Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Inserito da: Admin - Giugno 22, 2007, 04:22:20 pm Fadwa Barghuti: «Un golpe quello di Hamas, Barghuti è con Abu Mazen»
Umberto De Giovannangeli «Marwan si è sempre battuto per l'unità del popolo palestinese. Anche dal carcere ha sempre sostenuto le ragioni dell'unità. Lo ha fatto guidando Fatah, lo ha fatto da parlamentare eletto dal popolo, lo ha fatto da prigioniero di Israele. Per questo Marwan ha condannato la prova di forza operata da Hamas a Gaza, perché essa attenta all'unità del popolo palestinese. Sì Marwan è molto preoccupato, perché è consapevole che ciò che è avvenuto rischia di infliggere una ferita mortale alla causa palestinese, mettendo in secondo piano la sofferenza del nostro popolo, il regime di occupazione in cui è costretto a vivere. Oggi si parla della guerra civile a Gaza e si dimentica che da un anno 1milione e 400mila palestinesi vivono sotto assedio, isolati dal mondo, del tutto dipendenti da Israele. Occorre ricostruire questa unità e rafforzare l'Autorità nazionale palestinese, l'unica in grado di preservare la nostra autonomia». A parlare è Fadwa Barghuti, avvocato, moglie di Marwan Barghuti, il leader di Al Fatah, l'uomo simbolo della seconda Intifada, detenuto in Israele condannato a cinque ergastoli per reati di terrorismo. Ma nella stessa Israele sono in molti - ultimo in ordine di tempo l'editoriale pubblicato ieri dal quotidiano Haaretz - a chiedere la liberazione di Barghuti, con la motivazione che la sua liberazione potrebbe rafforzare in modo decisivo la leadership di Abu Mazen: «Marwan - sottolinea Fadwa Barghuti - si è sempre proclamato innocente e ha contestato la legittimità da parte israeliana a processarlo: il suo arresto - l'arresto di un parlamentare palestinese - in territorio amministrato dall'Anp è stato un atto illegale, un vero e proprio rapimento. Marwan non è venuto meno alle sue convinzioni: occorre negoziare una pace giusta, tra pari, con Israele. Una pace fondata sulla legalità internazionale. La sua linea è quella delineata dal "Documento dei prigionieri": battersi per la costruzione di uno Stato di Palestina sui territori occupati da Israele nel 1967; uno Stato con Gerusalemme est come sua capitale. Nulla di più, niente di meno». Da più parti si è convinti che la liberazione di Marwan Barghuti potrebbe essere decisiva per rafforzare la leadership del presidente Abu Mazen. «La liberazione di Marwan sarebbe innanzi tutto un atto di giustizia: Marwan Barghuti è un parlamentare palestinese eletto dal popolo palestinese, che Israele ha arrestato con un atto illegale, contrario al diritto internazionale e agli stessi accordi di Oslo. Marwan si è sempre battuto per l'unità dei palestinesi e ha combattuto contro chiunque attentasse ad essa…». Ed è per questo che ha condannato il «golpe» di Hamas? «Ciò che è avvenuto a Gaza è un fatto gravissimo: Marwan è convinto che il piano di attacco da parte di Hamas fosse stato preparato da tempo. C'era chi negoziava con Abu Mazen per formare un governo di unità nazionale, e chi metteva in atto il piano per la conquista militare di Gaza. Una doppiezza inaccettabile, che ha provocato morte, dolore, e messo in secondo piano la tragedia di un popolo sotto occupazione. Oggi a rischio mortale non è l'Anp, è la causa palestinese. L'unità va ricostruita, perché un popolo diviso è un popolo destinato alla sconfitta». A Gaza si è registrata anche la disfatta di Fatah. «Una disfatta che non ha sorpreso Marwan. Da tempo, infatti, Marwan aveva sottolineato l'urgenza di un ricambio di leadership in Fatah a Gaza e lo sviluppo di nuove forme di sicurezza. Logiche di potere personale hanno portato alla disfatta. Abu Mazen lo ha capito e ha assunto la decisione giusta: sciogliere il Consiglio di sicurezza dell'Anp e affidare la ricostruzione delle forze di sicurezza a dirigenti onesti, capaci, riconosciuti come tali dalla gente…». La pace per Marwan Barghuti contempla il diritto all'esistenza di Israele? «Marwan si è sempre battuto perché fosse realizzato il diritto del popolo palestinese a uno Stato indipendente. A questo ha consacrato la sua vita, non alla distruzione di Israele. Marwan ha sempre sostenuto con forza la linea secondo cui bisogna lottare e resistere all'interno dei territori del 1967 e non ci può essere né pace né sicurezza per nessuno se non con due Stati e due popoli, l'uno accanto all'altro, in Palestina. Per questo ha combattuto, dichiarandosi al contempo pronto a intavolare un vero negoziato di pace, che proprio perché vero non può fondarsi sui presupposti fallimentari che reggevano gli accordi di Oslo-Washington». Marwan Barghuti ha dato il suo sostegno al governo Fayyad… «Un governo di transizione che deve portare a nuove elezioni legislative e presidenziali, perché la parola deve tornare al popolo». Pubblicato il: 22.06.07 Modificato il: 22.06.07 alle ore 8.34 © l'Unità. Titolo: Le trincee della Jihad di Umberto De Giovannangeli Inserito da: Admin - Giugno 25, 2007, 07:15:10 pm Le trincee della Jihad
Umberto De Giovannangeli Una dichiarazione di guerra. La volontà di saldare in un unico fronte tre «trincee» jihadiste: Iraq, Palestina, Libano. C’è tutto questo dietro l’attentato che ha investito ieri i caschi blu spagnoli impegnati nella missione Unifil nel Sud del Libano. Una missione che l’Italia ha fortemente voluto, per la quale si è battuta nelle sedi internazionali, e che vede impegnati sul campo 2.500 nostri soldati. È inutile farsi illusioni o affidarsi alla pur sperimentata esperienza dei nostri servizi di intelligence: anche l’Italia, anche i nostri soldati sono nel mirino dell’Islam radicale armato che intende trasformare il Medio Oriente in una polveriera. Le forze della stabilizzazione vanno combattute ovunque e con ogni mezzo: e vanno combattute con ancora maggiore determinazione e ferocia se queste forze accompagnano a una indispensabile presenza militare un’altrettanta indispensabile visione politica che punta a rafforzare il dialogo e a costruire un fronte comune con i leader arabi moderati; con coloro, cioè, che scommettono ancora sulla possibilità di una pace giusta, stabile, con Israele, nella convinzione che essa serve anche a frenare la penetrazione fondamentalista nei loro Paesi. Spazzare via queste forze della stabilità è un imperativo per la nebulosa jihadista che ha scatenato l’offensiva del terrore in Medio Oriente. Nulla accade per caso in questa tormentata, e nevralgica, regione. Non è un caso, che si è colpito in Libano alla vigilia del vertice di Sharm el-Sheikh che vedrà oggi riuniti quattro leader che sono nel mirino del «fronte del rifiuto»: il presidente egiziano Hosni Mubarak; re Abdallah di Giordania; il presidente palestinese Abu Mazen; il premier israeliano Ehud Olmert. In questa strategia della destabilizzazione, il Libano rappresenta un tassello essenziale. Infiammare la frontiera con Israele significa infatti saldare il fronte nord con Hamastan, quella Striscia di Gaza conquistata con la forza dalle milizie islamiche palestinesi che godono del sostegno attivo dell’Iran. Riportare il caos nel Paese dei Cedri significa minare un Governo, quello di Fuad Siniora, nato da quella «Rivoluzione dei Cedri» che reclamava, e continua a farlo, verità e giustizia sulla serie impressionante di attentati che hanno segnato il Libano, a cominciare dall’assassinio, nel febbraio 2005, dell’ex premier Rafik Hariri. Ma per destabilizzare il Libano non basta assassinare i parlamentari della maggioranza antisiriana e trasformare i campi profughi palestinesi in roccaforti jihadiste. Occorre alzare ulteriormente il livello dello scontro e investire quelle forze, quei Paesi che in Libano sono attivi per difendere la legalità internazionale e per evitare che il Sud divenga una base operativa dei gruppi qaidisti. Per questo i caschi blu dell’Unifil, tutti i caschi blu, sono nel mirino dei terroristi: perché la loro presenza fa da ostacolo a questa penetrazione e impedisce, da un anno, una nuova esplosione della frontiera con Israele. L’allarme rosso è scattato in Libano. Come in Palestina. Per disinnescarlo - l’Iraq lo insegna - non basta la potenza delle armi. Occorre dispiegare l’"arma" della politica. Ridare speranza ai senza futuro di Gaza; operare per dare corpo ad un accordo di pace fondato sul principio di due Stati; favorire il dialogo nazionale in Libano: il terrorismo jihadista si combatte anche prosciugando quel «mare» di rabbia, frustrazione e di aspettative tradite dentro il quale si muovono e fanno proseliti gli integralisti in armi. In Medio Oriente, il vuoto di iniziativa politica viene sempre riempito dalla pratica del terrore. C’è anche questa amara verità dietro l’attentato di ieri in Libano. Si era detto: il cessate il fuoco non può reggere all’infinito se non diviene la premessa di una decisa e pressante azione della diplomazia internazionale. Questa azione non si è dispiegata. La tregua è finita. Pubblicato il: 25.06.07 Modificato il: 25.06.07 alle ore 8.54 © l'Unità. Titolo: La strategia dei Dieci Inserito da: Admin - Luglio 12, 2007, 07:01:32 pm La strategia dei Dieci
Umberto De Giovannangeli A preoccupare dovrebbe essere il vuoto. E invece a far discutere, innervosire, litigare sono presunte «invasioni di campo». È ciò che sta avvenendo attorno alla lettera aperta che i ministri degli Esteri dei dieci Paesi mediterranei della Ue hanno inviato nei giorni scorsi al neo inviato speciale del Quartetto, l'ex premier britannico Tony Blair. Invece di discutere sul merito dei «quattro punti» per il rilancio di una iniziativa di pace in Medio Oriente, si è inteso eccepire sulla correttezza dell'iniziativa. Ora, se c'è una lezione che viene dal Medio Oriente è questa: il vuoto dell'iniziativa diplomatica viene sempre riempito dall'azione devastante delle forze del terrore. Il merito della lettera dei Dieci sta proprio nell'aver indicato una via per riempire con l'azione politica un vuoto pericoloso. Quel vuoto che ha favorito la crescita del radicalismo arabo, se non del terrorismo jihadista, in Iraq, in Palestina, in Libano. Riempire quel vuoto avendo il coraggio intellettuale di fare i conti con i fallimenti del passato e proponendo verità scomode, indigeribili per gli assertori (nostrani e di oltre Oceano) di una lettura schematica, manichea della realtà mediorientale. Una lettura che tende, ad esempio, a ridurre la complessità dell’Islam radicale arabo alla nebulosa di Al Qaeda. In questa logica semplificatrice (tanto cara ai neocon Usa e che permea il fallimentare unilateralismo da guerre preventive dell’amministrazione Bush), tutto è riconducibile ad una sorta di (improbabile) «Spectre» che tira le fila del Jihad globalizzato. Si spiega così, lo scandalo manifestato per un’affermazione contenuta nella lettera dei Dieci. Questa: «Non spingere Hamas a rilanciare... incoraggiare l’Arabia Saudita e l’Egitto, come il presidente Mubarak ha proposto, a ristabilire il dialogo fra Hamas e Fatah». Affermare questo, significa fare i conti con la realtà. E la realtà dei Territori, come quella libanese, dimostra che Hamas e Hezbollah sono movimenti islamo-nazionalisti che, come tali, sono fortemente radicati nelle rispettive società, e che da questo radicamento (non imposto con la forza delle armi) nasce il loro consenso. Può piacere o no, ma questa è la realtà. Per averla evocata, Piero Fassino - che certo non può essere dipinto come un anti-israeliano - è stato arruolato a forza fra le quinte colonne del jihadismo mondiale. Vale allora la pena citare un passaggio della interessante intervista a Brian Jenkins pubblicata nell’ultimo numero de l’Espresso. L’intervistato da Palo Pontoniere non è un pericoloso fondamentalista, ma il padre dell’antiterrorismo moderno. «La decisione dei governi occidentali - affema Jenkins - si qualifica solo in termini anti-islamici. Hamas non è certamente il male peggiore e poi sono stati eletti, sono una realtà, bisogna cercare il dialogo». E aggiunge: «Teniamo rapporti con tantissimi governi dalla reputazione dubbia e apertamente ostili nei confronti dell’Occidente, perché non Hamas? Che cosa ne guadagniamo se non di spingere molti giovani nelle braccia dell’estremismo armato?». Riempire il vuoto significa anche prendere atto una volta per tutte, e agire di conseguenza, che il tempo non ha mai lavorato per la pace in Medio Oriente, e che la politica del rinvio non si è dimostrata una buona politica. L’attuazione di un piano di pace può essere graduale, ma ciò che non può essere rimandata ad un futuro indistinto è la definizione immediata dello sbocco finale e, cosa altrettanto importante, la discussione senza pregiudiziali su tutti i nodi strategici del conflitto israelo-palestinese: dallo status di Gerusalemme alla questione dei rifugiati, al problema delle frontiere... Insomma, è il ribaltamento della logica di Oslo. I Dieci l’hanno indicato con chiarezza. E stato un atto di coraggio politico o una improvvida fuga in avanti? Ed è una «fuga in avanti» evocare la liberazione da parte di Israele dell’unico leader che, per storia e carisma, può affrontare la «missione impossibile» di ricercare un’unità di intenti in campo palestinese: Marwan Barghuti? E muoversi in questa direzione non è anche essere, per davvero, «amici di Israele»? E non lo è il farsi carico del suo bisogno di sicurezza «anche prendendo in considerazione - affermano i Dieci ministri degli Esteri euromediterranei - l’idea di una forza internazionale robusta, del tipo Nato o Onu "capitolo VII", che avrebbe ogni legittimità ad assicurare l’ordine nei Territori e a imporre il rispetto di un necessario cessate il fuoco»? Sono proposte concrete, non solo enunciazioni di principi. Per questo meriterebbero di essere discusse. Per riempire un vuoto. E per essere all’altezza di un grande generale che dopo aver combattuto per una vita i nemici del suo Paese, aveva imboccato la strada della pace, anche al prezzo della propria vita. Quel generale-statista si chiamava Yitzhak Rabin. Ebbe a dire più volte: «Bisogna negoziare come se il terrorismo non ci fosse, e combattere il terrorismo come non esistesse un negoziato». Una lezione che non va smarrita. Pubblicato il: 12.07.07 Modificato il: 12.07.07 alle ore 16.07 © l'Unità. Titolo: Khaled Fouad Allam: La sfida di Prodi: portare Hamas ad abbandonare la violenza Inserito da: Admin - Agosto 14, 2007, 10:12:58 pm Khaled Fouad Allam: «La sfida di Prodi: portare Hamas ad abbandonare la violenza»
Umberto De Giovannangeli Le affermazioni di Romano Prodi e le polemiche scatenatesi a livello interno e internazionale. Ne discutiamo con Khaled Fouad Allam, tra i più autorevoli studiosi del mondo arabo e islamico, autore di «Lettere a un kamikaze», vincitore del premio Elsa Morante. Professor Allam, come valuta le considerazioni su Hamas formulate dal presidente del Consiglio? «Le premesse vanno ricercate nelle affermazioni del ministro degli Esteri Massimo D'Alema, affermazioni che non sono state di cero ispirate da condizionamenti ideologici. D'Alema, e con lui Prodi, ha svolto una analisi dell'esistente che fa sì che l'attuale conflitto fra Hamas e al-Fatah abbia portato di fatto ad una divisione territoriale, più o meno virtuale: Gaza ad Hamas, la Cisgiordania ad al-Fatah. D'Alema ha rilevato, con realismo, che se è stato difficile porre il problema dello Stato di Palestina con un unico interlocutore, figuriamoci con due. Tanto più se uno di questi, Hamas, lascia realmente dubitare sulla sua volontà di fare la pace, mentre Abu Mazen sì, la pace la vuole davvero. Si tratterebbe poi di verificare se sia ami esistita una società palestinese così compatta a sostegno di un compromesso di pace con Israele; alla luce degli eventi di questi mesi c'è da dubitarne fortemente. Esiste poi un secondo livello del ragionamento di Prodi e D'Alema che ritengo di grande significato». Qual è questo secondo livello? «Sia Prodi che D'Alema ragionano su una geopolitica più complessa che va dal Libano all'Iran, dall'Iraq al Maghreb. In questo quadro, l'instaurazione di un sistema-Hamas a Gaza, potrebbe fornire le basi a una specie di emirato islamico fondamentalista nel cuore del Medio Oriente e a pochi chilometri da Gerusalemme e Tel Aviv: l'idea dell'emirato sovranazionale e fondamentalisti ricorre spesso nella storia dell'Islam radicale. Il problema che si pone a Romano Prodi e a Massimo D'Alema non è tanto il riconoscimento di Hamas ma piuttosto il lavoro politico e la strategia da adottare per far sì che Hamas abbandoni definitivamente il terrorismo e la lotta armata, e che riconosca, nero su bianco, lo Stato d'Israele. È questa la vera sfida politica che la Comunità internazionale, e non solo l'Italia, devono intraprendere. Perché una cosa è certa: non si può parlare di pace se Hamas continua a proclamare la sua volontà di annientare l'"entità sionista». Professor Allam, guardando anche al di fuori dei confini mediorientali, c'è una esperienza storico-politica che potrebbe offrire un modello di riferimento? «Con i dovuti distinguo per i differenti contesti politici e culturali, ritengo che si potrebbe trarre ispirazione dal lavoro negoziale svolto in Irlanda del Nord, che ha portato alla fine del terrorismo da parte dell'Ira. Ma quel negoziato ha avuto bisogno di molto tempo e altrettanta pazienza. Le stesse che devono essere impiegate in Medio Oriente». Pubblicato il: 14.08.07 Modificato il: 14.08.07 alle ore 9.57 © l'Unità. Titolo: Pegah Emambakhsh (OVVERO IL DIRITTO DI VIVERE). Inserito da: Admin - Agosto 26, 2007, 09:58:33 pm Sereni: «I diritti dei gay vanno difesi sempre e ovunque»
Umberto De Giovannangeli «L’Italia fa bene a ricercare il dialogo con l’Iran su grandi questioni che riguardano la stabilità e la pace, ma questa ricerca deve accompagnarsi all’affermazione dell’intangibilità dei diritti fondamentali delle persone, e tra questi diritti inalienabili c’è quello della scelta nella sfera della sessualità. Per questo la vicenda di Pegah Emambakhsh ha una valenza che va anche al di là di quello che resta oggi l’obiettivo fondamentale: salvare la vita ad una donna che rischia la lapidazione per la sua scelta sessuale. Per raggiungere questo obiettivo occorre esplorare tutte le strade possibili: occorre premere sulle autorità britanniche perché concedano alla donna iraniana l’asilo, ma se questa via si dovesse rivelare impercorribile, l’Italia deve esser pronta ad accogliere Pegah». Ad affermarlo è Marina Sereni, vicepresidente del gruppo parlamentare dell’Ulivo alla Camera. Sono queste ore decisive per Pegah. Qual è il suo pensiero in proposito? «Per fortuna la mobilitazione e l’informazione hanno portato a conoscenza dell’opinione pubblica il caso della donna lesbica iraniana, un caso che richiama la necessità di difendere i diritti umani di tutte le persone, in ogni condizione e in ogni contesto. Pegah rischia la pena capitale per il suo orientamento sessuale. Noi già nelle scorse settimane avevamo sollevato nuovamente la necessità di una forte pressione sul governo iraniano affinché cessassero le esecuzioni capitali, perché la campagna che l’Italia sta conducendo a livello internazionale assieme a molti altri Paesi per la moratoria universale sulla pena di morte deve avere anche risultati concreti, non può restare solo una testimonianza di principio. Sul rispetto dei diritti umani non vi può essere un "doppiopesismo": questi diritti vanno difesi sempre e ovunque, non possono essere subordinati a interessi economici o a simpatie ideologiche. Sulla difesa dei diritti umani non c’è realpolitik che tenga. E tra i diritti da salvaguardare vi sono quelli inerenti alla sfera degli orientamenti sessuali». Questa affermazione come si traduce nel caso di Pegah? «In questo caso specifico, noi condividiamo e sosteniamo la linea seguita dal governo, siamo convinti che sia necessario continuare a esercitare una doppia pressione -politica e diplomatica, anche sulle autorità britanniche, affinché possa essere accolta la richiesta di asilo per Pegah e possa essere evitato il rimpatrio in Iran. Vanno esplorate tutte le strade che possano evitare alla donna il rimpatrio in Iran, inclusa, se necessario, l’accoglienza di Pegah nel nostro Paese. Una decisione che se dovesse essere assunta dal governo, sono certa che otterrebbe il consenso pressoché unanime del Parlamento, a cominciare dal gruppo parlamentare più grande, quello dell’Ulivo». Salvare la vita di Pegah: è questa oggi la priorità assoluta. Ma più in generale, quali indicazioni è possibile trarre da questa vicenda? «Ci sono due profili di cui tener conto. Da un lato, occorre sottolineare con forza come gli orientamenti sessuali non possano essere il terreno della violazione dei diritti umani fondamentali, il che significa non sottovalutare che molte discriminazioni hanno come vittime le donne e gli omosessuali. Dall’altro lato, l’Iran è un Paese nei confronti del quale riteniamo che debba essere esercitata un’azione volta ad aprire un dialogo sulle questioni complesse che riguardano la regione - dalla vicenda irachena a quella afghana, dalla stabilità del Medio Oriente alla questione del nucleare. Mettere all’angolo Teheran non giova alla pace. Al tempo stesso, però, non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alle gravi violazioni dei diritti umani che avvengono in quel Paese. Ed è per questo che crediamo giusta la linea seguita dall’Italia: quella di accompagnare quest’apertura e disponibilità al dialogo con una intransigenza sul terreno dei principi e del rispetto dei diritti umani. Dialogo sì, ma senza censure». Non ritiene che sino ad oggi la difesa degli orientamenti sessuali sia rimasta troppo ai margini dell’iniziativa per la tutela dei diritti umani, come se ne fosse un aspetto secondario? «Sì, è così, e oggi invece risulta sempre più evidente che la qualità di una democrazia si misura dalla capacità di rispettare tutte le scelte etiche e gli orientamenti sessuali, e che anche in casa nostra, se vogliamo combattere la violenza, non possiamo trascurare quelle specifiche e odiose forme di violenza a sfondo sessuale o animate da odio omofobico». Pubblicato il: 26.08.07 Modificato il: 26.08.07 alle ore 8.31 © l'Unità. Titolo: Re: Pegah Emambakhsh (OVVERO IL DIRITTO DI VIVERE). Inserito da: Admin - Agosto 26, 2007, 09:59:35 pm Lunedì a Roma sit-in per Pegah Emambakhsh
La donna iraniana Pegah Emambakhsh rischia la vita perché lesbica. Lo stabilisce - stando a quanto si è finora appreso - la Shari'a o legge islamica che viene applicata in Iran. Secondo alcune ricostruzioni della sua vicenda, la Emambakhsh è fuggita dall'Iran nel 2005 - passando prima in Turchia e poi andando in Gran Bretagna - dal momento che la sua compagna, nel loro Paese di origine, era stata torturata e condannata a morte per lapidazione. Ma non solo: anche il padre di Pegah sarebbe stato arrestato, interrogato e infine torturato dalle autorità per gli spostamenti della figlia. Che poteva rappresentare - evidentemente - una minaccia per la "immagine" del regime. Adesso, c'è un pronunciamento del governo inglese da attendere. Per ora, si sa che l'asilo le è sempre stato negato, al punto che per martedì 28 agosto è già stato prenotato il volo per rimpatriarla (volo British Airways, numero BA6633). La partenza è stata fissata alle 21,35 ore britanniche. Per questo, lunedì organizzazioni gay e lesbiche italiane e alcuni gruppi - tra cui Verdi, i Radicali Italiani e i Ds - hanno organizzato un Sit-in di fronte all'ambasciate britannica, a Roma, affinché da Londra arrivi un ripensamento e alla Emambakhsh venga concesso asilo. Ma se così non fosse, afferma il ministro della Giustizia Clemente Mastella, «la mia opinione e quella del mio governo è cioè di fare tutto perché Pegah Emambakhsh, nel rispetto delle leggi vigenti, abbidiritto di asilo». Aggiunge il viceministro degli Esteri italiano Patrizia Sentinelli: «Abbiamo attivato tutti i canali diplomatici per evitare che Londra la rimpatri in Iran dove rischia la vita. Ma se verrà espulsa siamo pronti ad accoglierla». «È una battaglia di civilità, mobiliti tutte le coscienze», chiede Ivana Bartoletti, responsabile nazionale Diritti civili dei Ds, e poi annuncia la sua partecipazione alla manifestazione. Anche i Verdi aderiscono al sit-in di lunedì pomeriggio per Pegah: «Mobilitarsi per salvare la vita a una persona condannata a morte solo perché accusata di essere lesbica è un dovere civile», afferma il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio. «È necessario formalizzare la disponibilità ad accogliere in Italia Pegah avanzata anche dal ministro Barbara Pollastrini perché altrimenti le dichiarazioni non impediranno il rimpatrio. E il tempo sta per scadere», ha dichiarato l'europarlamentare dei radicali Marco Cappato. Ma c'è anche il sindaco di Venezia ,Massimo Cacciari, che a sua volta aderisce «con totale convinzione alla campagna per la salvezza di Pegah Emambakhsh» e offre ospitalità alla donna nella «tradizione di Venezia città-rifugio per i perseguitati, già onorata in un recente passato». Pubblicato il: 25.08.07 Modificato il: 25.08.07 alle ore 18.28 © l'Unità. Titolo: D’Alema: nessuna pace senza patto Hamas-Fatah Inserito da: Admin - Settembre 03, 2007, 02:31:35 pm D’Alema: nessuna pace senza patto Hamas-Fatah
Umberto De Giovannangeli Il fattore tempo è cruciale per ridare sostanza ad una prospettiva di pace. Quello attuale, insiste D’Alema, «è un momento di attività febbrile delle diverse diplomazie mediorientali, perché si avverte che effettivamente ci sono le condizioni per fare un passo in avanti importante. In questo contesto, ritengo che l’Europa abbia un contributo molto importante da offrire, e l’importanza del mio viaggio è data anche dalla molteplicità degli impegni. La coincidenza della rinione della Lega Araba al Cairo mi permetterà ad esempio di avere incontri bilaterali con diverse personalità, a cominciare dal ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, oltre al presidente Mubarak e al mio collega egiziano». Al centro di questa offensiva diplomatica c’è la questione palestinese. Un tema che sta particolarmente a cuore a Massimo D’Alema. A Ramallah, il vice premier incontrerà sia il presidente Abu Mazen che il primo ministro Salam Fayyad. Agli interlocutori palestinesi, anticipa il capo della diplomazia italiana, «innanzitutto porterò l’incoraggiamento ad andare avanti con determinazione nella preparazione della Conferenza e nel dialogo con il governo israeliano, verso obiettivi significativi, che rendano concrete le prospettive di pace. Si tratta in primo luogo di ascoltare dai leader palestinesi a che punto è il dialogo diretto con Israele, che dalle informazioni che abbiamo sembra essere arrivato ad affrontare nodi veramente rilevanti. Ascoltare, dunque, e poi incoraggiare i miei interlocutori a procedere con coerenza e rapidità verso la definizione di una piattaforma per un possibile accordo di pace. È questo, a nostro giudizio, il passo cruciale che deve essere compiuto oggi». E lungo questa strada, rimarca D’Alema, «a un certo punto si presenterà il problema di una riconciliazione nazionale palestinese. Si tratterà di capire come loro valutano l’evoluzione della situazione, ma d’altro canto l’unica possibilità di una pace effettiva e di uno Stato palestinese unitario e vitale è quella di promuovere un processo di riconciliazione. Perché dovrebbe essere chiaro che non è pensabile un accordo di pace con metà del popolo palestinese, a meno che non si creda - ma nessuno sembra auspicarlo davvero - che debbano sorgere due Stati in Palestina». Quello della riconciliazione, e quindi di un rapporto rinnovato tra Al-Fatah e Hamas, è un tema caldissimo a cui D’Alema non si sottrae: «Se cominciamo - insiste - con una divisione tra Gaza e la Cisgiordania, è evidente che non ci sarà nessuna pace e nessuno Stato palestinese. L’esistenza di fatto di due componenti politiche è un’assoluta ovvietà ed è assurdo che si imbastiscano polemiche su questo. Il punto vero è come superare questa situazione». Centrale resta il tema di come sostenere l’Autorità nazionale palestinese e, soprattutto, di come rendere meno drammatiche le condizioni di vita della popolazione di Gaza. Altro tema cruciale della missione del titolare della Farnesina. «L’Europa - ricorda D’Alema - sta continuando a fornire aiuti umanitari, e lo sta facendo sia attraverso la struttura delle Nazioni Unite sia con le organizzazioni umanitarie che hanno continuato ad operare nella Striscia, dalle quali c’è venuto anche in questi giorni un appello a non isolare Gaza. Questo sarà uno dei temi al centro dell’incontro che avrò con il primo ministro Fayyad, anche per capire come loro si pongono rispetto a questo problema». Da Ramallah a Gerusalemme. Dall’Anp al governo israeliano. «Con le autorità israeliane - rileva D’Alema - ci saranno in agenda diversi temi, come quello del Libano, Paese dove certamente non mancano elementi di preoccupazione. Ciò che tuttavia non è mai stato messo in discussione da parte israeliana è un sentimento di sincera gratitudine nei confronti dell’Italia, che ci è stato più volte manifestato, per il ruolo propulsivo che abbiamo assunto e continuiamo a svolgere in una missione che, senza dubbio, contribuisce anche alla sicurezza di Israele. Il che non significa disconoscere o sottovalutare i problemi che ancora esistono: ad esempio, l’effettività dell’embargo delle armi, la situazione umanamente drammatica dei due soldati israeliani tenuti ancora prigionieri. Credo che i miei incontri a Gerusalemme mi daranno l’occasione di fare il punto su una serie di importanti questioni, e non solo sul punto - che resta cruciale - dei rapporti israelo-palestinesi». Ma è innanzitutto su questo tasto che l’Italia intende battere con decisione. Lo dice chiaramente Massimo D’Alema. «Il nostro messaggio - afferma - è molto chiaro. Ed è un messaggio che è stato costante nel corso di questi mesi: se Israele vuole davvero sostenere i moderati palestinesi - una scelta giusta e politicamente saggia, che forse avrebbe potuto essere compiuta anche prima della fase attuale - il problema è offrire ad essi due elementi essenziali e politicamente qualificanti. In primo luogo, un miglioramento immediato delle condizioni di vita dei palestinesi. Molto si può fare in questo ambito, ad esempio in vista della piena applicazione degli accordi di libertà di movimento, o sulla questione della riduzione ed alleggerimento dei check-point». In secondo luogo, ed è questo un punto decisivo, Israele deve dare ai moderati palestinesi «una prospettiva politica, il che significa mettere nelle mani di Abu Mazen un possibile accordo di pace, una concreta prospettiva di Stato palestinese. È chiaro che queste sono condizioni che consentirebbero ai moderati di guidare da una posizione più solida un processo di rinconciliazione interna, e di avanzare in modo realistico nella direzione della pace e dell’intesa con Israele». «Io credo - rimarca D’Alema - che occorra incoraggiare Israele a rendere concreta questa opzione politica. Se da parte israeliana vi è la determinazione a dare forza ai moderati palestinesi allo scopo di isolare e sconfiggere le posizioni integraliste e terroristiche, allora oggi per far vincere Abu Mazen è necessario dargli davvero le carte per potersi presentare ai palestinesi come l’uomo della pace, come colui che è in grado di ottenere un miglioramento delle loro condizioni di vita». L’ultima tappa dell’intenso tour diplomatico è l’Egitto, dove D’Alema avrà anche l’occasione di un confronto a tutto campo con i ministri degli Esteri della Lega Araba. «Il cuore dei colloqui - annota il ministro degli Esteri - riguarderà la questione israelo-palestinese. Io ritengo che la Lega Araba possa davvero svolgere un ruolo fondamentale in questo momento. L’iniziativa di pace approvata al vertice arabo di Beirut nel 2002, rilanciata recentemente dai sauditi al vertice di Riad del marzo di quest’anno, rappresenta un punto di riferimento essenziale del processo di pace. Da questo punto di vista, penso che la Lega Araba potrebbe lanciare ad Israele ulteriori segnali di distensione e di apertura. Se per esempio la Lega Araba decidesse di avviare un proprio rapporto con Israele, di aprire un ufficio di collegamento.... Ma soprattutto l’iniziativa araba è importante proprio perché può dare ad Israele il senso che la pace con i palestinesi davvero coincide pienamente con una normalizzazione dei suoi rapporti con l’insieme dei suoi vicini, e quindi con una condizione di sicurezza basata sulla coesistenza pacifica, sul mutuo riconoscimento, e non soltanto sulla deterrenza. Su questo versante, non vanno sottavalutati impegni, posizioni, sollecitazioni che sono avvenuti nel corso di queste settimane e mesi». Gli incontri del Cairo serviranno anche a fare il punto sul Libano. «Anche in Libano - osserva D’Alema - la Lega Araba ha tentato una mediazione. In Libano si terranno a breve le votazioni per eleggere il Capo dello Stato. Si tratta di un passaggio cruciale, che richiederà un forte impegno di tutti per uscire da una lunga impasse politica e istituzionale». Altro dossier «incandescente» è quello iracheno. «Anche in Iraq - sottolinea D’Alema - il tema è quello di un processo di riconciliazione nazionale che sia effettivamente in grado di arginare la deriva di una guerra civile e religiosa, che è la minaccia più spaventosa per il futuro dell’Iraq, e su cui si innesta cinicamente il terrorismo». Un’estate fa, il Medio Oriente era segnato da morte e distruzione, e da una nuova guerra: quella fra Israele e Hezbollah. Un anno dopo, il viaggio del vice premier è anche un’occasione per fare il punto con l’Unità su ciò che è cambiato in quella tormentata, e nevralgica, area del mondo. «Naturalmente - rileva D’Alema - permangono ancora tantissimi elementi di incertezza e, se guardiamo all’Iraq, di drammatica violenza. Tuttavia quest’anno è trascorso in modo positivo. Alcuni fattori politici nuovi stanno agendo: c’è una maggiore presenza della Comunità internazionale in quanto tale, dell’Unione Europea, delle Nazioni Unite. Anche l’iniziativa araba è un dato positivo, ed ha rappresentato una novità importante. Ma soprattutto credo che si sia venuta definendo l’agenda vera che la Comunità internazionale deve perseguire in Medio Oriente». Un ribaltamento delle priorità su cui D’Alema insiste da tempo. «Al primo punto dell’agenda - annota il vice premier - c’è la pace israelo-palestinese. Il merito delle vicende di questo ultimo anno è di aver riportato il tema israelo-palestinese al posto d’onore dell’agenda mediorientale, facendo cadere l’illusione che questa questione potesse essere affrontata in un quadro politico diverso e più ampio, sulla base cioè delle suggestioni del "Grande Medio Oriente" o su improbabili processi di democratizzazione "indotti"; suggestioni e politiche che non avevano molto fondamento e che non hanno dato molti frutti». Pubblicato il: 02.09.07 Modificato il: 02.09.07 alle ore 13.00 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Inserito da: Admin - Settembre 08, 2007, 07:59:58 pm Barghouti: Haniyeh lasci Abu Mazen cacci i corrotti
Umberto De Giovannangeli Condanna senza mezzi termini il colpo militare di Hamas. Lancia l'allarme: ciò che è avvenuto a Gaza potrebbe ripetersi in Cisgiordania. Avverte Abu Mazen: fai piazza pulita e presto di corrotti e falliti, solo un radicale rinnovamento di classe dirigente può evitare il tracollo finale di al-Fatah. Dal carcere di massima sicurezza israeliano di Hadarem, cella 28 - dove è detenuto dal 15 aprile 2002 e sta scontando la condanna a cinque ergastoli - parla Marwan Barghouti, l'uomo simbolo dell'Intifada, segretario generale di al-Fatah in Cisgiordania, colui che in molti, nei Territori ma anche in Israele, considerano l'unico leader in grado di contrastare Hamas e di far accettare un accordo di pace con Israele. Grazie ai suoi avvocati che hanno fatto da indispensabili interlocutori, Marwan Barghouti risponde ad alcune domande di strettissima, scottante attualità. Come giudica ciò che è avvenuto nella Striscia di Gaza? «Si tratta di un fatto gravissimo. Considero il golpe militare attuato da Hamas un attentato all'unità della patria e alla causa palestinese, una ingiustificabile deviazione della scelta della resistenza, un deliberato sabotaggio al principio della condivisione nazionale. Considero inoltre questo golpe una minaccia all'esperienza democratica e alla stessa scelta democratica, che io avevo apprezzato e sostenuto, che ha portato Hamas al potere. Lo ripeto: Hamas ha inflitto una pugnalata alle spalle all'Autorità nazionale palestinese. Agendo in questo modo Hamas ha inteso creare una dittatura politica, culturale e intellettuale, rendendo carta straccia gli Accordi della Mecca che erano stati alla base della formazione, da me sostenuta, di un governo di unità nazionale». C'è il rischio che il colpo di mano militare attuato da Hamas a Gaza possa estendersi anche alla Cisgiordania? «Questo rischio è reale. Hamas può approfittare della debolezza delle forze di sicurezza fedeli al presidente Abbas (Abu Mazen, ndr.) per tentare una nuova prova di forza. Per contrastare questo pericolo, il presidente Abbas deve destituire i comandi degli apparati di sicurezza e nominare nuovi comandanti capaci di riformare e sviluppare le istituzioni della sicurezza palestinese, in tutte le sue articolazioni, in moda da renderle capaci di svolgere le proprie missioni: difesa della patria, dei cittadini, del progetto nazionale e delle istituzioni dell'Autorità, fronteggiare l'aggressione dell'occupante, il mantenimento della sicurezza pubblica, l'attuazione della legge, porre fine ai disordini e alle manifestazioni armate». Sul piano politico, cosa chiede ad Abu Mazen anche nella sua veste di leader di al-Fatah? «Senza un radicale rinnovamento della sua classe dirigente, Fatah è destinato ad un nuovo, irrecuperabile tracollo. Se ciò avvenisse sarebbe un colpo mortale per la stessa causa palestinese. Il rinnovamento non può attendere un giorno in più: abbiamo già pagato un prezzo altissimo all'immobilismo e alla conservazione. Chiedo che sia nominato un comitato d'emergenza per la direzioni di Fatah, formato da dirigenti combattivi, riconosciuti e apprezzati dalla nostra gente, radicati nel territorio, capaci di far rinascere il movimento, ricostituendo le sue istituzioni, processare gli incapaci, i corrotti, i falliti; un comitato di emergenza che sia capace di indire in tempi rapidi il Sesto congresso generale di Fatah, difendere il progetto nazionale, l'unità della patria e del popolo palestinese, e continuare la nostra lotta nazionale per realizzare gli obiettivi del nostro popolo: il ritorno alla libertà e l'indipendenza nazionale. Solo dopo aver praticato il rinnovamento sarà possibile affrontare nuove elezioni». Cosa si sente di chiedere al leader di Hamas Ismail Haniyeh che in questi giorni ha rilanciato la proposta di un dialogo nazionale? «Ad Haniyeh chiedo oggi una sola cosa: di accettare la decisione del presidente Abbas di destituirlo assieme al governo secondo una procedura legale, in rispetto alla Costituzione e alla legge fondamentale, e di collaborare con il nuovo governo guidato da Salam Fayyad per salvare ciò che è rimasto della legittimità palestinese e salvare così l'unità della patria, del popolo e della causa. Ripristinare la legalità a Gaza: è il passaggio obbligato che Hamas deve compiere per poter tornare a parlare di dialogo nazionale». Molti vedono in Lei il successore di Abu Mazen. Come vede il suo futuro e quale sogno coltiva, visto che oggi è chiuso in un carcere condannato all'ergastolo? «Sarò libero assieme agli altri diecimila palestinesi. Gli israeliani non possono tenerci in carcere tutti e diecimila. Ciò non avverrà domani, ma ritroveremo la nostra libertà. Penso che gli israeliani alla fine capiranno che l'unica strada percorribile è quella intrapresa in Sudafrica, in Irlanda. Il mio sogno? È quello di vivere da uomo libero in uno Stato democratico palestinese». Ufficialmente Israele la considera un terrorista. Lei come si definirebbe? «Ho sempre pensato e agito come un combattente per la libertà». Così parlò il «comandante dell'Intifada». Per quanto ci riguarda, non possiamo che condividere la considerazione di uno dei più autorevoli conoscitori della realtà palestinese e mediorientale. Dominique Moisi, vicedirettore dell'Istituto francese di relazioni internazionali: «Ci si deve chiedere seriamente se esistano alternative a Marwan Barghouti se si vuole creare un Olp forte e che possa resistere a Hamas o a movimenti più estremisti ancora. Un Olp debole non è buona cosa né per gli israeliani né per la Comunità internazionale». In questi giorni si discute molto di accordi di pace. Qual è in merito la sua convinzione? «Ero e resto fermamente convinto che ogni accordo che non sancisca la fine dell'occupazione israeliana, la nascita di uno Stato palestinese libero e democratico con Gerusalemme capitale e il ritorno dei rifugiati non potrà resistere né oggi né mai». (ha collaborato Osama Hamdan) Pubblicato il: 08.09.07 Modificato il: 08.09.07 alle ore 12.44 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Inserito da: Admin - Settembre 09, 2007, 07:30:04 pm Osama, il nuovo vocabolario dello sceicco del terrore
Umberto De Giovannangeli Il nuovo non è nella barba «annerita». Il «nuovo di Osama» è nell'aggiornamento del vocabolario politico jihadista. Sta nella miscela tra vecchi cavalli di battaglia - l'Iraq trincea avanzata della resistenza ai Crociati del Grande Satana americano - e l'acquisizione di tematiche e riferimenti che proiettano il «miliardario del terrore» in un orizzonte davvero globalizzato. Nel nuovo vocabolario di Osama entrano le grandi multinazionali Usa - affamatrici del pianeta -; il fallimento - materiale e morale - del capitalismo; l'effetto serra; la povertà in Africa. Il «nuovo Osama» abbraccia e loda anche intellettuali e politici che un tempo avrebbe liquidato come «miscredenti» : dal politologo radical americano Noam Chomsky al vulcanico presidente venezuelano Hugo Chavez. L'Islam è la risposta, ribadisce Bin Laden. La risposta anche alle miserie del quotidiano che angosciano milioni di contribuenti, oberati «dal peso dei vostri debiti, legati ai tassi d'interesse, dalle tasse assurde e dai mutui immobiliari». «Le parole e i sentimenti sono più quelli di un giovane ribelle dell'Occidente che non del capo di Al Qaeda», osserva M.J. Gohel, analista dell'Asia-Pacific di Londra, sospettando che dietro vi sia la mano del nuovo responsabile della comunicazione della rete del terrore, l'islamico-californiano Adam Gadham. Nell'Islam c' anche una risposta al «taglieggiamento» delle grandi centrali finanziarie e degli erari che mettono pesantemente le mani nel portafoglio dei contribuenti. C'è una risposta perché - e qui il miliardario jihafista si fa ragioniere - «nell'Islam non ci sono tasse, ma c'è una limitata zakat pari al 2,5%» (la zakat è uno dei pilastri dell'Islam, ed è il versamento di una somma di beneficenza). Osama si fa anche critico letterario e cinematografico, denunciando «gli scrittori e i media che rappresentano in modo distorto l'Islam e i suoi aderenti per allontanarvi dalla vera religione». Effetto serra. Mutui. Tasse. Hollywood. Passando per una stoccata al neopresidente francese Nicolas Sarkozy. Il «vocabolario» politico di Osama si fa dunque più articolato e per questo ancor più insidioso, perché capaci di aprire nuovi spazi di proselitismo per un Jihad globalizzato targato Al Qaeda. Contenuti e look. Osama rinuncia a tuta mimetica e kalashnikov a favore della «dishdash», una lunga tunica bianca comune nel Golfo Persico, su cui era appoggiato un mantello beige, in testa il suo classico turbante bianco. «Vuole dire "non sono il vecchio Osama Bin Laden, sono il leader spirituale di Al Qaeda», riflette Abdel Bari Atwan, direttore del quotidiano internazionale in lingua araba Al Quds al-Arabi. Non solo l'esaltazione degli «shahid». Non solo l'affermazione che a sei anni di distanza dall'attacco al cuore dell'America, il network qaidista è ancora in piedi, sempre più ramificato e pronto a colpire. Il «nuovo Osama» s'insinua nelle contraddizioni e nella ricerca di senso dell'Occidente e mette a nudo l'ambiguità di quei «leader che parlano di libertà e diritti umani e allo stesso tempo lasciano la gente in balìa dell'avidità e del'avarizia delle grandi compagnie e dei loro rappresentanti». Parla dell'Inquisizione, dei lager nazisti per gli ebrei, del massacro degli Indiani d'America e Hiroshima. Non è la barba ringiovanita. E neanche il look meno aggressivo. Il pericolo aggiunto del «nuovo Osama» è nel proporsi come il Vendicatore, tra il jihadista e il «no global» dell'umanità vessata dall'America. Da Atta alla zakat. Il nuovo «alfabeto di Osama» all'assalto del corrotto Occidente. Atta. Sei anni dopo, il capo del commando che colpi nel cuore dell'America viene esaltato come il modello da emulare. Resta lui, Mohammed dagli occhi di ghiaccio, lo «shahid» da emulare, uno dei «19 giovani che, per volere di Allah, hanno cambiato la direzione della bussola» della iperpotenza americana. Bush. Trenta minuti per sfidare il Nemico numero uno. Trenta minuti di sermone per dimostrare la bancarotta del presidente che sei anni fa aveva promesso ad un popolo sgomento e terrorizzato la testa del Terrorista numero uno. Il messaggio è chiaro: io, Osama bin Laden sono ancora in campo. Sono vivo: e già questo è la dimostrazione del fallimento della politica anti-terrorismo dell'inquilino, in uscita, della Casa Bianca. Chomsky. Il «nuovo Osama» parla come un esperto analista americano. Si scaglia contro i neocon, bacchetta i leader Democratici, ed esalta il grande linguista Usa da sempre punto di riferimento del pensiero liberal americano, fortemente critico verso la «disastrosa» politica muscolare portata avanti dall'amministrazione Bush in Medio Oriente. Ghavza. Il «vocabolario» di Osama si nutre anche di una dimensione epica, che sollecita l'immaginario collettivo dei potenziali mujahiddin. È il caso dei ghazva, i cavalieri sacri che seminavano terrore tra i nemici «grassi e corrotti». Nell'immaginario jihadista, gli uomini-bomba dell'oggi altro non sono che gli eredi dei cavalieri islamici. Iraq. Resta la trincea avanzata del Jihad globalizzato, il grande campo di addestramento delle nuove reclute qiadiste. L'Iraq, come per altro l'Afghanistan, doveva essere la tomba di Al Qaeda. Sei anni dopo l'11 settembre, Osama si mostra come un leader che, al pari di George Dabliu, muove le sue pedine nell'insanguinato pantano iracheno. Jihad. È il credo del miliardario del terrore. È il collante che unisce i mille tentacoli del network Al Qaeda: da Algeri a Baghdad, dall'Indonesia alle cellule emerse di recente in Gran Bretagna, Danimarca, Germania. Jihad: è la pratica terrorista ma anche la cifra di vita che percorre ogni passaggio della storia di Al Qaeda. Nel nuovo «vocabolario» di bin Laden, il jihad espande i suoi confini ideologici, si alimenta di nuove suggestioni terzomondiste e «no global». Il messaggio è chiaro: l'Islam radicale può divenire il rifugio identitario e lo strumento di riscatto di tutti i «Dannati della Terra». Madrassa. Le scuole coraniche rappresentano uno dei fondamentali centri di reclutamento dei mujiahiddin qaidisti. L'indottrinamento è per il "profeta" bin Laden non meno importante dell'addestramento militare. Ed è proprio nelle madrasse più radicali del Pakistan che Al Qaeda ha ancora oggi un inesauribile serbatoio di reclutamento. Moschea. È l'altro luogo cardine del reclutamento qiadista. Non solo nel mondo arabo e musulmano ma anche nell'Europa multietnica. È il caso della Gran Bretagna: «I jihadisti imperversano nelle moschee britanniche»: a lanciare il grido d'allarame è stato il Times di Londra in una inchiesta condotta all'interno dei luoghi di culto religiosi del Regno Unito. Delle 1.350 moschee, quasi la metà sarebbe in mano a una setta fondamentalista, quella dei Deobandi, dilagante in particolare in Pakistan. Palestina. Resta una delle fonti principali della propaganda jihadista di Osama e del numero due di Al Qaeda, la mente operativa del network terrorista: Ayman al Zawahiri. La Palestina come ferita aperta nel mondo arabo e musulmano, emblema della «odiosa» politica dei due pesi e due misure praticata dall'America nel Medio Oriente. Ma la Palestina è divenuta, assieme al Libano, anche un luogo di penetrazione dei gruppi jihadisti affiliati ad Al Qaeda. Nei Territori, rileva un recente rapporto dell'intelligence militare israeliana, sarebbero presenti almeno sessanta cellule che hanno come referente il network di bin Laden. Sarkozy. Nel «vocabolario» politico di Osama il presidente francese diviene l'emblema della perdurante ambiguità europea: a lui come al nuovo primo ministro britannico Gordon Brown, Osama lancia un avvertimento: sganciatevi dal Satana americano. Umma. È la comunità sovranazionale propugnata dall'Islam radicale come superamento-distruzione degli Stati nazionali. È l'«Internazionale» in versione bin Laden. Da sempre il capo di Al Qaeda è stato un oppositore accanito del nazionalismo arabo socialistizzante. I suoi testi sono colmi di condanne senza appello delle vocazioni nazionaliste che rompono la compattezza e l'omogeneità della umma. Zakat. Altro che il Cavaliere nostrano. È il capo di Al Qaeda a porsi alla guida della moltitudine di contribuenti vessati nell'opulento Occidente. Nell'Islam che si fa «umma», proclama Osama, «non ci sono tasse, ma c'è una limitata zakat pari a solo il 2,5% . La religione si sposa con la terrena convenienza. Il «nuovo Osama» non garantisce solo il Paradiso di Allah, ma anche meno tasse e mutui agevolati. Pubblicato il: 09.09.07 Modificato il: 09.09.07 alle ore 15.10 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Inserito da: Admin - Settembre 24, 2007, 11:11:32 pm Qadura Fares: «Se fallisce il summit Fatah aprirà ad Hamas»
Umberto De Giovannangeli È il leader della «nuova guardia» di Al-Fatah. Ex ministro dell´Autorità palestinese, membro dei comitato centrale di Al-Fatah, esponente dei giovani all´interno della dirigenza dell´Anp, Qadura Fares è anche il più stretto collaboratore dell´uomo simbolo della seconda Intifada: Marwan Barghuti. Basta e avanza per prestare grande attenzione alle sue considerazioni e al messaggio che l´astro nascente di Fatah lancia alla comunità internazionale alla vigilia dell´atteso incontro a New York tra George W.Bush e il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen). Al centro dell´incontro c´è la Conferenza di pace convocata dagli Stati Uniti per metà novembre.«Il fallimento della Conferenza - avverte Fares - potrebbe giustificare un cambiamento della nostra posizione attuale», il che significa che da quel momento in poi Fatah e Hamas potrebbero tornare a collaborare. È la prima volta dopo il colpo di mano militare di Hamas a Gaza del giugno scorso, che un esponente di primo piano di Al Fatah evoca questa possibilità. Oggi a New York il presidente Bush cercherà di vincere le ultime perplessità di Abu Mazen sulla Conferenza di metà novembre. Qual è in proposito la sua posizione? «Questa Conferenza non può ridursi ad un evento mediatico privo di contenuti e di prospettive. Se così fosse una tale Conferenza non sarebbe solo inutile ma controproducente. Occorre che tutti abbiano consapevolezza delle conseguenze di un fallimento». Vale a dire? «In discussione non rientrerebbe solo il dialogo con Israele ma anche i rapporti all´interno del campo palestinese. Tutto dipende dagli esiti della Conferenza di novembre, perché se l´accordo non ci sarà allora il dialogo con Hamas sarebbe utile che riprendesse. Mentre è chiaro che se in quella occasione riusciremo a fare sostanziali passi in avanti verso la creazione di uno Stato palestinese, allora toccherà ad Hamas riconsiderare il suo atteggiamento». Abu Mazen discuterà con Bush anche degli inviti alla Conferenza. «Questa questione è stata anche affrontata da Abu Mazen nel suo recente incontro a Ramallah con Condoleezza Rice. La segretaria di Stato Usa sembra aver accolto la richiesta palestinese di un ampio coinvolgimento di Paesi arabi nella Conferenza. L´incontro di domani (oggi, ndr.) a New York dovrebbe sancire questa apertura». Apertura verso chi? «Ciò che chiedevamo è che la Conferenza vedesse presenti oltre a Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Qatar, anche Siria e Libano. Questa richiesta sembra che sia stata accolta dagli Usa». Questo per ciò che concerne la partecipazione. E sui contenuti? «La Conferenza deve sostanziare l´affermazione di principio di una pace fondata su due Stati. Ciò significa entrare nel merito di questioni dirimenti come i confini, lo status di Gerusalemme, i rifugiati, il controllo delle risorse idriche. Non basta più parlare di due Stati, occorre chiarire cosa dovrebbe essere lo Stato di Palestina». Lei è uno dei leader della nuova guardia di Al-Fatah. Per riconquistare il consenso perduto basta un buon esito della Conferenza di pace? «Questa è una delle due condizioni fondamentali, perché non vi è dubbio che Hamas ha capitalizzato la delusione popolare nei confronti del fallimento di quella strategia negoziale fondata sugli Accordi di Oslo. L´altra condizione riguarda direttamente Fatah: se vogliamo risorgere dalle macerie di Gaza, dobbiamo rifondare radicalmente il partito, fare piazza pulita di corrotti e imbelli. Solo così potremo contrastare Hamas». Per rafforzare le prospettive del dialogo quale atto dovrebbe a suo avviso compiere Israele? «La cancellazione delle nuove sanzioni imposte alla Striscia di Gaza. Quelle sanzioni rappresentano una odiosa punizione collettiva inflitta da Israele a 1,4 milioni di palestinesi. Di fronte a queste sanzioni la parola dialogo rischia di perdere ogni significato». Pubblicato il: 24.09.07 Modificato il: 24.09.07 alle ore 14.59 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2007, 05:40:23 pm Il Muro israeliano fa scuola. Gli Usa lo vogliono copiare
Umberto De Giovannangeli Sono venuti a studiare quel Muro per rafforzare quello di «casa propria». Ne hanno prese le misure, si sono informati sui sofisticati sistemi di difesa, hanno preso contatto con le aziende che hanno fornito il materiale per la sua realizzazione. Un Muro copia l’altro. E insieme creano l’illusione che un mondo globalizzato possa arginare rabbia, malessere, frustrazione, ma anche diritti e ansie di libertà, erigendo a più non posso barriere di separazione. La notizia: qualche giorno fa, una delegazione di funzionari americani si è recata in Israele per acquisire elementi di conoscenza sullo stato di realizzazione del «Muro» realizzato dallo Stato ebraico in Cisgiordania. La ragione di questa visita è tutt’altro che accademica. Perché gli esperti israeliani potevano, come hanno fatto, fornire consigli utili a rafforzare l’altro «Muro» che gli Stati Uniti hanno realizzato, e che intendono estendere e rafforzare, ai confini con il Messico. Estendere non solo in lunghezza ma anche in altezza. Sì perché la barriera di separazione fra Usa e Messico - altrimenti detta Muro di Tijuana - è al momento una barriera fatta di lamiera metallica sagomata, alta dai due ai quattro metri, e si snoda per chilometri lungo la frontiera tra Tijuana e San Diego. Il muro è dotato di illuminazione ad altissima intensità, di una rete di sensori elettronici e di strumentazione per la visione notturna, connessi via radio alla polizia di frontiera statunitense, oltre ad un sistema di vigilanza permanente, effettuato con veicoli ed elicotteri armati. Potrebbe bastare? Niente affatto. Perché quel Muro non solo non va abbattuto ma va «migliorato». Come? Studiando quello realizzato da Israele in Cisgiordania. E poco o nulla importa che all’ombra di quei Muri si dipani l’esistenza di una umanità di «senza volto» ma non per questo inesistente. Melilla. La Cisgiordania. Cipro. E ancora il Sahrawi. E, per l’appunto, la frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. Sono i Muri nell’epoca della globalizzazione. La delegazione americana non ha dubbi. È in Israele per apprendere come rafforzare una costruzione che non è solo fisica ma anche mentale: edificata sulla sconfitta della politica e sulla convinzione che un Muro possa contenere la rabbia, il dolore, il desiderio di rivalsa di intere popolazioni. E allora che si studi il «Muro» mediorientale. Quello che a Gerusalemme consiste in prevalenza in una barriera di cemento armato alta 8 metri, il doppio del muro di Berlino, quasi il quadruplo del «Muro di Tijuana». Sono venuti a studiare un Muro che, una volta completato dal nord della Cisgiordania a Gerusalemme, farà sì che Israele si sarà annesso il 7% della West Bank, tra cui 41 colonie ebraiche. Laddove attraversa aree urbane - il 10% del percorso, ma con la più alta densità demografica - il «Muro» è composto da blocchi di cemento armato alti fino ai 9 metri. Nelle aree rurali, invece il «Muro» assume la forma di barriera larga dai 50 agli 80 metri e composta da vari elementi: filo spinato, trincea, rete metallica, sensori di movimento, pista di pattugliamento, e striscia di sabbia per il rilevamento di impronte. Ciò che sembra aver destato particolare interesse ai tecnici americani è la realizzazione del «Muro» israeliano nelle aree urbane. Perchè anche la «loro» barriera è situata nelle sezioni urbane del confine, le aree che, in passato, hanno visto il maggior numero di attraversamenti clandestini. Queste aree comprendono San Diego, in California ed El Paso, in Texas. Il risultato immediato della costruzione della barriera è stato un numero crescente di persone che hanno cercato di varcare illegalmente il confine, attraverso il Deserto di Sonora, o valicando il Monte Baboquivari, in Arizona. Questi migranti hanno dovuto percorrere circa 80 km di territorio inospitale prima di raggiungere la strada, nella riserva indiana Tohono O’oadham. Ma molti non ce l’hanno fatta: dal 1998 ad oggi, secondo i dati ufficiali, lungo il confine fra Stati Uniti e Messico, le persone morte hanno superato le quattromila. Mentre gli arrestati dalla Polizia di confine statunitense mentre cercavano di attraversare illegalmente il confine - dal 1 ottobre 2003 ad oggi - superano abbondantemente i tre milioni. Cifre impressionanti. Come impressionanti sono le conseguenze determinate dalla costruzione del Muro in Cisgiordania: una barriera che spezza villaggi. Divide famiglie. Distrugge terreni agricoli. E crea enclavi (aree in cui la gente sarà totalmente circondata dal muro) entro le quali vivono già oltre 150mila palestinesi. Hanno preso appunti, i tecnici statunitensi. E hanno preso visione di quelle pareti di cemento armato alte 9 metri, delle torri di controllo ogni 300 metri, delle trincee profonde due metri, delle recinzioni di filo spinato e delle strade di aggiramento. Sono andati a scuola di Muri. Per apprendere una lezione. Una brutta lezione. Pubblicato il: 02.10.07 Modificato il: 02.10.07 alle ore 8.17 © l'Unità. Titolo: De Giovannangeli - Palestina, la pace offerta da Abu Mazen Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2007, 11:21:14 pm Palestina, la pace offerta da Abu Mazen
Umberto De Giovannangeli La pace di Abu Mazen I punti qualificanti di un Accordo di principio per il quale «Mahmoud il moderato» è pronto a sfidare Hamas e il fronte del rifiuto arabo. Nel giorno in cui il presidente palestinese e il premier israeliano Ehud Olmert sono tornati a incontrarsi a Gerusalemme, l’Unità ha potuto prendere visione del piano che Abu Mazen ha messo a punto e che - è la posizione palestinese - dovrebbe essere acquisito, come solida base di discussione, in vista dell’incontro internazionale in programma ad Annapolis (Maryland) a fine novembre. «La Conferenza internazionale rappresenta l’ultima chance per rilanciare il processo di pace», ha ribadito il leader dell’Anp nell’incontro - due ore la sua durata - con Olmert. Il premier israeliano e il presidente palestinese aspirano ad avviare negoziati sull’assetto definitivo del conflitto dopo la Conferenza di novembre, affermano fonti israeliane. La novità, da parte palestinese, è la definizione, nero su bianco, dei punti fondamentali della «pace di Abu Mazen». Insediamenti Israele dovrà sancire un immediato congelamento nella costruzione di nuovi insediamenti e nell’ampliamento di quelli esistenti. Nel contempo, dovrà avviare lo smantellamento degli avamposti come di altre colonie che s’incuneano in profondità nella Cisgiordania. Israele s’impegnerebbe a lasciare intatte le strutture esistenti in tutte le colonie dalle quali accetterà di ritirarsi. Passerebbero così sotto il controllo della Palestina alloggi, strade, impianti pubblici. Questi beni verranno immobiliari verranno stimati e il loro valore detratto dal contributo di Israele al fondo di risarcimento per i rifugiati. Confini È uno dei nodi strategici cruciali per realizzare il principio di due popoli, due Stati. Nel piano elaborato dagli uomini a cui Abu Mazen ha affidato questo delicatissimo incarico, (l’ex premier Ahmed Qrei (Abu Ala), il capo negoziatore Saeb Erekat e l’ex ministro e membro del Comitato esecutivo dell’Olp Yasser Abed Rabbo), l’Accordo di principio dovrebbe sancire che le linee di confine fra i due Stati sono quelle del 1967 precedenti la Guerra dei Sei Giorni. La novità sostanziale è nella quantificazione di possibili modifiche e di uno scambio di territori che tenga conto - tasto su cui Israele insiste con forza - delle modifiche intervenute sul campo in questi trent’anni. Nel piano-Abu Mazen, si configura la possibilità di uno scambio di territori limitato al 2-3% della West Bank in modo tale da garantire comunque la contiguità territoriale dello Stato di Palestina e impedire la creazione di una serie di cantoni circondati da insediamenti. «La contiguità territoriale - dice a l’Unità Yasser Abed Rabbo - è una delle caratteristiche che differenziano uno Stato da un sistema di bantustan». Inoltre, il territorio da scambiare deve essere uguale nella «quantità e nella qualità». Questo capitolo prevede una possibile variante: invece di riferirsi ai confini, l’Accordo di principi farebbe riferimento alle «compattezza» del territorio della West Bank che farebbe parte dello Stato di Palestina (circa 6.500 chilometri quadrati). Palestina smilitarizzata La Palestina verrebbe dichiarata Stato non militarizzato. La legittima difesa dei palestinesi è assicurata dal forte corpo di sicurezza previsto, ma anche e soprattutto dalla presenza programmata di una forza internazionale e di un Comitato di sicurezza trilaterale (Israele-Palestina- Onu). Passaggio sicuro: la continuità territoriale tra la Cisgiordania e Gaza è assicurata da un corridoio posto sotto la sovranità israeliana - in quanto si trova effettivamente sul territorio riconosciuto come israeliano - ma soggetto all’amministrazione palestinese. Gerusalemme Altro nodo cruciale. Nel piano-Abu Mazen, viene ribadito il concetto di una sovranità condivisa su Gerusalemme. Lo Stato di Palestina eserciterebbe la propria sovranità su Gerusalemme Est e dunque anche sulla Città vecchia, compresa la Spianata delle Moschee/Muro del Tempio, ad eccezione del Muro del Pianto e del quartiere ebraico, che sarebbero soggetti alla sovranità israeliana. L’amministrazione della città sarebbe gestita da due enti distinti, uno palestinese e l’altro israeliano, più un Consiglio congiunto. Rifugiati È il punto su cui la dirigenza palestinese mostra la maggiore apertura alle preoccupazioni israeliane. Nel piano predisposto dallo staff di Abu Mazen, Israele dovrebbe riconoscere la sua responsabilità nella sofferenza dei profughi e impegnarsi ad un loro risarcimento. Il diritto al ritorno (sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite) verrebbe così acquisito ma non avrebbe un’attuazione meccanica tale da stravolgere il carattere ebraico (anche nella sua composizione demografica) dello Stato d’Israele. Il risarcimento economico può interagire con la volontà dei rifugiati di far rientro nello Stato di Palestina. Confederazione Dopo l’applicazione di tutti i punti concordati, si «determinerebbero le condizioni» per rendere fattibile la prospettiva di una confederazione giordano-palestinese fra Stati sovrani. Pubblicato il: 04.10.07 Modificato il: 04.10.07 alle ore 9.22 © l'Unità. Titolo: De Giovannangeli - Abu Ala: I nostri punti irrinunciabili per un sì alla... Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2007, 10:33:04 pm Abu Ala: «I nostri punti irrinunciabili per un sì alla Conferenza»
Umberto De Giovannangeli Nel momento della verità Abu Mazen si è affidato a colui che aveva realizzato il «miracolo di Oslo». Ex primo ministro, già presidente del Consiglio legislativo palestinese (il Parlamento dei Territori), figura storica della dirigenza palestinese, Ahmed Qrei (Abu Ala) è il capo del team negoziale dell´Anp chiamato a definire la «Dichiarazione di principi» israelo-palestinese che dovrebbe aprire la Conferenza sul Medio Oriente fortemente voluta da Bush che dovrebbe svolgersi a fine novembre a Annapolis, in Maryland. Ma il condizionale è d´obbligo. E in questa intervista a l´Unità Abu Ala ne spiega le ragioni: «Se nelle prossime tre-quattro settimane non giungeremo a mettere a punto una dichiarazione congiunta con gli israeliani, la nostra partecipazione alla Conferenza verrebbe rimessa in discussione», avverte l´ex premier palestinese. «Quello che per noi è importante -sottolinea Abu Ala- è il contenuto e la sostanza del documento, ma se esso rimarrà vago, allora non avrà alcun valore». Il dialogo fra l´Anp e Israele è entrato in una fase cruciale. Il nodo del contendere in vista della Conferenza sul Medio Oriente a novembre negli Usa sembra la Dichiarazione congiunta israelo-palestinese. Oggi le delegazioni palestinese e israeliana si vedono per iniziare la stesura della Dichiarazione. Come stanno le cose? «Stanno che per quanto ci riguarda la dichiarazione congiunta non può risolversi in una generica esternazione di principi. Se così fosse, la Conferenza perderebbe di valore e si ridurrebbe ad una "photo opportunity" del tutto priva di contenuto. A nostro avviso la Dichiarazione deve indicare chiaramente le cose su cui le due parti sono d´accordo e su cui basare la fase successiva dei negoziati». Un problema di contenuti... «Di contenuti e tempi. L´esperienza dovrebbe avere insegnato a tutti noi che il fattore tempo è decisivo per dare senso ad un processo negoziale. Le trattative che dovrebbero avviarsi poi alla Conferenza non possono proseguire a tempo indeterminato: deve essere bene indicato un loro inizio e una loro conclusione». Per restare ai tempi. In che arco temporale è pensabile definire il raggiungimento di un accordo globale fra Israele e Anp? «Se c´è la volontà politica delle due parti e le trattative vengono svolte seriamente, ritengo che un accordo finale possa essere raggiunto in 5-6 mesi». Dai tempi ai contenuti. Quale dovrebbe essere a suo avviso la base di questa Dichiarazione? «Le basi non possono che essere le risoluzioni Onu, il piano di pace arabo, le indicazioni più volte ribadite da Bush su una pace fondata sul principio di due popoli, due Stati. Va da sé che ogni discussione dovrà includere Gaza e Gerusalemme». Diverse sono le questioni sul tappeto. Tra queste, la definizione dei confini. Qual è il punto di vista della delegazione palestinese? «Il quadro di riferimento è rappresentato dai confini del 1967, quelli antecedenti alla Guerra dei Sei giorni». Ma la dirigenza israeliana ha ribadito che un accordo deve prendere atto di una realtà che sul campo si è molto modificata nel corso di questi trent´anni. «Si è modificata per atti unilaterali compiuti da Israele ma mai riconosciuti non solo dai palestinesi ma dalla Comunità internazionale. Una pace giusta non può essere la proiezione dell´unilateralismo israeliano. Detto ciò, siamo disposti a qualche piccola modifica (rispetto ai confini del 1967), che però non comprometta i nostri sulle risorse naturali (accesso alle riserve d´acqua, ndr.) e sulla contiguità geografica. Una volta sancito il principio dei due Stati, la trattativa deve concentrarsi sui caratteri propri di uno Stato indipendente da realizzare, quello di Palestina, accanto a uno già esistente, Israele. Lo stesso principio dovrà valere sugli altri punti chiave del negoziato, come lo status di Gerusalemme, il ritorno dei profughi». Lei è stato uno degli artefici degli accordi di Oslo. Oggi l´impresa è ancora più ardua? «Nonostante tutto, non sarei così pessimista. A differenza dei precedenti negoziati, sia noi che gli israeliani abbiamo ben chiari i termini del problema, grazie ai tanti colloqui avuti negli anni a Stoccolma, Camp David, Taba, Ginevra. La fotografia insomma è nitida, ora si tratta solo di trasformarla in un accordo». L´Italia insiste perché la Conferenza di novembre sia la più estesa possibile per ciò che concerne la partecipazione dei Paesi arabi. «È una posizione che condividiamo totalmente. L´Italia sta dando un contributo importante per il rilancio del dialogo in Medio Oriente e le idee del premier Prodi e del ministro degli Esteri D´Alema sui caratteri della Conferenza vanno acquisite. Un forte coinvolgimento dei Paesi arabi rafforza la prospettiva di una pace che possa davvero cambiare, in meglio, il volto dell´intero Medio Oriente». Pubblicato il: 08.10.07 Modificato il: 08.10.07 alle ore 9.37 © l'Unità. Titolo: De Giovannangeli - Haim Ramon: «Gerusalemme non è tabù» Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2007, 11:34:49 pm Haim Ramon: «Gerusalemme non è tabù»
Umberto De Giovannangeli «Sono d'accordo con quanto sostenuto da Ahmed Qrei (Abu Ala, l'ex premier palestinese, capo negoziatore dell'Anp, ndr.): né noi né i palestinesi possiamo permetterci un fallimento della Conferenza internazionale. È un’occasione irripetibile per dare un impulso decisivo al negoziato di pace». A sostenerlo è Haim Ramon, vice primo ministro d'Israele, esponente di punta di Kadima, il partito del premier Ehud Olmert. Ramon apre anche sulla questione cruciale di Gerusalemme: «Discutere su una sovranità condivisa di Gerusalemme - afferma Ramon - non è più un tabù». In una intervista a l'Unità, l’ex premier palestinese Ahmed Qrei ha affermato che la Conferenza internazionale di novembre è un occasione da non fallire. «Sono anch'io di questo avviso. L'incontro internazionale è un'occasione importante, forse irripetibile, per definire con i nostri partner palestinesi un orizzonte politico condiviso. Non possiamo fallire questa opportunità. L’alternativa, in caso di fallimento, è che dovremo fronteggiare e combatter Hamas, vera testa di ponte in Medio Oriente dell'Iran. Lavorare per un successo dell'incontro è il modo migliore per sostenere la leadership del presidente Abbas (Abu Mazen, ndr.); una priorità che è parte di una politica di contenimento di Hamas». Tra le questioni cruciali sul tappeto vi è quella dei confini. «Dobbiamo cercare, insieme ai nostri partner palestinesi, di conciliare questioni di principio con il principio di realtà. I palestinesi reclamano una contiguità territoriale del futuro Stato. Noi riteniamo che la realtà si sia profondamente modificata in questi trent'anni. E un accordo di pace per reggere non può chiudere gli occhi di fronte alla realtà…». Tradotto in concreto? «Discutiamo sui confini, fissiamo un principio fondamentale su cui imbastire la discussione: il principio di reciprocità. Nella definizione dei nuovi confini, i palestinesi dovranno tener conto delle esigenze, non solo di sicurezza, di Israele e noi dobbiamo aprirci ad adeguate contropartite territoriali. Si tratta, in definitiva, di prefigurare uno scambio di territorio. In questa ottica, ritengo che sia nell'interesse di Israele lasciare la maggior parte del territorio di Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr.) mantenendo soltanto gli insediamenti più grandi». Il principio di reciprocità presuppone la fine dell'unilateralismo da parte israeliana. «Tutta l'idea dell'unilateralismo è stata basata che sul fatto che non avevamo un partner, ma ora lo abbiamo. Non possiamo sapere quanto a lungo ci sarà un partner, dunque dobbiamo procedere con urgenza. Una ragione in più per non far fallire l'incontro internazionale di novembre». Tra i nodi strategici da sciogliere c'è quello di Gerusalemme. «Discutere sul futuro di Gerusalemme non è più un tabù. Possiamo, dobbiamo farlo, senza posizioni precostituite. In questa chiave, ritengo che sia possibile ragionare su una sovranità palestinese sui quartieri arabi di Gerusalemme Est. Ma anche qui, occorre avere come punto di riferimento il principio di reciprocità…». Su Gerusalemme come dovrebbe coniugarsi questo principio? «Se raggiungessimo un accordo con i palestinesi, il mondo arabo e la Comunità internazionale in base al quale tutti i quartieri ebraici di Gerusalemme fossero riconosciuti come (parte) capitale di Israele e quelli arabi (parte) della capitale palestinese, sarebbe un cattivo affare? Io credo proprio di no. È interesse di Israele affrontare la questione di Gerusalemme nei negoziati». Dai confini a Gerusalemme. Quale è per Lei la logica che dovrebbe guidare Israele in questo passaggio cruciale nel dialogo con l'Anp di Abu Mazen? «Non si tratta di farci guidare da un astratto principio di giustizia né di restare prigionieri dell'illusione che si possa perpetuare l'attuale status quo. Giungere ad un compromesso con i palestinesi è condizione fondamentale per preservare lo Stato d'Israele in quanto ebraico e democratico». (ha collaborato Cesare Pavoncello) Pubblicato il: 09.10.07 Modificato il: 09.10.07 alle ore 14.24 © l'Unità. Titolo: De Giovannangeli - Haniyeh: «La conferenza Usa è una trappola» Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2007, 09:55:57 pm Haniyeh: «La conferenza Usa è una trappola»
Umberto De Giovannangeli «Al presidente Abbas diciamo: non avallare la Conferenza degli inganni, voluta da Bush per cercare di mascherare il suo fallimento in Medio Oriente. Quella Conferenza è una trappola nella quale i palestinesi non devono cadere». A parlare è Ismail Haniyeh, leader di Hamas, il premier dimissionato da Abu Mazen. In questa intervista a l'Unità, Haniyeh apre al dialogo con Fatah: «Non esiste altra strada che quella di un governo di unità nazionale. Siamo pronti da subito a sederci ad un tavolo con il presidente e Fatah, ma si deve sapere che quella attuata da Hamas a Gaza è stata una reazione ad un tentativo di golpe condotto da bande al servizio di gente che mirava solo a rafforzare il proprio potere»: il riferimento è all'ex uomo forte di Fatah a Gaza, Dahlan. Abu Mazen e il premier israeliano Olmert sono impegnati nella definizione di una Dichiarazione congiunta in vista della Conferenza internazionale promossa dagli Usa. Qual è la sua posizione? «Quella architettata da Bush è una Conferenza degli inganni. È una trappola nella quale noi palestinesi non dobbiamo cadere. Si tratta di un tentativo americano di mascherare il fallimento della loro politica in Medio Oriente. Al presidente Abbas dico: non prestarti a questo inganno». Olmert si è impegnato a realizzare una pace fondata su due Stati. «È un inganno. Olmert parla di continuo di pace ma sono parole. I fatti raccontano un'altra storia: terre confiscate, villaggi spezzati dal Muro in Cisgiordania, una popolazione, quella di Gaza, sotto assedio da oltre un anno. È questa la pace di Israele? Olmert parla di Stato, Bush parla di Stato, intanto la Cisgiordania viene spezzata in mille frammenti e vogliono chiamarli "Stato"». Israele dice che Hamas ha come obiettivo non la costituzione di uno Stato palestinese ma la distruzione di quello ebraico. «Hamas ha vinto le elezioni, libere elezioni, su un programma chiaro, al quale non siamo venuti meno: batterci per uno Stato di Palestina sui territori occupati nel 1967, uno Stato con Gerusalemme capitale. È questo il nostro programma di governo». Ma se così è, perché Hamas ha realizzato il colpo di mano militare a Gaza? «Siamo pronti ad accettare una commissione d'inchiesta della Lega Araba che faccia luce su ciò che è realmente avvenuto a Gaza». E cosa sarebbe «realmente» avvenuto? «Un tentativo di ribaltare le indicazioni che erano venute dalle elezioni. Le chiedo: ma dove mai si è visto che un movimento che ottiene un successo elettorale produca poi un golpe? La realtà è che a Gaza c'era chi voleva realizzare una prova di forza armata per ribaltare l'esito delle elezioni». Con Fatah la parola è solo alle armi? «No, non deve esserlo. Non esiste alternativa ad un governo di riconciliazione nazionale, e di questo ne è consapevole anche l'Egitto che si è offerto di mediare. Per quanto mi riguarda sono disposto a fare anche un passo indietro se può essere utile. La nostra amministrazione a Gaza è temporanea». Hamas è disposto a negoziare con Israele? E se sì su quali basi? «Non da oggi abbiamo affermato che siamo disposti a negoziare una tregua di lunga durata, 10-15 anni. A patto però che Israele ponga fine all'assedio di Gaza, alla costruzione del Muro in Cisgiordania, liberi i prigionieri palestinesi detenuti nelle sue carceri, ponga fine agli assassini di militanti e dirigenti dell'Intifada. Israele sa bene che Hamas è in grado di rispettare e far rispettare gli accordi presi. La resistenza armata non è il fine di Hamas ma resta uno dei mezzi obbligati per ottenere la liberazione della Palestina. Ma sia ben chiaro: Hamas non è contro la pace, è contro la capitolazione». Ma se siete per la pace perché non accettate di riconoscere lo Stato d'Israele? «Perché a un popolo oppresso non si può imporre di riconoscere il proprio oppressore. Il riconoscimento di Israele non può essere la precondizione per un negoziato, semmai ne è parte». Perché Hamas non accetta di andare a nuove elezioni? «Non siamo certo noi ad avere paura del voto. Ma perché questo voto sia libero deve essere tolto l'assedio di Gaza e riconosciuto da tutti l'unico organo realmente rappresentativo della volontà popolare: il Consiglio legislativo palestinese (il parlamento dei Territori dove Hamas ha la maggioranza assoluta, ndr). Anche su questo siamo disposti ad avviare un confronto con Fatah senza ricatti». In una intervista a l'Unità, il ministro degli Esteri D'Alema ha ribadito che a certe condizioni è ipotizzabili aprire un confronto con Hamas. Come risponde? «Ho apprezzato la posizione italiana e lo sforzo fatto per non appiattirsi sull'ostracismo degli americani. Hamas è amico dell'Italia ed è disposto ad entrare nel merito delle richieste avanzate. L'Italia potrebbe farsi carico di una missione esplorativa: Prodi e D'Alema sono i benvenuti a Gaza. Ma discutere è una cosa, altro è subire diktat». C'è chi sostiene che Hamas intenda dar vita a un «suo» Stato a Gaza? «È falso. Lo ripeto: il nostro obiettivo era e resta quello di costruire uno Stato indipendente su tutti i territori occupati da Israele nel 1967. Non saremo noi a venir meno a questo impegno». (ha collaborato Osama Hamdan) Pubblicato il: 12.10.07 Modificato il: 12.10.07 alle ore 9.44 © l'Unità. Titolo: De Giovannangeli - «In Palestina vita più dura che con l’apartheid» Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2007, 11:48:17 pm «In Palestina vita più dura che con l’apartheid»
Umberto De Giovannangeli Una richiesta che scatenerà polemiche: l’Onu si ritiri dal Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Russia, Ue, Onu) nel caso in cui non vengano presi in maggiore considerazione i diritti umani dei palestinesi. Una richiesta tanto più significativa, e allarmante, perché ad avanzarla è John Dugard, inviato speciale delle Nazioni Unite per la tutela dei diritti umani nei Territori palestinesi. Avvocato sudafricano, docente di Diritto internazionale, paladino della lotta all’apartheid, Dugard visita la Cisgiordania e Gaza da sette anni e redige i suoi dettagliati rapporti sulla situazione. «Dalla mia ultima visita - afferma - ho ricavato una impressione drammatica: nel popolo palestinese è diffuso un sentimento di disperazione causato dalla violazione dei diritti umani. Ogni volta che vado la situazione sembra essere ulteriormente peggiorata». Un peggioramento che investe sia la Cisgiordania che Gaza: «Gaza - sottolinea Dugard - è una prigione isolata dal mondo e Israele sembra averne buttato via le chiavi». Professor Dugard, alla fine del mese lei presenterà il suo rapporto alle Nazioni Unite sullo stato dei diritti umani nei Territori. Qual è la situazione? «Gravissima, direi disperata. Una percezione netta che ho maturato da una visione diretta della situazione. Ciò che più mi ha colpito è l’assenza di speranza del popolo palestinese. Tutti noi dovremmo interrogarci sulle ragioni di questo degrado». Qual è la sua risposta? «Non vi è dubbio che questa situazione di sofferenza e disperazione è frutto della violazione dei diritti umani e in particolare delle restrizioni israeliane alla libertà di movimento dei palestinesi». Le autorità israeliane ribatterebbero che questa situazione è dovuta alla necessità di contrastare gli attacchi terroristici. I kamikaze palestinesi non sono certo un’invenzione israeliana. «Non metto in discussione il diritto di Israele di difendere la sua sicurezza, ma ritengo che il governo israeliano continui a gestire la sua sicurezza con un uso sproporzionato della forza». A cosa si riferisce in particolare? «Penso ai centinaia di check-point che spezzano in mille frammenti territoriali la Cisgiordania, penso a Gaza, prigione a cielo aperto dove sopravvivono a stento un 1milione e 400 mila palestinesi. Sì, Gaza è una prigione della quale Israele sembra aver buttato via le chiavi». Gaza, soprattutto dopo il colpo di mano militare di Hamas, molto si è detto e scritto. Meno della Cisgiordania. Lei l’ha visitata recentemente. Qual è la realtà che ha registrato sul campo? «La Cisgiordania è oggi frammentata in quattro settori: il Nord (Jenin, Nablus e Tulkarem), il Centro (Ramallah), il Sud (Hebron) e Gerusalemme est che assomigliano sempre di più ai Bantustan del Sudafrica. Le restrizioni alla circolazione imposte da un rigido sistema di autorizzazioni, rinforzato da circa 520 check point e blocchi stradali, assomigliano al sistema del "lascia-passare" (in vigore nel Sudafrica dell’apartheid) applicato con una severità che va molto al di là…». La sua è un’accusa molto grave, alla quale più volte in passato Israele ha ribattuto con durezza accusandola di forzature inaccettabili viziate da un evidente pregiudizio. «Vede, io non ho alcun pregiudizio anti-israeliano e rigetto con sdegno le accuse strumentali di antisemitismo. I miei rapporti non hanno nulla di ideologico, essi sono basati su fatti circostanziati, su una documentazione ineccepibile. Israele rivendica la sua democrazia ma i principi su cui si fonda non valgono per la popolazione palestinese dei Territori. Con grande amarezza, mi creda, devo affermare che molti aspetti dell’occupazione israeliana superano quelli del regime di apartheid. Si pensi alla distruzione in larga scala da parte israeliana di case palestinesi, lo spianamento di terreni fertili, le incursioni e gli omicidi mirati dei palestinesi, per non parlare del muro eretto per l’80% in territorio palestinese. Il Muro è, attualmente, costruito in Cisgiordania e Gerusalemme est in maniera da inglobare la maggior parte delle colonie nella sua cinta. Inoltre, i tre grandi blocchi di insediamenti di Gush Etzion, Ma’aleh Adumim e Ariel dividono il territorio palestinese in enclave, distruggendo così l’integrità territoriale della Palestina. Tutto ciò, lo ribadisco, produce sofferenze, umiliazioni e, ed è quello che più mi ha colpito nella mia recente visita nei Territori, la perdita di speranza da parte del popolo palestinese. A tutto ciò va aggiunto che, di fatto, il popolo palestinese è sottoposto a sanzioni economiche, e ciò è il primo esempio di un simile trattamento applicato a un popolo occupato. Verso i palestinesi dei Territori, Israele non si comporta come una democrazia ma come una potenza colonizzatrice». Dalla Cisgiordania a Gaza e allo scontro interno al campo palestinese. Uno scontro che aggiunge sofferenza a sofferenza. Qual è in proposito la sua valutazione? «Se vuole sapere il mio modesto punto di vista, le dirò che a mio avviso la Comunità internazionale sta commettendo un errore gravissimo, che renderà ancor più ostica la ricerca di un accordo di pace con Israele». Quale sarebbe questo errore? «Aver deciso di appoggiare solo una fazione palestinese, quella del Fatah. Questo ruolo non compete all’Onu». A fine mese lei illustrerà il suo rapporto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. A quale conclusione è giunto? «Al segretario generale Ban Ki-moon chiederò di ritirare le Nazioni Unite dal quartetto, se il Quartetto dovesse fallire nel tentativo di avere la massima attenzione per la situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi». Lei appare alquanto pessimista sulla possibilità di una svolta nella tutela dei diritti umani in Palestina. Perché? «Perché sull’inazione del Quartetto in questo campo pesa l’influenza politica degli Stati Uniti. Una influenza negativa». Pubblicato il: 17.10.07 Modificato il: 17.10.07 alle ore 13.04 © l'Unità. Titolo: De Giovannangeli - «Ma quale apartheid nei Territori Israele deve difendersi» Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2007, 06:23:33 pm «Ma quale apartheid nei Territori Israele deve difendersi»
Umberto De Giovannangeli «Ciò che contesto nelle affermazioni del signor Dugard sono le sue tesi politiche precostituite, e una visione unilaterale dei diritti umani. Come se esistessero solo quelli dei palestinesi dimenticando che a migliaia di israeliani, donne, bambini, civili inermi i terroristi hanno tolto il diritto più grande: quello alla vita». Così l’ambasciatore d’Israele Gideon Meir replica all’intervista all’Unità dell’inviato speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori John Dugard. «Hamas - afferma Meir - plaude alle parole di Dugard. Se avessi ricevuto io un consenso del genere non mi sentirei a mio agio». «In Palestina vita più dura che con l’apartheid». Come ribatte alle affermazioni dell’inviato speciale dell’Onu? «Ciò che contesto è il fatto che il signor Dugard abbia presentato un’agenda politica, andando ben oltre l’incarico da lui ricoperto. Avrei accettato che si fosse limitato a presentare dei fatti ma cosa c’entra con il suo incarico la richiesta di una uscita dell’Onu dal Quartetto per il Medio Oriente? E come è possibile che su 9 delibere prese nell’ultimo anno dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu, 8 sono contro Israele? Come se non esistessero altri e più gravi problemi relativi ai diritti umani nel mondo, in Iran, in Darfour, in Birmania ... ma è Israele, l’unica democrazia nel Medio Oriente il problema del mondo... questo non è serio, questo è inaccettabile». Cos’altro non la convince nelle considerazioni di Dugard? «Lui parla esclusivamente dei diritti umani della parte palestinese ma anche gli ebrei, gli israeliani hanno dei diritti umani. E vi è un problema dei diritti umani, della loro salvaguardia fra i palestinesi. Ma il signor Dugard non sfiora neanche lontanamente il comportamento brutale di Hamas nei confronti degli uomini di Fatah: le esecuzioni a freddo, le persone lanciate dai piani alti dei palazzi, le donne e gli uomini torturati... Di tutto ciò Dugard non fa cenno . Se il relatore dell’Onu avesse dato una immagine più completa, più obiettiva della situazione, non avrei avuto alcun problema. E voglio farle un esempio di ciò che intendo per diritti umani nostri...». Qual è la storia? «Era uno dei periodi più terribili per Israele, con gli attentati suicidi che seminavano la morte tra donne, bambini, civili inermi...Ero in ufficio e ho sentito una esplosione fortissima... Un terrorista si era fatto esplodere tra i tavolini di un caffè, il “Moment Cafè”. La mia segretaria, che allora aveva 29 anni ed era , una sostenitrice della pace con i palestinesi, rimase uccisa in quell’attentato. La sua colpa era di essere seduta in quel caffè in quel momento. Questa ragazza è una delle migliaia di israeliani che sono stati uccisi dai terroristi palestinesi. Ma di loro non c’è traccia nel rapporto del signor Dugard». Dugard fa riferimento a 520 check point e del «Muro» che spezza la Cisgiordania. «Non nego affatto che la situazione dei palestinesi nei Territori sia una situazione difficile. La situazione della popolazione in Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr.) e soprattutto nella Striscia di Gaza è una situazione non buona. Chi vuole venire a puntare il dito contro Israele ha lavoro facile, e fa un’operazione politica. È legittimo criticarci ma bisogna vedere cosa e chi ci ha portato a questa situazione. Nel 1993 fu firmato un accordo storico, l’Accordo di Oslo, eravamo in un processo di pace. Nel 2000 il primo ministro Ehud Barak a Camp David offrì ad Arafat il 97% dei Territori e prevedeva lo smantellamento di gran parte delle colonie. Ma la risposta fu l’Intifada dei kamikaze, un’ondata di attacchi terroristici che non ha eguali in nessun altro Paese al mondo. La Barriera è stata costruita in risposta a questi innumerevoli, devastanti, sanguinosi attacchi terroristici. I posti di blocco ci sono per evitare queste azioni terroristiche. Ed è un dato di fatto che la combinazione tra la Barriera, i posti di blocco e l’azione dell’esercito ha fortemente ridotto il numero di attentati. Ma il nostro interesse superiore è migliorare la situazione, soprattutto, economica nei Territori. Questo è nel nostro interesse, perché una condizione economica buona impedisce il terrorismo». Dugard rileva che Israele ha realizzato buona parte della Barriera su territori occupati. «Non c’è bisogno che il relatore per i diritti umani ci ricordi qual è la situazione della Barriera di sicurezza. C’è la Corte Suprema d’Israele a pensarci, e io sono molto orgoglioso di ciò, come israeliano e come democratico. Questa Corte tutela i diritti umani anche dei palestinesi che non sono cittadini di Israele ma che possono appellarsi alla Corte per ottenere giustizia. E in moltissimi casi la Corte Suprema ha stabilito che il governo dovesse modificare il tracciato della Barriera. Ma di questo il signor Dugard non fa cenno. La Corte cerca di trovare un equilibrio tra la sicurezza dei cittadini israeliani e i diritti umani dei palestinesi. Nei sessant’anni dello Stato d’Israele, nonostante le guerre di aggressione e le ondate di attentati a cui abbiamo dovuto far fronte, Israele è rimasta una democrazia e questo è un miracolo. Siamo uno dei Paesi dove c’è la maggiore libertà d’informazione. Il giorno in cui i palestinesi avranno un quotidiano come Haaretz o uno scrittore come David Grossman, allora saprò che siamo davvero sulla via della pace. La nostra è una democrazia solida, il che non significa che non si debba porre fine all’occupazione. Oggi questo è possibile perché abbiamo finalmente interlocutori, come il presidente Abu Mazen e il primo ministro Fayyad, con cui è possibile raggiungere una intesa. Ed è un impegno a cui non verremo meno». Pubblicato il: 18.10.07 Modificato il: 18.10.07 alle ore 13.13 © l'Unità. Titolo: De Giovannangeli - Zarmandili: «L’asse dei “duri” che spaventa Teheran» Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2007, 06:32:00 pm Zarmandili: «L’asse dei “duri” che spaventa Teheran»
Umberto De Giovannangeli «Ciò che Teheran teme oggi di più è l’affermarsi di un asse dell’intransigenza Washington-Parigi- Londra». A sostenerlo è Bijan Zarmandili, scrittore e analista politico iraniano. Per negoziare sul nucleare a Roma si sono presentati il vecchio e nuovo negoziatore iraniani, Said Jalili e Ali Larijani. Come leggere questo cambio? «Apparentemente la presenza a Roma di Larijani vuol dire che Teheran intende dare l’impressione di avere una continuità della propria linea sulla questione nucleare. Ma dietro a questa apparenza in realtà vi sono divergenze sostanziali tra Ahmadinejad e Larijani che hanno portato alle dimensioni di quest’ultimo. C’è poi un altro fattore più vicino a ciò che sta avvenendo oggi a Teheran...». Vale a dire? «A Teheran i dirigenti iraniani hanno l’impressione che i loro interlocutori occidentali abbiano una posizione assai più compatta rispetto al passato. E ciò è dovuto soprattutto all’allineamento della Francia di Sarkozy alle posizioni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Quello che preoccupa Teheran è il delinearsi di un asse Washington-Parigi-Londra. Di conseguenza è stato deciso di togliere di mezzo voci di dissenso rispetto alla linea sul nucleare, presentando anche da parte iraniana una posizione compatta. La novità di questa fase è che questa posizione compatta rappresenta la linea più rigida. L’Iran valuta i cambiamenti nel campo avversario e ad essi si modella. A questo aggiungerei un altro elemento: tra i dirigenti iraniani non è una novità cambiare il negoziatore del momento per rispondere ad esigenze esterne. Ricordiamoci che lo stesso Larijani aveva sostituito a suo tempo Ali Rohani, il mediatore iraniano che aveva avviato il dialogo sul nucleare per due anni con la trojka europea. Appena quella fase fu giudicata superata, fallita, con l’arrivo di Ahmadinejad si è fatto largo Larijani, portatore di una posizione più rigida. A sua volta, questa posizione viene sostituita con una ancor più intransigente rappresentata da Jalili». Alla luce di queste considerazioni ha ancora uno spazio e una prospettiva la posizione dell’Italia che punta ancora su un pressing politico a tutto campo su Teheran? «Questa posizione ha delle prospettive se non resta isolata in Europa e riesce invece a inserirsi in un alinea comune ad altri partners europei. Penso alla Spagna, all’Austria ma soprattutto alla Germania. L’Italia deve guardare oggi a Berlino, e cercare di costruire un asse con la Germania della cancelliera Angela Merkel. Se la Merkel non si fa attrarre dall’asse Washington-Parigi-Londra e riesce a mantenere una certa equidistanza, ciò aprirebbe nuovi spazi per l’iniziativa italiana che potrebbe a sua volta puntare a una linea condivisa da Berlino, Madrid e Vienna. Una linea che potrebbe aprirsi, o comunque relazionarsi, alle posizioni assunte sul dossier nucleare iraniano dalla Russia di Vladimir Putin. Io vedo abbastanza difficile un allineamento dei Paesi europei direttamente sulle posizioni di Mosca e di Pechino, tuttavia l’affermarsi di un asse Roma-Berlino-Madrid potrebbe in qualche modo equilibrare all’interno della comunità europea le posizioni più intransigenti portate avanti da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, un asse assai forte e determinata. L’Italia potrebbe avere un ruolo importante nel ricostruire equilibri nuovi all’interno dell’Europa, partendo proprio dal nucleare iraniano». Pubblicato il: 24.10.07 Modificato il: 24.10.07 alle ore 8.44 © l'Unità. Titolo: De Giovannangeli - John Holmes: «Gaza muore, Israele tolga il blocco» Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2007, 06:50:39 pm John Holmes: «Gaza muore, Israele tolga il blocco»
Umberto De Giovannangeli Un appello accorato. Una descrizione inquietante di una condizione di vita che si fa di giorno in giorno più difficile. La vita di 1milione e 400 palestinesi rinchiusi in una «grande gabbia»: la Striscia di Gaza. A denunciarlo è John Holmes, segretario generale aggiunto delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari. Signor Segretario, qual è oggi la situazione nella Striscia? «La situazione a Gaza si sta sempre più deteriorando. Le restrizioni alle attività sono sempre più severe. Il blocco dei movimenti delle merci ha provocato la crisi di interi settori produttivi, come la floricoltura e l’agricoltura..». È solo una questione umanitaria? «Nell’emergenza, è innanzitutto una questione umanitaria perché investe le condizioni di vita di centinaia di migliaia di civili, moltissimi dei quali sono donne e bambini. Ma non è solo una questione umanitaria, perché la situazione sul campo crea indubbiamente uno stato sfavorevole al processo di pace. E di ciò è pienamente consapevole il presidente Abbas (Abu Mazen, ndr.). Ed è obiettivamente difficile conciliare il deterioramento della situazione sul terreno con le aspettative rivolte alla Conferenza di Annapolis (la Conferenza di pace israelo-palestinese convocata dagli Stati Uniti per la fine di novembre, ndr.). Alleggerire le restrizioni sugli aiuti umanitari e togliere il blocco economico a Gaza è a mio avviso il modo migliore di promuovere la pace, perché migliori condizioni di vita e il recupero della propria dignità da parte della popolazione palestinese favorirebbe il sostegno a qualunque processo di pace». In questa situazione che rischia di inasprirsi ulteriormente, cosa si sente da numero due dell’Onu di chiedere al governo israeliano? «A Israele torno a chiedere di autorizzare l’accesso degli aiuti umanitari a Gaza in maniera più estesa e a levare il blocco economico. A Gaza non c’è ancora la fame, ma c’è una crisi umanitaria seria che si trascina da oltre un anno e che le nuove restrizioni non potranno che aggravare ulteriormente. Israele deve riflettere sugli effetti che potranno produrre queste restrizioni, non solo in termini di crisi umanitaria ma anche sul piano politico, prestando ascolto agli appelli che in queste ore vengono rivolti da più parti al primo ministro Olmert. Migliorare le condizioni di vita della popolazione civile di Gaza è anche nell’interesse di Israele. E perché ciò possa accadere è indispensabile quanto meno ampliare i corridoi umanitari». Vorrei che si soffermasse su quest’ultimo aspetto, visto che è sempre più difficile avere notizie da Gaza. «La gente, come le dicevo,non muore di fame, ma in termini di accesso medico c’è gente che può morire per mancanza di farmaci e accesso medico. Quella in atto nella Striscia, lo ripeto, è una grave crisi umanitaria. La gente si sente sempre più isolata e abbandonata se stessa. Il blocco imposto da Israele sta contribuendo a radicalizzare gli animi e non porta sicuramente alla pace». Cosa può comportare, ad esempio, determinare ulteriori limitazioni all’accesso medico e la restrizione dell’erogazione della corrente elettrica nel campo sanitario? «Per risponderle posso citare un fatto che è già avvenuto quando Israele ha deciso di attuare questa misura nel corso di un’operazione militare: l’ospedale Shifa (il più grande di Gaza City, ndr.) ha denunciato l’impossibilità di compiere operazioni chirurgiche per mancanza di anestetico. La privazione della corrente elettrica non potrà che peggiorare la situazione. Mi lasci aggiungere che, come ha recentemente riferito il quotidiano israeliano Haaretz, tra i beni che vengono bloccati ai valichi di frontiera ci sono prodotti di prima necessità come il latte in polvere per i bambini, i formaggi, lo zucchero. Dall’estate scorsa, il numero dei convogli umanitari che ha potuto oltrepassare i valichi di frontiera non ha cessato di diminuire, dai 3000 di luglio ai 1500 di settembre. La scorsa settimana, sono passati 663 camion a fronte dei 793 che avevano avuto il permesso dalle autorità israeliane di entrare a Gaza la settimana precedente. Dal giugno scorso il principale punto di passaggio delle merci, il valico di Karni, è chiuso. Quello di Sufa lo sarà a partire dai prossimi giorni. Il principale valico di passaggio per le persone, quello di Rafah, è chiuso da giugno, e i permessi di passaggio sono manifestamente insufficienti. Sempre meno malati gravi vengono autorizzati a lasciare Gaza per farsi curare in Israele. Erano cinque al giorno a settembre contro i 40 di luglio. Il blocco della libertà di movimento per ragioni mediche rappresenta una grave violazione del diritto internazionale umanitario». È possibile sintetizzare in alcuni dati la condizione della gente di Gaza? «Secondo gli ultimi dati dell’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza ai rifugiati palestinesi, ndr.) il 35% della popolazione di Gaza vive sotto la soglia di povertà; il 44% della forza lavoro è disoccupata; il 90% degli stabilimenti produttivi è fermo; da mesi non si può né importare né esportare; oltre un milione di persone vive esclusivamente grazie alla distribuzione di viveri organizzata dall’Onu e da organizzazioni non governativi. Più di 70mila lavoratori sono stati licenziati negli ultimi mesi dai settori dell’industria, dei servizi e dell’agricoltura. Questi dati raccontano di una condizione drammatica. E i primi a farne le spese sono i soggetti più deboli: i bambini. Non va mai dimenticato che bambini e adolescenti costituiscono oltre la metà della popolazione palestinese, come peraltro non andrebbe mai dimenticato che la protezione dei civili è un obbligo imposto dal diritto internazionale umanitario». Israele ribatte che il giro di vite a Gaza è conseguenza degli attacchi - il lancio dei missili Qassam - che dalla Striscia vengono lanciati contro Sderot e altre città o villaggi israeliani. «Questi attacchi vanno condannati decisamente, ma resto dell’idea che la punizione collettiva non sia la risposta adeguata agli attacchi terroristici. La situazione è già incandescente e rischia di diventare ingestibile se saranno effettuati, come purtroppo sta iniziando ad avvenire, nuovi tagli». In una recente intervista a l’Unità John Dugard, l’inviato delle Nazioni Unite nei Territori palestinesi, ha denunciato l’impossibilità della circolazione delle persone, la difficoltà del reperimento di generi di prima necessità e ha messo in guardia che l’inasprimento delle punizioni collettive potrebbe portare ad una terza Intifada. Condivide questa preoccupazione? «Questo rischio è reale. Se la gente perde ogni speranza nel futuro e se il suo presente è segnato dal degrado sociale ed economico, è facile che la rabbia e la disperazione alimentino risposte disperate». Pubblicato il: 29.10.07 Modificato il: 29.10.07 alle ore 14.17 © l'Unità. Titolo: De Giovannangeli - Piero Fassino: «Medio Oriente. Una conferenza per sperare» Inserito da: Admin - Novembre 02, 2007, 02:55:02 pm Piero Fassino: «Medio Oriente. Una conferenza per sperare»
Umberto De Giovannangeli La Conferenza di Annapolis sul conflitto israelo-palestinese è una grande opportunità che non va sprecata. A sottolinearne le ragioni in questa intervista a l’Unità è Piero Fassino, copresidente del Comitato per il Medio Oriente dell’Internazionale Socialista (IS), che in questi giorni si è riunito a Tel Aviv e a Ramallah per discutere delle prospettive di pace e di come sostenerle. Nel dialogo israelo-palestinese, entrato in una fase cruciale, cosa può rappresentare la Conferenza di Annapolis? «La Conferenza può essere una grande opportunità. Dopo sette anni israeliani e palestinesi tornano a sedersi intorno ad un tavolo di confronto, di dialogo e di possibile negoziato». «L’ultima volta fu a Camp David e come sappiamo il fallimento di Camp David ha aperto poi la porta a sette anni di crisi delle relazioni israelo-palestinesi, all’acutizzazione del conflitto, alla crescita dell’integralismo islamico di Hamas e alla crisi del processo di pace. Oggi sono tutti consapevoli che si è aperta una finestra di opportunità che non va chiusa, che anzi se da Annapolis si uscisse con un ennesimo fallimento i n Medio Oriente la situazione precipiterebbe drammaticamente. La Conferenza è il decisivo banco di prova per dimostrare che una pace negoziata è ancora possibile. Se l’esito fosse negativo o deludente qualsiasi prospettiva di pace si allontanerebbe ancora di più di quanto non si sia allontanata in questi anni. Non è soltanto questa consapevolezza a dire che Annapolis è una opportunità, è anche la valutazione di come siano venute maturando condizioni più favorevoli alla ripresa di un negoziato...». E quali sarebbero queste condizioni? «In primo luogo vi sono due leadership, quella israeliana guidata da Olmert e Peres e quella palestinese di Abu Mazen e Fayyad, che vogliono la pace e lo vogliono molto di più di quanto non lo abbiano voluto le passate leadership. Olmert e Abu Mazen sono consapevoli che la possibilità di garantire pace, sicurezza, stabilità, riconoscimento dei diritti dei due popoli, non può che passare per una pace negoziata. Le attuali leadership di Israele e dell’Anp giocano la loro credibilità su questa prospettiva. In secondo luogo è maturato un coinvolgimento del mondo arabo, che a partire dalla piattaforma elaborata nel vertice della Lega Araba di Beirut del 2002 fino all’accordo di Riad di qualche mese fa, vede il mondo arabo molto più aperto al riconoscimento di Israele e ad una stabilizzazione del Medio Oriente che passi per una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Spesso nel passato sono stati a turno questo o quel Paese arabo a impedire un accordo fra israeliani e palestinesi. In terzo luogo c’è il fatto che la Conferenza di Annapolis è convocata dall’amministrazione Bush in una fase nella quale sia il presidente Usa che la sua amministrazione hanno bisogno di dimostrare al mondo, in primo luogo a quello arabo, che effettivamente vogliono una pace. La vicenda irachena ha aperto una crisi profonda di credibilità degli Stati Uniti in tutto il mondo arabo, anche in quello moderato, e l’amministrazione americana è consapevole di dovere in qualche modo fare dei passi che riconquistino almeno un certo credito. E infine c’è il fatto, il più importante di tutti, che sui punti cruciali di un accordo di pace ormai comincia a realizzarsi una ampia convergenza». Quali sono le convergenze più significative? «Penso a Gerusalemme come capitale di due Stati, perché questa ipotesi è contenuta sia nella piattaforma araba di Riad sia in molte dichiarazioni di esponenti di primo piano del governo israeliano a partire dal vice premier Haim Ramon; c’è una convergenza sui confini, perché ormai tutti accettano che lo Stato di Palestina sia realizzato entro i confini del 1967, con possibili limitati scambi di territorio; c'è un accordo sul fatto che bisogna dare attuazione al diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi in una misura equilibrata e ragionevole tale da non mettere in discussione il carattere ebraico dello Stato d’Israele. C’è una larga intesa su come gestire in comune la risorsa principale della regione, che è l’acqua. E anche sul tema più cruciale, cioè delle misure con cui garantire la sicurezza reciproca mi pare che cominci a delinearsi un pensiero condiviso. A ciò va aggiunto che sia Olmert che Abu Mazen sanno di aver bisogno di un esito positivo ad Annapolis...». Su cosa basa questa valutazione? «Perché Olmert solo con un risultato positivo della Conferenza potrà governare una maggioranza nella quale i partiti religiosi continuano ogni giorno a frenare e a destabilizzare la stessa coalizione di governo. E Abu Mazen perché soltanto se torna da Annapolis avendo acquisito dei risultati positivi, potrà rafforzarsi nei confronti di Hamas. Dovrebbe essere chiaro a tutti che dopo la crisi di Gaza dei mesi scorsi, Abu Mazen è più debole e il modo per superare la sua debolezza è di dimostrare che la strategia del negoziato e dell’accordo con Israele paga di più di quanto non paghi la strategia integralistica del conflitto e dello scontro armato teorizzata da Hamas». Ma a quali condizioni Annapolis può essere l’inizio di una fase nuova? «A tre condizioni: che dalla Conferenza si esca con un accordo di principi che individui sui punti cruciali le soluzioni a cui il negoziato deve arrivare. È importante che ad Annapolis si stabilisca che si lavora per un accordo che sancisca che Gerusalemme è capitale di due Stati; ed è altrettanto importante che in quel documento si delineino i criteri a cui ispirare la definizione dei confini, come è importante che si fissino i criteri per negoziare il ritorno dei rifugiati. Si tratta in sostanza di lavorare per un accordo di principi che non sia soltanto l’elencazione dei problemi ma anche l’individuazione delle soluzioni a cui finalizzare i negoziati. In secondo luogo, è necessario che da Annapolis si esca con un calendario per i negoziati, perché proprio l’esperienza di questi anni ci dice che il processo di pace in Medio Oriente è stato frustrato dal decorrere del tempo senza che nulla accadesse. Uscire da Annapolis avendo un accordo di principi che individui le soluzioni ma che non indichi anche un timing, un percorso e un calendario negoziale che renda credibile quelle soluzioni, renderebbe il tutto più debole. E infine occorre che da Annapolis si esca anche con delle decisioni di applicazione della prima parte della Road Map, e cioè quella parte che prevede misure di reciproca fiducia che allentino la tensione e determinino un miglioramento delle condizioni di vita, in particolare nei Territori palestinesi, e questo significa una riduzione dei posti di blocco in Cisgiordania, che oggi sono più di 600, significa una maggiore facilità di movimento per la popolazione palestinese, una gestione della sicurezza che sia meno oppressiva, la restituzione alla responsabilità dell’Anp della sicurezza delle città palestinesi, come sta avvenendo a Nablus, cioè tutte quelle misure che possono cambiare in meglio la vita quotidiana della popolazione palestinese e dimostrare concretamente che ci si sta incamminando sulla strada della pace». Perché questo possa essere ad Annapolis... «Serve anche che la Comunità internazionale faccia la sua parte, innanzitutto sollecitando in queste settimane un impianto della Conferenza che sia il più positivo possibile. In questa ottica, non è indifferente chi ci sarà ad Annapolis. Garantirsi una partecipazione di tutti i principali Paesi arabi della regione, a partire dall’Arabia Saudita è un passaggio essenziale per dare autorevolezza alla Conferenza.. Così come è necessario che la Comunità internazionale sostenga e solleciti la definizione di quell’accordo di principi che dalla Conferenza deve uscire. Insomma, lavorare perché Annapolis abbia il grado massimo di concretezza. Poi c’è una responsabilità a medio e lungo termine, e qui vedo tre fronti sui quali la Comunità internazionale può concorrere al processo di pace». Quali? «Un primo terreno, è quello finanziario: lo sviluppo dei negoziati può essere facilitato dal fatto che la Comunità internazionale metta a disposizione i finanziamenti necessari a determinare quelle condizioni di sviluppo, di crescita, di infrastrutturazioni in particolare dello Stato palestinese che sono necessari e che è il mandato affidato dal Quartetto a Tony Blair. In secondo luogo la Comunità internazionale può concorrere ad una soluzione equilibrata del problema dei rifugiati, e infine assumersi responsabilità in materia di sicurezza come ha fatto in Libano, ad esempio, anche, con l’accordo delle parti interessate, dispiegando una presenza multinazionale militare volta a garantire la stabilità e impedire che possano determinarsi nuovi conflitti. In questo quadro non è indifferente anche il ruolo che possono svolgere soggetti politici come l’Internazionale Socialista. Storicamente l’IS ha sempre assolto un ruolo importante nella vicenda mediorientale, fin dai primi colloqui informali alla fine degli anni Settanta inizi Ottanta fra israeliani e palestinesi, è stata l’Internazionale Socialista uno dei luoghi principali per tessere la strategia del dialogo e del riconoscimento reciproco». Ed oggi? «Oggi l’Internazionale Socialista è l’unica organizzazione mondiale nella quale siedono sia partiti israeliani - il Labour e Yahad - sia un’organizzazione palestinese come Al- Fatah. L’IS può avere un ruolo importante per continuare ad essere un forum di dialogo,, di discussione in cui in modo più libero e meno formale concorra alla definizione di quelle soluzioni di pace che poi possono trovare una sanzione nel negoziato istituzionale tra i governi. L’Is può inoltre aiutare il rinnovamento di Al Fatah che ha conosciuto una grave crisi in questi anni. Ed è evidente che se Al Fatah vuole tornare ad essere organizzazione maggioritaria in campo palestinese deve mettere in campo un serio processo di riforma della propria classe dirigente e di democratizzazione interna». Pubblicato il: 02.11.07 Modificato il: 02.11.07 alle ore 11.55 © l'Unità. Titolo: Umberto De Giovannangeli - Bonino: «La moratoria un successo italiano» Inserito da: Admin - Novembre 04, 2007, 09:34:49 am Bonino: «La moratoria un successo italiano»
Umberto De Giovannangeli Le lacrime di gioia lasciano il passo alla consueta determinazione. «Emma la tenace» è pronta a rilanciare la battaglia di civiltà contro i fautori del patibolo. Partendo da un primo, importante risultato: «Finalmente - sottolinea Emma Bonino - è possibile avviare un processo di discussione nella Terza Commissione dell’Onu per approvare questa moratoria». Ma, avverte la ministra radicale, «non è ancora una battaglia vinta: bisogna superare le trappole, gli emendamenti, le pregiudiziali-trappola, in Terza Commissione. Ma se teniamo, se non ci distraiamo, credo davvero che questa sia la volta buona». Come ci si sente ad essere stata protagonista di questa battaglia di civiltà? «In realtà i protagonisti sono stati tanti. Io mi sono trovata ad essere presente a New York in un momento cruciale, in cui sembrava che dopo la grande iniziativa di D’Alema del 28 settembre che la strada fosse ormai in discesa...». E invece? «Invece si erano create delle rigidità europee, improvvisamente venerdì scorso. Tanto è vero che la mia andata a New York voleva essere un’andata di sostegno alla risoluzione che davamo tutti per presentata e che invece si era inceppata tra venerdì e sabato. Cosicché quando io sono arrivata non c’era nessuna risoluzione da sostenere semplicemente perché non c’era alcun testo. Di fronte a questo colpo di scena non restava che rimboccarci le maniche e predisporre una controffensiva. Già nella giornata di domenica ho immediatamente ragguagliato della situazione sia Romano Prodi che Massimo D’Alema cercando di capire quale erano le istruzioni...». Quali? «Le istruzioni, che io ho condiviso, sono state che certo era importante tenere insieme l’Unione Europea, ma a quel punto la cosa più importante era che la coalizione globale, con Brasile, Nuova Zelanda e gli altri Paesi co-sponsor, dovesse avere come priorità la moratoria rispetto a eventuali e manifesti irrigidimenti europei, e questo per non ripetere lo scenario del 1999, il famigerato scenario del tutto o niente che alla fine si risolse per il niente. Una volta decisa la linea d’azione, ci siamo messi con l’ambasciatore Spatafora e una combattiva squadra di diplomatici, a una serie di incontri bilaterali: in tre giorni ricordo di averne fatti almeno quaranta con Paesi amici ma anche con Paesi contrari alla moratoria, per cercare di capire quale fosse la consistenza del fronte avverso, mentre andavano avanti mediazioni piuttosto serrate sul testo per tenere in conto i suggerimenti che venivano dai nostri partners. Perchè è buona cosa che se uno cerca dei partners poi li deve stare a sentire. E così, faticosamente, siamo arrivati mercoledì sera alla definizione di un testo che il giorno dopo è stato “sacralizzato” da una grande riunione dei 72 co-sponsor a livello di ambasciatori e poi depositato. Insomma, faticoso...». E ora? «Adesso cominciano altre due fasi, una particolarmente importante: quella del dibattito nella Terza Commissione che inizierà i suoi lavori la settimana prossima. E in quella sede gli oppositori - guidati da Singapore, Thailandia ed Egitto - daranno battaglia. Con lealtà ci hanno avvertiti che useranno tutti i margini procedurali che solo loro consentiti per contrastare la risoluzione sulla moratoria. Immagino che partiranno con una mozione pregiudiziale che dobbiamo essere pronti a respingere. Poi passeranno agli emendamenti, alcuni più subdoli altri meno: c’è bisogno di una forte determinazione e unità d’intenti dei 72 co-sponsor, ma altri potrebbero aggiungersi, per respingere quegli emendamenti o farli propri laddove non stravolgano il senso della risoluzione. Si tratta di una battaglia procedurale che è altamente politica. È ovvio che tenere assieme 75-80 Paesi necessita di una capacità di reazione rapida molto importante. Da questo punto di vista, sono contenta che i primi due depositari siano Nuova Zelanda e Brasile perché questo dà il senso della globalità di questa coalizione che sotto la pressione del governo italiano si è creata. E poi arriveremo in Assemblea Generale. E anche lì penso che potremmo avere una grossa mano perché credo che il ministro D’Alema sarà molto tempo a dicembre a New York visto che l’Italia presiederà il Consiglio di Sicurezza. Ci sarà quindi una gestione ad alto livello politico. E questo mi fa ben sperare». Pubblicato il: 03.11.07 Modificato il: 03.11.07 alle ore 10.21 © l'Unità. Titolo: Umberto De Giovannangeli - E Fini disse: Rumeni venite Inserito da: Admin - Novembre 08, 2007, 02:07:08 pm E Fini disse: rumeni venite
Umberto De Giovannangeli Ora Fini grida al lassismo. Ora mette sotto accusa l’«aperturismo» del governo Prodi tirando in ballo anche il sindaco di Roma. Ora chiede maggiore severità, pone condizioni per approvare il pacchetto sicurezza predisposto dal governo. Ora guarda con preoccupazione allo «sbarco» di romeni in Italia. Ora chiede al presidente del Consiglio, al ministro degli Esteri e a quello dell’Interno di fare la voce grossa nei riguardi di Bucarest. Ora. Perché in un passato non lontano, Gianfranco Fini ben altra attenzione e predisposizione aveva manifestato verso la Romania. Arrivando, come vedremo, ad auspicare la fine delle «perduranti restrizioni dei visti d’ingresso».P Premessa d’obbligo: bene fa Romano Prodi a non dare il minimo avallo ad una campagna di criminalizzazione di «romeni e Rom» imbastita dall’estrema destra. Ma per correttezza storica va dato a Fini ciò che è di Fini. Ed è stata cura dell’allora ministro degli Esteri accelerare l’ingresso di due Paesi dell’ex blocco sovietico nell’Unione Europea: Bulgaria e, per l’appunto, Romania. Vale la pena riprendere i giornali dell’epoca, e mettere in fila le dichiarazioni dell’allora titolare della Farnesina e del suo entourage che ponevano l’accento sulla necessità dell’Europa di guardare con decisione ad Est lasciando perdere ogni pericolosa velleità di puntare verso Sud, magari pensando di allargare la cristiana Europa all’islamica Turchia. L’allargamento politico dell’Europa dovrebbe essere un obiettivo bipartisan che non andrebbe sacrificato alle polemiche di politica interna o, peggio ancora, dimenticato per cavalcare l’indignazione popolare susseguita al brutale assassinio di Roma. Dovrebbe, per l’appunto. Perché così non è stato. Non lo è stato per Gianfranco Fini. Quando si aprì la discussione sull’apertura a Bulgaria e Romania, nela Ue si sviluppò un vivace dibattito. Sul tavolo c’erano i dossier che segnalavano la difficile transizione democratica in atto nei Paesi dell’Est. In discussione non era l’approdo finale - l’ingresso di Sofia e Bucarest - quanto la gradualità, in altri e più concreti termini, diverse cancellerie europee posero il problema di introdurre norme transitorie per l’ingresso della Romania nell’Unione. Norme cautelative. Che inerivano fra l’altro, al rispetto dei diritti umani delle minoranze, in particolare della comunità rom. Riprendiamo i giornali dell’epoca, alla ricerca di dichiarazioni e pronunciamenti ufficiali dell’allora ministro degli Esteri al riguardo. Non ne abbiamo trovato traccia. Anzi. Nelle esternazioni di esponenti dell’allora maggioranza di governo che accompagnarono la parte conclusiva della trattativa per l’ingresso della Romania nella Ue, il tratto comune era quello dell’enfasi nel segnalare un passaggio storico che sanciva la definitiva sepoltura del comunismo nel Vecchio continente. Leggiamo i resoconti del tempo, e ci imbattiamo nelle preoccupazioni sollevate, ad esempio, da Germania e Francia. A questo punto, una opportuna parentesi storica: la Romania ha fatto domanda d’ingresso nell’Unione Europea il 22 giugno 1995. Nel dicembre 1999, al Consiglio europeo di Helsinki, veniva invitata ad avviare i negoziati di adesione, ultimati alla fine del 2004. Occhio alle date: sono gli anni in cui a Palazzo Chigi alberga Silvio Berlusconi e alla Farnesina risiede Gianfranco Fini. Il 25 aprile 2005, a Lussemburgo, la firma del Trattato di adesione di Romania e Bulgaria all’Ue, concludeva la quinta tappa dell’allargamento. Infine, il rapporto della Commissione Ue del settembre 2005 ha raccomandato l’adesione dei due Paesi all’Unione (entrata ufficialmente in vigore l’1 gennaio 2007). A dare il via libera a quell’ingresso, con il consueto surplus di enfasi mediatica, fu Silvio Berlusconi. E con lui, un passo indietro per non oscurarlo, Fini. Sfogliando i giornali di quei giorni, colpisce un dato comune ai reportage da Bucarest: dall’uomo della strada ai leader politici, l’entusiasmo della Romania si concentrava su un aspetto: ora, dopo l’ingresso nella Ue, i boccaporti dell’immigrazione erano aperti. E sì che nella fase cruciale della trattativa per l’ingresso in Europa, tra le norme transitorie, vi era anche quella di concordare con il governo di Bucarest una regolamentazione dei flussi migratori negli altri Paesi dell’Unione. Abbiamo cercato traccia di una condivisione di questa necessità da parte dell’allora presidente del Consiglio o del ministro degli Esteri: non ne abbiamo trovato traccia. Mentre traccia è rimasta di una esultante dichiarazione del ministro Fini, a conclusione di un suo articolo (è il 30 aprile 2005) sul Corriere della sera: «Se è vero che il futuro dei Balcani è nell’Europa è altrettanto vero che negli stessi Balcani è anche il futuro di questa nostra Europa… A maggior ragione dopo il recente accesso della confinante Ungheria e nella prospettiva dell’adesione della Romania e della Bulgaria a partire dal 2007…». Ma è nel passaggio finale che la memoria del leader di An mostra oggi un clamoroso buco. Eccolo: «Anche per aspetti solo apparentemente secondari ma da alta sensibilità presso la gente comune, come le perduranti restrizioni dei visti d’ingresso, che effettivamente accentuano il senso di frustrazione di popolazioni che vorrebbero sentirsi parte di un’unica famiglia Europea». Altro che norme transitorie… A quei tempi, i bersagli preferiti dagli alleati leghisti, e non solo, del ministro degli Esteri erano altri: gli extracomunitari di colore, gli albanesi, l’islamico e dunque terrorista… Nessun dubbio nei rapporti con Bucarest, come si evince dalla nota della Farnesina del 12 ottobre 2005, che dà conto del cordiale incontro tra «vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Gianfranco Fini e primo ministro romeno Popescu-Tariceanu», il quale ha «espresso il più vivo ringraziamento per il sostegno dell’Italia in tutto l’arco del processo di integrazione europea della Romania…». Non meno enfatico del suo ministro degli Esteri, e come avrebbe potuto esserlo, è Silvio Berlusconi. Un salto indietro nel tempo. Due luglio 2003, discorso del Cavaliere all’Europarlamento per l’insediamento della presidenza italiana: l’Italia, sottolinea Berlusconi, punta decisamente a far entrare nel 2007 Bulgaria e Romania nell’Unione Europea. E, fuori dall’ufficialità, una fonte al seguito del premier chiosò: i Paesi ex comunisti aiutano a far argine ai comunisti di casa nostra… Questo per buttarla in politica, perché c’è poi un’aggiunta di «colore»: le romene sono proprio delle bellezze…Sono passati solo pochi anni da queste edificanti esternazioni. Ma oggi sia Berlusconi che Fini sembrano aver dimenticato. Troppo facile. Troppo comodo. Pubblicato il: 07.11.07 Modificato il: 07.11.07 alle ore 10.33 © l'Unità. Titolo: Umberto De Giovannangeli - «Ehi, Gabbo, ci hanno rubato la partita...» Inserito da: Admin - Novembre 13, 2007, 09:28:16 am «Ehi, Gabbo, ci hanno rubato la partita...»
Umberto De Giovannangeli No, ora non dite che la colpa è dei “soliti ultras”, di gente dedita solo alla violenza, per la quale la partita è solo un pretesto per sfogare una innata vocazione alla violenza. Non lo dite, perché non sempre è così. Di certo non lo era per Gabriele Sandri. Il tifo è una strana “malattia”. O forse, per dirla con il grande Totò, è una «livella» in vita. Perché avvicina per 90 minuti persone le più diverse, unite da una emozione condivisa. Certo, il fenomeno ultras è anche molto altro, e spesso è cosa che nulla ha a che fare con la cronaca sportiva e molto, troppo, con la cronaca nera. Stavolta, però, non è giusto criminalizzare un fenomeno. Perché Gabriele Sandri non lo merita. Spetta alla magistratura ricostruire la dinamica di una tragedia consumatasi in pochi minuti. Si dirà: tifosi laziali e juventini si sono scontrati...Ma questo non giustifica la morte di un ragazzo di 28 anni. Si dirà: un colpo di pistola esploso accidentalmente. Sarà stato così. È stato così: un tragico errore, ammette il questore di Arezzo. Ma questo non può portare a condannare chi decide una mattina di prendere la macchina e sobbarcarsi un lungo viaggio in autostrada per seguire la propria squadra. Questa è passione, non è un crimine. È il bello del calcio, non la sua fine. E se essere tifoso non può mai divenire un alibi per giustificare qualsiasi atto di violenza, anche verbale, non può neanche trasformarsi in un'aggravante che a sua volta giustifica ogni atto repressivo. Chi scrive, condivideva la stessa “fede” calcistica di Gabriele. Da giovane, ho partecipato anche a trasferte organizzate. Ricordo conoscenze trasformatisi in amicizie su un pullman, di abbracci, di lacrime condivise con qualcuno di cui non sai neanche il nome. Gabriele Sandri era uno di questi. Non era parte del “branco”. Non aveva fatto del tifo una professione. Era un tifoso. Come tanti. Come me. Non ho più l’età da trasferta. Ma la foto di Gabriele è per me uno scioccante flash back che mi riporta indietro nel tempo. E al ricordo di un ragazzo, allora aveva forse diciotto anni, che, sciarpa la collo, incontrai in un altro autogrill, destinazione Firenze, dove la Lazio giocava una partita decisiva per la volata scudetto. Lo ritrovai sugli spalti a condividere una giornata sportivamente finita male. I suoi amici lo chiamavano “Gabbo” e già allora divideva la passione per la Lazio con quella, ancora più forte, per la musica. Potenza di una passione. Che unisce per un’ora e mezza. In quell’arco di tempo l’estraneo diventa compagno di avventura. «Gabbo ci hanno rubato la partita», gli dissi prima di salutarci all'uscita dello stadio, dove avevamo trascorso quattro ore circondanti dalla polizia, prima di poter ritornare ai pullman e alle macchine. Un sorriso, una stretta di mano, un «forza Lazio». Non l’ho più incontrato. Ora Gabriele, la sua tragica fine, rischiano di essere strumentalizzate da quanti, innalzando “Gabbo” a vittima di una “polizia assassina”, vogliono trasformare gli stadi in campi di battaglia: gli incidenti a Bergamo, Milano, Taranto ne sono solo un'avvisaglia. Pubblicato il: 12.11.07 Modificato il: 12.11.07 alle ore 9.22 © l'Unità. Titolo: DE GIOVANNANGELI - America e Israele la lobby dello scandalo Inserito da: Admin - Novembre 18, 2007, 06:44:44 pm America e Israele la lobby dello scandalo
Umberto De Giovannangeli L’uscita del libro è stata accompagnata da un mare di polemiche negli Usa e ha suscitato uno dei dibattiti più accesi degli ultimi decenni. La ragione è già lampante nel titolo: La Israel lobby e la politica estera americana, edito in Italia da Mondadori (pp. 442, euro 18,50). L’Unità ne ha discusso con i due autori: John J. Mearsheimer e Stephen M.Walt. La prima domanda è d’obbligo: cos’è la Israel lobby e come riesce a condizionare così fortemente la politica estera dell’iper potenza mondiale? Walt: «La Israel lobby è una coalizione estremamente ampia formata sia da persone che da organizzazioni, che opera apertamente influenzando in modo pregnante con la propria azione certune politiche che il governo americano ha messo in essere e sono ancora in essere pro-Israele. C’è da sottolineare che la Israel lobby non è una lobby ebraica, nonostante spinga per politiche pro-Israele, perché i suoi membri non sono necessariamente di religione ebraica, anzi molti esponenti di diversi gruppi ebraici non ne fanno parte in America. La Israel lobby è formata per una sua buona parte da gruppi cristiani ed evangelici, che sono poi quelli che esercitano più da vicino le pressioni sul governo americano». Mearsheimer: «Negli Usa ci sono molti gruppi d’interesse che spesso esercitano questo loro potere per influenzare determinate linee politiche che vengono adottate dal governo. È importante rilevare che la Israel lobby ha una profonda influenza sulle politiche governative, in particolare mediorientali, del governo americano; una influenza che si esercita dando forma e contenuto a quello che poi verrà adottato dal governo. La Israel lobby è estremamente potente perché è molto ben organizzata, può contare su fondi notevoli, soprattutto è composta da una serie di individui che sono molto intelligenti e sanno molto bene come muoversi nei vari ambiti del potere politico, e poi la Israel lobby ha sempre mostrato un forte impegno nel far approvare dal governo americano politiche di sostegno a Israele. La Israel lobby è un gruppo d’interesse particolarmente potente perché non ha nessuna opposizione. Contrariamente a quanto molti credono non esistono lobby arabe che siano altrettanto potenti, neanche quella del petrolio». Una delle tesi più forti che sostanziano il libro è che la Israel lobby danneggerebbe anche le relazioni degli Stati Uniti con i suoi più importanti alleati, accrescendo per tutti i Paesi occidentali i pericoli del terrorismo islamico globale. Walt: «Da molto tempo a questa parte si è manifestata una differenza significativa fra ciò che è il pensiero europeo e quello statunitense nei confronti delle politiche che vengono messe in essere da Israele contro i palestinesi. C’è una divergenza di punti di vista, nel senso che quasi tutti i leader europei, e tra questi anche Tony Blair, hanno sempre cercato di esercitare delle pressioni sugli americani affinché, per fare un esempio, gli israeliani arrestassero la politica di costruzione degli insediamenti nei territori occupati, permettendo così di dare corpo alla possibilità di realizzare uno Stato palestinese vitale. Nonostante queste pressioni che continuano a giungere dall’Europa, nessun presidente degli Stati Uniti ha veramente messo a punto in modo fattivo una misura che riuscisse a bloccare la politica di colonizzazione israeliana dei Territori, e questo proprio a causa dell’influenza della Israel lobby. Si può anche affermare che questa situazione abbia poi creato delle divergenze, a volte anche molto significative, fra gli europei e gli americani. Tutti i leader europei si rendono perfettamente conto che il tipo di comportamento politico e pratico che Israele ha nei confronti dei palestinesi non fa altro che alimentare le frange terroriste arabe e rafforzare i gruppi radicali palestinesi, come Hamas. E con altrettanta chiarezza, i leader europei si rendono conto che c’è una altissima probabilità che poi gli attacchi terroristici dei gruppi jihadisti siano sofferti in prima persona dall’Europa e solo in seconda battuta dagli Stati Uniti». Una delle accuse più pesanti che ha accompagnato negli Stati Uniti l’uscita del libro, è stata quella di antisemitismo. Walt: «Praticamente chiunque si ritrovi nella condizione di accusare Israele per le politiche che Israele mette in essere, negli Usa viene tacciato immediatamente di antisemitismo. L’esempiò più eclatante riguarda l’ex presidente Jimmy Carter che è stato apertamente accusato di antisemitismo, se non addirittura di neonazismo, semplicemente perché si era permesso di criticare, in un libro che ha pubblicato, le azioni del governo israeliano nei confronti dei palestinesi. Questa è una tattica che viene comunemente usata proprio per mettere sotto accusa chiunque si permetta di criticare le politiche israeliane. Noi siamo stati molto attenti nel nostro libro a non dare adito a nessuna accusa di antisemitismo. Siamo stati critici nei confronti di determinate politiche che Israele ha messo in atto, ma certamente il nostro libro può essere tutto tranne che un libro antisemita. Anzi: noi abbiamo detto molto apertamente che sosteniamo il diritto di esistenza di Israele e abbiamo anche chiarito che la Israel lobby ha un suo status di normalità e quindi di legalità nell’ambito del sistema americano, e soprattutto che le azioni che la Israel lobby porta avanti sono tutte riconducibili nell’ambito del sistema democratico, e dunque non c’è nulla di illegale che la Israel lobby faccia. Tuttavia, solo per il fatto che ci siamo permessi di criticare alcune azioni condotte dal governo israeliano, siamo stati oggetto di accuse di antisemitismo e qualcuno ha anche tentato di dipingerci sia come degli estremisti che come dei bigotti». In che modo la Israel lobby potrà influenzare la scelta del nuovo presidente Usa? C’è chi sostiene, trascinando l’attuale amministrazione Bush in una nuova guerra: quella contro l’Iran. Walt: «È assolutamente chiaro che indipendentemente dal candidato, democratico o repubblicano, che vincerà le elezioni,colui o colei che diverrà il nuovo Presidente, sarà assolutamente conscio dell’influenza che la Israel lobby ha esercitato sulle elezioni, ponendo così una seria ipoteca sulla politica che il nuovo inquilino della Casa Bianca metterà in atto. Lo si vede benissimo già oggi: tutti i candidati dei due partiti hanno già fatto passi notevoli per dimostrare comunque il loro supporto a Israele, prima ancora delle elezioni. Questo può ragionevolmente portare chiunque a dire che la politica americana non cambierà in modo significativo, indipendentemente dal vincitore delle presidenziali. Ritengo che ciò sia un peccato perché, a mio avviso, se si normalizzassero di più le relazioni tra Usa e Israele, se cioè si fosse più onesti nell’ammettere quelli che sono i pro e contro, e quindi anche gli errori che sono stati compiuti da Israele; se Israele accettasse di più le critiche che a volte, giustamente, le vengono mosse, si creerebbe una situazione decisamente migliore per quanto riguarda i rapporti internazionali. E poi io trovo che, se davvero uno Stato è amico di un altro Stato, come succede fra due amici, il dovere di un amico è quello di avvertire l’altro quando fa degli errori». Mearsheimer: «Per quanto riguarda l’Iran, non c’è dubbio che sia Israele che la Israel lobby sono le forze principali che stanno esercitando pressioni notevoli affinché gli Stati Uniti sferrino l’attacco contro l’Iran. Credo però che la cosa sia decisamente improbabile, nel senso che resto convinto che nel futuro prossimo gli Usa non attaccheranno l’Iran. Con questo non voglio dire che non sia possibile, ma penso che sia improbabile. Per una serie di ragioni: l’America si trova già oggi di fronte a una serie di grossi problemi nel Medio Oriente, e non ha certamente bisogno di scatenare un’altra guerra che andrebbbe a complicare ancora di più la situazione. E poi se gli Stati Uniti dovessero sferrare l’attacco, Teheran per rappresaglia immediatamente agirrebbero su Paesi come l’Afghanistan e l’Iraq, dove già gli Usa sono impantanati e non riescono a delineare una onorevole via di uscita. A tutto ciò va aggiunto che comunque sferrare una guerra contro l’Iran non risolverebbe i problemi perché Teheran si sentirebbe incentivata a sviluppare, occultandola, la costruzione di armamenti nucleari. Va poi tenuto conto che negli Usa i neocons hanno ormai perso molta credibilità, come pure i leader della Israel lobby, perché in passato sono stati veementi sostenitori della guerra contro l’Iraq che si è rivelata essere un disastro strategico e un fallimento totale. Per tutti questi motivi, ritengo improbabile, anche se non impossibile, che il presidente Bush nel corso degli ultimi mesi del suo mandato possa davvero sferrare, peraltro contro le indicazioni dei vertici militari Usa, una guerra all’Iran». Pubblicato il: 18.11.07 Modificato il: 18.11.07 alle ore 15.23 © l'Unità. Titolo: DE GIOVANNANGELI - Annapolis, ecco le carte segrete di un «grande disaccordo» Inserito da: Admin - Novembre 23, 2007, 06:47:06 pm Annapolis, ecco le carte segrete di un «grande disaccordo»
Umberto De Giovannangeli La carta intestata è quella di un grande albergo nel cuore della Gerusalemme ebraica - il King David Hotel - dove si è svolta la riunione. La data è il 17 novembre. Cinque pagine. Un documento eccezionale, perché dà conto dello stato della trattativa tra israeliani e palestinesi per la definizione di un Documento (o Dichiarazione) congiunto da portare al tavolo della Conferenza di Annapolis. Cinque pagine con note scritte a mano dove «I» sta per Israele e «P» per l’Anp. l’Unità ne ha avuto copia attraverso fonti legate alla delegazione palestinese, le stesse che hanno fornito la bozza al quotidiano progressista israeliano Haaretz. Quello che definisce un Documento congiunto (ma per «I» è una meno impegnativa Dichiarazione) si apre con un’affermazione di principio condivisa da ambedue le parti. «La nostra determinazione è a porre fine al bagno di sangue, alla sofferenza e a decenni di conflitto tra i nostri popoli, e di prefigurare una nuova era di pace fondata sulla sicurezza, la giustizia, la dignità, il rispetto e il riconoscimento reciproci, e di diffondere una cultura di pace e la non violenza». Il documento è stato redatto da Shalom Trjeman e Tel Becker per Israele , e Saeb Erekat e Zeinah Salahi per i palestinesi. Il documento inizia con un preambolo in cui sono indicati gli obiettivi e contiene una sezione sui negoziati, una sulla tabella di marcia, un’altra sul ruolo della Comunità internazionale e dei Paesi della regione. Un punto sostanziale di controversia (ancora sul tavolo) segnalata dalla nota a margine della bozza, riguarda la questione del calendario per la conclusione dei negoziati bilaterali. P scrive che le due parti «concordano in buona fede di avviare negoziati al fine di concludere un accordo entro gli 8 mesi successivi alla convocazione della riunione di Annapolis, comunque entro e non oltre il termine della presidenza Bush» (gennaio 2009). La sottolineatura di «I» (come appare nella bozza del 17 novembre) recita: «Nessun accordo per il calendario...». Sulle linee guida della trattativa, «P» scrive che i negoziati saranno «basati sui termini di riferimento concordati e dei principi, compresa la Road Map, che ha chiesto la fine dell’occupazione israeliana, che ha avuto inizio nel 1967, del piano di pace arabo del 2002, e del diritto internazionale, al fine di realizzare uno Stato sovrano indipendente di Palestina, che viva fianco a fianco in pace e in sicurezza con lo Stato d’Israele». Più sfumata è la posizione di «I» secondo cui «i negoziati saranno guidati dai termini concordati di riferimento per il processo di pace», senza entrare nel merito; cosa che invece fa «P» includendo tra i termini di riferimento per i negoziati, anche la risoluzione 194 delle Nazioni Unite sul diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. «I» non accetta questi termini di riferimento e a sua volta «prende atto» delle «richieste» del Quartetto (Usa, Ue, Onu e Russia) che hanno portato al boicottaggio di Hamas, e che comprendono il riconoscimento (palestinese) di Israele e una condanna del terrorismo, e, per quanto concerne riferimenti ai precedenti negoziati e/o documenti, «I» fa riferimento alle risoluzioni dell’Onu 242 e 338, alla Road Map, alla visione del presidente Bush su due Stati, Israele e Palestina (riferimenti peraltro condivisi da «P». «P» si oppone ad una formula inserita da I nel preambolo, con la quale si sancisce che Israele «è la patria del popolo ebraico e la Palestina è la patria del popolo palestinese». «P» si oppone anche alla menzione della parola «terrorismo» inserita nella frase in cui le parti si impegnano a «far cessare l’incitamento (alla violenza), l’estremismo, il terrorismo e la violenza». «P» si dice contrario che nel Documento-Dichiarazione sia inserita la frase «garantire il rilascio (del soldato israeliano rapito diciassette mesi fa ai confini con Gaza) Gilad Shalit». «P» afferma inoltre che il Documento-Dichirazione, una volta firmata, sarà vincolante e che nessuna delle parti compirà passi tali da alterare lo status della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, e della Striscia di Gaza. Vi è poi la sezione «controllo» dell’attuazione delle intese raggiunte fra le parti. «I» si dice contrario alla «immediata e parallela» attivazione della tabella di marcia e alla creazione di una commissione israelo-palestino-statunitense per il controllo dell’attuazione delle intese. Opposizione anche a indicare negli Usa il super visore chiamato a «monitorare e valutare» i comportamenti delle due parti nell’adempimento degli obblighi definiti nel Documento (Dichiazione) congiunto. In questa sezione c’è un punto interamente palestinese. «P» propone l’immediata istituzione di commissioni di negoziazione chiamate a tradurre in intese le indicazioni emerse ad Annapolis e a predisporre incontri internazionali, ogni tre mesi, per la verifica dei progressi (o degli intoppi). Nel paragrafo conclusivo «P» propone che tutti i prigionieri palestinesi detenuti (in Israele) debbano essere rilasciati alla firma del trattato di pace, e fa riferimento al miglioramento della vita quotidiana e al benessere del popolo palestinese. Su questo punto «I» adotta una formula più vaga. Questa: «Israele farà ogni sforzo per migliorare la vita quotidiana e in anticipo il benessere della popolazione palestinese in attesa della piena attuazione del trattato (di pace)». «P» esplicita invece questi «sforzi»: rimuovere i ceck-point, la fine delle restrizioni nei movimenti (di persone e merci), lo smantellamento della barriera di separazione in Cisgiordania. Nel paragrafo conclusivo , appare un commento israeliano, «Nota per la questione in sospeso...Come affrontare la situazione a Gaza nel documento?». «P» non fa alcun riferimento alla situazione nella Striscia di Gaza e non chiede che nel Documento congiunto via sia inserita la richiesta dell’apertura dei valichi di frontiera tra Gaza e Israele, così come non fa menzione dei pronunciamenti della Corte internazionale di giustizia in merito alla barriera di sicurezza in Cisgiordania. Mentre la discussione tra «I» e «P» prosegue, Un cauto ottimismo arriva da Sharm el Sheikh, sulle sponde del Mar Rosso egiziano, dove il presidente Hosni Mubarak ha incontrato il re di Giordania Abdallah II e il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen), in vista della conferenza di Annapolis. La riunione, nel Maryland non distante da Washington, «potrebbe rispondere alle ambizioni dei palestinesi e del popolo arabo e di tutti coloro che sono interessati alla questione palestinese e al processo di pace», rileva il portavoce del presidente egiziano Soleiman Awad. Oggi, vertice d’emergenza dei ministri degli Esteri della Lega Araba. Una fonte diplomatica araba al Cairo ha detto che molti Paesi vogliono partecipare. La questione è trovare una ragione minima per esserci. E l’«ottimismo» di ieri - Egitto e Giordania sono gli unici Paesi arabi ad avere rapporti con Israele - sembra alimentarsi con poco: la lettera d’invito «fa riferimenti alla pace, in particolare all’iniziativa araba sul principio di terra in cambio di pace», ha detto Awad. Pubblicato il: 23.11.07 Modificato il: 23.11.07 alle ore 13.05 © l'Unità. Titolo: DE GIOVANNANGELI - Annapolis, la Siria dice sì al vertice voluto da Bush Inserito da: Admin - Novembre 26, 2007, 06:56:18 pm Annapolis, la Siria dice sì al vertice voluto da Bush
Umberto De Giovannangeli Il sì di Damasco. Le preghiere del Papa. Annapolis si arricchisce di presenze e di auspici. Alla fine la Siria sarà presente alla conferenza sul Medio Oriente voluta dall’amministrazione Bush che inizierà domani ad Annapolis, nel Maryland. Ma al contrario degli altri Paesi arabi che parteciperanno, sarà rappresentata da un sottosegretario, e non dal ministro degli Esteri. Un portavoce citato dall’agenzia ufficiale Sana ha annunciato che Damasco «ha ricevuto un invito dal governo degli Stati Uniti per partecipare alla conferenza di Annapolis per la pace e ha deciso di accettare, dopo che nell’agenda dei lavori è stata inserita la questione siriana», vale a dire la questione delle alture del Golan occupate da Israele. La stessa fonte ha precisato che Damasco sarà «rappresentata da delegazione ufficiale guidata dal vice ministro degli Esteri Faisal al Mekdad», ex ambasciatore siriano alle Nazioni Unite. Appena l’altro ieri, a soli tre giorni dall’appuntamento, il ministro degli Esteri Walid al-Muallim aveva affermato che Damasco avrebbe deciso «se partecipare ad Annapolis solo dopo avere avuto conferma ufficiale che la questione del Golan è inserita nel programma della conferenza». Le Alture furono occupate da Israele nel 1967 e annesse poi allo Stato ebraico nel 1981. Poco dopo l’annuncio ufficiale della Sana, arriva prontamente la reazione di Gerusalemme: «Israele accoglie positivamente la partecipazione della Siria ad alto livello alla riunione di Annapolis», dichiara Miri Eisin, portavoce del primo ministro Ehud Olmert. Ma oltre ad attirare l’attenzione sulla questione del Golan, la Siria considera la sua presenza ad Annapolis come una rara opportunità di ritrovare un ruolo di primo piano nella politica regionale, dopo l’isolamento internazionale a cui è stata sottoposta in seguito all’assassinio, il 14 febbraio 2005, dell’ex premier libanese Rafik Hariri, per il quale in molti, compresa una commissione d’inchiesta dell’Onu, hanno puntato il dito accusatore contro alti ufficiali della sicurezza libanesi. E anche la stessa crisi libanese, nella quale l’ombra di Damasco è sempre presente, sembra essere in attesa degli sviluppi ad Annapolis, considerato che due giorni fa presidente del Parlamento, lo sciita filosiriano Nabih Berri, ha rimandato al 30 novembre - tre giorni dopo la conferenza sul Medio Oriente - la seduta parlamentare per l’elezione del nuovo capo di Stato. E ad Annapolis guarda con speranza anche la Santa Sede. La Conferenza è un’occasione cruciale sulla via di una soluzione «giusta e definitiva per il conflitto che da sessant’anni insanguina la Terra Santa»: così all’Angelus Benedetto XVI che ha invocato «la pace per quella regione a noi tanto cara». Anche la Santa Sede parteciperà con una sua delegazione all’incontro nel Maryland. Pubblicato il: 26.11.07 Modificato il: 26.11.07 alle ore 8.19 © l'Unità. Titolo: Hanna Siniora: «Un’opportunità storica: Israele e Anp non devono sprecarla» Inserito da: Admin - Novembre 27, 2007, 06:00:35 pm Hanna Siniora: «Un’opportunità storica: Israele e Anp non devono sprecarla»
Umberto De Giovannangeli «Il segnale più importante è che gli Stati Uniti hanno puntato decisamente a fare della pace tra israeliani e palestinesi la leva per una svolta in Medio Oriente». A sostenerlo è Hanna Siniora, direttore del «Jerusalem Times», uno dei più autorevoli intellettuali palestinesi. Alla vigilia della Conferenza di Annapolis le delegazioni di Israele e Anp sono vicine ad una intesa su una Dichiarazione congiunta. «Non ho ancora avuto modo di prendere visione di questo documento. Ma il fatto stesso che, sia pure in extremis, sia stata raggiunta una intesa è di per sé un fatto politicamente significativo. Naturalmente la strada per giungere ad un accordo definitivo è ancora lunga e piena di ostacoli, ma Annapolis può davvero essere l’inizio di una svolta decisiva e non solo per la soluzione del conflitto israelo-palestinese». Hamas ha già messo le mani avanti sostenendo che tutto ciò che uscirà da Annapolis sarà solo carta straccia. «Questa sparata è segno di debolezza. I capi di Hamas hanno compreso perfettamente che una accelerazione nel negoziato rappresenta l’inizio della fine politica di Hamas. Ed è per questo che temo provocazioni sul campo. I nemici della pace non assisteranno passivamente al rilancio del dialogo». Qual è un aspetto da sottolineare della Conferenza di Annapolis? «Indubbiamente la presenza araba. Non è solo un discorso quantitativo ma qualitativo. Perché per la prima volta la stragrande maggioranza dei Paesi arabi si riconosce, sia pure con sottolineature diverse, in un piano di pace, quello saudita, che arricchisce il confronto e pone Israele di fronte ad una opportunità storica...» Di quale opportunità si tratta? «Quella di legare strettamente la pace con i palestinesi alla normalizzazione dei rapporti con buona parte del mondo arabo. Non è più “pace in cambio dei Territori (occupati nel 1967), ma la pace come volano di una normalizzazione dei rapporti tra Israele e i vicini arabi. Una pace che sia altro e di più dall’assenza di guerra. Si tratta di cogliere questa opportunità forse irripetibile, sapendo bene che se dovesse essere bruciata, l’alternativa non sarebbe il mantenimento dell’attuale status quo ma la deflagrazione di un conflitto che investirebbe l’intera regione». E nel merito, qual è a suo avviso il punto di svolta di Annapolis? «Direi la determinazione nell’affrontare tutti i nodi strategici del conflitto israelo-palestinese. Sta qui la svolta rispetto ad Oslo-Washington del 1993. Allora si decise di rinviare ad un futuro indeterminato la discussione sulle questioni davvero dirimenti - i confini, Gerusalemme, rifugiati palestinesi, risorse idriche - sperando che il tempo lavorasse per la pace. La realtà dimostrò l’esatto contrario. Quella del rinvio non si è rivelata una buona politica». Ma Olmert e Abu Mazen hanno la forza, l’autorità, per imporre ai due popoli i sacrifici inevitabili per il raggiungimento della pace? «Molto dipenderà dalla determinazione con cui la Comunità internazionale sosterrà il dopo-Annapolis. Ma altrettanto importante sarà l’impegno delle forze che nei due campi si sono sempre battute per un equo compromesso, a costruire momenti di mobilitazione. La pace nasce anche dal basso». Lei in passato è stato tacciato di essere un «sognatore» perché aveva sposato le ragioni del dialogo. «Sognatore? Direi piuttosto realista. Perché i veri “sognatori” sono quelli mossi da una insana bramosia di possesso assoluto, i teorici del Grande Israele e della Grande Palestina. Sognatori di sventure». A cosa lega la parola pace? «Ai concetti di giustizia e, soprattutto, di democrazia. Perché lo Stato palestinese per cui mi sono sempre battuto è ben altra cosa da uno Stato teocratico o autoritario. Penso ad uno Stato di diritto, garante del pluralismo politico e delle libertà individuali e collettive. Questa è la sfida che ci attende nel futuro: coniugare indipendenza e democrazia. Ciò comporta un profondo cambiamento nella classe dirigente palestinese; un rinnovamento di mentalità e di personale politico». Pubblicato il: 27.11.07 Modificato il: 27.11.07 alle ore 8.19 © l'Unità. Titolo: DE GIOVANNANGELI - La sfida di Annapolis Inserito da: Admin - Novembre 28, 2007, 05:27:53 pm La sfida di Annapolis
Umberto De Giovannangeli Non è stata una «photo opportunity». Ma un Nuovo Inizio. Importante. Impegnativo. La pace in Medio Oriente riparte da Annapolis. Non era scontato. Non era scontata la partecipazione di tanti Paesi arabi di primo piano - come Arabia Saudita e Siria - che non si erano mai seduti in una riunione che discuteva di pace assieme a Israele. Sono parole, certamente. Ma quelle riecheggiate nel lontano Maryland sono state parole di speranza, merce rara in un Medio Oriente abituato a ben altro, e più terribile, linguaggio. È quello della violenza, del terrore, delle disastrose guerre preventive. Dopo sette anni, il processo di pace si rimette in movimento. Non sarà un cammino facile, in discesa. Come spesso è accaduto nel tormentato scenario mediorientale, quando il dialogo si rafforza, quando l’accordo si fa più concreto, i nemici della pace, e i loro munifici protettori, tornano in azione, seminando morte e terrore. È bene ricordarlo, oggi che il vento della speranza torna a spirare. I negoziati bilaterali che da Annapolis prendono le mosse dovranno affrontare questioni cruciali, dirimenti, di non facile soluzione: Gerusalemme, i profughi, le frontiere, gli insediamenti, la sicurezza e l'acqua. Non sarà facile. Tuttavia ad Annapolis si sono gettate le basi per un compromesso possibile, rispettoso dei diritti, ugualmente fondati: il diritto alla sicurezza di Israele, il diritto ad uno Stato indipendente per i palestinesi. «Israeliani e palestinesi hanno leader determinati a raggiungere la pace», riconosce George W.Bush. È vero. È così. Ma è altrettanto vero che da soli, Ehud Olmert e Abu Mazen, non possono farcela. Per questo la «sfida di Annapolis» riguarda tutti noi. Riguarda la diplomazia degli Stati come quella dei popoli. E impegna l’Europa che sul fronte israelo-palestinese è chiamata ad esercitare lo stesso protagonismo manifestato, sul campo, in Libano. E il primo impegno è quello di migliorare le condizioni di vita della popolazione palestinese, nella Striscia di Gaza: tante volte si è parlato in passato di un «Piano Marshall» per la ricostruzione nei Territori. È tempo di realizzarlo. La sfida della pace lanciata da Annapolis è un impegno che deve riguardare tutta la Comunità internazionale; ed è un impegno che non ammette «diserzioni». In Medio Oriente, recita un vecchio assunto, non si è persa occasione per perdere l’Occasione della pace. Stavolta l’Occasione è irripetibile. Perché l’alternativa ad una pace giusta, tra pari, non è il mantenimento dell’attuale status quo ma un nuovo, devastante conflitto che investirebbe l’intera regione. Olmert e Abu Mazen ne sono consapevoli, e anche per questo hanno investito sul dialogo. Annapolis non è la Soluzione. Non poteva né doveva esserlo. Ma Annapolis ha fatto i conti con i fallimenti passati. E ha abbozzato dei correttivi. Su due punti sostanziali: tempo e sbocco finale del negoziato. Tempo significa che occorre indicare, da subito, il «quando» concludere il processo negoziale: entro la fine del 2008, si sono impegnati Olmert e Abu Mazen. È la prima volta che ciò accade. Così per lo sbocco finale: esplicitato sin dall’inizio del negoziato. Lo sbocco è quello di due popoli, due Stati. La gradualità è nell’attuazione delle intese non nella determinazione finale. Ad Annapolis si è parlato il linguaggio della verità. E la verità, per Israele, che non esiste una pace a costo zero. La verità, per i palestinesi, è che la rivendicazione di diritti, come quello al ritorno dei rifugiati, non può essere usato per scardinare l’identità ebraica dello Stato d’Israele. La pace è un incontro a metà strada. È un insopprimibile bisogno di normalità che ha la meglio sui disegni del Grande Israele o della Grande Palestina. Ma la pace evocata ad Annapolis è anche molto di più di un’assenza di guerra. È il volano per cambiare il volto del Medio Oriente, per rompere barriere fisiche e mentali, per abbattere i «muri» del pregiudizio e dell’ostilità. La sfida di Annapolis vede in prima fila l’America. E il suo presidente. George W.Bush ha svolto un discorso coraggioso, si è assunto impegni gravosi, ha ricordato all’alleato israeliano che la nascita di uno Stato palestinese rafforza la sicurezza stessa dello Stato ebraico. Di ciò gli va dato atto. Forse vuol lasciare di sé il ricordo di un presidente che ha «conquistato» la pace e non del leader che ha trascinato il suo Paese nel «nuovo Vietnam» mediorientale: l’Iraq. Se anche fosse così, mai ambizione personale sarebbe più fruttuosa. Per il futuro di due popoli. Per la pace dei coraggiosi. Pubblicato il: 28.11.07 Modificato il: 28.11.07 alle ore 13.19 © l'Unità. Titolo: Abu Ala: «Solo i fatti diranno se è stata davvero la la Conferenza della svolta» Inserito da: Admin - Novembre 30, 2007, 12:01:11 am Abu Ala: «Solo i fatti diranno se è stata davvero la Conferenza della svolta»
Umberto De Giovannangeli La sua voce tradisce la fatica di chi ha trascorso ore ed ore a limare la Dichiarazione congiunta letta da Bush all’apertura della Conferenza di Annapolis, raggiungendo all’ultimo minuto - «non è una metafora, il presidente Bush ha ricevuto il testo mentre stava per prendere la parola»- il risultato sperato. Dopo ripetuti tentativi, riusciamo a raggiungere telefonicamente a Washington l’ex premier palestinese Ahmed Qrei (Abu Ala), capo della delegazione palestinese che ha trattato con la controparte israeliana, guidata dalla ministra degli Esteri Tzipi Livni, il documento congiunto che sarà alla base dei negoziati di pace lanciati da Annapolis. Abu Ala non nasconde la sua soddisfazione ma avverte: «Ora viene il difficile, perché dovremo dimostrare con i fatti di essere all’altezza delle aspettative suscitate dalla Conferenza di Annapolis». Di una cosa, l’ex premier palestinese si dice certo: «Quella che abbiamo davanti a noi è una opportunità irripetibile». Lei è stato uno degli artefici della Conferenza di Annapolis, come lo fu delle trattative che portarono agli accordi di Oslo-Washington (1993). Si può parlare di Annapolis come della Conferenza della svolta? «Diciamo che ne è la premessa. Ma saranno le prossime settimane a dire se siamo davvero di fronte a una svolta. Mi auguro che sia cosi, tutto dipende dalla capacità di dare un seguito concreto alle impegnative affermazioni che hanno caratterizzato la Conferenza». Come dovrebbe sostanziarsi questo «seguito»? «Con misure concrete che sostanzino i negoziati. In questo modo daremo una dimostrazione tangibile che sia noi che gli israeliani siamo impegnati in un cammino irreversibile verso la pace». Dal punto di vista palestinese, quali sono le aperture di cui si dovrebbe far carico Israele? «Sono quelle che il presidente Abbas ha indicato chiaramente nel suo discorso alla Conferenza e negli incontri bilaterali che abbiamo avuto con il presidente Bush e la segretaria di Stato Rice, trovando in loro ascolto e sostegno: Israele deve porre fine alla colonizzazione della Cisgiordania, riaprire le istituzioni palestinesi che aveva chiuso di imperio a Gerusalemme Est, smantellare gli avamposti illegali, rimuovere i check-point e liberare i prigionieri palestinesi. Sono misure che rafforzerebbero il dialogo senza per questo mettere a repentaglio la sicurezza di Israele». Qual è il punto chiave della Dichiarazione congiunta, quello per il quale lei si è più battuto? «L’aver chiarito che il negoziato riguarda tutte le questioni cruciali, nessuna esclusa. Quello in cui ci siamo impegnati è un negoziato globale e approfondito su tutti i nodi che investono lo status finale, e ciò vuol dire Gerusalemme, i rifugiati, le frontiere, gli insediamenti, la sicurezza e le risorse idriche». Una delle questioni più spinose riguarda Gerusalemme. «Discutere su una sovranità condivisa di Gerusalemme non è più un tabù e di ciò ne diamo atto a Olmert. Gerusalemme può essere capitale di due Stati, città del dialogo, patrimonio dell’umanità. Di certo, è impensabile un accordo di pace che non contempli Gerusalemme Est come capitale dello Stato di Palestina». Hamas ha bollato Abu Mazen di tradimento e ha sconfessato tutto ciò che è emerso da Annapolis. «Non prendiamo lezioni dai golpisti. D’altro canto, i proclami di Hamas non mi meravigliano né mi intimidiscono. Al contrario, rafforzano la nostra determinazione nel perseguire la strada del negoziato. E ciò dovrebbe valere anche per Israele e per la Comunità internazionale. Perché ponendo fine all’occupazione, verrebbe meno uno dei principali pretesti utilizzati per giustificare il terrorismo in Medio Oriente e nel mondo. L’assenza di speranza alimenta l’estremismo». Il passato è pieno di speranze puntualmente disattese. «Lo so bene come non sottovaluto lo scetticismo che ha accompagnato la convocazione della Conferenza. È uno stato d’animo comprensibile e giustificato da precedenti fallimenti. Spetta a noi vincere il disincanto e dimostrare, con i fatti, che il cambiamento è già in atto e che la ricerca di un accordo non sacrifica i diritti dei palestinesi. Su questo il presidente abbas è stato chiarissimo». il fattore-tempo è stato uno dei nodi più intricati da sciogliere per la definizione della Dichiarazione congiunta. Si ritiene soddisfatto della formula raggiunta? «Diciamo che è un compromesso ragionevole. Da parte nostra avremmo voluto che nella Dichiarazione vi fosse una data vincolante. Resta il fatto che per la prima volta si fa riferimento, sia pure come impegno e non come vincolo, ad una "dead line" temporale per la chiusura del negoziato sullo status finale: entro il 2008. Sta a noi realizzare questo impegno». Il 12 dicembre ci sarà la prima riunione post-Annapolis. Lei sarà alla guida della delegazione palestinese. Quali saranno i suoi punti di riferimenti per avviare le trattative? «Non c’è da niente da inventarsi. Le basi non possono che essere le risoluzioni Onu, il piano di pace arabo, le indicazioni ribadite da Bush nel suo discorso di Annapolis. Va da sé che ogni discussione dovrà includere Gerusalemme e Gaza». Tra le risoluzioni Onu a cui fa riferimento c’è anche la 194, quella che riguarda il diritto al ritorno dei profughi palestinesi? «Certo che sì. Il negoziato dovrà sostanziare il riconoscimento di questo diritto. Esistono varie possibilità, siamo pronti a discuterne senza pregiudiziali, ma non ci si può chiedere di dire a milioni di palestinesi: voi non c’entrate con questa pace, anzi, siete stati "merce" di scambio». Che valore ha avuto la presenza alla Conferenza di Annapolis dei sauditi? «Il valore di un impegno alla pace, una pace equa, che accomuna la quasi totalità dei Paesi arabi. Lei fa riferimento alla presenza saudita, ma non è da meno quella della Siria, oltre che quella di Paesi, come l’Egitto e la Giordania, in prima linea da tempo nel processo di pace. Ad Annapolis i Paesi della Lega araba non sono arrivati in ordine sparso ma con una linea condivisa. Si tratta di un fatto di straordinaria rilevanza politica che rende più forte la posizione palestinese al tavolo della trattativa e al tempo stesso offre a Israele un’opportunità irripetibile: normalizzare le relazioni con la stragrande maggioranza dei Paesi arabi. Visti in questa ottica, i “dolorosi sacrifici” evocati dal primo ministro Olmert - la rinuncia ai territori occupati nel 1967 - non sono poi così dolorosi, perché la posta in gioco è una pace globale per un nuovo Medio Oriente». ha collaborato Osama Hamdan Pubblicato il: 29.11.07 Modificato il: 29.11.07 alle ore 8.37 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - La brutta politica di Sua Santità Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2007, 07:05:43 pm La brutta politica di Sua Santità
Umberto De Giovannangeli È «relativismo morale» impegnarsi per salvare la vita di migliaia di donne e bambini segnati dal virus dell’Aids nella martoriata Africa? È «negare la possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale», impegnarsi perché le Nazioni Unite approvino finalmente una risoluzione per la moratoria universale della pena di morte? Tra i «frutti amari della logica relativistica» vanno annoverati anche gli sforzi per la ricostruzione, non solo materiale, di Paesi disastrati da guerre e pulizie etniche? Tanto per ricordare una tragedia dimenticata, basterà citare il caso del Ruanda. Ed ancora: lavorare per alleviare le sofferenze della popolazione palestinese nella Striscia di Gaza, praticare una solidarietà concreta per la gente del Kosovo, tutto ciò rientra nel «disprezzo del diritto umanitario» e nella discriminatoria «difesa selettiva dei diritti umani»? C’è molta politica, e poca pietas, nelle considerazioni che Papa Benedetto XVI ha espresso ieri incontrando in Vaticano le Ong cattoliche più importanti e influenti del mondo. C’è molta politica e, spiace rilevarlo, di quella partigiana e dunque, annoverabile nella «brutta politica». Brutta perché faziosa. Brutta perché ingenerosa. Brutta perché la battaglia della Chiesa cattolica contro l’aborto non dovrebbe spingersi fino al punto di tirare in ballo l’operato dell’Onu, genericamente inteso, e di non meglio precisati organismi internazionali. Le Nazioni Unite non sono solo il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea generale. Le Nazioni Unite sono anche le tante agenzie umanitarie impegnate ogni giorno nelle aree più «calde» e disastrate del pianeta. Benedetto XVI avrebbe fatto bene a ricordarlo: la sua non è stata una dimenticanza di poco conto. Se non suona blasfemo, diremmo che il pontefice stavolta ha peccato di «ingenerosità». Papa Ratzinger sprona a battersi affinché i principi etici non siano «negoziabili», né a Palazzo di Vetro di New York né altrove. Bene. Giusto. Ma coerenza avrebbe voluto che tra i principi etici non «negoziabili» vi fosse anche il «no» allo Stato che si fa giustiziere attraverso la pratica della pena di morte. Nella Terza commissione delle Nazioni Unite che nelle scorse settimane ha approvato la risoluzione per la moratoria della pena capitale, la Santa Sede (che all’Onu ha il rango di osservatore) ha guardato con favore ad un capzioso tentativo del fronte anti-moratoria di inserire la questione del diritto dell’embrione all’interno di una discussione che riguardava il «no» ai boia di Stato. Le ragioni dell’etica dovrebbero spingere a chiedere più risorse per le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite; le ragioni di una «bella politica» imporrebbero il sostegno a quanti, in nome di una visione multilaterale del governo dei conflitti, chiedono una maggiore centralità, e dunque più strumenti e poteri, per l’Onu. Ha ragione, Papa Ratzinger, a denunciare il «disprezzo per il diritto umanitario» che segna fortemente i nostri tempi. Ma quel disprezzo - ricorderebbero gli operatori Onu che ogni giorno interagiscono con una umanità sofferente - - ha poco a che vedere con «certi stili egoistici di vita» e molto con quelle logiche di potenza, che hanno, ad esempio, segnato negativamente le presidenze del religiosissimo George W.Bush, e fatto prevalere gli interessi del più forte su quelle dei più deboli. Di queste logiche deteriori, l’Onu è stato più vittima che propugnatore. Pubblicato il: 02.12.07 Modificato il: 02.12.07 alle ore 14.44 © l'Unità. Titolo: Aoun: Intesa sul presidente solo con un governo di unità Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2007, 04:44:17 pm Aoun: «Intesa sul presidente solo con un governo di unità»
Intervista al generale cristiano Aoun: favorevoli a Suleiman ma il premier Siniora non può agire contro metà del Paese» Umberto De Giovannangeli Per i suoi nemici è un uomo assetato di potere. Per i suoi sostenitori è un mito inossidabile. I suoi più stretti collaboratori lo definiscono il Charles de Gaulle del Libano. I suoi detrattori lo chiamano «Napolaoun». Per tutti, è uno degli uomini da cui dipende il futuro del Libano. Ed è a lui che le forze di opposizione hanno affidato la «missione impossibile» di trovare in extremis un accordo con la coalizione di maggioranza. La parola al generale Michel Aoun, la cui storia personale s’intreccia indissolubilmente con quella del Paese dei Cedri. Ex premier, ex capo delle forze armate nei terribili anni della guerra civile, sconfitto nel 1990 dalle forze armate di Damasco, Aoun fu costretto all’esilio, che durerà 15 anni. Nel 2005 fa ritorno in Libano e alle legislative di quell’anno alla guida del Libero movimento patriottico ottiene il 70% del voto cristiano. Alleato degli sciiti di Hezbollah e di Amal, a 72 anni, Michel Aoun è ancora sulla breccia: «Sarei stato - dice - un ottimo presidente. Nessuno tra i candidati cristiani (per il sistema politico-istituzionale del Libano il capo dello Stato deve essere un cristiano maronita, ndr.) si avvicina lontanamente al consenso che ho io, ma in nome dell’unità nazionale ho detto di essere pronto a fare un passo indietro e a sostenere la candidatura del generale Suleiman, ma a precise condizioni…», che il generale Aoun ribadisce in questa intervista a l’Unità. Generale Aoun, domani il Parlamento libanese dovrebbe provare a riunirsi per eleggere il nuovo capo dello Stato. Le precedenti sette chiamate sono andate a vuoto. Stavolta? «Ho ribadito a più riprese che prima dell’accordo sul nome ci deve essere un accordo sul programma. Siamo disposti a sostenere la candidatura di Michel Suleiman ma all’interno di un accordo complessivo che riguardi anche il nuovo governo. Ciò che chiediamo è la costituzione di un governo di riconciliazione nazionale formato sulla base della rappresentatività parlamentare…» Vale a dire? «Il 55% alla maggioranza, il 45% all’opposizione, il che significa che su 30 ministri, 17 andrebbero alla maggioranza, 13 all’opposizione. E’ una richiesta ragionevole, che ha come interesse superiore il bene del Paese…». Le forze della coalizione del "14 marzo" non sono di questo avviso e ribattono che la sua è una richiesta strumentale, che tende a procrastinare il vuoto istituzionale alla Presidenza del Libano. «Di strumentale c’è il loro atteggiamento di chiusura, il comportarsi come una cleptocrazia… La verità è sotto gli occhi di tutti: il governo in carica (guidato da Fuad Siniora, ndr.) ha perso la sua legittimità. Costoro non possono pretendere di governare contro la metà del Paese. L’unità nazionale si ricostruisce con il dialogo e non con i diktat di chi si fa forte del sostegno esterno...». Quanto a sostegno esterno, non può negare che l’opposizione di cui lei è tra i leader possa contare su quello della Siria. «Mi ascolti bene: nessuno può darmi lezione su cosa significhi essere un vero libanese. Per me parla la mia storia. Dov’erano questi paladini della sovranità nazionale quando io mi battevo contro gli invasori? Proprio io che in quegli anni combattei i siriani, dico che sarebbe una follia pensare che il Libano possa rifiorire rompendo qualsiasi legame con la Siria. Noi dobbiamo far vivere una nuova concezione dei rapporti fra gli Stati, fondati sul rispetto reciproco e sul rifiuto di ogni tutela o ingerenza esterne. Ma questo discorso non può valere solo nei confronti della Siria, ma con tutti quelli che hanno interessi qui: la difesa della sovranità libanese è un bene che va preservato anche nei riguardi dell’America e dell’Europa, ma da questo orecchio Fuad Siniora non pare intendere». Vorrei tornare all’elezione del nuovo capo dello Stato. Al di là del nome, quale ne dovrebbe essere a suo avviso il tratto politicamente più significativo? «Deve essere una personalità forte e allo stesso tempo saggia. Il nuovo presidente deve essere il garante dell’unità nazionale e per questo non può essere imposto da una parte contro l’altra. Un presidente-garante non può scaturire da uno sfregio della Costituzione (per la quale il capo dello Stato deve essere eletto in prima istanza dai 2/3 del Parlamento, ndr.)». Ma questa asserzione ha fin qui portato al vuoto istituzionale e all’impossibilità di eleggere il capo dello Stato per il continuo rinvio delle sedute del Parlamento. «La responsabilità di questo stallo è di chi ha lavorato per dividere il Paese, illudendosi di poter governare prescindendo da una sua metà. Ma in democrazia quando c’è una maggioranza che non è in grado di governare da sola deve cercare delle intese con gli altri…». Anche con Hezbollah? «Gli sciiti rappresentano un terzo del Paese e Hezbollah ha i suoi rappresentanti in Parlamento ed ha un forte radicamento nella società libanese. Cosa si vorrebbe fare? Dichiararlo fuorilegge?». Basterebbe disarmare le sue milizie… «Questo deve essere lo sbocco e non la pregiudiziale per attivare un serio dialogo nazionale, a meno che non s’intenda agire contro Hezbollah per conto terzi…». Vale a dire? «Israele e America. Ma non voglio eludere la sua domanda: le armi di Hezbollah saranno messe sotto il controllo del governo quando gli israeliani libereranno tutto il nostro territorio nazionale, comprese le fattorie di Sheeba». Nei giorni scorsi Beirut è stata teatro di un nuovo "assassinio eccellente": quello del generale Francois al-Hajj. C’è chi ha accusato la Siria di essere dietro a questo attentato. «La Siria, sempre la Siria…Ma c’è chi dimentica che il generale al-Hajj aveva avuto un ruolo importante, in condivisione con la resistenza hezbollah, nel far fronte all’invasione israeliana di due estati fa. La mia idea è un’altra…». Quale? «L’attentato è avvenuto in un’area super protetta, sotto strettissima sorveglianza militare. L’uccisione di al-Hajj è un "crimine protetto", non lontano dall’esecutivo libanese…». Tra i nodi da sciogliere c’è l’accettazione da parte dell’opposizione del Tribunale internazionale sull’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri. Generale Aoun, lei accetta questo Tribunale? «Accettarlo? Ma se sono stato io a proporlo, ben prima di Saad Hariri (il figlio del premier assassinato il 14 febbraio 2005, ndr.). La decisione di istituirlo non può essere cambiata…» La cosa non piace a Hezbollah… «Ne discuteremo e troverò gli argomenti per convincerli, perché del generale Aoun si fidano». ha collaborato Elias Toueni Pubblicato il: 16.12.07 Modificato il: 16.12.07 alle ore 7.39 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Che fine fanno i soldi destinati ai palestinesi Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2007, 10:18:00 pm Che fine fanno i soldi destinati ai palestinesi
Umberto De Giovannangeli Diciannove servizi di sicurezza. Oltre 170mila dipendenti pubblici. Ville da mille e una notte costruite a poche centinaia di metri dai miserabili campi profughi. Fuoristrada ultimo modello che sfrecciano sul lungomare di Gaza City con a bordo i rampolli della nomenklatura al potere. E ancora: conti all’estero di quadri dirigenti di Fatah - un nome per tutti, l’ex «uomo forte» di Gaza, Mohammed Dahlan - scoperti e congelati dal governo del tecnocrate Salam Fayyad, che arrivavano a centinaia di milioni di dollari. Solo pochi esempi, per raccontare una storia conosciuta dalla gente palestinese, quella che, nella Striscia di Gaza, vive sotto la soglia di povertà (oggi il 60%, ma secondo l’ultimo rapporto dell’OCHA - Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari delle Nazioni Unite - schizzerà al 75% entro il 2008), che dipende nel sostentamento quotidiano dall’assistenza delle agenzie Onu (843mila persone). Storia di miliardi di aiuti ricevuti negli anni della speranza - quelli susseguenti agli accordi di Oslo-Washington del 1993 - che invece di essere investiti per migliorare le condizioni di vita della popolazione dei Territori, o per implementare, strutturandola, l’economia palestinese, finirono nelle tasche di vecchi capi clan o di fedelissimi del rais (Yasser Arafat), e che, soprattutto, servirono al «padre-padrone» della causa palestinese per costruire un apparato pubblico mastodontico, per certi versi unico al mondo; basti pensare che nell’era-Arafat, l’Autorità palestinese contava più direttori generali dell’apparato statale della Repubblica Popolare di Cina. Non era soltanto il clientelismo di un vecchio leader abituato a premiare per garantirsi la fedeltà dei suoi. Dietro quell’abnorme apparato pubblico, c’era anche il tentativo di sedare la rabbia sociale e la possibile deriva tribale. Alla lunga, questa politica si è rivelata fallimentare. Perché non ha frenato la corruzione, non è servita a consolidare la fiducia della popolazione nel processo di pace, perché ha frenato la formazione di una classe dirigente di uno Stato in costruzione, capace e moderna. Invece, sotto la cascata di aiuti internazionali, è cresciuta una genia di rampolli senza particolari qualità o meriti se non quelli di essere «figli di…». Ecco allora che il figlio primogenito dell’attuale presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen), abbia il monopolio sulla cartellonistica pubblicitaria in Cisgiordania, o che per lungo tempo l’ex capo delle forze per la sicurezza preventiva in Cisgiordania, Jibril Rajub, detenesse quello della benzina, mentre quello del cemento armato, a Gaza, ha contribuito alle fortune finanziarie di Mohammed Dahlan. Storie senza fine di sprechi, di «ordinaria corruzione»: nel vivo della seconda Intifada il ministro per l’Agricoltura Abd al-Jawad Salah, uno dei politici palestinesi più noti e indipendenti, dichiara pubblicamente che alti funzionari del suo ministero hanno emesso false licenze per agrumi israeliani in modo da poterli commercializzare in Giordania secondo i termini dell’accordo commerciale giordano-palestinese. Salah ordina l’immediata cessazione di questa pratica, denunciando per due volte la frode e tutti i partecipanti al procuratore dell’Autorità palestinese, eppure la truffa è proseguita indisturbata. Salah, disgustato, decise di rassegnare le dimissioni. Storie di sprechi, di ruberie rimaste impunite, di distrazioni di fondi. Storie di fallimenti e di corruzione ai vertici dell’Anp su cui aveva aperto una inchiesta l’allora procuratore generale di Gaza Ahmed al-Meghani. Una inchiesta, che riguardava 12 anni dell’Autonomia, destinata a riscrivere la storia di una classe dirigente che sotto l’ombrello protettivo, e spesso connivente, di Arafat ha costruito le proprie fortune a scapito degli interessi della popolazione. A inchiesta ancora in corso, il procuratore al-Meghani aveva già messo a fuoco casi di sprechi e di fondi distratti dall’uso previsto per un ammontare superiore ai 700 milioni di dollari. L’inchiesta non è mai giunta alla fine. Storie di malversazioni, come quella che ha riguardato la società Middle East Water Pipe Co., che avrebbe dovuto costruire acquedotti e tubature nei Territori palestinesi con il contributo anche di aziende italiane. La società, finanziata con 4 milioni di dollari dall’Anp e con altri due milioni di dollari dall’Italia, esisteva solo sulla carta. Altri presunti illeciti hanno investito la Tv pubblica palestinese, società dei settori degli idrocarburi, dei tabacchi, della sanità. Il disastro economico e l’emergenza sociale che devastano i Territori non sono dunque solo il portato delle restrizioni imposte da Israele, delle limitazioni di movimento, persone e merci denunciate dalle agenzie Onu che operano a Gaza e in Cisgiordania. Il peso di questa poco edificante storia, si fa sentire ancora oggi sulle aspettative dei palestinesi, segnate da un perdurante pessimismo. Nonostante le aperture registrate nella Conferenza di Annapolis, le probabilità che uno Stato palestinese indipendente sia proclamato entro i prossimi cinque anni sono «minime o inesistenti». Lo ritengono il 65% degli intervistati in un sondaggio di opinione curato dal Centro palestinese di politica e ricerca (Pcpsr) di Khalil Shikaki. Il 27% degli interpellati (a Gaza e in Cisgiordania) considerano di conseguenza la possibilità di trasferirsi all’estero. La situazione economica angustia molto i palestinesi. Essa è giudicata «negativa o molto negativa» dall’85% dei palestinesi interpellati a Gaza e dal 41% di quelli della Cisgiordania. Nella recente Conferenza di Parigi dei Paesi donatori, Abu Mazen aveva sollecitato la Comunità internazionale a stanziare 5,6 miliardi di dollari per evitare la «catastrofe totale» nei Territori e per finanziare un piano di sviluppo destinato a dotare un futuro Stato palestinese di istituzioni solide e di un’economia vitale. L’appello è stato raccolto e la «generosità» evocata dal rais palestinese è andata oltre le sue aspettative: dalla Comunità internazionale sono arrivati 7,4 miliardi di dollari di aiuti finanziari. La Commissione europea, principale donatore, ha annunciato 650 milioni di dollari, gli Stati Uniti 555, l’Arabia Saudita 500, la Gran Bretagna 490, la Francia, la Germania e la Svezia 300 milioni di dollari ciascuno. L’Italia destinerà altri 80 milioni che vanno ad aggiungersi ai 108 già stanziati in precedenza. Il punto è: come non far dilapidare questa «generosità». Un problema di uomini e di vincoli alla fonte. L’uomo a cui è stato affidato il «forziere» è un tecnocrate rispettato in Occidente, stimato ex funzionario della Banca Mondiale, esperto di bilanci e mai sfiorato da accuse o voci di corruzione: l’attuale primo ministro Salam Fayyad. Spetterà a lui, più ancora che ad Abu Mazen, farsi garante del corretto utilizzo di questi 7,4 miliardi di dollari. Fayyad ha salutato quella elargizione come un «voto di fiducia» dei donatori internazionali nei confronti del suo governo e dell’Anp. Ma lo stesso premier è consapevole che si tratta di una fiducia «vincolata». È l’altra sostanziale discontinuità rispetto al passato. Questa volta, confida a l’Unità una fonte dell’Ue a Bruxelles, i finanziamenti saranno vincolati alla presentazione, documentata, di progetti di sviluppo in settori chiave sia economici - agricoltura, poli industriali - sia sociali - sanità, istruzione, giustizia -. In questi progetti "ad hoc" dovranno essere prospettati, oltre il budget necessario, i tempi di attuazione, le verifiche in corso d’opera, e i referenti sul campo. «I finanziamenti servono a ricostruire un tessuto sociale e ad affrontare una drammatica emergenza umanitaria. Il controllo deve essere ferreo, perché non si ripetano le nefandezze del passato», dice a l’Unità Hanan Ashrawi, paladina dei diritti umani nei Territori. E il controllo, aggiunge decisa, «deve essere anche dal basso, da quelle Ong non governative palestinesi che rappresentano il contraltare democratico al duopolio di potere Hamas-Fatah». In gioco è l’avvenire di un popolo, le sue speranze, i suoi diritti. In ballo è la credibilità di una leadership che deve dimostrare con i fatti di non essere una nomenklatura dedita all’arricchimento personale. Pubblicato il: 20.12.07 Modificato il: 20.12.07 alle ore 8.23 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Il Padre: «Salvate il soldato Shalit» Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2007, 10:45:28 pm Il Padre: «Salvate il soldato Shalit»
Umberto De Giovannangeli Non vuole rinunciare alla speranza. Da quel maledetto 25 giugno 2006, il giorno in cui il suo Gilad fu rapito da un commando palestinese, Noam non ha smesso per un solo istante di pensare a suo figlio. Non si arrende Noam Shalit, il padre del caporale israeliano Gilad Shalit, dal 25 giugno 2006 in mano dei suoi rapitori, miliziani di Hamas e della Jihad islamica. In questa intervista a l’Unità, Noam Shalit parla delle sue angosce di padre e della sua battaglia perché «Gilad e i suoi due commilitoni rapiti in Libano non siano sacrificati alla ragion di Stato». A chi gli chiede chi è Gilad, Noam Shalit mostra delle foto: Gilad in divisa da carrista, con i pantaloncini corti e lo zaino il giorno della partenza per il servizio militare: a stento trattiene la commozione: «È ancora un ragazzino - dice - appena uscito dal liceo, sembra che stia partecipando a una gita scolastica». Noam Shalit si rivolge ai rapitori di suo figlio. Il suo è un appello accorato, struggente: «Ci diano una prova che Gilad è ancora vivo. Credo che coloro che tengono in ostaggio mio figlio abbiano una famiglia e dei figli e possono immaginare cosa io, mia moglie, gli altri miei figli stiamo provando. Ai rapitori dico: non dimenticate che Gilad è prima di tutto un essere umano». Signor Shalit, cosa significa vivere ogni giorno con il pensiero ad un figlio di cui non si ha più notizie da oltre un anno e mezzo? «Io e mia moglie Aviva stiamo continuando a vivere e lavorare. Ovviamente nulla è più come prima. Davanti ai nostri figli, Yoel e Hadas, tentiamo sempre di mostrare che non siamo nel panico, per i ragazzi non andrebbe bene. Proviamo a mascherare la nostra angoscia...cerchiamo di sopravvivere...». Signor Shalit, da quanto tempo non avete più notizie di Gilad? «Da mesi. Lo scontro tra le fazioni palestinesi ha reso ancora più difficile la vicenda di mio figlio, in particolare dopo la guerra a Gaza tra Hamas e Fatah. Appare impossibile trovare un interlocutore credibile nelle fila palestinesi. Per quanto mi riguarda, non mi arrendo. L’ho detto tante volte: sono disposto a incontrare chiunque voglia incontrare me. A Gaza, in Cisgiordania, a Beirut...., ovunque. Sono pronto a farmi personalmente garante. E, se occorre, sono pronto a recarmi a Gaza e restare nelle mani delle forze di Hamas fino a che le loro richieste non saranno esaudite». In Israele si continua a dibattere sulla legittimità di negoziare con coloro che hanno rapito suo figlio. «Non le rispondo come padre, ma come cittadino israeliano che ama il suo Paese. Israele ha già trattato con i terroristi e liberato terroristi che si erano macchiati di crimini sanguinosi, per avere in cambio nostri cittadini, non solo soldati. Perché ciò non deve valere anche per Gilad? Trattare per liberare un ragazzo mandato a combattere in prima linea, non è una prova di debolezza, ma al contrario il segno di una superiorità morale nei confronti del nemico. Perché per Israele, come recita il Talmud, ogni vita umana e sacra, e salvarne una significa salvare l’umanità...». C’è da dire che diversi ministri non hanno escluso la possibilità di aprire un negoziato con Hamas. «Io giudico il governo non per le parole ma per i fatti. E un fatto è che mio figlio è ancora prigioniero. E non credo che Gilad verrà rilasciato senza che venga pagato un prezzo. Certo, ogni genitore è pronto ad ogni sacrificio pur di salvare la vita del proprio figlio. Ma il discorso riguarda Israele e il nostro modo di guardare a coloro con i quali dovremmo comunque imparare a convivere. Dobbiamo cedere qualcosa se vogliamo averne qualche altra in cambio. Il vero problema è che Hamas pretende la liberazione dei suoi uomini e non accetterà null’altro in cambio, né soldi né nessun altro beneficio». Alcuni mesi fa, prendendo la parola dal palco della settima Conferenza internazionale sul terrorismo di Herzliya, lei ha affermato: «Siamo molto delusi e preoccupati per l’incapacità dello Stato d’Israele, che nonostante la sua tecnologia avanzata e i suoi gloriosi servizi segreti non è in grado di riportare a casa un soldato rapito sul suo territorio nel corso di un’azione terroristica...». C’è chi ha parlato dello sfogo di un padre disperato. «No, non è così. Il mio non è stato uno sfogo, ma una constatazione amara. Non dubito delle buone intenzioni di Olmert ma di fronte ad un evidente insuccesso, non solo noi, le famiglie dei rapiti, dovremmo preoccuparci, ma ogni soldato israeliano ed ogni famiglia che ha un figlio nell’esercito dovrebbe essere preoccupata». La recente Conferenza di Annapolis ha rilanciato una speranza di pace in Medio Oriente. Questa speranza può riguardare anche la sorte di Gilad? «Lo spero, in cuor mio lo spero con tutte le mie forze, e prego per questo. Si parla della liberazione di altri detenuti palestinesi, ma la vicenda di Gilad sembra non c’entrare, come se facesse parte di un’altra storia. Per noi ciò è inaccettabile. Non intendo permettere che ci si dimentichi del caso di Gilad, che tra gli alti e bassi dei negoziati, si finisca col non parlarne più. E lo stesso discorso vale per altri due soldati di Tsahal, Ehud Goldwasser ed Eldad Regev, ancora in mano degli Hezbollah». Signor Shalit, in passato lei ha avuto parole di solidarietà verso la popolazione di Gaza. «Vede, Hamas non solo ha preso Gilad come ostaggio, ma sta infliggendo pesanti sofferenze ai palestinesi. A Gaza, in seguito alla prova di forza del giugno scorso, è molto peggiorata per la popolazione civile. Donne e bambini non sono mai stati così poveri e le cose vanno sempre peggio. Gaza è bloccata, sottoposta a embargo, e parte gli aiuti umanitari non c’è possibilità di entrare ed uscire neanche per andare in Egitto. La disoccupazione è alle stelle e gli unici a lavorare sono quelli che lavorano per Hamas. Israele ha ucciso molte persone durante le incursioni.. Questa non è vita...E essenziale migliorare la situazione non solo per Gilad ma per gli stessi palestinesi». Signor Shalit, in questo colloquio, il dramma della sua famiglia si è intrecciato con le inquietudini, le paure, le speranze di un Paese: Israele. In conclusione, vorrei tornare sul suo vissuto personale: come è cambiata la sua vita da quel 25 giugno 2006? «Sono tornato al lavoro per non impazzire, ma la mia mento non è al cento per cento sul posto di lavoro. Penso sempre a Gilad, un ragazzo silenzioso, chiuso, con una vita davanti a sé. Aveva appeno finito il liceo, si era arruolato da pochi mesi e so che ha avuto difficoltà agli inizi, ma non si è mai lamentato, a noi non ha detto mai niente. Sono sicuro che anche se adesso sta soffrendo non si lamenta. Lui sa che la sua famiglia non lo abbandonerà mai». C’è qualcosa di incoraggiante in questa tragedia? «Il calore del popolo d’Israele. Un sostegno che non è mai venuto meno: è come se Gilad fosse stato “adottato” dall’intero Paese. Questa solidarietà ci è di grande conforto. Israele non ha dimenticato un suo ragazzo, un suo soldato». (ha collaborato Cesare Pavoncello) Pubblicato il: 23.12.07 Modificato il: 23.12.07 alle ore 15.05 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - «Al Qaeda è ormai parte dello Stato pachistano» Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2007, 06:03:09 pm «Al Qaeda è ormai parte dello Stato pachistano»
Umberto de Giovannangeli In Pakistan Al Qaeda è molto più che una rete terroristica dai mille tentacoli. In Pakistan, Al Qaeda non è solo l’anti Stato jihadista ma è parte dello Stato pachistano, perché i suoi uomini sono all’interno dei potenti servizi segreti pachistani e probabilmente anche nella catena di comando dell’esercito. Per questo, sbaglia chi legge l’assassinio di Benazir Bhutto come il colpo di coda di un’organizzazione in rotta. È vero l’esatto contrario». A parlare è uno dei più autorevoli studiosi dell’Islam radicale armato: Nabil El Fattah, già direttore del Centro di Studi Strategici di Al Ahram, al Cairo. «L’assassinio di Benazir Bhutto - rileva El Fattah - ha due piani di lettura: uno interno al Pakistan, l’altro proiettato su scala regionale». Professor El Fattah, Al Qaeda ha rivendicato l’attentato che è costato la vita alla ex premier Benazir Bhutto e che ha trascinato nel caos il Pakistan. C’è davvero la mano di Al Qaeda dietro il massacro di Rawalpindi? «Direi che è una ipotesi fortemente plausibile. Benazir Bhutto assommava in sé tutto ciò che più contrasta il pensiero e i progetti di Al Qaeda... » Vale a dire? «Innanzitutto la sua figura. Era donna, una donna islamica. Una donna impegnata in politica. Per l’ideologia jihadista era un triplice affronto. Ma non basta. Benazir Bhutto incarnava anche un’idea non chiusa, antimoderna, “claustrofobica” dell’Islam: il suo era un Islam aperto, pronto al confronto con l’Occidente senza per questo rinunciare alla propria identità. Altra colpa mortale per i qaedisti. Non basta ancora. Benazir Bhutto era divenuta un elemento fondamentale di quel faticoso processo di democratizzazione avviato, sia pur tra mille contraddizioni, in Pakistan. E Al Qaeda vede come fumo negli occhi, come una minaccia esistenziale ogni tentativo di democrazia avviato nel mondo islamico. Come vede, esistono fondate ragioni per ritenere che Al Qaeda abbia compiuto questo barbaro, ma non irrazionale, crimine. C’è però un punto che occorre mettere bene in luce... ». Qual è questo punto? «Dobbiamo chiarirci le idee su cosa sia realmente Al Qaeda oggi in Pakistan. Non è un esercizio accademico, perché solo rispondendo a questa domanda è possibile cogliere un aspetto strategico, tutto politico, che l’assassinio di Benazir Bhutto ha messo in evidenza: il fallimento della strategia di contrasto-contenimento del terrorismo jihadista messa in atto dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre; la strategia delle guerre preventive o del sostegno a regimi dispotici, come quello pachistano, considerati come l’unico argine esistenze contro la penetrazione jihadista. I risultati sono sotto gli occhi ditti, in Iraq come in Pakistan... ». Vorrei tornare sulla questione cruciale da lei posta: cosa è oggi Al Qaeda in Pakistan? «È molto più che l’anti Stato jihadista. Al Qaeda è parte dello Stato pachistano, perché ne controlla, attraverso le tribù fedeli, aree nevralgiche, come le regioni al confine con l’Afghanistan, e perché è evidente che suoi uomini sono interni a settori dei servizi segreti pachistani e probabilmente anche dell’esercito, per non parlare poi delle madrassa radicali, vere e proprie scuole di indottrinamento jihadista che forniscono alla rete di Al Qaeda militanti e consenso. Senza questi sostegni, Al Qaeda difficilmente avrebbe potuto mettere a segno l’attentato dell’altro ieri, avvenuto, non dimentichiamolo, in una città e in una zona super protette. E se non c’è collusione, di certo si può parlare di convergenza d’interessi: il nemico comune, per i jihadisti come per la casta militare al potere, resta la democrazia». Qual è l’obiettivo strategico di Al Qaeda in Pakistan? Quello di conquistare il potere? «No, è quello di destabilizzare il Paese. È la destabilizzazione la vera “conquista del potere” da parte di Al Qaeda. Perché un Pakistan destabilizzato significherebbe l’impossibilità di contrastare la presenza qaedista e talebana nelle regioni a ridosso del confine con l’Afghanistan; perché un Pakistan destabilizzato permette ad Al Qaeda di agitare, con maggiore efficacia, lo spettro della bomba atomica in mano ai “soldati di Allah”, perché un Pakistan destabilizzato diverrebbe ciò che era per Al Qaeda l’Afghanistan ai tempi del regime dei talebani, vale a dire una sorta di "nazione senza Stato", con pezzi di territorio direttamente controllati dai gruppi jihadisti. È ciò che peraltro avviene in Somalia». Gli Stati Uniti non hanno lesinato critiche al presidente Musharraf. «Sono critiche tardive, come tardiva è stata la comprensione che Benazir Bhutto rappresentava la carta migliore da giocare per portare avanti, dall’interno, il processo di democratizzazione. Gli Stati Uniti sono di fronte al fallimento della loro strategia, ma alla fine, di fronte alla prospettiva del caos in un Paese nevralgico come è il Pakistan, Washington sceglierà ancora una volta di sostenere il “male minore”: Parvez Musharraf e i generali pachistani. Ma in questi anni sono stati proprio i tanti “mali minori” disseminati nel Vicino e Lontano Oriente a garantire il rafforzamento dell’Islam radicale e jihadista». L’essere un «male minore» è una garanzia di sopravvivenza politica per Parvez Musharraf? «Forse nel breve periodo, ma in prospettiva Musharraf è già archiviato. Si tratta di vedere da quale “lato” cadrà. La morte di Benazir Bhutto segna anche l’inizio della sua fine». Pubblicato il: 29.12.07 Modificato il: 29.12.07 alle ore 11.13 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Barenboim, c´è un muro anche nella musica Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2008, 04:52:08 pm Barenboim, c´è un muro anche nella musica
Umberto De Giovannangeli Un messaggio di speranza che viaggia sulle note musicali. Un messaggio tanto più pregnante perché a veicolarlo è un grande direttore d´orchestra: Daniel Barenboim. In Israele la destra oltranzista si è scagliata contro di lui per aver accettato il passaporto palestinese. Si è gridato al «tradimento», la stessa accusa a suo tempo lanciata contro il premier israeliano Yitzhak Rabin, colpito a morte da un giovane zelota per aver «osato» di fare la pace con il «Nemico», Yasser Arafat. Ma prima di riflettere sul significato del «doppio passaporto», vale la pena soffermarsi sul contesto nel quale questa scelta è stata annunciata. Perché è quel contesto a dare il senso della straordinaria esperienza di cui Daniel Barenboim si è reso protagonista. I Territori palestinesi conquistano l´interesse internazionale quando sono associati a raid, atti di terrorismo, rappresaglie, sofferenze, patimenti... Ramallah, capitale della Cisgiordania, è balzata ai tristi onori della cronaca nei mesi dell´assedio israeliano alla Muqata, il quartier generale dell´Anp dove era confinato Yasser Arafat. Le «note» di quei mesi erano quelle, lugubri, di mitragliatori, colpi di artiglieria, missili... È con queste «note» che i giovani di Ramallah sono cresciuti, che sono stati costretti a «imparare» fin da piccoli. Ben diverse, erano le note che hanno riempito, l´altra sera, il Palazzo della Cultura di Ramallah. Note che hanno beato un pubblico di oltre 1200 persone. Molti avevano le lacrime agli occhi nell´ascoltare le composizioni di Beethoven eseguite dall´orchestra diretta da Barenboim. È questo il «miracolo» maturato a Ramallah: invece di ingrossare le fila delle milizie armate, centinaia di ragazzi e ragazze palestinesi erano lì ad ascoltare quel maestro israeliano. E la sua orchestra. Un´orchestra composta da giovani musicisti israeliani e arabi( in maggior parte palestinesi). In platea c´erano ragazzi in jeans e donne velate. Quelle note struggenti hanno superato i Muri, quelli fisici e quelli mentali che segnano la Terra Santa. Note che uniscono. Che fannno sognare. Note che liberano la mente dalle angosce del presente, un presente di sofferenza per tanti palestinesi e israeliani. Il doppio passaporto è la carta d´identità di questa speranza. Perché la musica raggiunge i cuori prima e meglio di tante esternazioni politiche. Perché la West-Eastern Divan Orchestra - realizzata nel 1999 su un progetto che Barenboim aveva messo a punto assieme ad Edward Said, il più grande intellettuale palestinese, ora scomparso - racchiude in sé, più e meglio di tanti accordi scritti e mai praticati, una idea alta, nobile, e concreta, di cooperazione tra i due popoli. Tra le loro gioventù. Quel doppio passaporto non è una provocazione. È un investimento sul futuro. La forza di Barenboim è di non voler vestire i panni del politico. Ed è per questo che il suo messaggio è ancora più (positivamente) dirompente, ed è per questo che è entrato nel mirino dei seminatori di odio: «Non credo che la musica sia il veicolo di qualcosa. Io vengo qui (a Ramallah) come un essere umano, con lo spirito di chi vuol far conoscere e migliorare la vita delle persone», ha spiegato dopo aver concluso il suo concerto. E la musica aiuta, e molto, a migliorare la vita dei giovani di Ramallah. E, se fosse per il maestro, le note di Beethoven riempirebbero anche Gaza. Se fosse per lui, porterebbe anche la Scala di Milano a Ramallah. Non dà lezioni di diplomazia, Daniel Barenboim. Ma ricorda che «la musica ti dà soprattutto la possibilità di capire il mondo. Suonare in orchestra, ad esempio, è una grande lezione di democrazia. Forma l´abitudine ad ascoltare gli altri. Così i modi di fare musica possono, devono essere modelli per l´esperienza umana. E la missione della musica in questo millennio è quella di lottare contro chi la vuole staccata dalla vita...». Una lotta che Barenboim conduce con coerenza. Attraverso le note e l´esperienza di un´orchestra che parla ai politici dei due campi. E racconta di una pace possibile. «Proponiamo un modello - riflette Barenboim -. Dei ragazzi con in comune la musica possono esprimere se stessi e ascotare al contempo le ragioni dell´altro. Perché non esiste una soluzione militare, e i destini del popolo palestinese e israeliano sono inestricabilmente uniti». Uniti come la West-Eastern Divan Orchestra. Uniti come il doppio passaporto - israeliano e palestinese - di Daniel Barenboim. Pubblicato il: 15.01.08 Modificato il: 15.01.08 alle ore 16.12 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Israele, bambini malati di guerra Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2008, 05:26:23 pm Israele, bambini malati di guerra
Umberto De Giovannangeli Vivere da sette anni sotto il martellamento continuo dei razzi sparati dalla Striscia di Gaza. Crescere con l’angoscia di una voce femminile che ripete con cadenza meccanica: «Treva Adom, Treva Adom (allarme rosso, allarme rosso». Giocare in asili trasformati in bunker. Essere bambini a Sderot, la cittadina israeliana bersagliata quotidianamente dai missili Qassam palestinesi. Tra il 75% e il 94% dei bambini e adolescenti di età compresa tra i 4 e i 18 anni di Sderot presentano i sintomi di stress post-trauma: è quanto emerge da un rapporto del Centro israeliano per le vittime del terrorismo e della guerra; anche il 54% dei genitori soffre di SPT (Sindrome Post-Traumatica). Il rapporto sarà reso pubblico nei prossimi giorni, l’Unità ne anticipa i dati più significativi. E inquietanti. A coordinare l’équipe dei ricercatori è il direttore del Centro, Rony Berger. «Il 75% dei bambini di età scolare - dice a l’Unità il professor Berger - ha avuto gravi sintomi di ansia, di perdita di sonno e di concentrazione». Dalia Yosef, direttrice dello Sderot’s Trauma Center, sottolinea con preoccupazione che il numero dei bambini di età compresa tra 1-6 anni identificati come affetti da ansia e che necessitano di un trattamento lungo, sono in costante aumento. Dal mese di maggio, 120 bambini si sono aggiunti agli altri 305 per i quali si è rilevata la necessità di prorogare il trattamento psicologico perché affetti da traumi. È il caso di Lior, 5 anni, che ha visto il suo papà, Yorom Shimon Ben, ferito dalle schegge di un razzo Qassam che aveva colpito la casa dei loro vicini. Lior è sottoposta a una terapia a lungo termine per l’ansia. In terapia è anche Tahal, 4 anni. Quando Tahal torna a casa dall’asilo, si accuccia sotto il tavoli della cucina e lì rimane. Quando Tahal ha cominciato a comportarsi così, circa sei mesi fa, sua madre Ofra ha pensato che si trattasse di un gioco. Tuttavia dopo averla incoraggiata a parlarne Ofra si è resa conto che questo era il modo escogitato dalla figlia per controllare lo stress causato dall’allarme sicurezza all’ombra del quale Tahal ha vissuto gran parte della sua giovane vita. Tahal trasale al minimo rumore, così come fa Yaakov, suo fratello maggiore, sette anni: dallo squillo di un campanello ad uno sbattere delle porte. Se scatta la sirena d’allarme «Treva Adom», i bambini si bloccano immediatamente. Se accade di notte, corrono immediatamente nel letto della madre. Sono smarriti, impauriti, emotivamente destabilizzati. «È difficile - spiega la dottoressa Yosef - curare e prevenire lo stress post-traumatico quando non è “post”. Lavoriamo - aggiunge - con i genitori per creare un ambiente rassicurante per i loro bambini. Ma è sempre più difficile creare una situazione di “normalità” quando si convive con l’angoscia di un razzo che da un momento all’altro potrebbe distruggere la tua esistenza e quella dei tuoi cari». «Vivere con un genitore post-traumatico può essere molto difficile per un bambino», gli fa eco Ari Blum, un giovane psicologo che presta assistenza volontario a Sderot. «Questi genitori - aggiunge - cessano di essere tali, non sono in grado di prestare attenzione au figli e dimenticano come si fa anche solo a godersi il tempo trascorso insieme ai propri bambini». Perché la scansione della quotidianità a Sderot è scandita dalla paura. E dal dolore. Una vita blindata. Un’infanzia violata. Le pareti degli asili di Sderot sono formate da enormi blocchi di cemento armati sovrapposti e dipinti di bianco, tutte le finestre hanno i vetri antiproiettile e di fronte ad ogni apertura verso l’esterno sono state costruite gate rinforzate per intercettare le schegge dei Qassam. Ogni luogo della normalità è stravolto: così i campi di basket che sono protetti da tettoie a prova di bombe. È una quotidianità che sconvolge. Destabilizza. «Molti bambini presentano sintomi di regressione: dal fare la pipì al letto al rifiuto di dormire da soli e di andare a scuola», dice la dottoressa Adriana Katz, che dirige la clinica per la salute mentale di Sderot. I bambini delle scuole di Sderot quando sentono la voce femminile ripetere con cadenza meccanica «colore rosso, colore rosso» (il codice convenuto con la popolazione per avvisare dell’arrivo imminente di razzi Qassam), si mettono a cantare forte per non avere paura aspettando con il cuore in gola che passino quei 15 secondi prima del bum. L’allarme rosso concede 15 secondi di tempo per salvarsi la vita. Quindici secondi. I maestri riuniscono velocemente i bambini, si mettono a cantare e così cercano di vincere il terrore. Ziva Korsa è la direttrice di un centro della Wizo, un asilo per novanta bambini dai sei mesi ai tre anni. «Io vorrei la pace - afferma - la quiete, vorrei che i miei figli e tutti i bimbi di Sderot fossero felici. Ma come si può fare? Io non so come si può fare. Che l’esercito torni là, a Gaza, no, non mi piacerebbe, però se la situazione continuerà a peggiorare...a me non piacerebbe l’esercito a Gaza però Sderot deve vivere...». Ma il rimedio a questa situazione non può essere quello dell’avacuazione dei bambini di Sderot. Spiega il professor Muli Lahad, direttore del Mashabim Community Stress Prevention Center al Tel Hai Academic College: «Evacuare i bambini fino a 11-12 anni senza i loro genitori, aggrava i sintomi post-traumatici». «Quando i bambini sono lasciati soli, lontano dalla loro comunità, essi immaginano cose orribili che accadono alle loro famiglie, I bambini sono influenzati da ciò che sentono e vedono in televisione, e cresce in loro la paura, l’angoscia, il senso di perdita....», aggiunge il professor Lahad. I bambini di Sderot. L’altra faccia della sofferenza. Da non dimenticare. Mai. Pubblicato il: 18.01.08 Modificato il: 18.01.08 alle ore 8.26 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI. Da israeliana dico: nella Striscia la nostra vergogna Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2008, 04:33:04 pm «Da israeliana dico: nella Striscia la nostra vergogna»
Umberto De Giovannangeli «Da cittadina israeliana che ha a cuore la sicurezza del suo Paese dico: ciò che sta accadendo a Gaza è una vergogna per Israele. Le punizioni collettive inflitte alla popolazione civile sono il prodotto di una impotenza politica mascherata malamente con l’uso della forza militare. In questo modo finiamo per alimentare rabbia, disperazione, sentimenti che spesso si trasformano in desiderio di vendetta». A denunciarlo è una delle figure storiche della sinistra pacifista israeliana: Shulamit Aloni, fondatrice di «Peace Now», più volte parlamentare e ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres. «La Comunità internazionale - afferma Aloni - deve raccogliere l’appello lanciato dalle colonne dell’Unità dal primo ministro palestinese Salam Fayyad: c’è bisogno di una forza internazionale d’interposizione a Gaza». Le notizie che giungono da Gaza segnalano una drammatica emergenza umanitaria. Il governo israeliano ribatte che questa situazione è determinata dal lancio di razzi Qassam contro Sderot. «Se anche così fosse, nulla giustifica lo strangolamento di una economia, la riduzione in miseria di migliaia di famiglie, i bombardamenti che provocano la morte di civili: tutto ciò non può essere rubricato sotto la voce "effetti collaterali" della guerra al terrorismo. No, non è così. Il primo ministro Olmert dica chiaramente se Israele ha deciso di muovere guerra a 1,5 milioni di palestinesi». Resta la tragedia dei bambini israeliani di Sderot costretti a vivere con l’incubo dei Qassam palestinesi. «Conosco bene la realtà di Sderot e faccio mio il dolore di quei bambini. Ma non si risolve quel dolore arrecando altro dolore ad altri bambini: quelli di Gaza. Questa non è buona politica, questo è spirito di vendetta che non fa onore a Israele né aiuta a riportare il sorriso sui volti dei bambini di Sderot». Insisto: il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha ribadito che il blocco di Gaza finirebbe con il finire dei lanci di razzi su Sderot. «Questa affermazione alimenta un circuito vizioso dal quale è impossibile uscire, visto che i miliziani palestinesi sostengono a loro volta che quei lanci sono la risposto all’assedio di Gaza e ai raid dell’esercito israeliano. Prima di ogni altra cosa va fatta una scelta morale, ancorché politica e militare, da parte israeliana». E quale sarebbe questa scelta? «Evitare le punizioni collettive. Escluderle a priori. Questo è per me un punto discriminante: l’esercizio del diritto di difesa non può finire per giustificare rappresaglie che investono pesantemente la popolazione civile». C’è chi sostiene che la popolazione di Gaza farebbe bene a ribellarsi ai miliziani che continuano un lancio di razzi che, come sottolineato dal primo ministro palestine Fayyad nell’intervista a l’Unità, hanno prodotto catastrofi per i palestinesi. «In altri termini, Barak pretenderebbe che donne, bambini e anziani di Gaza disarmassero i miliziani, riuscendo laddove neanche il nostro esercito è stato in grado di fare? E se questo non avviene, se questa rivolta non si scatena, la conclusione che ne dovremmo trarre è che tutti i palestinesi di Gaza sono complici dei lanciatori di razzi e quindi nemici di Israele, e come tali da colpire? Mi ribello a questa logica irresponsabile. Le punizioni collettive non indeboliscono Hamas, semmai lo rafforzano, perché quelle punizioni alimentano l’odio verso Israele». Nel governo israeliano c’è chi invoca una massiccia azione militare nella Striscia. «Sarebbe una tragedia che costerebbe migliaia di morti e finirebbe in un disastro, perché vorrebbe dire pensare di rioccupare stabilmente Gaza, con tutto ciò che una simile prospettiva comporterebbe, in termini di perdite di vite umane e non solo. Di nuovo, l’illusione che la forza possa supplire all’iniziativa politica. La strada da intraprendere è un’altra…». Quale? «Negoziare una tregua di lunga durata con Hamas. Perché se non la pace, almeno la tregua si negozia con il nemico». Pubblicato il: 22.01.08 Modificato il: 22.01.08 alle ore 13.14 © l'Unità. Titolo: DE GIOVANNANGELI Gaylard La situazione è esplosiva. Immorale chiudere gli occchi Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2008, 06:27:47 pm Gaylard: «La situazione è esplosiva. Immorale chiudere gli occhi»
Umberto De Giovannangeli Rifiuta di addentrarsi in analisi politiche: «Non è mio compito, anche se ho le mie idee, ma in questo momento la cosa peggiore da fare di fronte al dramma che si sta consumando a Gaza, è di usare la sofferenza della gente per finalità politiche". A parlare è Maxwell Gaylard, Coordinatore umanitario dell’Onu nei territori palestinesi. La sua esperienza sul campo, le sue indiscusse capacità organizzative, il riconosciuto equilibrio, fanno di Gaylard una fonte preziosa per dar conto ai lettori dell’Unità di quali siano oggi le condizioni di vita dell’1,5 milioni di civili palestinesi che sopravvivono, sempre più a stento, nella Striscia di Gaza. Partiamo da una considerazione generale. Come si potrebbe sintetizzare la condizione dei palestinesi oggi? «Tutti gli indicatori rimarcano chiaramente che i palestinesi attraversano una crisi generalizzata di povertà in aumento, un aumento della disoccupazione, un peggioramento delle condizioni di vita e degli attentati in grande scala contro la dignità dei palestinesi». Lei parla di una crisi generalizzata di povertà. Può darci in merito qualche dato? «Il 57% delle famiglie palestinesi vivono nella povertà (il 49% in Cisgiordania, il 79% a Gaza), mentre il tasso di disoccupazione complessivo nel 2007 ha raggiunto il 32,3%. A ciò si aggiunga, e qui entriamo nel vivo di una grave emergenza umanitaria, il 34% dei palestinesi soffre problemi di insicurezza alimentare, l’acqua disponibile pro-capite è scesa a 75 litri nella Striscia e a 80,5 in Cisgiordania. Sono solo alcuni indicatori che danno però sufficientemente conto di un peggioramento sostanziale della situazione». Quanto pesano sulla determinazione di questa situazione, le limitazioni di movimento, per persone e merci, imposte da Israele nei Territori? «L’incidenza è indubbiamente fortissima. Le restrizioni sul movimento della popolazione e dei beni stanno distruggendo l’economia palestinese con gravi conseguenze sulla qualità della vita nei Territori occupati. Questo "regime" di chiusura nel quale sono costretti a vivere i palestinesi, comporta il controllo e la restrizione degli accessi ai posti di lavoro, ai servizi sanitari, alle scuole, impedendo anche una normale attività economica: queste restrizioni di movimento sono la principale causa del deterioramento della situazione umanitaria». Questo assedio rischia di minare alle fondamenta la società palestinese? «Purtroppo è così. Il severo regime di chiusura influenza negativamente non soltanto la condizione economiche delle famiglie ma erode la stessa autostima della popolazione. E questo "furto" di dignità non aiuta certamente lo sviluppo di un processo di pace». Quando si parla di restrizioni di movimento, il pensiero va ai check-point in Cisgiordania. il premier israeliano Ehud Olmert aveva promesso al presidente palestinese Abu Mazen, una loro riduzione. In realtà… «In realtà la situazione non solo non è migliorata ma è addirittura peggiorata. Le barriere realizzate da Israele all’interno della Cisgiordania sono infatti aumentate da 528 a 563, moltiplicando le enclave palestinesi isolate l’una dall’altra. La realtà, purtroppo, è questa. E questa realtà dice che i palestinesi sono vittime di una negazione di diritti umani, economici, politici e sociali». Mentre stiamo parlando, centinaia di migliaia di palestinesi si sono riversati, attraverso il valico di Rafah, in Egitto. «Questa fuga disperata dà conto di una situazione davvero esplosiva. Dalle notizie che ci giungono, tra quelle migliaia di persone che cercano rifugio in Egitto vi sono moltissime donne e bambini: sono i più deboli a pagare il prezzo più alto della morsa che attanaglia Gaza. La comunità internazionale non può chiudere gli occhi di fronte a questa tragedia. Farlo, sarebbe un atto d’irresponsabilità immorale». Pubblicato il: 24.01.08 Modificato il: 24.01.08 alle ore 12.43 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Wiesel: «La Shoah male assoluto» Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2008, 05:32:21 pm Wiesel: «La Shoah male assoluto»
Umberto De Giovannangeli «Non possiamo, non dobbiamo dimenticare ciò che accadde nei lager nazisti. E che al fondo dell'Olocausto vi era il proposito di annientare gli ebrei, colpevoli di esistere: chi lo nega infligge alle vittime dei campi di sterminio una seconda morte». A parlare, nella Giornata delle Memoria, è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986, che nei campi di sterminio di Auschwitz (vi perse la madre, il padre e la sorellina) e Buchenwald trascorse 11 mesi. Ricordare non è solo un tributo ai milioni di donne e uomini annientati nei lager. «L'antisemitismo e l'odio razziale - riflette Wiesel - segnano anche questo inizio secolo. Non posso perdonare gli aguzzini e coloro che ne esaltano le gesta». Parla a ragion veduta, il grande scrittore, Lui il mostro nazista l'ha visto negli occhi: «Non credo - afferma - che esista il Bene assoluto, nella mia vita, almeno, non l'ho mai incontrato . Ma il Male assoluto l'ho conosciuto e da allora non mi ha più abbandonato: l'ho visto negli occhi dei nostri carnefici, e nelle pietose giustificazioni di chi ripeteva: "Io non c'entro, non sapevo" e lo ritrovo anche oggi in chi nega che l'Olocausto fu innanzitutto il tentativo di annientare gli ebrei». Oggi ricorda Elie Wiesel, lo spettro di una nuova Shoah torna ad essere agitato da «una figura che non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali. Dovrebbe diventare "persona non grata", per ciò che sta facendo al suo Paese, al suo popolo, a tutta l'umanità. Il nome di questa persona è Mahmoud Ahmadinejad: costui rappresenta la parte più buia dell'orizzonte politico odierno». «Spero che il 2008 - afferma Elie Wiesel - possa essere davvero l'anno della pace in Medio Oriente», ma lo scenario internazionale, e non solo quello mediorientale, è segnato pesantemente dalla crescente insicurezza globale dovuta al terrorismo. «Stiamo lasciando alle nuove generazioni un mondo pieno di paura - riflette il grande scrittore della Memoria - cosa ne faremo, lo trasformeremo in una fortezza?». Nella Giornata della Memoria, è importante raccontare soprattutto ai giovani cosa è stato l'Olocausto. Compito a cui lei non si è mai sottratto. A un ragazzo di oggi che le chiedesse: cosa è stato l'Olocausto?, che risposta darebbe? «È stato il Male assoluto. Ecco cosa è stato. Ciò che ha caratterizzato quel periodo fu una determinazione assoluta nel pianificare e condurre a compimento l'annientamento di un popolo. Questo è stato l'Olocausto, in questo consiste la sua novità rispetto al passato: per la prima volta nella storia, si intendeva eliminare completamente dalla faccia della terra un popolo. Gli ebrei non furono perseguitati e sterminati per motivi specifici, perché credevano o non credevano in Dio, perché erano ricchi o poveri, o perché professavano ideologie nemiche: no, gli ebrei venivano uccisi, umiliati, torturati per il semplice fatto di essere tali. Perché erano colpevoli di esistere: questo è l'orrore incancellabile della Shoah». La memoria dell'Olocausto sembra smarrirsi: c'è chi afferma che ciò è un bene, che ricordare serve solo a perpetuare antiche divisioni. «No, no, sono assolutamente contrario. Dimenticare le vittime significa null'altro che infliggere loro una seconda morte! Una vera riconciliazione, inoltre, non può avvenire che a partire dal ricordo, preservando la memoria di ciò che furono quegli anni. È vero: oggi c'è chi esalta l'oblio, chi ritiene giunto il momento di archiviare il passato. A questa operazione sento il dovere morale di ribellarmi, ieri come oggi: perché per nessuna ragione al mondo è possibile cancellare la distinzione tra il carnefice e la sua vittima. Ed ancor oggi l'Olocausto insegna che quando una comunità viene perseguitata tutto il mondo ne risulta colpito». Molti dei suoi libri hanno trattato il tema della memoria, del ricordo e dell'oblio, e di come la tragedia dell'Olocausto si è trasmessa di padre in figlio nel popolo ebraico, in Israele e nella Diaspora. «È il tema dell'identità ebraica, della sua specificità che non va smarrita ma che non deve mai essere vissuta come "separazione" dal mondo dei "Gentili". In uno dei miei libri, L'oblio, (Bompiani), il protagonista sintetizza così il suo essere ebreo: "Se sono ebreo, sono un uomo. Se non lo sono, non sono nulla. Solo così potrò amare il mio popolo senza odiare gli altri". Questo mi ripetevo allora, nei giorni di Buchenwald, quando i nostri aguzzini volevano cancellare la nostra identità, prima di negarci la vita, per ridurci solo a numeri, quelli marchiati a fuoco sulle nostre braccia. Ma non ci sono riusciti: hanno ucciso sei milioni di ebrei ma non sono riusciti a cancellare la nostra identità. Ed è per questo che oggi, nella Giornata della Memoria, posso dire con il mio Malkiel (il protagonista dell'Oblio, ndr.): è proprio perché amo il popolo ebraico che trovo in me la forza per amare quelli che seguono altre tradizioni. Un ebreo che nega se stesso non fa che scegliere la menzogna». Signor Wiesel, per chi ha vissuto l'esperienza dei lager nazisti ha un senso la parola «perdono»? «È la domanda che ha accompagnato la mia esistenza di sopravvissuto. Ma parole come perdono o misericordia non trovano posto nell'inferno di Auschwitz, di Buchenwald, di Dachau, di Treblinka.... No, non è possibile perdonare gli aguzzini di un tempo e coloro che ancora oggi ne esaltano le gesta. In questi sessantatre anni, ho pregato più volte Dio e la preghiera è la stessa che recitavo quando ero rinchiuso nel lager: "Dio di misericordia, non avere misericordia per gli assassini di bambini ebrei, non avere misericordia per coloro che hanno creato Auschwitz, e Buchenwald, e Dachau, e Treblinka, e Bergen-Belsen...Non perdonare coloro che qui hanno assassinato. Ma questo non vuol dire condannare per sempre il popolo tedesco, perché noi ebrei, le vittime, non crediamo nella colpa collettiva. Solo il colpevole è colpevole». Dal passato che non passa, ad un presente inquietante. Lei ha usato parole durissime contro il presidente iraniano Ahmadinejad. Perché? «Perché costui, nel ridicolizzare le verità storicamente accertate, nell'offendere la memoria dei sopravvissuti all'Olocausto ancora vivi, glorifica l'arte della menzogna. Da numero uno dei negazionisti al mondo, da antisemita con una mente disturbata, dichiara che la "soluzione finale" di Hitler non è mai esistita. E non basta. Secondo Ahmadinejiad, non c'è stato un Olocausto nel passato, ma vi sarà nel futuro. Elucubrazioni di un fanatico? Sì, ma il fanatico si rivolge a folle che plaudono alle sue idee. Parole vuote? Lui non parla per nulla. Sembra impegnato nel mantenere le sue "promesse". Sarebbe un errore mettere in dubbio la sua determinazione. Una persona non predica odio per niente. Appartengo a una generazione che ha imparato a prendere sul serio le parole del nemico. Anche perché queste parole sono accompagnate da fatti: chi c'è dietro l'organizzazione terrorista degli Hezbollah? L'Iran. L'Iran li fornisce di tutte le armi più sofisticate e degli ufficiali che addestrano le loro milizie. Ma cosa vogliono gli Hezbollah? Concezioni territoriali? No. La creazione di uno Stato palestinese che viva fianco a fianco con Israele, cosa che personalmente mi auguro? No. L'unico obiettivo di questo movimento - e del presidente iraniano - è la distruzione di Israele. Ecco perché io sostengo che Ahmadinejad non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali. Dovrebbe diventare "persona non grata", per quello che sta facendo al suo Paese, al suo popolo, a tutta l'umanità». Nella sua visita in Israele, il presidente Usa Bush, al museo dello Yad Vashem, si è chiesto del perché gli Alleati non avessero bombardato prima Auschwitz. Secondo un filone storiografico, ciò non avvenne perché gli Alleati temevano che bombardando avrebbero ucciso migliaia di prigionieri del campo. «Questa motivazione non regge. Prima però mi lasci dire che ho molto apprezzato le parole del presidente Bush. Il suo è stato un atto di coraggio che è mancato ai suoi predecessori...». Lei parlava di una scusa... «Io ero ad Auschwitz. E posso dirle che ogni volta che assieme ai miei compagni di sventura sentivamo gli aerei sorvolare Auschwitz, pregavamo che bombardassero: sarebbe stata una morte preferibile alle camere a gas. La verità è che non solo gli angloamericani ma anche i russi, avrebbero potuto bombardare i binari della ferrovia che portava ad Auschwitz. In tal modo si poteva salvare la vita di decine di migliaia di ebrei. Così non è stato. E credo che il rimorso per non aver dato l'ordine di bombardare abbia accompagnato i responsabili per tutta la loro vita». Pubblicato il: 28.01.08 Modificato il: 28.01.08 alle ore 6.49 © l'Unità. Titolo: La rete dell'odio Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2008, 05:46:59 pm La rete dell'odio
Umberto De Giovannangeli L’antisemitismo naviga in rete. Un odio antico, mai sopito, usa i moderni strumenti della comunicazione. Pervasivi, spesso incontrollabili. Su Internet si danno appuntamento i «moderni» facitori di odio contro l’«Ebreo», ieri come oggi assunto come emblema della diversità che si vorrebbe cancellare. Quella «black list» di 162 docenti universitari non è un caso isolato. Perché il mondo di internet è contagiato da blog che, sotto sigle diverse, diffondono lo stesso pregiudizio. La loro quantità è impressionante. Inquietante. Crescente: sono ormai migliaia i siti che predicano l’odio razziale, che alimentano il pregiudizio antisemita, che fomentano la violenza, che inneggiano alla distruzione di Israele. Guai a sottovalutarne la pervasità. Il virus dell’antisemitismo sta crescendo, diversificandosi nella sua esplicitazione. Si odia l’Ebreo perché «domina il mondo»; si odia Israele perché è «lo Stato degli Ebrei». L’Ebreo viene raffigurato con le mani imbrattate di sangue (palestinese) e con le tasche gonfie di dollari. Tutto si tiene. Nulla è affidato al caso. E non è un caso che nel mirino dei «moderni» antisemiti siano finiti docenti universitari, vale a dire «trasmettitori» di cultura. Ebrei e insegnanti. Doppiamente pericolosi. Doppiamente nemici. Come lo furono in un passato che non passa, i docenti ebrei cacciati dalle università e dai licei del Regno d’Italia dal regime fascista. Quella lista della vergogna non è altro che la riedizione, moderna, dei falò dei libri bruciati dai nazisti nella notte dei cristalli. Senza memoria non c’è futuro di libertà: è bene ricordarlo oggi, di fronte ad un fatto di una gravità enorme. Il salto di qualità non deve sfuggire: non siamo più solo alla reiterazione di vecchi slogan antisemiti. Siamo alla formulazione di vere e proprie liste di proscrizione, con tanto di nomi e cognomi. Centossesssantadue persone, donne e uomini da mettere alla berlina se non da indicare come bersaglio. Di nuovo tornano a riecheggiare, sinistramente, concetti demonizzanti quale la «Lobby ebraica», cavallo di battaglia del peggiore antisemitismo. A cui si accompagna la definizione degli ebrei come «minoranza etnica». Sono le stesse accuse che venivano rivolte agli ebrei nel ventennio fascista; accuse che rievocano le leggi razziali che - proprio settant’anni fa - portarono all’espulsione dei professori ebrei dalle università. Non è solo un passato che non passa. Perché dietro la lista della vergogna c’è anche altro. Che parla ai democratici, che interroga la sinistra. Che reclama a pesare ogni parola. Non si tratta di condannare, con la massima determinazione, gli eredi di Eichmann. Questo è scontato. Il problema è un altro: quella «black list» non è composta solo da docenti ebrei. Quella lista riporta nomi, cognomi e università di appartenenza di 162 persone, poi rivelatesi non tutte docenti né tutte ebree, selezionate sulla base degli elenchi dei nomi presenti nella petizione pubblica proposta dalla comunità ebraica di Roma contro il boicottaggio attuato dalle università inglesi nei confronti di Israele. Israele. Visto come «lo Stato del Male». Lo Stato carnefice. E come tale da combattere. Osteggiare. Annientare. L’antisemitismo si maschera con l’antisionismo. Gli estremi si toccano. Sarà solo una causalità temporale, ma non può non far riflettere che la «lista di prosrizione» accompagna le polemiche scatenate dal boicottaggio invocato contro la Fiera internazionale del Libro «colpevole» di aver voluto Israele e i suoi scrittori come Paese ospite della ventunesima edizione. Sia chiaro: i propugnatori del boicottaggio non hanno nulla a che vedere con gli estensori della «black list». Tuttavia, demonizzare Israele, mettere alla gogna la sua cultura. alimenta, al di là delle volontà soggettive, l’antisemitismo. E questa è una responsabilità imperdonabile. Pubblicato il: 09.02.08 Modificato il: 09.02.08 alle ore 9.37 © l'Unità. Titolo: Jumblatt:«Filo-siriani, se volete la guerra, i libanesi sono pronti» Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2008, 03:28:16 pm Jumblatt:«Filo-siriani, se volete la guerra, i libanesi sono pronti»
Umberto De Giovannangeli Pesa le parole. Ma poi è un torrente in piena. Una «piena» che rischia di trascinare il Libano in una nuova, devastante guerra civile. Dal suo castello-fortezza sui monti dello Chouf, Walid Jumblatt, leader druso, figura storica della politica libanese, avverte l’opposizione filosiriana: «Voi volete la guerra? Sarà la benvenuta». Il suo tono, calmo, fa da contrasto alla pesantezza dell’affermazione. Jumblatt sa di essere da tempo in cima alla lista dei politici da eliminare stilata, e praticata, da coloro che hanno dato vita alla stagione del terrore in Libano, inaugurata, proprio tre anni fa, con l’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri. Le forze della maggioranza antisiriana si apprestano a celebrare il terzo anniversario dell’assassinio di Hariri con una imponente manifestazione in Piazza dei Martiri, nel cuore di Beirut. «Porteremo in piazza milioni di libanesi - anticipa Jumblatt in questa intervista esclusiva concessa a l’Unità -. E non sarà solo una giornata dedicata al ricordo di Rafik Hariri e delle vittime di quel massacro. Il 14 febbraio 2008 sarà il giorno in cui rilanceremo la nostra battaglia di libertà: il Libano sarà libero, sovrano, indipendente o resterà sotto l’ipoteca di Iran e Siria. Teheran e Damasco hanno rafforzato le loro carte in Libano». Il leader del Partito socialista progressista libanese si erge a difesa del governo guidato da Fouad Siniora: «O il governo sopravvive - avverte Jumblatt - o dovremo accettare il colpo di Stato fomentato da Iran e Siria. È in gioco la permanenza della democrazia in Libano». Il leader druso ha parole durissime nei confronti del presidente siriano Bashar el-Assad: «Bashar è un mafioso che gioca con l’Occidente e per questo cerca l’appoggio dell’Iran. Il gioco dei siriani è spietato. Hanno ucciso e continueranno ad uccidere chiunque in Libano rivendichi giustizia e indipendenza e chieda di fare piena luce sull’assassinio di Rafik Hariri e degli altri parlamentari, giornalisti e intellettuali che hanno osato sfidare il protettorato siriano». Tra i politici da eliminare c’è anche lui, Walid Jumblatt: «Non ho paura per me, ma per il Libano», è la sua risposta. Tra pochi giorni il Libano ricorderà il terzo anniversario dell’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri. Anniversario che vede il Libano stretto in un inquietante caos istituzionale, con un Parlamento bloccato da oltre un anno, con le votazioni per la nomina del nuovo capo dello Stato rinviate già 14 volte. In questo contesto, qual è il messaggio di questo 14 febbraio 2008? «Sarà un messaggio di libertà e di determinazione. Siamo pronti a tutto per difendere l’indipendenza e l’integrità territoriale del Libano. A tutto. Il 14 febbraio di tre anni fa, noi abbiamo preso nelle nostre mani e impiantato nei nostri cuori la dignità, la libertà, la difesa del pluralismo politico, culturale, religioso. Per questi valori siamo pronti a combattere e a morire». È un messaggio rivolto al leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah? «A Nasrallah dico: unisciti a noi nella costruzione e nella difesa di un Libano libero, sovrano e indipendente, e abbandona gli infedeli e i tiranni. Entra nei ranghi degli uomini liberi, se ne hai il coraggio. Ma se così non sarà». Se così non sarà? «Dovranno fare i conti con la nostra determinazione a combattere perché il Libano non ritorni sotto tutela siriana. Combattere, sì. Non assisteremo più a braccia conserte che altri parlamentari antisiriani vengano assassinati, e come loro ufficiali dell’esercito, giornalisti liberi, intellettuali coraggiosi. La nostra dignità e la salvezza del Libano vengono sopra ogni altra cosa. Noi non accetteremo più accuse di tradimento, non subiremo nuove umiliazioni. Ai nemici della libertà dico: volete il caos? Sia il benvenuto. Volete la guerra? Sia la benvenuta. Noi non abbiamo problemi a procurarci le armi, non abbiamo problemi con i missili. Noi sappiamo dove prenderli e sappiamo come usarli. Non vi temiamo. Se non abbiamo reagito finora non è per ignavia ma per senso di responsabilità. Ora basta». Il leader di Hezbollah sostiene di non voler disarmare le sue milizie perché quelle armi servono a difendere il Libano dalle aggressioni israeliane. «Noi non ne possiamo più di una guerra aperta con Israele, combattuta con dei pretesti fallaci al servizio del regime siriano e dell’impero persiano. Dietro falsi slogan patriottici e filo-palestinesi, costoro mascherano il loro essere strumenti al servizio di persone vili, come Bashar el-Assad e la sua cricca. Noi ne possiamo più del loro fragrante rifiuto della giustizia e della volontà di occupare con la forza intere aree del Paese sottraendole al controllo dello Stato centrale; aree in cui si accumulano armi e dalle quali partono le operazioni terroristiche contro l’esercito e gli uomini liberi del Libano». I leader dell’opposizione chiedono che l’elezione del nuovo capo dello Stato sia legata alla nascita di un governo di unione nazionale. «Questa non è una richiesta, è un ricatto. Inaccettabile. Il vero obiettivo che si prefiggono è la paralisi politica e istituzionale. Ciò che pretendono è rimettere in discussione gli accordi di Taef (che posero fine alla sanguinosa guerra civile che marchiò il Libano per quindici anni, dal 1975 al 1990, ndr.). La grande manifestazione di giovedì prossimo sarà un test per Taef. O quel documento è mantenuto tale e quale a come Rafik Hariri l’ha voluto, per tutelare l’unicità del pluralismo islamo-cristiano su cui si fonda l’assetto istituzionale libanese, o esso sarà cancellato con il pretesto di una democrazia consensuale. In questo modo ogni decisione democratica verrebbe bloccata, laddove fossero creati rapporti politici "contro natura". Quei rapporti che sono falliti in passato e che sono destinati a fallire in futuro, quei rapporti che sono sostenuti dal regime siriano e finanziati dall’imperialismo persiano». Per giovedì prossimo le forze del «14 Marzo», la maggioranza antisiriana, hanno indetto un raduno popolare in Piazza dei Martiri, a Beirut, per il terzo anniversario dell’assassinio di Rafik Hariri. Lei sarà tra gli oratori. Cosa chiede in questo frangente ai libanesi? «Di partecipare in massa alla manifestazione, sventolando solo bandiere libanesi, il simbolo di una unità nazionale minacciata. Questo 14 febbraio, è un giorno di sfida ancora più dura, difficile di quella che del 14 febbraio 2005. Noi dimostreremo ancora una volta che siamo un popolo che ha forte il senso dell’onore, della giustizia e della libertà: ideali che appartengono ai forti e non ai deboli». Pubblicato il: 12.02.08 Modificato il: 12.02.08 alle ore 10.09 © l'Unità. Titolo: Antonio Cassese: 1/9, la richiesta di pena di morte è contro la Costituzione Usa Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2008, 11:03:00 pm Antonio Cassese: «11/9, la richiesta di pena di morte è contro la Costituzione Usa»
Umberto De Giovannangeli Pena di morte per 6 reclusi di Guantanamo. Cosa c’è dietro questa richiesta. E ancora: la guerra al terrorismo e i diritti della persona. L’Unità ne discute con Antonio Cassese, docente alla facoltà di Scienze politiche «Cesare Alfieri» dell’Università di Firenze, già presidente, per sei anni, del Tribunale penale internazionale dell’Aja per i crimini nella ex Jugoslavia. Professor Cassese come valuta la richiesta avanzata dal Pentagono per sei detenuti di Guantanamo accusati di aver preso parte agli attentati dell’11 settembre? «È una richiesta sorprendente per diversi motivi: anzitutto, perché gli imputati sono stati detenuti per cinque anni senza sapere di cosa erano accusati; poi, questo potrebbe essere il primo vero processo contro detenuti di Guantanamo. Sorprende anche la circostanza che venga applicata una legge emanata nel 2006 che su alcuni punti viola non solo il diritto internazionale ma anche i principi fondamentali della Costituzione statunitense, nonché una sentenza recente della Corte Suprema degli Usa, nel caso Hamdan». Sulla base di queste considerazioni, come spiega questa richiesta? «Una precisazione è d’obbligo: si tratta soltanto di una richiesta da parte della pubblica accusa di rinvio a giudizio di sei imputati; richiesta che sorprendentemente è anche accompagnata da una richiesta di pena di morte. Spetterà al giudice di rinvio decidere se iniziare un vero e proprio processo. Ciò premesso, per quanto riguarda la spiegazione “politica” di questa richiesta chiaramente sollecitata dal Pentagono, come è stato giustamente osservato dal New York Times, essa è motivata dal desiderio del presidente Bush di vedere processati e puniti, prima della fine della sua presidenza, i presunti organizzatori del terribile attentato dell’11 settembre». Ma la lotta al terrorismo può giustificare circuiti penitenziari e tribunali speciali? «No, non la giustifica affatto. La risposta al terrorismo deve essere condotta sempre nel pieno rispetto della legge e del principio dell’equo processo. Come dice giustamente un noto procuratore antiterrorismo di Milano, la lotta contro il terrorismo va fatta con i codici in mano». Guantanamo è tornata al centro dell’attenzione internazionale. A più riprese, le più importanti associazioni umanitarie, oltre che diversi leader europei, ne hanno chiesto la chiusura. Oggi questa richiesta cade nel pieno della campagna per la Casa Bianca. Ritiene che la chiusura di Guantanamo sia ancora possibile? «La decisione di chiudere Guantanamo è nell’aria. A me risulta anche che un ambasciatore itinerante statunitense si sia recato in più Paesi (di quelli che non torturano) per accertare se erano disposti ad accogliere i detenuti di Guantanamo. Penso che quell’ambasciatore non abbia trovato calde accoglienze. Va anche detto che molti detenuti sono stati liberati alla chetichella per mancanza di prove contro di essi; a Guantanamo ne sono rimasti trecento e le autorità statunitensi prevedono di iniziare processi solo contro una ottantina». Allargando lo sguardo oltre Guantanamo, qual è a suo avviso lo stato di salute del diritto internazionale rispetto allo specifico della lotta al terrorismo? «Il diritto internazionale consente un ampliamento dei poteri degli investigatori e dei pubblici ministeri nei confronti di persone sospettate di terrorismo; consente anche, oltre all’aggravamento di pene per reati di terrorismo, la punizione di attività che normalmente non sono in sé criminalizzate, come ad esempio il finanziamento. In altri termini, il finanziamento di attività terroristiche può essere considerato un crimine in sé e dunque punito. Tutto ciò, però, è consentito dal diritto internazionale purché si rispettino i diritti fondamentali dell’indiziato o dell’imputato di terrorismo, e a condizione che si accordi a presunti terroristi l’equo processo. Purtroppo ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti è contrario anche a queste norme del diritto internazionale». Fin qui abbiamo parlato di diritti dell’indiziato o dell’imputato. Ma c’è chi, di fronte a queste sottolineature, è pronto a ribattere che i “garantisti” non si rendono conto, o sottovalutano colpevolmente, che di fronte si ha un nemico spietato. «Rinunciare a principi fondamentali della civiltà giuridica occidentale, come la presunzione di innocenza e l’equo processo, comporta non solo una violazione di importanti valori giuridici e morali, ma anche una grave perdita di credibilità delle democrazie occidentali. Non v’è dubbio, a tal proposito, che gli Stati Uniti stanno pagando un prezzo altissimo, in termini di credibilità e di prestigio, per Guantanamo e Abu Ghraib». Insisto nell’eccepire: c’è chi ritiene che il pugno di ferro, anche sul piano delle procedure, possa scoraggiare i terroristi. «Non credo. La fermezza, l’efficienza organizzativa ed investigativa, il coordinamento costante e fattivo tra investigatori di più Paesi nel lottare contro il terrorismo sono la ricetta migliore per sconfiggere il terrorismo e prevenirne nuove manifestazioni. Il pugno di ferro, che in fin dei conti significa tortura negli interrogatori e trattamenti disumani nel corso della detenzione, non pagano e imbarbariscono lo Stato democratico». Sul piano del rispetto dei diritti dell’imputato, l’Europa può essere un riferimento anche per altre aree del mondo? «Sì, assolutamente, anche perché in Europa abbiamo la fortuna di un controllo giudiziario su tutto il continente che è esercitato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Se uno Stato devia da questi principi di civiltà giuridica, la Corte di Strasburgo interviene subito e lo può condannare». Pubblicato il: 13.02.08 Modificato il: 13.02.08 alle ore 9.06 © l'Unità. Titolo: Umberto Ranieri: «Ma Pristina avrà un’indipendenza sorvegliata» Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2008, 11:15:24 pm Umberto Ranieri: «Ma Pristina avrà un’indipendenza sorvegliata»
Umberto De Giovannangeli Umberto Ranieri, presidente della Commissione Esteri della Camera, domani dovrebbe essere il giorno della proclamazione dell’indipendenza del Kosovo. Che valutazione dare di questo evento? «Il governo italiano si è adoperato a lungo affinché si giungesse ad una decisione sullo status del Kosovo sulla base di una intesa tra Belgrado e Pristina. Non è mancato mai il nostro sostegno al negoziato tra le parti. La verità è che a prevalere sono state reciproche pregiudiziali che hanno impedito il raggiungimento di una intesa: da un lato l’irremovibile opposizione del governo serbo a discutere dell’indipendenza, e dall’altro lato la posizione delle autorità kosovare che ritenevano che l’indipendenza costituisse una rivendicazione non negoziabile, mentre per Belgrado ciò era del tutto inaccettabile. Quindi non è stato possibile raggiungere quel compromesso tra le parti per il quale si era fortemente adoperato il nostro Paese che ha mantenuto buoni rapporti con Belgrado e con Pristina. Io penso che non abbia favorito l’affermarsi di un compromesso anche la condotta tenuta sia dalla Russia che dagli Stati Uniti nel corso del negoziato». Su che base fonda questa valutazione? «Mosca ha sostenuto la posizione irriducibile di Belgrado e Washington ha fatto lo stesso con Pristina. Gli Stati Uniti hanno continuato a dire agli albanesi del Kosovo che avrebbero potuto contare su una rapida indipendenza, senza concessioni alla Serbia e questo ha indebolito qualunque eventualità di ulteriori trattative. La ricerca di una soluzione più equilibrata e di compromesso è stata resa vana dal sostegno pregiudiziale che ai contendenti è venuto da Stati Uniti da una parte e Russia dall’altra. Il mio rammarico è che una questione squisitamente europea è stata invece condizionata nella ricerca di una soluzione dalle posizioni americana e russa». Da Belgrado giunge un monito: difenderemo la nostra sovranità. «Sono sicuro che Belgrado manterrà l’impegno assunto nel corso di questi mesi ad affrontare le questioni scongiurando in ogni caso il rischio che la situazione possa degenerare nella violenza. Io penso che l’elezione di Tadic a presidente della Repubblica serba la scorsa settimana, abbia chiamato ad assolvere a questo compito così delicato una personalità aperta alla prospettiva dell’integrazione della Serbia nell’Unione Europea, disponibile alla cooperazione con la comunità internazionale e con l’Europa in particolare. Spero che anche in questo momento particolarmente delicato nella storia serba, Belgrado mantenga questa impostazione. D’altro canto, credo che debbano anche essere considerate le ragioni che portano gli albanesi del Kosovo ad aspirare all’indipendenza. Nessuno può sottovalutare che tra serbi e albanesi del Kosovo si sia creato un abisso di inimicizia, di odio, di rancori. E nessuno può ignorare che gli albanesi hanno pagato un prezzo elevato a quella sorta di apartheid contro di loro, i cui primi segni si ebbero già negli anni di Tito per poi dispiegarsi compiutamente con Milosevic. Vanno comprese le ragioni che portano gli albanesi kosovari a porre la questione dell’indipendenza. Inoltre, questa prospettiva è apparsa inevitabile alla comunità albanese del Kosovo di fronte al dissolversi della ex Jugoslavia: hanno ottenuto l’indipendenza la Slovenia, la Croazia, la Bosnia, il Montenegro, la Macedonia; la comunità albanese che rappresenta oltre il 90% della popolazione dell’intero Kosovo, aspirava a una prospettiva di questo tipo con ragioni. La mia opinione è che sarebbe stato necessario un processo diverso per giungere a questo esito. Un tempo l’impostazione della comunità internazionale era prima gli standard e poi lo status: vale a dire prima fare in modo che lo stato di diritto si affermi del tutto in Kosovo, garantendo una legislazione capace di imporre il rispetto delle minoranze e impegnando le autorità kosovare in una lotta alla criminalità e alla corruzione, e poi in un contesto profondamente rinnovato e più affidabile, affrontare anche il tema dello status, nel senso di riconoscere l’indipendenza. Così purtroppo non è stato». Che indipendenza sarà quella del Kosovo? «Sarà una indipendenza sorvegliata dalla comunità internazionale. In Kosovo resteranno migliaia di soldati della Nato e una missione civile della Ue sarà lì dispiegata per sostenere il processo di stabilizzazione e di democratizzazione di quel Paese». Pubblicato il: 16.02.08 Modificato il: 16.02.08 alle ore 8.28 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Altro che anno della pace Inserito da: Admin - Marzo 02, 2008, 11:08:23 pm Altro che anno della pace
Umberto De Giovannangeli Doveva essere l'anno della pace. Ma la speranza sta morendo nell'inferno di Gaza. Il linguaggio della diplomazia è messo a tacere. A dominare è quello che il martoriato Medio Oriente ha imparato a conoscere fin tropo bene: il linguaggio della forza. A Gaza è in atto una guerra. Le notizie che giungono in queste ore da quella prigione a cielo aperto dove sono ingabbiati un milione e 400mila esseri umani, sono angoscianti. L´ offensiva scatenata da Israele in risposta al continuo lancio di razzi contro Sderot, Ashqelon, il sud del Neghev, sta mietendo decine, forse centinaia di vittime. Molti sono bambini e donne. Civili inermi. Da Ramallah, il presidente palestinese Abu Mazen, uomo moderato, sostenitore del dialogo, usa parole durissime per denunciare ciò che sta avvenendo. E la parola più terribile, per ciò che evoca nella memoria collettiva, è: «olocausto». La comunità internazionale, il mondo civile, non può far cadere nel vuoto il drammatico appello lanciato da Abu Mazen: chi può, chi deve, intervenga subito per fermare le armi. Ma un silenzio assordante accompagna la tragedia di Gaza. Un silenzio che sembra accomunare, con rare eccezioni, la diplomazia degli Stati e quella dei popoli. Un silenzio imbelle se non complice, che stride con i buoni propositi declamati dal presidente americano Gorge W.Bush e da tutti i leader europei che si diedero appuntamento nel novembre scorso ad Annapolis, per quella che sembrò essere la «Conferenza della speranza». Una speranza di cui non c'è traccia alcuna oggi a Gaza. Si era detto: il fallimento, l'ennesimo, del processo di pace può aprire la strada al peggio. Ebbene, il peggio si sta avverando. Il governo israeliano rivendica il diritto alla difesa. E nel farlo ricorda i razzi che continuano a bersagliare il sud dello Stato ebraico. Una realtà incontestabile. Ma ciò che in questi giorni, in queste ore, si sta consumando nella Striscia è qualcosa che va ben oltre il diritto alla difesa. La prova di forza, il pugno di ferro non indeboliscono Hamas, semmai lo rafforzano. A uscirne a pezzi è la leadership del moderato Abu Mazen, sono i palestinesi che credono nel dialogo e che si battono per una soluzione di pace fondata sul principio di due popoli, due Stati. Negli occhi terrorizzati dei bambini di Jabaliya si specchia il dramma di un popolo che non conosce pace ma solo frustrazione, disincanto, sopraffazione, violenza. Le punizioni collettive non sono mai giustificabili. Mai. Con quale credibilità Abu Mazen può oggi parlare di dialogo, sostenere la necessità del compromesso, contrastare l'estremismo di Hamas, in uno scenario in cui l'unico bilancio sempre in attivo è quello dei morti? In passato Israele ha eliminato i capi di Hamas, ma altri hanno preso il loro posto, e la forza del movimento integralista è cresciuta. A Israele si chiede un esercizio di lungimiranza politica e non di potenza (militare). Perché il suo sacrosanto, inalienabile, diritto alla sicurezza non potrà mai fondarsi sull'oppressione di un altro popolo. Perché l'oppressione produce solo rabbia e alimenta una unica pulsione: quella della vendetta. Un grande scrittore israeliano, Amos Oz, ha scritto che la tragedia del conflitto israelo-palestinese è che a scontrarsi non è il Bene contro il Male, la Ragione contro il Torto; l'unicità di questa tragedia senza fine è che ha scontrarsi sono due ragioni, due diritti ugualmente fondati: il diritto alla sicurezza per Israele, il diritto a uno Stato indipendente per il popolo palestinese. Due diritti che rischiano di essere sepolti per sempre sotto le macerie di Jabaliya. Pubblicato il: 02.03.08 Modificato il: 02.03.08 alle ore 10.37 © l'Unità Titolo: Saeb Erekat: «Non è autodifesa, è un’aggressione che uccide la pace» Inserito da: Admin - Marzo 03, 2008, 06:02:46 pm Saeb Erekat: «Non è autodifesa, è un’aggressione che uccide la pace»
Umberto De Giovannangeli «A Gaza Israele sta distruggendo le ultime speranze di pace. Uccidere decine e decine di palestinesi, molti dei quali donne e bambini, non può essere giustificato con il diritto all'autodifesa. È molto, molto di più: è pretendere l'impunità di fronte ad una carneficina». A parlare è uno dei leader palestinesi più impegnati nelle trattative con Israele: Saeb Erekat, già capo negoziatore dell'Autorità nazionale palestinese, oggi il consigliere politico più ascoltato dal presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen). Israele non fermerà le sue operazioni militari nella Striscia di Gaza. A ribadirlo è il premier israeliano Ehid Olmert. Che ha aggiunto: nessuno può negarci il diritto a contrastare le organizzazioni terroristiche. Qual è la sua risposta? «Distruggere case, colpire la popolazione civile, provocare la morte di civili inermi, tutto ciò non può essere derubricato come "effetti collaterali" nella lotta al terrorismo. Quello che Israele sta compiendo in questi giorni, nel momento stesso in cui noi stiamo parlando, non è solo un eccesso spropositato del diritto all'autodifesa, è qualcosa di molto più grave e assolutamente ingiustificabile. La nostra condanna al lancio di razzi contro le città israeliane è netta: chi compie questi atti si rende corresponsabile delle sofferenze subite dalla popolazione di Gaza. Ma, lo ripeto, quello che si sta perpetrando a Gaza è un massacro che l'intera comunità internazionale dovrebbe condannare con fermezza e agire di conseguenza sulle autorità israeliane perché pongano fine ad un'azione che rende improponibile il proseguo del negoziato di pace. Ed è per questo che abbiamo deciso di sospendere ogni contatto con Israele, a qualsiasi livello fino a quando non sarà posto fine a questa aggressione». Israele ribatte: noi ci fermeremo se i palestinesi finiranno di bersagliare con i loro razzi Sderot, Ashqelon, il sud del Neghev. «Siamo pronti come Anp ad assumerci le nostre responsabilità. Esiste, e Israele ne conosce ogni dettaglio, un piano messo a punto dal primo ministro Fayyad con il sostegno dell'Egitto, che prevede un più severo controllo del valico di Rafah (la frontiera tra Egitto e la Striscia di Gaza, ndr.) e l'assunzione del controllo da parte delle forze di sicurezza dell'Autorità palestinese dei valichi di frontiera tra Gaza e Israele. Abbiamo le capacità oltre che la determinazione per assolvere a questo compito. A Israele diciamo: metteteci alla prova invece di fare terra bruciata a Gaza». E se questo appello non verrà, come sembra, accolto? «Allora si aprirebbe una fase di destabilizzazione che potrebbe portare ad una escalation incontrollata della violenza. Questa, sia chiaro, non è una minaccia ma è una realistica previsione, condivisa da quei leader arabi, da re Abballah di Giordania al presidente egiziano Hosni Mubarak, che hanno sostenuto con convinzione il rilancio del processo di pace». Domani la segretaria di Stato Usa Condoleezza Rice inizia una nuova missione in Medio Oriente. Tra le sue tappe c'è Ramallah. Può anticipare a l'Unità cosa chiederete alla responsabile della diplomazia Usa? «Diremo alla signora Rice che non si può dialogare mentre la nostra gente continua a morire a Gaza, che l'esercizio della forza da parte d'Israele non indebolisce i nemici della pace ma al contrario li rafforza. Gli Stati Uniti si sono fatti garanti del processo di pace riavviato con la conferenza di Annapolis (novembre 2007, ndr.). Alla signora Rice chiederemo gesti coerenti con gli impegni assunti e di premere sul governo israeliano perché siano ristabilite le condizioni minime per poter tornare al tavolo del negoziato. E la prima di queste condizioni è che sia posto fine al massacro di Gaza». Il leader in esilio di Hamas, Khaled Meshaal, ha accusato il presidente Abu Mazen di aver avallato, "direttamente o indirettamente", l'offensiva militare israeliana. «Si tratta di un'accusa vergognosa, strumentale, che serve a mascherare le pesanti responsabilità che Hamas ha nell'aver determinato la drammatica situazione in cui versa la popolazione della Striscia. Hamas ha fallito su tutti i fronti e a pagare il prezzo del fallimento è la gente di Gaza e la causa palestinese». Oltre a lanciare accuse ad Abu Mazen, Hamas chiama tutte le fazioni palestinesi, tra le quali al-Fatah di cui lei è uno dei dirigenti, a combattere insieme il "nemico sionista". «Con i golpisti non è possibile alcuna azione comune. Hamas sa cosa deve fare per ritornare ad essere per noi un interlocutore credibile: riconoscere il governo legittimo di Salam Fayyad e ristabilire l'autorità delle istituzioni palestinesi a Gaza». Pubblicato il: 03.03.08 Modificato il: 03.03.08 alle ore 9.07 © l'Unità. Titolo: Salam Fayyad: «Il dialogo è stato rotto, l’Anp ora tenterà una tregua» Inserito da: Admin - Marzo 04, 2008, 04:51:21 pm Salam Fayyad: «Il dialogo è stato rotto, l’Anp ora tenterà una tregua»
Umberto De Giovannangeli L’annuncio della fine di «Inverno caldo», l’operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza, non attenua la sua rabbia per ciò che è avvenuto. Riusciamo a parlare per pochi minuti con Salam Fayyad, primo ministro palestinese, ma quei pochi minuti danno conto di una lacerazione nei rapporti con le autorità israeliane che non sarà facile ricucire. Signor primo ministro, Israele ha appena annunciato il ritiro dei suoi soldati da Gaza. Qual è la sua reazione a caldo? «Quei soldati lasciano dietro di loro morte e distruzione. Ciò che è avvenuto in questi giorni a Gaza è un fatto di straordinaria gravità. Abbiamo dovuto subire una aggressione senza precedenti, la più grave dopo il 1967 (l’occupazione dei territori palestinesi dopo la Guerra dei sei giorni, ndr.). Malgrado l’annuncio del ritiro, la situazione rimane estremamente grave. Lo ripeto: ciò che è avvenuto in questi giorni supera in peggio quello che noi palestinesi dovemmo subire dopo l’occupazione del 1967». Cosa l’ha più colpito di ciò che è avvenuto in questi giorni a Gaza? «Le vittime civili. Le donne, i bambini uccisi nell’offensiva israeliana. Diciassette bambini sono stati uccisi e oltre cento feriti. Una enormità. E nessuno venga a dire che si è trattato di uno spiacevole incidente». Signor primo ministro, in queste ore Hamas festeggia il ritiro israeliano cantando vittoria. «Il cinismo di Hamas non sembra conoscere limiti. Come si può esultare di fronte a quanto è accaduto in questi giorni? Hamas porta pesantissime responsabilità per la condizione disastrosa in cui versa la popolazione della Striscia. Il loro comportamento irresponsabile ha favorito il pugno di ferro israeliano». Nel vivo delle operazioni militari, il presidente Abu Mazen ha annunciato il blocco di tutti i rapporti con Israele. Dopo l’annuncio del ritiro israeliano il negoziato riprenderà? «Discuteremo sul da farsi. Di certo, nessuno potrà far finta che non sia successo nulla in questi giorni. Ma il nostro impegno per raggiungere una pace giusta, duratura, che porti alla nascita di uno Stato palestinese indipendente a fianco di Israele, non verrà meno. Nell’immediato siamo pronti a operare perché si giunga ad una tregua totale con Israele. Per noi la priorità assoluta è oggi quella di evitare un nuovo bagno di sangue». In passato, Lei ha chiesto una protezione internazionale per la popolazione di Gaza. È ancora di questo avviso? «Ancora di più. Mai come oggi è necessario che la comunità internazionale si assume responsabilità dirette e concrete sul campo. Per questo torno a chiedere la dislocazione di una forza internazionale a Gaza. D’altro canto, l’asserito ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia non deve far dimenticare che da tempo è in atto a Gaza una tragedia umanitaria che riguarda un milione e quattrocentomila essere umani. Faccio mie le parole del segretario generale delle Nazioni Unite: il diritto all’autodifesa non giustifica le punizioni collettive inflitte alla popolazione civile di Gaza, esse sono contrarie al diritto internazionale e alla stessa Convenzione di Ginevra». Nei mesi scorsi, Lei ha messo a punto un piano, sostenuto dall’Egitto, per il passaggio del controllo dei valichi di frontiera tra Gaza e Israele, e tra Gaza e l’Egitto, alle forze di sicurezza dell’Anp. Questo piano è ancora attuabile? «Al primo ministro Olmert ho ripetuto più volte che siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità in materia di sicurezza. Ma con il suo comportamento, Israele finisce per rendere impraticabile questo disegno. Guardi cosa è avvenuto a Nablus (la più popolosa città della Cisgiordania, ndr.): avevamo fatto uno sforzo straordinario per ristabilire ordine e legalità schierando sul terreno centinaia di agenti. Ebbene, dopo qualche giorno l’esercito israeliano è entrato a Nablus, vanificando il nostro sforzo. È come se fossimo in "libertà" vigilata. Una condizione che non aiuta certo il dialogo». (ha collaborato Osama Hamadan) Pubblicato il: 04.03.08 Modificato il: 04.03.08 alle ore 10.24 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - La diplomazia del terrore Inserito da: Admin - Marzo 08, 2008, 04:43:32 pm La diplomazia del terrore
Umberto De Giovannangeli La strage al collegio rabbinico di Gerusalemme porta in sé una conferma e una novità. Entrambe inquietanti per il futuro della martoriata Terrasanta e di ciò che resta delle speranze di pace fra israeliani e palestinesi. La conferma è che in Medio Oriente il vuoto dell’iniziativa diplomatica è sempre riempito dalla «diplomazia del terrore». Ogni incertezza, ogni ritardo nel perseguire con coerenza e determinazione la via del negoziato, ha come tragico contraltare il rilancio dell’iniziativa jihadista. È il passato che torna a farsi presente che lo insegna. Così come insegna che il sacrosanto diritto alla sicurezza di Israele non può sostanziarsi né trovare scorciatoie nel solo esercizio della forza. È una constatazione oggettiva che nulla concede alla proganda del radicalismo palestinese né vuol concedere alibi a chi sfrutta una tragedia vera - quella della popolazione civile di Gaza - per propagandare, e praticare, l’odio antiebraico. Nessuna causa, nessun diritto alienato possono minimamente giustificare stragi come quella perpetrata in un collegio rabbinico da chi, a Teheran come a Beirut, in un sotterraneo di Gaza o in una grotta ai confini tra Pakistan e Afghanistan, ha solo un disegno in testa: cacciare gli Ebrei dalla «terra dell’Islam». Il massacro degli studenti racconta molte amare verita: che il Muro edificato in Cisgiordania non basta a fermare il terrorismo e che per quanto Israele possa potenziare la sua intelligence e rafforzare Tsahal, le sue forze armate, non potrà mai garantirsi, su questa strada, una totale impenetrabilità. Per questo, richiamare oggi la necessità di rilanciare il dialogo con l’Autorità nazionale palestinese di Mahmud Abbas (Abu Mazen) è l’esatto opposto del consegnarsi all’impotenza o tentare di legare le mani a Israele: il negoziato resta la via da seguire, per quanto contorta e irta di ostacoli essa sia. Così come ribadire lo stretto, inscindibile legame tra il diritto alla sicurezza di Israele e il diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente, non è un sacrificio chiesto, tanto meno imposto a Israele, ma è il vero aiuto che i veri amici di Israele possono dare a un popolo e a uno Stato che hanno diritto ad una esistenza non più trascorsa in trincea. Si fa l’interesse di Israele se si fa l’interesse della maggioranza dei palestinesi che nulla ha a che spartire con i proclami jihadisti e la pratica del terrore di una minoranza oltranzista. La pace è anche rinuncia. È una sottrazione consapevole, indispensabile per mantenere in vita ciò che è essenziale. E per Israele ciò significa preservare l’identità ebraica dello Stato e il fondamento democratico del suo essere Nazione. Ma la difesa di questi pilastri identitari non può conciliarsi con il mantenimento del controllo dei Territori palestinesi. La novità che prende corpo dalla strage di Gerusalemme è la frammentazione dell’«universo-Hamas», con l’ormai avvenuta marginalizzazione dell’ala «pragmatica» del movimento integralista. A comandare oggi sono i nuovi capi di Ezzedin al-Qassam, il braccio armato che è ormai diventato anche la «mente» politica dell’organizzazione. E quei capi rispondono sempre più a sollecitazioni esterne, a logiche che intendono fare del Medio Oriente - dalla Palestina al Libano, dall’Iraq al Golfo Persico, un unico campo di battaglia. La guerra del terrore si regionalizza e nel farlo arruola le frange estreme dell’Intifada palestinese nell’esercito del Jihad globalizzato. Non è un caso che la prima rivendicazione dell’attacco al collegio rabbinico sia venuta non da un comunicato diffuso a Gaza ma da un annuncio trasmesso dalla tv del libanese Hezbollah. Di fronte a questo terribile, quanto realistico, scenario, la comunità internazionale non può limitarsi a declamare le solite parole di condanna e a ripetere stancamente gli appelli alla moderazione. È tempo di assumersi responsabilità sul campo. Come è avvenuto in Libano. Contro la regionalizzazione del terrore c’è una unica risposta da tentare: l’internazionalizzazione della sicurezza di Israele e dei palestinesi che oggi sono ostaggi dell’esercito jihadista. Il che vuol dire, con il consenso preventivo del governo israeliano e dell’Anp e l’autorizzazione delle Nazioni Unite, dislocare una forza di interposizione tra Gaza e Israele con l’obiettivo dichiarato di impedire ulteriori aggressioni contro Israele e la devastante reazione militare israeliane che finisce, come è avvenuto nei giorni scorsi, per mietere vittime innocenti tra i civili di Gaza. Questo impegno, certo, comporta dei rischi. Gli stessi che i militari dell’Unifil, molti dei quali italiani, sanno di poter correre in Libano. Ma questi rischi vanno affrontati se si vuol davvero dare una chance alla pace. Pubblicato il: 08.03.08 Modificato il: 08.03.08 alle ore 12.41 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - «Per Clinton sarà una settimana di passione» Inserito da: Admin - Marzo 12, 2008, 10:37:09 pm «Per Clinton sarà una settimana di passione»
Umberto De Giovannangeli «Eliot Spitzer ha costruito le sue fortune politiche sull’immagine del pubblico ministero inflessibile, tutto legge e ordine. Quelle leggi che ora ha violato per coprire ogni traccia dello scandalo “a luci rosse”». A parlare è Carol Beebe Tarantelli, profonda conoscitrice del «pianeta Usa», dove è nata, ha studiato e conseguito il Bachelor of Arts al Wellesley College, il Master of Arts all’University of Michigan e il PhD alla Brandeis University. «Se i grandi mass media cavalcheranno questa vicenda - sottolinea Carol Tarantelli - ciò vorrà dire che hanno deciso di schierarsi con Obama». Quanto potrà pesare lo scandalo sessuale che ha coinvolto il governatore dello Stato di New York, Eliot Spitzer, negli orientamenti dell’opinione pubblica americana? «L’opinione pubblica americana è molto meno bigotta di quanto si creda in Europa. No, il problema non è la gente, il problema è Eliot Spitzer, il suo passato da pubblico ministero che nella sua carriera si è fatto moltissimi nemici, ed oggi sarà molto difficile che, nel momento della disgrazia, potrà attendersi molti alleati. Penso che troverà poche persone, nell’establishment politico, pronte a spendersi per lui. Per chi ha costruito le sue fortune politiche sull’immagine dell’uomo pubblico inflessibile, tutto legge e ordine, come il grande moralizzatore di New York, adesso deve attendersi il contraccolpo, tanto più che lo scandalo che lo coinvolge è molto più scabroso di quello che rischiò di travolgere l’allora presidente Bill Clinton. Sia chiaro: la diversa gravità non è certo legata alle prestazioni sessuali...». È a cosa? «Al fatto che il governatore Spitzer ha commesso diversi illeciti pur di coprire l’”uso” di una prostituta. Insomma, ha cercato di abusare del suo potere per coprire le tracce di una vicenda che peraltro non può essere liquidata come una scappatella..».. Lo scandalo del «Cliente numero 9» avviene nel pieno della corsa per la Casa Bianca. In campo democratico la corsa alla nomination è appesa ad un filo: come potrà giocare, se giocherà, la vicenda-Spitzer? «Sarà interessante vedere se e quanto peserà e contro chi, perché se verrà usato contro Hillary Clinton, ciò vorrà dire che chi conta, ad esempio i grandi mass media, è intenzionato a sostenere Obama. L’amplificazione degli scandali di questa natura dipende sempre da una motivazione politica, e la vicenda che coinvolse Bill Clinton (nello “scandalo Lewinski”, ndr.) ) ne è stata una riprova...». Resta il fatto che Eliot Spitzer è un «grande elettore» di Hillary. «Non poteva essere altrimenti, visto che Spitzer è il governatore dello Stato di New York, vale a dire dello stesso Stato di cui Hillary è senatrice. Se avesse fatto una scelta diversa, sarebbe stato per Spitzer disconoscere gli elettori di New York che avevano scelto sia lui che Hillary. Non credo che lo staff di Obama cadrà nell’errore di usare questa vicenda contro Hillary, se lo facessero sarebbe un boomerang». I repubblicani hanno subito chiesto le dimissioni di Spitzer. «Per forza, i repubblicani hanno bisogno di tutte le frecce al loro arco, perché sono molto divisi al loro interno. La destra cristiana fondamentalista è tutta schierata con i repubblicani ma non si scalda per McCain. E il candidato repubblicano alla presidenza ha bisogno dei loro voti e per ottenerli, per conquistarne i favori, potrebbe cavalcare lo “scandalo a luci rosse”. Per capire quanto peserà questa vicenda dovremo attendere i prossimi giorni, una settimana. Una settimana di “passione” non solo per Spitzer ma anche per l’incolpevole Hillary Clinton». Pubblicato il: 12.03.08 Modificato il: 12.03.08 alle ore 8.26 © l'Unità. Titolo: Haniyeh: «D’Alema ha capito, con noi di Hamas bisogna trattare» Inserito da: Admin - Marzo 13, 2008, 05:49:02 pm Haniyeh: «D’Alema ha capito, con noi di Hamas bisogna trattare»
Umberto De Giovannangeli Un’ammissione, sia pur indiretta, che da alcuni giorni una tregua è in atto: «La palla è nel campo di Israele. Per quanto ci riguarda siamo pronti a sancire una “hudna” (tregua, ndr.) di lunga durata a patto che essa sia reciproca, simultanea e globale». Ad affermarlo è Ismail Haniyeh, premier di Hamas, il movimento islamico che dal giugno 2007 ha il pieno controllo della Striscia di Gaza. Haniyeh ha parole di apprezzamento verso le recenti dichiarazioni del ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema che ha suggerito di «tentare» il dialogo con Hamas. «Il ministro italiano - dice Haniyeh - ha compreso che Hamas è parte inalienabile del popolo palestinese e che la pace non può essere fatta solo con la metà di un popolo». Dopo giorni di sangue, la situazione nella Striscia e nel sud di Israele è di relativa calma. Ciò significa che Hamas si è disposto a una tregua? «Non è la prima volta che Hamas propone una tregua, anche di lunga durata, a Israele. Ma perché possa funzionare, la tregua deve essere simultanea, globale e reciproca...». Il che in concreto significa? «Significa che il nemico dovrà rispettare pienamente i suoi obblighi. Gli israeliani devono fermare le incursioni, gli assassinii e togliere il blocco imposto a Gaza..». Risponde al vero che gli egiziani si sono fatti parte in causa nella ricerca di una tregua tra Hamas e Israele? «Questo non è un mistero. Gli egiziani si sono attivati per cercare di realizzare le condizioni per giungere ad un accordo di cessate-il-fuoco. Hamas non si è tirato indietro assumendosi la sua parte di responsabilità. Ora la palla è nel campo israeliano. Noi stiamo aspettando una risposta perché, lo ripeto, la tregua dovrà essere simultanea e generale, e dovrà comportare obblighi non soltanto per noi ma anche per Israele». Hamas parla solo per sé o anche per le altre fazioni armate palestinesi? «La resistenza al nemico non riguarda solo Hamas, così come la decisione di una hudna (tregua, ndr.) non spetta solo a noi. Sono in corso colloqui tra tutte le fazioni palestinesi (della Striscia) per essere pronti a mantenere una posizione univoca qualora l’accordo fosse davvero raggiunto». Il tutto contro Abu Mazen? «Il tutto a sostegno della causa palestinese». Il presidente Abu Mazen ha affermato che il governo israeliano ha accettato di fermare gli attacchi contro i leader di Hamas in cambio della cessazione del lancio dei missili palestinesi contro Sderot, Ashqelon, il sud di Israele. «In altri termini si vorrebbe accreditare l’idea che i capi di Hamas hanno barattato la fine della resistenza per aver salva la vita! Questa è una pura menzogna. Tra gli “shahid” (martiri, ndr.) che hanno sacrificato la propria vita per respingere l’ultima offensiva del nemico, c’erano i figli di dirigenti di primo piano di Hamas,e i loro figli caduti in combattimenti erano essi stessi quadri di Hamas. Nessun privilegio per chi ha l’onore di guidare Hamas, semmai doveri in più. Se tregua ci sarà, dovrà riguardare tutta la gente palestinese, non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania. Noi non abbandoneremo la nostra gente in Cisgiordania». Resta il fatto che le condizioni di vita a Gaza peggiorano di giorno in giorno. Israele afferma che la responsabilità ricade tutta su Hamas. «L’uccisione di donne e bambini è un crimine contro l’umanità, come lo sono le punizioni collettive inflitte alla popolazione civile. Cosa si pretende da noi, la resa? Non accadrà mai...». Vi si chiede di riconoscere il diritto all’esistenza di Israele. «Alla vittima si chiede di riconoscere e rispettare il suo carnefice, da un popolo oppresso, sotto occupazione si pretende la rinuncia ad un diritto di resistenza che è contemplato anche dalla Convenzione di Ginevra. Gli esami sono sempre a senso unico, mai che si chieda conto a Israele del massacro di civili palestinesi, dell’usurpazione delle nostre terre, delle sofferenze, delle umiliazioni indicibili a cui ogni giorno i palestinesi sono sottoposti, mai che si paventino sanzioni o embarghi. Se Israele vuole sicurezza si ritiri dai territori occupati nel ‘67, liberi i prigionieri palestinesi detenuti nelle sue carceri, ponga fine all’assedio di Gaza e alla colonizzazione della Cisgiordania, se lo farà le cose potrebbero cambiare. Per tutti». Di fronte al precipitare della situazione a Gaza, dall’Europa si sono alzate voci autorevoli che hanno invocato una trattativa che coinvolga anche Hamas «Registriamo con favore che la posizione dell’Unione Europea sta migliorando: si sono resi conto che è stato un errore non trattare con Hamas, In particolare abbiamo apprezzato le dichiarazioni del ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema, al quale non sfugge che Hamas è parte inalienabile della società palestinese». Una considerazione, la sua, che in Italia gli avversari del ministro degli Esteri utilizzeranno per dipingere D’Alema come l’«amico di Hamas». «Non entro nelle vostre beghe interne, so che siete in campagna elettorale...Ciò che voglio dire è che il ministro D’Alema non ha chiuso gli occhi di fronte alla realtà, non ha dimenticato né sottovalutato il fatto che Hamas ha vinto libere elezioni, e lo stesso discorso vale per Jimmy Carter, Hosni Mubarak, i governanti di Russia, Cina e di tanti altri Paesi che hanno rapporti, ufficiali e non, con Hamas. Insomma, D’Alema è in buona compagnia...». (ha collaborato Osama Hamdan) Pubblicato il: 13.03.08 Modificato il: 13.03.08 alle ore 9.34 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - La Destra vuole rimettere l’Italia in trincea Inserito da: Admin - Marzo 16, 2008, 12:33:21 am La Destra vuole rimettere l’Italia in trincea
Umberto De Giovannangeli Hanno già imbracciato il fucile e calzato l’elmetto. Hanno promesso di tornare a combattere in Iraq. Hanno garantito più soldati in Afghanistan per schierarsi in prima linea nella guerra ai talebani. E già che c’erano hanno annunciato - gli pseudo amici di Israele - che appena torneranno al governo smobiliteranno i nostri soldati in Libano, oggi garanti della sicurezza nel Sud Libano e per gli abitanti israeliani dell’Alta Galilea. Perché quella missione «fu voluta da D’Alema per farsi perdonare la chiusura precipitosa della nostra missione in Iraq», salvo poi ventilare soldati combattenti anche nel Paese dei Cedri. Gli ex tornano sul campo di battaglia. E devastano la scena. Gianfranco Fini, ministro degli Esteri del passato governo del Cavaliere. Antonio Martino, titolare della Difesa sempre nel suddetto governo. In 24 ore hanno cannoneggiato l’immagine internazionale dell’Italia prefigurando scenari da brividi: quelli di un Italia in trincea. Non sono falchi. Sono degli irresponsabili, per giunta anacronistici. L’ultimo ultrà bushiano ha il volto compiaciuto del «liberale» Antonio Martino. In America tutti i candidati alla presidenza - sia il repubblicano McCain che i democratici Obama e Hillary Clinton - hanno abbandonato l’unilateralismo tanto caro ai neocon, hanno riflettuto criticamente sulla devastante esperienza irachena e preso atto che la maggioranza degli americani considera quell’avventura una tragedia, una fallimentare tragedia, nazionale. Martino non se n’è accorto. Lui è ancora in trincea. E da ministro della Difesa in pectore annuncia che appena entrerà in funzione sbaraccherà nel Libano, dispiegherà «addestratori» in Iraq mentre l’Afghanistan sarà la destinazione di «soldati combattenti». Se fosse per lui, Antonio Martino, menerebbe le mani anche in Iran, e se non lo si potrà fare bissando quanto fatto con Saddam in Iraq, è solo «perchè non conosciamo l’esatta locazione dei loro siti...». Più diplomatico - questione di stile e di passata collocazione alla Farnesina - è Gianfranco Fini, il quale però non è da meno del «comandante» Martino nel giurare che in politica estera «la linea del Pdl è la continuazione di ciò che abbiamo fatto durante il nostro governo. Una linea diversa dal governo Prodi-D’Alema per quanto riguarda, ad esempio, la questione mediorientale». Il che si traduce anche per il leader di An nel «via dal Libano». Continuità con «ciò che abbiamo fatto durante il nostro governo», si traduce così: tante chiacchiere, molta subalternità (all’«amico George»), esternazioni avventuristiche e pochi impegni. Emblematica è la vicenda libanese. Gianfranco Fini fa vanto della sua granitica amicizia con Israele. Altrettanto Martino. Chiacchiere. Perché chi è davvero amico di Israele non dimentica ciò che sia il capo dello Stato israeliano, Shimon Peres, il primo ministro di Israele, Ehud Olmert, la ministra degli Esteri, Tzipi Livni, hanno più volte ripetuto in sedi ufficiali, e dunque documentabili: grazie Italia per l’impegno assunto sul campo nel garantire la sicurezza alla frontiera nord dello Stato ebraico (e nel Libano meridionale). È l’impegno dei nostri militari ( asse portante, con funzioni di comando, all’interno di una missione Onu), in quell’area nevralgica del Medio Oriente. Un impegno da dismettere, sentenzia Martino, perché è notorio (a chi? certo non a ai governi di Israele e del Libano) che quei soldati stanno lì solo perchè quella missione «fu voluta da D’Alema per farsi perdonare la chiusura precipitosa della nostra missione in Iraq». Parole in libertà. Che hanno già prodotto un effetto preoccupante: la convocazione da parte del presidente del Parlamento libanese del nostro ambasciatore a Beirut per avere spiegazioni di questa improvvida sortita. Ricordando che l'Italia assicura il maggior contingente dell'Unifil, la forza Onu in Libano, l'agenzia ufficiale libanese Nna, ha reso pubblico che il presidente del Parlamento, e leader sciita, Nabih Berri «ha chiesto all'ambasciatore italiano se sia possibile confermare tali pericolose dichiarazioni» rilasciate dall’ex ministro della Difesa Antonio Martino. Dichiarazioni che hanno provocato sconcerto, e un nervoso silenzio dei comandi italiani impegnati in Sud Libano. Parole in libertà. Pericolose. Destabilizzanti. «Le dichiarazioni di Martino mettono a repentaglio la vita dei nostri soldati», avverte il generale Mauro Del Vecchio, comandante delle operazioni Nato in Afghanistan quando Martino era ministro della Difesa. Si dirà: Martino (stra)parla per sé. Non è così. Perché in serata giunge l’imprimatur del «Comandante in capo»: il Cavaliere in armi. Silvio Berlusconi annuncia: con noi al governo, nuove regole d’ingaggio in Libano (quali?, decise in che sede? dichiariamo guerra a Hezbollah?» e invio di istruttori militari in Iraq. Dal Libano all’Afghanistan. Il 6 e 7 di giugno a Parigi si svolgerà quella Conferenza internazionale sull’Afghanistan per la quale il governo di centrosinistra si era battuto. Quella conferenza è una vittoria della diplomazia italiana perché è l’acquisizione, euroatlantica, che in quel martoriato Paese la stabilizzazione e il rafforzamento del processo democratico non possono avvenire con il solo strumento militare. Che i Talebani si sconfiggono se si fa il vuoto attorno a loro, conquistando la popolazione civile che non può avere dell’Occidente solo l’immagine dei bombardamenti. Ne Martino-pensiero tutto ciò scompare. Per lasciar posto a un solo imperativo: combattere. Cambiano le regole d’ingaggio, conferma Fini, inviando altre truppe, incalza Martino, «con meno restrizioni, un migliore equipaggiamento e con la disponibilità ad impegnarle anche in altre aree». La politica estera irrompe nella campagna elettorale. Nel modo peggiore. Pubblicato il: 15.03.08 Modificato il: 15.03.08 alle ore 8.52 © l'Unità. Titolo: «Il vostro disimpegno? Una manna per chi vuol disintegrare il Libano» Inserito da: Admin - Marzo 16, 2008, 06:28:30 pm «Il vostro disimpegno? Una manna per chi vuol disintegrare il Libano»
Umberto De Giovannangeli «Il contributo dato dal vostro Paese alla stabilizzazione del Libano è stato decisivo. Non dimentichiamo il ruolo trainante che l'Italia ha avuto nel convincere altri Paesi europei a impegnarsi nella missione Unifil 2. La situazione nel Sud Libano è migliorata ma il Libano è tutt'altro che pacificato. C'è bisogno dell'Italia, del vostro impegno, abbandonare il campo sarebbe un segnale di smobilitazione generale che finirebbe per lasciare il popolo libanese in balia delle forze della destabilizzazione». A parlare è un uomo che porta ancora su di sé i segni di un attentato (l'1 ottobre 2004) che costò la vita a una sua guardia del corpo e dal quale lui stesso uscì vivo per miracolo (sottoposto a tredici interventi chirurgici): Marwan Hamade, druso, è oggi ministro delle Telecomunicazioni nel governo di Fuad Sinora. Ancora oggi nel mirino dei terroristi, Hamade vive blindato e per ragioni di sicurezza può recarsi al ministero solo da mezzanotte all'alba. Hamade accetta di parlare con l'Unità di ciò che ha significato e significa la presenza italiana in Libano. «Ho avuto notizia - dice - di dichiarazioni di esponenti politici italiano (l'ex ministro della Difesa Martino, ndr) che definiscono poco motivata la presenza militare italiana in Libano. Mi permetto di dissentire: se oggi il mio Paese resiste ai signori della guerra è anche grazie a quella presenza: l'Unifil, di cui l'Italia ha la guida, è una garanzia importante per la stabilità e l'integrità del Libano». Signor ministro, in Italia si è aperta una polemica sul proseguo della nostra presenza militare nel Sud Libano. C'è chi sostiene il disimpegno o comunque un ridimensionamento della presenza italiana. «Non è mia intenzione entrare in polemiche interne, perché ciò che chiediamo per noi libanesi, la non ingerenza negli affari interni, vale in generale. Ma sulla presenza italiana in Libano non intendo essere reticente: l'Italia ha contribuito in misura notevole a riportare la sicurezza nel Sud del Libano. Un vostro disimpegno sarebbe una vittoria per le forze della destabilizzazione». L'importanza della presenza italiana è misurabile solo dalla quantità dei militari impegnati nella missione Unifil 2? «Diciamo che la quantità è uno degli indicatori della consapevolezza che fino ad oggi, ma spero anche in futuro, l'Italia ha della centralità della questione libanese nei fragili equilibri mediorientali. Il Libano è stato in passato, anche recente, teatro di una guerra condotta per conto terzi. Nel Libano agiscono ancora forze che puntano alla disintegrazione dello Stato, alla sua frantumazione territoriale; forze eterodirette. Ma in Libano c'è anche una maggioranza che si batte per l'autonomia, la sovranità, l'indipendenza del Paese. Una maggioranza di donne e uomini liberi che rivendicano verità e giustizia sulla stagione del terrore iniziata con l'assassinio di Rafik Hariri (l'ex premier assassinato nel febbraio 2005, ndr) e che ha visto morire parlamentari, intellettuali, giornalisti, ufficiali dell'esercito e dei servizi di sicurezza che avevano difeso la sovranità territoriale e l'indipendenza reale del Paese. È' il Libano che ha dato vita alla "Rivoluzione dei Cedri" e che ha accolto i militari italiani come portatori di pace e non certo come forze di occupazione. Mi lasci aggiungere che i militari italiani hanno dimostrato di essere portatori di un valore aggiunto…». Quale è questo valore? «L'umanità. Il rispetto per la popolazione civile, lo sforzo di costruire occasioni di incontro, di socializzazione con le comunità locali. Un'opera di coinvolgimento attivo importante tanto quanto la prevenzione». Cosa si sente di chiedere oggi all'Italia? «Di proseguire nel suo impegno per la stabilizzazione del Libano, sapendo che il mio Paese è ad un passaggio cruciale della sua vita nazionale…». Si riferisce alla mancata elezione del nuovo capo dello Stato? «A questo e ad un altro fatto cruciale: l'entrata in funzione del Tribunale internazionale chiamato a far luce sull'assassinio di Rafik Hariri. Con il terrore, le autobomba, gli assassinii mirati si sta cercando di impedire che la giustizia faccia il suo corso. Ritirarsi dal Libano sarebbe un colpo esiziale anche per questa battaglia di libertà». Pubblicato il: 16.03.08 Modificato il: 16.03.08 alle ore 14.45 © l'Unità. Titolo: Adolfo Pérez Esquivel: «Sotto la minaccia del boicottaggio» Inserito da: Admin - Marzo 18, 2008, 09:05:01 pm Adolfo Pérez Esquivel: «Sotto la minaccia del boicottaggio»
Umberto De Giovannangeli «Se è vero che i Giochi olimpici simboleggiano la fratellanza fra i popoli, questo spirito olimpico non si concilia ma al contrario viene mortificato dal genocidio culturale in atto nel Tibet». A pensarlo è Adolfo Pérez Esquivel, uno dei premi Nobel per la pace firmatari di un appello per il boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino. Pérez Esquivel - vincitore del premio Nobel per la Pace nel 1980 per le sue denuncie contro gli abusi della dittatura militare del suo Paese, l’Argentina, negli anni Settanta, motiva le ragioni che spingono a «fare del boicottaggio delle Olimpiadi uno strumento di pressione sulle autorità cinesi perché pongano fine alla repressione in Tibet e avviino il dialogo con una personalità responsabile e tutt’altro che eversiva qual è il Dalai Lama». Il Dalai Lama ha denunciato: in Tibet è in atto un genocidio culturale. «Quel grido d’allarme va raccolto da tutti, governi, organismi internazionali, associazioni umanitarie, intellettuali. La repressione messa in atto dalle autorità cinesi è tanto più grave perché si esercita contro un movimento non violento, le cui rivendicazioni non minano l’integrità territoriale della Cina. È questo un punto centrale, perché ciò che i monaci tibetani chiedono non è l’indipendenza ma l’autonomia dentro la Repubblica popolare cinese. Chiedono il rispetto della loro identità, difendono la libertà di culto, la loro cultura secolare, e lo fanno con la non violenza. Per questo oggi io dico: dobbiamo essere a loro fianco, perché non possiamo non dirci tibetani». C’è chi sostiene che il boicottaggio delle Olimpiadi sia un’arma spuntata. «Non credo che lo sia, altrimenti non avrei firmato con convinzione l’appello dei Premi Nobel per la pace. Il ragionamento è molto semplice: la Cina punta a fare delle Olimpiadi una vetrina mondiale per sé, per il proprio gigantismo economico e per le sue ambizioni di super potenza politica. Ebbene, che questa vetrina sia almeno pulita, che metta in mostra anche un ripensamento da parte delle autorità cinesi rispetto a tematiche che molto hanno a che fare con lo spirito olimpico: il rispetto delle diversità, la fratellanza, il riconoscimento delle altrui identità. Tutto ciò, mi sembra ovvio, non si concilia con il genocidio culturale in atto nel Tibet. Ma c’è un’altra cosa che reputo ugualmente importante». Quale? «Mancano ancora più di quattro mesi all’inizio delle Olimpiadi. È’ importante che la minaccia del boicottaggio venga esercitata per avanzare, subito, al governo cinese alcune richieste minimali: penso, ad esempio, alla possibilità per osservatori internazionali di avere libero accesso a Lhasa e in tutto il Tibet per poter accertare la gravità della situazione; apertura che dovrebbe essere estesa alla stampa internazionale. È una richiesta minima che va avanzata e dalla risposta di Pechino vanno calibrate le altre iniziative. Non credo che sia chiedere la luna. La Cina si è assunta impegni precisi, in funzione della possibilità di ospitare le Olimpiadi, per ciò che concerne il rispetto dei diritti umani. Il Tibet ne è il banco di prova». Quel sangue riguarda tutti noi. «Certo che sì. E ci riguarda la battaglia di libertà condotta dai monaci tibetani come dobbiamo sentire nostra quella in atto in Birmania. Il Tibet deve vivere non solo nelle piazze ma sui giornali, nelle televisioni. Dobbiamo far vivere la cultura di questo popolo, diffonderla, farla conoscere. La cultura è vita, e lo è tanto più di fronte ad un genocidio culturale in atto». Ma il boicottaggio delle Olimpiadi non avrebbe solo un valore simbolico? «”Solo"? Non sottovaluterei il valore simbolico quando questo atto simbolico, e al tempo stesso molto ma molto concreto,si proietta su scala mondiale, entra nelle case di miliardi di persone. Vede, si parla spesso di un mondo globalizzato, che non si è al passo con i tempi se non si accetta la sfida della globalizzazione economica, ebbene la sfida che noi dobbiamo lanciare oggi è quella della globalizzazione dei diritti. A partire dal Tibet». Pechino afferma al contrario che il Tibet è una questione interna. «È una tesi da respingere, e ciò vale per la Cina come per tutti quei Paesi, quelle potenze, che si trincerano dietro il paravento della sovranità nazionale per giustificare abusi che spesso si configurano come veri e propri crimini contro l’umanità». Pubblicato il: 18.03.08 Modificato il: 18.03.08 alle ore 12.15 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Wiesel: perché dico fermiamo la Cina Inserito da: Admin - Marzo 22, 2008, 09:24:20 pm Wiesel: perché dico fermiamo la Cina
Umberto De Giovannangeli «La cosa più importante in questo momento è unire le nostre voci a quella del Dalai Lama per chiedere alle autorità cinesi di fermare la repressione, liberare le persone incarcerate e avviare il dialogo». A parlare è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace nel 1986, promotore di un appello per il Tibet sottoscritto da altri 25 Nobel. «Abbiamo avvertito la necessità - spiega Wiesel - di protestare contro l’ingiustificata e ingiustificabile repressione condotta dalle autorità cinesi contro il nostro collega e amico, sua Santità il Dalai Lama, che si è sempre fatto portatore di proposte ragionevoli e che ha sempre dimostrato la sua volontà di dialogo». Cosa c’è alla base dell’appello di cui Lei si è fatto promotore e che ha già raccolto l’adesione di altri venticinque Premi Nobel per la Pace? «Alla base ci sono i drammatici eventi che in questi giorni stanno segnando il Tibet, di fronte ai quali abbiamo avvertito la necessità di agire, di unire le nostre voci a quelle del Dalai Lama. In questo momento la priorità assoluta è fermare la violenza e porre fine all’oppressione. Mi lasci aggiungere che fatico davvero a comprendere il perché un gigante non solo economico ma politico e militare qual è la Cina debba aver paura del Tibet…». Il governo di Pechino ribatterebbe alla sua domanda che è suo diritto difendere l’integrità territoriale del Paese. «Concetto ineccepibile ma che, e questo discorso non vale solo per la vicenda del Tibet, non può comunque giustificare sanguinose repressioni e la soppressione dei diritti umani. In questo caso specifico, poi, il discorso non regge di fronte al fatto che il Dalai Lama non ha mai cavalcato né avallato spinte indipendentiste, che anzi ha sempre rigettato. Ciò che ha chiesto è una maggiore autonomia del Tibet, da concordare con le autorità cinesi. Si tratta di una richiesta ragionevole, io credo; ciò a cui il Dalai Lama ambisce è di garantire l’autonomia culturale e religiosa del Tibet e del suo popolo. L’autonomia è condizione indispensabile per preservare l’antico patrimonio tibetano. Il Dalai Lama propugna il dialogo, condanna ogni forma di violenza, rivendica diritti senza fare di questa rivendicazione un’arma per ledere diritti altrui, per negare altre identità. Ciò che chiede, è bene sottolinearlo sempre, è di poter preservare l’identità tibetana. Ed è una richiesta che facciamo nostra con questo appello». Dalla Cina giungono segnali contraddittori rispetto alla disponibilità al dialogo manifestata dal Dalai Lama. L’appello di cui Lei si è fatto promotore condanna le violenze e chiede l’avvio di un dialogo. Ma se la Cina dovesse proseguire nel pugno di ferro? «Mi auguro con tutto il cuore che ciò non avvenga, ma se la violenza dovesse proseguire, se le autorità proseguiranno sulla strada della repressione, allora sarebbe inevitabile chiedere di più, non escluso di riesaminare lo svolgimento delle Olimpiadi. Ma non siamo ancora a questo punto. Ciò che è importante è mantenere alta la pressione internazionale finché non saranno ascoltate le voci dei tibetani e le prigioni svuotate. Dobbiamo estendere il campo della pace e del dialogo. È questo che oggi ci chiede il Dalai Lama: di non abbassare la guardia, e di sostenere con forza le ragioni del dialogo. Il primo ministro cinese ha affermato di essere disponibile ad incontrare il Dalai Lama a condizione che quest’ultimo rigetti la violenza e ogni opzione indipendentista. Se questi sono le condizioni, il problema non esiste perché il Dalai Lama ha più volte ribadito di non volere un Tibet indipendente. E per quanto riguarda la violenza, essa è qualcosa di totalmente estraneo all’orizzonte culturale, esistenziale del Dalai Lama». La sua attività di scrittore, intrecciata alla sua esperienza umana di sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, l’ha portata a rimarcare l’importanza di mantenere in vita la memoria delle tragedie del passato, perché quel passato non torni a farsi presente. Ciò vale anche per il Tibet? «Certo che sì. Perché il Tibet è una tragedia. La tragedia di un popolo pacifico che non è stato mai animato da propositi di conquista. Un popolo che non ha mai coltivato disegni di grandezza o mire espansioniste. È la tragedia di un popolo la cui unica mira di conquista è quella dell’anima, della conquista di una libertà interiore. La forza interiore per raggiungere l’assoluto. Ma è forse proprio questo che fa paura. E se oggi potessi rivolgermi al popolo cinese, oltre che alla dirigenza politica, direi loro che concedere la libertà religiosa al Tibet sarebbe una dimostrazione di forza e non un cedimento, perché di quella libertà il Tibet non abuserebbe né la ritorcerebbe contro gli interessi cinesi. Direi loro che oggi siete un grande impero, oltre due miliardi di persone, che non ha bisogno di dominare il piccolo Tibet. Il Tibet non è una potenza nucleare. Il Tibet non può certo conquistare la Cina. I serbatoi di cui è ricco sono i serbatoi di conoscenze, una conoscenza mistica. Per questo il piccolo, grande Tibet, è un patrimonio dell’umanità. Da preservare, da difendere». Cosa teme di più oggi? «L’indifferenza, l’oblio delle coscienze. Un discorso che non vale solo per il Tibet». Pubblicato il: 22.03.08 Modificato il: 22.03.08 alle ore 14.52 © l'Unità. Titolo: Melandri: "Le delegazioni istituzionali disertino la cerimonia inaugurale" Inserito da: Admin - Marzo 28, 2008, 05:13:57 pm Giovanna Melandri: "Le delegazioni istituzionali disertino la cerimonia inaugurale"
Umberto De Giovannangeli Gli atleti vadano a Pechino, perché da ministra dello Sport so bene quanto questo appuntamento sia importante per ciascuno di loro, ma se la Cina non riannoderà i fili del dialogo con il Dalai Lama e non porrà fine alla repressione nel Tibet, penso che sia opportuno che le delegazioni istituzionali non presenzino alla cerimonia inaugurale dei Giochi olimpici». A sostenerlo è Giovanna Melandri, ministra per le Politiche Giovanili e le Attività Sportive. «È la Cina - afferma la ministra - che deve elevare i livelli dei diritti umani per essere all’altezza del grande evento che ospiterà». La Comunità internazionale s’interroga su come agire sulla Cina perché ponga fine alla brutale repressione in Tibet. C’è chi evoca il boicottaggio dei Giochi olimpici che si terrano in agosto a Pechino. Qual è la sua opinione? «È stato lo stesso Dalai Lama ad affermare che occorre boicottare il boicottaggio e io ritengo totalmente condivisibile questa posizione. I Giochi sono sempre stati una occasione di apertura. Pensiamo alle Olimpiadi di Mosca: quei Giochi servirono a rompere la cortina di ferro, la teleselezione fu allora un potente grimaldello per scardinare il blocco sovietico. Oggi c’è internet, il web, i blog, un sistema reticolare di comunicazione che può aiutare ad aprire gli occhi del mondo sulla Cina e il Tibet. Non dimentichiamo peraltro che la Cina per ottenere di ospitare le Olimpiadi si è impegnata a garantire la massima apertura nell’informazione e nella comunicazione durante i Giochi olimpici. È un impegno che la Comunità internazionale deve esigere che sia rispettato...». Resta la gravità degli eventi che stanno segnando il Tibet. «Ciò che sta avvenendo è gravissimo, inaccettabile. La Comunità internazionale deve mettere in campo tutti gli strumenti politici e diplomatici per far sì che le autorità cinesi riprendano il dialogo con il Dalai Lama...». L’interrompo: Pechino giudica il Dalai Lama un terrorista. «Niente di più lontano dalla verità. Il Dalai Lama è un uomo di pace, è un leader spirituale che non chiede l’indipendenza per il Tibet ma il rispetto dell’autonomia culturale del suo popolo. Il Dalai Lama difende con la non violenza l’identità religiosa e spirituale del Tibet; una identità ricchissima, che rappresenta un patrimonio dell’intera umanità. Il mondo politico non può delegare agli atleti responsabilità che gli competono. In questo senso, ritengo molto importante che la questione del Tibet venga affrontata nell’incontro di domani (oggi per chi legge, ndr.) dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea. È importante che l’Europa parli con una sola voce sul Tibet». Parli una sola voce per affermare che cosa? «Non è giusto, ci tengo a sottolinearlo ancora, caricare gli atleti, che da anni si stanno preparando per questo evento, di responsabilità che competono alla politica e alle sue istituzioni. Parlare di un boicottaggio tout-court delle Olimpiadi lo ritengo sbagliato, ma al tempo stesso penso che si possa utilmente proporre, in assenza di una disponibilità della Cina a riallacciare il dialogo con il Dalai Lama e a cessare ogni forma di violenza in Tibet, che le delegazioni politiche e istituzionali non presenzino alla cerimonia inaugurale dei Giochi. Questa possibilità, prospettata dal presidente dell’europarlamento, Poettering, e rilanciata dal presidente Sarkozy, deve rimanere concretamente in campo anche come strumento di pressione sul governo cinese per riaprire il dialogo. Ed è importante che questa ipotesi sia stata ventilata dalla Francia che ad agosto, quando si terranno i Giochi, avrà la presidenza di turno della Ue». E l’Italia? «Per quanto mi riguarda, dico che sarebbe molto importante che l’Italia, in uno spirito bipartisan, chiunque vinca le elezioni, s’impegni a non boicottare le Olimpiadi ma a disertare la cerimonia di apertura dei Giochi se la Cina continuasse a rigettare il dialogo proseguendo nella brutale repressione dei monaci e dei civili tibetani». Lei ha parlato del diritto degli atleti a gareggiare... «Anche in nome di quei valori universali di cui lo sport è portatore. Ma ciò non impedisce agli atleti, alle federazioni sportive, al Coni di testimoniare, individualmente o in forma collettiva, la propria solidarietà al popolo tibetano e il sostegno alla lotta in difesa dei diritti umani». Pubblicato il: 28.03.08 Modificato il: 28.03.08 alle ore 8.32 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Barghouti:Pronto a succedere al presidente Abu Mazen Inserito da: Admin - Aprile 10, 2008, 10:54:57 pm Barghouti:«Pronto a succedere al presidente Abu Mazen»
Umberto De Giovannangeli Alla speranza innescata dalla Conferenza di Annapolis si è sostituito il disincanto, la frustrazione, un senso di vuoto. Qual è oggi lo stato d'animo prevalente in campo palestinese? «È vero: c'è rabbia, frustrazione, perché la mia gente si rende conto che al di là delle parole, la realtà è che Israele non dà seguito concreto alla dichiarata volontà di dialogo. La realtà è rappresentata dagli oltre 600 check-point che spezzano la Cisgiordania, che causano sofferenza e umiliazione quotidiane per decine di migliaia di palestinesi; la realtà sono le carceri israeliane ancora piene di prigionieri palestinesi; la realtà è una colonizzazione che prosegue». Ciò significa fine della speranza? «No, non è così che stanno le cose. Il popolo palestinese desidera fortemente vedere realizzato il proprio sogno di libertà, di indipendenza e pace, e sta attendendo la fine dell'occupazione israeliana». Bush continua a ritenere possibile il raggiungimento di un accordo di pace entro il 2008. È una illusione? «Tutto dipende da Israele, dal coraggio del suo governo a compiere l'atto che, esso sì, potrebbe portare ad un accordo di pace globale entro il 2008». E quale sarebbe questo atto? «La fine dell'occupazione, realizzando così una pace fondata sul principio di due popoli, due Stati. Ma per raggiungere questo obiettivo occorre che la costruzione degli insediamenti e la confisca delle terre palestinesi cessino immediatamente, mentre le istituzioni palestinesi a Gerusalemme devono essere riaperte. Riconoscere il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese, porre fine all'occupazione, liberare gli 11mila palestinesi incarcerati, sarebbe il modo migliore per Israele di celebrare i suoi sessant'anni. Sarebbe un investimento su un futuro di pace, perché Israele non avrà mai pace e sicurezza con l'occupazione». Lei ha parlato della sofferenza quotidiana della popolazione palestinese e della necessità da parte di Israele di dare segnali concreti di apertura. Quali dovrebbero essere questi segnali? «La rimozione dei posti di blocco, la fine degli arresti e delle uccisioni mirate, così come la fine dell'assedio a Gaza e la riapertura dei valichi di confine. Non è con le punizioni collettive inflitte a un milione e mezzo di palestinesi nella Striscia di Gaza che Israele rafforzerà la sua sicurezza. La fine del blocco di Gaza è un passaggio ineludibile per raggiungere un cessate il fuoco quanto prima possibile». In precedenza, lei ha fatto riferimento a Gerusalemme. Qual è per Marwan Barghouti il futuro della Città Santa? «È quello di una città aperta, capitale condivisa di due Stati, patrimonio dell'umanità. Una cosa è certa: nessun leader palestinese, neanche il più disponibile al compromesso, potrà mai sottoscrivere un accordo di pace che non contempli Gerusalemme Est capitale dello Stato indipendente di Palestina». Uno dei nodi cruciali del negoziato riguarda il diritto al ritorno. «È un diritto, appunto. Sancito da una risoluzione delle Nazioni Unite. Si può discuterne le modalità di attuazione ma non la sua fondatezza. Il popolo dei Territori non è altra cosa da quanti sono stati costretti a forza ad abbandonare nel 1948 le proprie case, i propri villaggi. Non ci faremo dividere». Lei parla di pace e di unità, ma intanto in campo palestinese a dominare è la divisione. A Gaza governa Hamas. A quali condizioni è possibile riprendere il dialogo interno? «La condizione è una sola: Hamas deve riconoscere che la prova di forza condotta a Gaza ha fortemente pregiudicato la causa palestinese, determinando una spaccatura senza precedenti nel movimento palestinese. Il dialogo è possibile se Hamas riconosce l'autorità dell'Anp e permetta così di tenere entro il 2008 libere elezioni per il rinnovo del Consiglio nazionale palestinese (il parlamento dei Territori, ndr.). In altri termini, Hamas deve rientrare nella legalità e non agire come un contropotere armato che vuol farsi Stato». Qual è lo Stato palestinese per cui si batte Barghouti? «È uno Stato plurale, dove sia garantita a tutti la libertà di espressione. Uno Stato realmente indipendente con il controllo totale del territorio e dei confini. Uno Stato che cooperi con i suoi vicini per cambiare in meglio il volto del Medio Oriente». Tra i vicini con cui cooperare c'è anche Israele? «La nostra lotta è per la costruzione di uno Stato, quello palestinese, e non per la distruzione di un altro Stato, Israele». La forza di Hamas è anche nella crisi di Al Fatah, il movimento di cui lei, assieme ad Abu Mazen, è il leader più rappresentativo. «Fatah ha bisogno di un rinnovamento profondo, solo così potrà riconquistare il consenso perduto. È necessario eleggere nuovi organismi dirigenti, votare per nuovi candidati, e includere donne, giovani, accademici: abbiamo bisogno di una nuova leadership, con le mani pulite. Sono convinto che la generazione che è cresciuta sotto l'occupazione israeliana, che ha dato vita alla prima e alla seconda intifada, che è in grado di capire la complessità del conflitto israelo-palestinese, deve essere alla guida». Il presidente Abu Mazen appare intenzionato a non riproporre la sua candidatura alla presidenza dell'Anp. Molti vedono in lei il suo successore. «Ho dedicato la mia vita alla causa palestinese, e per questo sono oggi in un carcere israeliano. Non mi sono mai sottratto alle mie responsabilità e non lo farò in futuro». Anche da presidente? «Anche da presidente» ha collaborato Osama Hamdan Pubblicato il: 10.04.08 Modificato il: 10.04.08 alle ore 12.10 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Olimpiadi, i Nobel in campo per i diritti del Tibet Inserito da: Admin - Aprile 12, 2008, 04:19:21 pm Olimpiadi, i Nobel in campo per i diritti del Tibet
Umberto De Giovannangeli I Nobel si schierano. Per il rispetto dei diritti umani in Cina, per l’autonomia del Tibet, perché il mondo non accompagni con un silenzio complice l’agonia del Darfur. E lo schierarsi significa firmare appelli, esporsi pubblicamente, compiere gesti altamente simbolici. Come quello di cui si è resa protagonista Wangari Maathai, premio Nobel per la Pace 2004, che ha annunciato ieri di aver annullato la sua partecipazione alla staffetta per la fiaccola olimpica prevista per domani a Dar es Salaam, in Tanzania, unica tappa africana del suo percorso. «Sì, mi sono ritirata. Ho deciso di mostrarmi solidale con altre persone sulle questioni dei diritti umani nella regione del Darfur, in Tibet e in Birmania», spiega la premio Nobel. I Nobel si schierano, prendono posizione, sostengono la mobilitazione non violenta contro le «Olmpiadi della vergogna». In prima fila è Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace, simbolo, assieme a Nelson Mandela, della lotta contro il regime segregazionista sudafricano. L’arcivescovo si è espresso a favore di un «totale boicottaggio» dei Giochi olimpici, in programma dall’8 agosto a Pechino, se la Cina dovesse continuare a mostrarsi «irremovibile» sulla questione dei diritti umani, del conflitto in Tibet e sul Darfur. «Noi in Sudafrica siamo un esempio di quanto efficace possa essere il boicottaggio dei Giochi», ha dichiarato nei giorni scorsi Tutu. «Che non abbiamo più l’apartheid in Sudafrica - ha aggiunto - ha anche a che fare con il fatto che il mondo si è unito a noi e mise al bando l’allora governo sudafricano». I Nobel prendono posizione e nel farlo mettono a nudo le contraddizioni e la doppia morale della realpolitik. Tra i più attivi nel promuovere appelli e iniziative pubbliche è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986. «Occorre mantenere alta la pressione internazionale finché non saranno ascoltate le voci dei tibetani e le prigioni svuotate - ha spiegato Wiesel in una recente intervista a L’Unità -. Dobbiamo estendere il campo della pace e del dialogo. È questo che oggi ci chiede il Dalai Lama di non abbassare la guardia e di sostenere con forza le ragioni del dialogo». Una tesi rilanciata con forza, sempre sull’Unità, da Adolfo Pérez Esquivel: «Il grido d’allarme lanciato dal Dalai Lama - afferma il premio Nobel per la pace argentino - va raccolto da tutti, governi, organismi internazionali, associazioni umanitarie, intellettuali. La repressione messa in atto dalle autorità cinesi è tanto più grave perché si esercita contro un movimento non violento, le cui rivendicazioni non minano l’integrità territoriale della Cina. È questo un punto centrale - rimarca Adolfo Pérez Esquivel - perché ciò che i monaci tibetani chiedono non è l’indipendenza ma l’autonomia all’interno della Repubblica popolare cinese. Chiedono il rispetto della loro identità, difendono la libertà di culto, la loro cultura secolare, e lo fanno con la non violenza. Per questo oggi io dico: dobbiamo essere a loro fianco, perché non possiamo non dirci tibetani». È su iniziativa di Elie Wiesel che ha preso corpo un appello al governo cinese sottoscritto da 26 premi Nobel i quali hanno deplorato e condannato la Cina per la violenta repressione messa in atto in Tibet e protestato contro le autorità cinesi per la loro campagna di denigrazione contro il Dalai Lama. «Noi, sottoscritti, premi Nobel - recita il documento - deploriamo e condanniamo il governo cinese per la sua violenta repressione esercitata sui manifestanti tibetani. Sollecitiamo le autorità cinesi a fare esercizio di moderazione nel trattare con questi disarmati, pacifici dimostranti». «Protestiamo - prosegue la dichiarazione dei 26 Nobel - per la campagna ingiustificata di denigrazione condotta dal governo cinese contro il nostro collega premio Nobel, Sua Santità il Dalai Lama. Contrariamente alle ripetute affermazioni delle autorità cinesi, il Dalai Lama non reclama la separazione della Cina, ma l’autonomia religiosa e culturale. Questa autonomia è fondamentale per la conservazione dell’antico patrimonio culturale». A schierarsi non sono solo Nobel per la pace, come Wiesel, John Hume, Betty Williams, ma anche Nobel per la letteratura, come John Coetzee, Wole Soyinka, della Medicina, come Arvid Carlsson, Gunter Blobel, Paul Greengard, Eric R.Kandel, Erwin Neher, Richard J. Roberts, Phillip A.Sharp, Torsten N. Wiesel, Baruj Benacerraf, dell’Economia - Finn E.Kyland, Clive W.J.Granger - della Fisica - Alexei Abrikosov, Brian D. Josephson, H.David Politzer - della Chimica - Peter Agre, Paul J. Crutzen, Avram Hershko, Roald Hoffman, Roger Kornberg, Jens C. Skou -...... Non solo Tibet. Non solo i diritti umani in Cina. Atri dossier caldissimi riguardano Birmania e Darfur e chiamano ancora in causa la Cina. A protestare per il sostegno dato da Pechino alla giunta militare birmana sono 8 premi Nobel per la Pace - tra i quali Adolfo Pérez Esquivel, Maillad Maguire, Rigoberta Menchu e Jody Williasms. Sul Darfur, gli stessi Nobel chiedono al governo cinese di sospendere le relazioni economiche con il Sudan, ricordando che «il governo cinese acquista circa i due terzi del greggio sudanese e vende armi a Khartoum, molte delle quali utilizzate nel conflitto in Darfur, che ha causato almeno 200.000 morti e 2,5 milioni di profughi e sfollati...». Una denuncia rilanciata con forza da Jody Williams: «Tutti noi - afferma la premio Nobel - dobbiamo dire chiaramente che la politica di “non interferenza” di Pechino non può essere tollerata. Dobbiamo svincolarci dal potere delle aziende cinesi non soltanto per la gente del Darfur, ma per i birmani, i tibetani e i congolesi, per non parlare dei milioni di cinesi cui è negato ogni genere di diritto umano». A fianco dei Nobel si sono schierate anche star del cinema, tra le quali Richard Gere. «In questa situazione - ha dichiarato l’attore americano, amico personale del Dalai Lama - se i cinesi non agiscono in modo corretto, non cambiano il loro modo di fare, non riconoscono ciò che sta succedendo e non consentono libero accesso alle comunicazioni, allora penso che dovremmo assolutamente boicottare» i Giochi di Pechino. Una prospettiva - quella del boicottaggio - che non trova il consenso di Mikhail Gorbaciov, premio Nobel per la Pace nel 1990- «Bisogna sostenere e appoggiare le Olimpadi che sono l’incontro di popoli e i giovani sono il futuro di questi popoli. Ma - afferma Gorbaciov - se dobbiamo dire qualcosa ai nostri amici cinesi, dobbiamo farlo». Mantenere alta la guardia. Non è un appello. È l’impegno che i Nobel si sono assunti. Perché, ricorda Elie Wiesel, che quella del «Tibet è una tragedia. La tragedia di un popolo pacifico che non è mai stato animato da propositi di conquista. Un popolo che non ha mai coltivato disegni di grandezza o mire espansioniste...». Un popolo da sostenere. Pubblicato il: 12.04.08 Modificato il: 12.04.08 alle ore 12.39 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Carter: per la pace voglio mediare con Hamas Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 12:12:17 pm Umberto De Giovannangeli Israele contro Jimmy Carter. L’ex presidente degli Stati Uniti ha iniziato ieri un «viaggio studio» di nove giorni in Medio Oriente durante il quale potrebbe incontrare anche il leader politico di Hamas, Khaled Meshaal. Sarebbe la prima volta che il capo del movimento integralista palestinese incontra un ex presidente Usa. Carter - che alla fine degli anni Settanta contribuì in maniera determinante alla firma di storici accordi di pace tra Israele ed Egitto - è stato ricevuto ieri a Gerusalemme dal capo dello Stato Shimon Peres. Ma la sua apertura a Hamas non pare gradita dai dirigenti israeliani. Dal programma della visita distribuito ieri alla stampa sono assenti i nomi del premier Ehud Olmert e della ministra degli Esteri Tzipi Livni. In Israele Carter vedrà il vicepremier Ely Yishai (Shas), la colomba Yossi Beilin e il falco Avigdor Lieberman, nonché i genitori di Ghilad Shalit, il soldato rapito da Hamas nel giugno 2006. Carter, premio Nobel per la pace nel 2002, prevede oggi una visita a Sederot, la città nel Neghev bersagliata da razzi sparati da Gaza. Domani sarà a Ramallah, ospite della Autorità nazionale palestinese e quindi visiterà Egitto, Siria ed Arabia Saudita. Il progetto di Carter di incontrare Meshaal (a Damasco) ha già ricevuto le critiche della segretaria di Stato Usa Condoleezza Rice. L’«operazione Meshal» viene letta in ambienti politici israeliani anche in chiave presidenziali Usa: sono in molti a ritenere che dietro l'iniziativa dell'ex presidente vi sia l'imprimatur di Barack Obama, verso il quale Carter, uno dei super delegati alla convention Democratica di Denver, ha già espresso il suo sostegno. Fuori da ogni lettura dietrologica, l'ex presidente Usa riflette criticamente sugli errori compiuti dall'amministrazione Bush, e sia pur con gradualità diverse dall'Europa, nel «non aver saputo o voluto cogliere la dialettica interna ad Hamas che aveva portato il movimento a scegliere la via politica», con la partecipazione alle elezioni del gennaio 2006, riflette Carter incontrando in un albergo di Gerusalemme un gruppo di giornalisti stranieri, tra i quali il collaboratore de l'Unità, Osama Hamdan. «E se uno - aggiunge - sponsorizza elezioni o intende promuovere la democrazia e la libertà in tutto il mondo, poi, come è accaduto in Palestina, quando un popolo sceglie liberamente i propri leader, credo che tutti dovrebbero riconoscere il risultato e incalzare, senza demonizzarlo, il governo legittimo che scaturisce dal voto». E sul presente, Carter ribadisce la sua volontà a farsi parte dirigente di un «accordo di cessate il fuoco tra Israele, Amp e Hamas che arresti il lancio di razzi contro il Sud di Israele e ponga fine all'assedio israeliano a Gaza che ha determinato una drammatica emergenza umanitaria che riguarda un milione e mezzo di palestinesi». Gli chiediamo quale sia per lui la definizione che meglio sintetizza la condizione dei palestinesi di Gaza. La sua risposta è secca: «Quella di murativi vivi». Di due cose, l'ex presidente Usa si dice convinto. La prima: «Privare il popolo palestinese dei suoi fondamentali diritti umani al solo scopo di punire i leader eletti non è una strada che porta alla pace». Su questo punto, Carter è perentorio: «Punire degli innocenti - dice - è sempre e comunque un crimine». La seconda certezza, quella che scatena le polemiche: Hamas «deve essere incluso nel processo di pace» nella regione. «È molto importante che ci sia qualcuno disposto a incontrare i leader di Hamas e ascoltare il loro punto di vista, in modo da verificare la loro flessibilità e cercare di indurli a bloccare tutti gli attacchi contro innocenti civili in Israele», ribadisce Carter in una intervista alla rete televisiva Abc. «Non ho dubbi - rimarca ancora l'ex presidente statunitense -sul fatto che se Israele vuole trovare la pace con giustizia nei suoi rapporti con i palestinesi debba veder incluso Hamas nel processo di pace». Jimmy Carter crede nell'opzione di due popoli, due Stati, e motiva così la sua convinzione all'Unità: «Incorporare i Territori occupati dentro Israele ed avere un solo Stato, non penso che funzionerebbe, e per diverse ragioni. Prima di tutto, i palestinesi, se gli venisse dato il diritto di votare alla pari con gli israeliani, finirebbero per giocare un ruolo decisivo nel prendere le decisioni per conto dell'intero Paese. E con il loro rapido incremento demografico, che a Gaza è del 4% all'anno, uno dei più alti al mondo, ed in un prevedibile futuro i palestinesi sarebbero in effetti maggioranza della nazione». «Quindi - si congeda l'ex presidente Usa - io penso che la sola vera soluzione pratica è avere due Stati, fianco a fianco, che vivono in pace e in armonia. Questo ritengo sia l'approccio migliore, per il quale ho deciso di impegnarmi, e lo faccio perché ero e resto fermamente convinto che la stabilizzazione dell'intero Medio Oriente è indissolubilmente legata ad una equa soluzione della questione palestinese». Gli chiediamo se può confermare l'incontro a Damasco con Khaled Meshaal: «Non è ancora certo - risponde - ma direi che è probabile». ha collaborato Osama Hamdan Pubblicato il: 14.04.08 Modificato il: 14.04.08 alle ore 9.12 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Haniyeh: «Gaza, Carter tratti il cessate il fuoco» Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 03:14:03 pm Haniyeh: «Gaza, Carter tratti il cessate il fuoco»
Umberto De Giovannangeli «Carter è sempre benvenuto a Gaza, e così tutti quei leader mondiali che vogliono toccare con mano la sofferenza di un popolo assediato da quasi due anni dall’esercito israeliano. Il presidente Carter ha avuto il coraggio di chiamare con il suo vero nome la politica praticata da Israele nei riguardi del popolo palestinese: apartheid». A parlare è il leader politico di Hamas, il primo ministro (dimissionato da Abu Mazen) Ismail Haniyeh. «Per Hamas - dice Haniyeh in questa intervista esclusiva a l’Unità - il presidente Carter può svolgere una importante funzione di mediazione per il raggiungimento di un accordo di cessate il fuoco». Haniyeh è informato dell’esito delle elezioni italiane, e sul ritorno di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, dice a l’Unità: «So che ha dichiarato di voler fare il suo primo viaggio ufficiale da premier in Israele. Invito il presidente Berlusconi a Gaza. Spero che abbia compreso che la politica americana in Medio Oriente ha provocato solo disastri, e ci auguriamo che per quanto riguarda la questione palestinese, Berlusconi adotti una politica moderata, nell’interesse stesso dell’Italia». Israele ha accolto con freddezza la missione dell’ex presidente Usa Jimmy Carter. E Hamas? «Hamas considera il presidente Carter un amico del popolo palestinesi, uno dei pochi statisti che hanno avuto il coraggio di denunciare il regime di apartheid a cui Israele costringe milioni di palestinesi». In un colloquio con l’Unità, l’ex presidente Usa si è detto disposto a mediare un cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Anche qui, qual è la risposta di Hamas? «La nostra risposta è che siamo pronti a negoziare un cessate il fuoco a patto che esso sia simultaneo, totale e che investa non solo Gaza ma anche la Cisgiordania; il cessate il fuoco deve riguardare anche la fine degli assassinii politici perpetrati da Israele contro dirigenti e attivisti dell’intifada. Su queste basi è possibile avviare una trattativa della quale il presidente Carter può farsi garante». Israele, così come la Casa Bianca, contesta la scelta di Carter di interloquire con Hamas. «Carter ha compreso, e come lui anche altri politici e leader mondiali, che Hamas è parte fondamentale del popolo palestinese. È da questo consenso popolare che traiamo la nostra forza, la nostra legittimazione. Il presidente Carter è consapevole che un accordo di pace non potrà mai funzionare se taglia fuori metà di un popolo e la sua leadership, una leadership che ha avuto il mandato a governare attraverso le elezioni più libere mai avvenute nel mondo arabo. Carter è un politico realista e non uno dei tanti avventurieri che pensano, illudendosi, che Israele possa recidere con la forza i legami di Hamas con il popolo palestinese». Lei parla di un negoziato possibile, intanto nella Striscia si continua a combattere: in uno scontro a fuoco sono rimasti uccisi miliziani di Hamas e soldati israeliani. Israele parla di ennesimo atto terroristico condotto da Hamas. «Un popolo sotto occupazione ha il diritto di resistere. Ed è ciò che stiamo facendo. Per Israele ogni palestinese che si oppone all’occupazione sionista è un terrorista. Per noi, invece, è un eroe, perché difende una causa giusta scontrandosi con uno degli eserciti più agguerriti al mondo. Se Israele vuole sicurezza si ritiri dai territori occupati nel ’67, liberi i prigionieri palestinesi detenuti a migliaia nelle sue carceri, ponga fine all’assedio di Gaza e alla colonizzazione della Cisgiordania. Se lo farà allora sì che le cose potrebbero cambiare. Per tutti. Se non si vuol credere alle mie parole, che il mondo rifletta su quelle di un uomo (Jimmy Carter) che non può essere certo dipinto come un pericoloso jihadista: "il principale ostacolo alla pace è la colonizzazione israeliana della Palestina", ha ripetuto più volte l’ex presidente Usa. Ed è contro questa colonizzazione che noi ci battiamo». Cosa è rimasto della proposta che lei ha rivolto al presidente Abu Mazen di riprendere il dialogo tra Al Fatah e Hamas? «Questa proposta è sul tavolo e anche di questo abbiamo parlato con il presidente Carter, il quale si è detto disposto a lavorare per favorire la ripresa del dialogo nazionale interpalestinese». Da Gaza a Roma. Nelle elezioni italiane a vincere è stato Silvio Berlusconi. Il neo premier ha annunciato che il suo primo viaggio all’estero sarà in Israele. «Al primo ministro entrante non posso che rinnovare l’invito che avevo rivolto al suo predecessore (Romano Prodi): visiti anche Gaza, sarà il benvenuto. Mi auguro che Berlusconi sulla questione palestinese adotti una politica equilibrata ed eviti, nell’interesse stesso dell’Italia, di finire nell’abbraccio mortale di Israele». Pubblicato il: 17.04.08 Modificato il: 17.04.08 alle ore 13.00 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Il Medioriente visto da destra Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 03:15:46 pm Il Medioriente visto da destra
Umberto De Giovannangeli La «discontinuità» in politica estera inizia dall’infuocato Medio Oriente. Far dimenticare l’«equivicinanza» dalemiana. Ribadire all’alleato americano che l’Italia retta dal Cavaliere sarà in prima fila, almeno a parole, nella lotta ai movimenti terroristi mediorientali, includendo nella lista anche Hamas palestinese e Hezbollah libanese. Martino (inteso come Antonio, ex ministro della Difesa nel passato governo di centrodestra, autocandidatosi al ritorno al dicastero di via XX Settembre) docet. Il neo premier «calza» l’elmetto e dopo aver ribadito che il suo primo viaggio ufficiale sarà in Israele, per ricucire non meglio precisati «strappi» tra Gerusalemme e Roma, torna a parlare di Libano. E lo fa con un’affermazione inquietante nella sua pericolosa genericità: «Esamineremo attentamente le regole di ingaggio dei nostri soldati in Libano, che sono in una situazione abbastanza particolare perché non possono reagire in determinate circostanze», afferma Berlusconi in una conferenza stampa al termine di un vertice del Pdl. Quali siano queste “nuove regole”, il neo premier non lo dice, probabilmente non lo sa. Così come sfugge al Cavaliere che quella in atto nel Sud Libano è una missione Onu e che solo in questo ambito è possibile discutere ed eventualmente modificare i caveat che presiedono l’azione dei caschi blu. Concetto che l’ancora in carica ministro della Difesa, Arturo Parisi, prova a spiegare al primo ministro entrante: «In Libano - afferma - non ci sono regole d’ingaggio distinte per i soldati italiani e quelli degli altri Paesi, ma regole d’ingaggio che valgono per tutti i militari della missione Unifil delle Nazioni Unite; la loro eventuale modifica spetta dunque all’Onu». E aggiunge: «Ogni Governo ha il diritto e il dovere di esaminare le regole d’ingaggio alle quali sono sottoposti i propri militari. Ma ricordando che in Libano non ci sono regole d’ingaggio distinte per i soldati italiani, ma regole di ingaggio che valgono per tutta la missione Unifil, che è una missione delle Nazioni Unite. È all’interno dell’Onu - conclude il ministro della Difesa - che il problema andrebbe perciò nel caso posto e ridefinito». Prima impegnativa esternazione del neopremier in politica estera, e prima gaffe. «Stamattina (ieri per chi legge, ndr) ho parlato con il presidente del Libano e gli ho garantito il nostro sostegno e la continuità», dice ai giornalisti Berlusconi. Potenza del Cavaliere: la sua risalita a Palazzo Chigi ha determinato un “miracolo” a Beirut: sì, perché è a tutti noto, ma evidentemente non a lui, che da tempo il Libano è nel pieno di una gravissima crisi istituzionale, il Paese dei Cedri è senza presidente, per uno scontro senza sbocchi tra la maggioranza parlamentare antisiriana e l’opposizione vicina a Damasco. Domanda d’obbligo: ma con chi ha parlato Berlusconi? Risposta ufficiosa, e un po’ imbarazzata, di fonti diplomatiche italiane: probabilmente il Cavaliere si voleva riferire al presidente del Parlamento libanese, lo sciita Nabih Berri. Ma se così è, chissà se qualcuno del suo éntourage ha fatto sapere a Berlusconi che Berri è alleato di Hezbollah, il movimento sciita libanese che l’indicato (a sua insaputa?) neo ministro degli Esteri, Franco Frattini, si fa vanto di aver fatto inserire, nella sua passata esperienza di titolare della Farnesina, nella lista nera Ue (assieme ad Hamas) delle organizzazioni terroristiche mediorientali. L’opposizione, con il responsabile Esteri del Pd Lapo Pistelli, chiede spiegazioni al neopremier, ricordando: «Senza intenti polemici, ritengo necessario chiarire al leader del Pdl, Silvio Berlusconi, che le regole d’ingaggio dei nostri soldati in Libano non possono essere decise in maniera autonoma dal nostro Paese, poiché si tratta di una missione che avviene sotto il mandato delle Nazioni Unite», sottolinea Pistelli. Il chiarimento richiesto non ottiene soddisfazione. Il Cavaliere tace. Un silenzio inquietante, perché il Libano è una polveriera pronta ad esplodere e in quella polveriera sono impegnati più di duemila soldati italiani. «In questa situazione esplosiva, ogni parola va ponderata, soppesata...», dice a l’Unità un diplomatico di lungo corso, profondo conoscitore della realtà libanese e mediorientale. Un consiglio di cui Silvio Berlusconi dovrebbe far tesoro. E al più presto. Pubblicato il: 17.04.08 Modificato il: 17.04.08 alle ore 12.58 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Carter: Hamas vuole negoziare la pace Inserito da: Admin - Aprile 22, 2008, 03:23:25 pm Carter: Hamas vuole negoziare la pace
Umberto De Giovannangeli È un uomo di parola Jimmy Carter. All’inizio del suo contrastato «viaggio di studio» in Medio Oriente, l’ex presidente Usa incontrando a Gerusalemme un gruppo di giornalisti stranieri, tra i quali il collaboratore de l’Unità, Osama Hamdan, si era impegnato, al suo ritorno nella Città Santa, a trarre un bilancio della sua missione mediorientale. Impegno mantenuto. Nel colloquio con il pool di giornali, tra i quali l’Unità, l’ottantaquattrenne Premio Nobel per la pace (nel 2002) parte da una considerazione generale: «È stato un viaggio importante - dice - dal quale ho tratto la convinzione che esistono ancora le condizioni per rilanciare il negoziato di pace ma ciò sarà possibile solo se tutti i protagonisti dimostreranno coraggio e lungimiranza». Speranza e inquietudine: sono i sentimenti che hanno caratterizzato i colloqui che Carter ha avuto a Gerusalemme, Ramallah, Il Cairo, Damasco. «Siamo ad uno snodo cruciale della tormentata vicenda mediorientale - sottolinea l’ex presidente Usa a l’Unità -. Al Cairo, ho registrato le preoccupazioni del presidente Mubarak, uno dei coraggiosi protagonisti del dialogo arabo-israeliano, convinto che il fallimento delle trattative tra Israele e Autorità nazionale palestinese aprirebbe una fase di destabilizzazione per l’intero Medio Oriente che finirebbe per rafforzare le spinte estremiste e mettere a rischio le leadership arabe moderate». Tra gli elementi confortanti, l’ex presidente americano inserisce anche «la disponibilità manifestata dal presidente siriano Hafez Assad (incontrato da Carter a Damasco, ndr.) a negoziare con Israele una pace globale, fondata sulle risoluzioni Onu e sulla reciproca garanzia di sicurezza». In questo scenario si colloca la questione-Hamas. Le aperture di Carter al movimento integralista palestinese hanno irritato la Casa Bianca e il premier israeliano Ehud Olmert. Il «viaggio di studio» è servito all’ex presidente Usa - che è stato mediatore della trattativa che, avviata a Camp David nel 1978, portò Israele a firmare uno storico accordo di pace con l’Egitto - «per rafforzare la mia convinzione che non sia possibile parlare di pace tagliando fuori metà di un popolo e criminalizzando la sua dirigenza». Hamas, dunque. Carter ha avuto modo di incontrare a Ramallah, al Cairo e a Damasco i vertici del movimento integralista palestinese. Grazie al nostro collaboratore, l’ex presidente Usa ha preso atto, «molto positivamente», dell’apertura di credito: «Per noi, il presidente Carter può mediare il cessate il fuoco con Israele», a lui rivolta dal premier di Hamas (dimissionato da Abu Mazen) Ismail Haniyeh. Carter rivela che i leader di Hamas, da lui incontrati nei giorni scorsi: gli ex ministri Mahmud al Zahar e Said Siam (i referenti dell’ala «dura» del movimento integralista) e, soprattutto, il capo dell’ufficio politico, in esilio a Damasco, Khaled Meshaal, che accetterebbero un accordo di pace con Israele negoziato dal presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) se approvato con un referendum dai palestinesi. I leader di Hamas, spiega Carter, «mi hanno detto che accetterebbero uno stato palestinese sui confini del 1967 se approvato dai palestinesi anche se potrebbero dissentire su alcune clausole dell’accordo». «Ciò significa - aggiunge - che Hamas non saboterà gli sforzi di Abu Mazen di negoziare un accordo a condizione che sia approvato dai palestinesi con un voto libero». Una condizione che il Premio Nobel per la Pace giudica «ragionevole, perché accetta una prassi democratica che la comunità internazionale dovrebbe sostenere con convinzione». Una importante conferma alle parole dell’ex presidente Usa giunge da Damasco. Hamas accetta la creazione di uno stato palestinesi sui territori occupati da Israele nel 1967 ma non riconoscerà lo stato di Israele, dichiara Meshaal. Hamas, aggiunge il leader integralista in esilio, «rispetterà la volontà nazionale dei palestinesi, anche se questo andasse contro le sue convinzione». Le affermazioni di Meshaal rafforzano l’iniziativa dell’ex presidente americano. In questo quadro Carter si dice «dispiaciuto» per le critiche rivoltegli dalle autorità israeliane e dalla Casa Bianca per aver voluto incontrare i dirigenti di Hamas. Un dispiacere, puntualizza, che «non ha nulla di personale ma che è tutto politico». «Il problema - sottolinea Carter - non è che mi sono incontrato con Hamas in Siria. Il problema è il rifiuto di Israele e degli Stati Uniti di incontrarsi con qualcuno che deve essere coinvolto». «Un coinvolgimento - valuta l’ex presidente Usa - che potrebbe favorire una evoluzione politica di Hamas». Non solo parole. Da Damasco, Carter ha portato con sé un documento nel quale i dirigenti di Hamas si dicono disposti a formare un nuovo governo con il presidente Abu Mazen, leader del partito laico Fatah, costretto a riparare lo scorso giugno nella Cisgiordania occupata, dopo il colpo di mano degli integralisti islamici nella Striscia di Gaza. «Siamo pronti a negoziare con il presidente la formazione di un governo di coalizione, non di esponenti di Hamas o di Fatah, ma di tecnici e la costituzione di una forza professionale di polizia», recita la lettera. Carter si dice convinto che sia Hamas sia la Siria devono essere coinvolti in qualsiasi tentativo di soluzione del conflitto mediorientale. «La strategia attuale, che esclude Hamas e Siria, non sta funzionando. Sta esacerbando il ciclo di violenza, creando equivoci e animosità», rileva. Israele non ha permesso a Jimmy Carter di recarsi a Gaza, ma l’ex presidente Usa è «pienamente consapevole della condizione di sofferenza in cui versa la popolazione civile della Striscia, un milione e mezzo di persone praticamente chiuse in gabbia», così come, visitando la Cisgiordania, «ho potuto constate di persona il permanere di centinaia di posti di blocco che, assieme alla crescita degli insediamenti, spezzano la Cisgiordania in una miriade di enclave». Carter ha potuto visitare la città israeliana di Sderot, continuamente bersagliata dai razzi sparati dalla Striscia di Gaza. «Non posso che ribadire - dice a l’Unità - quanto ho affermato durante la mia visita a Sderot: i razzi contro quella città sono un crimine. Quella visita mi ha convinto ancor di più ad agire perché sia raggiunto un cessate il fuoco». Nei giorni di permanenza in Israele, Carter ha avuto modo di parlare con i genitori di Gilad Shalit, il giovane caporale israeliano, rapito da miliziani palestinesi nel giugno 2006. «Hamas - annuncia l’ex presidente Usa - ha acconsentito che Gilad scriva una lettera ai suoi genitori». Quella lettera è un segno di vita da tempo atteso dalla famiglia Shalit. ha collaborato Osama Hamdan Pubblicato il: 22.04.08 Modificato il: 22.04.08 alle ore 9.38 © l'Unità. Titolo: DE GIOVANNANGELI - Del Boca Tripoli rimpiange la collaborazione con Prodi Inserito da: Admin - Maggio 05, 2008, 11:08:12 pm Del Boca: «Tripoli rimpiange la collaborazione con il governo Prodi»
Umberto De Giovannangeli Se c’è un intellettuale che può aiutarci a capire i complessi, spesso drammatici, rapporti che nella storia moderna hanno l’Italia e la Libia, questo intellettuale è certamente Angelo Del Boca; tra i suoi tanti libri dedicati all’argomento, ricordiamo «A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell’occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini» (Baldini, Castoldi Dalai, 2007); «Gheddafi. Una sfida nel deserto» (Laterza, 2001); «Gli italiani in Libia» (Mondatori, 1997). «Uscite quali quelle di Calderoni - riflette Del Boca - non sono solo improvvide, sono pericolose perché fomentano atteggiamenti di ostilità nei confronti dell’Italia e degli italiani in Libia e non solo in essa. Certe uscite fanno il gioco degli estremisti arabi. Per questo mi attendo dal primo ministro in pectore, Silvio Berlusconi, un atto di responsabilità nel porre fine a esternazioni che, se reiterate, rischiano di provocare solo disastri». In Italia ha fatto molto discutere la durissima presa di posizione di Gheddafi jr. sulla eventualità che nel nascente governo di centrodestra venga riproposto come ministro il leghista Calderoni. Come interpretare questa presa di posizione libica? «Le affermazioni del giovane Gheddafi mi hanno lasciato un po’ sconcertato perché Sayf al-Islam, a cui il padre ha delegato importanti incarichi diplomatici (come la gestione dell’affare Lockerbie), sa perfettamente chi in Italia è serio e chi non lo è». Tra i «poco seri» va annoverato anche Calderoli? «A farlo apparire come tale sono le sue "sparate" che sono state interpretate come poco autorevoli, quasi un fatto di colore. Nelle fila del centrodestra ci sono, per fortuna dico io, ci sono altre persone più serie, autorevoli, responsabili, di questo personaggio. D’altro canto, va anche detto che Calderoli oggi ha sicuramente più potere, in quanto esponente di uno dei partititi usciti vincitori dalle elezioni di metà aprile, e questo contribuisce di per sé a dare più peso, anche se non sostanza culturale, alle sue considerazioni. Mi auguro che nella maggioranza uscita dalle urne si manifestino persone in grado di controbilanciare certi spropositi». Resta la durezza della presa di posizione libica. Quale lettura politica è possibile darne? «Nelle parole del giovane Gheddafi - che nelle sue prese di posizione appare più progressista del padre - si possono cogliere, al contempo, inquietudine per il futuro e rimpianto per il recentissimo passato». Quale sarebbe questo rimpianto? «Mi riferisco al rapporto che si era instaurato tra Tripoli e il governo di centrosinistra. Un rapporto collaborativo, fruttuoso. Non dimentichiamo che sia Romano Prodi che il ministro degli Esteri Massimo D’Alema si sono recati più volte in Libia in missioni ufficiali, "pacificando" prima e rafforzando poi le relazioni bilaterali. Sia Prodi che D’Alema avevano acquisito una decisa autorevolezza nei confronti della dirigenza libica. Autorevolezza e cooperazione che non sono rimaste solo parole: pensiamo infatti a progetti messi in campo molto importanti, investimenti cospicui: uno per tutti, la Litoranea, l’autostrada lunga oltre 2mila chilometri che si distende dal confine con la Tunisia a quello con l’Egitto. Basta e avanza per spiegare la delusione di Tripoli per i risultati delle elezioni in Italia». Relazioni che restano estremamente delicate. Guardando all’immediato futuro, qual è a suo avviso la questione cruciale che il nascente governo italiano dovrà affrontare con le autorità libiche? «Direi che occorra estrema chiarezza sulla questione dell’immigrazione, un problema che già il governo uscente aveva cominciato ad affrontare. Una immigrazione "fisiologica" va messa in conto, ma quando il fenomeno riguarda 20-25mila persone è chiaro che questo "esodo" se non stimolato di certo non è contrastato dalle autorità libiche». Con una visione d’assieme, legando passato, presente e futuro, come leggere i rapporti tra Italia e Libia? «Indubbiamente il nostro rapporto con la Libia è sempre stato molto fragile, con momenti di alta tensione e altri in cui sembrava vera amicizia; diciamo che questi rapporti sono stati alquanto altalenanti». E in questa «altalena» ecco esplodere il «caso-Calderoli». «Certe uscite finiscono solo fare il gioco degli estremisti arabi che non aspettano altro che di poter dipingere l’Occidente come Nemico dell’Islam. Chi assume o pretende di assumere ruoli politici di primo piano e addirittura di governo, è chiamato all’esercizio del senso di responsabilità, esercizio a cui Calderoli non sembra dedito. Mi aspetto che a farlo siano personalità politicamente più fori nel centrodestra, a cominciare da Silvio Berlusconi». u.d.g. Pubblicato il: 05.05.08 Modificato il: 05.05.08 alle ore 17.06 © l'Unità. Titolo: Con i rom abbiamo un debito d´onore, no a nuove persecuzioni Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 12:17:17 am «Con i rom abbiamo un debito d´onore, no a nuove persecuzioni»
Umberto De Giovannangeli «Terribili. Quelle immagini di campi Rom dati alle fiamme, quelle famiglie costrette a fuggire nella notte, ci riportano indietro nel tempo e danno corpo a paure che speravamo facessero parte di un tragico e irripetibile passato. Così non è». Il suo percorso culturale e umano è quello di un intellettuale che ha cercato nel cuore dell«inferno balcanico» di costruire «ponti di dialogo» tra identità etniche e religiose spesso violentemente contrapposte. Nato a Mostar (Bosnia-Erzegovina) da madre croata e padre russo, Predrag Matvejevic, saggista e professore di Slavistica all´Università La Sapienza di Roma, è emigrato all´inizio della guerra nella ex-Jugoslavia, scegliendo una posizione da «asilo ed esilio». È da questa condizione esistenziale Matvejevic riflette su quei campi Rom dati alle fiamme: «L´Europa - avverte lo scrittore - ha un debito d´onore con i Rom. Mai dovremmo dimenticare che gli zingari finirono assieme agli ebrei nelle camere a gas naziste. Quel debito d´onore va rispettato». Professor Matvejevic, i campi Rom assaltati, lo «zingaro» identificato in sé come un criminale. Chi sono i Rom? «In alcune regioni i Rom formano la maggioranza dei mendicanti. Ma non godono di alcuno di quei privilegi che solitamente vengono concessi alle cosiddette maggioranze. Fanno fatica a dichiararsi Rom per non esporsi ai sospetti, all´avversione dell´ambiente in cui vivono, al disprezzo e perfino alle persecuzioni. La parola "Zingaro" è diventata offensiva, per cui essi stessi e i loro amici evitano di pronunciarla. Una volta non lo era...». L´ignoranza e la perdita di memoria storica. C´è anche questo dietro la «caccia al Rom»? «Purtroppo è così. I Rom hanno vissuto le loro persecuzioni. Spesso si dimentica che furono sterminati a decine di migliaia nei lager nazisti, insieme agli Ebrei. Il loro modo di vivere non è vietato dalla legge, ma sono sottoposti a stretto controllo. In Europa ce ne sono dieci milioni. Se si mettessero insieme formerebbero una popolazione più numerosa di quella di una mezza dozzina di Stati del nostro continente. Non hanno un proprio territorio né un proprio governo. Hanno tutti un paese natale, ma non una patria. Sono parte di un popolo in mezzo al quale vivono, ma non una nazione. Non sono nemmeno una minoranza nazionale, sono transnazionali. Nella mia terra natale i Rom sembravano essere più numerosi che altrove. Da ragazzo mi univo spesso a loro. I miei genitori mi rimproveravano, temevano che gli "Zingari" mi rapissero portandomi via chissà dove - correvano le voci di rapimenti. Ma nessuno mi ha fatto male; invece ho imparato dai Rom molte cose utili. Essi imparano facilmente le lingue, forse più facilmente degli altri. Ignoro se nella loro vita di erranti riescano a conoscere la felicità, ma certamente sanno come si può essere meno infelici». Resta il fatto che alcuni degli episodi di cronaca che più hanno colpito l´opinione pubblica italiana avevano come protagonisti dei Rom...». «Comprendere non significa in alcun modo giustificare comportamenti criminali. I criminali, che si trovano in tutte le nazionalità, vanno processati ed espulsi, questo è fuori discussione. La comprensione è tutt´altra cosa del "giustificazionismo". Ma non si deve colpevolizzare una intera comunità per i misfatti di criminali individuali. La civiltà giuridica europea stabilisce che la responsabilità è sempre del singolo. Mi lasci aggiungere che una politica di disincentivo all´immigrazione clandestina nasce dai Paesi di origine, e spesso, penso alla Romania ma non solo ad essa. I Rom hanno subito pesantissime discriminazione se non vere e proprie persecuzioni. Malvisti nel Paese di origine, i Rom se ne vanno, con il loro carico di frustrazione che può sfociare in violenza. I paesi d´accoglienza dovrebbero capire meglio la loro situazione e premere su Bucarest perché finalmente vengano garantiti loro i più elementari diritti umani, civili, sociali». L´Italia s´interroga su come agire... «L´Italia è un grande Paese di emigrazione, la più numerosa emigrazione europea del secolo scorso partiva dall´Italia. Nessuna altra lingua europea ha tanti termini per designare lo straniero o l´esiliato: emigrati, profughi, fuggiaschi, rifugiati, sfollati, deportati, espulsi, espatriati, e aggiungo in un "istrionismo" italiano, "esodati"...E tutti questi si dividono adesso in clandestini e irregolari. In Italia indiscutibilmente c´è una tradizione cattolica. Per questo talvolta sono sorpreso, negativamente sorpreso, che questa tradizione venga brutalmente messa in discussione. Si legge nella Bibbia. "Ama il forestiero e dagli pane e vestititi...quando raccogli la messe nel campo e dimentichi un covone non tornare indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l´infermo, per la vedova affinché ti benedica il Signore tuo...". Io da laico rispetto questi precetti, e sono sgomento nel vedere tanti credenti che se ne infischiano». Pubblicato il: 16.05.08 Modificato il: 16.05.08 alle ore 12.25 © l'Unità. Titolo: Luzzatto: «I rom? Anche contro noi ebrei cominciò così» Inserito da: Admin - Maggio 21, 2008, 05:39:26 pm Luzzatto: «I rom? Anche contro noi ebrei cominciò così»
Umberto De Giovannangeli «Noi ebrei sappiamo bene cosa significhi essere perseguitati, demonizzati, sterminati. Per questo, da ebreo italiano e da cittadino democratico, non posso che guardare con orrore e preoccupazione alla campagna d’odio verso i Rom». A parlare è Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane. Professor Luzzatto, cosa ha provato di fronte al fuoco appiccato ai campi Rom a Napoli? «Ogni fuoco riporta alla memoria altri fuochi dei quali la storia europea è cosparsa: penso, ad esempio, ai roghi dell’Inquisizione, ai roghi dei libri maledetti, ai roghi dei campi di sterminio... In ultima analisi c’è da domandarsi cosa abbiano in comune questi roghi. E la risposta immediata e tragica è: distruggere, senza che resti traccia, tutto quello che dà fastidio al potere. In questa ottica, tutto viene ingigantito e generalizzato: all’interno di ciò che si vuole distruggere col fuoco si colloca molto di più di quanto sarebbe “strettamente necessario” proprio per essere sicuri di avere totalmente eliminato quello che s’intende distruggere. È terribile, ma è cosi». In quale misura questo comportamento è collegato al razzismo? «È abbastanza evidente: se si vede un uomo nero che ha violentato una donna bianca, per una induzione arbitraria, si ritiene che la violenza sia correlata al colore della pelle. E pur sapendo che la stragrande maggioranza dei neri non sono stupratori per far prima li stermino tutti, ritenendo così di aver fatto una “pulizia totale”. Il razzismo si è nutrito di queste generalizzazioni arbitrarie e di queste correlazioni sbagliate, e una volta innescato il meccanismo del rogo, questo si autoalimenta». In questa autoalimentazione, perché i Rom? «Prima di tutto, centrerei l’attenzione su un fenomeno sociale che comprende una serie di fattori negativi, fra i quali la precarietà del lavoro e dell’esistenza; la difficoltà di trovare alloggi adeguati, e la difficoltà di integrazione di popolazioni forestiere, soprattutto in fasi di migrazioni di massa. Il fenomeno del nomadismo va inserito in questa categoria di problemi. Isolare questo problema, e al suo interno addirittura quello dei Rom, significa rincorrere una soluzione illusoria e alquanto pericolosa. È forte la tendenza a superare quelle che sono contraddizioni, debolezze, timori, paure che colpiscono tutta la società contemporanea, selezionando quella che può essere una componente dall’immagine più facilmente riconoscibile e colpirla immaginando così di risolvere un problema molto più esteso e complesso. Coloro che appiccano il fuoco ai campi Rom sono al loro modo - un modo barbaro e criminale indegno di un Paese civile - interpreti di questo approccio sbagliato al problema. E in questo approccio, assieme parziale e colpevolizzante, inserirei anche l’ipotesi del commissariamento dei Rom...» Una ipotesi, quella della creazione di un Commissario ai Rom, che il governo prende in seria considerazione. «Questa ipotesi trova immediata rispondenza nelle iniziative violente e vandaliche che imputano problemi scottanti, anche di microcriminalità, non all’azione di singole persone ma alla presenza stessa di un singolo gruppo allogeno». Quei fuochi portano alla memoria, come lei stesso ha sottolineato, i roghi dei campi di sterminio. In una intervista a l’Unità, Predrag Matvejevic ha ricordato che assieme a milioni di ebrei, nei lager nazisti furono massacrati tantissimi Rom. «Questa è una verità storica. Un’amara, tragica verità. Noi stessi, noi ebrei, abbiamo subito sulla nostra pelle ripetutamente - fino alla più terribile persecuzione che è stata quella della Shoah - le conseguenze dell’essere prima di tutto indicati come stranieri irriducibili, poi progressivamente stranieri parassiti, quindi stranieri complottanti, infine assassini di bambini cristiani e in conclusione gruppi umani da espellere, da perseguitare, da sterminare. Noi ebrei sappiamo bene cosa significhi essere vittime di pregiudizi che si trasformano in odio e in violenza “purificatrice”. Sappiamo cosa significhi essere additati come il “Male” da estirpare. E da ebreo, oltre che da cittadino democratico, mi sento a fianco di una comunità, quella Rom, che non può, non deve essere vittima di nuovi pogrom». Pubblicato il: 19.05.08 Modificato il: 19.05.08 alle ore 12.52 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Chi dialoga con Hamas Inserito da: Admin - Maggio 22, 2008, 08:47:20 am Chi dialoga con Hamas
Umberto De Giovannangeli «Hamas controlla un pezzo importantissimo del territorio palestinese e se si vuole la pace bisogna coinvolgere chi rappresenta una parte del popolo palestinese. E poi, non dimentichiamoci mai che Hamas vinse le elezioni...» Per averlo sostenuto, da ministro degli Esteri, Massimo D’Alema fu accusato delle peggiori nefandezze, la più tenera di essere un «amico dei terroristi islamici». Coinvolgere Hamas nel dialogo, anche perché era la pragmatica considerazione dell’allora titolare della Farnesina, «con chi si negozia la pace? Con i nemici, con gli amici non c’è bisogno di negoziare». Apriti cielo! Il predecessore di D’Alema alla Farnesina, Gianfranco Fini, spara ad alzo zero. «È incontestabile - dichiara - che Hamas non ha mai ripudiato il terrorismo come strumento di lotta...Prodi ha il dovere di dire con chiarezza se le affermazioni di D’Alema sono condivise e sono la linea di governo...». Chissà se oggi le stesse bordate verranno indirizzate al responsabile della diplomazione di un Paese, la Francia, il cui presidente non è certo da annoverare nel campo del centrosinistra europeo: Nicolas Sarkozy. E chissà se gli stessi toni scandalizzati, le stesse accuse al vetriolo, la stessa esibita indignazione che ha accompagnato in Italia le riflessioni di D’Alema, verranno oggi scagliati all’indirizzo del ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, capo della diplomazia di un governo di centrodestra. La notizia è che la Francia si avvicina a Hamas, Israele pure - ma senza dirlo pubblicamente - e lo stesso dicasi per diversi Paesi europei che cominciano a ritenere più utile alla pace l’avvio di «contatti» con il movimento islamico palestinese. «Non si tratta di rapporti, ma di contatti privati», puntualizza Kouchner. Ma i contatti sono bene avviati e, conferma il responsabile del Quai d’Orsay, , «non siamo gli unici ad averli». La posizione francese non è esattamente in linea con quella ufficiale dell’Unione Europea, che ha inserito Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche, e ha finora escluso l’eventualità di un dialogo diretto. Era stato Massimo D’Alema , da ministro degli Esteri, a dire in pubblico ciò che molti in privato pensano, e cioè una linea diversa dall’intransigenza pura. Tra questi non c’è Franco Frattini, suo successore alla Farnesina, che ha già annunciato come il nuovo governo italiano sia contrario a qualsiasi dialogo. Una linea dell’intransigenza che non avvicina Roma a Parigi. Spiega ancora Kouchner: «Dobbiamo essere in grado di parlare (anche con Hama) se vogliamo giocare un ruolo, se vogliamo che ai nostri inviati sia permesso di entrare a Gaza». Così pensa e agisce una diplomazia che vuole incidere sui fatti e orientare le dinamiche mediorientali. Né più né meno di quanto aveva cercato di fare, con indubbi risultati (vedi il Libano), l’azione diplomatica italiana del precedente governo. «È sbagliato regalare ad Al Qaeda movimenti come Hamas ed Hezbollah, ed è nell’interesse della comunità internazionale evitare di spingere questi movimenti nelle braccia dell’organizzazione terroristica di Osama Bin Laden...». In questo approccio, condiviso nell’agire concreto anche dal governo di centrodestra francese, c’è un retroterra analitico capace di cogliere la sostanziale differenza tra movimenti islamo nazionali dal forte radicamento sociale, come sono Hamas e Hezbollah, dalla galassia dei gruppi jihadisti. Sul Partito di Dio sciita, Frattini ha un ripensamento, annotando che «anche gli Stati Uniti si rendono conto, per consolidare la stabilità libanese e per eleggere un presidente, è evidente che ci vogliono tutte le fazioni in contrasto, compreso il partito politico di Hezbollah, che ha membri in Parlamento...». Affermazione importante che ricalca la seguente: «Hezbollah è un partito politico, con membri in Parlamento e ministri e, è vero, anche con missili katyusha...È un paradosso ma questa è la realtà, una realtà con molte contraddizioni. Il nostro obiettivo è il disarmo delle milizie e quello di obbligare Hezbollah a diventare una entità unicamente politica, affinché il Libano sia una democrazia normale...». Così D’Alema in una intervista (7 settembre 2006) al più diffuso quotidiano israeliano, Yediot Ahronot. Affermarlo significa essere «amici dei terroristi»? Se è così, ad esserlo è anche Bernard Kouchner e con lui Nicolas Sarkozy... Pubblicato il: 21.05.08 Modificato il: 21.05.08 alle ore 8.18 © l'Unità. Titolo: D’Alema: sugli immigrati norme incivili Inserito da: Admin - Maggio 22, 2008, 11:51:51 pm D’Alema: sugli immigrati norme incivili
Umberto De Giovannangeli Medio Oriente, Iran, Stati Uniti. L’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema mette a fuoco alcune delle questioni cruciali dello scenario internazionale e avverte che «il rischio vero per l’Italia è quello di tornare ad essere irrilevante». Sul tema della sicurezza, poi, l’ex vice premier sottolinea: «Manca una politica di integrazione. Questo è un problema che riguarda l’Europa, non soltanto il nostro Paese. E chiama fortemente in causa anche il centrosinistra europeo. È una sfida su cui ci dobbiamo tutti misurare». D’Alema, inoltre, definisce «incivile, giuridicamente insostenibile e criminogena» la norma sul reato di immigrazione clandestina voluta dal governo Berlusconi. Partiamo dal Medio Oriente. La discontinuità nei confronti del «filo arabismo» di Massimo D’Alema è il concetto su cui il centrodestra, durante la campagna elettorale, ha molto insistito. «E io credo che il rischio vero, al quale è esposto il nostro paese, sia quello dell’irrilevanza. E penso che un’Italia che si precludesse il dialogo con il mondo arabo - così come viene prospettato - non serva a nessuno, né ad Israele, né all’Occidente. Inoltre, sarebbe un atteggiamento gravemente lesivo dei nostri interessi nazionali. D’altra parte, il corso della politica è un altro». Ovvero? «Guardiamo proprio al Medio Oriente, dove due eventi dominano la scena. Da un lato, l’accordo in Libano lungo la strada che noi avevamo tracciato: un accordo che comprende Hezbollah... Altro che il cambio delle regole d’ingaggio. Dall’altro, i contatti con Hamas, avviati sia da Israele che li conduce attraverso l’Egitto, sia da diversi Paesi europei e non solo dalla Francia. Tutto questo non perché ci piaccia Hamas, ma perché vi è consapevolezza che solo coinvolgendo Hamas - vincolandola, naturalmente, al rispetto della sicurezza d’Israele - si possa raggiungere la pace. D’altro canto, la questione mediorientale non è riassumibile nella lotta al terrorismo, che è un aspetto di una vicenda ben più ampia. C’è una questione nazionale libanese, c’è una questione nazionale palestinese. Il terrorismo lo si sconfigge dando anche delle risposte ai problemi da cui esso trae origine o che sono utilizzati dai terroristi come pretesto. Né si possono ridurre a gruppetti di terroristi movimenti che sono rappresentativi di milioni di persone. Insomma, i problemi sono innanzitutto politici e non solo militari. Ricordo ancora una volta che Hamas ha vinto le elezioni e che Hezbollah è il partito che rappresenta la comunità sciita, la più grande del Libano. Al di là delle dichiarazioni, nella sostanza la diplomazia europea si muove nella direzione di costruire le condizioni di un processo di pace, il che lo si fa attraverso un dialogo in grado di coinvolgere il mondo arabo nelle sue diverse componenti. E una importante riprova dell’incisività di questa politica è l’avvio di colloqui di pace fra la Siria ed Israele, con la mediazione della Turchia». Rimaniamo sulla discontinuità, spostandoci sullo scenario iraniano. Il nuovo ministro degli esteri Franco Frattini ha sostenuto che il governo chiederà di entrare a far parte del gruppo «5+1», recuperando un treno perso... «Sì, certo, da loro... Ricordo, infatti, che l’Italia venne esclusa dal “5+1” nel 2003. Fu un grave errore del governo Berlusconi ed una chiara testimonianza di quel rischio di irrilevanza di cui ho parlato e che vedo correre anche oggi per il nostro Paese. L’esclusione da quel gruppo è stata gravemente dannosa agli interessi dell’Italia per diversi motivi. Intanto per ragioni di immagine, visto e considerato il valore simbolico che quell’organismo ha assunto, essendo composto dai Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza e dalla Germania che ne vuole entrare a far parte. Poi, perché è diventato un luogo di consultazione politica di primaria grandezza. Ma, soprattutto, perché lì si è discusso del contenuto delle sanzioni ed è evidente che chi era a quel tavolo si è preoccupato che le sanzioni non fossero lesive dei propri interessi nazionali. Non a caso, spesso noi siamo stati tra i paesi che hanno pagato il prezzo più alto. In questi anni, mentre il governo Prodi ha lavorato per cercare di tutelare gli interessi dell’Italia, la destra ci ha accusato di essere filo iraniani, mentre noi eravamo semplicemente filo italiani nelle condizioni difficili in cui ci aveva lasciato il governo Berlusconi, costretti a partire da un gradino più in basso. Nonostante questo, ci siamo fatti sentire e alla fine siamo stati coinvolti in un meccanismo di consultazione a livello tecnico e diplomatico, recuperando possibilità di incidere sulle scelte e arrivando a raggiungere risultati importanti. Spero che questa operazione si concluda positivamente con l’inclusione dell’Italia nel gruppo “5+1”. Se questo accadrà, sarà frutto di un lavoro avviato dal governo Prodi». Più in generale, quale politica verso l’Iran? «L’Italia ha sempre condiviso l’obiettivo di evitare che l’Iran si doti di armi nucleari, sostenendo in pieno le sanzioni e - ripeto - spesso pagandone i prezzi più alti. Detto ciò, continuo a pensare che non bastino le sanzioni o una politica muscolare. Occorre un approccio più aperto verso quel Paese. Insomma, una politica di sanzioni più ferma, ma, contemporaneamente, un’offerta politica più significativa e consistente di dialogo, di coinvolgimento e di riconoscimento del ruolo dell’Iran nella regione. D’altra parte, parliamo di un Paese essenziale per la ricerca di una soluzione dei problemi in Iraq, in Afghanistan e in Medio Oriente. A mio parere, solo in questo modo potremmo riuscire ad offrire una sponda internazionale alle forze riformiste e moderate, alla società civile di un Paese che non può essere paragonato all’Iraq di Saddam Hussein. Ciò che dico non è una eresia, ma è quello che sostengono anche i candidati democratici americani». Berlusconi si è detto impegnato a «ricucire» lo strappo con gli Usa, provocato dalla vostra politica... «Noi abbiamo sempre avuto rapporti corretti e leali con gli americani. Rapporti improntati all’amicizia e alla collaborazione, ma anche alla franchezza. Ad esempio, abbiamo sostenuto la necessità che gli Stati Uniti tornassero ad impegnarsi maggiormente per la pace in Medio Oriente, così come li abbiamo incoraggiati a riprendere la strada di un ragionevole multilateralismo, abbandonando la politica unilaterale delle “coalitions of willings”. Dunque, non c’è nulla da ricucire. Il problema, semmai, è il contributo che può dare un paese come l’Italia. Noi siamo nel cuore del Mediterraneo e il nostro ruolo, in un mondo che rischia uno scontro di civiltà, è essere crocevia del dialogo, dell’iniziativa politica, della ricerca del confronto. Questa è la nostra vocazione». Questa «vocazione» come si concilia con le politiche che si preannunciano sul fronte dell’immigrazione? «La destra ha cavalcato il tema della sicurezza, con argomenti e toni pericolosi che speriamo il governo corregga rapidamente. Evocare le ronde o affermare che i cittadini possano provvedere da soli, crea un terreno favorevole a gesti violenti come gli incendi dei campi rom. Sui temi della sicurezza, viceversa, occorre grande equilibrio. Naturalmente, servono fermezza contro la criminalità, procedure rapide per l’espulsione, insomma quelle misure ragionevoli per la sicurezza che già avevamo predisposto noi, con il pacchetto Amato, che poi, purtroppo, non è stato approvato. Sappiamo anche per responsabilità di chi e il prezzo elettorale che abbiamo pagato». Il governo ha presentato il ddl sul reato di clandestinità... «Sarebbe una norma incivile, giuridicamente insostenibile, contraria ai principi europei. In più, sarebbe totalmente controproducente, perché criminogena: spingerebbe la povera gente che viene nel nostro Paese per disperazione e miseria - e che nella grande maggioranza è onesta - a diventare manodopera per la criminalità. Il problema vero è che noi non abbiamo una politica dell’integrazione degna di questo nome. Si tratta di una grande questione europea, non soltanto italiana. Ma io domando: che razza di società democratica è quella in cui il 15% della forza lavoro che produce tra il 6 e il 10% del Pil non gode di diritti civili e politici? Che razza di democrazia è quella nella quale chi vive e lavora in Italia da 15 anni non ha diritti? In definitiva, è la sostanza della democrazia ad essere intaccata. A mio parere, società di questo tipo non si reggono. Ecco perché lo considero un problema cruciale, che - insisto - riguarda l’Europa e il suo futuro. E che chiama fortemente in causa anche il centrosinistra europeo. È una sfida sulla quale ci dobbiamo tutti misurare. Una politica di sicurezza, con il rigore verso chi delinque e la certezza della pena, è solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è una coraggiosa strategia dell’integrazione, che punti sui diritti civili, sociali, politici e su una accelerazione delle procedure della cittadinanza. Così, a mio giudizio, una seria politica dell’integrazione diverrebbe fattore fondamentale della sicurezza. Altrimenti, temo che avremo una società squilibrata, in cui persino certi valori fondamentali come quelli democratici saranno fortemente intaccati». Pubblicato il: 22.05.08 Modificato il: 22.05.08 alle ore 12.02 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Pocar: «Così si colpisce l’umanità sofferente» Inserito da: Admin - Maggio 24, 2008, 10:34:40 pm Pocar: «Così si colpisce l’umanità sofferente»
Umberto De Giovannangeli «Se un consiglio mi sento di poter dare ai legislatori, è di evitare ogni generalizzazione. Non si possono trattare tutte le situazioni allo stesso modo. E quando si parla di emigrazione clandestina occorre saper distinguere tra i trafficanti di uomini, che vanno colpiti duramente, da una umanità sofferente che di questi trafficanti è vittima». A parlare è una delle massime autorità nel campo del Diritto internazionale: Fausto Pocar, presidente del Tribunale penale internazionale dell’Aja - sui crimini nella ex-Jugoslavia, docente di Diritto internazionale all’Università Statale di Milano. Pocar condivide il rischio paventato dall’ex vice premier Massimo D’Alema nell’intervista all’Unità: «In effetti - afferma il presidente del Tpi dell’Aja - introdurre il reato di immigrazione clandestina potrebbe fare dell’irregolare una facile preda per la manovalanza criminale». E sui Rom, Pocar ricorda che «molti di quelli che hanno trovato riparo in Italia fuggivano dall’inferno balcanico». Professor Pocar, in Italia si discute e si polemizza sulle misure da prendere, anche sul piano normativo. Nel campo dell’immigrazione. Ci aiuti a ditricarci in questa complessa matassa... «Lo straniero che una volta nel territorio italiano commette un reato, è ovvio che sia soggetto alla giurisdizione per quel reato e come conseguenza, se il reato presenta una pericolosità sociale rilevante, potrebbe essere espulso per questo. Ma ciò vale anche se fosse entrato legalmente nel territorio italiano. Altra cosa, però, è dire che uno straniero che entra irregolarmente in Italia per ciò stesso commette un reato. Vi è poi un altro aspetto della questione che andrebbe tenuto ben presente...» Di quale aspetto si tratta? «In molti casi gli stranieri che entrano nel nostro Paese sono vittime di trafficanti e pensano di entrare regolarmente, pagando per questo, perché gli viene detto che così è, che tutto è regolare. In un caso del genere mancherebbe il dolo, e quindi non ci sarebbe reato. E poi bisognerebbe tener conto nel definire un reato di questo tipo, delle norme internazionali sul diritto d’asilo, sulla protezione dei rifugiati, sulla tutela dei diritti dell’uomo che impegnano l’Italia a non esporre le persone alla violazione dei loro diritti fondamentali. La definizione normativa di un reato in questa materia, è una questione complessa che richiede un attento approfondimento di tutti gli aspetti». Tra gli aspetti da valutare c’è anche quello messo in rilievo dall’ex vice premier Massimo D’Alema che in una intervista a l’Unità a paventato il rischio «criminogeno» di una norma che introduce il reato di immigrazione clandestina? «Questo rischio esiste e va preso nella dovuta considerazione». Professor Pocar, ma la questione dell’immigrazione può essere affrontata solo in termini di sicurezza? «Direi che la sicurezza è solo un aspetto, sia pur importante, di una problematica ben più complessa. Questi problemi, a mio avviso, debbono essere affrontati e possono trovare una soluzione investendo e facendo progredire lo stato di diritto nei Paesi da cui provengono la grande maggioranza delle persone che che emigrano spinte dalla miseria, da condizioni di vita insopportabili, dalla mancanza di diritti fondamentali... Vede, io penso sempre che l’emigrante non emigra per divertimento ma perché costretto a farlo... Se si creano nel Paese di origine condizioni accettabili gli emigranti non sono spinti ad andarsene. Si tratta di un investimento di cui dovrebbe farsi carico l’Unione Europea, perché la questione dell’immigrazione è un problema europeo, e che andrebbe sollecitato soprattutto dai Paesi più esposti, e tra essi c’è indubbiamente l’Italia, esposta a Sud e ad Est». Pubblicato il: 24.05.08 Modificato il: 24.05.08 alle ore 7.59 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Gli otto padrini della svolta in Libano Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 11:07:32 pm Gli otto padrini della svolta in Libano
Umberto De Giovannangeli Diciotto mesi di paralisi istituzionale. Senza un Presidente. Con un governo assediato e privo di potere reale. Diciotto mesi di tensione, di paura, di scontri di piazza, di terrore. A un passo dal baratro, il Libano si ritrova. E oggi volta pagina con un nuovo presidente e un governo di unione nazionale. Nel Libano che sogna un futuro di normalità, otto sono gli uomini che ne scandiscono il presente. Gli otto uomini che hanno cambiato il volto del Paese dei Cedri. MICHEL SULEIMAN. Sessant’anni, diventato capo dell’esercito nel 1988, sarà lui il dodicesimo Presidente nella storia dello Stato libanese. Cristiano maronita, Suleiman ha avuto il merito di essersi abilmente tenuto fuori dalle dispute politiche e confessionali che hanno tormentato il Paese dei Cedri. Nei recenti scontri di maggio che sono costati la vita ad oltre 65 persone, ha mantenuto una posizione di basso profilo senza schierarsi apertamente con o contro nessuno. Dalla maggioranza antisiriana c’è chi ricorda che la sua nomina a capo dell’esercito è avvenuta al culmine dell’egemonia siriana sul Libano e che suo cugino, Gebran Kuriyyeh, era il portavoce di Hafez Assad, padre dell’attuale presidente siriano Bashar Assad. Altri non hanno gradito le sue parole di apprezzamento nei confronti di Hezbollah, subito dopo la fine della guerra con Israele nell’estate 2006. Si è conquistato invece i favori di tutti nell’estate 2007 quando i suoi soldati hanno represso con la forza la sollevazione di un gruppo islamico armato filoqaidista asserragliato nel campo profughi palestinese di Nahr Al Barid, nel Nord del Paese. SAAD HARIRI. Trentasette anni, sunnita, una promettente carriera imprenditoriale sfumata in Arabia Saudita, porta sulle sue spalle la pesante eredità del padre, Rafik, l’ex premier, simbolo della battaglia politica per far uscire il Libano dal trentennale protettorato siriano, assassinato in un sanguinoso attentato sul lungomare di Beirut il giorno di San Valentino del 2005. Nel nome del padre, «Rafik il martire», Saaad ha guidato alla vittoria la variegata coalizione antisiriana del «14 Marzo». Dal giorno del suo ingresso, non cercato, nell’agone politico libanese, il giovane Saad vive «blindato». Ma non per questo ha rinunciato ad esercitare la sua leadership proiettandola oltre la comunità sunnita. Se il Libano non è precipitato in una nuova, devastante guerra civile, lo si deve molto a lui. E sarà il giovane Hariri, con ogni probabilità, il futuro primo ministro di un governo di unione nazionale. Unione tutta da realizzare. Lui ha promesso indipendenza, sovranità, giustizia, verità. Nel nome di quella «Primavera di Beirut» di cui è Saad Hariri è diventato uno dei protagonisti. E non solo nel nome del padre. SAYYED HASSAN NASRALLAH. In molti lo indicano come il vero padrone del Libano, il vincitore della prova di forza politico-militare che ha portato al via libera ad un governo di «coesione nazionale» in cui Hezbollah e i suoi alleati potranno esercitare il diritto di veto. Amato e odiato: è il destino di Sayyed Hassan Nasrallah, 48 anni, leader del Partito di Dio sciita. Nato e cresciuto nel quartiere «al-Karantina» (Quarantena), uno dei più poveri della periferia orientale di Beirut, Nasrallah ha saputo coniugare l’irredentismo nazionalista in chiave islamica con la costruzione di una ramificata rete di assistenza sociale che ha fatto di Hezbollah uno «Stato nello Stato» libanese. Ambizioso, abile oratore, Nasrallah - eletto nel 1992 all’unanimità dai membri del Consiglio Consultivo, segretario generale di Hezbollah in successione di Sayyed Abbas al-Musawi assassinato dall’esercito israeliano il 16 febbraio 1992 - ha mantenuto e rafforzato il contropotere armato delle milizie sciite, che ha retto alla «Guerra dei 34 giorni» con Israele, e al tempo stesso ha «parlamentarizzato» Hezbollah, facendolo divenire uno dei partiti più influenti nella vita politica libanese. NABIH BERRI. Ha pilotato con spregiudicatezza e consumata abilità la più lunga crisi istituzionale nella storia del Libano. Settant’anni, figura storica della comunità sciita, negli anni della guerra civile (1975-1990, oltre 150mila morti), i miliziani sciiti di Amal (Speranza), combattevano e morivano in suo nome. Nel nome di Nabih Berri. Col tempo, Berri ha guidato Amal verso una «conversione» politico-istituzionale che lo ha portato a essere eletto alla carica - che per gli accordi di Taif spetta ad uno sciita - di presidente del Parlamento libanese. Alleato, ma non succube, di Hezbollah, Berri ha saputo alternare irrigidimenti e aperture, divenendo uno dei protagonisti dei colloqui di Doha che hanno portato allo sblocco del lungo braccio di ferro che ha paralizzato per un anno e mezzo la vita politica del Paese dei Cedri. Per la Comunità internazionale, Nabih Berri è divenuto un interlocutore essenziale, per il Libano un fatto di equilibrio, per quanto instabile. WALID JUMBLATT. Una vita vissuta in trincea, sempre nel mirino dei suoi numerosi nemici, sempre con l’obiettivo di preservare l’esistenza politica della comunità drusa di cui da tempo è il leader carismatico: Walid Jumblatt, 61 anni, studi a Parigi, riesce a tenersi lontano dalla vita politica fino alla morte del padre, Kamal, rimasto vittima di un attentato nel 1977. Diventato in piena guerra civile, leader del Partito socialista progressista libanese e della comunità drusa, grazie all’alleanza con la Siria e con i palestinesi dell’Olp respinse l’attacco lanciato dalle milizie cristiane maronite del Partito falangista di Amin Gemayel nella cosiddetta «Guerra delle montagne» (1983). Grazie ad un’accorta e spregiudicata politica delle alleanza, rivolta soprattutto a salvaguardare la comunità drusa, Jumblatt è divenuto una delle figure chiave nel complesso «puzzle» politico libanese. Nel 1989 si schiera a fianco della Siria con il leader cristiano maronita Michel Aoun, ma a partire dall’assassinio di Rafik Hariri, Walid Jumblatt diviene uno dei più tenaci avversari del regime di Damasco. FOUAD SINIORA Nei giorni terribili della guerra israelo-libanese, ha rappresentato, con fierezza e dignità, il volto, ferito ma non annientato, di un Libano che continuava a sperare in una nuova rinascita. Contro ogni ingerenza. Amico d’infanzia di Rafik Hariri, il sessantacinquenne primo ministro libanese, ha un passato di capace tecnocrate che lo ha portato a ricoprire incarichi di responsabilità nella Banca Centrale del Libano e successivamente a livello ministeriale. Particolarmente apprezzato dalle cancellerie europee e dal Dipartimento di Stato Usa, Sinora è diventato premier di un governo di coalizione il 19 luglio 2005. È lui, durante la «Guerra dei 34 giorni», a presentare alla conferenza di Roma (27 luglio 2006) un piano in sette punti per una risoluzione del conflitto, contribuendo poi alla definizione della risoluzione 1701 delle Nazioni Unite che ha posto fine al conflitto e al dispiegarsi nel Sud Libano dei caschi blu della missione Unifil 2. Dal novembre 2006 è alla guida di un governo dal quale sono usciti i ministri di Hezbollah. Assediato, costretto a una vita blindata, Siniora si appresta ora ad uscire di scena. Con dignità. AMIN GEMAYEL Capo dello Stato libanese dal 1982 al 1988, Amin Gemayel, 66 anni, ha visto morire suo figlio Pierre, il giovane ministro dell’Industria ucciso in un attentato a Beirut il 21 novembre 2006. Leader delle Falangi cristiano maronite - fautore di una linea anti panaraba e filooccidentale per il "nuovo Libano" - Amin Gemayel ebbe a dire, in una recente intervista concessa a l’Unità, «ciò che vogliamo, ciò per cui ci battiamo, è l’unità e che tutto torni sotto l’autorità dello Stato libanese. La nostra è una cultura della pace e della vita». Personalità di primo piano nella coalizione antisiriana del «14 Marzo», Amin Gemayel non ha mai chiuso la porta alla possibilità di un dialogo con la Siria, a condizione, però, che Damasco «riconosca il Libano come Paese sovrano e indipendente». Instancabile negoziatore, anche nei momenti più aspri dello scontro con l’opposizione filosiriana, Gemayel ha mantenuto rapporti con il leader di Hezbollah, Nasrallah, e ha avuto un ruolo decisivo nel lancio della candidatura del generale Suleiman a capo dello Stato. MICHEL AOUN Da fiero combattente antisiriano a sostenitore del fronte filo-Damasco. Comunque e sempre protagonista: 73 anni, cristiano maronita, tra il 22 settembre 1988 e il 13 ottobre 1990, nelle fasi terminali della guerra civile, il generale Aoun, già capo di stato maggiore, presiede un governo militare osteggiato dalla Siria e da altre fazioni combattenti. Tornato in Libano dopo quindici anni di esilio a Parigi, Aoun guida il Movimento Patriottico Libero che schiera a fianco degli sciiti di Hezbollah e Amal. Nelle elezioni parlamentari del 2005, Aoun e il suo movimento risultano tra i vincitori. «Sarei il Presidente ideale per il Libano», ha più volte dichiarato, confortato da sondaggi che lo indicavano come il più popolare tra i capi cristiano maroniti. Ma per «il bene del Paese» il generale ha dovuto fare un passo indietro, lasciando il campo libero ad un altro generale, Michel Suleiman. Ma lui, Michel Aoun avverte: «Non ho alcuna intenzione di ritirarmi a vita privata». Nel futuro del Libano continuerà a incidere, magari con un ruolo di primo piano nel nascente governo di «coesione nazionale». Pubblicato il: 25.05.08 Modificato il: 25.05.08 alle ore 7.43 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Desmond Tutu: ho pianto davanti a Gaza in rovina Inserito da: Admin - Maggio 30, 2008, 11:23:16 pm Desmond Tutu: ho pianto davanti a Gaza in rovina
Umberto De Giovannangeli Confessa di aver pianto nel constatare di persona i patimenti inflitti a una popolazione allo stremo. L’inferno di Gaza visto attraverso gli occhi dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace ’84, riconoscimento che gli fu attribuito per la sua lotta non violenta contro il regime dell’apartheid. Tutu in questi giorni è a Gaza, capo della missione del Consiglio dell’Onu per i diritti umani incaricata di indagare sulle violazioni israeliane nella Striscia e sull’uccisione di 19 civili, tra i quali molte donne e bambini, provocata da un bombardamento israeliano l’8 novembre ’06 a Beit Hanun. Israele ha rifiutato di concedere i visti a Tutu e al suo gruppo: l’arcivescovo anglicano e i suoi collaboratori hanno aggirato le restrizioni israeliane entrando nel territorio palestinese dal valico di Rafah con l’Egitto che è stato aperto occasionalmente per loro martedì scorso. Nella sua missione a Gaza, Tutu ha incontrato anche il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ma soprattutto si è intrattenuto con i sopravvissuti dell’attacco di Beit Hanun. Nel ricordare quell’incontro, il Premio Nobel per la Pace sudafricano non trattiene la commozione: «Tutti noi - racconta a l’Unità - siamo rimasti scioccati, devastati da quei colloqui. Si è trattato di una esperienza sconvolgente che non si augurerebbe al proprio peggior nemico». Sulla strage di Beit Hanun, la commissione guidata da Desmond Tutu sta preparando un rapporto che sarà presentato alla riunione del Consiglio dell’Onu per i Diritti umani a settembre. Un viaggio a Gaza. Quali emozioni ha provato? «È stata una esperienza umana sconvolgente. In questi giorni abbiamo avuto modo di renderci conto di persona di una situazione disastrosa. A Gaza è in atto una tragedia umanitaria di fronte alla quale il mondo non può chiudere gli occhi. Perché se la verità fa male, il silenzio uccide». Le più importanti agenzie umanitarie internazionali hanno ripetutamente denunciato gli effetti provocati sulla popolazione di Gaza dal blocco imposto da Israele. Qual è in proposito la sua opinione? «Quello in atto da mesi e mesi a Gaza è un assedio illegale; il blocco costituisce una violazione flagrante dei diritti umani ed è contrario agli insegnamenti delle sacre scritture, cristiane ed ebraiche e della tradizione ebraica di adoperarsi per i più deboli. Faccio davvero fatica a trovare le parole adatte per descrivere ciò che abbiamo visto e inteso. Di certo, tutto ciò è inaccettabile. La cosa più inconcepibile e mai giustificabile, è quello che si sta facendo ad un popolo per garantire la propria sicurezza (di Israele). Ciò che ho visto mi ricorda molto quello che accadeva a noi neri in Sudafrica, durante l’apartheid. Non mi riferisco solo a Gaza. Ricordo ancora un mio precedente viaggio in Terra Santa. Ricordo come se fosse oggi l’umiliazione dei palestinesi ai check points e ai blocchi stradali, soffrivano come noi quando i giovani poliziotti bianchi ci impedivano di circolare». Qual è il messaggio che si sente di lanciare alla comunità internazionale? «Il messaggio è che il nostro silenzio e la nostra complicità per ciò che sta accadendo a Gaza, fa disonore a tutti noi. Gaza ha bisogno di aiuti e di attenzione da parte del mondo, in particolare da quanti credono e si battono per la pace». Lei ha avuto modo di incontrare a Gaza il premier di Hamas, Ismail Haniyeh. «Ho chiesto ad Haniyeh di operare affinché Hamas interrompa il lancio di razzi Qassam verso Israele. Queste azioni finiscono solo per aggiungere dolore a dolore, sofferenza a sofferenza: la mia solidarietà va anche alla popolazione israeliana di Sderot, costretta a soffrire per il lancio dei razzi Qassam. Non è in questo modo che i palestinesi vedranno realizzati i propri diritti. Dal più profondo del cuore, mi sento di lanciare di nuovo un appello a entrambe le parti perché si ponga fine ad ogni atto di violenza, ed in particolare agli attacchi ai civili. Questi attacchi, comunque motivati, sono sempre una violazione dei diritti dell’uomo. L’unico modo per porre fine alle violenze e alle ingiustizie è che israeliani e palestinesi si ritrovino insieme intorno ad un tavolo per discutere: questo è l’unico modo per instaurare la vera pace». E a Israele quale appello si sente di lanciare? «Vorrei dire che Israele ha diritto a vivere in pace nella sicurezza ma che questo diritto non può fondarsi né realizzarsi compiutamente se proseguirà l’oppressione esercitata contro un altro popolo. Il popolo palestinese. Una vera pace può essere costruita solo su basi di giustizia. E giustizia vuole che oggi si porti conforto alla popolazione di Gaza». Lei ha parlato di una realtà, quella della Striscia di Gaza, scioccante, disperata... «E non mi riferivo solo alle condizioni materiali di vita. La disperazione è anche altro. È l’assenza di speranza, è la percezione diffusa che la realtà è destinata ancora a peggiorare. La disperazione è nei tanti ragazzi e ragazze che ho incontrato e che mi hanno confessato di non saper immaginare un futuro. La disperazione è nei bambini che hanno respirato solo violenza, paura...Questa è Gaza oggi. Lo ripeto: è una condizione inaccettabile, inumana. Alla quale non dobbiamo rassegnarci». Ha collaborato Osama Hamdan Pubblicato il: 30.05.08 Modificato il: 30.05.08 alle ore 14.31 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI. A Barack dico, vieni a vedere l’inferno dei Territori Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 04:39:00 pm «A Barack dico, vieni a vedere l’inferno dei Territori»
Umberto De Giovannangeli «Spero che il senatore Obama possa visitare presto i Territori palestinesi. Avrà modo di rendersi conto di persona della sofferenza di un popolo e di ciò che significa vivere sotto occupazione. Una cosa è certa: nessun dirigente palestinese, neanche il più disposto al compromesso e al dialogo con Israele, potrebbe mai firmare un accordo di pace che non contempli Gerusalemme Est come sua capitale». A parlare è l’uomo delle «missioni impossibili»: Ahmed Qurei (Abu Ala), già primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese, oggi capo negoziatore palestinese. Abu Ala - che fu tra gli artefici degli accordi di Oslo-Washington (1993) - si rivolge anche all’Europa: «Ciò che chiediamo - afferma - è che i governi europei e la Ue non innalzino il livello delle relazioni con Israele» fintanto che lo Stato ebraico «non avrà rispettato i suoi obblighi, in particolare la fine delle attività degli insediamenti e delle altre violazioni dei diritti umani». Il candidato democratico alla Casa Bianca, Barack Obama, ha affermato che Gerusalemme deve restare capitale indivisa dello Stato d’Israele. Qual è la sua risposta? «Negli Stati Uniti si è in piena campagna elettorale e il senatore Obama parlava alla convention di una influente associazione proisraeliana. Il contesto può forse spiegare certi eccessi». Resta l’affermazione «Un’affermazione in sé sbagliata, inaccettabile, perché un accordo di pace tra Israele e Anp non può prescindere dalla definizione dello status di Gerusalemme. Al senatore Obama, di cui pure apprezziamo il suo sostegno alla nascita di uno Stato palestinese indipendente, diciamo che Gerusalemme può e deve divenire capitale condivisa di due Stati che vivano in pace uno a fianco dell’altro. D’altro canto, uno dei dossier in discussione nel negoziato in corso riguarda proprio Gerusalemme, il suo futuro. Discutere dello status di Gerusalemme non è più un tabù: sul tappeto vi sono idee, proposte che possono aiutare la discussione, sapendo la delicatezza estrema della materia e il fatto che il futuro di Gerusalemme non riguarda solo israeliani e palestinesi, perché Gerusalemme, è bene ricordarlo sempre, è patrimonio dell’umanità e città Santa per le tre più grandi religioni monoteistiche. Mi auguro che il senatore Obama rifletta su questo e ne tragga le dovute conclusioni da uomo di pace quale egli è». È ancora possibile, come sostenuto dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush alla Conferenza di Annapolis (dicembre 2007), raggiungere un accordo definitivo di pace entro la fine di quest’anno? «La speranza è l’ultima a morire, ma la realtà purtroppo non induce all’ottimismo. Diciamo che allo stato delle cose, solo un miracolo potrebbe portare ad un accordo entro il 2008. Di positivo c’è che ciascuna delle questioni cruciali che riguardano un accordo di pace globale, sono state affrontate in apposite commissioni. Nessun tema, neanche il più spinoso, è stato accantonato». Questo l’aspetto positivo. E quello negativo? «Il dato negativo è che finora non è stato registrato alcun progresso, e il tempo in Medio Oriente non lavora per la pace, soprattutto se questo tempo viene impiegato da Israele per porre nuovi ostacoli sul percorso negoziale». A cosa si riferisce in particolare? «Alla politica di colonizzazione portata avanti da Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme. Una politica contraria alla legalità internazionale, condannata con decisione dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Non si può invocare il dialogo e allo stesso tempo imporre sul campo la politica dei fatti compiuti. Se davvero gli israeliani vogliono negoziati seri, allora devono fermare gli insediamenti, rimuovere i posti di blocco e i check-point, oltre 600, che hanno spezzato in mille frammenti la Cisgiordania, e porre fine alle punizioni collettive inflitte alla popolazione di Gaza. La colonizzazione è antitetica alla pace». Ma da Gaza continua il lancio di razzi Qassam contro le città israeliane. Oggi (ieri, ndr.) è un razzo ha ucciso un civile israeliano e provocato diversi feriti. «Il presidente Abbas (Abu Mazen) ha più volte e duramente condannato il lancio dei razzi. Questa pratica va contro gli interessi del popolo palestinese e va rigettata con fermezza, come va respinto ogni atto che coinvolga civili, palestinesi o israeliani. Ma il blocco della Striscia non ha indebolito Hamas, ha solo moltiplicato la sofferenza della popolazione. E sulla sofferenza e l’ingiustizia non possono radicarsi le regioni del dialogo». Pubblicato il: 06.06.08 Modificato il: 06.06.08 alle ore 12.13 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI Riccardi il Nobel a Ingrid per premiare la non violenza Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 11:18:46 pm Riccardi: il Nobel a Ingrid per premiare la non-violenza
Umberto De Giovannangeli Il Premio Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt. L’iniziativa de l’Unità è condivisa dal professor Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e ordinario di Storia contemporanea alla Terza Università di Roma. «Io non conosco di persona Ingrid Betancourt ma ho avuto modo di conoscere la madre Yolanda - racconta Riccardi -: mi sembra che ci sia in loro qualcosa di indomito, di chi è disposto a lottare fino all’ultimo». Il fondatore della Comunità di Sant’Egidio rileva un tratto unificante tra la vicenda di Ingrid Betancourt e quella che ha come protagonista un’altra donna-coraggio: la birmana, e già Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi: «Sia Aung che Ingrid - afferma Riccardi - nei diversi contesti, la prima in Birmania, l’altra in Colombia, rappresentano al meglio la capacità femminile di incarnare un Paese e di resistere in modo forte ma non violento». Ed è anche per questo che il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt avrebbe la positiva dirompenza di un messaggio lanciato alle giovani generazioni: «Purtroppo assistiamo ad una ripresa del culto della violenza - osserva il fondatore della Comunità di Sant’Egidio - ed è per questo che appare ancora più grande il messaggio di cui Ingrid Betancourt si è portatrice». Professor Riccardi, quale significato può assumere il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt? «Secondo me Il Nobel a questa donna che ha tentato una soluzione attraverso la sua persona, il suo impegno generoso alla grande contraddizione colombiana, un riconoscimento così importante significa che su questa donna viene posto il “mantello” protettivo della comunità internazionale, e si dice come la sua liberazione sia chiave per risolvere la situazione della Colombia. Insomma, non si esce dal muro contro muro, bisogna trovare una via di uscita che sia una via di uscita negoziata; ma prima di tutto bisogna garantire la libertà a quelli che sono stati vittime di questa guerra insensata». Ingrid Betancourt parla al mondo dalla sua prigionia nella foresta dove da anni è tenuta segregata dai suoi carcerieri, attraverso le lettere. Che cosa traspare da quelle lettere? «Queste lettere raccontano la passione e la resistenza di una donna ad una situazione impossibile; un animo indomito: io non conosco di persona Ingrid, conosco sua madre Yolanda e mi sembra che ci sia qualcosa di veramente indomito in loro, di lotta fino all’ultimo, come è stato il gesto di Ingrid di candidarsi alla Presidenza della Colombia, che per certi aspetti era una “follia”, però mi sembra che lei resti fedele alla sua intuizione, minoritaria ma ragionevole». C’è un’altra donna, che è stata insignita del Nobel per la Pace, che è divenuta il simbolo del suo popolo in lotta, una lotta non violenta, per la libertà e il rispetto dei diritti umani: Aung San Suu Kyi. Dalla Birmania alla Colombia: da una casa-prigione birmana ad una foresta-prigione nella foresta amazzonica. Aung, Ingrid. Perché le donne divengono il simbolo di battaglie di libertà? «Nei diversi contesti, Aung e Ingrid rappresentano al meglio la capacità femminile di incarnare un Paese e di resistere in modo forte ma non violento». Questa non violenza, può essere un messaggio forte per le giovani generazioni alla ricerca di persone, di simboli in cui credere e identificarsi? «Siamo in un mondo violento, in cui c’è il culto della violenza anche se è una violenza non più ideologica. Purtroppo c’è una ripresa del culto della violenza, ed è per questo che è ancora più importante il grande messaggio non solo lanciato ma impersonato da donne-coraggio come Aung San Suu Kyi e Ingrid Betancourt». Pubblicato il: 21.06.08 Modificato il: 21.06.08 alle ore 8.14 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Margherita Hack Sì al Nobel, Ingrid difende pace... Inserito da: Admin - Giugno 23, 2008, 12:06:45 am Margherita Hack: «Sì al Nobel, Ingrid difende pace e libertà»
Umberto De Giovannangeli «Non c’è da stupirsi che fatta eccezione, meritoria, de l’Unità, l’interesse dei grandi mezzi di informazione nei confronti della tragedia di Ingrid Betancourt sia pressoché zero. Il fatto è che in un Paese che sta imbarbarendosi e che affida le sue sorti ad un abile quanto cinico «venditore di tappeti», una donna che lotta fino allo stremo per nobili ideali a cui è disposta a sacrificare la sua stessa esistenza, una donna come Ingrid Betancourt è davvero fuori posto. Una ragione in più per sostenere la lodevole iniziativa de l’Unità: il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt». A parlare è Margherita Hack, tra le massime autorità scientifiche a livello internazionale nel campo dell’astrofisica. Professoressa Hack, che significato potrebbe assumere il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt? «Sarebbe il dovuto riconoscimento ad una persona che sta sacrificando la propria vita per la libertà di pensiero. Libertà vuol dire anche pace. E anche il fatto che a Firenze le daranno il premio Galileo… Galileo è stato un uomo, uno scienziato che è stato costretto ad abiurare ad una realtà scientifica, ed è stato un esempio di cosa significhi violare la libertà di pensiero. Il "premio Galileo" alla Betancourt è un riconoscimento della sua vita sacrificata in nome della libertà di pensiero. Ed è anche per questo che meriterebbe senz’altro il Nobel per la Pace, perché che pace ci può mai essere se non si riconoscono i diritti di libertà dei cittadini?». Spesso si mette insieme la drammatica vicenda di Ingrid Betancourt con quella di un’altra donna coraggiosa: la birmana Aung San Suu Kyi. Perché le donne divengono oggi il simbolo di grandi battaglie di libertà? «Le donne proprio perché sono state tenute lontane dal potere per tanti secoli, forse sono meno soggette a compromessi con il potere. Anche in politica quando parlano sono più dirette. E poi riempiono di idealità la loro concretezza». Da anni, Ingrid Betancourt è tenuta prigioniera in una foresta. In questi anni di sofferenza, Ingrid ha continuato a comunicare attraverso le sue lettere. Cosa raccontano queste lettere? «Sono la testimonianza del coraggio di una donna che crede in ciò che fa e che è rimasta fedele, nonostante i patimenti sofferti, ai suoi ideali. Quegli ideali che l’aiutano a vivere in quella terribile condizione; se non avesse una grande forza interiore credo che sarebbe crollata da tempo. Quegli ideali l’aiutano a resistere». Quale messaggio le lettere di Ingrid Betancourt trasmettono ad un mondo globalizzato? «Un esempio. Un bel esempio offerto ad un mondo che è sempre più succube del potere, della ricchezza, dell’apparire. Ingrid Betancourt è un esempio da seguire, l’esempio di chi crede negli ideali piuttosto che nel potere o nel proprio tornaconto particolare». Ingrid Betancourt trasmette anche un messaggio di non violenza. Ingrid potrebbe diventare un modello per le giovani generazioni? «Non potrebbe, lo è già. Ingrid è un modello di coerenza, un punto di riferimento per quanti nel mondo ancora credono e si battono per valori universali quali la giustizia, i diritti dei popoli, la liberazione da vecchie e nuove povertà. Sì, Ingrid è un modello per chi pensa in termini di "noi" e non di "io": di chi antepone gli ideali condivisi di libertà e di giustizia a quelli che sono i piccoli interessi particolari». La storia di Ingrid Betancourt è intrecciata a quella di un popolo spesso dimenticato: il popolo colombiano. «Per la verità, ora qualche segno di speranza l’America Latina sembra darlo: la Bachelet in Cile, Lula in Brasile, le nuove esperienze in Bolivia, Paraguay, Venezuela…La speranza è che a questi popoli sia permesso di portare a compimento un lungo, tribolato cammino di democrazia, di diritti e di giustizia sociale». Ma la storia di questi popoli in lotta sembra spesso, troppo spesso, non "fare notizia" qui da noi… Lo stesso vale per la vicenda di Ingrid Betancourt… «Purtroppo l’Italia oggi sta vivendo un momento di amoralità desolante. Gli ideali di libertà e di giustizia sono molto poco sentiti nel nostro Paese altrimenti non ci sarebbe oggi questo governo inqualificabile». In queste dimenticanze c’è anche una responsabilità dei mezzi di comunicazione? «C’è, eccome! Tantissima responsabilità. Durante la campagna elettorale la televisione, quella di Stato e non solo Mediaset, ha fatto veramente il lavaggio del cervello agli italiani, indottrinandoli in maniera assurda che tutto quello che il governo Prodi faceva era fatto male che stava portando l’Italia alla rovina, con una sinistra che non ha saputo propagandare ciò che di buono Prodi e il suo governo avevano fatto. Oggi siamo nelle mani di un abilissimo venditore di tappeti che continua a fare il lavaggio del cervello alla gente, con l’aiuto di tutte le televisioni. E in questo circuito mediatico una storia di ideali, di generosità quale quella di Ingrid Betancourt non interessa; non interessa a chi pensa solo ai propri interessi». Pubblicato il: 22.06.08 Modificato il: 22.06.08 alle ore 14.39 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Yael Dayan: «Un simbolo per le donne di pace» Inserito da: Admin - Giugno 23, 2008, 11:43:47 pm Yael Dayan: «Un simbolo per le donne di pace»
Umberto De Giovannangeli «Chi vive “in trincea” da una vita, può comprendere meglio di chiunque altro il sacrificio di una donna di pace come è Ingrid Betancourt. Da donna, da israeliana che crede nella forza del dialogo, aderisco con entusiasmo all’iniziativa lanciata da l’Unità per l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt». A farlo è Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, paladina dei diritti delle donne israeliane, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei Giorni, il generale Moshe Dayan. Un Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt visto da Israele. «Ingrid Betancourt è una donna che non si è chiesta mai se le cose in cui credeva incontravano il consenso delle élite al potere in Colombia o se potevano essere gradite dai narcoguerriglieri. Ingrid non ha sposato lo stato di cose esistenti nel suo Paese magari facendo valere la sua posizione sociale. È andata controcorrente, come spesso controcorrente sono andati e continuano ad andare qui nel mio Paese, Israele, coloro che si oppongono alla logica del più forte, che rifiutano di piegarsi al ricatto di chi crede possibile raggiungere la pace attraverso l’annientamento del nemico. Per questo io come tanti altri in Israele saremmo felici se il Nobel per la Pace fosse assegnato a Ingrid Betancourt». Ingrid Betancourt, e come lei Aung San Suu Kyi: le donne assurgono a simbolo di grandi battaglie di libertà. «È un fattore di speranza, perché un mondo nuovo, con meno oppressione e ingiustizia, non può che essere coniugato al femminile. Le donne sono portate a costruire laddove gli uomini alimentano i loro impulsi distruttivi; le donne sanno cosa significhi dare alla vita un essere umano e per questo, io credo, hanno più a conto la vita umana. Le donne combattono ma difficilmente odiano. E sanno trasformare il loro dolore in energia attiva. Lo vedo qui in Israele: penso alle associazioni di donne che hanno perso i loro figli nella guerra in Libano o in attentati terroristici: ho conosciuto molte di loro, ho scritto di loro, e ciò che più mi ha colpito è stata la loro capacità di trasformare una indicibile sofferenza, un dolore immenso, quale è la perdita di un figlio, in un’azione costruttiva, in un fare positivo. Ecco: il dolore che si fa energia di cambiamento. Questa considerazione mi riporta a Ingrid Betancourt, alle lettere da lei scritte dalla sua prigionia». Cosa raccontano quelle lettere? «Raccontano di una donna stremata nel fisico ma non piegata nel morale; parlano di una donna lucida, consapevole, che consegna alla scrittura non solo la sua tenace volontà di resistere ma anche la sua visione del mondo, la convinzione di essersi battuta per una causa giusta. Ingrid non fa abiure, non implora pietà. La prigionia non l’ha ridotta a schiava. I suoi carcerieri non sono riusciti a imprigionare la sua mente. Sì, Ingrid è nel suo essere più profondo ancora una donna libera». Visto dalla comunità internazionale, che valenza politica potrebbe avere il Nobel alla Betancourt? «Significherebbe assumere la liberazione di Ingrid come impegno esplicito della comunità internazionale, come un fatto politico, per l’appunto, e non solo come un gesto umanitario». Lei ha parlato del coraggio delle donne israeliane. E quelle palestinesi? «So di tante madri palestinesi che hanno alzato la loro voce per dire “no” all’uso dei propri figli come “shahid”, terroristi suicidi, ribellandosi così ad una cultura, oltre che ad una pratica, di morte. Conosco giovani donne palestinesi colte, sensibili, impegnate nel dialogo, che anche nell’inferno dei campi profughi, anche nei giorni più duri dello scontro tra l’esercito israeliano e le fazioni dell’Intifada, hanno continuato a costruire il futuro, ad esempio insegnando ai bambini, o mandando avanti con grande dignità la famiglia. Queste donne che non si rassegnano al peggio rappresentano una ricchezza della società palestinese e una speranza di pace per Israele». Di pacificazione parla e per la pacificazione si è battuta Ingrid Betancourt. «Sento Ingrid vicina anche per l’idea di pace che ha ispirato la sua azione. Quella di Ingrid non è una pace generica, utopica. Ingrid coniuga pace con giustizia sociale, pace con democrazia, pace con rispetto dei diritti umani e civili, pace con lotta alla corruzione e alla falsa rivoluzione imposta dai narcoguerriglieri. È una pace impegnativa, scomoda, quella che Ingrid propugna. Ed è per questo che è sempre stata invisa ai corrotti del suo Paese e alla falsa alternativa di chi con Ingrid tiene in ostaggio un intero popolo». Una speranza? «Di poter festeggiare il Nobel con Ingrid libera, e magari farlo qui, in Israele, per raccontare che in questo mondo a tinte fosche si possono vivere e raccontare anche storie a lieto fine». Pubblicato il: 23.06.08 Modificato il: 23.06.08 alle ore 9.31 © l'Unità. Titolo: Betancourt, Harlem Dèsir: Ingrid è malata il Nobel l’aiuterebbe a resistere Inserito da: Admin - Giugno 24, 2008, 05:04:32 pm Betancourt, Harlem Dèsir: Ingrid è malata il Nobel l’aiuterebbe a resistere
Umberto De Giovannangeli «Dobbiamo fare in modo che a Ingrid Betancourt giungano segnali forti dell’interesse, della solidarietà, dell’affetto, dell’iniziativa internazionali nei suoi confronti. Questi segnali possono contribuire fortemente a tenere Ingrid attaccata alla vita. Ben venga l’iniziativa lanciata da l’Unità: un segnale forte è l’assegnazione del Nobel per la Pace a questa donna straordinaria». A parlare è Harlem Dèsir, fondatore di SOS Racisme e oggi eurodeputato socialista francese. Quale significato avrebbe il Nobel per la Pace assegnato a Ingrid Betancourt? «Questo è un momento decisivo perché Ingrid Betancourt si trova in grave pericolo. Dalle ultime notizie pervenute attraverso gli ex ostaggi e dagli stessi membri delle Farc, il suo stato di salute si è fortemente deteriorato. A ciò va aggiunto che la situazione politica nella regione, per quanto riguarda il rapporto tra le Farc e il governo colombiano, è molto tesa. Per queste ragioni la comunità internazionali deve intensificare i propri sforzi e cercare di trasmettere dei messaggi molto forti, rivolti sia alle Farc che al governo colombiano. Ingrid Betancourt è un simbolo di coraggio: lei crede nella democrazia, si è impegnata in prima persona nel difendere le proprie idee e ha persino cercato di tendere la mano ai guerriglieri delle Farc, è andata loro incontro trasformandosi in tal modo in un obiettivo facile da raggiungere. Ingrid ha fatto tutto questo, ha messo in gioco se stessa, la propria vita, per cercare una soluzione alla situazione della Colombia. Ingrid Betancourt rappresenta anche i valori in cui noi crediamo. Proprio perché si trova ora in una situazione di grande pericolo, spetta a noi agire. In questo senso, l’assegnazione del Nobel per la Pace rappresenterebbe non solo un giusto, doveroso, riconoscimento, ma sarebbe anche per lei un incoraggiamento a resistere e la tutelerebbe». Dalla sua prigionia nella foresta colombiana, Ingrid Betancourt comunica col mondo attraverso le sue lettere. Cosa raccontano di lei quelle lettere? «Quelle lettere mostrano una donna "intatta" nelle sue convinzioni, e al tempo stesso danno conto di una grande fragilità. Noi sappiamo che a giunge l’eco delle notizie dal mondo; sappiamo, ad esempio, che riesce, che le è consentito dai suoi carcerieri, ascoltare Radio France Internazionale, per cui dobbiamo fare in modo che le possano giungere dei segnali che l’aiutino a resistere, a restare aggrappata alla vita. E la campagna promossa da l’Unità, alla quale mi unisco, per il Nobel va in questa direzione». Quale America Latina emerge da questa drammatica storia? «L’America Latina è un continente che ha subito feroci dittature, spesso coperte dal silenzio se non dalla complicità dell’Occidente: ricordiamo il Cile di Allende e di Pinochet, l’Argentina dei generali e degli squadroni della morte. Ma l’America Latina è stato, è anche un continente che è uscito fuori da queste dittature attraverso le lotte democratiche, come quella condotta da altre donne coraggiose: le madri di Plaza de Mayo. Tuttavia, è un continente, quello latinoamericano, che vive ancora grandi strappi ed è segnato da conflitti e da grandi disuguaglianze economiche e sociali, con enormi problemi di sviluppo e una povertà estrema. Disuguaglianze, sacche di povertà, disperazione sociale e violenza: basti pensare alle gang e alla brutale repressione che marchiano le favelas di Rio. In questo quadro, la guerriglia delle Farc ha conosciuto un processo degenerativo: da lotta popolare a una guerriglia di narcotrafficanti, per la quale la presa di ostaggi è diventata un fine in sé per autofinanziarsi. E come in un gioco di specchi, il governo colombiano si alimenta di questa lotta per giustificare un comportamento non rispettoso dei diritti umani. Ingrid è proprio l’immagine, il simbolo vivente di chi vuol far uscire la Colombia, e più in generale l’America Latina, da questa situazione, cercando, come Lula in Brasile, di risolvere i gravi problemi sociali, economici e politici con gli strumenti della democrazia». Betancourt, Menchù, San Suu Kyi...Perché le donne sono oggi il simbolo di grandi battaglie per la libertà e i diritti nel mondo? «Perché portano avanti la loro lotta attraverso la propria voce, lottano con le loro idee, con le proprie convinzioni e non con le armi, dimostrando così che tra la rassegnazione e una devastante pratica militarista c’è una terza via da seguire: quella della disobbedienza civile, della lotta non violenta. Le donne come quelle da lei citate cercano di mobilitare le coscienze, dicono delle verità scomode e pagano per questo di persona, come sta facendo Ingrid Betancourt. Le loro battaglie interrogano le nostre coscienze e noi che abbiamo la fortuna di vivere in Paesi democratici dobbiamo impegnarci affinché il peso dei nostri Paesi sia dalla parte di Ingrid e delle altre donne-coraggio. Dalla parte di queste straordinarie messaggere di pace». Pubblicato il: 24.06.08 Modificato il: 24.06.08 alle ore 8.26 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Levi Montalcini: il premio a Ingrid Inserito da: Admin - Giugno 26, 2008, 03:40:55 pm Levi Montalcini: il premio a Ingrid
Umberto De Giovannangeli L´emozione traspare dal suo ricordo: «La signora Betancourt, Ingrid, mi aveva inviato il suo libro con una dedica personale. Poi c´eravamo sentite per telefono, avevamo deciso di incontrarci, ma qualche giorno dopo Ingrid Betancourt venne rapita». Inizia così, con questa testimonianza personale, il nostro colloquio con una donna straordinaria: Rita Levi Montalcini, senatrice a vita e Premio Nobel per la Medicina nel 1986. La senatrice Montalcini ci riceve nella sua abitazione a Roma: la sua agenda è fitta di impegni, riunioni al Cnr, conferenze, dibattiti, impegni in Italia e nel mondo che Rita Levi Montalcini, a 99 anni, assolve, ci dice il suo inseparabile assistente, Piero Iempile, con l´entusiasmo di una giovane ricercatrice. E con altrettanto entusiasmo la senatrice Montalcini ha accettato di incontrare l´Unità per dare la sua adesione alla campagna per l´assegnazione del Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt. Senatrice Montalcini, partiamo da un ricordo personale… «Ingrid Betancourt mi aveva inviato una copia, con una dedica personale molto gentile, del suo libro "Forse domani mi uccideranno". In quel libro la signora Betancourt parlava del periodo in cui lei era già in pericolo, aveva portato via dalla Colombia i suoi figli perché temeva che potessero essere rapiti. Ricordo che quel giorno nel quale dovevamo incontrarci, ho saputo che lei era stata catturata. D´allora, e ormai sono passati più di cinque anni, non ho avuto più sue notizie. Ricordo di aver letto il suo libro con molta commozione perché parlava dei pericoli ai quali andava incontro». Quale significato avrebbe il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt? «Un doppio significato. In primo luogo, vuol dire riconoscere il coraggio col quale ha combattuto - come hanno fatto altre donne straordinarie, insignite del Nobel per la Pace come Aung San Suu Kyi, Rigoberta Menchù, ed anche la keniana Wangari Maathai per il suo impegno in difesa dell´ambiente - per gli ideali in cui crede. Ingrid Betancourt è una politica e sapeva di essere in pericolo; viveva nel terrore che i suoi nemici potessero far del male ai suoi figli e per metterli in salvo dovette separarsi da loro, portandoli via dalla Colombia per poi riportarli con lei. Ma non ha avuto il tempo per godere del loro affetto, perché è stata rapita. Il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt farebbe onore non solo a chi lo riceve ma anche a coloro che lo assegnano, sarebbe il tributo al coraggio dimostrato da questa giovane donna, dandole un premio prestigioso, riconosciuto a livello planetario, un premio di tale importanza che potrebbe far sì che quelli stessi che la tengono prigioniera si rendano conto del danno a loro che gli viene nel tenere segregata in quella foresta una donna che il mondo ha riconosciuto come "patrimonio universale" insignendola del Nobel per la Pace. Il Premio Nobel è una cosa di tale prestigio che quelli che vanno contro non hanno vantaggio alcuno nel tenere prigioniera una persona insignita del premio più prestigioso che esista. Io spero vivamente che il Nobel per la Pace sia assegnato a Ingrid Betancourt: lei lo merita davvero, per gli anni di sofferenza patiti, per il coraggio dimostrato negli anni precedenti al rapimento nei quali ha cercato di salvare a propri cari ancor prima di pensare a se stessa. Sì, Ingrid Betancourt merita il Nobel e per questo trovo meritoria la campagna di sensibilizzazione lanciata da l´Unità, alla quale do la mia adesione». Lei ha fatto riferimento anche ad altre donne insignite del Nobel per la Pace. Le chiedo in proposito: perché le donne sono diventate un po´ il simbolo di grandi battaglie di libertà? «Chi è stato per secoli e secoli in condizioni di non poter né studiare né altro, a chi per secoli sono stati negati diritti e possibilità; quante, le donne, hanno vissuto questa condizione di imposta sottomissione, sentono il bisogno di essere protagoniste di grandi battaglie di civiltà, come sono quelle per la pace. È logico che la donna che per molti secoli è stata tenuta in condizione di inferiorità totale, abbia desiderio e ansia di riconquistare la pace e lotti per questo». In Francia c´è, a partire dai grandi mezzi di comunicazione, un´attenzione costante per la vicenda di Ingrid Betancourt, un´attenzione analoga in Italia è assente. Perché da noi c´è questo silenzio? «Mi è difficile rispondere…Direi che in Francia si è molto orgogliosi di tutti i cittadini che in un modo o nell´altro fanno onore al Paese, mentre in Italia, purtroppo non è così. Di questo ne ho anche sofferto personalmente. Ero stata proposta per un premio scientifico prestigioso ma la Francia ha lottato e lo ha fatto avere al mio competitore, francese. Tutta la Francia si era mossa, in Italia nessuno lo ha fatto. E questo vale in generale: l´Italia non partecipa a queste cose, la Francia sì e ottiene ciò che noi non otteniamo». Una donna come Ingrid Betancourt cosa può comunicare alle giovani generazioni, alla ricerca di simboli in cui identificarsi? «Può comunicare coraggio, serenità e capacità di lottare contro condizioni terribili. Insomma, le donne hanno di più quel senso globale che le porta a battersi per problemi più generali, molto meno l´uomo. Siccome hanno sofferto per tanto, troppo tempo di essere umiliate in continuazione, è evidente che hanno bisogno più degli uomini di una ricompensa: una ricompensa che vale il bene dell´umanità». Si è parlato prima dell´importanza del Nobel. Lei è stata insignita di questo prestigioso riconoscimento: il Nobel può essere uno «strumento» utile anche per coinvolgere, comunicare valori? «Non c´è dubbio che il prestigio del quale godo deriva da questo prestigiosissimo riconoscimento. Questo premio è diventato del massimo riconoscimento possibile in diversi campi, e rafforza l´autorevolezza e la possibilità di essere ascoltato di chi lo riceve…». Da questo punto di vista è dunque un premio utile… «Direi di sì, anche troppo perché è faticoso far fronte a troppa popolarità. Non era per me». Pubblicato il: 26.06.08 Modificato il: 26.06.08 alle ore 12.14 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Finocchiaro: isoliamo i rapitori con il Nobel della.. Inserito da: Admin - Giugno 28, 2008, 06:00:37 pm Finocchiaro: isoliamo i rapitori con il Nobel della pace a Ingrid
Umberto De Giovannangeli Il Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt non è solo il doveroso riconoscimento al coraggio di una donna straordinaria. È anche un investimento sul futuro. Anna Finocchiaro, presidente del gruppo Pd al Senato, motiva il suo sostegno all’iniziativa lanciata da l’Unità. «Ciò che mi ha particolarmente colpito - osserva Anna Finocchiaro - è la forza che quel corpo infragilito di Ingrid riesce a trasmettere. La sua fragilità si contrappone alla potenza distruttiva dei suoi carcerieri». Quale significato può assumere l’assegnazione del Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt? «Un significato straordinario, l’isolamento internazionale per i suoi rapitori, il far risaltare la miserabilità del gesto di fronte alla grandezza della persona. Al Senato abbiamo già presentato, noi del Pd e l’Italia dei Valori, una mozione per il sostegno alla candidatura al Nobel, su cui stiamo raccogliendo anche altre adesioni, che coinvolgono lo stesso schieramento di maggioranza. Mi sembra un segnale importante dato dal Parlamento italiano». Dalla foresta nella quale è segregata da anni, Ingrid Betancourt parla al mondo attraverso le sue lettere... «Ingrid parla al mondo con le sue lettere e parla un linguaggio diametralmente opposto a quello dei suoi carcerieri. Il suo è un messaggio di civiltà e speranza straordinario». Ingrid Betancourt, ed anche Aung San Suu Kyi, Rigoberta Menchù...perché le donne assurgono a simbolo di grandi battaglie di libertà, diritti e giustizia nel mondo? «Io ho una teoria molto personale: di fronte alla grande confusione e, soprattutto, a questa straordinaria violenza, è come se le donne conoscessero la lingua dell’”apriori”, di quello che sta prima di tutto e che è quello che ci può salvare. E hanno le parole per dirlo, e quando parlano il mondo le capisce». Ed è anche un linguaggio che racconta come si può lottare, con efficacia, con l’«arma» della non violenza... «È così: Ingrid, Aung, Rigoberta e tante altre donne coraggiose dimostrano come si può lottare attraverso la non violenza, come sia straordinariamente forte, e ciò nel caso della Betancourt è ancora più evidente, la fragilità del corpo: quanto è potente l’immagine di quella fragilità. È tutto il contrario di quello che è il linguaggio corrente nel mondo, dove la forza è collegata ai carri armati, ai bombardieri... E di fronte a questa esibizione di potenza armata ancora più forte appare la fragilità di quel corpo contro ogni violenza». Perché una vicenda altamente emblematica come quella di Ingrid Betancourt sembra «non fare notizia» qui da noi? «Non fa notizia perchè questo è un Paese che in particolare negli ultimi mesi, sta esprimendo un provincialismo davvero preoccupante. E chissà cosa dovremo vedere ancora...». Rispetto ai modelli di identificazione delle nuove generazioni, una donna come Ingrid Betancourt potrebbe divenire un modello positivo? «Secondo me sì, e anche per questo mi chiedo perché non organizzino discussioni nelle scuole su questo tema, perché non si parli di questo, della forza e della fragilità, della pace e della violenza, parlandone ma non in astratto, non per fare il tema di fine anno ma perché queste tematiche vivono nel mondo, vicino a noi, e sono testimoniate proprio dai corpi umani. Insisto molto sulla concretezza, sulla fisicità che esprime in sé, come nel caso di Ingrid, una volontà straordinaria di resistenza e di coerenza rispetto a quei principi in cui si crede. Io sono molto colpita da quel corpo così infragilito». L’ultima domanda la rivolgo ad Anna Finocchiaro dirigente del Partito Democratico. Si parla spesso di valori unificanti in cui l’insieme del «corpo» del Pd possa riconoscersi. Una donna forte nella sua fragilità come Ingrid Betancourt non potrebbe essere un riferimento identitario unitario, coinvolgente? «Identitario non lo so, un riferimento certamente sì, come in altri tempi e per altre storie lo furono, e lo sono ancora, donne di cui abbiamo parlato, come Aung San Suu Kyi e Rigoberta Menchù. Pochi giorni fa ho ricordato in Aula al Senato, per farle gli auguri, per i suoi 63 anni di Aung San Suu Kyi, da 12 anni agli arresti domiciliari...nessuno ci pensava. La stessa Rigobertà Menchù e se andassimo a cercare chissà quante altre donne, in particolare di Paesi asiatici, di Paesi islamici, che stanno testimoniando battaglie di libertà, di autonomia, di forza femminile». È dunque importante rinnovare la memoria di queste donne in lotta... «È straordinariamente importante e per questo torno a dire che le nostre ragazze, e anche i nostri ragazzi, dovrebbero sapere». Pubblicato il: 28.06.08 Modificato il: 28.06.08 alle ore 8.26 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI Jody Williams: Ora siamo sette donne Nobel con lei otto Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 09:52:35 am Jody Williams: «Ora siamo sette donne Nobel con lei otto»
Umberto De Giovannangeli «Il più grande premio per Ingrid Betancourt è poter riabbracciare i propri cari e poter riprendere, da persona libera, quella battaglia di libertà che ha sempre condotto con grande generosità. La sua liberazione è un segnale di speranza innanzitutto per il popolo colombiano che vede in Ingrid il simbolo di coraggio e di un riscatto collettivo. Ingrid libera potrà dare un grande contributo al rilancio del dialogo. Per quanto mi riguarda, penso che il Nobel per la Pace sia il giusto riconoscimento ad una donna che ha messo in gioco se stessa, la sua vita, per il più alto e nobile degli ideali: la pace». A sostenerlo è Jody Williams, premio Nobel per la Pace nel 1997, fondatrice della Campagna per il Bando delle Mine Antiuomo. Assieme a Shirin Ebadi, Jody Williams ha creato la «Nobel Womens Initiative» riunendo le sette donne Nobel per la Pace viventi, Wangari Maathai, Mairead Maguire, Rigoberta Menchu, Betty Williams, Aung San Suu Kyi. «Alla fine - rimarca Jody Williams - Ingrid ha vinto la sfida con i suoi carcerieri. E non solo perché è tornata in libertà, ma perché Ingrid è restata “libera” anche in questi lunghi, terribili anni di prigionia. Libera nella mente. Libera nel restare fedele ai principi che hanno ispirato la sua battaglia politica. Libera nel non odiare i suoi aguzzini». Dopo oltre sei anni di prigionia nella giungla, Ingrid Betancourt è tornata in libertà. «È una notizia fantastica che mi riempie di gioia. Ingrid Betancourt ha combattuto per i diritti del popolo colombiano e lo ha fatto con gli strumenti della democrazia. Alle armi dei suoi carcerieri ha contrapposto la forza delle sue idee, la sua determinazione non violenta. Ingrid ha interpretato l’anelito di libertà e di giustizia del popolo colombiano, per questo era ed è temuta da quanti intendono perpetuare i propri privilegi e dai falsi propugnatori dell’utopia armata». La forza delle idee contro la brutalità delle armi... «È proprio così. Questa è stata la sfida di Ingrid. E alla fine ha vinto. Non solo perché è tornata in libertà, ma perché lei era “libera” anche negli anni di prigionia. Libera nella mente. Libera nel continuare a battersi pacificamente, attraverso le sue struggenti lettere, per i propri ideali. Libera di non odiare i suoi carcerieri. In condizioni disumane, Ingrid ha saputo mantenere intatta la propria dignità, facendosi carico anche della condizione degli altri ostaggi...». Ed ora? «Il conferimento del Nobel per la Pace rafforzerebbe la sua battaglia di libertà e alimenterebbe la speranza a quanti nel mondo si battono per far prevalere le ragioni della vita contro i seminatori di morte. Mi lasci aggiungere che Ingrid era ed è una donna scomoda perché ha ben chiaro che pace va coniugata con giustizia sociale, con l’estensione dei diritti della persona, con la difesa delle minoranze. Perché la violenza non è solo quella delle armi, violenza è anche l’arbitrio del potere, è la corruzione contro cui Ingrid si è sempre battuta, svelando anche i rapporti di malaffare tra esponenti dell’amministrazione governativa e i potenti cartelli del narcotraffico che continuano a condizionare pesantemente la vita politica colombiana. Mi auguro che il futuro della Colombia abbia il volto di Ingrid e la sua passione civile». Le foto di Ingrid danno conto della fragilità de l suo corpo dopo gli anni di prionia... «Dietro la fragilità di quel corpo c’è la forza, la determinazione di una donna che non si è mai arresa. È quella fragilità apparente, che non si piega; la fragilità dei forti. Come lo era quella del Mahatma Gandhi o di Aung San Suu Kyi...». Con la sua sofferenza e il suo coraggio, Ingrid Betancourt ha mantenuto l’attenzione internazionale sulla vicenda della Colombia. Lei in questi anni si è battuta per un’altra tragedia colpevolmente dimenticata: quella del Darfur. Un impegno che le fa onore.. Le chiedo: perché questa immane tragedia sembra non interessare la comunità internazionale? «Questo stato di cose testimonia il completo, colpevole fallimento della comunità internazionale nell’assumersi la cosiddetta “responsabilità di protezione”, a partire dalla protezione dei propri cittadini dalle epurazioni etniche, dai crimini di guerra e dalle menzogne sui genocidi perpetrati dallo Stato stesso. Quando uno Stato non riesce a proteggere i propri cittadini, è la comunità internazionale che deve assumersi questa responsabilità. Ma in Darfur continuiamo ad assistere ad una fuga di responsabilità da parte della comunità internazionale a fronte di un governo (del Sudan) che ha orchestrato e partecipato ai crimini di massa». Lei è stata responsabile del gruppo speciale delle Nazioni Unite chiamato a investigare le condizioni dei diritti umani in Darfur. Il rapporto licenziato dal gruppo Onu è stato durissimo nei confronti delle autorità sudanesi. «Quel rapporto documentava una realtà terribile. Una realtà che io e i miei quattro colleghi abbiamo ricostruito parlando con numerosi sopravvissuti all’epurazione etniche portata avanti dal governo sudanese che si è reso complice di questi crimini per aver armato e addestrato le milizie janjawwd (i jianhjaweed sono i miliziani del regime rabo del nord che dal 2003 hanno lanciato campagne di terrore contro la popolazione civile di origine africana, ndr.). Siamo entrati nei campi dei rifugiati in Ciad e abbiamo parlato con chi ci vive, raccogliendo racconti raccapriccianti che parlano di gigantesche e sistematiche violazioni dei diritti umani e gravi strappi alla legge internazionale. E tutto questo, lo voglio sottolineare, è avvenuto e continua ada accadere nel silenzio della comunità internazionale. Un silenzio complice». Un silenzio che lei ha avuto il coraggio di rompere. Così come è estremamente significativa un’altra iniziativa che la vede protagonista: la «Nobel Womens Iniziative», che riunisce le sette donne Nobel per la Pace viventi... «Che spero possano diventare presto otto, con Ingrid Betancourt...». Qual è il senso di questa iniziativa? «Dal Darfur alla Bosnia. ogni pagina atroce nella storia recente dell’umanità, vede le donne come le prime vittime di una violenza brutale. Ma al tempo stesso, sono sempre di più le donne che si ribellano ad una condizione di sfruttamento, di violenza spesso istituzionalizzata: donne che rivendicano i propri diritti, che contestano pratiche sanguinarie e mortificanti della propria sfera sessuale, come l’infibulazione; donne in prima fila nel pretendere dignità e rispetto. L’associazione a cui ho dato vita assieme a Shirin Ebadi (la premio Nobel per la Pace iraniana, ndr.) vuol essere uno strumento al servizio di tantissime donne coraggiose che non hanno la possibilità di far sentire al mondo la loro voce». Una voce che ha anche il timbro di Ingrid Betancourt... «Il timbro e il contenuto...Perché Ingrid ha lanciato anche un altro messaggio importante: c’è un’alternativa che paga tra il silenzio e il rumore sinistro delle armi. È l’alternativa non violenta». Pubblicato il: 04.07.08 Modificato il: 04.07.08 alle ore 13.18 © l'Unità. Titolo: Frattini: il Nobel a Betancourt legame più forte con il Sudamerica Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 04:54:30 pm Frattini: il Nobel a Betancourt legame più forte con il Sudamerica
Umberto De Giovannangeli Un riconoscimento ad una donna coraggiosa. Un investimento per un futuro di dialogo in America Latina. Le ragioni del Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt secoondo il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini. Signor ministro, l'Unità ha lanciato una campagna per l'assegnazione del Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt che sta registrando un vasto e qualificato consenso. Perché oggi avrebbe un significato forte questo riconoscimento alla Betancourt? «Credo per quello che rappresenta la signora Betancourt: una persona che nonostante abbia sofferto una lunga prigionia ha saputo esprimere parole di non risentimento verso i suoi rapitori, ma soprattutto una persona che continua a voler lavorare per il suo Paese, per il bene della Colombia e per la riconciliazione. È evidente che questa è una impostazione che dovrebbe in qualche modo essere premiata, perché premia chi questa lunga prigionia l'ha sofferta per essersi messa al servizio del suo Paese: non va dimenticato che Ingrid Betancourt è stata rapita quando si era candidata alla presidenza della Colombia, e questa decisione è alla base del suo rapimento. E aggiungo un altro argomento che motiva il Nobel per la Pace: la sua azione molto chiara contro ogni forma di violenza e di sopraffazione, è stata una delle ragioni della sua vita politica». Come valuta l'iniziativa che ha portato alla liberazione di Ingrid Betancourt? «Si è trattato di una operazione sicuramente esemplare: userei le parole della stessa Betancourt: una operazione perfetta, così l'ha definita e io sono pienamente d'accordo con lei. Una operazione che senza spargimento di sangue è riuscita a liberare lei e gli altri prigionieri americani, dimostra che c'è stata una forte intelligence e che il presidente Uribe ha fatto bene a scommettere su una attività di prevenzione per liberare la signora Betancourt, piuttosto che cedere al ricatto delle Farc, dei trafficanti di droga». Ingrid Betancourt si pone come una donna di dialogo in un continente ancor oggi segnato da contraddizione esplosive come l'America Latina. In questa chiave, che ruolo può svolgere l'Italia? «L'Italia, a mio avviso, può dare un contributo forte al dialogo, basato sul fatto che il nostro Paese conosce e ama i popoli sudamericani, e i popoli sudamericani conoscono e amano l'Italia, anche per i rapporti storici che legano i nostri popoli: quanti italiani, o persone di origine italiana, vivono nel continente latinoamericano,e quante occasioni di incontro hanno i nostri italiani nel mondo, le nostre comunità; quanti membri del Parlamento abbiamo che sono eletti in Sud America: questi sono tutti dei "ponti" che noi abbiamo e di questo reciproco riconoscimento di amicizia ho avuto testimonianza diretta: mi riferisco al mio viaggio a Lima in occasione del vertice Ue-America Latina, avvenuto due giorni dopo la mia nomina a ministro degli Esteri, nel corso del quale sono stato ricevuto in bilaterale da tutti i presidenti, al di là delle regole del protocollo. Sono stato ricevuto da Lula, da Chavez, da Morales, dalla signora Kirchner. Presidenti di grandi Stati del Sud America che hanno incontrato il nuovo ministro degli Esteri per dirgli: vogliamo lavorare con l'Italia». Ingrid Betancourt, e prima di lei Rigoberta Menchu e Aung San Suu Kyi: perché le donne sono divenute il simbolo di grandi battaglie di libertà? «Pensiamo anche alla premio Nobel per la Pace iraniana, Shirin Ebadi. Io credo perché possono essere l'espressione, al tempo stesso, della moderazione e della tranquillità femminile, ma anche della determinazione; probabilmente una donna si spezza meno di un uomo, e quindi è in grado di assorbire magari sofferenze orribili come sei anni di prigionia, come Ingrid Betancourt, e poi tornare e dire io sono pronta a correre di nuovo per la presidenza della Colombia. Questa è una cosa straordinaria». L'Europa ha avuto un ruolo importante in termini di pressioni diplomatiche sulle autorità colombiane. Non ritiene che far sentire una voce unica rafforzi il peso dell'Europa sullo scenario internazionale? «Questo vorrebbe dire avere delle linee di politica estera europea che purtroppo in molti settori non abbiamo: non l'abbiamo avuta e non l'abbiamo tuttora sullo Zimbabwe; non l'abbiamo avuta sulle Olimpiadi di Pechino; abbiamo avuto delle reazioni certamente univoche sulla Birmania ma senza che questo si sia tradotto, ad esempio, in una sola parola critica verso il moltiplicarsi degli investimenti imprenditoriali in Birmania di grandi Paesi europei, compresa l'Italia. Questo, purtroppo, è il prezzo di non avere ancora una visione comune in politica estera, perché se c'è un Paese che ha un problema tutti gli altri si fermano. Questa è la realtà». Lei ha più volte manifestato una attenzione particolare verso il tema dei diritti. Le chiedo: a livello dei rapporti bilaterali ma soprattutto multilaterali, pesa quanto dovrebbe il tema della difesa dei diritti ovunque sotto qualunque «latitudine» politica? «Io vedrei questa come una delle missioni politiche dell'Europa nei prossimi cinquant'anni. Ormai l'Europa ha realizzato gli obiettivi dei padri fondatori: pace e prosperità al suo interno; ha realizzato il mercato interno, che certamente è stato un grande risultato, ma è l'Europa dei mercati. Se io dovessi guardare ad una missione politica dell'Europa, direi che questa missione deve tendere a promuovere i diritti fondamentali della persona umana in tutto il mondo, in modo ovviamente non aggressivo, senza imporre soluzioni precotte ma facendo crescere, lievitare una cultura ed una pratica conseguente del rispetto dei diritti della persona: questa è davvero una missione altamente politica. Una nobile missione». Può essere questo anche un tratto distintivo dell'ultima parte del biennio di presenza italiana nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite? «Può esserlo certamente. Io sono convinto che in questa fase noi abbiamo delle carte da giocare proprio su questo tema». Pubblicato il: 05.07.08 Modificato il: 05.07.08 alle ore 16.18 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Medio Oriente, la carta siriana Inserito da: Admin - Luglio 15, 2008, 10:20:27 pm Medio Oriente, la carta siriana
Umberto De Giovannangeli Puntare su Bashar per isolare il «folle di Teheran». Riabilitare un regime dispotico per provare a disinnescare la bomba (nucleare) iraniana. Un azzardo, ma un azzardo calcolato. «La pace non è mai stata così vicina»: un’affermazione impegnativa, fin troppo. Tanto più se a pronunciarla è un leader in caduta libera nel suo Paese, come lo è il premier israeliano Ehud Olmert. Ma quella materializzatasi a Parigi è qualcosa di più di una fragile speranza. È la consapevolezza che se la pace non si avvicina, ad avvicinarsi, a grandi passi, è la guerra. Una guerra che rischierebbe di far esplodere la polveriera nucleare mediorientale. Per questo l’Europa, ancor più che un’assente America, a Parigi ha provato a giocare la «carta siriana». Per provare a dividere Damasco da Teheran, innanzitutto. Il tempo non lavora per la pace: lo sanno bene i leader che si sono riuniti a Parigi. Come sanno che in Medio Oriente il vuoto dell’azione diplomatica è sempre riempito dal sinistro linguaggio delle armi. E del terrore. Una cosa appare certa: l’attuale status quo non regge più. Non regge sul fronte israelo-palestinese, e ancor più su quello iraniano. Fuori dai sorrisi, dalle strete di mani, dagli abbracci e dalle frasi roboanti, spenti i riflettori, a restare viva è la consapevolezza che la posta in gioco, nei prossimi mesi, è di quelle che fanno tremare le vene dei polsi: evitare la guerra. E per farlo, occorre un di più di politica. Aprire a Damasco per dare un segnale di speranza a Gerusalemme (un accordo con Israele «forse entro sei mesi» non è da escludere, dichiara Assad). E per parlare a quella componente del regime degli ayatollah che pur di evitare la guerra, e salvare la nazione, potrebbe essere disposta anche a rimettere in discussione alcuni capisaldi della rivoluzione khomeinista. Dimostrando che è possibile ritornare nel gioco, politico-diplomatico, del Grande Medio Oriente. Come sta accadendo per la Siria di Bashar el-Assad. La diplomazia internazionale è costretta a muoversi. Costretta, perché le notizie che giungono da quella tormentata, e nevralgica, area del mondo dicono che uno strike aereo israeliano contro l’Iran è qualcosa di più di una opzione: è una prospettiva ravvicinata. La pace non sarà più vicina, di certo non può più attendere, o restare confinata a conferenze tanto pubblicizzate quanto prive di concreti sviluppi sul campo. E la pace, più che da Ramallah, passa oggi per Gerusalemme, Damasco, Teheran. E da questa triangolazione è possibile far discendere, una soluzione della stesa vicenda israelo-palestinese. Per questo ha senso tirar dentro il giovane Assad. L’esito positivo è tutt’altro che scontato, ma vale la pena provarci. È quello che aveva cercato di fare il governo di centrosinistra italiano. Il governo di Romano Prodi. Ieri, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha voluto vicino a sé, nel giorno della festa nazionale, Bashar el-Assad. Poco distante, nella tribuna d’onore, c’era Silvio Berlusconi. Nessuno ha menato scandalo. Così non era stato quando Romano Prodi, e l’allora ministro degli Esteri Massimo D’Alema, avevano sollecitato un impegno siriano nella difficile stabilizzazione del Libano dopo la devastante guerra dei 34 giorni di due estati fa. Allora, fu un fuoco di fila di critiche, di invettive da parte dell’opposizione di centrodestra, ora al governo, contro un «premier irresponsabile» e un ministro degli Esteri «amico degli Hezbollah». Ora a Beirut gli Hezbollah sono parte decisiva del nuovo governo libanese. Ora chi dialoga con Assad non è considerato un «irresponsabile» ma un politico accordo, lungimirante. E chi prova a farsi da tramite, come Sarkozy o il premier turco Erdogan, viene considerato un amico di Israele. Va ricordato. Non per spirito di polemica. Ma perché la politica estera non dovrebbe mai essere piegata alla miseria della polemica interna. Pubblicato il: 15.07.08 Modificato il: 15.07.08 alle ore 8.42 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Medio Oriente, la sfida delle prime donne Inserito da: Admin - Luglio 16, 2008, 09:57:32 pm Medio Oriente, la sfida delle prime donne
Umberto De Giovannangeli Belle. Eleganti. Moderne. Buoni studi e ottime letture. C’è chi ha servito nel più agguerrito servizio segreto del mondo (il Mossad), Chi ha lavorato con successo presso la sede londinese della Deutsche Bank e successivamente alla J.P.Morgan. Chi ha inaugurato il suo sito web visitato in soli due giorni da oltre 150mila utenti. Asma. Rania. Tzipi. La «rivoluzione rosa» in Medio Oriente. Hanno conquistato le copertine dei settimanali spesso oscurando mariti re, presidenti e (Tzipi) premi ministri che si vorrebbe spodestare. I tre volti di un Medio Oriente che guarda al futuro: sono loro le «ambasciatrici» del cambiamento. ASMA al-ASSAD. La moglie «inglese» per il rais di Damasco, Bashar el-Assad. Colta, indipendente, nata in Gran Bretagna, figlia di un noto cardiologo siriano, Fawaz Akhras, Asma e Bashar si sono conosciuti a Londra, quando il giovane delfino di Hafez el Assad studiava da oculista. La loro, racconta, è stata una travolgente love story, un vero colpo di fulmine: con Bashar è bastato uno sguardo: «Ho saputo che mi sposava il giorno prima delle nozze». Hanno una comune passione: le nuove tecnologie. Asma è laureata in informatica e affascinata dalla new economy. Laureata in informatica e letteratura francese, la first lady siriana (33 anni l’11 agosto), ha lavorato nel 1997 presso la sede londinese della Deutsche Bank come analista nel ramo vendita ed acquisto degli «hudge fund», occupandosi dei clienti nell’Estremo oriente e in Europa. È poi passata, un anno dopo,, alla J.P. Morgan dove è rimasta per tre anni, fino al matrimonio. Madre di tre bambini, Asma interpreta dinamicamente il ruolo di first lady: ha dato vita a progetti per lo sviluppo economico della Siria, tra cui la prima Ong siriana per lo sviluppo rurale, il Fund for Integration Rural Development, ed oggi continua ad occuparsi anche di educazione femminile nel mondo arabo e del ruolo delle donne imprenditrici, della diffusione dei libri per bambini, dello sviluppo dell’informatica. La sua attività a sostegno di eventi culturali, ed in particolare storici ed artistici, le è valso il conferimento, da parte dell’Università La Sapienza di Roma, di una laurea honoris causa in archeologia. RANIA di GIORDANIA. L’identità cosmopolita è l’interfaccia della sua passione per Internet. «Sono araba dalla testa ai piedi, ma parlo anche un linguaggio internazionale...l’incontro con culture e tradizioni diverse mi ha dato molta forza e una certezza: non considero più nessuno come straniero». Bella ed elegante. Nuova icona dello stile e grandissima fans della moda italiana. Rania (38 anni il 31 agosto), la dolce regina (dal 1999) di Giordania, è già considerata la Jacqueline Kennedy del Terzo Millennio. Con la first lady siriana condivide la passione per l’informatica. Chi la conosce da vicino, parla di lei come una persona intelligente, ambiziosa, determinata. Uno spirito libero, fiero e indipendente. Una donna dal fascino indiscutibile: è stata considerata, nel 2005, dal magazine inglese Harpers and Queens come la terza donna più bella del mondo. Moderna come poche, Rania parla ora attraverso il web. Nei primi due giorni on line, il suo video è stato visto da oltre 150mila utenti che hanno postato ben 500 commenti. Rania, che gestiva già dal 2005 il suo sito www.queenrania.jo, ha spopolato con il suo videomessaggio su Youtube. In esso si rivolge prevalentemente al popolo occidentale a cui dice: «In un mondo in cui è così facile essere connessi, restiamo ancora così disconnessi...». Le conversazioni via e-mail sono il naturale proseguimento dei colloqui diretti con al gente che sono nell’agenda quotidiana della regina. Il suo sogno, ha più volte affermato, è aiutare la pace e la prosperità del Medio Oriente dotando di computer ogni casa, ogni scuola, ogni luogo pubblico in Giordania e nel resto del mondo arabo: «Con i computer, Internet e le opportunità offerte dall’informazione multimediale non ci si può più isolare. La pace non può limitarsi alle scelte e al coraggio dei leader. In Medio Oriente non c’è ancora il pieno coinvolgimento della gente. Ma quando la pace rientra nei tuoi interessi, esaltati dalla cooperazione, il rischio di conflitti si allontana, fino ad annullarsi». Sulla sua scrivania, nella semplice palazzina a due piani dove abitava con Abdallah ancor prima di ascendere al trono, situata sulla vetta della collina di Baraka, il computer della regina è sempre acceso. Per Rania il computer è più che uno strumento di potere, è la speranza di una vita migliore. Migliore per il popolo di cui è divenuta regina, e per il popolo di cui, Rania, si sente fiera di essere parte: il popolo palestinese. TZIPI LIVNI. È la seconda donna nella storia di Israele ad aver guidato la diplomazia dello Stato ebraico. La prima fu Golda Meir. Chi la conosce, parla di lei, Tzipi (Tzipora all’anagrafe) Livni, nei termini in cui definisce la sua diplomazia: efficace, intelligente, a tratti un po’ fredda: un mix tra aggressività e dolcezza. Oggi, Tzipi Livni è considerata il secondo politico più potente di Israele: nelle primarie di Kadima, previste per la metà di settembre, è l’avversaria più ostica per il premier Ehud Olmert. Sposata con due figli, avvocata di successo, Tzipi (50 anni) nasce da una famiglia dell’aristocrazia della destra storica israeliana: suo padre, Eitan Livni, è stato un combattente dell’indipendenza israeliana, militante nell’Irgun durante gli anni del mandato britannico sulla Palestina. Eletta per la prima volta alla Knesset nel 2001 con Likud (la destra israeliana) prima di divenire titolare degli Esteri, ha ricoperto, tra le altre, le cariche di ministra dell’Immigrazione e, successivamente, della Giustizia. Nel 2007 la rivista Time l’ha inserita fra le 100 persone che stanno trasformando il mondo. Rispetto ad Asma e Rania, Tzipi ha più stile che fascino, lo stile - raccontano i suoi collaboratori - di chi è stato luogotenente di Tzahal e servito per quattro anni nelle file del Mossad, il servizio segreto israeliano. Sulla lapide del padre è incisa una mappa d’Israele che include le due rive del Giordano, ma oggi, Tzipi è decisa sostenitrice di una «pace nella sicurezza», fondata sul principio «due popoli, due Stati». Quanto alla Siria, è stata lei, ben prima di Olmert a sostenere la necessità di dar credito alle aperture di Assad. Pubblicato il: 16.07.08 Modificato il: 16.07.08 alle ore 8.26 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Yehoshua: Obama può essere un presidente di pace Inserito da: Admin - Luglio 28, 2008, 11:14:06 pm Yehoshua: Obama può essere un presidente di pace
Umberto De Giovannangeli Un leader in ascesa, Barack Obama. Un Paese, Israele, in grave deficit di leadership politica; fenomeno, quest’ultimo, che investe anche il campo palestinese. E sullo sfondo, uno sfondo sempre più inquietante, la minaccia iraniana. L’Unità ne parla con il più grande scrittore israeliano contemporaneo. Abraham Bet Yehoshua. «Nel suo discorso di Berlino - riflette Yehoshua - Obama ha parlato di una sfida comune: abbattere i Muri di odio e di incomprensione tra Stati, popoli, razze e religioni. Una sfida affascinante, estremamente impegnativa. Una sfida che deve partire dal “Muro”, non solo fisico, che separa israeliani e palestinesi. E quel “Muro” si può abbattere solo realizzando una pace nella sicurezza per due popoli e due Stati. Una pace che non può più attendere». «Al mondo serve un grande presidente». Così Shimon Peres si è rivolto a Barack Obama durante la recente visita in Israele del candidato democratico alla Casa Bianca. Obama ha i requisiti giusti per esserlo, un grande presidente? «Non sono assolutamente in grado di dire se Barack Obama, qualora venga eletto, sarà un grande presidente o solo un buon presidente o perfino un pessimo presidente. Quello che posso dire è che la scelta di un leader non è solo legata alle sue qualità carismatiche, ma è il risultato di alcuni elementi: innanzi tutto il carattere del popolo che lo sceglie e che egli deve guidare; le necessità che è chiamato a risolvere; le circostanze che lo portano a spiccare proprio in quel momento. Nel caso di Obama non c’è dubbio che siamo di fronte ad un fenomeno che è frutto di delusione e reazione degli americani verso l’operato di Bush e dei circoli che lo hanno influenzato e dei cui interessi egli si è sempre preoccupato. Una protesta portata avanti sia su un piano operativo che ideologico. Le qualità di un grande leader? Saper prendere decisioni riuscendo allo stesso tempo a non distaccarsi dai processi storici, sociologici, spirituali e culturali che avvengono nel proprio popolo. Questo per quanto riguarda la gestione interna. Ma nel caso del presidente degli Usa, la questione è molto più ampia. Oggi è molto comune parlare di mondo globale. Ed è vero che anche molti dei problemi che magari potrebbero anche essere definibili geograficamente come locali o regionali, superano la loro valenza nazionale e assumono una importanza internazionale. A questo punto anche la ricerca della soluzione diventa affare non più dei leader locali - che vanno rafforzati e spronati - ma dello sforzo e dell’aiuto portato da capi di varie nazioni. È il caso del conflitto mediorientale che, a mio parere, potrà essere risolto solo con l’aiuto e l’influenza di leader delle nazioni più influenti, prima fra tutte gli Usa. Obama ha espresso in questo tutta la sua disponibilità a dare il contributo, e per il momento non possiamo che prenderne atto sperando che questa disponibilità si trasformi in atti concreti, da Presidente della pace fra israeliani e palestinesi». Un Paese in trincea, come Israele, può permettersi una leadership politica mediocre? «Purtroppo dovrà farlo fino a che non cambieranno le condizioni che sono alla fonte di questa situazione. Di fronte a scelte di particolare importanza esistono anche strumenti come il referendum, anche se personalmente non lo incoraggerei molto. Comunque da noi, lo spazio per un fenomeno del tipo di Obama è molto ristretto, quasi inesistente, soprattutto per la pochissima apertura che il sistema politico lascia a personaggi che vengono da mondi che siano diversi da quello politico-partitico. La guida del Paese ruota sempre intorno a una rosa molto ristretta di nomi: Olmert è nella politica da decenni, Nethanyahu è già stato primo ministro, lo stesso per Ehud Barak e così via per tutti gli altri che sostanzialmente si scambiano le loro poltrone ministeriali al cambio di ogni governo, con pochissime nuove entrate. Ma anche quando i leader arrivano alle loro posizioni di potere, la configurazione politica di Israele, da decenni non produce partiti di potere ma al massimo partiti che possono guidare coalizioni così ristrette da non permettere respiro politico. Sono passati i tempi in cui Ben Gurion, Levi Eshkol, Golda Meir guidavano governi con ampie maggioranze e imprimevano al Paese svolte drammatiche. All’origine di questo ci sono due fattori: il primo è che fin quando non verrà risolta la questione israelo-palestinese che divide il popolo e i suoi rappresentanti alla Knesset, non potremo avere una situazione differente da quella di oggi. Fino a quando la sorte di un governo può essere legata - non a una concessione, ma anche solo a una dichiarazione di voler fare una concessione - non esistono le condizioni per un leader forte. Il secondo fattore è che Israele è un Paese e una democrazia ancora giovane e assolutamente particolare. Il popolo che lo compone e che sta ancora oggi contribuendo alla costruzione del Paese, è da soli 60 anni una democrazia, dopo essere stato per 2000 anni abituato a vivere nella diaspora, sotto leggi di altri popoli. Per tutto questo lunghissimo periodo, si doveva comportare in base a leggi e a decisioni politiche in cui esso giocava un ruolo totalmente passivo. Dalla nascita dello Stato d’Israele l’Ebreo, insieme alla costruzione del Paese, deve costruire una parte della sua personalità come cittadino e - dopo 2000 anni - deve decidere della sua sorte e accettare che siano altri Ebrei a decidere tanto del suo quotidiano quanto del suo futuro. L’"Ebreo totale" è ancora in fase di costituzione». Un problema di leadership è presente anche tra i palestinesi. Chi ha vinto le elezioni, Hamas, non è considerato da Israele un interlocutore con cui dialogare, mentre chi si ritiene "affidabile", il presidente Abu Mazen, non gode di un grande seguito popolare. «Nel loro caso il problema è ancora più profondo. Si tratta di convincere il popolo palestinese che una certa via è migliore di un’altra. Questo non può essere fatto con l’imposizione o la violenza, ma con un’opera di convincimento che deve essere frutto di una collaborazione internazionale. Quando parlavo prima del coinvolgimento dei leader delle grandi nazioni nella risoluzione di problemi che pur essendo regionali hanno implicazioni globali, pensavo soprattutto al nostro conflitto. Tutte le parti devono far confluire i loro sforzi nel far rendere conto ai palestinesi che la via del dialogo non solo è l’unica ma è anche la migliore soluzione al conflitto con Israele. Aiutarli ad avere una vita migliore, uno sviluppo economico, far capire loro che la loro speranza per il futuro è nella vita e non nel martirio. Oggi il problema non è quasi più l’accordo - i cui termini sono più o meno chiari alle due parti - ma spingere i due popoli, soprattutto quello palestinese, ad accettarlo». Tra le emergenze dell’oggi, la più urgente è senz’altro quella dell’Iran. C’è chi, dentro e fuori Israele, perora l’opzione militare. Israele può avventurarsi in un’operazione del genere con una leadership traballante? «Senza entrare nella questione della necessità o meno di un’azione militare, posso dire che se è vero che situazioni di drammatica emergenza e minaccia esterna impongono alla leadership decisioni difficili, è anche vero che uniscono la popolazione e creano generalmente un consenso che mette a tacere le divisioni e la corrosività delle critiche. Quanto più è grave la situazione, tanto più i leader godono dell’appoggio del popolo. Così è sempre stato in tutte le situazioni vitali di Israele: prima si combatte, si supera il pericolo e dopo - solo dopo - si mettono in discussione le decisioni prese. In ogni caso, qui la situazione è differente perché il pericolo iraniano non riguarda solo Israele ma tutto il mondo e mi aspetto che sia la leadership mondiale ad affrontare e risolvere il problema». Pubblicato il: 28.07.08 Modificato il: 28.07.08 alle ore 8.47 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Haniyeh: il soldato Shalit è vivo, Israele tratti ... Inserito da: Admin - Luglio 29, 2008, 06:35:24 pm Haniyeh: il soldato Shalit è vivo, Israele tratti con noi di Hamas
Umberto De Giovannangeli «Gli autori degli attacchi criminali dei giorni scorsi non sfuggiranno alla giustizia: tutti coloro che vogliono versare sangue palestinese subiranno processi esemplari. Non permetteremo che il caos torni a regnare a Gaza». A parlare, in questa intervista esclusiva a l’Unità, è il premier di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh. «Il presidente Abbas (Abu Mazen) - dice il leader di Hamas - deve liberarsi una volta per tutte di quei personaggi che tramano contro la resistenza in combutta con il nemico sionista». Il riferimento è all’ex uomo forte di Al Fatah a Gaza, Mohammed Dahlan. A l’Unità, Haniyeh dice che Hamas è disposta ad accettare il dispiegamento di una forza araba nella Striscia di Gaza integrata da elementi scelti dei «nostri servizi di sicurezza». Haniyeh parla anche delle trattative per la liberazione di Gilad Shalit, il giovane caporale israeliano rapito due anni fa ai confini tra la Striscia e Israele: «A quanto ci risulta - afferma il leader di Hamas - il soldato israeliano è in vita. Israele ha in mano da tempo la lista dei prigionieri palestinesi di cui si chiede la liberazione in cambio di Shalit. Il meccanismo è lo stesso dello scambio avvenuto tra Israele e Hezbollah». E nell’elenco di prigionieri palestinesi da liberare c’è anche il nome di Marwan Barghuti, segretario generale di Al Fatah in Cisgiordania. Haniyeh lo conferma a l’Unità: «A differenza di altri - sottolinea il premier di Hamas - noi non facciamo differenze tra prigioniero e prigioniero. Barghuti è un dirigente della resistenza e per questo merita di tornare in libertà». Attentati, arresti di massa a Gaza e in Cisgiordania. Nei Territori torna l’incubo della guerra civile? «L’attentato dei giorni scorsi a Gaza è stato un atto criminale ordito dai nemici della resistenza. Costoro puntano a ricreare il caos nella Striscia, ma non raggiungeranno il loro obiettivo. Chiunque si macchia di sangue palestinese subirà processi esemplari». Il presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) nega un coinvolgimenti di Al Fatah nell’attentato sulla spiaggia di Gaza e accusa Hamas di averlo preso a pretesto per operare arresti di massa di dirigenti e militanti di Fatah. «Il presidente Abbas sa bene che a Gaza agiscono ancora personaggi che avevano tentato, senza riuscirci, di ribaltare con le armi i risultati delle elezioni che avevano sancito la vittoria di Hamas. Costoro non demordono e continuano la loro opera di destabilizzazione. Vogliono far piombare la Striscia nel caos Adesso dicono che gli arresti sono la seconda fase di un golpe: stiamo solo cercando gli assassini». La parola dialogo è definitivamente bandita tra Hamas e Al Fatah? «La nostra disponibilità a dar vita a un nuovo governo di unione nazionale non è venuta meno, ma perché ciò possa accadere prima il presidente Abbas deve far pulizia all’interno di Fatah». Cosa significa "fare pulizia"? «In Fatah è aperto uno scontro tra coloro che sono disposti al dialogo con Hamas e una fazione che punta sulla resa dei conti armata. Il presidente Abbas rischia di rimanere ostaggio di quest’ultimi. La nostra posizione non è mutata: rispettiamo Abu Mazen e lo consideriamo il presidente dei palestinesi, allo stesso tempo lui deve rispettare la volontà popolare che con le elezioni del 2006 ha dato la maggioranza ad Hamas». Nei giorni scorsi ci sono stati scontri a fuoco anche tra le forze di sicurezza di Hamas e miliziani dell’"Esercito islamico" di ispirazione qaedista. Al Qaeda vuole assumere la leadership della resistenza armata palestinese? «Nessuno può impartire lezioni al popolo palestinese su come resistere all’occupazione sionista, né accetteremo mai che la causa palestinese venga strumentalizzata per altri fini». Cosa ne è stato del caporale Gilad Shalit? I suoi familiari disperano di poterlo riabbracciare in vita. «Il soldato israeliano (rapito due anni fa da un commando dell’intifada, ndr.) è ancora in vita. Israele ha in mano da tempo la lista di prigionieri palestinesi da liberare in cambio del suo soldato. Lo hanno fatto con Hezbollah, è quella la strada da seguire». Può confermare che nell’elenco consegnato al governo israeliano c’è anche il nome di Marwan Barghuti? «Sì, c’è anche il suo nome. Hamas ha sempre lavorato per costruire un fronte comune di resistenza tra tutte le componenti palestinesi. Marwan Barghuti è un dirigente di Al Fatah ma prima di tutto è un dirigente della resistenza. Ha combattuto l’occupazione israeliana, per questo è stato imprigionato. E per questo ne chiediamo la liberazione». Ma le autorità israeliane hanno sempre negato la libertà a Barghuti come agli altri detenuti palestinesi con "sangue sulle mani". «Questo principio non è valso nello scambio con Hezbollah (Israele in cambio della restituzione delle salme di suoi soldati ha liberato Samir Kuntar, un miliziano libanese condannato al carcere a vita per aver partecipato ad un’azione terroristica in cui fu sterminata una famiglia israeliana, tra cui una bimba di 4 anni, ndr.). Lo ripeto: Israele dovrà pagare il prezzo per la liberazione di Shalit. Il prezzo della messa in libertà di uomini della resistenza palestinese». Il dialogo riparte dal "fronte del carcere"? «Può ripartire dalla convinzione, non solo nostra, che il vero problema del popolo palestinese è l’occupazione israeliana. E tutto ciò che può rafforzare la resistenza è benvisto da Hamas». Il cessate il fuoco concordato con Israele reggerà ancora a Gaza? «Abbiamo dimostrato di saper rispettare i patti. Sta a Israele fare altrettanto». L’iniziativa araba ha portato alla formazione di un governo di unità nazionale in Libano… «È un’esperienza da ripetere anche in Palestina. Sì il nuovo "modello libanese" potrebbe funzionare anche a Gaza». (ha collaborato Osama Hamdan) Pubblicato il: 29.07.08 Modificato il: 29.07.08 alle ore 8.17 © l'Unità. Titolo: Fausto Pocar: «Un monito per tutti i potenti. Con un processo rapido e giusto» Inserito da: Admin - Luglio 31, 2008, 03:04:54 pm Fausto Pocar: «Un monito per tutti i potenti. Con un processo rapido e giusto»
Umberto De Giovannangeli «Oggi (ieri per chi legge, ndr.) è un giorno importante, un giorno di festa per la giustizia internazionale. L’estradizione all’Aja di Radovan Karadzic è un atto di giustizia e non di vendetta. Ed è anche un monito per tutti coloro che nel mondo, fossero anche capi di Stato o alte personalità di governo, si sono macchiati di crimini contro l’umanità: alla fine, la "campana" della giustizia suona per tutti». A sostenerlo è il professor Fausto Pocar, presidente del Tribunale penale internazionale (Tpi) per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, davanti al quale comparirà l’imputato Radovan Karadzic. «Per le vittime dei crimini di cui è imputato Karadzic - rimarca il professor Pocar - sia sottoposto a giudizio, rappresenta un motivo di riparazione anche se questa riparazione avviene a distanza di anni». «Il fatto che la Serbia - rimarca il presidente del Tpi - abbia proceduto alla consegna di Karadzic, rappresenta un segno tangibile della cooperazione da parte di Belgrado, anche se ciò è avvenuto molto dopo l’atto di accusa che risale al 1996». Ora l’attenzione su altro ricercato «eccellente», tristemente tale, del Tpi; Ratko Mladic. «Mi auguro - afferma in proposito Fausto Pocar - che Mladic venga consegnato presto, e come lui anche l’altro ricercato dal Tpi, Goran Hadzic (ex presidente della Repubblica serba auto-proclamata di Krajina, ndr.). Spero che vengano presto all’Aja per permettere al Tribunale di concludere il più rapidamente possibile la sua missione». Professor Pocar cosa rappresenta per il Tpi la consegna da parte delle autorità serbe di Radovan Karadzic? «Io ho sempre sostenuto davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che il Tribunale che ho l’onore di presiedere non poteva chiudere fino a quando tutti gli imputati, in particolare quelli accusati dei crimini più gravi e ai più alti livelli nella gerarchia della Repubblica Serska di Bosnia, non fossero finiti davanti al Tribunale dell’Aja e giudicati. Con l’arresto e l’estradizione di Karadzic siamo sulla buona strada». Qual è il valore della consegna di Karadzic al Tpi? «Il Tribunale si regge, come del resto tutti i Tribunali internazionale, sulla cooperazione degli Stati. Non vi è dubbio che la consegna di Karadzic all’Aja sia una manifestazione di questa cooperazione, imposta dal Consiglio di Sicurezza nella risoluzione che ha adottato lo strumento del Tpi ma che gli Stati spesso hanno difficoltà a mettere in pratica. Il fatto che la Serbia abbia proceduto alla consegna di Karadzic rappresenta un segno tangibile di cooperazione da parte di Belgrado; un segno che va riconosciuto e apprezzato, sebbene ciò si avvenuto molto tempo dopo l’atto di accusa che risale al 1996». Ed ora è la volta di Ratko Mladic? «Io mi auguro che Mladic venga consegnato presto. Sono ancora due - Mladic e Hadzic - i ricercati ancora a piede libero. Spero che vengano presto all’Aja per permettere al Tribunale di concludere il più rapidamente possibile la sua missione». In una recente intervista a l’Unità, il professor Antonio Cassese, che è stato per sei anni presidente del Tpi, pensando al processo a cui sarà sottoposto Karadzic, ha auspicato che non si ripetano gli errori commessi con Milosevic. «Certamente la vicenda Milosevic ha portato a un processo troppo lungo, mentre è importante che i processi davanti al Tpi siano condotti nel pieno rispetto delle garanzie processuali ma anche rapidamente, perché la durata non eccessiva del processo è una componente fondamentale del principio dell’equo processo, come peraltro ha più volte sottolineato anche la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo». C’è chi prevede che Karadzic utilizzerà l’aula del tribunale come una tribuna politica. «Non mi sento di fare previsioni di questo tipo. Al momento, sembra solo che Karadzic abbia manifestato l’intenzione di difendersi personalmente». Il processo a cui sarà sottoposto Radovan Karadzic riporterà alla memoria e all’attenzione internazionale alcune delle pagine più terribili della guerra nella ex Jugoslavia. Questo processo cosa può rappresentare per quanti portano ancora i segni, nel fisico e soprattutto nella mente, di quelle vicende così drammatiche e ripugnanti? «Per le vittime credo che il fatto di aver sottoposto a giudizio una delle persone di cui si allega la responsabilità per i crimini- - crimini di guerra e contro l’umanità - debba essere un motivo di riparazione anche se questa riparazione avviene a distanza di anni». Guardando oltre al Tpi. Questo successo può rafforzare gli organismi, non solo giudiziari, internazionali? «Il credo di sì. Ritengo che il fatto che questi atti d’accusa, sia pure dopo un certo tempo, portino alla cattura degli accusati, ciò rafforzi la posizione delle istituzioni internazionali deputate ad assicurare che l’impunibilità non sia più un principio che protegge coloro che commettono crimini internazionali, indipendentemente dal fatto che si tratti di capi di Stato o di alte figure nel governo statale. Il messaggio è chiaro: chi si è macchiato di crimini di guerra, contro l’umanità, anche se costui ricopre importante incarichi di Stato o di governo, non può ritenersi imperseguibile dalla giustizia internazionale». Professor Pocar, quella di oggi (ieri,ndr.) può essere considerata dal Diritto internazionale come una tappa importante, miliare, per la sua concretizzazione? «Il discorso investe la vicenda Karadzic ma riguarda un bilancio complessivo dell’intera attività fin qui svolta dal Tribunale dell’Aja. Il fatto che il Tpi - che è, è bene ricordarlo, il primo del genere nella storia ad essere istituito dalla comunità internazionale intera - abbia mostrato e stia mostrando di essere in grado di far funzionare effettivamente la giustizia penale internazionale, costituisce uno sviluppo del Diritto internazionale senza precedenti e di importanza davvero significativa per la condotta degli Stati e dei loro governi nelle relazioni internazionali e all’interno degli stessi Stati». Pubblicato il: 31.07.08 Modificato il: 31.07.08 alle ore 10.13 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI Rosa Villecco Calipari: La destra sbaglia, in Libano... Inserito da: Admin - Agosto 03, 2008, 12:26:44 pm Rosa Villecco Calipari: «La destra sbaglia, in Libano stiamo lavorando bene»
Umberto De Giovannangeli «Mai come in questo momento la missione Unifil nel Sud Libano ha bisogno di un forte sostegno della comunità internazionale e dell’Italia in particolare. Perché non va mai dimenticato che nella missione Unifil sono impegnati 2700 nostri soldati, percepiti positivamente dalla popolazione locale oltre che dalle autorità libanesi». Lo dice Rosa Villecco Calipari, capogruppo Pd alla Commissione difesa della Camera, reduce da una missione parlamentare nel Sud Libano. Lei è reduce da una missione parlamentare in Sud Libano. Quale impressione ha ricavato? «La più forte è che ci troviamo di fronte ad una vera missione di pace. A testimoniarlo è anche il doppio ruolo ricoperto dal generale Graziano: comandante dell’intera missione militare Unifil e al tempo stesso responsabile di tutta la parte che compete, in quella nevralgica area del Libano, la cooperazione e la ricostruzione civile. Questa è la vera, positiva, atipicità di questa missione rispetto alle altre. La sua positività è anche nel fatto che la sovranità del territorio è pienamente nelle mani del governo libanese. Non c’è sottrazione di sovranità, ma c’è un sostegno importante alle forze armate libanesi, come peraltro previsto dalla stessa risoluzione 1701 delle Nazioni Unite». Lei ha fatto riferimento al sostegno sul campo operato dal contingente Unifil nel quale l’Italia ha il comando e la presenza quantitativa più rilevante. «È un sostegno che si manifesta in più direzioni. Tutte estremamente importanti e impegnative. I nostri soldati, sotto egida Onu, sono impegnati in compiti specifici che contemplano anche l’uso della forza ma esso è legato alla protezione dei civili e del personale delle organizzazioni non governative. E questo avviene nel rispetto della legislazione nazionale libanese e di quella internazionale». Ma c’è chi sostiene, dentro e fuori in Italia, in particolare Israele, che i nostri soldati e il comando del generale Graziano sarebbero troppo "compiacenti" nei confronti dei miliziani di Hezbollah. «Non mi sembra affatto che le cose stiano così. Nel corso della nostra missione, siamo stati nella cosiddetta "Linea blu" e siamo arrivati fino a tre chilometri dal confine con Israele. Ebbene, abbiamo notato l’equilibrio e la grande capacità operativa dei nostri militari, che, anche questo è bene ricordarlo, hanno subito attacchi diretti, l’ultimo quello del gennaio 2008 in cui rimasero feriti due dei nostri soldati. È evidente, e di questo siamo stati informati nei nostri incontri, che c’è una forte reattività da parte israeliana che si manifesta con sorvoli quotidiani dello spazio aereo libanese che hanno trovato picchi notevoli a partire dal marzo 2008. Resta il fatto che i nostri militari si sono sempre mossi nell’ambito del mandato definito dalla risoluzione 1701, mettendo in questo una capacità, professionale e umana, che ci fa solo onore». Può farci un esempio? «Mi ha molto colpito la testimonianze delle nostre 65 soldate impegnate nel contingente. Ragazze straordinarie che ci hanno raccontato di come siano riuscite a stabilire un rapporto positivo non solo con donne cristiane che vivono in alcuni villaggi del Sud Libano ma anche con tante donne musulmane. All’inizio erano un po’ diffidenti ma dopo hanno preteso che prima dei medici ad assisterle fossero le nostre soldate. E poi c’è un altro fronte su cui i nostri soldati sono impegnati con risultati notevoli: la bonifica del territorio dalle cluster bomb, lascito terribile della guerra dell’estate 2006. Ad oggi, i nostri soldati hanno bonificato 34,5 milioni di metri quadri di territorio, e se è diminuito considerevolmente il numero dei civili, in maggior parte bambini, feriti o uccisi dalle cluster bomb, ciò è dovuto in buona parte all’impegno dei militari italiani». Ma in Italia, nelle fila del centrodestra, c’è chi adombra una modifica, in senso "combattente" delle regole d’ingaggio se non addirittura di una diminuzione dell’impegno italiano in Unifil. «È una posizione sbagliata e irresponsabile. Attualmente la situazione è sotto il controllo di Unifil ma permangono tutta una serie di problematiche inquietanti relative ancora alla presenza di armi illegali e attività ostili nell’area di responsabilità Unifil, come all’attività dell’ala militare di Hezbollah che è "sotterranea" ma in grado di alzare rapidamente il suo livello di minaccia. Altro che disimpegno. Mai come in questo momento la comunità internazionale, e in essa l’Italia per il ruolo di stabilizzazione che sta svolgendo, devono sostenere la missione Unifil. Una vera missione di pace». Pubblicato il: 02.08.08 Modificato il: 02.08.08 alle ore 12.53 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - D’Alema: «Praga ’68 così diventammo antisovietici» Inserito da: Admin - Agosto 15, 2008, 11:26:30 pm D’Alema: «Praga ’68 così diventammo antisovietici»
Umberto De Giovannangeli Un viaggio nel tempo. Una riflessione a cavallo della testimonianza personale di chi visse in presa diretta quelle drammatiche giornate di quarant’anni fa e le riflessioni maturate nel corso del tempo da quel ragazzo allora diciottenne divenuto un leader politico e di governo: Praga ’68 nelle considerazioni di Massimo D’Alema. Considerazioni che partono dall’oggi e dal conflitto che, quarant’anni dopo, vede ancora impegnati i carri armati russi. Quarant’anni dopo l’agosto di fuoco a Praga, di nuovo un conflitto armato, quello con la Georgia, vede protagonista la Russia. Qual è la tua valutazione di una crisi che non può dirsi ancora conclusa? «Innanzitutto speriamo che l’iniziativa politica e diplomatica riesca effettivamente a fermare la violenza e ad evitare un’escalation del conflitto. È evidente che i conflitti di oggi hanno una natura fondamentalmente diversa. Allora fu determinante l’elemento ideologico, e cioè la volontà di stroncare sul nascere un esperimento di socialismo democratico che avrebbe potuto destabilizzare l’impero sovietico e i Paesi dell’Est. Oggi è la difesa di una sfera d’influenza russa in aree geograficamente ed economicamente strategiche, in particolare nell’Asia centrale. E rimane una forte carica nazionalista che è anche il lascito di una lunga stagione imperiale. Naturalmente non si può accettare una politica di ingerenza e l’uso indiscriminato della forza da parte della Russia. L’Occidente è stato, in realtà, sostanzialmente passivo anche di fronte alla tragedia della Cecenia. Tuttavia anche il nazionalismo georgiano non può essere sostenuto in modo acritico. È stato un errore dare la sensazione di una politica di allargamento della Nato che portava con sé forzature come quella del sistema antimissile che hanno accentuato la sensazione di un accerchiamento della Russia, rafforzando le posizioni più militariste e antioccidentali al suo interno. In una regione che è un mosaico di nazionalità e luogo di potenziali (e in parte già in atto) terribili conflitti religiosi, l’unica politica ragionevole è quella del dialogo e del rispetto di tutte le minoranze, sia da parte deLla Russia che dei nuovi Stati ex sovietici». Gli sforzi diplomatici in atto per dare soluzione alla crisi tra Mosca e Tbilisi vedono l’Italia in una posizione defilata. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, in vacanza alle Maldive, si difende sostenendo che durante la guerra in Libano, due estati fa, l’allora premier Romano Prodi anche lui era in ferie... «Con buona pace del ministro Frattini, non mi pare che il governo Berlusconi possa assumere un ruolo di primo piano né una qualche iniziativa politico-diplomatica paragonabile a quella che l’Italia assunse durante la crisi israelo-libanese. Allora vi fu certamente anche una situazione di difficoltà in cui si trovava la Francia e una presidenza dell’Unione Europea affidata alla Finlandia, abbastanza estranea alla vicenda mediterranea. Giocò positivamente anche la credibilità che il centrosinistra aveva non solo nei confronti di Israele ma anche verso il mondo arabo. Per tornare alle vicende in questione, non si possono dimenticare le parole con cui Berlusconi - durante il semestre di presidenza italiana dell’Ue - giustificò senza alcuna remora la repressione russa in Cecenia. Suscitando l’indignazione di tanta parte dell’opinione pubblica europea... In ogni caso voglio sottolineare il ruolo positivo che il presidente Sarkozy e il ministro degli Esteri Kouchner stanno svolgendo per conto dell’Europa». Torniamo a quei giorni di quarant’anni fa. Quando i carri armati sovietici e del Patto di Varsavia entrarono a Praga tu eri lì... «Era il 1968, ero un ragazzo, e, dopo aver concluso una sessione d’esami particolarmente faticosa, perché veniva dopo una stagione di lotte (era l’anno accademico 67-68), andai a Praga attratto dal mito di quello che lì stava accadendo. C’era per la prima volta nel mondo il socialismo dal volto umano: ricordo la gente che discuteva nelle strade, partecipe di uno dei più grandi eventi di quell’anno straordinario. Tempo dopo abbiamo ragionato, riflettuto sul significato che aveva avuto quella rottura storica, la sconfitta della speranza di fare vivere il socialismo diversamente dal modello sovietico. Ma in quei momenti così emozionanti e drammatici, a prevalere fu il dolore, lo shock. Quando tornai in Italia, ricordo che rimasi alcuni giorni senza parlare per quello che era accaduto, per quella tragedia. Praga fu la ragione per la quale la mia generazione divenne "antisovietica", per quanto lo si potesse essere come membri di un Partito comunista. Certamente maturò una frattura incolmabile nei confronti dell’Urss». Cosa ha rappresentato per quella generazione la fine traumatica della Primavera di Praga? «Sicuramente fu un discrimine epocale. Ricordo che a fine settembre ’68 andai, stavolta come membro di una delegazione della Fgci guidata da Giulietto Chiesa, a Francoforte ad assistere al congresso di scioglimento della Lega degli studenti socialisti tedeschi. Fu un congresso drammatico. Dentro la Lega c’erano diverse componenti: una più estremista (che aveva tra i suoi leader Rudi Dutschke, che aveva subito un attentato, e Wolfgang Lefewre), una componente comunista, una socialdemocratica. La Lega si spaccò proprio sulla Cecoslovacchia, perché i comunisti rifiutarono di condannare l’intervento del Patto di Varsavia. La Lega cessò di esistere travolta dal ’68: dalla rivolta giovanile e dai i fatti di Praga». Praga, il ’68 e il Pci... «Il Pci fece fatica a rapportarsi a quell’esperienza. Nel ’68, all’interno del partito, si aprì un dibattito faticoso. In realtà il rapporto con l’Unione Sovietica, malgrado la cesura del ’68, continuò a trascinarsi in un modo abbastanza ambiguo per almeno un decennio. Fu solo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, con la famosa questione dell’"esaurimento della spinta propulsiva", che si completò lo strappo. Oggi si potrebbe dire che in effetti Praga poteva rappresentare l’occasione per lo strappo, perché con Praga la speranza di un’autoriforma del comunismo si era definitivamente esaurita. Questa è la verità. Insomma, a mio parere, le ragioni del nostro legame erano venute meno». Guardando a quell’esperienza con gli occhi dell’oggi. Di quel tentativo portato avanti da Dubcek di un socialismo dal volto umano, che cosa resta? «Rimane il rapporto essenziale tra il socialismo e la democrazia. La verità, in definitiva, è che noi dopo Praga arrivammo faticosamente a inventarci una Terza via tra socialismo reale e socialdemocrazia. In realtà il nesso tra socialismo e democrazia c’era già nell’esperienza della socialdemocratica europea. Questo è il punto vero, questo fu il passo ulteriore che mancò. A noi mancò la forza di prenderne atto in quel momento. D’altra parte l’unica Terza via che ha funzionato e che ha saputo costruire il socialismo reale è quella tra capitalismo economico e dittatura, non tra economia statale e democrazia. Oggi resta una domanda: era possibile una riforma del socialismo reale in senso democratico? È difficile dirlo, la Storia non si fa con i se. Tuttavia non è neanche vero che tutto ciò che è reale è razionale. Non bisogna essere hegeliani fino al punto di pensare che se il ’68 praghese fallì è perché non poteva essere altrimenti. Non fu possibile dentro quei determinati rapporti di forza, che erano quelli della Guerra fredda. Anche perché se l’Unione Sovietica schiacciò la Primavera di Praga, di certo l’Occidente non la difese. La realpolitik prevalse sulle ragioni del popolo ceko. Da questo punto di vista, il destino di quella speranza, e il suo fallimento, erano scritti nella logica della Guerra fredda, per la quale da questa parte comandavano gli Americani e dall’altra parte i Russi. Se qui si muoveva qualcosa c’erano le "trame nere" e Gladio, di là più rozzamente i carri armati». Ma anche il movimento del ’68 di cui tu eri parte, non finì anch’esso per abbandonare Praga al suo destino segnato? «Il movimento si divise. Certo, un’ala stalinista considerò Dubcek e i suoi compagni dei revisionisti, mentre quella parte della generazione che s’innamorò di Praga finì soprattutto nella sinistra storica, nel Pci e anche nel Psi. Gli altri che dissero: "No, non è Praga il modello, il modello è invece la rivoluzione culturale cinese", finirono nell’estremismo extraparlamentare». Alexander Dubcek, Michail Gorbaciov: posso essere definiti degli eroi tragici? «Ho incontrato Dubcek molti anni dopo. Siamo stati insieme un’intera serata, abbiamo parlato di quell’epoca. Era un uomo estremamente semplice, che affrontò con grande dignità una sorta di esilio in patria. Visse una condizione di emarginazione, con l’orgoglio di essere stato protagonista di una pagina importante della storia del mondo. Abbiamo rievocato quel tempo. Dubcek è stato certamente un eroe tragico, fino in fondo comunista anche nel modo come accettò la sconfitta. In fondo avrebbe potuto cercare rifugio in Occidente, magari un rifugio dorato, invece preferì tornare ad una vita modesta nel suo Paese...». E Gorbaciov? «Una volta rivolsi a Gorbaciov una domanda assolutamente irrituale, durante una cena in forma privata con lui, Raissa Gorbaciova, Vladimir Zagladin e mia moglie. Raissa stava parlando molto male della Russia di Eltsin. Allora io feci una domanda impertinente a Gorbaciov, di quelle che non si dovrebbero fare. Gli chiesi: compagno Michail Sergeevic, visti i risultati, voi non siete pentito di avere abbattuto il comunismo in Russia?...». E lui? «Lui, invece di prenderla a ridere come fosse una battuta, mi dette una risposta serissima: "Io - mi disse - ho riflettuto su questo. Ma guarda: qualsiasi cosa sia accaduta dopo, quel regime andava abbattuto, perché era mostruoso e perché la identificazione fra gli ideali della sinistra e quel regime era per noi un danno intollerabile». Pubblicato il: 15.08.08 Modificato il: 15.08.08 alle ore 8.06 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Piero Fassino: Roma sottovaluta il rischio Caucaso Inserito da: Admin - Agosto 18, 2008, 11:22:16 pm Piero Fassino: Roma sottovaluta il rischio Caucaso
Umberto De Giovannangeli Piero Fassino, ministro degli Esteri del «governo ombra» del Pd, qual è la reale posta in gioco nel conflitto tra la Russia e la Georgia? «Si sbaglierebbe a ridurlo a un “conflitto locale”. Non solo perché nell’epoca della globalizzazione, più nessuna guerra può essere definita “locale”. Ma anche perché il Caucaso è un’area strategica per la sicurezza e la stabilità del mondo intero. Il Caucaso è una di quelle aree cruciali che i politologi definiscono di “cerniera”, dove si incontrano mondi molto diversi». «Europa ed Asia, tra Est ed Ovest, Cristianità e Islam. È una regione caratterizzata dalla compresenza di gruppi etnici, nazionali e religiosi diversi ed è attraversata dagli oleodotti e dai gasdotti che portano l’energia in Occidente. Intorno al Caucaso, stanno Paesi che si chiamano Afghanistan, Iran, Iraq, Turchia; poco distante c’è il Medio Oriente, e sopra la Russia. Tutto questo ci dice che è un’area particolarmente cruciale, critica, e che la stabilità e la sicurezza di quest’area è interesse non soltanto, come è ovvio che sia, dei popoli e delle nazioni che vivono lì, ma in realtà la sicurezza e la stabilità del Caucaso è interesse più generale perché investe la sicurezza e la stabilità del mondo. Per questo è necessario avere una strategia efficace che, per rivelarsi tale, deve fare i conti con almeno tre contraddizioni che ci vengono dalla storia...». Quali sono queste contraddizioni? «La prima, affonda le radici in una storia molto lontana, e cioè la decisione di Stalin di “russificare” il Caucaso, inserendo forti comunità russe in quella regione; comunità che fino a quando esisteva l’Unione Sovietica erano parte della maggioranza, russa, della popolazione dell’Urss. E oggi invece sono minoranze, spesso non riconosciute o comunque sopportate. Il secondo problema da affrontare è il modo caotico, convulso con cui si dissolse l’Unione Sovietica nel 1991. In quella stagione così drammatica, Armenia, Georgia, Azerbaijan si proclamarono indipendenti con un atto sostanzialmente unilaterale, senza alcun negoziato che definisse le relazioni tra Mosca e i nuovi Stati. Terza contraddizione che ci portiamo dietro è quella che viene dalla tragedia dei Balcani, dove la dissoluzione della Jugoslavia ha lasciato campo alla nascita di nuove nazioni fondate sul principio dell’omogeneità etnica; un principio che fino a quel momento non era stato mai assunto e che, se riproposto ogni volta che c’è un conflitto, rischia di innescare un gioco del domino al termine del quale ben pochi degli Stati attualmente esistenti nel mondo sopravvivrebbero». Come affrontare e provare a risolverle queste contraddizioni? «Nell’immediato, è evidente che dobbiamo preoccuparci di consolidare la tregua, ottenendo che l’esercito russi ritorni sulle posizioni antecedenti alla guerra e che da parte georgiana non si compia nessun nuovo atto di ostilità verso l’Ossezia e l’Abkhazia. In queste ore è urgente anche far affluire gli aiuti umanitari necessari alla popolazione. E poi bisogna lavorare da subito per trasformare la tregua in una pace vera tra Georgia e Russia, sulla base dei sei punti della piattaforma proposta dalla presidenza francese dell’Unione Europea. In particolare, riaffermando la sovranità della Georgia e al tempo stesso individuando forme di autonomia amministrativa per le aree russofone. Ma attenzione: consolidare la pace sollecita a definire un assetto condiviso e riconosciuto per tutto il Caucaso, dando corso, come ha proposto il Parlamento europeo, ad una Conferenza regionale per la stabilità che, con l’assistenza dell’Onu, dell’Osce e dell’Unione Europea, coinvolga tutti gli Stati della regione». Da Tbilisi, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha affermato: «La Georgia sarà membro della Nato, se lo vuole, ed è questo ciò che vuole». Ma è questa la strada da seguire? «Quando ero al governo tra il ‘96 e il ‘98, mi sono occupato a lungo dell’allargamento della Nato, che ebbe la sua prima, importante concretizzazione nel giugno ‘98. Questo tema, estremamente delicato, può avere una doppia lettura...». Quale? «Una è concepire l’allargamento come strategia di accerchiamento e contenimento della Russia. Una impostazione che non garantisce stabilità, sicurezza e pace in Europa, perché è evidente che la Russia, come qualsiasi altro Paese che si trovasse di fronte all’eventualità di un accerchiamento, non lo accetterebbe e reagirebbe. L’altra interpretazione possibile è quella che io ritengo più corretta e che va perseguita: la Nato fino al 1989, era l’organizzazione militare e di sicurezza di una parte dell’Europa contro i rischi che potevano derivare dall’”altra Europa”. Ma caduto il Muro di Berlino e allargatasi ai Paesi dell’Est, la Nato ha cambiato configurazione, e da organizzazione di una parte dell’Europa deve diventare sempre di più l’organizzazione di sicurezza e di difesa dell’Europa intera. Il che significa che ogni allargamento a nuovi membri, va fatto accompagnandolo contemporaneamente da una evoluzione in positivo dei rapporti tra la Nato e la Russia. In questa strategia, decisivo è il ruolo dell’Unione Europea. Proprio l’esperienza degli anni scorsi, ci dice che l’allargamento della Nato è stato meno traumatico perché, parallelamente, accompagnato dall’allargamento dell’Ue. Anche oggi è utile mantenere questa bussola: l’inclusione nell’Unione Europea dei Paesi balcanici può portare a compimento la stabilità di quella regione. E anche per il Caucaso, l’intensificazione dei rapporti tra l’Ue e quelle nazioni, e il contemporaneo rafforzamento dei rapporti tra Bruxelles e Mosca, può rendere più accettabile per la Russia che la Nato si estenda fino ai suoi confini. Se questo deve essere l’impianto, certamente non ha aiutato il modo in cui si è mosso il presidente georgiano Saakashvili, perchè ha dato dell’allargamento della Nato l’interpretazione più conflittuale possibile». Da queste considerazioni, oltre che da una qualsiasi iniziativa diplomatica, il governo italiano sembra avulso. «In queste settimane di guerra. ho evitato qualsiasi polemica verso il governo e ho più volte espresso la posizione del Partito Democratico con uno spirito costruttivo che concorresse a sollecitare un ruolo positivo dell’Italia. Sono convinto che sia stato giusto tenere questa linea perché di fronte a migliaia di morti, una grande forza anche di opposizione non deve immeschinire la propria politica e deve misurarsi con la drammaticità di un conflitto e concorrere a fermare le armi e ricercare una soluzione di pace. Adesso però che la criticità dei giorni scorsi sembra essere passata, credo si debba esprimere un giudizio severo nei confronti del governo italiano. Intanto, è ridicola la campagna propagandistica che vuol fa credere agli italiani che Berlusconi, con qualche telefonata dalla sua villa in Sardegna, abbia giocato un qualche ruolo. Un ruolo l’hanno giocato e bene Sarkozy e Kouchner a nome dell’Ue; un contributo vero l’hanno dato altre capitali influenti, a partire da Berlino, certamente è stato un attore, quale che sia la valutazione che si vuole dare delle sue scelte Washington, ma, al di là dell’impegno personale di Frattini, non mi pare che Roma abbia svolto alcun particolare ruolo. In ogni caso non l’ha giocato Berlusconi. L’idea che si possa fare la politica estera con qualche telefonata e sulla base dell’amicizia personale, è francamente strampalata. Non credo che Putin assuma una posizione piuttosto che un’altra sulla base di chi gli telefona o di una barzelletta o una pacca sulle spalle... La politica estera la si fa sulla base di una valutazione razionale dei rapporti di forza, degli interessi in gioco, degli obiettivi che ogni Paese si pone. Su queste basi, ritengo che il ministro Frattini, che pure è stato in contatto con tutte le capitali europee e la presidenza francese, abbia compiuto un errore a non andare alla riunione dei ministri degli Esteri dell’Ue. Questa assenza ha trasmesso l’idea di una sottovalutazione e di un minore impegno italiano, che non è utile al nostro Paese e non è giusto. Anche perché, invece, l’Italia può giocare un ruolo attivo. Storicamente il nostro Paese ha sempre avuto rapporti intensi con Mosca. E peraltro l’Italia ha sviluppato in questi anni rapporti sempre più stretti con Georgia e Armenia, a cui ci lega anche una comune cultura latina, e con l’Azerbaijan, dove l’Eni è una delle principali compagnie petrolifere. È un patrimonio di rapporti che l’Italia deve mettere a disposizione dell’Unione Europea consentendo così all’Ue di proseguire l’azione di mediazione di queste settimane per giungere a una vera stabilità nella regione. Insomma, serve una conduzione meno approssimativa. Anche il fatto che la maggioranza abbia deciso di convocare le Commissione Esteri di Camera e Senato con l’audizione del titolare della Farnesina, soltanto il 26 settembre, non mi pare un segnale positivo. Quello che emerge è per ora una inadeguatezza molto forte del governo a misurarsi con le sfide dello scenario internazionale.E anche su questo fronte, il Partito Democratico intende incalzare la maggioranza, avanzando proposte credibili e impegnative per un ruolo incisivo dell’Italia nel mondo». Pubblicato il: 18.08.08 Modificato il: 18.08.08 alle ore 6.19 © l'Unità. Titolo: Vittorio Strada: Non siamo di fronte a una riedizione della guerra fredda. Inserito da: Admin - Agosto 19, 2008, 11:03:04 pm Vittorio Strada: «Non siamo di fronte a una riedizione della Guerra Fredda»
Umberto De Giovannangeli «Il conflitto tra Russia e Georgia non va letto come un ritorno alla Guerra Fredda, bensì come espressione di una fase diversa, e nuova, del confronto tra la Russia e l’Occidente». A sostenerlo è uno dei più autorevoli studiosi del «pianeta russo»: il professor Vittorio Strada. Per quanto riguarda il ruolo fin qui giocato dal governo italiano in questo scenario di crisi, Strada rileva: «Se rapportato all’attivismo di Francia e Germania, non v’è dubbio che l’Italia abbia sin qui svolto un ruolo marginale». Qual è la vera posta in gioco nel conflitto tra Mosca e Tbilisi? «La posta in gioco è il controllo su alcune aree di importanza geostrategica ed economica, che vanno al di là della Georgia, e che in questo caso riguardano l’area caucasica e quelle contigue del Mar Nero e dell’area caspita. Si tratta di aree di interesse mondiale, in particolare per la Russia. Tanto più che accanto alla questione georgiana per Mosca ne esiste una ancora più importante: la questione ucraina». Molti analisti riferendosi al conflitto tra Russia e Georgia parlano di un ritorno alla Guerra Fredda. «È un immagine indubbiamente ad effetto ma che non dà conto delle novità presenti in questo tipo di conflitto. In realtà ci troviamo a dover fare i conti con una fase diversa, e nuova, del confronto tra la Russia e l’Occidente». Perché nuova? «Perché la Federazione russa non è più l’Unione Sovietica, perché il conflitto ideologico - quello tra comunismo e capitalismo - è storicamente venuto meno, e in atto, o in potenza, si manifestano conflitti di potenza militare ed economica. Io uso il termine "geoguerra", intendendo con questo una serie di conflitti locali - come quello iracheno ed anche quello georgiano - e parallelamente un conflitto permanente che si manifesta anche con un gioco delle alleanze: da un lato, quella tra gli Stati Uniti, i Paesi ex comunisti dell’Europa orientale e del Baltico, ed ex Repubbliche sovietiche come la Georgia e l’Ucraina. E da parte di Mosca, una serie di rapporti di collaborazione, anche militare, come quelli stabiliti, ad esempio, con il Venezuela, l’Iran, la Siria. Su questo "doppio binario" si inserisce poi il grande problema del terrorismo jihadista come, peraltro, il nodo strategico del rapporto tra Russia e Cina. Un quadro estremamente complesso che non può essere certo ricondotto ad una pura e semplice riedizione della vecchia Guerra Fredda». A proposito di alleanze: la leadership di Tbilisi insiste per un ingresso della Georgia nella Nato. Una richiesta che Mosca vede come un atto ostile. Qual è in merito la sua valutazione? «Si tratta di decisioni che vengono assunte autonomamente da questi Stati sovrani, come è stato nel caso dei Paesi baltici. La Russia può dolersi di questo fatto ma non ha il diritto di limitare la sovranità e le libere scelte di questi Paesi. Se poi si vuol discutere sul fatto che questa sia la via giusta per la stabilizzazione di quell’area, direi che questa è una via realisticamente inevitabile, perché questi Paesi ritengono in tal modo - entrando a far parte della Nato - di tutelarsi rispetto a una egemonia, quella russa, che essi ritengono ancora come imperiale. D’altro canto, Mosca ha considerato "rivoluzioni" - quali quella "arancione" in Ucraina e quella delle "rose" in Georgia - come il frutto di un’azione di guerra sotterranea da parte degli Stati Uniti in funzione antirussa. E questa lettura degli avvenimenti da parte della leadership russa è parte della a "geoguerra" in atto». Professor Strada, come valuta l’atteggiamento e l’impegno fin qui manifestati dal governo italiano nella ricerca di una soluzione diplomatica al conflitto tra Russia e Georgia? «Si tratta, a mio avviso, di valutare l’atteggiamento del governo italiano comparativamente a quello degli altri grandi Paesi europei, in particolare Francia e Germania. Parigi e Berlino hanno dimostrato un attivismo diplomatico forse fin troppo prudente nei riguardi della Russia ma certamente capace di far presente a Mosca che l’Unione Europa non è indifferente rispetto a quello che sta avvenendo in Georgia. Una riprova è la determinazione della cancelliera tedesca Angela Merkel che l’altro ieri a Tbilisi ha riconosciuto la volontà di adesione della Georgia alla Nato, superando così le precedenti pregiudiziali da parte tedesca che avevano rallentato questa adesione. In questa luce comparativa, l’Italia ha svolto una funzione marginale: la nostra presenza non è certo stata così diretta ed evidente come quella di Francia e Germania. Resta il fatto che l’Ue debba fare di più nella difesa degli interessi di Paesi come la Georgia e l’Ucraina. E nell’agire in questo senso l’Unione Europea può fare gli interessi della Russia stessa, nel senso di spingere Mosca ad assumere un atteggiamento più aperto, di collaborazione, con l’Europa e gli Stati Uniti». Pubblicato il: 19.08.08 Modificato il: 19.08.08 alle ore 8.22 © l'Unità. Titolo: Anis Rahmani: «La guerra santa vuole unificare le trincee, da Algeri a Kabul» Inserito da: Admin - Agosto 21, 2008, 06:39:35 pm Anis Rahmani: «La guerra santa vuole unificare le trincee, da Algeri a Kabul»
Umberto De Giovannangeli «Ogni scenario di guerra jihadista ha una sua specificità. Ma è altrettanto vero che dall’Algeria all’Iraq, dall’Afghanistan al Pakistan c’è un filo conduttore che non va sottovalutato: il tentativo di unificare in un unico fronte le "trincee" mediorientali con quelle del Maghreb e dell’Afghanistan». A sostenerlo è uno dei più autorevoli studiosi dei movimenti integralisti e jiahidaisti islamici: Anis Rahmani, direttore del quotidiano algerino specializzato in movimenti integralisti, «Ennahar». Per ciò che riguarda l’ondata di attacchi terroristici che ha investito l’Algeria, essa, rimarca Rahmani, «è il segno che la strategia della Riconciliazione perseguita dal presidente Bouteflika è finita da tempo e che il confronto con i gruppi jihadisti è ritornato sul terreno di sempre: quello militare». «Quella messa in atta dai gruppi che fanno riferimento alla galassia qaedista - sottolinea Rahmani - è una strategia di attacco che mira a destabilizzare non solo l’Algeria ma l’intera area del Maghreb». L’Algeria è di nuovo al centro di una impressionante offensiva terroristica. Quale lettura dare a questi attacchi? «È una lettura duplice: da un lato, questa offensiva dimostra che la strategia politica della Riconciliazione attuata da Bouteflika è giunta da tempo al capolinea; dall’altro lato, siamo di fronte ad una strategia mirata alla destabilizzazione non solo dell’Algeria ma dell’intero Maghreb». Cosa significa che la politica di Riconciliazione perseguita dal presidente Bouteflika è giunta al capolinea? «Significa che ora la parola d’ordine è tornata ad essere quella della guerra al terrorismo. Ogni mezzo viene fornito alle forze di sicurezza per raggiungere questo obiettivo». Con quali risultati? «Significativi. Gli ultimi attacchi sono anche una risposta all’azione in profondità dell’esercito che negli ultimi mesi ha eliminato una decina di terroristi tra cui diversi emiri. L’iniziativa dell’esercito se non ha debellato i gruppi qaedisti ne ha comunque circoscritto il raggio d’azione: i gruppi armati continuano infatti a colpire nel triangolo Bouira-Boumerdes, Tizi Ouzou senza riuscire ad estendere in altre zone il loro raggio d’azione». C’è una strategia regionale che muove le fila dell’offensiva terroristica? «L’obiettivo è chiaro e sono gli stessi documenti o proclami qaedisti, veicolati soprattutto attraverso Internet, a evidenziarlo: è quello di unificare la "trincea" jihadisti mediorientale, a partire dall’Iraq, con quella dell’Afghanistan e del Maghreb. Se così è, va da sé che la risposta non può essere frammentata ma deve mettere in campo un comune lavoro di intelligence». Questa strategia è solo militare? «No, deve combinare necessariamente l’aspetto militare e di intelligence con quello della politica. Perché è anche su questo terreno che si sconfiggono i gruppi jihadisti, cercando di svuotare quel "mare" di insoddisfazione e di malessere sociale, di frustrazione e di assenza di futuro per le giovani generazioni, in cui i jihadisti cercano di far proselitismo, ricordando peraltro all’Occidente che il primo obiettivo da colpire per gli integralisti in armi è l’Islam laico, moderato, quello che cerca di coniugare modernità e tradizione. Il migliore aiuto che si potrebbe dare ai jihadisti è demonizzare, criminalizzandolo l’Islam in quanto tale erigendo nuovi Muri di ostilità». Dall’Algeria all’Afghanistan, passando per il Pakistan. C’è una sola regia dietro questa nuova ondata di attacchi terroristici? «Sbaglia chi considera Al Qaeda come una organizzazione piramidale e verticistica. Non è più così. Ormai da tempo, Al Qaeda è il "marchio" di una rete di organizzazioni, gruppi e movimenti, ognuno dei quali mantiene la propria autonomia operativa e cerca di calare l’ideologia jihadista nel proprio specifico. Al Qaeda offre semmai una copertura mediatica unificante e un riferimento ideologico che è quello del Jihad globalizzato contro l’Occidente "crociato" e i regimi arabi e musulmani "apostati". In questa chiave, lo stesso Osama Bin Laden non ricopre più il ruolo dello stratega, ma quello di predicatore. In molte realtà, peraltro, Al Qaeda si configura - penso alla Somalia - come un vero e proprio anti-Stato in grado di controllare, anche attraverso alleanze tribali, fette di territorio. Un sistema che va spezzato "conquistando" con gli strumenti della politica e del benessere economico quelle popolazioni locali che vedono ancora l’Occidente come portatore di guerra e non di giustizia ed emancipazione. È il caso dell’Afghanistan: la sconfitta dei Talebani non potrà mai essere solo affidata alle armi. Il banco di prova si chiama ricostruzione». Pubblicato il: 21.08.08 Modificato il: 21.08.08 alle ore 9.07 © l'Unità. Titolo: Giovanna Melandri La politica ha perso la chance di aiutare il dialogo sul Tibet Inserito da: Admin - Agosto 23, 2008, 11:36:33 pm Giovanna Melandri: «La politica ha perso la chance di aiutare il dialogo sul Tibet»
Umberto De Giovannangeli «La tregua olimpica è stata infranta. In Tibet come in Georgia. E questo è un fatto politicamente molto grave». A sostenerlo è Giovanna Melandri, ministra delle Comunicazioni nel governo ombra del Pd, già titolare del dicastero per le Politiche giovanili e le Attività sportive. «I potenti della Terra - rileva Melandri - hanno sbagliato a presenziare alla cerimonia inaugurale dei Giochi olimpici. Il loro "omaggio" al governo cinese ha contribuito a derubricare la questione del rispetto dei diritti umani in Cina e la tragedia del Tibet». Una critica che investe direttamente il governo italiano: «Berlusconi non ha presenziato ma lo ha fatto il ministro degli Esteri, Franco Frattini - rileva la "ministra-ombra" del Pd - e la sua presenza è politicamente censurabile». «Ora - aggiunge - la comunità internazionale deve sostenere lo sforzo del Dalai Lama di riannodare il filo del dialogo e del negoziato con il governo cinese». L´Avvenire titola: luci su Pechino, buio sul Tibet. Il mondo si è dimenticato della tragedia tibetana? «Il calvario del popolo tibetano continua. Dopo le parole del Dalai Lama a "Le Monde" abbiamo compreso che quel calvario non si è interrotto nemmeno nei giorni della tregua olimpica. Io penso che la parata dei leader politici che hanno preso parte all´inaugurazione dei Giochi olimpici abbia contribuito a innalzare questa cortina di silenzio sul dramma del Tibet come sul mancato rispetto dei diritti umani da parte delle autorità cinesi. Quell´"omaggio" dei potenti della Terra a Pechino non doveva essere fatto. Quella parata ha contribuito a derubricare il problema dei diritti umani e della vicenda tibetana. E c´è di più...». Cosa «di più»? «Poche ore dopo che gli atleti di tutte le nazioni sfilavano nello stadio olimpico di Pechino, la Russia attaccava la Georgia...Lo ha detto molto bene una grande atleta, Valentina Vezzali, che ci ha fatto appassionare in queste settimane: la tregua olimpica non è stata rispettata. E questo è un fatto politicamente molto grave». E l´Italia? «Sarebbe stato molto meglio se il governo italiano avesse deciso di non accompagnare, sul piano istituzionale, i nostri atleti che peraltro stanno conducendo ancora le loro gare. È vero che Berlusconi non è andato, ma lo ha fatto il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini. Tutto questo non ha aiutato e non non sta aiutando non solo la causa tibetana ma direi anche quella del dialogo e del negoziato tra il Dalai Lama e la Cina. La comunità internazionale, anche attraverso lo spirito olimpico, poteva aiutare a riannodare il filo del dialogo e della trattativa tra il Dalai Lama e il governo cinese; mi pare che invece questo non solo non è avvenuto ma non vediamo alcun segnale di una riapertura di dialogo e di negoziato. I dati politici sono noti: i tibetani non chiedono l´indipendenza. Chiedono il riconoscimento di un´autonomia culturale e religiosa che non mette a repentaglio l´integrità territoriale o la sovranità nazionale della Cina. Io ho sempre pensato che non bisognava caricare sugli atleti scelte politiche e istituzionali che competono ai governi. Per questo mi è sembrata una uscita infelice quella della ministra Meloni che chiedeva agli atleti di non sfilare il giorno della inaugurazione; così come mi pareva sbagliato chiedere agli atleti di boicottare i Giochi olimpici. Sono tutte sciocchezze. Perché gli atleti si misurano ogni quattro anni con questa grande prova. Mentre invece mi sarei aspettata che la comunità internazionale, a cominciare dall´Europa, e anche il nostro governo fossero ben più fermi e decisi nell´assumere una posizione politica, che compete alle istituzioni e al mondo politico e non agli atleti, dimostrando una volontà di farsi parte attiva nella ripresa del dialogo tra il Dalai Lama e il governo cinese. Purtroppo questo impegno non c´è stato. Perchè da Sarkozy a Frattini sono tutti accorsi a Pechino...». E adesso? «Adesso credo che bisogna assolutamente sostenere gli sforzi del Dalai Lama per riannodare i fili di un negoziato che faccia dell´autonomia culturale del Tibet un punto di confronto con le istituzioni cinesi». Pubblicato il: 23.08.08 Modificato il: 23.08.08 alle ore 10.54 © l'Unità. Titolo: Carol Tarantelli: «Origine operaia, esperto di esteri: il numero due perfetto» Inserito da: Admin - Agosto 25, 2008, 12:31:04 am Carol Tarantelli: «Origine operaia, esperto di esteri: il numero due perfetto»
Umberto De Giovannangeli «Per la sua storia, per la sua competenza in politica estera, per le sue origini sociali, Joe Biden può "integrare" Barack Obama. Per questo ritengo positiva la sua scelta per la vicepresidenza». A sostenerlo è Carol Tarantelli, profonda conoscitrice del «pianeta Usa». «Hillary non ce l´ha fatta - riflette Tarantelli - non tanto perché era una donna ma per il peso politicamente ingombrante di suo marito ed ex presidente Bill Clinton». Come valuta la scelta compiuta da Barack Obama del senatore Joe Biden come suo vice nella corsa alla Casa Bianca? «Prima di tutto Biden è un uomo di vasta esperienza. È stato varie volte presidente della Commissione esteri del Senato. È una personalità che può integrare quella di Obama...». In che senso integrarla? «Per una questione anagrafica. Perché Biden viene da una famiglia umile, operaia, ed è identificabile dagli operai come uno di loro. Inoltre, Biden ha una esperienza in politica estera uguale se non superiore a quello di McCain». I repubblicani hanno in tempo record comminato uno spot in cui si riportano le critiche sferzanti che durante la campagna per la nomination democratica Biden aveva rivolto ad Obama. «È sufficiente che i democratici rispondano con uno spot nel quale vengono riportate le accuse al veleno che Mit Romney aveva scagliato contro McCain durante la campagna per la nomination repubblicana. Ed ora McCain sembra volere Romney come suo vicepresidente...». L´investitura del senatore Biden avviene alla vigilia della Convention democratica di Denver. Che cosa si aspetta da questa Convention? «La vera notizia politica sarà se Hillary Clinton si "spenderà" davvero con convinzione ed entusiasmo a sostegno di Obama. Questo è l´unico punto interrogativo: quanto Hillary appoggerà Obama. Il resto è scontato». C´è chi sperava in una donna alla Casa Bianca. Ma una donna non può ambire neanche alla vicepresidenza? «Non era possibile. E lo dice una che ha sostenuto Hillary Clinton nella corsa alla nomination. Non poteva e non tanto perché è una donna ma per il suo essere identificata, a torto o a ragione, come l´ex first lady, la signora Clinton. A giocare contro la investitura di Hillary alla vicepresidenza c´è soprattutto la figura politicamente e mediaticamente ancora ingombrante di Bill Clinton: anche perché Bill ha dimostrato di non saper "moderare" se stesso rispetto ai commenti politici che fa. Per Obama sarebbe stato come avere una "bomba ad orologeria" sul suo cammino presidenziale. Bill Clinton indebolirebbe troppo oggi l´Obama candidato e un domani, se vincesse le elezioni, l´Obama presidente». In questi giorni lei è negli Stati Uniti. Qual è la percezione diretta che si è fatta di questa corsa alla presidenza? «Che la partita è del tutto aperta. I repubblicani hanno cominciato a cercare di definire Obama in modo negativo. I democratici ci hanno messo un po´ di tempo ma alla fine, ed era inevitabile, hanno risposto sullo stesso piano. Quello che potrà succedere è davvero imprevedibile». Quanto potrà pesare la presidenza Bush in questa corsa? «Dovrebbe pesare di più e se pesa di più McCain è spacciato. Fin qui McCain è riuscito a non dissociarsi da Bush e al tempo stesso ha saputo non far pesare che le sue politiche sono eguali. Ha fatto un capolavoro politico. Sta a Obama, con il prezioso apporto di Biden, riuscire a stabilire una continuità, che c´è, tra McCain e Bush, McCain ha chiuso. La popolarità di Bush è ai minimi storici e se qualcuno aveva ancora dei dubbi sulla sua fallimentare politica estera, come sta gestendo la vicenda della Georgia, quei dubbi dovrebbero essere scomparsi...». Se lei dovesse puntare su un segmento elettorale decisivo da conquistare da parte di Obama, a quale penserebbe? «La classe operaia bianca. Ed è innanzitutto in questa direzione che lavorerà Biden». Pubblicato il: 24.08.08 Modificato il: 24.08.08 alle ore 14.35 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI Dalia Rabin: il sogno di Obama sia quello di mio padre Inserito da: Admin - Agosto 31, 2008, 10:41:27 pm Dalia Rabin: il sogno di Obama sia quello di mio padre
Umberto De Giovannangeli L’uomo del nuovo «sogno americano» e la lezione dell’uomo che per un grande «sogno», la pace, ha sacrificato la propria vita. Barack Obama e Yitzhah Rabin. Nel suo viaggio in Israele del luglio scorso, il candidato democratico alla Casa Bianca ha reso omaggio al coraggio di quel generale che morì per aver scelto la pace. «Barack Obama evoca un mondo senza Muri razziali, religiosi, etnici. In questo sua sfida rivedo mio padre, che aveva scelto di abbattere il "muro" di odio tra israeliani e palestinesi». A parlare è Dalia Rabin Filosoff, la figlia maggiore del primo ministro laburista assassinato, il 4 novembre 1995, da un giovane zelota dell’ultradestra ebraica. «La lezione di mio padre non è andata perduta. La lezione di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita alla difesa di Israele, in prima fila sui campi di battaglia, quando gli eserciti arabi minacciavano la nostra esistenza; così come è stato in prima fila nell’avviare il dialogo con la controparte palestinese, sapendo bene, da generale e statista, che la sicurezza di Israele non sarà mai garantita dalla sola forza del suo esercito. Tredici anni dopo, questa verità non è stata cancellata. Mio padre non si è mai piegato ai ricatti della violenza e del terrorismo ma era consapevole che occorreva dimostrare ai palestinesi che esisteva un’altra strada per conquistare i propri diritti. La strada del dialogo e del compromesso. Per questo ha combattuto e per questo è stato ucciso». Barack Obama ha evocato un mondo senza più Muri razziali, etnici, religiosi. Visto da Israele, è un sogno irrealizzabile? «No, è una sfida affascinante, e insieme una via obbligata per quanti credono davvero nel dialogo e nella ricerca di un compromesso che tenga in conto non solo le proprie ragioni ma anche le ragioni dell’altro. Ho ascoltato con attenzione il discorso di Obama a Denver: confesso di essermi emozionata. Per la passione che lo animava, per il coinvolgimento che reclamava. Mi ha colpito il suo richiamo all’etica della responsabilità che ogni individuo deve esercitare. E, soprattutto, ho ritrovato nel suo discorso il richiamo ad un Paese "normale" da costruire, in cui i talenti dei giovani non vengano più sacrificati su un campo di battaglia ma valorizzati e messi al servizio del benessere comune. Questa idea di "normalità" era anche quella che accarezzava mio padre, Yitzhak Rabin. A Obama si rinfaccia il fatto di essere un’idealista. La stessa accusa fu rivolta a mio padre. Ma essere mossi da ideali è una virtù non una pecca. L’importante, per chi ha responsabilità di governo, è calare questi ideali nella realtà quotidiana, conquistando nell’agire concreto il consenso, e la partecipazione, delle donne e degli uomini che sono chiamati, ognuno di loro, a essere parte attiva nella realizzazione di quegli ideali condivisi». Barack Obama si è detto amico di Israele. «Non dubito che lo sia anche il senatore McCain. Il legame tra gli Stati Uniti e Israele non è in discussione chiunque sarà il nuovo presidente americano. Ciò che mi auguro è che sia Obama che McCain, chi di loro vincerà le elezioni di novembre sappia interpretare in modo dinamico questa amicizia, sostenendo con forza e continuità gli sforzi di quanti, israeliani e palestinesi, si battono per un accordo di pace che porti a compimento quel percorso che mio padre iniziò con gli accordi di Oslo-Washington. Al nuovo presidente americano chiedo coraggio, fantasia, lungimiranza. E una visione nuova delle relazioni tra i popoli. Una visione di cui il senatore Obama è portatore». Obama ha parlato di un mondo senza più Muri. Anche quello tra israeliani e palestinesi? «Il primo “muro” da abbattere è quello del pregiudizio, della demonizzazione. E lo si abbatte abbinando la diplomazia dall’”alto”, quella dei leader politici, con la crescita di un dialogo “dal basso” che metta in relazione le due società civili. Se questa commistione virtuosa si realizzerà, il resto, ne sono convinta, verrà da sé». A proposito di visioni. C’è chi sostiene che gli eventi di questi anni hanno dimostrato il fallimento della «visione» che animò l’azione di Yitzhak Rabin. «È vero l’esatto contrario. Mio padre non era un pacifista romantico, un illuso. Per tutta la vita aveva combattuto per la sicurezza di Israele. Ma da questa esperienza aveva tratto la convinzione che la sicurezza di Israele non poteva essere affidata alla sola forza del suo esercito. Occorreva la politica, aprire un percorso negoziale, offrire alla controparte palestinese una possibilità di riscatto. Senza cedimenti ma con la consapevolezza che una pace duratura, una pace nella sicurezza, dovesse essere ricercata ad un tavolo negoziale, riconoscendo anche le ragioni e le aspirazioni della controparte. Tredici anni dopo i fatti hanno dimostrato che questa lezione è ancora del tutto valida, perché non esiste una scorciatoia militare alla soluzione del conflitto israelo-palestinese». Lei ha fatto riferimento agli accordi di Oslo; quegli accordi, sostengono i loro detrattori, avevano messo in secondo piano la questione cruciale della sicurezza. «Non è così. Mio padre aveva a cuore la sicurezza di Israele, per la quale aveva combattuto per tutta una vita. Per questo aveva voluto che al primo punto della Dichiarazione di Oslo-Washington vi fosse il rigetto da parte palestinese dell’uso della violenza per affrontare i contenziosi ancora aperti...». Tredici anni dopo, in molti vorrebbero archiviare l’eredità di Yitzhak Rabin. «No, questa eredità politica e morale non deve essere archiviata, poiché non appartiene al passato bensì al presente di Israele, anche se i successori di mio padre alla guida del Paese non hanno portato a termine la sua opera». Cosa resta della lezione di suo padre? «Molto di più di quanto si possa credere all’esterno. E non mi riferisco solo al ricordo di mio padre che ancora oggi vive in tantissime iniziative in Israele e nel mondo. Mi riferisco anche alla convinzione propria della maggioranza degli israeliani, che per aprire una pagina nuova nella storia del Medio Oriente occorra dare una soluzione politica alla questione palestinese che passi anche attraverso la creazione di uno Stato, smilitarizzato ma indipendente. No, la lezione di Yitzhak Rabin non è andata perduta anche se il vuoto politico che lui ha lasciato nel Paese continua a pesare sul presente d’Israele». (ha collaborato Cesare Pavoncello) Pubblicato il: 31.08.08 Modificato il: 31.08.08 alle ore 17.30 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Fassino: Una “Helsinki 2” per la sicurezza in Europa Inserito da: Admin - Settembre 02, 2008, 12:18:02 am Fassino: «Una “Helsinki 2” per la sicurezza in Europa»
Umberto De Giovannangeli Piero Fassino, ministro degli Esteri del governo ombra del Pd, cosa attenderci dal vertice straordinario di Bruxelles? «È un vertice molto importante perché è la prima volta che l’Unione Europea prende nelle sue mani una crisi politica internazionale che nè gli Stati Uniti né altre potenze sono in grado di dirimere. Lo potrà fare se si muoverà su due fronti...». Quali? «In primo luogo, si tratta di trasformare la fragile tregua nel Caucaso in una pace condivisa da tutte le parti in conflitto. Bisogna convincere i protagonisti di quella crisi a interrompere la pratica degli atti unilaterali contrapposti e ad accettare invece di imboccare la strada del negoziato, della ricerca consensuale di un assetto in cui tutti possano riconoscersi e veder riconosciuti i propri diritti. Questa possibilità c’è se l’Unione Europea richiama le parti in conflitto alle loro responsabilità...». Per dire in concreto che cosa? «Che la sovranità d Georgia, Azerbaijan e Armenia è intangibile, e l’Europa se ne fa garante, e che queste nazioni non possono essere messe in discussione. E anche la Russia deve riconoscere la loro sovranità...». E da Tbilisi l’Europa cosa deve esigere? «A Tbilisi e alle capitali caucasiche bisogna chiedere di riconoscere alle minoranze che vivono nei loro confini forme di autonomia amministrativa che consentano a queste minoranze di vedersi rispettate nelle loro identità, senza essere spinte alla rivendicazione dell’indipendenza. Ottenere questi due risultati significa non accontentarsi di dichiarazioni di principio ma promuovere un percorso negoziale che metta attorno ad un tavolo tutte le parti in causa, promuovendo una Conferenza regionale per la stabilità del Caucaso». E l’altro fronte dell'iniziativa europea? «Il conflitto del Caucaso è la spia di una crisi di “governance” in Europa e non solo in essa. Dall’89 ad oggi nel nostro Continente tutto è cambiato: l’Urss e il suo impero non ci sono più; dai Balcani al Baltico al Caucaso sono nate nuove nazioni; Ue e Nato si sono allargate fino ai confini della Russia; e Mosca torna a volere un ruolo di leadership. Si tratta di costruire una nuova architettura di sicurezza che sia capace di dare stabilità al Continente e di garantire ad ogni nazione europea, grande o piccola che sia, la sua sovranità e di poter vivere sicura e libera del proprio destino. Serve in altri termini una “nuova Helsinki”, all’altezza della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa che si svolse nella capitale finlandese a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, che permise di costruire un sistema di sicurezza in grado di promuovere, da Vancouver a Vladivostok, stabilità. pace e riconoscimento dei diritti. C’è bisogno di mettere in campo un esercizio politico-diplomatico della stessa ambizione, Un disegno strategico che aiuti gli Stati Uniti ad uscire dall’unilateralismo in cui li ha rinchiusi Bush, e, al tempo stesso, offra a Mosca una interlocuzione positiva e e una cooperazione politica ed economica che aiuti la Russia a liberarsi di ogni presunzione di autosufficienza, e a integrarsi pienamente nella comunità internazionale. condividendone principi democratici, diritti e legalità». E l’Italia che ruolo può giocare? «Mi auguro che il governo italiano comprenda il carattere strategico del passaggio che l’Europa sta vivendo e sia l’Italia a farsi promotrice sia della proposta di una Conferenza per il Caucaso sia dell’avvio del cantiere che ci porti ad una nuova Helsinki. Sarebbe peraltro un comportamento coerente con la responsabilità di presidente di turno del G8 che dal gennaio 2009 l’Italia assumerà». Pubblicato il: 31.08.08 Modificato il: 01.09.08 alle ore 13.08 © l'Unità. Titolo: Frattini La Ue è restata unita, non si poteva isolare la Russia Inserito da: Admin - Settembre 02, 2008, 09:58:14 pm Frattini: «La Ue è restata unita, non si poteva isolare la Russia»
Umberto De Giovannangeli «La vittoria dell’Italia, e della presidenza francese dell’Ue, è nell’aver operato perché la posizione comune dell’Europa non portasse ad un isolamento della Russia». A sostenerlo, nell’intervista a l’Unità, è il titolare della Farnesina, Franco Frattini. Signor ministro, come valuta le conclusioni del Vertice di Bruxelles? «Anzitutto, considero importante che l’Europa abbia tenuto la sua coesione approvando all’unanimità un documento, dimostrando così di voler contare sulla scena internazionale. Questo in sé è molto positivo perché l’Italia aveva sempre sostenuto la linea dell’equilibrio e il sostegno a Sarkozy è stato oggi (ieri per chi legge, ndr.) importante per far prevalere la soluzione equilibrata proposta dalla presidenza Ue». In questa ottica, qual è il punto più significativo della presa di posizione comune emersa da Bruxelles? «Il punto più significativo è quello che non c’è nel documento: cioè non c’è né una sospensione del partenariato Europa-Russia; non c’è una ipotesi, e neanche un cenno, alle sanzioni. L’altro punto significativo, che invece c’è nel documento, è quello di un mandato al presidente Sarkozy di andare a Mosca il prossimo 8 settembre, assieme a Barroso e a Solana, per monitorare la concreta situazione relativa al ritiro delle truppe russe. Un punto è importante per quel che manca (nel documento) e un punto è importante per quel che nel documento finale del Vertice c’è». «Su una materia come questa - rileva il ministro- è importante stabilire una forte sintonia tra il governo e la maggiore forze di opposizione, il Partito democratico». Il fatto che nel documento non ci siano esplicitate sanzioni nei confronti della Russia, si può ritenere una vittoria dell’Italia? «Dell’Italia e degli altri Paesi, anzitutto la presidenza francese dell’Ue, che ritenevano indispensabile tenere con la Russia un canale di dialogo aperto ma anche vivo. L’idea di sanzioni avrebbe fatto irrigidire la Russia, e siccome quel che noi vogliamo è il pieno rispetto dell’accordo del 10 agosto, non avremmo ottenuto proprio quel risultato. Ecco perché la vittoria italiana è quella di aver fatto prevalere un messaggio che io lanciai il 10 agosto scorso: e cioè non dobbiamo isolare la Russia. Questo messaggio oggi è al centro del documento del Consiglio Europeo». Lei è in partenza per una missione molto delicata che la porterà prima a Tbilisi e il giorno dopo a Mosca. Ritiene che la posizione europea possa aver gelato le aspettative della Georgia? «La Georgia ha ottenuto un grande risultato. È stato detto che noi decidiamo di rafforzare il partenariato Europa-Georgia, ivi compresi il regime dei visti e la creazione di una zona di libero scambio tra Europa e Georgia. Quindi la Georgia, a mio avviso, può ritenersi molto soddisfatta. Ma abbiamo inserito anche dei punti che la Russia può accettare. Sono convinto di portare a Tbilisi e a Mosca un messaggio equilibrato e che otterrò dei riscontri positivi, anzitutto sul ritiro dei circa 500 militari russi che sono sul terreno». Lei ha rimarcato il fatto che l’Europa abbia parlato questa volta con una sola voce. È il segnale di un modo diverso di intendere la partnership con gli Stati Uniti? «Io credo che gli Stati Uniti hanno in questa partita giocato in stretto rapporto con noi, con Sarkozy, con Berlusconi. Ed è evidente che gli Stati Uniti hanno capito che noi Europa abbiamo potuto fare, con questa decisione, di più. Quindi è stato importante decidere come oggi (ieri, ndr.) abbiamo deciso». In una intervista a l’Unità, il ministro degli Esteri del governo ombra del Pd, Piero Fassino, ha rilanciato la proposta di una Conferenza a Roma sulla sicurezza e la stabilità del Caucaso. Può essere questo un terreno di incontro tra il governo e il Partito democratico? «Io credo che sia importante, su una materia come questa, avere una forte sintonia con la principale forza dell’opposizione, in questo caso con il Partito democratico. Ecco perché ho volentieri condiviso con l’onorevole Fassino anche delle informazioni costanti sull’evoluzione della crisi. Come è noto io ho informato sempre il ministro-ombra. Quanto all’idea della Conferenza, che io avevo addirittura convocato in luglio per il 13 novembre, questa Conferenza oggi trova, a mio avviso, nuova linfa. È evidente che bisognerà capire se questa Conferenza può essere soltanto sullo scenario politico o se non dobbiamo lavorare per una Conferenza sulla ricostruzione, e quindi dei donatori, come altri hanno proposto. Comunque noi confermiamo la disponibilità e in questo evidentemente la prima cosa che dobbiamo fare, è lavorare in sintonia con la presidenza francese che ha fatto così bene nelle ultime settimane». Lei ha recentemente affermato che isolare Mosca avrebbe avuto avuto ricadute negative anche su uno scenario particolarmente importante: quello mediorientale. «Lo confermo. Oggi (ieri, ndr.) è stato detto da molti capi di governo quello che aveva detto l’Italia: primi ministri che hanno evocato l’Afghanistan o il dossier nucleare iraniano come esempi del perchè bisogna lavorare con la Russia. Cose che io condivido pienamente, e che il presidente Berlusconi ha espresso nel suo intervento». Pubblicato il: 02.09.08 Modificato il: 02.09.08 alle ore 8.25 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Ebrei e antisemitismo: staffetta della memoria Inserito da: Admin - Settembre 11, 2008, 08:58:31 am Ebrei e antisemitismo: staffetta della memoria
Umberto De Giovannangeli Sul braccio porta il marchio indelebile di una ferita che non si rimargina: A-5506. A imprimerglielo furono le SS ad Auschwitz. Piero Terracina, 80 anni, è un testimone di quella tragedia; un testimone, lucido, appassionato, giovane nello spirito, che non accetta che l’oblio della memoria rimuova una Storia che va ricordata perché non si ripeta. Tobia Zevi, ha 24 anni. È un giovane impegnato ma è anche parte di una generazione che si vorrebbe priva di memoria. Ed è proprio il diritto-dovere alla memoria, e il passaggio tra le generazioni, il filo conduttore del nostro incontro. Un viaggio tra passato e presente, tra un dolore che si rinnova e una necessità, spesso inevasa, di conoscere. Di capire, da parte dei giovani d’oggi, cosa c’è dietro quel «A-5506» che Piero Terracina porta con sé, porta su di sé. Voglia di capire. Nella consapevolezza che «senza memoria non c’è futuro». Un futuro di cui i ragazzi come Luca vogliono essere protagonisti. Con l’aiuto di coraggiosi, instancabili, testimoni come Piero Terracina. L’UNITÀ La memoria del fascismo torna di attualità e incrocia la polemica politica. Ma questa memoria è un peso o è un investimento sul futuro per il nostro Paese? PIERO TERRACINA È una cosa e l’altra. Comunque difficile. Ricordare è un po’ rivivere. E questo è pesante, molto pesante. Ma è un sacrificio che noi testimoni dobbiamo fare per trasmettere ai giovani la memoria di ciò che è stato, perché nessuno possa più dire: “io non sapevo...”. E nell’aver ascoltato chi ha vissuto quella tragedia, possano a loro volta diventare testimoni, facendo propri quei fatti. Perché possano dire: “Io lo so, perché ho parlato con un testimone, e lui mi ha raccontato...”. Non è facile rinnovare quei ricordi. A volte nel vedere il turbamento, la commozione dei ragazzi non riesco ad andare avanti. Devo fermarmi, bere un sorso d’acqua, fare finta di pensare. Non vorrei dar prova di debolezza, ma non ci posso far niente. Il dolore del ricordare a volte è insopportabile, anche a distanza di tanti anni. Ma poi mi dico: “Piero, devi farlo, devi andare avanti, anche per tutti quelli che da quei lager non sono più usciti...». L’UNITÀ. Male giovani generazioni sono pronte davvero ad ascoltare queste testimonianze o le vivono come un fastidio? TOBIA ZEVI. «Non direi che tra noi giovani ci sia un fastidio o una reticenza ad ascoltare ed apprendere. Piero Terracina e gli altri ex deportati che molto spesso fanno questa esperienza nelle scuole o nei viaggi organizzati con gli studenti, traggano l’impressione di un interesse sincero dei ragazzi. Quello su cui varrebbe la pena interrogarsi è sulla qualità di questa memoria. La sfida per tutti noi è quella di riuscire a declinare l’emozione che si crea nel momento in cui c’è il rapporto diretto con il testimone, organizzando quell’emozione in una pratica di vita quotidiana, civile, sociale, umana in grado di migliorare questa società sulla base della conoscenza delle esperienze, e delle tragedie, del passato. Da questo punto di vista, qualche rischio c’è... L’UNITÀ Quale sarebbe questo rischio? TOBIA ZEVI. « Uno è il fatto che, a fronte di tutto questo lavoro, quello che si vede nelle inchieste, o pseudo tali, che vengono condotte su questi temi tra i giovani, a emergere è una ignoranza tremenda, dilagante, a volte tragicomica, quando viene chiesto se sapete cosa è Auschwitz, e la risposta è “una discoteca”, o “La notte dei cristalli” è un “festival”... Il rapporto col testimone non può essere disgiunto da uno studio sistematico, attento, rigoroso della storia ai vari livelli di istruzione, perché è questo il bilanciamento necessario. E per noi giovani comprendere perché quella tragedia si è compiuta, significa ragionare sul fatto che anche se non necessariamente nelle stesse forme o proporzioni, e non necessariamente qui e oggi, quella tragedia potrebbe riaccadere. Come peraltro è gia accaduto , anche se non nella stessa gravità, negli ultimi i cinquant’anni. Primo Levi nei suoi libri parla proprio di questo. L’altro aspetto della qualità, è quello di tradurre questo lavoro di conoscenza in un approccio attivo delle nuove generazioni. Ciò significa dire: io ho sentito questa storia drammatica, ho sentito che c’è stata questa ingiustizia terrificante perpetrata verso miei coetanei dell’epoca, persone innocenti, ebbene, io cosa avrei fatto se fossi stato non tanto una vittima, con la quale è facile immedesimarsi perché non pone sensi di colpa, ma se fosse stato il compagno di banco di quel bambino ebreo che nel 1938 si allontanava dalla scuola perché non poteva più studiare in quella scuola in quanto ebreo?» PIERO TERRACINA. Nelle scuole deve entrare la Storia, a cui noi testimoni possiamo portare il contributo di una esperienza diretta. Una Storia rigorosa. È quello che la scuola deve pretendere, che tutti noi dobbiamo esigere. E io dico che, tutto sommato siamo fortunati. Ci sono tanti insegnanti che sono motivati e tantissimi ragazzi che vogliono sapere e che non sanno. Quando sono tra loro, vedo nei loro occhi la commozione, tocco con mano il loro interesse...Mi si stringono intorno, vogliono ancora sapere. E mi dicono: “Io non sapevo”. E non sapevano, questi ragazzi, perché questo non fa parte dei programmi della scuola. E invece conoscere il passato è importante. È importante perché certe tragedie terribili che sono accadute, se non si conoscono ci si può ricadere. È importante conoscere, e riflettere, sul passato, perché senza memoria non c’è futuro...». TOBIA ZEVI: «E c’è chi sul non sapere, imposto, costruisce una sub cultura politica...». PIERO TERRACINA. «A me è capitato di andare in alcune scuole in cui gli insegnanti mi avevano messo in guardia: “Signor Terracina attento, perché qui i ragazzi sono schierati...Devo dire che sono state le scuole dove ho ottenuto i risultati migliori, dal mio punto di vista. Quando un ragazzo mi dice: “Io non sapevo”, beh, vuol dire che ho raggiunto il mio scopo» TOBIA ZEVI. Ha ragione Piero a insistere sull’importanza di uno studio rigoroso della Storia. Una Storia studiata seriamente, sulla base di valutazioni scientifiche, di un interesse scevro da strumentalizzazioni politiche, è uno studio che non fa, o non dovrebbe far paura a nessuno, anche nelle possibili verità che talvolta può descrivere. Questo vuol dire fare Storia. Vuol dire attribuire, non sulla base del pregiudizio o sull’ignoranza, ma su una seria ricerca documentale, colpe e ragioni. Il cortocircuito che spesso si crea è il fatto che, in realtà, una verità storica, acclarata non soltanto da valutazioni scientifiche e da racconti di testimoni ma anche ormai da una tradizione consolidata di studi, viene invece presentata, e politicamente strumentalizzata, come la “verità dei vincitori”. Allora si dice: adesso vi diciamo come è andata per davvero... E senza saper nulla, senza leggere nulla, senza studiare nulla, adesso cambio visione. È una scorciatoia molto pericolosa che fa leva sull’ignoranza». L’UNITÀ. Ma oggi c’è chi vorrebbe diluire fine a cancellare torti e ragioni del ventennio fascista. E questo ci porta alle considerazioni ultime del sindaco Alemanno.. PIERO TERRACINA. «Le leggi razziali in Italia sono state un anello della catena di violenze che c’è stata fin dall’inizio, dalla Marcia su Roma. Altro che fatto isolato! Non ci dimentichiamo che in quell’epoca circolavano canzonacce fasciste, come quella che diceva “fascisti e comunisti giocavano a scopone, e vinsero i fascisti per l’asso di bastone...”. Non era questo insegnare e praticare la violenza? Se non ci fosse stato il fascismo non ci sarebbero state le leggi razziali. Ritornado alla storia, voglio dire che un testimone, quale io sono, e come lo sono tutti i sopravvissuti ai campi di sterminio nazifascisti, noi non ci sostituiamo al lavoro dello storico. Mi limito, ci limitiamo a raccontare la quotidianità della vita e della morte nei campi di sterminio, dove si entrava soltanto per morire. Erano luoghi senza speranza...Sapevamo perfettamente, e i carnefici ce lo ricordavano in ogni momento, che “uscirete soltanto attraverso il fumo dei camini”». L’UNITÀ Noi abbiamo parlato di diritto-dovere alla memoria. Del ruolo della scuola. E quello della politica quale dovrebbe essere? TOBIA ZEVI. «Ci sono due richieste: una alla politica, l’altra a noi stessi. Quella alla politica è cercare di darsi, anche se mi rendo conto che è difficile, un respiro un po’ più ampio. Per essere significativa, la politica dovrebbe evitare di parlare troppo spesso alla “pancia” più retriva della gente, di ognuno di noi: quella che, ad esempio, tende a identificare nel “diverso” il primo bersaglio possibile del proprio malcontento. La “bella politica” è quella che è in grado di indirizzare, di guidare anche se questo può voler dire pagare dei prezzi. La politica deve fare i conti con un dato che contraddistingue la mia generazione rispetto. o quella precedente, rispetto alle passate: il fatto che sono crollate completamente non tanto le ideologie come tali quanto gli schemi di comprensione della realtà. Ecco, la politica dovrebbe aiutarci a ricostruire, rinnovandoli se è il caso, questi schemi». L’UNITÀ. E l’altra richiesta? TOBIA ZEVI «L’altra riguarda noi giovani. Da giovane interessto alla politica, penso che noi giovani non dobbiamo sempre assumere una prospettiva esclusivamente rivendicativa verso la politica, ma dobbiamo “sporcarci le mani”, impegnarci, provando ad affermare quelle che sono le grande esigenze della nostra generazione ed anche di una società che si stra trasformando ma che ha dentro di sé dei rischi che c’erano nel passato. E qui mi fa piacere ricordare che proprio Piero Terracina, testimone di quell’epoca tragica, è stato una delle rare, e più forti e significative voci che si sono levate nelle polemiche di qualche settimana fa sulla vicenda dei rom. Io penso che su un tema come questo, la tutela dei diritti delle minoranze, noi giovani, soprattutto quelli che si riconoscono in un’area progressista, dovremmo essere protagonisti di una grande battaglia di civiltà...». PIERO TERRACINA. A proposito di quello che diceva Tobia, io ritengo che bisogna tornare al rispetto degli altri. E particolarmente al rispetto per i “diversi”. Anche qui, la memoria ci aiuta: allora, se un ebreo commetteva una colpa, la colpa era di tutti gli ebrei; ed oggi se un extracomunitaria, un rom, un sinti, commette un reato, questo è colpa di tutti gli extracomunitari, di tutti i rom, di tutti sinti. Questa è un’altra delle cose sulle quali dovremmo riflettere molto. Tornare al rispetto per tutti, e in particolare per i “diversi”. Quelli che noi consideriamo “diversi” ma che poi non lo sono. Perché siamo tutti uguali. E alla politica chiedo anche di contribuire all’educazione dei giovani. Supportando adeguatamente la scuola e le famiglie. Aiutando i giovani a riscoprire quei valori che si sono persi. E non per colpa loro». Pubblicato il: 10.09.08 Modificato il: 10.09.08 alle ore 9.55 © l'Unità. Titolo: Umberto De Giovannangeli. Israele pronto a liberare i capi di Hamas Inserito da: Admin - Settembre 13, 2008, 05:32:54 pm Israele pronto a liberare i capi di Hamas
Umberto De Giovannangeli La libertà per i capi politici di Hamas in cambio del soldato Shalit. È più di una ipotesi. È l’approdo, da mettere a punto, di una lunga trattativa mediata dall’Egitto tra Israele e il movimento islamico palestinese vincitore delle elezioni (gennaio 2006) nei Territori e che dal giugno 2007 ha assunto il controllo della Striscia di Gaza. La lista è pronta. L’Unità ha avuto modo di prendere visione del documento. La fonte che lo ha permesso è uno dei più stretti collaboratori del leader di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh. Ciò che emerge è un cambio di strategia negoziale da parte di Hamas: la scelta, infatti, è quella di puntare innanzitutto al ritorno in libertà dei 40 deputati legati al movimento integralista che Israele ha arrestato nel corso di ripetute incursione, nella Striscia e in Cisgiordania, successive al rapimento (giugno 2006) del caporale Gilad Shalit ad opera di un commando di Hamas. Il primo della lista dei politici da liberare è Aziz al Dweik, speaker del Consiglio legislativo palestinese (Clp, il Parlamento dei Territori). Dweik, come gli altri parlamentari di Hamas, non è accusato di crimini di sangue, ed è la ragione per la quale le autorità israeliane non hanno posto un veto alla sua liberazione. Altri nomi di spicco della lista sono quelli dei parlamentari di Hamas Ibrahim Hamad; Hassan Salame Abdullah Barghouti; Daoud Abu Seir; Rahman Zeidan (già ministro dei Lavori pubblici). Dietro la scelta di Hamas c’è un calcolo politico che investe anche gli equilibri di potere in campo palestinese. La scarcerazione dei 40 deputati, potrebbe infatti portare alla fine del mandato del presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) nel gennaio 2009 grazie al cambiamento degli equilibri in Parlamento. Abu Mazen rimarrebbe probabilmente in carica di fatto, ma ciò minerebbe la sua legittimità. L'uscita di prigione dei 40 deputati significherà che Hamas tornerà ad avere la maggioranza in seno al Clpe, con 74 seggi su 132. Il Parlamento precedente, dominato da Fatah, aveva allungato a cinque anni il mandato di Abu Mazen ovvero fino al gennaio 2010, quando sono previste le elezioni parlamentari e presidenziali. Hamas ha sempre contestato questa estensione, sottolineando che la legge fondamentale prevede un mandato di quattro anni e può essere cambiata solo con il voto dei due terzi dell'assemblea. Di nuovo maggioritari, i deputati del movimento islamico torneranno probabilmente al mandato di quattro anni che si conclude nel gennaio 2009. «La liberazione di tutti i prigionieri detenuti nelle carceri israeliane è una delle priorità della resistenza. E in questo contesto, ottenere la liberazione di parlamentari eletti dal popolo palestinese vuol dire ribadire la nostra sovranità oltre che ricostruire le istanze rappresentative della volontà popolare», dice a l’Unità Nasser al-Shaer, vice premier nell’esecutivo guidato da Haniyeh. Al Shaer rappresenta l’anima pragmatica, sociale di Hamas. È stato più volte incarcerato da Israele, anche quando ricopriva la carica di vice premier. Liberare i 40 parlamentari rappresenterebbe un indubbio successo politico per Hamas. Tanto più significativo se rapportato alle crescenti difficoltà incontrate dalla leadership moderata dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). A darne conto è lo stesso Abu Mazen. In occasione del 15.mo anniversario degli accordi di riconoscimento reciproco fra Israele e Olp, il rais palestinese ha rilasciato al quotidiano israeliano Haaretz una intervista improntata a scetticismo in cui ha riferito che nei negoziati con il premier Ehud Olmert «non sono stati registrati successi» e che nelle questioni principali sono solo state messe sul tavolo «proposte diverse». L'obiettivo di raggiungere un accordo definitivo entro il 2008 - secondo gli accordi della conferenza di Annapolis - resta lontano, Abu Mazen continuerà comunque a negoziare con Olmert fino all'ultimo giorno che resterà in carica, poi proseguirà con il suo successore, sulla base dell'esito delle elezioni primarie del partito Kadima del 17 settembre. Ma le posizioni sono distanti e forse - suggerisce - sarebbe il caso di riprendere in mano la iniziativa presentata dall'Arabia Saudita nel 2002 a Beirut. Prevedeva la normalizzazione delle relazioni fra Israele e il mondo arabo, in cambio di un ritiro totale di Israele dai territori occupati (Gerusalemme est inclusa) e di una soluzione concordata della questione dei profughi. Un progetto che - ricorda - fu ben visto allora anche dall'Iran. Esprimendosi con grande senso autocritico, Abu Mazen ammette ancora una volta che i palestinesi hanno sbagliato, nel 2000, quando hanno intrapreso una rivolta armata. «Farò tutto il possibile per impedire una terza intifada, armata», promette. Ma ha bisogno che Israele gli dia una mano. Quella mano che sarebbe pronta a firmare la scarcerazione dei 40 parlamentari di Hamas, in cambio del soldato Shalit. (ha collaborato Osama Hamdan) Pubblicato il: 13.09.08 Modificato il: 13.09.08 alle ore 7.54 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Livneh: «Per Israele Tzipi è il cambiamento, come Bar Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 05:45:04 pm Livneh: «Per Israele Tzipi è il cambiamento, come Barack»
Umberto De Giovannangeli Scrittrice e firma di punta di Haaretz, Neri Livneh, ha tratteggiato sul quotidiano progressista di Tel Aviv un ritratto non formale, ma ricco di spunti, della donna più potente (politicamente parlando) di Israele: Tzipi Livni, ministra degli Esteri, vincitrice, sia pure sul filo di lana, delle primarie di Kadima. «Più che l’Hillary Clinton d’Israele - osserva - Tzipi Livni può rappresentare per Israele ciò che Barack Obama sta rappresentando per l’America: la speranza di un cambiamento possibile». È tempo di accostamenti. È il tempo di Tzipi Livni. C’è chi guarda agli Stati Uniti e vede nella Livni una sorta di Hillary Clinton israeliana. «Comprendo l’accostamento di genere, ma non credo che le ragioni del successo di Tzipi possano trovare spiegazione in quelle che hanno portata all’ascesa, ma anche alla sconfitta, di Hillary. Soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra pubblico e privato delle due. Tzipi Livni ha custodito gelosamente la sua sfera privata, evitando qualsiasi politicizzazione, mentre Hillary ha dovuto fare i conti con un legame che era immediatamente pubblico e politico. Piuttosto, se accostamenti vanno ricercati, ne trovo più corretto un altro...». Quale? «Quello con Barack Obama. Non tanto per una comunanza di idee, quanto per come la Livni e Obama vengono percepiti dalle rispettive opinioni pubbliche: vale a dire come aria nuova in una politica vecchia che ripropone sempre gli stessi protagonisti». Sempre a proposito di accostamenti. Per restare a Israele, c’è quello con Golda Meir? «Trentaquattro anni dopo, Israele potrebbe, anche se è molto difficile, riavere un primo ministro donna. Ma il rapporto tra Tzipi e Golda finisce qui. Su ciò che ha significato Golda Meir per Israele sono stati scritti decine di libri. Per Tzipi Livni è ancora troppo presto. C’è però da notare una cosa che va a favore della Livni...». A cosa si riferisce? «A come sono state scelte. Per la prima volta nella storia di Israele, una donna è stata eletta alla guida di un partito. Eletta e non scelta, come lo fu Golda Meir, da una commissione ristretta. Tzipi Livni ha vinto una concorrenza agguerrita, che non le ha risparmiato colpi bassi. Una donna ha sconfitto due generali (Shaul Mofaz e e Avi Dichter, ndr.)- Due uomini che hanno cercato di farsi forti del loro passato militare, in una chiave molto “machista”, contro una donna “normale”. Ma è stata proprio questa normalità a rappresentare una delle ragioni di maggiore appeal di Tzipi Livni non solo e tanto rispetto agli iscritti di Kadima, quanto all’opinione pubblica israeliana che vede in lei la più valida alternativa al ritorno al potere della destra e del suo leader, Benjamin Netanyahu». Cosa incarna oggi Tzipi Livni? «Una speranza di cambiamento. Che va verificata, certamente, ma che esiste. E questo è un bene. Per Israele e per le donne israeliane che dimostrano di poter conciliare pubblico e privato. Forse non dovremo attendere ancora tanto tempo per vedere i tre poteri di Israele - giudiziario, legislativo, esecutivo - guidati da tre donne. Quello sarà un gran giorno per Israele». Pubblicato il: 19.09.08 Modificato il: 19.09.08 alle ore 8.09 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Incubo coloni ultrà come ai tempi di Rabin Inserito da: Admin - Settembre 29, 2008, 11:57:24 pm Incubo coloni ultrà come ai tempi di Rabin
Umberto De Giovannangeli Non è buon segno quando una democrazia deve «blindare» i suoi intellettuali per difenderli da attentati e minacce di morte. È un inquietante campanello d’allarme quello che scatta quando i servizi di sicurezza devono rafforzare le misure di protezione attorno alla premier incaricata di formare il nuovo governo. Israele è un Paese in trincea. E non solo per le minacce esterne, prima fra tutte quella iraniana. Dopo l’attentato a Zeev Sternhell, Israele s’interroga sul nemico interno: i gruppi dell’estrema destra. S’interroga e non sottovaluta la minaccia. Lo ha chiarito il premier dimissionario, ma ancora in carica, Ehud Olmert nella riunione domenicale del governo: «Spira un vento cattivo di estremismo, di odio, di malvagità, di insubordinazione, di illegalità, di disprezzo verso le istituzioni dello Stato», denuncia Olmert. «Tutto ciò rappresenta una minaccia per lo Stato», rileva ancora il premier (dimissionario). secondo cui non è escluso che nell’ombra agisca «un nuovo gruppo clandestino» di estrema destra. «C’è un filo conduttore fra Emile Grinzweig (un pacifista ucciso da una bomba a mano a Gerusalemme nel 1983, ndr), la terribile uccisione di Ytzhak Rabin (1995) e l’attacco dei giorni scorsi a Sternhell», osserva Olmert. Dello stesso tenore le considerazioni della ministra degli Esteri e premier incaricata, Tzipi Livni: «Quanto avvenuto al professor Sternhell - rileva la Livni - non può essere tollerato. Israele è un Paese in cui deve regnare la legge e l’ordine. Il prossimo governo che verrà formato, indipendentemente dalla sua composizione politica, dovrà non solo condannare fenomeni del genere, ma anche combatterli. Se (i zeloti oltranzisti, ndr.) hanno colpito soldati ed agenti in Cisgiordania, possono colpire anche qua». «Negli insediamenti più estremisti vengono fatte cose inaccettabili che possono mettere in pericolo l’autorità dello Stato - incalza Tzipi Livni -. Il governo - insiste la premier incaricata - ha la responsabilità e il dovere di cambiare le cose e di imporre, costi quel che costi, il rispetto della legge». Politica. Sicurezza. Conoscenza della galassia dell’oltranzismo ebraico. Se c’è un uomo che oggi in Israele racchiude nella sua biografia questi tre campi d’azione, l’uomo in questione è Avi Dichter, dal 2000 al 2005 capo dei servizi segreti interni, lo Shin Bet, l’organizzazione che con il Mossad salvaguarda la sicurezza d’Israele. Attuale ministro della Sicurezza interna dello Stato ebraico, Dichter dopo aver sfidato Tzipi Livni nelle recenti primarie di Kadima, è divenuto il più stretto alleato della premier incaricata. «Tzipi può farcela - dice Dichter a l’Unità - a dare a Israele un governo stabile e capace di portare avanti una politica di pace nella sicurezza». Signor ministro, Lei ha usato parole durissime nel condannare l’attentato al professor Sternhell. «Le ho usate a ragion veduta. Per la gravità dell’atto in sé e per il messaggio che coloro che l’hanno perpetrato intendevano lanciare. È un attacco che ci porta per molti versi, indietro di anni, ai giorni che precedettero l’assassinio di Rabin. Tanto le forze dell’ordine quanto l’apparato legale, non devono riposare fin quando non avranno messo le mani su questi terroristi e non li avranno sbattuti in prigione. Questo è quanto meritano persone che appoggiano l’assassinio di quanti non a pensano come loro». Lei ha parlato anche, a proposito dell’attentato al professor Sternhell, come di un avvertimento lanciato alla premier incaricata Tzipi Livni. «Questo gruppo di fanatici intende impedire il normale svolgimento della vita democratica e chi ha la massima responsabilità di garantirla è visto come un potenziale nemico, a cominciare dal primo ministro. In questo senso ritengo quell’atto terroristico anche un avvertimento alla signora Livni; la quale, conoscendola bene, non si lascerà intimorire». Lei ha fatto riferimento all’assassinio di Rabin. Un assassinio che l’estrema destra più radicale continua a ritenere un atto di giustizia… «La loro è una sfida a Israele, alla nostra democrazia, alle sue istituzioni rappresentative. Una democrazia è tale se rispetta e difende la libertà di opinione e il pluralismo di idee, ma una democrazia non può subire ricatti né mostrarsi incerta, titubante di fronte alle minacce, e agli atti ostili, che provengono dai suoi nemici, esterni e interni. Israele non sarà mai ostaggio di una minoranza di fanatici». Da capo di Shin Bet, Lei ha dovuto fare i conti a più riprese con l’estrema destra più radicale. Lei denunciò un complotto ordito da un gruppo di zeloti per attentare alla vita dell’allora primo ministro Ariel Sharon. «Ricordo bene quella vicenda. Si trattava di una ventina di elementi ispirati da una ideologia integralista e antidemocratica. Attorno a questi ideologi operavano un centinaio di altri estremisti, che erano riusciti a procurarsi armi e munizioni sottraendole all’esercito. Allora riuscimmo a svenare il piano contro Sharon, si era alla vigilia del ritiro da Gaza (agosto 2005, ndr.) ma quell’episodio sta a dimostrare che non è possibile abbassare la guardia contro questi fanatici disposti a tutto». Non è la sola volta che grazie ai servizi di sicurezza da Lei diretti sono stati sventati piani terroristici dei gruppi oltranzisti ebrei… «Il problema è dotarsi degli strumenti, anche di legge, necessari per affrontare questa minaccia. Quando ci troviamo a fronteggiare il terrorismo palestinese e abbiamo notizia di imminenti attentati, i presunti terroristi possono essere sottoposti ad arresti amministrativi, preventivi. C’è bisogno di adeguate misure anche verso il pericolo interno. Non dimentichiamo che questi fanatici sognano di far saltare a Gerusalemme la Moschea Al Aqsa e l’attiguo Duomo della Roccia (terzi luoghi sacri dell’Islam, ndr.). Il loro obiettivo è di scatenare una Guerra di religione, ponendo Israele contro l’intero mondo musulmano. Allora sostenni che la destra estremista rappresenta una minaccia strategica per Israele perché al suo interno agiscono elementi senza scrupoli. A distanza di tempo, resto di questa convinzione, ma con la certezza che Israele ha tutti i mezzi, la determinazione e l’unità necessari per far fronte a questo pericolo». Quando parla di unità, si riferisce anche al tentativo messo in atto dalla premier incaricata Tzipi Livni di dar vita ad un governo di unione nazionale con dentro anche il Likud (destra) di Benyamin Netanyahu? «Israele ha di fronte a sé sfide difficili, impegnative, che mettono in gioco il futuro stesso del Paese. Mi riferisco in primo luogo alla minaccia, sempre più incombente, iraniana. Guai che calcoli di parte facessero venir meno la percezione di questi pericoli. I calcoli elettorali devono essere accantonati quando in gioco è il destino di Israele». Ritiene che la comunità internazionale abbia piena consapevolezza della minaccia iraniana? «Purtroppo no. E questo è un errore che può rivelarsi tragico perché l’Iran con l’arma nucleare in mano a un regime di fanatici, è un pericolo mortale non solo per Israele ma tutto il mondo libero». Pubblicato il: 29.09.08 Modificato il: 29.09.08 alle ore 8.25 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Zeev Sternhell: «Non è in gioco la mia vita ma il ... Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2008, 12:02:12 am Zeev Sternhell: «Non è in gioco la mia vita ma il futuro di Israele»
Umberto De Giovannangeli Le ferite che fanno più fatica a rimarginarsi sono quelle dell’anima. Dalla finestra del suo studio, Zeev Sternhell fa un cenno di saluto agli uomini della polizia che, ventiquattr’ore su ventiquattro, dal giorno dopo l’attentato presidiano il palazzo in cui lo storico e la sua famiglia risiedono. Zeev Sternhell ha aperto all’Unità, unico giornale italiano, la sua casa «blindata». Con la memoria ritorna a quei momenti drammatici dell’attentato e ripete: «Al mio posto avrebbe potuto esserci un mio familiare; no, non perdonerò mai chi ha messo quell’ordigno». Il telefono squilla ininterrottamente: la Cnn lo vorrebbe in diretta, così la Bbc e Al Jazira. Mentre parliamo, telefona da Ramallah il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen): chiede notizie sul suo stato di salute, lo ringrazia per il suo impegno a favore del dialogo. Lo stesso fa la premier incaricata, Tzipi Livni:«È una donna molto determinata, credo nella sua volontà di combattere l’estremismo della destra radicale», osserva lo storico. A ravvivare l’atmosfera è il caos festante dei suoi nipotini. La stanza in cui Sternhell ci riceve è colma di libri, non solo negli scaffali, ma sui tavoli, intorno al computer, dappertutto. È il campo di «battaglia» di un intellettuale coraggioso, scomodo, e per questo da eliminare. «In gioco - dice Sternhell - non è solo la mia vita, ma il futuro stesso di Israele e della nostra democrazia». «Non ho la tempra dell’eroe - dice sorridendo lo storico - ma una cosa è certa: non mi farò intimidire». Professor Sternhell, torniamo a quel mercoledì notte…. «Il ricordo di quei momenti non mi abbandonerà più… Era circa a mezzanotte, e prima di andare a dormire sono andato a chiudere il cancello esterno della porta di casa. Aperta la porta c’è stato lo scoppio e ho capito che si trattava di una carica esplosiva. Non posso pensare cosa sarebbe successo se ad aprire la porta fosse stato uno dei miei nipotini che era lì fino a poco prima..». Chi può essere stato? «Non essendo membro di alcuna famiglia mafiosa, non vedo altra possibilità che chi mi ha fatto questo appartenga al gruppo sul quale dico da 40 anni cose dure e scomode. Non so se è un singolo, una cellula di due o tre persone o magari i membri di un intero insediamento che hanno deciso di saldare il conto con me». Lei ha detto che se si tratta di una organizzazione, ciò potrebbe essere il segnale dell’inizio della fine della democrazia israeliana. «Ho dedicato molti anni allo studio di questo genere di processi politici e sociali. Società, anche illuminate e europee, si sono trovate in questo tunnel. Il problema non è tanto nel gruppo che compie gli atti, ma nel modo in cui la società reagisce. C’è chi fa un mezzo sorriso di compiacimento o magari una smorfia di disaccordo. C’è chi allarga le braccia dicendo "che si può fare?". Nella mia attività di studioso troppe volte ho visto verso i coloni un sorriso indulgente, una strizzatine d’occhio. Ricordo che negli scorsi anni 80 il premier Shamir (Likud) disse di un gruppo terroristico di coloni che erano dei "gran bravi ragazzi". Per lui, primo ministro d’Israele, si trattava di patrioti pieni di buone intenzioni, non di criminali come essi erano….Quando ciò accade, quando si banalizza questo fenomeno o peggio ancora si giustificano questi "patrioti", allora siamo di fronte all’inizio dello sfaldamento della democrazia che, di per sé stessa, è una forma fragilissima di regime, da tenere continuamente sotto protezione. Se si ledono le fondamenta di questa struttura, tutto l’edificio può crollare. Di queste fondamenta, la più importante è forse quella della libertà di parola che deve essere esercitata in una atmosfera in cui la violenza non la metta in pericolo. Le idee, tutte le idee, hanno il diritto di essere espresse e ascoltate, senza che nessuno lo impedisca, tanto meno facendo uso della violenza - e alla fine la maggioranza deciderà, difendendo anche i diritti della minoranza». Pur condannando l’atto di cui Lei è stato vittima, la destra più moderata non le perdona alcune dichiarazioni, come quando disse anni fa, che i se i palestinesi ragionassero meglio, indirizzerebbero la loro lotta contro le colonie e non all’interno dei territori consensuali di Israele. «Innanzitutto ho più volte detto che questa mia dichiarazione, in quanto a chiarezza non è certo stata delle migliori. L’ho spiegata un infinito numero di volte chiarendo che non c’era ovviamente nessuna intenzione di dare un via libera morale ai Palestinesi ad assassinare coloni. Ma prendendo come punto di partenza proprio questa mia dichiarazione, e in generale tutto il mio pensiero totalmente negativo sugli insediamenti, possiamo arrivare a capire ancor meglio la pericolosità della situazione per la democrazia: l’estrema destra, soprattutto quella negli insediamenti dei territori occupati, vede nelle mie parole dette e scritte, un pericolo, e abbandonando le regole della democrazia, decide di reagire con la violenza, l’intimidazione o forse peggio, con l’eliminazione. La mia forza è nelle parole e queste parole - non dimentichiamolo - oggi sono in buona parte condivise dalla maggioranza degli israeliani». Nei giorni successivi all’attentato, Lei aveva rivolto un’accusa generale ai coloni e aveva parlato del pericolo che essi rappresentano per la democrazia israeliana. «Ho sempre parlato delle frange più estreme dei coloni. Facciamo un attimo chiarezza su questo punto, anche per farlo ben capire al pubblico che non conosce bene questa realtà. Oggi vivono nei Territori circa 250.000 ebrei. Di questi, circa 200.000 non sono lì per motivi ideologici ma per varie altre ragioni - migliore qualità della vita, abitazioni più economiche ecc.... Anche dei restanti 50.000, la maggioranza è gente con la quale divergo ideologicamente in modo profondo, ma con la quale possiamo intrattenere un dialogo civile. Il problema è che all’interno della seconda e terza generazione di nati nei Territori, si sono sviluppate quelle frange estremiste alle quali mi riferisco. Un pugno di persone che non riconosce nessun potere costituito, nemmeno quello della loro leadership interna - il Consiglio di Giudea e Samaria - visto come un manipolo di traditori che dialoga con "il nemico" (lo Stato ebraico). Questo pugno di persone calpesta la legge e fa uso di violenza tanto contro palestinesi quanto contro rappresentanti del potere costituito ebraico - soldati, poliziotti e funzionari - che spesso sono lì solo per proteggerli». E lo Stato fa abbastanza per affrontare questo pericolo? «Non è necessario che sia io a dare la risposta; basta leggere i rapporti dei magistrati dell’Avvocatura di Stato, in cui si dice espressamente che nei Territori le leggi non vengono applicate, o meglio, ci sono nei Territori due modelli legali paralleli - uno per i palestinesi e uno per i coloni. E da parte mia, continuerò a dire e a sostenere che nei Territori c’è una forma di regime coloniale che va abbattuto. L’inizio di questo è l’applicazione della legge anche ai coloni. L’indulgenza nei loro confronti ha portato ad una situazione degenerativa in cui ciò che mi è stato fatto si inserisce in modo del tutto ovvio e naturale. In fondo è solo stato "esportato" al di qua della Linea verde un metodo di comportamento che quando viene compiuto contro palestinesi nei Territori, viene tollerato, spesso neppure indagato e comunque non approfondito». Ma contro questi oltranzisti e contro il fenomeno delle «due leggi, una per i palestinesi e una per i coloni» si sono lanciati l’altro ieri anche Olmert, Tzipi Livni e Haim Ramon. Forse da un male potrà uscire un bene? «Non posso che sperarlo. Il problema che questa situazione è davanti ai nostri occhi da anni. Non si doveva certo aspettare un attentato a Zeev Sternhell per togliersi il paraocchi. E poi un governo, di qualsiasi colore sia, è lì per agire e non per parlare. La solidarietà e le parole di condanna e di buoni propositi sono una cosa; trasformare tutto questo in operativo è tutt’altra storia. Bisogna dare gli ordini in modo chiaro e categorico; bisogna appurarsi che tutta la catena sia pronta e capace ad applicarli, dal premier, agli ultimi dei poliziotti, dei soldati e dei giudici; bisogna confrontare l’opposizione politica di quelle forze che da sempre vogliono conferire ai coloni l’impunità di fronte ad atti illegali compiuti contro i palestinesi. Se veramente tutto questo avverrà, potrò dire che sarà valsa la pena di subire ciò che ho subito». Pubblicato il: 30.09.08 Modificato il: 30.09.08 alle ore 8.56 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI Israele, sul bus della morte tra paura e sogni di pace Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2008, 05:00:52 pm Israele, sul bus della morte tra paura e sogni di pace
Umberto De Giovannangeli Si sono sposati giusto dopo una terza guerra e hanno avuto un figlio prima o dopo la guerra successiva», sintetizza con efficacia Nahum Barnea, prima firma di Yediot Ahronot, il più diffuso quotidiano d’Israele. È così. Ma nonostante questa amara verità, Israele resta una fortezza ma non è mai stata una guarnigione. È una società militarizzata ma mai pervasa da una cultura, da una ideologia militarista. Un anno fa, in occasione del Capodanno ebraico, il quotidiano Ma’ariv aveva chiesto ai suoi lettori di cosa fossero più orgogliosi come israeliani: le conquiste scientifiche e tecnologiche venivano prima delle forze armate. Un popolo in trincea che non smette di sperare di poter vivere, un giorno non lontano, una vita normale in un Paese normale. Non sarà facile. Perché non è facile liberarsi dal peso di una memoria collettiva segnata da lutti, guerre, terrore. E da una ferita che resta aperta: quella della Shoah. Una memoria che spiega molto delle paure e i pregiudizi, le passioni, le sofferenze e l’orgoglio che continuano a far girare la vita pubblica. Con me, sul «bus della morte», ho una copia, ingiallita dal tempo, dell’ultima pagina del 2 aprile 2002 di Haaretz, il giornale progressista israeliano. Una pagina dedicata ai morti, nella quale sono riportati i loro nomi in bianco su sfondo nero, fitti fitti, perché ci stessero tutti nella pagina. E a piè di pagina c’è scritto: morti dal 27 settembre 2000 fino a ieri, primo aprile 2002. Tutti morti per strada, al ristorante, al bar, andando a scuola, facendo la spesa. Dilaniati dalle bombe umane, dai kamikaze palestinesi. Molti di loro, donne, giovani, anziani, viaggiavano su un bus della linea 18. Ricorda Manuela Dviri, scrittrice coraggiosa, che ha saputo trasformare un dolore indicibile - la morte in combattimento in Libano del figlio Jonathan - in energia positiva, spesa nel dialogo con altre donne, israeliane e palestinesi, segnate dallo stesso dolore: «424 nomi, nessuno può ricordare 424 nomi, 424 facce di donne, uomini, bambini apparse per un attimo alla televisione o sulle pagine dei giornali e poi ripiombate nell’anonimato e dimenticate per sempre. 424 storie, una diversa dall’altra, e ognuna - osserva Manuela - sarebbe potuto essere la mia. Se avessi fatto quella strada e non quell’altra, se fossi andata al supermarket invece che dal fruttivendolo, se invece di stare a casa avessimo deciso di andare al ristorante del pesce… Quante volte il mio nome sarebbe potuto finire nella lista». «Ma siccome non c’è finito ho imparato come tutti a convivere con la paura. E ci si convive - osserva ancora Manuela Dviri - con , alla buona, con un po’ di fatalismo e una buona dose di classica scaramanzia». Convivere con la paura. Senza restarne schiacciati, annichiliti, annientati dal di dentro dell’anima. Scommettere sulla vita. Una vita normale. Senza Nemici da annientare o disegni di grandezza da realizzare. È il coraggio dell’Israele che non si arrende. L’Israele che scommette sul dialogo con i palestinesi non per un astratto senso di giustizia ma per un ben più concreto, salutare, insopprimibile bisogno di normalità. È l’Israele di Zeev Sternhell. Era l’Israele di Yitzhak Rabin, Può essere l’Israele della «nuova Golda Meir»: Tzipi Livni, anche lei entrata nel mirino dei fanatici oltranzisti sostenitori di «Eretz Israel». È l’Israele di Adel Misk e Rami Elhanan. Adel Misk ha perso il padre, ucciso davanti a casa senza alcuna ragione da un colono israeliano. Rami Elhanan, ha perso Yael, la figlia quattordicenne, in un attentato kamikaze a Gerusalemme. Adel e Rami fanno parte dell’associazione Parents Circle che riunisce oltre 500 famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso dei famigliari a causa del conflitto. Avere la guerra negli occhi. E nel cuore un dolore indicibile. Convivere con una ferita dell’anima che sai non potersi più rimarginare. E poi.Poi ricominciare una lenta, eroica risalita dall’inferno. Trasformare una pena in energia positiva. Riuscire a non essere travolti dall’odio e cercare, invece, di far nascere da uno strazio condiviso una esperienza collettiva di riscatto: è il messaggio di speranza incarnato dalle famiglie di Parents Circle. «Stiamo cercando di far arrivare ai nostri leader un messaggio: è importante fare presto per non far soffrire altre persone. E se noi, che siamo quelli che hanno pagato il prezzo più alto, possiamo ancora parlarci l’ un l’ altro, allora chiunque lo può fare», dicono Adel Misk e Rami Elhanan. Adel e Rami sono convinti che gli individui hanno il potere di arrestare la violenza anche in una regione così devastata dalla disperazione, anche correndo il rischio, reale, di essere considerati dei traditori da parte di gruppi estremisti o che credono alla politica del dente per dente. Traditori da entrambe le parti. Ma loro insistono, perché «il dolore di una madre è universale, e la perdita di un figlio devasta chiunque», come dice Adel. E Rami aggiunge: «Bisogna elaborare il dolore, riconoscerlo nell’altro, non volere vendetta ma giustizia, essere insieme non solo per dialogare ma per contribuire a risolvere l’ingiustizia e l’illegalità dell’occupazione militare israeliana, riuscire a vivere in pace tra palestinesi e israeliani». Ma perché questo «miracolo» possa avverarsi occorre che Israele faccia i conti, fino in fondo, con l’ambiguità della sua «doppiezza». Perché oggi esistono due Israele, come rimarca anche un documentato rapporto pubblicato dal New York Times Books Review: uno dentro la frontiera del 1967, l’altro oltre questa linea, nei Territori occupati. Il primo è una democrazia vibrante, con arabi membri del Parlamento, professori universitari e avvocati, reginette di bellezza e soldati. Non ci sono strade separate per arabi ed ebrei, non villaggi inaccessibili, non posti di blocco né barriere di sicurezza. Ma oltre la linea c’è un altro Paese: non Israele né Palestina ma un luogo senza legge dove il colono ebreo, fucile in una mano e libro delle preghiere in un’altra, è il re indiscusso. Gli insediamenti sono illegali, in contravvenzione all’articolo 49 della Quarta convenzione di Ginevra che impedisce a una potenza occupante di trasferire la sua popolazione civile nei territori occupati. Ma per coloro che rivendicano un mandato divino, la Convenzione di Ginevra è solo carta straccia. Scavare nel dolore, nelle paure, nelle speranze di israeliani e palestinesi, significa cogliere l’essenza di un conflitto che si protrae da decenni: «Alla base di tutto - riflette Amos Elon, tra i più impegnati scrittori israeliani - vi è una disastrosa lotta tra due diritti, uno scontro tra due necessità insopprimibili, l’essenza stessa della tragedia». L’unico modo per risolvere il conflitto, l’unica soluzione giusta e praticabile - sottolinea Elon - «sarebbe quella di dividere il Paese tra i due contendenti». La pace fondata sul principio di due popoli, due Stati. La pace dei coraggiosi. Ne abbiamo incontrati molti, in Israele e nei Territori. A unirli c’è la consapevolezza che quella che si sta combattendo da una vita è la guerra che non si può vincere. E che l’unica strada per conquistare la pace è quella del dialogo, dell’incontro, del riconoscere, reciprocamente, il diritto dell’altro. È la convinzione che anima l’esperienza umana e intellettuale di David Grossman. «Israeliani e palestinesi - ci dice - devono rafforzare chi fra loro, e anche fra gli appartenenti all’altro popolo, è davvero interessato alla pace, chi è maturo per un sofferto compromesso». «Se non lo faremo - avverte lo scrittore - il campo sarà definitivamente occupato dagli estremisti, dai violenti, dai guerrafondai. Se non lo faremo, i nostri figli potranno solo vagamente ricordare per cosa vale la pena di combattere e a cosa possono aspirare». È una scommessa sul futuro. Un investimento collettivo. «La pace - sottolinea Grossman - è l’unica opportunità che abbiamo di vivere una vita piena. In condizioni difficili, certo, privi di illusioni e dolorosamente consapevoli di tutti i nostri volti e di tutte le nostre cicatrici. Ma vivere, finalmente, non solo sopravvivere fra una tragedia e l’altra». Pubblicato il: 01.10.08 Modificato il: 01.10.08 alle ore 11.11 © l'Unità. Titolo: U. DE GIOVANNANGELI Yehoshua: Livni coraggiosa Israele fermi la destra fanatica Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2008, 05:57:19 pm Yehoshua: «Livni coraggiosa Israele fermi la destra fanatica»
Umberto De Giovannangeli «Di fronte all’attentato a Zeev Sternhell cresce in me la convinzione che uno Stato di diritto non può pensare di reggere a lungo intrecciandosi con un regime di occupazione esercitato alle porte di casa. Questa situazione ha finito per creare una sorta di "terra di nessuno", nei territori occupati e "insediati", in cui frange di oltranzisti hanno ritenuto, purtroppo spesso a ragione, di godere di una assoluta impunità. Ed ora pensano di poter dettare la loro "legge", fatta di furore ideologico e di violenza, anche dentro Israele». Israele, le sue paure e le sue speranze. Siamo ad Haifa, la «città del dialogo», per incontrare il più affermato scrittore israeliano contemporaneo, Abraham Bet Yehoshua. Il suo studio è, come sempre, stracolmo di libri; un caos «ordinato», scherza lo scrittore, sul quale regna sovrana la «donna della mia vita»: la moglie Rivka, psicologa e psicanalista. Israele s’interroga sul pericolo interno: quello dell’estrema destra. Qual è la sua opinione? «Per troppo tempo si è sottovalutato questo fenomeno, come se fosse marginale, residuale. Non è così. E l’attentato a Zeev Sternhell ne è una tragica riprova. Per troppo tempo questi fanatici estremisti hanno goduto di comprensione e di impunità. Spero che le cose cambino e al più presto, e le dichiarazioni di Tzipi Livni (la premier incaricata, ndr.) mi sembrano in questo senso incoraggianti. Ma per sconfiggere questi oltranzisti occorre rilanciare con forza il negoziato di pace….». Quale nesso esiste tra la pace e la sconfitta dell’estrema destra radicale? «La pace con i palestinesi, e la fine del regime di occupazione nei Territori, non è una gentile concessione al "nemico", ma è la condizione fondamentale per preservare il nostro sistema democratico e quei valori che ne sono a fondamento; sistema e valori contro cui si scagliano coloro che ancora plaudono all’assassinio di Yitzhak Rabin». Insisto su questo punto: perché la fine dell’occupazione può divenire un efficace antidoto contro l’affermarsi di una cultura e di una pratica estremista in Israele? «Perché spazza via quella cultura dell’emergenza sulla base della quale c’è chi tende a mettere tra parentesi qualsiasi altra cosa. Noi non stiamo parlando di territori di oltremare, stiamo parlando di città palestinesi che sono a pochi chilometri da Gerusalemme o da Haifa. Si confiscano terre palestinesi illegalmente, si permette che coloni che risiedono in insediamenti illegali possano compiere atti provocatori contro i palestinesi senza per questo incorrere nelle pene che analoghe azioni comporterebbero se commesse in Israele e contro altri cittadini israeliani. Questa logica colonialista e militarista rischia di trasformarsi in un cancro le cui metastasi aggrediscono il corpo sano di Israele. L’emergenzialismo diviene sinonimo di impunità; e l’impunità porta con sé la convinzione che tutto sia lecito, anche attentare alla vita di chi la pensa diversamente. Come è accaduto con Rabin, come poteva ripetersi con Sternhell…». La premier incaricata Tzipi Livni ha avuto parole durissime contro i gruppi oltranzisti dopo l’attentato al professor Sternhell. «È stata una presa di posizione netta, coraggiosa. Ora mi attendo che alle parole seguano atti concreti. Una minoranza di fanatici non può tenere in scacco un intero Paese e la sua vita democratica». In Cisgiordania vivono oltre 230 mila coloni. Lei ritiene davvero possibile una loro evacuazione come è avvenuto con quelli di Gaza? «Credo che molti di loro, quelli che sceglieranno di non rientrare in Israele, potranno rimanere dove sono, come cittadini ebrei di uno Stato palestinese. Nel mondo ci sono tante minoranze etniche che vivono sotto la giurisdizione di un altro Stato. Perché dobbiamo escludere questa possibilità per il futuro del Medio Oriente?». Negoziare la pace. Qual è per Lei la questione davvero cruciale tra le tante che caratterizzano questo interminabile conflitto? «La definizione dei confini. Questo è il punto di svolta. Perché la mancanza di confini fra due nazioni è una delle cause principali del sangue versato in tutti questi anni. La divisione fisica, territoriale, è il mezzo per porre fine al disegno del Grande Israele e della Grande Palestina. Mi lasci aggiungere che la definizione dei confini non è solo un esercizio diplomatico ma è, per noi israeliani, anche qualcos’altro, di molto più profondo…». In cosa consiste questo «altro»? «Definire i confini ci impone di ripensare noi stessi, rivisitare la storia di Israele e tornare agli ideali originari del sionismo, per i quali l’essenza dello Stato di Israele non si realizzava nelle sue dimensioni territoriali né in un afflato messianico, bensì nella capacità di fare d’Israele un Paese normale. Lei mi chiedeva cos’è per me la pace? La risposta è semplice e al tempo stesso terribilmente difficile da realizzare: la pace è la conquista della normalità. E quando ci sarà la pace e il quadro normale dello Stato d’Israele consentirà il riconoscimento definitivo del consesso dei popolo, e in particolare dei popoli dell’area in cui ci troviamo, ci renderemo conto che "normalità" non è una parola spregevole ma, al contrario, l’ingresso in una epoca nuova e ricca di possibilità, in cui il popolo ebraico potrà modellare il proprio destino, produrre una propria cultura completa. Si dimostrerà il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari - come lo è ogni popolo - senza preoccuparci di perdere l’identità. D’altro canto, l’abbattimento del "Muro" che riguarda noi israeliani e i palestinesi non può portare con sé l’idea di una unificazione tra due entità nazionali che restano comunque separate. Voglio essere ancora più esplicito: l’opposto del "Muro", la sua alternativa non è uno Stato binazionale, che era e resta una soluzione impraticabile». Su cosa fonda questa valutazione? «Alla base vi sono ragioni molteplici e di diversa natura. In questo conflitto israeliani e palestinesi hanno rafforzato le rispettive identità nazionali, oltre che una diffidenza reciproca. Alla fine, spero e credo, ci sarà pace ma mai "amore". Se pace sarà, sarà la pace dei generali, come Yitzhak Rabin, che combatterono per una vita contro il nemico e da questa esperienza trassero la convinzione che non esiste una via militare alla sicurezza e alla normalità per Israele. E poi alla base della separazione in due Stati c’è anche un’altra ragione che investe l’essenza di Israele, che rimanda alla sua identità ebraica. Ed è proprio per preservare questa identità, insieme ai suoi caratteri democratici, che occorre separarci riconoscendo all’altro, ai palestinesi, il diritto, che porta con sé anche obblighi e doveri, ad un proprio Stato. Mi lasci aggiungere che oggi sono sempre di più gli israeliani consapevoli di quanto sia insensata la presenza di colonie che rischiano di imprigionare israeliani e palestinesi in uno Stato a doppia etnia il quale, col tempo, potrebbe anche diventare a maggioranza palestinese. Il muro può benissimo esistere, ma solo lungo le frontiere legittime del 1967, riconosciute dal mondo intero. E del resto non lo chiamerei più Muro a quel punto, ma semplicemente frontiera». Nei giorni scorsi, assieme ad altri importanti scrittori israeliani, Lei è stato tra i firmatari di un appello al premier (dimissionario) Olmert perché accetti di liberare 450 detenuti palestinesi in cambio del soldato Gilad Shalit, rapito nel giugno 2006 da un commando palestinese. Quell’appello ha suscitato polemiche… «So bene che tra i palestinesi che dovrebbero essere liberati ve ne sono molti che sono stati coinvolti in gravi e dolorosi attentati. Ma la vita dei nostri soldati non è mai stata misurata in termini di prezzo ma di valore. E questo vale anche per il soldato Shalit». Pubblicato il: 03.10.08 Modificato il: 03.10.08 alle ore 8.26 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Una giornata con Tzipi Livni «Con me Israele cambierà Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2008, 12:38:12 am Una giornata con Tzipi Livni «Con me Israele cambierà»
Umberto De Giovannangeli I mastodontici «angeli custodi» dello Shin Bet (il servizio segreto interno) la circondano, facendola quasi scomparire dalla vista. Dopo l’attentato a Zeev Sternhell, le misure di sicurezza attorno alla premier incaricata sono state raddoppiate e la sua è diventata una vita blindata. La vita di Tzipora (Tzipi) Livni, oggi la donna più potente in Israele e nel Medio Oriente. L’Unità ha avuto modo di seguirla in un giorno «normale». Una «normalità» sfiancante. Scandita da riunioni di partito, incontri diplomatici (la Livni è ministra degli Esteri in carica), vertici con i leader delle forze politiche che dovrebbero far parte del nuovo governo. Per gli zeloti dell’ultradestra, Tzipora ha tradito gli ideali della sua famiglia, quelli per cui si era battuto suo padre, Eitan Livni, figura storica dell’Irgun e poi parlamentare del Likud per molti anni. A chi l’accusa di tradimento, Tzipi replica seccamente. Attaccando: «Sulla tomba di mio padre - dice - c’è scritto: qui giace il capo delle operazioni dell’Irgun, l’organizzazione clandestina che ha combattuto per la nascita dello Stato d’Israele. Sulla tomba è disegnata la mappa della Grande Israele. Molti - prosegue la premier incaricata - continuano a chiedermi se il compromesso territoriale è contro l’ideologia di mio padre. Ma lui mi ha insegnato a credere in Israele come uno Stato democratico dove tutti hanno gli stessi diritti. Ho dovuto accettare il fatto che le proprie idee non possono essere del tutto realizzate, ma si può scegliere quali sono le cose più importanti. Ed è quello che faccio». Infaticabile. Determinata. Non nasconde le sue ambizioni (già nel 2007 Time l’ha posta fra le 100 persone più influenti nel mondo e Forbes al 52 posto fra le donne) e al tempo stesso rivendica, e difende con passione, il suo ruolo di madre e di moglie. La sua grinta si scioglie in un sorriso molto dolce quando parla dei suoi due figli e della fatica «ripagata» di riuscire a strappare uno spazio quotidiano per giocare con loro e aiutarli negli studi. La sua diplomazia familiare è messa a dura prova, ci confida una sua assistente, solo quando si tratta di decidere dove andare a mangiare: lei vegetariana contro i figli «carnivori». In questo bisogno di normalità, Tzipi Livni incarna la speranza di Israele: quella di riuscire, un giorno non lontano, a non vivere più in trincea con l’orecchio incollato alla radio per sapere se l’autobus su cui hai mandato i tuoi figli a scuola è stato fatto saltare da un kamikaze palestinese. Parla di normalità, Tzipi Livni, con le donne di Kadima. E promette loro di portare una ventata di aria «fresca, pulita» nella politica israeliana «ammorbata» da scandali sessuali e corruzione. Dice di lei Aluf Benn, editorialista di punta di Haaretz: «Tzipi Livni ha imparato ad ascoltare i consiglieri e ha saputo raccogliere attorno a sé, per la sua campagna nelle primarie, la maggior parte della squadra politica e comunicativa che fu di Ariel Sharon. Ma la Livni è ben diversa da Sharon. Appartiene a un’altra generazione e non è caratterizzata da quel cinismo, quell’umorismo graffiante e tutte quelle storie di guerra che erano i tratti tipici di Sharon. Ama farsi capire, ma tende a non prendersela per ciò che la stampa dice di lei né a lamentarsi dei giornalisti, come sono soliti fare tanti altri politici. Per lei la cosa importante dimostrare fiducia in se stessa e un pizzico di distacco. Chi la incontra per la prima volta resta colpito dalla sua franchezza. Nei corridoi della Knesset è meno benvoluta «perché è stata classificata già da tempo come un’aspirante alla corona ambiziosa e temibile. La Livni - racconta Benn - mette per iscritto i suoi pensieri. La sua attenzione è meno concentrata sulle grandi idee e più sulla soluzione dei problemi. Tende a occuparsi dei dettagli. È così che ha imbastito quello che divenne noto come il «compromesso Livni», che permise a Sharon di far approvare al governo il disimpegno dalla Striscia di Gaza senza l’appoggio di Benjamin Netanyahu (il leader del Liud, destra, ndr.). È così che stese la bozza della piattaforma di Kadima, ed è così che suggerì a Ehud Olmert la via d’uscita politica dalla seconda guerra in Libano. Ma in tutti questi casi, c’era sempre qualcuno sopra di lei che prendeva la decisione finale, assumendosene la responsabilità. Ora non potrà più permettersi questo lusso. «Da adesso in avanti - conclude l’editorialista di Haaretz - questo sarà il lavoro di Tzipi Livni, e sarà messa alla prova dai suoi colleghi politici, dai mass-media e dall’opinione pubblica». Un apprendistato che Tzipora ha consumato presto. I suoi colleghi -avversari hanno imparato a conoscere la sua caparbietà, legata sempre a un disegno politico. Quello che la Livni ripete negli incontri pubblici come nelle, poche, uscite con la stampa. «Sono qui - è il tasto su cui batte con più forza - per perseguire un solo obiettivo, quello di uno Stato che sia ebraico e democratico; ecco perché sostengo la creazione di uno Stato palestinese, a condizione che esso rappresenti la soluzione nazionale per tutti i palestinesi esattamente come Israele rappresenta la soluzione nazionale per gli ebrei. A farci da guida (politica) in questa giornata con Tzipi è l’uomo che ha inventato la campagna elettorale di Tzipi Livni per la leadership di Kadima: Tzachi Hanegbi, presidente della Commissione esteri e sicurezza della Knesset, il Parlamento israeliano. Hanegbi ci ospita nella sua auto, anch’essa blindata, che chiude il corteo di vetture che accompagnano la Livni ad un meeting di partito. «Ho lavorato con lei per anni - ci dice -. Senz’altro Tzipi non ha l’esperienza di Netanyahu o Barak (il ministro della Difesa e leader laburista, ndr.), ma la loro storia è anche segnata da fallimenti. Tzipi ha esperienza sufficiente per stare al timone. Io credo che guiderà il Paese con responsabilità e con coraggio». Quel coraggio che la giovane Tzipora mise in mostra nei quattro anni in cui (poco più che ventenne) prestò servizio nel Mossad, il servizio segreto esterno israeliano. «Vai avanti, fai piazza pulita», le ripetono i giovani di Kadima che l’attendono in un albergo, super presidiato, sul lungomare di Tel Aviv. Ai giovani piace l’immagine di «Tzipi l’incorruttibile», non a caso la chiamano Mrs Clean, Signora Pulizia, alle ragazze «la sua capacità di saper coniugare idealità e concretezza, con una dose di sano buon senso che le donne hanno molto più dei maschi»., dice Yael, 22 anni, studentessa all’Università Bar Ilan. La strada per formare il nuovo governo è tutta in salita e piena di ostacoli, sottoforma di gelosie personali e voracità di posti di potere. Tzipora lo sa bene ma non per questo si lascia smontare: «Di natura sono ottimista - afferma - e prima di gettare la spugna devo essere a posto con la mia coscienza». Tzipi vorrebbe trattenersi con i giovani che l’hanno attesa per ore. Ma gli impegni incombono. C’è un incontro a Gerusalemme con i capi di Shas, il partito ortodosso sefardita, e poi una cena di lavoro con Barak e consorte. Nel far rientro a Gerusalemme, abbiamo modo di conversare ancora con Tzachi Hanegbi, l’uomo che custodisce segreti e sogni (politici) della cinquantenne prima ministra in pectore. Spariamo a bruciapelo la domanda: «Lei che ha avuto modo di lavorare a stretto contatto con quattro primi ministri: Shamir, Netanyahu, Sharon e Olmert, ritiene che la Livni sia alla loro altezza?». La risposta, molto ponderata, arriva quando il corteo di auto a sirene accese, e zigzagando tra ruspe, posti di blocco e cantieri all’aperto, raggiunge la sede del ministero degli Esteri. Hanegbi riesce a fendere la barriera umana degli 007 e a presentarci alla Livni. Il tempo di un sorriso, una stretta di mano, una battuta, «spero che Tzachi non abbia esagerato nel raccontarmi». E una promessa: un’intervista a l’Unità da prima ministra, «se riuscirò in questa impresa titanica». «Le devo una risposta - dice Hanegbi prima di salutarci -: Tzipi è della stessa generazione di Netanyahu e Olmert, una generazione che un modo di vedere più moderno, orientato verso la vita civile, meno filtrato dalla divisa militare. Persone che fanno parte delle nuove generazioni comprendono il peso dei cambiamenti che stanno avvenendo nel Paese. Lei mi ha chiesto se Tzipi ha la forza mentale e l’elasticità possedute dai grandi leader che sono stati fondamentali nella costruzione dello Stato, come Shamir e Sharon, e ovviamente Rabin? Queste sono qualità che puoi scoprire solo in periodi di crisi». Tzipora ha lanciato la sua sfida. Una donna alla guida d’Israele. Trentaquattro anni dopo Golda. Per Israele sarebbe una svolta, un investimento sul futuro. Pubblicato il: 04.10.08 Modificato il: 04.10.08 alle ore 12.34 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Nobel della Pace, la Cina in Guerra Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 05:20:14 pm Nobel della Pace, la Cina in Guerra
Umberto De Giovannangeli È il Nobel più insidioso. Quello più politico. Il Nobel per la Pace. E quest’anno sembra esserlo ancora di più. Cina e Russia aspettano con trepidazione l’annuncio dei vincitori del Premio Nobel per la pace del 2008, anno nel quale si celebra il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. I principali candidati infatti sono dissidenti cinesi o russi.Tra i cinesi il nome che si sente più spesso è quello di Hu Jia, l’attivista democratico condannato la primavera scorsa a tre anni e mezzo di prigione per aver scritto articoli che costituirebbero «un incitamento a sovvertire i poteri dello Stato». Gli altri nomi ricorrenti sono quelli dell’avvocato Gao Zhisheng, della dissidente uighura Rebiya Kadeer e dell’esiliato Wei Jingsheng. Secondo Stein Toennesson, direttore dell’Istituto di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, «il comitato del Nobel si interessa da anni alla Cina ma è possibile che finora non abbia trovato i candidati adatti o che non abbia voluto interferire con la preparazione delle Olimpiadi. Ora i Giochi di Pechino si sono conclusi e sono stati un successo da molti punti di vista ma certamente non da quello dei diritti dell’uomo. Nei giorni scorsi i portavoce del governo cinese hanno ripetuto ossessivamente di sperare che il Nobel vada «a qualcuno che lo merita veramente» e hanno minacciato rappresaglie contro il governo norvegese. Il gruppo internazionale Chinese Human Rights Defender (Chrd) afferma di aver ricevuto «due relazioni separate» sulla situazione di Gao Zhisheng, che sarebbe detenuto con la sua famiglia in una «prigione segreta» alla periferia di Pechino e sottoposto a continue torture e umiliazioni. Il Chrd precisa di «non essere stato in grado di verificare in modo indipendente » questa notizia. In un comunicato il gruppo aggiunge che Hu Jia, che soffre di cirrosi epatica cronica, è sottoposto a un pesante regime carcerario, nel quale viene spesso punito per i suoi tentativi di difendere i diritti dei detenuti. Chrd afferma che Hu, detenuto nella prigione di Chaobai, è stato rinchiuso per 10 giorni in cella d’isolamento a partire dal 13 agosto scorso. Il dissidente, che fu tra i primi a organizzare forme di assistenza per le migliaia di contadini che avevano contrattol’Aids nella provincia del Henan a causa di donazioni di sangue fatte senza rispettare le norme di sicurezza, viene abitualmente costretto a svolgere lavori pesanti. Gli altri dissidenti cinesi sono l’ex imprenditrice uighura Rebiya Kadeer, 62 anni, e il promotore del Muro della Democrazia Wei Jingshen (58). Entrambi vivono in esilio negli Usa, Wei dal1997 e Kadeer dal 2005. Entrambi hanno trascorso lunghi periodi in prigione, 15 anni Wei e sette anni Kadeer. Quel Nobel sarebbe una provocazione, una intollerabile ingerenza negli affari interni della Repubblica popolare cinese, avvertono minacciosi i portavoce del governo di Pechino. Fonti vicine al comitato dei Nobel confermano a l’Unità che nell’immediata vigilia della proclamazione del vincitore, vi sono state pressioni perché la scelta cadesse su candidati meno «pericolosi» sul piano politico. Ma non è solo Pechino a guardare con apprensione, e manifesta ostilità, alla cerimonia di oggi. Anche Mosca è nervosa. Tra i candidati russi è stato fatto il nome dell’avvocatessa cecena Lidia Yussupova, direttrice del gruppo umanitario Memorial. In questi anni, la Yussupova è stato in prima linea nel denunciare i crimini di massa, contro l’umanità, perpetrati dalle truppe russe nella martoriata Cecenia. Altri possibili vincitori sono il medico Denis Mukwege, fondatore di un ospedale per le donne vittime di violenza sessuale nel Congo, il leader dell’opposizione dello Zimbabwe, Morgan Tsvangirai, il diplomatico finlandese Martti Ahtisaari, negoziatore nella crisi del Kosovo. Dalle speranze alle scommesse. Bookmaker concordi sul Nobel per la pace: il nome che ricorre in lavagna è quello di Hu Jia, dissidente cinese attualmente detenuto: Paddy Power e Unibet lo bancano fra 2,75 e 3 volte la giocata. Vicina al premio Ingrid Betancourt, a circa 8 volte la posta, Helmut Kohl viaggia a circa 30 contro 1, mentre Sarkozy è lontano a quota 80, dietro anche a Bono Vox quotato 65. Ancora più difficile che il riconoscimento vada a Vladimir Putin (250) o all’attuale presidente USA George W. Bush (500). Il riconoscimento potrebbe andare anche a un’organizzazione come la Fao, l’agenzia dell’Onu per l’agricoltura, o il Pam, il Programma Alimentare Mondiale. L’attesa è febbrile nei circoli umanitari internazionali. Si spera, si prega, che il Nobel per la Pace 2008 sia un segnale chiaro, politicamente pesante, che dica che il rispetto dei diritti umani è al centro dell’attenzione del mondo. Pubblicato il: 10.10.08 Modificato il: 10.10.08 alle ore 10.32 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Blair: Gaza al collasso, Israele deve salvare la... Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2008, 03:08:54 pm L’allarme di Blair: Gaza al collasso, Israele deve salvare la Striscia
Umberto De Giovannangeli Gaza è sull’orlo del collasso. Migliaia di dipendenti pubblici resteranno senza stipendio, e a prosperare sarà l’«economia criminale», quella legata al traffico delle armi, al mercato nero e al riciclaggio del denaro. Un quadro inquietante, tanto più significativo perché a dipingerlo non sono personalità internazionali, come l’ex presidente Usa Jimmy Carter o il premio Nobel per la Pace sudafricano Desmond Tutu, considerate da Israele apertamente schierate con i palestinesi. Stavolta, a lanciare il grido d’allarme, è una personalità considerata amica dello Stato ebraico: l’ex premier britannico Tony Blair, inviato speciale del Quartetto (Usa, Russia, Onu e Ue) in Medio Oriente. La Striscia di Gaza si trova sull’orlo del collasso, afferma l’ex premier britannico. In una lettera inviata al ministero della Difesa israeliano, della quale l’Unità ha potuto prendere visione, l’ufficio di Blair sollecita il governo israeliano a stanziare 28 milioni di dollari ogni mese per fronteggiare la grave crisi economica in cui versa il territorio palestinese, controllato dal giugno 2007 da Hamas. Senza questi soldi - rimarca la lettera - l’Autorità palestinese non potrà pagare gli stipendi a migliaia di dipendenti pubblici e le attività illegali - come il commercio sul mercato nero e il riciclaggio di denaro, così come il contrabbando di armi - si espanderanno a Gaza, afferma la lettera. Israele teme però che i soldi inviati per Gaza possano finire nelle mani di Hamas. La lettera di Blair apre un nuovo squarcio di luce sulla tragedia di Gaza. Gaza, dove il 79% delle famiglie vive da tempo sotto la soglia di povertà (2 dollari al giorno) e non è in grado di provvedere al proprio sostentamento alimentare senza una qualsivoglia forma di aiuto esterno. Gaza, ovvero un territorio ostaggio dell’embargo, che ha peggiorato la povertà e la disoccupazione, reso inefficiente il sistema educativo, messo in ginocchio quello sanitario, distrutto l’apparato produttivo e reso dipendenti dagli aiuti 1,1 milione di persone, l’80% della popolazione. Gaza, dove il blocco israeliano ha fatto schizzare il prezzo della benzina a 5 euro al litro, come non accade in nessun altro posto al mondo. E le prime vittime sono i soggetti più deboli. I bambini - che rappresentano il 56% della popolazione della Striscia - sono quelli più a rischio. Recenti dati - rileva in un dettagliato rapporto Save the Children - rivelano un aumento esponenziale delle malattie croniche e della malnutrizione tra i bambini con meno di cinque anni che vivono nella Striscia di Gaza. In crescita anche il numero di quelli che soffrono d’insonnia , ansia e diarrea. La percentuale di bambini con problemi di anemia e diarrea ha subito un aumento rispettivamente del 40% e del 20% rispetto allo scorso anno. Altri dati agghiaccianti sono forniti dall’Oms (l’Organizzazione Mondiale della Sanità): il 40% delle donne di Gaza sono anemiche e 1 bambino su 3 è malnutrito. Alcuni di questi problemi sono strettamente legati alla qualità e alla quantità dell’acqua: ben il 40% della popolazione del territorio, ad esempio, ha accesso all’acqua solo per poche ore al giorno, anche a causa della mancanza di combustibile e pezzi di ricambio per far funzionare la rete di distribuzione, che rischia di collassate in ogni momento. Un sistema fognario inefficiente e l’impossibilità di ripararlo, sottolinea il rapporto di Save the Children, implica che circa 40milioni di litri di liquame vengano scaricati ogni giorno nel Mediterraneo, con il conseguente rischio di epidemie tra la popolazione e di problemi ambientali duraturi. Come non bastasse, i prezzi proibitivi che benzina e diesel hanno raggiunto sul mercato nero stanno provocando una spaventosa impennata nei costi di produzione (e quindi dei prezzi di vendita) per tutti i prodotti alimentari. Il prezzo del pomodoro è cresciuto del 1000%, arrivando a toccare quasi due euro. Il cocomero costa il 400%, il pesce azzurro (perché anche le barche funzionano a gasolio) il 500% in più. Prezzi folli in un’economia che già prima di questa crisi devastante era al collasso, con una disoccupazione che sfiora il 70%; dei 110mila dipendenti in passato impiegati nel settore privato ben 78mila sono ora senza lavoro; il 95% delle attività industriali sono sospese. Molti disoccupati hanno provato a reinventarsi un lavoro vendendo frutta e verdura porta a porta, con un asino e un carretto. Ma negli ultimi mesi anche il prezzo degli asini è salito del 60%, così come il costo del loro cibo. L’economia palestinese si configura sempre più come una «economia di baratto». Il Programma mondiale di alimentazione delle Nazioni Unite (Wfp), fissa a 1,60 dollari pro capite al giorno la soglia di «indigenza alimentare»; 1,60 dollari al giorno è il minimo richiesto per una alimentazione nutrizionalmente sufficiente. A Gaza, centinaia di migliaia di persone non mangiano altro che pomodori e pane. Per quanto riguarda la popolazione anziana, nell’ultimo anni i decessi conseguenti ad un «indebolimento organico irreversibile» (inedia) sono aumentati del 38% rispetto all’anno precedente Questa è Gaza oggi. Se non un lager, certo un inferno, una gabbia isolata dal mondo dentro la quale si consuma la tragedia di un popolo. La lettera di Tony Blair lo ricorda. Pubblicato il: 14.10.08 Modificato il: 14.10.08 alle ore 8.50 © l'Unità. Titolo: DE GIOVANNANGELI - Ruffolo: Destra Usa irresponsabile in economia, bene Barack Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2008, 12:10:05 am Ruffolo: «Destra Usa irresponsabile in economia, bene Barack»
Umberto De Giovannangeli Professor Ruffolo, oggi ci sarà l’ultimo, attesissimo, faccia a faccia televisivo tra Barack Obama e John McCain. Al centro, il tema dei temi: l’economia. «Premetto che io penso e spero che vinca Obama, non perché ritenga che il candidato democratico sia portatore di grandi idee ma perché segna una svolta storica rispetto al pregiudizio razzista, e una svolta politica rispetto alla politica irresponsabile della destra americana, specie per quanto riguarda l’economia e per la responsabilità enorme che ha assunto rispetto a questa crisi mondiale. Credo quindi che Obama abbia tutte le possibilità per una svolta decisa e penso che sia l’unico a poterla imprimere, non certo McCain per quanti sforzi faccia nel distinguersi dalla eredità di George W.Bush e dell’attuale governo repubblicano. Penso e spero anche che Obama abbia una concezione dell’economia mondiale assolutamente diversa da quella dell’attuale dirigenza americana, nel senso che si distacca dalla irresponsabilità totale che ha caratterizzato la condotta della politica americana negli anni Novanta e nei primi anni di questo secolo...». Cosa accadde negli anni Novanta? «In quegli anni c’è stato un boom che la finanziarizzazione dell’economia ha sopravvalutato, portando alle stelle il valore dei titoli e l’indebitamento dell’economia americana; un indebitamento colossale che ha raggiunto qualche tempo fa il 6-7% del prodotto interno lordo americano: la Nazione più ricca del mondo indebitata nei riguardi di tutto il mondo; un paradosso assurdo che il nuovo governo americano dovrà fronteggiare in qualche modo. Credo che la prima prova della nuova leadership se, come spero, sarà la leadership di Obama, dovrà essere quella di affrontare questa irresponsabile posizione americana che è molto diversa da quella che fu una volta l’egemonia americana nei primi anni immediatamente seguenti alla Seconda guerra mondiale: basti pensare ad atti di una responsabilità e di una lungimiranza straordinarie come l’instaurazione del sistema di Bretton Woods e la decisione del Piano Marshall, per vedere come fosse abissalmente diversa la leadership americana di allora da quella attuale». Obama ha presentato il suo «piano di salvataggio per la middle class» che «comincia con una parola che sta nella testa di tutti: l’occupazione». «L’occupazione è certamente un obiettivo fondamentale dell’economia reale. Oggi l’occupazione sta diminuendo negli Usa e aumenta la disoccupazione. Per affrontare una politica di piena di occupazione bisogna semmai tornare alla ricetta keynesiana e non alle derive del neoliberismo conservatore, della destra, che ha dimostrato di essere non solo incapace di mantenere la piena occupazione ma di essere fonte dell’instabilità economica e del disastro finanziario. La piena occupazione deriva dalla capacità di mantenere una domanda adeguata alla disponibilità delle risorse, e dunque un equilibrio macroeconomico che ai tempi dell’”età dell’oro” era garantita dalla politica macroeconomica keynesiana». John McCain parla della volontà di non spendere 700 miliardi di dollari per aiutare banchieri e broker di Wall Street... «Questa uscita non aiuterà di certo McCain a differenziarsi dall’amministrazione Bush. Innanzitutto bisognerebbe sapere da chi sono nati quei 700 miliardi e come si sia generato questo impegno che adesso McCain dice di non volersi accollare. Ma come farà a non assumerlo? Lascerà che i mercati degradino in una crisi totale devastante? Nonostante tutto l’intervento del governo americano è in questo momento quasi obbligato per ridare liquidità a un sistema che l’ha perduta completamente ed evitare un collasso. Questo contrasta nettamente con esigenze di equità e finisce per finanziare coloro che hanno provocata questa crisi. Ma per uscirne non basta punire i responsabili, e peraltro McCain si guarda bene dal dire come intende fare, ma rovesciare completamente la politica economica americana, che è stata una politica di indebitamento assurdo e di diseguaglianze. McCain dice di voler diminuire le tasse. Ma come farà a diminuirle e nello stesso tempo a sopportare questa crisi?» Pubblicato il: 15.10.08 Modificato il: 15.10.08 alle ore 15.17 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Nawal El Saadawi: «Ecco perché le donne fanno paura.. Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2008, 10:12:39 pm Nawal El Saadawi: «Ecco perché le donne fanno paura ai fondamentalisti»
Umberto De Giovannangeli È l’autrice egiziana femminista universalmente più conosciuta e premiata. Medico, psichiatra. già docente alla Duke University, Nawal El Saadawi, 77 anni, è autrice di romanzi, racconti, commedie, memorie, saggi. Per le sue attività politiche e i suoi scritti a sostegno dei diritti delle donne, si scontra ripetutamente con il regime del Cairo e nel 1981, durante la presidenza di Sadat, viene incarcerata. Dalla metà degli anni Novanta vive in esilio: nel maggio 2008, vince la causa intentata contro di lei per apostasia. Le battaglie e i libri sulla condizione delle donne nella società egiziana e araba hanno esercitato una profonda influenza sulle generazioni degli ultimi trent’anni. Oggi, il suo nome compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni terroristiche. In Italia per presentare il suo ultimo libro: «Dissidenza e scrittura. Conversazione sul mio itinerario intellettuale» (Spirali), Newal El Saadawi argomenta con la consueta passione civile e lucidità intellettuale, una tesi che farà discutere: « Non c’è futuro per la religione - dice - perché la mente umana non può arretrare, la conoscenza è irreversibile. È come la luce. Se nel mio cervello c’è la luce, non può tornare il buio....». «L’Antico Testamento, il nuovo Testamento e il Corano - afferma decisa Newal El Sadaawi - non dovrebbero essere utilizzati in politica o in economia o nella morale o nella sessualità, se vogliamo una vera eguaglianza, in qualsiasi Paese. Se c’è vera eguaglianza non c’è spazio per la religione, che si basa invece sulla discriminazione. Quindi, non credo che si verificherà l’islamizzazione dell’Europa». Cosa significa oggi lottare con l’«arma» della parola, delle idee per rivendicare diritti, eguaglianza, nel mondo arabo? «Ritengo che il potere della scrittura sia molto importante. Anche se non abbiamo la libertà di parola, possiamo combattere per le idee in cui crediamo. Anche se siamo in prigione o in esilio, possiamo farlo. Ad esempio, quando io ero in carcere, riuscii a ottenere grazie ad una prostituta, della carta igienica e una matita per le sopracciglia. Con quella carta e quella matita sono riuscita a scrivere un libro: “Memorie in prigione”. Adesso sto insegnando negli Stati Uniti, e il corso riguarda in particolare la creatività e la dissidenza, e poi continuo a scrivere. Negli Stati Uniti ma anche in Egitto. La mia esperienza personale mi fa dire che anche sotto la dittatura più rigida, è possibile utilizzare il potere della scrittura». Perché le donne fanno paura al potere come ai fondamentalisti? «Fin dall’inizio della storia dell’umanità,i governanti, ma anche i fondamentalisti e gli stessi Dei maschili, erano contro le donne. Perché erano contro Eva, la nostra progenitrice. Perché lei ha mangiato dall’albero della conoscenza, e quindi e diventata una peccatrice. Da lì sono cominciate due cose: è iniziata l’oppressione delle donne, e contemporaneamente la conoscenza veniva proibita. L’oppressione, la schiavitù sono iniziate con Evo e proseguite con Iside, la divinità femminile della conoscenza. Tutto questo accade perché gli uomini hanno paura delle donne, e hanno paura perché le donne sono più intelligenti degli uomini. Eva era più intelligente di Adamo...per questo si ha paura delle donne in una società che è, al tempo stesso, patriarcale e capitalista». Nel 2005, Lei ha sfidato per la presidenza dell’Egitto, Hosni Mubarak, un leader sostenuto dagli Usa e dall’Europa. Ma possono essere personalità come Mubarak, da sempre al potere, un baluardo contro l’integralismo? «Purtroppo l’Unione Europea si sta comportando come un’organizzazione imperialista come l’amministrazione di George W.Bush. Vi sono state molte speranze che questa nuova Europa unita potesse diventare una organizzazione diversa. E invece vediamo che si comporta esattamente come l’America, collaborando con essa. E lo fanno contro di noi. Ci trattano come quelli del Terzo mondo, un tutto indistinto che viene visto come una entità ostile, altroché inferiore. L’Europa e l’America collaborano con i nostri oppressori, con i dittatori. Pensiamo a Saddam Hussein: Saddam collaborava con gli americani ma quando ha detto “no” è stato ucciso. La stessa cosa può accadere con Mubarak. Nel momento in cui dirà di no, uccideranno anche lui, come è successo con Saddam. È questo il problema. Mi lasci dire che io sono venuta qui in Italia non per il governo italiano ma per il popolo italiano, per gli intellettuali, gli scrittori, per presentare il mio nuovo libro. Attualmente io insegno negli Stati Uniti, in una università progressista, però sono molto critica nei confronti di George W.Bush e la sua amministrazione mentre sono negli Usa. Per quanto riguarda Mubarak, il suo proposito dichiarato è di far ereditare il suo potere al figlio. E questo con il sostegno degli Stati Uniti. E stanno negoziando questo con gli Usa, perché Washington vede il potere di Mubarak prima, e di suo figlio dopo, come un’alternativa al fondamentalismo. Contemporaneamente, però, gli americani stanno negoziando con Mubarak da un lato e con i Fratelli Musulmani dall’altra. Davvero un bell’esempio di coerenza...». Da donna, democratica, femminista, scrittrice araba che vive e insegna in America: come si schiera tra Barack Obama e John McCain? «Spero vivamente che Obama vinca perché lui è molto meglio di McCain. Io vivo negli Stati Uniti da due anni e mezzo e ho seguito fin dall’inizio questa campagna presidenziale. Mc Cain è un imperialista, è un militare, lui potrebbe uccidere chiunque per i propri interessi o per denaro. Proprio come la Palin o George W. Bush, come tutti i repubblicani. Loro sono di destra, militari, imperialisti., e al 100% a favore di Israele. Barack Obama è sicuramente meglio anche se pure lui sostiene Israele. Nel sessantesimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele gli ho sentito dire che l’America è Israele, e che Israele è l’America. Questo assunto non mi piace affatto, e spero che Obama si ricreda. Detto questo, lo considero immensamente meglio di McCain e per questo voterò per lui». Pubblicato il: 24.10.08 Modificato il: 24.10.08 alle ore 9.33 © l'Unità. Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - L'esilio senza fine Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2008, 10:44:36 am L'esilio senza fine
di Umberto De Giovannangeli È l’«esercito» dei senza diritti. Dei senza patria. Sono sei milioni. È il popolo dei rifugiati intrappolati da anni nel limbo dell’esilio senza possibilità di una soluzione. A ricordarne l’esistenza è l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) Antonio Guetteres. «Nella maggior parte di queste situazioni protratte - ricorda Gutteres aprendo a Ginevra un convegno internazionale - i rifugiati sono abbandonati, costretti a trascorrere i migliori anni della loro vita in campi trasandati e baraccopoli, esposti a ogni genere di pericolo e con gravi restrizioni ai propri diritti e alle proprie libertà. Molti rifugiati di lungo periodo non possono tornare a casa perché il proprio Paese è in guerra o perché i diritti umani sono gravemente violati. Solo una piccola parte ha la possibilità di sistemarsi in Paesi terzi. La meritoria opera dell’Unhcr ci permette di avere un quadro dettagliato di una sofferenza diffusa, angosciante. Rifugiati, vite nell’ombra. Un’ombra che l’ultimo rapporto dell’Agenzia Onu aiuta a diradare. Le Nazioni Unite definiscono un rifugiato come una persona che «temendo a ragione di essere perseguitata per motivi di razza, religione, nazionalità, apppartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese» (dalla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiato - Ginevra 1951). Ogni rifugiato ha diritto a sicurezza di asilo, e inoltre ad usufruire dei diritti fondamentali e degli aiuti di cui gode ogni altro straniero che risieda legalmente nel Paese ospite; ha diritto alla libertà di pensiero e di movimento, alle cure mediche e ai benefici sociali ed economici, alla libertà dalle torture. Ha diritto al lavoro. Sulla carta. Perché la realtà racconta di altre storie, fatte di diritti negati, di identità calpestate, di sfruttamento e vessazioni. Nessun bambino rifugiato dovrebbe essere privato del diritto di ricevere un’istruzione. Ma queste privazioni sono costanti e diffuse. La condizione dei richiedenti asilo in Italia (circa 38 mila al 2007), ricorda il rapporto dell’Unhcr, è molto difficile. La mancanza di una legge sul diritto d’asilo, pure sancita dall’articolo 10 della Costituzione, ha prodotto in questi anni una situazione di estremo disagio per persone che sono state costrette a lasciare la propria terra. Tra queste persone vi sono molte donne, bambini e vittime di tortura o maltrattamenti nel loro Paese d’origine. In tutte le popolazioni di rifugiati, circa il 50% delle persone è costituito da donne e ragazze. Lontane dalla loro casa, dalla loro famiglia, senza la protezione del loro governo, le donne - sottolinea il rapporto - sono particolarmente vulnerabili. La maggior parte delle donne in fuga non arriva a chiedere asilo all’estero. Tuttavia, per molte donne anche l’asilo non significa salvezza. Esse sono spesso soggette ad abusi da parte di poliziotti o altre persone. E ancor più vulnerabili. sono i bambini. I bimbi rifugiati: numeri da incubo. Più della metà dei circa 21 milioni di rifugiati in tutto il mondo sono bambini e adolescenti di età inferiore a 18 anni. Un’umanità che chiede rispetto. E diritti. Troppo spesso negati. udegiovannangeli@unita.it 12 dicembre 2008 © 2008 L'Unità.it Nuova Iniziativa Editoriale Spa Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - «Se ci invadono la Striscia sarà un nuovo Libano» Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2008, 11:41:31 pm «Se ci invadono la Striscia sarà un nuovo Libano»
di Umberto De Giovannangeli Israele «continua ad affamare il popolo palestinese, ad applicare odiose punizioni collettive. E tutto questo nel silenzio complice della comunità internazionale. Ma Israele ha commesso un grave errore: l’assedio non ci ha indeboliti. La resistenza palestinese è ancora più forte e unita. Provino pure a invadere Gaza. Gaza sarà il loro nuovo Libano». A parlare è l’uomo forte di Hamas: Mahmud al Zahar. Israele ammassa truppe ai confini con Gaza. E a Tel Aviv c’è chi parla di una imminente offensiva militare. «Israele ha inteso l’”hudna" (la tregua, ndr.) come una resa della resistenza palestinese. Ma ha commesso un grave errore. Ha continuato l’assedio di Gaza, pensando così di poter piegare la resistenza. Ha invece ottenuto l’effetto contrario: ha rafforzato la resistenza. Vogliono invadere Gaza? Ci provino. Siamo pronti a respingere l’aggressione. Israele ricordi cosa è accaduto in Libano due estati fa». Le autorità Israele ribattono sostenendo che è stato Hamas a rompere la tregua proseguendo il lancio di razzi Qassam contro Sderot, Ashqelon. «Hamas ha dimostrato per lungo tempo di saper rispettare gli impegni assunti. Ma Israele ha proseguito l’assedio di Gaza, ha proseguito con le odiose punizioni collettive, in spregio ai più elementari diritti umani. Ha continuato ad agire come una forza di occupazione. Ed ora si meraviglia della reazione palestinese. La tregua non può essere a senso unico. Hamas ha sempre sostenuto la disponibilità ad una "hudna" di lunga durata con Israele ma a precise condizioni». Quali? «La fine del blocco a Gaza; lo stop alla colonizzazione dei Territori; la liberazione dei palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane». Nell’immediato, cosa chiedete a Israele per ripristinare il cessate il fuoco? «Il prezzo è la vita della popolazione palestinese». In concreto?. «Il ripristino di forniture regolari di cibo ed elettricità sia per Gaza che per la Cisgiordania». Da oltre due anni, a Gaza è tenuto prigioniero il soldato israeliano Gilad Shalit . C’è speranza di rivederlo in libertà? «Tutto dipende da Israele. Israele non può sottrarsi all’obbligo di scarcerare mille prigionieri palestinesi. Se Israele farà la sua parte Shalit farà ritorno a casa in un solo giorno. Ma se invaderanno Gaza, nessuno potrà dirsi al sicuro». Il presidente Abu Mazen intende intenzione di indire elezioni anticipate per l'inizio del nuovo anno. «Abu Mazen non ha alcun diritto di fissare una nuova data per le elezioni e nemmeno quello di estendere il suo mandato presidenziale oltre il 9 gennaio 2009. Una volta di più egli ignora il Consiglio legislativo palestinese (il Parlamento dei Territori, ndr.). Una volta di più vorrebbe violare la legge». Abu Mazen non ha chiuso la porta al dialogo con Hamas. «Siamo pronti al dialogo ma senza precondizioni. E nel rispetto del voto espresso liberamente dal popolo palestinese nelle elezioni del gennaio 2006. Quel voto, e non le armi, ha sancito la vittoria di Hamas». udegiovannangeli@unita.it 23 dicembre 2008 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - «Tregua, Abu Mazen mente. Noi di Hamas non siamo... Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2008, 05:16:40 pm «Tregua, Abu Mazen mente. Noi di Hamas non siamo responsabili della rottura»
di Umberto De Giovannangeli La sua voce va e viene. Spesso è sovrastata dal clamore delle bombe che scuotono Gaza. L’uomo al telefono è colui al quale Hamas ha affidato il compito di raccontare al mondo la sua «verità». Oggi Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas nella Striscia, è l’uomo più ricercato dai media internazionali. L’Unità lo ha intervistato. «I morti - dice - sono più di 400, molti dei quali sono donne,bambini, anziani. Questo è terrorismo di Stato». Sul futuro, Barhoum è perentorio: «Possono invadere Gaza, ma la resistenza palestinese non alzerà mai bandiera bianca». Per il secondo giorno, Israele ha proseguito i suoi raid aerei su Gaza e ha ammassato i carri armati al confine con la Striscia. «La resistenza è pronta ad affrontare sul campo il nemico. Se Israele invaderà Gaza pagherà un prezzo altissimo per i suoi crimini». Il presidente Abu Mazen afferma che Hamas poteva evitare i massacri... «Abu Mazen mente sapendo di mentire. Israele preparava i piani di attacco già sei mesi fa, quando fu sancita la hudna (tregua, ndr.). La verità è un’altra....». Quale sarebbe la «verità» di Hamas? «Israele ha pensato di annientare militarmente Hamas già il giorno dopo la nostra vittoria nelle elezioni (gennaio 2006). Per ottenere questo obiettivo ha usato ogni mezzo: le “eliminazioni mirate”, i bombardamenti indiscriminati, fino a giungere alle più odiose punizioni collettive. Israele intende far pagare al popolo palestinese l’aver scelto Hamas. Ma attaccandoci, Israele rafforza l’unità della resistenza. La gente di Gaza sa chi è il nemico: chi li bombarda, chi li affama, chi li ha chiusi in gabbia: Israele ». Insisto: Israelehaintesoagireperporre fine al lancio di razzi Qassam contro le città e i villaggi frontalieri. «La tregua per reggere doveva impegnare le due parti: la fine del lancio dei Qassam in cambio della fine dell’assedio di Gaza. Così non è stato. Hanno preteso sicurezza per la propria gente continuando ad opprimere la nostra gente. Gaza è stata trasformata in una prigione a cielo aperto. Noi rivendichiamo il diritto a combattere con ogni mezzo i “carcerieri”». Il mondo chiede una nuova tregua. Qual è la risposta di Hamas? «Israele non cerca una tregua. Vuole la resa della resistenza palestinese. Siamo pronti al cessate il fuoco ma la condizione è che sia posto fine all’aggressione sionista...». Se così non sarà? «Siamo pronti al martirio». Fonti di Ramallah dicono chel’Anpè pronta a riprendere il controllo di Gaza. «Cosa vorrebbero instaurare, un regime collaborazionista? Non credo che Abu Mazen voglia diventare il “Pétain” palestinese». Non è con il terrore che i palestinesi vedranno riconosciuti i loro diritti. «Per Israele ogni palestinese che resiste è un terrorista. Per noi è un eroe». Come può giudicare «eroi» coloro che seminano la morte negli autobus, nei ristoranti, colpendo civili inermi? «Noi non abbiamo carri armati. Non abbiamo F16. Non abbiamo la potenza militare del nemico sionista. Ciò che abbiamo è la determinazione di migliaia di “shahid” pronti a sacrificarsi in nome della Palestina». Abu Mazen ha il sostegno di Hosni Mubarak «E noi quello dei popoli arabi. Non farei a cambio». 29 dicembre 2008 © 2008 L'Unità.it Nuova Iniziativa Editoriale Spa Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - «Siamo all’inferno. Il mondo non resti indifferente» Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2008, 05:39:03 pm «Siamo all’inferno. Il mondo non resti indifferente»
di Umberto De Giovannangeli Le notizie «che giungono da Gaza da parte dei nostri operatori sul campo sono sconvolgenti. A quanto ci risulta, sono almeno 58 i civili palestinesi uccisi, tra cui 21 bambini e sette donne, ma è un bilancio destinato a crescere, come quello dei feriti, ad oggi oltre 1400. La comunità internazionale non può essere spettatrice passiva di questa tragedia. Le armi devono tacere». A parlare è Karen Koning Abu Zayd, statunitense, Commissario generale dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Quale sono le notizie in suo possesso sulla situazione a Gaza? «La situazione per la popolazione di Gaza era già tremenda prima dei bombardamenti ed ora è ulteriormente peggiorata. La gente è privata praticamente di tutto, dalle medicine all’elettricità, dalla benzina all’acqua. Ed ora è sotto costante bombardamento. Francamente mi è difficile definire in altro modo questa situazione se non come una punizione collettiva inflitta alla popolazione palestinese; una pratica contraria al Diritto umanitario internazionale e alla stessa Convenzione di Ginevra». Israele rivendica il diritto alla difesa dai lanci dei missili palestinesi. «Il minimo che si può dire è che ci sia un uso sproporzionato della forza da parte israeliana. In discussione, almeno per me, non è il diritto alla difesa di Israele. Ma questo diritto, assolutamente legittimo, non può fondarsi sulla negazione dei diritti dei palestinesi. Diritti dimenticati, spesso calpestati con la forza. D’importanza centrale, fra tutti questi diritti, è il diritto all’autodeterminazione, il diritto ad uno Stato, del quale i palestinesi sono stati privati attraverso 60 anni di esilio e di espropri. I diritti sono protetti al meglio nel contesto di uno Stato, e noi dell'Unrwa incaricati di portare assistenza fino a quando la questione dei profughi non sarà risolta nel contesto di un accordo di pace definitivo, siamo consapevoli di questo come qualsiasi altro operatore umanitario che lavora oggi in Medio Oriente. L’abisso che separa le parole dalle azioni desta incredulità in molti palestinesi. Rinchiusi all’interno di Gaza, ed ora sottoposti agli incessanti bombardamenti israeliani, o in attesa davanti ai checkpoint della Cisgiordania, essi sono in prima linea fra quelle aree in cui l’assenza di protezione è avvertita più acutamente. Il risultato è stato un crudele isolamento dalla comunità mondiale, alimentato dall’inazione del sistema internazionale. Un isolamento che conduce ad un senso di disperazione e di abbandono. In simili circostanze, il radicalismo e l'estremismo prendono piede facilmente. E non è con la forza delle armi che potrà cambiare la situazione. Semmai è destinata a peggiorare, perché sulle macerie di Gaza non potranno mai crescere speranze di pace e di giustizia». In questa situazione così drammatica cosa si sente di chiedere all'Europa? «Di non chiudere gli occhi di fronte ad una tragedia che non ha nulla di "naturale". L’Europa può svolgere un ruolo importante, per molti versi decisivo, per il raggiungimento del cessate il fuoco. Può farlo perché è in grado di parlare con entrambe le parti senza esserne influenzata. Come è avvenuto in Libano». Nel Sud Libano è stata schierata una forza internazionale sotto egida Onu. Può avvenire anche a Gaza? «Qualsiasi assunzione diretta di responsabilità da parte della comunità internazionale a garanzia della sicurezza delle popolazioni colpite sarebbe non solo auspicabile ma necessaria. E urgente». E cosa si sente di chiedere alle milizie palestinesi? «Di porre fine al lancio di razzi contro le città israeliane. Perché la vita di ogni civile è sacra, perché non è così che il popolo palestinese potrà vedere realizzati i suoi diritti». udegiovannangeli@unita.it 30 dicembre 2008 © 2008 L'Unità.it Nuova Iniziativa Editoriale Spa Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Rappresaglia israeliana ingiustificata. Atrocità ... Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2009, 04:30:00 pm «Rappresaglia israeliana ingiustificata. Atrocità contro i civili»
di Umberto De Giovannangeli Per Israele è un uomo di parte, un «ospite indesiderato», pregiudizialmente ostile allo Stato ebraico. Comunque, una personalità scomoda. Ma Richard Falk - ebreo americano, Relatore speciale delle Nazioni Unite per i Diritti umani nei Territori, professore emerito di Diritto internazionale all'Università di Princeton e membro del Foro di New York - rigetta con forza questa etichetta: «Non c’è in me – dice - alcuna ostilità preconcetta verso Israele. Mi limito ad evidenziare i fatti, e questo non è certo un atteggiamento pregiudizialmente ostile. È la realtà dei fatti, purtroppo, a inchiodare le autorità, politiche e militari, israeliane alle loro pesanti, e documentabili, responsabilità. Sono i fatti, secondo il professor Falk, a «inchiodare » oggi Israele. Il relatore Onu denuncia senza mezzi termini le «scioccanti atrocità» commesse da Israele nell’offensiva contro la Striscia di Gaza. Professor Falk, su cosa base questa gravissima denuncia? «Sul fatto che Israele impiega armi moderne contro una popolazione inerme che già sopportava da mesi un durissimo embargo». L’embargo. Israele sostiene che si è trattato di una via obbligata, per quanto dolorosa, per porre fine al lancio dei razzi contro le città del Suddello Stato ebraico. «Usare armi moderne contro una popolazione inerme, attuare una punizione collettiva come è l'embargo imposto a Gaza, tutto ciò non si configura come legittima difesa. E nemmeno come uso sproporzionato della forza. È ben altro. È una politica molto simile a un crimine contro l’umanità che, come tale, dovrebbe essere sanzionato dalla Corte pena- le internazionale di fronte alla quale dovrebbero comparire i responsabili di questo crimine. Così come non devono sussistere atteggiamenti pregiudiziali verso Israele, non deve nemmeno sussistere un atteggiamento opposto: quello di una assoluzione pregiudiziale. Il blocco di Gaza non assolve alcuna funzione legittima da parte di Israele. Le autorità israeliane ripetono che sia stato imposto come rappresaglia per il lancio di razzi di Hamas e della Jihad islamica contro Sderot e le altre città del Sud d'Israele…». Il lancio di questi razzi, professor Falk, è indiscutibile... «Nessuno lo mette in dubbio. L’illegalità di lanciare questi razzi è indiscutibile, ma non giustifica in alcun modo l’indiscriminata rappresaglia israeliana contro la popolazione di Gaza». Israele prosegue l’offensiva militare contro la Striscia. «Gaza è ridotta a una città-cratere. Israele afferma di essere in guerra con Hamas e non con la popolazione palestinese. Ma a Gaza è l’intera popolazione palestinese ad essere bersaglio delle bombe israeliane. Stiamo parlando di esseri umani, non di numeri. Di fronte a questa tragedia, la comunità internazionale deve accrescere le sue pressioni su Israele perché ponga fine agli attacchi. Deve essere fatto per una ragione etica, prim’ancora che politica. Perché a Gaza, lo ripeto con la morte nel cuore, è in atto un massacro che non può essere giustificato né minimizzato. Sulla Striscia, in sei giorni di raid aerei, Israele ha sganciato oltre 120 tonnellate di bombe; almeno il 25% di coloro che sono stati uccisi a Gaza erano civili, e tra questi donnee bambini. Ed è una stima in difetto, destinata a crescere. Mentre noi stiamo parlando altri civili stanno morendo… Come si fa a sostenere senza arrossire dalla vergogna che siamo di fronte ad operazioni "selettive"?». Professor Falk, per le sue denunce, Lei viene considerato, non solo dentro Israele, come un «ebreo che odia se stesso», se non addirittura un antisemita. «Queste accuse mi feriscono profondamente. A questi attacchi contro la mia credibilità ribatto sottolineando che non mi sento mai antiamericano quando critico la politica estera del governo americano. È una tattica incresciosa utilizzata da molti sionisti, quella di equiparare ogni critica allo Stato di Israele o alla sua politica all’antisemitismo. Secondo me, questo atteggiamento è profondamente antidemocratico, e minaccia di trasformare il "cittadino" in un "suddito". Credo che la misura di un buon senso della cittadinanza sia la coscienza, non l’obbedienza. Per tutte queste ragioni, non ho rimpianti. Non potrei fare altro». udegiovannangeli@unita.it 02 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Fermate il massacro. Sulle ceneri di Gaza crescerà... Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2009, 11:29:07 am «Fermate il massacro. Sulle ceneri di Gaza crescerà altro odio»
di Umberto De Giovannangeli «Israele potrà riconquistare con la forza Gaza. Ma così non "conquisterà" mai la pace. Perché sulle rovine di Gaza cresceranno solo odio, rabbia, spirito di vendetta». Ad affermarlo è una colomba palestinese: Sari Nusseibeh, rettore dell'Università Al Quds di Gerusalemme Est, considerato, a ragione, il più autorevole intellettuale palestinese. «Un crimine contro il popolo palestinese. Non trovo altre parole per definire ciò che Israele sta compiendo nella Striscia di Gaza. Il volume di fuoco, la massa militare mobilitata, i proclami roboanti: non c'è nulla di "moderato", di difensivo, in questo esercizio di potenza». Nusseibeh non crede che l'offensiva militare israeliana porterà alla fine di Hamas: «Questa - avverte - è una illusione. Sul sangue dei martiri, Hamas costruirà la sua fortuna futura. A pagarne il prezzo saranno quanti di noi continuano a battersi per il dialogo, a credere in una pace giusta, tra pari. Chiunque oggi in campo palestinese si azzardasse a parlare di dialogo, verrebbe visto e trattato come un traditore. Ciò deve essere ben chiaro a tutti, soprattutto a voi europei: la guerra cancella ogni spazio di confronto. Militarizza le coscienze». Professor Nusseibeh, a Gaza è guerra totale. Israele afferma: il nostro nemico è Hamas e non il popolo palestinese. «Sotto le bombe e tra le macerie, questa è una distinzione che non regge, direi che è un insulto all'intelligenza di ciascuno di noi. Il primo palestinese ucciso da una cannonata sparata da un carro armato israeliano entrato a Gaza è stato un bambino. Negli otto giorni di raid aerei, sono morti oltre novanta bambini palestinesi… Cos'erano, terroristi in erba? Stamani, prima che lei mi chiamasse al telefono, ho incontrato alcuni miei studenti. Persone tranquille, per niente simpatizzanti di Hamas. Mi hanno detto: siamo pronti a combattere, vendicheremo il sangue dei nostri fratelli di Gaza…. Questo è lo stato d'animo di quel popolo palestinese che Israele afferma di non avere come nemico. È uno stato d'animo impastato di dolore e di rabbia. D'indignazione e spirito di vendetta. Nessuno, neanche tra i più critici verso Hamas, e io mi annovero tra gli ipercritici, oggi pensa: ben gli sta, hanno quel che si meritano. Israele potrà riconquistare con la forza Gaza, ma in questo modo non "conquisterà" mai la pace». C'è chi in Israele sostiene che la guerra di Gaza finirà per rafforzare la leadership del presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen). «È' una sciocchezza. Hamas andava e va sconfitto con la politica e dai palestinesi. A Gaza non sono arrivati i "nostri", i liberatori. A Gaza è entrato l'esercito di una forza d'occupazione. Hamas ha fallito come movimento politico, come forza di governo, non dando seguito alle promesse su cui aveva costruito la sua vittoria elettorale nel gennaio di tre anni fa. Tutti i sondaggi, prima dell'offensiva israeliana, davano Hamas in perdita di consensi, anche a Gaza. L'attacco israeliano permette ad Hamas di tornare a vestire i panni della forza che resiste all'invasore. Su questo terreno, Hamas è vincente. Vince quando ci si sente abbandonati, traditi dagli stessi "fratelli arabi", che usano la "causa palestinese" per i loro giochi di potere. Vince quando la comunità internazionale si mostra impotente, se non complice, di fronte alla protervia delle armi. Vince quando ogni spazio di dialogo viene chiuso brutalmente. Vince per assenza di alternative. Vince perché agli occhi dei miei studenti, Israele è identificato come il pilota di caccia che sgancia bombe che uccidono donne e bambini». È una strada senza uscite quella imboccata a Gaza? «Se continua l'offensiva terrestre israeliana, certamente sì. Occorre fermare le armi, porre fine all'assedio di Gaza. E a garanzia della sicurezza, della popolazione della Striscia e di quella del Sud d'Israele, dispiegare una forza internazionale sotto egida Onu. Non vedo altre soluzioni alla tragedia in atto». L'operazione "Piombo Fuso" potrà essere estesa ulteriormente, dichiara il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak. «I toni sono quelli da campagna elettorale. Condotta sul sangue di Gaza». udegiovannangeli@unita.it 05 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Fassino. «Basta mosse inutili. Il governo si impegni per la tregua subito» Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2009, 11:31:59 am Fassino. «Basta mosse inutili. Il governo si impegni per la tregua subito» di Umberto De Giovannangeli «Al governo italiano chiediamo di non limitarsi a dichiarazioni formali o a generici quanto inutili auspici, ma di agire in sede europea e in ogni altra sede internazionale perché, come si fece due anni fa per il Libano, si assumano concrete iniziative utili a spegnere l'incendio che sta infiammando il Medio Oriente». A chiederlo è Piero Fassino, ministro degli Esteri del governo-ombra del Pd. A Gaza è guerra totale. E la comunità internazionale sta a guardare. «Serve immediatamente una iniziativa internazionale analoga a quella che, su spinta italiana, fu messa in campo per porre fine, nell'estate del 2006, alla guerra in Libano. E cioè convincere le parti a sospendere le ostilità, inviare osservatori internazionali e se necessario una forza di pace, per garantire il mantenimento e il rispetto della tregua. Ed è una iniziativa che deve essere portata avanti sin dalle prossime ore, sollecitando l’Unione europea ad assumerla». Quale ruolo può avere in questo senso il governo italiano? «Al governo chiediamo di non limitarsi a dichiarazioni formali o a generici quanto inutili auspici. Occorre invece che si agisca in sede europea e in ogni altra sede internazionale perché vengano assunte concrete iniziative utili a spegnere l'incendio che sta infiammando il Medio Oriente. Insisto su questo: serve ottenere subito una tregua per spezzare una spirale di violenza che sta scavando, tra palestinesi e israeliani, un solco sempre più profondo di incomunicabilità, di odio e di negazione reciproca. Il passato dovrebbe servire a tutti da lezione». Quale lezione? «Le tante drammatiche vicende che ormai da sessant'anni sconvolgono il Medio Oriente ci dicono che il tempo non lavora per la pace. Bisogna agire adesso e con determinazione per evitare che sia compromessa definitivamente ogni possibilità di negoziato. E questo significa che, ottenuta la tregua, occorre avviare da subito la preparazione di una Conferenza internazionale di pace che metta attorno al tavolo tutti i protagonisti della Regione, e consenta di giungere a quella pace negoziata che è l'unica via per garantire i diritti sia di Israele che dei palestinesi. Naturalmente la possibilità di arrivare alla pace richiede che tutti i protagonisti di questa crisi non rivendichino solo il proprio diritto ma riconoscano anche il diritto dell'avversario. Il che significa che occorre una forte azione della comunità internazionale per dire chiaramente ad Hamas che se vuole essere parte del processo di pace deve riconoscere a sua volta il diritto d'Israele ad esistere. Questo è un passaggio essenziale». Essenziale perché? «Perché in Medio Oriente sono in conflitto non già un torto e una ragione, ma due ragioni, ed è solo riconoscendole entrambe che quel conflitto potrà trovare soluzione. Peraltro, un passaggio analogo la comunità internazionale l'ha già vissuto». A cosa si riferisce? «Penso agli anni '70 e '80. quando si disse all'Olp di Yasser Arafat che solo riconoscendo il diritto d'Israele ad esistere, anche i palestinesi avrebbero potuto veder realizzati i propri diritti. E fu proprio la soppressione dell'articolo della Carta costitutiva dell'Olp, che parlava di distruzione d'Israele, ad avviare la stagione del dialogo e della ricerca di una pace negoziata». Per tornare all'Italia. La destra accusa il Pd di sottovalutare le ragioni di difesa d'Israele. «Di fronte a un dramma così enorme, non è davvero il tempo di polemiche meschine. Il Pd ha sempre riconosciuto i diritti di Israele e anche il suo diritto all'autodifesa. Ma tutti devono essere consapevoli che la pace non sarà figlia di una soluzione militare. Per questo è urgente far tacere le armi e restituire parola alla politica e al negoziato. E l'Italia deve fare la sua parte come abbiamo fatto in Libano due anni fa». udegiovannangeli@unita.it 05 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI Fatah e Abu Mazen non torneranno a Gaza sui tank ... Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2009, 12:30:01 pm «Fatah e Abu Mazen non torneranno a Gaza sui tank israeliani»
di Umberto De Giovannangeli L'ex «uomo forte» di Gaza respinge con forza le accuse di collusione con il nemico lanciate da esponenti di Hamas ad Al Fatah, il movimento guidato dal presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen). «Non decideremo di tornare a Gaza sui risultati di questa guerra. Torneremo solo a seguito di una intesa tra tutte le fazioni palestinesi. Stiamo lavorando a questo». A parlare è Mohammed Dahlan, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente dell'Anp, Abu Mazen. Nella Striscia è guerra totale. A Gaza City si combatte strada per strada. C'è chi accusa Al Fatah e il presidente Abu Mazen di collusione con Israele. «È un'accusa infame, che si ritorcerà su chi l'ha pronunciata. Oggi nelle strade di Gaza a resistere alla brutale aggressione israeliana sono anche militanti di Fatah. In questo momento la cosa più importante è unire tutte le fazioni palestinesi nella resistenza. Questo non è tempo di divisioni strumentali». Insisto: fonti israeliane sostengono che Fatah è pronto a rientrare a Gaza e assumerne il controllo una volta assestato un colpo mortale ad Hamas. «So bene di queste voci, messe in giro ad arte per dividere i palestinesi e screditare il presidente Abbas agli occhi del suo popolo. Ma non cadremo in questa trappola. Non decideremo di tornare a Gaza sui risultati di questa guerra. Torneremo solo a seguito di un'intesa tra tutte le fazioni palestinesi. A questo il presidente Abbas sta lavorando». Resta il fatto che Fatah è stato cacciato a forza dalla Striscia da un colpo di mano militare di Hamas. «Questa ferita continua ancora a sanguinare. Ma è un problema che non può essere risolto dagli israeliani con la loro guerra di aggressione. Il presidente Abbas è stato chiaro su Hamas: per riprendere il dialogo occorre che Hamas riconosca le istituzioni dell'Anp tornando alla situazione precedente il putsch del giugno 2007. Ma questo non può avvenire tra le bombe mentre i civili sono uccisi. In questo momento così drammatico, il popolo palestine se chiede unità non divisione». Il 9 gennaio prossimo scade il mandato presidenziale di Abu Mazen. Cosa succederà quel giorno? «Il presidente resterà in carica, tanto più di fronte all'emergenza nazionale determinata dalla guerra a Gaza. Si tratterà poi di trovare una intesa per svolgere, assieme, le elezioni presidenziali e quelle legislative. Mi creda: Abu Mazen non teme il giudizio del popolo. E con lui Fatah: abbiamo imparato la lezione del 2006 (le elezioni vinte da Hamas, ndr.)». L'Unione Europea si è detta disposta a inviare osservatori ed anche una forza di peace keeping per garantire un eventuale accordo di cessate il fuoco. Israele ha rifiutato. E l'Anp? «Siamo favorevoli a una forza d'interposizione che sia garante della sicurezza della popolazione di Gaza. E siamo pronti a sostenerla sul campo e in ogni sede politica». All'inizio di questo conflitto, il presidente Abbas aveva criticato Hamas per non aver rinnovato l'accordo di tregua. «Hamas non doveva offrire pretesti a Israele per realizzare un piano congegnato da tempo. Ma questa responsabilità non giustifica la brutale aggressione che Israele sta portando avanti a Gaza». Lei è considerato da Hamas un nemico. Come risponde? «Rispondo con la mia storia, con il ruolo avuto nell'organizzare la prima Intifada: una rivolta di popolo che ripose al centro dell'attenzione del mondo la questione palestinese. Io c'ero. Molti capi di Hamas non possono dire altrettanto». udegiovannangeli@unita.it 07 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Gaza, perchè questo governo è ininfluente Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 04:34:31 pm Gaza, perchè questo governo è ininfluente
di Umberto De Giovannangeli Irrilevante. È il minimo che si possa dire dell’inazione diplomatica italiana sul tormentato e insanguinato scenario mediorientale. Irrilevante, tanto più se raffrontata all’attivismo francese che, non da oggi, sta rubando spazi alla presenza italiana in questa area nevralgica del mondo. Questa irrilevanza non può essere contestata, da parte del ministro degli Esteri Franco Frattini, facendo la conta delle telefonate, dei comunicati, delle interviste che hanno scadenzato questi angoscianti dodici giorni di guerra. Così come non è possibile misurare l’incidenza della nostra politica estera dal numero delle «pacche sulle spalle» elargite dallo stranamente silente presidente del Consiglio a sempre sbigottiti interlocutori internazionali. Alla base di questa irrilevanza vi è una linea politica, un fare diplomazia in Medio Oriente, che ha azzerato quel credito che l’Italia era riuscita a conquistarsi sullo scenario mediorientale nel vivo di un’altra drammatica contingenza: quella della guerra in Libano dell’estate 2006. Irrilevanti perché «partigiani». Irrilevantemente partigiani. Perché non si aiuta Israele, non si è «amici di Israele» se si perde credito e credibilità nel mondo arabo. Ai tempi della guerra in Libano, l’Italia del governo Prodi seppe trainare l’Europa, e non solo, a farsi carico, sul campo e non a parole, anche della della sicurezza di Israele bersagliato dai razzi degli Hezbollah. Si incide se si è capaci di parlare, ed essere ascoltati, da tutte le parti in conflitto. Si incide se si è percepiti, da tutte le parti in conflitto, come mediatori davvero super partes. È ciò che rende forte l’iniziativa diplomatica messa in campo su Gaza dal presidente francese Nicolas Sarkozy. Ed è ciò che aveva reso forte l’iniziativa italiana in Libano. Irrilevanti. Perché «orfani» della presidenza americana di George W.Bush, un «grande presidente che passerà alla Storia», ha sentenziato nell’ultimo incontro con l’«amico George», Silvio Berlusconi. Orfani di una Presidenza Usa che in Medio Oriente ha oscillato tra disastri (l’Iraq) e petizioni di principio contraddette drammaticamente dai fatti (la pace fra israeliani e palestinesi entro la fine del 2008). Ininfluenti perché subalterni. E privi di un indirizzo politico che sia altro e di più del ripetere un assunto in sé assolutamente condivisibile: il diritto alla sicurezza d’Israele. Ma non è recitandolo in ogni occasione, che si aiuta davvero Israele a conquistare la sua sicurezza. Che non potrà mai venire dal solo esercizio della forza. Essere amici di Israele è farsi carico anche delle ragioni dei palestinesi. E sostenere, con i fatti e non con generiche aperture, una leadership, quella di Abu Mazen, messa in crisi non solo dall’estremismo di Hamas ma anche dalla colonizzazione dei Territori e dalle scelte unilaterali compiute da Israele. Ma questo il Cavaliere silente non l’ammetterà mai. udegiovannangeli@unita.it 08 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI Fermate il terrore contro Israele. Non basta la tregua Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2009, 06:25:02 pm «Fermate il terrore contro Israele. Non basta la tregua»
di Umberto De Giovannangeli «Le parlo da soldato prima che da ministro. E da persona che ha combattuto tante, troppe guerre, so che è nel codice genetico di Tsahal fare tutto il possibile per evitare vittime civili. Ma ciò non sempre è possibile, soprattutto quando hai a che fare con un nemico che usa cinicamente i civili come scudi umani, che trasforma abitazioni private, scuole, moschee in arsenali. Un nemico che non ha mai fatta alcuna distinzione tra civili e soldati israeliani come bersagli da colpire. Guai ad abbassare la guardia di fronte a un nemico del genere. Gaza rischia di trasformarsi nell'avamposto jihadista in Medio Oriente. Uno "stato del terrore" in mano all'Iran. Se ciò avvenisse sarebbe una sciagura per tutti, non solo per Israele». A parlare è una delle figure di primo piano del governo d'Israele: Benjamin Ben Eliezer, laburista, già ministro della Difesa nel governo guidato da Ariel Sharon, un passato da guerriero, oggi ministro delle Infrastrutture. A Gaza si continua a combattere, mentre l'allarme è scattato anche nel Nord d'Israele. Al Cairo si negozia un accordo di cessate il fuoco sulla base del piano franco-egiziano. Qual è il punto di vista del governo di cui Lei fa parte? «Tregua non può voler dire tornare alla situazione precedente, in attesa che Hamas possa tornare a riarmarsi per poter riprendere i suoi attacchi missilistici contro le nostre città del Sud…». Ciò significa che ogni negoziato è destinato a fallire? «Ciò significa che Israele è intenzionato a discutere seriamente non il cessate il fuoco ma la fine del terrore. La fine del terrore: questo è il nostro obiettivo. Il che significa, tra le altre cose, la fine del contrabbando di armi dall'Egitto per Gaza. Nei mesi di tregua, che Israele ha rispettato nonostante non si fossero fermati i lanci di razzi su Sderot e il Neghev, Hamas ha portato avanti la costruzione di un vero e proprio esercito, e si è impadronita con la forza del potere uccidendo decine di palestinesi contrari al loro regime. Da mesi Hamas stava preparandosi alla guerra». Porre questi paletti significa che Israele ha di fatto bocciato il piano franco-egiziano? «Le cose non stanno così. Abbiamo dato la nostra disponibilità a discutere quel piano, ma sia chiaro: Israele non si sente sul banco degli imputati, e dunque non è alla ricerca di una assoluzione internazionale. Israele sta difendendo i suoi cittadini, quasi un milione di persone che vivono ogni giorno con il terrore di veder colpita la loro casa, la scuola dei loro figli da un razzo. Noi dobbiamo loro la sicurezza. Se è possibile garantirla con la diplomazia bene, altrimenti quella militare è una via obbligata». Una via che può portare anche all'apertura di un secondo fronte: quello con il Libano. «Il Libano è uno Stato sovrano, con tutto ciò che comporta in termini di diritti e di doveri. Uno Stato ha la responsabilità di ciò che avviene sul territorio nazionale. Beirut non può cavarsela prendendo le distanze da coloro che stamattina (ieri, ndr.) hanno sparato razzi contro l’Alta Galilea». C'è chi sostiene che nella decisione di scatenare l'offensiva militare a Gaza vi siano anche calcoli elettorali, soprattutto da parte del leader del suo stesso partito, il Labour. «È un’accusa ignobile, infondata, strumentale. Israele è stato costretto ad agire militarmente. Non avevamo altra scelta. Oltre l'80% degli israeliani l'hanno capito, e non credo, purtroppo, che siano tutti elettori laburisti». C'è chi si appella a Barack Obama per porre fine alla guerra di Gaza. «Ricordo la visita dell'allora candidato alla presidenza Usa a Sderot. Ricordo le sue parole: se la casa dove vivono le mie figlie fosse un possibile bersaglio di razzi, farei tutto il possibile per contrastare questo pericolo. È ciò che Israele sta cercando di fare». udegiovannangeli@unita.it 09 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Hanan Ashrawi Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2009, 06:26:26 pm «Al mio popolo dico: la via è la resistenza non violenta»
di Umberto De Giovannangeli «Guardate quei filmati su YouTube. Imprimetevi nella mente lo sguardo terrorizzato dei bambini di Gaza. Guardateli negli occhi: troverete una paura senza fine. Molti di quei bambini sono morti di paura, quando non sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani. Guardate quei corpi estratti dalle macerie delle scuole dell’Onu rase al suolo dall’artiglieria israeliana. Guardateli e chiedetevi: cosa c’è di “difensivo”, di moderato, in questo massacro d’innocenti?. Guardateli. E pensate cosa possono provare i loro fratelli o i loro padri, Su questi massacri sta crescendo in tutto il mondo arabo un odio profondo verso Israele». La sua voce è incrinata dalla commozione e dalla rabbia. Le sue parole sono impastate di sdegno. Se c’è una dirigente palestinese lontana anni luce dai fondamentalisti di Hamas, questa dirigente è Hanan Ashrawi, più volte ministra dell’Anp, prima donna portavoce della Lega Araba, paladina dei diritti umani nei Territori. «Ho sempre combattuto Hamas, ma non ho mai pensato che la sua sconfitta potesse venire da una prova di forza militare, per di più condotta da Israele. Già in passato Israele ha provato a decapitare la leadership di Hamas, assassinando il suo stesso fondatore (sheikh Ahmed Yassin, ndr.). Il risultato è stato il rafforzamento di Hamas. Israele aveva una carta da giocare per sconfiggere veramente Hamas: realizzare una pace giusta, fondata sulle risoluzioni Onu. La carta della nascita di uno Stato palestinese realmente indipendente, sovrano su tutto il suo territorio nazionale. Invece ha spacciato per uno “Stato in fieri” i bantustan della Cisgiordania». A Gaza si continua a combattere. Le armi si sono fermate per sole tre ore. È ancora guerra totale. «No, a Gaza non è in atto una guerra totale. A Gaza è in atto un massacro totale. A morire, a centinaia, sono donne e bambini, come quelli sepolti sotto le macerie delle scuole dell’Onu bombardate nella Striscia». Israele afferma che la sua è un’azione difensiva. «Difensive sono le tonnellate di bombe sganciate sull’area più densamente popolata al mondo? Inorridisco al solo pensarlo. Ho sempre denunciato la militarizzazione dell’Intifada. Hamas è parte di questa degenerazione che ha fatto solo il gioco dei falchi israeliani. Da tempo ritengo che tra terrorismo e rassegnazione, vi sia una terza via più efficace e coraggiosa: quella della resistenza non violenta...». Linea contestata da Hamas. «Lo so bene. Ma niente può giustificare la mattanza che Israele sta praticando a Gaza. Niente. In tempi meno tragici avevo chiesto il dispiegamento di una forza d’interposizione ai confini fra Gaza e Israele. Prima di Hamas, a dire un no secco è stato Israele, perché intendeva quella forza di pace come il cedimento ad una “internazionalizzazione” del conflitto israelo-palestinese. E invece solo una “internazionalizzazione” del conflitto può ridare una chance al negoziato». Può essere Al Fatah del presidente Abu Mazen la vera alternativa a Hamas? «Hamas ha costruito le sue fortune elettorali sul discredito di una classe dirigente accusata, e a ragione, di corruzione e incapacità. Senza un profondo rinnovamento non solo di persone ma della concezione stessa di governo, l’alternativa a Hamas sarà la disgregazione...». Pace è una parola impronunciabile? «No, è una parola che va riempita di contenuti, alla quale i legare un’altra parola-chiave, altrettanto importante: . Giustizia. Quella che da decenni il mio popolo reclama invano». udegiovannangeli@unita.it 08 gennaio 2009 da unita.it Titolo: «Crimini di guerra a Gaza. Un tribunale Onu deve processare Israele» Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2009, 01:12:42 am «Crimini di guerra a Gaza. Un tribunale Onu deve processare Israele»
di Umberto De Giovannangeli Chiedo giustizia per i bambini, le donne, gli anziani, gli esseri umani massacrati a Gaza. Chiedo che si onori la loro memoria sancendo per ciò che è stata la loro morte: un massacro di innocenti. Chiedo, e per questo ho scritto una lettera al segretario generale delle Nazioni Unite Ban ki-moon, che i responsabili di questi massacri e i loro mandanti siano processati da un Tribunale internazionale istituito dall'Onu, per i crimini di guerra compiuti nella Striscia di Gaza, crimini che si aggiungono a quelli già perpetrati prima del 26 dicembre (l’inizio dell'offensiva militare israeliana a Gaza, ndr.) contro la popolazione palestinese della Striscia, sottoposto ad un embargo illegale e disumano che ha portato ad una crisi umanitaria. Una crisi che ancora qualche giorno fa, la signora Livni (Tzipi Livni, ministra degli Esteri d'Israele, ndr.) aveva sprezzantemente negato». Giustizia. È una parola che Mairead Corrigan Maguire, nordirlandese, Premio Nobel per la Pace nel 1976, presidente della Fondazione dei Nobel Peace Laureate, ripete più volte nel corso del nostro colloquio. «Giustizia, sì. Lo dobbiamo ad un popolo a cui da sessant'anni viene negata». A Gaza è guerra totale…. «Questa guerra contro un popolo non nasce due settimane fa. Due settimane fa Israele ha deciso di scatenare una devastante potenza di fuoco contro un fazzoletto di terra popolato da un milione e mezzo di persone. La guerra era iniziata già prima e nel silenzio complice della diplomazia internazionale». A cosa si riferisce? «All’embargo imposto da Israele, alla trasformazione di Gaza in una enorme prigione a cielo aperto. L’ho ricordato nella lettera che ho scritto alcuni giorni fa al segretario generale delle Nazioni Unite. E voglio ripeterlo al suo giornale che non ha scoperto l’esistenza della tragedia di Gaza ai primi bombardamenti israeliani... Nel novembre 2008 visitai la Striscia e rimasi scioccata dalla sofferenza della popolazione di Gaza sotto assedio da oltre due anni. Questa punizione collettiva da parte del governo israeliano ha condotto a una grave crisi umanitaria. La punizione collettiva contro una comunità civili, da parte del governo israeliano, viola la Convenzione di Ginevra, è illegale, è un crimine di guerra e un crimine contro l'umanità. Invece di proteggere la comunità civile di Gaza e alleviare la sua sofferenza sollevando l'assedio, da ormai due settimane l'esercito israeliano esegue bombardamenti di cielo e mare contro i civili disarmati. Lanciare bombe, centinaia di tonnellate di bombe, contro civili disarmati, molti dei quali donne e bambini, distruggere moschee, ospedali e case, e devastare le infrastrutture di Gaza è illegale e costituisce crimini di guerra. I morti del popolo di Gaza sono ora quasi 800, i feriti superano i 3.200, molti dei quali donne e bambini. Le infrastrutture di Gaza sono state distrutte e la popolazione è tagliata fuori dal mondo - compresi i giornalisti, gli osservatori e gli attivisti umanitari, tutti chiusi fuori da Gaza e impossibilitati a entrare ad aiutare la popolazione. Questa è la realtà». Cosa chiede all'Onu? «L’Onu deve sostenere il rispetto dei diritti umani e della giustizia nei confronti del popolo palestinese, prendendo in seria considerazione l'istituzione di un Tribunale Criminale internazionale per Israele, così che il governo israeliano sia ritenuto responsabile di crimini di guerra». Israele rivendica il diritto di difesa dal lancio dei razzi contro la popolazione del Sud. «Ho condannato quei lanci ma non c'è diritto di difesa che possa giustificare i massacri di civili attuati a Gaza». udegiovannangeli@unita.it 10 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI La guerra nella Striscia è un regalo agli integralisti Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2009, 06:02:38 pm «La guerra nella Striscia è un regalo agli integralisti»
di Umberto De Giovannangeli «So bene che Israele pretende di essere l’unica democrazia nella regione. Ma i metodi utilizzati a Gaza, così come nella demolizione di case palestinesi o in altre punizioni collettive inflitte alla popolazione dei Territori, questi metodi non appartengono a un regime che si vuole democratico. La verità è che quello che sta accadendo a Gaza è una vera catastrofe». A parlare è una delle personalità che hanno fatto la storia della diplomazia egiziana, proiettandola ai più alti livelli di responsabilità internazionale: a parlare è Boutros Boutros-Ghali, 87 anni, ex Segretario generale delle Nazioni Unite, ministro degli Esteri egiziano sotto la presidente di Anwar al-Sadat che accompagnò nello storico viaggio a Gerusalemme nel 1977. Con Moshe Dayan come controparte israeliana, Boutros-Ghali è stato uno dei principali negoziatori che portarono alla pace di Camp David del 1979. La guerra a Gaza, ribadisce a l’Unità l’ex numero uno del Palazzo di Vetro, «è un regalo che Israele fa ai fondamentalisti. Rafforzerà l’estremismo e il fondamentalismo in tutti i Paesi arabi e anche all’interno della stessa Israele. Indebolirà tutti i moderati, tutti coloro che sono a favore del dialogo». A Gaza è guerra totale. Israele ammassa altre truppe nella Striscia e ribadisce: nessun accordo è possibile con Hamas. Qual è in merito la sua opinione? «Quello che sta avvenendo a Gaza è una vera catastrofe. Non solo per la popolazione civile ma anche per il futuro del mondo». In particolare per il mondo arabo? «Certamente sì. L’azione israeliana, l’uso assolutamente sproporzionato della potenza militare, l’uccisione di centinaia di civili, tra i quali molte donne e bambini, questa sciagurata prova di forza ha indebolito tutti i moderati nel mondo arabo e tra i musulmani nel mondo. Un’altra conseguenza è che gli estremisti diventeranno più forti, pensiamo a quanto è successo in Libano con Hezbollah, dopo la guerra del 2006. Ora è uno dei partiti più forti del Paese. Come fa Israele, i suoi governanti, a non rendersi conto di tutto ciò. Come fa a non comprendere che oggi, rispetto a tre settimane fa (prima dell’inizio dell’operazione "Piombo Fuso", ndr.) chiunque tra i leader arabi ponesse l’accento sulla necessità del dialogo con Israele verrebbe visto dalla sua gente come un traditore dei fratelli palestinesi? E come può Israele non fare i conti con il fatto che più del 50% della popolazione di Gaza ha meno di 16 anni». Lei si riferisce al numero altissimo di adolescenti uccisi nell’offensiva. «Non solo a questo. Vede, quei bambini saranno i kamikaze, gli estremisti di domani con i quali sarà 10 volte più difficile tentare di avere negoziati rispetto a quanto è stato possibile negli anni scorsi. C’è poi da tener in conto che Gaza costituisce solo il 2% dei territori palestinesi e che raccoglie più di un milione e 400mila di abitanti. Questo mette la situazione politica nelle stesse condizioni dell’apartheid che abbiamo visto in Sudafrica, sia in Cisgiordania sia a Gaza. A denunciarlo, tra i tanti, è una personalità che della battaglia contro l’apartheid in Sudafrica è stato tra i protagonisti: il reverendo e Premio Nobel per la Pace, Desmond Tutu. In più entro 20-30 anni ci saranno molti più palestinesi in territorio di Israele considerato che il tasso di crescita demografica è di 2-2,5 bambini palestinesi per 1-1,5 bambini israeliani. E contro questa "bomba demografica" non ci sono Muri o prove di forza che possano tenere». In una intervista a l’Unità, lo scrittore israeliano Amos Oz ha affermato che i contenuti di un accordo di pace sono già tutti sul tavolo, ciò che manca è il coraggio politico di attuarli. «Condivido questo giudizio di Oz. Aggiungo che un compromesso accettabile per le due parti è stato delineato anche su uno dei temi più delicati: quello del diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi. Ciò che sembra mancare è una visione lungimirante, proiettata nel futuro. Ciò che manca sono leader coraggiosi, come furono Anwar al-Sadat e Yitzhak Rabin». Due statisti che pagarono con la loro vita scelte di pace, uccisi da fondamentalisti ebrei e arabi. «Purtroppo è così. E fino a quando questi opposti fondamentalismi continueranno a segnare l’immaginario dei due popoli, il cammino della pace sarà sempre in salita». udegiovannangeli@unita.it 14 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - «Noi israeliani saremo costretti a parlare con Hamas» Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2009, 11:30:55 pm «Noi israeliani saremo costretti a parlare con Hamas»
di Umberto De Giovannangeli «Come risposta è stata anche tardiva, come guerra è un azzardo, di più, un’avventura dalla quale dobbiamo tirarci fuori il più presto possibile. Quando ho sentito Ehud Barak (ministro della Difesa e leader laburista, ndr) annunciare che l’operazione militare a Gaza sarebbe durata a lungo, ho subito pensato: ma allora non abbiamo imparato nulla dalla lezione libanese ». A parlare è lo scrittore israeliano più attento al mondo dei bambini, Meir Shalev. «Israele – osserva lo scrittore - non poteva non rispondere al continuo lancio di razzi contro le città del Sud . Era una risposta inevitabile, occorreva mettere in guardia e punire Hamas, ma scatenare una guerra di queste dimensioni con l’obiettivo di distruggere Hamas, questa è stata una decisione irresponsabile. Come fu in Libano, così oggi a Gaza, la potenza militare non può mascherare l’assenza di una strategia politica». Il mondo guarda con sempre maggiore angoscia a quanto accade a Gaza. Ma esiste davvero una soluzione militare alla questione-Hamas? «No, non esiste. Chi lo pensa spaccia una illusione. Chi lo pratica è un pericoloso avventurista. Sia chiaro: un’operazione contro Hamas era inevitabile. E come azione punitiva è venuta anche in ritardo. Ma in tempi non sospetti, e cioè il giorno stesso in cui i nostri caccia si levavano in volo verso Gaza, ho espresso la mia convinzione: ero assolutamente contrario ad una offensiva massiccia, prolungata, nella Striscia di Gaza. Venti giorni dopo, la mia convinzione si è rafforzata. E non solo per il bilancio delle vittime, per i civili uccisi. Questo appartiene a un rigetto morale,ma c’è anche una considerazione di carattere politico». Quale? «Non ho mai creduto che movimenti come l’Hamas palestinese o Hezbollah libanese possano essere sconfitti con la forza delle armi. Sono invece convinto che Israele dovrà un giorno parlare con Hamas, come Hamas dovrà parlare con noi. Avvenne così anche venti anni fa con l’Olp di Yasser Arafat. E sa perché ci convincemmo allora che occorreva aprire il dialogo con il "super terrorista con le mani lorde del sangue degli Ebrei"? Decidemmo di farlo perché avevamo trovato un altro nemico con cui non dovevamo parlare. Quell’arci nemico, il male assoluto, era Hamas». Ed oggi? «Se non oggi, tra qualche anno, ci troveremo a parlare con Hamas, perché nel frattempo avremo scoperto un nemico ancora più minaccioso con cui sarà impossibile dialogare. Forse sarà la Jihad islamica, o cos’altro, ma sarà così». Resta il fatto che, almeno all’inizio delle operazioni militari, anche buona parte della sinistra israeliana era favorevole a «Piombo Fuso». «Questo sostegno è anche il prodotto di una delusione che data qualche anno fa». Vale a dire? «All’estate del 2005, ai giorni del ritiro unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza. Noi, è un ragionamento che mi sono sentito ripetere da tante persone dichiaratamente di sinistra e favorevoli al dialogo con i palestinesi, abbiamo rispettato la nostra parte di impegni, e loro invece hanno continuato a bersagliarci con i razzi». Israele ha vietato alla stampa internazionale l’ingresso a Gaza. «Un errore. Tanto più grave perché nell’era di Internet, di YouTube, pensare di censurare la realtà, oscurarla, oltre che sbagliato è illusorio. Stupidamente illusorio». Visto dalla parte israeliana, cosa deve accadere per ridare senso e prospettiva all’idea della pace? «Cosa deve accadere? Occorre che la grande maggioranza dei palestinesi prenda atto che lo Stato d’Israele, lo "Stato degli Ebrei" non è uno scherzo della Storia, e che noi qui siamo e qui intendiamo restare. Solo quando questo concetto sarà metabolizzato si potrà marciare speditamente verso l’unica soluzione ragionevole: quella di due Stati per due popoli». udegiovannangeli@unita.it 16 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Olmert ha sbagliato, la sua guerra non è stata giusta Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2009, 03:07:11 pm «Olmert ha sbagliato, la sua guerra non è stata giusta»
di Umberto De Giovannangeli È tornato ai suoi, affollatissimi, corsi universitari. Ma non è venuto meno a quella passione civile e a quel coraggio intellettuale che lo ha portato per molti anni ad essere il leader riconosciuto della sinistra pacifista israeliana: parliamo di Yossi Sarid, fondatore del Meretz, più volte ministro nei governi a guida laburista. Oggi, Yossi Sarid è una voce fuori dal coro, la voce dell’Israele che non crede nella «guerra giusta» di Gaza. «No - afferma deciso Sarid - quella condotta a Gaza non è stata una guerra giusta. È semmai una guerra terapeutica che libera da inibizioni morali, guerra fatta per roteare gli occhi. Per questo è ancora più pericolosa». Professor Sarid, nel vivo della guerra a Gaza, le autorità israeliane hanno reagito duramente ad una immagine utilizzata dal cardinal Martino per definire la condizione di Gaza e della sua gente: Gaza, ha sostenuto il cardinale, è un grande campo di concentramento. È una forzatura della realtà? «No, non è una forzatura. A Gaza un milione e mezzo di esseri umani, la maggior parte dei quali profughi abbattuti e disperati, vivono nelle condizioni di una gigantesca prigione, terra fertile per un altro giro di bagni di sangue. Terra in cui giovani che non hanno futuro rinunciano facilmente al loro futuro, che non possono scorgere all’orizzonte. Il fatto che Hamas possa essersi spinta troppo oltre con i suoi razzi non è una giustificazione per la politica di Israele degli ultimi decenni, per la quale si merita giustamente una scarpa irachena in fronte». Considerazione durissima. Alla quale si potrebbe rispondere che nell’estate del 2005, Israele si è ritirato unilateralmente da Gaza. «La parola chiave resta sempre quella: unilateralmente. Israele ha preso tutte le decisioni più importanti in questa chiave: il ritiro da Gaza, il tracciato della Barriera in Cisgiordania, la realizzazione degli insediamenti, il continuo stop and go ai negoziati. E ora il cessate-il-fuoco nella Striscia. È come se la controparte non esistesse o non avesse voce in capitolo. Questo ha finito per delegittimare ogni controparte. E sulla delegittimazione dell’altro non si costruisce un percorso negoziale». Insisto: Israele afferma che è stato Hamas a violare la tregua, sparando missili contro il Sud d’Israele. «Il punto non è giustificare Hamas, cosa che mi guardo bene dal fare. Il punto è che è difficile far credere che sia esistita una tregua a un milione e mezzo di persone che hanno continuato a vivere in una gigantesca prigione. Cosa ci attendevamo da loro? Che prendessero le armi contro Hamas? Il fatto è che in questi anni la cecità della nostra politica ha finito per rafforzare Hamas e i gruppi radicali. E per spiegarle questo convincimento voglio raccontarle una storia…» Quale storia, professor Sarid? «La scorsa settimana ho parlato con i miei studenti della guerra a Gaza nel contesto di un corso sulla sicurezza nazionale. Si è sviluppata una discussione appassionata, e uno studente, che si era dichiarato "molto conservatore", mi ha detto: "Se io fossi (stato) un giovane palestinese avrei combattuto ferocemente gli Ebrei, perfino col terrorismo. Chiunque ti dica delle cose differenti, mente. Quelle parole mi hanno scosso nel profondo. Le sue osservazioni suonano familiari, le ho già sentite nel passato. Improvvisamente ricordo: circa 10 anni fa erano proferite dal nostro ministro della Difesa, Ehud Barak. Il giornalista di Ha’aretz Gideon Levy gli chiese allora, come candidato a primo ministro, cosa avrebbe fatto se fosse nato palestinese e Barak, con franchezza, rispose: "Mi unirei ad una organizzazione terroristica". E qui il cerchio si chiude…». In che senso si chiude? «Io ho odiato tutti i terrorismi nel mondo, quale che fosse il fine delle loro lotte. Comunque, sostengo ogni attiva rivolta civile contro ogni occupazione, e Israele è fra i più deprecabili occupanti. E fino a quando varrà ciò che quello studente ha detto, "se fossi palestinese combatterei gli Ebrei", e ammesso da Barak, "mi unirei ad un’organizzazione terroristica", non vi sarà mai spazio per la pace, ma solo per nuove, devastanti "guerre terapeutiche", o per tregue destinate a fallire se restano tali e non, come è necessario, la premessa di una vera strategia del dialogo». 19 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Il valico di Rafah si può controllare con 1300 uomini Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2009, 11:23:58 pm «Il valico di Rafah si può controllare con 1300 uomini»
di Umberto De Giovannangeli Per tre anni - dal novembre 2005 al novembre 2008 - ha comandato la missione europea EUBAM che ha monitorato il valico di Rafah, tra la Striscia di Gaza e l’Egitto. Per questo il generale dei carabinieri Pietro Pistolese è oggi l’interlocutore più autorevole per comprendere la delicatezza e le difficoltà del controllo di quell’area caldissima. Generale Pistolese, molto si parla di una missione di controllo del valico di Rafah. Ci aiuti a capire la questione. «La missione EUBAM-RAFAH è stata operativa fino al 13 giugno 2007, quando le milizie di Hamas con un atto di forza si impadronirono del controllo della Striscia, compreso il valico di Rafah, e la polizia palestinese e i servizi di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) furono praticamente dissolti. A quel punto, io ritirai le forze dal valico, in quanto noi eravamo al valico di Rafah in virtù di un accordo con Israele e l’Anp, e non certo con Hamas che era soltanto una fazione armata e l’Unione Europea non ha alcun contatto con quelle che sono le fazioni armate. Va anche detto che la missione è rimasta presente anche al di fuori della Striscia, manifestando con questa presenza l’impegno dell’Ue a favore della popolazione palestinese della zona (Cisgiordania) e pronta ad assolvere gli impegni assunti con entrambe le parti, non appena si fossero create le condizioni per portare avanti il lavoro già intrapreso». Questo per il passato. Ed oggi? «Oggi esistono due possibilità: la missione EUBAM può essere rivitalizzata e riprendere le attività. E per fare questo la missione ha già predisposto tutto quello che occorre per richiamare ogni osservatore dall’Europa e riprendere le attività . Vorrei sottolineare che le attività della missione sono focalizzate al valico di Rafah con attività di monitoraggio e di addestramento delle forze di sicurezza e anche del personale di dogana, al valico di Rafah. Bisogna però distinguere il confine dal valico. Non è il confine il compito della missione EUBAM, ma soltanto il valico di Rafah. È questa è una distinzione sostanziale». Qual è dunque il problema più dirimente oggi? «Il problema più importante è la vigilanza del confine per evitare che vengano scavati i tunnel (tra l’Egitto e la Striscia) attraverso i quali passa ogni cosa. Questo dovrà essere oggetto di un differente meccanismo che le due parti - l’Anp e il governo d’Israele - e tutti gli altri attori di questa vicenda, potranno mettere in opera creando un nuovo sistema che sia in grado di soddisfare le aspettative di entrambe le parti». Ma un accordo del genere può funzionare senza o contro Hamas? «Il problema è legato alle capacità reali dell’Anp di convincere Hamas o di raggiungere con essa le opportune intese. Quindi la riconciliazione delle due parti palestinesi, o almeno un accordo tra di loro, è essenziale.» Ammettiamo che questa intesa venga raggiunta. Quale dovrebbero essere la dimensione della missione? «Dipende dai compiti stabiliti. Questo è un problema politico-diplomatico che va risolto a questo livello. Se si tratta di una missione di monitoraggio oppure di peace and forcing, questo dovrà essere deciso dai soggetti che si troveranno attorno a un tavolo per decidere. Teniamo presente che parliamo di un’area di 13-14 chilometri: vanno previsti almeno 1300 uomini per poter attuare un vero controllo». udegiovannangeli@unita.it 20 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - «Israele non ha vinto. Ora tratti con noi di Hamas» Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2009, 12:48:57 am «Israele non ha vinto. Ora tratti con noi di Hamas»
di Umberto De Giovannangeli «Volevano annientare la resistenza palestinese. Per riuscirci hanno impiegato ogni mezzo. Ma hanno fallito. Perché oggi la resistenza è più unita che mai. Abbiamo fermato l’aggressione e il nemico non ha raggiunto nessuno dei suoi obiettivi. Israele oggi sa che se vuole sicurezza deve negoziare con Hamas». È il leader di Hamas a Gaza. L’uomo più temuto da Israele. Il suo nome è Mahmud al Zahar, ministro degli Esteri nel governo Hamas. In questo colloquio con l’Unità, al Zahar avverte Israele: «Non deporremo le armi fino a quando esse serviranno a difendere il popolo palestinese e a raggiungere il nostro fine: lo Stato di Palestina». Morte. Distruzione. Come fa Hamas a cantare vittoria? «Quei civili massacrati sono un marchio d’infamia per il nemico. Il mondo ha conosciuto il terrorismo di Stato d’Israele. Per annientare la resistenza palestinese hanno impiegato ogni mezzo. Ma hanno fallito il loro obiettivo». Israele è di avviso opposto. Abbiamo inferto un colpo durissimo a Hamas, ripetono i leader israeliani. «È propaganda. Cattiva propaganda. Per i martiri che hanno ucciso, altri hanno già preso il loro posto. Ma la cosa più importante è un’altra». Quale sarebbe? «Solo un popolo unito poteva resistere ad un’aggressione così massiccia condotta da uno degli eserciti più armati al mando. Quella ottenuta a Gaza non è stata la vittoria di Hamas o di qualsiasi altra fazione palestinese. È stata la vittoria di un popolo». Ed ora? Israele avverte: siamo pronti a riprendere l’offensiva se saremo attaccati. «Israele ha una settimana per ritirarsi completamente dalla Striscia. In questo arco di tempo la resistenza manterrà il cessate il fuoco. Ma sia chiaro: non accetteremo che Gaza resti una prigione a cielo aperto. Se si vuole una tregua di lungo periodo, Israele deve riaprire i valichi». La ministra degli Esteri israeliana Tzipi Livni ha affermato che i valichi non saranno riaperti se prima non verrà liberato il caporale Gilad Shalit (rapito da un commando di Hamas nel giugno 2006). «Israele sa che Shalit può tornare in libertà se in libertà torneranno i palestinesi prigionieri di Israele. Israele sa quali sono i termini dello scambio (mille palestinesi scarcerati, ndr.). Se li accetta, Shalit sarà libero». Lei parla di una resistenza che si è unità contro l’aggressione. Ma resta la spaccatura tra Hamas e l’Autorità palestinese del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen). «Siamo pronti a riprendere il dialogo nazionale ma Abu Mazen non può forzare la mano e imporre decisioni che portano alla spaccatura e non all’unità. Il suo mandato presidenziale è scaduto lo scorso 9 gennaio. Siamo disposti a discutere una soluzione transitoria che parta però dal riconoscimento che esiste un Parlamento palestinese ancora in carica e legittimato da un voto libero. Quel voto ha premiato Hamas. Abu Mazen non può negarlo». Lo scrittore israeliano David Grossman ha scritto che Israele dovrebbe parlare anche con chi nega la sua esistenza. Cioè con Hamas. «Grossman ha preso atto che la pace, qualunque essa sia, non può essere fatta contro metà del popolo palestinese. Negoziare con Hamas non è una concessione di Israele. Con le armi non l’avranno mai vinta». Ma neanche il popolo palestinese potrà mai averla vinta con le armi. «Le armi servono per mantenere in vita il nostro diritto a resistere all’occupante sionista. Il tempo è dalla nostra parte». Gaza è ridotta ad un cumulo di macerie. Non si sente responsabile? « La mia “colpa” è quella di non aver alzato bandiera bianca. Ne sono orgoglioso. E con me la mia gente». udegiovannangeli@unita.it da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI Mano tesa all’Islam. Così finisce lo scontro di civiltà Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2009, 06:49:30 pm «Mano tesa all’Islam. Così finisce lo scontro di civiltà»
di Umberto De Giovannangeli Un discorso «di svolta. Che chiude con il pensiero neo-con e le guerre preventive della precedente amministrazione. Un discorso che parla non solo alle leadership arabe e musulmane ma anche all’opinione pubblica araba e musulmana. Nel giorno della sua investitura, con la solennità del momento, Barack Obama si è manifestato in una doppia veste; quello del capo della più grande potenza mondiale e, al contempo, come un leader globale. Visto dal mondo arabo, quello di Obama è stato il discorso della speranza e della riconciliazione. Il dopo-Bush è davvero iniziato». A sostenerlo è il professor Nabil El Fattah, già direttore del Centro di Studi Strategici di Al Ahram (Il Cairo), tra i più autorevoli analisti del mondo arabo e musulmano. Professor El Fattah, come leggere il discorso di investitura di Barack Obama nel rapporto con l’Islam? «È stato un discorso di svolta. Che chiude un’epoca e ne delinea un’altra. Chiude l’epoca del “Conflitto di civiltà”, della sciagurata pratica delle guerre preventive che ha contraddistinto la precedente Amministrazione. Obama è chiamato a fare i conti con il pesante lascito di questa politica, tutto in saldo negativo sia per quanto riguarda la lotta al terrorismo che nel processo di stabilizzazione del Medio Oriente». Quale nuova «epoca» delinea il discorso del neo presidente Usa? «Quella della riconciliazione e del rispetto per un mondo - quello islamico - che Barack Hussein Obama non percepisce come entità ostile, da neutralizzare”. Rispetto. È un concetto-chiave per delineare un nuovo rapporto con l’Islam politico e culturale. Rispetto che, sul terreno più strettamente politico-diplomatico, porta con sé un cambiamento radicale di strategia: qui la parola-chiave è inclusione». Tradotto nei dossier più caldi? «Coinvolgere l’Iran nel processo di stabilizzazione del Grande Oriente, dalla Palestina all’Afghanistan. E, per ciò che concerne il Medio Oriente, partire dal conflitto israelo-palestinese e non, come era avvenuto nella prima presidenza di George W.Bush, dall’Iraq. In questa chiave, è estremamente significativo che la prima telefonata da presidente, Obama l’abbia fatta ad Abu Mazen (il presidente dell’Anp, ndr.). È il segno che la nuova Amministrazione democratica punta a molto più che il rafforzamento della tregua a Gaza. Punta ad una pace stabile e duratura». Una politica inclusiva significa anche coinvolgere, in un futuro prossimo, anche Hamas in un negoziato di pace? «Questo mi sembra prematuro, mentre ritengo più che probabile che gli uomini che Obama investirà sul Medio Oriente cerchino di aprire canali di contatto con esponenti di Hamas. Già questo rappresenterebbe una svolta». Obama non deflette dalla guerra al terrorismo jihadista. «Ma sa che la sconfitta dell’Islam radicale armato non può avvenire sul piano militare ma su quello politico, facendo il vuoto attorno ad esso, togliendogli potenti strumenti di propaganda come è stato, in queste settimane, la guerra a Gaza. Mi lasci aggiungere che Obama ha lanciato anche un messaggio molto chiaro alle leadership arabe...». Quale è questo messaggio? «Il loro futuro risiede nella capacità di conquistare il consenso dei loro popoli, costruendo e non distruggendo. E su questo, e non solo sulla “fedeltà”, l’America di Barack Obama valuterà i suoi alleati». udegiovannangeli@unita.it 22 gennaio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Tratterò la pace con i palestinesi moderati Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2009, 10:58:41 pm «Posso vincere. Tratterò la pace con i palestinesi moderati»
di Umberto De Giovannangeli Il «soldato più decorato» d’Israele va alla «battaglia» delle urne. Ehud Barak, ministro della Difesa e leader del Partito laburista, è di nuovo in lizza per la carica di premier nelle elezioni del 10 febbraio. A pochi giorni dal voto, tra un meeting elettorale e una riunione del Gabinetto di sicurezza nazionale, l’Unità lo ha intervistato. La sua corsa continua, come sostengono in molti, per assicurarsi anche nel prossimo governo il ministero della Difesa, visto che i sondaggi per la poltrona di primo ministro danno favorito il suo avversario di sempre, il leader del Likud, Benjamin Netanyahu? «Il forte consenso dell’opinione pubblica riguardo il mio operato come ministro della Difesa mi inorgoglisce, ma mi creda: la mia candidatura a premier non è un azzardo, tanto meno ha il senso di una testimonianza. L’incarico di Primo Ministro d’Israele è uno dei più complessi al mondo e per svolgerlo serve una persona che unisce a elevate e provate doti individuali anche esperienze al massimo livello negli apparati più delicati della politica, dell’economia, della sicurezza nazionale della diplomazia e via dicendo. Ho cominciato a servire il mio Stato quando avevo meno di 18 anni e non sarei qui se non fossi fermamente convinto di poter dare al futuro di Israele un contributo migliore degli altri due candidati (Netanyahu e la leader di Kadima e attuale ministra degli Esteri, Tzipi Livni, ndr.)». E quali devono essere i punti cardinali di questo futuro? «È chiaro che nessun Paese ha un futuro senza la sicurezza di poter sopravvivere. Ci si dovrà quindi continuare ad occupare di sicurezza nazionale perché abbiamo più di un nemico che vorrebbe vederci sparire. Lo abbiamo fatto con Hamas quando non ci è stata lasciata più scelta, dopo otto anni in cui ha reso impossibile la vita ai cittadini del sud di Israele mettendo in pericolo le loro vite in ogni momento della giornata. Ma questo è nulla di fronte al pericolo nucleare iraniano che esula perfino dalla nostra regione geografica e rappresenta una minaccia per il mondo intero. Ma tutto ciò non ci impedirà di continuare a curare la crescita del Paese nella scienza, nella medicina e nella cultura dando il massimo peso all’istruzione, che è poi la vera chiave tanto per lo sviluppo del livello di vita dei nostri cittadini, quanto per l’avanzamento nell’ambito delle nazioni più progredite». E Lei pensa che ci sia una possibilità che nel prossimo futuro vengano compiuti passi avanti nel cammino per la pace? «Israele ha già fatto enormi passi sul cammino per la pace. Oggi la grande maggioranza dell’opinione pubblica israeliana accetta il principio di due Stati per i due popoli ed è pronta a valutare i compromessi per realizzarlo. In effetti questo dialogo è in corso ormai da anni con la parte moderata del mondo arabo e dei Palestinesi. Il problema sta nei fanatici fondamentalisti, per i quali l’unica soluzione possibile è la distruzione dello Stato ebraico. I Palestinesi devono prendere una loro decisione e se intendono trovare una soluzione e vivere pacificamente accanto a noi, devono decidersi a rigettare la strada della violenza e del terrorismo, che può portare solo ad altri spargimenti di sangue e tragedie». Ma Hamas, nonostante tutto, è salito al potere dopo essere stato scelto a maggioranza dai Palestinesi in elezioni democratiche. Potrà mai essere un partner per la pace? «Non entro nel merito né delle elezioni palestinesi, né della successiva violenta presa di potere da parte di Hamas nella Striscia di Gaza, né tanto meno sul modo di mantenere questo potere, lontano anni luce da quello che intendo io - e penso anche lei - per democrazia. Israele non chiude alcuna strada con chi vuole sinceramente cercare una soluzione, ma non ci si può chiedere di trattare la pace con chi non è disposto ad accettare la tua stessa esistenza. È nostra speranza e interesse che i Palestinesi estendano la loro base moderata e che questa divenga la loro voce di maggioranza. Da quel momento, la pace sarà molto più reale e vicina». Nei giorni scorsi i suoi avversari politici, fra i quali anche alcuni alleati di governo, l’hanno accusata di voler legittimare Hamas. «Sono accuse strumentali, bassa propaganda elettorale. Nessuna legittimazione da parte mia verso chi usa l’arma del terrore per portare avanti le proprie idee. Ciò che ho sostenuto è che occorra iniziare a parlare con accenti più realistici. Sarà più utile affrontare le vere sfide del Medio Oriente piuttosto che (cullarci) in una realtà idealizzata che piaccia solo a noi. Per quanto mi riguarda, cerco di muovermi nel solco dell’insegnamento politico di David Ben Gurion (il leader laburista fondatore dello Stato d’Israele, ndr.), secondo cui Israele non ha interesse alla guerra ma non la teme. Abbiamo dichiarato un cessate il fuoco unilaterale, dando spazio alla mediazione egiziana, ma quando i miliziani palestinesi sono tornati a lanciare razzi contro Ashkelon e il Neghev, non abbiamo esitato ad agire con la necessaria determinazione. Il nostro diritto di difesa è fuori discussione, il che non significa che siamo in procinto di scatenare un’operazione "Piombo fuso" bis. L’uso della forza non può mai essere fine a se stesso e, comunque, non può sostituirsi ad una strategia politica che punta ad un intesa di pace con chi vuol vivere in pace con Israele. È questa la grande eredità lasciataci da Yitzhak Rabin. Un’eredità che non va delapidata». udegiovannangeli@unita.it 04 febbraio 2009 da unita.it Titolo: DE GIOVANNANGELI. Vincerò la sfida Con me in Israele finirà il tempo della paura Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2009, 10:38:47 pm «Vincerò la sfida. Con me in Israele finirà il tempo della paura»
di Umberto De Giovannangeli Un viso oscurato e una voce di fondo che dice: «Agente del Mossad, responsabile della privatizzazione delle società governative, ministro dell’Immigrazione, della Giustizia, degli Esteri e Vice-Primo Ministro. Chi solleverebbe dubbi contro un candidato alla premiership che ha un record del genere ... se questo non fosse donna?». È lo spot elettorale forse più riuscito di questa campagna elettorale e presenta Tzipora Malka (Tzipi) Livni, 50 anni, avvocata di successo e leader del partito Kadima fondato da Ariel Sharon, impegnata in una corsa nella quale Benjamin Netanyahu, leader del Likud (destra), sembra essere in testa ma con un distacco che lascia ancora spazio a sviluppi e sorprese degli ultimi giorni. In un Paese dove ancora una volta le elezioni saranno determinate dai temi di sicurezza nazionale, una donna - di fronte a un ex capo di stato maggiore (il laburista Ehud Barak) e a un ex ufficiale di unità di elite (Netanyahu) - deve lavorare molto duramente per convincere gli elettori della sua capacità di gestire future situazioni militari. «Ricordo la promessa che avevo fatto a lei e al suo giornale - ci dice Tzipi Livni in una pausa della sua estenuante giornata elettorale - di concederle un’intervista se fossi diventata primo ministro. Spero che mi sia di buon auspicio». Decisa, motivata, orgogliosa: «Sono pronta - afferma - per essere messa alla prova non solo per quanto ho detto, ma anche per quanto ho fatto: ho tutte le carte per diventare primo ministro». Un premier donna, 34 anni dopo Golda Meir. Lei è stata in prima linea nella decisione di iniziare l’operazione Piombo Fuso contro Hamas. Non è in contraddizione con la sua intenzione dichiarata di trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese basata sul dialogo e il negoziato? «Israele si è ampiamente guadagnato la legittimità di reagire contro Hamas. Vorrei ricordare che la Striscia di Gaza è stata evacuata nel 2005 da qualsiasi presenza israeliana, civile e militare. I palestinesi, invece di lavorare per preparare le strutture di un loro futuro Stato, si sono impegnati in altri tipi di operazioni, sviluppando un sistema di gallerie per contrabbandare armi e continuando a lanciare per 8 anni attacchi e missili sulla popolazione civile di Israele, oltre novecentomila persone. Per tutto questo tempo Israele non ha reagito, ma tutto ciò non poteva assolutamente continuare. Il governo d’Israele non voleva questa guerra, ma non gli è stata lasciata scelta di fronte al dovere basilare che ogni Stato ha verso i propri cittadini: quello di difenderli. Ma l’operazione a Gaza non esula da quella che io vedo come la linea strategica da continuare a seguire: combattere gli estremisti e parlare con i moderati. Speriamo che il colpo ricevuto da Hamas dia i suoi frutti anche in un suo indebolimento politico che aumenti la possibilità di raggiungere un accordo con i moderati, rappresentati dal presidente Abu Mazen. Non si deve dimenticare che i maggiori oppositori a qualsiasi accordo di compromesso sono proprio loro, quelli di Hamas, secondo cui l’unico possibile finale al conflitto, è la cancellazione di Israele». E quale è la sua soluzione? «Io vengo da una famiglia cresciuta su valori che vedevano in Israele l’unico focolaio nazionale del popolo ebraico. Un Paese democratico e liberale. Anni fa mi sono allontanata dall’idea che tutto ciò doveva essere realizzato in tutto il territorio sul quale potevamo reclamare diritti storici e sono giunta alla conclusione che il territorio è uno strumento e non un obiettivo. L’obiettivo era, ed è anche oggi, quello di assicurare l’esistenza e la crescita di uno Stato ebraico in Terra d’Israele. Oggi questa è la piattaforma che unisce la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana e che permette di poter sperare in una soluzione pacifica in cui i due popoli - israeliani e palestinesi - vivano uno accanto all’altro in pace. Oltre che giusto, ciò è anche indispensabile per preservare Israele come Stato ebraico e democratico. Solo chi non vuole veramente giungere ad una soluzione può sostenere l’idea di uno Stato bi-nazionale. L’unico vero modo per realizzare le aspirazioni dei due popoli è che ciò avvenga nei loro rispettivi Stati, laddove la premessa indispensabile è il mutuo rispetto e accettazione reciproca. Partendo da questa premessa, unita alla volontà di trovare un compromesso, a qualsiasi problema si può trovare la soluzione dialogando e trattando» Ma questo non è nuovo. Anche a Oslo ci si era mossi su principi simili e sulla creazione di un partner per il dialogo eppure siamo qui a discutere. «Si, ma l’errore di Oslo è stato di creare l’aspettativa che nella regione potessero avvenire cambiamenti veloci e improvvisi, e ciò si è rivelato come assolutamente irrealistico. Noi possiamo lavorare sulla nostra opinione pubblica, ma solo la leadership palestinese può lavorare sul proprio popolo. La soluzione potrà avvenire solo quando le due parti avranno raggiunto la volontà di trovarla e accettarla. A chi ci chiede di vedere Hamas come partner, rispondo che organizzazioni come Hamas non possono essere un partner. Hamas è un’organizzazione terroristica che vuole, fra l’altro, la distruzione d’Israele. Come ministro degli Esteri ho lavorato duramente perché la comunità internazionale riconoscesse e accettasse questo fatto e alla fine abbiamo formulato le condizioni minime per essere parte della trattativa: riconoscere l’esistenza d’Israele, abbandonare la strada della violenza e del terrorismo e riconoscere la validità degli accordi già firmati fra Israele e l’Autonomia nazionale palestinese». E per la minaccia nucleare iraniana, come si deve comportare Israele? Anche qui si deve privilegiare la strada del dialogo? «La minaccia nucleare iraniana è senz’altro il pericolo maggiore all’esistenza di Israele. Ma qui la questione è ancora più complessa, perché questa minaccia non riguarda solo il nostro Paese ma l’intera regione e anche più di questo. Nel caso dell’Iran, Israele è solo una parte di uno sforzo internazionale più ampio che ha come obiettivo di impedire che l’Iran si armi di ordigni atomici. Ciò non significa che Israele non si riservi di esercitare il suo diritto all’autodifesa in modo autonomo, qualora si sollevasse la necessità». Lei ha avuto parole molto dure nei confronti del suo più agguerrito rivale, il leader del Likud, Benjamin Netanyahu. «Ho solo rilevato che Netanyahu ha già ricoperto l’incarico di primo ministro con un bilancio fallimentare». In questi ultimi giorni di campagna elettorale, Lei ha più volte invitato Netanyahu ad un dibattito pubblico. Con quali risultati? «Silenzio. Imbarazzato e imbarazzante. Ma io non demordo. Perché resto convinta che un dibattito sulle questioni reali sia necessario perché i dibattiti mostrano che tipo di persona sei. Non apparire perché non hai voglia di esporre la tua vera faccia è inaccettabile quando si ha la pretesa di diventare primo ministro». Fra pochi giorni, Israele deciderà col voto il proprio futuro. Qual è la posta in gioco più impegnativa? «La scelta che Israele si troverà davanti tra pochi giorni riguarda la pace. La colomba della pace sta sulla finestra, e possiamo decidere se aprire i vetri e farla entrare, con tutta l’apprensione, o chiudere la finestra con la forza. Il voto deciderà se Israele potrà diventare un Paese di paura o un Paese di speranza». E la speranza d’Israele ha oggi il volto di una donna coraggiosa: Tzipi Livni. udegiovannangeli@unita.it da unita.it Titolo: Meir Shalev. - Voterò per Livni. Ma Israele ha bisogno dell’unità nazionale... Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2009, 05:11:48 pm «Voterò per Livni. Ma Israele ha bisogno dell’unità nazionale»
di Umberto De Giovannangeli Un Paese in trincea oggi si reca alle urne. Israele vota. Paure, speranze, incertezze, scenari futuri nelle riflessioni di uno dei più affermati scrittori israeliani: Meir Shalev. Israele ha “sfiorato” il voto in uno stato di guerra. Queste elezioni sono diverse dal passato? «Qualche particolarità c'è stata. Innanzi tutto i tempi della campagna elettorale sono stati brevissimi e questo a me, personalmente, non dispiace, visto che tutto sommato quello che i partiti hanno da offrire è già chiaro a tutti. Ciò che invece è diverso è lo schieramento delle forze politiche: eravamo stati abituati ad un confronto fra due partiti maggiori e dietro di loro uno-due medi e una serie di piccoli. Da queste elezioni, se non ci saranno sorprese, avremo quattro-cinque partiti medi che possono fare da ago della bilancia e un gruppetto di piccoli partiti più settoriali. Il fenomeno è, in ogni caso, rappresentato da Lieberman (il leader del partito di estrema destra Israel Beitenu, ndr.), un personaggio che riesce negli ultimi anni a cavalcare gli umori o meglio i malumori dell'ampia fascia dell'opinione pubblica insoddisfatta della classe politica e disposta a discostarsi dal proprio voto tradizionale. Questa volta Lieberman ha assunto il ruolo di vendicatore nei confronti degli Arabi israeliani - colpevoli di tramare contro lo Stato di cui sono cittadini -perfino in periodi di guerra come è avvenuto nell'ultimo confronto. E attenzione, non lo fa stupidamente! Usa argomenti che possono convincere tanto i “razionali” quanto gli “emozionali”: "Siamo usciti da Gaza come gli Arabi volevano e abbiamo ricevuto in cambio missili e bombe. I nostri governi incapaci e inerti non hanno reagito per otto anni a questo stillicidio. Guardate i deputati arabi alla Knesset: invece di curarsi del pubblico che li ha mandati al parlamento – vale a dire i cittadini arabi di Israele – si occupano solo della questione palestinese, comportandosi come una quinta colonna all'interno del sistema politico d'Israele". Lieberman non prospetta un'ideologia, non avanza possibili soluzioni al conflitto; con il suo slogan "non c'è cittadinanza senza fedeltà al Paese", offre al pubblico ebraico-israeliano la vendetta politica nei confronti di quella parte della popolazione che viene percepita da molti come traditrice». Che cosa c'è da sperare e da temere dalle agende dei tre candidati per il futuro di Israele come Lei lo vede? «Tranne per il fatto che una di loro è donna, i tre candidati non lasciano molto spazio a sorprese nelle questioni più scottanti della politica israeliana. Rappresentano partiti che in un'ottica di formazione di governo possono convivere perché non hanno fra loro forti differenze. La cosa è perfino auspicabile alla luce delle future sfide che Israele dovrà affrontare. Rimane – di nuovo – l'incognita Lieberman, ma anche di Shas, il partito ultraortodosso che rappresenta gli ebrei sefarditi. Se i tre partiti maggiori non sapranno superare i loro problemi dettati principalmente da ambizioni personali, potrebbero essere questi partiti minori a imporre il futuro di Israele in molti campi. La domanda è quindi se il vincitore fra i tre candidati saprà “cucire” un valido governo di unità nazionale mobilitando gli altri due contendenti». «Il Likud per la pace e i laburisti per la guerra» si diceva una volta in Israele. Ma ora ci si trova fra un confronto pieno di incognite con l'Iran e la probabilità di dover giungere a duri compromessi imposti forse da Barack Obama, per porre fine al conflitto con i Palestinesi. Chi è bene che sia alla guida del Paese? «Già molti anni fa, spiegavo in alcuni miei articoli cosa significa per me un "presidente americano amico di Israele". E lo descrivevo come colui che convincerà/costringerà Israele a smantellare gli insediamenti e a trovare un punto di incontro con i Palestinesi. Se Obama si muoverà in questa direzione, anche con "l'aggressività" che ha promesso di usare, non potrò che appoggiarlo – e tutto questo nella totale convinzione che questo sia un interesse dello Stato d'Israele. Spero solo che non si sia aspettato troppo e che la cosa sia ancora possibile. Per quanto riguarda la mia preferenza, questa va alla Livni (Kadima), ma non perché conosca appieno le sue qualità o capacità, ma perché gli altri due - Benjamin Netanyahu (Likud) ed Ehud Barak (Labour) - hanno dato già una prova negativa delle loro. Spero che le sia data questa possibilità e che come prima dimostrazione delle sue capacità come premier, sappia formare un governo Kadima, Likud e Labour che superi gli egoismi partitici e individuali e che si prepari al meglio per le future sfide che Israele si appresta ad affrontare». La sinistra israeliana soffre di una lunga crisi. Perché non riesce ad uscirne? «Non c'è dubbio che c'è da tempo un vuoto di leadership. Da Rabin a oggi la sinistra non riesce a trovare una figura carismatica intorno a cui unirsi. Ma insieme a questo, la sinistra non riesce a offrire nuove bandiere, dopo che buona parte delle sue del passato sono diventate proprietà comune di tutti i partiti che coprono l'area politica che va fino alla destra moderata. E questo vale in buona misura tanto per i temi politici quanto per quelli sociali. Ma da questa difficoltà e incapacità di distinguersi deriva forse una incomprensione che va approfondita. Quando mi capita di essere in Europa e anche in Italia, mi rendo conto che molti pensano, o vorrebbero pensare, che in Israele opera una destra nazionalista e militarista e contrapposta a questa una sinistra israeliana paladina della pace e dell'amore fra i due popoli. Due innamorati che stanno sempre a letto a sbaciucchiarsi. Spiacente, ma non è così: la maggioranza della sinistra vuole vivere in pace con i Palestinesi, ma in due stanze separate. Io mi considero parte della sinistra e posso confermare la mia profonda volontà di essere un giorno amico dei Palestinesi, ma nello stesso tempo il mio realismo mi dice che oggi il mondo deve aiutarci innanzi tutto a diventare buoni vicini, a salutarci educatamente quando ci incontriamo senza bruciarci le macchine nel parcheggio se non siamo d'accordo uno con l'altro. Magari sarà meno idilliaco e si presta meno a slogan pacifisti, ma dobbiamo fare la pace e non l’amore». udegiovannangeli@unita.it 10 febbraio 2009 da unita.it Titolo: DE GIOVANNANGELI. Risultato delle urne allontana la pace con i palestinesi... Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2009, 07:05:30 pm «Il risultato delle urne allontana la pace con i palestinesi»
di Umberto De Giovannangeli Il volto d’Israele uscito dalle urne. Vincitori e vinti. E un futuro nel segno dell’incertezza politica. L’Unità ne ha discusso con il più autorevole tra gli storici israeliani: Zeev Sternhell, docente di Scienze Politiche all’Università ebraica di Gerusalemme, autore di numerosi saggi tra i quali «Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni» (Baldini Castoldi Dalai). Sternhell - che pochi mesi fa ha subito un attentato da parte di un gruppo dell’estrema destra israeliana - non nasconde il suo pessimismo: «Per quanto riguarda la pace con i palestinesi - afferma - quale che sia il governo che si formerà, non potranno esserci seri progressi». E sul crollo del Labour, annota: «I laburisti continuano a pagare il prezzo di una perdita di identità e del venir meno di quella rendita di posizione elettorale che gli derivava dall’essere percepito come il partito "anti-Likud"». Professor Sternhell, come è possibile che Israele si trovi di nuovo, il giorno dopo le elezioni, senza una direzione politica sicura? «Purtroppo questo è un problema strutturale nella democrazia israeliana, aggravato oltretutto dalla poca chiarezza del sistema che – in una situazione come quella scaturita dalle elezioni di ieri (martedì, ndr.) - lascia la possibilità di formare il governo sia a Netanyahu che alla Livni. E né l’uno né l’altro potranno presentare un governo in grado di confrontarsi veramente con le sfide di fronte alle quali si trova Israele. Buona parte di questo risultato è frutto di un sistema problematico e che esiste oggi solo in Olanda. Per quel Paese – dove sono vissuto per un anno e dove ho constatato che in tempo di elezioni i cittadini erano a malapena coscienti del fatto che si doveva andare a votare – va bene. Ma per Israele, no. È un sistema che ha il pregio di voler dare voce a tutti i settori della società ma che crea una frammentazione politica quasi ingestibile. Il sistema della elezione diretta del primo ministro è stato provato e si è visto che non è adatto per Israele, ma ci sono fra questo e il sistema presente, molte possibilità intermedie che vanno seriamente studiate. Il problema è che una riforma elettorale seria e che restringa il numero dei partiti, dovrebbe essere studiata, preparata e approvata da quegli stessi parlamentari che potrebbero poi esserne colpiti. Coloro che sono disposti a mettere in forse una loro futura rielezione alla Knesset, non sono poi molti». In ogni caso, che significato ha il voto del 10 febbraio per il domani di Israele? «Per quanto riguarda la pace con i palestinesi, quale che sia il governo che si formerà, non potranno esserci seri progressi: ci saranno sempre quelli che vorranno, quelli che non vorranno e quelli che non potranno. È triste, ma d’altra parte ciò rispecchia la società israeliana odierna: sa di avere grandi problemi, ma non sa decidersi chi dovrà risolverli e come; vuole in grande maggioranza la pace, ma non è disposta a dare carta bianca per far pagare il prezzo necessario per conseguirla. Saremo quindi costretti a continuare a stare nella stessa piccola palude dove lo spazio è molto ristretto. Non che questo sia così diverso da tanti altri Paesi, Italia compresa; ma nessun Paese al mondo si trova di fronte a problemi esistenziali come quelli di Israele». Si temeva un calo della sinistra, ma è avvenuto un vero e proprio crollo. Come lo spiega? «Per quanto riguarda il Meretz (la sinistra sionista, ndr.), ha commesso un fatidico errore: quello di volersi presentare come "Nuovo Movimento" laddove non c’era niente di nuovo e sicuramente non si trattava di un movimento. Gli elettori non hanno trovato alcun motivo valido per votare un partito che nella migliore delle ipotesi era la coda del partito laburista. Da parte sua, il Labour continua a pagare il prezzo di una perdita di identità e del venir meno di quella rendita di posizione elettorale che gli derivava dall’essere percepito come il partito "anti-Likud". Al di là della indubbia crisi di leadership, lo spostamento di voti degli ultimi giorni è stato in funzione della volontà di molti di bloccare la crescita della destra, soprattutto di Lieberman. Non è più il Labour ad essere percepito come baluardo contro la destra, bensì il Kadima di Tzipi Livni. Ma al di là del rammarico per il crollo dei partiti di sinistra, devo dire che il ragionamento dell’elettorato è stato del tutto logico: rafforzare Kadima, nella attuale congiuntura politica, è stato l’unico modo per mettere Netanyahu in difficoltà, rendendogli quasi impossibile qualsiasi alternativa di governo che preveda solo la destra. È stato in fondo un calcolo intelligente e maturo di un elettorato di sinistra che ha preferito spostare e concentrare le forze più al centro per arginare la destra rappresentata da Netanyahu. E il Partito laburista è stato quello che ha pagato il prezzo maggiore per questa operazione». udegiovannangeli@unita.it 12 febbraio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - «Tutti mi corteggiano. Così cambierò Israele» Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2009, 12:18:52 am «Tutti mi corteggiano. Così cambierò Israele»
di Umberto De Giovannangeli È l’uomo politico più «corteggiato» d’Israele (e dalla stampa internazionale). L’ago della bilancia nella formazione del nuovo governo israeliano. Il suo «sì» o il suo «no» possono far crollare le ambizioni di Tzipi Livni (Kadima) e Benjamin Netanyahu (Likud) di essere alla guida dal futuro esecutivo. Parliamo di Avigdor Lieberman, 51 anni, leader di Yisrael Beiteinu (destra radicale laica), terza forza politica dello Stato ebraico con i suoi 15 seggi parlamentari. Amato o odiato, «Avigdor il moldavo» (è nato a Kishinev, nella Moldavia sovietica) non conosce mezze misure. E questa intervista ne è la riprova. Il suo partito ha ottenuto 15 mandati ma alla vigilia gliene davano quasi 20. Felice o deluso? «Noi non abbiamo mai reso pubblico alcun sondaggio. Chi ha tirato fuori quei numeri l’ha fatto solo per colpirci e cercare di frenare la nostra crescita. E chiaramente la stampa si è ancora una volta mobilitata per amplificare questa opposizione. Continuiamo la nostra progressiva salita che ci ha portato dai 5 seggi del 1999 ai 15 di oggi e siamo diventati il terzo partito nonostante la forte campagna denigratoria condotta contro di noi da tutte le direzioni. Sembra che per delegittimare il mio partito si possa far uso di qualsiasi strumento e degli istinti più bassi». Ma forse siete voi ad attirare il fuoco delle critiche. Il vostro slogan «senza fedeltà allo Stato non c’è cittadinanza» è un chiaro tentativo di cavalcare la paura e viene da molti interpretato come una forma di razzismo verso gli arabi israeliani. «Vorrei capire una volta per tutte il perché di questa grave accusa che mi si lancia contro. La mia posizione è sostenuta da norme che in molti Paesi occidentali ed europei, sono considerate del tutto legittime. In molti Paesi la fedeltà allo Stato e la distinzione fra chi sostiene il terrorismo e chi lo rifiuta, sono parametri per la concessione o la negazione della cittadinanza e dei diritti che ne derivano. In Spagna, per esempio, pochi anni fa sono stati messi fuori legge quattro partiti non perché - si noti bene - sostenevano il terrorismo, ma perché hanno rifiutato di condannarlo. Se perfino l'Europa riconosce Hamas come organizzazione terroristica, cosa c’è di anormale e scandaloso nel fatto che io affermi che chi sostiene Hamas deve essere messo in prigione e gli si debbono negare i diritti come cittadino israeliano, visto che Hamas ha come scopo dichiarato di cancellare lo Stato d'Israele? Perché quello che è ritenuto legittimo in Spagna, nel momento che viene proposto in Israele non è più legittimo?». Il governo in carica sta cercando di raggiungere un accordo, attraverso un negoziato indiretto con Hamas, per una tregua di lunga durata nella Striscia di Gaza. Fonti egiziane affermano che l’intesa potrebbe essere raggiunta nelle prossime 48 ore. «Tregua con chi predica e pratica il terrorismo? La tregua è servita e servirà ancora ad Hamas per riarmarsi e tornare a colpire. Nessuna tregua è concepibile con chi vuol fare di Gaza un avamposto iraniano a ridosso delle nostre città». Insisto su questo punto. Nell’intesa possibile c’è anche la liberazione del soldato Shalit (prigioniero di Hamas dal 25 giugno 2006). «Shalit deve essere liberato senza condizioni. Se lui è in pericolo lo devono essere anche i capi di Hamas. Il loro restare in vita in cambio della liberazione del nostro soldato: è questo l’unico scambio possibile». Vorrei tornare al voto. Israele esce da queste elezioni quasi ingovernabile e perfino Lei non si esprime in modo chiaro su chi raccomanderà al capo dello Stato, Shimon Peres, come futuro premier. «Non sono assolutamente d'accordo. L’elettorato israeliano ha dato un suo verdetto: ha punito la sinistra riducendola al suo minimo storico e il governo che sorgerà dovrà innanzi tutto tenere conto del fatto che c’è una chiara maggioranza della destra: da ora in poi gli interessi di Israele dovranno venire prima di quelli di altri. Per quanto riguarda la mia raccomandazione al presidente, non voglio ancora rendere pubblica la nostra preferenza solo per un fatto di forma e di correttezza verso il processo democratico in cui deve essere Peres il primo a sentire quello che abbiamo da dire. Quello che invece è più importante – e questo lo faremo già nei prossimi giorni – è fissare la piattaforma del futuro governo e delinearne la politica nei vari campi. Ciò dovrà riflettere, come ho già detto, la volontà scaturita fuori dal voto». Una volontà che comprende la neutralizzazione di qualsiasi sforzo teso a progredire nel processo di pace? In altri termini, signor Lieberman, per Lei dialogo è una parola impronunciabile? «A quale processo di pace si riferisce? Quello che ha permesso a Hamas di costruire una base terroristica a Gaza e lanciare sul territorio israeliano oltre 10mila razzi in otto anni? Quello che dopo il nostro fallimento della Seconda Guerra del Libano ha permesso il riarmo di Hezbollah nel sud del Libano? Oppure quello che consente all’Iran di dichiarare pubblicamente di voler cancellare Israele dalla faccia della terra mentre continua ad avvicinarsi ad una capacità nucleare? O magari quello per il quale si chiede a Israele di dare territori in cambio di pace e poi, una volta liberi, questi territori vengono usati esclusivamente per attaccare Israele?». Quindi, stando a Lei, non c'è alcuna speranza di dialogo con i Palestinesi e con il mondo arabo. «E chi l’ha detto? La pace è un obiettivo importante per tutti, anche per noi, ma non può essere anteposta all'esistenza dello Stato d'Israele. Tanto i palestinesi, quanto il mondo arabo riceveranno la nostra mano tesa in segno di pace nel momento in cui abbandoneranno la strada della violenza e del terrorismo; ma fin quando continueranno su questa strada, Israele ha il diritto e il dovere di difendersi con ogni mezzo a sua disposizione. Purtroppo, la strada delle concessioni si è dimostrata impraticabile e pericolosa, poiché ogni compromesso viene colto dagli Arabi come un segno di debolezza. Futuri accordi dovranno abbandonare l’idea di "pace in cambio di territori" e basarsi sul principio di “pace in cambio di pace”. Non è questa, chiaramente la sede di entrare nei particolari, ma i principi di massima sono che si dovrà tendere alla massima divisione fra le due popolazioni; si dovrà trovare una soluzione regionale in cui siano coinvolte Egitto e Giordania e in ogni caso, qualsiasi trattativa potrà avvenire solo dopo che si saranno verificate come precondizioni la sconfitta del terrorismo, la presenza di un partner che dimostri volontà di giungere ad una soluzione pacifica e capacità di metterla in atto e infine l’abbandono dell’incitamento a distruggere Israele nel sistema educativo palestinese e la sua sostituzione con l’insegnamento della pace. Per fare la pace servono due popoli che la vogliono e che offrono le condizioni minime per raggiungerla». Signor Lieberman, il rabbino Ovaia Youssef, guida spirituale di Shas (il partito ortodosso sefardita), ha detto: «Votare per Lieberman è votare Satana». Come ci si sente in queste vesti? «Satana, razzista, il “mostro-Lieberman”… Eppure con questo “Satana” tutti vorrebbero allearsi… Mi dica: chi è in difetto?». udegiovannangeli@unita.it ha collaborato Cesare Pavoncello 14 febbraio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - «Barghuti libero. Una speranza per noi palestinesi» Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2009, 11:11:24 am «Barghuti libero. Una speranza per noi palestinesi»
di Umberto De Giovannangeli «I detenuti politici palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane sono persone che lottano per la pace, la giustizia e la libertà del loro popolo. Marwan Barghuti, mio marito, è uno di loro. La sua liberazione sarebbe una vittoria di tutto il popolo palestinese e non di una sua fazione». A sostenerlo è Fadwa Barghuti, avvocata, moglie di Marwan, segretario generale di Al Fatah in Cisgiordania, l’uomo simbolo della seconda Intifada, dal 2002 detenuto in un carcere di massima sicurezza dello Stato ebraico, condannato all’ergastolo per reati di terrorismo. «Dal carcere - dice a l’Unità Fadwa Barghuti - Marwan ha continuato a battersi per la causa palestinese, rivendicando dignità, rispetto, e libertà per il suo popolo». Nell’ambito delle trattative per la liberazione del soldato Gilad Shalit - prigioniero di Hamas dal giugno 2006 - i media israeliani hanno accreditato le voci di una liberazione di Marwan Barghuti. «So di queste voci - dice Fadwa - ma quello che mi preme sottolineare in questo momento è che la sorte di Marwan non può essere scissa da quella dei quasi undicimila palestinesi oggi prigionieri nelle carceri israeliani. Questa ferita va sanata se si vuole davvero rilanciare un processo di pace». Marwan Barghuti libero in cambio della liberazione del soldato Shalit. I media israeliani accreditano questa possibilità. Rinasce la speranza? «In questi sette anni, io e la mia famiglia non abbiamo mai smesso di batterci per il ritorno alla libertà di Marwan. Mio marito è stato rapito illegalmente da uno Stato che ha occupato con la forza le regioni che secondo gli accordi di Oslo sono sotto la piena sovranità palestinese. Marwan è membro del Parlamento palestinese e come lui lo sono altri 40 parlamentari che Israele ha arrestato illegalmente. La loro liberazione risponde ad un principio di legalità che Marwan ha sempre rivendicato». C’è chi sostiene che la sua liberazione sarebbe un «favore» che Israele farebbe al presidente palestinese Abu Mazen. «E cosa dovrebbe ricevere, Israele, in cambio di questo “favore”? Un silenzio sui crimini che l’esercito israeliano ha compiuto a Gaza? Un atteggiamento più accomodante rispetto alla colonizzazione dei Territori? Chi lo pensa, o lo spera, non conosce Marwan Barghuti». Tra le voci che circolano , c’è quella secondo cui Israele libererebbe detenuti di «grosso calibro» solo se accetteranno di vivere in esilio. «Non parlo per gli altri. Ma su mio marito posso esserne certa: mai Marwan accetterebbe di barattare la sua libertà con l’esilio». C’è chi vede in Marwan Barghuti l’unico leader palestinese in grado di riunificare le fazioni in lotta. «Marwan ha sempre sostenuto che un popolo diviso è un popolo indebolito, e che le ragioni dell’unità dovrebbero avere il sopravvento sulle logiche di potere. Anche dal carcere non è venuto meno a questo principio». La destra israeliana si oppone alla liberazione del «terrorista Barghouti». «Marwan ha rivendicato il diritto alla resistenza, anche armata, contro le forze di occupazione, ma ha sempre condannato azioni terroristiche che miravano a colpire civili. Dal carcere continua a sostenere che non ci sarà mai pace finché ci sarà occupazione. E l’unica soluzione per porre fine alla sofferenza di entrambi i popoli è avere due Stati. Marwan si è battuto per questo e continuerà a farlo. Senza scendere a compromessi». udegiovannangeli@unita.it 17 febbraio 2009 da unita.it Titolo: Re: Umberto DE GIOVANNANGELI - Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2009, 11:50:05 pm «Processo che indigna. Giustizia e diritti non abitano a Mosca»
di Umberto De Giovannangeli Indignato ma non sorpreso. «Questa è la “giustizia” putiniana. La “giustizia” di quella che ebbi modo di definire una democratica”, vale adire di un regime che si proclama democrazia ma che continua, nei fatti, ad agire come la vecchia dittatura. Una democratica” che Anna Politkovskaia ha denunciato con coraggio. Per questo è stata assassinata». A parlare è Predrag Matvejevic, scrittore, saggista. Il suo percorso culturale e umano (nato a Mostar, da madre croata e padre russo) è quello di un intellettuale che ha cercato nel cuore dell’«inferno balcanico» di costruire «ponti» di dialogo tra identità, etniche e religiose, diverse e spesso violentemente contrapposte. Un intellettuale che ha avuto il coraggio di denunciare i crimini di regimi sanguinari. Come ha fatto Anna Politkovskaia raccontando il genocidio del popolo ceceno. Professor Matvejevic, il tribunale di Mosca ha assolto gli imputati alla sbarra per l’assassinio della giornalista Anna Politkovskaia. Come vive questa notizia? «Con dolore. Con rabbia. ma non con sorpresa. Purtroppo c’era da aspettarselo. Perché questa sentenza, come l’inchiesta che l’ha preceduta sono espressione della giustizia putiniana. Il parto di quella che ebbi modo di definire una “democratura”: democrazia di facciata, dittatura nella sostanza. Per noi che sappiamo cose era la Russia del XIX secolo e gli sforzi dei grandi scrittori, come Tolstoj, per dar corpo all’ideale di uno Stato di diritto, questa situazione presente ci affligge enormemente. Mi viene alla mente la lettera che Tolstoj scrisse allo zar per dirgli che il suo regno non conosceva il diritto e la giustizia. Due secoli dopo, nella “democratura” dello “zar Putin” quelle parole sono attuali come non mai. Povera Russia! Nell’era di Vladimir Putin può accadere di tutto. Una falsa democrazia può giustificare il peggior atto di dittatura. Diritti e giustizia non albergano a Mosca». Quale ricordo ha di Anna Politkovskaia? «Un ricordo personale. Ho conosciuto Anna in Italia, a Mantova, due anni prima della sua uccisione. Mi onoro di aver conosciuto una persona di grande cultura, di un coraggio e di uno spirito critico eccezionali. Per l’intera giornata mi ha parlato di una quindicina di giornalisti - tutti critici verso il regime di Putin - che sono stati vittime di “incidenti”. Non sapeva, Anna, che sarebbe stata lei la sedicesima. La notizia della sua morte fu per me uno shock molto grande, che crebbe dopo aver ascoltato, qualche giorno dopo, le dichiarazioni di Putin...Senza vergogna....». Perché, professor Matvejevic? «Perché ebbe l’improntitudine di sostenere che quella morte brutale non serviva al suo regime e anzi era un tentativo di screditarlo... Un’arroganza senza limiti. Per molto tempo, la “democratura” di Putin ha provato a comperare le coscienze dei russi garantendo un minimo di benessere sociale. Ma questo basta per giustificare un regime che si macchia di crimini così atroci? Ora però che la crisi economica e finanziaria mondiale attacca anche la “democratura” russa le vergogne del regime affiorano. Il baratto non regge più». A dichiararsi amico di Putin è il premier italiano, Silvio Berlusconi. «Non mi meraviglia affatto. Berlusconi è riuscito a dirsi amico di George W.Bush e di Vladimir Putin. Cosa ci può essere di peggio all’inizio del Terzo millennio? 20 febbraio 2009 da unita.it Titolo: Palestinesi uniti contro il pericolo di un esecutivo di falchi Inserito da: Admin - Marzo 01, 2009, 10:48:18 am «Palestinesi uniti contro il pericolo di un esecutivo di falchi»
di Umberto De Giovannangeli La parola ad Ahmed Qorei (Abu Ala), ex primo ministro palestinese, capo negoziatore per Al Fatah, il partito del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen), ai colloqui del Cairo che hanno portato ad un accordo tra 13 fazioni palestinesi per dar vita ad un governo di «riconciliazione nazionale. «Siamo all’inizio di un processo - avverte Abu Ala - ma non vi è dubbio che da parte di tutti i movimenti coinvolti c’è la consapevolezza che le divisioni interne al campo palestinese indeboliscono la nostra credibilità internazionale, disorientano la nostra gente e fanno il gioco di quanti in Israele intendono sabotare ogni sforzo volto al raggiungimento di una pace stabile, giusta, fondata sul principio di due Stati per due popoli». C’è chi sostiene che l’intesa del Cairo sia motivata dai miliardi di dollari che la Conferenza internazionale di Sham el Sheikh dovrebbe destinare alla ricostruzione di Gaza. «La ricostruzione di Gaza è una priorità assoluta per la dirigenza palestinese. Una sfida politica alla quale nessuno può sottrarsi...». Restano i finanziamenti. Una «torta da spartirsi» tra le 13 fazioni? «Assolutamente no. Nel suo intervento alla Conferenza dei Donatori, il presidente Abbas illustrerà nei dettagli come, dove e chi gestirà quei fondi finalizzati alla ricostruzione di quanto distrutto dalle forze armate israeliane e al miglioramento delle condizioni di vita di una popolazione segnata dall’assedio d’Israele. Gli occhi del mondo saranno su di noi. Non sarà consentito un fallimento». Uniti per non cadere? «Uniti perché le nostre divisioni interne hanno indebolito fortemente la causa palestinese e rafforzato i “falchi” israeliani...». Falchi che si apprestano a formare il nuovo governo in Israele. «È una prospettiva che dovrebbe allarmare l’intera comunità internazionale e non solo noi palestinesi. In Israele si apprestano a governare forze che hanno osteggiato apertamente qualsiasi negoziato con l’Autorità palestinese e che hanno accusato di tradimento e di capitolazione quei leader israeliani che hanno praticato il dialogo. Mi lasci aggiungere che di fronte a questo scenario, occorre che dalla Conferenza di Sharm el Sheikh emerga un messaggio politico forte, unitario...». Quale dovrebbe essere questo messaggio? «Quello che la comunità internazionale, Stati Uniti ed Europa in testa, non intende venir meno alla ricerca di una pace che riconosca il diritto del popolo palestinese ad uno Stato indipendente sui territori occupati da Israele nel 1967...». Da capo negoziatore palestinese, Lei è pronto a incontrarsi con il probabile nuovo primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu? «Non c’è in noi alcuna pregiudiziale politica o ideologica. Ma una cosa deve essere chiara: si negozia con chi accetta il principio dei due Stati e agisce di conseguenza. Temo che il nuovo governo israeliano nasca su basi diverse». E il governo di riconciliazione nazionale palestinese su che basi nascerà? «Abbiamo costituito commissioni di lavoro che dovranno affrontare tutte le questioni sul tappeto. Non nascondo le difficoltà. Ma in questo percorso condiviso ognuno dovrà assumersi le sue responsabilità. L’obiettivo a cui dobbiamo tendere è quello di uno Stato palestinese indipendente, pienamente sovrano sul suo territorio nazionale, con Gerusalemme Est come capitale. Chiunque entrerà a far parte del governo di riconciliazione dovrà condividere questo obiettivo». udegiovannangeli@unita.it 28 febbraio 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI Giustizia è fatta. Una lezione per tutti i dittatori. Inserito da: Admin - Marzo 05, 2009, 03:22:06 pm «Giustizia è fatta. Una lezione per tutti i dittatori»
di Umberto De Giovannangeli «In questo momento mi tornano alla mente i volti dei bambini, delle donne, degli uomini che ho incontrato nei campi di raccolta dei profughi del Darfur. Ricordo i loro sguardi impauriti, i racconti di violenze indicibili subite. Ma ricordo anche la richiesta che li accomunava: vogliamo giustizia. Giustizia, non vendetta. E ieri il Tribunale dell’Aja ha dato una prima risposta a questa richiesta, scrivendo una pagina importante nella storia del diritto internazionale». A parlare è Jody Williams, premio Nobel per la Pace 1997 per il suo lavoro come fondatrice e coordinatrice della Campagna Internazionale per la proibizione delle Mine Antiuomo. Jody Willams, presidente del Nobel Women's Initiative, negli ultimi anni ha dedicato il suo impegno alla tragedia in atto in Darfur, dove ha condotto una missione delle Nazioni Unite, e alla quale è seguito un rapporto pubblicato il 7 marzo 2007. La Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja ha emesso oggi (ieri per chi legge, ndr.) un ordine di arrestato internazionale contro il presidente sudanese Omar al Bashir per crimini contro l’umanità e per crimini di guerra nel Darfur. Qual è il messaggio che c’è dietro questa decisione? «È un messaggio di speranza. La giustizia è ancora una parola pronunciabile anche in quelle aree del mondo martoriate come il Darfur. Ed è anche un messaggio a tutti i dittatori del mondo: di fronte alle pulizie etniche, alle fosse comuni, ai villaggi bruciati, alle deportazioni, agli stupri di massa; di fronte a questo scempio dei più elementari diritti della persona, a cominciare da quello alla vita, nessuno può sentirsi “impunibile”». Lei è stata responsabile del gruppo speciale dell’Onu chiamato a investigare le condizioni dei diritti umani in Darfur. Il rapporto licenziato dal gruppo Onu è stato durissimo nei confronti delle autorità sudanesi. E molte delle accuse documentate sono state fatte proprie dalla Corte dell’Aja. «Quel rapporto documentava una realtà terribile. Una realtà che io e i miei quattro colleghi abbiamo ricostruito parlando con numerosi sopravvissuti all’epurazione etniche portata avanti dal governo sudanese che si è reso complice di questi crimini per aver armato e addestrato le milizie jianhjaweed (i jianhjaweed sono i miliziani del regime arabo del nord che dal 2003 hanno lanciato campagne di terrore contro la popolazione civile di origine africana, ndr.). Siamo entrati nei campi dei rifugiati in Ciad e abbiamo parlato con chi ci vive, raccogliendo racconti raccapriccianti che parlano di gigantesche e sistematiche violazioni dei diritti umani e gravi strappi alla legge internazionale. Il governo sudanese è stato complice in questi crimini per aver armato e addestrato le milizie janjaweed. (I janjaweed sono gli scherani del regime arabo del nord che dal 2003 hanno lanciato campagne di terrore contro la popolazione civile di origine africana: bruciano i loro villaggi, uccidono gli uomini, violentano le donne e le bambine e rapiscono i ragazzini che vengono arruolati a forza, ndr.) Il Tribunale dell’Aja ha confermato la validità di quel rapporto. Ora però la Comunità internazionale deve agire sul campo per proteggere i civili del Darfur e porre fine ai massacri indiscriminati». Khartoum sostiene che questa sentenza della Corte dell’Aja sia una indebita ingerenza negli affari interni del Sudan. «Affari interni il massacro di centinaia di migliaia di civili? La distruzione di quasi 2mila villaggi? Di fronte a questi crimini contro l’umanità l’ingerenza internazionale non è un diritto, è un dovere. Un dovere che va rivendicato e praticato. E non solo In Darfur». udegiovannangeli@unita.it 05 marzo 2009 da unita.it Titolo: I tribunali scomodi Inserito da: Admin - Marzo 13, 2009, 11:20:53 pm I tribunali scomodi
di Umberto De Giovannangeli Da qualunque lato si consideri il tema della guerra e del diritto, si arriva necessariamente a misurarsi con la questione dei tribunali internazionali. Qual è la loro giurisdizione? Che autonomia hanno effettivamente? Che possibilità hanno di rendere esecutive le sentenze che emettono? E ancora: quella pratica è vera Giustizia o è la «vendetta» dei Vincitori sui Vinti? Una cosa è certa: i tribunali internazionali sono oggi l’espressione di un Diritto internazionali che in troppi vorrebbero coartato nel nome della «indebita ingerenza» negli «affari interni» di uno Stato-nazionale. Da Slobodan Milosevic a Omar Al Bashir. Dall’inferno dei Balcani a quello del Darfur. Passando per il Rwanda, il Libano, la Sierra Leone. Nessun dittatore deve potersi considerare «impunibile» per crimini di guerra e contro l’umanità. È questa la sfida di una Giustizia internazionale che s’incardina nei Tribunali sovranazionali. Sono le Corti «scomode» perché nell’indagare su crimini efferati finiscono, spesso, per svelare la faccia impresentabile» di una real politik che molte volte, in nome di interessi economici o geopolitici, chiude gli occhi e concede impunità a regime che fanno spregio dei più elementari diritti della persone, a cominciare da quello più sacro: il diritto alla vita. Le prime esperienze di tribunali penali internazionali sono i tribunali militari di Norimberga e Tokyo del 1945, nei quali gli Alleati hanno processato i criminali di guerra nazisti e giapponesi. In seguito, già nel 1949 la Commissione di diritto internazionale dell’Onu cominciò a lavorare su una «bozza di codice sui crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità» e nominò un Comitato per codificare tali crimini; ma si dovette giungere al 1989 perché finalmente l’Assemblea generale ONU chiedesse alla Commissione di diritto internazionale di riprendere i lavori sulla Corte penale internazionale. Nel 1993 e nel 1994 scoppiarono i conflitti nella ex Jugoslavia e poi in Rwanda, e i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e il genocidio - nella forma di «pulizia etnica» - resero nuovamente urgente il tema del diritto penale internazionale. Il Consiglio di Sicurezza decise di battere la strada dei Tribunali «ad hoc»- all’Aia (1993) e ad Arusha (1994) - per giudicare i responsabili di quelle atrocità e scoraggiare il ripetersi di simili crimini. Nel loro agire, le Corti internazionali aprono dossier su pagine scioccanti della storia dell’oggi: pulizia etnica, deportazioni di massa. E stupri. Lo statuto del Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia menziona esplicitamente lo stupro fra i crimini contro l’umanità, e quello del Tribunale di Arusha sul Rwanda elenca fra gli atti che il tribunale ha competenza di giudicare «stupro, prostituzione forzata e ogni forma di aggressione sessuale». I processi celebrati da questi due tribunali hanno già riconosciuto lo stupro come atto di tortura, grave violazione delle convenzioni di Ginevra e crimine di guerra, nonché come strumento di genocidio, ed entrambi i tribunali si sono dotati di una consulente sulle questioni di genere, ed hanno adottato un punto di vista di genere anche nel modo di affrontare questioni come l’ammissibilità delle prove e il trattamento dei/delle testimoni. Dal Darfur al Tibet, dal Congo ai Balcani. Spesso, quando si denuncia il mancato rispetto dei più elementari diritti della persona, a cominciare dal diritto alla vita, i governi nazionali investiti dalle critiche parlano di «indebita ingerenza» negli affari interni. Riflette Fausto Pocar, già presidente del Tribunale Internazionale per i Crimini nella ex-Jugoslavia, e membro della Camera di Appello del Tribunale Internazionale per i Crimini nel Rwanda dal 2000: «A partire dalla Carta delle Nazioni Unite la nozione di affari interni dello Stato è venuta progressivamente a restringersi in conseguenza della disposizione della Carta che considera la protezione dei diritti fondamentali senza alcuna discriminazione come oggetto di obblighi di carattere internazionale anche quando si tratti del comportamento dello Stato nei confronti delle persone che si trovano sul suo territorio o alle quali si estende la sua giurisdizione. Non si tratta quindi di indebita ingerenza negli affari interni perché quegli affari, o questioni, non sono interni ma oggetto di valutazione e di obblighi di carattere internazionale». Si pone così il l grande tema del diritto all’ingerenza umanitaria. Spiega ancora il professor Pocar: «Nel diritto internazionale si è venuta affermando negli ultimi anni la nozione di una "responsabilità di proteggere" le popolazioni dalle violazioni più gravi dei diritti fondamentali della persona: dal genocidio, la pulizia etnica, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Quando lo Stato in cui i crimini sono commessi non ha la volontà o la capacità di proteggere la sua popolazione, la comunità internazionale è autorizzata ad agire, o meglio ha l’obbligo di farlo. Tale obbligo è stato riconosciuto in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 2006, e dalla Corte internazionale di giustizia in una sua recente sentenza». Il mondo scopre la giustizia. I tribunali internazionali provano a praticarla. udegiovannangeli@unita.it 13 marzo 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - «Sono ostili alla pace. Tutto più difficile» Inserito da: Admin - Marzo 18, 2009, 10:53:18 am «Sono ostili alla pace. Tutto più difficile»
di Umberto De Giovannangeli «Se non fossimo davanti a una tragedia, ci sarebbe da sorridere: a ministro degli Esteri un falco che pensa di poter risolvere la questione palestinese sganciando bombe atomiche su Gaza e realizzando una deportazione di massa degli abitanti della Cisgiordania». A parlare è Yasser Abed Rabbo, segretario del Comitato esecutivo dell’Olp, tra i più autorevoli dirigenti palestinesi. «Non solo noi palestinesi ma l’intera comunità internazionale - afferma Rabbo - dovrà fare i conti con un governo israeliano di estrema destra che nel suo orizzonte strategico non ha certo un accordo di pace fondato sul principio di due Stati per due popoli». Sarà dunque Avigdor Lieberman il prossimo ministro degli Esteri d’Israele. Qual è il suo primo commento? «Lieberman è il teorizzatore della deportazione forzata dei palestinesi dalla Cisgiordania. Cos’altro aggiungere: Israele sta andando verso la formazione di un governo decisamente ostile al rilancio del processo di pace». Ma Lieberman ha fama di «pragmatico», come il premier incaricato Benjamin Netanyahu... «L’estrema destra israeliana ha considerato un traditore Yitzhak Rabin e ha accusato di avventurismo “filo palestinese” persino il primo ministro uscente (Ehud Olmert). La verità è che con un governo Netanyahu-Lieberman verrà meno un partner con cui negoziare la pace...». Siamo dunque entrati in un vicolo cieco? «Purtroppo sembra di sì, a meno che...». A meno che? «Usa ed Europa non agiscano all’unisono per evitare il peggio. Un governo israeliano che si dica apertamente contrario al principio dei due Stati è un governo che può destabilizzare l’intero Medio Oriente. Sta innanzitutto al presidente statunitense Barack Obama evitare questa pericolosa deriva. Con un governo di falchi la pace è una prospettiva irrealizzabile». udegiovannangeli@unita.it 17 marzo 2009 da unita.it Titolo: «Accordo saltato. Olmert ha ingannato la famiglia Shalit» Inserito da: Admin - Marzo 20, 2009, 11:26:52 am «Accordo saltato. Olmert ha ingannato la famiglia Shalit»
di Umberto De Giovannangeli La «verità» di Hamas sul fallimento delle trattative per la liberazione del caporale Gilad Shalit. La risposta di Hamas alle affermazioni del premier israeliano Ehud Olmert. «Olmert è il responsabile del mancato accordo. Ha avuto paura. E così facendo ha preso in giro l’opinione pubblica israeliana e la famiglia Shalit». Verità di parte. A sostenerla è Ismail Radwan, uno dei leader politici del movimento islamico a Gaza. «L’accordo - rivela Radwan - prevedeva la liberazione in due fasi di mille prigionieri palestinesi. Nella prima fase ne dovevano essere scarcerati 450, due mesi dopo i restanti 550. Poi la marcia indietro». «Non subiremo i ricatti» di Hamas. Così il premier israeliano Ehud Olmert ha motivato il fallimento dei negoziati indiretti per la liberazione del caporale Shalit. «Olmert mente sapendo di mentire. E mente innanzitutto alla famiglia Shalit. Da parte nostra non c’è stato alcun irrigidimento finale nella trattativa. Avevamo concordato la liberazione di mille prigionieri palestinesi, tra i quali 450 combattenti di Hamas. La lista era pronta...». Questa è la versione di Hamas... «No, è una versione che può essere confermata dai mediatori egiziani...». E cosa avrebbe fatto fallire un accordo che sembrava ormai in dirittura d’arrivo? «La paura di Olmert. All’ultimo momento, gli inviati israeliani hanno posto come condizione non negoziabile che tutti i prigionieri liberati accettassero di andare in esilio. A quel punto era chiaro che volevano far fallire le trattative. I palestinesi preferiscono morire nella loro terra piuttosto che vivere altrove». Olmert aveva posto la liberazione di Shalit come precondizione per una tregua duratura a Gaza. «Da subito abbiamo affermato che le due cose erano separate. L’”hudna” (tregua, ndr.) è legata alla fine del blocco imposto da Israele a Gaza. La liberazione di Shalit è legata a quella dei palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane. Così è sempre stato e così sarà per il futuro...». Un futuro che prevede una eventuale ripresa di trattative con un nuovo primo ministro israeliano: Benjamin Netanyahu. «Per noi non c’è alcuna differenza fra Olmert e Netanyahu. Non ci attendiamo dal nemico alcuna concessione. Se e quando avverrà lo scambio, sarà perché Israele avrà compreso che non c’è altro modo per ridare libertà al soldato Shalit. Libertà per libertà. E l’obiettivo di Hamas è liberare tutti i prigionieri palestinesi». Anche con nuovi rapimenti? «Con ogni mezzo». Israele minaccia di inasprire le misure contro gli esponenti di Hamas detenuti. «Chiami le cose con il loro nome. Israele minaccia di torturare i nostri fratelli prigionieri. Se ciò avverrà, sapremo come rispondere». Da un negoziato all’altro. Quello tra Fatah e Hamas per la formazione di un governo di unione nazionale. Esponenti di Fatah sostengono che Hamas sta alzando il prezzo... «Non siamo al suk. Un nuovo governo deve tener conto della volontà espressa dal popolo palestinese nelle elezioni del gennaio 2006 (che sancirono la vittoria di Hamas, ndr.)». La ricostruzione di Gaza. Sarà gestita dall’Anp? «Sarà gestita dalle forze che a Gaza sono radicate. Nessuna esclusa. Hamas è tra queste». udegiovannangeli@unita.it 19 marzo 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - «Barack ridisegna il profilo degli Usa. Addio Bush» Inserito da: Admin - Marzo 20, 2009, 11:52:55 pm «Barack ridisegna il profilo degli Usa. Addio Bush»
di Umberto De Giovannangeli Obama e le cluster bomb. Ne parliamo con Lucio Caracciolo, direttore della rivista italiana di geopolitica Limes. Come leggere la disponibilità del presidente Usa a firmare in sede Onu il bando delle bombe a grappolo? «Si può valutare in vari modi. Una ipotesi, è che siano obsolete, e che quindi non servano più. Un’altra ipotesi, è che invece le cluster bomb servano ma che non siano politicamente corrette. E se è valida questa seconda ipotesi, Obama vorrebbe in qualche modo, attraverso questo atto che può essere letto in sequenza con altri, contribuire a ridisegnare l’immagine internazionale degli Stati Uniti, abbastanza compromessa negli otto anni di George W.Bush, in particolare in Medio Oriente e non solo. E per far questo, Obama è pronto, come in parte ha già fatto, a sacrificare alcuni dei dogmi, e quindi anche degli armamenti, tipici degli Stati Uniti». Questa disponibilità viene accolta con favore dalle più importanti organizzazioni umanitarie statunitensi e internazionali. E un segno di riavvicinamento tra la Casa Bianca e questo mondo «pacifista»? «Se vale la seconda delle due ipotesi che facevo, la risposta è sì. Perché già in linea con alcuni gesti compiuti prima da Obama, come la promessa della chiusura di Guantanamo, che poi vedremo fino a che punto sarà realizzata, o la famosa intervista ad Al Arabiya. Insomma, alcune aperture di Obama, retoriche o anche fattuali, segnalano la volontà del presidente democratico di restituire all’America un suo posto in un ambiente internazionale di cui sia effettivamente membro, di cui partecipi a scrivere le regole ma anche a rispettarle». La rivalutazione delle istituzioni sovranazionali è un tratto caratterizzante di quell’approccio multilaterale evocato alla gestione delle crisi da parte di Barack Obama? «Questo è un po' presto per dirlo. Certamente nella tradizione democratica e anche nella visione di Obama, c’è un approccio alle Nazioni Unite che è molto diverso da quello dell’amministrazione Bush, particolarmente di alcuni suoi esponenti, come l’ambasciatore all’Onu, Richard Bolton, i quali consideravano e considerano le Nazioni Unite poco meno che satanica come organizzazione. Dal punto di vista di Obama, può essere utile avervi un ruolo più attivo, con un effetto di legittimazione dell’iniziativa internazionale degli Stati Uniti che in questa fase mi pare abbastanza importante per il nuovo capo della Casa Bianca». Il multilateralismo di Obama non comporta anche a maggior impegni degli europei? «Non solo degli europei ma di tutti gli attori internazionali. A questo punto non si può più ragionare con la logica “bushiana” del con me o contro di me, ma si entra in una logica di compromesso, di negoziato, in cui serve stabilire dei punti fermi e trattare con gli americani. Questo è indubbiamente molto più complesso, più faticoso e forse anche più costoso». udegiovannangeli@unita.it 20 marzo 2009 da unita.it Titolo: «Dai militari in Kosovo alla Ue. Non sempre operazioni chiare» Inserito da: Admin - Marzo 20, 2009, 11:54:26 pm «Dai militari in Kosovo alla Ue. Non sempre operazioni chiare»
di Umberto De Giovannangeli Marta Dassù, analista di politica internazionale, direttrice del programma internazionale di Aspen Institute, ha scritto un libro che non ci aspettavamo. Da cosa nasce «Mondo privato e altre storie»? «La prima cosa che a me interessava, era di vedere se ero in grado di scrivere un libro che non fosse un saggio. La mia intenzione, insomma, era di scrivere qualcosa che si avvicinasse di più alla narrativa. Un libro facile e spero piacevole anche per i non esperti di politica estera. Un libro che è nato puramente e semplicemente dal piacere della scrittura». E sul piano della politica internazionale? «Dalle pagine che ho scritto emergono alcuni errori che sono stati commessi dalla fine della guerra fredda ad oggi. Molti altri ne faremo, probabilmente, perché è proprio il processo decisionale a non funzionare più di tanto nella politica internazionale. È molto difficile essere lungimiranti, raggiungere delle decisioni razionali, in fori che sono sempre più ampi: l’Unione Europea, la Nato, etc...La tendenza, dopo l’89, è stata quella a un continuo allargamento delle istituzioni. Si è trattata di una scelta giusta, io credo: l’Europa rapita, per usare la famosa espressione di Kundera, aveva diritto a questo ritorno nella famiglia delle democrazie. Al tempo stesso, però, gli allargamenti - prima della Nato, poi dell’Ue - hanno anche prodotto notevoli problemi. E gli errori compiuti li vediamo ancora oggi...». Nel libro li analizzi con una spietata, quanto argomentata, capacità critica e autocritica. Quali i più gravi? «In realtà li sfioro, non li analizzo. Nel caso del Kosovo gli obiettivi dell’operazione militare della Nato non erano chiari: non era chiaro se si trattasse solo e soltanto di difendere i diritti umani - in nome di una logica che io condivido, il “dovere di proteggere” - o se ci fosse anche l’intenzione di creare fin dall’inizio uno Stato indipendente - cosa meno scontata. Nel frattempo il Kosovo è diventato di fatto un protettorato. Questo processo di ambiguo “rinvio” si è in qualche modo concluso con l’indipendenza proclamata nel 2008, riconosciuta da gran parte dei Paesi europei, oltre che dagli Stati Uniti, ma non dalla Russia o dalla Cina. La mia opinione è che dopo le vicende della fine degli anni ‘90, l’indipendenza fosse inevitabile: la Serbia il Kosovo lo ha perso allora. Ma l’indipendenza funziona per modo di dire e solo perché rimaniamo lì, con la Nato e con la nuova missione europea. Un secondo esempio: abbiamo gestito male l’allargamento dell’Unione Europea. A mio avviso, è stata una scelta giusta, come prima dicevo: ma avremmo dovuto combinarla con una maggiore capacità di riformare le istituzioni europee. Insomma, guardando all’indietro, ci sono stati degli errori che si potevano forse evitare. In generale, la mia impressione è che le decisioni internazionali siano spesso deludenti anche perché riflettono l’incrocio tra le dinamiche psicologiche e di politica interna di molti Paesi. Una cosa che nel libro sottolineo è che l’elemento soggettivo, psicologico, conta molto più di quanto non si pensi nelle decisioni di politica estera...». A proposito della soggettività. Nel libro avanzi una teoria intrigante, sviluppata con una leggerezza da romanzo: la «teoria su Freud» e la politica estera. In sostanza? «In sostanza, rileggendo il carteggio Freud-Einstein del 1932, contano davvero molto, nelle tensioni e nei conflitti fra gli Stati, i fattori psicologici. Contano le percezioni reciproche, il modo in cui i Paesi leggono, interpretano, le intenzioni altrui nei loro confronti: percezioni positive o negative, fondate o completamente fuorvianti. Mentre credo poco in una lettura “deterministica” della politica estera, dettata da interessi che sarebbero immutabili nel tempo. In realtà gli interessi, o meglio il modo di interpretarli, si modificano». Il tutto raccontato, come hai scritto, in un libro «notturno», un po’ strano. Ma forse è proprio questa «stranezza» di genere a renderlo fascinoso... «È un libro che ho scritto senza traccia, non avevo un progetto così certo. Il libro, in realtà, è molto meno diplomatico sulle mie vicende personali, sulla mia famiglia, sui miei amici, di quanto non lo sia sugli eventi internazionali di cui parlo. Certo, nella parte “privata”, c’è anche molta fiction: esagero i lati ironici, le debolezze, le mie stravaganze. Sono molto più diplomatica sulla vicenda internazionale. Il risultato è una specie di inversione delle parti: il che, secondo me, rende la lettura più divertente». In tutto il libro, un filo conduttore è quello femminile. «Parlo da un punto di vista soggettivo, e quindi dal punto di vista di una donna. E parlo delle insicurezze di una donna della mia generazione, che si è trovata a vivere in un mondo - quello della diplomazia e della politica internazionale - che, in Italia, è fatto del 99% di uomini. Questo non vale per altri Paesi. Il segretario di Stato Usa ai tempi in cui facevo il consigliere di Massimo D’Alema, era la signora Albright, poi c’ è stata Condoleezza Rice, oggi è Hillary Clinton. In Italia il mondo della politica estera o quello della difesa, che sono i due ambienti che ho frequentato professionalmente, sono mondi molto maschili, in cui una donna è un po’ isolata, e quindi le può capitare perfino questo: di essere trattata proprio come una donna! Ci scherzo su, naturalmente. Racconto vari episodi, pigliandomi in giro, per dire che quando sei una donna, e ti trovi a lavorare su questioni di politica estera, gli altri tendono a trattarti “anche” come una donna. Non ti chiedono solo uno scenario geopolitico ma magari se si è mangiato bene o se un vestito è appropriato, cose di cui non ho in genere la minima idea». Partendo dal tuo vissuto, come valuti questa «irruzione» femminile nella politica mondiale? «Da un certo punto di vista, penso che sia un fenomeno proprio di società ben più dinamiche della nostra. In Italia è molto più difficile che le donne riescano ad emergere, ed è più difficile perché quella italiana è in generale una società più bloccata, poco mobile. Va però anche detto che che quando una società si sblocca e le donne sono al potere - penso alla Clinton in America o la Merkel in Germania - tendono poi per comportarsi quasi esattamente come gli uomini. Non so se sia un bene o un male, so che è così». A proposito di uomini e potere. Fuori da retroscena che nel libro non ci sono, ma dal punto di vista personale, che rapporto è stato quello con D’Alema, di cui sei stata consigliere? «Il libro non intende certo descrivere le persone con cui ho lavorato: è fondamentalmente un libro egocentrico, parlo di me. Ma so con certezza, di D’Alema, che è una persona piacevole e leale con i suoi collaboratori. L’impressione che può dare in pubblico, un po' arrogante e scostante, non corrisponde affatto al rapporto che stabilisce con le persone che lavorano con lui. E la stessa cosa, racconto nel mio taccuino, vale per Giulio Tremonti». udegiovannangeli@unita.it 20 marzo 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - «Io israeliana sotto choc per i crimini di Gaza» Inserito da: Admin - Marzo 21, 2009, 06:03:07 pm «Io israeliana sotto choc per i crimini di Gaza»
di Umberto De Giovannangeli «Sono sconvolta, indignata ma non sorpresa da quelle testimonianze sconvolgenti di una violenza che si è abbattuta contro la popolazione di Gaza. Cos’altro deve ancora accadere per portarci ad una rivolta morale, a una ribellione delle coscienze non solo nei confronti degli autori di questo scempio di vite umane ma anche verso coloro che hanno orchestrato la guerra di Gaza. Una sporca guerra». Fuoco a raffica nelle case, donne e bambini freddati da tiratori scelti per banali difetti di comunicazione fra reparti, disprezzo per i palestinesi in quanto tali, atti di vandalismo e scherno nelle loro abitazioni. C’è stato anche questo nei 22 giorni di guerra dell’operazione Piombo Fuso, condotta dalle forze armate israeliane (Tsahal) a gennaio per colpire i santuari degli integralisti di Hamas nella Striscia, secondo testimonianze insospettabili di alcuni reduci raccolte dai media israeliani. L’Unità ne parla con una figura storica della sinistra israeliana: Shulamit Aloni, fondatrice di «Peace Now», già parlamentare e ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres. Israele è sotto choc per le testimonianze di alcuni reduci della guerra di Gaza. «Non accetto di considerare gli autori di quei crimini come delle “mele marce”, dei pazzi, degli irresponsabili...Troppo facile, troppo falso. Noi tutti dobbiamo interrogarci sui perché di questa deriva, sul disprezzo per esseri umani considerati inferiori perché arabi. Tsahal è sempre stato lo specchio di Israele. E oggi questo specchio rimanda una immagine del Paese che non può non inquietare ogni coscienza civile e democratica...». Lei invoca una rivolta morale. «Spero che si manifesti ma non nutro più grandi speranze. Sui muri di Gaza nostri ragazzi in divisa hanno scritto: morte agli arabi. Alcuni di loro hanno praticato questo abominio. È come se si fossero sentiti legittimati ad agire così. Ma cosa c’è da attendersi, se non il peggio, quando Israele si appresta ad avere un razzista antiarabo (Avigdor Lieberman) come nuovo ministro degli Esteri. Quel Lieberman che in campagna elettorale aveva affermato pubblicamente che su Gaza dovevano essere sganciate due bombe atomiche...». I vertici militari hanno promesso «indagini accurate». «Non possiamo accontentarci di questa “rassicurazione”; già altre volte in passato queste indagini non hanno portato a nulla. Ora si capisce perché i comandi militari e il ministro della Difesa (Ehud Barak) non hanno voluto che al seguito delle truppe impegnate a Gaza vi fossero i corrispondenti di guerra dei mass media israeliani e internazionali. Forse non volevano avere testimoni di una mattanza». La guerra a Gaza è stata giustificata dal governo israeliano come un atto di autodifesa. «Il diritto alla difesa e la lotta al terrorismo non possono mascherare né tanto meno giustificare atti che si configurano come crimini contro l’umanità. Cosa c’entrano con la lotta al terrorismo le punizioni collettive inflitte ad una popolazione stremata, ingabbiata, a migliaia di donne, anziani, bambini a cui era impedito anche di fuggire?». Alla guida del ministro della Difesa c’è un laburista... «Ehud Barak sta uccidendo la sinistra, a muoverlo è solo una sfrenata ambizione personale...Ha pensato di poter conquistare consensi mostrandosi il più duro tra i duri. Una follia. E ora vorrebbe far parte di un governo popolato da oscurantisti e oltranzisti. A Barak non sono bastate le macerie di Gaza. Ora vuole seppellire sotto le macerie di una politica scellerata ciò che resta del partito laburista». È possibile salvare l’onore di Tsahal? «Si ma ciò potrà avvenire solo se porremo fine all’oppressione di un altro popolo. Una scelta politica, non militare». 21 marzo 2009 da unita.it Titolo: DE GIOVANNANGELI - Piero Fassino: «Questo gesto può cambiare il mondo... Inserito da: Admin - Marzo 21, 2009, 06:04:12 pm Piero Fassino: «Questo gesto può cambiare il mondo, l’Europa ora si muova»
di Umberto De Giovannangeli «Quello di Barack Obama è stato un gesto di grande coraggio che può aprire una pagina nuova nelle relazioni tra l’Occidente e il mondo arabo e musulmano dopo decenni di conflitti, e cambiare profondamente il corso degli eventi in tutto lo scacchiere del Grande Medio Oriente, dal Mediterraneo al Golfo Persico». A sostenerlo è Piero Fassino, relatore per il Medio Oriente del Consiglio d'Europa e responsabile del Pd per la politica estera. Come leggere politicamente il videomessaggio indirizzato dal presidente Usa Barack Obama al popolo e ai leader dell’Iran? «Si tratta di un gesto coerente con le speranze suscitate da Obama fin dal suo discorso di investitura, quando affermò “se aprirete il pugno troverete la nostra mano tesa”; parole rivolte esplicitamente alle leadership arabe, sollecitate in quel discorso alla politica del dialogo e non più del conflitto e dello scontro. Il suo gesto di apertura è anche la conferma che con l’Amministrazione Obama torna ad essere la politica lo strumento prioritario con cui dare soluzione ai conflitti. Credo peraltro che in questa scelta pesi la delicatezza dello scacchiere afghano, il travaglio con cui procede la transizione in Iraq e soprattutto la consapevolezza dell’assoluta non riproponibilità della strategia adottata in Iraq e in Afghanistan nei confronti dell’Iran». Siamo all’archiviazione politica dell’America di George W.Bush? «Il messaggio di Obama all’Iran è la conferma di una nuova America. Di un’America che rovescia di 180 gradi l’impostazione di Bush, e cioè non più un’America che fa da sola, ma un’America che condivide con la Comunità internazionale anche le scelte più difficili e riconosce il ruolo dei diversi attori sulla scena internazionale, anche quelli con cui in partenza ci possono essere dissensi». Quali ricadute politico-diplomatiche del messaggio di Obama? «Quella del presidente Usa è una scelta che può imprimere dinamiche nuove a tutto lo scacchiere del Medio Oriente e ai tanti teatri di conflitto in esso presenti. Certamente da un rapporto nuovo tra Stati Uniti, Occidente e Iran, può derivare un’influenza positiva sull’Afghanistan. Non a caso il videomessaggio di Obama è stato preceduto dall’invito formulato al governo iraniano dalla segretaria di Stato Usa, Hillary Clinton, a partecipare alla Conferenza internazionale sull’Afghanistan. L’influenza forte che ha l’Iran nel mondo sciita può concorrere positivamente alla stabilizzazione dell’Iraq, dove gli sciiti sono una componente fondamentale...». E per il Medio Oriente? «L’atto di Obama può produrre dinamiche particolarmente importanti. La guerra di Gaza non è lontana da noi e sappiamo che ha lasciato aperte ferite sanguinose che sarebbe irresponsabile lasciare incancrenire. Tutta l’esperienza di decenni del conflitto israelo-palestinese ci dice che il tempo non lavora per la pace e che bisogna riprendere subito un percorso negoziale condiviso, tanto più di fronte ai risultati delle elezioni israeliane, alla formazione del governo Netanyahu e al probabile accordo tra Al Fatah e Hamas per la formazione di un esecutivo di unione nazionale. In questo quadro, un rapporto nuovo tra Washington e Teheran può dare maggiore credibilità e concretezza al processo negoziale; un processo che, nella nuova visione americana, tende a coinvolgere anche la Siria». In questo mutamento di scenario quale ruolo può giocare l’Europa? «L’Europa deve sentire la responsabilità di non essere spettatore. Serve a maggior ragione un’Unione Europea che sia consapevole del proprio ruolo, delle proprie responsabilità e che sappia assumere tutte le scelte che sono necessarie. D’altra parte l’Ue è il principale partner commerciale dell’Iran ; l’Unione Europea ha un impegno forte, di migliaia di uomini e in termini finanziari, in Afghanistan; la Ue è il maggiore partner commerciale di Israele e finanziatore dell’Autorità Palestinese. L’Unione ha un interesse fondamentale a collocarsi con le propri iniziative nel solco che apre oggi l’azione di Obama. E questo vale anche per i singoli Paesi europei...». Anche per l’Italia? «In particolare per l’Italia. Non può sfuggire il fatto che in questi mesi l’Italia nello scacchiere mediorientale è entrata in un cono d’ombra. Penso al Libano, dove il ruolo di leadership che avevamo conquistato nel momento della crisi nel 2006, è stato sostanzialmente lasciato nelle mani dei francesi. Penso all’Unione euromediterranea, altra iniziativa importante che è stata promossa dalla presidenza francese della Ue con una partecipazione italiana tutto sommato marginale. E al conflitto israelo-palestinese, nel quale l’Italia rischia di non avere più quel ruolo di interlocutore ascoltato da entrambe le parti che storicamente ha avuto. E sullo stesso dossier iraniano, non facendo noi parte del Gruppo 5+1, rischiamo di essere nell’anticamera della stanza in cui si decidono le cose importanti. E non dimentichiamo che quando Prodi disse le cose che oggi sostiene Obama, fu aggredito dalla destra italiana che lo accusò di stringere la mano degli assassini. Insomma, occorre che l’Italia ritrovi quel profilo euromediterraneo che rappresenta la vocazione geopolitica che il nostro Paese ha sempre avuto, in funzione del quale l’Italia nel passato ha svolto un ruolo importante in quel grande scacchiere che va dal Mediterraneo al Golfo Persico». udegiovannangeli@unita.it 21 marzo 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Infanzia in guerra Inserito da: Admin - Marzo 22, 2009, 12:02:09 pm Infanzia in guerra
di Umberto De Giovannangeli Ogni bambino che «si è trovato in una situazione di conflitto, che è stato testimone, o anche peggio, ha partecipato ad azioni violente, viene disumanizzato. Quei bambini sanno che c’è qualcosa di sbagliato ma non sanno dire cosa. Si tratta di una situazione che li rende insensibili e impedisce una loro crescita normale...». È il grido d’allarme lanciato da Ted Chaiban, rappresentante in Sudan del fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il Darfur e non solo. Bambini doppiamente violati: in guerra e un tormentato dopoguerra. Storie di indicibili sofferenze. In tutto il Sudan i bambini soldato sono più di 8mila, di cui 6mila solo in Darfur. E nell’inferno del Darfur due milioni di bambini sono stati colpiti dal conflitto. Un doppio trauma che non riguarda solo il Darfur. Oggi - rileva il Global Report 2008 sui «Child soldiers» - sono 9 gli eserciti che utilizzano i piccoli in guerra, per un totale di almeno 250mila minori, di cui il 40% sono bambine. Bambini combattono nell’esercito regolare in Birmania, nella lotta armata contro le minoranze etniche, ma anche in Ciad, Repubblica democratica del Congo, Somalia, Sudan, Uganda e Yemen. I guerriglieri stessi utilizzano bambini soldato: in Afghanistan, Iraq e Pakistan sono stati impiegati come attentatori suicidi. In Africa le guerriglie hanno utilizzato recentemente i minori in guerra in Burundi, Ciad, Costa d’Avorio, Liberia, Nigeria, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sudan e Uganda. Storie di bambini violati, ai quali sono stati sottratti gli anni dell’infanzia. Bambini ai quali si vorrebbe rubare il futuro. Le loro storie sono state al centro dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che, ieri si è riunita al Palazzo di Vetro di New York per discutere il tema dell’istruzione e delle emergenze. «Il numero delle emergenze in tutto il mondo aumenta di giorno in giorno, dai conflitti in corso in Sri Lanka e a Gaza alle recenti calamità che hanno colpito il Bangladesh e la Birmania, e con esse aumenta il numero dei bambini che non frequenta la scuola. Ogni anno una media di circa 750.000 bambini è costretto ad interrompere o a rinunciare agli studi a causa di emergenze umanitarie e di 75 milioni di bambini al mondo che non vanno a scuola, 40 milioni di essi vivono in paesi in guerra», rileva Fosca Nomis, Responsabile Advocacy e Campagne di Save the Children Italia. Leslie Wilson, direttore di Save the Children in Afghanistan, è intervenuto in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per sottolineare come negli ultimi anni il tasso d’iscrizione scolastica sia cresciuto nel Paese più velocemente che in qualsiasi altro luogo al mondo: il numero dei bambini iscritti è infatti passato da meno di un milione nel 2002 a più di sei milioni nel 2006. Il lavoro compiuto da Save the Children, pertanto, dimostra come consentire l’accesso all’educazione sia possibile anche nelle situazioni più difficili. In Afghanistan, ad esempio, nonostante il perdurare di violenza e instabilità, negli ultimi quattro anni quasi 3 milioni di bambini hanno beneficiato di un’istruzione di qualità grazie alla partnership sviluppata dall’Organizzazione con il Ministero dell’Istruzione, volta a pianificare la formazione di insegnanti e dirigenti scolastici. Nello Sri Lanka, nonostante l’intensificarsi dei combattimenti nel nord del Paese e imponenti migrazioni interne, più di 900.000 bambini hanno beneficiato di un’istruzione di qualità grazie alla partnership tra Save the Children e Unicef, che si è sostanziata in nuove modalità per assicurare l’educazione durante le emergenze, attraverso ad esempio la possibilità di svolgere le attività scolastiche a casa per i bambini che non possono frequentare la scuola a causa delle condizioni di sicurezza. Se non ci si concentrerà sui 40 milioni di bambini che non vanno a scuola perché vivono in Paesi in conflitto, avverte Save the Children, l’obiettivo del millennio relativo all’educazione non sarà raggiunto. udegiovannangeli@unita.it 19 marzo 2009 da unita.it Titolo: «Fu giusto l’intervento in Kosovo non i bombardamenti della Nato... Inserito da: Admin - Marzo 26, 2009, 12:22:02 am «Fu giusto l’intervento in Kosovo non i bombardamenti della Nato. Serviva una polizia internazionale»
di Umberto De Giovannangeli «A distanza di dieci anni, non può essere cancellata né sottaciuta la contraddizione tra la decisione, che continuo a ritenere giusta, di intervenire a sostegno di un popolo perseguitato - quello kosovaro - per ripristinare una condizione di diritto in una parte dell’Europa a due passi da noi, e il modo in cui quella decisione fu attuata: la guerra. Questa sproporzione fa sì che la giustezza del rifiuto di una sovranità statale quando essa significa persecuzione e umiliazione di un popolo, venga poi screditata, e che faccia un passo indietro invece che uno in avanti, la necessità di avere una polizia internazionale». La guerra in Kosovo dieci anni dopo. A rileggere quegli eventi è un testimone diretto, perché li raccontò in articoli e reportage sul campo: Adriano Sofri. A decidere la partecipazione dell’Italia all’intervento in Kosovo fu un uomo di sinistra, allora premier: Massimo D’Alema. «Anche lui - riflette Sofri - fu prigioniero di una situazione tale in cui gli sembrò di aver fatto abbastanza sostenendo a viso aperto l’intervento, senza essere in grado, però, di misurarsi con tutti i governi alleati e con la guida stessa Nato, sul nodo cruciale: il modo d’intervenire». La decisione di partecipare all’intervento in Kosovo fu presa da un premier di sinistra: Massimo D’Alema. Come ripensare a quei giorni? «Sono rimasto ai pensieri che ebbi in quei giorni terribili. Pensieri di chi sosteneva con convinzione e disperazione la necessità di un intervento di polizia internazionale che ponesse fine allo scempio bosniaco. Allora la domanda che mi posi non era se fosse giusto intervenire ma perché si era atteso così a lungo prima di decidere di agire. Un ritardo colpevole. Per ragioni diverse, alcune davvero infami, quel genocidio fu lasciato durare per anni e anni, e quando finalmente si decise di agire lo si sbrigò nel giro di pochi giorni e di pochissime vittime». I giorni dell’azione militare... «Avendo vissuto a contatto con le vittime di crimini inenarrabili fui colpito dal ritardo e dall’accumulazione di pregiudizi in Italia, e nella sinistra italiana, sull’impiego di una forza di polizia internazionale anche nel Kosovo, dimenticando, o facendo finta di dimenticare, cos’era allora il Kosovo...». Tu lo hai raccontato... «Era il Kosovo delle epurazioni etniche, delle stragi, delle fosse comuni, dei crimini reciproci - anche quelli di serbi contro serbi o di kosovari contro kosovari - della guerra per bande...». Poi, però, D’Alema prese una decisione difficile, contestata da una parte della sinistra... «D’Alema ebbe in quella vicenda un ruolo risolutivo, che peraltro ha sempre rivendicato. Allora dovette fare i conti con un mondo della sinistra italiana diviso fra persone che sostenevano l’intervento e persone che si ritenevano, per principio, contrarie a qualunque impiego della forza. Questa divisione fece sì che la scelta di D’Alema apparisse come uno strappo. E tale viene ancora considerato nella discussione dieci anni dopo, il che rivela che quei pregiudizi, quelle inerzie, quei ritardi morali e intellettuali si trascineranno chissà per quanto tempo ancora...». Tornando a quei giorni... «D’Alema decise che occorreva sostenere e partecipare attivamente all’intervento in Kosovo, suscitando l’opposizione strenua di quel movimento che si voleva pacifista senza sé e senza ma, e quindi contrario a qualunque impiego della forza... Dove fu l’errore? «Aver ritenuto che lo “strappo” da contestare al governo D’Alema fosse nella decisione, per me giusta, di appoggiare l’intervento internazionale, e che la partita si chiudesse lì, invece di aprirsi sul punto davvero cruciale...». Quale? «Il problema non era se sostenere la giustezza, nel Kosovo come in tanti altri martoriati luoghi del mondo, di un intervento internazionale; il problema era discutere come s’interviene in una situazione del genere. Il punto, che ho sempre considerato assolutamente cruciale e davvero discriminante, era distinguere fra guerra e polizia internazionale. Una distinzione sostanziale sotto ogni punto di vista. In Kosovo successe che una volta deciso l’intervento, la mano passò per intero al generale Wesley Clark e si entrò immediatamente in una guerra a senso unico, vista la supremazia schiacciante della potenza militare messa in campo dalla Nato rispetto alla Serbia. E a renderla una guerra a senso unico, erano soprattutto i bombardamenti aerei, la potenza dall’alto». I bombardamenti a Belgrado e in altre città e villaggi della Serbia... «Una guerra iniqua, per la sproporzione dei mezzi adottati e perché di fatto pose fine all’azione di polizia internazionale. Dal terreno, infatti, vennero immediatamente tolte tutte quelle forze d’interposizione che sono tipiche di un’azione di polizia. Si presero duemila funzionari dell’Osce, che erano dislocati in Kosovo e si richiamarono tutti. E lo stesso si fece con gli operatori delle Organizzazioni umanitarie e non governative. In questo modo si finì per sguarnire completamente il territorio lasciando la popolazione kosovara completamente indifesa ed esposta. L’esodo forzato si moltiplicò e si dette l’impressione di una diserzione dal terreno. L’obiettivo non sembrò più essere quello di proteggere gli indifesi. Settanta e più giorni di bombardamenti mirarono a mettere in ginocchio la Serbia fino ad ottenerne la resa. Questa campagna di bombardamenti fu così immane da impedire che potesse manifestarsi nella stessa opposizione serba una qualunque possibilità di riconoscersi in quell’azione che si voleva di difesa dei kosovari albanesi minacciati e perseguitati, e di liberazione di un popolo schiacciato da un tiranno...». Invece cosa produsse? «Quei bombardamenti, quella guerra a senso unico, fu vissuta dai serbi come una campagna punitiva, come una spedizione dall’alto che, dispiegando una spropositata potenza di fuoco, intendeva fiaccare una popolazione per far arrendere i suoi capi...». Quei bombardamenti suscitarono scandalo e alimentarono altre polemiche nella sinistra... «Uno scandalo assolutamente motivato, per il modo in cui quei bombardamenti si sono svolti, ma immotivato se rapportato all’inerzia o addirittura alla complicità con quello, di enormemente più tragico e sanguinoso, che era successo per anni in Bosnia. Di nuovo funzionò un approccio politico-ideologico filoserbo. che faceva spavento, sulla base del quale si continuava a considerare la Serbia come un bastione antifascista, di sinistra, all’interno di una Jugoslavia sciovinista, nazionalista. Il nazicomunismo di Milosevic era visto come una prosecuzione della resistenza jugoslava, titoista...E anche le cifre delle vittime dei bombardamenti: certamente terrificanti ma al tempo stesso incomparabili con quelle della Bosnia, della prima fase della guerra in Croazia, centinaia di migliaia di vittime... Ma una guerra aerea - che si vuole fatta di bombe intelligenti, di genialità militare, di perfezione tecnologica - che colpisce fabbriche, ponti, la sede della televisione provocando morti e feriti, come quella che colpì la Serbia, resta comunque una macchia indelebile. Queste guerre “dall’alto” sono inique anche per un’altra ragione: se tu rimani sul terreno vuol dire che metti a repentaglio le tue vite, ma se continui a ragionare secondo la distinzione fra le tue vite e quelle degli altri, e le tue valgono e quelle degli altri no, compresi civili inermi, donne, bambini, tu non sei qualcuno che si accredita in nome del diritto e della difesa di vittime innocenti, ma sei semplicemente uno che continua a usare due bilance nel valutare le vite umane e il loro peso». udegiovannangeli@unita.it 25 marzo 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - All'estero il timore di un premier ricattabile Inserito da: Admin - Giugno 19, 2009, 05:57:12 pm DA UNITA'.IT
All'estero il timore di un premier ricattabile di Umberto De Giovannangeli Dalla perplessità allo sconcerto. Dallo sconcerto alla preoccupazione. E all’affacciarsi di interrogativi inquietanti. A Bruxelles e nelle cancellerie europee più importanti. Gli scandali che investono il Cavaliere non vengono più considerati dagli alleati europei come vicende interne ad una Italia guidata da un primo ministro «eccentrico» e «donnaiolo». Negli ambienti diplomatici occidentali non è passato inosservato un articolo apparso sull’autorevole Times nei giorni burrascosi del Noemigate. «L’Italia – rilevava il quotidiano londinese – quest’anno ospita il vertice del G8. In quel forum si tengono importanti discussioni dove i governi occidentali chiedono maggior cooperazione nella lotta al terrorismo e al crimine organizzato. Berlusconi – proseguiva il Times – si vede come amico di Vladimir Putin. Il suo Paese è un importante membro della Nato. È anche parte dell’Eurozona, che è messa alla prova della crisi finanziaria globale». Per concludere che «non sono solo gli elettori italiani a chiedersi cosa stia succedendo. Lo fanno anche gli alleati perplessi dell’Italia». Una perplessità che cresce con il crescere degli scandali che investono il Cavaliere. Ed è una perplessità, dice a l’Unità un’autorevole fonte diplomatica a Bruxelles, che non ha una sua identificazione di parte politica: essa, infatti, accomuna la Francia del conservatore Sarkozy alla Spagna del socialista Zapatero, dalla Germania della centrista Merkel alla Gran Bretagna del laburista Brown. A far discutere non è la caratura morale del premier italiano. L’interrogativo che comincia a farsi strada nelle cancellerie europee è molto più pesante. E riporta dritto alle considerazioni del Times. ]L’Italia è parte della Nato, e ciò significa, ad esempio, che il primo ministro italiano è in possesso dei nullaosta dell’Alleanza atlantica che danno accesso ai segreti degli armamenti nucleari. Per questo la certezza della non ricattabilità del Cavaliere è una questione che travalica i confini nazionali e va ben oltre le polemiche interne. La risposta degli aedi del premier è nervosa. Molto nervosa. Adombra una mano internazionale che tiene le redini del «grande complotto». C’è chi scomoda Zapatero, chi (vedi prima pagina di Libero di qualche settimana fa) si spinge addirittura oltreoceano puntando l’indice accusatore contro il «Giuda» della Casa Bianca (Barack Obama) impegnato a spezzare la «diplomazia del gas» del duo Berlusconi-Putin. Questione di credibilità. In caduta libera. La Francia di Nicolas Sarkozy ha scavalcato l’Italia nella leadership euromediterranea. Nel valzer delle poltrone che contano davvero in Europa – la presidenza della Commissione europea, l’Alto rappresentante per la politica estera e, se il Trattato di Lisbona entrerà in vigore, il presidente stabile dell’Ue – l’Italia del Cavaliere non «danza». Fuori dai giochi. L’unico posto rimasto da assegnare è quello di presidente dell’Europarlamento. Spetta allo schieramento vincitore delle elezioni europee: il Ppe. Berlusconi lancia la candidatura di Mario Mauro: «Credo che questa volta tocchi a noi», ribadisce il presidente del Consiglio all’apertura del vertice di Bruxelles del Partito popolare europeo. Fa sfoggio di ottimismo, Berlusconi, ma sa che la questione è tutt’altro che risolta. Ma sulla sua strada trova un concorrente agguerrito: il polacco Jerzy Buzek. La Polonia è in crescita di consensi e di credito a livello europeo, e può contare sul sostegno dell’Est e, sia pure non ancora formalizzato, della Cdu di Angela Merkel. Quel credito, e quella credibilità che stanno scemando per il Cavaliere. In Europa sembra iniziata l’ «operazione scaricamento». 19 giugno 2009 Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Il Cavaliere s'inchina a Gheddafi Inserito da: Admin - Agosto 31, 2009, 03:32:48 pm Il Cavaliere s'inchina a Gheddafi
di U. De Giovannangeli Non visita un centro di «accoglienza». Non accenna al rispetto dei diritti umani. In compenso, pone la prima pietra dell’autostrada «risarcitoria». E si esalta per l’esibizione delle Frecce Tricolori. Domenica 30 agosto. È il giorno del «Grande abbraccio» tra il Cavaliere e il Colonnello. Silvio Berlusconi sbarca a Tripoli per celebrare il primo anniversario della firma del Trattato di amicizia Italia-Libia. Un amicizia che mette tra parentesi i diritti dei più deboli. Ed esalta gli affari. «Noi rispettiamo tutte le leggi. Se vogliamo davvero procedere ad una politica vera di integrazione, dobbiamo essere rigorosi per non aprire l’Italia a chiunque». Così Berlusconi risponde ai cronisti sul respingimento in Libia dei 75 immigrati intercettati ieri nel canale di Sicilia. Quei migranti senza diritti né speranza non devono turbare la giornata di gloria del Cavaliere tripolino. Le cose «importanti» sono ben altre. Altre le «imprese storiche» da celebrare. L’autostrada costiera che percorrerà tutta la Libia dalla Tunisia all’Egitto la cui realizzazione sarà finanziata dall’Italia è «un’impresa storica». Così il premier italiano a margine della cerimonia a Shabit Jfarai (40 chilometri da Tripoli) della posa simbolica della prima pietra dell’autostrada voluta dal leader libico Muammar Gheddafi tra le contropartite per chiudere il contenzioso sul passato coloniale italiano. Non è il caso di tirare fuori argomenti spinosi (per l’amico Colonnello): quei centri di accoglienza regno della sopraffazione e della violenza; il diritto d’asilo negato...Italia e Libia stanno andando «verso la realizzazione dell’accordo (firmato un anno fa) che ritengo sia molto conveniente per entrambi i Paesi e che sia positivo in tutte le direzioni», dice il Cavaliere. «C’è la volontà assoluta di concretizzare tutti i punti dell’accordo», assicura il Cavaliere. «Ne abbiamo parlato - spiega Berlusconi - con il primo ministro Bagdadi Mahmoudi e anche con il leader» Muammar Gheddafi. Sono arrivati insieme, in macchina, il Cavaliere e il Colonnello a Shabit Jfarai, zona predesertica ad una quarantina di chilometri da Tripoli, per posare la prima pietra simbolica dell’«autostrada della riconciliazione» tra Roma e Tripoli. Il resto sembra materiale buono per cinegiornali di altri, e brutti, tempi: insieme Berlusconi e Gheddafi - accolti da ovazioni e da loro gigantografie che spiccavano tra numerose bandiere italiane e libiche - salutano, sorridono e stringono le mani alla folla venuta ad assistere alla cerimonia. Per il premier il progetto dell’autostrada «serve anche alla pace perché - dice - collega tutti i Paesi del Maghreb». «Si tratta della concretizzazione dell’accordo (tra Italia e Libia, ndr). Ad appena un anno dalla sua firma c’è già un progetto e c’è già tutto», aggiunge Berlusconi. Bene l’autostrada. L’asilo (inteso come diritto), neanche a parlarne. Certo non con il Colonnello. Terminata la cerimonia - una quindicina di minuti appena - Berlusconi e Gheddafi risalgono in auto insieme. Pronti per un faccia a faccia seguito da una cena per fare il punto sullo stato degli accordi contenuti nel Trattato di amicizia. Ma prima della cena c’è lo spettacolo offerto dal munifico Cavaliere. Berlusconi e Gheddafi assistono insieme in un parco sul lungomare di Tripoli al passaggio delle Frecce Tricolori. La pattuglia acrobatica italiana effettua varie figure completando l’esibizione rilasciando alla fine la classica striscia di fumo tricolore in un passaggio a bassa quota. Poi l’incontro finale. «Molto cordiale», raccontano i collaboratori del Cavaliere. Dagli ultimi sondaggi risulta che «il mio gradimento è al 68,4%», confida Berlusconi a Gheddafi. Che apprezza e si complimenta. «Siamo venuti qui per dare attuazione al trattato italo-libico che per noi è molto importante», dice il premier al suo ospite. I due leader si sono poi scambiati dei doni: Gheddafi ha offerto a Berlusconi due targhe commemorative del Trattato italo-libico, una su sfondo d'oro e l'altra d'argento; il premer invece ha portato in dono due candelabri e un’alzata di vetro di Murano. È notte. Il «Grande abbraccio» è finito. 31 agosto 2009 da unita.it Titolo: DE GIOVANNANGELI - Escort e veleni, sull'Italia incubo cordone diplomatico Inserito da: Admin - Settembre 13, 2009, 09:56:40 pm Escort e veleni, sullìitalia incubo "cordone diplomatico"
di Umberto De Giovannangeli Lo spettro del cordone diplomatico prende forma dai sempre più allarmati rapporti che dalle ambasciate italiane in Europa arrivano sul tavolo del ministro degli Esteri, Franco Frattini. Lo spettro si manifesta nei report, altrettanto preoccupati, che dall’ambasciata americana a Roma giungono al Dipartimento di Stato Usa. La tesi del complotto della stampa straniera ordito contro il Cavaliere scomodo non regge più. L’imbarazzo dei leader europei, come della Casa Bianca, si sta trasformando in qualcosa di ben più pesante: nell’isolamento di un alleato improponibile, nella marginalizzazione dell’Italia dagli incarichi (Ue) che contano e dalle partite più impegnative che si giocano sullo scacchiere internazionale (dall’Afghanistan all’Iran, al Medio Oriente). Non è più solo una questione di poltrone. Il «cordone diplomatico» è anche altro: è centellinare informazioni delicate ad un alleato-premier la cui affidabilità mostra pesanti crepe. Lo spettro del «cordone diplomatico» è legato ad un concetto che si fa sempre più strada negli ambienti diplomatici europei: la ricattabilità di Silvio Berlusconi. Annotava nei giorni scorsi il Times: «Alcune delle ragazze (coinvolte nello scandalo delle escort, ndr) vengono dall’Europa dell’Est. Cosa succederebbe se una potenza straniera decidesse di sfruttare questa vicenda pacchiana? Non è solo la preoccupazione di Roma, l’Italia è anche un importante partner occidentale della Nato, nei Balcani e in Afghanistan. Le buffonate del premier preoccupano e imbarazzano tutti gli amici del suo Paese». Quello del quotidiano londinese è un articolo bene informato. Che raccoglie umori dominanti non solo a Downing Street o al Foreign Office ma anche in altre capitali europee: certo a Berlino, a Parigi, Madrid. La prima traduzione concreta di questo «cordone diplomatico» si è già manifestata. Il Times fa riferimento all’Afghanistan. Non a caso. Ebbene, l’Italia è stata esclusa dall’iniziativa di Gran Bretagna, Germania e Francia che insieme hanno chiesto formalmente al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon di indire una conferenza internazionale per rilanciare l’azione internazionale in quel Paese. Quell’esclusione è uno smacco per l’Italia, tanto più se rapportato al nostro impegno militare sul fronte afghano. Un segnale. Un avvertimento. Tanto più significativo, dice all’Unità una fonte diplomatica a Bruxelles, perché due dei tre «congiurati», il presidente francese Nicolas Sarkozy e la cancelliera tedesca Angela Merkel, erano stati recentemente annoverati dal Cavaliere tra i suoi «amici internazionali» più cari e affidabili. E ancor prima, ricorda la fonte, c’era stato il «niet» alla richiesta italiana, reiterata da Berlusconi e Frattini, di entrare a far parte del Gruppo 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) che gestisce il dossier nucleare iraniano. Il «cordone diplomatico» è in atto. E può prendere forme da incubo: bilaterali rinviati, o annullati, per improvvisi forfait dei partner, informazioni centellinate. Il Cavaliere reagisce agli articoli della stampa estera scatenando la «guerra delle querele». Che rischia di essere per lui un campo minato. Le sue denunce, avverte il Wall Street Journal, «potranno trattenere alcuni giornali da criticare Berlusconi per le sue storie con giovani donne, ma potrebbero spingere la stampa internazionale a occuparsi maggiormente di questioni che possono ben più danneggiare la sua reputazione, come le sue relazioni con Tripoli e Teheran, gli effetti del suo nazionalismo economico». Amicizie e affari pericolosi, lascia intendere il più importante quotidiano finanziario al mondo. L’imbarazzo è il passato. Il presente-futuro è l’isolamento internazionale. 13 settembre 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - «Troppo potere nelle mani del Cavaliere» Inserito da: Admin - Settembre 16, 2009, 03:49:59 pm «Troppo potere nelle mani del Cavaliere»
di Umberto De Giovannangeli Sì, siamo stati contattati da Mediaset. Abbiamo parlato con loro come con altri. Abbiamo ascoltato le loro proposte, i loro progetti, ma da qui a parlare di trattative ce ne corre...». L’aggancio c’è stato - come aveva anticipato il nostro giornale il 28 agosto - ma la «corte» del Cavalier Caudillo non è andata a buon fine (per lui). È ciò che rivela a l’Unità, Juan Luis Cebriàn, Direttore esecutivo del Gruppo Prisa, una potenza editoriale. Prisa, oltre a essere l’editore del primo quotidiano spagnolo El Pais e della radio più ascoltata, Cadena Ser , ha un impero che dalla Spagna si estende al Portogallo, all’America Latina, agli Stati Uniti. La società detiene anche una partecipazione del 15% nel giornale francese Le Monde. A Roma per l’incontro della Giuria Internazionale del Mediterranean Journalist Award 2009, Cebriàn non si sottrae alle domande più scottanti sul rapporto tra potere politico e stampa. Con un «convitato di pietra»: il Cavaliere Caudillo. In Italia molto si è discusso del recente incontro alla Maddalena tra Silvio Berlusconi e il suo omologo spagnolo, Luis Zapatero. A suscitare polemiche è stata la risposta del Cavaliere alla domanda del corrispondente del Pais. Cosa pensa di questa vicenda e più in generale del rapporto in Italia tra potere politico e giornalismo libero? «Il potere politico è sempre in tensione, se non in aperto conflitto, con la stampa e i mezzi di comunicazione in tutte le democrazie. Difendere l’indipendenza dei media non è facile, ma è la nostra ragion d’essere...». Un discorso che vale per la Spagna, la Francia, la Gran Bretagna, la Germania...E l’Italia? «Beh, c’è da dire che la situazione in Italia è un po’ più “strana”, anomala rispetto alle altre democrazie europee, perché da voi il premier detiene, come imprenditore, personalmente, importanti mezzi di comunicazione - Tv e carta stampata - e in quanto primo ministro esercita un controllo, un potere sui media pubblici. I leader politici guardano spesso con diffidenza la stampa perché pensano che sia ingiusta, pregiudizialmente ostile, eccessivamente critica, parca di elogi. Bisogna sempre difendere la libertà di stampa, perché l’indipendenza dell’informazione è un contrappeso decisivo, vitale, per ogni sistema democratico». Zapatero, nel suo incontro con Berlusconi, è stato un pugnace difensore di questa libertà di stampa. O no?«Zapatero non ha detto nulla. Ha dichiarato che si asteneva per “cortesia istituzionale”...Vede, io sono giornalista da 48 anni, e da tempo non mi sorprendo più di fronte a governanti che, in Spagna come in Italia, vogliano sempre controllare i mezzi di comunicazione. Dobbiamo difenderci da questi “appetiti”. Sempre, ovunque e con chiunque». Nelle scorse settimane, molto si è parlato, e speculato, su una trattativa aperta tra Mediaset e il Gruppo Prisa. di cui lei è Direttore esecutivo. Come stanno realmente le cose? A che punto è questa joint venture? «Non c’è una joint venture. L’unica cosa che c’è, è una nuova legge in Spagna che prevede la possibilità di fare fusioni o collaborazioni fra differenti reti televisive: rappresentanti di Telecinco (la tv spagnola controllata da Mediaset) ci hanno contattato per vedere se era possibile fare qualcosa insieme. Ma non ci sono vere e proprie trattative in corso. È un desiderio di Telecinco, ma trattativa è ben altra cosa. Abbiamo parlato con tutti quelli che ci hanno cercato, ma noi non abbiamo cercato nessuno. A tutti quelli che chiamano, noi rispondiamo...». Lei ha detto: sono da 48 anni nel giornalismo. Ne ha viste di tutti i colori in Spagna e nel mondo. Ed ora ha un ruolo chiave in uno dei più importanti gruppi editoriali al mondo. Le chiedo: che immagine ha oggi dell’Italia? «Dal punto di vista politico, è una immagine confusa, opaca. Ma al tempo stesso, l’immagine di un Paese che marcia, va avanti, malgrado i Governi. Quelli che vanno avanti, che danno lustro all’Italia, sono gli intellettuali, la cultura, l’economia privata. L’Italia è un grande Paese che riesce a sopportare tutto nella politica». 15 settembre 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - La Nato: Non si può ridurre l'impegno in Afghanistan Inserito da: Admin - Settembre 19, 2009, 06:32:21 pm La Nato: "Non si può ridurre l'impegno in Afghanistan"
di U. De Giovannangeli Altro che “transition strategy”, come foglia di fico dietro cui mascherare un “rompete le righe”. Altro che «via al più presto, ma concordandolo con gli alleati». Il messaggio che giunge dal quartier generale della Nato è chiaro. Perentorio. E, per quanto riguarda l’Italia, è un (indiretto) avvertimento: «Non possiamo permetterci di ridurre ora il nostro impegno in Afghanistan», afferma da Bruxelles il portavoce della Nato James Appathurai, sottolineando che l'obiettivo dell'Alleanza è quello di far sì che gli afghani possano prendere in mano la loro sicurezza. «Ma questo va fatto in modo appropriato e misurato» attraverso un'opportuna strategia di transizione, spiega. Nessuna riduzione dell’impegno. E qui si apre un giallo nel giallo: fonti accreditate a Bruxelles dicono a l’Unità che «nessuna riduzione» significherebbe, per l’Italia, il mantenimento in Afghanistan anche dei 500 militari (400 soldati, 100 carabinieri) inviati in occasione delle elezioni. Quei soldati, hanno ribadito ieri sia il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, sono da considerare già sulla via del ritorno. Ma c’è chi, fuori dai confini nazionali, ricorda che in occasione del suo viaggio a Washington (metà giugno), il Cavaliere aveva promesso a Obama altri 500 soldati, in servizio permanente. La «babele delle strategy» che vede protagonista mezzo Consiglio dei ministri, a partire dal premier, disorienta Bruxelles. Secondo il portavoce della Nato le dichiarazioni del presidente del Consiglio italiano all'indomani dell'attentato di Kabul, sono «generalmente in linea» con quanto sostiene il segretario generale Andres Fogh Rasmussen. L’imbarazzo è racchiuso in quell’avverbio “generalmente”. Un di più voluto. «Non vogliamo rimanere in Afghanistan un minuto in più del necessario ma non possiamo lasciare troppo presto», indica Appathurai, per il quale la questione della transizione verrà discussa in occasione della riunione informale dei ministri della Difesa che si terra a Bratislava a fine ottobre. La Nato, aggiunge il portavoce, «sostiene anche la proposta avanzata da Francia, Germania e Gran Bretagna (con l’Italia tagliata fuori, ndr) di tenere una conferenza ministeriale sull'Afghanistan entro fine anno per affrontare la questione anche sotto il profilo civile. «La linea di fondo è che non possiamo permetterci di ridurre il nostro sforzo ora, ma dobbiamo investire adesso per essere in grado di fare meno in futuro», insiste il portavoce dell'Alleanza atlantica. L’imbarazzo è palese. Ministri che “fuggono”. Altri che rilanciano. Altri ancora (il titolare della Farnesina, Franco Frattini) che evocano cambiamenti strategici in corso d’opera. Ministri (il titolare della Difesa, Ignazio La Russa) che scandiscono: «Exit strategy? Un vantaggio per il terrorismo». Ministri (leghisti) che se ne sbattono e ribadiscono: «A casa entro Natale». In mezzo c’è lui, il Cavaliere immaginifico che conia una nuova definizione: la “transition strategy”. Che Berlusconi spiega così: l’obiettivo «è quello di caricare di maggiore responsabilità il nuovo governo (afghano) e mettere a punto il numero di soldati da afghani addestrati e il numero di componenti delle forze dell'ordine e fare un programma che vedrà aumentare le capacità del governo Karzai di garantire la sicurezza nel Paese e contestualmente di consentire alle truppe alleate di diminuire gli organici». Di più il Cavaliere non dice. Perché non può. Una parola di più potrebbe scontentare Umberto Bossi, il ministro-padre che resta convinto che «portare la democrazia in Afghanistan è fatica sprecata». E che bisognerebbe riportare a casa i nostri soldati, meglio se entro Natale. Con buona pace di Bruxelles. 19 settembre 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Un anno di Obama. I sogni, le speranze, le resistenze Inserito da: Admin - Novembre 04, 2009, 10:05:31 pm «Lentamente il suo sogno sta diventando realtà E parla al mondo intero»
di Umberto De Giovannangeli Un anno di Obama. I sogni, le speranze, le resistenze... Un anno vissuto e analizzato assieme al più «obamiano » tra i politici italiani: Walter Veltroni. Ad un anno di distanza dalla sua elezione, cosa è rimasto del «sogno» generato da Barack Obama? «Credo sia rimasto molto, nel senso che questo primo anno di presidenza di Barack Obama è la dimostrazione che quando la politica ha una sua virtù etica, essa traduce i sogni in realtà, o almeno s’impegna a farlo. Io considero che quello che Barack Obama ha fatto in politica estera, e che gli è valso anche il Premio Nobel per la Pace, sia stato assolutamente in coerenza con quanto aveva detto: la riapertura diuna idea di multilateralismo; l’affermazione diun rapporto di confidenza con l’Onu; gli sforzi messi in atto per una soluzione di pace dei più grandi conflitti internazionali; l’impegno contro la proliferazione nucleare: sono tutte cose che hanno dato il segno di un cambiamento radicale rispetto alla politica estera di George W.Bush...». E sul piano interno? «Dobbiamo ricordarci che Obama ha iniziato il suo mandato nel pienodella più spaventosa crisi economica e finanziaria del dopoguerra. Ilmodo in cui l’ha affrontata, e ora, quella che per me è la partita più importante della vicenda del riformismo degli ultimi anni, vale a dire la riforma sanitaria, sono la testimonianza tangibile dicomein politica quando si è mossi da una visione, poi si riescono ad affrontare le più impegnative sfide per l’innovazione e sfidare i più radicati conservatorismi ». Quali sono state le resistenze maggiori incontrate da Obama in questo primo anno di presidenza nel tradurre in fatti il sogno del Cambiamento? «Le resistenze dei conservatori, dislocati su vari fronti. La grande manifestazione organizzata dai Repubblicani contro la riforma sanitaria, è stata in qualche modo il racconto della resistenza la cambiamento. Però, vedi, la meraviglia di quel Paese è che si apre un grande conflitto su un grande tema di merito; non un conflitto ideologico, ma un conflitto assolutamente legato al profilo di un’azione riformista. BarackObamasta sfidando coraggiosamente molti dei conservatorismi del suo Paese, tanto da rischiare, perché,comeabbiamo letto, i servizi segreti hanno dichiarato di non riuscire ad avere sufficienti forze per reggere a tutte le minacce rivolte contro Barack Obama. Quel Paese lì è un Paese in cui quando s’ingaggia una sfida riformista, le cose cambiano sul serio. Roosevelt, e poi Kennedy e Clinton ed oraObama:sono stati quattro momenti di radicale trasformazione degli Stati Uniti. Un esempio: con Kennedy la questione razziale... cose che riguardavano la storia e l’identità di quel Paese. Il riformismo per me è questo: è la sfida ai conservatorismi, è la scommessa innovatrice, è il coraggio di rischiare. Non è un quieto vivere. È il suo esatto contrario: è l’ambizione a cambiare il proprio Paese». L’Europa si è dimostrata all’altezza delle sfide globali lanciate da Obama? «Sinceramente no. Nel senso L’Europa stenta ad avere una sua fisionomia politico-istituzionale adeguata a Stati Uniti che volgono lo sguardo verso l’Europa con un atteggiamento del tutto diverso da quello di Bush e richiederebbero dall’Europa una maggiore forza, coerenza, unità. L’Europa, ad esempio, fa terribilmente fatica su alcune crisi che dovrebbero riguardarla direttamente, da quella mediorientale al rapporto con un’area strategica come è quella del Mediterraneo. La dottrina di Bush, con il suo unilateralismo, andava comodaad una Europa minima, e invece adesso bisogna che l’Europa si assuma le sue responsabilità e faccia le sue scelte sui dossier più difficili in prima persona». Dall’Europa all’Italia. Un anno dopo, è sfiorito l’«innamoramento» della prima ora per Obama? «Noi siamo un Paese molto emotivo; un Paese che vive intensissimi amori e intensissimi disamori con una rapidità che spesso è sinonimo di leggerezza e di superficialità. Da anni seguo Obama, l’ho conosciuto, quando tutti davano per scontato che avrebbe perso consideravo che sarebbe stata una ottima soluzione per gli Stati Uniti. Ad un anno di distanza resto convinto che per la Storia, e non solo per gli Usa, sia stato un fatto di grandissima importanza, che un uomo come Barack Obama abbia avuto la forza, la determinazione e l’intelligenza politica di spostare consenso, perché Obama ha vinto le elezioni spostando milioni di astensionisti che son tornati a votare, e voti che aveva preso Bush e che sono andati a Obama. E sono andati, vale la pena ricordarlo, aun profilo che era di forte innovazione e non a un tentativo di imitare Bush. Èstata una convergenza sul profilo maggiormente alternativo che però si è fatto carico anche dello sforzo di unificazione del Paese. Quando sono stato alla Convenzione democratica di Denver, Obama parlava degli Stati Uniti, non parlava come capo di una parte ma come chi si rivolgeva a l’intera comunità nazionale. E questa è stata la sua forza». L’Afghanistan può rivelarsi per Obamaciò che per il suo predecessore è stato l’Iraq: una trappola infernale ? «L’Afghanistan di tutti i dossier credo che sia il più ostico. Perché stare è difficile e lo è altrettanto andar via. Stare è difficile perché in un Paese come quello, nel quale nel corso della storia sono accadute tante cose, e spesso terribili e sanguinose, non è facile far maturare un processo di assunzione di meccanismi, modi e linguaggi propri di un pur faticoso processo di costruzione di uno spazio di democrazia e di libertà. D’altra parte, andar via sarebbe una sconfitta e lasciarecampolibero ai talebani; credo che Obama si renda conto che il dossier Afghanistan è strettamente legato al dossier Pakistan e che la virulenza dell’attacco integralista nell’uno e nell’altro Paese ha l’obiettivo di far saltare, ancor più che in Iraq, una speranza di stabilizzazione di quei Paesi che è interesse nel mondo intero. È il dossier più difficile, ma a mepare cheObamalo stia affrontando con quel misto di forza e politica che è mancato negli anni di Bush». Questa domanda è Veltroni scrittore. Quale sarebbe il modo più appropriato per raccontare Obama e la sua «avventura ». «La cosa fantastica di Obama è che è stato capace di entrare nell’immaginario del mondo intero: dal Kenya ai ragazzi italiani, dalla Scandinavia all’Asia... come è la politica nei suoi momenti più grandi, cioè quando accende la speranza di un cambiamento, perché altrimenti la politica è pura gestione.Obamaè entrato nell’immaginario e lo ha fatto in modo forte, ridando alla politica ossigeno e possibilità. Io la vedocomeuna grande sfida di una nuova generazione libera dalle ideologie, che cerca però di tradurre un bagaglio di valori e di ideali in azione concreta. Di tutte le dimensioni della politica questa mi sembra davvero la più affascinante». Quindi il «Sogno» di Obama è ancora vivo? «Assolutamente sì. Il “Sogno” è vivo perché sta diventando realtà. Perché se fosse rimasto un sogno, dopo un anno di governo sarebbe morto. Einvece siccome sta diventando realtà, con la fatica che si ha quando si cerca di tradurre un sogno di cambiamento a fronte di resistenze; la vivezza del sogno sta nel fatto che sta diventando reale». 04 novembre 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - A Barack chiedo più coraggio nell’azione Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2009, 09:56:24 pm «I frutti ancora non ci sono A Barack chiedo più coraggio nell’azione»
di Umberto De Giovannangeli Si è detto, e a ragione, che il Nobel per la Pace conferito a Barack Obama sia stato un investimento sul futuro. Un futuro di dialogo e di pace.Unfuturo di “ponti” da realizzare e di “muri” da abbattere. Sono anch’io di questo avviso, ma con la stessa onestà intellettuale va riconosciuto che questo investimento non ha dato ancora i frutti sperati, almeno in Medio Oriente». A sostenerlo è uno dei più grandi scrittori contemporanei: l’israeliano Abraham Bet Yehoshua. Obama e il Nobel per la Pace. Visto da Israele, il presidente Usa è stato all’altezza di questo prestigioso riconoscimento? «Non mi sembra che sia già giunto il tempo per emettere giudizi definitivi, tanto meno “sentenze”. Certo le aspettative erano grandi, forse troppo grandi, ma va anche detto che è stato lo stesso Obama ad alimentarle. Non parlerei di delusione ma di un giudizio sospeso. Sospeso in attesa di fatti». Più volte Obama ha affermato che la soluzione del conflitto israelo-palestinese era tra le priorità della sua agenda internazionale. È stato così? «L’impegno non può essere misurato dal numero dei viaggi che la signora Clinton (segretaria di Stato Usa, ndr) o il senatore Mitchell (inviato speciale di Obama per il Medio Oriente, ndr) hanno fatto in Israele, nei Territorio nei Paesi arabi. L’impegno si misura dalla capacità di smuovere le acque stagnanti di un processo di pace che non si schioda dalle dichiarazioni di principio». Partendo da questa considerazione di fondo, cosa si sente di imputare al Presidente- Nobel per la Pace. «Non sono un pubblico ministero né ungiudice che deve emettere sentenze o comminare pene…Ciòche posso dirle è che, da estimatore di Obama, mi sarei aspettato, e continuo a farlo, più determinazione, più coraggio nell’azione. Se guardo al Medio Oriente, alle incertezze delle leadership israeliana e palestinese, dico che ci vorrebbe più pressione sulle due parti, e invece ». Invece? «Invece il presidente Usa sembra frenato dalla volontà di non produrre scosse, di evitare drammi, ma senza “strappi” è impossibile ricucire poi i fili del negoziato». Anche Lei è tra coloro che imputano a Barack Obama di produrre bei discorsi ma pochi fatti? «Vede, come scrittore so bene l’importanza, il peso delle parole. Le parole sono la mia vita. Le parole possono aprire o chiudere i cuori e le menti; possono emozionare, indignare, provocare dolore o alimentare speranze. Per tornare alla sua domanda, posso dirle che resto convinto che le parole pronunciate da Obama nel suo discorso del giugno scorso all’Università egiziana di Al-Azhar, abbiano colto ciò che gran parte degli israeliani ha nel cuore. Ma Obama non è uno scrittore, non è un predicatore, anche se è un grande, grandissimo comunicatore. Barack Obama è un leader mondiale. E come tale è “condannato” a dare un seguito concreto alle sue parole. Ma di questo il presidente Usa è pienamente consapevole, e ciò è beneagurante ». Tra i critici di Obama sono in molti, riferendosi all’invio di altri 30mila soldati in Afghanistan, a sottolineare che a ricevere il Nobel per la Pace sia il capo di una nazione impegnata in due guerre. «Non condivido questa critica. La trovo sbagliata, oltre che ingenerosa. E dico questo avendo ben presente il Nobel per la Pace conferito ad un uomoche per buona parte della sua vita aveva combattuto i nemici del suo Paese, ma che proprio perché aveva combattuto era giunto alla convinzione che la sicurezza d’Israelenon poteva essere affidata solo alla forza del suo esercito. Quell’uomo era Yitzhak Rabin, un “generale” di pace. Obama non è un pacifista romantico, come non lo era Rabin. Ma è un presidente consapevole che l’America può riconquistare la sua leadership politica, direi “etica”, a livello internazionale, se è in grado di globalizzare i diritti, i principi che sono a fondamento della sua democrazia.E questo non lo si ottiene mostrando i muscoli, anche se la storia insegna, come ha ricordato Obama, che Hitler non sarebbe stato piegato dalla non violenza. E purtroppo anche ai giorni nostri Hitler ha i suoi epigoni, più o meno mascherati, magari da presidente iraniano o da capo di Al Qaeda». Stando ai sondaggi, Obama non è vissuto come “presidente amico” da una parte significativa, se non maggioritaria, degli israeliani… «Qui sono totalmente a fianco di Obama. Lo sono perché Obama è l’amico che vorrei a fianco. Al fianco d’Israele. Perché un amico, vero, è anche un amico “scomodo”, quello che ti indica onestamente i tuoi errori e prova ad aiutarti a correggerli, senza mai far venire il suo sostegno quando – come nel caso dell’Iran – qualcuno prova a stenderti… Semmai, al presidente Obama chiedo di esercitare con più determinazione questa amicizia ». Esercitarla, ad esempio, sulla questione degli insediamenti? «Io credo che esistaun nesso inscindibile tra la smilitarizzazione dello Stato palestinese, la definizione consensuale dei confini fra i due Stati, Israele e Palestina, e lo smantellamento degli insediamenti che non rientrano nei nuovi confini d’Israele, che non possono essere quelli del 1967. Ed è in questo contesto che io ritengo necessario riconoscere che gli insediamenti israeliani rafforzano l’odio dei palestinesi verso Israele. E l’odio, ha ragione Obama, è il primo “muro” da abbattere” se si vuole davvero un Nuovo Inizio». 11 dicembre 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - In Somalia centinaia di jihadisti stranieri Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2009, 03:29:51 pm Nell'attacco del 3 dicembre morirono 22 giovani e quattro ministri
In espansione il fenomeno dei terroristi islamici provenienti dall'Occidente Era danese l'attentatore di Mogadiscio In Somalia centinaia di jihadisti stranieri di DANIELE MASTROGIACOMO Era un cittadino danese l'attentatore suicida che il 3 dicembre scorso, camuffato da donna, si è fatto esplodere all'interno dell'hotel Shamu, a Mogadiscio, dove era in corso la cerimonia di consegna della laurea in Medicina a una cinquantina di studenti. Nell'attentato, particolarmente violento, oltre a 22 ragazzi appena laureati, futuri dottori in un paese senza più medici, sono morti anche quattro ministri del governo di transizione federale, mentre 30 persone sono rimaste gravemente ferite. La notizia è stata data dal ministro per l'Informazione somalo, Dahir Gelle, dopo che i parenti del kamikaze, da 20 anni residenti in Danimarca, lo avevano riconosciuto attraverso alcune foto. Un'ulteriore conferma è giunta dai servizi segreti di Copenaghen (Pet): hanno detto che il ragazzo proveniva dalla Danimarca. Non è la prima volta che le strutture di intelligence di diversi Paesi segnalano la presenza di cittadini occidentali sui territori dove sono in corso guerriglie della jihad. Ma la nuova identificazione conferma in modo chiaro una tendenza che agita tutti i servizi segreti europei e statunitensi e che pone un problema non di poco conto. Si sa che negli ultimi sei mesi le agenzie antiterroristiche britanniche e americane avevano segnalato la presenza di numerosi loro cittadini in Somalia. Giovani, più che altro, da tempo fuggiti con le loro famiglie da un Paese che non offriva più alcun futuro e rifugiati in quelli più sicuri e disposti ad accoglierli. Col tempo le voci e le ipotesi sono diventate realtà. Oggi, stimano i servizi di sicurezza occidentali, almeno una ventina di cittadini americani e una trentina di britannici, muniti di regolare passaporto, sarebbero in Somalia tra le fila delle organizzazioni islamiche radicali. Prima fra tutte "al Shabab", gli studenti coranici che si ispirano ai Taliban afgani padroni dell'80 per cento del territorio. Ma si pensa che gli stranieri arruolati nelle rete jihadista siano molti di più, almeno un centinaio. Si tratta di ragazzi somali fuggiti dal Paese una ventina di anni fa, subito dopo il crollo del regime di Siad Barre nel 1991. Inseriti perfettamente nei loro nuovi Paesi dove hanno studiato e dove lavoravano, vengono contattati dai reclutatori e spinti a rientrare a Mogadiscio per affiancare le milizie islamiche e immolarsi nella jihad. Il fenomeno non riguarda solo la Somalia. In Pakistan mercoledì scorso sono stati arrestati cinque cittadini insospettabili di Alexandra, in Virginia, scomparsi improvvisamente dagli Stati Uniti all'inizio di dicembre e sospettati di seguire corsi di addestramento per poi andare a combattere in Afghanistan. Adesso, una nuova prova arriva dalla Somalia, un Paese senza polizia e senza esercito in cui si entra e da cui si esce con estrema facilità, diventata terra di reclutamento e di combattimento delle milizie targate al Qaeda. © Riproduzione riservata (11 dicembre 2009) da repubblica.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Amnesty, dal Togo al Messico dodici buone notizie... Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2009, 11:12:35 pm Amnesty, dal Togo al Messico dodici buone notizie sui diritti umani
di Umberto De Giovannangeli Per una volta almeno, e almeno a Natale, vale la pena ricordare che non tutto è disastro, sconfitte, scempi di diritti e persone nel mondo. Per una volta almeno, ricordiamo che i «buoni» possono vincere. Amnesty International lo ha fatto mettendo in evidenza le migliori 12, una per ogni mese, buone notizie del 2009 nel campo dei diritti umani. Un auspicio perché il 2010 sia l’anno dei Diritti. 9 gennaio: pena di morte. Ghana Il 9 gennaio 2009 Il presidente uscente John Kuffour, ha commutato tutte le condanne a morte. Secondo i dati di Amnesty International, il provvedimento ha riguardato 108 prigionieri in attesa di esecuzione, 105 uomini e tre donne. L’ultima esecuzione nel Paese aveva avuto luogo nel 1993. 26 febbraio: giustizia internazionale. Kosovo/Serbia Il 26 febbraio 2009 il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha emesso cinque condanne nei confronti di altrettante persone giudicate colpevoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nell’allora provincia serba del Kosovo, nel 1999. L’ex vice primo ministro jugoslavo Nikola Sainovic, il generale dell’esercito jugoslavo Nebojsa Pavkovic e l’ufficiale della polizia serba Sreten Lukiv sono stati condannati a 22 anni, mentre Vladimir Lazarevic e Dragoljub Ojdanic, rispettivamente generale e capo di stato maggiore dell’esercito jugoslavo, sono stati condannati a 15 anni. 16 marzo: campagna «Mai più violenza sulle donne». Diritti sessuali e riproduttivi. Messico Dopo una campagna condotta per molti mesi da Amnesty International e dalle organizzazioni locali per i diritti umani, il 16 marzo 2009 è entrata in vigore la Direttiva Nom-046-ssa2-2005 che prevede, tra l’altro, accesso legale e sicuro all’interruzione di gravidanza per le donne vittime di violenza sessuale. 24 aprile: pena di morte. Burundi Il 24 aprile 2009, a seguito dell’introduzione del nuovo codice penale, il Burundi è diventato il 93mo Paese abolizionista per tutti i reati. L’ultima esecuzione nel Paese africano aveva avuto luogo nel 1997. 11 maggio: prigionieri di coscienza. Iran Roxana Saberi, la giornalista irano-statunitense condannata in primo grado a otto anni di carcere per «spionaggio in favore di un Paese ostile», è stata liberata l’11 maggio 2009 dopo che una Corte d’appello ha commutato l’imputazione in «possesso di materiale riservato», emettendo una condanna a due anni di carcere con pena sospesa. Amnesty International aveva lanciato un appello per la scarcerazione di Saberi all’indomani del primo verdetto, il 18 aprile. 23 giugno: pena di morte. Togo Il 23 giugno 2009 l’Assemblea nazionale ha votato all’unanimità in favore dell’abolizione della pena di morte. Il Togo diventa così il 15mo Stato africano abolizionista, il 94mo a livello mondiale. «Questo Paese ha deciso di istituire un sistema giudiziario sano, che riduce il rischio di errori giudiziari e garantisce i diritti delle persone», ha commentato il ministro della Giustizia Kokou Tozoun. «Questo nuovo sistema non è più compatibile con un codice penale che mantiene la pena di morte e concede all’autorità giudiziaria un potere assoluto, con conseguenze irrevocabili». 1° luglio: diritti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender. India Il 1° luglio 2009 l’Alta corte di Delhi ha decriminalizzato l’omosessualità. Secondo Amnesty International, che insieme alle organizzazioni locali per i diritti umani aveva svolto una lunga campagna per questo obiettivo, la sentenza è un deciso passo avanti per assicurare che in India sia possibile esprimere il proprio orientamento sessuale e l’identità di genere senza timore di subire discriminazioni. La sentenza dell’Alta corte ha annullato, definendola discriminatoria e «contraria alla moralità costituzionale», una norma britannica risalente al periodo coloniale che proibiva relazioni sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso, definite «rapporti carnali contro l’ordine naturale». La legge è stata usata per colpire l’azione degli organismi impegnati nella prevenzione dell’Hiv/Aids. 7 agosto: Impunità. Brasile/Uruguay Il 7 agosto 2009 la Corte suprema brasiliana ha autorizzato l’estradizione in Argentina del colonnello uruguayano Luis Cordero Piacentini, che deve rispondere della scomparsa di cittadini argentini e uruguayani (tra cui il neonato Adalberto Soba Fernandez, sequestrato a venti giorni dalla nascita e successivamente dato in adozione illegale) nel contesto del famigerato «Piano Condor». La massima Corte brasiliana ha accolto la richiesta della magistratura argentina, che sta indagando su una serie di crimini commessi in un centro di detenzione clandestino conosciuto come «Concessionaria Orletti», un autosalone della capitale Buenos Aires attivo negli anni della dittatura. Il «Piano Condor» fu un’operazione coordinata tra i governi militari di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Uruguay e Paraguay destinata a eliminare esponenti dell’opposizione politica negli anni ’70 e ’80. 29 settembre: diritti economici, sociali e culturali. Nazioni Unite All’indomani dell’apertura alla firma del Protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, avvenuta il 24 settembre 2009, 28 Stati hanno già firmato il testo. Tra questi figura l’Italia, cui la Sezione Italiana di Amnesty International aveva chiesto di firmare il Protocollo. 6 ottobre: Giustizia internazionale. Ruanda Il 6 ottobre 2009 Idelphonse Nizeyimana, uno dei maggiori ricercarti per il genocidio del 1994, è stato arrestato a Kampala, capitale dell’Uganda. Nizeyimana era a capo dell’intelligence e delle operazioni militari durante i 100 giorni in cui morirono circa 800.000 mila tutsi e hutu moderati. È accusato anche di aver creato un corpo militare speciale. Deve rispondere al Tribunale penale internazionale per il Ruanda delle imputazioni di genocidio e crimini contro l’umanità. 19 novembre: campagna «Mai più violenza sulle donne». Messico Il 19 novembre 2009 la Corte interamericana dei diritti umani ha riconosciuto colpevole e condannato lo Stato messicano per la morte di otto donne a Ciudad Juarez, nel novembre 2001, nel caso conosciuto come «il campo di cotone». Si tratta della prima sentenza di condanna per il femmicidio in corso dal 1993 nello Stato di Chihuahua, nel nord del Paese. 1° dicembre: Rilasci. Sri Lanka Il 1° dicembre 2009 il governo ha disposto il rilascio di migliaia di civili tamil dai centri di detenzione allestiti in primavera, alla fine della guerra civile. Amnesty International aveva lanciato un’azione globale per chiedere la chiusura dei campi e il rilascio di tutti i profughi di guerra internati. 24 dicembre 2009 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Così Al Qaida tiene gli Usa sotto scacco Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2010, 10:18:10 pm La rete del terrore.
Così Al Qaida tiene gli Usa sotto scacco di Umberto De Giovannangeli Dice: trentamila soldati in più in Afghanistan per poter sconfiggere Al Qaeda in Afghanistan. Dice: l’America non si lascerà intimidire e colpire i suoi nemici ovunque essi si nascondino. Non è George W.Bush. È Barack Hussein Obama. Otto anni e quattro mesi dopo l’11 settembre, gli Usa riscoprono la paura. Lo spettro è sempre lo stesso: Al Qaeda. Ma otto anni è quattro mesi dopo, Al Qaeda è un’altra cosa. Una Rete globale. Una vera e propria Holy War, Inc. Una multinazionale del terrore che dimostra di saper maneggiare alla perfezione gli strumenti della comunicazione virtuale. Otto anni e mezzo dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Otto anni dopo l’avvio della guerra al terrorismo in Afghanistan. Dopo la seconda guerra in Iraq. Cambiano gli inquilini alla Casa Bianca ma l’America non si sente più sicura. Tutt’altro. Al Qaeda ha cambiato pelle. Ha fatto di necessità (la sconfitta del regime amico dei Talebani) virtù: si è estesa nel mondo. Trasformandosi in Rete. L’elenco dei Paesi in cui agiscono gruppi che fanno riferimento al marchio Al Qaeda, è impressionante: Sudan, Nigeria, Egitto, Arabia Saudita, Iraq, Yemen, Somalia, Etiopia, Afghanistan, Pakistan, Indonesia, Bosnia, Croazia, Albania, Algeria, Tunisia, Marocco, Libano, Filippine, Russia, Cecenia, Tagikistan, Azerbaigian, Daghestan, Kenya, Tanzania, Kashmir, India, Gran Bretagna, Olanda. Al Qaeda può inoltre contare su seguaci e cellule «dormienti» negli Stati Uniti - a New York, Boston, Texas, Florida, Virginia e California - e nel Regno Unito, a Londra e Manchester. Sostenitori di bin Laden sono stati arrestati in luoghi disparati quale la Giordania, Seattle, la Francia, la Danimarca, l’Uruguay e l’Australia. I rapporti economici e finanziari imbastiti dal network qaedista coinvolgono gruppi legati agli «ulama» sauditi più oltranzisti e ai Fratelli Musulmani in Kuwait, Qatar e Dubai. Il giro di liquidità finisce per far capo a una cupola di 400 finanzieri, per due terzi arabi e per il resto pachistano e altri asiatici, con centinaia di società sparse per il mondo. Il riciclaggio del denaro sporco coinvolge innumerevoli «lavanderie» dal Sudamerica agli Stati Uniti, dalla Svizzera all’Africa, dal Medio Oriente all’Asia ex sovietica. La «guerra mediatica» è un aspetto fondamentale della Rete qaedista. Gruppi di informatici curano siti web in oltre diciotto lingue, dall’albanese allo svedese. La «rete delle reti» del Jihad armato ha sparso i suoi tentacoli operativi e le sue sedi «universitarie» di indottrinamento e apprendimento operativo in ogni angolo del pianeta: nel Golfo Persico, i centri direttivi sono oggi, oltre che nelle trincee sunnite in Iraq e Yemen, nelle retrovie dell’Arabia Saudita, vero polmone finanziario della Rete di Al Qaeda, in Asia orientale, il quartier generale del jihadismo si trova in Indonesia. In Africa le strutture più funzionali sono collocate in Uganda e Nigeria, Somalia ed Etiopia. Comuni affari per il traffico di droga stabiliti da emissari di Al Qaeda con il cartello del narcotraffico colombiano, hanno portato il jihadismo a insediare un nucleo operativo anche in America Latina, a Bogotà. La «bomba sporca». È l’obiettivo dichiarato di Al Qaeda: potenziare la sua capacità offensiva dotandosi di bombe sporche («Ordigni esplosivi associati a sostanze radiologiche») o «aggressivi chimici e agenti biologici». Le piste più battute dagli emissari di bin Laden per acquisire il materiale radioattivo non fissile, portano soprattutto verso la tratta georgiana. Per la sua posizione geografica innanzitutto: snodo geografico naturale ra Russia, Asia Minore e Turchia, la Georgia ha di fatto assicurato a traffici di diversa natura frontiere permeabili, alti livelli di connivenza delle polizie di confine, gruppi di ribelli separatisti che fanno del contrabbando la fonte principale di autofinanziamento. L’altra ragione è che la Georgia è anche un serbatoio naturale di materiale radioattivo di epoca sovietica. Altra direttrice che cresce di importanza è quella che passa per le ex repubbliche dell’Unione Sovietica e che raggiunge piazze come il Pakistan, l’Afghanistan, la Thailandia e l’Indonesia. Ed è proprio attorno alla «bomba sporca» e al contrabbando di materiale radioattivo non fissile che rischia di saldarsi un’alleanza tra la «multinazionale del terrore» e le «holding» più ramificate della criminalità organizzata. di certo alla «Holy war, inc. » non manca il denaro per acquisire sul mercato nero armi di distruzione di massa. Oltre al contrabbando di droga, i forzieri di Al Qaeda vengono costantemente riforniti dalle innumerevoli organizzazioni «caritatevoli» musulmane sparse per il mondo e fortemente strutturate in Europa e negli Usa. Una pratica che, secondo stime attendibili, porta ogni anno nella casse di Al Qaeda dai 300 ai 400 miliardi di dollari. 05 gennaio 2010 da unita.it Titolo: Sempre meno libertà. Più di due miliardi senza diritti nel mondo Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2010, 07:22:02 pm Sempre meno libertà
Più di due miliardi senza diritti nel mondo di Umberto De Giovannangeli Due miliardi e trecento milioni di persone. Senza diritti, senza libertà. Dal Medio Oriente all'Africa, dall'Asia alle repubbliche dell'ex Unione Sovietica. Libertà civili e diritti umani sempre più in crisi a livello mondiale. Per la quarta volta consecutiva, negli ultimi 40 anni di storia, si registra un peggioramento sostanziale delle libertà nei cinque continenti. A certificarlo è Freedom House, l'autorevole osservatorio americano fondato da Eleanor Roosevelt che, dal 1972, si occupa di registrare ogni piccola variazione sul fronte del rispetto e della tutela dei diritti in tutti i Paesi del pianeta. È un quadro inquietante, drammatico, quello che emerge dal rapporto annuale di Freedom House, «Freedomin the world 2010». I risultati di quest'anno riflettono le crescenti pressioni sui giornalisti e sui blogger, le restrizioni alla libertà di associazione, la repressione esercitata sugli attivisti civili impegnati a promuovere le riforme politiche e il rispetto dei diritti umani. Il Medio Oriente - comprensivo dell'Iran - resta la regione più repressiva del mondo, l'Africa quella che ha subito il calo (di libertà) più significativo. I miglioramenti più rilevanti, rispetto all'anno precedente, si sono registrati in Asia, in virtù delle elezioni democratiche svoltesi in India, Indonesia, Giappone, a fronte, però, di un peggioramento registrato in Afghanistan, con le contestate elezioni presidenziali, e nelle Filippine, dopo il massacro di civili e di giornalisti e la successiva dichiarazione delle legge marziale. «Nel 2009 - dice a l'Unità Jennifer Windsor, direttrice esecutiva di Freedom House - abbiamo assistito ad una preoccupante erosione di alcune libertà fondamentali, la libertà di espressione e di associazione, e ad innumerevoli attacchi contro gli attivisti in prima linea in questi settori». «Dalla brutale repressione a Teheran agli arresti dei dissidenti in Cina, agli omicidi di giornalisti e attivisti dei diritti umaniin Russia - rimarca la direttrice di Freedom House - abbiamo registrato un ulteriore, pesantissimo giro di vite nei confronti di donne e uomini che nel mondo si battono per far valere quei diritti umani riconosciuti dalla Dichiarazione dell'Uomo delle Nazioni Unite e dalle più importanti Convenzioni internazionali». In un anno segnato dall'intensificarsi della repressione contro i difensori dei diritti umani e attivisti civili, un declino delle libertà è stato registrato in 47 Paesi in Africa, America Latina, Medio Oriente, e le repubbliche dell'ex Unione Sovietica, che rappresentano il 20% del totale dei sistemi politici del mondo. Stati autoritari come l'Iran, la Russia, il Venezuela sono diventati ancor più repressivi. Un declino delle libertà si è registrato anche in quei Paesi che avevano registrato un andamento positivo negli anni precedenti, tra i quali il Bahrein, la Giordania, il Kenya e il Kirghizistan, Lamaglia nerissima tra i 47 Paesi classificati «Not Free»- negazione dei diritti politici e delle libertà civili - spetta a Birmania, Guinea Equatoriale, Eritrea, Libia, Corea del Nord, Somalia, Sudan, Turkmenistan e Uzbekistan. Nel complesso, oltre 2,3 miliardi di persone vivono in società nelle quali fondamentali diritti politici e le libertà civili non vengono rispettati. La Cina rappresenta la metà di questo universo illiberale. Inoltre è calato il numero di democrazie elettive, passato da 119 a 116, il più basso dal 1995 a questa parte. Ad aggravare la situazione i tanti fronti di guerra e la violenta repressione delle proteste di piazza dei dissidenti, dall'Iran alla Cina. Ci sono poi gli attentati terroristici in Pakistan, Afghanistan, Iraq, Somalia e Yemen. «I dati registrati nel 2009 sono motivo di reale preoccupazione - ci dice Arch Puddington, direttore responsabile del settore ricerca di Freedom House -. Il calo è globale e interessa Paesi con il potere militare ed economico, investe Paesi che in precedenza avevano mostrato segni di potenziali riforme, e mette in evidenza una maggiore persecuzione dei dissidenti politici e giornalisti indipendenti.Apeggiorare le cose, i più potenti regimi autoritari sono diventati ancor più repressivi, più influenti sulla scena internazionale, più intransigenti». Pochi i segnali positivi: nel 2009 appena 16 Paesi, su 194 monitorati, sono più liberi rispetto al passato. Tra questi alcuni Paesi dei Balcani, tra cui Kosovo, Montenegro, Croazia, Moldavia e Serbia. In questa lista compaiono anche Libano, Malawi e Togo. Ilnumerodei Paesi designati da «Freedom in the World» come “Free” nel 2009 ammonta a 89, che rappresentano il 46% di 194 Paesi del mondo e il 46% della popolazione mondiale. Il numero dei Paesi “Partly Free” (Parzialmente liberi) è sceso a 58, il 30% di tutti i Paesi valutati nel sondaggio. Il numerodei Paesi “Not Free” è aumentato a 47, il24%del numero totale di Paesi. Ad essere declassata è anche la Russia, seguita a ruota da tutti i Paesi del Mar Baltico e dell' ex Unione Sovietica, tra cui il Kazakistan e il Kirghizistan. In America Latina, l'Honduras ha perso lo status di democrazia elettorale a causa del colpo di stato; un significativo calo degli standard democraticihanno riguardato Guatemala, Nicaragua e Venezuela. Quanto all’Europa, il rapporto cita le tensioni culturali e sociali collegate al grande flusso di immigranti provenienti da Paesi musulmani. Migrazioni che, sostiene Freedom House, «sfidano la tradizione europea fatta di tolleranza e tutela delle libertà civili». «Preoccupazioni sull'immigrazione - conclude il rapporto - hanno portato all' avanzata elettorale dei partiti di destra che propongono maggiori restrizioni al fenomeno». L'incremento delle politiche anti-immigrazione ha portato al declassamento di Svizzera e Malta. 15 gennaio 2010 da unita.it Titolo: DE GIOVANNANGELI - Berlusconi paladino di Israele con qualche amico imbarazzante Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2010, 04:39:38 pm Berlusconi, paladino di Israele con qualche amico imbarazzante
di Umberto De Giovannangeli I silenzi, le ambiguità e amicizie imbarazzanti del Cavaliere autoproclamatosi Paladino dello Stato ebraico. «È Israele che alimenta le crisi in Darfur, nel Sud del Sudan e nel Ciad... È Israele che alimenta le guerre per sfruttare le ricchezze di quelle aree. Via le ambasciate d’Israele dall’Africa». Così parlò (il giorno dei festeggiamenti per il 40esimo anniversario della Rivoluzione verde) un grande amico di Berlusconi: il Colonnello Muammar Gheddafi. Ad ascoltarlo, per inciso, c’era anche il presidente sudanese Omar al-Bashir, ricercato dal Tribunale penale internazionale dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità. «Quel circo equestre itinerante che è Gheddafi è divenuto da tempo uno show tragicomico che imbarazza chi lo ospita e la nazione libica che ne paga il conto. Mi chiedo se vi sia ancora qualcuno al mondo che prende seriamente ciò che dice quest’uomo. Noi comunque siamo certi che nessuno Stato darà peso alle azioni teppistiche di questo bulletto», commentò il 31 agosto 2009 il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Yigal Palmor. Per la verità qualcuno che prende molto sul serio Gheddafi c’è. E oggi pronuncerà uno «storico discorso» alla Knesset. È il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi. Quello che per Israele è un «bulletto», per il Cavaliere è un «leader pragmatico», uno «statista accorto e moderato», e un «amico personale». «Dobbiamo distruggere Israele...». «Esorto gli arabi ad aprire la porta del volontariato per combattere Israele a fianco dei palestinesi...». Non è Mahmud Ahmadinejad a pronunciare questi bellicosi propositi. È lo «statista accorto e moderato»: Muammar, l’amico di Silvio. Ai musulmani ha chiesto di «unirsi contro l’Occidente cristiano e di affilare le spade...». Ha proposto di trasferire in Alaska lo Stato d’Israele, poiché «occupa un territorio che non appartiene agli ebrei». Indietro nel tempo: dopo l’eccidio degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco ’72 - ricorda Giulio Meotti su Il Foglio - «tutti i Paesi arabi si contesero i corpi dei cinque terroristi di Settembre Nero. Vinse la Libia, dove da tre anni al potere c’era il colonnello Gheddafi. Fu lui a salutare come “eroi” e “martiri”, con tutti gli onori militari, i cinque assassini degli atleti ebrei». Il Paladino smemorato dimentica il Colonnello e «spara» sull’«Hitler di Teheran». «Berlusconi traccia un parallelo fra Ahmadinejad e Hitller» titola Haaretz nella sua edizione in inglese. E cita il Consiglio: «Dobbiamo vigilare, abbiamo già avuto un pazzo simile storia». Parole non riferite in modo esplicito al presidente iraniano, ma attribuibili al regime di Teheran, secondo il giornale di Tel Aviv. Ma più delle parole, Israele attende dal Paladino atti concreti sul fronte iraniano. Uno di questi lo ha indicato il vice premier Silvan Shalom: «Nel mio incontro di lunedì con il presidente Berlusconi gli ho proposto che l’Italia voti una legge che consideri i Guardiani della rivoluzione un’organizzazione terroristica, in vista di una sua adozione da parte dell’Unione Europea, e gli ho ricordato che aveva già usato la sua influenza per includere Hamas in questo elenco - dichiara Shalom alla radio pubblica israeliana - Sarebbe un colpo assai duro per il regime iraniano». Vedremo se il Cavaliere-Paladino farà sua la richiesta, per il momento la risposta fornita agli amici israeliani è interlocutoria, low profile («serve un’istruttoria approfondita a livello europeo...»). «Non abbiamo segreti con nostri amici israeliani sul nostro interscambio con l’Iran. Ma siamo assolutamente fermi nel bloccare nuovi investimenti su gas e petrolio e abbiamo già bloccato l’assicurazione Sace per chi investe in Iran», annuncia il ministro degli Esteri Frattini. Ma Israele ricorda al Paladino che uno dei satelliti per le comunicazioni con cui l’Iran potrebbe spiare Israele e le basi Usa nel Golfo in vista di un eventuale attacco, il Mesbah, lo sta realizzando la Carlo Gavazzi space spa. Azienda di Milano partner abituale di Agenzia spaziale italiana, Cnr o Cern. Un contratto da oltre dieci milioni di dollari. Che Israele – confida a l’Unità una fonte autorevole di Gerusalemme – vorrebbe fosse disdettato dall’Italia. Dieci milioni, parte di quel business tra Roma e Teheran che nel solo 2008 ha «fatturato» 7 miliardi di interscambio. Troppi per Gerusalemme. «Con l’Iran servono sanzioni forti», proclama Berlusconi. Israele gli chiede il conto. Le parole, per quanto infiammate, non bastano più. 03 febbraio 2010 da unita.it Titolo: DE GIOVANNANGELI - L'onda nera dell'ultra destra razzista macchia l'Europa Inserito da: Admin - Aprile 28, 2010, 08:58:29 am L'onda nera dell'ultra destra razzista macchia l'Europa
di Umberto de Giovannangeli L’«Onda nera» si allarga. Dall'Austria all'Ungheria, dall'Olanda al Belgio, dalla Francia, alla Finlandia, dalla Danimarca alla Gran Bretagna, «sconfinando» nell’ex Europa comunista: dalla Romania alla Russia. Continua l'avanzata dell'estrema destra in Europa, un dato confermato dal 15,6% alle presidenziali in Austria conquistato dalla candidata del partito Fpoe, Barbara Rosenkranz, dichiaratamente filo-nazista. In Ungheria, dove il partito conservatore Fidesz ha conquistato i due terzi dei seggi in Parlamento, la formazione xenofoba Jobbik si consolida come terza forza del Paese con 48 seggi in Parlamento. Viaggio nell’«Onda nera» dei movimenti dell’estrema destra europea. Movimenti e partiti razzisti, ultrazionalisti, nazifascisti, antisemiti spinti. L'estrema destra, specie quella di ispirazione fascista e neonazi, tra i suoi programmi principali ha il superamento del liberismo e la guerra alla globalizzazione, oltre che un forte connotato antiamericano e anti-israeliano. Austria: «Non sono felice ma decisamente contenta»: così Barbara Rosenkranz dopo l'annuncio dei risultati. Si era data come obiettivo il 17% mentre il leader del suo partito, Hans-Christian Strache, aveva indicato addirittura il 35%. A frenare i consensi sono state alcune dichiarazioni della Rosenkranz in favore dell'abolizione delle leggi sul divieto di apologia del nazismo in Austria. Al suo fianco c’è il marito Horst Jakob, con un trascorso di militanza in vari gruppi neonazisti ed oggi editore della rivista dell’estrema destra «Fakten». Da segnalare inoltre l'affermazione alle europee 2009 del «qualunquista» Hans Peter Martin, che ottenne il 18%, appena 5 punti meno dei socialdemocratici. Ungheria: Il partito conservatore Fidesz, dell'ex e futuro premier Viktor Orban, ha conquistato i due terzi del Parlamento, che consentiranno di avviare anche riforme costituzionali senza il contributo di altre formazioni. Jobbik, il partito di estrema destra guidato dalla coppia Krisztina Morvai e Gabor Vona, ha conquistato almeno 48 seggi. Lo slogan preferito di Vona è: «L'Ungheria è stata venduta, i nemici da combattere sono le multinazionali, gli ebrei, i rom ed i comunisti». Olanda: Nelle amministrative di marzo scorso, la destra xenofoba del partito della Libertà (Pvv) guidato dal leader anti-Islam Geert Wilders, ha ottenuto una significativa vittoria, soprattutto in vista delle elezioni politiche previste per il prossimo 9 giugno. In una recente intervista, Wilders ha confessato che il «sogno» che vorrebbe realizzare è la «deportazione in massa degli islamici» Belgio: In Belgio il maggiore partito di estrema destra è il Vlaams Belang che ha raggiunto nelle ultime elezioni Europee il 9,85% di voti. Il partito lotta per l'indipendenza delle Fiandre sia linguistica che territoriale, per il respingimento dell'immigrazione e per creare una forma di Stato nazionalista. In Belgio il partito ha dovuto cambiare nome nel 2007 a seguito di una condanna per violazione della legge sul razzismo e la xenofobia, che sottolineava come il partito avesse «aiutato e supportato organizzazioni che sosteneva e divulgavano l'odio razziale e xenofobo». Francia: Il Fronte Nazionale di estrema destra di Jean Marie Le Pen ha ottenuto nelle regionali del marzo scorso l'8,7% dei voti al livello nazionale, con punte che schizzano oltre il 20% in alcune regioni del nord e del sud della Francia. Le Pen, 81 anni, nel 2011 cederà il posto di presidente del partito che tiene dalla fondazione nel 1972. Due i candidati finora in corsa: la figlia Marine e l'europarlamentare Bruno Gollnisch. Gran Bretagna: Il partito nazionalista (Bnp) di Nick Griffin ha conquistato nelle scorse europee due seggi, scioccando sia i laburisti che i conservatori. Griffin nel 2004 è stato arrestato perché sospettato d'incitamento all'odio razziale. Rilasciato su cauzione, aveva definito l'Islam una religione «viscida e perversa». Dal 1999 è leader del Bnp, che punta a «sfilare la Gran Bretagna» dalla «dittatura europea». Finlandia: Occhi puntati sul partito nazionalista, euroscettico e anti-immigrati dei «Veri Finlandesi», guidato da Timo Soini. Alle europee 2009 ha ottenuto il 10% dei voti, rispetto allo 0,5% del 2004. Soini, con oltre 130.000 preferenze è risultato il politico più votato in assoluto nel Paese. Danimarca: Il partito del Popolo Danese, nazionalista, xenofobo e euroscettico, che appoggia in Parlamento la coalizione al potere liberali-conservatori, ha ottenuto il 14,4% alle europee, con un balzo del +8,6% rispetto al 2004. Germania: l'NPD viene considerato dalla popolazione un partito neonazista e xenofobo, non a caso vengono soprannominati, nel gergo comune, i nazi. Nelle ultime elezioni hanno ottenuto l'1,8% dei consensi. Sono forti in Sassonia. Est Europa Infine ci sono i partiti dell'Est europeo ex comunista dove la connotazione ultranazionalista e fascista è prevalente, come il Partito della Grande Romania, i liberaldemocratici russi di Zhirinovski, il Partito nazionalista slovacco, il Partito della destra croata (Hrvatska Stranka Prava), il Partito radicale serbo di Vojislav Seselj. In Bulgaria il partito d'unione attacco nazionale, che persegue politiche nazionaliste, anti-turche, euro-scettiche e populiste, ha raggiunto nelle Europee 2009 il 12% dei voti. Il partito si è reso partecipe di molti scandali, sia giudiziari che politici. L'osservatore Stayanov nel parlamento europeo aveva inviato a tutte le parlamentari romene una e-mail in cui proponeva l'acquisto di bambine zingare. Non a caso, infine, l'estrema destra nazista ha il maggiore seguito proprio nell'ex Germania Est e in Russia con il partito Pamyat. Per quanto riguarda i Paesi baltici, in Lettonia sono presenti e radicati i seguenti partiti di estrema destra: Nuova era (16,38%), il partito per la madrepatria e la libertà (6%) e l'Uniti per la Lettonia (1,48%) che ha un simbolo che ricorda la svastica. In Lituania, Ordine e Giustizia, partito euroscettico della destra estrema, riceve il 12,9% dei consensi. 27 aprile 2010 da unita.it Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - I sopravvissuti ai lager: «Brutta china, Italia» Inserito da: Admin - Giugno 08, 2010, 10:26:51 am I sopravvissuti ai lager: «Brutta china, Italia»
di Umberto De Giovannangeli Senza memoria non c'è futuro. E per Israele la Memoria è custodita nel grande edificio sul monte Herzl, nel cuore della Gerusalemme ebraica: lo Yad Vashem, il Museo della Shoah. Tutti i Grandi della Terra che fanno visita a Israele iniziano da qui, per non scordare mai ciò che avvenne a Dachau, Auschwitz-Birkenau, Treblinka, Bergen-Belsen... «Ricordo che a morire nelle camere a gas non furono solo gli ebrei, ma gli zingari, gli omosessuali, i bambini down...tutti coloro che nella follia nazista contaminavano la purezza della razza...». Yaakov Lesher era poco più di un bambino quando fu internato ad Auschwitz con la sua famiglia: madre, padre e tre sorelle poco più grandi di lui. Yaakov è l'unico sopravvissuto della sua famiglia. Quando gli raccontiamo del “Piano” messo a punto dalla Regione Veneto, a guida leghista, Yaakov passa in pochi attimi dall'esterrefatto all'indignato: «Ma è possibile – dice – che ci sia ancora oggi qualcuno che possa discriminare sulla base di diversità fisiche e psichiche? Ma questa è barbarie, barbarie...». Solo ad Auschwitz morirono 1,1 milioni di persone: ebrei provenienti da tutta Europa uccisi in gran parte nelle camere a gas, fucilati, impiccati, morti di fame, di malattie, dell'eccessivo lavoro in condizione di schiavitù...E a causa di esperimenti medici. Stupore e indignazione La purezza della razza. Da ottenere cancellando dalla faccia della terra milioni di esseri umani, trasformando molti di loro in cavie. Ariel Hartman è un altro sopravvissuto ad Auschwitz. Sono passati 65 anni d'allora, ma mai, neanche per un attimo della sua vita da sopravvissuto, Ariel Hartman ha potuto scordare il “Volto del Demonio”. Il volto di Josef Mengele. «Era ossessionato dagli esperimenti su cavie umane – ricorda Hartman – per lui non eravamo persone ma organi...Ricordo il suo disprezzo soprattutto verso gli handicappati...In una sala del Museo ci sono alcune immagini di questo mostro e di ciò che ha fatto...Lei mi parla di questo piano, cosa vuole che le dica: chi ha conosciuto l'inferno in terra, ha imparato sulla propria pelle che non devono esistere discriminazioni, in ogni campo, soprattutto quando c'è di mezzo la vita stessa...». Il rispetto della vita umana. Al di là di ogni appartenenza di fede, di razza, di religione. E di condizione psico-fisica. E' il messaggio che ogni giorno viene trasmesso a quanti fanno visita allo Yad Vashem. Yael Klein ha visto morire i suoi quattro fratelli a Treblinka. «Ogni giorno – ci dice mentre assieme visitiamo la parte più emozionante, commovente, del Museo dell'Olocausto, quello dedicato ai bambini morti nei lager nazisti – guardo quei numeri che mi furono incisi sul polso dai nazisti a Treblinka: ecco quello che eravamo per loro, un numero. Senza identità, senza volto...Non seguo le vicende politiche del suo Paese, in Italia sono stata due volte nella mia vita, ricordo Roma, la bellissima Venezia, Firenze...Ho amore e rispetto per l'Italia e non riesco a credere che sia possibile arrivare ad escludere dalla possibilità di trapianti persone che hanno avuto gravi problemi psicologici o di salute mentale...Ma allora assieme alla pietà è morto anche il buon senso?». Rispetto e solidarietà Pietà. Buon senso. Solidarietà. Rispetto. Sono parole che ritornano nel conversare dei sopravvissuti ai lager nazisti. Non vogliono, non possono dimenticare. Lo devono ai milioni che da quei campi di sterminio non fecero più ritorno: «Cosa significa escludere persone che hanno avuto “gravi problemi psicologici” o di salute mentale?» – dice Joshua Levinson, che una foto passata alla storia lo inquadra vicino ad un altro giovane ridotto a un mucchio di ossa: quel giovane è Elie Wiesel, futuro Premio Nobel per la Pace –«Il solo sentire queste affermazioni mi sconvolge, mi fa inorridire...E' come se risentissi le parole dei capi nazisti che una volta giunti nei lager, individuavano quelli da loro ritenuti insani di mente, o affetti da turbative...Li schernivano e poi li facevano uscire dalla fila.. Erano i primi a finire nelle camere a gas o a diventare cavie viventi per i criminali in camice bianco...». «A quelli che si fanno venire certe idee – aggiunge Ehud Goldstein, sopravvissuto a Bergen-Belsen – farei imparare a memoria il libro di un grande italiano: Primo Levi - “Se questo è un uomo” ha fatto onore all'Italia...Non certe leggi. Che meritano solo un aggettivo: vergognose». 08 giugno 2010 http://www.unita.it/news/italia/99715/i_sopravvissuti_ai_lager_brutta_china_italia Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Massacro in Libia Inserito da: Admin - Luglio 03, 2010, 04:09:57 pm Massacro in Libia
L'appello de l'Unità per gli eritrei prigionieri di Umberto De Giovannangeli Il dramma dei 245 rifugiati eritrei e somali trasferiti forzatamente dal centro di detenzione di Misurata al centro Sebha, nel sud della Libia, il 30 giugno si sta ulteriormente aggravando. Cresce l'indignazione dopo la denuncia dell'Unità. Secondo testimonianze dirette raccolte oggi dal Consiglio Italiano Rifugiati, i 245 sono stati sottoposti a forti maltrattamenti e sono tenuti in estrema scarsità di acqua e di cibo. Alle persone che presentano ferite e gravi condizioni di salute non sono fornite cure mediche. Molti rifugiati, riferisce il Cir, sono feriti ed estremamente debilitati dopo un viaggio nel deserto chiusi in container di metallo per oltre 12 ore: dall'alba al tramonto del 30 giugno. Il centro di Sebha Si trova nel mezzo del deserto del Sahara dove attualmente la temperatura supera i 50 gradi. Sembra che questo trattamento sia stato decretato come «punizione» per una rivolta e un tentativo di fuga che si è verificato nel centro di Misurata la sera del 29 giugno. Il Cir sottolinea che tra le persone ci sono numerosi rifugiati eritrei respinti nel 2009 dalle forze italiane dal Canale di Sicilia in Libia. Anche in riferimento al trattato di amicizia italo-libico, già la sera del 30 giugno il Cir aveva chiesto l'intervento del premier Berlusconi e del ministro degli Esteri Frattini. Il Cir ha inviato oggi una lettera al Presidente della Repubblica Napolitano, appellandosi alla sua sensibilità per i diritti umani; contemporaneamente, ha scritto una lettera al ministro dell'Interno Maroni, chiedendo che l'Italia si faccia carico di queste persone, offrendo al governo libico l'immediato trasferimento e reinsediamento nel nostro paese. Il Pd: Frattini continua a tacere «Per salvare la vita ai circa trecento eritrei che si trovano ora rinchiusi nel centro di detenzione di sebha in libia, il governo italiano deve muoversi immediatamente usando tutti i mezzi diplomatici e tutte le pressioni politiche del caso».Llo chiede Jean Leonard Touadi, parlamentare del Partito Democratico. Toaudi sottolinea che «a tutt'oggi frattini continua a tacere, il suo silenzio è imbarazzante e se dovesse proseguire getterebbe un'ombra pesante sulla credibilità internazionale dell'Italia. Siamo di fronte a una palese violazione del diritto internazionale - conclude il deputato Pd - il governo italiano deve intervenire su Tripoli. Alla luce di questo ennesimo episodio di negazione dei diritti umani ci dobbiamo interrogare sull'opportunità degli accordi sui respingimenti con il governo libico». Indignato anche l'Idv «La vicenda dei 300 cittadini eritrei fa emergere sempre di più il grave errore commesso dal governo italiano che ha scelto di delegare la Libia nelle politiche d'immigrazione», sottolinea il portavoce dell'Italia dei Valori, Leoluca Orlando. Il Pd e il partito di Antonio Di Pietro annunciano una interrogazione parlamentare sul caso. 02 luglio 2010 http://www.unita.it/news/italia/100693/massacro_in_libia_lappello_de_lunit_per_gli_eritrei_prigionieri Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Il pugno duro di Gheddafi sulla rivolta dei senza... Inserito da: Admin - Luglio 04, 2010, 06:32:21 pm Il pugno duro di Gheddafi sulla rivolta dei senza diritti
di Umberto De Giovannangeli La rivolta dei senza diritti si consuma nel silenzio. Il silenzio complice della Comunità internazionale. Il silenzio di un Governo, quello italiano, che ha aperto un credito illimitato al Colonnello di Tripoli.Il silenzio che copre la vergogna dei « desaparecidos» voluti dall’Italia. Un silenzio rotto dalla coraggiosa e documentata denuncia di Fortress Europe e del suo giovane e instancabile animatore, Gabriele Del Grande. Nessuna notizia Ciò che aspetta i respinti è cosa nota (tranne ai governanti italiani...): rinchiusi in carcere in Libia. Ma adesso - rimarca Del Grande - il problema è capire che fine faranno. All'alba del 30 giugno Fortress Europe ha perso le loro tracce. Due container sono partiti carichi di 300 persone - uomini, donne, bambini - lasciandosi alle spalle i cancelli del campo di detenzione di Misratah. Un reparto dell'esercito ha fatto irruzione nelle celle in piena notte. Le ultime telefonate d'allarme sono giunte alle cinque del mattino. Poi il silenzio: tutti i telefonini sono stati sequestrati. I detenuti portati via sono tutti eritrei, uomini e donne, compresi una cinquantina di minorenni e diversi bambini. Tutti arrestati sulla rotta per Lampedusa, chi respinto in mare nell'ultimo anno e chi fermato nelle retate della polizia libica a Tripoli. «La diaspora eritrea, da Roma e da Tripoli, ci ha chiesto - afferma Del Grande - di dare la massima diffusione alla notizia, perché il rischio di un'espulsione di massa a questo punto è molto alto». Che a Misratah tirasse una brutta aria lo si era capito da un pezzo. Da quando, tre settimane fa, il governo libico aveva espulso l'Alto Commissariato dei Rifugiati delle Nazioni Unite, che proprio a Misratah aveva regolare accesso da ormai tre anni. Ma i guai sono arrivati nella giornata dell’altro ieri. I militari libici - è sempre Del Grande a denunciarlo - hanno consegnato ai detenuti i moduli dell'ambasciata eritrea per l'identificazione. Tutti si sono rifiutati categoricamente di fornire la propria identità all'ambasciata, temendo che fosse il primo passo per un'espulsione collettiva. Al loro rifiuto la tensione è salita, fino a sfociare in una rivolta, con un durissimo scontro con le forze di sicurezza. Qualcuno ha tentato di scavalcare il muro di cinta e fuggire, ma l'evasione è stata presto sventata e la protesta duramente repressa a colpi di manganellate. Appello accorato Secondo Mussie Zerai, responsabile dell’agenzia Habesha(Ong che si occupa dell’accoglienza dei migranti africani) che da Roma ha potuto raggiungere telefonicamente alcuni detenuti di Misratah, ci sarebbero una trentina di feriti gravi, che sarebbero stati portati via nei container insieme a tutti gli altri. Habesha riferisce anche di tentati suicidi per evitare la compilazione dei moduli di identificazione: «La situazione è drammatica», conferma a l’Unità Zerai. La comunità degli eritrei di Tripoli ha lanciato ieri pomeriggio un allarme per lo stato in cui versano i loro connazionali trasferiti ieri dal Centro di Detenzione di Misurata al carcere di Brak, nella valle dello Shaty, nel Sud della Libia, a circa 75 chilometri da Seba. Dopo una intera di giornata di viaggio all'interno di tre camion-container,gli eritrei sono arrivati al centro di Brak nella serata di ieri. «Li stanno picchiando - riferisce un eritreo in contatto con alcuni di loro - temono di non sopravvivere». Secondo alcune testimonianze sempre di fonte eritrea, fra loro ci sarebbero anche diversi feriti, che però non avrebbero ancora ricevuto alcuna cura. Intanto le Ong di Tripoli che si occupano di rifugiati, Cir e Iopcr, riferisce una fonte vicina alle associazioni, riceveranno nella giornata di domenica una visita da parte del direttore del Centro di Brak e nei prossimi giorni hanno programmato una visita a Misurata, dove sono rimaste 80 donne eritree e alcuni bambini e poi, almeno questo è nelle loro speranze, una visita a Brak per constatare le condizioni degli eritrei. La diaspora eritrea da anni passa attraverso Lampedusa per chiedere asilo politico in Europa. La situazione ad Asmara si fa di giorno in giorno sempre più grave. Violenze quotidiane Non è da oggi che Fortress Europe documento le violenze che segnano la quotidianità di migliaia di disperati nei «campi di accoglienza» libici. Grazie a Fortress Europe sappiamo, ad esempio, del massacro di Benghazi. Attraverso foto scattate con un cellulare, e sfuggite alla censura, Del Grande ha svelato come la polizia libica ha ucciso sei rifugiati somali a Ganfuda. E sempre grazie a Fortress Europe si è saputo che erano eritrei i passeggeri dell’imbarcazione respinta al largo di Lampedusa il primo luglio di un anno fa. Rifugiati eritrei. Respinti nell’inferno libico dall’Italia di Berlusconi e Maroni. 02 luglio 2010 http://www.unita.it/index.php?section=news&idNotizia=100666 Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Quegli oscuri intrecci di interesse tra Silvio e... Inserito da: Admin - Agosto 13, 2010, 04:16:20 pm Quegli oscuri intrecci di interesse tra Silvio e i suoi potenti amici
di Umberto De Giovannangeli Domanda: un cognato, sia pur ingombrante, vale un Colonnello e uno «Zar»? Nella stagione dei dossier avvelenati, del killeraggio mediatico, tutto sembra eguale nel ventilatore dei colpi bassi. Così non è. C'è qualcosa di enorme nella resa dei conti tra gli ascari del Cavaliere e la fanteria finiana. E riguarda la politica estera. O per meglio dire la «diplomazia degli affari» del presidente del Consiglio e osannata dal suo pasdaran alla Farnesina. I deputati più vicini al presidente della Camera lo ripetono da giorni: tra le questioni da chiarire con urgenza, e trasparenza, c’è la «natura reale» dei rapporti di questi anni di Silvio Berlusconi con Muammar Gheddafi e Vladimir Putin. Un salto di qualità nella polemica. Che non può passare sotto silenzio. Le implicazioni sono gravissime e riguardano i condizionamenti e la ricattabilità di un primo ministro in campo internazionale e nei rapporti bilaterali con leader discussi quale il rais libico e l'uomo forte della Federazione Russa. Per il ministro degli Esteri, Franco Frattini, gli attacchi a Berlusconi su Gheddafi e Putin sono «un gesto di disperazione politica». E «stanno disonorando l’Italia». Ma le cose sono più complesse. E inquietanti. Perché da tempo, l'Unità ne ha dato conto, la «diplomazia degli affari» varata dal Cavaliere è sotto osservazione degli alleati europei e Usa. Dalla «diplomazia del ga» con la Russia di Putin agli appalti miliardari con la Libia di Gheddafi: c’è poco di «disperato» e di «sciocco» negli interrogativi sui punti oscuri di queste «relazioni pericolose». Molto si è parlato, l’Unità lo ha fatto prima degli altri,, del «Patto del gas» tra i due «amici» Berlusconi e Putin, via Eni e Gazprom, mal digerito alla Casa Bianca. La «diplomazia degli affari» sull'asse Roma-Mosca trascina voci e indiscrezioni, che chiamano in causa, pesantemente, aziende di intermediazione gestite da vecchie amicizie del Cavaliere, fino a evocare «dossier» esplosivi in mano all'ex capo del Kgb pronti a passare nelle mani dell'amico Silvio. La musica non cambia se da Mosca ci spostiamo a Tripoli.Con il leader libico, Berlusconi ha sottoscritto un Accordo di cooperazione bilaterale molto segnato da risarcimenti e intese economiche e finanziarie, e poco e niente sul rispetto dei diritti umani. Affari che investono gas, petrolio, infrastrutture, sistemi d'arma, ferrovie, banche... Qual è la «natura reale» dei rapporti tra il Cavaliere e il Colonnello? Ed è un caso che ad accompagnare sotto la tenda di Bengasi il Cavaliere nei giorni cruciali della «limatura» dell'Accordo Italia-Libia non è stato il ministro Frattini ma il finanziere franco-tunisino, oltre che produttore cinematografico, Tarak Ben Ammar? Ben Ammar, 61 anni, ricorda Il Foglio , è «l'uomo che ha in mano i rapporti economici con i libici», oltre ad essere consigliere di Mediobanca e di Telecom. Amico di vecchia data di Berlusconi, è stato membro del Cda di Mediaset. Scriveva lo spagnolo El Pais : «L’oscuro trattato bilaterale di amicizia firmato a Bengasi (Libia) nell’agosto del 2008 da Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi è stato fino ad ora controverso a causa del chiaro baratto di gas e petrolio con gli immigrati clandestini, che l’Italia ora restituisce alla Libia non rispettando il diritto diasilo. Una piccola notizia secondaria, apparsa a giugno scorso, era passata quasi inosservata. È l’acquisto, da parte della compagnia libica Lafitrade, del 10% di Quinta Communications. La Lafitrade, con sede olandese e controllo libico, porta alla famiglia Ghedddafi attraverso la Lafico. Quinta Communications è un’azienda produttrice e distributrice fondata nel 1990 dal finanziere franco-tunisino Tarak Ben Ammar, socio e amico intimo di Berlusconi. La principale società finanziaria del Cavaliere, Fininvest, possedeva alla fine del 2008 il 29,67% delle azioni di Quinta attraverso la lussemburghese Trefinance. Dopo l’aumento del capitale, Berlusconi mantiene circa il 22%....». La notizia dell’accordo privato tra Berlusconi e Gheddafi è ripresa da The Guardian , che sottolinea lo «sconcertante conflitto di interessi» e «un interesse comune in affari altamente discutibile». Domanda al combattivo Carmelo Briguglio, deputato «finiano» e membro del Copasir: qual è la «natura reale» dei rapporti tra il Cavaliere e il Colonnello? 13 agosto 2010 http://www.unita.it/news/italia/102335/quegli_oscuri_intrecci_di_interesse_tra_silvio_e_i_suoi_potenti_amici Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Berlusconi e la ricerca dell'energia Inserito da: Admin - Agosto 24, 2010, 10:17:37 pm Berlusconi e la ricerca dell'energia Boccone da 10 miliardi con Putin
di U. De Giovannangeli Dal Colonnello allo «Zar». Dalle Tv all’«oro nero». Un affare da oltre 10 miliardi di dollari. Per costruire 900 km di tubazioni che dopo la profondità del Mar Nero attraverseranno solo Paesi dell’Unione europea, rafforzando il cordone ombelicale energetico con la Russia. Nasce sotto il segno del gas l’amicizia tra il Cavaliere e il nuovo «Zar» di Russia: Vladimir Putin. Le cronache rosa raccontano della prima volta di un estasiato Putin a Villa Certosa. Le cronache dell’epoca si soffermano sulle esibizioni canterine dell’immancabile Apicella, su bandane esibite dal premier e su spaghettate notturne. Ma quella esplosa tra Silvio e Vladimir non è un’amicizia disinteressata. Gli affari c’entrano, eccome se c’entrano. Perché ai ripari di occhi indiscreti, nella villa berlusconiana si gettano le basi per la maxifornitura che l’Eni avrebbe dovuto trattare con Gazprom. L’affare riguardava il prolungamento dal 2017 al 2027 dei contratti per 3 miliardi di metri cubi di metano che sarebbero dovuti arrivare in Italia attraverso una società «terza». E qui entra un amico di vecchia data del Cavaliere. Amico e socio. Pure lui. Si tratta del commendator Bruno Mentasti Granelli, erede della dinastia San Pellegrino (l'acqua minerale, poi ceduta a Nestlè), amico di famiglia di Berlusconi già socio del Cavaliere in Tele +. Dopo aver venduto la società dell’acqua con le bollicine Mentasti si è buttato nel business dell’energia con la società Central Energy Italia e nel 2003 è diventato l'uomo di fiducia sia di Berlusconi che dei russi di Gazprom. Qui una storia di affari assume i tratti di una spy story. In ballo c’è sempre Berlusconi e con lui l’amico Putin. Nell’ombra agisce un personaggio-chiave: il colonnello Alexander Medvedev (gradi dell'Fsb, l’ex Kgb) che tratta quale direttore generale di Gazexport, che redige i contratti esteri di Gazprom. Il colonnello Medvedev è un uomo di fiducia dell’allora inquilino del Cremlino, Un’amicizia cementata negli anni in cui “Zar Vladimir” era a capo del Kgb. È con Medvedev che s’incontra a Vienna l’allora presidente dell’Eni, Vittorio Mincato. Siamo alla fine dell’ottobre 2003. Il colonnello Medvedev consegna a Mincato un foglietto su cui è vergato il nome del commendator Mentasti. Il contratto Eni e Gazprom non viene siglato – Mincato non trova motivazioni plausibili nel coinvolgimento di una società privata, la Central Energy Italia - ma resta alle cronache il ruolo di grande intermediario della società gestita da Mentasti e “controllata da soggetti russi, alcuni dei quali riconducibili a Gazprom”, come scrive, in un articolo illuminante, Giuseppe Oddo sul Sole 24 Ore del 4 novembre 2005. Sono gli anni in cui le cronache danno conto di numerosi viaggi in Russia del il fratello del presidente del Consiglio, Paolo Berlusconi, del fondatore di Publitalia, Marcello Dell’Utri e dell’ex amministratore di Fininvest Ubaldo Livolsi alla ricerca del «Santo Gral» energetico. Senza grandi risultati. La ragione, secondo indiscrezioni attribuite a fonti bene informate, è nel rifiuto dell’ex amministratore delegato dell’Eni, Vittorio Mincato, che non ha mai dato il permesso a nessuno di far transitare altro gas dall’«imbuto» di Tarvisio, la connessione via Austria del gasdotto per la Siberia. Un particolare non del tutto secondario nel siluramento di Mincato dal vertice dell’Eni. Oggi come ieri siamo alle prese con transazioni miliardarie (in dollari), che «di mercato» non hanno mai avuto quasi niente, piuttosto politica, potere e intelligence. A ricucire i rapporti, e a firmare gli accordi, sarà qualche anno dopo una figura-chiave nella partita energetica (e politica) giocata dal Cavaliere. In Russia come in Libia: l’Ad dell’Eni. Paolo Scaroni. D’altronde Eni sembra sempre pronta a dare una mano al gigante russo, come il caso della vendita delle ex azioni Neft dimostra, quando Eni permise a Gazprom di mettere le mani sugli ex asset della Yukos, rivale di Gazprom e liquidata con il controverso arresto dell’ex proprietario (e nemico di Putin) Khodorkovskij. Ieri come oggi è la storia del Cavaliere venditore. E dei suoi amici interessati. La triangolazione del gas coinvolge anche la Libia. Gli accordi con Tripoli, infatti, rappresentano un ulteriore rafforzamento del duo Eni-Gazprom. Il gigante russo viene coinvolto anche in Elephant oil field, il giacimento libico di proprietà dell’Eni, e, in futuro, in Transmed e Greenstream, che porteranno petrolio dall’Africa all’Europa. Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter, e ascoltato consigliere di Barack Obama, così rispondeva alla domanda rivoltagli dal corrispondente negli Usa de La Stampa, Maurizio Molinari, su cosa ne pensasse del legame tra Putin e Berlusconi: ««È simile a quello che Putin ha con l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder». Schroeder lavora per la Gazprom, osserva l’intervistatore: «Intende dire che Berlusconi fa affari con Putin?» «La risposta che ho appena dato si spiega da sola», risponde Brzezinski. Ma non è di soli affari – per quanto miliardari – che si nutre l’amicizia tra il premier italiano e il vero padre-padrone della «nuova Russia». Ciò che unisce Berlusconi e Putin è una visione del potere, una concezione «deregolamentata» della democrazia, e una diffidenza, che spesso si trasforma in aperta ostilità, verso la stampa libera e una opposizione che osi parlare, e rivendicare, il pieno rispetto di spazi e regole di democrazia. Più della Bielorussia, più della Libia. Il super Paese-pacchia per il Cavaliere è la Russia dei nuovi oligarchi e dei loro protettori politici. La Russia di Vladimir Putin. Non c’è un atto compiuto dall’amico Vladimir che il Cavaliere non abbia difeso, se non dichiaratamente avallato. Ecco allora che i massacri compiuti dalle truppe russe in Cecenia vengano liquidati da berlusconi come una «leggenda» inventata da giornali ostili. Scriveva su La Stampa Barbara Spinelli: «Proprio lui, che si vanta d’aver costruito una visione del mondo sulla lotta al comunismo e che sempre ricorda i disastri prodotti dal totalitarismo comunista, abbraccia oggi un regime che di quel disastro è figlio e continuatore, e sul quale regna sempre più fortemente l’ex Kgb da cui Putin proviene….». Era il 2002. Sono passati otto anni d’allora. Otto anni in cui l’amicizia tra il Cavaliere e lo «Zar» non ha subito smagliature. «Berlusconi non solo mostra di non conoscere la Russia… Non conosce nemmeno da dove veniamo noi: da quale idea della democrazia, della correttezza istituzionale, della libertà di stampa. Finge di ignorare e mostra di sprezzare tutti coloro che, in nome di questa libertà, si oppongono oggi a Putin: giornalisti indipendenti come Anna Politkovskaja, che sulla Cecenia raccontano non già leggende ma fatti, ed ex dissidenti come Vladimir Bukowski, Sergej Kowaliov, o la vedova di Sacharov Elena Bonner….». Così rifletteva nello stesso articolo Barbara Spinelli. Anna Politkovskaja ha pagato con la vita il suo essere giornalista indipendente, scomoda al regime. E come lei sono stati eliminati altri giornalisti scomodi, attivisti dei diritti civili. Sulla Cecenia, Berlusconi non ha mai avuto dubbi: «In Cecenia c'è stata un'attività terroristica con molti attentati anche contro i cittadini russi senza che ci fosse mai una risposta corrispondente». L’amicizia fa chiudere gli occhi. Fa fare sconti incredibili. I dimostranti vengono presi a manganellate a poche centinaia di metri dallo stesso palazzo Kostantinovsky dove poche ore prima Berlusconi era stato ricevuto da Putin (15 aprile 2007)? Centinaia di oppositori vengono arrestati? La colpa, spiega il Cavaliere col colbacco, è della stampa che ha «gonfiato» la repressione delle manifestazioni a San Pietroburgo e Mosca. La verità, giura, è che al Russia è un Paese che crede nella democrazia: «Ma non in una democrazia di secondo piano». Nella «verità» capovolta del Cavaliere, i colpevoli sono i dimostranti: «Lo so - spiega - perché ero con Putin mentre parlava con il ministero dell'Interno: l'opposizione aveva organizzato manifestazioni in strade non concesse dal comune per questioni di traffico». Ecco tutto. Nulla di grave, in fondo. La polizia ha soltanto fatto il suo dovere. Per facilitare il traffico….». L’amicizia tutto giustifica. Cosa rappresenti il Cavaliere per il nuovo-vecchio potere moscovita, lo chiarisce benissimo il quotidiano Izvestia (di proprietà di Gazprom Media): Silvio è «l’avvocato difensore della Russia ...». Un avvocato con cui si possono stringere patti politici. E di affari. Il Gas. E non solo. 24 agosto 2010 http://www.unita.it/news/italia/102718/berlusconi_e_la_ricerca_dellenergia_boccone_da_miliardi_con_putin Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Le vacanze romane di Gheddafi Fra proteste e ... Inserito da: Admin - Agosto 29, 2010, 08:59:03 pm Le vacanze romane di Gheddafi Fra proteste e caroselli a cavallo
di U. De Giovannangeli Stavolta il contrordine non è arrivato. Il Colonnello, i purosangue, le tende beduine, le amazzoni con i baschi rossi e in alta uniforme, sono a Roma. Nessun rinvio, stavolta. Nessuna imbarazzata correzione dell’ultim’ora da parte della Farnesina. I fotoreporter, i cineoperatori, possono prendere d’assalto il super blindato aeroporto di Ciampino. L’appuntamento è a mezzogiorno. Gheddafi c’è. A ricevere il Raìs non sarà l’«amico Silvio» ma il ministro degli Esteri Franco Frattini. Resta il mistero su come il Colonnello trascorrerà la domenica romana. I primi appuntamenti ufficiali per i festeggiamenti del Trattato di Amicizia sono fissati per lunedì, a due anni esatti dalla firma dell’accordo di Bengasi del 30 agosto 2008. Ma anche stavolta non si escludono possibili «blitz» nelle strade della Capitale o più generici «incontri con la gente». DOMENICA LIBERA «Il leader ama fare queste cose...», raccontavano nel pomeriggio di ieri fonti libiche. E tornano alla mente le «serate di gala» dello scorso novembre, quando Gheddafi - a Roma per il vertice Fao - si fece reclutare centinaia di avvenenti ragazze da un’agenzia di hostess per impartire lezioni di Islam sotto la tenda. «Non sappiamo cosa vorranno fare questa volta i libici, decidono sempre all’ultimo minuto - raccontano dalla sede dell’agenzia che “servì” Gheddafi l’ultima volta -. Ci hanno contattato negli ultimi giorni per allertarci nel caso servisse, ma ci sembra di capire che se Gheddafi vorrà, inviterà solo alcune delle ragazze che ha già visto l’altra volta. Noi comunque - assicurano - siamo pronti per qualsiasi evenienza». Sorprese a parte, c’è già anche qualcosa di già definito. È confermato ad esempio che Gheddafi pianterà la sua inseparabile tenda beduina nella residenza dell’ambasciatore Abdulhafed Gaddur in un elegante quartiere a ridosso della Cassia (e non nel bel mezzo di Villa Pamphili, come nel giugno del 2009) e che domani pomeriggio inaugurerà assieme a Berlusconi una mostra fotografica sulla storia della Libia all’Accademia libica. SPETTACOLO ASSICURATO Il clou della serata sarà uno spettacolo equestre davanti a Berlusconi, Gheddafi e agli oltre 800 invitati che culminerà con le figure disegnate dal Carosello dei Carabinieri. Sarà sempre nella caserma «Salvo D’Acquisto» di Tor di Quinto, che il premier offrirà al suo ospite l’Iftar, la cena di interruzione del digiuno previsto nel mese di Ramadan. Fino a questo momento è l’ultimo appuntamento segnato in agenda, con Gheddafi che dovrebbe - ma il condizionale diventa d’obbligo - ripartire martedì. Nel frattempo, cresce la protesta. «Ancora non abbiamo visto un euro», denuncia l’Airl, l’associazione degli italiani rimpatriati dalla Libia. Dell’Airl, Giovanna Ortu, nata nel 1939 nel Paese africano da padre sardo e madre siciliana e cacciata assieme ad altre 20.000 persone nel luglio 1970, subito dopo la presa del potere da parte del colonnello Gheddafi nel settembre 1969, è la presidente. VOCI DI PROTESTA «Più che di risarcimento - spiega Ortu in un colloquio con l’Adnkronos - , si tratterebbe di un modesto indennizzo, rispetto ai 400 miliardi di lire al valore del 1970 che rivalutati sarebbero pari a circa 3 miliardi di euro di oggi; una somma praticamente pari ai 5 miliardi dollari destinati dal nostro governo alla Libia per i cosiddetti danni del colonialismo e pagati attraverso la costruzione di un’autostrada e altre opere urbanistiche, per i cui lavori sono comunque interessate aziende italiane: una sorta di “partita di giro” insomma. Ma la realtà è che anche di questo modesto indennizzo nelle nostre tasche non è arrivato finora nulla». A Berlusconi si rivolge anche l’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi chiedendogli «di rinegoziare in tempi rapidissimi gli accordi Italia-Libia in maniera tale che includano strumenti di garanzia del rispetto dei diritti umani, con il coinvolgimento delle istituzioni dell’Europa e dell’Onu». «Chiediamo inoltre - dice il responsabile generale, Giovanni Paolo Ramonda - la cessazione di ogni respingimento verso la Libia o verso ogni altro Paese che non garantisca il pieno rispetto dei diritti umani; la garanzia a tutti gli immigrati che cercano di raggiungere l’Italia di poter accedere alle procedure per la richiesta di asilo; il rispetto delle leggi del diritto del mare; la promozione di una politica seria per l’innalzamento dei finanziamenti ai progetti di sviluppo, unici in grado di combattere la povertà e quindi di agire sulla causa». L’associazione ricorda alle istituzioni italiane «che dal 7 maggio 2009, in aperto spregio delle norme internazionali sui diritti umani, il nostro Paese ha consegnato alle autorità libiche centinaia di donne, uomini e bambini, migranti e richiedenti asilo, che tentavano di raggiungere l’Europa imbarcandosi attraverso il Mediterraneo su mezzi di fortuna, rischiando la vita per sfuggire a persecuzioni, torture, guerre e condizioni di povertà estrema». 29 agosto 2010 http://www.unita.it/news/italia/102880/le_vacanze_romane_di_gheddafi_fra_proteste_e_caroselli_a_cavallo Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - In ginocchio dal dittatore Inserito da: Admin - Settembre 01, 2010, 03:05:38 pm In ginocchio dal dittatore
L'avanspettacolo della diplomazia di Umberto De Giovannangeli Ci mancava solo questa: la diplomazia dell'avanspettacolo. Con protagonisti miliardari senza limiti di decenza. La diplomazia dei sermoni tenuti da un improbabile convertitore. La diplomazia degli ammiccamenti, del cappello in mano. Di un'amicizia personale ostentata, esibita con orgoglio. La diplomazia dell'indecenza. Roma ne è stata per due giorni la capitale. Protagonista assoluto: Muammar Gheddafi. Spalla compiaciuta: Silvio Berlusconi. Il Colonnello h fatto il bis. E ha voluto iniziare la sua seconda giornata capitolina riscoprendosi di nuovo imam. La platea è la stessa dell'altro ieri. Cambia solo il numero: stavolta ad ascoltare il leader libico ci sono 200 ragazze, trecento in meno del primo giorno. «In Libia la donna è più rispettata che in Occidente e negli Stati Uniti», evidenzia il raìs nel corso della seconda lezione di Corano. Accompagnando questa asserzione con l'invito alle sbigottite ragazze di sposare uomini libici. LEZIONE BIS A raccontarlo è una delle hostess, Elena Racoviciano, uscendo dall'Accademia libica dove si è tenuto l'incontro. Il raìs, spiega Elena, ha sottolineato che in Occidente «la donna fa dei lavori non consoni al proprio fisico». E ha posto come esempio il mestiere del macchinista dei treni: «Una donna può farlo ma è un lavoro troppo pesante, in Libia non sarebbe mai possibile». Elena ha poi aggiunto che prima di questo incontro le 200 hostess avevano un'idea sbagliata del ruolo della donna in Libia, dove - secondo quanto è emerso dall'incontro «è libera e rispettata». E il leader è stato molto attento alle "condizioni" delle ragazze che lo attendevano. «Gheddafi non voleva vederci in stato di disagio mentre lo aspettavamo. Anche per questo eravamo trecento in meno» rispetto al giorno precedente, precisa Elena. La seconda lezione si conclude come la prima: l'Islam «è l'ultima religione: se bisogna credere in una sola fede, deve essere quella di Maometto», sentenzia il Colonnello-Imam. In linea con il carattere mistico delle lezioni, niente pranzo, solo qualche drink per le 200 ragazze, e in regalo ad ognuna una copia del Corano e del Libro verde. La diplomazia dell'avanspettacolo si alimenta di incredibili particolari: la "conversione" all'Islam di tre ragazze suggellata l'altro ieri dal leader libico durante la prima lezione di Corano si è consumata tra le foto dello stesso Colonnello foto dello stesso colonnello da un lato e dall'altro del premier Silvio Berlusconi, affisse ai lati di un tavolo dove erano disposte varie copie del Corano. A raccontarlo a Sky Tg24 è Erika, le tre ragazze, riferisce, «erano felici e contente: Hanno acconsentito a cambiare nome e chissà cos'altro...». SOTTO LA TENDA Nella diplomazia dell'avanspettacolo, il Cavaliere fa il suo ingresso trionfale poco dopo le 17. L’incontro con il Colonnello avviene sotto la tenda beduina allestita nel giardino della residenza dell'ambasciatore libico e Roma. Nella tenda s'imbuca anche il titolare della Farnesina, Franco Frattini Il folklore s'intreccia con gli affari. Il “convertitore” si mostra munifico. E tra gli affari definiti sotto la tenda c'è la fornitura di un sistema satellitare di controllo delle frontiere terrestri libiche che sarà realizzato da Selex sistem di Finmeccanica. Tra Italia e Libia è un giro di affari, realizzato e potenziale, sull'ordine dei 25-30 miliardi di euro.«Il colloquio è andato bene, molto bene, si è parlato soprattutto di economia internazionale e di come uscire dalla crisi, ma anche di politica internazionale, soprattutto di Africa e Medio Oriente», afferma Frattini uscendo sorridente dalla tenda. L'incontro tra i due amici, Muammar e Silvio, dura una trentina di minuti. Insieme, a bordo di una mini-car elettrica, Berlusconi e Gheddafi lasciano poi la tenda, per raggiungere l'Accademia libica contigua alla residenza dell'ambasciatore di Tripoli a Roma. Con loro a bordo c'è anche il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta. Per Gheddafi, abito tradizionale color biscotto su pantaloni bianchi e vistosi occhiali da sole che non si è mai tolto, neanche all'interno dell'Accademia durante la visita alla mostra fotografica. Il Cavaliere va via muto. Affari e hostess. Applauditissime esibizioni circensi, indimenticabili caroselli di purosangue, e l'attesa cena finale - alla Caserma dei carabinieri Salvo D'Acquisto di Tor di Quinto - per 800 selezionatissimi invitati, tra i quali spiccano i big dell'economia, della finanza, del sistema bancario italiani: da Eni a Fiat, da Unicredit a Finmeccanica, da Impregilo a Fonsai... Nessuno è voluto mancare, sperando in nuove commesse. Tutti si affollano attorno al raìs. Gli omaggi al Colonnello si susseguono sotto lo sguardo compiaciuto del presidente del Consiglio, che loda lo statista di Tripoli: Muammar è «un vero amico dell'Italia». Di diritti umani violati neanche un accenno. La diplomazia dell'avanspettacolo, e degli affari, non lo contempla. 31 agosto 2010 http://www.unita.it/news/italia/102943/in_ginocchio_dal_dittatore_lavanspettacolo_della_diplomazia Titolo: Frattini, piazzista di Tripoli: porta in Europa il ricatto libico Inserito da: Admin - Settembre 01, 2010, 10:49:50 pm Frattini, piazzista di Tripoli: porta in Europa il ricatto libico
di Umberto De Giovannangeli Dalla diplomazia degli affari a quella del ricatto. Un Paese trasformato nell’«Ambasciata di Libia» in Europa. È l’Italia del Cavaliere. Non è folklore. È farsi carico del «ricatto» del Colonnello all’Ue. Muammar Gheddafi ha concluso ieri la sua visita-show a Roma affidando un incarico pressante all’«amico Silvio»: farsi parte attiva con l’Europa perché sia sancito il ruolo della Libia come Gendarme del Mediterraneo. Il raìs ha fissato anche il prezzo: 5 miliardi di euro all’anno. FRANCO IN CAMPO L'Italia - aveva affermato Gheddafi l’altra notte dal palco della caserma “Salvo D’Acquisto” - deve convincere i suoi alleati ad accettare la proposta libica». perché, secondo il Colonnello, c'è il rischio che l'Europa, davanti a milioni di immigrati che dall'Africa attraversano il Mediterraneo, «potrebbe diventare nera, così come», in passato, «popolazioni provenienti dall'Asia» si sono stanziate nel vecchio continente. La Libia, aveva aggiunto il Rais-Gendarme, «è l'ingresso dell'immigrazione non gradita» e, senza un contrasto efficace, «non possiamo sapere cosa accadrà. Contrastare l'immigrazione clandestina è un'opera grande per l'Europa e per tutta l'Africa. Bisogna fermarla sulle frontiere libiche», aveva concluso Gheddafi. Il mandato è chiaro: farsi piazzisti in Europa del «modello» Italia-Libia. Inteso nella versione osannata dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni: repressione e impedimenti. Gestiti dalla Libia. Pagati dall’Italia. E, Gheddafi docet, in un futuro che deve farsi presente, dall’Europa. Con l’eccezione della Francia del «Respingitore» Sarkozy, l’Europa ha assistito con imbarazzo e sconcerto alla «colonizzazione» libica del Belpaese. IRRITAZIONE E IMBARAZZO Si spiega così l’irata uscita di Frattini: Attorno alla visita di Gheddafi a Roma «c'è molta speculazione politica misera ai danni dell'Italia», tuona il ministro degli Esteri, a margine di un incontro alla University of Washington a Roma. «Abbiamo visto sulla stampa internazionale grande enfasi sugli affari, sull'aumento dei rapporti economici italo-libici, e questo - sottolinea il titolare della Farnesina - viene fatto legittimamente dai nostri competitor, cioè quelli che gli affari vorrebbero farli loro al posto dell'Italia». 01 settembre 2010 http://www.unita.it/news/italia/102984/frattini_piazzista_di_tripoli_porta_in_europa_il_ricatto_libico Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Sparare si può? «Pensavano fossero migranti». Inserito da: Admin - Settembre 16, 2010, 04:37:42 pm Sparare si può? «Pensavano fossero migranti».
E la Lega insorge di U. De Giovannangeli «Io immagino che abbiano scambiato il peschereccio per una nave di clandestini». Parola di Roberto Maroni, ministro dell’Interno della Repubblica italiana. Parole incredibili. Parole agghiaccianti. L’«immaginazione» del titolare del Viminale rimanda a scenari inquietanti. A non detti terrificanti: hanno scambiato il peschereccio (italiano) per una nave con clandestini. Domanda: signor ministro, ma su una nave di clandestini è lecito, giustificabile, sparare mitragliate ad altezza d’uomo? E farlo usando motovedette regalate dall’Italia al «Gendarme del Mediterraneo», al secolo Muammar Gheddafi? Domande che restano senza risposta. Per il Governo italiano gli spari contro il peschereccio «Ariete» sono da considerare un «incidente». SOLO UN INCIDENTE «Penso che si sia trattato di un incidente grave, ma pur sempre un incidente: studieremo le misure perché non accada più, quello che è successo l’altro ieri sera (domenica, ndr) è un fatto che non doveva accadere e la Libia si è scusata», ripete Maroni a Mattino5. Un incidente... Ben diversa è la valutazione della Procura di Agrigento. Danneggiamento di navi e tentativo di omicidio plurimo aggravato: sono i reati ipotizzati, contro ignoti, dalla Procura della Repubblica di Agrigento che coordina l’inchiesta sul motopesca «Ariete» mitragliato da una motovedetta libica sulla quale erano presenti anche alcuni militari italiani come osservatori. Titolari dell’inchiesta sono il procuratore capo Renato Di Natale, l’aggiunto Ignazio Fonzo e il sostituto Luca Sciarretta. IL CAPITANO CONTRATTACCA «Era evidente chi fossimo: dei pescatori italiani. Glielo avevo detto prima dell’attacco». Gaspare Marrone, il capitano dell’«Ariete», conferma la sua versione di fatti. E rifiuta l’ipotesi dell’«equivoco» avanzata da Maroni. «Non so perché il ministro dica queste cose - spiega - ma tutto si può affermare tranne che sia stato un incidente. Nè è possibile sostenere che ci abbiano scambiati per clandestini. Hanno sparato per colpirci e potevano ucciderci». Il comandante Marrone torna su quei momenti drammatici: «Ho parlato col comandante che mi ha chiesto di fermarmi . L’italiano mi ha detto che se non mi fossi fermato, mi avrebbero sparato addosso. Parlava italiano meglio di me», racconta Marrone, riferendo che l’uomo «si era presentato come guardia costiera o di finanza libica, non ricordo bene. C'era agitazione». «Potevano controllarmi, ma dopo 5 minuti invece hanno cominciato a sparare e io sono sceso giù. C’era il pilota automatico, sparavano ad altezza d'uomo». «Un peschereccio italiano che viene mitragliato da una motovedetta donata alla Libia dal governo italiano e che a bordo aveva militari italiani della Guardia di Finanza è certamente un caso anomalo», sottolinea Vincenzo Asaro, armatore del peschereccio mazarese. «Il mio rammarico - dice Asaro - è che si è sparato ugualmente nonostante la presenza sulla motovedetta libica dei militari italiani». L’armatore non nasconde stupore e amarezza per le dichiarazioni del ministro Maroni che ha definito un «incidente» la vicenda: «Se i colpi di mitragliatrice avessero perforato la bombola del gas e fossero saltati tutti in aria - si chiede - che sarebbe accaduto? Si sarebbe sempre parlato di incidente? Non posso entrare nel merito di quello che ha dichiarato il ministro perché non mi compete, ma sa perché i comandanti dei nostri pescherecci non si fermano all’alt dei libici? Una volta in Libia confiscano la barca e mettono in carcere l’equipaggio». A dar man forte al suo collega di governo, scende in campo Franco Frattini. Il comandante del peschereccio “Ariete” «sapeva di pescare illegalmente», sentenzia il titolare della Farnesina. «Le regole di ingaggio - puntualizza però il ministro degli Esteri - devono essere chiare. La regola di non sparare è assoluta ed evidente per le forze italiane». E per quelle libiche, signor ministro? 15 settembre 2010 http://www.unita.it/news/italia/103551/sparare_si_pu_pensavano_fossero_migranti_e_la_lega_insorge Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Libia e debito Ue, Berlusconi? Non esiste Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2011, 06:09:22 pm Libia e debito Ue, Berlusconi? Non esiste
di Umberto De Giovannangeli Neanche un sms. Emarginati anche nell’ultimo atto della guerra in Libia. Nonostante le basi concesse, nonostante le missioni aeree condotte. Erano passate poche ore dalla conferma della morte di Muammar Gheddafi, che la «diplomazia delle videoconferenze» riprende a funzionare. A prendere l’iniziativa è la Casa Bianca. Interlocutori di Barack Obama sono il presidente francese Nicolas Sarkozy e il primo ministro britannico David Cameron. L’Italia non c’è. Neanche un sms. Esclusione umiliante, Tanto più che non riguarda solo la Libia. Nella stessa giornata - l’altro ieri - poco della fine del Colonnello, Obama tiene un’altra videoconferenza. Stavolta il tema, non meno scottante, riguarda gli sviluppi della crisi del debito europea. A discuterne, stavolta, sono in quattro: i «tre della Libia» - Obama, Sarkozy e Cameron - e la cancelliera tedesca Angela Merkel (a comunicarlo è la Casa Bianca). Neanche in questa occasione, Silvio Berlusconi viene interpellato. Semplicemente, non esiste. Trattativa in notturna Il caos libico si estende a Bruxelles. La riunione degli ambasciatori del Consiglio Atlantico si protrae oltre il previsto. Alla fine, dopo ore ed ore, finalmente l’annuncio di Rasmussen: «La Nato metterà fine alla missione in Libia il 31 ottobre». In realtà, cominciata poco prima delle 17, al quartier generale della Nato a Bruxelles sembrava quasi impossibile trovare la quadra. Una conferenza stampa del segretario generale era stata annunciata per le 18, poi è stata rinviata. L’impressione, suffragata da diverse fonti anonime e dalle dichiarazioni ufficiali dei giorni scorsi, è che non ci sia ancora una linea condivisa sul futuro in Libia. È stato lo stesso ammiraglio James Stavridis, comandante supremo della Nato per l’Europa, a proporre la fine della missione con un post su Facebook. Linea condivisa dal presidente francese Nicolas Sarkozy, che da Parigi ha ribadito la posizione della Francia, contraria a un proseguimento delle operazioni militari alleate: «La missione sta chiaramente arrivando alla fine». Londra frena Il ministro degli Esteri britannico, William Hague, da Londra ha invece affermato che la morte di Gheddafi «avvicina molto» la fine delle operazioni aggiungendo però di pensare che «noi vorremo essere sicuri che non ci siano ancora sacche di forze filo-Gheddafi ancora in grado di minacciare la popolazione civile». Comunque vada, la chiusura delle operazioni militari, sarà con tutta probabilità graduale. L’Alleanza dovrà verificare se vi siano le condizioni di sicurezza per i civili e se le nuove autorità libiche siano in grado di mantenere il controllo e la pace nel Paese. Anche Rasmussenn, nel pomeriggio, aveva sostenuto che il momento di dichiarare concluse le operazione «è molto più vicino. Concluderemo la missione coordinandoci con l’Onu e il Cnt». E sulla stessa linea si è espresso anche il presidente americano Barack Obama. «Tutto lascia immaginare che l’operazione non durerà ancora per molto», hanno confermato fonti diplomatiche a Bruxelles. Certo, osservano le stesse fonti, la morte del Colonnello non era l’obiettivo della missione, avviata in base alle risoluzioni approvate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu per proteggere la popolazione civile. Ma in ogni caso «dovrebbe essere al massimo una questione di giorni. La decisione sullo stop alle azioni dovrà comunque essere presa dal Consiglio Atlantico». A Bruxelles si discute nella notte per trovare un punto d’incontro tra Londra e Parigi. L’operazione della Nato in Libia aveva preso il via il 31 marzo scorso. Fino a oggi gli aerei delle forze dell’Alleanza hanno compiuto oltre 26 mila missioni, di cui 9.618 considerate d’attacco, cioè contro obiettivi specifici. Il 21 settembre la durata della missione era stata prolungata di tre mesi. 22 ottobre 2011 da - http://www.unita.it/mondo/libia-e-debito-ue-berlusconi-non-esiste-1.344694 Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Berlusconi tra gli eredi del raìs? Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2011, 05:24:57 pm Berlusconi tra gli eredi del raìs?
In ballo oltre 200 miliardi di Umberto De Giovannangeli Oltre 200 miliardi di dollari. È il tesoro che Muammar Gheddafi è riuscito a nascondere all’estero. A rivelarlo è il Los Angeles Times online citando alti ufficiali dell’amministrazione libica. Quei 200miliardi di dollari arricchiscono la «torta libica». Una torta da centinaia di miliardi di dollari, legati allo sfruttamento delle risorse petrolifere ma anche alla ricostruzione del Paese. L’eredità del raìs fa gola a molti. Anche in Italia. Tra questi, ci sarebbe il Cavaliere. «Più vicina ora l’eredità del socio Berlusconi, dopo la morte di Gheddafi, che insieme all’altro socio Tarak Ben Hammar hanno la partecipazione della Quinta Communications acquistata due anni fa dalla famiglia del raìs», rimarca in proposito il senatore dell’Italia dei Valori e capogruppo del partito in commissione Esteri Stefano Pedica. Nel 2009 Gheddafi era entrato col suo capitale nella società messa in piedi vent’anni fa da Berlusconi e Ben Hammar per la produzione e distribuzione di film. Due anni fa il coup de théâtre: Gheddafi viene inglobato nella società, da allora non risulta sia cambiato nulla - continua Pedica - anzi l’ultima precisazione è del marzo scorso, quando lo stesso BenHamnmardichiarò: «Il fondo sovrano libico Lybian Investment Authority, attraverso la società Lafi Trade, è presente con il 10% in Quinta Communications S.A, società di diritto francese controllata al 68% dal finanziere franco tunisino Tarak Ben Ammar, dove è presente anche la Fininvest, con una quota del 22% detenuta attraverso la controllata lussemburghese Trefinance». «Abbiamo le carte- insiste Pedica - e spiegheremo perché siamo convinti di essere di fronte ad un palese conflitto di interessi del presidente del Consiglio». Da (ex) amico a erede. Affari e fondi sovrani. Petrolio e ricostruzione. Armi e infrastrutture. 140 miliardi di dollari: è l’ammontare dei contratti sottoscritti complessivamente con il regime di Gheddafi dalle 130 aziende italiane impegnate in Libia. In ordine sparso, solo per citarne alcune: Eni, Enel, Finmeccanica, Ansaldo, Iveco spa, Augusta-Westland, Alenia Aermacchi, Oto Melara, Intermarine spa, Selex Sistemi Integrati, Mbda Italia. E ancora: Telecome Alitalia, Edison e Grimaldi, Alenia Aermacchi e Martini silos, Gruppo Trevi e Impregilo, Italcementi e Astaldi, queste ultime impegnate nell’opera di infrastrutturazione della Libia, a partire dai 1.700 km della nuova superstrada Rass Ajdir-Imsaad, la cui realizzazione è stata affidata, dagli uomini del Colonnello, a imprese italiane. L’asse degli affari Tripoli-Roma investe anche le Banche, settore sul quale la Libia ha messo gli occhi e anche molti soldi. La Libyan Investments Autorithy - il braccio finanziario di Gheddafi nato con lo scopodi gestire i proventi del petrolio - ha incrementato (2010) la propria partecipazione in Unicredit, facendo così lievitare l’intera compagine libica oltre il 7,5%, visto che la Banca Centrale Libica e la Libyan Arab Foreign Bank sono insieme titolari del 4,98%.Nel 2002 il fondo Lafico ha acquistato il 5,31%della Juventus calcio, corrispondente a circa 6,4 milioni di euro in azioni. Nel 2009 la partecipazione è salita al 7,5 per cento. Il fondo libico possiede azioni di Mediobanca per 500 milioni di dollari, e il26%di Olcese, un’azienda tessile. Nel 2000 il fondo è tornato a investire in Fiat, acquistando il 2% delle azioni della fabbrica automobilistica. Oggi la Libia possiede una quota di Fiat di poco inferiore al 2%. Dalle banche alle costruzioni. La voce più importante è quella relativa all’Autostrada sulla costa mediterranea libica: il Trattato di amicizia - sottoscritto nell’agosto 2008 da Berlusconi e Gheddafi - prevede che Romaversi a Tripoli 5 miliardi di dollari per la realizzazione dell’opera alla quale partecipano 21 imprese italiane. Sempre nel settore, è da registrare che a Lybian Development Investment Co si è associata con l’Impregilo Lidco, che ha ottenuto contratti per 1 miliardo di euro per la costruzione di tre centri universitari e infrastrutture a Tripoli e Misurata. Venti miliardi di dollari: è quanto ha investito l’Eni in Libia. Negli ultimi 10 anni la società petrolifera italiana ha investito lì 50 miliardi di dollari. Nel2009 Finmeccanica ha sottoscritto un memorandum d’intesa col governo libico per la cooperazione in un vasto numero di progetti in Libia, Medio Oriente e Africa. L’accordo prevede la creazione di una joint venture di cui faranno parte Finmeccanica e il fondo Lafico. Da gennaio iI fondo Lia detiene il 2,01% di Finmeccanica. La società italiana ha vinto diversi contratti d’appalto in Libia, tra cui uno del valore di 247 milioni di euro per la costruzione di una ferrovia. Nel gennaio 2008 Alenia Aeronautica, altra società del gruppo Finmeccanica, ha siglato con il ministero dell’Interno libico un contratto daoltre31milioni di euro per la fornitura del velivolo da pattugliamento marittimo ATR-42MP Surveyor. La nuova Libia dovrà dotarsi di regole sulla concessione di appalti petroliferi e non deve affidarsi a scelte politiche. Il monito viene dal primo ministro del Cnt, Mahmoud Jibril. «Avviso il nuovo governo che le regole economiche dovrebbero essere la Regola. È molto pericoloso avere contratti politici». Tutti i contratti saranno mantenuti, ripete il ministro Frattini. Ma sono in molti a dubitarne. 23 ottobre 2011 da - http://www.unita.it/italia/berlusconi-tra-gli-eredi-del-rais-br-in-ballo-oltre-200-miliardi-1.345141 Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Così può cambiare il mondo dopo l'intesa Cina-Giappon Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2011, 11:12:21 pm Così può cambiare il mondo dopo l'intesa Cina-Giappone
Di Umberto De Giovannangeli 29 dicembre 2011 La Corea del Nord era e resterà un Paese in cui i diritti umani non hanno corso. Per quanto riguarda il lascito di Kim-Jong-il, il macigno che pesa sul futuro del Paese è quello di una economia di guerra e come tale continua a impoverire la Corea del Nord». A sostenerlo è Alessandro Politi, analista strategico. Dall’uscita di scena del «Caro leader» nordcoreano al patto tra Giganti, Giappone e Cina: «Questo patto - osserva Politi - nasce dalla grande crisi americana che ha contagiato il resto del mondo. Tanto il Giappone quanto la Cina sono grandi creditori degli Stati Uniti: in questo modo, con l’accordo monetario, l’interscambio tra i due Paesi salta la mediazione del dollaro. E questa naturalmente non è una buona notizia per Washington». La Corea del Nord ha dato l’ultimo saluto il «Caro leader» Kim-Jong-il. Ora si guarda al futuro. Quali gli scenari possibili anche in una chiave geopolitica? «In chiave geopolitica, il serio problemi per tutti gli attori è la riunificazione delle due Coree. Perché ciò cambierebbe gli equilibri consolidati dal 1953, oltre che creare, almeno all’inizio, una grave crisi umanitaria. È vero che ci sono state conversazioni private tra un alto diplomatico nordcoreano e due alti funzionari cinesi, i quali hanno affermato che una Corea riunificata ma non ostile alla Cina, sarebbe stata accettata, in linea di principio, da Pechino, a patto che non vi fossero dislocamenti americani a Nord della zona smilitarizzata. Osservatori locali prevedono un possibile collasso di Pyongyang nel giro di 2-3 anni, e quindi si comincia a pensare di coordinare gli sforzi in caso di crisi». C’è chi ha parlato, riferendosi a quelle ripetute scene di pianto collettivo, di disperazione manifesta per la morte di Kim-Jong-il, della Corea del Nord come di una «necrocrazia». È così? «In realtà quando muore un dittatore le scene di pianto sono frequenti. Bisogna capire chi prova delle emozioni reali e chi si accoda per opportunismo. Al di là dei pianti, il lascito di Kim-Jong-il è che ancora non si è resa sostenibile l’economia nordcoreana, che resta una economia di guerra e come tale continua a impoverire il Paese». E sul piano dei diritti umani? «In quel Paese non hanno diritto di cittadinanza, semplicemente non esistono. La Corea del Nord era e resta un Paese totalitario e praticamente sotto legge marziale». C’è chi impoverisce e chi, invece, stringe patti tra Giganti: il patto monetario Cina-Giappone. Quale lettura dare di questa iniziativa? «Innanzitutto questo patto nasce dalla grande crisi americana che ha contagiato il resto del mondo. Tanto il Giappone quanto la Cina sono grandi creditori degli Stati Uniti: in questo modo, con l’accordo monetario, l’interscambio tra i due Paesi salta la mediazione del dollaro. Questa naturalmente non è una buona notizia per Washington, anche perché porta un tradizionale alleato degli Usa, il Giappone, più vicino a Pechino. Poiché ci sono dei capitali che escono dalla Cina, c’è anche una disponibilità giapponese a comprare il debito cinese. In questo contesto, il debito americano e quello europeo diventano molto meno interessanti». L’anno che viene, il 2012, si prospetta sempre più come l’anno dell’Asia? «Non necessariamente, ma sarà un anno vissuto pericolosamente. Sarà l’anno in cui si possono porre le basi per uscire dalla crisi nel 2015, oppure cominciare ad inasprire l’attuale guerra finanziaria e rischiare, nel medio periodo, una vera e propria guerra». La nuova governance mondiale tende sempre più ad essere «asia-centrica»? «Direi di no, il problema è che è finito l’ordine mondiale ed è stato sostituito da un sistema di riferimento internazionale che somiglia ad un mercato dei cambi politico. Ciò che manca sono i vecchi riferimenti. Oggi i Paesi del cosiddetto “Brics” (Brasile, India, Cina, Sud Africa), non hanno né la voglia né la possibilità di avere un ruolo di guida mondiale». E chi è destinato a riempire questo vuoto? «Per ora nessuno. Il vuoto viene riempito da accordi temporanei fra potenze instabili, e quindi siamo in una situazione di equilibri fluidi». Per tornare al patto Cina-Giappone. C’è chi sostiene che gli affari riunificano i Nemici di un tempo. «Mi pare una lettura un po’ forzata. Quel patto è il risultato di una risposta tattica ad una crisi strategica, e quindi il nemico di ieri diventa il compagno di strada di oggi. Infatti, mentre c’è un movimento di avvicinamento tra Giappone, Cina e Corea del Sud basato su interessi economici, non c’è ancora una visione complessiva dello scacchiere, tanto è vero che le rispettive società sono ancora molto nazionaliste». da - http://www.unita.it/mondo/politi-l-intesa-cina-giappone-br-puo-cambiare-gli-equilibri-mondiali-1.366971 Titolo: Umberto De Giovannangeli. Ora Obama può vivacchiare o avere scatto d'orgoglio.. Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:52:17 am Midterm 2014, Kenneth Roth (Human Rights Watch): "Ora Obama può vivacchiare o avere scatto d'orgoglio sui diritti"
Umberto De Giovannangeli, L'Huffington Post Pubblicato: 05/11/2014 15:31 CET Aggiornato: 24 minuti fa “Di fronte a un risultato di questo genere, il presidente Obama ha due possibilità: quella di subire l’offensiva conservatrice dei Repubblicani, accettando di vivacchiare nei prossimi due anni alla Casa Bianca, oppure di avere uno scatto di orgoglio e di determinazione, dando dei segnali forti a quella parte dell’elettorato progressista che è rimasta profondamente delusa della promesse rimaste tali. E questo, per quanto ci riguarda, investe il grande tema dei diritti umani e di come gli Stati Uniti si sono mossi, o meglio non si sono mossi, quando quei diritti venivano calpestati in molte parti del mondo". A parlare è una delle figure più autorevoli negli Stati Uniti e a livello internazionale in tema di difesa dei diritti umani: Kenneth Roth, Direttore esecutivo di Human Rights Watch, una delle organizzazioni internazionali più importanti del mondo per i diritti umani, che opera in più di novanta Paesi. Prima di entrare in Human Rights Watch nel 1987, Roth è stato procuratore federale di New York e ha condotto l'indagine Iran-Contras a Washington. Laureato alla Yale Law School e la Brown University, Roth ha condotto numerose indagini dei diritti umani e missioni in tutto il mondo. "C’è chi ha accusato il presidente Obama di aver peccato di idealismo. La verità, forse, è un’altra, e opposta: aver cercato il compromesso a tutti i costi, sacrificando alcune battaglie che pure erano parte integrante di quel Change (Cambiamento) e di quella Hope (Speranza) che avevano portato Obama alla Casa Bianca nel suo primo mandato”. L’America s’interroga sulla grave sconfitta subita dal presidente Obama e dai Democratici nelle elezioni di midterm. Visto dal suo osservatorio, quello di chi è impegnato in prima linea nel campo del rispetto dei diritti umani, come interpretare questa bruciante sconfitta? ”Con un grande senso di delusione, tanto più forte e diffuso se rapportato alle grandi speranze di cambiamento che anche su questo versante aveva suscitato il Presidente Obama soprattutto all’inizio del suo primo mandato presidenziale. Sì, Obama ha deluso molti, omettendo di fare dei diritti umani una priorità della sua agenda, non solo internazionale. Sbaglia di grosso chi crede che temi come il rispetto dei diritti dell’imputato anche in casi di sicurezza nazionale, la chiusura di Guantanamo, l’uso della tortura, siano di importanza marginale nell’orientamento di una parte dell’elettorato rispetto ai temi dell’occupazione, della sanità, in generale delle condizioni materiali di vita. Su questi temi, Obama ha deluso, e ha perso consensi, non perché sia stato troppo idealista, eccessivamente coraggioso, ma per aver dato l’impressione di non essersi impegnato abbastanza. Sia chiaro: nessun rimpianto per politiche interventiste come quelle portate avanti, con la forza delle armi, durante le presidenze dei Bush, padre e figlio, e che hanno prodotto tragedie come quella irachena. Il mondo - e chi si batte per il rispetto dei diritti umani, civili, politici - non evocava un Obama “interventista”, modello-Bush. La gente nota se gli Stati Uniti si alzano in piedi per i loro diritti. Non perché, è bene rimarcarlo ancora, il cambiamento possa essere imposta dall'esterno, come George W. Bush voleva farci credere, ma perché gli Stati Uniti possono aiutare a difendere lo spazio politico in cui le persone possono avanzare i propri diritti. E ciò non è avvenuto. Da questo punto di vista, direi che il presidente Obama, si sia dimostrato poco realista”. In che senso? ”Nel senso di non aver tratto le dovute conseguenze da considerazioni che pure sono riecheggiate in diversi suoi discorsi. In un mondo in cui sempre più persone si battono perché alla globalizzazione dei mercati si accompagni la globalizzazione dei diritti, e che considerano libertà, pluralismo, parità di genere, accesso all’istruzione, principi universali, sostenere queste rivendicazioni contribuisce a rafforzare gli stessi interessi nazionali degli Usa nel mondo. Investire in diritti umani vuol dire avere una politica lungimirante, subire compromessi al ribasso è restare prigionieri del passato”. Restando a tematiche legati ai diritti dei popolo e alla politica estera, può fare un esempio di un Obama contraddittorio tra enunciazioni e atti concreti? ”Un esempio? Israele. Il Presidente Obama ha più volte censurato la colonizzazione portata avanti da Israele nei Territori palestinesi occupati, salvo poi esercitare il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite rispetto a risoluzione che condannavano tale politica”. E sul fronte della lotta al terrorismo? "In un discorso del maggio 2013, il Presidente Obama aveva rilevato che la guerra globale al terrorismo stava volgendo al termine. Questo avrebbe dovuto comportare modifiche normative su materie scottanti, quale l’uso dei droni. Gli attacchi dei droni dovrebbero essere regolati non da leggi permissive di guerra, ma da leggi più restrittive in materia di operazioni di polizia, in modo tale da consentire l’uso della forza letale solo come ultima risorsa per contrastare una minaccia grave e imminente. Lo stesso discorso vale per le detenzioni a lungo termine senza processo a Guantanamo o sull’uso di commissioni militari piuttosto che tribunali civili per processare persone sospettate di aver avuto un ruolo negli attacchi dell’11 Settembre. Last but non least Obama si è rifiutato di perseguire i torturatori di Bush, come invece il diritto internazionale e anche quello americano richiedeva. L’Amministrazione Obama ha invocato ragioni di opportunità politica, sottolineando la necessità di non indebolire il Paese nella guerra al terrorismo. Ma questa guerra non può giustificare la negazione di diritti fondamentali dell’individuo. Non può fare dell’emergenza, con la sospensione di diritti essenziali, come quello alla difesa dell’imputato, la normalità. Le ricette dei Repubblicani sono un ritorno al passato che va contrastato, così come l’illusione che l’America possa riconquistare autorevolezza nel mondo con l’esercizio della forza. Cosa può fare ora il presidente americano? Obama ha due anni ancora per provare a rilanciare, nel mondo e in America, quella “sfida dei diritti” che oggi appare cancellata. Si dice che a volte dalle grandi sconfitte possano nascere nuove, importanti vittorie. Mi auguro che sia così stavolta. A Obama chiedo coraggio, non viltà”. Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/11/05/human-rights-watch-intervista-a-kenneth-roth_n_6106176.html?utm_hp_ref=italy Titolo: Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma: "Italia non riconosca la Palestina.. Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2015, 12:05:25 pm Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma: "Italia non riconosca lo Stato di Palestina. Di Renzi ci fidiamo"
L'Huffington Post | Di Giulia Belardelli; Umberto De Giovannangeli Pubblicato: 15/01/2015 10:45 CET Aggiornato: 42 minuti fa “Israele non ha alcuna intenzione di suicidarsi per far contento qualche leader europeo. Votare ora per il riconoscimento dello Stato di Palestina non potrebbe essere più sbagliato, per diverse ragioni. Spero che il Parlamento italiano non proceda con questo voto. Di Matteo Renzi ci fidiamo, è un amico di Israele. Ma bisogna tenere alta la guardia sulla tendenza dell’Europa a distinguere tra i terrorismi”. Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma, non risparmia critiche ai paesi europei che si sono già pronunciati a favore del riconoscimento dello Stato palestinese, discussione che – a meno di slittamenti – dovrebbe iniziare a Montecitorio questo venerdì. A sentirlo parlare si capisce come la pace, in Terra Santa, sia ancora molto lontana. “Di Abu Mazen non possiamo fidarci”, dice Gilon in diversi passaggi di questa intervista. “Inizio a pensare che non sia una figura all’altezza del raggiungimento della pace. E Hamas? Vogliamo parlare di Hamas? Per noi, dal punto di vista ideologico, non c'è differenza tra Hamas, Isis e al Qaeda: quello che vogliono è il califfato, l’imposizione della shariʿah. Oggi più che mai, il popolo ebraico deve difendersi da un nuovo e insidioso tipo di antisemitismo”. Negli ultimi mesi diversi Parlamenti europei – Gran Bretagna, Francia, Spagna, Belgio, Danimarca, Irlanda, Portogallo – si sono pronunciati per il riconoscimento dello Stato palestinese, scelta compiuta ufficialmente dal governo svedese. Come valuta questi pronunciamenti? Penso che passi di questo genere non siano costruttivi per il processo di pace, perché israeliani e palestinesi a Oslo hanno concordato sul fatto che i problemi sarebbero stati risolti tramite negoziati diretti. Ora i palestinesi stanno stravolgendo il concetto stesso di Oslo. Pensano sia possibile far arrivare qualcuno dall'esterno a imporre l'esito dei negoziati, senza pagare alcun prezzo. Inoltre, questi voti a favore del riconoscimento dello Stato palestinese sono delle affermazioni teoretiche, quasi delle promesse fatte ai palestinesi: “il mondo ci riconoscerà come Stato”. Ma la praticabilità sul terreno è tutta un'altra storia. La verità è che i palestinesi devono venire a patti con Israele per avere uno Stato. Quindi, in un momento di massima tensione nel Medio Oriente, questi parlamenti non fanno altro che alzare le aspettative dei palestinesi, anche quando poi il risultato, probabilmente, sarà insoddisfacente – perché la vita quotidiana dei palestinesi, verosimilmente, non cambierà grazie ai pareri dei singoli parlamenti europei. Temo che la tensione che segna oggi il Medio Oriente e le relazioni israelo-palestinesi possa creare ulteriori problemi. Un altro aspetto riguarda il piano legale. La legge internazionale stabilisce che per creare uno Stato è necessario avere il controllo effettivo del territorio. Non so quale sia in Cisgiordania l'efficacia del controllo di Abu Mazen, ma penso che possiamo essere tutti d'accordo sul fatto che a Gaza non abbia alcun controllo effettivo. Penso che i voti europei non aiutino il processo di pace da nessun punto di vista, poiché non danno ad Abu Mazen alcuna motivazione per venire a parlare con noi. Il Parlamento italiano si appresta a discutere sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Cosa si sente di dire ai parlamentari italiani alla vigilia di questa discussione storica? Una parte delle forze politiche, soprattutto sul versante del centrodestra, spinge per un rinvio della discussione perché considera il momento “inopportuno”. Cosa ne pensa? Penso che il tempismo con cui si vorrebbe avviare ora una discussione su questi passi unilaterali dell'Europa non possa essere più sbagliato. Dobbiamo guardare a ciò che è appena successo a Parigi. Per molti ebrei, il messaggio che esce da Parigi è che l'Europa non è più un posto sicuro per gli ebrei. Ora parliamo di questi attacchi perché sono stati terribili, ma non bisogna dimenticare che gli ebrei in Francia vengono perseguitati ogni giorno, anche se non fa notizia. Gli ebrei sono bersagli costanti di un nuovo tipo di antisemitismo. Giorgio Napolitano è stato uno dei primi presidenti a mettere in guardia su questa nuova forma di antisemitismo. Spesso il nuovo antisemitismo si coniuga con posizioni anti-israeliane che mirano alla delegittimazione totale di Israele e del suo diritto di esistere. Il motore che c'è dietro è musulmano, ma ci vediamo anche una combinazione di elementi antisemiti dell'estrema destra e dell'estrema sinistra – probabilmente l'unica componente che hanno in comune. Per noi ebrei – e parlo da figlio di un sopravvissuto all'Olocausto – Israele è l'unico posto sicuro al mondo. Non faremo mai nulla che metta a repentaglio questo posto. Se qualcuno dall'esterno pensa di poterci imporre qualsiasi tipo di soluzione che percepiamo come un suicidio – dopo che un terzo della nostra nazione è stato distrutto in Europa – si sta sbagliando di grosso. Gli ebrei oggi hanno Israele, hanno il loro esercito, sono pronti a combattere e a difendere le loro vite. Non commetteremo un suicidio per soddisfare le volontà politiche di alcune persone. Inoltre, il tempismo è terribilmente sbagliato anche dal punto di vista del ragionamento politico. Ora in Israele siamo in piena campagna elettorale. Fino a maggio, non ci sarà un governo effettivo. È come avere un unico proiettile e spararlo nel momento peggiore. L'obiettivo verrà mancato di sicuro. Eppure diversi parlamenti – dalla Gran Bretagna alla Francia – hanno fatto valutazioni diverse... Perché l'Italia non dovrebbe seguire questo trend? La maggior parte dei parlamenti europei non sta votando queste risoluzioni. Solo quattro o cinque nazioni si sono espresse in tal senso. La Germania, il paese oggi più potente in Europa, non lo ha fatto. Spero che il Parlamento italiano non si unisca a questa minoranza di parlamenti. Sarebbe un grande errore. Uno dei partiti che in Italia stanno spingendo molto questa mozione ha nel suo simbolo “Libertà” ed “Ecologia”. Qual è l'unico paese in cui è possibile parlare di libertà nel Medio Oriente? Israele. Siamo l'unico paese aperto e liberale, dove le donne sono protagoniste attive della politica e dove può svolgersi un gay pride. E poi: “ecologia”. Noi non sfruttiamo petrolio e gas naturali, siamo i produttori numero uno di tecnologie pulite. E chi è da biasimare? Noi, non Abu Mazen, che non è un leader democraticamente eletto. È un approccio sbilanciato di cui mi dispiaccio molto. Per fortuna, abbiamo tanti amici in Italia, tra cui la maggioranza del governo. Ecco, appunto, ci parli del premier Renzi. Le piace la sua leadership? Non voglio dare voti ai politici italiani. Conosco Matteo Renzi da molto tempo, penso che stia facendo bene all'Italia. Credo stia lavorando per ridare all'Italia il ruolo che le spetta. L'Italia è stata un paese leader dal punto di vista economico, industriale, culturale, e lo è ancora. Il potenziale è ancora tutto qui, anche se spesso viene offuscato dallo sconforto e dalla sfiducia. Ci sono problemi come la disoccupazione giovanile che devono essere risolti subito. E penso che Renzi stia davvero cercando di fare qualcosa di buono per il paese. Quali sono, per Israele, i passi necessari al raggiungimento della pace? Dovete capire che noi vogliamo la soluzione a due Stati. Da Oslo in poi, tutti i presidenti israeliani, incluso Benjamin Netanyahu, sperano nella soluzione dei due Stati. Noi vogliamo che si arrivi allo Stato palestinese, ma dobbiamo assicurarci che questo non diventi un'altra entità del terrore all'interno del Medio Oriente. Abbiamo già abbastanza entità del terrore attorno a noi. Dobbiamo essere sicuri che se creiamo uno Stato palestinese, esso sia forte, stabile e democratico. Sono almeno sei anni che non riusciamo ad avere dei negoziati seri con Abu Mazen; non è tornato al tavolo neanche durante i dieci mesi di congelamento degli insediamenti. Spesso ci sentiamo dire che questi pareri favorevoli non hanno un valore pratico, ma sono solo un modo di rafforzare Abu Mazen. Il punto è che ora Abu Mazen li sta utilizzando per andare alla Corte penale internazionale, ad esempio. Ottocento personalità israeliane, tra le quali premi Nobel e i più affermati scrittori, che certo non possono essere tacciate di essere filo-Hamas o peggio, hanno rivolto un appello all’Europa perché riconosca lo Stato di Palestina. C'è una ex ministra della Giustizia che non può essere considerata un'estremista di sinistra, la signora Livni, che ha abbandonato il governo dicendo: “questo governo è in mano ai coloni e ai loro rappresentanti nell'esecutivo”, in particolare, come lei sa, il ministro dell’Economia Naftali Bennett. Questa parte di opinione pubblica israeliana è una nemica di Israele? E ancora: lei ha detto che Israele è ancora per una soluzione a due Stati. Ma dove dovrebbe nascere, secondo lei, uno Stato di Palestina, visto che una grande parte di Cisgiordania è ormai piena di insediamenti? Come sapete, Israele è un paese democratico, una società molto liberale e aperta, dove è possibile ascoltare tutte le opinioni del mondo, tra cui quelle delle 800 persone in questione – anche se a me risulta siano meno. A breve ci saranno delle elezioni: saranno gli elettori a decidere, e allora vedremo cosa vuole davvero l'opinione pubblica di Israele. Sono certo che la maggior parte degli israeliani, da sinistra a destra, sia contraria a questo approccio unilaterale. Quanto a Tzipi Livni, so per certo che anche lei è contraria a questa risoluzione unilaterale. Solo una minoranza la pensa diversamente, e questo è legittimo. Per ciò che concerne gli insediamenti, la situazione è molto diversa: tutti gli insediamenti che abbiamo, compresa Gerusalemme, coprono tra l’1,5 e il 2% del territorio. Inoltre, la maggior parte delle costruzioni che stiamo facendo sono comprese in ciò che chiamiamo “area di insediamento”; difficilmente costruiamo altrove. Quando nel 2005 Sharon decise di evacuare alcuni insediamenti in cui vivevano circa 11mila persone, l'attuale primo ministro Netanyahu – dello stesso partito di Sharon – gridò al tradimento da parte di Sharon, tanto è vero che l’allora primo ministro scisse il Likud e creò Kadima. Se per Israele evacuare da Gaza 11mila persone equivaleva a essere sull'orlo di una guerra civile, e un primo ministro di destra come era Sharon veniva definito un traditore, può spiegare all'opinione pubblica italiana ed europea come sia possibile evacuare, sulla base di un eventuale accordo di pace, 400mila persone? Innanzitutto a Gaza non c'è stata nessuna guerra civile; come in ogni paese democratico, abbiamo avuto delle divergenze d'opinione. Ci sono state delle elezioni, Kadima ha vinto e ha portato avanti la sua linea. Ora non si tratta di evacuare 400mila persone. Come ho detto prima, il numero di persone che non si trovano nell'area degli insediamenti è molto, molto minore. La maggior parte delle persone si trova a Gerusalemme e nell'area di insediamento. Non so dire il numero esatto, ma parliamo di non più di 100mila persone. La maggioranza vive in luoghi che da tempo si assume debbano rimanere di Israele. L'evacuazione dei coloni a Gaza non è stata facile, ma è stata fattibile. Lo avevamo già fatto anche nei Sinai. Non pensa che in futuro il problema per Israele, più che Mahmoud Abbas, possa diventare un signore di nome Abu Bakr al-Baghdadi? Lei sa che la società palestinese è comunque la società più pluralistica del mondo arabo, e presumibilmente uno Stato palestinese sarebbe uno Stato meno attratto dal fondamentalismo esasperato. Non crede che rinviando una negoziazione seria con l'attuale leadership palestinese il rischio sia che in Cisgiordania e a Gaza, invece di trovarvi di fronte ad al Fatah e Hamas, vi ritroviate i salafiti e l'Esercito islamico? Abu Mazen non ha alcuna legittimazione e non sta facendo nulla per il bene del popolo palestinese. L'unico che ha provato a fare qualcosa è stato Salam Fayyad, che ora è stato relegato in un angolo. Sto iniziando a pensare che Abu Mazen non sia una figura all’altezza del raggiungimento della pace. Certo, ci può essere di peggio – puoi avere al Qaeda, l'Isis o qualcos'altro - ma è necessario capire che le aspettative di pace con Abu Mazen stanno svanendo. Prendiamo ad esempio la questione dei rifugiati: qualche settimana fa Abu Mazen ha detto che ci sono sei milioni di rifugiati palestinesi che devono tornare nelle loro città. Se qualcuno parla con Israele in questi termini, è chiaro che non vuole la pace. Non si può pensare di fare due Stati, uno senza ebrei e l'altro (dove c'è già un 20% di palestinesi) in cui dovrebbero arrivare qualcosa come sei milioni di palestinesi. E stiamo parlando di dividere una regione più piccola della Sicilia. Sempre più spesso sulla stampa palestinese si leggono incitamenti a uccidere tutti gli ebrei, anche sul sito di al Fatah si vedono cose incredibili. Abu Mazen può anche essere il leader migliore, ma sto iniziando a dubitare che possa bastare per la pace. Il problema è che i palestinesi continuano a essere evasivi sulle due questioni più critiche per Israele: i rifugiati e la sicurezza. Su questi due argomenti non c'è mai chiarezza. Con Arafat l'impressione era quella dell'approccio “a salame”. Con la prima fetta di salame, cerchi di ottenere da Israele quanto più possibile (i confini del 1967). Con la seconda fetta di salame, sfrutti gli strumenti della democrazia e della demografia per creare nel tempo, con i rifugiati, un secondo stato palestinese all'interno di Israele. Questa è la paura di Israele. Dopo gli attacchi di Parigi, l'Europa è entrata in contatto con una paura nuova e profonda. Pensa che questo possa in qualche modo avvicinare i paesi europei a Israele? Quando si parla di terrorismo, l'Europa fa differenziazioni del terrore. Il terrore contro Israele viene considerato un atto politico, e come tale un problema da giudicare in modo diverso. Quando il terrorismo è contro l'Europa, invece, si pensa che “oh, è terribile, questo è contro noi europei”. In realtà, dal punto di vista ideologico, non c'è differenza tra Hamas, Isis e al Qaeda. Nel grande quadro, il califfato è nel loro orizzonte. Hanno metodi diversi, Hamas non decapita, lo stile è un altro, ma il modo di pensare è lo stesso. Dal nostro punto di vista, il terrore è sempre terrore. Sfortunatamente non tutti in Europa la pensano così. Hamas non vuole che Israele esista. È lo stesso concetto espresso da al Baghdadi quando dice che vuole conquistare Roma: “Qui avremo la shariʿah”. Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/01/15/naor-gilon-ambasciatore-israeliano-a-roma_n_6476294.html?1421315153&utm_hp_ref=italy Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Egitto, repressione e arresti del regime di Al Sisi. Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:51:46 pm Egitto, repressione e arresti del regime di Al Sisi.
La scrittrice El Saadawi: "È come Mubarak, ma lo spirito di Piazza Tahrir non muore" Umberto De Giovannangeli, L'Huffington Post Pubblicato: 05/02/2015 17:29 CET Aggiornato: 05/02/2015 17:42 CET C'è chi li massacra per avere difeso fino in fondo la libertà di espressione. E c'è chi, invece, prova a difenderla contro il potere costituito e finisce in galera. A Vita. È questo il Grande Medio Oriente di Califfi e Generali. Il mondo di Abu Bakr al-Baghdadi e quello di Abdel Fatta al-Sisi. Se il primo è l'Incubo, il secondo è il Restauratore. Nel mirino, tutt'altro che metaforico, dell'esercito di tagliagole targato Isis come di quello legalizzato e in divisa, l'esercito egiziano, ci sono coloro che sono scomodi perché provano a difendere un principio di libertà: quello all'informazione. Questo accade nel "nuovo Egitto" del presidente-generale che ha celebrato i quattro anni dalla rivolta popolare che cambiò il corso della Storia del Paese delle Piramidi, militarizzando le piazze e riempiendo le carceri. Buttando le chiavi delle celle. Duecentotrenta militanti del fronte anti-Mubarak, che hanno contribuito al rovesciamento del potere in Egitto nel 2011, sono stati condannati alla prigione a vita dalla Corte del Cairo. Dovranno anche pagare un'ammenda da 17 milioni di sterline egiziane (circa due milioni di euro). Tra di loro figura anche uno dei leader della protesta, Ahmed Douma, 29 anni. L'attivista liberale è stato condannato per le accuse di violenze fuori da una sede governativa vicino a Piazza Tahrir nel 2011. Douma, tra i pochi presenti in aula, è stato condannato a 25 anni di reclusione. Nonostante ciò, non è parso scoraggiato tanto da avere applaudito al giudice non appena ascoltata la sentenza, ottenendo così altri 3 anni di galera. Al potere che usa i tribunali per frasi giustizia, Douma ha risposto con l'arma dell'ironia: quando il giudice Mohammed Nagi Shehata ha letto il verdetto che lo condanna all'ergastolo per aver manifestato contro la giunta militare nel dicembre 2011, si è messo a ridere e ha battuto le mani, tanto da provocare la rabbia del magistrato che lo ha minacciato di un'ulteriore pena di tre anni. Ahmed ha continuato a sorridere e si è girato per uscire dall'aula: «Va bene così, va bene così», ha sussurrato a chi gli stava intorno secondo il racconto dei testimoni. Così all'ironia aveva risposto il giudice: "Sei in piazza Tahrir? Non parlare altrimenti ti darò altri tre anni". E così ha fatto. Il tribunale, ha condannato inoltre 39 minori, che dovranno scontare 10 anni di carcere per il loro coinvolgimento negli scontri tra manifestanti e forze dell'ordine nello stesso 2011. Ahmed Douma è già in carcere da dicembre con una condanna a tre anni per oltraggio alla magistratura perpetrato criticando sentenze contro Hosni Mubarak e Mohamed Morsi. Già nell'aprile 2014 Ahmed Douma, Ahmed Maher, e Mohamed Adel, i famosi leader del Movimento del 6 Aprile, bandito dopo qualche giorno, erano stati condannati a tre anni di carcere e a una pena pecuniaria. Il governo egiziano colpisce chiunque osi alzare la testa, senza eccezioni. Ad un giorno di distanza da quella sentenza le forze di polizia avevano fatto irruzione negli uffici dell'Ecesr (Il centro egiziano per i diritti economici e sociali) durante la conferenza stampa per l'avvocato e attivista Mahienour el-Masry, sequestrato prezioso materiale sul caso, arrestato 15 tra i presenti, tra cui due minori, e molestato le donne che opponevano resistenza. Da almeno un decennio Alaa è uno dei blogger filo-democrazia più attivi in Egitto, cosa che di per sé fa di lui un bersaglio. A differenza di altri noti attivisti (come Mahmoud Salem, BigPharaoh e Zeinobia), che sono attivi sia in arabo che in inglese, scrive soprattutto in arabo. È dunque molto conosciuto in Egitto e un po' meno in Occidente, cosa che fa di lui una preda più facile per il regime. "Il potere ha paura delle voci libere e per questo le reprime. Nulla è cambiato dai tempi di Hosni Mubarak, a dettar legge è la stessa nomenklatura che fa scempio delle libertà e dei diritti sociali e civili. Quello instaurato da al-Sisi è un "mubarakismo senza Mubarak. E questo con il plauso del democratico Occidente", dice all'Huffington Post Nawal El Saadawi, l'autrice egiziana femminista universalmente più conosciuta e premiata. "Ma i golpisti - aggiunge la scrittrice - hanno sbagliato i loro calcoli: lo spirito di Piazza Tahrir non è stato sepolto, non abbiamo combattuto per la libertà e contro chi sognava la dittatura della sharia, per finire in pasto ad un regime militare. Golpisti e integralisti non hanno nel loro vocabolario la parola rispetto per chi esercita il diritto di critica. Per loro, la satira è più pericolosa del kalashnikov". Quella di al-Sisi è una democrazia "blindata". Nel senso che funziona con i tank che occupano le piazze, con gli oppositori incarcerati, torturati, fatti sparire, con partiti messi fuorilegge e premi Nobel per la pace (Mohamed el-Baradei) costretti a riparare all'estero per non essere portati davanti a un tribunale speciale con l'accusa di tradimento, passibile di pena di morte. Eppure, l'Occidente lo omaggia, arrivando a ritenerlo un "moderato", l'argine più sicuro contro il "Califfo Ibrahim", al secolo Abu Bakr al-Baghdadi. Al Summit Davos è stato il celebrato ospite d'onore, il "nuovo Faraone" che ha promesso benessere e stabilità al Paese delle Piramidi. Per adesso, di benessere non se ne parla; quanto alla sicurezza, viene garantita con il pugno di ferro contro chiunque osi ribellarsi. "Questo è l'Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, il presidente-generale, una sorta di Pinochet in salsa mediorientale: il "suo" Egitto è un Paese militarizzato, con il sostegno entusiasta delle cancellerie europee, Italia compresa, e i finanziamenti a pioggia dell'Arabia Saudita, altro campione di diritti civili lapidati, come le persone, soprattutto se sei una donna. C'è l'inferno nelle carceri egiziane, documenta un dettagliato rapporto di Human Rights Watch. Morti sospette, cause da accertare. Sono sempre di più i prigionieri che perdono la vita dietro le sbarre egiziane, la maggior parte di questi sono sostenitori dei Fratelli musulmani, partito politico bandito dal governo di al-Sisi e riconosciuto come organizzazione terroristica. Nonostante la costituzione egiziana vieti la violenza nei confronti dei detenuti, la tortura è ancora diffusa. Molte delle persone decedute, secondo Hrw, mostrano evidenti segni di percosse e maltrattamenti. In alcuni casi invece le morte è stata causata da condizioni igieniche inadeguate e dalla mancanza di cure mediche anche per i pazienti gravemente malati. "Le prigioni e le stazioni di polizia - afferma Sarah Leah Whitson - sono piene di sostenitori dell'opposizione arrestati durante i rastrellamenti. Le persone sono detenute in situazioni disumane di sovraffollamento. Le morti sono una conseguenza prevedibile di queste condizioni". Ancora non è chiaro quanti detenuti siano morti nel 2014 nell'intero territorio nazionale. Secondo un rapporto di una Ong egiziana, durante i primi cento giorni del governo di al-Sisi 35 persone sono decedute in carcere, mentre secondo le statistiche dell’autorità medica forense del ministero della Giustizia nei primi dieci mesi del 2014 almeno 90 persone hanno perso la vita mentre si trovavano in custodia a Giza e Il Cairo. Stando a questi numeri, rispetto al 2013 le morti in carcere sarebbero aumentate del 40 per cento. "Le autorità egiziane - conclude Whitson - sembrano incredibilmente compiacenti di fronte alla morte di tanti detenuti. Al contrario il governo dovrebbe investigare su ciascuna di queste morti e sulle accuse di abusi per garantire e mettere in pratica le leggi dello Stato". Da Hrw ad Amnesty International. Questa è la fotografia dello stato dei diritti umani in Egitto. Una fotografi agghiacciante. "Negli ultimi sette mesi l'Egitto ha assistito a una serie di colpi ai diritti umani e a una violenza di stato senza precedenti. Tre anni dopo, le richieste di dignità e diritti umani della 'rivoluzione del 25 gennaio' restano più lontane che mai... e repressione e impunità sono all'ordine del giorno", rilevava Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. Secondo Amnesty, "l'Egitto ha intrapreso decisamente la strada verso un ulteriore periodo di repressione e di scontro. A meno che le autorità non cambino orientamento, a iniziare dal rilascio incondizionato dei prigionieri di coscienza". Nella realtà dei fatti "la situazione attuale dei diritti umani è spaventosa. Le assicurazioni verbali resteranno prive di senso se la repressione sul terreno continuerà ad aumentare e se basterà un tweet per finire in prigione". Così il rapporto di Amnesty reso pubblico nel giorno del terzo anniversario della rivolta anti-Mubarak. Era il 25 gennaio 2014. Un anno dopo la situazione è ulteriormente peggiorata. Gli intenti originari della rivoluzione del 25 gennaio, a tre anni dal suo scoppio, sono stati quindi palesemente traditi e la nuova legge che limita i raduni pubblici e le manifestazioni è il viatico palese di tutto ciò, limitando di fatto la libertà di riunione e dando il via libera all'uso della forza contro i manifestanti che dovessero trasgredire tale norma, a prescindere da caratteristiche quali genere o età. Come se non bastasse, infine, Sahraoui aggiunge: "È in atto un tentativo concertato di ridurre al silenzio ogni osservatore indipendente, dagli attivisti ai giornalisti, fino alle Organizzazioni non governative, che rende più difficoltoso operare in Egitto e continuare a documentare e denunciare le violazioni dei diritti umani". Persino la magistratura, poi, sarebbe un'arma contro il dissenso: "usata per punire gli oppositori, mentre agli autori delle violazioni dei diritti umani camminano liberi". "La situazione sul campo è molto pericolosa, soprattutto per noi giornalisti", dice Ahmed Hamdy El Sayed, reporter che lavora per un settimanale egiziano. "Quando andiamo a seguire le proteste, cerchiamo di non far vedere che siamo giornalisti per non essere presi di mira. In caso di arresto, se il direttore del giornale non interviene in tempo, si corre il rischio di restare nelle mani della polizia senza nessuna garanzia e senza sapere quando si verrà liberati". E così, ancora oggi, giovani giornalisti e blogger dividono le cella del carcere del Cairo con veri criminali. Sono sottoposti a torture di ogni genere durante gli interrogatori al fine di far loro confessare i nomi di tutti i seguaci della pericolosa banda di scrittori virtuali, che danneggerebbe l'immagine del Paese. Per i vignettisti egiziani, lavorare ai tempi, attuali, della restaurazione militare è difficile soprattutto a causa della grande "quantità di leggi che restringono la libertà d'espressione" rimarca Jonathan Guyer, ricercatore sul ruolo delle vignette satiriche egiziane presso la Fullbright University, "ci sono leggi che impediscono di parlare del presidente, una legge che impedisce di parlare dei militari, una legge contro l'insulto alla religione". Questo è l'Egitto del nuovo Faraone: il regno dell'illegalità. Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/02/05/egitto-al-sisi-repressione-e-arresti_n_6622352.html?utm_hp_ref=italy Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Ban Ki-moon, l'irritazione dell'Onu per il vertice... Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 12:30:08 pm Ban Ki-moon, l'irritazione dell'Onu per il vertice sull'immigrazione.
Il segretario a Roma tra Papa Francesco e il caso Prodi Umberto De Giovannangeli, L'Huffington Post Pubblicato: 26/04/2015 13:23 CEST Aggiornato: 2 ore fa Libia, che fare? Visto che “non esiste una soluzione militare alla tragedia umanitaria che sta avvenendo nel Mediterraneo”, e che l’Europa ha dimostrato di essere alquanto brava a versare lacrime ma altrettanto parca nel concedere asilo a quell’umanità sofferente che pur di fuggire dall’inferno di guerre, pulizie etniche, miseria e carestia, tenta la sorte con i “viaggi della morte”. Domani il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon sarà in Italia per incontrare Matteo Renzi, mentre martedì il numero uno del Palazzo di Vetro sarà a colloquio in Vaticano con Papa Francesco. Quella di Ban, dicono all’” Huffington Post” fonti diplomatiche occidentali al Palazzo di Vetro, è una “visita di lavoro”, tutt’altro che formale, la prima che il segretario generale delle Nazioni Unite fa in un Paese europeo dopo il Summit straordinario dell’Ue dedicato all’immigrazione. Un Summit che non è piaciuto al diplomatico coreano, che fuori dall’ufficialità delle dichiarazioni, non ha nascosto ai suoi più stretti collaboratori, confida la fonte all’Hp, la sua amarezza e delusione per le decisioni assunte in quella sede, ritenute non all’altezza della drammaticità della situazione. Una valutazione che trova concorde il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “Vogliamo che l'Europa democratica, protagonista settant'anni or sono nella lotta contro i responsabili dei peggiori crimini contro l'umanità, sappia rendersi consapevole oggi della propria responsabilità storica, e sia artefice di una iniziativa politica nuova verso i paesi dell'Africa e del Medio Oriente”., ha ribadito con forza l’inquilino del Quirinale. SOCCORSO ALL’ITALIA - E non a caso, Ban ha scelto l’Italia per dar voce alle sue preoccupazioni, perché l’Italia è il Paese in primissima fila in questa perenne emergenza umanitaria, e l’Italia, è convinto Ban, continua a non ricevere il sostegno adeguato da parte degli altri Paesi Ue nell’attività di salvataggio dei migranti in balia dei trafficanti di esseri umani. Da Roma, il segretario generale delle Nazioni Unite lancerà un ennesimo appello rivolto a quei Paesi del Vecchio Continente che frenano sull’accoglienza, e ricorderà che altri Paesi, molto meno dotati di risorse dei recalcitranti Stati europei, si fanno carico, ed è il caso del Libano, di oltre un milione di profughi siriani. Valorizzerà lo straordinario impegno sul campo dell’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), Ban, ma soprattutto ribadirà un concetto a lui caro: “Non esistono soluzioni militari per porre un freno alla tragedia umanitaria nel Mediterraneo” e per affrontare in termini corretti il “caos libico”. Un caos armato. E qui sta il punto cruciale della missione di Ban Ki-moon in Italia. I più stretti collaboratori del numero uno del Palazzo di Vetro, non nascondono che il timore maggiore che Ban ha, anche alla luce degli esiti non soddisfacenti del Summit di Lussemburgo è che i Paesi Ue abbiano lesinato le risorse di supporto alla missione Triton e hanno frenato sull’accoglienza, perché l’impegno maggiore, ancora da definire nei dettagli ma non nell’impostazione, riguarda l’aspetto militare della lotta al traffico di esseri umani. Ban non entrerà nel merito del dibattito sugli strumenti militari da utilizzare nella ventila “guerra agli scafisti” – droni, motovedette armate di esplosivo, forze di terra, blocco navale… ma tornerà a ribadire la sua profonda convinzione che solo la politica può avere una chance per portare stabilità nel martoriato Paese nordafricano. In una intervista a “La Stampa”, Ban si dice convinto che "non ci siano alternative al dialogo. Il mio Rappresentante speciale, Bernardino Leon, e la sua squadra continuano a lavorare in maniera instancabile con le parti libiche coinvolte, per aiutarle ad arrivare insieme ad uno spirito di compromesso. Gli atti di terrorismo e di estremismo sono un duro richiamo al fatto che una soluzione politica all'attuale crisi va trovata rapidamente, per ripristinare pace e stabilità". Ma una Europa ingenerosa non è quella che potrà dare il contributo necessario per una emergenza umanitaria diventata ormai tragica normalità. L’ASSE CON PAPA FRANCESCO - Martedì Ban sarà a colloquio con Papa Francesco. La posizione in merito della Santa Sede è chiara e durissima: "Il piano in 10 punti approvato dell'Ue sull'emergenza immigrazione è assolutamente debole e per certi versi vergognoso". Ad affermarlo nei giorni scorsi è stato monsignor Giancarlo Perego, il direttore della Fondazione Migrantes, promossa dalla Cei. “Ancora una volta - denuncia il prelato - si pensa di contrastare i trafficanti e non tutelare le persone attraverso i canali umanitari, un piano sociale europeo nei paesi di arrivo dei profughi e migranti, la cooperazione locale". Ban viene in soccorso dell’Italia: a testimoniarlo è un fatto inusuale nell’agenda degli impegni del segretario generale dell’Onu: quella di domani, è la seconda visita in Italia che Ban fa nel giro di poco più di un mese. Il 18 marzo scorso, infatti, il numero uno del Palazzo di Vetro era nel nostro Paese per incontrare il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi e il titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni. In quell’occasione, Ban sottolineò il ruolo “fondamentale” dell’Italia, perché questa “rappresenta una pietra miliare per la pace e la sicurezza internazionale” e chiede, come gli americani, che l’Italia si faccia carico delle missioni libiche, volte a scongiurare il rischio concreto che la penetrazione dello Stato islamico nel Paese nordafricano si allarghi a dismisura. Ban chiede, insomma, che l’Italia ripeta in Libia quanto fatto in Libano, un parallelo che il Segretario generale ha espresso chiaramente tramite il plauso all’operato della missione Unifil. D’altro canto, il via libera delle Nazioni Unite alle operazioni di polizia, necessarie per distruggere i barconi, ha i bisogno della copertura del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ed è di questo che martedì parlerà l’Alto Rappresentante dell’Ue per la politica Estera dell’Ue, Federica Mogherini, nella sua missione al Palazzo di Vetro. Ai suoi interlocutori europei, Ban ricorderà che sono almeno 1.600 le persone morte dall'inizio dell'anno nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, e rimarcherà come questa sia diventata "la rotta più letale al mondo per migranti e richiedenti asilo". I colloqui di stamattina con il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ma anche con i principali leader sono stati finalizzati a raccontare una banale verità: che il problema della Libia, a dispetto di alcune posizioni ideologiche o demagogiche, non è un problema di immigrazione. Sarebbe, lo dico provocatoriamente, quasi positivo perché c'è molto di più. Se fosse solo questo sarebbe grave ma lo potremmo affrontare. Noi stiamo sottovalutando che in quella zona del Mediterraneo si sta giocando una battaglia molto più grande, non un semplice regolamento di conti tribali. E' in gioco la capacità della comunità' internazionale di prevenire il rischio di estensione della minaccia estremista che sarebbe devastante non solo per l'Europa ma innanzitutto per l'Africa”. Così si espresse Matteo Renzi, parlando in Aula alla Camera, in un passaggio delle comunicazioni sul Vertice Ue del 19 e 20 Marzo. Da allora, la situazione è ulteriormente peggiorata e l’Europa non si è rivelata all’altezza di una sfida che non è solo umanitaria ma geopolitica. IL CASO PRODI - C’è, infine, un aspetto “interno” alle tempestose vicende politiche italiane che Ban farà fatica a dribblare visto che è stato chiamato direttamente in causa: ”l’affaire-Prodi”. Intervenendo a “Otto e mezzo” di Lilli Gruber, il presidente del Consiglio ha risposto, alla domanda perché non è stato scelto l’ex premier italiano come negoziatore sulla Libia, che "l'Italia non ha presentato la candidatura di Romano Prodi al ruolo di mediatore in Libia perché le Nazioni Unite, così ha spiegato Ban Ki-moon, hanno deciso che era meglio non avere un ex primo ministro di un paese che aveva avuto forti relazioni con Gheddafi". Renzi anticipa anche che domani porterà su un elicottero e sulla nave San Giusto Ban Ki-moon “per fargli vedere plasticamente cosa sta facendo» l'Italia nel Mediterraneo e per dare il senso di vicinanza a ciò che sta facendo l’Italia”. Tirato in ballo pubblicamente, il Professore prima cerca di resistere alla tentazione di replicare, poi, però, si lascia andare a un sibillino “credo che Ban Ki-moon non la pensasse così...”. Allora, signor Segretario Generale, come stanno davvero le cose? Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/04/26/ban-ki-moon-irritazione-vertice-immigrazione_n_7145764.html Titolo: Umberto De Giovannangeli Bonino: L’Unione europea è cauta perché sui migranti... Inserito da: Arlecchino - Luglio 30, 2016, 11:11:55 am Interviste
Umberto De Giovannangeli · 22 luglio 2016 Bonino: “L’Unione europea è cauta perché sui migranti dipende da Ankara” L’ex ministra degli Esteri: “Colpisce l’entità della purga trasversale come se le liste di proscrizione fossero state preparate prima” “Non so se Erdogan da questa vicenda ne esca più forte o più debole. Certamente ne esce molto più autoritario”. A sostenerlo è Emma Bonino, leader storica Radicale, già ministra degli Esteri e commissaria europea. Quanto all'atteggiamento dell’Europa, l’ex titolare della Farnesina, annota: “Diciamo che finora l’Europa è stata ‘cauta’. E non solo perché nella base turca di Incirlik sono custodite cinquanta bombe atomiche, ma anche, e forse soprattutto, perché l’Europa si è consegnata a Erdogan per risolvere o almeno tamponare l’arrivo di migranti e rifugiati. Il fatto è che, su questo tema cruciale, l’Europa è più dipendente dal ‘rubinetto-Erdogan’ che viceversa”. In Turchia avanza il “contro-golpe” del presidente Recep Tayyp Erdogan. Che idea si è fatta in proposito? Mi sono fatta due idee. La prima, è che solo il tempo farà chiarezza su alcune anomalie evidenti del putsch militare fallito. La seconda idea, è l’entità di questa purga massiccia, come se le liste di proscrizione fossero state preparate prima. A colpire non è solo la dimensione quantitativa di questa “purga” (ad oggi 50mila persone) ma la sua trasversalità. Non c’è ganglio dello Stato che sia stato risparmiato: giornalisti, funzionari a migliaia, 2750 giudici, tra i quali diversi membri della Corte Suprema, sono stati sollevati dall’incarico; oltre 8mila poliziotti sono stati messi fuori; trenta governatori rimossi, così come oltre 103 generali e quadri superiori delle Forze Armate. Su questo ultimo dato, vale la pena di ricordare che quello turco è, per dimensioni, il secondo esercito della Nato, dopo quello degli Stati Uniti. Oggi, di fatto, questo esercito è stato ridotto a un “teschio vuoto”, incapace di lanciare alcuna azione militare contro l’Isis o, come è avvenuto anche nei giorni precedenti il fallito golpe, contro i curdi. In più Erdogan ha chiesto ai suoi seguaci di stare nelle piazze per un’altra settimana, il che sembra significare che la “Grande purga” non è finita. E questo è un ulteriore elemento di preoccupazione. Compresa l’ipotesi di reintroduzione della pena di morte, torture ed umiliazioni pesanti per i “prigionieri” … e via aggravando. Di fronte a questo drammatico scenario, reso ancor più tale dall'annuncio che Ankara ha sospeso la Convenzione europea sui diritti umani, come valutare l’atteggiamento sin qui tenuto dall’Occidente e in particolare dall'Europa? Diciamo, per non infierire troppo, che l’Europa è stata fin qui “cauta”. D’altronde, nel recente accordo Ue-Turchia sui migranti, abbiamo di fatto appaltato alla Turchia, e ci apprestiamo a farlo con i Paesi africani, la difesa delle nostre frontiere esterne e la gestione di migranti e rifugiati. Della serie: la cosa per noi più importante è che ve li teniate, non importa come, in quali condizioni. Né importa molto cosa succede in Turchia, dichiarazioni a parte. Fatelo e noi saremo più “comprensivi”. L’arma più potente che Erdogan ha rivolta verso l’Europa, è rappresentata dai 2,700 milioni di rifugiati “custoditi” in Turchia. Lei ha definito “cauto” l’atteggiamento sin qui tenuto dall’Europa nei confronti della “Grande purga” messa in atto da Erdogan all’indomani del fallito colpo di Stato militare. Spera che questa cautela possa trasformarsi in qualcosa di più incisivo? Ci siamo così consegnati alla Turchia per risolvere i problemi che avremmo potuto e dovuto affrontare noi, e questa dipendenza è destinata a crescere ulteriormente, che è difficile fare poi credibilmente la voce grossa. Noi stessi ci siamo abituati ai morti annegati in Mediterraneo: solo oggi (ieri, per chi legge, ndr) venti morti asfissiati, e nessuna reazione palpabile. Da leader radicale, come da commissaria europea e ministra degli Esteri, Lei ha sempre cercato di praticare la “diplomazia dei diritti” anche quando da più parti si sosteneva, con una grande dose di realpolitik, che i diritti umani non vanno d’accordo con la “diplomazia degli affari”. Questo assunto si presta anche al caso turco? In questo caso più che agli affari veri e propri, e ci sono anche quelli, abbiamo sacrificato la difesa dei diritti umani e civili in Turchia sull’altare della crisi dei migranti, mettendo in secondo piano i principi basilari dello stato di diritto e della democrazia. Il contro-golpe islamista di Erdogan, ha riparto il dibattito sulla compatibilità tra Islam e democrazia. C’è chi ritorna a sostenere che siano entità incompatibili. Certamente c’è una relazione molto tesa, e questo soprattutto nel mondo arabo. Questa tensione è così forte che finisce per oscurare esperienze pure importanti come quelle che riguardano la Tunisia e il Marocco, che meriterebbero, invece, maggiore attenzione e, soprattutto, maggiore sostegno da parte dell’Europa. Per tornare alla Turchia, non possiamo dimenticare che nel primo periodo di Erdogan, la Turchia aveva fatto passi promettenti e importanti sul terreno della democrazia, tuttavia sono stati proprio gli europei, in particolare allora la Germania della cancelliera Merkel e la Francia del presidente Sarkozy, che si rimangiarono la decisione, che era stata presa all’unanimità, di avviare questo processo, che riguardava l’adesione della Turchia all’Unione europea. Dopo di che, la Turchia ha guardato verso un’altra parte. E al momento ha vinto l’altra parte, che è sempre più autoritaria. E il discorso, a ben vedere, può essere esteso anche all’Egitto. La Storia, si dice, non si fa con i se e i ma. Eppure, proviamo per una volta a farla. Se l’Europa avesse insistito nel processo di adesione della Turchia… Io ne ero convinta, pur sapendo perfettamente che il processo sarebbe stato lungo e pieno di contraccolpi. D’altro canto, ogni ingresso di nuovi Paesi nell’Unione non si esaurisce in poco tempo: per Spagna e Portogallo, ad esempio, ci sono voluti dieci anni. Era un rischio che però io avrei corso e affrontato con più tenacia e tenuta, invece fin dal 2006-2007 due grandi Paesi europei cambiarono idea e finirono per imporla a tutti gli altri partner. Da - http://www.unita.tv/interviste/bonino-lunione-europea-cauta-perche-sui-migranti-dipende-da-ankara/ Titolo: Umberto De Giovannangeli E il mondo guarda l’orrore Inserito da: Arlecchino - Agosto 23, 2016, 11:08:50 pm E il mondo guarda l’orrore
Siria Umberto De Giovannangeli 14 agosto 2016 Milioni di esseri umani sono ostaggi di un feroce dittatore, Bashar al-Assad, e di un capo tagliagole sanguinario, il “Califfo” Abu Bakr al-Baghdadi Come Sarajevo. Peggio di Sarajevo. Aleppo, la vergogna del mondo. Di un mondo “libero” che da cinque anni assiste impotente o complice alla distruzione di un Paese, la Siria, e all’annientamento del suo popolo. Milioni di esseri umani sono ostaggi di un feroce dittatore, Bashar al-Assad, e di un capo tagliagole sanguinario, il “Califfo” Abu Bakr al-Baghdadi. In Siria operano quattro dei cinque Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – Usa, Russia, Francia, Gran Bretagna – e agiscono potenze regionali schierate su fronti opposti – Turchia, Arabia Saudita, Iran. Hanno saputo bombardare, ma non hanno liberato il popolo siriano dall’inferno. Le organizzazioni umanitarie, i medici eroi che ancora operano ad Aleppo, hanno lanciato in questi giorni, in queste ore, appelli accorati ai grandi della Terra perché facciano tacere, almeno per 48 ore, le armi, permettendo così i soccorsi ai feriti, l’evacuazione di donne e bambini attraverso corridoi sicuri. Quelle voci disperate si sono perse nel clamore dei bombardamenti, incessanti che, anche ieri, hanno colpito un ospedale. Ad Aleppo sono imprigionati oltre 300mila esseri umani. Non hanno più niente. Manca l’acqua, i generi alimentari di prima necessità, il latte in polvere per i più piccoli, stanno finendo. Non c’è luce. Un inferno in terra. Creato dagli uomini: quelli che combattono strada per strada, e i loro mandanti che risiedono comodamente nei dorati palazzi del potere, a Riad, Ankara, Teheran. Ma la vergogna di Aleppo interroga anche le nostre coscienze, quelle di cittadini europei. I tanto frequentati social sono pieni di filmati che arrivano da Aleppo: morte e distruzione, dolore e violenza senza limiti, entrano nei nostri computer, nei nostri smartphone in tempo reale. Nessuno può dire: non ho visto, non sapevo. E il “chiuso per ferie” non può valere come alibi per non far nulla, per assistere inerti allo scempio di vite umane perpetrato senza soluzione di continuità ad Aleppo. Gli assassini, sotto qualunque vessillo si mascherino, non vanno in vacanza. Dobbiamo saperlo mentre ci si prepara all’e s o do di Ferragosto. E avere il coraggio di guardare i volti dei bimbi di Aleppo, smarriti, impauriti, alla ricerca di un giocattolo tra le macerie delle case distrutte. Provare vergogna è un dovere. Come agire perché Aleppo torni a respirare. Da - http://www.unita.tv/opinioni/e-il-mondo-guarda-lorrore/ Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Dacia Maraini: “Hillary ha sfidato l’America misogina Inserito da: Admin - Novembre 14, 2016, 05:30:17 pm Interviste
Umberto De Giovannangeli · 11 novembre 2016 Dacia Maraini: “Hillary ha sfidato l’America misogina” “Come donna ha dovuto scontrarsi con un’America in cui pesa ancora e tanto la misoginia” «Da questa campagna elettorale, Hillary ne esce a testa alta. Come persona, come donna, prim’ancora che come politica. E come donna ha dovuto scontrarsi con un’America in cui pesa ancora e tanto la misoginia. E come candidata donna le sono imputate cose che non solo al suo rivale ma a qualsiasi politico maschio non sarebbe stato imputato. Lascio ad altri cimentarsi, a posteriori, su valutazioni più marcatamente politiche circa le ragioni della sua sconfitta. Per me, Hillary resta una persona all’altezza, una donna che non ha rinnegato se stessa». A parlare è una delle più grandi scrittrici italiane: Dacia Maraini. Nel suo discorso il giorno dopo la sconfitta, Hillary Clinton ha lanciato un messaggio alle donne americane: “Non vi scoraggiate”. Quale idea si è fatta sulla sconfitta di Hillary? «Anzitutto che è figlia dei tempi. Tempi bui, tempi segnati dalla paura. E la paura consiglia male e orienta in una direzione opposta ai valori democratici. La paura tende alla chiusura, favorisce la costruzione di muri, non solo fisici ma mentali, militarizza non solo il territorio ma anche le coscienze, e questo non lo scopriamo con Trump, ma lo vediamo da tempo in Europa. E poi c’è un’altra considerazione che mi viene da fare e riguarda ciò che l’America è realmente e non l’immagine che di essa ci viene data o che noi europei preferiamo avere». A cosa si riferisce? «Alla misoginia. E ciò, a mio modesto parere, ha pesato e non poco nella sconfitta di Hillary. Per averne una idea basta anche vedere i film americani, quelli in cui c’è il mito del guerriero, del conquistatore. L’America di John Wayne e dei suoi più recenti epigoni. Una delle cose che più mi ha colpito e fatto riflettere è l’accusa rivolta a Hillary Clinton di essere “fredda”. Ad un politico uomo non avrebbero mai rivolto una tale accusa. Ma in un politico, donna o uomo che sia soprattutto se si candida ad assumere incarichi di governo o addirittura di capo di Stato, la freddezza dovrebbe essere una dote e non certo una pecca. Un pregio, non un difetto. Ma questo non vale per Hillary». A sconfiggerla è stato un miliardario “conquistatore”: Donald Trump. Analizzando il voto, c’è chi ha messo in evidenza che una parte dell’elettorato femminile ha voltato le spalle a Hillary e votato Trump. Le chiedo: cosa hanno cercato in lui? «Un padre. Un capo branco. Wilhem Reich, il grande psicanalista che fu allievo di Freud, ha scritto un libro bellissimo che trovo di strettissima attualità: “Psicologia di massa del fascismo”, nel quale si spiega come e perché quando un popolo è in crisi e si vive in guerra, ecco andare alla ricerca di un “Padre”, di una sorta di capo branco. Non importa, o importa poco, che questo “Padre” sia cattivo, può essere anche un criminale. Ciò che importa davvero, rimarca Reich, che sia davvero un “Capo” e che del “Capo” possieda il carisma, come lo aveva Hitler o lo stesso Mussolini. Evidentemente anche le donne americane, o comunque parte di esse, sente di vivere nella paura e allora si va alla ricerca di “Presidente-Padre” anche se cattivo». Come esce Hillary da questa battaglia che comunque ha lasciato i suoi segni. «Ne esce a testa alta. Si dice che le persone vanno “misurate” nei momenti più difficili e questo è indubbiamente un momento difficile, durissimo, triste per Hillary. Ma nella sconfitta, si è dimostrata essere una persona con una grande dignità, grande come il fair play che ha dimostrato non solo in tutta la campagna elettorale cercando di trattenersi dal scendere ai livelli del suo avversario, ma questo fair play Hillary lo ha manifestato anche il giorno dopo la sconfitta, e lo stesso ha fatto Barack Obama quando ha detto di voler aiutare il suo successore alla Casa Bianca. Una lezione di stile, e di sostanza, della quale i politici italiani, non tutti ma molti sì, dovrebbero studiare e farne tesoro. Ma forse chiedo troppo». A proposito di cercare subito l’”anti Trump”. In rete, sui social americani, è partita una petizione-appello perché tra quattro anni a sfidare Trump sia di nuovo una donna: Michelle Obama. Che ne pensa? «Penso che Michelle sarebbe una ottima candidata. Indubbiamente, lei è dotata di un carisma, di una capacità empatica che Hillary non ha avuto. Ma Hillary aveva altre doti che personalmente, da cittadina, ritengo importantissime per decidere se fidarmi o meno di un politico: la competenza, ad esempio, e l’esperienza maturata in particolare in politica estera. Competenza di cui Donald Trump, neo presidente Usa, appare sprovvisto. E non è poca cosa». Da - http://www.unita.tv/interviste/dacia-maraini-hillary-ha-sfidato-lamerica-misogina/ Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Bolaffi: “La sinistra torni a capire il segno dei tem Inserito da: Arlecchino - Dicembre 08, 2016, 06:55:27 pm Interviste
Umberto De Giovannangeli · 6 dicembre 2016 Bolaffi: “La sinistra torni a capire il segno dei tempi” Il filosofo della politica: “Populismo è diventato una sorta di passepartout che non dice niente” «Ogni realtà nazionale trova in sé una chiave interpretativa che può spiegare, in parte, il perché di una sconfitta politica ed elettorale, tuttavia sarebbe un errore esiziale non alzare lo sguardo rendendosi conto di un dato generale di portata epocale: se la sinistra in Europa non riesce a ridefinire complessivamente le proprie opzioni strategiche e di analisi del reale, sempre che questo sia ancora possibile, essa è destinata inesorabilmente a un ciclo di sconfitte. La sinistra non può sperare di tornare a vincere se resta prigioniera del paradigma socialdemocratico». A sostenerlo è Angelo Bolaffi, filosofo della politica e germanista, dal 2007 al 2011 direttore dell’Istituto di cultura italiana a Berlino, autore di numerosi saggi tra i quali ricordiamo: «Il sogno tedesco. La nuova Germania e la coerenza europea» (Donzelli, 1993), e il più recente «Cuore tedesco. Il modello Germania, l’Italia e la crisi europea». (Donzelli, 2013). Professor Bolaffi il meno che si possa dire guardando al presente, è che la sinistra in Europa non se la passi bene. È possibile individuare un tratto comune di questa crisi? «Direi di sì, e questo tratto va ricercato nel fatto che i processi strutturali legati alla globalizzazione, rendono obsolete o addirittura impossibili quelle che sono state le politiche economiche classiche della sinistra, come d’altronde aveva previsto Ralph Dahrendorf quando parlò, circa un quarto di secolo fa, di fine dell’età socialdemocratica. Paradossalmente, dunque, la sinistra socialdemocratica classica si può dire vittima del proprio successo, nel senso che ha realizzato quello che voleva, vale a dire le politiche keynesiane classiche, le politiche di redistribuzione salariale e dei diritti portate avanti dai sindacati. Non è riadattando al Terzo Millennio e all’età della globalizzazione totale, un neo keynesismo che la sinistra può sperare di uscire dalla crisi che l’attanaglia. Una crisi che è innanzitutto di categorie di analisi, e dunque di capacità di comprendere il segno dei tempi, prim’ancora che di programmi o di gestione. Ormai è necessario un cambio di paradigma, tanto è vero che laddove riescono a vincere rappresentanti di forze non riconducibili alle destre, come in Austria o in alcuni Länder tedeschi, costoro sono dei Verdi, i quali hanno sottoposto a critica il paradigma socialdemocratico classico». Guardando alle sconfitte elettorali che la sinistra ha inanellato in Europa e proiettandosi verso gli appuntamenti elettorali del 2017, le presidenziali in Francia, le legislative in Olanda e Germania, si fa sempre riferimento ad una inarrestata “onda populista”. Ma questo termine, “populismo”, può spiegare tutto? «Assolutamente no. “Populismo” è ormai diventato una sorta di passepartout che non dice niente, generalizzando fenomeni diversi. Proviamo a distinguerli: i risultati delle elezioni in Gran Bretagna, dove è stato sconfitto il Partito laburista, e negli Stati Uniti, dove a perdere sono stati i Democratici della Clinton, attengono a due Paesi che non avevano in un caso – il Regno Unito – l’euro e nell’altro, gli Usa, la moneta è il dollaro. Questi risultati non sono ascrivibili, come invece sostiene una diffusa narrazione in voga a sinistra, a cosiddette politiche economiche di austerità che sarebbero state imposte dalla Germania. Ancora: la presenza di forze “populiste” in Austria, Olanda e Germania, Paesi che non soffrono di crisi economica, può essere ascrivibile a problemi legati all’immigrazione ma non certo alle politiche economiche di austerità. I Paesi che invece hanno sofferto maggiormente per via della crisi finanziaria dell’euro, come la Grecia, la Spagna, l’Irlanda, non presentano movimenti populisti di destra. Operare queste distinzioni non è un esercizio intellettuale ma è la base politica e concettuale indispensabile perché la sinistra affronti il “populismo “con un’analisi diversificata. Non c’è una spiegazione unica come non c’è un “populismo “unico. Certamente, sul piano politico, siamo di fronte a sommovimenti tellurici di portata globale che hanno bisogno di chiavi di lettura di cui la sinistra è oggi evidentemente priva». È possibile, andando indietro nel tempo, individuare una fase, come quella dell’oggi, nella quale la sinistra era in così evidente difficoltà? «Se vogliamo trovare in qualche modo una fase di difficoltà di tutta la sinistra in Europa, mi verrebbe da pensare alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso, quando la ricostruzione dell’Europa occidentale venne guidata dalle forze moderate e conservatrici, mentre la sinistra era attestata su posizioni ideologiche quali l’opposizione all’Alleanza Atlantica e alla costruzione dell’Europa unita». A proposito di Europa non travolta dalla marea populista, l’ultimo baluardo sembra essere la cancelliera tedesca Angela Merkel, che pure di sinistra certamente non è. «Di nuovo: la sinistra deve fare i conti, fino in fondo, con la Storia. Anche negli anni del secondo dopoguerra, furono dei politici cattolici democratici, come Adenauer e De Gasperi, a guidare la ricostruzione dell’Europa e ad avviare il processo di unificazione dell’Europa occidentale e a dar vita, con la Nato, all’alleanza con gli Stati Uniti. Allora, nell’Europa della Guerra fredda, non solo la sinistra comunista ma anche la socialdemocrazia tedesca si attestò, sia pure in modi diversi, su posizioni ideologiche. Oggi, nell’epoca della globalizzazione, la sinistra, meno ideologica ma più progettuale, dovrebbe ritrovare il senso di sé indicando all’Europa una prospettiva, una direzione di marcia. Renzi ci ha provato. Altri, no, e questo gli va riconosciuto». Da - http://www.unita.tv/interviste/bolaffi-la-sinistra-torni-a-capire-il-segno-dei-tempi/ Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Parla Vittorio Strada, il più autorevole studioso... Inserito da: Arlecchino - Gennaio 08, 2017, 09:35:30 pm l'Unità TV > Interviste
Umberto De Giovannangeli · 8 gennaio 2017 “Usa-Russia, è la Rete la nuova frontiera della Guerra fredda” Mondo Parla Vittorio Strada, il più autorevole studioso italiano del “Pianeta Russia” «Non siamo di fronte a un fatto isolato, ma a un strategia pianificata a tavolino che avrà altri momenti di attuazione. La frontiera della nuova “Guerra fredda” è quella che ha come campo di battaglia la rete. E su questo tavolo il gruppo dirigente russo ha puntato tutte le sue carte». A sostenerlo è il più autorevole studioso italiano del «pianeta Russia»: il professor Vittorio Strada. In questi giorni è in uscita il suo saggio, quanto mai di attualità, Impero e rivoluzione. Russia 1917-2017 (Marsilio Editori). Professor Strada, l’intelligence Usa conferma: Putin ordinò d’influenzare il voto per le presidenziali che hanno «incoronato» Trump. Qual è il segno di questa ingerenza che il nuovo inquilino della Casa Bianca ha minimizzato ma non smentito? «Indubbiamente ci troviamo a dover fare i conti con una svolta clamorosa, direi decisiva nella storia dei rapporti tra potenze. Lo scontro avviene ormai in forme mediatiche, viaggia nella rete, a “combatterlo” non sono soldati ma hacker. E questo tipo di conflitto viene teorizzato apertamente dagli strateghi della politica russa che attribuiscono alla rete un ruolo essenziale, addirittura di carattere strategico. E quella di cui stiamo parlando sarebbe la prima forma di un intervento diretto in una fase decisiva nella vita politica americana come sono le elezioni presidenziali. Quanto sia stata davvero pervasiva questa “ingerenza informatica” russa non è dato ancora sapere e forse non lo si saprà mai, ma basta il riconoscimento del fatto che ci sia stata per parlare, appunto, di una svolta clamorosa. Clamorosa e non episodica. Nel senso che questo non è che l’inizio di una forma di intervento che certamente, in questo caso in particolare, avrà conseguenze politiche di lunga durata». Lunga quanto? «Non azzardo previsioni temporali, ma quel che è certo è che il contrasto tra Russia e Stati Uniti, e più in generale tra la Russia, i suoi vecchi e nuovi alleati e l’Occidente, è già entrato in una fase di turbolenza nuova, di cui la tutt’altro che risolta crisi ucraina e ancor più la guerra in Siria sono le espressioni più evidenti, con una grande incognita, e cioè la linea di comportamento che sarà tenuta nei fatti, al di là delle dichiarazioni in campagna elettorale, dal nuovo presidente americano. In proposito, va sottolineato come nel mondo politico ufficiale russo, c’è una grandissima aspettativa per una svolta radicale nei rapporti tra le due potenze e questo sulla base della nuova linea di politica internazionale che viene attribuita a Trump». Influenza il voto americano, si pone al centro della partita mediorientale: siamo all’apoteosi dello “Zar del Cremlino”? «Vede, l’errore che si commette spesso nel raccontare le vicende russe, è quello dell’estrema personalizzazione, ritenendo che si sia di fronte, per l’appunto, a uno “zar ”. Nessuno può negare la forte personalità di Putin ma ciò non deve mettere in ombra l’affermarsi di una forma mentis, di una ideologia che sono proprie di una élite dirigente di cui certamente Putin è l’espressione più alta e non solo per la carica che ricopre. Alcuni commentatori politici si spingono a parlare di una fase “post putiniana”, anticipando i tempi, ma io penso che se anche uscisse di scena, ipotesi al momento fantascientifica, questa tendenza permarrebbe, perché è preparata da tutta un’azione che chiamerei politico-culturale, la quale attribuisce alla Russia il ruolo di leadership, addirittura etico-politica, rispetto a un Occidente in fase di decadenza». In precedenza, Lei ha fatto riferimento alle aspettative dei circoli politici russi sulla presidenza Trump. C’è un ambito in particolare dove queste aspettative si orientano maggiormente? «L’aspettativa riguarda un accordo globale, di carattere politico ed economico. L’intervento russo in Siria, che adesso, a missione compiuta, va riducendosi, è stato con tutta evidenza un intervento a favore del regime di Assad, tuttavia la richiesta fatta dalla dirigenza russa alle potenze occidentali, e in primo luogo agli Usa, è stata quella di un rinnovo dell’alleanza antifascista della Seconda guerra mondiale, riattualizzata in chiave di lotta al terrorismo dell’Isis. Questo ha rimescolato le carte sul piano dei rapporti tra gli Stati e in questo senso il caso della Turchia è il più significativo. In Russia addirittura qualcuno ha azzardato l’ipotesi di una uscita di Ankara dalla Nato. Di certo, il nuovo presidente americano e l’Europa si trovano a dover fare i conti con una situazione profondamente mutata rispetto a quella dei tempi recenti, e per l’Europa, intesa come Ue, questo rappresenta, ancor più che per gli Stati Uniti, una sfida politica cruciale, in quanto l’Europa è priva di una sua politica estera e di difesa condivisa e di una visione strategica, deficit ancora più gravi sotto l’impatto dei problemi migratori». Nel pieno della crisi, armata, ucraina, Barack Obama, grande sostenitore delle sanzioni contro Mosca, definì la Russia una “potenza regionale”. Alla fine, a vincere è stato Putin? «In quel caso, ma non solo in quello, Obama dimostrò di non aver capito la nuova politica estera russa. È chiaro che il gruppo dirigente russo ha dato una preminenza alla politica estera rispetto a quella interna, investendo nella prima tutti i mezzi e le risorse disponibili. I sostenitori della “marginalità” russa pongono l’accento sul fatto che la Russia attuale è una potenza economica del tutto secondaria sul piano mondiale, ma si dimentica, o si sottovaluta erroneamente, che la Russia è una super potenza nucleare che a suo tempo ha ricevuto dall’Ucraina il monopolio degli armamenti nucleari sovietici. E una potenza nucleare di questa portata, enorme, non può essere declassata a potenza “regionale” come ha fatto Obama. In definitiva, si può sostenere, a ragion veduta, che il gruppo dirigente russo guidato da Putin si è dimostrato il più abile giocatore sul piano internazionale. Resta da vedere se si tratta di un bluff o di una vera superiorità destinata a pesare nel tempo nella grande partita che è in corso. Per il momento il vincitore sta al Cremlino, è Vladimir Vladimirovič Putin». Da - http://www.unita.tv/interviste/usa-russia-e-la-rete-la-nuova-frontiera-della-guerra-fredda/ Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Salvadori: “Giusto evitare scissioni ma l’eterna... Inserito da: Arlecchino - Febbraio 26, 2017, 12:27:47 am Interviste
Umberto De Giovannangeli · 17 febbraio 2017 Salvadori: “Giusto evitare scissioni ma l’eterna guerriglia è un danno” Lo storico: «Il germe della divisione gettato dal giorno dell’elezione di Renzi a segretario sentito come un intruso. Io mi auguro che sia confermato» Il Pd, tra rischio scissione e un possibile “Nuovo Inizio”. L’Unità ne discute con uno dei più autorevoli storici italiani: Massimo L. Salvadori, professore emerito all’Università di Torino. Professor Salvadori, sul Partito Democratico sembra aleggiare lo spettro della scissione. Come legge questa vicenda? Siamo al capolinea di un progetto politico? «In tema di scissione, siamo ancora su terreno delle ipotesi; anche se ormai vi sono segni vistosi che dall’ipotesi si stia passando alla realtà. Il germe della scissione è stato gettato dal giorno dell’elezione a segretario del partito di Matteo Renzi, quando si vide che la minoranza del partito non accettava, non solo politicamente ma anche psicologicamente, l’ “intruso “come proprio leader; dopo di allora i contrasti non hanno smesso di crescere fino a raggiungere il culmine nel corso della campagna del referendum costituzionale. Se si arriverà alla scissione anche in termini formali, non resta a questo punto che aspettare. Per un partito la scissione è la constatazione di una insuperabile incompatibilità tra componenti opposte. Una scissione è un danno grave. Ma, quando i contrasti superano una certa soglia, ci si deve domandare dove stia il danno maggiore: se nel persistere in una unità solo apparente o nel tirare le somme di fronte ad una situazione che danneggia un partito all’interno e all’esterno. Cercare di evitare la scissione è un dovere, ma il prezzo dell’evitarla non può essere una continua guerriglia che sconcerta elettori e iscritti, indebolisce la leadership e alimenta confusione e al limite porta alla paralisi. Le scissioni sono state un male ricorrente nella storia della sinistra italiana e l’hanno sempre indebolita; e questo dovrebbe attivare senso di responsabilità e prudenza. Sennonché, ripeto, quando la volontà di stare insieme cessa, non rimane che prenderne atto. Se siamo o non siamo alla fine del progetto politico dell’odierno Pd, a decretarlo saranno coloro che opteranno per la scissione». Il confronto-scontro sembra accentrarsi sulle regole, i tempi congressuali, le modalità del dibattito. Ma sono proprio questi l’oggetto del contendere oppure, come alcuni analisti sostengono, alla base vi è il fallimento di quella fusione fredda tra Ds e Margherita da cui è nato il Pd? «Non entro qui nel merito della fusione tra Ds e Margherita. Ma osservo che attualmente le linee di demarcazione interna al Pd mostrano dal lato della maggioranza il convergere di personalità provenienti sia dalla Margherita che dai Ds, come è apparso nello scontro sulla riforma della Costituzione che ha fatto precipitare i contrasti». Questione di contenuti, di visioni. Ma anche questione di leadership. E dunque, Matteo Renzi. Si è detto e scritto che ad animare il segretario del Pd sia una irrefrenabile volontà di rivincita. È così? «Le visioni di un partito si esprimono nei contenuti del suo programma. E il prossimo congresso del Pd è chiamato a dotarsi di un programma chiaro ed efficace atto a convincere le menti e ad allargare l’area del consenso. Occorre sventare il pericolo che il congresso diventi in primo luogo la sede in cui malamente “regolare i conti” tra le opposte correnti (anche se misurare i reciproci rapporti di forza e trarne le conseguenze è fisiologico nella vita di qualsiasi partito). Circa il programma, credo che si debba dare ascolto a Orlando quando insiste sull’opportunità di dedicare le energie necessarie a che si arrivi al congresso con un bagaglio di idee e proposte che sappia offrire risposte all’altezza dei difficili problemi della società nazionale. Ma questo richiede un grande sforzo tanto necessario quanto indifferibile per dimostrare che il Pd possiede le indispensabili risorse in fatto di cultura politica. Renzi è animato da una irrefrenabile volontà di rivincita? Mi limito in proposito a due considerazioni. La prima che è proprio di un leader che sia tale avere la volontà di reagire a una sconfitta come quella subita il 4 dicembre. Alle primarie e al congresso metterà in gioco la sua leadership e si vedrà come ne uscirà. Io –per quanto valga la mia opinione –mi auguro che venga confermato, poiché ritengo che, quali che siano i suoi difetti e limiti, egli abbia una forza personale e una capacità di direzione che fanno spicco; e penso che la sua sconfitta di dicembre sia stata anzitutto una grande sconfitta per il Paese e che non possa mettere in ombra i successi che ha ottenuto nella guida del governo». Nel pensare al futuro della sinistra, non solo in Italia ma in Europa, spesso si evoca un ritorno al pensiero socialista e socialdemocratico. Come a dire: se la sinistra è oggi in crisi, è perché ha abbandonato o addirittura tradito la sua migliore tradizione. «Premetto che da tempo sono e oggi resto un convinto socialdemocratico. Nessuno che abbia anche solo un poco di sale in zucca può non ammettere che la socialdemocrazia è a livello internazionale in crisi profonda nelle sue linee ideali, programmatiche e pratiche. Ma non condivido la tesi di chi sostiene che la storia abbia mandato in soffitta insieme comunismo e socialdemocrazia. Il comunismo è finito in una crisi epocale senza possibilità di ritorno; la socialdemocrazia –che ha dato in passato le prestazioni più alte nel campo della giustizia sociale (anche se relativa) –continua a consegnarci un messaggio di vita civile, di equità, di lotta alle diseguaglianze che, pur bisognoso di tutti gli aggiornamenti resi indispensabili dai tumultuosi mutamenti avvenuti nella società, non ha pari e mantiene piena attualità. Lo dice bene Martin Schulz. Renzi dal canto suo ha avuto il merito di portare il Pd nel seno del Partito socialista europeo, evidentemente comprendendo il significato di fondo di quel messaggio. Certo, io lo vorrei più socialdemocratico». Da - http://www.unita.tv/interviste/salvadori-giusto-evitare-scissioni-ma-leterna-guerriglia-e-un-danno/ Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Svolta in Arabia Saudita, il vecchio re Salman ... Inserito da: Arlecchino - Giugno 25, 2017, 04:16:03 pm ESTERI
Svolta in Arabia Saudita, il vecchio re Salman accantona il nipote per promuovere il figlio. Ringiovanire per perpetuare il dominio politico ed economico Obiettivo ringiovanire la leadership e rilanciare la dinastia. Priorità ridurre la dipendenza dal petrolio e rinsaldare la leadership della Nato araba 21/06/2017 13:44 CEST | Aggiornato 9 ore fa Umberto De Giovannangeli Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam Terremoto in "Casa Saud". Una successione che rivoluziona la scala gerarchica della petromonarchia più nevralgica del Golfo Persico: l'Arabia Saudita. Una "rivoluzione" dinastica che ha un marcato segno generazionale. Ringiovanire per perpetuare il proprio dominio, un'asserzione che vale anche nel regno del fondamentalismo wahabita. La notizia fa il giro del mondo: re Salman dimette il principe ereditario e nipote Mohammed bin Nayef, e promuove al suo posto il figlio Mohammed bin Salman che fino a ieri era il vice principe ereditario. È un cambio politico destinato a pesare fortemente sul futuro del Regno Saud e sull'intero scenario mediorientale. A farlo intendere è la personalità del trentunenne erede al trono: da ministro della Difesa ha spinto per l'intervento militare in Yemen, la linea dura nei confronti dell'Iran, e il blocco nei confronti del Qatar, sospettato di finanziare i movimenti jihadisti legati ai Fratelli musulmani. Il cambiamento dà al principe Mohammed maggiore autorità nel mettere punto il suo piano, "Vision 2030", per ridurre la dipendenza del regno saudita dal petrolio. Il piano prevede fra le prime mosse importanti la vendita di una partecipazione del gigante petrolifero Saudi Aramco e l'inclusione di altre attività sotto il controllo del fondo sovrano nazionale. L'obiettivo è più che ambizioso: cambiare totalmente il volto della nazione più importante del mondo arabo nei prossimi 13 anni. Cambiarlo quanto meno sul piano economico se non nell'introduzione di importanti riforme politiche e di costume (in particolare sul ruolo delle donne nella vita pubblica e nella sfera familiare). Con una reputazione di riformatore, il nuovo erede al trono cumulava finora diversi incarichi: titolare della Difesa, secondo vicepremier, consigliere speciale del re e presidente del Consiglio degli affari economici e dello sviluppo, organismo che guida la compagnia petrolifera Aramco, la prima al mondo. La sua nomina come erede al trono è stata confermata da 31 dei 34 membri del Consiglio di fedeltà, secondo la televisione di stato El Ikhbariya. Questa istituzione ha il ruolo di designare il principe ereditario a maggioranza. E' stato creato in seguito a una riforma nel 2006. Nell'ambito delle modifiche, l'attuale principe ereditario Mohammed bin Nayef, nipote del re, è spogliato di tutte le sue posizioni, inclusa quella di ministro degli interni, riporta l'agenzia di stampa statale mentre il nuovo principe ereditario mantiene il ruolo del ministro della Difesa e diventa vicepremier. Mohammed bin Salman presterà giuramento stasera al palazzo al-Safa alla Mecca dopo la preghiera notturna del Tarawih. Lo ha stabilito lo stesso sovrano, come riporta l'agenzia di stampa ufficiale saudita Spa. Re Salman inoltre ha nominato con un decreto il principe Faisal bin Sattam bin Abdulaziz Al Saud come nuovo ambasciatore della monarchia in Italia con il rango corrispondente a quello di ministro. L'attuale ambasciatore saudita in Italia, Rayed Khalid Krimly, è in carica dal 2015. Tra le varie nomine decise nelle ultime ore, re Salman ha anche scelto il principe Khalid bin Bandar bin Sultan bin Abdulaziz Al Saud come nuovo ambasciatore della monarchia in Germania. Che il giovane e ambizioso MBS (così è anche conosciuto) sia un uomo ambizioso e dalle idee chiare è confermato dal suo breve ma già intenso percorso politico. E non va sottovalutato il fatto che il nuovo erede abbia ottimi rapporti con Washington che non guastano in una fase in cui l'amministrazione Trump ha particolarmente spinto un riavvicinamento con gli alleati del Golfo. Ma la scelta del vecchio e malato re Salman non era nell'immutabile essere di una dinastia che conta più di 7mila principi. E' una scelta di discontinuità in un Regno che ha rinviato nel tempo qualsiasi elemento di discontinuità. Da questo punto di vista, la nomina di MBS rappresenta la presa d'atto da parte dell'ottuagenario re che il Regno andava puntellato ringiovanendole la leadership. Ma questo, a ben vedere, più che una prova di forza è un segno di debolezza o comunque d'incrinatura all'interno della famiglia allargata saudita. Perché ora c'è da vedere come reagirà il defenestrato l'ormai ex principe ereditario e nipote Mohammed bin Nayef. Di certo, l'astro nascente, e affermato, della politica saudita imprimerà una ulteriore accelerazione alla crisi aperta con il Qatar. "Quel che è già evidente riflette in proposito Rami Khouri, tra i più autorevoli giornalisti libanesi - è la determinazione di alcuni Paesi arabi, guidati dall'Arabia Saudita, a ricorrere alla guerra economica e militare, a tattiche di deprivazione alimentare e ad altri mezzi pur di mantenere il mondo arabo nella sua fatiscente condizione attuale. È questa la reale minaccia che pende sui cittadini e le società del mondo arabo". L'ambizioso obiettivo di MBS è quello di riportare sotto il pieno controllo saudita la "Nato araba", oggi profondamente spaccata. Ed è una lacerazione che porta con sé rischi di stabilità fortissimi non solo per il piccolo, ma ricchissimo, emirato qatarino, ma anche per la stessa Arabia Saudita. Sullo sfondo di questa aspra contesa per la leadership nel mondo sunnita, c'è il rapporto, o per meglio dire, il mai sopito conflitto con il Paese guida dell'universo sciita: l'Iran. Qatar, Kuwait e Oman conservano da sempre rapporti più cordiali con Teheran. Il Qatar condivide nel Golfo Persico il più grande giacimento di gas al mondo, la fonte della sua immensa ricchezza, e ha tutto da perdere in una guerra aperta con l'Iran. Le posizioni sono poi diverso sul piano ideologico. Il Qatar ha come religione di Stato lo stesso wahabismo dei sauditi ma appoggia anche formazioni salafite "rivoluzionarie", come i Fratelli musulmani, che si sono sempre schierate contro la Casa dei Saud e vogliono abbatterla. "In questa ostilità accesa – rimarca Giuseppe Dentice, Associate Researcher ISPI - il rischio è che il protrarsi della contrapposizione tra Qatar e Arabia Saudita possa tramutarsi in un nuovo squilibrio geopolitico per l'area Golfo, con immediate e non meno pericolose ricadute ancor più destabilizzanti per l'intera regione mediorientale. Una crisi diplomatica e geopolitica, dunque, suscettibile di generare un nuovo corso politico nel Golfo". MBS è chiamato, sul piano interno, a coniugare fermezza e rinnovamento, tradizione religiosa e modernizzazione economica, e sul fronte esterno, rafforzare i legami con l'alleato della Casa Bianca evitando, al tempo stesso, di spezzare completamente i legati (fatti di sostegno finanziario per condurre guerre di procura) con i movimenti che al wahabismo saudita si ispirano. Un'impresa titanica anche per un giovane ambizioso e determinato come MBS. Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/06/21/svolta-in-arabia-saudita-il-vecchio-re-salman-accantona-il-nipo_a_22496975/?utm_hp_ref=it-homepage Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Torture, sovraffollamento, malnutrizione, caldo, ... Inserito da: Arlecchino - Agosto 08, 2017, 06:03:54 pm ESTERI
Torture, sovraffollamento, malnutrizione, caldo, malattie. L'inferno dei 12 centri di "accoglienza" libici Cartoline dall'inferno dei luoghi sparsi fra Tripolitania e Cirenaica in cui i migranti diventano "merce" politica nella guerra per il potere 07/08/2017 18:10 CEST | Aggiornato 14 ore fa Umberto De Giovannangeli Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam Ora, non sono più solo "merce" buona per ingrossare gli affari milionari dei trafficanti di esseri umani. Ora, la massa di disperati che affolla la rotta mediterranea è diventata anche "merce" politica utilizzata dai signori della guerra libici, mascherati da improbabili statisti, per essere riconosciuti dall'Europa come i nuovi "Erdogan". Sono almeno dodici, a quanto risulta all'HuffPost attraverso l'incrocio di fonti vicine al parlamento di Tobruk e a quello di Tripoli, i centri di detenzione nei quali vengono ammassati, in condizioni disumane, decine di migliaia di persone, senza distinzioni di età e di sesso, che dall'Africa subsahariana hanno raggiunto il Paese nordafricano. Che vi sia una collusione tra elementi, anche ai livelli più alti, della Guardia Costiera libica e le organizzazioni dedite al traffico di esseri umani, l'HuffPost lo aveva denunciato in tempi non sospetti, e ora questa collusione è confermata anche dalle accuse della Procura di Trapani. Ma il punto di svolta, quello su cui si fatica ancora a ragionare, è che una tragedia umanitaria si sta trasformando in un'arma del fare politica nello Stato fallito, e tripartito, di Libia. Le fonti che hanno parlato con HuffPost concordano nel ricostruire un quadro nel quale affari e politica s'intrecciano indissolubilmente, chiamando in causa tutti i principali attori che, armi alla mano, si muovono nel caos libico. Una parte, almeno sette, di questi centri di detenzione si trovano sul territorio controllato da milizie-tribù che ancora hanno giurato fedeltà al governo di Accordo nazionale guidato da Fajez al-Serraj, il premier sostenuto dall'Italia e riconosciuto, a parole, dall'Onu. Gli altri cinque centri si trovano, invece, sulla costa attorno a Sirte e ai confini tra la Libia e la Tunisia, dove ad operare sono milizie e tribù che hanno come riferimento l'uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar e, nel deserto tra Libia e Tunisia, nella sporca partita ci sono anche milizie jihadiste legate all'Isis. Una delle più agghiaccianti case dell'orrore si trova a Sabratha, uno dei porti clandestini d'imbarco dalla Libia verso l'occidente, circa 70 chilometri a ovest di Tripoli e meno di 100 dal confine con la Tunisia. I migranti vengono rinchiusi in questo casermone, costretti a subire per mesi la crudeltà dei trafficanti di essere umani. Altri due famigerati centri di detenzione si trovano nella località di Zuwara,, mentre tre si trovano in località Tajura. Zuwara è la nota località di imbarco utilizzata dalle bande di trafficanti, si trova a ovest di Tripoli. Tajura è 30 chilometri a est della capitale libica. Uno scafista marocchino, tunisino o egiziano riceve tra i 20 e i 30 mila euro per un viaggio e se riesce a riportare indietro la barca viene pagato il doppio. Se lo scafista è qualcuno dei paesi sub sahariani non riceve alcun pagamento ma può viaggiare gratis. Controllare i centri di detenzione è diventato un aspetto fondamentale della battaglia che vede contrapposti Tobruk e Tripoli, Haftar e Serraj, come, se non di più, del controllo delle aree dove sono presenti i più importanti centri petroliferi della Libia. Il "modello turco" sta facendo scuola in Libia: il "Sultano di Ankara", al secolo il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, ha usato i quasi 3 milioni di profughi siriani come arma di ricatto nei confronti dell'Europa, ottenendo in cambio 6 miliardi di euro oltre che il silenzio complice rispetto alla "Grande purga" perseguita da Erdogan all'interno. Ankara ha garantito un "tappo" alla rotta balcanica, come voleva la Germania, e ora sia Haftar che Serraj intendono replicare quel modello sulla rotta mediterranea. I disperati intercettati in mare e rispediti indietro diventano così ostaggi nelle mani dei potentati "politici" di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, oltre che arricchire gli schiavisti del Terzo millennio. Dall'inferno libico giungono altre testimonianze che danno conto di una situazione sempre più degradata: i centri di detenzione sono paragonabili a veri e propri lager, nei quali le persone sono costrette. "Una realtà - spiega Oxfam - fatta di abusi, torture e detenzioni illegali vissuta dalla gran parte dei migranti arrivati in Libia per mano di milizie locali, trafficanti e bande criminali", già denunciata a luglio da Oxfam insieme ai partner Borderline Sicilia e Medu (Medici per i Diritti Umani). "Persone che arrivano in Libia - paese che non prevede alcun sistema di richiesta di protezione internazionale - fuggendo dalla violenza perpetrata nei loro confronti per trovare solo altra violenza". "A voi amici miei che vi trovate dalle parti dell'Algeria e del Marocco. In Libia non si scherza adesso, amici miei, non cercate neanche di metterci piede. E' disastroso, 80 morti in un massacro non più di una settimana fa. Uccidono i neri per nulla". Sono le parole scritte sul profilo facebook di un immigrato di origini camerunensi ospite di un centro di accoglienza del Centro Sud Italia, parole corredate da una serie di foto raccapriccianti: uomini di colore decapitati, altri con il cranio fracassato, o cadaveri avvolti in coperte. Tutti, comunque, abbandonati in strada, in un quartiere di Tripoli: la mattanza, spiega la nostra fonte, sarebbe avvenuta nel quartiere Gargaresh. Bande criminali in lotta per il controllo del traffico di droga e prostituzione avrebbero aperto una faida in cui sarebbe morto anche un agente di polizia. Per questo le forze di sicurezza all'indomani sarebbero arrivate sul posto per dare una lezione alle gang, coinvolgendo però molti migranti che lì vivono: "C'è un posto in quel quartiere che si chiama Chad, dove ogni mattina i neri si riuniscono per recarsi a lavoro. E' lì che è avvenuta la strage. Sono arrivati coi veicoli blindati, armati fino ai denti, ed hanno massacrato persone innocenti". "Fino a che non ci sarà in Libia uno Stato di diritto e un sistema di asilo funzionante bisogna assolutamente sospendere ogni collaborazione con la Libia", ribadisce Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. La stessa Amnesty International non può entrare nel Paese: "Non ci sono le condizioni per una nostra presenza, né dal punto di vista della sicurezza, né dal punto di vista politico", spiega Noury. Nel frattempo, Amnesty sta raccogliendo centinaia di testimonianze di persone scappate dalla Libia e tutte raccontano storie di schiavitù, compravendita di esseri umani, violenze verso le donne, in particolare quelle cristiane: vengono interrogate sul Corano e, se non sanno rispondere, vengono torturate e stuprate. Se hanno un crocifisso al collo la loro sorte è segnata. E poi ci sono anche i rapimenti a scopo di estorsione: non rilasciano fino a che la famiglia del sequestrato non paga il riscatto. "Queste sono le persone che hanno urgenza di partire dalla Libia e che i Paesi europei stanno invece cercando di bloccare là". Cartoline dall'inferno. "Quando arrivi in Libia, quello è il momento in cui inizia tutto, quando cominciano a picchiarti", racconta Ahmed, 18 anni, proveniente dalla Somalia e arrivato in Libia nel novembre 2016 attraverso il Sudan. I trasportatori si rifiutavano di dare da bere e a volte sparavano a chi supplicava un goccio d'acqua, come è successo a un gruppo di siriani che stava morendo di sete. "Il primo siriano morto era un giovane, poteva avere 21 anni. Dopo ci hanno dato da bere ma nel frattempo era stato ucciso un altro siriano di 19 anni". I trasportatori hanno rubato gli oggetti personali dei due siriani morti e non hanno permesso di seppellirli. Paolos, 24 anni, un eritreo arrivato in Libia nell'aprile 2016 attraverso Sudan e Ciad, ha raccontato che i trasportatori hanno abbandonato un disabile nel deserto, poco dopo essere entrati in Libia diretti a Sabha. "Hanno gettato un uomo dal pick-up lasciandolo nel deserto. Era ancora vivo. Era un disabile", racconta Paolos. "Sono stato arrestato da una banda armata mentre stavo camminando per la strada a Tripoli", racconta H.R., 30 anni dal Marocco: "Mi hanno portato in una prigione sotterranea e mi hanno detto di chiedere il riscatto alla mia famiglia. Mi hanno picchiato e ferito diverse volte con un coltello. Violentavano regolarmente gli uomini". "Un giorno, un gruppo di soldati è entrato nella nostra casa", ricorda K.M., 27 anni, originaria della Costa d'Avorio. "Mi hanno picchiata e sono stata violentata davanti a mio fratello e mia figlia". Ramya, un'eritrea di 22 anni, è stata stuprata più di una volta dai trafficanti che la tenevano prigioniera in un campo nei pressi di Ajdabya, nel nord-est della Libia, dove era entrata nel marzo 2015. "Dopo aver bevuto alcool e fumato hashish, le guardie entravano e sceglievano le donne. Poi le portavano fuori. Loro cercavano di opporsi ma quando hai una pistola puntata alla testa, non hai altra scelta se vuoi sopravvivere. Mi hanno stuprata due o tre volte. Non volevo perdere la vita". Antoinette, 28 anni, proveniente dal Camerun, ha descritto i trafficanti che la tenevano prigioniera nel marzo di quest'anno: "Non gliene importa nulla se sei una donna o un bambino. Ci picchiano coi bastoni, sparano in aria per metterci paura... Avevo con me un bambino, forse per quello non mi hanno stuprata, ma l'hanno fatto alle donne incinte e a quelle che viaggiavano sole". "Abbiamo sentito storie di migranti che sono stati costretti a seppellire vivi degli amici perché si erano fatti male e non potevano camminare e i trafficanti, non volendo fardelli, li hanno costretti a seppellire vive queste persone, chiaramente sotto la minaccia delle armi e i loro amici non hanno potuto fare altrimenti", afferma Flavio Di Giacomo, portavoce dell'Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Storie di corpi cosparsi di benzina e dati alle fiamme. Bastonate sulle piante dei piedi fino a spaccarli. Lesioni alle gambe, alle braccia. Sevizie di ogni tipo. Cadaveri abbandonati come spazzatura per le strade. "Noi dalla pelle nera, ci chiamano animali. E ci trattano da animali", racconta un ragazzo eritreo di 16 anni che ha trascorso quasi un mese e mezzo in un centro di detenzione. Racconta don Mussie Zerai, presidente dell'Agenzia Habeshia per la cooperazione e lo sviluppo: "Sono centinaia i profughi tenuti in condizioni di schiavitù a Kufra", dove "sono costretti ai lavori forzati da uomini armati, che li costringono a maneggiare armamenti pesanti, pulire carri armati, senza cibo ne' con un comunicato denunciava le inumane condizioni dei centri di detenzione libici dove, arbitrariamente, sono rinchiusi migranti, rifugiati e richiedenti asilo. La scarsa ventilazione, il sovraffollamento e il trattamento degradante agito nei centri di detenzione a Tripoli e Misurata stanno provocando malnutrizione, malattie della pelle e delle vie respiratorie oltre a gravi problemi di salute mentale. "In 40 anni di carriera non ho mai visto un orrore simile", ha affermato il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, facendo riferimento ai racconti di torture e violenze di cui è accusato Osman Matammud, ritenuto il presunto aguzzino di un campo di raccolta migranti in Libia. Gli orrori peggiori, durante i quali molti perdono la vita, raccontano di torture atroci come la cosiddetta "falaka", effettuata colpendo le piante dei piedi con fruste o oggetti simili, che provocano ferite talmente profonde da impedire alle persone di camminare. E.I. 28 anni, dalla Nigeria, ha ancora i segni di indurimento della pelle perché è stato costretto a continuare il viaggio trascinandosi sulle ginocchia. Vanno per la maggiore anche la tortura da film horror nota come sospensione "da macelleria", appesi con i piedi in alto e la testa in basso o costretti ad assumere altre posizioni stressanti (ammanettamento, in piedi per un tempo prolungato). Cartoline dall'inferno. Cartoline dalla Libia, dove trafficanti, generali e premier si arricchiscono o usano "politicamente" i disperati della terra. Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/08/07/torture-sovraffollamento-malnutrizione-caldo-malattie-linf_a_23068827/?utm_hp_ref=it-homepage Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI Giù le mani da padre Zerai, angelo custode dei profughi Inserito da: Arlecchino - Agosto 12, 2017, 05:24:18 pm IL BLOG
Giù le mani da padre Zerai, angelo custode dei profughi africani 10/08/2017 17:33 CEST | Aggiornato 10/08/2017 17:33 CEST Umberto De Giovannangeli Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam La sua storia pubblica parla per lui. Per un sacerdote coraggioso, che ha sposato la causa dei più indifesi. Da anni si batte per aiutare migliaia di disperati a fuggire dall'inferno di guerre, pulizie etniche, regimi sanguinari, povertà assoluta, sfruttamento disumano, disastri ambientali. Per questo, don Mussie Zerai era stato candidato al Nobel per la pace nel 2015. Ed ora si vede accusato di favoreggiamento all'immigrazione clandestina. Il politically correct porta a dire: fiducia nella magistratura, che faccia il suo corso. Ma la storia non può essere riscritta in un'aula di tribunale. Zerai è l'angelo dei profughi africani: da almeno otto anni il sacerdote di origine asmarina riceve chiamate a ogni ora da migranti in difficoltà lungo le rotte africane e in mare. E lui segnala. Lo faceva quando era studente nel collegio etiopico in Vaticano, lo fa ora in Svizzera dove è cappellano della comunità eritrea. "Certo che invio messaggi alle Ong – conferma don Zerai a L'Avvenire –, di norma avviso Medici senza frontiere, Watch the med, Sea Watch. Pubblico anche su Facebook le coordinate dell'imbarcazione omettendo il numero da cui ho ricevuto la chiamata per evitare che si intasi. Ma non ho mai avuto contatti diretti con i tedeschi della nave Iuventa. Non so se hanno usato i miei messaggi per salvare persone in difficoltà, forse qualcuno glieli ha passati. Ma non erano messaggi privati". Don Zerai non ha mai dimenticato le sofferenze che patiscono ogni giorno, da anni, i suoi connazionali eritrei. Per loro, lo status di rifugiato non verrà mai preso in considerazione, anche se fuggono da uno dei regimi più feroci esistenti sulla faccia della terra, nonostante siano loro a riempire, ancor più dei siriani, le carrette del mare che solcano, e affondano, nel Mediterraneo. Sono i dannati della terra, gli ultimi fra gli ultimi: gli eritrei. I rapporti delle maggiori organizzazioni umanitarie internazionali sono pieni di racconti e testimonianze agghiaccianti: storie di donne violentate e poi venute ai nuovi schiavisti, racconti di abusi e torture indicibili. Amnesty International in un recente report indica che dall'Eritrea scappano mediamente 5mila persone al mese. In questi 10 anni si stima siano fuoriusciti 400mila giovani su una popolazione di sei milioni. Tuttavia per l'Europa gli eritrei fanno parte dell'universo dei "migranti", un universo di "serie b" rispetto a quello dei potenziali asilanti, perché, si afferma, in Eritrea non c'è la guerra. E così nella Nigeria di Boko Haram, nella Somalia degli al-Shabaab, nel Mali dove, nonostante l'intervento francese, è ancora radicata al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi)...È vero, in Eritrea, c'è qualcosa d'altro e, per certi versi, di peggiore: c'è un regime sanguinario, tra i più feroci al mondo, e tuttavia al regime di Asmara, la solidale Ue ha elargito negli ultimi due anni oltre 300 milioni di euro in quota "cooperazione allo sviluppo". Lo sviluppo di una tirannia tentacolare. Una comunità internazionale imbelle e distratta non ha nella sua agenda, neanche agli ultimi posti, il "caso Eritrea". E a smuovere le coscienze dei Grandi della Terra non servono i sempre più allarmanti rapporti delle più impegnate agenzie umanitarie. L'arrivo in Italia avviene dopo diversi mesi dalla partenza dall'Eritrea e dopo un viaggio attraverso l'Etiopia, il Sudan e la Libia, estremamente rischioso, che può durare anche più di 2 anni. Dai racconti dei minori non accompagnati eritrei incontrati dagli operatori di Save the Children in frontiera emerge che la decisione di partire viene presa dai ragazzi da soli, spesso perché sentono forte la responsabilità di dover provvedere al mantenimento dell'intera famiglia, fin da piccoli. Il primo Paese che incontrano, lasciando l'Eritrea, è l'Etiopia. Per riuscire a raggiungere questo Paese devono attraversare due trincee, raggiungono a piedi il Tigrai, zone situata a nord dell'Etiopia contattando un trafficante che li guida oltre il confine. La situazione al confine è descritta dagli stessi ragazzi come molto pericolosa: riferiscono che molti loro compagni sono rimasti uccisi da militari eritrei. Arrivati in Etiopia, i militari etiopi presenti in trincea, portano direttamente i profughi in diversi campi. Quando riescono ad allontanarsi dai campi, per riuscire ad attraversare la frontiera clandestinamente tra Etiopia e Sudan, devono pagare circa 300 dollari e superare un grande fiume che si chiama Tekese. Esistono trafficanti che fanno attraversare il fiume ai profughi, a piedi, mediante l'utilizzo di animali come cammelli e mucche. In Sudan il percorso è ancora più rischioso per la presenza dei Rashaida, nomadi che si arricchiscono sequestrando e chiedendo ingenti riscatti (fino a 20mila dollari) per rilasciare i migranti. Durante la prigionia subiscono torture e violenze, come l'utilizzo di scariche elettriche. Attraversato il Sudan arrivano in Libia, da soli o ceduti dai trafficanti sudanesi a quelli libici. Trascorrono mesi in carcere da cui possono essere liberati solo a fronte di pagamento o andando a lavorare in condizioni di schiavitù. Quando riescono a fuggire da queste situazioni resta solo da affrontare il mare per arrivare in Europa, rischiando, ancora una volta la propria vita. In altri casi vengono detenuti dai trafficanti in luoghi isolati, stipati per mesi, in gruppi di anche 40 persone, in un'unica stanza. Rimangono in attesa di partire in un viaggio organizzato dai trafficanti stessi con imbarcazioni fatiscenti. Ma se è vero che senza memoria non c'è futuro, vale la pena riportare alla luce testimonianze che danno conto, più di dotte disquisizioni geopolitiche, di una tragedia che non conquista le prime pagine dei giornali, che non smuove le coscienze, non costruisce mobilitazione dal basso. Testimonianze come quella di una donna, una dottoressa coraggiosa: Alganesh Fessaha, eritrea, dell'organizzazione non governativa Gandhi: "Non solo eritrei, anche etiopi, somali e persone di altre nazionalità sono in grave pericolo, dopo aver vissuto per mesi nei lager Sinai. Persone che per svariati motivi – racconta - la maggior parte perché perseguitati dai dittatori nei loro Paesi, hanno lasciato affetti e radici alla ricerca di un posticino per poter continuare a vivere, diritto legittimo di ogni persona. Sono stati venduti ai trafficanti di uomini dalle guide a cui si erano affidati mentre attraversavano il Sinai per raggiungere Israele". Trafficanti crudeli, senza alcuna pietà. Donne stuprate davanti ai figli e i loro compagni, uomini e donne, e anche minori, torturati anche fino alla morte dai loro aguzzini. Mentre le vittime erano sotto tortura, i trafficanti di uomini chiamavano le famiglie delle vittime per estorcere denaro; riscatti altissimi, fino a 50.000 – 60.000 dollari, generalmente pagati da parenti lontani in Europa, Usa, Canada ecc. Chi non poteva pagare, spesso veniva ucciso, oppure sottoposto all'espianto degli organi, immessi poi nel mercato nero del traffico di organi. "Quando chiamano per chiedere i soldi del riscatto – aggiunge ancora la dottoressa Fessaha - i prigionieri vengono picchiati, viene loro versata addosso dell'acqua, poi viene attaccata la corrente così che le scosse elettriche li facciano urlare di più". Oppure, per farli gridare, li bruciano con plastica fusa, benzina e acidi. Sentendone le urla e le richieste disperate di aiuto, i parenti raccolgono tutto il denaro che riescono a racimolare indebitandosi, se necessario, o chiedendo aiuto ad altre famiglie. Il pagamento avviene tramite i circuiti internazionali del money transfer". Un ruolo chiave nei rapimenti lo svolge l'Unità eritrea di controllo dei confini, guidata dal generale Teklai Kifle: questi spesso rapiscono i giovani di 16 e 17 anni, costretti dal regime a completare il ciclo di studi prestando servizio militare per un anno nel campo militare di Sawa. Una volta sequestrati, gli eritrei vengono torturati e rinchiusi in prigioni sotterranee. Le donne vengono stuprate a ripetizione, spesso anche in pubblico, e ai genitori vengono fatte ascoltare le urla dei figli attraverso telefonate durante le sevizie. Per i giovani eritrei viene di solito chiesto un riscatto di 10.000 dollari. Altri profughi, riusciti a fuggire dall'inferno del Sinai, etiopi ed eritrei, raccontano che i trafficanti beduini prendono in consegna gruppi di due-trecento persone per condurli in Israele, ma poi li rinchiudono in container e gabbie metalliche dove vengono picchiati, privati di cibo e acqua, sottoposti a torture, contusioni e scariche elettriche, appesi per i piedi o per le mani. Una di queste sventurate, Fatima, aveva raccontato così la sua tragedia: "Non abbiamo acqua potabile - dice Fatima - dobbiamo bere l'acqua del mare e molti di noi già hanno problemi intestinali. Ci danno da mangiare una pagnotta e una scatola di sardine ogni tre giorni, siamo costretti a vivere incatenati come bestie". "Negli ultimi 15 anni in Eritrea non è cambiato nulla. È un Paese completamente militarizzato che non dà spazio, soprattutto ai giovani che possono sognare un futuro diverso da quello che il regime ha prospettato per loro, ovvero la vita militare fino a 50 anni. L'assenza totale di una prospettiva diversa, di una possibilità di realizzare i propri sogni, come poter continuare gli studi o lavorare dove si desidera, è inaccettabile. In aggiunta c'è totale assenza di qualsiasi libertà, di qualsiasi diritto. I giovani non vogliono essere trattati da schiavi di fatto, perché il servizio militare è diventato una schiavitù legalizzata. Ecco perché fuggono, vogliono avere un futuro diverso, senza rischiare la vita ogni giorno per qualcosa in cui non credono più". Parole che don Zerai, responsabile della pastorale degli immigrati eritrei ed etiopi in Svizzera e fondatore della Ong Agenzia Habeshia, non smette di ripetere cercando di incrinare così un muro di silenzi e complicità. L'Eritrea è diventata indipendente dall'Etiopia nel 1933: in 22 anni, è stata capace di produrre oltre 360mila profughi su una popolazione di 6 milioni di abitanti. Il "caso Eritrea" chiama in causa l'Europa e, pesantemente, l'Italia. Ogni mese circa 5000 persone, soprattutto giovani, fuggono dal regime di Isaias Afewerki, che nega ogni forma di democrazia, ogni libertà, anche la più elementare, avendo trasformato il Paese del Corno d'Africa in una "galera a cielo aperto". Nel luglio scorso, però, la Commissione ha negoziato con l'Eritrea un nuovo pacchetto di aiuti allo sviluppo, di oltre 300 milioni di euro. A molti non è chiaro come queste risorse verranno impiegate e, nel protocollo d'intesa, non risultano accordi con il governo eritreo sul rispetto dei diritti umani. Una colpevole dimenticanza. In un rapporto di 500 pagine, diffuso dall'Alto Commissariato Onu dei Diritti Umani, non ci sono solo resocontate le ingiustizie del servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato e la negazione di qualsiasi forma di espressione, già denunciati da numerose Ong e attivisti da anni. "Il governo eritreo ha creato un clima di terrore in cui il dissenso è sistematicamente represso, la popolazione è costretta al lavoro forzato e a carcerazioni arbitrarie, tanto da poter parlare di crimini contro l'umanità", dicono i commissari Onu. Nel rapporto si parla di torture, incarcerazioni arbitrarie, soppressione di ogni libertà, di "governo del terrore" improntato sulla "regola della paura". La Commissione guidata da Sheila B. Keetharuth è arrivata a sostenere che la tortura verso i dissidenti venga applicata come una vera e propria "politica dissuasiva di governo" tanto da essere così diffusa da diventare sistematica. La risposta dell'Europa è in quei 300 milioni di euro elargiti, per il periodo 2014-2020, al regime di Asmara. Anche l'Italia ha riavviato i rapporti di Cooperazione, con un primo stanziamento di circa 2,5 milioni di euro. Il governo italiano è anche promotore del cosiddetto Processo di Khartoum, un piano di cooperazione tra paesi dell'Unione europea e del Corno d'Africa per prevenire la tratta di esseri umani. Difetto, non marginale, dell'operazione è l'inclusione del governo eritreo come interlocutore, quando l'oppressione del regime è proprio il motivo della fuga. Nessuna forma di aiuto economico o di cooperazione servirà a migliorare la situazione fino a quando non sarà avviato un serio percorso di democrazia e rispetto delle libertà fondamentali, suggerivano, inascoltati, i commissari delle Nazioni Unite. E con loro, don Mussie Zerai. Da - http://www.huffingtonpost.it/umberto-de-giovannangeli/giu-le-mani-da-padre-zerai-angelo-custode-dei-profughi-africani_a_23073666/?utm_hp_ref=it-homepage Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Nobel contro Aung San Suu Kyi per il genocidio dei... Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2017, 05:53:04 pm ESTERI
Nobel contro Aung San Suu Kyi per il genocidio dei Rohingya. Yunus all'Huffpost: "Fa trionfare una malsana ragion di Stato" Il "banchiere dei poveri" come Malala, Tutu, Dalai Lama e altri, critico per i silenzi della presidente birmana, che diserterà anche l'Assemblea Onu 14/09/2017 17:31 CEST | Aggiornato 23 ore fa Umberto De Giovannangeli Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam Nobel contro Nobel. Ovvero, la caduta di un'icona. Un simbolo infangato: Aung San Suu Kyi. La paladina dei diritti umani e della democrazia calpestati dai militari nel suo Paese, il Myanmar, che da presidente sembra aver chiuso gli occhi e rimasta silente di fronte alla brutale repressione dei Rohingya, la minoranza musulmana del suo Paese. Prima Malala, poi Desmond Tutu ora anche Mohammed Yunus, anche loro insigniti del Nobel per la Pace, prendono fortemente le distanze da San Suu Kyi e da una scelta politica dettata da una "malsana ragion di Stato". C'è chi sta raccogliendo firme perché il comitato norvegese che assegna il Nobel per la Pace compia un gesto senza precedenti: decidere la revoca del riconoscimento alla presidente birmana perché "i suoi silenzi e la copertura alla sanguinosa repressione interna, ledono con i principi fondativi del Premio". Altri, invece, non nascondono il loro dolore e lo smarrimento per un comportamento che confligge con la storia di Aung. Cercano di capire, si appellano a quella che oltre che collega di Nobel è stata un'amica personale, una compagna di viaggio sul cammino delle libertà. "Una democrazia è tale quando riconosce e rispetta i diritti delle minoranze, siano esse etniche o religiose. Purtroppo ciò che da tempo sta avvenendo in Myanmar va nella direzione opposta" dice all'HuffPost il Nobel per la Pace 2006 Mohammed Yunus, il "banchiere dei poveri", l'ideatore del moderno microcredito in Bangladesh. "Negli anni ho imparato a conoscere Aung San Suu Kyi, ne sono diventato amico. So il prezzo personale che ha pagato per la sua battaglia di libertà, ed è proprio per quei valori condivisi che reputo grave, assordante, il suo silenzio in questa tragica vicenda. È come se una malsana ragion di Stato avesse avuto il sopravvento sul rispetto delle minoranze e dei diritti umani. Per questo - prosegue Yunus - torno a chiederle di parlare, di condannare la repressione in atto, di non esserne complice. Moltissime di queste persone hanno cercato rifugio nel mio Paese, il Bangladesh, ma la situazione, per quel che ne so, diventa ogni giorno più drammatica e insostenibile. E a pagarne il prezzo più alto, come sempre, sono i più indifesi: le donne, i bambini, gli anziani". Yunus racconta di aver provato diverse volte a contattare la presidente birmana: "Ma lei – dice – non ha mai risposto". E non lo farà neanche dalla tribuna dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite: il portavoce presidenziale ha annunciato che Aung San Suu Kyi non parteciperà all'Assemblea Generale dell'Onu prevista la prossima settimana a New York. La scorsa settimana il segretario generale Antonio Guterres aveva annunciato di voler inserire nell'agenda dell'Assemblea la questione della crisi della minoranza etnica islamica dei Rohingya, in fuga dalle violenze nello stato del Rakhine, nella Birmania occidentale. Una scelta destinata a rinfocolare le polemiche e a spiazzare ancor di più quanti chiedevano parole chiare e coerenza a quella che per anni è stata vista, a livello internazionale, come il simbolo della lotta per la democrazia. Un comportamento censurato, con parole impregnate di delusione di dolore, da un altro "mito", assieme a Nelson Mandela, della lotta contro il regime di apartheid in Sudafrica: Desmond Tutu. Così scrive l'ottantaseienne Nobel per la Pace 1984: "Sono ormai anziano, decrepito e formalmente in pensione, ma rompo il mio voto a rimanere in silenzio sugli affari pubblici spinto da una tristezza profonda per il dramma dei Rohingya, la minoranza musulmana nel tuo paese. Per anni ho avuto una tua fotografia sulla mia scrivania per ricordarmi dell'ingiustizia e del sacrificio che hai sopportato per via del tuo amore e del tuo impegno a favore della gente del Myanmar. Sei stata simbolo della giustizia". E ancora: "Il tuo ingresso nella vita pubblica ha alleviato le nostre preoccupazioni per la violenza perpetrata ai danni dei Rohingya. Ma ciò che alcuni hanno definito "pulizia etnica" e altri "un lento genocidio" non si è fermato, e anzi di recente si è accelerato. Mia cara sorella: se il prezzo politico della tua ascesa alla più alta carica del Myanmar è il tuo silenzio, allora quel prezzo è troppo alto. Un Paese che non è in pace con se stesso, che non riconosce e non protegge la dignità e il valore di tutta la sua gente non è un Paese libero. È incoerente che un simbolo di rettitudine guidi un simile Paese e questo accentua il nostro dolore". Dal 25 agosto, oltre 400.000 rohingya sono scappati dal Myanmar per andare verso il Bangladesh, e altre migliaia stanno arrivando ogni giorno. Secondo le prime stime, circa il 60% di loro sono bambini. Il numero cospicuo di rifugiati ha messo sotto pressione i campi per rifugiati preesistenti, con i nuovi arrivati che cercano un rifugio ovunque trovino spazio. "C'è una grave carenza di tutto, soprattutto di rifugi, cibo e acqua pulita" afferma Edouard Beigbeder, rappresentante dell'Unicef in Bangladesh. "Le condizioni sul posto mettono i bambini in serio pericolo di contrarre malattie legate all'acqua. Abbiamo un grandissimo compito di fronte a noi: proteggere questi bambini estremamente vulnerabili." Una protezione che chiama in causa Aung San Suu Kyi. Dal più anziano alla più giovane Nobel per la Pace, Malala, premiata nel 2014. "Negli ultimi anni ho più volte condannato questo trattamento tragico e vergognoso. Sto ancora aspettando che la mia compagna di Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi faccia lo stesso". Più che un appello, quello di Malala Yousafzai – pachistana, venti anni, premiata per aver difeso il diritto delle ragazze all'istruzione e per ferita e questo condannata a morte dai talebani - suona come un possente j'accuse. In un comunicato diffuso su Twitter, Malala ha lanciato un appello condiviso oltre 10 mila volte in meno di 12 ore: "Ogni volta che guardo le notizie mi si spezza il cuore per le sofferenze di quel popolo. Chiedo che si fermi la violenza. Oggi abbiamo visto le foto di bambini uccisi dalle forze di sicurezza del Myanmar. Questi bambini non hanno fatto male a nessuno, eppure le loro case sono state incendiate e rase al suolo". Alla sua collega di Nobel la giovane pachistana chiede assunzione di responsabilità, E ripete, per tre volte, lo stesso concetto: "Sto ancora aspettando". Aspettando parole di condanna e un impegno a porre fine a quella che appare come una vera e propria "pulizia etnica". Una richiesta rilanciata da un'altra Nobel per la Pace: la yemenita Tawakkul Karman, premiata nel 2011, firmataria di un appello alla leader birmana sottoscritto anche da Emma Bonino e Romano Prodi. Quello sollevato da Yunus e Tutu è il grande e irrisolto tema del rapporto tra valori e potere, tra denuncia e governo, tra testimonianza e assunzione di responsabilità alle massime cariche politiche e istituzionali. Un tema che con Aung San Suu Kyi si coniuga al femminile. Riflette in proposito Nawal El Saadawi, l'autrice egiziana femminista universalmente più conosciuta e premiata. Medico, psichiatra, già docente alla Duke University, Nawal El Saadawi, 86 anni, è autrice di romanzi, racconti, commedie, memorie, saggi. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo arabo, la scrittrice egiziana, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste. "Alle donne – dice la scrittrice all'HuffPost – viene sempre e comunque chiesto di più: più coraggio, più coerenza, come se ogni volta e in ogni campo dovessimo superare un esame per dimostrarci all'altezza. È la prova a cui oggi Aung San Suu Kyi è di nuovo chiamata. Stavolta, va aggiunto, con qualche fondata ragione, perché in gioco c'è il rispetto dei diritti, primo fra tutti alla vita, di migliaia di persone. Non intendo ergermi a giudice, non esprimo sentenze. In questa triste vicenda torna prepotentemente il tema del rapporto con il potere, con i compromessi a cui si è disposti a scendere per salvare non un posto di comando ma quello che si ritiene, a torto a ragione, un bene superiore. Di certo – aggiunge El Saadawi – la migliore risposta non è il silenzio né invocare la ragion di Stato. Governare significa sporcarsi le mani ma non la coscienza, e il compromesso non può arrivare al punto di ledere quei valori che hanno guidato la propria esistenza. Il peso del ruolo che ricopre può diventare a un certo punto insopportabile. Allora, se non si ha pienezza dei propri poteri, rinunciare a un potere dimezzato non è una fuga ma un atto di coraggio. Ecco, è questo che mi sentirei di dire oggi ad Aung San Suu Kyi". Alla presidente birmana si appella anche il numero uno dei buddismo tibetano e Premio Nobel per la Pace 1989, il Dalai Lama, chiedendo a lei - buddista, ma appartenente a un'altra corrente - di trovare una soluzione pacifica alla crisi in Myanmar che ha portato 300mila musulmani Rohingya a fuggire dal Paese. "Mi appello a te e agli altri leader di raggiungere tutte le sezioni della società per tentare di ristorare relazioni amichevoli tra la popolazione in uno spirito di pace e riconciliazione", ha affermato il capo spirituale in esilio del Tibet in una lettera ad Aung San Suu Kyi. Parlando coi giornalisti, il Dalai Lama ha inoltre richiamato la figura del Buddha, "Le persone che minacciano i musulmani, dovrebbero ricordare il Buddha", ha detto il religioso. "Lui – ha continuato – avrebbe dato aiuto a quei poveri musulmani. Io lo sento. Sono molto triste". Tristezza. È questo, in fondo, il filo che lega le considerazioni, anche le più severe, fin qui registrate. Tristezza e volontà di capire cosa spinge una donna coraggiosa al silenzio e alla difesa di qualcosa che appare indifendibile. Il potere ancora forte dei militari, la forzatura manipolatrice di una stampa che vede persecuzioni dove non esistono, si affrettano a spiegare i difensori di Aung. Troppo poco, troppo debole, anche per chi vive una realtà di frontiera, tutt'altro che pacificata, qual è ancora oggi Myanmar. Una riflessione, da donna a donna, viene da un altro Paese di frontiera: Israele. "Vivo in un Paese da sempre in trincea – dice ad HuffPost Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare, paladina dei diritti delle donne israeliane – e a volte, forse troppo, si sono giustificate azioni repressive in nome dell'interesse nazionale, tirando in ballo anche la ferita più lancinante nella storia del popolo ebraico: la Shoah. E so bene, per averlo vissuto di persona – aggiunge la figlia dell'eroe della Guerra dei Sei giorni. Il generale Moshe Dayan – quanto pesino decisioni che non sono in sintonia con i principi in cui si crede. So il dolore che si prova quando si è costretti a scendere a patti con la propria coscienza. Ma è proprio qui – conclude Yael Dayan – che si misura la statura di un leader, nella capacità di non tradire l'ideale di giustizia per il quale si è combattuto per una vita. Spero che Aung San Suu Kyi superi anche questa prova, forse la più difficile nella sua sofferta vita". Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/09/14/nobel-contro-aung-san-suu-kyi-per-il-genocidio-dei-rohingya-yunus-allhuffpost-fa-trionfare-una-malsana-ragion-di-stato_a_23209106/?utm_hp_ref=it-homepage Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Intervista ad Abraham Yehoshua Inserito da: Arlecchino - Settembre 25, 2017, 11:29:53 am ESTERI
"Due popoli, due Stati è ormai impraticabile, serve uno Stato binazionale". Intervista ad Abraham Yehoshua Lo scrittore israeliano vede un "orizzonte cambiato" nel rapporto fra Israele e Palestina. "Ora è importante la prosa più che la poesia" 21/09/2017 16:55 CEST | Aggiornato 22 minuti fa Umberto De Giovannangeli Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam TEL AVIV - La sua passione civile e lucidità intellettuale resistono al trascorrere del tempo, così come la capacità politica e culturale di spiazzare gli interlocutori, con considerazioni che rappresentano un "sasso" di sagacia e immaginazione lanciato nell'acqua stagnante del dibattito in Israele e in Palestina. Un pragmatico sognatore: questo è Abraham Yehoshua, tra i più affermati e conosciuti a livello internazionale scrittori israeliani. Prima di rientrare in Italia dalla loro missione in Israele e in Cisgiordania, Roberto Speranza e Arturo Scotto lo hanno incontrato nella residenza dell'ambasciatore italiano nello Stato ebraico, Gianluigi Benedetti. Per anni Yehoshua è stato un tenace sostenitore di una pace fondata sulla separazione: due popoli, due Stati. Ma ora l'orizzonte è cambiato, ragiona lo scrittore israeliano, è l'idea dei due Stati rischia di diventare una sorta di mantra ripetuto stancamente pur di non fare i conti con la realtà: e la realtà, annota Yehoshua, impone di abbracciare un'altra causa, di tentare un'altra strada: quella di uno Stato parzialmente binazionale, che riguardi, almeno in prima battuta, i palestinesi della West Bank e di Gerusalemme Est: "Da democratico – sottolinea con foga Yehoshua – non possono rinunciare al principio che tutti i cittadini devono essere eguali di fronte alla Legge, senza distinzione per appartenenza etnica o religiosa. Come progressista, guardo con preoccupazione al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi e credo che in questo momento è importante la prosa più che la poesia, e ciò significa che riconoscere agli abitanti della Cisgiordania diritti sociali di primaria importanza, quali sono, ad esempio, il diritto alla sanità e alla pensione, sia un tratto fondamentale, perché tangibile, di ciò che può volere dire uno Stato binazionale. Prendere atto della realtà non vuole dire subirla, ma neanche cancellarla in nome di una idea, quella dei due Stati, divenuta ormai impraticabile". Mette definitivamente nel cassetto l'idea di una pace fondata sul principio "due popoli, due Stati"? Insomma, Abraham Yehoshua corregge se stesso? "Non sono tipo da parlare in terza persona, non mi ritengo così importante, però stiamo al gioco: Abraham Yehoshua, dopo cinquant'anni nei quali ha sostenuto e battagliato per questa prospettiva, ha preso atto che il tempo e gli uomini l'hanno resa impraticabile. E non mi riferisco solo alla destra israeliana, ma anche alla dirigenza palestinese. Prenderne atto non significa, però, accettare lo status quo e dimenticare la condizione di oppressione nella quale vivono i palestinesi. D'altro canto il fatto che tutti, da Netanyahu ad Abu Mazen, continuano a far riferimento a "due Stati", significa che c'è qualcosa che non va, che non funziona. Significa che 'due popoli, due Stati' è diventato un mantra che viene ripetuto per mettersi a posto la coscienza, specie in Europa, e chiudere gli occhi di fronte ad una realtà che questa prospettiva nega. Oggi il gap per quanto riguarda le condizioni di vita tra Israeliani e Palestinesi è cresciuto enormemente, la forbice si è allargata. Personalmente non me la sento di considerare questo, il peggioramento delle condizioni di vita dei Palestinesi, come un fatto secondario, irrilevante rispetto ai grandi disegni politici. Sarò diventato un vecchio pragmatico, ma non un cinico che se ne frega di come vivano centinaia di migliaia di palestinesi a poche decine di chilometri dalla mia città (Haifa, ndr). Da democratico, penso che ogni cittadino debba essere uguale di fronte alla Legge e godere degli stessi diritti sociali e civili. E questo può avvenire solo in uno Stato binazionale" Vorrei tornare all'idea dei due Stati. In precedenza, Lei ha affermato che a renderla impraticabile non è stata solo la politica dei governi, come quello attuale, della destra. E' un j'accuse alla dirigenza palestinese, passata e presente? "È così. Diciamo che le leadership palestinesi non hanno perso occasione per perdere "l'Occasione". Nell'estate 2005, Israele (allora il primo ministro era Ariel Sharon, ndr) decise il ritiro da Gaza e lo smantellamento degli insediamenti nella Striscia: la risposta palestinese non fu l'accelerazione di un negoziato, ma i razzi sparati da Gaza contro le città frontaliere israeliane. Nel 2006-2007 l'allora primo ministro Ehud Olmert avanzò una proposta che andava nella direzione dei due Stati che Abu Mazen rigettò. E si potrebbe andare ancora indietro nel tempo, quando altri erano i protagonisti: penso, ad esempio ai negoziati di Camp David di luglio 2000 tra Barak e Arafat, con Clinton come facilitatore: anche lì la proposta avanzata dal primo ministro laburista andava in quella direzione, ma Arafat non ebbe la saggezza dimostrata da David Ben Gurion: prendi meno di quanto speravi, ma consideralo un inizio, un qualcosa di tuo, nel quale edificare uno Stato... Non mi voglio ergere a giudice, non sto qui a distribuire sentenze, ciò che voglio sostenere è che in questi cinquant'anni di rinvii e di rifiuti la realtà si è modificata e oggi l'unica alternativa allo status quo è lo Stato binazionale". C'è chi sostiene che quello dello Stato binazionale sarebbe un salto nel vuoto e che gli ebrei israeliani non accetterebbero mai di essere minoranza in uno Stato binazionale. "La memoria è labile, soprattutto quando fa comodo per scansare i problemi. Nel '47, Ben Gurion diede subito la cittadinanza agli arabi. Io credo che si possa guardare ad altre esperienze per modulare le forme di uno Stato binazionale: potrebbe essere una confederazione di cantoni, potrebbe essere una Repubblica presidenziale nella quale esistano due Camere: una che rappresentasse le istanze e le esigenze di ciascuna comunità nazionale e altra come rappresentanza di tutti i cittadini... E i coloni? "In questo scenario, il problema fondamentale non sono i coloni. Il problema fondamentale è la democrazia. È sancire che ogni cittadino è eguale di fronte alla Legge, che gode degli stessi diritti sociali, civili, politici. Il problema è quello di realizzare una cittadinanza piena. L'alternativa è istituzionalizzare uno stato di apartheid. È questo che si vuole? Mi creda, l'ebraismo è molto forte, anche troppo. Troverebbe comunque i modi per far valere le proprie ragioni in uno Stato binazionale. Ciò che ritengo inaccettabile, e questo sì anti-democratico, che i diritti di cittadinanza siano modulati e gerarchizzati a secondo dell'appartenenza etnica e religiosa. Il nostro sguardo deve alzarsi e abbracciare il mondo, guardano a ciò che è stato realizzato in altri Paesi che pure hanno al proprio interno comunità etniche diverse. Un esempio, è l'America. Negli Stati Uniti non vige una democrazia etnica? Il sistema a cui tendere non si definisce su basi demografiche, ma può reggersi su un sistema di Cantoni con una loro autonomia codificata. Ragioniamoci insieme, io dico. E guardiamo in faccia la realtà: la scusa dei due Stati ci sta portando verso l'apartheid". Lei ha sottolineato l'importanza di riflettere sul concetto di "confine" che chiama in causa il rapporto tra due pilastri dell'identità nazionale su cui si fonda lo Stato d'Israele: la democrazia e l'essere il focolaio nazionale del popolo ebraico? "Sinceramente, non credo che ragionare su uno Stato binazionale voglia significare cancellare la storia d'Israele. Perché già da tempo Israele è uno Stato binazionale: il 20% della popolazione attuale d'Israele (1,1 milioni di persone, ndr) è araba e, viste le tendenze demografiche, è un numero destinato nei prossimi decenni ad aumentare sensibilmente. No, non credo davvero che uno Stato binazionale esteso ai palestinesi di Gerusalemme Est e della West Bank attenti all'identità ebraica. Il punto è un altro, e evidenziarlo fa male, ne sono consapevole, soprattutto a quel mondo della sinistra a me più vicino, e non solo Israele...". E quale sarebbe questa amara verità? "Oggi vi sono centinaia di migliaia di palestinesi alle porte delle nostre città che non hanno alcun diritto. E che subiscono una occupazione sempre più invasiva. E ci sono cittadini israeliani, i coloni, che praticano la sopraffazione in quanto cittadini israeliani che, come tali, sono protetti dall'esercito. La sinistra può continuare a recitare il mantra 'tutto si risolve con la nascita di uno Stato palestinese', intanto, però, il numero dei coloni cresce di anno in anno e sfido chiunque a sloggiarli. Oggi non c'è alcuna autorità, nessun leader politico che potrebbe portarli via dalle terre che hanno occupato, ma il termine più giusto è: rubato. Allargare i diritti di cittadinanza ai palestinesi è il modo più concreto, a mio avviso, per contrastare questa deriva. I diritti di cittadinanza rappresentano una risposta concreta all'occupazione. Mi lasci aggiungere che queste considerazioni cominciano a farsi largo anche nella parte più accorta e pragmatica della destra israeliana...". Anche Netanyahu? "Non esageriamo...Ma qualcuno di importante c'è: mi riferisco all'attuale Capo dello Stato, Reuven Rivlin. Lui è certamente un uomo di destra, ma di una destra liberale che non nulla a che vedere con quella ultra nazionalista dei Lieberman, dei Bennett... Rivlin non ha imbarazzo a parlare di diritti di cittadinanza per tutti i palestinesi. È poco? Sinceramente, non lo credo...". In una precedente intervista concessa all'HuffPost, Lei sostenne che "l'occupazione dei Territori sta deteriorando moralmente Israele". "Sono sempre di questo avviso. Considero l'occupazione una vergogna, l'ho detto e scritto migliaia di volte, ho firmato non so più quanti appelli. Ma dopo aver detto e scritto tutto questo mi chiedo: cosa fare per contrastarla, tenendo conto della realtà e non di principi, lodevoli quanto impraticabili: la mia risposta è agire perché i palestinesi della West Bank abbiano gli stessi diritti dei coloni israeliani, che siano uguali di fronte alla Legge e non, come è ancor oggi, discriminati". Cosa può fare l'Europa e, in essa l'Italia, in questa situazione? "Può fare, deve fare molto. Penso, in particolare, all'Italia che ha buoni relazioni sia con Israele che con i Palestinesi e che ha interesse a un Mediterraneo stabilizzato, e la creazione di uno Stato binazionale potrebbe contribuire a consolidare un tale processo. L'Italia può aiutarci e molto. Anche su Gerusalemme. Lo status dei Luoghi santi della città, non è un problema che riguarda solo ebrei e musulmani, ma investe anche i cristiani. E l'Italia è vista, per la presenza della Chiesa di Roma, come rappresentativa del cattolicesimo. Una ragione in più per far sentire la propria voce, per essere più protagonista da queste parti. È nel vostro, e nel nostro, interesse". Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/09/21/due-popoli-due-stati-e-ormai-impraticabile-serve-uno-stato-binazionale-intervista-ad-abraham-yehoshua_a_23217982/?utm_hp_ref=it-homepage Titolo: Umberto DE GIOVANNANGELI - Trump vs. Putin, Israele vs. Iran. Inserito da: Arlecchino - Aprile 17, 2018, 08:58:55 pm Trump vs. Putin, Israele vs. Iran. Le partite siriane (in cui la Siria è un comprimario)
Partite autonome ma connesse. Da un lato Usa e Russia, con il destino di Assad in mezzo. Dall'altro Israele vs. Iran, ad altissimo potenziale di escalation By Umberto De Giovannangeli In Siria si stanno giocando due partite: quella tra Trump e Putin, con Assad in mezzo e quella tra Israele e Iran. Partite che hanno punti di interazione, ma altrettanti di autonomia. Partite dall'esito tutt'altro che già scritto. E dalle alleanze variabili. Mosca, ad esempio, non ha certo scaricato Assad, ma non rispondendo agli attacchi occidentali ha lanciato un messaggio al rais di Damasco: non puoi montarti la testa e comportarti come il vincitore della guerra siriana. La "pax siriana" elaborata dal Cremlino non prevede l'immediata uscita di scena di Bashar al Assad, ma neanche la sua centralità. Ed è per questo che i rapporti tra Putin e Assad sono molto meno idilliaci di quanto la propaganda siriana vorrebbe far intendere. Racconta anche questo la "notte dei missili". Annota a ragione, su Internazionale, Bernard Guetta: "C'è anche chi sostiene che in ogni caso questi missili non cambieranno nulla. È vero, i missili non trasformeranno la Siria in una democrazia in pace con se stessa e con i suoi vicini. Ma ci sono due aspetti da considerare. Innanzitutto Assad ci penserà due volte prima di ordinare nuovi bombardamenti chimici. In secondo luogo due alleati del regime hanno preso le distanze da Damasco. La Russia lo ha fatto evitando di contrastare gli attacchi occidentali. La Turchia lo ha fatto spingendosi fino ad approvare l'operazione, perché sconvolta dall'utilizzo di armi chimiche fatto con l'implicito sprezzo di qualsiasi compromesso. La situazione ora è più chiara – rimarca Guetta- e non è impossibile che russi e turchi facciano presente al macellaio di Damasco e al suo alleato iraniano che è arrivato il momento di mettere da parte l'intransigenza, perché porta solo a una guerra senza fine e a un impantanamento della Russia". Bashar al-Assad annuncia che i raid occidentali "hanno unito la Siria", torna a bombardare i ribelli, mentre il fronte sciita prepara la risposta. Centinaia di combattenti sciiti si sono spostati negli ultimi due giorni dall'Iraq alla Siria, diretti a Deir ez-Zour e di lì al fronte a Est dell'Eufrate, dove l'esercito lealista e i suoi alleati sono a pochi chilometri dalle posizioni della coalizione curdo-araba sostenuta dagli Stati Uniti. Dopo "l'incidente" dell'8 febbraio, quando miliziani filo-governativi tentarono un blitz per riprendersi un campo petrolifero e almeno un centinaio, compresi molti contractor russi, vennero uccisi da raid americani, il fronte è "congelato". Il blitz di Usa-Francia-Regno Unito ha cambiato le cose. Le milizie sciite sono "in stato di combattimento". L'ordine è di colpire, anche se non con attacchi frontali. Ma il protagonismo armato sciita non rientra nei disegni russi. Putin vede per sé il "garante" della stabilizzazione in Siria e per aver riconosciuto questo ruolo deve ricevere il gradimento delle petromonarchie del Golfo, in primis dell'Arabia Saudita, e tenere in vita l'alleanza con la Turchia di Erdogan che tutto vuole meno che veder rafforzato l'odiato Assad. Quanto alle vere intenzioni americane, vale la pena prestare ascolto a quanto affermato da Nikki Haley, una dei pochi che sta crescendo all'ombra di Trump, forse l'unica, protetta da un ruolo, rappresentante permanente alle Nazioni Unite, che le permette di fare da portavoce della Casa Bianca ma rimanere a debita distanza dal quotidiano presidenziale. Haley, intervistata dalla tv filo Trump Fox News, afferma che le truppe americane rimarranno in Siria fino a quando non verranno raggiunti tutti gli obiettivi. Che sarebbero tre: 1) Assicurarsi che le armi chimiche non vengano più usate in nessun modo e non ledano interessi americani. 2) Sconfiggere lo Stato islamico; 3) Monitorare da vicino le mosse dell'Iran. E quest'ultima ragione sembra quella strategica perché come ha confidato Trump poco tempo fa a un suo consigliere "ogni volta che mi giro, ogni cosa che sento, riguarda sempre l'Iran, l'Iran, l'Iran". E siccome gli ayatollah sono più attivi che mai nella regione, è difficile pensare che gli americani si ritirino. Per Trump la Siria non è strategica, ma strategica è la partita aperta con la Russia, e fino a quando non sarà risolta, gli americani non si ritireranno. Di questa partita fanno parte le sanzioni. Washington ha annunciato l'arrivo di nuove sanzioni contro la Russia nel giorno in cui gli esperti internazionali dell'Opac hanno avviato le loro indagini per verificare se a Douma siano state effettivamente utilizzate armi chimiche. Ma la delegazione britannica denuncia che agli osservatori dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche non è stato ancora consentito di entrare nella città. Parte il consueto scambio di accuse, con Londra e Washington contro Mosca e Damasco, mentre la Russia, con il viceministro degli Esteri di Mosca, citato dalla Tass, spiega che il ritardo "è dovuto agli effetti dell'attacco condotto dagli Usa e dai loro alleati". Nella partita delle sanzioni è chiamata in causa anche l'Europa. A farlo è l'inquilino della Casa Bianca e i suoi più stretti collaboratori che battono sempre sullo stesso tasto: la fedeltà atlantica porta con sé più soldi stanziati nella sicurezza, e in ambito Nato, e rinunciare, almeno in parte, a fare affari con Mosca. Per Washington ancor più che la partecipazione attiva ad operazioni militari limitate, il grado di fedeltà dell'Europa verrà misurato dall'adesione o meno ad una nuova ondata sanzionatoria e dall'incremento delle spese militari in chiave atlantica e mediorientale. "Su questo – confida ad Huffpost una fonte diplomatica Usa – misureremo la vicinanza dei singoli governi europei, tra i quali quello che nascerà in Italia". Per Washington la partita aperta con Assad è in parte una ricaduta di quella con Putin. Al di là degli insulti che Trump ha scagliato contro Assad, definito "animale", "macellaio", "dittatore sanguinario", ciò che per l'America conta è di essere al tavolo di chi deciderà o la spartizione della Siria o colui che ad Assad dovrà succedere. Anche se il suo sguardo va al Sud-Est asiatico, The Donald non può e non vuole essere tagliato fuori o comunque relegato in seconda fila in una "Yalta mediorientale". Per Trump, la partita con Assad non può finire "win-win" e non ammette pareggio. Al massimo si può negoziare sui tempi della uscita di scena dell'"animale di Damasco" e di un destino personale diverso da quello riservato a Saddam Hussein o Muammar Gheddafi, ma nulla in più. D'altro canto, la diplomazia russa sa bene che sul quadrante siriano si muovono attori regionali che, al di là delle alleanze momentanee, intendono giocare in prima persona la partita siriana. E' il caso d'Israele. Un alto funzionario militare israeliano ha confermato oggi al quotidiano statunitense The New York Times che Israele ha compiuto il raid aereo della scorsa settimana su una base militare siriana. Secondo quanto riferito da questa fonte al giornalista del New York Times, Thomas Friedman, firma storica del quotidiano, "era la prima volta che attaccavamo obiettivi iraniani, comprese strutture militari e soldati". Il funzionario ha anche osservato che il raid sulla base aerea T-4 vicino a Palmira, nel centro della Siria, è avvenuto dopo che l'Iran ha lanciato a febbraio un drone carico di esplosivi nello spazio aereo israeliano. Secondo quanto riferito, l'attacco ha preso di mira l'intero programma di droni iraniano presente nella base. I media di Teheran avevano riferito di almeno 7 vittime tra i soldati iraniani, su un totale di 14 morti provocati dal raid. L'incidente del drone è stato "la prima volta che abbiamo visto l'Iran fare qualcosa contro Israele e non per delega", ha detto il funzionario, secondo cui quell'attacco "ha aperto una nuova era" di scontri tra Israele e Iran. L'articolo in questione ha un titolo che sa di profezia. Ravvicinata, inquietante: "La vera prossima guerra in Siria: Iran contro Israele". In via ufficiale il governo israeliano non ha commentato la rivelazione del NYT, ma fuori dall'ufficialità, e con la garanzia dell'anonimato, fonti di Gerusalemme vicine al primo ministro Benjamin Netanyahu hanno ribadito ad HuffPost che "Israele ha fatto più volte presente, sia in vertici istituzionali che nelle relazioni fra servizi di intelligence – che i Guardiani della Rivoluzioni iraniani erano stati incorporati nella catena di comando militare siriana ai livelli più alti, e che l'Iran stava rafforzando la propria presenza militare in Siria. Questa – conclude la fonte – è per Israele una minaccia diretta alla propria sicurezza, e quando questa è la posta in gioco, nessuno può impedire di esercitare il nostro diritto di difesa". Più esplicito è Amos Yadlin, già capo dell'intelligence militare e attualmente direttore dell'Institute for National Security Studies all'università di Tel Aviv. Yadlin ha invocato un intervento "ufficiale", soprattutto alla luce dell'attacco chimico a Douma. L'ex capo dell'intelligence militare non usa solo argomentazioni geomilitari, ma va al di là, toccando corde sensibili nella coscienza del popolo ebraico: è importante – afferma – che Israele espliciti la sua posizione morale, a pochi giorni dal momento in cui commemoriamo la Shoah, e colpisca un assassino che non esita a usare armi di distruzione di massa contro la sua gente. In questo caso – conclude Amos Yadlin – gli interessi strategici coincidono con un obbligo etico". Un obbligo che Israele avrebbe già iniziato ad assolvere, non solo nel raid contro T-4, ma con altre incursioni in territorio siriano. Serghei Lavrov, capo della diplomazia di Mosca, aveva messo in guardia dal rischio di escalation del conflitto in Siria, anche perché compaiono sulla scena "attori che nessuno ha invitato e anzi si sono autoinvitati". Rendendo le partite siriane ancora più incerte e combattute, e quest'ultimo aspetto non ha ormai niente di metaforico. Da - https://www.huffingtonpost.it/2018/04/16/trump-vs-putin-israele-vs-iran-le-partite-siriane-in-cui-la-siria-e-un-comprimario_a_23412494/?utm_hp_ref=it-homepage |