Titolo: Alfredo RECANATESI. Inserito da: Admin - Giugno 19, 2007, 06:10:54 pm Di padre in figlio
Alfredo Recanatesi C’è un motivo per cui il problema delle pensioni è sempre sul tavolo della politica e non c'è riforma che ve lo possa definitivamente rimuovere. Il motivo è che la questione previdenziale sta su quel tavolo in quanto capitolo di spesa pubblica, un capitolo che richiama su di sé la massima attenzione sia perché sul bilancio dello Stato è dei più rilevanti, sia perché aumenta continuamente ed è certo che continuerà ad aumentare. Affrontandolo quasi esclusivamente sotto il profilo della finanza pubblica, ogni soluzione tra le tante che vengono continuamente suggerite a destra e a manca sarebbe valida se non comportasse inevitabili conseguenze economiche. Conseguenze che accendono ogni volta la resistenza di determinate categorie e l'opposizione delle parti politiche che quelle categorie intendono rappresentare. Non è da escludere che ogni discussione acquisterebbe in chiarezza e trasparenza, e probabilmente consentirebbe scelte politiche più esplicite e condivise, se il tema fosse affrontato con un'altra logica secondo la quale l'onere di spesa pubblica, ed il relativo finanziamento, non sia più posto come un fine, ma un mezzo da commisurare in funzione dei benefici che si intendono ottenere. Una logica economica, insomma, non, o non soltanto, una logica finanziaria. Seguendo questo diverso filo logico sarebbe conveniente muovere da un dato di fatto e da un punto di partenza. Il dato di fatto è che la popolazione italiana invecchia, ed anche molto rapidamente. Se il numero degli anziani, comunque li si definisca, aumenta in rapporto alla popolazione in età produttiva, che questi debbano sostenere un onere maggiore per il sostentamento di quelli è cosa matematica ed inevitabile. Riducendo la collettività ad un nucleo familiare, è evidente che il sostentamento di una coppia di genitori anziani graverà su ciascun figlio in ragione inversamente proporzionale al loro numero: se è un figlio unico dovrà provvedere da solo, se saranno due figli l'onere sarà dimezzato e così via. Questo avverrà comunque, perché, anche con un sistema previdenziale a totale capitalizzazione ed a regime, tutto quanto sarà consumato dalla popolazione anziana - alimentazione, cure mediche, vestiario, energia e quant'altro - dovrà essere prodotto e fornito dalla popolazione attiva. Si determina certo una sperequazione intergenerazionale, ma questa sta nella dinamica demografica, e non c'è ordinamento previdenziale che possa neutralizzarla. Se questo è il dato di fatto, il punto di partenza è quale livello di vita si ritiene che la collettività debba assicurare a chi cessa l'attività lavorativa. Questa scelta determina il costo, in termini reali, che la collettività nel suo complesso dovrà sostenere per l'intero sistema previdenziale indipendentemente dalla sua ripartizione tra parte pubblica e parte privata ed indipendentemente da come l'una e l'altra saranno state finanziate: se un anziano che abbia cessato di produrre reddito col proprio lavoro acquisterà un paio di scarpe nuove, quelle scarpe dovranno essere state prodotte da chi è in età lavorativa, indipendentemente dalla forma finanziaria attraverso la quale questa cessione potrà avvenire. Posto quel dato di fatto e definito il punto di partenza, tutto il resto è politica, ossia è quel complesso di norme attraverso le quali si determina il livello delle prestazioni previdenziali, la quota obbligatoria, la distribuzione di queste prestazioni, la parte di esse affidata al settore pubblico e quella lasciata al settore privato, il loro finanziamento, la normativa fiscale che favorisce o scoraggia le diverse alternative. Ogni volta che, con grande travaglio, si ridiscutono riforme, verifiche, aggiornamenti, «manutenzioni» della normativa, in realtà non è in gioco il costo della previdenza, ma solo la quota di esso affidata al settore pubblico. Se questa quota viene ridotta - con l'innalzamento dell'età pensionabile o con una revisione dei coefficienti di calcolo dell'importo della pensione - delle due l'una: o si abbassa il livello di vita di chi andrà in pensione, oppure si sposta l'asse del sistema pensionistico verso il settore privato, il quale può essere costituito da capitale precedentemente risparmiato, da assicurazioni, da fondi pensioni - tutte alternative che implicano una riduzione del reddito disponibile nel corso della vita attiva - ma anche, molto spesso, dalla solidarietà familiare o parentale. Leggendo in questa chiave le misure di «manutenzione» che il governo sta delineando e che oggi inizierà a valutare insieme alle organizzazioni sindacali, si va delineando un arresto della precedente tendenza a ridurre il ruolo della previdenza pubblica e, forse, un suo recupero. Se, infatti, una quota delle risorse risultanti dalla eccedenza di gettito fiscale verrà impiegata per l'innalzamento di pensioni minime, quel che alla fine risulterà è un aumento delle prestazioni previdenziali finanziato consolidando una parte di quella eccedenza. A parità di condizione di vita, i pensionati avranno così meno bisogno di forme integrative, che in questa fascia di reddito sono costituite per lo più dal sostegno di figli e nipoti. Sembra, poi, che verrà decisa anche una qualche redistribuzione delle prestazioni a beneficio delle pensioni più basse a carico di quelle maggiormente privilegiate. La spalmatura del cosiddetto scalone è solo una diluizione nel tempo del brusco innalzamento dell'età pensionabile che, per far tornare i conti, là riforma Maroni stabilì, ma fissandone l'entrata in vigore in la nel tempo in modo che fosse qualcun altro a doverla gestire. Basterà questo perché non si debba più mettere mano al sistema previdenziale? Molto probabilmente no: le proiezioni demografiche prospettano un onere crescente fino al punto che per ogni persona in età lavorativa ce ne sarà una in pensione. Non c'è forma finanziaria o diversa ripartizione tra previdenza pubblica e previdenza privata che possa modificare la prospettiva che l'intera popolazione debba mantenersi con il reddito prodotto da una sua metà. Le uniche e risolutive riforme da fare dovrebbero essere, di conseguenza, quelle per aumentare il rapporto tra lavoratori e pensionati, incominciando da ogni sostegno possibile che la collettività dovrebbe assicurare a chi genera figli, e per innalzare il rendimento del nostro sistema produttivo, incominciando da un sistema industriale fatto da imprese più strutturate per investire in ricerca ed innovazione. Ma di questo o si parla poco o non si parla affatto; appunto: come se il problema previdenziale avesse rilevanza solo per l'onere che comporta per la finanza pubblica. Pubblicato il: 19.06.07 Modificato il: 19.06.07 alle ore 12.20 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI. - Inserito da: Admin - Giugno 26, 2007, 09:39:44 pm Uno stimolo per l’Economia
Alfredo Recanatesi È facile collegare le iniziative concordate ieri dalla maggioranza con l’esigenza di una riscossa dopo la flessione di consensi registrata nelle ultime amministrative. Qualcuno certamente lo farà sostenendo un carattere populista di un insieme di misure che, invece, trovano sostegno nella politica per la quale l’attuale maggioranza vinse le politiche e nel consolidamento dei conti pubblici che, in virtù delle misure contenute nella Finanziaria di quest’anno e di una situazione economica sensibilmente più favorevole, ha generato le risorse necessarie per la realizzazione di quella politica. L’obiettivo primario era e non poteva che essere una riduzione delle sperequazioni distributive che in tutto il mondo sono un portato dei processi di liberalizzazione e di globalizzazione, ma che le forze politiche progressiste non possono accettare come un semplice «mal comune». Anzi, proprio perché quelle sperequazioni nascono da processi ineluttabili, dall'asprezza del confronto competitivo su mercati grandi quanto il mondo, da standard internazionali sui quali gli stessi processi di integrazione si fondano, il ruolo della politica diventa più cruciale, perché solo attraverso la gestione della cosa pubblica possono essere corretti effetti e conseguenze su intere categorie di persone che la nostra cultura umanitaria e solidale respinge. Gli interventi concordati ieri sono molto articolati, ma per quel che riguarda le politiche sociali, sono uniti dal denominatore comune del sostegno delle condizioni di vita più disagiate: i pensionati che percepiscono pensioni che non è improprio definire di fame e i giovani con un lavoro precario generalmente sottopagato, ma comunque, anche quando non lo è, penalizzante sia perché impedisce la programmazione della propria vita (e poi ci si lamenta che non si fanno figli e la popolazione invecchia) sia perché non consente la costituzione di una posizione previdenziale con la quale poter guardare serenamente agli anni della vecchiaia. Ci saranno critiche per l'aumento della spesa pubblica. Il fuoco di sbarramento, del resto, era già partito con gli avvertimenti della Commissione di Bruxelles, i moniti dei banchieri centrali, gli auspici di larga parte della stampa nazionale: tutte fonti che non si misurano col consenso popolare e che spesso vedono le cose attraverso l'ottica distorta dell'interesse particolare. Valga, però, la considerazione che il sostegno ai redditi più bassi, quand'anche non trovasse giustificazione nelle ragioni dell'equità distributiva, ne trova nella politica economica. La ripresa dell'economia italiana, per quanto apprezzabile, è ancora gracile, troppo dipendente dalla più tonica crescita dei nostri partner europei. Anche la competitività delle nostre imprese è problematica: al tempo della stagnazione si vedeva di più, ora è velata da un Pil che comunque cresce, ma il fatto che cresce meno che altrove è indice di una realtà nella quale il grosso delle produzioni italiane era e tuttora è una offerta di complemento, che entra in gioco solo quando l'offerta dei Paesi più competitivi trova difficoltà a soddisfare la domanda. La situazione sta migliorando, ma i tempi sono necessariamente lunghi ed, in termini relativi, non sono cambiati granchè da quando il declino era reso più evidente e comprensibile dalla stagnazione. Ecco, allora, che una ripresa non effimera della domanda interna è di incentivo alle imprese per guardare con maggiore fiducia ad un futuro meno aleatorio come quello fatto dai picchi della domanda estera. Il potere d'acquisto dei redditi da lavoro è stagnante da anni e le imprese, gran parte delle quali sono ancora ferme alla competizione sui prezzi, non possono sostenere un costo del lavoro più elevato. L'unica possibilità perché la domanda di consumi possa stabilmente riprendersi, sta in un ruolo pubblico che, con la redistribuzione delle risorse, sostenga la capacità di spesa delle categorie che ne hanno maggiormente persa. Serve molto più una azione di questo genere che una riduzione del cuneo fiscale della quale nessuno, neanche la Confindustria, tiene più memoria. Pubblicato il: 26.06.07 Modificato il: 26.06.07 alle ore 13.55 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi. - Il tango delle pensioni Inserito da: Arlecchino - Luglio 04, 2007, 07:44:58 pm Il tango delle pensioni
Alfredo Recanatesi Sulle pensioni - si è detto - questa è la settimana cruciale. D’accordo: ma quanto cruciale? Occorre chiederselo perché di settimane cruciali ne sono già trascorse parecchie tra un’alternanza di aperture e chiusure, di prospettive di intese e successive rotture, tutte puntualmente seguite dalle cronache alle quali i mezzi di informazione sono tenuti, ma che appaiono sempre più monotone e ripetitive, consolidando l’impressione di una esasperante impasse sulle contrastanti posizioni di principio. Intendiamoci: che si tratti di un tema complesso è fuori discussione dovendosi conciliare esigenze di equità sociale, per altro esplicitamente riconosciute anche nel programma dell’Unione, e una spesa previdenziale che, soprattutto per motivi demografici, è diventata una sorta di potenziale bomba ad orologeria che potrebbe deflagrare negli anni di un futuro anche lontano. Ma gli elementi della equazione che occorre far quadrare ci sono tutti; sono tanti e complessi, ma ci sono tutti. Di conseguenza, è difficile non rimanere quanto meno sconcertati di fronte alla mutevolezza delle posizioni assunte dalle diverse parti in causa attorno al tavolo della trattativa in tutte le settimane cruciali che già sono trascorse, e di fronte alla distonia che su un argomento in agenda già da mesi si deve registrare tra i membri stessi del governo. Che il ministro del Lavoro formuli una proposta di intesa da sottoporre ai sindacati ed il ministro dell’Economia la bocci ritenendola rischiosa per le casse dello Stato fa parte del gioco delle parti che si stabilisce all’interno di ogni governo tra chi ha il compito di gestire le spese (e le relazioni con le organizzazioni rappresentative) e chi ha quello di reperire le entrate e far tornare i conti. Ma che questo gioco debba avvenire attraverso i mezzi di informazione non sta scritto in alcuna regola ne di democrazia sostanziale, ne di trasparenza; ed a ragione, perché così non si fa altro che trasformare, senza alcun costrutto, la fisiologica differenza tra i punti di vista interni al governo in un patologico scontro tra i componenti dello stesso governo. Per stare all’ultimo episodio: prima di proporre ai sindacati, e pubblicizzare sui giornali, i 58 anni più incentivi per chi ritarda il pensionamento ed una verifica tra tre anni dei risultati ottenuti Damiano non poteva sentirsi con Padoa Schioppa ed eventualmente ricorrere a Prodi per individuare un punto di incontro da portare al tavolo della trattativa come proposta del governo? Insomma, tra le tante esigenze contrastanti il governo formuli una sua proposta che abbia un consenso collegiale e dopo, solo dopo, la esponga al tavolo della trattativa e la renda di pubblico dominio. Non come un diktat, beninteso, ma neppure come una iniziativa a titolo quasi personale soggetta a prese di distanze, distinguo o veri e propri sbarramenti; dissensi sui quali ogni parte in causa, politica o sindacale, ha l’opportunità di insinuarsi per coltivare il proprio specifico interesse, sia sostanziale che mediatico. In questo modo ci sarebbe, sì, una settimana cruciale per arrivare ad una conclusione, ma una. Pubblicato il: 04.07.07 Modificato il: 04.07.07 alle ore 13.38 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI. Inserito da: Admin - Settembre 26, 2007, 10:41:19 pm Tv, culla dell’antipolitica
Alfredo Recanatesi Intervenendo sulla partecipazione degli esponenti politici ai tanti salotti televisivi, quasi sempre frivoli anche quando non intendono esserlo, il Presidente Napolitano ha toccato un aspetto del più generale problema del rapporto tra politica e televisione. È lecito supporre che più in la non abbia ritenuto di andare per non dover esprimere giudizi sull’altro termine di quel rapporto, ossia la televisione o, più esattamente, l’informazione televisiva. E tuttavia, se non ci si ferma al presenzialismo dei politici, ma si pone mente alla questione nella sua interezza, allora occorre considerare che la politica è presente in televisione non solo e non tanto attraverso la partecipazione di leader alle trasmissioni del più diverso genere, ma in primo luogo nei servizi di informazione. Se si conviene che questo sia il terreno da osservare, balza subito in evidenza un corto circuito: la politica con le sue presente e le sue pressioni distorce e sottomette l’informazione televisiva, ma il risultato è che questa deforma e svilisce la funzione della politica. È il corto circuito che, innescando il fuoco dell’antipolitica che ormai divampa in ogni angolo del Paese, ha avuto tanta parte nel logorare, fin quasi a recidere, il nesso che deve legare i cittadini - intesi questi come partecipi delle sorti della comunità nazionale alla quale appartengono - e la politica - intesa come ruolo che i loro rappresentanti eletti svolgono per la difesa dei loro comuni interessi, per la soluzione dei loro problemi, per la costruzione del futuro del Paese nel quale vivono loro e vivranno i loro figli -. Stiamo parlando - è quasi superfluo ricordarlo - di un Paese che si distingue, tra le grandi democrazie industriali evolute, per l’esiguità della diffusione dei quotidiani di informazione. La maggior parte dei nostri concittadini non legge giornali ritenendo che la sua esigenza di informazione possa essere adeguatamente soddisfatta dalla quella televisiva ed, in primo luogo, dai telegiornali. Nei confronti della maggior parte degli italiani, dunque, questi svolgono pressoché in esclusiva il ruolo di presentare la politica, di descriverla, di fornire gli elementi di giudizio. E allora, nel giorno che più piace a voi, prendete una qualsiasi edizione del telegiornale di una qualsiasi rete; immaginate di essere appena tornati dalla luna e provate a farvi una idea della vita politica del nostro Paese basandovi, per quanto possa riuscirvi, solo sulla informazione che riceverete. È una informazione che accenna (quando va bene) al tema politico del giorno per poi passare ad una giaculatoria delle relative posizioni dichiarate in merito, attraverso i diversi portavoce, da partiti e partitini. Data la natura del mezzo, ad ogni parte prevista dal copione non possono essere dedicati che pochi secondi che consentono nient’altro che puri e ripetitivi slogan gettati dentro il microfono senza alcuna mediazione giornalistica - è colpa loro, no è colpa loro, bisogna cacciarli, è il centro che vuole far fuori il governo, no è la sinistra radicale, sono attaccati alle poltrone, aumenteranno le tasse -. Spot che, al pari di quelli sugli yogurt o sui dentifrici, possono al più generare una emozione, non certo una opinione e, men che meno, una convinzione. La conseguenza è che questi slogan nulla hanno a che fare con la realtà delle questioni, con la loro complessità, con la natura del confronto tra le parti politiche avverse, con le diverse opzioni che possono essere messe in campo. Come se non bastasse, queste rassegne di insulse e trite battute devono comprendere anche le esternazioni di leader o portavoce di partiti di modestissima dimensione e caratura - Rotondi della Dc per le autonomie, tanto per non fare nomi - del tutto ignorate dalla carta stampata perché non sono notizie alle quali la gente possa essere minimamente interessata, ma che si perpetuano in quanto quelle apodittiche quanto banali affermazioni quotidiane costituiscono l’unica testimonianza di esistenza in vita di quelle etichette partitiche. Chi ha una età non più giovanissima sa che questo format dell’informazione politica televisiva viene dai tempi della prima repubblica e dai cosiddetti «pastoni», ossia resoconti nei quali, per una ipocrita presunzione di neutralità, ogni partito doveva figurare per dare un segno, se non del suo ruolo, almeno della sua espressione anagrafica. Ma parliamo di più di vent’anni fa, dei tempi della «democrazia bloccata», quando la mancanza (o l’impossibilità) di una alternanza condizionava tutta la vita politica e la sua percezione. Quel tipo di informazione, di conseguenza, era noiosa e, tutto sommato, inutile, ma non faceva grandi danni. Oggi, invece, ne fa e parecchi. Con l’alternanza, infatti, l’elettore si attende di essere maggiormente considerato perché è potenzialmente maggiore il peso del suo voto; con l’evoluzione e la frammentazione della società, ogni sua componente ambisce, e talvolta pretende, di riscontrare nel Parlamento una rappresentazione più tempestiva e puntuale dei suoi interessi e delle sue istanze; con il superamento delle ideologie, vero o presunto che sia, le valutazioni sull’operato della politica tendono a focalizzarsi sulla oggettività dei dati di fatto piuttosto che su una mera propaganda, per di più mal fatta. Ma se, a fronte di questa evoluzione, della politica si offre una caricatura fatta di puerili battibecchi e di banali contestazioni di principio, in quanti la politica la conoscono e la seguono solo attraverso i telegiornali la delusione non può che essere cocente, la sensazione di impotenza non può che diffondersi, ed alla fine la reazione non può che essere populistica, il rifugio in chi non è capace, neppure lui, di offrire un più costruttivo contributo alla formazione di una cultura politica, ma almeno è divertente. Ecco, quindi, il corto circuito: imponendo la subordinazione della informazione televisiva (e non parliamo delle trasmissioni «di approfondimento» nelle quali l’argomentazione è ritenuta noiosa e il battibecco da comari è, invece, apprezzato perché «fa spettacolo») la politica non ha distrutto solo la funzione giornalistica che il mezzo televisivo potenzialmente può svolgere, ma sta distruggendo anche e soprattutto il suo rapporto con i cittadini elettori, ossia il fondamento di ogni democrazia; sta distruggendo se stessa e, come ha detto Napolitano, la credibilità delle istituzioni. Perché la politica ha i suoi limiti, i suoi difetti, le sue carenze, le sue contraddizioni, tutto quello che volete voi: ma è e rimane una cosa seria; comunque, qualcosa di più e di meglio di quell’infantile ed irritante contrapposizione di frasi fatte con le quali i telegiornali quotidianamente ce la presentano. Altro che servizio pubblico! Pubblicato il: 26.09.07 Modificato il: 26.09.07 alle ore 9.09 © l'Unità. Titolo: Un compromesso ma di qualità Inserito da: Admin - Settembre 29, 2007, 10:26:18 pm Un compromesso ma di qualità
Alfredo Recanatesi Non è motivo di scandalo che la legge finanziaria per il prossimo anno sia risultata frutto di un compromesso più o meno faticosamente raggiunto. Ciò che soprattutto importa è la qualità del compromesso raggiunto dai due punti di vista dai quali può essere giudicata, quello politico e quello economico-finanziario. Sotto l’aspetto politico, il compromesso merita una valutazione positiva costituendo un punto di equilibrio tra le due principali istanze che sono emerse all’interno della coalizione. Quella che intendeva accordare la priorità al sostegno dello sviluppo e quella, invece, che intendeva accordarla ad una riduzione delle sperequazioni distributive che hanno penalizzato e continuano a penalizzare le categorie più deboli. La sua definizione è stata resa faticosa dalla assenza, insolita nella storia italiana, di emergenze finanziarie, dal buon andamento delle entrate e dagli effetti dell’aggiustamento realizzato con la legge finanziaria passata. Insomma, c’era un po’ di “grasso”, e la decisione politica di come impiegarlo è più difficile di quando emergenze finanziarie restringono il terreno delle opzioni o impongono addirittura scelte obbligate. Viene spontaneo, a questo punto, l’auspicio che l’intesa trovata a livello governativo venga fatta propria dai parlamentari della maggioranza e difesa con una coerente condotta lungo l’intero cammino che la proposta governativa deve percorrere prima di diventare legge. Un cammino lungo e tanto più insidioso in quanto incontrerà almeno due potenziali ostacoli: il referendum sul protocollo di luglio e la riforma della tassazione delle rendite finanziarie, che non è entrata nella finanziaria, ma è oggetto di un formale impegno del premier a porla all'ordine del giorno entro breve tempo. Più cauto deve essere il giudizio sotto il profilo economico-finanziario. Condivisibile è la scelta di non spingere sulla compressione del disavanzo. Assicurata la prosecuzione del cammino verso il riequilibrio dei conti e la riduzione dello stock di debito, una accelerazione in questa direzione non solo sarebbe stata politicamente insostenibile, ma anche troppo restrittiva di una domanda interna che continua ad offrire scarso supporto ad ogni previsione di crescita. La riduzione dell’Ici e le molte altre agevolazioni disposte non rispondono solo a ragioni di equità distributiva, ma anche di supporto ad una domanda interna senza la quale la ripresa è destinata a rimanere debole e precaria. Non altrettanto si può dire della decisione di impiegare una cospicua parte delle risorse disponibili per ridurre la pressione fiscale sulle imprese. Il recupero di consensi nelle regioni settentrionali ha giocato una parte evidentemente determinante a favore di una misura la cui efficacia ai fini della competitività e della crescita rimane tutta da dimostrare. Che il sistema produttivo sia oberato da pesanti prelievi è nell’evidenza delle cose, ma che questa sia la causa di una sua debole competitività è quanto meno opinabile. Nel loro insieme, infatti, le produzioni italiane soffrono la concorrenza per difetto di innovazione, di specializzazione, di esclusività, non per eccesso di costi e di tassazione. Lo dimostra il fatto che, pur con tutti i limiti e le negatività che le organizzazioni imprenditoriali lamentano, i profitti mantengono un robusto trend di crescita; e lo dimostra il fatto che non mancano aziende che, investendo ed innovando, riscuotono un meritato successo nel mondo. Sono abbastanza perché non le si possa considerare come eccezioni, ma purtroppo sono poche per risolvere l’incapacità di tenere il passo degli altri Paesi europei. Così stando le cose, è quanto meno dubbio che un alleggerimento fiscale possa tradursi in un rilancio di investimenti nell’unica direzione che nel mondo globalizzato un Paese come l’Italia può prendere e che è già tracciata dalle imprese più dinamiche, ossia quella della innovazione dei prodotti, dunque della ricerca, dunque ancora della evoluzione verso dimensioni più consistenti e strutturate, e meno asservite alle esigenze delle famiglie proprietarie. Che una riduzione di imposte così generalizzata ed incondizionata possa generare effetti strutturali di questo tipo è dunque auspicabile, ma improbabile. Ma la politica - lo sappiamo - è l’arte del possibile, e nella realtà politica di oggi il sentiero delle opzioni praticabili è ristretto da una infinità di esigenze politiche, finanziarie, economiche. Chiunque potrà dire la sua, e la dirà, su cosa si sarebbe potuto fare meglio, su come sarebbe stato preferibile impiegare questi soldi, su dove andare a risparmiare, su cos'altro tagliare: figurarsi, non c'è esercizio più facile. Ma in queste circostanze, con un calo di consensi da recuperare, con l’ondata di una antipolitica populista e demagogica da arginare, con la pressione incalzante delle categorie, è difficile, davvero difficile, immaginare che potesse venir fuori qualcosa di tanto diverso. Pubblicato il: 29.09.07 Modificato il: 29.09.07 alle ore 8.54 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi - Il Governatore ha scoperto i salari Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2007, 11:17:24 pm Il Governatore ha scoperto i salari
Alfredo Recanatesi Con una dovizia di dati che solo la Banca d’Italia è in grado di produrre, il Governatore ha posto la questione salariale al centro dell’incapacità di crescere che l’economia italiana dimostra ormai da anni. Non siamo certo tra coloro che se ne stupiscono: da tempo andiamo sostenendo che la crescita di questi ultimi due anni è solo un riflesso della ripresa dell’economia europea; un riflesso, per altro, opaco perché innescato dalla domanda estera e da questa rimasto dipendente, senza un adeguato sostegno della domanda interna che consenta di farvi affidamento una volta che il traino delle esportazioni per qualche motivo dovesse affievolirsi. Ma l’analisi del Governatore va oltre, e ci dice che in questi ultimi anni i redditi da lavoro (in termini di potere d’acquisto, s’intende) sono rimasti stazionari, e se i consumi hanno potuto ugualmente progredire è stato per due sostanziali fattori, entrambi contingenti: l’aumento delle rendite finanziarie (soprattutto le azioni), e l’aumento di valore degli immobili. Sono questi i fattori che hanno salvato l’economia italiana da un persistente ristagno. E, se questi sono i fattori trainanti, si può capire con quale grado di equità si è registrato il pur contenuto aumento dei consumi. Insomma, un quadro che definire desolante è poco. Porre l’entità dei salari al centro dei problemi di crescita della nostra economia è già un punto di arrivo; ce n’è voluto, ma ora che il Governatore vi ha posto il sigillo della Banca d’Italia sarà difficile per chiunque percorrere strade analitiche diverse. Ora si apre il dibattito sul come se ne può uscire. E a questo punto anche Draghi diventa generico mostrando fatica ad uscire da tesi che saranno pure fair secondo la cultura, il modo di pensare, ed anche gli interessi, dell’establishment al quale si riferisce, ma che ciò nondimeno rimangono assai poco convincenti. Prendersela con la politica è un po’ come sparare al canarino in gabbia. La politica, del resto, non è il consiglio di amministrazione di una impresa; deve provvedere ad una infinità di esigenze che rendono arduo per tutti contenere la spesaed indirizzarla maggiormente agli investimenti; non ultima l’esigenza di destinare risorse per contenere quelle distorsioni distributive che Draghi non cita esplicitamente, ma che emergono con chiarezza dalla analisi che lui fa di questa ultima decina d’anni. L’istruzione? Certo che va riformata, ma, se c’è un problema di fuga dei cervelli e se tanti italiani si distinguono nel progresso scientifico e tecnologico in altre parti del mondo, forse è più urgente affrontare il problema del loro utilizzo in Patria. Si va in pensione troppo presto? È vero, ma è anche vero che il sistema produttivo non sembra offrire tante opportunità a chi ha superato i cinquant’anni. Ogni capoverso del suo intervento meriterebbe chiose ed approfondimenti, ma ora, dopo una prima lettura, è più opportuno accennare al capoverso che non c’è: un capoverso, anche uno solo, sulle imprese. Quando si parla di salari, di produttività, di prodotto c’entreranno pur qualcosa. E invece nel suo intervento non sono neppure citate, come se la loro efficienza, le loro strategie, le loro capacità di iniziativa, fossero fattori estranei al tema «Consumo e crescita» sul quale ha tenuto la sua lectio magistralis all’Università di Torino. Forse non è fair come prendersela con la politica, o con l’età pensionabile, o con la demografia, ma i dati che ha citato dicono ugualmente che la questione sta nella capacità di produrre reddito, e che questa dipende dalla produttività dei fattori della produzione, ossia il capitale e il lavoro. Sta, dunque, nelle imprese. E non è un caso che il problema della crescita e della stagnazione dei salari sia emerso grossomodo in seguito alla stabilizzazione del cambio e l’adozione dell’euro perché quella svolta avrebbe dovuto indurre il sistema produttivo al radicale cambio di passo dalla competitività di prezzo a quella sulla innovazione e sulla qualità; dalla piccola dimensione manovriera e flessibile ad una dimensione più consistente in grado di perseguire strategie di più ampio respiro; da produzioni a scarsa intensità di capitale ad altre con maggiori contenuti di specializzazione. Occorre sempre ricordare che una parte delle imprese questa mutazione l’ha affrontata e spesso con successo, acquisendo il merito non solo di essersi messa in condizione di generare un valore aggiunto più elevato, premessa per un innalzamento del reddito pro capite, ma anche e soprattutto di dimostrare che il successo può anche essere conseguito nell’Italia che c’è senza aspettare quella che vorremmo; di dimostrare, anzi, che l’Italia che vorremmo sarebbe più a portata di mano se quelle imprese costituissero una parte più significativa dell’intero sistema. Riferendosi all’intera economia, invece, Draghi ricorda che in corrispondenza dell’aumento dell’occupazione la produttività è diminuita, così certificando che la flessibilità è stata usata per ridurre i costi, per resistere un altro po’ alla concorrenza dei Paesi dell’Est, non per cogliere chissà quali nuove opportunità il mondo globalizzato può offrire. Che la chiave di tutto sia nella dinamica della produttività lo sappiamo tutti, ma sappiamo anche che non può crescere fino a quando a tanti laureati non viene offerto che un call-center, fino a quando tanti ricercatori rimangono precari e sottopagati nelle università, fino a quando un giovane che vuol farsi valere (e che ha una famiglia che se lo può permettere) va a lavorare in qualche altro Paese. Per poi, magari, vincere un Nobel. Pubblicato il: 27.10.07 Modificato il: 27.10.07 alle ore 9.47 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi. Una sconfitta per il Paese Inserito da: Admin - Novembre 27, 2007, 05:38:00 pm Telecom, l’ultima partita
Alfredo Recanatesi Si può ben capire come la borsa abbia accolto positivamente la nomina di Galateri e di Bernabè rispettivamente alla presidenza ed alla guida operativa della Telecom. Il titolo aveva cominciato ad apprezzarsi fin dalle prime voci dei giorni scorsi seguite ieri dalla conferma ufficiale. La grande azienda telefonica, infatti, trova finalmente un assetto credibile. Per la prima volta dopo la sua privatizzazione - la più disgraziata e contorta delle privatizzazioni - ha una proprietà con un nucleo sufficientemente forte. Un nucleo del quale fa parte un grosso partner industriale come la compagnia telefonica spagnola, ed un management distinto da essa. Quando lo Stato decise di cederla, la Telecom era un fior d’azienda all’avanguardia nelle tecnologie del tempo - la Tim era considerata un gioiello in tutto il mondo - con uno stato patrimoniale solido e la capacità di affrontare l’incalzante divenire che andava trasformando tutto il settore delle telecomunicazioni. Ciò nondimeno, l’offerta pubblica cadde in un vuoto imprenditoriale pressoché assoluto: per costituire un nucleo che rappresentasse una proprietà per il resto dispersa (il sogno utopistico era quello di una public company, ossia una azienda con una proprietà diffusa tra centinaia di migliaia di risparmiatori, e magari di risparmiatori-clienti) il privatizzatore del tempo, quel Mario Draghi oggi Governatore della Banca d’Italia, dovette penare non poco. Riuscì a fare sostanzialmente una colletta, mettendo insieme quello che poi sarebbe stato chiamato il «nocciolino» all’interno del quale la quota maggiore fu quella degli Agnelli i quali, evidentemente più per cortesia che per convinzione, sottoscrissero nientemeno che lo 0,6% del capitale. La Telecom fu comunque privatizzata perché lo Stato doveva far cassa per sistemare i suoi conti in vista della partecipazione all’unione monetaria europea, ma il suo assetto era quanto di più precario si potesse immaginare. Ed infatti, fatta la cortesia, tutti pensarono ai propri affari, e non ci pensarono due volte quando Colaninno ed alcuni suoi facoltosi amici bresciani misero sul piatto un bel po’ di soldi per rilevare il controllo della Telecom. Colaninno è un bravo imprenditore (lo sta dimostrando in questi anni con la Piaggio) ma dovette fare molti debiti che poi trasferì in capo alla Telecom. Gli andò comunque bene perché poi, all’apice dell’infatuazione per la new-economy, trovò un Tronchetti Provera disposto a strapagargli il controllo della società telefonica. Ma per strapagarglielo, dovette fare altri debiti che aggiunse a quelli già caricati sulla schiena della Telecom. Tronchetti non solo ha caricato la società di ulteriori debiti, ma vi ha incamerato la Tim, ossia la gallina dalle uova d’oro del gruppo, e l’ha impoverita vendendone pezzi del patrimonio, a cominciare dagli immobili. Tronchetti, e le sue società della catena di controllo, si sono rifatti con le stock option, le plusvalenze sulle vendite e dividendi più lauti di quelli che una gestione più lungimirante della società avrebbe potuto consigliare. Ma, dopo tutte queste vicende, si può facilmente capire che la Telecom non è più quella di una volta; anzi, è una delle non poche aziende italiane che hanno disperso il retaggio di un grande passato: oltre al peso dei debiti, oggi registra un ritardo negli investimenti, un prestigio logorato, un patrimonio tecnologico non certo all’avanguardia. Non sono cose da poco in un settore sotto il tiro di tecnologie sempre nuove - si pensi a Skype, tanto per dire di qualcosa che molti già conoscono ed usano - e quando è alle porte lo scorporo della rete telefonica che Telecom finora ha cercato di usare soprattutto per rendere la vita difficile ai concorrenti. Ora - meglio tardi che mai - si volta pagina e comincia un capitolo nuovo. Con il nuovo assetto Telecom risolve in primo luogo la commistione tra proprietà e management mettendo fine al tempo dei "padroni" impegnati nell’anteporre il proprio interesse a quello della società. Con le scelte formalizzate ieri, inoltre, proprietà e management sono quanto di meglio oggi in Italia si può trovare. Anche se gli spagnoli sono gente che non manca mai di esercitare tutto il peso possibile, Galateri è indubbiamente una persona in grado di garantire, e disciplinare se dovesse occorrere, il ruolo degli azionisti di comando. Dal canto suo, Bernabè è persona che non deve certo dimostrare né le capacità manageriali (risanò l’Eni dopo i disastri della politica, della chimica e delle tangenti), né la conoscenza del settore (non solo perché fu capo azienda della stessa Telecom negli anni ormai lontani del «nocciolino», ma perché nelle telecomunicazioni è rimasto sia avendo avuto una parte nella fondazione di Andana, poi diventata la 3 ora controllata dai cinesi, sia con sue proprie aziende piccole, ma molto evolute), né deve dimostrare, infine, la conoscenza di questo mondo e di quanti in questo mondo contano. La Telecom è un patrimonio di conoscenza, di professionalità, di capacità tecnologiche acciaccato e deperito, ma se c’è una possibilità di risanarlo e di rinverdirne i successi è quella che ieri è stata definita con la nomina dei nuovi vertici. Altre carte da giocare non ce ne sono e, probabilmente, non ce ne saranno se anche questa dovesse malauguratamente fallire. Pubblicato il: 27.11.07 Modificato il: 27.11.07 alle ore 8.20 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi - Montezemolo spara nel mucchio Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2007, 11:04:02 pm Montezemolo spara nel mucchio
Alfredo Recanatesi Sparare sullo Stato e sugli statali è facile come sparare sulla Croce Rossa. Però è più redditizio perché si vince sempre il consenso di chi ama farsi lisciare nel verso del pelo di uno dei più triti luoghi comuni. E tuttavia nella sostanza le bordate si risolvono sempre in una operazione a somma negativa. Per un verso, infatti, generiche e sparate nel mucchio come sono, non si vede cosa di buono possano generare. Per altro verso, accrescono la desolazione e lo sconforto di quanti lavorano nella pubblica amministrazione con impegno, fornendo ad un tempo un alibi a quanti sono ben felici di avere argomenti per dimostrare alla propria coscienza che impegnarsi sarebbe del tutto inutile sia per se che per gli altri. Non ha fatto eccezione il presidente della Confindustria. In un intervento all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università confindustriale, ieri ha dipinto la burocrazia pubblica solo ed esclusivamente come una palla al piede del Paese, la sentina di ogni inefficienza, una tara di miliardi di euro che l’economia è condannata a portarsi appresso nel suo sforzo di produrre ricchezza, progresso, benessere. A parte le enfasi, gli accenti e un evidente eccesso di manicheismo, in quanto ha detto la notizia non c’è: sappiamo tutti che l'efficienza di una larga parte delle amministrazioni pubbliche è uno dei problemi cruciali, ma dirlo duemila volte non rappresenta un passo avanti rispetto al dirlo solo mille volte. Il passo avanti potrebbe compiersi solo se si cominciasse a parlare del perché le cose stanno così, anzi dei tanti perché fino ad individuare quello dal quale, a cascata, derivano tutti gli altri. Ma questo è scomodo e genera risentimenti ed inimicizie. Quindi ancora una volta Montezemolo si è limitato a sparare nel mucchio, non sulla organizzazione della amministrazione, ma sugli statali. L'assenteismo, sul quale ha incentrato il suo intervento con tanto di dati ad effetto, è un indicatore, non una causa. Un impiegato presente, ma che non fa niente o che, più spesso, è messo a svolgere inutili mansioni è fonte di improduttività ancora più onerosa di un impiegato assente, se non altro perché nella maggior parte dei casi le assenze - questo Montezemolo sembra ignorarlo - sono punite con una trattenuta sullo stipendio. Così come è fonte di improduttività quell'egualitarismo che non viene applicato solo sulle retribuzioni e persino, paradossalmente, sui premi di produttività, ma anche sugli scatti di carriera che, nelle classi impiegatizie più basse fino alla magistratura, sono determinati essenzialmente dalla anzianità di servizio. È responsabilità del dipendente se il tempo che passa è più importante dell’impegno sul lavoro o sugli indici di presenza? Il merito, dice Montezemolo. Certo, il merito. Ma il merito implica selezione, la selezione postula la responsabilità di selezionare, e questa responsabilità, come tutte del resto, può essere attribuita solo insieme ad un incentivo che induca a conferirgli una valenza funzionale. E invece, sia la storia (i decenni del dopoguerra durante i quali il posto pubblico, ancorché sottopagato, era in primo luogo una forma assistenziale) sia la politica (gli anni della democrazia bloccata durante i quali le varie forme di quell’unica maggioranza che governò l’Italia non potevano permettersi di rischiare il consenso dei milioni di dipendenti pubblici) hanno determinato un ordinamento che, nello spirito ancor più che nella lettera, non solo non favorisce alcunché che sappia di meritocrazia, ma la avversa, addirittura emarginando chi ne tentasse una qualche applicazione. È un ordinamento il cui nocciolo duro resiste tuttora ai pur numerosi tentativi esperiti negli anni per riformarlo proprio perché nessuno di questi si è assunto la responsabilità di incentrare l’organizzazione funzionale delle amministrazioni pubbliche su una gerarchia di responsabilità, assumendosi al tempo stesso la responsabilità di valutarla e, quando ritenuto necessario, di intervenire per modificarla. Come l’influenza non è colpa del termometro, così l'inefficienza delle amministrazioni pubbliche non è colpa degli assenteisti di Montezemolo o dei fannulloni di Ichino e della sua scuola. Prendersela con loro è una operazione qualunquista sia perché è generica coinvolgendo anche le amministrazioni che funzionano - ce ne sono, ce ne sono - sia perché istillano una sensazione di inutilità e di impotenza in quanti - e ce ne sono - si impegnano, ci credono, e vorrebbero poter essere orgogliosi di servire lo Stato. Il Presidente della Confindustria dovrebbe essere parecchio impegnato nella analisi delle debolezze del nostro sistema produttivo e nella individuazione dei rimedi verso i quali sollecitare l’intero mondo imprenditoriale. Ma, semmai gli rimanesse del tempo, così come quando parla di industria ama, e giustamente, citare quelle che hanno maggiore successo tacendo regolarmente quelle che, invece, sono rimaste a vedersela con i cinesi o con i romeni, faccia altrettanto con le amministrazioni pubbliche, parlando di quelle che, malgrado tutto, sono efficienti per additarle, esplicitamente questa volta, a quelle che efficienti non sono. Quelle efficienti sono poche, lo sappiamo, ma sono poche anche le imprese che, anziché lamentarsi ed aspettare che altri si diano carico dei loro problemi, si sono impegnate per farsi valere nel mondo e ci riescono. Pubblicato il: 05.12.07 Modificato il: 05.12.07 alle ore 8.08 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi - Spagna-Italia: ma il sorpasso non c’è stato Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2007, 10:12:56 pm Spagna-Italia: ma il sorpasso non c’è stato
Alfredo Recanatesi Uno dice che nel reddito pro capite la Spagna ci ha sorpassato e tutti dietro a stracciarsi le vesti, a spiegare i perché ed i percome, a pubblicare pagine di giornali sulla rutilante crescita dei nostri cugini iberici a fronte del nostro ineluttabile e triste declino. Nessuno che abbia fatto mente locale, che abbia preso un po’ di dati e verificato quanto si andava dicendo. Se lo avesse fatto si sarebbe reso facilmente conto che non è vero, che non c’è stato nessun sorpasso, che malgrado tutto - la minore quota di popolazione attiva, l’inefficienza della amministrazione, il debito pubblico, l’economia in nero e tutto il resto che sappiamo - il reddito pro capite italiano è ancora superiore, e neppure di poco, a quello spagnolo. Intendiamoci, con questo non si vuol negare che, nel confronto con i Paesi economicamente più evoluti, la Spagna sia in ascesa e l’Italia in discesa; che, di conseguenza, gli spagnoli guardano al futuro con fiducia e speranza, mentre noi italiani lo temiamo e tendiamo a rinserrarci nel tentativo di rallentarne gli effetti. Insomma, abbiamo i nostri bravi problemi e ne abbiamo spesso parlato, ma questa non è una ragione per dipingere la realtà peggiore di quello che è. E la realtà è - secondo dati Eurostat che chiunque può facilmente controllare sul sito internet dell’Istituto europeo - che il reddito pro capite è risultato nel 2006 di 25100 euro in Italia e di 22300 euro in Spagna. Dite voi se si può sostenere (molti lo hanno fatto su giornali e telegiornali) che il secondo sia superiore al primo. Ad abundantiam, possiamo aggiungere che secondo dati del Fondo monetario (calcolati con metodi leggermente diversi) il pil pro-capite italiano è stato di 31791 dollari, quello spagnolo di 27767. L’equivoco del sorpasso è nato sulla sbrigativa interpretazione di una statistica dell’Eurostat che ha calcolato la posizione di ogni Paese rispetto alla media dei 27 Paesi dell’Unione europea per gli anni 2004, 2005, 2006 in termini di Pil pro-capite corretto con il livello dei prezzi: come dire una statistica del potere d’acquisto per abitante nel proprio Paese. Secondo la teoria, una siffatta statistica dovrebbe essere maggiormente significativa del benessere materiale della popolazione, ma nella prassi subentrano tanti altri fattori che frenano una tale interpretazione: basti considerare le profonde differenze che si registrano nella distribuzione del reddito nei diversi Paesi per rendersi conto dell’azzardo che si correrebbe nel trarre da dati come questi classifiche sul benessere. Comunque, in questa classifica la Spagna è andata avanti (101, 103, 105 nei tre anni considerati) mentre l’Italia è andata indietro (107, 105, 103). Che significa? Significa, certo, che l’economia italiana è cresciuta meno, e questo lo sapevamo. Ma significa soprattutto altre due cose. La prima è che in Spagna i prezzi sono più bassi, per cui gli euro nei quali il Pil pro capite è espresso valgono di più che in Italia. La seconda è che la media del pil pro capite della UE27 cresce più velocemente di quanto possono crescere i Pil pro capite dei Paesi più evoluti. La media, infatti, risente del maggiore ritmo di crescita che i Paesi di più recente integrazione (in sostanza i Paesi dell’est Europa) possono realizzare rispetto ai Paesi dell’Europa occidentale i quali, proprio a motivo del loro maggior grado di sviluppo, crescono a ritmi più moderati. La Spagna, che non è certo paragonabile ai Paesi dell’est, ma non è neppure (ancora) paragonabile a quelli del centro Europa, è in una posizione intermedia che concorre a consentirgli un progresso più rapido. La conseguenza è che la Spagna, in questa particolare ed anche un po’ bislacca classifica, guadagna posizioni, mentre l’Italia ne perde. Ma, a conferma di questa pur sommaria analisi, perdono posizioni anche Paesi ben più blasonati come la Germania (117, 115, 114 sempre nei tre anni), l’Inghilterra (122, 120, 118) e persino l’area euro nel suo complesso (111, 111, 110). In definitiva, in questa classifica l’Italia ha perso quattro punti come l’Inghilterra, tre ne ha persi la Germania ed uno l’intera area euro. Concludendo: non c’è stato alcun sorpasso poiché il pil pro capite italiano è ancora del 12,6% più elevato di quello spagnolo; quello spagnolo, pur essendo minore, esprime un potere d’acquisto maggiore in quanto in Spagna il livello dei prezzi è più basso. C’è - e lo sapevamo anche prima - un divario nel ritmo di crescita dei due Paesi che prospetta un sorpasso, ma non prima di sette-otto anni. Se la Spagna può costituire un riferimento valido, e certamente può costituirlo dati i molti aspetti di vicinanza e di similitudine tra i due Paesi, c’è tutto il tempo per evitare quel sorpasso o almeno per ritardarlo quanto più possibile. Un tempo che potrà essere impiegato tanto più proficuamente quanto più corrette ed oggettive saranno le analisi sulla realtà dell’economia e sulla effettiva natura dei suoi problemi. Pubblicato il: 20.12.07 Modificato il: 20.12.07 alle ore 8.22 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi. Al voto tra inflazione e recessione Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2007, 11:33:33 pm Se nasce AliFrance
Alfredo Recanatesi Era quanto meno probabile, se non proprio scontato, che il consiglio di amministrazione di Alitalia individuasse nel gruppo Air France-Klm quello nel quale il futuro della compagnia potesse trovare le più affidabili prospettive di ripresa e di affermazione. Il cuore, certo, inclinava verso una soluzione nazionale, posto che la preservazione dell’italianità della compagnia di bandiera poggia su argomenti che vanno ben al di là dei tratti caricaturali e antistorici con i quali viene dipinta dalle iperliberiste vestali del mercato e da quanti riducono ogni tema di politica economica e industriale a una difesa del consumatore che spesso si rivela più presunta che reale. Ma, oltre il cuore, c’è la ragione, la quale spingeva, invece, a conferire il controllo della compagnia ad un gruppo come Air France-Klm a motivo della sua dimensione, della sua esperienza, della sua capacità industriale, del peso che già riveste negli accordi internazionali e nelle relazioni con i fornitori, a cominciare dai produttori di aerei di linea. L’alternativa di Air One e Banca Intesa, per quanto fondata su un coerente piano industriale, era indebolita dalla circostanza che la sua capacità organizzativa e gestionale di rilanciare una compagnia a livello internazionale, se non mondiale, era tutta da dimostrare. Del resto, le argomentazioni a favore di una cessione di Alitalia ad Air One, oltre l’italianità, non andavano molto al dilà della difesa di Malpensa come secondo hub italiano, ossia di un assetto strategico che già si è dimostrato alquanto velleitario per un Paese della dimensione dell’Italia. Non si può negare una maggiore razionalità di un sistema, come quello prospettato da Air France-Klm, che copre il centro dell’Europa continentale con gli hub di Amsterdam, Parigi e Fiumicino, inteso come sistema sinergico, lasciando, per altro, a Malpensa un ruolo rilevante anche nella rete di connessioni internazionali (Stati Uniti, Asia, America Latina). Come non si può negare che il declino di Alitalia ha da tempo superato la soglia oltre la quale una soluzione esclusivamente nazionale si presentava tecnicamente e politicamente improbabile. In altre parole, occorreva semmai pensarci prima. L’indicazione che il consiglio di amministrazione ha preso all’unanimità deve essere ora ratificata dal governo: è a lui, in quanto detentore del pacchetto di controllo della compagnia, che spetta l’ultima e risolutiva parola. Almeno fino a ieri il governo non si presentava compatto sulla scelta del futuro di Alitalia, ma a questo punto non può non accogliere e ratificare l’indicazione del consiglio nel quale, avendo deliberato all’unanimità, si sono espressi per la cessione ad Air France-Klm anche i rappresentanti del ministero dell’Economia e del ministero dello Sviluppo. Ciò significa che il dado può essere considerato tratto; qualche ritocco dell’offerta transalpina potrà ancora essere oggetto di trattativa, ma il destino di Alitalia ormai è scritto. Lo si può dire con qualche rammarico, ma anche con grande sollievo perché da troppi anni la compagnia stava sopravvivendo ad un tempo, per altri versi chiuso da anni, nel quale in una azienda la proprietà pubblica era considerata quasi sinonimo di commistione managerial-politico-sindacale, con conseguenze non solo e non tanto economiche, ma di logoramento di un patrimonio come quello dei tempi andati, quando Alitalia portava nel mondo una immagine positiva del nostro Paese, del suo stile, della sua organizzazione e, magari, delle sue ambizioni. È stato necessario giungere alle soglie del fallimento perché quella commistione potesse finalmente essere sciolta per dare un futuro credibile a ciò che dell’Alitalia ancora rimane. Questo chiude ogni spazio a qualsiasi obiezione o recriminazione da parte di chicchessia e presenta l’intesa con Air France-Klm come l’unica possibilità per mantenere comunque una presenza, minoritaria ma non marginale, nel trasporto aereo anche a lungo raggio. Pubblicato il: 22.12.07 Modificato il: 22.12.07 alle ore 8.15 © l'Unità. Titolo: Prodi, le lobbies e il rischio del rinvio (Alitalia). Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2007, 11:00:17 am Il commento
Il commento Prodi, le lobbies e il rischio del rinvio La riflessione nel governo e la decisione della società MILANO - Va dato atto al Consiglio di amministrazione di Alitalia e al suo presidente, Maurizio Prato, di essere andato dritto per la propria strada nell'interesse dell'azienda e dei suoi clienti non preoccupandosi delle molte pressioni cui in questi mesi è stato sottoposto. Pressioni di politici della maggioranza e dell'opposizione, banchieri potenti, il partito del Nord che difendeva Malpensa e i sindacati che difendevano la corporazione di steward e piloti, persino il presidente di Confindustria, sceso in campo a favore di Air One. Una determinazione, quella del consiglio Alitalia, che in Italia non è comune e per la quale i cittadini lo ringraziano. Dopo aver tentennato per un anno (nel quale Alitalia ha perso altri 400 milioni di euro, circa 30 euro per ciascuna famiglia italiana) il governo si è preso altre due settimane per decidere. Non si capisce che cosa. Il consiglio di amministrazione ha motivato la scelta a favore di Air France-Klm pubblicando un documento che risponde al coro di chi difendeva interessi particolari con argomentazioni di buon senso e con un confronto preciso fra le due offerte che gli erano pervenute. La decisione finale è fondata su analisi industriali e finanziarie e sui pareri tecnici degli advisor della società. Che cosa pensa il governo? Di essere più bravo di molti tecnici che hanno contribuito a quella decisione? Dandosi due settimane di tempo Prodi corre un grande pericolo. I variegati interessi particolari che ieri sono usciti sconfitti non andranno certo in vacanza: le pressioni, gli ammiccamenti, le promesse che ieri non ce l'hanno fatta ci proveranno di nuovo. Solo che la prossima volta a decidere non sarà un consesso di persone perbene, ma un Consiglio dei ministri vociferante nel quale gli uni difenderanno i piloti, altri i dipendenti della Sea, altri ancora i sub-fornitori di Alitalia e nessuno i cittadini. Francesco Giavazzi 23 dicembre 2007 da corriere.it La riflessione nel governo e la decisione della società MILANO - Va dato atto al Consiglio di amministrazione di Alitalia e al suo presidente, Maurizio Prato, di essere andato dritto per la propria strada nell'interesse dell'azienda e dei suoi clienti non preoccupandosi delle molte pressioni cui in questi mesi è stato sottoposto. Pressioni di politici della maggioranza e dell'opposizione, banchieri potenti, il partito del Nord che difendeva Malpensa e i sindacati che difendevano la corporazione di steward e piloti, persino il presidente di Confindustria, sceso in campo a favore di Air One. Una determinazione, quella del consiglio Alitalia, che in Italia non è comune e per la quale i cittadini lo ringraziano. Dopo aver tentennato per un anno (nel quale Alitalia ha perso altri 400 milioni di euro, circa 30 euro per ciascuna famiglia italiana) il governo si è preso altre due settimane per decidere. Non si capisce che cosa. Il consiglio di amministrazione ha motivato la scelta a favore di Air France-Klm pubblicando un documento che risponde al coro di chi difendeva interessi particolari con argomentazioni di buon senso e con un confronto preciso fra le due offerte che gli erano pervenute. La decisione finale è fondata su analisi industriali e finanziarie e sui pareri tecnici degli advisor della società. Che cosa pensa il governo? Di essere più bravo di molti tecnici che hanno contribuito a quella decisione? Dandosi due settimane di tempo Prodi corre un grande pericolo. I variegati interessi particolari che ieri sono usciti sconfitti non andranno certo in vacanza: le pressioni, gli ammiccamenti, le promesse che ieri non ce l'hanno fatta ci proveranno di nuovo. Solo che la prossima volta a decidere non sarà un consesso di persone perbene, ma un Consiglio dei ministri vociferante nel quale gli uni difenderanno i piloti, altri i dipendenti della Sea, altri ancora i sub-fornitori di Alitalia e nessuno i cittadini. Francesco Giavazzi 23 dicembre 2007 da corriere.it Titolo: Alfredo Recanatesi - Un'emergenza chiamata salari Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2008, 10:54:26 pm Un'emergenza chiamata salari
Alfredo Recanatesi La questione salariale pone due ordini di problemi, uno di tattica e uno di strategia, tra i quali sarebbe bene non fare confusione per non mirare su obiettivi sbagliati. Conviene considerare prima la strategia perché l’emergenza che oggi si pone, e il cui riconoscimento è finalmente condiviso, è originata da errori strategici commessi negli anni passati e, in particolare, da quando è nata l’Unione monetaria europea. La nascita della moneta unica, con la conseguente perdita delle sovranità nazionali sulle politiche monetarie e sulle politiche del cambio, avrebbe dovuto comportare la adozione di un modello di sviluppo totalmente diverso, praticamente opposto, a quello che aveva presieduto, anche con successo, al progresso economico dell’Italia e al raggiungimento di livelli di benessere tra i più elevati del mondo. Era un modello basato sul contenimento dei costi di produzione e sulla prontezza di reazione alle opportunità di mercato che potevano presentarsi assicurata da una larga prevalenza di imprese medio-piccole. Da più di dieci anni questo modello è entrato in crisi a motivo di due eventi epocali: la adozione di una moneta il cui governo è affidato a una istituzione sovranazionale e la globalizzazione. Quella globalizzazione che ha posto le produzioni basate sul contenimento dei costi in competizione con quelle di Paesi molto più indietro sulla via dello sviluppo e, quindi, con costi correlati a livelli di vita estremamente più bassi. Il modello di sviluppo che questi due eventi avrebbero dovuto imporre era, come si diceva, sostanzialmente opposto a quello fino ad allora seguito. I costi non potevano più essere un fattore competitivo, a meno di non scendere a livelli di vita più simili a quelli dei nuovi competitori soprattutto asiatici, mentre per competere validamente sarebbe stato necessario puntare su innovazione, esclusività, tecnologie sofisticate. Ma questo non possono farlo aziende medio-piccole perché non hanno il respiro strategico, le capacità finanziarie, la propensione al rischio che possono avere solo quando non siano dominate da una famiglia e dalle sue specifiche esigenze economiche e patrimoniali. Le aziende di grande dimensione, che questa capacità possono sviluppare, non solo non sono aumentate, ma sono addirittura diminuite. Questo disadattamento si è tradotto in una particolare sofferenza nella competizione internazionale, nella incapacità del sistema a crescere ad un ritmo non lontano a quello degli altri, in definitiva si è tradotto in un impoverimento del Paese nel suo complesso. La politica che ha fronteggiato questo disadattamento e le sue conseguenze è stato quanto di più strategicamente sbagliato. Tutti i governi che si sono succeduti in questi anni, infatti, invece di adottare misure che almeno tentassero di innescare la necessaria mutazione, hanno posto a carico della collettività una parte del deficit competitivo che le imprese andavano accusando proprio per il fatto di non essersi evolute a sufficienza. Moderazione salariale, alleggerimento di imposte e contributi, lavori atipici per lo più sottopagati sono tutte politiche che hanno puntato sulla riduzione dei costi, ossia su un obiettivo che i due citati eventi avevano reso antistorico. Il fallimento di queste politiche è dimostrato dal fatto che la competitività del sistema nel suo complesso è sempre precaria, e il Paese si è impoverito. L’impoverimento è dato intanto da un tasso di crescita del prodotto inferiore a quello che sarebbe necessario almeno per compensare l’aumento che i prezzi internazionali - energia, materie prime, derrate alimentari - vanno subendo per la maggiore domanda dei Paesi che stanno uscendo dall'indigenza e dal sottosviluppo; ed inoltre è dato dal fatto che si è concentrato sulle categorie lavoratrici in quanto la globalizzazione ha spostato l’asse della distribuzione dei profitti di impresa a favore del capitale, che ha conquistato la libertà di andare per il mondo a cercare i profitti ed i rendimenti più elevati, e a danno del lavoro, posto in competizione con quello dei Paesi dell’est europeo ed asiatico. Affrontare questa evoluzione, e gli errori strategici che l’hanno determinata, con misure di redistribuzione serve a poco. La tattica può suggerire di fronteggiare una emergenza ponendo a carico del bilancio pubblico, ossia a carico della collettività, una quota dei costi che impediscono alle imprese di reggere la competizione, o una quota del reddito necessario alle famiglie più bisognose di arrivare a fine mese. Ma dovrebbe essere ormai evidente che queste politiche, se impiegate in luogo della strategia, finiscono per distribuire non più reddito, ma povertà. La redistribuzione è uno strumento della equità sociale; le politiche di sviluppo sono tutt’altra cosa. Ora siamo di fronte ad una riconosciuta emergenza salari alla quale occorre dare una risposta efficace in tempi brevi, e questa risposta non può essere che quella di attingere al bilancio pubblico per restituire alle categorie più indigenti almeno una parte del potere d'acquisto che hanno perso. Ma, comunque la si metta, una misura in questo senso, doverosa sul piano della solidarietà sociale, potrà solo ritardare, anche per quanti ne saranno i più diretti beneficiari, le conseguenze del processo di impoverimento in atto le cui più attuali manifestazioni possiamo individuare nella raffica di rincari seguiti ai botti di fine anno. Se non sarà accompagnata da una politica di sviluppo che, tutelando i lavoratori, premi le imprese che si convertono per puntare sui parametri competitivi propri di una grande democrazia industriale quale l’Italia è ed intende rimanere (e ce ne sono; poche ma ce ne sono), penalizzando nello stesso tempo le imprese che ancora insistono nel voler competere con i Paesi a basso costo, non ci si illuda: di un alleggerimento del prelievo fiscale su salari e stipendi, per quanto rilevante possa essere, si perderà molto rapidamente traccia, così come si è persa quella dei tanti e pur corposi interventi di redistribuzione finora effettuati dai passati governi e soprattutto da questo. Se il miglioramento delle condizioni di vita di chi lavora non verrà generato da un aumento del valore aggiunto delle produzioni nelle quali il lavoro viene impiegato, ogni soluzione alternativa è destinata ad avere vita breve: tattica, appunto, non strategia. Pubblicato il: 03.01.08 Modificato il: 03.01.08 alle ore 8.13 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi - Ecco i risultati della globalizzazione della carta straccia Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2008, 04:56:29 pm Ecco i risultati della globalizzazione della carta straccia
Alfredo Recanatesi L’intera economia mondiale è stata infettata da quei rifiuti tossici che le banche soprattutto americane hanno diffuso su scala globale. Si tratta di quei titoli cosiddetti derivati che consistono in obbligazioni che rappresentano mutui per l’acquisto di case privi di adeguate garanzie sia perché concessi anche a chi non possiede un reddito per poterli rimborsare, sia perché, con la caduta dei prezzi degli immobili, il valore di mercato di quelle case non copre più l’importo che è stato erogato. Insomma, carta straccia o giù di lì, una truffa che è stata possibile realizzare su scala così macroscopica in un Paese dove l’attività bancaria e finanziaria è tuttora ideologicamente affrancata dai controlli ai quali è invece sottoposta in Europa. L'infezione si sta rivelando più forte del previsto perché non si conosce né l’ammontare di questi titoli in circolazione, né chi li abbia sottoscritti. Ne è derivata una crisi di fiducia sulla reale situazione economica e patrimoniale delle grandi banche. Diffidando le une delle altre, queste hanno fortemente ridotto la propensione a prestarsi reciprocamente denaro. La conseguenza è che, malgrado le robuste iniezioni di liquidità effettuate fin dall’estate scorsa da tutte le banche centrali, il costo del denaro, soprattutto a breve termine, è fortemente salito. Poiché in tutto il mondo economicamente più evoluto la globalizzazione ha penalizzato i redditi da lavoro, e poiché di conseguenza nella grande massa dei consumatori è cresciuta la quota di quanti sono costretti ad indebitarsi, un aumento del costo del credito si traduce in una contrazione dei consumi. Negli Stati Uniti, dove è altissima la quota di persone che, usando le carte di credito, fanno a debito anche per la spesa quotidiana, la frenata della domanda interna sta mettendo in crisi l’intera economia. Insensibile alla pronta reazione di Bush, che nel tentativo di scongiurare un così acuto peggioramento della situazione economica proprio nell’anno delle elezioni presidenziali ha annunciato un piano di riduzioni fiscali, la maggioranza degli economisti vede ormai un futuro prossimo di recessione. A parte gli eccessi di ieri, la tendenza ribassista che tutte le borse stanno registrando da tre mesi a questa parte è il segno di una infezione che dalla finanza si va estendendo all’economia reale. Anche se le banche italiane non si sono fatte coinvolgere dalle sirene di questa finanza tanto innovativa quanto corsara, le conseguenze della crisi americana stanno investendo anche la nostra economia. La Banca d’Italia ha già tagliato le stime di crescita per quest’anno ad un misero 1%, e non è detto che altre revisioni al ribasso si rendano necessarie. Comunque, la stagione della crescita, che già si è rivelata debole con un aumento del Pil che l’anno passato non ha raggiunto neppure il 2%, ora si rivela anche breve, praticamente già esaurita. I problemi che ne derivano sono di due ordini tra loro correlati. C’è in primo luogo una emergenza salari che con una economia in frenata sarà ancora più difficile affrontare. Il contratto dei metalmeccanici, per quanto soddisfacente nelle circostanze date, non è tale da cambiare la vita, così come non può cambiarla una riduzione del prelievo fiscale su stipendi e salari. Perché si possa risalire qualche posizione nelle classifiche del reddito pro capite e, soprattutto, nel livello dei salari occorre uscire dalla logica redistributiva. Questa può essere seguita in presenza di qualche emergenza sociale, più che economica. Ma per avviare la questione verso una soluzione strutturale appare sempre più necessario che il sistema produttivo torni a generare reddito. Le politiche di aumento della produttività e della competitività imperniate sul contenimento dei salari e sulla flessibilità del lavoro seguite all’accordo del 1993 non hanno funzionato se è vero, com’è vero, che oggi l’economia italiana è in condizioni relative peggiori di quelle di allora. Non hanno funzionato perché la difesa dei profitti, che pure hanno consentito, non si è tradotta in una ripresa di investimenti volti a convertire un sistema produttivo strutturato su mercati segmentati e cambio della moneta utilizzabile ai fini della competitività, in uno in grado di sostenere una competizione globale e un cambio fisso e, per di più, molto forte. Non avendo funzionato quelle politiche, il rallentamento dell’economia mondiale coglie l’economia italiana in una condizione di persistente debolezza strutturale. E di nuovo tutto si fa più difficile. Si fa più difficile anche per i conti pubblici, e dunque per quel poco di sollievo che da una riduzione delle tasse potrebbe venire per il potere d’acquisto di lavoratori e pensionati. Una crescita più lenta, forse molto più lenta, non è priva di conseguenze per la prospettiva delle entrate e della eventuale disponibilità di nuovi "tesoretti". Il 2007 si è chiuso con i conti abbastanza a posto, ma questo non basta per concludere che vi siano margini per una iniziativa non simbolica di riduzione delle imposte sui redditi da lavoro dipendente. Occorrerà ridurre la spesa, ma se questa è una operazione di per se difficile, a maggior ragione lo è se l’economia non cresce. Se poi su questo quadro fosco aggiungiamo le incertezze che avvolgono la sorte del governo e della legislatura, davvero non rimane che incrociare le dita e stringerci tutti nelle spalle. Pubblicato il: 22.01.08 Modificato il: 22.01.08 alle ore 13.14 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi I conti e l'emergenza Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2008, 11:04:59 pm I conti e l'emergenza
Alfredo Recanatesi Il limite dei ministri tecnici è dato dalla loro difficoltà a cogliere i condizionamenti che derivano dalle diverse circostanze politiche non solo all’agire, ma anche all’esternare. Che si faccia parte di un governo stabile con anni di legislatura ancora davanti, oppure di un governo in carica per gestire le elezioni non è la stessa cosa. Era giustificabile che il ministro del Tesoro dimostrasse cautela nel considerare l’eventualità di un alleggerimento fiscale su salari e stipendi quando se ne incominciò a parlare, e dunque quando la crisi era ancora lontana. Oggi, tuttavia, quelle stesse asserzioni assumono un tono ed una valenza del tutto diversa. Il che spiega perché allora furono oggetto di critiche, tutto sommato pacate, da parte di chi rifiutava una visione essenzialmente contabile di un problema sociale, ancor prima che economico e finanziario, per riaffermarne la priorità indipendentemente dalla disponibilità o meno di nuove eccedenze nelle entrate tributarie. Oggi, invece, le critiche sono assai più estese e risentite perché, alle ragioni opposte allora, si aggiungono quelle che discendono dal fatto che le asce con le quali combattere il confronto elettorale sono già state dissotterrate. Ha preso le mosse, per altro, una campagna elettorale le cui battaglie più significative, e forse determinanti, si svolgeranno proprio sul terreno delle politiche fiscali. E, almeno in via di ipotesi, le politiche fiscali possono essere le più diverse, naturalmente prevedendo che una onere ritenuto necessario, come quello di una riduzione del prelievo sui redditi da lavoro dipendente, possa essere finanziato attraverso una molteplicità di interventi che vanno dalla riduzione di altre spese, alla imposizione di nuove o diverse tasse, ad un ulteriore impulso nella lotta all’evasione. Come è facile capire, siamo sui temi sui quali le diverse visioni politiche si connotano, si avversano e si contendono il favore degli elettori. E allora, le asserzioni di Padoa Schioppa sul fatto che la esistenza di nuove eccedenze è tutt’altro che accertata, che al contrario il rallentamento dell’economia le rende improbabili, e che quand’anche ci fossero potrebbero essere necessarie per difendere l’equilibrio dei conti pubblici da eventuali e probabili rallentamenti del flusso di entrate; queste asserzioni - si diceva - non fanno una grinza sotto il profilo tecnico; ossia per quell’aspetto che lo ha indotto a replicare, anche un po’ piccato, a chi va sostenendo che «i soldi ci sono» che difficilmente altri possono saperne più di lui. Ma, se per questo aspetto, la sua posizione non fa una grinza, fa una brutta piegaccia sotto il profilo politico. Il ministro, infatti, ha involontariamente sollevato una questione non da poco. Anzi, più d’una. La prima è che rinviando addirittura a luglio il tempo nel quale sarà possibile determinare con certezza eventuali disponibilità finanziarie da impiegare per alleggerire il prelievo fiscale su salari e stipendi, di fatto ha escluso che sulla questione possa decidere l’attuale governo. E se ad occuparsene sarà il governo che uscirà dalle urne il 15 aprile, tutto è destinato a tornare in alto mare, e magari non sarà più materia di Padoa Schioppa, ma di un governo meno sensibile - diciamo così - alle ragioni della equità sociale. La seconda questione è: se davvero non si verificassero nuove eccedenze di entrate, l’“emergenza salari” finalmente riconosciuta sarebbe con questo superata? Sarebbe superata la “priorità” con la quale era stata iscritta nell’agenda della politica? E che priorità sarebbe se viene subordinata esclusivamente ad una eccedenza di entrate rispetto alle previsioni, come se fosse il bonus di una azienda che abbia chiuso un bilancio particolarmente positivo? E ancora: detto tutto questo, possibile che non ci sia comunque modo di adottare una prima misura di alleggerimento senza compromettere il riconquistato equilibrio dei conti? Le incaute polemiche sollevate dalle considerazioni del ministro ora complicano, ad evidenza, la realizzazione degli interventi che erano stati ipotizzati, se non altro per le strumentalizzazioni in chiave elettorale alle quali qualsiasi decisione sarebbe inevitabilmente esposta. Un tema già politicamente complesso e già giuridicamente ingarbugliato a motivo dell’apertura della crisi, ora si presenta vieppiù complicato dai condizionamenti che l’imminenza delle elezioni pone ad ogni forza politica. I problemi, le difficoltà, il crescente disagio di tanta parte delle famiglie italiane che ogni rilevazione statistica hanno incontestabilmente certificato rimangono, ad oggi, l’unica cosa certa; ma invece di andare verso una soluzione degna del grado di civiltà, ancor più di equità, che il Paese deve e vuole dimostrare, sembra che si vada nella direzione opposta. Pubblicato il: 13.02.08 Modificato il: 13.02.08 alle ore 9.06 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi. Una sfida per l'Italia Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2008, 12:17:02 am Economia: l’importante è fare
Alfredo Recanatesi C’è in Italia una paranoia per i programmi delle forze politiche. È una paranoia alimentata dal cosiddetto «bipolarismo muscolare», ossia dall’asprezza della contrapposizione che ha generato una strumentalizzazione dei programmi, usati più per coprirsi dalle critiche degli avversari, pronti a cogliere manchevolezze, incoerenze o genericità, che per evidenziare e argomentare la tipicità di un disegno per la crescita materiale e civile del Paese. Non basta. Occorre anche, e soprattutto, rendere credibile la realizzazione di tali progetti. Il programma che Veltroni ha presentato ed illustrato non poteva non tenerne conto, e vi si è adeguato senza farsi illusioni che, il giorno dopo, visto da sinistra, sarebbe stato interpretato come «il programma di Confindustria» (titolo di ieri del giornale di Rifondazione), visto da destra, proprio il giornale della Confindustria vi avrebbe colto «silenzi sul mercato» e «coperture improvvisate sulle pur generose promesse su fisco e salari». Insomma, musica vecchia che può generare delusione in chi, contagiato da quella paranoia, si aspettava qualcosa di più adeguato, sia nella forma del programma, sia sulle reazioni che ha suscitato, a quell’aria nuova che il segretario del nuovo partito intende portare, ed in effetti sta portando, nella politica italiana. I suoi dodici punti sono anch’essi vittime per la loro stringatezza di quella paranoia, tanto più dopo le critiche anche sarcastiche delle quali furono fatte oggetto le 270 e passa pagine del governo Prodi. Sono il risultato di una compressione che non ha lasciato spazio non dico ai dettagli, ma neppure a quel minimo di qualificazione che avrebbe potuto distinguerli dall’ovvietà. I problemi dell’economia e della società italiani sono ormai ben noti ed anche largamente condivisi: non può essere questo il terreno sul quale inventare qualcosa di nuovo. Salari, precariato, pressione fiscale, sostegno alle famiglie, maggiore inserimento delle donne nel sistema produttivo, superamento delle resistenze alla realizzazione di infrastrutture tipiche di qualsiasi Paese evoluto, dall’alta velocità ai termovalorizzatori ed ai rigasificatori: qui non c’è niente da inventarsi; anzi, è bene non provarci nemmeno. Il problema non è stilare un elenco di priorità da affrontare, ma individuare le forme, i percorsi, le procedure della politica che consentano di affrontarle ed avviarle a soluzione. Qui sta il «nuovo» di Veltroni, o almeno il tentativo di superare forme, percorsi e procedure che il centro destra come il centro sinistra hanno sperimentato senza quel successo che avrebbe consentito all’Italia di non ritrovarsi nelle ultime posizioni delle classifiche europee. Veltroni ed il nuovo PD hanno rotto il bipolarismo muscolare proprio nell’assunto che siano molte, e spesso determinanti, le soluzioni, le decisioni, le scelte che godono di una ampia maggioranza di consensi, ma che finora non hanno potuto avere seguito perché, nell’una come nell’altra coalizione, si sono scontrate con i veti di minoranze in cerca di visibilità mediatica prima che politica. Trovare un modo perché la politica non sacrifichi sull’altare delle polemiche tra le avverse coalizioni il denominatore comune di iniziative condivise: questo è il programma del PD di Veltroni, il programma che conta, quello sul quale il partito e lui per primo chiederanno il voto del prossimo 13 aprile. Poi, certo, differenze ce ne sono, ci mancherebbe; non siamo certo tra coloro che considerano superate le distinzioni tra destra e sinistra. Ma sono differenze che vengono dalla storia delle diverse componenti politiche, dalle esperienze passate, dalle prove già date, dalle loro concezioni sul ruolo dello Stato, dalla sensibilità dimostrata verso le ragioni dell’equità distributiva e della solidarietà, dal credito che può essere attribuito alle singole persone: tutti elementi di valutazione e giudizio che formeranno le decisioni di voto, ma che non troviamo, non possiamo trovare, nei programmi; tanto meno in quelli che la cultura mediatica oggi dominante pretende ed impone succinti, schematici, sintetici. Le ragioni di un credito da attribuire ad una forza politica ed ai suoi leader che si candidano alla guida del Paese non possono essere ridotte alla formulazione di un elenchino di cose da fare perché non potrà mai essere completo né, tanto meno, argomentato. La Politica, quella che «deve rialzarsi» e riguadagnare la P maiuscola è ben altra cosa. Pubblicato il: 18.02.08 Modificato il: 18.02.08 alle ore 8.15 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi. Al voto tra inflazione e recessione Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2008, 12:02:58 pm Al voto tra inflazione e recessione
Alfredo Recanatesi La benzina è arrivata a 1,4 euro. Un record. Ma possiamo comprendere meglio questo record se diciamo che equivale ad oltre 2700 lire. Un altro record è stato toccato dai tassi sui mutui. Il caso ha voluto che nello stesso giorno assumessero evidenza i principali fattori del male che contagia l’economia mondiale: il rincaro del petrolio e la crisi finanziaria seguita allo sconcertante caso dei mutui americani privi di garanzia. Sono mali non passeggeri: il petrolio, ed a seguire le altre forme di energia, rincara perché la domanda mondiale aumenta più di quanto possa esserne incrementata l’estrazione; la crisi dei mutui ha determinato una caduta della fiducia reciproca tra le banche, quindi un inaridimento dei loro reciproci rapporti, carenza di liquidità, aumento del costo del credito. Il "mal comune" sarebbe un "mezzo gaudio" se non fosse che l’Italia ne è colpita più duramente; molto più duramente. Tra le notizie di ieri, infatti, c’è anche la revisione delle stime di crescita elaborate dalla Commissione europea. A causa di quel male di cui si è detto, tutte le stime hanno subito tagli, ma, mentre per l’insieme dei Paesi europei viene prevista una crescita dell’1,8 rispetto al 2,4 stimato in precedenza, per l’Italia il taglio ha portato ad un aumento del Pil di appena lo 0,7%, fatto per di più nella seconda parte dell’anno perché nella prima, con un aumento dello 0,3% appena nell’arco di sei mesi, sarebbe più esatto parlare di stagnazione. Prezzi internazionali in crescita in presenza di una stagnazione del reddito prodotto determinano un impoverimento del Paese nel suo complesso. Questo impoverimento colpisce soprattutto salariati, stipendiati, pensionati, precari già sottopagati, tutte le categorie che non hanno alcuna possibilità di rivalersi per difendere il loro potere d’acquisto. Il problema è già emerso con tutta la sua drammatica evidenza negli anni passati. Quest’anno è destinato ad aggravarsi ulteriormente come dimostra il previsto aumento dell’inflazione al 2,7 per cento. Sta prendendo le mosse una campagna elettorale che presenta non poche novità. La politica cerca di rinnovarsi uscendo dalla logica bipolare con una disgregazione delle coalizioni finora sperimentate e con la nascita di nuove formazioni. È dichiarato l’intento di affrontare i problemi reali e di dare risposte concrete ai bisogni dei cittadini. Ciò nondimeno il tema del declino o - se questo termine è ritenuto sconveniente - dei limiti alla crescita non sembra ancora aver trovato il rilievo che la sua drammaticità reclama. Certo, nei dodici punti del programma di Veltroni lo sviluppo è iscritto come un obiettivo prioritario, e possiamo star certi che un analogo concetto figurerà nel programma di Berlusconi. Ma ancora non emerge una politica che renda credibili queste asserzioni e schiuda una prospettiva di soluzione. Continua a prevalere una logica redistributiva (anche la riduzione di tasse, imposte ed accise è redistribuzione) in luogo di un disegno che punti ad incrementare la produzione di reddito almeno per compensare quello che ci viene sottratto dai rincari dell’energia e delle materie prime di base. Che occorra aumentare la produttività è diventato un luogo comune, ma nessuno dice che la produttività dipende dalle imprese, dal loro slancio verso l’innovazione, dalla loro propensione ad investire e rischiare, dalle risorse che destinano alla ricerca. Nessuno ricorda che la produttività nelle imprese di grande dimensione è quasi doppia di quella delle imprese minori. Nessuno ricorda, di conseguenza, che nel mondo globalizzato nel quale Cina e India sgomitano per farsi largo, un sistema di imprese mediamente piccole come il nostro non ce la può fare. Poi, certo, c’è la ricerca pubblica, le infrastrutture, l’efficienza delle amministrazioni, di problemi non ne mancano; ma se non c’è un sistema produttivo (un sistema, non una minoranza di aziende illuminate e capaci) in grado di reagire il declino non potrà essere neppure arrestato. Nell’immediato rimangono iscritte nell’agenda della politica una riduzione del prelievo fiscale su stipendi e salari ed una riduzione delle accise sui carburanti: ma si tratta di misure più umanitarie che di politica economica. L’unica politica economica, anzi industriale, la sta facendo la Bce mantenendo l’euro forte con il risultato, per un verso, di contenere l’inflazione e, per altro verso, di spingere le imprese a cercare competitività su componenti diverse dal prezzo. Ma non può bastare. Se anche la politica nazionale non opererà nella stessa direzione, il declino e l’impoverimento sono destinati a connotare, dopo il passato ed il presente, anche il nostro futuro. Pubblicato il: 22.02.08 Modificato il: 22.02.08 alle ore 8.16 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi. Una sfida per l'Italia Inserito da: Admin - Febbraio 29, 2008, 02:47:22 pm Una sfida per l'Italia
Alfredo Recanatesi Il dollaro continua a deprezzarsi. La stagnazione dell’economia americana, confermata ieri dal presidente della Fed, unita ai persistenti, cronici, abissali suoi squilibri - il disavanzo commerciale e il deficit del bilancio federale - stanno erodendo la residua fiducia nel biglietto verde sceso ieri a soli 66 centesimi di euro. Per chi ha memoria del dollaro a 2200 lire ed oltre, non è superfluo aggiungere che nella nostra vecchia moneta quei centesimi equivalgono a 1279 lire. Una svalutazione epocale che supera il 40 per cento. Ne deriva un deterioramento delle ragioni di scambio che taglia drasticamente la competitività di quanto si produce con costi in euro e si esporta non solo negli Stati Uniti, ma in tutti quei Paesi la cui moneta è sostanzialmente agganciata al dollaro. Si tratta di una considerevole parte del mondo comprendendo tutta l’Asia, con esclusione del solo Giappone, e tutta l’America latina; Paesi le cui esportazioni in Europa, per converso, saranno ancor più competitive. Insomma, l’euro che supera il valore di un dollaro e mezzo è la conferma di quella rivoluzione strisciante che sta rimescolando le carte dell’intera economia mondiale ponendo Paesi, imprese e intere popolazioni di fronte a uno scenario diverso, per molti aspetti opposto, a quello nel quale hanno trascorso gli ultimi cinquant’anni. Una rivoluzione che non si limita ai rapporti tra le monete, ma coinvolge anche le materie prime di base, come ben sappiamo, da consumatori, attraverso il prezzo internazionale del grano e, soprattutto, del petrolio e delle altre fonti di energia. Il superamento della simbolica soglia di 1,50 nel rapporto tra euro e dollaro innescherà, ha già innescato, manifestazioni di preoccupazione per la perdita di competitività delle nostre esportazioni, ulteriori tagli alle prospettive di crescita, invocazione di interventi fiscali per soccorrere le imprese in difficoltà o per calmierare il prezzo alle pompe dei carburanti. Renderà meno velate le critiche alla Banca centrale europea che, occupandosi esclusivamente del controllo dell’inflazione, mantiene i tassi di interesse molto al disopra di quelli americani, così concorrendo a tonificare sempre più un euro già molto forte. Tutto ciò nondimeno, ci sono argomenti per sperare che non tutto il male venga per nuocere. L’evoluzione dell’economia mondiale - i cambi, i prezzi internazionali, la concorrenza dell’Asia - rende sempre più esplicito il ritardo col quale il sistema produttivo italiano ne prende atto e vi si adegua. Con riferimento alle politiche svolte in questi ultimi anni e persino ai programmi delle forze politiche che si confronteranno nelle elezioni di aprile, non solo il nostro sistema produttivo è ancora prevalentemente puntato sulla competitività di prezzo, ma continua a essere spinto in questa direzione dalla politica economica e fiscale, quella attuata in passato e quella promessa per il futuro. Non si tratta solo di prospettare alleggerimenti fiscali per le imprese, ma anche normative sul lavoro che, in un modo o nell’altro, lo svalutano in termini di remunerazione o di tutele, e addirittura di porre a carico della collettività un aumento del potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti che il valore aggiunto prodotto dalle imprese con lo stesso lavoro non riesce più ad alimentare in una misura umanitariamente accettabile. Insomma una politica concettualmente assai simile a quella svolta negli anni e nei decenni passati con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti e che, ciò nondimeno, rimane sempre più impermeabile al contesto economico internazionale nel quale, piaccia o non piaccia, l’Italia deve farsi spazio. E allora, ben venga l’euro forte. L’euro forte è frutto dell’atteggiamento «tedesco» della Bce, in questo fedele continuatrice della tradizione della Bundesbank. Ai tempi del marco, questa ha sempre perseguito una politica di moneta forte. A quella politica va riconosciuto - e non certo da oggi - il merito di aver escluso nel sistema produttivo tedesco ogni tentazione a cercare competitività nel prezzo, imponendogli piuttosto di collocarsi sulle fasce più alte della qualità e dell’innovazione fino a farne così il più potente generatore di esportazioni, anche e soprattutto in tempi di globalizzazione e di concorrenza asiatica. Tutto il contrario di quanto è avvenuto in Italia dove, sia pure per una storia sociale e politica diversa, l’economia è sempre stata aiutata con la competitività di prezzo attraverso le svalutazioni della lira, un basso costo del lavoro, trasferimenti a carico del bilancio pubblico per incentivi a vario titolo, accondiscendenza fiscale e contributiva. Non ci si può stupire, quindi, se oggi, pur in presenza di un quadro internazionale di generale rallentamento, il sistema italiano corre rischi ben maggiori di quelli che corrono la Germania ed altri Paesi. Ci si dovrebbe stupire, invece, che questi temi siano del tutto assenti dalla campagna elettorale che ancora una volta, anzi più che mai, si va consumando in una ridda di promesse di spese e benefici, senza alcuna considerazione per le prospettive grigie che si addensano sul futuro dell’economia e delle pubbliche finanze. Di fronte ad una politica siffatta, il sistema produttivo, esclusa una minoranza di imprese più illuminate, si impigrisce; non si impegna certo nella ricerca di produttività, competitività e profitti attraverso maggiori investimenti e più efficienti assetti organizzativi quando ha motivo di sperare che produttività, competitività e profitti possano venirgli dall’esterno, dalla collettività, da una ulteriore svalutazione del lavoro. Un euro forte, molto forte, e prezzi internazionali più elevati, chiudono la porta a prospettive di questo genere, escludono ogni possibilità che attraverso la compressione dei costi sia possibile recuperare competitività, limitano i margini di manovra perché aiuti possano venire dal bilancio pubblico; mettono alla frusta il sistema produttivo. E il sistema produttivo, quando viene messo alla frusta anziché venire lisciato per il verso del pelo, è un sistema che - la storia insegna - sa reagire eccome. Pubblicato il: 28.02.08 Modificato il: 28.02.08 alle ore 8.22 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi. Il nuovo e il vecchio Inserito da: Admin - Marzo 14, 2008, 06:30:03 pm Il nuovo e il vecchio
Alfredo Recanatesi Il fattore di maggior rilevanza emerso finora nell’avvicendamento al vertice della Confindustria è che per la prima volta il presidente sarà di genere femminile. È una innovazione, questa, che gratifica i paladini delle quote rosa e che, perciò, promette rilevanti risultati mediatici, ma interessa poco chi, per contro, inclina a scrutare il futuro della associazione rappresentativa dell’industria italiana nella speranza di scorgervi qualche più sostanziale novità. Non sono molti gli argomenti da poter portare a sostegno di questa speranza; tutt’altro. Al di là delle capacità e del valore della persona, dimostrate anche nel ruolo rivestito nell’azienda di famiglia, la Marcegaglia emerge da una lunga storia di appartenenza agli apparati confindustriali. Interrotta soltanto - e questo, dal nostro punto di vista, è un merito - negli anni della presidenza D'Amato, della guerra (persa) all’art. 18, del Patto per l’Italia, del fiancheggiamento militante sia di Berlusconi che, soprattutto, del berlusconismo. Ma, se le va riconosciuta la presa di distanze da quegli estremismi, non si può non tener conto anche della sua integrale e fattiva adesione alla concezione di un ruolo della Confindustria che viene dagli anni passati, che si definì più compiutamente negli anni di Fossa, ed è stato confermato negli anni di Montezemolo. Peculiarità di questo ruolo, che non si riscontra nelle analoghe organizzazioni imprenditoriali degli altri maggiori Paesi europei, è la circostanza che si tratta, com’è ovvio, di una associazione corporativa o, almeno rappresentante specifici interessi economici, ma, ciò nondimeno, accreditata di una funzione istituzionale, nel senso che le sue posizioni vengono spesso assunte, presentate e pubblicizzate, come oggettive, come se il loro riferimento fosse l'interesse generale del Paese e non quello di una parte, pur rilevante, di esso. Giocano in questo senso due specifici fattori: gioca il grande peso (per non dire condizionamento) che la Confindustria, la grande imprenditoria, la finanza detengono sui mezzi di informazione; e gioca la struttura stessa del sistema produttivo italiano che, parcellizzato in una miriade di micro imprese, costituisce una forza elettorale assai rilevante corteggiata, in quanto tale, da ogni schieramento politico che ambisca conseguire una quota di consensi a due cifre. Il risultato di questa distorsione è sotto gli occhi di tutti: è l’incapacità del sistema economico di crescere, è la progressiva sperequazione nella distribuzione del reddito, è la stagnazione del potere d’acquisto di salari e stipendi, è la diffusione di una precarietà usata molto più per perseverare nella compressione dei costi (del lavoro in particolare) che per la flessibilità necessaria al sistema produttivo per essere più efficiente, è l’indirizzo impresso al dibattito, attualissimo, sulla produttività come se questa dipendesse esclusivamente dalla normativa sul lavoro. Per dire del ruolo svolto in questi anni dalla Confindustria, a questo risultato, che è sotto gli occhi di tutti, va aggiunto un elemento che, guarda caso, sotto gli occhi di tutti non è: ossia la circostanza che questa desolazione non ha toccato i profitti i quali, invece, risultano essere stati difesi, secondo dati Banca d’Italia e Mediobanca, quanto e più che negli altri Paesi. Per questo motivo la Confindustria, questa Confindustria, agli associati va benissimo. Ed è nelle cose che, di conseguenza, la scelta del successore di Montezemolo sia caduta sulla Marcegaglia indipendentemente dal suo essere donna. La distorsione non sta tanto nel ruolo che svolge l'organizzazione, quanto nella oggettività che viene attribuita alle sue posizioni, alle sue analisi, alle sue richieste. Lo dimostra il fatto che nella pur vasta produzione di analisi che esce dai suoi uffici, per non dire dell'informazione che direttamente o indirettamente controlla o ispira, mai figura una ombra di valutazione critica sul ruolo svolto dal sistema produttivo. Mai. L’industria è sempre presentata in credito verso il Paese, esente da ogni macchia, immune da errori di strategia o di assetto. Prendiamo, pescando nella più viva attualità, il tema della produttività il cui ristagno determina l’impossibilità di remunerare più decentemente il lavoro. Norme sul lavoro, inefficienza delle amministrazioni pubbliche, carenza di infrastrutture, peso fiscale sono le cause che la Confindustria ci espone quasi ogni giorno a motivazione di quel ristagno. Non dice mai che la produttività nelle aziende straniere che operano in Italia è maggiore mediamente del 50%, e che quella delle grandi aziende è addirittura doppia di quella delle piccole. Si parla di aziende che operano in Italia, con dipendenti italiani, con le norme italiane, il fisco italiano, le strade e le ferrovie italiane, insomma i costi italiani. Possiamo concluderne che il problema non è solo quello che denuncia la Confindustria, ma è soprattutto nel nanismo delle imprese, nella loro governance familiare, nella conseguente ritrosia ad investire, nel deficit di imprenditorialità che impedisce loro di aggregarsi, di fare massa critica, di raggiungere dimensioni che consentano innovazione, ricerca, confronto con una concorrenza globale su mercati globali? L’industria italiana ha perso la grande occasione della stabilizzazione monetaria, della nascita dell’euro, degli anni di bassissimo costo del denaro per passare dal XX al XXI secolo (si legga il libro di P.L. Ciocca «Ricchi per sempre?»). Il sistema bancario quella occasione l’ha colta (ci si consenta di dire: sotto la regia di Antonio Fazio); è stata colta da molte imprese che ora godono di un più che meritato successo di mercato e di profitti; ma la maggior parte del sistema quella occasione l’ha persa, la politica gli ha dato una mano nel perderla seguendo (per quanto ha potuto) i suoi suggerimenti di politica economica, ed ora siamo qui ha parlare di emergenze sociali, di impoverimento, di declino. È improbabile che una Confindustria guidata dalla Marcegaglia sia diversa da quella conosciuta in questi anni. Senza venir meno al suo ruolo corporativo, sarebbe già tanto se interpretasse la sua missione di difesa dei legittimi interessi delle imprese secondo obiettivi strategici di più lungo periodo anziché esaurirsi nel chiedere alleggerimenti, flessibilità, agevolazioni; se, per altro aspetto, si concentrasse più sul contributo che il sistema imprenditoriale può dare al futuro del Paese che chiedere, spesso chimericamente, cosa il Paese può fare per il futuro delle imprese. Non si tratta di immaginare che le imprese distolgano l'attenzione dalla cura dei loro interessi per impegnarsi su quelli dell'intera comunità nazionale, che sono oggetto della responsabilità della politica. Si tratta, al contrario, di immaginare una Confindustria più focalizzata sugli interessi del mondo imprenditoriale, capace magari di svolgere un ruolo pedagogico verso quanti non sanno o non vogliono crescere, meno impegnata sui benefici che può ottenere nelle varie congiunture politiche per impegnarsi su obiettivi di più largo e lungo respiro guidata dalla consapevolezza che, se il declino del Paese non si arresta, sarà difficile cavarsela anche per tante imprese e per tanti imprenditori. Ma immaginare una tale discontinuità nella transizione da Montezemolo alla Marcegaglia al momento appare davvero azzardato. Pubblicato il: 14.03.08 Modificato il: 14.03.08 alle ore 13.36 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi. Alitalia: "Ma c'era un'altra strada?" Inserito da: Admin - Marzo 18, 2008, 12:32:09 am Alitalia: "Ma c'era un'altra strada?"
Alfredo Recanatesi Fuori la porta di Alitalia non c’è una fila di compagnie, investitori o cordate che si accalcano per poterla rilevare. Non c’è nessuno che abbia un piano credibile con i soldi, l’esperienza e le relazioni internazionali per assicurarne la realizzazione. C’è solo Air France-Klm la cui offerta ha ricevuto un parere favorevole da parte del consiglio di amministrazione al termine di una riunione la cui durata - ben 16 ore - lascia supporre che sia stata esaminata in ogni suo particolare e risvolto. Del resto, poiché i francesi sanno quanto e più di noi che l’unica alternativa che il futuro di Alitalia possa realisticamente prevedere è il fallimento, va riconosciuto che non hanno calcato la mano. Il loro piano prevede investimenti cospicui, tre anni per il risanamento prima di una graduale crescita con aerei moderni, il mantenimento del marchio e della livrea; insomma la compagnia continuerà a vivere come entità autonoma con una sua propria identità italiana offrendo servizi che sarà interesse di chi vi ha investito del suo rendere efficienti e competitivi. Comunque, non c’erano margini perché il parere dell’azienda fosse diverso. Le condizioni poste, certo, sono amare, seppure comprensibili. Non è tanto il valore di concambio attribuito alle azioni della società, che tengono conto del suo stato prefallimentare, delle perdite correnti che ancora quotidianamente genera e della più recente evoluzione dei mercati finanziari che ha ridotto di un terzo o giù di li il valore di mercato delle azioni di qualsiasi società di qualsiasi parte del mondo. Sono le condizioni poste a garanzia del "contratto" che rivelano una sostanziale diffidenza verso gli impegni di un Paese dove nulla ormai può essere considerato certo e definitivo. Per non rischiare di rimanere a metà del guado, e rimanere invischiati in una rete di resistenze, ostacoli, ricorsi e chissà cosa altro ancora, i francesi hanno chiesto impegni scritti e preventivi che riguardano il governo (impegno ad aderire alle offerte di acquisto delle azioni ed a mantenere i diritti di traffico attualmente in possesso di Alitalia), la Aeroporti di Roma (che deve assicurare i servizi sui quali il piano di rilancio deve poter contare), la Sea (perché si risolva il contenzioso aperto dalla inopinata richiesta di risarcimento per la riduzione dei voli Alitalia su Malpensa), la ricontrattazione di alcuni servizi a terra forniti a condizioni più onerose di quelle normali in altri scali internazionali. Tra le condizioni poste c’è anche - e si sapeva - la preventiva adesione al piano di risanamento delle organizzazioni sindacali. Non stupisce dopo le molte e ripetute agitazioni che hanno travagliato la storia della compagnia anche nel periodo recente, quando già boccheggiava ed era in cerca di un partner che si impegnasse nel suo salvataggio. I sindacati ora manifestano resistenza, forse sperando di poter trattare su quei 1600 esuberi che sono un boccone duro a mandar giù, ma non si può dire che non sia stato cucinato a lungo e che possa essere stato evitato nel menù di qualsiasi altro soccorritore. Anche per i sindacati - e forse soprattutto per i sindacati - vale la circostanza che l’unica alternativa all’accordo con Air France - Klm, a questo punto, è il fallimento di Alitalia, che renderebbe esuberi tutti gli attuali dipendenti con la eventuale prospettiva, per alcuni di essi, di rientrare in parti della compagnia che dovessero essere rilevate dalla procedura fallimentare, ma a condizioni sicuramente peggiori. In altri termini, il compimento della cessione di Alitalia ad Air France - Klm postula il superamento di una liturgia la cui celebrazione non può modificare più di tanto i termini della proposta di acquisto, delle relative condizioni e degli impegni dell’acquirente. Da trattare c’è davvero poco perché per trattare è necessario un minimo di forza contrattuale che la compagnia, lo Stato che ne è l’azionista di controllo ed i dipendenti attraverso i loro sindacati hanno fatto di tutto, ma proprio tutto, per compromettere. Al punto in cui sono le cose, la prospettiva che Alitalia venga salvata all’interno del maggiore gruppo europeo del settore con la salvaguardia del brand, del tricolore sul timone di coda e della maggior parte dei suoi dipendenti è tutt’altro che disprezzabile. Anzi, è la fine accettabile di una storia che avrebbe potuto finire molto peggio e che comunque rimarrà nei libri come esempio della capacità tutta italiana di disperdere un patrimonio di esperienze, di professionalità, di potenziale tecnico e di mercato come quello che Alitalia, in anni ormai lontani, aveva dimostrato di saper accumulare. Pubblicato il: 17.03.08 Modificato il: 17.03.08 alle ore 8.57 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI. Alitalia, il grande sabotaggio Inserito da: Admin - Marzo 21, 2008, 07:38:19 pm Se decolla la propaganda
Alfredo Recanatesi Davvero qualcuno potrebbe credere che in Italia ci siano imprenditori disposti a investire sul risanamento e sul rilancio di Alitalia? Via. Se in Italia ci fosse una Imprenditoria con la “i” maiuscola la compagnia non sarebbe arrivata allo stato precomatoso nella quale purtroppo si trova. Di tempo per pensarci e organizzarsi non è certo mancato dal momento che il problema si è posto da almeno cinque anni, ossia da quando una soluzione sarebbe stata finanziariamente meno impegnativa e industrialmente meno complessa. L’ipotesi, si sa, è stata avanzata da Berlusconi nel corso di un intervento elettorale. Come imprenditore, oltre che come politico, Berlusconi si ritiene un leader. Ma, mentre un leader politico può dire ciò che vuole, rimanendo a chi lo ascolta in che misura dargli credito, un leader imprenditore no: se entra oggi, a pochi giorni dalla scadenza che l’unico potenziale acquirente ha posto per una definitiva decisione, nella questione Alitalia deve farlo seriamente. Il leader politico può anche limitarsi a sventolare la bandiera dell’italianità per caricare il suo elettorato in vista delle elezioni. Il leader imprenditore, se auspica e sollecita una cordata di imprenditori italiani per rilevare e rilanciare la compagnia, la deve rendere credibile mettendo sul piatto, lui per primo, l’impegno finanziario che è disposto ad assumersi nella operazione. Invece lui ha gettato il sasso e ritirato la mano, dicendosi personalmente disinteressato alla questione per via del suo impegno politico (sic!) ma prospettando, tanto per dire, una possibile, ma sempre vaga, adesione dei figli. Il cardine dell’operazione dovrebbe essere - sempre nell’ipotesi di Berlusconi - la accoppiata Air One-Banca Intesa, che già si fece avanti quando fu bandita l’asta, ma con un piano industriale che non raccolse valutazioni positive, tanto che la stessa Banca appare già da tempo ben lontana dai suoi originari entusiasmi. È evidente, dunque, che quella di Berlusconi è solo una strumentalizzazione in chiave elettorale di una vicenda triste, per molti aspetti drammatica, come quella di Alitalia. Una strumentalizzazione soprattutto degli interessi lombardi che ruotano attorno all'aeroporto di Malpensa. Berlusconi, infatti, non si è limitato a prospettare una possibilità alternativa, ma ha espresso palese contrarietà nei confronti ai Air France-Klm, ben sapendo che il presidente Spinetta puntava ad ottenere il consenso anche del centro-destra per evitare il rischio di ritrovarsi un governo ostile in un Paese del quale gestisce la compagnia di bandiera. Tutto - si diceva - per tutelare il ruolo ed i fatturati di Malpensa, ossia di un aeroporto che - è bene ricordarlo - come hub è sostanzialmente abortito poiché raccoglie una quota modesta del traffico intercontinentale originato nel Nord; ed è abortito perché lo stesso Nord ha commesso la follia di dotarsi di un aeroporto ogni cinquanta chilometri, per cui è molto più semplice e conveniente raggiungere un hub vero - come Zurigo, Fiumicino, Parigi o Francoforte - con un volo da uno di questi aeroporti “sotto casa” che raggiungere Malpensa per strada o in treno. L’ultimo affronto che Alitalia poteva meritare è proprio di vedere quanto può ancora costituire il suo futuro sacrificato sull’altare di una contingente convenienza elettorale. L’offerta di Air France-Klm può essere anche giudicata colonialista, opportunista, o quel che volete voi. Alcune condizioni poste possono anche essere ritenute mortificanti. Può essere irritante, specie per la mentalità italiana secondo la quale niente è mai definitivo e tutto si può sempre trattare, che si sia arrivati al “prendere o lasciare”. Ma non è questo il punto. Il punto è che il gruppo franco-olandese è l’unico ad offrire ad Alitalia un futuro credibile. Altre possibilità, dopo mesi di procedura ufficiale ed anni di sondaggi, non ce ne sono. Possiamo piangere fiumi di lacrime sul latte versato, ma questo non varrebbe a definire una alternativa. Se l’offerta di Air France-Klm viene lasciata decadere, la situazione economico-patrimoniale di Alitalia rende pressoché automatico il commissariamento, seguito a ruota dal fallimento. E fallimento significa che molti rami d'azienda di Alitalia verranno chiusi, altri finiranno ad altre compagnie o società di servizi, i più perderanno il lavoro, quelli che lo manterranno ricominceranno da zero o quasi, alle dipendenze di altre società. Creare l’illusione che possano esserci soluzioni più convenienti, più “italiane”, più disponibili a mantenere gli attuali organici alle condizioni economiche e normative attualmente vigenti, e magari anche a mantenere sulla giacca di Malpensa i galloni di hub intercontinentale; tutto questo può aiutare a conquistare facili consensi da spendere il 13 aprile, alla condizione, però, che non si pensi neppure al conto che dopo si dovrà pagare. Pubblicato il: 21.03.08 Modificato il: 21.03.08 alle ore 8.21 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi. La crisi e la polvere Inserito da: Admin - Marzo 25, 2008, 07:37:34 pm La crisi e la polvere
Alfredo Recanatesi E allora: se votiamo per la Lega vuol dire che Malpensa rimane con tutti i voli intercontinentali di Alitalia? E se votiamo per il Pdl vuol dire che Alitalia rimarrà di proprietà italiana? O, ancora: se votiamo per la lista del ministro Bianchi vuol dire che Alitalia ha i soldi per arrivare a fine anno? Oppure: se votiamo Pd vuol dire che regaliamo la nostra compagnia di bandiera ai colonizzatori francesi? Si potrebbe continuare con le posizioni di Casini o con le tante sfumature che pure si possono cogliere all´interno delle coalizioni e degli stessi partiti. Fatto sta che, presa in pasto dalla campagna elettorale, su Alitalia è stato sollevato un tale fitto polverone dietro il quale non si sa più cosa stia accadendo. Ma è polvere, ossia parole pronunciate senza avvertire la necessità di argomentare o, meglio, avvalorare con dati di fatto quanto con tanta leggerezza si va dicendo. Berlusconi sappiamo com´è fatto: nel bene e nel male si fa prendere dall´entusiasmo fino ad un inconsapevole aggiotaggio annunciando che c´è una cordata italiana pronta a rilevare Alitalia provocando un immediato salto della sua quotazione in borsa (con la Consob che, evidentemente, aveva già cominciato le sue vacanze pasquali). Ma, che membri del governo, senza portare un solo dato contabile, smentiscano il ministro dell´Economia sulla realtà della situazione economica e finanziaria di una Alitalia che lo stesso ministro dell´Economia controlla è cosa già più sorprendente. Com´è sorprendente che la Moratti, Formigoni e l´intero fronte del Nord persistano nel reclamare la moratoria sui voli da Malpensa senza darsi carico di precisare come rimediare ai costi che ciò comporterebbe per una già esangue Alitalia. Dentro questo irritante polverone ci si urta e ci si scontra senza capire neppure perché o su che cosa, come è accaduto ieri tra governo e sindacati per una frase di Prodi. Nella forma quelle parole potevano anche essere più leggere, ma nella sostanza, avendo richiamato i sindacati a tener conto del reale stato di Alitalia e della oggettiva difficoltà di trattare una cessione quando c´è un solo interessato alla acquisizione, è difficile considerarle fuori luogo anche da chi si da carico di tutelare, per quanto possibile, il futuro dei dipendenti. Malgrado questo polverone, infatti, la realtà fattuale rimane quella che era: i conti sono quelli che ha l´azionista di controllo, cioè il ministro dell´Economia; l´unica offerta avanzata formalmente e supportata da un piano industriale credibile è quella di Air France - Klm; se questa decade, malgrado qualche elasticità per la trattativa dichiarata ieri da parte francese, ad Alitalia non rimarrebbe che portare i libri in tribunale. La realtà fattuale rimane quella che era anche dopo l´annuncio e le assicurazioni di Berlusconi, perché non c´è un imprenditore che è uno, una banca che è una, un partner che è uno che finora abbia confermato una pur vaga disponibilità a partecipare alla ventilata cordata italiana. Per altro, non c´è esempio di una compagnia di bandiera che, arrivata sull´orlo del fallimento, sia stata "salvata" senza un passaggio di proprietà transnazionale e senza un iniziale drastico taglio delle rotte, della flotta e degli organici. Neppure la spagnola Iberia che fu, si, privatizzata con un nucleo forte di azionisti spagnoli e non più di un 10% di British Airways, ma solo a motivo di una norma europea ora destinata a decadere con la liberalizzazione dei cieli, aprendo così la strada all´esercizio della opzione che non a caso gli inglesi avevano chiesto ed ottenuto per salire al 50 ed oltre per cento. Ciò nondimeno, il ruolo, e persino la percezione, di Iberia come compagnia di bandiera spagnola non è in discussione né in Spagna, né altrove. Auspicare che la soluzione del problema Alitalia venga tenuta fuori della campagna elettorale sarebbe, a questo punto, ingenuo. Altrettanto ingenuo sarebbe auspicare che almeno non si creino illusioni che tutto, a Roma come a Malpensa, possa proseguire come prima. Non rimane che auspicare che per le loro scelte gli elettori sappiano distinguere le informazioni oggettive e documentate dalle pur intriganti melodie dei tanti pifferai in competizione tra loro. Pubblicato il: 25.03.08 Modificato il: 25.03.08 alle ore 11.18 © l'Unità. Titolo: Alfredo Recanatesi. Una sconfitta per il Paese Inserito da: Admin - Aprile 03, 2008, 05:28:35 pm Una sconfitta per il Paese
Alfredo Recanatesi È naturale che in ogni trattativa i contendenti tendano ad ottenere il maggiore vantaggio possibile. L’abilità di chi tratta, quindi, sta nel calibrare le proprie richieste entro i limiti che ragionevolmente si può presumere che la controparte possa accettare. Quei limiti possono essere anche superati, ma nella consapevolezza che una rottura della trattativa schiuda prospettive più vantaggiose, o meno svantaggiose, di quelle che una conclusione accettabile per la controparte avrebbe comportato. Ieri i sindacati si sono presentati al tavolo con Air France-Klm, di fatto, con un nuovo piano industriale per Alitalia. E lo hanno fatto affermando che sarebbe stato più vantaggioso per la compagnia franco-olandese, quasi a sostenere, implicitamente, di essere più avveduti del loro interlocutore nella gestione e nella pianificazione di una grande compagnia aerea. Hanno chiesto il mantenimento dell’area cargo, una riduzione dei vecchi DC Super 80 da radiare, una anticipazione degli acquisti degli aerei a medio raggio di nuova generazione: e fin qui la corda è stata tirata, ma poteva anche reggere. Dove, invece, la corda si è rotta è sulla inclusione in Alitalia di Az Service attraverso un aumento di capitale sottoscritto con il conferimento delle attività di AZ Service da parte di chi attualmente ne possiede il controllo, cioè Fintecna, cioè il ministero italiano dell’Economia. Una tale operazione avrebbe comportato non solo un sostanziale ingrandimento dell’“oggetto” che Air France-Klm si è offerta di acquisire, ma anche e soprattutto che il gruppo transalpino si sarebbe ritrovato socio, sia pure di maggioranza, dello Stato italiano. Non può essere considerato senno di poi sostenere che una tale richiesta non poteva in alcun modo essere accettata sia per la prospettiva in sé, sia perché, semmai una possibilità fosse stata intravista, per concretarsi avrebbe richiesto la delibera di approvazione da parte del consiglio di amministrazione del gruppo franco-olandese, dopo un complesso iter di analisi, approfondimenti e probabili ulteriori trattative. Insomma, altri mesi. Non si può pensare che i sindacati volessero tentare un escamotage per mantenere in Alitalia una presenza della politica italiana, ma certo è che non potevano ignorare la elevata probabilità che quelle richieste fossero state ritenute irricevibili segnando così la rottura della trattativa con l’unico possibile e credibile acquirente di quel che rimane della compagnia di bandiera italiana. E rottura, infatti c’è stata, con uno Spinetta che si è alzato dal tavolo affermando «per me è finita qui» e probabilmente benedicendo il momento in cui condizionò la sua offerta alla preventiva accettazione da parte delle organizzazioni sindacali, con la conseguenza delle immediate dimissioni del presidente dell’Alitalia, Prato, e la convocazione per oggi di un consiglio dei ministri straordinario. Dopo quanto il ministro dell’Economia ha ripetuto per l’ennesima volta in Parlamento, ossia che dopo Air France-Klm non ci sarebbe potuto essere altro che il commissariamento, il campo delle ipotesi sul futuro di Alitalia è davvero ristretto: altri possibili acquirenti non ce ne sono; quand’anche ci fossero, non sarebbero stati certo incoraggiati dalle cronache di questi ultimi giorni; soldi pubblici ad Alitalia non possono essere dati perché sarebbero aiuti di Stato; la compagnia continuerebbe a perdere e nel giro di poche settimane si renderebbe insolvente verso i dipendenti e verso i fornitori. Eppure c’è qualcuno che per interessi particolari va dicendo che il fallimento sarebbe meglio della “svendita” al gruppo franco olandese; qualcun altro continua a scrutare l’orizzonte in attesa di un cavaliere bianco che salvi Alitalia così com’è, senza esuberi, e magari reintegrando Malpensa nel grado di hub. Sperando di sbagliarci, siamo, invece, tra i tanti che ritengono il fallimento una sconfitta del Paese non solo perché a perdere il lavoro saranno molti di più di quelli messi in conto da Air France, non solo perché l’Italia non avrà più una compagnia di bandiera che ne porti per il mondo un segno identitario, non solo perché lo stesso marchio (forse il cespite di maggior valore) potrà essere acquistato da chissà chi per farne chissà quale uso, ma soprattutto per la dimostrazione che si è data, con abbagliante evidenza, della disperante incapacità di isolare dagli interessi corporativi e di parte, anche quelli più minuti e contingenti, le soluzioni delle criticità, anche quando si tratta del futuro di aziende in qualche modo simbolo, ed anche quando di soluzioni ce n’è una sola. Pubblicato il: 03.04.08 Modificato il: 03.04.08 alle ore 8.27 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI. Alitalia, il grande sabotaggio Inserito da: Admin - Aprile 24, 2008, 09:29:16 am Alitalia, il grande sabotaggio
Alfredo Recanatesi Sulla distruzione di settori industriali l’Italia ha una capacità consolidata, ma mai si era arrivati ad un caso come quello dell’Alitalia. L’integrazione nel gruppo Air France-Klm di quanto ancora rimaneva della compagnia di bandiera era notoriamente l’unica concreta possibilità di dare un futuro ad una aerolinea italiana che portasse in giro per il mondo il segno del nostro Paese. Poteva piacere o non piacere - per carità, tutte le opinioni quando formate in buona fede sono rispettabili - ma era l’unica, nessun altro in questi ultimi mesi ed anni avendo mostrato interesse a rilevare una azienda per la quale era notorio che si stesse cercando una nuova proprietà. Per mere convenienze elettorali, questa possibilità è stata direttamente ed indirettamente boicottata. Direttamente quando Berlusconi dichiarò irricevibili le proposte franco-olandesi annunciando nello stesso tempo fantomatiche alternative prima con la storia della cordata di imprenditori nazionali, che è gente che difficilmente rischia soldi per far crescere le sue aziende, figurarsi se ne mette in una azienda disastrata come Alitalia; poi con le banche, nessuna delle quali a tutto ieri ha mai ammesso di avere un qualche pur vago progetto in merito; e infine, dopo il soggiorno di Putin a Villa Certosa, con Aeroflot, che costituisce una ipotesi inconsistente se non altro sotto il profilo industriale dal momento che la compagnia russa ha una rete nella quale - lo dice chi di queste cose ne capisce - Alitalia non è in alcun modo integrabile con profitto. Tra le cause dirette che hanno fatto saltare l’integrazione nel gruppo franco-olandese c’è anche la questione di Malpensa sulla quale Pdl e Lega hanno condotto una rilevante parte della campagna elettorale. Dimentichi, l’uno e l’altra, che l’originario progetto di fare di quell’aeroporto un hub è stato compromesso non solo dall’assenza di ogni logica di programmazione territoriale che ha consentito lo sviluppo nel nord di tanti aeroporti regionali sui quali si disperde la domanda di traffico, ma anche, fin dall’inizio, dalla difesa per evidenti motivi di consenso politico-elettorale del ruolo di Linate (la resistenza politica a ridurre il ruolo di Linate per favorire il lancio e il consolidamento di Malpensa fu il motivo, alla fine degli anni 90, della rinuncia olandese ad integrare Klm nella Alitalia per formare un gruppo che, allora, sarebbe stato dominato dalla compagnia italiana). E tacendo, l’una e l’altra, che alla difesa di Malpensa non sono estranei i lauti indennizzi che, per l’incomodo del rumore, molti comuni del varesotto - quelli che tanto ce l’hanno con Roma ladrona - percepiscono ed intendono continuare a percepire fino ad aver chiesto, in passato, una riduzione della intensità e della rumorosità del traffico, ma moderata, in modo da non scendere sotto le soglie fissate per gli indennizzi. A porre la parola fine nella trattativa con Air France-Klm hanno concorso anche cause indirette. Tra queste, quelle relative alle fantasmatiche alternative più convenienti ad una intesa con il gruppo franco-olandese. Avendovi prestato fede, seppure contro la logica e contro i loro stessi interessi, le organizzazioni sindacali sono state indotte ad irrigidirsi fino ad indurre il presidente di Air France da alzarsi dal tavolo e tornarsene a Parigi. Inoltre, lasciando nella più assoluta incertezza il futuro della compagnia, con le minacce della Iata e quelle dell’Enac di revocare la autorizzazioni di volo a causa della erosione delle garanzie finanziarie sulla possibilità di rispettare le condizioni operative, la quota di mercato di Alitalia continua, giorno dopo giorno, a precipitare ampliando le perdite che, giorno dopo giorno, la sua operatività già costa. Tutto questo è motivo della grande soddisfazione che gli esponenti del centro-destra vanno manifestando in queste ore. Cosa abbiano in mente è davvero difficile capire perché, a questo punto, delle due l'una: o viene nominato un commissario che di fatto apre il fallimento e la fine della storia, oppure si trova il modo, comunque in conflitto con la Commissione di Bruxelles, di finanziare ancora una volta le perdite a carico del bilancio statale. Molte altre volte - lo sappiamo tutti - è stato fatto; Alitalia è già costata una montagna di miliardi a tutti noi cittadini italiani, ma sempre nella prospettiva di qualche piano di risanamento e di rilancio. Poi magari questi piani si andavano ad incagliare sulla opposizione dei sindacati che trovava facile sponda nel ventre molle della politica. Comunque, almeno nella forma, ci si provava. Questa volta, invece, il nuovo finanziamento, eufemisticamente chiamato prestito, verrebbe erogato, anzi verrà erogato, al buio, senza alcuna prospettiva di un qualche futuro, perché dopo quello franco-olandese di autobus verso un accettabile futuro sarà davvero difficile che ne possano passare. Pubblicato il: 23.04.08 Modificato il: 23.04.08 alle ore 8.15 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI. Primo: difendere i salari Inserito da: Admin - Giugno 01, 2008, 04:16:53 pm Primo: difendere i salari
Alfredo Recanatesi Di fronte alle continue e sempre più marcate impennate dell’inflazione - ormai siamo a 3,6 su base annua e addirittura allo 0,5 nel solo mese che sta finendo - viene da chiedersi quale mai possa essere il livello in grado di suscitare una credibile e determinata reazione strategica. Finora il sistema politico, le organizzazioni rappresentative degli imprenditori e dei lavoratori, le associazioni dei consumatori, gli osservatori economici hanno preso atto che c’è un problema di surriscaldamento dei prezzi che viene dai mercati internazionali dei prodotti di base. Che determina a sua volta un problema di erosione del potere d’acquisto della maggior parte della popolazione che vive di redditi da lavoro o di pensione. Ce n’è voluto, ma oggi questi due aspetti della dinamica dei prezzi sono presenti a tutti e finalmente senza più le contestazioni ed i distinguo che almeno inizialmente venivano avanzati. Oggi, e soprattutto dopo i dati comunicati ieri dall’Istat, non c’è più nessuno che contesti l’esistenza si questi problemi e delle loro, spesso drammatiche, conseguenze sociali. Viene, però, da chiedersi: e allora? Si può fare qualcosa per rimediare? Ed, eventualmente, che cosa? Qui stiamo ancora - come dicono le persone colte - ab ovo, non solo per la esiguità degli interventi, ma soprattutto per la confusione tra tattica e strategia e, dunque, tra gli interventi che al più possono tamponare l’emergenza con le politica che possano puntare a soluzioni durevoli e concrete. L’emergenza è stata fronteggiata con le misure fiscali del passato governo e di quello attuale. Quelle misure sono state giustificate dal fatto che bisognava fare qualcosa, e che quel "qualcosa" non poteva essere ricercato che nella fiscalità: questa è la logica delle misure che vanno dalla riduzione del cuneo fiscale alla abolizione dell’Ici sulla prima casa. Di misure di questo tipo si potrebbe dire che se non ci fossero state la condizione di chi sta peggio sarebbe oggi ancor più drammatica. Ma occorre anche prendere atto che la loro efficacia è stata ben modesta. È stata modesta sia perché la progressione dei prezzi ci ha messo davvero poco a travolgere il modesto sollievo che quelle misure potevano generare, sia soprattutto perché, se si manovra la leva fiscale, per dare da una parte occorre togliere da un’altra, e poco importa se la prima ha maggiore visibilità mediatica della seconda. Il bilancio dello Stato è il bilancio della comunità alla quale tutti noi apparteniamo, per cui al massimo si può ottenere un effetto redistributivo che per tante ragioni - dimensione dell’area sociale del disagio, preclusione politica ad accentuare la progressività dell’imposizione fiscale, rigidità della struttura della spesa pubblica - non può essere che modesto. Modesto ed anche contingente, perché la lievitazione dei prezzi non è un fatto occasionale che possa essere superato in breve tempo, ma deriva dalla geopolitica della globalizzazione che determina un forte aumento della domanda dei prodotti di base e, dunque, una tensione del loro prezzo. Si, poi ci possono essere momentanei effetti speculativi, ma - per dire - il petrolio sotto i 100 dollari sarà difficile poterlo nuovamente vedere. E allora, se sui prezzi internazionali da fare non c’è nulla, e se manovrando sulla fiscalità da fare c’è poco - così come non ci si possono attendere effetti risolutivi dagli interventi sui petrolieri o dai controlli del prezzo degli alimentari che qualcuno, tanto per farsi presente, va invocando - la soluzione contro il progressivo e sempre più evidente impoverimento non può stare che in un aumento dei redditi: un aumento che consenta almeno di difendere il livello dei consumi che l’Italia aveva raggiunto. Un aumento dei redditi - è opportuno precisare per non scambiare lucciole per lanterne - che non derivi, o non derivi soltanto da una loro detassazione, ma dalla capacità del sistema produttivo di generare ricchezza, anche inserendosi stabilmente sui mercati sui quali i beneficiari di quei prezzi internazionali che tanto stanno aumentando, a cominciare dai Paesi produttori di petrolio, riversano e riverseranno il loro potere d’acquisto. In definitiva, è sempre più cogente un salto di struttura, di qualità, di livello del sistema produttivo, una parte troppo piccola del quale - come l’Istat ha abbondantemente documentato - si va adeguando agli scenari operativi del mondo che viviamo in questi anni. Poi, certo, ci sono da affrontare questioni di equità distributiva, di riduzione delle rendite, di aumento della concorrenza, di differenzazione delle fonti energetiche; ma se alla base di tutto non c’è un sistema produttivo strutturato in imprese di maggiore dimensione, più propense ad investire e ad impiegare personale di elevato livello di specializzazione, capace di offrire per il mondo prodotti non facilmente replicabili, e quindi in grado di remunerare adeguatamente il lavoro senza esporsi così alla concorrenza dei Paesi a basso costo, ogni altra cosa non basterà ad arrestare l’impoverimento che il divario tra prezzi e salari dimostra con una evidenza sempre più drammatica. Non si dica che è difficile indurre il sistema produttivo ad evolversi in questa direzione perché già lo sappiamo; ma questo non cambia la realtà delle cose con le quali l’intero Paese si deve misurare. Pubblicato il: 31.05.08 Modificato il: 31.05.08 alle ore 15.16 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI - Quello che manca Inserito da: Admin - Giugno 01, 2008, 05:17:16 pm Quello che manca
Alfredo Recanatesi Da quando la sovranità monetaria nazionale è stata devoluta alla Banca centrale europea, i compiti istituzionali della Banca d’Italia sono essenzialmente due: la vigilanza sulla stabilità del sistema bancario e il supporto di analisi economica offerto al governo e al resto del Paese. Per quel che riguarda il primo compito, le considerazioni finali di quest’anno rivendicano, e giustamente bisogna dire, il coinvolgimento non più che marginale del sistema bancario italiano nella crisi finanziaria globale innescata dai mutui sub-prime americani. Merita, però, di fermarsi soprattutto sul secondo compito, nello svolgimento del quale la Banca d’Italia ha una tradizione che la distingue dalle altre banche centrali sia per l’approfondimento della analisi dei problemi del quale è capace il suo poderoso ufficio studi, sia per una visione nella quale l’ottica monetarista è integrata, spesso temperata, da una considerazione del quadro socio-economico all’interno del quale la politica monetaria è destinata ad operare. Ebbene, per questo aspetto la relazione di Draghi è apparsa carente, poco avendo aggiunto alla individuazione dei problemi dei quali l’economia soffre, ed ancor meno avendo concorso alla definizione delle possibili e più convenienti soluzioni. L’unanimità dei consensi manifestati al termine delle "considerazioni" da maggioranza e da opposizione, da imprenditori e da sindacalisti, è di per se significativa della assenza di ogni approfondimento analitico e propositivo di temi sui quali, a motivo della loro genericità, nessuno può dissentire. Chi può contestare che la pressione fiscale vada ridotta, che la spesa pubblica vada ridotta, che la produttività del sistema produttivo torni a crescere, che i trasferimenti al Mezzogiorno obbediscano a criteri più di efficacia che di quantità? Su affermazioni di questo tipo tutti possono convenire e battere le mani, ma l’ostacolo da superare è la contrapposizione degli interessi che emerge nel passo successivo a quello della mera constatazione, ossia quando si tratta di stabilire quali spese tagliare, quali tasse ridurre ed a favore di chi, chi e come deve darsi carico di una cabrata della produttività, come convertire l’impegno verso il Sud senza alimentare altri problemi sociali e, quindi, politici. Non si tratta, beninteso, di prendere le parti di qualcuno, ma di inquadrare i diversi problemi nella cornice dell’interesse generale del Paese da parte di una istituzione, la Banca d’Italia appunto, che per sua natura è al difuori ed al disopra di quegli interessi contrapposti. Il passato è ricco di contributi in questo senso: può essere ricordata l’analisi sul divario tra la dinamica dei salari e quella dei profitti, oppure l’esiguità della presenza italiana sul mercato mondiale dei prodotti ad alta tecnologia, o ancora quella sulla dimensione media delle imprese e la loro conseguente ritrosia ad investire; analisi che, se avessero avuto un seguito nella legislazione e nei comportamenti, oggi forse l’Italia si troverebbe in una situazione meno critica. Questa lacunosità è risultata particolarmente evidente allorché il Governatore ha trattato l’aumento dell’inflazione. Lo ha fatto con l’asetticità ed il distacco del banchiere centrale, incurante non solo della circostanza che si tratta di una inflazione tutta concentrata su prezzi di generi di prima necessità e che pesa, di conseguenza, soprattutto sulle classi più deboli, ma incurante anche del fatto che l’impoverimento che ne deriva ha innescato una spirale lungo la quale la domanda interna scende, scendendo sottrae alimento alla crescita, e rallentando la crescita pone le premesse di un ulteriore impoverimento. Pur rimanendo politicamente neutrali, le analisi che ci ha offerto l’Istat pochi giorni fa hanno dato un contributo ben più consistente alla conoscenza della dimensione e delle cause di questi pèroblemi. Ma la Banca d’Italia di oggi è così. Comunque si giudichi il governatorato di Antonio Fazio, la sua conclusione è stata colta per una riforma che l’ha depotenziata, ne ha ridotto i poteri ed ha inibito il suo vertice dallo svolgere ruoli e dall’assumere iniziative che possano suonare come critiche all’operato della politica. Draghi sa bene che è questo il senso della riforma e non fa che adeguarvisi. Le sue "considerazioni" sono sempre più brevi, sempre più anodine, sempre più riepilogative. Viene da pensare che se ne potesse fare a meno ne sarebbe ben felice. Pubblicato il: 01.06.08 Modificato il: 01.06.08 alle ore 6.52 © l'Unità. Titolo: Franco RECANATESI. Tremonti e la favola di Robin Hood Inserito da: Admin - Giugno 05, 2008, 09:41:43 pm Tremonti e la favola di Robin Hood
Franco Recanatesi Compito di un governo non è quello di darsi un ruolo da Robin Hood, ma quello di evitare che il Paese abbia bisogno di Robin Hood. Tremonti ha una consumata abilità nell’usare l’arte dialettica come il pifferaio magico usava il suo strumento per farsi seguire da moltitudini di topolini, e così ha presentato la sua idea di una tassa straordinaria per colpire i profitti dei petrolieri con frasi del tipo «la gente che ha fame non aspetta», oppure «a profitti straordinari, prelievi straordinari». Poiché resistiamo a svolgere il ruolo del topolino, riteniamo utile scremare la posizione del ministro dalla sua immaginifica presentazione ed andare al sodo della sostanza che c’è sotto. E quel che c'è sotto è inquietante per la concezione stessa che sottende sull'azione del governo e sulla cultura che la ispira. Vestire i panni del difensore della povera gente è una operazione di marketing politico poco credibile, ma ugualmente efficace perché quanti stanno subendo erosioni del proprio già magro tenore di vita sono tanti e non dispongono di soluzioni alternative a quella che Tremonti comunque prospetta. La risonanza che le sue idee stano riscuotendo in Italia e - seppure con maggiore cautela - in altri Paesi europei dove sono presenti problemi analoghi, dimostra la povertà di analisi e di idee sul problema globale del rincaro dell'energia e di molte derrate alimentari. Ma questo non basta per dare un giudizio positivo sulla ipotesi di una imposizione straordinaria sui profitti straordinari dei petrolieri nostrani (non quelli, ovviamente, che, in quanto produttori di petrolio, sono all'origine del rincaro). E i motivi sono più d'uno. Si può cominciare da una considerazione di fondo che attiene i profitti da tassare. Chi è che stabilisce se i profitti sono tali, e dunque da considerare leciti, o sono sovraprofitti, e dunque da considerare illeciti? Dov'è la linea che può stabilire l'etica dalla quale Tremonti si dichiara mosso? È stupefacente come, anche tra chi professa idee liberali e di mercato, non sorga neppure il dubbio su quanto possa essere sconvolgente la affermazione di un principio in base al quale il governo si attribuisce il diritto di giudicare se è giusto o no, se è etico o no, quanto ciascuno, rispettando le regole vigenti, riesce a guadagnare. Principio al quale non deve fare ombra la circostanza che, nell'occasione, riguarda una categoria che non gode certo di grande popolarità come quella dei petrolieri. Se c'è un problema di profitti ritenuti per qualche misura eccessivi, la causa sta semmai in un difetto di concorrenza. Allora è qui che semmai un governo dovrebbe intervenire, anche perché, se così non fosse, se cioè fossimo in presenza di pratiche collusive di un qualche oligopolio, ogni imposizione fiscale aggiuntiva potrebbe essere bellamente trasferita sui prezzi ed a pagarla, alla fine, sarebbero i consumatori. Insomma, una beffa. E poi: perché solo i petrolieri? I rincari che stanno erodendo il potere d'acquisto di tante famiglie non sono solo quelli di benzina e gasolio, ma anche, e soprattutto, quelli di pasta, pane, latte, gas, elettricità e tanti altri beni ancora più necessari dei carburanti: è immaginabile che l'impeto dirigista armato dalla clava fiscale possa trovare una soluzione per tutti? Con quale sistema economico ci ritroveremmo alla fine? Forse con un governo che decide quanto è giusto che guadagnino fornai, pastai, fino a chiunque operi nella produzione e nel commercio? Non si scherza con il funzionamento dell'economia di mercato, ed in primo luogo non si scherza con l'impoverimento che fasce sempre più numerose di popolazione stanno subendo. Se Tremonti vuole davvero fare il Robin Hood sa bene dove potrebbero essere tratte risorse per lenire l'indigenza dei più poveri senza sovvertire i principi del libero mercato ed evitando di usare il fisco per piegare al servizio di finalità politiche il comportamento di specifiche categorie di operatori economici: ripristinando l'Ici sulle case dei proprietari più abbienti che in questi anni sono raddoppiate di valore; riformando la tassazione delle rendite finanziarie vergognosamente favorite dal fisco rispetto ai redditi da lavoro; mettendo le mani nelle tasche di chi si attribuisce stock-option e premi milionari a carico anche di imprese traballanti; non vediamo l'affermazione di grandi principi etici in questi favori che il fisco, con buona pace di Robin Hood, continua incontestato a concedere. Si potrebbe continuare, ma la finiamo qui perché anche per i Robin Hood i tempi sono cambiati. Un fisco più giusto ed efficiente è una esigenza che risponde alle istanza di equità distribuiva e di equilibrio sociale, mentre minimo è il concorso che può dare per invertire il processo di impoverimento del Paese. Questo processo è innescato da fattori geopolitici sui quali le possibilità di intervento dei singoli governi sono pressoché nulle. Di conseguenza, l'impoverimento può essere arrestato solo producendo una maggiore quantità di ricchezza, cioè - per non fermarsi a questa affermazione di stantia genericità - inducendo una profonda evoluzione del sistema produttivo perché il valore aggiunto che genera possa sostenere una più elevata remunerazione del lavoro e, così, reggere il passo dei rincari che agitano e continueranno ad agitare la scena dell'economia mondiale. Se si cominciasse ad andare in questa direzione, per quanto tempo possa volerci, potremmo sperare di diventare un Paese nel quale Robin Hood possa rimanere tranquillo tra nei libri di favole. Pubblicato il: 05.06.08 Modificato il: 05.06.08 alle ore 8.54 © l'Unità. Titolo: Pessime medicine a un’economia malata, per accontentare Confindustria Inserito da: Admin - Giugno 23, 2008, 11:48:11 pm Pessime medicine a un’economia malata, per accontentare Confindustria
Quella sociale e quella economica sono due emergenze diverse; connesse tra loro, certo, ma diverse. La prima è quella posta dalla crescente quota di popolazione che subisce un arretramento del proprio tenore di vita, che ha difficoltà ad arrivare a fine mese, che non vede alcun punto di riferimento per poter programmare il proprio futuro. La seconda è l’emergenza posta da un sistema produttivo che fatica a tener testa alla concorrenza e, conseguentemente, da una sostanziale stagnazione. La cultura di centro-destra non ha risolto, neppure in via teorica, l'esigenza di affrontare contestualmente queste due emergenze: nell'affrontare una contraddice l'altra, e viceversa. Fermandoci all'esempio più recente di queste contraddizioni - è cosa di questi giorni -, per affrontare l'emergenza sociale si inventa la social card che, al di là del paternalismo caritatevole dello strumento scelto, implica pur sempre risorse da redistribuire a beneficio di una tra le categorie più disagiate. Passano poi pochi giorni e, nel fissare il tasso di inflazione programmato, che costituisce il riferimento da assumere per il rinnovo dei contratti di lavoro, tira fuori quell'1,7% tanto irrealistico da rappresentare una provocazione. Che sia tale non lo dice solo l'esperienza dei milioni di italiani che ogni giorno devono fare la spesa o hanno bisogno di fare benzina o gasolio; né lo dicono i sindacati ed i partiti d'opposizione che potrebbero essere mossi da calcoli pregiudiziali o di partigiana opportunità. Lo dicono i mercati finanziari attraverso i tassi di interesse sui quali la domanda e l'offerta di capitali si incontra sulle diverse scadenze. I quali mercati finanziari sanno, come chiunque in buona fede del resto, che si, ci sarà anche la speculazione come dice il ministro Tremonti, ma questo non vuol dire che il petrolio, o il grano, il latte o il mais tornino ai prezzi di uno o due anni fa (per il petrolio - che poi significa carburanti, elettricità, gas, riscaldamento - si parla di speculazione da quando il prezzo arrivò a 80 dollari; ora siamo quasi al doppio). Allora, delle due l'una, e da qui non si scappa: o il governo con quell'1,7 mette in conto una stretta di politica monetaria feroce per comprimere comunque, qualsiasi cosa accada, il tasso di inflazione sotto il 2%; oppure mette in conto una riduzione surrettizia del potere d'acquisto di salari e stipendi. E siccome quella stretta di politica monetaria è quanto mai improbabile, perché significherebbe mandare in recessione l'intera economia europea, delle due ipotesi rimane la seconda, ossia quella di una erosione di salari e stipendi operata non recuperando che la metà (o anche molto meno se si considerano i prezzi dei beni a più largo consumo) dell’inflazione che sarà. Insomma, non appena una mano dà, l’altra è già pronta a riprendere. La contraddizione tra queste iniziative dalle quali il centro-destra non riesce a venir fuori si determina, per un verso, per la indisponibilità di maggiori risorse da destinare a politiche di redistribuzione, e per altro verso, per la pregiudiziale disponibilità ad assecondare la pretesa della Confindustria di recuperare competitività soprattutto attraverso la compressione dei costi e delle condizioni di utilizzo del fattore lavoro. Che la Confindustria prema in questo senso è nelle cose. Lo è molto meno che la politica l'assecondi con tanta solerzia. Che in questa direzione non possa esservi alcuna soluzione all’emergenza della crescita e, conseguentemente, all'emergenza sociale, in passato poteva essere una opinione, ma ora è un dato che si legge nella storia degli ultimi anni, nella stagnazione dei salari reali, nello scivolamento fino alle ultime posizioni nelle classifiche europee, nella stagnazione del Pil anche quando questo cresce nei Paesi più simili al nostro. Del resto, basta leggere qualche libro per apprendere che nessun sistema produttivo si è mai durevolmente affermato nel mondo aggiustando il costo del lavoro alle esigenze della competitività, mentre, all’opposto, sono numerose le esperienze di Paesi che hanno scalato le classifiche mondiali spinti dagli investimenti in innovazione e ricerca resi necessari proprio per recuperare la competitività che un costo del lavoro elevato aveva eroso. La contraddizione tra la social card di un giorno e l'1,7 di inflazione programmata il giorno appresso è stridente e suscita le comprensibili reazioni polemiche. Ma assai peggiore è la logica dalla quale queste ondivaghe iniziative derivano perché è la logica a causa della quale, per quanto si sia fatto e si faccia entro la sua cornice, ci si deve misurare con una realtà sempre più grama, con emergenze sempre più emergenze, con un declino sociale ed economico sempre più palpabile. Difficile, di fronte a tale pervicacia, immaginare cosa mai debba accadere, perché il seme del dubbio cominci a germinare nelle menti di tanto sicuri e presuntuosi policy makers. Pubblicato il: 23.06.08 Modificato il: 23.06.08 alle ore 9.32 © l'Unità. Titolo: Franco RECANATESI. Una tassa contro i poveri Inserito da: Admin - Luglio 01, 2008, 06:33:10 pm Una tassa contro i poveri
Alfredo Recanatesi Data la storia dell´Italia, non dovremmo temere l´inflazione più di tanto. In anni che ancora in molti possiamo ricordare l´abbiamo conosciuta anche oltre il 20%, eppure l´economia bene o male continuava a crescere e con essa il benessere di tutti o quasi gli italiani. Questa volta, però, è diverso, tanto che il quasi 4% raggiunto in giugno è ben più grave e preoccupante dei tassi a due cifre che sperimentammo anni fa. I sostanziali cambiamenti dei quali va tenuto conto sono almeno tre: il significato dell´indice, le conseguenze che determina e le possibilità di farvi fronte. Sul primo punto, non siamo certo tra quanti se la sbrigano criticando il lavoro dell´Istat. Questo fa bene il suo mestiere, che è quello di calcolare indici dei prezzi secondo metodologie che occorre conoscere per potersi avventurare in qualche valutazione. Non è colpa dell´Istat se la media dei prezzi risulta da dati estremamente più dispersi che nel passato. Oggi questa media è la risultante di prezzi che stanno salendo con grande rapidità ed intensità, ed altri che rimangono "freddi" o addirittura diminuiscono. Il problema che si pone, mentre si poneva assai meno negli anni passati, è che questa dispersione incide profondamente nella distribuzione del reddito per il fatto che i prezzi più "caldi", con incrementi annui a due cifre, sono quelli relativi ai consumi più diffusi: soprattutto il petrolio, con tutti i suoi innumerevoli derivati dall´energia ai trasporti, e gli alimentari a base di cereali. Queste voci entrano nei bilanci di tutte le famiglie, ma in misura non proporzionale al loro reddito poiché attengono a voci il cui peso relativo è tanto maggiore quanto più quel reddito è modesto. Se - come si dice - l´inflazione è una tassa, questa specifica inflazione è una tassa regressiva in quanto la sua incidenza è inversamente proporzionale al reddito. Le conseguenze che determina sono, dunque, dirompenti sotto il profilo non tanto economico quanto sociale. Da un punto di vista economico, dato che rincarano soprattutto i prezzi di beni importati o che hanno mercato internazionale, questa inflazione penalizza l´economia italiana nel suo complesso; penalizza il potere d´acquisto del nostro Pil più di quanto questo cresca; e siccome cresce di un quasi niente, di fatto è come se stessimo vivendo una recessione, e neppure lieve. Solo che questa penalizzazione, diciamo pure questa recessione, colpisce prevalentemente la fascia dei redditi medio-bassi, facendo dilatare l´area della povertà e del disagio travolgendo le misure redistributive adottate o annunciate dai governi passati e da quello in carica. Quando si passi al tema delle politiche da adottare per fronteggiare questa situazione di crescente drammaticità, quindi, la prima osservazione da fare è sui limiti delle politiche redistributive che, come abbiamo già altre volte rilevato, possono tamponare una emergenza, ma non risolvere e - come si è visto - neppure lenire i termini del problema. Questa inflazione viene soprattutto da fuori, è una inflazione "globale", tutt´altra cosa da quella di venti-venticinque anni fa che, nascendo e sviluppandosi all´interno, era in qualche modo governabile al punto da consentire di far crescere l´economia e di distribuire (con un livello di equità che oggi appare invidiabile) gli incrementi della ricchezza prodotta. Venendo da fuori, e determinando un impoverimento del Paese nel suo complesso, non può essere affrontata con politiche redistributive, tanto meno a carico di bilanci pubblici che poi devono compensare gli oneri della redistribuzione comprimendo prestazioni e servizi che sono rivolti, per lo più, proprio a quelle categorie che con la redistribuzione si vorrebbero favorire. Le politiche di redistribuzione possono essere considerate come misure sociali dall´effetto circoscritto nel tempo, ed accettate, quindi, solo quando la loro funzione sia quella di attendere il tempo necessario perché le politiche di sviluppo da avviare possano produrre i loro frutti. Finora reali politiche di sviluppo non sono state realizzate. Finora sono state adottate solo misure di contenimento dei costi di produzione, un po´ con la normativa fiscale, un po´ con quella sul lavoro. Gli effetti di queste politiche sono sotto gli occhi di tutti: rendendo meno pressante il salto di qualità, di tecnologia, di innovazione che il sistema produttivo deve compiere perché la produzione di ricchezza possa tornare davvero a crescere, anziché sviluppo finiscono per generare sottosviluppo, sperequazioni, declino economico e sociale. Una politica di sviluppo non può essere avviata né con iniziative redistributive, né confidando esclusivamente nei meccanismi di mercato, né addossando alla collettività in genere, ed al fattore lavoro in particolare, costi che devono essere sostenuti dal valore aggiunto di quanto si produce. O si entra in questa logica, o si dovrà stringere la cinghia di molti buchi ancora. Pubblicato il: 01.07.08 Modificato il: 01.07.08 alle ore 11.55 © l'Unità. Titolo: RECANATESI. C’era una volta Robin Tax Inserito da: Admin - Luglio 09, 2008, 11:36:37 pm C’era una volta Robin Tax
Alfredo Recanatesi Non c’è nessun giallo sulla Robin tax. C’è solo che nella stessa maggioranza hanno cominciato a rendersi conto che, così come Tremonti l’ha concepita, è una cosa che non sta in piedi. Ci hanno messo più di un mese, ma comunque alla fine sono arrivati alla conclusione che il trasferimento dell’onere aggiuntivo sui prezzi dei carburanti non è un rischio, ma praticamente una certezza, tanto che sarebbe stato meglio non farne niente. Naturalmente, questa soluzione è esclusa per la sconfessione che ne deriverebbe per l’estro del ministro che la inventò e l’annunciò come un San Giorgio che avesse sconfitto il drago dei petrolieri e dei banchieri. E allora, di male in peggio: nel tentativo di impedire questo trasferimento, che per i consumatori finali, anziché la prospettata riduzione, determinerebbe un ulteriore aumento del prezzo dei carburanti, l’ipotesi ventilata è quella di affidare all’Autorità per l’Energia il compito di verificare se eventuali ulteriori rincari saranno riconducibili all’aggravio delle imposte e, nel caso, chiederne la motivazione affinché possano essere “adeguatamente motivati”. Tutto questo suggerisce due ordini di considerazioni. Il primo riguarda il dispositivo delle norme che si delinea come una inutile (o peggio) messinscena. Infatti, non sono previste sanzioni nel caso di rincari non “adeguatamente motivati”, e non lo sono per il semplice motivo che il settore petrolifero è liberalizzato e, come tale, opera secondo le leggi del mercato. Secondo queste leggi, non ci sono prezzi motivati e prezzi che non lo sono. I prezzi ai quali avviene un libero scambio, in regime di mercato, sono motivati per definizione. Ed a limitare l’arbitrio del venditore che possa approfittarsi del fatto che del prodotto che vende non si può fare a meno deve provvedere la concorrenza. Come osservammo non appena la bislacca idea della Robin tax fu esternata, nella sua concezione c’è, infatti, una contraddizione in termini perché, se ci sono rincari dovuti alla presunzione di ulteriori rincari futuri del prezzo del petrolio, essi vanno ricondotti ad un difetto di concorrenza; ma, se c’è un difetto di concorrenza, imporre un aggravio fiscale non serve perché l'onere, malgrado tutte le Autorità che possono esserci messe di mezzo, può venire bellamente girato sui prezzi praticati. Questa considerazione può essere materia di riflessione anche per le tante sedicenti associazioni di consumatori che plaudono alla demagogia dirigista di questi maldestri tentativi di coercizione dei prezzi anziché più utilmente - e diremmo più strutturalmente - impegnarsi a favore di un rafforzamento della concorrenza nel settore dei carburanti, dei servizi bancari e di tanti altri nella macro come nella micro economia. Il secondo ordine di considerazioni riguarda, appunto, l’intento dirigista implicito in questa vicenda della Robin tax. Ogni storia di dirigismo è sempre cominciata esponendo al pubblico ludibrio una qualche forma di bieca speculazione perpetrata da una minoranza di affamatori ai danni delle masse di consumatori e utenti. Anche il centro-destra, in particolare nella versione che emerge dall’operato di Tremonti, ora non trova di meglio che sollecitare il risentimento di tanta gente, quella alle prese con il problema di far quadrare i conti familiari, additando gli untori di turno e millantando, con spirito vendicativo e modi sarcastici, la capacità di fargliela pagare. È quel centro-destra che aveva cominciato promettendo meno Stato e più mercato, per poi passare alla fase colbertista - rimasta purtroppo alla sola teorizzazione quando, invece, in Italia un intelligente colbertismo potrebbe rimediare ai limiti dell’imprenditoria - per finire ora ad un dirigismo che pretende di poter governare determinati prezzi scelti tra i più impopolari del momento. Un dirigismo frustrante perché al tempo dei prezzi amministrati è succeduto quello delle liberalizzazioni, del mercato, della concorrenza. Ma, ancorché frustrante, l’idea di poter risolvere con un tocco di bacchetta magica un problema che affligge tanta gente genera l’irresistibile pulsione ad agire di forza brandendo il potere impositivo, e non importa se in dispregio dei principi che presiedono - o dovrebbero presiedere - all’esercizio di quel potere; è sempre più facile che impegnarsi in una politica seria ed organica che, prendendo atto del mondo in cui viviamo, anziché l’illusione di un abbattimento dei prezzi offra la prospettiva credibile di un maggiore sviluppo e, quindi, di un aumento dei redditi. Gli uffici governativi sono ancora al lavoro per trovare le pezze con le quali rattoppare questo decreto nato male e cresciuto peggio. Ma quanto è emerso finora alimenta comunque il sospetto che il Robin Hood comparso dalle nostre parti sia un millantatore: del generoso e leale eroe scozzese ha davvero ben poco, mentre, a guardarlo più attentamente, la somiglianza che mostra è piuttosto quella con un velleitario e un po’ pasticcione Brancaleone. Pubblicato il: 09.07.08 Modificato il: 09.07.08 alle ore 13.13 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI. Pagano sempre gli stessi Inserito da: Admin - Luglio 12, 2008, 11:04:42 pm Pagano sempre gli stessi
Alfredo Recanatesi I dati che con cadenza mensile descrivono lo stato e l’andamento dell’economia italiana ci dicono di una crisi che si sta avvitando lungo una spirale della quale nessuno può ancora dire dove sia il fondo. Lungo questa spirale interagiscono soprattutto consumi e produzione del reddito: la riduzione degli uni determina la contrazione dell’altra; e la contrazione di questa la riduzione di quelli. L’attualità fornisce una spiegazione comoda per tutti. I rincari dei prezzi internazionali dell’energia, delle materie prime e delle derrate alimentari di base costituiscono una tassa alla quale dobbiamo sottostare perché di quei beni non si può fare a meno. È vero, com’è vero che nessun singolo Paese consumatore ha il potere di intervenire sul livello di quei prezzi. E siccome non c’è niente da fare, questa pesante congiuntura viene accettata quasi fatalisticamente, per cui la preoccupazione per la propagazione degli effetti fa premio su quella per le cause della crisi stessa. Come conseguenza di questo atteggiamento, la Bce innalza il costo del denaro e sollecita moderazione salariale, il che, tradotto, significa che la riduzione del potere d’acquisto di chi vive del proprio lavoro non deve essere recuperata; la Confindustria mette le mani avanti per avvertire che la competitività delle imprese non consente recuperi; il governo si limita a qualche tentativo per tamponare le conseguenze sociali più insostenibili accampando la penuria di risorse (una penuria, comunque, che non ha impedito di affrancare dall’onere dell’Ici le abitazioni di fascia più alta). Nel suo complesso il Paese, colpito più duramente di quanto si vada dicendo, sembra attendere che passi la nottata, come se il prezzo del petrolio potesse mai ripiegare ai livelli di due o tre anni fa, come se il prezzo del pane e della pasta potesse venire calmierato dai raccolti delle nuove superfici messe a grano un po’ in tutto il mondo, come se la crisi finanziaria innescata dai mutui sub-prime potesse essere risolta nel giro di qualche mese, come se il costo del denaro (e relativo onere per i mutui) potesse tornare ai minimi di quattro-cinque anni addietro. Null’altro si sta facendo. O, almeno, null’altro si va facendo per definire e realizzare, ciascuno per la propria parte, una politica di sviluppo, intendendo per tale una politica che sia in grado di generare il reddito aggiuntivo necessario almeno per compensare quello che il resto del mondo ci sottrae attraverso i rincari dei prodotti di base. Questa è la condizione, l’unica, perché il benessere medio non abbia a ridursi ulteriormente. Poi si potrà parlare di politiche redistributive. Parlare di queste senza parlare di sviluppo, nel senso appena detto, non può portare da nessuna parte; come abbiamo osservato altre volte, significa redistribuire solo la povertà. Questo per quanto riguarda il Paese nel suo complesso. Ma c’è di peggio. C’è chi si da da fare ma, che poi ci riesca o meno, lo fa nel proprio esclusivo ed immediato interesse. In un quadro come quello descritto dai dati, questo significa che il declino economico generale induce una contesa più accesa tra le categorie nel tentativo di salvarsi: l’obiettivo dell’impegno non è quello di combattere il declino generale, ma di costituirne una eccezione. È questo il senso di quanti, nel vuoto di idee e di iniziative, vanno chiedendo riduzioni di tasse, ben sapendo che ogni riduzione postula un contenimento possibile e certo - ripetiamo, possibile e certo - della spesa; ben sapendo, di conseguenza, che i tagli possibili e certi sono sempre quelli: pensioni, sanità, servizi, per non dire degli investimenti necessari allo sviluppo. Del resto, quando manca un disegno strategico credibile e condiviso al quale rivolgere l’impegno di singoli e categorie, è inevitabile che, chi può, pensi in primo luogo a difendere il proprio particolare. Ed è inevitabile anche che, quando questo è lo spirito prevalente, la spirale del declino continui ad avvitarsi e la forbice tra agiatezza e povertà continui ad aprirsi. Non è questione, questa, che possa risolversi in breve tempo. Ma certo nessuna soluzione potrà venire fino a quando un governo tenderà a girare sulla "speculazione" la responsabilità di quanto sta accadendo e spaccerà come politica di sviluppo la detassazione degli straordinari e dei premi di produzione; e fino a quando il sistema produttivo non avvertirà come una debacle delle proprie capacità e del proprio ruolo la difficoltà di competere nella quale continua a dibattersi pur con salari il cui potere d’acquisto è fermo a ben quindici anni fa. Nel dar conto della flessione del 6,6% della produzione industriale nell’anno terminato a maggio, Il Sole - 24Ore di ieri ha pubblicato un grafico da cui risulta che, fatta 100 la produzione industriale del 2000, la Germania, malgrado la flessione di questi mesi, è oltre 120, la Francia se la passa peggio perché sta a 105, ma l’Italia è addirittura sotto, a 96-97. E in Francia, e ancor più in Germania, i salari negli ultimi quindici anni fa di strada ne hanno fatta; non tanta, ma ne hanno fatta. Pubblicato il: 12.07.08 Modificato il: 12.07.08 alle ore 14.14 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI. Il ritorno al monopolio Inserito da: Admin - Luglio 31, 2008, 03:02:06 pm Il ritorno al monopolio
Alfredo Recanatesi Sulle ragioni dell’ottimismo esibito da Berlusconi sul futuro di Alitalia qualche riserva è a dir poco doverosa. In primo luogo, l’aspetto industriale. In proposito circolano soltanto illazioni, ma bastano per concludere che il punto di forza sul quale il futuro di Alitalia si fonderebbe sarebbe la perpetuazione, anzi il rafforzamento, del monopolio sulle rotte domestiche. La fusione con AirOne, l’unica compagnia in grado di insidiare il dominio Alitalia sulla rete interna, ridurrebbe infatti a qualche operatore marginale la concorrenza su questo mercato. Lasciando mano libera ad Alitalia-AirOne sulle tariffe per caricarvi anche l'onere di finanziare il mantenimento delle rotte internazionali. Saranno gli utenti domestici, insomma, a dover sostenere gran parte dei costi, se non tutti, della ipotizzata Alitalia. La ragione di una tale affermazione viene diretta da un secondo aspetto del quadro tracciato da Berlusconi. Sull'estero Alitalia-AirOne sarà un piccolo operatore, vaso di coccio tra vasi di ferro sempre più grossi e robusti. In un quadro di generale difficoltà di tutte le compagnie aeree del mondo, infatti, i più grandi operatori - ben più grandi e strutturati della nostra piccola e disastrata Alitalia - si stanno aggregando per creare gruppi transnazionali in grado di resistere alla morsa tra il costo dell'energia che cresce e la crisi economico-finanziaria che taglia la domanda di voli. L'ultimo colosso del quale è stata annunciata la costituzione è quello formato da Iberia e British Airline, per dire di cosa stiamo parlando e di quali saranno i competitor di quella coppia di nani dei quali uno, Alitalia, azzoppato da diseconomie che l'hanno portato sull'orlo del fallimento, e l'altro, Air One, cieco per un indebitamento ai limiti della sostenibilità. Si parla, certo, ne ha accennato anche Berlusconi alla esigenza di un partenariato con un grosso operatore internazionale, ma per ora non c'è neppure una qualche manifestazione di interesse ed è improbabile che arrivi dal momento che sarà arduo trovare un partner valido (per tale intendendo che abbia esperienza e rete internazionale) che intenda accompagnarsi ad una compagnia piccola, gracile, e condizionata da una pletora di sindacati dallo sciopero facile e dalla vista corta.Se è così - e consideriamo un terzo aspetto - non sarà tanto facile neppure trovare chi metta mano alla tasca per una operazione che non si può sapere se e quando potrà mai rivedere conti in nero. Certo, non manca chi potrà concorrere compensando il rischio Alitalia con favori da ricevere (o già ricevuti) dal governo di centro-destra. Ma, per quanto questi potranno esporsi, non potranno certo raggiungere da soli l'importo dell'investimento da realizzare, che deve mettere in conto la riorganizzazione da fare, il rinnovo della flotta, la ricostituzione di una rete commerciale e, in definitiva, l'avviamento di un nuovo operatore che non partirà da zero, ma da sotto zero. A meno che . . . . . A meno che - e siamo ad un quarto aspetto di questo ipotizzato salvataggio - i conti dei potenziali investitori non vengano fatti tornare "a forza", ossia con un intervento dello Stato che rilevi la cosiddetta bad-company, una nuova società nella quale riversare tutta la zavorra dell'attuale Alitalia, tutto ciò che fa perdere, tutto quanto c'è di irrecuperabile, e magari anche un po' del personale eccedente; una società da affibbiare a qualche ente o società pubblica col compito di liquidarla nel tempo. Sarebbe un modo, questo, perché Berlusconi salvi la faccia facendo sopravvivere Alitalia, ma a spese della collettività, che di spese a questo fine ne ha già sostenute non poche. Quinto ed ultimo aspetto: i sindacati. Questi hanno determinato o, se preferite, hanno concorso a far fallire la trattativa con Air France che ora, forse più di allora, può essere giudicata come l'occasione che non andava in nessun caso persa. Air France aveva presentato un piano più credibile, non foss'altro perché inserito nella strategia di un gruppo già grosso e forte, aveva garantito la sopravvivenza del marchio nazionale (quindi una compagnia di bandiera sarebbe rimasta, come è rimasta in Olanda sebbene Klm sia stata integrata con la compagnia francese), e un numero di persone in esubero grossomodo la metà di quello del quale ora parla Berlusconi (è ovvio, e lo era fin dall'inizio della storia, che un gruppo come Air France Klm avrebbe avuto ben maggiori possibilità di riciclare personale eccedente rispetto all'ipotesi che ora si va facendo di una compagnia piccola, sola, e senza alcuna possibilità di riciclare personale). Ora i sindacati si trovano di fronte al dilemma: o accettare un numero di esuberi doppio di quello che a suo tempo hanno rifiutato ad Air France, oppure decretare hic et nunc la fine di Alitalia. Non vorremmo essere nei loro panni, anche perché Berlusconi ha già messo le mani avanti: i sindacati non devono mettere i bastoni tra le ruote, altrimenti salta tutto. Insomma, se il "suo" piano non dovesse andare in porto non sarà perché da un punto di vista industriale non sta comunque in piedi, ma perché i sindacati avranno puntato i piedi. Pubblicato il: 31.07.08 Modificato il: 31.07.08 alle ore 10.12 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI. Un Paese in retromarcia Inserito da: Admin - Agosto 09, 2008, 06:26:53 pm Un Paese in retromarcia
Alfredo Recanatesi Che l’economia italiana si fosse impantanata in una stagnazione lo si sapeva e ora i dati dell’Istat non fanno che confermare questa drammatica realtà. Del resto, si sa che quando i sistemi economici più evoluti prendono un raffreddore, quello italiano prende una polmonite: da tempo è così e nulla è stato fatto per modificare questa particolare, grave ed ormai consolidata debolezza. È una realtà drammatica perché, con quello che sta accadendo nel mondo, una stagnazione della ricchezza prodotta significa un impoverimento del Paese nel suo complesso. Il forte rincaro dell’energia e di molti altri prodotti di base, alimentari e non, a fronte di un reddito stagnante significa, infatti, che è giocoforza ridurre le quantità acquistate; significa, dunque, una riduzione del benessere medio. E, se si riduce il benessere medio, è evidente che si allarga a macchia d’olio l’area del disagio, ossia di quanti rispetto a quella media si ritrovano dalla parte sbagliata: la maggior parte dei lavoratori dipendenti, degli autonomi, dei pensionati. Ci sono zone d’Italia, e neppure delle più povere, nelle quali sta diventando un fenomeno statisticamente rilevante il consumo di latte che aumenta con l’approssimarsi della fine del mese perché c’è gente che non può permettersi altra alimentazione che, appunto, una tazza di latte ed una fetta di pane. L’impoverimento ha due aspetti, quello economico e quello sociale. L’aspetto economico è dato da un sistema produttivo che solo in parte si è evoluto in funzione del mondo nel quale deve operare. La maggior parte del sistema è rimasto ad offrire prodotti che i Paesi a basso costo offrono a prezzi che sono frazioni dei costi che devono essere sostenuti in un Paese evoluto come l’Italia. Nell’accumulo di questo ritardo è stato aiutato, quasi incentivato, da una politica che, per inseguire un immediato ed effimero consenso, ha speso fior di risorse per consentirgli di non cambiare, ad esempio riducendo la tassazione (e dunque a spese dell’intera collettività nazionale) anziché creare un ambiente più favorevole allo sviluppo ed all’innalzamento della produttività investendo in strade, trasporto ferroviario, ricerca, reti. Anziché alzare l’asticella che le imprese devono saltare per competere nel mondo globalizzato con prodotti ad alto valore aggiunto, è stata loro vieppiù abbassata. Certo, la riduzione delle tasse sull’attività produttiva si concreta immediatamente in un aumento dei profitti e, dunque, nel consenso dei tanti microimprenditori che formano il grosso del nostro sistema produttivo, ma poi non ci si deve lamentare se il Pil ristagna, la produttività non cresce e le imprese non ce la fanno a pagare salari se non di fame. È disperante il fatto che nel panorama parlamentare non c'è forza politica che abbia il coraggio di criticare la logica seguita negli ultimi anni per proporre un cambio di passo al fine di indurre il sistema produttivo a quelle trasformazioni radicali senza le quali, nel mondo del XXI secolo, l’Italia non potrà che arretrare. C’è poi un aspetto sociale. Senza opportuni interventi, un impoverimento medio del Paese, specie se dovuto a fattori esterni, si distribuisce in maniera fortemente disuguale sulle diverse categorie di reddito. A soffrirne sono le categorie a più basso reddito perché sulla composizione della loro spesa mensile pesano maggiormente e più direttamente i rincari dell’energia, dei carburanti, delle derrate alimentari. Il governo, anziché impegnarsi in interventi compensativi, ha aggiunto del suo sulla sperequazione distributiva che spontaneamente si va producendo: ha abolito l’Ici sulle abitazioni delle categorie più abbienti, ha detassato le cosiddette componenti variabili del salario, ha tagliato fondi a destra e a manca inducendo i centri di spesa, statali e decentrati, a ridurre le prestazioni anche, se non soprattutto, nell’assistenza alle categorie più disagiate. Poi ha preteso di rifarsi una verginità sociale con iniziative come la social card ed altre misure meramente redistributive che nell'immediato non tolgono che qualche secchio dal mare della povertà, ed in prospettiva sono del tutto inutili perché non hanno nulla a che fare con il recupero di una capacità del sistema produttivo di generare un reddito almeno sufficiente per difendere il livello di benessere raggiunto. Così il cerchio si chiude precludendo ogni prospettiva che il declino economico e sociale, evidente nelle statistiche come nella esperienza di ciascuno di noi, possa essere arginato. Pubblicato il: 09.08.08 Modificato il: 09.08.08 alle ore 9.46 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI. L’Autunno freddo Inserito da: Admin - Agosto 22, 2008, 10:42:38 pm L’Autunno freddo
Alfredo Recanatesi L’imminenza dell’autunno con il suo carico di problemi economici e sociali ripropone il vecchio errore di prospettiva che affligge la quasi totalità della classe dirigente italiana, quello di impegnarsi sulle tante emergenze che di tempo in tempo si propongono perdendo di vista le questioni di fondo e le azioni di più ampio respiro con le quali dovrebbero essere affrontate. Che in questo errore cadano le forze politiche si potrebbe anche capire dal momento che il dominio delle logiche mediatiche impone loro una quasi quotidiana verifica del consenso popolare. Si capisce meno che vi cada anche chi con simili verifiche non debba fare i conti e che dunque potrebbe permettersi di alzare lo sguardo sulla foresta dei fenomeni che determinano l’evoluzione della struttura produttiva, della distribuzione del reddito, della stessa intelaiatura sociale della nostra collettività nazionale, anziché sui singoli alberi dei problemi, delle lacune, degli squilibri che la compongono. C’è, pressante e drammatica, una questione definita salariale, ma molto più ampia di quanto questo termine possa individuare anche nella sua più generica accezione. È la prima e più incalzante delle emergenze, che certo reclama interventi immediati, ma senza perdere di vista la genesi che l’ha determinata e, dunque, l’esigenza di affrontarne le cause oltre che gli effetti. Le cause sono da individuare nel divario tra l’incapacità del sistema produttivo nazionale di produrre un maggiore volume di ricchezza e l’aumento dei prezzi internazionali dell’energia, di molte materie prime, delle derrate alimentari. È un divario, questo, tra un fatto strutturale nazionale - l’assenza di sviluppo economico - ed un fatto anch’esso strutturale, ma geopolitico - il rincaro dei prezzi internazionali -. Di fronte ad un tema di tale epocale portata il vuoto di idee è desolante. Le proposte in circolazione ipotizzano, al più, delle una tantum che, quand’anche possano produrre un qualche sollievo nell’immediato, non risolvono (e talvolta addirittura aggravano) il problema quale si pone in una prospettiva di più lungo periodo. Il caso più emblematico è la detassazione dei salari. Ipotizziamo pure una enormità, ossia che la fiscalità venga ridotta di 50 euro al mese su ogni busta paga. Tenuto conto della dinamica dei prezzi, significa solo compensare uno o due gradini di una scalinata già lunga e destinata, al dilà di qualche contingente assestamento, a salire ancora chissà per quanto. Comunque meglio di niente, si dirà. Non è detto. Data la struttura del bilancio statale, dati i vincoli imposti dal rispetto degli equilibri di finanza pubblica, e data una politica fiscale che esclude aggravi e sta allentando anche la lotta all’evasione, il finanziamento di una tale detassazione non potrebbe che avvenire o a spese dei già scarsi investimenti, e dunque a detrimento della crescita futura, o col taglio di prestazioni sociali, del quale soffrirebbero in primis proprio gli eventuali beneficiari di quei 50 euro in più. Da aggiungere che queste non sono opinioni, ma semplici deduzioni da esperienze già vissute anche molto recentemente. Considerazioni analoghe valgono per quanti credono di poter risolvere il problema del potere d’acquisto dei consumatori razionalizzando le catene distributive dei carburanti come degli ortaggi. Ci sono inefficienze e rendite da eliminare, certo; ma anche in questo caso si possono eliminare uno o due gradini di quella scala di rincari che ha determinato e continuerà a determinare l’impoverimento dell’Italia e continuerà a concentrarlo sulle categorie sociali già più disagiate. Un conto sono gli interventi di solidarietà o di razionalizzazione; altro conto è la politica economica. Nell’immediato gli uni possono contenere (e sarebbe già tanto) l’emergenza, ma senza alleviare di tanto il ruolo che deve svolgere l’altra affinchè i loro effetti non svaniscano in pochi mesi come è avvenuto finora. Se la politica economica non affronta il problema della crescita, ossia di una produzione di ricchezza incapace di tener dietro e di compensare le conseguenze dei processi geoeconomici che ci sottraggono e continueranno a sottrarci potere d’acquisto, ogni intervento di solidarietà o di redistribuzione è destinato ad essere rapidamente travolto. La politica non ha il coraggio di fare puntate alte imboccando una via del genere perché la porterebbe in rotta di collisione con il sistema produttivo esistente, con la sua frammentazione, con le sue strutture proprietarie familiari, con la sua inattitudine a investire guardando lontano, con le sue strutture finanziarie insufficienti per sostenere programmi di investimento consistenti e con ritorni che non possono essere immediati. Questo dovrebbe essere il primario tema di un autunno dominato da una stagnazione dell’economia europea che l’Italia deve affrontare già prostrata da una stagnazione ormai decennale aggravata da una sperequazione distributiva che ormai costituisce un ennesimo primato negativo almeno nell’Europa più evoluta. E invece, anziché pensare di aumentare i salari con produzioni più qualificate e remunerative, così incrementando il ruolo ed il valore del lavoro, si studia di aumentarli a carico del bilancio dello Stato, ossia - in un modo o nell’altro - della collettività nazionale. Così è difficile che si possa andare lontano. Pubblicato il: 22.08.08 Modificato il: 22.08.08 alle ore 10.17 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI. A caro prezzo Inserito da: Admin - Agosto 29, 2008, 06:51:39 pm A caro prezzo
Alfredo Recanatesi Il decreto e il disegno di legge che il Consiglio dei ministri ha approvato ieri mattina costituiscono il compimento formale dell’operazione Alitalia: ossia dell’uso del potere esecutivo e legislativo in funzione di interessi particolari se non addirittura personali. Perché, non dimentichiamolo mai, tutta questa vicenda è nata dall’interesse personale di Berlusconi di far credere, per fini elettorali, che per la compagnia di bandiera fosse possibile una soluzione più conveniente di quella che il governo Prodi aveva imbastito con il gruppo Air France-Klm. Se non ci fossero state di mezzo le elezioni, oggi Alitalia farebbe parte del più grande gruppo europeo di trasporto aereo; la gran parte del personale eccedente avrebbe trovato nuove collocazioni all’interno del gruppo ed un’altra parte sarebbe stata in attesa di rientrare; l’Italia avrebbe continuato ad avere una compagnia di bandiera, solida e con un rilevante potenziale di espansione, che avrebbe portato nel mondo i colori del nostro Paese; lo Stato avrebbe visto riconosciuto un valore netto della compagnia ceduta incassando soldi. Ma tutto questo avrebbe costituito - come ebbe a dire propagandisticamente - una “svendita”. Bene. E ora la vendita qual è? La lista di quanto è stato venduto è corposa, ma è fatta di principi, di trasparenza, di legalità, di molte delle regole che in una democrazia compiuta dovrebbero guidare il comportamento e le determinazioni di ogni pubblico potere. Non si tratta solo degli oneri finanziari che finiranno per ricadere, direttamente o indirettamente, sulle finanze statali: saranno assai cospicui, ma c’è di peggio. C’è che la parte più consistente dell’operazione si perderà nei meandri obliqui di trattative private, di intese discrezionali, di regole ad hoc per comprare o compensare l’adesione al progetto di tutte le parti in causa. Non potremo avere mai un conto, sia pure approssimativo, di tutti i costi che ne deriveranno, ma saranno costi ingenti. Basti pensare quali potranno essere gli elementi dei calcoli di convenienza che possono aver indotto aziende di gestione di autostrade, imprese di assicurazione, aziende siderurgiche, armatori, a metter mano alla tasca per partecipare, in un settore di attività estraneo e distante quant’altri mai, ad una impresa che - ne parleremo dopo - è destinata a concludersi comunque con la fine dell'autonomia e della italianità di Alitalia. È forse un caso che quasi tutti i partecipanti alla cordata siano titolari di concessioni pubbliche o svolgano attività i cui ricavi dipendono da decisioni amministrative? È almeno lecito immaginare che nel rinnovo delle concessioni, o nella determinazione di tariffe, o nella concessione di licenze questi si attendano - come dire? - un occhio di riguardo? Basti pensare a quale scompiglio potrà essere determinato dalla confluenza di migliaia di esuberi nell’azienda postale dopo che - sempre con una legge ad hoc giustificata dalla salvaguardia della efficienza e del conto economico - è stato bloccata l'assunzione di chi già vi ha lavorato con contratti a tempo determinato. Basti pensare all’indennizzo previsto - sarebbe davvero interessante sapere in base a quale principio lo Stato soccorre chi perde dall’investimento in attività finanziarie - a beneficio degli azionisti e degli obbligazionisti di Alitalia, una azienda di diritto privato, quotata in borsa come molte altre, le cui condizioni prefallimentari (a differenza del caso Parmalat tante volte evocato) erano da tempo ampiamente note. Basti pensare a quale futuro possano essere destinate le tariffe per i voli sulla tratta Roma - Milano, una tratta che già è stata dalle uova d’oro con quel po’ di concorrenza che Air One poteva fare ad Alitalia e sulla quale ora la nuova Alitalia potrà fare ancor più quel che gli parrà dal momento che Air One sarà stata incorporata e le norme antitrust tranquillamente scavalcate ope legis. Basti pensare che la legge Marzano è stata modificata per consentire che una azienda in dissesto - nel caso Alitalia, ma d’ora in avanti potrà essere applicata ad altri casi - possa essere spaccata in due, con le cose buone da una parte e quelle in perdita da un’altra insieme ai debiti, in modo che con opportune ripartizioni sia possibile sottrarre dalle procedure fallimentari ciò che di buono può esserci, con buona pace dei creditori (una misura, questa, che può avere ripercussioni assai pesanti sull’intera economia andando nella direzione esattamente opposta a quella nella quale è da tempo avvertita la necessità di una riforma della legge fallimentare). E qual è il risultato di una simile devastazione di principi, regole, doveri di trasparenza, criteri di sana amministrazione? Una Alitalia che, seppure ripulita da debiti ed inefficienze, e con un personale drasticamente ridotto e con stipendi “ricontrattati”, sarà assai più piccola, con una flotta quasi dimezzata ed una rete fortemente connotata dal corto e medio raggio. In tempi nei quali compagnie del calibro di Iberia e di British Airways si uniscono nella consapevolezza che da sole non ce la possono più fare, chiunque può capire quale sia il respiro, la prospettiva di questa operazione. La contropartita della devastazione di cui si è detto non può essere che quella di guadagnare un po’ di tempo prima che per Alitalia si compia il destino univocamente scritto da tempo: quello di confluire in un grande gruppo di trasporto aereo. Fino ad allora sarà italiana, certo, ma non per questo si potrà dire che ne sarà stata salvaguardata l’italianità. Una italianità così precaria, così costosa, ottenuta con tanto sacrificio di persone e di principi, vale ben poco, anzi è peggio di niente; comunque peggio di un accordo che fosse stato stipulato quando Alitalia un valore netto ancora lo aveva e con esso un minimo di forza contrattuale. Ma quella sarebbe stata una svendita. Noi, liberi da preconcetti, rimaniamo in attesa - poco fiduciosa, dobbiamo francamente dire - che qualcuno ci dimostri che questo, invece, è un affare. Pubblicato il: 29.08.08 Modificato il: 29.08.08 alle ore 11.32 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI. E il governo sta a guardare Inserito da: Admin - Settembre 18, 2008, 12:00:07 am E il governo sta a guardare
Alfredo Recanatesi Se si guardano le quotazioni di borsa, l’Italia appare coinvolta nella crisi finanziaria globale non meno degli altri Paesi. Ma la borsa va interpretata, tenendo conto che vive, per sua stessa natura, di umori, timori, sensazioni soggettive non meno che dei dati oggettivi che riguardano le specifiche realtà sia dei sistemi economici che delle singole imprese. Allora occorre distinguere; e se facciamo qualche distinzione, non è difficile concludere che, insieme a indubbi problemi che ci vengono dall’altra parte dell’Atlantico, ci viene anche qualche profittevole opportunità. I problemi sono quelli ormai ben conosciuti. In un mondo globalizzato, nessuno ha la possibilità di sottrarsi da un ciclo congiunturale negativo. L’Italia meno degli altri, come è evidente in un andamento del Pil costantemente peggiore di quello medio del resto d’Europa. Dipendiamo dalle esportazioni in una condizione di scarsa competitività continuando a confrontarci su prodotti a bassa tecnologia che possono essere offerti a prezzi per noi irraggiungibili anche dai Paesi a basso costo. Di conseguenza, quando la domanda è elevata qualche raggio di sole illumina anche le nostre esportazioni, ma queste sono, per converso, le prime a soffrire quando la domanda diminuisce. Nelle circostanze attuali, poi, c’è una aggravante. Ancor prima dell’ultima scossa del terremoto finanziario, negli Stati Uniti come in altri Paesi evoluti la crisi ha colpito una parte non piccola delle classi medio-alte, quelle per così dire rampanti, sensibili agli emblemi dell’agiatezza e del gusto e, perciò, clienti di quel made in Italy che negli anni della espansione della ricchezza finanziaria ha dato un sostanziale concorso alle produzioni ed alle esportazioni delle griffe italiane. Insomma, quando le cose vanno male le carenze e le debolezze strutturali del nostro sistema economico in genere, e del nostro sistema produttivo più in particolare, risaltano maggiormente ed aggravano ulteriormente i problemi rimasti senza soluzione: la frammentazione delle imprese e la loro inattitudine a collocarsi su una offerta più innovativa e più remunerativa, la loro conseguente incapacità di impiegare lavoro più qualificato e meglio retribuito, e in definitiva la loro debolezza nella tenuta di fronte a fasi negative come quella che da un anno a questa parte, a motivo della sregolatezza della più grande economia del mondo, stiamo vivendo. Se mettiamo nel conto che in una situazione siffatta, contrariamente alle misure di sostegno che altri governi europei hanno tempestivamente preso per arginare gli effetti più negativi, il nostro governo sembra uno spettatore passivo ed inerte di quanto ci sta piovendo addosso, c’è poco da stare allegri o almeno sperare che i danni possano essere contenuti. Eppure, qualche opportunità sulla quale lavorare non manca. La crisi sta inducendo un arretramento dei prezzi internazionali dell’energia, di quasi tutte le materie prime e delle derrate alimentari di base. I consumatori finali, quelli che devono frequentare le pompe di carburanti, o i mercati alimentari, o che devono pagare le bollette di luce e gas, non se ne sono quasi accorti. Parliamo di mercati liberi, si sa, i prezzi non si possono imporre. Sta, però, di fatto che quando ha un obiettivo da perseguire con determinazione – il caso Alitalia e la formazione della cordata insegnano – il governo gli argomenti per raggiungere i suoi scopi li trova eccome. Così come da noi in rincari sono stati più accentuati che altrove, ora le riduzioni potrebbero essere parimenti più consistenti, la l’occasione sembra andare in gran parte sprecata. Comparativamente agli altri Paesi, poi, l’Italia ha un punto di forza in un sistema bancario che sta soffrendo solo marginalmente della crisi mondiale. A dispetto delle perdite di borsa delle sue azioni, si sta mostrando assai più solido di altri pur blasonati sistemi bancari. Le nostre bistrattate banche, tanto criticate perché tradizionali, prudenti, scarsamente innovative, sono in grado più di quelle di altri Paesi di sostenere anche nelle critiche circostanze attuali il sistema produttivo se questo avesse grandi progetti di medio-lungo periodo per crescere in Italia e fuori. Alcune grandi imprese, ad esempio, hanno approfittato della debolezza del dollaro per fare acquisizioni negli Stati Uniti (guarda caso, si tratta soprattutto di aziende provenienti dal mondo delle partecipazioni statali) o per piantare radici più solide nei Paesi con i sistemi economici più dinamici. Ma sono poche a cogliere queste opportunità: i capitali ci sono, ma sono poche le imprese con il respiro strategico e la visione lunga in grado di approfittarne. Così, con un governo assorbito dal tentativo di dare una soluzione purchessia al caso dell’Alitalia, ed un sistema produttivo con la testa incassata nelle spalle in attesa che la buriana passi, è evidente che gli effetti della crisi finanziaria e della recessione che sta colpendo l’Europa e buona parte del mondo ce li prendiamo tutti, senza alcuna attenuazione, senza alcuna pur possibile contropartita. Pubblicato il: 17.09.08 Modificato il: 17.09.08 alle ore 8.11 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI. Il fantasma dell’italianità Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2008, 11:08:34 pm Il fantasma dell’italianità
Alfredo Recanatesi Un soprassalto di italianità ha indotto il nostro premier a lanciare un allarme sull’eventualità di «Opa» ostili su quelle (poche) grandi aziende che l’Italia può ancora vantare. Il forte ciclo di rialzo dei prezzi internazionali delle fonti energetiche e delle materie prime di base ha determinato una robusta redistribuzione della ricchezza mondiale a favore dei Paesi produttori, a cominciare da quelli che hanno petrolio sotto terra. Questi Paesi, di conseguenza hanno accumulato miliardi e miliardi di dollari ed euro, così come li ha accumulati la Cina attraverso una politica di sottovalutazione della propria moneta e, dunque, un forte surplus della propria bilancia commerciale. Per altro verso, la crisi finanziaria ha picchiato e continua a picchiare sulle quotazioni di borsa al punto da aver dimezzato il valore delle imprese rispetto ad un anno fa o poco più. Immaginare come possano combinarsi queste due circostanze - da una parte chi ha molto denaro da spendere e dall’altra imprese e banche a prezzi di saldo - è cosa che viene immediata; del resto, questa combinazione ha già avuto numerose applicazioni la dove fondi cinesi e mediorientali sono intervenuti per salvare banche americane ed inglesi. Venendo all’Italia, il rischio che i fondi statali di questi Paesi (i cosiddetti “fondi sovrani”) vengano a far man bassa di nostre imprese potrebbe anche esserci, ma è limitato. È limitato intanto per l’aspetto politico che non manca mai nelle scelte di investimento di questi fondi che sono proprietà di istituzioni e, quindi, impiegati anche in base di considerazioni di ordine politico-strategico. E l’Italia non è certo tra i Paesi che possano maggiormente interessare al fine di acquisire potere contrattuale nelle grandi questioni internazionali. Ma è limitato soprattutto perché sono poche le occasioni che possano interessare gli Stati-investitori, e queste poche tutte o quasi con assetti proprietari blindati. Difficile scalare Enel, Eni, Finmeccanica senza l’acquisizione delle cospicue partecipazioni che ancora vi ha lo Stato italiano, o una Mediaset senza che la venda lo stesso Berlusconi. Possiamo mettere nell’elenco anche Telecom, che però da tempo non è più una azienda di punta nel settore delle telecomunicazioni e nella quale l’ingresso della Libia, benché “amichevole”, sembra presentare non pochi problemi. Di altro, almeno nel campo industriale, c’è ben poco. Ci sono aziende non quotate che nelle loro nicchie hanno livelli di eccellenza, anche in attività sulla frontiera più avanzata della tecnologia, ma queste escono dal tema delle opa perché non hanno azioni a proprietà diffusa. Poi ci sono le banche, e qui il discorso cambia. L’acquisto del 4,23% di Unicredit effettuato ieri dalla Banca centrale libica dimostra infatti la differenza tra l’allarme lanciato da Berlusconi e le dimensioni reali di simili operazioni. Tolte dunque le grandi banche che, attorno alle fondazioni bancarie, hanno proprietà stabili, e tolte le banche popolari, che essendo costituite in forma cooperativa non possono essere oggetto di scalate ostili, rimane qualche banca di medio calibro. Acquistarla può essere una operazione attraente per chi volesse costituire una presenza diretta, ma di qui ad ipotizzare qualche significativa conquista ce ne corre comunque, anche in tempi nei quali le banche italiane - banche solide e con reti di raccolta ampie ed efficienti - sono sottovalutate. È comunque singolare che l’italianità delle banche costituisca motivo di preoccupazione per il premier, la sua parte politica, il suo ministro dell’Economia che sostituirono il Governatore della Banca d’Italia Fazio proprio perché ostacolava l’ingresso di banche straniere nel nostro Paese, ma tant’è: ora la ruota ha girato ed a difesa dell’italianità anche delle banche troviamo il centro-destra: meglio tardi che mai. Se, dunque, i rischi che (altri) significativi pezzi del nostro sistema produttivo cadano in mani straniere sono oggettivamente ridotti, c’è da chiedersi il motivo dell’improvviso allarme. Un primo motivo è quello di riformare la legge sulle Opa che, frutto della ubriacatura liberista, è tanto rigida da inibire ogni possibilità di autonoma difesa da parte della impresa sotto tiro: non può acquistare azioni proprie, non può aumentare il capitale, tanto meno può deliberare aggregazioni; può solo sperare in un cavaliere bianco che offra più dell’aggressore, ma se si trattasse di competere con i “fondi sovrani” è presumibile che più che un cavaliere occorra un’armata. Una legge meno rigida, in definitiva, può anche essere opportuna. Un secondo motivo potrebbe essere la riproposizione di una fusione tra Enel ed Eni della quale tempo addietro già si vagheggiò proprio al fine di farne una entità tanto grossa da non poter essere scalata. Ma mettere insieme questi due ex-enti per farne una azienda energetica integrata non ha gran senso economico e suscita non poche perplessità per la concentrazione di potere che si verrebbe a determinare. A meno che... a meno che, con la motivazione della difesa dell’italianità, ora non si intenda spianare la strada ad una fusione tra Enel ed Eni per poter finanziare il piano nucleare che il governo intende promuovere e che l’Enel da sola, con l’elevato indebitamento che già ha, avrebbe qualche difficoltà a realizzare. Pubblicato il: 17.10.08 Modificato il: 17.10.08 alle ore 8.35 © l'Unità. Titolo: Alfredo RECANATESI. Inserito da: Arlecchino - Settembre 06, 2016, 04:44:12 pm ALFREDO RECANATESI
Socio fondatore del Club dell'Economia, è giornalista dal 1962. Ha lavorato prima a "Il Globo" e, quindi, a "Il Sole - 24 Ore" fino a raggiungere il ruolo di capo della redazione romana e vice-direttore. Dopo l'esperienza di un anno nello staff del ministro del Tesoro e Presidente dell'Interim Commity del Fondo monetario internazionale, è rientrato col grado di vice-direttore a "Il Sole - 24 Ore", giornale che ha lasciato nel 1985 per assumere la direzione del mensile dell'ABI, "Bancaria", fino al 1991. Negli ultimi anni, all'attività di editorialista di economia de "La Stampa" e dei circa venti quotidiani locali della catena Aga, ha unito quella di consulente per la comunicazione finanziaria di un grande gruppo industriale. Nell'arco dell'intera vita professionale ha collaborato a numerosi quotidiani - tra i quali "La Repubblica" e il "Wall Street Journal" -, a numerosi periodici con prevalente contenuto economico e finanziario, nonché a trasmissioni radiofoniche e televisive. Tra i riconoscimenti ricevuti, il premio di giornalismo Saint Vincent, ed il premio Lingotto. |