LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => FAMIGLIA, SOCIETA', COSTUME e MALCOSTUME. => Discussione aperta da: Admin - Dicembre 16, 2007, 04:47:23 pm



Titolo: Oreste Pivetta. Ventiquattro ore su ventiquattro, bruciati dalla fretta
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2007, 04:47:23 pm
Sotto il mercato niente

Oreste Pivetta


Non c’è voce dell’universo meteorologico e non sono poche quelle delle conflittualità sociali che non chiamino l’immediato allarme prezzi.
Questo dicembre è capitata la somma: prima il blocco dei Tir, quindi il gelo dei venti dal nord siberiano. Il blocco degli autotrasportatori, qualcosa che è stato più di uno sciopero e che è diventato una selvaggia occupazione del suolo pubblico, s’è risolto nel giro di tre giorni. Si può capire il magazzino semivuoto, ma non il catastrofismo (e la corsa all’accaparramento) come se fossimo tra le tende del Darfur.

Il gelo polare (enfasi da tg, che cosa dovrebbe dire un eschimese?) è, in una gran parte almeno della penisola, solo un annuncio. Come possa trasformare in oro le nostre zucchine, raccolte chissà quando e nelle serre di chissà quale Paese, francamente non si capisce. In un caso o nell’altro si può gridare all’abuso e alla speculazione, senza paura perchè tanto nulla cambierà. Ma una vicenda e l’altra mettono in chiaro l’arretratezza di questo nostro Paese.

Di quella strutturale si è detto e ripetuto in questi giorni: che la maggior parte delle nostre merci debba viaggiare su gomma, cioè a dorso di tir, in balia dei blocchi e della neve, è spaventoso dal punto di vista dei costi, dell’inquinamento, della congestione, delle lentezze. Di quella “politico-culturale”, molto meno. La parola speculazione suggerisce qualcosa e la lotta alla speculazione sarebbe un altro capitolo (come la lotta all’evasione) della marcia, come potremmo pomposamente dire, verso la modernizzazione. Si potrebbe più semplicemente dire: verso il buonsenso e verso una “media” onestà-moralità, fare i propri affari guadagnandoci senza rubarci (mentre si ruba, con la pretesa dell’impunità, per “cause di forza maggiore”: chissà se questa provvidenziale e sovrannaturale espressione esiste nella lingua di altri Paesi). Più in generale, sommando la protesta dei tir, il gelo siberiano, la protesta dei tassisti e la siccità sahariana (verso giugno non ci mancherà) e i mille altri possibili accidenti della vita quotidiana dal punto di vista dei nostri commerci e dei nostri commercianti, dei nostri traffici e dei nostri padroncini, diventa evidente quanto in questo Paese si ambisca all’economia protetta tra socialismo reale e statalismo omnicomprensivo, sventolando senza arrossire la bandiera del libero mercato, concepito come una patente per far quello che si vuole (dallo sfruttamento del lavoro alle tasse) e non soffrire mai però la concorrenza, fumo negli occhi autentico e finta bandiera di liberisti da bar (in passato anche tra i banchi del governo, ma non pochi nei quartieri alti di Confindustria o di Confcommercio) e di protezionisti nel cuore e nelle tasche. Gli stessi discorsi capita di ascoltare anche quando di mezzo ci sono ben altri monumenti della nostra economia “protetta”, Alitalia ad esempio in nome dell’italianità o Malpensa in nome del “grande mercato del nord” che dovrebbe rappresentare di per sè l’occasione per infischiarsene di Alitalia e dar liberamente corso alle ambizioni globali della cosiddetta Padania: anche in questo caso è solo questioni di prezzi, come ha insegnato Ryan Air.

Il low-cost, per fortuna, non è solo uno sport degli altri. Qualche cosa abbiamo imparato, nel corso dei decenni. In un qualsiasi mercatino, la concorrenza ancora si pratica tra bancarella e bancarella, talvolta barando e spacciando l’arancia spagnola per il mandarino di Sicilia. Nella grande distribuzione la concorrenza (persino quella al coltello tra Cragnotti e le Coop, ma anche quella dura dei discount, come insegna Wal-Mart, la catena ultrapopolare americana) si legge nei cataloghi pubblicitari pre-natalizi. Viene una domanda: come sarà possibile ridurre o contenere i prezzi, addirittura vederli dimezzati rispetto a quelli annunciati quindici giorni fa soltanto? Evidentemente si può e succede se la concorrenza non è appunto una favola, se qualcosa arriva e rompe i tanti “oligopoli collusivi” che la nostra distribuzione riesce ad imbastire. Come riuscirci è tema di governo.

Compito, difficilissimo, del governo sarebbe anche quello di obbligare alla “trasparenza” i nostri mercati e le “filiere” che li sostengono, per capire cioè perchè la nostra zucchina o la nostra arancia che al produttore viene pagata poco costa tantissimo al consumatore, quali sono i passaggi che “pesano”, quali le zone “oscure” (ai confini o addirittura dentro l’illegalità). Importante sarebbe anche la tempestiva conoscenza dei prezzi, degli andamenti reali, anche per poter correggere allarmi e sventare allarmismi (una voce tra le tante del capitolo inflazione).

Pubblicato il: 16.12.07
Modificato il: 16.12.07 alle ore 7.40   
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Titolo: Oreste Pivetta. Ventiquattro ore su ventiquattro, bruciati dalla fretta
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2008, 07:21:36 pm
Il senso dei diritti

Oreste Pivetta


Con la grazia che la segna fin dal nome, Letizia Moratti aveva scelto la vigilia di Natale per comunicare quali bambini potessero frequentare le scuole materne e quali dovessero invece tenersene alla larga. Via di qui, brutti mocciosi: la maestrina che siede a Palazzo Marino sogna l’Expo 2015 per i suoi affari e teme che qualche discolo dalla faccia sporca le imbratti i muri e le strade.

Chissà chi le avrà suggerito di applicare la perfida Bossi-Fini al punto da impedire l’iscrizione alle scuole materne dei figli degli immigrati clandestini. Negando banali diritti dell’infanzia e ovvie leggi italiane, secondo le quali i minori stranieri possono frequentare le scuole pubbliche qualunque sia la condizione giuridica delle loro famiglie. Con un tonfo nell’arroganza e nell’insipienza, che potrebbe indurre qualsiasi membro dell’ufficio internazionale delle esposizioni a cancellare la candidatura milanese: per indegnità.

Non sarebbe neppure il caso di prendere in mano leggi e regolamenti.

Son cose che in momenti difficili, di tanto drammatici cambiamenti, di dure condizioni, anche di tante speranze («grandi speranze», come s’illudeva l’orfanello dickensiano Philip Pirrip detto Pip) dovrebbero risolversi da sé. L’intelligenza e la sensibilità dovrebbero indicare senza fatica la scelta più giusta, che sarebbe anche la scelta più opportuna. Ma evidentemente la signora Moratti non ha nel cuore la politica e neppure il buonsenso: evidentemente il sindaco della città più ricca e potente d’Italia non si rende conto che l’immigrazione trascina con sé infinite storie dolorose e che sarebbe meglio per tutti fare in modo che fossero meno dolorose, per la sua città, per gli immigrati, per i più deboli, per una comunità che vivrebbe meglio se i contrasti fossero meno tenaci, se una certa «integrazione» fosse più vicina, se tutti fin dall’infanzia imparassero a conoscere il nostro paese e a considerarne l’ospitalità, se l’emergenza non fosse l’unica guida.

Che i bambini, di qualsiasi età e di qualsiasi lingua, poveri o ricchi, frequentino una scuola, comincino a imparare la nostra lingua (e pure le nostre leggi), giochino insieme, disegnino sugli stessi banchi, si conoscano, dovrebbe essere un ambito e possibile traguardo. Per evitare i contrasti fino alla lacerazione, alla divisione, per allontanare quell’orrendo fantasma che ogni tanto si materializza e che si chiama razzismo.

Per fortuna molte voci si sono opposte alle circolari del sindaco, per fortuna il ministro Fioroni, al momento giusto ha detto no alla Moratti, ricordando che l’istruzione è un diritto fondamentale dell’uomo e che non garantirlo costituisce una grave lesione della dignità della persona.

I bambini ci guardano era il titolo di un vecchio film di Vittorio De Sica. Si dovrebbe fare in modo che anche i figli degli immigrati clandestini potessero guardarci con i loro occhi caldi di simpatia e di riconoscenza, per un paese che li ospita, che apre le sue scuole, che li aiuta a crescere. Si capisce che è una questione d’umanità, ma che non è solo una questione d’umanità, che è una questione di cuore ed è anche una questione di politica, se si vuole costruire un futuro civile a questo paese. Possibilmente senza più ghetti. Per la nostra pace, per il nostro benessere.

Pazienza se la Lega, per voce di una sua bionda parlamentare, chiama alla rivolta i suoi sindaci contro un governo «per il quale per primi vengono gli immigrati, ancorché clandestini, e poi i cittadini italiani». Non c’è limite al peggio.

A informazione del sindaco (dei suoi concittadini) si dovrebbe aggiungere una recente nota ministeriale (suggeritaci in verità dal sottosegretario in carica, Mariangela Bastico): «In mancanza dei documenti, la scuola iscrive comunque il minore straniero, poiché la posizione di irregolarità non influisce sull’esercizio di un diritto-dovere riconosciuto. Il contenuto delle norme citate nel precedente paragrafo esclude che vi sia un obbligo da parte degli operatori scolastici di denunciare la condizione di soggiorno irregolare degli alunni che stanno frequentando la scuola e, quindi, esercitano un diritto riconosciuto dalla legge».

Proprio così. La nota venne redatta e firmata nel marzo 2006 dall’assessore alle politiche della Scuola del Comune di Milano in carica, Maria Moioli, quando era direttore generale del ministro Letizia Moratti. È una disposizione contenuta nelle «linee» per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri. Accoglienza e integrazione: dovrebbero valere ancora, anche di fronte a qualche intruglio politico inventato per rimanere in sella.


Pubblicato il: 10.01.08
Modificato il: 10.01.08 alle ore 13.11   
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Titolo: Oreste Pivetta. Ventiquattro ore su ventiquattro, bruciati dalla fretta
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2008, 09:03:43 am
Ventiquattro ore su ventiquattro, bruciati dalla fretta

Oreste Pivetta


Arrabbiati, forse rassegnati. Il dolore è silenzioso e la scritta, «Basta morti sul lavoro», uguale a quella letta un anno fa, quando la tragedia colpì Enrico Formenti (era il 13 aprile e Enrico era poco più che un ragazzo), uguale a quelle lette davanti ai cancelli della Thyssen e in mille altri luoghi d’Italia (mille quanti i morti del lavoro in un anno), sembra firmare l’impotenza. Il corteo, la protesta, il lutto cittadino, lo sciopero generale. Stavolta nessuno s’è sognato di bruciare i copertoni, come era accaduto un anno fa. Qualcuno, dietro lo striscione della Culmv, la compagnia dei portuali, se l’è presa con i giornalisti: con i giornali, che qualche volta testimoniano le tragedie del lavoro, molto spesso le dimenticano dentro una notizia a una colonna, come il mondo dei porti e dei cantieri e delle fabbriche... «C’è un paese reale, diverso da quello virtuale delle cronachette quotidiane, che vive una realtà dura e faticosa, che lavora di notte un’ora in più per sostenere la propria famiglia». Il richiamo è del presidente dell’Autorità portuale di Genova, Luigi Merlo (nominato, dopo l’arresto di Giovanni Novi, al centro di un’inchiesta giudiziaria, che tocca appunto i criteri di assegnazione dei terminal). C’è ancora bisogno di parole così per ricordare il mondo autentico, non quello televisivamente filtrato dalla politica o dallo spettacolo. Walter Fabiocchi, segretario della Camera del lavoro aggiunge qualcosa alla descrizione del “paese reale”: che nel porto c’è tanta fatica manuale, che si può sganciare un container camminando tra stretti corridoi senza spallette di protezione, che si lavora giorno e notte, che il tempo è denaro. «Bisogna accelerare - dice Fabiocchi - scaricare e caricare più alla svelta possibile, liberare le banchine. Una volta il lavoratore del porto era considerato fortunato tra gli operai: adesso arriva a mille euro al mese e se vuole di più deve sommare turni a turni. Finchè c’è richiesta».

Dentro il porto, ventiquattro ore su ventiquattro, sette ottomila lavoratori combattono la battaglia del tempo. La sicurezza è un risultato difficile nella fretta. Sulle sponde delle navi alle banchine ci dovrebbero essere le catene: «Dirà la magistratura che cosa è accaduto. Se si cade da dieci metri d’altezza, come è capitato a Fabrizio, non ci si salva».

Formenti, un anno fa, morì schiacciato da una balla di cellulosa da due tonnellate caduta da una pila alta otto metri. Dopo di allora, si cercò un rimedio, qualcosa che aiutasse a prevenire. Si arrivò a una intesa tra istituzioni regionali, asl, inail, sindacati, padroni e pandrocini, terminalisti (cioè i gestori dei terminal), un protocollo che anticipava certi contenuti della legge 123 voluta da Cesare Damiano. Adesso i sindacati protestano: il protocollo è rimasto lì, in attesa di fatti. Il centro era la responsabilità affidata a otto lavoratori del porto, eletti dai loro compagni, di accompagnare nell’opera di controllo gli istituti tradizionali. Otto lavoratori, stipendiati grazie ad un piccolissima tassa sulle merci in transito, “rappresentanti della sicurezza”. Fabiocchi protesta: non si è andati avanti. Lo segue Ivano Bosco, segretario della Filt Cgil: «Solo i lavoratori hanno fatto la loro parte, mettendo a disposizione otto persone che sono state formate opportunamente». Claudio Montaldo, ex vicesindaco di Genova e ora assessore regionale alla Salute, e Giovanni Vesco, assessore al Lavoro, rispondono che la regione ha speso quarantamila euro per la fomazione dei “vigilanti” e altri ottantamila ne ha destinati all’asl, perchè avesse più mezzi per i controlli. Fra un po’ gli otto operai avranno pure una sede. Ma non possono muoversi più di tanto. «Il problema - spiega Vesco - è che, essendo innovativo, in certi punti il nostro protocollo non è sostenuto da una norma di legge. Dobbiamo muoverci noi e abbiamo pensato che la soluzione stesse in un’altro accordo che definisse compiti e ambiti». Come gli otto insomma possono controllare davvero. «La Compagnia unica ci ha fornito macchina e telefonino per lavorare al meglio - insiste Davide Traverso della Uil -, ma se io vedo un lavoratore di un altro terminal che non lavora in sicurezza mi devo girare dall’altra parte. Noi non possiamo intervenire se non nel nostro circuito. Giriamo come fantasmi».

Qualcuno latita. Nessuno fa nomi. Ma ai terminalisti il protocollo non è mai piaciuto e ancora meno piace che un lavoratore, per quanto “rappresentante di sicurezza”, eletto dai compagni di un altro terminal, venga a ficcare il naso... «Hanno firmato - commenta un portuale - con la pistola alla tempia».

Pubblicato il: 01.03.08
Modificato il: 01.03.08 alle ore 14.23   
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