Titolo: «Ventidue tesi sul “momento populista” Inserito da: Arlecchino - Aprile 08, 2019, 06:33:31 pm «Ventidue tesi sul “momento populista”
La laicità presa sul serio, non c’è fede che tenga. Di MICHELE MARTELLI Il libro di Cinzia Sciuto, Non c'è fede che tenga, si occupa di laicità e non di altro: «politiche di classe», «lotte anticoloniali» e quant’altro, di cui hanno parlato i suoi critici, sono eventuali oggetti di altre e differenti ricerche. Il punto decisivo è la critica al multiculturalismo. La laicità presa sul serio: si può sintetizzare così, sulla scia di un noto volume di Paolo Flores d’Arcais sulla democrazia, il recente libro di Cinzia Sciuto, Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli, 2018), su cui si è acceso nel sito on line di MicroMega un vivace dibattito, che anch’io, al pari dell’autrice, ritengo filologicamente ingiustificato, perché incentrato, negli interventi dei critici, non sul tema della laicità (su cui i critici si dicono troppo sbrigativamente d’accordo), ma, a me sembra, sull’antitesi assolutizzata individuo/società, con tutto ciò che ne consegue. Ora io penso che una tale antitesi, con i suoi due termini astrattamente contrapposti, sia un inutile sovrappiù concettuale, che il rasoio di Occam ci suggerisce di tagliare, se è vero che «entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem»; penso al contrario che l’individuo sia sì unico, singolare e irripetibile, ma sempre tuttavia «individuo sociale» (Marx), o, come qualcuno oggi propone, «condividuo» (F. Remotti, Somiglianze, Laterza, 1919, cap. VIII, § 6), «fascio» di molteplici relazioni sociali, e la società a sua volta «l’insieme» dei rapporti storico-empirici tra gli individui, non una «sostanza speculativa», sovraindividuale, misteriosa, misticamente autosussistente (Marx-Engels, La sacra famiglia, Editori Riuniti, 1967, cap. V, § 2). Anzi, non solo non c’è individuo senza società (a meno di credere in ridicole “robinsonate”), né società senza individui (tutte le istituzioni sociali, dalla scuola alla sanità alle banche ecc., non sono innanzitutto fatte di e da individui?); ma, ovviamente, né l’uno né l’altra possono prescindere dalla priorità del contesto naturale, bio-ecologico della loro esistenza. Quando la leader conservatrice inglese Margaret Thatcher, la «Lady di ferro» (ispirata dalle teorie neoliberiste di Friedman, Mises e Hayek), affermava: «Non esiste la società, esistono solo gli individui» (1987), non si accorgeva paradossalmente di proclamare la sua stessa inesistenza (senza la sua famiglia di origine, senza la società, il governo, lo Stato, la storia inglese, europea e, in ultima analisi, dell’universo intero, la Thatcher – è lapalissiano – non sarebbe mai nata, mai vissuta, mai stata né Lady né di ferro, bensì, forse, una mera idea in mente Dei, del Dio anglicano in cui credeva): un individuo isolato, sradicato da natura e società, ipostatizzato, è in realtà, nella realtà storico-empirica, un puro nulla. Quando i Diamatisti sovietici dicevano che la società è tutto, l’individuo nulla, oltre a proclamare paradossalmente anch’essi, per altra via, la loro propria inesistenza in quanto individui, trasformavano quel «tutto» in un’ipostasi introvabile: in re, nella realtà esperibile, un puro nulla; una societàs senza socî è, al pari di un tutto senza parti, direbbero i logici medioevali, una contradictio in terminis. Ciò però a cui di fatto si poneva mano nei due casi, dell’ipostatizzazione dell’individuo/atomo o della collettività/Moloch, era uno strumentario ideologico funzionale allo strapotere delle élites finanz-capitaliste e neoliberiste da un lato, della nomenklatura del Partito-Stato dall’altro. Dopo il crollo dell’Urss («il dio che ha fallito», il Moloch che si è sbriciolato), quelle élites hanno trionfato. Ma provocando in pochi decenni, come è ormai sotto gli occhi di tutti, disastri politici, culturali, economici, sociali, globali e locali di tali tragiche dimensioni da trasformare quel trionfo in un tonfo, in un fallimento contrapposto e speculare a quello del collettivismo assoluto. Quasi a riprova dell’inscindibilità del nesso individuo/società. E torniamo al libro di Sciuto (un libro, a mio avviso, vivo, militante, polemico, efficacemente monotematico, con la dote rara della chiarezza, asciutto, essenziale, ben documentato e ancor meglio argomentato), secondo cui senza lo scudo della laicità e il suo potenziamento l’Europa liberal-democratica di oggi rimarrebbe pericolosamente esposta alle minacce dei vecchi e nuovi fondamentalismi religiosi e dei comunitarismi identitarî multietnici e multiculturali in preoccupante aumento. Due i punti che nel libro in questione mi sembrano caratterizzare il nuovo e più radicale concetto di laicità, tradizionalmente ristretto al principio della separazione tra Stato e Chiesa, Dio e Cesare, politica e religione: a) l’assunzione della laicità a «condizione trascendentale, prepolitica» della liberal-democrazia: di fronte ad una società, come quella europea odierna, sempre più simile ad un arcipelago di comunità, gruppi, religioni, etnie e culture diverse, non-comunicanti, autoreferenziali e autoidentitarie, chiuse a riccio nelle proprie rispettive tradizioni, riti, regole, fedi, usi e costumi, il vecchio Stato non confessionale del passato non basta più; occorre uno Stato a pieno titolo di diritto e dei diritti, che faccia un passo avanti, che entri «nel merito di quel che accade dentro» quelle comunità e gruppi sociali, per garantire, anche in quello spazio, il rispetto dei principi e valori inscritti nelle nostre Costituzioni liberal-democratiche; quindi uno Stato laico di tipo nuovo, non astensionista, ma interventista, con funzioni di controllo, difesa e promozione dei «diritti fondamentali» della persona umana in ogni sfera della società civile, nessuna esclusa; b) l’assimilazione del concetto di laicità a quello di libertà e autonomia individuale: il laicismo, oltre a concepire, ontologicamente, l’individuo come un essere sociale multiplo, poliedrico, in fieri (ciascuno è, o può essere, insieme genitore, figlio, nonno, malato, pensionato, ecc.), soprattutto ne fa, deontologicamente, un soggetto libero e autonomo, capace di scegliere e decidere e agire senza costrizioni «dall’Alto/Altro», autoritarie, esterne, eteronome, ma obbedendo soltanto alla legge razionale che egli stesso si dà, sia nella sua qualità di cittadino democratico («una testa, un voto»), sia in quella di agente morale che tratta se stesso e gli altri come fini in sé (Kant); poiché un individuo libero e autonomo non si dà in natura, ma è «una costruzione sociale», culturale, storica, economica, occorre dunque creare le condizioni necessarie e sufficienti (istruzione, educazione, informazione, lavoro, benessere, ecc.) affinché un tale tipo di uomo possa darsi. Da questi due punti, mi pare, scaturisce la veemente polemica di Sciuto contro il multiculturalismo e il comunitarismo (soprattutto nelle teorie dei due sociologi canadesi Taylor e Kymlicka). Non che gli scambi, le contaminazioni, o persino il meticciato culturale e religioso vada bandito (sarebbe antistorico, oggi; peraltro qualsiasi grande civiltà è nata dall’incontro e intreccio di una pluralità di culture diverse, da una sorta di metaforico Pantheon); né che una singola cultura o religione possa considerarsi gerarchicamente o razzisticamente superiore alle altre (ogni cultura riflette a suo modo la vita, la storia, le aspirazioni, le sofferenze, i bisogni e i sogni del proprio popolo). Ma dove porta il multiculturalismo (= ogni cultura monisticamente delimitata e separata dalle altre) e il comunitarismo (= ogni comunità chiusa monoliticamente nella gabbia della sua pretesa immutabile auto-identità)? Da un lato a negare l’innegabile pluralismo e polivalenza culturale di ogni realtà storica, dall’altro ad innalzare ideologicamente, con un effetto razzistico a rovescio, la propria comunità a modello identitario assoluto (sull’«aporia dell’identità», concetto labile, instabile, sfumato, senza precisi contorni e confini, letteralmente «in-definibile», Sciuto scrive pagine mirabili). Il laicismo proposto e difeso nel libro, come l’autrice ben chiarisce, lungi dall’essere affetto di eurocentrismo, dall’elevare ad archetipo assoluto la civiltà europea (anch’essa prodotto storico di incontri di molteplici culture, popoli ed etnie), ritiene tuttavia irrinunciabile il «nucleo di valori» politici, culturali e morali, fondanti delle nostre liberal-democrazie (suffragio universale, equilibrio dei poteri, Stato non confessionale, diritti civili e sociali per tutti, solidarietà, rispetto della «dignità» di ogni uomo, ecc.). Perché? Ma per il loro potenziale universalismo, per la loro estensibilità e applicabilità in ogni paese, indipendentemente da differenze nazionali, di ceto, di sesso, linguistiche, religiose o etniche (la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, firmata dalla maggioranza dei paesi membri dell’Onu, insegna). Da ciò il necessario interventismo dello Stato laico, che non può tollerare l’intollerabile, come le rivendicazioni comunitariste/identitariste di legislazioni speciali e organi giudiziari privati paralleli a quelli pubblici statali (vedi i tribunali della sharia, che per es. in Gran Bretagna sono già decine, di fatto legittimati, purtroppo, a imporre velo femminile, matrimoni forzati, infibulazione, poliginia, o nel criminalizzare dissenso, apostasia, omosessualità, ecc.). Ovviamente, l’intervento statale in difesa dei diritti umani non basta; occorre anche una battaglia culturale, io direi «egemonica» (Gramsci), sia respingendo (cosa su cui Sciuto giustamente insiste) alcuni pregiudizi diffusi (tra cui, particolarmente odioso, quello per cui chiunque critichi il fondamentalismo islamico è un islamofobo, quindi meglio tacere («chi siamo noi per giudicare», «il complesso del colonizzatore»), il che, oltre ad essere un’assurda rinuncia alla nostra libertà di pensiero e di critica, sarebbe un’indiretta giustificazione e sostegno del fondamentalismo religioso che predomina nella sharia), sia diffondendo, nel libero dibattito di idee e opinioni, ovunque (scuole, giornali, editoria, radio-tv, ecc., fino al web), una coscienza etico-politica laica, antifondamentalista, e antidogmatica. Ciò detto (il che è sicuramente poco, rispetto alla ricchezza del libro), per finire, ribadito che Sciuto si occupa di laicità e non di altro («politiche di classe», «lotte anticoloniali», e quant’altro, di cui hanno parlato i suoi critici, sono eventuali oggetti di altre e differenti ricerche), vorrei fare alcune considerazioni aggiuntive, suscitate in me dalla lettura del libro, in esso marginali, e perciò dall’autrice giustamente appena accennate, toccate di sfuggita, anche se a più riprese: 1) il trascendentalismo kantiano: l’a priori o trascendentale è una proprietà a-storica universale della ragione umana, oppure il risultato della esperienza storico-evolutiva della specie (Hume integrato da Darwin)? In questo secondo caso, esso non è né presociale né prepolitico; dunque anche la laicità, senza cui non c’è liberal-democrazia, non è una condizione aprioristica, soggettiva, bensì una conquista etico-politica della storia umana, un «costrutto sociale», utile ad una migliore convivenza civile; in questo quadro, persino l’imperativo categorico andrebbe ridimensionato, non solo per il suo formalismo, ma anche per il suo universalismo (tra la vita e la libertà, qual è il valore ultimo? e tra il non-mentire, anche sotto minaccia di morte, e la mia propria sopravvivenza, che cosa devo scegliere? e tra il restituire il famoso «deposito» e lo sfamare i miei figli?); resta il principio morale dell’uomo «non semplice mezzo, ma anche fine in sé», da intendere, – e lo fa, mi pare, già Sciuto, – (con Kant, oltre Kant) non come legge assoluta e incondizionata, bensì come ideale «regolativo» a cui «approssimarsi»; 2) la liberal-democrazia: importante il trattino, perché il binomio esprime il difficile, fragile compromesso otto-novecentesco tra lo Stato rappresentativo liberale, elitario, e i nuovi movimenti democratici, egualitari; garante l’uno dei diritti civili, per pochi (libertà di possesso, di parola, di voto, di religione, ecc.), contraddistinti gli altri soprattutto dalla rivendicazione dei diritti sociali, per tutti (lavoro, casa, cibo, istruzione, salute, ecc.); se il binomio si spezza, si torna al conflitto, con vari possibili tipi di Stato, passati o presenti: a) liberali, ma non-democratici (l’Italia della tassa sul macinato e di Bava Beccaris, futuro fautore del Duce; b) democratici, ma illiberali (la Cuba castrista di Fidel); c) tendenzialmente illiberali e non-democratici (l’Ungheria di Orban); d) totalmente tali (le dittature fasciste, – o islamiche, ma qui siamo al premoderno); il binomio va custodito, ma con la dovuta attenzione rivolta, a mio parere, alla diversa e contrapposta origine storica e alla permanente tensione interna tra i due poli; 3) il determinismo «struttura/sovrastruttura» nel marxismo: non ci sono (state) anche interpretazioni anti-deterministiche (Bernstein, Kautsky, Labriola, Mondolfo, Bloch, ecc.)? Gramsci nei Quaderni parla di nesso dialettico tra i due termini, di rovesciamento reciproco di uno nell’altro; Marx stesso nel Vorwort a Zur Kritik, dove usa quella metafora, non manca di sottolineare il ruolo attivo della sovrastruttura sulla struttura, ossia delle «forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche» sui «rapporti economico-sociali di produzione» (analogo, mi pare, il significato della frase: «l’educatore deve essere educato», III Tesi su Feuerbach); insomma, in questo senso, ferma restando la priorità onto-logica della «struttura», tra le due parti la relazione non è di causa/effetto, ma di interdipendenza e interazione, e persino, talvolta, di critica e sopravanzamento teorico della seconda sulla prima (non hanno scritto Marx-Engels il Manifesto e Marx Il capitale in pieno sviluppo capitalistico?). Spunti, domande, questioni terminologiche, interpretative, storiche, teoriche, certo non nuove, che non si risolvono in poche battute, ma su cui tuttavia non mi pare inutile continuare, o riprendere, a riflettere e indagare. (1 aprile 2019) Tag:individuo, laicità, multiculturalismo, religione, Sciuto, società, Stato Scritto lunedì, 1 aprile, 2019 alle 16:53 nella categoria Archivio. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito. 2 commenti a “La laicità presa sul serio” gianni rosso scrive: 2 aprile 2019 alle 19:53 Sono completamente d'accordo: niente legislazioni speciali ed inserimento dei nuovi cittadini nel quadro delle nostre democrazie, per quanto oggi esse siano fragili in molti stati europei. Difficoltà non ne mancheranno, ma il fatto che molti immigrati siano scappati proprio dalle aberrazioni del fondamentalismo islamico potrebbe essere un buon punto di partenza. Sisco scrive: 3 aprile 2019 alle 19:34 Si cita Marx e le strutture economiche; si dice che a partire dalle condizioni attuali si può giungere al benessere; si dice anche che l'individuo non esisterebbe senza la società, lo stato, la storia. Infatti il concetto di individuo è ambiguo: non divisibile da un tutto, ma, togliamo la storia, cosa resta? Togliamo stato e società resta proprio il robinson di roussoiana memoria, il self made man privato del contratto che lo lega persino alla famiglia. Un uomo ridotto così non va molto lontano dalla sua isola anche nel qual caso riesca a fuggirne. Infatti lo si esclude in fieri! Ma si esclude il collettivismo anche e il capitalismo finanziario, per approdare all'alternativismo, cioè l'unica cosa che si paragona al nulla finora cercato. Siamo dunque al nichilismo europeo della Sciuto: quello della "politica" e dei "diritti umani" rivendicati contro il nulla che si è postulato. Quest'"alternativa" manca di controparte! Da - http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2019/04/01/la-laicita-presa-sul-serio/ |