essere entrato a regime, esso avrebbe comunque tradito la sua missione fondamentale: che non era di instaurare un assetto sociale o politico, bensì di ridare slancio all’economia e alla società italiane. Un compito che si pone da un ventennio, ma che negli ultimi anni era diventato urgente e improrogabile, e con la crisi internazionale del quinquennio 2007-2012 sta diventando una questione di vita o di morte per il nostro Paese. Perché tutti i dati dicono che da almeno 15 anni perdiamo colpi verso i Paesi a noi consimili, e che il nostro compito è di invertire un trend, non certo di rallentare ulteriormente il processo di modernizzazione del Paese. L’aver rimosso dalla riflessione politica questo compito, e avere accettato di spostare ancora in avanti l’entrata in vigore del federalismo, è probabilmente il più grave errore politico che la Lega abbia compiuto da quando esiste, perché - verosimilmente - esso condurrà alla scomparsa del federalismo dal centro della scena politica. Divenuto inutile, in quanto fuori tempo massimo, per risolvere il problema da cui era nato, il federalismo è destinato a entrare nel museo dei sogni politici del passato, che possono trastullare ancora a lungo i militanti, ma sono ormai fuori della realtà e del sentire comune.

Bruciato dai suoi stessi ideatori il sogno federalista, l’Italia dovrà trovare altre strade per risolvere i suoi problemi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9989


Titolo: LUCA RICOLFI - Salvare il Paese non basta
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2012, 11:58:48 am
17/4/2012

Salvare il Paese non basta

LUCA RICOLFI

Il governo si appresta, per l’ennesima volta, a cercare di mettere insieme un pacchetto di «misure per la crescita». Il momento è molto difficile perché i mercati, dopo aver concesso fiducia all’Italia per quasi tre mesi (da gennaio fin oltre metà marzo), da qualche settimana sembrano non fidarsi più di noi.

Il segnale più negativo non viene dallo spread, che è tornato a salire ma in realtà risente sempre, e pesantemente, della irresolutezza delle autorità europee, bensì dallo «spread dello spread», cioè dalla differenza fra quanto i mercati pretendono dall’Italia e quanto pretendono dai Paesi a noi più comparabili come la Spagna, il Belgio, la Francia, Paesi cioè che non sono né formiche come la Germania né cicale come la Grecia e il Portogallo.

Ebbene, lo spread dello spread era sceso a 105 nella settimana centrale di marzo, ma da allora è risalito inesorabilmente settimana dopo settimana: 109, 121, 131, fino a 144, il valore medio della settimana scorsa. Perché? Perché per quasi tre mesi lo spread è migliorato, e ora peggiora di settimana in settimana?

Qui si entra, purtroppo, sul terreno delle opinioni, perché nessuno dispone di un modello della mente dei mercati sufficientemente affidabile. Qualche cosa, tuttavia, si sa del funzionamento dei mercati nei momenti di tensione. Le bestie nere dei mercati sono tre: il deficit dei conti dello Stato, il debito pubblico detenuto da investitori stranieri, le cattive prospettive di crescita. Se guardiamo a questi tre parametri, pare difficile non ipotizzare che quello che, negli ultimi tempi, ha scosso la mente dei mercati non è la tenuta dei conti pubblici - messi in sicurezza da un diluvio di tasse - ma il costante deterioramento delle nostre prospettive di crescita, che ormai si stanno cristallizzando intorno a un drammatico -2%, e sono peggiorate di più di quelle delle altre economie avanzate. Un dato che, se confermato, costringerà il governo a un nuovo giro di vite, senza il quale l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 non potrebbe essere raggiunto.

La crescita, dunque, è il nostro problema numero uno. Ma come vede il problema questo governo? Qual è la sua idea per tirarci fuori dal pantano?

La mia impressione, basata sugli atti fin qui compiuti, è che il governo abbia una visione del problema della crescita non molto dissimile da quella dei governi che lo hanno preceduto. Certo Monti è più credibile dei suoi predecessori di destra e di sinistra, e ha messo su una squadra che si è guadagnata - e merita pienamente - il rispetto del Paese. E tuttavia la «cultura della crescita» che questo governo esprime a me pare, mi si perdoni la crudezza, terribilmente vecchia e inadeguata alla drammaticità del momento. Perché vecchia? Vecchia, innanzitutto, perché persevera sul sentiero, battuto fin qui da tutti i governi di destra e di sinistra, della prima e della seconda Repubblica, di affrontare i problemi di bilancio con maggiori tasse anziché con minori spese. Non è questo il luogo per scendere in dettagli tecnico-contabili, ma non si può non ricordare che le varie manovre con cui nel 2011 siamo stati deliziati prima da Tremonti, poi da Berlusconi e infine da Monti, hanno avuto un contenuto di tasse, e quindi una spinta recessiva, inesorabilmente crescente (la manovra di Tremonti era composta per meno del 50% di nuove tasse, quella di Monti lo era per quasi il 90%). Vecchia, la visione di questo governo, anche perché la teoria della crescita su cui si basa, fatta di liberalizzazioni, riforme a costo zero, segnali ai mercati, è nata ed è cresciuta soprattutto per promuovere il decollo dei Paesi in via di sviluppo, ma ha molto meno da dire alle economie dei Paesi avanzati. Da questo punto di vista non è un caso che tanta attenzione sia stata dedicata a un tema ideologico come l’articolo 18, senza alcuna sensibilità per il problema - ben più rilevante al fine di promuovere crescita e occupazione - di alleggerire i costi dei produttori di ricchezza. Nella cultura di questo governo continua ad albergare la credenza che il problema centrale delle imprese sia poter licenziare, mentre la realtà è che il loro problema numero uno è un semplice, brutale, concretissimo problema di costi: tasse, contributi sociali, prezzi dell’energia, ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione.

Ma è vecchia, la cultura di questo governo, anche per la mentalità con cui affronta chi osa non allinearsi al clima di venerazione e gratitudine da cui è circondato. E’ vero, non ci sono alternative al governo Monti, se cadesse sarebbe un disastro per l’Italia, i mercati ci farebbero a fettine. E tuttavia questa consapevolezza non rende per ciò stesso ragionevole qualsiasi cosa questo governo decida. C’è un errore logico, mi pare. Se la mia caduta è un evento così catastrofico da provocare un disastro, questo non vuol dire che tutto quel che faccio sia giusto, o volto al supremo interesse del Paese.

Oggi, ve lo confesso, per me l’interesse del Paese è rappresentato di più dalle innumerevoli persone che tentano disperatamente di resistere sul mercato, senza arrivare al passo fatale di ritirarsi o chiudere le loro attività produttive, che non da un governo che non si cura di loro e preferisce - continua a preferire - l’ennesimo aumento della pressione fiscale piuttosto che toccare il totem della spesa pubblica. Perché, è vero, Mario Monti è stato chiamato per «salvare il Paese». Ma l’alternativa che ha di fronte non è quella che, comprensibilmente, preferiscono immaginare i nostri governanti: o noi o il disastro. No, accanto a quella alternativa ce n’è un’altra: l’alternativa fra salvare davvero il Paese, o semplicemente ritardare il momento del disastro. Oggi il rischio è che questo governo si senta così necessario, così migliore dei governi che l’hanno preceduto, così privo di alternative, da non capire che il fatto di non avere alternative non rende per ciò stesso buone le sue politiche. Che tali politiche siano buone o no lo vedremo alla fine, quando si saprà se il piccolo, prudentissimo cabotaggio di questi mesi sarà stato sufficiente a salvarci da un destino come quello della Grecia. Sono il primo a sperare che basti, ma - fin qui - non vedo solidi argomenti per crederlo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10005


Titolo: LUCA RICOLFI - Il rischio delle buone intenzioni
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2012, 04:52:04 pm
19/4/2012

Il rischio delle buone intenzioni

LUCA RICOLFI

Non sono fra quanti pensano che cambiare l’Italia sia facile. Né mi sono unito a quanti, in questi giorni, hanno inondato la presidenza del Consiglio con liste di misure da adottare immediatamente per il bene dell’Italia, a partire dai tagli della spesa pubblica. E so perfettamente che è fin troppo facile fare i riformisti a parole, scrivendo libri, saggi e articoli sui giornali senza avere responsabilità di governo.

Per cui non dirò tutto quello che penso sul «topolino» partorito dal Consiglio dei ministri di ieri, ma mi limiterò a una domanda: avete fatto il massimo?

Perché se la risposta fosse sì, allora dovremmo essere davvero preoccupati, molto preoccupati. Quel che colpisce di più, nei documenti prodotti dal governo e nello stesso discorso pronunciato ieri da Mario Monti in conferenza stampa, è la completa mancanza di concretezza, anche nei pochi luoghi (ad esempio le infrastrutture e i pagamenti della Pubblica amministrazione) in cui si parla di cose e non di mere astrazioni, impegni futuri, intenzioni, auspici, tiratine d’orecchi ai cittadini e ai partiti. Una sorta di trionfo del modo «ottativo» ricopre tutto e tutti, in un linguaggio che meriterebbe di essere studiato già solo per l’audacia con cui ibrida due mostri del nostro tempo.

Il paludato gergo della burocrazia europea e i manifesti elettorali dei partiti, pieni di condivisibili intenzioni e meravigliosi obiettivi, mai accompagnati dalla indicazione dei mezzi che permetteranno di raggiungerli.

Dunque, proviamo a ricapitolare i punti effettivi. Il governo ci dice che nel 2013 i conti pubblici saranno ancora in rosso (-0,5%), ma che in realtà, correggendo il dato per il ciclo economico, quel piccolo deficit sarà in realtà un leggero avanzo (+0,6%). Poi ci dice che la pressione fiscale non diminuirà né quest’anno né l’anno prossimo, ma solo a partire dal 2014, ossia giusto quando questo governo non ci sarà più. Quanto al Pil, si prevede che quest’anno diminuirà dell’1,2%, e nel 2013 aumenterà dello 0,5%, due previsioni decisamente più ottimistiche di quelle della Confindustria, della Banca d’Italia e del Fondo Monetario Internazionale, che giusto ieri ha previsto un -1,9% per il 2012 e un’altra diminuzione (dello 0,3%) per il 2013.

Insomma, nessun meccanismo automatico che trasformi i risultati della lotta all’evasione in minori aliquote fiscali e contributive. Nessuna misura che alleggerisca ora, e non in un lontano e ipotetico futuro, i costi complessivi di chi lavora e produce ricchezza. Nessun taglio alla spesa pubblica improduttiva. E in compenso tantissime intenzioni, «tavoli di lavoro» che si stanno avviando, piani cui «si sta lavorando», ma soprattutto - come collante e come motore di tutto - una fiducia illimitata, quasi una fede, che l’Italia possa uscire dai suoi guai essenzialmente mediante processi immateriali, attraverso i segnali che la buona politica può mandare agli investitori e ai mercati finanziari. Di qui l’invito a rafforzare la coesione sociale, a combattere l’evasione fiscale, il lavoro nero e la corruzione, a promuovere la fiducia interpersonale e in chi ci governa, a riformare radicalmente la politica, a partire dalla legge elettorale e dal finanziamento pubblico dei partiti.

Tutti obbiettivi degni e sacrosanti, ma che tradiscono - a mio parere - una visione vagamente idealistica del funzionamento dei sistemi sociali. È strano, per me che faccio il sociologo, doverlo dire di un governo di economisti. Ma mi colpisce molto sentir tanto parlare di «capitale sociale», una delle più controverse e fumose nozioni della mia disciplina, e sentire così poche parole sui ben più solidi meccanismi che, nelle società avanzate, regolano la crescita. Spiace dovere battere così spesso sul medesimo ferro, ma mi pare davvero una generosa illusione quella di pensare che per uscire dalla stagnazione l’Italia abbia oggi bisogno innanzitutto di cambiare il suo software (il suo modo di pensare), e non sia invece il suo hardware (la macchina della sua economia) che è diventato un ferrovecchio. L’Italia è sempre stata priva di spirito civico, o capitale sociale, ma questo fragile software - fino a venti anni fa - non le ha impedito di crescere di più delle altre economie avanzate, fino a conquistare il benessere che ora stiamo cominciando a perdere. Quel che è venuto a mancare, dagli Anni 90, è invece l’hardware del Paese, ossia quell’insieme di condizioni materiali che permettono di fare impresa e competere con gli altri Paesi: buone infrastrutture, prezzi dell’energia competitivi, contributi sociali ragionevoli, basse aliquote societarie. Insomma, cose molto prosaiche, ma che fanno la differenza, ad esempio convincendo gli investitori stranieri a creare posti di lavoro nel nostro Paese.

È vero, i mercati sono diventati «animali molto sensibili», e i segnali, gli umori, le emozioni, sono diventate cose sempre più importanti nel mondo di oggi. Ma non tutta l’economia è finanza (per fortuna) e, alla fine, quel che conta davvero - quel che sposta i capitali e fa vincere sui mercati - sono i costi di produzione. Da un governo tecnico, per di più pieno di economisti, non mi sarei mai aspettato tanta attenzione alle impalpabili vicissitudini dell’animo umano, e tanto poca considerazione per la dura, concreta, pietrosa, realtà di chi produce e cerca di stare sul mercato.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10012


Titolo: LUCA RICOLFI - 23/04/2011 - DOSSIER: L'ITALIA A DUE VELOCITA'
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2012, 04:53:34 pm
Economia

23/04/2011 - DOSSIER: L'ITALIA A DUE VELOCITA'

Nord e Sud, lo sviluppo dipende soltanto dalle tasse sulle imprese

Il Mezzogiorno corre grazie all'autoriduzione: l'evasione resta più alta


LUCA RICOLFI

Se è vero che nel Sud funziona peggio la giustizia civile, ci sono meno infrastrutture, i servizi sono scadenti, scarseggiano gli investimenti stranieri, la qualità dell’istruzione è bassa, la criminalità organizzata inquina l’economia, perché nei dodici anni pre-crisi (dal 1995 al 2007) il prodotto interno lordo del Sud è cresciuto praticamente come alNord, e il suo Pil pro capite è cresciuto addirittura di più? A queste domande provavo a rispondere con una piccola provocazione: non sarà che il Sud cresce più del Nord grazie a una pressione fiscale effettiva molto più bassa? E se il segreto della crescita differenziale del Sud fosse semplicemente l’autoriduzione delle tasse, come del resto la teoria economica prevede? Insomma, per essere ancora più politicamente scorretto: mentre i leghisti cianciano da 20 anni di secessione fiscale, il Mezzogiorno la pratica da decenni.

Poiché alla mia provocazione hanno reagito in molti - a voce, per mail, sui giornali, alla radio - e poiché diversi interventi hanno sollevato obiezioni e osservazioni utili, ritorno volentieri sull’argomento, riprendendo almeno gli spunti più interessanti. Una prima obiezione suona così: il sorpasso del Sud rispetto al Nord è avvenuto solo dopo il 1995, ma non vi è alcuna evidenza che improvvisamente sia aumentata l’evasione fiscale nelMezzogiorno. Verissimo, infatti la mia idea non è che il sorpasso sia avvenuto grazie a un aumento dell’evasione fiscale, bensì che l’improvviso crollo del tasso di crescita del Nord abbia per così dire messo a nudo il ruolo della minore pressione fiscale gravante sul Mezzogiorno. Nei 25 anni fra il 1971 e il 1996 il Nord cresceva così rapidamente rispetto al Sud da occultare l’handicap del Nord (o il vantaggio del Sud) in termini di pressione fiscale. Quel che è successo, a metà degli Anni 90, è che la fine delle svalutazioni della lira ha inferto alNord un tale colpo da annullare tutti i vantaggi di cui godeva prima rispetto al Sud, rendendo improvvisamente visibile l’unico vero grande handicap delle regioni settentrionali, ossia la maggiore pressione fiscale di fatto (l’intensità dell’evasione al Nord è un terzo di quella del Sud).

E anche se, come alcuni suggeriscono, ragioniamo in termini di Pil anziché di Pil pro capite, il problema resta: se la minore pressione fiscale del Sud non contasse nulla, dovremmo comunque osservare una maggiore crescita del Nord, visto che su tutti gli altri fattori il Nord gode di un vantaggio considerevole rispetto al Sud. In breve, e per concludere su questo punto, lamia tesi non è che il Sud si siamesso improvvisamente a correre, ma che il Nord si sia improvvisamente «seduto» quando - a metà degliAnni 90 - ha perso lo strumento delle svalutazioni competitive, che molto aiutavano il nostro export, e quindi la crescita complessiva dell’economia (vedi grafico). Fino al 1995 il Nord cresceva quasi al 3%, dopo crescemeno dell’1%.

Qui però interviene un’altra obiezione. Secondo Marco Fortis il Nord, tutto sommato, se la sarebbe cavata abbastanza bene perché nel periodo da me considerato sarebbe cresciuto più omeno come la Germania. Anche questo è vero, ma vorrei ricordare due fatti. Per anni la Germania è stata considerata il «malato d’Europa» proprio perché cresceva poco, ossia meno di quasi tutti gli altri Paesi europei. Inoltre la Germania è uno dei pochi Paesi avanzati che, dopo la crisi, ha ripreso a crescere alla grande (+3,6% nel 2010). Sarà un caso che, fra i Paesi avanzati, la Germania sia quello che - fra il 2007 e il 2009 - ha ridotto di più le tasse sulle imprese? Un’altra osservazione interessante viene da Alberto Bisin. In un certo senso è l’esatto contrario dell’obiezione di Fortis: mentre per Fortis non è vero che il Nord vada così male, per Bisin non è vero che il Sud vada così bene. Quel che dovremmo chiederci, dunque, non è perché il Sud corre (più del Nord), ma perché corre così poco, «soprattutto rispetto al suo potenziale che èmolto elevato proprio a causa della sua povertà relativa in Europa». Già, perché il Sud - pur correndo più del Nord - corre comunque così poco rispetto al suo potenziale?

Qui le spiegazioni possibili sono molte,ma duemi paiono più plausibili delle altre. Una prima spiegazione è che la zavorra degli innumerevoli fattori di handicap è talmente pesante da rendere trascurabile il vantaggio fiscale di cui il Sud beneficia di fatto, grazie alla maggiore evasione. La seconda spiegazione, non necessariamente incompatibile con la prima, è che al Sud manchi il principale fattore di crescita delle economie povere: un mercato del lavoro con salari allineati alla produttività. Detto più brutalmente: le cosiddette economie emergenti corrono più in fretta delle economie mature non solo perché il punto di partenza è bassoma perché, finché il divario con le economie avanzate resta ampio, anche i salari e lo Stato sociale restano indietro rispetto a quelli delle società ricche. E’ triste riconoscerlo, ma sono anche i bassi salari e la flessibilità che spingono le economie emergenti.

Resta un’ultima obiezione, che mi sono spesso fatto io stesso: ma se una bassa pressione fiscale è così importante per sostenere la crescita, perché alcuni Paesi nordici ad alta pressione fiscale, come la Svezia e la Finlandia, sono ciononostante riusciti a crescere a un ritmo notevole (intorno al 3%)? La risposta, sostenuta da una notevole evidenza empirica, è che il fattore decisivo non è la pressione fiscale complessiva, che può benissimo essere alta se esiste un generoso Stato sociale, bensì la pressione fiscale sui produttori, a partire dalla regina di tutte le tasse, ossia l’imposta societaria (Ires più Irap, nel caso dell’Italia). La Germania, ad esempio, ancora nel 2000 aveva l’imposta societaria al 52%, mentre la Finlandia l’aveva al 29% e la Svezia al 28%. E nel 2007 la Germania era ancora ferma al 38%, mentre negli ultimi tre anni è scesa a livelli scandinavi. Né si può dire che quelle riportate siano solo eccezioni o casi singoli. Se consideriamo l’insieme delle economie avanzate dell’Unione europea, è difficile non essere colpiti dal legame inverso fra crescita e imposta societaria: i Paesi che sono cresciuti di più sono quelli con l’imposta societaria più bassa, quelli che sono cresciuti dimeno sono quelli con l'imposta societaria più alta. Un risultato coerente con la teoria economica, ma stranamente un po’ snobbato nel dibattito sulla crescita.

Conclusione. Urge una riflessione onesta, non ideologica, possibilmente sorretta da dati e analisi, sul nesso fra imposta societaria e crescita. La mia impressione è che quando ci chiediamo perché l’Italia non cresce più diamo troppa importanza agli innumerevoli fattori secondari e sottovalutiamo sistematicamente il fattore dominante, ossia la pressione fiscale sui produttori.

Come sociologo, non ne sono troppo stupito. La politica ha tutto l’interesse a occultare il ruolo frenante delle tasse, perché non ha il coraggio di ridurle. Le cosiddette forze sociali, d’altro canto, hanno tutto l’interesse a concentrare l’attenzione sugli altri fattori che limitano la crescita, perché ogni singolo fattore di handicap reclama più risorse pubbliche per i soggetti che lo controllano o se ne fanno paladini. Il risultato è che la spesa non diminuisce, la pressione fiscale resta quella che è, il Paese - sia pure molto lentamente, per fortuna - sprofonda nel sottosviluppo.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/399276/


Titolo: LUCA RICOLFI - L'utopia della lotta agli sprechi
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2012, 11:24:33 am
30/4/2012

L'utopia della lotta agli sprechi

LUCA RICOLFI

Oggi il Consiglio dei ministri si riunisce per affrontare il problema dei tagli alla spesa pubblica. Vedremo che cosa ne verrà fuori. E speriamo che il risultato non siano solo annunci, ulteriori «fasi di studio», impegni futuri, «tavoli tecnici» e approfondimenti vari. Perché una cosa va detta: di «enti inutili», «spending review», sprechi della Pubblica Amministrazione, si parla da decenni, almeno dai tempi di Ugo La Malfa, e di studi settoriali sull’efficienza della macchina amministrativa pubblica se ne contano ormai a bizzeffe.

E il quadro generale è piuttosto chiaro. La spesa pubblica totale, al netto delle pensioni e degli interessi sul debito, ammonta a circa 500 miliardi di euro.

Il tasso di spreco medio è nell’ordine del 20-25%, il che significa che, se si adottassero le pratiche delle amministrazioni più efficienti (ma sarebbe più esatto dire: meno inefficienti), si potrebbero risparmiare almeno 100 miliardi l’anno. Una cifra con cui, giusto per fare un esempio, si potrebbe portare la pressione fiscale sui produttori a livelli irlandesi, attirare investimenti esteri e creare milioni di posti di lavoro.

Ma perché, se il quadro è chiaro, nulla o quasi nulla mai avviene, né con governi di sinistra, né con governi di destra, né con governi tecnici?

Le ragioni per cui nulla di importante mai avviene, a mio parere, sono almeno tre. La prima, ovvia, è che è politicamente più facile aumentare le tasse che ridurre la spesa. L’aumento delle tasse si traduce in decine di piccole vessazioni nessuna delle quali è abbastanza concentrata su una singola categoria da suscitare una rivolta dei contribuenti. I tagli alla spesa invece toccano categorie molto specifiche, e così creano una saldatura fra corporazioni, sindacati e ceto politico (specie locale), una sorta di patto nascosto o implicito che blocca qualsiasi decisione presa dal governo centrale.

La seconda ragione che blocca i tagli è che, colpevolmente, in questi anni il ceto politico non ha mai commissionato studi analitici. Di un comparto come la sanità, o come la giustizia, o come la burocrazia comunale, si sa con discreta precisione quanto spreca, a vari livelli: a livello nazionale, a livello regionale, spesso anche a livello provinciale. Ma non si sa dove esattamente gli sprechi si annidino, perché per saperlo occorrerebbe effettuare centinaia di studi locali e dettagliati – «studi analitici» appunto – che di norma richiedono un tempo (da 1 a 3 anni) che va al di là del miope orizzonte dei nostri partiti politici. Questo spiega perché, arrivati al dunque, i tagli sono sempre lineari e piccoli. Si dice a tutti: risparmia il 2% subito, mentre si dovrebbe dire: avete tempo 5 anni, ma tu – amministrazione abbastanza virtuosa – devi risparmiare il 4% in 5 anni, mentre tu – amministrazione cicala – devi risparmiare il 40%.

E qui veniamo alla vera, profonda e a mio parere insuperabile ragione per cui non si riesce e – temo – non si riuscirà mai a eliminare gli sprechi: le amministrazioni virtuose sono territorialmente concentrate in alcune, ben note, regioni del Centro-Nord, quelle viziose in alcune, ben note, regioni del CentroSud. Una politica di risparmi di spesa seria dovrebbe avere il coraggio di dire: caro Lombardo-Veneto, cara Emilia Romagna, avete già fatto molto per razionalizzare la spesa, quindi a voi chiediamo solo una ulteriore limatura del 5% (cifra indicativa, ma non lontana dalla realtà). Caro Piemonte, cara Liguria, cara Umbria, voi siete state meno brave, a voi dobbiamo chiedere di tagliare il 15%. E poi dovrebbe farsi forza e dire: care Sicilia, Calabria e Campania, voi buttate via i soldi, vi diamo 5 anni di tempo ma voi la spesa la dovete ridurre del 40%. Mentre voi, Puglia, Abruzzo, Sardegna, di soldi ne buttate via un po’ di meno, e quindi a voi chiediamo risparmi minori, diciamo del 25% in 5 anni.

Naturalmente le regioni e le cifre precedenti sono solo indicative. La graduatoria degli sprechi, all’ingrosso e a grandissime linee, è effettivamente quella che ho appena indicato ma non è la medesima in tutti i campi: un territorio può essere inefficiente nella sanità ma abbastanza efficiente nella giustizia; una regione sprecona può contenere isole di efficienza, così come una regione virtuosa può contenere sacche di inefficienza. E’ proprio per questo che, se non ci si vuole affidare ai tagli lineari, gli studi devono essere il più analitici possibile e un governo centrale può fissare solo gli obiettivi aggregati di medio periodo. Un governo che volesse fare sul serio dovrebbe fissare un orizzonte temporale ragionevole (3, 4, 5 anni), quantificare i risparmi possibili in ognuno dei grandi comparti della Pubblica amministrazione, e fissare precisi obiettivi territoriali per ogni comparto. Questo, se lo si volesse, si potrebbe fare anche subito, perché di studi ce ne sono già abbastanza, a partire da quelli della (colpevolmente) disciolta «Commissione Muraro» sulla spesa pubblica, che già anni fa aveva cominciato a delineare un quadro delle inefficienze. Fatto questo, toccherebbe poi alle varie amministrazioni pubbliche, centrali (ministeri) e locali (Regioni, Province, Comuni), ripartire il carico dei risparmi Asl per Asl, reparto per reparto, Comune per Comune, servizio per servizio. Un’operazione che richiederebbe una miriade di studi analitici, una serie di autorità esterne di controllo e valutazione, nonché un processo di contrattazione fra gli enti coinvolti.

Un’utopia? Sì, penso di sì. E appunto per questo, perché quel che si dovrebbe fare appare utopistico con questo ceto politico, con questa opinione pubblica, con queste forze sociali, penso che non se ne farà nulla. Di «spending review» si parlerà ancora un po’, saremo inondati di intenzioni e annunci, e alla fine la spesa verrà limata in maniera molto modesta. I risultati non saranno usati né per costruire asili nido (di cui c’è un enorme bisogno) né per ridurre le tasse a lavoratori e imprese, ma per coprire i buchi di bilancio che – puntualmente – si scopriranno all’avvicinarsi della scadenza del 2013. Il governo, quale che esso sia, si accorgerà fra qualche tempo che l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 è a rischio, e lì farà confluire i proventi di tutti i nostri sacrifici, fatti di maggiori tasse e minori servizi. So che a molti apparirò troppo pessimista, o prevenuto nei confronti di ogni governo della Repubblica presente, passato e futuro, ma questo è quello che – sulla base dell’esperienza – penso si possa realisticamente prevedere.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10047


Titolo: LUCA RICOLFI - Sberleffo e castigo
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2012, 03:14:43 pm
9/5/2012

Sberleffo e castigo

LUCA RICOLFI

Elezioni amministrative: per quanto mi sforzi, non riesco a trovare nulla che non fosse prevedibile e previsto. Più che rivelarci lo stato d’animo dell’elettorato, questi risultati non fanno che certificare quel che si vedeva già benissimo prima, a occhio nudo. E cioè: che la Lega non è più credibile, che il Pdl senza Berlusconi stenta ad esistere, che la gente è inferocita contro i partiti, e che solo la «sinistra unita» (Bersani-Di PietroVendola) non ha perso del tutto la faccia. Gli unici elementi forse non del tutto scontati sono l’entità del successo del movimento Cinque stelle di Beppe Grillo e l’incapacità dei centristi (Casini, Fini, Rutelli) di approfittare dello sbandamento delle truppe di Berlusconi. Ma al di là di questo, non vedo nulla che non si capisse senza bisogno del riscontro elettorale.

Semmai vedo un rischio, e cioè che si prenda troppo sul serio questo risultato. Che si veda in esso una proiezione o un’anticipazione di quel che potrebbe succedere l’anno prossimo, con le elezioni vere, le politiche del 2013.

Sarebbe un errore, perché queste sono elezioni «di secondo ordine», che obbediscono a una logica diversa da quella delle elezioni politiche. Ci sono meccanismi che funzionano in un’elezione amministrativa intermedia, ma si disattivano in elezioni per l’elezione del Parlamento nazionale.

Uno di questi meccanismi è il votosberleffo, che premia liste di protesta radicale. A parità di condizioni (cioè di clima anti-partitico), le liste di protesta raccolgono molti più voti in un appuntamento elettorale marginale come quello dei giorni scorsi che in un’elezione «seria», come sempre sono considerate le consultazioni politiche. Quando la posta sale e il gioco si fa duro, gli elettori in libera uscita tornano all’ovile e votano i partiti maggiori. Questo non vuol dire che Beppe Grillo non possa replicare il suo successo, o addirittura amplificarlo, alle prossime elezioni politiche, ma che se vuole sfondare anche lì deve crescere ancora molto, o essere aiutato dai comportamenti suicidi dei partiti maggiori, che peraltro - con la loro sordità ad ogni richiesta di autoriforma della politica - appaiono più che ben disposti a soffiare vento nelle vele del movimento Cinque Stelle.

Un altro meccanismo è il ritiro temporaneo nell’astensione da parte degli elettori dei partiti maggiori, una sorta di non-voto punitivo. Le elezioni intermedie sono, per i cittadini, un’occasione d’oro per segnalare il proprio scontento ai leader dei vari partiti. È probabile che questo meccanismo sia stato alla base della débâcle del Pdl. Ma di norma il cittadino che fa l’offeso nelle elezioni minori si precipita a votare per la sua parte politica in quelle maggiori, dimenticando tutti i giuramenti che ha fatto a suo tempo. Io conosco personalmente decine di persone che, da anni, mi dicono «sono disgustato», «giuro che questi partiti non li voterò mai più», «io alle prossime elezioni non vado a votare», ma poi, quando arrivano le elezioni vere e si profila il rischio che vincano «gli altri», si turano il naso e immancabilmente corrono a votare il loro odiato partito, dimentichi delle solenni minacce di non farlo mai più.

In breve, voglio dire che alle prossime elezioni politiche potrà anche esserci un terremoto, ma se ci sarà difficilmente sarà la mera continuazione delle scosse di questi giorni. Se bisogna a tutti i costi proclamare un vincitore, o un «minor perdente» di queste elezioni amministrative, non v’è dubbio che il vincitore è Beppe Grillo, e il minor perdente è l’alleanza di sinistra. Ma è verosimile che dietro questo esito ci siano i due meccanismi di cui ho parlato: il voto-sberleffo, che ha portato alle urne gli arrabbiati e ha contenuto il calo della partecipazione elettorale, l’astensione-castigo, che ha tenuto a casa gli elettori del Pdl delusi. Visto da questa angolatura, il risultato elettorale delle comunali è più pericoloso per il Pd che per il Pdl: il partito di Berlusconi non può non accorgersi di essere fuori strada, mentre quello di Bersani potrebbe anche coltivare l'illusione di essere su quella giusta.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10079


Titolo: LUCA RICOLFI - L'incapacità di ricambio di leader
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 04:51:20 pm
27/5/2012

L'incapacità di ricambio di leader

LUCA RICOLFI

C’ è un pensiero, o meglio una domanda, che ultimamente mi perseguita quando penso alla politica italiana. Con tutto quel che è venuto fuori su Bossi, sua moglie, i suoi figli, compresa la laurea falsa del «trota» comprata in Albania, come è possibile che Bossi resti al comando? Come è possibile che anche quanti si ripromettono di ripulire e rifondare la Lega prendano seriamente in considerazione l’ipotesi di un partito con un segretario diverso (Maroni) ma con Bossi presidente della «nuova Lega»? Che cosa deve succedere perché un capo-partito venga non dico cacciato, espulso, punito, ma semplicemente archiviato? Che cosa fa sì che non si possa mai assistere a una battaglia politica che porti alla sostituzione di un vecchio gruppo dirigente con uno nuovo e diverso?

Questo genere di domande me le ero già fatte molte volte a proposito di Berlusconi e del suo partito, ma lì avevo una risposta: Berlusconi ha i cordoni della borsa, e ha sempre fatto attenzione a non dare spazio a persone troppo capaci o indipendenti da lui.

Che il Pdl senza Berlusconi rischiasse di implodere (come ora sta succedendo) è sempre stata per me una risposta soddisfacente alla mia istintiva e un po’ moralistica domanda: visto che ne combina di tutti i colori, perché i suoi non se ne liberano?

Ma con la Lega è diverso. Bossi non ha risorse economiche proprie (tanto è vero che usa quelle della Lega a beneficio dei suoi familiari), e inoltre non è circondato da figure chiaramente minori rispetto a lui stesso. Se volessero, i suoi potrebbero benissimo dirgli: caro Umberto, hai abusato della tua posizione, hai 70 anni suonati, ora fatti da parte che la Lega la prediamo in mano noi.

Mentre mi chiedevo perché non succede, ha cominciato però a ronzarmi un pensiero più radicale, una sorta di sospetto più generale. Mi sono venute inmente decinee decinedi situazioni,non solo nella politica, ma anche al di fuori di essa in cui succede la stessa cosa. La resistenza dei vecchi capi al cambiamento, e soprattuttola rinuncia dei giovani a dare battaglia, va molto al di là del recinto del centrodestra. Anche nelle imprese, nelle università, nelle fondazionibancarie, l’età mediadei capiè prossima ai 60 anni, ma soprattutto - questo è il fatto interessante - i quarantenni non danno battaglia. Aspettano. Attendono fatalisticamente che venga la loro ora. Una sorta di «sindrome di Carlo d’Inghilterra», che ormai 65enne non sa ancora se mai ascenderà al trono. Con la differenza che una posizione dirigente nella politica, nell’economia, o nella società non si eredita come un trono, ma si dovrebbe conquistarein base ai meriti guadagnatisul campo.

Ecco, i meriti. Forse questo è il punto. Forse la ragione per cui nessuno dà battaglia, anche quando avrebbe tutte le carte in regola per farlo, è che in Italia i capi beneficiano di un sovrappiù - di un anomalo e perversosovrappiù - di deferenza, di rispetto, di gratitudine. Una sorta di intangibilità, che fa apparire tradimento quella che altrove sarebbe giudicata una normale e fisiologica competizione fra gruppi e generazioni. Ma da dove deriva tale sovrappiù? Come siamo arrivati, un po’ tutti, ad esitare di fronte all’eventualitàdi intraprenderecerte battaglie?

La risposta è che in Italia si va avanti per cooptazione.Anchechi va avanti con pieno merito, ingenere può farlo solo perché qualcun altro - il «capo» - a un certo punto ha dato disco verde. Ha chiamato. Ha promosso. Ha coinvolto. Ha incluso. Ha ammesso nel clan, nel gruppo, nella rete, nel «cerchio magico». A quel punto è naturale per il cooptato maturare un senso di riconoscenza, di fedeltà, di lealtà, che gli fa percepire ogni possibile battaglia futura come un tradimento,una manifestazionedi ingratitudine. Questo meccanismo è così diffuso, così endemico, quasi scolpito nel nostro modo di sentire, che finisce per coinvolgere anche chi - in realtà - avrebbe tutti i numeri per dare battaglia, per promuovereil ricambio, per liberarci di personaggiche, con il passare degli anni, diventano un peso, se non altro perché non possono più dare il meglio di sé. Una singolareincapacità di «uccidere il padre», nel senso freudiano di diventare grandi e maturi, inquina e intorbida la vita del nostro Paese. Il padre non viene ucciso semplicemente perché gli dobbiamo troppo, se non tutto; e chi ha grandi debiti non puòessere libero,non soloineconomia.

Più che i padri che non lasciano il comando, colpisce il fenomeno dei figli che nulla fanno per prenderlo. Come se ereditare fosse l’unica modalità di successione che conoscono. E non si pensi che, in politica, il problema riguardi solo la destra. C’è una controprova clamorosa che non è così. Tu apri Radio Radicale e immancabilmente, quotidianamente, incappi in una esternazione di Marco Pannella. Un fiume di parole disordinato e sostanzialmente incomprensibile,almeno per personenormali.

Perché? Perché nessun politico radicale ha mai seriamente conteso la leadership all’ultra-ottantenne Pannella?

Qui non c’entrano i soldi, non credo che Pannella finanzi il suo movimento politico. Non credo che i radicali abbiano fatto particolare attenzione a escludere persone capaci. Non credo che, ad esempio, a Emma Bonino manchino le qualità per assumere la piena leadership dei radicali. Eppure non è mai successo. Non succede. Non succederà. La deferenza verso i capi, la sottomissione all’autorità dei cooptanti, è così profonda, in Italia, da coinvolgere persino i radicali, ovvero il più anti-autoritario, il più libertario, il più laico fra i gruppi politici italiani. Per non parlare del Pd, dove un gruppo di colonnelli 60enni controlla il partito da un quarto di secolo, i futuri premier vengono decisi a tavolino (ricordate le primarie finte per Prodi?), e i rarissimi casi anomali - come quello di Matteo Renzi, che ha sfidato apertamente il partito - sono visti con un misto di irritazione, insofferenza, fastidio. Né, forse, è solo un caso che le uniche novità importanti e relativamente giovani del panorama politico italiano - il movimento Cinque Stelle e Italia Futura - abbiano avuto bisogno, per venire al mondo, di due levatrici non precisamente giovanissime,ovvero il 64enne Beppe Grillo e il 65enne Luca Cordero di Montezemolo.

Che cosa dobbiamoattenderci,dunque? Forse esattamente quel che potrebbe succedere in Inghilterra,dove ormai è più probabile che il trono della vecchissima regina Elisabetta (86 anni) passi al giovanissimo principe William (30) che non al vecchio Carlo (65), «principe del Galles». La generazione dei Fini, Casini, Maroni,Bonino ha atteso troppo a condurre le proprie battaglie. Quando ricambio ci sarà, è più facile che a imporlo sianoi 30-40ennidi oggi. Specie quelli che hanno meriti e capacità proprie, e non debbono ai vecchi le posizioni che occupano.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10150


Titolo: LUCA RICOLFI - Il nocchiero e i pirati
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2012, 09:58:04 am
17/6/2012

Il nocchiero e i pirati

LUCA RICOLFI

Su Monti e il suo governo le opinioni ma anche i sentimenti - divergono. C’è chi vede il professore come colui che ci ha finalmente liberato dal teatrino della politica (e da Berlusconi), e chi lo vede come il tecnocrate che sta imponendo un’inutile austerità a un Paese già stremato.
C’è chi lo vorrebbe più socialdemocratico e chi lo vorrebbe più liberale. C’è chi plaude ad ogni atto del suo governo, e chi trova da ridire su quasi tutto.

Personalmente sono passato da un sostegno colmo di speranza (primi mesi), a un dissenso colmo di delusione (ultimi mesi). Ma qui vorrei lasciar perdere quel che rende diverso l’atteggiamento di ognuno di noi, cittadini, studiosi, osservatori, e vorrei concentrarmi sui sentimenti e i pensieri più condivisi, quelli che vanno al di là degli schieramenti e delle manie personali. C’è qualcosa che in molti, forse la maggioranza, pensiamo del governo Monti?

Sì, credo di sì, ci sono parecchie cose che pensiamo e parecchie cose che vorremmo. Una prima cosa è che al momento - non ci sono alternative migliori, più credibili, più affidabili. Specie a livello europeo, Monti è la persona che più autorevolmente può difendere, ed effettivamente difende, gli interessi dell’Italia.

Certo questo non lo pensano tutti, ma credo sia piuttosto difficile per chiunque immaginare che uno qualsiasi dei leader o degli aspiranti leader politici di questo Paese possa fare meglio e di più di Monti nel complesso negoziato in corso fra i maggiori paesi europei.

Ma oltre alle cose che in molti pensiamo, ci sono le cose che in molti vorremmo, al di là delle differenze di opinione sulla politica economica del governo. E queste sono cose per lo più critiche verso il governo, ma di un tipo di critica che va al di là delle differenze fra schieramenti e fra concezioni generali del bene pubblico. Che cosa non ci è piaciuto di questo governo? Che cosa non vorremmo più vedere nei prossimi mesi? Credo che queste cose si possano sintetizzare in due punti fondamentali.

Primo punto. Meno annunci, meno approssimazioni, meno personalismi dei ministri, meno marce indietro, in una parola: più fatti, meno parole.
Fa una gran brutta impressione la promessa di fare una riforma incisiva entro pochi mesi, e poi il solito temporeggiare, indietreggiare, rimodulare, demandare, delegare. Certe riforme si possono anche non fare, ma se dici di farle entro 3 mesi poi le devi fare, devi stare nei tempi, e devi farle sul serio. Se non sei in grado, meglio non fare niente. Dice nulla il fatto che lo spread sia migliorato nei primi mesi dell’anno, quando l’immagine riformatrice del governo era ancora intatta, e sia sistematicamente peggiorato quando si è capito - l’abbiamo capito tutti, e quindi anche i mercati che il governo, come avrebbe detto il buon Berlinguer, aveva perso la sua «spinta propulsiva»?

Secondo punto. Più autonomia dai partiti che lo sostengono. Sulle nomine, sul disegno di legge anti-corruzione, sui costi della politica, sulla riforma della pubblica amministrazione, il governo ha subito costantemente il condizionamento dei partiti. Come cittadino, io mi sento profondamente offeso e preso in giro da un governo che, presumibilmente per volere del ceto politico, non trova il coraggio di varare una norma che proibisce ai condannati definitivi di candidarsi alle elezioni del 2013. E come studioso di cose elettorali mi stupisco che i sondaggi assegnino a Beppe Grillo solo il 21% dei consensi. Siamo davvero un popolo paziente se alla politica consentiamo tutto, forse distratti dal campionato europeo di calcio.

Ma personalmente non credo che Grillo sia la soluzione. Grillo è un termometro, che ancora imperfettamente ma inesorabilmente registra l’aumento della febbre anti-partitica dell’elettorato. Per questo trovo incredibile che i partiti non se ne accorgano, e continuino a regalargli consensi che difficilmente saranno in grado di risolvere i problemi dell’Italia. E ancora più incredibile trovo il fatto che questo governo, che non è composto da politici in carriera (salvo qualche ministro che ci sta facendo un pensierino), non separi chiaramente le sue responsabilità da quelle dei partiti. Non solo sulle nomine, sui costi della politica, sui privilegi della casta, ma sulle cose che davvero possono cambiare la vita degli italiani, ossia su quelle riforme radicali di cui da vent’anni si parla e di cui lo stesso Monti era un convinto sostenitore finché parlava dalle colonne del "Corriere della Sera".

Ci dica, signor presidente del Consiglio, che cosa farebbe lei, e in quali tempi lo farebbe, se i partiti che la sostengono le dessero il permesso di farlo. Separi le sue responsabilità da quelle dei partiti, se non altro per un dovere di chiarezza e di trasparenza nei confronti dei cittadini. Usi la sua forza - la forza di essere difficile da sostituire con un’alternativa migliore - per fare quel che ritiene debba essere fatto per il bene dell’Italia. Come elettori, vogliamo sapere se quel che non si fa è perché lei non lo ritiene utile al Paese, o perché il ceto politico le lega le mani, o perché a remarle contro sono la burocrazia, le banche, la Confindustria, i sindacati.

Anziché lamentarsi più o meno cripticamente dei poteri forti che l’avrebbero abbandonata, ci dica che cosa lei farebbe e chi glielo impedisce.
A partire dal problema della eleggibilità dei condannati definitivi ma anche su tutto il resto (le riforme strutturali), che conta di meno sul piano morale ma conta di più sul piano pratico. Perché siamo in un periodo di grande confusione, di grande disorientamento, e proprio per questo abbiamo bisogno di sapere, di capire. La stampa può essere più o meno tenera con lei. Dentro il medesimo giornale lei troverà osservatori che la difendono ed osservatori che la criticano. Ma credo che tutti, senza distinzione, almeno un desiderio in comune ce l’abbiamo: più chiarezza. Chiarezza sulla rotta del nocchiero, notizie sui pirati che ne minacciano la navigazione.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10235


Titolo: LUCA RICOLFI - Molto rumore, ma restano gli sprechi
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2012, 10:24:43 am
8/7/2012

Molto rumore, ma restano gli sprechi

LUCA RICOLFI

Sproporzionate, a mio parere, sono le reazioni al decreto del governo per la “revisione” della spesa pubblica.
Certo, sul piano politico tutto va secondo copione. I sindacati denunciano l’attacco alla spesa sociale, il Pd e gli enti locali sono preoccupati per la probabile riduzione dei servizi, il Pdl è relativamente soddisfatto perché finalmente si preferisce tagliare la spesa piuttosto che aumentare le tasse. Qualche mese fa succedeva l’opposto: quando si aumentavano le tasse e non si toccava la spesa pubblica era il Pd ad essere relativamente soddisfatto, mentre il Pdl era freddino.

Ma se si va alla sostanza delle misure adottate, se si guarda al loro impatto complessivo, alla loro composizione, e soprattutto alla loro distribuzione nel tempo, le cose appaiono in una luce diversa, e molto più tenue.
Consideriamo, per cominciare, l’entità dei tagli, detti anche risparmi o razionalizzazioni. Il loro ammontare si aggira sui 10 miliardi l’anno. Non è pochissimo, e comunque è molto meglio del niente cui siamo abituati. E tuttavia rendiamoci conto che la loro incidenza sulla spesa pubblica complessiva, anche al netto della spesa pensionistica, è davvero modesta.
Una limatura del 2%, a fronte di un tasso di spreco che è almeno del 20%. Un tasso di spreco del 20% significa che, se la Pubblica amministrazione funzionasse ovunque come funziona nelle Regioni, nelle Province e nei Comuni meglio organizzati, il risparmio che si otterrebbe sarebbe di 100 miliardi l’anno, ossia 10 volte superiore a quello che il marziano Bondi ha pianificato di qui al 2014. Chi critica l’entità della manovra sembra non rendersi conto che, se dovesse avere pieno successo, inciderebbe solo sul 10% degli sprechi, lasciando intoccato il restante 90%.

C’è poi il capitolo della composizione. Qui è inutile che ci si scagli contro i “tagli lineari”. I tagli del governo non sono affatto lineari (cioè proporzionali o uniformi per tutte le amministrazioni), tanto è vero che ci sono enti che vengono soppressi ed enti che vengono salvati, ci sono criteri che determineranno chiusure di strutture in determinati posti e non in altri, ci sono ministeri che dovranno tagliare di più e ministeri che dovranno tagliare di meno. I dubbi, semmai, riguardano la razionalità dei criteri adottati, e la capacità di metterli in atto. E’ presto per valutare un dispositivo molto complesso e in parte ancora aperto a correzioni e messe a punto, però mi sembra che alla spending review come si è configurata fin qui manchino due requisiti fondamentali.

Primo requisito: poiché gli sprechi sono concentrati in alcuni territori (non tutti al Sud ma prevalentemente al Sud), e poiché gli enti territoriali virtuosi (non tutti nel Nord ma prevalentemente nel Nord) sono piuttosto vicini alla “frontiera di efficienza”, ossia ai modelli organizzativi che consentono i maggiori risparmi, qualsiasi intervento di razionalizzazione deve concentrare i risparmi là dove esistono le condizioni per attuarli, ossia nei territori e negli enti più lontani dalla frontiera di efficienza. Se tale concentrazione non si verifica, vuol dire che l’intervento è guidato da criteri politici, non da criteri di razionalità economica.

Un criterio molto prudente di valutazione suggerisce che, poiché il tasso di spreco del Mezzogiorno è mediamente (ossia con le dovute eccezioni) almeno il triplo di quello del Centro-Nord, i sacrifici richiesti al Centro-Nord dovrebbero essere non più di un terzo di quelli richiesti alle regioni del Sud. Altrimenti l’intervento è iniquo, perché colpisce chi ha già dato. Attendo i dati definitivi per capire se la spending review rispetti questo requisito minimo (necessario, anche se non sufficiente) di giustizia e razionalità o sia, invece, guidata da criteri politico-contabili come tutte le manovre sulla spesa che l’hanno preceduta.
Secondo requisito: la revisione della spesa deve essere attuabile. Per attuabile non intendo solo capace di dare i risparmi previsti, ma capace di non ridurre i servizi erogati ai cittadini. Su questo le preoccupazioni del Pd e dei sindacati mi paiono giustificate. Però, attenzione. Se si accetta il principio che esistono degli sprechi, che sono ingenti, e che andrebbero eliminati, allora ci si deve porre il problema che si poneva Giulio Tremonti in uno dei suoi fortunati libri: il “comando” nella Pubblica amministrazione.

Comando significa che, quando una struttura non funziona perché inefficiente, ci deve essere un responsabile con poteri analoghi a quelli dell’imprenditore nel settore privato: potere di riorganizzare, spostare personale, licenziare quando è necessario. Oggi, per com’è la legge, per come sono i sindacati, per com’è la mentalità del pubblico impiego, per come funziona la magistratura, tutto questo è impossibile. Anche un semplice trasloco dei mobili da un ufficio a un altro situato a 200 metri, anche la riparazione di un termosifone che non funziona, anche l’attivazione di un servizio come internet, comporta una rete di mediazioni, colloqui e negoziazioni estenuante, come sa chiunque lavori in un’amministrazione pubblica. E qualsiasi atto di autorità, anche piccolo, è disincentivato dal costo delle reazioni di chi lo subisce, reazioni che vanno dalla mera non-collaborazione, all’azione sindacale, al ricorso ai tribunali amministrativi. I dirigenti della Pubblica amministrazione spesso non sono soggetti ammirevoli per dedizione e capacità, ma fondamentalmente sono figure erose da una ininterrotta esperienza di impotenza, o meglio di potere negativo: possono bloccare quasi tutto, ma non sono in condizione di riorganizzare quasi niente.

Ci sarebbe, per finire, da dire qualcosa sui tempi della manovra, anche per rassicurare i sindacati. Se si guardano attentamente le cifre, non sembra che – almeno per quest’anno – la spesa pubblica sia destinata a diminuire sensibilmente come conseguenza della spending review: i tagli sono inferiori ai 4 miliardi (3.7 secondo i calcoli del Sole – 24 ore). Quanto al 2013, accanto a tagli per 10.5 miliardi, sono previsti quasi altrettanti miliardi per una miriade di nuove spese: gratuità libri di testo, università private, diritto allo studio, 5 per mille, emergenza Nordafrica, strade sicure, missioni di pace, autotrasporto, esodati, terremotati. Alla fine, la riduzione della spesa pubblica per l’intero 2013 potrebbe essere ancora minore di quella, già modesta, prevista per i 6 mesi scarsi che mancano alla fine del 2012. Del 2014 è inutile parlare: tutte le manovre tagliano poco subito, e promettono che i tagli li faranno in futuro, ma di fatto nessun governo ha mai mantenuto tutti gli impegni di riduzione della spesa che aveva messo a bilancio per tre anni dopo. Il governo attuale non farà eccezione, se non altro perché nel 2014 ci sarà un altro governo.

Insomma, tranquillizziamoci un po’. La realtà è che, ogni anno, per un’infinità di motivi (compresi i terremoti e gli errori di calcolo dei ministri), nascono nuove spese. La “revisione della spesa” serve, innanzitutto, a trovare i soldi per finanziare le nuove spese. Quanto alla riduzione delle tasse sui produttori, agli stimoli all’economia, e a tutta la retorica del “rilancio della crescita”, non facciamoci illusioni: i governi fanno quello che possono (cioè quasi niente) perché se facessero quello che devono, ossia aggredire gli sprechi e la disorganizzazione dei servizi pubblici, non resisterebbero un giorno di più, travolti dalle reazioni delle lobby, dei partiti, dei sindacati, degli enti locali, dei cittadini più o meno organizzati e più o meno indignati.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10308


Titolo: LUCA RICOLFI - L'irresistibile inadeguatezza della politica
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2012, 04:39:37 pm
23/7/2012 - IL DOPO-MONTI

L'irresistibile inadeguatezza della politica

LUCA RICOLFI

Credo che la maggior parte dei cittadini non abbia ancora capito. Per non parlare dei politici, dei sindacalisti, dei rappresentanti di associazioni e gruppi. A giudicare dalla spensieratezza con cui si va in vacanza, si segue il calcio mercato, si discetta di sistemi elettorali, ci si infervora sui matrimoni gay e sulle dimissioni della Minetti, si direbbe che siano davvero pochi gli italiani che si rendono conto di quanto è drammatico questo momento.

E allora proviamo a riassumere. Nessuno sa quanto è probabile che l’euro crolli, o che lo Stato italiano fallisca e ci trascini tutti nel baratro. Però questa eventualità, che era decisamente remota fino a qualche tempo fa, ora non è più trascurabile. Può succedere. Speriamo di no, ma può succedere. Questa settimana, o fra un mese, o fra un anno.

Non è inutile ricordare che cosa l’eventualità di un default si porterebbe dietro. Primo: una considerevole erosione dei propri risparmi, per chi ne ha; un crollo del valore degli immobili; l’impossibilità – in caso di necessità – di venderli a un prezzo decente.

Secondo: un taglio dell’importo delle pensioni, per chi non lavora più; difficoltà di conservare il posto di lavoro, per operai e impiegati; difficoltà di tenere aperte attività economiche, per imprenditori, commercianti, artigiani.

Terzo: riduzione della quantità e della qualità delle cure, per i malati; per tutti, problemi di approvvigionamento energetico, perché benzina, riscaldamento, luce elettrica scarseggerebbero e costerebbero di più.

Qui mi fermo, perché non è il caso di infierire. Ma il menù è questo. Le dosi possono variare, le portate – ovvero i guai – possono essere abbondanti o striminzite, ma questo è il genere di eventi che accompagnano un default.

Ebbene, di fronte a tutto questo – che fortunatamente non è né certo né probabile, e tuttavia sta diventando sempre più possibile – le forze politiche paiono avere completamente smarrito il senso della misura, delle proporzioni, o meglio ancora delle priorità. Ogni giorno ci riserva la sua piccola bega, fra partiti ed entro i partiti, e pochissimi paiono rendersi conto che ci siamo di nuovo pericolosamente avvicinati al baratro.

Da qualche giorno si riparla della possibilità di votare subito, ad ottobre, e non sappiamo ancora nulla. Non sappiamo se dovremo rivotare con le liste bloccate del “porcellum” oppure ci sarà una nuova legge elettorale. Non sappiamo se chi ha condanne definitive potrà essere eletto in Parlamento. Non sappiamo quali saranno le forze politiche in campo. Non sappiamo che alleanze faranno i partiti. Non sappiamo chi saranno i candidati premier. Ma soprattutto non abbiamo ancora ascoltato alcuna proposta precisa in materia di politica economica, salvo quella dei cosiddetti montiani, che propongono di andare avanti così, completando le riforme dell’agenda Monti.

Eppure, come elettori, avremmo diritto di sapere come le principali forze politiche del paese intendono evitare il default e, se possibile, riavviare un minimo di crescita economica. Ma attenzione, quando dico che avremmo il diritto di sapere, non mi riferisco ai soliti elenchi di impegni generici, velleitari, o privi di copertura finanziaria. Oggi meno che mai, come elettori, possiamo accontentarci del consueto minestrone elettorale: crescita, coesione sociale, equità, sgravi fiscali, lotta all’evasione fiscale, riduzione degli sprechi, federalismo, rilancio del mezzogiorno. I progetti delle forze politiche che si candidano a governare il paese dovrebbero essere dettagliati e finanziariamente sostenibili, e soprattutto chiari nel loro rapporto con quel che Monti ha fatto fin qui. Non sono fra quanti pensano che Monti abbia fatto il massimo possibile, e anzi ritengo che abbia commesso qualche notevole sbaglio. Ma mi spaventa di più la completa mancanza di analisi credibili da parte delle forze che lo criticano, o lo sostengono fra mille distinguo e prese di distanza. Né Bersani, né Alfano, né Grillo – leader delle tre principali forze in campo – sono stati finora capaci di offrire una alternativa convincente, ossia chiara ed articolata, alla linea del professore. Quel che si intuisce è soltanto che Grillo non esclude il ritorno alla lira, ad Alfano non sono piaciuti gli aumenti delle tasse, a Bersani non sono piaciute le riduzioni di spesa. Quanto al partito di Montezemolo, l’unica lista che potrebbe competere con le tre forze maggiori, non si sa neppure se sarà presente alle prossime elezioni.

Forse è anche per questo – perché capiamo che i suoi critici farebbe meno e peggio – che sempre più insistentemente si sente parlare di una lista Monti, o di una continuazione del montismo con altri mezzi. E forse è per lo stesso motivo che, talora, Monti si lascia andare ad atteggiamenti da salvatore della patria, da uomo di stato che – diversamente dai politici politicanti – non pensa alle prossime elezioni ma alle prossime generazioni (vedi dichiarazioni di ieri nella sua visita in Russia).

Il dramma delle prossime elezioni, siano quest’autunno o siano questa primavera, è proprio questo. L’Italia avrebbe bisogno di un governo politico, dotato di visione, di coraggio e di legittimazione elettorale, che la portasse fuori dalla palude in cui si è cacciata. Ma il ceto politico vecchio e nuovo appare così debole, così incosciente, così inconcludente e cialtrone, che in molti cominciamo a pensare che, tutto sommato, un nuovo governo Monti sarebbe meglio che riconsegnarci a forze politiche che non saprebbero dove portarci. Con una piccola complicazione, però: che i governi li fa il parlamento, e tutto fa pensare che il nuovo parlamento non sarà molto migliore di quello che ci lasceremo alle spalle.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10362


Titolo: LUCA RICOLFI. Diversamente Montiani
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2012, 06:56:32 pm
15/8/2012

Diversamente Montiani

LUCA RICOLFI

E’ ormai chiaro a tutti che, alle prossime elezioni politiche, il discrimine principale sarà il giudizio sull’operato del governo Monti.
Le forze politiche che criticano Monti «senza se e senza ma» sono almeno quattro: Lega Nord (Maroni), Italia dei valori (Di Pietro), Movimento Cinque Stelle (Beppe Grillo), Sinistra Ecologia Libertà (Vendola). Insieme, secondo i sondaggi degli ultimi mesi, sono in grado di attrarre oltre il 40% dei voti. Se aggiungiamo i nostalgici del fascismo e del comunismo, il fronte delle liste anti-governo (e spesso anche: anti-euro, anti-Europa, anti-austerità) arriva al 45%.

E dall’altra parte?
Dall’altra parte, sul fronte dei non-ostili a Monti, per ora troviamo i tre partiti che appoggiano il governo (Pdl, Pd, Udc), che attirano sì e no il 50% dei voti, più un certo numero di piccole formazioni politiche, più o meno visibili e più o meno ben rappresentate in Parlamento.

In teoria le forze non-ostili al governo prevalgono ancora su quelle ostili, però il problema è che il loro giudizio sul governo Monti è estremamente articolato, per usare un eufemismo. E anche ove allargassimo il quadro, immaginando che scendano in campo nuovi soggetti e nuove liste (Montezemolo, Marcegaglia, Giannino…), lo spettro dei giudizi sul governo resterebbe molto ampio, probabilmente ancora più ampio di come si presenta attualmente. Insomma, il fronte dei non-ostili può anche arrivare al 55% dei consensi, ma è profondamente diviso al suo interno.

Ma da che cosa dipende tale divisione?
In parte da ragioni ovvie. Dentro il fronte dei non-ostili ci sono il principale partito di destra (Pdl), il principale partito di sinistra (Pd), il principale partito di centro (Udc). E’ come dire che la spettacolare crescita del fronte anti-Monti (e segnatamente del movimento di Beppe Grillo) ha compresso e confinato la naturale dialettica destra-sinistra entro una piccola porzione dello spazio politico: il 55% dei voti validi, corrispondenti al 40% del corpo elettorale, tenuto conto di astensioni, schede bianche e schede nulle. Ciascuno di questi partiti, in campagna elettorale, non potrà che presentarsi secondo la formula «montiano sì, ma a modo mio», se non altro perché altrimenti non saprebbe come chiedere per sé stesso anziché per uno degli altri due partiti (attualmente) alleati.

C’è tuttavia anche una ragione non strettamente politica, più seria e più profonda, per cui il fronte montiano è diviso. E questa ragione è che le forze che sostengono, o comunque apprezzano almeno in parte, l’azione del governo Monti non condividono la medesima diagnosi sui mali dell’Italia e – non condividendo la diagnosi – tendono a divergere anche nella terapia. Ne è una testimonianza l’aspra battaglia che, giusto in questi giorni, infuria fra economisti sul modo migliore di ridurre il debito pubblico. E se anche stiamo al solo dibattito sulla politica economica, non è affatto chiaro che cosa «essere montiani» possa significare oggi, e tantomeno domani in campagna elettorale. Perché se togliamo alcuni punti fissi importanti ma davvero minimali – il non ritorno alla lira, l’ancoramento alle istituzioni europee, un minimo di disciplina fiscale, una certa sobrietà nello stile di governo –, sulla maggior parte del resto non esiste una «Agenda Monti», ma ne esistono più di una. Certo, fra le molte agende Monti possibili, ce n’è una che è la più ovvia perché la più conforme all’originale: andare avanti così. Ma nessuno, forse nemmeno l’Udc, la sottoscriverebbe senza riserve: perché l’azione del governo Monti è sì fatta di scelte coraggiose, ma è anche costellata di errori, marce indietro, timidezze, promesse non mantenute (che ne è dei pagamenti della Pubblica amministrazione alle imprese?).

Con questo non voglio dire che ci siano tante agende Monti quanti sono gli economisti di questo Paese, però – anche solo a leggere la stampa specializzata – di punti controversi, su cui bisognerà pronunciarsi per costruire un’agenda coerente, ve ne sono parecchi, che ridurrei ad almeno tre.

Il primo, forse il più importante, è come ritornare alla crescita. C’è chi pensa che senza una drastica riduzione delle tasse sui produttori (Irap e Ires innanzitutto), proseguirà lo smantellamento dell’apparato produttivo dell’Italia, e che per permettere tale riduzione non si possa che tagliare la spesa pubblica di alcuni punti di Pil. E c’è chi pensa, tutto all’opposto, che i nostri problemi siano essenzialmente problemi di domanda: per tornare a crescere occorre ridurre le tasse sulle famiglie, sostenere i consumi interni, varare progetti infrastrutturali (anche a livello europeo), limitare i tagli alla Pubblica amministrazione. Su questo va in scena il classico duello fra liberali e keynesiani.

Il secondo punto controverso, in parte connesso al precedente, è come agire sul nostro immane debito pubblico. Qui, dentro lo stesso fronte montiano, le proposte si sprecano: super-patrimoniale una tantum, patrimoniale leggera ma permanente, consolidamento più o meno esplicito del debito, vendita delle aziende pubbliche, dismissioni immobiliari, solo per richiamare alcune delle idee in campo. Su questo terreno, il punto chiave – il punto che divide – è su chi far pesare il conto di mezzo secolo di dissennatezze della classe politica: sul ceto medio-alto (patrimoniale), sui detentori di titoli pubblici (consolidamento), o sullo Stato e gli Enti locali (dismissioni).

Il terzo punto può sembrare accademico, ma lo è solo apparentemente. Nel fronte montiano convivono due diagnosi diverse sul funzionamento dei mercati finanziari. Da una parte l’ortodossia montiana, secondo cui i mercati non rispecchiano adeguatamente i fondamentali delle economie, e vanno quindi corretti attraverso gli strumenti di cui la politica può dotarsi: Banca Centrale Europea, scudo anti-spread, fondi salva-Stati, Tobin tax. Dall’altra l’idea – montiana anch’essa, ma del Monti professore – che quelli dei mercati siano segnali utili, e che la via maestra per correggere i mercati non sia deplorarli o imbrigliarli, ma rimettere a posto i fondamentali. E’ perché ci sono queste due visioni del funzionamento dell’economia, e non perché ci sono la destra e la sinistra, che l’altalena dello spread riceve sistematicamente due letture diverse. Ed è perché tali diverse visioni comportano linee d’azione a loro volta diverse che anche questo è un punto di frattura rilevante nel fronte montiano.

Se questo è il panorama, non è dei più confortanti per i cittadini-elettori. Chi detesta Monti e non teme il salto nel buio di una politica anti-europea, dovrà solo scegliere se dare il suo voto a un partito-zattera, pieno di vecchie glorie, come presumibilmente saranno Lega, Italia dei valori, e forse anche il partito di Vendola, oppure a un partito-novità, necessariamente pieno di outsider, come non potrà non essere la lista di Grillo. Ma chi apprezzasse qualcosa del governo Monti, o semplicemente diffidasse della gioiosa macchina da guerra dei nemici di Monti, dovrebbe fare i conti con la triste realtà che abbiamo provato a descrivere: solo la nostra distrazione, nonché la buona educazione dei protagonisti, riescono a nascondere la cacofonia di voci – e di ricette di politica economica – che si leva dal vasto fronte di quanti aspirano a raccogliere l’eredità di Monti

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10429


Titolo: LUCA RICOLFI - Come nel 1994 lo scontro sarà tra vecchi e nuovi
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2012, 11:59:32 am
3/9/2012 - LE PROSSIME ELEZIONI

Come nel 1994 lo scontro sarà tra vecchi e nuovi

LUCA RICOLFI

È difficile che si voti a novembre, ma è praticamente certo che a novembre comincerà la bagarre. Mentre il povero Monti, come succede a fine anno a qualsiasi presidente del Consiglio, sarà alle prese con i problemi dei conti pubblici, i partiti avranno tutti la testa già rivolta alle elezioni di primavera. Ogni gesto, ogni dichiarazione, ogni parola sarà finalizzata ad attirare il maggior numero di voti possibile.

A tutt’oggi, tuttavia, noi elettori siamo all’oscuro di tutto. Non sappiamo, ad esempio, quanti parlamentari dovremo eleggere. Non sappiamo se i condannati con sentenza definitivapotrannoesserecandidati oppure no. Non sappiamo con quale legge elettorale si voterà. Non sappiamo quante e quali liste saranno in campo. Anche se non sappiamo nulla, possiamo però fare qualche previsione. Io ne azzardo alcune, dalla più facile alla più difficile.

Numero di parlamentari: l’auspicata riduzione non ci sarà, penso abbia ragione Arturo Parisi quando dice che i continui rinvii dell’accordo sulla legge elettorale siano stati finalizzati all’obiettivo nascosto di rendere impossibile (con la scusa che «è troppo tardi, ormai») unariformapiùorganica,cheriduca il numero di parlamentari.

Candidabilità dei condannati: sarà perfettamente possibile candidare al Parlamento un condannato con sentenza definitiva. In questo modo il nostro Parlamento potrà conservare un primato cui evidentemente tiene molto: quello di essere l’istituzione con la massima densità di soggetti condannati e rinviati a giudizio.

Legge elettorale: se non sarà il porcellum (legge attuale), sarà il super-porcellum (legge attualmente in discussione), ossia l’unico sistema capace di sommare i difetti del proporzionale e i difetti del maggioritario. La legge di cui si parla da settimane, infatti, gode di tre interessanti proprietà: permette ai segretari di partito di scegliere a tavolino una frazione considerevole degli eletti, a prescindere dalle scelte degli elettori; non consente ai cittadini di sapere, la sera delle elezioni, chi le ha vinte e chi le ha perse (si torna ad accordi fatti in Parlamento, come nella prima Repubblica); distorce la rappresentanza, nel senso che, con il premio di maggioranza, conferisce al partito più grande molti più seggi di quanti ne merita in base al voto e, con la soglia di sbarramento al 5%, toglie molti seggi ai partiti più piccoli.

Numero delle liste: saranno tantissime, come sempre, ma quelle «vere», ossia con ragionevoli chances di superare il 5% dei consensi, saranno solo 7.

Quali liste: qui viene il bello. Secondo me lo schema delle prossime elezioni sarà un 4 + 3 + «fricioletti» (pescetti fritti, come il mio maestro Luciano Gallino chiamava i libri che una biblioteca seria non dovrebbe mai ordinare, perché costano e durano poco).

Ci saranno quattro formazioni che, se non sbagliano clamorosamente strategia e se non sono cannibalizzate dalle liste di disturbo, possono aspirare a un risultato non lontano dal 20%. Due di esse, Pdl e Pd, sono vecchie ma si presenteranno con sigle più o meno rinnovate, il Pdl con un nome e un simbolo nuovi, il Pd con qualche segno che indichi l’annessione di Sel e di Vendola al super-partito della sinistra. Le altre due liste sono nuove di zecca, e sono il movimento di Grillo (Cinque Stelle) e quello nascente di Montezemolo (Italia Futura), più o meno ibridato con movimenti di ispirazione simile.

Ci saranno poi tre formazioni che possono aspirare a qualcosa più del 5%, e cioè l’Udc, l’Italia dei Valori e la Lega, anch’esse più o meno riverniciate e restaurate per non sembrare troppo vecchie.

E infine i fricioletti, almeno 20 liste e listarelle (alcune di nobili tradizioni, altre inventate per l’occasione), implacabilmente destinate a restare sotto il 5%, quando non sotto l’1%.

Quel che è interessante, però, è il tipo di competizione politica che si prepara. Potrò sbagliare, ma a mio parere quel che sta accadendo nell’elettorato italiano è molto simile a quel che accadde venti anni fa, nel periodo di sbriciolamento non solo delle istituzioni ma anche delle strutture mentali della prima Repubblica. Fra il 1992 e il 1994 diminuì drasticamente la quota di italiani che ragionavano prevalentemente in termini di destra e sinistra, e aumentò sensibilmente la quota di quanti ragionavano in termini di vecchio e nuovo. Ci fu un momento, anzi, in cui questo gruppo risultò più numeroso del primo. Oggi sta succedendo qualcosa di molto simile.

Gli elettori che andranno al voto si divideranno, innanzitutto, fra chi è ancora disposto a scegliere una forza politica tradizionale e chi invece preferisce puntare su una forza nuova. I primi, i «vecchisti», potranno comodamente ragionare in termini di destra e sinistra, scegliendo una fra le tre opzioni disponibili: Pdl, Udc, Pd, i tre partiti che hanno sostenuto il governo Monti. I secondi, i «nuovisti», dovranno invece abituarsi a ragionare in termini molto diversi, perché l’offerta politica delle due principali liste nuove è molto più polarizzata: da una parte c’è l’anticapitalismo anti-euro e antiEuropa di Grillo, dall’altra c’è il turbo-liberalismo di Italia Futura e dei gruppi ad essa vicini, come «Fermare il declino» di Oscar Giannino. Qui destra e sinistra c’entrano davvero poco, quel che conta - e divide - sono le ricette per affrontare la crisi: con meno Europa e meno ceto politico se voti Grillo, con meno tasse e meno Stato se voti Montezemolo. E dintorni.

Sono due modi di porre i problemi che, in questo periodo, hanno entrambi un grande appeal. I sondaggi mostrano da almeno cinque anni che le spinte anti-partitiche e i dubbi sull’Europa sono molto radicati nell’elettorato. Ma un interessante sondaggio di Renato Mannheimer di qualche tempo fa segnalava anche un’altra e assai meno nota novità: per la prima volta da molti anni sono più gli italiani che si preoccupano dell’eccesso di tasse che quelli che si preoccupano di salvare lo Stato sociale.

Insomma, se fossi il leader di una forza politica tradizionale sarei preoccupato, molto preoccupato. La forza d’urto dell’onda anti-partiti potrebbe essere assai forte, specie sotto l’ipotesi Ber-Ber: un Pd guidato da Bersani (l’usato sicuro) e un Pdl guidato da Berlusconi (lo strausato insicuro). E molto mi sorprende che, quando si parla di premio di maggioranza, se ne discuta come se potesse andare solo al Pd o al Pdl, o addirittura come se la corazzata Bersani-Vendola avesse già la vittoria in tasca. Se fossi Bersani non sottovaluterei né l’area Montezemolo né quella di Grillo, specie nella sciagurata eventualità che i partiti continuino a restare insensibili al «grido di dolore» che, da tanti anni e da tante parti d’Italia, i cittadini levano contro la politica e i suoi indistruttibili, irrottamabili, rappresentanti di sempre.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10485


Titolo: LUCA RICOLFI - Perché da noi il salvataggio è impossibile
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2012, 10:12:00 pm
11/9/2012

Perché da noi il salvataggio è impossibile

LUCA RICOLFI

Come si fa a non stare dalla parte dei lavoratori dell’Alcoa? Non è certo colpa dei salari operai se la multinazionale americana sta chiudendo alcuni stabilimenti non solo in Sardegna, ma in Europa (dismissioni sono in corso anche in Spagna).

Ma la vera domanda viene a questo punto: posto che una volta tanto il costo del lavoro, la produttività, l’assenteismo, gli scioperi non
c’entrano nulla, che cosa si può fare?

Per rispondere bisogna ricapitolare alcuni dati di fondo della situazione dell’Alcoa. Lo stabilimento sardo di Portovesme finora è rimasto in Sardegna per due ragioni di fondo. Primo, perché la domanda di alluminio non era fiacca come oggi.

Secondo, perché lo Stato italiano, che fa pagare l’energia uno sproposito (+30% rispetto alla già alta media europea) all’Alcoa concedeva tariffe superagevolate, naturalmente facendole pesare sulla bolletta di tutti noi, famiglie e imprese che pagano l’energia elettrica a prezzo pieno. Questo avveniva per ragioni puramente politiche, ossia per salvare voti e posti di lavoro, o meglio per salvare voti pagandoli in posti di lavoro. Ma pagandoli quanto? Un calcolo molto rozzo, basato sulla spesa totale negli ultimi 15 anni e sul numero di posti di lavoro salvati, suggerisce che ogni posto di lavoro sia costato ai contribuenti circa 200 mila euro l’anno. Una follia, vista la leggerezza delle buste paga degli operai.

Ora le autorità europee hanno stabilito che quelli erano aiuti di Stato (si vedeva a occhio nudo, ma abbiamo finto di dover attendere un pronunciamento ufficiale) e la multinazionale americana ha capito che non c’è più trippa per gatti. Smantellerà un po’ di stabilimenti in Europa, e ne costruirà uno megagalattico in Arabia Saudita, ovvero in un posto dove è più conveniente produrre.

Ora torniamo alla nostra domanda di partenza. Che cosa si può fare?

Mi spiace essere crudo, ma la sola risposta che mi sento di dare è: niente. O meglio: molto di assistenziale e nulla di industriale. Siamo in Europa, e gli operai che perdono il lavoro hanno diritto a qualche forma di sostegno del reddito, e a essere aiutati nella ricerca di un posto di lavoro nuovo. Ma non raccontiamoci la fiaba che spingere un’azienda straniera a produrre in perdita sul nostro suolo sia «politica industriale», o sia una scelta razionale. La realtà è che produrre in Europa è sempre meno conveniente, per l’incredibile matassa di vincoli e regolamenti che ci siamo dati negli anni. E in alcuni paesi europei, fra cui l’Italia, l’energia (in particolare elettrica) costa troppo, come ha giustamente fatto notare il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi.

Il guaio, tuttavia, è che quello dell’energia è solo un sovraccosto del produrre in Italia, uno dei tanti. Accanto all’energia ce ne sono innumerevoli altri: tempi della giustizia, tempi di pagamento della Pubblica Amministrazione, adempimenti burocratici, corruzione, prestiti bancari, tasse sul lavoro, tasse sulle imprese. Per questo, a partire da oggi, «La Stampa» - insieme con la Fondazione «David Hume» - proporrà una serie di dossier sui sovraccosti del produrre in Italia, con l’obiettivo di costruire - alla fine - un super-indice che possa dare un’idea quantitativa di qual è il sovrapprezzo che un’impresa deve pagare per operare in Italia anziché in un altro paese appartenete all’Ocse, l’organizzazione che riunisce le 34 economie più sviluppate del pianeta.

Io capisco che, non essendoci un solo euro in cassa e non riuscendo a tagliare né i costi della politica né gli sprechi, i nostri governanti siano affezionati all’idea delle riforme a costo zero. Ma mi permetto di metter loro una pulce nell’orecchio: se vogliamo che la gente torni a trovare lavoro non c’è riforma a costo zero capace di raggiungere l’obiettivo in tempi ragionevoli. Le riforme che costano nulla vanno fatte senz’altro e prima possibile, ma è ingenuo illudersi che possano bastare se non si abbassa - e di molto - il costo del produrre in Italia.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10512


Titolo: LUCA RICOLFI - Che cosa blocca il Paese
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2012, 11:17:32 am
14/9/2012

Che cosa blocca il Paese

LUCA RICOLFI

Ultimamente, non posso nasconderlo, mi è capitato più volte di provare un moto di solidarietà, o quantomento di comprensione, per le cosiddette «parti sociali», Cgil e Confindustria innanzitutto.

Che cosa sta succedendo, infatti?

Da alcune settimane sta succedendo che il nostro governo, resosi conto di aver usato la mano troppo pesante sull’economia e di non avere alcuna risorsa, tesoretto o altro da mettere sul piatto, sta caricando sulle parti sociali – sindacati e organizzazioni degli imprenditori – una responsabilità molto maggiore di quella che sindacati e industriali possano assumersi. L’invito a mettersi d’accordo per aumentare la competitività dell’Italia («dobbiamo abbattere lo spread della produttività») è solo il punto di approdo di una strategia comunicativa che va avanti da tempo. Prima c’era stata l’imperiosa esortazione del ministro Fornero agli imprenditori a investire («noi abbiamo fatto la nostra parte, ora tocca a voi»). Poi, alla Fiera del Levante, l’invito del premier a «cambiare mentalità». E infine, giusto ieri, l’attacco di Monti allo Statuto dei lavoratori, che avrebbe danneggiato la creazione di posti di lavoro.

Anche se Monti ha detto una cosa al limite della banalità, ovvia per qualsiasi studioso non troppo ideologizzato, capisco la reazione di Susanna Camusso, secondo cui le parole del premier sono «la dimostrazione che questo governo non ha idee su sviluppo e crescita» e ormai «ha esaurito la spinta propulsiva». Capisco la reazione perché essa rivela uno stato d’animo che, a mio parere, non è di una singola parte sociale, ovvero la Cgil o il mondo sindacale, ma è di tutto il mondo del lavoro, sindacati, imprenditori, artigiani, partite Iva, insomma di chiunque stia sul mercato. Nessuno lo dice esplicitamente, perché Monti è una persona seria e rispettata, ma l’impressione è che le parti sociali si sentano prese un po’ in giro. Dopo aver detto peste e corna della concertazione, il governo le convoca e le invita a concertare per salvare il Paese, come se un accordo fra Confindustria e sindacati sulla produttività potesse dare un contributo decisivo a farci uscire dalla crisi.

A mio modesto parere le perplessità delle parti sociali sono largamente giustificate. E’ chiaro che ogni accordo sulla produttività è benvenuto, e saremo grati a Confindustria e sindacati se ne troveranno uno efficace. Ma la dura realtà è che le parti sociali, anche impegnandosi al massimo, anche rinunciando a ogni egoismo, possono fare pochissimo. L’espressione stessa «produttività del lavoro» è profondamente fuorviante. Suggerisce che il prodotto dipenda essenzialmente dall’impegno dei lavoratori, e che la scarsa produttività sia dovuta a impegno insufficiente, scarsa meritocrazia, cattivi incentivi. Non è così. La produttività è bassa e stagnante innanzitutto perché il sistema Italia ha dei costi smisurati, che nessun governo è stato in grado fin qui di rimuovere.

Costi degli input del processo produttivo, innanzitutto. Facciamo un esempio concreto e di estrema attualità: il caso di un’azienda che ha un grande input di energia elettrica, e che non è sussidiata come Alcoa. Qual è il suo valore aggiunto? Poiché il valore aggiunto è la differenza fra i ricavi e i costi, il fatto di pagare l’energia 100 anziché 50 dilata i costi e contrae il valore aggiunto. Ma la produttività non è altro che il valore aggiunto per occupato, quindi il fatto di pagare l’energia uno sproposito abbassa la produttività del lavoro, e questo a parità di impegno dei lavoratori. Lo stesso discorso potrebbe essere ripetuto per decine di altre voci di costo delle imprese italiane (assicurazioni, burocrazia, prestiti bancari, etc.), che fanno lievitare i costi e quindi abbattono la produttività. Anche per questo «La Stampa» e la Fondazione David Hume stanno conducendo la loro inchiesta su «Che cosa soffoca l’Italia».

Non è tutto, purtroppo. La produttività dipende anche dai macchinari e dalle tecnologie con cui i lavoratori operano. Cento operai con macchine moderne producono più pezzi che cento operai con macchine obsolete. Cento impiegati con una contabilità ben informatizzata sbrigano più pratiche di cento impiegati che usano ancora la carta, o che lavorano con un software di bassa qualità. Ma le tecnologie dipendono dagli investimenti, e gli investimenti li fanno gli imprenditori, non gli operai e gli impiegati di cui pretendiamo di misurare la produttività. Ha dunque ragione il ministro Fornero che invita gli imprenditori a fare la loro parte investendo di più?

Direi proprio di no, anche gli imprenditori hanno molte ragioni per essere irritati. Non tanto per l’insufficienza di sgravi e incentivi agli investimenti in ricerca e sviluppo, bensì per la elementare ragione che per investire ci vogliono due condizioni: una domanda che tira e un regime fiscale che lasci ai produttori una quota ragionevole del loro profitto. Invece la domanda va malissimo in quasi tutti i settori, e la tassazione del profitto commerciale in Italia (68.6%) è fra le più alte del mondo, ed è addirittura la più alta fra quelle dei 34 Paesi appartenenti all’Ocse, l’organizzazione che riunisce le economie avanzate.

La realtà, purtroppo, è che la crescita dipende dalla produttività, ma la produttività dipende pochissimo dalla buona volontà delle parti sociali e moltissimo dai costi che i produttori sono costretti a sostenere, essenzialmente costi degli input e costi fiscali. Su questo fronte, purtroppo, l’azione del governo ha peggiorato e non migliorato la vita a chi produce ricchezza. Può darsi che non si potesse fare diverso. Ma come stupirsi se alle parti sociali suona un po’ strano che, dopo essere state vessate «per salvare il Paese», ora si faccia intendere che a salvarci debbano essere proprio loro, e che per la salvezza possa essere decisivo un accordo sulla produttività.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10527


Titolo: LUCA RICOLFI - Le due mosse che svelano chi è Renzi
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2012, 04:31:48 pm
16/9/2012

Le due mosse che svelano chi è Renzi

LUCA RICOLFI

A Matteo Renzi, ultimamente, vengono rimproverate un mucchio di cose, ma soprattutto una: la tendenza a glissare sui contenuti, sulle proposte programmatiche, sulle cose concrete che farebbe se diventasse presidente del Consiglio.
Pochi giorni fa, ad esempio, sul «Corriere della Sera» Antonio Polito lo ha invitato a prendere posizioni precise su nove punti, fra cui alcuni della massima importanza (ad esempio: come farà a ridurre il debito pubblico di 400 miliardi in soli 3 anni?). Renzi, nella risposta, svicola con un espediente retorico: «Se rispondo punto per punto mi accuseranno di essere rimasto fermo al tempo in cui partecipavo ai telequiz».

Anche nel discorso di Verona, in cui annuncia la sua candidatura a premier, liquida quasi con fastidio l’idea di doversi soffermare sui programmi, definiti un po’ spregiativamente come «lista della spesa». E rimanda gli appassionati di contenuti a una «bozza di programma on line», aperta alla discussione. Come dire: se proprio volete annoiarvi, trovate tutto lì.
Finora questa reticenza di Renzi aveva lasciato perplesso anche me. Poi però ho deciso di ascoltare tutto il suo discorso (disponibile su YouTube), dalla prima sillaba all’ultima, e vi devo confessare che mi sono ricreduto. Perché dentro un discorso ci possono essere passaggi che non incontrano il tuo gusto, o giri retorici che preferiresti non sentire, però alla fine – se chi parla sa parlare, e Renzi indubbiamente sa parlare – il senso generale del messaggio emerge. E il senso del messaggio di Renzi è chiaro, molto chiaro.

E’ chiaro sul piano politico, innanzitutto. Renzi sta occupando, con un coraggio e un’energia incommensurabilmente superiore ai suoi predecessori, lo slot che – a suo tempo – hanno provato ad occupare i rappresentanti delle correnti liberali e riformiste del Pd, i vari Veltroni, Morando, Ichino, Letta, Chiamparino, Rossi, lo stesso Bersani quando non giocava da segretario del Pd ma da ministro delle Liberalizzazioni, le famose «lenzuolate». Con la fondamentale differenza che Renzi ci prova, a sfidare la maggioranza del suo partito, mentre nessuno degli altri lo aveva fatto finora (Veltroni perché la segreteria del Pd gli è stata gentilmente offerta, gli altri per motivi che ignoro). La differenza di metodo è fondamentale, perché con Renzi la posta in gioco non è di conquistare o mantenere una piccola voce in capitolo nelle scelte del partito, ma di spostare il Pd su posizioni di sinistra liberale. Un’impresa meritoria, ma che a mio parere si scontra con un dato di fatto: finora la base del Pd è sempre stata più vicina a Vendola che ad Ichino, e lo stesso Bersani è decisamente meno radicale dei militanti che lo appoggiano.

Ma non c’è solo il posizionamento politico, che riprende quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale in campo economico: meritocrazia, meno tasse sui produttori, spending review, semplificazioni burocratiche. La novità fondamentale di Renzi sta, a mio parere, in due mosse che nemmeno la sinistra liberale ha finora compiuto fino in fondo. Due mosse che non stanno sul piano dei programmi e delle cose da fare, ma che vengono prima, e forse spiegano perché, in questa fase di stato nascente, il racconto, la narrazione, i temi identitari la facciano da padroni, e lascino i programmi un po’ sullo sfondo.

La prima mossa è nell’analisi della crisi in cui siamo tuttora immersi. Nel discorso di Verona sono del tutto assenti gli accenti vittimistici sulla questione giovanile, e c’è un’idea della crisi come fatto epocale, come «trasformazione definitiva del nostro modo di vivere», che ci invita anche a cambiare i nostri comportamenti, con una rivalutazione dei doveri, dell’impegno, del sacrificio. C’è la gratitudine alle generazioni passate per il benessere che hanno saputo costruire, ma c’è anche il sospetto che la «prospettiva di benessere» che le nuove generazioni hanno ereditato sia «forse persino eccessiva». Di qui la pulce nell’orecchio ai suoi coetanei: «Non vorrei che il troppo avere ci abbia fatto dimenticare il nostro essere».

Ma c’è anche una seconda mossa, che rende Renzi indigeribile non tanto alla base del suo partito, ma più in generale alla cultura di sinistra di matrice sessantottina. Qui, nonostante tutto, sopravvive ancora l’idea che la politica sia una missione etica, che la sinistra rappresenti la parte migliore del Paese, che chi vota a destra possa essere mosso solo dall’interesse o dall’ignoranza. Su questo la rottura del sindaco di Firenze è totale e senza alcuna incertezza. L’appello di Renzi agli elettori del Pdl, prima che una mossa politica, è la conseguenza logica della sua analisi della società italiana e del suo atteggiamento verso gli elettori. E’ perché non pensa che gli «altri», i cittadini di destra, siano «la parte peggiore del Paese» che Renzi può concludere il suo discorso descrivendo la politica con parole come «leggerezza», «sorriso sulle labbra», «Voglia di non parlare male degli altri». Per lui è naturale, perché vede l’elettore di destra come una persona a tutti gli effetti, e non come un’entità malsana, da neutralizzare, combattere, o tutt’al più rieducare.

E il fatto che, sul versante di Bersani, questo passaggio sia letto in chiave strettamente politica, come un’incapacità di Renzi di rompere senza ambiguità con il berlusconismo, mostra solo quanto lunga sia la strada che la sinistra deve compiere per superare il complesso di superiorità che ancora l’affligge. Per il militante di sinistra medio è semplicemente inconcepibile che una persona che ha votato per Berlusconi possa essere una persona per bene. Per questo non capisce come se ne possa chiedere il voto. Per questo Renzi gli risulta letteralmente incomprensibile. E per questo, temo, la strada di Renzi dentro il suo partito sarà molto in salita.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10534


Titolo: LUCA RICOLFI - Il federalismo funziona se responsabile
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 02:45:48 pm
24/9/2012

Il federalismo funziona se responsabile

LUCA RICOLFI

Sì, penso anch’io – come Mario Calabresi e Franco Bruni che ne hanno scritto nei giorni scorsi – che lo scandalo Lazio faccia retrocedere molte nostre illusioni. Ad esempio l’idea, coltivata per decenni, secondo cui il decentramento amministrativo e il federalismo siano cose buone e giuste. Si vede bene in questi giorni che avere i governanti «a portata di mano dei cittadini» è un’arma a doppio taglio: i sempre lodati «rapporti con il territorio» raramente si traducono in controllo da parte dei cittadini, più spesso significano clientele, solo ossessiva ricerca del consenso, spudorato sfruttamento dei propri privilegi e delle proprie posizioni di potere. Di qui anche il dubbio di molti, adombrato nell’articolo di ieri di Franco Bruni: non sarebbe meglio tornare al centralismo statale? E se abolissimo non solo le Province, ma anche le Regioni? Siamo sicuri che, sul federalismo, non sia meglio fare macchina indietro?

E’ una reazione possibile, quella di chiedersi se invertire la marcia su un cammino che l’Italia ha imboccato 42 anni fa, con il varo delle Regioni.

Il punto preliminare, tuttavia, è di intendersi sul significato della parole. La parola federalismo è da molti anni entrata nel novero dei termini su cui esiste un tabù, come «solidarietà», «condivisione», «meritocrazia». Sono parole che è proibito usare in senso negativo. Naturalmente esistono gli anti-federalisti, ma anche loro preferiscono proclamarsi federalisti in nome di un diverso modo di intendere il federalismo. Così come ci sono gli anti-solidaristi, che però preferiscono presentarsi come paladini di un altro tipo di solidarietà. E poi ci sono quelli che in cuor loro detestano la meritocrazia, ma preferiscono dire che il merito si misura in un altro modo. In tutti questi casi quel che succede è che le parole non aderiscono più alle cose, diventano dei passepartout che ognuno usa a modo proprio.

In questo senso la storia della parola federalismo è esemplare. C’è stato un momento, intorno alla prima metà degli Anni 90, in cui la parola federalismo è diventata politicamente redditizia, e da allora sono diventati tutti federalisti (se non sbaglio qualcosa del genere sta succedendo ora con la parola «liberale»). E’ stata una disgrazia, perché questa sorta di completa liberalizzazione del significato della parola ha reso il dibattuto politico estremamente confuso, facendo perdere di vista la sostanza del problema. E persino la Lega Nord, che del federalismo è stata la principale sostenitrice, ha finito per difendere almeno tre versioni di esso, radicalmente diverse l’una dall’altra, rendendo ancora più confuso un dibattito che già per conto suo non brillava per l’uso di idee chiare e distinte.

Andiamo allora al succo del problema. Se per federalismo si intende quello che è stato sperimentato dal 2001 a oggi, prima con la riforma voluta dal centrosinistra, poi con la riforma voluta da quasi tutti (Lega, Pdl e Pd), non si può che aderire in pieno ai dubbi sollevati da Franco Bruni. Ma non perché quel federalismo non ha funzionato, bensì perché non poteva funzionare. Quel federalismo aveva (anzi ha: è tuttora in vigore) tre difetti capitali: un ruolo esorbitante della mediazione politica, tempi di attuazione lunghissimi (2020), pochissima responsabilità fiscale dei territori. E’ ingenuo pensare che i cittadini controllino, se i politici possono coccolarli spendendo, e persino riceverne la solidarietà quando vanno a Roma per esigere maggiori trasferimenti. I cittadini di Palermo e di Catania, i cui debiti sono stati ripianati dal governo centrale, si sarebbero accorti facilmente delle spese pazze dei loro governanti se la legge avesse obbligato gli amministratori che hanno fatto quei debiti a ripagarli con risorse dei territori in cui quei soldi sono stati spesi, ovvero vendendo beni pubblici e aumentando le tasse. E il discorso, sia ben chiaro, non vale solo per le più dissennate amministrazioni del Mezzogiorno ma anche per diverse amministrazioni del Centro-Nord. Compresa quella di Torino, che è uno dei Comuni più indebitati d’Italia: solo se le amministrazioni locali fossero state obbligate a finanziare quei progetti con risorse di Torino noi cittadini avremmo avuto effettivamente l’opportunità di esprimerci, scegliendo fra rinunciare alle opere e al loro indotto, o pagarle con i nostri soldi e i beni pubblici della nostra città. Facendo debito, la politica risolve un suo problema, e ne crea uno a noi: non deve chiedere il permesso di spendere agli elettori di oggi, e sposta il fardello sulle generazioni future.

Quindi, tornando al problema federalismosì federalismo-no, il nodo è molto chiaro: solo se è altamente responsabilista, il federalismo può funzionare. Se per ragioni puramente politiche lo si annacqua con il principio opposto, permettendo a intere porzioni di territorio di ricevere molto di più di quanto danno, allora chiamarlo federalismo è un abuso di linguaggio, un omaggio al plumbeo conformismo per cui ci sentiamo obbligati tutti a proclamarci federalisti, anche quando non lo siamo affatto. La Lega stessa, che è stata federalista fino al 2008, ha finito per smarrire del tutto il senso della sua battaglia quando, a partire dal 2009, ha accettato ogni sorta di compromesso pur di salvare faccia e poltrone: la faccia dei suoi dirigenti, desiderosi di presentarsi all’elettorato con una vittoria in tasca, le poltrone dei suoi amministratori locali, giustamente terrorizzati che un federalismo rigoroso lasciasse loro meno quattrini da spendere.

La mia conclusione è quindi netta, anche se un po’ amara. Se il federalismo è vero federalismo, non può piacere al ceto politico. E se piace al ceto politico, è perché non è vero federalismo, ma federalismo nominale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10564


Titolo: LUCA RICOLFI - Imu, strategie e propaganda
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 03:47:25 pm
18/9/2012

Imu, strategie e propaganda

LUCA RICOLFI

Non ci potevo credere. Berlusconi promette – se tornerà al potere – di abolire l’Imu, l’odiata tassa sulla casa. Si possono obiettare tante cose: che l’imposta sulla casa è la principale fonte di finanziamento dei Comuni; che dare ai Comuni solo il gettito delle seconde case è un assurdo anti-federalista; che l’Imu così com’è l’ha votata anche il Pdl.

Questa uscita di Berlusconi conferma che il Pdl non ha una strategia credibile sulle tasse, ma solo un disperato bisogno di recuperare voti. In un momento come questo, in cui il dramma delle famiglie è la distruzione quotidiana di posti di lavoro, un partito serio metterebbe al primo posto il ritorno alla crescita, unica strada per ridurre il debito pubblico e aumentare l’occupazione. E se qualche margine ci fosse per ridurre le tasse, quel partito comincerebbe da quelle che più soffocano la crescita: Irap, Ires, cuneo contributivo, imposte sull’energia. Non certo da tasse come l’Imu o l’Ires, che attirano voti ma non smuovono occupazione e Pil.
Da questo punto di vista Berlusconi fa benissimo a ricandidarsi. La sua ridiscesa in campo è un atto di chiarezza: è la conferma che nel Pdl nulla è cambiato: il partito è prontissimo a ripetere gli errori di sempre.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10542


Titolo: LUCA RICOLFI - Chi si nasconde dietro l’agenda Monti
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2012, 11:26:23 am
Editoriali

02/10/2012

Chi si nasconde dietro l’agenda Monti

Luca Ricolfi

Mi capita raramente di pensarla come Alfano o come Bersani, ma questa volta ho l’impressione che un po’ di ragione ce l’abbiano. 

 

Ai segretari dei due maggiori partiti italiani non è piaciuta l’uscita di Monti, che l’altro ieri si è detto disponibile – se molto pregato – a riaccomodarsi sulla sedia di Palazzo Chigi dopo le elezioni politiche. 

 

Certo, in pubblico Bersani e Alfano parlano in modo cortese e politicamente forbito, ma la sostanza del loro discorso è chiara, e anche parecchio ruvida: «Caro Monti, grazie del lavoro svolto fin qui, ma se vuoi fare il presidente del Consiglio anche dopo le elezioni del 2013, allora devi chiederlo esplicitamente agli elettori, o facendo un partito tuo, o facendoti candidare da un partito altrui». Insomma, una sorta di «è la democrazia, bellezza!», rivolto al Presidente del Consiglio.

 

Naturalmente capisco che il cattivo umore di Alfano e Bersani (ma anche di Renzi) sia dettato, più che dal loro amore per la democrazia, dalla preoccupazione di combattere una battaglia politica inutile. 

 

E’ come se pensassero: prima ci scanniamo per decidere i nostri candidati leader (Bersani o Renzi? Alfano o Berlusconi? ), poi facciamo una campagna elettorale massacrante, infine si va alle urne, uno di noi prende più voti dell’altro, e che cosa succede ? che chi se ne è stato comodamente a bordo campo viene «chiamato» una seconda volta a salvare la Patria! Capisco anche che chi non ama Bersani e Alfano potrebbe apostrofarli a sua volta così: ma come? con i vostri pastrocchi sulla legge elettorale state facendo di tutto perché non ci sia un vero vincitore, e poi vi lamentate che qualcuno si ponga fin da ora il problema di gestire un Parlamento balcanizzato, in cui non ci saranno maggioranze politiche omogenee? 

 

E tuttavia c’è anche qualcosa di ragionevole nella preoccupazione dei leader Pd e Pdl per il gran parlare che si sta facendo di Monti-bis. Il continuo richiamo a un Monti-bis è anche un indizio, un segno, di una serie di patologie del nostro sistema politico. E’ patologico, ad esempio, che nella seconda Repubblica le elezioni politiche non siano mai state vinte da un vero politico, ma sempre da un messia, esterno al sistema dei partiti: 3 volte da Berlusconi, 2 volte da Prodi. La destra non ha mai avuto il coraggio di candidare un politico puro, come Fini, Casini o Bossi. La sinistra ci ha provato per 3 volte e invariabilmente ha perso: con Occhetto nel 1994, con Rutelli nel 2001, con Veltroni nel 2008. 

 

E’ patologico che, pur avendo capito che una figura alta come quella del professor Monti riscuote un notevole (e meritato) consenso, nessun partito – nemmeno quelli che fermamente vogliono un Monti-bis (Udc e Fli) – sia in grado di presentare un proprio candidato con un profilo e una credibilità comparabili. Non è strano? Se Monti non fosse solo un marchio per acchiappare voti, un partito che volesse realizzare l’agenda Monti la spiegherebbe dettagliatamente al Paese e, stante il rifiuto di Monti di candidarsi, presenterebbe un altro candidato, tecnico o politico, in grado di attuarla. O l’agenda Monti è come la «cura Di Bella» contro il cancro, che a quanto pare funzionava solo se era lui a occuparsi del malato?

 

Ma il segnale più patologico è ancora un altro. Osserviamo chi, finora, ha sottoscritto l’agenda Monti. Se ci pensiamo un attimo, ci rendiamo subito conto che c’è qualcosa che non va. Monti piace a Udc e Fli, due partiti radicati soprattutto al Sud, che finora – di fatto – hanno difeso una concezione assistenziale della spesa pubblica e osteggiato in tutti i modi il federalismo, ossia l’unica proposta che ha tentato di scalfire questo male italiano. Ma Monti piace anche alla nascente lista di Oscar Giannino (Fermare il declino), imbottita di pensatori liberal-liberisti, che hanno idee perfettamente speculari a quelle dei cattolici in politica: tagli draconiani alla spesa pubblica, riduzione delle tasse sui produttori per rilanciare la crescita. E per finire Monti piace anche a Montezemolo, ma in un modo che lascia di stucco. Con un capolavoro dialettico il leader di Italia Futura (un’altra lista che sarà in qualche forma presente alle prossime elezioni) afferma di auspicare un Monti-bis, ma al tempo stesso ne prende le distanze. Per chi non ci credesse, cito dall’intervista di domenica al Corriere della Sera: «La crescita è il grande tema della prossima legislatura. Con molta franchezza, è su questo tema che dall’attuale governo sono venute le maggiori delusioni. Si è data l’impressione di perdersi in mille rivoli e annunci mirabolanti, mentre occorreva una visione netta e pochi obiettivi chiari». 

 

Ecco perché dicevo, all’inizio, che Alfano e Bersani un po’ li capisco. Il richiamo a una fantomatica agenda Monti, a mio parere, non è una mossa di un gioco politico leale. Se l’agenda Monti è sottoscritta da Casini, da Fini, da Montezemolo e persino da Oscar Giannino, vuol dire che una tale agenda non esiste, o tutt’al più coincide con l’impegno a non sfasciare un’altra volta i conti pubblici (il cosiddetto rigore). Tutto il resto, ed è proprio questo «resto» che fa la differenza fra un progetto politico e l’altro, non sta nell’agenda Monti ma nei modi in cui ogni forza politica intende andare oltre il governo Monti. 

 

Anziché dichiararsi sostenitori, eredi o ammiratori di Monti, sarebbe più utile che i suoi fan si decidessero a dire con precisione qual è la loro agenda, chi propongono come prossimo presidente del Consiglio, e quali cose condividono e quali no fra le molte che questo governo ha fatto, o ha omesso di fare. Se questa operazione venisse condotta esplicitamente, la competizione elettorale diventerebbe più equa e trasparente, e meglio ci renderemmo conto che il prestigio di Monti, più che nel sostegno a un programma politico ben definito, ha le sue radici in un fatto stilistico, per non dire estetico. Quella metà degli italiani che sta dalla parte di Monti, e forse accetterebbe pure un Monti-bis, di questo governo ha apprezzato soprattutto serietà, competenza, sobrietà, senso delle istituzioni, tutte cose che in politica dovrebbero essere normali e anzi obbligatorie, ma di cui purtroppo da molti anni si era persa ogni traccia. Scambiare tutto questo per un programma vero e proprio, per un’agenda programmatica, è un salto logico che non aiuta a fare chiarezza.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/02/cultura/opinioni/editoriali/chi-si-nasconde-dietro-l-agenda-monti-G98dMK5WcYZnSHDBEe4lpN/index.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Se il fisco è più iniquo di prima
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2012, 03:56:36 pm

Editoriali

13/10/2012

Se il fisco è più iniquo di prima

Luca Ricolfi

Ci sono voluti un paio di giorni per raccapezzarsi, ma alla fine il quadro è diventato abbastanza chiaro. 

I conti li abbiamo fatti e rifatti un po’ tutti: quotidiani, centri studi, esperti economici, sindacati, associazioni dei consumatori. E alla fine dei conti è difficile non essere arrabbiati, innanzitutto con noi stessi. Perché per un attimo ci eravamo illusi, per un attimo avevamo voluto credere che finalmente, con questa manovra (detta «Legge di stabilità»), l’insopportabile pressione fiscale che grava sul nostro sfortunato Paese potesse cominciare a diminuire, sia pure di pochissimo. O che, almeno, la distribuzione del carico fiscale sarebbe diventata più favorevole alla crescita, o anche solo un tantino più giusta. E invece no, niente di tutto questo. 

Prima di commentare, però, ricapitoliamo i punti fermi.

Primo: nonostante la sbandierata diminuzione dell’Irpef, la pressione fiscale complessiva sulle famiglie aumenta leggermente.
A regime, infatti la lieve diminuzione dell’aliquota Irpef è più che compensata dalla somma delle misure che aumentano il prelievo: scomparsa di alcune deduzioni e detrazioni, introduzione di franchigie e, soprattutto, ulteriore aumento dell’Iva.

Secondo: il grosso della manovra tocca famiglie (con le riduzioni Irpef) e consumatori (con l’aumento dell’Iva), ma lascia sostanzialmente invariata la pressione fiscale sui produttori, peraltro già vessati nelle manovre precedenti. Difficile pensare che una miscela di questo tipo possa stimolare la crescita.

Terzo punto: la distribuzione del carico fiscale è più iniqua di prima. Questo è un punto un po’ tecnico, ma ne voglio parlare lo stesso, perché a prima vista sembrerebbe vero il contrario. Il governo ha infatti presentato la sua manovra come una boccata d’ossigeno ai ceti bassi, in quanto le aliquote che sono state abbassate (di 1 punto) sono le prime, quella del 23% e quella del 27%. Quel che non si dice, tuttavia, è che le riduzioni del prelievo sui primi «scaglioni» di reddito riguardano tutti, anche chi guadagna 50 o 100 mila euro l’anno. 
 
Facciamo un esempio concreto: un lavoratore che guadagna 18 mila euro avrà uno sconto di 180 euro l’anno (15 euro al mese), ma un lavoratore che guadagna il doppio, ossia 36 mila euro, avrà uno sconto di 280 euro (23 euro al mese), perché percepirà interamente gli sconti previsti sui primi due scaglioni (fino a 28 mila euro). Per il fisco, infatti, ogni reddito è la somma di tanti «pezzi» di reddito (gli scaglioni, appunto), ciascuno dei quali è tassato con una sua aliquota: quindi se un governo abbassa l’aliquota sullo scaglione più alto il beneficio va solo ai ricchi, ma se abbassa l’aliquota sugli scaglioni più bassi il beneficio non va solo ai poveri bensì a tutti, perché il reddito di un ricco è la somma di tanti «pezzi» di reddito, ciascuno tassato con la sua aliquota. In breve la manovra non concentra affatto i benefici sui ceti bassi, ma li spalma un po’ su tutti.

Ma davvero su tutti? Assolutamente no, perché dalla riduzione delle aliquote restano esclusi i poverissimi, ossia coloro che guadagnano così poco da essere completamente esentasse (i cosiddetti incapienti). Come sempre lo strumento fiscale è impotente verso chi sta fuori del circuito del fisco, ossia evasori e veri poveri.

Si potrebbe pensare che però almeno i ceti medio-bassi, ossia chi guadagna fra 8 e 28 mila euro (e dunque non è né incapiente né ceto medio), abbia comunque un beneficio. Ancora una volta, sembra ma non è: i soldi per abbassare le aliquote verranno trovati anche eliminando o attenuando vari sconti fiscali preesistenti, con il risultato di annullare o decurtare il già misero regalo di 10 o 15 euro al mese.

Se poi a tutto ciò aggiungiamo l’aumento di un punto dell’Iva, che scatterà nella seconda metà del 2013 (ossia dopo le elezioni, guarda caso), è facile dedurne che la pressione fiscale aumenterà su quasi tutti i contribuenti, e in misura massima sui poverissimi, che non solo non potranno usufruire di alcun beneficio fiscale (perché non versano tasse), ma pagheranno l’aumento dell’Iva nella veste di consumatori, e lo faranno in misura maggiore di qualsiasi altro gruppo sociale, visto che la propensione al consumo è ovviamente massima là dove non vi è alcuna possibilità di risparmiare.

Quarto punto: mentre tutti i benefici fiscali previsti sono futuri, la soppressione degli sconti in vigore (detrazioni e deduzioni) scatta già sui redditi del 2012, e dunque è retroattiva, essendo tali redditi in massima parte già maturati (siamo a ottobre, e la legge sarà approvata a fine anno). 

Di tutta la manovra fiscale quel che più mi ha colpito è proprio la consapevole spudoratezza (o «arroganza fiscale», come l’ha definita Il Sole 24 Ore di ieri) con cui quest’ultimo schiaffo al cittadino viene annunciato: nell’articolo 12 della bozza di legge di stabilità si dice che le norme che sopprimono gli sconti fiscali sono introdotte «in deroga» allo Statuto dei diritti del contribuente (la legge del 2000 che tutela i cittadini dagli abusi dello Stato in materia fiscale). E’ veramente il colmo: un governo che bacchetta gli italiani per il loro scarso senso civico pare non sapere che è lo Stato stesso ad essere criminogeno, quando diventa arrogante e predatore. 

E ora veniamo ai commenti. Ne avrei tanti, ma sarebbero troppo amari. Perciò mi limiterò a un’osservazione: con quest’ultima mossa, a mio parere, il governo Monti ha definitivamente mostrato il suo volto politico. L’espressione «governo tecnico» gli si addice sempre di meno, perché al di là dell’indubbia qualità professionale dei suoi membri, di gran lunga superiore a quella degli esecutivi del passato, la somiglianza con i governi politici che l’hanno preceduto è sempre più marcata ed evidente. Lo è nei contenuti, perché questa manovra assomiglia tantissimo ai giochi di prestigio cui i politici della Seconda Repubblica ci avevano abituato in occasione di ogni manovra: varare con una mano misure popolari e nascondere con l’altra le misure impopolari con cui le si finanzia. Ma lo è ormai anche nello stile: vedendoli onnipresenti in televisione, nei convegni, nei talk show, avendo registrato con imbarazzo la sceneggiata dell’altra notte a Ballarò (con annunci, smentite e autosmentite fra membri del governo), ormai mi pare chiaro che molti ministri e sottosegretari di questo governo sono già in campagna elettorale, e lo sono prima ancora dei politici di professione da cui, noi elettori, speravamo imparassero il meno possibile. Ma in fondo che male c’è? Evidentemente ai professori la politica piace, e quanto all’imparare, è ovvio, nessuno è più bravo di loro.

da - http://lastampa.it/2012/10/13/cultura/opinioni/editoriali/se-il-fisco-e-piu-iniquo-di-prima-Gxfls6DYgPYHoYuPaM9pjL/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Un centro e troppe anime
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2012, 09:05:54 pm
Editoriali
19/11/2012

Un centro e troppe anime

Luca Ricolfi


Sì, pare proprio che il centro stia tornando ad essere di moda, come lo era stato per quasi mezzo secolo, ai tempi in cui governava la Dc. Allora votare centro significava soprattutto una cosa: tenere i fascisti e i comunisti lontani dalle stanze del potere. Ma bastarono 5 anni per disfarne quasi 50. Fra il 1989 e il 1994 tutto cambiò, nel mondo e in Italia. Nel 1989 cadde il muro di Berlino, e la paura del comunismo si sciolse come neve al sole. Il resto, in Italia, lo fecero Mario Segni con i referendum sulla legge elettorale e Di Pietro con l’inchiesta Mani pulite. In un pugno di anni, fra il 1991 e il 1994, democristiani e socialisti furono affondati per sempre. Al loro posto si fecero avanti i reietti di ieri, fascisti e comunisti, che per rendersi accettabili provvidero lestamente a riverniciare le loro insegne, cambiando nome, modernizzando programmi, stabilendo alleanze con il nuovo o presunto nuovo che stava avanzando, dalla Lega alla Rete, da Forza Italia al Patto Segni.

È così che è nato il bipolarismo all’italiana, e il centro è stato emarginato dalla scena politica. 

Oggi che quel bipolarismo appare fallito, si ritorna a parlare di centro. Della necessità di ricostituire qualcosa che non sia né di destra né di sinistra. Lo fanno un po’ tutti. I centristi di sempre, alla Casini. I centristi dell’ultima ora, tipo Fini e Rutelli. I sostenitori di un Monti-bis, che ultimamente spuntano come funghi. I riformisti duri e puri, delusi dal riformismo zoppo di destra e sinistra. 

Ma che cosa è il centro oggi?

E’ questa, a mio parere, la domanda che non ha ancora ricevuto una risposta completa e chiara. Non dico che non abbia ricevuto nessuna risposta, perché alcuni valori dei centristi sono nitidamente riconoscibili: competenza, serietà, rispetto per le istituzioni, coesione sociale, volontà di ricostruire. Non è poco, ma solo perché ne abbiamo davvero tanto bisogno dopo esserne stati così tanto privati negli ultimi vent’anni, da tutti i governi della seconda Repubblica. Ma un minimo comun denominatore non fa ancora un programma politico. E anzi, il fatto che sia questo il nucleo, il nocciolo condiviso che unisce i centristi, è un segno di debolezza politica, una conferma – e non un superamento – dello stato di eccezione dell’Italia: solo in un paese in cui manca una vera offerta politica si può pensare che quel minimo comune denominatore di nobili principi sia già un programma, o che basti parlare di «agenda Monti» e di Monti-bis per persuadere gli elettori di possederne uno. 

Perché quello del centro riuscisse a diventare un vero programma politico occorrerebbe che i suoi leader completassero la risposta. Va bene il minimo comune denominatore, ma il cuore di un programma politico sono le scelte difficili, le scelte tragiche, come già trent’anni fa ebbero a chiamarle Guido Calabresi e Philip Bobbitt in un celebre libro – Tragic choices – dedicato a «i conflitti che la società deve affrontare nella allocazione di risorse tragicamente scarse». In un’era di risorse decrescenti il punto non è chi vogliamo sostenere, ma è a spese di chi vogliamo farlo. Qui quasi tutti i protagonisti della competizione al centro sono reticenti, evasivi, o dimentichi della propria storia.

Il centro che già c’è, quello dell’Udc di Casini, è stato – almeno in passato – una colonna portante del «partito della spesa pubblica», ha le sue radici elettorali soprattutto in Sicilia e nel resto del Mezzogiorno, possiede una lunga storia di clientele e guai giudiziari. Con il suo leader Pier Ferdinando Casini ha difeso fino all’ultimo un politico come Totò Cuffaro, ora in carcere con una condanna definitiva per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Prima di ascoltare ogni sorta di lodevoli intenzioni per il futuro, ci piacerebbe ascoltare dall’Udc due parole chiare sul proprio passato, e magari sentir pronunciare – oltre al consueto omaggio a Monti – quelle scuse agli elettori che Casini aveva preannunciato in caso di condanna di Cuffaro (Annozero, 31 marzo 2008).

Il centro che ancora non c’è, quello che sta prendendo forma in questi mesi sotto le insegne più varie (cattolici di Todi, Italia Futura, Fermare il declino) è una creatura strana. Per alcuni dei suoi protagonisti la stella polare è il sostegno alle famiglie, per altri sono gli sgravi ai produttori. Due obiettivi che è facile conciliare in un bel discorso, ma che si mettono immediatamente a stridere appena si tratta di decidere la destinazione di qualche miliardo di euro. Ridurre l’Irpef o ridurre l’Irap? Alleggerire le tasse alle famiglie in cui la madre non lavora (il cosiddetto quoziente familiare), o aiutare quella medesima madre a trovar lavoro, riducendo il cuneo fiscale sul lavoro femminile? Usare i soldi di tutti i contribuenti per salvare le amministrazioni in default (ormai diffuse anche al centro-nord), o costringerle a salvarsi da sé, vendendo patrimonio pubblico e tassando i propri cittadini?

Sono solo esempi, ma si potrebbero moltiplicare. Su tutte queste cose il centro tace. E quando prova a rispondere non risponde alla domanda giusta, perché è affetto da «ma-anchismo», il tic per cui prendevamo in giro Veltroni qualche anno fa, ogni volta che proclamava di volere una cosa «ma anche» un’altra, diversa e spesso contraria. Il problema è che, arrivati al punto in cui siamo, le risorse sono così scarse, e lo resteranno così a lungo, che non è più assolutamente possibile sottrarsi alle domande fondamentali. Non possono sottrarsi il Pd di Bersani e il Pdl di Alfano, ma ancor meno possono farlo i leader del centro. E questo per una ragione molto semplice: quello che destra e sinistra potrebbero fare è prevedibile sulla base del passato, e spesso è stato la medesima cosa, ovvero più deficit e più spesa pubblica politicamente redditizia. Mentre quel che potrebbero fare le forze politiche di centro non solo è meno facilmente prevedibile, ma è diversissimo a seconda di chi stiamo parlando. Se per centro intendiamo quelle formazioni che rifiutano sia il (presunto) populismo anti-politico di Grillo, sia le politiche della destra e della sinistra, non possiamo non notare che – dentro quello che oggi è il calderone del centro – convivono visioni opposte, molto più polarizzate di quanto lo siano quelle della destra e della sinistra. A un estremo il moderatismo cattolico, tradizionalmente attratto dalle politiche di sostegno del reddito delle famiglie, all’altro estremo il radicalismo riformista e liberale, che ritiene di poter far dimagrire lo Stato di molti chili (punti di Pil) e in pochi anni. Provate, per credere, a organizzare un dibattito pubblico serio, con domande scomode, fra Pier Ferdinando Casini e un qualsiasi rappresentante dell’Istituto Bruno Leoni, la cittadella dei liberali oscillante fra Italia Futura (Montezemolo) e Fermare il declino (Oscar Giannino). E vedrete che è più facile mettere d’accordo un Pier Luigi Bersani e un Angelino Alfano che un vero cattolico e un vero liberale.

da - http://lastampa.it/2012/11/19/cultura/opinioni/editoriali/un-centro-e-troppe-anime-y1mgHMikC0nFG2bjtpuuZJ/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - La vittoria del partito superstite
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2012, 11:28:53 am
Editoriali
30/11/2012

La vittoria del partito superstite

Luca Ricolfi


Domenica sera sapremo chi, fra Bersani e Renzi, sarà il candidato premier del centro sinistra. E forse sapremo anche chi ci governerà nei prossimi anni, visto che la coalizione guidata dal Partito democratico ha buone possibilità di vincere le elezioni, né possiamo escludere che, oltre a vincere le elezioni, riesca persino a formare un governo. Si capisce dunque il clima surriscaldato di questi giorni, un clima che si è fatto rovente soprattutto intorno a due nodi. 

Primo nodo: il centro-sinistra prenderebbe più voti con Renzi o con Bersani? Quasi tutti i protagonisti ritengono di saperlo, ma nessuno lo sa veramente. Secondo alcuni Renzi porterebbe al centro-sinistra diversi milioni di elettori disgustati dalla politica e/o delusi dal centro-destra, secondo altri provocherebbe la spaccatura del centro-sinistra e la nascita di un raggruppamento politico alla sinistra del Pd. Probabilmente succederebbero entrambe le cose, visto che Renzi è detestato da una parte dei suoi stessi compagni di partito, ma è impossibile stabilire se il saldo fra voti persi e voti conquistati sarebbe positivo o negativo.

Secondo nodo: l’accesso al ballottaggio. Vedremo come evolveranno le cose nelle prossime ore, ma quello che è evidente fin da adesso è che, limitando la partecipazione al ballottaggio di domenica prossima, l’apparato del Pd sta pagando un prezzo piuttosto alto per garantire l’affermazione del suo segretario. L’idea che per accedere al secondo turno si debba portare una «giustificazione» (come a scuola!), e che ci sia un organismo politico (il «Coordinamento Provinciale delle Primarie Italia Bene Comune», in pratica i funzionari del Pd) deputato a vagliare se la giustificazione è valida oppure no, è semplicemente grottesca, un buffo riflesso burocratico-stalinista che rischia di ritorcersi contro chi l’ha inventato. Perché è vero che chiudere l’accesso al ballottaggio avvantaggia Bersani, che ha già vinto al primo turno, ma è anche vero che, sul piano simbolico, avvantaggia Renzi, se non altro perché mostra di che pasta sono gli apparati per la cui rottamazione il sindaco di Firenze si batte. Senza contare la reazione di chi, escluso dal ballottaggio, negherà il suo voto al Pd alle elezioni vere, un sentimento e un’intenzione che ho già avvertito da più parti. 

L’attenzione del pubblico e dei media su questi due nodi, tuttavia, rischia di non farci cogliere la straordinaria trasformazione del paesaggio politico che – in questi mesi – si sta producendo sotto i nostri occhi. Non solo la nascita di protagonisti nuovi (Grillo e il Movimento cinque stelle) e l’autodistruzione di protagonisti vecchi (Berlusconi e il Pdl), ma la vera e propria mutazione che sta scuotendo il maggior partito della sinistra. La sfida di Renzi, anche se dovesse terminare domenica con una sconfitta, sta cambiando e cambierà definitivamente il Pd. Dopo quella sfida, e grazie a quella sfida, il Pd avrà per la prima volta – accanto alla componente socialdemocratica tuttora maggioritaria – una componente liberalsocialista o di «sinistra liberale» di peso politico non trascurabile. Il Pd del futuro non sarà più un partito diviso fra comunisti e cattolici, o fra massimalisti e ortodossi, ma un partito in cui la componente socialdemocratica (oggi ben rappresentata da Bersani) e quella liberaldemocratica (oggi ben rappresentata da Renzi) competeranno per la guida del partito. 

Il processo non è ancora compiuto, perché la componente liberale sta prendendo forma e coraggio solo in questi mesi, e quella socialdemocratica non è ancora pienamente tale: se lo fosse Renzi non verrebbe trattato da tanti compagni e compagne di partito come un traditore, un emissario del nemico, un corpo estraneo, o un ospite indesiderato. Ma la direzione di marcia è questa, ed è piuttosto veloce, a giudicare dai consensi che Renzi ha conquistato in pochi mesi.

Ma c’è anche un altro aspetto che merita forse di essere notato. Il mondo politico della seconda Repubblica è oggi un incredibile cimitero di rovine, su tutti i piani.
Quasi tutti gli uomini e le donne che hanno occupato gli schermi televisivi negli ultimi venti anni hanno perso ogni credibilità. In giro non si sentono più idee ma solo «dichiarazioni» di nessun interesse, messaggi più o meno in codice ad uso e consumo dei soli politici. I partiti si sono dissolti, travolti dalle inchieste giudiziarie e dall’indifferenza dei cittadini.
La destra è un’armata allo sbando, senza progetti e senza senso del ridicolo. Il centro nasconde, dietro l’evocazione rituale – quasi un mantra – di Monti e della sua agenda, il suo vuoto spinto di idee e di uomini. 

In questa situazione il Partito democratico, di cui personalmente ho sempre visto e sottolineato gli immensi difetti, si staglia come l’unico «monumento» della seconda Repubblica che ha saputo sopravvivere al terremoto che il ceto politico ha provocato a sé stesso.
Ha un’organizzazione, una rete di sedi e di militanti, un dibattito interno. Con le primarie ha saputo creare l’unico evento significativo di riavvicinamento dei cittadini alla politica.
E con Renzi e Bersani ha offerto due candidati che possono piacere più o meno a ciascuno di noi, ma sono comunque fra i migliori politici in circolazione in Italia.

Insomma il Partito democratico gode oggi di un prestigio relativo altissimo. Un prestigio che è tanto più significativo, o sorprendente, se pensiamo che anch’esso è coinvolto in diverse inchieste, anch’esso è pieno di personaggi che non avrebbero reso orgoglioso Enrico Berlinguer.

E’ questo prestigio relativo che spiega il fatto più interessante del nuovo panorama politico che si è andato consolidando negli ultimi mesi: il dibattito programmatico, le alternative fra cui scegliere, le poche idee sulle quali vale la pena scontrarsi, sono ormai quasi tutte dentro il Partito democratico. Ai suoi militanti, o a molti di essi, tutto questo sembra divisione, lacerazione, una ferita dolorosa. A Gramsci, invece, sarebbe parsa una (strana) forma di egemonia. La società italiana è così allo sbando che l’ultimo partito rimasto, anch’esso piuttosto logoro, disastrato e pieno di acciacchi, rischia di diventare l’unico luogo in cui si gioca davvero il futuro del Paese. Ecco perché la competizione fra Renzi e Bersani non indebolisce il Partito democratico, ma semmai lo rende più capiente, più capace di intercettare gli umori della società esterna. C’è solo da sperare che questa opportunità sia colta e coltivata, piuttosto che gettata al vento: magari anche lasciando che, domenica, chi vuole votare sia libero di farlo.

da - http://www.lastampa.it/2012/11/30/cultura/opinioni/editoriali/la-vittoria-del-partito-superstite-8W3rvFcpEAzW5JmlRRxEMI/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Il dramma di un film già visto
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2012, 07:35:48 pm
Editoriali
10/12/2012

Il dramma di un film già visto

Luca Ricolfi


Fine del governo Monti, «perché la situazione è peggiore che un anno fa»: con queste parole Angelino Alfano, in Parlamento, ha dato il benservito al governo dei tecnici. A questo punto ci sono almeno tre domande, ed è bene rispondere in modo chiaro a tutte e tre.

 

Prima domanda: la situazione è davvero peggiore che 13 mesi fa, quando Berlusconi fu costretto a lasciare?

 

Seconda domanda: la situazione sarebbe oggi migliore se al posto di Monti fosse rimasto Berlusconi?

 

Terza domanda: se Monti avesse governato in modo diverso, oggi staremmo meglio di come stiamo?

 

Sì-no-sì sono le mie tre risposte, e provo a spiegare perché.

 

Cominciamo dalla prima domanda: davvero sotto il governo Monti la situazione è peggiorata? Se guardiamo solo alla condizione economica obiettiva delle famiglie - posti di lavoro, redditi, patrimoni, risparmi, consumi - la risposta è sì. Nel giro di un anno le famiglie in difficoltà, quelle che non arrivano alla fine del mese, sono quasi raddoppiate: erano il 16% nel novembre del 2011, oggi sono il 30%, un livello drammatico, mai toccato in passato. 

 

Seconda domanda: la situazione sarebbe oggi migliore se al posto di Monti fosse rimasto Berlusconi?

Lo escluderei. Direi anzi che qui sta la fallacia logica della campagna elettorale che il centro-destra sta preparando: il fatto che ieri si stesse meno peggio non implica che oggi staremmo meglio se al governo fosse rimasto «lui». Provo a spiegarlo con un apologo, che farà arrabbiare qualcuno ma che secondo me è aderente alla storia degli ultimi 18 mesi. 

 

C’era una diligenza, i passeggeri avevano fame ma avevano ancora a bordo panini e coca cola. A un certo punto il conducente comincia a giochicchiare con il telefonino, la diligenza va fuori strada ma lui continua a giochicchiare. La diligenza sta per precipitare in un burrone. Allora un passeggero disarciona il conducente e prova a riportare la diligenza sulla strada. Però il viaggio è lungo, la diligenza ha subito dei danni, e non ci sono ostelli in cui fermarsi. Passa un po’ di tempo e i passeggeri cominciano ad avvertire i morsi della fame. Rievocano i bei tempi in cui avevano ancora una scorta di panini. Qualcuno rimpiange il vecchio conducente, perché «la situazione adesso è molto peggiore di una volta». A voi che cosa sembra? Richiamereste in sevizio il vecchio conducente perché i vostri panini stanno finendo?

 

Fuor di metafora. Quando, 13 mesi fa, Mario Monti fu chiamato a prendere il posto di Silvio Berlusconi, la diligenza dell’Italia stava per precipitare nel burrone del default, e le famiglie - pur stando un po’ meglio di oggi - stavano però correndo il rischio di perdere tutto: posti di lavoro, redditi, risparmi, patrimoni. Oggi, con la discesa dello spread, quel rischio si è allontanato di un po’: non del tutto e non per sempre, ma abbastanza da non farci vivere nell’angoscia. Insomma: oggi abbiamo un po’ meno panini, ma almeno non siamo finiti come la Grecia.

 

Resta la domanda più spinosa: se Monti avesse governato in modo diverso, oggi staremmo meglio di come stiamo? Potremmo non essere caduti nel burrone, e al tempo stesso avere qualche panino in più di quelli che abbiamo oggi?

 

Ebbene, qui la mia risposta è un sì convinto. Monti ha fatto molto di meno di quello che ci si sarebbe aspettati da un presunto liberale come lui. Monti ha ritenuto che il problema numero uno dell’Italia fosse ridurre il deficit dei conti dello Stato e che l’unico mezzo per farlo fosse aumentare le tasse. Ha provato a liberalizzare, ma si è fermato quasi subito e su quasi tutta la linea. Ha molto parlato di ogni genere di riforme, ma di riforme incisive e riuscite ne abbiamo viste ben poche. Se avesse osato di più, tagliando di più costi della politica e sprechi, e risparmiando i produttori di ricchezza, oggi ci sarebbero (leggermente) meno famiglie in difficoltà e (decisamente) più speranze per il futuro. 

 

Qui però bisognerebbe rispondere a una quarta domanda, forse la più importante: chi o che cosa ha ingessato Monti?

 

Alcuni pensano che l’uomo non sia un concentrato di eroismo, e che le sue ambizioni politiche (presidenza della Repubblica?) lo abbiano reso più timido del necessario nel rapporto con i partiti. Altri pensano che Monti sia subalterno alla Merkel e all’Europa, e si sia preoccupato solo di restituire all’Italia il rispetto degli altri governi (cosa che gli è riuscita ala perfezione, e solo chi non vuol vedere non vede). Altri pensano che Monti sia stato pesantemente condizionato dalla sua maggioranza, e abbia fatto il massimo che i partiti gli permettevano di fare.

 

Per quanto mi riguarda, penso una cosa molto semplice: Monti ha fatto alcuni errori, ma sia il centro-destra sia il centro-sinistra ne avrebbero fatti - e ne faranno - di più e di più gravi. Il dramma che il ritorno di Berlusconi ci riserva è che ci inchioda tutti, per diversi anni, a rivedere un film già visto: il leader del centro-destra che pensa agli affari suoi, e la sinistra che, a modo suo e suo malgrado, finisce per fare la stessa cosa. Berlusconi, riportando 100 o 200 fedelissimi in Parlamento, penserà a difendere le sue aziende dal fallimento e se stesso dal carcere. Bersani, portando in Parlamento un drappello di 300 o 400 uomini e donne a lui più o meno fedeli, sarà costretto ad occuparsi a tempo pieno degli affari interni del centro-sinistra: come tener buona la Cgil, come agganciare Casini, come non farlo litigare con Vendola, come dare a tutte le sigle che confluiranno nel carrozzone del centro sinistra onori, posti, poltrone e strapuntini. Affari economico-giudiziari da una parte, affari politico-parlamentari dall’altra.

 

Di governare no, non ci sarà il tempo, l’energia e la possibilità per nessuno, chiunque vinca. Quel che ci aspetta è l’ennesima proiezione dell’eterno immarcescibile lungometraggio della seconda Repubblica, che da vent’anni va in scena in tutte le sale con il medesimo titolo: «L’arte del non governo». Perché tutti sono bravi a criticare Monti, ma nessuno lo fa dicendo che - al posto di Monti - avrebbe fatto scelte più coraggiose. Sia la destra sia la sinistra, se fossero state al posto di Monti, avrebbero fatto meno, non più di lui. La destra ci avrebbe regalato un po’ meno tasse e più deficit pubblico. La sinistra ancora più tasse e più spesa.

 

In questo destra e sinistra sono molto simili, figlie entrambe del conservatorismo italiano, che ama la demagogia e teme le riforme radicali. Anche per questo la sinistra ha respinto con orrore la sfida di Renzi, anche per questo la destra non solo non è stata capace di sostituire Berlusconi, ma ne ha accolto con entusiasmo il ritorno. Come se il suo fosse il «ritorno di Ringo» (ricordate quel bellissimo western, con Giuliano Gemma?), o il ritorno di Ulisse a Itaca dopo vent’anni. Come se lui fosse stato via per tutto questo tempo, e nulla avesse a che fare con le rovine che trova. Come se l’uomo che, nell’ultimo decennio, ha guidato l’Italia per 8 anni su 10, non avesse alcuna responsabilità nel disastro che il governo Monti ha ereditato e provato a gestire in questi 13 lunghi mesi. 

 

Ecco perché io stesso, che del governo Monti ho criticato non poche parole, opere, e soprattutto omissioni, non posso che rendergli l’onore delle armi. Non so se Monti ha salvato l’Italia, ma sono piuttosto sicuro che - senza di lui - oggi saremmo messi ancora peggio di come siamo.


da - http://lastampa.it/2012/12/10/cultura/opinioni/editoriali/il-dramma-di-un-film-gia-visto-hCVyp3PBJjz10gf3NEte6O/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Ma le tasse vanno ridotte non trattenute
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2013, 07:15:50 pm
Editoriali
08/01/2013

Ma le tasse vanno ridotte non trattenute

Luca Ricolfi


La mossa era nell’aria da qualche giorno, e alla fine le cose sono andate come previsto. Dopo aver giurato e spergiurato «mai più con Berlusconi» la Lega è tornata all’ovile: si presenterà insieme al Pdl sia in Lombardia sia alle elezioni politiche nazionali. La base dell’accordo è chiara sul piano politico, molto meno sul piano tecnico. 

L’obiettivo politico sottoscritto da Maroni e Berlusconi è di trattenere in Lombardia il 75% delle tasse versate dai cittadini lombardi, e di arrivare entro la fine della prossima legislatura alla costituzione della macroregione del Nord, formata da Lombardia, Veneto, Piemonte ed eventualmente altre regioni. Sul piano tecnico, invece, è buio totale. 

 

Non è chiaro che cosa si intenda per tasse (tutte le imposte, tasse e tariffe? Solo le imposte locali o anche quelle nazionali?), non è chiaro in che modo si sia giunti a valutare che in Lombardia attualmente resterebbe solo la metà delle tasse riscosse. Soprattutto, nulla si dice su un punto decisivo: in che modo il nuovo progetto fiscale nordista si innesterebbe sulla realtà del federalismo in atto, quello voluto dalla Lega con la legge 42 del 5 maggio 2009, e che tra mille ritardi e pasticci sta entrando in funzione da qualche anno e dovrebbe andare a regime alla fine di questo decennio, cioè tra ben 7 anni.

 

Ho il sospetto che questa lacuna non rifletta solo la consueta superficialità dei nostri politici, abituati a confondere slogan e disegni di legge, ma sia dovuta alla cattiva coscienza della Lega e del Pdl. Se ce la raccontassero tutta, i politici che ora propongono quest’ennesima versione del federalismo dovrebbero anche ammettere alcuni notevoli fallimenti e sciatterie del passato. 

 

Ricapitoliamo. Il primo tentativo della Lega di introdurre il federalismo risale al 2005, e consiste in una legge costituzionale, la cosiddetta devolution, approvata in Parlamento senza la maggioranza dei 2/3. Questo tipo di federalismo muore in culla, sotto la scure del referendum confermativo che lo cancella nel 2006. L’anno dopo, nell’estate del 2007, la Regione Lombardia propone un disegno di legge federalista, che diventa uno di punti programmatici dell’intero centro-destra alle elezioni politiche del 2008. Una volta vinte le elezioni, tuttavia, Lega e Pdl abbandonano il progetto su cui avevano chiesto il voto degli elettori, e varano una legge molto diversa, la legge 42 del maggio 2009, che è quella attualmente in vigore. 

 

Poi, dopo l’approvazione di quella legge, introducono varie norme e decreti che modificano ancora una volta il federalismo, dilatandone i tempi di attuazione fino al 2019. E infine, ultima tappa, la trovata di ieri: un progetto la cui filosofia ricalca la vecchia proposta del 2007 della Regione Lombardia, poi rinnegata da Lega e Pdl appena approdati al governo.

 

Difficile non essere sconcertati. Ho passato anni a chiedere alla Lega perché avesse abbandonato il progetto della Regione Lombardia, discutibile nei dettagli ma, a mio parere, ragionevole nell’impostazione, e mi hanno sempre risposto che avevano bisogno del consenso della sinistra, e che per ottenerlo erano stati «costretti» ad annacquare il federalismo. Adesso, come minimo, mi piacerebbe sapere come mai ritornano a un progetto che avevano già abbandonato e che, guarda caso - proprio come nel 2008 - agitano in campagna elettorale, senza porsi il problema della sua attuabilità in Parlamento. Insomma, la mia impressione è che la Lega da molto tempo non sia più federalista, e che il 75% di tasse trattenute al Nord sia solo uno slogan per intercettare il malcontento degli italiani, ancora sotto shock per la grandinata di tasse dell’ultimo anno. E mi conferma in questa idea (un po’ maliziosa, lo ammetto), l’uso del verbo «trattenere». 

 

Trattenere significa non mandare a Roma, e fin qui tutto bene, almeno per chi crede che i produttori - lavoratori e imprese - siano ingiustamente vessati in Italia. Ma trattenere può significare anche lasciare al cosiddetto territorio e ai suoi amministratori locali, di cui Maroni - come governatore della Lombardia - si candida ad essere l’esponente più importante, al posto del tramontante o tramontato Formigoni. In breve, trattenere può voler dire lasciare sì i soldi in Lombardia, ma perché i suoi politici li spendano meglio dei politici di «Roma ladrona». Già in occasione della ventilata (e osteggiata dalla Lega) abolizione della province, la Lega ha dato ampia prova della sua mutazione in partito del governo locale, che tutela innanzitutto gli interessi dei suoi amministratori, anche loro - come quelli degli altri partiti - affamati di quattrini da trasformare in spesa pubblica. 

 

Ecco, non vorrei che andasse a finire così. Non credo che sarà facile costruire la macroregione o euroregione del Nord, ma se mai ci si riuscisse sarebbe davvero triste che vent’anni di battaglie federaliste finissero in maggiori risorse a beneficio del ceto politico del Nord. Perciò - per favore - cambiate quel verbo. Per far ripartire la locomotiva del Nord le tasse non vanno «trattenute», bensì «restituite». Il che, in italiano, si dice in modo ancora più semplice: le tasse vanno abbassate. Così è più chiaro.

da - http://www.lastampa.it/2013/01/08/cultura/opinioni/editoriali/ma-le-tasse-vanno-ridotte-non-trattenute-aNvU3s5f9bmCnejailbcDO/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - E se vincesse ancora Berlusconi?
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2013, 10:50:03 pm
Editoriali
20/01/2013

E se vincesse ancora Berlusconi?

Luca Ricolfi

Lo so, all’estero sarebbero increduli. E anche fra noi italiani, che ci conosciamo abbastanza bene, serpeggerebbero sorpresa e costernazione. Però, arrivati a questo punto, l’ipotesi non può essere scartata completamente: Berlusconi potrebbe vincere le elezioni. Improbabile, a tutt’oggi. Ma non impossibile. Vediamo perché. 

I sondaggi, per cominciare. Non tutti se lo ricordano, ma è esistito un tempo in cui i sondaggisti accorti «correggevano» i sondaggi. Se nelle interviste la Dc raccoglieva il 35% dei consensi, il sondaggista esperto diceva al committente: qui bisogna aggiungere qualche punto, perché molta gente preferisce nascondere che vota Dc; certo, la voterà, al momento buono, ma non ama dirlo, nemmeno a uno sconosciuto intervistatore. 

 

Se nelle interviste i Verdi prendevano il 4%, il sondaggista esperto dimezzava la percentuale, perché sapeva che la dichiarazione di voto ai Verdi era la tipica risposta-rifugio. 

Quella risposta-rifugio che non ti fa fare brutta figura (che male c’è a votare verde?) ma intanto ti permette di non dichiarare la tua vera preferenza. Meno diffusa era un altro tipo di correzione, che comincerà a essere presa in considerazione soprattutto nella seconda Repubblica: se tutti credono che le elezioni le vincerà un certo partito, conviene potare un po’ i consensi del vincitore annunciato. Si sarebbe dovuto fare fin dal 1976, quando ci si aspettava il trionfo del Pci (che poi non ci fu), ma sarebbe stato bene farlo soprattutto nel 1994 e nel 2006, quando un po’ tutti erano sicuri di una schiacciante vittoria della sinistra, che di nuovo non ci fu. Quest’ultimo, negli studi elettorali, si chiama effetto winner: saltare sul carro del vincitore al momento del sondaggio, per poi scegliere quel che si vuole quando si va a votare davvero.

 

Che c’entra tutto questo con Berlusconi ?

C’entra, perché anche oggi, verosimilmente, operano le distorsioni di sempre. C’è un vincitore annunciato (il Pd di Bersani), ci sono liste momentaneamente imbarazzanti (tutto ciò che sa di Lega e Berlusconi), ci sono liste rifugio, con cui sei abbastanza tranquillo di non fare brutta figura (lista Monti). Il sondaggista esperto, se vuole indovinare il voto o dare informazioni attendibili al suo committente, dovrebbe aggiungere un po’ di voti a Pdl e Lega, toglierne un po’ a Bersani e Monti. Insomma dovrebbe «aggiustare» i sondaggi. Non sappiamo se qualche istituto lo fa effettivamente o se, più correttamente, i numeri che vengono pubblicati ogni giorno sono quelli veri, quelli che risultano ai sondaggisti prima di ogni correzione o ritocco. Se, come dobbiamo augurarci, i dati resi pubblici non sono ritoccati, dovremmo concludere che il distacco effettivo del centro-destra è sensibilmente minore di quello che viene indicato dai sondaggi. Diciamo, giusto per dare un’idea, che dovremmo aggiungere un paio di punti al centro-destra e toglierne altrettanti al Pd e alla lista Monti.

C’è poi un altro fattore che gioca a favore di Berlusconi. Nella seconda Repubblica il cosiddetto incumbent, ossia l’ultimo che ha governato, non ha mai vinto le elezioni. Gli italiani hanno sempre bocciato chi aveva governato, e hanno sempre scommesso su chi stava all’opposizione.

 

Da questo punto di vista far cadere Berlusconi senza andare al voto è stato un grosso assist a Berlusconi stesso: ha concesso agli italiani il tempo di dimenticare la loro delusione per il duo Tremonti-Berlusconi e di convogliare tutta la loro rabbia sul governo Monti. Un anno fa Berlusconi era il governo uscente e Bersani era l’opposizione che si candidava a prendere la guida del Paese, oggi il governo uscente è quello di Monti, e l’opposizione è Berlusconi, non certo Bersani che con Monti e il suo governo è stato assai leale. Insomma lo svantaggio di essere l’ultimo ad aver governato ricade su Monti, e il vantaggio di essere l’opposizione – dopo lo strappo con Monti – è tutto di Berlusconi.

 

D’accordo, direte voi, ma sui programmi Berlusconi non è credibile. Qui occorre intendersi. Sui programmi nessuno è credibile, forse nemmeno Monti, la cui famigerata agenda ha già subito fin troppe giravolte (ad esempio su Imu e pressione fiscale). E naturalmente Berlusconi non fa eccezione, racconta di aver rispettato il «Contratto con gli italiani», ma non dice la verità, come sa chiunque abbia studiato seriamente le cifre (che fine hanno fatto le due aliquote Irpef al 23 e 33%?). Però un conto è fare promesse credibili, un conto è apparire credibili agli occhi dell’opinione pubblica. Distinzione sottile, ma riflettiamoci su: fra Bersani, Monti e Berlusconi chi fa proposte che più facilmente possono essere credute?

 

Secondo me è Berlusconi che ha più probabilità di intercettare gli umori della gente. E spiego perché. Da almeno due anni, dunque da prima dell’avvento di Monti, i sondaggi segnalano che il problema delle tasse è diventato assolutamente prioritario, come non lo era mai stato prima. Di fronte a questo problema chi è più credibile? La sinistra, che le tasse e la spesa pubblica le ha nel suo Dna? Il governo Monti, che i mali dell’Italia li ha curati innanzitutto con maggiori tasse? O Berlusconi che promette di eliminare l’Imu sulla prima casa e l’ha già fatto con l’Ici?

E sul lavoro, l’altro grande problema degli italiani, chi è più credibile?

La sinistra, verrebbe da dire. Però guardiamo anche al linguaggio, alle parole che si usano per farsi capire dagli italiani. «Mettere il lavoro al centro», slogan ripetuto fino alla noia dai dirigenti della sinistra, non evoca nulla di preciso, di concreto. Dire che chi vuol assumere un giovane a tempo pieno potrà farlo senza pagare un euro di tasse e contributi («come fosse in nero», ha detto Berlusconi in tv), uno dei cavalli di battaglia del centro-destra, è una proposta che chiunque capisce, e chi ha un’attività apprezza.

 

Naturalmente ognuno può pensare che nulla di quel che dice Berlusconi sarà realizzato, o all’opposto che tutto sarà realizzato e proprio questo ci porterà al disastro. Ma resta il fatto che quel che vuol fare Berlusconi si capisce subito, mentre quel che vogliono Bersani e Monti si capisce meno, o appare lontano, astratto, difficilmente traducibile in misure concrete. Per dirla con Adriano Celentano, Berlusconi è rock, Monti è lento, come si vede bene in tv. Non sono categorie politiche, ma nella comunicazione sono cose che contano. E la politica è anche questo, comunicazione, energia, saper arrivare agli elettori. Tutte cose che in un mondo ben ordinato dovrebbero contare poco ma che, quando nessuno è veramente credibile, finiscono per contare molto.

Insomma, se fossi Bersani dormirei ancora sonni tranquilli. Non tranquillissimi, però.

da - http://lastampa.it/2013/01/20/cultura/opinioni/editoriali/e-se-vincesse-ancora-berlusconi-Djq855GSJ0YzkO6nxkD00J/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Il requisito minimo della credibilità
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2013, 05:57:30 pm
Editoriali
27/01/2013

Il requisito minimo della credibilità

Luca Ricolfi

Ieri su “La Stampa” abbiamo pubblicato i dati sul grado di rinnovamento dei partiti: quanti giovani, quante donne, quanti nuovi parlamentari. Oggi ci occupiamo invece di pulizia delle liste. 

Prima di presentare i dati, però, devo dire qualcosa sul concetto di «pulizia». 


Personalmente sono dell’idea che, salvo casi eccezionali (qualcuno ricorda il caso Tortora?) un partito non dovrebbe presentare nemmeno un candidato che abbia o abbia avuto problemi con la giustizia, a meno che la sua vicenda si sia risolta con un’archiviazione o un’assoluzione senza ombre. E’ quel che succede in qualsiasi Paese di cultura occidentale, dove basta poco per costringere i politici al passo indietro. E’ una questione di opportunità, di cautela e di decenza. 

 

A questa mia posizione ultra-severa, tuttavia, si può obiettare che talora gli indagati di oggi non vengono condannati domani, e in qualche caso non vengono nemmeno rinviati a giudizio. Inoltre, nulla assicura che la magistratura italiana eserciti lo stesso livello di attenzione e vigilanza verso tutti i partiti. Ad esempio è possibile che i partiti al governo siano monitorati con più attenzione di quelli all’opposizione, o che alcuni pubblici ministeri siano guidati anche dalle loro preferenze politiche. Se si accetta questa obiezione, mettere nello stesso calderone tutti – indagati, imputati, condannati a qualsiasi livello – può essere discutibile, nel senso che rischia di restituirci una immagine distorta del grado di pulizia delle liste. 

 

Morale. Resto dell’idea che un partito serio non dovrebbe candidare nessuno su cui esistano anche solo dei dubbi, e in questo senso trovo giusto che ogni vicenda giudiziaria dei politici sia raccontata dai media fin dall’inizio. Ma nello stesso tempo penso che, per avere un’idea del grado di pulizia delle liste, sia più corretto considerare solo i casi più seri. Dove per «seri» intendo i casi in cui il politico abbia raggiunto almeno lo stadio di imputato o rinviato a giudizio. In breve: per entrare nel nostro conteggio dei politici «birichini» (o impresentabili, se preferite) non basta essere indagati; e per starne fuori non basta che il proprio procedimento si sia fermato per prescrizione, per patteggiamento, o perché è scattata qualche immunità, o perché è intervenuto un vizio di forma. Insomma, per noi sono seri tutti i casi in cui è iniziata l’azione penale e non è subentrato un proscioglimento o un’assoluzione piena.

 

Ed ecco i risultati (i dettagli a pagina 2-3), che forniamo come un primo contributo di conoscenza, correggibile e ampliabile, vista l’impossibilità di un libero accesso al casellario giudiziario, che contiene la maggior parte delle informazioni sulle vicende penali dei cittadini (su questo vedi l’articolo di Paolo Festuccia a pagina 2). Su 1098 candidati che hanno elevate probabilità di essere eletti, i birichini risultano 18 (ma salirebbero a quasi 100 se, come nelle inchieste del «Fatto Quotidiano», venissero inclusi anche i semplici indagati e i politici che hanno basse probabilità di essere eletti). Le liste da noi considerate sono le nove più importanti, vista la difficoltà di prevedere gli eletti delle liste minori. Su nove liste, quelle che risultano perfettamente pulite sono cinque:
Movimento Cinque Stelle (Grillo), Scelta civica (Monti), Sel (Vendola), Rivoluzione civile (Ingroia), Fratelli d’Italia (Meloni e Crosetto), Fli (Fini). Quelle che risultano più o meno inquinate sono quattro: Pd (4 casi, pari allo 0,8% di eleggibili), Lega (3 casi, pari al 4,8%), Pdl (9 casi, pari al 5%), Udc (2 casi, pari al 7,7%).

 

Che dire?
Innanzitutto, possiamo notare che le liste sono migliori, o meno indecenti, di come si prospettavano anche solo una decina di giorni fa. La pressione dell’opinione pubblica e dei media per escludere gli impresentabili e rinnovare il ceto politico qualche effetto l’ha ottenuto. E tuttavia restano ancora diverse ombre, e non mancano le sorprese. 
Sul versante del rinnovamento, colpisce il fatto che – dopo aver minacciato di non ricandidare quasi nessuno – il Pdl abbia il massimo di vecchie glorie (80% di parlamentari ricandidati), e un numero irrisorio di giovani (8%, contro il 72% del movimento di Grillo). 

 

Ma colpisce, anche, la composizione delle liste di Ingroia e di Monti. Per quanto riguarda Ingroia, la sua Rivoluzione civile presenta il minimo di giovani (3,4%), e una sfilata di vecchi politici che senza la zattera offerta dalla nuova lista mai sarebbero rientrati in Parlamento: tra essi i segretari dei due partiti comunisti, (Ferrero e Diliberto), il leader della moribonda Italia dei Valori (Di Pietro), il leader degli ormai dimenticati Verdi (Bonelli). Non stupisce che, vista la compagnia, alcuni fra i promotori più autorevoli della lista Ingroia abbiano deciso di fare un passo indietro. 

 

Per quanto riguarda Monti e le liste a lui collegate (Udc e Fli) può forse non stupire la relativa assenza di giovani (9,3%) e di donne (15,7%: solo la Lega ne ha di meno), vista la composizione del suo governo, ricco di anziani e povero di donne. Non si può non notare, però, che ad Enrico Bondi - il terribile tagliatore di sprechi e di candidati - era stato affidato il compito di garantire la qualità delle candidature di tutta la coalizione del premier, compresa l’Udc. E invece che cosa scopriamo? Che il rigorosissimo filtro di Bondi ha lasciato tranquillamente passare due birichini, ovvero Giovanni Pistorio e Lorenzo Cesa, il primo condannato (dalla Corte dei Conti) per danno erariale, il secondo condannato per corruzione aggravata (e salvato solo da un vizio di forma e successiva prescrizione). Casini, che non perde occasione per proclamare sé stesso e il suo partito alfieri della «buona politica», qualche sera fa, intervistato da Lucia Annunziata, ha giustificato la scelta di candidare Cesa dicendo che «chi lo conosce lo apprezza» e che «sul territorio ciascuno di noi è quotato sui voti che prende» (dunque Cosentino è un ottimo candidato? e male ha fatto Berlusconi ad escluderlo?). Una difesa non molto diversa da quella che a suo tempo lo stesso Casini fece di Totò Cuffaro, poi finito in carcere per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. Allora aveva anche annunciato pubbliche scuse in caso di condanna di Cuffaro, ma le stiamo ancora aspettando.

 

Non sono fra quanti pensano che avere liste pulite, rinnovate, piene di giovani e di donne, sia di per sé una garanzia di buona politica (conosco parecchie ragazze incensurate che, come parlamentari, sarebbero un disastro). Anzi penso che sarebbe ora che l’opinione pubblica cominciasse a preoccuparsi soprattutto della qualità dei programmi e della competenza dei candidati, e non solo di inseguire vaghe aspirazioni di palingenesi della politica. E tuttavia mi pare che quello di non avere vicende penali alle spalle sia davvero un requisito minimo, giusto, ovvio, che nessuno dovrebbe mettere in discussione. E molto mi colpisce che l’unica lista che non ricandida vecchi politici, è piena di giovani, ha quasi il 50% di donne, e non ha nemmeno un inquisito fra le sue fila sia quella di Beppe Grillo, ossia precisamente la lista i cui programmi meno mi convincono. Come se rinnovamento della politica e credibilità dei programmi fossero due pianeti distinti e lontani, fra cui è giocoforza fare una scelta secca. Un altro indizio, ai miei occhi, del fatto che il rebus italiano – il sogno di una politica credibile nei programmi e rinnovata nelle persone – non ha ancora alcuna soluzione.

da - http://lastampa.it/2013/01/27/cultura/opinioni/editoriali/il-requisito-minimo-della-credibilita-y8aUMjeFKbvTC4TBOgLCNL/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Promesse da marinaio
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2013, 05:02:29 pm
Editoriali
04/02/2013

Promesse da marinaio

Luca Ricolfi

D’accordo, l’informazione ha le sue leggi e tutti oggi parleremo di «proposte shock» di Berlusconi. Ed è pure vero che l’idea di una letterina del ministro dell’Economia (Berlusconi stesso) che ti dice di andare in banca o all’ufficio postale a riprenderti i soldi che hai appena versato per l’Imu sulla prima casa è nuova e stuzzicante. Però non si può non osservare che i propositi che Berlusconi ha annunciato ieri in conferenza stampa a Milano non sono affatto nuovi, e in realtà non fanno che riprendere le cose che da un paio di settimane sta ripetendo il suo consigliere economico più ascoltato, l’ex ministro Renato Brunetta.

 

Vediamo dunque di che cosa si tratta, prima di scioccarci troppo. Ridotto all’osso, il ragionamento economico del centro-destra (ma anche, in parte, della lista Giannino) è il seguente.

 

Primo. La pressione fiscale, oggi vicina al 45% del Pil, va ridotta di 5 punti in 5 anni, per portarla al 40% nel 2018. Questa operazione costa alle casse pubbliche 16 miliardi il primo anno, 32 miliardi il secondo, 48 miliardi il terzo, 64 miliardi il quarto, 80 miliardi il quinto, quando finalmente l’obiettivo di una pressione al 40% del Pil sarà stato raggiunto e il sistema potrà andare a regime.

 

Secondo. Dove trovare gli 80 miliardi? Nella riduzione della spesa pubblica, che dagli attuali 800 miliardi dovrà ridursi del 10% in 10 anni, ossia scendere di 16 miliardi il primo anno, di 32 il secondo, di 48 il terzo, di 64 il quarto, e finalmente (?) di 80 l’ultimo.

 

Terzo. I beneficiari dell’alleggerimento della tasse dovrebbero essere per metà i produttori e per metà le famiglie. Come? Eliminazione dell’Irap, detassazione degli utili di impresa, eliminazione dell’Imu sulla prima casa, aliquote Irpef più basse, in particolare sulle famiglie numerose (il cosiddetto quoziente familiare).

Quarto. Lo stock del debito pubblico va abbattuto con massicce dismissioni del patrimonio dello Stato e degli Enti locali, tassando i capitali illegalmente detenuti in Svizzera, e mediante emissione di obbligazioni garantite dallo Stato.

 

Il presunto «annuncio shock» di ieri sta tutto dentro questo disegno di politica economica, rispetto a cui è solo la classica punta dell’iceberg. E’ quel che il venditore accorto mostra al popolo, mentre il vero programma del centro-destra, il programma completo, pur essendo perfettamente pubblico (i dettagli sono usciti da tempo sui quotidiani) resta in secondo piano. Vediamo dunque l’intero iceberg che avanza.

 

E’ sensato il programma del centro-destra?

 

Per provare a capirlo, conviene partire dalle obiezioni che riceve. La prima è che si tratta di un programma iper-liberista, vagamente thatcheriano. L’obiezione è più che giusta, ma potrebbe anche deporre a favore del programma: dopotutto Margaret Thatcher e Ronald Reagan fecero ripartire due economie che si erano completamente sedute. Molto si può e si deve discutere dei costi sociali dei programmi liberisti, ma è difficile non riconoscere che - se non ci si accontenta di ridistribuire la ricchezza ma si vuole anche che torni a crescere - quella di ridare ossigeno a chi produce ricchezza è una delle poche idee sensate in circolazione.

 

La seconda obiezione è che gli italiani hanno buona memoria, e che non si faranno ingannare dalle sciocchezze che Berlusconi ricicla per l’ennesima volta. Temo che chi prova ad autotranquillizzarsi con questa osservazione non conosca bene né Berlusconi né gli italiani. Berlusconi ha una capacità di apparire concreto che agli altri leader difetta completamente, e gli italiani hanno buona memoria per tutto, non solo per Berlusconi. Gli elettori, ad esempio, ricordano perfettamente l’immobilismo di Tremonti, gli impegni non mantenuti di Berlusconi, ma ricordano altrettanto bene la stangata fiscale del governo dei tecnici, o la litigiosità dell’ultimo governo Prodi. Se l’esito delle elezioni non è ancora deciso, e Berlusconi può permettersi il lusso di ripropinarci le solite cose, è perché la nostra delusione coinvolge tutti, non solo una parte politica.

 

Resta l’obiezione più importante: il programma del centro-destra non è attuabile, Berlusconi non potrà mantenere le promesse che fa.

 

Questa mi pare l’obiezione più seria. Il programma che abbiamo riassunto all’inizio è del tutto irrealistico in alcune coperture, ad esempio nell’entità delle dismissioni del patrimonio pubblico, o nelle stime dei proventi dell’accordo con la Svizzera sui capitali illegalmente esportati. Ma è irrealistico soprattutto sul piano politico. E il bello è che è stato Berlusconi stesso, pochi giorni fa in tv, a spiegarci perché il suo piano era inattuabile (e aggiungo io, perché inattuabili sono anche i piani più ambiziosi dei suoi avversari). Al giornalista che, di fronte al solito elenco di impegni futuri, giustamente gli chiedeva «ma come mai le cose che promettete oggi non le avete già fatte ieri, quando eravate al governo?», Berlusconi rispondeva candidamente: ma è ovvio, con il bicameralismo perfetto, con gli attuali regolamenti parlamentari, con i poteri limitatissimi che l’attuale Costituzione gli concede, nessun presidente del Consiglio può attuare i suoi propositi. Lui lo ha detto per giustificare il passato, ma così ha automaticamente sottratto credibilità al futuro che ci prospetta.

Di questa possibile obiezione (più che sensata, e a mio parere decisiva) non v’è traccia nel programma di centro-destra, che l’intrepido Brunetta pensa di attuare fin dal 2013.

 

E pensare che, proprio perché quel programma è estremamente incisivo e una sua logica la possiede, quella obiezione di Berlusconi dovrebbe essere al centro del dibattito politico. Chi pensa che l’Italia, come un paziente grave, abbia bisogno di interventi radicali e dolorosi, siano essi quelli proposti dai liberisti o quelli più ermeticamente suggeriti dai loro avversari, dovrebbe porsi seriamente il problema del consenso necessario per avviarli. In questi lunghi anni c’è stato un solo momento, una sola finestra di opportunità, in cui il paziente sarebbe stato disposto a sottoporsi al doloroso intervento di cui aveva bisogno. Quel momento è stato il primo semestre del governo Monti, in cui la gente aveva capito la gravità della situazione, e i partiti non osavano fiatare, ipnotizzati dall’autorità del Professore. 

 

Ma quel momento, purtroppo (e per me inspiegabilmente), è stato sciupato, o meglio è stato colto solo per somministrarci la solita, la più facile ed antica delle medicine: il salasso fiscale. Ora il tempo è passato, quella consapevolezza non c’è più, e chiunque voglia davvero cambiare l’Italia dovrà prima di tutto ricostituire quella consapevolezza. Un’operazione difficile, perché - su questo la penso come il «conservatore» Nichi Vendola - per cambiare le cose, per portare la gente a sperare e a credere di nuovo nel futuro, non bastano le promesse da marinaio degli imbonitori di destra, di sinistra e di centro, né le tabelle dei loro uffici studi, ma ci vuole un racconto, una meta comune verso cui tendere, un sogno che valga la pena di essere sognato, o forse un ricordo che alimenti quel sogno. Anziché insegnarci a odiare l’avversario, i nostri politici dovrebbero forse riflettere su quel che scriveva Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del Piccolo Principe: «Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e profondo».

da - http://lastampa.it/2013/02/04/cultura/opinioni/editoriali/promesse-da-marinaio-gTVXlNCxDKtVxMXLoTc7sO/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - La rivoluzione tradita del cavaliere
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2013, 04:57:36 pm
Editoriali
10/02/2013

La rivoluzione tradita del cavaliere

Luca Ricolfi

Forse Berlusconi e le sue bugie ce le meritiamo. Non come cittadini, magari, visto che il cittadino è largamente impotente. Ma come mass media, e soprattutto come servizio pubblico televisivo, direi proprio di sì.

Breve spiegazione. E’ da almeno tre settimane che, ogni volta che accendo il televisore e mi becco Berlusconi, immancabilmente gli sento dire che lui, in realtà, le promesse le ha sempre mantenute. Le ha mantenute tutte. Legge le clausole del «Contratto con gli italiani» del 2001, e sciorina una raffica di «fatto». Legge il programma elettorale del 2008, e di nuovo si auto-loda per averli rispettati, gli impegni che ha preso. 

 

La cosa non mi stupisce, perché siamo abituati all’uomo. Ma i conduttori delle trasmissioni televisive, dove stanno con la testa quando gli sentono fare affermazioni del genere? Davvero sono convinti che siamo di fronte alla libera espressione di opinioni e valutazioni? Non hanno mai visto un dibattito o un talk show di una tv estera? Non sanno che in un normale Paese europeo, come la Germania, il Regno Unito o la Francia, mai e poi mai un politico potrebbe mentire spudoratamente sui dati di fatto, perché il conduttore tv lo incalzerebbe senza pietà, e la stampa del giorno dopo ne farebbe a pezzi l’immagine?

 

Sia ben chiaro, qui non mi riferisco a impegni secondari, o alle promesse più vaghe e generiche dei politici, tipo riformeremo questo, cambieremo quello, metteremo al centro la tal cosa, tuteleremo la tale categoria. No, qui mi riferisco a cose precise e importanti, a impegni che Berlusconi ha preso ripetutamente e solennemente, e che sono il nucleo – il piatto forte – del programma politico del centro-destra: abolire l’Irap, far scendere al 33% l’aliquota Irpef massima. Era ed è fondamentale per ridare ossigeno alle imprese e alle famiglie, è stato promesso decine di volte, non è stato fatto. Possibile che nessuno di quelli che lo intervista, quando gli sente dire che ha mantenuto tutte le promesse, non scoppi in una fragorosa risata? Possibile che non senta il dovere di ricordargli (almeno) questi due dati di fatto, assolutamente incontrovertibili? Come si fa ad andare avanti con le domande se l’intervistato può negare l’evidenza? Ma soprattutto: come non vedere che passato e futuro sono intimamente connessi, che non si può essere credibili su quel che verrà se non si ammette la verità su quel che è stato? I grandi leader politici che chiedono all’elettorato di essere confermati, spesso ottengono la conferma proprio perché ammettono i limiti di quel che hanno fatto, proprio perché sanno trasmettere l’idea di un’opera largamente incompiuta. E’ quel che ha saputo fare Barack Obama l’anno scorso, è quel che a suo tempo fece Tony Blair per ottenere il secondo mandato. 

 

Fine dello sfogo. Che, vorrei fosse chiaro, non riguarda il merito delle proposte del centro-destra, alcune delle quali anzi io trovo sensate ed apprezzabili (ad esempio l’idea di azzerare per 3-5 anni tutte le tasse sui giovani neoassunti). La mia stanchezza per le chiacchiere berlusconiane, la mia insofferenza per la rassegnazione dei media di fronte ad esse, derivano anzi proprio dalla convinzione che la «rivoluzione liberale» più volte promessa e mai realizzata dal centro-destra sia tuttora una delle poche idee buone in circolazione ma che, sfortunatamente, non vi sia oggi alcuna grande forza politica che la incarni credibilmente. Insomma, secondo me la vera critica che si deve fare a Berlusconi non è quella di avere determinate idee, ma di averle tradite, o meglio ancora di avere tradito il nucleo migliore del proprio programma. 

 

Ecco perché, con l’approssimarsi del voto, sono sempre più perplesso, per non dire depresso. Sono fra quanti pensano sia giunto il momento di archiviare Berlusconi e il berlusconiano, se non altro perché la sensazione di essere presi continuamente in giro è estremamente sgradevole, e poi perché la mera presenza di Berlusconi sulla scena politica basta ad avvelenare il clima, rendendo la sinistra stessa più irragionevole di quel che sarebbe altrimenti. Nel medesimo momento, tuttavia, penso che l’uscita di scena di Berlusconi, ammesso che si realizzi, stia avvenendo sulla base di una serie di false credenze. La credenza, ad esempio, che rimosso il «tappo» del Cavaliere, l’Italia rimuova con ciò stesso molti dei suoi problemi, una credenza che un anno di governo dei tecnici avrebbe già dovuto spazzar via da un pezzo. Ma soprattutto mi preoccupa la credenza che i mali dell’Italia vengano tutti dalla medesima parte politica, e che l’enorme espansione della spesa pubblica e del debito non siano anche il prodotto delle politiche progressiste. Una credenza cui se ne lega un’altra, e cioè che il ritorno della sinistra al potere potrà risolvere i nostri problemi. No, non credo che andrà così, e non andrà così proprio perché – con Berlusconi – esce di scena anche l’idea migliore che, sia pure timidamente, la cultura di destra aveva fatto propria in questi anni, quella di una rivoluzione liberale che riducesse l’invadenza dello Stato e trasformasse gli italiani, finalmente, da sudditi a cittadini. 

 

C’è stato un momento, negli ultimi tempi, in cui è sembrato che quella idea potesse avere qualche chance, e che la crisi dei partiti potesse preludere alla nascita, se non di un partito liberaldemocratico, almeno di una cultura politica con quella ispirazione. Le forze e le persone c’erano, ma è mancato il cemento. Sul filo di lana ognuno è andato per la sua strada. Così oggi la cultura liberale sopravvive minoritaria come i cristiani nelle catacombe e, a parte la generosa scommessa della lista Giannino, non ha alcuna chance di rappresentanza in Parlamento. C’è solo da augurarsi che abbiano torto quanti, come me, pensano che di quelle idee non si possa assolutamente far a meno se si vuole ridare una speranza a un Paese che non spera più.

da - http://www.lastampa.it/2013/02/10/cultura/opinioni/editoriali/la-rivoluzione-tradita-del-cavaliere-hKt9v6CDtHjMs8KnmI94CJ/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - “Attenti, per la crisi la tregua è solo temporanea”
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2013, 11:21:07 pm
Economia
19/02/2013

Ricolfi: “Attenti, per la crisi la tregua è solo temporanea”

Luca Ricolfi


L’editorialista de La Stampa analizza lo scenario economico in un’ampia intervista Tv in onda stasera su Rete4. Ecco un’anticipazione

Luca Ricolfi ha le idee chiare sulla sofferenza delle famiglie e delle imprese, anche se è scettico sulle possibilità di un vero cambiamento del nostro sistema, incluso il cambiamento che può arrivare dalle prossime elezioni. L’editorialista de La Stampa ne ha parlato in un’ampia intervista televisiva realizzata da Alessandro Banfi nell’ambito dell’inchiesta “La Grande Speculazione”, in onda stasera alle 21 su Rete4. Ecco alcuni brani del colloquio: 

 

Professore, ormai è passato un po’ di tempo da quella che è stata chiamata la “tempesta perfetta” dello spread. Adesso che la situazione sembra calmata e non sembra essere più la prima emergenza che bilancio vogliamo trarre da quello che è avvenuto? 

Il primo bilancio da trarre è che si tratta di una tregua temporanea. Cioè nulla ci assicura che le cose, come rapidamente sono precipitate, altrettanto rapidamente sono poi tornate a posto e altrettanto rapidamente potrebbe precipitare nuovamente da un momento all’altro. Non sono tranquillo perché lo spread è legato innanzitutto ai fondamentali. E i fondamentali non sono a posto da nessuna parte. Poi c’è questo fenomeno parallelo di rivalutazione dell’Euro e di guerra delle monete che adesso forse ci fa vedere le cose in modo troppo ottimistico. Paradossalmente noi, grazie alla svalutazione delle altre monete abbiamo un Euro forte, i problemi dello spread si sono un po’ attenuati, ma non mi aspetto che la situazione sia definitivamente sotto controllo.

 

Ecco lei spesso è intervenuto ammonendo: attenzione che la spiegazione della calma apparente e della decrescita, fortunatamente avvenuta, dello spread, non può essere così semplicistica. Il governo Monti ha dato credibilità ma lo spread è andato giù… 

Penso addirittura che il governo Monti l’abbia fatto crescere lo spread. Non in assoluto. Mi spiego meglio. Lo spread ha avuto un andamento molto variabile da quando c’è Monti, anche dai tre, quattro mesi precedenti. Su questo andamento hanno influito poco a mio parere i fattori politici, hanno influito molto gli interventi della Banca Centrale Europea. 

Cioè l’errore che noi facciamo, a mio parere, quando commentiamo lo spread, quando ad esempio parliamo di “quota Monti” e cose di questo genere è di guardare il valore assoluto dello spread. Il valore assoluto dello spread è sempre la somma di due componenti: come vanno gli altri Paesi dell’Euro, e come va l’Italia rispetto agli altri Paesi dell’Euro. Infatti noi come La Stampa per esempio calcoliamo tutti i giorni, una cosa che pubblichiamo solo ogni tanto e cioè lo “spread dello spread”. 

 

Lei ha inventato questo indice: “lo spread dello spread”… 

Sì cioè, com’è lo spread dell’Italia rispetto a quello di Paesi abbastanza normali, cioè noi abbiamo messo un paniere di tre Paesi: uno che sta decisamente peggio, che è la Spagna, uno che sta decisamente meglio, che è la Francia e uno che sta un po’ meglio, ma che ha dei problemi analoghi all’Italia, che è il Belgio (ha problemi di debito da sempre). Abbiamo tenuto fuori sia i “Paesi della virtù” (Finlandia, Olanda e Germania) sia i “Paesi del vizio” (Grecia, Portogallo e Irlanda). 

Ora se uno guarda l’andamento dello “spread dello spread” è molto più stabile dello spread generale perché riflette solo la posizione dell’Italia. Tra l’altro adesso siamo tornati a una situazione abbastanza simile a quella che c’era nell’estate della prima crisi (di un anno e mezzo fa). 

Allora, tornando alla dinamica dello spread, dicevo che ci sono tutte queste componenti differenti: la politica conta poco, conta parecchio la Banca Centrale, conta parecchio il clima generale che c’è in Europa nei paesi dell’Euro, e quindi l’andamento dello spread di Belgio, Francia e Spagna. 

Poi c’è una componente che siamo noi. Ora se uno analizza l’andamento dello spread dell’Italia e lo compara con quello degli altri Paesi e si focalizza sullo “spread dello spread”, io ho trovato che c’è una causa che viene spesso dimenticata e che è molto più importante di quella su cui il governo Monti ha focalizzato la sua attenzione. Il governo Monti, come sapete, si è focalizzato sul deficit. In sostanza ha detto: noi non possiamo permetterci un deficit, dobbiamo avere il bilancio in pareggio nel 2013 e ha alzato le tasse per questo motivo. Ma se si fa un’analisi econometrica delle differenze di spread fra Paesi dell’Euro (sto solo parlando dell’Euro) c’è un’altra causa fondamentale, che conta molto più delle previsioni di deficit: le aspettative di crescita. 

 

Lei dice: bisogna ridurre le tasse all’impresa. Ai produttori. 

Sì io ho questa idea, ma perché ci ho studiato. Cioè ho tentato in tutti i modi, facendo del lavoro econometrico, di vedere se la pressione fiscale bassa favorisca la crescita. Ho provato a vedere se il famigerato cuneo fiscale favorisca la crescita. E i risultati sono estremamente deludenti. Capisco che politicamente sono cose da fare, ma da un punto di vista economico se lei vuole alzare il tasso di crescita a breve c’è una sola misura: la riduzione dell’imposta societaria e più in generale delle imposte che gravano sui produttori: Ires, Irap e dintorni. Per esempio il numero di adempimenti burocratici è una cosa che ha un costo economico ingente. Così la crescita la si può stimolare in dodici mesi. Tutto il resto di cui molto si parla è importante, ma ha effetti, se va bene, tra 5 e se va male tra 20anni. Allora, noi possiamo attendere da 5 a 20 anni per tornare a crescere o nel frattempo saremo precipitati in un disastro? Io tendo a pensare che non possiamo aspettare tutto questo tempo e quindi non mi consola il fatto che nessuno abbia delle politiche convincenti. 

 

Di riduzione della pressione fiscale parlano tutti. Credibilmente, forse leggermente più credibile il centrodestra. Ma nel momento in cui pensano alle famiglie, perché pensano ai voti questo non cambierà il tasso di crescita dell’Italia. Darà un po’ di ossigeno temporaneo ai bilanci familiari, questa cosa è importantissima, ma la domanda che dobbiamo farci è: vogliamo darci un po’ di ossigeno o genericamente a queste famiglie che sono in una situazione drammatica o vogliamo che la torta torni a crescere?

Se lei ha 10 miliardi a disposizione, che è una bella cifra, e li mette sulle tasse che pagano i produttori questo sicuramente ha un effetto sul tasso di crescita. Difficile dire di che entità, ma diciamo che un punto potrebbe esserci, ma se lei lo spalma su 50 milioni di persone non cambia nulla. Assolutamente nulla. Mentre se la locomotiva ricomincia a macinare chilometri nel giro di uno, due, tre anni, tutti ne hanno, o quasi tutti, ne hanno un beneficio apprezzabile. Cioè io sono perplesso sulle politiche di riduzione della pressione fiscale sulle famiglie perché sono troppo distribuite. 

 

Un conto se mi dice: io penso che ci sono i poveri, triplichiamo la social card. Quella è una cosa che capisco, se tu i 10 miliardi li metti in quella cosa lì va bene. Poi mi dici dove li prendi però va bene. Ma se lei i 10 miliardi li mette a pioggia, come stava per fare il governo Monti quando ha parlato di riduzione delle tasse, che in realtà aumentavano perché le riduzioni erano irrisorie, compensate dall’aumento dell’Iva… A che serve davvero? 

da - http://lastampa.it/2013/02/19/economia/ricolfi-attenti-per-la-crisi-la-tregua-e-solo-temporanea-rRWosUlJlwplDAWXdHpZuJ/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Il dilemma dell’asino di Buridano
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2013, 06:59:06 pm
EDITORIALI
22/02/2013

Il dilemma dell’asino di Buridano

LUCA RICOLFI

Quasi nessuno crede alle promesse dei politici. Quindi andremo a votare al buio, consapevoli che - chiunque vinca - non farà quello che si è impegnato a fare. Il fatto che sia irrazionale, irragionevole o quantomeno ingenuo credere a quello che i politici ci raccontano in campagna elettorale, non impedisce però di fare delle previsioni sul loro comportamento futuro. L’elettore, infatti, ha almeno un vantaggio sui politici: ormai li conosce. E, conoscendoli, sa che cosa aspettarsi da ciascuno di essi. Può usare il loro passato per indovinare il futuro che ci potranno riservare. E’ questo l’esercizio di traduzione che vorrei proporre oggi, un esercizio personale ovviamente, ma che ognuno può ripetere in proprio prima di mettere la crocetta sul simbolo sbagliato. 
 
Per capire che cosa ci aspetta davvero, la prima domanda da farsi è la seguente: qual è la stella polare di Bersani, Berlusconi e Monti? (di Grillo non parlo, perché la sua stella polare è chiara: «mandarli a casa tutti»).
Bene, secondo me la stella polare di Bersani è, come sempre per la sinistra, la spesa pubblica. Si tratta di trovare il modo di farla crescere, allentando il patto di stabilità interna (tradotto: lasciando che i Comuni che hanno soldi li spendano). 
 
E rinegoziando i vincoli europei (tradotto: lasciateci fare un po’ più di deficit), nella speranza che l’economia riparta. La diagnosi è chiara: abbiamo avuto troppo rigore, è giunta l’ora di varare qualche stimolo all’economia. Il che, nella mentalità della cultura di sinistra, significa sempre «trovare» le risorse, piuttosto che liberarle, nell’illusione che il Pil cresca perché lo Stato spende di più, e non perché lascia più soldi nelle tasche dei produttori. Quanto alle tasse, una patrimoniale sui ceti medio-alti non è esclusa (specie se ci fosse necessità di una manovra aggiuntiva), mentre è esclusa una significativa riduzione della pressione fiscale. 
 
Si potrebbe pensare che la mia sia una lettura maliziosa del programma del Pd, ma in realtà è la conseguenza aritmetica di una cosa che a sinistra è stata ripetuta fino alla noia: le tasse diminuiranno nella misura in cui riusciremo a farle pagare agli evasori. E’ strano che nessuno lo faccia notare, ma diminuire le aliquote prendendo i soldi dagli evasori significa una cosa soltanto: che la pressione fiscale resta costante, e quel che cambia è solo la sua ripartizione fra economia sommersa ed economia emersa. Un fatto senz’altro positivo, ma che si fonda sull’idea (secondo me erronea) che l’Italia possa tornare a crescere con una pressione fiscale elevata come quella attuale.
 
Passiamo al centro-destra. Qui le stelle polari sono due. C’è la stella polare personale di Berlusconi, che è salvare sé stesso dai processi e le sue aziende dalle possibili conseguenze di leggi «contra personam» minacciate dalla sinistra, ad esempio in materia di conflitto di interessi e concessioni pubbliche. E poi c’è la stella polare dei governi guidati da Berlusconi, che è sempre stata la riduzione delle tasse, senza però ridurre la spesa, e dunque creando deficit pubblico. Con l’aggravante che oggi i mercati ci punirebbero senza pietà, mettendo a rischio la stabilità finanziaria dell’Italia e quindi i nostri risparmi. Naturalmente so benissimo che esiste anche il «vasto programma» di Brunetta: tagliare in cinque anni 80 miliardi di spesa pubblica e restituirli ai cittadini sotto forma di minori tasse. Ma non lo prendo in considerazione perché la sua attuazione richiederebbe un vero governo di unità nazionale, tipo quello con cui Merkel e Schröder salvarono la Germania dal declino cui fino a pochissimi anni fa sembrava avviata (molti si sono scordati che, fino al 2007, era la Germania «the sick man of Europe», ovvero l’economia europea più in difficoltà). 
 
Resterebbe Monti, di cui per fortuna abbiamo un ricordo sufficientemente fresco da spegnere ogni illusione. Monti è stato l’unico leader che la possibilità di fare quel che ora promette - un governo che tagli le ali estreme e faccia le riforme - l’ha avuta sul serio. Quando venne chiamato a «salvare l’Italia» avrebbe potuto fare cose impensabili per i suoi predecessori e, temo, anche per i suoi successori. Ha sciupato quasi del tutto quell’opportunità, muovendosi con una prudenza eccessiva, un rimprovero questo che in questi mesi gli è stato ripetutamente rivolto dai suoi stessi allievi bocconiani. Nemmeno sull’abolizione del valore legale del titolo di studio, tipico cavallo di battaglia della cultura liberale, il suo governo ha avuto il coraggio di prendere una posizione, preferendo nascondersi dietro una consultazione pubblica destinata a finire nel nulla. Ora ci racconta che quel che di buono ha fatto è stato nonostante i partiti, e quel che non è riuscito a fare è a causa delle loro resistenze. Può darsi (anzi sicuramente è), ma come può pensare che la forza che i partiti non gli hanno dato ieri, quando erano terrorizzati e intimiditi, gliela possano dare oggi, che sono tornati ringalluzziti e protervi più che mai? 
 
Che cosa potremmo dunque aspettarci, realisticamente, da un governo Monti, o da un governo molto condizionato da Monti?
 
La stella polare di Monti è il rigore, ossia l’equilibrio dei conti pubblici imposto dall’Europa. I comportamenti passati del suo governo fanno pensare che Monti sia convinto che la via maestra per fermare la crescita del rapporto debito-pil sia azzerare il deficit, o meglio azzerare il deficit «corretto per il ciclo», il che in buona sostanza significa chiedere all’Europa di poter sforare un po’. Questa visione e la linea di condotta che ne deriva hanno alcune conseguenze positive e altre negative. La conseguenza positiva più importante è che, con il rigore sui conti pubblici, diventa meno probabile un collasso finanziario immediato, che finirebbe per provocare una forte riduzione della ricchezza delle famiglie. Quel rischio è invece molto forte in caso di ritorno al governo di Berlusconi, e non è assente nel caso Bersani si trovasse a ripetere la triste commedia dell’ultimo governo Prodi, paralizzato - come l’asino di Buridano - dalle «diverse sensibilità» dei suoi ministri (per inciso: un governo Bersani-Monti-Vendola ci regalerebbe l’asino di Buridano perfetto).
 
Ma non mancano, purtroppo, anche le conseguenze negative. L’ossessione del deficit fa indubbiamente i conti con l’Europa (o meglio con la visione economica della signora Merkel) ma non fa i conti né con i mercati né con gli interessi di lungo periodo dell’Italia. Non fa i conti con i mercati perché sottovaluta due elementi cruciali. Primo, lo spread dipende più dal deficit nominale che da quello «corretto per il ciclo»: ai creditori dello Stato italiano interessa il deficit pubblico effettivo, non «quello che sarebbe stato se non fossimo in recessione» (è questo, in buona sostanza, il senso della «correzione per il ciclo»). Secondo, lo spread è fortemente influenzato dalle attese di crescita del Pil, come si è visto la primavera scorsa, in pieno «governo dei tecnici», quando le previsioni di crescita dell’Italia sono state drammaticamente riviste al ribasso e lo spread è ricominciato a salire pericolosamente.
 
Ma l’ossessione per il deficit non fa i conti, soprattutto, con gli interessi futuri dell’Italia. I quali sono di aumentare stabilmente la torta da ridistribuire, più che accontentarsi di suddividere «in modo più equo» una torta che continua a restringersi di anno in anno. Un obiettivo, quello di far ripartire il Pil, che realisticamente si può raggiungere solo con riforme coraggiose, e tenendo i conti in ordine dal lato della spesa, anziché dal lato delle tasse come Monti e Bersani hanno mostrato finora di preferire.
 
Ed eccoci al paradosso finale. A mio parere la politica economica che meglio tutela gli interessi futuri dell’Italia è una versione più realistica, o meno talebana, della rivoluzione liberale annunciata da Renato Brunetta o da Oscar Giannino (la cui lista e le cui idee restano in campo, a dispetto delle dimissioni del fondatore). Ad essi mi sento di fare un solo vero appunto, quello di dimenticare che il nostro Stato sociale, oltre che inefficiente e sprecone, è anche largamente incompleto, visto che mancano asili nido, ammortizzatori sociali universali, politiche per gli anziani e le persone non autosufficienti: ridurre la spesa pubblica si può e si deve, ma non nella misura in cui i liberisti puri pretenderebbero. 
 
Purtroppo, però, non vi è alcuna possibilità che una seria e realistica rivoluzione liberale venga attuata da un governo di centro-destra, perché quel genere di politica richiederebbe due ingredienti che ad esso mancano del tutto: la credibilità davanti all’Europa e ai mercati (cha ha solo Monti) e la credibilità davanti alle forze sociali (che ha solo Bersani). Sembra un ossimoro, ma quello di cui a mio avviso l’Italia avrebbe oggi bisogno è una politica di destra fatta dalla sinistra. O, per essere più precisi, di una politica liberale, e perciò automaticamente e superficialmente bollata come «di destra», attuata e garantita dall’assai meno screditato personale politico di centro-sinistra. Una politica che ridia un po’ di ossigeno a chi produce ricchezza e al tempo stesso sia capace di incidere profondamente sulla spesa pubblica, non già per smantellare lo Stato sociale bensì per completarlo, perché di un welfare che funziona c’è oggi più bisogno che mai.
 
Quel che invece avremo, verosimilmente, sarà un governo che dirà di battersi per «un paese più giusto», ma finirà per restituirci un paese forse anche più giusto, ma sicuramente più povero. Come direbbe Bartleby lo scrivano, «avrei preferenza di no».
 
da - http://www.lastampa.it/2013/02/22/cultura/opinioni/editoriali/il-dilemma-dell-asino-di-buridano-SKutJ5ZV4db9hU9CBeRnaM/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - La Sinistra che non impara dai suoi errori
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2013, 05:36:12 pm
Editoriali
27/02/2013

La Sinistra che non impara dai suoi errori

Luca Ricolfi

Le domande sono tante, ma ognuno se ne fa una diversa. C’è chi non si capacita che quello di Grillo sia diventato il primo partito italiano.
C’è chi non si capacita che le ambizioni «terzo-poliste» di Monti e Casini siano state così severamente punite dagli elettori. C’è chi non si capacita che cattolici e comunisti siano praticamente scomparsi dal panorama politico italiano. 

 

C’è chi non si capacita che Bersani sia riuscito a dissipare un vantaggio che sembrava incolmabile. E c’è chi non si capacita del ritorno di Berlusconi, una specie di gatto dalle sette vite. 

 

Personalmente, trovo tutti questi stupori ben poco ragionevoli, e non lo dico con il senno di poi. Che tutti questi eventi fossero perfettamente possibili, infatti, mi è capitato di scriverlo ripetutamente dalle colonne di questo giornale, per lo più suscitando la costernazione dei miei amici: non volevano credere che il premio di maggioranza potesse vincerlo persino Grillo, non riuscivano a concepire che le elezioni potesse vincerle anche Berlusconi, non vedevano che cosa ci fosse di autolesionistico nell’alleanza fra Monti e il mondo cattolico. Ecco perché, a me, nulla di quel che è accaduto pare davvero stupefacente.

 

Questo non vuol dire, però, che non sia stupito anch’io. Solo che è un’altra la cosa che mi stupisce. Non il fatto che Bersani, pur vincendo (il premio di maggioranza), sia il grande perdente di questa tornata elettorale: questo non era scontato, ma era nell’ordine delle cose prevedibili. Quello che, ancora oggi, continua a suscitare il mio stupore è invece il fatto che la sinistra, questa sinistra un tempo egemonizzata dal Pci e ora tenuta insieme dagli ex comunisti, sia assolutamente incapace di imparare dai propri errori. E quindi sia, per così dire, rigidamente programmata per ripeterli, cocciutamente e senza alcuna speranza di imparare alcunché dal proprio passato.

 

E dire che, per capire quali fossero gli errori da evitare, non ci voleva una mente molto raffinata. Il più grave, spiace dover sottolineare una simile ovvietà, è quello di non ascoltare la gente. Bersani ha offerto affidabilità, credibilità, rassicurazione (il famoso «usato sicuro») a un elettorato che, semplicemente, voleva prima di tutto un’altra cosa: un rinnovamento radicale della politica. Eppure quella richiesta di cambiamento era chiarissima e antica, visto che aveva già preso forma più di dieci anni fa (era il 2002), con la famosa invettiva-profezia di Nanni Moretti in piazza Navona: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!».

 

Perché non hanno saputo o voluto ascoltare questo sentimento, che pure attraversa il popolo di sinistra da così tanti anni? Perché la classe dirigente della sinistra non impara mai dai propri errori? Perché non ascolta il suo elettorato?

 

Me lo sono chiesto tante volte, perché anch’io - se molte cose cambiassero - potrei esserne parte. E la conclusione cui sono arrivato è che la ragione vera, la ragione profonda, per cui la sinistra non sa ascoltare è una soltanto: è la fortuna. La sinistra può permettersi - o meglio: si è potuta permettere finora - di ignorare completamente il suo popolo per la sfacciata fortuna che la accompagna. La sinistra è come Gastone Paperone: almeno nella seconda Repubblica è stata così fortunata da potersi sottrarre a ogni controllo di realtà. 

 

In che cosa è consistita la fortuna della sinistra?

 

La prima fortuna è di essere riuscita a vincere ben tre elezioni, quelle del 1996, quelle del 2006 e quelle attuali, nonostante la maggioranza degli italiani non l’avesse scelta. Vincere per il rotto della cuffia significa essere fortunati, ma è una fortuna che si paga, perché ti fa credere di aver fatto tutto giusto anche se non è vero. La sinistra ha da sempre il problema di allargare i propri consensi al di fuori della cerchia dei propri sostenitori tradizionali, ma non lo affronta mai perché una maledetta fortuna la accompagna in ogni tornata elettorale. Ciò vale, in particolare, per la tornata del 2006 e per quella attuale. In entrambe il candidato più capace di allargare il consenso, il candidato che avrebbe attirato voti anche dal campo avverso, il candidato che avrebbe assicurato un’ampia maggioranza in Parlamento, era una persona diversa da quella che poi effettivamente venne scelta. Nel 2006 il consenso di Veltroni era notoriamente molto più ampio di quello di Prodi. Oggi il consenso di Renzi è notoriamente molto superiore a quello di Bersani. Eppure l’apparato del partito non se ne cale: come in un tipico concorso universitario, promuove il candidato interno, o quello che ha le simpatie dei baroni, e dice agli outsider che devono avere pazienza, il loro turno verrà. Peccato che, quando il loro turno arriva, il giocattolo è rotto: a Veltroni venne consegnato un Pd lacerato dalle lotte interne e dai due anni di non-governo di Prodi, a Renzi verrà (forse) consegnato un partito militarizzato da Bersani e ancora un po’ ostile al ragazzino. Se avesse avuto meno fortuna, se non fosse riuscita a nascondere con vittorie tecniche sconfitte politiche, la sinistra avrebbe iniziato ben prima quel processo di rinnovamento che da tanto tempo attendiamo.

 

C’è poi una seconda fortuna, che nessuno nota mai. Negli ultimi venti anni l’economia, in Italia, è andata sistematicamente peggio che nel resto d’Europa ma, curiosamente, la destra ha governato sempre in anni di congiuntura negativa (2001-2005 e 2008-2011), la sinistra sempre in anni di congiuntura positiva (1996-2000 e 2006-2007). Il nesso è del tutto casuale, perché la congiuntura dipende essenzialmente dal resto dell’Europa, ma mi sono divertito a calcolare le probabilità che - in un quindicennio - la «dea bendata» distribuisca i suoi favori in modo così squilibrato: sono così basse che verrebbe da pensare che la dea non sia bendata come si dice. Anche questo ha contribuito a ritardare una diagnosi spietata su se stessa e sulle proprie politiche. 

 

Ma forse la fortuna-sfortuna più importante della sinistra è il suo elettorato. Delle tre opzioni di cui, secondo la celebre analisi di Albert Hirshman, l’elettore-consumatore può servirsi, l’elettore di sinistra ne trascura sempre una: la defezione (exit). All’elettore progressista piacciono solo le altre due: la protesta (voice) quando le elezioni sono ancora lontane, la lealtà (loyalty) al momento del voto. L’elettore di sinistra, secondo tutte le indagini, è il più fedele, il più leale, o il più gregario, se preferite. Può mugugnare, indignarsi, criticare, parlare male del Pd per anni e anni ma poi, arrivato al dunque, immancabilmente mette la crocetta nella casella giusta. Con ciò, verosimilmente, raggiunge lo scopo che si prefigge (togliere voti all’odiato Cavaliere), ma ottiene anche un effetto che forse non desidera: quello di permettere alla classe dirigente del Pd di rimandare, ancora una volta, il momento di cambiare. Rinunciando a inviare ai politici l’unico segnale che essi (talora) mostrano di comprendere, l’elettorato di sinistra è destinato a tenersi i dirigenti che ha. Non per sempre, perché nessuno è eterno, ma più del necessario, questo sì.

da - http://www.lastampa.it/2013/02/27/cultura/opinioni/editoriali/la-sinistra-che-non-impara-dai-suoi-errori-uss3TIeEJByFFzktfmRLFO/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Gli otto punti incomunicabili del Pd
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2013, 12:14:43 am
Editoriali
08/03/2013

Gli otto punti incomunicabili del Pd

Luca Ricolfi


Mi è capitato, nei giorni scorsi, di prender parte a un dibattito televisivo sulle elezioni e di ascoltare una puntata di un talk show politico, sempre con esponenti del Pd. Poi, ieri, ho letto attentamente gli 8 punti programmatici con cui Bersani pensa di candidarsi a guidare un governo appoggiato da Grillo. Ebbene, lo dico subito, io sono sconcertato.

 

Sono sconcertato perché, più li leggi e li ascolti, più ti accorgi che nei dirigenti del Pd nulla, ma proprio nulla è cambiato dopo il voto.
Non sono cambiati gli slogan, non sono cambiati i programmi, non sono cambiati gli atteggiamenti. Non sono cambiati i rituali, non sono cambiati i ragionamenti, non è cambiato il linguaggio. Non c’è nessuna idea veramente nuova. Solo tanta supponenza, e una completa incapacità di capire come si viene percepiti dagli altri. Questi dirigenti dimostrano, con il loro modo di parlare e di atteggiarsi, di non avere la minima idea di come la gente li vede. Se potessero entrare anche solo per qualche minuto nei nostri cervelli avrebbero uno shock: scoprirebbero che non solo non li apprezziamo, non solo li troviamo irritanti, ma siamo semplicemente increduli. 

 

Ma come? Nemmeno dopo lo schiaffo, lo sberleffo, l’umiliazione del trionfo di Grillo, nemmeno dopo tutto questo riuscite a mettere insieme una reazione, un ripensamento, un dubbio vero?

 

E’ terribile, quel che sta succedendo. Il vincitore morale delle elezioni è Grillo, che ha sfondato per l’elementare ragione che noi sfortunati elettori di questo paese non avevamo alcun altro mezzo per dare un segnale forte ai partiti tradizionali. Ma questa vittoria si sta rivelando inutile, se non dannosa. Il vincitore tecnico delle elezioni, il Pd di Bersani, si sta infatti mostrando del tutto incapace di recepire quel segnale. E il programma in 8 punti varato l’altro ieri nella direzione del Pd ne è purtroppo l’amara testimonianza scritta.

Io consiglio caldamente a tutti di andarselo a leggere, questo programma che dovrebbe “cambiare l’Italia” (www.partitodemocratico.it).
Di studiarlo parola per parola. Di provare a capirne la logica. Perché è una cartina di tornasole perfetta dell’incapacità di cambiare o, se preferite, dell’incapacità di concepire il cambiamento al di fuori delle furbizie della politica.

 

Che cosa vi troviamo, infatti? Fondamentalmente due cose.

Primo, un umiliante strizzare l’occhio a Grillo, con la ripresa di temi cari al Movimento Cinque Stelle (misure anti-casta, “banda larga”, “ottimizzazione ciclo dei rifiuti”, “recupero aree dismesse”, etc.), ma silenzio assoluto sulla sua proposta chiave (condivisa anche da Matteo Renzi), e cioè l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Su questo il punto 3 di Bersani si limita a dire: “Legge sui partiti con riferimento alla democrazia interna, ai codici etici, all’accesso alle candidature e al finanziamento”. Formulazione farraginosa e vuota, da cui si può dedurre solo che il finanziamento resta in piedi e si tratta unicamente di fissarne l’entità, in totale spregio del risultato del referendum che lo aveva abolito giusto vent’anni fa.

 

Secondo, una riproposizione, in molti punti e sotto-punti del programma di governo, del medesimo linguaggio usato in campagna elettorale, un linguaggio che, se (forse) ricompatta la base dei militanti, è invece del tutto controproducente quando si cerca di arrivare all’elettore normale, che non solo ignora il codice della politica ma lo detesta.

 

Che cosa è il “codice” della politica? L’essenza del codice della politica è la preferenza per le formule astratte, generiche, involute, vuote o meramente intenzionali. Espressioni che si limitano a comunicare l’attenzione per un tema o per un problema, senza indicare una soluzione praticabile (dove trovo i soldi?) ma soprattutto comprensibile. Esempio: se dico “metto 100 euro al mese in più nella social card e i soldi per farlo li trovo aumentando la benzina di tot centesimi al litro”, il cittadino può gradire oppure no, ma capisce perfettamente di che cosa stiamo parlando. Ma che cosa può capire se gli prometto “l’avvio della universalizzazione delle indennità di disoccupazione”? O se gli garantisco “avvio della spending review con il sistema delle autonomie e definizione di piani di riorganizzazione di ogni Pubblica Amministrazione” ?
O se gli prometto un “programma pubblico-privato per la riqualificazione del costruito” ? O se mi limito a dire che farò una legge, o introdurrò nuove norme, su un problema, un ambito, un tema?

 

Gli “8 punti” di Bersani grondano di leggi, norme, misure, piani, revisioni e rivisitazioni su tutto e su tutti: “misure per la tracciabilità”, “rivisitazione delle procedure di Equitalia”, “revisione degli emolumenti”, “legge sui partiti”, “legge sulla corruzione”, “norme efficaci sul voto di scambio” “norme sui conflitti di interesse”, “norme contro il consumo del suolo”, “norme sulle unioni civili”, “norme sull’acquisto della cittadinanza”, “contrasto all’abbandono scolastico”, “piano bonifiche per lo sviluppo delle smart grid”. Ma a chi parlate? E che cosa credete di comunicare, se non la vostra pretesa di occuparvi un po’ di tutto, e quindi la nostra certezza che finirete per combinare ben poco?

 

Di questa farraginosità degli 8 punti del programma di Bersani si è accorto persino il sindaco Pd di Padova, che in direzione ha detto senza tanti giri di parole (cito testualmente dalla trascrizione del suo intervento): “I punti proposti da Pierluigi, però, non sono 8, ma 50.
Come li comunichiamo? Faccio un esempio: la campagna elettorale di Berlusconi si è basata fondamentalmente sulla restituzione dell’Imu e
sull’eliminazione delle tasse per chi assume i giovani. (…). Gli 8 punti (di Bersani), ognuno dei quali si articola in 5 o 6 proposte, sono secondo me incomunicabili. Ha ragione il sindaco di Bari quando dice che oggi la proposta politica e la sua capacità di essere comunicata coincidono, hanno la stessa importanza”.

 

Da un programma di governo, tanto più se si tratta di un governo che difficilmente governerà a lungo, non ci aspettiamo che sia zeppo di buone intenzioni, di dichiarazioni di sensibilità e di interesse, tanto più che la maggior parte di tali intenzioni e dichiarazioni le abbiamo già sentite innumerevoli volte e ogni volta, arrivati al dunque, cioè al governo del Paese, le abbiamo viste sciogliersi come neve al sole. E questo sempre, a sinistra, come a destra, come al centro. No, quel che chiediamo a un programma di governo è di indicare poche cose, ma che siano chiare, ben definite, fattibili, e davvero utili al Paese. Alcune di queste cose, a mio parere, sono presenti nel programma elettorale del Pd, altre in quello del Pdl, altre in quello del Movimento Cinque Stelle. Altre ancora non stanno in alcun programma, perché sono impopolari. 

 

Quel che manca non sono le idee, ma un gruppo dirigente capace di scegliere le cose da fare e quelle da non fare. Un leader e una squadra che non fabbrichino i programmi politici al servizio delle alleanze che intendono costruire, ma che costruiscano le alleanze al servizio del programma che intendono realizzare. 

 

Un sogno?

A Giorgio Napolitano l’ardua sentenza.

da - http://lastampa.it/2013/03/08/cultura/opinioni/editoriali/gli-otto-punti-incomunicabili-del-pd-lFQFxeguPAyelQetJhDzVL/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - La pagliuzza e la trave
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2013, 05:58:00 pm
Editoriali
21/03/2013 - i costi della politica

La pagliuzza e la trave

Luca Ricolfi


L’altro ieri, collegati con il programma Ballarò, i nuovi presidenti di Camera e Senato (Piero Grasso e Laura Boldrini) hanno fatto la loro prima mossa politico-mediatica. Felici e sorridenti, come due scolaretti al loro primo giorno di scuola, hanno dichiarato a milioni di telespettatori-elettori che, loro due, lo stipendio se lo autoridurranno (del 30%). Inoltre cercheranno di raddoppiare la produttività dei parlamentari, facendoli lavorare anche il lunedì e il venerdì. E infine proporranno un abbassamento degli stipendi non solo dei deputati e dei senatori, ma anche del personale di Camera e Senato, le cui retribuzioni sono «molto alte». E qui, pudicamente, hanno aggiunto che quest’ultima riduzione, coinvolgendo dei lavoratori, andrà negoziata con i sindacati. 

 

È scontato che una mossa del genere non può che aumentare la già notevole popolarità dei due neo-eletti presidenti, di cui un po’ tutti hanno sottolineato le qualità, ma soprattutto la non appartenenza al ceto politico professionale. Saremmo tutti felici che la medesima mancanza di attaccamento ai privilegi della casta fosse manifestata un po’ da tutto il ceto politico, e non solo da chi è appena entrato a farvi parte. E tuttavia, a mio parere, la campagna per l’autoriduzione degli stipendi dei politici ha anche qualche aspetto problematico.

 

Non mi riferisco tanto ai contenuti delle proposte, su cui peraltro ci sarebbe da discutere (in un Paese inflazionato dalle leggi, l’idea di un Parlamento che legifera anche il lunedì e il venerdì più che un sogno è un incubo). Quel che mi lascia perplesso è la penosa gara a chi è più puro, più immacolato, meno politico, che si sta scatenando fra i politici stessi. Era già abbastanza ridicolo vedere Bersani e i suoi inseguire i grillini sul loro terreno, con la tesi secondo cui l’autoriduzione dei parlamentari del Pd a favore del partito sarebbe uguale o superiore a quella dei parlamentari grillini a favore del Movimento Cinque Stelle. Ma ho trovato semplicemente umiliante (per le istituzioni) il ping pong fra il duo Boldrini-Grasso e Grillo, con i primi che non perdono occasione per sottolineare che loro non sono casta, «come il 99% degli italiani», e il secondo che li invita a ridursi lo stipendio ancora di più (il 30% non basta, la riduzione deve essere almeno del 50%). Una conferma, se ve ne fosse bisogno, che a fare i puri si trova sempre qualcuno che si crede più puro di te.

 

Non mi sembra un grande inizio. Il problema dei costi della politica esiste, ma forse sarebbe meglio sottrarlo alla propaganda. Un manipolo di parlamentari che pensa di attrarre voti, suscitare consensi, o guadagnare in popolarità perché trasferisce una parte dello stipendio al suo gruppo, perché pranza al sacco, o arriva in Parlamento in bicicletta, va bene per dare un po’ di lavoro ai giornalisti e ai fotografi ma non serve a cambiare le cose. Per essere veramente utile, una riduzione dei costi della politica dovrebbe essere drastica nei redditi individuali percepiti, ma soprattutto ampia nella platea dei destinatari. Drastica negli emolumenti perché solo così si terrebbero lontani dalla politica quanti abbracciano tale carriera solo per i redditi che offre. Ampia nel numero di soggetti toccati perché solo così le risorse che si potrebbero risparmiare avrebbero un impatto macroeconomico non trascurabile (diversi miliardi di euro). Da questo punto di vista le (poche) autoriduzioni volontarie di alcuni politici in vista servono a ben poco, mentre molto servirebbero leggi che agissero anche sull’immenso arcipelago di politici locali, consulenti, faccendieri, fornitori, ditte appaltatrici, personale di servizio, ex politici in pensione. Giusto per dare un ordine di grandezza, l’apparato complessivo della politica ci costa almeno 20 volte l’ammontare totale degli stipendi dei parlamentari. I cittadini paiono vedere assai bene la pagliuzza dei costi del Parlamento, ma sembrano ben poco attenti alla trave dell’apparato politico considerato nel suo insieme. 

 

Da questo punto di vista hanno fatto assai bene i nuovi presidenti della Camere, dopo la boutade un po’ piaciona dell’autoriduzione, ad attirare l’attenzione sui costi e sui privilegi del personale che ha la fortuna di lavorare al servizio della politica anziché di una normale impresa privata. Vedremo se i sindacati sapranno raccogliere la sfida, o ripeteranno anche questa volta il solito copione, secondo cui sono solo i dirigenti e gli alti funzionari a doversi fare carico dei problemi della Pubblica Amministrazione. Ma vedremo, soprattutto, se la politica – oltre a trovare il coraggio di ridurre i propri costi – troverà la chiarezza per indicare su quale obiettivo intende convogliare le risorse così liberate. Sapere che, come oggi accade, le (rare) rinunce dei singoli finiscono nelle casse di un partito, di un movimento o di un gruppo parlamentare ci conforta ben poco. Molto più ci conforterebbe sapere che i risparmi sono regolati da una legge, sono ingenti, e permettono all’Italia di risolvere almeno uno dei suoi innumerevoli problemi.

da - http://lastampa.it/2013/03/21/cultura/opinioni/editoriali/i-costi-della-politica-trave-e-pagliuzza-n88crrLHcJ2xMmYt9Kl1RP/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Non basta una legge elettorale
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2013, 05:11:52 pm
Editoriali
24/03/2013

Non basta una legge elettorale

Luca Ricolfi

La politica è in crisi, sentiamo ripetere. E certo lo è, a giudicare dai risultati degli ultimi vent’anni: il Paese è allo sbando, molti politici sono corrotti, non si riesce a formare un governo. Quello che forse è meno evidente è che anche i rimedi che si stanno sperimentando non sono la soluzione, ma sono parte integrante della malattia.

La politica si sta comportando come una squadra di calcio in crisi che, per superare la crisi, cercasse di vincere le partite a tavolino, o condizionare gli arbitri, o accusare gli avversari di doping, anziché allenarsi di più e meglio, impegnarsi a fondo in partita, o cambiare qualche giocatore (e magari anche l’allenatore). È paradossale, ma la politica non sembra rendersi conto che i problemi che deve affrontare sono innanzitutto di natura politica, non di altro genere. E come tali andrebbero risolti sul campo, non invocando demiurghi e agenti esterni.

E invece è proprio questo che sta succedendo. La politica non sa risolvere i propri problemi politicamente, e allora ricorre continuamente a supplenti e surrogati. C’è un problema di privilegi e di costi della politica? 

Ed ecco che scatta la gara a chi si riduce di più lo stipendio: l’etica viene chiamata a sostituire la politica.

C’è un uomo politico che avvelena la competizione fra destra e sinistra ma prende un sacco di voti? Ed ecco che scattano tutte le armi improprie disponibili: leggi nuove di zecca per impedire la ricandidatura, pressioni sulla magistratura perché reinterpreti una legge esistente, che «se ben interpretata» potrebbe mettere fuori gioco il politico che non si riesce a sconfiggere sul campo (una delle due manifestazioni di ieri a Roma aveva precisamente questo scopo, mentre l’altra – in modo specularmente aberrante – aveva lo scopo di difenderlo dalla magistratura). La legge, che dovrebbe semplicemente essere rispettata da tutti, viene chiamata a risolvere un problema politico che non si è stati capaci di risolvere con armi proprie, ossia con la sola forza della politica, pur avendone tutta la possibilità: se il Pd avesse candidato Renzi il politico della discordia sarebbe fuori giuoco, e noi non staremmo ancora qui a sfogliare la margherita delle alleanze (m’ama? non m’ama? Bersani non l’ha ancora capito che Grillo non lo ama?). 

Ma il caso più interessante è quello della legge elettorale. Qui non solo nella testa dei politici, ma anche in quella degli elettori, si è installata una curiosa credenza. Dato che nessuno riesce a vincere le elezioni, dato che a un mese dal voto non si sa ancora chi sarà il premier, dato che in Parlamento non esiste alcuna maggioranza in grado di sorreggere un governo, allora si è portati a credere che la colpa sia della legge elettorale. Ma è una grandiosa bestialità. Le leggi elettorali possono essere più o meno buone, più o meno adatte a un Paese, più o meno scandalose, ma da sole non possono risolvere i problemi la cui natura è essenzialmente politica. 

Se per quasi mezzo secolo in Italia non c’è stata alternanza fra destra e sinistra non è dipeso dalla legge elettorale proporzionale ma da due fattori genuinamente politici: la divisione del mondo in due blocchi, la mancata evoluzione del Partito comunista. Tanto è vero che i socialdemocratici tedeschi, che le loro scelte riformiste le avevano fatte già nel 1959 a Bad Godesberg (32 anni prima del Pci), non hanno dovuto aspettare la caduta del muro di Berlino per andare al governo, e lo hanno fatto con una legge di impianto prevalentemente proporzionale. L’alternanza al governo fra destra e sinistra, o fra conservatori e progressisti, è un frutto della politica, non della legge elettorale.

Così oggi in Italia è del tutto fuorviante pensare che possa essere una nuova legge elettorale a tirarci fuori dalle secche in cui la politica si è andata a cacciare. Se le elezioni non riescono a esprimere una maggioranza e il Parlamento non riesce ad esprimere un governo è per due precise ragioni, entrambe di natura politica. La prima è che il nostro sistema politico è improvvisamente divenuto tripolare, come nel 1992-1993 (subito prima della discesa in campo di Berlusconi), quando l’Italia per una breve stagione assunse un assetto tripolare, con la Lega egemone al Nord, il Pci al centro e la Dc al Sud. E i sistemi tripolari non sono immuni al «paradosso di Condorcet»: può succedere che una maggioranza preferisca A a B, un’altra B a C, ma che vi sia anche una maggioranza che preferisce C ad A. Mettete, nell’ordine in cui volete, Bersani, Berlusconi e Grillo al posto di A, B, C, e vedrete in che bel pasticcio potremmo esserci cacciati. La seconda ragione è che Bersani e Grillo, ossia i due semi-vincitori delle elezioni, pensano solo a conquistare (o riconquistare) voti, il primo puntando sull’antiberlusconismo (un’idea veramente nuova e originale, come si addice a un «governo del cambiamento»), il secondo scommettendo sulla nascita di un governo Pd-Pdl così abominevole da consegnare il 51% (pardon: il 100%) dei consensi al Movimento Cinque Stelle.

Pensare che da un simile ginepraio possa tirarci fuori una legge elettorale è molto ingenuo. Certo, l’orrido Porcellum va cambiato, e alla svelta (io avrei anche una proposta: chiediamo a Giovanni Sartori, il nostro studioso di sistemi elettorali più illustre, di scrivere lui una legge sensata). Ma nessuna legge elettorale può produrre, di per sé, quel che solo la politica può darci, ossia un governo che abbia il consenso necessario per governare. Se tornassimo al proporzionale, cadrebbe la finzione attuale del vincitore (chi ottiene il premio di maggioranza), ma comunque dovremmo assistere ai medesimi estenuanti negoziati di oggi. Se sopprimessimo il Senato e mantenessimo l’attuale premio di maggioranza alla Camera, assisteremmo alla nascita di governi che hanno il 54% dei seggi in Parlamento e il 25% dei consensi nel Paese (tenuto conto del non voto, è questo il consenso reale di cui godono oggi Bersani-Berlusconi-Grillo). Se adottassimo il doppio turno alla francese, che tanto piace al Pd, dovremmo prepararci ad assistere al paradosso dei sistemi tripolari: il vincitore del primo turno perde al ballottaggio, perché il terzo arrivato si allea con il secondo. Spieghiamolo con due esempi: nelle regioni rosse vanno al ballottaggio Pd e Grillo, ma il Pdl escluso si vendica votando Grillo. Nelle regioni bianche vanno al ballottaggio Pdl e Grillo, ma il Pd escluso si vendica votando Grillo. Insomma, vince sempre Grillo, anche se Pd e Pdl hanno il doppio dei suoi voti.

Per questo, pur convinto che le regole del gioco vadano rinnovate, e vadano rinnovate nel senso di una maggiore efficienza – una sola Camera, meno deputati, più potere al premier, regolamenti parlamentari snelli – vedo con qualche perplessità l’attuale tentativo di Bersani di ottenere la benevolenza del Pdl con una mera intesa sulle regole. Di regole istituzionali meno paralizzanti c’è sicuramente bisogno. Di una nuova legge elettorale pure. Ma le regole servono per governare, e governare significa affrontare tutti gli altri problemi, ossia lavoro, tasse, stato sociale. Di un accordo sulle regole che lasci tutto il resto come prima, con una sinistra e una destra che si odiano, e odiandosi paralizzano qualsiasi governo, non si sente proprio il bisogno. 

da - http://lastampa.it/2013/03/24/cultura/opinioni/editoriali/non-basta-una-legge-elettorale-jVTaivRZsaION8gzyYzMaM/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - La sfida sull’onore del Pd
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2013, 06:09:37 pm
Editoriali
05/04/2013

La sfida sull’onore del Pd

Luca Ricolfi


E’ da un po’ di tempo che me lo chiedo: la scissione del Pd avverrà a destra o a sinistra? 

 

Sì, perché fino a ieri davo abbastanza per scontato che una scissione ci sarebbe stata. Vista la disastrosa conduzione di Bersani, vista la cocciutaggine del gruppo dirigente. 

 

E vista la determinazione dei renziani a dare battaglia, riuscivo a immaginare solo due scenari. 

Scenario 1 (scissione «a sinistra»): il Pd volta pagina, Renzi conquista il partito, gli irriducibili fondano un partito a sinistra del Pd (Rifondazione democratica?), magari con Vendola e gli avanzi della lista Ingroia.

 

Scenario 2 (scissione «a destra»): il Pd si compatta intorno a Bersani, non concede le primarie a Renzi, e induce il sindaco di Firenze a fare una lista propria.

 

Non tutti se ne ricordano, ma due scissioni del genere sono già avvenute negli anni scorsi, con esiti disastrosi per gli scissionisti. Nel 2008, erano stati gli irriducibili dei Ds (autodefiniti SD, ovvero Sinistra Democratica) a tentare l’avventura con la lista Arcobaleno, nel 2009 era stato Rutelli a fare l’irriducibile, con la mai decollata Alleanza per l’Italia. Molti indizi, a partire dai sondaggi, fanno ritenere che oggi le cose andrebbero diversamente: il Pd è così diviso che c’è spazio sia per una robusta scissione a sinistra, sia per una robusta scissione a destra.

 

Da ieri, tuttavia, sono meno convinto che il Pd finirà per spaccarsi a metà come una mela. Ieri infatti è successo un fatto nuovo: Renzi ha rotto il silenzio che si era imposto e, in una intervista al Corriere della Sera, ha detto tutto (o quasi tutto) quello che pensa. Molte delle cose che Renzi ha detto non sono nuove. Ce n’è una, però, che – per il suo contenuto e per la forza con cui è stata detta – potrebbe produrre effetti importanti. Mi riferisco ai passaggi nei quali Renzi denuncia l’arroganza dei parlamentari grillini («un’arroganza che non si vedeva dai tempi della prima Repubblica») e solidarizza con Bersani, raccontando il proprio sconcerto di fronte all’incontro Pd-Movimento Cinque Stelle trasmesso in diretta streaming qualche giorno fa: «mi veniva da dire: Pierluigi, sei il leader del Pd, non farti umiliare così».

 

Anch’io, che non sono certo un fan di Bersani, avevo provato una sensazione simile a quella di Renzi: un misto di sconcerto, di pena, di rabbia. Ho un’età che mi permette di ricordare molto bene che cos’erano i militanti del Pci negli anni ’70, cos’erano i dirigenti, cos’era il segretario del più grande partito comunista dell’Occidente. Il Pci aveva mille limiti (che la sinistra paga ancora oggi), ma di una cosa tutti noi nati prima del 1960 siamo assolutamente certi: Enrico Berlinguer non si sarebbe fatto umiliare così. Quel partito e il suo gruppo dirigente avevano una dignità, un orgoglio, una compostezza mi verrebbe da dire, che mai e poi mai avrebbero reso possibile quel che oggi accade. Non tanto il fatto che un comico e i suoi discepoli deridano, insultino, svillaneggino quotidianamente i rappresentanti del più grande partito della sinistra (questo non lo si può impedire), ma che quei medesimi dirigenti derisi e svillaneggiati porgano l’altra guancia, corteggino, lusinghino chi li disprezza così profondamente. 

 

No, questo con Berlinguer non sarebbe mai potuto succedere. Ed è curioso che a restituire l’onore al Pd, o quantomeno a provarci, non siano i pasdaran di Bersani, che sulle «radici» e sull’identità del partito avevano puntato tutte le loro carte, ma sia questo ragazzino bizzoso e un po’ strafottente, che però della politica pare avere un’idea alta. Un’idea secondo cui la parola data si mantiene, quel che si pensa lo si dice, gli avversari si battono in campo aperto, gli elettori – tutti gli elettori – meritano rispetto. Come la politica, appunto, che non può e non deve rinunciare alla propria dignità.

 

Ecco perché dicevo che, dopo l’intervista di ieri, non escludo più che il Pd riesca a restare relativamente unito, e ci riesca proprio grazie a Renzi. Fino a ieri il sindaco di Firenze rappresentava solo la componente liberale e dialogante del Pd. Da oggi, Renzi sembra candidarsi alla guida del partito anche come colui che ne difende la dignità e le buone ragioni. E, a pensarci bene, è del tutto naturale che questa difesa venga proprio da lui, e non dalla vecchia guardia. Non solo perché la «fortezza Renzi» è così poco compromessa con il passato da risultare inespugnabile dal grillismo, ma perché Renzi è l’unico dirigente del Pd che ha capito fino in fondo quanto sia sbagliato, nonché autolesionistico, il disprezzo per l’avversario. Il trattamento che i grillini stanno riservando al Pd, fatto di derisione e disistima, è il medesimo che il Pd ha sempre riservato all’avversario di destra. E’ possibile che molti dirigenti del Pd non se ne siano ancora resi conto, o non se ne facciano una ragione, ma la realtà è che Grillo sta al Pd come il Pd sta al Pdl. Fuor di metafora matematica: per i grillini la classe dirigente del Pd è impresentabile, esattamente come per il Pd lo è quella del Pdl. L’umiliazione del Pd, accusato dal Movimento Cinque Stelle di ogni nefandezza, è una sorta di contrappasso per vent’anni di disprezzo verso gli avversari politici.

 

Non è detto che Matteo Renzi riesca nell’impresa di restituire al Pd l’onore perduto, se non altro perché il passato prossimo di quel partito non è particolarmente onorevole. E tuttavia già sarebbe un grande risultato che il tentativo di Renzi sortisse almeno un effetto: quello di far comprendere a tutti, e innanzitutto al suo partito, che il disprezzo dell’avversario, la sua derisione e la sua umiliazione, sono solo il vecchio della politica, le scorie di un passato che speriamo non ritorni mai.

da - http://lastampa.it/2013/04/05/cultura/opinioni/editoriali/la-sfida-sull-onore-del-pd-XWA4yscG422fZ5hOgXFKkM/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Ma l’”inciucio” può avere delle virtù
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2013, 11:10:56 pm
Editoriali
12/04/2013

Ma l’”inciucio” può avere delle virtù

Luca Ricolfi


Sono quasi due mesi che si è votato, e ancora non abbiamo un governo. Perché? 

 

Qualcuno dà la colpa a Grillo, ma a mio parere Grillo non c’entra. Grillo è stato sempre molto chiaro, sia prima del voto sia dopo: a questi politici che ci hanno portato al disastro la fiducia non la voteremo mai, ma se faranno proposte che condividiamo non avremo nessun problema a votarle. Perché non credergli? Perché fingere che anche lui, come gli altri partiti, sia pronto a dire una cosa in campagna elettorale e a fare tutto il contrario dopo aver incassato i voti? Perché attendere un ripensamento? 

 

Il Movimento Cinque Stelle la sua vocazione antisistema (anti «questo» sistema, ovvero questi partiti, questi politici) l’ha sempre dichiarata apertamente. Chiedergli di cambiare rotta ora è come chiedere a Papa Francesco di essere per le nozze gay.

 

Invece Bersani non solo vuole le nozze, ma vuole farle con la sposa recalcitrante Movimento Cinque Stelle. Di qui un corteggiamento che non sembra arrendersi di fronte a nulla, e la sensazione universale che la politica - la vecchia politica - stia perdendo tempo. 

 

Ai signori del Palazzo piace un sacco incontrarsi, telefonarsi, confabulare in Transatlantico, twittare, riunirsi, allearsi, mediare, riflettere, mandare segnali, decodificare i segnali altrui, rilasciare interviste, parlare alla radio, infestare telegiornali e talk show da mane a sera. Intanto i problemi reali dell’Italia, che sono innanzitutto di tipo economico-sociale, continuano a marcire in attesa di un governo che governi. 

 

E’ dunque Bersani il problema?

 

Sì e no. L’aspirazione di Bersani a fare il presidente del Consiglio non è irragionevole, visto che la sua coalizione è il maggiore raggruppamento presente in Parlamento, visto che nessun governo può avere la maggioranza alla Camera senza i voti del Pd, e visto che il Pdl ha detto di non avere riserve o pregiudiziali contro di lui. 

Il problema non è la persona di Bersani, ma è la sua linea politica. Bersani vorrebbe governare da solo, ma con i voti degli altri. Bersani vorrebbe i voti del Pdl o della Lega (quelli di Grillo ha finalmente capito che non li avrà), ma senza fare un governo con ministri del centro-destra. Se, per una volta, usasse le sue famigerate metafore per parlare di se stesso, direbbe: voglio la botte piena (ministeri e poltrone) e la moglie ubriaca (Berlusconi che lo lascia fare). 

 

Questa posizione è chiaramente irragionevole, non solo dal punto di vista del Pdl (perché gli «impresentabili» dovrebbero regalare i loro voti a chi così profondamente li disprezza?), ma anche dal punto di vista del Pd. Come possono pensare, i dirigenti di questo partito, di avviare una stagione «di cambiamento» con un governo di minoranza, che in ogni momento può essere condizionato, ricattato e affondato dai suoi sostenitori esterni? Come può pensare il Pd di governare l’Italia nella tempesta della crisi economica e sociale se la sopravvivenza del governo dipende fin dall’inizio dalla condiscendenza di altri, che non lo amano e possono in ogni momento staccargli la spina?

 

Eppure questo è stato fin dall’inizio, e resta tuttora, l’irragionevole schema politico di Bersani: costituire un governo di minoranza, o mediante un atto di sfida ai grillini (vengo in Parlamento, e vediamo se avete il coraggio di negarmi la fiducia) o mediante un accordo più o meno tecnico con Berlusconi (astensione, uscita dall’aula, non sfiducia, etc.).

 

Bersani, a quanto pare, ha paura dell’unica soluzione che potrebbe darci un governo non effimero: un accordo serio fra destra e sinistra. Non è difficile indovinare i motivi di tale paura. Se nascesse un governo sostenuto dal Pd e dal Pdl, l’accordo sarebbe immediatamente bollato come un «inciucio», parola di cui nessuno pare conoscere il significato esatto ma che da una ventina d’anni viene usata per descrivere quanto di più torbido la politica è capace di fare: accordi sottobanco, scambi di favori e di poltrone, patti inconfessabili. Non mi sento di escludere che questo, o qualcosa del genere, succederebbe alla fine. E tuttavia mi restano alcune domande.

Possibile che la politica italiana – e per politica intendo partiti, opinione pubblica, giornalisti – abbia di se stessa un’opinione così negativa da dare per scontato che ciò che all’estero ha funzionato (ad esempio in Germania una decina d’anni fa) da noi possa solo trasformarsi in un mostruoso patto di potere?

 

Perché alla sola idea di un governo bipartisan la parola «inciucio» scatta automaticamente, prima di avere visto le carte, ossia i programmi e le intenzioni?

 

Perché si riescono a immaginare solo compromessi al ribasso, quando quello di cui avremmo bisogno è, semmai, di selezionare le idee migliori dei due schieramenti, idee che pure esistono?

 

Siamo sicuri di avere tutto questo tempo? Siamo sicuri che imprese, sindacati, lavoratori e famiglie, di fronte al dramma occupazionale che sta affondando l’Italia, abbiano voglia di essere richiamati a votare per l’ennesima volta? Siamo sicuri che le «discriminanti» su cui Bersani e i suoi stanno respingendo le offerte del nemico siano anche le priorità dei cittadini? 

 

Ma soprattutto: siamo sicuri che, per il Pd, gli unici due modi di riconquistare la credibilità perduta siano guadagnare (umilmente) la benevolenza di Grillo e sottrarsi (con sdegno) all’abbraccio mortale del Pdl?

In fondo i cittadini-elettori il loro messaggio l’hanno già mandato, ed è un messaggio chiaro: cari politici, così non potete andare avanti, o vi ritirate o cambiate registro. Ma il momento di cambiare è adesso, non all’ennesimo bagno elettorale. Rivotare è solo un segno di resa della politica. Significa dire agli elettori: voi ci avete mandato un segnale, ma noi non siamo capaci di raccoglierlo. Noi siamo quelli di sempre, prigionieri delle nostre piccole beghe, incapaci di guardare un po’ più in là.

da - http://lastampa.it/2013/04/12/cultura/opinioni/editoriali/ma-l-inciucio-puo-avere-delle-virtu-E3gn67ejxPovAErwqkPCmJ/pagina.html

 


Titolo: LUCA RICOLFI - Il vantaggio del “velo d’ignoranza”
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2013, 05:03:39 pm
Editoriali
26/04/2013

Il vantaggio del “velo d’ignoranza”

Luca Ricolfi


Non sappiamo se Enrico Letta riuscirà a formare un governo, né se il nuovo governo sarà messo in condizione di governare. Ma facciamo per una volta gli ottimisti, e immaginiamo che tutto vada per il meglio, e che il futuro governo non sia paralizzato dalle forze politiche che lo sostengono. 

 

Che cosa sarebbe ragionevole aspettarsi dal nuovo governo?

 

Credo che la maggioranza degli italiani risponderebbe: che affronti l’emergenza economico-sociale, a partire dal dramma occupazionale. Dopo tutto, è per questo che ci stiamo negando il lusso di tornare immediatamente al voto. 

 

Anch’io la vedo così, e non da oggi. E tuttavia penso che, in questo preciso momento, ci siano anche due altre priorità, non strettamente economiche ma vitali per il futuro dell’Italia. La prima è ovvia: il nuovo governo, se vuole partire con il piede giusto, deve abolire il finanziamento pubblico dei partiti, e deve farlo senza se e senza ma (o meglio, con un unico «ma»: la completa defiscalizzazione delle donazioni private). So benissimo che c’è anche un po’ di semplicismo e di demagogia in questa richiesta, ma ci sono anche due argomenti fortissimi a suo favore. Primo: l’abolizione del finanziamento pubblico è già stata decisa venti anni fa con un referendum popolare, dunque si tratta solo di rispettarne l’esito. Secondo: comunque sia, i partiti hanno dimostrato ampiamente di non saper usare in modo corretto il fiume di denaro che, aggirando il risultato referendario, si sono continuati ad autoattribuire per due decenni. Detto in altri termini: si possono nutrire le opinioni più diverse sulla giustezza del finanziamento pubblico considerato in astratto, ma arrivati a questo punto – dopo un referendum disatteso e venti anni di cattivo uso del denaro pubblico – non c’è più alcuna scelta.

 

C’è però anche un secondo tema che meriterebbe di essere affrontato subito, in parallelo rispetto ai temi economico-sociali: il cambiamento delle regole del gioco, a partire dalla legge elettorale. Questo tema non è solo importante in sé (perché le regole attuali non funzionano), è anche assolutamente urgente. E lo è per una ragione elementare: questo è il momento migliore per cambiare le regole, anzi è l’unico momento per farlo con qualche speranza di riuscita. Passato questo momento, potremmo non farcela più.

 

Perché?

 

Perché adesso, solo adesso e per poco tempo ancora, le forze politiche si trovano relativamente prossime a quella condizione ideale che, quasi mezzo secolo fa, nella sua «Teoria della giustizia», John Rawls descrisse con l’espressione «velo d’ignoranza». In che senso l’ignoranza può aiutare a prendere decisioni giuste? Nel senso che, per scegliere una regola in modo disinteressato, e quindi equo, è bene che tu non sappia in anticipo se, per la posizione che potrai trovarti ad occupare domani, quella regola ti avvantaggerà o ti danneggerà. Ignorare le convenienze future aiuta a fissare le regole del gioco nel modo più equo e bilanciato possibile, proprio perché ognuno tenderà a proteggersi dal rischio di un sistema di regole che, a posteriori, potrebbe risultare dannoso o catastrofico per lui stesso. 

 

È questa, oggi, la situazione dei partiti. I partiti possono anche credere di sapere quali regole li avvantaggerebbero e quali no, e proprio per questo non riuscire a trovare un accordo fra loro (è precisamente quanto è successo durante il governo Monti). Ma, se non riescono a lasciar perdere i calcoli egoistici neppure oggi, non ci riusciranno mai. Perché oggi la possibilità di fare calcoli e previsioni è al minimo storico, probabilmente ancora più giù di quanto fosse scesa nel 1992-1994, durante le convulsioni della prima Repubblica. Oggi infatti, oltre a non sapere quando si voterà, nemmeno si sa quali forze politiche saranno in campo alle prossime elezioni. E non mi sto riferendo alle forze minori, che come in un caleidoscopio cambiano da elezione ad elezione, ma alle forze maggiori, ivi comprese quelle che siamo abituati a considerare punti fermi e stabili del panorama politico.

 

Ci sarà ancora il Pd alle prossime elezioni? O ci saranno due Pd, uno guidato da Renzi, l’altro guidato da Barca? O addirittura ce ne saranno tre, uno fatto dalla vecchia nomenklatura, l’altro diviso fra i «nuovi di sinistra» e i «nuovi di destra»?

 

Ci sarà ancora Berlusconi alla guida del Pdl? Che faranno Monti e Casini? Si decideranno a creare un secondo raggruppamento moderato, in concorrenza con quello berlusconiano, o persevereranno nel tentativo di fare l’ago della bilancia?

 

E Grillo? Che ne sarà del movimento di Grillo ora che la sua natura «di sinistra» (una strana sinistra, per la verità) è risultata evidente?

 

Le previsioni ragionevoli oscillano fra il 5 e il 55% dei voti. Se a Grillo riuscisse la cosiddetta OPA sul Pd (siete morti! i veri progressisti siamo noi!), il suo movimento potrebbe puntare al 30-35% dei voti, ovvero la quota che dal 1948 tocca alla sinistra in questo paese. Difficile, perché anche l’autolesionismo del Pd ha (forse) un limite, e prima di arrendersi D’Alema e compagni venderanno cara la pelle. 

 

Se il governo Letta fallisse, e i partiti maggiori rimandassero in scena il mortificante spettacolo di questi anni, Grillo potrebbe anche puntare al 51%, naturalmente dopo essersi trasformato in un partito di governo, con un programma e una squadra credibili. Se invece il governo Letta dovesse avere successo, e il Pd trovasse il modo di restare sulla scena (magari con due partiti), al movimento di Grillo potrebbe toccare un destino non molto migliore di quello dell’Uomo Qualunque, una meteora improvvisamente apparsa nel cielo della politica italiana e poi inabissatasi per sempre.

 

Insomma, come direbbe il presidente Mao: «grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente». No, la situazione non è eccellente in nessun campo, ma forse per cambiare le regole del gioco lo è davvero.

da - http://lastampa.it/2013/04/26/cultura/opinioni/editoriali/il-vantaggio-del-velo-d-ignoranza-siVXDK9b0S3DQCp2YfxcxI/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Per il Fisco servono scelte da statisti
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2013, 05:20:24 pm
Editoriali
17/05/2013

Per il Fisco servono scelte da statisti

Luca Ricolfi


Come era facile prevedere, gran parte del dibattito sulle tasse si sta concentrando sull’Imu. Per mettere un po’ d’ordine, credo sia bene tenere ben distinte due questioni: che cosa è successo dopo il passaggio dall’Ici all’Imu, che cosa conviene fare ora. 

Sul «che cosa è successo» mi pare che i dati elaborati dalla Fondazione David Hume e pubblicati nei giorni scorsi su La Stampa lascino pochi dubbi.
Nel passaggio dal 2011 al 2012 il settore edilizio ha ricevuto il classico colpo di grazia: crollo della produzione, crollo delle compravendite, distruzione di posti di lavoro e – soprattutto – perdita di valore del patrimonio immobiliare. E’ importante sottolineare che non si è trattato della mera continuazione di un trend negativo in atto da alcuni anni, ma di un vero e proprio «scalino» che ha trascinato improvvisamente verso il basso tutti gli indicatori del mercato edilizio. In soli 12 mesi, fra la fine del 2011 (insediamento del governo Monti) e la fine del 2012 il prezzo medio delle abitazioni esistenti è calato di circa l’8%: in concreto vuol dire che, per raccogliere 15 miliardi di tasse per sé stessa, la Pubblica amministrazione ha bruciato almeno 400 miliardi di ricchezza dei cittadini.

 

Si potrebbe pensare che questo sacrificio richiesto agli italiani sia stato distribuito in modo relativamente equo, e che a pagare di più siano stati i «ricchi», spesso possessori di più di una casa. Ma non è affatto così. Il conto dell’Imu è stato pagato innanzitutto dalle fasce più deboli della popolazione: operai edili (spesso immigrati), che hanno perso circa 100 mila posti di lavoro, e possessori di abitazioni periferiche o di scarso pregio, il cui valore si è ridotto ben più dell’8% (come noto quando i prezzi medi scendono, quelli delle abitazioni di pregio subiscono piccole limature, mentre quelli delle abitazioni popolari crollano). Di qui uno stato di incertezza e preoccupazione per il futuro, particolarmente grave per le famiglie che avevano acquistato la casa con un mutuo, che si sono trovate a pagare una super-tassa su un bene non ancora pienamente posseduto. Di qui un effetto negativo sui consumi, che non dipendono solo dal reddito ma anche dalla ricchezza. Di qui, soprattutto, un cambiamento epocale della percezione del «bene casa»: oggi chi possiede una casa non solo non può più pensare di aver messo i soldi al sicuro (perché i prezzi scenderanno ancora), ma deve pensare che il mero possesso di un immobile ha un costo fisso, una sorta di «affitto», di cui non è più in alcun modo possibile ignorare l’incidenza. 

 

Ne valeva la pena? Se il problema era non cadere nel baratro del collasso finanziario, non era meglio (meno peggio) un prelievo straordinario, tipo quello che fece Giuliano Amato nel 1992? 

In una recente trasmissione televisiva, a Lilli Gruber che gli domandava se c’era almeno qualcosa che pensava di aver sbagliato, un errore che oggi non ripeterebbe, Mario Monti ebbe a rispondere che no, per quanto si sforzasse proprio non gli veniva in mente nulla che non rifarebbe. Nulla sugli esodati, nulla sulla riforma del mercato del lavoro, nulla sui pagamenti della Pubblica Amministrazione, nulla sull’Imu. Nessun dubbio retrospettivo, insomma. Mi chiedo se, di fronte all’agonia del settore edilizio e ai dati che la documentano, oggi sarebbe ancora così certo della bontà del lavoro svolto.

 

Resterebbe il «che cosa fare», ora che i buoi sono scappati. Difficile dirlo, se non altro perché ormai è troppo tardi, e una crisi come quella in cui è precipitato il settore delle costruzioni non si ferma facilmente, neppure con l’abolizione per tutti dell’Imu sulla prima casa. L’unica cosa che mi sentirei di dire ai politici è di provare, per una volta, a essere chiari e coerenti.

Arrivati a questo punto, come ha osservato Alberto Mingardi nel suo intervento di qualche giorno fa, l’unico argomento solido per abolire I’Imu sulla prima casa è che tutti i maggiori partiti l’hanno promesso in campagna elettorale, sia pure in misura e con modalità diverse. Se si prescinde da questo argomento (tutt’altro che peregrino, comunque) il quadro cambia sensibilmente. 

 

A regime, il problema delle tasse sulla casa non è l’ammontare dell’imposta più odiata (i 4 miliardi del’Imu sulla prima casa) ma è il loro ammontare complessivo, che ormai supera i 50 miliardi di euro l’anno, pari all’1% del valore del patrimonio edilizio (circa 5000 miliardi): con un rendimento lordo degli immobili che oggi si attesta sul 2-3%, il fatto che quasi la metà del reddito se ne vada in tasse più o meno direttamente connesse all’abitazione non può che avere effetti negativi sul valore del patrimonio edilizio, ossia sulla principale fonte di sicurezza degli italiani.
Rendere più progressive le imposte sulla casa non risolve il problema, perché il crollo del mercato immobiliare non risparmia nessuno, e anzi colpisce più severamente i possessori di abitazioni di scarso pregio. 

 

Se invece il problema è quello di far ripartire la crescita, allora dovremmo avere il coraggio – in materia di Imu – di dare priorità assoluta
all’alleggerimento delle aliquote sui fabbricati connessi alla produzione: stabilimenti, capannoni, terreni agricoli. Dimezzare l’imposizione su questo genere di beni costerebbe più o meno come abolire l’Imu sulla prima casa ma, verosimilmente, avrebbe un effetto sulla crescita più significativo. 

 

Se infine, come si sente spesso affermare, il problema numero uno è l’occupazione, è possibile che le tasse su cui agire prioritariamente siano altre ancora. Alcune, come l’Ires, non si possono nemmeno nominare, perché sanno di aiuto ai «padroni», ancor oggi da molti percepiti più come sfruttatori che come creatori di posti di lavoro. Altre, come il complesso di prelievi che costituisce il «cuneo fiscale» (Irap sul costo del lavoro, contributi sociali), sono politicamente più abbordabili, perché permettono di dare un contentino sia alle organizzazioni del lavoratori sia a quelle dei datori di lavoro. Il dubbio, tuttavia, è che per rendere il lavoro davvero meno caro e le buste paga dei lavoratori davvero più pesanti, ci vogliano risorse così ingenti che nessun governo (italiano) troverà mai il coraggio di reperirle. Perché reperirle significherebbe, inevitabilmente, scatenare le proteste di associazioni, corporazioni, sindacati, forze sociali. Provate a toccare pensioni d’oro e costi della politica (si potrebbero risparmiare 3-4 miliardi di euro). Provate a combattere davvero le false pensioni di invalidità (8-10 miliardi di euro). Provate a portare l’Iva al 25% (come i lodatissimi Paesi scandinavi). Provate a cancellare sussidi e agevolazioni a imprese e settori. E vi accorgerete che la forza dell’esistente è enorme, mentre quella del cambiamento è molto modesta.

Insomma, comunque la si rigiri, si torna sempre al nodo di partenza: per cambiare qualcosa bisogna scontentare qualcuno, e un simile lusso possono permetterselo solo gli statisti, non certo i politici dei nostri giorni.

da - http://lastampa.it/2013/05/17/cultura/opinioni/editoriali/sul-fisco-servono-scelte-da-statisti-QxyNbI9kIWFwcPTttitl1M/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - La fiammata dei Cinque Stelle
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2013, 11:19:36 pm
EDITORIALI
31/05/2013

La fiammata dei Cinque Stelle

LUCA RICOLFI

Quando votano in pochi, come è successo alle recenti amministrative, c’è sempre il rischio di sovrainterpretare, di vedere nel voto più di quello che contiene. A me i segnali chiari sembrano solo due: gli elettori di sinistra che avevano votato Grillo stanno cominciando a tornare a casa, il movimento di Grillo ha subito un tracollo d’immagine. Gli italiani saranno pure ingovernabili, come pensava Mussolini e ora ripete il commissario europeo Günther Oettinger, ma non sono ciechi.
 
Se per qualche motivo le cose precipitano, come è successo in vari passaggi della storia nazionale, può succedere che una parte dell’elettorato improvvisamente divenga pronta a votare una forza politica nuova, che promette un cambiamento radicale, o anche semplicemente rappresenta un modo d’essere diverso, una qualche rottura con il passato o con il presente. Ma altrettanto improvvisamente i medesimi elettori che hanno scommesso sul nuovo o sul diverso sono pronti a ritirare il loro consenso. Nella storia elettorale italiana degli ultimi 70 anni è già successo due volte, con il movimento dell’Uomo Qualunque (fra il 1946 e il 1948) e con la mai veramente nata Alleanza democratica, che subito prima della discesa in campo di Berlusconi era arrivata (nei sondaggi) a sfiorare il 20% dei consensi. Vedremo presto se il caso del Movimento Cinque Stelle somiglierà più a quello dei movimenti-fiammata (come Uomo Qualunque e Alleanza democratica), o a quello dei movimenti-incendio, che nascono all’improvviso ma durano nel tempo, come sono stati la Lega e Forza Italia. 
 
Personalmente propendo più per la prima ipotesi, quella di un raffreddamento del consenso al Movimento di Grillo, e questo non tanto per la batosta elettorale dei giorni scorsi, quanto per i comportamenti e gli equivoci che l’hanno preceduta e per molti versi preparata.
 
Primo equivoco. Beppe Grillo pare non aver capito che la maggior parte degli elettori non sono né fanatici, né militanti. Sono sì disgustati dalla politica, vorrebbero sì mandare a casa una classe dirigente che li ha profondamente delusi, ma al tempo stesso vorrebbero che un governo ci fosse. E che fosse un governo decente. Non è evidente, o almeno non lo è ancora, o non lo è alla maggioranza dei cittadini, che il governo Letta-Alfano sia un governo indecente. Mentre è del tutto evidente che il Movimento Cinque Stelle ha ostacolato in ogni modo la nascita di un governo compatibile con il risultato elettorale.
 
Secondo equivoco. Il Movimento Cinque Stelle pare non aver capito che molti elettori danno una notevole importanza a due virtù: la competenza e lo stile. Molti elettori (la maggioranza, a mio parere) non si accontentano affatto di essere governati da gente «semplice e onesta», ma vorrebbero anche che i politici che li rappresentano fossero competenti, esperti, e persino educati. Soprattutto quest’ultima cosa. Gli elettori possono anche perdonare la volgarità del capo, che può mascherarsi dietro l’alibi della satira, ma apprezzano molto di meno la volgarità dei sottoposti, sia quando si manifesta come amore per il vil denaro (vedi il surreale dibattito sugli scontrini e gli emolumenti dei parlamentari) sia quando si manifesta con le offese e il turpiloquio (giusto ieri le parole «merda» e «stronzo» erano al centro delle profonde riflessioni politiche di due grillini molto in vista, la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi e l’uomo-streaming del movimento Salvo Mandarà; per non parlare delle offese di Grillo a Stefano Rodotà).
 
Terzo (e fatale) equivoco. Il Movimento Cinque Stelle pare non aver compreso né la natura della Rete né la natura della democrazia. La Rete, che qui scrivo in maiuscolo perché qualcuno la considera una divinità, è uno strumento comodissimo e utilissimo (posta elettronica, Wikipedia, migliaia di servizi gratuiti, velocizzazione delle comunicazioni, ecc. ecc.), ma è anche fonte di innumerevoli effetti collaterali negativi. Grazie alla Rete può risultare più facile violare la privacy, umiliare le persone, indurre al suicidio un ragazzo o una ragazza, mettere in circolazione informazioni false o pericolose, truffare il prossimo, dare voce agli incompetenti, permettere l’espressione dei peggiori sentimenti, o anche semplicemente sottrarre tempo a chi potrebbe usarlo assai meglio. Il Movimento Cinque Stelle non solo deifica la Rete, ma sogna un mondo in cui tutti possano partecipare a un innumerevole insieme di decisioni grazie al voto elettronico. Un mondo in cui la democrazia diretta, che qualche volta ha funzionato in piccole comunità, trionfa sulla democrazia rappresentativa, inventata per governare comunità grandi e complesse.
 
E’ una sciocchezza, se non altro perché la maggior parte di noi non vuole affatto mettere becco nell’innumerevole giungla di leggi e norme che vengono emanate ogni giorno da ogni sorta di consesso, ma preferirebbe potersi dedicare alle cose che ama con la serenità che deriva dal fatto di avere dei decenti rappresentanti in parlamento e nelle istituzioni. E’ a questo che serve la democrazia rappresentativa. Ed è questo il motivo per cui, nelle democrazie che funzionano, a votare vanno in pochi, non in molti: perché sanno che, chiunque vinca, non sarà una catastrofe.
 
da - http://www.lastampa.it/2013/05/31/cultura/opinioni/editoriali/la-fiammata-dei-cinque-stelle-WZ7ZCikyPrkYsnUU8EJuQL/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Soldi ai partiti e significato delle parole
Inserito da: Admin - Giugno 03, 2013, 04:44:01 pm
Editoriali
03/06/2013

Soldi ai partiti e significato delle parole

Luca Ricolfi


Sul finanziamento pubblico dei partiti si possono avere le idee più diverse. Oggi, come vent’anni fa, è molto popolare l’idea che debba essere abolito integralmente. Ma anche l’idea opposta, e cioè che qualche forma di finanziamento pubblico debba esserci, è tutt’altro che priva di buone ragioni.

Qui vorrei non entrare nel merito della questione, perché tanto ognuno resta della propria idea. 

 

E quale sia la mia opinione personale è del tutto irrilevante. Quello che però vorrei dire con forza è che, come cittadino, ho trovato offensiva – per non dire beffarda – l’impostazione del disegno di legge appena proposto dal governo. Provo a spiegare perché.

 

Il primo articolo del disegno di legge recita «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti». Nella lingua italiana la parola «abolito», in assenza di ulteriori qualificazioni, significa soppresso, tolto, eliminato, azzerato.

 

Inoltre, per il cittadino italiano medio, la parola «finanziamento pubblico dei partiti» designa l’insieme di risorse pubbliche che affluiscono ai partiti: rimborsi elettorali, finanziamento dei gruppi politici a livello centrale e locale, agevolazioni fiscali e tariffarie, contributi alla stampa di partito. Dunque, il cittadino pensa: i partiti non avranno più soldi pubblici, e se vorranno essere finanziati i soldi dovranno chiederceli direttamente.

 

Leggendo il Disegno di legge, invece, si scopre che le cose non stanno così. Nel 2013 non cambia nulla. Nel 2014, se il Disegno di legge sarà approvato entro quest’anno, i rimborsi elettorali attuali cominceranno ad essere limati un po’, e spariranno del tutto solo nel 2017 (nel 2018 se il Disegno di legge dovesse essere approvato solo nel 2014). In compenso, fin dal 2014 scatteranno agevolazioni fiscali alle donazioni private, nonché finanziamenti ai partiti attraverso un meccanismo di «destinazione volontaria del 2 per mille dell’imposta sul reddito». Non solo: lo Stato assicurerà alle forze politiche la disponibilità di locali e spazi televisivi.

 

Non è necessario entrare nei dettagli del disegno di legge per rendersi conto di almeno quattro cose.

Primo. Il disegno di legge non tocca né il finanziamento dei gruppi parlamentari, né il finanziamento dei gruppi dei Consigli regionali, due voci molto consistenti del finanziamento pubblico ai partiti.

 

Secondo. Lo Stato continuerà a sostenere dei costi per il finanziamento dei partiti, sia in forma diretta, sia in forma indiretta (le detrazioni fiscali, l’uso di immobili, gli spazi televisivi hanno un costo). 

 

Terzo. Nel triennio transitorio (2014-2016), nulla assicura che la decurtazione dei rimborsi elettorali non venga compensata, o addirittura più che compensata, dal meccanismo del 2 per mille.

 

Quarto. Anche a regime (dal 2017 o dal 2018), nulla esclude che il finanziamento possa essere uguale o superiore a quello previsto dalla legislazione attuale, dovuta al governo Monti (l’articolo 4, anziché fissare un tetto preciso all’uso del 2 per mille, dice che la spesa non potrà superare «XXX», una cifra indeterminata che potrebbe persino essere maggior di quella attuale).

 

Ecco perché dicevo all’inizio che ho trovato offensivo l’articolo 1 che recita «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti». 

 

No. Questo disegno di legge prova a ridisegnare una parte del finanziamento pubblico dei partiti secondo nuovi principi (proprio come aveva auspicato Bersani in campagna elettorale), ma non lo abolisce affatto. Berlusconi e Renzi, a parole paladini dell’abolizione totale, devono farsene una ragione. Può anche darsi che alla fine i partiti costino al contribuente un po’ di meno di oggi, ma nulla fa pensare che costeranno molto di meno o che costeranno nulla. 

 

Perciò, una sola preghiera. Cari politici, che quando ci aumentate le tasse vi rifugiate codardamente dietro il verbo «rimodulare», ora che state effettivamente rimodulando il finanziamento dei partiti abbiate almeno il coraggio di non usare il verbo «abolire». Perché abolire vuol dire abolire, abolire, abolire (direbbe Gertrude Stein), e se voi dite «abolire» quando non state abolendo affatto, noi ci sentiamo presi in giro. Insomma, se proprio non riuscite ad avere rispetto per noi, abbiatene almeno per la lingua italiana.

da - http://lastampa.it/2013/06/03/cultura/opinioni/editoriali/soldi-ai-partiti-e-significato-delle-parole-rl1KjYKAGo4mduYwdAmzzN/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Invincibili nell’arte di non scegliere
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2013, 05:48:40 pm
Editoriali
21/06/2013

Invincibili nell’arte di non scegliere

Luca Ricolfi


Sul governo Letta le valutazioni possono essere molto diverse. Molti elettori, ad esempio, hanno apprezzato il mero fatto che - finalmente - l’Italia fosse riuscita a darsi un governo, dopo due mesi di balletti inconcludenti. Altri ne apprezzano lo stile pragmatico, l’attitudine al dialogo, la politica dei piccoli passi. Altri ancora, invece, sono profondamente delusi: specie le basi del Pdl e del Pd non hanno gradito quelli che possono apparire elementi di continuità con il governo Monti, come la deferenza verso l’Europa e un certo attendismo sulle scelte cruciali.

Ma come stanno le cose?

A me pare che, a due mesi dal suo insediamento, il governo Letta abbia già mostrato piuttosto chiaramente il suo volto. Nato dalla assenza di alternative, esso aveva di fronte due strade. Prima strada: governare cercando il massimo comun divisore fra le idee della destra e della sinistra, ovvero varare il maggior numero di provvedimenti capaci di mettere d’accordo destra e sinistra (a proposito: il massimo comun divisore fra 8 e 6 è 2).

Seconda strada: governare cercando il minimo comune multiplo fra le idee della destra e della sinistra, ovvero tentare di metterne in atto le idee più incisive (a proposito: il minimo comune multiplo fra 8 e 6 è 24). 

Fra le due strade il nuovo governo ha scelto molto nettamente la prima, che poi è la cifra fondamentale di tutti i governi della seconda Repubblica, ivi compreso il governo Monti, specie nella parte finale della sua parabola. Governo del «fare», indubbiamente, ma inteso come fare pochino, rimandando al futuro tutte le scelte cruciali, quelle difficili e che possono creare conflitti. Prima del voto tutte le maggiori forze politiche in campo avevano dichiarato di saper come «reperire» svariati miliardi di «risorse», chi per abbattere l’Imu (più o meno integralmente), chi per rilanciare gli investimenti pubblici, chi addirittura per restituire l’Imu dell’anno scorso.

Ora che si ritrovano tutte insieme nel medesimo governo, ora che appaiono miracolosamente d’accordo su alcune priorità (ad esempio bloccare l’aumento del l’Iva), ora che non possono accusare l’avversario politico di intralciare l’azione del governo, improvvisamente scoprono di non saper più come trovare quelle medesime risorse che in campagna elettorale consideravano a portata di mano. Con 400 miliardi di spesa pubblica extra-pensionistica e 150 miliardi di evasione fiscale, i nostri governanti ci dicono candidamente di non saper proprio come fare a recuperarne anche solo 4, quanti sarebbero necessari per evitare l’aumento dell’Iva.

Ed ecco allora la soluzione: chiedere all’Europa di fare più deficit, l’unico vero punto di contatto importante fra destra e sinistra. Era chiaro fin dai programmi elettorali di Pd e Pdl, è chiaro da come si stanno muovendo sullo scenario europeo i loro leader. L’unica vera differenza è che i dirigenti di centro-sinistra vogliono salvare le apparenze, negoziando con le autorità europee il permesso di sforare su determinate voci (investimenti pubblici, pagamenti della Pubblica Amministrazione), mentre Berlusconi ha meno peli sulla lingua e ogni tanto si lascia scappare quello che molti pensano, anche a sinistra: e cioè che un po’ di deficit fa bene, certo non lo si può annunciare spudoratamente e programmaticamente, e però sì, lo sappiamo perfettamente che l’anno prossimo, a conti fatti, ci troveremo con diversi decimali di deficit pubblico in più. Di qui un permanente navigare a vista, con molta retorica ma senza grandi progetti, con un campionario di buone intenzioni ma senza nessuna scelta forte.

Si poteva, si potrebbe fare diverso?

Verrebbe da rispondere: forse no, i nostri politici sono quello che sono, e dopotutto siamo italiani. 

Ma, forse, si dovrebbe anche aggiungere: se non ora quando?

Detto in altre parole: a che serve un governo di Grosse Koalition, con destra e sinistra unite nel medesimo esecutivo, se non a fare, finalmente, quelle scelte difficili che da almeno venti anni vengono rimandate? Non è questo che ha fatto la Germania quando era lei il «malato d’Europa»? E non è forse per non aver fatto quelle scelte che ora il grande malato d’Europa siamo proprio noi, con la nostra attitudine a nascondere la testa sotto la sabbia, a rimandare le decisioni, a conservare tutto il conservabile? Perché continuiamo a cercare le cause dei nostri mali solo all’infuori di noi, nella Merkel, nell’Europa, nella speculazione? Perché la politica non vuole riconoscere che è la sua incapacità di decidere che ha portato il Paese al disastro? Perché non vogliamo capire che il nostro futuro dipende innanzitutto da noi stessi? 

La risposta a questi dubbi, purtroppo, pare essere una sola. L’unica arte in cui i nostri politici non hanno rivali è l’arte del non governo. Neppure in un momento come questo, in cui la principale forza di opposizione, il movimento di Beppe Grillo, si sta autodistruggendo, destra e sinistra trovano in sé stesse la forza per sposare fino in fondo le proprie idee più audaci, facendo quello che una Grosse Koalition dovrebbe e potrebbe fare: aggredire sia l’evasione fiscale sia gli sprechi della Pubblica amministrazione, in una logica di «minimo comune multiplo», che dalla destra e dalla sinistra cerca di estrarre il meglio di ciascuna, anziché il meno peggio di entrambe. 

Il fatto che, di fronte all’esigenza di scovare pochi miliardi per contenere le aliquote Imu o Iva i nostri governanti ci confessino che non hanno la minima idea di dove e come trovare i soldi, e che se li trovassero si tratterebbe di interventi «di estrema severità», ci dà la piena misura di quanto volino basso, di quanto poche cose pensino di poter fare anche in futuro, e tutto sommato anche di quanto poco siano attrezzati per guidare l’Italia.
Una politica seria, dopo decenni di analisi, di studi, di ricerche, di denunce sull’evasione e sugli sprechi dovrebbe avere i cassetti pieni di soluzioni, di piani dettagliati, di progetti operativi, e non si farebbe prendere alla sprovvista appena ha l’opportunità di governare.

Peccato, perché questa era un’occasione straordinaria. Probabilmente irripetibile, e quasi certamente l’ultima.

da - http://lastampa.it/2013/06/21/cultura/opinioni/editoriali/invincibili-nellarte-di-non-scegliere-BcWRI4GJAkrreCa0mRDURO/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - La trappola dell’austerità all’italiana
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2013, 11:29:11 am
Editoriali
07/07/2013

La trappola dell’austerità all’italiana

Luca Ricolfi

Dopo il Consiglio Europeo della settimana scorsa il clima politico è cambiato, almeno sui principali mezzi di informazione italiani. Il cambiamento si manifesta essenzialmente attraverso la ripetizione, in mille forme e varianti, di un racconto base che suona più o meno così: l’Italia ha fatto bene i «compiti a casa», ora siamo rientrati nel club dei paesi virtuosi, l’Europa ci loda e ci premia concedendoci qualche margine di flessibilità, finalmente si può tornare a investire e a spendere, sia pure con la dovuta prudenza. L’era dell’austerità, finalmente, volge al tramonto.

Questo racconto non è del tutto sbagliato, ma è altamente fuorviante. Esso induce a pensare che il peggio sia passato, che i rischi finanziari siano finiti, e che con la politica dei piccoli passi l’Italia possa finalmente tornare a crescere. 

Spero di sbagliarmi, ma credo che le cose non stiano affatto così. Anzi, credo che l’indulgente ottimismo dei media sia corresponsabile dello stallo italiano. Esso induce a un sillogismo del tipo: l’austerità non ha funzionato, dunque la strada da battere è quella di allentare poco per volta i vincoli che l’austerità stessa ha imposto al paese.

Il problema, però, sta nella premessa. Quella che abbiamo avuto con il governo Monti non è la politica dell’austerità, ma una delle due possibili varianti di una politica di austerità. Contrariamente a quanto molti credono, la parola «austerità» non designa una politica economica, ma il fine che essa vuole raggiungere. 

Un Paese entra in regime di austerità nel momento in cui chiede ai suoi cittadini dei sacrifici per correggere uno squilibrio, tipicamente un deficit dei conti pubblici, dei conti con l’estero o di entrambi. Dire che si sta facendo una politica di austerità significa solo che si cerca di effettuare tale correzione, indipendentemente dai mezzi che si intendono usare per ottenere il pareggio di bilancio. E’ solo quando si specificano i mezzi adottati per raggiungere quel fine che l’austerità diventa anche una politica economica. 

Ed eccoci al punto cruciale. Della politica di austerità esistono due varianti fondamentali: la variante «statalista» basata sull’aumento delle tasse e l’introduzione di ulteriori controlli nell’economia, la variante «liberale», basata sulla riduzione della spesa pubblica e le liberalizzazioni del mercato del lavoro e dei mercati dei prodotti e dei servizi. 

Nessuna politica economica reale adotta mai una di queste varianti allo stato puro, ma la politica del governo Monti si è molto avvicinata alla variante statalista. La variante liberale, strenuamente difesa da Alberto Alesina sia nei suoi articoli sia nei suoi lavori econometrici, è stata parzialmente adottata dalla Germania a partire dal 2003, ma in Italia non è mai stata sperimentata da nessun governo.

Ecco perché dire che la politica di austerità ha fallito è una mezza verità. Noi abbiamo avuto solo la variante-Monti, che effettivamente ha messo in ginocchio il Paese, ma non abbiamo mai sperimentato la variante-Alesina. Dunque la vera questione oggi non è austerità-sì, austerità-no, ma è con quale politica l’Italia possa tornare a crescere. Qui sta il nodo, e qui si affrontano due visioni nessuna delle quali è di mera austerità, perché la situazione dei conti pubblici italiani non è più drammatica come negli anni scorsi, anche se resta molto grave sul versante del debito. 

Secondo la prima visione è inutile illudersi che l’economia possa ripartire senza una riduzione delle aliquote immediata, drastica e permanente, da finanziare con un mix di impegni riformistici (liberalizzazioni e sburocratizzazione), riduzioni progressive della spesa pubblica, dismissioni del patrimonio dello Stato. Secondo l’altra visione, invece, si può procedere come al solito, navigando a vista, con misure a tempo (sgravi che scadono nel giro di 6,12 o 18 mesi), piccoli aggiustamenti di bilancio, senza un drastico scambio fra spesa pubblica e tasse.

Personalmente, penso che la visione drammatizzante della cultura liberale sia esatta ma generi politiche inattuabili, se non altro perché siamo un popolo molto conservatore, a destra come (se non di più) a sinistra. E che la versione tranquillizzante della cultura di governo sia attuabilissima, ma generi politiche che non appaiono disastrose solo perché, in Italia, il disastro si presenta in dosi omeopatiche, sotto forma di un declino tanto lento quanto inesorabile. Questa, temo, è la trappola logico-politica in cui siamo impigliati.

DA - http://lastampa.it/2013/07/07/cultura/opinioni/editoriali/la-trappola-dellausterit-allitaliana-U42tBNlPpn4e6roHrL789L/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - La sinistra che nega la realtà
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2013, 10:48:05 am
Editoriali
28/07/2013

La sinistra che nega la realtà

Luca Ricolfi

Una ventina di anni fa, all’indomani della prima vittoria elettorale di Berlusconi (1994), lo storico Giovanni Belardelli pubblicò sulla rivista «il Mulino» un saggio fulminante, significativamente intitolato «Se alla sinistra non piacciono gli italiani».

 

Fu proprio in quell’epoca, infatti, che la sinistra, tramortita e incredula di fronte a un elettorato che aveva osato preferirle Berlusconi, iniziò a rivedere drasticamente il proprio giudizio sugli italiani. Visto che non la votavano, e le preferivano quel cialtrone di Berlusconi, gli italiani dovevano essere un popolo ben arretrato, individualista, amorale e privo di senso civico. Una teoria, questa, che raggiunse il suo apice, al limite del ridicolo, con l’appello elettorale di Umberto Eco nel 2001, in cui gli italiani che avessero osato votare Berlusconi venivano descritti con un disprezzo ed un semplicismo che, in una persona colta, si spiegano solo con l’accecamento ideologico.

 

Oggi questa storia, una storia di incomprensione e di arroganza etica, fa però un decisivo passo in avanti. Oggi che un politico di sinistra come Stefano Fassina viene crocifisso dai suoi perché ha osato dire che esiste anche un’evasione fiscale «da sopravvivenza» (una cosa che qualsiasi persona senza pregiudizi vede ad occhio nudo) quella diagnosi di Belardelli ci appare fin troppo ottimistica, generosa, o benevola verso la cultura di sinistra. No, il problema della sinistra non è, o non è soltanto, che non le piacciono gli italiani: il problema è che non le piace la realtà. 

 

Quando i fatti mettono a repentaglio l’ideologia, il riflesso meccanico della cultura di sinistra non è correggere o adattare l’ideologia alla realtà, ma correggere la realtà negando i fatti. Dove correggere può voler dire, e ha voluto dire per almeno mezzo secolo, cercare di raddrizzare il «legno storto» dell’italianità, rieducando e civilizzando gli italiani secondo la concezione del bene comune propria della cultura di sinistra (una vicenda puntualmente narrata nell’ultimo libro di Giovanni Orsina: I l berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio 2013). Ma può voler dire anche, più letteralmente, correggere i dati della realtà, fino al punto di negarli. 

E’ successo mille volte, talora con risvolti tragici (il partito comunista che nel 1956 si rifiuta di vedere i fatti d’Ungheria), talora con risvolti meno drammatici ma non per questo privi di conseguenze (ad esempio con la negazione di dati socio-economici scomodi), talora, infine, con risvolti decisamente comici, come nel caso di Stefano Fassina sommerso di critiche per aver constatato un fatto – l’evasione da sopravvivenza – tanto evidente quanto indigesto al suo partito.

 

Da che cosa deriva questa refrattarietà ai fatti, fino al negazionismo più buffo?

Certamente, e in una misura non trascurabile, dall’eredità dello stalinismo, con il suo totale disprezzo per la verità, o meglio con la sua identificazione della verità con ciò che risulta utile alla causa, sia essa il Socialismo, la Rivoluzione, il Partito o lo Stato. Come sociologo, ne ho avuto esperienza diretta innumerevoli volte: quando scoprivo qualcosa che non faceva gioco alla sinistra i «compagni» mi dicevano che sì, poteva essere tutto vero, ma non era il momento di dirlo, la situazione era grave e c’era il rischio di «strumentalizzazioni da parte della destra». Poi però il momento di dirlo non arrivava mai, perché la situazione era sempre «delicata» e la posta in gioco invariabilmente «importantissima».

 

Ma forse non andrebbe trascurato anche un altro elemento, un meccanismo – anche psicologico – che ci tocca un po’ tutti, ma affligge in modo patologico la politica, a sinistra come a destra. Con lo psicologo sociale Leon Festinger, che ebbe a scoprirlo negli Anni 50, potremmo definirlo l’incapacità di tollerare le dissonanze. E risalendo ancora più indietro, al filosofo David Hume, potremmo definirlo la tendenza umana a saltare dai fatti ai valori, dal piano descrittivo al piano normativo. Specie chi ha ferme convinzioni etiche, morali o politiche, ha difficoltà a riconoscere, talora addirittura a «vedere», i fatti che potrebbero insidiarle. Se mi batto per i diritti degli immigrati, mi è molto difficile accettare una statistica che dimostri che il loro tasso di criminalità è più alto di quello degli italiani. Se sono un fervente meridionalista, mi è molto difficile accettare un’indagine in cui si mostra che evasione e falsi invalidi sono concentrati in alcune regioni del Sud. Se sono un nemico giurato dell’evasione fiscale non riesco ad accettare che esista l’evasione per sopravvivenza: che è appunto la trappola in cui è caduto Stefano Fassina, un politico forse troppo giovane per aver interiorizzato completamente lo stalinismo e la concezione utilitaristico-strumentale della verità.

 

Ma è un errore logico. Il piano dei valori e quello dei fatti sono separati. Si può restare difensori dei diritti umani, meridionalisti, o amanti della tasse (viste come «cosa bellissima», secondo l’audace definizione di Tommaso Padoa Schioppa) anche in presenza di fatti che rendono più complessa la difesa dei nostri valori. Anzi, dovremmo renderci conto che – proprio per promuovere i nostri ideali – ci serve sapere come stanno le cose. Conoscere per deliberare, diceva Einaudi, ma forse oggi dovremmo dire, più precisamente, non aver paura di conoscere se si vuole cambiare la realtà. Altrimenti quello in cui si cade è una sindrome molto pericolosa, quella di negare l’esistenza di ciò che non si sa come affrontare, o semplicemente non si ha il coraggio di combattere.

 

C’è stato un tempo in cui una parte del mondo politico aveva la spudoratezza di dire che «la mafia non esiste». Oggi non succede più, ma in compenso c’è chi si permette di negare l’evasione per sopravvivenza. Potrà sembrare strano, ma questi due tipi di negazioni hanno almeno un elemento in comune: la consapevolezza che quella cosa in realtà esiste, ha una sua solidissima ragion d’essere, ma, proprio perché non si ha la forza o la volontà di combatterla, non può essere detta.

 

E’ questa, purtroppo, la realtà dei sindacati e dei politici in Italia. I luoghi in cui si evade spudoratamente, talora per sopravvivenza talora per ingordigia, sono perfettamente noti a tutti perché coinvolgono milioni di persone, si vedono a occhio nudo, sono stati raccontati da innumerevoli inchieste giornalistiche, descritti minuziosamente da decine di studi scientifici: affitti di seconde case completamente in nero, operai dell’edilizia reclutati con il sistema del caporalato, immigrati spremuti come limoni nelle campagne e nell’industria dei trasporti, lavoranti a domicilio nelle civilissime regioni del Centro Italia, ragazzi che lavorano senza contratto nei negozi di Roma. Eppure non si fa nulla. Non si fa nulla perché se si facesse si creerebbero conflitti sociali immani, chiuderebbero centinaia di migliaia di attività, si perderebbero milioni di posti di lavoro. Meglio, molto meglio e molto più facile, tuonare contro gli evasori e fingere che l’evasione fiscale sia solo quella dei grandi imprenditori, dei gioiellieri, dei ricchi, degli speculatori, dei professionisti. Se i sindacati dovessero occuparsi anche di quel che succede nei negozi, nelle boite, nei campi, in edilizia, nella miriade di aziende di trasporto illegali, il loro lavoro diventerebbe immensamente più difficile, più complicato, spesso più rischioso. No, meglio fingere che tutto questo non esista, meglio andare per convegni, partecipare ai talk show in tv, sedersi ai tavoli in cui si discute con il governo e con la Confindustria delle crisi dei grandi gruppi. E quando a un politico, per di più uno dei «nostri», uno molto di sinistra, scappa detta la verità, una verità che tutti conoscono e vedono, emettere la scomunica: il suo è stato «un clamoroso errore politico».

Così disse l’ayatollah Susanna Camusso. Amen, e avanti così.

da - http://lastampa.it/2013/07/28/cultura/opinioni/editoriali/la-sinistra-che-nega-la-realt-LuWHdIL1HpIxDQsk0BDcIO/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Una marcia dei 40 milioni
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 11:44:14 am
Editoriali
04/08/2013

Una marcia dei 40 milioni

Luca Ricolfi

è già successo 21 anni fa, con Mani pulite e la fine della prima Repubblica, sta risuccedendo ora, con la sentenza della Cassazione su Berlusconi e la fine della seconda Repubblica. La storia, in Italia, la scrive la magistratura, mentre la politica la subisce. In molti pensano, non senza qualche buona ragione, che sia la magistratura ad aver esondato nel la politica. 

Ma la realtà è che è innanzitutto la politica ad essersi esposta all’alluvione giudiziaria, che ora la sta sommergendo per la seconda volta. 

Ai politici non piace sentirselo dire, ma la causa fondamentale dello strapotere della magistratura è proprio la politica. E lo è in tutte le sue forme ed espressioni. E’ la politica (tutta la politica) che non ha saputo riformarsi, né dopo tangentopoli (1992), né dopo il referendum radicale che aveva tentato di cancellare il finanziamento pubblico dei partiti (1993), né dopo il trionfo del Movimento Cinque Stelle alle ultime elezioni. E’ la politica (in questo caso quella della destra) che ha continuamente modificato le regole del gioco per salvare Berlusconi dai suoi processi. E’ la politica (in questo caso quella della sinistra) che ha rinunciato a battere elettoralmente Berlusconi al solo scopo di favorire un candidato premier debole (Bersani) a scapito di un candidato premier forte (Renzi). Ed è la politica, infine, che ha così poco e male governato l’Italia, lasciando che i problemi veri, occupazione, tasse, Stato sociale, fossero sommersi dai problemi finti, le questioni altamente ideologiche che appassionano il ceto politico, e purtroppo anche tanta parte dei mass media.

Se oggi siamo a questo punto non è perché la magistratura non ha permesso alla politica di governare, ma perché l’incapacità di un intero ceto politico di governare e di decidere ha dato alle vicende giudiziarie uno spazio abnorme nella nostra storia. C’è una differenza importante, però, rispetto al 1992. Allora il sentimento dominante dell’opinione pubblica era una generalizzata ansia di cambiamento, e infatti l’elettorato si divise fra i semi-nuovi partiti di centro-sinistra, mai stati al governo e guidati dal Pds, e i nuovissimi partiti di centro-destra, guidati da Forza Italia. I nostalgici del passato, o forse sarebbe meglio dire i moderati spaventati dal radicalismo della destra e della sinistra, erano una minoranza, che trovò un approdo nelle formazioni postdemocristiane di Segni e Martinazzoli.

Oggi la situazione è profondamente diversa. Gli elettori sono molto più disincantati, il discredito e la delusione coinvolgono più o meno pesantemente tutti i partiti (compreso il Movimento Cinque Stelle), nessuno si illude che un Berlusconi, un Epifani o un Grillo sappiano non dico come affrontare i problemi del Paese, ma quanto meno quali essi siano. Alle prese con un’economia in ginocchio e uno Stato asfissiante in tutte le sue articolazioni, la maggior parte degli italiani non crede a nessuno degli imbonitori che cercano di eccitarne gli animi, né pensa che nuove elezioni risolverebbero i nostri problemi. Per qualcuno è difficile rendersene conto, o farsene una ragione, ma la realtà è che la maggior parte di noi non è né indignata per le malefatte di Berlusconi, né disperata per il destino cinico e baro che l’Italia gli sta riservando. La maggior parte di noi è solo stanca, sfinita, esausta. Non ha nessun desiderio di rivedere, per altri dieci o venti anni, il film che è stata costretta a vedere finora. Vorrebbe che questo clima da guerra civile fredda finisse una volta per sempre, e che si mettesse mano una buona volta ai problemi del Paese. Se un paragone storico si può azzardare, forse il momento che più somiglia a quello attuale non è il 1992 ma il 1980, quando la «marcia dei quarantamila» pose fine bruscamente al decennio più drammatico e conflittuale della nostra storia repubblicana. Con la differenza che oggi, a giudicare dai sondaggi, non siamo 40 mila ma semmai 40 milioni. Quaranta milioni di italiani che potranno avere le opinioni più diverse su Berlusconi, il ruolo dei giudici, la destra e la sinistra, ma che da una cosa sono accomunati: non hanno la minima intenzione di passare i prossimi decenni a discutere e recriminare sulla «guerra dei vent’anni» fra Berlusconi e la magistratura. 

Non perché siano indifferenti, o superiori, o annoiati, ma semplicemente perché non se lo possono permettere, e hanno capito che quella guerra ha fatto danni immensi che paghiamo tutti. La situazione economico-sociale del Paese è molto più seria di quanto viene spesso rappresentata. Quando, come avviene da qualche settimana, si parla di segnali di ripresa, si dovrebbero sempre ricordare due cose. La prima è che la cosiddetta ripresa è tale rispetto al tonfo del 2012, un tonfo che in 12 mesi ha raddoppiato il numero delle famiglie in difficoltà: siamo come una pallina da tennis che è caduta in un pozzo di 10 metri di profondità e si compiace di essere rimbalzata di 30 centimetri sul fondo del pozzo. La seconda cosa da ricordare è che, nonostante lo spread sia sotto quota 300, il rating del debito pubblico dell’Italia è di nuovo a un passo dal baratro, dove il baratro è il punto nel quale i buoni del tesoro vengono classificati come spazzatura (junk bonds) e gli investitori istituzionali sono obbligati a venderli in massa, con conseguente rischio di un default dell’Italia. Alcuni osservatori paiono non rendersi conto che il fatto che le agenzie di rating abbiano sbagliato in passato non implica logicamente né che stiano sbagliando di nuovo, né che il loro giudizio sull’Italia – giusto o sbagliato che sia – sia destinato ad essere ignorato dai mercati, dagli operatori esteri e dai fondi pensione.

Per questo guardo con molta preoccupazione ad entrambi i copioni che la politica sta recitando. I fautori dello scontro permanente non sembrano rendersi conto che la seconda Repubblica è finita il 1° agosto 2013 e costruire la terza con lo sguardo rivolto al passato significa non uscire mai dal brutto incantesimo in cui siamo vissuti in questi venti anni. I fautori del governo ad ogni costo, primo fra tutti il presidente Letta, paiono non rendersi conto che la mera sussistenza dell’esecutivo, con la garanzia di stabilità politica che questo implica, non solo è molto di meno di ciò di cui l’Italia ha bisogno, ma è un obiettivo irraggiungibile. Il secondo governo Prodi, quello del 2006-2008, vivacchiò e alla fine cadde anche perché Prodi si ingegnò a farlo sopravvivere solo con l’arte democristiana del troncare, sopire, mediare, rimandare, anziché assumersi risolutamente la responsabilità e il rischio di decidere. Oggi per Enrico Letta è ancora più difficile, perché mediare fra un partito ferito come il Pdl e un partito maramaldeggiante e autoreferenziale come il Pd è sicuramente più arduo che gestire la dialettica fra D’Alema e Bertinotti. Temo che, se vuole sopravvivere (e farci sopravvivere) alla bufera di questi giorni Letta dovrà farsi forza, e rinunciare almeno a un po’ della sua democristianità. O forse, più semplicemente, pensare un po’ di meno ai suoi 40 irrequieti ministri, viceministri e sottosegretari, e un po’ di più ai 40 milioni di elettori che non credono nel potere salvifico delle urne e già sarebbero molto felici se solo avessero un governo che governi.

da - http://lastampa.it/2013/08/04/cultura/opinioni/editoriali/una-marcia-dei-milioni-hQPPNXGvcA1Zg4hsjAjTxN/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Finanziamento ai partiti: una commedia
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2013, 09:28:30 am
Editoriali
25/07/2013

Finanziamento ai partiti: una commedia

Luca Ricolfi


Da tanti anni seguo la politica, ma mai mi era capitato di assistere a una commedia come quella che, sotto i nostri occhi distratti, si sta svolgendo in questi ultimi giorni di luglio. Breve riassunto della commedia. 

 

La posta in gioco, innanzitutto. C’è un disegno di legge governativo che non abolisce affatto il finanziamento pubblico dei partiti, ma si limita a ridurne progressivamente l’entità (mantenendolo in piedi fino al 2017) e ad affiancarlo già a partire dal 2015 sia con un nuovo meccanismo, il cosiddetto 2 per mille (il contribuente può decidere di destinare a un partito una parte delle tasse che paga), sia con una serie di agevolazioni (detrazioni sulle donazioni) e benefici «in natura» (spazi in tv, locali, etc.). 

Difficile prevedere, finché non saranno noti tutti i dettagli, se il nuovo meccanismo porterà ai partiti più o meno risorse di oggi (probabilmente qualcosa di meno), ma tutto si può dire tranne che la legge preveda l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, visto che questi ultimi continueranno ad assorbire considerevoli risorse pubbliche, anche se in forme diverse che in passato. 

 

Ed ecco le parti in commedia. Il governo, abbastanza spudoratamente, finge che il suo disegno di legge abolisca il finanziamento pubblico dei partiti (il primo articolo del disegno di legge recita proprio così: «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti»). Nonostante il disegno di legge sia molto «comprensivo» verso le esigenze di cassa dei partiti, questi ultimi non ci stanno e si mettono di traverso, inondando il Parlamento di emendamenti per lo più rivolti a meglio tutelare le esigenze di sopravvivenza dei partiti stessi, e che per ora hanno già ottenuto l’effetto di far saltare il percorso parlamentare previsto (notizia di queste ore). Ma anche i partiti, e in particolar modo i rispettivi tesorieri, recitano la loro parte in commedia: secondo loro gli emendamenti non servirebbero a difendere i privilegi dei partiti, bensì a salvare la democrazia (nientemeno!). 

Ed ecco il colpo di scena: il disegno di legge governativo, che fino a ieri pareva fin troppo generoso con i partiti, diventa improvvisamente un baluardo anti-partitocratico, e il presidente del Consiglio Enrico Letta, con i suoi appelli (pardon: tweet) a non ritardare l’approvazione del disegno di legge, può ergersi come una sorta di Quintino Sella, austero e rigoroso difensore della cosa pubblica.

 

Non è tutto, però. Nel marasma si inseriscono le parti in commedia minori. C’è chi, non pago che i partiti abbiano ancora almeno quattro anni di introiti generosi e garantiti, ha il coraggio di proporre la cassa integrazione per i dipendenti dei partiti, in un Paese in cui i lavoratori che non possono ricorrervi sono milioni e milioni. C’è chi, dentro Pd e Pdl, sembra essere davvero per l’abolizione (anziché per la riduzione) del finanziamento pubblico dei partiti, ma non osa fare una battaglia vera, a viso aperto e a muso duro, contro l’apparato del suo partito. E c’è chi, come il neo-segretario della Lega Maroni, rinuncia al finanziamento pubblico, ma non ora, se ne riparlerà nel 2014. 

 

Insomma, nessuno fa quello che dice, e nessuno dice quello che fa. Con una sola eccezione, a quel che vedo: gli estremisti, anzi gli «opposti estremismi» dei talebani della partitocrazia e dei suoi nemici irriducibili. Solo loro non parlano con lingua biforcuta. Talebani della partitocrazia sono innanzitutto i tesorieri dei partiti, che hanno le idee chiarissime e difendono a spada tratta, senza imbarazzo e senza vergogna, sia il principio del finanziamento pubblico, sia l’idea che non debba essere solo simbolico. Nemici irriducibili della partitocrazia sono il movimento Cinque Stelle e i Radicali, che il finanziamento pubblico hanno dimostrato di volerlo abolire sul serio, non solo a parole. Il movimento Cinque Stelle ha già restituito 42 milioni di rimborsi elettorali, i radicali hanno già promosso due referendum (l’ultimo vinto nel 1993, ma aggirato dai partiti con il trucco dei «rimborsi»), e quanto al terzo stanno raccogliendo le firme. 

 

Il lettore che mi ha seguito fin qui potrebbe pensare che io sia contrario al finanziamento pubblico dei partiti e sia per la sua piena e totale abolizione. In realtà, per quel poco che può interessare quel che penso io, la mia posizione è un po’ diversa, e si potrebbe riassumere in tre punti.

 

Primo. Quello cui sono fermamente contrario non è il finanziamento pubblico, ma è lo stravolgimento della lingua italiana. Ho il massimo rispetto per tutte le posizioni, ma preferirei che venissero presentate per quello che sono, anziché essere mascherate dietro formule verbali volte a occultarne la sostanza. Il disegno di legge del governo è difendibilissimo, salvo il primo articolo, che io riformulerei così: anziché «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti», scriverei «E’ mantenuto il finanziamento pubblico dei partiti, ma ne vengono modificati importi e meccanismi di erogazione».

 

Secondo. Mi piacerebbe che chi appartiene a Pd e Pdl (i due partiti da cui dipende la sorte del governo) e dice di essere contrario al finanziamento pubblico, facesse una battaglia vera entro il suo partito, e dicesse in modo chiaro che non condivide il disegno di legge governativo. Mi incuriosisce, in particolare, la posizione di Matteo Renzi e dei suoi: avevo capito che fossero per una vera abolizione del finanziamento pubblico (un punto importante di dissenso con Bersani), ora pare invece che non siano contrari al disegno di legge governativo, e che si accontenterebbero di alcuni ritocchi, previsti in appositi emendamenti. Che cosa dobbiamo pensare? Renzi ha cambiato idea? O anche lui, semplicemente, non vuole disturbare il manovratore? 

 

Infine, ultimo punto. Io sarei favorevole a un (modesto) finanziamento pubblico ai partiti. Ma non a questi partiti, e non in spregio a un referendum. Perciò avrei fatto l’esatto contrario del governo Letta. Anziché mantenere il finanziamento per qualche anno, promettendo una sua più o meno nebulosa rimodulazione futura, avrei invertito i tempi: azzeramento subito, ed eventuale reintroduzione se e quando avremo dei partiti decenti, e i cittadini avranno avuto modo di cambiare il loro giudizio su di essi, magari certificandolo con un nuovo referendum. Perché è vero che il finanziamento pubblico esiste in (quasi) tutta Europa, ma è anche vero che in nessun Paese europeo che si rispetti i partiti sono corrotti e clientelari come qui. Va bene essere europei, ma non va bene esserlo solo a metà.

da - http://www.lastampa.it/2013/07/25/cultura/opinioni/editoriali/finanziamento-ai-partiti-una-commedia-pMQbh3eyR0mWslDD3eB1KL/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Il Paese dove non cambia mai nulla
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2013, 04:34:16 pm
Editoriali
14/10/2013

Il Paese dove non cambia mai nulla

Luca Ricolfi

E’ un po’ che non scrivo, è vero. La ragione più importante è che scrivere di politica, economia e società, come è mia abitudine, mi sembra sempre meno utile. O forse sarebbe meglio dire: è sempre stato abbastanza inutile, ma ora tale inutilità mi è ancor più chiara di prima. 

Da dove viene questo sentimento?

Fondamentalmente da una constatazione: da vent’anni, in questo Paese «non muove foglia». Tutto è immobile e congelato. O forse sarebbe meglio dire: tutto cambia, ma gattopardescamente. Cambiano i governi, cambiano le mode, cambiano i palinsesti della tv, ma tutto avviene in modo che nulla di essenziale cambi davvero. Siamo il Paese più conservatore del mondo, o perlomeno così appaiamo ai miei occhi.

 

Anche la crisi, ormai entrata nel settimo anno, pare non averci insegnato nulla. La gente aspetta, come sotto un bombardamento, che passi la buriana. La classe politica si trastulla nella speranza di «agganciare la ripresa». 

Il governo e i suoi ministri, da cui ci aspetteremmo parole chiare e decisioni coraggiose, si muovono come se fossero impegnati in una caccia al tesoro: «cerchiamo le coperture», «individueremo le risorse», «troveremo i soldi». Mai una vera scelta. Mai un discorso non retorico al Paese. Parole, parole, parole, direbbe Mina. 

Ecco perché non mi viene di scrivere l’ennesimo articolo. La sensazione è che scrivere non sia nient’altro che dar credito al nulla. Prendere sul serio l’eterna ammuina della politica e della società italiane.

Prendiamo il «dibattito» interno al Pdl. Che cosa c’è di nuovo? C’è una sola idea che non sia l’ennesima rifrittura delle formule vuote con cui ci hanno bombardato negli ultimi anni? 

 

Eppure, come molto giustamente ha notato Franco Bruni qualche tempo fa su questo giornale, il vero problema dell’Italia, quello che rende pericolose eventuali elezioni anticipate, è che non si vede all’orizzonte nessuna nuova offerta politica, nessuna volontà di prendere congedo da quella che potremmo chiamare la «colonna sonora» della seconda Repubblica: un impasto di slogan, di formule, di siparietti e di riti che hanno completamente congelato il Paese. 

 

Si potrebbe pensare, e sperare, che qualcosa di nuovo possa venir fuori dalle convulsioni del berlusconismo e dall’assalto di Renzi all’establishment di sinistra. Ma è prudente dubitarne, a giudicare dai segnali di queste settimane. Su entrambi i versanti dello schieramento politico l’attenzione si concentra, come limatura di ferro attirata da una calamita, sulle questioni che creano identificazione, dibattito, indignazione, visibilità sui media: legge elettorale, immigrazione, carceri, diritti dei gay e delle donne. E rifugge invece dai nodi di politica economica e sociale, assai meno interessanti sul piano emotivo, ma molto più influenti sul futuro del Paese. 

Eppure anche le grandi questioni di civiltà sono assai più difficili da affrontare in un Paese che, anno dopo anno, diventa sempre più povero. Senza tornare a crescere e a produrre ricchezza non avremo mai le risorse per affrontare i gravissimi problemi sociali dell’Italia: disoccupazione, sottoccupazione, povertà, illegalità diffusa, ignoranza (vedi gli ultimi dati Ocse, pubblicati pochi giorni fa).

 

Su tutto questo destra e sinistra sono sostanzialmente mute. Non perché non abbiano le loro ricette, ma perché sono le ricette di sempre, che né l’una né l’altra sono state in grado di applicare con successo né nelle loro legislature lunghe (1996-2001 e 2001-2006), né nelle loro legislature corte (1994-1996 e 2006-2008). La sinistra non sa come combattere l’evasione fiscale senza soffocare l’economia. La destra non sa come abbassare le tasse senza fare nuovo deficit pubblico. Entrambe parlano di lotta agli sprechi ma, ogni volta che i sindacati chiedono risorse per stabilizzare i precari, retribuire gli esodati, o prolungare la cassa integrazione, non trovano il coraggio di dire l’unica cosa che si dovrebbe dire in questi casi: «cari sindacati, i miliardi di cui avete bisogno cerchiamoli insieme nell’immensa giungla degli sprechi, visto che sul fatto che gli sprechi ci siano sembriamo tutti d’accordo».

 

E invece no. I politici di destra si guardano bene dall’attaccare le pensioni d’oro o dal denunciare le sanatorie in campo edilizio. Ma Renzi non dice una parola sulle false pensioni di invalidità o sui finti poveri che non pagano il ticket, e ha molta cura di non farsi vedere in giro con Pietro Ichino (che pure aveva contribuito al suo programma). E tutti, indistintamente, tacciono quando – come è successo giusto un mese fa – un governo locale (Napoli) concede le case agli occupanti abusivi, spesso entrati con l’aiuto violento della camorra, sottraendole a chi ne avrebbe diritto: un fatto prontamente denunciato da Antonio Polito sul «Corriere della Sera», ma ignorato dalla stragrande maggioranza dei politici, sempre pronti a dichiarare su tutto e su tutti, ma del tutto refrattari a parlare dei temi che scottano.

 

Ecco perché dico che questo è un Paese immobile, come congelato. Un grande freddo sembra avvolgere tutto e tutti. Nemmeno lontano dalle elezioni si ha il coraggio di parlare delle cose da cui dipende il nostro futuro, e in fondo anche l’opinione pubblica si diverte ad assistere ai combattimenti di galli che, ogni sera, ci offrono i vari Floris, Santoro e Vespa. Questa, in fondo, è l’unica vera attenuante dei nostri politici: se sono quello che sono è anche perché noi facciamo ben poco per cambiarli.

E così, rieccomi a scrivere. Ad aggiungere, anch’io, parole. Forse perché la speranza è l’ultima a morire. O forse perché anch’io, come tutti, non sono capace di cambiare.

da - http://lastampa.it/2013/10/14/cultura/opinioni/editoriali/il-paese-dove-non-cambia-mai-nulla-Ka9toxvOAP5y8wqPcFZx0M/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Tasse e spese: alternatevi al comando
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2013, 04:25:59 pm
Editoriali
09/11/2013

Tasse e spese: alternatevi al comando

Luca Ricolfi

La politica economica dei governi italiani è come l’edilizia universitaria in una città come Torino. Come ha funzionato, fino a non molti anni fa, l’edilizia universitaria?

Più o meno così. Quasi tutte le Facoltà avevano bisogno di spazi, ma non c’era un piano preciso che permettesse a ogni Facoltà di sapere con ragionevole precisione se, quando e dove avrebbe avuto gli spazi di cui aveva bisogno. Conseguenza: ogni volta che si liberava un edificio, una palazzina, una ex scuola, tutte le Facoltà in sofferenza si precipitavano a rivendicarne l’uso. Non volendo scontentare nessuno, le Autorità non sceglievano a chi dare i nuovi spazi, ma li lottizzavano fra le Facoltà postulanti. Con la conseguenza di dare a tutti qualche piccolo contentino, ma senza risolvere il problema di nessuno, e al prezzo di un notevole disordine organizzativo. 

Così è la politica economica in questo Paese. Non appena i governanti annunciano di aver trovato delle risorse (ma come fanno a «trovarle»? non si tratta piuttosto di «decidere» dove tagliare, o dove tassare?) tutti si precipitano a rivendicarne l’uso. C’è chi vuole ridurre una tassa, c’è chi ne vuole ridurre un’altra.

C’è chi vuole introdurre degli sgravi per la categoria A, chi per la categoria B. C’è chi considera assolutamente prioritaria la spesa X, chi la spesa Y. La confusione che ne deriva alimenta incertezza e sfiducia, provocando danni all’economia e alla crescita.
 
Ma il bello è che questo meccanismo di frammentazione agisce non solo fra ipotesi largamente eterogenee, come possono esserlo la proroga della cassa integrazione e la riduzione dell’Irap, ma anche all’interno di una scelta apparentemente omogenea. Il governo medita di abbassare l’Irpef? Non fa a tempo di far trapelare l’intenzione, che si scatena una guerra per stabilire su quali scaglioni di reddito si dovrà agire. Il governo annuncia l’intenzione di abbassare il cuneo fiscale? Si scatena la medesima guerra: bisogna beneficiare di più le imprese o i lavoratori dipendenti? E fra le imprese, quali imprese? E fra i lavoratori, quali lavoratori? 

Insomma, tutti vogliono tirare la coperta delle cosiddette risorse dalla propria parte, con il risultato che – per accontentare il maggior numero possibile di votanti – il governo finisce per spalmare il suo intervento su così tanti soggetti che nessun beneficiario si accorge di alcun beneficio. Come un paziente operato in anestesia totale.

 

Proprio perché questa logica mi pare leggermente demenziale, e in ultima analisi autolesionistica per il governo stesso, ho provato un timido moto di sollievo quando, nei giorni scorsi, ho cominciato a sentir parlare di concentrare le risorse, ad esempio erogando lo sgravio del cuneo fiscale in una sola tranche di 150-200 euro (almeno te ne accorgi) anziché diluito in 15 euro al mese (mezzo caffè al giorno). Ma anche quando, giusto due giorni fa, il premier Letta ha ipotizzato di procrastinare la riduzione del cuneo fiscale e convogliare la maggior parte delle risorse a beneficio dei ceti più poveri. 

Naturalmente immagino che dietro questa piroetta ci siano motivi contingenti (beghe nella maggioranza?), e non mi stupirei che alla fine prevalga la solita logica di dare un contentino un po’ a tutti. Però l’occasione è buona per sollevare un dubbio di fondo, che si porta dietro anche una proposta bipartisan. 

Il dubbio è questo: non è molto inefficiente varare misure spezzatino? E non è da stolti dividersi sempre su ogni singola misura? 

Forse, sarebbe il caso di prendere in considerazione una strada diversa. E cioè che, visto che (per ora) sono condannate a governare insieme, la destra e la sinistra la smettano di varare misure-inciucio, che sedano le liti ma producono effetti modestissimi, e abbiano invece il coraggio di varare misure di parte ma che almeno siano efficaci. Una volta a te, una volta a me. Una volta in base ai più ragionevoli fra i principi della destra (alleggerire la pressione fiscale sui produttori), un’altra in base ai più ragionevoli fra quelli della sinistra (aiutare gli ultimi, ossia i veramente poveri). E che i cittadini finalmente si accorgano di qualcosa.

Faccio due esempi. La sinistra ha il chiodo dell’aumento «esponenziale» delle diseguaglianze? La destra ha il chiodo dell’oppressione fiscale? 

Benissimo, visto che il governo afferma di disporre di x miliardi per varare delle politiche, se ne mettano la metà a disposizione della destra e l’altra metà a disposizione della sinistra, e vediamo che cosa riescono a combinare.

Se vuole spendere, ed è preoccupata dei poveri, la sinistra li metta pure, anche tutti, sulla social card, almeno aiuta veramente i deboli, che con gli sgravi fiscali non avrebbero invece alcun beneficio (perché sono «incapienti», ossia privi di redditi tassabili). Quanto alla destra, riduca le tasse che vuole. Se è fissata sulla prima casa, metta pure lì le sue risorse (se il valore delle case è precipitato, una bella responsabilità ce l’hanno le troppe tasse sulla casa). Se invece la preoccupa di più il soffocamento dell’economia, usi pure tutto il suo gruzzolo per alleggerire le tasse sui produttori, a partire dall’Irap, una tassa assurda perché si paga anche quando si è in perdita. 

In entrambi gli scenari, quello di una politica risolutamente rivolta agli ultimi e quello di una politica di sgravi fiscali incisivi, vi sarebbero effetti percepibili, e i vantaggi sarebbero apprezzati anche dagli «altri»: più soldi ai poveri significa sostenere la domanda di consumo (gli ultrapoveri non possono permettersi di risparmiare), meno tasse sulle imprese significa sostenere l’occupazione (un’impresa in perdita costretta a pagare l’Irap non assume proprio nessuno).

 

Gli esempi possono piacere più o meno, e certamente se ne possono fare di migliori, o più interessanti. Ma il punto che mi preme sottolineare è, per così dire, di metodo. Mi piacerebbe che destra e sinistra la smettessero di combattersi stravolgendo e svuotando le proposte altrui, e cominciassero a pensare che c’è un modo migliore di essere sé stessi: quello di alternarsi al comando. Mi piacerebbe che la sinistra varasse il provvedimento migliore che riesce a concepire, senza bastoni fra le ruote dalla destra. E viceversa.

Non sarebbe un dramma, ed eviteremmo il solito scaricabarile: la mia idea era buona, ma non ha funzionato perché tu me l’hai svuotata, annacquata, stravolta. E forse avremmo anche politiche più efficaci di quelle attuali. 

Del resto, non ci vuole molto.

Da - http://lastampa.it/cultura/opinioni/editoriali


Titolo: LUCA RICOLFI - L’impervia strada di Matteo
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2013, 10:32:42 am
Editoriali
13/12/2013

L’impervia strada di Matteo

Luca Ricolfi

Che Renzi abbia vinto le primarie del Pd e ne sia diventato il segretario è un fatto positivo. Renzi, infatti, è l’unico leader dal quale è ragionevole aspettarsi due risultati: primo, la fine della stagione immobilista del governo Letta, finora colpevolmente tollerata da Pd e Pdl; secondo, la rinuncia a percorrere scorciatoie anti-istituzionali, che sono invece la perenne tentazione di Berlusconi, Grillo e Lega, ossia di circa metà del Parlamento.

Questo è importante, perché ci toglie dal dilemma di questi otto mesi: meglio tenersi il timido Letta, o rischiare il ritorno alle urne senza una nuova offerta politica? Con Renzi chi vuole un vero cambiamento sa che potrebbe anche ottenerlo, perché il ragazzo è determinato. Ma sa anche che, se il cambiamento non si materializza, si può andare alle urne senza porcellum, e con qualche proposta politica nuova.

Fin qui tutto bene. Questa è la faccia migliore della luna. C’è anche una seconda faccia, tuttavia, e tanto vale parlarne subito: non è detto che Renzi abbia coraggio a sufficienza. E se Renzi si rivelasse un bluff, la luna della politica potrebbe riservarci il suo lato peggiore. Con effetti catastrofici, temo.

Vediamo perché. 

Per capirlo occorre partire da due recentissime prese di posizione pubbliche, due specie di lettere aperte rivolte l’una a Enrico Letta (a firma Giavazzi e Alesina, sul Corriere della Sera), l’altra a Matteo Renzi (a firma Pietro Ichino, dal suo sito). L’elemento comune a questi due interventi è il perentorio, o accorato, invito a uscire dal generico. La richiesta di rispondere su una quindicina di punti fondamentali, su cui non solo il governo ma anche Renzi non hanno preso posizioni chiare o, nel caso di Letta, hanno fatto annunci senza passare dal dire al fare. 

Il tratto distintivo dei punti toccati da Alesina, Giavazzi e Ichino, tuttavia, è la loro prosaicità. Pochi voli pindarici sull’obbrobrio del porcellum, sugli scandalosi stipendi dei manager, sulla politica ladra e corrotta, sulla necessità di «dare una speranza», ma una ben più corposa lista di decisioni da assumere sul deficit pubblico, sull’entità dei tagli di spesa, sulle assunzioni nella scuola, sulle imprese pubbliche decotte, sulle privatizzazioni, sul finanziamento pubblico dei partiti, sulla giustizia, sul mercato del lavoro (inclusa l’incandescente disciplina dei licenziamenti). Quasi tutti punti su cui non solo il prudente Letta ma anche lo scanzonato Renzi hanno finora detto ben poco, o per lo meno ben poco di preciso nei modi, nei tempi e nelle cifre.

 

Il perché della reticenza di Letta è chiaro. Democristianità a parte, è soprattutto l’assenza di un accordo programmatico ben definito (come quello Merkel-socialdemocratici) che lo costringe a prendere «impegni vaghi», un atteggiamento che giustamente Alesina e Giavazzi considerano una colpa, in quanto danneggia il paese. Il perché della reticenza di Renzi lo spiega benissimo Pietro Ichino quando nota (e dimostra) che il Pd «è il più conservatore fra i partiti italiani». Questa circostanza spiega perfettamente la metamorfosi di Renzi: audace e tutto sommato abbastanza chiaro fin che doveva sfidare Bersani (primarie dell’anno scorso), è diventato sempre più guardingo, sfuggente e astuto quando, in questi ultimi mesi, gli si è presentata la possibilità reale di conquistare la cittadella del Pd, l’unico vero apparato di partito rimasto sul terreno di gioco. Renzi sa benissimo che, in qualsiasi sede, incontro, festival o grigliata democratica, Susanna Camusso prende più applausi di Pietro Ichino, e a questo dato di fatto ha deciso di attenersi, mettendo la sordina su tutti i temi, dal mercato del lavoro al rispetto degli elettori di Berlusconi, che lo avevano reso indigeribile al popolo di sinistra. Una strategia comunicativa perseguita con coerenza e lucidità, e ingenuamente confessata da quello che pare essere divenuto il principale consulente di Renzi in materia economico-sociale, Yoram Gutgeld, di cui è appena uscito il libro-manifesto Più uguali, più ricchi (Rizzoli). Nelle pagine iniziali del libro, Gutgeld esalta l’equità e la meritocrazia (che creano sviluppo economico), e critica l’eguaglianza e l’egualitarismo (che frenano lo sviluppo), salvo poi spiegare che non se l’è sentita di intitolare il libro «Più equi, più ricchi», perché la parola «equità» e ancor più l’aggettivo «equo» sono termini «freddi». Meglio il titolo «Più uguali, più ricchi», che alimenta l’equivoco, fa credere l’esatto contrario di quel che si vuol dire, ma almeno scalda i cuori degli elettori di sinistra.

Ha fatto bene Renzi ad adottare una simile strategia di «dissimulazione onesta»?

Chi crede fermamente in lui, giura di sì. L’importante era ed è vincere, e per vincere le prossime elezioni bisognava dare al popolo quel che il popolo chiede: tanta polemica anti-casta, tanta voglia di facce nuove, tanta retorica del ricambio generazionale, il tutto condito con un pizzico di polemica con l’Europa e i suoi vincoli paralizzanti. Un ragionamento che, a quel che sento in giro, coinvolge anche i più riformisti fra i renziani: per fare le cose che Matteo predica, bisogna prima conquistare il Pd e il Governo, e solo poi preoccuparsi dei contenuti più difficili da far accettare all’elettorato di sinistra, e presumibilmente anche al resto del paese.

Questo ordine di pensieri, più o meno spregiudicati e machiavellici, sono certamente congeniali a una parte dell’elettorato di sinistra, e specialmente alla sua parte più anziana, spesso di matrice comunista, da sempre abituata alla doppia verità e convinta che il fine, quando è buono, giustifichi i mezzi, anche quelli cattivi. Ma proprio il fatto che la cultura comunista, le sue abitudini mentali, i suoi riflessi condizionati, siano ancora così radicati nell’elettorato di sinistra, dovrebbe forse suggerire anche un diverso genere di riflessione. Se Renzi, come pensano i suoi detrattori, ambisce solo a sedersi sullo scranno di palazzo Chigi, nessun problema: potrebbe anche farcela. Se però, come molti di noi si augurano, il Davide della politica italiana, dopo aver vinto il gigante Golia dell’apparato di partito, nutrisse anche l’ambizione di provarci, a cambiare questo sciagurato paese, forse farebbe bene a non trascurare un altro tratto della cultura di sinistra, e non solo di essa: il gregarismo, il conformismo, l’attitudine a fiutare l’aria per poi correre tutti nella medesima direzione. Il plebiscito che ha sbalzato Bersani e incoronato Renzi è stato troppo repentino per non evocare altri cambiamenti di umore degli italiani, da fascisti ad antifascisti (nel 1943-45), da clientes dei partiti di governo a giustizialisti duri e puri (nel 1992-94).

La realtà è che Renzi, per ora, non ha affatto cambiato il Pd, come vent’anni fa aveva invece fatto Tony Blair con il Labour Party, attraverso una lunga battaglia a viso aperto. Semmai, è l’elettorato del Pd che ha cambiato Renzi, o lo ha indotto a crittare il suo messaggio originario. Si tratta ora di capire se sarà l’elettorato del Pd a usare Renzi per conquistare quella vittoria che Bersani non è stato capace di regalargli, o sarà Renzi a cominciare, pazientemente, quell’opera di trasformazione delle coscienze che è la premessa di ogni vero cambiamento.

Da - http://lastampa.it/2013/12/13/cultura/opinioni/editoriali/limpervia-strada-di-matteo-rvuRDkDG7F8FCcQnojCmcK/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Con Renzi la nebbia è finita
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2014, 11:33:06 pm
Editoriali
26/01/2014

Con Renzi la nebbia è finita
Luca Ricolfi

La prova cruciale, quella in cui si capirà di che stoffa è fatto Matteo Renzi, non è quella di questi giorni. Il test vero, per il sindaco di Firenze, arriverà quando dovrà affrontare in campo aperto i sindacati (soprattutto la Cgil) e l’ostinato conservatorismo dei suoi compagni di partito in materia di mercato del lavoro, tasse, spesa sociale. 

Ossia sulle cose che il 70% dei cittadini giudicano altrettanto o più importanti del cambiamento delle regole del gioco politico (sondaggio Ipsos pubblicato ieri dal «Corriere della Sera»). Vedremo allora se la cautela fin qui mostrata da Renzi, in particolare al momento della presentazione del «Jobs Act», cederà il passo a un atteggiamento più risoluto. Lo speriamo, perché la prima cosa che gli italiani si aspettano dalla politica non è una nuova legge elettorale, ma la possibilità di creare e trovare lavoro.

Detto questo, però, come non godersi lo spettacolo di questi giorni?

Sul cambiamento delle regole, Renzi ha fatto in 3 giorni più di quello che i politici politicanti hanno fatto in 31 anni, ossia dall’insediamento della commissione Bozzi sulle riforme istituzionali (1983). Ma soprattutto lo ha fatto in un modo che, per la sinistra, è del tutto nuovo. Con Renzi la sinistra si è riappropriata del linguaggio naturale, e con questa sola mossa ha cancellato un handicap formidabile che l’ha sempre condizionata nel confronto con la destra. Fino a ieri l’intero establishment di sinistra ha sempre parlato in codice, usando concetti astratti, formule vuote, espressioni allusive, perfettamente comprensibili agli addetti ai lavori ma drammaticamente lontane dalla vita e dalla sensibilità delle persone comuni. Per capirli, per capire che cosa veramente avessero inteso dire, per capire che cosa effettivamente fossero intenzionati a fare, ci voleva l’interprete. E per interagire con loro si doveva conoscere le buone maniere del linguaggio politico, quel dire e non dire, accennare e far intendere, lusingare e velatamente minacciare, ma sempre educatamente, sempre con il dovuto sussiego, sempre con il necessario bon ton intra-casta. Parole di nebbia, le aveva chiamate Natalia Ginzburg fin dai primi Anni 80. Parole che rendevano i politici di sinistra dei veri marziani agli occhi della gente comune.

E’ anche per questo che, quando Berlusconi scese in campo nel 1994, per i politici di sinistra (e non solo per loro) fu un vero shock. Berlusconi parlava in linguaggio naturale. Si poteva ascoltare senza l’interprete. Esattamente come Renzi oggi. Renzi non parla in codice, non conosce le buone maniere del dibattito politico, se ne infischia dei balletti e dei cerimoniali dei suoi compagni di partito. Si lascia scappare battutacce, usa l’ironia e qualche volta il sarcasmo, è del tutto privo di quella sorta di omertà, o patto di non aggressione, che vige fra i professionisti della politica. Come se lui facesse un altro mestiere, e quindi non si sentisse in alcun modo vincolato alle regole di deferenza che derivano dall’affinità. I politici del Pd, offesi da Renzi, sembrano nobildonne ingioiellate che incontrano sulla loro strada il tamarro di turno: come in un film di Checco Zalone, loro porgono languidamente la mano per il baciamano, lui risponde con una pacca sulle spalle e passa allegramente oltre.

 

Tutto questo è tremendamente spiazzante per i vecchi mandarini del suo partito, ma anche per molti quarantenni. Addestrati a parlare e agire in codice, abituati a tradurre ogni parola, a interpretare ogni comportamento, non sanno che pesci pigliare quando uno come Renzi la smette di menare il can per l’aia. Ma soprattutto sono imbarazzati, politicamente imbarazzati. Dal momento che Renzi comunica come Berlusconi, e per vent’anni i dirigenti della sinistra si erano vantati di non parlare come lui, ed erano persino arrivati a bollare il modo di comunicare di Berlusconi come segno inequivocabile di rozzezza-demagogia-populismo, diventa un bel problema ritrovarsi con un leader che, almeno in questo, assomiglia al loro peggiore nemico. Non avendo voluto capire a suo tempo che alcuni difetti di Berlusconi, come il parlar chiaro e la vocazione decisionista, potevano anche essere delle virtù, sono ora in difficoltà ad accettarle quando si ripresentano in uno dei loro, il neo-eletto segretario del Pd.

Si potrebbe supporre che tutto ciò sia un guaio per i politici di lungo corso del Pd, e non per Renzi, che dopotutto tra frizzi, lazzi e fuochi d’artificio si trova perfettamente a proprio agio. E tuttavia la conclusione sarebbe affrettata, e troppo ottimistica, a mio parere. Contrariamente a quel che si potrebbe supporre, l’oscurità del linguaggio, per la sinistra, non è affatto un optional. Specialmente negli ultimi venticinque anni, dopo la svolta della Bolognina di Occhetto (1989), ossia da quando la sinistra ha provato a diventare riformista, un certo grado di ambiguità e furberia nella lingua è stato lo strumento con cui gli eredi del comunismo hanno cercato di preservare la propria unità e, talora, di allargare il proprio consenso. E’ solo in virtù di tale uso spregiudicato della lingua che, per oltre vent’anni, è stato possibile nascondere, dissimulare, attenuare le profonde differenze fra le varie anime della sinistra. Le 281 pagine di programma di Prodi nel 2006, così come i confusissimi 11 punti di Bersani nel 2013, non erano figli di modesti consulenti, o di pessimi uffici studi. No, quelle «parole di nebbia», come le avrebbe definite Natalia Ginzburg, erano il mezzo più idoneo per restare uniti nonostante i dissensi, l’unico modo di tenere insieme Prodi e Bertinotti, Veltroni e Vendola, Mastella e Padoa-Schioppa. Da questo punto di vista, è molto riduttivo sostenere – come usano fare i riformisti-doc – che l’unico collante della sinistra in questi venti anni sia stato l’antiberlusconismo: no, cari riformisti, la sinistra di collanti ne ha avuti due, uno era l’antiberlusconismo, l’altro il parlare per concetti vaghi, quella malattia della lingua che Raffaele La Capria ha definito «concettualismo degradato di massa».

Ecco perché, per Renzi, la strada potrebbe essere in salita. Se Renzi parlerà chiaro su tutto, e non solo sulla legge elettorale, le divisioni dentro il Pd non saranno più occultabili con la nebbia della lingua, e il partito potrebbe spaccarsi. Specialmente sul mercato del lavoro, il conflitto fra sinistra conservatrice e sinistra modernizzatrice non potrà che venire allo scoperto. Credo sia questo il motivo per cui, un paio di settimane fa, sul Codice semplificato del lavoro di Ichino la sua risposta alla mia domanda (perché non vararlo subito?) sia stata così debole, così elusiva. Suppongo che Renzi non abbia troppa fretta sul mercato del lavoro perché vuole aspettare di aver il partito in mano prima di iniziare le battaglie politicamente più difficili (creare posti di lavoro è più difficile, ancora più difficile, che cambiare le regole del gioco). 

E’ una cosa che capisco benissimo. Purché non si perda di vista il nodo fondamentale: dopo 7 anni di crisi, con milioni di posti di lavoro perduti, gli italiani non si accontenteranno di un cambiamento delle regole del gioco.

Da - http://www.lastampa.it/2014/01/26/cultura/opinioni/editoriali/con-renzi-la-nebbia-finita-6ZQwoRX6TsptZPfoTuwWYM/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - L’obbligo di mirare in alto
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2014, 10:58:13 pm
Editoriali
16/02/2014

L’obbligo di mirare in alto
Luca Ricolfi

Il giudizio della storia sui condottieri, siano essi generali, leader politici o militanti rivoluzionari, non dipende quasi mai dal modo, più o meno sbrigativo, in cui conquistano il potere, ma dall’uso che ne fanno una volta saliti al comando. Così sarà per Matteo Renzi, che giusto in queste ore sta assumendo la guida del Paese. Se fallirà, tutti lo rimprovereranno: sei stato spregiudicato, hai tradito l’amico Letta, ti sei autoproclamato premier, sei venuto meno alla promessa di non scalare il potere senza una vittoria elettorale alle spalle. Se avrà successo, anche gli indignati di oggi finiranno per perdonarlo.

Istintivamente, mi sento più fra i perplessi che fra gli entusiasti. E tuttavia c’è una ragione che mi induce a sorvolare sulla evidente scorrettezza, o se preferite irritualità, del comportamento di Renzi. Questa ragione è puramente negativa, ma ha una sua forza. La riassumerei così: nessun rimpianto per quel che ci lasciamo alle spalle.

Può darsi che Renzi alla fine non combini nulla di buono, può darsi che provi a cambiare l’Italia e non ci riesca.

Può darsi – speriamo di no – che commetta degli errori. Però basta ripercorrere con un po’ di lucidità e di disincanto l’esperienza degli ultimi due anni per rendersi conto che è dalla primavera del 2012 che, nonostante la buona volontà di Monti e di Letta, l’Italia non ha un governo all’altezza dei suoi problemi. L’ultimo tentativo di governare il Paese (non entro qui nel merito se bene o male) risale ai primi 4-5 mesi del governo Monti, più o meno dal novembre del 2011 ad aprile 2012. In quel periodo venne varata la riforma delle pensioni (con il grave effetto collaterale dei cosiddetti esodati) e, dopo alti e bassi, venne fermata in qualche modo la corsa dello spread Italia-Germania, che nel marzo del 2012 tocca il minimo dell’anno. Dopo di allora è stata tutta una navigazione a vista, con alcune cose apprezzabili sia da parte di Monti sia da parte di Letta, ma senza una chiara direzione di marcia e soprattutto senza alcuna vera intenzione di mettere mano ai problemi più difficili. Dove per problemi più difficili non intendo le pur importantissime riforme delle regole (legge elettorale, bicameralismo, titolo V, regolamenti parlamentari) bensì i grandi nodi dell’ultimo quarto di secolo: mercato del lavoro, pressione fiscale sui produttori, ipertrofia burocratica e normativa, spreco di risorse pubbliche, parassitismo di intere porzioni di territorio.

E infatti, dalla primavera del 2012 ad oggi, ossia da quasi due anni, la condizione economico-sociale del Paese è enormemente peggiorata. Certo, ci raccontano che la ripresa è alle porte (la «vedeva» già Monti due anni fa), che lo spread con la Germania è migliorato, che la fiducia sta tornando. Ma è un racconto altamente fuorviante. Nei primi drammatici anni della crisi, fra il dicembre del 2008 e il dicembre 2011, l’Italia perdeva 76 mila posti di lavoro all’anno. Nel solo 2012 le perdite annue erano salite a 248 mila posti. E nel 2013, dopo la cura Monti e sotto lo sguardo pacato di Letta, hanno raggiunto la stratosferica cifra di 433 mila posti di lavoro distrutti in un solo anno. E mentre i nostri governanti si affannavano a convincere l’Europa che stavano facendo i compiti a casa, il giudizio dei mercati su di noi non ha fatto che peggiorare. Per rendersene conto basta usare il termine di paragone appropriato, che non è la Germania, ma sono i Paesi sottoposti a sorveglianza, ossia gli altri quattro PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna). Nella primavera del 2012 (alla fine della «luna di miele» del governo Monti) il vantaggio dei nostri titoli di Stato nei confronti di quelli dei PIGS era di circa 6 punti, oggi è ridotto a circa 1 punto. E il peggioramento, si noti bene, riguarda ciascuno dei quattro Paesi che stanno tentando di autoriformarsi: nel giro di appena 2 anni abbiamo perso circa 15 punti di vantaggio rispetto alla Grecia, 5 punti rispetto al Portogallo, 2 punti rispetto all’Irlanda, mezzo punto rispetto alla Spagna. Lo stesso discorso vale per l’andamento del Pil: anche noi, come tutti i Paesi europei, stiamo faticosamente uscendo dalla recessione (di qui la cautissima benevolenza di Moody’s sull’Italia), ma sfortunatamente siamo fra i Paesi che in questi 7 anni hanno perso più posizioni in termini di reddito, di ricchezza, di posti di lavoro. 

Insomma, a mio parere il rimprovero di aver fatto poco, che così spesso viene mosso a Letta e a Monti (o meglio al secondo Monti, quello del dopo-emergenza), è fin troppo generoso: con i governi di unità nazionale, o di larghe intese, il Paese non è stato semplicemente fermo, bensì è andato indietro sui due terreni fondamentali, quello dell’occupazione e quello delle prospettive di crescita. Si tratta ora di provare, finalmente, ad andare avanti, ed è precisamente su questo che si giocherà la partita di Renzi.

Ma avanti in che direzione?
Qui intravedo due possibilità, o meglio due scenari. Nel primo, chiamiamolo scenario A, Renzi cerca di usare il consenso di cui gode per varare le riforme dolorose di cui il Paese avrebbe bisogno. Conseguenze: centralità della politica economico-sociale, disco verde a Cottarelli sulla spending review, meno tasse sui produttori, drastica riduzione degli adempimenti delle imprese, riforma radicale del mercato del lavoro (meno sussidi e più politiche attive), molte personalità esperte e indipendenti nei ministeri che contano.

Nel secondo, chiamiamolo scenario B, Renzi cerca soprattutto di massimizzare il suo consenso nel Paese e il suo controllo sul governo. Conseguenze: molta attenzione alla partita delle regole, varo di alcune misure anti-casta sacrosante, ma poco incisive sul piano dei conti pubblici, negoziato con l’Europa per ottenere flessibilità sui conti pubblici, cautela sul mercato del lavoro, un paio di sindacalisti nel governo, giovani ministre e ministri di sicura fede renziana nei dicasteri chiave.

Inutile dire quale dei due scenari sia più utile all’Italia. Quanto a Renzi, non so se avrà il coraggio di scegliere lo scenario giusto, ma ho l’impressione che mirare in alto, a un vero cambiamento del Paese, sia l’unica strada per farsi perdonare lo strappo che l’ha portato al potere.

Da - http://lastampa.it/2014/02/16/cultura/opinioni/editoriali/lobbligo-di-mirare-in-alto-HI0z6Lpz8vZYGvcAc3Ua2H/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Soldi ai partiti e significato delle parole
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2014, 05:56:25 pm
Editoriali
03/06/2013

Soldi ai partiti e significato delle parole

Luca Ricolfi

Sul finanziamento pubblico dei partiti si possono avere le idee più diverse. Oggi, come vent’anni fa, è molto popolare l’idea che debba essere abolito integralmente. Ma anche l’idea opposta, e cioè che qualche forma di finanziamento pubblico debba esserci, è tutt’altro che priva di buone ragioni.

Qui vorrei non entrare nel merito della questione, perché tanto ognuno resta della propria idea. 

E quale sia la mia opinione personale è del tutto irrilevante. Quello che però vorrei dire con forza è che, come cittadino, ho trovato offensiva – per non dire beffarda – l’impostazione del disegno di legge appena proposto dal governo. Provo a spiegare perché.

Il primo articolo del disegno di legge recita «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti». Nella lingua italiana la parola «abolito», in assenza di ulteriori qualificazioni, significa soppresso, tolto, eliminato, azzerato.

Inoltre, per il cittadino italiano medio, la parola «finanziamento pubblico dei partiti» designa l’insieme di risorse pubbliche che affluiscono ai partiti: rimborsi elettorali, finanziamento dei gruppi politici a livello centrale e locale, agevolazioni fiscali e tariffarie, contributi alla stampa di partito. Dunque, il cittadino pensa: i partiti non avranno più soldi pubblici, e se vorranno essere finanziati i soldi dovranno chiederceli direttamente.

Leggendo il Disegno di legge, invece, si scopre che le cose non stanno così. Nel 2013 non cambia nulla. Nel 2014, se il Disegno di legge sarà approvato entro quest’anno, i rimborsi elettorali attuali cominceranno ad essere limati un po’, e spariranno del tutto solo nel 2017 (nel 2018 se il Disegno di legge dovesse essere approvato solo nel 2014). In compenso, fin dal 2014 scatteranno agevolazioni fiscali alle donazioni private, nonché finanziamenti ai partiti attraverso un meccanismo di «destinazione volontaria del 2 per mille dell’imposta sul reddito». Non solo: lo Stato assicurerà alle forze politiche la disponibilità di locali e spazi televisivi.

Non è necessario entrare nei dettagli del disegno di legge per rendersi conto di almeno quattro cose.

Primo. Il disegno di legge non tocca né il finanziamento dei gruppi parlamentari, né il finanziamento dei gruppi dei Consigli regionali, due voci molto consistenti del finanziamento pubblico ai partiti.
Secondo. Lo Stato continuerà a sostenere dei costi per il finanziamento dei partiti, sia in forma diretta, sia in forma indiretta (le detrazioni fiscali, l’uso di immobili, gli spazi televisivi hanno un costo). 

Terzo. Nel triennio transitorio (2014-2016), nulla assicura che la decurtazione dei rimborsi elettorali non venga compensata, o addirittura più che compensata, dal meccanismo del 2 per mille.

Quarto. Anche a regime (dal 2017 o dal 2018), nulla esclude che il finanziamento possa essere uguale o superiore a quello previsto dalla legislazione attuale, dovuta al governo Monti (l’articolo 4, anziché fissare un tetto preciso all’uso del 2 per mille, dice che la spesa non potrà superare «XXX», una cifra indeterminata che potrebbe persino essere maggior di quella attuale).

Ecco perché dicevo all’inizio che ho trovato offensivo l’articolo 1 che recita «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti». 

No. Questo disegno di legge prova a ridisegnare una parte del finanziamento pubblico dei partiti secondo nuovi principi (proprio come aveva auspicato Bersani in campagna elettorale), ma non lo abolisce affatto. Berlusconi e Renzi, a parole paladini dell’abolizione totale, devono farsene una ragione. Può anche darsi che alla fine i partiti costino al contribuente un po’ di meno di oggi, ma nulla fa pensare che costeranno molto di meno o che costeranno nulla. 

Perciò, una sola preghiera. Cari politici, che quando ci aumentate le tasse vi rifugiate codardamente dietro il verbo «rimodulare», ora che state effettivamente rimodulando il finanziamento dei partiti abbiate almeno il coraggio di non usare il verbo «abolire». Perché abolire vuol dire abolire, abolire, abolire (direbbe Gertrude Stein), e se voi dite «abolire» quando non state abolendo affatto, noi ci sentiamo presi in giro. Insomma, se proprio non riuscite ad avere rispetto per noi, abbiatene almeno per la lingua italiana.

Da - http://www.lastampa.it/2013/06/03/cultura/opinioni/editoriali/soldi-ai-partiti-e-significato-delle-parole-rl1KjYKAGo4mduYwdAmzzN/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Sul governo una certezza e un dubbio
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2014, 07:12:55 pm
Editoriali
23/02/2014

Sul governo una certezza e un dubbio

Luca Ricolfi

Il governo Renzi ha giurato, gli italiani – dopo una settimana di Sanremo alquanto impegnativa – si preparano ad assistere al nuovo spettacolo, quello della politica nazionale, più perplessi che entusiasti, più preoccupati che curiosi, più speranzosi che fiduciosi. 

 Anch’io mi sento parte di questo sentire strano e, a mia memoria, del tutto senza precedenti. 

Un sentire che, per quel che riesco a capire, deriva dal fatto che nella mente di tante, forse tantissime persone, si sono installate una certezza e un dubbio. Una certezza granitica e un dubbio inestirpabile. 

La certezza granitica è che «Matteo ce la deve fare». Ce la deve fare perché il nostro Paese è in tragico ritardo su tutti i fronti, e questa è l’ultima occasione. Credo che fra la gente normale, non ammalata di faziosità e di politica, nessuno si auguri un fallimento di Renzi. Persino coloro che lo detestano, coloro che lo trovano sfrontato e vanitoso, coloro che si sentono turbati dalla sua spregiudicatezza, persino tutti costoro non si augurano davvero un naufragio del governo Renzi. Perché tutti, quasi tutti, sentiamo che l’Italia non si può permettere un altro periodo di caos e ingovernabilità, e che caos e ingovernabilità sarebbero i frutti avvelenati di un’eventuale caduta di Renzi.

Accanto alla certezza granitica c’è però anche il dubbio, un dubbio grande come una casa. Chi non crede nei miracoli, o perlomeno non crede che la politica sia capace di miracoli, non riesce a nascondersi che quello che Renzi sta chiedendo agli italiani è un vero e proprio atto di fede. Un qualcosa che va contro ogni ragionevole aspettativa e ogni realistica valutazione dei confini del possibile. Renzi ci sta chiedendo di credere nel nuovo in quanto nuovo. Nessun’altra credenziale, che sia visibile a noi cittadini ignari, sembrano possedere la maggior parte dei nuovi ministri se non quella, appunto, di essere nuovi. Ma ci si può entusiasmare solo del fatto di vedere facce nuove, fresche, giovani e femminili?

Forse sì, ma permettetemi di dare un’occhiata ai curricula, sempre che le cose che uno fa nella vita – studi, ricerche, esperienze professionali – abbiano ancora un qualche valore. Intanto, salvo un paio di nomi, di veri giovani ce n’è ben pochi, a meno di definire «giovani» persone che hanno superato i 40 anni (nel mondo della gente comune una persona di 40 anni è un adulto, e spesso ha vent’anni di lavoro alle spalle). Questa normalità anagrafica del governo, il fatto di non essere un governo di ragazzini, è tutt’altro che un difetto, considerato che, per un ministro, l’esperienza e la competenza negli ambiti di cui si dovrà occupare sono delle virtù. Ed eccoci al punto dolente: i medesimi curricula che rivelano che l’età media dei membri del governo sfiora i 50 anni, ci offrono un quadro tutt’altro che rassicurante proprio su esperienza e competenza. Superata la soglia dei 40 anni, e a maggior ragione superata quella dei 45 o dei 50 anni, ci aspetteremmo che un ministro – ossia una persona chiamata ad occupare il posto di più alta responsabilità in un dato ambito – sia scelto fra i migliori nel suo campo. Dove essere fra i migliori significa aver già dimostrato, nel proprio lavoro, di essere fra i più capaci, i più preparati, i più disinteressati. Questo è essenziale, in particolare, nei ministeri (a mio parere quasi tutti) in cui non bastano esperienza e competenza politiche, ma occorre una profonda familiarità con la materia di cui il ministero si occupa. Perché se è vero che in certi ministeri (ad esempio agli Affari esteri, o agli Affari regionali) quel che conta è soprattutto l’esperienza politica, diplomatica o amministrativa, è ancor più vero che nella maggior parte degli altri (e più che mai nel caso di Economia, Lavoro, Istruzione, Pubblica Amministrazione, Sanità, Giustizia), è cruciale che il ministro abbia una conoscenza non superficiale delle materie che tocca. Detto per inciso, è proprio questo uno dei difetti principali della «vecchia» politica: la storia della seconda Repubblica è piena di riforme abortite, degenerate, o stravolte in quanto pensate da ministri esclusivamente preoccupati del «messaggio politico», ma del tutto incapaci di valutare le conseguenze effettive delle leggi che promulgavano. Ministri, insomma, ignari del fatto che anche l’idea migliore può generare il suo opposto, perché «il diavolo si nasconde nei dettagli».

Da questo punto di vista il governo Renzi è veramente molto vecchio, ossia costruito con una logica vecchia. Là dove serviva esperienza politica e c’era un ottimo ministro, universalmente stimato e noto in tutto il mondo, ossia al ministero degli Esteri, si invita Emma Bonino a farsi da parte. E là dove sarebbero serviti i migliori dei rispettivi campi, ossia nei ministeri che richiedono anche competenza tecnica, in troppi casi (non in tutti, per fortuna: vedi ad esempio Economia e Istruzione) si piazzano politici puri, senza alcuna credenziale nelle materie di cui dovrebbero occuparsi, ma con un’attenzione degna di miglior causa agli equilibri fra le forze politiche e fra le correnti del Pd. Politici cui sarebbe ingiusto rifiutare a priori qualsiasi credito, ma cui è altrettanto difficile affidarsi con la tranquillità che ci trasmette un bravo nocchiero.

Ed ecco allora una domanda vera, nel senso che davvero non so come siano andate le cose: perché tutti i nomi eccellenti che sono girati per i ministeri chiave sono caduti?

Nei giorni del totoministri giravano nomi di altissimo livello come quelli di Lucrezia Reichlin, Oscar Farinetti, Andrea Guerra, Alessandro Baricco, Pietro Ichino, Tito Boeri. Se fossero entrati tutti, o ne fossero entrati altrettanti consimili, sarebbe stato davvero il nuovo, un corpo mortale inferto alla vecchia politica. E io non sarei qui a scrivere questo articolo, né avrei letto le decine di commenti preoccupati che sono usciti sui giornali di ieri (sabato).

Che cosa è successo?

Io non l’ho capito. Renzi ha chiesto a tutti o a quasi tutti di entrare nel suo governo e ne ha ricevuto altrettanti rifiuti? E se sì, qual è la ragione? 

Una possibile risposta è che, chiunque nella sua vita abbia lavorato davvero, abbia dimostrato le sue capacità, e abbia raggiunto una posizione di prestigio, non ha molta voglia di immolarsi per una posizione di ministro che potrebbe durare poco, e guadagnargli solo frustrazioni, arrabbiature, impopolarità e discredito.

Una seconda possibile risposta, molto più inquietante, è che Matteo Renzi sia apparso ai suoi potenziali ministri con le idee troppo vaghe sui contenuti. Che di fronte alla giusta domanda «per fare che cosa dovrei diventare ministro?» si sia tenuto un po’ tanto sulle generali.

Come siano andate le cose non lo so, e forse non lo sapremo mai. Per questo, per ora, non riesco a liberarmi né della mia certezza, che sia un bene per l’Italia che Renzi ce la faccia (in bocca al lupo!), né del mio dubbio, e cioè che Renzi non si sia reso conto fino in fondo della smisuratezza dell’impresa che ci promette di compiere. 

Da - http://lastampa.it/2014/02/23/cultura/opinioni/editoriali/sul-governo-una-certezza-e-un-dubbio-08X1E2fig0mzfuK2RyQDZK/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Movimento Cinque Stelle l’illusione iperdemocratica
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2014, 11:37:57 am
Editoriali
02/03/2014

Movimento Cinque Stelle l’illusione iperdemocratica
Luca Ricolfi

Ultimamente, qualcuno si è messo a dire che i grillini sarebbero fascisti. I loro metodi sono stati tacciati di squadrismo. E in questi giorni, di fronte alle procedure di espulsione dei dissidenti, è risuonata forte e chiara l’accusa di stalinismo.

A me pare un abbaglio. Un abbaglio enorme. Soprattutto, un abbaglio che rischia di occultare la vera natura del Movimento Cinque Stelle. No, cari critici del Movimento Cinque Stelle. I partiti totalitari del passato erano un’altra cosa. Erano violenti e anti-democratici. Il Movimento Cinque Stelle è l’esatto contrario: è non violento e iper-democratico. 

Non violento, innanzitutto. Perché la violenza e il suo uso politico, come nel fascismo, nel nazismo e nel comunismo, sono stati una cosa troppo seria e tragica. Evocarle a proposito di qualche spintone in Parlamento (sicuramente deprecabile, ma pur sempre spintone) significa non avere il senso della misura, e in definitiva nutrire poco rispetto per le vittime di quei regimi. 

 Il punto fondamentale, però, quello che caratterizza veramente il grillismo, è l’iper-democrazia. 

Qui è il cuore dell’ideologia 5 Stelle. E qui sta la sua vera e più grave pericolosità, a mio sommesso parere.

Che cos’è l’iper-democrazia?

L’iper-democrazia è un’ideologia che si è consolidata solo negli ultimi 20 anni, in concomitanza con il trionfo di internet, ma le cui radici risalgono a quasi mezzo secolo fa, e precisamente al biennio 1968-69. Che cosa è capitato, in quei due anni cruciali?

Due cose, fondamentalmente. Nelle scuole e nelle università è nata l’ideologia assembleare, il cui nucleo logico è il seguente: le decisioni le prendono coloro che si riuniscono in assemblea, gli assenti hanno sempre torto. L’idea soggiacente è quella di una sorta di primato morale della politica: se fai politica, se sei impegnato, allora sei un gradino sopra gli altri; se invece non la fai, allora sei un egoista, un opportunista, un edonista, o come minimo un qualunquista. E questo a dispetto del fatto che chi fa politica è una minoranza, e la maggioranza ha altro da fare (pochi lo sanno, ma nel mitico ’68 gli studenti politicamente attivi erano solo 1 su 5). Ecco perché la minoranza politicizzata si sente moralmente superiore, e disprezza profondamente la massa che si astiene dalla politica, cui riserva termini carichi di connotazioni negative: maggioranza silenziosa, apatici, qualunquisti. Il complesso di superiorità della sinistra nasce anche di qui.

Ma c’è un altro evento capitale in quegli anni: il 7 gennaio 1969 nasce un tipo di trasmissione radiofonica completamente nuova, “Chiamate Roma 3131”, che diventerà un modello per decine di altre trasmissioni consimili. In essa gli ascoltatori diventano improvvisamente protagonisti: chiunque può telefonare e intervenire a prescindere da qualsiasi credenziale di cultura, esperienza, autorevolezza. Oggi ci sembra normale, ma allora fu un’assoluta novità, che cambiò completamente il rapporto fra pubblico e media. Da allora, sia pure lentamente e gradualmente, si fece sempre più strada l’idea che tutti possono essere protagonisti e, soprattutto, che non è richiesta alcuna speciale dote, competenza o merito per poterlo essere.

Ma veniamo a oggi. Che cos’è il Movimento Cinque Stelle?

Per molti versi non è altro che la micidiale fusione di questi due cambiamenti epocali, entrambi risalenti a mezzo secolo fa. Grazie alla diffusione di internet, l’utopia di una comunità di decisori potenzialmente universale, in cui tutti decidono su tutto, è sembrata improvvisamente una possibilità reale. Il mito della democrazia diretta, da cui Norberto Bobbio ci aveva sempre messi in guardia, è sembrato finalmente alla portata dei tempi. Una volta acquisito che tutti possono circolare in rete, una volta stabilito che il discorso pubblico non richiede alcuna speciale competenza, una volta interiorizzata l’idea che chi fa politica è migliore di chi non la fa, c’erano tutte le condizioni per la nascita di un movimento come quello di Grillo: un movimento iper-democratico, perché fondato sulla credenza che tutti possano partecipare e sulla convinzione che debbano farlo.

Restava un piccolo problema, un dettaglio non risolto. La maggioranza della gente, la stragrande maggioranza delle persone normali, ha un sacco di cose da fare e non si diverte affatto a fare politica, a meno di voler chiamare «politica» il fare gli spettatori nei combattimenti di galli che ogni sera ci offrono Floris, Santoro, Formigli, Paragone, eccetera. Da decenni e decenni le inchieste rivelano che i cittadini politicamente attivi sono una piccolissima minoranza (diciamo il 3%), e che la maggior parte della popolazione o disprezza, o ignora, o assiste passivamente alla commedia della politica. E questo è ancora più vero nel movimento di Grillo, dove i militanti sono circa lo 0,5% degli elettori, ossia qualcosa come 5 persone su 1000.

Ciò crea un salto, una vera e propria frattura, fra la grande e silenziosa maggioranza degli elettori, che si limita a votare e tutt’al più a informarsi, e la minoranza degli impegnati, che frequenta sempre meno le sedi di partito superstiti ma, in compenso, inonda la Rete di ogni sorta di pensieri, analisi, insulti, volgarità, esternazioni più o meno ostili alla grammatica italiana. 

Ma non si tratta solo di una frattura, quella c’è sempre stata, anche ai tempi del glorioso Pci. La novità è che ora, con il movimento di Grillo, a quella frattura si dà uno statuto nuovo, esplicito e paradossale. Grillo sogna una civiltà digitale in cui tutti, seduti davanti al proprio schermo, partecipino alle decisioni fondamentali della comunità. Una civiltà iper-democratica perché tutti possono partecipare, tutti hanno le competenze per farlo, e l’assenza di partecipazione è una colpa, come era nel ’68 e come, sotto sotto, è sempre rimasta nella cultura e nella mentalità della sinistra. 

Questa visione della democrazia e della partecipazione genera almeno due conseguenze. La prima è il sostanziale disprezzo per la democrazia rappresentativa, che si basa invece proprio sul principio opposto, secondo cui la gente ha il pieno diritto di non occuparsi attivamente di politica, ed è del tutto normale che il cittadino deleghi ad altri, i politici di professione, il compito di amministrare la cosa pubblica. La seconda conseguenza è il disprezzo per il proprio stesso elettorato, ossia per quei 995 elettori su 1000 che non partecipano alle decisioni in Rete. Questo disprezzo, non il presunto fascismo o stalinismo, è secondo me il vero lato inquietante del grillismo. Perché, nel movimento di Grillo come negli altri partiti, i militanti non sono affatto un campione rappresentativo degli elettori. Spesso sono invece i più aggressivi, i più faziosi, i peggio informati (perché leggono tanto, ma solo ciò che li conferma nelle loro opinioni), i meno vicini al sentire comune delle persone normali. Le quali lavorano, studiano, si divertono, cercano la loro via nel mare aperto della vita. L’iper-democrazia della Rete, molto poco democraticamente, le snobba e le esclude, e in questa esclusione rivela il vero volto di sé stessa.

Da - http://lastampa.it/2014/03/02/cultura/opinioni/editoriali/cinque-stelle-lillusione-iperdemocratica-nMnhdTJTpp0S2RTJtdpRiL/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Irpef o Irap una scelta rivelatrice
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2014, 12:01:11 pm
Editoriali
11/03/2014

Irpef o Irap una scelta rivelatrice
Luca Ricolfi

Irpef o Irap? I dieci miliardi di sgravi fiscali promessi da Renzi devono andare ai lavoratori o alle imprese?

Mai dilemma di politica economica fu più falso e fuorviante di questo. Intanto perché l’abbassamento dell’Irpef - al quale secondo le ultime voci sarebbe orientato il premier - non riguarderebbe affatto «i lavoratori», che sono oltre 22 milioni, ma una parte dei lavoratori dipendenti; e in secondo luogo perché l’abbassamento dell’Irap non riguarderebbe «le imprese», quanto l’insieme ben più vasto dei lavoratori autonomi soggetti a Irap, che sono quasi 5 milioni di persone. 

Cominciamo quindi con il dire una prima verità: se, come pare, lo sgravio sarà tutto concentrato su un’imposta, e non spalmato su entrambe, la scelta reale di Renzi non è fra lavoratori e imprese, ma semmai fra due gruppi di lavoratori.

Ma è l’unica scelta? Ed è la scelta più importante?
Secondo me no. A mio parere, la frattura sociale fondamentale, in Italia, non è fra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi. La frattura fondamentale è fra garantiti e non garantiti. O, se preferite, fra società delle tutele e società del rischio. Da una parte dipendenti pubblici e dipendenti delle grandi imprese, la cui condizione poggia su un sistema di garanzie relativamente solido e sostanzialmente stabile.

Dall’altra lavoratori autonomi, operai e impiegati delle piccole imprese, disoccupati, precari, lavoratori in nero, giovani e donne alla ricerca di un’occupazione, che nuotano nel vasto oceano del rischio perché la loro condizione è drammaticamente soggetta ai capricci del mercato e le tutele di cui godono sono minime. Questi sono i due mondi che si intrecciano in Italia, talvolta all’interno della medesima famiglia. Ora, rispetto a questa frattura, l’alternativa fra sgravi Irpef e Irap è assolutamente cruciale. 

Gli sgravi Irpef incidono sui risparmi e sui consumi di una decina di milioni di lavoratori dipendenti, ma lasciano del tutto invariata la condizione di chi è lavoratore autonomo o non ha un’occupazione. Gli sgravi Irap, invece, oltre a incidere sui risparmi e sui consumi di circa 5 milioni di lavoratori indipendenti, esercitano un effetto di entità non trascurabile sul tasso di crescita e sull’occupazione. Alleggerendo i conti delle aziende, infatti, gli sgravi Irap riducono il rischio di chiusura e aumentano le possibilità di creare nuovi posti di lavoro. 

 

La differenza di fondo fra le due strade, fra mettere 10 miliardi sull’Irpef e metterli sull’Irap, è che nel primo caso (Irpef) si fornisce un sollievo a una parte di coloro che un reddito già ce l’hanno, mentre nel secondo caso si dà una chance anche a chi non ha alcun reddito. In poche parole, gli sgravi Irap possono avere qualche effetto non solo nella società delle garanzie, ma anche in quella del rischio.

Tradizionalmente la politica, specie a sinistra, ha sempre avuto un occhio di riguardo per il mondo dei garantiti, specie dipendenti pubblici e operai delle grandi fabbriche, e ha prestato ben poca attenzione a quello dei non garantiti, e in particolare di giovani, donne, disoccupati, precari e lavoratori in nero. E’ per questo che, quando spuntano fuori delle «risorse», il riflesso condizionato di un po’ tutte le forze politiche, e massimamente quello delle organizzazioni sindacali, è di convogliare tali risorse verso i propri iscritti o i propri elettori, che tendenzialmente costituiscono porzioni più o meno ampie e ben definite del mondo dei garantiti. E’ naturale: ognuno cerca di proteggere i suoi, e i non garantiti sono tali proprio perché non hanno alcuno che li protegga e ne difenda le buone ragioni. 

Ecco perché, molto giustamente, tanti studiosi e tanti osservatori dicono che, in Italia, non solo la destra ma anche la sinistra è conservatrice. Ed ecco perché, da qualche tempo, ci si augura che almeno la sinistra abbandoni la sua attitudine conservatrice e provi a fare la sinistra, difendendo innanzitutto i veri deboli.

Avrà Matteo Renzi il coraggio di puntare, per la prima volta nella storia della sinistra nell’Italia repubblicana, sul mondo dei non garantiti?  O preferirà la solita strada, quella di dare un contentino a un segmento dei garantiti?
Lo vedremo domani, quando verrà presentato il Jobs Act. Nel frattempo possiamo solo rallegrarci di una cosa: dopo che il premier avrà fatto la sua scelta definitiva, noi cittadini ne sapremo molto di più sul premier stesso. Perché la scelta Irpef-Irap è una cartina al tornasole perfetta, capace di dirci se – con Renzi – la sinistra ha davvero cambiato verso, diventando più moderna e attenta all’interesse generale, o se essa continua ad essere ostaggio dei poteri di sempre, che ne hanno fatto una delle forze più conservatrici del Paese.

Da - http://www.lastampa.it/2014/03/11/cultura/opinioni/editoriali/irpef-o-irap-una-scelta-rivelatrice-qEHKLVZtdd2umOzNgEpU5L/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Il vero choc è il rimborso dei debiti
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2014, 12:22:06 pm
Editoriali
19/03/2014

Il vero choc è il rimborso dei debiti

Luca Ricolfi

L’avete notato? Ogni governo ha la sua parola chiave. Quando c’era Monti, la parola chiave era «salvare» (l’Italia). Con Letta era diventata «stabilità». Con Renzi e i suoi siamo passati a «rivoluzione». Poiché in passato si è fatto ben poco, e nessuno ha memoria di una vera rivoluzione, il mero fare qualcosa appare rivoluzionario.

Non ho nulla contro l’uso della figura retorica dell’iperbole, e quindi non cercherò di sostituire alla parola rivoluzione parole meno eccitanti, tipo cambiamento, riforma, provvedimento. Parliamo pure di scelte rivoluzionarie, se questo può tirarci su il morale. Però almeno proviamo a fare qualche distinzione, perché dentro la rivoluzione in corso ci sono atti di portata molto diversa. Ci sono atti che hanno un valore simbolico altissimo e nessun effetto pratico, o addirittura effetti pratici negativi. E ci sono atti che lasciano indifferente il grande pubblico ma hanno una portata enorme, nel senso che possono cambiare radicalmente le condizioni di vita della gente. La mia impressione è che fra l’importanza di un atto e l’attenzione dell’opinione pubblica vi sia, tendenzialmente, una sorta di relazione inversa, per cui quel che colpisce l’immaginazione conta poco e quel che conta molto non colpisce l’immaginazione. 

Vediamo due esempi estremi.

Mettere all’asta 100 auto blu è pura propaganda anti-casta. E lo resterebbe anche se ne venissero vendute 1.000 o 10.000. Non tanto perché il ricavato sarebbe comunque modestissimo, ma perché il vero costo delle auto di servizio sono gli autisti, e anche licenziandoli in blocco resterebbero da pagare taxi e corse di auto Ncc (Noleggio con conducente). Assumendo che le auto blu vendute siano 1.500 e non solo 100, e che da ciascuna si ricavino 5.000 euro (come suggerisce l’esperienza passata), il ricavato sarebbe di 7,5 milioni, una cifra assolutamente irrisoria (più o meno 1 millesimo dei risparmi di spesa ipotizzati da esponenti del governo per il 2014, pari a 7 miliardi).

Passiamo al secondo esempio. Pagare alle imprese 68 miliardi di debiti della Pubblica Amministrazione, e farlo «entro luglio» (o anche entro il 21 settembre, come ora si sente dire) sarebbe effettivamente una misura di impatto enorme, una misura che cambierebbe le vite di molti. Perché se questi pagamenti avvenissero effettivamente e rapidamente molte meno fabbriche chiuderebbero, ci sarebbero più assunzioni, e le imprese superstiti sarebbero più competitive. Però ne parlano solo gli specialisti e i creditori, l’opinione pubblica si appassiona di più per le auto blu o per i 1000 euro in più in busta paga. A sentire i dibattiti di questi giorni, sembra che questi benedetti 10 miliardi in più per i lavoratori dipendenti siano una misura rivoluzionaria e senza precedenti, la mossa decisiva che può rilanciare i consumi e far ripartire la crescita. 

 

Ma bastano pochi calcoli per mostrare che la gerarchia di importanza fra queste due ultime misure, meno tasse e pagamento dei debiti, è tutta un’altra. Il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione rimette dentro i bilanci delle imprese 68 miliardi di euro, ossia circa 4 punti di Pil. Il saldo netto della manovra di politica economica di Renzi, nella più favorevole delle ipotesi, è dell’ordine di 6-7 miliardi di euro (circa 0,4 punti di Pil), e questo per la semplice ragione che le minori imposte (Irpef e Irap) sono compensate da maggiori tasse sul risparmio e da tagli alla spesa pubblica (la cosiddetta spending review). Detto brutalmente, il reddito disponibile dei lavoratori dipendenti beneficiati dalle riduzioni Irpef potrà anche crescere un po’, ma a fronte di questo incremento i risparmiatori pagheranno più tasse, e la Pubblica amministrazione dovrà ridurre acquisti e stipendi. Contrariamente a quanto molti sono portati a pensare, i 10 miliardi che il governo promette di «mettere in tasca» a una parte dei lavoratori non pioveranno dal cielo ma, ove si troveranno le coperture saranno sottratti ad altri usi, e ove tali coperture non verranno trovate andranno ad aumentare il deficit pubblico (di 3 miliardi, secondo le ultime dichiarazioni). 

Ed eccoci al punto: la «rivoluzione» è fatta di tasselli di impatto del tutto diverso. La vendita della auto blu entusiasma ma non sposta nulla: è mero solletico. La manovra complessiva di riduzione bilanciata di tasse e spesa pubblica piace, ma sposta poco: è una pacca sulle spalle. Il pagamento effettivo e tempestivo dei debiti della Pubblica Amministrazione non scalda i cuori ma può spostare molto: è un vero choc. Uno choc positivo che oggi può evitare la chiusura di migliaia di attività economiche, e ieri avrebbe potuto salvare centinaia di migliaia di posti di lavoro che ora non ci sono più.

Ma esiste qualche possibilità che, entro il 21 settembre, la Pubblica Amministrazione faccia quel che Renzi promette?

Penso non lo sappia nessuno. Anzi, penso che nessuno lo possa sapere: né Renzi, né Padoan, né Bassanini (che ha elaborato il piano di sblocco dei pagamenti). Perché l’esito di questa partita non dipende solo da come andrà il braccio di ferro fra la politica, che ora pretende il pagamento dei debiti, e la burocrazia, che ha sempre frenato. L’esito dipenderà anche dai mercati finanziari. I quali potrebbero apprezzare l’operazione, in quanto aumenta le prospettive di crescita dell’Italia, ma potrebbero anche osteggiarla (chiedendoci tassi più alti), in quanto essa equivale a una spesa non coperta da corrispondenti entrate. E questo indipendentemente dalle procedure di contabilizzazione del debito che la Ragioneria dello Stato e il ministero dell’Economia riuscissero a negoziare con l’Europa: l’esperienza passata dimostra che i vincoli della politica economica non sono solo quelli stabiliti dalle autorità europee (il famigerato 3%), e che il loro rispetto non è né necessario né sufficiente per evitare l’aggressione dei mercati. 

Dunque, a mio parere, il governo rischia. Rischia di non sbloccare i debiti perché gli apparati ministeriali si mettono di traverso, o perché le banche non collaborano, o perché l’Europa ci mette condizioni tropo severe. Ma rischia pure di riuscire a sbloccarli, e che a quel punto siano i mercati a sentire puzza di bruciato in un’operazione così imponente. In questa situazione, l’unica carta che l’Italia può giocare per proteggersi dal rischio di un nuovo aumento dello spread è accelerare le riforme strutturali (soprattutto in materia di giustizia civile, norme fiscali e mercato del lavoro), e rendere il più possibile credibili gli annunci sulle misure future. Il che vuol dire essenzialmente una cosa: prendere congedo dagli estenuanti riti della seconda Repubblica, che hanno imbrigliato tutti i governi che si sono succeduti dal 1994. Riti fatti di interminabili negoziati e mediazioni fra partiti, nel Parlamento, con le parti sociali, con gli apparati dei ministeri. Riti fatti di lungaggini abnormi nell’iter dei provvedimenti legislativi, in una selva di annunci, disegni di legge, emendamenti, deleghe, decreti attuativi, regolamenti. 

Da questo punto di vista il governo Renzi è una realtà ancora tutta da scoprire. Il suo decisionismo fa ben sperare, mentre la pioggia di annunci, quasi sempre privi di un supporto legislativo ben definito, fa temere che, alla fine, anche lui possa finire impigliato nella palude da cui voleva tirarci fuori.

Da - http://lastampa.it/2014/03/19/cultura/opinioni/editoriali/il-vero-choc-il-rimborso-dei-debiti-iYujQVy4MyECQeI39IlrPP/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Spesa pubblica, perché i tagli sono difficili
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2014, 04:54:42 pm
Editoriali
23/03/2014
Spesa pubblica, perché i tagli sono difficili

Luca Ricolfi

Sono troppi o troppo pochi 34 miliardi all’anno di tagli della spesa pubblica? 
La domanda aleggia nelle stanze della politica da qualche giorno, perché 34 miliardi è quanto il Commissario alla spending review Carlo Cottarelli ipotizza di risparmiare nel 2016, dopo aver tagliato la spesa pubblica di 7 miliardi quest’anno e 18 l’anno prossimo.

La sequenza 7-18-34, a quanto pare, spaventa Renzi e i suoi. Non solo perché siamo sotto elezioni, e parlare di tagli di spesa pubblica ad appena 60 giorni dal voto può danneggiare il partito del premier, ma anche perché alcuni tagli ventilati da Cottarelli, ad esempio quelli alle pensioni superiori a 2500 o 3000 euro mensili lordi, appaiono davvero sorprendenti: come si fa a considerare ricco, e quindi soggetto a un «contributo di solidarietà» (che brutta e ipocrita espressione…), un pensionato che incassa 2000 euro netti al mese, e nello stesso tempo considerare povero, e quindi da aiutare con uno sgravio Irpef, un lavoratore dipendente che di euro al mese ne guadagna 1500?

Dunque Renzi frena. Secondo alcuni (Federico Fubini venerdì su Repubblica) sarebbe orientato a tagli di «soli» 20-25 miliardi, meno di quanti ne aveva programmati il timido governo Letta. 

Secondo altri, più maliziosi, la vera entità dei tagli che Renzi si appresta a mettere in cantiere, specie riguardo alle pensioni del ceto medio, la conosceremo solo dopo le Europee, quando non ci saranno più appuntamenti elettorali importanti alle porte. 

Che cosa dobbiamo pensare?

Non lo so, perché delle vere intenzioni del premier (ammesso che esistano) non ho la minima idea. Però, avendo studiato per anni gli sprechi della Pubblica amministrazione, ho un’idea di quanto grandi essi siano e del perché sarà impossibile eliminarli a breve.

Cominciamo dalle cifre. La spesa pubblica, se trascuriamo gli interessi sul debito e le pensioni vere e proprie (che sono retribuzioni differite), ammonta a circa 500 miliardi. Questa cifra include sia la spesa sociale in senso stretto (sanità, scuola, assistenza, ammortizzatori sociali) sia le spese generali di funzionamento di qualsiasi stato moderno (difesa, giustizia, carceri, amministrazione, trasporti, infrastrutture). La stragrande maggioranza degli studi che hanno provato a stimare l’entità degli sprechi in uno o più di tali settori hanno riscontrato tassi di spreco medi nazionali compresi fra il 15% e il 30%. Tali tassi, però, variano enormemente da territorio a territorio, diciamo da un minimo del 5%, tipicamente riscontrabile per diversi servizi erogati in Lombardia e in Veneto, fino al 50%, tipicamente riscontrabile in molte (non tutte) le regioni meridionali. Complessivamente, una stima prudente del tasso medio di spreco a livello nazionale, intendendo con spreco tutto quel che si spende in più rispetto ai territori più efficienti, si può situare intorno al 20%. In concreto significa che, ogni anno, buttiamo dalla finestra più o meno 100 miliardi di euro, dove «buttare dalla finestra» significa che potremmo produrre gli stessi servizi spendendo 400 miliardi anziché 500 o, alternativamente, che con la medesima spesa di prima potremmo ampliare i servizi di circa il 20%: più asili nido, più politiche contro la povertà, migliori ospedali, migliori scuole e così via.

Se ci fermiamo fin qui la conclusione è scioccante: altroché troppi tagli, 34 miliardi è appena un terzo di quel che si potrebbe tagliare! Dunque Renzi dovrebbe tagliare di più, non di meno di quel che Cottarelli ipotizza.

C’è un «però» grande come una casa, tuttavia. Tagliare senza ridurre i servizi è difficile, difficilissimo (su questo, e fino a questo punto, i sindacati hanno perfettamente ragione). Si può fare, ma solo a tre condizioni, nessuna delle quali è attualmente rispettata, e l’ultima delle quali è indigeribile per i sindacati.

Prima condizione (studi macro). Ci vogliono studi di settore, servizio per servizio, articolati territorialmente almeno a livello regionale, per individuare le «migliori pratiche» (le cosiddette best practices) e stimare il tasso di spreco di ogni territorio, che si può ricavare da un confronto sistematico, in termini di costi e benefici, con il territorio meglio organizzato. Bisogna, in altre parole, continuare il lavoro meritoriamente iniziato dalla Commissione Muraro (Commissione tecnica per la finanza pubblica), insediata nel 2007 da Padoa Schioppa e malauguratamente sciolta da Tremonti nel 2008, dopo poco più di un anno di lavoro. Non è questo, a quel che è dato conoscere, il lavoro che sta facendo il Commissario Cottarelli. Eppure nessuna riduzione degli sprechi è possibile in Italia se non si parte da studi macro ben fatti e da obiettivi di risparmio territoriali.

Seconda condizione (studi micro). Una volta individuate le inefficienze di uno specifico servizio e la loro distribuzione territoriale, occorrono studi molto precisi e dettagliati per passare dalla individuazione dell’entità complessiva degli sprechi alla loro eliminazione in un dato territorio. Quando il governatore Cota mi chiese di dare una mano a razionalizzare la spesa sanitaria in Piemonte, non se ne fece nulla perché lui voleva risultati in pochi mesi, mentre io ritenevo che un piano che non peggiorasse il servizio ai malati richiedesse almeno 2 anni di duro lavoro di un’équipe di decine di medici, infermieri, sociologi, economisti, eccetera. Il governatore della mia regione aveva commesso, a mio parere, il medesimo identico errore di Renzi e di tutti i premier che lo hanno preceduto: quello di sbarcare al governo senza avere né un’analisi, né piani operativi pronti, né la consapevolezza che, se li si intende costruire da zero, bisogna avere la pazienza di aspettare 2-3 anni. 

Terza condizione (comando). Una volta capito che un determinato servizio in un dato territorio «spreca», poniamo, 100 milioni di euro, e che per ridurre lo spreco bisogna intervenire in determinati, specifici, punti del sistema di erogazione del servizio, manca ancora una condizione fondamentale, quella che in un libro di qualche anno fa Giulio Tremonti ebbe a chiamare il «comando» nella Pubblica amministrazione. Occorre, in altre parole, che ci sia qualcuno che abbia sia la competenza sia il potere per riorganizzare il servizio, e non solo per imporre tagli di spesa. Oggi non esiste praticamente alcun servizio erogato dalla Pubblica amministrazione in cui un dirigente informato e motivato abbia un effettivo potere di riorganizzazione. E questo per la semplice ragione che chiunque provi a mettere le mani davvero su mansioni, orari di lavoro, trasferimenti, ruoli e gerarchie, invariabilmente incontra la più o meno sorda resistenza di tutti, dai sindacati che preferiscono tutelare i propri iscritti piuttosto che difendere gli utenti, ai singoli lavoratori che non esitano a ricorrere alla magistratura pur di evitare qualsiasi decisione che non gradiscono. 

Purtroppo nessuna delle tre condizioni precedenti è soddisfatta, per adesso. Il lavoro della commissione Muraro è incompleto e in ogni caso andrebbe aggiornato. Di studi analitici se ne conoscono pochissimi, mentre ce ne vorrebbero diverse centinaia. Quanto a ristabilire un minimo di «comando» nella Pubblica amministrazione, ne siamo lontani anni luce. A queste tre difficoltà, ne andrebbe poi aggiunta un’altra, di tipo politico generale, e cioè che una spending review che volesse fare sul serio non potrebbe nascondere tre fatti su cui i governanti, chiunque essi fossero, hanno sempre preferito sorvolare: che il grosso degli sprechi e delle inefficienze nell’erogazione dei servizi ha luogo nel Mezzogiorno; che spendiamo ogni anno 10 miliardi per false pensioni di invalidità; che almeno un terzo dei «poveri» che usufruiscono di esenzioni varie, dai ticket sanitari alle tasse universitarie, sono finti poveri, che evadono il fisco o autocertificano il falso.

Conclusione?

Nessuno, in Italia, riuscirà mai ad azzerare 100 miliardi di sprechi della Pubblica amministrazione. Sarebbe già molto che un governo riuscisse a eliminarne la metà, diciamo 50 miliardi, ossia un po’ di più di quello che Cottarelli ha ipotizzato per il 2016. Per farlo, però, occorrerebbe che fossero soddisfatte le condizioni che ho ricordato. Finché non lo saranno tutte e tre, dalla più facile (la prima) alla più difficile (la terza), è inutile illudersi. Se 34 miliardi di tagli saranno, scordiamoci i servizi. E se vogliamo salvare i servizi, scordiamoci i 34 miliardi di tagli.

Da - http://lastampa.it/2014/03/23/cultura/opinioni/editoriali/spesa-pubblica-perch-i-tagli-sono-difficili-q8l2AOHRCDTexdus3DzBlK/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - La vera sfida è tra Grillo e il premier
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2014, 05:55:23 pm
Editoriali
27/04/2014

La vera sfida è tra Grillo e il premier

Luca Ricolfi

C’ è un po’ di maretta in vista delle Europee, da qualche giorno. Gli ultimi sondaggi, infatti, sono rassicuranti solo per due partiti, quello di Renzi e quello di Grillo. Tutti gli altri sono a rischio. Forza Italia teme di scendere sotto la soglia psicologica del 20%. Quanto alle cinque liste minori, piccole ma non piccolissime, nessuna può essere certa di superare il 4%, una soglia tutt’altro che psicologica, visto che al di sotto di essa non si entra nel Parlamento Europeo: Nuovo Centro Destra (che si presenta con l’Udc), Lega, Fratelli d’Italia, Scelta Europea, Lista Tsipras viaggiano tutti fra il 2% e il 6%, il che, tenuto conto dell’imprecisione di tutti i sondaggi, significa che potrebbero sia farcela tutte, sia restare tutte fuori. Su tutto, infine, aleggia l’incognita del non voto (astensioni, schede bianche e nulle), di solito piuttosto alto in questo genere di elezioni. 

a diverse settimane la maggior parte degli osservatori prevede una vittoria del Pd, trascinato dalla popolarità attuale di Renzi, e una competizione fra Forza Italia e Movimento Cinque Stelle per la conquista del secondo posto. Secondo alcuni, in particolare, il recente calo del consenso a Forza Italia andrebbe considerato temporaneo, e in parte recuperabile grazie al ritorno di Berlusconi in tv. 

La mia impressione è che, in realtà, le cose non stiano così, almeno per quel che riguarda i primi tre posti. A mio modesto parere, se non capiteranno eventi speciali (ad esempio l’arresto di Berlusconi, o l’impossibilità di pagare gli 80 euro a fine maggio), il quadro più verosimile è quello di una competizione per il primo posto fra Renzi e Grillo, con Berlusconi staccato di parecchi punti percentuali. 

Perché Grillo potrebbe contendere il primo posto a Renzi? E perché Berlusconi dovrebbe accontentarsi del terzo posto?

Una prima risposta è che i sondaggi vanno letti, ma anche ritoccati in base all’esperienza. E l’esperienza dice che il voto «politicamente corretto» (oggi chiaramente il voto al Pd) è spesso sopravvalutato nei sondaggi, mentre quello politicamente scorretto (ad esempio quello a Grillo e alla Lega) al contrario è sottovalutato. Se i sondaggi danno il Pd al 33%, è opportuno togliere un paio di punti, e se danno il movimento Cinque Stelle al 25%, è ragionevole aggiungerne altrettanti: nonostante le apparenze, il Pd potrebbe essere intorno al 31%, e il Movimento Cinque Stelle intorno al 27. Se poi, come succede negli ultimi giorni, alcuni sondaggi danno il Pd intorno al 32% e il Movimento Cinque stelle intorno al 27%, diventa molto imprudente concludere che il Pd è in testa. Probabilmente lo è, ma con un distacco modesto. E comunque, se si dovesse votare domani mattina, non punterei una grossa somma sul Pd primo partito.

 

C’è però anche un secondo ordine di motivi che suggerisce che la competizione vera non sia quella per il secondo posto, fra Movimento Cinque Stelle e Forza Italia. Intanto, dobbiamo sempre ricordarci che, giusto o sbagliato che sia, in Italia (ma non solo) le elezioni Europee sono considerate elezioni poco importanti. Questo mero fatto è un grave handicap per Forza Italia, perché rende inservibile l’armamentario anti-comunista. Se Renzi «non è comunista» (parola di Berlusconi), e per di più non c’è alcun pericolo di «consegnare l’Italia alle sinistre» (perché si vota per il Parlamento Europeo), a Berlusconi e ai suoi viene a mancare una delle armi fondamentali tradizionalmente brandite in campagna elettorale.

E tuttavia non si tratta solo di questo. La crisi di Forza Italia è anche una crisi genuinamente politica. Ammaliato dal miraggio di diventare, in tandem con Renzi, il padre delle grandi riforme costituzionali ed elettorali, Berlusconi pare aver perso completamente di vista la politica economico-sociale. Non tanto nel senso che poco se ne occupa, ma nel senso, ben più grave, di non accorgersi degli spazi che Renzi e il Pd gli aprono ogni giorno. Nel mondo di Forza Italia il lutto per non aver fatto la «rivoluzione liberale» promessa nel 1994 non solo genera sensi di colpa (vedi l’intervista di Bondi alla «Stampa» di qualche giorno fa) ma conduce a fraintendere la stessa azione di Renzi, visto come colui che starebbe facendo «quel che dovevamo fare noi». Proprio perché sanno di non aver fatto la rivoluzione liberale, e vedono in Renzi colui che è stato capace di spodestarli, molti politici di centro-destra cadono nell’errore di proiettare sul giovane leader della sinistra i fantasmi dei propri ideali perduti. Se noi non siamo stati capaci di essere liberali, così sembra ragionare la mens politica del centro-destra, liberale deve essere colui che sta prendendo il nostro posto.

Eppure, basterebbe un po’ di osservazione e un po’ di disincanto per rendersi conto di quanto poco – nonostante il ciclone Renzi – sia cambiato l’hardware della sinistra. Certo il software è nuovo di zecca, perché il nostro giovane premier è svelto, disinvolto e comunica bene. Ma l’hardware, il nocciolo duro della politica economico-sociale, di veramente nuovo ha ben poco, e di liberale nulla o quasi. La scelta di ridurre l’Irpef anziché l’Irap, la rinuncia a dare gli 80 euro ai lavoratori dipendenti più poveri (i cosiddetti incapienti), lo stravolgimento del decreto Poletti sul mercato del lavoro, l’assordante silenzio sugli sperperi e l’evasione fiscale del Mezzogiorno, sono tutte scelte (anzi, non-scelte) che ci restituiscono una minestra che conosciamo fin troppo bene: quando deve scegliere, la sinistra sta dalla parte dei garantiti, come esige la Cgil, mentre al mondo dei non garantiti (poveri, disoccupati, giovani e donne fuori del mercato del lavoro, artigiani e partite Iva) si penserà in un secondo tempo, quando ci saranno le risorse, quando l’Europa ci darà il permesso, quando il percorso delle riforme sarà completato. Il guaio dell’Italia è che la rivoluzione liberale, verosimilmente la sola che potrebbe restituire ai non garantiti un po’ di speranza e un po’ di dignità, non piace né alla destra né alla sinistra.

Così il panorama politico profondo dell’Italia resta, nonostante Renzi e Grillo, molto meno movimentato di quel appare in superficie. Quel che soffia nelle vele di Grillo è il vento della delusione per l’Europa, una sorta di variante sovrannazionale della nostra insofferenza per la casta. In quelle di Renzi soffiano venti diversi, compreso l’equivoco della rivoluzione liberale. Una rivoluzione che la destra ha tradito, e la sinistra, almeno per ora, si guarda bene dal raccogliere.

Da - http://lastampa.it/2014/04/27/cultura/opinioni/editoriali/la-vera-sfida-tra-grillo-e-il-premier-slOAeShusnrqtLXL7ajjhK/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Bonus, le insidie del rinnovo
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2014, 05:52:26 pm
Editoriali
22/06/2014

Bonus, le insidie del rinnovo
Luca Ricolfi

E se i mondiali di calcio dell’Italia, tutta pimpante contro l’inesistente Inghilterra e finita ko contro la squadra di Costa Rica, fossero un’inquietante metafora della parabola del governo Renzi?

Speriamo di no. In fondo qualcosa di buono Renzi lo ha fatto, anche se non è detto che sarà lui a raccoglierne i frutti. Mi riferisco, soprattutto, alla caduta di alcuni tabù del discorso pubblico. Dopo Renzi è diventato ammissibile (ossia possibile senza passare per berlusconiani) criticare la magistratura, dissentire dai «venerati maestri», prendere le distanze dai sindacati. Non solo, ma alcuni tabù sono stati rotti o stanno per esserlo in modo effettivo: ad esempio i vincoli sul mercato del lavoro allentati dal decreto Poletti, e l’inamovibilità e intrasferibilità dei dipendenti pubblici, destinate a cadere con la riforma della Pubblica Amministrazione. Fin qui siamo a Italia-Inghilterra.

Dove però comincia Italia-Costa Rica è su tutto il resto, o meglio sulle cose che contano davvero. Qui la disillusione e le preoccupazioni si sprecano.

La disillusione, innanzitutto. Appena insediato, Renzi aveva dichiarato che «la differenza fra un sogno e un obiettivo è una data», con ciò intendendo che per ogni riforma avrebbe indicato delle scadenze precise e le avrebbe rispettate. 

Ricordate la scaletta delle riforme? Febbraio: legge elettorale e riforme istituzionali. Marzo: riforma del lavoro. Aprile: riforma della Pubblica Amministrazione. Maggio: fisco. Giugno: riforma del welfare e della giustizia. Luglio: pagamenti di 68 miliardi di debiti dello Stato e degli Enti locali.

Nessuna data è stata rispettata, nessuna lo sarà, meno che mai quella di pagare 68 miliardi di debiti della Pubblica Amministrazione entro luglio (o settembre) dei quest’anno. Né poteva essere diversamente, a meno di pensare che i predecessori (Letta e Monti) fossero dei completi incapaci. Non è una colpa grave (nessuno ha la bacchetta in mano), ma segnala che anche Renzi è lento, parecchio lento. Le cose veramente importanti andate in porto sono poche (80 euro e decreto Poletti su tutte), il resto dovrà attendere una miriade di incontri, mediazioni, trattative, disegni di legge, decreti delegati, regolamenti attuativi, stanziamenti, come al solito. Niente di nuovo, siamo abituati.

 Ci sarebbero poi le preoccupazioni. Qui il nodo è il bonus da 80 euro, o meglio la sua trasformazione in sgravio fiscale permanente, che valga non solo per il 2014 ma anche per il 2015 e gli anni successivi. Il timore di chi l’ha trovato in busta paga, ma anche di alcuni economisti, è che non si riescano a individuare le risorse per coprirlo anche nel 2015 e che quindi la gente, sapendo che non sarà rinnovato, spenda di meno di quanto farebbe sapendo di poterci contare per sempre. Sono timori comprensibili, specie se si crede che l’economia possa ripartire con un piccolo (circa +0.5%) incremento della domanda interna, e inoltre si ritiene che l’aumento dei consumi privati generato dal bonus non sarà sterilizzato dalla corrispondente riduzione della spesa pubblica con cui, a detta dei nostri governanti, il bonus 2015 dovrà essere finanziato.

Il mio timore è opposto, invece. Chiedo scusa in anticipo ai lettori che non saranno d’accordo, ma quel che temo è precisamente che il bonus venga rinnovato, e provo a spiegare perché.

Per rinnovare il bonus occorrono altri 7 miliardi di tagli di spesa pubblica, oltre a quelli già effettuati quest’anno (circa 3). Se, come promesso, il bonus verrà esteso anche ad altre categorie (incapienti, pensionati, lavoratori autonomi) l’ammontare dei tagli di spesa indispensabili salirà abbondantemente al di sopra dei 10 miliardi. Il tutto senza contare gli ulteriori tagli necessari per finanziare i molti miliardi di nuove e diverse spese, più o meno obbligate e improcrastinabili, che immancabilmente si presentano ogni anno (esodati, cassa integrazione, infrastrutture, emergenze e disastri, eccetera). In tutto circa 15 miliardi di vecchia spesa pubblica in meno, 5 miliardi di nuova spesa pubblica in più. Sono conti rozzi e approssimativi, ma anni di disperati esercizi politico-contabili sul bilancio pubblico ci insegnano che sono questi gli ordini di grandezza in ballo. 

Ebbene, mi spiace dirlo ma secondo me non può funzionare, e forse è persino un bene che non funzioni. Non può funzionare perché nessun governo italiano è in grado di tagliare 15 miliardi di spesa pubblica in un anno, anche ammesso che la cosa sia desiderabile. Quindi o i tagli saranno minori, o sforeremo i conti pubblici (magari non dicendolo, se no l’Europa ci sgrida, bensì «accorgendoci» a posteriori di averlo fatto). Se i tagli saranno minori, e persino se saranno pari a quelli programmati, non resterà un euro per ridurre il costo del lavoro (cuneo fiscale) e le tasse sulle imprese (Ires e Irap), ovvero per migliorare la competitività della nostra economia, che è poi l’unica via che abbiamo per far ripartire la crescita e, se la crescita sarà superiore al 2%, creare qualche nuovo posto di lavoro. In questa situazione, l’unico modo per mantenere la promessa di stabilizzazione del bonus di 80 euro è quello di adottare, insieme a qualche riduzione di spesa, un mix di nuove tasse (come in parte è già stato fatto) e di ulteriore deficit pubblico, tanto più probabile se, sia pure in ritardo, alcuni debiti dello Stato verso le imprese verranno finalmente onorati.

E tuttavia anche questa non è una prospettiva allettante. Qualsiasi cosa ci permetta o ci proibisca di fare l’Europa, i tassi di interesse che paghiamo sui titoli del debito pubblico si formano sul mercato, e la situazione attuale dei mercati finanziari (tassi bassissimi) è assolutamente eccezionale, ossia non destinata a durare. Possiamo non accorgercene, perché continuiamo a guardare solo allo spread con la Germania, ma già ora i mercati danno segnali di non fidarsi dell’Italia. Basta dare un’occhiata all’andamento dei nostri tassi rispetto a quelli degli altri Pigs o presunti tali (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) per rendersi conto della nostra vulnerabilità. Fino al 2012, nonostante tutto, eravamo il meno peggio dei Pigs, poi (da gennaio 2013) siamo stati scavalcati dall’Irlanda, e infine (dal gennaio di quest’anno) siamo finiti anche dietro la Spagna: solo Grecia e Portogallo sono messi peggio di noi. Non solo, ma negli ultimi mesi la posizione relativa dell’Italia è ulteriormente peggiorata: i rendimenti dei nostri titoli di Stato decennali, pur riducendosi, lo fanno meno velocemente di quelli dei tre paesi mediterranei più inguaiati (Grecia, Spagna, Portogallo).

Insomma, a mio parere siamo davanti a una scelta difficile: se Renzi vuole aiutare i veri deboli, ossia chi sta fuori del mercato del lavoro, deve concentrare tutte le risorse sulla riduzione delle tasse sui produttori (Irap e Ires innanzitutto, come ha appena fatto la Spagna) e sulla riforma complessiva del mercato del lavoro. Se invece vuole vincere anche le elezioni regionali (nel 2015 si vota in oltre la metà delle Regioni), avanti così: punti tutto sul rinnovo del bonus, nella speranza che gli elettori appena riacchiappati alle elezioni europee restino in casa Pd il più a lungo possibile.

Da - http://lastampa.it/2014/06/22/cultura/opinioni/editoriali/bonus-le-insidie-del-rinnovo-mN1uWCUi0Ru6AGcMnj2YlK/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Quei sei milioni di deboli che i partiti non vedono
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2014, 12:30:47 am
Editoriali
06/07/2014

Quei sei milioni di deboli che i partiti non vedono
Luca Ricolfi

C’è maretta, nel Pd e nel Pdl, nella maggioranza e nell’opposizione, nei partiti grandi e nei partiti piccoli. Le acque sono agitate perché le riforme sulle regole del gioco, prima fra tutte la legge elettorale, non possono essere rimandate per l’ennesima volta e un po’ tutti ne approfittano per alzare il prezzo del proprio consenso. Ma il vento che agita il Pd è solo una leggera brezza a confronto del turbine che sconquassa il Pdl. Nel Pdl, infatti, le normali divergenze di opinione sui contenuti delle riforme si intrecciano inestricabilmente con il dibattito sotterraneo sul dopo Berlusconi. 

 Un dibattito che, apparentemente, deve rispondere alla domanda: chi guiderà il centro-destra dopo Berlusconi? Ma in realtà sta già cercando di rispondere a un’altra e ben più importante domanda: che cosa sarà il centro-destra dopo Berlusconi? 
Questa seconda domanda è la domanda cruciale. Se qualcosa hanno insegnato le elezioni europee è che, per adesso, esiste una sola forza di governo, il Pd. Il punto è dunque se, anche alle prossime elezioni politiche, il centro-destra non si presenterà in campo, come di fatto è successo alle elezioni Europee, oppure sarà in grado di dare agli elettori una nuova offerta politica.

Il compito di costruire un’offerta alternativa a quella del partito di Renzi è reso difficile dalle divisioni, personali prima ancora che politiche, fra i reduci del ventennio berlusconiano. Ma la difficoltà fondamentale, a mio parere, è di ordine politico-culturale. Oggi il centro-destra non sa né in nome di quale idea dell’Italia rifondarsi, né quale sia il blocco sociale che intende rappresentare. Una difficoltà che è accentuata dal fatto che una parte dello spazio politico tradizionale del centro-destra la sta occupando Renzi con le sue idee più «di destra»: decreto Poletti sul mercato del lavoro, tagli alla spesa pubblica, conflitti con i sindacati e con la magistratura.

Ecco perché non è assurdo domandarsi: c’è ancora spazio per una forza di governo alternativa alla sinistra?
La mia impressione è che, nonostante l’espansionismo renziano, di spazio ve ne sia in abbondanza, anche se non è detto che tale spazio sia adatto ad essere occupato da una forza di centro-destra. 

La ragione fondamentale per cui di spazio, almeno per ora, ve n’è in abbondanza, è che la politica di Renzi non sta affatto affrontando il problema fondamentale dell’Italia, e nell’unico caso in cui ha prodotto un risultato importante e tangibile (gli 80 euro in busta paga), lo ha affrontato dal lato sbagliato. 

 Qual è il problema fondamentale dell’Italia?
Il problema fondamentale è che ci mancano almeno 6 milioni di posti di lavoro. Se vogliamo che il nostro tasso di occupazione sia comparabile a quello medio degli altri Paesi avanzati dobbiamo, come minimo, creare 6 milioni di nuovi posti di lavoro. Il che significa, in concreto, permettere un ingresso massiccio di giovani e soprattutto di donne adulte nel mercato del lavoro. Può sembrare banale, ma è questo il nucleo del problema italiano. Perché intorno al tasso di occupazione ruota tutto: un tasso di occupazione patologicamente basso come il nostro accentua le diseguaglianze, deprime il reddito medio, ci rende schiavi del debito pubblico. Non solo: lasciare insoluto questo problema crea una frattura sociale inedita e gravissima, quella fra chi sta dentro il mercato del lavoro, i cosiddetti insider, e chi ne sta fuori, i cosiddetti outsider. Frattura che si va ad aggiungere e intrecciare alla frattura già abbastanza grave fra i garantiti (lavoratori pubblici e dipendenti delle imprese medie e grandi) e i non garantiti (lavoratori autonomi e dipendenti delle piccole imprese).

Rispetto all’enormità di questo problema, la politica italiana, tutta la politica italiana, appare muta e disarmata. Nessuno gli conferisce la priorità che meriterebbe. Nessuno, soprattutto, ha il coraggio di dire che creare alcuni milioni di posti di lavoro richiede scelte aperte e radicali.

Perché questo silenzio?
Nel caso della sinistra è abbastanza chiaro. Il problema del Pd renziano era ed è riportare all’ovile i propri elettori, che provengono innanzitutto dal mondo dei garantiti. Di qui l’operazione 80 euro in busta paga, che ha beneficiato 10 milioni di lavoratori dipendenti ma ha lasciato fuori gli incapienti (chi ha un salario inferiore a 8.000 euro l’anno), i non garantiti e gli outsider, ossia soprattutto giovani e donne inoccupate.

In questo senso quella di Renzi, checché ne dicano i suoi detrattori, è stata una politica di sinistra classica, da manuale: redistribuire risorse a favore della propria base sociale.

Ma nel caso della destra?
Perché la destra stenta ad occupare gli spazi lasciati aperti dal Pd di Renzi? Perché il dramma di quei 6 milioni di posti di lavoro che mancano all’appello non è prioritario neppure a destra?

Difficile dirlo. Una ragione, probabilmente, è che la destra italiana ha sempre visto la riduzione delle tasse più come un mezzo per sostenere il reddito delle famiglie che come un mezzo per stimolare crescita e creare posti di lavoro. Non a caso nel «Contratto con gli italiani» Berlusconi prometteva la riduzione delle aliquote Irpef, una misura che porta voti, ma non diceva una parola sulla riduzione di Ires e Irap, una misura ben più capace di creare posti di lavoro. 

C’è forse una ragione più profonda, tuttavia, per cui gli esclusi dal mercato del lavoro interessano così poco il ceto politico. Ed è che creare 6 milioni di nuovi posti di lavoro è un’impresa politicamente contraddittoria. La piena occupazione, infatti, è un obiettivo di sinistra, e lo è più che mai al giorno d’oggi, in un’epoca i cui i veri deboli non sono i lavoratori dipendenti, occupati e garantiti, ma sono i giovani e le donne escluse dal mercato del lavoro. Quell’obiettivo di sinistra, tuttavia, oggi che non possiamo più spendere in deficit può essere raggiunto solo con mezzi considerati di destra: il taglio della spesa pubblica, la liberalizzazione del mercato del lavoro e la riduzione delle tasse sui produttori, a partire dall’imposta societaria. 

Di qui il nostro disorientamento. La sinistra sembra di sinistra perché parla di occupazione, la destra sembra di destra perché parla di tasse. Ma né l’una né l’altra stanno cercando di creare quei 6 milioni di posti di lavoro che mancano all’appello.

Da - http://lastampa.it/2014/07/06/cultura/opinioni/editoriali/quei-sei-milioni-di-debiti-che-i-partiti-non-vedono-i4ffVSJGMTNlcGEAeD8RxK/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Chi ci rimette con il primato della politica
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2014, 04:17:08 pm
Editoriali
03/08/2014

Chi ci rimette con il primato della politica
Luca Ricolfi

Su quel che fa il governo Renzi le opinioni divergono. C’è il partito del «finalmente, dopo trent’anni!» che si compiace di ogni novità, reale o presunta che sia. E c’è il partito del «niente di nuovo sotto il sole», che vede riemergere i soliti difetti della politica: tanti annunci e pochi fatti, scadenze non rispettate, leggi e decreti pasticciati, eterno rinvio dei problemi più spinosi, a partire da quello del mercato del lavoro. 

Quello su cui quasi tutti sono d’accordo è che lo stile di governo è cambiato, perché il nuovo premier non è ingessato come i predecessori, e pare determinatissimo a portare a termine i propri piani. C’è un punto, tuttavia, su cui mi pare che non si stia riflettendo abbastanza. Quel che Renzi e i suoi stanno cambiando non è solo lo stile di governo, il tipo di comunicazione, il rapporto con l’opinione pubblica. A me pare che il cambiamento più importante sia una sorta di ritorno in grande stile del primato della politica. Un ritorno che, a seconda dei punti di vista, si può descrivere come sussulto di orgoglio o come rigurgito di arroganza, ma che comunque è in pieno atto.

Ma primato nei confronti di chi? 
Alcune vittime del ritorno della politica si vedono ad occhio nudo. I magistrati e i sindacati, ad esempio. Non che questi due poteri siano stati riformati o meglio regolamentati, come da qualche decennio si attende. Però sono stati subito «messi a posto»: verso i magistrati Renzi ha dichiarato che non aveva alcun problema a tenersi degli indagati fra i membri del governo, verso i sindacati ha detto chiaro e tondo che potevano scordarsi i riti della concertazione, perché lui avrebbe deciso anche contro il loro parere. 

Questa però è solo la parte più visibile della restaurazione del primato della politica. Accanto ad essa ve n’è un’altra, a mio parere ben più carica di conseguenze. Di tutti i premier della seconda Repubblica (e forse anche della prima) Renzi è quello che mostra il minore rispetto, per non dire il maggiore disprezzo, per qualità come l’esperienza, la competenza, la preparazione tecnica e culturale. E, simmetricamente, è il premier che con più spregiudicatezza ha puntato sulla fedeltà e l’appartenenza come criteri di selezione della classe dirigente. 

Tutto questo era evidente fin dalla scelta della squadra di governo, con la rinuncia a servirsi dei migliori e la preferenza accordata ai più fedeli, ma è diventato via via più evidente nelle ultime settimane. Quando, nella polemica con il commissario alla spending review, Renzi e i suoi ribadiscono che «è la politica che decide», non c’è solo l’ennesima manifestazione dell’arroganza del potere (la frase «Cottarelli stia sereno» è un avvertimento di sfratto), ma c’è l’implicita affermazione di un’idea della politica come attività sostanzialmente autosufficiente. Un’idea che verrebbe da definire semplicemente ingenua, se le sue conseguenze non fossero estremamente dannose.

Pensare che problemi di enorme complessità e delicatezza, come il cambiamento della Costituzione, la riforma del mercato del lavoro, la riorganizzazione della Pubblica amministrazione, si possano affrontare mediante un negoziato fra partiti, gruppi parlamentari e fazioni varie, senza un disegno coerente e meditato, con la sola logica delle concessioni reciproche, significa non avere la minima idea degli enormi limiti cognitivi della politica, tanto più di questa politica, con questi politici, nell’Italia di oggi. Nessuno costruisce un aereo, o un’automobile, o un computer, cercando di mettere d’accordo tutti i produttori che ambiscono a fornirne parti e componenti. Eppure è questa la pretesa della politica in Italia. Ed è questa, probabilmente, la ragione per cui la stragrande maggioranza degli aerei, delle automobili e dei computer funzionano, mentre le nostre leggi di riforma non funzionano quasi mai.

Ma la restaurazione del primato del politico, sfortunatamente, non finisce qui. Il disprezzo per la competenza, per l’esperienza, per i saperi tecnici e specialistici, non si limita a privilegiare i politici puri nelle posizioni di governo, ma investe anche il lavoro e le professioni della gente comune. Per chi è della mia generazione, e ha preso atto degli obbrobri della rivoluzione culturale cinese, con le sue epurazioni di intere categorie di persone, medici, insegnati, ingegneri, professionisti, intellettuali, colpevoli soltanto di essere «borghesi» anziché «contadini poveri», fa un certo effetto la leggerezza con cui la politica sta procedendo a rottamare medici, magistrati, professori semplicemente in base alla loro età, senza alcuna considerazione sulle loro competenze o la loro utilità. Come fa effetto sentire che qualcuno è stato scelto «in quanto donna», o «in quanto giovane», senza alcun riferimento ai suoi meriti rispetto ad altri candidati.

La realtà, temo, è che demagogia e populismo sono ormai saldamente insediati nel Dna della nostra classe politica. Renzi e i suoi, almeno per ora, non sembrano fare eccezione. Perché l’essenza del populismo, il suo ingrediente fondamentale, non è l’appello al popolo (che pure non manca: «ho preso il 40.8% dei voti»), ma è il semplicismo, l’incapacità di riconoscere e accettare la complessità dei problemi di una società moderna, tanto più se in crisi da vent’anni. E’ di qui che nasce il senso di sufficienza verso professionisti ed esperti. E’ qui che trova alimento il sentimento di onnipotenza dei governanti. E’ qui, soprattutto, che il progetto di restaurare il primato della politica ha il suo fondamento logico: se i problemi sono semplici, e si tratta solo di tradurre in legge alcuni nobili principi, la politica può farcela da sola, e i Cottarelli di ogni genere e specie possono tranquillamente (anzi: «serenamente») andare a farsi benedire, tanto un tecnico amico lo si trova sempre. 

Per Stella e Rizzo, autori del più fortunato pamphlet politico degli ultimi anni (La casta, Rizzoli 2007), c’è oggi forse qualche nuovo materiale su cui riflettere: la lotta contro la casta, nata per cambiare la politica, sta producendo la più spettacolare e imprevista rivincita della politica stessa.

Da - http://lastampa.it/2014/08/03/cultura/opinioni/editoriali/chi-ci-rimette-con-il-primato-della-politica-mdRLs6cwq4JugB1AXyKIjK/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Il paradosso del nostro benessere
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2014, 06:22:46 pm
Il paradosso del nostro benessere

12/08/2014
Luca Ricolfi

Quel che mi colpisce, nei commenti degli ultimi giorni, è il modo in cui ci stiamo risvegliando dal nostro sogno di mezza estate. 

Di fronte agli ultimi dati negativi su crescita, consumi e spread, alcuni studiosi si limitano a riproporre le proprie ricette, come ad ammonire il premier: hai visto che, finché non fai quel che ti diciamo noi, le cose non possono cambiare? Accanto a questo filone un po’ ripetitivo, però, ce n’è anche un altro, tutto sommato più interessante. Alcuni commentatori, anziché insistere sulle omissioni del governo (soprattutto in materia economico-sociale), paiono suggerire che, in fondo, il problema siamo noi italiani. Un po’ per i soliti motivi, ovvero il fatto che quasi tutti hanno qualcosa da perdere da un vero cambiamento, ma un po’ anche in base a un ragionamento piuttosto sofisticato sul rilancio dell’economia. L’idea, detta in poche parole, è che nelle condizioni attuali non ci sia politica economica che possa trarre l’Italia fuori delle secche su cui si è arenata. Secondo questo modo di pensare una vera ripresa richiederebbe una ripartenza della domanda interna, e una tale ripartenza sarebbe impossibile senza un ritorno di ottimismo, fiducia, speranza, entusiasmo, coraggio morale.

Per dirla con l’efficace formula di Mario Deaglio: «la recessione passerà quando passerà la paura degli italiani», i quali «hanno le risorse per dare una forte spinta propulsiva alla domanda interna effettuando i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere» (La Stampa, 7 agosto 2014).

Resto sempre un po’ perplesso quando, per risolvere un problema, vengono invocati atteggiamenti morali e stati d’animo, perché mi sembra un po’ una confessione di impotenza, come se dicessimo: abbiamo esaurito tutte le cartucce che avevamo, ora non ci resta che mobilitare la nostra forza di volontà. In questo caso, tuttavia, la mia diffidenza per i rimedi idealistici si basa anche su due osservazioni di fatto, entrambe legate in qualche modo al benessere raggiunto dagli italiani.

 La prima osservazione è che, nonostante la crisi e nonostante una parte delle famiglie italiane (circa 1 su 5) versi in gravi difficoltà, sia il nostro tenore di vita sia la nostra ricchezza familiare accumulata (fra le maggiori al mondo), restano abbastanza elevate da tenere molto bassa l’offerta di lavoro degli italiani (non così quella degli immigrati, che sono l’unico gruppo sociale rilevante che continua a guadagnare posti di lavoro). Detto con le crude parole di un amico napoletano, «finché c’è pasta e vongole» difficile pensare che gli italiani si risveglino dal loro torpore, tanto più in una situazione in cui la rapacità del fisco erode inesorabilmente i guadagni di tutti.

La seconda osservazione è che la paura degli italiani, e la loro scarsa propensione a spendere, non sono campate per aria, ma hanno un fondamento abbastanza preciso. Quel fondamento è la politica della casa, forse l’unica cosa importante che accomuna gli ultimi tre governi (Monti, Letta e Renzi). Il valore dell’abitazione, infatti, non solo è un elemento di tranquillità economica, ma è una delle determinanti cruciali che sostengono i consumi e la propensione a indebitarsi per consumare (una stima della Banca d’Italia di qualche anno fa quantificava in 25 miliardi l’impatto sui consumi di una variazione di 1000 miliardi del valore del patrimonio immobiliare). 

Ebbene, sulla casa, negli ultimi 4 anni, abbiamo sciaguratamente seguito il mantra europeo della iper-tassazione dei patrimoni, nella presunzione (a mio parere errata, almeno per l’Italia) che le imposte sulla ricchezza siano poco dannose per la crescita. Il risultato è che per raccogliere 10-15 miliardi di tasse in più abbiamo abbattuto il valore del patrimonio immobiliare degli italiani di un ammontare che è difficile da stimare con precisione, ma che certamente è di un altro ordine di grandezza, diciamo almeno 30 volte maggiore (ricordiamo, giusto per dare un’idea, che il patrimonio immobiliare degli italiani si aggirava sui 5 mila miliardi nel 2007, e da allora è diminuito di almeno 1000 miliardi).

E’ così che, grazie alla politica, nel giro di pochi anni ci siamo ritrovati molto meno ricchi, e soprattutto molto più timorosi per il futuro. Fino a pochi anni fa chi aveva una casa poteva pensare di avere una riserva di valore racchiusa in un forziere, e se riusciva ad affittarla poteva anche pensare di percepirne un reddito, sia pure modesto. Proprio per questo poteva permettersi di consumare, e qualche volta di indebitarsi per consumare.

Oggi chi ha una casa, e la maggior parte degli italiani ne ha una, non la vive come un tesoro ma come un fardello. Non può venderla senza svenderla. Se aspetta a venderla non può escludere che fra 5-10 anni valga ancora di meno di oggi. Se l’affitta non sempre riesce a coprire i costi della manutenzione e delle tasse. Se non la affitta si dissangua grazie alle molteplici tasse che comunque deve pagare.

In una situazione del genere, come stupirsi dei dati comunicati dall’Istat nei giorni scorsi? Secondo una rilevazione iniziata oltre vent’anni fa (1993), la delusione degli italiani per la situazione economica non è mai stata forte come nell’ultimo anno (2013). Né sembra che il clima di fiducia stia migliorando, a giudicare dalla rilevazione di luglio sui consumatori.

Quello di fronte a cui ci troviamo, temo, è una sorta di paradosso del benessere. Abbastanza ricchi per poterci permettere ancora qualche anno di inerzia, ci siamo tuttavia impoveriti così tanto e così bruscamente, fra il 2007 e oggi, da non osare più consumi avventati. Forse è per questo che gli appelli all’ottimismo, da chiunque provengano, non funzionano più.

Da - http://lastampa.it/2014/08/12/cultura/opinioni/editoriali/il-paradosso-del-nostro-benessere-PB83k3ZMiqh51RmrotXNYN/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Il braccio di ferro tra i “renzismi”
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2014, 05:44:03 pm
Il braccio di ferro tra i “renzismi”
04/09/2014

Luca Ricolfi

Da ieri le cose sono un po’ più chiare. Grazie a una bella intervista del direttore del Sole24ore Roberto Napoletano a Matteo Renzi, siamo in grado di capire molto meglio che cosa il nostro giovane premier ha in mente, ovvero: quali sono le sue intenzioni, quali sono le sue priorità, qual è la sua visione del mestiere di governare. Ma soprattutto: qual è la sua diagnosi dei mali dell’Italia e dei rimedi necessari a curarli. 

Il passaggio chiave dell’intervista a me pare quello in cui Renzi dice «io non credo che chi governa debba necessariamente scontentare […]. Noi dobbiamo coinvolgere il popolo e io oggi sento che il Paese è coinvolto, la gente mi dice “andiamo avanti” […]. Non ho paura di perdere le prossime elezioni, ma molte delle riforme che dobbiamo fare sono popolari». 

Più o meno è il contrario di quanto, in una conversazione con Claudio Cerasa pubblicata sul «Foglio», gli suggerisce il suo amico Dario Nardella, che di Renzi ha preso il posto come sindaco di Firenze. Nardella ricorda che la Germania fu sottratta al declino dal coraggio del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, che nel 2003 non esitò a varare riforme impopolari, a costo di sacrificare la sinistra del suo partito e perdere le successive elezioni politiche.

Di qui il consiglio di osare: «Io auguro a Renzi di vincere anche le prossime elezioni, ma la priorità oggi è far vincere il Paese, e per far vincere il Paese qualche volta occorre muoversi sfidando il vento». 

Quel che è interessante, di queste due interviste, non è solo il fatto che, nello stesso giorno, compaiano due interpretazioni del renzismo piuttosto diverse, se non opposte, di cui una, quella di Renzi stesso, blanda e populista, l’altra, quella del renziano Nardella, radicale e a suo modo aristocratica. Quel che a mio giudizio è veramente significativo è che queste due interpretazioni rimandino, a loro volta, a due diverse diagnosi sui mali dell’Italia.

Le due diagnosi non differiscono in alcun modo significativo nella denuncia dei grandi mali del paese, e concordano perfettamente sull’esigenza di modernizzare e rendere più efficienti il mercato del lavoro, la burocrazia, la giustizia civile (tutte riforme che costano poco o nulla), ma divergono drasticamente sulla politica economica in senso proprio: dove e quanto tagliare la spesa pubblica, quanto deficit possiamo permetterci, dove e come impiegare le risorse così liberate.

Secondo il renzismo di Renzi stesso, che chiamerò «renzismo di prima specie», la spesa pubblica si può tagliare di 20 miliardi di euro in un anno (perché il popolo è con noi), il pareggio di bilancio non è una priorità (il 3% di Maastricht non è sacro), il ritorno alla crescita richiede un rilancio della domanda di consumo (conferma ed estensione del bonus da 80 euro).

Ma c’è anche un «renzismo di seconda specie», che qua e là si manifesta nelle parole del sindaco di Firenze Dario Nardella, ma in realtà è condiviso da molti studiosi ed osservatori della vicenda italiana. Secondo questo punto di vista molte delle riforme che Renzi dice di voler compiere non sono affatto popolari (se fatte sul serio), a partire dai 20 miliardi di tagli alla spesa pubblica; le scelte coraggiose non sono in alcun modo eludibili, specie in materia di mercato del lavoro e lotta agli sprechi; la riduzione delle tasse va convogliata innanzitutto verso i produttori, per aumentare competitività e occupazione. In poche, crude, parole: il bonus da 80 euro è un pannicello caldo, e non servirà a creare occupazione.

Entrambe le posizioni hanno le loro buone ragioni.
Il renzismo di prima specie (quello populista), a mio avviso ha un’unica giustificazione robusta: se pensi di essere l’unica salvezza per l’Italia, e per cambiare il Paese ti occorrono alcuni anni, allora è naturale che il primo obiettivo della tua azione sia durare, e che tu pianifichi di fare solo quello che non mette a repentaglio il governo; la politica, dopo tutto, non è testimonianza, ma è l’arte del possibile. 

Il renzismo di seconda specie (quello aristocratico), invece, affonda le sue radici in una visione drammatica delle condizioni del Paese. Secondo questo punto di vista, che per molti versi è stato quello di Renzi stesso nella sua fase eroica ed utopistica, il declino dell’Italia è in atto da almeno vent’anni, e invertire la rotta è un’impresa ciclopica, che richiede sacrifici e scelte dolorose. In questa prospettiva nessuno è indispensabile, ma nessuno può farcela se non sfida l’impopolarità. Governare l’Italia significa avere il coraggio che ebbe Schroeder nel 2003, anziché barcamenarsi per tenere a bada le correnti del proprio partito.

La debolezza del renzismo populista è che, per voler durare, rischia di non cambiare davvero il Paese. La debolezza del renzismo aristocratico è che, per voler cambiare davvero il Paese, rischia di non durare.

Chi vincerà? 
Il renzismo populista, immagino. Il populismo è fede nel popolo, e sottovaluta sistematicamente la complessità dei problemi, due attitudini che lusingano e rassicurano l’opinione pubblica. Ed è questa ostinata volontà di farsi lusingare e rassicurare che spinge gli elettori a rivolgersi a leader come Grillo, Berlusconi e Renzi.

Il renzismo aristocratico, invece, difficilmente potrà prevalere, perché non lusinga e non rassicura. La sua diagnosi dei mali italiani è troppo impietosa, i rimedi che suggerisce sono troppo radicali. C’è solo da augurarsi che quella diagnosi sia sbagliata, e che l’allegria del premier non venga ricordata, in futuro, come «allegria di naufragi», per dirla con la bellissima poesia di Ungaretti.

Da - http://lastampa.it/2014/09/04/cultura/opinioni/editoriali/il-braccio-di-ferro-tra-i-renzismi-QcFlr8D5i0hi0UgxHl3hGN/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Occupazione, il governo non aspetti
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2014, 05:43:47 pm
Occupazione, il governo non aspetti

17/09/2014
Luca Ricolfi

Dopo tutto anche Renzi è un politico. Per questo non mi ha sorpreso che il suo discorso di ieri in Parlamento fosse alquanto retorico, e piuttosto avaro di impegni precisi. Due passaggi, tuttavia, mi sono sembrati informativi, sia pure in senso negativo. In entrambi, infatti, pur non dicendo che cosa farà, il premier ha detto chiaramente che cosa non farà. E’ già qualcosa.

Il primo passaggio è quello in cui Renzi respinge la critica di aver sbagliato i tempi, dando la precedenza alle riforme delle regole (legge elettorale e Costituzione) con conseguente ritardo delle riforme economico-sociali. A questa critica Renzi in sostanza risponde che le riforme vanno fatte tutte insieme (come se la politica non decidesse ogni giorno che cosa rinviare e che cosa no), e che l’importante è aver compiuto i primi passi, disegnando la cornice del suo «vasto programma», per dirla con De Gaulle. E’ la conferma, purtroppo, che tuttora il governo non pensa che la creazione di nuovi posti di lavoro sia un problema di gran lunga prioritario rispetto a tutti gli altri. Ce ne eravamo accorti a maggio (altrimenti i 10 miliardi del bonus Irpef non sarebbero finiti a chi un lavoro già ce l’ha, e il Jobs Act non sarebbe stato incanalato su un binario parlamentare lento), ma è comunque una notizia che il premier continui a pensarla come la pensava 7 mesi fa, quando aveva rinunciato a varare subito il Jobs Act. Speriamo che abbia ragione lui, e che l’Italia, nonostante sia tornata in recessione, possa ancora permettersi di aspettare tutto il tempo che i politici vorranno prendersi prima di rendere operative nuove regole del mercato del lavoro.

C’è però anche un secondo passaggio del discorso di Renzi che ci fa capire qualcosa, ed è quello in cui Renzi sbeffeggia chi propone come modello la Spagna: «Mi scappa da ridere quando sento dire che il nostro modello debba essere la Spagna, ho grande stima della Spagna, ma quando sento dire che il nostro modello dovrebbe essere un Paese che ha il doppio della disoccupazione dell’Italia mi preoccupo». 

Neanch’io penso che un Paese come l’Italia possa uscire dai suoi guai semplicemente imitandone un altro. E tuttavia fa una certa impressione il semplicismo con cui Renzi liquida il modello spagnolo, e gli contrappone il comportamento dell’Italia in questi anni, una difesa che a me ricorda molto quella di Tremonti e Berlusconi nel 2008-2011, quando dicevano che, a differenza di altri Paesi, l’Italia tutto sommato aveva tenuto, restava un Paese solido, eccetera eccetera. 

E allora guardiamolo un po’ più da vicino questo orribile modello spagnolo. Fra il 2007 e il 2013 il Pil italiano ha perso l’8,5%, quello spagnolo il 5,9%. Nel 2014 il Pil italiano calerà ancora (dello 0,4% secondo l’Oecd), mentre quello spagnolo crescerà, come quello di quasi tutti i Paesi europei. Ma lì la disoccupazione è il doppio che da noi, obietta Renzi. Ed è qui, quando fa questo confronto, che capisco perché il nostro governo non riesce a capire il dramma dell’Italia.

 

Eppure Renzi dovrebbe sapere (o Padoan dovrebbe spiegargli), che il tasso di disoccupazione è un pessimo indicatore della situazione occupazionale di un Paese, e diventa del tutto fuorviante se si confrontano due Paesi con regole del mercato del lavoro profondamente diverse come l’Italia e la Spagna. Il confronto vero va fatto sul numero di occupati, non sui tassi di disoccupazione. Ebbene, nel 2013 il tasso di occupazione spagnolo, a dispetto di anni di austerity, era più alto di quello italiano, e questo nonostante in quello italiano siano inclusi tutti i lavoratori in cassa integrazione. Se poi si tiene conto del numero medio di ore lavorate e del numero di soggetti che hanno due lavori, il vantaggio occupazionale della Spagna sull’Italia si allarga ancora di più. La realtà è che, a dispetto dei rispettivi tassi di disoccupazione, c’è più lavoro in Spagna che in Italia, non solo, ma in Spagna l’occupazione sta riprendendo a salire, mentre in Italia continua a scendere, in barba alle belle parole della nostra Costituzione, secondo le quali «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro».

Questo vuol dire che dovremmo conformarci al modello spagnolo?
Certo che no, ma almeno potremmo smetterla di raccontarci fiabe autoconsolatorie, basate su confronti statistici improbabili, e cominciare a chiederci se i Paesi che hanno usato questi anni per correggere alcuni dei loro squilibri non hanno nulla da insegnarci. Temo che, se avessimo l’umiltà di guardarci allo specchio, l’insegnamento principale sarebbe questo: la differenza fra noi e gli altri quattro Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) è che loro hanno attraversato una crisi profonda, cui hanno reagito e da cui stanno uscendo, mentre noi non abbiamo nemmeno provato a interrompere il nostro declino, un declino di cui l’inesorabile calo delle ore lavorate per abitante è la spia più drammatica e chiara. 

E’ questo, forse, il nesso logico segreto fra i due punti che abbiamo voluto sottolineare del discorso di Renzi in Parlamento. La ragione per cui pensa che non esistano riforme prioritarie è la medesima per cui gli «scappa da ridere» quando qualcuno evoca il modello spagnolo. Quella ragione è, semplicemente, che anche lui, come molti suoi predecessori, pensa che la politica abbia molto tempo davanti a sé, e possa scegliere liberamente di che cosa occuparsi oggi, di che cosa domani, che cosa rinviare, che cosa far passare con un decreto, che cosa con una legge delega, che cosa ignorare. Non ha tutti i torti, perché una società in declino, specie se ancora ricca, ha margini di tolleranza per gli errori dei suoi governanti molto maggiori di una società in crisi. Per questo penso che lo sbaglio di non aver stabilito delle priorità, dando alla creazione di lavoro la precedenza assoluta che meritava, è un errore di cui la società italiana si accorgerà solo un po’ più in là. Diciamo fra 1000 giorni, forse.

Da - http://lastampa.it/2014/09/17/cultura/opinioni/editoriali/occupazione-il-governo-non-aspetti-FbR3M1d9y5API51xssPuBO/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Qualcosa è cambiato
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2014, 04:11:22 pm
Qualcosa è cambiato

21/09/2014
Luca Ricolfi

Nell’ultima settimana qualcosa è cambiato. E’ cambiata la situazione, perché tutti gli organismi internazionali e i centri studi hanno smesso di scommettere sulla ripresa italiana: il 2014 sarà ancora un anno di recessione, e il 2015 chissà. Ma è cambiata anche la risposta della politica, almeno sul versante governativo: Matteo Renzi ha (finalmente) deciso di dare la priorità che meritano alle riforme economico-sociali, e in particolare al Jobs Act. Questa svolta, non ancora evidente nel discorso di martedì in Parlamento, troppo avaro di impegni precisi, è diventata invece chiarissima nei giorni successivi, con le dichiarazioni sull’articolo 18 e con il video-messaggio di venerdì, in cui Renzi ha attaccato frontalmente i sindacati, accusandoli di aver sempre privilegiato i lavoratori garantiti e trascurato gli occupati precari e chi un lavoro non ce l’ha. 

Renzi ha ragioni da vendere, perché la divisione fra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, garantiti e non garantiti, insider e outsider, è effettivamente uno dei nodi fondamentali dell’Italia, se non il nodo fondamentale. 

E il fatto che sindacalisti, politici e osservatori impegnati gli oppongano, nel 2014, i medesimi argomenti di 20 o 30 anni fa, non fa che confermare le buone ragioni di Renzi. 

E tuttavia…

Per vincere una battaglia non basta avere sostanzialmente ragione, o che i propri avversari non dispongano di soluzioni praticabili. Occorre anche che le proprie soluzioni siano tali. In poche parole: che funzionino.

Per questo penso che quella che si annuncia sembrerà (ai mass media) una battaglia fra «renzismo» e «camussismo», ma sarà invece (per l’Italia) una partita, dagli esiti imprevedibili, fra due renzismi entrambi possibili. 

Il primo renzismo possibile è quello «di tipo Craxi». In questo scenario Renzi abolisce l’articolo 18 per i neo-assunti (come Craxi aveva fatto con la scala mobile), introduce il contratto a tutela crescente, riforma gli ammortizzatori sociali estendendoli a tutti gli occupati e rendendoli più severi (corsi di formazione, obbligo di accettare le offerte di lavoro). In poche parole: modernizza il mercato del lavoro. Se Renzi fa solo o principalmente questo (che comunque non è poco) è possibile che l’occupazione non riparta, che l’Italia continui ad essere uno dei Paesi Ocse con meno occasioni di lavoro, e che fra qualche anno ci tocchi sentir dire che «aveva ragione la Camusso, togliere l’articolo 18 non crea nuovi posti di lavoro».

 

C’è però anche un secondo renzismo possibile, chiamiamolo «di tipo Blair» giusto per dargli un nome. Il suo punto di partenza è la constatazione che le imprese, oltre al problema di un mercato del lavoro rigido, di una burocrazia asfissiante, di una giustizia civile lentissima e inaffidabile, hanno anche un serissimo problema fiscale: il costo aziendale di un’ora di lavoro è eccessivo, e la tassazione sul profitto commerciale (il cosiddetto Ttr) non ha eguali in nessuno dei 34 Paesi Ocse. Detto altrimenti: se le imprese non assumono non è solo, o principalmente, perché poi non possono licenziare, ma perché non hanno margini sufficienti. Questo significa che, per creare occupazione, occorre anche allentare la morsa fiscale sui produttori, il che costa molto in termini di risorse, e alla fine fa sempre arrabbiare qualcuno: se finanzi gli sgravi aumentando il debito pubblico si arrabbiano l’Europa e i mercati finanziari, se li finanzi tagliando la spesa pubblica si arrabbiano la Camusso e i sindacati. 

Quale renzismo prevarrà, ammesso che la sinistra Pd e i sindacati non ci rispediscano subito al voto?

Io tendo a pensare che Renzi non disdegni il renzismo di tipo Blair, ma che alla fine sarà costretto ad adottare quello di tipo Craxi. E la ragione è molto semplice. Ammettiamo per un momento che Renzi, che finora si è preoccupato soprattutto dei garantiti (bonus di 80 euro), e anche per questo ha goduto della benevolenza dei sindacati, abbia deciso finalmente di occuparsi di chi un lavoro non ce l’ha, giovani e donne innanzitutto. Ammettiamo che sia persuaso che ridurre i costi delle imprese sia una precondizione per metterle in grado di assumere. Ammettiamo che sia convinto che nella Pubblica amministrazione ci sia «grasso che cola», e che sia da lì che debbano provenire le risorse per riformare gli ammortizzatori sociali e ridurre il costo del lavoro. Anche assumendo tutto ciò, ossia una ferrea volontà di creare lavoro, resterebbe un problema politico enorme: sconfiggere la Cgil in una battaglia campale sull’articolo 18 è più facile, molto più facile, che tagliare 15 o 20 miliardi di sprechi nella Pubblica amministrazione. Nel primo caso (abolizione articolo 18), Renzi non avrebbe contro né i garantiti (che resterebbero tali, perché l’articolo 18 verrebbe abolito solo per i neo-assunti), né gli esclusi, la cui prima preoccupazione è quella di trovare un lavoro, ma solo i settori più politicizzati e conservatori della società italiana. Nel secondo caso (tagli di spesa pubblica), invece, Renzi avrebbe contro un po’ tutti: dipendenti pubblici, sindaci, governatori, percettori di prebende e sussidi, lobby legate alle commesse pubbliche. Insomma, vincere una battaglia ideologica è più facile che battere una rete di interessi. Il renzismo del primo tipo (alla Craxi) è più facile di quello del secondo (alla Blair).

Può darsi che, come il solito, io sia troppo pessimista. Ma ho l’impressione che, incassato il sostegno dei lavoratori dipendenti e di tanti elettori delusi da Berlusconi, a Renzi manchi ancora un tassello fondamentale: convincere gli uomini e le donne che stanno fuori o ai margini del mercato del lavoro che la sua battaglia è anche la loro.

Da - http://lastampa.it/2014/09/21/cultura/opinioni/editoriali/qualcosa-cambiato-iykGdDoQUqXgUV9odvSICJ/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Per crescere concentriamo le risorse
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2014, 07:53:06 pm
Per crescere concentriamo le risorse
02/10/2014

Luca Ricolfi

Sulle ragioni per cui l’Italia, quale che sia la congiuntura economica, cresce meno della maggior parte delle altre economie avanzate, il consenso è relativamente ampio. Nessuno nega che vi sia una carenza di domanda effettiva (calo dei consumi, investimenti insufficienti). Nessuno nega che la pressione fiscale sui produttori (Irap, Ires, contributi sociali) soffochi l’economia.

Nessuno nega che non aver fatto le riforme modernizzatrici (mercato del lavoro, giustizia civile, pubblica amministrazione) ci stia costando carissimo.

Dove cominciano i dissensi è sulle terapie, ossia sul modo di rispondere alla crisi. Qui non mi riferisco, però, alle decine di teorie che circolano fra gli esperti, ma solo a quelle che hanno una plausibilità economico-politica, e inoltre non si basano su ipotetici aiuti esterni (tipo eurobond, interventi della Bce, eccetera). Ebbene, se ci limitiamo alle teorie realistiche, a me pare che esse si riducano a tre.

La prima è la teoria dello «stimolo». Secondo questo punto di vista, l’economia non si può riprendere senza uno stimolo di almeno 30 miliardi di euro (2 punti di Pil), tendenzialmente sotto forma di riduzioni fiscali alle famiglie e alle imprese. Tali riduzioni andrebbero finanziate in deficit, promettendo all’Europa (e ai mercati finanziari) di fare le riforme e ridurre la spesa pubblica negli anni a venire. La formulazione più chiara ed esplicita di questo punto di vista mi pare quella degli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che l’hanno ribadita più volte in varie sedi.

La seconda teoria potremmo chiamarla del «passo dopo passo». Secondo questa visione, se l’Italia dovesse promettere riduzioni della spesa pubblica e riforme strutturali non verrebbe creduta né dai partner europei, né dai mercati finanziari. E se provasse a sostenere la domanda aumentando il deficit dal 3 al 4 o al 5%, verrebbe immediatamente castigata dai mercati finanziari, con conseguente impennata dello spread. Quindi l’unica cosa che si può fare è galleggiare per qualche anno intorno al 3% di deficit pubblico, e nel frattempo cambiare la composizione della domanda, riducendo simultaneamente e gradualmente sia la spesa pubblica sia la pressione fiscale. Questa, nella sostanza, è la posizione del governo e del suo ministro dell’Economia. La formulazione più chiara di questa posizione mi pare quella dovuta all’economista Roberto Perotti (collaboratore del governo), che l’ha recentemente esposta in un bell’articolo sulla rivista on line Lavoce.info.

C’è però anche un terzo modo di vedere le cose, che chiamerò «concentrare le risorse». Secondo questo punto di vista è vero che la teoria dello stimolo non fa i conti con la diffidenza dei mercati finanziari verso l’Italia, ma è altrettanto vero che la linea del passo dopo passo è troppo debole e troppo lenta. E’ molto improbabile che le riduzioni effettive della spesa pubblica superino gli 8-10 miliardi l’anno, e a questo ritmo sarà già un miracolo se Renzi riuscirà a rinnovare il bonus da 80 euro e finanziare i nuovi ammortizzatori sociali. Di qui l’idea di non disperdere gli sgravi in mille rivoli. Anziché uno stillicidio di alleggerimenti fiscali o contributivi di cui nessuno si accorge, meglio concentrare le risorse sui settori più dinamici dell’economia italiana, aiutandoli ad aumentare l’occupazione, la competitività, o entrambe. E’ questa, ad esempio, l’idea lanciata da Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, nell’intervista di ieri a questo giornale, in cui invita Renzi a varare «un provvedimento molto forte di sgravio fiscale per le aziende che nell’ultimo anno sono cresciute nelle esportazioni». Anche se la proposta Farinetti è spudoratamente pro domo sua, perché la catena di vendita dei prodotti Eataly sarebbe fra le prime a beneficiarne, credo che l’idea andrebbe considerata molto seriamente (il fatto che una proposta giovi anche a chi la fa non implica che sia insensata). Quando le risorse sono molto scarse può essere assai miope spalmarle su tutti, anziché indirizzarle verso quei settori o quelle imprese che meglio possono contribuire a far uscire la barca dell’Italia dalle secche in cui si è incagliata. Semmai la domanda è: uscire sì, ma come?  

Qui le risposte possono essere almeno due. Se si ritiene che le risorse disponibili vadano usate innanzitutto per aumentare la competitività dell’Italia, l’idea di Farinetti è ottima. Se invece si ritiene che vadano usate per sostenere l’occupazione, la strada potrebbe essere decisamente diversa: anziché sostenere le imprese che nell’ultimo anno (in passato) hanno aumentato il fatturato delle esportazioni, si dovrebbero premiare le imprese che nel prossimo anno (in futuro) aumenteranno il numero di occupati.  

Questa secondo modo di concentrare le risorse a me sembra più utile all’Italia, almeno finché la situazione dell’occupazione resterà drammatica come oggi. Come Stampa e come Fondazione David Hume da alcuni mesi, insieme ad altre istituzioni, stiamo lavorando su una proposta che va in questa direzione (nuovi posti di lavoro), e inoltre ha il vantaggio di aumentare il gettito della Pubblica Amministrazione anziché ridurlo. La prossima settimana, su questo giornale, racconteremo di che cosa si tratta.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/02/cultura/opinioni/editoriali/per-crescere-concentriamo-le-risorse-1Roq9NRTXj5ddNgDZjSD0O/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Fondazione Hume: “Con il job-Italia 300 mila posti in più”
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2014, 05:15:32 pm
Lavoro, la proposta della Fondazione Hume: “Con il job-Italia 300 mila posti in più”
Riduzione delle imposte pagate dalle aziende sui contratti. Le imprese: potremmo più che raddoppiare le assunzioni
Il job-Italia è generoso anche con i lavoratori. E il gettito per l’Erario resta invariato

08/10/2014
Luca Ricolfi

Ma Renzi li legge i documenti ufficiali del suo governo? A me vien da pensare di no, o che li consideri solo noiose scartoffie buone per tranquillizzare i burocrati europei. Altrimenti non farebbe le dichiarazioni che continua a fare da mesi, in totale contrasto con quello che il suo ministro dell’economia scrive nella «Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2014».

Renzi dichiara che nel 2015 i tagli alla spesa pubblica non saranno «solo» di 17 bensì di 20 miliardi; nelle scartoffie, invece, la spesa pubblica diminuisce di appena 4 miliardi. Renzi annuncia una rivoluzione nel mercato del lavoro, per dare una speranza ai disoccupati e agli esclusi, ma nella «Nota di aggiornamento» si prevede che l’anno prossimo l’occupazione aumenterà di appena 20 mila unità, a fronte di più di 3 milioni di disoccupati. Renzi ci promette che fra 1000 giorni l’Italia sarà completamente cambiata grazie all’impatto delle sue riforme, ma nella «Nota di aggiornamento» del suo ministro dell’Economia si prevede che nel 2018, a fine legislatura, sempre che la congiuntura internazionale vada bene e che le famigerate riforme vengano fatte, il tasso di disoccupazione sarà dell’11.2%, anziché del 12.6% come oggi: in parole povere 2-300 mila disoccupati in meno (su 3 milioni), a fronte di 1 milione e mezzo di posti di lavoro persi durante la crisi. Se fossi un imprenditore sarei preoccupato, ma se fossi un sindacalista sarei imbufalito. Come si fa ad accettare che in un’intera legislatura il numero di disoccupati resti sostanzialmente invariato? È per questo, perché sa di non essere in grado di creare nuovi posti di lavoro, che il governo pone tanta enfasi sugli ammortizzatori sociali?

Nuovi posti a costo zero? 
Ed eccoci al dunque. Se la politica deve mestamente ammettere che «non ci sono le risorse», e quindi l’azione di governo di posti di lavoro aggiuntivi ne potrà creare pochissimi, forse è giunto il momento di cambiare la domanda. Anziché chiederci come trovare le risorse per creare nuovi posti di lavoro, dovremmo forse porci un interrogativo più radicale: si possono creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, a costo zero per le casse dello Stato?

Ai primi di marzo, quando come quotidiano «La Stampa» e come «Fondazione David Hume» lanciammo l’idea del maxi-job, la riposta era: forse. Oggi è diventata: quasi certamente sì.

L’idea del maxi-job era in sostanza questa: anziché distribuire a pioggia un’elemosina di cui nessuna impresa si accorgerebbe, perché non permettere alle imprese che già intendono creare nuova occupazione di crearne ancora di più?

Più precisamente: permettere alle imprese che aumentano l’occupazione (e magari anche alle nuove imprese) di usare, limitatamente ai posti di lavoro addizionali e per un massimo di 4 anni, uno speciale contratto full time nel quale il lavoratore riceve in busta paga l’80% del costo aziendale (anziché il 50% come oggi), mentre il restante 20% affluisce allo Stato, sotto forma di Irpef e di contributi sociali. 

Si potrebbe pensare che un contratto del genere ridurrebbe il gettito della Pubblica Amministrazione, a causa dei minori contributi sociali. E in effetti così sarebbe se, pur in presenza del nuovo contratto, le imprese non creassero alcun posto di lavoro addizionale; se, in altre parole, lo sgravio contributivo si limitasse a rendere più economici posti di lavoro che sarebbero stati creati comunque. Se però si ammettesse che, con un costo del lavoro quasi dimezzato, alcune imprese creerebbero più posti di lavoro di quelli programmati, la questione degli effetti sul gettito diventerebbe assai più aperta. Bisogna considerare, infatti, che un posto di lavoro in più genera nuovo valore aggiunto, e una parte di tale valore aggiunto genera a sua volta gettito non solo sotto forma di contribuiti Inps e Inail, ma anche sotto forma di altre tasse, come Iva, Irpef, Irap, Ires, eccetera (e si noti che il gettito complessivo delle altre tasse è quasi il triplo di quello dei contributi sociali). 

Il nodo del gettito 
In breve, quel che la Pubblica Amministrazione deve chiedersi non è: quanto gettito perdo se i nuovi contratti di lavoro pagano meno contributi sociali? Ma semmai: le nuove tasse che riscuoto grazie a posti di lavoro che altrimenti non sarebbero mai nati bastano a compensare il gettito che perdo per i minori contributi sociali?

Ebbene, quando un anno fa formulammo la proposta del maxi-job non eravamo in grado di rispondere a questa domanda, perché non avevamo la minima idea di quanti posti di lavoro in più si sarebbero potuti creare con il nuovo tipo di contratto. Non sapevamo, in altre parole, qual era la «reattività» delle imprese. O, se preferite, qual era il moltiplicatore occupazionale del nuovo contratto. Però una cosa eravamo in grado di dirla: esiste una soglia di reattività sotto la quale il gettito diminuisce e sopra la quale il gettito aumenta. Tale soglia è circa 1.4 e significa questo: se i nuovi posti di lavoro passano da 100 a 140 il nuovo contratto non costa nulla, perché il gettito della Pubblica amministrazione resta invariato; se passano da 100 a meno di 140 (ad esempio a 120), il nuovo contratto costa, perché fa diminuire il gettito; se passano da 100 a più di 140 (ad esempio a 180) il nuovo contratto non solo non costa, ma fa aumentare il gettito.

La ricerca 
Ecco perché gli ultimi sei mesi li abbiamo passati a cercare di scoprire quale potrebbe essere la reattività delle imprese. In primavera, con l’aiuto della società Kkien e dell’Unione industriale, abbiamo condotto un’inchiesta su 50 imprese chiedendo direttamente quanti posti di lavoro in più avrebbero creato con il nuovo contratto. Il risultato è stato sorprendente: nelle imprese che pianificano di aumentare l’occupazione i nuovi posti di lavoro sarebbero balzati, in media, da 100 a 264: un moltiplicatore pari a 2.64. Avremmo voluto rendere pubblico questo risultato, ma ci sembrava eccessivamente ottimistico e basato su troppo pochi casi. Si è quindi deciso di aspettare. 

A giugno è intervenuto un elemento nuovo: l’Unione delle Camere di Commercio del Piemonte ci ha offerto di inserire il questionario sul maxi-job nella loro indagine di metà anno sulle imprese manifatturiere piemontesi, in modo da disporre di un numero molto maggiore di risposte (oltre 1000). Con nostra grande sorpresa il moltiplicatore è ancora salito un po’, portandosi a 2.64. 

È a questo punto che è nata l’idea di un nuovo contratto di lavoro, il job-Italia, che va molto oltre l’impianto del maxi-job. Altrettanto conveniente per le imprese, il job-Italia è molto più generoso con i lavoratori. In estrema sintesi funziona così: 

1) la busta paga è compresa fra 10 e 20 mila euro annui

2) il costo aziendale aggiuntivo rispetto alla busta paga è del 25%, anziché del 100% come oggi

3) il job-Italia è riservato alle imprese che aumentano l’occupazione, e dura da 1 a 4 anni

4) la differenza fra costo aziendale e busta paga viene usata per pagare l’Irpef dovuta dal lavoratore. 

5) quel che avanza dopo il pagamento dell’Irpef viene conferito interamente agli enti previdenziali (Inps e Inail) 

6) lo Stato aggiunge l’intera contribuzione mancante, assicurando al lavoratore una piena tutela (malattia, infortunio, disoccupazione, pensione, liquidazione). 

Un sogno? 

Le stime 
In termini statistici, direi proprio di no. Se anche il moltiplicatore fosse solo 2 (anziché 2.64), se anche il nuovo valore aggiunto per addetto (quello dei posti «in più») fosse un po’ minore di quello medio, il job-Italia farebbe comunque incassare allo Stato molti più soldi di prima.

Una stima prudente suggerisce che, senza job-Italia, le imprese che intendono aumentare l’occupazione creerebbero circa 300 mila nuovi posti di lavoro tradizionali, mentre se potessero usufruirne creerebbero da 600 a 800 mila job-Italia, soprattutto nelle piccole imprese. Risultato: il gettito contributivo si riduce di 3 miliardi, ma quello delle altre imposte aumenta di almeno 6, il che basta a pagare i contributi di tutti i maxi-job attivati, e verosimilmente lascia ancora qualcosa nelle tasche dello Stato.

 Chi frena? 
Ma allora perché non si fa? Una possibile risposta è che ci sia qualche fallacia nel mio ragionamento, o nelle stime della reattività delle imprese, o nella valutazione della lungimiranza della Ragioneria dello Stato, ancora molto legata a una visione statica dei conti pubblici: non posso certo escludere queste eventualità, la mia è solo una «modesta proposta», per dirla con Swift. L’altra risposta possibile è che la politica ha le sue regole, e che per gli equilibri del Palazzo (o per quelli dell’Europa?) sia più sicuro battere strade più convenzionali. Il problema, però, è che sulla via dei piccoli aggiustamenti siamo da anni, e i risultati sono terrificanti. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/08/economia/lavoro-la-proposta-della-fondazione-hume-con-il-jobitalia-mila-posti-in-pi-OfZGnvDbS7uu9koE7Wj3yH/pagina.html

 

 




Titolo: LUCA RICOLFI - Il vero peso delle misure in arrivo
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2014, 11:29:26 pm
Il vero peso delle misure in arrivo

15/10/2014
Luca Ricolfi

Nel giro di pochi giorni la cosiddetta «manovra» per il 2015 è passata da 20 a 30 miliardi di euro. Secondo Renzi «si tratta della più grande operazione di taglio di tasse tentata in Italia e di una spending review mai vista». 

Ma in che cosa consiste la manovra?

Se dovessi spiegarla ai miei studenti la metterei così. Cari ragazzi, quando un governo fa una manovra ci sono sempre un lato propagandistico e un lato effettivo.  Sono importanti entrambi, ma vanno tenuti ben distinti. 
Il lato propagandistico è rilevante perché serve a comunicare le priorità del governo. Con la manovra annunciata ieri, Renzi ci dice tre cose tutte e tre sacrosante e condivisibili.

Primo: che vuole ridurre drasticamente gli sprechi della Pubblica amministrazione, con una spending review di 13,3 miliardi. 

Secondo: che vuole ridurre drasticamente le tasse, con sgravi pari a 18 miliardi di euro (di cui 10 per il rinnovo del bonus da 80 euro).

Terzo: che vuole azzerare i contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato.

Fin qui tutto bene, il messaggio è chiaro, anche se in conflitto con quanto annunciato in precedenti occasioni e documenti ufficiali (nell’ultima intervista sulla spending review, ad esempio, i miliardi risparmiati non erano 13,3 ma 20, dopo essere stati 17 fino al giorno prima). 

Adesso però guardiamo il lato effettivo, ossia la sostanza della manovra. Che cosa contiene effettivamente la manovra da 30 miliardi di cui si sta parlando in questi giorni?

 

Per capirlo dobbiamo dimenticare completamente la parte propagandistica e rispondere a tre domande: di quanto diminuiscono le spese totali della Pubblica amministrazione? Di quanto diminuiscono le entrate? E’ realistica la promessa di azzerare i contributi sociali ai nuovi assunti a tempo determinato?

Ed ecco le risposte, o meglio quel che si riesce a capire in attesa di un documento ufficiale. 

Le spese della Pubblica amministrazione non si riducono affatto di 13,3 miliardi ma solo di 4,1 miliardi, perché accanto ai 13,3 miliardi di tagli programmati ve ne sono 9,2 di nuove spese, come il finanziamento degli ammortizzatori sociali, gli obblighi contratti dal governo Letta, o le cosiddette spese inderogabili.

Le tasse pagate dagli italiani non si riducono affatto di 18,3 miliardi, perché gli sgravi promessi sono bilanciati da 5,2 miliardi di nuove entrate, e quindi la riduzione effettiva della pressione fiscale scende a 13,1 miliardi di euro (che comunque non è poco). Va da sé che la differenza fra minori tasse (13 miliardi di sgravi) e minori spese (4 miliardi di riduzione della spesa pubblica) verrà coperta in deficit, ovvero messa in conto alle generazioni future. 

Quanto alle assunzioni a zero contributi bastano alcuni semplici calcoli per scoprire che potranno riguardare al massimo 1 caso su 10, ossia 100-150 mila persone su oltre 1 milione e mezzo di assunzioni a tempo indeterminato.

Fin qui i conti nudi e crudi. Ma, al di là delle cifre, che giudizio si può dare della manovra?

Difficile fare valutazioni senza un testo ufficiale. Per quel che riesco a capire, l’idea del governo è che aumentando il deficit di circa 10 miliardi e ritoccando la struttura del bilancio pubblico si possa dare una spinta significativa alla domanda interna. E’ una linea di keynesismo debole (facciamo deficit, ma non troppo) che mi auguro possa funzionare, ma che si espone ad almeno un paio di obiezioni.

La prima è che aumentare il deficit di «soli» 10 miliardi, e ridurre la pressione fiscale di soli 13 miliardi, potrebbe non bastare a far ripartire i consumi ma potrebbe essere più che sufficiente a far ripartire lo spread, con conseguente ulteriore aggravio dei conti pubblici. Non so perché così pochi osservatori lo facciano notare, ma è da circa un mese che la tendenza dello spread dei titoli di Stato italiani è all’aumento, ossia al peggioramento. Ed è da sei mesi che i mercati hanno ricominciato a differenziare i rendimenti richiesti ai vari Paesi dell’euro, un comportamento che nel 2011 ha preceduto e annunciato la bufera finanziaria che portò alla caduta di Berlusconi e all’insediamento di Monti. In questo senso la mossa di Renzi di aumentare il deficit anziché ridurlo potrebbe rivelarsi un azzardo.

 

La seconda obiezione è che il meccanismo previsto per stimolare le assunzioni, ossia la cancellazione dei contributi sociali per gli assunti a tempo determinato, ha tre difetti abbastanza gravi: riguarda pochissimi lavoratori (perché con 1 miliardo non si può fare molto), non si finanzia da sé (perché non aumenta in modo apprezzabile il Pil), ha effetti occupazionali trascurabili (perché non è vincolato al requisito di aumentare gli occupati).

E’ proprio per evitare simili inconvenienti che, nei giorni scorsi, su questo giornale abbiamo provato ad aprire una discussione su una proposta alternativa, quella di un contratto a decontribuzione totale ma riservato alle imprese che incrementano l’occupazione (il job-Italia). Un contratto che, secondo le stime della fondazione David Hume, creerebbe almeno 300 mila nuovi posti di lavoro all’anno, e non costerebbe nulla allo Stato. 

Non so se la nostra proposta sia la più efficace possibile, ma resto convinto che creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, sia una priorità assoluta per il nostro Paese, perché è la mancanza di lavoro l’elemento che più differenzia noi (e la Grecia) da tutte le altre economie avanzate. E’ questo, a mio parere, il terreno più importante su cui la manovra andrebbe giudicata: perché è questo il terreno su cui si gioca il futuro dell’Italia.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/15/cultura/opinioni/editoriali/il-vero-peso-delle-misure-in-arrivo-J6RAihK5CeMQiqjGYFgUIP/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Finiamola con l’alibi dell’Europa
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2014, 12:59:35 pm
Finiamola con l’alibi dell’Europa

16/11/2014

Luca Ricolfi

Uno degli episodi che più mi aveva colpito, nella campagna elettorale per le elezioni del 2013, era stata una trasmissione di «Porta a Porta» nella quale Renato Brunetta e Stefano Fassina, ossia due esponenti di parti politiche opposte (Forza Italia e Pd), si erano trovati perfettamente d’accordo su un punto: l’allentamento dei vincoli europei. 

Il che, tradotto in soldoni, significava e significa: lasciateci fare più deficit, se no l’economia non riparte. Ora constato, tutti i santi giorni, che la stessa idea, ovvero che il patto di stabilità sia «stupido», è condivisa quasi universalmente: lo dice Renzi, lo ripetono i politici di governo e opposizione, lo pensano i sindacati, lo scrivono i giornali. 

E la teoria che sta alle spalle di questo giudizio è sempre quella: se l’economia europea non si è ancora ripresa è per la debolezza della domanda interna, e il rigore sui conti pubblici, nella misura in cui deprime la domanda, non fa che aggravare la malattia. 

Il che, tradotto in termini politici, significa: se l’economia non riparte la colpa è della Merkel e dei burocrati europei, che con la loro ottusa ostinazione sul rispetto delle regole bloccano la ripresa.

Questa visione del problema italiano (ed europeo) è indubbiamente suggestiva, se non altro perché alcuni pezzi del ragionamento che la sorregge stanno perfettamente in piedi. Difficile negare i sacrifici degli ultimi 7 anni. Difficile pensare che ci possa essere ripresa se non ripartono consumi e investimenti. Difficile non vedere la lentezza, e spesso l’ottusità, della macchina europea (a proposito: si è votato a maggio, e ancora non abbiamo un governo europeo nel pieno dei suoi poteri). Difficile non cogliere il feticismo di certe regole, come quella che si affida a un algoritmo matematico-statistico controverso (quello del calcolo dell’output gap) per stabilire quanti miliardi di deficit può fare un Paese.

E tuttavia…
Tuttavia, detto e riconosciuto tutto questo, mi sembra che un simile modo di mettere le cose non faccia completamente i conti né con la logica, né con la realtà. 

Non fa i conti con la logica, perché il fatto che gli ultimi anni siano stati (peraltro non sempre e non ovunque) anni di rigore non implica che lasciando correre i conti pubblici le cose sarebbero andate meglio. Forse sarebbero andate ancora peggio, perché alcuni Stati sarebbero falliti e le loro economie non avrebbero più avuto accesso al credito. 

Ma non fa neppure i conti con la realtà, perché l’idea che l’Europa, o la zona euro, siano in stagnazione o addirittura in recessione è una mezza verità. Se prendiamo i tassi di crescita del Pil per abitante nel 2014-2015 (in parte noti, in parte frutto di stime), quel che colpisce non è il basso tasso di crescita europeo ma, semmai, la grandissima eterogeneità dei tassi di crescita dei vari Paesi. Soffermiamoci sulla zona euro, la grande imputata. E’ vero, c’è un Paese in recessione (Cipro), e ce ne sono quattro, fra cui Italia e Francia, che sono in stagnazione (crescita prossima a zero). Ma tutti gli altri, e sono ben 14 su 19, crescono a un tasso medio del 2% (con punte del 4%), un ritmo che non è da economia in crisi, e meno che mai da economia in recessione. E fra i Paesi che crescono di più, ossia fra il 2 e il 4%, ci sono tutti i cosiddetti PIGS tranne noi: Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna.

Se questo dicono i dati, i termini del problema si spostano un pochino. Forse anziché arrabbiarci perché Bruxelles non ci lascia esagerare con il deficit pubblico, faremmo meglio a chiederci come fanno tanti Paesi dell’eurozona a crescere nonostante l’Europa, nonostante l’euro, nonostante l’ottusità dei burocrati. Non voglio azzardare la risposta, che presumibilmente è diversa da Paese a Paese, ma vorrei che almeno si riflettesse: dare la colpa all’Europa è troppo comodo, e sa tanto di alibi. Che l’Europa sia un disastro mi pare una tesi plausibile, ma che al disastro europeo si debba e si possa aggiungere il disastro di governi nazionali incapaci di «cambiare verso» nel loro Paese mi pare un lusso che non ci si può più permettere.

Quanto all’Europa, sono convinto anch’io che abbia un ruolo negativo. E tuttavia oserei, anche qui, avanzare un dubbio. Siamo sicuri che il massimo difetto dell’Europa sia la rigidità nella sorveglianza sui conti pubblici degli Stati nazionali?

Io ne suggerirei almeno un altro, secondo me altrettanto se non più dannoso: l’ingerenza selettiva, per non dire masochistica, nelle politiche nazionali. Più precisamente: la tendenza ad essere rigida là dove un atteggiamento più flessibile farebbe meno danni, e ad essere flessibile là dove una maggiore rigidità sarebbe benefica. 

Faccio due esempi, giusto per dare un’idea di quel che ho in mente. Prima della crisi l’economia irlandese cresceva più di qualsiasi altra economia avanzata (salvo quella dell’Estonia). La bassa tassazione sulle imprese è stata un fattore fondamentale della crescita irlandese, così come l’ostinazione del governo irlandese nel mantenere bassa tale tassazione anche durante la crisi è stato un fattore cruciale per l’uscita dell’Irlanda dalla crisi (la crescita irlandese è ora fra il 3 e il 4%). Ebbene, le autorità europee, anziché invitare gli altri Paesi a studiare il caso irlandese, hanno spesso esercitato pressioni sull’Irlanda per convincerla ad alzare l’aliquota del 12,5%, in passato per il timore di un mancato ripianamento dei conti pubblici, più recentemente per timore della concorrenza fiscale di un Paese capace di attirare gli investimenti stranieri. Qui una minore ingerenza sarebbe probabilmente benefica.

Ma c’è anche il caso opposto, in cui si rinuncia a un’ingerenza che farebbe bene al Paese che la subisce. Diverse direttive europee, più o meno recenti, impongono agli Stati nazionali cose ragionevolissime: ad esempio di pagare le imprese tempestivamente, di fare leggi comprensibili (senza indecifrabili rimandi a parole, commi ed articoli di altre leggi), di non tenere i detenuti in condizioni disumane, a partire dall’inaccettabile affollamento delle celle. Ebbene l’Italia ha violato sistematicamente tutte queste regole, e continua a farlo serenamente anche ora. Ma qui l’Europa balbetta, e al massimo ci commina qualche multa.

Come mai?

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/16/cultura/opinioni/editoriali/finiamola-con-lalibi-delleuropa-uvbYaLr7SimBksE76xoKkL/pagina.html?ult=1


Titolo: LUCA RICOLFI - Disoccupazione mai così alta nella storia d’Italia
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2014, 04:56:58 pm
Disoccupazione mai così alta nella storia d’Italia
La serie storica dell’Istat si ferma al 1977, ma guardando i dati del collocamento e i vecchi censimenti si scopre che nella crisi del 1929 e nel 1861 il tasso era inferiore
Crescono in tutta Italia proteste e scioperi contro il precariato e la disoccupazione

30/11/2014
Luca Ricolfi

È incredibile, la capacità dei governanti di manipolare i fatti pur di non dirci come vanno le cose. Negli ultimi giorni l’Istat ha fornito i dati sulle forze di lavoro nel terzo trimestre, e ha anticipato i dati provvisori di ottobre. Dati drammatici, ad avere il coraggio di guardarli in faccia. E invece no, immediatamente dopo la diffusione delle cifre Istat si è scatenata la corsa a travisarli. E’ così che abbiamo appreso che i dati trimestrali dell’Istat ci presentano «una sostanziale e progressiva crescita degli occupati nell’ultimo anno», quantificata in 122 mila occupati in più. E che anche l’incremento della disoccupazione, pari a 166 mila disoccupati in più, non ci deve preoccupare perché «va messo in relazione alla crescita del numero di persone che cercano lavoro». Come dire: se aumenta il tasso di disoccupazione è perché la gente è meno scoraggiata e «più persone tornano a cercare lavoro».

Sui trucchi usati per manipolare i fatti non vale neppure la pena soffermarsi, tanto sono ingenui e vecchi (alcuni li insegniamo all’università, sotto il titolo «come si fa una cattiva ricerca»). Sui fatti, invece, è il caso di riflettere un po’.

Occupati in termini reali 
Primo fatto: l’occupazione in termini reali sta diminuendo. Che cos’è l’occupazione in termini reali? E’ la quantità di occupati al netto della cassa integrazione. Se, per evitare le distorsioni della stagionalità, confrontiamo l’ultimo dato disponibile (ottobre 2014) con quello di 12 mesi prima (ottobre 2013), la situazione è questa: gli occupati nominali (comprensivi dei cassintegrati) sono rimasti praticamente invariati (l’Istat fornisce una diminuzione di 1000 unità), le ore di cassa integrazione sono aumentate in una misura che corrisponde a circa 140 mila posti di lavoro bruciati. Dunque negli ultimi 12 mesi l’occupazione reale è diminuita. 

Apparentemente la diminuzione è di circa 140 mila unità, ma si tratta di una valutazione ancora eccessivamente ottimistica: gli ultimi dati Istat, relativi al terzo trimestre 2014, mostrano che, sul totale degli occupati, si stanno riducendo sia la quota di lavoratori a tempo pieno sia la quota di lavoratori italiani. Il che, tradotto in termini concreti, significa che aumentano sia il peso dei posti di lavoro part-time «involontari» (donne che lavorano poche ore, ma non per scelta) sia il peso dei posti di lavoro di bassa qualità, tipicamente destinati agli immigrati.

I senza lavoro 
Secondo fatto: la disoccupazione sta aumentando. I disoccupati erano 3 milioni e 124 mila nell’ottobre del 2013, sono saliti a 3 milioni e 410 mila nell’ottobre del 2014. L’aumento è di ben 286 mila unità, di cui 130 mila nei 4 mesi del governo Letta, e 156 mila negli 8 mesi del governo Renzi. La spiegazione secondo cui l’aumento sarebbe dovuto a una maggiore fiducia, che farebbe diminuire il numero di lavoratori scoraggiati, riprende una vecchia teoria degli Anni 60 ma è incompatibile con i meccanismi attuali del mercato del lavoro italiano, che mostrano con molta nitidezza precisamente quel che suggerisce il senso comune: gli aumenti di disoccupazione dipendono dal peggioramento, e non dal miglioramento, delle condizioni del mercato del lavoro.

Sulla disoccupazione, tuttavia, ci sarebbe qualcosa da aggiungere. In questi giorni sentiamo ripetere, dai giornali e dalle tv, che il tasso di disoccupazione non solo è ulteriormente aumentato rispetto a 12 mesi fa (1 punto in più), non solo è molto alto in assoluto (13,2%), non solo è fra i più alti dell’Eurozona, ma sarebbe anche il più alto degli ultimi 37 anni, ossia dal 1977.

I dati del 1977 
Ebbene, anche questa, già di per sé una notizia drammatica, detta così è ancora troppo ottimistica. Se dici che siamo al massimo storico dal 1977, o che «siamo tornati al 1977», qualcuno potrebbe supporre che nel 1977 il tasso di disoccupazione italiano fosse più alto di oggi, o perlomeno fosse altrettanto alto. 

Non è così. Nel 1977 il tasso di disoccupazione era molto minore rispetto ad oggi (7,2% contro 13,2%). La ragione per cui si continua a parlare del 1977 come una sorta di spartiacque è che la serie storica dell’Istat con cui attualmente lavoriamo parte dal 1977. Ma questo non significa che sugli anni prima del 1977 non si sappia niente. Prima del 1977 c’era la vecchia serie 1959-1976. E prima ancora c’erano i dati del collocamento, della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali, dei censimenti demografici, a partire da quello del 1861, anno dell’unità d’Italia. Tutte fonti meno sofisticate di quelle di oggi, ma sufficienti a darci un’idea degli ordini di grandezza. Mi sono preso la briga di controllare queste fonti, nonché i notevoli lavori che sono stati pubblicati sui livelli di disoccupazione dal 1861 a oggi e la conclusione è tragica. 

Unità d’Italia e dopoguerra 
Mai, nella storia d’Italia, il tasso di disoccupazione è stato ai livelli di oggi. Altroché 1977. La disoccupazione era più bassa di oggi anche nel periodo 1959-1976, per cui abbiamo una serie storica Istat. Era più bassa anche negli anni della ricostruzione, dal 1946 al 1958. Ed era più bassa durante il fascismo, persino negli anni dopo la crisi del 1929. Quanto al periodo che va dall’unità d’Italia all’epoca giolittiana, è difficile fare paragoni con l’oggi, se non altro perché è proprio allora che prende lentamente forma il concetto moderno di disoccupazione, ma basta un’occhiata ai censimenti e agli studi che li hanno analizzati (splendidi quelli di Manfredi Alberti, borsista Istat) per rendersi conto che, comunque si definisca il fenomeno, siamo sempre abbondantemente al di sotto dei livelli attuali.

Il governo Renzi 
Di tutto questo Renzi e i suoi non hanno nessunissima colpa. Il legno storto del mercato del lavoro non si raddrizza in pochi mesi, e forse neppure in parecchi anni. Quel che dispiace, però, è che anche le nostre giovani marmotte, giunte al potere, si arrampichino sugli specchi come tutti gli anziani paperi che le hanno precedute. Come cittadino, preferirei un governo che, sull’occupazione e la disoccupazione, ci dicesse la verità, e mostrasse con i fatti, non con le parole, di aver capito il dramma del lavoro in Italia. Quel che vedo, invece, è un ceto politico che irride i sindacati, si è mostrato del tutto inadeguato sul progetto europeo «Garanzia giovani», stanzia pochissimi soldi per ridurre il costo del lavoro (1,9 miliardi nel 2015), mentre ne stanzia tantissimi sul bonus da 80 euro, misura meravigliosa ma che premia solo chi un lavoro già ce l’ha.

Il guaio, purtroppo, è sempre quello. In Italia la sinistra, oggi come ieri, protegge innanzitutto i lavoratori già garantiti. La destra ha da sempre un occhio di riguardo per i lavoratori autonomi. Quanto a tutti gli altri, precari, lavoratori in nero, giovani e donne fuori dal mercato del lavoro, nessuno se ne preoccupa sul serio, e meno che mai i sindacati. Fino a quando?

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/30/economia/disoccupazione-mai-cos-alta-nella-storia-ditalia-4VBL6pqa8YWsfYxjnQL8wO/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - La forza e la debolezza del Premier
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2015, 04:34:21 pm
La forza e la debolezza del Premier

27/12/2014

Luca Ricolfi

E’ passato quasi un anno da quando Renzi e i suoi hanno dato il benservito alla vecchia guardia. Da allora di Bersani, Bindi, D’Alema, Prodi, Veltroni, si parla pochissimo. E per la verità pochissimo si parla anche di Enrico Letta e Angelino Alfano, appena più vecchi di Renzi, ma anch’essi inesorabilmente travolti dall’ascesa del sindaco di Firenze. 

 Possiamo dire che è stato un progresso? Possiamo dire che la nuova guardia ha superato la prova? Forse sì, se il termine di paragone è la vecchia guardia stessa. Non saprei dire se la preparazione e la competenza dei nuovi siano ancora più modeste di quelle dei vecchi (anche se, dovendo pronunciarmi, propenderei per il sì). Il punto però è che la nuova guardia è esente da un difetto imperdonabile ed esiziale della vecchia: l’immobilismo. Di Renzi e dei suoi tutto si può dire, meno che abbiano paura di rompere gli schemi. 

E questa, la volontà di cambiare, più che un bene, è un prerequisito di qualsiasi tentativo di salvare l’Italia dal declino in cui è immersa da almeno quindici anni. 

Credo che, più o meno coscientemente, questa sia una cosa che ogni italiano avverte, e una delle ragioni del credito che Renzi continua a riscuotere dall’elettorato. 

 Il discorso, tuttavia, cambia sensibilmente se il termine di paragone non è la qualità di chi c’era prima, ma sono le promesse di Renzi. Qui siamo messi maluccio. Non è il caso di infierire con l’elenco delle scadenze disattese e degli impegni non rispettati, ma credo che chiunque provi a ripercorrere questi dieci mesi non potrebbe non constatare che quasi nulla di ciò che era stato annunciato entro una certa data è stato portato a termine nei tempi previsti, e buona parte attende tuttora di essere portato a compimento.

Quel che è interessante, tuttavia, è che i ritardi e i tradimenti di Renzi non paiono incrinare più di tanto il consenso di cui gode nel paese, e tutt’al più alimentano i borbottii dei suoi critici (un club piuttosto ristretto, cui pare sia iscritto anch’io). Perché?

Me lo sono chiesto spesso, e credo che se si vuole dare una risposta onesta non ce la si possa cavare con la solita spiegazione, secondo cui il pubblico è ignorante, superficiale e abbindolabile. Questa risposta era già sbagliata quando la si usava per spiegare il successo di Berlusconi, e resta sostanzialmente sbagliata anche oggi, quando la si ricicla per spiegare la tenuta di Renzi. No, se Renzi piace nonostante i limiti della sua azione politica, non è perché il pubblico non veda tali limiti. A me la ragione di fondo della tenuta di Renzi pare tutta un’altra: l’elettorato usa due pesi e due misure con i successi e gli insuccessi di Renzi, e tutto sommato ha qualche ragione per adottare questo doppio registro. 

Vediamo come funziona. Intanto bisogna dire che alcune norme varate da Renzi hanno effetti positivi e, soprattutto, immediatamente tangibili, su specifiche categorie sociali: bonus da 80 euro, riduzione dell’Irap, decontribuzione per i neoassunti. Queste misure sono puntualmente riconoscibili nei benefici (perché chi ne usufruisce «se ne accorge») ma opache e diffuse nelle coperture e negli effetti collaterali (perché i relativi costi sono distribuiti su una miriade di soggetti, comprese le generazioni future). Quindi il pubblico ne percepisce il lato benefico, ma ne ignora o ne sottovaluta il lato oscuro (aumento di altre tasse, riduzione di servizi, maggiore deficit pubblico).

C’è poi un secondo meccanismo fondamentale: l’attribuzione esterna (cioè ad altri) della responsabilità dei ritardi. Giusta o sbagliata che sia, finora a livello di opinione pubblica è passata l’idea che il premier vorrebbe cambiare le cose, e cambiarle alla svelta, ma non ci riesce perché innumerevoli poteri, forti e deboli, cercano di ostacolarne l’azione. Se le riforme costituzionali ritardano, se i costi della politica restano alti, se il Jobs Act non è ancora legge, se la Pubblica amministrazione non paga i suoi debiti, non è colpa di Renzi ma è colpa dei sindacati, della minoranza Pd, dei poteri forti, dei burocrati dei ministeri, dei tecnocrati europei.

E infine c’è la ragione probabilmente più potente che rende il premier invulnerabile alle critiche: la mancanza di un’alternativa. Anche chi si rende conto dei tanti limiti delle giovani marmotte, anche chi ne depreca la superficialità e l’impreparazione, anche chi non sopporta l’arroganza di alcuni dei nuovi venuti, non può che arrendersi di fronte al cosiddetto argomento Tina, di thatcheriana memoria: There Is No Alternative. 

Quest’ultimo, a mio parere, è il maggiore fattore di rischio per Renzi, perché nulla garantisce che la mancanza di alternative si protragga indefinitamente. E’ vero, quello di una scena politica povera di idee e presidiata da personaggi mediocri resta lo scenario più verosimile, tuttavia non è detto che il convento della politica italiana sia destinato a offrire per sempre uno spettacolo così modesto come quello che va in scena da alcuni anni. Se, per una felice quanto improbabile combinazione astrale, lo spettacolo dovesse cambiare, se nuove idee (sensate) e nuovi leader (credibili) si dovessero aprire un varco nella scena pubblica, nulla di ciò che ha protetto Renzi fin qui basterebbe a prolungarne il regno. E, simmetricamente, se il piccolo teatro della politica italiana continuasse a offrire il deprimente spettacolo di questi anni, non c’è errore o promessa mancata che basterebbero a provocare la caduta del re. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/27/cultura/opinioni/editoriali/la-forza-e-la-debolezza-del-premier-MdDcbtP8lRCO2YcTw9PZ4N/pagina.html


Titolo: LUCA RICOLFI - Jobs act, un bilancio. - Di Stefano De Agostini
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 22, 2016, 06:26:41 pm
Jobs act, Ricolfi: “Precariato ai massimi storici e ripresa occupazionale modesta. Renzi non capisce le statistiche”
A un anno dall'entrata in vigore dei primi decreti della riforma, il sociologo e docente di analisi dei dati traccia un bilancio.
"Sui 764mila contratti stabili in più del 2015, 578mila sono trasformazioni. Nel 2012 erano state di più. La misura più incisiva? Il decreto Poletti che ha liberalizzato le assunzioni a termine.
Ma il vero dramma è che 3 milioni di italiani lavorano senza contratto e altrettanti hanno smesso di cercare un posto"

Di Stefano De Agostini | 22 febbraio 2016

Il precariato è al massimo storico, la ripresa occupazionale è modesta, la narrazione del governo è “al servizio della conservazione del potere”. E’ questo il bilancio che Luca Ricolfi, sociologo e docente di analisi dei dati all’Università di Torino, traccia del Jobs act un anno dopo l’entrata in vigore dei primi decreti della riforma. Il capo del governo “sembra non comprendere il significato delle statistiche di cui parla”, attacca il professore mentre Matteo Renzi si appresta proprio lunedì, a 24 mesi dal suo insediamento, ad andare in visita alla Walter Tosto, azienda che produce macchinari per il settore petrolifero e “ha assunto con il Jobs Act”. Una settimana fa il premier aveva esultato per i 764mila contratti stabili in più certificati dall’Inps, ma l’interpretazione di quei dati fornita da Ricolfi è decisamente diversa.

Il governo sta celebrando i suoi due anni di mandato. Anche il ministero del Lavoro ha pubblicato una presentazione dove rivendica le “buone cose per il nostro Paese”, dal Jobs act a Garanzia giovani. Che idea si è fatto della narrazione che l’esecutivo sta facendo sui numeri del lavoro?
Questo è un governo come gli altri. Narrava Berlusconi, narrava Prodi, narrava Monti, narrava Letta. E le loro narrazioni erano implacabilmente al servizio della conservazione del potere, non certo della verità. Perché dovrebbe essere diverso sotto Renzi?

Lo slogan utilizzato dal governo per il Jobs act è: “Meno precarietà, più lavoro stabile”. Il Jobs act è stato in grado di ridurre l’occupazione precaria?
No, durante il 2015 il tasso di occupazione precaria, ossia la quota dei lavoratori dipendenti con contratti temporanei, ha raggiunto il massimo storico da quando esiste questa statistica (dal 2004), superando il 14%. Bisogna dire, tuttavia, che da settembre dell’anno scorso il tasso di occupazione precaria ha cominciato a ridursi, sia pure di pochi decimali.

Dopo gli ultimi dati Inps sui contratti, Renzi ha commentato: “+764mila contratti stabili nel primo anno di #jobsact. Amici gufi, siete ancora sicuri che non funzioni?”. L’aumento del tempo indeterminato è merito del Jobs act o degli sgravi?
Renzi sembra non comprendere il significato delle statistiche di cui parla. I 764mila posti stabili in più sono la somma fra il numero delle trasformazioni (578mila) e il saldo fra assunzioni e cessazioni (186mila). Per quanto riguarda le trasformazioni, è vero che quelle del 2015 sono state molte di più di quelle del 2013 e del 2014, ma se risaliamo anche solo al 2012 (l’anno di Monti) le trasformazioni erano state oltre 600mila, ossia un po’ di più di quelle vantate dal governo per il miracoloso 2015. E questo nonostante quello di Monti sia stato un anno di recessione. Resterebbe il saldo di 186mila contratti stabili in più. Duecentomila occupati stabili in più non sono tantissimi, ma comunque sono un progresso rispetto alle dinamiche degli anni scorsi. A che cosa sono dovuti? Per ora posso solo esprimere un’opinione: il contratto a tutele crescenti è molto meno importante della decontribuzione, e la modesta ripresa occupazionale in atto si deve innanzitutto al fatto che il Pil è tornato a crescere, più che a specifiche norme volte a favorire l’occupazione. Ma forse la misura più incisiva varata negli ultimi due anni è quella di cui nessuno parla.

Quale misura?
Il decreto Poletti del marzo 2014, che liberalizzava le assunzioni a termine, permettendo molteplici rinnovi. Questa misura va in direzione opposta a quella del Jobs Act, perché incentiva le assunzioni a tempo determinato. Quando si fa un bilancio del 2015 bisognerebbe considerare anche il saldo dei contratti precari (420mila), non solo di quelli stabili (186mila). L’aumento del tasso di occupazione precaria registrato dall’Istat si spiega con l’esplosione delle assunzioni a tempo determinato, che a sua volta potrebbe essere stato favorito dal decreto Poletti. Che poi una parte dei contratti a termine siano stati trasformati in contratti stabili non basta a modificare la dinamica profonda del mercato del lavoro. Alla formazione di posti di lavoro stabili si è affiancata una formazione di posti di lavoro precari, di cui si ha meno voglia di parlare.

Finora è valsa la pena di spendere gli 1,8 miliardi di euro della decontribuzione per raggiungere questi risultati?
No, non ne è valsa la pena, anche perché i miliardi sono almeno 12: il costo della decontribuzione è stato valutato in 5 + 5 miliardi nel biennio 2016-2017.

C’è il rischio che il mercato del lavoro sia stato drogato dagli incentivi? E che l’occupazione si sgonfi quando verranno meno?
E’ quello che temiamo tutti. Il test decisivo sarà il primo trimestre del 2016, i cui dati saranno disponibili a maggio. A quel punto si scoprirà se la modesta crescita di occupazione registrata nel corso del 2015 proseguirà, magari rafforzandosi, o si sgonfierà, perché era artificialmente sostenuta dagli incentivi. L’unica cosa che mi sento di dire, per ora, è che l’ultimo mese del 2015 ha pienamente confermato la profezia che fece Tito Boeri, e cioè che le assunzioni si sarebbero concentrate all’inizio e alla fine del 2015. Insomma, quella del 2015 potrebbe rivelarsi una piccola “bolla occupazionale”. Ma speriamo di no…

Quanto hanno influito i fattori macroeconomici (basso prezzo del petrolio, cambio euro/dollaro favorevole, quantitative easing) sul mercato del lavoro italiano?
Secondo la maggior parte degli studiosi i tre “propulsori” esogeni della nostra economia dovevano portare almeno 1 punto di crescita del Pil in più. Dato che, invece, siamo cresciuti solo dello 0,7%, vuol dire che senza quella spinta il nostro Pil avrebbe continuato a scendere anche nel 2015. Ma noi preferiamo raccontarci che “l’Italia ha svoltato”.

Quali misure servono per una ripresa strutturale del mercato del lavoro?
Una misura, il Job Italia, l’avevo proposta un paio di anni fa, come Fondazione David Hume e come La Stampa, ai tempi in cui scrivevo sul quotidiano torinese. L’idea è piuttosto semplice. Se prevediamo una decontribuzione ancora più forte di quella introdotta nel 2015, ma diamo il beneficio solo alle imprese che aumentano l’occupazione, creiamo abbastanza posti di lavoro aggiuntivi da rendere autofinanziante il provvedimento: più posti di lavoro, infatti, significano più reddito, e più reddito significa più gettito fiscale. Però l’idea del Job Italia non era “combattere il dramma dell’occupazione precaria”. Il “dramma dei precari” è una costruzione mediatico-politica, molto di moda da una decina d’anni, che è stata usata per nascondere il vero dramma di questo paese.

Quale dramma?
Il dramma dell’Italia non è che meno di 3 milioni di persone lavorino con contratti a tempo determinato, ma è che una cifra analoga se non superiore di lavoratori, spesso immigrati, lavorino completamente senza contratto, che altri 3 milioni di persone cerchino un lavoro senza trovarlo, e altri 3 milioni ancora un lavoro manco lo cerchino, perché hanno perso la speranza di trovarlo. Ho chiamato Terza società questo esercito di 10 milioni di persone di cui nessuno si occupa, e che fanno la vera differenza fra l’Italia e la maggior parte dei Paesi avanzati.

Di Stefano De Agostini | 22 febbraio 2016

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/02/22/jobs-act-ricolfi-precariato-ai-massimi-storici-e-ripresa-occupazionale-modesta-renzi-non-capisce-le-statistiche/2484646/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2016-02-22


Titolo: LUCA RICOLFI - Il debito e la crescita: quello che la demagogia non spiega
Inserito da: Arlecchino - Maggio 09, 2016, 06:03:56 pm
Il debito e la crescita: quello che la demagogia non spiega

Di Luca Ricolfi
8 Maggio 2016

Finora, il governo non si è ancora rimangiato l’impegno di ridurre il rapporto debito-Pil a partire dal 2016. Un impegno che gli osservatori più gufi (o più lucidi) non hanno mai preso troppo sul serio, ma che da qualche giorno comincia ad essere messo in dubbio anche dalle autorità europee.

La ragione dello scetticismo europeo è presto detta. Nel 2016 il Pil dell’Italia crescerà poco più dell’1% (e anche questo non è dato per scontato), mentre i prezzi potrebbero restare sostanzialmente fermi. Nello scenario più pessimistico il Pil (reale) cresce più o meno dell’1% e i prezzi diminuiscono di qualche decimale, quindi il Pil nominale rischia di progredire di un modestissimo 0,7 o 0,8%. Nello scenario più ottimistico il Pil cresce come prevede il governo (+1,2%) e l’inflazione torna in territorio positivo di qualche decimale, il che permette al Pil nominale di crescere intorno all’1,5 per cento. Può bastare per far scendere il rapporto debito-Pil? No, a meno che la velocità di crescita del volume del debito pubblico sia inferiore all’1,5 per cento. Ma il debito pubblico è cresciuto al ritmo del 2,5% nel 2015, e a quello dell’1,7% nei primi due mesi del 2016 (ultimi dati disponibili). Difficile pensare che possa rallentare nel resto del 2016 in una misura sufficiente a compensare la lentezza con cui crescerà il Pil nominale. Ecco perché osservatori indipendenti e autorità europee non credono che nel 2016 il rapporto debito-Pil dell’Italia comincerà a diminuire.

Giunti a questo punto, vale forse la pena affrontare senza giri di parole la questione: è opportuno perseguire comunque, fin da ora, l’obiettivo di riduzione del debito?

A questa domanda il governo non può rispondere, perché nega che il problema esista. Non è difficile, tuttavia, indovinare che cosa risponderebbe quando, posto di fronte all’evidenza dei fatti, non fosse più in grado di negare il problema. La risposta, immagino, sarebbe quella che abbiamo ascoltato più volte in questi mesi e che suona più o meno così: “il debito non si batte con l’austerità, il debito si abbatte con la crescita”.

Questa risposta ha due lati, uno inquietante e l’altro seducente. Il lato inquietante è che ignora le conseguenze negative di un ulteriore aumento del rapporto debito-Pil, conseguenze aggravate dalla circostanza che tale ennesimo aumento infrangerebbe un impegno assunto e più volte solennemente ribadito dal governo italiano. Una prima conseguenza, tanto ovvia quanto costantemente dimenticata, è di aumentare il già pesante fardello che pesa sulle generazioni future. Una seconda conseguenza è di aumentare il rischio cui l’Italia sarebbe esposta nel caso di una nuova crisi finanziaria. Una terza conseguenza è di aumentare il premio che gli investitori richiedono per detenere titoli di Stato italiani. Quest’ultimo effetto, che comporta un ulteriore onere per le finanze pubbliche, in realtà è già in atto: lo spread con i titoli tedeschi, che è stato di circa 116 punti base nel 2015, è in costante aumento da sette settimane, e in quella appena trascorsa ha toccato quota 129.

C’è anche il lato seducente, tuttavia, nella risposta governativa. È verissimo che la crescita è l’unica vera medicina che può abbattere il rapporto debito-Pil senza ammazzare il paziente (e il precedente positivo del Belgio incoraggia a battere quella strada). E tutti noi saremmo felicissimi di poter cominciare ad alleggerire la zavorra del debito senza sacrifici (salariali o patrimoniali), senza tagli alla spesa pubblica, senza aumenti di tasse. Ma che cosa ci impedisce di tornare a crescere?

A dar credito al racconto governativo, sembra che ad impedirci di crescere siano soprattutto le “stupide” regole europee. Troppo poca flessibilità, criteri cervellotici nel calcolo del cosiddetto output gap, mancata condivisione del rischio bancario, latitanza dei promessi investimenti europei (che fine ha fatto il piano Juncker?). Il cahier des doléances dell’Italia è lungo, e tutt’altro che ingiustificato. C’è solo un piccolo dettaglio: il ristagno dell’economia italiana dipende anche dai nodi irrisolti dell’Europa, nodi che frenano in particolare le economie dell’Eurozona, ma sfortunatamente per il nostro orgoglio nazionale non è l’inadeguatezza della costruzione europea la ragione principale delle nostre difficoltà. Che questo non possano intenderlo Grillo, Salvini e Meloni rientra nell’ordine politico naturale delle cose: la forza del populismo sta precisamente nell’avere individuato una comodissima spiegazione (le regole europee) per le nostre difficoltà, e un utilissimo capro espiatorio (gli eurocrati) cui attribuire tutti i mali che ci affliggono. Ma che la diagnosi populista attecchisca al di fuori del vasto mondo delle forze antisistema è meno comprensibile, e assai più pericoloso.

Eppure i dati parlano chiaro. È vero che, fra le economie avanzate (Paesi Ocse), i Paesi dell’Eurozona crescono un po’ meno di quelli che ne sono fuori (+2,1% contro +2,5% nel 2015), ma il punto è che, all’interno dell’Eurozona, il gap fra il tasso di crescita dell’Italia e quello degli altri Paesi (0,8% contro 2,2%) è imbarazzante. È un gap che c’è sempre stato dall’inizio degli anni 90, quando la prima Repubblica fece posto alla seconda, ma non vi è alcun segno che esso sia oggi minore che ieri, a dispetto di tutte le riforme attuate fin qui. Tanto per non stare sul generico, ricapitoliamo i dati: nell’ultimo anno l’Italia è cresciuta dello 0,8%, ma l’Irlanda è cresciuta del 7,8%, il Lussemburgo del 4,8%, la Spagna del 3,2%, l’Olanda del 2,0%, la Germania dell’1,6%, il Portogallo dell’1,5 per cento. Eppure sono tutti Paesi dell’Eurozona, anzi fanno parte degli 11 paesi del gruppetto originario, che adottò l’euro il 1° gennaio del 1999. Tre di questi Paesi (Irlanda, Spagna Portogallo) facevano parte dei Pigs, ma ora sembrano aver ritrovato la strada della crescita.

Che cosa fa sì che tutti i Paesi dell’Eurozona, eccetto la Finlandia e la Grecia, crescano più dell’Italia? Perché, oggi come ieri (e come domani, se stiamo alle ultime previsioni sul 2016 e il 2017), il tasso di crescita del nostro Paese è molto più basso non solo di quello dei Paesi Ocse ma anche di quello degli altri Paesi dell’Eurozona? Che cosa impedisce all’Italia di fare come gli altri?

Questa è la domanda. È a questa domanda che il racconto populista sistematicamente si sottrae. Ma è dalla risposta a questa domanda che dipende il futuro dell’Italia.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-05-08/il-debito-e-crescita-quello-che-demagogia-non-spiega-145750.shtml?uuid=ADjGvbD&p=2



Titolo: LUCA RICOLFI - Il treno della crescita e la scossa che serve all’Italia
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 10, 2016, 11:51:48 am
Il treno della crescita e la scossa che serve all’Italia

Di Luca Ricolfi 9 Ottobre 2016

Da qualche tempo a questa parte, di crescita si parla come se, almeno per le economie dei paesi avanzati, essa fosse un mero ricordo del passato, una sorta di Eden cui, per ora invano, si cerca di fare ritorno. L'imperativo è sempre quello: tornare a crescere, rilanciare la crescita, far ripartire l’economia, uscire dalla crisi, sfuggire all’amaro destino della “stagnazione secolare”. Se però guardiamo ai tassi di crescita effettivi degli ultimi anni nei 34 paesi Ocse (saliti a 35 con il recentissimo ingresso della Lettonia), il quadro che ci si presenta è decisamente più articolato.

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Nel 2015, ad esempio, su 34 paesi Ocse ben 20 sono cresciuti a un tasso superiore al 2%, e metà di questi ultimi a un tasso superiore al 3% o al 4 %. Il ritmo di crescita di questi 20 paesi è sostanzialmente in linea con il tasso di crescita del Pil mondiale. E anche estendendo lo sguardo a un periodo più lungo, per esempio il quadriennio 2012-2015, il quadro non appare così drammatico come talora lo si dipinge: in quasi la metà dei 34 paesi Ocse il tasso medio di crescita si è collocato al di sopra del 2 per cento.

Se queste sono le cifre della crescita nelle economie avanzate, forse la domanda che dovremmo porci non è quella solita, come facciamo a far ripartire la crescita, ma come mai alcuni paesi sono tornati a crescere e altri no. Guardando agli ultimi quattro anni (2012-2015) i paesi Ocse si possono suddividere abbastanza nitidamente in almeno quattro gruppi: 5 paesi (fra cui l’Italia) a crescita negativa o nulla, 7 paesi in stagnazione (crescita positiva ma inferiore all’1%), 7 paesi in crescita lenta (fra l’1 e il 2%), e infine i 15 paesi in crescita sostenuta (oltre il 2%, in alcuni casi oltre il 3 o il 4%).

L’Italia, purtroppo, non è affatto «un vagone di mezzo nel treno della crescita europea», ma è e resta nella coda del treno: nel quadriennio 2012-2015 la sua crescita media è stata negativa, e nell’ultimo anno (2015), in Europa, solo Grecia e Finlandia hanno fatto peggio di noi.

Sul perché l’Italia non riesca a collocarsi non dico nei vagoni di testa (paesi che crescono oltre il 2%), ma almeno in quelli di mezzo (paesi che crescono fra l’1 e il 2%) le opinioni si sprecano. Così come si sprecano le profezie sulla crescita del Pil italiano nel 2017, che vanno dallo 0,5% dell’Ufficio Studi Confindustria all’1% governativo.

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E tuttavia una semplice occhiata ai dati (e alle previsioni) degli ultimi anni dovrebbe bastare a mettere in luce due circostanze. La prima è che, al di là di tutti i nostri guai specifici (a partire dai cattivi fondamentali e dalle riforme strutturali mancate o incompiute), ci sono almeno due fattori che accomunano i cinque paesi del gruppo di coda, ossia Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, Finlandia: il fatto di essere paesi europei occidentali relativamente ricchi e il fatto di far parte dell’eurozona.

Due circostanze cui, nel caso di Grecia, Portogallo e Italia si aggiunge quella di avere un rapporto debito-Pil abbondantemente al di sopra del 100 per cento. Difficile pensare che questi due handicap, il fatto di aver raggiunto una relativa ricchezza e il fatto di essere privi di una valuta nazionale, non spieghino una frazione considerevole delle nostre difficoltà.

Giusto per avere un’idea dell’importanza di questi due soli semplici fattori, si possono porre a confronto i tassi di crescita medi dei paesi Ocse (relativamente) ricchi e privi di una valuta nazionale, con quelli dei paesi (relativamente) poveri e dotati di una valuta nazionale: ebbene, cambiando queste due sole condizioni si passa da un tasso di crescita media annua (2012-2015) abbondantemente inferiore all’1% a un tasso del 2,5 per cento.

Se questa osservazione ha qualche fondamento, l’implicazione non è certo che si debba uscire dall’euro (i nostri conti pubblici sono troppo vulnerabili, i mercati ci sbranerebbero) ma che ci si debba dare un gran daffare: in un paese come il nostro il cambiamento dei fondamentali della crescita – capitale umano, pressione fiscale, giustizia civile e burocrazia – ha da essere davvero radicale se vuole controbilanciare i due fattori frenanti di cui abbiamo detto.

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Ma c’è anche una seconda circostanza che un attento esame dei dati è in grado di mettere in luce. Negli ultimi anni nessuno, ovvero né i governi, né l’Ocse, né il Fondo monetario internazionale (Fmi), sono mai stati capaci di effettuare previsioni minimamente accurate dei tassi di crescita nazionali dell’anno entrante, e spesso nemmeno di quelli dell'anno in corso. Esistono però, nelle previsioni Ocse e Fmi, due regolarità generali di cui forse occorrerebbe fare tesoro.

La prima è che il tasso di crescita medio dei paesi Ocse è sempre sopravvalutato: nel caso dell’Italia, in particolare, nell’ultimo quadriennio il tasso di crescita dell’anno entrante è stato mediamente sopravvalutato di 0,8 punti percentuali dall’Ocse e di ben 1,2 punti percentuali dal Fmi.

La seconda circostanza da notare è che la differenziazione nei tassi di crescita è sempre sottovalutata (la deviazione standard dei tassi previsti è sempre minore di quella dei tassi effettivi). Il che vuol dire: a conti fatti, le economie avanzate risultano non solo più lente del previsto, ma anche più diseguali nei loro ritmi di crescita. È forse anche per questo, per il fatto cioè che le previsioni degli organismi internazionali tendono a “piallare” le differenze nei tassi di crescita, che continuiamo a non vedere il punto essenziale: in molti paesi l’economia è già ripartita da tempo, e i paesi che occupano i vagoni di coda del treno della crescita sono sempre più o meno gli stessi

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