LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Dicembre 01, 2007, 11:17:36 pm



Titolo: Michele SALVATI -
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2007, 11:17:36 pm
 PARTITI E LA CONCERTAZIONE

Scontentare è governare


di Michele Salvati


Con il voto di fiducia sul disegno di legge che recepisce il protocollo firmato a luglio da governo e parti sociali, mercoledì scorso si è chiuso alla Camera un importante round di concertazione all’italiana. Un round che, con alterne vicende, ha occupato gran parte dell’anno. Al Senato i margini della maggioranza sono assai più stretti e la sorte del provvedimento è del tutto incerta, a seguito di defezioni individuali imprevedibili. I partiti dell’estrema sinistra hanno combattuto per mesi per ottenere significative modifiche del protocollo nelle direzioni da loro preferite. Alla fine, però, hanno accettato la mediazione- diktat del presidente del Consiglio, che sostanzialmente ribadiva il testo originale, ed è molto improbabile che ricominci il tiramolla in Senato. Ora minacciano che, passata la Finanziaria, potrebbero sfilarsi dalla maggioranza. Appunto, «passata la Finanziaria », il che assomiglia un poco alle minacce di quei bambini i quali, avendo avuto la peggio in una baruffa in classe, si rivolgono a chi li ha picchiati frignando: «Ci vediamo fuori».

Si avvia dunque a passare una manovra complessa, che implica una maggior spesa di circa 2 miliardi per il 2008 e contiene importanti modifiche nei regimi pensionistici e nella legislazione del lavoro. Il giudizio mio (e dimolti economisti) è che il governo si sia comportato in modo abile: con questa maggioranza, le cose potevano andar peggio. Ma potevano andar meglio, se non ci si rassegna al realismo politico. Meglio come? È sufficiente rileggere i numerosi editoriali e commenti che questo giornale ha pubblicato per rendersi conto delle critiche e delle proposte, motivate non solo in termini di rigore e sviluppo (come ci si potrebbe attendere da un giornale «borghese ») ma anche, e forse soprattutto, in termini di equità, di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle persone meno difese, dei giovani, delle donne. Invece di ripetere cose già dette, oggi, in una situazione di forte turbolenza e innovazione politica, è forse più opportuno rivolgere alcune semplici richieste ai grandi partiti che domineranno la politica futura di questo Paese.

Per bocca del suo segretario, il Pd ha espresso posizioni in larga misura condivisibili. La domanda è: come pensa di poterle attuare in un governo di coalizione di cui sia parte importante la sinistra più estrema? Ancora. Quali rapporti il Pd cercherà di instaurare col sindacato? Cercherà ancora una «concertazione » così vincolante come quella che si è attuata in questa prima fase del governo Prodi? Ancor più semplice è la domanda al futuro Partito del popolo delle libertà. Finora il centrodestra si è avvalso del privilegio dell’opposizione, di criticare senza proporre. Ma la memoria fresca della sua prova di governo, in cui di iniziative liberalizzatrici se ne sono viste poche e la spesa pubblica è aumentata di 2 punti percentuali sul Pil—e questo nonostante un’ampia maggioranza e un governo di legislatura — non gli consente di godere a lungo di questo privilegio. Fare proposte, e soprattutto attuarle — insomma, governare — vuol dire scegliere e scontentare qualcuno. Può Berlusconi tollerare questa idea?

01 dicembre 2007

da corriere.it


Titolo: Michele Salvati. Veltroni-Pannella, il patto possibile
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2007, 11:36:29 pm
L’ITALIA E LA POLITICA

L’illusione del dittatore

di Michele Salvati


Di fronte a problemi la cui soluzione richiede tempi lunghi, fermezza di indirizzo, provvedimenti impopolari—tutte cose difficilmente compatibili con una democrazia come la nostra—ogni tanto gli scienziati sociali fanno l’ipotesi del benevolent dictator, del dittatore illuminato. Un personaggio mitico che consentirebbe loro di mettere in atto e tener ferme le misure che quei problemi risolverebbero. Abbiamo buoni motivi per dubitare della benevolenza del dittatore e fors’anche della saggezza degli scienziati sociali. Ma ci sono pochi dubbi che esistano problemi difficilmente trattabili in democrazia e che proprio da questi, purtroppo, dipenda il declino del nostro Paese e la sfiducia che lo pervade.

Giorgio Napolitano fa solo il suo dovere di Presidente quando si riferisce alla vitalità del popolo italiano, in risposta alla tristezza evocata dal New York Times. E Giuseppe De Rita fa solo il suo mestiere di ottimista quando, di fronte alla «poltiglia » sociale che non può non riconoscere, accentua il ruolo delle «minoranze attive». Minoranze, appunto, perché i dati d’insieme sono impietosi. Lo sono quelli economici, che da molti anni denunciano la più bassa crescita in Europa del reddito e soprattutto della produttività: il sorpasso spagnolo ne è stata una prevedibile conseguenza. E lo sono quelli sui principali funzionamenti istituzionali, con l’eccezione forse della sanità: si può dubitare delle «classifiche» sintetiche elaborate da diverse organizzazioni internazionali, non del fatto che tutte ci collochino molto al di sotto dei Paesi civili con i quali amiamo confrontarci.

L’euro era inevitabile e la globalizzazione è una realtà. Ma questo ha cambiato radicalmente il contesto di politica economica al quale il nostro Paese si era assuefatto negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Tra i Paesi ricchi, e noi lo siamo ancora, oggi crescono vigorosamente solo quelli che tengono i conti in ordine; e soprattutto quelli che sono in grado di sfruttare al massimo le risorse intellettuali, tecnologiche, organizzative e culturali di cui sono potenzialmente dotati. Negli anni delle svalutazioni facili e della vitalità selvaggia della piccola impresa — è probabilmente a questa che si riferiva il nostro Presidente citando il Keynes degli animal spirits—non soltanto avevamo sfasciato i conti pubblici, ma non avevamo neppure fatto una buona manutenzione delle risorse cui prima mi riferivo.

Con grande fatica, e tirandoci appresso un enorme debito pubblico, a metà degli anni Novanta siamo riusciti a rimettere i conti in un ordine precario. In confronto agli altri Paesi, tuttavia, le nostre infrastrutture si sono deteriorate, la nostra scuola si è degradata, l’università e la ricerca non tengono il passo, la giustizia civile ha tempi incompatibili con un’economia avanzata, la pubblica amministrazione nel suo insieme è inefficiente. E in un’area troppo vasta del Paese ancora non si sono create condizioni economiche, sociali, istituzionali, e soprattutto legali, idonee a garantire uno sviluppo capitalistico autonomo e vigoroso. Insomma, sempre le solite due vecchie tare, pubblica amministrazione e Mezzogiorno.

Le loro conseguenze sono però oggi più gravi che in passato: nelle più aspre condizioni competitive che la globalizzazione ha provocato abbiamo bisogno di tutte le risorse, al Nord e al Sud, e di un uso più efficiente delle stesse. Sulle misure da adottare, se vogliamo tornare a crescere, l’area di accordo è potenzialmente molto ampia: settore per settore occorrono certo misure diverse, ma tutte ispirate a imperativi di legalità, efficienza, concorrenza, merito. Si tratta di un’impresa impopolare e di lunga lena, volta a ripulire il paese da sacche di rendita grandi e piccole, da corporazioni che proteggono interessi particolari, da culture e mentalità che rafforzano lo status quo. Impopolare e di lunga lena: due caratteri che rendono l’impresa difficile in ogni democrazia, perché i voti arrivano se si assecondano gli interessi e le mentalità prevalenti.

E ancor più difficile nella nostra: la democrazia «proporzionale» della prima repubblica ha posto le premesse del declino; la democrazia «maggioritaria» della seconda ha creato coalizioni di governo incoerenti e incapaci di porvi rimedio. Il dittatore illuminato è una figura mitica, una finzione. Ai tanti ingeneri istituzionali che si affannano al capezzale della seconda repubblica l’arduo compito di inventare un equivalente democratico del benevolent dictator, che renda possibile la formazione di governi autorevoli, capaci di affrontare misure impopolari e di sostenerle nel lungo periodo. Capaci soprattutto di riconoscere che occorre un progetto di rinascita del Paese condiviso nei suoi tratti essenziali da gran parte delle élites politiche e che gli slogan populistici e delegittimanti con i quali si raccattano voti («comunista», «berlusconiano») non fanno che ostacolarlo.

22 dicembre 2007

da corriere.it


Titolo: Michele Salvati. Veltroni-Pannella, il patto possibile
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2008, 03:00:19 pm
L'analisi

Il vincitore non farà sconti

di Michele Salvati


Marini ha gettato la spugna e si andrà ad elezioni in aprile con la legge elettorale in vigore. Non è una buona notizia.
La legge con la quale si voterà tende a creare due schieramenti incoerenti e l'un contro l'altro armati, che non hanno alcun interesse a rappresentare in modo serio la difficile realtà in cui viviamo e poi, una volta ottenuta una vittoria elettorale, nessuna possibilità di attuare le misure che da quell'analisi conseguono. Perché dovremmo credere che, chiunque vincerà, sarà questa volta in grado di governare meglio che nelle passate legislature? Per chi votare? Ma, soprattutto, perché votare con questa legge?

Il centrodestra non nega che i problemi del Paese siano gravi e che uno stile di governo meno partigiano e più consensuale sarebbe utile. Né nega che riforme elettorali e costituzionali siano necessarie e debbano essere approvate da un'ampia maggioranza. Ma afferma che il nuovo stile potrebbe affermarsi dopo le elezioni, dopo che questo governo è stato spazzato via dal voto popolare. Si fa fatica a crederci. Sia perché non c'era bisogno di nuove elezioni per avere un governo diverso da quello di Prodi. Sia e soprattutto perché è probabile che nuove elezioni — con gli scontri frontali alimentati dal sistema elettorale — spengano sul nascere quegli accenni a una logica consensuale di cui siamo stati testimoni nelle scorse settimane e che Berlusconi sta rafforzando in questi giorni.

Se il Partito democratico sarà sconfitto dalla coalizione degli avversari, Veltroni farà molta fatica a sostenere un progetto come quello che Mario Monti auspicava sul Corriere del 3 febbraio: inevitabilmente esso sarebbe visto come il cedimento al «nemico», che prima ha imposto la sua volontà e poi graziosamente concede un dialogo secondo le proprie convenienze. Non ho dubbi che Veltroni sia convinto della necessità per il Paese di una strategia consensuale vicina, nel merito, a quella di Monti. Dubito però che, alla guida di un partito appena nato e di cui non ha il pieno controllo, in cui molti vivono ancora nel clima di demonizzazione del recente passato, riuscirà ad imporre queste sue convinzioni. E saremmo alle solite.

Un governo di stile bipartisan, con obiettivi importanti ma limitati, con una scadenza ragionevolmente breve, lo si poteva fare sotto il «velo d'ignoranza» che precede le elezioni. Sarà difficile farlo come concessione che il vincitore (se così sarà) fa allo sconfitto. Inoltre, con una legge elettorale che non rendesse convenienti coalizioni forzate, il nuovo stile auspicato da Berlusconi sarebbe stato assai più facile da attuare anche dopo le elezioni. Ma questa occasione l'abbiamo persa.

E poi, quale stile bipartisan? Una cosa èla Grosse Koalition dei tedeschi, tra due partiti normalmente bene assestati in una logica bipolare, ma di cui nessuno era in grado di governare, da solo o con alleati congeniali, dopo le ultime elezioni: è concepibile che Forza Italia e Partito democratico formino un governo di coalizione, in condizioni quasi paritetiche, abbandonando i loro tradizionali alleati? Una cosa assai diversa è lo stile Sarkozy, in un caso in cui dalle elezioni era emerso un vincitore evidente, di centrodestra. Un vincitore che ha inserito nel suo governo eminenti personalità di centrosinistra, nello sconcerto e con l'opposizione dei loro partiti di provenienza, e con forti mugugni anche nel proprio. Come patron del Milan, Berlusconi ha fatto delle ottime campagne acquisti. Dubito che riesca a farne in politica.


06 febbraio 2008

da corriere.it


Titolo: Michele Salvati. Veltroni-Pannella, il patto possibile
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2008, 10:49:33 am
Le scelte del Pd

Veltroni-Pannella, il patto possibile

E la difesa della laicità


A cominciare dai diretti interessati, molti in questi giorni manifestano sorpresa o rammarico per la riluttanza del Partito democratico ad associare alla sua lista elettorale il partito radicale: non si potrebbe candidare il suo stesso leader, invece di cercare di staccare Emma Bonino dalle sue radici? Allarghiamo un poco l'orizzonte: perché non associare i socialisti di Boselli, figli dello stesso sangue e della stessa storia dei Ds e del Pd?

Uscendo da questa storia, perché non associare addirittura il partito di Di Pietro? Molte ragioni, alcune buone altre un po' meno, militerebbero per queste associazioni. In via generale, tutti questi partiti si collocano vicini al centro dello schieramento politico e non comprometterebbero l'immagine — di centrosinistra — che il Pd vuole dare di se stesso. In particolare, per lo Sdi, le ragioni è persino inutile elencarle: a me risulta tuttora incomprensibile che Boselli abbia rifiutato di partecipare al processo costituente, dopo essere stato uno dei motori dell'Ulivo e avere espresso un forte interesse per la trasformazione dell' Ulivo in partito. Sia per i socialisti, sia per i radicali, un' eccellente ragione è poi la strenua difesa della laicità: un qualche contrappeso alla posizione dei teodem alla Binetti non sarebbe inutile. Quanto a Di Pietro, è pur vero che poco «ci azzecca» con il lignaggio del Pd e che non si tratta di un alfiere del garantismo, diciamo così, ma che sia un alfiere del principio di legalità è sicuro e il Pd, nel suo Statuto e nel suo codice deontologico, ha fatto della legalità uno dei suoi principi di fondo. Ci sarebbero dei problemi, naturalmente: si tratta di partiti piccoli, ma con identità molto nette e leader spigolosi. È dunque comprensibile che il Pd si ponga il problema se un'associazione con uno o più di questi partiti non crei più danni che vantaggi. Credo che la riluttanza del Pd si basi su due argomenti. Il primo è che questi partiti non hanno voluto attraversare le forche caudine di un processo costituente, dello scioglimento e della fusione in un partito nuovo.

Quelle forche, e con fatica, le hanno attraversate i Ds e la Margherita, attenuando le loro divergenze, venendo a patti su molti temi, cercando di costruire una nuova immagine dell'insieme. Perché i piccoli partiti laici di cui parliamo non hanno fatto lo stesso? Se così fosse avvenuto, ovviamente, le loro identità si sarebbero appannate, i loro leader sarebbero al più divenuti dei capi-corrente, ma proprio questo è il punto: oggi non si porrebbero come soggetti estranei e parzialmente antagonistici rispetto al Pd. Il secondo argomento rafforza il primo. Un'associazione significa che la lista elettorale in cui si presenta il Pd dovrebbe aggiungere, accanto al suo simbolo, anche i simboli dei partiti con cui si associa. Se così avvenisse, dove andrebbe a finire la «vocazione maggioritaria» sulla quale il partito insiste? Come sarebbe giudicata la promessa di Veltroni di «andare da soli»? Come potrebbe il Pd proclamare la sua differenza rispetto allo schieramento avversario, dove probabilmente ci saranno in lista più partiti? Oppure — quand'anche ci fosse il simbolo di uno solo — questo sarebbe il frutto di una affrettata congiunzione tra Forza Italia e Alleanza nazionale e non di una fusione vera e coinvolgente come quella che ha dato origine al Pd? (Per carità, meglio di niente, meglio che presentare liste differenti: la «fusione vera» può avvenire anche dopo. Ma intanto la differenza resta.)

 Si tratta di argomenti seri, che potrebbero forse (ma è molto tardi) essere superati da un impegno di scioglimento dei piccoli partiti di cui parliamo e di una loro confluenza nel Partito Democratico: dopo di che i leader forti e spigolosi di cui dicevamo giocherebbero la loro partita negli organismi definiti dal nuovo statuto e potrebbero avere un posto nelle liste elettorali del Pd. Se però questo non avviene, mi sembra difficile che Veltroni sia disposto a barattare l'immagine dell'andare da soli, della coerenza di un programma presentato da un unico partito, con il dubbio vantaggio di una coalizione con piccoli soggetti orgogliosi e indipendenti. Cosa del tutto diversa è dare diritto di tribuna a un grande tribuno come Marco Pannella, a una persona cui la Repubblica deve molto, inserendolo nelle candidature del Partito Democratico. In questo caso, però, che cosa avverrebbe del partito radicale? Si presenterebbe alle elezioni in modo indipendente? E Pannella come si comporterebbe, come «democratico» o come «radicale»? Comunque la si metta, mi sembra una cosa molto difficile da attuare in modo limpido.

Michele Salvati
12 febbraio 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. La battaglia del centro
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2008, 09:28:14 am
La battaglia del centro

di Michele Salvati


In un Paese che da dieci anni non cresce, male amministrato, afflitto da problemi cui non si riesce a dare risposta, il governo uscente e le forze politiche che l'hanno sostenuto partono con un pesante handicap quando si arriva alle elezioni. E questo avviene anche se le vere cause dell'insoddisfazione dei cittadini risalgono a molto più addietro o a circostanze esterne avverse. All’handicap per chi ha governato corrisponde ovviamente un vantaggio per lo sfidante: il problema per chi sta all' opposizione è solo di amministrarlo con abilità. Abilità che certo non manca a Berlusconi: per lui la campagna elettorale è in discesa. E' invece in salita per la principale forza corresponsabile del governo passato, il Partito democratico, ed è a Veltroni che è richiesto un sovrappiù di capacità innovativa reale e di virtuosità mediatica.

Veltroni era partito bene, con la mossa del corriamo da soli. Essa corrisponde a un’esigenza reale del nostro sistema politico, correggere il rissoso e incoerente bipolarismo di coalizione in cui stiamo vivendo da metà degli anni Novanta. E i suoi effetti positivi si sono visti subito, con la costituzione del Popolo della Libertà: per il momento una semplice lista elettorale, in futuro, forse, un vero e proprio partito. Ma la proclamazione del corriamo da soli aveva anche un vantaggio di breve periodo, di natura elettorale. Se il centrosinistra si fosse presentato tutto insieme, come replica della vecchia Unione, non solo non si sarebbe fatto alcun passo in avanti per risolvere il problema di coalizioni di governo incoerenti, ma una sconfitta elettorale sarebbe stata inevitabile. Tanto valeva allora rischiare. Senza rinnegare di aver fatto parte del precedente governo, il Pd doveva cercare di convincere gli elettori che, presentandosi da solo, la causa principale delle difficoltà di cui quel governo aveva sofferto era stata eliminata. Convincerli che, se il Pd prevalesse nelle prossime elezioni, il Paese avrebbe un governo di centrosinistra moderno e coerente, alla Blair e Zapatero, per intenderci.

La sfida era e rimane formidabile. Si trattava (e si tratta) di erodere quella spaccatura in due dell' elettorato italiano che quasi 15 anni di bipolarismo ideologico ed esagitato hanno prodotto e che sembra essere tuttora molto stabile. Di cercare elettori mobili e disposti a credere in un centrosinistra moderno, sia sul lato destro sia sul sinistro della collocazione politica in cui il Pd si è posto. Entrando la campagna elettorale nella sua fase decisiva, qual è il bilancio che possiamo redigere? I sondaggi sembrano dire che la vecchia spaccatura resiste, che, sul lato destro, né Veltroni né Casini sono riusciti per ora a erodere sensibilmente il vantaggio del Pdl. Né sembra che, sul lato sinistro, il Pd sia riuscito a intaccare la fortezza Arcobaleno. Ma alle elezioni mancano ancora 18 giorni e tutti ricordiamo la spettacolare rimonta di Berlusconi nelle elezioni del 2006.

La battaglia cruciale si gioca al centro: se il vantaggio del Pdl iniziasse seriamente a ridursi, la resistenza della sinistra tradizionale comincerebbe a cedere.

La testimonianza della propria identità di forza antagonistica, la polemica contro i vicini più moderati, è a costo zero solo quando si è convinti che vincerebbe Berlusconi in ogni caso e non ci sarebbe «voto utile» che potrebbe rovesciare la situazione. Se il vantaggio del Pdl cominciasse a ridursi i voti utili potrebbero fare la differenza tra Berlusconi e Veltroni e non pochi, nella sinistra tradizionale, potrebbero riconsiderare le loro scelte. E' dunque al centro, contro il Pdl, che Veltroni condurrà l'offensiva principale ed è probabile che lo scontro sarà più duro e diretto di quanto sia stato sinora. Il Pd deve ancora giocare la sua carta migliore, la sua maggior coerenza rispetto a una coalizione che vede insieme An e Lega: basta ripescare da internet il programma della Lega (le tre macroregioni, il 90% delle risorse fiscali destinate alle regioni d'origine…) per provocare serie preoccupazioni nel Mezzogiorno. E la stessa idea della cordata nazionale per Alitalia, se duramente contrastata sul piano della serietà, può rivelarsi un boomerang per chi l'ha proposta.

Sono solo esempi di confronto diretto e duro e tanti altri potrebbero aggiungersi. Siamo a una svolta ed è probabilmente un Veltroni diverso, più aggressivo, quello che vedremo in azione nei prossimi giorni. Sarà un bello scontro.

26 marzo 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Milano, l'Expo e le virtù trasparenti
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2008, 05:31:51 pm
IL PERCORSO VERSO IL 2015

Milano, l'Expo e le virtù trasparenti

di Michele Salvati


C’è stata grande e sincera soddisfazione in tutte le parti politiche, a destra e a sinistra, per la scelta di Milano come sede dell’esposizione universale del 2015. Nulla di strano in un Paese civile: se c’è un progetto importante e nella sostanza condiviso, i partiti attenuano i loro conflitti e le istituzioni da essi controllate cooperano. E tutti gioiscono del successo, anche se questo avvantaggia maggiormente — in un calcolo grettamente partigiano — uno dei partiti in gioco. In questo Paese di Guelfi e Ghibellini, di confusione di competenze e di gelosie tra le istituzioni, la vicenda che ha condotto alla vittoria di Milano è però stata straordinaria, e spero esemplare per il futuro: Comune, Provincia, Regione e governo, e dunque le diverse forze politiche che guidano queste istituzioni, hanno cooperato come meglio non si poteva per il successo dell’impresa. Tutte hanno capito che la vittoria di Milano era nell’interesse della città e del Paese. Tutte si sono rese conto che la natura dell’impresa non era di quelle in cui hanno senso confitti di principio, tra Destra e Sinistra. Nessuna ha tratto profitto dalla confusione istituzionale, dal proprio potere, per ostacolare il successo. La cooperazione è stata più che leale: è stata un elemento di spinta, ciò che era necessario per superare i molti ostacoli che si frapponevano ad un esito positivo. E questo illustra le due prime virtù: bipartisanship e capacità di coordinamento inter-istituzionale.

Ci aspettano sette lunghi anni prima dell’inaugurazione dell’Expo: la designazione di Milano è solo una prima, indispensabile tappa. Il successo vero lo si misurerà alla fine: non tanto dal numero di visitatori, quanto dalla qualità e utilità delle opere che l’Expo lascerà in eredità alla città e alla regione, dalla spinta all’attività economica e all’occupazione, dalla soddisfazione dei cittadini, dal clima politico e culturale che contribuirà a instaurare. Le due virtù di cui abbiamo detto saranno messe a dura prova, specialmente nei prossimi mesi, quando si dovrà definire il piano dettagliato degli interventi, quando il disegno prenderà forma, e poi, subito dopo, quando i compiti, le commesse, gli appalti dovranno essere attribuiti. Finora, in confronto, la collaborazione inter- istituzionale, i buoni rapporti tra parti politiche diverse, sono stati facili: il difficile viene ora e tutto dipenderà dalla saggezza e dall’equilibrio di quel nucleo (necessariamente) ristretto di persone che dirigerà il progetto. Per ottenere una collaborazione più che leale bisognerà coinvolgere, e il coinvolgimento, se non è ben organizzato, può contrastare con la rapidità delle decisioni che è necessaria per avviare le opere e chiuderle entro una scadenza fissa. Di nuovo, lo ripeto, non è questione di Destra o Sinistra, in quanto opzioni ideologiche, ma degli ambienti e delle culture con cui esse sono di fatto collegate, delle persone che esse possono mobilitare. Ma basta con le due prime virtù, la cui importanza spero sia evidente.

Finora abbiamo parlato della parte organizzata della società milanese e lombarda (e nazionale, non dimentichiamolo mai: si svolgerà a Milano, ma l’esposizione è italiana, è una vetrina internazionale dell’Italia, e la si allestisce con le risorse di tutto il Paese).

Una parte importante del successo, il successo di clima, il lascito sugli atteggiamenti e la cultura, dipendono però dalla partecipazione effettiva della parte non organizzata e largamente maggioritaria della nostra cittadinanza. Una parte spesso sospettosa e critica (e non di rado giustamente) nei confronti di quanto fanno «quelli in alto, quelli che decidono». La partecipazione democratica è difficile, specie per imprese di questa dimensione, e con forti conseguenze extra-locali. Ma una cosa è facile, è in ogni caso utile, e costituisce la premessa necessaria per sollecitare tutta la partecipazione possibile: la trasparenza, la completa trasparenza, quella che gli anglosassoni chiamano total disclosure. Perché non allestire subito un grande portale, ben fatto, con varie possibilità di blog e di forum, in cui riversare documenti, proposte e relative giustificazioni, decisioni prese e in corso di discussione, indicazioni di chi fa che cosa e perché è stato scelto per farla, così stimolando una interazione continua con i cittadini? Sono in giro tanti quattrini: guai se si diffondesse l’impressone che le scelte adottate non hanno giustificazioni difendibili. A seguito di questa iniziativa anche altre e più tradizionali forme di pubblicità e partecipazione verrebbero più facili: incontri, conferenze, convegni, manifestazioni.

Concludendo. Quattro virtù: bipartisanship, cooperazione inter-istituzionale, partecipazione dei cittadini, trasparenza. Non ho parlato delle cose da fare, dei contenuti, e non l’ho fatto intenzionalmente perché ci sarà tempo per farlo. Se le nostre virtù «metodologiche» saranno scrupolosamente osservate, ai contenuti penserà Milano, con le risorse culturali che è in grado di esprimere essa stessa e di attrarre dall’Italia e dal mondo.

03 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Le due Italie, la lobby del Sud e il ruolo del Pd
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2008, 12:18:59 pm
LE DUE ITALIE

Le due Italie, la lobby del Sud e il ruolo del Pd


di Michele Salvati


Nei commenti dopo il voto sulla grande stampa — ma anche prima, durante la campagna elettorale — non si può dire che si sia prestata molta attenzione al Mezzogiorno: la cosiddetta «questione settentrionale» l'ha fatta da padrona. Prima del voto, i «fucili » di Bossi hanno colpito assai di più di quelli di Lombardo, pur trattandosi, in entrambi i casi, di fucili di legno, di fanfaronate. Dopo il voto, il trionfo della Lega al Nord è stato sottolineato assai più di quello del Pdl al Sud, e in entrambi i casi non si tratta certo di novità: la Lega è tornata ai livelli degli anni 90 e, per il Sud, si tratta di una tendenza già osservata a schierarsi con il presunto vincitore e a contribuire al suo successo. Partendo da un’apparente irrazionalità del voto meridionale, vorrei sostenere una tesi semplice: l'irrisolta questione meridionale—l'unica vera «questione», una tragica spaccatura nella nostra storia unitaria—ha generato negli ultimi due decenni una reazione di rigetto nel Nord che è destinata a rimanere.

Questione antica e reazione recente oggi danno vita a un grave problema nazionale, per il quale non sembra che i partiti a vocazione maggioritaria (e nazionale) abbiano risposte chiare. Per ora, almeno. Irrazionale lo spostamento verso il Pdl di tante regioni meridionali? Apparentemente sì: l'alleanza del Pdl con la Lega è strategica e la Lega non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni di ridurre, e di molto, le risorse che lo Stato trasferisce al Mezzogiorno. Ciò sta scritto a chiare lettere nel programma elettorale di questo movimento politico e, per liquidare ogni dubbio, basta scaricare la proposta di attuazione dell'articolo 119 della Costituzione (federalismo fiscale) approvata il 19 giugno scorso dall'Assemblea regionale lombarda: è un documento ufficiale, non un manifesto elettorale. Se la proposta lombarda diventasse legge dello Stato — e questa sembra essere l'intenzione comune di Lega e Pdl — il taglio di risorse che affluiscono verso il Sud sarebbe forte e la stessa finalità di fornire ai cittadini dell'intero Paese servizi pubblici in quantità e qualità simili sarebbe negata per principio.

E allora perché una gran parte del ceto politico e dei cittadini meridionali hanno scelto il Pdl? Faccio fatica ad accettare un'ipotesi di irrazionalità e propongo una spiegazione alternativa. Da molto tempo i ceti politici meridionali hanno constatato che disporre di voci influenti e di molti parlamentari nella coalizione che sostiene il governo (e un po' per effetto di An, un po' per l'esito delle ultime elezioni, il gruppo parlamentare del Pdl si è notevolmente meridionalizzato) giova ai trasferimenti pubblici verso il Mezzogiorno: se poi giovi al Mezzogiorno, alla soluzione della «questione meridionale», è cosa del tutto diversa. Tale constatazione equivale a scommettere che le bellicose intenzioni della Lega resteranno intenzioni, e saranno frustrate da una potente lobby meridionale: il federalismo fiscale che uscirà fuori dal tritacarne governativo e parlamentare non sarà per nulla simile al disegno approvato dal consiglio regionale lombardo.

Questo devono aver pensato gli elettori meridionali e il ceto politico che ha indirizzato il loro voto. Se la scommessa sia realistica, non lo so. So soltanto che sul federalismo fiscale (e, più in generale, sulla riforma costituzionale) si giocherà una partita di straordinaria importanza: una partita da cui dipende la stessa tenuta del nostro Paese come nazione. La domanda del Sud di livelli e qualità simili nei servizi pubblici, nonché di trasferimenti addizionali a scopo di sviluppo—questo afferma l’articolo 119 della Costituzione —è fondata su un condivisibile principio di solidarietà nazionale. Ma incorpora anche la richiesta di continuare con l’andazzo di oggi, di usare servizi e trasferimenti in modo inefficiente e clientelare, senza alcuna ricaduta positiva in termini di sviluppo. E la domanda di autonomia fiscale del Nord sicuramente è motivata da insofferenza per il vincolo di solidarietà nazionale (politici siciliani: che cosa intendete quando parlate di «autonomia»? Essa vuol dire una cosa chiara—fare da soli—per una regione con un prodotto pro capite superiore alla media nazionale; una cosa alquanto diversa per una regione i cui consumi sono sostenuti da trasferimenti provenienti dal resto del Paese).

Ma contiene, la domanda del Nord, anche la sacrosanta richiesta di controllare che le risorse provenienti dalle loro regioni siano utilizzate in modo efficiente, per promuovere sviluppo. Sono conciliabili queste due domande? Se prendiamo le loro motivazioni buone, certamente sì. Ma per conciliarle occorrono visione e idee forti su come innescare sviluppo autonomo nel Mezzogiorno: insomma un ceto politico e tecnico di grande qualità. E qui si apre una straordinaria occasione per il Partito democratico. Ci saranno ovviamente tensioni tra la Lega e la parte meridionale del Pdl. Se il Pd ha veramente vocazione maggioritaria, se veramente antepone gli interessi del Paese a quelli del partito, non ceda alla tentazione di esasperare le fratture nella coalizione di governo, ma si impegni in Parlamento a trovare una mediazione alta, una soluzione che salvaguardi l’unità nazionale componendo le «parti buone» delle domande che provengono dal Nord e dal Sud.

22 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. La protezione del territorio
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2008, 12:38:46 pm
DESTRA, SINISTRA E LIBERISMO

La protezione del territorio


di Michele Salvati


Semplificando molto, un partito di centrodestra solitamente si colloca, e non di rado oscilla, tra due polarità ideologiche. Una polarità liberal- conservatrice, tuttora preoccupata degli effetti destabilizzanti della democrazia, ma figlia del razionalismo e dell'individualismo del secolo dei Lumi. E una polarità tradizionalistica, figlia della reazione all'Illuminismo: una polarità nella quale la società (comunità) prevale sull'individuo e lo stare insieme è assicurato dall'autorità e dalla tradizione, da «Dio, Patria e Famiglia ». Gli esempi abbondano, da George W. Bush a Nicolas Sarkozy, anche se la miscela più efficace di liberismo conservatore e di tradizionalismo patriottico resta quella di Margaret Thatcher.

Simmetricamente, un partito di centrosinistra si colloca e oscilla anch'esso tra due polarità, dopo l'esito tragico dell'esperienza comunista: una polarità liberal-progressista, in cui la democrazia non induce preoccupazione e il messaggio liberale è inteso come effettiva libertà di perseguire i propri piani di vita per il maggior numero di individui; e una polarità socialdemocratica, in cui l'accento è posto non sugli individui e i loro diversi piani di vita, ma su soggetti collettivi che si suppongono relativamente omogenei — classi, «blocchi sociali» —, soggetti rappresentati, organizzati, talora costruiti dal sindacato e dal partito. Anche qui gli esempi abbondano: Tony Blair e Zapatero sono vicini alla polarità liberale e la socialdemocrazia tedesca, che con Schröder vi si era avvicinata, ora sta tornando verso quella socialdemocratica con il suo nuovo leader Beck.

L'Italia non fa eccezione a questa grezza tassonomia. Partiamo dal centrodestra. Come non avvedersi che questo è passato dal messaggio liberale del Berlusconi prima maniera (almeno fino alle elezioni del 2001) al messaggio prevalentemente tradizionalistico delle elezioni di quest'anno? Il vero manifesto elettorale è stato il libro di Tremonti, «La paura e la speranza», in cui è immediato scorgere accenti anti individualistici e anti illuministici (e dunque anti liberali, anche se l'autore li chiama anti mercatisti) che sembrano presi di peso da Renan, se non da De Maistre. Bossi, se si eccettua la sua fase ormai lontana di critica alle gerarchie ecclesiastiche, ha sempre sostenuto un messaggio neotradizionalista: la sua tradizione, la Padania, è totalmente inventata, ma così sono anche altre tradizioni, e tutte, all'inizio. E Fini? Il suo civile messaggio di investitura come presidente della Camera è imbevuto di tradizionalismo: che poi la Nazione di Fini non sia quella di Bossi creerà certo problemi, ma ciò non toglie che per entrambi il riferimento alla comunità, al territorio, al Blut und Boden, sia molto forte.

Berlusconi, dall'alto, non bada a queste sottigliezze e li lascia dire.E il centrosinistra? Il messaggio con cui è nato il Partito democratico è un buon esempio di liberalismo progressista, con due significative qualificazioni. La prima, dovuta alla storia del movimento operaio di cui il Pd è l'erede, è la grande attenzione e cautela nei confronti del sindacato. Per un liberale puro e duro il sindacato è un gruppo di interesse come gli altri; non può essere così per chi viene dalla tradizione socialista e ricorda il grande movimento di emancipazione di cui il sindacato è stato (lo è tuttora?) l'espressione organizzata. La seconda è dovuta all'influenza di Margherita, un partito a forte prevalenza cattolica: attraverso di essa, attraverso la dottrina sociale della Chiesa, sono entrate nel patrimonio genetico del nuovo partito significative tracce tradizionalistiche. E vi sono entrate anche per l'intransigenza con cui Benedetto XVI ha ripreso la polemica contro l'individualismo liberale e il «relativismo ».

Insomma, si tratta di un liberalismo meno limpido di quello di Blair o di Zapatero.
Nella vittoria del centrodestra hanno giocato tanti fattori, e soprattutto il giudizio dato dagli elettori sull'esperienza del governo Prodi: un'esperienza dalla quale Veltroni non poteva smarcarsi e che non costituiva certo un buon esempio del programma liberale con il quale voleva essere identificato. Ma anche se gli elettori avessero creduto alla sua sincerità, alla sua voglia e alla sua possibilità di voltar pagina, alla sua intenzione di sciogliere lacci e lacciuoli, di promuovere il merito e abbattere le rendite diffuse ogni dove, è probabile che un messaggio tradizionalistico e difensivo, legato alla protezione dei territori e delle imprese del Paese, sarebbe stato comunque più efficace. Il messaggio del centrodestra era perfettamente adatto a un Paese che ha «paura», parola chiave del libro di Tremonti. Paura non soltanto della Cina e degli immigrati, ma anche delle riforme necessarie a convivere con successo con la Cina e con gli immigrati: in condizioni di lento declino si aborre dal cambiamento, gran parte dei cittadini stanno abbarbicati alle proprie consuetudini e alle proprie rendite, piccole o grandi che siano. Senza quelle riforme, tuttavia, il Paese è destinato a declinare ulteriormente: Francesco Giavazzi, sul Corriere di mercoledì scorso, ha perfettamente ragione. E' dunque ad esse — e non a misure protezionistiche — è legata la «speranza », l'altra parola chiave di quel libro. Passate le elezioni, portato a casa il risultato, speriamo che il governo ne tenga conto.


05 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Lo Stato assente
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2008, 05:41:04 pm
Lo Stato assente


di Michele Salvati


Sotto l'onda di indignazione provocata dall'incendio dei campi rom di Napoli si è aperta sui giornali una cateratta di commenti, alimentati anche dalle critiche che ci sono arrivate in sede internazionale. Molta attenzione è stata dedicata a come centrodestra e centrosinistra hanno affrontato e affrontano il problema, alle pulsioni xenofobe della Lega, alle incertezze del Partito Democratico: trattandosi di un problema con risvolti politici evidenti, e di cui si sono viste le ripercussioni nei risultati elettorali di un mese fa, questa attenzione è comprensibile. Attenzione minore ha però ricevuto un aspetto del problema che a me sembra ovvio, e sicuramente molto importante: che il problema rom — le reazioni insofferenti e occasionalmente violente che essi suscitano — sono anche la conseguenza dell'inefficienza dello Stato, dell'incapacità delle pubbliche amministrazioni, delle istituzioni centrali e locali, degli organi rappresentativi, nello svolgere compiti che in altri Paesi vengono svolti con maggiore competenza ed efficacia. Sotto questo aspetto, si tratta di un problema generale, che si manifesta in molti altri campi in cui lo Stato svolge male compiti che dovrebbe svolgere bene: nella scuola, nelle infrastrutture, nel controllo del territorio. Insieme con il Mezzogiorno, si tratta della grande «questione » del nostro Paese.

Detto in altre parole: mi rifiuto di credere che i nostri concittadini siano più intolleranti e xenofobi di quelli di altri Paesi di recente e rapida immigrazione: della Spagna, ad esempio, quella che ci ha criticato, e che ospita una popolazione rom maggiore della nostra. Anche altrove l'insofferenza è diffusa, e comprensibile, specie nei ceti più poveri, quelli che si trovano a maggior contatto con l'ondata migratoria: nel mercato del lavoro, nella scuola, negli ospedali, negli alloggi. E anche altrove ci sono movimenti politici che trovano un facile mercato nel rappresentarla e nell'alimentarla. Ma altrove, da un lato, il sistema politico mette al bando coloro che incitano un confuso e pericoloso «fai da te» da parte dei cittadini e punisce duramente i colpevoli di violenze contro gli immigrati. Dall'altro, ed è l'aspetto che voglio sottolineare, i disagi per i cittadini sono ridotti da uno Stato che funziona, che segue una linea politica meno oscillante e improvvisata, che riesce a controllare meglio gli ingressi, che predispone campi d'accoglienza civili, che reprime con efficacia comportamenti illegali, che assicura rapidamente i delinquenti alla giustizia.

Insomma, la xenofobia non si sviluppa perché i cittadini si sentono protetti. Per raggiungere gli standard di altri paesi europei, una lunga catena di decisioni politiche e soprattutto di pratiche ammini-strative dev'essere programmata e messa in atto rapidamente. Anzitutto la distinzione del problema rom (in larga misura cittadini comunitari) da quello più generale dell'immigrazione clandestina ed extracomunitaria: e qui è coinvolta anche la politica internazionale. Poi un riparto efficace di competenze tra organi periferici dello stato centrale (questure, prefetture, polizie) o organi rappresentativi locali, i comuni soprattutto: lo scaricabarile del not in my backyard —i campi non devono star qui ma altrove — dev'essere risolto. Infine, e soprattutto, una interazione rapida ed efficiente tra polizia e potere giudiziario. La polizia deve intervenire rapidamente, i fermati vanno trattenuti e processati in tempi brevi, se trovati colpevoli devono essere messi in grado di non nuocere: poche notizie suscitano l'indignazione dei cittadini come quella di un colpevole accertato che viene subito lasciato libero.

Qui sono coinvolte riforme legislative, amministrative e finanziarie. Occorrono risorse, certo: come le nozze, una politica dell'accoglienza adeguata non si fa coi fichi secchi. Ma soprattutto occorrono coordinamento ed efficienza. Non credo che sia troppo chiedere al governo una proposta dettagliata, e basata su informazioni serie e studi comparativi, che riguardi l'intera catena il cui mancato funzionamento alimenta l'insofferenza dei cittadini. Non singoli anelli o decisioni ad hoc, ma un disegno complessivo, un piano, che necessariamente deve coinvolgere diversi ministeri, gli organi periferici dello stato e gli enti locali. E non è troppo chiedere all'opposizione di misurarsi nello stesso compito con proposte costruttive.
E poi, naturalmente, c'è il «problema Napoli », una città in cui si bruciano campi rom con la stessa facilità con cui si bruciano immondizie. Napoli è problema «speciale», e oggetto di legislazione e interventi «speciali», da quando il nostro Paese è diventato uno stato unitario. A Napoli si sommano e si potenziano reciprocamente le due grandi «questioni» di State building che il nostro Paese non è riuscito a risolvere nel secolo e mezzo della sua esistenza: la «questione meridionale » e la questione dell'amministrazione pubblica. Sono già all'opera comitati che predispongono i festeggiamenti dei centocinquant'anni dell'unità d'Italia: temo che questa ricorrenza non annovererà tra successi del nostro Paese la soluzione dei problemi di quella bellissima e disgraziata città.


19 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Il federalismo è una risorsa
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2008, 10:54:16 am
VISTO DAL SUD

Il federalismo è una risorsa


di Michele Salvati


Ha fatto bene Dario Di Vico, nel suo editoriale sul Corriere del primo giugno, a segnalare l'apertura sul «federalismo fiscale» tra i molti argomenti contenuti nelle «Considerazioni finali» del Governatore della Banca d'Italia. Si tratta di un riconoscimento importante e che viene dal cuore dell'establishment. Un establishment
«romano» che ha sempre considerato il federalismo, e di conseguenza le sue implicazioni fiscali, come una concessione fatta a malincuore alla Lega, da lesinare il più possibile o addirittura da rovesciare qualora si presentasse l'occasione. A coloro i quali tuttora pensano che col federalismo ci siamo sbagliati, che è stato un grave errore cedere alle pressioni della Lega, che sarebbe meglio tornare indietro, il Governatore dice implicitamente di rassegnarsi: il federalismo è destinato a restare, it's here to stay, è una scelta costituzionale irreversibile. Ed è nell'ambito di questa scelta che vanno disegnate norme e istituzioni idonee a rendere i trasferimenti verso il Mezzogiorno più efficaci nel promuovere sviluppo di quanto sia avvenuto sinora.

Pochi giorni prima della relazione del Governatore, la Svimez — la benemerita Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno, che ebbe per tanti anni come presidente Pasquale Saraceno e ora è presieduta da Nino Novacco — aveva indirizzato a tutti i parlamentari della Repubblica una lunga lettera in cui si faceva il punto sulla disgraziata situazione in cui si trova oggi il Sud del Paese. L'analisi contenuta nella lettera è in buona misura condivisibile — quanto male pensi la Svimez delle proposte che circolano in tema di federalismo fiscale lo si capisce meglio da precedenti pubblicazioni, ad esempio dal Quaderno Svimez n. 12 del dicembre dello scorso anno — ma una cosa colpisce il lettore: ci sono comprensibili rivendicazioni relative allo sforzo finanziario richiesto per affrontare la questione meridionale, ma pochissimi cenni al problema sul quale invece Draghi insiste, allo sforzo di efficienza, di controllo, di valutazione, di rendicontazione che deve necessariamente accompagnare la spesa affinché essa dia i risultati attesi. È vero, come lamenta la Svimez, che molte spese le quali dovevano essere aggiuntive e straordinarie sono invece andate a sostituire spese ordinarie che non sono state finanziate. Ma l'entità complessiva dei trasferimenti è approssimata dal semplice calcolo macroeconomico che Draghi riporta nella sua relazione: la differenza tra una spesa pubblica grosso modo proporzionale alla popolazione ed entrate fiscali assai inferiori. A seguito soprattutto del minor reddito pro capite e delle minori basi imponibili, certo; ma anche di una maggiore evasione. E si tratta di una entità considerevole. Perché ha dato frutti così scarsi?

In termini di sostegno allo sviluppo dell'economia e al benessere delle popolazioni la spesa pubblica dell'intero Paese, al Nord e al Sud e in quasi tutti i suoi comparti (dalle infrastrutture alla scuola, dal welfare ai servizi alle imprese, dalla giustizia alla pubblica sicurezza, dallo smaltimento dei rifiuti ai servizi idrici, dai trasporti locali alla fornitura di energia...), lascia molto a desiderare in un confronto internazionale, sia per efficacia sia per efficienza, ovvero di costo per unità di servizio. Ma nel Mezzogiorno la differenza è abissale e il caso dell'immondizia napoletana ne è solo un esempio particolarmente vistoso.

Per molti servizi si spendono gli stessi quattrini che nel Nord, ma con risultati solitamente più scadenti. Altro esempio: la scuola non è «regionalizzata », è statale, grossomodo dotata delle stesse risorse e soggetta agli stessi ordinamenti al Nord e al Sud: per quale ragione i quindicenni meridionali ottengono risultati inferiori ai settentrionali nei test periodici promossi dall'Ocse?

Invece di rimpiangere il buon centralismo antico, credo che i ceti dirigenti meridionali, dopo aver duramente contrattato per i quattrini, per il fondo perequativo, dovrebbero vedere nel federalismo fiscale una risorsa, se ben disegnato e accompagnato da organi di valutazione e di controllo, da incentivi e sanzioni, che migliorino l'efficienza della spesa pubblica.
La frase ipotetica è d'obbligo: non è difficile pensare a forme perverse di federalismo fiscale in cui il sistema di valutazione e controllo ricade nella contabilità degli scambi politici: chi se ne frega se Lombardo o Bassolino usano male le risorse che provengono dal resto d'Italia e dall'Europa, tanto sono dei «nostri» e ci danno i voti che servono per vincere. Alla Svimez e ai meridionalisti di buona volontà che essa coordina, ai ceti dirigenti meridionali, agli italiani tutti sta il compito di vigilare affinché questa forma perversa, ma purtroppo ben possibile, di federalismo fiscale non sia quella che verrà nei fatti attuata.


07 giugno 2008

d corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Caro Romano, ripensaci
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 05:11:19 pm
Caro Romano, ripensaci                      di MICHELE SALVATI
 
Caro Romano, aggiungo il mio agli inviti che da più parti ti arrivano affinché tu ritiri le dimissioni da presidente del Partito democratico. Il mio invito non è motivato da un interesse politico-organizzativo diretto: resto fedele all’intuizione originaria, ma siano altri a portarla avanti. Questo è anche il tuo atteggiamento, mi sembra, e ciò comporta l’inevitabile conseguenza che il modo in cui altri portano avanti l’intuizione politica che fu tua e di Beniamino Andreatta può discostarsi da quello in cui l’avremmo portata avanti noi. Domanda: è così diverso, questo modo, da rifiutarsi di riconoscere una continuità tra il progetto dell’Ulivo e quello del Pd? Da sostenere che tra i due c’è uno iato e dunque che esiste un percorso politico il quale esprime la “vera” intuizione originaria dell’Ulivo? In questo caso le tue dimissioni avrebbero una giustificazione politica: ti rifiuti di avallare con una presenza simbolica un progetto che non è il tuo. Ma se una radicale differenza non esiste – ed è questo che credo e cerco di spiegare nella mia lettera – le tue dimissioni potrebbero essere fraintese e dar adito a interpretazioni meschine.
E il tuo silenzio, lungi dall’essere interpretato nel modo che generosamente lo motiva – di non danneggiare con altre polemiche il già debole campo del centrosinistra – non farebbe che confermare quel fraintendimento: se Prodi pensasse che l’intuizione dell’Ulivo sarebbe meglio espressa da un progetto radicalmente diverso dal Partito democratico, perché non dice esplicitamente di che cosa si tratta? Perché non combatte per realizzarlo? Sul modo in cui si è realizzato il Pd io credo di aver critiche e riserve non minori delle tue –se sono vicine alle tue quelle espresse nell’intervista di Arturo Parisi a Repubblica del 7 giugno o nell’articolo di Mario Barbi sul Riformista del 10. Sono critiche e riserve che in buona misura condivido, ma che non mi sembra ammontino all’accusa di radicale alterità dell’attuale Pd rispetto al progetto dell’Ulivo. E soprattutto sono critiche che non mi sento di rivolgere ad altri, come se noi, “i veri credenti”, ne fossimo immuni. Esse hanno proprio a che fare con il progetto originario dell’Ulivo, con il suo sviluppo nel Partito democratico, con le difficoltà che l’Ulivo e il Pd avrebbero incontrato e di cui dovevamo essere consapevoli.
Cominciamo dall’origine per poi venire più vicino a noi.
Il progetto dell’Ulivo nasce nel 1995/96 da un calcolo elettorale cui D’Alema e Marini danno subito la loro convinta adesione (un “non-ex-comunista” e un “non-politico” come candidato premier) e da una scommessa più profonda, nei confronti della quale per lunghi anni chi disponeva di reale potere nei partiti si dimostra ostile o scettico: la possibilità di fondere in una federazione e poi in un partito i riformismi democratici italiani, in primis i maggiori, quello socialista ed ex-comunista e quello cattolico ed ex-democristiano. Questa è la scommessa di Andreatta e Prodi e, si parva licet, anche la mia. Ma sapevamo benissimo che si sarebbe trattato di un’impresa difficilissima, sostenuta dall’ubris di voler tagliare e ricomporre culture politiche radicate; sapevamo che avremmo dovuto combattere contro l’incredulità e il dileggio, ancor prima che contro path dependence, vischiosità, trascinamenti dal passato. E il tuo grande merito, caro Romano, è stato proprio quello di insistere su questa scommessa, di aver fatto valere il peso della tua insostituibilità in momenti cruciali.
Da ultimo con le primarie dell’ottobre 2005: è lì che nasce il Partito democratico, perché le primarie che incoronano Veltroni, due anni dopo, ne sono la diretta conseguenza.
Però non possiamo meravigliarci se le vecchie culture e mentalità rimangono, se la miscelatura dei militanti e dei dirigenti è incompleta, se rischi di scissione sono sempre incombenti, se problemi non risolti (a quale gruppo aderire nel parlamento europeo) continuano a tornare. Di fronte a questi rischi e problemi, gravissimi e –ripeto e sottolineo – totalmente interni al nostro progetto, perché prendersela con Veltroni? Possibile che non si riesca a distinguere tra problemi (e nemici) principali e problemi (e nemici) secondari? Tra chi vuole andare avanti, sia pure tra molti errori, e chi vuol tornare indietro? Altra grande questione, strettamente legata alla precedente: il progetto per l’Italia, l’immagine che l’Ulivo e poi il Partito democratico volevano e v o g l i o n o dare agli italiani. Come hanno mostrato le ultime elezioni, le prime in cui il centrosinistra non ha proposto un’ammucchiata di tutti coloro che sono contro Berlusconi, questo progetto e questa immagine sono risultati meno credibili di quelli dello schieramento avversario. Anche di questo vogliamo dare la colpa solo a Veltroni e al gruppo dirigente che ha affrettatamente costruito intorno a sé? Di fatto, il programma elettorale per queste ultime elezioni è stato – dal punto di vista di un’analisi alla crisi dell’economia e della società italiane e delle risposte democratiche possibili – di gran lunga il migliore tra quelli presentati dallo schieramento di centrosinistra dal 1996 ad oggi. Ma le elezioni, com’è ben noto, non si vincono con i programmi, ma con le immagini e con il framing, su come questi “leggono” l’attività del governo in carica, e qui il centrodestra ha dominato.
Errori ci sono stati, certo, a cominciare dalle alleanze (Di Pietro e radicali) per finire con le candidature: è questa la causa della sconfitta? A me non sembra: la causa sta nell’immagine e nel framing e in quell’ambito va cercata la risposta. Ma se la risposta è quella di elaborare una diversa immagine, un’immagine che convinca gli italiani almeno quanto li convince l’immagine del centrodestra, questo a me sembra il compito centrale cui deve dedicarsi il Pd, che l’Ulivo non ha affrontato ai tempi delle ammucchiate antiberlusconiane, ed è un compito dal quale i “veri credenti” non possono tirarsi indietro.
E vengo all’ultimo problema, quello che probabilmente ha provocato in te la maggiore delusione: la polemica – quasi mai aperta, ma ben percepibile sottotraccia – contro il governo Prodi durante la campagna elettorale. Personalmente ti capisco: una fatica boia, sostenuta dalla convinzione che alla fine della legislatura “gli italiani avrebbero capito”, e la sensazione che il primo a non capirti è il principale partito che ti deve sostenere.
Visto dal di fuori, il problema era però molto semplice: il Pd si è formato con troppa fretta e in un momento sbagliato, come parte di una coalizione di governo incoerente dalla quale doveva –ripeto e insisto: doveva – distinguersi, se si voleva presentare agli italiani con una immagine chiara. Ma così facendo criticava e danneggiava il g o v e r n o , proprio come il governo e la coalizione che lo sosteneva danneggiavano l’immagine che il Partito democratico voleva dare di sé. Toni sbagliati, certo, forse vicende personali sgradevoli che non conosco: ma all’interno di un contesto che non consentiva scelte molto diverse. A meno che tu non sia convinto che la scelta migliore fosse quella di riproporre la coalizione che sosteneva il governo: è questo che pensi? Io non ho dubbi che il rapporto con la sinistra radicale, o parti di essa, tornerà a proporsi.
E che il problema delle alleanze sia un problema reale.
Ma per allearsi un partito deve avere una propria identità e il momento di darsela era proprio la prima occasione nella quale si presentava alle elezioni.
La lettera è già troppo lunga.
Il succo è che il Pd è il figlio e l’erede dell’Ulivo, per quanto complicata e difficile sia stata la gestazione. Che le difficoltà della gestazione erano tutte interne al progetto originario e gli ulivisti non possono imputarle ad altri: dovevano sapere che il parto sarebbe stato faticoso.
Che tu, Romano, sei il padre dell’Ulivo (c’è un problema con questa metafora: chi è la madre?).
Che le tue dimissioni verrebbero interpretate come un disconoscimento di paternità: e in politica, purtroppo, un’analisi del dna è impossibile.
Che all’interno del Pd coloro che la pensano grossomodo come te (e vogliono impegnarsi in battaglie come quelle nelle quali Parisi o Barbi o Andreatta o Monaco o anche molti “veltroniani” sono già coinvolti) sarebbero molto danneggiati dal tuo disconoscimento di paternità. Insomma, le tue dimissioni non avrebbero una motivazione politica difendibile; e però avrebbero conseguenze politiche pesanti. Ripensaci, ti prego.
 
17/6/08

da europaquotidiano.com


Titolo: Michele SALVATI. Il federalismo è una risorsa
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 04:31:06 pm
VISTO DAL SUD

Il federalismo è una risorsa


di Michele Salvati


Ha fatto bene Dario Di Vico, nel suo editoriale sul Corriere del primo giugno, a segnalare l'apertura sul «federalismo fiscale» tra i molti argomenti contenuti nelle «Considerazioni finali» del Governatore della Banca d'Italia. Si tratta di un riconoscimento importante e che viene dal cuore dell'establishment. Un establishment «romano» che ha sempre considerato il federalismo, e di conseguenza le sue implicazioni fiscali, come una concessione fatta a malincuore alla Lega, da lesinare il più possibile o addirittura da rovesciare qualora si presentasse l'occasione. A coloro i quali tuttora pensano che col federalismo ci siamo sbagliati, che è stato un grave errore cedere alle pressioni della Lega, che sarebbe meglio tornare indietro, il Governatore dice implicitamente di rassegnarsi: il federalismo è destinato a restare, it's here to stay, è una scelta costituzionale irreversibile. Ed è nell'ambito di questa scelta che vanno disegnate norme e istituzioni idonee a rendere i trasferimenti verso il Mezzogiorno più efficaci nel promuovere sviluppo di quanto sia avvenuto sinora.

Pochi giorni prima della relazione del Governatore, la Svimez — la benemerita Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno, che ebbe per tanti anni come presidente Pasquale Saraceno e ora è presieduta da Nino Novacco — aveva indirizzato a tutti i parlamentari della Repubblica una lunga lettera in cui si faceva il punto sulla disgraziata situazione in cui si trova oggi il Sud del Paese. L'analisi contenuta nella lettera è in buona misura condivisibile — quanto male pensi la Svimez delle proposte che circolano in tema di federalismo fiscale lo si capisce meglio da precedenti pubblicazioni, ad esempio dal Quaderno Svimez n. 12 del dicembre dello scorso anno — ma una cosa colpisce il lettore: ci sono comprensibili rivendicazioni relative allo sforzo finanziario richiesto per affrontare la questione meridionale, ma pochissimi cenni al problema sul quale invece Draghi insiste, allo sforzo di efficienza, di controllo, di valutazione, di rendicontazione che deve necessariamente accompagnare la spesa affinché essa dia i risultati attesi. È vero, come lamenta la Svimez, che molte spese le quali dovevano essere aggiuntive e straordinarie sono invece andate a sostituire spese ordinarie che non sono state finanziate. Ma l'entità complessiva dei trasferimenti è approssimata dal semplice calcolo macroeconomico che Draghi riporta nella sua relazione: la differenza tra una spesa pubblica grosso modo proporzionale alla popolazione ed entrate fiscali assai inferiori. A seguito soprattutto del minor reddito pro capite e delle minori basi imponibili, certo; ma anche di una maggiore evasione. E si tratta di una entità considerevole. Perché ha dato frutti così scarsi?

In termini di sostegno allo sviluppo dell'economia e al benessere delle popolazioni la spesa pubblica dell'intero Paese, al Nord e al Sud e in quasi tutti i suoi comparti (dalle infrastrutture alla scuola, dal welfare ai servizi alle imprese, dalla giustizia alla pubblica sicurezza, dallo smaltimento dei rifiuti ai servizi idrici, dai trasporti locali alla fornitura di energia...), lascia molto a desiderare in un confronto internazionale, sia per efficacia sia per efficienza, ovvero di costo per unità di servizio. Ma nel Mezzogiorno la differenza è abissale e il caso dell'immondizia napoletana ne è solo un esempio particolarmente vistoso.

Per molti servizi si spendono gli stessi quattrini che nel Nord, ma con risultati solitamente più scadenti. Altro esempio: la scuola non è «regionalizzata », è statale, grossomodo dotata delle stesse risorse e soggetta agli stessi ordinamenti al Nord e al Sud: per quale ragione i quindicenni meridionali ottengono risultati inferiori ai settentrionali nei test periodici promossi dall'Ocse?

Invece di rimpiangere il buon centralismo antico, credo che i ceti dirigenti meridionali, dopo aver duramente contrattato per i quattrini, per il fondo perequativo, dovrebbero vedere nel federalismo fiscale una risorsa, se ben disegnato e accompagnato da organi di valutazione e di controllo, da incentivi e sanzioni, che migliorino l'efficienza della spesa pubblica.
La frase ipotetica è d'obbligo: non è difficile pensare a forme perverse di federalismo fiscale in cui il sistema di valutazione e controllo ricade nella contabilità degli scambi politici: chi se ne frega se Lombardo o Bassolino usano male le risorse che provengono dal resto d'Italia e dall'Europa, tanto sono dei «nostri» e ci danno i voti che servono per vincere. Alla Svimez e ai meridionalisti di buona volontà che essa coordina, ai ceti dirigenti meridionali, agli italiani tutti sta il compito di vigilare affinché questa forma perversa, ma purtroppo ben possibile, di federalismo fiscale non sia quella che verrà nei fatti attuata.


07 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. La ricetta dell'efficienza
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2008, 07:25:14 pm
LE MISURE ECONOMICHE


La ricetta dell'efficienza


di Michele Salvati


In Italia si sovrappongono, e sovrapponendosi si aggravano, due grandi problemi. Un problema ormai vecchio: da più di dieci anni la nostra economia quasi non cresce e quasi non cresce la produttività, il prodotto per occupato, una delle due fonti (l'altra è l'occupazione) della crescita del reddito. E un problema più recente, ma che minaccia di durare a lungo: i prezzi del petrolio, dei prodotti agricoli e di gran parte delle materie prime sono aumentati vertiginosamente e questo implica, per un Paese che non produce queste merci, un forte trasferimento di risorse all'estero. Non è una bella notizia per famiglie già provate da una scarsa crescita dei loro redditi, in larga misura dovuta al primo dei problemi che ho ricordato. E non è una bella notizia per il governo, il quale deve convincere queste famiglie che stringere la cinghia è necessario e che sta attivando tutte le misure per farla stringere il meno possibile, specie per coloro che già ce l'hanno stretta. Partiamo dal secondo problema, il più semplice (si fa per dire). Dobbiamo far fronte al rincaro di importazioni indispensabili alle famiglie e alle imprese con maggiori beni prodotti ed esportati, e/o con minori consumi e importazioni: tutto qui. Vie illusorie per addolcire la pillola ci sono: le abbiamo tentate sia dopo il primo che dopo il secondo shock petrolifero del secolo scorso, tra la metà degli anni 70 e i primi 80 (rafforzamento della scala mobile e crescita del disavanzo pubblico), ma hanno prodotto disastri. L'unico addolcimento possibile, anche se costoso, è una forte riduzione delle imposte sui redditi da lavoro più bassi, integrato da misure di welfare per «incapienti» (per soggetti così poveri che non pagano tasse) un po' più serie della social card, i 200 euro che il governo si propone di trasferire quest'anno ai pensionati a basso reddito. Addolcimento costoso, dicevo: se si vogliono mantenere gli attuali livelli di spesa pubblica e non accrescere il disavanzo, bisogna aumentare le tasse da qualche altra parte. Oppure, misura ottimale ma politicamente ancor più difficile, bisogna tagliare seriamente la spesa pubblica. Di fronte a questi costi e difficoltà il governo ha deciso di non far nulla: la pillola per i più poveri resta amara.

Tutto sarebbe più semplice se la nostra economia si trovasse da tempo, e stabilmente, su un ritmo di crescita più sostenuto, invece di ristagnare, e qui torniamo al primo dei problemi che ho ricordato. Spero che gli ultimi interventi della Banca d'Italia (il Bollettino appena pubblicato, la relazione del Governatore all'assemblea dell'Abi, la sua audizione sul Dpef in Parlamento) abbiano convinto anche coloro che manifestano maggiore ottimismo sulle capacità di crescita autonoma dell'economia italiana che è necessario intervenire, e seriamente. È vero, c'è un pezzo importante di industria italiana che ha reagito alle sfide della concorrenza, che compete, produce ed esporta. Ma anche nell'industria è un pezzo limitato. E poi ci sono i settori protetti dalla concorrenza, nell'industria e nel terziario. E poi c'è quasi l'intero settore pubblico, che non è in grado di fornire a imprese e famiglie servizi essenziali.

Insomma, il pezzo del sistema Italia che funziona è troppo piccolo per sostenere la crescita di un Paese così grande e non desta meraviglia che i dati d'insieme per il prodotto e la produttività siano così deludenti. L'intero sistema dev'essere esposto allo stimolo della concorrenza, laddove è possibile, e a una cura drastica di efficienza, laddove possibile non è, come non lo è in gran parte del settore pubblico. Cosa che non soltanto è politicamente costosa, ma ha anche rendimenti molto differiti, che difficilmente possono essere incassati dal governo in carica.

Il governo ha messo in tavola le sue carte, non certo entusiasmanti.
Questo dovrebbe facilitare il compito di una buona opposizione che, al di là delle critiche a singoli provvedimenti (dall'Alitalia alla Robin Tax, dalla social card ad altre misure criticabili) dovrebbe concentrarsi sui due grandi problemi cui ho accennato in questo articolo.

Come difendere i cittadini meno abbienti dal necessario rincaro dei beni e servizi che incorporano materie prime importate, senza provocare rincorse inflazionistiche o disavanzi pubblici, ma anzi riducendo la pressione fiscale. E come stimolare concorrenza ed efficienza ovunque, nei settori privati e in quelli pubblici, premessa indispensabile per una ripresa della crescita. Insomma, che cosa farebbe l'opposizione, in concreto, se fosse al governo?


18 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Michele Salvati. La maturità centralizzata
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2008, 03:31:05 pm
BILANCIO DEGLI ESAMI DI STATO

La maturità centralizzata


di Michele Salvati


Come sono valutati gli esami che concludono la scuola media superiore, gli esami di Stato, quelli che una volta si chiamavano esami di maturità? Le commissioni d'esame sono composte da un presidente, che proviene da una scuola diversa da quella in cui si svolge l'esame, e da sei membri, tre professori dell'ultimo anno della scuola e tre provenienti da altre scuole. Un controllo «esterno», sia pur parziale, dunque esiste. Le valutazioni di queste commissioni hanno lo stesso valore legale: un 80 o un 100 ottenuto nell'istituto X della città A hanno lo stesso «valore» di un 80 o un 100 nell'istituto Y della città B.

Ma tutti sanno che ciò non corrisponde alla realtà. Presidente e professori esterni normalmente provengono da scuole vicine a quella in cui si svolge l'esame, e dunque da contesti socio- culturali analoghi. E quand'anche un esterno avesse standard rigorosi e volesse adottarli in una scuola dove si sono stabilizzati da tempo standard più bassi, normalmente non riuscirebbe a far prevalere la sua opinione, in presenza di docenti interni che «difendono» i loro studenti e di un presidente che cerca di sedare i conflitti e raggiungere rapidamente un risultato. Insomma, in alcune realtà didattiche locali, la scuola è una cosa seria, seri i commissari interni e esterni, seri i risultati degli esami di Stato. In altre realtà le cose non stanno così: gli 80 e i 100 ottenuti nelle due realtà corrispondono a livelli di competenze e conoscenze profondamente diversi. Due anni fa, commentando su questo giornale il dibattito che si svolge a metà agosto in Gran Bretagna, quando vengono pubblicati gli esiti degli esami che concludono la scuola media superiore e danno accesso all'Università (A level), avevo suggerito di introdurre anche in Italia il sistema di correzione centralizzata adottato in quel Paese.

Più esplicitamente è recentemente intervenuto in materia Andrea Ichino sul Sole 24 Ore e sono d'accordo con la sua analisi e le sue conclusioni. Prima domanda e risposta: serve un esame di Stato come quello italiano? No, non serve. Serve poco per promuovere uno sforzo addizionale di docenti e studenti, allo scopo di raggiungere risultati migliori: in molte situazioni l'esperienza insegna che si può intascare il certificato d'esame, e con buoni voti, anche con prove scadenti. Se così stanno le cose, non serve a chi voglia basarsi su quel certificato per valutare chi ha superato l'esame al fine di attribuire un lavoro, una borsa di studio, l'ammissione a un corso universitario con numero chiuso: gli stessi voti corrispondono a capacità e conoscenze molto, troppo, diverse. E non serve allo Stato, che è il responsabile del sistema dell'istruzione pubblica e dunque deve curarne la qualità: per farlo deve sapere quali sono le scuole buone o mediocri, e con il sistema di valutazione oggi in vigore non può certo scoprirlo.

Seconda domanda e risposta: è migliorabile l'impianto attuale di tantissime commissioni indipendenti distribuite sul territorio? Miglioramenti o peggioramenti sono sempre possibili: il regolamento odierno è probabilmente migliore di quello introdotto dalla ministra Moratti, che aveva abolito i commissari esterni. Le considerazioni che abbiamo svolto ci fanno però optare per una risposta negativa. Se entrambe le risposte sono convincenti, ne discende che le alternative sono due. Si aboliscano del tutto gli esami di Stato e si evitino sprechi e inutili fatiche: valgono, per quel che valgono, i voti dell'ultimo anno, e chi deve valutare gli studenti per ulteriori passaggi nella loro carriera (le università, i datori di lavoro, chi concede borse di studio...) stabilirà sistemi di accertamento e di valutazione propri. Oppure si proceda verso prove d'esame tutte scritte e valutate centralmente, com'è il caso del Regno Unito e di alcuni altri Paesi. E' una soluzione che presenta problemi organizzativi non facili (ma risolvibili, visto che altri Paesi li hanno risolti), che non dà risultati perfetti e va tarato in continuazione.

Ma è una soluzione che riduce drasticamente le discrepanze oggi esistenti nel significato dei medesimi voti. E soprattutto farebbe emergere un grande problema della nostra scuola, una varietà regionale dei risultati didattici inaccettabile in un Paese che si pretende unito. Un esame di stato corretto centralmente non è che un gigantesco programma di valutazione, simile a quello che svolge l'Ocse (il famoso «Pisa», Programme for International Student Assessment) e che ci vede drammaticamente indietro rispetto a gran parte degli altri Paesi, soprattutto a seguito dei risultati infimi di alcune regioni. La valutazione sarebbe fatta a 18 anni invece che a 15; si svolgerebbe solo in Italia, dove però non sarebbe attuata su un campione ma sull'intera popolazione. Temo che i risultati sarebbero simili a quelli del «Pisa», ma l'impatto sull'opinione pubblica e sulle forze politiche sarebbe ben superiore e forse indurrebbe queste ultime a intervenire. O almeno così è lecito sperare.

02 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Le regole liberali e la tutela dei soggetti deboli
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2008, 10:54:43 am
ECONOMIA SOCIALE DI MERCATO

Le regole liberali e la tutela dei soggetti deboli


di Michele Salvati


Nei convegni, nelle feste, nelle numerose iniziative che a fine estate cercano di fare il punto sui grandi scenari dell’economia e della politica—le vacanze non sono del tutto finite e la politica istituzionale non è ancora ricominciata — la lunga intervista a Mario Monti di Carlo Bastasin sul Sole 24 Ore di venerdì scorso meriterebbe un forte rilievo. Per l’importanza dei temi trattati; per l’equilibro dell’argomentazione e la franchezza del giudizio; per il garbo e l’understatement che sono tipici dell’intervistato. Sono quattro gli argomenti di riflessione. Primo: le conseguenze economiche del signor Bush. Ovvero, e più in generale, come gli Stati Uniti abbiano male esercitato un compito di governo che loro spettava come potenza egemone: essi avevano scatenato, quasi trent’anni fa, quella fase di liberalizzazione economica e finanziaria nella quale tuttora viviamo, la «globalizzazione»; a loro spettava il compito di governarla, non solo nel proprio interesse, ma del mondo intero.

Egemonia e responsabilità devono andare insieme e così era avvenuto nel precedente regime economico internazionale, quello disegnato a Bretton Woods, quando spesso gli Usa si comportarono da «egemoni altruisti» (l’espressione è di Bhagwati). La conseguenza che Monti paventa è il discredito dell’economia di mercato, della visione liberale dell’economia, nonché il via libera a un confuso interventismo statale: se la liberalizzazione è intesa come sinonimo della «mercatizzazione » di Tremonti, se una liberalizzazione ben regolata e ben governata non è possibile, perché no? Ma una liberalizzazione ben regolata e ben governata è possibile: questo è il secondo tema.

L’esempio potenziale è l’Unione Europea: l’architettura del suo modello di governance—in particolare la Bce e la politica della concorrenza, da integrare con una politica della vigilanza rafforzata — possono consentire un governo della liberalizzazione planetaria che non corre i rischi in cui sono incorsi gli Stati Uniti. Esempio potenziale, perché Monti è il primo a sapere che l’Unione, come entità politica in cerca di sovranità e di egemonia, è ancora a uno «stadio infantile» rispetto agli Stati Uniti. E che solo evolvendo a uno stadio adulto, pienamente politico, potrà contestare il liberismo impiccione (l’espressione ovviamente non è di Monti) del «signor Bush» e mostrare i meriti del suo modello di governance. Un modello radicato nella filosofia che impregna i trattati dell’Unione e deriva da quella concezione di «economia sociale di mercato» che Monti da sempre cerca di importare in Italia.

Questo è il terzo tema dell’intervista e culturalmente il più importante: socialità è una cosa; statalismo, intervento discrezionale dei poteri pubblici, colbertismo variamente declinato, sono cose ben diverse. Il mercato ha regole che vanno rispettate e le eccezioni (Alitalia, servizi pubblici locali e quanto passa il convento del nostro Paese) vanno escluse, se non passano il test di una giustificazione rigorosa. «Socialità» alla Ludwig Ehrard vuol dire che, nel pieno rispetto del mercato e della concorrenza, e con politiche fiscali universalistiche, i ceti più deboli devono essere protetti dalle peggiori avversità del ciclo economico. Liberalismo, sì, ma assai diverso da quello americano, per il quale consiglio l'impressionante lettura di Supercapitalismo, di Robert Reich. Un liberalismo, quello auspicato da Monti, meno tollerante nei confronti di divaricazioni estreme nella distribuzione del reddito e delle chances di vita; ma anche meno interventista, discrezionale e distorsivo rispetto alle regole di mercato.

Chi è il più liberale? Rimaneva poco spazio a Monti e ne rimane ancor meno a me, per affrontare il quarto tema: siccome lo stesso Tremonti preannuncia per settembre una discussione sull'economia sociale di mercato, come si confronta con questo ideale l'effettiva azione di governo? Monti riconosce agevolmente i meriti del ministro dell'Economia nell'impostare e far rispettare una disciplina di bilancio rigorosa. Manifesta dubbi nei confronti della strategia di sviluppo che si intravede nei provvedimenti del governo, e che non escludono confusione di ruoli tra Stato e mercato, politica e impresa. Non è questo, aggiungo a quanto dice Monti, il significato proprio dell'aggettivo «sociale» che qualifica «economia di mercato». Un vero provvedimento «sociale» sarebbe stato, nelle attuali condizioni dell'economia italiana, una forte riduzione della pressione fiscale sui redditi più bassi, i più colpiti dal ristagno e dall'inflazione. Ovviamente compensato da ancor maggiori risparmi di spesa. Ma forse, per quanto forte in termini numerici, la coalizione di governo non è forte abbastanza da potersi attenere ai principi di una vera economia sociale di mercato. Ammesso che voglia attenervisi.

25 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. L'università nell'ombra
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2008, 11:31:39 am
SENZA FONDI E PROGETTI

L'università nell'ombra


di Michele Salvati


Ha fatto bene il Corriere a dare tanto rilievo all'edizione 2008 del Rapporto Ocse sull'istruzione.
Non perché racconti una storia molto diversa da quella del 2007 o metta a disposizione dati ignoti a chi si occupa di queste cose. Ma perché ogni occasione è buona, e questa era ottima, per mettere in allerta l'opinione pubblica su un tema di grande importanza per lo sviluppo economico, il benessere dei cittadini, la giustizia sociale, la qualità della società civile e della stessa democrazia. Di questo si tratta quando si parla di istruzione. E per questo è grande lo sconforto nel constatare che il nostro Paese occupa un posto così basso nelle classifiche che l'Ocse compila sui più diversi indicatori. E quando il posto non è basso, come non lo è per il numero di insegnanti o la spesa per allievo nella scuola media, lo sconforto è ancor maggiore perché l'efficacia dell'insegnamento misurata attraverso esami confrontabili ci fa di nuovo ripiombare negli ultimi posti della classifica.
Limito il commento all'Università, che è il segmento che conosco meglio e sul quale il rapporto Ocse concentra le maggiori critiche. A differenza della scuola, è quello in cui la spesa per studente è inferiore alla media; il tasso di abbandono è superiore; la capacità di attrazione di studenti stranieri è infima; gli iscritti sono sì molto cresciuti, ma lo è assai meno la percentuale di laureati sulle fasce d'età più giovani: in ogni caso siamo sempre ben al di sotto degli altri Paesi avanzati. Un pessimo risultato per una grande nazione europea, la culla della civiltà occidentale come i politici amano ricordare, sempre aggiungendo che l'istruzione è la migliore carta che possiamo giocare per stimolare la crescita. A queste affermazioni corrispondono poi disegni, programmi, azioni concrete?

Lascio da parte una valutazione del precedente ministro dell'Università: negativa, anche se a sua scusante può invocare la fragilità del governo di cui era parte e la sua breve durata. Il governo in carica è però robusto e sembra destinato a durare: qual è il disegno del ministro Maria Stella Gelmini?
Per ora vediamo azioni, previste in alcuni articoli del super-decreto legge tremontiano di finanza pubblica, il ben noto 112/88: azioni gravide di conseguenze, ma di un disegno di lungo periodo neppure l'ombra. Il fondo di finanziamento ordinario delle università viene progressivamente ridotto e le assunzioni di personale tagliate: insomma, le «bestie-atenei» vengono affamate. Dove possono rivolgersi per nutrirsi? Si trasformino in Fondazioni di diritto privato — questa è la risposta dell'articolo 16 —, diventino più efficienti e cerchino risorse nella società civile: hanno voluto l'autonomia? La usino. «Maestà, il popolo non ha pane (pubblico). E allora si nutra di brioches (private)»: come non ricordare la famosa battuta attribuita a Maria Antonietta di fronte a questa operazione?

Non vorrei suscitare equivoci. Tagli erano inevitabili, soprattutto nella scuola, dove non possiamo permetterci un rapporto docenti/studenti così elevato. Ma nell'università la situazione è semmai squilibrata in senso opposto e occorreva essere cauti nell'affamare: di inedia si può morire, se le brioches delle Fondazioni non funzionano. Funzioneranno? Come facciamo a saperlo se non ci viene presentato un programma di legislatura che disegni un percorso di transizione dalla situazione attuale ad una futura e più soddisfacente? Una road map, come si dice adesso. Non ce l'ho per principio contro l'idea delle Fondazioni, avanzata tempo addietro da due stimabili colleghi, Gianni Toniolo e Nicola Rossi. Né ce l'ho contro l'idea di immettere «più privato» nell'istruzione superiore: il gatto sia pure rosso o nero, purché prenda i topi. Ma in un Paese serio una grande riforma è sempre preceduta da una discussione di merito approfondita e razionale, spesso avviata da un documento ministeriale di un certo impegno: un libro verde, o qualcosa di simile, come Maurizio Ferrera non si stanca di ripetere.

L'ha fatto Sacconi per il welfare, non poteva farlo Gelmini per l'Università e per la scuola? Per la scuola poteva partire dall'eccellente «quaderno bianco» dei ministeri dell'Economia e dell'Istruzione del precedente governo. Molti materiali ufficiali sono disponibili anche per l'Università e delle riflessioni di alcuni tra i più noti studiosi del problema fa una buona rassegna il libro di Moscati e Vaira, pubblicato quest'anno dal Mulino. Forse non sono gli studiosi cui il ministro fa riferimento, forse preferisce le tesi più radicali esposte da alcuni noti economisti della Bocconi. In via generale, ma soprattutto in questo caso, ci dia un'idea del percorso, passo per passo, prendendo posizione sul gran numero di problemi sui quali dovrà intervenire per arrivare ad una meta così distante dalla situazione attuale. Solo così saremo in grado di distinguere le resistenze conservatrici che ogni riforma importante incontra, e che devono essere superate, dalle obiezioni che devono essere discusse seriamente e sulle quali le forze politiche devono prendere posizione.

15 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Stato, mercato e idee confuse
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2008, 12:07:15 pm
LE REGOLE CHE MANCANO


Stato, mercato e idee confuse


di Michele Salvati


Non vorrei che la crisi finanziaria in corso negli Stati Uniti e l'affannoso intervento pubblico che sta provocando in quel Paese alimentassero nel nostro un clima di «più Stato» altrettanto superficiale — ma gravido di conseguenze politiche — del clima di «più mercato» che dominava fino a un anno fa: condivido la preoccupazione espressa da Mario Monti nel suo editoriale di domenica scorsa.

È vero, il Tesoro americano sta impiegando risorse immense per attenuare le conseguenze della crisi. Ma si tratta di una risposta d'emergenza: il problema all'origine delle difficoltà attuali non è di quelli che si risolvono buttandogli quattrini (pubblici) addosso. È un problema di insufficiente e cattiva regolazione dei mercati, dal quale consegue un rischio di instabilità finanziaria, una elevata probabilità di crollo dell'immane piramide di debiti e crediti che si è lasciata costruire negli ultimi anni su basi insicure. Un rischio di cui le autorità statunitensi erano consapevoli — una parte dei tanto vituperati economisti non si è mai stancata di richiamarlo — ma sul quale non sono intervenute in tempo. Un po' perché, quando le cose andavano bene, ci guadagnavano tutti e occorreva grande forza politica per spegnere l'«esuberanza », anche se «irrazionale». Ma soprattutto perché quelli che ci guadagnavano di più (molto di più) disponevano di grande influenza presso le autorità preposte alla regolazione.

Se gli interventi di emergenza risulteranno efficaci e poi, e soprattutto, in che tempi le autorità riusciranno a costruire un assetto regolatorio e di vigilanza capace di restituire ai mercati finanziari la fiducia di cui hanno bisogno, non è possibile prevedere. Ci riusciranno, certamente, ma dopo aver fatto pagare costi altissimi in termini di benessere agli Stati Uniti e al mondo intero. Vorrei solo sottolineare che parlare in modo generico di «più Stato» per quanto sta avvenendo in America confonde solo le idee. Essenzialmente si tratta di un fallimento della politica, una politica inquinata da legami troppo stretti con i grandi interessi privati, che non ha saputo imporre regole adeguate al sistema dei mercati finanziari. Regole che avrebbero consentito di avere insieme una finanza competitiva e innovatrice — nella misura necessaria allo sviluppo dell'economia reale — con condizioni di stabilità e fiducia. Che avrebbero evitato le inefficienze e le ingiustizie connesse all'impegno di risorse pubbliche cui il Tesoro degli Stati Uniti è stato ora costretto.

Confondere le idee può essere pericoloso in un Paese come il nostro, che con le regole non ha mai avuto un rapporto facile, in cui i rapporti tra politica e affari sono sempre stati assai stretti, in cui lo stesso capitalismo privato, nei suoi piani alti, è largamente un capitalismo di relazione, non di mercato. Un Paese in cui il conflitto di interessi è ancor più endemico, direbbe Guido Rossi, che negli Stati Uniti. Un disegno di regolazione efficace è sicuramente un intervento pubblico, ma non è «più Stato» nello stesso senso in cui lo è pasticciare discrezionalmente con Alitalia. Anzi, è il suo esatto contrario: regole contro discrezionalità, distanza contro vicinanza con gli interessi privati, statualità contro politica. Di «più Stato» nel primo significato avremmo grande bisogno, soprattutto per tornare a crescere nel lungo periodo. In un Paese fermo, nel quale la politica deve dare l'impressione di fare qualcosa, e con effetti immediati, temo che sarà il secondo significato a prevalere.




25 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. La crisi e le riforme
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2008, 10:27:31 am
LA BUFERA FINANZIARIA E L’ITALIA

La crisi e le riforme


di Michele Salvati


Negli ultimi otto anni, i primi di questo secolo, il tasso di crescita della nostra economia è stato circa il 60% di quello dell'Eurozona. Forse dovremo augurarci che questi rapporti continuino a valere anche in un prossimo futuro di recessione, se consideriamo i tassi in valore assoluto: crescere allo 0,60 quando gli altri crescono all'uno è un male; decrescere allo 0,60 quando gli altri decrescono all'uno è un male minore.

E' una battuta, ovviamente, perché è assai più probabile che la regola sin qui seguita si inverta quando si inverte il segno della crescita: dunque che i nostri tassi di decrescita siano superiori a quelli altrui in valore assoluto. Ma la battuta mette in evidenza tre cose importanti: che siamo alle soglie di una recessione; che c'è un rapporto stretto tra la crescita o decrescita europea e la nostra; che le nostre difficoltà di crescita hanno anche un'origine strutturale. La crisi finanziaria scatenatasi in America ha compromesso il bene fondamentale sul quale si basano le economie moderne: la fiducia, la ragionevole aspettativa che i debiti saranno onorati.

Di conseguenza i canali del credito - quelli che si irradiano tra banche e istituzioni finanziarie, e poi tra entrambe e le imprese e le famiglie- si sono inariditi. Il che si riflette inevitabilmente sulla spesa - sui consumi e gli investimenti- in buona misura finanziati a credito. E potrebbe trasformare la recessione incombente in una depressione, se i livelli di attività economica e occupazione ne risentissero in modo significativo, perché in questo caso la potenziale solvibilità di famiglie, imprese, istituzioni finanziarie e banche precipiterebbe in una spirale cumulativa. Non avverrà così, probabilmente, perché le autorità americane stanno intervenendo in modo massiccio: ma basta un passo falso perché la situazione sfugga al controllo.

E poi l'onda di piena della crisi finanziaria non è ancora arrivata in Europa e le istituzioni europee sono meno attrezzate ad affrontarla, come spiega in modo semplice ed efficace Francesco Daveri su www.lavoce.info (L'Europa che non c'è, 30/09 2008). E in Italia? Sono di ieri le notizie di un intervento rassicurante del Presidente del Consiglio; della sospensione delle vendite allo scoperto delle azioni di banche e assicurazioni decisa dalla Consob; di un comunicato concertato del Ministro dell'Economia e del Governatore della Banca d'Italia: quanto potrà essere fatto sul piano interno e nei rapporti coll'Europa per affrontare la crisi finanziaria sarà fatto da autorità che si muovono all'unisono.

Ma l'Italia è il Paese in cui sinora è stata vera la mediocre regola del 60 per cento ed è per affrontare questa debolezza strutturale che, a partire dalla crisi dell'estate del 1992, si è intrapreso un ambizioso indirizzo di riforma di cui sono state parti centrali la forte riduzione della proprietà pubblica nell'economia, un (incompleto) programma di liberalizzazioni, il disegno di nuove regole che favorissero la concorrenza nei mercati dei fattori e dei prodotti. Qual è l'atteggiamento del governo nei confronti di questo indirizzo, sinora sostenuto da entrambe le coalizioni politiche che si sono alternate al potere in questi sedici anni? Il clima è cambiato.

Se vogliamo abbattere il muro del 60%, sarebbe però esiziale se di questo si profittasse per fare di ogni erba un fascio, per abbandonare programmi di liberalizzazione che nulla hanno a che fare coll'assenza di regole che ha provocato la crisi finanziaria, per favorire il ritorno di quello Stato impiccione che tanto piace alla politica.

02 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Caute previsioni
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2008, 08:39:24 am
Caute previsioni


di Michele Salvati


Se da questa crisi finanziaria usciremo in tempi ragionevoli e con danni limitati — è un esito possibile, forse il più probabile, nonostante la gravità della situazione — quale sarà il modello di capitalismo nel quale entreremo dopo la crisi? Circolano in questi giorni le previsioni più estreme: nuove Bretton Woods, vincoli alla libera circolazione dei capitali, ri-regolazioni incisive dei singoli capitalismi nazionali. Insomma, un modello di capitalismo radicalmente diverso. Per quel che vale (è una previsione, non un auspicio) la mia è più cauta: il modello in cui ci ritroveremo a vivere dopo la fase acuta della crisi non sarà molto diverso da quello che è prevalso in quest'ultimo quarto di secolo, un modello neoliberale, come alcuni lo chiamano.

Nella sua forma più estrema, si tratta di un modello nel quale i capitali sono liberi di cercare i massimi rendimenti scorrazzando per il mondo intero; i mercati dei prodotti e dei fattori sono deregolati quanto è possibile; le imprese si fanno una concorrenza intensa e i grandi investitori istituzionali premiano quelle che garantiscono nel breve periodo il massimo valore per gli azionisti; le banche e le istituzioni legali e finanziarie assecondano questa «creazione di valore» — chiamiamola così — con strumenti sempre più sofisticati; i grandi manager sono pagati come calciatori e stelle del cinema, perché, al pari di loro, fanno guadagnare molto chi li impiega; la politica, come sempre, è legata a filo doppio all'economia, da cui ricava risorse per campagne elettorali sempre più costose, e non si sogna certo di contrastare il modello prevalente, finché le cose vanno bene. Insomma, è il modello che Robert Reich descrive nel suo recente Supercapitalismo.

Perché una previsione così cauta di fronte a una crisi così grave? Non certo perché ritenga che il capitalismo abbia giocato o debba giocare sempre con le stesse regole. O che quelle con le quali ha giocato negli ultimi anni, soprattutto in America, siano in qualche modo regole ottimali, se giudicate per i loro esiti di benessere. Di fatto, a livello mondiale, il capitalismo ha giocato con regole molto diverse: per rendersene conto basta confrontare i trent'anni successivi alla seconda guerra mondiale — l'«età dell'oro» — con la fase di deregulation e globalizzazione che è seguita alla presidenza Reagan, il modello neoliberale, appunto. E poi tuttora esiste una grande varietà di «capitalismi» nazionali: quello che abbiamo sommariamente descritto prima, il capitalismo anglosassone, è sicuramente il modello dominante, ma non è affatto esclusivo, neppure tra i Paesi occidentali o a questi assimilabili. Ed è infine controverso quale di questi modelli sia «migliore» dal punto di vista del benessere dei cittadini: quello americano è sicuramente eccellente dal punto di vista della libertà, dell'innovazione, dell'efficienza, della creazione di occasioni di lavoro. Lo è anche dal punto di vista della sicurezza e della distribuzione del reddito?

Il motivo che mi induce ad una previsione cauta, pur nel contesto degli aggiustamenti di cui si sta discutendo in questi giorni e del ruolo che i poteri pubblici stanno (provvisoriamente?) assumendo, è presto detto: non sono in discussione reali alternative nelle modalità profonde di regolazione del capitalismo. Per quanto fosse prevedibile, questa crisi ha preso in contropiede sia gli economisti, sia le classi dirigenti, economiche e politiche, dei principali Paesi occidentali: persino le sinistre si erano rassegnate a convivere col supercapitalismo e la globalizzazione. Se invece guardiamo all'esperienza del secolo scorso, ai due grandi cambiamenti di modello che allora avvennero — dall'economia liberale all'economia keynesiana negli anni 30 e 40; e poi da questa all'economia neo-liberale e alla globalizzazione negli anni 70 e 80— ci rendiamo conto che essi sono stati accompagnati/ provocati sia da crisi economiche profonde, sia da ri-orientamenti ideologici, culturali, teorici e, da ultimo, politici, altrettanto profondi. Quella keynesiana fu una vera rivoluzione, teorica e culturale ancor prima che politica; e fu una rivoluzione (alcuni direbbero una controrivoluzione) anche quella monetarista e neo-liberale, negli anni 70 e 80 del secolo scorso, anch'essa teorica e culturale, prima che politica. Nulla di questo è visibile oggi, anche se uno degli ingredienti di un cambiamento di modello — la gravità della crisi — sembra essere presente. Si potrebbe obiettare che anche nel '29 le risposte politiche e teoriche non furono subito a portata di mano e si dovettero aspettare i Roosevelt e i Keynes. Faccio però fatica ad assimilare quella congiuntura storica a quella attuale e a vedere in Barack Obama, nel caso dovesse vincere, un nuovo Franklin Delano Roosevelt. Per non dire dell'assenza di un nuovo Keynes. E dunque ricordo, a chi prevede (o auspica) radicali mutamenti, la risposta della sentinella di Isaia a chi domandava quanto sarebbe durata la notte: «Verrà il mattino, ma è ancora notte; se volete domandare, tornate un'altra volta».

14 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. La morsa dei redditi
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2008, 03:55:00 pm
CRISI E DISUGUAGLIANZE


La morsa dei redditi


di Michele Salvati


Le previsioni economiche, come quelle meteorologiche, vanno lette con cautela. Anche quando è nell'aria un punto di svolta, anche quando si è certi che presto o tardi ci sarà un momento di rottura, è difficile indovinare quando esattamente avverrà: se così non fosse non si spiegherebbero i guadagni e le perdite che gli speculatori fanno in questi casi. Ma quando la svolta è avvenuta, gli sviluppi successivi sono più facili da prevedere, perché le forze all'opera e le conseguenze della loro interazione sono meglio note agli economisti. Proprio come sono note ai meteorologi le conseguenze sul tempo in Italia di un anticiclone sull'Atlantico, una volta che si è stabilmente installato lì: difficile è prevedere quando si stabilizzerà. Purtroppo appartengono al genere delle previsioni relativamente affidabili quelle che stanno circolando sulle prospettive della crescita americana ed europea: siamo in recessione, che in alcuni Paesi potrà implicare trimestri di crescita negativa e almeno un paio d'anni di difficoltà serie per tutti. E siccome l'economia italiana cresce nettamente meno della media europea, ci aspettano tempi duri. Più duri che nel resto dell'Europa. Perché?

In parte la risposta va cercata nel deperimento relativo delle nostre strutture economiche e istituzionali: i cattivi governi di un lontano passato ci hanno lasciato in eredità un settore pubblico e un settore privato meno efficienti e competitivi di quelli altrui. In parte le nostre maggiori difficoltà derivano dalle scarse risorse mobilitabili per alleviare i numerosi punti di sofferenza che la crisi produce. Con un debito pubblico superiore al Pil — anch'esso conseguenza dei cattivi governi del passato — dobbiamo dedicare una frazione maggiore del prelievo fiscale al pagamento degli interessi e sono minori le possibilità di sostenere disavanzi in un caso di emergenza, com'è quello che incombe. Di alzare ulteriormente la pressione fiscale neppure si discute: non solo perché è già molto elevata, ma perché in casi di domanda fiacca è controproducente. E' probabile che l'Unione chiuderà un occhio sul rispetto della regola del disavanzo se la situazione si farà veramente grave; ma ne chiuderà due per Paesi che hanno rapporti Debito/ Pil assai inferiori al nostro. E poi, da ultimo, neppure si tratta delle regole europee, ma del giudizio che dei nostri disavanzi, del nostro debito, della nostra affidabilità complessiva daranno i mercati.

Dunque, risorse scarse e numerosi punti di crisi. Come verranno scelti quelli sui quali intervenire? C'è già un impegno del governo sul sistema bancario e c'è solo da sperare che questo se la cavi con risorse proprie. Si è accennato anche a interventi nel caso di difficoltà delle grandi imprese, le poche che ci sono rimaste, e c'è un precedente pericoloso, quello di Alitalia. Ma il nostro è un Paese di piccole imprese e di distretti: come intervenire nel caso si creassero situazioni di sofferenza?

Non sono le imprese, semplici entità giuridiche, ma le persone, i lavoratori, quelli che soffrono e bisognerà finanziare ampiamente la Cassa integrazione straordinaria, nel caso di crisi aziendali. Non basterà, perché a perdere il posto saranno soprattutto lavoratori che non hanno diritto alla Cassa integrazione e giustamente il governo ha messo in cantiere un piano di ammortizzatori: sarà sufficiente? E' ben congegnato? Alla base di tutto c'è il problema dei bassi redditi, delle famiglie che faticano ad arrivare alla quarta settimana: detassare gli straordinari o la contrattazione integrativa va bene per incentivare la produttività, ma non è la risposta più efficace in un momento di crisi, quando di straordinari o di contrattazione di secondo livello se ne fanno di meno. E questo ci porta al più grave difetto d'impianto della manovra economica, la mancata detassazione dei redditi più bassi e, più in generale, l'assenza di misure universali a loro sostegno: non era necessario attendere il recente rapporto dell' Ocse per sapere che il nostro, in Europa, è uno dei Paesi in cui le disuguaglianze sono maggiori e, soprattutto, si stanno aggravando. E non è necessario essere degli economisti per rendersi conto che le diseguaglianze mordono di più quando il reddito complessivo diminuisce.

I punti di sofferenza, come li abbiamo chiamati, sono ben più numerosi. Aggiungere a questi il Mezzogiorno è quasi imbarazzante per la sua evidenza — quando si parla di povertà si parla soprattutto di Mezzogiorno — e preoccupa la mancanza di risorse dei Comuni, i più esposti sul fronte di interventi di assistenza immediata: non credo che, se avesse previsto la crisi, il governo avrebbe eliminato subito l'Ici sulla prima casa. Ma recriminare è inutile. Ora c'è bisogno di un indirizzo politico che, riconoscendo la gravità della situazione, concentri le poche risorse disponibili sui punti di maggiore sofferenza. Che ne impedisca la dispersione in mille rivoli, a seconda di chi grida più forte o ha le connessioni migliori, siano essi i produttori di frigoriferi o di parmigiano reggiano. Che non approfitti dell'emergenza per abolire o stravolgere le regole alle quali è affidata, nel lungo periodo, una risposta alle nostre difficoltà di crescita.



27 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Pd, quelle due verità su Prodi
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2008, 12:46:08 am
Politica Una ricerca del Mulino sui fattori che hanno determinato l' esito delle ultime elezioni

Pd, quelle due verità su Prodi

Prospettive
Non ha funzionato l' idea di sfondare al centro, ma resta valida la scelta di un forte rinnovamento culturaleLa discontinuità del nuovo partito rispetto al governo uscente e la scelta di correre da soli senza stringere alleanze a sinistra

Per fare una buona analisi di una elezione nazionale occorre tempo. Passato questo tempo l' elezione non è più una notizia: i suoi risultati e le sue conseguenze sono stati digeriti dai media e la politica au jour le jour prosegue inarrestabile il suo corso. Sarebbe però un vero peccato se questo comprensibile effetto mediatico attenuasse l' interesse per Il ritorno di Berlusconi, la ricerca Itanes (acronimo per Italian National Elections Studies dell' Istituto Carlo Cattaneo di Bologna) sulle elezioni del 13-14 aprile, da poco pubblicata dal Mulino. I prodotti periodici di questo gruppo di lavoro sfidano le leggi della stretta attualità, fissano interpretazioni difficilmente confutabili e soprattutto identificano problemi che continuano a riemergere e contro i quali gli attori del gioco politico continuano a sbattere la testa.

Così è stato per le ricerche dedicate alle precedenti elezioni politiche, del 2001 e del 2006, e a maggior ragione lo è per quelle di quest' anno: un vero cataclisma, che ha visto una drastica riduzione dei gruppi politici presenti in Parlamento (da 15 a 9, rispetto alla precedente legislatura); la scomparsa della sinistra estrema, dei verdi e dei socialisti; un divario di quattro milioni di voti tra i due poli del nostro bipolarismo, che erano grosso modo equivalenti nelle elezioni del 2006.

Che cosa spiega questo cataclisma? Prima dei tentativi di spiegazione l' Itanes assolve un compito di descrizione accurata dei risultati elettorali: il centrosinistra ha perso perché i suoi precedenti elettori si sono astenuti di più di quelli del centrodestra; perché gli elettori guadagnati dal Partito democratico per effetto del voto utile, molti, hanno ovviamente un effetto nullo sul totale del centrosinistra essendo stati strappati ad altre componenti di questo stesso schieramento; perché il Partito democratico non è riuscito a guadagnare verso il centro e il centrodestra ed anzi perde a favore dei partiti del polo avverso circa il 10 per cento di coloro che nel 2006 avevano votato per l' Ulivo, soprattutto nel Sud.

Questi i dati principali, peraltro noti da tempo.

Ma l' Itanes combina i dati elettorali con un' indagine campionaria svolta nelle settimane successive alle elezioni e li confronta con i risultati di indagini precedenti: da questo insieme nascono gli spunti interpretativi più interessanti. Sulla persistenza e variazione delle tradizioni politiche regionali. Su come ha giocato la percezione di insicurezza, e di quali tipi di insicurezza. Sul voto dei cattolici praticanti.

Sulla disaffezione verso la politica. Sugli orientamenti in tema di Stato/mercato in campo economico e di tradizionalismo/individualismo in campo etico.
Sulla personalizzazione dell' offerta politica e l' effetto leader. L' analisi di questi spunti dobbiamo lasciarla ad una lettura più dettagliata di quella che è possibile svolgere qui.
Ora vorrei limitare il mio commento a un solo problema, sul quale le riflessioni conclusive del rapporto possono provocare qualche perplessità. Poco prima delle elezioni, da poco costituito il Partito democratico, Walter Veltroni calava sul piatto l' asso dell' «andare da soli» (con Di Pietro, in realtà); a questa mossa Berlusconi rispondeva con il «Popolo della Libertà» - un patto organico con Alleanza nazionale in vista della costituzione di un nuovo partito - e con un' alleanza elettorale con la Lega.

Sono state queste mosse a produrre la semplificazione dei gruppi parlamentari, perché i partiti in precedenza inclusi nell' alleanza di centrosinistra, costretti ad andare da soli, non sono riusciti a superare la soglia di sbarramento.

Anche se quest' ultimo esito non era prevedibile, Walter Veltroni non poteva non sapere che la macchina da guerra rapidamente messa insieme da Silvio Berlusconi era poderosa: persino sulla base dei risultati delle precedenti elezioni, sfavorevoli per il centrodestra, questo schieramento prevaleva nettamente su Ds e Margherita, ora fusi nel Partito democratico; inoltre, dato il discredito del governo (meritato o immeritato che fosse) e la traumatica interruzione della legislatura, i suoi consensi erano in forte crescita.

In queste condizioni «il Pd è sceso in campo cercando di trovare un difficile equilibrio tra la necessità di non dissipare il patrimonio di voti dell' area della sinistra allargata e di presentarsi come una formazione in grado di ampliare al centro il proprio bacino elettorale».

Nessuno dei due scopi è stato raggiunto.

Persuaso che il giudizio negativo sul governo Prodi fosse irreversibile, Walter Veltroni ha insistito soprattutto sulla discontinuità del Partito democratico rispetto alla precedente coalizione di centrosinistra, nella convinzione che la popolarità di cui personalmente godeva potesse essere la risorsa strategica della campagna elettorale.

Ora, sostiene il rapporto sulla base dei dati di sondaggio, l' impopolarità del governo Prodi non era in realtà maggiore di quella del governo Berlusconi alle soglie delle elezioni del 2006.

E il tentativo di affermare una discontinuità allettante per gli elettori del centro non ha funzionato. Assai più efficace era stata la campagna di Silvio Berlusconi del 2006, largamente basata su una orgogliosa rivendicazione dei risultati del suo governo: la vittoria gli sfuggì per un soffio.

La domanda implicita è: perché Walter Veltroni non ha fatto lo stesso?

Dopo tutto i risultati del governo Prodi erano almeno altrettanto difendibili (o indifendibili) di quelli del governo Berlusconi e dal passato non ci si può staccare con una semplice ridefinizione di contenitori politici (il Partito democratico) e con una pura operazione di immagine.

Ma è veramente confrontabile il Berlusconi del 2006 con il Veltroni del 2008? È confrontabile - per solidità, coerenza, e soprattutto forza della leadership - l' alleanza di centrodestra con quella di centrosinistra?

E quale alternativa era disponibile per il Partito democratico: un' alleanza tipo Unione, ma questa volta tutta sbilanciata a sinistra?

Forse la sconfitta sarebbe stata meno bruciante, ma non si sarebbe annullato ogni elemento di novità culturale e programmatica del neonato partito?

Senza affrontare problemi di questo genere la critica alla strategia elettorale del Partito democratico - implicita ma ben percepibile - non può essere sostenuta sulla base dei soli risultati della ricerca e rischia di dare al capitolo conclusivo un' accentuazione partigiana, da dibattito interno al Pd, che per fortuna è assente nel resto della ricerca.

L' analisi Itanes sul voto S' intitola «Il ritorno di Berlusconi. Vincitori e vinti nelle elezioni del 2008» (Il Mulino, pagine 224, 14) il volume che contiene il rapporto sul voto dello scorso aprile elaborato dall' Itanes, centro studi legato ad alcuni atenei e all' Istituto Cattaneo

Salvati Michele



Titolo: Michele SALVATI. La distensione necessaria
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2008, 10:04:35 am
GOVERNO E OPPOSIZIONE

La distensione necessaria


di Michele Salvati


Le esortazioni all’ottimismo del presidente del Consiglio sempre più assomigliano agli «allegria, allegria!» di Mike Buongiorno. C’è poco da stare allegri. Come tutti i Paesi sviluppati, anche il nostro è preso nel vortice della più grave crisi economica del dopoguerra. Ma soffrirà più degli altri: cresceva di meno quando gli altri crescevano, probabilmente arretrerà di più mentre gli altri ristagnano o decrescono.

La ragione di ciò risiede in guasti antichi, mai riparati, delle nostre strutture economiche, sociali e istituzionali: risiede in un terzo del Paese che è tuttora incapace di sviluppo autonomo; in un assetto produttivo che, pur non mancando di punti di forza, non è in grado di compensare la debolezza dell’insieme; in essenziali servizi pubblici—scuola e giustizia sono nel mirino, ma non si tratta solo di questi — che funzionano male; in un’etica pubblica e in un grado di civismo al di sotto degli standard di un Paese progredito; in livelli di corruzione — in tutti i casi in cui il pubblico si incontra col privato — che sono invece superiori a quelli dei Paesi cui ci confrontiamo; per non dire di un sistema criminale che in molte aree ha sostituito lo Stato come monopolista della violenza, della capacità di sanzione.

Non mancano disegni condivisi per riparare questi guasti antichi, premessa indispensabile per soffrire di meno durante la crisi internazionale e tornare a crescere quando sarà finita. Alcuni sono stati attuati con successo nella fase di riforme che seguì alla crisi della Prima Repubblica, tra il 1992 e il 1998, quando l’emergenza premeva, gli obiettivi macroeconomici (il risanamento e l’euro) erano chiari, e la politica politichese aveva allentato la sua morsa. L’azione riformatrice non venne però perseguita con la stessa intensità dai governi successivi: le riforme strutturali contrastano con interessi tenaci e bisogna insistere, con pazienza e per lungo tempo, prima di scorgere risultati apprezzabili. Pazienza, capacità di contrastare interessi, attenzione al lungo periodo sono virtù deboli in ogni sistema democratico, costretto a frequenti riscontri elettorali. Ancor più deboli nel nostro, per alcuni caratteri che esso venne acquistando dopo la crisi politica dei primi anni ’90. Si verificò infatti un fenomeno singolare: proprio quando erano crollate le ideologie e superati i conflitti internazionali che avevano giustificato lo scontro di sistema della Prima Repubblica; proprio quando un avvicinamento, e un avvicendamento, su una piattaforma riformistica largamente comune sembravano a portata di mano, la riforma della legge elettorale e la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi contribuirono a creare un sistema politico bipolare caratterizzato da un’intensità polemica tra i due schieramenti, e da una pratica di reciproca demonizzazione, sconosciute in altri Paesi.

Come se all’attenuazione dei motivi che ovunque distinguono una piattaforma politica di centrodestra da una di centrosinistra — e di solito hanno a che fare con le politiche economiche e sociali — si fosse reagito esasperando motivi di contrasto —sul ruolo della magistratura, sul conflitto di interessi, su un disegno di grandi riforme costituzionali— che in altri e più fortunati Paesi non sussistono proprio e comunque non dovrebbero avere a che fare con la distinzione tra i due principali schieramenti politici. Una situazione di reciproca demonizzazione, di lotta esasperata, di raccolta di tutte le forze che consentono di battere l’avversario e conseguire il premio elettorale, non contribuisce a formare governi coerenti e a creare un’atmosfera in cui è agevole affrontare le riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno: riforme che spesso esigono la condivisione o quantomeno la tolleranza da parte delle opposizioni. Condivisione e tolleranza oggi più facili, per l’attenuazione dello scontro ideologico, e premessa indispensabile affinché l’azione riformatrice possa essere proseguita sugli stessi binari nel caso che l’opposizione dovesse prevalere nella successiva tornata elettorale.

Auspicare che l’esasperazione polemica si attenui non è solo un innocuo buon proposito di fine anno. In molti campi — in materia di federalismo, di pubblica amministrazione, nella stessa istruzione pubblica e in altri ancora — ci sono forze della maggioranza e dell’opposizione che già stanno cooperando al fine di definire le riforme di cui il Paese ha bisogno. E nello stesso Partito democratico lo "spirito del Lingotto" sembra aver ripreso a soffiare. Sta soprattutto al Presidente del Consiglio indirizzare l’azione di governo in modo tale da favorire una reciproca distensione. Predicare ottimismo è doveroso. Ma affinché queste prediche abbiano una consistenza un po’ maggiore degli "allegria" di Mike Buongiorno sarebbe opportuno non alimentare sospetti e preoccupazioni nell’opposizione, sempre tentata da uno scontro frontale, con annunci estemporanei di possibili riforme costituzionali in senso presidenziale, o con altre uscite di simile tenore.

30 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Non sarà una vera svolta
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2009, 09:22:22 am
Non sarà una vera svolta


di Michele Salvati


Nel secolo scorso gli Stati Uniti hanno conosciuto due regimi di politica economica, uno a bassa e uno ad alta regolazione pubblica. E due svolte di regime: da bassa ad alta, dopo il trauma della grande depressione, negli anni 30; e da alta a bassa, negli anni 80, dopo le turbolenze inflazionistiche del decennio precedente.

I presidenti che hanno accompagnato queste svolte sono stati Roosevelt, per la prima, e Reagan, per la seconda. Domanda. Sarà Obama un presidente di svolta o un presidente di continuità? Per restare in campo democratico, sarà più simile a Roosevelt, o più simile a Clinton? Prima di tentare una risposta, due precisazioni. Per «regime» non intendo soltanto obiettivi e strumenti di politica economica, nonché le teorie che collegano gli uni agli altri: obiettivi di stabilità dei prezzi, strumenti soprattutto monetari e di supply side nei regimi a bassa regolazione; obiettivi di alta occupazione e di controllo del ciclo, strumenti monetari e fiscali di sostegno della domanda, nei regimi ad alta regolazione. Intendo anche l'atmosfera culturale, le visioni della società, i sistemi di valori che circondano il nucleo di politica economica: Free to choose, il pamphlet ideologico di Rose e Milton Friedman, è stato altrettanto importante dei lavori teorici del secondo.

E' per questo che metto insieme gli anni 20 con quelli che abbiamo appena trascorso: sono due periodi molto diversi, ma molto simile è la grande disuguaglianza nella distribuzione del reddito e proprio la stessa è l'atmosfera di enrichissez vous: solo che il grande Madoff di oggi, a differenza del grande Gatsby di allora, non ha ancora trovato il suo cantore, il suo Fitzgerald. La seconda precisazione riguarda il ruolo della politica, e in particolare delle personalità dei presidenti, nella svolta da un regime all'altro. Reagan vince dopo un quindicennio di lavoro preparatorio, diciamo così, di economisti e ideologi neoliberali, e dopo che le turbolenze degli anni 70 avevano intaccato la credibilità delle risposte «keynesiane»: il programma era già scritto.

Più creativo il ruolo di Roosevelt nel 1934, che viaggiava su un terreno allora sconosciuto. L'entità del disastro economico, la durata della depressione e il fallimento delle politiche tradizionali gli lasciavano però un ampio campo di manovra, anche se va sempre ricordato che la costruzione di un solido consenso teorico, ideologico e politico su un nuovo regime ad alta regolazione avvenne gradualmente e si affermò solo nel dopoguerra. E Obama? La crisi finanziaria e la recessione sono state repentine e sono avvenute in un contesto in cui le voci critiche nei confronti del regime dominante erano scarse e isolate: l'ortodossia dei mercati finanziari autoregolantisi dominava sovrana sino a pochi mesi fa e la stessa sinistra ne era stata parzialmente conquistata. Inoltre la situazione internazionale è assai meno grave che nel periodo di rivalità imperialistiche tra le due guerre: l'egemonia degli Usa è ancora indiscussa, gli accordi con i grandi Paesi sviluppati e in via di sviluppo sono faticosi ma possibili, e la simbiosi tra un'America consumatrice e una Cina produttrice e risparmiatrice ha ancora spazio per svilupparsi.

Infine Keynes non ha predicato invano: i nostri Paesi dispongono di forti stabilizzatori automatici e di assicurazioni sociali sviluppate. E anche governi ispirati da una filosofia neoliberale si dedicano oggi con spregiudicatezza a salvare banche e industrie, oltre che a sostenere i consumi privati, col rischio di appesantire i loro bilanci ed essere costretti ad aumentare le imposte. Un uso strumentale di misure keynesiane, un aumento temporaneo del ruolo dello Stato nell'economia, non sono ancora una svolta verso un nuovo regime: se lo sviluppo si riavvia in tempi non troppo lunghi, i consiglieri economici di Obama saranno soddisfatti di tornare alla «normalità», il regime neoliberale del quale sono stati tra i principali protagonisti. Certo, ci saranno riforme per controllare un po' meglio le conseguenze indesiderate della deregolazione del sistema finanziario, e anche dell'incisività di queste è possibile dubitare se la situazione migliora in tempi abbastanza brevi.

Ma sicuramente sarà difficile aggredire alcuni squilibri di fondo dell'economia e della società americane, sui quali Obama ha promesso di intervenire: l'estrema polarizzazione nella distribuzione del reddito e lo scandalo di un sistema sanitario costosissimo e ingiusto, per dire i principali. Difficile perché in entrambi i casi si tratterebbe di misure molto impegnative e le finanze pubbliche si troveranno appesantite dagli interventi di emergenza. Più simile a Clinton o più simile a Roosevelt? A meno che Obama abbia in serbo capacità di leadership e di visione che vanno oltre il pur grande carisma dimostrato nella campagna elettorale; e a meno che la situazione economica si aggravi ulteriormente e rischi di trasformarsi in un ristagno durevole, mi sembra difficile che il nuovo presidente riesca a incidere in una ragnatela di interessi molto fitta e in un consenso teorico e ideologico sul regime neoliberale ancora molto solido. E non è certo il caso di augurarsi che la recessione sia più grave, allo scopo di stimolare un maggior sforzo riformatore.

20 gennaio 2009

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Lo scambio difficile
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2009, 10:45:05 am
L'EMERGENZA E LE RIFORME

Lo scambio difficile

di Michele Salvati


Da più parti — anche su questo giornale, si veda Francesco Giavazzi l'8 gennaio scorso — si propone uno scambio tra misure di sostegno dei redditi e dell' occupazione nell'immediato con riforme strutturali che consentano risparmi di spesa e maggiore crescita in un prossimo futuro. La necessità di uno scambio ha due motivazioni principali.

La prima è che, nelle nostre condizioni di finanza pubblica, con un rapporto debito/Pil che è il più alto tra i Paesi europei ed è comunque destinato a crescere, se i mercati non fossero convinti che l'aumento del disavanzo dovuto a misure anticicliche non sarà invertito in tempi brevi da efficaci riforme strutturali, la nostra situazione diverrebbe finanziariamente insostenibile: già ora, e nonostante la relativa modestia delle misure di sostegno varate o annunciate dal governo, la valutazione del nostro debito è notevolmente peggiorata rispetto a quella di Paesi considerati più affidabili e ci costringe a pagare interessi più elevati sulle nuove emissioni. La seconda motivazione è che le riforme strutturali cui siamo chiamati, o almeno alcune di esse, sono dei beni in sé, misure richieste da ragioni di efficienza o di equità che avremmo dovuto attuare in passato e che aumenteranno la nostra capacità di crescita in futuro. A queste due motivazioni principali talora se ne aggiunge una terza: le riforme che non si riescono a fare in condizioni normali a volte è possibile farle in condizioni di emergenza. Brevemente, una per una.

La prima è ineccepibile: tanto maggiore è l'ammontare delle misure di sostegno dei redditi e dell'occupazione, e dunque del disavanzo aggiuntivo che ad esse conseguirebbe, tanto più rigorose e credibili devono essere le riforme strutturali da cui ci si attende un ritorno all'equilibrio. Tremonti ha ragione quando sottolinea l'importanza del problema e la nostra natura di sorvegliati speciali, con il debito pubblico che ci ritroviamo: il rischio di un declassamento è sempre incombente. Ma anche in queste condizioni qualcosa di più e di meglio di quanto sta facendo il governo si può fare: forse si potrebbe arrivare a un punto di Pil in misure di sostegno, se solo si convincono i mercati che quel punto sarà recuperato e più che recuperato da minori spese o maggiori entrate in un futuro prossimo, o da una maggior crescita del reddito quando la recessione allenterà la sua morsa. E la convinzione dei mercati discende sia dal disegno delle riforme, sia dalla fiducia che saranno effettivamente attuate, dunque dalla forza politica di chi le propone e le sostiene.

Veniamo allora alla seconda motivazione, il disegno delle riforme strutturali. Se il nostro Paese si impegna in un programma di sostegno dei redditi — ad esempio un sistema di ammortizzatori sociali esteso a tutti i lavoratori e misure di sostegno dei redditi minimi un po' più robuste della
social card e del bonus— lo scambio più evidente per garantirne la sostenibilità è quello di prelevare le risorse laddove ci sono ed è possibile farlo in tempi brevi: mediante una riforma del sistema pensionistico.

Questo scambio sarebbe apprezzato dai mercati finanziari, perché i calcoli sono relativamente semplici e perché si tratterebbe di un buon indicatore della forza politica del governo, della sua capacità di attuare misure impopolari. E lo scambio non contrasterebbe con l'equità, perché un allungamento della vita lavorativa è necessario a seguito dell'aumento della speranza di vita. Un altro scambio che solitamente è apprezzato dai mercati finanziari, anche se meno diretto di una riforma pensionistica e non facilmente calcolabile nei suoi effetti sulla crescita, riguarda la legislazione del lavoro e le relazioni industriali: queste ultime sono l'oggetto del contendere nell'accordo firmato il 22 gennaio sulla riforma della contrattazione; e sulla legislazione del lavoro è tornata recentemente alla carica Confindustria, coll'idea da tempo discussa di un contratto unico a tutele crescenti nel tempo.

Ho menzionato apposta queste vicende, al confine tra economia e politica, per introdurre la terza motivazione addotta al fine di giustificare il nostro scambio: riforme efficienti ed eque, che non si riescono a fare in momenti ordinari, si possono imporre in momenti di emergenza. Vorrei poterlo credere. Né Tremonti, né Sacconi sembrano intenzionati a toccare la previdenza, forse perché chi tocca le pensioni, come chi tocca i fili, muore.

L'opposizione, dopo aver sostenuto che le misure del governo sono insufficienti e occorre una riforma universalistica degli ammortizzatori sociali, si avvale poi del suo diritto al silenzio su come finanziarla. Sulla riforma della contrattazione e della legislazione del lavoro sono poi ben pochi, Pietro Ichino è il più noto, coloro i quali cercano di stabilire ponti all'interno dell'opposizione, del sindacato e di Confindustria, e tra questi e il governo. La realtà è che anche in condizioni di emergenza— a meno che essa raggiunga proporzioni che nessuno si augura — il nostro sistema politico blocca riforme giuste e utili, ma impopolari: ci sono sempre elezioni in un prossimo futuro e nessuno vuole perdere voti.


04 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. PD - Diritto a un chiarimento
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2009, 03:41:10 pm
L'ASSEMBLEA COSTITUENTE DEL PD

Diritto a un chiarimento


di Michele Salvati


Sabato 21 febbraio, domani, è convocata alla Fiera di Roma l'Assemblea Costituente del Partito Democratico per «adempimenti statutari a norma dell'articolo tre, comma due», come dice l'unico punto dell'ordine del giorno. Traduco: avendo Veltroni dato le dimissioni prima della fine del suo mandato, l'assemblea si riunisce per decidere se «eleggere un nuovo segretario per la parte restante del mandato ovvero determinare lo scioglimento anticipato dell'assemblea stessa». In questo secondo caso, l'elezione di un nuovo segretario e di una nuova assemblea devono avvenire secondo la complicata procedura dell'articolo 9: la presentazione e una prima selezione delle candidature a segretario, e dei membri dell'assemblea a lui collegati, davanti agli iscritti al partito, e poi l'elezione-ballottaggio mediante primarie cui partecipano tutti gli elettori registrati in un apposito albo.

Traduco ancora l'alternativa: prendere tempo nominando un reggente o cercare subito un nuovo segretario legittimato dal voto popolare? Uno più malizioso di me ritradurrebbe: prolungare l'agonia o incidere il bubbone? Come capita in molti casi che riguardano persone, in scelte dolorose che alcuni lettori avranno purtroppo dovuto compiere per i loro cari, ci sono buoni motivi sia per l'una che per l'altra soluzione. L'agonia, il prendere tempo, potrebbe condurre a continue sofferenze e alla morte, ma anche ad una guarigione o ad una stabilizzazione della malattia: fuor di metafora, ad una ripresa dei consensi o ad una stabilizzazione delle perdite già subite — la discesa al 24/25% — nelle prossime elezioni europee.

Si aggiunga che le dimissioni di Veltroni hanno colto il partito di sorpresa e in molte realtà impreparato rispetto agli adempimenti statutari previsti (liste di iscritti e albi di elettori); che devono essere scelti nelle prossime settimane i candidati per le elezioni europee e in alcune realtà anche per importanti elezioni locali.

Un complicato processo elettorale, il tempo che assorbirebbe, i conflitti che susciterebbe nel partito, interferirebbero pesantemente con le campagne elettorali, dando agli elettori un'immagine di affanno e di disunione. Altro che stabilizzazione della malattia! I consensi potrebbero calare di molto, se pure al termine del processo di elezione del segretario e dell'assemblea esisterà ancora un Partito Democratico capace di raccoglierli. Tutto comprensibile, tutto ragionevole. Ma di ragionevolezza, in situazioni di emergenza, si può anche morire. Se un segretario con un'investitura plebiscitaria si è sentito soffocato dalla cupola dei capi-corrente, come può il suo vice — persona che stimo ma che non ha ricevuto un'investitura popolare — riuscire a stabilizzare o a rilanciare il partito nell'immagine degli elettori?

Sarebbe soltanto il portavoce delle mediazioni — sulle candidature, sulla linea politica da adottare in parlamento e nelle realtà locali, sull'immagine del partito — che i capi-corrente raggiungono nelle segrete stanze, e così apparirebbe agli elettori. Il Pd è nato da un grande progetto: dalla convinzione che un sistema bipolare — in cui i partiti non fanno e disfano i governi in parlamento, ma sono gli elettori a sceglierli — è un sistema più democratico di quello della Prima Repubblica, dove avveniva il contrario; e dalla scommessa che era possibile fondere in un partito vero, con un'anima e una forte identità, le tradizioni riformistiche laiche e cattoliche la cui passata divisione tanti danni aveva prodotto alla società e all'economia di questo Paese.

È del tutto legittimo, forse persino ragionevole, non credere in questo progetto, come non ci credono Tabacci e Casini, o non ci credono Ferrero o Vendola. Ma costoro stanno in altri partiti, mentre molti che la pensano nello stesso modo sono influenti capi-corrente del Partito Democratico: esattamente come i leader dell'Udc e del Prc, non credono né al bipolarismo, né alla possibilità di fusione. Non ci credono e, tramite continue polemiche e pretesti — e soprattutto esasperando il conflitto laici-cattolici — inducono anche il popolo di centrosinistra a non crederci. Di qui la confusione, la mancanza di identità. Di qui lo smottamento dell'elettorato, uno smottamento che si accentuerebbe con una reggenza assediata da capi-corrente. Credo che gli elettori, il popolo di centrosinistra, abbia diritto ad un chiarimento. Non voglia aspettare di essere «rimandato a ottobre». Un ottobre dove si troverà di fronte un'altra pappa plebiscitaria preconfezionata dai capi-corrente, com'è stata quella di Veltroni, che però, almeno, al progetto credeva.

Naturalmente un congresso è rischioso: rischio di spaccatura o rischio, ancor peggiore, di mancato chiarimento. Ma ai politici è sempre bene ricordare l'apologo brechtiano del Gotama Budda e della casa in fiamme: «Maestro — accorrono trafelati i discepoli — la casa è in fiamme ma gli abitanti non vogliono uscire: perderebbero i loro beni e poi fuori fa freddo». Risponde il Budda: «Chi non si accorge del pericolo, merita di morire».


20 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. La notte del mercato
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2009, 09:31:07 am
I RISCHI DELLO STATALISMO

La notte del mercato


di Michele Salvati


Nell’ottobre scorso concludevo un editoriale sulla crisi economica con la famosa risposta della sentinella, nella profezia di Isaia, a chi domandava quanto sarebbe durata la notte: «Verrà il mattino, ma è ancora notte; se volete domandare, tornate un’altra volta». Se tornassimo a domandare oggi, otterremmo la stessa risposta. Anzi, la notte della recessione si è fatta ancor più profonda e il mattino della ripresa è sempre lontano. Sono però passati cinque mesi da allora e comprendiamo un po’ meglio in quale notte siamo immersi: fuor di metafora, quali siano la gravità, l’origine e la natura di questa recessione.

Le diagnosi sulle origini della crisi stanno infatti convergendo. Negli stessi Stati Uniti, i principali responsabili, si ammette che negli ultimi vent’anni non si sono contrastati, si sono anzi favoriti, squilibri macroeconomici a livello mondiale alla lunga insostenibili, tra un Paese egemone — consumatore e debitore — e Paesi produttori, risparmiatori e creditori. E si ammette che si è lasciato sviluppare il sistema finanziario in modo abnorme, nell’illusione che non fosse possibile un suo collasso per un battito d’ali di farfalla, com’è stata la crisi dei mutui ipotecari. Ne consegue che il sistema dev’essere riformato, per renderlo idoneo a sostenere senza gravi intoppi il processo di crescita reale in un mondo strettamente interconnesso.

E che gli squilibri macroeconomici mondiali vanno ridotti a dimensioni sostenibili. Ma questi sono problemi di lungo periodo, che prenderanno tempo per essere risolti. Il problema urgente — e anche su questo c’è consenso — è riavviare il motore, ricreare rapidamente fiducia, indurre le banche a prestare, le imprese a produrre e investire, i consumatori a consumare. A questo punto si incontrano però preoccupazioni crescenti di «statalismo » espresse da varie forze politiche e da numerosi commentatori di fronte ai massicci interventi del settore pubblico in tutti i Paesi, in alcuni casi a vere e proprie nazionalizzazioni. Sono preoccupazioni comprensibili, ma vanno qualificate. La prima qualificazione riguarda il contesto politico- culturale attuale rispetto ai tempi della grande depressione: basta confrontare le dichiarazioni di Barack Obama con quelle di Franklin Delano Roosevelt per rendersi conto della differenza.

Nessuno si lascia oggi sedurre da disegni di economia regolata, diretta dalla superiore saggezza dello Stato, dai quali molti Paesi furono sedotti durante gli anni Trenta del secolo scorso e oltre. Che ai fallimenti del mercato possano corrispondere fallimenti dello Stato altrettanto e anche più gravi è oggi convinzione comune: trent’anni di egemonia culturale neoliberale non sono passati invano e vedere in Gordon Brown, o in Obama e nei suoi consiglieri economici, dei pericolosi statalisti fa sorridere. Si può discutere dell’opportunità o dell’efficacia di singole misure d’intervento, ma si deve riconoscere che esse sono dettate da ragioni di emergenza e non da una improvvisa conversione di liberisti conclamati ad una filosofia statalista.

Detto questo —e passiamo alla seconda qualificazione —è del tutto ragionevole essere più preoccupati dell’intervento statale in Paesi che non dispongono di una cultura di mercato altrettanto robusta di quella esistente nel Regno Unito o negli Stati Uniti. Preoccupati, in particolare, per il nostro Paese, nel quale la conversione a quella cultura è stata piuttosto recente ed è tuttora contrastata da una lunga tradizione di assistenzialismo, corporativismo e interventismo pubblico discrezionale. In Italia è sicuramente maggiore il rischio che una situazione di emergenza, la quale esige un maggior intervento dello Stato, possa ridar fiato a forze che non sono mai state realmente sconfitte e sono presenti sia nel governo che all’opposizione, sia a destra che a sinistra. La soglia di attenzione dev’essere dunque più alta.

La terza qualificazione ci riporta negli Stati Uniti, dai quali dipende in larga misura il successo di una strategia di uscita dalla crisi: la Cina sta facendo quanto può, ma l’Europa, come al solito, sta a guardare, nella speranza di agganciarsi a un treno che partirà altrove. Il programma presentato il 26 febbraio scorso consente ora di comprendere il disegno d’insieme di Barack Obama. Un disegno che è nello stesso tempo un poderoso tentativo di rilancio dell’economia, con un intervento pubblico che porterà l’anno prossimo oltre il 12 per cento il rapporto tra il disavanzo e il reddito, ed un netto cambiamento negli orientamenti politici dominanti da trent’anni, dai tempi di Ronald Reagan.

Se il disegno avrà successo e verrà mantenuto, si tratterà di una delle grandi svolte che sono tipiche di quel Paese, di quelle periodiche oscillazioni tra eguaglianza e disuguaglianza, tra predominio della ricchezza e spinte democratiche (populistiche, direbbero i critici), che Kevin Phillips ha mirabilmente descritto in Ricchezza e Democrazia (Garzanti, 2006). Obama sembra infatti voler profittare della crisi per affrontare problemi sociali e politici che erano maturi da tempo e che le presidenze Clinton non erano riuscite ad aggredire, primo fra tutti quello dell’assistenza sanitaria, nello stesso tempo costosa, inefficiente e ingiusta. Obama e i suoi ministri naturalmente sostengono che tra i due aspetti del programma— il rilancio dell’economia e la giustizia sociale— non esiste contrasto, ma anzi piena sinergia.

Altrettanto naturalmente i repubblicani sostengono il contrario. Liberi i commentatori di sostenere l’una tesi o l’altra, purché si tengano nettamente distinte le proprie simpatie politiche —che fanno vedere con favore o sfavore le proposte di Obama, in quanto orientate a sinistra — dalla valutazione del loro impatto sulla fiducia dei consumatori e degli investitori e dunque sul decorso della crisi. L’annuncio del programma non è stato sinora accolto con favore dai mercati, è vero. Ma forse è ancora troppo presto per giudicare. Giudicheremo tra alcuni mesi, quando torneremo a chiedere alla sentinella «a che punto è la notte».

10 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Ritorno a sinistra
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2009, 08:44:19 am
Ritorno a sinistra


di Michele Salvati


La profonda recessione economica nella quale siamo incastrati dimostra che il modello di «sregolazione » — adottato e imposto dagli Stati Uniti a partire dagli Anni ’80 del secolo scorso e diffusosi in seguito in (quasi) tutto il mondo—non funziona bene. Funziona male, quanto meno, per il settore finanziario, la cabina di regia dell’intero sistema. Questa è ormai convinzione diffusa, accettata obtorto collo anche da coloro che fino a ieri sostenevano che le banche e le istituzioni finanziarie in genere sono imprese come tutte le altre e devono essere lasciate libere di scorazzare per il mondo e farsi concorrenza con il minimo impaccio regolativo, alla ricerca del massimo valore per i loro azionisti. Da questa convinzione segue che occorre impegnarsi — parlo sempre per il settore finanziario — in un poderoso sforzo di ri-regolazione, la cui intensità e i cui contorni sono delineati al meglio dalla «Turner Review» (A Regulatory Response to the Global Banking Crisis) presentata pochi giorni or sono al governo inglese da Lord Adair Turner, presidente della Financial Services Authority, e che costituirà uno dei documenti di base del prossimo G20.

Quale che sia la loro forma giuridica, banche e istituzioni finanziarie non sono imprese «come le altre»: gli Stati nazionali e le istituzioni internazionali devono vincolarle in un assetto regolativo più rigoroso di quello imposto al settore reale. Le stesse banche centrali e i ministeri dell’Economia— soprattutto la Federal Reserve e il Tesoro americani, che regolano la principale moneta di riserva mondiale — devono seguire indirizzi assai più cauti di quelli che hanno consentito, se non provocato, la irrational exhuberance del recente passato. Un’esuberanza che ha travolto l’intero sistema. Quale occasione migliore per la sinistra? La sinistra — e mi riferisco ovviamente alla sinistra riformista, alla sinistra di governo — non ha forse sostenuto da sempre che il mercato può creare disastri e va strettamente regolato dallo Stato? In particolare, e più di recente, non ha forse criticato come eccessivi, dannosi e forieri di ingiustizia il neo-liberalismo e la deregolazione che hanno dominato in questi ultimi trent’anni?

Non dovrebbe allora disporre di buone credenziali per convincere gli elettori, duramente colpiti dalle conseguenze della crisi, che ha le carte migliori per governare questa fase? Sfortunatamente per la sinistra, le cose non stanno proprio così e, anche se così stessero, il successo elettorale dipende da fattori assai più numerosi e complicati che non il semplice posizionamento dal lato del mercato o da quello dello Stato dei principali partiti che competono per il governo. Le cose non stanno così perché una buona parte del centrosinistra europeo — il partito laburista di Tony Blair e Gordon Brown, la Spd ai tempi di Schröder, il Psoe di Zapatero, correnti significative dei partiti socialdemocratici di altri Paesi e, da noi, dell’Ulivo e poi del Pd—negli ultimi dieci anni si è spostata parecchio verso il lato del mercato, e non sarebbe difficile trovare espressioni di alcuni leader del centrosinistra, e dei loro consiglieri, che esaltano i fasti di questa istituzione con l’entusiasmo che solo un neofita può provare.

In altre parole, buona parte del centrosinistra è stata presa in contropiede dalla crisi, proprio mentre stava attuando una svolta liberale per molti aspetti benemerita, ma che le impedisce di presentarsi in modo univoco come partito dei critici del capitalismo, come partito della regolazione e dei controlli, lasciando al centrodestra la (oggi) scomoda posizione di partito del laissez faire, ostile all’intervento dello Stato. Ma il centrodestra europeo è poi veramente composto da partiti che sostengono il laissez faire e sono contrari all’intervento dello Stato? Basta pensare a Sarkozy e Merkel e, da noi, a Fini e a Tremonti, per dare una risposta negativa a questa domanda. Gran parte dei partiti appartenenti a quest’area dello spettro politico, accanto ad una debole componente liberale, dispongono di una robusta componente tradizionalistica— per intenderci, Dio, Patria, Comunità, Famiglia — che si presta molto bene ad essere giocata in tempi di difficoltà e paure: i politici più abili la giocano su piani e con toni diversi — Tremonti non è Bossi — ma indubbiamente con molta efficacia.

Se tutto ciò è vero, ne segue che la grande crisi in cui siamo immersi difficilmente può essere usata come arma elettorale di uno schieramento progressista e quando lo è stata — nel caso degli Stati Uniti — essa si è limitata a rafforzare la posizione dello sfidante Obama contro il rappresentante del partito di un presidente in carica profondamente impopolare. La sinistra liberal, la sinistra «presa in contropiede», si riunirà questo fine settimana in Cile—per il Pd italiano ci saranno Franceschini, Rutelli e Fassino — e i toni dei materiali preparatori dell’incontro non sembrano proprio quelli del «avevamo ragione noi» o del «una gloriosa stagione ci attende». Se vuole tornare a vincere, è probabile che il centrosinistra, se è all’opposizione, debba sfruttare in questa fase gli errori e l’impopolarità dei governi o argomenti locali, diversi da Paese a Paese. Una strategia unificante, com’è stata quella della Terza Via di Tony Blair e Tony Giddens alla fine degli anni ’90, sembra al momento fuori dalla sua portata.

25 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Il bipolarismo all'italiana
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2009, 11:23:20 am
PERCHE’ NON C’E’ DIALOGO TRA I POLI

Il bipolarismo all'italiana


Da un po’ di tem­po mi pongo questo proble­ma: gli aspetti negativi del bipolarismo all’italiana — l’esaspera­zione e la rissa che carat­terizzano il confronto tra centrodestra e centrosini­stra — sono soltanto una conseguenza della specia­le figura di Silvio Berlu­sconi? E in particolare del modo aggressivo in cui egli ha gestito quel con­fronto e del modo analo­go in cui il centrosinistra — sventurata monaca di Monza — ha risposto? Op­pure quegli aspetti per­marrebbero anche con un leader dello schiera­mento di centrodestra meno «speciale» e con un centrosinistra meno disposto a farsi imprigio­nare nella trappola della delegittimazione recipro­ca? Detto in altre parole. In un Paese i cui proble­mi strutturali non ammet­tono risposte di destra o di sinistra, ma un difficile e continuo sforzo di rifor­ma su un programma so­stanzialmente condiviso, sarebbe in grado un bipo­larismo senza Berlusconi di promuovere quello sforzo collettivo, di solle­citare la condivisione ne­cessaria all’attuazione di quel programma?

Centrodestra e centrosi­nistra rimangono orienta­menti politico-culturali che danno risposte diver­se su molti problemi im­portanti. Ma su quelli che più contano per fare del nostro un Paese più civile e più capace di crescita le soluzioni adeguate posso­no essere in larga misura condivise sia a destra che a sinistra. Sono soluzioni difficili, che si scontrano con pratiche e mentalità diffuse, con istituzioni ra­dicate in una lunga storia e che pertanto esigono un consenso molto am­pio nelle élite tecniche, culturali e politiche. Un consenso che induca il go­verno a non disfare quan­to di buono ha fatto il pre­cedente, solo perché di di­verso colore, e a cercare l’accordo con l’opposizio­ne quando non esistono — e molto spesso non esi­stono — contrasti ideolo­gici insanabili. Che indu­ca l’opposizione a collabo­rare con il governo se giu­dica le riforme proposte sostanzialmente adegua­te, anche se potrebbe mo­bilitare contro di esse i ce­ti e gli interessi danneg­giati allo scopo di ottene­re un facile vantaggio par­tigiano. In molti casi, più che un conflitto tra orien­tamenti ideologici di de­stra e di sinistra, esiste un contrasto — interno agli schieramenti — tra innovatori e conservatori, tra politici più lungimi­ranti e politici più sensibi­li al consenso elettorale di breve periodo.

Un paio d’anni fa, quan­do venne pubblicato il Rapporto Attali («per la li­berazione della crescita francese») rimasi colpito dal fatto che più di trecen­to dettagliate riforme in materie economiche e so­ciali venissero presentate come «né partigiane, né bi-partigiane, bensì non partigiane». L’affermazio­ne di Attali è sorprenden­te ed eccessiva, ma se penso ai grandi problemi che ostacolano la crescita o la qualità civile del no­stro Paese faccio fatica a inserire le soluzioni ragio­nevoli nelle categorie di destra o di sinistra.

Si pensi, ad esempio, al sottosviluppo meridionale o all’inefficienza di tante amministrazioni pubbliche; agli scadenti livelli di istruzione o all’intollerabile evasione fiscale; all’assenza di ammortizzatori e sostegni al reddito per chi si trova in condizioni di disoccupazione e di povertà o alla produttività stagnante del nostro sistema economico.

Si tratta di soluzioni difficili, che possono contrastare con gli interessi di diversi gruppi sociali e con gli insediamenti elettorali dell’una o dell’altra coalizione, ma che non contrastano con i principi professati da una sinistra riformista e da una destra sensibile alla coesione sociale. Anche quando esiste un serio contrasto di principi, il dialogo e il compromesso fanno bene alla democrazia: chi non ne è convinto si legga il grande libro di Cass Sunstein, «A cosa servono le Costituzioni», appena tradotto dal Mulino. A maggior ragione dialogo e compromesso sono essenziali quando conflitti di principio non esistono, i problemi di riforma sono strutturali ed ostici, e la loro soluzione sarebbe molto facilitata da uno sforzo concorde e durevole dei principali partiti politici.

Di qui viene l’interrogativo che ponevo all’inizio: il modo assai poco dialogante e compromissorio che caratterizza oggi i rapporti tra i due schieramenti è conseguenza del trauma iniziale della Seconda Repubblica e dell’anomalia Berlusconi o è destinato a rimanere anche quando Berlusconi uscirà dal campo in cui è entrato con tanto clamore? In altre parole: si tratta di un carattere di questa fase iniziale di bipolarismo, o di un carattere che — nel nostro Paese di guelfi e ghibellini — è connaturato al bipolarismo stesso, anche quando sarà impersonato da leader meno speciali di Silvio Berlusconi? Se riteniamo più verosimile la prima risposta — io continuo a pensarla così — è giusto sostenere un sistema politico bipolare, per i suoi aspetti di governabilità e di scelta del governo da parte degli elettori. Se ci sembra più verosimile la seconda, questi vantaggi del bipolarismo sarebbero più che compensati dagli svantaggi derivanti dalla sua tendenza a inasprire lo scontro politico e a ostacolare le mediazioni e i compromessi necessari a sostenere le riforme strutturali necessarie al nostro Paese.

Michele Salvati
24 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Le due anime di un Pd scosso
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 11:02:30 pm
LA SFIDA TRA BERSANI E FRANCESCHINI

Le due anime di un Pd scosso


Circolo dopo circo­lo, si stanno con­cludendo le vota­zioni tra gli iscrit­ti del Partito Democratico e il 25 ottobre i tre candi­dati — Bersani, France­schini e Marino — saran­no presentati al voto de­gli elettori e dei simpatiz­zanti: in pratica di chiun­que manifesti l'interesse a influire sulla scelta del­le cariche direttive del partito. Gia in quella da­ta, o al più un paio di setti­mane più tardi se sarà ne­cessario un ballottaggio, sapremo chi è il nuovo se­gretario del Pd. Prima di discutere del significato di questa scelta, tre com­menti di natura generale.

Il primo è che hanno partecipato al voto, sino­ra, circa 350.000 persone, più della metà degli iscrit­ti: non una piccola prova di democrazia, in un mo­mento in cui gran parte dei commentatori danno per spacciato, e con buo­ne ragioni, il ruolo demo­cratico dei partiti. E a que­sta occorrerà aggiungere la consultazione del 25 ot­tobre. Il secondo com­mento è che laddove il partito è maggiormente radicato, nelle regioni ros­se e nelle grandi città, nell'ambito dei circoli si è svolto un dibattito serio tra i sostenitori delle di­verse candidature: questa volta, a differenza di pre­cedenti investiture pilota­te dall'alto, prima del vo­to gli esiti erano realmen­te incerti. Oggi il risultato è noto: Bersani ha ottenu­to circa il 56%, Franceschi­ni circa il 36 e Marino il restante 8. Ma l'incertez­za permane per il voto de­gli elettori, il 25 ottobre, perché gli iscritti e i sim­patizzanti generici sono due popolazioni abba­stanza diverse. Il terzo commento è che la linea di divisione tra le posizio­ni politiche espresse dal­le tre candidature non è più quella delle diverse provenienze partitiche, gli ex Ds ed ex Dl: per ognuna di esse il soste­gno è molto misto, e se­gnala un processo di osmosi piuttosto avanza­to. Se la linea di divisione non è questa, qual è?

E' abbastanza facile dir­lo per Marino, il vero out­sider di questo congres­so. Egli è portatore di un messaggio fortemente cri­tico nei confronti delle ambiguità del Pd, che im­puta in parte ad un'anali­si sbagliata del fenomeno Berlusconi — … come se si trattasse di un avversa­rio politico normale — in parte ad una eccessiva tol­leranza per le posizioni clericali o integralistiche che ogni tanto emergono tra gli esponenti cattolici del partito. Questa è l'ana­lisi ribadita ogni giorno dai giornali più letti dal popolo della sinistra e non meraviglia il buon successo della mozione nelle grandi città, tra i gio­vani e le persone istruite. Insistendo su queste criti­che, proclamando una po­litica della decisione e del­la nettezza, del 'Sì-sì' 'No-no' di evangelica me­moria, Marino si stacca nettamente dagli altri due candidati e si avvici­na alla posizione dell'Idv di Di Pietro, una perma­nente tentazione per il Partito Democratico.

Più difficile distingue­re le altre due mozioni, quelle degli insider, di Bersani e Franceschini, e non è di grande aiuto leg­gere attentamente i testi, sottolineare frasi più o meno felici, reticenze o si­lenzi più o meno sapien­ti: entrambe dicono cose simili, generiche e gradi­te al popolo di centrosini­stra chiamate a votarle. La mozione di Bersani è sicuramente la più critica nei confronti della breve storia del Pd di Veltroni.
Critiche alla segreteria Veltro­ni implicitamente le muove an­che Dario Franceschini, ma il dubbio che suscita la posizione di Bersani è che le critiche non riguardino solo le scelte tatti­che del recente passato, ma lo stesso disegno strategico, lo stesso impianto culturale sul quale l’Ulivo prima e il Pd poi sono stati costruiti. In altre pa­role: il dubbio è che un Pd gui­dato da Bersani — per ora co­stretto in un contesto bipolare dalla legge elettorale voluta dal centrodestra — sarebbe ben di­sposto a mutarlo qualora se ne presentasse l’occasione. In que­sto caso il senso della storia di cui parla Bersani, il suo possibi­le esito, sarebbe un ritorno al proporzionale, dove un Pd più nettamente «laico» e «di sini­stra » lascia il compito di con­quistare gli elettori più modera­ti a un rinnovato partito centri­sta, neo-democristiano, confi­dando poi in una alleanza di go­verno.

Si tratta di una posizione poli­tica più che legittima, ma è l’esatto opposto della scommes­sa da cui era partito l’Ulivo e sul­la quale si è formato il Partito democratico: quella di un parti­to di ispirazione democratico-li­berale, che nutre l’ambizione di governare il Paese a capo di una coalizione di cui è la componen­te maggiore e politicamente egemone. Un partito che non vuole nascondersi dietro una forza politica e a un presidente del Consiglio centristi, e rifiuta come scoraggiante e sbagliata l’idea che un partito di centrosi­nistra non riuscirà mai, in un contesto bipolare, a governare un Paese «organicamente» di centrodestra. Credo che spetti a Bersani chiarire, di fronte a ra­gionevoli dubbi, se la sua criti­ca al progetto originario del Pd è così radicale. Se lo è, il con­fronto con Franceschini acqui­sterebbe un senso molto più chiaro di quello che è possibile desumere dalla lettura delle due mozioni.

Michele Salvati
01 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Il federalismo delle clientele
Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2010, 05:41:46 pm
Quando il politico promette troppo

Il federalismo delle clientele


Mettiamoci nei panni di un politico. Il suo obiettivo non cambia a seconda dei luoghi in cui opera: farsi eleggere o rieleggere. Ma cambiano i modi in cui può essere raggiunto. Là dove l’economia privata e la società civile non producono posti di lavoro e occasioni di reddito in quantità sufficiente, come in molte regioni meridionali, la domanda degli elettori si riversa sul settore pubblico e sono premiati i politici che tali «posti» e occasioni creano, o danno l’impressione di creare. Anche posti improduttivi — puri stipendi — e anche occasioni finte: in questo ha ragione il ministro Roberto Maroni («Il Sud chieda lavoro», Corriere del 2 gennaio), come mostra l’articolo di Sergio Rizzo di ieri («Ma in Campania la Finanziaria è "creativa"»). Le cose stanno diversamente quando i posti e le occasioni li creano l’economia privata e la società civile: qui gli elettori staranno un po’ più attenti alla qualità dei servizi erogati dal settore pubblico, nazionale e locale (non abbastanza, purtroppo, perché anche nel Nord essi sono spesso distratti da richiami ideologici che coll’efficienza amministrativa poco hanno a che fare).

Queste cose si sanno da tempo. Il problema che non si riesce a risolvere è come bloccare la risposta impropria dei politici alla domanda impropria degli elettori. Se si riuscisse a bloccarla, se si riuscisse a costringere i politici a far bene e soltanto il loro mestiere di amministratori, a fornire servizi nazionali e locali almeno con la stessa efficienza del Nord — che poi non è molta — a poco a poco gli elettori si convincerebbero che non ci sono finti posti, finte pensioni, finte indennità da ottenere. Insieme con una repressione severa della criminalità e dell’illegalità, l’eliminazione della risposta impropria dei politici è una pre-condizione necessaria a qualsiasi strategia di sviluppo si voglia tentare nel Mezzogiorno.

Già, ma come fare? Come spezzare il circolo vizioso tra domanda sociale e offerta politica improprie? L’ultima speranza forse risiede in una versione severa del nostro regionalismo e in forti meccanismi di controllo sulla qualità della spesa pubblica e sull’efficienza amministrativa, con sanzioni effettive e assenza di «salvataggi» per le amministrazioni che sgarrano. Il regionalismo del Titolo V della Costituzione è venuto per restare e il suo principio di fondo è quello sturziano, l’autonomia. Ma autonomia vuol dire responsabilità: sei libero, sei autonomo, ma poi sei valutato. Se la valutazione degli elettori è insufficiente, occorrono meccanismi di controllo più potenti di quelli che operano ora. Se mai faremo le riforme costituzionali di cui tanto si chiacchiera, perché non dare a questi meccanismi un forte rilievo costituzionale e collegarli strettamente all’attività della Camera (o Senato) delle autonomie?

Michele Salvati

04 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
DA corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. La trasparenza che non c’è
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2010, 09:19:29 am
LE NUOVE MISURE ANTICORRUZIONE

La trasparenza che non c’è


Grande era l’attesa per il disegno di legge (ddl) governativo in materia di corruzione. Altrettanto grande la delusione, oggi che il ddl è noto nelle sue linee generali, anche se non ancora presentato formalmente. Le norme che intendono contrastare la corruzione in modo diretto sono poche e di dubbia efficacia. Il grosso del provvedimento riguarda obblighi di controllo, trasparenza e rendicontazione interni alle pubbliche amministrazioni. Se funzionassero, migliorerebbe senz’altro la qualità dei servizi pubblici ed è probabile che nelle maglie dei controlli incapperebbero molti casi di corruzione. Ma funzioneranno? Partiamo dal contrasto diretto alla corruzione.

Al di là dell’architettura istituzionale costruita dal primo articolo, il ddl prevede una raffica di inasprimenti delle pene per molti reati, connessi alla corruzione o di altra natura, nonché maggiori restrizioni alla candidatura a organi rappresentativi delle persone che tali reati hanno commesso. Quanto alle pene, è ben noto che il loro effetto dissuasivo non dipende tanto dalla loro severità quanto dalla probabilità che il reato venga scoperto e sanzionato in tempi brevi: in realtà si aggravano le pene per venire incontro all’indignazione popolare. Quanto alle condizioni di incandidabilità, la bozza di ddl le estende solo per i politici degli enti locali: vedremo se saranno estese anche per i parlamentari dopo le critiche di Fini e Calderoli. Naturalmente, sempre di reati passati in giudicato si tratta. Tre gradi di giudizio, con i tempi biblici della nostra giustizia, lasciano tranquilli sui loro scranni i pochi (?) politici che hanno problemi seri con la giustizia. Gran parte del ddl riguarda però la corruzione solo in modo indiretto, nell’ipotesi che controlli più frequenti, più ampi e rigorosi, oltre a migliorare la trasparenza e la qualità del settore pubblico — che è un bene in sé—consentano di scoprire e denunciare le mele marce che in esso si trovano.

La fonte maggiore di delusione, ma prima ancora di sorpresa, sta proprio qui: in larga misura questi controlli interni già esistono e sinora non hanno affatto impedito né la corruzione, né l’inefficienza. Agli obblighi di rendicontazione, di verifica, di comunicazione, di coordinamento, di redazione di prospetti e bilanci— già oggi onerosissimi — il ddl ne aggiunge altri dello stesso tipo, sempre compiti interni alla pubblica amministrazione e sempre a risorse invariate: come farà un povero dirigente amministrativo a mandare avanti il suo ufficio, ad assolvere i compiti esterni cui è tenuto? Farà come ha sempre fatto, non assolverà i nuovi obblighi che gli vengono imposti o li assolverà solo formalmente, fidando che il suo controllore (sempre interno) sia anch’esso oberato di compiti impossibili, e non li assolva o li assolva male.

Ho sottolineato più volte la natura «interna» dei controlli perché è ben noto, e Brunetta lo sa benissimo, che, oltre ai controlli interni, devono esserci controlli esterni, sempre pubblici, ma svolti da agenzie e istituzioni che hanno una natura terza rispetto all’amministrazione controllata: insomma, dei watchdogs, dei cani da guardia indipendenti, come ad esempio il New York City Comptroller (www.comptrol-ler.nyc.gov/comptroller/duties.shtm). Ma questo cane da guardia ha uno staff di 700 contabili, giuristi, ingegneri, informatici, analisti finanziari, esperti di organizzazione, oltre al personale ausiliario. Mi si chiederà: come la mettiamo con le spese aggiuntive che ciò comporterebbe? Ricorre per tutto il ddl il mantra che la riforma deve avvenire a spese costanti e, per chi non avesse capito, esso viene ripetuto nell’articolo finale, dal titolo evocativo di «clausola di invarianza». Rispondo: se non c’erano i soldi, invece di trascurare l’aureo principio che le nozze non si fanno coi fichi secchi, invece di soffocare l’amministrazione sotto il peso di norme che non saranno rispettate, ci si poteva limitare ai casi in cui si sa benissimo come aumentare senza spesa la qualità dei servizi pubblici e come ridurre la commistione impropria tra politica e amministrazione. Ad esempio restringendo fortemente lo spoils system.

Facendo nominare dalle minoranze gli organi di controllo negli enti e nelle società partecipate. Utilizzando concorsi rigorosi e pubblici per i manager delle Asl. E potrebbero essere elencate tante altre riforme senza spesa e complicazioni, ma ovviamente difficili da attuare, perché comportano duri contrasti politici e conflitti di interesse. Confesso di essermi illuso nello sperare in una riforma innovativa. Qualche ragione però l’avevo, perché la fanfara era stata assordante. Un esempio? Il ministro Sacconi, in un’intervista al Corriere del 28 febbraio, aveva affermato che nel ddl sarebbe stato previsto un vero e proprio «fallimento politico», in cui i libri contabili di un ente con bilanci dissestati o anormalmente inefficiente sarebbero stati portati non in tribunale, come avviene per le imprese, ma ad un immediato giudizio elettorale: nel qual caso «gli amministratori falliti sono ineleggibili a quella e altre cariche. E tutto ciò anche quando non c’è rilevanza penale». Ho cercato a lungo questa norma nella bozza del ddl, ma non l’ho trovata: si tratta forse dell’art. 8, che vale solo per i presidenti delle Regioni, si limita ad una fattispecie estrema ed eccezionale (art. 126 della Costituzione) e non specifica cosa debba intendersi per «gravi violazioni di legge »? In questo caso la montagna del «fallimento politico» avrebbe partorito un topolino.

Michele Salvati

06 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Un ritorno all’antico
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2010, 10:33:04 am
PDL, PD E IL CENTRALISMO DEMOCRATICO

Un ritorno all’antico


C’era una volta «la linea». Così si chiamava nei partiti di sinistra— socialdemocratici, socialisti, laburisti, comunisti — l’insieme di indicazioni che il centro diramava alla periferia su tutti i temi politici del momento. Nel Pci la linea era diffusa mediante fascicoletti facilmente comprensibili anche dal più sprovveduto segretario di sezione, ma soprattutto attraverso il giornale di partito. Chi ha una certa età ricorda ancora le vignette di Giovanni Guareschi intitolate «obbedienza cieca, pronta, assoluta», quelle che mostravano un militante trafelato che accorre sventolando l’Unità e gridando: «Contrordine compagni. La frase pubblicata ieri sull’Unità contiene un errore di stampa e pertanto va letta…».

I compagni, i famosi trinariciuti, stavano intanto eseguendo l’ordine (la linea) del giorno prima, illustrato dalla vignetta in modo sempre spassoso, anche se talora un po’ volgare. Il mondo di Peppone e don Camillo, dei partiti ideologici di massa, dei veri giornali di partito è morto da tempo. Che cosa potrebbe dire oggi il militante che accorre trafelato in un circolo semideserto del Pd? «Cari democratici e democratiche, le affermazioni fatte ieri nei talk-show televisivi da Bersani, Franceschini, D’Alema, Fassino, Veltroni, Rosy Bindi, Fioroni, e la lista potrebbe continuare, sono state rettificate nei talk-show successivi e pertanto… cavatevela come meglio potete». La questione non riguarda solo l’organizzazione del partito, gli attivisti, il rapporto centro-periferia. Nella politica di oggi, in cui la relazione con iscritti e attivisti conta assai meno dell’immagine trasmessa dai media, la questione riguarda soprattutto la coerenza , l a comprensibilità, la semplicità, il gradimento elettorale dei messaggi lanciati dal partito. È dunque inevitabile che democrazia interna ed efficacia dell’immagine mediatica entrino in tensione: se la democrazia interna produce una pluralità di leader e una molteplicità di linee che divergono per aspetti significativi, e se difettano strumenti efficaci per comporre il conflitto tra i leader e per presentare all’esterno una linea sola, ne soffre l’immagine del partito, si appanna la sua identità. Il Pdl ha sostituito la linea con il capo, il centralismo democratico con il centralismo carismatico, come lo definisce Alessandro Campi. Il centralismo carismatico non tollera l’insorgenza di dissenso interno, la formazione di correnti: da buon venditore Berlusconi si rende conto di quanto il successo del Pdl, la tenuta interna del partito e la sua immagine esterna siano affidati all’attrattiva del marchio e alla forza del capo, di un indiscusso Chief Executive Officer.

Pdl e Pd affrontano dunque due problemi simmetrici. Il Pdl quello di tollerare l’emersione di un dibattito democratico interno. Il Pd quello di porre un freno ad un conflitto di posizioni che ha superato la soglia oltre la quale l’immagine del partito diventa sbiadita o confusa agli occhi degli elettori. Il futuro della nostra democrazia dipende in misura non piccola dall’esito che avranno le sfide opposte affrontate dai due grandi partiti del centrodestra e del centrosinistra. Sfide non facili. Per il Pdl la difficoltà deriva— direbbero i sociologi — dal passaggio dal carisma all’istituzione, dall’eccezionalità alla normalità. Un passaggio sempre difficile, in cui la saggezza del capo carismatico, la sua ambizione di lasciare in eredità al Paese un partito che stia in piedi anche dopo che si sarà ritirato dalla politica sono essenziali. Oggi è il momento della verifica. Per quanto irritanti Berlusconi abbia trovato le critiche di Fini, egli deve rendersi conto che si tratta della prima vera prova di democrazia interna cui il Pdl è chiamato, e che deve inventare—ora che ha la forza per farlo — un accomodamento che salvi insieme democrazia e «linea». Altrimenti il suo partito si sfascerà quando non ci sarà più lui a dirigerlo, quando sarà affidato a dirigenti «normali».

Nelle sue concitate risposte a Fini non ha usato l’espressione «centralismo democratico», ma il succo del suo argomento puntava in quella direzione: discussione anche accesa, ma poi esecuzione leale della linea risultata maggioritaria. Perché no? Non è anche quello che ha promesso Fini? Ancor più difficile—non foss’altro perché riguarda un’intera dirigenza e non un uomo solo—il compito che attende il Partito democratico. «Con questi dirigenti non vinceremo mai», sbottò Nanni Moretti dopo la sconfitta del centrosinistra nel 2001. Ma non si tratta solo di una questione di persone, risolvibile passando la mano alla generazione successiva: questa è altrettanto divisa della precedente. Si tratta della crisi del progetto politico che ha attraversato l’intera Seconda Repubblica, il progetto dell’Ulivo, il tentativo di fondere le tradizioni riformistiche della Prima Repubblica nel crogiuolo di un nuovo partito di centrosinistra. La temperatura del crogiuolo non è arrivata al punto di fusione ed è molto difficile che ci arrivi adesso. Lo spirito di sopravvivenza potrebbe però produrre gli effetti che l’entusiasmo e il sogno non hanno prodotto, un modello di partito in cui i dissensi ci sono, ma non minacciano l’autorevolezza del segretario e la formazione di una linea coerente ed efficace. È un po’ buffo che il modello di organizzazione di un partito che non credeva nella democrazia— il centralismo democratico —sia proposto a due partiti che invece alla democrazia credono. Ma la storia talora produce questi scatti ironici.

Michele Salvati

24 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Michele SALVATI. Ma un patto tra i tre leader conviene ancora
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2010, 12:34:07 pm
L'analisi

Ma un patto tra i tre leader conviene ancora

Perderebbe la faccia, Berlusconi, se accettasse questo patto di legislatura? A me non sembra

   
Il giorno di Ferragosto questo giornale pubblicò un mio articolo in cui auguravo, come economista e come cittadino di questo Paese, che la lunga notte delle vacanze portasse consiglio ai due grandi contendenti del centrodestra, Fini e Berlusconi: che entrambi si accordassero su una soluzione in cui nessuno perdesse la faccia, in modo da procedere — con un governo rinsaldato —verso la fine naturale di questa legislatura. Una qualsiasi soluzione diversa— e in particolare elezioni anticipate in autunno o nella prossima primavera — sarebbe dannosa per il Paese: basta un’occhiata al mercato dei Cds, gli strumenti che assicurano gli investitori contro il rischio connesso al debito italiano, per rendersi conto di quanto l’Italia sia oggetto dell’interessata attenzione degli speculatori. Con diversi accenti questa preoccupazione è comune a tutti gli economisti: Monti, Padoa Schioppa, Giavazzi, per limitarci a quelli che hanno scritto di recente su questo giornale. Ho ascoltato con grande interesse il lungo discorso di Fini a Mirabello e mi sembra che, nella sostanza, ci siano le condizioni per un patto che consenta di portare a termine la legislatura. Ovviamente Fini non perde la faccia: sta nel centrodestra, dove deve stare e dove il suo partito d’origine, Alleanza nazionale, ha fatto confluire i suoi voti fondendosi con Forza Italia nel Popolo della Libertà. Insoddisfatto dei risultati di questa fusione, Fini chiede di disfarla: anzi, constata che l’ha già disfatta Berlusconi, che il Pdl non esiste più. Non è la prima volta che ciò accade nelle fusioni tra partiti, e non è impossibile che succeda in futuro anche a sinistra.

In ogni caso Fini promette il rispetto del programma che il centrodestra ha presentato agli elettori, purché sia interpretato alla luce delle esigenze politiche delle tre grandi forze confluite nella coalizione: Lega, Forza Italia e Alleanza nazionale, della cui storia, e nonostante le vistose defezioni, Fini si sente depositario. In particolare non si oppone al Federalismo, purché non intacchi l’unità nazionale. E non si oppone all’esigenza di Berlusconi di essere lasciato in pace dalla magistratura finché è presidente del Consiglio, purché la soluzione del problema non provochi una lesione intollerabile dello stato di diritto. Chiede in cambio che non si pongano ostacoli allo sviluppo di Futuro e Libertà, che per ora è solo un gruppo parlamentare, ma alle prossime elezioni si presenterà come partito. Ed è anche (o soprattutto) per questo che chiede una nuova legge elettorale, facendo autocritica delle sue posizioni passate a sostegno della legge Calderoli: quale sia la soluzione preferita Fini non l’ha detto e quanto ha detto non esclude né un sistema proporzionale né uno maggioritario, purché questo venga emendato dalla scandalosa esclusione degli elettori dalla scelta dei propri rappresentanti. Perderebbe la faccia, Berlusconi, se accettasse questo patto di legislatura? A me non sembra: è un politico troppo smaliziato per risentirsi dei toni sferzanti che Fini, nel discorso fondativo di un nuovo partito, ha usato per galvanizzare i militanti. Di fatto Fini indica una prospettiva per il centrodestra che è l’unica che possa tenere insieme questo pezzo dello schieramento politico in un futuro in cui Berlusconi non potrà più tenerlo insieme con il suo potere carismatico. In un futuro in cui anche Forza Italia dovrà presentarsi come un partito «normale». In un futuro in cui, se la legge elettorale prescelta fosse di natura proporzionale, anche Casini e l’Udc potrebbero tornare a essere parte di questo schieramento. In quel futuro forse saremo tutti morti. Nel presente Berlusconi si comporterebbe da statista, da politico che ha a cuore i problemi veri del Paese, se accettasse il patto che gli propone Fini e non ricorresse ad atti di forza e a elezioni anticipate.

Michele Salvati

07 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_07/salvati-conviene-patto-tre-leader_02e5fcc0-ba41-11df-a688-00144f02aabe.shtml


Titolo: Michele SALVATI. CIÒ CHE DRAGHI DOVREBBE DIRE
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2011, 11:30:20 pm
IL COSTO DELL'INSTABILITÀ POLITICA

CIÒ CHE DRAGHI DOVREBBE DIRE


Domani, nel corso dell'assemblea dei partecipanti, il Governatore della Banca d'Italia leggerà le sue «Considerazioni finali».
Fra pochi mesi egli assumerà l'incarico di Governatore della Banca centrale europea e questa è l'ultima occasione per parlare come capo di una autorevole istituzione del nostro Paese. Soprattutto, per parlare come italiano.

Alla luce delle «Considerazioni finali» degli anni scorsi, credo che anche quest'anno il problema cui Mario Draghi dedicherà la maggiore attenzione sarà quello della crescita insufficiente della nostra economia, ciò che rende difficile affrontare tutti gli altri problemi che affliggono il Paese. L'analisi delle ragioni per cui l'economia non cresce, e in particolare non cresce la produttività, si nutrirà certamente di nuovi apporti di ricerca, ma non presenterà variazioni rilevanti rispetto al passato. Né sarà diverso l'avvertimento che già Draghi ha lanciato molte volte: le riforme necessarie sono difficili e a rendimento differito. Non annunci miracolistici, ma applicazione costante e tenace, da parte di tutti i governi in carica, di programmi condivisi nelle loro linee portanti.

Come italiano che lancia un ultimo messaggio al suo Paese, come capo di una istituzione così autorevole, in una situazione in cui si rafforzano venti di cambiamento che potrebbero condurre in qualsiasi direzione, forse Mario Draghi potrebbe aggiungere una nota più personale e preoccupata. Le «Considerazioni finali» sono un documento calibrato con grande cura. Ma il distacco e l'equilibrio che lo caratterizzano non hanno mai impedito in passato che il messaggio centrale che conteneva - in senso lato politico - venisse colto da chi lo doveva cogliere. Al di là della circostanza che potrebbe indurre il Governatore a un tocco più personale - il suo distacco dalla Banca e dall'Italia - credo esista oggi una ragione seria per lanciare un avvertimento ancor più forte di quelli lanciati in passato.

Accennavo prima a venti di cambiamento e alludevo al sistema politico. È probabile che il nostro sistema politico entri nei prossimi anni in una nuova fase di turbolenza. Una transizione costituzionale mai completata, il potere carismatico di Berlusconi in declino - e il passaggio dal carisma all'istituzione, dall'eccezionalità alla normalità, è sempre difficile -, la presenza di progetti molto diversi su come affrontare la transizione, possono creare una situazione economico-sociale instabile. Una situazione nella quale non soltanto l'obiettivo di riforme miranti a favorire la crescita della produttività viene abbandonato; ma è a rischio lo stesso obiettivo di condurre in porto gli impegnativi aggiustamenti di bilancio pubblico cui ci siamo di recente vincolati.

Non è compito di un Governatore entrare nel merito delle scelte politiche. Ma è pienamente nei suoi poteri quello di segnalare come l'instabilità della politica possa minacciare la stabilità e la crescita dell'economia.

Michele Salvati

30 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_30/


Titolo: Michele SALVATI. Le verità nascoste
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2011, 10:19:35 am
ECONOMIA E POLITICA, IL VICOLO CIECO

Le verità nascoste


Forse il guasto maggiore prodotto da chi ha governato l’Italia in questi ultimi dieci anni è stato quello di non aver fatto capire agli italiani quanto compromessa fosse la situazione che la Seconda Repubblica aveva ricevuto in eredità dalla Prima, quanto difficili fossero le riforme necessarie ad allinearci con i nostri grandi partner europei e soprattutto quanto lungo fosse il tempo necessario affinché queste riforme sbloccassero il ristagno economico in cui eravamo caduti. Reagendo all’emergenza della crisi del 1992, era iniziato un percorso riformatore coraggioso. Una volta entrati nella moneta unica, al timore del collasso subentrò tuttavia un atteggiamento di «passata la festa, gabbato lo santo», la sensazione che il difficile era fatto, che la strada era in discesa. No, il difficile veniva allora.

Alla conservazione degli equilibri fiscali raggiunti doveva sommarsi un doloroso lavoro di bisturi e ricostruzione plastica in molti settori pubblici e privati allo scopo di elevarne l’efficienza e la produttività. Lavoro difficile, impopolare e lungo, come lento sarebbe stato il suo esito sulla crescita economica. Si fece assai poco e persino gli elevati attivi primari raggiunti alla fine del secolo scorso — necessari per ridurre il debito pubblico — vennero azzerati in questo da una sconsiderata crescita della spesa corrente. Ma forse ancor più irresponsabile dell’inazione dei governi, della loro incapacità di affrontare riforme difficili e impopolari, fu l’atteggiamento che i loro leader principali contribuirono a diffondere nell’opinione pubblica: «tout va bien, madame la marquise», la nostra industria reagisce gagliardamente alle sfide della globalizzazione, i settori protetti dalla concorrenza estera non hanno bisogno di interventi che ne sconvolgano gli equilibri, la previdenza non richiede ulteriori riforme e, se qualcosa va fatto, ci si deve limitare alla legislazione del lavoro e al complesso del settore pubblico. Se poi qualcuno faceva notare che la produzione non cresceva, che la produttività era ferma, che le esportazioni non andavano bene, si replicava elencando numerosi casi singoli di successo — ci sono sempre, anche quando le cose van male— e criticando le statistiche generali.

Capisco che i governi apprezzino l’ottimismo, ma c’è un limite oltre il quale esso sconfina nell’irresponsabilità. Il Tremonti della XIV legislatura e dell’inizio di questa era assai più ottimista di quello che oggi parla di un ballo nei saloni del Titanic, ma la rotta dell’Italia era la stessa e doveva essergli noto che presto o tardi il nostro Paese sarebbe andato a sbattere contro un iceberg. Che si fa, adesso? Chi va a dire la verità agli italiani, che li aspetta un lungo periodo di vacche magre, che i sacrifici — e poi, come saranno distribuiti?—si fanno adesso e la crescita sarà lenta a venire? Le opposizioni hanno dato prova di responsabilità a inghiottire una manovra i cui saldi cambiavano in continuazione, il cui peso si è spostato dalla riduzione delle spese all’aumento delle entrate e, soprattutto, si è spostato in modo regressivo, tagliando indiscriminatamente del 20% le agevolazioni fiscali a vantaggio delle famiglie. Ma questo atto di responsabilità non basta a fare delle attuali opposizioni, divise al loro interno e confuse nei loro indirizzi sino ad un recente passato—se si fossero mosse diversamente, la manovra poteva forse essere migliore —, il soggetto di cui tutti gli italiani si possano fidare.

Michele Salvati

20 luglio 2011 07:46© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_20/salvati_verita_nascoste_a4df6c44-b290-11e0-97dd-09b07ad852d4.shtml


Titolo: Michele SALVATI -
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2011, 12:08:34 pm
SCOMODE VERITÀ

Comunque vada, dobbiamo gratitudine a Giorgio Napolitano e a Mario Monti. Al primo per aver organizzato un passaggio, rapido come esigevano le circostanze ma nel pieno rispetto della Costituzione, all’unico governo che ci dà qualche speranza di superare la crisi economica e politica in corso. Al secondo per aver accettato un incarico arduo, nello spirito di un moderno Cincinnato. Come il dictator romano, anche Monti, esaurito il suo compito, si ritirerà a vita privata. Ma a differenza di Cincinnato, non avrà i pieni poteri: la democrazia non è sospesa e la Camera e il Senato dovranno approvare ogni sua iniziativa. E questo rende il compito di Mario Monti assai più difficile. Sono poco più di titoli quelli enunciati da Monti nel discorso programmatico letto alle Camere, ma già chiarissimi: essi prospettano quella soluzione del trilemma tra rigore, crescita ed equità che la migliore riflessione economico-sociale sul caso italiano addita da tempo. Il diavolo sta però nei dettagli e le varianti di ogni riforma sono numerose. Come si comporteranno i politici, che siedono in Parlamento ma non al governo? Come collaboratori leali e in buona fede, pronti a rinunciare a soluzioni che ritengono più favorevoli ai loro interessi di partito? Dediti al compito di disegnare il contesto — elettorale e costituzionale — nel quale la politica competitiva dovrà tornare a svolgersi una volta che questo scorcio di legislatura si sarà esaurito? Difficile farsi illusioni: il governo sarà probabilmente esposto a trappole e ricatti, a tentativi di mercanteggiamento, a minacce di defezione. Come reagirà? Il desiderio di Monti di avere i grandi capipartito nel suo governo, o il suggerimento di Napolitano di includervi Amato e Letta rispondevano in diverso modo a questa evidente debolezza politica. Monti dispone di una sola arma, poderosa, troppo poderosa, ed efficace solo se è rimasto un poco di razionalità e responsabilità nazionale nei partiti: la minaccia di dimissioni se il suo programma viene sfigurato, ciò che precipiterebbe il Paese nel caos. Ma l’uso di questa arma comprometterebbe la stessa immagine del premier e sarebbe poco credibile per partiti usi a mercanteggiare su tutto. Quanto poi alla razionalità e al senso di responsabilità nazionale i partiti ne dispongono come lo scorpione del famoso apologo sull’attraversamento del fiume in groppa alla rana: è vero, se ti pungo affoghiamo entrambi, ma pungere è nella mia natura. La difficoltà maggiore è però di natura economica. Monti ha sottolineato con forza la gravità della crisi e affermato con altrettanta forza che l’unica soluzione è tornare a crescere. È però il primo a sapere che le misure mirate ad elevare la produttività e l’efficienza nei settori privati e pubblici che il suo programma identifica avranno rendimenti molto differiti nel tempo. Da dove proverrà, nei prossimi tre o quattro anni, la domanda che deve sostenere la crescita? Da un radicale mutamento di aspettative di famiglie e imprese, che le indurrà a consumare e investire di più? È una speranza piuttosto tenue.
Dallo Stato, ingabbiato in politiche di rigore, ovviamente non ci si può aspettare molto ed è anche irrealistico affidarsi a una rapida crescita delle esportazioni date le attuali condizioni di competitività delle nostre imprese e un contesto così fiacco di domanda mondiale e specialmente europea: la situazione è radicalmente diversa da quella della crisi del 1992-95, quando la lira venne pesantemente svalutata e le esportazioni conobbero un poderoso rimbalzo. Ciò che realisticamente ci attende, se le cose vanno bene, è il rigore e—speriamo—una buona dose di equità, ma per la crescita occorrerà attendere: questo è il discorso di verità che andrebbe fatto agli italiani, per evitare continue recriminazioni che la crescita non arriva. Ma soprattutto è un discorso che andrebbe fatto in Europa. Se la crescita stenta ad arrivare e se ad essa sono legate le aspettative degli acquirenti del nostro debito pubblico, siamo spacciati: possiamo permetterci qualche emissione al 7 per cento, ma non un onere medio del debito a quei livelli. Non ce la faremmo mai a ripagarlo e la crisi di liquidità si trasformerebbe in una crisi di solvibilità che travolgerebbe l’intero sistemamonetario: una grande riforma europea che elimini la stupida politica del too little, too late che ha già rovinato la Grecia è ancor più urgente delle riforme interne che il governo sta disegnando. Mario Monti è idealmente adatto per fare questo doppio discorso di verità. In Italia, per l’evidente assenza di interessi personali e partitici: da un tecnico, da un Cincinnato, ci si aspetta che parli chiaramente. In Europa per la stima da cui è circondato: se richiede un maggiore impegno della Bce o un serio Fondo salva Stati o una qualche forma di eurobond o altri strumenti che modifichino le aspettative dei mercati, i governi e le istituzioni europee sarebbero sicuri che non lo fa per evitare o allentare le riforme interne sulle quali giustamente l’Europa insiste. La fiducia, nei rapporti internazionali, è molto, se non tutto.

Michele Salvati

19 novembre 2011 | 8:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_19/salvati_scomode_verita_0bf18ece-1279-11e1-b297-12e8887ffed4.shtml


Titolo: Michele SALVATI. L'Europa e la crisi del debito
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2012, 11:13:24 pm
L'Europa e la crisi del debito

Angela da Giussano

Se i Paesi della zona euro fossero regioni di uno Stato sovrano, le difficoltà in cui alcuni di essi incorrono nel finanziare i loro debiti pubblici non avrebbero ragion d'essere: nel suo insieme, l'Eurozona sarebbe perfettamente in grado di finanziarli senza conseguenze negative sui mercati. Il nostro ipotetico Stato sovrano avrebbe infatti partite correnti in equilibrio e non necessiterebbe di continui afflussi di capitale, come invece avviene per altre aree valutarie; il suo disavanzo pubblico sarebbe modesto, e del tutto sostenibile sarebbe anche il rapporto tra debito e Pil; soddisfacenti sarebbero infine i suoi equilibri monetari: l'inflazione dell'Eurozona è minore che in altri grandi Stati e non ci sono segnali di tensioni nel prossimo futuro. Rifinanziare il debito in scadenza e anche crearne di nuovo, entro certi limiti, non porrebbe dunque alcun problema. I problemi sorgono perché i Paesi dell'Eurozona non sono regioni di un unico Stato sovrano, perché la Grecia o l'Italia non sono il Nebraska o la California.

Che sarebbero insorti problemi dopo aver creato un'area valutaria comune tra economie assai diverse lo si doveva sapere: l'Eurozona è lontana dai caratteri che contraddistinguono un'area valutaria «ottimale», come la definiscono gli economisti. Seppure imperfetta, c'è una libera circolazione di merci e capitali, ma definire imperfetta la circolazione del lavoro è un eufemismo, frenata com'è da elevate barriere linguistiche e culturali. Gli Stati che la compongono sono soggetti a choc e a tendenze economiche molto differenti e avrebbero bisogno di politiche monetarie diverse, che la comune appartenenza all'euro non consente. E soprattutto mancano forti meccanismi di redistribuzione fiscale. Mancano perché il bilancio della Ue è irrisorio, e vincolato a poche politiche comuni, se confrontato con i bilanci di grandi Stati e alla flessibilità con la quale possono essere usati per politiche ridistributive. Insomma, mancano perché la Ue non è uno Stato sovrano e ci sono forti resistenze a trasformarla in una vera federazione, con un Parlamento eletto dai cittadini europei, un governo responsabile di fronte al Parlamento e un bilancio federale di dimensioni sufficienti ad attuare politiche ridistributive e strutturali in grado di contrastare gli squilibri economici e sociali esistenti tra gli Stati che la compongono.

A sua volta, all'origine della mancanza di un vero Stato federale sta il fatto che non c'è abbastanza «nazione» per sostenerlo, anche se per nazione ci limitiamo ora a intendere quei sentimenti di solidarietà e fiducia che inducono le regioni più ricche e meglio governate ad aiutare le regioni in difficoltà. La speranza che i problemi insorti con la moneta unica provocassero passi avanti significativi nella costruzione di una federazione, è stata sinora delusa. È vero che una considerazione lungimirante degli stessi interessi del suo Paese dovrebbe indurre la signora Merkel a più miti consigli, a garantire concessioni che evitino il tracollo degli Stati più deboli e forse della stessa moneta comune. Ma è altrettanto vero che fare accettare queste concessioni all'opinione pubblica tedesca e sopravvivere politicamente non è facile. In un altro momento storico, un grande statista, Helmut Kohl, riuscì nell'impresa: ma allora si trattava di riunificare la Germania facendo leva su un fortissimo senso di nazione e, ciò nondimeno, ci furono resistenze di fronte alla generosità del suo disegno.

Le difficoltà politiche si sono sinora rivelate insuperabili nei confronti dell'aiuto ai Paesi più deboli dell'Eurozona: le ragioni del raziocinio e di un self-interest illuminato non riescono a contrastare la mancanza di solidarietà e di fiducia dei cittadini tedeschi nei confronti di questi Paesi.

Gli italiani dovrebbero essere i primi a capirlo, e non solo per la consapevolezza del malgoverno passato. Noi siamo una nazione racchiusa in uno Stato sovrano e quindi non si pongono i problemi che ho prima descritto per l'Eurozona, un'area complessivamente forte ma che non vuole rispondere, e può non farlo, per le difficoltà delle sue regioni più deboli, un'area che non vuole trasformarsi in Stato. L'Italia è minacciata dalla speculazione internazionale, ma risponde a queste minacce nel suo insieme, finché ci riesce: essere Stato sovrano significa anche questo. Tuttavia il senso di unità, di cittadinanza comune, di solidarietà nazionale che dovrebbe sostenere uno Stato ben funzionante è incrinato da tempo, e nel Nord del Paese sono diffusi e alimentati ad arte, nei confronti dei meridionali, gli stessi sentimenti che nutrono i tedeschi nei confronti degli italiani: essendo parte dello stesso Stato, i cittadini del Nord leghista non possono rifiutarsi di onorare il debito comune, certamente non solo «colpa» del Sud, ma sarebbero ben lieti di trattare i meridionali come i tedeschi trattano gli italiani, di recedere dal patto che ha fondato il nostro Stato. Come pretendere solidarietà dai tedeschi se ce n'è così poca anche tra italiani?

Le ragioni di consenso politico immediato che motivano la signora Merkel e, nel suo piccolo, la Lega, si capiscono benissimo. Ma la cancelliera è il capo di un grande Stato, della maggiore potenza europea, e dovrebbe farsi guidare da obiettivi da grande statista, gli stessi che guidarono Helmut Kohl. Così sinora non è stato. Della situazione in cui si trova oggi la Grecia, non è certo responsabile. Ma del suo aggravamento le politiche da lei sostenute - too little, too late , troppo poco, troppo tardi - portano una responsabilità non piccola.

Michele Salvati

7 febbraio 2012 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_07/angela-da-giussano-michele-salvati_cbdee656-5152-11e1-bb26-b734ef1e73a5.shtml


Titolo: Michele SALVATI. I PARTITI E IL DOPO MONTI Una seconda ricostruzione
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2012, 12:27:03 pm
I PARTITI E IL DOPO MONTI

Una seconda ricostruzione

Ricordo che nella primavera del 1997, incontrandoci al ristorante della Camera dopo una riunione della Commissione bicamerale, Carlo Giovanardi mi apostrofò press'a poco così: «Caro Salvati, voi bipolaristi vi sbagliate di grosso. Questo è un Paese che a malapena riesce a mettere in piedi un ceto di governo decente. Cercare di costruirne due, e in concorrenza fra loro, può produrre solo guai». Quest'episodio m'è tornato in mente adesso, riflettendo sull'esperienza del governo Monti e soprattutto su che cosa avverrà alla sua fine, nella primavera dell'anno prossimo.

Giovanardi parlava da vecchio democristiano e rimpiangeva i governi della Prima Repubblica, spazzati via da Mani Pulite e da una legge elettorale che spingeva i partiti a raggrupparsi in due schieramenti contrapposti. Giovanardi aveva ragione sul futuro, ma si sbagliava sul passato. Della Prima Repubblica, e specialmente della sua ultima fase, c'è poco da rimpiangere: la sua incapacità di governare è testimoniata dal suo collasso e dall'enorme debito pubblico che ha lasciato in eredità alla Seconda. Ma anche questa non è riuscita a produrre un buon governo: lo schieramento che aveva stravinto le elezioni del 2008 ha dovuto gettare la spugna e passare il testimone a un governo «tecnico», che ha iniziato alacremente ad affrontare l'emergenza economica e in tre mesi ha preso decisioni che i governi «politici» si trascinavano appresso da dodici anni.


Che cosa volete che ne pensino i cittadini, se non che i partiti italiani si sono rivelati incapaci, sia nella Prima che nella Seconda Repubblica, sia con una legge elettorale proporzionale che con una maggioritaria, di governare l'economia? Che la ricerca di un consenso elettorale a breve termine, la paura di scontentare frazioni più o meno vaste del loro elettorato, residui ideologici o interessi personali, impediscono loro di prendere le decisioni necessarie ad affrontare i problemi di lungo termine che affliggono il nostro Paese? Che non riescono ad adottare quella «vista lunga» di cui tanto parlava Tommaso Padoa-Schioppa? Anche in altri Paesi, nel giudizio dei loro cittadini, i partiti non se la cavano bene, ma non sono caduti nei sondaggi ai livelli infimi in cui si trovano i partiti italiani. E neppure prendono in considerazione, quando insorgono difficoltà, di passare la mano a governi tecnici, come da noi è avvenuto sia nel 1993 che nel 2011: o producono un governo politico alternativo, o, al più, una grande coalizione, ma tutta politica. Questo però avviene perché il governo «politico» non ha lasciato marcire la situazione sino al punto in cui questa diviene ingestibile per una politica normale.

Col tempo i problemi italiani si sono aggravati, sino a richiedere un'opera di ricostruzione economica e istituzionale, e un impegno di risanamento morale, di dimensioni simili a quelle della fase postbellica. Un'opera e un impegno che dovranno protrarsi molto oltre la primavera del 2013. E soprattutto che richiedono, per aver successo, un disegno coerente e perseguito per lungo tempo senza inversioni di rotta: ciò non riguarda solo l'economia, ma le istituzioni, la pubblica amministrazione e soprattutto la questione morale, l'illegalità e la corruzione che ammorbano il Paese. Un disegno che, nelle sue linee essenziali, non è né di destra, né di sinistra, che non riguarda la democrazia, ma le precondizioni della democrazia, quegli orientamenti comunemente condivisi che sono necessari affinché la dialettica tra i partiti possa svolgersi senza esasperazioni dannose.

E qui si arriva alla ragione che rende così difficile pensare a un «dopo Monti». I partiti propongono programmi alternativi e insistono più sulle differenze che sulle somiglianze: è la logica della competizione elettorale che li costringe a far questo, anche se poi non si differenzieranno molto nell'attività di governo. E anche ammesso che ognuno di loro affermasse: «Io sono il continuatore della linea Monti ed ho lo stesso suo disegno sulle riforme necessarie al Paese», chi ci crederebbe? Come partiti, cioè come parti, non potrebbero che promettere differenze e discontinuità, mentre la continuità è un aspetto essenziale della strategia di ricostruzione. Ho fiducia nella democrazia e sono convinto che in essa i partiti politici abbiano un ruolo indispensabile; ma sono anche convinto che la nostra democrazia abbia bisogno di riforme radicali per produrre buon governo. Di conseguenza, credo che il nostro Paese richieda per un lungo periodo, almeno per l'intera prossima legislatura, un governo «tipo Monti». Un governo che però affronti, insieme ai problemi economici, anche le questioni istituzionali dalle quali, dati i limiti del suo incarico, Monti si è sinora dovuto astenere. Vedano i partiti come assicurare, nelle prossime elezioni, una solida maggioranza a questo tipo di governo. Mi sembra sia per loro l'unico modo per uscire dal discredito in cui sono caduti e tornare in futuro ad una dialettica democratica meno costretta dall'emergenza, dalle necessità di una «seconda Ricostruzione».

Michele Salvati

5 marzo 2012 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_05/seconda-ricostruzione-salvati_77c54568-668a-11e1-a7b0-749eb32f5577.shtml


Titolo: MICHELE SALVATI Una seconda ricostruzione I PARTITI E IL DOPO MONTI
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2012, 05:14:44 pm
I PARTITI E IL DOPO MONTI

Una seconda ricostruzione

Ricordo che nella primavera del 1997, incontrandoci al ristorante della Camera dopo una riunione della Commissione bicamerale, Carlo Giovanardi mi apostrofò press'a poco così: «Caro Salvati, voi bipolaristi vi sbagliate di grosso. Questo è un Paese che a malapena riesce a mettere in piedi un ceto di governo decente. Cercare di costruirne due, e in concorrenza fra loro, può produrre solo guai». Quest'episodio m'è tornato in mente adesso, riflettendo sull'esperienza del governo Monti e soprattutto su che cosa avverrà alla sua fine, nella primavera dell'anno prossimo.

Giovanardi parlava da vecchio democristiano e rimpiangeva i governi della Prima Repubblica, spazzati via da Mani Pulite e da una legge elettorale che spingeva i partiti a raggrupparsi in due schieramenti contrapposti. Giovanardi aveva ragione sul futuro, ma si sbagliava sul passato. Della Prima Repubblica, e specialmente della sua ultima fase, c'è poco da rimpiangere: la sua incapacità di governare è testimoniata dal suo collasso e dall'enorme debito pubblico che ha lasciato in eredità alla Seconda. Ma anche questa non è riuscita a produrre un buon governo: lo schieramento che aveva stravinto le elezioni del 2008 ha dovuto gettare la spugna e passare il testimone a un governo «tecnico», che ha iniziato alacremente ad affrontare l'emergenza economica e in tre mesi ha preso decisioni che i governi «politici» si trascinavano appresso da dodici anni.

Che cosa volete che ne pensino i cittadini, se non che i partiti italiani si sono rivelati incapaci, sia nella Prima che nella Seconda Repubblica, sia con una legge elettorale proporzionale che con una maggioritaria, di governare l'economia? Che la ricerca di un consenso elettorale a breve termine, la paura di scontentare frazioni più o meno vaste del loro elettorato, residui ideologici o interessi personali, impediscono loro di prendere le decisioni necessarie ad affrontare i problemi di lungo termine che affliggono il nostro Paese? Che non riescono ad adottare quella «vista lunga» di cui tanto parlava Tommaso Padoa-Schioppa? Anche in altri Paesi, nel giudizio dei loro cittadini, i partiti non se la cavano bene, ma non sono caduti nei sondaggi ai livelli infimi in cui si trovano i partiti italiani. E neppure prendono in considerazione, quando insorgono difficoltà, di passare la mano a governi tecnici, come da noi è avvenuto sia nel 1993 che nel 2011: o producono un governo politico alternativo, o, al più, una grande coalizione, ma tutta politica. Questo però avviene perché il governo «politico» non ha lasciato marcire la situazione sino al punto in cui questa diviene ingestibile per una politica normale.

Col tempo i problemi italiani si sono aggravati, sino a richiedere un'opera di ricostruzione economica e istituzionale, e un impegno di risanamento morale, di dimensioni simili a quelle della fase postbellica. Un'opera e un impegno che dovranno protrarsi molto oltre la primavera del 2013. E soprattutto che richiedono, per aver successo, un disegno coerente e perseguito per lungo tempo senza inversioni di rotta: ciò non riguarda solo l'economia, ma le istituzioni, la pubblica amministrazione e soprattutto la questione morale, l'illegalità e la corruzione che ammorbano il Paese. Un disegno che, nelle sue linee essenziali, non è né di destra, né di sinistra, che non riguarda la democrazia, ma le precondizioni della democrazia, quegli orientamenti comunemente condivisi che sono necessari affinché la dialettica tra i partiti possa svolgersi senza esasperazioni dannose.

E qui si arriva alla ragione che rende così difficile pensare a un «dopo Monti». I partiti propongono programmi alternativi e insistono più sulle differenze che sulle somiglianze: è la logica della competizione elettorale che li costringe a far questo, anche se poi non si differenzieranno molto nell'attività di governo. E anche ammesso che ognuno di loro affermasse: «Io sono il continuatore della linea Monti ed ho lo stesso suo disegno sulle riforme necessarie al Paese», chi ci crederebbe? Come partiti, cioè come parti, non potrebbero che promettere differenze e discontinuità, mentre la continuità è un aspetto essenziale della strategia di ricostruzione. Ho fiducia nella democrazia e sono convinto che in essa i partiti politici abbiano un ruolo indispensabile; ma sono anche convinto che la nostra democrazia abbia bisogno di riforme radicali per produrre buon governo. Di conseguenza, credo che il nostro Paese richieda per un lungo periodo, almeno per l'intera prossima legislatura, un governo «tipo Monti». Un governo che però affronti, insieme ai problemi economici, anche le questioni istituzionali dalle quali, dati i limiti del suo incarico, Monti si è sinora dovuto astenere. Vedano i partiti come assicurare, nelle prossime elezioni, una solida maggioranza a questo tipo di governo. Mi sembra sia per loro l'unico modo per uscire dal discredito in cui sono caduti e tornare in futuro ad una dialettica democratica meno costretta dall'emergenza, dalle necessità di una «seconda Ricostruzione».

Michele Salvati

5 marzo 2012 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_05/seconda-ricostruzione-salvati_77c54568-668a-11e1-a7b0-749eb32f5577.shtml



Titolo: Michele SALVATI - LA LEGGE CONTRO LA CORRUZIONE.
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2012, 12:21:08 pm
LA LEGGE CONTRO LA CORRUZIONE

Legalità e crescita le scelte urgenti

Non ci sono stati accordi espliciti, al momento della formazione del governo Monti, sui problemi che dovevano essere esclusi dal suo raggio d’azione. I partiti che lo sostengono avevano riconosciuto che il compito prioritario del governo era ed è quello di rimediare alla disastrosa situazione in cui eravamo precipitati, sia di natura economica, sia di credito internazionale. Ma da ciò consegue che, sulle misure più idonee a raggiungere quell’obiettivo, la discrezionalità del governo dev’essere molto ampia. Una buona occasione per esercitare questa discrezionalità e segnalare il proprio orientamento è il ddl sulla corruzione, in discussione alla Camera dopo essere già stato approvato al Senato sotto il precedente governo: avendo alcuni partiti presentato emendamenti che configurano nuove fattispecie di reato, allungano i termini di prescrizione o introducono misure accessorie, il Pdl non soltanto annuncia la sua opposizione, com’è perfettamente legittimo, ma implicitamente consiglia il governo di tenersi fuori da questa materia. Due osservazioni soltanto. La prima è che corruzione e illegalità sono problemi gravissimi per il nostro Paese, dai quali dipendono la sua insoddisfacente crescita economica e il suo scarso credito internazionale. La seconda è che, proprio per questo, il governo Monti non deve manifestare alcuna incertezza in proposito: la lotta sarà lunga, ma bisogna partire con misure incisive e con una road map ben definita.

Nella classifica di Transparency International l’Italia occupa un posto incredibilmente basso. L’indice da 10 (corruzione minima) a 0 (corruzione massima) vede in testa per il 2011 Danimarca e Finlandia con 9,4; vede nella parte alta (tra il 7 e l’8) i grandi Paesi europei; vede in coda la Somalia, con 1. L’Italia, con 3,9 è di poco superiore ai Paesi europei più corrotti, Romania e Grecia, a pari livello del Ghana e inferiore a molti Paesi in via di sviluppo. Sull’affidabilità di questo indice e su molte altre questioni rinvio a Donatella della Porta e Alberto Vannucci, Mani Impunite (Laterza, 2007), il migliore studio d’insieme sulla corruzione in Italia per un lettore non specialista. Tre conclusioni. Si tratta di un fenomeno di antica data, ma che da Mani Pulite in poi, con qualche oscillazione, è sempre stato al centro dell’opinione pubblica. La corruzione, e più in generale l’illegalità, la criminalità e l’inefficienza amministrativa — tutti fenomeni strettamente collegati — sono ostacoli formidabili alla crescita economica e al benessere della popolazione, oltre che una grave lesione della qualità della democrazia e della convivenza civile. Le iniziative di contrasto adottate sono state numerose, ma tutte caratterizzate da scarso successo. Insomma, la corruzione in Italia è massiccia, molto dannosa, di essa sappiamo molto ma non riusciamo a estirparla.

Non è per nulla vero che la corruzione sia un destino inevitabile, inflittoci dalla nostra storia. La lotta alla corruzione conosce successi straordinari: esemplare è quello di Singapore, passato in quarant’anni da uno dei Paesi più corrotti al mondo alla testa dell’indice di Transparency International, a pari merito con le piccole democrazie nordiche europee (e passato, sia detto per inciso, dalla miseria ad un reddito pro capite superiore a 43.000 dollari)

Il confronto con Singapore è per molte ragioni improponibile, prima tra tutte il fatto che Singapore è una democrazia, diciamo così,…fortemente autoritaria. Ma valgono anche per l’Italia alcune considerazioni che da quel confronto si possono trarre. La prima è che il successo arride ai Paesi che hanno fatto della lotta alla corruzione un obiettivo prioritario, condiviso dall’intera élite politica e istituzionale. Tale obiettivo dev’essere sostenuto per un periodo molto lungo: quarant’anni sono pochi da un punto di vista storico, ma moltissimi da un punto di vista politico, in democrazia, dove ogni cinque anni o meno possono cambiare i governi. La lotta alla corruzione deve articolarsi a 360 gradi, sull’intero spazio dei possibili interventi dell’autorità politica e delle istituzioni. I controlli di natura non giudiziaria devono essere coordinati centralmente da un’autorità dotata di ampi mezzi e grandi poteri, responsabile di fronte alle supreme autorità politiche per i risultati che consegue. E poi, quando la magistratura interviene, il governo non deve opporsi alla sua attività di indagine: governo e magistratura devono operare nella stessa direzione, quella di una lotta inflessibile contro la corruzione e l’illegalità.

Il ddl oggi in discussione alla Camera è limitato nei suoi scopi e assai lontano dalla consapevolezza di che cosa sia necessario per impostare un serio contrasto a questa intollerabile «peculiarità» italiana. Per questo è auspicabile non soltanto che il governo respinga come inaccettabili i richiami all’inopportunità o incompetenza a intervenire in materia — ciò che Monti ha già fatto — ma che tragga spunto dalla discussione in Parlamento per indicare i cardini essenziali della road map di lungo periodo che dovrà essere adottata. Il voto quasi unanime di ratifica della Convenzione di Strasburgo sulla corruzione, ieri sera al Senato, pone fine ad un grave ritardo (la Convenzione è del 1999) e fa sperare che ci siano minori resistenze ad un intervento del governo sul ddl in discussione alla Camera.

Michele Salvati

15 marzo 2012 | 7:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_15/salvati-legalita-crescita-scelte-urgenti_37912bbc-6e67-11e1-850b-8beb09a51954.shtml


Titolo: Michele SALVATI - LABURISTI E LIBERALI NEL CENTROSINISTRA
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2012, 03:59:15 pm

LABURISTI E LIBERALI NEL CENTROSINISTRA

L'agitazione delle anime

Si raccoglie quello che si è seminato.

Per ragioni evidenti - il legame con la Cgil, ma anche convinzioni antiche di una parte della sua dirigenza - sul tema della riforma della legislazione del lavoro il Pd ha lasciato convivere al suo interno posizioni molto diverse, l'anima di Damiano e l'anima di Ichino, per ricordarne gli esponenti più noti. Come l'asino di Buridano, tra queste anime non ha mai deciso e le ha lasciate polemizzare al suo interno. Quando è stato al governo ha sempre evitato di porre il tema sul tappeto nei suoi aspetti più ostici. Quando al governo era Berlusconi, questi si è ben guardato dall'affrontare il problema: in altre faccende affaccendato, egli ha seguito la sua ben nota strategia di galleggiamento e quieto vivere.

Ad affrontare il toro per le corna c'è voluto Monti, e ora il Pd è nei guai.

Questo è un brutto momento per fare «la» riforma della legislazione del lavoro. Ciò che veramente incide sulle condizioni di benessere dei lavoratori - quelli che già sono occupati e quelli che vogliono entrare nel mercato - sono i livelli e la dinamica dell'occupazione, della domanda di lavoro: quando questi sono sostenuti, ci saranno assunzioni massicce, licenziamenti scarsi, e i licenziati in un'azienda troveranno facilmente lavoro in un'altra: l'articolo 18 interessa allora a ben pochi. Le cose stanno in modo diverso quando l'occupazione è scarsa e la domanda di lavoro è fiacca, se non addirittura in regresso. È la situazione attuale e temo che sarà destinata a durare per molto tempo, perché una ripresa economica non è in vista. In questa situazione ciò che influisce sul benessere dei lavoratori sono le garanzie di sostegno del reddito nel caso non si trovasse o si perdesse il lavoro: è questo che interessa, assai più dell'articolo 18.
Qui però ci si scontra con il secondo motivo che rende il momento poco adatto alla riforma: la scarsità di risorse finanziarie disponibili per un ridisegno robusto degli ammortizzatori sociali.

Ma i momenti per riformare spesso non si scelgono, si verificano, e bisogna coglierli al volo. Di una riforma che aggiornasse la nostra obsoleta disciplina avevamo un grande bisogno: non solo perché ce la chiedono l'Europa e i mercati, ma per le iniquità e gli ostacoli allo sviluppo che essa contiene. Il centrodestra e il centrosinistra che abbiamo conosciuto non l'avrebbero mai fatta e, se rimanessero gli stessi, mai la farebbero in futuro: bene hanno dunque fatto Monti e Fornero a proporla. La riforma è solo abbozzata. Alcune misure mi convincono, altre meno. Oltretutto non si tratta di un testo definitivo ed è probabile (anzi, sperabile) che il Parlamento lo discuta a fondo e dunque alcune misure vengano riformulate.

E qui, forse, il Pd può recuperare in extremis quella credibilità che le sue incertezze hanno sinora appannato. Può farlo, però, solo se l'asino di Buridano decide a quale mucchio di fieno rivolgersi, se a quello riformista o a quello della conservazione sindacale: concentrarsi sull'articolo 18 e definire la sua riforma come «pericolosa e confusa», come ha fatto D'Alema, non è un buon segno. Così come non lo è avanzare l'argomento della sacralità della concertazione.

La concertazione all'italiana è stata una fase della nostra storia recente, motivata da circostanze eccezionali e ci voleva un governo frutto anch'esso di circostanze eccezionali per ribadire un principio costituzionale ovvio: che il governo ascolta e discute con i rappresentanti degli interessi - e questo governo ha ascoltato e discusso -, ma poi propone al Parlamento un testo legislativo. E il Parlamento decide.

Michele Salvati

22 marzo 2012 | 8:26© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_22/agitazione-delle-anime-salvati_132a58a0-73e6-11e1-970a-fabda8494773.shtml


Titolo: Michele SALVATI - Le estreme in Francia si tagliano. Da noi no
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2012, 05:26:24 pm
Il voto per le presidenziali francesi e l'italia

Le estreme in Francia si tagliano. Da noi no


Quando un presidente uscente si ripresenta all’appuntamento elettorale successivo, come ieri è capitato a Sarkozy, la sfortuna e le circostanze avverse valgono come il demerito e l’incapacità: in una situazione di crisi economica e disagio sociale gli elettori se la prendono con chi ha avuto in mano le leve del potere. Non stanno a chiedersi se abbia fatto tutto il possibile per contrastare una situazione internazionale difficile e se gli sfidanti avrebbero fatto meglio di lui, ciò che dovrebbe essere il metro di giudizio di un elettore razionale. Non voglio con questo sostenere che Sarkozy sia stato un buon presidente e mi limito solo a notare che, agli occhi di un italiano, i risultati economici francesi durante la sua presidenza —attraversata dalla più profonda crisi del dopoguerra—sono stati migliori dei nostri. Tutto questo per dire che la prima sconfitta di Sarkozy non mi sorprende: quando la situazione economico-sociale è penosa per i cittadini al tempo delle elezioni, vale l’inverso della legge di Andreotti: «Il potere logora... chi ce l’ha avuto». Così come non mi sorprende il successo di partiti estremisti e populisti di destra e di sinistra, soprattutto di quelli di destra.

Come primo commento a queste importanti elezioni vorrei limitarmi a due osservazioni: una riguarda il sistema elettorale francese in un confronto con quello italiano, la seconda le ripercussioni di una eventuale vittoria finale di Hollande o Sarkozy per il nostro Paese. In Francia, sia per le elezioni presidenziali, sia per i candidati nelle elezioni legislative — che avranno luogo subito dopo la proclamazione del Presidente —vale un sistema a doppio turno: se non si raggiunge la maggioranza assoluta, i due candidati più votati vanno al ballottaggio due settimane dopo, come i nostri sindaci.

Con risultati non ancora completi per il primo, inutile speculare sul secondo turno e quindi su chi sarà il vincitore di questa sfida all’ultimo voto: tutto dipenderà da come si comporteranno coloro che hanno votato per i candidati sconfitti, soprattutto i sostenitori di Marine Le Pen, e dalle dimensioni e dalla distribuzione dell’astensionismo. L’osservazione e il confronto con l’Italia riguardano sia il sistema elettorale sia la diversa natura dei partiti francesi e italiani. In Francia, i grandi partiti di destra o sinistra non sono estremisti o populisti: concessioni in questa direzione vengono fatte, ma l’estremismo e il populismo sono caratteri di partiti che al ballottaggio delle presidenziali non possono vincere, e solo una volta uno di loro ci è arrivato; lo stesso avviene nella maggioranza dei collegi elettorali e il Presidente dunque è in grado di costruire un governo omogeneo. Da noi, con entrambi i sistemi elettorali che abbiamo sperimentato nella Seconda Repubblica, la necessità di costruire le alleanze più grandi possibili ha condotto a inserire estremisti e populisti nelle coalizioni che sostengono il governo, e lo stesso partito leader del centrodestra aveva tratti populistici assai più forti di quelli francesi, con le conseguenze di ingovernabilità che abbiamo di recente sperimentato.

La seconda osservazione è più importante: quali le conseguenze sul nostro Paese della vittoria dell’uno o dell’altro candidato? Per chi è soprattutto preoccupato delle condizioni soffocanti cui è costretta la nostra economia, del fatto che il rigore si pone oggi in contrasto con la crescita invece di aiutarla, una vittoria di Hollande sarebbe una buona notizia. È vero, potrebbero esserci turbamenti sui mercati, ma la cancelliera tedesca si renderebbe conto, di fronte a un deciso mutamento di politica del suo principale alleato, che concessioni fiscali e monetarie assai più forti sono indispensabili per stimolare la crescita dell’Europa e salvare il suo sistema monetario.

Michele Salvati

23 aprile 2012 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_23/salvati-le-estreme-li-si-tagliano-da-noi_bd061cb2-8d02-11e1-a0b5-72b55d759241.shtml


Titolo: Michele SALVATI. -
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2013, 05:56:00 pm
DUE CONDIZIONI PER LE LARGHE INTESE

Il linguaggio della verità


Affinché l'esperimento Napolitano-Letta abbia successo, da subito devono essere raggiunte, e mantenute in seguito, due condizioni. Un atteggiamento realistico e responsabile verso la crisi economica, condiviso dai partiti che all'esperimento partecipano e continuamente ribadito nei confronti dei cittadini. Una attenuazione marcata dello scontro tra le due principali forze politiche della nostra Repubblica, una «messa tra parentesi» delle ragioni anomale che l'hanno alimentato fino ad oggi. Condizioni entrambe difficili da raggiungere e mantenere.

La prima discende da un'analisi corretta della crisi in cui versiamo. Non entro nel dettaglio delle misure che dovranno essere prese per reagire, sulle quali già si comincia a litigare, e mi limito alle loro premesse: non si uscirà dalla crisi, non si riprenderà a crescere, se non ci si convince che la causa di fondo sta in un grande ritardo di innovazione, efficienza, produttività in gran parte dei segmenti pubblici e privati del nostro sistema produttivo. Ritardi accumulati in un lungo periodo di riforme mancate e non avvertiti a seguito dell'effetto anestetizzante dell'indebitamento e, prima ancora, della svalutazione del cambio. Indebitarsi e svalutare non è più possibile, e oggi possiamo distribuire per consumi e investimenti solo quanto riusciamo a produrre e vendere. È per questo che diventare più efficienti e competitivi è un imperativo categorico se vogliamo mantenere i livelli di benessere cui ci siamo assuefatti. Già li abbiamo intaccati e «il linguaggio sovversivo della verità» - quello che Napolitano ha raccomandato a Letta - impone che si dica ai cittadini che questi livelli potranno ridursi ancora, che ci aspettano anni di vacche magre durante i quali solo due obiettivi andranno perseguiti con ossessione: 1) il miglioramento della produttività e dell'efficienza in tutti i principali comparti del sistema; 2) in nome dell'equità, una ricalibratura del welfare indirizzata a lenire le aree di povertà che già si sono aperte e si allargheranno.

Letta non ha seguito fino in fondo la raccomandazione «sovversiva» di Napolitano, come neppure l'aveva seguita il precedente governo tecnico, quando suggeriva che rigore, crescita ed equità potessero essere tenuti insieme, e in tempi brevi. Non è così, non si rimedia facilmente a lunghi decenni di mancate riforme, e va tolta l'illusione che l'Europa possa svolgere un compito che è solo nostro: se va bene, può attenuare un poco l'austerità - e sarebbe già una forte manifestazione di fiducia verso i Paesi più deboli e verso il futuro dell'Unione se lo facesse - ma il compito di diventare più efficienti e competitivi dobbiamo addossarcelo noi. Il linguaggio «sovversivo» della verità non è facile per un politico, cui vengono più spontanee promesse miracolistiche al fine di acquistare consenso. Fare accettare «sudore, lacrime e sangue» riuscì a Churchill di fronte alla minaccia nazista: sembra impossibile possa riuscire a politici screditati e rissosi. Ma se la rissa si attenua, se c'è una comune assunzione di responsabilità nazionale, se la Grande Coalizione è intesa non come intollerabile rinuncia delle proprie identità di parte, ma come occasione eccezionale di servizio al Paese, se è accompagnata da una forte riduzione dei costi della politica e da una spietata lotta alla corruzione, forse anche i cittadini possono convincersi che i loro sacrifici non saranno sprecati.

Il secondo obiettivo di un governo politico di grande coalizione - attenuare l'esasperazione del conflitto tra il centrodestra «berlusconiano» e il centrosinistra «comunista» è importante di per se stesso ma è soprattutto essenziale al raggiungimento del primo, di un'analisi seria della crisi e di un progetto di riforme ad essa conseguente. Centrosinistra e centrodestra possono benissimo, quando è necessario, fare accordi comuni di governo: avviene ovunque. Ma quando all'inevitabile tensione tra questi due diversi indirizzi politici si aggiunge il conflitto non negoziabile tra berlusconiani e antiberlusconiani - conflitto solo italiano - ogni mediazione diventa impossibile, e questo il nostro Paese non può permetterselo oggi. Non si chiede a nessuna delle due parti di rinunciare alle proprie idee e ai propri giudizi, ma di ridurne le conseguenze politiche per un periodo limitato. Non un impossibile pacto de olvido - un accordo di dimenticanza e reciproca smobilitazione - ma una provvisoria e parziale messa tra parentesi del conflitto alla luce di un interesse superiore: ci sono riusciti grandi Paesi per conflitti normativi ben più drammatici - implicitamente ho menzionato la Spagna - e sarebbe incomprensibile se non ci riuscisse l'Italia.

Se e quando il M5S o Sel presenteranno in Parlamento una dura legge sul conflitto di interessi o se e quando Berlusconi sarà raggiunto da una condanna in uno dei tanti giudizi che ha in corso - entrambi eventi possibili, forse imminenti - vedremo come si comporteranno Pd e Pdl e se il mio auspicio in merito alla saggezza di questi partiti verrà confermato dai fatti.

Michele Salvati

3 maggio 2013 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_03/linguaggio-verita_08730384-b3ab-11e2-a510-97735eec3d7c.shtml


Titolo: Michele Salvati. Il linguaggio della verità
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2013, 05:28:53 pm
DUE CONDIZIONI PER LE LARGHE INTESE

Il linguaggio della verità

Affinché l'esperimento Napolitano-Letta abbia successo, da subito devono essere raggiunte, e mantenute in seguito, due condizioni. Un atteggiamento realistico e responsabile verso la crisi economica, condiviso dai partiti che all'esperimento partecipano e continuamente ribadito nei confronti dei cittadini. Una attenuazione marcata dello scontro tra le due principali forze politiche della nostra Repubblica, una «messa tra parentesi» delle ragioni anomale che l'hanno alimentato fino ad oggi. Condizioni entrambe difficili da raggiungere e mantenere.

La prima discende da un'analisi corretta della crisi in cui versiamo. Non entro nel dettaglio delle misure che dovranno essere prese per reagire, sulle quali già si comincia a litigare, e mi limito alle loro premesse: non si uscirà dalla crisi, non si riprenderà a crescere, se non ci si convince che la causa di fondo sta in un grande ritardo di innovazione, efficienza, produttività in gran parte dei segmenti pubblici e privati del nostro sistema produttivo. Ritardi accumulati in un lungo periodo di riforme mancate e non avvertiti a seguito dell'effetto anestetizzante dell'indebitamento e, prima ancora, della svalutazione del cambio. Indebitarsi e svalutare non è più possibile, e oggi possiamo distribuire per consumi e investimenti solo quanto riusciamo a produrre e vendere. È per questo che diventare più efficienti e competitivi è un imperativo categorico se vogliamo mantenere i livelli di benessere cui ci siamo assuefatti. Già li abbiamo intaccati e «il linguaggio sovversivo della verità» - quello che Napolitano ha raccomandato a Letta - impone che si dica ai cittadini che questi livelli potranno ridursi ancora, che ci aspettano anni di vacche magre durante i quali solo due obiettivi andranno perseguiti con ossessione: 1) il miglioramento della produttività e dell'efficienza in tutti i principali comparti del sistema; 2) in nome dell'equità, una ricalibratura del welfare indirizzata a lenire le aree di povertà che già si sono aperte e si allargheranno.

Letta non ha seguito fino in fondo la raccomandazione «sovversiva» di Napolitano, come neppure l'aveva seguita il precedente governo tecnico, quando suggeriva che rigore, crescita ed equità potessero essere tenuti insieme, e in tempi brevi. Non è così, non si rimedia facilmente a lunghi decenni di mancate riforme, e va tolta l'illusione che l'Europa possa svolgere un compito che è solo nostro: se va bene, può attenuare un poco l'austerità - e sarebbe già una forte manifestazione di fiducia verso i Paesi più deboli e verso il futuro dell'Unione se lo facesse - ma il compito di diventare più efficienti e competitivi dobbiamo addossarcelo noi. Il linguaggio «sovversivo» della verità non è facile per un politico, cui vengono più spontanee promesse miracolistiche al fine di acquistare consenso. Fare accettare «sudore, lacrime e sangue» riuscì a Churchill di fronte alla minaccia nazista: sembra impossibile possa riuscire a politici screditati e rissosi. Ma se la rissa si attenua, se c'è una comune assunzione di responsabilità nazionale, se la Grande Coalizione è intesa non come intollerabile rinuncia delle proprie identità di parte, ma come occasione eccezionale di servizio al Paese, se è accompagnata da una forte riduzione dei costi della politica e da una spietata lotta alla corruzione, forse anche i cittadini possono convincersi che i loro sacrifici non saranno sprecati.

Il secondo obiettivo di un governo politico di grande coalizione - attenuare l'esasperazione del conflitto tra il centrodestra «berlusconiano» e il centrosinistra «comunista» è importante di per se stesso ma è soprattutto essenziale al raggiungimento del primo, di un'analisi seria della crisi e di un progetto di riforme ad essa conseguente. Centrosinistra e centrodestra possono benissimo, quando è necessario, fare accordi comuni di governo: avviene ovunque. Ma quando all'inevitabile tensione tra questi due diversi indirizzi politici si aggiunge il conflitto non negoziabile tra berlusconiani e antiberlusconiani - conflitto solo italiano - ogni mediazione diventa impossibile, e questo il nostro Paese non può permetterselo oggi. Non si chiede a nessuna delle due parti di rinunciare alle proprie idee e ai propri giudizi, ma di ridurne le conseguenze politiche per un periodo limitato. Non un impossibile pacto de olvido - un accordo di dimenticanza e reciproca smobilitazione - ma una provvisoria e parziale messa tra parentesi del conflitto alla luce di un interesse superiore: ci sono riusciti grandi Paesi per conflitti normativi ben più drammatici - implicitamente ho menzionato la Spagna - e sarebbe incomprensibile se non ci riuscisse l'Italia.

Se e quando il M5S o Sel presenteranno in Parlamento una dura legge sul conflitto di interessi o se e quando Berlusconi sarà raggiunto da una condanna in uno dei tanti giudizi che ha in corso - entrambi eventi possibili, forse imminenti - vedremo come si comporteranno Pd e Pdl e se il mio auspicio in merito alla saggezza di questi partiti verrà confermato dai fatti.

Michele Salvati

3 maggio 2013 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_03/linguaggio-verita_08730384-b3ab-11e2-a510-97735eec3d7c.shtml


Titolo: Michele SALVATI. - L'emergenza dimenticata
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2013, 04:40:41 pm
LA CRISI ODIERNA E QUELLA DI VENTI ANNI FA

L'emergenza dimenticata


Vent'anni dopo: così Alexandre Dumas intitolò la continuazione del suo romanzo più famoso, I tre moschettieri . Vent'anni sono passati dalla crisi che distrusse la Prima Repubblica e ora ne stiamo attraversando un'altra che minaccia (o promette?) di distruggere la Seconda. Le somiglianze sono notevoli - almeno altrettanto forti che tra i due romanzi di Dumas - (e Claudio Petruccioli le passa rapidamente in rassegna sull'ultimo numero di QdR Magazine). Anche nella prima crisi si era in presenza di un ingorgo istituzionale, la fine simultanea della legislatura e del settennato presidenziale. Anche allora i due leader che puntavano alla presidenza del Consiglio dovettero lasciare il posto ai loro vice: Craxi ad Amato ieri, Bersani a Letta oggi.

Anche nei primi anni Novanta le ragioni della crisi si presentarono come una insubordinazione sociale che travolse gli equilibri elettorali esistenti, allora Tangentopoli, oggi un discredito dei partiti che ha causato la perdita di 10 milioni di voti ai due poli del bipolarismo. E soprattutto, allora come oggi, la gestione della crisi è passata nelle mani del presidente della Repubblica, di Scalfaro negli anni Novanta e di Napolitano oggi.
Potrebbe però manifestarsi presto una differenza. Nel giro di pochi mesi i due grandi partiti di governo della Prima Repubblica capirono di essere spacciati: condizionare il governo secondo i vecchi metodi era un lusso che non si potevano più permettere. Insieme all'emergenza economica, da tutti percepita, fu questa circostanza che concesse ad Amato e più tardi a Ciampi la libertà di manovra di cui godettero. Oggi non sembra proprio che i due principali partiti della Grande Coalizione vogliano abbandonare un minuzioso controllo sul governo.

E la percezione dell'emergenza non è diffusa: le grandezze fiscali e finanziarie sembrano essere sotto controllo dopo la cura Monti e un attacco violento da parte dei mercati non è in vista. Di qui la scarsa volontà di arrivare a mediazioni rapide e severe sui tanti temi di riforma che il governo ha in agenda, il continuo sventolare di bandierine identitarie ed elettoralistiche da parte dei due (ex) poli. A questo si aggiunga che l'eventuale sfidante, il Movimento 5 Stelle, non sembra per ora in grado di presentare una piattaforma di governo minimamente credibile - anche questa una evidente differenza con gli anni Novanta - e, seppure ampiamente rappresentato in Parlamento, sembra tuttora legato ad una logica di movimento di protesta, autoescludendosi da alleanze e coalizioni.

Fino a quanto durerà questa situazione? I due grandi azionisti del governo si rifiutano di capire - Scelta civica l'ha capito - che la situazione economica e sociale è ancor più grave di quella dei primi anni Novanta, perché le riforme sono state differite per troppo tempo, il Paese è più povero e i condizionamenti internazionali più forti. Dubito che lo capiranno solo per lo stimolo nobile dell'interesse nazionale e Letta dovrebbe sempre ricordare loro la sua intenzione di non farsi logorare, dichiarata con chiarezza nel discorso di accettazione dell'incarico. Deve trasformare questa intenzione dichiarata in una minaccia credibile. Dunque definire scadenze per le principali riforme in agenda, sia quelle economiche sia quelle istituzionali: prendere decisioni e imporre che siano trasformate rapidamente in atti di governo. Se non è in grado di farlo, se il Consiglio dei ministri e i partiti non lo seguono, recarsi al Quirinale e rassegnare l'incarico.

Il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica, agendo in tandem e con decisione, dispongono di un'arma potente per costringere i due ex poli riottosi a comportarsi come richiede l'interesse nazionale: una minaccia credibile di dimissioni. Per il presidente del Consiglio ho appena detto. Ma ancor più potente è la minaccia di dimissioni del presidente della Repubblica, anch'essa adombrata nel discorso di fronte alle Camere riunite.

Le dimissioni del presidente della Repubblica riaprirebbero i giochi e Berlusconi - cui molte cose possono essere rimproverate, ma non la mancanza di intelligenza politica - capirebbe subito che le cose possono andare assai diversamente da come sono andate la volta scorsa.

MICHELE SALVATI

16 maggio 2013 | 7:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_16/emergenza-dimenticata-salvati_e7c130fe-bde9-11e2-9b45-0f0bf9d2f77b.shtml


Titolo: Michele SALVATI - IL PD E IL CONFLITTO TRA DUE ANIME Il vero partito mai nato
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2013, 11:46:34 am
IL PD E IL CONFLITTO TRA DUE ANIME

Il vero partito mai nato

Viviamo in un regime non di «partito unico», ma di «unico partito». Con tutti i suoi difetti, la sola organizzazione politica che assomiglia ai grandi partiti di un tempo è il Pd, radicato nella società sia a livello nazionale che a livello locale, con legami articolati nello Stato e nelle pubbliche amministrazioni, con diffuse capacità di reclutamento di quadri tecnici in grado di cooperare a funzioni di governo, con una connotazione ideologica sufficientemente chiara. I difetti (... un grande partito, non un vero partito) li vedremo subito, e sono profondi. Ma assai più grandi sono quelli delle altre organizzazioni politiche. Il fallimento della Seconda Repubblica, al di là delle politiche inadeguate che ha adottato, sta nel non essere riuscita a creare un secondo grande partito, un secondo stabilizzatore politico, dotato delle stesse caratteristiche del primo, così risolvendo un problema di fondo della nostra democrazia: l'assenza di un grande partito di destra democratica.

Berlusconi aveva le risorse di consenso necessarie a creare una grande e stabile destra liberal-conservatrice, che nel tempo si rendesse autonoma dal carisma del suo fondatore. Non ha voluto o potuto guidare il delicato passaggio dal carisma all'istituzione; in ogni caso, non ci è riuscito. Ancor oggi, o scende in campo il suo attempato fondatore, o la destra balbetta e perde, anche se una «domanda di destra» è forte nella società. Delle altre organizzazioni politiche non vale la pena di parlare. O sono il frutto di vecchi radicamenti ideologici e di domande circoscritte localmente e settorialmente, o sono partiti e movimenti ancor più personali e carismatici del Popolo delle libertà, funghi che nascono nel terreno irrigato dall'indignazione diffusa, alternative episodiche all'astensionismo e al rifiuto della politica.

Condivido dunque, nell'analisi e nello spirito, l'editoriale del 16 giugno di Luciano Fontana, ma farei un'eccezione: il Pd è ancora (e chissà per quanto) un grande partito, e di un partito svolge le principali funzioni. Ma questo aggrava, non attenua, le critiche che gli possono essere rivolte. Passare dal carisma all'istituzione, dal potere personale ad una solida struttura ideologica e organizzativa - il compito di Berlusconi - era un'operazione difficilissima, e il nostro «Cavaliere» non è un De Gaulle. Il compito che attendeva la leadership della sinistra di governo, dall'Ulivo al Partito democratico, nei vent'anni che sono passati dalla crisi politica del 1992-93, era invece accessibile a un ceto politico capace ed esperto come quello di origine comunista e democristiana.

Questo ceto - i D'Alema, i Veltroni, i Marini, le Bindi - sapeva benissimo che, creato un amalgama in cui si fossero scolorite le vecchie appartenenze, il problema principale era quello di tenere insieme due tendenze che si sarebbero inevitabilmente contrapposte in una sinistra riformista con «vocazione maggioritaria»: una tendenza con orientamento più liberale e un'altra con orientamento più socialdemocratico. L'accento qui cade sull'espressione «tenere insieme».

Un partito è una comunità d'intenti, e si è partito se si riconosce lo stesso spirito di parte, la stessa comunanza profonda, lo stesso soffio vitale, alle principali tendenze che in esso operano, non se si respinge una di esse al di fuori dei confini del partito, gabellando la tendenza più liberale come «destra».
Se questo è vero, e nonostante le capacità e i meriti che prima ho riconosciuto, il Pd è un grande partito, ma non è ancora un vero partito: nel Labour, nel Ps, nella Spd, nel Psoe si combatte, ma nessuno mette in dubbio l'appartenenza al partito delle diverse tendenze che in essi si confrontano.

Il caso Renzi è esemplare. Difficile negare che Renzi sia il migliore acchiappavoti che il Pd ha oggi a disposizione. Se nel prossimo congresso Renzi corresse per la segreteria e vincesse, quanti, nei circoli, tra i militanti, nei quadri intermedi, riconoscerebbero in lui il «loro» segretario e collaborerebbero con lealtà, se non con entusiasmo? Le bizantine polemiche di cui i giornali ci informano - sulle regole statutarie, sulle primarie... - hanno tutte a che fare con questo problema profondo. E se il Pd non lo risolve, il problema non è solo del Pd, ma della democrazia italiana: un vero partito sul lato della sinistra di governo aiuterebbe la formazione di un vero partito sul lato della destra, perché una tendenza politica così diffusa non può rimanere a lungo senza rappresentanza. Che il Pd risolva il suo problema è una speranza, naturalmente. Ma il realismo mi costringe a far mia la frase finale dell'editoriale di Fontana: «La speranza di una "democrazia normale" con due poli... che competono per conquistare il consenso degli elettori è sempre più lontana».

Michele Salvati
18 giugno 2013 | 8:03

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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_18/il-vero-partito-mai-nato_348d0dd0-d7d6-11e2-98e6-97ca5b2e4e27.shtml


Titolo: MICHELE SALVATI - Le sole armi in mano al premier La minaccia e il successo
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2014, 12:08:53 pm
Le sole armi in mano al premier
La minaccia e il successo

di MICHELE SALVATI

La sfida che Renzi si è proposto - e che può giustificare l’altrimenti incomprensibile sostituzione del suo governo a quello di Letta - richiede un coraggio che rasenta l’azzardo. E una buona dose di fortuna.

Per vincere la sfida - far tornare a galoppare, o almeno a trottare, lo stanco ronzino italiano - Renzi deve assolvere due compiti e deve assolverli con risorse politiche molto limitate. Il primo compito è di breve periodo - si conclude con le elezioni europee del maggio prossimo - e riguarda la situazione economica e politica interna: Renzi deve dare l’impressione di portare subito a casa risultati (meglio naturalmente se li porta a casa sul serio) che migliorino le condizioni di vita dei cittadini e li invoglino a votare a favore del governo e del partito di chi lo presiede. Altrimenti la sua avventura politica è finita o gravemente compromessa. Il secondo compito riguarda sia l’arena politica nazionale, sia quella europea e internazionale, e si gioca su un periodo più lungo, ma non troppo lungo: porre su solide fondamenta strutturali le prospettive di crescita del nostro Paese.

Dunque riforme radicali, che aumentino l’efficienza e riducano le spese del settore pubblico e la competitività di quello privato, che consentano misure di rilancio e di sostegno dei redditi le quali non aggravino il disavanzo. La fiducia europea e internazionale, la buona disposizione dei mercati verso l’Italia, dipendono da queste. Le risorse politiche di cui Renzi dispone per affrontare questi compiti sono però scarse e in particolare è debole il controllo sul suo gruppo parlamentare: lo si è visto nelle recenti votazioni sulla legge elettorale, dove almeno cinquanta deputati hanno votato contro le indicazioni del partito.

Come giocare al meglio questa debolezza? Credo che Renzi sia il primo a sapere che le sue uniche armi sono il successo e la minaccia. Di qui l’attenzione con cui guarda ai risultati delle elezioni europee e, più in generale, al consenso mediatico di cui per ora dispone. Di qui la costruzione di una strategia a due tempi, dove nel primo si concentrano misure di sicuro successo popolare e si è reticenti su quelle che dovranno essere adottate nel secondo: inutile crearsi nemici in anticipo. Se il passaggio delle europee sarà benedetto dalla dea bendata, il difficile percorso successivo non potrà che essere sostenuto da un uso coraggioso del potere di minaccia. La minaccia che, se il Parlamento non sostiene le riforme strutturali proposte, per quanto difficilmente digeribili da un ceto politico selezionato sulla base dell’«usato sicuro» di Bersani, si va tutti a casa, ci si assume la responsabilità di far tornare il Paese nel caos, con una legge maggioritaria alla Camera (nel frattempo sarà stata approvata) e una proporzionale al Senato, come risulta dalla sentenza della Corte Costituzionale. Renzi è ancora un mistero per molti parlamentari Pd e la minaccia potrebbe risultare credibile.

Dopo di che si comincerà a ballare, perché le riforme di cui si sta discutendo sono di una tale difficoltà e radicalità - un vero mutamento nella costituzione materiale del Paese - da far tremare i polsi anche ad un governo dotato di una investitura popolare plebiscitaria.

19 marzo 2014 | 07:30
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_19/minaccia-successo-e6578570-af2d-11e3-acd2-e7e31f2a922d.shtml


Titolo: Michele SALVATI - Passione, responsabilità, lungimiranza La disciplina della...
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2014, 08:55:24 am
Passione, responsabilità, lungimiranza
La disciplina della verità


Di Michele Salvati

«Bisogna dire la verità agli italiani». Non so quanti siano gli articoli che ho scritto su questo giornale e che si concludevano con quel ritornello: forse troppi. Li ho scritti quando al governo era Berlusconi e imperava una filosofia alla Mike Bongiorno («allegria!»); e quando al governo era la sinistra, un po’ più sobria ma che, con la verità, non aveva un rapporto molto diverso. «La verità mi fa male», cantava Caterina Caselli alla fine degli anni 60. Fa male a un politico dire agli italiani che per troppo tempo hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi - il debito ne è la conseguenza - e che, per rientrare e tornare a crescere, sarà necessario un lungo periodo di sofferenze, durante il quale molte istituzioni e rapporti cui si sono assuefatti dovranno essere radicalmente riformati. Nella politica, nella pubblica amministrazione, nell’istruzione, nella giustizia, nel Mezzogiorno, nella legislazione del lavoro, nell’impresa, e si può continuare. Le sofferenze, in realtà, sono iniziate da molto tempo: è almeno dall’inizio del secolo che il Paese ristagna e la prospettiva di un declino secolare si avvicina. Ma la ragione per cui gli italiani devono subirle - la verità, appunto - non è per loro ancora chiara. E ancor meno chiaro è se le riforme promesse saranno giuste e radicali quanto è necessario ad evitare che debbano subirle anche i loro figli. A partire da queste convinzioni - che mi sono formato attraverso lo studio delle origini del declino italiano - ho provato una forte sintonia con l’editoriale che Galli della Loggia ha scritto sul Corriere di lunedì scorso: «Dirsi in faccia un po’ di verità». Due domande, però, che rivolgo anche a me stesso.

La prima è ovvia: qual è la verità? In altre parole, qual è l’analisi più affidabile dei guasti che corrodono il nostro Paese e, di conseguenza, quali sono le aree nelle quali si dovrebbe intervenire con le riforme? E come? Un giudice, ma anche uno storico, sanno benissimo com’è difficile ricostruire la verità: nel film Rashomon, Akira Kurosawa ne ha dato una rappresentazione indimenticabile per la sua forza. Dagli esempi che Galli della Loggia riporta mi sembra di capire che la sua verità assomiglia abbastanza alla mia. E poi i guasti nelle istituzioni, nell’economia, nella società, nella cultura e nelle mentalità del nostro Paese sono così evidenti e macroscopici che dovrebbero bastare criteri elementari di efficienza e di giustizia - condivisi dalla gran parte dei nostri concittadini, quali che siano le loro convinzioni politiche - per farne una narrazione capace di ottenere un largo consenso. Temo che le cose siano un po’ più complicate di così, dato che in Italia circolano oggi tante «verità» partigiane, un quasi ossimoro. Ma ammettiamo, senza concederlo, che le cose siano abbastanza semplici da poter passare alla seconda domanda.

Basterà questa verità, questa narrazione, per «mobilitare le menti e i cuori degli italiani e in questo modo spingerli al rinnovamento e all’azione»? In altre parole - perché di questo si tratta - che cosa deve fare un politico dotato del carisma di Matteo Renzi? Se dire la «verità», e quanta verità dire, sia sufficiente a «mobilitare le menti e i cuori» in un Paese così frammentato culturalmente e politicamente diviso com’è l’Italia - è un giudizio che conviene lasciare al politico, perché questo - l’intuito per il consenso - è una parte essenziale del suo mestiere e di esso Renzi ha dimostrato sinora di essere ben provvisto. A noi come cittadini interessano altre parti del suo mestiere, anzi della sua vocazione: quelle che Max Weber descrive con la tripletta passione, responsabilità, lungimiranza. Passione vuol dire dedizione ad una causa esterna da sé (la vanità e la ricerca del potere di per se stesso è uno dei crimini del politico) e questa passione spero che Renzi ce l’abbia: la sobrietà con cui ha reagito alla grande vittoria elettorale delle Europee promette bene.

Responsabilità vuol dire che la causa che il politico si prefigge - nel caso nostro sollevare il Paese dall’infelice condizione in cui è caduto, e così facendo migliorare anche la situazione dei nostri concittadini più disagiati - dev’essere la stella polare del suo agire, l’unico metro con cui misura il suo personale successo. E lungimiranza vuol dire - la faccio breve - freddezza, realismo, capacità di valutazione distaccata. Le cose che Galli della Loggia vorrebbe che Renzi dicesse agli italiani - la «verità» - io vorrei che le pensasse lui e agisse in conseguenza, con la massima lungimiranza, astuzia e freddezza di cui è capace. Se non ne fosse intimamente convinto la tripletta weberiana lo porterebbe in direzione sbagliata: resterebbe un politico per vocazione, ma non il politico di cui oggi il Paese ha bisogno. Perplessità e preoccupazioni gli osservatori esterni - Galli della Loggia, chi scrive e tanti altri - è comprensibile che le abbiano e la mia maggiore è se Renzi, e il gruppo dirigente che ha portato al governo, abbiano le risorse tecniche e culturali adeguate al compito, alle fatiche di Ercole, che si sono addossati. Ma consigli non ne ho, se non quello di tenersi sul comodino il profondo e commovente saggio di Max Weber cui ho fatto riferimento: La politica come vocazione.

17 luglio 2014 | 08:40
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_17/disciplina-verita-1115f434-0d72-11e4-9f11-cba0b313a927.shtml


Titolo: SALVATI - Leonardi. Minori indennità, più certezza di giudizio: sì al Jobs act..
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2014, 05:32:38 pm
Minori indennità, più certezza di giudizio: sì al Jobs act alla tedesca

Di Michele Salvati e Marco Leonardi

È ricominciato nella commissione Lavoro del Senato l’iter legislativo del Jobs act , la legge delega sulle riforme della legislazione del lavoro proposta dal governo. La materia è molto ampia - va dagli ammortizzatori alle politiche attive, dalle semplificazioni normative al riordino dei contratti - ma è probabile che l’attenzione interna e internazionale si concentrerà soprattutto sulle tutele relative al licenziamento individuale. Insomma, riprenderà il tormentone sull’articolo 18, che non si è sopito neppure durante le ferie. Questa concentrazione politica e mediatica è eccessiva: altre materie sono importanti ed è poi l’insieme quello che conta. Ma siccome avverrà così, avanziamo una «modesta proposta» che potrebbe essere una buona via d’uscita per il governo. Renzi ha detto che il modello di riferimento per il mercato del lavoro è la Germania. Siamo d’accordo. Si pensi a come sarebbe efficace poter dire in sede europea, a chi rinfaccia al governo le sue resistenze in materia, che la disciplina italiana del licenziamento individuale è identica a quella tedesca.

L’articolo 18, inteso come protezione contro il licenziamento individuale senza giusta causa, esiste in tutti Paesi a democrazia avanzata, seppure con varia intensità. È poco credibile che l’Italia possa prendere a modello i Paesi anglosassoni, dove il licenziamento individuale è politicamente e culturalmente più accettato, ma non per questo senza regole. Può però «diventare come la Germania» e ci manca poco a raggiungere l’obiettivo: già la riforma Fornero aveva preso quel Paese come esempio e gran parte del percorso di avvicinamento è stato fatto. Anche in Italia è oggi obbligatorio un tentativo di conciliazione di fronte al giudice prima di andare in tribunale e la reintegrazione del lavoratore non è più necessaria in caso di licenziamento ingiustificato: nella maggioranza dei casi basta una indennità monetaria. La conciliazione obbligatoria funziona e più del 50% dei casi non arriva in tribunale, come in Germania. Nei casi che arrivano in giudizio, per la metà vincono i lavoratori e solo in pochi casi più gravi c’è la reintegrazione. Cosa manca dunque a diventare esattamente come la Germania? Anzitutto, si tratta di un problema rilevante?

I numeri dei licenziamenti ex articolo 18 in Italia sono molto bassi, meno di 10.000 all’anno. Ma questo non dimostra che l’attuale disciplina sia un problema irrilevante per le imprese, come sostengono i suoi difensori: molte imprese non si azzardano a fare licenziamenti individuali, che pure sarebbero per loro convenienti, per il timore di un possibile giudizio di reintegro. Inoltre l’indennità per il licenziamento è tra i 12 e i 24 mesi di salario, un’indennità ragionevole per i lavoratori anziani ma molto alta per chi è in azienda da poco tempo. Per «diventare come la Germania» possiamo allora limitarci a due modifiche dell’attuale disciplina, che non ci sembrano politicamente impossibili nelle attuali condizioni.

Non è necessario impedire al lavoratore di impugnare in giudizio un licenziamento individuale per motivi economici. Anche in Germania lo si può fare e nei casi di ingiustizia più grave si può ottenere anche la reintegrazione nel posto di lavoro. Si deve però ridurre l’incertezza del giudizio, perché in Germania, di fatto, l’incertezza è poca, i sindacati sono collaborativi e i giudici normalmente prendono per buone le motivazioni dell’imprenditore. In Spagna hanno risolto la questione scrivendo nella legge che, se l’azienda è in perdita, ciò costituisce di per sé una giusta causa di licenziamento. Solo se l’azienda è in perdita? Non potrebbe essere un giustificato motivo quello di adattare la forza lavoro al mutamento della situazione economica, così com’è valutata dall’imprenditore? Possibile che non ci sia un modo per ridurre l’arbitraria sostituzione della valutazione del giudice a quella dell’imprenditore?
In secondo luogo, per «fare come la Germania», è necessario ridurre l’indennità di licenziamento per i lavoratori con poca anzianità di servizio: per dare un’idea, se un lavoratore è in azienda da sei mesi l’indennità di licenziamento potrebbe essere di un mese e così via. Se è questo il contratto unico a tutele crescenti, allora ci si avvicina alla Germania, dove c’è la stessa quantità di contratti a termine dell’Italia e non ci si è mai preoccupati di un contratto unico a tutele crescenti: si possono lasciare le regole vigenti per i contratti a termine anche in Italia, con un limite di rinnovo fino a tre o cinque anni. Se è ottimista sul futuro, è probabile che l’azienda decida di stabilizzare il lavoratore con un contratto a tempo indeterminato: le aziende decidono le stabilizzazioni più in riferimento alle prospettive di crescita che al costo del lavoro. Se poi quelle prospettive non si realizzassero, non si tratterebbe di un rischio intollerabile perché si potrebbe procedere a licenziamenti individuali con ragionevole certezza e a costi accettabili.

Due sole modifiche, dunque. Anzi, a rigore, una sola, perché in astratto un cambio nell’atteggiamento dei giudici e del sindacato potrebbe avvenire anche a legislazione vigente. Ma, siccome è difficile che ciò avvenga dopo una lunga storia di conflitti e sospetti, lo si può stimolare con regole che inducano giudici e sindacato ad un atteggiamento meno ostile nei confronti delle decisioni aziendali. Pietro Ichino è convinto che il suo «contratto di ricollocazione» risolverebbe il problema. Potrebbe essere. L’importante è che imprenditori onesti, che vivono in un ambiente difficile, si convincano che il giudice riconoscerà le buone ragioni economiche che li hanno indotti ad un licenziamento individuale. E solo allora saremo diventati... «come la Germania». Almeno in questo.

7 settembre 2014 | 12:31
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_settembre_07/minori-indennita-piu-certezza-giudizio-si-jobs-act-tedesca-1f497e7a-3678-11e4-b5da-50af8bd37951.shtml


Titolo: Michele Salvati Un po’ di comprensione per le fatiche di Renzi
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2014, 05:31:12 pm
Progetti
Un po’ di comprensione per le fatiche di Renzi

Di Michele Salvati

In un recente articolo ho usato la metafora della sesta fatica di Ercole — la meno eroica ma la più difficile — per dare un’idea della situazione in cui si trova chi voglia tornare a far crescere il nostro Paese. Per ripulire le stalle di re Augia, Ercole ricorse a un metodo drastico: deviò due fiumi e ne fece passare le correnti attraverso le stalle. Un metodo rapido e efficace. Un metodo altrettanto rapido ed efficace non esiste per l’Italia: una corrente vorticosa, insieme alla sporcizia, si porterebbe via le stalle. Fuor di metafora, ci porterebbe al disastro. E questo per due motivi principali.

Il primo è per la situazione internazionale in cui viviamo e per i trattati che abbiamo sottoscritto in sede europea. In gran parte degli economisti è ormai prevalente la convinzione che la moneta unica, e le regole che la disciplinano, siano state un errore, e che l’austerità che esse inducono condannino l’intera Europa, ma soprattutto i Paesi meno efficienti e competitivi, a una progressiva asfissia. Ma non potremmo uscire dalla gabbia dei trattati? Certo, questo non risolverebbe il problema della scarsa efficienza del nostro sistema-Paese e le riforme sarebbero ancora necessarie se si ambisce a una crescita non effimera; ma intanto potremmo respirare e distribuire l’impoverimento che consegue a ogni svalutazione su tutti i cittadini, e non solo sui lavoratori, che è quanto ora stiamo facendo. Questo suggerimento non viene solo dall’estrema sinistra, o da incompetenti di economia. Viene anche da un noto rappresentante dell’«ideologia tedesca», direttore del più importante istituto di ricerca economica del suo Paese, Hans-Werner Sinn: ma anche il suo ponderoso e documentato libro (The Euro Trap, Oxford University Press) non risponde all’interrogativo se la catastrofe finanziaria che conseguirebbe al solo sospetto che alcuni importanti Paesi intendono uscire dalla moneta unica non sia assai peggio dell’asfissia in cui ci troviamo: allora sì che il vortice delle fughe di capitali, della speculazione, dei fallimenti bancari, si porterebbe via le nostre fragili stalle. Per fortuna non credo che Renzi, per quanto a volte dia l’idea di volersi staccare dalle gonne della Merkel — e fa bene a darla — abbia l’intenzione di staccarsi dai pantaloni di Draghi.

Ma perché sono così fragili le nostre stalle e così poco adatte a misure di rafforzamento rapide e risolutive, misure che ci consentirebbero di essere competitivi e crescere anche sotto la disciplina della moneta unica? Lo sono perché sono piene di crepe da tutte le parti, perché le inefficienze sono diffuse in quasi tutti i comparti del nostro sistema-Paese. È dal fallimento del centrosinistra, da più di quarant’anni, che l’Italia vive alla giornata, che la lotta politica riguarda non diversi progetti di futuro ma diverse modalità di ottenere — a spese dello Stato e gonfiando la spesa corrente — un consenso elettorale nel presente. E anche quando si ruppe l’infausto equilibrio politico della Prima Repubblica, e i primi otto anni di moneta unica ci regalarono risorse eccezionali a seguito del crollo dei tassi di interesse, queste furono sprecate per ottenere consenso, non per mettere in sicurezza il Paese. E poi, nel 2008, è arrivata la crisi finanziaria americana e la festa è finita.




Dunque crepe da tutte le parti, non un singolo grande ostacolo su cui concentrare le scarse risorse di cui disponiamo, ma numerose inefficienze e ingiustizie (le due vanno spesso insieme) da affrontare con un doloroso bisturi, e non con una semplice sciabolata. Inefficienze e ingiustizie nel settore pubblico e privato: nel regime fiscale, nella scuola, nella giustizia, in quasi tutti i comparti della pubblica amministrazione, nella legislazione sul lavoro e sul welfare, nelle imprese e nel sistema finanziario, nel Mezzogiorno — e sarebbe impietoso continuare — tutte dovute all’assenza di un progetto di futuro che avrebbe consentito un lavoro continuo di manutenzione, di indirizzo e investimento. Ora la manutenzione ordinaria si è trasformata in straordinaria, di grasso che cola ce n’è poco, e il bisturi ancor più doloroso. E soprattutto i tempi in cui le riforme manifesteranno i loro effetti benefici saranno molto lunghi se l’austerità europea non viene rapidamente rovesciata, il che è improbabile: gli effetti di quarant’anni di vista corta, avrebbe detto Tommaso Padoa-Schioppa, non si cancellano in un breve periodo. La difficoltà nel far passare le riforme, la lentezza dei loro tempi, l’impossibilità di presentare risultati tangibili subito, sono una dannazione per un politico che voglia mantenere un continuo consenso elettorale, inducendolo a strafare con presenzialismo mediatico e annunci. Uno strafare che spesso dà fastidio anche a me.

Questa è la situazione in cui si trova Renzi e, se non mi sorprende la reazione dei rottamati, degli spodestati, degli aggrediti — ex leader, sindacati, mandarini di Stato, giudici, settori dell’imprenditoria — un poco mi meraviglia lo scarso sostegno dei principali organi d’opinione. «Nella pentola che bolle c’è solo acqua», titola Scalfari il suo articolo di domenica scorsa. Ma, appunto, l’acqua bolle ed è predisposta a cuocere le riforme che Renzi ha già lanciato o annunciato, elettorali, costituzionali, del lavoro, della pubblica amministrazione. E non sono acqua fresca — al contrario, bollente — le battaglie che Renzi sta conducendo nel suo partito. Se avranno successo, trasformeranno un raggruppamento conservatore di ex democristiani ed ex comunisti in un moderno partito di sinistra europea, come aveva tentato di fare Veltroni: del tutto condivisibile l’editoriale di Angelo Panebianco domenica scorsa sul Corriere. E infine il disegno strategico è chiaro, ivi incluso l’accordo politico con Berlusconi: sta ora al centrodestra darsi una forma che gli consenta di combattere efficacemente con il Pd nel contesto bipolare e nel modello costituzionale che hanno deciso di costruire insieme.

1 ottobre 2014 | 12:13
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DA - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_01/po-comprensione-le-fatiche-renzi-408addfa-4937-11e4-bbc4-e6c42aa8b855.shtml


Titolo: Michele SALVATI - Un po’ di comprensione per le fatiche di Renzi
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2014, 07:48:03 pm
Progetti
Un po’ di comprensione per le fatiche di Renzi

Di Michele Salvati

In un recente articolo ho usato la metafora della sesta fatica di Ercole — la meno eroica ma la più difficile — per dare un’idea della situazione in cui si trova chi voglia tornare a far crescere il nostro Paese. Per ripulire le stalle di re Augia, Ercole ricorse a un metodo drastico: deviò due fiumi e ne fece passare le correnti attraverso le stalle. Un metodo rapido e efficace. Un metodo altrettanto rapido ed efficace non esiste per l’Italia: una corrente vorticosa, insieme alla sporcizia, si porterebbe via le stalle. Fuor di metafora, ci porterebbe al disastro. E questo per due motivi principali.

Il primo è per la situazione internazionale in cui viviamo e per i trattati che abbiamo sottoscritto in sede europea. In gran parte degli economisti è ormai prevalente la convinzione che la moneta unica, e le regole che la disciplinano, siano state un errore, e che l’austerità che esse inducono condannino l’intera Europa, ma soprattutto i Paesi meno efficienti e competitivi, a una progressiva asfissia. Ma non potremmo uscire dalla gabbia dei trattati? Certo, questo non risolverebbe il problema della scarsa efficienza del nostro sistema-Paese e le riforme sarebbero ancora necessarie se si ambisce a una crescita non effimera; ma intanto potremmo respirare e distribuire l’impoverimento che consegue a ogni svalutazione su tutti i cittadini, e non solo sui lavoratori, che è quanto ora stiamo facendo. Questo suggerimento non viene solo dall’estrema sinistra, o da incompetenti di economia. Viene anche da un noto rappresentante dell’«ideologia tedesca», direttore del più importante istituto di ricerca economica del suo Paese, Hans-Werner Sinn: ma anche il suo ponderoso e documentato libro (The Euro Trap, Oxford University Press) non risponde all’interrogativo se la catastrofe finanziaria che conseguirebbe al solo sospetto che alcuni importanti Paesi intendono uscire dalla moneta unica non sia assai peggio dell’asfissia in cui ci troviamo: allora sì che il vortice delle fughe di capitali, della speculazione, dei fallimenti bancari, si porterebbe via le nostre fragili stalle. Per fortuna non credo che Renzi, per quanto a volte dia l’idea di volersi staccare dalle gonne della Merkel — e fa bene a darla — abbia l’intenzione di staccarsi dai pantaloni di Draghi.

Ma perché sono così fragili le nostre stalle e così poco adatte a misure di rafforzamento rapide e risolutive, misure che ci consentirebbero di essere competitivi e crescere anche sotto la disciplina della moneta unica? Lo sono perché sono piene di crepe da tutte le parti, perché le inefficienze sono diffuse in quasi tutti i comparti del nostro sistema-Paese. È dal fallimento del centrosinistra, da più di quarant’anni, che l’Italia vive alla giornata, che la lotta politica riguarda non diversi progetti di futuro ma diverse modalità di ottenere — a spese dello Stato e gonfiando la spesa corrente — un consenso elettorale nel presente. E anche quando si ruppe l’infausto equilibrio politico della Prima Repubblica, e i primi otto anni di moneta unica ci regalarono risorse eccezionali a seguito del crollo dei tassi di interesse, queste furono sprecate per ottenere consenso, non per mettere in sicurezza il Paese. E poi, nel 2008, è arrivata la crisi finanziaria americana e la festa è finita.

Dunque crepe da tutte le parti, non un singolo grande ostacolo su cui concentrare le scarse risorse di cui disponiamo, ma numerose inefficienze e ingiustizie (le due vanno spesso insieme) da affrontare con un doloroso bisturi, e non con una semplice sciabolata. Inefficienze e ingiustizie nel settore pubblico e privato: nel regime fiscale, nella scuola, nella giustizia, in quasi tutti i comparti della pubblica amministrazione, nella legislazione sul lavoro e sul welfare, nelle imprese e nel sistema finanziario, nel Mezzogiorno — e sarebbe impietoso continuare — tutte dovute all’assenza di un progetto di futuro che avrebbe consentito un lavoro continuo di manutenzione, di indirizzo e investimento. Ora la manutenzione ordinaria si è trasformata in straordinaria, di grasso che cola ce n’è poco, e il bisturi ancor più doloroso. E soprattutto i tempi in cui le riforme manifesteranno i loro effetti benefici saranno molto lunghi se l’austerità europea non viene rapidamente rovesciata, il che è improbabile: gli effetti di quarant’anni di vista corta, avrebbe detto Tommaso Padoa-Schioppa, non si cancellano in un breve periodo. La difficoltà nel far passare le riforme, la lentezza dei loro tempi, l’impossibilità di presentare risultati tangibili subito, sono una dannazione per un politico che voglia mantenere un continuo consenso elettorale, inducendolo a strafare con presenzialismo mediatico e annunci. Uno strafare che spesso dà fastidio anche a me.

Questa è la situazione in cui si trova Renzi e, se non mi sorprende la reazione dei rottamati, degli spodestati, degli aggrediti — ex leader, sindacati, mandarini di Stato, giudici, settori dell’imprenditoria — un poco mi meraviglia lo scarso sostegno dei principali organi d’opinione. «Nella pentola che bolle c’è solo acqua», titola Scalfari il suo articolo di domenica scorsa. Ma, appunto, l’acqua bolle ed è predisposta a cuocere le riforme che Renzi ha già lanciato o annunciato, elettorali, costituzionali, del lavoro, della pubblica amministrazione. E non sono acqua fresca — al contrario, bollente — le battaglie che Renzi sta conducendo nel suo partito. Se avranno successo, trasformeranno un raggruppamento conservatore di ex democristiani ed ex comunisti in un moderno partito di sinistra europea, come aveva tentato di fare Veltroni: del tutto condivisibile l’editoriale di Angelo Panebianco domenica scorsa sul Corriere. E infine il disegno strategico è chiaro, ivi incluso l’accordo politico con Berlusconi: sta ora al centrodestra darsi una forma che gli consenta di combattere efficacemente con il Pd nel contesto bipolare e nel modello costituzionale che hanno deciso di costruire insieme.

1 ottobre 2014 | 12:13
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_01/po-comprensione-le-fatiche-renzi-408addfa-4937-11e4-bbc4-e6c42aa8b855.shtml


Titolo: Michele SALVATI - La sindrome greca Se si tratta meglio chi è contro
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2015, 04:53:02 pm
La sindrome greca
Se si tratta meglio chi è contro

Di Michele Salvati

Alla luce di quanto è avvenuto dal 2008 in poi, credo siano rimasti pochi economisti a sostenere che l’adesione al trattato di Maastricht sia stata una scelta conveniente per il nostro Paese: a metà degli anni Novanta, durante l’affannosa rincorsa dei mitici «parametri», coloro che sostenevano l’opposto erano la grande maggioranza e l’ammissione al club dell’euro, alla fine del 1997, fu vista come un grande successo, politico ed economico. Ora la maggioranza ha cambiato idea e pensa che, se fosse possibile farlo senza incorrere in costi insopportabili, dovremmo uscire dal Sistema monetario europeo (Sme) com’è oggi definito.

Come mai la moneta unica si sia rivelata una grande delusione, dopo essere apparsa come una grande speranza, è questione cui ora posso dedicare solo un accenno. Poiché i Paesi appartenenti all’eurozona non si trovano d’accordo sulla trasformazione dell’Unione Europea in un vero Stato federale - il grado di fiducia e di solidarietà tra i cittadini dei diversi Paesi è troppo scarso - la gestione della moneta è soggetta a regole attente a evitare che ogni singolo Paese approfitti opportunisticamente dell’unità monetaria, scaricando sugli altri i costi della sua inefficienza. Regole sulla cui interpretazione lo scontro è aperto. Se domina l’interpretazione restrittiva prevalente in Germania, per i Paesi più deboli la conseguenza è il ristagno economico, e in condizioni di ristagno è molto difficile attuare le riforme strutturali cui potrebbe conseguire, nel lungo periodo, una maggiore crescita. A questa situazione di asfissia le possibilità di reagire sono limitate, perché lo Sme è un edificio costruito senza scale di sicurezza: in casi estremi - lo si voglia o no - un Paese in crisi potrebbe arrivare all’uscita dall’euro e al ritorno alla moneta nazionale. Si tratterebbe di una catastrofe, ma con conseguenze serie anche per i Paesi creditori, i cui sistemi finanziari sarebbero minacciati dall’insolvenza del debitore.

La minaccia di estensione della crisi all’intero sistema può dunque essere un’arma nelle mani del debitore, che potrebbe ottenere una rinegoziazione del debito: ciò è già avvenuto e potrebbe avvenire ancora in Grecia, a seguito di una vittoria di Syriza nelle prossime elezioni. Il potere di minaccia di quel Paese è però limitato dalle sue stesse dimensioni: un «Grexit», una uscita della Grecia dall’euro, avrebbe esiti drammatici in Grecia, gravi ma gestibili negli altri Paesi dell’eurozona. È allora probabile che Syriza, se vincerà le elezioni, ammorbidisca la sua posizione e che si arrivi ad una sostanziale conferma delle condizioni ora imposte dalla troika, modificate quanto basta a non far perdere la faccia al governo greco che condurrà la negoziazione.

Ogni gioco di brinkmanship, di negoziazione con minaccia di possibili esiti dannosi per entrambi i giocatori, è diverso dall’altro e i teorici dei giochi si stanno divertendo a modellarne alcuni per i numerosi Paesi che si trovano in difficoltà nell’euro. L’Italia è imparagonabile alla Grecia, sia per il suo peso economico sia perché il suo governo, pur critico dell’attuale funzionamento dell’eurozona, esclude azioni che possano condurre al suo abbandono. A differenza di «Grexit», una minaccia di «Itexit» - anche se formulata da due partiti non marginali, Lega e 5 Stelle - per ora non sta nelle possibilità prese in considerazione dagli osservatori e di conseguenza lo stesso termine non è neppure stato coniato. Ma poiché l’Italia ha lo stesso interesse della Grecia ad allentare il corsetto di rigore in cui è costretta, si può porre la domanda se essa abbia giocato bene le sue carte, facendo leva sulle meno sfavorevoli condizioni in cui si trova.

La domanda è stata risollevata nei giorni scorsi, a conclusione del semestre italiano, con evidente sopravvalutazione del ruolo che questa istituzione gioca nell’attuale architettura dell’Unione: già prima, ma soprattutto dopo il trattato di Lisbona, si tratta più di una vetrina degli orientamenti politici prevalenti nel Paese cui è attribuito il semestre che una sede di reale potere. Una vetrina che Salvini e Grillo hanno utilizzato per contestare grossolanamente il discorso conclusivo che Renzi ha rivolto al Parlamento europeo il 13 scorso.

Una valutazione equilibrata dovrà attendere: al momento è possibile dire che il capitale di influenza guadagnato da Renzi con il risultato nelle elezioni del 25 maggio e la politicizzazione del gioco parlamentare europeo che egli ha assecondato, non hanno dato risultati irrilevanti in campo macroeconomico: investimenti e flessibilità sono diventate parole chiave del lessico europeo e, proprio il giorno dopo la chiusura del semestre italiano, la Commissione europea ha presentato nuove linee guida per l’applicazione del patto di Stabilità e Crescita, linee che offrono flessibilità addizionale a Paesi come l’Italia che si trovano in una situazione ciclica sfavorevole ma rispettano il parametro del 3% fissato nel trattato di Maastricht.
Lo stesso giorno, è stata anche approvata una proposta di regolamento del Fondo europeo per gli investimenti strategici (il piano Juncker) che avrà conseguenze favorevoli per i Paesi fortemente indebitati e con tassi di crescita al di sotto del potenziale. Se questi risultati - insieme ad altri in diversi campi - giustifichino un giudizio di successo italiano è questione che va valutata alla luce di quanto era realistico sperare.

17 gennaio 2015 | 07:36
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_17/euro-sme-se-si-tratta-meglio-contro-editoriale-corriere-salvati-17-gennaio-2015-dafa44e2-9e10-11e4-a48d-993a7d0f9d0e.shtml


Titolo: Michele SALVATI - Le illusioni da evitare per ristrutturare l’edificio ...
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2015, 05:35:07 pm
L’Unione imperfetta
Le illusioni da evitare per ristrutturare l’edificio dell’Europa
Tre scommesse, tutte perse, avevano spinto ad aderire alla moneta unica.
Studiandole si potrà cogliere un’occasione storica di cambiamento, quella fornita dal voto di Atene

Di Michele Salvati

Quali saranno le conseguenze delle elezioni greche sui Paesi dell’eurogruppo, e soprattutto sui più deboli, nessuno è oggi in grado di prevedere: dalle prime reazioni dei mercati, delle autorità europee e dei Paesi più forti — della Germania soprattutto —, sembrerebbe esclusa una catastrofe imminente. Ma molte cose possono andare storte se il nuovo governo greco non si rimangerà gran parte delle sue promesse elettorali nelle negoziazioni con la troika. Se così non farà, e se l’atteggiamento europeo sarà poco flessibile, i rischi di guai seri saranno soltanto rimandati. Essendo troppe le variabili in gioco, guardare avanti è impossibile. È possibile invece guardare indietro e trarre qualche lezione, per noi e per i Paesi in condizioni simili alle nostre, dalla (sinora) breve storia dell’Unione monetaria europea.

Alcuni colleghi hanno trovato eccessive le affermazioni di un mio recente articolo (Corriere, 17 gennaio): che è stato un errore aderire al trattato di Maastricht e che, se fosse possibile farlo senza incorrere in costi esorbitanti, dovremmo uscire dalla moneta unica. A quell’errore ho partecipato: negli anni 90, la convenienza ad aderire al Trattato — data la situazione di inflazione latente e gli alti tassi d’interesse che eravamo costretti a pagare — mi sembrava ovvia. Non mi rendevo però conto che, nel lungo periodo, tale convenienza era legata a tre scommesse, tutte perse, dunque a tre illusioni.

La prima era che la favorevole situazione economica internazionale che accompagnò la nascita della moneta europea durasse indefinitamente. Ci eravamo dimenticati delle analisi di Keynes e di Minsky, dell’instabilità congenita del capitalismo, degli squilibri reali e finanziari che stavano montando. Quando esplose, nel 2008, la crisi finanziaria americana rapidamente si trasmise all’Europa, in un mondo ormai strettamente interconnesso i capitali cominciarono ad abbandonare gli investimenti nei Paesi più fragili dell’eurozona. Erano in euro, è vero, ma l’Europa non era uno Stato sovrano e non c’era una Banca centrale costretta a intervenire per difenderli, non c’era un prestatore di ultima istanza. Cominciò allora la divaricazione (spread) tra i rendimenti e iniziarono a crescere gli oneri a carico degli Stati più indebitati e più fragili. Già, ma perché negli anni favorevoli, tra il 1999 e il 2007, questi Stati non si erano dati maggiormente da fare per ridurre il proprio indebitamento e, più in generale, per aumentare la propria competitività?

E qui si rese evidente la seconda illusione: rimediare ai guasti di un passato di cattiva gestione economica e di debolezza strutturale non è per nulla semplice, e sicuramente non è rapido. Nelle migliori élite italiane circolò a lungo l’idea che il «corsetto» dell’euro avrebbe indotto i governanti a una gestione più responsabile delle finanze pubbliche (la famosa metafora di Ulisse che si fa legare all’albero maestro per non cedere alle lusinghe delle sirene). Si vide però assai presto, nella legislatura 2001-2006, che il corsetto non teneva e che il confortevole avanzo primario della precedente legislatura veniva rapidamente dilapidato.

Non voglio farne una questione di parte, perché dubito che un governo di centrosinistra si sarebbe comportato in modo molto diverso: troppo invitante è l’uso della spesa pubblica per assicurarsi consenso politico. Trasformare un Paese «vizioso» in uno virtuoso, quando non ci sono ragioni impellenti per stringere la cinghia, è uno sforzo politico sovrumano e richiede o un consenso sociale straordinario (quello inglese ai tempi della guerra, del «sudore, lacrime e sangue ») o un dittatore benevolo, più che un normale leader democratico. O entrambi. Ma non avrebbe potuto l’Unione — e i Paesi più forti dell’eurogruppo — venire in soccorso del Paese (temporaneamente?) in crisi e sotto attacco speculativo?

Questa è la terza illusione, la terza scommessa irrealistica, quella di scambiare il sogno di un’Europa federale con la realtà, una realtà in cui un demos europeo è molto debole, la politica è ancora largamente un affare nazionale, i sospetti e i pregiudizi dei singoli Paesi dell’Unione nei confronti degli altri sono molto forti. Se persino una parte del popolo italiano — quella rappresentata dalla Lega — protesta contro lo sforzo di mutualità richiesto alle regioni più ricche a sostegno di quelle più povere, e questo dopo 150 anni di unità politica, come illudersi che la Germania avrebbe potuto comportarsi diversamente con l’Italia?

Gli economisti si saranno accorti che mi sono limitato a riformulare diversamente parte degli argomenti secondo i quali l’Europa dell’euro non è un’area valutaria ottimale e dunque un’unione monetaria vincolante è difficilmente sostenibile. Questa è la lezione riassuntiva che i Paesi più fragili dell’eurogruppo dovrebbero trarre dall’esperienza dei quindici anni di moneta unica. La crisi provocata dalle elezioni greche può essere una occasione per ristrutturare l’intero edificio costruito a Maastricht. Una ristrutturazione che non abbisogni, per funzionare, delle tre scommesse illusorie che ho appena descritto.

28 gennaio 2015 | 09:32
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_gennaio_28/illusioni-evitare-ristrutturare-l-edificio-dell-europa-de467ea6-a6c4-11e4-93fc-9b9679dd4aa0.shtml


Titolo: Michele SALVATI - Il programma di Renzi che può piacere anche al centrodestra
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:40:41 pm
I limiti della competizione
Il programma di Renzi che può piacere anche al centrodestra
Il fatto che il Pd si sia collocato in una posizione centrista e fortemente innovatrice riduce gli spazi per un partito dei moderati che voglia mantenere una chiara identità europea

Di Michele Salvati

Renzi ha promesso che metterà il turbo alle riforme. Glielo lasceranno mettere? La vittoria nella battaglia del Quirinale ha provocato risentimenti e illusioni, risentimenti a destra e illusioni a sinistra. Ma la politica non si fa né con gli uni né con le altre e le riforme annunciate dovrebbero passare: forse non con il turbo, e sicuramente non le migliori possibili, ma la marcia di Renzi potrebbe procedere spedita, a meno di una improbabile coalizione di tutti i risentiti e gli illusi. La legge elettorale si trova ora alla Camera, e qui il governo cercherà di evitare modifiche che la rispediscano al Senato. La partita del Jobs act è virtualmente conclusa. La riforma fiscale e quella delle banche popolari hanno una logica di semplificazione e di efficienza difficilmente contestabili nel merito e si tratta solo di smontare sospetti antichi e incrostazioni corporative che ora le intralciano. La battaglia decisiva sarà quella sul Senato e nel Senato, dove la lunghezza dei tempi e l’aggiunta ai risentiti e agli illusi degli interessati a che nulla cambi metteranno duramente alla prova le capacità politiche del presidente del Consiglio.

Ci sarà dunque da divertirsi, per chi si diverte con la politique politicienne. Volevo però spingere lo sguardo oltre il breve periodo, oltre questa legislatura, e ragionare dell’assetto politico futuro del nostro Paese, se le riforme istituzionali in programma passeranno. Ma prima dev’essere ricordato il contesto europeo e internazionale.

Qualora l’euro resista alla crisi greca e ai prossimi scossoni elettorali (in Spagna nel novembre di quest’anno e in Francia nel maggio del 2017), non ci aspetta un contesto radicalmente diverso da quello in cui siamo ora: al massimo possiamo sperare in una lenta riduzione dell’asfissia, se la situazione internazionale continuerà ad essere favorevole (euro e prezzi del petrolio in discesa), se i tedeschi — sotto una minaccia realistica di catastrofe — troveranno conveniente attenuare le politiche di austerità cui costringono l’unione monetaria, e se le riforme strutturali, lentamente, miglioreranno l’efficienza e la competitività del nostro Paese. Sono tre «se» importanti, sui quali il partito filo-europeo scommette. Ormai dovrebbe essere chiaro anche a un bambino che oggi il discrimine politico più rilevante tra i partiti europei è la collocazione di fatto sul fronte pro o anti euro: di fatto, sottolineo, perché non hanno senso dichiarazioni di voler restare nella moneta unica se poi si promettono politiche che ci porterebbero fuori.

Il Pd di Renzi si è collocato credibilmente nel fronte filo-euro e, se pur si batte per un ammorbidimento dell’austerità, procede speditamente sul piano delle riforme strutturali, il terzo «se» di cui dicevo. Dati i problemi che ci portiamo appresso a seguito delle dissennatezze del passato recente e le fragilità strutturali antiche del nostro Paese, dato il cattivo funzionamento della macchina amministrativa e di governo, le politiche da perseguire non consentono molte alternative, ed in particolare due strategie nettamente distinte di «destra» o di «sinistra»: si tratta fondamentalmente di politiche volte ad accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione, la produttività delle imprese, la qualità dei fattori di produzione nazionali. L’essersi collocato il Pd in una posizione centrista e fortemente riformista — l’ostilità della sinistra interna ne fa fede — riduce gli spazi per un partito di centrodestra che voglia mantenere una chiara identità europeista: se non è zuppa è pan bagnato, due minestre con profumi diversi ma fondamentalmente indirizzate allo stesso obiettivo di efficienza, almeno sotto il profilo delle politiche economico-sociali.

La legge elettorale del Nazareno era stata pensata per due partiti di questo tipo, e contro i populisti e antieuropeisti che inevitabilmente emergono in un Paese in difficoltà. Il premio dato alla lista e non alla coalizione dovrebbe essere un forte incentivo affinché l’intera area di centrodestra si ricompatti in un unico partito, che voglia rappresentare il punto di riferimento del vasto popolo che preferisce il profumo di destra a quello di sinistra. Un popolo che però vuole «un progresso senza avventure» e non essere costretto a scegliere tra un partito «moderato» di sinistra e un partito «avventurista» di destra, come la Lega. Le baruffe chiozzotte tra (e dentro) Ncd e Forza Italia, i risentimenti e i personalismi dei vari colonnelli, l’attenzione esclusiva alle sconfitte del presente e non alle possibili vittorie del futuro, per ora non consentono di scommettere su uno sviluppo in questa direzione. E poi ci si lamenta perché Renzi vorrebbe fare del Pd il «partito della nazione»: senza un grande e credibile partito di centrodestra, lo è già.

9 febbraio 2015 | 08:50
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_febbraio_09/programma-renzi-che-puo-piacere-anche-centrodestra-1754c658-b02f-11e4-8615-d0fd07eabd28.shtml


Titolo: Michele SALVATI - MATTEO RENZI Un politico abile o uno statista? ...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 27, 2015, 11:26:40 am
MATTEO RENZI

Un politico abile o uno statista? Dipende dalla classe dirigente
L’ex sindaco di Firenze è riuscito ad aprire il partito all’esterno. La sfida è trasmettere ai militanti lo spirito delle sue riforme. Il tempo dirà se siamo di fronte a un nuovo Giolitti o De Gasperi

Di Michele Salvati

A giudicare dalle ultime mosse, è probabile che la partita a scacchi sul Senato si concluderà con una sostanziale vittoria del presidente del Consiglio, il quale porterà a casa i risultati cui maggiormente tiene: esclusione del Senato dal circuito fiduciario ed elezioni di secondo grado per i suoi membri.

Nel merito si poteva far meglio, ma il clima esasperato del dibattito — uno scontro all’ultimo sangue pro o contro Renzi, il «Renzi Sì / Renzi No» di cui dicevo in un precedente articolo — ha impedito la discussione pacata che l’argomento avrebbe meritato. In queste condizioni di tensione l’esito era prevedibile: come scacchista, come tattico-politico, Matteo Renzi non ha rivali, e probabilmente riuscirà anche ad evitare (per ora) una scissione seria nel Partito democratico. La domanda vera va però oltre la partita del Senato ed è di natura più generale: oltre a vincere, Renzi riesce anche a convincere?

Nessuno dubita delle sue qualità come politico puro. Ma è anche un uomo di Stato, con una visione al tempo stesso attraente e realistica del Paese che intende guidare nella difficile strada che lo dovrebbe condurre fuori dal declino? Le riforme che ha fatto, impostato o promesso sono passaggi necessari per procedere su questa strada? Non basta infatti sgolarsi a ribadire il proprio ottimismo, la fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell’Italia: questo è parte dell’armamentario populista standard di cui la politica democratica deve oggi avvalersi e somiglia non poco all’«Allegria, allegria!» che Berlusconi aveva preso in prestito da Mike Bongiorno.

Bisogna anche essere consapevoli delle difficoltà che si frappongono al tentativo di riportare il nostro Paese sulla strada di crescita e di modernizzazione che aveva imboccato nel primo dopoguerra, fino a metà degli anni 60, e che poi classi dirigenti inadeguate gli hanno fatto smarrire. Sarà in grado Renzi, come Giolitti alla fine dell’800 e De Gasperi in questo dopoguerra, di assecondare una grande ondata di modernizzazione e con essa la crescita di una «classe dirigente adeguata», come l’avrebbe definita Raffaele Mattioli?

Una risposta negativa a questa domanda non proviene solo da coloro che hanno un ovvio interesse a darla, dai politici degli altri partiti o da quelli che Renzi ha spodestato nel proprio. Proviene anche da osservatori e commentatori «indipendenti» che, immagino, troveranno stravagante il confronto tra i grandi statisti appena ricordati e un baldanzoso giovanotto fiorentino privo dello spessore culturale e della gravitas che essi ritengono connaturati a un vero uomo di Stato.

Ovviamente quel confronto è una provocazione, anche perché in quale misura un politico abbia le qualità di statista lo si può decidere solo dopo molto tempo, alla luce degli effetti che i suoi governi hanno prodotto. Una provocazione che esprime però un serio invito a sospendere il giudizio. Non è escluso, anzi, data la difficoltà del compito, è perfettamente possibile che l’esperimento vada a finir male; ma inviterei a riflettere sulle straordinarie innovazioni che Renzi ha introdotto nella politica italiana, specie in quella di sinistra. Ha trasformato un partito tutto rivolto al proprio interno, agli equilibri tra le due componenti ideologiche che conteneva, ex comunista e democristiana di sinistra, in un partito rivolto all’esterno, alla conquista di tutti gli elettori convinti dal suo messaggio sull’Italia. Non un tradizionale messaggio di sinistra: in esso si coniugano equità ed efficienza, ma con una forte accentuazione di quest’ultima. E ciò è inevitabile in un Paese a modernizzazione incompleta come il nostro, dove buona parte dei problemi più spinosi non sono affrontabili con le categorie di destra e sinistra: è questo che ha colto bene Carlo De Benedetti in una intervista rilasciata a Il Foglio il 18 settembre scorso.

Tutto ciò detto, sono d’accordo anch’io che un po’ più di gravitas e spessore non guasterebbero, se non vanno a discapito della capacità di raccogliere consenso. E soprattutto il programma di riforme andrebbe spiegato al partito, inserendolo in una narrativa che sottolinei le continuità e giustifichi le differenze con la sinistra tradizionale, che spieghi quanto essa deve cambiare affinché ciò che è essenziale non cambi, affinché possa sopravvivere in un Paese con gravi arretratezze strutturali, in una situazione economica difficile, attraversato da flussi migratori inarrestabili e in un contesto di egemonia mondiale neoliberale.

Solo se questa narrazione viene fatta propria da gran parte dei dirigenti e dei militanti si attenueranno le guerre di religione interne che hanno reso così faticosa l’approvazione delle riforme del governo, pur deliberate a grande maggioranza dagli organi di partito.

24 settembre 2015 (modifica il 24 settembre 2015 | 08:47)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_24/politico-abile-o-statista-dipende-classe-dirigente-ef1d8d5a-6285-11e5-95fc-7c4133631b69.shtml


Titolo: Michele SALVATI - L’ideologia tedesca e le regole di Bruxelles
Inserito da: Arlecchino - Novembre 02, 2015, 08:37:36 pm
L’ideologia tedesca e le regole di Bruxelles
La Commissione ci ha concesso più flessibilità
Per una volta non ha prevalso la linea rigida di Berlino La difficoltà, anche per l’Italia, è trovare un equilibrio tra riforme strutturali, crescita e consenso elettorale

Di Michele Salvati

Renzi aveva preso in Europa una posizione dura nelle trattative riguardanti la legge di stabilità, sino a minacciare che, se la Commissione Europea avesse respinto la bozza che le era stata inviata, essa sarebbe stata ripresentata senza alcuna modifica. Brinkmanship al limite dell’incoscienza o ragionevole calcolo? Il nostro governo si proclama ed è effettivamente fedele all’ispirazione europeista del Trattato di Maastricht, circondato all’interno e all’esterno da forze politiche ostili. È un governo che rispetta i parametri fondamentali del Trattato, primo fra tutti quello del deficit, ma richiede maggiore flessibilità su clausole e impegni successivi e dunque un rallentamento dei tempi entro i quali il rapporto Debito/Pil comincerà seriamente a flettere. L’Italia non è la Grecia e la brinkmanship ha avuto successo: è di ieri la notizia che la Commissione ha concesso al nostro governo tutta la flessibilità che chiedeva.

C’era un motivo di fondo che rendeva debole una posizione intransigente da parte delle autorità europee. È vero che i critici dell’«ideologia tedesca» — rubo l’espressione a Karl Marx per indicare il consenso ordoliberista che permea le regole attuali del sistema monetario europeo — non hanno un progetto alternativo, realistico, ben definito e condiviso, da contrapporre alle quelle regole. Ma è altrettanto vero che esse provocano tali difficoltà nei Paesi più deboli dell’Eurozona da renderle difficilmente sostenibili. Di questo stato di crisi, in Europa c’è una diffusa consapevolezza: la testimoniano il rapporto dei presidenti delle più importanti istituzioni europee, rilasciato nel luglio scorso, e, al suo seguito, le proposte della Commissione Europea del 21 ottobre. La finalità di entrambi i documenti è infatti quella di completare l’Unione economica e monetaria mediante un’unione politica e di bilancio, un passaggio necessario per dare credibilità e solidità alla moneta unica. Nella sostanza, tuttavia, essi accettano l’ideologia tedesca: si passerà ad un’unione politica in tempi lunghissimi, dopo che tutti gli Stati che vorranno parteciparvi avranno raggiunto lo stesso livello di competitività.

Più incisive e provocatorie sono le proposte del potente ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble. Molto in breve: Schäuble vorrebbe formalizzare un Eurogruppo, legittimato da un’Eurocamera formata da parlamentari degli Stati membri e diretto da un presidente dotato di poteri di indirizzo e di veto sui bilanci nazionali. In cambio di questo decisivo trasferimento di sovranità, viene offerto un modesto bilancio comune che dovrebbe sostenere le politiche contro la disoccupazione e uno schema di assicurazione dei depositi bancari. Ma questo non va bene né ai Paesi più deboli — che hanno l’impressione di concedere tanto in cambio di poco — né ai sostenitori più intransigenti dell’ideologia tedesca, che non vogliono assumersi i pur modesti oneri di mutualità previsti da Schäuble.

Questo è lo stato della discussione ed è difficile vedere una via d’uscita: per i sostenitori dell’ideologia tedesca profonde riforme strutturali e un riallineamento delle capacità competitive dei singoli Paesi dovrebbero bastare a rinvigorire la crescita europea ed attenuarne il dualismo; per i paesi più deboli — e per buona parte degli economisti — questa ricetta somma insieme cattiva economia e cattiva politica. Le riforme strutturali sono necessarie per il lungo periodo, è vero, ma danno scarsi impulsi alla domanda, alla crescita e all’occupazione nel breve, un «breve» che può essere intollerabilmente lungo per la politica democratica: in condizioni di scarsa crescita, di asfissia, i populismi possono dilagare e i governi «ragionevoli» cadere.

Insomma, il governo italiano non aveva di fonte un’autorità europea sicura di sé e orgogliosa dei risultati che il sistema monetario europeo aveva conseguito, e dunque intransigente sulle regole che tali risultati avevano consentito di conseguire, ma un’autorità in condizioni di crisi e di ripensamento. Di qui la decisione di tener conto — sia pure in un orizzonte di fedeltà allo spirito dell’Unione Europea — degli interessi nazionali del nostro Paese.

Tenere conto degli interessi nazionali, per un Paese poco competitivo come il nostro ed effettivamente bisognoso di riforme profonde, assomiglia al compito di un giocoliere che deve tenere in aria tre palle: quella delle riforme strutturali, quella del sostegno alla crescita e quella del consenso elettorale. Le due ultime sono ovviamente collegate: senza crescita, il consenso si indebolisce. Ma anche la prima, le riforme strutturali, è collegata al consenso elettorale: se la crescita è debole e il consenso cede, il governo rischia di cadere e allora addio alle riforme. Renzi pensava di aver dato, al Paese e all’Europa, prove convincenti della determinazione con la quale affronta il problema delle riforme e si aspettava dall’Europa una adeguata comprensione della necessità di sostenere la crescita.

Questa aspettativa è stata soddisfatta e, anche se nutriamo riserve sull’attuale bozza della legge di stabilità, non possiamo che rallegrarcene.

29 ottobre 2015 (modifica il 29 ottobre 2015 | 07:40)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_29/ideologia-tedesca-regole-bruxelles-686ccdfa-7e02-11e5-b052-6950f62a050c.shtml


Titolo: Michele SALVATI - Che ci sia o no la Brexit la partita dell’Italia è aperta
Inserito da: Arlecchino - Giugno 18, 2016, 08:55:49 am
Scenario
Che ci sia o no la Brexit la partita dell’Italia è aperta
Roma deve continuare a chiedere più flessibilità e autonomia nazionale

Di Michele Salvati

Fra una settimana si terrà in Gran Bretagna il referendum sulla permanenza nell’Unione Europea o l’uscita dalla stessa: «Remain» o «Exit». Le istituzioni dell’Unione, i governi dei Paesi membri (e non solo questi), le istituzioni finanziarie pubbliche e private, le grandi imprese sono da tempo in agitazione: circola persino una leggenda metropolitana secondo la quale i numerosi funzionari britannici dell’Unione si appresterebbero a chiedere la nazionalità di Paesi che non sono a rischio di uscita. Al momento in cui scrivo i sondaggi non danno risposte chiare. E le conseguenze dei due possibili esiti sono difficilmente prevedibili. Più rassicuranti quelle del Remain, almeno nel breve periodo perché nel lungo tutto si fa incerto. Più preoccupanti quelle dell’Exit. L’onda d’urto non sarà facile da smorzare in un mondo finanziarizzato e interconnesso, anche se credo poco ai calcoli che presumono di quantificare le perdite in termini di crescita che conseguirebbero alla Brexit: nel breve-medio periodo saranno probabilmente serie per la Gran Bretagna; per l’Europa e nel lungo periodo è difficile dire.

Mi pongo solo una domanda. A seconda dell’esito del referendum, dovrebbe il nostro governo modificare la posizione che ha assunto nei confronti dell’Unione e degli Stati che maggiormente influenzano le decisioni europee, la Germania in primis? (Riassumo questa posizione in tre punti: (a) ottenere la massima flessibilità e autonomia nazionale di politica economica compatibile con i trattati e gli accordi che l’Italia ha sottoscritto. Si tratta di una richiesta accettabile se basata su (b) riforme strutturali che aumentino la competitività dell’economia e l’efficienza delle istituzioni pubbliche in tempi prevedibili: è solo se l’Italia si avvicinerà agli standard dei Paesi più forti che essa potrà reclamare un maggior peso nelle decisioni europee. (c) Insistere su politiche dell’Unione — se necessario attraverso riforme degli stessi trattati — che mantengano la rotta dell’«ever closer Union», di un’Unione sempre più stretta, tracciata dai padri fondatori). La risposta alla domanda di più sopra è un No convinto: la posizione italiana dev’essere mantenuta, quale che sia il risultato del referendum britannico. Anzi, dev’essere rafforzata: alle parole di riforma interna — il punto (b) — devono accompagnarsi fatti di riforma e conseguenze benefiche in tempi non biblici, che attenuino lo scetticismo dei Paesi della Ue e degli stessi cittadini italiani. Quanto al punto (c) — diverse politiche dell’Unione, senza escludere riforme degli stessi trattati — vedremo subito appresso.

Mantenere ed anzi rafforzare la posizione italiana presenterebbe però prospettive e difficoltà assai diverse a seconda dei due esiti del referendum britannico. Nel caso del «Remain» la situazione non sarebbe molto diversa da quella attuale, solo un po’ peggio. Come ci ha ricordato Paul De Grauwe (Lavoce.info, 26 febbraio), il potere frenante della Gran Bretagna nei confronti di una gestione più comunitaria dell’Unione non si annullerebbe certo per effetto di una risicata maggioranza di «Remain»: di riforma dei Trattati si cesserebbe di parlare e l’Unione resterebbe altrettanto o più intergovernativa di adesso. Diverse sono le prospettive e le difficoltà in caso di Brexit. Ammesso che le turbolenze economiche e politiche si limitino al breve periodo e non generino effetti domino, si potrebbe pensare che l’assenza della grande frenatrice consenta ai Paesi restanti, soprattutto quelli dell’Eurogruppo, decisi passi in avanti sulla strada di un’Unione sempre più stretta, mediante significative cessioni di sovranità ad un Parlamento e ad una Commissione rafforzati in materie sensibili come la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, la politica estera e la difesa, le politiche sociali. Anche tra Paesi che a parole sostengono una maggiore integrazione e si dicono disposti a forti cessioni di sovranità nazionale, anche tra Germania e Francia — necessariamente il cuore di questa Ue rafforzata — le differenze sono molto forti ed emergerebbero chiaramente una volta che il comodo alibi della Gran Bretagna non fosse più utilizzabile. Una partita da giocare, certo, e molto più interessante di quella che conseguirebbe a un risicato «Remain»: ma il sogno di un’Europa unita, che con una voce sola si confronta in nome dei suoi valori e interessi con le grandi potenze mondiali, temo che rimarrà ancora tale per molto tempo.

Concludendo. Dei tre punti in cui più sopra ho riassunto la posizione del nostro governo, nel caso che la Gran Bretagna resti nell’Unione risulterebbe indebolito il terzo, quello della riforma dell’Unione in direzione più comunitaria. Gli altri due (la domanda di maggiore flessibilità e la necessità di riforme strutturali) risultano intatti, anzi rafforzati. Restare nell’Unione, per un Paese con il nostro debito pubblico e le nostre debolezze strutturali, è comunque meglio che esserne fuori, in balia dei mercati finanziari… e delle nostre classi politiche.

15 giugno 2016 (modifica il 15 giugno 2016 | 19:10)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_giugno_16/che-ci-sia-o-no-brexit-7c9dc0c6-331b-11e6-a482-ab4404438124.shtml


Titolo: Michele SALVATI. La crisi del Pd è parte di una crisi più grave, quella del ...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 29, 2018, 12:58:40 pm
Per combattere i populisti al Pd serve un leader liberale, europeista e di sinistra
E’ stata convenuta la data del congresso, prima delle elezioni europee.
Ma ancora non abbiamo un’idea chiara della linea politica

Di Michele Salvati

La crisi del Pd è parte di una crisi più grave, quella del nostro paese e in particolare del suo sistema politico. La quale, a sua volta, sta all’interno della crisi dell’Unione europea e di (quasi) tutti i partiti di sinistra riformista che all'Unione appartengono. E quest’ultima, in buona misura, è influenzata da una crisi ancor più ampia, quella dell’ordine politico-economico multilaterale e liberale predominante per un breve periodo, dopo il crollo dell’Unione sovietica e fino alla grande recessione del 2007-2008. Ovviamente non si chiede a un partito politico di un paese di modeste dimensioni di dare risposte a una situazione di instabilità che coinvolge l’Europa e il mondo intero, ma di avere un’idea delle sue conseguenze al livello nazionale. E, sulla loro base, offrire agli elettori risposte credibili allo stesso livello, perché solo di queste possono decidere gli elettori in democrazia.

Credibili sono le risposte in cui gli elettori credono, non quelle giuste in astratto, secondo i migliori criteri storici e scientifici di cui disponiamo: credibili in questo senso sono risultate il 4 marzo le risposte dei due partiti populisti italiani, che certamente giuste non sono. La “credibilità” è un composto di due ingredienti: gli obiettivi che un partito propone agli elettori e l’immagine che gli elettori si sono fatta della sua qualità e dei suoi ceti dirigenti: se il partito ha governato, soprattutto l’immagine della sua prova di governo. Il problema principale del Pd è allora duplice. Da una parte quello di capire che cosa ha maggiormente scontentato i suoi potenziali elettori durante il periodo in cui è stato forza di governo, e dunque nel lungo periodo dei governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, dal 2011 al 2018. Non è facile dare una risposta e le controversie ideologiche si inseriscono già in questa analisi, ma ad una conclusione bisogna arrivare perché questa è necessaria anche al fine di affrontare il secondo problema.

Che è quello di rendere credibili risposte realistiche, accettabili in un contesto internazionale ed europeo, ma capaci di risolvere i problemi avvertiti dai cittadini come più importanti e, più in generale, di invertire la rotta di declino che il nostro Paese ha imboccato da molto tempo. E insieme risposte più eque, in grado di estrarre da questa fase poco benigna del capitalismo globalizzato e dalle difficoltà addizionali dovute alla scarsa efficienza del sistema economico e istituzionale del nostro paese il massimo possibile di uguaglianza di opportunità e di solidarietà nei confronti delle persone più svantaggiate. Al di là della varietà degli obiettivi storici concreti perseguiti dalla sinistra nei duecento anni della sua esistenza in un sistema liberale e poi democratico, questa è una costante identitaria. Ed è il motivo che mi rende scettico rispetto a richieste di mutamento di denominazione del partito.

E’ perfettamente vero che oggi l’obiettivo storico più importante è quello di combattere per una società aperta e contro il sovranismo dei populisti. Ma questo perché, nelle condizioni attuali, la sinistra liberale è convinta che il contrasto al sovranismo populista sia il modo migliore per attuare i valori di libertà ed eguaglianza che stanno nel suo Dna. Insomma, valori di fondo e obiettivo storico prevalente sono due cose diverse. Perché cambiare nome: per raccattare i pochi centristi ancora non allineati? Va benissimo, in Italia e in Europa, perseguire il disegno di un fronte anti-sovranista molto ampio, ma ciò è perfettamente possibile senza rinunciare all’ultimo brandello identitario riconducibile alla sinistra per un partito che voglia tornare al governo e dunque sottostare, a differenza dei populisti, agli obblighi di realismo politico-economico e di onestà verso gli elettori che questo comporta.

E vado veloce, perché ho già tediato i lettori del Foglio con una lunga difesa di una auspicabile mozione liberale di sinistra nel prossimo congresso (….). Nel mese e mezzo trascorso da quell’articolo, nel Pd sono avvenute alcune cose che mi lasciano perplesso sulla reale comprensione degli ostacoli che il partito deve affrontare. E’ stata di massima convenuta la data del congresso, all’inizio dell’anno prossimo, prima delle elezioni Europee. E’ stato nominato un segretario e una segreteria: un segretario che probabilmente non sarà uno dei protagonisti della sfida congressuale e una segreteria che raccoglie, come si dice, tutte o quasi le anime del Partito. Per quella sfida state avanzate due quasi-candidature, Zingaretti e Calenda. Si sono svolte importanti riunioni (vicine, ma al di fuori del perimetro ufficiale del partito) per definire possibili piattaforme congressuali. Più in generale, nel perimetro del partito, il fermento e l’ascolto dei militanti (gruppo però poco rappresentativo dei potenziali elettori) sono molto aumentati. La domanda è: si sono fatti effettivi passi avanti nel definire una sfida congressuale che risponda alle due esigenze di “credibilità” di cui sopra dicevo? Che fornisca un’immagine chiara e comprensibile di chi guida il partito e della linea politica per cui combatte?

A me non sembra. Nel periodo, non breve, che ci separa dal congresso, in una segreteria come quella che è stata da poco nominata i conflitti saranno inevitabili e ampiamente resi pubblici: in una decisione imminente e di grande importanza come quella sull’Ilva di Taranto, il partito abbraccerà la linea di Calenda o quella di Emiliano? O si dividerà, come al solito? Di fronte alle scelte inaccettabili di un governo a doppia trazione populista le occasioni per dividersi non mancheranno di certo. E, al di là delle singole occasioni, c’è un problema cui occorre prepararsi: che cosa avverrebbe se l’alleanza giallo-verde si spaccasse, il governo entrasse in crisi e si presentasse seriamente la possibilità di un governo 5 stelle-Pd al fine di scongiurare nuove elezioni (quella che Claudio Cerasa ha chiamato “la pazza tentazione dell’estate”)? Insomma, niente di nuovo sul fronte del partito, la solita confusione. Ma c’è almeno la speranza che la situazione cambi dopo il congresso e le primarie? Anche di questo è lecito dubitare.

Se la costruzione dell’immagine pubblica di Zingaretti sembra a buon punto –almeno tra i militanti di base più vicini al partito, quelli che sicuramente voteranno nelle primarie – la costruzione dell’immagine di un esponente di una sinistra europeista e liberale sembra ancora lontana, nonostante l’autocandidatura di Calenda: l’ombra del precedente segretario offusca ancora l’orizzonte e non rende facile identificare il campione della parte buona e ancor viva della sua eredità. Ma se questo non avverrà, la speranza che il partito invii un messaggio vincente e comprensibile di sinistra liberale difficilmente potrà realizzarsi. Dunque ancora un partito diviso, che probabilmente farà marcia indietro rispetto alla linea di sinistra liberale che Renzi, al di là dei suoi errori, aveva sostenuto. Una linea che però resterà forte nel partito e darà battaglia. Dunque conflitti, divisioni e incertezze.

Le elezioni europee dell’anno prossimo potrebbero essere un terreno ideale per una riscossa del Pd, specie se il duopolio populista al governo dovesse incappare in seri insuccessi: quale occasione migliore per far capire il disegno di Europa a cui esso aspira? Ma la confusione interna, e di conseguenza l’incapacità degli elettori di comprendere che cosa il partito voglia, o addirittura di collocarlo nello spazio tra destra e sinistra come Paolo Segatti ha mostrato di recente (…), rischiano seriamente di fargli perdere l’occasione.

Da - https://www.ilfoglio.it/politica/2018/07/29/news/per-combattere-i-populisti-al-pd-serve-un-leader-liberale-europeista-e-di-sinistra-207333/