LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Novembre 23, 2007, 06:48:49 pm



Titolo: MARCELLO SORGI.
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2007, 06:48:49 pm
23/11/2007 (7:42) - INCHIESTA - VIAGGIO NEL PARTITO CHE NON C'E'

Silvio e l'ossessione del popolo

Così per un lungo anno Berlusconi ha accarezzato l'idea del dopo FI

MARCELLO SORGI


ROMA
«Ci pensava da un anno». «Macché, da due». «Ha deciso in un pomeriggio». «Ma se dalla manifestazione del 2 dicembre non parlava d’altro!...». Ora che la svolta è compiuta, la versione ufficiale vuole che sia stata, insieme, un colpo di scena e una decisione meditata. Gli uomini di Forza Italia che la raccontano, partendo da molto lontano, hanno ancora sui volti stampata la sorpresa di domenica sera, quando molti di loro hanno appreso dai telegiornali che il loro partito era stato cancellato, rimpiazzato da un altro inventato in tre ore, e ancora tutto da costruire.

Tolti Gianni Letta, Paolo Bonaiuti e altri due o tre, nessuno sapeva. Lo hanno appreso al telefono o dal passaparola, tra le due e le cinque del pomeriggio, quando Berlusconi ha avuto l’ispirazione, dopo i fischi di An a Cicchitto e le accuse al Cavaliere di aver finanziato il partito di Storace. Bonaiuti se l’aspettava: «Quando il capo, in maniche di camicia, ti guarda e dice “ho un sogno…”, chi lo conosce sa che il sogno sta già per tramutarsi in realtà». «Ma io e tanti come me siamo stati presi alla sprovvista - sbotta Angelo Sanza, coordinatore della Basilicata -. Ero a Barletta, con un freddo tremendo a raccogliere le firme nei gazebo. D’improvviso arrivano due amici avvocati, e mi sfottono: non lo sai che il Cavaliere ha ammainato le bandiere?». Quando sia cominciato, il sogno di Berlusconi, è difficile dirlo. Le date si moltiplicano, nello sbalordimento che ancora accompagna coloro che son sospesi, tra il partito che non c’è più e quello che deve ancora venire.

Due, tre anni di gestazione, se ci si riferisce al lavoro preparatorio fatto dalla «Fondazione Liberal» e diretto da Ferdinando Adornato, un altro di quelli che domenica non è stato avvertito e s’è dimesso per protesta. Un anno solo, se si parte dalla grande manifestazione del 2 dicembre 2006, un giorno «dei più belli della mia vita», come lo ha definito il Cavaliere. Tra i due punti di partenza non c’è contraddizione, anche se è chiaro, dall’inizio, verso dove pendeva il cuore di Berlusconi. Il lavoro di Liberal procedeva a rilento. Era stata composta una commissione di un centinaio di persone, affittato un intero piano di Palazzo Wedekind a Piazza Colonna, stabilita una certa articolazione/lottizzazione degli incarichi tra i tre partiti (Forza Italia, An e Udc) che avrebbero dovuto confluire nel partito unico. Berlusconi era ancora a Palazzo Chigi, due anni fa, e veniva continuamente invitato a benedire i lavori della commissione. Lo faceva di buon grado.

Usciva a piedi, subito circondato dalla folla di fan che lo aspettava per strada, attraversava a passi svelti la piazza, entrava nel palazzo, poi nel salone della commissione, e salutava tutti alla sua maniera, tra sorrisi e battute. Dopo una mezz’oretta, con la scusa di pressanti impegni di governo, se ne tornava in ufficio. Una, due, tre riunioni bastarono a fargli venire la noia. Arrivava motivato e convinto che di lì a poco sarebbe nato il nuovo partito, e trovava tutti intenti a discutere di statuti, principi, regole per avviluppare la creatura prima della nascita. Alle sue domande, la risposta era secca: un partito vero si fonda così. Lui ascoltava paziente, ma poi per strada, ai più stretti collaboratori obiettava: «Sarà pure come dicono loro. Ma il popolo, dove sta il popolo, in mezzo a queste carte?».

Fabrizio Cicchitto, il vicecoordinatore nazionale di Forza Italia, si ricorda ancora quella volta che Adornato intrattenne Berlusconi sul Pantheon dei numi tutelari del nuovo partito: «Ci aveva messo dentro di tutto, Dante, Papini, Prezzolini, perfino Pasolini». Berlusconi ascoltò in silenzio senza entusiasmarsi. Un’altra volta, ed era alla fine del 2005, quando i cento saggi approvarono la «Carta dei Valori», Berlusconi tornò al lavoro contrariato. Continuava a chiedere: «Ma il popolo?», aggirandosi nervosamente tra i muri dell’ufficio. E incredibilmente, per uno come lui abituato a trattare sempre con cortesia qualsiasi tipo di collaboratore, se la prese con un commesso, al quale aveva chiesto un panino, che gli aveva invece portato un tramezzino rinsecchito. Un divario come questo, tra quelli che Berlusconi ancora non chiamava «parrucconi», e il popolo che lo aspettava sempre per strada, non poteva che aggravarsi dopo la grande manifestazione del 2 dicembre.

Berlusconi osannato da una folla festante, messo di fronte a una piazza in cui, con suo grande compiacimento, «le famiglie di Forza Italia marciavano a braccetto con gli ex missini romani e i leghisti padani», tornò a casa felice di aver visto «finalmente insieme, senza distinzioni, il popolo di centrodestra». Ormai, dopo la sconfitta elettorale, l’allontanamento di Casini e dell’Udc e con le angustie dell’opposizione, il progetto di Adornato per il Cavaliere era diventato acqua passata. Nel suo futuro c’era solo il popolo, il partito unico e cominciava ad esserci la signora dai capelli rossi, quella Michela Vittoria Brambilla oggi a capo dei circoli e nel cuore politico del Cavaliere. Ad Emilio Fede, che l’aveva conosciuta giovane giornalista, fece un certo effetto ritrovarsela davanti. «Eravamo ad Arcore, il presidente mi fa: ti dispiace se arriva la Brambilla? Ma figurati, dissi. Poi, vedendola arrivare, me ne andai».

A tutt’oggi, un termometro stabile degli umori interni del centrodestra, oltre che di casa Berlusconi, come il Tg4, non ha ancora dedicato un minuto, dicasi un minuto, alla regina dei circoli. Ma per il Cavaliere, già proiettato sul suo popolo e seccato per le resistenze interne del partito a cambiare, anche la fredda accoglienza riservata a MVB fu motivo di amarezza. Lei, la signora, non versava certo acqua sul fuoco, e in un’intervista disse che Dell’Utri e Tremonti, suoi avversari, erano come le mestruazioni: all’inizio fanno male ma poi passano. Una sera di luglio a Napoli in cui, con un caldo asfissiante, la gente lo aspettava a piazza Plebiscito, Berlusconi si rivolse così a Donato Bruno, ex presidente della commissione Affari istituzionali: «Guarda questa gente, con quaranta gradi mi aspettano da ore. Mi sai dire perché non riusciamo a dargli il partito che ci chiedono?». Il resto, è storia degli ultimi giorni.

La vigilia del voto decisivo alla Camera in cui Fini comincia a smarcarsi. La lite vera e propria con il leader di An, in cui si mescolano ragioni politiche e private, e minacce come quelle poi pronunciate pubblicamente, su un possibile appoggio di An alla legge tv antiMediaset di Gentiloni. Segue l’inutile lavoro dei pacieri, da La Russa a Gasparri, a Bonaiuti, ai coordinatori Bondi e Cicchitto. Finché, la sera prima del voto che segnerà la sua sconfitta in Senato, Berlusconi, stranamente, si lascia scappare una battuta in brianzolo: «Mi sun chì, che laùri per l’azienda, e chel là...» (Mentre io lavoro per l’azienda, quello là…). «Chel là», l’alleato ormai perduto, sta già preparando l’addio alla coalizione. Ora che la svolta è avvenuta, e la domenica di piazza San Babila si compone e scompone nei racconti degli ex azzurri, tutti si chiedono cosa accadrà.

C’è chi non perdona il gesto da autocrate: «Noi ce ne andiamo a fare un’altra cosa, con Pisanu, con Scajola, speriamo anche con Montezemolo e Pezzotta. E se Mastella si convince…», sospira Sanza. Altri, come Bruno, sono intenti a rassicurare la periferia e la burocrazia del partito, i coordinatori locali: «Berlusconi è prudente, saprà recuperare, ha già detto che Forza Italia resterà il tronco del nuovo partito». Altri ancora si sentono sotto tiro, come gli (ex) coordinatori nazionali del partito in liquidazione. «Ma alla fine non mi preoccupo – spiega Cicchitto -. Ne ho viste tante, e qui tutto torna in discussione, chi ha più filo tesserà. In Italia si passa dalla pace alla guerra velocemente, e pace e guerra non si fanno mai seriamente».

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI.
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2008, 11:00:54 pm
30/1/2008
 
Aspettando il miracolo
 
MARCELLO SORGI

 
Come e più delle precedenti, la giornata finale delle consultazioni al Quirinale ha fatto calare uno spesso velo di pessimismo sull’esito di una crisi al momento senza sbocchi. Delle diciannove delegazioni (tanti sono i gruppi che si sono presentati), la più attesa era quella di Forza Italia, guidata dal capo dell’opposizione. Ma Berlusconi, a chi si aspettava delle novità e almeno uno spiraglio che aprisse la strada alla ricerca di una soluzione, non ha dato alcun conforto. Ha detto che non ci sono, a suo giudizio, le condizioni, neppure per dar vita a un governo cosiddetto «di scopo», per varare una nuova legge elettorale prima di andare a elezioni. Ha sottolineato che fin qui l’accordo è mancato anche all’interno della (ex) maggioranza. E s’è preso pure il lusso di dichiararsi disponibile in questo senso per dopo il voto.

Questo del tentativo di convincere Berlusconi a un gesto di responsabilità, proprio nel momento in cui il suicidio del centrosinistra gli apre un’inattesa prospettiva elettorale, è l’estremo paradosso di questa crisi. Berlusconi è stato, non solo di recente, ma dal momento della sua entrata in politica (e sono ormai quindici anni) l’avversario più sfidato, contestato, demonizzato, da parte di un centrosinistra che nella guerra al Cavaliere aveva trovato un cemento.

Forse l’unico cemento di un’alleanza che per il resto faceva acqua un po’ da tutte le parti. Le rare volte che s’è tentato di trasformarlo da nemico in interlocutore l’Unione è andata in pezzi. Chi ci aveva provato (D’Alema prima e adesso Veltroni), ne ha dovuto pagare care le conseguenze. Figurarsi, oggi, a volerlo alleato.

Che poi Berlusconi, già ai tempi della Bicamerale dieci anni fa, non si sia rivelato fino in fondo affidabile, è sicuro. Così come il fatto che il non aver voluto affrontare seriamente il problema del conflitto d’interessi tra il suo ruolo politico e quello di imprenditore renda a tutt’oggi difficile un dialogo con lui.

E tuttavia, come Prodi, anche Berlusconi è reduce da un’esperienza di governo deludente, per effetto delle divisioni interne della sua maggioranza, della mancanza di riforme che consentano davvero ai governi di realizzare i propri programmi e di una legge elettorale, voluta soprattutto dai suoi alleati, che ha portato lui e il centrodestra dal governo all’opposizione.

A lume di naso, dunque il Cavaliere avrebbe un certo interesse a cambiare questa legge e a introdurre qualche riforma per non ritrovarsi, anche da vincitore, a stentare alla guida di un altro governo traballante. Ma da quel che ha detto ieri al Quirinale, e che tutti avevano capito nei giorni scorsi, c’è da giurare che non cambierà posizione.

Forse il massimo da aspettarsi è che l’euforia berlusconiana di questi giorni lo porti a esagerare, come ha fatto con l’improbabile, e smentito, annuncio di una nuova marcia su Roma, al punto da sollevare reazioni impreviste nel suo campo e in quello del centrosinistra. Qualcosa s’è visto, tra i centristi di Casini e anche all’interno di Forza Italia. Ma è ben poca cosa, al momento, per appenderci le speranze di ricostituire una maggioranza che sostenga un governo. È esattamente di questo che il Capo dello Stato ha bisogno per dare un incarico. Le sollecitazioni che da molte parti, compresi pezzi importanti della società civile, gli arrivano, non bastano a cambiare una situazione che inclina verso il pessimismo. Dopo l’uscita di Berlusconi infatti, anche i timidi distinguo, venuti dall’Udc e dai centristi del centrodestra solitamente più critici verso il Cavaliere, hanno cominciato a ritrarsi.

Resta solo da vedere se un’eventuale decisione del Presidente della Repubblica a favore di un incarico possa spostare qualcosa - e cosa? - all’interno della (ex) maggioranza. Di una marcia indietro di Mastella e Dini, o degli altri (Fisichella, Turigliatto) che in ordine sparso hanno atterrato il governo al Senato, non si sente alcun accenno. Né si può prevedere quale sarebbe la risposta di Prodi di fronte all’ipotesi di un centrosinistra che liquidi il presidente scelto dagli elettori e si ricostituisca attorno a un nuovo premier. Quando successe la stessa cosa dieci anni fa, la reazione fu funesta.

Al momento dunque un miracolo, forse solo un miracolo, può portare il Paese a riavere un governo. Nelle crisi italiane succede, è accaduto già altre volte e Napolitano, pur essendo soltanto un uomo politico, ha le carte in regola per provarci. Va da sé che vivere aspettando il miracolo non è proprio una gran cosa.
 
da lastampa.it


Titolo: Marcello SORGI - Oggi siamo come la Germania del 1966
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2008, 04:05:19 pm
24/2/2008
 
Oggi siamo come la Germania del 1966
 
Marcello SORGI

 
Larghe intese, giusto per sapere di cosa si parla. Fino a una settimana fa, a solo nominarle in un programma tv, si correva il rischio di essere linciati. Adesso, pur smentite, sono diventate «un'ipotesi di scuola» (Berlusconi) o qualcosa di cui «si poteva parlare prima» (Veltroni).

Se ne parlerà anche dopo, ovviamente, se nessuno dei due partiti maggiori riuscirà ad ottenere una vittoria chiara, e sopratutto se il Senato resterà, come nella precedente legislatura, e grazie alla legge elettorale non riformata, ingovernabile.

Larghe intese, giusto per sapere di cosa si parla. L'esperienza in corso in Germania, con il governo di Angela Merkel, fa pensare al modello tedesco, invano inseguito anche da noi fino a prima della crisi e dello scioglimento delle Camere. In realtà la situazione italiana somiglia di più a quella tedesca del 1966, quando la prima grande coalizione nacque ad opera di Willy Brandt, ai primi accenni di un calo della crescita che preludeva a una crisi economica e di fronte alla necesità di riformare la legge elettorale con il concorso dei partiti maggiori.

Durò tre anni, fino al 1969. Le differenze tra allora ed oggi sono tante (la principale: negli Anni Sessanta la Germania era ancora divisa dal Muro di Berlino e dalla Guerra Fredda), la sensazione è che mentre la prima esperienza era in qualche modo inevitabile, la seconda sia nata più che altro per impotenza della politica e per l'aggressività, prevalentemente televisiva, nei confronti dell'emergente Merkel, del cancelliere uscente Schroeder (che dopo la sconfitta ha abbandonato la politica). Qualche punto di contatto con la situazione italiana, come si vede, c'è anche in questo caso.

Larghe intese, giusto per sapere di cosa si parla. Se invece ci si riferisce all'esperienza italiana dei governi di solidarietà nazionale guidati da Andreotti tra il 1976 e il 1979, prima con l'appoggio esterno del Pci (la famosa «non sfiducia» che gli ambasciatori inglesi e americani faticavano a tradurre e a spiegare), diciamo la verità, il precedente è difficile da riadattare all'attualità. C'erano tutta una serie di emergenze, poi superate, per fortuna, e non grazie a quei governi: terrorismo, crisi economica, inflazione a due cifre, aggancio mancato (e centrato in ritardo, dopo la rottura con i comunisti) al sistema monetario europeo, sequestro e assassinio di Moro, il vero padre delle larghe intese italiane. In breve, partiti dall'incontro alto tra Moro e Berlinguer, che teorizzava il «compromesso storico» tra i due grandi partiti, si arrivò agli scoponi domenicali a casa di Guttuso, tra lo stesso pittore, Andreotti, il cardinale Fiorenzo Angelini, che non era proprio un «principe della Chiesa», e Bufalini, in quel periodo uno degli uomini più vicini al segretario comiunista, e ambasciatore del Pci in Vaticano. Speriamo proprio che se larghe intese dovranno riessere, tra Berlusconi e Veltroni, tra Letta e Bettini, si faccia almeno tesoro degli errori di quell'esperienza.
 
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Fini, An e il coraggio del "passo indietro"
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2008, 03:49:31 pm
4/3/2008
 
Fini, An e il coraggio del "passo indietro"
 
MARCELLO SORGI
 

L’uscita di Gianfranco Fini sui lavori forzati, sulla proposta, cioè, di condannare a lavorare gratis chi danneggia il patrimonio pubblico almeno fino a che il valore delle prestazioni gratuite non sia pari ai danni provocati, ha riacceso i riflettori sul leader di Alleanza nazionale che alla vigilia dello scioglimento delle Camere, con una svolta improvvisa, ha aderito al progetto di Berlusconi di fondare il nuovo partito del Popolo delle libertà e ha dato il via al processo che porterà An, dopo le elezioni, prima a confluire in un gruppo parlamentare unico e poi a sciogliersi definitivamente. Molto più che il vecchio Msi, di cui pure era stato segretario come delfino del leader storico Almirante, Alleanza Nazionale è stata, per quattordici anni, la creatura politica di Gianfranco Fini, il veicolo su cui trasportare il gruppo dirigente e l'elettorato missino in un'area e in una logica di governo, fino alla completa rinnegazione di ogni nostalgia fascista o post-fascista. In questo senso Fini a destra ha svolto l'opera che a sinistra e nel Pci era toccata ad Occhetto.

Proprio per queste ragioni la svolta verso l'ingresso nel Pdl e il ritorno a fianco di Berlusconi, dopo le aspre polemiche che avevano accompagnato il famoso "discorso del predellino" - quando a metà novembre il Cavaliere annunciò la nascita del nuovo partito a Milano a Piazza San Babila, senza neppure avvertire il gruppo dirigente di Forza Italia - ha il segno, non solo di una svolta politica, ma personale. Fini infatti è il primo leader della Seconda Repubblica che rinuncia al suo ruolo di guida, non perché battuto, ma perchè ha scelto di costruire una nuova forza politica all'interno della quale, al momento, lui non potrà essere il numero uno, nè il candidato alla premiership, compiti riservati a Berlusconi. La "governance duale" grazie alla quale sono avvenute in Italia le grandi fusioni bancarie, in politica non è prevista. E già da questi primi giorni di campagna elettorale è evidente che Fini, per la prima volta dopo venti anni, sale sul palco non più da leader, ma da cofondatore del Pdl e in sostanza da numero due. Un ruolo tutto da inventare, che lo mette in una posizione privilegiata in caso di successione a Berlusconi, ma che, nel momento in cui quella successione non è alle viste, lo obbliga a cercare uno spazio con nuove idee, iniziative, proposte. Insomma facendo politica.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Quando si affaccia il timore di vincere
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2008, 09:59:25 am
5/3/2008
 
Quando si affaccia il timore di vincere
 
MARCELLO SORGI
 

La polemica sul pareggio sta diventando un classico di tutte le elezioni.

Chi lo evoca, come ha fatto ieri Veltroni a «Porta a porta», è come se dicesse ai suoi elettori: «Ancora un piccolo sforzo ed è fatta». Chi lo nega, come ha reagito subito Berlusconi a «Sky Tg 24», vuol dare la sensazione di una sicurezza anche superiore a quella che in realtà alberga nel suo animo. In genere, le altre volte, tutto si esauriva solitamente in giornata, o in un paio di giorni, come qualsiasi argomento elettorale in una campagna che ha bisogno tutti i giorni di novità. Se non che, la volta scorsa, nel 2006, a sorpresa, il pareggio uscì dalle urne, con Prodi vincitore per 24mila voti che fece finta di non accorgersene e spiegò che governare con una maggioranza risicata poteva anche essere più «sexy», e Berlusconi che dopo aver fatto l'offerta di un esecutivo di larghe intese, di fronte al rifiuto del Professore, la ritirò sdegnato, e partì all'attacco con un'opposizione durissima e senza sconti. Il risultato è stato una legislatura di soli venti mesi, un governo stentato che alla fine è caduto rovinosamente, e un'opposizione che ha accumulato un vantaggio elettorale difficile da scalfire.

Ammesso, e speriamo non concesso, che Veltroni riesca a realizzare la rimonta come fece Berlusconi nel 2006, e che di nuovo dalle urne del 13 aprile esca un vincitore alla Camera (grazie al premio di maggioranza concesso dal «Porcellum»), ma non al Senato, il leader del Pd si comporterebbe come il Cavaliere la volta scorsa? O inaugurerebbe da subito un'opposizione intransigente?

Sul palcoscenico tv più abituato agli annunci importanti, Veltroni è parso cauto, e in qualche modo disponibile a stabilire un'intesa (di governo? tra governo e opposizione stile Bicamerale 1996?, questo non l'ha detto) a tempo con l'avversario: riforme e poi ritorno alle urne. Ed è parso di capire che questa proposta resterebbe in campo sia che il Pd uscisse in pareggio dalla parte della vittoria, sia che si trovasse sconfitto, ma dominante, in un Senato in cui il Pdl non potesse contare su una maggioranza chiara.

Il Cavaliere, invece, per ora non vuole neppure prendere in considerazione l'ipotesi, magari per scaramanzia. Parlare di pareggio, per uno che sulla carta è già vincitore, sarebbe un segno di debolezza imperdonabile. Berlusconi e Veltroni infatti corrono per vincere, anche se forse temono allo stesso modo la vittoria.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Strategia della fretta
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2008, 05:47:21 pm
28/6/2008
 
Strategia della fretta
 

 
MARCELLO SORGI
 
Silvio Berlusconi non ha avuto certo grande sensibilità politica nel volere a tutti i costi che il Consiglio dei ministri approvasse il disegno di legge sull’immunità per le quattro maggiori cariche dello Stato proprio ieri, all’indomani della pubblicazione delle nuove intercettazioni telefoniche sul caso Saccà-Rai in cui è coinvolto, e dopo due settimane di scontri e polemiche sulla giustizia, che rievocano il clima della legislatura 2001-2006 e la stagione delle «leggi ad personam».

Anche senza cedimenti, di cui peraltro il presidente del consiglio non ha alcuna intenzione, un breve rinvio avrebbe significato un segno d’attenzione per l’accorto lavoro di mediazione che dal Quirinale il presidente della Repubblica sta svolgendo, con le frange più radicali della magistratura e con le anime più dialoganti dell’opposizione, per arrivare a conseguire, se non lo stesso, un risultato simile a quello che si propone il governo: ma senza rotture e conflitti istituzionali come quelli sfiorati tante volte negli ultimi giorni.

Sbaglierebbe tuttavia chi pensasse che il premier si muova con tanta fretta perché teme di essere messo fuori gioco a sorpresa da un improvviso rovescio giudiziario nei processi che lo riguardano, o da un inizio di logoramento politico come quelli a cui prima o poi vanno soggette anche le maggioranze più granitiche.

Al contrario il Cavaliere accelera, e chiude la porta a qualsiasi compromesso, perché è convinto che gli obiettivi che si è proposto siano ormai a portata di mano, e il conseguirli dipenda solo dalla sua determinazione.

Berlusconi sa, in altre parole, che il suo programma è in larga parte quello che Prodi ha provato a realizzare senza riuscirci, e che i problemi che ha deciso di affrontare sono gli stessi che i governi, tutti i governi prima del suo, si sono trovati davanti, nei quindici anni di transizione in cui la Seconda Repubblica non è mai riuscita a decollare. A cominciare dall’immunità parlamentare, che già Amato provò a restaurare nel '93, prima di essere travolto dal rifiuto di Di Pietro e degli allora suoi colleghi magistrati di Tangentopoli, e che anche Flick, ministro di giustizia del primo governo Prodi del ‘96, tentò di riproporre, salvo a perderci il posto per l’opposizione del potente partito dei magistrati in Parlamento. Dopo di lui, fu Maccanico a fallire. Così che, con la lunga lista delle vittime che comincia da Conso e finisce con Mastella, il ruolo del Guardasigilli, quale che sia la persona chiamata a ricoprirlo, è diventato ormai quello di un morto che cammina.

Uno schema del genere non cambia se si parla di sicurezza o di intercettazioni. Che una larga parte del decreto varato da Berlusconi e dal ministro Maroni come primo atto di governo corrisponda ai piani anticriminalità messi a punto (e rivelatisi impraticabili per i “no” della sinistra radicale) da Amato ministro dell’interno, è notorio. Ed è altrettanto acclarato che una limitazione nell’uso delle intercettazioni fosse già tra gli obiettivi dei Ds, colpiti ai massimi livelli, con Fassino e D’Alema, dall’inchiesta Fiorani-Consorte-Bnl. Se non fosse sufficiente, si consiglia la lettura degli ultimi verbali, per capire che accanto ai due maggiori protagonisti, Saccà e Berlusconi, delle novemila telefonate intercettate, ce ne sono tanti altri, da Rutelli a Bordon, a (di nuovo) Fassino per tramite dei suoi più stretti collaboratori, quanti basta per capire che la fiction-mania, e gli affari ad essa legati, interessavano un quadro politico da larghe intese.

Allo stesso modo non sono una novità le ingerenze o i conflitti con il Consiglio superiore della magistratura: non a caso i procedimenti interni all’organo di autogoverno dei giudici contro magistrati come la Forleo o De Magistris sono avvenuti (e concluso, il primo, ieri, con l’assoluzione della gip) sotto il governo Prodi, annunciati o sollecitati da ispezioni e procedimenti disciplinari che era il ministro di giustizia ad innescare. Per non dire di quella volta, ma è storia ormai di molti anni fa, che Cossiga dal Quirinale dovette minacciare di mandare i carabinieri a Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, per impedire che il Consiglio si riunisse con all’ordine del giorno la censura al governo.

Per finire (o per continuare, visto che l’elenco è molto lungo) si potrebbe fare l’esempio dell’immondizia di Napoli. Se il governo riesce davvero a eliminare, o almeno a ridurre, i cumuli di rifiuti che da mesi marciscono sulle strade, i primi beneficiari, oltre ai cittadini partenopei, saranno il governatore Bassolino e il sindaco Iervolino, fin qui incapaci di superare l’emergenza, e accusati per questo dal centrosinistra di aver fatto perdere le elezioni al Pd. Questo è il punto. E qui sta la contraddizione in cui si trova il Pd: se l’opposizione, per fare il suo mestiere, deve opporsi anche a quel che Prodi e i suoi ministri volevano realizzare fino a qualche mese fa, diventa alto il rischio di far confusione e più ampi i margini del Cavaliere di guadagnare consensi.

Berlusconi dunque accelera perché si sente in una posizione di vantaggio. Quando invece, davanti a una strada in discesa, avrebbe tutto l’interesse a percorrerla con prudenza. Evitando forzature, come quelle degli ultimi giorni, che paradossalmente rischiano di trasformarlo in ostacolo di sé stesso.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Modello tedesco
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2008, 05:27:14 pm
15/7/2008
 
Modello tedesco
 
 
 
 
 
MARCELLO SORGI
 
Sarà pure la Grande Riforma, il tema attorno a cui ieri hanno discusso appassionatamente per ore due leader di opposizione come D’Alema e Casini, l’ambasciatore (il ministro Calderoli) di un leader di maggioranza come Bossi, il fior fiore dell’Associazione costituzionalisti, compresa una delegazione dei costituzionalisti dissidenti che hanno appoggiato il Lodo Alfano, oltre, ovviamente, a parlamentari, tecnici, professori e osservatori qualificati di ben 14 diverse fondazioni.

Ma un po’ per il clima ancora di scontro, che non pare dei più propizi, un po’ per il tenore di certi interventi che vanno letti tra le righe, il vero oggetto del contendere del convegno, nato con l’ambizione di segnare un punto di svolta, nel dialogo fin qui inconcludente tra maggioranza e opposizione, era chiaramente il dopo-Berlusconi. Argomento delicato e realisticamente non all’ordine del giorno, a pochi mesi dalla terza vittoria elettorale del Cavaliere e dalla nascita del suo quarto governo. E tuttavia, mai come di questi tempi, discusso, all’inizio della legislatura che potrebbe sancire, di qui al 2013, il ventennio del leader del centrodestra.

Ovviamente nessuno si propone di far fuori Berlusconi con una trappola o un’«intentona», e la stessa via giudiziaria, che in tempi passati era apparsa ai suoi avversari come la più concreta, sta per essere neutralizzata dalla legge sull’immunità per le alte cariche dello Stato. Si tratterebbe, piuttosto, di trovare un metodo, il più possibile condiviso, per arrivare a un’alternativa non solo politica, di sinistra o di destra, ma in qualche modo anche istituzionale, alla lunga stagione di potere del Cavaliere. Una strada per uscire dallo scontro selvaggio, personalistico, e dalla campagna elettorale permanente, che, vuoi o non vuoi, si ripropone tutte le volte che Berlusconi vince e torna al governo. E per chiudere con un sistema di regole nuove la lunga, infinita, transizione italiana.

Ci sono stati due approcci al problema, dal 14 aprile ad oggi. Uno, a partire dall’iniziativa dello stesso Berlusconi, ha instaurato il dialogo tra il premier e il capo dell’opposizione e la consultazione permanente Veltroni-Letta. Di qui, sulla base della disponibilità del leader del Pd di votare una serie di riforme concordate, si sarebbe dovuto dar vita a una legislatura costituente, breve ma molto produttiva. Alla fine della quale, diciamo dopo tre anni, un Berlusconi rinnovato, ammantato di toga istituzionale e circondato dal rispetto che si deve ai padri costituenti, sarebbe stato pronto per essere giubilato e trasferito al Quirinale. Naturalmente restava il problema della prematura uscita di scena dell’attuale Capo dello Stato che tutto questo avrebbe comportato. Ma in qualche modo, almeno nei piani, il ridisegno dell’impianto istituzionale l’avrebbe giustificata, mentre destra e sinistra, in nuove elezioni anticipate, sarebbero tornate a contendersi la guida del Paese.

Anche se questo disegno non è stato mai ufficializzato esplicitamente (solo Berlusconi, al suo solito, ci ha scherzato su), qualche accenno, qualche immancabile discorso di corridoio - oltre all’accelerata del premier sulla legge blocca-processi - sono bastati a farlo saltare per aria, a colpi di girotondi, di rigurgiti di antipolitica, di manifestazioni di comici in Piazza Navona e di urla di Di Pietro, il leader che ha tratto più vantaggio da questa stagione. Ad oggi, sembra molto difficile che Veltroni, pur distinguendosi meritoriamente dalle furie estremiste, possa avventurarsi di nuovo sulla strada del dialogo, a pochi mesi dalla campagna elettorale per il referendum e le elezioni europee.

Ma con gran dispetto proprio del leader del Pd, che si ritiene l’unico titolato ad aprire e a chiudere il dialogo sulle riforme, la seconda strada per il dopo-Berlusconi l’hanno aperta ieri D’Alema e i suoi interlocutori. Essa prevede di andare avanti con o senza il consenso di Berlusconi, e si rivolge a tutti quelli che dentro la maggioranza e l’opposizione hanno a cuore il problema. A Bossi, per esempio, che dopo l’esperienza della legislatura 2001-2006 sa bene che solo l’approvazione con una maggioranza parlamentare di due terzi garantisce il federalismo da una successiva abrogazione referendaria. E a Casini, per fare un altro esempio, che, stanco delle pene dell’opposizione, potrebbe trovare nel sistema elettorale tedesco l’occasione di rilancio delle proprie ambizioni centriste e forse anche della candidatura per la leadership del governo. E va da sé che il convitato di pietra, assente al convegno di ieri, ma interessato per forza di cose a un processo del genere e impossibilitato a restarne fuori, è il presidente della Camera Fini.

Nella lunga storia della Grande Riforma, il dialogo si è sempre fatto fa in due, prevedendo che un terzo ne facesse le spese. Nella Prima Repubblica, ai tempi della Commissione Bozzi, De Mita cercava il dialogo con Berlinguer per ridimensionare Craxi. Nella seconda, ai tempi della Bicamerale D’Alema, Prodi si sentiva la vittima designata, e giocò tutto, salvo poi perderci il posto, per far sì che Berlusconi gettasse all’aria il tavolo delle riforme.

Ma stavolta, nel triangolo D’Alema-Casini-Bossi, non c’è solo il Cavaliere, che avendo la guida del governo e alle sue spalle, fresca, una grande vittoria elettorale, ha ancora molte frecce al suo arco, sia per dialogare con D’Alema, sia per evitare di finire travolto dalla nuova stagione riformista. Accanto a lui, paradossalmente, c’è anche il leader del Pd che ha appena rotto il dialogo. Perché se il sistema elettorale diventa simile a quello tedesco, se si sceglie la via del ritorno al proporzionale, è l’equilibrio bipartitico, oltre a tutto l’impianto maggioritario della Seconda Repubblica, che viene messo in discussione. Si correrebbe, alla fine, per Palazzo Chigi, in tre o in quattro piuttosto che in due, e gli accordi finali sul governo, anziché essere presi prima di fronte agli elettori, verrebbero poi stabiliti in Parlamento come ai tempi della Prima Repubblica.
Così è possibile che del dopo-Berlusconi si continui a discutere a lungo, con o senza il Cavaliere.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Ultimi fuochi
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2008, 03:51:13 pm
27/10/2008
 
Ultimi fuochi
 
 
MARCELLO SORGI
 
Da sinistra a destra, all’indomani del corteo del 25 ottobre, tutti si chiedono cosa farà Veltroni, quali saranno le sue prossime scadenze, quali i suoi nuovi obiettivi. Ieri Berlusconi lo ha punzecchiato, minimizzando la riuscita della manifestazione di sabato. Ma il segretario del Pd, in un’intervista al Tg1, ha cercato egualmente di capitalizzare il risultato che per molti ha segnato la rinascita del suo partito e della sua leadership personale, dopo i lunghi mesi difficili seguiti alla sconfitta elettorale e all’abbandono della strategia del dialogo con il governo, inaugurata, e subito accantonata, in apertura della legislatura.

In qualche modo Veltroni è oggi nella stessa situazione in cui si trovava Berlusconi nel 2006: con un colpo di schiena s’è rimesso in piedi, dopo un periodo in cui pareva giorno dopo giorno soccombere agli attacchi interni delle varie componenti del Pd e alla dura campagna di delegittimazione orchestrata dal centrodestra nei suoi confronti.

E anche se, diversamente dal Cavaliere quand’era all’opposizione, realisticamente non può puntare alla caduta del governo, ben più solido di quello traballante di Prodi, Veltroni deve comunque fare una scelta, tra la spinta antagonista venuta dai marciatori del Circo Massimo e l’identità riformista, di vera alternativa di governo, che il Pd s’è data fin dalla nascita.

Al dunque, questa è la vera differenza tra i due cortei e i due popoli che in meno di due anni hanno sfilato per le stesse vie di Roma, mostrando le due facce prevalenti di un Paese che tuttavia coltiva ancora una diffidenza di fondo per la politica. Mentre infatti Berlusconi marciava alla testa della sua gente per obiettivi che erano della sua gente, come la riduzione del costo dello Stato e di conseguenza delle tasse, la ristrutturazione di tutti i comparti pubblici e l’eliminazione dell’assistenzialismo, a vantaggio di più concorrenza, opportunità per i privati e allargamento del mercato, Veltroni, concordando nel suo discorso di sabato su una parte degli stessi traguardi, si ritrovava a schierarsi contro i desideri di buona parte del popolo del suo partito.

Basti pensare a quanti, tra quelli che sono andati al Circo Massimo, sono convinti che i salari, l’assistenza e i posti di lavoro debbano crescere, e le tasse scendere, indipendentemente dal risanamento dei conti dello Stato. E a quanti - non solo i maestri elementari colpiti dal decreto Gelmini - ritengono che i contratti del pubblico impiego debbano essere irrobustiti e firmati, a prescindere dal numero degli stipendi che ogni mese lo Stato paga oggi e dovrà pagare nei prossimi anni, nonché da ogni ragionevole progetto di ristrutturazione che premi il merito invece che il numero dei dipendenti statali, e si proponga di introdurre nel settore pubblico le normali regole che da anni governano il lavoro nelle aziende private.

Se Veltroni - come aveva fatto a Torino all’atto della sua incoronazione a segretario del Pd, e come aveva continuato a fare durante la campagna elettorale - avesse detto anche una sola di queste verità al popolo del Circo Massimo, probabilmente avrebbe rischiato dei fischi. E se avesse aggiunto - più o meno come nel primo discorso alla Camera da capo dell’opposizione - che con un governo che poggia su una così forte maggioranza parlamentare, piuttosto che cercare di abbatterlo, è più facile collaborare, nell’interesse del Paese e nella prospettiva di poterlo sostituire nella prossima legislatura, avrebbe dovuto temere anche il peggio.

Ma questo è appunto l’arduo compito dei leader: muovere la società civile con le proprie battaglie ideali, raccoglierne il consenso, e indirizzarlo poi politicamente nella giusta direzione. Del resto, nella situazione in cui siamo e di fronte all’aggravarsi, giorno dopo giorno, della crisi economica mondiale, anche molte delle parole d’ordine su cui Berlusconi ha costruito il suo successo sono destinate ad appannarsi. Perché ad esempio, nell’era degli aiuti di Stato alle grandi banche, e - presto - alle aziende private in difficoltà, sarà più duro chiedere ai dipendenti pubblici, dagli insegnanti ai semplici impiegati della Cgil che si rifiutano di firmare il contratto proposto dal ministro Brunetta, di sopportare sacrifici diversi, o addirittura superiori, a quelli, per dire, dei dipendenti bancari che in Italia vengono salvati, e non mandati a casa com’è accaduto in America a quelli della Lehman Brothers.

Così, mentre tutto - dalla scuola alla Rai, alle prossime elezioni europee - politicamente porta il capo del governo e quello dell’opposizione a uno scontro più aspro, sarà il contesto tragico della crisi mondiale a spingerli a un ripensamento, e a una ripresa, è sperabile, seppur guardinga, dello spirito di collaborazione.

Allo stato attuale - visti anche i sondaggi, che puniscono simmetricamente maggioranza e opposizione in eterna lotta tra loro - non resta che augurarselo. E non solo per la stanchezza di un confronto quotidiano degenerato ormai troppo spesso a scambio di insulti. Nei momenti delicati, per il bene del Paese, sia governare sia stare all’opposizione vuol dire fare quel che si deve, non quel che si vuole. E, giunti agli ultimi fuochi, Berlusconi e Veltroni almeno questo dovrebbero saperlo. Se non lo sanno, ormai, al punto in cui sono arrivate le cose, dovrebbero aver cominciato a capirlo.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI Successo amaro
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2008, 10:12:32 am
1/11/2008
 
Successo amaro
 
MARCELLO SORGI

 
Anche se l’estremo miracolo di «san» Letta, invocato da Berlusconi, ha impedito che il governo riprecipitasse nel gorgo dell’Alitalia, la giornata che ha visto in forse per molte ore il salvataggio della compagnia di bandiera, a solo un mese dalla firma solenne dell’impegno per la privatizzazione, merita di essere ricordata per molte ragioni, e per gli insegnamenti che lascia sul campo.

Prima di tutto l’insorgere dei piloti, seguiti dagli assistenti di volo, che si rifiutavano di firmare il contratto e consentire il passaggio dalla vecchia alla nuova Alitalia. Ufficialmente si trattava di una serie di dettagli - a cominciare dalla disciplina dei riposi e dalla disponibilità dei parcheggi per gli equipaggi, che non verranno più portati a Fiumicino da autisti -, di quelli che possono ingolfare una trattativa sindacale. Ma la partita vera, si capiva benissimo, rimane il governo effettivo dell’azienda che sta per nascere, e dove, com’è logico nelle società private, gli stessi piloti e assistenti di volo non potranno più dettare le loro condizioni al management.

Ma accanto alla resistenza dei veri e vecchi padroni della vecchia Alitalia (in cui i dirigenti di Stato avevano da tempo rinunciato ad esercitare le loro prerogative), la novità che ha tenuto per qualche ora con il fiato sospeso il governo è stata l’oscillazione dei nuovi, la cordata di imprenditori, guidati da Roberto Colaninno, che solo in serata, allo scoccare quasi della scadenza fissata da Gianni Letta, hanno presentato la loro «offerta vincolante» e confermato definitivamente l’impegno assunto un mese fa per il salvataggio della compagnia.

Nelle lunghe ore che hanno preceduto la mossa di Colaninno, ogni genere di pensieri è passato per la mente di Berlusconi, che in un momento già di difficoltà e di tensione per gli esiti dello scontro sulla scuola, dopo la frettolosa approvazione del decreto Gelmini, rischiava di veder cancellato il secondo dei successi del suo governo. Un mese fa la firma del primo accordo, seguita a dodici giorni di trattativa ininterrotta, veniva dopo l’annuncio della soluzione del problema della mondezza di Napoli. Un mese dopo, invece, in piena crisi economica, il riaprirsi del problema Alitalia avrebbe inaugurato una brusca inversione di tendenza.

Meglio così, tutto è bene quel che finisce bene. Ma dalla tormentata giornata appena trascorsa si può ricavare ancora una considerazione. Fino a settembre la vendita Alitalia rappresentava l’ultima privatizzazione del decennio virtuoso incominciato con la Telecom dieci anni fa. La tumultuosa trasformazione dello scenario economico, la caduta mondiale delle banche e delle borse, l’intervento dei governi, con il recupero della ormai vilipesa logica degli aiuti di Stato, ha fatto sì che la trattativa sulla stessa Alitalia, da ultima della vecchia era, diventasse la prima della nuova. Nella quale, non essendo prevedibile fino a che punto la crisi arriverà, tutti cominciano a fare diversamente i propri conti e a mutare le proprie aspettative.

Così è possibile che nelle ore più incerte di ieri, sull’onda dell’inaccettabile gioco di veti dei piloti, anche qualcuno all’interno della cordata imprenditoriale abbia pensato che prendere un po’ di tempo, rinviando la conclusione dell’accordo, avrebbe spinto il governo, e le banche in attesa di soccorso, ad allargare i cordoni della spesa. Va detto che se questo non è accaduto, si deve alla durezza - prima che alla «santità» - dell’ultimatum posto da Letta agli imprenditori. Ma ormai è inutile nascondersi che per il modo in cui s’è risolta, se davvero si può esserne certi, la vicenda Alitalia lascia ancora una volta l’amaro in bocca. È un altro segno che governare nei prossimi mesi diventerà, giorno dopo giorno, sempre più difficile.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 10:11:00 am
7/11/2008
 
Stili
 
MARCELLO SORGI

 
Non fosse per la gaffe di Berlusconi su Obama «abbronzato», la cosa che ha più colpito in Italia, dopo la straordinaria vittoria del nuovo Presidente americano, è l’elegante modo del suo sfidante di accettare la sconfitta. Oltre a congratularsi con il suo avversario a conclusione della lunga corsa elettorale, McCain gli ha fatto gli auguri più sinceri e ha promesso aiuto e collaborazione «nell’interesse del Paese».
Ecco, una cosa assolutamente normale, in una normale democrazia come gli Usa, qui da noi è rimbalzata per ore tra tv, radio e siti Internet, accompagnata da stupore, consensi e critiche, senza per questo che il chiacchiericcio politico italiano accennasse, neppure a una tregua, ma ad abbassare il consueto volume degli insulti.

Da mesi ormai, e perfino da anni, è così. Meravigliarsi per la civiltà dei rapporti tra i due uomini su cui ha scommesso l’America è logico in un Paese, come il nostro, in cui i candidati non smettono mai di accapigliarsi, di darsele, di promettersele, di scambiarsi il guanto dei padrini per un duello infinito in cui è sottinteso che nessuno mai riuscirà a prevalere.
Quando Prodi nel 2006 vinse, sia pure di misura, le elezioni, Berlusconi non gli telefonò certo per congratularsi né per promettergli aiuto e collaborazione. Scatenò invece una campagna furibonda contro la presunta illegalità della vittoria del Prof., chiese subito la riconta dei voti, poi minacciò di arruolare a qualsiasi costo gli sparuti senatori su cui la maggioranza si reggeva a malapena al Senato, fino a che, è ormai un dato assodato, non riuscì a convincere l’alleato più riottoso del vecchio centrosinistra, Mastella, a sfilarsi e a far cadere il governo.

Allo stesso modo - con la sola eccezione della telefonata fatta a denti stretti a Berlusconi per fargli i complimenti subito dopo il voto -, si sta comportando Veltroni. Benché la vittoria del centrodestra sia stata netta e il governo goda di solida maggioranza in entrambe le Camere, il leader del Pd, giorno dopo giorno, non perde occasione per accusare il Cavaliere di infischiarsene della Costituzione, violare sistematicamente le leggi o farne di nuove per evitare di rispondere dei suoi reati, nonché di puntare a una obliqua riedizione del fascismo, fingendo di essere democratico nei primi tempi per poi gettare la maschera di uomo di regime. E a una campagna così virulenta, Berlusconi risponde quotidianamente, personalmente («Veltroni è un leader inesistente!») o armando le mitragliatrici dei numerosi suoi collaboratori, che tutte le sere distribuiscono raffiche di dichiarazioni nei tg.

Non è un bel vedere, certo, né un bel sentire. E non è neppure una malattia cronica della nostra Repubblica, un virus incurabile. Tutt’altro: c’è stato un tempo, anzi, in cui i rapporti tra governo e opposizione, pur tesi, non degeneravano nello spettacolo quotidiano degli insulti. Se qualcuno esagerava, doveva risponderne: si trattasse di Craxi o Berlinguer (che una volta definì «pericoloso» il governo socialista), o di Formica e Andreatta (che riuscirono a provocare una crisi e a passare alla storia con la loro disputa sul nazionalsocialismo meglio nota come «lite delle comari»).

E sebbene si parli di Prima e Seconda, è in fondo la stessa Repubblica che continua, a suo modo, ma lo fa contorcendosi e non trovando più pace. D’altra parte, se la misura di tutto è diventata lo scherno, lo sgambetto, il togliersi prepotentemente la parola in tv, è fatale che il presidente del Consiglio - anche nella nuova veste composta con cui da mesi cerca di atteggiarsi alle responsabilità del suo ruolo -, incappi nella spropositata battuta sulla pelle «abbronzata» del primo Presidente nero della storia americana.

Magari, come gli capita spesso, Berlusconi lo ha fatto pure senza accorgersene, senza cattive intenzioni, senza neppure prevedere il caso internazionale che ne è nato. In buona fede, insomma, e nel suo stile. Come se appunto non fosse proprio lo stile - quello americano di McCain che si congratula con Obama e quello di Berlusconi che scherza sul colore della sua pelle - uno tra i primi connotati di una democrazia.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI Un antidoto alla tv da panico
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2008, 11:39:51 am
23/11/2008
 
Un antidoto alla tv da panico
 
MARCELLO SORGI

 
Da qualche tempo Silvio Berlusconi si lamenta del catastrofismo con cui i media, a cominciare dalle tv, descrivono la crisi economica. Non manca giorno che le aperture dei Tg e le prime pagine dei giornali non si concentrino sulla congiuntura, che a catena, dopo le prime scosse sui mercati americani, ha investito tutto il mondo. Come altri premier suoi predecessori, ma con quel di più che gli viene dall’essere un uomo di televisione, Berlusconi critica, il numero, il linguaggio e la qualità dei servizi pubblicati e messi in onda. Ad esempio, quel dire e ripetere «baratro» per ogni buco che si apre nei conti pubblici, o «crollo» per sussulti o discese di Borse che hanno già bruciato la maggior parte del loro valore, o quell’ansioso rincorrere ogni minima ventilata possibilità di intervento sui tassi della Banca centrale europea, descrivendone sempre effetti e benefici, prodotti o mancati, con voluta esagerazione. O quei richiami ricorrenti e insistiti al ‘29, l’anno della peggior crisi americana, con cui tuttavia, a detta di molti esperti, l’attuale situazione ha ben poco in comune.

Ora, scaricare sull’informazione le conseguenze di previsioni sbagliate ed evidenti deficit di azione di governo è un vizio antico e diffuso. E Berlusconi, anche Berlusconi avrebbe torto, se non fosse che l’ondata mediatica da incubo-crisi sta creando un allarme generalizzato. Una paura che cresce continuamente, seguendo il ritmo frenetico dei media, si allarga, dilaga, e arriva a rendere la gente convinta di stare peggio di come sta. Dal panico alla paralisi e alla stagnazione dei consumi, come avvenne per un anno nella New York insanguinata dall’attentato alle Torri Gemelle, il passo è breve. La paura stessa innesca una spirale di depressione, che spinge all’avvitamento e al peggioramento dell’economia.

Intendiamoci, non c’è molto da rallegrarsi per il momento che stiamo vivendo. Eppure, la lentezza con cui, nelle fasi di crescita, l’Italia arranca, dietro ai suoi più giovani e dinamici concorrenti europei (non parliamo dell’America), oggi, inaspettatamente, ne addolcisce il declino. Pur sofferenti, le nostre due maggiori banche non sono arrivate al fallimento come la Lehman Brothers. Le piccole e medie aziende, che formano l’ossatura del sistema economico italiano, resistono pur tirando la cinghia. Le esportazioni flettono ma reggono. E in mancanza d’altro, le famiglie italiane, con la loro solidarietà interna, sopperiscono artigianalmente all’insufficienza degli ammortizzatori sociali. E’ su un quadro del genere, grave ma un po’ meno grave di quello di paesi più forti del nostro (vedi la Germania), che il panico e il diffondersi di un’ansia non commisurata al reale possono produrre risultati nefasti.

Proprio ieri il Financial Times - che a differenza di molti (non tutti) dei nostri giornali e tg, pubblica ogni giorno analisi approfondite e confronti di dati sull’andamento delle economie di tutto il mondo -, ammoniva sui «brividi» che la paura sta provocando sull’andamento dei principali mercati. E ricordava il commento fermo del presidente americano Roosevelt, ai suoi tempi, di fronte al crollo di metà della Borsa Usa: «Noi non dobbiamo aver paura di nulla, se non della stessa paura». Quanta saggezza e quanto senso di responsabilità in quelle parole pronunciate in un tempo terribile, con una guerra appena conclusa alle spalle. E quale distanza, dai quotidiani annunci di terremoti, che accompagnano i nostri giorni di crisi.

In sintesi, per quel che s’è potuto capire negli ultimi mesi, la situazione è tale che, o ci sarà la fine del mondo, oppure, come tutti si augurano, non ci sarà. Siccome non c’è ancora stata, è più possibile, o forse meno improbabile, che tutto quel che finora è andato giù tornerà a risalire, magari anche più velocemente del passato. Qualche consiglio, qualche approfondimento, e messaggi di rassicurazione, diffusi con serietà e competenza, non guasterebbero, mentre tutti vedono continuamente assottigliarsi il valore dei propri risparmi e crescere i timori per il futuro. Ma da soli, certo, è chiaro che non possono bastare.

Berlusconi dovrebbe passarsi una mano sulla coscienza. Non è isolato, anzi, può perfino aver ragione a lamentarsi degli effetti ansiogeni dei media. Ma non può negare che dopo un intervento tempestivo ed efficace, con il varo di due decreti, al momento dell’esplosione della crisi, da giorni e giorni ormai il governo annuncia un piano anticongiunturale che continua a non arrivare.

Nel frattempo, il Cavaliere, e con lui Veltroni, sembrano molto più attirati dalla leggerezza tragicomica della vicenda dei vertici Rai, piuttosto che dalla durezza dei problemi reali. Ma nelle more della guerra infinita sul dominio della tv, s’intuisce una sorta di lavorio, tutto interno al centrodestra. Una tensione tra il premier, che vuole a tutti i costi mettere soldi da spendere nelle tasche della gente, dando così una scossa positiva ai consumi addormentati, e il ministro dell’Economia, che pur avendo intuito in anticipo la gravità della crisi e consentendo sulla necessità di una svolta, deve far quadrare i conti pubblici e rispettare gli impegni presi a Bruxelles. Di rinvio e rinvio, l’urgenza delle decisioni è manifesta, insieme con la sua difficoltà. Se Berlusconi continua ad aspettare, poi non potrà lamentarsi, per aver letto, o sentito parlare in tv, di un suo «braccio di ferro» con Tremonti.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. I tagli e le toppe
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2008, 11:20:53 am
26/11/2008
 
I tagli e le toppe
 
MARCELLO SORGI
 
A tre giorni dal tragico incidente nel liceo Darwin di Rivoli, con un morto e feriti gravi, dalla scuola italiana arriva un bollettino di guerra.


Un bambino sfuggito alla sorveglianza della maestra, caduto dal terzo piano della scuola elementare «Cappellini» nella periferia Nord di Milano e ricoverato in coma in ospedale. Allarme del preside dell’Istituto Agrario di Grosseto, per un’infiltrazione da un soffitto (come quella che potrebbe aver provocato a Torino la morte del povero Vito Scafidi e il ferimento di Andrea Macrì), con conseguente fuga all’aperto degli studenti dopo l’arrivo dei vigili del fuoco. Un’altra preside, quella dell’Itis «Porro» di Pinerolo, ha sospeso ieri le lezioni in attesa di garanzie di sicurezza. E ancora: oltre quaranta interventi dei pompieri in Campania, con la chiusura di tre scuole elementari. Per finire, in Puglia - ma il bilancio è provvisorio - con l’allarme per una fuga di gas e sospensione delle lezioni nel liceo di Terlizzi.

Una nuova paura si sta dunque affacciando nelle case dei genitori italiani: abituati da sempre a considerare la scuola per i propri figli come un luogo sicuro, affidabile, sorvegliato, scoprono tutt’insieme che somiglia a un cantiere, come quelli in cui, giorno dopo giorno, lavoratori non protetti trovano la morte. La psicosi che si va diffondendo ha un aspetto contingente perché, nella testa delle persone, l’incidente di Rivoli riecheggia quello assai più grave della Thyssen (è di questi giorni l’inizio del processo e l’imputazione di omicidio per i dirigenti della fabbrica). E arriva, per giunta, nel bel mezzo della battaglia studentesca contro i tagli imposti dal governo alla spesa scolastica. Così, è fin troppo facile pensare che una scuola trascurata, privata dei mezzi necessari e in sostanza abbandonata, non poteva non finire, prima o poi, a contare i suoi morti.

Ma al di là dell’aspetto irrazionale tipico di un momento di panico, che mette insieme fatti e sensazioni sommandoli indistintamente, il quadro fornito ieri alla Camera dal sottosegretario Bertolaso è davvero preoccupante. Già il fatto che a rispondere in Parlamento si sia presentato il responsabile della Protezione civile, come avviene quando si tratta di calamità, e non quello dell’Istruzione, è indicativo. Bertolaso ha spiegato senza mezzi termini che tutti o quasi i 57 mila edifici scolastici italiani sono a corto di manutenzione, che la spesa necessaria per realizzarla si aggira sui 13 miliardi (più di una volta e mezza l’ammontare dei tagli imposti dal decreto Gelmini), mentre i fondi disponibili al momento sono 75 milioni, e possono bastare a malapena per un centinaio di scuole, quelle messe peggio.

In più, stando sempre alla relazione di Bertolaso, grazie a un escamotage di quelli che troppo spesso passano sotto silenzio, la scuola è l’unico luogo di lavoro in cui la normativa per la sicurezza non viene applicata, ma sospesa, così che, non solo gli insegnanti e il personale scolastico, ma gli studenti stessi, ogni giorno entrano nel loro luogo di lavoro sapendo di correre rischi e di doverli affrontare a spese proprie. Secondo dati forniti da «Cittadinanzattiva», associazione impegnata nella difesa dei diritti e attiva sul fronte scolastico, solo il 34 per cento degli istituti hanno il certificato di agibilità statica, solo il 39 per cento l’agibilità igienico-sanitaria e solo il 37 per cento rispetta la normativa per la prevenzione degli incendi.

Psicosi, paura e reazioni inconsulte sarebbero giustificate davanti a un quadro del genere. E invece, da cittadini e da genitori, la prima cosa da fare è cercare di tenere la testa sulle spalle. Distinguere, ad esempio, il dolore e il lutto per il ragazzo morto a Rivoli, di cui oggi saranno celebrati i funerali, dalle manifestazioni di protesta. È evidente che un Paese che lascia andare in malora le proprie scuole mette una seria ipoteca sul suo futuro. Ma è altrettanto chiaro che il degrado non è venuto all’improvviso, ed è anzi il frutto di decenni di abbandono. Se il governo vuole veramente evitare che dilaghino reazioni di panico, come la giornata trascorsa ieri nelle aule di mezza Italia lascia temere, ha una sola cosa da fare: stornare al più presto una parte dei tagli al sistema scolastico appena decisi e destinarli, se non al restauro, almeno a mettere qualche toppa nei muri pieni di crepe delle aule italiane.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Bloccare le moschee?
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2008, 09:50:03 am
4/12/2008
 
Bloccare le moschee?
 
MARCELLO SORGI

 
Bloccare nuove moschee e centri culturali, almeno fino a quando non sia stata sottoscritta un’intesa tra lo Stato italiano e gli islamici: avanzata ieri dopo l’arresto di due marocchini a Milano, accusati di preparare attentati, e dopo l’allarme lanciato dal ministro dell’Interno Maroni, la proposta della Lega Nord ha subito suscitato molte reazioni, dal Pd a Rifondazione comunista, che arrivano a definirla «incostituzionale».

Ora, che la Lega scelga la strada parlamentare e presenti una mozione per sollevare una discussione, segna invece un passo avanti, se solo si riflette che fino a qualche anno fa fu il ministro Calderoli a minacciare di portare maiali a pascolare sui terreni destinati a luoghi di culto islamici, e così sconsacrarli. Naturalmente, c’è un evidente obiettivo propagandistico (né più né meno di quello che muove le reazioni) nel farsi avanti sull’onda dell’emozione sollevata dal riproporsi della minaccia terroristica. Ma la questione riguarda la possibilità o meno di consentire, o addirittura di favorire, la professione della religione islamica quando purtroppo, dall’interno della vasta platea di fedeli, continuano ad affacciarsi frange di estremisti radicali.

Se parliamo della Costituzione, chiamata in causa dall’opposizione, il dettato è chiarissimo: l’articolo 19 garantisce l’esercizio della libertà religiosa in privato e in pubblico, e di conseguenza la costruzione di edifici dedicati al culto.

Ma l’articolo 8 - successivo a quello che riconosce il Concordato con il Vaticano e regola i rapporti con i cattolici - stabilisce che anche per le altre religioni la libertà va esercitata all’interno di intese con lo Stato italiano.

Negli anni, l’Italia ha stabilito intese con tutte o quasi le religioni presenti sul proprio territorio, tranne che con gli islamici. La ragione di una difficoltà che si trascina dai tempi della Prima Repubblica (era stato Craxi, dopo aver rinnovato il Concordato, a puntare su un accordo anche con l’Islam) è presto detta: al di là del clima più o meno favorevole (oggi senz’altro meno), non è facile trovare un punto d’incontro con una comunità religiosa che non ha gerarchie, non ha pubblici rappresentanti in grado di impegnarsi anche a nome dell’intera assemblea dei fedeli, non può materialmente sedere a un tavolo, se non per discutere, mai per stipulare.

D’altra parte l’Islam prevede che il rapporto del fedele con il proprio dio sia diretto, che l’imam possa solo favorire la preghiera, senza un vero ruolo di pastore né di guida. Di qui appunto l’impossibilità, malgrado la si sia cercata per decenni, di trovare una strada per regolare i rapporti tra l’Italia e gli islamici come con tutte le altre confessioni.

Così, proporre, come vorrebbe la Lega, una moratoria per le moschee fino a nuove intese, equivale in pratica a bloccarle sine die. E in un Paese in cui ormai gli islamici sono milioni, rischia probabilmente di produrre l’effetto opposto, dando la sensazione agli interessati di ridurre la libertà religiosa e comprimendo le posizioni più radicali, fino a rischiare di farle esplodere piuttosto che tenerle sotto controllo.

Quanto sia irrisolto, e quanto forte, il conflitto su questi problemi lo rivelano anche recenti esperienze in città dove più forte è la presenza islamica. A Milano la mancanza di spazi adeguati ha spinto i fedeli a pregare per strada, curvi sui marciapiedi, provocando disagi e proteste dei cittadini che islamici non sono. A Bologna il sindaco Cofferati era riuscito a firmare un accordo con la comunità locale, assegnandole un terreno e creando lo spazio per costruire un’ampia moschea. Ma quando la Lega e comitati di cittadini ad essa vicini hanno proposto un referendum per bloccare la costruzione, Cofferati, piuttosto che affrontare un voto che avrebbe diviso la città e inasprito la situazione (oltre che quasi sicuramente far vincere il fronte del «no» alla moschea), ha preferito fermare tutto. Un rinvio emblematico, simile a quello che la Lega vorrebbe su scala nazionale. Ma che certamente non aiuta la soluzione del problema.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. La rabbia di Napoli "Qui la sinistra ha creato un regime"
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2008, 10:35:14 am
18/12/2008 (7:29) - REPORTAGE

La rabbia di Napoli "Qui la sinistra ha creato un regime"
 
Tra paure e sospetti

E il Pd ora teme che il ciclone si abbatta sul Campidoglio

MARCELLO SORGI
INVIATO A NAPOLI


E se adesso toccasse a Roma? La domanda nessuno la fa a voce alta. Ma la paura è dipinta sulle facce dei politici che sfilano sulle tv locali. Con Napoli, l'accerchiamento è completo. Dopo la Liguria, la Toscana, l'Abruzzo, la Basilicata, la Calabria, il timore che una nuova inchiesta presto punti diritto al quartier generale del Pd cresce di ora in ora, alimentato dal coinvolgimento del parlamentare Lusetti (insieme al collega di An Bocchino) nell’indagine sul «Global service» partenopeo, dalla vicinanza di Lusetti a Rutelli (i nomi dell’ex vicepresidente del consiglio e dell’ex ministro Fioroni compaiono nelle carte giudiziarie), e dalle mille voci che dicono che anche nella Capitale il lungo quindicennio del centrosinistra alla guida del Campidoglio potrebbe entrare a breve nel mirino della magistratura.

Napoli come anticamera di Roma. Napoli come paradigma del degrado amministrativo del centrosinistra, che qui è esploso fragorosamente con il disastro della monnezza, ma anche altrove, come s’è visto, funzionava (o non funzionava) allo stesso modo. «In un certo senso la questione giudiziaria non è la cosa più importante - spiega Andrea Geremicca, a lungo vicesindaco ed assessore nella prima stagione delle giunte di sinistra, e oggi a capo della Fondazione «Mezzogiorno Europa» - non perché non sia grave l’arresto di alcuni assessori o il suicidio, prima dell’arresto, di uno di loro.

Ma in termini politici, tutto era già avvenuto prima. La crisi dei partiti. Le guerre tra gruppi e correnti, ai quali i leader nazionali hanno lasciato mano libera, all’interno del Pd neonato. E poi il distacco assoluto della politica dalle istituzioni, l’assenza di discussione, la mancanza di mobilitazione dell’opinione pubblica, la degenerazione del leaderismo, l’asfissia del ricambio della classe dirigente».

Dicono che in questi giorni i membri della nomenclatura napoletana vivano un po’ come quelli sovietici negli anni dello stalinismo: quando sentivano bussare alla porta al mattino, non potevano sapere se a suonare il campanello fosse il lattaio o le guardie venute per arrestarli. Molto più di Genova, Pescara, Potenza o Reggio Calabria, Napoli è da sempre, per definizione, un caso nazionale. La rivoluzione dei sindaci, in fondo, era partita da qui.

La caduta del vecchio sistema qui era stata più fragorosa che altrove, con l’improvvisa cancellazione dei «signori della miseria» che per decenni avevano prosperato sulla disperazione del Sud. Oggi resta ben poco del Rinascimento napoletano che aveva fatto risplendere la città, con Piazza Plebiscito liberata finalmente dal traffico e dalle auto in terza fila, nei giorni lontani del G7 del ‘94. La crisi nel rapporto tra istituzioni sorde e società civile indifferente, rassegnata, l’ha denunciata con forza il cardinale Sepe, forse l’unica autorità riconosciuta e anche il solo che dal pulpito e nelle strade cerca di ricostruire una rete di valori.

Il magistrato-intellettuale Raffaele Cantone, a lungo impegnato contro il clan dei casalesi, la sua personale e reale Gomorra, che lo costringe a vivere sotto scorta, non vorrebbe parlare. Chiarisce che non può esprimersi sulla portata di inchieste a cui non ha preso parte. Ma aggiunge: «La caduta di credibilità della classe dirigente si era già consumata del tutto sulla questione della monnezza. Quando le istituzioni locali, a qualsiasi livello, hanno dimostrato di non essere in grado di porre rimedio a un problema così grave e per così lungo tempo, gettando la cittadinanza nel degrado e mettendone a rischio la salute, si sono giocate insieme prestigio e fiducia».

Né vale il tentativo di Bassolino (e oggi del sindaco Iervolino) di resistere e tentare di recuperare, sull’onda della drastica ripulitura militare ordinata da Berlusconi. «Bassolino può pure aspettare, illudersi che l’indifferenza di una società civile presa politicamente a martellate possa consentirglielo, ma sbaglia a non riconoscere che il suo ciclo s’è chiuso - accusa Biagio De Giovanni, filosofo di fama mondiale, coscienza critica della sinistra napoletana, titolare della cattedra Jean Monnet di storia dell’integrazione europea all’Istituto Orientale - l’idea che l’attesa sia obbligata, per consentire la nascita di una classe dirigente alternativa all’interno del centrosinistra, non sta in piedi.

L’alternativa non è nata perché negli ultimi anni qui c’è stato un regime. Un potere asfissiante in cui, a cominciare dall’interno della sinistra, ogni voce dissonante, ogni critica, ogni obiezione veniva tacitata, con le buone o con le cattive». Consulenze a pioggia. Professori di quelli che scrivono editoriali sui quotidiani assoldati nei think-thank pubblici con stipendi di decine di migliaia di euro. Molte chiacchiere, molti annunci, molte incompiute, quasi nessuna realizzazione.

E se oggi la Iervolino è riuscita a mettere insieme contro di sé, tutti insieme, la Curia, l’Unione Industriali, buona parte degli intellettuali e l’insieme dei giornali locali, non dipende solo dalle avversità degli ultimi tempi. Ma dall’assoluta inefficienza di un’amministrazione paralizzata dai veti interni e dal braccio di ferro tra «cacicchi» e potentati locali. «Il problema non è la moralità dei singoli, alla cui buona fede posso perfino credere, fino a prova contraria. Piuttosto, le amministrazioni immobili - scandisce il presidente dell’Unione industriali Gianni Lettieri - hanno i fondi e non riescono a spenderli. Quando lo fanno, è senza progetti significativi. Prenda il termovalorizzatore, di cui ancora adesso si discute senza realizzarlo. Per il Comune sarebbe un affare, gli consentirebbe di far cassa. Noi abbiamo offerto tutto l’appoggio, anche finanziario, per costruirlo, ma si continua a rinviare. E lo stesso vale per la riqualificazione di Bagnoli o per i quattro milioni e mezzo di metri quadri di proprietà del Comune lasciati in abbandono, o per il Piano regolatore, fermo da quindici anni. Nessuno riflette o si interroga su come vorremmo che fosse Napoli tra dieci anni. E neppure sul giorno per giorno».

C’è però una ragione che, al di là degli sviluppi giudiziari che potrebbero avere il sopravvento, spinge all’arroccamento Bassolino e Iervolino. Se si dimettessero, aprendo la strada a elezioni anticipate, in Campania finirebbe come in Abruzzo, centrodestra al governo, Pd in rovina, fuga in avanti di Di Pietro. «Si lo so, dicono che le elezioni non risolverebbero nulla e non porterebbero personale politico migliore dell’attuale - ragiona Geremicca -. Ma a parte il fatto che noi siamo sempre i migliori e sosteniamo la democrazia quando siamo al governo, pronti a cambiare idea se si profila un ricambio, chi ci dice che tra due anni gli elettori non ci daranno uno schiaffone anche più sonoro di quel che ci aspettiamo? E soprattutto - conclude - chi può assicurare che in questa situazione, in cui è evidente che s’è rotto il rapporto tra governanti e governati, Bassolino e Iervolino ce la faranno a resistere per altri due anni?».

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Sullo sfondo la successione
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2009, 05:59:52 pm
14/1/2009
 
Sullo sfondo la successione
 
MARCELLO SORGI
 

Va detto subito: la durezza con cui il presidente Fini ha reagito ieri all’ennesimo voto di fiducia sul decreto anti-crisi è pienamente giustificata. Un esecutivo in carica da pochi mesi, che per la decima volta pone una richiesta del genere alla Camera, governa solo praticamente a colpi di decreti e fiducie. Per quanta urgenza e necessità abbia di vedere approvati i propri provvedimenti, sta trasformando l’eccezione nella regola, e mettendo il Parlamento in condizione di non poter più esaminare, discutere e modificare le scelte del governo.

Nei corridoi di Montecitorio però, subito dopo lo scontro plateale tra Fini e il ministro Vito, i cronisti si esercitavano per stabilire quante volte di recente il presidente della Camera abbia preso posizione contro Palazzo Chigi. Chi dice sei, chi tre. A memoria recente, Fini, infatti, oltre a stigmatizzare l’abuso di fiducia, è intervenuto la scorsa settimana contro la proposta della Lega di imporre una tassa agli immigrati per il rinnovo del permesso di soggiorno.

Poi, negli stessi giorni, sulla riforma della giustizia: sia nel merito, per proporre una serie di punti più vicini alle proposte dell’opposizione, sia nel metodo, suggerendo di procedere con il massimo di condivisione, mentre il governo non esclude di approvare la riforma con i soli voti della sua maggioranza.

Ancora, andando indietro nel tempo, Fini ha criticato l’ostruzionismo del centrodestra contro l’elezione di Leoluca Orlando alla presidenza della commissione di Vigilanza Rai, e le mancate dimissioni del senatore Villari dalla stessa presidenza. S’è schierato contro l’abuso dei decreti legge da parte del governo. Ha denunciato il «rischio di cesarismo» nel Pdl. Ha concordato con Massimo D’Alema sulla necessità di promuovere una nuova commissione bicamerale per le riforme istituzionali.

Come si vede, una serie di iniziative - sempre legittime - istituzionali, cioè più consone al suo ruolo attuale, e politiche, legate a quello pregresso di leader del centrodestra. Un attivismo che, sia detto per inciso, non è che dalla maggioranza sia stato sempre accolto con entusiasmo. Mentre è chiarissima - ancorché repressa - l’irritazione di Berlusconi. Anche perché Fini non è il solo a dissentire nell’ambito della maggioranza. C’è la Lega che non ha digerito l’accordo Alitalia-Air France, e la Moratti che per le stesse ragioni s’è schierata con Bossi.

Questo malessere così evidente ha una sola spiegazione, che potrebbe sembrare avventata, ma non lo è. A nove mesi dalle elezioni politiche che lo hanno visto vincitore, nel centrodestra s’è aperta in anticipo la partita per la successione di Berlusconi. Niente di nuovo. Ma quel movimento, quell’effervescenza, che si erano già viste alla fine della legislatura 2001-2006, stavolta spuntano all’inizio, con il rischio di indebolire il governo.

Il motivo di tanta agitazione è la nascita del Pdl. Beninteso, la vera nascita, il congresso che dovrebbe dare al Popolo della libertà le forme di un partito organizzato, dopo l’uscita a sorpresa di piazza San Babila a novembre 2007 in cui il Cavaliere fondò la sua nuova creatura dal predellino di una Mercedes.

La sensazione è che Fini più esplicitamente, ma anche altri, tra quelli che possono ambire alla successione del premier, si preparino a una battaglia congressuale di tipo classico: con tessere, delegati, votazioni e candidature contrapposte e trasparenti. Attualmente di questo non c’è ombra, nel Pdl che prepara le sue assise. Ed è naturale che la componente An, che ha alle spalle una storia partitica più classica, faccia sentire più forte la sua voce prima che sia troppo tardi.

A Berlusconi infatti, è ormai noto, queste cose non piacciono. Vale per il Parlamento e vale pure per il partito. Il Cavaliere sa di aver scelto uno per uno i suoi deputati e senatori, e dopo averli candidati e fatti eleggere grazie alla legge che ha promosso e alla sua personale campagna elettorale, crede anche di potergli chiedere di votare la fiducia senza far storie.

Stesso discorso è prevedibile per il Pdl. La partita è appena aperta e sarà interessante, alla fine, vedere chi la spunterà. Un partito senza regole democratiche interne non è un partito. Ma se il gioco è quello di trasformare il premier da papà a nonno del neonato Pdl, chiedendogli di indicare il suo successore, è anche probabile il rifiuto di Berlusconi, pronto a risalire sul predellino e a ricominciare da capo.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Lo sceriffo senza stella
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2009, 04:48:14 pm
24/1/2009
 
Lo sceriffo senza stella
 

MARCELLO SORGI
 

Chissà se il ministro Maroni e il sindaco Alemanno un filo di pentimento non ce l’avranno per il modo in cui finora si sono occupati di sicurezza. Due stupri in due giorni - tre dalla fine dell’anno - nella Capitale non sono solo «fatti gravissimi», come li ha definiti il governo. Con tutto quel che sta capitando in Italia, tra criminalità, ordine pubblico e immigrazione clandestina, sono un chiaro segno che la strada per rendere il Paese sicuro è ancora lunga.

Eai successi, innegabili, di questi primi mesi di vita dell’esecutivo, si accompagnano duri richiami e durissime smentite della realtà. Maroni, ieri, annunciando un più forte utilizzo dei militari a difesa delle città, ha detto che con questo il Viminale intende aprire la «fase due» del piano per la sicurezza. Ora, senza nulla togliere all’impegno del ministro dell’Interno, non è che gli effetti della «fase uno» siano stati così positivi.

La sicurezza, la paura di vivere in città dove è pericoloso aggirarsi la sera, restano in cima alle preoccupazioni dei cittadini. La prontezza con cui è stato catturato Giuseppe Setola, il boss dei casalesi sfuggito una prima volta attraverso le fogne, non vuol dire che la camorra sia stata sconfitta. La linea dura annunciata e praticata contro l’immigrazione clandestina non ha evitato l’ingorgo del cosiddetto centro di accoglienza di Lampedusa, dove attualmente ben 1800 disperati venuti dal mare sono ristretti in celle che potrebbero contenerne meno della metà.

Né sta dando migliori risultati il negoziato e l’irrigidimento dei rapporti con la Romania, per arginare il fiume di criminalità che quotidianamente - e purtroppo regolarmente, dato che si tratta di un giovane partner della Comunità europea - riversa sulle nostre strade. La sensazione degli addetti ai lavori è che un flusso di ritorno si sia stabilito, ma che a tornare siano i romeni che trovano lavoro nel loro Paese d’origine, mentre restano qui quelli che non hanno voglia di lavorare.

Non è migliore il bilancio del primo cittadino di Roma: Gianni Alemanno, che con un’abile campagna sulla sicurezza e con uno spregiudicato uso politico di uno stupro avvenuto proprio nei giorni che precedevano il voto, s’è ritrovato a sorpresa sindaco di Roma battendo Rutelli, fa adesso i conti con lo stesso odioso tipo di reato che non sono riuscite a sradicare né la strategia anticrimine né la «tolleranza zero» annunciate in campagna elettorale.

Benché gravissimi, i due stupri avvenuti ieri e mercoledì alle porte di Roma non sono tali da mettere in discussione l’impegno di Alemanno per la sicurezza. Finora, anzi, il primo cittadino della Capitale ha cercato in tutti i modi di avvicinarsi al modello del «sindaco sceriffo» che era piaciuto ai suoi elettori. Appena eletto, aveva fatto saltare la testa del prefetto Carlo Mosca, che si era schierato contro le schedature degli extracomunitari. Durissimo con gli immigrati clandestini, s’era poi recato di persona nelle baraccopoli, all’ombra delle quali spesso nascono gli episodi di violenza più sordida. Poi ha proibito la vendita di alcolici da portare per strada, ripulendo così, da giovani avariati, alcune delle più belle piazze del centro, e riducendo anche il numero delle risse tra ubriachi. Ancora, ha ottenuto dal governo 700 soldati per pattugliare le vie più malfamate della città. Inoltre, incurante delle polemiche, ha voluto affiancare ai vigili urbani un limitato, ma molto specializzato, dipartimento, guidato da un generale ex agente segreto rotto a tutte le esperienze, come l’ex direttore del Sisde Mario Mori.

Con tutto ciò, sarà la sfortuna, sarà che una megalopoli come Roma non è controllabile fino in fondo, il sindaco e il suo apparato di sicurezza si son beccati due stupri in due giorni e tre in tre settimane. Naturalmente questo incide sulle reazioni dei cittadini e sul nervosismo dei loro amministratori: i romani, anche ad onta del loro tradizionale scetticismo, erano stati convinti con una campagna martellante che la nuova amministrazione avrebbe messo a posto la situazione. Ma a malincuore, dopo pochi mesi, hanno dovuto rendersi conto che non è così.

Anche se ieri il primo dei tre stupratori (una bestia, che aveva abusato di una ragazza ventenne in un cesso chimico di una festa-rave) è stato arrestato e fatto confessare, la sequela di stupri ha lasciato molta impressione. È terribile che in una città che vive in movimento, ventiquattr’ore su ventiquattro, una donna non possa sentirsi sicura quando torna a casa. A volte, basterebbe solo migliorare l’illuminazione delle strade, che al buio diventano luoghi ideali per gli agguati. Ma soprattutto, è penoso - sia detto per inciso - che un problema serio come quello della sicurezza, invece di essere affrontato con la serietà e i tempi che richiede, a meno di un anno dalla fine della campagna elettorale, diventi ancora motivo di scontro, tra il sindaco sceriffo che ha perduto la stella e i suoi oppositori caduti poco prima sullo stesso fronte.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Preferenze, spauracchio dei leader
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2009, 10:44:26 am
3/2/2009
 
Preferenze, spauracchio dei leader
 
MARCELLO SORGI
 

Malgrado il faticoso accordo tra Berlusconi e Veltroni, non è detto che la nuova legge elettorale per le europee, con la soglia di sbarramento al 4 per cento per i partiti minori, vedrà la luce nei tempi previsti. Nel Pd, e non solo nel Pd, sono emerse forti resistenze, e fino a domani non è dato sapere se l’intesa terrà. Ma quale che sia la sorte della legge, essa non influirà sulle preferenze. Che, cancellate l’anno scorso, per le politiche, ed escluse sapientemente dalla trattativa per la riforma, a giugno torneranno per le europee. Si voterà, secondo le circoscrizioni, esprimendone due o tre.

La cosa strana non è tanto il diritto, sopravvissuto a tutte le riforme tentate e praticate, a votare per più di un candidato. Semmai che dopo tanti anni passati a dire che le preferenze erano (e sono) uno strumento di corruzione della volontà degli elettori, a difenderle, adesso, si siano alzati molti di quelli che in passato le avevano avversate. Ultimo, ma certamente non isolato, D’Alema, che ha contestato fin dall’inizio la legge a cui il segretario del suo partito sta lavorando.

Naturalmente ci sono ragioni politiche che spiegano il riposizionamento dei vari leader sui meccanismi elettorali. Berlusconi e Veltroni tengono al bipartitismo che ha cancellato dal Parlamento gran parte dei partiti minori, e necessitano di conseguenza di far votare anche a giugno con una legge il più possibile simile a quella usata l’anno scorso per le politiche. D’Alema e gli altri, al contrario, sono convinti che con questo sistema il centrosinistra non tornerà mai più a vincere, e premono per riaprire la strada ai partitini ex alleati esclusi dallo sbarramento.

Al premier e al capo dell’opposizione l’abolizione delle preferenze converrebbe per avere di nuovo mano libera sulla formazione delle liste: se l’elettore, com’è già accaduto, non potesse scegliere a suo piacimento neppure uno dei candidati, per stabilire chi sarà eletto a Berlusconi e Veltroni basterebbe decidere l’ordine dei nomi in lista. In questo modo avrebbero ragione anche di capi e capetti locali, che usando le preferenze potrebbero divertirsi a contraddire le indicazioni venute dal centro. Inoltre, per Berlusconi verrebbe meno il timore che Alleanza nazionale, più radicata sul territorio, risulti meglio piazzata di Forza Italia alla vigilia della fusione dei due partiti nel Popolo della libertà. E per Veltroni svanirebbe l’incubo dei «cacicchi» provinciali, fin qui riottosi ad accettare il rinnovamento e il ricambio della classe dirigente del Pd.

Ecco perché, con o senza la soglia di sbarramento, e soprattutto con le preferenze, le prossime elezioni nel centrodestra e nel centrosinistra rischiano di trasformarsi in un referendum interno sui due leader. Se lo sbarramento ci sarà, ciascuno nel proprio campo, Berlusconi e Veltroni avranno maggiori possibilità di attirare elettori dei partiti minori. Se non ci sarà, sconteranno il peso degli alleati in «libera uscita». Ma in ogni caso dovranno mettere in conto la vendetta di tutti quegli elettori che un anno fa, non potendo scegliere i loro candidati, si ritrovarono a dare un voto dimezzato o forzato.

Certo, se solo si riflette che diciotto anni fa le preferenze multiple erano state cancellate con il voto di un referendum, e il risultato di quella consultazione aveva aperto la strada alla caduta della Prima Repubblica, ce n’è abbastanza per dire che il vento soffia ormai nella direzione opposta. Fa perfino malinconia rileggere gli slogan e rivedere l’atmosfera del 1991. L’inizio, si diceva, del cammino «dalla partitocrazia alla democrazia». Con l’obiettivo, riconosciuto dalla Corte costituzionale, «di ridurre le possibilità di brogli e pratiche elettorali non corrette». E poi l’invito di Craxi a disertare le urne «andando al mare», l’affluenza di oltre il 90 per cento ai seggi come reazione. E ancora, il messaggio di Cossiga alle Camere per invocare riforme istituzionali, che non verranno.

L’anomalia della riscoperta delle preferenze, del resto, non è la sola di questi ultimi tempi. Nei lunghi anni della Seconda Repubblica, in cui, con l’avvento del bipolarismo, abbiamo cercato di avvicinarci all’Europa, siamo stati capaci anche di introdurre un’altra particolarità. Mentre altrove cambiavano i gruppi dirigenti, ma i partiti restavano gli stessi, da noi è accaduto il contrario. Così, in Francia, Sarkozy ha sostituito Chirac, e la Aubry, dall’opposizione, guida il partito che fu di Mitterrand. In Inghilterra, a Blair è subentrato Brown. In Germania, la Merkel è al posto di Kohl. Solo in Italia, invece, i leader restano sempre gli stessi e cambiano i nomi dei partiti. Con Berlusconi il Polo è diventato Casa e poi Popolo della Libertà. Con Veltroni, D’Alema e Rutelli, Pds e Popolari si sono trasformati in Ds e Margherita, per poi approdare insieme al Pd. La metamorfosi delle insegne e dei simboli non ha impedito - anzi ha garantito - che le facce rimangano sempre le stesse. E la riscoperta delle preferenze, oggi, fa temere che anche i metodi per cambiarle torneranno ad essere quelli di sempre.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Ci pensa la ronda
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 10:00:37 am
6/2/2009
 
Ci pensa la ronda
 
MARCELLO SORGI
 

Preceduta da una tripla bocciatura del governo, l’approvazione del decreto sicurezza al Senato s’è lasciata dietro una scia di polemiche interne al centrodestra. C’è un evidente malessere della Lega, che per la criminalità e i clandestini reclama mano più forte.

E ci sono riserve all’interno della maggioranza, cui hanno dato voce i franchi tiratori che nell’aula di Palazzo Madama hanno fatto andare sotto il governo.

Ma oltre all’aspetto fisiologico di attriti e incidenti parlamentari, va valutato l’effetto di tali tensioni sul merito di provvedimenti delicati come questo, e in vista di riforme importanti come la giustizia. Su materie che toccano la sensibilità dell’opinione pubblica, è buona regola intervenire meditatamente, non lasciandosi trascinare dall’emozione o da eventi contingenti. Non è in gioco infatti solo un buono o un cattivo risultato politico agli occhi degli elettori. Ma, ciò che è più importante, una buona o cattiva legge. Ora, che in materia di sicurezza si richieda una svolta sia in termini di severità che di efficienza, e che lo sforzo del governo vada in quella direzione è dimostrato dal quadro preoccupante descritto pochi giorni fa dai procuratori della Repubblica. I reati, anche i più odiosi, sono in aumento. A Roma e dintorni, nelle sole prime due settimane dell’anno, ci sono stati tre stupri. Crescono traffico e diffusione di droghe, aggirando ogni azione di contrasto. Le organizzazioni criminali resistono all’offensiva dello Stato. La criminalità elettronica e telematica si riproduce e si specializza. Opacità e tangenti nella pubblica amministrazione non accennano a diminuire. La sicurezza e la crisi economica sono al primo posto tra le emergenze che i governi, non solo il nostro, devono affrontare.

Ma ridurre un quadro così complesso - che richiede in tutta evidenza un approccio integrato, con politiche diverse - a un problema di immigrati clandestini, o di reazione di polizia, francamente è riduttivo. Anche qui: un fenomeno in crescita come l’immigrazione clandestina ha dato un contributo negativo alla situazione dell’ordine pubblico e all’incremento della microcriminalità. E tuttavia, aspettarsi che questo possa essere risolto innalzando (come si voleva, e come i franchi tiratori hanno impedito di fare al Senato) da 60 giorni a 18 mesi l’internamento dei clandestini nei centri di accoglienza è illusorio. Già adesso, che il termine è di due mesi, i centri scoppiano: nella sola Lampedusa, il porto d’approdo più frequentato dagli extracomunitari, ci sono 1.800 detenuti in una struttura che ne potrebbe contenere 800. Due settimane fa c’è stata una rivolta con fuga all’esterno degli internati. Se le uscite dei clandestini che devono essere rimpatriati vengono rallentate con un allungamento della detenzione, si può immaginare quanto potrà peggiorare l’affollamento.

Ciò non vuol dire, ovviamente, che se il termine di 60 giorni s’è rivelato insufficiente, per completare le procedure di rimpatrio, non possa essere rivisto. Da due mesi a un anno e mezzo ci sono molte altre possibilità. Né va dimenticato che un problema come quello degli sbarchi clandestini, destinato ad aggravarsi nei prossimi mesi, con la buona stagione, va affrontato anche con un’iniziativa diplomatica più stringente, e sollecitando una maggiore collaborazione, troppe volte promessa, e mai effettivamente prestata, dai nostri dirimpettai della costa africana.

Ma ci sono altri tre punti controversi del decreto. Il primo è la collaborazione, inizialmente obbligatoria, poi ridimensionata a facoltativa, dei medici ospedalieri nel denunciare i clandestini che si rivolgono a loro per essere curati. Il medico è sempre sottoposto a un obbligo di referto: è difficile che possa nascondere una coltellata, o una ferita d’arma da fuoco, o una serie di palline di droga nascoste nello stomaco di un paziente, senza neppure badare al colore della pelle o ai documenti del paziente che gli si sdraia davanti. Ma se deve controllargli i documenti prima di curarlo, occorrerà valutare anche se sia meglio che un extracomunitario irregolare infetto o ammalato di un virus contagiabile circoli liberamente, ancorché clandestinamente, senza poter andare in un ospedale, o se non sia più opportuno che sia curato per non recare danni alla comunità.

Il secondo punto da rivedere riguarda le ronde urbane di liberi cittadini, approvate con leggerezza, anche se con l’appoggio di molti sindaci, che amano guidarle, e privilegiarle, oltre che per la sicurezza, anche come strumento per guadagnare il consenso dei propri elettori. Va da sé che la responsabilità ricadrà sui poliziotti a cui i cittadini si uniranno, per accompagnarli, e qualche volta, involontariamente, per intralciarli. Dio ci guardi da improvvisi nervosismi di entusiasti - ce ne sono - non preventivamente disarmati. Impossibile infine - anche se comprensibile, ma al limite, per esigenze delle forze di polizia - si rivelerà presto il censimento dei senza tetto. A parte la difficoltà di controllare gli abitanti saltuari delle baraccopoli, nelle quali è diffuso il nomadismo, viene da chiedersi come materialmente - a meno di non trasformare la Charitas in un organo di polizia - si potranno censire i clochards, i poveri e gli anziani che si abbandonano davanti alle chiese, gli abitanti di stazioni ferroviarie e di treni abbandonati, come quel disgraziato indiano bruciato vivo l’altra notte a Nettuno.

Per fortuna il decreto approvato al Senato potrà essere modificato alla Camera. È augurabile che venga fatto. Così come è possibile - e sperabile - che con la Lega si arrivi a un chiarimento politico più generale. A rendere inquieto Bossi non è tanto questo o quell’articolo di una legge, ma il dialogo avviato da Berlusconi con Veltroni sulla legge elettorale, sulla Rai e sulla giustizia. Si vedrà se il Cavaliere riesce a tenere insieme la sua maggioranza, mentre gioca a ping-pong con l’opposizione.

da lastampa.it
 


Titolo: MARCELLO SORGI. Carta canta
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2009, 10:43:45 am
13/2/2009
 
Carta canta
 

MARCELLO SORGI
 

Faceva una certa impressione vedere ieri a Roma, in piazza Santi Apostoli, la Costituzione sventolare come bandiera di parte alla manifestazione del Pd. E anche se le intenzioni erano oneste e il presidente Scalfaro, tra i costituenti viventi, ha ricordato che «la Carta serve per unire e non per dividere», è difficile concordare sul fatto che essa debba essere difesa perché rischia d’essere violata. La verità - al di là di polemiche anche recenti - è che a oltre 60 anni dall’entrata in vigore, i principi fondanti della Carta sono così largamente condivisi da averla trasformata in una Bibbia laica dei cittadini.

Non devono trarre in inganno episodi marginali, atteggiamenti di minoranze estreme o veri e propri atti di violenza. Il grosso della popolazione si riconosce nel complesso di valori che ispirano la Costituzione. Rispetto delle libertà civili, pari dignità delle persone, pluralismo politico e culturale, libertà d’espressione e parità delle diverse confessioni religiose, valore del mercato e libertà d’impresa fanno ormai parte di un patrimonio comune, alla base della nostra convivenza. Chissà com’è venuto in testa al premier di definirla «modello sovietico». La Costituzione, come ha ricordato di recente Augusto Barbera, trova ispirazione nei principi liberaldemocratici delle tre grandi rivoluzioni occidentali: inglese (1689), americana (1776), francese (1789). Nata dall’antifascismo e dal compromesso tra i partiti del dopoguerra, rappresenta un punto d’incontro alto tra le diverse culture, cattolica, liberale e socialista. Senza queste solide fondamenta, non avrebbe resistito 60 anni. Né sarebbe riuscita, com’è accaduto, ad allargare la propria sfera d’influenza. Così, contrariamente a quanti denunciano il rischio di una sua abrogazione, la Costituzione, nei primi anni, ha fronteggiato benissimo l’opposizione strisciante - politica, clericale, industriale - all’attuazione del proprio dettato. Basti pensare alla denuncia, fatta anche sulle colonne di questo giornale da Arturo Carlo Jemolo, del diffondersi di «un’intolleranza religiosa» di fronte all’affermarsi delle prime libertà civili negli Anni 60, o alla stagione dei primi durissimi conflitti sindacali, o ai ritardi nell’attuazione del regionalismo e del decentramento verso i poteri locali.

Con lo stesso vigore la Carta è riuscita a superare bene il ‘68 e gli anni dell’assemblearismo contrapposto al parlamentarismo. Né la intaccarono il terrorismo rosso o nero. Il primo, riprendendo le correnti più radicali della sinistra del dopoguerra, la considerava «occasione mancata di una rivoluzione» e «tradimento della Resistenza». Il secondo, all’opposto, la interpretava come un inaccettabile «cedimento ai comunisti». Anche l’avvento della Seconda Repubblica, con l’alternanza al governo di partiti a cui prima era riservato solo il ruolo d’opposizione, può essere considerato una forma di piena attuazione della Carta. Alla quale, non a caso, anche gli eredi del Movimento sociale (che non l’aveva sottoscritta), al momento di trasformarsi in Alleanza nazionale, hanno dato piena adesione, riconoscendo i valori dell’antifascismo, ribaditi da Fini all’atto della sua elezione a presidente della Camera. Se tutto ciò è potuto avvenire, è merito dell’impianto della Carta. La ricerca, cioè, dei punti comuni, operata dai Costituenti, a partire dalla convinzione che in una società democratica nessuno può ritenersi portatore di verità assolute. Un compromesso che ha lasciato sul campo, tuttavia, anche alcuni punti generici, qualche enunciato meritevole di approfondimento, talune inevitabili ambiguità.

Su tre punti, almeno, i Costituenti hanno lasciato un lavoro da completare: il regionalismo, impropriamente, talvolta, definito federalismo, l’assetto bicamerale e il rafforzamento del governo. In nessun Paese al mondo esiste un conflitto così inestricabile tra potere centrale e locale, o una completa identità di funzioni tra due Camere che si paralizzano a vicenda, oltre alla concreta impossibilità di qualsiasi governo a realizzare il proprio programma. Di qui deve ripartire qualsiasi tentativo di riforma. La sensazione è che più che la volontà - ormai largamente presente sia nel centrodestra che nel centrosinistra, e più che i contenuti delle parti da riformare, di cui entrambi gli schieramenti al governo hanno fatto diretta esperienza - a mancare sia il metodo. Proprio quel metodo che 60 anni fa vide trovare un accordo uomini lontani per convinzioni politiche e culturali, spesso avversari: un liberale-liberista come Luigi Einaudi accanto al socialista radicale Lelio Basso, il cattolico solidarista Giorgio La Pira con il vecchio comunista Concetto Marchesi. E che li trovò fermi nel loro impegno anche dopo la rottura dell’unità antifascista e l’esclusione del Pci dal governo nel ‘47, fino alla conclusione dei lavori della Costituente. Certo, tra questi, e i nostri Berlusconi e Veltroni, ne corrono di differenze. E che in questo clima possa riaffermarsi lo spirito costituente, non c’è proprio da aspettarselo. Si può sperare che, toccato il livello più basso, prevalga la volontà di riscatto. Ma l’importante, al momento, è che - sia per difenderla, sia per rinnegarla - la Costituzione non debba più sventolare come una bandiera di parte.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Severi ma giusti
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2009, 09:28:44 am
16/2/2009
 
Severi ma giusti
 
MARCELLO SORGI
 

Dopo quel che è accaduto tra sabato e domenica in tre grandi città come Roma, Milano e Bologna, il governo ha fatto bene a dare un’accelerata in materia di stupri. Il decreto annunciato ieri e messo all’ordine del giorno del prossimo Consiglio dei ministri dovrebbe servire ad anticipare parte delle misure anticriminalità già approvate in Senato, a cominciare dal blocco delle scarcerazioni per i violentatori.

E ciò non solo perché in almeno una delle tre violenze, a Bologna, il responsabile - un immigrato tunisino di 33 anni - era già stato arrestato e liberato due volte in dieci mesi, malgrado si fosse macchiato di reati gravi come lo spaccio di droga. Ma anche perché, dall’inizio dell’anno, in altri due casi i colpevoli, anche se non tutti, sono stati subito rispediti a casa agli arresti domiciliari. Di qui a una piena libertà, troppo spesso, si sa, il passo è breve. E ancor più corto, purtroppo, quello tra la libertà e il ritorno alla delinquenza.

Non a caso, a caldo, su un punto le reazioni dei due sindaci di Roma e Bologna, pur provenienti da schieramenti politici opposti, sono state coincidenti. Alemanno ha chiesto alla magistratura «di dare segnali forti». E Cofferati s’è lamentato che i giudici non siano in grado «di assicurare la certezza della pena».

Questo, e non altro, chiedono i parenti delle vittime. Non riescono a spiegarsi come mai, mentre ancora le loro figlie giacciono in un lettino d’ospedale, o cercano faticosamente, con l’ausilio di uno psicologo, di ricostruire le loro terribili esperienze, gli arrestati possano tornare liberi, o semiliberi, dopo solo un paio di notti passate in cella.

In genere, a queste obiezioni, i magistrati rispondono che è la legge a consentirlo, e che perfino un violentatore, se confessa o collabora positivamente alle indagini, ha diritto di attendere il processo fuori del carcere o a piede libero. Se non c’è pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, dice appunto la legge, l’arrestato può essere rimesso in libertà.

Tali interpretazioni delle norme non tengono conto dell’emergenza rappresentata dagli stupri che ormai si verificano tutti i giorni, e dall’allarme sociale che determinano tra i cittadini. Certe cose i giudici non vogliono sentirsele dire. Tra loro c’è anche chi pensa - non a torto, in qualche caso - che se i politici evitassero di scontrarsi quotidianamente, contendendosi i voti, sulla sicurezza, anche le preoccupazioni dei cittadini diminuirebbero.

Ma, a questo punto, non si tratta solo di preoccupazioni. A Roma, sia nel caso dello stupro della notte di Capodanno (violentatore preso e già scarcerato), sia in quello dei due morosi quindicenni aggrediti alle sette di sera nel quartiere molto affollato della Caffarella, i genitori delle vittime hanno minacciato di farsi giustizia da soli. Si dirà che, in certi momenti, la rabbia e il dolore fanno pure straparlare. Ed è vero. Ma se il padre, o la madre, di una ragazza stuprata vuole una pena severa per chi ha violato la figlia, non straparla: chiede una cosa giusta.

È possibile che anche queste considerazioni siano alla base dell’accelerata decisa dal governo. Ma proprio perché il decreto è ancora in gestazione, e non è dato sapere quante delle norme uscite dal Senato vi saranno inserite, senza nulla togliere all’urgenza dell’intervento, forse c’è ancora tempo per riflettere e selezionare meglio le misure da far partire nell’immediato. Bene, appunto, il blocco delle scarcerazioni per gli stupratori. E bene, se si realizzerà, l’incremento degli organici delle forze dell’ordine, in controtendenza con i tagli che anche in questo delicato settore sono stati imposti dalla situazione dei conti pubblici. Se invece, com’è prevedibile, l’aumento del numero di poliziotti e carabinieri dovesse rivelarsi più difficile da realizzare, si potrebbe decidere di richiamare quelli destinati all’estero in missioni di pace, e sostituiti sulle strade delle metropoli da soldati meno adatti e meno addestrati per compiti di sicurezza.

Sarebbe opportuno, poi, che davanti a decisioni del genere l’opposizione rinunciasse alle polemiche e favorisse l’iter parlamentare dei provvedimenti. Nello stesso senso, per agevolare un confronto meno teso nelle aule della Camera e del Senato, potrebbe muoversi il governo. Una delle misure che dividono di più riguarda le ronde di liberi cittadini che, sia pure senza armi, e autorizzati dai sindaci, dovrebbero affiancare le forze di polizia nei pattugliamenti notturni delle strade. In un momento di così grave tensione, con la gente che minaccia vendetta in mancanza di giustizia, i rischi di una svolta come questa potrebbero rivelarsi superiori agli eventuali vantaggi.

Proprio perché siamo di fronte a un’emergenza, che colpisce in misura eguale città amministrate dalla destra e dalla sinistra, non sarebbe male agire severamente, ma con freddezza. Separando le azioni utili da quelle destinate a venire incontro alle emozioni più diffuse, la politica dalla propaganda, gli annunci dagli interventi concreti. E cercando, soprattutto, di non alimentare illusioni: perché la guerra contro la criminalità e per una maggiore sicurezza sarà lunga. Molto più lunga di quel che ci si può aspettare.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. La partita del premier
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2009, 08:56:21 am
25/3/2009
 
La partita del premier
 
MARCELLO SORGI
 
Si trovi o no un accordo tra governo e Regioni (e ovviamente è molto meglio che si trovi), si riduca o no la portata del provvedimento dai condomini alle abitazioni monofamiliari (e in ogni caso i limiti devono essere chiari), si semplifichi molto o poco la ragnatela burocratica che sovrintende ad ogni ristrutturazione edilizia (ed è indubbio che quella attuale sia insopportabile), il piano-casa di Berlusconi, nel giro di pochi giorni, si sta trasformando in uno spartiacque, destinato non solo a dividere il Paese e l’elettorato che si prepara a una nuova e lunga campagna elettorale per le elezioni amministrative ed europee, ma anche a ridefinire la nuova identità del premier, in vista del congresso fondativo del Pdl del prossimo fine settimana.

Al quale congresso il Cavaliere si presenterà, o con l’accordo in tasca che gli consentirà di rivolgersi all’85 per cento degli italiani proprietari di casa con un gesto concreto, mirato ad allargare gli spazi in cui vivono e in molti casi la loro stessa qualità della vita.

O si presenterà con un nuovo cavallo di battaglia da agitare contro il «partito del no» impersonato da Franceschini e dal gruppo dirigente del Pd. Intendiamoci: sono sicuramente fondate molte delle ragioni addotte dall’opposizione per contestare il piano del governo, a cominciare dal modo sbrigativo e confuso con cui è stato proposto e dall’aperta sovrapposizione alle competenze delle Regioni e delle amministrazioni locali condivise dalla Lega e in parte anche da governatori del Pdl. Malgrado ciò rappresenta una scommessa la parola d’ordine del rifiuto della «cementificazione», lanciata con gli appelli di molti famosi architetti, che hanno di fatto stabilito la linea del centrosinistra, prima ancora che gli organi dirigenti dei partiti che lo compongono potessero discuterne.

In altre parole, come pensano anche alcuni sindaci in carica del Pd, non è affatto detto che i cittadini di sinistra, specie i rappresentanti delle classi più povere, condividano le posizioni degli illustri tecnici ed intellettuali che hanno bollato l’iniziativa del governo come un via libera all’abuso edilizio o come una specie di condono anticipato.

La questione della casa, anche in un Paese di proprietari edilizi come il nostro, riguarda l’assoluta maggioranza della popolazione. Coppie che faticano a trovare il mutuo con il quale comperare il primo alloggio striminzito da sposini, e mariti e mogli (o conviventi) che alla nascita del primo figlio non hanno dove metterlo, e devono porsi il problema del trasloco. Oppure, separati o separandi, che per non tornare a vivere a casa dell’anziana mamma accetterebbero volentieri l’onta del muro divisore dall’ex coniuge. O ancora, vedove rimaste in abitazioni familiari «storiche», di quelle che non si riescono a vendere facilmente, ma neppure a suddividere o ristrutturare in modo razionale, per consentire una vita decente ai nuovi e più articolati nuclei familiari allargati.

La vita di tutti i giorni e di molti, per non dire moltissimi amici e conoscenti di tutti noi è fatta di problemi come questi. E non v’è dubbio che per gran parte delle persone alle prese con questioni del genere, il piano-casa del governo, pur nella sua confusa enunciazione, abbia cominciato a rappresentare una speranza. Ragione di più per chiarirlo e semplificarlo, e se possibile per renderlo realistico in tempi brevi, in modo che possano approfittarne tutti quelli che ne hanno bisogno o potrebbero trarne un vantaggio - beninteso legittimo. Invece, al di là dei risultati che oggi è auspicabile porti l’incontro tra governo e Regioni, quel che s’è visto in questi primi giorni di confronto sul piano non lascia ben sperare. A una non chiara proposta del governo, a un ritardato, e fin qui senza frutti, confronto tra le varie (e forse troppe) autorità competenti sulla casa, s’è aggiunta l’opposizione frontale di Franceschini e del Pd, accompagnata da una valutazione - «incostituzionale» -, che ormai quasi tutti i giorni viene adoperata per giudicare le iniziative del governo.

Così, anche se non ce lo auguriamo affatto, è già possibile intuire la più probabile delle conclusioni dello scontro in corso sulla casa: specie se il governo, magari a costo di modifiche consistenti, insisterà per varare il suo piano per decreto. Nei sessanta giorni previsti per la trasformazione del testo in legge, assisteremo a ogni tipo di accuse e di rimbrotti, dentro e fuori le aule del Parlamento, da un fronte all’altro della maggioranza e dell’opposizione, pur di portare a casa, o sbarrare la strada, al provvedimento al centro delle polemiche. Berlusconi dirà che è colpa di Franceschini se le famiglie non potranno disporre subito di uno strumento pratico e rapido per aggiungere una veranda, o un secondo bagno, o una camera per i bambini o per la colf, alle case in cui si sta stretti. Franceschini replicherà accusando il premier di voler promuovere una campagna per cancellare panorami storici o deturparli con appendici di cattivo gusto destinate a cambiare lo skyline delle città. In questo modo, mentre milioni di cittadini aspettano di sapere cosa potranno fare dei loro alloggi, la casa promessa - e quella negata - serviranno a trasformare le prossime elezioni in un ennesimo, e forse inutile, referendum su Berlusconi.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Le stagioni del Cavaliere
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2009, 11:43:03 am
27/3/2009
 
Le stagioni del Cavaliere
 
MARCELLO SORGI
 
A vederlo così come l’abbiamo visto ieri, quasi non ci si crede. Berlusconi che nel giorno di vigilia della sua nuova apoteosi - il primo congresso del Pdl - va ad inaugurare il nuovo termovalorizzatore di Acerra e dice: «Ecco, lo Stato è tornato». Quasi a dire: «Lo Stato sono io, ci volevo io per far tornare lo Stato in questo Paese».

Sedici anni fa, quando si affacciò sulla scena politica, Berlusconi pensava il contrario. Lo Stato, inteso come insieme di lentezze, formalismi, inefficienze, e come ammasso di un esercito di pubblici dipendenti che non volevano lavorare, era per lui l’ostacolo principale. La ragnatela da spazzare via, il modello da cambiare, non da revisionare o da riformare. In questo senso, Berlusconi si sentiva, era un rivoluzionario. Non sono stati solo i giudici di Mani Pulite a fare la «rivoluzione italiana». La Seconda Repubblica, dopo la fine ingloriosa della Prima, l’ha fondata lui.

Anche se il Ventennio è ancora lungi dall’arrivare (cadrà nel 2013, alla fine dell’attuale legislatura), ormai se ne discute apertamente. C’è, ovviamente, in questa parola, un di più di ironia e di critica, com’è sempre accaduto in questi anni per Berlusconi, anche se meno, molto meno di sedici anni fa. Ventennio evoca Mussolini e il fascismo: ma il berlusconismo, checché se ne dica, non assomiglia a una dittatura. Il Cavaliere è riuscito a cambiare la politica, ma non l’Italia, o non come avrebbe voluto.

L’impianto costituzionale e l’equilibrio dei poteri è rimasto lo stesso. I magistrati, con cui da anni i governi di Berlusconi (e non solo) hanno inscenato un durissimo braccio di ferro, sono riusciti tranquillamente a opporsi ad ogni progetto di riforma della giustizia, anche adesso che, prendendosela con la sinistra oltre che con la destra, hanno arruolato l’intero arco costituzionale nel fronte dei loro avversari. Anche la legge elettorale che consente al leader di scegliere direttamente i candidati da far eleggere in Parlamento è stata pienamente condivisa dal centrosinistra, che ne ha approfittato per lanciare il Pd. Il potere di Berlusconi è seduzione, carisma, gente per strada che lo chiama «Silvio, Silvio»; tutt’altra cosa dall’orbace, dalle adunate in divisa e dallo Stato di polizia del Duce, nella prima metà del secolo scorso.

Un ventennio, però, è un buon tempo per ragionare. Anche se incompiuto, ed anche se il Cavaliere ne ha trascorso una parte al governo e una parte all’opposizione, aprendo la strada alla prima vera alternanza in un Paese che non aveva mai visto al governo gli eredi del più grande partito comunista dell’Occidente. Perché dunque Berlusconi è durato più di qualsiasi altro leader italiano che lo abbia preceduto, e non accenna a declinare?

Innanzitutto, viene da dire, perché è stato sottovalutato. Da avversari e sodali. Da giornali e osservatori qualificati. Da partners e interlocutori stranieri. All’inizio completamente, oggi meno, ma intanto, la sua corsa è divenuta inarrestabile. Berlusconi insomma non era nel ’93 un parvenu, come lo consideravano molti dei suoi colleghi imprenditori. E neppure un mezzo fallito per cui la politica rappresentava l’ultima spiaggia. Il suo programma ce l’aveva chiaro in testa anche prima di schierarsi con Fini nella corsa per il Comune di Roma dell’autunno ’93, nel famoso discorso dell’ipermercato. Qualche mese prima l’aveva esposto in una conferenza stampa in eurovisione dopo la vittoria della sua squadra in Champions League: «Voglio far diventare l’Italia come il Milan!», disse tra lo stupore dei giornalisti. «Voglio vederlo finire a chiedere l’elemosina», replicò in uno dei suoi primi attacchi D’Alema. Si sbagliava, e avrebbe cambiato idea molte volte.

Uno storico, fedelissimo del Cavaliere, come il senatore Quagliariello, autore di una biografia di De Gaulle, ha detto che quando il Ventennio si sarà compiuto si potrà parlare di «età berlusconiana». Per quanto esagerata possa sembrare questa valutazione, per trovare un precedente bisogna tornare indietro all’«era giolittiana». La lunghissima serie di governi cattolici seguiti al fascismo è definita più comunemente «era democristiana». Berlusconi non s’è mai arreso. Anche quando era finito fuori strada quasi subito, dopo soli otto mesi di governo, ha continuato a lottare. E nell’ora della sconfitta ha dato il meglio di sé. «Nel ’95 non ci credevamo più neppure noi», ha raccontato al «Corriere» il senatore Dell’Utri, l’uomo che trasformò Publitalia in un partito. Lui invece, fino al 2001, continuava la sua «traversata nel deserto». Preso in giro, deriso, inseguito dalle inchieste giudiziarie e dalle perquisizioni della Guardia di Finanza, continuava a inventarne una al giorno. Come quando affittò una nave da crociera per fare la campagna elettorale del ’99. «Una cosa da miliardari, gli nuocerà», prevedevano i suoi avversari, ignorando che oggi le crociere di massa sono il modo più a buon mercato per andare in vacanza.

Non s’è mai preoccupato troppo dei suoi avversari, da Occhetto a Scalfaro, ai democristiani di sinistra, a Prodi, Veltroni, Fassino e Rutelli, a cui ebbe l’ardire di proporre un’assunzione nel centrodestra. D’Alema lo ha studiato sia quando lo aveva come interlocutore che quando era ridiventato suo avversario. Lo guardava con diffidenza anche nel ’96, quando l’allora leader dei Ds se ne andò a far campagna elettorale a Cologno Monzese, riconoscendo pubblicamente che «la Fininvest era un patrimonio culturale del Paese». E si offese, quattro anni dopo, quando il primo premier post-comunista disse che «a Berlusconi bisognerebbe mettere lo scolapiatti in testa». «Sono entrato in politica per non trovarmi più davanti quello lì con i baffi», reagì stizzito, confermando la sua nota avversione per qualsiasi genere di peluria sul viso.

Allo stesso modo non s’è molto curato delle bizze dei suoi alleati: di Casini, quando c’era, «che poi è finito come è finito», o di Fini, oggi come ieri, «a caccia di visibilità». Le loro ragioni politiche le capisce, ma le minimizza. Solo Bossi - l’unico che gli abbia fatto cadere un governo - è abituato a prendere sempre sul serio. E siccome da allora il leader leghista marcia sempre al suo fianco, lo considera un alleato privilegiato.

Berlusconi ha cambiato la politica facendola a modo suo. Per esempio, quando ha fatto saltare la Commissione Bicamerale nel ’97, dopo il famoso «patto della crostata» firmato a casa Letta, non aveva in testa nessun ragionamento particolare o sofisticherie del genere di quelle che alcuni suoi consiglieri si affannarono a spiegare. Semplicemente aveva capito che, siglando quel patto con D’Alema, avrebbe finito con il consolidare quel sistema che invece voleva superare.

L’ignoranza, l’avversione per le regole, a cominciare da quella del conflitto di interessi sulla quale ha vinto ben due referendum, l’idea che il consenso degli elettori gli consenta di fare quel che vuole, sono considerate limiti insormontabili da tutti quelli che hanno avuto e hanno a che fare con il Cavaliere, ma non da lui. Come fondatore della tv commerciale in Italia, come autore, impresario, regista, sceneggiatore dei suoi maggiori programmi di successo, Berlusconi naturalmente non si sente ignorante. Piuttosto, «portatore di un’idea vincente» e di una nuova cultura, in sintonia col suo popolo di telespettatori-elettori, che lo adorano. Degli intellettuali, intesi come quelli che fanno sempre discorsi contorti e la mettono giù complicata, ha un concetto come di parassiti. L’unico, non dei suoi, a cui ha voluto mostrare rispetto è l’inventore democristiano della tv pubblica Ettore Bernabei, che nelle riunioni ristrette dei vertici Rai diceva ai suoi autori che «gli italiani sono cinquanta milioni di teste di c…». Alla stessa maniera Berlusconi, quando pioveva a sorpresa alle prime riunioni di Canale 5 a Cologno Monzese, ricordava a tutti «che il pubblico della tv è fatto di gente che non ha neppure la terza media».

Ha fatto tutto, ma proprio di tutto, pubblicamente. Le corna. Il dito medio teso a vista. Il gesto dell’ombrello. Non ha avuto remore né nei gesti, né nel linguaggio, né nella scelta delle circostanze. Ogni momento è buono per una barzelletta. Dalla sua bocca sono uscite battute politically uncorrect sugli ebrei o sull’abbronzatura di Obama, barzellette irripetibili che hanno fatto arrossire gli interpreti nei meeting internazionali, consigli non richiesti di ogni tipo. A Clinton, nella notte di luna casertana del G7 del ’94, assicurò che se avesse fatto l’amore con sua moglie avrebbe avuto un altro figlio. A una presidente finlandese non proprio avvenente promise un corteggiamento da playboy. Al premier danese Rasmussen raccontò il pettegolezzo su una storia inventata tra sua moglie e il sindaco filosofo di Venezia Cacciari. Con quello ungherese, nel bel mezzo della trattativa sul Tocai, finì a parlare di donne e di corpo femminile.

Con la moglie Veronica ha litigato e fatto pace sui giornali. Lei gli ha scritto una lettera a cui nessun marito sarebbe sopravvissuto, e lui una risposta talmente contrita che alla fine ha ottenuto il perdono. Non ha fatto mai misteri sulla sua salute. Neppure sul cancro, che ha avuto e sconfitto. O sulla sciatica, di cui soffre, sul trapianto di capelli svelato da una bandana, su un lifting mal riuscito che per un po’ gli impedì di chiudere un occhio, sulla dieta che non ama e costringe il suo cuoco, Michele, a tener sempre pronti manicaretti, da tirare fuori quando il premier è nervoso.

Ormai tutti da anni si chiedono che farà Berlusconi in futuro, dove vuole andare e dove arriverà, dopo aver fondato due partiti e conquistato tre volte il governo. La sensazione è che dopo l’ultima vittoria, e con gli avversari del centrosinistra ridotti come sono ridotti, il Cavaliere pensi ormai al suo futuro come a una sorta di eternità. Un’eternità a due facce, legata al bivio che di qui a qualche anno si troverà davanti, tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Se, come aspira, Berlusconi riuscirà a diventare il successore di Napolitano, in Italia la Repubblica finirà con il somigliare a una monarchia. Una monarchia diversa, manco a dirlo, da tutte le altre, non avendo il Cavaliere simpatia per i vecchi riti ottocenteschi dei sovrani europei e non potendo certo trovare ispirazione nei Savoia. Libero dalle convenzioni istituzionali, dai controlli parlamentari e dalle regole che ogni giorno aborrisce, e che finora hanno opportunamente ridotto il suo potere, Berlusconi regnerà sull’Italia senza limiti, solo con il suo carisma, dal palazzo da cui uscì, nel ’94, dopo il suo primo incarico di governo, tra due ali di gente che lo salutavano mandandogli baci. Se invece la strada per il Quirinale gli sarà sbarrata, Berlusconi governerà per sempre. Ecco, l’unica cosa certa è che nel 2013, alle prossime elezioni politiche, e alla fine del Ventennio, Berlusconi non ha alcuna intenzione di mettersi da parte.

 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. La nuova sfida nordista
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2009, 10:40:23 am
9/5/2009
 
La nuova sfida nordista
 
MARCELLO SORGI
 

La polemica sull’apartheid nella metropolitana di Milano, nata da una discutibile uscita del leghista Salvini (posti esclusivi per milanesi, separati da quelli degli immigrati), ha svelato una nuova sfida che sta prendendo corpo, tra Bossi e Berlusconi, tra Lega e Pdl, nella prateria elettorale nordista da sempre strategica per il centrodestra. Cominciata da settimane, cresciuta in una serie di scontri parlamentari e ieri esplosa sulla proposta che il presidente della Camera Fini s’è affrettato a definire «incostituzionale», la vicenda non ha nulla a che vedere con la campagna gossipara sulle veline, il premier e il suo prossimo divorzio dalla moglie. È piuttosto una partita politica classica, come non se ne vedevano da tempo.

Il terreno della competizione, che ha già portato la maggioranza a una serie di rovesci parlamentari, è quello della sicurezza e dell’immigrazione. Tema assai familiare alla Lega e ben presente nell’immaginario delle famiglie settentrionali. Perché è al Nord che, stavolta più di altre, la sfida si gioca. La posta in palio è il controllo delle tre maggiori regioni - Piemonte, Lombardia, Veneto - in cui, pur con una prevalenza del centrodestra, il centrosinistra ha mantenuto insediamenti importanti - come la Provincia di Milano o il Comune di Torino, o la stessa Regione Piemonte - che presto potrebbero essere rimessi in ballo.

Quando il ministro dell’Interno Maroni va in tv a far capire che sulle ronde metropolitane ci può essere anche una crisi di governo, quando la Lega litiga sui «medici-spia» o sui «presidi-spia».

Quando la Lega non si tira indietro neppure di fronte a proposte inaccettabili come quella di riservare posti a sedere solo per i milanesi sulla metropolitana, non parla solo al suo elettorato tradizionale. Cerca piuttosto di allargare il suo campo tra gli elettori e all’interno del popolo (con la «p» minuscola) della Libertà, eccitato dalle continue uscite spettacolari del Cavaliere, ma anche deluso dalle marce indietro a cui spesso lo costringe il suo ruolo di premier.

Per Bossi c’è insomma la concreta possibilità - se riuscirà a ottenere un buon risultato alle europee e alle amministrative di giugno - di riaprire con più forza il tavolo delle trattative interne al centrodestra per le regionali del prossimo anno. A quel tavolo, infatti, e negli antichi confini della «Padania» e della secessione, è sicuro che la Lega arriverà con tre candidati per le tre Regioni in cui si vota nel 2010. Poi farà pesare l’eventualità di essere diventato, o di star per diventare, il primo partito del Veneto e quello a maggior velocità di crescita in Piemonte, da Cuneo (dove punta ad assumere la guida dell’amministrazione provinciale con la compagna del ministro Calderoli, Gianna Gancia) a Verbania (dove avrebbe potuto rivendicarla). E rivendicherà il proprio apporto strategico in Lombardia, in cui, tanto per fare un esempio, la ricandidatura dell’attuale presidente Pd Penati alla presidenza della Provincia di Milano è fortemente insidiata dalla ritrovata alleanza tra il Pdl e il Carroccio.

Proprio perché la volta scorsa, presentandosi da sola, finì per dare in molte realtà una lezione a Berlusconi e un vantaggio al centrosinistra, la Lega - ora che è rientrata pienamente nella coalizione berlusconiana - non s’accontenta più di apparire solo come l’alleato indispensabile per vincere al Nord. Dove può, punta a vincere, grazie anche all’alleanza con il Pdl, e a diventare il partito più forte. È per questa ragione che Bossi rifugge programmaticamente l’agenda «romana» della politica, su cui si misurano, con risultati alterni, l’opposizione di Franceschini e Di Pietro e la nervosa collaborazione-competizione di Fini. Al «suo» popolo, il Senatùr vuol far capire che al Nord - e dal Nord - è lui che detta la linea. E ogni volta che gli avversari interni al centrodestra cercano di dare al Carroccio una fregatura in Parlamento, è in grado di costringere il Cavaliere a fare un nuovo decreto per rimediare.

Dura finché si vuole (a nulla possono, ad addolcirla, le cenette di Arcore), la sfida ha tuttavia un primo e un secondo tempo. Il primo è quello a cui stiamo assistendo, e si concluderà il 7 giugno con i risultati delle europee e del primo turno delle amministrative. Il secondo si svolgerà nelle due settimane che vanno dal 7 al 21, la domenica dei ballottaggi, e soprattutto il giorno in cui si apriranno le urne del referendum. Se i risultati del 7 saranno buoni o buonini per Berlusconi, come dicono i sondaggi, e addirittura trionfali per Bossi, diventerà fortissima la tentazione, per il Cavaliere, di gettarsi a capofitto nella campagna referendaria, ottenere il quorum per la riuscita della consultazione - sconfiggendo l’astensione e portando nei seggi la metà degli elettori più uno - e attribuirsi poi una plebiscitaria vittoria dei «Sì», insieme con la medaglia antipartitocratica che è naturalmente connessa al referendum.

Ma la vittoria dei «Sì» - è bene ricordarlo - comporta una legge elettorale, da approvare subito dopo, in cui il premio di maggioranza viene attribuito al partito - e non alla coalizione - che prende più voti: in altre parole, nelle condizioni attuali, un lasciapassare per il Pdl per liberarsi degli alleati riottosi e governare in futuro praticamente da solo. Non si tratta quindi solo di una nuova riforma e di un nuovo ritocco alle già traballanti regole del gioco della Seconda Repubblica: quello del 21 giugno è, sarà, tornerà a essere un referendum su Berlusconi.

Così si capisce anche perché la Lega giocherà solo il primo tempo della partita: puntando a far vincere già al primo turno i candidati (soprattutto i propri) alle amministrative, e ritirandosi nell’astensione al secondo. In cui, invece, toccherà al solo Berlusconi capire se, spingendo la gente verso le urne e verso il voto referendario, voterà per davvero a proprio favore, o contro sé stesso.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Pdl e strabismo meridionale
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:13:42 am
16/5/2009

Pdl e strabismo meridionale
   
MARCELLO SORGI


Dei molti, imprevedibili paradossi che accompagnano Berlusconi, l’ultimo, che dipinge un Cavaliere «romano» o addirittura meridionalizzato, a dispetto delle proprie origini nordiche, è certamente il più strano. Nata a ridosso del declassamento, da parte di Alitalia, dell’aeroporto di Malpensa nei confronti di Fiumicino, scelto come unico hub e principale scalo internazionale, la polemica ha visto impegnato anche il governatore lombardo Roberto Formigoni.

Egli in un’intervista al Giornale s’è mosso in difesa, non solo di Milano e della Lombardia, ma anche del Piemonte e più in generale del Nord, annunciando che intende sollevare il problema di fronte all’esecutivo. Si sa, in campagna elettorale (mancano tre settimane al 7 giugno), tutte le questioni si complicano e Formigoni, come il sindaco Moratti, appena uscita da un lungo braccio di ferro con Palazzo Chigi sull’Expo, sente la concorrenza montante della Lega e l’ambizione di Bossi di guidare il primo partito del Nord. Ma dietro i due casi specifici c’è una lettura di questo primo anno di governo del Cavaliere, che tende a sottolineare la prevalenza, se non la preferenza, accordata dal premier ai problemi del Sud. A cominciare, naturalmente, dal modo in cui Berlusconi ha aggredito l’emergenza immondizia a Napoli e dalla plateale inaugurazione del termovalorizzatore di Acerra, alla vigilia dell’apertura del primo congresso del Popolo della Libertà. E per continuare con il suo impegno diretto nel dopo-terremoto in Abruzzo, culminato nella decisione di spostare il G8 a L’Aquila e nella riunione dell’intero Consiglio dei ministri nella città più colpita dal sisma.

Fin qui, al di là di qualche preoccupazione localistica ed elettorale all’interno di un governo che ha il più alto tasso di cittadinanza nordista dei ministri (8 su 23 provengono dalla Lombardia), la dimensione del problema rifiuti a Napoli e della catastrofe naturale in Abruzzo bastavano da sole, purtroppo, a motivare il drastico aggiustamento di rotta voluto da Berlusconi. Ma anche se il confronto con problemi importanti, ma non catastrofici, come Expo e Malpensa, è impossibile, il timore che si affaccia dalle parole di Formigoni o da quelle della Moratti è che, sull’onda delle emergenze, e complice la crisi economica, il governo possa soffrire di una sorta di strabismo meridionale.

Per un premier nato a Isola, quartiere centrale della città ambrosiana, non lontano dal Duomo, e cresciuto professando la sua personale, imprenditoriale - e settentrionale - «filosofia del fare», questo dovrebbe essere un errore impossibile. Ma d’altra parte Berlusconi sa bene - e fatica a convincere di questo una parte del suo partito - che nel Mezzogiorno si gioca la partita più incerta di queste elezioni.

Mentre infatti al Nord la competizione con la Lega avviene all’interno della stessa area elettorale di centrodestra, e al Centro l’insediamento del centrosinistra è ancora così radicato da non aprire grandi possibilità di penetrazione, nell’altra metà del Paese l’avversario del Pdl è un Pd stanco, fiaccato in molti casi (Campania, Calabria) da scandali giudiziari, e in altri (Sicilia) ridotto ai minimi termini da una lenta erosione di consensi. In quest’area, che comprende la maggior parte degli elettori (il Sud è più popoloso), c’è la concreta possibilità di cogliere risultati inattesi per il centrodestra e portare il Pdl ai livelli da record di cui parlano i sondaggi.

Come i socialisti ai tempi di Craxi, che stentavano al 7-8% a Milano, per raccogliere percentuali a due cifre e alle soglie del 20% a Napoli o a Bari, così anche Forza Italia ha conseguito finora i maggiori successi nelle circoscrizioni meridionali. E se un’insufficiente organizzazione di partito, e candidati non sempre competitivi, hanno fatto sì che in tre delle maggiori regioni (Campania, Puglia e Calabria), alle amministrative, alla fine il centrosinistra sia riuscito a vincere, i dati delle politiche dello scorso anno dicono che lì il centrodestra potrebbe rimontare oggi, per poi conquistare, domani, le amministrazioni dov’è adesso all’opposizione e dove si voterà nel 2010. È quel che è accaduto, del resto, in Abruzzo già prima del terremoto. E potrebbe ripetersi tra un anno nella Napoli di Bassolino, nella Bari di Vendola e nella Reggio Calabria di Loiero.

Non è un mistero tuttavia che al Sud le tornate elettorali, e gli spostamenti di voti decisivi da uno schieramento all’altro, si misurino ancora sul terreno dell’intervento pubblico dello Stato e spesso di ragnatele clientelari dure a morire, oltre che della ricca distribuzione di fondi nazionali ed europei destinati alle aree più deboli. Le quattro principali regioni meridionali - Campania, Puglia, Calabria e Sicilia - hanno a disposizione una dotazione che oscilla dai quattro ai dieci miliardi di euro per ciascuna e può diventare determinante di qui al voto.

È proprio su questo che si decidono all’interno del governo un difficile confronto e un delicato gioco di equilibri. Con il Cavaliere «romano» che preme per aprire le chiuse del fiume di finanziamenti pubblici, non solo per l’Abruzzo terremotato o la Campania ripulita, ma per il Sud nel suo complesso. E il Tremonti «nordista» che resiste in nome dell’emergenza economica, e della necessità di destinare parte dei fondi pubblici a interventi sociali e al rafforzamento degli ammortizzatori nelle aree industriali, dove più pesanti sono le conseguenze della congiuntura e più forte, per i lavoratori, il rischio di perdere il posto.

Così Berlusconi è al bivio: ciò che può farlo vincere al Sud, insieme con il nuovo look meridionale che alimenta il suo mito, rischia di riservargli sorprese, e infine di danneggiarlo, tra gli elettori del Nord, inquieti in questa primavera di crisi.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il certificato d'illibatezza
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2009, 10:09:51 pm
27/5/2009 (7:45) - LA STORIA

Il certificato d'illibatezza
 
Nella Sicilia degli anni '70 un avvocato inventa un documento che oggi sarebbe utile a Noemi

MARCELLO SORGI



Tra le molte questioni, politiche e non, che si incrociano nel cosiddetto «Noemigate», ce n’è una che solo a prima vista può apparire secondaria. È il punto della verginità di Noemi, rivendicata gran voce dal padre della ragazza, Elio Letizia, nell’intervista data al Mattino per difendere Berlusconi e smentire le rivelazioni fatte a Repubblica da uno dei fidanzati della figlia, Gino Flaminio. «Mia figlia è illibata. Ricordatevi questa parola: illibata», ha detto e ripetuto Letizia, benché Gino non fosse entrato in questi particolari e si fosse limitato a riferire della partecipazione di Noemi, insieme ad altre decine di ragazze, a un grande party di Capodanno organizzato dal premier nella sua villa in Sardegna a fine dicembre 2008.

Ora, a parte l’uso di una parola così antica, la cui radice, «liba», mette insieme libagioni, banchetti, piaceri della tavola, con l’intimità innocente di una ragazza, colpisce che un valore come questo - appunto, l’illibatezza - entri a sorpresa in una storia che comincia, per quel che ne sa, con il book di foto di un’adolescente in cerca, come tante della sua età, di un passaggio televisivo, e prosegue, raccontata in parte da lei stessa, con l’approdo a Palazzo Grazioli, nella casa ufficio del premier, a un ricevimento del governo per le star della moda a Villa Madama e a una festa del Milan insieme con altre settecento persone. Che la verginità sia ancora custodita gelosamente da moltissime ragazze dei nostri tempi - e altrettanto insidiata, purtroppo, come dimostra l'escalation di stupri a cui non si riesce a porre argine - non dovrebbe destare meraviglia. Ma è altrettanto normale che nel tempo, parliamo degli ultimi trent'anni, abbia seguito o subito la normale trasformazione della scala dei valori di una società moderna come la nostra.

Siamo lontani, insomma, non qualche decina d’anni, ma secoli, per fortuna, dalla grottesca esibizione pubblica dei lenzuoli della prima notte di nozze, in cui purtroppo una macchia di sangue rappreso doveva dimostrare, insieme, l’avvenuta perdita della verginità della sposa e la comprovata mascolinità del neo-marito. Questo, anche questo, accadeva in molte zone del Sud fino a non troppo tempo fa. Per esempio, nella Sicilia della mia infanzia, nei paesi vicino a Palermo dove si passavano le vacanze al mare, nella seconda metà degli Anni Settanta. E un’estate di meno di trent’anni fa (è un ricordo personale, ma serve a farsi un’idea), toccò a mio padre in uno di questi frangenti arbitrare una complessa questione di illibatezza. Come avvocato e come villeggiante, a mio padre capitava spesso di essere consultato su questioni anche non strettamente giuridiche. Diciamo che gli abitanti del luogo lo usavano come giudice di pace, oltre che legale. In breve, la storia era questa. Una ragazza di vent'anni si era fidanzata con un giovane appuntato della Finanza. Già questo, in una zona di pescatori, che avevano nei finanzieri i loro avversari, non era visto di buon occhio. Qualche mese dopo che la storia era diventata pubblica, e oggetto di molti pettegolezzi, la ragazza aveva scoperto che il fidanzato aveva una storia con un’altra, una certa Cettina, in un paese distante solo pochi chilometri.

Due domeniche al mese, quando diceva di essere di turno in caserma, in realtà andava a pranzo dai futuri suoceri. Dal che, oltre a scoprire di essere tradita, la ragazza aveva dedotto che la fidanzata ufficiale era l’altra, e non lei. Aveva pianto, Si era sfogata con le amiche. Poi con la madre, furiosa per l’affronto del finanziere. E tutte insieme avevano deciso come vendetta una spedizione punitiva contro il fedifrago, la fidanzata e i suoi familiari. Fu così che la domenica successiva, sfondando a calci la porta d’ingresso, penetrarono nella casa dov'era stato appena allestito il pranzo, e all’urlo «Complimenti per la bella Cettina!», presero a botte tutti i presenti e distrussero quel che restava. La situazione si presentava molto compromessa quando mio padre fu chiamato dai carabinieri che avevano arrestato il commando di donne vendicatrici. Lo scandalo era forte, ma poiché non vi erano feriti gravi, e c'era di mezzo il destino di un servitore dello Stato, che se portato in giudizio avrebbe perso il posto, la soluzione migliore per tutti era un accordo che consentisse di evitare il processo. Mio padre la trovò, con un ovvio, quanto congruo, risarcimento dei danni, e con un piccolo colpo di genio. Siccome il tradimento perpetuato dal finanziere poteva considerarsi un danno inflitto alla prima fidanzata (la cui spedizione punitiva si configurava come reazione), e anche un rischio per la sua futura vita sentimentale (avrebbe mai trovato un altro uomo, una ch'era stata con un finanziere e s'era pure fatta tradire?), fu concordato che oltre a partecipare ai pagamenti, il fidanzato bigamo avrebbe consegnato alla sua ex-prima fidanzata un documento molto particolare: un certificato di illibatezza autografo.

In questo testo, vergato da mio padre, firmato dall'interessato ed allegato dal giudice agli atti con cui il processo veniva archiviato, l'uomo confessava di aver provato e riprovato più volte a ottenere la prova d'amore prima del matrimonio dalla sua donna, ma di averla trovata decisamente contraria e gelosa, per l'appunto, della propria intimità. Quanto distante possa risultare una storia come questa da quella che lunedì riportavano alcuni giornali, della ragazza romena che ha messo all'asta la propria verginità su Internet, e l'ha venduta per diecimila euro, è del tutto evidente. Eppure, Elio Letizia, per difendere sua figlia e scagionare il premier, viene a dire, e a ripetere indignato, che Noemi «è illibata». Senza capire che l’illibatezza, ai tempi in cui questa parola era ancora in voga, era sì un vanto per le ragazze, ma assai meno per i maschi che avrebbero dovuto insidiarla. E che adesso, con l'opinione pubblica divisa, tra i moralisti che trovano nello scandalo un motivo in più per prendersela con Berlusconi, e i suoi fan che quasi quasi lo invidiano, sarebbe meglio essere più cauti a parlare di verginità. Si rischia, almeno, di creare disorientamento.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Un errore rilancia il premier
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2009, 04:44:41 pm
29/5/2009
 
Un errore rilancia il premier
 
MARCELLO SORGI
 
Dopo i giorni del silenzio seguiti al «Noemigate», non è stato affatto facile, ieri, il ritorno di Berlusconi sulla scena politica. A Palazzo Chigi, ha dovuto esordire facendosi da solo la domanda sui presunti «rapporti piccanti con le minorenni» e, pur negandoli, ha ammesso che se fossero dimostrati lo porterebbero alle dimissioni.
Alla Confesercenti, ha parlato tra fischi e applausi, riuscendo tuttavia a portare dalla sua parte la gran parte della platea.

Ma anche in questo contesto sfavorevole, il premier, stavolta, non ha affatto giocato di rimessa, né s’è defilato come l’altra domenica allo stadio di fronte alle contestazioni dei tifosi. Berlusconi, anzi, sembrava tornato quello di sempre, irridente, ironico, pronto alla battuta e a sfidare la pattuglia dei fischiatori, duro con i magistrati, durissimo con l’opposizione, fermo di fronte all’alluvione di reazioni che sono seguite al suo lungo intervento.

Cosa abbia funzionato da cura ricostituente per l’uomo che da giorni i suoi amici più preoccupati descrivevano solitario, amareggiato, come «chiuso in un bunker», e deciso a rinviare l’inizio della sua personale campagna elettorale, non si può dire con certezza. Ma è assai probabile che a rimetterlo in piedi sia stata proprio l’infelice battuta del leader dell’opposizione Franceschini («Fareste educare i vostri ragazzi a Berlusconi?»), che ha sollevato le ire dei figli del premier.

Espressa in poche parole, di getto, indignate, la solidarietà di Marina, Pier Silvio e Luigi Berlusconi ha pesato insomma più di qualsiasi incoraggiamento venuto dal centrodestra, per il premier. Che deve aver pensato: se i miei figli sono i primi a dichiarare pubblicamente che non credono alle accuse contro di me, e a condannarle, adesso è giunto il momento che parli io.

Ma uno slancio del genere - va detto - avrebbe dovuto essere utilizzato meglio e diversamente. Berlusconi infatti, a parte l’evidente desiderio di riguadagnare posizioni sulla vicenda personale che lo ha messo in difficoltà, motivando da parte della moglie la richiesta di divorzio e condizionando fin dall’inizio tutta la campagna elettorale, non ha trovato uno, dicasi un solo nuovo argomento, da offrire al dibattito fiacco di questi giorni.

Con i giudici è andato giù duro, parlando addirittura di «grumi eversivi all’interno della magistratura», e sollevando commenti pesanti, da parte delle toghe oltre che dell’opposizione: ma purtroppo non è una novità. Poi ha scherzato sulle veline, ma lo aveva già fatto all’atto della presentazione delle liste. Ancora, se l’è presa con i giornalisti e con i titoli dei giornali, ma anche questo, più o meno, lo fa spiacevolmente tutti i giorni.

E quando è arrivato all’Europa, cioè al tema su cui dovrebbe essere sensibilizzato, dal premier di uno dei Paesi fondatori della Comunità, un elettorato che ha fin qui rivelato, nei sondaggi, una completa abulia rispetto alla scadenza che l’attende il 7 giugno, e una volontà crescente di disertare le urne, ne ha parlato in modo svogliato, presentando la politica europea, e la collaborazione con i partners impegnati ad affrontare una crisi economica ancora densa di incognite, come una specie di matassa burocratica in cui leggi, leggine e liturgie incomprensibili e lentissime fanno passare la voglia anche a chi, come il Cavaliere, sarebbe pieno di entusiasmo e di volontà di fare.

Si dirà che questa è la tattica di sempre di Berlusconi, che, quando è in vena, ama andare per le spicce e puntare soprattutto a stabilire una scossa di simpatia con il pubblico. Ma a parte il fatto che questa scossa, negli ultimi tempi, compreso ieri, è apparsa a tratti a corrente alternata, c’è da chiedersi se la serietà del momento, e i problemi che tutti i giorni ci si parano davanti, non richiedano, anche in campagna elettorale, un maggiore sforzo di approfondimento da parte del presidente del Consiglio.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Un aiuto ai lamenti del premier
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2009, 05:39:23 pm
4/6/2009
 
Un aiuto ai lamenti del premier
 
MARCELLO SORGI
 
Diciamo la verità: a tre giorni dal voto, non c'era modo migliore, per mettere Berlusconi su un trampolino, e proiettarlo anche più in alto di quanto non facciano quotidianamente i suoi sondaggi. Non c’era modo migliore di questa inchiesta sull’uso improprio degli aerei di Stato, che lo vede sotto accusa.

Un atto dovuto, si affrettano a spiegare i magistrati, che presto potrebbe essere destinato all’archiviazione. Gli stessi giudici che, non va dimenticato, non più tardi di lunedì hanno posto sotto sequestro le foto delle feste e degli ospiti di Villa Certosa (da cui ora l'indagine parte), considerate lesive del diritto alla privacy del premier. Pur danneggiato dall’azione intrusiva di un paparazzo, Berlusconi, tuttavia, dev’essere indagato.

In vista della domenica elettorale, il Cavaliere avrà così tutto il tempo per lamentarsi della «persecuzione» a cui i magistrati, a suo dire, lo sottopongono da quindici anni: da quel famoso avviso di garanzia recapitatogli a Napoli, in pieno vertice mondiale sulla criminalità nel 1994, alle 700 e più perquisizioni subite dalle sue aziende, alle indagini fiscali, ai processi per mafia, fino al recente caso dell'avvocato inglese Mills, condannato al suo posto, per corruzione, con motivazioni che allungano un'ombra anche sul mancato imputato Berlusconi.

Non diremo che l'inchiesta sui voli di Stato - dopo la rivelazione della foto dell'aereo della presidenza del Consiglio da cui scendono Apicella, il musico amico del Cavaliere, e una ballerina di flamenco - fosse evitabile. Ma almeno rinviabile, di qualche giorno, per consentire agli elettori di votare in un clima più sereno, questo sì. E non perché il trasporto su aerei di Stato di personalità o privati cittadini che nulla hanno a che vedere con missioni pubbliche sia da tollerare. Ma, più semplicemente, perché, purtroppo da sempre, è invalso come triste abitudine ed esempio di protervia degli uomini di potere.

Sugli aerei di Stato della Prima Repubblica viaggiava chiunque; si usavano anche per riaccompagnare a casa i parlamentari dopo le votazioni a tarda sera. Alla Camera, l'annuncio del «volo speciale» (si chiamava così) veniva dato con l'altoparlante, come se non ci fosse nulla da nascondere, e subito le comitive di deputati si affrettavano. Certo, erano i tempi pre-Tangentopoli. Anche dopo, però, le cose non sono cambiate, e a Mastella, non più tardi di due anni fa, toccò fare i conti con gli stessi guai con cui oggi dovrebbe farli Berlusconi. Ora, a parte il fatto che proprio nel caso di Mastella - un vaso di coccio, per inciso, incappato tra molti altri vasi di ferro - fu riconosciuto che si era trattato di un peccato veniale, dato l'uso smodato di aerei pubblici da parte di tutta la classe politica, forse, nel caso di Berlusconi, occorrerebbe farsi qualche domanda in più.

Come tutti i miliardari del mondo, Berlusconi ha una sua flotta di jet privati. L'ultimo, una specie di air-bus con dentro un appartamento di lusso fatto a sua misura, lo battezzò pubblicamente quando era all'opposizione. Aerei, elicotteri, navi da diporto, fanno parte da sempre della vita del Cavaliere, anche se adesso, magari, ha dovuto limitarne l'uso per assoggettarsi ai protocolli di sicurezza. E a pieno titolo, nel suo stile di vita, rientra la maestosa reggia sarda di Villa Certosa, con teatro, vulcano artificiale e gelateria privata, in cui ama ricevere ospiti e organizzare feste.

Sono queste abitudini, non consone - va detto - al premier di un Paese in crisi come il nostro, ad averlo posto al centro della serie di pubbliche accuse sulla sua vita privata, che hanno finito con l'assorbire interamente la campagna elettorale per le europee. Tra indiscrezioni sulle frequentazioni di minorenni, allusioni sui festini, più che sulle feste, di Villa Certosa, e sugli scambi di accuse tra marito e moglie della famiglia più in vista d'Italia, da un mese, ormai, non si parla d'altro. Ed è proprio questa campagna, ieri, che è culminata con l'inchiesta sui voli di Stato.

Bene: ci sbaglieremo e siamo pronti a ricrederci, ma la sensazione ogni giorno più forte, man mano che la scadenza del voto s'avvicina, è che tutta questa campagna, invece di nuocergli, stia giovando a Berlusconi. E non solo per la sua tradizionale abilità a rivoltare le accuse che lo riguardano, ma in nome della logica, o della mancanza di logica, delle stesse. Basta solo ragionare: se uno ha una relazione con una minorenne, che in Italia, e non solo in Italia, può diventare reato, va a trovarla a Casoria con la scorta nel giorno del compleanno? E se uno organizza qualcosa che potrebbe somigliare a un'orgia a casa sua, ci porta trenta, dicasi trenta, ragazze? E ci va con l'aereo di Stato, portandosi il cantante e la ballerina? E invita pure un collega premier europeo che si denuda al sole, mentre la moglie, che si trova al suo fianco, chissà perché rimane in costume da bagno?

Prima ancora di dire quanto incompatibili siano attività come queste con il ruolo di un capo di governo, forse bisognerebbe chiedersi se davvero siano avvenute come vengono descritte. Le domande che adesso anche i giornali cominciano a farsi, gli elettori di Berlusconi se le fanno da giorni. E correranno alle urne, domenica, per far capire che risposte si danno.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Berlusconi e lo schiaffo siciliano
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:17:03 am
9/6/2009 (7:26) - ANALISI DEI FLUSSI

Berlusconi e lo schiaffo siciliano
 
L'isola sta alla finestra, delusa dalle risse interne e dal blocco dei Fondi strutturali

MARCELLO SORGI
PALERMO


Quello schiaffo dai siciliani, il Cavaliere proprio non se l'aspettava. E dire che da tempo lo avevano avvertito che nell'isola le cose non andavano più bene.
Gianfranco Miccichè, l'autore, nel 2001, del famoso cappotto 61 a zero contro il centrosinistra, e uno dei pochi a godere ancora del privilegio di un pigiama e del diritto di pernottare in via del Plebiscito, gliel'aveva ripetuto faccia a faccia: «Si ricordi, Presidente. I miei conterranei sono svelti a cambiare idea. Anche Leoluca Orlando fu per qualche tempo padrone della Sicilia, salvo ad essere disarcionato tutt'insieme».

Adesso Orlando si gode quel 17 per cento, che lo ha riportato di nuovo sugli altari a Palermo e ha dato un contributo rispettabile al successo dipietrista in Continente. Invece il Pdl, che da sempre aveva allineato percentuali di dieci punti superiori alla media nazionale del centrodestra, stavolta si lecca le ferite. Alla fine, il risultato è di un punto scarso sopra il magro 35 per cento racimolato da Berlusconi nel resto d'Italia. La falla aperta in quel che veniva chiamato "il granaio azzurro", e che una volta compensava largamente le sorprese leghiste al Nord e il testa a testa nel Centro Italia, ha contribuito fortemente ad abbassare la percentuale.

Nel silenzio così familiare ai siciliani, circolano cifre e scambi di accuse tra i rissosi capicorrente del Pdl, che alla vigilia del voto hanno quasi costretto il presidente della Regione Lombardo ad aprire la crisi del suo governo locale. Sott'accusa è il neocoordinatore regionale Giuseppe Castiglione, presidente della Provincia di Catania, e la sua corrente che ha fatto il record di preferenze, anche a discapito del capolista Berlusconi. Mentre infatti il Cavaliere, secondo le intese, a Palermo come a Trapani, a Messina come a Siracusa e Ragusa, doveva essere votato dalla somma di tutte le componenti del partito, in modo da contribuire all'ammasso di quei milioni di voti che avrebbero dovuto contrassegnare l'atteso successo personale del leader, a Catania e ad Enna, dominio di Castiglione, ciò non è avvenuto. E il Cavaliere, che a Palermo, per esempio, s'era ritrovato con quasi il doppio di preferenze (oltre 50mila, contro 27mila) del meglio piazzato, a Catania ha dovuto vedersela con un certo Giovanni Lavia, che per gran parte della conta delle schede gli è rimasto davanti, e ha concluso quasi in pari.

Uno sgarbo insopportabile, a detta dei compilatori di tabelle, che veloci sono state fatte arrivare a Piazza del Plebiscito, agli occhi del premier. Il quale, prudentemente, o forse irritato dall'inestricabile lite dei suoi proconsoli isolani, questa volta in Sicilia in Campagna elettorale non s'era fatto vedere. Qualche refolo di questo clima irrespirabile s'era avvertito nel corso del viaggio del Presidente della Repubblica Napolitano. Giunto a Palermo per una visita di due giorni, poco prima delle elezioni, il Capo dello Stato s'era ritrovato a cena a Villa Igiea con il governatore Lombardo, e perfino con qualche posto vuoto a tavola, come quello del presidente dell'Assemblea regionale Francesco Cascio, che aveva declinato l'invito pur di non doversi sedere con l'odiato presidente della Regione.

Allo stesso modo si era lamentato pubblicamente, per non essere stato invitato il presidente del Senato Renato Schifani (che pure, in lite con Lombardo, non sarebbe mai andato). Il ministro Angelino Alfano aveva optato per una presenza istituzionale alla commemorazione di Falcone, il 23 maggio, evitando ogni incontro conviviale. Inoltre, come vuole la tradizione querula delle offese siciliane, lo strascico delle polemiche per i mancati inviti o le mancate presenze era andato avanti per giorni e giorni, a colpi di conferenze stampa. Finchè Lombardo, considerando tutto ciò un oltraggio alla sua persona, aveva deciso per la crisi e la rapida ricostituzione di un governo con fuori l'Udc e gli assessori ribelli vicini al coordinatore Castiglione e ai seguaci di Schifani e di Alfano.
Spiegare una così intricata ragnatela di interessi, caratteri, sensibilità, mal di pancia, oltre che di radicate antipatie locali, a Berlusconi, sorpreso dalla crisi regionale prima del voto, s'era rivelato impossibile. E ancor di più lo è diventato nel clima plumbeo del dopo-elezioni. Anche perché la débâcle siciliana, come più in generale quella meridionale, è legata alle liti dei capicorrente, ma non solo. Che lo scontro tra Schifani, Alfano e Castiglione, da una parte, e Miccichè e Lombardo dall'altra, non abbia portato voti è singolare. Le macchine correntizie erano state messe a regime. La sproporzione di truppe era evidente: nella prima corrente militavano i sindaci di Palermo, Ragusa, Trapani e Agrigento, i presidenti delle provincie di Catania e Messina, il presidente dell'Asl 6, la più grande d'Italia, un congegno catturavoti di sicuro affidamento, finora, e invece a sorpresa entrato in tilt. Nella seconda, uscita battuta, accanto al governatore e a tre assessori, il solo sindaco di Siracusa e la ministra dell'Ambiente Prestigiacomo.

Ma il flop in piena gara di preferenze non si capisce. Ci dev'essere dell'altro. E infatti il mancato aumento dei voti al centrodestra ha una spiegazione anche in termini nazionali: la decisione, per la prima volta, di bloccare i fondi FAS che dovevano servire a mettere in moto il meccanismo clientelare che da sempre alimenta la raccolta dei voti al Sud e in Sicilia. Il governo ha deciso di soprassedere, sulla base di una motivazione che il ministro delle Regioni Raffaele Fitto, in persona, s'è incaricato di spiegare a Berlusconi. Se io do i soldi alla Puglia, che pure è la mia terra, ha spiegato più o meno con queste parole Fitto al Cavaliere, a beneficiarne sarà l'amministrazione di sinistra e il governatore Niki Vendola, che tra l'altro si presenta alle europee come capo di un nuovo partito. Dunque, almeno fino alle elezioni, non glieli do. Berlusconi ha approvato, E lo stesso ragionamento è scattato per la Sicilia e contro Lombardo. Così, per la prima volta, il fiume di denaro che da Roma, a Bari, al palazzo arabo dei Normanni di Palermo, rinfrescava la memoria agli elettori, è rimasto secco. E gli elettori, il giorno delle elezioni, sono rimasti a casa.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. L'asse B&B rafforzato dal voto
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2009, 03:57:06 pm
10/6/2009
 
L'asse B&B rafforzato dal voto
 
 
MARCELLO SORGI
 

Il primo effetto del voto di domenica (e poi dicono che con le elezioni non cambia niente!) è lo scontro nel centrodestra sul referendum elettorale, tra Berlusconi e Bossi, schierati per l’astensionismo, e Fini che annuncia che andrà a votarlo convintamente. In tutta evidenza, si tratta di una contesa attorno a un cadavere: il referendum infatti era già stato affossato per tempo con la collocazione al 21 giugno, nella domenica dei ballottaggi, e a completare le esequie ci hanno pensato gli astensionisti del primo turno. Poiché per essere valida la consultazione ha bisogno dei voti validi di metà più uno degli elettori, e poiché nel secondo turno sono chiamati alle urne assai meno della metà, il fallimento referendario è praticamente assicurato. A meno di un miracolo.

Chi poteva fare il miracolo, anche se negli ultimi tempi, proprio in questo campo, non è apparso particolarmente in forma, era naturalmente Berlusconi.

Con una campagna ventre a terra contro i lacci e i lacciuoli a cui la burocrazia politica sottopone la libera espressione degli elettori, avrebbe potuto convincerli a superare l’apatia e a recarsi ai seggi. E, nel caso dell’assai probabile vittoria dei «Sì», magari a prepararsi a nuove elezioni anticipate, per dare finalmente - e solamente - al loro leader la maggioranza assoluta in Parlamento, senza più bisogno di negoziare con alleati riottosi. Sarebbe stato questo, non va dimenticato, l’effetto immediato dell’affermazione dei «Sì»: trasferire il premio di maggioranza, previsto dalla legge elettorale «Porcellum», dalla coalizione vincente alla lista vittoriosa: cioè, nelle condizioni attuali, al partito del premier, che dopo aver inglobato Alleanza Nazionale avrebbe potuto fare a meno della Lega.

Non è un caso che questa che oggi appare fantapolitica si sia affacciata più volte, salvo essere poi tiepidamente smentita, durante la campagna per le europee. E che Bossi, nella solita cena settimanale ad Arcore con il Cavaliere, già lunedì sera, a spoglio non ancora ultimato, si sia affrettato a farla cancellare direttamente da Berlusconi. Di qui il comunicato di Palazzo Chigi sulla «non opportunità» della partecipazione al referendum, in altre parole un invito all’astensione. Di qui la conseguente, dura e opposta reazione di Fini, che per l’ennesima volta s’è trovato di fronte a una svolta siglata ad Arcore, a un tavolo al quale non era stato invitato.

L’asse, che altri chiamano la dipendenza, di Berlusconi e Bossi, ha già sollevato in passato qualche mugugno all’interno del centrodestra, e anche stavolta ne solleverà. Nelle file del Pdl c’è chi è convinto che tra le cause del magro risultato del Pdl il 7 giugno ci sia stata quell’ultima apparizione in tv della coppia BB, - con il Cavaliere che si profondeva in complimenti, e lasciava quasi intendere che votare per il partito dell’uno o dell’altro era la stessa cosa -, e ancora la promessa di riservare alla Lega una delle presidenze regionali del Nord. In più, non va giù a molti, non solo a Fini, quest’idea che la coalizione si governi da una tavola apparecchiata in casa del Cavaliere, e tocchi a lui stesso poi far digerire le decisioni prese a quelli che nel Pdl vorrebbero discuterne prima.

Ma se queste sono le riserve, che, con l’esplicita irruenza di Fini, o con la timidezza tipica del partito neonato, si affacciano dal Popolo della Libertà, guardata con gli occhi di Berlusconi, che si porta dietro il suo senso pragmatico degli affari, la collaborazione con la Lega, anche in questi termini, ha più di un vantaggio. Al Cavaliere conviene, insomma, rinunciare a un referendum incerto (in vista del quale, comunque, Bossi avrebbe spinto per l’astensione, facendo disertare ai propri elettori anche le urne dei ballottaggi), in cambio di un appoggio più sicuro del Carroccio nel secondo turno e nelle ventidue sfide per i ballottaggi previste per il 21. Guardando a quanto è accaduto il 7, con ben quindici Province che sono passate dal centrosinistra al centrodestra, mentre nessuna ha fatto il percorso contrario, Berlusconi ha più di una ragione per accontentare il Senatur.

Il quale Senatur, oltre a godersi il suo risultato del 10 per cento, sta facendo bene i suoi conti, per l’oggi e per il domani. Chi lo immagina deluso, perché la Lega non è diventata primo partito in Veneto, non lo conosce: perché da lì, fin dai vecchi tempi della Liga Veneta di Rocchetta, Bossi ha avuto solo scocciature, e non a caso ha teso sempre a mantenere lombardo - tra Milano, Bergamo e Varese - il nocciolo duro del suo partito. Chi lo crede contento, perché il Cavaliere ha promesso al Carroccio per le regionali del 2010 uno dei candidati governatori del Nord, in Piemonte o in Veneto, non ha capito che l’unica presidenza che interessa Bossi è quella della Lombardia per Maroni: toccasse pure fare lo scambio, pesante, con il Viminale per Formigoni. Ma di questo, di qui a un altr’anno, dopo i risultati del 21 in cui l’asse BB punta a fare il pieno di voti, di sindaci e di Province al Nord, ci sarà ancora tempo di discutere. In una delle prossime cene ad Arcore.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Silvio riparte da un caffè
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2009, 04:13:43 pm
16/6/2009
 
Silvio riparte da un caffè
 
Notti romantiche con i Clinton, amicizia con Bush, e ora l'inizio in salita con Barack 
 
 
MARCELLO SORGI
 
Chissà cosa avrà pensato Berlusconi nelle lunghe ore del viaggio verso Washington per il suo primo incontro ufficiale con Obama. Un viaggio verso un nuovo inizio, verso un sistema di relazioni da ridefinire, e forse da ricostruire, dopo gli otto anni dorati di amicizia tra Italia e Usa. Inedita nella tradizione diffidente tra "noi" e "loro", tra il "nostro" modo di essere mediterraneo e la "loro" caratteristica di andare per le spicce, l'alleanza univoca, senza nessuna delle ambiguità del passato - e senza condivisioni delle critiche del presente - tra il governo di centrodestra e la Casa Bianca del periodo bushiano, è stato un altro degli elementi di discontinuità, uno dei più importanti, del berlusconismo.

E in questo senso, dopo gli anni della Prima Repubblica, e dopo il modo guardingo democristiano, o irruento craxiano, di tenere i rapporti con gli Usa, l'avvento del berlusconismo è stata una sorpresa. Non solo per i nostri felpati diplomatici, che ancora ricordano come un ciclone l'avvento del Cavaliere ministro ad interim degli esteri, quando suggeriva come vestirsi e raccomandava le mentine per l'alito ad attempati ambasciatori, che invano gli si avvicinavano con i loro dossier e i loro complicati protocolli. Ma anche per i nostri partners più tradizionali, per gli alleati europei, per il mondo arabo che aveva sempre visto in Roma una sponda sicura.

Forse, per rivedere questa storia e valutarne la portata, bisogna partire dalla notte stellata dell'estate '94, dalla cornice suggestiva della Reggia di Caserta, quando Berlusconi, alla sua prima esperienza di premier e al suo primo G7, al braccio di Veronica allora presente nella veste ufficiale di first lady, si rivolse ai più importanti leader del mondo per consigliare di prendere le precauzioni, in una situazione così romantica, se non volevano ritrovarsi presto con nuova prole.

C'era Bill Clinton, all'apice del suo splendore molto prima del Sex Gate con cui avrebbe segnato il suo tramonto. E c'era ancora Mitterrand, un Mitterrand ormai anziano e abbastanza irascibile, che a un certo punto non mancò di sottolineare l'inesperienza del Cavaliere con una delle sue inconfondibili occhiatacce.

Silvio non se ne curò. Travolse tutti con il suo entusiasmo e rimase travolto, pochi mesi dopo, al vertice Onu sulla criminalità, dall'avviso di garanzia che la procura di Milano gli fece recapitare in mondovisione e che gli provocò il più acceso scatto di bile, la più grande brutta figura internazionale, e anni dopo, quando fu assolto, la più grossa soddisfazione contro i magistrati che ha sempre considerato suoi nemici.

Con Clinton, che Berlusconi ha sempre considerato molto più di sinistra di quanto non fosse, non ci fu il tempo di fare amicizia. C'è chi dice che il Cavaliere provasse anche un po' di soggezione per la statura del suo partner, e questo non lo aiutava a prendere confidenza. Ma la verità è che dopo i primi incontri il governo Berlusconi cadde vittima del "ribaltone" e il Cavaliere per ben sette anni andò all'opposizione.

Tornato a Palazzo Chigi nel 2001, trovò Bush alla Casa Bianca. Nacque subito un idillio. Silvio e George W. Il brianzolo e il texano. Il tycoon televisivo già molto noto in Usa come imprenditore e inventore della tv commerciale in Italia, e l'erede di una dinastia wasp che aveva festeggiato a un pranzo la sua elezione usando come centrotavola uno stivale da cow boy. E ancora, il self made man ch'era diventato uno degli uomini più ricchi del mondo e il figlio di un padre che prima da vicepresidente, e poi da presidente Usa, aveva già passato dodici anni alla Casa Bianca.

Che due tipi così potessero piacersi, era nel conto. Ma che diventassero amici, al punto da scambiarsi inviti personali e familiari, da telefonarsi spesso, da incontrarsi a ogni occasione, come quando, lasciando allibito un Prodi tornato brevemente al governo, nel 2007, di passaggio da Roma, Bush, dopo una visita a Palazzo Chigi, volle ricevere Silvio a villa Taverna. Mai prima di quella volta, nelle rare occasioni di visite in Italia, un presidente Usa aveva dato lo stesso peso all'incontro con il capo del governo e con quello dell'opposizione.

Sono gli anni in cui, usciti di scena uno dopo l'altro Aznar e Blair, Berlusconi diventa di fatto l'interlocutore preferenziale degli Usa in Europa, il mediatore del difficile rapporto tra Usa e Putin, il contrappeso di uno Chirac dichiaratamente freddo e di uno Schroeder apertamente polemico, il primo ad accorrere per portare solidarietà dopo l'attentato alle Torri Gemelle, l'ospite d'onore al Congresso americano, in cui terrà un discorso, metà in italiano e metà in inglese, l'invitato informale nel ranch di Crawford, in Texas, dove una sera, una sera si fa per dire, dato che a casa Bush si cenava di pomeriggio, alle sette e trenta Silvio con il fido Paolo Bonaiuti decise d'affacciarsi all'aperto a prendere un po’ d’aria, e involontariamente fece scattare l’apparato di sicurezza del Presidente, tarato sulla minaccia terroristica del dopo 11 settembre.

Certo, dall’epopea di Silvio e George W. alla battuta infelice su Obama "abbronzato", ce ne corre. Così come dal sentirsi di casa alla Casa Bianca al doversi accontentare di un invito per un caffè. Volando verso gli Usa, durante la traversata atlantica, Berlusconi per primo avrà pensato di certo che da Bush a Obama il passo è lungo. Si tratta di ripartire in un clima più difficile, in cui niente è dato per scontato, e in uno scenario internazionale in continuo movimento, in cui tutto, anche un’accoglienza esagerata a Gheddafi, può accendere dubbi o essere equivocato. D’altra parte, Berlusconi lo sa, gli Usa hanno bisogno dell’Italia. Mezz’ora, il tempo di un caffè, non è detto che basti a intendersi. Ma può servire per ricominciare.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Le contraddizioni di un luogo simbolo
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2009, 09:35:49 am
21/6/2009
 
Le contraddizioni di un luogo simbolo
 
MARCELLO SORGI
 
Dici Sigonella, e ancora senti battere il cuore della vecchia sinistra antiamericana, per quella che sarà sempre ricordata come la più grave crisi tra Italia e Usa. Ma anche come il più forte gesto di autonomia e di difesa della sovranità nazionale mai compiuto nella storia pluridecennale di cordiale quanto diffidente collaborazione tra le due sponde dell'Atlantico.

La sera del 10 ottobre 1985 il governo italiano aveva appena tirato un sospiro di sollievo per la conclusione, tragica ma non catastrofica, del sequestro, ad opera di un commando di terroristi palestinesi dell'ala radicale dell'Olp, dell’«Achille Lauro», con a bordo centinaia di turisti italiani in viaggio in Egitto. Al termine di una difficile trattativa, condotta dal presidente del consiglio Craxi e dal ministro degli Esteri Andreotti con Arafat, i terroristi avevano riconsegnato la nave al Cairo. Ma prima di arrendersi avevano assassinato un turista americano ebreo, Leon Klinghoffer.

Il telefono di Craxi squillò pochi minuti prima di mezzanotte. All'altro capo del filo il presidente Usa Ronald Reagan, che chiedeva l'autorizzazione di lasciare atterrare nella base di Sigonella un aereo egiziano dirottato, e scortato dagli F14 dell'aviazione americana, con a bordo il commando dei terroristi e i mediatori palestinesi, Abu Abbas e Hani el Hassan, che avevano condotto la trattativa.

In pochi minuti, dopo l'atterraggio del convoglio di aerei - di cui facevano parte due C141 che dovevano servire al trasporto del commando - i militari Usa e i soldati italiani, con i carabinieri che sorvegliavano Sigonella, rischiarono di venire alle armi. Craxi ordinò di non consegnare i passeggeri dell'aereo egiziano e di difenderli da ogni eventuale attacco. La trattativa tra il comandante Steiner e il capo del controspionaggio italiano, Fulvio Martini, si concluse con il compromesso che l'aereo con i terroristi sarebbe atterrato a Ciampino. Ma una volta giunti lì, gli americani si aspettavano l'arresto dei palestinesi, che furono fatti scappare in omaggio all'impegno che era stato preso per la riconsegna della nave e il salvataggio dei passeggeri. Tutti i passeggeri, tranne Klinghoffer.

Nella stessa notte Reagan inviò a Craxi una dura lettera in cui, pur ringraziandolo formalmente della collaborazione fornita a Sigonella per l'atterraggio degli aerei Usa, lo impegnava, in attesa di una richiesta di estradizione, a custodire in carcere i terroristi che nel frattempo erano stati fatti scappare. Ne nacque una grave crisi diplomatica, e una conseguente crisi politica che portò alla caduta del governo Craxi, per l'irritazione del ministro repubblicano della Difesa Spadolini che era stato tenuto all'oscuro di tutto. Craxi si presentò alla Camera accolto dal gelo della delegazione del Pri e della parte meno filoaraba della Dc, ma anche dagli applausi dell'emiciclo di sinistra, soddisfatto della lezione data agli Usa. Fu una delle rare volte che i comunisti applaudirono il leader socialista, solitamente odiato e considerato dal segretario del Pci Berlinguer alla stregua di «un pericolo per la democrazia».

Qualche giorno dopo la crisi si risolse. Spadolini si rassegnò. Craxi andò a trovare Reagan per fare pace e concordò con lui un accordo grazie al quale fu dato il via alle «extraordinary renditions», gli scambi di prigionieri (e in qualche caso le catture) al di fuori delle normali regole procedurali per motivi di lotta al terrorismo. Abu Abbas ha finito i suoi giorni in Iraq nel 2003. Ricordare questa storia, adesso che Sigonella cambia funzione - e dopo che l'Italia, anche sotto la guida di un premier postcomunista come D'Alema, s'è impegnata nell'intervento in Kosovo, per non dire della partecipazione a tutte le guerre seguite all'attentato alle Torri Gemelle - serve solo a capire quanto siano cambiati i tempi.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Una mossa presidenzialista
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2009, 11:54:24 am
16/7/2009
 
Una mossa presidenzialista
 
 
MARCELLO SORGI
 
Accolta ufficialmente con reazioni di plauso e con promesse di correggere presto le nuove norme nel senso richiesto, la decisione del Capo dello Stato di promulgare il pacchetto sicurezza, accompagnando la firma con una lunga lettera di cinque pagine, in cui smonta accuratamente - e assai severamente - tutti i punti controversi della legge, è stata accolta piuttosto male a Palazzo Chigi e nei ministeri interessati.

Le dichiarazioni a favore di Maroni e Alfano non devono trarre in inganno: i ministri dell’Interno e della Giustizia sanno bene che la faticosa mediazione con cui alla fine il pacchetto è stato approvato - tra critiche del Vaticano e riserve interne alla maggioranza, che solo la fiducia ha potuto domare, oltre all’opposizione dura del centrosinistra - dopo la lettera del Quirinale è del tutto superata.

Nei tredici giorni in cui hanno preso in esame il testo licenziato dalle Camere, gli uffici del Colle sono arrivati alla conclusione che la legge, così com’è, risulta in molti punti inapplicabile. Solo la presenza, nel pacchetto, delle norme antimafia che inaspriscono gli strumenti a disposizione delle forze dell’ordine per il contrasto della criminalità organizzata, ha convinto il Presidente Napolitano del fatto che il rinvio alle Camere della legge potesse provocare un danno maggiore che la promulgazione critica - una novità che non mancherà di far discutere i costituzionalisti - invece ha impedito, rendendo operative le norme effettivamente utili, e affidando al governo il compito di rimettere mano a quelle malfatte.

Gli esempi più evidenti riguardano il reato di clandestinità e la disciplina delle ronde metropolitane. Napolitano osserva che, a parte la mancanza di urgenza nell’intervenire in materie così delicate, il riconoscimento della clandestinità come reato potrebbe finire con il facilitare, invece che rendere più arduo, l’ingresso dei clandestini nei nostri confini. In base al principio secondo cui nessuno può essere condannato due volte per lo stesso reato, infatti, un clandestino condannato ed espulso potrebbe rientrare nuovamente in Italia e non essere più processabile e condannabile una seconda volta.

Quanto alle ronde, il Presidente fa notare che la concessione degli spray al peperoncino come ausilio ai volontari metropolitani finirà con il legalizzare quelle che fino a questo momento erano considerate armi improprie. Se sono legali per le ronde, lo diventeranno anche che i delinquenti comuni, che potranno usarli per rapine, aggressioni e violenze, senza doverne rispondere come aggravanti dei loro reati. Ma al di là delle singole osservazioni contenute nella lettera del Capo dello Stato, quelle che saranno da valutare sono le conseguenze dell’iniziativa di Napolitano. Finora, infatti, i Presidenti della Repubblica avevano scelto, o di respingere le leggi per le ragioni previste dalla Costituzione (manifesta incostituzionalità o mancanza della copertura finanziaria), o di firmarle silenziosamente, lasciando tutt’al più trapelare riservatamente un disappunto di natura istituzionale.

Con la lettera che accompagna la firma, invece, il Presidente ha introdotto un’innovazione, coerente al suo disegno di dare al Quirinale un ruolo di direzione del processo di formazione delle decisioni politiche. E lo ha fatto tenendo presente, non solo i confini della Costituzione, ma anche la compatibilità delle leggi proposte dal governo e approvate dalla sua maggioranza con le altre istituzioni che poi dovranno applicarle. In questo senso è evidente che Napolitano abbia tenuto conto sia delle perplessità emerse in seno al Consiglio superiore della Magistratura sugli aspetti più controversi del pacchetto sicurezza, sia dello sconcerto dei giudici di pace che dovrebbero occuparsi del reato di clandestinità.

Naturalmente, una volta firmata, la legge, anche se malfatta, diverrà efficace. Berlusconi, d’intesa con i Presidenti delle Camere, che come lui sono destinatari della lettera, dovrà valutare se riaprire la discussione all’interno della sua maggioranza tra le frange più perplesse del Pdl e quelle più oltranziste della Lega, o se tirare avanti lo stesso. Ma soprattutto, dopo aver ringraziato Napolitano nei giorni scorsi per l’appoggio ricevuto nei giorni difficili che hanno preceduto il G8 dell’Aquila, il Cavaliere dovrà riflettere sulle incognite di questa nuova convivenza con l’inquilino del Colle, che, a sorpresa, ha fatto insieme una mossa politica e un passo avanti in direzione del presidenzialismo.

 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. L'estate emarginata della Lega
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2009, 11:23:23 am
22/8/2009
 
L'estate emarginata della Lega
 
 
MARCELLO SORGI
 
Sarà pure che il dibattito politico estivo, in Italia, non fa testo. Una volta, per distinguerlo da quello vero, si parlava di politici sotto l’ombrellone. Ma la discussione che s’è svolta ad agosto, a partire dalle proposte leghiste sull’uso e l’insegnamento dei dialetti e sulle gabbie salariali, per arrivare al tema, più complesso, delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, ha prodotto una novità. Il confronto tra le posizioni, spesso eccentriche, della Lega, e quelle degli altri partiti, non è stato alla pari. Anzi, per la prima volta dopo molto tempo, s’è formato una specie di «arco costituzionale», che andava dal Pdl al Pd, alla sinistra estrema, e s’è ritrovato compatto nel condannare le posizioni del Carroccio e collocarle ai margini del sistema. Che poi al fondo di tutto, trasparente, ci fosse il tentativo di mettere in difficoltà Berlusconi, al quale in ultima istanza spetta mediare le richieste della Lega e renderle compatibili con la politica del governo, era chiaro. Ma il meccanismo con cui questo è avvenuto è curioso, e ricorda, tanto per fare un esempio, il modo in cui per decenni, nella Prima Repubblica, veniva trattato il Msi di Almirante. Fino al tentativo, fallito e controproducente al principio degli Anni Settanta, di ottenerne lo scioglimento per ricostituzione del partito fascista.

Prendiamo, appunto, la polemica sull’uso dei dialetti e sull’eventualità di incrementarne lo studio nelle scuole. E prendiamola dal lato più leggero, la singolare proposta del ministro dell’Agricoltura Zaia di impegnare la Rai a trasmettere fiction nelle diverse lingue locali. Nelle reazioni che l’hanno seguita, Zaia - che certo avrebbe dovuto accompagnare la sua iniziativa con argomenti più consistenti, evitando di confondere i dialetti con la pretesa, a suo giudizio, propaganda della «cultura gay» - è stato trattato quasi come un appestato, uno che vorrebbe «Capri in napoletano, Montalbano in siciliano, Gente di mare in calabrese, Nebbie e delitti in emiliano, Un caso di coscienza in friulano» (Fabrizio Morri, Pd), uno che «ha confuso Ferragosto con Carnevale» (Giorgio Merlo, Pd), uno che ha detto «una fesseria» (Italo Bocchino, Pdl). E così via. C’è stata perfino una precisazione del regista Peppuccio Tornatore, che sta per presentare un film dedicato al suo paese natale Bagheria - intitolato, in dialetto, Baària -, come a dire che il fatto non deve costituire un precedente. Il siciliano di Montalbano Ora, a parte il fatto che Montalbano va in onda da anni sulla Rai con una parte dei dialoghi in siciliano, e Andrea Camilleri, lo scrittore che ha inventato e descritto in dialetto il fortunato personaggio del commissario, ha gran parte dei suoi lettori al Nord, non si capisce perché una proposta, pur singolare come quella di Zaia, non possa essere discussa, e magari accantonata, senza essere sbeffeggiata, come se venisse da un «Bru-bru», e non da un qualificato membro del governo.

Analogo ragionamento si può fare sulle gabbie salariali territoriali. Passi il fatto che la parola «gabbie» è sbagliata e non è certo la più adatta per impostare un confronto con le parti sociali. Ma c’è dubbio che le gabbie, sotto forma di flessibilità, contratti a termine, lavoro in affitto, sono state introdotte da anni in Italia, anche con il consenso dei sindacati, ed hanno contribuito a creare opportunità di lavoro, a ridurre la disoccupazione, specie per i più giovani, ma anche a determinare situazioni di precarietà spesso difficili da affrontare? E se si va bene a guardare, l’articolazione di questi strumenti contrattuali flessibili non è in qualche modo «territoriale»? Non rispecchia cioè - aiutando perfino a contrastarlo - l’incerto andamento dell’economia nazionale, segnalando le aree in cui si reagisce con più prontezza alla crisi, rispetto a quelle in cui la congiuntura s’è abbattuta con conseguenze imprevedibili? E non è da qui che in autunno occorrerà ripartire per cercare, se davvero ci sarà, di agganciare la ripresa? Viene da pensare che se la proposta non fosse venuta dalla Lega, ma da uno dei nostri togati e rispettati economisti, forse avrebbe avuto più fortuna. E quando approderà su uno dei tanti tavoli di contrattazione a Palazzo Chigi, sarà gioco forza fingere, ipocritamente, che è un’altra cosa, e cambiarle nome.

Si potrebbe continuare con altri esempi. Ma prima di arrivare all’Unità d'Italia, su cui, di questo passo, è prevedibile lo scontro peggiore, c’è da capire perché oggi sta accadendo tutto questo di fronte alla Lega, un partito che esiste, ormai, da un quarto di secolo, che ha centinaia di sindaci, assessori ed amministratori, che sta al governo con una delegazione di primo piano, a cominciare dal ministro dell’Interno, e che insomma fa parte ormai stabilmente del «sistema». Si dirà che la politica della Lega in molti casi (vedi le ronde metropolitane e i problemi che stanno creando) è «anti-sistema» e incompatibile con le esigenze di una Paese democratico maturo. E per di più che la Lega ne ricava disinvoltamente consistenti vantaggi elettorali al Nord. E’ possibile, ma non basta. Di partiti «anti-sistema» che sono stati al governo, in Italia, ce n’è più d’uno, e ce ne sono anche nel centrosinistra. Senza però che questo comporti una messa al bando, o una sorta di dichiarazione di minorità, e neppure il muro che a poco a poco si cerca di costruire attorno al Carroccio, che ha portato un leader del centrosinistra come Fassino a ipotizzare sorprendentemente in Veneto una sorta di grande coalizione anti-Bossi, e che alla fine non potrà che giovare a un partito territoriale come il suo, che ormai da anni vede i suoi voti crescere a ogni elezione. I lati oscuri dell’unità d’Italia

La politica italiana, d’altra parte, è sempre stata inclusiva. Lo era negli anni migliori della Prima Repubblica, quando in Parlamento sedevano i leader della sinistra una volta chiamata «extraparlamentare», lo è rimasta ai tempi della Seconda, quando il maggioritario ha portato ad allargare le coalizioni a tutte le forze disponibili. La svolta verso i due grandi partiti a «vocazione maggioritaria», esclusivi, chiusi verso le estreme, non ha portato, come s’è visto, Berlusconi e il Pdl a risolvere i problemi interni alla loro larga maggioranza, né Veltroni, Franceschini e il Pd a rendere più competitivo il centrosinistra e a farlo tornare al governo.

In questo quadro, le celebrazioni dell’Unità d'Italia che si preparano per il 2011 diventano un banco di prova importante. Non è pensabile - e bisogna guardarsene bene - trasformarle in un’occasione di retorica nazionale come purtroppo altre volte è accaduto. Né, chiaramente, è questo l’intendimento del presidente Napolitano che ha sollecitato la definizione di un programma, e del presidente Ciampi, che presiede il comitato addetto alla ricorrenza. Si tratta di rivisitare un’epoca così lontana cogliendone insieme l’importanza, i limiti e l’evoluzione della storia di un Paese. Senza cedimenti, una volta tanto, alla solita retorica garibaldina, che serva a coprire gli ormai accertati lati oscuri del processo unitario, a cominciare dalle conseguenze della conquista militare del Sud, e dalla cancellazione, sotto l’etichetta di «banditismo», di larga parte del dissenso politico meridionale. E senza neppure nascondere le crepe, che, a un secolo e mezzo di distanza, l’unificazione mostra ancora, in un’Europa purtroppo sempre meno unita e in cui ovunque, ormai, fioriscono partiti e movimenti locali e spinte secessioniste. Già, chi ha detto che a centocinquant’anni di distanza, l’Italia non possa celebrare insieme la sua unità e il suo nuovo assetto federalista?
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Tutti cattolici se i laici non parlano
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2009, 11:29:38 am
28/8/2009

Tutti cattolici se i laici non parlano
   
MARCELLO SORGI


La polemica di Bossi con i vescovi sull’immigrazione. Il distinguo laico sulla bioetica di Fini, per inciso l’unico ad ammettere chiaramente di non avere il dono della fede. Il racconto di Blair della propria conversione e quello di Chiamparino della sua attrazione per il mondo cattolico.

Nel giro di pochi giorni, una serie di eventi, solo apparentemente staccati tra loro, sono venuti a ricordarci il peso che la Chiesa e i valori di cui è portatrice hanno sulla società italiana.

Si dirà, che scoperta! Il nostro è un paese cattolico, che anche in tempi di secolarizzazione «sente» la presenza del Papa e delle Gerarchie sul proprio territorio, è abituato a trovare i parroci schierati sulle frontiere più delicate della società civile e i credenti sul crinale delle più difficili battaglie di opinione. Ma il punto è un altro: eravamo abituati, da sempre, a una ripresa politica di fine estate affidata alle feste di partito e ai primi duelli stagionali sull’agenda dei problemi lasciati irrisolti prima della pausa delle vacanze. E invece, d’improvviso, ci ritroviamo con il Meeting di Cl che diventa l’unica area riconosciuta di confronto, nella quale i leader politici si misurano a partire dai valori.

Bossi infatti, dopo l’ultima tragedia dell’immigrazione nel mare di Lampedusa, non se l’è presa con il governo o con Gheddafi per il mancato rispetto degli accordi. Ma con i vescovi. E Fini, alla Festa del Pd, dove peraltro è stato accolto calorosamente e applaudito, ha accortamente non scelto di occuparsi di post-fascismo e post-comunismo, ma del diritto della Chiesa ad intervenire in materia di bioetica. Né Blair a Rimini, al meeting di Cl, ha ripercorso l’esperienza di dieci anni di New Labour al governo del Regno Unito: ha preferito piuttosto parlare della sua conversione, quasi come un predicatore, con toni da sermone.

Sull’immigrazione, sulla sicurezza, sulla solidarietà, sulla giustizia e sul perdono, la Chiesa svolge da tempo il suo apostolato, così come sulla famiglia e sul diritto alla vita e su molti altri temi emergenti. Lo fa senza far sconti a nessuno, senza timore di ritrovarsi contro il governo o la stessa opposizione. Ma mai come adesso sono questi argomenti, questi valori, quest’agenda di punti qualificanti a definire l’azione politica in Italia.

Non è solo effetto del concetto nuovo di laicità cattolica, che s’è fatto strada negli anni del lungo papato woijtiliano, e oggi viene riaffermato con ancora più vigore da Papa Benedetto XVI. Quel concetto prevede che la fede sia al centro di ogni ambito della vita umana nella società. Che i cattolici parlino a tutti, dovunque, credenti e non credenti, che portino in ogni momento l’annuncio del Vangelo. Non è neppure conseguenza dell’ormai lontana scomparsa della Dc, il grande partito cattolico che aveva condizionato per cinquant’anni la Prima Repubblica. La logica democristiana prevedeva che i valori venissero canalizzati nella società grazie a una mediazione che tenesse sempre separato l’ambito della fede e della cura delle anime, riservato alla Chiesa, da quello, pubblico, delle istituzioni in cui i politici cattolici erano presenti. E in cui, certo, ai cattolici poteva capitare di contarsi, come accadde sul divorzio e sull’aborto negli Anni Settanta, ma il più delle volte, invece di soccombere, di cercare e trovare un compromesso.

In nome di questo metodo, di questa pratica di laicità, De Gasperi negli Anni Cinquanta non volle contribuire a Roma alla nascita di una lista di cattolici imposta dal Vaticano. Fu un rifiuto clamoroso, storico. E sulla base di questa stessa impostazione, negli Anni Novanta, Scalfaro, l’ultimo presidente della Repubblica democristiano, in visita, appena eletto, in Vaticano, ribadì a Papa Giovanni Paolo II che il compito dei cattolici impegnati in politica era di ascoltare la Chiesa, ma poi di tradurne in pratica l’insegnamento secondo le contingenze politiche e in piena libertà. Una libertà che, naturalmente, poteva prevedere momenti di riavvicinamento, ma anche di dialettica, e richiedeva, da parte della Gerarchia, il rispetto dei diversi ambiti e delle conclusioni a cui il confronto politico doveva arrivare.

C’è una certa differenza tra quell’epoca, ormai lontana, e questa attuale, in cui può accadere che la Chiesa, legittimamente, contesti una sentenza del Tar che esclude gli insegnanti di religione dagli scrutini scolastici, e il ministro dell’istruzione Gelmini, a nome del governo. senta il bisogno di presentare in poche ore ricorso al Consiglio di Stato. Va da sé che la Chiesa è libera di dire ciò che vuole su qualsiasi aspetto della vita pubblica e dell’evoluzione della società italiana. Il problema non è, o non è più, l’ingerenza della Chiesa in politica. Ma di chi la subisce perché non ha buoni argomenti per confrontarsi. L’afasia dei laici, in quest’ambito, è l’altra faccia della voce dei cattolici, che, nel tempo mediocre della nostra politica, s’è fatta più forte.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Casini e la lunga marcia verso il Pdl
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2009, 07:13:24 pm
8/9/2009 (7:19)

Casini e la lunga marcia verso il Pdl
   
Per le regionali tratterà sui singoli casi, ma ora l'Udc serve al governo

MARCELLO SORGI
ROMA


L’Udc di nuovo nel centrodestra e Casini al governo con Berlusconi, il Pdl e la Lega. Al di là di ogni reticenza ufficiale, è questa l’ipotesi a cui si sta lavorando, all’ombra della trattativa appena cominciata sulle regionali (e soprattutto sulle sette Regioni in cui i cattolici sono indispensabili per vincere). Espulso alla vigilia delle politiche del 2008 dalla coalizione di cui era stato nel 1994 uno dei fondatori, dopo un anno e mezzo di navigazione solitaria, e di inedita «opposizione di centro», l’ex presidente della Camera è già seduto, come convitato di pietra, al tavolo che ogni lunedì viene apparecchiato ad Arcore per il Cavaliere e il Senatùr.

Per rientrare in gioco, al furbo Pier è servito certo tener duro, tirare per la propria strada senza cedere alle lusinghe che gli venivano da Pdl e Pd, trattare democristianamente volta per volta, caso per caso, con tutti, per piazzare localmente i propri assessori, mentre a Roma restava sguarnito di poltrone ministeriali. Adesso, per dirla con Bossi, tocca a Berlusconi «trovare la quadra», ma la posta in gioco è talmente alta che nessuno degli alleati farà più di tanto le bizze: con il ritorno dell’Udc nella coalizione, infatti, la vittoria del centrodestra alle regionali è praticamente assicurata, ed in molte delle amministrazioni in cui il centrosinistra aveva prevalso poche settimane fa grazie ad appoggi estemporanei del partito di Casini, è destinata ad aprirsi una fase di instabilità.

In attesa che l’accordo si concretizzi, Pier naturalmente si muove con estrema prudenza, alla sua maniera. Ieri un’intervista a «Famiglia cristiana», in cui tra dire e non dire, e senza risparmiare frecciate anche dure al Cavaliere, si ripropone come interlocutore affidabile, in un momento in cui, malgrado le rassicurazioni ufficiali, i rapporti fra il centrodestra e il mondo cattolico sono al minimo storico. Inoltre, a quanto si dice, Casini non è rimasto estraneo, proprio nei giorni della tempesta, neppure alla presa di distanza di Fini dall’attacco a Boffo. Che prelude chiaramente a un ritorno all’asse tra i due, già forte durante la prima legislatura di governo del Cavaliere. E venerdì prossimo, in questo quadro, diventerà nevralgico l’appuntamento con il partito a Chianciano, luogo di mille nostalgie democristiane, e dell’epoca della Prima Repubblica in cui nella ridente località termale si decidevano i destini congressuali della Balena Bianca, e a seguire quelli, politici ed economici, nazionali.

Non c’è dubbio che gli esiti del caso Boffo, con le dimissioni del direttore dell’Avvenire e il risentimento che hanno provocato tra i cattolici, hanno funzionato da acceleratore del processo di riavvicinamento tra il leader dell’Udc e il centrodestra. Il vulnus, la ferita, com’era stata definita, s’era aperta molto prima, a maggio 2008, all’atto della nascita dell’esecutivo Pdl-Lega, che anche in alcuni ambienti di Curia era stato definito, con enfasi, «il primo governo senza cattolici della storia della Repubblica». Da allora in poi - e soprattutto dopo il deludente risultato del Pdl alle europee - il lavoro dei «pontieri» non s’era mai interrotto, ma Casini, in pubblico e in privato, a chi lo sollecitava a fare il primo passo, aveva sempre risposto che prevedeva un periodo piuttosto lungo di opposizione, e che solo il mutare delle condizioni politiche avrebbe potuto portare a riconsiderare il quadro politico. È stata proprio quest’impostazione, dal punto di vista dei voti, a rivelarsi vincente in tutti i passaggi elettorali degli ultimi diciotto mesi, e a consentire oggi all’Udc di sedere al tavolo delle trattative in posizione di forza.

Obbligata in pratica, e spinta dalle difficoltà in cui Berlusconi s’è trovato negli ultimi mesi, la strada dell’accordo - è chiaro a tutti - è comunque in salita, anche se la scadenza delle regionali preme ed ha per il presidente del Consiglio un’importanza pari a quella delle politiche (nella precedente legislatura, il magro risultato del 2005 determinò un avvitamento della coalizione, e la sconfitta, sia pure di un soffio, del 2006).

Casini però non ha fretta, perché è convinto che il Cavaliere non ha voglia di rischiare ed è obiettivamente motivato a cercare di venirgli incontro. Berlusconi ne parla da tempo con i suoi, ma è consapevole di doversi muovere con circospezione, passo passo, sottobraccio a Bossi e sapendo che la Lega, via via che la trattativa andrà avanti, alzerà il prezzo dell’intesa per le tre grandi Regioni del Nord. Quanto a Fini e Tremonti, dai loro rispettivi posti di osservazione, hanno messo in conto che il ritorno in scena di Pier rafforza sì il centrodestra, ma modifica, e non di poco, gli scenari per la successione di Berlusconi, quando sarà il momento: Casini torna anche come possibile candidato premier che nel futuro ha molte carte da spendere.

Infine, alla svolta, ormai annunciata, e che si prepara, dovrà guardare con attenzione anche uno dei tre candidati alla guida del Pd: il favorito Bersani, che sull’abbandono della linea veltroniana del partito a vocazione maggioritaria, e sul recupero della politica delle alleanze di centrosinistra, più larghe, fino a includere l’Udc, aveva costruito la sua corsa alla segreteria. E ora, alla vigilia del congresso, deve ripartire da capo.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Cavaliere la testa e la pancia
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2009, 11:06:14 am
11/9/2009

Il Cavaliere la testa e la pancia
   
MARCELLO SORGI


A differenza di quanti, ed erano molti, aspettavano il discorso di Fini a Gubbio come un preavviso della sua uscita dal Pdl - e magari, a dispetto perfino delle stesse parole pronunciate, l'hanno considerato tale - l'idea che il presidente della Camera, per via delle posizioni che ha preso di recente, e ieri ha ribadito con esplicita ruvidità, si prepari a lasciare il partito che ha fondato insieme a Berlusconi, va detto chiaro: è fuori dalla realtà.

Lasciamo stare lo «stillicidio» (come lui stesso lo ha definito) di maldicenze, gossip, boatos che hanno accompagnato tutte le prese di posizione di Fini, accusato di volta in volta di essere impazzito, di esser diventato un «compagno travestito» o di aspirare al ruolo di Capo dello Stato. Sono giudizi impietosi e irrispettosi verso uno dei due maggiori leader del partito neonato, che nuocciono all'insieme dell'immagine del Pdl.

Ma, si sa, la politica italiana non è avvezza alle buone maniere. Al dunque, Fini ha chiesto di poter discutere e di fare della discussione, del dibattito interno sulle questioni aperte - come avviene in tutti i normali partiti democratici del mondo - il metodo attraverso il quale elaborare posizioni condivise. Mettendo in conto - questo non lo ha detto, ma è facile desumerlo dall'insieme del suo intervento - perfino di poter restare in minoranza su temi come il biotestamento o la cittadinanza agli immigrati, su cui di recente s'è spinto in avanti, e rispetto ai quali la sensibilità del Pdl e dei suoi elettori potrebbe anche rivelarsi meno avanzata.

Se Fini ha fatto un discorso del genere, e soprattutto se non ha cercato la rottura, è certamente perché non è convinto - come invece da qualche parte gli viene attribuito - che Berlusconi e il suo governo siano al capolinea, e la legislatura si prepari a una svolta o alla fine. Non si capisce, quindi, come ipotesi siffatte possano affacciarsi, e farsi strada fino a diventare parole d'ordine o incubi di politici anche di una certa importanza. E non è chiaro neppure come possano trovar credito nella cerchia più vicina al premier, o addirittura essergli attribuite, come se appunto Berlusconi vedesse il baratro di fronte a sé e fosse pronto a tutto - ma proprio a tutto - pur di non precipitarci dentro.

In realtà l'errore di Berlusconi è proprio l'opposto. Cioè convincersi, o essersi autoconvinto, che tutti i problemi che ha davanti siano inesistenti, se confrontati al suo invincibile consenso da parte degli elettori. E, di conseguenza, rivolgersi ai cittadini per mobilitarli ogni giorno contro i suoi nemici: i giornali, i comunisti, l'opposizione, gli avversari interni della sua maggioranza che vogliono approfittare delle sue difficoltà. Di questo passo il Cavaliere punta, martedì 15, a officiare da protagonista la consegna delle prime case ai terremotati dell'Aquila, a rispondere ancora una volta «con i fatti», e con la logica dell'«uomo del fare», alle critiche che gli sono state rivolte, e ad archiviarle una volta e per tutte insieme con un'estate da dimenticare e con gli attacchi della stampa nemica, nazionale e straniera.

Per paradossale o ultra-semplificata che sembri, questa è purtroppo la strategia che emerge quotidianamente dalle parole del presidente del Consiglio. Ma allo stesso modo non è detto che sia la strada giusta per rilanciare il suo esecutivo, che, oltre a tutte quelle che ha in comune con gli altri governi del mondo alle prese con la crisi economica globale, ha dovuto fronteggiare le conseguenze dei problemi personali, di comportamento e familiari, del premier.

Nasce di qui il logoramento che in soli diciotto mesi la coalizione di centrodestra ha accumulato, e che ha fatto apparire il governo in declino. Ma dal declino alla fine, ancora, ce ne corre. In altri termini, Berlusconi a questo punto può rendersi responsabile della sua rovina - una rovina comunque assai lenta, non essendoci all'orizzonte alternative realistiche. E può verosimilmente recuperare, avviando la fase 2 del suo governo e indirizzandosi verso una prospettiva di legislatura.

Né più né meno è quel che il Cavaliere aveva fatto a metà del suo secondo percorso (2001-2006) a Palazzo Chigi, quando, memore dell'assalto riservatogli nel primo (1994), rivelò a sorpresa insospettabili dosi di pazienza e di negoziazione. Così, l'uomo che era stato capace di conquistare Palazzo Chigi in tre mesi - e di perderlo in soli otto! - fu capace di piegarsi alle più odiate liturgie di coalizione. Di attraversare verifiche, rimpasti e crisi pilotate di governo, sacramentando e insieme redistribuendo quote di potere, ed alternando il volto dell'arme a sorrisi compiacenti verso alleati-avversari ed amici-nemici. E dimostrare che, quando vuole, sa fare politica come e meglio di tanti altri.

Anche stavolta - se crede, è in tempo per riuscirci - Berlusconi può riconoscere che quelle di Fini, se non tutte per l'oggi, sono buone idee per la destra di domani: una destra più moderata e composta, meno rivoluzionaria, come sarà giusto nel prossimo futuro. Allo stesso modo il Cavaliere sa bene che l'assenza dei cattolici dal governo non ha migliorato, anzi ha reso più problematici, i rapporti con il mondo cattolico, e che non può sperare di ricostruirli da solo, né soltanto stringendosi alla Gerarchia. Non c'è niente di male a riconoscere che scaricare Casini dalla maggioranza s'è rivelato una mossa «di pancia», avventata e poco accorta. E, subito dopo, verificare se esiste la possibilità di una ripresa seria di collaborazione con l'Udc, che non potrà più essere subalterna, ma anzi competitiva, come avviene del resto con la Lega.

Infine, Berlusconi ha già detto varie volte, anche in campagna elettorale, che considera questo il suo ultimo giro alla guida del governo. A 73 anni, e con gli acciacchi di cui si lamenta, scherzosamente, di tanto in tanto, è legittimo credere che non ci abbia ripensato. Ma anche questo punto, data la situazione, va chiarito. Per cominciare a discutere, senza urgenza, quando verrà il momento, dopo quasi un ventennio ma in tempo, della successione.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Ora Angela farà come la Thatcher
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 05:45:53 pm
28/9/2009


Ora Angela farà come la Thatcher
   
I prossimi compagni di governo chiedono politiche più drastiche. E a molti elettori non piace la sua elasticità da democristiana


MARCELLO SORGI

Merkel modello Thatcher. Fino a due giorni fa, dirlo era impensabile. Le due, si sa, non si sono mai amate e «Angie» s’era lasciata scappare una volta che non dimentica che Margaret fu tra i contrari alla Germania riunificata. Adesso, invece, dopo il voto di ieri, dovrà ripensarci.

Per tre ragioni. La Cancelliera è uscita confermata, il suo successo personale è servito a tamponare la flessione dell’alleanza Cdu-Csu, la Grande coalizione è finita travolgendo la Spd, ma le incognite del nuovo governo da formare sono tante. E il trionfatore di questa tornata, il leader liberale Guido Wester-welle, dopo undici anni all’opposizione, si prepara a sedersi al tavolo delle trattative con idee molto precise.

Le stesse che lo hanno portato alla vittoria. Delle tre partite aperte nella mezz’ora in cui i risultati hanno cambiato il volto politico della Germania, quella della Cancelliera si presenta indubbiamente come la più complicata. Angela Merkel aveva impostato la campagna elettorale nel suo stile, sfuggendo democristianamente alle domande più insidiose, tiepida verso l’obiettivo dichiarato di una nuova coalizione con i liberali, e in realtà aperta a ogni ipotesi, senza escludere neppure di continuare con la Spd o accordarsi con i Verdi, premiati anche loro dalla scossa elettorale.

Ma a sorpresa, il pragmatismo, l’arte del rinvio, la ricerca continua di un minimo comune denominatore, e insomma quelle che si erano rivelate le doti personali più apprezzate della Cancelliera, non hanno più trovato il gradimento sperato. Non è piaciuta l’immagine della Merkel che andava d’accordo con il suo vice Steinmeier al punto da sembrare, anche lei, socialdemocratica. L’appoggio avuto dagli alleati sull’aumento delle tasse e sulle politiche di risanamento economico, una scelta obbligata, pagata in massima parte dalla Spd, ha dato inaspettatamente a una parte degli elettori democristiani più tradizionali la sensazione di un cedimento. A mediazioni eccessive e a politiche sociali troppo spinte e lontane dalla tradizione Cdu-Csu (come ad esempio i congedi per maternità concessi anche agli uomini). A una mancanza del tradizionale rigore tedesco nell’amministrazione, che ha finito col pesare sui conti dello Stato. E a una smodata logica dell’emergenza. Sul caso Opel, per fare un esempio, non solo il ministro dell’Economia zu Guttemberg, ma gran parte degli elettori, avevano delle riserve. Piuttosto che aiuti di Stato, avrebbero preferito maggior rispetto delle regole di mercato. Anche a costo dell’insolvenza e della possibile liquidazione dell’azienda.

E’ tutto ciò che rende problematica l’annunciata, e ormai prossima, collaborazione tra Merkel e liberali nel futuro governo nero-giallo. Westerwelle - che ieri ai festeggiamenti è arrivato non a caso con il suo maestro Hans Dietrich Genscher, ministro liberale degli Esteri con Helmut Kohl - ha vinto le elezioni, oltre che per abilità personale e capacità di comunicazione, sfoggiate in tutta la campagna, su un classico programma liberista. Meno tasse, alzare la soglia di reddito per l’esenzione totale dal fisco a ottomila euro. Stipendi al lordo, il più possibile vicini al netto. Più merito e meno salario minimo (una bandiera che la Spd si vantava di aver piantato sulla schiena della Cancelliera). Drastica riduzione dei sussidi di disoccupazione (se paghiamo la gente per stare a casa, è stato uno dei cavalli di battaglia di Guido, come possiamo chiedere a chi va a lavorare di impegnarsi di più?). E poi, ancora: scuole più dure, più formative, più legate a criteri di selezione, con un aumento degli investimenti statali per istruzione e ricerca fino al 10% del pil (oggi sono al tre). Insomma, un programma molto tagliato e molto connotato, sulla base del quale Westerwelle ha offerto a Merkel un’alleanza di governo esclusiva e una maggioranza delimitata, chiusa cioè ad altre possibili intese, come appunto con i Verdi. Se Angela, per usare un’antica metafora di Fanfani, pensava di diluire il vino di Guido, troppo forte, con l’acqua fresca degli ecologisti, quest’opzione è esclusa in partenza. E d’altra parte non si vede come potrebbero democristiani e liberali, che hanno in comune la posizione a favore del mantenimento delle centrali nucleari almeno fino a che la ricerca sulle energie alternative darà risultati concreti (cioè, per un lasso di tempo indefinito), accordarsi con i Verdi, che già al tempo della loro alleanza con Schroeder sottoscrissero con la Spd un accordo per la progressiva chiusura delle diciassette centrali tedesche ancora attive entro il 2021.

L’identità del nuovo governo è dunque ancora tutta da definire. E’ chiaro solo che dovrà essere molto diversa da quella della Grande Coalizione appena bocciata. Anche se una svolta liberista potrebbe rendere per la Merkel più complicata del previsto la gestione di un autunno che s’annuncia assai caldo, per l’esaurirsi degli effetti dei provvedimenti anticrisi (a cominciare dalla settimana cortissima, grazie alla quale sono stati evitati migliaia di licenziamenti) e per le probabili reazioni delle aziende a una mancata, benché annunciata, ripresa economica. In questo quadro si giocherà anche il nuovo ruolo della sinistra tedesca, che torna tutta insieme all’opposizione, e ci torna con rapporti di forza assai mutati al suo interno.

Socialdemocratici e sinistra radicale, insieme, fanno oggi molto meno dei voti che al momento della sua vittoria nel 1998 faceva da sola la Spd guidata da Schroeder. Dietro la calma ostentata ieri nelle dichiarazioni ufficiali, che parlavano di amara sconfitta, Steinmeier e Muentefering sanno di aver portato a casa il peggior risultato della storia del loro partito, mentre Lafontaine e Gysi festeggiano quello migliore della Linke. Quasi due milioni di elettori socialdemocratici si sono astenuti. Più di un altro milione si sono spostati sulla Linke. Un’alleanza tra le due sinistre, che fin qui l’avevano esclusa, sarebbe stata comprensibile, e in qualche modo auspicabile, con una Spd battuta, sì, ma ancora forte, e una Linke contenuta nel dieci per cento, più o meno la percentuale che tocca a tutte le opposizioni radicali in Europa.

Con questi numeri sarebbe stato realistico il progetto di un’evoluzione di tutta la sinistra nel suo complesso, guidata dalla parte riformista, e accompagnata da una trasformazione di quella estrema, nel quadro di una collaborazione che già esiste, tra i due tronconi, in molte amministrazioni locali, a cominciare da quella di Berlino. Ma al contrario, ora diventano concreti, da una parte, il rischio di un inseguimento gridaiolo, sull’onda dell’inasprimento della situazione sociale e delle proteste che hanno fatto crescere la Linke, e dall’altra gli effetti imprevedibili della «Ostalgie», il sentimento irrazionale di rimpianto che s’affaccia, e ha fatto sentire il suo peso, nelle urne, nel territorio e nelle pieghe della ex-Germania comunista.

Tutto è più chiaro, così, tutto è più scandito, dopo quattro anni in cui, all’interno della Grande Coalizione, le cose tendevano troppo a mescolarsi. Ma detto questo, non è affatto sicuro che la Germania, da ieri, sia diventata più stabile.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Oltre ogni limite
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2009, 11:47:48 am
8/10/2009

Oltre ogni limite
   
MARCELLO SORGI


Silvio Berlusconi ha pieno diritto di annunciare che andrà avanti, anche dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il lodo Alfano e aperto la strada alla ripresa dei processi penali che lo vedono imputato. Quel che invece non può dire, come ha detto ieri, purtroppo, a caldo dopo la sentenza, è che la Corte ha deciso così «perché è di sinistra» e fa parte di uno schieramento che vuole soggiogare il Paese.

In questa che definisce «una minoranza», composta, sono parole sue, dal «settantadue per cento della stampa» e dai «comici che prendono in giro il governo», Berlusconi ha incredibilmente inserito il Capo dello Stato: alzando così a un livello insopportabile lo scontro istituzionale, e dimenticando che Napolitano aveva firmato il testo del ministro di Giustizia Alfano, proprio in base al verdetto con cui la Consulta aveva chiesto prima una serie di aggiustamenti per il precedente lodo Schifani.

Stavolta invece la Corte ha scelto una via più chiara: cassata la legge ordinaria, contingente e rappezzata sul testo del vecchio lodo, già sottoposto del resto a questione di costituzionalità, è come se avesse suggerito di ricorrere a una nuova legge costituzionale, per eliminare alla radice i problemi fin qui rivelatisi insolubili. Per un governo che poggia su una larga maggioranza, vanta una forte capacità «di fare» e nell’altra legislatura in cui era stato al potere era riuscito a cambiare quasi metà della Costituzione, non dovrebbe essere difficile, in tempi ragionevoli, realizzare un simile obiettivo. Né temibile affrontare il referendum confermativo previsto dall’articolo 138, che seguirà. Un referendum, è vero, che fu negativo per le riforme costituzionali introdotte dal centrodestra tra il 2001 e il 2006, ma stavolta si risolverebbe in un plebiscito su Berlusconi. E come tale potrebbe contare sul favore popolare, che ogni giorno il premier misura nei sondaggi e non si stanca di ricordare.

Anche senza conoscere le motivazioni di principio della Corte, si può provare a ragionare su alcuni dati concreti, che probabilmente non saranno stati estranei al ragionamento dei giudici della Consulta. Benché convinto di essere vittima di una persecuzione, Berlusconi infatti è arrivato a governare con fino ad 11 processi pendenti sulla sua testa. Ha sopportato condanne poi trasformatesi in assoluzioni, s’è salvato talvolta con le prescrizioni. E tutto ciò non gli ha impedito di vincere o perdere le elezioni, e tornare per la terza volta a Palazzo Chigi, a prescindere dalla pressione giudiziaria che si addensava su di lui, e in qualche caso avvalendosene anche come strumento di propaganda. Anche adesso, per spiacevole che sia visto il tenore delle accuse, quello che lo attende a Milano non è un patibolo. È un normale procedimento, che sarà celebrato da un collegio diverso da quello che ha posto la questione di costituzionalità ed andrà incontro a un termine di prescrizione nel febbraio del prossimo anno.

Inoltre, a riproporre in Parlamento la questione dell’immunità in generale, e non solo di quella che lo interessa, il premier potrebbe pure avere qualche sorpresa, se non da tutta, da settori dell’opposizione. L’immunità, si sa, era già prevista dalla Costituzione all’articolo 68. Ma ciò che i nostri Padri costituenti avevano inserito nel testo della Carta, a garanzia della libertà e della sicurezza della politica, fu modificato frettolosamente dai loro successori sull’onda di Tangentopoli e della cosiddetta «rivoluzione italiana».

Da allora in poi, e sono sedici anni, l’equilibrio tra i poteri (governo, Parlamento, magistratura) è cambiato. Si è passati dalla protezione assoluta di cui (grazie anche a frequenti amnistie che si concedevano) godevano parlamentari e uomini di governo nella Prima Repubblica, ad una minima, spesso insignificante, di cui i politici debbono oggi vergognarsi e alla quale si risolvono a rinunciare frequentemente, sotto la spinta di una gogna pubblica senza regole o limiti.

Non è un mistero che una situazione del genere non comprenda il solo Berlusconi, né il suo schieramento in particolare e neppure solo i parlamentari. Piuttosto, ormai, l’insieme della politica nel suo complesso, in un sistema in cui moltissimi, eletti o no, cittadini semplici o eccellenti, sono accusati, inquisiti, intercettati, ma si dimettono, o non si dimettono, dai loro incarichi pubblici, in pratica solo quando gli va, e sempre indipendentemente da processi, condanne e assoluzioni. Problemi come questi, non a caso, hanno riguardato in passato, tra gli altri, anche Prodi e D’Alema. Che hanno reagito con una diversa varietà di reazioni, ma con più rispetto per la magistratura e senza fare casi personali.

Certo era troppo aspettarsi che la Corte Costituzionale, occupandosi del caso dell’imputato pubblico numero uno Silvio Berlusconi, affrontasse anche una questione che la politica, fin qui, nei lunghi anni della transizione italiana, ha provato inutilmente a risolvere, e di fronte alla quale forse s’è arresa. Ma non c’è dubbio che il problema rimane.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. D'Alema gioca d'anticipo e lancia l'antiberlusconismo per ...
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2009, 10:24:48 am
11/10/2009

D'Alema gioca d'anticipo e lancia l'antiberlusconismo per le primarie
   
MARCELLO SORGI


Dalla togliattiana svolta di Salerno del 1944, che servì a riconoscere la legittimità della monarchia e del governo Badoglio, il Pci, Pds, Ds e ora Pd, ci ha abituato a repentini cambi di rotta, brusche accostate e improvvise virate. Per questo, non può stupire l’intervista al Riformista con cui ieri Massimo D’Alema, il «líder Máximo» che tra l’altro vanta grande esperienza marinara, ha chiesto le dimissioni di Berlusconi, a soli tre giorni dalle prime reazioni del suo partito alla sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano, mirate a dire che il presidente del Consiglio poteva e doveva andare avanti, purché tornasse a mostrare il rispetto dovuto al Capo dello Stato, e si rassegnasse ad affrontare i processi penali che lo aspettano, senza attaccare la magistratura.

Ieri invece, alla vigilia della Convenzione democratica di oggi, che dovrà prendere atto dei risultati precongressuali favorevoli al cambio di segreteria a favore di Pierluigi Bersani, e nello stesso indire le primarie in cui il segretario uscente Dario Franceschini proverà a prendersi la rivincita, D’Alema se n’è uscito con un attacco frontale al premier e al suo partito. Ha ricordato che «Berlusconi non è perseguito per reati politici o perché è un leader politico», ma «per reati comuni». Ha aggiunto che «in un Paese democratico un leader che si trova in queste condizioni viene sostituito». E ha concluso che se questo non avviene è perché «il partito di Berlusconi è “suo” in senso proprietario».

Posizioni durissime, eppure logiche, in bocca a uno dei maggiori esponenti dell’opposizione. Ma non si capisce perché soltanto martedì pomeriggio, i dirigenti del Pd, uno dopo l’altro, si alternassero ai microfoni dei telegiornali, per concedere a Berlusconi, pur tornato ad essere un normale inquisito, di andare avanti.

La spiegazione di questo cambio di linea è legata agli sviluppi della situazione interna del Pd. D’Alema, e come lui Franceschini, Fassino e tutti gli altri che hanno preso la parola dopo la sentenza della Consulta, sanno benissimo che Berlusconi non si dimetterà certo perché glielo chiede il Pd. Ed è per questo che, accortamente, hanno evitato di chiederglielo martedì. Un ragionamento del genere, ancorché non condivisibile fino in fondo, è abbastanza comprensibile per iscritti e militanti del Pd, tutti più o meno professionisti della politica, che ne conoscono i limiti e le arguzie necessarie.

Ma i dirigenti del Pd, divisi in tre squadre diverse, che si fronteggeranno tra poco nella votazione finale, sanno anche bene che, un conto sono i militanti, e un altro il «popolo delle primarie». Un «popolo» molto più radicalmente ed esplicitamente antiberlusconiano, che voterà, il prossimo 25 ottobre, insieme con la testa e con la pancia, misurando la credibilità dei candidati quasi soltanto dal tasso di odio che saranno in grado di esprimere contro il Cavaliere.

Ecco perché, oggi, alla Convenzione democratica, tre candidati assai diversi tra loro, come Bersani, Franceschini e Marino, daranno vita a una nobile gara di antiberlusconismo, tutta rivolta al popolo di elettori e simpatizzanti che tra due settimane entrerà nei gazebo delle primarie. E perché, intuendo tutto questo, D’Alema, che conosce i suoi polli, s’è schierato prima del tempo.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. E' finita l'era delle leggi ad personam
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2009, 10:10:25 am
17/10/2009

E' finita l'era delle leggi ad personam
   
MARCELLO SORGI


Le schermaglie iniziali, che hanno accompagnato ieri il ritorno in scena della Grande Riforma, non devono trarre in inganno. Silvio Berlusconi non ha «preso un pugno in faccia» dall'opposizione, come pure ha lamentato. E se avesse adoperato un linguaggio più attento, vista la delicatezza della materia, invece dei soliti attacchi ai «Pm rossi», forse qualcuno dei «no» iniziali che ha ricevuto si sarebbe trasformato in un «ni». Anche perché, era forse troppo in questo momento aspettarsi una risposta chiara dal Pd, il partito a cui era principalmente rivolta la proposta del premier di riaprire il dialogo sui cambiamenti della Costituzione. Tutto sarà più chiaro da domenica 25, quando il nome del leader dei Democratici uscirà dalle urne delle primarie.

Ma anche prima, una valutazione sommaria della svolta si può fare. Se Berlusconi s'è risolto a tornare sul cammino impervio delle riforme costituzionali, vuol dire che i suoi alleati gli hanno fatto capire che non è più tempo di «leggi ad personam». Pur vituperata, ancora una volta, dal Cavaliere, la Corte Costituzionale, con la sentenza sul lodo Alfano, ha chiuso l'epoca delle scorciatoie tramite cui Berlusconi tentava di sottrarsi ai suoi giudici.

E questo non è male. Ora, sul piano politico, il premier potrà contare su una solidarietà piena del centrodestra. Tranne Di Pietro, nessuno o quasi dall'opposizione gli chiederà di dimettersi. Ma dovrà rassegnarsi ad affrontare i processi.

Quanto alla possibilità che, dopo tutti i fallimenti del passato, la Grande Riforma stavolta arrivi al traguardo, le probabilità - va detto - non sono molte, ma vale sempre la pena tentare. E' stato il presidente Napolitano, commemorando Norberto Bobbio a Torino, a dire che «essere fedeli alla Costituzione, non vuol dire considerarla intoccabile». Ed anche se Berlusconi, nel riproporre le riforme, ha usato un tono sbagliato, badando più alla sostanza che gli interessa, e meno al metodo «costituzionale», Fini, autorevolmente, e Calderoli sulla base della sua diretta esperienza, hanno cercato di convincere l'opposizione che si tratta di un'offerta seria.

A questo punto c'è insomma la possibilità di tornare a discutere, e a votare, se si trova l'accordo, con una maggioranza più ampia di quella che sorregge il governo, una serie di riforme condivise. A cominciare dalla riduzione del numero dei parlamentari, dalla differenziazione delle funzioni tra Camera e Senato e dal riequilibrio dei poteri tra governo e Parlamento: temi su cui inaspettatamente, da diverse parti e in diverse occasioni, sono piovuti consensi imprevisti, sui quali si potrebbe tentare di costruire convergenze, com'è già avvenuto nell'attuale legislatura in materia di federalismo fiscale.

Fatto questo - e si tratta già di un pacchetto molto importante - si dovrebbe mettere mano alla riforma della giustizia: inutile nasconderlo, è un terreno minato su cui governi di centrodestra e di centrosinistra sono già saltati per aria o hanno dovuto rassegnarsi a riforme minime, talvolta sbagliate, se non inutili.

Il paradosso è che nei due campi, a destra e a sinistra, esistono due partiti riformatori trasversali, che per il solo fatto di essere stati battuti in passato dagli opposti partiti dei giudici, si prenderebbero volentieri una rivincita. Ma proprio adesso, con Berlusconi di nuovo sotto processo, e un pezzo di opinione pubblica schierata col pezzo di magistratura che si dichiara minacciata, è assai difficile per l'opposizione - pur convinta, come ha detto ieri la capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro, che la giustizia non funzioni -, dare una mano a risolvere il problema. Sul resto, invece, è legittimo aspettarsi sorprese, perché il Pd, superate le angosce congressuali, non ha interesse a lasciare la palma del cambiamento solo in mano al centrodestra.

Ciò significa che dopo tante speranze e tante terribili delusioni, sta finalmente arrivando il momento buono per la Grande Riforma? Davvero è presto per dirlo. E ripensando a come affondò la Bicamerale, non si può che essere prudenti. Su molte delle novità da introdurre, compreso il presidenzialismo, che oggi appare un tabù, dodici anni fa era stato trovato un accordo che franò proprio sulla giustizia, quando Berlusconi si accorse che non avrebbe incassato il ridimensionamento delle procure a cui già allora aspirava.

Tutto sembrava fatto - e poi a sorpresa tutto finì - quando, davanti alla famosa crostata di casa Letta, il Cavaliere e D'Alema si strinsero la mano. Ma se tre giorni fa se la sono stretta di nuovo, una ragione dev'esserci.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il solito copione
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2009, 10:29:35 am
22/10/2009

Il solito copione
   
MARCELLO SORGI


Da Milano a Napoli - sì, di nuovo Napoli, ma senza dimenticare Bari, l’Abruzzo e la Calabria -, la grande Idra continua a divorare se stessa, e l’ondata di scandali nati dall’intreccio tra amministrazioni e imprenditorie locali non accenna a fermarsi. Dalla prima inchiesta campana, che rivelò l’anno scorso una sorta di svolta manageriale nella corruzione - con cervelli e snodi ormai fuori dei partiti, soggetti a meccanismi perfezionati e lontani da qualsiasi logica politica -, il sistema pare ormai essersi diffuso dappertutto, al Nord al Centro e al Sud, con caratteristiche simili e funzionamento purtroppo collaudato. Siamo in pratica a una «napoletanizzazione» dell’Italia: ovunque i filoni del malaffare sono la sanità e la gestione ecologica (si fa per dire) dei rifiuti, ma è soprattutto nel primo, che muove localmente masse di danaro superiori a quelle amministrate direttamente dal governo nazionale, che la malversazione si fa industria.

C’è ormai una specie di copione che prevede come protagonista un imprenditore ricco o arricchito, che è insieme appaltatore e appaltante, cioè partecipa alle gare ed è in grado di determinare la composizione della commissione che ne deciderà le sorti, e a seguire, ovviamente, la scelta di dirigenti e funzionari chiamati a realizzare i progetti, i necessari pacchetti di assunzioni, gli acquisti di macchinari, le verifiche, i collaudi e tutto quel che ci vuole.

Che poi, com’è successo in Campania, un singolo filone d’inchiesta riveli che un partito, o un ex partito che ha la sua roccaforte in un’area ristretta, come quello di Mastella, possa tenere sotto controllo nel suo territorio un intero settore ospedaliero - dal meccanismo clientelare delle assunzioni, alle promozioni di complici e comprimari, alle rimozioni di quelli che non ci stanno -, conferma, anziché smentire, la mutazione genetica che la macchina della corruzione ha subito in periferia. Dietro gli elenchi di «segnalatori» e «segnalati», di minacce mirate a far mollare i dipendenti onesti, di valutazioni e ordinazioni mutevoli secondo convenienza, e non secondo necessità, non c’è più il deprecato metodo della lottizzazione, su cui il potere a qualsiasi livello s’era retto per decenni. Non c’è neppure logica, né equilibrio, né altra regola che non quella della prepotenza e del profitto illegale, di cui è perfino intuibile che solo una minima parte è destinata alle necessità della politica.

Solo così si spiega come accanto al nome del maggiore fruitore politico (o «utilizzatore finale», per usare una definizione più recente), oggi Mastella, domani chissà chi, tracce grandi e piccole di benefici indirizzati ad altri leader, o ministri, o assessori, assicurino il pieno coinvolgimento di tutti o quasi tutti, destra e sinistra, maggioranza e opposizione, esponenti locali e nazionali. Come appunto a Bari, dove l’imprenditore Tarantini avviluppa nelle sue spire prima la giunta regionale di centrosinistra e poi, nientemeno, il presidente del Consiglio e leader del centrodestra. O a Napoli, dove si comincia con gli assessori della Iervolino e si finisce con Mastella, i Verdi, alcuni stretti collaboratori di Bassolino, i vertici dell’ex Forza Italia in cui è in corso da tempo una resa dei conti interna, e perfino il figlio di Di Pietro. O ancora a Milano, dove l’imprenditore che ha in mano il sistema può permettersi il lusso di gestire (e incastrare!) il potente capo della segreteria del ministro Bondi, semplicemente mettendogli tra le mani le chiavi di una Porsche.

Quel che invece si capisce meno, a questo punto, è come possa la politica - il governo soprattutto, ma anche qualche settore dell’opposizione - avviarsi al rinnovo di gran parte delle amministrazioni locali previsto in primavera mettendo in cantiere, nel contempo, una riforma della giustizia che per il momento in cui viene proposta, prima ancora che per i contenuti, s’annuncia assai intempestiva. Che la macchina giudiziaria non funzioni e necessiti di un cambiamento, e che il protagonismo di certi procuratori sia intollerabile, non c’è dubbio. Ma è davvero incomprensibile che invece di prendersela con gli imprenditori, o sedicenti tali, che li hanno espropriati, appaltandosi in nome di interessi esclusivi gran parte del loro potere, i politici, anche in questo momento, pensino a regolare i conti con i magistrati. La politica, prima della giustizia, dovrebbe pensare urgentemente a riformare se stessa.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Tra i due litiganti il terzo gode
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2009, 08:20:12 am
28/10/2009

Tra i due litiganti il terzo gode
   
MARCELLO SORGI


Preceduta da una nuova visita ad Arcore (la seconda in tre giorni) di Bossi a Berlusconi, la soluzione, si fa per dire, della lite in famiglia tra il premier e Tremonti ha svelato il vero ruolo del leader leghista nel centrodestra. Più che mediatore tra le due personalità più forti del Pdl, Bossi infatti è apparso nei panni dell’incantatore. Azionando meccanicamente, e alternativamente, uno verso l'altro, il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia, il Senatur è riuscito a ottenere quel che voleva e ad evitare ciò che non voleva, mentre i due, dopo lo scontro, hanno dovuto rinunciare a gran parte delle loro reciproche pretese.

Berlusconi puntava al taglio dell’Irap, la tassa più invisa agli imprenditori, ma ha dovuto rassegnarsi a rinviarlo. Quanto a Tremonti, che mirava alla promozione a vicepresidente del Consiglio e alla competenza esclusiva sulla politica economica del governo, ha finito con l’accontentarsi di un incarico di partito. In un partito, per di più, in cui l’unico ruolo che conta veramente è quello del Cavaliere. Bossi invece ha centrato in pieno gli obiettivi che si era assegnato in questa partita. Ha portato a casa la candidatura leghista per il futuro governatore del Veneto, e un’analoga promessa per il Piemonte. Ora, che Berlusconi e Tremonti non si rendano conto di essere stati giocati dal loro alleato, non è proprio credibile. Il Senatur è abile, ha sempre la battuta pronta, come quando ha detto di Marrazzo che il suo è «un peccato di pantalone», ma anche il premier e il ministro non sono degli sprovveduti.

È possibile, ad esempio, che Tremonti - sentendosi stretto a causa delle polemiche snocciolate da mezzo governo e mezzo Pdl nei suoi confronti, per la politica di rigore su cui è imperniata la finanziaria, che lo porta a scontentare tutte le richieste di spesa avanzate dai ministri -, si sia messo d’accordo con il suo amico Bossi per mettere in scena il drammone in cui venivano perfino ventilate le sue dimissioni.

Sembra quasi di vederli, i due: andiamo da Berlusconi e gli diciamo che questa storia dei soldi al Sud deve finire una volta e per tutte, altrimenti mi dimetto! No, diciamogli che deve nominarti vicepresidente con la delega per l’economia, così nessun ministro si potrà più permettere di insolentirti. E se Berlusconi non ci sta? Se non ci sta, vediamo dove possiamo arrivare.

Magari è fantapolitica, magari no. Se davvero fosse andata così, si sarebbe trattato di una tattica furba per tirar fuori dall’angolo in cui si trovava il ministro dell’Economia. Ma mentre è sicuro, tra le pieghe della trattativa, che Bossi sia riuscito a mettersi in tasca quel che gli serviva, resta da capire cosa ci avrebbe guadagnato Tremonti. Che tra l’altro, da domani o al massimo da dopodomani, tornerà nel mirino dei suoi avversari interni al centrodestra.

E se invece fossero stati Berlusconi e Bossi ad accordarsi sottobanco, per riportare all’ordine il ministro dell’Economia che faceva le bizze? Anche questa non è da escludere, si può perfino immaginare come sia andata. Pare proprio di sentirli: Umberto, spiegalo tu a Giulio che non può comportarsi come se a comandare fosse lui. Io ho bisogno del taglio dell’Irap perché ho preso un impegno con gli elettori. Silvio, cercherò di parlargli, ma se i soldi non ci sono non c’è niente da fare. E poi lo sai che da tempo Tremonti si aspetta una promozione. Non se ne parla proprio, ci mancherebbe! E va bene, Silvio, proverò a convincere Giulio ad aspettare ancora. Ma sul resto, promettimi, devi venirgli incontro.

Se davvero fosse andata così, si sarebbe trattato di un escamotage per riaprire il dialogo ormai chiuso tra il premier e il suo ministro più importante. E tuttavia anche in questo caso, mentre è chiara la convenienza di Bossi, non si vede quale sarebbe stato il vantaggio di Berlusconi a firmare una tregua abborracciata, che lo costringe all’immobilismo.

Così alla fine la cosa più probabile è che entrambi, Berlusconi e Tremonti, si siano accordati con Bossi. O abbiano tentato di farlo, credendo di esserci riusciti. Senza accorgersi, anche stavolta, di essersi fatti incantare dall’incantatore.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Berlusconi da solo nell'arena
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2009, 11:49:10 am
13/11/2009

Berlusconi da solo nell'arena
   
MARCELLO SORGI


La partenza - anzi, la falsa partenza - del disegno di legge sul processo breve in Senato, non lascia presagire niente di buono.
Se doveva essere il modo per rimettere il governo in carreggiata, la maggioranza d’accordo e l’opposizione in condizione di riaprire un confronto non pregiudiziale, non ci siamo. Dentro e fuori il Parlamento, la situazione è diventata mefitica.

Visto il testo presentato a Palazzo Madama, con un punto non concordato, e molto probabilmente richiesto dalla Lega (l’inclusione dell’immigrazione clandestina tra i reati di grave allarme sociale, come mafia e terrorismo), Gianfranco Fini, per bocca della presidente della commissione giustizia della Camera Giulia Buongiorno, ha reso noto il suo alt. L’opposizione, per mano della presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro, ha sprezzantemente gettato per aria lo stampato del provvedimento, definito «devastante», intanto, dal sindacato dei magistrati Anm.

Di Pietro ha addirittura annunciato un referendum, prima ancora che sia approvata la legge. Il cui iter, a discussione non ancora cominciata, si annuncia già assai tormentato.

Berlusconi avrà pure avuto le sue ragioni, o forse non avrà avuto alternative - dopo la sentenza della Corte Costituzionale che annullando il lodo Alfano lo aveva privato dello scudo per i processi -, ma certo la decisione di trovare comunque un espediente per proteggersi, in attesa di una riforma complessiva, mirata al riequilibrio dei rapporti tra potere politico e giudiziario, si sta rivelando molto rischiosa. Non è una sfida e neppure una scommessa: la posta in gioco, in altre parole, non è la caduta di un governo che al momento non ha alternative. Ma il braccio di ferro interno alla maggioranza in sé e per sé. E questo gioco è diventato così logorante da portare al limite la tenuta del sistema.

L’immagine che viene in mente, guardando a quel che sta accadendo, è quella di una corrida. Al centro dell’arena c’è il toro - Berlusconi - che naturalmente non ha alcuna intenzione di farsi «matare». Tutt’attorno, una folla di «bandoleros» di ogni contrada, categoria e colore, che lo tormentano, e cercano di fiaccarlo, attaccandogli alla schiena le «banderillas». Nervoso, sofferente, con le narici che schiumano rabbia, il toro si aggira correndo, in attesa del torero che cercherà di «matarlo», sempre che lui non riesca a incornarlo. Il pubblico, sugli spalti, fa la «ola», con la ferocia dei momenti crudeli. Ma - ecco la sorpresa! - mentre tutti lo aspettano, il torero non spunta. E la corrida, non potendo cominciare, non si sa proprio come andrà a finire.

Non è neppure fondamentale conoscere il destino del provvedimento, che ha rivelato fin da subito limiti enormi e possibili conseguenze disastrose in termini di cancellazione di processi molto importanti. Tanto, alla fine, dopo un percorso estenuante, diventerà legge. Basta solo paragonare la velocità e l’assenza di discussioni con cui fu approvato il «lodo Alfano» all’inizio della legislatura, con l’attuale, faticoso, «stop and go» di trattative preliminari - vertici, premesse e conclusioni, firme, cancellature e ripensamenti -, che hanno accompagnato la fase preparatoria.

Per varare il «processo breve», se è davvero questo che vogliono, la stanno facendo fin troppo lunga. E se nel centrodestra, malgrado la marea montante, continuano a prendere tempo, una ragione ci deve pur essere. Che si aspettassero un’accoglienza diversa da parte dell’opposizione, o maggior collaborazione da parte della magistratura, è impensabile. Così come era imprevedibile - ancorché qualcuno ci avesse sperato - che Berlusconi, sconfitto dalla sentenza della Consulta, si rassegnasse a farsi processare dai giudici che tutti i giorni definisce «toghe rosse».

Le difficoltà di questi giorni si spiegano in un altro modo: anche se è duro ammetterlo, lo scudo antiprocessi per il premier era parte vincolante del patto di maggioranza del centrodestra: diversamente non sarebbe stato il primo punto all’ordine del giorno della legislatura alle Camere e una delle prime leggi approvate. Da allora ad oggi, è evidente, il clima è mutato. Gli oppositori interni del centrodestra potrebbero avere molte buone ragioni per non rinnovare quel patto, o almeno per imporne un rinnovo non automatico. Ma per non fare solo i «bandoleros» della corrida che ha paralizzato il governo, dovrebbero dirlo chiaramente. Insomma se il torero non si trova, e se il toro resta in campo, una via d’uscita va individuata. Che Berlusconi torni a governare, come può e finché può, potrebbe essere il male minore.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Ma il vero bersaglio è un altro
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2009, 10:07:45 am
18/11/2009
 
Ma il vero bersaglio è un altro
 
MARCELLO SORGI
 
La crisi del centrodestra, che si trascinava da settimane, da ieri s’è di molto aggravata. Da politica che era, è diventata istituzionale, con il presidente del Senato che invoca le elezioni anticipate come antidoto al logoramento della maggioranza, e accusa, pur senza nominarlo, il presidente della Camera, di essere responsabile di questo stesso logoramento, che impedisce al governo di rispettare gli impegni assunti con gli elettori.

Stavolta l’abituale soavità del senatore Schifani non è bastata ad addolcire la sostanza, durissima, del suo intervento, e la sorpresa generale con cui è stato accolto. Infatti, anche se come tutto finisce di tanto in tanto nel frullatore del dibattito politico quotidiano, la materia dello scioglimento delle Camere è di stretta competenza del Capo dello Stato ed è solitamente tabù per i presidenti delle Assemblee.

Ai quali tocca semmai maggiore prudenza, legata alla necessità di rappresentare la volontà di tutti i parlamentari, e non solo delle maggioranze che li hanno eletti, quando il momento di decidere la fine della legislatura si presenta veramente. La Costituzione (articolo 88) stabilisce che il Presidente della Repubblica decreti lo scioglimento, «sentiti i presidenti delle Camere»: ed è ovvio che il loro convincimento vada espresso solo tra i muri del Quirinale...

Ecco perché l’iniziativa di Schifani, oltre a costituire una novità assoluta, è del tutto irrituale. Che negli ultimi anni, e nell’epoca del maggioritario, i ruoli dei presidenti delle Camere abbiano subito una drastica trasformazione, non ci sono dubbi. E altrettanto, che Fini abbia spesso esorbitato, muovendosi in modo assai personale e non riuscendo a spogliarsi del suo abito di leader politico, come avrebbe richiesto il fatto di ricoprire la terza carica dello Stato. Ma proprio per questo, ci si sarebbe aspettato dalla seconda carica un di più di compostezza, di riservatezza istituzionale, di silenzio, da contrapporre al confuso vociare in cui il presidente della Camera s’era fatto risucchiare.

Non c’è neppure bisogno di ricordare che, sebbene formalmente sullo stesso piano, il presidente del Senato siede in realtà su un gradino un filino più alto del suo dirimpettaio di Montecitorio. E’ a lui, infatti, che tocca il delicato compito di supplenza in caso di assenza o di impedimento del Capo dello Stato. Ed è ancora a lui - anche se non c’è nulla che lo imponga - che il Quirinale si rivolge per primo in caso di crisi, se si richiede un mandato esplorativo o un ulteriore tentativo di chiarimento. Inoltre, non è dato al presidente del Senato (e neppure a quello della Camera per la verità) esprimere valutazioni politiche che non derivino da dirette e formali constatazioni dell’andamento dei lavori parlamentari.

E insomma, quando Schifani parla di mancanza di compattezza della maggioranza, viene da chiedersi in base a cosa lo faccia, dal momento che in Senato il governo ha potuto fin qui procedere abbastanza tranquillamente, superando difficoltà e incognite che si presentano normalmente nella vita parlamentare, e portando lo stesso presidente a esprimere, anche di recente, il proprio compiacimento.

Schifani, poi, s’è dichiarato insoddisfatto della scarsa produttività di riforme da parte del Parlamento. Ma non è in Senato che per la prima volta s’è verificata la convergenza tra maggioranza e opposizione sul federalismo fiscale? E non è il Senato che è stato scelto, dopo la caduta del lodo Alfano - nell’ora più difficile dei rapporti tra politica e giustizia, e tra governo e magistratura -, per avviare il percorso del disegno di legge sul «processo breve»?

Davvero non si capisce cosa abbia spinto Schifani a un così brusco cambio di rotta. Stando a voci mediocri che circolavano nei corridoi parlamentari, l’uscita della seconda carica dello Stato sarebbe dovuta a un diktat di Berlusconi: che tace, non potendo parlare in prima persona, per non certificare la dissoluzione della sua maggioranza. Insinuazioni che hanno dell’incredibile, conoscendo il geloso attaccamento del presidente del Senato alla propria autonomia.

No, c’è da scommetterci: dietro Schifani c’è solo Schifani. E se ha deciso di rompere la corteccia istituzionale che lo ha vincolato finora, e compiere un gesto così grave, non è stato certo solo per lanciare un avvertimento al suo irrequieto vicino di Montecitorio. C’è dell’altro e c’è di più: rompendo il riserbo sulle elezioni anticipate, Schifani ha alzato la mira su Napolitano.
 
da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il sasso in bocca
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2009, 09:08:28 am
21/11/2009

Il sasso in bocca
   
MARCELLO SORGI


Un antico e terribile rituale mafioso voleva che per far tacere chi aveva cominciato a parlare - tradendo il dovere del silenzio che è alla base del patto omertoso -, oltre a ucciderlo, lo si doveva lasciare con un sasso in bocca: segno insieme di vendetta e di monito, per altri che, sciogliendo la loro lingua, avrebbero saputo a cosa andavano incontro. Qualcosa del genere è accaduto ieri, nella Roma politica e terminale dell’autunno 2009, al transessuale Brenda. Dopo due mesi di illuminazione mediatica dovuta al suo coinvolgimento nel «caso Marrazzo», dopo una strana rapina ad opera di un gruppo di romeni, parte in fuga con il suo telefonino, parte menati da altri trans e finiti in ospedale, Brenda è stata soffocata in uno scantinato di via Due Ponti, un quartiere periferico di nuova prostituzione, frequentato non soltanto dall’ex governatore del Lazio, e non da soli politici, ovviamente. Il sasso in bocca, nel caso di Brenda, erano le memorie elettroniche del cellulare e del suo computer, annegato nel lavandino del miniappartamento dato alle fiamme, che non potranno più parlare. Dei tre trans entrati in scena dopo l’esplosione del «caso Marrazzo», Natalie, la più affezionata, era quella che aveva messo in guardia l’ex governatore dal pericolo dello scandalo.

Michelle, che con Brenda lo aveva incontrato due volte, era già scappata a Parigi, sentendo brutta aria. Brenda, la terza, era quella che più esplicitamente aveva detto che nel giro di prostituzione brasiliano, Marrazzo era solo uno dei più assidui, tra i politici frequentatori. S’era anche divertita a fare qualche allusione, accennando a un fantomatico «Chiappe d’oro», dietro il cui soprannome, nientemeno, si sarebbe celato un ministro. Così, senza accorgersene, o forse essendosene accorta troppo tardi, Brenda aveva firmato la sua condanna a morte. Ora qualcuno dice - e moltissimi pensano - che i mandanti dell’assassinio di Brenda siano da ricercare proprio tra quei politici che, nel timore di essere scoperti e fare la fine dell’ex governatore, avrebbero fatto di tutto, perfino armato la mano dei killer, pur di chiuderle la bocca. E’ possibile, diranno le indagini se questa è un’ipotesi da approfondire. Così come è probabile che Brenda sia stata fatta tacere, non per quel che aveva detto o si preparava a dire, ma per aver cominciato a maneggiare di testa sua rivelazioni e sospetti il cui mercato, abilmente orchestrato, doveva servire ad avvelenare la prossima campagna elettorale. Una strana coincidenza vuole che l’assassinio di Brenda coincida con le rivelazioni, a ventisei anni di distanza, sul sequestro di Emanuela Orlandi, e con i ricordi di quest’altra incredibile vicenda romana, sospesa tra il Vaticano e il potere democristiano del tempo, la malavita della Banda della Magliana che ha intanto ispirato un film e una fiction tv, e poi spie, ricatti, servizi deviati e altri tipici ingredienti del lungo crepuscolo della Prima Repubblica.

Lì una povera ragazza di quindici anni di cui i parenti sperano ancora di rivedere il sorriso, qui l’enorme e sgraziato cadavere del trans, a segnare, in epoche così lontane e diverse, i sinistri rintocchi, il rantolo affannoso e il battito spento del cuore della Capitale. Eppure, seppure la storia di Roma è da sempre scandita da scandali e misteri inconfessabili, ci dev’essere una ragione per cui il calendario politico-sessuale di quest’ultimo anno - da Noemi a Brenda - sembra aver segnato il punto di non ritorno. A fare la differenza non è l’assassinio o l’aspetto «noir» del potere, a cavallo tra il Palazzo e la malavita. Il cadavere, infatti, c’era già nello scandalo Montesi di mezzo secolo fa, con la scoperta, sorprendente per i tempi, sulla spiaggia di Capocotta, del corpo nudo di una donna morta dopo un’orgia. Non è il sesso che, in un modo o nell’altro, ha accompagnato la vita politica del Paese, arrivando a lambire il Quirinale degli Anni Cinquanta, e via via Palazzo Chigi, i ministeri, il Parlamento, fino il laticlavio dei senatori a vita. Non sono neppure i trans, ormai entrati con tutti gli onori nella vita pubblica, con una recente, ancorché non duratura, rappresentanza parlamentare, una star del Grande Fratello e gli spot di un nuovo canale satellitare della Rai.

A ben guardare, la diversità sta in questo. I politici del passato - e dei passati scandali -, benché colti a loro volta in un momento di debolezza, restavano fino in fondo politici. La loro vita, le loro giornate e gran parte delle loro nottate erano occupate da riunioni, incontri, attese e da quell’attività, impalpabile, a volte incomprensibile, che attiene al governo della cosa pubblica. Un lavoro che, al dunque, produceva risultati. Magari sbagliati, ma li produceva. I politici di adesso invece sono troppo impegnati a dimostrare che non c’entrano nulla con la politica, che tra l’altro disprezzano. Cosa facciano tutto il giorno - a parte ricoprirsi di insulti in diretta tv - non si capisce. La politica italiana è immobile. A ogni annuncio, segue immancabile la smentita. Le due immagini simbolo dell’«annus horribilis» che sta per finire, sono il grande materassone a tre piazze che entra trionfalmente a Palazzo Grazioli, nella casa romana di Berlusconi, e Marrazzo in mutande, filmato mentre scongiura i suoi carnefici di non rovinarlo.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Economisti e comari
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2009, 10:56:19 am
26/11/2009


Economisti e comari
   
MARCELLO SORGI


La polemica tra i ministri Brunetta e Tremonti - con il primo che accusa il secondo di essere «giurista» e non «economista», e di non aver titoli sufficienti per guidare la politica economica del paese - ricorda quella, storica, che portò ventisette anni fa alla caduta di Spadolini.

Nel novembre 1982 il ministro democristiano del Bilancio Andreatta accusò di «nazional socialismo» il Psi che con Craxi si candidava a Palazzo Chigi. Il ministro socialista delle Finanze Formica reagì duramente. Andreatta rincarò la dose, definendolo «un commercialista di Bari esperto in fallimenti». Formica replicò che Andreatta era «un professore di Cambridge, specializzato in India, che parlava come una comare». Da scherzosa che sembrava, la lite si fece seria, e portò alle dimissioni il primo presidente del Consiglio laico, dopo oltre trent’anni di governi dc.

In comune con quella vecchia storia, anche in questo caso, c’è l’aspetto delle intemperanze personali, frequenti al tavolo del Consiglio dei ministri.

E più calde, in particolare, quando si tratta di definire la dotazione finanziaria dei singoli ministeri. Da settimane il ministro dell’Economia è nel mirino dei suoi colleghi per la sua inflessibile politica di rigore, che lo porta a rifiutare ogni richiesta di spesa avanzata in occasione della legge finanziaria. Compresa, qualche settimana fa, quella di Berlusconi che gli chiedeva di tagliare l’Irap, la tassa più invisa agli imprenditori, e in prospettiva anche l’Irpef. Pur non avendola presa bene, il premier si dev’esser reso conto che lo stato dei nostri conti pubblici non consente eccezioni. E per questo, alla fine, ha difeso Tremonti anche dagli attacchi di Brunetta.

Di suo, il ministro dell’Economia, oltre al caratterino che tutti conoscono, ha un vecchio contenzioso con gli economisti, che accusa sovente di non essere stati in grado di prevedere la crisi finanziaria mondiale e in qualche caso perfino di esserne stati responsabili. Se quello di ieri è dunque solo il secondo tempo di una disputa che si trascina da mesi - al quale, tuttavia, il rimpallo di titoli accademici ha aggiunto un che di ridicolo -, la tesi di Brunetta, secondo cui basterebbe mettere un economista al ministero dell’Economia per risolvere i problemi, francamente non si capisce. A parte il fatto che seguendo questa teoria il primo a trovarsi fuori posto sarebbe lo stesso Brunetta, perché alla Funzione Pubblica, sulla sua poltrona, dovrebbe andare un amministrativista, quello di Berlusconi è tutto fuorché un governo tecnico.

Di governi tecnici, in Italia, in momenti d’emergenza, se n’è avuto più d’uno, anche con discreti risultati. Quando invece, come nel caso dell’attuale esecutivo di centrodestra, è la politica ad assegnare gli incarichi, l’esperienza conta (o dovrebbe contare) più della stretta competenza, e anche un ministro non specializzato nella materia di cui deve occuparsi (non è il caso di Tremonti) può mettere alla prova le sue capacità avvalendosi di consulenti, confrontandosi dentro e fuori il governo e in Parlamento, ascoltando, riflettendo, spiegando, incontrando le categorie interessate dai propri provvedimenti: in altre parole, adoperando l’arte del buon governo.

Tutto ciò - va ricordato - né Brunetta né Tremonti lo fanno sempre. Non a caso la ragione del loro litigio era un’altra.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Cavaliere così esce dall'angolo
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2009, 11:14:34 am
27/11/2009

Il Cavaliere così esce dall'angolo
   
MARCELLO SORGI


Mercoledì, Consulta economica sulla legge finanziaria. Ieri, ufficio di presidenza su giustizia e immigrazione. Giorno dopo giorno, poi, polemiche tra ministri, come quelle di Brunetta e Tremonti, o tra parlamentari (Granata e Cosentino), o tra fondatori (Fini e Berlusconi). Chi vuol capire perché Berlusconi se ne è uscito ieri con un diktat che mette fuori dal Pdl chi non s’adegua alla linea decisa dalla maggioranza, basta solo che scorra le cronache delle ultime settimane.

Non solo le divisioni e gli scontri pubblici. E’ il potere assoluto del leader che sta venendo meno. Parafrasando il titolo di un film, verrebbe da rispondere: è il partito, bellezza! Perché, pure un partito sui generis come quello fondato da Berlusconi, dai e dai, dopo un po’ ha cominciato a funzionare come funzionano da sempre tutti i partiti del mondo: con la direzione, la segreteria, l’ufficio politico, i capigruppo parlamentari e, soprattutto, le correnti, il famoso bilancino delle correnti. In omaggio al quale, se un posto va a un ex Forza Italia, un altro deve per forza andare a un ex An, senza dimenticare alleati e cofondatori minori, Rotondi piuttosto che gli ex radicali o la Santanché. Non sia mai che un giorno l’altro debbano richiamare in servizio l’immortale Cencelli, autore del famoso manuale in base a cui veniva spartito il potere nell’era democristiana.

Quanto ciò possa piacere a Berlusconi si può immaginare: lui che voleva tagliare le tasse, ha dovuto obbedire a Tremonti e acconciarsi al fatto che al momento è impossibile. Lui che il “processo breve” lo farebbe per decreto, deve stare lì a concordare gli emendamenti parola per parola. Lui che a Bossi perdonerebbe tutto, anche le frasi peggiori sugli immigrati, deve invece cercare la quadra sul diritto di cittadinanza per gli extracomunitari.

Certo Berlusconi può consolarsi constatando che, malgrado tutto quello che è capitato negli ultimi mesi a lui, al suo partito e al suo governo, nei sondaggi la sua popolarità non ne risente. Prodi perdeva punti su punti a ogni sospiro di Ferrero o di Mastella, il Cavaliere no. Per la gente, insomma, per il popolo, il capo è sempre Silvio. Lo è, naturalmente, perché il premier fa di tutto per apparire inossidabile. E lo sarà, molto probabilmente, finché è in grado di mantenere i suoi impegni.

Non è detto invece che tutto resterebbe com’è, se l’opinione pubblica di centrodestra dovesse accorgersi a un certo punto che, invece di un fenomeno, ha davanti un capopartito qualsiasi.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il male minore tra due vie d'uscita
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2009, 03:47:57 pm
28/11/2009

Il male minore tra due vie d'uscita
   
MARCELLO SORGI


No, non è un normale intervento da arbitro, quello di ieri del Quirinale. Se il Presidente della Repubblica ha ritenuto di mettere nero su bianco i rischi dello scontro istituzionale tra governo e magistratura, vuol dire che la situazione è ormai al limite. E non solo perché per tutto il giorno, oltre ad alcune dubbiose anticipazioni di stampa, son continuate a circolare voci (smentite solo in serata da Palazzo Chigi) su un avviso di garanzia per Berlusconi, da parte delle procure che indagano sugli attentati mafiosi del 1993. Piuttosto, Napolitano deve essersi convinto che in entrambe le trincee - giudiziaria e politica - la fase dell’ammasso delle munizioni era conclusa, e ci si preparava a far fuoco.

Ora, che a questo stiano pensando i magistrati, non è dato sapere con certezza.

Ma un certo lavorio, dal momento in cui la Corte Costituzionale ha tolto a Berlusconi la protezione del lodo Alfano, è evidente.

Cosa invece sia avvenuto nel campo di Berlusconi, è fin troppo chiaro. Nel giro di pochi giorni, Berlusconi ha ribaltato il quadro che lo vedeva assediato, isolato e inerte. La novità è che lo ha fatto, diversamente da quanto tutti - amici e nemici - si aspettavano, non ribaltando il tavolo, sollevando il popolo del centrodestra, o facendo un’altra mossa a sorpresa, come fu due anni fa il famoso salto sul predellino della Mercedes a Piazza San Babila.

Al contrario, il premier s’è mosso esclusivamente sul terreno della politica, con una serie di passi cadenzati. Primo, lo studiato e paziente silenzio con cui s’è lasciato trafiggere per giorni e giorni da Fini, anche dopo aver stipulato con lui un sofferto accordo sul «processo breve», che il presidente della Camera aveva subito rimesso in discussione. Secondo, la verifica dell’alleanza con Bossi, rinsaldata oltre ogni livello di sicurezza, con la concessione della doppia candidatura alla guida di Piemonte e Veneto. Terzo, l’oneroso armistizio con Tremonti, la cui linea economica di rigore e di chiusura a ogni ipotesi di taglio delle tasse (comprese quelle dello stesso premier), e a ogni richiesta sulle dotazioni dei ministeri, è passata, con l’avallo di Berlusconi, praticamente senza eccezioni. Quarto, una volta chiusi gli steccati, stavolta prima che i buoi si dessero alla fuga, la resa dei conti interna nel Pdl.

Siamo appunto all’ormai famoso pomeriggio di giovedì, in cui il Cavaliere, al cospetto del gruppo dirigente del Popolo della Libertà, traccia una linea netta sul tavolo, per stabilire chi è dentro e chi fuori dal partito. Di riunioni così, tanto per essere chiari, non se ne vedevano dai tempi della Prima Repubblica, quando appunto i leader dei partiti di governo, messi in difficoltà dalle correnti, gettavano in campo tutto il loro peso, per misurarsi con i contestatori interni.
Così, quando Berlusconi ha messo in votazione tutti i temi più controversi, compresi quelli avanzati quotidianamente da Fini e dalla sua pattuglia di dissidenti - dal processo breve alla giustizia all’immigrazione -, e quando, alla fine dei conteggi, il suo ruolo di leader è uscito confermato da un fortissimo consenso interno, tutti i presenti hanno cominciato a chiedersi quale sarebbe stata la sua prossima mossa.

La strategia berlusconiana prevede due possibilità. Se le procure dovessero veramente inquisire il premier per mafia, sulla base delle accuse dei pentiti, la reazione del centrodestra sarà durissima. Il Cavaliere non lo ha detto a voce alta, per evitare che finisse sui giornali, ma la risposta potrebbe perfino arrivare a dimissioni in massa di tutti i parlamentari di maggioranza, per far sciogliere il Parlamento e arrivare a nuove elezioni politiche. Elezioni a cui si andrebbe in uno scenario da scontro istituzionale e sull’onda di una campagna in cui Berlusconi chiederebbe voti contro la magistratura che ha attaccato il governo che gode dell’appoggio della maggioranza degli elettori.

Se invece i pm scelgono di frenare, magari solo per cercare testimonianze più convincenti di quelle emerse fin qui, il premier chiamerà la sua maggioranza in Parlamento ad approvare a passo di carica, prima il processo breve, poi la riproposizione del lodo Alfano sotto forma di legge costituzionale. Anche in questo caso l’eco di questa campagna, stavolta solo parlamentare, è destinata a ripercuotersi nella corsa per le Regionali. Che in prospettiva, sondaggi alla mano, e grazie anche al riavvicinamento con Casini, il Cavaliere vede abbastanza in discesa. Delle Regioni in mano al centrosinistra, infatti, le due del Nord, Piemonte e Liguria, stando al voto delle Europee, potrebbero passare al centrodestra. Nel Lazio, dove ancora pesa lo scandalo Marrazzo, le possibilità di accordo tra Udc e Pd sono ridotte al lumicino. In più, mentre il Pdl ha in Renata Polverini una candidata forte alla carica di governatore, il centrosinistra non ha ancora fatto la sua scelta. In Puglia, le divisioni tra l’attuale governatore Vendola e il suo aspirante successore Emiliano, spingono a favore del centrodestra. E anche la Campania è incerta: ma se il Pdl piange con Cosentino, il Pd, dopo l’era Bassolino, ha ben poco da festeggiare.

Delle due strade - lo scioglimento semirivoluzionario delle Camere, con le dimissioni di massa dei parlamentari, o il proseguimento, pur tormentato, della legislatura, in cui tuttavia le Regionali rappresenterebbero l’ultimo appuntamento elettorale previsto - è evidente che il Quirinale considera la seconda il male minore. Ed è proprio per scongiurare la prima, che ieri Napolitano è entrato in scena. Il suo messaggio era rivolto al premier, per cercare di tenerlo a freno. Ai giudici, perché si tolgano dalla testa di buttare giù il governo con un avviso di garanzia. Ma sotto sotto, anche all’opposizione, che in una situazione tragica come questa non ha ancora deciso quale ruolo giocare.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il lungo addio
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2009, 11:16:01 am
2/12/2009

Il lungo addio
   
MARCELLO SORGI


L’ennesimo incidente di percorso tra Fini e Berlusconi non è importante solo per le frasi, non destinate ad essere rese pubbliche, uscite dalla bocca del presidente della Camera e registrate da un microfono indiscreto. Ma anche, e forse soprattutto, per il tono con cui, in confidenza, sono state pronunciate.

A parte l’anticipazione, quasi un mese prima (la registrazione è del 6 novembre), che le dichiarazioni che il pentito Gaspare Spatuzza renderà il 4 dicembre saranno «una bomba atomica» (Fini dunque per quella data era già al corrente del tenore delle future rivelazioni del mafioso), e necessitano quindi di «un riscontro» da fare «con scrupolo», e a parte la conferma del dissenso con il Cavaliere, che «confonde la leadership con la monarchia assoluta» e interpreta il consenso elettorale come «una sorta di immunità nei confronti di qualsiasi autorità di garanzia e di controllo», Fini, anche privatamente, non parla più come «cofondatore» del Pdl, ma come uno che sente di non aver più nulla da condividere con Berlusconi e con il partito nato dalla fusione dell’ex An con Forza Italia.

E se è chiaro che il presidente della Camera considera quell’esperienza come se ormai non gli appartenesse, più difficile è capire quale ruolo Fini si riservi per il futuro.

Del resto non era questo l’oggetto della conversazione occasionale con il procuratore Trifuoggi, tra l’altro anche lui non tenero verso il premier, che accusa, nientemeno, di voler fare «l’imperatore romano». L’unica previsione realistica è che Fini pensi ormai a sé stesso solo come al presidente della Camera, cioè una di quelle autorità di garanzia, che hanno tra i propri doveri quello di richiamare il premier al rispetto delle regole e dei diversi ruoli istituzionali, ma ai cui interventi il presidente del Consiglio non si sente in alcun modo sottoposto, perché si ritiene comunque protetto. E li giudica, tutt’al più, come un fastidio, in forza della singolare concezione del proprio ruolo e del massiccio consenso popolare su cui può contare.

Se ne ricava che tutti gli incontri, i tentativi di mediazione, le salite e le discese da un Palazzo all’altro dei pacieri di tutte le parti, sia quelli avvenuti, sia quelli in preparazione, devono a questo punto essere valutati inutili, se non addirittura controproducenti. E di conseguenza, siccome Fini alla Camera non è solo, ma anzi coagula una discreta pattuglia di dissidenti, sono anche da considerare a rischio i prossimi appuntamenti a Montecitorio del governo, malgrado la larga maggioranza di cui ancora può godere. Si sa, in politica mai dire mai. Ma la storia dell’alleanza tra Gianfranco e Silvio, che quindici anni fa ha aperto la strada del governo alla destra, e di colpo ha cambiato la storia politica del Paese, stavolta sembra proprio finita.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Sullo sfondo la mediazione possibile col Pd
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2009, 09:48:53 am
8/12/2009

Sullo sfondo la mediazione possibile col Pd
   
MARCELLO SORGI


Questa volta il Fini di giornata è stato ingiustamente amplificato da tv e siti abituati a leggere quotidianamente, nelle parole del Presidente della Camera, dissensi e prese di distanza dalle posizioni del centrodestra. La distinzione tra reati (punibili con ammenda) e delitti connessi all’immigrazione, per i quali appunto i due anni previsti dalla riforma del «processo breve» potrebbero risultare insufficienti, è assolutamente logica, e non a caso una nota del Pdl l’ha sostanzialmente accolta in serata, invitando in modo implicito la Lega a fare lo stesso.

Ma se Fini - che già un mese fa, dal giorno dopo l’accordo con Berlusconi, aveva contestato la pretesa (da parte leghista) esclusione degli immigrati dalla riforma in discussione in Parlamento, dopo la bocciatura del lodo Alfano - ieri ha ritenuto di tornarci su, una ragione dev’esserci. Forse, come molti negli ultimi giorni, anche il Presidente della Camera s’è convinto che il «processo breve», se pure sarà approvato senza modifiche al Senato, non riuscirà dopo a passare alla Camera con la stessa formulazione. Anzi, al minimo, subirà qualche emendamento, e di conseguenza dovrà tornare a Palazzo Madama.

E’ anche possibile che, se non proprio Berlusconi, i consiglieri più prudenti del premier in questi giorni stiano valutando la convenienza di un iter così lento e farraginoso rispetto a un eventuale cambio di provvedimento, che potrebbe ricevere dal Pd alla Camera una forma di opposizione meno rigida di quella praticata finora anche al Senato. Le posizioni più recenti del partito di Bersani vanno in questa direzione. E anche se, dopo molte contestazioni interne, è stata smentita l’intervista al Corriere della Sera in cui il vicesegretario Letta riconosceva al presidente del Consiglio la legittimità a difendersi «dal» oltre che «nel» processo, il desiderio di una svolta in materia di giustizia emerge chiaro dal nuovo gruppo dirigente democratico.

Le rivelazioni del pentito di mafia Spatuzza e la manifestazione di sabato per il «No Berlusconi-day», pur avendo animato il dibattito interno al maggior partito del centrosinistra, non sembrano aver finora provocato alcun ripensamento, anche se la svolta per ora non c’è stata e non è neppure chiaramente annunciata. Ma nel caso in cui dovesse arrivare durante il passaggio del «processo breve» a Montecitorio, Fini, per coglierla e pilotarla alla Camera - con una mediazione che alla fine converrebbe anche a Berlusconi -, di sicuro è il più adatto.

E a quanto ha fatto capire ieri, è anche pronto.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Rincorsa pericolosa
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2009, 04:43:18 pm
11/12/2009

Rincorsa pericolosa
   
MARCELLO SORGI


E’ inutile girarci attorno: quello di Berlusconi ieri a Bonn, al congresso del Ppe, è stato un discorso di rottura, di un leader che sta prendendo la rincorsa per andare ad elezioni anticipate e che a questo punto conta solo sull’appoggio del popolo - del «suo» popolo - per uscire dalle difficoltà. Un piano esposto in un tono che il Presidente della Repubblica, anche lui nel mirino del premier, ha definito «violento», e che ha lasciato stupiti parte dei delegati europei cattolici moderati che erano lì ad ascoltarlo.

Ad evitare equivoci e a neutralizzare l’efficacia - ormai scarsa - degli unguenti e dei brodini che i più prudenti collaboratori del Cavaliere si affrettano a spargere e a distribuire da mesi, per lenire i bruciori provocati dalle sue ultime uscite, Berlusconi stesso, interrogato poco dopo il suo intervento, a proposito delle reazioni durissime che aveva provocato a Roma, da Fini all’opposizione fino al Quirinale, ha risposto che non aveva «niente da chiarire».

E aveva detto quel che aveva detto perché «stanco delle ipocrisie. Tutto qui».

Non siamo insomma di fronte all’ennesima «uscita di pancia» di un uomo che ci ha abituato da sempre a un linguaggio fuori dalla politica, quando non antipolitico (ieri tra l’altro ha parlato di sé come di uno «con le palle»). Semmai lo è stato, il Cavaliere non è più uno sprovveduto: è in carriera da quindici anni e sa benissimo quel che fa. Se ha scelto Bonn, e la platea del Ppe, per alzare la mira contro la Corte Costituzionale, i magistrati e gli ultimi tre Presidenti della Repubblica, è perché è consapevole che con questi argomenti e con questi obiettivi, la legislatura già avvitata su se stessa andrà verso un precipizio, e nessun accordo sarà possibile per salvarla. Né con la parte della sua maggioranza più vicina al presidente della Camera, giustamente convinto che le riforme, e soprattutto quella della giustizia, non debbano alterare l’equilibrio costituzionale tra i diversi poteri. Né tanto meno con quella parte dell’opposizione, che faticosamente, e d’intesa con Napolitano, stava valutando proprio in questi giorni la possibilità di un’intesa, magari provvisoria, per por fine alla guerra che s’è aperta dopo la cancellazione del lodo Alfano da parte della Consulta.

Per chi ancora nutriva qualche dubbio, ora è chiaro che di queste mediazioni, compromessi, accordi ipotizzati e sudati a costo di buona volontà e reciproche rinunce dei diversi interlocutori, a Berlusconi non importa niente. Non gli servono. L’Italia com’è, e il suo sistema istituzionale che funziona normalmente, in cui appunto chi vince le elezioni governa, porta in Parlamento per farle approvare le leggi che fanno oggetto del suo programma, ma se poi sbaglia, o forza, o comunque fa qualcosa che non è previsto dalla Costituzione, incappa nella rete degli organi di garanzia, per Berlusconi non assomigliano per niente a ciò che ha promesso ai suoi elettori. Dunque, sono da cambiare. Con le buone o con le cattive, con chi ci sta e contro tutti quelli che non ci stanno. Tra i quali ultimi, per inciso, il Cavaliere annovera i magistrati che da anni cercano vanamente - anche se talvolta in maniera persecutoria - di processarlo, e che per questo vanno assimilati a tutti gli altri suoi avversari «comunisti», presenti e nascosti, a suo giudizio, nelle pieghe dei poteri e dell’establishment nazionali.

Dal discorso di Bonn - pronunciato non a caso all’estero, per smentire il ritratto dell’Italia che a dispetto del Cavaliere i media stranieri fanno circolare in tutto il mondo - è lecito ricavare anche di che tenore sarà la prossima campagna elettorale del premier. Con al fianco Bossi, l’unico alleato che considera fidato e che ieri s’è affrettato, da solo, a schierarsi con lui, Berlusconi, ottenuto lo scioglimento delle Camere anche grazie al sostegno della Lega, con cui la trattativa preelettorale è molto avanti, si rivolgerà agli elettori con uno schema molto semplice. Non starà neppure a perdere tempo per sminuire le accuse che si porta sul collo o alleggerire il peso delle vicende personali che hanno macchiato la sua immagine. Dirà più o meno così: come sono io lo sapete, ma se non volete che tornino «quelli», votatemi anche stavolta.

Un giudizio di Dio. Voglia il Cielo che un Paese ridotto com’è riesca a evitare anche questa prova. O a sopportarla, con le ultime risorse, se davvero ci si arriverà.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Crisi e urne i due enigmi del Cavaliere
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2009, 08:43:18 pm
12/12/2009 - TACCUINO

Crisi e urne i due enigmi del Cavaliere
   
MARCELLO SORGI


Berlusconi ieri ha negato di volere le elezioni, non perché non le voglia, ma perché non sa come arrivarci. Una delle cose più complicate, in Italia, infatti è ottenere lo scioglimento anticipato delle Camere. Nella Prima Repubblica c’era una sorta di regola non scritta: premesso che le elezioni anticipate dovevano essere considerate ufficialmente come un trauma assoluto, da accompagnare con lamenti, rimorsi e giuramenti di non farvi più ricorso, quando Dc e Pci, vale a dire i maggiori partiti di governo e opposizione, si mettevano d’accordo, lo scioglimento era fatto. Il Capo dello Stato, cui formalmente competeva la decisione, si limitava a registrarlo come un notaio. Anche questa regola, che aveva funzionato nel 1972, ’76, ’79 e ’83, come tutto, a un certo punto andò in tilt. Nel 1987, per ottenere le elezioni, la Dc dovette addirittura votare contro un suo governo. Nel ’94 le elezioni le decise praticamente Occhetto da solo, gli altri leader erano impicciati con Tangentopoli. Fu uno dei suoi più tragici errori, che aprì la strada a Berlusconi. Il quale, dopo il ribaltone, le avrebbe rivolute subito. Scalfaro riuscì a temporeggiare per un anno ancora, e si andò al voto nel ’96. Per dieci anni, fino al 2006, l’andamento delle legislature, malgrado la confusione politica imperante, tornò a essere, diciamo così, regolare.

Ma nel 2008 la caduta del cagionevole governo Prodi rese di nuovo necessario lo scioglimento anticipato. Non che il Capo dello Stato non avesse tentato di evitarlo: ma si trattò, più che altro, di una formalità: il presidente del Senato Marini, formalmente incaricato, fece un giro di consultazioni e tornò sconfortato al Quirinale per dimettersi. Ora i bookmakers di Montecitorio, malgrado le smentite berlusconiane, e in mancanza di regole e precedenti validi, si pongono qualche domanda. Pur essendoci un asse di ferro tra Berlusconi e Bossi, se la sentono, i due, di questi tempi, di aprire una «crisi pilotata»? E se gli scappa di mano? E se invece la aprono, Napolitano che fa? Chiama Schifani, il quale sarebbe anche più rapido di Marini a gettare la spugna? O chiama Fini e provoca una mezza rivoluzione nel Pdl? O chiama Letta, l’unico che godrebbe del necessario appoggio bipartisan per portare la nave fuori dalle secche? E Letta, in questo caso, come si comporterebbe? Sono questioni alle quali non è facile dare una risposta. Il guaio è che in queste ore le stesse domande se le sta facendo anche Berlusconi.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Ora Silvio è meno isolato
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2009, 04:03:48 pm
15/12/2009

Ora Silvio è meno isolato
   
MARCELLO SORGI


Si discuterà ancora a lungo se l’aggressione di domenica a Berlusconi debba essere considerata il gesto di un folle, che il padre ha pietosamente definito «neurolabile», o il frutto avvelenato del degrado del clima politico negli ultimi mesi. Magari si è trattato di entrambe le cose, anche se il governo, logicamente, tende a sottolineare il secondo aspetto, mentre l’opposizione non insiste sul primo.

A ben guardare questo è già un primo risultato del brutto imprevisto che ha costretto tutta o quasi (con l’eccezione di Di Pietro) la classe politica a fare i conti con la realtà di cui avevano perso il controllo. Tra Quirinale e Palazzo Chigi, tra governo e opposizione, tra partner della stessa coalizione, da mesi tutti i più importanti canali di comunicazione istituzionale erano ostruiti. La solidarietà a Berlusconi dopo l’aggressione almeno è stata l’occasione per riattivarli.

La telefonata di Napolitano al premier, le visite di Fini e soprattutto di Bersani al San Raffaele, oltre, naturalmente, alle loro chiare parole sull’inaccettabilità della violenza, in un Paese che ha conosciuto la tragedia del terrorismo, sono servite a riannodare una tela di relazioni personali che da tempo sembrava definitivamente sfilacciata. Il peregrinaggio di mezzo governo, del fido Bossi e di delegazioni a vario livello del Popolo della libertà, al capezzale del presidente ferito, hanno fatto il resto. Così, per la prima volta dopo molti mesi, Berlusconi non è apparso più isolato, o circondato da una sorta di cintura di protezione politica come accadeva nell’ultimo periodo.

Naturalmente ciò non muta la natura dei problemi, a cominciare da quelli della giustizia, che hanno subito ieri un surriscaldamento, per restare in tema di clima, con il parere di incostituzionalità del «processo breve» approvato a maggioranza dal Consiglio superiore della magistratura. Si tratta, è bene ricordarlo, di un parere non vincolante per il Parlamento che sta per legiferare sulla materia.
Ma solo il clima di perdurante emozione per l’aggressione di domenica ha impedito ieri che contribuisse a innescare nuovi scontri.

In sé, la ripresa di relazioni personali tra soggetti istituzionali che da settimane non si parlavano non ha un valore politico preciso.
Ma il riavvicinamento tra persone che stanno ai vertici dello Stato può favorire forse un’intesa anche minima tra leader finora schierati su sponde opposte. Per fare cosa, è ancora presto per dirlo. Per il momento basterebbe che fosse condivisa la volontà di trovare la strada per portare il Paese fuori dall’angolo in cui è finito.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. La nuova chance del Cavaliere
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2009, 03:13:02 pm
16/12/2009


La nuova chance del Cavaliere
   
MARCELLO SORGI


Dal suo letto di sofferenza, Silvio Berlusconi ha fatto ieri una mossa ragionevole: il suo messaggio rassicurante («l’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio»), in una giornata in cui il dibattito parlamentare alla Camera sull’aggressione di domenica aveva avuto un esito sconfortante, ha riempito il vuoto politico che la ripresa di insulti e attacchi di tutti contro tutti non poteva colmare. Certo è davvero preoccupante che il tempo della riflessione su quanto è accaduto e della solidarietà con il presidente del consiglio che ne è stato vittima sia durato appena lo spazio di ventiquattro ore. Gli inviti ad abbassare i toni e a raffreddare il clima, ripetuti anche ieri dal Capo dello Stato, hanno ritrovato purtroppo una platea di sordi. La confusione avrebbe certo preso di nuovo il sopravvento, se appunto il premier non si fosse deciso a prendere, per quanto può, l’iniziativa.

Al di là del contenuto elementare del messaggio, che non tocca nessuna delle questioni aperte, e perfino deteriorate, com’è accaduto al «processo breve» dopo il parere negativo del Csm, Berlusconi ha inteso mostrarsi consapevole del fatto che, ancor di più dopo l’aggressione che ha subito, tocca a lui entrare nel merito del da farsi. Sollecitato, in questo, dall’intervento di Bersani a Montecitorio, in cui il leader del Pd ha invitato ad abbandonare la lunga e ormai inutile discussione sul clima politico deteriorato che starebbe alla base di quanto è successo, per tornare al vivo del confronto politico.

Bersani in altre parole ha detto – e Berlusconi lo ha capito benissimo – che lui e il suo partito, a pagare i conti di Di Pietro e del fronte politico-mediatico antiberlusconiano accusati dal capogruppo del Pdl Cicchitto nell’aula della Camera, non ci stanno. Se il premier e il governo ritengono che la riapertura dei canali di comunicazione a tutti i livelli, avvenuta in conseguenza della drammatica domenica di Milano, possa essere utilizzata per cercare di interloquire politicamente, e magari trovare una soluzione diversa da quelle che fin qui stentano, al problema dei processi di Berlusconi e più in prospettiva a quello delle riforme, si accomodino. Bersani – e non solo lui – aspettano di sapere se ci sono nuove proposte, e giudicarle. Se invece il centrodestra proverà ad usare l’aggressione a Berlusconi solo per fare campagna elettorale, il Pd reagirà duramente. La parola, a questo punto, torna al Cavaliere. Che ha davanti a sé una grossa occasione e, da come s’è comportato ieri, sembra volerne approfittare in positivo. Che poi ci riesca veramente, è un altro discorso.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il premier stringe i tempi: sente che la sua assenza ...
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2009, 09:27:49 am
17/12/2009

Il premier stringe i tempi: sente che la sua assenza comincia già a pesare
   
MARCELLO SORGI


Ha voglia il professor Zangrillo, che ha in cura il premier dopo l'aggressione di domenica e ieri ne ha rinviato a oggi l'uscita dall'ospedale, a dire che Berlusconi dovrà osservare un periodo di convalescenza, stando lontano da impegni pubblici e rallentando i ritmi frenetici della sua vita lavorativa. Aveva appena finito di spiegare al suo illustre infermo che non potrà presenziare al prossimo Consiglio dei ministri, che dovrà rinunciare alla tradizionale conferenza di fine anno e alla notte di Natale con i terremotati dell'Aquila, e quello, che non sa stare fermo, eludendo la sorveglianza, ha telefonato all'ufficio di presidenza del Pdl per dire la sua sulle candidature alle regionali in via di definizione.

Sia i medici che lo stanno seguendo, sia i collaboratori che si tengono in contatto con lui, a cominciare dal sottosegretario Bonaiuti, fisso a Milano al San Raffaele, e da Gianni Letta, che coordina a Roma in prima persona l'attività del governo, sanno che Berlusconi scalpita, che vorrebbe a qualsiasi costo accorciare i tempi per il ritorno in campo, che si preoccupa di apparire in forma al più presto, anche se ha ancora la faccia gonfia e dovrà sopportare un piccolo intervento per rimettere a posto i denti che la statuetta lanciata dal suo aggressore gli ha fratturato.

Tutta questa impazienza, a parte l'irrequietezza, come dire, costituzionale di Berlusconi, nasce dalla consapevolezza che se l'attacco che ha subito, con l'ondata di solidarietà che è seguita, s'è alla fine trasformato in un vantaggio politico, in un momento in cui il suo isolamento personale e le difficoltà del governo erano evidenti, l'idea di un premier acciaccato, che fatica a riprendersi, si risolverebbe in un danno d'immagine per uno come lui, che, nel bene e nel male, è abituato a scandire con le sue iniziative la vita politica del Paese.

Già ieri, al terzo giorno di assenza del Cavaliere dalla vita pubblica, s'era avvertito un certo rallentamento. La fiducia sulla finanziaria era passata, ma non con una votazione non brillantissima. Lo strascico di polemiche determinate dalla reazione di Fini a questa decisione del governo aveva avuto una coda polemica, legata all'ipotesi, rinviata e sostituita con l'annuncio di un disegno di legge, di un decreto per bloccare i siti Internet che inneggiano alla violenza.

Di qui l'intervento telefonico di Berlusconi al vertice del Pdl. Con due obiettivi: dimostrare che il partito è unito e in grado di risolvere anche problemi delicati come quello delle candidature. Ma soprattutto, che per decidere ha bisogno del capo, anche se malconcio.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. La vera svolta è tutta interna al centro-destra
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2009, 04:38:14 pm
18/12/2009

La vera svolta è tutta interna al centro-destra
   
MARCELLO SORGI


No, non deve affatto ingannare, il tono zuccheroso con cui un Berlusconi ancora incerottato ha accompagnato la sua uscita dall’ospedale e l’offerta di dialogo a Casini e Bersani, leader dell’opposizione che ha detto di aver sentito vicini in questi giorni, a differenza di altri (Di Pietro) che incitano alla violenza.

Già mercoledì sera - partecipando al telefono al vertice del Pdl, che pure in sua assenza si teneva a casa sua, e che ha varato gran parte delle candidature per le regionali e un comunicato con l’offerta di un “patto democratico” rivolta alla parte meno estrema dell’opposizione – il premier aveva capito che in questo momento, con la questione giustizia ancora tutta aperta, il “processo breve” e il “legittimo impedimento” in cottura al Senato e alla Camera, è difficile aspettarsi collaborazione dai suoi avversari. Qualcosa verrà, magari, da Casini, che sulla giustizia aveva già fatto un’apertura nel suo incontro a due con il Cavaliere. Ma solo qualcosa. E la risposta fredda di Bersani ieri è già un’anticipazione del “non possumus” del Pd. In ogni caso, già solo un confronto meno avvelenato in Parlamento, sarebbe un risultato.

In realtà la svolta maturata in occasione dell’aggressione al presidente del consiglio è tutta interna al Pdl. Dopo la visita di Fini al San Raffaele e nel clima di solidarietà che lo circondava, Berlusconi s’è reso conto che politicamente l’impressione destata dalla drammatica domenica milanese poteva essere spesa meglio all’interno del centrodestra, piuttosto che in un’ impossibile, al momento, riapertura di dialogo con l’opposizione. Con una maggioranza pacificata (almeno per un po’) e con un Fini accontentato da una linea più moderata del Pdl, che tiene conto anche di molte delle riserve espresse dal presidente della Camera negli ultimi tempi, il Cavaliere può provare ad affrontare il passaggio più delicato della ripresa politica dopo le Feste: appunto, la giustizia, e al suo interno la protezione dai processi per il premier caduta dopo la sentenza della Corte costituzionale sul lodo Alfano.

La mano tesa verso Bersani e Casini (quest’ultimo, non va dimenticato, alla vigilia dell’aggressione in un’intervista alla Stampa s’era offerto di guidare una coalizione “repubblicana” con il centrosinistra in caso di elezioni), tuttavia, rimane. Come espediente tattico per evitare che l’Udc, nelle regioni più contendibili, tipo Lazio e Puglia, finisca alleata del Pd. O come alibi da spendere di qui a poco, nel caso, purtroppo probabile, di una ripresa delle ostilità.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il cuore di un maestro
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2009, 11:37:41 am
19/12/2009

Il cuore di un maestro
   
MARCELLO SORGI


Yes, I know, listen my friend...»: dal suo gabbiotto in redazione, la voce arrivava tonante. Igor parlava insieme arabo e inglese.
Aveva l’accento yankee di tanti della sua generazione che avevano conosciuto gli americani durante la guerra. Nei giorni della crisi di Sigonella e dei due missili lanciati da Gheddafi su Lampedusa, era uno spettacolo vederlo lavorare, appeso al filo incerto di una telefonata libica.

Igor Man era un tipo unico, a cominciare dal nome d’arte che s’era dato ed era riuscito non si sa come a far stampare sui suoi documenti. Aveva un metabolismo mediterraneo, gli era rimasto attaccato il fuso orario dei vecchi giornalisti che andavano a dormire tardissimo, con la prima copia fresca di stampa ritirata alla rotativa. Personaggio da film, era uno degli ultimi di un’epoca romantica e appassionata.
In Vietnam mentre la moglie adorata, Mariarosa, metteva al mondo suo figlio: il telegramma per avvertirlo lo raggiunse quando il piccolo Federico era già tornato a casa. E poi in Cile, a Cuba, a Panama e in Costarica: per molti anni non c’era guerra o guerriglia, crisi grande o piccola nel mondo che non lo vedesse schierato in prima linea. Allora le missioni duravano mesi, la tv quasi non c’era, gli articoli si mandavano col telegrafo e cominciavano con il fatidico distico «dal nostro inviato speciale». In quell’aggettivo c’era un che di avventura, di sogno, di coraggio, che faceva desiderare anche all'ultimo dei cronisti di essere, chissà, un giorno, come il leggendario Igor Man.

A un certo punto della sua lunga carriera, Man aveva preso una sorta di seconda cittadinanza in Medio Oriente e nel mondo arabo nostro dirimpettaio e non ancora soffocato dal fondamentalismo. Andava e veniva, tornava e ripartiva, allungava orgoglioso il lungo medagliere di foto dei suoi intervistati. Accanto a Che Guevara, ad Allende, a un gruppo di misteriosi guerriglieri boliviani armati fino ai denti, a un Kennedy avvicinato svagatamente a un ricevimento a Washington, da un elegantissimo Igor in dinner jacket e papillon, comparvero così l’israeliana Golda Meir, l’egiziano Mubarak, il vecchio re Hassan II del Marocco, il ras della Tunisia Bourguiba, e poi, in varie pose, un Arafat di cui Man era spesso ospite esclusivo e autorizzato, raro privilegio, a descriverne la vita riservatissima nella casa araba dove il the bolliva lento tutto il giorno, tra nuvole d’incenso e fiori di gelsomino sparsi un po'dappertutto.

Con molti anni di anticipo, Man aveva capito che dalla sponda orientale a noi più vicina la polveriera islamica stava incubando dentro e attorno a un Occidente del tutto impreparato a contenerla. Per questo Igor, che aveva visto nascere il khomeinismo in Iran, era desolato quando gli americani avevano dovuto abbandonare la Somalia infestata dai fondamentalisti. Ed era disperato di fronte alla prima guerra del Golfo, quella del '91 in cui l'Italia si commosse per le gesta eroiche del maggiore Bellini e del capitano Cocciolone, ma non immaginava neppure cosa sarebbe accaduto dieci anni dopo. Toccò a Man raccontare nella sua rubrica «Diario arabo» la cultura, i valori e anche gli eccessi del mondo islamico: lo faceva umilmente, in trenta righe, tutti i giorni. E ogni articolo si concludeva con una «sura», una massima del Corano.

In quel periodo Igor veniva sempre a lavorare alla redazione romana. Arrivava verso l’una, freschissimo, elegante nella sua camicia candida, le frezze bianche sulla capigliatura corvina ravviate all'indietro e un'allure di profumo esotico che si lasciava alle spalle. L’incarnato scuro, la pelle sempre abbronzata già al primo sole primaverile, tradivano la sua origine catanese. I piccoli occhi verdi, alti su due zigomi sporgenti, svelavano la sua metà asiatica, ereditata dalla madre russa. Mentre il talento del grande giornalista trasudava dallo sguardo mobile, dalla battuta pronta, dal gusto dei dettagli, scovati tra le pieghe di un articolo o in un'immagine di tg. Per molti di noi, Man è stato un maestro, oltre che un amico affettuoso. Memorabile era il suo modo di trasmettere i vecchi trucchi artigiani del mestiere, come quando spiegava che in un’intervista difficile, con poco tempo a disposizione, era inutile bombardare l’intervistato con una raffica di domande. Meglio puntare al cuore, che alla testa. Scegliere, sulla sua scrivania, un oggetto, una foto, una cosa di nessuna importanza, ma che magari, notati con finta sorpresa, potessero ammorbidire il clima dell’incontro.

Era anche generoso, pronto a fare qualsiasi cosa necessaria al giornale. Quando morì Edoardo Agnelli, lui ch’era stato sempre vicino
all’Avvocato, si offrì di scriverne il ritratto. Scoprimmo così che quel ragazzo che aveva scelto di concludere tragicamente un’esistenza tormentata, per qualche tempo si era interessato alle filosofie orientali, e aveva trovato in Man un sostegno e un interlocutore.

Quella volta Igor scrisse, non un articolo, ma una bellissima lettera ai genitori di Edoardo. Per confortarli, nel giorno più difficile della vita.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Convenzione il sogno di fine anno
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2009, 10:40:38 am
21/12/2009

Convenzione il sogno di fine anno
   
MARCELLO SORGI

Dalle pieghe del tormentato dibattito sulla Grande Riforma, ripreso dopo l’aggressione a Berlusconi, nel tentativo di dare uno sbocco agli appelli per un miglioramento del clima politico, è tornata ad affacciarsi l'idea di una Convenzione, o di un’Assemblea Costituente, a cui affidare il compito di discutere e approvare i cambiamenti della Costituzione. Necessari e finora invocati da tutti, ma mai realizzati, malgrado i numerosi tentativi degli ultimi anni.

Di assemblea hanno scritto, in una lettera aperta al Presidente emerito della Repubblica Cossiga, alcuni membri del vecchio gruppo dirigente socialista come, tra gli altri, Formica, Martelli e De Michelis. Di convenzione, o in alternativa del ritorno a una Bicamerale come quella presieduta a suo tempo da D’Alema, hanno parlato il ministro dell’Economia Tremonti con il Corriere della Sera e il ministro degli Esteri Frattini con La Stampa.

Sia all’interno della maggioranza, dopo i primi colloqui ad Arcore tra un Berlusconi convalescente, membri autorevoli del governo e i vertici di Pdl e Lega, sia nel maggior partito d’opposizione, la svolta è maturata in pochi giorni, dopo il drammatico pomeriggio di domenica scorsa. Nel Pd sono stati Bersani e D’Alema a insistere, anche se, per contrastare le forti riserve interne di Veltroni e Franceschini a una qualsivoglia apertura al Cavaliere, i leader del Pd avvertono fin d'ora che non si presteranno ad intese che riguardino «leggi ad personam» e salvacondotti giudiziari per il premier, di cui, se vorrà, dovrà farsi carico il centrodestra. Sul resto invece, il Pd dice esplicitamente che si potrà discutere, ed eventualmente collaborare.

Tal che la discussione non è più sul «se fare» le riforme, ma sul «come» farle. E per questo, ci si interroga se sia meglio affrontarle all’interno del Parlamento, com’è avvenuto, purtroppo senza successo, tutte le altre volte. O se invece non sia più opportuno creare un nuovo organismo. Il quale, al di là dei nomi e dei poteri da affidargli (una sorta di super ufficio studi che rimandi le decisioni finali alle Camere, o un nuovo, temporaneo, ramo parlamentare, in grado di decidere da solo?), sarebbe comunque un organo politico. Con una rappresentanza proporzionale di tutti i partiti, senza schieramenti precostituiti come il centrodestra e il centrosinistra, ma anzi con l’obiettivo di far confrontare, e magari votare insieme, ove possibile, forze politiche diverse a seconda dei temi in discussione e delle diverse sensibilità. In questo modo verrebbe recuperato lo spirito e il metodo della Costituente di oltre sessant’anni fa.

Appartata e in qualche modo liberata dalla durezza del confronto politico quotidiano, che continuerebbe a svolgersi nelle altre due, questa terza Camera avrebbe il vantaggio, se non altro, di poter lavorare più tranquillamente. I partiti potrebbero anche scegliere di convogliarvi un drappello di qualificati giuristi, e non perché quelli attualmente in servizio tra Montecitorio e Palazzo Madama non siano tali, ma proprio in omaggio a quel che accadde nell’Assemblea del 1946-’47. La Costituzione italiana, infatti, fu certo l’incontro delle tre grandi culture politiche - cattolica, socialista e liberale - del Novecento. Ma fu anche, per i tempi in cui fu scritta, un esempio di saggezza giuridica, grazie al lavoro di esperti come Calamandrei, Mortati e Crisafulli, che si avvalevano di giovani consulenti come Giannini e del meglio che usciva allora (e potrebbe venir fuori anche adesso) dalle università italiane.

Inoltre, l’elezione proporzionale, senza sbarramenti di alcun tipo - come si addice a un organismo che dovrebbe assicurare la più larga rappresentanza possibile, dovendo riscrivere regole che riguardano tutti -, consentirebbe di mettere a confronto - evitando ulteriori tensioni tra società civile e Parlamento e con una piena reciproca legittimazione -, tutte, ma proprio tutte, le posizioni politiche esistenti in materia costituzionale, dal presidenzialismo più radicale all’assemblearismo più estremo.

Sono solo alcune delle ragioni che porterebbero a preferire l’ipotesi della Convenzione, o dell’Assemblea Costituente, rispetto a una nuova Bicamerale, nella quale, più o meno come un decennio fa, i limiti della confusione tra il contingente politico di tutti i giorni e l’ampio orizzonte delle decisioni da prendere, si riproporrebbero pari pari. Ma a guardar bene, purtroppo, sono anche i motivi per cui la Convenzione o l’Assemblea, senza un grande sforzo di buona volontà, difficilmente vedranno la luce.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il Cavaliere e il sorriso come strategia, ora fa battute ...
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2009, 03:07:21 pm
23/12/2009 - TACCUINO

Il Cavaliere e il sorriso come strategia, ora fa battute anche sulla statuina
   
MARCELLO SORGI


Sotto il grande cerotto che gli copre il viso, Silvio Berlusconi è tornato a sorridere. La notizia, chiamiamola così, esce dalla lunga processione di amici e collaboratori che in questi giorni è andato a trovarlo ad Arcore. La depressione, l'abbattimento seguiti all'aggressione con la statuetta, se li è già buttati alle spalle. Freme per tornare al lavoro. E nell'attesa ha ripreso a raccontare barzellette, per mettere di buonumore tutti quelli che gli compaiono davanti con facce da circostanza.

La prima storiella è un classico. Berlusconi arriva in Paradiso e Dio, come segno di riguardo, lo porta a fare un giro, che dura più del previsto. Alla fine, Dio spiega: A Berlusconi è piaciuto molto quel che gli ho fatto vedere, ma abbiamo convenuto che è ora di dare una rinfrescata. Faremo Paradiso 2! Solo, non ho capito ancora perché io dovrei fare il vicepresidente.
La seconda è una battuta. Lo sai che a Milano non si trovano più le statuette del Duomo? E sai perché? Te le tirano dietro!.

La terza è una storia vera, di uno dei giorni più difficili del 2009 che va a finire e che in questi giorni di convalescenza ricorrono nelle conversazioni di Arcore. Il giorno che uscirono sui giornali le rivelazioni, anche dettagliate, della notte di Patrizia D'Addario a Palazzo Grazioli, Berlusconi aveva un appuntamento riservato in Vaticano con un altissimo cardinale di Curia. Lì per lì, imbarazzato, fu tentato di non andare. Ma gli spiegarono che sarebbe stato peggio. Così decise di presentarsi. In ascensore era nervoso, tormentava il pacco con il regalo per Sua Eminenza. Quando le porte si aprirono, e il cardinale era lì ad aspettarlo: «Mi sono già confessato!», esclamò il Cavaliere, tenendo il pacco davanti alla faccia e simulando un rossore improvviso.

Per un leader normale, due storielle e una storia come questa non avrebbero, in sé, alcun valore politico. L'allegria, il cattivo umore, possono incidere nella vita di qualsiasi persona, ma non cambiano i contorni dei problemi. Una volta, ad esempio, fu chiesto a Berlinguer, alla fine di una delle rarissime interviste che il leader comunista concedeva: ma lei non ride mai? La risposta fu gelida e insieme spiritosa: «Perché, c'è qualcosa da ridere?».

Per Berlusconi, invece, vale il contrario. Tutto quel che fa, e se non proprio, quasi tutto, lo fa per divertirsi. Se è tornato a sorridere - e solo lui sa come - vuol dire che s'è convinto che la partita può ancora girare a suo favore.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Cavaliere incerottato non molla la ribalta
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2009, 11:07:34 am
29/12/2009 - TACCIUNO
 
Radio, telefono, e-mail.

Il Cavaliere incerottato non molla la ribalta
 
 
MARCELLO SORGI
 
Da qualche giorno la convalescenza che lo costringerà a casa almeno fino al 7 gennaio ha spinto Berlusconi a un nuovo tipo di comunicazione: come e più dei momenti in cui è normalmente in servizio come premier, il Cavaliere fa sentire la sua voce via radio, via mail, via telefono. Chiama, invia messaggi a manifestazioni e circoli di sostenitori, e se proprio non si tratta di comunicazioni riservate - come la telefonata che ha ristabilito i rapporti con il presidente Napolitano, di cui comunque ha dato notizia - fa in modo che la sua voce venga amplificata e trasmessa nel tg.

I suoi concetti sono più o meno gli stessi, tutti i giorni: l'odio da sconfiggere, gli attizzatori da mettere a posto, le centrali della disinformazione da mettere a tacere, le riforme da fare al più presto, per onorare il patto con gli elettori, le promesse già mantenute, come le case, «dotate di tutti i comfort» in cui i terremotati d'Abruzzo hanno potuto trascorrere il Natale.

Perché allora Berlusconi si ostina a ripeterle, anche in giornate di Feste e vacanze in cui la gente è generalmente distratta? Per due motivi, si può immaginare. Il primo è che il Cavaliere ha legato da sempre la sua attività politica alla percezione della sua presenza e insieme alla sua fisicità. Quando ha deciso di tacere per qualche giorno, lo ha fatto a ragion veduta, e in qualche caso per dimostrare che in sua assenza crescono confusione e polemiche. Anche se i medici gli hanno imposto un riposo forzato, per rimettersi dai postumi della statuetta che lo ha colpito sul viso, Berlusconi vuole insomma far sapere che lui sta a casa ma lavora lo stesso anche incerottato, e l'aggressione del 13 dicembre, se lo ha ferito, non lo ha certamente fiaccato.

Il secondo motivo è più politico. Berlusconi sa bene che la solidarietà e la disponibilità manifestategli in occasione dell'attacco subito a Milano sono destinate ad affievolirsi e ritrarsi alla ripresa politica, quando si tratterà di entrare nel merito delle riforme, e di affrontare il problema della giustizia che ha contribuito non poco, nei mesi seguiti all'annullamento del loro Alfano da parte della Corte costituzionale, al deterioramento del clima politico. Con i messaggi che quotidianamente sta mandando in giro, è come se il Cavaliere mettesse le mani avanti, per contrastare le prossime riserve dell'opposizione e di parte della sua maggioranza. In altre parole, è come se dicesse fin d'ora: «Io ero pronto, ci credevo, ci stavo. Poi sono loro che hanno cambiato idea».
 
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Titolo: MARCELLO SORGI. Ma non hanno nulla da dire i democratici e il Senatùr?
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2009, 05:26:16 pm
30/12/2009 - TACCUINO

Ma non hanno nulla da dire i democratici e il Senatùr?
   
MARCELLO SORGI

La polemica di fine anno sulla proposta del sindaco di Milano di intitolare una strada a Craxi, nel decennale della morte, rischia di attorcigliarsi attorno a un falso problema. La questione non è arrivare a una sorta di impossibile memoria condivisa del leader socialista, che fu innegabilmente un grande statista, fu altrettanto certamente processato e condannato per corruzione, con uno zelo e in un clima che guardati a tanti anni di distanza hanno aspetti di persecuzione, e poi dovette finire i suoi giorni in Tunisia, anche perché nella gran confusione italiana non si trovò il modo di compiere un gesto umanitario e consentirgli di venire a morire a casa sua.

Il punto non è neppure l'atteggiamento di Di Pietro, a suo modo coerente con la rudezza che ha importato dal suo vecchio mestiere di pm a quello di politico: si tratti, appunto, dell'incapacità di esprimere un giudizio storico un po' più approfondito su quella che fu la sua vittima principale, o di articolare un ragionamento appena più prudente sull'aggressione a Berlusconi del 13 dicembre.

No, c'è dell'altro. A distanza di dieci anni dalla morte, Craxi rappresenta il termometro della capacità di una classe politica di riflettere sul vantaggio a breve - e sul disastro che ne è seguito - di un atteggiamento di pura acquiescenza con una magistratura decisa ad ergersi a giudice della politica, in generale, e non dei singoli politici. In questo senso, va detto, sono coraggiose sia l'iniziativa del sindaco di Milano, che all'epoca dei fatti non faceva neanche vita pubblica, sia l'adesione del presidente Napolitano alla celebrazione promossa dalla Fondazione Craxi.

Mentre mancano all'appello - ma c'è tempo, in fondo sono giornate di festa - altri interlocutori che negli anni hanno rielaborato il loro giudizio sul destino del leader del Psi e sull'intera vicenda di Tangentopoli. Basti solo pensare a leader del Pd come D'Alema e Fassino, che sul tema hanno riempito pagine dei loro libri, o alla Lega, contraria, a livello comunale, a Milano, all'intitolazione della strada, intenta, ai tempi del processo Enimont ad allungare nell'aula della Camera macabri nodi da forca, ma da tempo, con Bossi, e accanto a Berlusconi, schierata contro i giudici che esagerano.

Già, non ha niente da dire, oggi, il Senatùr su Craxi?

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Titolo: MARCELLO SORGI. Salvaguardare l'arbitro sarebbe interesse di tutti
Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2009, 04:56:39 pm
31/12/2009 - TACCUINO

Salvaguardare l'arbitro sarebbe interesse di tutti
   
MARCELLO SORGI


È senz’altro una scommessa, la decisione di Napolitano di porre anche su Internet, su «You tube», il suo tradizionale messaggio di Capodanno, che come tutti gli anni viene trasmesso stasera in tv. Mentre infatti in televisione il Presidente viene mandato in onda a reti unificate, nella larghissima platea di una particolare prima serata, in cui tutti o quasi tengono il televisore acceso anche come indicatore del tempo che manca al brindisi di mezzanotte, il Capo dello Stato, on line, si sottoporrà ad un particolare indice di gradimento: sarà interessante vedere quanti saranno i cliccatori e a che ritmo cresceranno.

Non è un mistero che, nel tempo, il messaggio abbia visto cambiare la sua funzione. Quando i Presidenti «regnavano» in una condizione di quasi assoluto riserbo, l’apparizione dell’inquilino del Quirinale, nel suo studio, alla sua scrivania, intento a cercare un dialogo con i cittadini e con le famiglie, riunite in un momento di serenità, aveva la forza di un evento eccezionale. Di qui l’attenta esegesi e le accurate interpretazioni che se ne facevano sui media, e le reazioni generalmente di consenso che lo accompagnavano.

Da quando invece il Paese è impantanato nella sua transizione infinita, quello del Presidente è diventato un mestiere infernale. Anche se i suoi poteri formali sono molto limitati, il Capo dello Stato è chiamato quasi tutti i giorni ad arbitrare e a cercare di moderare il livello di scontri politici ormai divenuti intollerabili e che spesso degenerano in veri e propri duelli istituzionali, tra governo e Parlamento, tra governo e magistratura o tra giudici e politici a prescindere dalla loro collocazione partitica.

Napolitano cerca di farlo con misura, tentando di indirizzare, nel contempo, le forze politiche a un confronto in positivo, che non si riduca solo a uno scambio continuo di veti o di insulti. Ma va detto che è un’opera assai ardua. Negli ultimi tempi è anche venuto meno quella sorta di rispetto istituzionale che tendeva a tenere fuori il Presidente dai giudizi contingenti dei partiti. Napolitano, in questi suoi tre anni e mezzo di presidenza, è stato attaccato da destra e da sinistra, senza remore. Dovrebbe essere interesse di tutti salvaguardare l’arbitro, specie in un periodo in cui lo scontro si fa sempre più duro. Se invece non lo si fa, vuol dire che la situazione è davvero oltre il livello di guardia.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Quel "rassicurante" muro che continua a dividere maggioranza e..
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2010, 08:11:04 am
5/1/2010 - TACCUINO

Quel "rassicurante" muro che continua a dividere maggioranza e opposizione
   
MARCELLO SORGI

Riaperta dopo l'aggressione a Milano contro Berlusconi, la disputa sulle riforme istituzionali non promette ancora nulla di buono.
Si sono sentite e lette molte frasi di circostanza anche dopo il discorso di Capodanno del Capo dello Stato: a parole, tutti sono d'accordo e impegnati a far sì che il confronto possa riprendere e le modifiche alla Costituzione possano essere approvate in tempi brevi.

Ma finora non si sono visti fatti.

C'è stata poi una rivalutazione della cosiddetta «bozza Violante» approvata a Montecitorio nella precedente legislatura dalla commissione affari costituzionali presieduta dall'ex presidente Violante. La bozza, che prevede corsie preferenziali per il governo in Parlamento a fronte di uno statuto dei diritti dell'opposizione e la riduzione del numero dei parlamentari, fu varata con un voto bipartisan.
Ma poiché prefigura anche una modifica dei poteri del Senato, destinato a diventare Camera delle Regioni, è difficile che trovi una buona accoglienza a Palazzo Madama, dove infatti si parla di riavviare il processo costituente partendo da capo.

La questione attorno a cui tutti girano, non a caso, è quella del metodo per approvare le riforme, che viene prima dei contenuti.
Da parte della Lega era venuta la proposta di una Convenzione, formata in parte da parlamentari in carica scelti nei due rami del Parlamento, e in parte da membri designati dal governo e dalle Regioni. Ma il Pdl s'è opposto, e anche il Pd non è parso entusiasta.

La ragione di queste riserve è presto detta: se la Convenzione dovesse fallire, sarebbe come mettere una pietra sopra alle riforme.
E se invece dovesse funzionare con lo stesso metodo con cui più di sessant'anni fa fu varata la Costituzione, il rischio è quello di un rimescolamento di carte nelle attuali coalizioni che potrebbe riaprire tutti i giochi. In altre parole: se la Lega entra nella Convenzione con l'intenzione, ribadita da Bossi, di trattare liberamente con tutti senza vincoli di coalizione, pur di arrivare in tempi brevi al federalismo, il Pdl non potrebbe più essere sicuro com'è adesso della sua alleanza con il Carroccio. E se Di Pietro, a sua volta, entra con l'intenzione di sbarrare la strada a qualsiasi costo alla riforma della giustizia, che invece il Pd, in certi termini, sarebbe disposto ad approvare, Bersani rischia di pagare un prezzo troppo caro alla concorrenza di Italia dei Valori. Insomma, dietro le promesse di disponibilità e le prove di confronto, il muro che divide la maggioranza dall'opposizione è ancora alto. E per alcuni, purtroppo, è anche rassicurante.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Dove lo Stato non c'è
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2010, 11:15:52 am
9/1/2010
 
Dove lo Stato non c'è
 
MARCELLO SORGI
 
Ha una spiegazione chiarissima - anche se ha provocato un duro scontro con l’opposizione, e aperto una serie di polemiche all’interno della maggioranza - la dichiarazione con cui il ministro dell’Interno Roberto Maroni, di fronte alla rivolta iniziata giovedì sera a Rosarno e proseguita ieri, ha preso posizione contro gli immigrati clandestini, e soltanto in seconda battuta contro la criminalità organizzata che amministra il mercato nero delle braccia. Come uomo del Nord avvezzo alle reazioni più esasperate dei cittadini contro gli aspetti degradati dell’immigrazione, Maroni ha colto subito che per la prima volta un atteggiamento simile si era diffuso anche al Sud. La novità della gente di Rosarno in piazza per chiedere l’immediato allontanamento dei clandestini in rivolta, la disperazione della ragazza aggredita da una folla impazzita, devono aver convinto il ministro che in questa guerra di poveri erano i calabresi, gli italiani, i primi a dover essere rassicurati. Di qui la presa di posizione attorno a cui, mentre la rivolta montava, s’è discusso per tutto il giorno. E di qui, in serata - davanti alla recrudescenza di episodi di violenza contro i clandestini e nel timore di uno scontro di tutti contro tutti - la decisione di inviare rinforzi di polizia.

In realtà, lo sappiamo bene, quel che è accaduto a Rosarno è la logica conseguenza di una situazione trascurata, e la Calabria è di nuovo per il governo una delle emergenze più gravi. Una regione in cui le autorità locali hanno già confessato pubblicamente varie volte di aver perso il controllo del territorio. E ancora, in cui, nel giro degli ultimi giorni, la magistratura è diventata obiettivo di una serie di attentati (nell’ultimo, filmato da una telecamera, è addirittura una donna a guidare il commando).

E dove inoltre il lavoro agricolo, una delle poche risorse esistenti, è regolato dalla legge del più forte, per consentire l’utilizzo di manodopera irregolare in forma di schiavitù. Se questa è ormai la Calabria, la responsabilità - tutta o in parte - non può però essere scaricata sui clandestini. Che i rivoltosi debbano essere messi in condizione di non offendere e al più presto espulsi dai confini nazionali, non ci piove. E altrettanto che debba essere assicurato ai cittadini di Rosarno il diritto di recuperare la loro tranquillità. Ma il campanello d’allarme della rivolta ha suonato anche per ricordare al governo che la Calabria non può diventare un pezzo d’Italia in cui lo Stato s’arrende. Di qui a martedì, quando si presenterà in Senato per discutere dell’accaduto, Maroni ha tempo di prendere alcune iniziative. E deve farlo proprio perché ha intuito che la stanchezza dei meridionali di Rosarno è ormai vicina a quella dei suoi concittadini del Nord.

Le prime cose indispensabili sono già state fatte ieri per fronteggiare l’emergenza. In secondo luogo sarebbe opportuno il superamento della polemica sulla cittadinanza breve agli immigrati, che ha ripreso a tormentare il centrodestra. Poiché non è questo il problema all’ordine del giorno, non è il caso di far confusione. Infine, su due punti, ci si aspetterebbe che il governo intervenisse con la stessa risolutezza con cui s’è mosso negli ultimi tempi nella lotta alla mafia. Il primo è un giro di vite necessario contro la ’ndrangheta e la criminalità organizzata calabrese, sotto qualsiasi forma si presenti. L’altro riguarda il vergognoso mercato delle braccia, su cui finora è calato un velo complice di distrazione. Per evitare, si dice - anche se non si capisce - di danneggiare l’economia sommersa del Sud. In tre giorni, è difficile che si possa avere qualche effetto concreto. Ma dopo anni di colpevole tolleranza, e in una situazione giunta al collasso, anche una seria intenzione sarebbe un passo avanti.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Carta di riserva per il dialogo
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2010, 05:31:36 pm
13/1/2010

Carta di riserva per il dialogo
   
MARCELLO SORGI


Dopo un mese e passa di promesse di dialogo tra governo e opposizione, la rottura maturata ieri sulla giustizia non deve meravigliare. Berlusconi non solo non ha rinviato i provvedimenti depositati in Parlamento per garantirsi il salvacondotto penale, ma allo stesso scopo ha cominciato a studiare un decreto legge - da portare oggi al Consiglio dei ministri - basato su una sentenza della Corte Costituzionale che prevede, a certe condizioni, la sospensione di tre mesi dei processi.

Era scontato che Bersani, su questo terreno, non potesse concedergli nulla.

L'accelerata di ieri del Pd è dipesa anche dall'ipotesi del decreto. Il premier vi si è accostato quando ha saputo che nei prossimi due mesi dovrebbe comparire ben ventitré volte al Palazzo di giustizia di Milano. Un calendario considerato incompatibile con gli impegni di governo, e determinato, forse, dai numerosi rinvii chiesti finora dal Cavaliere. Ma il Pd si stava preparando alla svolta anche prima, lamentando che, come altre volte, il governo avesse preparato fuori dalle Camere il testo del suo maxiemendamento. La versione definitiva del «processo breve», il contestato taglio dei tempi dei procedimenti penali, è stata scritta materialmente a Palazzo Grazioli.

Nelle ultime legislature, questo di considerare il lavoro delle commissioni parlamentari e dei singoli deputati e senatori come un optional, da correggere un minuto prima del voto con un testo governativo blindato, è un malvezzo al quale i governi, non soltanto l'attuale di centrodestra, si sono purtroppo abituati. Da parte di Palazzo Chigi, esservi ricorso anche su una materia controversa come questa, dà l'idea dell'importanza che il premier attribuisce al proprio salvataggio.

Tra governo e opposizione, e tra governo e magistratura, si andrà quindi a uno scontro di fortissima intensità, destinato ad occupare quasi interamente la campagna elettorale per le elezioni regionali. Dopo le quali invece, dovrebbe tornare in discussione il destino delle grandi riforme di cui fino a tre giorni fa si parlava con ottimismo. Ieri i toni del leader del Pd non lasciavano sperare che dopo una contrapposizione come quella che si prepara il dialogo possa riprendere tanto facilmente. Eppure, la sensazione, che riguarda, sia Berlusconi, sia Bersani, è che entrambi alla fine si tengano una carta di riserva.

Il Cavaliere ha voluto dare una spinta ai due testi giacenti in Parlamento - «processo breve» e «legittimo impedimento» -, e non ha escluso il ricorso al decreto, perché, con tre colpi in canna, si sente più sicuro di centrare il suo obiettivo. Se anche uno solo di questi provvedimenti dovesse andare in porto, però, non è detto che insisterebbe sugli altri due. Anzi, potrebbe fermarsi, e una volta superate le elezioni regionali, verificare se da parte del centrosinistra esista ancora la disponibilità a un diverso tipo di intesa. Ad esempio, com'è emerso negli ultimi giorni, sul ripristino per via costituzionale dell'immunità parlamentare.

Quanto a Bersani, la faccia dura all'annuncio della svolta era dovuta. Ma il «mettersi di traverso» del Pd non si sa ancora se preluda a un ostruzionismo parlamentare, o a una dura opposizione, ma senza ostruzionismo. Sicura, al momento, è soprattutto l'irritazione del centrosinistra per il metodo seguito dal centrodestra e per il confronto promesso e negato. E in una battaglia parlamentare senza esclusione di colpi, verrà quel che verrà.

Non è facile, certo, parlare di tregua, nel giorno stesso in cui viene dichiarata guerra. Ma al di là delle leggi del Cavaliere, la giustizia e i rapporti tra il potere politico e quello giudiziario interessano molto anche il centrosinistra. Sono troppi anni che le riforme mancate tengono il Paese inchiodato a una transizione infinita. Che l'opposizione lasci Berlusconi e la maggioranza ad ingoiare da soli il loro rospo, è comprensibile. Mentre è difficile credere che anche stavolta, la politica, nel suo complesso, non si giochi la posta più alta.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. La brusca marcia indietro del Cavaliere
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2010, 02:31:29 pm
14/1/2010 - TACCUINO
 
La brusca marcia indietro del Cavaliere
 

MARCELLO SORGI
 
La brusca marcia indietro del Cavaliere, con l'ammissione a denti stretti che in questo momento la riforma fiscale annunciata qualche giorno fa è impossibile, e con la scomparsa dall'ordine del giorno del Consiglio dei ministri del decreto blocca-processi che martedì sera sembrava imminente, ha di fatto annullato l'effetto sorpresa del ritorno al lavoro del premier.

Sulle tasse, è possibile che il Cavaliere sia stato indotto a riflettere che la materia è sotto stretta sorveglianza europea: la conferma dell'annuncio dei tagli avrebbe probabilmente portato un richiamo di Bruxelles. Sulla giustizia, la lunga trattativa con il Quirinale e con il presidente della Camera deve aver convinto Berlusconi che era inutile forzare con il decreto, per ottenere una sospensione di soli 45 o 60 giorni dei processi, e beccarsi nel contempo uno sciopero dei magistrati e una levata di scudi dell'opposizione destinate a influire sull'avvio della campagna elettorale.

Berlusconi insomma accelera, frena, riflette, e sembra preoccupato, per ora, di tenere insieme la sua maggioranza e presentare agli elettori che dovranno votare tra due mesi per le regionali un centrodestra compatto. In questa chiave deve leggersi anche il rinvio dell'ufficio di presidenza del Pdl che doveva varare il quadro completo delle candidature per le tredici regioni. L'incertezza del Pd in alcune situazioni chiave come l'Umbria, la Campania, la Puglia e la Calabria, riapre per il Cavaliere la possibilità di stringere Casini nella trattativa finale, e magari convincerlo a schierarsi con il centrodestra, come ha fatto nel Lazio, anche dove la contrattazione tra Udc e centrosinistra era ormai molto avanti.

La riapertura di un canale di comunicazione tra i due leader ex-alleati risale a due mesi fa. Ma l'incontro a Palazzo Chigi tra Berlusconi e Casini non aveva prodotto altro che buone intenzioni e una mezza promessa di aiuto al premier sulla riforma della giustizia. L'intreccio tra questi due problemi aperti e l'opportunità di non regalare l'Udc al centrosinistra potrebbero aver spinto il Cavaliere a prendere tempo.

Rispetto per il Quirinale, niente rotture con Fini, attenzione per gli alleati di oggi e di ieri, meno polemiche, ma senza rinunciarci del tutto, con i magistrati. E' con questa ricetta che il premier si prepara a gestire la delicata fase 2 della legislatura. Le elezioni di marzo sono praticamente le ultime di qui al 2013: se Berlusconi riesce a uscirne bene, o benino, o anche soltanto in piedi, potrà dedicarsi alla realizzazione del suo programma quasi senza ostacoli.
 
da lastampa.it


Titolo: SORGI. Gianfranco e l'interesse a dimostrare lealtà in campagna elettorale
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2010, 03:56:22 pm
15/1/2010 - TACCUINO

Gianfranco e l'interesse a dimostrare lealtà in campagna elettorale
   
MARCELLO SORGI

Scontata no, ma certo era molto attesa la tregua tra Berlusconi e Fini siglata nel loro incontro di ieri. A parte la visita del presidente della Camera al premier in ospedale dopo l’attentato del 13 dicembre, era almeno da novembre che i due non si parlavano, e da settembre che non riuscivano a mettere in pratica il patto di consultazione siglato in presenza di Gianni Letta.

In mezzo ci sono mesi di turbolenza, con il Cavaliere che era arrivato alle soglie del chiedere le dimissioni di Fini dalla terza carica istituzionale per il continuo contrappunto e le frequenti prese di distanza del «cofondatore» del Pdl dalle posizioni del governo e del suo partito.

Adesso ci riprovano con la «concertazione» e con la promessa di incontrarsi più spesso (una delle cose che più dispiacciono a Fini è che Berlusconi fa tutte le settimane il punto con Bossi, ma con lui no). La verità è che, stabilito che nel futuro prossimo il centrodestra dovrà trovare il modo di ingoiare il rospo del salvacondotto giudiziario per il Cavaliere, sotto qualsiasi forma («processo breve», «legittimo impedimento» o altro) si presenti, Fini ha tutto l’interesse a mostrarsi leale in campagna elettorale, per ritagliarsi, dopo, uno spazio di interlocuzione sulle riforme con l’opposizione.

Il presidente della Camera ha in serbo una serie di proposte elaborate dalla fondazione a lui vicina che vogliono riportare l’attenzione sul tema del presidenzialismo (o semipresidenzialismo) e dell’elezione diretta del premier o del Capo dello Stato. Materie, queste, che l’opposizione guarda con estrema circospezione, che sarebbe pronta a rigettare qualora venissero da Berlusconi, ma che potrebbe discutere con un leader come Fini che sino ad ora ha dato dimostrazione di saper stare al di sopra delle parti.

Nella coda dell’incontro è stata esaminata - e condannata - la cosiddetta politica dei due forni che porta l’Udc ad allearsi indifferentemente con il centrodestra e il centrosinistra in situazioni e in Regioni diverse. L’attacco è rivolto ovviamente a Casini, per spingerlo a esaminare con più prudenza le alleanze dove ancora non ha fatto la sua scelta (Campania e Puglia) o dove sta per farla a favore del Pd (Calabria, in cambio dell’offerta della candidatura a governatore). Ma in subordine, il Pdl si rivolge anche direttamente agli elettori di centrodestra dell’Udc, nelle cui file l’alleanza con il partito di Bersani non solleva certo gridi di gioia, per spingerli a mostrare nelle urne il loro dissenso.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Messaggio ai mancati innovatori
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2010, 05:06:38 pm
19/1/2010

Messaggio ai mancati innovatori
   
MARCELLO SORGI


Adesso in tanti diranno che Napolitano ha riabilitato Craxi, a dieci anni dalla morte in esilio. Ma non era questo, o non solo questo, l’intento che il Presidente ha affidato alla lunga lettera inviata alla vedova del leader socialista. Napolitano ha detto chiaramente, con tutto il peso del suo ruolo, che Craxi non può essere archiviato solo come un corrotto.

E che «l’impronta non cancellabile» che «tra luci e ombre» ha lasciato nella storia non può essere «sacrificata» al computo delle sue responsabilità giudiziarie. Invece, con una «durezza senza eguali», sanzionata, come il Presidente ha voluto ricordare, anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, Craxi è stato trasformato in un capro espiatorio, di Tangentopoli e della corruzione politica che lui stesso aveva denunciato. Napolitano, coraggiosamente, ha scelto di citare anche il famoso discorso del leader del Psi alla Camera, il 3 luglio ‘92, quando, a Tangentopoli ormai esplosa, parlando di «degenerazioni, corruttele, abusi, illegalità» del sistema di finanziamento della politica, Craxi sfidò anche uno solo dei deputati, che potesse considerarsi innocente, ad alzarsi in piedi, e nessuno si alzò.

Pur consapevoli del problema, i partiti infatti, di fronte all’ondata montante delle inchieste giudiziarie che dovevano seppellirli, non erano stati in grado di fare nulla per evitare che fossero solo i magistrati ad agire con i loro mezzi. Craxi, di conseguenza, si convinse a «lasciare il Paese» (nella lettera non si parla di esilio o di fuga), una decisione seguita dalla malattia e «dalla morte in solitudine, lontano dall’Italia».

Mirata a ricostruire un giudizio più equanime, su un personaggio e su una vicenda trattati finora con la lente deformante, una lunga parte della lettera è dedicata all’azione politica e di governo, da innovatore, di Craxi, nei quattro anni a Palazzo Chigi, prima della sua rovinosa caduta. Dalla politica estera al Nuovo Concordato, Napolitano ne elenca i meriti e i limiti, soffermandosi anche sulla prima stagione delle riforme istituzionali: un tentativo sterile, conclude, per mancanza di disponibilità dei leader d’allora dei maggiori partiti, ma che riuscì, almeno, a produrre la riforma della presidenza del Consiglio.

Di qui in poi, pur nell’attento stile formale del Presidente, la lettera è in crescendo e contiene un duro atto d’accusa contro gli stati maggiori della Seconda Repubblica, incapaci di realizzare le riforme, della cui mancanza era morta la Prima.

Napolitano descrive un sistema che, pur dotato per la prima volta di una concreta alternanza tra diversi schieramenti politici (ciò che per quarant’anni era stato impossibile in Italia), invece di approfittarne per un fattivo confronto, e per i necessari interventi legislativi, è andato avanti per altri quindici anni in un inutile rimpallo di accuse e di responsabilità tra centrodestra e centrosinistra. Senza riuscire minimamente, e in fondo senza neppure provare seriamente, a riempire il vuoto politico che s’era manifestato già ai tempi di Tangentopoli, e grazie al quale, a giudizio del Quirinale, è avvenuto il «brusco spostamento degli equilibri nel rapporto tra giustizia e politica» che dura ancor oggi.

Di più, il Capo dello Stato non poteva dire. E se ha parlato da uomo del suo tempo, e anche, con un certo orgoglio, una volta tanto non nascosto dall’abito istituzionale, da politico tradizionale e da leader della Prima Repubblica, non c’è dubbio che per le parole usate, e per l’occasione scelta, la lettera di Napolitano ad Anna Craxi ha il peso di un messaggio alle Camere. Ed è per questo che resterà nella memoria come uno degli atti politici più espliciti e più significativi della sua presidenza.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Berlusconi e Pier finiranno col dirsi addio
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2010, 05:46:19 pm
20/1/2010 - TACCUINO

Berlusconi e Pier finiranno col dirsi addio
   
MARCELLO SORGI

Strana storia, questa di Berlusconi e Casini. Erano partiti per rimettersi insieme, finiranno col separarsi definitivamente, senza volerlo, anzi volendo il contrario. Forse già oggi l’ufficio politico del Pdl chiuderà il tentativo di riconciliazione dichiarandolo fallito, cercherà in qualche modo di salvare l’«eccezione» del Lazio, dove l’Udc ha fatto un accordo «personale» con la Polverini, ma finirà con l’accantonare l’ipotesi di un rientro dell’Udc in buona parte delle coalizioni di centrodestra che punteranno a riprendersi le Regioni il 28 marzo.

Eppure erano partiti così bene, Silvio e Pier. Prima una lunga e circospetta annusata, poi l’incontro di due mesi fa, senza promettersi, ma anche senza escludere niente. Per Casini l’obiettivo era di evitare l’uscita del suo partito dalle ricche amministrazioni di Lombardia e Veneto. Certo, la pretesa di allearsi in metà del Nord (Piemonte e Liguria) con il centrosinistra e nell’altra metà con il centrodestra poteva risultare eccessiva. Nell’Udc dicono che le alleanze con Bersani (e con la Bresso e Burlando) si sono chiuse quando già era chiaro che Bossi non avrebbe consentito a Berlusconi nessuna apertura. Ma qualche sospetto sui tempi, dall’altra parte, rimane.

Né è bastata a fugarlo la fretta con cui Pier ha chiuso l’accordo nel Lazio con la Polverini e vorrebbe fare altrettanto con Caldoro in Campania e con Scopelliti in Calabria. Nel primo e nel terzo di questi casi i candidati governatori provengono da An e in tutti e tre il centrodestra ha buone possibilità di vittoria anche senza l’Udc, mentre per Casini l’alleanza con il centrosinistra risulterebbe ostica, essendo l’elettorato di queste regioni più orientato verso il Popolo delle libertà. La Puglia è un caso a parte, in cui la confusione del Pd non consente di far previsioni: ma, anche lì, Casini ha dichiarato la sua piena disponibilità a Bersani ponendo - e ritirando subito dopo - la pregiudiziale anti-primarie. Alla fine di questo percorso, è chiaro che se domenica Vendola sarà il candidato del centrosinistra, all’Udc non resterà che candidarsi da sola.

Ma a questo punto, la pulce che da qualche giorno era stata messa in un orecchio a Berlusconi ronza sempre più forte: non sarà, si sta chiedendo il Cavaliere, che Casini voleva mettersi con il Pdl solo dove la vittoria del centrodestra era più probabile, o dove il candidato governatore faceva riferimento a Fini? E se alla fine, come ormai è quasi certo, in Piemonte, Liguria, Marche, Basilicata, Calabria e forse anche in Puglia, Casini risulterà alleato di Bersani, non sarà che sta facendo per davvero le prove generali per il Comitato nazionale di liberazione dal Cavaliere?

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Titolo: MARCELLO SORGI. Lo spettro dell'incostituzionalità da scongiurare alla Camera
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2010, 12:16:03 pm
21/1/2010 - TACCUINO

Lo spettro dell'incostituzionalità da scongiurare alla Camera
   
MARCELLO SORGI


Ricapitoliamo: due giorni fa, non due anni fa, il Capo dello Stato, non un semplice parlamentare, in una lettera inviata ad Anna Craxi nell’anniversario della morte del leader socialista, ha scritto che le inchieste di Tangentopoli - anche se motivate da un sistema corrotto con cui ogni partito veniva finanziato -, introdussero «un brusco spostamento di equilibri tra politica e giustizia».

Quello di Napolitano, pur essendo il più importante, non è stato il solo intervento in materia. Con l’eccezione – ovvia – del solo Di Pietro, tutti i partiti, con accenti diversi, hanno discusso di Craxi come capro espiatorio della liquidazione per via giudiziaria della Prima Repubblica, e dell’incapacità mostrata dalla politica nel suo complesso di ristabilire un equilibrio laddove era avvenuto uno squilibrio. Di tentativi, ce ne furono tanti, è stato ricordato: da destra e da sinistra. Ma tutti inadeguati. Sulla soluzione apparentemente impossibile del problema si sono rotti la testa almeno cinque ministri di Giustizia, e un paio di governi ci hanno rimesso le penne.

Ci si aspettava che dopo questo dibattito insolitamente autocritico e impietoso, a cui molti leader importanti hanno dato il loro contributo, il Parlamento avrebbe saputo sfruttare l’occasione offerta al Senato dalla discussione sul «processo breve», per tornare ad affrontare il problema dei rapporti tra politica e giustizia. Invece niente, tutto è rimasto come prima. Berlusconi è andato avanti come un treno su un provvedimento che – è lui il primo ad esserne consapevole – rischia di nuovo di infrangersi contro un giudizio di incostituzionalità. L’opposizione, immemore dei buoni argomenti portati a favore di Craxi (D’Alema, non un qualsiasi deputato, aveva detto che il leader socialista «è entrato nella storia»), è rimasta ferma nel suo rifiuto di tentare di affrontare in modo condiviso il problema.

Il quale problema, sempre per ricapitolare, si presenta con due corni: primo, è necessario ristabilire una qualche forma di immunità per i politici, non perché debbano essere protetti a qualsiasi costo dai processi, ma per evitare, almeno, che questo accada, quando le accuse appaiano chiaramente strumentali o quando sono in grado di ostacolare lo svolgimento del mandato ricevuto dagli elettori. Questa immunità non potrà che essere temporanea e limitata, se non altro per non passare da uno squilibrio a favore dei magistrati al suo opposto. Ma dovrà – ed è questo il secondo corno, più difficile – riguardare anche Berlusconi. C’è da sperare che il mediocre passaggio al Senato possa servire a riservare alla Camera, agli stessi argomenti, un esame più accurato.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il senatur è già il vincitore delle prossime elezioni
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2010, 09:32:35 am
22/1/2010 - TACCUINO

Il senatur è già il vincitore delle prossime elezioni
   
MARCELLO SORGI

La faticosa e per certi versi interminabile sessione della scelta dei candidati governatori delle regioni sta logorando insieme Berlusconi e Bersani, i leader dei due ex partiti a vocazione maggioritaria, che devono rifare i conti con i problemi di costruzione delle coalizioni e di equilibrio di potere e di visibilità dei diversi alleati.

Chi invece già adesso, anche prima che la gara cominci, può considerarsi vincitore, è Bossi. Il leader della Lega ha dichiarato anzitempo le sue pretese e in men che non si dica è riuscito a centrare i suoi obiettivi. Voleva scommettere sulla guida di due regioni al Nord, e l’ha ottenuta. Aveva due candidati scelti da tempo, attrezzati per il bisogno, e li ha piazzati. A guardarli, il candidato Cota e il candidato Zaia sono perfetti esponenti della Lega di governo, costruiti come si costruivano una volta gli aspiranti a incarichi di quel peso, quando ancora i partiti esistevano.

Hanno alle spalle un lungo tirocinio locale, un rapporto consolidato con il territorio, si sono fatti strada un passo dopo l’altro, a colpi di risultati parziali che, tranne loro, hanno sorpreso tutti gli osservatori, pronti ogni volta a lanciare l’allarme per la crescita del Carroccio al Nord, dimenticando che l’insediamento stabile della Lega data da più di vent’anni. Inoltre sono esponenti della seconda generazione leghista, più moderata e meno rivoluzionaria, cattolica e avvezza al buon vicinato con parroci che un tempo invitavano a votare per la Dc, e ora per il partito del Senatur.

La designazione di Cota e Zaia non ha sollevato alcuna reazione tra i leghisti: tanto tutti sapevano che toccava a loro e tutti, con Bossi, guardano all’obiettivo finale di un Nord completamente leghistizzato e federativo. Anche il sindaco di Verona Flavio Tosi, accreditato come possibile alternativa a Zaia, s’è guardato bene dal farsi avanti, perché sa che il suo momento verrà solo quando sarà chiamato.

Così Berlusconi, quando i suoi vanno a dirgli che di questo passo la Lega sorpasserà il Pdl nelle regioni settentrionali, un po’ fa finta di ascoltarli, e un po’ li manderebbe a quel paese: infatti la verità che il premier non confesserebbe neppure a se stesso è che la Lega si avvicina di più del Pdl al partito che il Cavaliere avrebbe voluto costruire a sua immagine e somiglianza. E che i leghisti sono spesso più bravi degli azzurri perché - contrariamente alle mode -, sono rimasti autentici politici di professione, formati nell’unica organizzazione che funziona ancora come un partito, dall’ultimo vero leader che si diverte a far politica come si deve.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. I contrasti paralizzano il sistema
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2010, 06:06:19 pm
23/1/2010

I contrasti paralizzano il sistema
   
MARCELLO SORGI

Non sarà solo una coincidenza, non sarà neppure la bomba a orologeria temuta dal centrodestra, ma certo la conclusione dell’inchiesta che vedrà presto Berlusconi, suo figlio e l’intero vertice dell’azienda di famiglia nuovamente imputati, è caduta in un momento che peggiore non poteva essere: all’indomani della contrastata approvazione del «processo breve» in Senato e nel pieno dello scontro, che si prepara, sulla stessa materia alla Camera. Il premier e il figlio Pier Silvio dovranno rispondere di accuse che riguardano anche fatti recenti, dal 2003 in avanti fino al 2009, e di reati come la frode fiscale e l’appropriazione indebita per false fatturazioni e per aver gonfiato i costi di centinaia di film. La prima cosa che dovrebbe essere bandita, da qualsiasi parte provenga, è la tentazione di approfittarne, per riscaldare il clima politico già arroventato dall’incipiente campagna elettorale.

Questo davvero non servirebbe a nessuno, e men che mai allo stesso Berlusconi. La convinzione che dovrebbe farsi strada piuttosto è che il sistema rischia ormai di essere paralizzato dai contrasti: non siamo insomma alla vigilia di una nuova Tangentopoli, in grado di azzerare la Seconda Repubblica com’era accaduto con la Prima. Ma non siamo nemmeno alle viste di una soluzione che, una volta adottata, possa essere riconosciuta da tutti come un punto di equilibrio, e perciò stesso faccia cessare lo scontro. Dopo la prova di forza al Senato, adesso, la ricerca di una via d’uscita è in corso alla Camera. Non s’è neppure cominciato, per la verità, e non è detto che si possa arrivare rapidamente a un traguardo. Ma, proprio per questo, ieri Fini è intervenuto, se non proprio per fissare nuove regole del gioco, per proporre, almeno, di provare a tenere un atteggiamento diverso rispetto al problema. Il presidente della Camera veniva da un incontro avuto giovedì con Berlusconi, e per una volta sembrava non parlare in dissenso. La tesi di Fini è che il «giusto processo», dopo la rapida, frettolosa per certi versi, ma non inutile, approvazione in prima lettura, debba ora essere sottoposto a una drastica revisione da parte dei deputati. Una procedura che richiederà tempo, e finirà col fare escludere che la nuova legge possa arrivare in porto prima delle elezioni regionali. Ma che così darà la possibilità di rientrare in gioco a tutte le forze politiche che non intendano mantenere atteggiamenti pregiudiziali. Se Berlusconi rinuncia al diktat, e l’opposizione parallelamente abbandona l’idea di liberarsi per via giudiziaria del Cavaliere e del suo governo, ha lasciato intendere il Presidente della Camera, a Montecitorio potrebbe svolgersi un vero confronto parlamentare come non se ne vedono da tempo.

Quella di Fini è un’impostazione ragionevole, a cominciare dall’idea di prendere tempo per consentire a tutti di riflettere. Malgrado ciò - è inutile nasconderlo - sono molte le incognite che si preparano per contrastarla, e poche le possibilità che possa essere accolta. A un’apertura di Casini - che tuttavia resta contrario al «processo breve» ma sarebbe disposto ad appoggiare l’approvazione del «legittimo impedimento» (l’altro testo in discussione, che potrebbe consentire al premier di rinviare le sue pendenze penali) -, non ci sono stati riscontri da parte del centrosinistra. E tra Bersani e Di Pietro - sarà la rincorsa già partita per le regionali - ormai è difficile distinguere. Inoltre, sulla disponibilità del Cavaliere a sostenere l’appeasement proposto da Fini, qualche dubbio rimane: perché Berlusconi si tiene, si tiene, ma poi si fa scappare il piede dalla frizione.

La verità che giorno dopo giorno diventa sempre più evidente è questa: la soluzione al problema, aperto da quasi diciassette anni, del riequilibrio tra potere politico e potere giudiziario, è quella che era scritta nella Costituzione e fu cancellata sull’onda della cosiddetta «rivoluzione italiana», l’immunità parlamentare. A suo favore, non a caso, nei giorni scorsi si sono levate anche voci autorevoli come quella dell’ex Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro e di alcuni giudici di Magistratura democratica. E per il suo ritorno è giacente a Palazzo Madama una proposta di legge bipartisan firmata dai senatori Chiaromonte (Pd) e Compagna (Pdl). In un anno, lavorando seriamente, un’immunità opportunamente modificata potrebbe essere reintrodotta. Non così la legge-tampone, il salvacondotto che nel frattempo esige Berlusconi. E che potrà essere varata, se davvero lo sarà, solo a prezzo di nuove pesanti lacerazioni.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Sindaco cattolico solo a parole
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2010, 09:50:48 am
26/1/2010

Sindaco cattolico solo a parole
   
MARCELLO SORGI

Sarà certamente solo una coincidenza che l’appello del cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, per una nuova generazione di politici cattolici, sia giunto nel giorno delle dimissioni del sindaco di Bologna Flavio Delbono. Di quei valori a cui Bagnasco s’è riferito come un decalogo necessario per riqualificare tutta la politica agli occhi dei cittadini, Delbono, che nel Pd rappresentava l’ala cattolico-moderata vicina a Prodi, non ne rispettava neppure uno.

Gli erano estranei sia il rispetto della famiglia (delle due mogli mollate, una l’aveva lasciata mentre era incinta), sia quello della «cosa pubblica», da considerare «importante e alta in quanto capace di segnare il destino di tutti», sia la capacità di ascolto e il rifiuto dell’arroganza e della «denigrazione», che invece praticava spietatamente nei confronti della sua ex-segretaria compagna. Se poi dovesse essere dimostrato che i Bancomat che maneggiava non erano suoi, e gli venivano messi a disposizione per ingraziarselo, come dicono le accuse che lo riguardano, Delbono avrebbe peccato anche contro il valore della buona e corretta amministrazione.

All’indomani della batosta subita in Puglia con la vittoria di Vendola alle primarie, la decapitazione del primo cittadino di Bologna rappresenta per il Pd un danno assai più grave. Pur avendo smesso da tempo di essere la città simbolo del socialismo realizzato italiano, il laboratorio politico del Pci, il luogo di sperimentazione architettonica e sociale degli intellettuali di partito, Bologna infatti ha ancora nell’immaginario collettivo il ruolo di ultima capitale della sinistra. Questa identità non è stata intaccata neppure dalla storica sconfitta inflitta dalla destra nel ’99 e dall’avvento, per una sola stagione, del sindaco-macellaio Guazzaloca. Bologna era ed è rimasta al suo posto emblematico perché è ancora il centro del modello emiliano basato sul controllo del partito sul territorio e sull’economia collaterale, legata in gran parte alle sue aziende fiancheggiatrici e alle sue ramificazioni cooperative.

A Torino, a Milano, a Napoli come a Bari, la sinistra è stata al governo e all’opposizione alternativamente, secondo le stagioni, senza che questo influisse in modo decisivo sui destini e sugli equilibri nazionali. Se invece crollano Bologna e il suo modello, la liquidazione del centrosinistra verrebbe percepita come una realtà, anche al di là del fatto che poi si verifichi effettivamente. Le dimissioni di Delbono possono innestare un processo del genere? Dipende. Forse sarebbe meglio chiedersi se Delbono, nel suo partito e nella sua città, era l’esempio di una degenerazione del ceto politico forgiato nella migliore accademia della sinistra, o invece lo rappresentava pienamente. Stiamo parlando di un uomo, di un professionista, di un docente universitario rispettato e temuto, che pur avendo alle spalle un’esperienza e una carriera nell’amministrazione regionale, al fianco del governatore Errani che adesso si ripresenta, e in collegamento sia con Prodi che con Bersani, al momento di candidarsi alla carica di primo cittadino non valuta minimamente come fattore di rischio la propria vita privata disinvolta e con qualche ombra amministrativa. E non lo fa, è lecito presumere, perché quella vita privata è talmente sotto gli occhi di tutti che Delbono, in buona fede, può considerarla normale.

Ma è normale, appunto, che un assessore e un esponente di primo piano vada in giro con la segretaria-amante, la ospiti negli alberghi pagati dalla regione, e poi, quando la scarica, la cancelli e la degradi con una logica usa e getta, fino a spedirla in una specie di call-center? Ed è normale che non appena la vicenda esplode in campagna elettorale, il futuro sindaco faccia spallucce? Non sono solo le risposte pubbliche, di uno che fino a qualche giorno fa diceva che non si sarebbe dimesso neppure dopo un rinvio a giudizio. Ma, viene ancora da chiedersi, quelle private. Cosa avrà detto Delbono a Prodi, Bersani ed Errani? Gli avrà spiegato la verità? E i suoi interlocutori, prima che venisse fuori, erano al corrente della storia? E se non lo erano perché poi non hanno dubitato di lui?

Sono interrogativi legittimi in qualsiasi caso, ma lo sono ancor di più se si discute di centrosinistra. Proprio in questi giorni, in Parlamento, il Pd è impegnato in una strenua e legittima battaglia contro le leggi che Berlusconi sta facendo approvare dalla sua maggioranza, per limitare il potere d’intervento della magistratura sulla politica e per impedire che i processi in cui è coinvolto facciano il loro corso. L’opposizione del Partito democratico - che il premier considera un attacco personale - è basata sulla necessità di fare chiarezza sul riemergere della corruzione a qualsiasi livello, prima di aprire la strada a provvedimenti che potrebbero legare le mani alla magistratura. È augurabile che lo stessa richiesta di trasparenza il Pd, dopo Bologna, sia in grado di rivolgerla anche verso se stesso.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. D'Alema, il Lider Maximo che non tramonta mai
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2010, 08:40:38 pm
27/1/2010 - TACCUINO

D'Alema, il Lider Maximo che non tramonta mai
   
MARCELLO SORGI

L’elezione di Massimo D'Alema alla presidenza del Copasir, l'organo parlamentare di controllo sui servizi, era annunciata da tempo, da quando Rutelli, uscito dal Pd, aveva deciso di lasciarla, e in qualche modo scontata. L'elezione all'unanimità, avvenuta ieri, all'indomani della sconfitta pugliese del Pd nelle primarie che è stata messa in conto da tutti all'ex ministro degli Esteri, forse lo era un po’ meno.

Non che il Copasir sia un organismo di particolare importanza, la responsabilità dei servizi essendo tutta in carico al governo. Ma la capacità di passare indenne attraverso qualsiasi genere di difficoltà ormai avvicina D'Alema, sempre più, al mito degli intramontabili "cavalli di razza" dc della Prima Repubblica: Fanfani, Andreotti, e se non fosse finito come è finito, Moro. Leader che venivano celebrati non solo per la capacità di riproporsi e candidarsi a guidare fasi nuove, in un'epoca in cui tutto o quasi ruotava attorno al loro partito. Ma per l'abilità di superare qualsiasi disfatta. Con il «lider Maximo», com'è soprannominato - anche se i tempi sono molto cambiati, e il Pds, i Ds e adesso il Pd nei quindici anni della Seconda Repubblica sono stati più all'opposizione che al governo -, si può fare lo stesso esercizio: provare a misurare la sua capacità di sopravvivenza a partire dagli incarichi che ha avuto e perduto in tutto questo periodo. Dunque, cominciando dal 1994, l'anno della «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto abbattuta dalla prima entrata in campo di Berlusconi, la carriera di D'Alema, tra alti e bassi, ha conosciuto molti rovesci, ma nessuno definitivo.

D'Alema ha avuto e perduto la segreteria del suo partito, la presidenza dell'ultima Bicamerale per le riforme istituzionali, la presidenza del Consiglio (unico leader post-comunista ad approdare a Palazzo Chigi), il ministero degli Esteri. E' stato candidato alla Presidenza della Repubblica nella tornata in cui fu eletto Napolitano. S'è ritrovato fuori dal vertice del Pd con la segreteria di Veltroni, ma c'è rientrato da poco come punto di riferimento della segreteria Bersani, grazie alla quale è ora arrivato al Copasir con i voti di tutti. Per Fanfani, Enzo Biagi aveva coniato un famoso soprannome che gli rimase incollato tutta la vita: il «Rieccolo». Per l'inossidabile D'Alema, l'ultimo dei leader della sinistra a sedere sul baldacchino invisibile che una volta era riservato ai capi comunisti di tutto il mondo, non servirebbe neppure: perché non è che ritorni. Non se n'è mai andato.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Casini e il paradosso della politica dei due forni
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2010, 08:43:48 pm
28/1/2010 - TACCUINO

Casini e il paradosso della politica dei due forni
   
MARCELLO SORGI


Con la riapertura della trattativa con il centrodestra sulle regionali, Pierferdinando Casini entra nel suo giro più difficile. Nell’immediato infatti può segnare all’attivo che tutta la fase preparatoria delle coalizioni che cercheranno di aggiudicarsi i governi regionali ha visto l’Udc come il partito più corteggiato da entrambe le parti. Dal Pd, prima delle disastrose primarie in Puglia contro Vendola. E ora, in extremis, dal Pdl, anche se fino a una settimana fa gli uomini più vicini al Cavaliere tifavano per un accordo organico tra centristi e sinistra, che avrebbe potuto liberare una parte dei cattolici moderati contrari all’intesa con Bersani e portarli, anzi riportarli a destra.

Ora invece la minaccia che Casini si presenti da solo, sottraendo voti al centrodestra e finendo con il favorire il centrosinistra, e la sua successiva offerta di riconsiderare le alleanze in Puglia e Liguria, ha creato allarme ai vertici del Popolo della libertà e ha convinto il premier a riaprire la trattativa. Escluso che questo possa valere per Lombardia, Veneto e Piemonte, dove la Lega non consentirebbe alcun riavvicinamento dell’Udc al centrodestra, e dove Casini, almeno in Piemonte, ha da tempo stretto l’accordo con il Pd, l’eventuale intesa in Liguria, da decidersi entro domani, renderebbe di nuovo competitivo il Pdl in una parte del Nord-Ovest in cui il Pd parte favorito. Lo stesso vale per la Puglia dopo l’exploit alle primarie che ha dato a Vendola uno sprint in partenza difficile da recuperare.

Se però la strategia di accordi bilanciati del centro con la destra e con la sinistra, che aveva portato inizialmente l’Udc a sbilanciarsi sul versante del Pd, dovesse ora subire un capovolgimento, e portare alla fine i centristi nell’anticamera di un accordo organico con il Pdl nelle regioni più importanti e nella maggior parte delle situazioni ancora aperte, Casini, pur potendosi dichiarare vincitore anche prima del voto, si troverebbe di fronte a una contraddizione, che neppure un democristiano di vecchia scuola come lui potrebbe sciogliere facilmente.

Escluso nel 2008 dal partito berlusconiano che poi risultò vincente alle elezioni, Casini s’era dedicato a una legislatura di opposizione diversa, in attesa di accompagnare Berlusconi verso l’uscita e accelerare una fase nuova. Sarebbe davvero singolare che, partito come ex-alleato del Cavaliere per liquidarlo, si ritrovi adesso, al contrario, attraverso le regioni, nientemeno che a puntellarlo.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Quando i "cacicchi" si impongono sui partiti
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2010, 03:47:14 pm
29/1/2010 - TACCUINO

Quando i "cacicchi" si impongono sui partiti
   
MARCELLO SORGI

Per la Puglia, Berlusconi è tornato sui suoi passi, ha chiuso la trattativa con Casini e ha detto che non si farà «incantare da nessuno». In realtà, anche se non è riuscito a incantare il premier, il capo dell’Udc un risultato lo ha raggiunto: candidato, sospeso e poi di nuovo ricandidato nel giro di ventiquattro ore, l’aspirante governatore del centrodestra Rocco Palese è incorso in una falsa partenza. Pazienza, cercherà di rifarsi. Gli toccava inseguire un avversario molto forte come Nichi Vendola, partito a razzo dopo la vittoria alle primarie, adesso sarà più duro riacciuffarlo.

L’infinita vicenda pugliese, e più in generale tutta la preparazione delle regionali, sulle quali molti leader politici si stanno rompendo la testa, si possono anche leggere in un altro modo. A partire, per esempio, dalla legge elettorale per i governatori, costruita su misura, quindici anni fa, per limitare il potere del centro sulla periferia. I ras locali, i «cacicchi», come li chiamava D’Alema, si sono dotati di uno strumento per gestire direttamente candidature e alleanze locali. In base alla legge, infatti, il governatore manovra un listino personale che in base al premio di maggioranza gli consente di far eleggere i suoi fedelissimi, e di gestire una sua personale maggioranza in consiglio regionale.

Così, se il «cacicco» è forte, uno alla Vendola, per intendersi, o ai suoi tempi, alla Bassolino, siccome è certo o quasi certo che il premio finirà nelle sue mani, gli alleati si mettono in fila dietro la sua porta e i partiti alle volte si spaccano, localmente, perché le singole correnti sono pronte a passare dal centrodestra al centrosinistra (o viceversa) pur di entrare nella coalizione che si annuncia vincente.

E’ una sorta di trasformismo legalizzato. Ed è ciò che fece dire a Bassolino, una volta, quasi con le stesse parole che usava Gava: «Conosco i miei elettori uno per uno. Se mi candido io, votano per me. Se c’è Berlusconi, qualche libera uscita la devo mettere in conto». Tra elezioni politiche e regionali la differenza sta in questo. Nelle prime sono i leader a scegliere, praticamente a nominare, deputati e senatori. Nelle seconde, a decidere, è il «cacicco». Se non vuol mollare, vedi Vendola, non c’è verso di schiodarlo. Ma se per caso ha cambiato lavoro, vedi Fitto, che a Bari, prima di diventare ministro, era il «cacicco» del centrodestra, la successione si fa complicata. «Palesemente» complicata, verrebbe da dire, guardando a cosa è successo nel centrodestra nelle ultime ore.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il rebus-data sulle macerie del Partito
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2010, 02:18:19 pm
2/2/2010 - TACCUINO

Il rebus-data sulle macerie del Partito
   
MARCELLO SORGI


Naturalmente sono in molti a interrogarsi sulle ragioni del «no», ribadito ieri e ormai dato per scontato anche dal suo partito, di Romano Prodi alla candidatura a sindaco di Bologna. Nei giorni scorsi, malgrado le resistenze dell’interessato, l’ipotesi sembrava andare avanti, spinta dalla necessità e da diversi segnali in positivo: la crisi aperta all’improvviso con le dimissioni di Delbono, l’opportunità di un candidato di alto profilo, il modo spontaneo in cui da parte di molti ambienti e personalità della città, da Lucio Dalla, per dire, all’ambiente universitario, alla gente comune, c’era stata una sorta di gradimento preventivo all'idea del ritorno del Professore.

Forse però prima di chiedersi il perché del suo rifiuto sarebbe meglio pensare a cosa sarebbe successo se Prodi avesse risposto di sì. Considerato che non c’è stata né una sede né una riunione del centrosinistra in cui l’ipotesi sia stata discussa, approvata e incoraggiata magari con un semplice comunicato, un momento dopo la designazione ci sarebbe stato da aspettarsi che una componente anche minima del vecchio Ulivo avrebbe avuto sicuramente qualcosa da ridire sulla scelta del fondatore. Ma si doveva prima chiedere al Professore se esistesse una sua disponibilità, o domandare agli alleati del centrosinistra se fossero disponibili? O si doveva prima ancora e prima di tutto interrogare Casini sulla possibilità che l’Udc, avviando un nuovo esperimento a Bologna, sostenesse l'illustre candidato del Pd?
O diversamente cercare di convincerlo in nome della «bolognesità» e della vecchia amicizia con il Professore?

Domande come queste, ne siamo sicuri, si saranno affacciate varie volte all’interno del partito di Bersani. E nell’impossibilità di trovare una risposta condivisa avranno portato a bruciare, dopo tutte quelle consumate fin qui, anche la candidatura di Prodi. Non a caso l'interessato, nelle parole usate pubblicamente per sfilarsi, ha lasciato intendere che s’è tirato da parte quando ha capito che attorno al suo nome stava nascendo l’ennesimo pasticcio di questa sfortunata, per il Pd, stagione della scelta dei candidati governatori e sindaci.
Da adesso c’è un altro modo per capire come andranno le elezioni a Bologna: basta aspettare di conoscerne la data. Se il ministro Maroni decide di accorparle alle regionali del 28 marzo, vuol dire che s’è convinto che il «no» di Prodi è senza ripensamento. Se invece prende tempo, è perché vuole rosolare a puntino sia gli eterni indecisi del Pd, sia il loro (mancato) candidato.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Non decolla il laboratorio tra Udc e Pdl
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2010, 09:25:42 am
3/2/2010 - TACCUINO

Non decolla il laboratorio tra Udc e Pdl
   
MARCELLO SORGI

La battaglia cominciata ieri alla Camera sul «Legittimo impedimento» - la seconda (dopo il «processo breve») legge pensata per ridare al premier la protezione dai processi che la Corte Costituzionale gli aveva tolto annullando il «Lodo Alfano» - si concluderà oggi con l’approvazione del testo e probabilmente, complice la diretta tv, con scontri anche peggiori di quelli a cui si è assistito in Aula.

Ma al di là dei contenuti del provvedimento - una pezza sul buco, messa lì in attesa che il «Lodo» possa essere riapprovato come legge costituzionale - il «legittimo impedimento» si segnala come occasione di riavvicinamento tra l’Udc, che ha già promesso di astenersi nel voto finale di oggi, e il Pdl, che vuole arrivare a qualsiasi costo e a tappe forzate all’approvazione in giornata. Avvicinamento, questo tra Casini e Berlusconi, cominciato più di due mesi fa con l’incontro a Palazzo Chigi che sembrava foriero di chissà quali intese tra i due, in vista delle Regionali, e che invece ha prodotto come unico risultato concreto solo l’annuncio dell’astensione di oggi.

Se la trattativa sulle Regioni fosse andata diversamente, anche l’accordo in materia di giustizia avrebbe potuto diventare più esplicito. Invece, le cose sono andate come sono andate, con Berlusconi che alla fine s’è lasciato convincere da Bossi a contestare la «politica dei due forni» di Casini e non è riuscito ad approfittare del progressivo logoramento dei rapporti tra Udc e Pd per stringere l’ex alleato.
La traccia più evidente di questo logoramento, nel dibattito e nel prossimo voto della Camera, è il definitivo schiacciamento di Bersani e D’Alema sulle posizioni di Di Pietro (anche se il leader di Italia dei Valori, va detto, nel genere grottesco non ha eguali) e la distinzione, nel voto, tra l’Udc che si astiene e il centrosinistra che si oppone.

Se le cose andranno dunque come preannunciato ieri, si potrà dire che alla Camera, dopo il fallimento in Puglia, è stato sepolto il laboratorio del centrosinistra allargato a Casini, ma non è stato inaugurato quello del ritorno dell’Udc nel centrodestra.

La convergenza sul «legittimo impedimento», infatti, sembra destinata a non produrre altri risultati. E la politica in questa stagione, da qualsiasi parte la si guardi, si conferma sterile. L’unico che ci guadagna qualcosa è sempre Berlusconi: dal Senato è riuscito a far varare il «processo breve», dalla Camera il «legittimo impedimento», deve solo decidere adesso quale dei due portare per primo all’approvazione definitiva nell’altro ramo del Parlamento, per trasformarli in legge.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Silvio vince senza forzature né colpi di mano
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2010, 10:12:26 am
4/2/2010 - TACCUINO

Silvio vince senza forzature né colpi di mano
   
MARCELLO SORGI

Dopo quella del «processo breve» al Senato, l’approvazione del «legittimo impedimento» da parte della Camera segna una svolta che va valutata attentamente. Berlusconi tre mesi fa, subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha cancellato il «lodo Alfano» era dato politicamente per morto. Il suo isolamento era completo. Oltre all’opposizione, compattamente schierata con i giudici della Consulta, aveva contro il Quirinale e una parte consistente della sua stessa maggioranza, allineata con il Presidente della Camera e con le riserve da lui espresse pubblicamente e negli incontri riservati avuti con il premier, alla ricerca di un nuovo salvacondotto dai suoi guai giudiziari.

Per raggiungere il suo obiettivo Berlusconi ha dovuto, nell’ordine: ricostruire il rapporto con il Capo dello Stato, ritrovare un’intesa con Fini, agganciare in qualche modo il leader dell’Udc Casini, spaccando l’opposizione, e poi ovviamente correggere, smussare, modificare leggermente i due progetti messi a punto dai suoi esperti, promettendo che quello che non è stato fatto in prima lettura a Palazzo Madama e a Montecitorio sarà fatto nella seconda, al momento della trasformazione in legge dei testi appena approvati. Tra le righe il premier ha lasciato intendere che il «processo breve», il più contestato dei due provvedimenti, potrebbe anche essere abbandonato: dipenderà ovviamente da molti e diversi fattori, non esclusi i risultati elettorali delle prossime regionali e l’atteggiamento dei giudici di Milano, di cui è prevedibile un inasprimento nei confronti delo loro illustre imputato.

Ma al di là di quel che succederà, conta molto quel che è già accaduto. Berlusconi ha ottenuto quel che voleva non con un colpo di mano, con abusi di potere, con forzature: ma semplicemente discutendo, trattando, costruendo consenso attorno alle sue proposte, disarmando (in parte) gli avversari, in una parola facendo politica e senza neppure adoperare l’arma del decreto. Al momento dell’approvazione s’è preso pure il lusso di andarsene in missione all’estero con un gruppo di ministri.

Se le cose sono andate così è anche perché, al di là dell’aspetto personale, deprecabile, degli effetti delle nuove norme (quando diventeranno tali), in Parlamento, checché ne dicano i leader dell'opposizione antiberlusconiana, l'atteggiamento di senatori e deputati verso i magistrati non è affatto favorevole. Una ragione di più per riflettere: tanti sforzi, tante discussioni e tante attese per portare a casa due leggi così discutibili, potevano essere messi a frutto di una vera riforma della giustizia.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Perché Bersani fa del caso Morgan un fatto politico
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2010, 12:15:32 pm
5/2/2010 - TACCUINO

Perché Bersani fa del caso Morgan un fatto politico
   
MARCELLO SORGI

Con l’entrata in scena di Bersani in difesa di Morgan, quello del cantante aspirante concorrente di Sanremo, escluso dal Festival perché ha confessato in un’intervista di fare uso di cocaina, è definitivamente diventato un caso politico. Per il momento se ne è discusso in tv a «Porta a Porta», la terza camera del Parlamento, ma non è escluso a questo punto che una sessione del «question time» possa essere dedicata a capire se la Rai ha deciso di mettere da parte l’artista per ordine del governo, o se invece è disposta a riabilitarlo, dopo il pentimento su Rai Uno davanti a Bruno Vespa.

Il leader del Pd è stato il solo a dire che Morgan non va massacrato per la sua debolezza, ma, vuoi perché l’argomento è spinoso, vuoi perché la destra l’ha preso a pretesto per una campagna proibizionista, a cui la ministra dei giovani Giorgia Meloni e il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri si sono dedicati senza risparmiarsi, l'unico alleato che Bersani s’è ritrovato è stato un altro cantautore, Simone Cristicchi, mentre Lucio Dalla, democristianamente, s'è defilato, dicendo che Morgan non doveva raccontare in giro i fatti suoi.

Invano il direttore generale della Rai Masi chiede che anche in questo caso si abbassino i toni. L’idea che la Rai sia in grado di decidere da sola chi mandare a Sanremo e chi no non sfiora nessuno, tutti hanno qualcosa da dire o da contestare al proprio avversario, e il povero Morgan, saggiamente, ha detto a Vespa «chissenefrega di Sanremo»: tanto lui la sua bella settimana di pubblicità l’ha avuta, e a questo punto il ruolo di martire non potrà che contribuire al successo dei suoi dischi.

I politici al contrario non rinunceranno tanto facilmente a sviscerare fino in fondo il caso. Lo fanno - va detto - con una passione certamente superiore a quella che hanno messo nel recente scontro sul «legittimo impedimento» o in quelli di tutti gli altri giorni su Berlusconi.

È facile immaginare che qualcuno arriccerà il naso in segno di dissenso e finirà a ricordare con malinconia i tempi in cui la politica con la «P» maiuscola si occupava solo di questioni serie. Ma a parte il fatto che qualche debolezza per il mondo dello spettacolo ce l’avevano anche i grandi leader della Prima Repubblica (una volta Saragat da Presidente della Repubblica arrivò a mandare un telegramma di congratulazioni a Sofia Loren, per la nascita del suo primo figlio), non è affatto il caso di scandalizzarsi, o di compiacersi: la politica, in Italia, ormai è questa cosa qui.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Troppo mediatiche le accuse del figlio di Don Vito
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2010, 09:31:55 am
9/2/2010 - TACCUINO

Troppo mediatiche le accuse del figlio di Don Vito
   
MARCELLO SORGI


L’ escalation delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino non si ferma. Dopo aver presentato Provenzano, finora considerato il capo della mafia e l'arresto più importante avvenuto nella storia del Dopoguerra, come una sorta di collaboratore occulto dello Stato, in grado di accentuare o allentare la tensione criminale in Sicilia secondo le intese o i dissensi con diversi governi, e dopo aver descritto il senatore Dell’Utri come nuovo interlocutore della mafia e nuovo canale di comunicazione con lo Stato, molto più efficiente di Andreotti, ieri ha detto più o meno che la mafia fu cofondatrice di Forza Italia nel '94 e sperava, con questo, di risolvere finalmente i suoi problemi. La tesi del giovane Ciancimino è che la mafia, nel passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, si sarebbe dedicata alle stragi, per convincere i nuovi arrivati alla guida del Paese che solo in accordo con Cosa Nostra avrebbero potuto governare tranquillamente.

Questa ed altre rivelazioni - tali, e fatte con tale candore, da far arricciare il naso anche ad esperti mafiologi e a magistrati che hanno rischiato la vita nella lotta contro la mafia -, da un mesetto circa il giovane Ciancimino le sta centellinando in un'aula di giustizia del tribunale di Palermo che ospita il processo contro il generale Mori, ufficiale dei Carabinieri accusato di aver trattato un armistizio tra i boss e lo Stato.

Il tenore delle dichiarazioni di Ciancimino va in crescendo. Il giovane sostiene che il padre, già sindaco di Palermo, amico di Provenzano e in affari con lui, prima di morire, lo mise al corrente di tutti i suoi segreti. Varie volte al giorno una parte della testimonianza del figlio viene anche trasmessa in tv, e in certi momenti Ciancimino ricorda l'Alì Agca che, nei numerosi processi che subì per l'attentato al Papa, in diretta televisiva annunciava continuamente la fine del mondo.

La domanda che sorge spontanea di fronte alla performance del giovane Ciancimino è se prima di farlo parlare in aula, e di conseguenza in televisione, di cose così gravi, non sarebbe stato il caso di ascoltarlo in un ambito più ristretto, anche per poter approfondire le sue accuse prima di portarle in giudizio. Col processo Andreotti in fondo abbiamo già vissuto a lungo nel dubbio di essere stati governati per quarant’anni da un capomafia. Poi, per fortuna, dopo sette anni il dubbio è stato sciolto. Non vorremmo ora ricominciare a temere che negli ultimi quindici, su un totale di sessant’anni di democrazia repubblicana, la mafia con Berlusconi avrebbe ripreso il sopravvento. E magari dover aspettare un altro decennio per sapere che non era vero.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. E Silvio scherza: da quando sono single c'è la fila...
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2010, 10:35:51 am
11/2/2010 - TACCUINO

E Silvio scherza: da quando sono single c'è la fila...
   
MARCELLO SORGI

Né rimpianti, né rimorsi». Berlusconi archivia così il terribile 2009 della storia delle escort e della fine del suo matrimonio, alla presentazione romana del libro di Bruno Vespa «Donne di cuori» che lo racconta. Non vorrebbe parlarne, ma poi, com’è fatto lui, si lascia andare. I rimpianti che non ci sono più riguardano la moglie Veronica, che con la sua richiesta di divorzio ha fatto esplodere lo scandalo. Ormai è una storia finita, spiega il premier, «e si tratta di decidere solo dove andrà ad abitare e che assegno dovrò versarle». I rapporti con i figli vanno bene e anche il contrasto tra Marina e Barbara, due delle tre figlie, è «smentito».

I rimorsi, che, anche quelli, Berlusconi nega di provare, sono più legati alla stagione delle pazze feste nella residenza di Palazzo Grazioli, a Roma, a Villa Certosa, in Sardegna, e al viavai di ragazze, alcune delle quali pagate, e soprattutto di una che, dopo aver passato la notte con il premier, tirò fuori un certo numero di nastri registrati da consegnare al magistrato che indagava. Berlusconi pensa ancora di aver agito in buona fede e di essere rimasto vittima, se non di un complotto, del suo innato amore per il divertimento e della sua ingenuità, che gli faceva aprire la porta di casa a persone di cui non doveva fidarsi.

Che le feste e un certo numero di frequentazioni femminili fossero anche un sistema di selezione della nuova classe politica, non lo vuole più sentir dire. Cita ad esempio le sue ministre come modello di governo. E delle candidate approdate in Europa, proprio nel fuoco dello scandalo, è pronto ad elencare meriti ed impegno nel lavoro parlamentare.

Ma adesso che non può più divertirsi come faceva prima, come passa le sue serate il Cavaliere? Davvero, come ha detto, muore dalla voglia di tornare a casa nel week-end per stare con i figli e cantare insieme al nipotino? Berlusconi prova solo per un po’ a farlo credere, poi alla domanda su come passerà il prossimo San Valentino, se la cava con una battuta: «Userò il computer per mandare messaggi a tutte le mie fidanzate».

Scherza, certo. Ma chissà se scherza veramente fino in fondo. A dibattito finito, prima che il nuovo e soffocante apparato di sicurezza lo circondi, una folla di gente, e di donne adoranti, gli si stringono attorno, per salutarlo, incoraggiarlo e chiedergli un autografo. Berlusconi vorrebbe fermarsi, non può, la scorta lo spinge verso l’uscita.

Ma prima di andare: «Lo sa che da quando son tornato single c’ho una fila...»

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Bersani a Sanremo e se al festival andasse anche Silvio?
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2010, 02:13:24 pm
12/2/2010 - TACCUINO

Bersani a Sanremo e se al festival andasse anche Silvio?
   
MARCELLO SORGI

Su un punto, in questo difficile avvio del 2010, la linea del Pd è ormai chiara: il Festival di Sanremo. Dopo aver difeso Morgan, il cantante escluso dalla competizione dopo aver raccontato in un'intervista che faceva uso di cocaina, il segretario del Partito democratico ha annunciato che andrà a Sanremo insieme alla figlia, perché il suo partito «va dov'è la gente e dove la gente si diverte».

Immediata la replica della Fondazione Farefuturo, vicina al presidente della Camera Gianfranco Fini, ed evidentemente preoccupata che possa assumere una connotazione di sinistra un Festival che manifestamente non lo è mai stato, tanto da riservare tiepide accoglienze ai cantautori tradizionalmente più vicini al Pd. Vasco Rossi, con la sua «Vita spericolata», non a caso arrivò penultimo nel 1983.

Ora, a parte il fatto che la classifica del Festival raramente ha coinciso con il successo di mercato delle canzoni uscite da Sanremo (e proprio Vasco Rossi lo conferma), se c'è una cosa difficile è stabilire l'orientamento politico del Festival, nato e cresciuto democristiano, come tutta la Rai, e malamente adattato alla stagione del bipolarismo, in cui la lottizzazione che era sempre possibile rintracciare all'interno della pattuglia dei vincitori s'era fatta più difficile.

Ma la polemica tra il leader di centrosinistra e la Fondazione di destra sottende un argomento più specioso: se anche Bersani si mette lo smoking e il papillon per entrare al teatro Ariston, nel tempio delle canzonette e della frivolezza nazionale, non è che poi toccherà alla destra sociale la rappresentanza dei veri valori popolari, inclusi i cantautori che non hanno mai ricevuto gli allori del Festival?

Una questione complessa, come si vede, sulla quale gli autori della polemica invitano a meditare. Del resto, sono giorni complicati per la Rai. E non è escluso che insieme alla cancellazione dei programmi di approfondimento dalle reti pubbliche, la commissione di vigilanza debba occuparsi anche delle presenze dei leader politici nelle serate del Festival. Già: vuoi vedere che dopo Gorbaciov e Clinton (quest'ultimo solo annunciato), e dopo, modestamente, Bersani, a fare un pensierino sul Festival sarà il Cavaliere? La par condicio sarebbe rispettata anche in questo caso: a condizione che se Berlusconi canta, come faceva sulle navi tanti anni fa, e come spesso continua a fare a casa sua, per allietare i suoi ospiti, questa volta sia fuori concorso.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Pd-Udc, il sogno impossibile della legge elettorale
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2010, 05:33:42 pm
10/2/2010 - TACCUINO

Pd-Udc, il sogno impossibile della legge elettorale
   
MARCELLO SORGI

Per la serie grandi ritorni in politica, da qualche giorno, a margine della trattativa per un eventuale ripristino dell’immunità parlamentare, si segnala un nuovo cantiere aperto sulla legge elettorale. Il ragionamento avanzato da Luciano Violante del Pd, e condiviso da Casini dell’Udc, è che l’immunità nella Costituzione c’era a difesa di parlamentari eletti. Poiché invece gli attuali deputati e senatori vengono praticamente nominati dai capipartito, e imposti agli elettori grazie a un meccanismo che non gli consente di scegliere, logica vuole che, prima si rimettano i cittadini in condizione di decidere, e dopo, solo dopo, si provveda ad assicurare agli eletti una maggiore salvaguardia per il mandato ricevuto dal popolo.

Chiarissimo, non fa una piega. Così com’è sicuro che fu Berlusconi, in omaggio alla sua concezione «aziendalista» e un po’ autoritaria del Parlamento, a volere una legge elettorale che gli consentisse di disegnare i gruppi parlamentari del Popolo della libertà a sua immagine e somiglianza, e ad escludere, a conferma di questo criterio, un alleato infedele come l’Udc dalla sua coalizione. Per riformare o anche solo modificare la legge, dunque, occorre che almeno una parte del Pdl - diciamo i finiani -, stufa di obbedire al Cavaliere e desiderosa di tornare ad avere un po’ d’autonomia in nome dei propri elettori, trovi a questo scopo una qualche intesa con l’opposizione. Opposizione, manco a dirlo, che dovrebbe essere unita su un progetto di riforma e pronta a condividerne i cambiamenti con quella parte della maggioranza che ci sta. Mentre Berlusconi, pur geloso della sua legge, alla fine dovrebbe abbozzare, in cambio del ritorno dell’immunità e di una definitiva sistemazione del conto aperto con la magistratura.

Qui però il discorso si complica. Ad ogni legge elettorale, si sa, corrisponde un modello di sistema. Per dire, se uno è come Berlusconi, vuole la legge che c’è. Se è come Fini, punta a una legge che porti all’elezione diretta, popolare, del premier o del Presidente della Repubblica. Ipotesi, questa, che a certe condizioni potrebbe accettare anche Bersani. Ma se uno è come Casini, e legittimamente sogna un presidente del Consiglio che forma in Parlamento la sua maggioranza e può essere sfiduciato e sostituito quasi come ai tempi della Prima Repubblica, non potrà condividere né la prima né la seconda proposta. Per questa ragione il centrosinistra e l’Udc, già nei due anni del governo Prodi, tra il 2006 e il 2008, cercarono, senza riuscirci, di mettersi d’accordo su un sistema elettorale alla tedesca. E per gli stessi motivi difficilmente ci riusciranno anche stavolta.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Bossi pompiere frana addosso al premier
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2010, 10:39:51 am
16/2/2010 - TACCUINO

Il Bossi pompiere frana addosso al premier
   
MARCELLO SORGI


Non sempre una frenata, anche brusca, riesce ad impedire un tamponamento. E anche ieri il doppio colpo di piede di Bossi sul pedale di arresto non ha evitato che il Senatur, finora considerato l’alleato più fedele del Cavaliere, finisse invece addosso a Berlusconi in un momento assai delicato.

A Roma sono giorni complicati per Palazzo Chigi, sia per l’inchiesta della magistratura di Firenze che ha preso di petto Bertolaso e i suoi più stretti collaboratori, rivelando lati oscuri della conduzione degli appalti alla Maddalena, sia per il tentativo, ormai bloccato, di sottrarre ulteriormente la Protezione civile al sistema dei controlli. Il “no” di Bossi alla trasformazione della struttura in Spa, giunto poco prima che il sottosegretario Letta annunciasse la rinuncia del governo al progetto, ha sottolineato l’isolamento del premier, che fino al giorno prima voleva farlo passare con un voto di fiducia, su un terreno su cui già si erano allineate parecchie riserve dei ministri e della componente finiana del Pdl.

Ma sono giorni molto difficili anche a Milano, dove gli scontri tra immigrati nel quartiere-ghetto di via Padova e il riesplodere di un traffico di tangenti che ha al suo centro il presidente della commissione urbanistica del Comune, il pdl Milko Pennisi, hanno messo sottosopra l’avvio della campagna elettorale per le regionali. Nulla che possa capovolgere il risultato, che tutti danno per scontato, della riconferma di Formigoni come governatore della Regione Lombardia. E tuttavia, all’ombra del Duomo, il disorientamento dell’opinione pubblica è evidente. Il mix di quella città nella città, divenuta ingovernabile, dei quattrocentomila immigrati residenti a Milano, con la scoperta che a Palazzo Marino si ripetono pari pari episodi che ricordano la Tangentopoli di diciannove anni fa, può ripercuotersi non si sa come sull’atteggiamento degli elettori di centrodestra, spingendoli verso l’astensione o comunque verso un atteggiamento più critico.

Ecco perché Bossi e Maroni insieme hanno sentito il bisogno di ridimensionare le uscite di Calderoli e del leghista radicale Salvini (quello che voleva limitare l’uso della metropolitana per gli immigrati), e togliere dal campo gli accenni ai rastrellamenti, che in questa situazione possono ulteriormente infiammare gli animi e provocare nuovi incidenti. D’improvviso la Lega scopre tutti i limiti della politica degli annunci e delle soluzioni miracolose che non funzionano, come le ronde metropolitane. E teme di aver compromesso, di fronte all’elettorato più moderato, la posta più grossa di queste elezioni: il sorpasso, al Nord, sul Pdl.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Berlusconi si affida a San Guido
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2010, 09:31:55 am
17/2/2010

Berlusconi si affida a San Guido
   
MARCELLO SORGI

Di fronte alla commissione Ambiente della Camera e davanti ai telespettatori di Ballarò, Guido Bertolaso - il capo della Protezione civile al centro dello scandalo che in pochi giorni lo ha trasformato da mito in mostro -, ieri ha scelto di difendersi.

E’ suo diritto e lo ha fatto pacatamente, senza, per intendersi, la solita giaculatoria di accuse contro i magistrati, che Berlusconi sciorina ogni qualvolta si trova coinvolto in nuove inchieste. Bertolaso ha ribadito di essersi già presentato dimissionario di fronte al governo, che invece gli ha chiesto di andare avanti. E ha aggiunto che dopo un primo momento di disorientamento, in cui aveva pensato di tirarsi da parte, adesso invece è intenzionato ad andare avanti, proprio per difendere la struttura che ha diretto per otto anni e mezzo e che è stata finora un esempio di efficienza e abnegazione ammirato in tutto il mondo.

Ma ecco, rispetto a quest’immagine e ai risultati incredibili, e non scalfiti neppure da precedenti indagini, di un lavoro che ha portato, tra l’altro, in sei mesi, i terremotati dell'Aquila di nuovo sotto un tetto, e ha liberato le strade di Napoli da cataste di rifiuti abbandonati da un anno, la lettura dei verbali d'accusa della magistratura di Firenze, e delle intercettazioni che li corredano, rappresenta un capovolgimento.

Disinvoltura come regola, tra i collaboratori di Bertolaso, alcuni dei quali suoi parenti stretti. Privilegi inspiegabili e non direttamente connessi ai compiti che svolgevano. Familiarità non proprio irreprensibili con un gruppo di imprenditori - un gruppo ristretto - cinici al punto da ridere alle spalle dei terremotati, ai loro occhi solo un affare come un altro, e prima ancora che venissero tirati fuori dalle macerie. E attorno a ciò che la magistratura ha definito un insieme «gelatinoso», una ragnatela di favori e promesse, una frequentazione assidua e pressante, specie con gli altissimi funzionari arrestati che materialmente scrivevano le gare d’appalto, e inoltre un’intimità con il sottosegretario stretta fino ai massaggi, che l’accusato rivendica solo terapeutici, e i magistrati insistono a considerare qualcosa di più.

Con una colata di fango così, va detto, ci vuole fegato a difendersi e a sperare di venirne a capo. Ma se Bertolaso lo fa, protestandosi innocente, e al massimo vittima di un raggiro di collaboratori infedeli che avrebbe dovuto controllare meglio, è sulla base di alcune considerazioni. La prima è che al di là della «gelatina», i rapporti da compari tra pubblici ufficiali e imprenditori, la corruzione dev’essere provata dai magistrati a cui a sorpresa, innovando rispetto a una tradizione di insulti, il sottosegretario rinnova la sua fiducia. La seconda è che alcuni dei funzionari infedeli finiti in carcere, i loro incarichi e i loro superpoteri li avevano ricevuti dal precedente governo di centrosinistra. La terza è che, messa da parte la contestata privatizzazione della Protezione civile, Bertolaso ha riconquistato la fiducia di tutte le componenti del governo, compreso Bossi che ieri gliel’ha confermata pubblicamente.

Questa condotta che rimane molto azzardata ribalta insomma pienamente l’onere della prova sulla magistratura e le impone di fare presto. Decapitare la Protezione civile - un corpo speciale, che se ha abusato delle urgenze politiche, deve pur continuare a pensare alle numerose emergenze italiane - non è una questione ordinaria. Se è necessario, va fatto, perché in un Paese normale non è ammesso che ci siano intoccabili. Ma se la prova non salta fuori, Bertolaso, che oggi è crocifisso, domani potrebbe anche risorgere.

E’ proprio questa la scommessa del sottosegretario. Ed è la stessa dell’intero governo e del presidente del Consiglio. Insieme al caso Protezione civile, Berlusconi infatti è alle prese, in questi stessi giorni, con quelli di Milano e di Firenze, che toccano un esponente locale e uno dei coordinatori nazionali del Pdl. Il clima è orrendo: in quella che fu la capitale di Tangentopoli, si parla apertamente di un ritorno in grande stile della corruzione. Con al centro, però, non il vecchio gruppo dei partiti della Prima Repubblica, ma quello, nuovo, fondato dal Cavaliere.

In questo quadro la caduta del sottosegretario e la rappresentazione della sua struttura come il perno della corruzione nazionale avrebbero chiaramente travolto l’intero governo. Per questo Berlusconi e tutto il centrodestra hanno frenato. Il Cavaliere ha costruito la sua fortuna politica, quindici anni fa, proprio sulle macerie di un sistema politico travolto dall’ondata dei processi, e oggi non può rischiare di scivolare sullo stesso terreno. E tuttavia, se la difesa di un Bertolaso ammaccato, ma ancora in piedi, è un azzardo che ha una logica, pur discutibile, quella di un partito che a due anni dalla sua nascita mostra già evidenti segni di cedimento, non è ammissibile. Berlusconi è il primo a sapere che in questo senso, se vuole rimediare a quel che è successo, dovrà fare presto delle scelte.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Normalità o urgenza per noi pari sono
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2010, 03:05:31 pm
18/2/2010 - TACCUINO

Normalità o urgenza per noi pari sono
   
MARCELLO SORGI

Piovuta nel bel mezzo dello scandalo della Protezione civile, e pronunciata davanti alle più alte autorità dello Stato, la relazione del pg della Corte dei conti Ristuccia, che ha denunciato un incremento del 229 per cento delle denuncie di corruzione in Italia (153 per cento in più per la concussione, reato commesso dal pubblico ufficiale), non poteva cadere in un momento più adatto. Per la prima volta, complice il clima politico di questi giorni, la liturgia dell’elencazione di dati e cifre che si svolge annualmente non è suonata fredda e rituale come tutte le precedenti. La sensazione, insomma, è che l’anno che ci siamo lasciati alle spalle, così come quello che s’è appena aperto, abbiano reso la corruzione non episodica e periferica, ma regolare. Proviamo solo a ricordare: la Campania dei rifiuti e della Sanità, l’Abruzzo, la Calabria, la Puglia, la Lombardia, l’Emilia…: scorrono davanti ai nostri occhi anche le facce degli amministratori che hanno perso il posto o che si sono protestati innocenti, salvo uscire di scena poco dopo.

L’elenco fornito dalla magistratura di controllo vede in testa alla graduatoria delle denunce la Toscana, seguita da Lombardia, Puglia e Sicilia: ma è inutile cercare in questo una “hit parade” del peggio o del meno peggio. Spesso la corruzione emerge di più dove l’apparato pubblico è meno corrotto e dove le malversazioni, costituendo un’eccezione, vengono denunciate con maggiore facilità. E ovviamente altrettanto spesso la criminalità organizzata, con le sue minacce, funziona da freno alle denunce.

Impressionante è poi la lista delle cause della corruzione fornita dalla Corte dei conti: carenze di programmazione, eccessiva frammentazione dei centri decisionali, dilatazione dei tempi di esecuzione delle opere pubbliche, per colpa, insieme – verrebbe da dire per complicità -, delle amministrazioni appaltatrici e delle imprese appaltanti, inadeguatezza dei controlli tecnici e amministrativi.

Parola più, parola meno, sono le stesse ragioni che hanno portato i governi negli ultimi anni a preferire la logica delle emergenze e delle urgenze a quella delle procedure ordinarie, e che hanno fatto a poco a poco della Protezione civile lo strumento dei “miracoli” e il braccio operativo della Presidenza del consiglio per riuscire a realizzare i propri impegni e fare bella figura. Ora che anche Bertolaso e la sua formidabile squadra sono sotto accusa, non si sa più in chi sperare: la corruzione cresce inevitabilmente, sia che si seguano le regole normali, sia che si cerchi di semplificarle, quando non di aggirarle.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. - La corruzione è uguale per tutti
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2010, 09:39:09 am
22/2/2010

La corruzione è uguale per tutti
   
MARCELLO SORGI


Sulla corruzione, nessuno ha le carte in regola. È un’amara constatazione, a diciott’anni dall’inchiesta di Mani pulite che azzerò la Prima Repubblica, ma corrisponde purtroppo alla realtà.

Non le hanno Berlusconi e il Popolo della libertà. E questo al di là dei processi che riguardano personalmente, e contro cui si sta battendo, il premier. Si vede bene dalla difficoltà che il Cavaliere ha a definire - lui che ama molto le cose chiare e aborre le fumisterie della politica - una norma comprensibile, e applicabile da subito, alle liste di candidati per le elezioni regionali che stanno per essere presentate. «Non ci sarà nessun personaggio che sarà compromesso in maniera certa», ha detto e ripetuto anche ieri il presidente del Consiglio.

Ma da quel futuro («sarà»), e da quel giro di parole che segue («compromesso in maniera certa»), emerge tutta la contraddizione del voler accontentare, insieme, gli elettori che nei sondaggi manifestano il proprio disorientamento dopo lo scandalo che ha investito Bertolaso, e i ras locali che ormai controllano saldamente il territorio anche nel centrodestra, senza i quali il Pdl non si sente in grado di affrontare le urne del 28 marzo.

Non a caso, da quando ha cominciato la sua campagna anticorruzione, Berlusconi in pochi giorni ha dovuto respingere, oltre alle dimissioni del capo della Protezione civile, anche quelle del più discusso sottosegretario Nicola Cosentino, per i cui presunti rapporti con la camorra era stato chiesto l’arresto.

Non hanno le carte in regola, purtroppo, neppure Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro. A Napoli come a Firenze o Bologna, a Pescara come a Bari e a Reggio Calabria, la campana ha suonato anche per loro, rivelando un sistema simile a quello che descrivono le più recenti intercettazioni sugli appalti della Maddalena. Connivenze tra pubblici amministratori e imprenditori, più simili ad avventurieri che a gente con vera competenza. Scambi di favori. Familismo, compensi in natura, prestazioni sessuali. Anche quando le inchieste giudiziarie, alla fine, hanno potuto accertare molto meno di quello che all’inizio si poteva intuire, l’esistenza di un sistema di complicità, comparaggi, particolarità è uscita sempre confermata.

E le risposte, anche in casa del centrosinistra, non sono mai state univoche. Hai voglia a dire: noi i nostri li facciamo dimettere subito! Si dimettono quando l’ondata di discredito che li ha investiti è arrivata a livelli di guardia, ma soprattutto quando non hanno sufficiente potere interno per rifiutarsi. Si sono dimessi, senza o quasi una parola di solidarietà, il presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco e quello della Regione Lazio Piero Marrazzo, il sindaco di Bologna Del Bono, gli assessori fedifraghi nella giunta regionale pugliese. Ma non si sono dimessi il governatore della Campania Antonio Bassolino (al posto del quale, con l’appoggio anche di Di Pietro, è stato candidato il sindaco inquisito di Salerno Vincenzo De Luca), né quello della Puglia Nichi Vendola, né il sindaco di Napoli Rosa Russo Jervolino.

Non hanno le carte in regola neanche i magistrati. A parte il fatto che, come ha rivelato la recente relazione della Corte dei conti che ha quantificato l’incremento della corruzione al 229 per cento - dicasi 229 per cento! - ci sono giudici accusati di essere corrotti anche al più alto livello delle toghe, da una Procura come quella di Firenze, che ha tenuto sotto intercettazione i suoi indagati per oltre due anni - dicasi più di due anni! -, ci si aspetterebbe che fosse in grado di fornire prove inconfutabili alle proprie accuse, e non che aspetti di ottenerle con le confessioni degli imputati.

Se il problema era sapere che la politica italiana, a qualsiasi livello, è tornata ad essere un sistema «gelatinoso», con tutta la riconoscenza per la magistratura che ha impegnato tante energie a cercare di dimostrarlo, grazie, lo sapevamo già. C’è una ragione strutturale di tutto ciò, che i principali leader finora faticavano ad ammettere, ma che adesso non riescono più a nascondere. Quando anche un partito come il Pdl - nato da un’originale intuizione di Berlusconi, «fulminato» sul predellino di San Babila, e dalla fusione dell’ex Forza Italia con l’ex-An - si ritrova avvermato da correnti trasversali e locali, che rappresentano interessi obliqui e si fanno quotidianamente una lotta senza quartiere, la corruzione è la logica conseguenza di un modello come questo. Vale per Berlusconi e per Bersani, presto varrà anche per Di Pietro e per gli altri. A questo punto non è più nemmeno necessario chiedersi se stiamo assistendo a un ritorno di Tangentopoli. Se i partiti «nuovi» della Seconda Repubblica funzionano esattamente come quelli «vecchi» della Prima, il punto d’approdo non potrà che essere lo stesso del 1993. Così è finita la rivoluzione italiana e la lunga transizione senza sbocco. Invece di cambiare, siamo tornati al punto di prima.

da lastampa.it
   
MARCELLO SORGI


Sulla corruzione, nessuno ha le carte in regola. È un’amara constatazione, a diciott’anni dall’inchiesta di Mani pulite che azzerò la Prima Repubblica, ma corrisponde purtroppo alla realtà.

Non le hanno Berlusconi e il Popolo della libertà. E questo al di là dei processi che riguardano personalmente, e contro cui si sta battendo, il premier. Si vede bene dalla difficoltà che il Cavaliere ha a definire - lui che ama molto le cose chiare e aborre le fumisterie della politica - una norma comprensibile, e applicabile da subito, alle liste di candidati per le elezioni regionali che stanno per essere presentate. «Non ci sarà nessun personaggio che sarà compromesso in maniera certa», ha detto e ripetuto anche ieri il presidente del Consiglio.

Ma da quel futuro («sarà»), e da quel giro di parole che segue («compromesso in maniera certa»), emerge tutta la contraddizione del voler accontentare, insieme, gli elettori che nei sondaggi manifestano il proprio disorientamento dopo lo scandalo che ha investito Bertolaso, e i ras locali che ormai controllano saldamente il territorio anche nel centrodestra, senza i quali il Pdl non si sente in grado di affrontare le urne del 28 marzo.

Non a caso, da quando ha cominciato la sua campagna anticorruzione, Berlusconi in pochi giorni ha dovuto respingere, oltre alle dimissioni del capo della Protezione civile, anche quelle del più discusso sottosegretario Nicola Cosentino, per i cui presunti rapporti con la camorra era stato chiesto l’arresto.

Non hanno le carte in regola, purtroppo, neppure Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro. A Napoli come a Firenze o Bologna, a Pescara come a Bari e a Reggio Calabria, la campana ha suonato anche per loro, rivelando un sistema simile a quello che descrivono le più recenti intercettazioni sugli appalti della Maddalena. Connivenze tra pubblici amministratori e imprenditori, più simili ad avventurieri che a gente con vera competenza. Scambi di favori. Familismo, compensi in natura, prestazioni sessuali. Anche quando le inchieste giudiziarie, alla fine, hanno potuto accertare molto meno di quello che all’inizio si poteva intuire, l’esistenza di un sistema di complicità, comparaggi, particolarità è uscita sempre confermata.

E le risposte, anche in casa del centrosinistra, non sono mai state univoche. Hai voglia a dire: noi i nostri li facciamo dimettere subito! Si dimettono quando l’ondata di discredito che li ha investiti è arrivata a livelli di guardia, ma soprattutto quando non hanno sufficiente potere interno per rifiutarsi. Si sono dimessi, senza o quasi una parola di solidarietà, il presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco e quello della Regione Lazio Piero Marrazzo, il sindaco di Bologna Del Bono, gli assessori fedifraghi nella giunta regionale pugliese. Ma non si sono dimessi il governatore della Campania Antonio Bassolino (al posto del quale, con l’appoggio anche di Di Pietro, è stato candidato il sindaco inquisito di Salerno Vincenzo De Luca), né quello della Puglia Nichi Vendola, né il sindaco di Napoli Rosa Russo Jervolino.

Non hanno le carte in regola neanche i magistrati. A parte il fatto che, come ha rivelato la recente relazione della Corte dei conti che ha quantificato l’incremento della corruzione al 229 per cento - dicasi 229 per cento! - ci sono giudici accusati di essere corrotti anche al più alto livello delle toghe, da una Procura come quella di Firenze, che ha tenuto sotto intercettazione i suoi indagati per oltre due anni - dicasi più di due anni! -, ci si aspetterebbe che fosse in grado di fornire prove inconfutabili alle proprie accuse, e non che aspetti di ottenerle con le confessioni degli imputati.

Se il problema era sapere che la politica italiana, a qualsiasi livello, è tornata ad essere un sistema «gelatinoso», con tutta la riconoscenza per la magistratura che ha impegnato tante energie a cercare di dimostrarlo, grazie, lo sapevamo già. C’è una ragione strutturale di tutto ciò, che i principali leader finora faticavano ad ammettere, ma che adesso non riescono più a nascondere. Quando anche un partito come il Pdl - nato da un’originale intuizione di Berlusconi, «fulminato» sul predellino di San Babila, e dalla fusione dell’ex Forza Italia con l’ex-An - si ritrova avvermato da correnti trasversali e locali, che rappresentano interessi obliqui e si fanno quotidianamente una lotta senza quartiere, la corruzione è la logica conseguenza di un modello come questo. Vale per Berlusconi e per Bersani, presto varrà anche per Di Pietro e per gli altri. A questo punto non è più nemmeno necessario chiedersi se stiamo assistendo a un ritorno di Tangentopoli. Se i partiti «nuovi» della Seconda Repubblica funzionano esattamente come quelli «vecchi» della Prima, il punto d’approdo non potrà che essere lo stesso del 1993. Così è finita la rivoluzione italiana e la lunga transizione senza sbocco. Invece di cambiare, siamo tornati al punto di prima.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il paradosso Emma alleata-avversaria
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2010, 03:02:38 pm
23/2/2010 - TACCUINO

Il paradosso Emma alleata-avversaria
   
MARCELLO SORGI


Lo sciopero della sete proclamato da Emma Bonino, contro le difficoltà burocratiche per la raccolta delle firme necessarie per la presentazione delle liste, mette in luce la contraddizione che ha accompagnato fin dall’inizio l’alleanza tra il Pd e la Rosa nel pugno e, almeno inizialmente, la candidatura dell’ex commissario europeo alla presidenza della Regione Lazio.

All’interno del Pd la scelta di Emma non è stata vista bene da tutti. C’erano le riserve dei cattolici convinti che la connotazione iperlaica della leader radicale avrebbe creato forti riserve nell’elettorato cattolico, molto presente a Roma, e nelle gerarchie vaticane che nella regione da sempre spostano voti.

C’erano le resistenze di una parte della minoranza interna, uscita battuta al congresso e protesa a mettere in difficoltà la segreteria Bersani al suo primo appuntamento elettorale. C’erano infine le diffuse richieste di avviare anche nel Lazio le primarie, che Bersani ha invece preferito evitare proprio per non indebolire una candidata che non aveva praticamente concorrenti.

Dopo la rinuncia del presidente della Provincia di Roma Zingaretti, non c’era praticamente nessuno disposto a cimentarsi con la difficile eredità di Piero Marrazzo, uscito di scena in conseguenza dello scandalo dei trans. Inoltre, per Bersani, la candidatura della Bonino aveva il pregio di una forte discontinuità: di qui il sostegno che ha deciso di assicurarle.

Ma se è riuscito a far digerire al partito Emma come candidato governatore, Bersani ha avuto fin troppe difficoltà a spiegare che l’accordo per il Lazio non esclude che i radicali si presentino autonomamente – e sostanzialmente in contrapposizione al Pd – in altre regioni. La legge elettorale per le regionali infatti, avendo una soglia di sbarramento quasi inesistente, spinge tutti i partiti a rientrare in gara per poi rimettere in gioco voti che, diversamente dalle politiche, in questo caso non andranno perduti.

Di qui la battaglia delle firme, anzi fino all’ultima firma. Teoricamente la raccolta dovrebbe essere agevolata dal personale dei Comuni, che reagisce spesso neghittosamente, e sostenuta da una campagna di informazione che finora la Rai ha trascurato. Il termine per la presentazione delle firme scade alla fine della settimana. E neppure nei Comuni amministrati dal Pd, denuncia Bonino, il Pr ha trovato grande collaborazione. Alleati a Roma per la corsa alla Regione, i radicali si ritrovano dappertutto trattati come avversari dal centrosinistra.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Quirinale e la nevrosi del Palazzo
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2010, 05:41:44 pm
24/2/2010 - TACCUINO

Il Quirinale e la nevrosi del Palazzo    


MARCELLO SORGI

Chiedetelo ad altri», a chi lo spingeva, ieri, a margine del convegno di Confindustria, a dire la sua sulla corruzione, il Capo dello Stato ha risposto con questa battuta. E siccome era di buonumore, anche con un sorriso, che per tutto il giorno, insieme con la risposta sibillina che Napolitano aveva dato, nei corridoi parlamentari sono stati al centro di ogni possibile illazione.

Prima, immancabile, interpretazione: ce l'aveva con Berlusconi e con il centrodestra, anche ieri lambiti dall'inchiesta per riciclaggio che ha investito il senatore Di Girolamo, e ovviamente sempre meno credibili quando parlano, proprio in questo periodo, di una prossima campagna anticorruzione del governo.

Seconda, più arzigogolata, lettura: se l'è presa con tutti, anche con i suoi, perché giudica mediocre il modo in cui negli stessi giorni maggioranza e opposizione si rinfacciano casi di corruzione. E mentre schierano inquisiti per il prossimo appuntamento elettorale del 28 marzo, continuano a promettere inutilmente che le loro liste saranno linde di bucato, come se appunto gli elettori non conoscessero le facce e i curricula di molti di quelli che già fanno capolino dai maxi-poster. Affissi tra l'altro, spesso, anche abusivamente, sui muri delle città.

Naturalmente non esiste prova alcuna che il presidente Napolitano intendesse dare questi o altri giudizi su quanto sta accadendo.
La prudenza del Capo dello Stato è rinomata, così come la sua abitudine a parlare «per atti», cioè ad esprimere le sue convinzioni formalmente, nei casi in cui è chiamato per dovere d'ufficio a farlo. Se la legge sul legittimo impedimento, di cui ieri è stato riavviato l'iter per ottenerne l'approvazione in tempi brevissimi, o le future norme anticorruzione rinviate dall'ultimo Consiglio dei ministri, e che dovrebbero essere varate nel prossimo, o ancora il pacchetto di riforme della giustizia che il ministro Alfano ha riassunto in una recente intervista alla Stampa, non dovessero incontrare il gradimento del Quirinale, il Presidente esprimerà il suo dissenso, come ha fatto altre volte, nelle forme che gli sono proprie.

Per il momento, invece, al confuso dibattito sulla corruzione e sul ritorno di Tangentopoli, Napolitano non intende prendere parte. Gli esercizi di introspezione psicologica su una sua mancata risposta, o su un semplice sorriso, segnalano tuttavia la nevrosi che ormai attraversa il Palazzo. Agitato dall'incubo, in gran parte irrazionale, della crisi, o peggio di un crollo, della Seconda Repubblica simile a quello della Prima, e incapace di contrastarlo.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. I vescovi vogliono politici nuovi
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2010, 09:32:54 am
25/2/2010 - TACCUINO

I vescovi vogliono politici nuovi
   
MARCELLO SORGI


Di per sé, un documento antimafia della Conferenza episcopale dei vescovi non sarebbe una grande novità. E’ dal 1989 che la denuncia del degrado imposto dalla criminalità organizzata nei territori che tiene sotto controllo ha cessato di essere patrimonio di parroci e vescovi coraggiosi (alcuni dei quali ci hanno rimesso la vita), per trovare posto nei documenti dell’episcopato.

Ma il modo in cui la Cei ieri è tornata sull’argomento merita di essere analizzato anche per altre ragioni. Oltre a segnalare l’escalation e la trasformazione in potenza economica delle mafie, i vescovi dicono che le classi dirigenti del Sud sono inadeguate a contrastarle. Possibile, specie di questi tempi. Ma si dà il caso che il Mezzogiorno, dove peraltro si gioca la partita più importante delle elezioni del 28 marzo, sia amministrato quasi esclusivamente dal centrosinistra, e in questo senso il documento della Cei possa essere letto anche come un invito a un ricambio, peraltro diffuso a un mese dal voto.

Come sempre in questo genere di interventi, non c’è, nella presa di posizione dei vescovi, una spinta diretta all’alternativa, che peraltro al Sud si presenta difficile viste le numerose contiguità presenti anche nel centrodestra con le organizzazioni criminali. E se si segue il filo del discorso cominciato qualche tempo fa, fermo restando che il documento danneggia di più le amministrazioni di centrosinistra, non si può trascurare il fatto che la Cei da tempo stia insistendo, più in generale, sulla necessità di preparare una nuova classe dirigente per il Paese, più vicina ai valori cattolici, per farla subentrare a quella attuale che mostra segni evidenti di logoramento.

Un’impostazione del genere insomma non necessariamente presuppone una scelta di campo. Potrebbe anzi essere mirata anche ad altri scopi, a cominciare dalla scelta dei candidati da inserire nelle liste che dovrebbero essere completate in questa settimana. Al di là del giudizio negativo su chi è attualmente al governo al Sud, è come se i vescovi premessero sui partiti, tutti i partiti, fin qui impegnati solo a parole sulla scelta di candidature pulite, per convincerli a dare una prova effettiva di rinnovamento. Ed è come se questo richiamo fosse rivolto, insieme, alle forze politiche e ai loro elettori: per farli scegliere, a prescindere dagli schieramenti, solo i candidati affidabili, e in grado di garantire la loro estraneità al sistema politico-mafioso. Che ai vescovi ormai appare come una sola cosa, e sembra condividere gli stessi obiettivi, contrari agli interessi della comunità.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Lacrime di coccodrillo
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2010, 12:04:53 pm
26/2/2010

Lacrime di coccodrillo
   

MARCELLO SORGI

Passeranno alla storia come le più classiche lacrime di coccodrillo, le dichiarazioni indignate con cui ieri il presidente del Senato Schifani si è impegnato ad espellere al più presto da Palazzo Madama, facendolo decadere dalla carica, il senatore Nicola Di Girolamo.

Parlava, appunto, come se il caso che riguarda il parlamentare truffatore - che, fingendo di aver residenza in Belgio, era riuscito ad essere inserito in lista con una raccomandazione del suo amico nazista Gennaro Mokbel, già in rapporti con la Banda della Magliana e con il potente clan calabrese Arena, e si era poi fatto eleggere come rappresentante degli italiani all’estero grazie a un’attiva collaborazione del ramo tedesco della ’ndrangheta -, non fosse già noto, nelle sue grandi linee, e rubricato dagli uffici del Senato da un anno e mezzo. Come se un altro esponente del Pdl, il senatore Augello, non avesse cercato, fin da agosto 2008, di convincere i suoi colleghi a intervenire. E come se la questione non fosse tornata all’ordine del giorno una seconda volta, quando appunto fu reiterata dal Senato la decisione di proteggere dalle sue ignominiose responsabilità il suddetto Di Girolamo.

Ora è tutto uno scaricabarile. Il presidente della Camera Fini, in aperta polemica con i senatori della sua stessa parte, dice che voterebbe per l’arresto di Di Girolamo. Il capogruppo Gasparri, che si è battuto per evitarlo, sostiene che la responsabilità è di chi accettò che un simile campione fosse messo in lista. E fa il nome di Marco Zacchera, pure lui ex An, che ha riconosciuto che la scelta fu sua.

Zacchera non è certo uno sconosciuto per Fini. E poi, andiamo, è possibile che il partito che più s’era battuto per concedere il diritto di voto agli emigrati italiani - una storica battaglia condotta per decenni, fin dall'epoca del Msi, da Mirko Tremaglia -, alla seconda occasione in cui questo genere di elezione veniva messa in pratica, non avesse un candidato migliore da proporre? Ed è credibile che un qualsiasi candidato, non solo quello da presentare all’estero, sia entrato in lista, con buone probabilità di essere eletto, senza che i leader del partito lo conoscessero e sapessero qualcosa delle ombre che si portava dietro?

Diciamo la verità, è impossibile crederlo. Ma anche ammesso che Di Girolamo, in buona o cattiva fede, fosse stato garantito al limone ai vertici del Pdl - o più precisamente dai vertici dell’ex An a Berlusconi -, con le carte che sono arrivate al Senato dopo la sua elezione, ce n’era abbastanza per capire che aveva voluto farsi eleggere per ragioni inconfessabili, forse proprio per evitare di finire in carcere.
E di conseguenza, per sbatterlo fuori prima ancora che la sua vita da parlamentare cominciasse.

Invece, è andata come è andata, e adesso c'è la rincorsa a metterci una pezza. Sono tempi difficili per la Seconda Repubblica, non passa giorno che non salti fuori una storia di corruzione o di rapporti obliqui tra politici e criminalità organizzata. Combinazione, alla fine di questa settimana, dovranno anche essere presentate le liste per le regionali. Vediamo cosa s’inventano, stavolta, per convincerci che è impossibile che salti fuori un altro Di Girolamo.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il caos nel Pdl e i vantaggi per il Cavaliere
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2010, 11:20:54 am
3/3/2010 - TACCUINO

Il caos nel Pdl e i vantaggi per il Cavaliere

   
MARCELLO SORGI

Diceva Andreotti che a pensar male si fa peccato ma non si sbaglia. Applicato alla grottesca vicenda della lista del Pdl e del listino della Polverini esclusi dalle elezioni a Roma, il criterio andreottiano porta a questo. Non è affatto detto che, passata l’irritazione iniziale (non c’è giorno, negli ultimi tempi, che non gli arrivi una cattiva notizia) Berlusconi sia così dispiaciuto di quel che sta accadendo nella Capitale. E che insieme agli evidenti svantaggi che si profilano, non ne stia calcolando anche i vantaggi.

In fondo, Polverini è una candidata di Fini, il cofondatore-alleato-avversario, che non perde occasione per attaccarlo. La candidata del cuore del Cavaliere per il Lazio era Luisa Todini, che a malincuore ha dovuto mettersi da parte. In fondo, il Popolo della libertà a Roma non somiglia affatto al modello di partito che sogna il Cavaliere, e dopo l’elezione in Campidoglio di Alemanno è subalterno, sia al primo sindaco di Roma che non è in buoni rapporti con Gianni Letta, sia al gruppo di intellettuali della fondazione finiana che Berlusconi considera un laboratorio di iniziative mirate contro di lui.

I voti di centrodestra, in fondo, non andranno certo al centrosinistra. Per quanto sfrido possa esserci verso l’astensione, ci sono altre liste di centrodestra che potrebbero intercettarli. In fondo, c’è Storace, che da amico che era, è diventato nemico di Fini e per questo è stato espulso dal centrodestra, ma non ha mai smesso di essere amico di Berlusconi. Con quel suo partitino, «La Destra», può raccogliere sia voti moderati in trasferta o abilmente convogliati in quella direzione, sia voti di destra-destra. In fondo, poi, anche l’Udc romana non è da buttar via, con quel Baccini che, pur avendo un rapporto altalenante con Casini, s’è tenuto sempre buono il Cavaliere e Palazzo Chigi, pronto a mollare gli ormeggi al momento più opportuno.

Ecco perché, in fondo in fondo, Berlusconi non si straccerà le vesti se la candidata di Fini perderà le elezioni grazie al maldestro intervento degli amici del sindaco di An. Archiviata la sconfitta, potrà godersi la resa dei conti tra i suoi ruvidi alleati, e aprire la porta del partito ai suoi vecchi amici ingiustamente emarginati. Il nemico del mio nemico è mio amico. La sconfitta del mio avversario è la mia vittoria. Queste non sono massime andreottiane. Ma se qualcuno dicesse che somigliano ai pensieri di Berlusconi in queste ore, non ci sarebbe niente da stupirsi.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il lavorìo a 4 per le riforme
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2010, 11:41:45 am
2/3/2010 - TACCUINO

Il lavorìo a 4 per le riforme
   
MARCELLO SORGI


Il gran lavorio della scorsa settimana tra Fini, Casini, D’Alema e Pisanu segnala che, al di là dei toni esagerati della campagna elettorale, esiste in una parte dei leader politici la consapevolezza che la parte restante della legislatura va dedicata alle riforme. Il degrado del clima politico, la frequenza dei casi di corruzione e la sensazione diffusa di un ritorno di Tangentopoli ha reso, se possibile, ancora più urgente il restauro, troppe volte promesso e mai realizzato, di un sistema che agli occhi dei cittadini appare ingolfato e ripiegato su se stesso.

Si parla di riduzione del numero dei parlamentari, differenziazione dei ruoli delle Camere, rapporti più fluidi tra governo e Parlamento. Progetti, questi, che, se concretizzati, darebbero all’opinione pubblica il segno di un’inversione di rotta. Ci sono tuttavia due aspetti di questa discussione che, malgrado le buone intenzioni, potrebbero nuovamente riportare su un binario morto il cammino della Grande Riforma.

Il primo è che quel che è avvenuto tra Fini, Casini, D’Alema e Pisanu è accaduto alle spalle, quando non in aperta polemica, con Berlusconi. E’ come se questi interlocutori di prima grandezza, che hanno sì il peso e la capacità di impostare una nuova fase politica, discutessero ufficialmente di riforme, ma in realtà del dopo-Berlusconi. Discussione legittima, visto che questa dovrebbe essere l’ultima legislatura in cui il Cavaliere guida un governo. Ma è pensabile che, esaurita la sua esperienza a Palazzo Chigi (e ammesso che non ci ripensi), Berlusconi si faccia completamente da parte? E soprattutto: è realistico credere a una sessione di riforme fatta in barba a Berlusconi?

Il secondo problema riguarda le posizioni in materia istituzionale degli stessi Fini, Casini, D’Alema e Pisanu. Non è un mistero che i primi due, ai tempi della Bicamerale, fecero un accordo sul presidenzialismo, cioè l’elezione diretta del Capo dello Stato o del premier o di tutti e due, mentre gli altri due sono più a favore di un ritorno alla designazione parlamentare (stile Prima Repubblica) del premier da parte delle Camere. L’elezione diretta, in qualsiasi modo avvenga, comporta una divisione bipolare degli schieramenti. La scelta parlamentare piega più a favore di un ritorno al sistema proporzionale. Si può anche dire che D’Alema è più d’accordo con Fini sul presidenzialismo e il bipolarismo, e più disponibile al ritorno, parziale o totale, al proporzionalismo vagheggiato da Casini e Pisanu. Questo per dire che al di là delle buone (e cattive) intenzioni, la strada delle riforme è in salita.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La politica nelle mani dei giudici
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2010, 11:16:41 am
4/3/2010

La politica nelle mani dei giudici
   
MARCELLO SORGI

Per quanto difficile possa sembrare, il pasticcio preelettorale senza eguali esploso tra Roma e Milano va affrontato con freddezza. L’idea che in Lombardia, cioè nella più ricca e più importante regione del Nord, l’opinione pubblica in maggioranza schierata da anni con il centrodestra sia sostanzialmente privata del diritto di voto, per mancanza delle liste dei partiti in cui si riconosce, è grottesca. Così come lo è, nel Lazio, la prospettiva che dopo la mediocre fine dell’amministrazione di centrosinistra, travolta dallo scandalo Marrazzo, non sia data agli elettori la possibilità di valutare un’alternativa, e gli sia praticamente imposta solo la scelta tra l’astensione e la conferma dello schieramento uscente.

Sarebbe però abominevole, e sicuramente peggio, che il governo Berlusconi, per ovviare agli errori grossolani di esponenti locali del partito del premier, intervenisse in qualsiasi modo allo scopo di ristabilire la normalità della competizione elettorale.

La consapevolezza di questo limite - oltre il quale, è bene ribadirlo, si passerebbe da una democrazia come quella italiana, che funziona con qualche guasto, a un regime vero e proprio - per fortuna è presente, sia nel premier che nel ministro dell’Interno Maroni, a cui tocca sorvegliare il normale svolgimento delle elezioni. In questo caso, di normale, è rimasto ben poco, per la verità. Ma non c’è nulla, proprio nulla, che Maroni possa fare, senza venir meno ai suoi doveri di uomo di Stato e senza incorrere in un atteggiamento di evidente parzialità.

Allo stesso modo sarebbe impensabile che la via d’uscita politica che il governo e la maggioranza non possono proporre, si trovasse invece con una disponibilità bipartisan dell’opposizione. Da qualche parte si sente dire che il centrosinistra non ha alcuna convenienza a spingere per elezioni che, con due macroscopiche assenze come quelle che si delineano, verrebbero percepite come una specie di doppio golpe: localizzato, limitato a due Regioni nevralgiche e per cause diverse, ma pur sempre colpo di Stato. L’affermazione ha una sua fondatezza, dal momento che, se nel Lazio l’esito del voto è tuttora incerto, in Lombardia il solitario candidato del Pd vincerebbe, sì, ma andrebbe a governare in nome di una minoranza. E tuttavia è fuori della realtà chiedere al centrosinistra di contribuire a togliere le castagne dal fuoco ai suoi avversari, per fare insieme una sorta di condono e stabilire un precedente in cui le liste si presentano e si cambiano, si firmano, non si firmano o si mettono le firme false, e le elezioni si convocano e si sconvocano, e i risultati si proclamano ma si contestano, e alla fine la posta viene rimessa in gioco tante volte finché non vince solo chi deve vincere.

Dappertutto, nel mondo, le elezioni sono competizioni spietate e non a caso regolate da norme severe, che sempre si fanno valere. Abbiamo avuto le elezioni americane del 2000 in cui lo scettro di leader più potente del mondo, in mancanza di un risultato chiaro, fu assegnato dalla Corte Suprema. E anche senza ricorrere a esempi sproporzionati, ci sono stati una serie di casi, oggi quasi dimenticati, in cui la magistratura anche in Italia s’è trovata a intervenire su situazioni che potevano pregiudicare la corretta espressione della volontà popolare.

E’ già accaduto alle regionali di dieci anni fa che le elezioni in Molise, vinte dal centrosinistra nel 2000, siano state annullate un anno dopo per la successiva esclusione di due liste non corredate da firme valide. Nel 2001 si rivotò e, forse anche per il modo in cui si era arrivati al risultato precedente, vinse il centrodestra. Ma anche nel 2005 le elezioni in Basilicata dovettero essere spostate di quindici giorni dal prefetto per la mancata ammissione di una lista civica a Potenza, poi riammessa a soli tre giorni dalla data precedentemente fissata per il voto. E clamoroso, nello stesso anno, fu il caso della lista presentata, esclusa e poi riabilitata dal Consiglio di Stato, di Alessandra Mussolini nel Lazio, che sottraendo voti allo schieramento di centrodestra negli ultimi giorni di campagna elettorale fu decisiva per la sconfitta del governatore uscente Francesco Storace.

Una politica troppo spesso basata su colpi bassi e lotte intestine all’interno delle coalizioni ha già dovuto far ricorso molte volte, negli ultimi anni, a una magistratura che su un terreno così delicato fa quel che può, e necessariamente si esprime con una giurisprudenza controversa e con decisioni che, seppure chiudono le dispute, quasi mai riescono a spegnere il fuoco delle polemiche. Non è la migliore delle soluzioni possibili, ma purtroppo non c’è altra strada. A sessantaquattro anni dalla nascita della Repubblica, proclamata peraltro dalla Corte di Cassazione, non siamo forse il Paese che dubita ancora dei risultati del Plebiscito del 2 giugno ’46 e della sconfitta della monarchia?

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Titolo: MARCELLO SORGI. Dopo Roma la Lombardia E allora Bossi fa dietro-front
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2010, 10:17:12 am
5/3/2010 - TACCUINO

Dopo Roma la Lombardia

E allora Bossi fa dietro-front
   
MARCELLO SORGI

Detto da lui, l'ultimo dei leader della Prima Repubblica e l'unico ad essere riuscito a traghettare nella Seconda, suonava ancora più pesante. «Dilettanti allo sbaraglio» aveva apostrofato il vecchio Bossi, con lo sdegno del consumato professionista della politica, la Polverini e i borgatari romani di An suoi sostenitori, responsabili della mancata presentazione delle liste del Pdl e della candidata presidente a Roma.

Oltre al disprezzo per la confusione con cui era stata condotta l'operazione dagli ex-An, il duro giudizio del Senatur malcelava la sua intima soddisfazione per il fatto che il pasticcio era accaduto a Roma, a ulteriore conferma dell’approssimazione tipica della Capitale. «Dilettanti», insomma, e per di più romani: nulla di peggio, agli occhi degli elettori leghisti del Nord e del loro leader carismatico. Anche per questo Bossi aveva subito dettato una linea rigorosa, prontamente applicata dal ministro dell’Interno Maroni, che invitava Berlusconi ad evitare interventi del governo che avrebbero potuto risolversi in una toppa peggiore del buco. A malincuore il premier, furente per l’esclusione delle liste ma più propenso a trovare una via d'uscita a qualsiasi costo, aveva dovuto prenderne atto e spiegare alla Polverini che non c'erano molte soluzioni sul tappeto.

Questa inviolabile linea del Piave - ma forse sarebbe più corretto definirla linea del Po -, è franata miseramente mercoledì sera, di fronte alla sentenza della Corte d'Appello di Milano che ha escluso Formigoni, e con lui tutti i partiti che lo sostenevano, compresa la Lega, dalle regionali in Lombardia. Il dietro-front del Carroccio, per nulla imbarazzato, è maturato nel corso di una sola notte davanti al rischio, incalcolabile per la Lega, di non partecipare per la prima volta dopo oltre vent’anni alle elezioni nella regione simbolo della cultura nordista, la Lombardia ombelico della Padania.

Così, già ieri mattina, ecco Bossi reclamare il decreto che fino a due giorni prima aveva escluso; ecco Maroni intento in una difficile conversione a "U", ed ecco Calderoli, il ministro più istituzionale della Lega, l'uomo che ebbe il coraggio di definire una «porcata» la legge elettorale che portava la sua firma, raccomandare al suo leader e al suo collega del Viminale un sondaggio preventivo con il Quirinale, per evitare di approntare un decreto che magari il presidente Napolitano non avrebbe firmato. Mai dire mai, diceva una vecchia regola della politica. Che stavolta, anche un uomo consumato come Bossi deve aver dimenticato.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Più politici e meno avvocati
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2010, 11:01:41 pm
9/3/2010

Più politici e meno avvocati
   

MARCELLO SORGI

Questa del Tar di Roma, che doveva riammettere la lista del Pdl per le regionali del Lazio, sarà la quinta o sesta, tra ordinanze e sentenze, che in questa incredibile guerra giudiziaria che ha sostituito la campagna elettorale, finora sono servite solo a rendere incerto anche l'esito finale delle elezioni.

Se la vertenza ha avuto come epicentri le due capitali italiane, nessuno infatti può escludere un contagio e un’epidemia di ricorsi anche dopo i risultati. Nell’illusione, per la verità prevedibile fin dall’inizio di questo pasticcio, che a furia di rimettere in discussione - e se possibile annullare qua e là - le votazioni, si possa tornare alle urne e cambiare i risultati finché si vuole. A questo punto l'unica cosa chiara è che il famigerato «decreto interpretativo», che ha portato l’assedio fin sotto il Quirinale, s’è rivelato inutile oltre che controproducente. A Milano, approfittando del fatto che non era stato ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, la magistratura ha preferito prescinderne esplicitamente.

A Roma, i giudici amministrativi hanno concluso che, seppure, come diceva il decreto, la presenza dei rappresentanti del Pdl doveva considerarsi sufficiente a presumere che la lista stava per essere presentata, non c’era nessuna prova né che la delegazione del partito fosse materialmente presente, né che fosse pronta a consegnare la documentazione. La verità può essere interpretata, ovviamente. Ma appunto, un’interpretazione vale l’altra, e quella dei giudici ha prevalso.

Ma siccome alla follia non c'è limite - e una sorta di tarlo ha ormai preso tutti i contendenti, facendoli sembrare fuori di senno - c’'è perfino chi pensa che la guerra giudiziaria debba continuare. Incuranti del monito del ministro dell'Interno Maroni, che ha consigliato di chiuderla qui, gli esponenti romani del partito di Berlusconi e i sostenitori della candidata Polverini si aspettano che oggi la lista cassata ieri dai giudici amministrativi - che a loro volta avrebbero dovuto contraddire i magistrati della Corte d’Appello - sia riammessa in extremis dall’ufficio elettorale del tribunale romano davanti al quale ieri intanto l’hanno ripresentata. A loro volta gli avversari del Pd - che tramite la giunta regionale di centrosinistra della Regione Lazio hanno fatto ricorso contro il decreto del governo davanti alla Corte Costituzionale - hanno annunciato che se il Tribunale riammetterà la nuova lista del Pdl, loro faranno un altro ricorso al Tar per ottenere la sospensione della riammissione.

Ecco perché tenere la contabilità delle istanze, dei ricorsi, degli appelli e delle sentenze - provvisorie perché c’è sempre un tempo supplementare della partita - ormai è impossibile. Non ci riuscirebbe neppure Kafka, lo scrittore che così mirabilmente descrisse la disperazione di un uomo davanti alle contraddizioni della giustizia. Il paradosso è che ciascuno loda, o impreca contro, i magistrati di varia estrazione a cui è stato affidato il destino politico di queste elezioni, secondo il tenore delle loro decisioni. E ognuno annuncia una carta segreta, una procedura particolare, una norma interposta, e insomma una mossa del cavallo, grazie alla quale il gioco può essere riaperto all’infinito.

Non ce n’è uno - uno solo basterebbe! - che invece sia capace di dire a voce alta quel che molti hanno già capito. E cioè che per questa strada, presto o tardi, non è un’esagerazione, si arriva alla morte della democrazia. Quando non c’è più nulla di definito, quando il rispetto dell’avversario sembra venuto meno per sempre, quando le regole non valgono più, tanto si possono cambiare, non c'è neppure chi vince e chi perde, perché nessuno sarà disposto a rispettare il verdetto delle urne. Tutti piuttosto penseranno a sovvertirlo in un modo o nell’altro, chiamando in causa alternativamente, e sperando che tra loro si contraddicano, ora il giudice amministrativo, ora quello civile o quello penale.

Di fronte a ciò c’è una sola cosa da chiedere ai politici: tornate a far politica. Sembra ovvio, ma non lo è. E’ assurda l’idea che la gente possa davvero appassionarsi alla telenovela delle aule di tribunale. E Berlusconi, che dice di conoscere la «sua» gente meglio degli altri, dovrebbe saperlo. Dovrebbe dire ai suoi elettori, non solo quello che ha fatto, ma quel che intende fare nel futuro. Ci sarà o no il taglio delle tasse? Il piano casa vedrà la luce? Le province saranno abolite? Queste sono le cose che gli elettori vogliono sapere. Allo stesso modo la Polverini, candidata dotata di buona immagine e carattere forte, potrà rimediare all’esclusione della lista del suo partito se sarà in grado di spiegare agli elettori di centrodestra cosa devono fare per farla vincere anche in una situazione anomala. Ce la farà, se riuscirà a convincerli che, malgrado l’imprevisto a cui è andata incontro, ha la grinta e la passione necessaria per affrontare i problemi del Lazio e far marciare l'elefantiaca macchina amministrativa della Regione. Infine, anche l'opposizione dovrebbe smetterla di passare il suo tempo con gli avvocati. Ora che il decreto salva-liste è diventato inutile, anche la manifestazione di sabato è incomprensibile. Bersani dia l’esempio e ci rinunci.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il Pdl e l'ansia da successione (che non ci sarà)
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2010, 09:27:43 am
10/3/2010 - TACCUINO

Il Pdl e l'ansia da successione (che non ci sarà)

   
MARCELLO SORGI

La faida in corso da mesi nel Pdl - determinante nel pasticcio delle liste e nell'esclusione dei candidati del partito dalle elezioni nel Lazio - una spiegazione ce l'ha.
Ormai molti esponenti del centrodestra ne parlano, senza neppure abbassare il tono della voce, e dicono che i guai sono cominciati nella seconda metà dell'anno scorso, quando s'è diffusa la convinzione che Berlusconi avrebbe potuto lasciare anche prima della fine naturale della legislatura.

Come si sia potuta spargere una voce del genere, e soprattutto come abbia potuto attecchire a poco più di un anno dalle elezioni vittoriose del 2008, è difficile crederlo. Gli scandali, i problemi familiari, momenti di velata stanchezza che qualcuno sosteneva di aver constatato di persona al cospetto del Cavaliere, e poi il clima montante degli ultimi mesi del 2009, l'idea che una volta giunto al suo ultimo giro, il premier avrebbe necessariamente dovuto occupare la seconda parte del suo mandato a gestire la successione.

Di qui, appunto, il panico nelle seconde e terze file, per non dire delle quarte e delle quinte, l'atmosfera da ultima spiaggia che, in coincidenza con la battaglia delle candidature, ha creato una corsa a qualunque costo all'ultimo posto disponibile, come se la conclusione annunciata di un'era durata tre lustri dovesse per forza coincidere con la fine di una sorta di età dell'oro.

Per incredibile che possa sembrare, questa è la ricostruzione autentica che più di uno all'interno del Pdl fa delle ragioni che hanno portato al disastro degli ultimi giorni. Ora, il paradosso di tutta questa storia è che, anche se molti verosimilmente ci hanno sperato, Berlusconi non ha nessuna, ma proprio nessuna, intenzione di mettersi da parte. Anzi, per come è fatto, le difficoltà lo spingono con più convinzione a battersi.

La campagna elettorale è da sempre il momento che lui giudica migliore per le sue performances. E, malgrado i sondaggi più recenti non siano generosi, il Cavaliere non considera affatto pregiudicata la tornata elettorale. Anzi, ritiene che con un forte impegno di comunicazione, gli elettori disorientati del centrodestra possano essere rimotivati e una vittoria che adesso sembra irrealistica possa essere riacciuffata. Questo ha spiegato ieri di persona a un'abbacchiata Renata Polverini, candidata governatrice del Lazio che corre in salita, al sindaco di Roma Gianni Alemanno che ha una parte di responsabilità nell'esclusione della lista del Pdl e ai coordinatori del partito. A regolare i conti, hanno capito quelli che lo ascoltavano, Berlusconi penserà dopo le elezioni.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. L'impossibile disarmo bilaterale
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2010, 09:33:14 am
11/3/2010 - TACCUINO

L'impossibile disarmo bilaterale
   
MARCELLO SORGI

La ricostruzione fornita ieri da Berlusconi, secondo cui la presentazione della lista del Pdl a Roma sarebbe stata impedita da una congiura tra militanti radicali attivissimi e burocrazia assai inerte, e la conferma che il centrodestra scenderà in piazza sabato 20 marzo contro la «sinistra antidemocratica», hanno fatto capire ieri, se ancora ci fosse qualche dubbio, che la campagna elettorale per le regionali ruoterà tutta attorno al pasticcio delle liste.

Invano i leader dei due schieramenti si sono sfidati ieri a piantarla e a uscire dalla dimensione di lite da condominio in cui sono precipitati dopo la ragnatela inestricabile di ricorsi giudiziari contrapposti presentati nei giorni scorsi. La verità è che nessuno mette in conto la possibilità di un disarmo unilaterale, e l'appello a tornare a parlare di politica deve considerarsi dunque caduto nel vuoto.

Si va verso una campagna elettorale basata su un'aperta delegittimazione tra le due parti. Un ulteriore passo indietro, verso l'imbarbarimento del confronto politico, e un definitivo allontanamento dai modelli di normale democrazia bipolare, il cui presupposto è che tutti sono legittimati a governare. Qui invece l'incomunicabilità registrata con qualche preoccupazione dal Quirinale (e annotata con amarezza dal Capo dello Stato nella mail che aveva fatto seguire alla contestata firma del decreto) continua a produrre i suoi frutti avvelenati.

Avremo quindi sabato prossimo la prima manifestazione del centrosinistra in cui, cercando di salvaguardare (vedremo quanto) il ruolo del Presidente della Repubblica, Bersani e soci accuseranno Berlusconi di aver infranto le regole della democrazia usando il governo per cercare di salvare le liste del suo stesso partito. Accusa giustificata, va detto, quando il famigerato «decreto interpretativo» è stato varato.
Ma assai meno ora che le due diverse magistrature di Milano e di Roma che si sono occupate di Formigoni e Polverini hanno dichiarato esplicitamente di prescinderne e ne hanno contemporaneamente certificato l'inutilità.

Allo stesso modo avremo il sabato successivo la seconda manifestazione del centrodestra, che ribalterà i giudizi di antidemocraticità sull'opposizione, accusandola, come ha fatto ieri Berlusconi, di voler correre senza avversari come ai tempi dell'Unione sovietica.

Il bello è che con questi argomenti sperano di convincere un elettorato demotivato a tornare sulla strada delle urne. Non li sfiora neppure il dubbio che tutto quel che stanno facendo spinge un sacco di gente verso l'astensione.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Da elezioni a campionato di serie B
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2010, 08:15:52 am
12/3/2010 - TACCUINO

Da elezioni a campionato di serie B
   
MARCELLO SORGI

Avevano detto: basta, facciamola finita con la guerra giudiziaria. Ma ieri hanno ricominciato peggio di prima. Alla sola, ventilata, possibilità, che il Consiglio di Stato potesse pronunciarsi oggi, o al più tardi domani, smentendo le due sentenze di esclusione della lista del Pdl del Lazio, la giunta regionale di centrosinistra ha fatto ricorso alla Corte costituzionale per chiudere definitivamente la contesa.

Definitivamente si fa per dire, dal momento che è impossibile dipanare l'intreccio di iniziative contrastanti e concomitanti, prese davanti a giudici di vario tipo. Al momento, per semplificare, si può dire questo: il punteggio è di due a uno a favore del centrosinistra, la partita è ormai ai calci di rigore finali. Il centrodestra ha segnato a Milano, dove tutto è andato a posto e Formigoni, Pdl e Lega possono correre tranquillamente, praticamente sicuri di vincere. Ma il centrosinistra ha segnato due volte a Roma, dove prima il Tar e poi l'ufficio elettorale del Tribunale hanno negato l'ammissione della lista del partito del premier, malgrado il decreto scritto su misura per farla riammettere.

Ora la speranza (per il centrodestra) o il timore (per il centrosinistra) è che il Consiglio di Stato, cioè la Corte d'Appello del Tar, intervenga più o meno nello stesso modo in cui lo fece nel 2005, quando a soli tre giorni dal voto fu salvata la lista di Alessandra Mussolini, che era stata esclusa all'atto della presentazione per irregolarità nelle firme dei presentatori, e rientrando portò alla sconfitta il governatore uscente della Regione Francesco Storace. In quel caso - ed ecco perché speranze e timori sono giustificati - i consiglieri di Stato decisero senza entrare nel merito della vicenda specifica, con la sola ragione di consentire il diritto di voto anche a una piccola minoranza come quella dei sostenitori della nipote del Duce.

Ma siccome la lista del Pdl non dovrebbe solo essere riammessa, ma ammessa per la prima volta, visto che non è stata neppure presentata, il Consiglio di Stato, per farla entrare in campo, dovrebbe necessariamente far riferimento al contestato decreto del governo. Di qui l'iniziativa avversa della giunta regionale, mirata a far dichiarare in tempi brevissimi l'incostituzionalità del decreto. Come può finire? Per restare alla metafora, o pareggio, due a due, se il Consiglio di Stato dà ragione al Pdl, o tre a uno per il centrosinistra se arriva prima la Corte costituzionale. Le chiamavano elezioni, adesso sono ridotte a un campionato di serie B.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Un Paese oltre ogni limite (e stampa di parte).
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2010, 11:02:41 am
13/3/2010

Un Paese oltre ogni limite

MARCELLO SORGI

La nuova ondata di intercettazioni resa nota ieri dal «Fatto quotidiano» ci consegna uno spaccato del potere anche peggiore di quel che si poteva immaginare. Di per sé, l’idea che il presidente del Consiglio chiami al telefono il direttore generale della Rai Mauro Masi, il direttore del Tg1 Augusto Minzolini e il membro dell’Agcom, l’Autorità indipendente per le telecomunicazioni, Giancarlo Innocenzi, non è fuori dalla realtà. Ma se solo è verosimile il contenuto dei verbali, riassunti stavolta, e non pubblicati tra virgolette, è il modo in cui li tratta - da servi, neppure da dipendenti! - che fa spavento. Se questo è il livello a cui è giunta la vita pubblica, ancorché nei suoi anfratti nascosti, siamo ormai oltre la «bolgia» infernale denunciata dal Capo dello Stato. Del resto sarebbe proprio Masi a lamentarsi perché certe cose, a suo dire, non accadono neppure nello Zimbabwe.

Malgrado ciò occorre distinguere. Il premier che cerca di orientare il responsabile del principale telegiornale dell’emittente di Stato è solo uno, uno dei tanti politici che tutti i giorni cercano di guadagnare visibilità, ascolto e spazio a dispetto di altri.

Chiunque abbia lavorato come giornalista in Rai sa che un malinteso concetto del servizio pubblico fa credere a ciascuno dei quasi mille membri del Parlamento di essere azionista di viale Mazzini, e in base a questo di poter accampare pretese, senza rispetto, né per chi fa informazione, né per chi deve fruirne come pubblico. Sta alla personalità e alla professionalità di chi riceve le telefonate reagire e salvaguardare, per quanto possibile, l’informazione dalle pressioni indebite. Ma siccome al telefono si ricevono anche notizie, e siccome i politici non hanno sempre ed esclusivamente torto, un giornalista che condivida, in qualche caso, il punto di vista del suo interlocutore, e come Minzolini lo faccia esplicitamente, anche nel caso si tratti del presidente del Consiglio, non è detto che faccia necessariamente qualcosa di male.

Diversi sono i casi di Masi e Innocenzi. In qualche modo, e con opposti atteggiamenti, stando sempre al riassunto delle intercettazioni, sarebbero stati coinvolti nella cancellazione per il periodo elettorale del programma di Michele Santoro «Anno Zero», che si è tirata dietro la sospensione di tutti i più importanti spazi di approfondimento, da «Porta a porta» a «Ballarò» a «In mezz’ora». In questo caso sembra che, mentre il membro dell’Agcom Innocenzi (a lungo dipendente delle emittenti Mediaset prima di approdare a Forza Italia) si adoperava, non solo per favorire, ma per suggerire una via per ghigliottinare il conduttore sgradito al premier, il direttore generale Masi a modo suo resisteva. E si sarebbe piegato solo dopo il silenzio imposto ai talk-show della Rai dalla Commissione parlamentare di vigilanza, e seguito dal regolamento dell’Autorità - peraltro sospeso ieri mattina dal Tar - che lo estendeva anche alle reti tv private. Ma con la collaborazione di uno, o con l’opposizione dell’altro dei due altissimi funzionari, alla fine l’effetto è stato lo stesso: e Berlusconi, anche se non gli spettava, l’ha avuta vinta sul terreno - la politica in tv - su cui da sempre è più sensibile.

Accanto a questa ricostruzione, per forza di cose frammentaria e meritevole di approfondimenti - per accertare, almeno, se Innocenzi debba rispondere di esser venuto meno ai doveri di imparzialità connessi al suo incarico di membro di un’Autorità indipendente - c’è un altro interrogativo che aspetta risposte. Come si sa, l’inchiesta che ha portato alla scoperta di tutto è partita da Trani, in Puglia. Le indagini riguardavano un giro di usura basato su carte di credito irregolari. Alcuni degli indagati avrebbero minacciato di rivolgersi all’Agcom e alla Rai come consumatori truffati, millantando amicizie che potevano procurargli assistenza da parte dell’Autorità e attenzione giornalistica da parte del Tg1.

Un magistrato che decida di conseguenza di mettere sotto controllo uno (solo uno?) dei membri dell’Agcom dovrebbe sapere che quell’organo non si occupa di protezione dei consumatori. Se non lo sa, appena scopre che ha sbagliato indirizzo, dovrebbe chiudere le intercettazioni. Lo stesso vale per il direttore del Tg1, che tra l’altro sulla storia delle carte di credito ha anche mandato in onda un servizio.

Invece il magistrato rimane in ascolto. E quando si accorge che al telefono dei suoi intercettati c’è Berlusconi, moltiplica le sue attenzioni, anche se è chiaro che né lui né gli altri due c’entrano niente con la storia della truffa. Per questa strada - una via obliqua - s’è arrivati a rivelare le pressioni del premier sull’informazione Rai. Ma - va detto - difficilmente si potrà arrivare fino in fondo e conoscere tutta la gravità e i dettagli del caso, specie ora che è finito nel frullatore della campagna elettorale. Il magistrato che ha continuato a tendere il suo orecchio, pur sapendo che la vicenda non era di sua competenza, non ha dato grande prova di serietà. Anzi, magari senza capirlo - cosa che fa dubitare della sua intelligenza - ha contribuito ad accelerare la legge che vuole tagliare le intercettazioni. D’altra parte, se è così facile spiare il presidente del Consiglio (oggi Berlusconi, ma era successo anche a Prodi), non si troverà più tanto facilmente qualcuno contrario a limitarle. Così, giorno dopo giorno, cresce la confusione e la sensazione è che anche i diritti più elementari e le libertà indispensabili siano messi a rischio. L’Italia sta diventando un Paese senza il senso del limite.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. I misteri dell'inchiesta in Puglia
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2010, 10:25:10 am
16/3/2010 - TACCUINO

I misteri dell'inchiesta in Puglia

   
MARCELLO SORGI

Uno dei primi dubbi che s'è posto a proposito del caso Berlusconi-Agcom-Tg1 riguardava il luogo dell'inchiesta, Trani. Com'è possibile che una procura di provincia che sta indagando su un traffico di carte di credito irregolari arrivi - nientemeno! - a inquisire il presidente del consiglio per concussione? Palazzo Chigi, gli uffici dell'Autorità indipendente per le telecomunicazioni e la redazione del Tg1 si trovano nella Capitale: come potevano gli inquirenti aggirare questo evidente limite territoriale?

Queste domande prescindono dalle eventuali responsabilità di Berlusconi, che sarà compito di un tribunale giudicare, se si arriverà a un processo. Ma sottendono una domanda più generale: quali che siano le sue colpe, che paese è un paese in cui il capo del governo può essere messo sotto inchiesta così facilmente, da un giudice che non sa neppure quali sono i compiti dell'Agcom, tanto da ritenere che possa occuparsi anche della difesa dei consumatori truffati con le carte di credito?

Ieri i magistrati di Trani hanno cercato di spiegare il senso delle loro iniziative. Dunque l'inchiesta sarebbe stata incardinata in Puglia dopo due decisivi interrogatori. Nel primo l'ex sottosegretario e attuale membro dell'Agcom Giancarlo Innocenzi, richiesto di illustrare le eventuali pressioni subite da Berlusconi, negò. Ed ecco partire contro di lui l'accusa di favoreggiamento, da parte dei magistrati che, disponendo delle intercettazioni delle telefonate con il premier che si sbracciava per ottenere la chiusura di «Annozero», capirono subito che Innocenzi mentiva. E siccome aveva mentito a Trani, ecco motivata anche la competenza territoriale della locale Procura.

Nel caso di Minzolini tutto fu ancora più semplice. Avendo il direttore del Tg1 detto che per lavoro parlava con molti politici, tra cui Berlusconi, ma che non si sentiva tenuto a rivelare il contenuto di conversazioni professionali, l'interrogatorio del direttore del Tg1 venne secretato. Ma Minzolini - si sa com'è fatto - all'uscita dal Palazzo di giustizia si mise a telefonare e a raccontare, stupito, quel che gli era successo. Di qui l'accusa di rivelazione di segreto istruttorio, anche in questo caso commessa a Trani. Si tratta di motivazioni formalmente ineccepibili. Che non spiegano, tuttavia, la lunga serie di intercettazioni fatte prima che i reati di cui Innocenzi e Minzolini sono accusati venissero commessi. Il dubbio che la forzatura operata a Trani possa impedire un serio accertamento della verità rimane. E giorno dopo giorno diventa più forte.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Testa a testa tra Michele e il premier
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2010, 10:18:27 am
17/3/2010 - TACCUINO

Testa a testa tra Michele e il premier

   
MARCELLO SORGI

Ieri a Trani è stato il «Santoro day». Il conduttore di «Annozero» s'è mosso con sapienza sulla scena. Diversamente da Minzolini, che appena uscito dall'interrogatorio era corso a telefonare a Palazzo Chigi, Santoro ha fatto poche dichiarazioni, spiegando che era tenuto a un obbligo di riservatezza, ma lasciando intendere che la storia della sua persecuzione politico-mediatica è nota e pubblica, e risale ai tempi del famoso editto bulgaro di Berlusconi nel 2001.

Le immagini sui tg, la folla di microfoni e telecamere attorno al giornalista, privato per il momento del suo programma e della ribalta tv, il suo comportamento «istituzionale» a fronte della campagna che per tutto il giorno il Cavaliere ha continuato a condurre contro l'avversario individuato nell'asse tra magistratura politicizzata e sinistra, hanno reso chiaro quale sarà l'effetto dell’inchiesta pugliese sulla campagna elettorale.

Si sta già andando a grandi passi verso un duello uno contro uno, com'è tipico delle competizioni bipolari, tra Berlusconi e Santoro. Con il premier nella parte che gli riesce meglio - quella della vittima -, e che solitamente funziona benissimo per mobilitare l'elettorato di centrodestra. E il conduttore di «Annozero» che va a riempire il vuoto di proposta del centrosinistra. Non è un mistero, come s'è visto anche nella manifestazione romana di sabato a Piazza del Popolo, che l'opposizione sia riuscita, sì, a rimettere insieme tutti i pezzi della vecchia coalizione che sosteneva Prodi nel 2006 ma non sia apparsa ancora in grado, né di esprimere, né di lasciare intuire un'ipotesi di candidatura per la guida del Paese.

Mentre a destra, si tratti della nascita della nuova corrente di Fini, o del profilo tecnocratico incombente di Tremonti, i movimenti per la successione di Berlusconi sono sempre più evidenti, anche a tre anni dalla scadenza elettorale, a sinistra di questo non si parla per non litigare. E' in questo quadro che Santoro, anche al di là delle sue intenzioni, rimedia con la sua presenza alla mancanza di alternativa nella campagna elettorale 2010. Con quale vantaggio per Berlusconi (che già si muove in questo senso), e quale rischio per il centrosinistra, è facile intuire.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Un richiamo all'Italia impazzita. (ma non è l'Italia impazzita).
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2010, 08:45:46 am
18/3/2010 - TACCUINO

Un richiamo all'Italia impazzita
   
MARCELLO SORGI

Ci vuole una pazienza infinita, come quella, appunto, del Presidente Napolitano, per mettersi in mezzo - letteralmente - alla rissa interminabile tra poteri che dovrebbero essere indipendenti, senza necessariamente diventare avversari. In discussione, come ha spiegato il Capo dello Stato, non è il diritto dei magistrati inquirenti a condurre le loro indagini in piena autonomia. Così come non è quello del governo di disporre un'ispezione in una sede giudiziaria, sia pure quella in cui s'è aperta l'ennesima inchiesta contro il presidente del Consiglio. E neppure, va da sé, la possibilità per il Consiglio superiore della magistratura di prendere in esame le risultanze dell'ispezione, non di doverla giudicare in anticipo. Basta solo - ed è quello che Napolitano ha voluto ricordare a tutti - che ognuna delle parti in causa lavori nel pieno rispetto delle prerogative delle altre.

Ciò che invece avviene sotto gli occhi di tutti - anche del Presidente della Repubblica, che ovviamente non può spingersi a censurarlo esplicitamente - è esattamente il contrario: inchieste, come quella di Trani, condotte ai limiti delle procedure previste e in un periodo, come la campagna elettorale, in cui determinano effetti politici. Ispezioni, come quella annunciata dal ministro di giustizia Angelino Alfano, presentate dichiaratamente come reazioni del governo alle inchieste, e non come controlli di tipo amministrativo, che devono necessariamente soggiacere alla riservatezza e all'autonomia della magistratura inquirente. E poi controreazioni, in genere molto dure, dei giudici sottoposti a ispezioni. E interventi, al minimo intempestivi, del Csm, come se i giudici che hanno già reagito malamente alle ispezioni avessero bisogno di essere spalleggiati, e come se appunto l'organo di autogoverno dei magistrati non dovesse limitarsi ad aspettare di poter leggere le carte prima di dire la sua.

A tutto questo, che si verifica purtroppo ormai immancabilmente ogni qualvolta un'inchiesta mira sui politici, e in particolare su Berlusconi, deve porre rimedio il Capo dello Stato: chiamato in campo non nel suo classico ruolo arbitrale, ma proprio per separare contendenti che sembrano aver voglia di menare le mani. Napolitano provvede alla necessità, ribadendo un principio che dovrebbe essere ovvio - ognuno al suo posto e nell'ambito dei propri poteri -, ma evidentemente non lo è più, nell'Italia impazzita di questo inizio 2010.

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Titolo: MARCELLO SORGI. L'ostacolo cha azzoppa Nichi
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2010, 03:54:32 pm
19/3/2010 - TACCUINO

L'ostacolo cha azzoppa Nichi
   
MARCELLO SORGI

Oltre a spostare contro il centrosinistra la bilancia dei guai giudiziari finora pendente verso il centrodestra, l’arresto dell’ex vicepresidente della Regione Puglia Sandro Frisullo, uomo forte del Pd nella giunta travolta dallo scandalo Tarantini (lo stesso che aveva poi organizzato un traffico di escort in casa di Berlusconi a Roma e in Sardegna), mette un ostacolo inatteso nella corsa solitaria del governatore Nichi Vendola, fin qui favorito e proteso verso la vittoria.

Uscito miracolosamente indenne dal terremoto che lo ha costretto ad azzerare la sua amministrazione, premiato nella sua resistenza a farsi da parte, e a farsi sostituire dall’esangue candidato del Pd Boccia alla guida della Regione, plebiscitato alle primarie del suo partito e applauditissimo, perfino più degli altri leader nazionali della coalizione, alla manifestazione di sabato scorso a Piazza del Popolo, il pupillo di Bertinotti fino a ieri viaggiava tranquillo verso la riconferma.

E per quanto possa cercare di difendersi dall’insidia Frisullo, ricordando di averlo cacciato subito dalla giunta insieme con gli altri assessori accusati, i dettagli dell’inchiesta sono tali da rendere difficile credere che Vendola fosse completamente all’oscuro di tutto ciò che avveniva alle sue spalle. Se solo si riflette che, secondo le accuse di Tarantino (che dovranno tuttavia trovare riscontri) Frisullo, in cambio di “protezione politica” per gli appalti nella Sanità, aveva ricevuto, prima un anticipo di cinquantamila euro, e poi undici rate mensili da dodicimila, più una serie di servizi che andavano dalle pulizie domestiche di un appartamento che era nella sua disponibilità, alla fornitura di escort che venne praticamente sperimentata su di lui, prima di essere riproposta in grande stile per ingraziarsi il premier, i casi sono due.

O Vendola qualcosa aveva intuito, ma ha preferito aspettare di avere qualche conferma dalle indagini, prima di prendere i suoi provvedimenti. In questo caso il governatore avrebbe freddamente perseguito la rovina del Pd pugliese, per dargli una lezione definitiva. Oppure era veramente all’oscuro di tutto, e ciò deporrebbe a carico dei maggiori esponenti dello stesso Pd, che avrebbero dimostrato una tale professionalità in fatto di corruzione da aggirare perfettamente il controllo di un politico di esperienza come appunto il governatore. A parte la figura di ingenuo che farebbe in questo caso, Vendola si troverebbe a riproporre come suo maggiore alleato un partito che parte, con fin troppo evidenza, azzoppato.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Un sistema per compattare l'alleanza
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2010, 09:12:30 am
23/3/2010 - TACCUINO

Un sistema per compattare l'alleanza

MARCELLO SORGI

Silvio Berlusconi è alla ricerca di un progetto che possa risultare unificante per il centrodestra, all’indomani di un risultato elettorale come quello delle regionali che s’annuncia, anche nel migliore dei casi, non radioso. L’ideale sarebbe recuperare il pacchetto di riforme economiche liberali e liberiste, a cominciare dal taglio delle tasse, con cui il Cavaliere esordì sedici anni fa. Ma anche senza che il ministro Tremonti glielo ripeta, Berlusconi sa bene che al momento simili proposte sono incompatibili con la situazione economica ancora difficile e con i vincoli europei.

Di qui l’idea del ritorno alle riforme istituzionali, meno sexy, certamente, per un elettorato che dà già molti segni di stanchezza, e già provate nella precedente legislatura di governo del centrodestra con un risultato mediocre. All’interno del pacchetto della Grande Riforma, tuttavia, c’è un argomento, il presidenzialismo, che non a caso il premier ha rilanciato nei suoi ultimi comizi, e che può risultare mobilitante, se non per un elettorato affamato di contenuti più concreti, almeno per rimettere insieme una maggioranza che, sia all’interno del Pdl, sia nel rapporto con la Lega, mostra crepe evidenti a soli due anni dalle elezioni del 2008.

L’elezione diretta del Presidente della Repubblica è infatti da sempre la bandiera di Fini e degli ex An a lui più vicini. L’unità nazionale raccolta attorno ad un uomo, scelto dagli elettori e che la rappresenta carismaticamente, è per il Presidente della Camera l’unico prezzo possibile per l’accettazione di un’effettiva introduzione del federalismo, richiesta su cui Bossi (non a caso freddo al momento sul presidenzialismo) basa la continuazione dell’alleanza con il centrodestra. Una Lega più forte, tra l’altro, come quella che s’annuncia dopo le regionali, diventerà ovviamente più esigente: ed ecco per il Cavaliere la necessità di arrivare alla trattativa con un’impostazione che possa tenere insieme i suoi due principali alleati. Inoltre, e questo nella strategia del premier non guasta, mentre a destra il presidenzialismo, coniugato con il federalismo, può servire a rinsaldare la maggioranza, a sinistra, dove il Pd cerca di stringere una nuova alleanza con Casini, produrrebbe l’effetto opposto: da sempre l’Udc, parlamentarista, è contraria a un Capo dello Stato o a un premier eletto direttamente.

Fin qui, il discorso fila. C’è solo un problemino da risolvere: se si arriva davvero al presidenzialismo, chi sarà il candidato della prima volta per il centrodestra?

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Titolo: MARCELLO SORGI. Ma quello dei vescovi non è un dietrofront
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2010, 08:37:44 am
24/3/2010 - TACCUINO

Ma quello dei vescovi non è un dietrofront
   
MARCELLO SORGI

Adesso tutti diranno che i vescovi hanno fatto marcia indietro e dopo aver adoperato l’aborto in aiuto al centrodestra si sono accorti, anche per le prevedibili reazioni all’interno del mondo cattolico, di dover aggiustare il tiro. In realtà, com’era forse troppo sbrigativo lunedì tradurre il documento della Conferenza episcopale come uno schieramento tout court a favore di Berlusconi, e in particolare della Polverini, e contro la Bonino, lo è allo stesso modo interpretare come un ripensamento la lettera di ieri dei vescovi liguri, firmata peraltro dallo stesso cardinale Bagnasco che presiede la Cei e aveva sottoscritto la relazione antiabortista.

Il discorso semmai andrebbe capovolto. E cioè: in una campagna elettorale in cui per la prima volta tra i candidati governatori ce ne sono due che fanno riferimento a posizioni abortiste e in favore dell’eutanasia, i vescovi hanno o no diritto di rivolgersi ai cattolici per richiamarli a scegliere attentamente per chi votare? E possono farlo senza che questo necessariamente significhi schierare la chiesa accanto al centrodestra e al centrosinistra?

Da quando non c’è più la Dc – e sono ormai sedici anni – di candidati cattolici, da tempo ce ne sono da ambedue le parti. L’Udc, il partito che più espressamente fa riferimento ai valori cattolici, è alleato secondo le situazioni con il Pd o il Pdl. Le due prese di posizione dei vescovi, sia quella antiabortista, sia quella che richiama anche altri valori quali il lavoro, la famiglia, la solidarietà anche con gli immigrati, possono dunque essere considerate rivolte, non solo ai cattolici - che comunque dovrebbero far sentire più forte la loro voce sui principi, specie in una campagna elettorale monopolizzata dal premier e fondata ormai solo su scambi di accuse reciproche –, ma anche a quei laici che, pur partendo da posizioni distanti e in qualche caso contrastanti con quelle di fede, vogliano comunque interessarsene, dialogando e se del caso assumendo impegni concreti.

Inoltre, prima di liquidare come infortuni politici le due uscite dei vescovi, occorre ricordare che poco più di un mese fa proprio la Cei intervenne con un documento ufficiale per comunicare tutto il proprio sconforto di fronte a una classe politica, nel suo insieme, ridotta com’è ridotta quella italiana, e per sottolineare la necessità dell’avvento di una nuova generazione di uomini pubblici, più dediti all’impegno civile al servizio della società e meno a farsi gli affari propri.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Alla conquista del Nord la Lega ha messo la freccia
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2010, 10:57:05 am
25/3/2010 - TACCUINO

Alla conquista del Nord la Lega ha messo la freccia

   
MARCELLO SORGI

Bossi ieri ha messo la freccia e ha annunciato che al Nord è possibile il sorpasso della Lega sul Pdl. L’annuncio va preso con le molle. Non perché non sia possibile, anzi: in Veneto il sorpasso è scontato, in Lombardia è probabile e in Piemonte, anche se lo è meno, sarà compensato da una forte crescita del Carroccio. Il punto è che il modo in cui il Senatur ha chiamato la sua gente alla riscossa va inquadrato in tutta la strategia con cui il leader leghista è andato alla (definitiva) conquista del Nord approfittando della crisi interna del Pdl.

Bossi è partito mesi fa con il chiedere la guida della Lombardia per «accontentarsi» dei due candidati governatori in Veneto e in Piemonte: non male, specie se si considera che partiva da zero e che nella prima regione è sicuro di vincere e nella seconda ha buone probabilità. La «rinuncia» (anche in questo caso le virgolette sono d’obbligo) alla Lombardia, s’è detto, dipendeva dal fatto che Bossi non voleva trovarsi con un governatore padano della Padania che avrebbe in qualche modo potuto offuscare la sua leadership. Vero o falso che sia, Bossi lo ha lasciato credere.

Anche il modo in cui ha presentato l’ipotesi della Lega primo partito al Nord, come qualcosa che non dovrebbe affatto turbare il Cavaliere perché non incrina le alleanze del centrodestra, si spiega. Bossi è il primo a sapere che non è così: per il Carroccio si tratterebbe di un traguardo storico che produrrebbe una deflagrazione immediata proprio a partire dalla Lombardia. Lì infatti il Pdl ha sì il controllo di Milano, della Provincia e della Regione, ma le diverse anime a cui fanno riferimento il sindaco e i due presidenti sono già in guerra tra loro: Formigoni, alla sua quarta designazione da governatore, è sostanzialmente il capo di un partito a sé, oggetto di contestazioni di cui il pasticcio della rischiata esclusione della lista è stato solo un preavviso. La Moratti è al centro di un assedio che punta a farla fuori prima delle elezioni comunali del prossimo anno e soprattutto prima che la preparazione dell’Expo 2015 entri nel vivo. Podestà, che guida la provincia, è il più vicino al Cavaliere, ma non ha grandi spazi di manovra.

Accanto al terremoto lombardo-veneto (perché anche all’ombra del Leone è matematico che il sorpasso non sarà accolto con grida di gioia), crescerebbe subito come uno tsunami la resa dei conti romana, con Fini deciso a non fare sconti né a Berlusconi né al suo amico Umberto. Sono queste ragioni che fanno sognare a Bossi il sorpasso, ma forse, sotto sotto, gli fanno anche sperare che non ci sia.

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Titolo: MARCELLO SORGI. E' stata la campagna peggiore
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2010, 04:55:58 pm
27/3/2010

E' stata la campagna peggiore
   
MARCELLO SORGI


L’abbuffata finale di interviste televisive - con Berlusconi in diretta quasi a reti unificate su tutti i tg pubblici e privati - ha chiuso degnamente una campagna elettorale che verrà ricordata come la peggiore della storia repubblicana.

Se non fosse per lo squilibrio evidente, tra il premier che ieri sera dilagava, malgrado le multe imposte dall’Agcom ai telegiornali troppo squilibrati in suo favore, e Santoro che giovedì per andare in onda chiedeva la carità a Sky, a Internet e ai canali satellitari, si potrebbe pensare che, senza dirselo, i due si fossero messi d’accordo, talmente grottesca era nelle due versioni la loro rappresentazione dell’Italia.

Un Paese avvelenato dall’odio diffuso a piene mani dalla sinistra comunista e dai conduttori di talk-show a essa vicini e pertanto esclusi dal video su sua richiesta, secondo il Cavaliere. E per Santoro, affiancato da Floris, Lerner e da una fila di comici stranamente seri, un Paese privato della sua libertà d’espressione e letteralmente ripiombato nel fascismo. Ora, è tutto da vedere che questo possa servire a mobilitare gli elettori, spingendoli verso i seggi e battendo il timore accresciuto dell’astensione. Il rischio è che produca l’effetto contrario.

Tra l’altro, all’indomani delle elezioni sarà impossibile capire chi ha vinto e chi ha perso. E non solo per il malvezzo nostrano di proclamarsi sempre vincitori a dispetto di qualsiasi risultato. In questo caso, da entrambe le parti, è stata predisposta un’accurata strategia per confondere le acque. Se si fosse votato un anno fa, prima degli ultimi mesi difficili che hanno offuscato l’immagine del presidente del Consiglio e del suo governo, il centrodestra avrebbe potuto mirare a ribaltare il quadro che lo vede al governo di sole due Regioni delle tredici in cui si vota domani. Ma adesso, non è un mistero, dopo il modo rissoso in cui si è arrivati alla presentazione delle liste e dopo la lunga coda giudiziaria che ne è seguita, il Pdl punta a un aggiustamento più o meno sensibile, in attesa di migliori occasioni. Non che la riconferma in Lombardia o in Veneto, o la sospirata conquista del Piemonte, del Lazio, della Campania e della Calabria, ammesso che si verifichino, non siano importanti. Ma è il vento di cambiamento a cavallo del quale Berlusconi era tornato a Palazzo Chigi che ormai soffia molto più debole. Di qui la mancanza di un metro condiviso per misurare i risultati, e l’incertezza che fa dire al premier che avrà vinto non chi controllerà un maggior numero di regioni, ma chi potrà dire di avere una massa più numerosa di cittadini amministrati. E ancora, che non sarà poi così importante se la Lega sorpasserà il Pdl, in tutto o in parte del Nord.

Anche il centrosinistra si consola con la speranza che all’indomani del voto la maggioranza delle amministrazioni contese resti in mano sua. Ma ammesso, anche in questo caso, che la previsione si realizzi, non è pensabile che i leader del Pd non considerino il danno che verrebbe loro dalla perdita di una grande regione come il Piemonte e di una o più di quelle del Centro-Sud. La verità è che, realisticamente, il Pd fa i conti con la situazione sconfortante in cui si trova a due anni dalla fondazione e dopo due cambi di segreteria, e non è in grado di valutare il contraccolpo dei numerosi scandali e inchieste giudiziarie da cui sono stati investiti i suoi amministratori. In alcuni casi i candidati governatori di centrosinistra vanno al voto consapevoli di non godere di un appoggio convinto della loro parte. In altri le elezioni rappresentano solo un passaggio di una serie di lotte intestine che riprenderanno tra due giorni.

Così si spiega perché, più di altre volte, la campagna elettorale si sia risolta in uno scambio corrivo di accuse e di insulti tra Berlusconi e i suoi avversari, e perché nessuno dei problemi reali, nazionali o locali, abbia trovato una qualche accoglienza nell’inconcludente dibattito delle ultime settimane. Se tutto questo davvero fosse parte di un tacito accordo per far sì che in mancanza di veri vincitori, dopo il voto, e una volta deposte le armi, governo e opposizione tentassero di riaprire un confronto, con l’obiettivo di ridare un senso alla legislatura e dedicare i prossimi tre anni alle riforme più urgenti, anche una campagna elettorale così brutta potrebbe essere archiviata con sollievo. La sensazione, invece, è che chissà quanto tempo ci vorrà, prima che i veleni evaporino e la politica ritrovi la sua strada maestra.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Astensioni, le ragioni di un virus
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2010, 11:17:26 am
30/3/2010

Astensioni, le ragioni di un virus
   
MARCELLO SORGI

L’allarme per l’astensione era giustificato, la sorpresa perché si è verificata no. Che non ci fosse in giro una gran voglia di andare a votare, era chiaro da settimane, ed anche negli ultimi giorni, ciascuno di noi aveva potuto constatarlo, tra amici e conoscenti o in famiglia.

Siamo ancora lontani, tuttavia, (con il 63,6% di affluenza) dai livelli della Francia, in cui più della metà degli elettori ha disertato i seggi. E resta sorprendente, semmai, che dopo una campagna elettorale orrenda come quella a cui abbiamo assistito, due italiani su tre, malgrado tutto, si siano recati alle urne.

Anche a non voler sommare la rissa, con otto, dicasi otto, sentenze, emesse da magistrature di vari gradi e diversi tipi, per decidere sull’ammissione delle liste del Pdl a Roma e a Milano, e poi gli scandali giudiziari e le intercettazioni che hanno colpito entrambe le parti, e ancora la cancellazione degli spazi televisivi di informazione e di approfondimento dedicati alle elezioni, era abbastanza evidente per tutti che queste elezioni non avrebbero segnato la fine del mondo. Che importassero a Berlusconi e a Bersani, così come a Fini, Bossi e Di Pietro, d’accordo: «ma a noi ne viene veramente qualcosa?», si saranno chiesti gran parte dei cittadini, stanchi di sentirsi chiamare all’appello da partiti che hanno ormai problemi uguali e deficienze assai simili.

C’era inoltre una non trascurabile differenza tra le regionali di quest’anno e quelle del 2005: allora, con la legislatura 2001-2006 giunta agli sgoccioli, l’elettorato sapeva di poter esprimere un giudizio politico sull’operato del governo di centrodestra al potere da quattro anni. E la bocciatura fu talmente sonora che, pur avendo Berlusconi recuperato in extremis, l’anno dopo, nella campagna per le politiche, non riuscì a fare il miracolo e perse contro Prodi per ventimila voti.

Al contrario, stavolta – e la gente lo aveva capito benissimo -, con le regionali che cadono a meno di metà del percorso, e Berlusconi che ha ancora tre anni di tempo, fino al 2013, per raddrizzare l’andamento caracollante del suo governo, anche un forte successo dell’opposizione, che non c’è stato, non avrebbe potuto cambiare il corso delle cose.

In elezioni tutto sommato locali, a cui inutilmente, e con i peggiori argomenti, come s’è visto, s’è cercato di dare respiro nazionale, un peso, uno spostamento, potevano portarlo i candidati governatori, che andavano individuati con grande attenzione. Ma a questo, invece, i due maggiori partiti si sono applicati confusamente, o sulla base di calcoli politici lontani dai problemi e dai territori ai quali avrebbero dovuto essere collegati, e destinati pertanto a infrangersi contro la realtà.

Valgano, per tutti, due esempi: Mercedes Bresso, in Piemonte, e Rocco Palese, in Puglia.

Che a dispetto di una buona prova dell’amministrazione da lei guidata l’immagine della governatrice del Piemonte si fosse appannata, si sapeva già dall’anno scorso, quando si sentì parlare della possibilità che la Bresso fosse dirottata al Parlamento Europeo e al suo posto si candidasse Chiamparino. Per ragioni legate non solo alla sua storia politica, ma ai suoi più recenti atteggiamenti, anche in polemica con il suo partito, come quando aveva proposto la formazione di un Partito democratico del Nord, il sindaco di Torino sarebbe stato molto più adatto a fronteggiare la candidatura nuova, e per certi versi rivoluzionaria, del leghista Cota. Ma siccome ai vertici del Pd era considerato un rischio dargli un’ulteriore chance di crescita, l’ipotesi Chiamparino venne accantonata come un azzardo. Con il risultato, appunto, di incoraggiare l’astensionismo (i votanti in Piemonte sono scesi dal 71,4 al 64,3 per cento) e di farlo nuocere più nel campo del centrosinistra che non nell’altro.

Allo stesso modo, Berlusconi, con il suo solito fiuto, s’era reso conto subito che quella di Palese era la scelta di un brav’uomo, forse anche un discreto professionista del Consiglio regionale pugliese, ma per niente in grado di fronteggiare la candidatura carismatica di Nichi Vendola, che s’era imposta a dispetto perfino di un leader del Pd come D’Alema.

Il Cavaliere, preso dai suoi molti guai, non era poi riuscito a costruire un’intesa con Casini su un’indicazione concordata, e non aveva potuto accettare di far correre tutto il centrodestra dietro le insegne della Poli Bortone, scesa in campo con l’Udc, e i cui voti, sommati a quelli del Pdl (e sottratto l’astensionismo che ha visto i votanti calare dal 70,5 al 63,2 per cento), avrebbero potuto far cambiare di segno la Puglia.

Caso per caso, ragionamenti del genere, potrebbero essere applicati ad almeno sette delle tredici regioni in cui s’è votato: guarda caso, quelle decisive. S’è preferito invece credere che gli elettori, alla fine, avrebbero mandato giù qualsiasi minestra pur di non doversi buttare dalla finestra. Senza mettere in conto che tra i giochi possibili di un elettorato ormai piuttosto avvertito, e in genere (tolte le ultime settimane) piuttosto informato e sofisticato quanto a orientamenti politici, c’era anche la carta del non voto.

da lastampa.it


Titolo: M. SORGI. Sinistra lontana dal territorio non si è accorta del pericolo-Grillo
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2010, 02:59:32 pm
31/3/2010 - TACCUINO

Sinistra lontana dal territorio non si è accorta del pericolo-Grillo

MARCELLO SORGI

All'indomani dei risultati si intrecciano e si contrappongono le analisi più originali. Prima che intervenga la severa legge dei flussi (c'è ormai un metodo scientifico per stabilire il tragitto quasi di ogni voto, e gli studiosi sono al lavoro), è tutto un alternarsi di dichiarazioni e spiegazioni, specialmente, com’è ovvio, nel campo degli sconfitti.

Tra le varie tesi adottate dal Pd per giustificare la delusione della sconfitta, soprattutto in Piemonte e Lazio, c'è quella che le candidate del centrosinistra sarebbero state penalizzate dall’imprevisto successo delle liste Grillo, che, oltre a mostrare performances inaspettate in varie altre città (vedi Bologna e più in generale l'Emilia), sarebbero diventate letali sotto la Mole, dove appunto, con il 4 e passa per cento rastrellato sul territorio piemontese, avrebbero tolto alla Bresso una quantità di voti determinante per la vittoria.

Possibile? Possibile: la Bresso lo ha detto e ripetuto nel momento amarissimo in cui ha dovuto ammettere la sconfitta, Bersani ci giura e ne ha fatto uno degli argomenti più forti della sua conferenza stampa di ieri. E sono stati tanti gli esponenti del centrosinistra che sono tornati sull'argomento. C'è tuttavia una domanda alla quale, se non gli esponenti del Pd che ieri hanno dichiarato tardivamente guerra a Grillo, dovrebbero rispondere con i loro numeri gli studiosi dei flussi: come si fa ad essere sicuri che i seguaci del comico ligure abbiano portato via consensi solo alla sinistra? Nel voto per Grillo, da quel che si può capire, ci sono una serie di componenti tra le più disparate che sommano, è dato presumere, atteggiamenti radicali di qualsiasi orientamento, le aree estreme di ogni frangia di protesta, l'antinucleare con l'antindustriale, l'ecologismo fondamentalista con l'integralismo religioso, il pacifismo con l'antiamericanismo, l'agricoltura biologica con l'antiOgm, oltre, naturalmente, a un certo numero di casi di professionismo politico parassitario, che lo stesso Grillo è stato costretto a sconfessare per evitare confusioni.

Sono solo alcuni esempi. Ma che tutto questo tolga voti solo alla sinistra, e non anche alla destra, è da dimostrare. E ammesso che sia possibile dimostrarlo, c'è da chiedersi come mai un pericolo così grande per lo schieramento democratico sia stato, non solo sottovalutato, ma ignorato. Non l' avevano vista, i dirigenti del Pd, la proliferazione di liste Grillo? E durante una campagna in cui il territorio è stato battuto palmo a palmo, nessuno aveva dato l'allarme? E' credibile che se ne siano accorti solo il giorno dopo?

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Come chiudere il ventennio del Cavaliere
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 09:40:19 am
1/4/2010 - TACCUINO

Come chiudere il ventennio del Cavaliere
   
MARCELLO SORGI

Dopo il passaggio elettorale che ha avuto un indubbio effetto stabilizzatore, e in vista di un triennio in cui non sono in calendario consultazioni generali come quella appena conclusa, la ripresa del dibattito sulle riforme avviene all’insegna di una generale buona volontà e di una dichiarata assenza di pregiudizi. Tutti in sostanza, maggioranza e opposizione, sono convinti che i campanelli dell’astensione e del voto di protesta hanno suonato anche per ricordare alle forze politiche che devono far vedere di essere meno inconcludenti di quanto sono apparse finora.

L’occasione di dimostrarlo esiste nella seconda metà della legislatura. Ed è anche chiaro da cosa dipenderà. Non, o non solo, dai contenuti delle riforme – presidenzialismo, federalismo, elezione diretta del Capo dello Stato o del premier, riduzione del numero dei parlamentari, giustizia, fisco, legge elettorale e così via – dal momento che tutti più o meno si dichiarano disposti a confrontarsi su tutto. La questione vera è un’altra: se davvero si arrivasse a varare un gruppo di riforme importanti sotto l’egida del governo Berlusconi e con il consenso di tutta o parte dell’opposizione, si può pensare che il giorno dopo questo passaggio storico lo stesso Berlusconi si faccia da parte? Il Cavaliere, lo stesso che fino a qualche giorno fa veniva sbertucciato o insultato o paragonato, addirittura, a Mussolini, riesce in un’impresa simile a quella di De Gaulle in Francia, dopo di che saluta e se ne va? Via, non è credibile.

Allo stesso modo, non è un mistero, sia gli alleati di Berlusconi che ieri si sono seduti con lui al tavolo delle trattative, sia gli oppositori che all’indomani del voto gli hanno offerto la loro disponibilità, non fanno mistero di aspettare di capire il momento in cui il premier passerà la mano.

Non è problema di Seconda o Terza Repubblica, anche se qualcuno già ne parla e ne scrive. Piuttosto di uscire dall’ipocrisia per cui Berlusconi si dovrebbe accontentare di chiudere in bellezza il ventennio a cui arriverà con la fine della legislatura, e gli altri, alleati o oppositori che siano, dovrebbero lealmente collaborare con lui, convinti che non vuole altro che portare a termine il sogno per cui è sceso in campo e finalmente dedicarsi a un meritato riposo e ai nipotini. Fino a che non si uscirà da quest’equivoco – e non è facile – è davvero difficile che riforme condivise possano fare qualche passo avanti.

L’occasione di questa mezza legislatura c’è, ma altrettanto il rischio che venga sprecata.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Interruzione di pubblico servizio
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2010, 08:16:01 am
2/4/2010

Interruzione di pubblico servizio

MARCELLO SORGI

Non c’è nulla di strano che come in altri Paesi anche in Italia - dove pure il diritto all’aborto è stato riconosciuto per legge trentadue anni fa, e riconfermato con referendum popolare ventinove anni fa - l’introduzione della pillola abortiva riapra una discussione mai sopita, in tutto questo tempo. Ma tra le parole del Papa e quelle dei neo-governatori leghisti del Piemonte e del Veneto una distinzione va fatta.

Che Benedetto XVI in questo momento richiami i cattolici a battersi per il rispetto della vita fin dal concepimento, è logico, e perfino ovvio. E tuttavia, se Cota e Zaia sono liberi, in quanto cattolici, di manifestare opinioni coincidenti con quelle del Papa, le cose che hanno detto come governatori appena eletti sono sorprendenti e in qualche modo illegittime. Non c’entrano né le confessioni religiose né le posizioni politiche. Il primo dovere di un presidente della Regione, specie se scelto direttamente dal popolo, è assumere l’impegno, non solo con i suoi elettori ma anche con quelli che non lo hanno votato, di rispettare le leggi. Tutte le leggi, anche quelle che non gli piacciono, come la 194. E di garantire a qualsiasi cittadino i diritti assicurati da norme consolidate.

Questo normale dovere, di una persona che assume una responsabilità pubblica importante come quella di guidare l’amministrazione di una Regione, dovrebbe essere scontato. Se non lo è, o non lo è più, solo perché per la prima volta sono stati votati due governatori leghisti, in Italia la confusione è destinata ad aumentare. Infatti, superata la parentesi, carica di passioni e di tensioni, della campagna elettorale, e conosciuti i risultati e i nomi degli eletti, i cittadini, di qualsiasi opinione, non dovrebbero preoccuparsi di vivere in un altro mondo. Naturalmente ogni riforma è possibile, ogni legge può essere cambiata, ma finché questo non avviene il governatore, come ogni altra pubblica autorità, fa quel che deve, non ciò che vuole. Anche se ha in mente la rivoluzione.

Ecco perché le affermazioni di Cota e Zaia sono incomprensibili. Provengono, è bene ricordarlo, non da due giovani che hanno appena smesso di marciare in un corteo studentesco, ma da due uomini politici di una certa esperienza, uno capogruppo ancora in carica dei deputati leghisti, l’altro ministro dimissionario dell’Agricoltura, che si sono candidati davanti agli elettori con volti e idee moderati. E per questo sono stati apprezzati dalla maggioranza dei cittadini e sono usciti vincitori da competizioni elettorali neppure tanto drammatiche, in cui il massimo della suspense, nel caso del Piemonte, è stato attendere fino a notte fonda lo spoglio delle schede.

L’idea che Cota, a due giorni dal voto, si alzi e dica che farà marcire nei magazzini le pillole abortive pur di evitare di somministrarle a donne che hanno diritto di chiederle, oltre che necessità, è incredibile. Non sta a lui decidere di queste cose, e se lo facesse quasi certamente rischierebbe di commettere reati. Se le pillole abortive acquistate dagli ospedali su indicazione dei medici che intendono usarle (la 194, va ricordato, prevede anche l’eventualità dell’obiezione di coscienza dei sanitari contrari all’aborto per ragioni di principio) dovessero, per ordine del governatore, essere effettivamente abbandonate in qualche sotterraneo, si verificherebbero, insieme, una parziale interruzione di un servizio pubblico (la mancata assistenza a donne che non sono in grado di portare avanti una gravidanza, e vorrebbero interromperla avvalendosi del nuovo metodo chimico, meno invasivo di quello tradizionale) e lo spreco del denaro pubblico speso per l’acquisto dei farmaci necessari. Lo stesso vale per quel che ha detto Zaia sulla sua intenzione di bloccare gli ospedali veneti che si accingono a usare la pillola.

Che il dibattito sull’aborto (meglio, sul diritto di abortire) si ponga oggi in termini diversi rispetto a trent’anni fa, è assodato. Per effetto del progresso scientifico, che ha fatto molti passi avanti in oltre tre decenni, sono cambiati l’inizio e la fine della vita, ciò che una volta sembrava affidato al destino oggi è in larga misura prevedibile, determinabile, evitabile, e questo, in alcuni casi, provoca dubbi e apre interrogativi per cui non sempre c’è risposta. Così si capisce che all’aspetto culturale e di principio del problema si siano appassionati anche laici non credenti, e due anni fa, alle ultime elezioni politiche, un giornalista, un intellettuale come il direttore del Foglio Giuliano Ferrara, partendo da posizioni di minoranza, abbia voluto proporre provocatoriamente una lista «pro-life», per spingere laici e cattolici - almeno quelli di centrodestra - a uscire dalle ipocrisie sul terreno delicato della vita e della morte, della fede e della scienza.

In una discussione completamente diversa, e anche apertamente contraddittoria, rispetto al passato, poco o pochissimo spazio hanno trovato gli aborti e i parti clandestini, i primi drasticamente ridotti grazie alla 194, gli altri tristemente moltiplicatisi, specie all’interno delle comunità di extracomunitari, con conseguenze quasi sempre letali per i neonati. Ma nella giornata in cui i suoi due nuovi colleghi leghisti hanno straparlato di aborto, non è male che a ricordare questo aspetto del problema sia stata pure Renata Polverini, governatrice di centrodestra del Lazio, schierata per la vita, ma consapevole del suo obbligo di rispettare la legge.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Don Vito la sponda dei boss
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2010, 04:52:38 pm
7/4/2010

Don Vito la sponda dei boss

MARCELLO SORGI

Capita raramente, ormai, che la forza del racconto scritto riesca a prevalere su quella, evocativa, delle immagini da cui siamo bombardati di continuo.

Ma succede nel caso di «Don Vito» (Serie bianca Feltrinelli, 18 euro), il libro dedicato da Francesco La Licata alla storia di Vito Ciancimino, il «sindaco dei corleonesi», l’uomo che governò Palermo e la Dc siciliana per oltre vent’anni e per conto della mafia.

Visto in tv, Massimo Ciancimino, il figlio del sindaco che insieme al fratello Giovanni ha fornito all’autore una testimonianza preziosa, sembrava debole e incerto. Invece, nella lunga ricostruzione fatta con La Licata, dà vita a un affresco che non può non sembrare incredibile, se non fosse per il serio lavoro di inchiesta e di documentazione che lo accompagna.

La Licata avverte a ogni buon conto che tutti i fatti descritti sono oggetto di indagine della magistratura e saranno i giudici a vagliarne l’autenticità. Ma anche al di là dei singoli avvenimenti e dei numerosi protagonisti - tra cui figurano, manco a dirlo, Andreotti, Lima, il banchiere Calvi, Licio Gelli, oltre a tutta o quasi tutta la classe dirigente siciliana tra gli Anni Sessanta e Novanta - la lettura è straordinaria per un aspetto che verrebbe da definire antropologico.

E cioè il modo di vita, la perfetta convivenza tra politica e mafia in una città, un territorio in cui i due poteri non possono fare a meno l’uno dell’altro. Le consuetudini, il rispetto, le liturgie, le prese di distanza, i segreti, e poi naturalmente i soldi, un fiume di soldi, di «piccioli», come li chiamano loro. Vito Ciancimino ha solo qualche anno in più di Bernardo Provenzano, un ragazzo svogliato delle elementari e non ancora il capo di Cosa Nostra, quando viene chiamato a dargli lezioni private di matematica, nella Corleone della loro infanzia. Ne nasce un’amicizia che durerà tutta la vita, e una tacita divisione di ruoli fondata sulla regola che «cane non mangia cane», e che «per vivere nella giungla - come diceva Don Vito - devi essere capace di trattare con le belve».

Il sindaco è descritto dai figli come un padre dispotico e come una specie di satrapo che governa la città dal salotto di casa e da un tavolo attorno al quale siedono fianco a fianco, o uno dopo l’altro, politici, prelati, mafiosi, killer, leader nazionali, capi massonici, alti funzionari, altissimi magistrati, e naturalmente imprenditori. Come tutti quelli dotati di un potere assoluto, Ciancimino è pieno di nevrosi, ipocondriaco, frequenta medici svizzeri, è superstizioso e ricorre a uno zio medium, ha molte amanti, tra cui una cognata, che si fa scoprire: e quel giorno, pur di non essere colto in un momento di debolezza, Ciancimino, grazie a un amico costruttore, farà addirittura abbattere un muro dell’alcova, per penetrare in un altro appartamento e fuggire indisturbato. Sembra un film. Il sindaco non ama gli animali, e un altro giorno, in un attacco d’ira, spalleggiato dai vigili urbani che sono la sua Securitate, sparerà, uccidendolo, a un cane entrato nel suo giardino.

Nello stesso tempo Ciancimino non si sente della stessa razza dei capimafia. Anzi ama distinguersene, e coltiva a modo suo un’idea di primato della politica. I mafiosi, le «belve della giungla» sono per lui «l’altra sponda». La regola per conviverci è garantirgli negli affari «un’equa parte», ciò che Lima sintetizza nello slogan «mangia e fai mangiare». Scorrono gli anni della grande speculazione edilizia - e della trasformazione-devastazione della città che una volta si definiva «Palermo felicissima» -, scanditi dagli incontri tra i due amici corleonesi. Una volta la settimana Don Vito vede Provenzano, eterno latitante che si aggira indisturbato sotto il falso nome di «ingegner Lo Verde», e a loro si aggiunge spesso un terzo, misterioso, personaggio, il «signor Franco», una sorta di 007 che non si capisce se dipenda dall’apparato di sicurezza nazionale o risponda direttamente alla Cia e agli americani.

E’ l’insieme di questi chiaroscuri, le diverse tonalità dell’enorme zona grigia che si allarga pian piano all’intero Paese, che conferisce, pur nella dimensione grottesca, una sua grandezza, e perfino un’inutile epica a tutta la vicenda. Non a caso, unico nel suo genere, e diversamente da Lima e da altre vittime eccellenti della guerra seguita alla pax mafiosa che lui stesso aveva garantito, Don Vito morirà nel suo letto. Come un vero boss.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. La regola dei veti incrociati
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2010, 03:21:52 pm
8/4/2010

La regola dei veti incrociati
   
MARCELLO SORGI

Ci sono molte ragioni per accostarsi con scetticismo al ritorno della Grande Riforma, a cui Berlusconi e il centrodestra vorrebbero dedicarsi adesso, per arrivare nel 2013, alla scadenza delle prossime elezioni politiche, con un assetto costituzionale completamente mutato e un Paese finalmente riformato e traghettato fuori dai cascami della sua eterna transizione.

La prima è che, per quanto se ne discuta da anni, per non dire decenni, la Grande Riforma è sempre fallita, indipendentemente dalla volontà, dalla qualità e dall’esperienza dei leader che vi hanno posto mano. S’è rivelato impossibile riprodurre lo spirito virtuoso dei Costituenti, che in soli diciotto mesi, tra il ’46 e il ’48, riuscirono a mettere da parte tutte le loro divisioni ideologiche, territoriali e generazionali, per dar vita a una Carta costituzionale che ancora oggi, pur collocata nel suo tempo, è considerata un esempio.

Tal che è diventato più facile, anche quando l’obiettivo sembrava a portata di mano, farne saltare la riscrittura invece che concluderla. Nel passato recente questo è accaduto almeno tre volte: all’inizio degli Anni Ottanta, quando fu Berlinguer ad affondare la prima Commissione Bicamerale dedicata alle riforme. E al principio e a metà dei Novanta, quando furono affossate, in rapida sequenza, prima la Bicamerale presieduta da De Mita, e poi quella di D’Alema.

Quest’ultima, proprio il giorno dopo il patto che, anche se nella sede impropria della sala da pranzo di casa Letta, era stato concluso da centrosinistra e centrodestra, e che Berlusconi stesso, dopo averlo siglato, s’incaricò di far saltare.

Perché questo sia accaduto - e nei diversi casi in cui è avvenuto - è ormai oggetto di studio. Ma essenzialmente, si può dire, il motivo è sempre stato lo stesso: anche quando avevano trovato un compromesso, alleati e avversari, seduti attorno al tavolo, si sono sempre fatti prendere dal dubbio che le nuove regole potessero rafforzare oltre misura uno di loro, e di conseguenza si sono tirati indietro. Fu così, appunto, quando il Pci temette che Craxi, all’apice del suo successo, diventasse il vero beneficiario della Grande Riforma. O quando Segni e Occhetto, preoccupati di una restaurazione della Prima Repubblica moribonda, sbarrarono la strada a De Mita. E infine quando il Cavaliere, agli albori del suo ventennio, ritirò la stretta di mano data a D'Alema.

Stavolta invece è Berlusconi il candidato al ruolo di riformatore destinato, dapprima a spendere tutto il suo impegno, e poi a rischiare la delusione. Dopo il buon risultato elettorale alle regionali, e approfittando di un triennio in cui, tolti alcuni importanti appuntamenti locali (l’anno prossimo si vota per i sindaci a Milano, Torino, Bologna, Napoli e Reggio Calabria), non sono previste scadenze elettorali nazionali, il Cavaliere infatti s’è convinto di sfruttare l’occasione offerta dalla seconda metà della legislatura.

Dall’indomani del voto, il suo attivismo è inarrestabile, affollata l’agenda degli incontri, in cima ai quali ha messo quello con il Capo dello Stato e con il suo alleato strategico Bossi. Dopo la cena di Arcore di martedì sera, dopo il vertice del Pdl a Palazzo Grazioli di ieri, e dopo aver richiamato in servizio, gesto significativo, come consigliere, anche il padre fondatore di Forza Italia Giuliano Urbani, Berlusconi ha l'aria di non voler perdere tempo.

Se l’attivismo della Lega, che ha gettato sul tappeto il modello del semipresidenzialismo francese, disturba una parte del gruppo dirigente del Pdl, il premier non se ne cura. Se la richiesta di Bossi di una larga intesa, con tutta o parte dell'opposizione, per una solida e definitiva approvazione del federalismo, non piace a tutti nel centrodestra, il Cavaliere è determinato a tacitare i mugugni: perché ancora una volta vuol dimostrare di poter riuscire dove altri hanno dovuto rinunciare. E al di là del forte rumore di grancassa che si avverte sulla scena, e delle molte smorfie di perplessità che si percepiscono dietro le quinte, è prematuro oggi fare scommesse su un tentativo appena cominciato.

Allo stato dell’arte, Berlusconi gode di una cauta attenzione del Quirinale, ma soffre di un’evidente freddezza dell’opposizione, che va dall’aperta contrarietà di Di Pietro, alla difficoltà del Pd di trovare al suo interno una sintesi che superi la tradizionale unità antiberlusconiana. La necessità che le riforme, per evitare di essere sottoposte al vaglio popolare come prevede l’articolo 138 della Costituzione, siano votate in Parlamento con una maggioranza di due terzi, rende strategico il contributo del centrosinistra. Eppure, la sensazione è che il premier non si preoccupi più di tanto di questo aspetto, e si prepari ad affrontare il percorso accidentato della Grande Riforma alla sua maniera, puntando soprattutto su se stesso e sul rapporto diretto con gli elettori. Tra un po’, come dal palco dei suoi ultimi comizi, lo sentiremo chiedere: volete o no un presidente dotato di più poteri, per realizzare gli impegni che ha preso senza dover perdere tempo con il teatrino della politica? Volete la riduzione del numero dei parlamentari, senza le tante scuse che la Casta ha preso fin qui per evitarla? Volete il taglio delle tasse? E’ così via. E’ da vedere che questo sia il modo per arrivare al presidenzialismo, sia pure all’italiana. Mentre è sicuro, di qui al 2013, che per questa strada si arriva a un altro referendum su Berlusconi.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Sullo sfondo il rischio delle elezioni
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2010, 11:25:45 am
9/4/2010 - TACCUINO

Sullo sfondo il rischio delle elezioni

MARCELLO SORGI

Gianfranco Fini la fa meno facile rispetto a Berlusconi e alla Lega. Nel suo primo intervento dopo il risultato elettorale, che a detta di tutti ha rafforzato l’asse tra il premier e il leader leghista, il presidente della Camera non rinuncia a distinguersi, anche di fronte a un’ipotesi – quella del semipresidenzialismo francese – costruita per venirgli incontro.

Fini manda due messaggi. Il primo al presidente del consiglio e cofondatore del Pdl, per ricordargli che la strada scelta è molto più complessa di quel che potrebbe sembrare e richiede una lunga serie di interventi sulla Costituzione, a cominciare dal necessario riequilibrio tra i nuovi poteri di un Capo dello Stato eletto direttamente e quelli del Parlamento che dovrebbe bilanciarli. Fini non lo dice, ma è implicito che l’intesa stabilita con la famosa «bozza Violante», che prevedeva un forte rafforzamento dei poteri del premier, forse poteva rappresentare una base di confronto, a partire dalla quale l’introduzione dell’elezione diretta, che trova ancora resistenze nel centrosinistra e un’assoluta contrarietà dei centristi, sarebbe stata più facile da far digerire.

Il secondo messaggio è rivolto all’opposizione: sottolineando l’importanza di una nuova legge elettorale da accompagnare alla revisione costituzionale il Presidente della Camera sa di toccare un punto indispensabile per il Pd e i suoi alleati, e che invece il Pdl non vuol mettere in discussione.

Tutto ciò, ovviamente, non basta a dire che Fini s’è messo di nuovo di traverso, ma che considera essenziale, diversamente da Berlusconi, arrivare all’approvazione delle riforme con l’appoggio di parte o tutta l’opposizione. Questa impostazione è condivisa anche dalla Lega, che vuole arrivare a un’introduzione del federalismo definitiva, in quanto votata da una larga maggioranza parlamentare, e non provvisoria e sottoposta al vaglio del referendum, come prevede l’articolo 138 della Costituzione per le riforme votate a maggioranza semplice.

Dietro la posizione di Fini s’affaccia anche il sospetto, non esplicito ma diffuso nelle file dei parlamentari a lui più vicini, che Berlusconi possa eventualmente cercare di approfittare anche di un insuccesso della campagna per le riforme, per interrompere una legislatura ingolfata e riprendere la vecchia idea delle elezioni anticipate, grazie alle quali potrebbe riproporsi anzitempo come candidato a Palazzo Chigi. Ciò che più di tutto il presidente della Camera teme e vuol cercare di evitare.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Se Matera e Macerata non bastano a sorridere
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2010, 06:18:42 pm
13/4/2010 - TACCUINO

Se Matera e Macerata non bastano a sorridere

MARCELLO SORGI

A meno di non volersi consolare con Macerata e Matera, come ha fatto l'altra volta con Liguria e Basilicata, il centrosinistra dovrà prima o poi cominciare a guardarsi allo specchio e a fare una riflessione sulla tornata elettorale. E non perché la perdita di Mantova abbia chissà quale valore simbolico, ma perché è evidente che il trend negativo nazionale, invece di essere contraddetto in situazioni specifiche, si ripercuote localmente in modo quasi automatico.

Al di là delle molte ragioni allineate nell'analisi del voto (astensionismo, successo della Lega, logoramento dei "cacicchi" meridionali), c'è un aspetto più generale che andrebbe approfondito. Nell'era delle democrazie maggioritarie è ormai assodato che per competere occorrono tre cose: un uomo, un programma e una coalizione. In questo, per anomala che sia, l'Italia non fa eccezione. Ma a ben guardare il centrosinistra non ne ha più nessuna delle tre. Dal 2008, dopo la sconfitta di Prodi, non ha un candidato per la guida del Paese: così che si trova nella situazione che ha l'anti-berlusconismo - unico punto su cui le sue anime si ritrovano unite - ma non ha l'anti-Berlusconi.

Non ha neppure un programma: anzi, pur essendosi celebrati i congressi delle sue componenti più importanti, a partire da quello del Pd che ha già cambiato due segretari, sembra aver rinunciato al confronto interno per approdare a un minimo comune denominatore. In materia istituzionale, economica, sulla giustizia, per non dire dei valori (vita, morte, famiglia) l'idea di approdare a un decalogo condiviso è fuori dalla realtà. Tre giorni fa, solo per aver provato ad aprire un discorso su magistratura e obbligatorietà dell'azione penale, poco mancava che il responsabile di settore del Partito democratico Orlando finisse sotto processo.

Infine, anche sulla coalizione, c'è una sostanziale immobilità. A detta di molti le elezioni regionali avrebbero seppellito il laboratorio aperto con l'Udc per allargare al centro la coalizione di centrosinistra, tuttavia, a giudicare dagli interventi dei leader dopo i risultati, l'ipotesi è ancora in campo. Ma lo è veramente? E se lo è, cosa si sta facendo per renderla più realistica? E se non lo è, si lavora a un'alternativa? E quale? Sono solo alcune di una lunga serie di domande che il Pd, e non soltanto il Pd, rivolge a se stesso nel tentativo di innescare un esame di coscienza. Salvo poi a lasciarle sempre senza risposta.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. La presa in giro del ricorso all'istituto referendario
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2010, 02:52:11 pm
14/4/2010 - TACCUINO

La presa in giro del ricorso all'istituto referendario

MARCELLO SORGI

L’agonia dei referendum continua, anche grazie, va detto, all’uso malaccorto che se ne fa. Ieri Di Pietro ha annunciato la raccolta delle firme per puntare all'abrogazione della legge sul legittimo impedimento, con cui Berlusconi sta cercando di ottenere un rinvio dei processi che lo riguardano. E contro cui, non va dimenticato, i giudici di Milano che si occupano delle pendenze penali del premier hanno già annunciato ricorso alla Corte Costituzionale, che potrebbe dichiararne l’illegittimità, come accadde per il lodo Alfano, già il prossimo autunno, prima della fine dei diciotto mesi di salvacondotto per il Cavaliere.

Un referendum su questa materia è quindi manifestamente inutile, e mette inoltre per la prima volta i giudici della Consulta nella spiacevole condizione di dover decidere quasi contemporaneamente sulla costituzionalità della legge e sull’ammissibilità della richiesta di abrogazione. Di Pietro, che è un ex magistrato, non può non essersi accorto di quest’incongruenza. Ma va avanti lo stesso con la raccolta delle firme e non si pone il problema di dire la verità ai cittadini che si fermeranno ai banchetti a firmare, senza immaginare, così, di contribuire alla crisi del referendum e non alla sua riuscita. Nello stesso senso va la mossa annunciata dalle tre associazioni dei consumatori Adusbef, Federconsumatori e Movimento dei consumatori, e condivisa dai Verdi, di promuovere un’altra raccolta di firme e una nuova consultazione contro il decreto per la «privatizzazione dell’acqua», come impropriamente è stata definita la norma che punta a trasferire ai privati acquedotti e aziende pubbliche che gestiscono il servizio idrico. Il tentativo evidente è di indurre nei cittadini il timore che, con la privatizzazione, il prezzo dell’acqua, finora poco significativo, salirà alle stelle, rendendo troppo onerosa in tempi di crisi perfino l’igiene personale.

Anche in questo caso si tratta di una mezza presa in giro per gli elettori e di un ulteriore colpo all’istituto referendario: che dopo una storia illustre, fatta di grandi battaglie civili radicali come quelle sul divorzio e sull’aborto, oltre trent’anni fa, o svolte importanti sulle quali il Parlamento s’era bloccato, come il nucleare e la responsabilità dei magistrati, e dopo aver contribuito, con i referendum elettorali, al passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica, non meritava proprio di finire così, usato malamente come strumento di propaganda e svuotato dall’astensione che da tredici anni, ormai, svuota le urne del «sì» e del «no».

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. L'ennesima novità del Senatùr
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2010, 09:48:20 am
15/4/2010 - TACCUINO

L'ennesima novità del Senatùr

MARCELLO SORGI

Con Umberto Bossi c’è sempre una novità. Appena parla, tutti si stupiscono e sgranano gli occhi come a dire: che succederà? Bossi è in politica da più di vent’anni, la Lega ha alcune decine di parlamentari eletti almeno dal ‘92 - dicasi ‘92, quando c’era ancora la Prima Repubblica - il Senatur si porta dietro questo cognome dai tempi ormai molto lontani in cui era uno dei due leghisti presenti a Palazzo Madama, eppure ancora oggi, se dice una cosa, qualsiasi cosa dica, l'aria è da si salvi chi può.

Anche ieri è successo qualcosa del genere quando Bossi ha detto che la Lega vuol portare i suoi uomini ai vertici delle grandi banche. Sorpresa, sconcerto, curiosità: ma dove sta il problema? Le grandi banche, come si sa, sono da tempo private e possedute in parte da azionisti stranieri. Nelle fondazioni bancarie, che partecipano al capitale, sono presenti rappresentanti dei comuni, delle province, delle regioni, oltre a professionisti di varia estrazione, dei quali, non è un mistero, talvolta si possono intuire le simpatie politiche.

Pur con limiti evidenti, questo è ancora un sistema migliore di quello della vecchia lottizzazione delle casse di risparmio, quando ancora il settore bancario era composto da una miriade di aziende che entravano a far parte della grande torta del sottogoverno suddiviso tra i partiti. C’è qualcosa di strano se, per ciò che ancora riguarda le nomine di fonte politica, la Lega avanzi le sue richieste? Possibile che nessuno si ricordi che la prima volta che Bossi parlò di banche era in un’intervista a Giovanni Cerruti, pubblicata sulla «Stampa» ben 18 anni fa? Rileggerla è molto istruttivo: allora, alla porta del Senatur, bussavano Spadolini, Craxi e Martinazzoli, il leader leghista era ancora nel personaggio dell'antipartitocratico, ma non escludeva l’ingresso al governo.

All’opposizione, guarda caso, anche a quel tempo pensava di lasciare solo Fini, ch'era ancora il segretario del Msi. Quanto al resto, Bossi diceva quello che dice oggi: federalismo, riforme, il Nord alla Lega. E oltre alle banche, pensava a reti e Tg Rai. Dal tono con cui le diceva, si capiva che era pronto ad accontentarsi della metà della metà di quel che chiedeva. Eppure, ripetute fino alla noia all'indomani di ogni vittoria elettorale degli ultimi vent'anni, queste stesse cose incredibilmente destano allarme e vengono accolte come inquietanti novità.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. La resa dei conti
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2010, 03:56:05 pm
16/4/2010

La resa dei conti

MARCELLO SORGI

C’è un’evidente vena di follia nella rottura annunciata ieri dopo un tempestoso incontro di due ore tra Fini e Berlusconi. Benché il clima tra i due cofondatori del Pdl si fosse deteriorato da tempo, a nessuno sembrava possibile che alla fine si spaccasse davvero il partito appena uscito vincitore dall’ultima, difficile, tornata elettorale (e in tutte quelle celebrate negli ultimi due anni). Invece è successo. La frattura è drammatica, piena di risentimenti e accompagnata da una caccia all’uomo che procede con argomenti inconfessabili, perché Fini ha annunciato di voler costituire suoi gruppi parlamentari e i berlusconiani nella notte hanno avvertito i transfughi, a uno a uno, che se lasciano il partito si ritroveranno presto fuori dal Parlamento, nel caso, per niente improbabile, di uno scioglimento.

Tra le tante ragioni di impazzimento, ce ne sono due evidenti. La prima è lo stato dei rapporti personali tra Fini e Berlusconi e tra Berlusconi e Bossi.

Da tempo il presidente della Camera si ritiene emarginato dall’asse tra il premier e il Senatùr e non ha tollerato che il progetto di riforma elettorale concordato tra i due venisse annunciato dopo un’allegra serata di canti e barzellette, per festeggiare il neo-governatore leghista del Piemonte Cota, nella villa berlusconiana di Arcore. Alla festa partecipava anche il ministro della Difesa La Russa, coordinatore, in rappresentanza dell’ex-partito di Fini, e membro del triumvirato che regge il Pdl. Ma il presidente della Camera, questo è il punto, si sente tradito, e non più garantito, dai suoi ex-colonnelli, divenuti troppo amici del Cavaliere. E vorrebbe sostituirli con suoi nuovi fedelissimi, a cominciare dal vicecapogruppo alla Camera Bocchino, controllato illegittimamente - e misteriosamente, par di capire, secondo Fini - dai servizi segreti, non si sa per ordine di chi.

La seconda ragione è politica e Berlusconi ne porta intera la responsabilità. Inaugurando, all’indomani delle elezioni, la stagione delle riforme a cui dedicare la seconda parte della legislatura, il presidente del consiglio, non del tutto consapevolmente, è come se avesse suonato il «liberi tutti». Le riforme infatti, soprattutto quelle costituzionali, richiedono un confronto largo, senza pregiudiziali, e maggioranze qualificate in Parlamento: per evitare, com’era già accaduto nel 2006 alla fine della prima legislatura di governo del centrodestra, che la Costituzione cambiata da una sola parte politica sia poi bocciata dagli elettori nel successivo referendum. Ma Berlusconi, di concordare con l’opposizione, tutta o in parte, il suo progetto riformatore, non ha alcuna voglia. E men che meno di rischiare di finire in minoranza, perché magari Fini, Bersani, e lo stesso Bossi si mettono d’accordo ai suoi danni. Di qui lo stallo in cui è precipitata, dopo i primi roboanti annunci, la Grande Riforma, e il pullulare di ogni tipo di trasversalismo e correntismo, perché in un campo che è stato dichiarato aperto tutti giocano con e contro tutti.

Ieri notte nelle file dei due eserciti regnava la più assoluta confusione. A parte la dichiarazione del presidente del Senato Schifani, che, irritando il Quirinale, ha ricordato a tutti che se una maggioranza si spacca e non è più tale si va diritti alle elezioni anticipate, nessuno era in grado di dire con certezza cosa succederà. Fini e i suoi non minacciano crisi di governo, ma è difficile che Berlusconi possa accettare il solito rappattumamento, pur di tirare avanti. Molto dipenderà dai numeri dei nuovi gruppi che il presidente della Camera sta cercando di formare. Se davvero arriveranno a cinquanta deputati e diciotto senatori, tanto per dire due cifre che venivano fatte circolare, il governo, pur formalmente in carica, sarebbe praticamente paralizzato, e l'intenzione di Berlusconi di far saltare il tavolo e andare a nuove elezioni ne uscirebbe rafforzata. Nell’enorme edificio del partito del premier, ormai è chiaro, s’è aperta una crepa. E incuranti degli elettori, che li hanno votati per farli governare, i due cofondatori, al momento, lavorano per allargarla.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Bluff e rilanci
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2010, 04:44:22 pm
17/4/2010

Bluff e rilanci

Ma la partita non finisce qui

MARCELLO SORGI

Il gran lavoro di pompieri e pontieri e il cordone sanitario stretto attorno a Fini e ai finiani nella lunga giornata di ieri non deve ingannare: dietro l’apparente disponibilità a trovare un compromesso, le condizioni di Berlusconi sono chiare. Non a caso il premier ha voluto illustrarle personalmente nella conferenza stampa organizzata alla fine del vertice-fiume del Pdl. Dopo ore e ore in cui circolavano voci che il Cavaliere avrebbe approfittato dello strappo del presidente della Camera per metterlo fuori dal partito, riservandogli un trattamento analogo a quello adottato con Casini e l’Udc alla vigilia delle ultime politiche, Berlusconi invece ha rivolto a Fini un appello a tornare indietro sui suoi passi, un calendario più serrato delle riunioni degli organi dirigenti e un congresso del Pdl di qui a un anno e mezzo. Se il problema era ed è quello di un funzionamento più tradizionale del partito nato sul famoso predellino di Piazza San Babila, Berlusconi, a denti stretti, e pur essendo convinto che si tratta di un pretesto, è disposto tuttavia a mollare. Anche perché è l’unico modo di andare a veder le carte del cofondatore.

Se invece Fini insiste per costituire gruppi parlamentari autonomi, si accomodi, ma dev’esser chiaro che diventerebbe incompatibile con il suo attuale ruolo di presidente della Camera. Non è Berlusconi che lo sfratta: è obiettivo che non si può essere contemporaneamente leader di un gruppo e capo di un’assemblea parlamentare. E se proprio Fini è deciso a rientrare in politica, il Cavaliere è disposto a prendere per buono anche il suo impegno a non far cadere il governo e a metterlo alla prova nel nuovo ruolo di alleato esterno del Pdl. In realtà Berlusconi sa che il governo in questo caso non avrebbe vita facile, dovendo negoziare giorno dopo giorno ogni suo provvedimento con un nuovo soggetto. E punta sul fatto che nei prossimi giorni il cofondatore potrebbe accorgersi che mettere insieme i cinquanta deputati e diciotto senatori annunciati giovedì sera non è poi così facile come sembra. Quand’anche Fini ci riuscisse, se i suoi gruppi finissero col rendere la vita impossibile al governo, difficilmente poi potrebbero presentarsi davanti agli elettori a chiedere voti, specie dopo aver provocato una crisi che porterebbe diritto alle elezioni anticipate. Così, dietro le parole accomodanti del documento del Pdl e lo sforzo di buone maniere del premier in conferenza stampa, i problemi sono rimasti intatti. E tutto sarà legato ai numeri che Fini sarà in grado di mettere insieme nei prossimi giorni. Il suo futuro politico o la dura strada della ritirata dipendono solo da quelli.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Oggi no, ma alla fine alla divisione si arriverà
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2010, 09:32:21 am
20/4/2010 - TACCUINO

Oggi no, ma alla fine alla divisione si arriverà
   
MARCELLO SORGI

Che non fosse un ultimatum, ma un penultimatum, s'era capito fin dall’inizio. Che la scissione non fosse scontata, pure. Ma che i finiani possano ora salutare come una vittoria la nascita e il riconoscimento della loro corrente come una minoranza interna del Pdl, che magari tra un po’ potrà puntare a una vicesegreteria o a esprimere un quarto coordinatore, francamente è un po’ troppo. Liberi loro - un po’ meno il loro leader - di crederci, come hanno creduto finora alla trasformazione del «partito del predellino» fondato dal Cavaliere a Piazza San Babila, in un «normale» partito in cui la linea viene discussa e stabilita negli organi dirigenti e poi affidata al leader pro-tempore, che ogni due tre anni ne risponde al congresso, in cui solitamente passa la mano.

Le minoranze, al plurale, avevano una grande importanza nella Dc. Uno come Donat-Cattin, per dire, che aveva una corrente del 5 per cento, era stato capace di ribaltare con il suo famoso «preambolo» l'esito del congresso che pose fine all'alleanza con i comunisti e ricreò la maggioranza delimitata chiusa al Pci. Nel grande partitone cattolico questo era possibile perché, oltre alle minoranze dichiarate, c'erano quelle occulte e allineate nelle correnti di maggioranza. Le une e le altre erano legate da un tacito patto che prevedeva la lenta consunzione della leadership e un successivo rimescolamento interno che doveva ripercuotersi nei posti al governo.

Un siffatto meccanismo, che pure rimase alla base della democrazia italiana per quasi cinquant'anni, era connaturato a un Paese in cui il confine tra partiti di governo e opposizione era invalicabile e il ruolo degli uni e degli altri prestabilito. Ma è davvero arduo immaginarsi oggi che tutto è cambiato, Berlusconi alle prese con un «preambolo», e sarà anche curioso assistere alle sue reazioni quando giovedì le diverse fazioni in campo si confronteranno, taglia qui, aggiungi là, per cercare fino all'ultimo di mettere insieme un documento unitario ed evitare la divisione del partito in maggioranza e minoranza.

Una divisione alla quale alla fine forse si arriverà lo stesso perché altrimenti non si capirebbe perché Fini abbia voluto aprire un solco così profondo con il suo cofondatore, salvo poi rassegnarsi in pochi giorni a una ritirata, che i suoi fedelissimi, basandosi proprio sulle frasette che saranno riusciti a inserire nel documento, cercheranno di far passare come una vittoria o un pareggio in un partito in cui le parole non sono mai pietre e Berlusconi, finché esiste, continuerà a comandare.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Cambio di generazione
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2010, 07:51:41 am
21/4/2010

Cambio di generazione

MARCELLO SORGI

Anche se è stata accolta come un colpo a sorpresa, per chi ha seguito da vicino le vicende della Fiat e di Torino, la notizia del cambio della guardia ai vertici del Lingotto - con Luca Cordero di Montezemolo che lascia la presidenza a John Elkann -, non ha nulla di imprevedibile. Anzi era attesa. Elkann era da tempo preparato ad assumere la piena responsabilità del gruppo.

La gradualità con cui è salito, prima al comando dell’Exor, la società che detiene il controllo della Fiat, poi, solo qualche giorno fa, a quello dell’Accomandita di famiglia, e ieri alla guida della maggiore impresa industriale italiana, rispetta semmai la tradizione familiare di mettere alla prova il nocchiero prima di affidargli il timone. In questo senso, John era destinato al suo nuovo impegno fin da quando, dopo la morte del cugino Giovanni Alberto, l’Avvocato aveva deciso di puntare su di lui.

Designato dal nonno, il senatore Giovanni fondatore della Fiat, anche Gianni Agnelli aveva deciso di scegliere il nipote.

Per questo, John, a soli diciotto anni, era venuto a vivere in Italia. S’era iscritto al Politecnico di Torino e inizialmente aveva cominciato a vivere in un pensionato studentesco. Il tirocinio con il nonno consisteva nello stargli vicino, conoscere i suoi principali collaboratori, assistere a momenti importanti, della vita italiana e della Fiat, cercando di capire e ascoltando le spiegazioni, ma facendo meno domande possibile. Perché il messaggio che l’Avvocato gli aveva trasmesso era che esisteva un programma - in base al quale, ad esempio, John, esattamente come l’Avvocato, a ventun anni era stato chiamato nel consiglio della Fiat -, e tuttavia nulla era scontato: il ragazzo avrebbe dovuto farsi le ossa e dimostrare di essere all’altezza del ruolo.

A complicare e a rendere tutto più incerto, a cavallo del Duemila, era arrivata la grande crisi della Fiat. Una crisi aggravata dalla malattia e dalla morte dell’Avvocato, e poco dopo da quella del fratello Umberto. È in questa difficile situazione che la famiglia Agnelli, riunita in assemblea con Gianluigi Gabetti, disegna il nuovo vertice, chiamato a gestire l’emergenza: alla presidenza della Fiat va Montezemolo, John è vicepresidente, l’amministratore delegato è un nome nuovo, proposto da Gabetti che assume il ruolo di garante dell’intera operazione: Sergio Marchionne, artefice della rinascita, non tarderà a farsi conoscere e a far parlare di sé.

Se questa è appunto la successione degli eventi, che dal 1999 delle grandi celebrazioni torinesi del centenario della Fiat al 2004 dei grandi lutti e del punto più basso della crisi, hanno portato l’ultimo grande gruppo familiare industriale a scommettere ancora sulla dinastia, attrezzandosi nel frattempo per affrontare la tempesta, quel che è successo dopo, fino a ieri, si spiega chiaramente. L’ascesa di John alla guida dell’Exor, e più di recente dell’Accomandita, ha dato il senso del suo approdo, col pieno appoggio dei suoi familiari, al ruolo di capofamiglia (e di responsabile degli affari familiari) che era stato dell’Avvocato. E ciò motiva anche la volontà di Gabetti, resa pubblica limpidamente, di por fine al suo ruolo di tutor, ora che l’erede è pienamente titolato a ricoprire tutte le sue responsabilità. La staffetta con Montezemolo - accompagnata dal grande riconoscimento, non formale, ma aziendale e della famiglia, per i meriti della sua presidenza in questi sei difficilissimi anni - sta a significare che è finita almeno quell’emergenza che aveva avuto il suo apice nel 2004.

Poi, si sa, la vita di un grande gruppo automobilistico, nel presente e nel futuro, è destinata ad andare incontro a una serie continua di sfide, sui nuovi mercati e sull’orizzonte globale, sulla frontiera delle concentrazioni e degli equilibri in continuo cambiamento dell’economia mondiale. Parte di queste sfide, va detto, la Fiat le ha affrontate negli ultimi anni. Parte ancora vengono anche dalla sua tradizione, perché il gruppo, da metà del secolo scorso, e dalla Russia al Brasile, dall’India alla Cina, ha scelto di misurarsi sul crinale della concorrenza più insidiosa e delle competizioni più ardue. Marchionne è stato l’uomo che più di altri in passato ha spinto in questa direzione, e ha segnato un grande risultato con l’ingresso nella Chrysler. John, come rappresentante dell’azionista di controllo, è sempre stato al suo fianco. Ma adesso, non è un mistero, si tratta di entrare con una nuova strategia nella fase più dura.

La Fiat ha già lasciato trapelare che intende andare incontro a questa scadenza con una diversa articolazione, nella quale, ad esempio, l’alleanza tra il comparto automobilistico del gruppo e la Chrysler, potrebbe essere rafforzata. Ma come accade spesso in Italia, alle prime indiscrezioni, peraltro imprecise, su ciò che ancora dev’essere annunciato, hanno cominciato a diffondersi una serie di interpretazioni sull’eventualità che tutto questo preludesse a un disimpegno della famiglia Agnelli-Elkann dall’industria dell’auto. L’arrivo di John Elkann alla presidenza della Fiat è una risposta anche a queste voci, e come tale è stata interpretata dalla Borsa.

Questa del disimpegno di Elkann e della Fiat dall’Italia e dal mestiere che la famiglia e il gruppo fanno da più di un secolo, è una storia che meriterebbe un approfondimento. A cominciare, appunto, dalla biografia del nuovo presidente: uno nato a New York, cresciuto tra Parigi e il mondo, e venuto in Italia giovanissimo per restarci. Se non avesse avuto interesse per il suo Paese e la sua tradizione familiare, John avrebbe potuto scegliere liberamente e diversamente. Non si sarebbe stabilito a Torino, non si sarebbe sposato con una ragazza italiana da cui ha avuto due figli e con cui è rimasto a vivere nella città e nella casa che fu di suo nonno.

Se uno sceglie l’Italia e una missione difficile come quella che gli è toccata, lo fa perché vuole impegnarsi, non perché punta al disimpegno.

Ma si sa, dalle nostre parti, è difficile sfuggire alle dietrologie. John Elkann da ieri è diventato pienamente il nipote di suo nonno, ricopre esattamente le stesse responsabilità che furono dell’Avvocato e del Fondatore. La sua fortuna è che mentre qui ci s’interroga su come ha fatto, a soli 34 anni, ad arrivare così in alto, il suo lavoro, John, dovrà farlo, avendo come orizzonte l’America guidata da un Presidente quarantenne e quel pezzo di mondo nuovo e giovane che corre, in cui sono in tanti gli interlocutori che hanno la sua stessa età.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. La realtà travolge la finzione
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2010, 09:13:40 am
23/4/2010

La realtà travolge la finzione
   
MARCELLO SORGI

L’incredibile è avvenuto: sotto gli occhi dei telespettatori che seguivano in diretta, il partito di Berlusconi - quello del predellino di Piazza San Babila, il partito di plastica delle grandi adunate, delle «ola» e dei karaoke -, tutt’insieme s’è frantumato. Per la prima volta in tanti anni, Berlusconi e Fini non rispondevano più al copione prestabilito, litigavano veramente davanti a tutti, a un certo punto sembrava pure che stessero per menarsi.

E davanti a questo crudo squarcio di realtà, i ministri che li avevano preceduti con i loro discorsi di propaganda - le realizzazioni del governo, il progresso del Paese, il sogno da non spezzare - d’improvviso parevano, loro sì, pupazzi di cera.

Nessuno avrebbe mai previsto che la politica, quella vera, fatta di passione e di sangue, potesse fare irruzione anche nel Pdl. Così come nessuno avrebbe mai creduto che nel salone dove poco prima Berlusconi assegnava i posti alle comparse - raccomandandosi di riempire le prime file, perché i giornalisti, si sa, puntano le telecamere sempre sulle poltrone vuote - a un certo punto potesse volare la famosa «merda nel ventilatore», proprio quella di Formica ai tempi del vecchio Psi, e a sorpresa si potesse ricreare il clima unico del «catino» dei consigli nazionali Dc, dove il veleno dei capicorrente scorreva tra i sorrisi dei finti amici e la rassegnazione delle vittime predestinate.

Si dirà che l’occhio e la memoria del cronista fanno presto a illudersi su un ritorno impossibile della politica, tradizionalmente intesa, in un partito che rimane proprietà privata del suo leader-padrone, come hanno dimostrato ampiamente i risultati delle votazioni finali e l’umiliazione pubblica del dissidente Fini, tornato a casa con undici miseri voti nella saccoccia. Tecnicamente, quello del presidente della Camera oscilla tra un suicidio politico e il gesto di un kamikaze: se anche sperava, stringendosi attorno alla vita la cintura esplosiva, di cambiare qualcosa, dovrà ammettere che non c’è riuscito.

Ma anche Berlusconi a questo punto dovrà riconoscere di non potersi più considerare il capo carismatico e indiscusso della sua creatura. La sua idea che si discute e si vota, e poi tutti fanno e dicono quel che ha detto chi ha vinto, supera perfino il più autoritario centralismo democratico del vecchio partito comunista. E s’è infranta, quel che è peggio, nella libera rivendicazione del diritto al dissenso, al confronto tra diversi, alla possibilità di rimettere in discussione gli accordi e perfino di perseguire idee sbagliate e destinate a finire in minoranza, tipica dei partiti liberali.

Man mano che l’accartocciarsi della sua ennesima messa in scena si svolgeva sotto i suoi occhi, il Cavaliere - fatto inatteso - trasfigurava anche lui. Sì, quella di Berlusconi - un Berlusconi col trucco disfatto e fuori dai gangheri - non è stata solo la reazione di un padre-padrone, ma anche, miracolosamente, di un uomo e di un leader appassionato, che lotta perché tiene veramente alle sue idee, sa cosa vuole la sua gente ed è pronto a difendere fino allo stremo le sue posizioni.

Dopo quel che è accaduto, certo, è difficile dire come finirà. La previsione più logica è che da separati in casa i due cofondatori non andranno lontano, e presto finiranno a contarsi in nuove elezioni anticipate. A meno che - ma è una scommessa improbabile - non capiscano che quel che è successo, pur con tutto il carico di risentimento che ha lasciato, non è detto per forza che sia negativo. Dopo sedici anni di reality e di politica-spot, l’irruzione della realtà nel tempo di celluloide del partito berlusconiano dovrebbe spingere Berlusconi e Fini a fare i conti con se stessi una volta e per tutte.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Se il Cavaliere facesse il doroteo
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2010, 11:56:44 am
22/4/2010 - TACCUINO

Se il Cavaliere facesse il doroteo
   
MARCELLO SORGI

Nella prima vita di Berlusconi, quando faceva l'imprenditore, c'è stato un tempo in cui si diceva che facesse il socialista a Milano, dov'era in rapporti anche familiari con Craxi, e il democristiano a Roma, dove lo si vedeva salire sovente le famose scale di piazza del Gesù. Altri tempi, allora il Cavaliere era solo Sua Emittenza e per far funzionare le sue tv in assenza di una legge aveva bisogno dell’aiuto di tutti. Ma pensiamo a cosa succederebbe se oggi, alla prima vera direzione del Pdl, che dovrà sancire la spaccatura tra una maggioranza e una minoranza interna e il riconoscimento della nascita della «corrente del cofondatore», il Cavaliere si comportasse da doroteo, proprio come un vecchio Dc.

Per cominciare, dovrebbe recitare la parte del padre del partito, fingendo una certa stanchezza e un'evidente rassegnazione. Dovrebbe poi aggiungere - è un classico - di non avere nulla contro le «correnti di pensiero», che anzi arricchiscono il dibattito interno e portano sempre contributi preziosi, ma di temere - sempre per il bene del partito - le «correnti di potere», che nascono per rivendicare posti e quasi sempre finiscono con il mettere in difficoltà i governi.

Sull’effettiva natura di quella di Fini, per la verità, nessuno ha dubbi. E che le correnti, da che mondo e mondo, siano servite soprattutto a far contare i vuoti nelle votazioni parlamentari decisive (a meno di non negoziare prima un accordo) è una vecchia storia. I cinquantadue che martedì sono apparsi a tutti un risultato un po’ stentato della lunga campagna finiana verso la conquista della libertà, non saranno più tali quando, e si vedrà molto presto, i lavori della Camera e del Senato dovranno interrompersi continuamente per la verifica del numero legale, o quando, di fronte a un improvviso emendamento dell’opposizione, il rischio di andare sotto si parerà repentino davanti al centrodestra.

Una ragione di più per offrire in direzione, al cofondatore che esordisce come leader della minoranza, un ruolo da «figliol prodigo», una porta sempre aperta per rientrare, uno sforzo di comprensione per tutte le eresie, anche quelle incomprensibili per l'elettorato del Pdl, che Fini agita da mesi e di cui vuol fare il suo manifesto. Insomma una cascata di ipocrisia: con la quale il Berlusconi democristiano che non vedremo mai dovrebbe sommergere il suo oppositore. In attesa di farci i conti duramente, e magari sfidarlo alle elezioni, non appena metterà veramente il governo in difficoltà. Così, appunto, facevano i vecchi Dc all’epoca della guerra delle correnti.

da lastampa.it


Titolo: SORGI. Bersani, un leader che ancora non ha trovato un look adeguato al ruolo
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2010, 12:07:22 pm
27/4/2010 - TACCUINO

Bersani, un leader che ancora non ha trovato un look adeguato al ruolo

MARCELLO SORGI

Sembrerà strano, per un uomo politico che ha svolto la parte più importante della sua carriera nella Seconda Repubblica, ma uno dei problemi di Bersani rimane il look. Bersani era ed è perfetto quando appare in veste ministeriale, vestito scuro e cravatta, e quando entra nel merito di problemi che mostra di conoscere approfonditamente, come quelli dell’economia del Paese di cui s’è occupato a lungo quando era al governo. Lo è meno nell’abito, ancora forse da disegnare, di leader.

Non ha, per intenderci, l’autorità cattedratica fasciata da giacche di sartoria napoletana di D’Alema, forse l’ultimo ad incarnare la figura del «segretario generale» che Vasquez Montalban descriveva sempre assiso «sul baldacchino invisibile su cui sedevano tutti i capi comunisti del mondo». Non ha la familiarità casual di Veltroni, né la capacità di rivolgersi ai giornalisti chiamandoli per nome e creando subito un’atmosfera informale. Nè ha la sofferenza di Fassino, la figura esile accompagnata da un viso scavato e da un’inconfondibile calata piemontese che lo facevano sembrare sempre uscito da una giornata di duro lavoro in fabbrica.

Bersani, è evidente, sta cercando di costruirsi una personalità nuova. Funziona bene nel contraddittorio e in genere nel talk-show serali, dove il passato da ministro gli consente di contestare i suoi dirimpettai e snocciolare dati con una certa credibilità. E’ ancora incerto, invece, nella comunicazione in prima persona, per esempio nell’appuntamento quasi quotidiano con il Tg3, dove spesso adopera troppo con gli avversari l’ironia, dando la sensazione di non aver molti argomenti per controbattere; o nelle interviste, anche in quelle stampate sui giornali. Tutto ciò è aggravato da un uso scombinato dello stile scravattato (per esempio, quando si vede bene che il colletto annodato fino a un momento prima è stato slacciato a favore di telecamere), o semisportivo (abiti interi, magari stazzonati da lunghi tragitti in automobile, scarpe classiche e camicie colorate).

Sempre meglio di certe imbarazzanti imitazioni di Berlusconi da parte di esponenti secondari del centrodestra. E tuttavia, Bersani farebbe male a trascurare questo aspetto. Quando Gordon Brown prese il posto di Tony Blair, un leader che aveva rotto i canoni della tradizione laburista anglosassone celebrando lady D. e preferendo le rock-star alla gente del suo partito, a porre il problema del nuovo leader arruffato e con il nodo della cravatta in disordine, furono giornali come il Guardian e l’Independent. Brown alla fine se n’è fregato e ha recuperato puntando sulla sostanza e affrontando bene, a detta di tutti, la crisi economica degli ultimi tre anni. Ma appunto, era al governo. E se non vincerà, com’è possibile, le prossime elezioni, di sicuro sarà criticato più per la sua bruscaggine o il suo fare goffo nei faccia a faccia decisivi di questi giorni, che non per l’efficacia della sua azione di governo.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Se il presidente della Camera fa anche politica
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2010, 05:28:45 pm
28/4/2010 - TACCUINO

Se il presidente della Camera fa anche politica

   
MARCELLO SORGI

Ma davvero, come dice Berlusconi, il presidente della Camera deve astenersi dal far politica? A giudicare dal modo in cui finora è stato interpretato il ruolo, non si direbbe. E non solo per il precedente immediato di Casini, che ha svolto con grande personalità, non solo polemica, i suoi compiti di terza carica dello Stato. Da un sommario esame del comportamento dei predecessori di Fini, si ricava un inventario piuttosto variegato. Certo, c'è stato anche chi ha preferito tacere: Leone si sentiva tutto sommato un esterno alla Dc e sapeva che in quel partito l'importante era trovarsi al momento opportuno al giusto crocevia tra le correnti, come accadde a lui quando diventò Presidente della Repubblica. Ingrao, primo presidente comunista, amava le piazze e la gente del suo partito, mal sopportava la grisaglia presidenziale.

Ma già Gronchi, Pertini e Scalfaro, anche loro approdati poi al Quirinale, non rinunciarono mai a battersi contro i partiti (non solo i loro) e i governi con cui si confrontavano. Il primo, in anni di doroteismo imperante nella Dc, guidava in modo malandrino la corrente di sinistra. Il secondo, famoso per il suo temperamento sulfureo, scendeva nel Transatlantico e parlava chiaro: come quando, accogliendo a otto anni dal terremoto i bambini del Belice nati nelle baracche, se la prese con Moro che stentava a riceverli a Palazzo Chigi. Il terzo aveva cominciato da vicepresidente una polemica storica contro la partitocrazia e l'usurpazione dei diritti del Parlamento, che portò Pannella a soprannominarlo il «Pertini Bianco». Iotti si comportò in perfetto stile togliattiano-istituzionale, ma senza nascondere la necessità di un ammodernamento del funzionamento del Parlamento e senza esitare, nella crisi del 1987, quando fu la prima donna a ricevere il mandato esplorativo dal Presidente Cossiga, a svolgere il suo compito autonomamente, e in silenziosa polemica, con Dc e Pci.

Con Napolitano siamo agli anni della caduta della Prima Repubblica e del cosiddetto «triumvirato» (con Scalfaro e Spadolini) delle prime tre cariche istituzionali, che affrontano insieme i passaggi più delicati della crisi. Scalfaro confermerà questo metodo anche con Scognamiglio e Pivetti, i primi due presidenti eletti dal centrodestra, nella controversa ratifica del «ribaltone» che fece cadere il primo governo Berlusconi. E per finire, fu Bertinotti a dare il colpo di grazia al governo Prodi parlandone come del «più grande poeta morente». Fini con questi esempi alle spalle ha di che regolarsi e con chi sentirsi in buona compagnia.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il duello e la guerra dei sospetti
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2010, 10:47:03 am
29/4/2010 - TACCUINO

Il duello e la guerra dei sospetti

   
MARCELLO SORGI

Le parole di solidarietà rivolte a Fini da Berlusconi e Schifani per il nuovo attacco del Giornale (relativo a un contratto della Rai con una società della madre della sua nuova compagna, Elisabetta Tulliani), e quelle di rassicurazione indirizzate al premier dal presidente della Camera nello studio di Porta a porta, dovrebbero bastare a dimostrare che non c’era nulla di preordinato, che non s’è trattato, insomma, del battesimo parlamentare della maggioranza nuova versione formata da berlusconiani e finiani separati in casa.

Eppure, dopo l’approvazione, con un solo voto in più del centrosinistra (e ben 95 in meno, tra assenti e in missione, del centrodestra), dell’emendamento proposto dal Pd al disegno di legge sul lavoro, tornato alla Camera dopo il rinvio deciso dal Capo dello Stato, e la conseguente sconfitta del governo, la guerra dei sospetti s’è scatenata prima in aula e poi nel Transatlantico, a segnalare un deterioramento del clima interno del partito del presidente del consiglio. Due deputati, Giancarlo Lehner e Antonino Lo Presti, rispettivamente berlusconiano e finiano, stavano per venire alle mani e sono stati trattenuti, mentre gli scambi di accuse tra i due schieramenti sono andati avanti per tutto il pomeriggio.

Se dunque, è legittimo credere, non c’era alcun disegno per mettere il governo in difficoltà – nella giornata, tra l’altro, in cui anche Bossi s’è dato da fare per scongiurare il pericolo di elezioni anticipate - , è altrettanto chiaro che lo scontro aperto in direzione giovedi scorso tra Fini e Berlusconi e la scia di polemiche che sono seguite stanno creando un effettivo disorientamento all’interno dei gruppi parlamentari. Specie in quello della Camera, dove le dimissioni del vicepresidente Bocchino potrebbero portare presto ad un voto segreto degli oltre duecentosettanta parlamentari, per confermare o cambiare i vertici del gruppo. Oppure, ciò che è più probabile, per esprimere attraverso la votazione segreta il malessere di chi assiste a quel che sta accadendo nel Pdl temendo che possa costargli il seggio in Parlamento, prima ancora che scattino i termini per la pensione.

A giudicare da quel che sta accadendo, dunque, l’ammorbidimento dei toni tra i due cofondatori non basta. Se davvero hanno deciso di non farsi la guerra e provare a convivere anche in presenza di forti divergenze, è necessario che Fini e Berlusconi disinneschino le mine sul campo prima che esplodano. Sapendo che ogni giorno ne troveranno di nuove.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Un altro colpo alla squadra di Berlusconi
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2010, 06:28:15 pm
30/4/2010 - TACCUINO

Un altro colpo alla squadra di Berlusconi
   
MARCELLO SORGI

Anche se nella vicenda molto resta ancora da chiarire, e l'interessato, che ha avuto ieri un lungo incontro con Berlusconi, continua a dire a tutti di sentirsi al sicuro e di essere inattaccabile, il «caso Scajola» (il ministro accusato dell’acquisto, a dir poco incauto, e con l'aiuto del costruttore inquisito Anemone, di un appartamento panoramico a Roma) è destinato a trascinarsi nei prossimi giorni e a rendere più difficile il cammino già impervio del governo.

La convocazione del ministro da parte del premier e il lungo colloquio di ieri nello studio del presidente del Consiglio stanno a dimostrare che qualche preoccupazione esiste. La sensazione è che neppure Scajola abbia capito da dove è partito il siluro mirato contro di lui. Mentre si delinea invece abbastanza chiaramente la cornice in cui il caso è maturato. Siamo ancora insomma nel quadro dell'assedio a Palazzo Chigi partito con l'inchiesta contro Bertolaso e la Protezione civile, proseguito con le altre indagini che riguardavano il ministro Fitto (dimissionario, ma a causa della sconfitta alle regionali in Puglia, e poi reintegrato direttamente dal Cavaliere), e oggi arrivato a lambire Scajola. Non è un mistero che Bertolaso, Fitto e Scajola, ciascuno nel proprio ruolo e in certi casi insieme, rappresentino una sorta di squadra speciale della presidenza del Consiglio, e una sorta di triumvirato dello stesso Berlusconi e di Gianni Letta.

A parte l’azione di pronto intervento di Bertolaso e della Protezione civile, dal terremoto in Abruzzo ai disastri naturali agli eventi più delicati, come il G8, basta solo dare uno sguardo sommario all’importanza dei dossier che sono passati per le loro mani. Fitto, ministro delle Regioni, d’intesa con Letta e Tremonti, ha tenuto duro nella battaglia, interna al centrodestra, e in particolare al Pdl del Centro Sud, sulla distribuzione dei fondi per le aree sottosviluppate e dei fondi europei. Scajola è stato alle prese con la partita degli incentivi e della chiusura dello stabilimento di Termini Imerese decisa dalla Fiat.

E prima ancora delle inchieste della magistratura, gli ostacoli a cui sono andati incontro non sono stati solo di natura politica, ma anche, in qualche modo, amministrativa. L'impressione era che proprio dall’interno della macchina dello Stato a un certo punto fosse partita un’offensiva contro questo pezzo di governo nel governo che sembrava stesse accumulando su di sé troppo potere. Di qui è partito l'assedio a Palazzo Chigi e ai suoi ministri di riferimento. Un assedio che non è finito e continua con il caso Scajola.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. La sfiducia e l'effetto boomerang
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2010, 10:32:19 am
4/5/2010

La sfiducia e l'effetto boomerang
   
MARCELLO SORGI

Claudio Scajola vede appesantirsi giorno dopo giorno la sua posizione. Anche ieri le carte uscite dagli uffici giudiziari di Perugia, con i verbali degli interrogatori delle venditrici del famoso appartamento con vista sul Colosseo, hanno confermato la fondatezza delle accuse che lo riguardano e la debolezza della linea di difesa adottata finora, basata sui «non so» e non «mi risulta».

Adesso il ministro ha annunciato che risponderà in Parlamento, dopo l’appuntamento preso con i magistrati per il 14 maggio. Ma non andrà molto lontano se pensa di presentarsi alla Camera ripetendo quel che ha già detto, e definendo «attacco mediatico» le testimonianze raccolte fin qui dagli inquirenti, che gli contestano di aver ricevuto 900.000 euro in assegni circolari per acquistare la casa che ufficialmente dice di aver pagato 610.000 euro, e che invece sarebbe costata un milione e mezzo.

Denaro consegnatogli dall’architetto Angelo Zampolini, membro della «cricca» che con il costruttore Diego Anemone e il provveditore alle Opere pubbliche Angelo Balducci è al centro dell’inchiesta sugli appalti della Protezione civile.

Nel linguaggio colorito dei corridoi parlamentari, quando un ministro si trova in guai del genere, si dice che «è cotto». C’è però - c’è sempre stato -, un modo sicuro per rafforzare o consolidare la posizione di un membro del governo coinvolto in uno scandalo: presentare contro di lui una mozione di sfiducia, meglio se di sfiducia personale, in modo da aggiungere, alle normali difficoltà di approvazione di questo genere di documenti, un dotto dibattito politico giurisdizionale sull’ammissibilità degli stessi, e provocare così una stretta di solidarietà della maggioranza in favore della vittima.

La discussione sui principi, sul metodo e sull’interpretazione della Costituzione, a quel punto, diventa infatti preminente rispetto al merito dei fatti. In altre parole, aspettando di capire se veramente Scajola s’è comperato il famoso appartamento al Colosseo facendosene regalare i due terzi, o facendoselo pagare con assegni ricevuti in cambio di chissà che, il dibattito si sposterà sulla possibilità, per l’opposizione, di avanzare una richiesta di licenziamento del ministro prima che la magistratura abbia chiarito se è, sta per essere, o non è, inquisito. Ci sarà modo, a quel punto, per un qualsiasi esponente del centrodestra, tra i tanti che già adesso fanno quadrato, di proporre un rinvio, in attesa di approfondimento, della discussione. E per la Camera di approvarlo, senza per questo pagare il prezzo politico della protezione corporativa di un ministro che, agli occhi della gente, al minimo ha goduto di un privilegio inspiegabile, e per giunta in fatto di casa, cioè di un genere di prima necessità.

Antonio Di Pietro, che ieri ha presentato a nome del suo partito una mozione di sfiducia contro Scajola, tutto questo lo sa benissimo. Lo sanno anche, e si vede dal tono imbarazzato delle loro dichiarazioni, i suoi alleati del Pd, molti dei quali mal celano le perplessità sul «soccorso rosso» portato al ministro in difficoltà. A loro, anche stavolta, tocca la scelta: contendere a Di Pietro il monopolio degli arrabbiati che non si accontenterebbero neppure delle dimissioni di Scajola, e vorrebbero piuttosto vederlo appeso a testa in giù, o muoversi con più accortezza, e magari lasciarlo furbamente rosolare, per portarlo a poco a poco al giusto punto di «cottura».

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il rebus della successione di Scajola
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2010, 10:49:38 am
5/5/2010 - TACCUINO

Il rebus della successione di Scajola
   
MARCELLO SORGI


La successione di Scajola si presenta più complicata del previsto. Per una serie di ragioni: intanto il ministro, come accade a chi si trova al centro di una vicenda difficile, fino all’ultimo non credeva di doversi dimettere. Il comunicato di lunedì sera, che ha preceduto la telefonata in cui Berlusconi gli ha consigliato di rientrare a Roma dalla Tunisia, fissava tempi più lunghi: almeno una decina di giorni, nella speranza di far decantare la situazione. Quando invece ha capito che la sua sorte era segnata, ha chiesto almeno un’ipotetica promessa di recupero nel caso (improbabile) in cui riesca a far chiarezza e a discolparsi.

Berlusconi fin da domenica si era preparato all’eventualità di dover sostituire il responsabile dello sviluppo economico mettendo in fila, nella sua testa, tre nomi: uno, quello di Luca di Montezemolo, gettato lì sul tavolo perché è da sempre una sua idea, anche se il presidente della Ferrari non è disponibile. Gli altri due, Romani e Galan, il primo vice di Scajola e il secondo neo nominato all’Agricoltura, perché sono uomini di sua assoluta fiducia.

Ma è bastato che questa «rosa» cominciasse a circolare, per sollevare una serie di reazioni. A cominciare dalla Lega, che contesta una sostituzione automatica di un ministro ex-Forza Italia con un altro della stessa provenienza. In realtà la mossa, apparentemente mirata a rendere più difficile la nuova nomina, assegna a Berlusconi un margine di manovra nel suo partito, che ribolle in questi giorni di polemiche e di nascite di nuove correnti. Il premier ha buon gioco a spiegare ai suoi che è meglio ricoprire subito la casella, prima che si apra una nuova trattativa.

C’è tuttavia un altro aspetto che non è emerso pubblicamente finora, ma che non tarderebbe a generare conseguenze, nel caso di una scelta affrettata. Scajola infatti era, oltre che un esponente del Pdl proveniente dall’ex partito del premier, un democristiano e dunque uno dei pochi credenti in un governo che, formato per la prima volta senza l’appoggio dell’Udc, è stato considerato fin dalla nascita privo della componente cattolica «riconosciuta» dal Vaticano. Anche se nessuno si alzerà platealmente a rivendicare che il successore del ministro dimissionario provenga dalla stessa area, il problema è ben presente a chi deve decidere. Ecco perché, dopo l’accelerata delle dimissioni, ora dopo ora la successione si complica.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Politici in balìa dei funzionari infedeli
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2010, 11:55:49 pm
6/5/2010 - TACCUINO

Politici in balìa dei funzionari infedeli
   
MARCELLO SORGI

La decisione di Berlusconi di assumere l’interim dello Sviluppo economico e la nuova inchiesta mirata contro Denis Verdini, coordinatore del Pdl e plenipotenziario del premier ai vertici del partito, lascia pensare che l’ondata giudiziaria contro il governo e il centrodestra non si fermerà. Nei guai si trova anche l’ex ministro Pietro Lunardi, la cui figlia avrebbe ritirato personalmente tangenti. Anche se gli accusati si difendono in modo imbarazzato e si dichiarano pronti a chiarire le loro posizioni, la sensazione che la Guardia di Finanza abbia messo le mani su un centro di corruzione è ormai diffusa. Così come l’impressione che le indagini si allarghino, seguendo la ragnatela di legami arcinoti tra i diversi esponenti della maggioranza e i retroscena rivelati dalle intercettazioni telefoniche e dalle confessioni degli arrestati.

L’ultimo che ne ha resa una piena e dettagliata è Laid Ben Faithiidri, autista tuttofare di Angelo Balducci, il potente provveditore alle Opere pubbliche in carcere per l’inchiesta sugli appalti della Protezione civile. Faithiidri rivela che su tutti gli appalti controllati dal suo ufficio Balducci pretendeva una tangente del 10 per cento, che intascava direttamente, senza condividerla, tutta o in parte, con politici o partiti, e investendola subito nei modi più disparati, perfino in ville sulla costa tunisina, intestate anche queste al fidato autista.

Ecco, a chi si chiede in questi giorni se siamo di fronte a una nuova Tangentopoli e ricorda i giorni incredibili del 1992-‘93, non sfuggirà questa differenza: allora, ai tempi della decadenza, e poi della caduta, della Prima Repubblica, il meccanismo della corruzione era incentrato sul sistema dei partiti. Oggi invece a dare le carte sono altissimi funzionari della Pubblica Amministrazione, con addentellati nella Curia Vaticana (uno dei cassieri di Balducci, gentiluomo di Sua Santità, era un prete) o nella massoneria deviata.

Fermo restando che Scajola o Verdini faticheranno molto a dimostrare la loro innocenza, e difficilmente, al di là delle conseguenze penali, usciranno indenni dagli scandali che li hanno investiti, le testimonianze che li riguardano li descrivono in completa balìa dei funzionari infedeli, e perfino prigionieri dell’ingranaggio che li stritolerà, all’insaputa di Berlusconi. Il quale, ora che comincia a capire cosa è successo, avrebbe tutto l’interesse ad andare fino in fondo. Nato sulla prima onda di Tangentopoli, il Cavaliere e il suo governo rischiano davvero di essere inghiottiti dalla seconda.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La carta coperta di Bossi
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2010, 05:36:31 pm
7/5/2010 - TACCUINO
La carta coperta di Bossi
   
MARCELLO SORGI

Ci sono già due candidati leghisti, il presidente dei senatori Federico Bricolo e il capogruppo in commissione agricoltura Sebastiano Fogliato, per il posto al governo lasciato libero da Claudio Scajola. A dimostrazione che questa volta Bossi non scherza e vuol ricordare a Berlusconi che anche un'alleanza che funziona, come quella tra il premier e la Lega, ha bisogno di essere riscaldata di tanto in tanto con atti concreti.

Al Senatùr, va da sè, poco importa che ieri a frenare le sue brame si sia alzato il ministro della Difesa e coordinatore del Pdl per gli ex-An Ignazio La Russa. L'idea di mettere le mani sull'intero comparto delle politiche agricole marcia di pari passo con la conquista di tutto il Nord avviata con i risultati delle ultime regionali. Dopo aver portato a casa due governatori su tre nelle principali regioni in cui si votava, Bossi si era fatto avanti con Berlusconi per ribadire che lo scambio tra il ministero ex di Zaia e la presidenza del Veneto non gli andava giù. Poi, come fa sempre nelle trattative, dove dà il suo meglio, il leader del Carroccio aveva finto di «accontentarsi» dei tre assessorati all'agricoltura in Piemonte, Lombardia e Veneto per la Lega, per bilanciare, aveva spiegato, il passaggio di consegne all'interno del governo.

Ora invece Bossi torna alla carica sostenendo che la strada più semplice da seguire per Berlusconi, per chiudere al più presto lo strascico del caso Scajola, è di spostare Giancarlo Galan, ex-governatore del Veneto approdato a Roma, dall'Agricoltura allo Sviluppo economico liberato da Scajola, e consentire che il Carroccio torni a ricoprire la responsabilità che le era stata assegnata al momento della formazione del governo. Far circolare i due nomi di Bricolo e di Fogliato fa parte della tattica bossiana; così come lo scarto di mercoledì contro il Cavaliere e d'accordo con Fini in difesa della magistratura serviva ad aumentare le difficoltà di Palazzo Chigi, accerchiato in questo momento dalle inchieste sulla corruzione. Naturalmente, come in tutte le sue trattative, Bossi ha anche una carta coperta, che in questo caso lo è meno di altre volte. Il Senatùr infatti aspetta da troppo tempo di sapere che ne è stato dei famosi «numeri» del federalismo fiscale, indispensabili per metterne a punto i decreti attuativi, che aveva chiesto di conoscere per marzo e che Tremonti fatica a tirar fuori. Il guaio, infatti, è che Bossi lo aveva chiesto a gennaio 2009 per marzo dell’anno scorso. E intanto siamo arrivati a maggio 2010.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il problema del terzo incomodo
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2010, 03:08:20 pm
8/5/2010

Il problema del terzo incomodo
   
MARCELLO SORGI

Oltre a segnare la vittoria dimezzata del conservatore David Cameron, e la sconfitta, meno grave del previsto, del primo ministro uscente laburista Gordon Brown, le elezioni inglesi del 6 maggio hanno deluso profondamente il lib-dem Nick Clegg. E sfatato, anche se non definitivamente, il mito del centro, o del terzo polo, che da qualche tempo, nell’Europa annoiata da una politica inconcludente, risorge quasi ad ogni elezione. Stavolta il candidato centrista liberal democratico era accreditato alla vigilia del voto addirittura di un exploit. Giovane, perfino più del ragazzone Cameron, un’avvenente moglie spagnola giurista, Miriam Gonzalez Durantez, che se la batte con Samantha Sheffield, l’aristocratica first lady conservatrice nipote di un re, una passione per le cravatte dorate o arancioni, Clegg è stato per tutta la campagna elettorale una sorta di miracolo vivente, vincitore negli anomali duelli tv a tre con i suoi avversari, considerato il più sincero, il più concreto, il più coraggioso, capace di affrontare, con la consulenza della sua Miriam che è un esperta della materia, anche la spinosa questione dell’Europa, del tutto ostica per gli elettori inglesi.

In un Paese come il Regno Unito, in cui è tradizione che i grandi giornali si schierino e dichiarino le loro preferenze, per lui il Guardian e l’Independent hanno cambiato endorsement, passando dai laburisti ai lib-dem. E per giorni e giorni, man mano che la data delle urne si avvicinava, non c’era sondaggio che non segnalasse la crescita personale di Clegg e del suo partito. Una campagna così univoca, un’illusione così diffusa e amplificata da un massiccio tam-tam televisivo, non potevano che portargli il corteggiamento dei due veri avversari di queste elezioni, Brown e Cameron, ai quali Clegg negli ultimi giorni dettava sprezzante le sue condizioni. Come abbia potuto una simile bolla gonfiarsi nella seria e austera Inghilterra, i cui giornali e televisioni e i cui istituti di ricerca sono tuttora portati ad esempio, è difficile crederlo. È incredibile che nessuno si sia alzato a ricordare che nella grande isola sopra la Manica si vota con sistema maggioritario a un turno e in collegi uninominali, che hanno sempre favorito la polarizzazione tra i due candidati più forti e l’alternanza tra destra e sinistra (non a caso Clegg prometteva che li avrebbe sostituiti con il proporzionale, l’unico meccanismo che favorisce il centro).

E che non uno, tra i critici più severi dei programmi laburista e conservatore, passati a setaccio e demoliti pezzo a pezzo dalla libera informazione in tutti gli aspetti propagandistici, abbia approfondito gli aspetti irrealizzabili di quello lib-dem, o i più corrivi della tattica del candidato: come il gioco a ping-pong con sinistra e destra e la richiesta, inaccettabile per un Brown che arrivava a proporgli accordi tattici, in pratica voti di desistenza, nei collegi più incerti, di dichiararsi disposto a mettersi da parte in cambio di un’apertura centrista a una possibile alleanza con il Labour. Ma esattamente come tre anni fa nelle elezioni presidenziali francesi - quando d’improvviso la terza stella di François Bayrou si accese tra quelle di Nicolas Sarkozy e Ségolène Royal (ma per poco: il sistema a due turni è anche più spietato nel lasciare in campo due soli sfidanti al ballottaggio) - l’amaro risveglio è arrivato per Nick con lo spoglio delle schede, e il modesto risultato attribuito al suo partito, una cinquantina di seggi messi insieme alla Camera dei Comuni.

Prima ancora di conoscere le analisi dei flussi elettorali, non ci vuol molto a capire che Clegg, rosicchiando voti a Cameron, ha finito per impedire che i conservatori ottenessero la maggioranza e potessero formare il governo da soli e senza tentare l’improbabile coalizione con i lib-dem, estranea all’esperienza della politica inglese. Il suo centro ha funzionato né più né meno come quello di Bayrou in Francia, che rese più rovinosa la sconfitta della Royal. E come, molti anni fa, nel 1992 in America, l’apparizione del terzo uomo Ross Perot, che affondò George Bush senior, aprendo la strada al giovane Clinton. Visto l’interesse con cui anche la classe politica nostrana ha seguito il voto inglese - scoprendo, come già nel 2007 francese, inattese correnti di simpatia, quando non vecchie amicizie e parentele culturali tra i centristi italiani e la star annunciata Clegg - c’è da sperare che serva a riflettere la realtà uscita dalle urne del Regno Unito, dopo l’ennesimo sogno mancato di una nuova primavera del Centro. Del resto, anche da noi, le elezioni sono finite da poco: e pur accusando, qua e là, qualche segno di insofferenza, gli elettori, in mancanza di un’alternativa di sinistra, e pur in presenza di una centrista, hanno continuato a votare per Berlusconi.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Ciampi: Che errore allargare l'euro
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2010, 06:04:01 pm
9/5/2010 (7:33)  - INTERVISTA

Ciampi: "Che errore allargare l'euro"

Parla l'ex capo dello Stato

MARCELLO SORGI

Presidente Ciampi, ma uno come lei che l’euro l’ha fatto con le sue mani, da ministro del Tesoro, poi da presidente del Consiglio e da Presidente della Repubblica, si aspettava una crisi così forte e improvvisa della moneta comune?
«Potrei risponderle di no, o almeno non di queste dimensioni. Ma se ripenso ai giorni in cui l’euro fu deciso, devo essere sincero: ci eravamo ripromessi, tutti quanti i rappresentanti dei Paesi dell’Unione Europea che avevano deciso di dar vita al sistema della moneta unica, di adoperarci per un più forte coordinamento delle politiche economiche dei governi. Avevamo la sensazione, chiarissima, che non sarebbe bastato il rispetto di ciascuno di noi per la disciplina che avevamo scelto, il famoso tre per cento del rapporto tra pil e debito pubblico imposto da Maastricht. Occorreva anche continuare il lavoro comune per far sì che insieme con il comportamento virtuoso dei singoli, necessario per restare all’interno del sistema, si facesse strada una forma di collaborazione più intensa e continuativa, dalla quale l’Unione Europea nel suo complesso sarebbe uscita rafforzata».

Fino ad approdare a quell’unione politica, e federale, agli Stati Uniti d’Europa, che in quell’epoca era lecito sognare e che invece nel tempo si sono rivelati un obiettivo molto più difficile da raggiungere? «L’auspicio era questo. Anche se a Bruxelles, quando l’euro fu varato, si parlava solo di moneta unica e di coordinamento delle politiche economiche. C’era un nesso evidente tra la decisione di entrare in un’epoca nuova, superando le difficoltà, e anche qualche diffidenza, che fino all’ultimo rischiavano di compromettere tutto, e l’impegno a fare in modo che il legame tra i diversi partners fondato sulla moneta unica si sviluppasse con comportamenti coerenti, dei quali tutti dovevano essere al contempo responsabili e garanti. È esattamente questo che è mancato o non è andato come si sperava. Ed è per questo che oggi ci troviamo a fronteggiare questa brutta crisi».

C'è qualcuno più colpevole degli altri? In altre parole, condivide ciò che dice chi, come il suo successore al ministero del Tesoro Visco, sostiene che la Grecia, al tavolo delle trattative, raccontò qualche balla, e qualcuno se n’era pure accorto, ma si decise di passarci sopra lo stesso? «È vero che l’istruttoria fu molto severa per il primo gruppo di Paesi candidati, compresi noi italiani, che dovemmo fare una delle manovre più dure della storia dal Dopoguerra, per entrare nei requisiti richiesti dal sistema. E che invece al momento dell’allargamento ci fu meno severità: in questo senso, non solo la Grecia ma anche altri Paesi era chiaro che entravano firmando una serie di obblighi che dovevano rispettare e di tappe successive che nel tempo non hanno raggiunto. Proprio perché molti di noi dovettero affrontare sacrifici importanti, oggi dovremmo chiederci se sarebbe stato meglio non essere di manica larga. E se questa è la domanda, la risposta è senz’altro sì. Il rigore avrebbe dovuto essere lo stesso per tutti».

Sta dicendo che l’ampliamento del numero dei Paesi entrati nell’euro è stato un errore? «Credo di sì. Sarebbe stato un rischio calcolato se, come le dicevo prima, insieme con l’euro fosse andato avanti il rafforzamento della collaborazione e del coordinamento in fatto di politiche economiche. Cosa che purtroppo non è avvenuta con le conseguenze che vediamo».

Presidente Ciampi, quanto pesa secondo lei il progressivo indebolimento della rete di rapporti tra i partners dell'Unione? Nei dodici anni di cui parliamo, dal ’98 ad oggi, è inutile nascondersi che l'Europa ha stentato: la Costituzione europea è nata male, è stata subito abbattuta dai referendum che dovevano ratificarla, e ha dovuto essere ridimensionata drasticamente. Il sentimento di coesione della Comunità, anche se è difficile misurarlo, sembra spesso travolto da egoismi e particolarità perfino sub-nazionali. «Se parliamo di politica, non c'è dubbio che in campo europeo si siano fatti passi indietro. È duro ammetterlo, e lo faccio con amarezza. Ma l'Europa come obiettivo non può restare solo un sogno degli europeisti».

Quanto hanno giocato i rapporti personali tra uomini di governo, all'epoca eccellenti, e adesso, non sempre, e non solo per ciò che riguarda noi, meno buoni? «Posso dirle com’erano i rapporti ai miei tempi. Alla fine di un percorso difficile come quello che avevamo fatto, ad esempio, con Theo Waigel e Hans Tietmeyer, i nostri autorevoli interlocutori tedeschi, c’era anche amicizia, oltre che rispetto. Con quelli di oggi non so. Ma al dunque, anche i partners più dubbiosi dovranno rendersi conto di non aver alcuna convenienza a tornare indietro».

Questo vale anche per l’euro? «Certamente. Ed è la ragione per cui, malgrado tutto, sono ottimista».

Lei non crede che, batti e ribatti, oggi la Grecia, domani la Spagna e il Portogallo e dopodomani, Dio non voglia, l’Italia, la speculazione possa averla vinta? «Non lo credo. La speculazione è un fatto che bisogna sempre aver presente. È come una scommessa: chi la fa, certo, spera di vincere, ma intanto guadagna già solo giocandola. Il sistema ha tutti gli strumenti per combattere la speculazione: tanto per cominciare, penso alla Bce. Ma anche i governi, guardi quel che sta accadendo, è come se tutto quel che è mancato finora, d’improvviso fosse diventato evidente. Anche i meno convinti, sanno che l’ingresso nell’euro ha significato per tutti un punto di non ritorno. Siamo come su un aereo che è appena decollato: l’unica cosa da non fare è cercare di riprendere terra. E se possibile, dobbiamo cercare di volare più alto».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201005articoli/54787girata.asp


Titolo: MARCELLO SORGI. L'Udc pronta a formare un governo con chi ci sta
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2010, 06:11:15 pm
11/5/2010 - TACCUINO

L'Udc pronta a formare un governo con chi ci sta
   
MARCELLO SORGI

Anche se tutti o quasi hanno reagito in modo scettico, la proposta fatta da Casini nell’intervista a Lucia Annunziata di un governo «tecnico», o di «unità nazionale» o di «ricostruzione nazionale» ha fatto molto discutere, perché tutti sanno che il leader Udc non parla mai o quasi mai a vanvera.

Così che, prima di chiedersi se l’ipotesi era realizzabile, tutti si sono chiesti perché Casini l’aveva tirata fuori.

Senza entrare nei dettagli delle tre formule adoperate, simili, differenti, eppur collegate tra loro, si tratterebbe di mettere su un governo che, organicamente o con un appoggio più o meno esplicito, fosse sostenuto insieme da centrodestra o centrosinistra.

Un governo a termine, con un programma limitato, e una maggioranza finalmente in grado di fare le riforme vagheggiate inutilmente da tanto tempo. Un esecutivo siffatto, al di là della disponibilità, esclusa immediatamente e simmetricamente dai due poli, avrebbe bisogno, per imporsi, di un trauma in grado di por fine all’esperienza berlusconiana. Anche quello non si vede.

Berlusconi infatti non è nelle condizioni in cui era nel 2006, quando perse le elezioni per soli ventiquattromila voti, e fece più o meno la stessa proposta. Oggi è saldamente a Palazzo Chigi e può ancora contare su una maggioranza ampia ancorché litigiosa.

Perché allora Casini s’è sbilanciato? Per tre ragioni evidenti, anche se non sufficienti.

Prima, l’emergenza giudiziaria che, uno dopo l’altro, sta colpendo ministri e alti esponenti del governo e del partito di Berlusconi, a partire dall’inchiesta sui Grandi Eventi e a cominciare da Bertolaso, Fitto, Verdini, Scajola e adesso anche Bondi.

Seconda, l’emergenza economica che sul finire della settimana scorsa sembrava (e ieri per fortuna molto meno) poter colpire l’Italia né più né meno come ha colpito la Grecia e rischia ora di aggredire Portogallo e Spagna.

Terza, forse la più importante, la necessità per Casini di darsi una prospettiva strategica diversa da quella rivelatasi fallimentare degli accordi a sinistra e a destra sperimentati alle ultime regionali, che hanno dato all’Udc per la prima volta negli ultimi anni un risultato deludente.

Dunque dal gran vociferare che s’è fatto in questi giorni attorno al governo d’emergenza, almeno emerge una novità: l’Udc è pronta a rientrare in un governo, di tutti se possibile, e altrimenti di quelli che ci staranno.

A un Berlusconi alle prese con la rivolta quotidiana di Fini e dei finiani, la notizia non dispiacerà. Anche se sbaglierebbe a pensare che il vecchio alleato Pier, fiaccato dall’opposizione, sia pronto a fargli da ruota di scorta.


http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7335&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Una legge da sottrarre alla propaganda
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2010, 09:56:16 am
12/5/2010 - TACCUINO

Una legge da sottrarre alla propaganda

MARCELLO SORGI

Pur purgata con gli emendamenti leghisti e privata del suo contenuto più controverso - il diritto automatico per i detenuti di trascorrere a casa l'ultimo anno di pena, che invece verrà vagliato volta per volta dai giudici di sorveglianza - la legge «svuota-carceri», su cui ieri il ministro di giustizia Angelino Alfano ha raggiunto un accordo con il ministro dell’Interno Maroni, si presenta come uno dei provvedimenti più delicati della ripresa parlamentare dopo le elezioni amministrative.

E non solo per le divisioni, emerse fino all'ultimo, all'interno della maggioranza, ma anche per l'impatto che il provvedimento, una volta approvato, avrà sull’opinione pubblica, specie su quella di centrodestra, sensibilizzata oltre ogni limite in tutte le campagne elettorali sul tema sicurezza. Anche se il problema dell’affollamento delle carceri andava affrontato (ci sono oltre 67 mila detenuti in istituti di pena adatti a ospitarne al massimo 40 mila), sarà interessante vedere con quali argomenti sarà presentata una legge che, comunque la si guardi, rappresenta per il governo una svolta. Dalle ronde metropolitane, dall’arresto degli immigrati per la clandestinità trasformata in reato (causa non ultima del riempimento delle carceri), alle scarcerazioni programmate. Da un impianto «legge e ordine» predicato in tutte le salse, a un apprezzabile ripensamento sul tema dei diritti dei detenuti, che non possono essere costretti a scontare la pena in condizioni disumane, alle quali, tra l'altro, alcuni di loro non riescono a sopravvivere.

Che qualcuno degli scarcerati, benché inviato agli arresti domiciliari per finire di saldare il suo conto con la giustizia, possa evadere più facilmente, è nel conto. Così come che possa tornare a delinquere, come è purtroppo accaduto altre volte. La vicenda della legge «svuota-carceri» proprio per questo andrebbe una volta tanto sottratta alla propaganda, anche a sproposito, che ha riguardato per motivi elettorali il problema della sicurezza, e spiegata, semmai, come il frutto di una riflessione più attenta alle conseguenze negative, che non a caso il Capo dello Stato aveva segnalato all'atto di promulgare la legge precedente, di un modo di legiferare frettoloso e propagandistico. Sarebbe davvero significativo che qualcuno, forse anche lo stesso Alfano, dicesse queste cose: anche perché non siamo di fronte all’indulto pasticciato su cui il governo Prodi si giocò parte della sua credibilità. E questa volta non sentiremo - si spera - il centrosinistra accusare il centrodestra di aver messo per strada i delinquenti, come accadde, a parti rovesciate, quattro anni fa.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7341&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Ora serve una mossa del premier
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2010, 10:59:44 pm
14/5/2010

Ora serve una mossa del premier
   
MARCELLO SORGI

La lista, o le liste, dei - come chiamarli? -, beneficiati da Anemone, il costruttore al centro dello scandalo dei grandi appalti, somiglia drammaticamente ad altri simili elenchi - quelli della P2 o dei famosi 500 esportatori di capitali, dei collaboratori dei servizi stranieri e di quelli italiani deviati - da cui è periodicamente scandita la vita pubblica in Italia. Con un obiettivo, stavolta, molto più chiaro dei precedenti: colpire l'unico nome - Silvio Berlusconi - che fino a questo momento non compare sul registro dell’imprenditore romano, che, insieme al gran dispensatore di appalti Angelo Balducci, aveva messo su la «cricca» e il sistema oggi sotto inchiesta.

Se nel giro di pochi mesi era riuscita a inguaiare un uomo chiave di Palazzo Chigi come il capo della Protezione civile Bertolaso, uno dei tre coordinatori del partito del presidente come Verdini, e due ministri come Scajola e Matteoli, che potrebbero non essere i soli, vuol dire che la stessa «cricca», o si sentiva intoccabile, o puntava più in alto. E da questo punto di vista la lista di Anemone sembra fatta apposta per dipingere un insieme di corruzione più vasto e articolato di ogni previsione.

Nella rete dei «criccaioli» infatti - al di là di responsabilità da provare e al di fuori, purtroppo, delle garanzie personali che spettano a ogni cittadino - non manca nessuno: c'è il politico e il professionista, il giudice e il prete, il giornalista e il regista, oltre ai funzionari delle diverse amministrazioni che facevano girare la macchina, uniti da annotazioni generiche, indirizzi di case da ristrutturare o comperare, lavori edilizi effettuati e chissà mai se pagati.

Ma non solo: quel che emerge - o più precisamente, quel che si vorrebbe far emergere - è qualcosa che sta sospeso tra l'immaginario e la realtà. L'idea, insomma, che la piccola e la grande corruzione, la mano che lava l'altra mano mentre la stringe, il sorriso complice, il circolo degli amici da favorire sempre, in omaggio a un giuramento paramafioso, siano ormai la regola generale del Paese - e soprattutto di quel mezzo Paese che ha Roma per capitale. In questo senso, il cerchio che si stringe attorno a Palazzo Chigi e poi s'allarga via via, fino a comprendere tutte le categorie più rappresentative di una certa immagine della romanità, diventa lo strumento più adatto a colpire il premier, destinato ad apparire come il capo supremo del governo della corruzione.

Che poi a una lettura più attenta delle carte si capisca benissimo come andavano veramente le cose, poco importa. Eppure è chiaro - oggi lo si può affermare con sufficiente convinzione - che se i metodi sono gli stessi di Tangentopoli, se le tangenti venivano chieste e pagate in contanti o in natura, e le percentuali erano perfino più esose, in questa storia tuttavia c'è una differenza che balza subito agli occhi. Salvo casi sporadici, a incassare, invece dei partiti e di molti dei loro esponenti come ai vecchi tempi, erano adesso dirigenti statali e altissimi funzionari che lucravano solo nel proprio interesse. Tra qualche anno magari si scoprirà che la caduta della Prima Repubblica era avvenuta solo per quel che riguardava la classe politica, mentre un gran pezzo di pubblica amministrazione - beninteso la parte corrotta della burocrazia - aveva potuto continuare tranquillamente a corrompere e a rubare senza alcuna soluzione di continuità. Gli stessi nomi di grand commis di scandali datati Anni Ottanta-Novanta, non a caso ricompaiono in questi giorni.

Ma in un caso o nell'altro, quale che sia la versione che passerà, il danno per Berlusconi è già fatto. E' uno strano destino che l'uomo del Nord, l'imprenditore brianzolo che più di tutti e meglio di tutti ha rappresentato la cosiddetta (e incompiuta) rivoluzione italiana, sia avviato mestamente - a meno di colpi di coda - a una sorta di trasfigurazione: da personaggio simbolo della Seconda Repubblica, da capo del «governo del fare», a incarnazione vivente della nuova «Roma ladrona», che rischia di seppellire nuovamente, con se stessa, un ventennio quasi di aspirazioni e speranze di cambiamento tradite, e di aprire la strada a un rigurgito di estremismo nordista.

Questo spiega perché il Cavaliere, forse per la prima volta, non se la stia prendendo con la magistratura. E perché, in privato, sfogandosi con i suoi collaboratori, prometta di voler fare rapidamente piazza pulita. Quel che invece non si comprende è cosa aspetti, perché indugi, perché ormai da settimane sembri come paralizzato, mentre intorno a lui alleati e avversari, amici ed ex amici, e naturalmente uomini del suo governo e del suo partito, mettono in scena la danza della morte. Berlusconi, almeno questo, dovrebbe averlo capito: se non muove qualcosa, se non fa cadere qualche testa, ogni giorno che passa per lui sarà peggio.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7351&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Cavaliere cavalca anche la crisi
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2010, 05:44:04 pm
20/5/2010 - TACCUINO

Il Cavaliere cavalca anche la crisi
   
MARCELLO SORGI

A giudicare dalle prime anticipazioni diffuse ieri, il nuovo libro di Bruno Vespa in uscita a giorni ci consegnerà un'immagine di Berlusconi diversa da quella a cui siamo abituati. L'autore ha parlato a lungo con il Cavaliere e ne ha ricavato la sensazione di un aggiustamento di strategia e di un atteggiamento più realista e meno orientato a promesse che, allo stato dei fatti, sarebbero difficili da mantenere, a cominciare da quella del taglio delle tasse che il premier rinvia definitivamente al superamento della crisi economica.

Ecco, è proprio la battaglia contro la difficilissima congiuntura europea la frontiera su cui Berlusconi intende giocare i tre anni che restano della legislatura, non nascondendo nulla della gravità della situazione, ma accompagnando tutto con un fondo di ottimismo, basato sul fatto che finora, grazie a quel che il governo ha fatto, l'Italia s'è trovata meglio dei suoi partners più ammalati, e sono stati smentiti gli uccelli del malaugurio che volevano presto il nostro Paese nelle stesse condizioni di Grecia, Spagna e Portogallo.

Berlusconi sa che l'enorme debito pubblico che appesantisce i conti italiani, valutato in un miliardo di euro di titoli pubblici che mediamente ogni giorno devono essere piazzati sui mercati internazionali, non consente affatto di dormire sonni tranquilli. Ma è convinto che la credibilità della politica economica del governo, come è stato finora, riuscirà ad arginare i tentativi di trasformare l'Italia in un nuovo obiettivo della speculazione.

Anche se occorrerà leggere tutto il filo del ragionamento, da questa nuova strategia si possono fin d'ora ricavare alcune deduzioni. Berlusconi punta ancora sul suo governo e considera la crisi economica come un'occasione per rafforzarlo. Poi, com'è accaduto ieri sul federalismo, prevede che le opposizioni in Parlamento si divideranno di nuovo tra «no» e «ni», e non è detto che uno scontro frontale sulla manovra che Tremonti sta preparando si riveli un toccasana per la sinistra. L'opinione pubblica è autenticamente preoccupata di un peggioramento della situazione e chiede che si trovi una strada per venirne fuori, non che la strada scelta dal governo venga ostruita. In questo quadro il rafforzamento della maggioranza e la sostituzione del ministro o dei membri del governo toccati dalle inchieste giudiziarie potrebbero rivelarsi meno difficili. In altre parole, se Casini davvero non vuole finire a rimorchio della sinistra di piazza, e se Bossi vuole arrivare fino in fondo al percorso del federalismo, il premier pensa che dovranno venire a più miti consigli.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7377&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. L'impossibile Cavaliere rossonero
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2010, 05:48:10 pm
19/5/2010 - TACCUINO

L'impossibile Cavaliere rossonero
   
MARCELLO SORGI

Anche se accompagnato dalle solite smentite, o mezze smentite, lo sfogo, intercettato dal settimanale «A», di Berlusconi che vorrebbe vendere il Milan ma sa di non poterlo fare, è forse il documento più autentico dello stato d'animo del premier in questa primavera di paralisi politica e tensioni post-elettorali. Nella sua carriera di uomo del fare e imprenditore vincente, prima ancora che di leader politico, il Milan infatti occupa un posto importantissimo, secondo solo alla tv e alla rivoluzione culturale promossa nei primi anni di Canale 5: quelli, per intendersi, di «Drive In» e «Happy Days».

Nel 1986, quando acquistò la squadra e ne divenne presidente, il Cavaliere era già il tycoon dell’impero televisivo concorrente della Rai, che poteva contare su tre reti, ma non ancora su una legge che consentisse alle tv private di trasmettere legalmente, per la quale fu necessario aspettare fino al 1990 (la famosa Mammì, approvata alla fine di uno degli ultimi scontri dilanianti, poco prima della fine della Prima Repubblica).

Per l'uomo cui nessuno in quel momento avrebbe attribuito ambizioni politiche, e che invece rappresentava già l'altra Italia che di lì a poco si sarebbe manifestata nelle urne, il Milan fu insieme il modo di darsi un riconoscimento (tutti i grandi imprenditori erano proprietari delle più importanti squadre di serie A) e lanciare una sfida (lui avrebbe dimostrato che era capace di vincere più di tutti). E al momento opportuno anche il Milan si sarebbe trasformato in un formidabile strumento di comunicazione con l'elettorato.

Ora che Berlusconi, da tempo, non ha più la possibilità di occuparsi in prima persona della squadra, la parabola del Milan ripercorre a modo suo la vicenda del governo. Il Cavaliere contestato allo stadio perché ha licenziato l'allenatore Leonardo, e amareggiato perché non riesce a sostituirlo con Van Basten, ricorda ancora come due anni fa la vendita di Kakà gli fosse costata tre punti alle europee. Per questo sa di non potersi disfare della sua squadra, e quasi quasi tornerebbe volentieri a dettare le formazioni e a fare il tifo dagli spalti. Ma non può.

Analogamente, Berlusconi è convinto di sapere quel che servirebbe all'Italia per riprendersi, sarebbe pronto a farlo subito alla sua maniera, senza stare da mane a sera a discutere con i suoi avvocati, ad annoiarsi con la fila querula degli esponenti del suo partito litigioso, a combattere con Fini o ad ascoltare le lamentele di Bossi sui ritardi del federalismo. Ma non può.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7371&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Perché Bossi non vuole lasciare Kabul
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2010, 06:13:35 pm
18/5/2010 - TACCUINO

Perché Bossi non vuole lasciare Kabul


MARCELLO SORGI

Della breve e inconcludente polemica di ieri all'interno della maggioranza sull'intervento in Afghanistan, resterà agli atti la cautela e la tempestività con cui Bossi ha voluto chiudere subito il nuovo fronte aperto dall'ambigua presa di posizione di Calderoli, che nuovamente (lo aveva già fatto in altre occasioni simili, ma con l'avallo del Senatur) aveva messo in dubbio l'opportunità dell'Italia di mantenere i propri impegni nelle missioni internazionali.

Bossi non solo ha preso chiaramente posizione per ricordare che il governo non può decidere unilateralmente di ritirarsi, ma ha chiaramente spinto il suo ministro a fare lo stesso, in modo che nel giro di un pomeriggio il problema è rientrato, prima di provocare nuovi attriti con gli alleati. Adesso sono in molti a pensare che la svolta del leader del Carroccio in politica estera abbia in realtà una spiegazione più domestica. Bossi in questi giorni è infatti impegnato a dimostrare che la Lega, e solo la Lega, è un alleato affidabile per Berlusconi e per il Pdl, e l'allargamento della maggioranza all'Udc vagheggiato dal premier in realtà non sia affatto necessario.

Da sempre, il Senatur ha un cattivo feeling con Casini. Tra i suoi, proprio in questi giorni, ricordavano che fin dai tempi del precedente governo lo definiva «il carugnitt de l'uraturi», un soprannome difficile da tradurre, ma che trasuda tutta la diffidenza nei confronti del leader dell'Udc. Pur essendo convinto che l'operazione di recupero dei centristi nel recinto del governo ha più probabilità di non riuscire, che non di essere realizzata, il Senatur in qualche modo la teme. E pur avendo un pessimo concetto del furbo Pier, gli riconosce notevole professionalità politica e capacità anche di rimediare agli inevitabili errori del Cavaliere nella trattativa. Se Berlusconi decide di andare avanti nel costruirsi, per dirla con Andreotti, un secondo forno nella maggioranza, ed aumentare i suoi margini di manovra, per ora ristretti nella tenaglia Bossi-Fini, lo farà con la consapevolezza che ogni passo verso l'Udc dovrà essere accompagnato da una proposta altrettanto allettante per la Lega, che per intanto mantiene una posizione di veto. E cosa succederebbe, appunto, se Bossi, che ha dovuto mollare il ministero dell'Agricoltura in cambio della guida delle regioni Veneto e Piemonte, si ritrovasse con una di quelle offerte che non si possono rifiutare di Berlusconi, con un serio rafforzamento della delegazione leghista al governo in cambio di un patto di fine legislatura insieme con Casini?

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7365&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Ritorno alla guerra
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2010, 03:48:03 pm
24/5/2010

Ritorno alla guerra
   
MARCELLO SORGI

Per capire - a parte l’intreccio di parole - le manovre attorno alla manovra del governo, non bastano né la gelosia tra Berlusconi e Tremonti, il ministro più esposto davanti all’Europa alle prese con la crisi dell’euro, né la sorda contrapposizione tra un fronte cosiddetto rigorista e uno considerato accomodatore.

L’una e l’altra esistono da sempre all’interno del centrodestra, con confini incerti e continuamente cangianti.

Purtroppo la questione è più seria. Nel giro di poche settimane, sull’onda dell’affondamento della Grecia e del naufragio annunciato di Spagna e Portogallo, l’Italia s’è trovata candidata a entrare a sorpresa nella lista dei reprobi dell’Unione. Diversamente dalla volta scorsa, quando la crisi finanziaria colpì in pieno le banche dell’America, e in Europa quelle di Paesi considerati solidissimi come Germania e Inghilterra, o Austria e Belgio, ma non dell’Italia, stavolta il nostro è tra quelli che destano più preoccupazioni, a motivo della crescita insopportabile del debito pubblico, ormai sui mille e ottocento miliardi, i cui interessi ci costringono a collocare sui mercati internazionali almeno un miliardo di euro al giorno di titoli di Stato. Che succederebbe se da un giorno all’altro, come appunto è accaduto in Grecia e rischia di accadere in Spagna, i nostri titoli non venissero più considerati degni di fede?

Di qui la necessità, alla quale Tremonti s’è applicato impegnandosi davanti ai partners europei, di aggredire il debito italiano più drasticamente di quanto era stato fatto. Molto di più, dal momento che, è inutile nasconderlo, finora era stato fatto poco. E poiché il debito è generato dall’eccessiva spesa pubblica, causata a sua volta dal costo della macchina statale, cioè dei pubblici dipendenti, e di un sistema assistenziale, si tratti di sanità o pensioni, troppo costoso per come è ridotta l’Italia, sono questi i capitoli di bilancio da aggredire.

Che si discuta, prima di decidere come aggredirli, è normale. Specie se l’ordine dei valori supera di gran lunga quello di un normale aggiustamento primaverile dei conti, si avvia, con i 28 miliardi della manovra, a somigliare a una seconda finanziaria, e si presenta come il primo, ahinoi!, di una serie di passi simili o più gravosi che dovremo fare ogni anno, per un bel po’ di anni, per cercare di riportare i conti italiani nei confini dei rigidi parametri del sistema dell’euro. Così come non c'è niente di strano che Tremonti si trovi a fronteggiare le resistenze dei suoi colleghi di governo, e Berlusconi intervenga per mediare tra i suoi ministri.

Quel che invece non era prevedibile, e invece è accaduto (anche se non s’è materialmente realizzato), è che un frangente così delicato, che riguarda la possibilità stessa dell’Italia di restare agganciata all’Europa, si trasformasse in un’occasione per tentare di mandare a gambe per aria Berlusconi. La coincidenza non poteva apparire più strana: il leader del centrodestra era appena uscito vincitore dalla tornata nazionale delle elezioni regionali, in cui molti prima del voto lo davano per sconfitto. La crisi greca è esplosa a cavallo dei risultati, e subito s’è cominciato a sentir parlare della necessità di un governo di emergenza, che archiviando finalmente la confusa esperienza berlusconiana, si preparasse ad affrontare la tempesta.

Basta solo rileggere i giornali di queste settimane. Per primo ne ha parlato Casini, offrendo la disponibilità del suo partito, fin qui contrario a tornare alleato del Cavaliere, a farsi carico delle criticità del momento. Poi qualcosa s’è mosso anche dentro il Pd, con il leader della minoranza interna Franceschini che ha prefigurato un appoggio del suo partito a un nuovo governo, non guidato da Berlusconi, ma in grado di evitare la frana. Appoggio, va riconosciuto, subito negato dal segretario Bersani.

Nei disegni di chi manovrava per questo governo, candidato a guidarlo ovviamente era Tremonti. Mentre il ministro dell’Economia si dava da fare a Bruxelles per puntellare la credibilità italiana, si sono fatte molto speculazioni sul suo nome. C’è stato perfino chi ha tentato di far arrivare al Quirinale la voce che Tremonti era pronto a farsi avanti, e aspettava solo la chiamata. Naturalmente, com’è apparso subito chiaro a tutti, un piano del genere era appeso per aria.

Tremonti per primo si sarebbe sottratto a uno sbocco siffatto, che non avrebbe avuto del resto né l'appoggio di Berlusconi, né quello della Lega. Nel giro degli ultimi due giorni, anche le opposizioni hanno dovuto fare i conti con la realtà. Casini restando ancorato a un atteggiamento di responsabilità verso la manovra, che se non servirà a migliorare i rapporti con il centrodestra, almeno lo distinguerà dalla solita strategia piazzaiola a cui si prepara il centrosinistra. Bersani riunificando il Pd sull’attacco al governo, spinto fino agli insulti personali contro la Gelmini.

L’incontro di stasera a Palazzo Chigi con le parti sociali, per presentare le linee generali della manovra, di conseguenza si annuncia freddo com’erano ai vecchi tempi le convocazioni degli ambasciatori per scambiarsi le dichiarazioni di guerra. Se Berlusconi, assumendo la titolarità della manovra, sperava in una particolare attenzione, data la gravità del momento, anche dei suoi avversari, dovrà proprio ricredersi. Pd e Cgil, che contro Tremonti forse non avrebbero sparato a palle incatenate, si preparano a fare una guerra, a cui paradossalmente la discesa in campo in prima persona del Cavaliere ha offerto un bersaglio rassicurante, oltre che mobilitante. Così l’Italia sotto gli occhi dell’Europa rischia di perdere un’altra occasione per fare sul serio.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7391&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Quando le leggi nascono contro qualcuno raramente funzionano
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2010, 09:35:10 am
25/5/2010 - TACCUINO

Quando le leggi nascono contro qualcuno raramente funzionano

MARCELLO SORGI

Dal contestatissimo testo di legge sulle intercettazioni (ma forse sarebbe meglio definirlo anti-intercettazione o anti-pubblicazione) emergono una serie di punti controversi, che sono stati messi in risalto ieri nelle lunghe assemblee organizzate a Roma e a Milano dalla Federazione Nazionale della Stampa, e rispetto ai quali ieri da parte del centrodestra al Senato è venuta una piccola apertura a rimetterli in discussione. La riduzione delle pene per i giornalisti diventa inutile, se accompagnata da multe fino a quasi mezzo milione di euro per gli editori di giornali che pubblicano i verbali. Lo spostamento della responsabilità di stabilire cosa va pubblicato e cosa no dal direttore all’editore cambia completamente la governance nelle redazioni, in pratica i giornalisti non sapranno più a chi riferirsi e gli editori dovranno fare un lavoro che non gli compete, e per cui forse molti di loro, che fanno valentemente altri mestieri, non sono preparati.

Sono solo alcuni esempi. Ma al dunque, non è questo o quel punto della legge che va cambiato, ma il modo stesso di concepirla. Come purtroppo molte altre e recenti leggi, questo è un testo concepito contro qualcuno, vedi i magistrati politicizzati che sono l’incubo di Berlusconi, o i giornalisti rei ai suoi occhi di non voler riconoscere i successi del governo e pronti a far di tutto per immiserirne l’immagine. Prima ancora di stabilire se effettivamente sia così, e se l’impressione personale del Cavaliere possa essere motivata in qualche caso, va detto che le leggi che nascono contro raramente funzionano.

Sarebbe bastato, prima di mettere giù il testo, convocare qualche audizione in Parlamento delle categorie interessate, dicendo francamente che negli ultimi tempi i casi di abuso delle intercettazioni si sono fatti più frequenti e, quando sono stati seguiti da pubblicazione, gli effetti negativi di questi errori sono risultati amplificati. Anche se il sentimento corporativo è molto forte in tutte le categorie, è possibile che sia all’interno della magistratura, sia tra i giornalisti, qualche consiglio utile per i parlamentari che devono fare la legge alla fine sarebbe venuto.

A cominciare dal fatto che, insieme ad alcuni atti riservati, la maggior parte dei verbali che si stampano o si mettono in onda sono pubblici, e prima di venire nelle mani dei giornalisti, finiscono in quelle degli avvocati e dei loro assistiti: i quali, in una moderna epoca di comunicazione come la nostra, sono liberi di passarli ai giornali e di sperare che la pubblicazione contribuisca ad alleggerire il quadro delle accuse o a creare attorno al processo un clima più favorevole. Spesso non c’è, in questo, alcun reato.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7399&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. L'azzardata scommessa di Berlusconi
Inserito da: Admin - Maggio 26, 2010, 03:35:55 pm
26/5/2010 - TACCUINO

L'azzardata scommessa di Berlusconi
   
MARCELLO SORGI

I fischi dei dipendenti di Palazzo Chigi contro Tremonti e Brunetta, il «no» di Regioni e Comuni, il gelo della barricata della Cgil, annunciata in diretta al Tg3 da Epifani, che non ha escluso lo sciopero generale. Man mano che il governo svela le sue carte, Silvio Berlusconi prende atto che questo della manovra economica è sicuramente il passaggio più difficile che gli è toccato affrontare nella sua lunga carriera di governo. Più difficile, va detto, per le conseguenze dei rapporti con gli elettori e per la dura resa alla realtà della crisi, che ha cancellato tutt’insieme i messaggi rassicuranti diffusi fin qui dal premier.

In apertura del Consiglio dei ministri, Giulio Tremonti è stato chiarissimo con i suoi colleghi: in tutta Europa sia i governi dei Paesi più in difficoltà come Grecia, Spagna e Portogallo, sia di quelli più preoccupati per quel che potrebbe accadere come Germania e Inghilterra, stanno mettendo a punto strategie di rigore, augurandosi che la stretta comune possa bastare e le mire degli speculatori si spostino dalla zona dell’euro. Sottovoce, poi, gli alleati europei si scambiano i timori più inconfessabili, come quello che dopo un’intera estate di turbolenze il sistema della moneta unica possa di nuovo trovarsi di qui a poco sotto attacco e in bilico. Questo spiega anche la strategia di Berlusconi rispetto all’annuncio dei sacrifici e del permanere di un «rischio Grecia»: la prima battuta affidata a Gianni Letta lunedì sera è servita a ricentrare su Palazzo Chigi la titolarità della manovra, di cui tutti chiedono al premier di assumersi la responsabilità in prima persona, accettando l’implicita smentita di se stesso e del suo precedente atteggiamento ottimista che i fatti gli impongono. La decisione di aspettare ancora a «metterci la faccia» è legata alla necessità di valutare bene il complesso delle reazioni prima di parlare.

Il Cavaliere è convinto che superata la prima fase difficile dell’accoglienza della manovra, l’opinione pubblica chieda soprattutto che la crisi venga affrontata e governata. Ed è a questo punto - ritiene - che un messaggio chiaro, che inquadri quel che sta accadendo nel contesto europeo e rivaluti gli aspetti positivi della nostra realtà, che hanno consentito fin all'Italia qui di reggere meglio di altri membri dell’Unione di fronte alla congiuntura, potrebbe servire a riconsolidare il rapporto tra il centrodestra e la sua gente. Berlusconi, in altre parole, anche in un momento così complicato, punta ancora su di sé. È una scommessa molto azzardata.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7404&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. La sinistra sulle barricate resta lontana dal Colle
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2010, 04:37:06 pm
27/5/2010 - TACCUINO

La sinistra sulle barricate resta lontana dal Colle
   
MARCELLO SORGI

Le reazioni del centrosinistra e della Cgil alla manovra del governo, indurite ieri in coincidenza della conferenza stampa di Berlusconi e Tremonti, hanno reso più evidente, oltre al fossato che divide maggioranza e opposizione, la distanza che rimane tra Pd e Idv e tra la maggiore organizzazione sindacale, da una parte, e il Presidente della Repubblica dall’altra. Mentre infatti il Capo dello Stato - a conclusione del suo viaggio in Usa e dell’incontro con Nancy Pelosi, la speaker della Camera dei rappresentanti, che ha seguito quello con il presidente Obama alla Casa Bianca -, ribadiva la necessità di una svolta rigorosa nella politica economica italiana e di un deciso taglio della spesa pubblica, per far fronte all’emergenza della crisi, ma anche per cogliere le opportunità di una ripresa che comincia a manifestarsi, in Italia il «no» alla manovra dell’opposizione e della Cgil diventava definitivo.

Non c’è infatti alcun margine di trattativa per il Pd e per l’Idv (diverso, come si sa, l’atteggiamento dell’Udc di Casini, deciso a interloquire con il governo), che in Parlamento si opporranno in modo frontale all’approvazione di una manovra giudicata iniqua e rivolta contro le categorie più deboli, tra cui gli statali che avranno gli stipendi bloccati. E ci sono, per Epifani, le condizioni per proclamare al più presto uno sciopero generale. Ovviamente, nessuno si aspettava da parte loro applausi per la manovra. Ma la coincidenza con l'appello alla ragionevolezza, ribadito due volte in pochi giorni da Napolitano, ha fatto sì che quello delle opposizione e del maggiore sindacato suoni come un doppio rifiuto, al Quirinale e al governo.

La ragione per cui il Presidente della Repubblica ha scelto invece il palcoscenico della sua missione Usa per sostenere la linea dei sacrifici è chiara: Napolitano è stato invitato da Obama non solo come Capo dello Stato, ma anche come uno tra i più convinti leader europeisti, che ritengono che questa fase di crisi possa essere utilizzata per rilanciare l’Unione europea e spingerla a superare le resistenze interne che hanno frenato fin qui l'evoluzione dei suoi rapporti interni e il rafforzamento dei legami politici e comunitari, dopo la battuta d’arresto subita con il fallimento della Costituzione europea.

Sono problemi molto seri, che la reazione del centrosinistra in questo momento non prende in considerazione. In questo senso quello sindacale e dell'opposizione è un «no» tutto italiano, che oltre a ignorare l'appello di Napolitano, si rifiuta di guardare al di là della stretta cornice dei confini italiani.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7410&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Non si può tornare indietro
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2010, 12:41:52 pm
29/5/2010

Non si può tornare indietro
   
MARCELLO SORGI

Dal giorno del varo della manovra in qua, il clima attorno alla svolta del governo non accenna a distendersi. Non sono solo la dura opposizione decisa dal centrosinistra e lo sciopero generale annunciato dalla Cgil a tenere alta la temperatura. La settimana s’è chiusa, ieri, con un nuovo rimbrotto del premier nei confronti della Confindustria, dopo l’accoglienza fredda che gli era stata riservata giovedì all’assemblea degli imprenditori e che inutilmente aveva provato a sciogliere. La sensazione è che dopo una buona partenza, almeno sotto il profilo del metodo, Berlusconi non si renda conto che rischia di incartarsi. D’improvviso s’è sgonfiata la determinazione con cui - nel giro di pochi giorni e dopo una serrata trattativa con il ministro dell’Economia Tremonti, che tiene costantemente il polso dell’Europa - il premier aveva portato il suo governo e la sua maggioranza a varare la manovra, accolta positivamente a Bruxelles.

In luogo di andare avanti con la durezza necessaria e la consapevolezza che questo è forse il passaggio più difficile per il Paese negli ultimi vent’anni, almeno da quando nel ’92, con Giuliano Amato a Palazzo Chigi, l’Italia rischiò di uscire una volta e per sempre dal rigido recinto di Maastricht, il Cavaliere ha inaugurato a sorpresa una sua personale strategia di comunicazione. Se martedì era stato fermo nel pretendere dai suoi ministri un sì a scatola chiusa sull’insieme che lui e Tremonti avevano definito, alla fine di una contrattazione non priva, per sua stessa ammissione, di divergenze, «ma senza mai alzare la voce», mercoledì sembrava quasi pentito, alla conferenza stampa in cui doveva spiegare il senso delle decisioni prese al grande pubblico dei telespettatori e dei cittadini. Siccome in fatto di comunicazione Berlusconi non fa mai niente a caso, la linea che aveva messo a punto per presentarsi, come tutti i leader europei alle prese con gli stessi problemi, da Merkel a Sarkozy, da Cameron a Zapatero, era l’esatto contrario di quel che ci si poteva aspettare.

Invece di sostenere, con orgoglio, il coraggio del governo di prendere le misure necessarie per far fronte all’emergenza, il premier s’è presentato come se fosse stato costretto a farlo e soprattutto come se quel che aveva fatto non lo convincesse fino in fondo. Come se appunto l’Italia - la sua Italia - non avesse bisogno della cura pesante ch’era stata prescritta, e fosse costretta a ingoiare l’olio di ricino del rigore per colpa di un’Europa dissestata e di un ministro dell’Economia che deve risponderle senza indugi. Con la mimica ineguagliabile che lo contraddistingue, Berlusconi ha fatto intendere alla sua gente: che volete, ci tocca fare così per un po’, fosse dipeso da loro ci volevano pure far aumentare le tasse, ma alla fine noi abbiamo tenuto, li abbiamo frenati, e tra poco torneremo a fare alla nostra maniera, fregandocene di Maastricht e di Bruxelles. Un messaggio come questo, che, va detto, è arrivato chiarissimo a tutti, era l’esatto contrario di quello che ci si aspettava da un presidente del Consiglio che solo ventiquattr’ore prima aveva messo tutto il peso della sua leadership per far passare la manovra.

Il resto ne è la diretta conseguenza. L’accoglienza in Confindustria, impensabile per un leader che è sempre stato guardato dalla maggior parte degli imprenditori italiani come un modello, e che a Vicenza, benché claudicante e dolorante, fu sollevato da un’ovazione che quasi ribaltò il risultato delle elezioni, era purtroppo logica. Ma come poteva pensare Berlusconi di incassare l’applauso dei suoi colleghi, se lui per primo sembrava poco convinto di quello che aveva deciso? E come poteva sperare di fugare i loro dubbi proponendogli di portare la loro presidente al governo, in un governo il cui capo non si mostra sicuro di quel che sta facendo? Anche il rimbrotto con cui ieri li ha invitati a leggersi il testo della manovra, poteva risparmiarselo, per la semplice ragione che a tre giorni dal varo della manovra un testo definitivo non c’è. L’imbarazzo con cui s’è concluso l’incontro al Quirinale di ieri pomeriggio, che per un’ora aveva tenuto con il fiato sospeso gli osservatori, sta tutto qui.

A parte la lista dei nuovi Cavalieri del lavoro da presentare tra pochi giorni - argomento su cui il presidente del Consiglio, che alla categoria appartiene da tempo, è assai ferrato -, e a parte il resoconto sul viaggio del Capo dello Stato in Usa e sul suo colloquio alla Casa Bianca con Obama, di cui Napolitano gli aveva già riferito al telefono da Washington, i due non avevano che dirsi. Il Presidente della Repubblica aveva già sollecitato pubblicamente nei giorni scorsi l’invio del testo della manovra, per poterlo esaminare e giudicare.
Ma a causa delle numerose modifiche a cui è ancora sottoposto (vedi ad esempio il nodo delle Province da cancellare), a tre giorni dal Consiglio dei ministri, il Quirinale non lo ha ancora ricevuto. Anche se i sondaggi lo spingono a disconoscere le decisioni che lui stesso ha preso, Berlusconi farebbe bene ad abbandonare la tattica di far finta di aver subito una manovra che sarebbe stata anche più dura, se non si fosse impuntato. E’ molto meglio che adoperi il suo carisma per dire alla gente la verità, sui tempi duri che ci aspettano e sulla possibilità che questa sia solo la prima volta che ci tocca stringere la cinghia. Insomma la manovra, se vuol farla passare nel Paese, oltre che in Parlamento, il premier deve difenderla fino in fondo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7417&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Dalla tregua alla resa dei conti
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2010, 11:44:37 am
1/6/2010 - TACCUINO

Dalla tregua alla resa dei conti
   
MARCELLO SORGI

Il ministro Alfano aveva appena annunciato, la scorsa settimana, il faticoso raggiungimento di un accordo all’interno della maggioranza sul contestato ddl sulle intercettazioni. Ma evidentemente era stato troppo ottimista. La decisione del presidente della Camera Fini di scendere in campo ieri contro il testo che il Senato sta per licenziare ha aperto uno scontro che, prima che politico, è istituzionale, e vede non solo la seconda carica dello Stato schierata contro la terza, ma anche il vicecapogruppo del Pdl, partito di cui Fini è cofondatore, che ne invoca esplicitamente le dimissioni.

Fini si è effettivamente lasciato prendere la mano, criticando il lavoro dell’altro ramo del Parlamento e accusando i senatori di rischiare di licenziare una legge irragionevole. Tra l’altro al Senato le intercettazioni sono ancora oggetto di una dura battaglia parlamentare, che potrebbe sfociare nell’ostruzionismo dell’opposizione, da cui intanto sono state presentate circa tre centinaia di emendamenti. Il Pdl accusa il presidente della Camera di essersi piegato alle pressioni della magistratura (uno dei punti di dissenso riguarda il limite di 75 giorni come tempo massimo per l’ascolto dei telefoni degli indagati). Ed è evidente che già nelle interminabili votazioni che si svolgeranno a Palazzo Madama la possibilità di una saldatura tra l’opposizione esterna e quella interna alla maggioranza si fa concreta.

Alla Camera, poi, senza un accordo preventivo tra finiani e centrodestra, il ddl non potrà che arenarsi. Il tentativo di ottenere una serie di modifiche che suonino da smentita all’articolato che verrà dal Senato è dichiarato. Si andrebbe in quel caso a una terza, e probabilmente a una quarta lettura del testo, con un allungamento dei tempi che porterebbe a far coincidere le intercettazioni con l’esame della manovra, e a un conseguente, probabile, accantonamento delle prime rispetto alla seconda, per evitare di mettere troppa carne al fuoco e tenere Governo e Parlamento in uno stato di continua tensione.

La reazione di Schifani a Fini è stata molto risentita. La secca richiesta del vicecapogruppo dei senatori Pdl Quagliariello al cofondatore, di scegliere tra il suo ruolo istituzionale e quello di capo corrente, lascia capire quale sia lo stato dei rapporti tra la maggioranza e la minoranza del partito, dall’interno del quale nessuna dichiarazione di solidarietà degli ex-An s’è levata in difesa dell’ex-leader. Anche se tutti fino a qualche giorno fa, parlavano di tregua, da ieri invece la resa dei conti sembra più vicina.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7428&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Casini-Di Pietro. Scontro a due per sopravvivere
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2010, 11:40:54 pm
8/6/2010 - TACCUINO

Casini-Di Pietro

Scontro a due per sopravvivere
   
MARCELLO SORGI

La polemica tra Pier Ferdinando Casini e Antonio Di Pietro, al di là dei toni e degli insulti che si sono scambiati, è una spia delle conseguenze che il duro confronto sulla manovra economica tra governo e Pd sta avendo sull’intera opposizione. Finora, infatti, Di Pietro aveva preferito attaccare Bersani e contendere alla sinistra radicale l'elettorato più antiberlusconiano. E Casini, chiusa la parentesi delle doppie alleanze a sinistra e a destra per le regionali, e verificato che i suoi elettori non lo seguono quando sceglie il centrosinistra, aveva inaugurato una fase di ridefinizione strategica e di riavvicinamento, sia pur critico, al governo.

Dopo le due uscite televisive del ministro dell’Economia (la prima, a Ballarò, con il fuori programma della telefonata di Berlusconi), e soprattutto dopo la seconda, il faccia a faccia Tremonti-Bersani officiato da Santoro ad Anno zero, è emerso che in questo momento la partita, non solo quella della manovra, si gioca soprattutto tra Pdl e Pd, e tra governo e Confindustria, da una parte, e Cgil dall’altra.

Di qui l' inquietudine del leader Udc, che vede oscurata la sua disponibilità ad appoggiare, tutte o in parte, le misure anticrisi.
E il nervosismo di Di Pietro, che a parte i guai personali emersi negli ultimi giorni dall’inchiesta sui Grandi Appalti, ha tutto da temere da un’intesa anche parziale sulla legge intercettazioni, possibile anche in questo caso grazie a un confronto serrato tra Pdl e Pd in Parlamento e sotto lo sguardo attento del Capo dello Stato.

E' difficile dire quale potrà essere nei prossimi giorni l’esito di queste trattative (ieri anche sulla contestata norma che consente la proroga solo di quarantotto ore in quarantotto ore del termine delle intercettazioni è arrivata un’apertura). Soprattutto della vicenda della manovra economica, destinata ad occupare la scena almeno per tutta la seconda metà dell'anno, tra Italia ed Europa, come si vede da quel che sta succedendo a Londra e Berlino e dall’accelerata che il governo dovrà dare in materia di pensioni delle donne.

Ma già adesso è evidente che qualcosa sta cambiando: in mancanza di scadenze elettorali prossime, i due maggiori partiti, pur restando alternativi e non rinunciando a forti contrapposizioni, sono, come dire, costretti a far politica. Mentre i partiti minori, finora agevolati dalla campagna elettorale permanente e dallo scontro propagandistico a qualsiasi costo, si sentono stretti. E in qualche caso annaspano, com'è successo negli ultimi giorni a Casini e a Di Pietro.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7454&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Sconfitti e vincitori per finta
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2010, 12:27:41 am
9/6/2010

Sconfitti e vincitori per finta
   
MARCELLO SORGI

Anche se alla Camera l'opposizione annuncia una battaglia che sfocerà probabilmente nell'ostruzionismo, l'accordo siglato ieri al vertice del Pdl ha due obiettivi chiarissimi, uno di sostanza e uno politico. Il primo è l'approvazione in tempi brevi, costi quel che costi, anche uno scontro parlamentare con l'ostruzionismo che una parte dell'opposizione ha già annunciato, della brutta legge sulle intercettazioni.
Un testo, va detto, rimasto praticamente quasi com'era, con i limiti alle indagini dei magistrati e la censura ai giornali, alle tv e ai loro editori sui contenuti dei verbali.

Com'era prevedibile, e largamente annunciato - malgrado la rottura del 22 aprile, quando Berlusconi e Fini si erano presi pubblicamente a pesci in faccia -, i due cofondatori hanno ritrovato l'intesa, al punto che il capo della minoranza interna, fin qui molto battagliera, del partito del presidente, s'è accontentato di qualche limatura, come quella che sposta da 48 a 72 ore il termine per la proroga delle intercettazioni dopo i 75 giorni previsti come tempo massimo. E di un gioco delle parti con il premier, degno di quel «teatrino della politica» che il Cavaliere dice ogni giorno di aborrire.

Al termine dei lavori, sbrigati nello spazio di una mattinata, Berlusconi infatti s'è astenuto, unico in tutto il sinedrio dei dirigenti del centrodestra, per testimoniare la sua insoddisfazione sul compromesso finale. E poco dopo, davanti all'assemblea degli albergatori italiani, ha ripetuto il solito ritornello del presidente del Consiglio che in Italia non ha alcun potere, dell'impossibilità di fare una legge come si deve, attraversando i mille passaggi previsti dalla Costituzione proprio per limitare il potere del premier, e di un Paese governato in realtà dalla magistratura di sinistra e dalla lobby dei giornalisti. Si fingeva, insomma, insoddisfatto, mentre in cuor suo gongolava per aver portato a casa la posta a cui aveva puntato fin dall'inizio.

Allo stesso modo, e quasi contemporaneamente, Fini recitava la parte del vincitore. In una dichiarazione seguita alla conclusione della riunione del Pdl, il presidente della Camera, fino a ieri l'avversario più risoluto del Cavaliere, gli dava atto della sua disponibilità alla resa, ricordandogli come, con gesto responsabile, pur non avendo rispettato fino in fondo le promesse fatte ai suoi elettori, fosse riuscito a mantenere l'impegno più importante: quello «in materia di lotta alla criminalità e di difesa della legalità».

La messa in scena tra i due leader tornati alleati rimane l'unica vera novità politica della giornata. Se sono arrivati al punto da concordare un copione così preciso, in cui il vincitore recita la parte dello sconfitto e viceversa, allora è vero che il lavoro diplomatico seguito alla crisi di un mese e mezzo fa ha dato i suoi frutti. Da oggi in poi Berlusconi sa che dovrà assicurare a Fini tutta la visibilità di cui ha bisogno, senza tante storie di lesa maestà. E Fini, al dunque, lo ripagherà riportando all'ordine le sue truppe più riottose. Il centrodestra, nel suo insieme, ha davanti altri tre anni di legislatura al potere, e non vuol certo giocarseli perché qualche anima bella della sinistra vagheggia governi tecnici o istituzionali, pur di far fuori Berlusconi. Il quale ieri, tra l'altro, a riprova della sua effettiva contentezza per il risultato della partita, è arrivato perfino a scherzare sull'eventualità che anche con le limitazioni introdotte i giudici possano ancora divertirsi a registrare le conversazioni con le fidanzate.

Purtroppo ormai, al di là del modo in cui ci si arriverà, visto il vento di tempesta che già spira a Montecitorio, la legge-bavaglio s'annuncia come realtà. I cambiamenti decisi ieri e già presentati come emendamenti al Senato, in modo che alla Camera giunga un testo definitivo, se del caso da approvare a colpi di fiducia, non sono in grado di rendere più accettabile una riforma gravida di serie conseguenze. Va ricordato: per la prima volta, malgrado la volontà ripetutamente dichiarata di lotta sempre più dura contro la criminalità, si riducono i mezzi posti a disposizione della magistratura e delle forze dell'ordine per praticarla. La limatura imposta ai limiti per le intercettazioni ambientali, così come a quelli per la ricusazione dei giudici, unita al risibile allungamento temporale di sole 24 ore per le registrazioni, non sono tali da mutare la sostanza di una legge sbagliata e malfatta. Che ci sia stato in passato qualche eccesso nel modo di intercettare è evidente. Ma è altrettanto sicuro che la malattia, se di questo veramente si trattava, non meritasse una tale cura da cavallo.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7457&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Le riforme vittime dei sondaggi
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2010, 05:24:38 pm
10/6/2010 - TACCUINO

Le riforme vittime dei sondaggi

MARCELLO SORGI

Il problema, certamente, non è nuovo, anche se negli ultimi tempi sta assumendo dimensioni mai viste. In tempi in cui, esaurito l'appuntamento elettorale più importante della legislatura, la politica potrebbe cercare davvero di produrre risultati, cresce invece il condizionamento dei sondaggi. In particolare, gioca sul posizionamento dei partiti la rilevazione settimanale sul consenso ai leader, che li porta continuamente ad aggiustare le proprie tattiche quando non a smentirsi apertamente.

All'interno del centrodestra, tanto per fare un esempio, è opinione diffusa che il via libera al prosieguo dell'iter parlamentare delle intercettazioni, sia stato determinato, più che dai contenuti dell'accordo e dalle modifiche al testo, dalla possibilità, per Fini, di proclamarsi vincitore anche se la legge che dovrebbe essere approvata non è poi cambiata di molto. Allo stesso modo Berlusconi, prendendo subito dopo le distanze dal suo partito e dal compromesso raggiunto, ritiene di esser rimasto in sintonia con la parte più radicale del suo elettorato: quella, per intendersi, che vorrebbe dare una lezione definitiva alla magistratura.

Una volta era quasi solo un’idea fissa del Cavaliere. Gli altri, facevano (o dicevano di fare) la politica con la «P» maiuscola, lui continuava come sempre nella vita a guardarsi le tabelle delle rilevazioni ogni mattina, prima di inventarsi la sua uscita del giorno. Ora invece è diventata una mania che coinvolge tutti, ma proprio tutti, i principali attori dello spettacolo politico quotidiano, maggioranza e opposizione, governo, istituzioni e parti sociali. La lite tra i due Presidenti delle Camere della settimana scorsa, così come la manifestazione annunciata da Bersani contro la manovra economica, le due uscite televisive consecutive di Tremonti, seguite dall’annuncio, mai così franco, del premier al suo partito («Sapete che io e Giulio sui alcune cose non andiamo d’accordo»), il richiamo di Di Pietro al fascismo e alla Resistenza, hanno un'unica chiara motivazione: la maledetta tabella, o la serie di tabelle, che dagli istituti demoscopici ogni sette giorni arrivano sulle scrivanie dei membri di una classe dirigente che ormai vivono come le star tv in quei cinque minuti, prima delle dieci del mattino, che precedono l'arrivo dei dati Auditel e la classifica dei programmi più o meno visti. Questo serve a spiegare anche perché sia diventato impossibile che un'intesa, o una rottura, come ad esempio quella sulla «blindatura» delle intercettazioni, durino più di un giorno o due. Ma è chiaro che in un clima siffatto resta spazio solo per le emergenze, e non ha senso aspettarsi seriamente uno straccio di riforma.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7461&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Ora bisogna abbandonare la retorica
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2010, 05:30:49 pm
11/6/2010 - TACCUINO

Ora bisogna abbandonare la retorica
   
MARCELLO SORGI


Dopo il voto del Senato che ha licenziato il testo sulle intercettazioni destinato a diventare legge - e, almeno nei desideri di Berlusconi, a diventarlo senza più modifiche come stabilito al vertice del Pdl -, l'opposizione alla Camera dovrà decidere con quale tattica andare allo scontro finale.

La sensazione, a giudicare dalle prime reazioni, è che prevarrà la linea della grande battaglia di principio, accompagnata da slogan contro «la morte della libertà», da drappi neri sventolati nelle manifestazioni e da richiami al fascismo, come ieri hanno esordito Di Pietro e Italia dei Valori. Anche se non c'è alcuna ragione di minimizzare la gravità della decisione presa dal centrodestra, di approvare senza sostanziali modifiche un testo che per la prima volta dopo molti anni riduce i mezzi a disposizione della magistratura e delle forze di polizia per il contrasto della criminalità, e per la prima volta in assoluto introduce limiti alla libertà di informazione, va detto che in questo modo si andrà in tempi brevi a una replica, a Montecitorio, di quanto è avvenuto al Senato: il centrodestra, allo scopo di accorciare i tempi e non rischiare di dover sottoporre il testo a un nuovo passaggio parlamentare, riproporrà la richiesta del voto di fiducia e di una ghigliottina il più possibile svelta del dibattito sulle intercettazioni.

Se invece, proprio a partire dal fatto che alla legge ormai si arriverà di sicuro, l'opposizione vuol tentare di riaprire qualche spiraglio in un articolato che è stato frettolosamente scritto fuori dal Parlamento e di cui gli emendamenti proposti dalla stessa maggioranza non hanno mutato l'impianto autoritario, l'opposizione ha il dovere di ricercare un'interlocuzione proprio con quelle parti del centrodestra che, specie alla Camera, o appaiono meno convinte delle conclusioni del Senato, o hanno finto soddisfazione per il compromesso raggiunto da Berlusconi con Fini.

I principali punti su cui - è bene ricordarlo - questo tentativo andrebbe concentrato sono: la disparità introdotta tra indagini di mafia e terrorismo e quelle di altro genere; i limiti temporali di 75 giorni e il farraginoso sistema di proroga delle intercettazioni; le sanzioni per gli editori dei giornali che li costringeranno a intervenire sui direttori responsabili e sui giornalisti per imporre la censura sui verbali. Una riflessione del genere riguarda ovviamente anche i sindacati dei magistrati e dei giornalisti: per salvare il salvabile di una libertà minacciata, occorre abbandonare la retorica, le posizioni di principio e perfino l'orgoglio, e rompersi la testa cercando di trattare.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7464&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Rischio boomerang sulla polemica
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2010, 09:32:08 am
15/6/2010 - TACCUINO
 
Rischio boomerang sulla polemica
 
 
MARCELLO SORGI
 
La polemica, continuata per tutta la giornata di ieri malgrado le scuse del governatore Zaia, sulla mancata (o posticipata) esecuzione dell'inno di Mameli all'inaugurazione della scuola di Vedelago in provincia di Treviso, rischia di sortire l'effetto opposto a quel che si propone. L'idea del ministro della Difesa La Russa di imporre per legge l'inno nazionale, per bloccare una volta e per tutte le libere uscite leghiste, potrebbe incoraggiare una sorta di disobbedienza civile, moltiplicando le assenze alle cerimonie ufficiali. E non perché il "Va’, pensiero" di Verdi (che per la Lega è com'era "Bandiera rossa" per i comunisti) sia in realtà preferito al Nord ai vecchi "Fratelli d'Italia", ma al contrario perché una sorta di adesione obbligatoria, fuori dalle grandi cerimonie celebrative, non è detto che sia poi così condivisa.

Le assenze dei ministri leghisti alle celebrazioni del 2 giugno, la vicenda della canzone di Paoli "La gatta" intonata a Varese davanti a Maroni, oltre a suscitare scontri continui con la componente ex-An del Pdl e del governo, preoccupata che Berlusconi alla Lega perdoni sempre tutto, stanno aprendo un problema nuovo nell'anno che precede la ricorrenza dei 150 anni dell'Unità. E' evidente che, man mano che il calendario delle manifestazioni che riguardano l'anniversario si fa più fitto, la Lega in più circostanze colga l'occasione per prendere le distanze e parlare alla sua gente nella lingua che preferisce ascoltare. La moltiplicazione delle occasioni, pubbliche o mediatiche (giornali e tv hanno già cominciato in larghissimo anticipo e con grande dispiego di mezzi), in cui l'Unità viene ricordata, non potrà che avere come conseguenza una più frequente presa di distanze del Carroccio, da una narrazione, e spesso da una retorica, che mai prima d'ora s'era trovata a dover condividere pubblicamente.

Questo serve a compensare, tra l'altro, la crescente «romanità» degli esponenti leghisti: perfino Cota e Zaia, divenuti governatori del Piemonte e del Veneto, continuano ad apparire quasi tutte le sere nei tg per parlare di politica nazionale e non delle Regioni di cui hanno assunto la guida (alle quali semmai si dedicano nei notiziari regionali). Che da tutto ciò possa derivare una disaffezione ai valori unitari, è da dimostrare. Ma di questo passo, se a Genova, dove molti tifosi della Samp sono irritati perché Lippi non ha convocato Cassano, e se a Milano, dove un sacco di interisti avrebbero voluto Balottelli in Sudafrica, salta fuori uno che non tiene per l'Italia ai mondiali, va a finire che qualche altro proporrà una legge sul tifo obbligatorio.
 
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7477&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. La sorpresa dell'alleanza tra governatori
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2010, 11:23:49 pm
16/6/2010 - TACCUINO

La sorpresa dell'alleanza tra governatori
   
MARCELLO SORGI

Il cammino del governo procede con un continuo stop and go. Nella stessa giornata, ieri, è arrivato il «no» dell'Osce alla legge sulle intercettazioni, il plauso dell'Unione europea alla manovra predisposta da Tremonti, seguito a stretto giro da un documento durissimo, e approvato all'unanimità da tutti i presidenti delle regioni.

Con un'inedita alleanza Errani-Formigoni, la Conferenza delle Regioni ha sposato la linea del governatore della Lombardia e ha chiesto al governo di riscrivere la manovra, redistribuendo in modo diverso i sacrifici tra centro e periferia. I 4,3 miliardi di tagli previsti per il 2011, secondo quanto ha spiegato il presidente della Conferenza Vasco Errani, sono tali da far saltare i bilanci di tutte le amministrazioni e non consentirebbero di applicare il federalismo, giacché le regioni, ha aggiunto Formigoni, si troverebbero ad avere sulla carta i poteri ceduti dallo Stato in nome del decentramento, ma non i fondi necessari per esercitarli. Di qui il rischio di un rinvio o di un blocco del federalismo e il conseguente aspetto di incostituzionalità della manovra.

Da sempre la medaglia dei tagli alla spesa ha un rovescio difficile da digerire per gli amministratori locali: se il governo taglia i fondi dei trasporti, tanto per fare un esempio, ai sindaci e ai presidenti delle province o delle regioni tocca aumentare le tariffe degli autobus. In altre parole, si tratta di introdurre nuove tasse, anche se indirette, proprio mentre il governo si fa bello dicendo che «non ha messo le mani in tasca agli italiani».

Oltre ad aver messo in luce questo aspetto, sul quale, da due anni, dopo il taglio dell'Ici del 2008, insistono senza risultati i sindaci, la levata di scudi dei governatori è interessante anche perché contiene la novità dell'asse tra il governatore azzurro della Lombardia Formigoni e quello rosso dell'Emilia Errani. Un'alleanza foriera non certo di buon vento per il governo, che ha colto di sorpresa Tremonti e Bossi. Forse è proprio per questo che Cota, su suggerimento del leader del Carroccio (il Senatur, finché non vedrà chiaro, appoggia il ministro dell'Economia), ha ritirato la sua firma dal documento della Conferenza.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La strategia per arginare il ruolo di Fini
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2010, 09:17:33 am
17/6/2010

La strategia per arginare il ruolo di Fini
   
MARCELLO SORGI

Il durissimo intervento di ieri di Berlusconi alla Confcommercio, in cui, alle cose che va ripetendo da mesi - tipo che lui non ha poteri, le leggi in Parlamento non passano mai, e quando passano vengono cancellate dalla Consulta - ha aggiunto un'intemerata sulle intercettazioni, con cifre e numeri un po' approssimativi sui milioni di italiani spiati, si spiega con la svolta maturata nell'ennesimo vertice a Palazzo Grazioli. Il Pdl ha deciso di non forzare alla Camera, lasciando aperto il calendario dei lavori fino a metà agosto, e cercare al contrario una via per arrivare in tempi ragionevoli all'approvazione, sia della contestatissima legge appena uscita dal Senato, sia della manovra economica e della riforma universitaria.

Ministri e coordinatori del partito hanno spiegato al Cavaliere che un nuovo scontro con Fini, come quello che fino a martedì il premier sembrava determinato a provocare, non avrebbe portato a niente.

Inoltre avrebbe creato un clima sfavorevole nelle votazioni che richiedono l'impegno della maggioranza e rischiando perfino di agevolare l'opposizione, che a questo punto ha definitivamente scelto lo scontro frontale e le manifestazioni di piazza, e non si fida più neppure del Presidente della Camera.

Questa del centrosinistra deluso da Fini e dai suoi, e convinto che la minoranza finiana stia giocando solo una partita interna al Pdl, senza un vero interesse a creare un'intesa parlamentare trasversale tra parti della maggioranza e parti dell'opposizione, è la vera novità emersa negli ultimi giorni dal quadro politico. Non è di poco conto, se solo si riflette che fino a qualche settimana fa tra le opzioni strategiche del Pd e dell'Udc c'era anche l'ipotesi di un governo tecnico o di emergenza, non guidato da Berlusconi, che avrebbe potuto godere della benemerenza delle opposizioni e avrebbe dovuto gestire la crisi con misure concertate e un largo consenso parlamentare.

Ora che di questo disegno è emersa l'inconsistenza (come sempre, Casini è stato il primo a smarcarsi), a Palazzo Grazioli s'è lavorato per portare il Cavaliere a rinunciare allo scontro e a condividere piuttosto l'accerchiamento di Fini: il quale, se insisterà, come ha fatto nei giorni scorsi, per prendere tempo sulle intercettazioni, sarà accontentato. Ma privo ormai della sponda del centrosinistra, dovrà rendersi conto di avere sempre meno ragioni per opporsi al varo finale della legge. E se le intercettazioni slitteranno a settembre, manovra e riforma universitaria dovranno passare prima della pausa estiva. Su questo Fini dovrà impegnarsi senza se e senza ma.

Un ripiegamento come questo prende atto realisticamente della situazione dei gruppi parlamentari del centrodestra, stanchi e fiaccati da mesi di guerriglia interna al Pdl. Decisivo è stato anche l'atteggiamento di Bossi, restio ad impiccarsi sulle intercettazioni e deciso a liberarsi al più presto della manovra, per togliere dal campo i dubbi che giorno dopo giorno continuano ad affacciarsi sugli effetti della crisi e sulla possibilità che il federalismo possa subire uno slittamento. Non a caso, dopo aver trattenuto Cota e Zaia dall'adesione al documento dei governatori critico sulla linea Tremonti, Bossi s'è adoperato anche per far in modo di venire incontro alla protesta delle regioni. Si andrà dunque a un difficile negoziato parlamentare sulle misure anticrisi, gravato non solo dalle assenze dei parlamentari e dalle tattiche correntizie, ma anche da votazioni a sorpresa, in cui ad esempio i deputati lombardi o quelli pugliesi, votando tutti insieme a prescindere dagli schieramenti, cercheranno di cancellare con emendamenti tagli di spesa che considerano inaccettabili.

Ma il ritorno al realismo e la campagna di pacificazione e di sminamento del percorso del governo, che comunque rimane accidentato, ovviamente non piacciono a Berlusconi. Il Cavaliere, con il gruppo più ristretto dei suoi, confessa sempre più spesso la sua amarezza per la situazione, teme che le intercettazioni finiscano nuovamente sepolte nei cassetti del Parlamento e conserva una sua personale antipatia per la manovra di Tremonti. Malgrado ciò, anche stavolta il premier ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Così non gli è rimasto che sfogarsi davanti ai commercianti.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Ma un iter concordato farebbe comodo al premier
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2010, 09:20:32 am
18/6/2010 - TACCUINO

Ma un iter concordato farebbe comodo al premier
   
MARCELLO SORGI

L’entrata in scena di Umberto Bossi sul terreno accidentato della legge sulle intercettazioni inaugura la fase due della strategia dell’accerchiamento di Fini e il tentativo di rimettere insieme i cocci della maggioranza, a partire dai due estremi. Il Senatur e il Presidente della Camera, si sa, non si sono mai amati. La loro è da molti anni una convivenza forzata all'interno del centrodestra. Una delle ragioni per cui Fini ha rotto con Berlusconi è che considera l'alleanza del Pdl con la Lega sbilanciata verso quest'ultima, e la consuetudine dei pranzi settimanali ad Arcore tra il Cavaliere e la delegazione del Carroccio una plateale dimostrazione della disparità tra i membri dell'alleanza.

A quegli incontri, infatti, Fini non è mai stato ammesso. E il tentativo di riequilibrare i rapporti istituendo un altro parallelo incontro settimanale tra il presidente del consiglio e il presidente della Camera, dopo un paio di tentativi, s'è rivelato fallimentare e ha dato luogo a litigate memorabili, alternate da lunghi periodi di mancata frequentazione.

Mentre appunto i finiani - in testa la solforosa presidente della commissione giustizia Giulia Bongiorno - ieri alla Camera davano fuoco alle polveri, chiedendo un ripensamento e una riscrittura di parte del contestato testo varato dal Senato, un Bossi piuttosto affaticato dalla torrida giornata romana, e sorretto a tratti dal figlio Renzo, si dirigeva verso l'ufficio del più alto inquilino di Montecitorio. La discussione tra i due, s'è capito da quel che lo stesso Bossi ha detto all'uscita, come si dice dev'essere stata franca. Il leader leghista s'è presentato da mediatore e non da ambasciatore di un Berlusconi molto irato.

La conclusione è che, se quella di Fini non è una tattica pregiudiziale che punta a far saltare la legge, si può discutere quali emendamenti servono per migliorare il testo e approvarlo rapidamente, rispedendolo al Senato per l'esame finale. Berlusconi nel frattempo si occuperebbe di approfondire con Napolitano tutte le riserve emerse finora, per sì che una volta approvata la legge possa seguire anche la firma del Quirinale.

In due settimane il problema potrebbe essere risolto così. L'iter concordato consentirebbe a Fini di avere la parola finale su un testo mai condiviso fino in fondo, a Berlusconi di evitare la brutta figura di un altro rinvio, e a Bossi, oltre al merito di aver riportato la pace nella maggioranza, la possibilità di chiedere un'accelerazione sulla manovra economica e garanzie precise sul completamento del federalismo, la riforma che da sempre interessa più di tutto alla Lega.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7490&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Quirinale e lo spettro dell'anarchia
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2010, 09:48:12 am
22/6/2010 - TACCUINO

Il Quirinale e lo spettro dell'anarchia
   
MARCELLO SORGI

L’appello del Capo dello Stato, rivolto a maggioranza e opposizione, a concentrarsi sulla manovra economica per riuscire a concluderne l’esame in Parlamento prima della pausa estiva non è affatto formale, né mirato esclusivamente ad ottenere un rinvio delle intercettazioni alla ripresa. Dopo aver preso attenta visione del documento trasmessogli dal governo, e dopo essere stato avvertito che gli emendamenti presentati da tutte le parti politiche sono già oltre duemila, Napolitano con i suoi collaboratori s’è detto molto preoccupato per la piega che l’iter delle misure anticrisi potrebbe prendere di qui a poco.

Non è solo un problema di clima politico, vieppiù deteriorato. E’ ormai evidente che in Parlamento, anche nei gruppi della maggioranza, regna un clima di incertezza e di stanchezza che moltiplica le assenze e sfocia spesso in episodi di anarchia. Come appunto quello che ieri ha convinto tre peones del Pdl (Tancredi, Latronico e Picchetto Frattin), a cercare di introdurre con emendamenti nientemeno che un nuovo condono edilizio e un altro condono fiscale tombale sulle tasse evase fino al 2008.

La libera uscita dei tre, subito motivo di attacchi dell’opposizione al governo, è stata subito stoppata dal portavoce di Palazzo Chigi Bonaiuti. Ma è ugualmente apparsa come un sintomo di ulteriore scollamento interno dei gruppi parlamentari del centrodestra e come un segno di difficoltà dei capigruppo - che dovrebbero avere potere di autorizzazione sugli emendamenti - di controllarli. Il rinvio del voto sulle intercettazioni dovrebbe essere deciso oggi. La corsia preferenziale chiesta dal Quirinale, e quasi certamente condivisa dal governo, per la manovra, oltre ad essere una proposta ragionevole, riuscirebbe a separare almeno di due mesi l’attuale discussione e il voto sul decreto anticrisi dalla sessione di bilancio che si riaprirà a settembre.

Sul governo preso ormai da un’emergenza dopo l’altra, preme inoltre l’aggravamento della situazione dei terremotati dell'’quila: il pronto soccorso ch’era stato un fiore all’occhiello del governo l’anno scorso mostra ormai la corda rispetto al ritardo della ricostruzione e alle preoccupazioni delle autorità locali per la paralisi di tutte le attività economiche della città.

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Titolo: MARCELLO SORGI. "Il patto tra i due Gianni" e la nuova sfida di Alemanno
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2010, 05:47:51 pm
23/6/2010 - TACCUINO

"Il patto tra i due Gianni" e la nuova sfida di Alemanno
   
MARCELLO SORGI

Siglato lunedì sera alla presenza della Roma che conta, l'accordo subito ribattezzato «dei due Gianni», Letta e Alemanno - per rimettere a posto i disastrati conti del Comune della capitale e per avviare operativamente il comitato che mira a riportare all'ombra del Colosseo le Olimpiadi del 2020 -, conta molto di più dei due concreti e dichiarati obiettivi che si propone.

Quando Alemanno si insediò in Campidoglio due anni fa, alla fine di una campagna elettorale in cui a sorpresa era diventato il candidato vincente, piegando i pronostici che davano favorito Francesco Rutelli, non fece mistero di considerare Letta un avversario da battere. «Lettiana», oltre che veltroniana e rutelliana, era stata infatti negli ultimi 15 anni di sindaci di centrosinistra, la gestione bipartisan della capitale, fondata su un metodo di trasparente collaborazione e sulla convinzione che nessun sindaco romano può fare a meno del governo e nessun governo può fare a meno di Roma.

Quella di Alemanno era invece, almeno nelle aspirazioni, una vittoria «rivoluzionaria», da gestire come tale, azzerando il sistema di potere sopravvissuto alla staffetta dei due sindaci di centrosinistra e portando in Campidoglio lo spirito battagliero e le dure contrapposizioni, tipiche del bipolarismo nazionale e della Seconda Repubblica. A ventiquattro mesi dall'inizio della sua nuova avventura, Alemanno, alle prese con le difficoltà e gli enormi problemi di una capitale ingovernabile, ha dovuto rassegnarsi all'accordo, che peraltro Letta ha sottoscritto volentieri, accettando di guidare Roma nella corsa per le Olimpiadi malgrado la precedente sconfitta in favore di Atene.

Letta, si sa, non è un uomo di partito ma di istituzioni, e non ha mai avuto la tessera di Forza Italia o del Pdl, pur essendo il braccio destro di Berlusconi. Alemanno è un outsider assurto rapidamente al successo grazie anche all'insipienza degli altri colonnelli ex-finiani e alla testarda battaglia contro il Cavaliere, che Fini sta conducendo senza tregua, e finora senza molti risultati, dentro il partito. Nella stretta di mano che il sindaco e il sottosegretario si sono scambiati pubblicamente lunedì non c'è dunque solo la conferma dell'eterna legge romana del compromesso. Ma anche, forse, un'ipoteca sulla futura corsa alla successione del premier, che aveva avuto finora in Tremonti e nel presidente della Camera i due principali aspiranti. E che adesso, dopo il «patto dei due Gianni», con Alemanno ne ha tre.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La rivolta dei governatori divide Pdl e Lega
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2010, 10:21:46 am
25/6/2010 - TACCUINO

La rivolta dei governatori divide Pdl e Lega

MARCELLO SORGI

La protesta delle Regioni contro il governo che scarica sulle amministrazioni locali il peso maggiore della manovra da ieri ha assunto toni da rivolta. I governatori minacciano nientemeno che di rinunciare alle loro competenze in molte materie su cui da tempo il potere centrale non esiste più. La spiegazione, data a nome di tutti dal presidente della Conferenza Stato-Regioni Vasco Errani, è che tagliando i fondi previsti per una serie di servizi la manovra rende impossibile garantirli, a meno di non procedere, localmente, all’istituzione di nuove tasse per finanziarli.

Va detto che era abbastanza prevedibile che sarebbe finita così. La vicenda di un governo che a Roma si vanta di «non aver messo le mani nelle tasche degli italiani» mentre in periferia costringe le amministrazioni a farlo era apparsa chiara da quando l’impianto della manovra fu spiegato per la prima volta. Nel nostro Paese, più che in altri, tagli e tasse si equivalgono: l’Italia, rispetto alla Francia, tanto per fare un esempio, è più avanti in fatto di decentramento: in molte materie come trasporti pubblici locali, polizia amministrativa, incentivi alle imprese, parte della Protezione civile, invalidi civili, agricoltura, viabilità e ambiente, oltre naturalmente alla Sanità, che da sola copre più di metà dei bilanci regionali, le amministrazioni locali hanno potestà esclusiva o quasi esclusiva, ma il finanziamento dei servizi che devono fornire è ancora assicurato dallo Stato, che è il destinatario centrale della quasi totalità delle entrate ricavate dalle tasse.

Come mercoledì i sindaci che avevano appreso dai giornali della possibilità allo studio di una nuova imposta comunale per rimpiazzare l’Ici, abolita dal 2008 e mai reintegrata con trasferimenti di fondi da parte del governo, così oggi anche i governatori vorrebbero sapere quale sorte li aspetti. Va da sé che in un quadro del genere la ormai sommersa discussione sul federalismo, prima di tutto su quello fiscale, torna drammaticamente d’attualità, e non a caso il leader della Lega l’altro giorno è andato a parlarne con il Capo dello Stato. La sensazione è che un governo con le casse vuote e con una capacità famelica di tagliare i fondi per le Regioni e i Comuni non sia affatto pronto a rinunciare al centralismo delle tasse. Accanto al contenzioso sulle tabelle dei bilanci dei governatori, e sui futuri aumenti, tra gli altri, dei biglietti dei tram e dei bus, è quindi destinato a crescere anche l’attrito politico su uno dei punti chiave dell’alleanza che cementa il patto tra Pdl e Lega.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Bossi spera nell'aiuto del Quirinale
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2010, 09:26:35 am
27/6/2010

Bossi spera nell'aiuto del Quirinale

MARCELLO SORGI

Nel bel mezzo del pasticcio originato dalla nomina a ministro di Brancher, e dal suo tentativo, fallito ieri sera, di utilizzarla per sottrarsi ai giudici, Bossi dice che «il Quirinale è il punto che tiene in equilibrio lo Stato» e i leghisti salgono due volte in tre giorni al Colle.

Qualcosa, è chiaro, si sta muovendo. Se solo si considera che il Carroccio ha sempre avuto una palese diffidenza per l’inquilino del Palazzo più importante - Scalfaro, con cui pure Bossi firmò il «ribaltone», o Ciampi, di cui non sopportava l’esplicita passione patriottica, senza differenze -, fa riflettere la liaison tra la Lega e Napolitano, il primo Presidente della Repubblica a non essere fischiato dalle camicie verdi quando va a parlare di federalismo e unità nazionale nei territori padani.

Seppure solo adesso stia emergendo chiaramente, la consuetudine tra il Capo dello Stato e il Carroccio data da tempo. A parte la stima e il rispetto reciproci, che hanno fatto dire a Bossi, col suo tono un po’ spaccone, che lui e Napolitano sarebbero in grado di risolvere in cinque minuti il pasticcio della legge sulle intercettazioni, c’è, a partire da sedici anni fa, quando entrò per la prima volta al Viminale come ministro dell’Interno, il rapporto con Maroni, che ha accettato di buon grado le critiche del Quirinale al decreto sicurezza e s’è impegnato a cambiarlo appena possibile. E c’è stata, di recente, la pubblica pace con il sindaco di Verona Flavio Tosi, quello che si vantava di tenere appesa nel suo ufficio la foto del presidente partigiano e nordista Pertini, e che invece al momento di riceverlo l’ha sostituita e s’è fatto trovare con quella di Napolitano dietro la poltrona. Insieme, poi, Tosi e il Presidente hanno fatto una passeggiata a piedi nel centro della città, che simboleggiava la plateale riconciliazione.

Le ragioni di questa imprevedibile convergenza sono chiare, anche se a prima vista i soggetti non potrebbero apparire più lontani: Napolitano con il suo amore per Napoli e il Sud e l’impegno ormai solitario sulla trascuratissima questione meridionale, Bossi che a Napoli c’è andato sì e no una volta con Berlusconi e s’è fermato a prendere una pizza con evidente disagio. La prima spiegazione è la politica intesa un po’ alla vecchia maniera, come costruzione e arte del possibile, non solo scontro quotidiano di propaganda. Il Senatùr e il Presidente sono ancora due tipici leader della Prima Repubblica, che si parlano, studiano le loro mosse, cercano l’avvicinamento, e anche quando non lo trovano non si chiudono mai la porta in faccia. Questo ha reso possibile, per il Presidente, valutare certe rumorose e sgarbate, in qualche caso, uscite della Lega, tipo le assenze alle cerimonie del 2 Giugno, per quel che sono: mosse propagandistiche senza sostanza che non devono influire su un percorso di collaborazione.

Poi c’è la percezione, chiara per tutti i leghisti che lo hanno incontrato, compreso Calderoli che è il più esuberante, che Napolitano è un vero riformista, convinto che così com’è l’Italia non può andare avanti, che debba finalmente rinnovarsi e in quest’ambito si possano coniugare intelligentemente unità nazionale e federalismo. Napolitano ha dedicato fin dall’inizio il suo settennato alle riforme, non ha mai mostrato nostalgie passatiste o centraliste, ha parlato chiaro in tutti gli appuntamenti ufficiali importanti, ha insistito sugli stessi argomenti nei suoi messaggi di Capodanno, e tutto ciò, a differenza di Berlusconi con cui l’alleanza è solida ma guardinga, lo rende credibile agli occhi della Lega e strategico nel momento in cui la confusione tra manovra economica, intercettazioni e riforme cresce e sembra piegare verso uno sbocco inconcludente, oltre a far temere un nuovo rinvio del federalismo.

Il Presidente fa quel che può, ma quando promette mantiene, dicono i leghisti. Inoltre, da qualche tempo, Bossi e i suoi hanno ripreso a sospettare che Berlusconi, se la situazione economica lo consentisse dando un po’ di respiro, sotto sotto non abbia rinunciato all’ipotesi di elezioni anticipate, come resa dei conti con Fini. Le elezioni prima del federalismo, va da sé, sarebbero un disastro per la Lega, che in occasione del caso Brancher ha scontato un evidente mugugno della base nel raduno simbolico di Pontida. Per questo, tra le altre cose di cui sono andati a parlare al Quirinale, i leghisti hanno fatto capire che si aspettano, nel caso infausto le loro previsioni dovessero realizzarsi, una cautela speciale da parte di Napolitano prima di sciogliere di nuovo le Camere

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Titolo: MARCELLO SORGI. Che affare fondare un partito
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2010, 10:17:21 pm
30/6/2010 - TACCUINO

Che affare fondare un partito
   
MARCELLO SORGI

La querelle irrisolta tra Antonio Di Pietro e il suo vecchio socio fondatore di «Italia dei valori» Elio Veltri, che lo accusa di aver organizzato una truffa sui rimborsi elettorali, appropriandosi di una parte di quel che lo Stato ha versato al suo partito per interessi personali, non accenna a finire. Ma al di là delle responsabilità che toccherà alla magistratura accertare (Di Pietro si dice sicuro anche stavolta, come in precedenza, di un'archiviazione), il caso ha messo in evidenza un aspetto non secondario della crisi della politica.

In Italia, in altre parole, è diventato conveniente fondare un partito. Si guadagna bene. E questo spiega perché, ad onta dei meccanismi maggioritari che, escluse le europee, funzionano per qualsiasi tipo di elezione, nell'approssimarsi della data per la presentazione dei simboli, si moltiplichino liste senza quasi alcuna altra ragione sociale che quella di concorrere alla ricca torta dei rimborsi.

Basti solo un dato, pubblicato, al termine di un'approfondita ricerca, in un piccolo e prezioso pamphlet di Giuseppe Sangiorgi, («Rivoluzione Quirinale», Gaffi editore): nel 1993, ultimo anno prima che il finanziamento pubblico venisse abolito da un referendum, lo Stato versò ai partiti poco più di 80 miliardi delle vecchie lire, pari a meno di 45 milioni di euro di oggi. Nel 2008 i rimborsi elettorali assegnati ai nuovi partiti per le elezioni politiche sono stati più di 503 milioni di euro, dieci volte di più.

A ciò si aggiunga il fatto che hanno diritto a prenotare i rimborsi tutti i partiti che abbiano partecipato almeno alle elezioni regionali eleggendo un consigliere, e quelli che hanno raggiunto l'uno per cento dei voti (più o meno 450mila) alle elezioni politiche. Un siffatto partito può conquistare, non solo la fetta di torta che riguarda la competizione in cui s'è presentato, ma anche quella delle altre elezioni, con l'unico limite, stabilito nel 2009, che per farsi rimborsare le europee dovrà aver raggiunto il 4 per cento dei voti. Del tutto inspiegabile - e la Corte dei Conti lo ha più volte sanzionato - è poi il meccanismo che sovrintende ai rimborsi: i partiti sono tenuti a portare le pezze d'appoggio delle spese affrontate, ma i pagamenti avvengono in relazione ai voti conquistati, con un moltiplicatore che è andato sempre in crescendo dal '93 al 2008. Al punto che a fronte di spese riconosciute per 600 milioni di euro sono stati erogati contributi per due miliardi 253 milioni, un miliardo e 670 milioni in più di quanto speso. Un campo lasciato intatto dalla manovra di Tremonti.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Partita decisiva dentro il Pdl
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 12:21:11 pm
1/7/2010 - TACCUINO

Partita decisiva dentro il Pdl
   
MARCELLO SORGI

Le aperture di Tremonti sulla manovra e l'irrigidimento di Berlusconi sulle intercettazioni solo apparentemente sono in contraddizione: segnalano, anzi, un rafforzamento della strategia che sempre più negli ultimi tempi ha visto il premier stringere l'alleanza con la Lega e andare a una resa dei conti con il dissenso interno al Pdl. Nella sola giornata di ieri il ministro dell'Economia ha cercato invano di placare l'ira dei magistrati in sciopero, ha confermato la volontà espressa dal Cavaliere di trattare sulle misure anticrisi, salvaguardando tuttavia «saldi e soldi», e ha concluso con Bossi un accordo che dovrebbe servire a fugare i sospetti del Carroccio sulla possibilità di un nuovo rinvio del federalismo, dovuto all'incrudelirsi della congiuntura economica.

Il passaggio, salutato con soddisfazione dal Senatur, dell'intero comparto della finanza sugli immobili ai Comuni, oltre a significare in tempi brevi il ritorno di imposte sulle case sostitutive dell'Ici, che era stata abolita dal governo all'atto dell'insediamento due anni fa, segna un punto a vantaggio delle richieste della Lega, convinta che il nuovo meccanismo favorirà i comuni virtuosi a svantaggio di quelli gravati da un eccesso di spese, e che l'introduzione del principio della responsabilizzazione delle amministrazioni locali rispetto ai costi dei servizi da fornire ai cittadini potrà tradursi più avanti in un allargamento dell'autonomia impositiva locale. I soldi del Nord devono restare al Nord, invoca da anni la Lega: la decisione di ieri è un primo passo in questa direzione perché limita i poteri del governo nella redistribuzione sul territorio delle risorse. La svolta, presentata da Tremonti e Bossi, dovrebbe servire anche a raffreddare le tensioni prodotte dal caso Brancher e favorire una pacificazione nel rapporto con l'alleato strategico del Pdl, in vista della battaglia finale sulle intercettazioni. Sulle quali, appunto, Berlusconi, anche a costo di scontare un nuovo, plateale, dissenso di Fini, e contraddicendo anche il consiglio venuto dal Quirinale di concentrarsi sulla manovra economica, ha deciso di accelerare, sfidando anche l'ostruzionismo annunciato dall'opposizione. Ma oltre all'importanza che il premier attribuisce alla legge, si tratta soprattutto di una partita interna al Pdl.
Il Cavaliere ha tracciato una linea di confine per terra: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori una volta per tutte.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La pericolosa politica dei tre forni di Bossi
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2010, 09:42:46 pm
2/7/2010 - TACCUINO

La pericolosa politica dei tre forni di Bossi
   
MARCELLO SORGI


Sulle intercettazioni si deve trovare la mediazione e la troveremo», dice Bossi, sicuro di sé, con antico linguaggio democristiano. Ringalluzzito dall’accordo sulle tassazione delle case riservata ai comuni, il Senatur s’è messo al centro della complessa partita di fine stagione, annunciata per il 29 luglio.

In realtà quella di Bossi è la classica politica dei due forni, per non dire tre. Il primo è quello di Berlusconi, al quale il leader del Carroccio è disposto a dare una mano, trovando il modo di portare a casa il controverso testo che da due anni fa stop and go in Parlamento. Chiede in cambio una rassicurazione definitiva sul federalismo, lasciando intendere a Berlusconi che non gli conviene indugiare sul punto chiave dell’alleanza tra Pdl e Lega. Specie se, sotto sotto, come si vocifera di nuovo, il premier non ha rinunciato all’idea di tentare all’inizio del prossimo anno di andare ad elezioni anticipate per chiudere i conti con Fini. Senza federalismo, la Lega non può tornare davanti agli elettori. Con, invece, è un altro discorso.

Il secondo forno è quello di Tremonti, amico oltre che alleato della Lega e autore dell’accordo ritrovato mercoledì in consiglio dei ministri. Il ministro dell’Economia, per il completamento del federalismo, propone una strada più lenta ma più sicura, che si dispiega nell’arco dell’intera legislatura, fino al 2013. In questo quadro Bossi resta strategico sia nell’attuale compagine di governo, sia in un’eventuale diversa soluzione, che nascerebbe nel caso di un aggravamento della situazione economica e della ricerca di un'intesa diversa con l'opposizione per varare misure più dure sorrette da un consenso più ampio. E’ l’ipotesi, che fa capo di tanto in tanto ma fin qui s’è rivelata irrealizzabile, di un nuovo governo, guidato da Tremonti, per gestire l’emergenza.

L’opposizione, inoltre, diventerà un forno indispensabile - il terzo per il Senatur! - al momento del varo definitivo della parte di riforma costituzionale che riguarda il federalismo. Senza l'appoggio dei due terzi del Parlamento infatti, la riforma, come accadde nel 2006, resterebbe zoppa. Di qui l’interesse di Bossi di agganciare il centrosinistra già adesso, sul terreno spinoso delle intercettazioni, per spendere più avanti la credibilità guadagnata sul campo. Malgrado l’indiscutibile abilità politica di Bossi, un triplo movimento così articolato - e così evidentemente modellato sull’interesse della Lega prima di tutto - ha una sola controindicazione: la vecchia regola della Prima Repubblica che le volpi, presto o tardi, finiscono tutte in pellicceria.

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Titolo: MARCELLO non inventarti correnti che non esistono...
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2010, 10:57:35 am
8/7/2010 (7:11)  - IL CASO

Nasce la corrente tutta rosa del Pdl col sì del Cavaliere

Guidata dalle ministre Carfagna, Prestigiacomo e Gelmini sta già suscitando tensioni nel partito

MARCELLO SORGI
ROMA

Una sfida: all’indomani del diktat di Berlusconi per cancellare le divisioni interne nel Pdl e regolare i conti con l’agguerrita minoranza finiana, non potrà sembrare altro, sabato, la nascita della corrente delle tre ministre Gelmini, Carfagna e Prestigiacomo, nella Sicilia greca e molto mediterranea della città natale della responsabile dell’Ambiente, e nel castello di Man, carico di mistero, a Siracusa.

Osteggiata dagli eterni rivali Alfano e Schifani che avevano chiesto al premier in persona di fermarla e, pur invitati, non ci saranno, fiancheggiata dal ministro degli Esteri Frattini, che aveva già dato vita con la collega dell’Istruzione alla Fondazione «Liberamente», l’alleanza nazionale delle tre donne più importanti del governo, una milanese, una napoletana e una siciliana che escono allo scoperto, non ha ricevuto alcun «alt» dal Cavaliere. Per la semplice ragione che a loro Berlusconi non sa dire di no, che con ognuna vanta un rapporto speciale, e a un grande comunicatore come lui non sfugge il potenziale politico-mediatico di un’iniziativa come questa, legata a tre dei volti più amati del centrodestra.

Così, quando Maria Stella Gelmini, martedì sera, dopo aver letto sulle agenzie l’annuncio della guerra alle correnti del Pdl, ha telefonato a Berlusconi, per chiedergli se in qualche modo poteva riguardare anche il convegno delle ministre, il premier ha chiesto qualche dettaglio, s’è informato sui nomi dei relatori, e poi ha dato il via libera. Spinta dalla Prestigiacomo, la più ribalda delle tre, la Gelmini ha insistito allora con il Cavaliere per ottenere una pubblica benedizione. Berlusconi non ha detto né di sì né di no, fino a ieri sera la sua dichiarazione non era arrivata.

Ma anche se il consenso del leader resterà riservato, è evidente che il Cavaliere sta con loro. Prestigiacomo, Gelmini e Carfagna, infatti, al di là del loro impegno nel governo, che il premier non perde occasione per lodare, rappresentano il concentrato di quel che Berlusconi ha sempre immaginato come elementi costitutivi del suo partito e del suo modo di stare in politica. Ai suoi occhi, sono brave, giovani e belle. Sono laureate. Riescono a dividersi, non si sa come, tra il lavoro durissimo a cui sono state chiamate, le loro famiglie e gli impegni politici sul territorio. Inoltre - dettaglio a cui il leader, come si sa, attribuisce molta importanza - hanno grande cura di se stesse, sono eleganti, sanno stare in tv. E si presentano a qualsiasi ora a Palazzo Chigi, alle trattative o al Consiglio dei ministri, con un look charmoso, senza un capello fuori posto e con grande personalità.

Le ministre sono molto consapevoli di questo. La loro idea di femminilità in politica è powerfull, il loro modello è un mix dell’americana Condoleezza Rice, della francese Rachida Dati, dell’israeliana Tzipi Livni, dell’ucraina Yulia Timoshenko. Poi, ciascuna sa di occupare un posto particolare nel cuore del Cavaliere. Alta, bionda, sorridente, con quella sua cantilena siciliana così sensuale, Stefania, che sabato sarà la madrina del battesimo della corrente, è una combattente della prima ora. C’era già nel ’94, quando fu scelta subito come Miss Parlamento, è entrata al governo che era appena una ragazza. Ma quando qualcuno dei ministri più importanti, si tratti di Tremonti o dell’ex Scajola, ha provato a entrare nel suo campo, ha dovuto subito fare un passo indietro. «Sanno che sono pronta ad alzargli le mani», conferma, e nello slang della ministra dell’Ambiente vuol dire che sa difendersi.

A chi ancora le fa scontare il suo passato televisivo, Mara - che come ricorda Elisabetta Gregoraci, moglie di Flavio Briatore e mamma del suo adorato Falco, nasce pubblicamente «in una formidabile edizione di Miss Italia, in cui c’eravamo tutte» - ha appena risposto portando in dote al partito ben cinquantamila voti alle recenti elezioni regionali. Un successo che le è costato l’ostracismo del potente (e inquisito per rapporti con la camorra) sottosegretario Nicola Cosentino, il vero ras del Pdl in Campania. Eppure, malgrado ciò, si continua a parlare di lei come del futuro sindaco di Napoli. E sarà la ministra delle Pari Opportunità, non a caso, a presiedere la tavola rotonda sulla legalità al convegno di Siracusa.

A concludere i lavori invece sarà Maria Stella. Bruna, minuta, apparentemente più timida delle altre due e neo-mamma, la Gelmini, di cui il maestro del cinema porno-soft Tinto Brass ha appena detto che la vorrebbe in un suo film «perché ha il volto del turbamento», è il classico pugno di ferro in guanto di velluto. S’è fatta le ossa alla guida di Forza Italia in Lombardia, nella regione in cui il potere berlusconiano deve fare i conti con quello assoluto del governatore Formigoni, il «Celeste», e con le ambizioni padane della Lega. Fu proprio a Milano che una domenica di quasi tre anni fa la raggiunse la telefonata del Cavaliere, che da Arcore, come preso da una folgorazione, muoveva su piazza San Babila per fondare il suo nuovo partito. Di quel giorno, la Gelmini ha raccontato che sul momento, temendo di non trovare la gente per accogliere Berlusconi, le veniva da piangere. Ma poi, pragmatica e puntuale com’è, si attaccò al telefono: in meno di un’ora la piazza si riempì e Maria Stella si guadagnò il suo posto al governo.

A scorrere il programma di Siracusa si capisce non solo che sarà un successone, ma che è destinato a muovere parecchio le acque del Pdl nella sua stagione più inquieta. Gli occhi di Berlusconi sul convegno saranno Giampiero Cantoni, il senatore milanese membro da sempre della cerchia più ristretta degli amici del premier, e Mario Valducci, che presto potrebbe sollevare il premier dall’interim allo Sviluppo economico.

Quello di Gianni Letta sarà il ministro delle Regioni Raffaele Fitto. Poi, sempre perché è impossibile non accontentare Stefania, il coordinatore catanese del Pdl «lealista» Castiglione siederà accanto all’eretico capo del Pdl-Sicilia Gianfranco Miccichè, anche se da mesi non si rivolgevano la parola e si sono affrontati come avversari in tutte le ultime prove elettorali. Ci saranno intellettuali - lo storico e giornalista Paolo Mieli, lo scienziato statistico Luca Ricolfi, l’economista Bob Leonardi della London School of Economics, il rettore dello Iulm Gianni Puglisi -, di solito restii a intervenire in sedi di partito e qui per parlare di federalismo, di Sud e di Unità d’Italia. La Chiesa e l’Antimafia parteciperanno con il presidente di Confindustria Sicilia Ivanhoe Lo Bello e il vescovo responsabile della Cei per l’educazione alla legalità Michele Pennisi.

Ma più interessante è l’elenco di chi non ci sarà: il vertice partitocratico del Pdl, a cominciare dai tre coordinatori, responsabili, a giudizio della componente femminile del centrodestra, di una gestione maschilista e accentratrice del partito e di aver stretto attorno a Berlusconi una sorta di cordone di sanità; i capigruppo che devono spesso essere aggirati (con l’aiuto di Fini) per ottenere che i provvedimenti siano messi ai voti in Parlamento; i ministri capibastone che, spesso all’insaputa del premier, non perdono occasione per farsi i fatti loro ai danni delle colleghe. A tutti questi, anche senza dirlo esplicitamente, la corrente delle ministre sta per dichiarare guerra in nome di Berlusconi

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/56563girata.asp


Titolo: MARCELLO SORGI. Situazione balneare
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2010, 11:28:43 pm
6/7/2010

Situazione balneare
   
MARCELLO SORGI

Le dimissioni - anzi il brusco dimissionamento, voluto da Berlusconi - dell’occasionale ministro Brancher e il lungo incontro avuto ieri con Tremonti sono le prime mosse del premier per arginare la difficile situazione trovata al rientro dall’estero. Non essendo possibile, al momento, affrontare veramente i problemi gravi che ha davanti il governo, quella che si sta delineando è una classica soluzione balneare, un rappattumamento che non somiglia affatto ai proclami ottimistici di Berlusconi venerdì sera in tv, quando a tutto pareva bastare un sorridente «Ghe pensi mi».

Invece, ancora una volta da quando la crisi economica ha preso il sopravvento anche in Italia, è toccato al sottosegretario Gianni Letta confermare ieri la complessità di una situazione senza molte vie d’uscita. La manovra dovrà quindi passare presto, con le buone o con le cattive, in Parlamento, dove sarà presto riproposta la questione di fiducia per decimare le migliaia di emendamenti che tendevano a modificarla e ad ammorbidirla. Nelle Camere lo scontro sarà durissimo e la maggioranza, pur militarizzata, verrà messa a dura prova.

Le Regioni, fin qui arrampicate su una specie d’Aventino e pronte a rinunciare ai loro poteri per mancanza di mezzi per finanziarli, dovranno fare buon viso a cattivo gioco e accontentarsi dei cambiamenti minimi che saranno concessi dal ministro dell’Economia.
Sullo sfondo, tutte le questioni che hanno rallentato la marcia, sempre più difficoltosa, del governo, restano intatte. Il gelo con il Quirinale, determinato dalla nomina-imbroglio di Brancher - un ministro di cui non si riuscivano neppure a chiarire le deleghe, un'operazione che il Capo dello Stato aveva definito «un gioco delle tre carte» - potrà magari trovare un ammorbidimento, ma non fino al punto da convincere Napolitano a collaborare con i suoi tecnici alla messa a punto di un testo condivisibile della legge sulle intercettazioni. Il Presidente della Repubblica è risoluto a dare il suo giudizio, ed eventualmente a negare la sua firma se le nuove norme non lo convinceranno, solo dopo che il Parlamento le avrà licenziate. Sempre che ci riesca e sempre che Berlusconi e Fini trovino un'intesa, assai ardua da individuare, sul provvedimento, mentre ancora non sono d'accordo neppure sui tempi delle votazioni e stanno valutando se non sia venuto il giorno di dividere politicamente le loro strade.

Anche in questo caso, però, il giorno non sembra arrivato. Né il Cavaliere, né il presidente della Camera sono pronti a separarsi, pur se le loro strategie, ormai è chiaro, collidono. Berlusconi pensa a un ennesimo nuovo partito (nei corridoi della Camera se ne parla, ricordando l’uscita a sorpresa di piazza San Babila del 2007) come di un «predellino 2».

Anche Fini è in cerca di nuovi approdi, forse centristi, forse terzaforzisti, non sufficientemente definiti. Pur vivendo ormai da mesi come «separati in casa», i due leader non hanno alcuna convenienza a divorziare adesso. Il divorzio avverrà quasi certamente quando la prospettiva finale della legislatura sarà più chiara, e per questo occorrerà aspettare la fine dell’anno.

Se in autunno, come molti si aspettano purtroppo, la crisi economica dovesse incrudelirsi e la manovra del governo, manifestamente più debole di quella di altri partners europei come Germania e Inghilterra, rivelare la sua insufficienza, cresceranno infatti le tentazioni di dare una spallata a Berlusconi, anche più vigorosa di quella che confusamente è stata tentata in sua assenza nell’ultima settimana. Lo testimonia, tra l’altro, il ritorno agli appelli al Capo dello Stato e all’ipotesi di un governo d’emergenza da parte delle opposizioni. Se invece, come lui stesso spera senza farne mistero, lo stellone italiano riuscisse nuovamente a prevalere, e la ripresa a farsi un po’ meno timida di quel che appare oggi, il Cavaliere avrebbe finalmente mano libera per la resa dei conti con i suoi avversari, soprattutto interni al centrodestra, e per cercare un rilancio personale nello scioglimento anticipato delle Camere e in un nuovo lavacro elettorale.

Ma intanto, anche se è contrario al suo temperamento, a Berlusconi tocca aspettare. In altri tempi, si sarebbe detto che il premier, il suo esecutivo e la sua maggioranza devono fare la verifica. Poi si sa, sulle verifiche estive aveva sempre il sopravvento il «generale agosto», e per far passare l’estate e insieme decantare il quadro nasceva un «governo balneare». L’unica cosa che è rimasta di quei tempi, verrebbe da concludere.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7560&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Il premier cerca l'exit strategy
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2010, 10:06:47 am
12/7/2010

Il premier cerca l'exit strategy
   
MARCELLO SORGI

Anche se molti, nell’entourage del presidente del Consiglio, assicurano che fosse stata attentamente preparata, fin dall’accorta scelta degli ospiti che dovevano presenziarvi e dalla scelta della casa che doveva ospitarla, l’idea che la rifondazione della Dc, vale a dire il partito-Stato della Prima Repubblica, potesse ripartire nel modo in cui Berlusconi ci ha provato giovedì sera, nella famosa cena a casa di Bruno Vespa, suona a dir poco approssimativa. E non sorprendono, va detto subito, le reazioni sconcertate con cui esplicitamente hanno preso le distanze sia il leader dell’Udc Casini, partner presunto e obbligato dell’operazione, sia il ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni, che lo stesso Bossi.

Per quanto logora, acciaccata e sopravvissuta a se stessa oltre ogni limite fino al momento della sua scomparsa, la Democrazia cristiana - il partitone cardine (oltre che guida, per una buona metà) di tutti i governi di più di quarant’anni della nostra storia -, era una cosa seria.

Alle sue spalle non c’era solo l’appoggio, peraltro intermittente e mai univoco, della Chiesa e delle Gerarchie vaticane, ma la variegata realtà del cattolicesimo italiano impegnato in politica, oggi in gran parte a disagio nella nuova democrazia bipolare e disperso in una lunga diaspora.

Che una complessa architettura come quella (che per semplificare faceva dire ai cronisti politici che nella Dc potevano convivere dai fascisti ai brigatisti) potesse rinascere in una cena romana, grazie alla disponibilità di uno dei più famosi giornalisti italiani e alla presenza di cardinali, banchieri, manager e una ristretta rappresentanza della classe dirigente italiana, francamente è un po’ troppo. Perfino Berlusconi, che spesso si lascia andare alla faciloneria, e che ha preso male le reazioni di Casini e della Lega, siamo sicuri che avesse ambizioni più forti. Anche lo stupore di alcuni degli ospiti, manifestato privatamente all’uscita dalla casa di via Gregoriana, era più che giustificato. Infatti non è proprio detto che per curare i mali italiani la medicina sia una nuova Dc.

Non è solo questione di procedure, che il Cavaliere si ostina a considerare superflue e invece fanno parte della liturgia repubblicana, come una crisi e un programma da rinegoziare, che diverrebbero indispensabili se il governo dovesse rinascere con una nuova maggioranza. È tutta la concezione berlusconiana della velocità e della semplificazione, per non dire dell’amicizia, che consentono di risolvere tutto, e al contrario sono messe a dura prova da una situazione divenuta, giorno dopo giorno, più difficile.

Davanti a sé Berlusconi ha il problema di un’«exit strategy» da una congiuntura di cui non porta, certo, tutte le colpe, ma che richiede da parte sua una piena assunzione di responsabilità, per capire veramente ciò che il governo può fare nella seconda parte della legislatura e cosa non può. E soprattutto, con chi può e vuole farlo. Senza chiamarlo necessariamente «governo d’emergenza» (un concetto che il Cavaliere rifiuta come tutti quelli che possono allarmare i suoi elettori), Berlusconi ha il dovere di mettere a punto un piano per una situazione che tutti, in Europa e in buona parte del mondo, considerano d’emergenza; di dire francamente quale parte del programma con cui ha vinto le elezioni nel 2008 considera ancora realistica e a quale è disposto a rinunciare; cosa pensa davvero di poter fare, uno, due tre punti, e con quali scadenze.

È sulla base di questo metodo, di questi contenuti assenti finora, che il premier potrebbe avviare una seria trattativa all’interno della sua attuale maggioranza, a cominciare dalla Lega, comprensibilmente nervosa per l’immobilismo del governo sulle riforme, e anche all’esterno, con partiti, come quello di Casini, ma non solo, che su alcuni punti potrebbero convergere, o dichiarare la loro disponibilità a gestire il nuovo programma fino al 2013. Un processo del genere, oltre a mettere in chiaro, di fronte agli elettori, chi è disposto a farsi carico della crisi, gli consentirebbe pure di riorganizzare il suo partito con la severità che richiedono tutti gli ultimi avvenimenti che lo hanno riguardato. Senza farsi imporre nulla, né ghigliottine né azzeramenti del gruppo dirigente, ma scegliendo autonomamente sulla base delle proprie convinzioni, del merito, delle capacità e di criteri oggettivi, come quello che se uno è investito da uno scandalo, per un po’ si può aspettare e veder di fare chiarezza, ma a un certo punto è legittimo chiedergli di farsi da parte. Specie se gli scandali non sono più uno, ma due o tre.

Tutto questo il presidente del Consiglio lo sa benissimo. Da tre mesi, cioè dalla sua ultima vittoria elettorale alle regionali, Berlusconi annuncia un giorno sì e l’altro pure novità e cambiamenti che il giorno dopo o due giorni dopo è costretto a rimangiarsi. Non fosse che per le urgenze e le emergenze che gli piovono addosso, dall’economia ai delicati appuntamenti internazionali, l’immagine che lui stesso avvalora, quando si sfoga in pubblico, è quella di un premier impotente, bloccato da veti paralleli e dall’ostruzionismo dei suoi stessi alleati. Siccome è perfettamente in grado - e lo ha dimostrato - di capovolgere un quadro del genere, a questo punto, ricordargli cosa può e deve fare è un normale esercizio giornalistico. Ma negli ultimi tempi, anche per questo, si rischia di incorrere nei suoi strali.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7584&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. (non dice che fu l'evasione fiscale all'origine del problema).
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2010, 10:11:27 am
13/7/2010 - TACCUINO

Metti un trattore tra Pdl e Carroccio
   
MARCELLO SORGI

Un piccolo manipolo di trasgressori», questo sono, per il ministro dell’Agricoltura (ed ex presidente della Regione Veneto) Giancarlo Galan gli allevatori in marcia con i loro trattori verso Bruxelles per protestare contro le multe comminate dalla Ue per aver superato i limiti previsti dalle quote latte. L’Italia ha già ottenuto in passato un aumento della propria capacità di produzione, ma gli allevatori non si accontentano e stanno confluendo con i loro trattori verso Bruxelles. Dove troveranno Galan ad aspettarli e a criticarli, per difendere la serietà degli impegni assunti dal governo italiano in sede comunitaria.

Non è la prima volta che gli allevatori del Nord si scatenano contro l'Europa. Una delle precedenti, in marcia verso Roma, arrivarono a spruzzare gli escrementi dei loro animali sui poliziotti che cercavano di fermare il loro corteo. Ma in questo caso c’è un piccolo antefatto: due settimane fa i trattoristi avevano cinto d’assedio la Regione Lombardia, decisi a non andarsene finché Formigoni e la sua amministrazione non avessero trovato il modo di risolvere il problema. Dagli uffici milanesi scesero il vicepresidente leghista Gibelli e il figlio neo-consigliere regionale di Bossi, «la Trota», per rassicurarli. Gli allevatori accettarono di ritirarsi, ma rimasero in attesa di una risposta, che non è arrivata.

La vicenda di Bruxelles si può leggere quindi in due modi: uno è il classico scontro tra alleati, con in prima linea Galan, che anche quando era alla guida del Veneto non aveva buoni rapporti con i leghisti e li ha peggiorati dopo la sua defenestrazione dalla Presidenza della Regione. L’altro, - ed è una novità -, è che la contestazione si rivolge dalla base al vertice leghista e si aggiunge ai mugugni sentiti di recente a Pontida contro l'immobilismo del governo e il federalismo da troppo tempo annunciato e rinviato. In questo secondo caso (ma è difficile, spiega Galan, che l’Italia possa ottenere un nuovo aumento della propria quota latte, ed è irresponsabile, da parte della Lega, alimentare l’illusione che tutto s’aggiusterà) le polemiche sono destinate a trasferirsi dall’Europa al condominio governativo di casa nostra, con un ulteriore appesantimento dei rapporti interni tra Pdl e Lega, già piuttosto tesi negli ultimi giorni, e della pressione, che dura da mesi ormai, rivolta a ottenere che il ministero dell’Agricoltura torni al Carroccio e che si trovi un'altra sistemazione per Galan.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7586&ID_sezione=&sezione=


Titolo: E' un'illusione superare l'anomalia italiana restaurando i partiti del 900
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2010, 10:26:27 am
14/7/2010 - TACCUINO

Caro Pomicino, è un'illusione superare l'anomalia italiana restaurando i partiti del '900

MARCELLO SORGI

Caro Sorgi,
ho letto con il solito interesse il suo ultimo editoriale sulla Stampa di lunedì 12 luglio e mi preme commentare due passaggi dell'articolo, entrambi riferiti alla Democrazia Cristiana. Sul primo non si può non essere d'accordo. Lei afferma, infatti, che la Democrazia Cristiana era una cosa seria. Ogni giorno che passa si capisce sempre più quale ruolo abbia giocato nella modernizzazione del Paese e nella crescita e nella diffusione del benessere la vecchia DC e il saldo non può che essere positivo nonostante i tanti errori dei singoli. La Dc non solo aveva il senso dello Stato (nessuno è mai rimasto al governo o nella direzione del partito dinanzi ad un avviso di garanzia) ma aveva anche la dimensione del futuro. Valgano per tutti gli esempi dei Patti di Roma per costruire l'Europa moderna nonostante molti fossero contrari, la riforma del punto unico della scala mobile del 1984 che debellò l'inflazione a 2 cifre e la sconfitta del terrorismo senza che l'Italia venisse trasformata in uno Stato di polizia. Meno condivisibile è il suo giudizio sul fatto che la Dc fosse sopravvissuta a se stessa. Nel 1992 la Dc raccolse il 29,7% dei consensi, il suo punto più basso che è stato comunque il punto più alto raggiunto da Forza Italia quando si presentava da sola. Ancora meno condivisibile, infine, è l'altro passaggio nel quale afferma che "non è proprio detto che per curare i mali italiani la medicina sia una nuova Dc". Ed invece mai come oggi il Paese avrebbe bisogno di un partito democratico -cristiano con la sua cultura di governo, la sua laicità e la sua ispirazione alla dottrina sociale della Chiesa.
Germania, Austria, Belgio, Olanda, il piccolo Lussemburgo, sono governati da partiti che si chiamano cristiano-democratici a testimonianza che il cattolicesimo politico non è un incidente della Storia ma una grande cultura di governo. Comunque da sola non sarebbe sufficiente. Ci sarebbe bisogno anche di un grande partito socialista e di un partito liberale, le tre grandi culture politiche che governano l'Europa. Da 16 anni nessuno di questi tre partiti esiste in Italia e trionfa il liderismo autoritario e la personalizzazione della politica. E' forse questa la modernità? Insomma siamo un'anomalia europea o siamo, invece, il Paese che ha trovato il Santo Graal della politica con l'abolizione dell'identità di ciascuna forza politica? Senza una chiara e riconoscibile cultura politica di riferimento navighiamo tutti a vista e tutti tentiamo di parlare alla pancia del Paese non sapendo più cosa dire alla sua testa e alla sua anima. E i guasti sono crescenti. E' il caso di chiederci angosciati "usque tandem Catilina….eccetera, eccetera".

Con stima
Paolo Cirino Pomicino
Roma 13/07/2010

---

Caro Pomicino,
la ringrazio per l'attenzione. La sua lettera contiene molte osservazioni condivisibili, a cominciare dal riconoscimento degli errori di molti dc e della loro disponibilità a farsi da parte anche solo di fronte a un avviso di garanzia: sensibilità, questa, di cui oggi si avverte la mancanza. E tuttavia resto della mia idea: l'anomalia italiana ha ormai raggiunto dimensioni tali che credere di affrontarla semplicemente restaurando partiti e culture novecentesche è un'illusione. Intanto non mi pare che Berlusconi abbia alcuna voglia di farsi da parte. E tra quelli che vorrebbero toglierlo di mezzo, purtroppo, non vedo nessuno immune da quelli che lei definisce "liderismo autoritario e personalizzazione della politica".

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7593&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Prigionieri di una spirale pericolosa
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2010, 10:38:16 pm
15/7/2010

Prigionieri di una spirale pericolosa
   
MARCELLO SORGI

Sarà che siamo in tempi di revival democristiano - forse sarebbe più appropriato parlare di parodia -, ma la soluzione trovata ieri con le dimissioni di Nicola Cosentino da sottosegretario, ma non da coordinatore del Pdl campano, convince poco. Ricorda i tempi in cui i ministri venivano dimissionati.

E subito rinominati, in forza del peso delle loro correnti. Come espediente, non servirà neppure a raffreddare lo scontro tra Berlusconi e Fini, dato che è stata la decisione del presidente della Camera di mettere all’ordine del giorno, contro il parere del Popolo della Libertà e della Lega, la mozione di sfiducia, a indurre il premier a far uscire dal governo il sottosegretario inquisito. Se uno come «Nick ’u mericano», questo il suo inverosimile nome di battaglia, non è degno di stare al governo, non lo è neppure di guidare il partito. Né vale l’argomento che Cosentino ha condotto da poco il Pdl in Campania a una grande vittoria, abbattendo il regno ventennale della sinistra bassoliniana e insediando al suo posto come governatore il mite Antonio Caldoro, contro il quale, peraltro, uno dei tre coordinatori nazionali, Denis Verdini, in combutta con vecchi massoni, magistrati amici e rivali dello stesso candidato, veicolava dossier apocrifi basati sulla falsa frequentazione di transessuali.

Come Berlusconi sa, per aver frequentato a lungo Napoli, trasformandola nel primo esempio del suo buon governo al momento della disinfestazione dalla monnezza, in città e nella regione il Pdl è un verminaio di correnti, in cui alle tre componenti principali, ex Forza Italia, ex An e sedicenti pidiellini, si sommano una infinità di potentati personali che, oltre che a «’u mericano», fanno capo a una serie di improbabili personaggi locali, noti più per i soprannomi semimalavitosi che portano - «’a purpetta», «’o sfacimme» - che non per impegno pubblico e corretta amministrazione.

Il guaio è che un modello come questo - ammesso che di modello si tratti - sta prendendo piede sul piano nazionale, allungando le sue ombre sul vertice centrale del Pdl. Non è solo questione di Verdini e di P3 - una loggia che, almeno per quel che se ne sa, sembra neppure una sottomarca di quella del Venerabile di Arezzo di trent’anni fa -, ma di proliferazione di gruppi e gruppetti che a tutti i livelli si fanno la guerra per interessi quasi mai politici e fin troppo spesso, e chiaramente, privati. Un processo degenerativo del genere - soldi cercati e usati per conquistare il potere, potere usato per fare soldi - riguardò già vent’anni fa tutti i partiti della Prima Repubblica, e fu alla base, non va dimenticato, della sua caduta. Poco importa che una parte dei soldi, anche la gran parte, allora servissero per il finanziamento della politica e ora invece finiscano nelle tasche dei faccendieri: la questione era che quei partiti novecenteschi avevano tutte le regole interne per mettere in discussione, ed eventualmente sostituire, le loro classi dirigenti, ma non lo fecero, firmando così la loro fine.

Proprio perché su quella rovina ha costruito la sua fortuna, Berlusconi dovrebbe agire oggi senza perdere più tempo. Altro che «campagna d’autunno», come si sente dire. Altro che mezze dimissioni e pezze che si rivelano peggiori del buco. Il problema è qui e ora, riguarda il suo partito e il premier deve affrontarlo, segnando una svolta come quella che da più parti, anche dall’interno, viene invocata. Dal 22 aprile, da quando i due cofondatori hanno litigato, il Pdl invece è come paralizzato, la direzione non viene più convocata, i coordinatori o girano a vuoto o fanno pasticci come Verdini. E il governo, di conseguenza, stenta e traballa. Non si deve solo capire chi comanda, nel Pdl. Ma come, con quali regole, si comanda e si può mettere in discussione quel che si fa. Altrimenti, invece di uscire dall’impasse, Berlusconi rischia di trascinare tutto in una spirale che potrebbe travolgere, nel suo insieme, perfino la Seconda Repubblica.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7597&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Senatùr e i timori sul federalismo
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2010, 05:14:28 pm
16/7/2010 - TACCUINO

Il Senatùr e i timori sul federalismo
   
MARCELLO SORGI

Malgrado il tono scanzonato con cui ieri ha risposto ai giornalisti, scherzando sulla spada avuta in regalo dall'Alcalde di Toledo e su quella che Berlusconi dovrebbe decidersi a usare per risolvere i problemi che lo assillano, Umberto Bossi è evidentemente preoccupato.
Ieri, dopo l'approvazione della manovra con il voto di fiducia del Senato, è rimasto quaranta minuti faccia a faccia con il ministro Tremonti e all'uscita, tra una battuta e l'altra, ha accennato ai decreti attuativi del federalismo che il Consiglio dei ministri dovrebbe varare, ma che vengono licenziati con una lentezza inaccettabile agli occhi della Lega.

Un paio di settimane fa, all'atto della concessione ai Comuni dell'autonomia impositiva, fu lo stesso Tremonti a dire che il federalismo richiedeva una serie di passi importanti e successivi, da scandire nel prosieguo della legislatura. Un calendario ragionevole in una situazione normale, ma che non fa i conti con l'impazienza manifestata recentemente a Pontida dalla base leghista, che vuol sapere da Bossi e dai ministri della Lega cosa siano riusciti a ottenere finora da un governo afflitto da troppe divisioni che trova sempre il modo di allungare i tempi del federalismo.

In realtà Bossi teme anche che la situazione nel Pdl possa precipitare e non si spiega gli indugi di Berlusconi nell'affrontarla una volta e per tutte drasticamente. Aveva detto «ghe pensi mi», e invece sta lì chiuso a Palazzo Grazioli a cercare all'infinito un compromesso.
Di qui la disponibilità, ribadita dal leader leghista, a dare il suo appoggio a una rapida approvazione della legge sulle intercettazioni, e la sua richiesta, impossibile da accontentare, di chiudere l'iter del federalismo prima della pausa estiva, che a questo punto il leader della Lega sarebbe anche disposto a procrastinare anche oltre la prima settimana di agosto già prevista per i due provvedimenti attualmente all'esame del Parlamento.

La sortita di Casini, l'attenzione mostrata dallo stato maggiore berlusconiano alle aperture del leader dell'Udc, la trattativa con Fini, sono tutti campanelli d'allarme che fanno pensare a un indebolimento dell'asse Pdl-Lega su cui s'è retto finora il governo.
E Bossi teme anche che al di là delle minacce di Berlusconi, le elezioni anticipate possano diventare lo sbocco inevitabile della rottura con Fini. Ecco perché il Senatùr insiste per far sì che il Cavaliere adoperi la spada e si separi dai suoi alleati infedeli. Ricordandogli, peraltro, che anche lui potrebbe usare la sua, sempre in bella mostra nel suo ufficio di Milano.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7603&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Tagli agli stipendi (stavolta obbligati) dei parlamentari
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2010, 11:11:02 am
22/7/2010 - TACCUINO

Tagli agli stipendi (stavolta obbligati) dei parlamentari
   
MARCELLO SORGI


Collocata in fondo all’agenda di un Parlamento che prevede ferie molto brevi, la questione del taglio degli stipendi dei parlamentari rischia di agitare la chiusura estiva (quando verrà) di un anno molto movimentato. Finora infatti tutte le volte che i deputati e i senatori avevano messo mano alle loro prebende si erano preoccupati di ottenere il massimo risultato d’immagine con il minimo sforzo. Di qui leggere piallatine a buste paga che, va detto, non sarebbero poi così enormi se i parlamentari dovessero ancora preoccuparsi dei collegi e tenere in piedi un minimo di struttura di collaboratori per dare ascolto al loro elettorato, mentre da due legislature in qua, come si sa, grazie alla nuova legge elettorale che prevede che l’elezione sia prestabilita al momento delle candidature, sono diventati dipendenti, per non dire sudditi, dei rispettivi capi partito.

Anche ieri, dai questori della Camera era uscita un’ipotesi che prevedeva un taglio del dieci per cento dell’indennità base dei deputati, in totale 550 euro al mese. Gli emolumenti però sono composti, oltre che dall’indennità, da una serie di rimborsi, tra l’altro meno tassati, che vanno a formare il totale della paga, portandola fino a 21.270 euro lordi mensili. Così è toccato al presidente Fini, poco dopo, far sapere che il taglio del dieci per cento dovrà necessariamente riguardare tutte le voci degli stipendi: totale, più o meno, 2.127 euro e non 550.

Un altro aspetto interessante riguarderà la scadenza, cioè da quando i deputati (e di conseguenza i senatori) cominceranno a fare la loro parte. In genere queste date venivano spostate avanti nel tempo, come quelle delle riforme che prevedevano la riduzione del numero dei parlamentari, approvate in modo da diventare effettive solo a distanza di due legislature a venire, per lasciare un margine di ripensamento. E anche nel caso dei tagli di quest’anno la data che era circolata, senza conferme, era quella del 2013: insomma a lavorare con stipendi ridotti sarebbero stati solo gli eletti della prossima legislatura.

Stavolta invece la congiuntura 2010 è particolarmente sfavorevole agli on. I tagli degli stipendi statali colpiranno infatti, sindacati permettendo, anche i dipendenti e i dirigenti della Camera. Ed è difficile immaginare che questo possa accadere senza che i deputati (e di conseguenza i senatori) si rassegnino a rinunciare a una fetta delle loro remunerazioni in coincidenza con i sacrifici che tutto il settore pubblico, per effetto della manovra, volente o nolente dovrà accettare.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7627&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Se davvero bastasse un pieghevole
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2010, 11:16:15 am
23/7/2010 - TACCUINO

Se davvero bastasse un pieghevole
   
MARCELLO SORGI


Se bastasse davvero un pieghevole a risolvere i guai del Pdl! Silvio Berlusconi lo ha fatto preparare per fornire ai militanti del suo partito materiale utile a spiegare in giro i buoni risultati del suo governo. Ma quando ieri lo ha presentato al vertice del Popolo della libertà - un vertice molto affollato a Palazzo Grazioli, con i coordinatori, i ministri più importanti, i capigruppo e perfino il presidente del Senato - un brivido di gelo dev’essere apparso sulle facce dei presenti.

Tutti hanno ben chiaro che il partito del premier ha davanti una serie di problemi politici che non possono essere accantonati, a cominciare, appunto, dalle inchieste giudiziarie che hanno portato alle dimissioni due ministri e un sottosegretario, dalla governance del partito in cui Berlusconi è apertamente contestato dalla minoranza finiana, dall’esplosione del correntismo determinata dall’impressione, diffusa ormai a qualsiasi livello, che il Pdl possa implodere da un momento all’altro, non semplicemente tornando alla divisione tra l’ex-An e l’ex-Forza Italia, ma con una polverizzazione delle componenti interne che potrebbe mettere a repentaglio l'assetto bipolare italiano.

Malgrado ciò Berlusconi continua a rispondere che la realtà non è questa, che il Pdl deve reagire alla campagna diffamatoria dei giornali e dell'opposizione, e che la soluzione più vicina ai desideri dell'elettorato è tenere il partito unito e stringersi attorno a lui. Sulla necessità di un congresso, o del superamento dell'attuale assetto con tre coordinatori (uno dei quali, Verdini, è al centro dell'inchiesta sulla cosiddetta P3), il premier ha fatto chiaramente intendere di non aver deciso: la data per le assise rimane fissata al 2012.

La verità è che per quanto da tempo si moltiplichino le spinte interne per trasformare il Pdl in un vero partito, difficilmente, finché c'è Berlusconi, questo potrà accadere. Proprio perché non è e non sarà mai una nuova Dc, il «caminetto» alla democristiana tenutosi ieri a casa del leader è servito solo a fotografare le divisioni, con Verdini e La Russa seduti di fronte a Frattini, capo della corrente che ne chiede le dimissioni, Tremonti e il Cavaliere in freddo perché il ministro dell'Economia ha ammesso che esiste una questione morale, Alfano in imbarazzo per le critiche ricevute dal presidente del Consiglio sul compromesso sulle intercettazioni, e tutti insieme che in silenzio si interrogavano su cosa potrà accadere il mese prossimo, quando andranno in vacanza, mentre il premier, solo a Roma, promette di dar libero sfogo alle sue trovate.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7632&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Cavaliere rassegnato
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2010, 12:26:05 pm
24/7/2010

Il Cavaliere rassegnato
   
MARCELLO SORGI

Da settimane, per non dire da mesi ormai, Silvio Berlusconi è sottoposto a un fuoco di fila che lo spinge a far chiarezza sul suo governo e sul suo partito. Glielo chiedono, non solo la gran parte dell'opposizione e la minoranza interna del Pdl, convinte che Berlusconi sia ormai al capolinea e debba solo scegliere il percorso per uscire di scena. Ma anche un gran pezzo di opinione pubblica che invece vorrebbe che andasse avanti, ma si rende conto che così non può. E' impossibile, si dicono gli uni e l'altra, che il premier non si renda conto che non può arrivare molto lontano un governo che perde per strada due ministri e un sottosegretario in così poco tempo, che fatica tutti i giorni a far approvare i suoi provvedimenti in Parlamento malgrado l'ampia maggioranza di cui gode sulla carta, e che è diviso al suo interno tra l'asse nordista Tremonti-Bossi e i Vespri meridionali, a malapena tenuti a freno dal sottosegretario Letta.

Allo stesso modo è improbabile che il Cavaliere non si accorga che il partito da lui fondato con tanto entusiasmo neppure tre anni fa, per corrispondere alle spinte unitarie dei cittadini di centrodestra, è ridotto a un brulicante verminaio di correnti, da cui traspaiono interessi poco chiari e quasi sempre privati. Si tratti della Sanità che ha messo nei guai fior di amministrazioni regionali, dell'energia eolica attorno alla quale si erano già concentrati comitati d'affari, dei rapporti con mafia, camorra e ’ndrangheta, della massoneria, regolare o deviata, che sembra ormai farla da padrona a tutti i livelli dell'organizzazione territoriale, di cardinali che scambiavano favori con case regalate o vendute a prezzi di favore a ministri in carica o ex, la sensazione è che il partito nato a furor di popolo, è il caso di dire, nella piazza San Babila in delirio all'urlo di "Silvio, Silvio", davanti al leader issatosi sul predellino della sua Mercedes, sia stato del tutto occupato da una nuova classe politica, che non è fatta neppure di politici, anzi tende ad emarginare i pochi rimasti, e punta solo a farsi i fatti propri, a dispetto della legalità che pure dovrebbe essere un valore fondante di una destra moderna. Per fortuna di Berlusconi, non tutto è così nel Pdl. Anche se quel che traspare tende a sommergere il resto, compreso ciò ch'è rimasto di buono, c'è chi si oppone al degrado, e lo fa anche coraggiosamente, aspettandosi da Berlusconi una risposta che purtroppo non arriva. Anzi il premier - gelando le attese di chi lo richiama continuamente alla vocazione originaria del centrodestra, nato sulle ceneri di Tangentopoli con l'anelito di imporre un nuovo modo di far politica -, continua a ripetere che tutto è a posto e tutto va benissimo, e per reagire a quelle che considera le imposture di giornali a lui avversi, foraggiati da magistrati comunisti, ha addirittura fatto preparare un dépliant, in cui il «noir» degli ultimi tempi è stato cancellato con corpose pennellate di rosa, senza badare all'evidente sproporzione tra la malattia emersa e il rimedio adottato. Così i cronisti che in questi giorni di calura si affacciano al famigerato portone di Palazzo Grazioli (che Berlusconi frequenta sempre meno, preferendo ritirarsi a meditare nella quiete dell'agro romano), o in via dell'Umiltà, dov'è la sede del febbricitante partito del presidente, forse in omaggio alla linea rassicurante scelta e ribadita dal premier, non colgono alcun senso di preoccupazione.

Gli inquisiti e i fuorusciti dal governo occupano tranquillamente le loro stanze, scherzando amabilmente tra di loro sui giudici che li vorrebbero in carcere, e di tanto in tanto rilasciando pure dichiarazioni piene di sicumera, che irridono a chi dall'interno del Pdl insiste per fare pulizia. Parlano come se si sentissero al sicuro, come se non avessero nulla da temere né dal «ghe pensi mi» che sembrava preludere a una serie di tagli chirurgici, né dalla prossima campagna agostana, che lasciava presagire strali lanciati dai merli del castello scelto dal Cavaliere come sua dimora estiva. Naturalmente nessuno sa davvero cosa ha in testa Berlusconi, né cosa farà e neppure perché indugi tanto a decidere uno come lui che non è nuovo a colpi di scena.

E tuttavia, al momento - questo è l'aspetto più grave -, la sensazione non è più che lui stenti a credere a quel che lo circonda. Ma piuttosto, che avendolo capito, pensi che non c'è altro da fare e sia rassegnato ad andare avanti così.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Le dimissioni non servono al Pdl: nel partito i giochi ...
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2010, 09:38:09 am
27/7/2010 - TACCUINO

Le dimissioni non servono al Pdl: nel partito i giochi restano aperti

MARCELLO SORGI

Le dimissioni di Denis Verdini dalla presidenza del Credito Fiorentino - banca della quale è il patron, e carica che finora era stata considerata incompatibile con il suo ingresso al governo - rappresentano l’estremo tentativo del coordinatore del Pdl al centro dell’affare P3 e sotto inchiesta per ipotesi di corruzione all’ombra della loggia segreta, di conservare il suo posto al vertice del partito. E’ come se Verdini dicesse: non ho più affari da difendere, ho scelto la politica come impegno esclusivo e desidero difendermi politicamente da quella che considero una campagna giustizialista ai miei danni.

Il coordinatore deve aver valutato sia la conclusione delle vicende Scajola, Brancher e Cosentino che, pur difesi in prima battuta da Berlusconi, non hanno retto al peso delle accuse ai loro danni e si sono dovuti rassegnare alle dimissioni, sia l’ulteriore riscaldamento del clima interno al partito del premier, con l’esplosione ultima del «caso Granata» e la previsione, che corre ormai di bocca in bocca, di una rottura ormai prossima tra il Cavaliere e Fini. In questo senso Verdini ha in qualche modo precorso i tempi e usato il precedente Cosentino per salvare il posto al partito: ma non è detto che con quel che sta succedendo ci riesca.

L’idea che la fuoruscita dei finiani dal Pdl - in che modo, poi, è tutta da vedere - porti automaticamente a un congelamento degli attuali equilibri interni del partito, come se il problema stesse tutto e solamente nel dissenso praticato sistematicamente dalla minoranza, non è altro che una speranza del gruppo di comando più vicino a Berlusconi e degli ex colonnelli finiani, oggi assurti a ruoli di governo, che temono molto di più un compromesso tra i due cofondatori.

In realtà il nodo della questione morale viene sollevato da più parti tra governo e partito: ne ha parlato di recente Tremonti, i cui rapporti con il premier sono altalenanti negli ultimi tempi. E vi hanno insistito le ministre Gelmini, Prestigiacomo e Carfagna, accreditate, con la loro corrente, di muoversi per conto di Berlusconi, e il loro collega Frattini, candidato, in alternativa alla Gelmini, alla carica di coordinatore unico al posto dell’attuale triumvirato Bondi, Verdini, La Russa. Nel Pdl dunque i giochi restano aperti, in attesa dell’offensiva agostana preannunciata da Berlusconi. E le dimissioni di Verdini, più utili, probabilmente, per la banca che ha lasciato che non per il partito in cui rimane, non dovrebbero spostare più di tanto.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7644&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Tutti gli occhi puntati su Gianfranco
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2010, 10:53:01 am
28/7/2010 - TACCUINO

Tutti gli occhi puntati su Gianfranco
   
MARCELLO SORGI


La giornata del silenzio del senatore Marcello Dell’Utri davanti ai giudici (s’è avvalso della facoltà di non rispondere) e del coinvolgimento del sottosegretario Giacomo Caliendo (ufficialmente indagato) nell’inchiesta P3 hanno ancora appesantito, se possibile, il clima interno al Pdl. Per Caliendo è prevedibile una mozione di sfiducia come quella che ha indotto alle dimissioni Cosentino, anche se i tempi per una rapida messa all’ordine del giorno nel calendario parlamentare ormai non ci sono.

Tutti gli occhi sono puntati ancora una volta sul presidente della Camera: toccherà a lui domani decidere lo svolgimento delle ultime sedute prima della pausa estiva consentendo, dopo il voto finale della Camera sulla manovra previsto per oggi, quello sulle intercettazioni e sull’accordo maturato in commissione Giustizia su un testo fortemente emendato. Applicando una prassi consolidata, Fini potrebbe decidere di dare la precedenza a decreti in scadenza, rinviando di fatto a settembre le intercettazioni, lasciando in sospeso una delle questioni che tormentano di più la maggioranza, ma evitando anche l’ostruzionismo annunciato dall’opposizione prima della chiusura dei lavori.

Una decisione in questo senso, presa contro il volere della sua maggioranza e del suo partito, com’è già accaduto per quella che riguardava Cosentino, equivarrebbe per Berlusconi a una definitiva dichiarazione di guerra, a cui potrebbe far seguito la richiesta formale del Pdl a Fini di lasciare il suo incarico perché non in grado di garantire l’imparzialità nello svolgimento dei lavori parlamentari.

La sfiducia rivolta contro uno dei presidenti delle Camere segnerebbe un punto di non ritorno nello scontro che da mesi oppone i due cofondatori e un precedente assoluto nella storia parlamentare, dato che non è mai successo che il capo di un’assemblea parlamentare sia indotto alle dimissioni e non è neppure prevista una procedura per ottenerle. Quel che è sicuro è che la strada della tregua tra Berlusconi e Fini è ormai ostruita da ostacoli insormontabili e l’ipotesi di un incontro tra i due è ormai fuori dalla realtà. Non a caso si torna a parlare di elezioni anticipate. Tutti i contendenti ormai le mettono nel conto e Bersani appare il più preoccupato di quest’eventualità. E’ evidente infatti che non si tratterebbe più di elezioni bipolari, centrodestra contro centrosinistra, dato che c’è già chi lavora alacremente (vedi Di Pietro) per offrire una sponda a Fini e dar corpo a un terzo incomodo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7649&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Non è cosa da probiviri
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2010, 11:30:56 am
29/7/2010

Non è cosa da probiviri
   
MARCELLO SORGI

Data ormai per scontata dallo stesso Berlusconi, che ieri sera l’ha praticamente annunciata, mentre Fini subito dopo frenava, la rottura nel Pdl tra i due cofondatori sembra appesa a un filo, anche se nessuno ha ancora capito come avverrà.

L’idea che basti un solenne discorso di Berlusconi, pronunciato oggi o domani - e comunque dopo la ventilata decisione del presidente della Camera di rinviare a settembre l’approvazione della legge sulle intercettazioni contro i desideri della maggioranza -, va detto chiaro, non sta in piedi. Fini un minuto dopo gli risponderebbe in modo altrettanto pesante, e torneremmo al punto di prima.

Ancora peggio sarebbe l’ipotesi, di cui si sente parlare da giorni, di un intervento dei probiviri, organismo che in tutti i partiti è deputato a questioni etiche o di regolamento interno, ma che nel Pdl è rimasto finora silenzioso di fronte a episodi grandi e piccoli di malversazioni e guerriglie intestine.

Basti solo l’esempio dei dossier sessuo-politici che volevano attribuire frequentazioni trans al governatore della Campania Caldoro.
Adesso invece i probiviri verrebbero chiamati in causa, fuori dalle loro competenze, per espellere dal partito Fini e i suoi. Seppur dovrebbe essere chiaro ormai, dopo le esperienze in Lombardia, Lazio e Piemonte, che il ricorso alla magistratura per risolvere questioni politiche è pernicioso, oltre che inutile, ne nascerebbe sicuramente una complicata querelle, come quelle che accompagnarono alla fine della Prima Repubblica il tramonto degli storici partiti novecenteschi, con mediocri dispute sulla gestione dei simboli o sulla proprietà degli immobili. Tutto, dunque, sconsiglia anche questa seconda strada, a cominciare dai tempi lentissimi della giustizia civile che finirebbero con l’imbrigliarla.

La terza via, ma solo in ordine di elencazione, è quella di costringere Fini a lasciare il posto di presidente della Camera con la motivazione che avrebbe approfittato della sua carica e non si sarebbe comportato in modo imparziale. Benché dotato di un carisma che gli viene dalla lunga esperienza di leader, un cofondatore degradato al rango di peone diventerebbe assai meno temibile per Berlusconi, al punto che non sarebbe forse più necessario cacciarlo dal Pdl. E tuttavia, a memoria d’uomo e di frequentatori del Transatlantico, che ieri si esercitavano nella ricerca di un precedente, non si ricorda nella storia repubblicana il caso di un presidente d’Assemblea sfiduciato e costretto a lasciare l’incarico.

Proprio perché è chiamato a garantire con la sua imparzialità tutti i componenti della Camera che presiede, il presidente, appena eletto, smette di appartenere alla maggioranza che l’ha votato e al partito di cui fa parte (non a caso molti hanno voluto riconsegnare platealmente la tessera il giorno stesso dell’elezione). Naturalmente è previsto il caso che i presidenti, nel corso della legislatura, possano cambiare ruolo: ce ne sono stati, infatti, che dallo scranno più alto di Montecitorio o di Palazzo Madama sono passati al Quirinale, o più raramente a Palazzo Chigi. Ma insomma, se non se ne va di sua volontà o non viene chiamato a più alto incarico, come si suol dire, non c’è verso di schiodare Fini dalla sua poltrona. Perfino la pensata, che qualcuno ha suggerito a Berlusconi, di far presentare una mozione di sfiducia, basata sull’accusa, tutta da dimostrare (anche se purtroppo ha trovato negli ultimi tempi qualche fondamento), che avrebbe usato per ragioni politiche e per vantaggi personali le sue prerogative, è assai discutibile. E va tenuto in considerazione il fatto che Fini avrebbe l’ultima parola sull’ammissibilità di una siffatta mozione e che la larga campagna di solidarietà che verosimilmente si alzerebbe in suo favore potrebbe alla fine convincerlo a respingerla.

In tutti i casi si aprirebbe una crisi istituzionale, tra il capo del governo e il presidente della Camera. A voler essere legulei fino in fondo, con tutti gli azzeccagarbugli che ci sono in giro in questi giorni, solo la Corte Costituzionale sarebbe competente a dirimere una simile controversia. Passerebbero dei mesi. La sentenza della Consulta, quale che fosse, verrebbe contestata da Berlusconi, che già non perde occasione per ricordare che a suo dire undici dei quindici supremi giudici sarebbero di sinistra.

La crisi istituzionale, come il premier ha già fatto capire ieri sera, si accompagnerebbe a una crisi politica, da risolvere rapidamente, perché il centrodestra, anche senza Fini e i finiani, secondo lui ha i numeri per governare e potrebbe dimostrarlo in Parlamento.
E’ possibile: ne nascerebbe, però, un governicchio, tenuto in piedi a corrente alternata da Bossi, pronto a staccare la spina subito dopo l’approvazione del federalismo, o a offrire i suoi voti a un esecutivo d’emergenza che fosse disposto a inserirlo nel suo programma.

Se ne ricava che risolvere coi probiviri, con i giudici e con gli avvocati la disputa che ormai da mesi paralizza il governo, come s’è visto è impossibile, fuori dalla realtà. Sarebbe una pazzia, impensabile perfino per uno che ci ha abituati a una conduzione spesso stravagante della cosa pubblica. Per questo, anche se si è convinto che non c’è più niente da fare, Berlusconi farebbe bene a ripensarci.

Finché è in tempo.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7652&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Silvio e Gianfranco, sedici anni di gelo
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2010, 09:29:40 am
30/7/2010 (7:35)  - IL FUTURO DEL CENTRODESTRA

Silvio e Gianfranco, sedici anni di gelo

L'alleanza fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini è iniziata ad ottobre '93

Il rapporto con Bossi, le trame con i centristi, lo sdoganamento.

Una continua altalena, a celare l'impossibilità di una vera unione

MARCELLO SORGI
ROMA

Il titolo c’è già: «C’eravamo tanto odiati...». E non importa come e quando sia finita, in fondo Berlusconi e Fini sono rimasti due estranei per tutti questi sedici anni, diciassette perfino, se si fa cominciare la storia da quelle fatidiche elezioni comunali del ’93 in cui il Cavaliere, che era ancora un imprenditore, in un’improvvisata conferenza stampa nell’ipermercato di Casalecchio sul Reno dichiarò che a Roma come sindaco, tra Rutelli e l’allora segretario del Msi avrebbe scelto senz’altro il secondo.

Poco più d’un anno fa Fini, il 30 giugno, alla vigilia del G8 dell’Aquila, aveva ammesso che quel voto «cambiò la storia d’Italia. Ero il candidato di un partito che aveva il quattro-cinque per cento, persi con il 47 e tutto cambiò». A ben vedere, l’equivoco su quel passaggio storico è rimasto irrisolto. Perché Fini è sempre stato convinto che, dato a Berlusconi quel che è di Berlusconi, non gli sia rimasto più alcun debito da pagare, e il suo ruolo nella vicenda del centrodestra sia stato, semmai, sottovalutato: come se appunto la sua leadership e la storia della destra italiana che lui ha trasformato, da partito nostalgico e postfascista a membro di diritto del club delle moderne destre mondiali, non faccia ancora pienamente parte di diritto di quella del centrodestra italiano.

Berlusconi al contrario pensa che senza il suo scatto del 24 novembre ’93 Fini sarebbe rimasto dov’era, nel suo ghetto di fascista che doveva ancora «uscire dalle fogne». Ci voleva coraggio, occorre riconoscerlo, nell’Italia di Tangentopoli che si avviava a consegnare tutte le metropoli italiane alla sinistra, a uscirsene come se ne uscì quel pomeriggio il Cavaliere.

Quel che accadde di lì a poco cambiò nuovamente, e inaspettatamente, il panorama politico italiano. Mentre Fini, nel gennaio del 1994, archiviava il vecchio Msi e fondava la nuova Alleanza Nazionale, per spogliarsi del polveroso abito nero postfascista, Berlusconi, il 26 dello stesso mese, inviava la sua famosa cassetta tv ai telegiornali e dava il via alla più incredibile avventura politica mai vissuta in questo Paese. Insieme, di lì a poco, i due si sarebbero ritrovati in quel complicato marchingegno della doppia alleanza, al Nord con la Lega, al Centro e al Sud con An, che il 27 marzo portò il Cavaliere alla vittoria e al suo primo governo, e l’Italia, dal manto rosso uscito dalle recenti comunali, a quello azzurro in cui era avvolto il partito in provetta del Cavaliere.

Qui la vicenda psicologico-politica del matrimonio freddo tra i due cofondatori conosce un secondo scompenso, destinato ad allungare i suoi effetti fino ad oggi. Mentre infatti Fini cerca di comportarsi con Berlusconi da alleato, facendo la campagna elettorale nell’interesse della coalizione oltre che del suo partito, Bossi non perde occasione per attaccare il candidato premier e il suo alleato meridionale, definendoli, senza mezzi termini, «imbroglioni» e «porci fascisti», apostrofando il Cavaliere come «Berluscone e Berluskaz», definendolo «il Garibaldo di Fini» o più semplicemente «povero pirla», e promettendogli che «la Lega glielo ficcherà in quel posto».

Si dirà, e Berlusconi lo ha detto tante volte, acqua passata. Ma siccome a quelle ingiurie pronunciate in campagna elettorale, senza che il leader della coalizione trovasse modo di replicare efficacemente, Bossi fece seguire il famoso «ribaltone» di fine ’94, che riportò Fini e il Cavaliere all’opposizione per sette lunghi anni, è comprensibile che il leader di An i due pesi e due misure di Berlusconi nei confronti dell’alleato-concorrente nordista se li sia legati al dito.

Anche se poi, della durata del periodo di opposizione, la cosiddetta «cavalcata nel deserto», Fini e Casini, che nel frattempo erano diventati amici stabilendo un asse che doveva durare nel tempo, portano la loro parte di colpa. L’uno e l’altro, peccando di presunzione, s’erano messi in testa che Berlusconi e il berlusconismo fossero un fenomeno passeggero. Ed è per questo che alla fine del ’96, quando il governo tecnico di Dini si era esaurito e si tentava di metterne su uno politico di larghe intese affidato a Maccanico, preferirono le elezioni anticipate, contraddicendo il Cavaliere e mettendo in conto la sua sconfitta, che avvenne puntualmente, e la sua uscita di scena, che invece non ci fu.

Come sia riuscito Berlusconi a tenere insieme quel che era rimasto della sua coalizione, è ancora oggi sorprendente. Bossi se n’era andato per conto suo. Fini e Casini, si capiva benissimo, erano a caccia di altre avventure. Nella Bicamerale D’Alema del ’96-’97 ognuno si muoveva per conto proprio, e quando il Cavaliere, dopo il famoso «patto della crostata», mandò tutto per aria, Fini fece di tutto per soccorrere il leader Pds, inutilmente. Un anno dopo, cogliendo l’occasione delle elezioni europee votate con sistema proporzionale, diede una riverniciata ad Alleanza Nazionale collegandola al movimento referendario di Segni e a una parte dei radicali. La nuova lista, che aveva per simbolo l’Elefante, e correva in aperta concorrenza con Forza Italia, ricevette dalle urne una brutta delusione, fermandosi al 10 per cento laddove Fini alle ultime politiche aveva sfiorato il 14.

Così che a molti parve un miracolo nel 2001 rivedere insieme i rissosi alleati del centrodestra, compreso Bossi che, novello figliol prodigo, nel frattempo s’era deciso a rientrare. Di quel miracolo, a dire la verità, molte responsabilità le aveva il centrosinistra, che era riuscito ad apparire perfino più litigioso dei suoi avversari nei suoi cinque anni di governo con tre diversi leader a Palazzo Chigi.

Nella seconda legislatura di Berlusconi premier, 2001-2006, l’asse Fini-Casini, vicepremier e ministro degli Esteri il primo, presidente della Camera il secondo, prese le sembianze di una radicale opposizione interna, un «sub-governo», come venne definito, che arrivò a chiedere e a ottenere la testa del potente ministro dell’Economia Tremonti. Il resto, anche se sono passati anni, è storia che si ripete fino ai nostri giorni. Berlusconi lasciato solo nella campagna elettorale del 2006, persa per soli 24 mila voti (lo stesso avverrà nel 2010). Berlusconi dichiarato finito da Fini, che intona il «de profundis» nel 2007. Berlusconi che il 18 novembre dello stesso anno fonda il nuovo partito sul predellino di piazza San Babila e Fini che commenta: «Siamo alle comiche finali». Berlusconi che trova il modo di espellere dall’alleanza Casini alla vigilia delle elezioni del 2008, Fini che abbandona al suo destino il vecchio amico del «sub-governo», e con una giravolta impensabile anche per i suoi amici dell’ex An torna al fianco del Cavaliere.

Da allora in poi, dopo la vittoria e la formazione del nuovo governo Berlusconi, con il cofondatore che va a presiedere la Camera, non si contano gli argomenti delle polemiche. Il voto agli immigrati. I troppi decreti. Le troppe fiducie chieste dal governo al Parlamento. La Finanziaria. Il cesarismo nel Pdl. La legge sulle intercettazioni. La difesa della legalità. Il garantismo e le dimissioni dei membri del governo inquisiti, come Brancher e Cosentino. In un «fuori onda», mentre aspetta in studio di partecipare a un talk show con il procuratore Trifuoggi, a Fini scappa detto che «Berlusconi scambia la leadership con la monarchia assoluta».

La sensazione che il vaso sia colmo e l’alleanza finita precedevano da molto tempo la rottura annunciata e consumata in questi giorni. La previsione era che i cofondatori si sarebbero separati l’anno prossimo, alla vigilia dello scioglimento anticipato delle Camere, ormai messo nel conto apertamente anche da Berlusconi. Invece le elezioni arriveranno anche prima, proprio perché i due alla fine non ce l’hanno fatta a restare insieme.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/57171girata.asp


Titolo: MARCELLO SORGI. Il nuovo Pdl di Berlusconi
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2010, 05:10:06 pm
31/7/2010 (7:34)  - IL PARTITO SPACCATO

Il nuovo Pdl di Berlusconi

Il ruolo di La Russa e Gasparri negli equilibri che cambiano

MARCELLO SORGI

Parola d'ordine: nulla sarà più come prima. All'indomani della rottura tra Berlusconi e Fini, il necrologio del Pdl passa di bocca in bocca. C'è una corsa frenetica a mettere al sicuro i caposaldi del potere locale e del sottogoverno, dalle regioni alle città, dai governatori ai sindaci, agli enti, alla Rai, il termometro più sensibile di ogni spostamento politico. Ma nel fortino berlusconiano, dove l'altra sera la ghigliottina è calata in poco meno d'un'ora sul collo del cofondatore, gli umori non sono affatto rassegnati. E l'idea che la cacciata di Fini debba corrispondere necessariamente a una messa in liquidazione del partito non è per niente data per scontata. Il terremoto di giovedì sera ha ridisegnato completamente gli equilibri già incerti alla corte del premier. A prima vista, è avvenuto un capovolgimento, con la prima fila spinta indietro e una nuova schiera, una specie di falange, che si stringe attorno al leader. L'espulsione di Fini ha colpito in pieno tutto il mondo trasversale romano, il partito della mediazione a ogni costo, che aveva un asse forte in Gianni Letta e nello stesso presidente della Camera, e continuato a opporsi fino all'ultimo agli strappi voluti dal premier. Il sodalizio s'è sciolto la scorsa settimana, quando Letta ha avvertito Fini che Berlusconi stavolta non sarebbe tornato indietro, e gli ha chiesto, per il bene di tutti, di invertire la marcia finché era in tempo. Come si sa il segnale, molto più tiepido di quel che si aspettava, è arrivato solo alla vigilia, con l'intervista di Fini al Foglio giudicata del tutto insufficiente dal suo interlocutore.

Così, inaspettatamente, l'estremo tentativo di evitare la rottura ha visto muoversi in parallelo due personaggi della prima ora berlusconiana come Letta e Giuliano Ferrara, che in passato, quando erano insieme al governo, si erano spesso trovati distanti, ma in quest'occasione, temendo il baratro verso cui stava andando il centrodestra, invano si sono mossi nella stessa direzione. Sul tavolo del giornalista sono rimasti gli appunti, sapientemente rielaborati per tradurli in un linguaggio più vicino a quello del Cavaliere, dell'intervista. E nella mente del sottosegretario le tante telefonate criptiche, spesso seguite da passeggiate guardinghe da Palazzo Chigi a Montecitorio, per parlare faccia a faccia con il presidente della Camera. Tutto inutile: eppure, c'è stato un tempo lunghissimo in cui Letta e Fini sedevano uno di fronte all'altro, alla destra e alla sinistra di Maria Angiolillo, nel suo famoso salotto che faceva da camera di compensazione dei momenti più drammatici, nei sedici anni di contrastatissima alleanza tra l'uomo di Arcore e l'ex leader di An.
Di quell'insieme, di quel metodo erede dell'andreottismo e della pratica dell'eterno sminuzzamento di qualsiasi asperità, resta ben poco dopo la rottura. Già l'uscita di Casini dalla coalizione aveva fatto venir meno un interlocutore indispensabile delle continue mediazioni. Con Fini fuori, ormai, non c'è più nulla o quasi da mediare. Non a caso la corsa precipitosa verso la separazione, giovedì, ha travolto anche le ultime liturgie istituzionali, le cortesie informali tra Palazzi repubblicani di cui alla presidenza del Consiglio Letta è il custode: il Quirinale ha appreso quel che stava succedendo dalle agenzie e dai giornali: la crisi, tutta partitocratica ed extraparlamentare, s'è aperta alle spalle del Capo dello Stato. E a spingere per una reazione così dura a quella che i finiani a volte incoscienti, più che lo stesso Fini, da mesi definivano «una guerriglia» contro lo stato maggiore del Pdl, non è stato il solo Berlusconi.

Vicino a lui, nell'ora della decisione, s'è raccolto il nuovo gruppo di comando del partito, che comprende i capigruppo Cicchitto (che alla Camera s’è trovato più spesso a fronteggiare Fini) e Gasparri, il vice capogruppo al Senato Quagliariello, i coordinatori Bondi, Verdini e La Russa, e soprattutto gli ex colonnelli finiani approdati al governo, che già da tempo avevano fatto la loro scelta a fianco del premier. C'è perfino chi dice che la sorprendente svolta del 2008, quando Fini d'improvviso - dopo aver definito solo pochi mesi prima «comiche finali» il battesimo del nuovo partito sul predellino di Piazza San Babila -, ruppe l'asse con Casini ch'era rimasto fuori e decise di confluire con il Cavaliere, sia stata determinata dalla conversione berlusconiana dei suoi colonnelli che l'aveva preceduto. Fatto sta che nel nuovo vertice sono praticamente sparite le distinzioni, le evidenti radici diverse, degli uomini nati nel partito-azienda Forza Italia rispetto agli eterni giovanotti del Fuan, l'organizzazione giovanile del Msi, e del Secolo d'Italia, che si portavano strette nel cuore le loro origini neofasciste, le loro inguaribili nostalgie, i metodi spicci di chi non ha avuto mai remore a usare le mani.

E quando è servito, com'è accaduto a La Russa, ha dimostrato ancora di saperci fare. Per loro, man mano che tra i due cofondatori la temperatura saliva, è stata più che altro questione di sopravvivenza. E quando Gianfranco, in uno degli ultimi incontri prima della famosa direzione a pesci in faccia del 22 aprile, andò a dire a Silvio che tra le condizioni per ritrovare l'accordo c'era l'azzeramento degli ex-An che non lo rappresentavano più nel governo e nel partito, i colonnelli, che se l'aspettavano, si erano già spostati accanto ai fedelissimi e agli ultrà di Berlusconi. In molti casi ne imitavano già gli atteggiamenti, le abitudini, il gusto per le barzellette, e le cautele di quelli che sanno da sempre che è a lui che tocca l'ultima parola. Al punto che da questa nuova forma di cameratismo è uscita quasi una nuova identità collettiva, che in qualche modo ricorda i tempi del «Caf», l'alleanza strategica nata dalle iniziali di Craxi, Andreotti e Forlani. E quel tipo di personale politico caratterizzato da intercambiabilità, indifferenza ed empirismo senza principi, piegati al mantenimento del potere, che visse una breve fortuna e accompagnò la Prima Repubblica verso la fine. Nel blitz che ha capovolto gli equilibri interni del Pdl, berlusconiani di pura fede silviesca ed ex colonnelli si sono mossi d'intesa, come squadre speciali, ventre a terra, occupando velocemente lo spazio lasciato libero dai mediatori inascoltati, e riuscendo nello stesso tempo a spingere ai margini la ruspante corrente delle tre ministre, che pure aveva guadagnato molte posizioni negli ultimi tempi. E premeva su Berlusconi per una svolta e un rilancio del Pdl fondati sull'azzeramento dei coordinatori e un ritorno alle origini legato a una severa campagna di rinnovamento interno.

La rottura di giovedì ha travolto anche questo disegno, che puntava a tenere Fini dentro il partito strategicamente e in nome di alcune contiguità personali e alleanze locali, come quelle dei finiani siciliani, Granata in testa, con la ministra Prestigiacomo e il sottosegretario dissidente Gianfranco Miccichè, a sostegno del governatore Lombardo e dell'accordo trasversale con il Pd alla Regione Sicilia. Equilibrismi, giochi pericolosi, manovre da sventare, guardati con l'occhio della nuova dottrina che non ammette dissensi o eccezioni alla linea. Oppure, dato che il gruppo di eretici messi all'angolo non ha alcuna voglia di arrendersi, carte di riserva che potrebbero tornare utili e riprendere forza in caso di elezioni anticipate o del ritorno a governi d'emergenza. Al momento, tuttavia, non c'è da farsi molte illusioni. Il Popolo della libertà com'eravamo abituati a conoscerlo sarà anche morto, abbattuto in mezza giornata dal divorzio dei due cofondatori, ma intorno al premier il partito berlusconiano è rinato e avanza con il coltello tra i denti. Questa è alla fine la metamorfosi uscita dalle rovine del Pdl: da partito unico del centrodestra a partito esclusivo del presidente.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/57210girata.asp


Titolo: MARCELLO SORGI. Il ricorso alla mossa del cavallo
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2010, 06:53:09 pm
3/8/2010

Il ricorso alla mossa del cavallo

MARCELLO SORGI

Se davvero verrà confermata stasera, alla vigilia della votazione sulla mozione di sfiducia al sottosegretario Caliendo, coinvolto nell’inchiesta sulla P3, la decisione dei deputati finiani di astenersi domani nella votazione che mette a rischio il governo, a meno di una settimana dalla rottura tra Berlusconi e Fini, darà subito il segno del cambiamento di passo del nuovo gruppo, interno al centrodestra ma distinto adesso dal Pdl.

Un appoggio esterno, né pieno, né convinto a Berlusconi, specie in una materia come la legalità, su cui il presidente della Camera s’è impegnato in prima persona. E tuttavia niente che possa far pensare che «Futuro e libertà», come hanno scelto di chiamarsi i dissidenti, possa già staccare la spina.

Seppure le loro intenzioni saranno spiegate chiaramente in aula, a cominciare dall’esigenza di prendere le distanze dall’iniziativa dei dipietristi, che con l’appoggio del centrosinistra hanno promosso l’iniziativa per far uscire Caliendo dal governo, il risultato di questa presa di posizione - per di più condivisa anche da Casini e dall’Udc - sarà di far sembrare il governo anche più debole di quel che era apparso subito dopo il divorzio tra i due cofondatori. In mancanza di ulteriori imprevisti, infatti, Berlusconi, diversamente da quanto era avvenuto per Scajola, Brancher e Cosentino, riuscirà nell’intento di salvare il quarto membro del suo governo finito sotto accusa. Ma con un numero di voti - 308 o giù di lì - che mostrerà in tutta evidenza come il premier non disponga più della maggioranza alla Camera.

Il Cavaliere aveva preteso un’accelerazione, ieri, prima che la Conferenza dei capigruppo decidesse quando calendarizzare la sfiducia a Caliendo, per mettere chiaramente alla prova Fini. Il leader della nuova formazione nata dalla fuoruscita dal Pdl si sarebbe trovato così stretto davanti a una scelta difficile. Avrebbe smentito se stesso se avesse preso tempo, dopo aver tenuto un atteggiamento rigoroso nei confronti di tutti i casi giudiziari che hanno coinvolto componenti dell’esecutivo. E ancor di più se, una volta accontentato Berlusconi fissando subito dibattito e voto sulla sfiducia, si fosse allineato votando con la maggioranza per il salvataggio del sottosegretario e smentendo tutti i suoi atteggiamenti precedenti. Va da sé che nel caso contrario, di un improbabile voto dei finiani con Di Pietro e il centrosinistra per il licenziamento di Caliendo, la crisi di governo sarebbe stata automatica. E le assicurazioni, giunte nel fine settimana al Quirinale anche da parte dei finiani, sull’allentamento della tensione e sull’impegno a sostenere il governo malgrado la separazione dal Pdl, sarebbero state contraddette dai fatti.

Fini invece ha scelto di smarcarsi con la «mossa del cavallo», un classico del professionismo politico, che aggirerà - sempre che sia confermata - le forche caudine sotto le quali il Cavaliere voleva costringerlo a passare. Lasciando intatto però lo stato dei rapporti tra i due diversi tronconi del centrodestra, e confermando che l’appoggio dei finiani Berlusconi dovrà conquistarselo volta per volta.

A tutto ciò occorrerà aggiungere l’effetto-immagine sul governo che verrà dalla seduta parlamentare sulla sfiducia per la quale è stata prenotata la diretta tv. Anche qui: nei calcoli del premier doveva essere l’occasione per far vedere dopo gli ultimi giorni incerti il governo vincente e l’opposizione battuta. Ma in realtà l’effetto che si preannuncia alla fine sarà l’opposto.

Pensiamo solo se il Cavaliere dovesse decidere di partecipare sedendo, come gli spetta, al centro del banco del governo ed esattamente sotto la poltrona di Fini, che questa volta risulterebbe assiso direttamente sulla sua testa. E se, com’è normale, le telecamere dovessero indugiare sul disappunto, sicuramente palpabile, dei berlusconiani, quando i finiani spiegheranno le ragioni per cui non possono votare con il governo. Inoltre, dalla separazione dei due cofondatori al dibattito sulla sfiducia saranno passati così pochi giorni che non ci sarà stato il tempo di stabilire una nuova collocazione nell’aula di Montecitorio per i due gruppi neo-separati e per deputati che fino a qualche giorno fa erano alleati e iscritti allo stesso partito e adesso si considerano vicendevolmente traditori quando non avversari.

Si dirà che questi sono dettagli, e la sostanza è che Caliendo, alla fine di una dura giornata, potrà tornarsene a casa (e l’indomani in ufficio) a bordo della sua auto blu governativa, diversamente da quel che è accaduto per i suoi tre colleghi - due ministri e un sottosegretario - che nei mesi scorsi hanno dovuto dimettersi dai loro incarichi. E’ così, la conclusione sarà quasi certamente questa. Ma a che prezzo, e di quale governo resterà membro Caliendo, gli italiani lo vedranno bene con i loro occhi.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7672&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Il fragile fronte astensionista e l'assenza di maggioranze
Inserito da: Admin - Agosto 05, 2010, 03:35:47 pm
5/8/2010 - TACCUINO

Il fragile fronte astensionista e l'assenza di maggioranze
   
MARCELLO SORGI

Si può leggere la giornata di ieri alla Camera a partire dai numeri, che rivelano l'avvitamento di una legislatura in cui non c'è più una maggioranza: non ce l'ha (non ce l'ha più) Berlusconi, ma non ce l'hanno neppure i terzopolisti Fini, Casini e Rutelli che si sono astenuti, e men che mai l'opposizione. Il fatto che anche la somma delle astensioni e dei voti del centrosinistra produce solo un'ennesima minoranza la dice lunga sulla possibilità di costruire un altro governo, anche a partire da un accordo minimo su uno o due punti, come ad esempio la legge elettorale e il federalismo.

No, i numeri non ci sono, e Berlusconi malgrado tutto resta arbitro della situazione. Nelle condizioni in cui si trova, il suo governo però è paralizzato: la realizzazione del programma resta per aria e sul medio periodo l'insoddisfazione della Lega per la paralisi dell'esecutivo è sicura, perché finiani e Udc non consentiranno di completare l'iter della riforma federale. Inoltre, senza federalismo, non è detto che Bossi sia proprio felice di aiutare Berlusconi a ottenere le elezioni anticipate, che il premier vorrebbe per cavarsi dall'impaccio e regolare definitivamente i conti con il presidente della Camera e i suoi seguaci.

Prima di far calare il sipario sulla legislatura, il Senatur farebbe sicuramente un minimo di verifica con Fini e Casini. E a sorpresa potrebbe trovarli molto più disponibili del previsto, a patto di ricostruire un patto di governo basato sulle ragioni di tutti. Questa è appunto la novità che traspare dal dibattito di ieri: partiti per disarcionare il Cavaliere, i finiani hanno cominciato a rendersi conto che tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare, e soprattutto che quando parla di esecutivo di responsabilità nazionale, Casini ha una strategia diversa dalla loro e contraria alle elezioni. In altre parole: a nessun costo il leader dell'Udc si presterebbe a sostituire i finiani nell'attuale governo, e tuttavia ritiene che l'indebolimento di Berlusconi possa creare le condizioni per una rinegoziazione generale, di un nuovo esecutivo e una nuova maggioranza, senza pregiudizi sul fatto che Berlusconi possa succedere a sé stesso.

Prima di capire se questa prospettiva possa interessare al Cavaliere, convincendolo a rinunciare al ricorso alle urne, che al momento rimane la sua prima chance, questa diversità di vedute può servire a capire quanto fragile sia l'accordo tra i leader dello schieramento astensionista emerso ieri alla Camera. E' anche questo un dato che dovrebbe far riflettere Berlusconi, nel suo agosto operoso.

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Titolo: MARCELLO SORGI. È Umberto il capo della maggioranza
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2010, 02:58:38 pm
6/8/2010 - TACCUINO

È Umberto il capo della maggioranza
   
MARCELLO SORGI

Nella confusione generata dal mercoledì nero del governo nell'aula del caso Caliendo, Bossi è l'unico a muoversi con chiarezza: come sempre lo schema del Senatur è "bianco-nero", senza chiaroscuri. La Lega sta con Berlusconi sia che il governo continui, sia che si debba andare ad elezioni anticipate. Ma a patto che il Cavaliere tenga la porta chiusa ad ogni ipotesi di rinegoziazione con Fini o con Casini, che potrebbero maturare in autunno, magari come effetto di missioni diplomatiche segrete in questo agosto che per la prima volta non vedrà il premier andare in vacanza.

Il rafforzamento dell'asse nordista tra Pdl e Lega fa di Bossi, non più solo l'azionista di riferimento del centrodestra, ma in qualche modo l'amministratore delegato della maggioranza ridotta in minoranza. Più che dalle minacce uscite ieri dall'ennesimo vertice del Pdl a Palazzo Grazioli, lo scioglimento delle Camere dipenderà dall'ultima parola del leader leghista. Per il quale, ovviamente, sarebbe preferibile andare alle urne avendo incassato la riforma federalista, con l'obiettivo di fare stabilmente del Carroccio il primo partito del Nord, che non dovendo chiamare i suoi elettori a un'estrema battaglia per ottenerlo.

Nel primo caso, infatti, si tratterebbe di fare una campagna più simile a quella delle ultime regionali, a fianco di Berlusconi e contro tutti gli avversari "romani", a partire naturalmente da Fini e dagli ex-An. Nel secondo, per placare le frange più impazienti di un elettorato che ha già mostrato di recente le sue inquietudini per il mancato incasso della lunga collaborazione della Lega con il centrodestra, il Senatur dovrebbe in qualche modo prendere di mira anche il Cavaliere e la sua incapacità finora, di realizzare le grandi riforme che aveva messo in programma. In questo senso la gaffe che ieri aveva messo in forse l'alleanza tra i due partiti superstiti dell'attuale maggioranza, pur smentita tempestivamente, è rivelatrice dei dubbi che si agitano anche nel Carroccio.

Al momento, tuttavia, questo inconcludente gran parlare che si fa, a proposito di un eventuale nuovo scioglimento delle Camere, finirà con l'avere come unico esito di irritare Napolitano. Il Capo dello Stato è l'unico interlocutore deputato ad esaminare il problema ed eventualmente, in caso di crisi, a decidere se in mancanza di una qualsiasi maggioranza, come ieri è apparso chiaro dai numeri della Camera, non ci sia altro da fare che tornare alle urne. Ma nessuno di quelli che ieri sera si affollavano in tv a parlare di elezioni finora s'è preso la briga di sentire l'opinione del Presidente della Repubblica.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Fatto personale
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2010, 04:20:17 pm
21/8/2010

Fatto personale

MARCELLO SORGI

Se doveva servire a riaprire la comunicazione tra i due spezzoni del centrodestra separatisi a fine luglio, aprendo di fatto una crisi nella maggioranza, da quel momento non più tale, il vertice del Pdl a Palazzo Grazioli - va detto - è stato inutile. Lo scambio di ipocrisie che ne è seguito - con Berlusconi a reti unificate pronto a dire che andrà avanti e a snocciolare il programma dei prossimi tre anni, e i finiani che fingevano di interessarsene, aggiungendo che lo attendono in Parlamento per confrontarsi - ha confermato che in un mese la situazione non è cambiata.

E se questo è l’esito della prima estate in cui la politica non ha preso le ferie, tanto valeva che ci andasse, in vacanza. Almeno non avremmo rivisto in tv il premier visibilmente provato dal durissimo braccio di ferro che sta conducendo e da una stanchezza a cui nemmeno il suo abituale trucco di scena riesce a porre rimedio. Né ci saremmo risolti a misurare lo stato d’animo del presidente della Camera dalla bruscaggine con cui ha liquidato il sottosegretario Letta, ancora oggi suo amico, davanti al feretro di Cossiga. Viene da riflettere su quale sia ormai la sostanza del contendere tra i due cofondatori del Pdl. Come ha detto Fini parlando di Berlusconi: «O lui mi distruggerà, o sarò io a distruggerlo». Ecco perché le lunghe settimane d’agosto, invece di essere utilizzate per ridurre la tensione e tentare un chiarimento, sono trascorse a colpi di minacce e di rivelazioni, in un bombardamento quotidiano tra le due trincee nemiche che appena il Parlamento riaprirà si trasferirà in campo aperto.

Non c’è alcun bisogno di chiedersi, come facevano ieri sera molti degli ufficiali dei due eserciti, se il documento uscito da Palazzo Grazioli possa o no servire come base di discussione; né se l’aggiunta del quinto punto (un nuovo giro di vite sulla sicurezza, declinata in termini più vicini alle istanze leghiste, che non alle esigenze finiane), ai quattro già annunciati (federalismo, fisco, giustizia, Sud), complicherà ulteriormente il quadro. Come potrà essere accolto, d’altra parte, nelle Camere, un programma messo a punto soltanto dallo stato maggiore berlusconiano, senza che uno solo degli ambasciatori del Presidente della Camera abbia potuto mettere piede ieri a Palazzo Grazioli? Conseguentemente i deputati e i senatori di Futuro e Libertà consegneranno a Berlusconi, quando si presenterà in Parlamento, una fiducia formale, mantenendo in realtà tutte le loro riserve, per impedirgli di aprire la crisi e correre alle elezioni. Ma il giorno dopo, ovunque, nelle commissioni, nelle aule, in tv e nelle piazze, riprenderanno la loro guerriglia, contro un governo che presto farà rimpiangere, quanto a stabilità e a capacità di realizzare i suoi impegni, perfino il traballante esecutivo di Prodi affondato due anni fa.

Anche se si ostinano a negarlo pubblicamente, i due duellanti sanno benissimo che finirà così. Infatti, dietro una prospettiva così mediocre - in un momento in cui le difficoltà del Paese e la complessa congiuntura economica che non dà tregua in Europa né altrove richiederebbero di essere governate con più energia - e dietro la loro contesa non c’è più nulla o quasi di politico. È un fatto personale. Berlusconi si sente tradito da Fini. Pensava di avere con lui credito inesauribile, di doverne ricevere gratitudine eterna, per avergli dato 16 anni fa il biglietto di ingresso nel gioco della piena legittimazione politica, sottraendolo al ghetto in cui per quasi mezzo secolo i post-fascisti erano rimasti ai tempi della Prima Repubblica. Non a caso ieri nella sua conferenza stampa s’è riferito più volte al 1994, data di inizio dell’alleanza tra Forza Italia, Lega e An, e ha sottolineato ancora il suo ruolo di presidente del Consiglio «scelto dagli elettori», quasi volesse sottolineare che il centrodestra, nato vincente con lui, senza di lui può anche morire.

Paradossalmente, Fini ragiona allo stesso modo e teme che Berlusconi, pur di non dargli il riconoscimento di partner con eguale dignità della coalizione, sia pronto ad annientarlo politicamente. Vede nella campagna scatenata sui giornali e sulle tv il tentativo, non solo di destabilizzarlo, colpendolo negli affetti familiari, ma anche di dissolvere la sua credibilità di leader. Come se appunto tutto il lavoro fatto da Fini in questi anni non avesse alcun valore per il Cavaliere e il presente e il futuro dell’attuale terza carica dello Stato, a suo giudizio, possano dispiegarsi solo in una sorta di regime di libertà vigilata. Berlusconi inoltre pensa che Fini non potrà resistere a lungo alla pressione a cui è sottoposto, che anche i suoi fedelissimi, vedendolo vacillare di fronte all’imbarazzo della vicenda della casa di Montecarlo finita al cognato o delle controversie immobiliari della sua compagna, cominceranno ad avere ripensamenti. Ma a questo punto anche Fini mette in conto tutto, compresa l’eventuale caduta di una leadership, come la sua, tra le più promettenti di tutta la stagione della Seconda Repubblica. E proprio per questo, prima di cadere, si prepara a sferrare il colpo finale, puntando diritto al cuore del Cavaliere.

È un tramonto davvero cupo quello verso cui si sta avviando l’alleanza tra i due cofondatori. Certo, potrebbero ancora fermarsi, tornare indietro, riprovare a discutere, ma si capisce che non lo faranno. A guardarli, ricordano la vecchia favola della rana e dello scorpione che guadano il fiume uno in groppa all’altra. La rana è sicura che lo scorpione non la pungerà, perché facendola annegare ucciderebbe se stesso. Lo scorpione lo sa, ma alla fine non resiste. E le piazza il pungiglione nella schiena.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Macché accordo o armistizio Gianfranco il Roccioso non arretra..
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2010, 09:07:57 am
1/9/2010 - TACCUINO

Macché accordo o armistizio Gianfranco il Roccioso non arretra di un millimetro
   
MARCELLO SORGI

Gianfranco Fini sta seguendo con qualche sorpresa le indiscrezioni che negli ultimi giorni lo descrivono tentato da una pace con Berlusconi e disposto a trovare una soluzione tecnica anche per il «processo breve», il più spinoso tra i provvedimenti che dividono il premier e il presidente della Camera, e a giudizio di tutti il punto più controverso della verifica avviata per capire se la (ex) maggioranza di centrodestra può essere ricomposta.

Le voci sulla presunta disponibilità di Fini a cercare o accettare un armistizio si sono fatte più forti in vista dei due appuntamenti che a cavallo del fine settimana l’ex leader di An avrà con Rutelli e il suo partito e con la neonata formazione finiana di «Futuro e libertà». Dopo la rottura di fine luglio tra i due cofondatori del Pdl e dopo il mese di silenzio che Fini ha fatto seguire, rotto solo da un comunicato sulla vicenda della casa di Montecarlo, regalata ad An da un’anziana sostenitrice e finita in affitto al cognato del presidente della Camera dopo una vendita con non pochi lati oscuri a una società straniera.

Chi ha avuto modo di parlarci nel corso della sua estate più difficile riferisce che Fini, pur provato dalla durezza della campagna nei suoi confronti e dai ripetuti attacchi di Berlusconi, non s’è spostato di un millimetro, e al di là degli aspetti personali delle questioni aperte tende a riproporre le sue posizioni tali e quali erano al momento precedente la rottura. A cominciare dal suo legittimo contributo all’elaborazione delle politiche del Pdl, che Berlusconi si ostina a considerare un tradimento, alla necessità di definire in materia di giustizia una riforma che non contrasti con la difesa della legalità, all’opportunità di un approfondito chiarimento con la Lega prima di arrivare all’approvazione definitiva del federalismo, all’improcrastinabilità di una ridefinizione delle cariche di governo e di partito, visto che Fini e i finiani non si sentono più rappresentati dagli ex An.

A giudizio di Fini tutto ciò può essere affrontato nel tempo (proprio perché non sopporta gli ultimatum del Cavaliere, il presidente della Camera si guarda bene dal porne), con la gradualità necessaria, con un giusto tasso di compromesso, ma non può in alcun modo essere aggirato, sostituendo a quest’ordine del giorno, che almeno da aprile Berlusconi si rifiuta di affrontare, l’elenco delle urgenze, anche personali, del premier.

E se per questa strada la rottura dovesse rivelarsi insanabile e si arrivasse alla fine alle elezioni anticipate? Fini non se le augura, ma non le teme. Almeno, pensa, non più del Cavaliere.

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Titolo: MARCELLO SORGI. L'ironia severa del Presidente
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2010, 10:03:44 pm
2/9/2010

L'ironia severa del Presidente
   
MARCELLO SORGI


Il tono ironico, scherzoso - inusuale per un Presidente formale come Napolitano -, con cui ieri a Venezia ha risposto alle domande dei giornalisti, non deve ingannare: il Capo dello Stato è autenticamente preoccupato della situazione politica che s’è generata dopo la rottura all’interno del Pdl, ma nello stesso tempo privo di dati certi che gli consentano di intervenire o di prepararsi a quel che sarà.

Questa della mancanza di rapporti istituzionali o informali tra il Quirinale e il governo è un cruccio che Napolitano ha ormai da tempo. In una normale prassi il presidente del Consiglio e i ministri sono soliti intrattenere con il Presidente della Repubblica un filo costante di comunicazione, vanno a fargli visita, lo informano sull’evoluzione delle questioni aperte, gli chiedono consiglio. E, sia pure con l’irregolarità che caratterizza tutto l’andamento dell’attuale governo, una prassi del genere si era stabilita anche all’inizio di questa legislatura.

Ministri come Alfano e Gelmini, tanto per fare qualche esempio, impegnati in riforme rilevanti come quelle della giustizia o della scuola e dell’università, di tanto in tanto chiedevano udienza al Quirinale per condividere qualche valutazione.

Ma da un anno a questa parte, più o meno dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha cancellato il lodo Alfano e che Berlusconi ha considerato frutto di un complotto tra il Presidente della Repubblica e i giudici della Consulta, le relazioni si sono interrotte. Come se avessero ricevuto un ordine preciso, i ministri hanno prima diradato e poi cancellato del tutto le loro salite al Colle. Anche le comunicazioni con Gianni Letta sono divenute meno frequenti e spesso legate a situazioni d’emergenza. L’unico canale istituzionale rimasto positivamente aperto, con risultati che si sono visti di recente nei giorni della manovra economica, è ormai quello con Tremonti e la tecnostruttura del ministero dell’Economia.

Per il resto, le valutazioni del Presidente sono rimaste affidate quasi solo all’esame dei documenti formali, spesso trasmessi solo all’ultimo momento dagli uffici ministeriali. E la «moral suasion» che Napolitano prima esercitava in modo riservato ha dovuto prendere sempre più spesso la strada delle esternazioni, com’è avvenuto appunto per la (mancata) legge sulle intercettazioni e come rischia di ripetersi per il processo breve.

Perfino in un’estate politicamente torrida come quella che volge alla fine, Berlusconi e Napolitano si sono sentiti al telefono una sola volta. Chi ha assistito alla conversazione seduto vicino al premier riferisce che il Cavaliere s’è guardato bene dal parlare di elezioni anticipate, richiesta di dimissioni di Fini dalla presidenza della Camera, corteggiamento a Casini e insomma di tutti i temi che quotidianamente e personalmente agitava sui giornali. Ha detto solo che presto tutto sarebbe stato risolto e ha fatto notare, con una certa soddisfazione, che anche nell’ora più difficile il suo indice di gradimento restava al di sopra del 60 per cento, mentre quello di Sarkozy era sceso al 27.

Forse è per questo che in una situazione tragicomica com’è quella attuale del centrodestra, il Capo dello Stato s’è rassegnato ad attendere il volgere degli eventi. Non senza ricordare, come ha fatto anche ieri, che la decisione ultima sul destino della legislatura tocca a lui.

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Titolo: MARCELLO SORGI. I litiganti rischiano un doppio Ko
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2010, 09:02:10 am
3/9/2010

I litiganti rischiano un doppio Ko
   
MARCELLO SORGI

E’ del tutto logico che Gianfranco Fini stia costruendo sapientemente l'attesa del suo intervento di domenica a Mirabello, il luogo simbolo in cui Almirante lo nominò suo erede e da cui partì il lungo cammino di rinnovamento della destra post-fascista. Il lungo silenzio che lo ha preceduto, nell'agosto rovente che ha seguito la rottura con Berlusconi, il piccolo cerchio in cui s'è chiuso - la famiglia della nuova compagna, tormentata dalle rivelazioni sulla famosa casa di Montecarlo, gli amici e collaboratori più vicini, da Giulia Bongiorno a Italo Bocchino, stretti anche loro in un riserbo senza spiragli -, il rifiuto di ricevere Bossi che s'era assunto il compito di una mediazione tra i due cofondatori del Pdl, la durezza estrema anche con Gianni Letta, il pacificatore di sempre, sono tutti pezzi di una specie di rito propiziatorio dell'ex leader di An. E' come se Fini dicesse - e dal suo punto di vista è più che ovvio - : avete voluto mettermi ai margini, ora provate davvero a fare senza di me.

Ciò che invece non è affatto scontato è la serie inconsulta di reazioni di ex-alleati divenuti avversari, ex-avversari possibili nuovi alleati, pontieri di prima, seconda e terza fila, per non dire del comportamento assolutamente inspiegabile di Berlusconi, che ogni giorno fa dire ai giornali una cosa diversa e riesce a comportarsi in modo opposto a quel che dice.

Se la tattica scelta è quella di una tregua, com'era sembrato negli ultimi giorni, non si capisce né la confusa organizzazione di pullman per boicottare la manifestazione di Mirabello, né l'ansiosa ricerca di soluzioni tecniche alternative al processo breve, né la diffusione di notizie false, come l'incontro mai avvenuto tra Ghedini e la Bongiorno in cui appunto avrebbe dovuto essere messa a punto la soluzione valida per il compromesso, né i continui ripensamenti su aspetti non secondari della guerra aperta, come la riunione dei probiviri che dovrebbe procedere alla censura o all'epurazione dei tre finiani Bocchino, Granata e Briguglio, rinviata martedì a novembre in segno di disponibilità e subito riconvocata ieri dal coordinatore Verdini.

Per quanto avvolta da segnali di fumo inconcludenti, è evidente la realtà che sta dietro a questo insieme di mosse contrastanti: nessuno dei mediatori in campo ha un mandato vero né riceve ascolto da qualcuno.

Berlusconi e Fini, asserragliati nei loro rispettivi fortini, non pensano affatto a una tregua. Piuttosto, solo a come continuare una guerra che finirà quando uno dei due, e forse tutti e due insieme, finiranno al tappeto.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Nuova scuola e riserve dei cattolici
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2010, 09:35:12 am
4/9/2010

Nuova scuola e riserve cattolici
   
MARCELLO SORGI


All’indomani dell’annuncio della linea dura del governo contro i precari della scuola, le critiche del giornale dei vescovi «Avvenire» (pur formalmente ridimensionate dalla direzione del giornale) alla ministra dell’Istruzione Gelmini confermano le riserve che nel corso dell’ultimo anno la Cei ha espresso sulla vita pubblica italiana.

Rivolto a una personalità cattolica e cresciuta in una famiglia democristiana, com’è appunto la Gelmini, il giudizio ha anche un’altra valenza. In discussione è, in generale, l’approccio rigoroso alla questione dei conti dello Stato, che in un settore enorme come quello della scuola pubblica produrrà pesanti conseguenze sociali, in termini di emarginazione di persone che si vedono escluse dopo aver già dedicato al precariato nell’istruzione anni di sacrifici, sottratti spesso agli impegni familiari. Inoltre la contrazione del comparto statale potrebbe spingere verso gli istituti cattolici i figli di genitori più abbienti, tendendo a trasformarli in «scuole per ricchi», laddove la Chiesa esige che la scelta verso un tipo di istruzione o un’altra sia sempre libera e consapevole.

Tra le righe s’intuisce anche una presa di distanza dal modello di severità, che la Gelmini vorrebbe implementare, e a cui ha dedicato una parte della conferenza stampa di inaugurazione dell’anno scolastico. Voti al posto dei giudizi, condotta più formale e adesso anche la bocciatura per chi supera i 50 giorni di assenza obbediscono certamente a un progetto di risanamento della scuola statale, da troppo tempo abbandonata a un lassismo insopportabile.

Ma nello stesso tempo delineano un modello competitivo per gli studenti che, puntando dichiaratamente all’affermazione del merito, collide con quello classico dell’istruzione italiana, come ha funzionato per decenni dalla nascita della Repubblica e quasi esclusivamente sotto il controllo di ministri cattolici. Un insieme basato sulla solidarietà e sul recupero degli ultimi, tra gli studenti, piuttosto che sull’incentivazione dei più bravi. E’ anche questa trasformazione - contro la quale tuttavia la protesta dei precari è solo un’anticipazione delle reazioni che verranno dalla pancia dell’apparato scolastico - che i vescovi mostrano di temere, perché la immaginano foriera di nuove divisioni, nuove emarginazioni, in una società che, trasformandosi, rischia di sfuggirgli di mano.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La scelta di uscire dal recinto
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2010, 06:25:27 pm
6/9/2010

La scelta di uscire dal recinto

MARCELLO SORGI

Diciamo la verità, è arduo credere che, dopo il discorso di Fini, il «patto di legislatura» che il presidente della Camera ha proposto ieri a Berlusconi, parlando ormai da leader del nuovo partito «Futuro e libertà», possa davvero realizzarsi. Anche se nei prossimi giorni, quando il presidente del Consiglio si presenterà alla Camera a chiedere la fiducia, i finiani gliela daranno, la pietra tombale posta a Mirabello, su un'alleanza che durava da sedici anni, difficilmente potrà essere rimossa.

Non solo per le accuse, e in qualche caso gli insulti (dallo «stalinismo» alla «lapidazione islamica»), che se ripetuti pubblicamente in una prossima campagna elettorale non sarebbero compatibili con nessun tipo di coalizione. Ma anche perché - e qui sta la sostanza politica dell'intervento -, ai famosi cinque punti berlusconiani mirati a verificare l'esistenza in vita della maggioranza, Fini ne ha aggiunto un sesto, la riforma elettorale, che avrà fatto sobbalzare tutti gli osservatori del governo e gioire gli esponenti dell'opposizione.

Non è un mistero infatti che - sia pure in una Babele di proposte che mette insieme confusamente un po' tutti i sistemi elettorali europei, per non dire del mondo -, esista in Parlamento una maggioranza numerica assai variegata favorevole al cambio dell'attuale legge elettorale, il cosiddetto Porcellum, che assegna un consistente premio in seggi alla Camera e al Senato a chi raccoglie i voti di appena più di un quarto degli elettori. Una minoranza che viene trasformata in maggioranza, appunto, con l'aggravio della scelta di deputati e senatori sottratta agli elettori e riservata in realtà ai capipartito grazie a liste bloccate di candidati.

E' opinione diffusa anche all'interno di quel che resta del Pdl che Berlusconi, pur godendo ancora di un consenso molto forte nell'opinione pubblica, già con questa legge difficilmente riuscirebbe a ottenere, oltre che alla Camera, la maggioranza al Senato, dove il premio viene assegnato su base regionale. Peggio ancora, nel caso di una riforma che abolisse il premio e all'uscita da una legislatura fallimentare come questa, che lo vedrebbero molto penalizzato.

L'offerta di votare i cinque punti (emendandoli, naturalmente, e riaprendo il dibattito su tutte le questioni più spinose, a cominciare da giustizia, federalismo e misure per l'immigrazione), lavorando nel frattempo per il sesto, la riforma elettorale, è politicamente inaccettabile per Berlusconi. Fini lo sa benissimo e se ne ha fatto un punto fondamentale dell'intervento di Mirabello è perché vuol lasciare a Berlusconi l'onere della rottura. Tra l'altro agitandogli davanti il fantasma di un governo d'emergenza, che anche in caso di una legislatura destinata a concludersi prima della scadenza naturale, si insedi solo per varare nuove norme che consentano ai cittadini di votare in un altro modo.

Fuori da questo incastro, che inserisce un'ulteriore difficoltà in una situazione già molto complicata, Fini ha svolto abilmente il suo discorso, duro e conciliante insieme. Ha parlato da leader, come ama fare, da uomo liberato ormai dalle remore di questo anno e mezzo di sofferente convivenza con il suo ex alleato, e s'è rivolto a tutti quelli, da Tremonti a Casini a Bersani, che per una ragione o per l'altra guardano da tempo al dopo-Berlusconi. Ma pur cercando di ancorarsi stabilmente nel campo da cui proviene, e negando ogni ipotesi di ribaltone o di accordi trasversali con l'opposizione, Fini ha operato cautamente uno spostamento del suo partito, dalla destra alla sinistra del centrodestra.

Non diversamente infatti possono essere interpretati i frequenti appelli all'opposizione, l'attenzione della Costituzione e più in generale alla legalità, i richiami al lavoro e al sociale, alla difesa economica dei giovani e degli insegnanti, oltre che dei poliziotti e carabinieri, declinate con un linguaggio («A Mangano preferiamo Saviano», dicevano gli striscioni di Mirabello) più familiare per le orecchie di centrosinistra, già accarezzate nei giorni scorsi dal ministro dell'Economia, e perfino per quelle del «popolo viola», che non per le agguerrite falangi berlusconiane avvezze a gridare «Silvio, Silvio!». In questo senso, Fini è uscito una volta e per tutte dal solco, che gli è sempre stato stretto, del recinto pidiellino, e ha salutato con gelida sprezzatura il plebiscitario «partito del predellino», che pure aveva contribuito a fondare.

Assodato che il governo, da ieri, è ripiombato nell'incertezza, ad onta della fiducia che già in settimana potrebbe incassare, è ancora presto per dire che ne sarà, a questo punto, della rivoluzione berlusconiana. Una rivoluzione purtroppo inconcludente, che alla fine dei lunghi anni in cui s'è svolta ha portato il Paese nello stallo. E tuttavia, irrinunciabile per Berlusconi e la sua gente. L'alternativa che si prepara non è chiara. C'è pure la possibilità che, da ferma com'è, l'Italia venga spinta a una marcia indietro.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il premier rimasto solo vede dividersi il partito
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2010, 09:03:59 pm
9/9/2010
 
Il premier rimasto solo vede dividersi il partito
 
 
MARCELLO SORGI
 
Attorno a Berlusconi cresce la pressione e il premier, per la prima volta in questi giorni difficili, deve constatare la divisione del suo partito solitamente monolitico. Non nell’ufficio politico che discute come mettere alle strette i finiani, ma poco prima, quando a Palazzo Grazioli si affaccia una folta delegazione di ministri, governatori regionali e dirigenti locali del Pdl venuti a esporre le loro riserve sulla corsa alle elezioni anticipate.

Il nocciolo duro del dissenso, chiamiamolo così, viene dalla corrente "Liberamente" promossa dalle tre ministre Gelmini, Carfagna e Prestigiacomo e da Frattini. Il ragionamento è semplice: Bossi spinge perché pensa di fare il pieno di voti al Nord, e probabilmente lo farà. Fini si presenterà come avversario diretto del Senatùr oltre che del Cavaliere e paladino del Sud, rosicchiando voti al Pdl in territori che sono stati finora serbatoio strategico di consensi per il partito. Inoltre, non tutte le alleanze strette alle regionali sono solide: mentre Berlusconi cerca di recuperare transfughi dal gruppo misto per ritrovare la maggioranza in Parlamento, il governatore della Sicilia Lombardo, eletto con il centrodestra, ad esempio continua a trattare con il Pd, e non è escluso che l'accordo per rafforzare il governo regionale sorretto da una maggioranza trasversale possa poi tradursi in caso di elezioni in un'alleanza elettorale.

A tutti Berlusconi continua a dire che a questo punto le elezioni sono quasi inevitabili, anche se via via ammette che lo scioglimento delle Camere in autunno è improbabile e la necessità di trovare un'intesa anche provvisoria per arrivare a primavera ineludibile. Ma al momento, il premier è solo: Bossi ormai si muove per proprio conto e ha preso la rincorsa per il voto, Fini rilancia ogni giorno la sua sfida (dopo aver rintuzzato il tentativo di Cicchitto di porgli il problema della sua imparzialità, ha annunciato la sua iscrizione al gruppo di Futuro e Libertà), Casini, sentendosi molto corteggiato, reagisce con cautela.

Quella di andare al voto con una coalizione allargata a Lega e Udc resta al momento solo un’ipotesi. La realtà è quella che uno dopo l'altro, prima dell’ufficio politico, gli esponenti della corrente più vicina al premier sono andati a ripetergli: come stanno le cose il Pdl rischia di tirare la volata alla Lega al Nord, perdere voti a favore di Fini nel Centro-Sud e ritrovarsi all’indomani delle elezioni con una maggioranza traballante più o meno come quella che ha ora.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Sondaggi alla mano, al Pdl conviene il voto
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2010, 10:34:02 am
10/9/2010

Sondaggi alla mano, al Pdl conviene il voto
   
MARCELLO SORGI


Sondaggi alla mano, e responsabilità nazionale a parte, per usare una delle parole che va più di moda in questi giorni, al Cavaliere converrebbe andare al voto. Lo dicono i primi sondaggi piovuti sui tavoli di Palazzo Chigi dopo il discorso di Mirabello. Da una rilevazione all'altra, ovviamente, ci sono differenze, ma il quadro è abbastanza uniforme per capire - e questo è il primo dato - che il partito dei Futuristi fondato dal Presidente della Camera, se si votasse in autunno, a meno di un improbabile accordo con un terzo polo di centro tutto da costruire, rischierebbe di non superare la soglia di sbarramento e di non entrare in Parlamento.

Le tabelle assegnano a Fini una percentuale più vicina al 5 che al 4 per cento, ma le famose "forchette", che prevedono oscillazioni in alto e in basso delle previsioni, non gli consentono di collocarsi con certezza in zona promozione. Il previsto sfondamento della Lega è confermato: 12 per cento, il che vuol dire al Nord il Carroccio in gran parte del territorio primo partito. Casini e l'Udc, con oltre il 6 per cento, migliorerebbero la loro performance, mentre Di Pietro, cedendo posizioni ai Futuristi, si attesterebbe su un dignitoso 7. Problemi di apparentamento, se non si vogliono sprecare voti, sia per la Sinistra radicale, anch'essa a rischio sbarramento perchè divisa attualmente in tronconi (Rifondazione, Vendola, Pdci) che valgono ciascuno poco più o poco meno del 2 per cento, come Grillo, sia per Rutelli, valutato sotto l'1,5.

Ma i punti fermi che giocano a favore di Berlusconi, in caso di scioglimento anticipato, sono due: mentre il gradimento del governo è in calo (fino a prima dell'orribile agosto che s'è appena concluso superava abbondantemente il 50 per cento), il Pdl non scende sotto il 30 per cento. Anzi, tende più al 31, facendo sì che l'alleanza, pur sbilanciata a favore della Lega, con Bossi, porterebbe il centrodestra ad aggiudicarsi la vittoria e il premio di maggioranza (almeno alla Camera, al Senato non è detto) anche senza l'appoggio di Fini. Mentre il Pd, fermo al 26,5, non ha grandi chanche di ribaltare la situazione.

In altre parole: se il Cavaliere, stabilendo una nuova intesa con l'Udc e altri cespugli del gruppo misto, e recuperando in qualche modo i finiani, sarà in grado di mettere su un solido patto di maggioranza, che lo lasci a Palazzo Chigi fino alla scadenza naturale del 2013 e lo metta in condizione di rilanciare il governo, meglio per lui. Ma se gli si prospetterà un accordo abborracciato e il rischio di elezioni si sposterà semplicemente dall'autunno alla primavera, non è difficile capire cosa sceglierà.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il premier e un time out per andare fino in fondo
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2010, 05:05:29 pm
11/9/2010

Il premier e un time out per andare fino in fondo
   
MARCELLO SORGI

Il viaggio in Russia, costellato di riferimenti minimizzanti alla crisi italiana e di nuove frecciate a Gianfranco Fini, ha temporaneamente interrotto la trattativa che Berlusconi ha in corso per allargare la sua maggioranza e che, malgrado le rassicurazioni del premier, non ha ancora visto risultati importanti.

Fino adesso infatti Berlusconi s’è rivolto a singoli deputati o minipartiti, prevalentemente accampati nel gruppo misto e provenienti tutti dal centrodestra, da cui magari avevano preso le distanze per motivi tattici. E’ il caso, tanto per fare due esempi, dell’Mpa del governatore della Sicilia Lombardo, che aveva preferito una collocazione autonoma dopo la decisione di allargare il sostegno del suo governo regionale al Pd, e di una corrente di dissidenti dello stesso partito capeggiata dall’ex ministro dc e attuale sottosegretario Enzo Scotti: insieme fanno più o meno una decina di parlamentari, un numero non trascurabile per il premier, che nell’ultima votazione parlamentare è riuscito a racimolare solo 299 voti, 17 in meno del minimo necessario per avere la maggioranza alla Camera.

A nessun punto è anche la trattativa con l’Udc, che da sola sarebbe in grado di sostituire l’intero gruppo finiano, se non fosse che Casini non accetta di sostenere il governo nin alternativa a Futuro e libertà. Berlusconi considera come sofismi le obiezioni che Vasini fa e le condizioni che continua a spiegare ogni giorno, e cioè: una chiara soluzione di continuità con il governo attuale (con un passaggio formale di crisi), la trasformazione in un esecutivo «di responsabilità nazionale» (con la conseguente ammissione che il Paese è in emergenza e richiede sforzi eccezionali), un programma che venga incontro ad alcune delle politiche proposte dai cattolici, in primo luogo quelle fiscali a favore delle famiglie. A tutto ciò, non solo per l’Udc, dovrebbe far seguito una redistribuzione e una riorganizzazione della compagine ministeriale (per i finiani con il ridimensionamento degli ex-An rimasti nel Pdl).

Il Cavaliere però continua a temere sopra ogni cosa le dimissioni e ha in urto ogni ipotesi di rimpasto. Alcuni dei suoi si limitano a ricordare che oltre al posto, disponibile ma svuotato di competenze, di ministro della Sviluppo economico, potrebbero liberarsi, il 5 e il 6 ottobre, alcune delle presidenze delle commissioni parlamentari che vanno al rinnovo di metà legislatura. Con questa limitatissima base di discussione, tuttavia, è difficile che la trattativa faccia molti passi avanti.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Addio Pietro Calabrese "ottavo re" di Roma
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2010, 04:29:02 pm
13/9/2010

Addio Pietro Calabrese "ottavo re" di Roma
   
MARCELLO SORGI

Adesso occorre che qualcuno comunichi ai lettori che con Pietro Calabrese, scomparso ieri a Roma a 66 anni, se n’è andato anche Gino, l’alter-ego che lui stesso si era costruito per raccontare con asciuttezza, senza protagonismo, il suo lungo calvario di malato di cancro, che un giorno qualsiasi della sua breve vita apprende per caso di essere condannato. Con Pietro, Gino aveva fatto capolino dalle colonne di «Sette», nella rubrica «Moleskine», a maggio dell’anno scorso. Doveva essere un colpo e via, ma nessuno dei due, né l’autore né il personaggio che aveva creato, potevano immaginare cosa avrebbero sollevato nel moderno sistema della comunicazione on line.

Calabrese, e per suo tramite Gino, dal giorno dopo la pubblicazione dell’articolo furono sommersi letteralmente di e-mail di gente comune, il «popolo di Gino», che non voleva rassegnarsi all’idea che non ci fosse più niente da fare. E per questo cercava di dare consigli, chiedeva dettagli e si raccomandava, almeno, di essere informata sul prosieguo. Così Pietro e Gino hanno continuato a vivere per un anno e mezzo, aiutati da tutti i loro corrispondenti, anche per onorare l’amicizia e la solidarietà ricevute a piene mani, che certamente li hanno aiutati a campare.

Questa esperienza talmente straordinaria, alla quale non era per niente preparata, pur nel frangente tragico della malattia, non poteva capitare a una persona più adatta. Giornalista blasonato e pluridirettore, Pietro infatti non s’era mai lasciato sopraffare dal cinismo, che coglie spesso dopo alcuni anni quelli che fanno il nostro mestiere. Umanamente, anzi - e sicilianamente -, era uno che aveva scambiato l’amicizia con l’amore, quasi considerava uguali due sentimenti tanto diversi. Amava la sua adorata moglie Barbara e la figlia di cui andava pazzo, Costanza, solo un po’ più degli amici a cui aveva dedicato la sua esistenza.

Era affettuoso ed esigente con loro. Non poteva far passare un giorno o una settimana senza rallegrarli con una telefonata, o rimproverarli per un’assenza troppo lunga. Nelle belle giornate e nei lunghi mesi della malattia, li riceveva in compagnia dei suoi cani, seduto su una panchina di Villa Borghese che aveva ribattezzato «l’ufficio». Era lì che si davano appuntamento a Roma tutti quelli che gli volevano bene, e lo assecondavano in qualsiasi capriccio.

Gran conversatore, animatore instancabile di serate gioiose, aveva un tocco speciale per intrattenere i suoi ospiti. A un certo punto cominciava a parlare di sesso in tono disinvolto, con grande impiego di neologismi e allusioni. I commensali che lo conoscevano meno, e magari sedevano al suo fianco per la prima volta, si stupivano. Ma lui non se ne curava. E concludeva immancabilmente magnificando la propria virilità, donatagli da una natura generosa. Aveva insomma un modo originale di snocciolare in termini crudi argomenti scabrosi. E lo faceva con un certo carisma, come se fosse un preciso dovere, tipo «avvertenze per l’uso».

L’attitudine alla descrizione letteraria dei suoi personaggi, a partire dagli anfratti più nascosti delle loro personalità, veniva fuori, non solo dai suoi discorsi, ma anche e soprattutto dai suoi articoli e dal suo modo di fare i giornali. Ancora oggi, dopo vent’anni di viaggi per il mondo da inviato e corrispondente, e altri dodici da direttore, era rimasto indimenticabile un reportage assai stravagante che dedicò a un improbabile convegno scientifico di petomani in Abruzzo, di cui volle catalogare a tutti i costi ogni tipo di emissione.

Due quotidiani (Il Messaggero e la Gazzetta dello Sport), due periodici (Panorama e Capital), il primo portale Internet della Rizzoli-Corriere della Sera, un’intera divisione della Rai, di cui per poco non diventò presidente, Calabrese aveva alle spalle una carriera prestigiosa, anche se era rimasto legato al giornale della Capitale in cui si era formato da ragazzo. Nessuno come lui aveva saputo interpretare e mettere in pagina vizi e virtù di una città unica, che lo elesse non solo metaforicamente «ottavo re di Roma». Si era gettato anima e corpo a rappresentare il trash del potere romano, tra pranzi e cene, amori e tradimenti, impicci e imbrogli: un Satyricon di cui era testimone diretto, da monarca di una Capitale anarchica.

Tra pochi giorni, pubblicata da Rizzoli, la storia di Pietro e Gino diventerà un libro. Il diario coraggioso e spietato di uno che va verso la fine, un passo dopo l’altro. Ma anche l’addio di un uomo che aveva vissuto sempre con gli altri, e per gli altri.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il Cavaliere e l'occasione mancata da Casini
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2010, 05:46:33 pm
14/9/2010 - TACCUINO

Il Cavaliere e l'occasione mancata da Casini
   
MARCELLO SORGI

Dopo l'incontro in cui il repubblicano Nucara ieri ha detto a Berlusconi di aver messo insieme i venti parlamentari necessari a costituire il "gruppo di responsabilità nazionale", per consentire al governo di riavere la maggioranza anche a prescindere dell'apporto dei finiani, l'interesse del premier per un accordo con l'Udc è destinato a calare. I dissensi emersi in seno al partito, seguiti all'intervento in cui Casini ha posto esplicitamente la crisi di governo come condizione per aprire una vera trattativa, fanno temere al Cavaliere che i tempi non siano maturi, anche se tutto, fino a una settimana fa, faceva prevedere un riavvicinamento dei centristi al governo.

Berlusconi da qualche giorno ha ritrovato l'ottimismo e non pensa affatto a dimettersi. Se i numeri di Nucara saranno confermati, e se la distensione avviata a tutti i livelli con i finiani darà i suoi frutti, a fine mese il governo uscirà dall'atteso dibattito sui cinque punti (ma non sul salva processi per il premier) con una maggioranza niente affatto risicata. Poi si vedrà: se il logoramento dovesse riprendere, le elezioni in primavera diventeranno inevitabili. Altrimenti, superato in qualche modo lo scoglio della giustizia, il centrodestra andrà avanti.

Più o meno questo dev'essere il ragionamento che lo stesso Casini avrà fatto con se stesso. Non per l'emergere di qualche turbolenza interna, come quelle dei deputati siciliani, in testa l'ex ministro Calogero Mannino, che non hanno gradito il suo accenno alla crisi di governo e avrebbero preferito l'offerta di un appoggio non negoziato a Berlusconi, rinviando a dopo la valutazione degli sviluppi della collaborazione e del da farsi. Ma appunto perché, a giudizio del leader dell'Udc, finchè la situazione rimane incerta gli spazi negoziali resteranno praticamente intatti, ed eventualmente potrebbero anche allargarsi se davvero si dovesse andare a votare in primavera e il Pdl avesse bisogno di allargare la sua base elettorale.

Quel che Casini non valuta, mentre sfoglia i petali della sua margherita, è che nell'orizzonte berlusconiano i fattori politici hanno certo la loro importanza, ma contano molto di più quelli personali. Ancorchè difficile da decidere per l'Udc, l'appoggio offerto al Cavaliere in uno dei suoi momenti più bassi avrebbe generato una gratitudine per il vecchio alleato assai spendibile, ora che la corsa alla successione è ufficialmente ricominciata e Berlusconi non si fida di nessuno dei suoi aspiranti delfini.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Ricomincia la stagione del logorìo
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2010, 09:07:13 am
15/9/2010 - TACCUINO

Boomerang della campagna acquisti

Ricomincia la stagione del logorìo
   
MARCELLO SORGI

La cautela con cui il paziente portavoce del governo Bonaiuti ha ridimensionato ieri l’entusiasmo del suo presidente, che aveva salutato la nascita del nuovo gruppo promosso dal repubblicano Nucara dichiarando il governo fuori pericolo, rivela solo in parte quel che è accaduto in sole ventiquattrore.

Non solo la “legione straniera” di Nucara s’è liquefatta, rendendo nuovamente ballerina la maggioranza di Berlusconi. Ma grazie alle numerose smentite dei deputati che venivano indicati come possibili soccorritori del governo, s’è capito che la trattativa in corso, oltre a riguardare il sostegno al premier, che vuole a tutti i costi dimostrare di poter stare in piedi anche senza l’appoggio determinante dei finiani, tocca anche tutti quelli che hanno l’obiettivo opposto.

Così tutti i deputati che a detta di Nucara gli avevano dato la loro disponibilità sono stati raggiunti da telefonate, o dei fedelissimi del Presidente della Camera, o di altri esponenti dei piccoli partiti accampati nel gruppo misto che per conto proprio o degli stessi finiani facevano questo ragionamento: se Berlusconi riconquista la sua sicurezza, i margini di qualsiasi trattativa politica si riducono. Se invece rimane nell’incertezza, si riaprono i giochi, e non è detto che la legislatura debba per forza finire con elezioni anticipate. In altre parole il gioco che, sia i finiani, sia i microgruppi che condividono la loro battaglia stanno conducendo, punta a far ottenere al premier una fiducia stentata, per cuocerlo a fuoco lento nei mesi successivi, preparando intese trasversali che a primavera magari, quando ormai esausto Berlusconi tenterà di nuovo di andare alle urne, potrebbero sfociare in un governo d’emergenza.

Un lavorìo di questo genere è rivolto anche all’opposizione, dove non passa giorno che nel Pd si aprano nuove crepe. Le voci, poi smentite, dell’intenzione di Veltroni di distinguersi e andare con i suoi verso la formazione di nuovi gruppi parlamentari stile Fini, hanno messo allarme nell’ala più moderata degli ex-popolari, da tempo in bilico tra restare nel partito o uscirne. Niente che possa portare a precipitare le cose: ma se si sommano le inquietudini veltroniane con i ceffoni dei giovani tipo Renzi, Civati o Orfini, i fischi alla Festa di Torino, la candidatura centrifuga di Chiamparino alla premiership, le inquietudini di Rosy Bindi e di Enrico Letta, il silenzio cupo di D’Alema dopo le reazioni all’intervista in cui riproponeva l’accordo con Casini, anche nel centrosinistra c’è materia per ricominciare da capo.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Patto fragile per una tregua fragilissima
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2010, 10:13:14 am
16/9/2010 - TACCUINO

Patto fragile per una tregua fragilissima

MARCELLO SORGI

La passeggiata nel Transatlantico di Niccolò Ghedini e Giulia Bongiorno, i due “dottor Sottile” di Berlusconi e Fini, non ha, per il momento, avuto alcun effetto pratico se non quello di dare platealmente la sensazione di un inizio di disgelo tra i due fronti in guerra da mesi. Se hanno avuto incarico dai loro leader di incontrarsi, e se tocca a loro anche stavolta trovare un punto d’intesa, Ghedini e Bongiorno, come hanno fatto tante volte, lo troveranno.

Il terreno del possibile incontro è stato individuato nel lodo Alfano costituzionalizzato, cioè nell’elevazione di rango della norma che la Corte costituzionale bocciò meno di un anno fa motivando la sua sentenza con il fatto che una legge normale non poteva modificare di fatto la Costituzione, reintroducendo l’immunità che era stata cancellata dopo Tangentopoli con la riforma dell’articolo 68.

Maturata mentre ancora continua il mercato delle acquisizioni (dopo lo sgonfiamento della “legione straniera” di Berlusconi, ieri si parlava di altri due del Pdl in marcia verso Futuro e libertà) il pre-accordo raggiunto dagli avvocati-deputati sulla materia del contendere può essere letto come un’effettivo scambio di disponibilità, ma anche come un modo di allungare i tempi, visto che i cambiamenti della Costituzione richiedono la procedura aggravata dell’articolo 138, che prevede una doppia votazione delle Camere sul medesimo testo a intervalli non inferiori a tre mesi.

Bene che vada, il nuovo salva processi per il premier non vedrebbe la luce prima della prossima primavera. E nel frattempo, va da sé, Fini metterebbe alla prova la capacità di Berlusconi di convivere con un alleato come Futuro e libertà che vuole riprendersi piena libertà di parola. Il Presidente del Consiglio d’altra parte, se davvero vuole ottenere il salvacondotto, dovrebbe adattarsi. L’apertura di Fini sul lodo infatti vuol dimostrare che il Presidente della Camera, diversamente da quel che pensa e dice il premier, non ha alcuna intenzione di farlo fuori per via giudiziaria.

Sempre che il fragile accordo possa reggere ai temporali quotidiani che investono la difficile convivenza dei due leader separati in casa, occorrerà vedere come la prenderà la Corte costituzionale, che il 14 dicembre dovrebbe pronunciarsi sul legittimo impedimento, la legge-tampone attualmente in vigore in attesa di quella definitiva. Se per quella data le Camere avessero già concluso la prima sessione di votazioni sul lodo Alfano costituzionalizzato, la Consulta, verosimilmente, potrebbe anche decidere di aspettare, rinviando l’udienza.

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Titolo: MARCELLO SORGI. I finiani in tv, nuovo problema per il Cavaliere
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2010, 02:20:59 pm
17/9/2010 - TACCUINO

I finiani in tv, nuovo problema per il Cavaliere
   
MARCELLO SORGI

Oltre a determinare un acceso dibattito, conclusosi con una spaccatura, nel consiglio d’amministrazione della Rai, a partire dall’intenzione del direttore generale Masi di intervenire preventivamente sui contenuti dei programmi d’informazione, la ripresa dei talk-show su tutte le reti televisive pubbliche e private sta evidenziando un problema che incubava da tutta l’estate.

Chi ha seguito, per esempio, «L’Infedele» lunedì su La 7 o «Ballarò» martedì su Rai3, ha potuto vedere che anche con le migliori intenzioni dei responsabili e dei conduttori, che cercano di comporre in modo equilibrato l’insieme degli ospiti, l’entrata in scena della maggioranza di governo nella nuova versione, berlusconiani contro finiani, ha introdotto una novità non priva di conseguenze. Chi entra in studio in rappresentanza del premier, pur trovandosi seduto accanto a un altro che in teoria dovrebbe stare dalla sua parte, si trova in realtà al centro di un fuoco di fila del centrosinistra e di quel pezzo di maggioranza che in tv spara contro anche di più dell’opposizione. Lunedì per il Pdl, a fare il bersaglio, c’era la Bernini; martedì Lupi. Accanto a loro, ma appunto contro, c’era il finiano Granata, che con il capogruppo di Futuro e libertà Bocchino ha in questo momento il tasso maggiore di presenze in televisione.

Naturalmente i finiani hanno pieno diritto di esprimere le loro idee e sono sicuramente sinceri quando, alla fine delle loro catilinarie, concludono immancabilmente che voteranno a favore del governo. Ma non c’è dubbio che, proprio perché si collocano su una posizione critica, la loro partecipazione ai talk show finirà per accrescere l’attenzione, già viva, per la novità finiana. E Berlusconi, sempre spasmodicamente attento a quel che succede in tv, non tarderà ad accorgersene.

Il bello è che non c’è alcuna legge di par condicio, né regolamento della vigilanza, e neppure, immaginiamoci, circolare del direttore generale della Rai Masi, che possono impedire o limitare gli inviti per Futuro e libertà nei programmi di informazione. Così, dalla sospensione estiva dei programmi, avvenuta quando la scissione del Pdl doveva ancora verificarsi, ad ora che Pdl e Fli sono diventati due membri, formalmente alleati, di una coalizione, tra i tanti problemi che ha il governo c’è anche questo nuovo dell’opposizione interna che va in video a rappresentare la maggioranza.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Una rottura che spinge al voto
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2010, 05:10:30 pm
23/9/2010 - TACCUINO

Una rottura che spinge al voto

MARCELLO SORGI

Si tratti di una reazione alle ultime rivelazioni del Giornale sulla vicenda della casa di Montecarlo - il documento che proverebbe che il cognato di Fini, oltre che affittuario, sarebbe stato in pratica l’acquirente, tramite una società off-shore, dell’appartamento venduto da An -, oppure della conseguenza della votazione sulle intercettazioni di Cosentino in cui i finiani sono stati sconfitti insieme con Udc e Pd, l’annuncio del presidente della Camera della rottura delle trattative faticosamente riaperte con Berlusconi sulla giustizia complica di nuovo molto le cose. Accelerando di fatto la corsa verso le elezioni anticipate che non s’è mai fermata, malgrado i tentativi in corso di trovare un compromesso.

La prospettiva al momento è quella di una campagna elettorale di sei mesi, settimana più settimana meno, nel corso della quale Berlusconi, con l’incerto aiuto degli spezzoni di dissidenti di Udc, Mpa e altri partiti, non esclusi Fli e Pd, prova a far approvare lo stesso le norme salva processi, schiacciando i finiani sulla sinistra e preparandosi subito dopo a sfidarli alle urne. Da parte sua Fini, dopo quanto è accaduto ieri nel voto su Cosentino (anche il più radicale del suo gruppo, Granata, ha ammesso che potrebbero esserci state defezioni), avrà il suo bel da fare per tenere insieme i 35 deputati e 10 senatori che a luglio hanno rotto con il Pdl schierandosi con lui.

Al di là della fedeltà al presidente della Camera e al disagio per il modo in cui sono stati trattati nel Pdl, i parlamentari di Futuro e libertà, per restare uniti, hanno bisogno di una prospettiva chiara, che non può esaurirsi nelle alterne vicende del duello personale che si sviluppa da mesi tra i due ex cofondatori. Anche se mercoledì prossimo, come è stato spiegato ieri in aula, Fli voterà con il governo, la contromossa di Fini alla sbandierata intenzione del premier di mettere insieme a qualsiasi costo una maggioranza raccogliticcia, ma in grado di sorreggerlo senza l'appoggio dei futuristi, equivale a un passaggio all’opposizione. Berlusconi non s’è mai fidato delle dichiarazioni di tregua che venivano dal fronte avversario, aveva messo in conto la possibilità di un nuovo incrudelimento dei rapporti e s’è premunito come poteva.

Ma un governo costretto a cercare ogni giorno una maggioranza di riserva non andrà molto lontano. E altrettanto una destra, come quella finiana, che, mentre cerca di mettere su un traballante terzo polo, si ritrova schiacciata su una scomoda sponda di sinistra.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Con il riferimento ai servizi, rotto il filo Fini-Letta
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2010, 04:49:28 pm
24/9/2010 - TACCUINO

Con il riferimento ai servizi, rotto il filo Fini-Letta
   
MARCELLO SORGI


La durissima nota con cui ieri Palazzo Chigi ha smentito la più pesante delle accuse pronunciate mercoledì da parte del Presidente della Camera contro il premier, che a suo giudizio si sarebbe avvalso della collaborazione dei servizi segreti per ottenere il documento, ovviamente giudicato falso dai finiani, che proverebbe che la società off-shore che ha acquistato il famoso appartamento di Montecarlo finito in locazione al cognato di Fini sarebbe sotto il diretto controllo dello stesso, non segna solo un ulteriore inasprimento dei rapporti tra i due ex-cofondatori del Pdl.

Piuttosto, conferma che ogni tentativo di mediazione tra i duellanti è esaurito. Basta infatti riflettere su un dettaglio: nell'attuale governo i servizi sono sotto il controllo del sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta. La reazione sdegnata di Palazzo Chigi alla presa di posizione di Fini non sarebbe stata espressa in termini tanto ultimativi se Letta stesso - in passato, anche recente, fautore di un riavvicinamento tra i due tronconi separati della maggioranza -, non avesse considerato ciò che è uscito da Futuro e libertà al pari delle "dissennatezze" che Berlusconi ormai tutti i giorni attribuisce al Presidente della Camera.

La rottura Letta-Fini, emersa già ad agosto quando davanti al feretro di Cossiga il leader del neonato Fli disse al sottosegretario "o Berlusconi mi distruggerà o io distruggerò lui", s'era in parte ricomposta con l'avvicinarsi della scadenza del dibattito sulla fiducia di martedì prossimo e con la ripresa delle trattative sulla giustizia e sulla legge salva processi per il premier. Nel risentimento espresso aspramente, ma sempre sul piano istituzionale (e non a caso seguito da analoghe prese di posizione del Dis, l'organismo di coordinamento dei servizi, della Guardia di finanza, e perfino di Massimo D'Alema, nella sua qualità di presidente del Copasir, il comitato di sorveglianza parlamentare sull'intelligence), è facile riconoscere la mano di Letta, da sempre contrario e preoccupato che la lotta politica possa allungare le sue ombre sulle istituzioni.

L'aggiustamento di tiro dei finiani, dai servizi ad esponenti deviati degli stessi apparati, segnala che all'interno del Fli, diviso tra falchi e colombe, qualche effetto la sortita di Palazzo Chigi l'ha avuto. Ma i toni restano insopportabili (bastava sentire Bocchino ieri sera da Santoro). E l'escalation della guerriglia tra i due fronti avversari, che la prossima settimana dovrebbero inverosimilmente ritrovarsi alleati a sostegno del governo, sembra ormai inarrestabile.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Le elezioni sono ora più vicine
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2010, 08:33:44 am
25/9/2010

Le elezioni sono ora più vicine

MARCELLO SORGI

Ci sono dei momenti, nella furia di una tempesta, in cui una nave che pur avanza, sballottolata dalle onde, si piega su un fianco e sembra ormai destinata al naufragio: una sensazione del genere s’è avuta ieri, quando dopo due giorni di dibattito sulla «patacca», che Berlusconi avrebbe fatto costruire ad arte, per dimostrare che Giancarlo Tulliani, oltre che affittuario, è praticamente proprietario del famoso appartamento di Montecarlo venduto da An per decisione di suo cognato Gianfranco Fini, si è scoperto che «patacca» non era. Il ministro Rudolph Francis di Santa Lucia, l’isoletta caraibica paradiso di inaccessibili società off-shore, non poteva immaginare, con la conferenza stampa che ha autenticato il documento che accusa Tulliani, di aver probabilmente posto fine alla legislatura italiana cominciata poco più di due anni fa. Ma l’impressione, anche prima che oggi Fini cerchi di chiarire in un videomessaggio destinato a Internet, è che sia diventata impossibile una ricomposizione della maggioranza di centrodestra che martedì in Parlamento dovrebbe rilanciare il governo dopo la paralisi di quest’estate: destinata, invece, di conseguenza, a protrarsi chissà per quanto.

Pur in difficoltà rispetto alla vicenda di Montecarlo, sulla quale finora non è riuscito a dare spiegazioni convincenti, Fini infatti avrebbe potuto tentare più agilmente di uscire dall’angolo, se non avesse scelto due giorni fa la linea della patacca e delle accuse al presidente del Consiglio di essersi servito dei servizi segreti per incastrarlo. Solo per fare qualche esempio di punti che andrebbero approfonditi, avrebbe potuto contestare la carta che incastra il cognato nel merito e non nell’autenticità, sottolineare alcune evidenti contraddizioni e ambiguità del testo, chiedere per quale ragione e su sollecitazione di chi, in un Paese in cui l’off-shore è pane quotidiano, il governo di Santa Lucia decida di occuparsi di una, e solo di una, delle migliaia di società che ne approfittano, e infine contestare l’affermazione che la stessa società è sotto il controllo di Tulliani quando poi nell’ultima riga il documento ammette che sono ancora in corso accertamenti.

Non è escluso che questa sarà oggi la linea di difesa del Presidente della Camera: ma è evidente che il passaggio precedente, lo slogan della patacca, le accuse al premier e ai servizi di dossieraggio, rendano adesso meno convincenti giustificazioni come queste. Prima di fare certe affermazioni, ribadite peraltro in tv dal capogruppo del suo nuovo partito Bocchino, la terza carica dello Stato avrebbe dovuto prendere le sue precauzioni, valutando le conseguenze di parole così pesanti, che provenivano non dal palco del comizio di un leader, ma dallo scranno più alto della Camera dei Deputati.

Se Fini dunque è in forte difficoltà - la natura istituzionale delle sue responsabilità lo mette automaticamente sotto la lente d’osservazione delle altre autorità dello Stato -, Berlusconi non sta molto meglio. Nell’immediato, certo, ha potuto godere dell’autogol messo a segno dal suo avversario, che tra l'altro, ieri pomeriggio, a un convegno, ribadiva che a nessun costo lo aiuterà ad ottenere l’impunità dai processi che lo affliggono. Ma tutt’attorno ha un panorama di macerie. Il governo nato sull’onda della grande vittoria elettorale del 2008, che godeva di oltre cento deputati di maggioranza alla Camera, annaspa alla ricerca della famosa «quota 316» che dovrebbe consentirgli di andare avanti anche senza l’appoggio dei finiani. Per quanti sforzi abbia fatto, a quattro giorni dalla seduta parlamentare in cui dovrebbe presentare il programma dei prossimi tre anni, Berlusconi quella quota non l’ha raggiunta, così che la conclusione più probabile del dibattito alla Camera è che il governo sarà costretto ad andare avanti, malgrado l’evidenza della crisi politica, da un appoggio datogli a dispetto dagli avversari interni che fanno capo al presidente della Camera, che lo voteranno per pura ipocrisia e per potere continuare a trafiggerlo dal giorno dopo.

Né le cose cambierebbero se alla fine, sfruttando la paura delle elezioni di molti deputati peones, il Cavaliere dovesse raggiungere la fatidica quota: l’esigua maggioranza che lo sosterrebbe, in nome del salvataggio della pensione parlamentare prima che della legislatura, di fronte a nuove insostenibili difficoltà sarebbe pronta a raccogliersi, un domani, per sorreggere un altro governo, anche d'emergenza, che nascerebbe tuttavia, anche questo, sotto i peggiori auspici opportunistici. Da qualsiasi punto di vista e comunque la si guardi, la legislatura sembra insomma arrivata alla fine: e se davvero si andrà al voto, si potrà dire che mai il Paese c’è andato in condizioni peggiori, senza un chiaro sbocco, né alternative che abbiano un minimo di credibilità.

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Titolo: MARCELLO SORGI. L'occasione del chiarimento è diventata un impaccio
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2010, 12:01:26 pm
28/9/2010 - TACCUINO

L'occasione del chiarimento è diventata un impaccio
   
MARCELLO SORGI

La richiesta (da parte dei finiani) e la mancata concessione (da parte del Pdl) di un vertice di maggioranza, per arrivare a una conclusione concordata del dibattito parlamentare di domani alla Camera, sono solo mosse tattiche, che rivelano la confusione con cui i due tronconi della ex-maggioranza si avviano alla scadenza che dovrebbe decidere le sorti della legislatura.

Berlusconi e Fini in realtà si osservano a distanza ma non hanno fatto un centimetro di spostamento dalle rispettive posizioni, che rendono impossibile una ripresa della collaborazione di governo. Al presidente del consiglio (e non solo a lui) il messaggio Internet del Presidente della Camera ha dato l'impressione di un ripiegamento destinato a produrre ulteriori divisioni all'interno del gruppo Futuro e libertà. A Fini il silenzio che Berlusconi ha fatto seguire al suo intervento, rotto solo da un generico intervento a distanza al convegno della Comunità di don Gelmini, ha dato la sensazione che il premier non abbia abbandonato i suoi propositi bellicosi nei confronti della minoranza e sia disposto a un accordo solo a prezzo di una resa incondizionata dei dissidenti del Fli.

Nell'impossibilità di realizzare un vero riavvicinamento o una vera rottura, un accordo che consenta al governo e alla legislatura di continuare o in alternativa un sicuro sbocco elettorale, i due rivali vivono come un impaccio l'appuntamento parlamentare pensato a suo tempo come l'occasione del chiarimento. Se l'unica rotta è di collisione, d'altra parte, i due ex cofondatori che domani, ironia della sorte, siederanno uno sopra l'altro nell'aula di Montecitorio senza probabilmente rivolgersi la parola, al momento non possono fare altro che schivarsi.

Berlusconi - che ieri ha confermato che il governo chiederà un voto, sgomberando il campo dall'ipotesi di un dibattito annacquato senza votazioni finali - inseguirà fino all'ultimo il miraggio della sua maggioranza autosufficiente, per la quale, va detto, a tutt'oggi mancano ancora i numeri. Fini, in un appuntamento così delicato, non ha più a disposizione l'arma dell'astensione. Magari farà votare a favore i suoi anche senza aver avuto alcuna possibilità di concordare preventivamente nulla con governo e maggioranza. E chiederà al suo capogruppo Bocchino di pronunciare un intervento durissimo in aula sui problemi della giustizia. Un penultimatum: l'ennesimo, in attesa di capire quali nuove arrivano da Santa Lucia e Montecarlo, e se a marzo si vota o no.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La tregua, poi si ricomincia
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2010, 11:45:56 am
29/9/2010 - TACCUINO

La tregua, poi si ricomincia
   
MARCELLO SORGI

No, non deve stupire il progressivo slittamento che ha portato Berlusconi dall’idea di un dibattito senza voto alla Camera, a quella di un dibattito con un voto in cui avrebbe dovuto presentarsi spontaneamente la nuova maggioranza di centrodestra, in grado di fare apparire superflui i finiani, alla richiesta, infine, di una classica fiducia votata palesemente per appello nominale, che realizzerà il paradosso di un governo molto debole con una maggioranza molto larga. Una vecchia regola della politica dice che quando i leader si trasformano in giocatori di poker è bene guardare se sul tavolo i soldi corrono per davvero.

In questo caso, era evidente, nessuno dei due contendenti era disposto a giocarsi veramente la posta. Benché separati in casa da quasi sei mesi (la famosa direzione del Pdl in cui si presero a pesci in faccia si tenne nel lontano 22 aprile), Berlusconi e Fini sono ormai talmente dipendenti da eventi esterni da non poter prendere nessuna decisione importante.

Il Cavaliere vede il suo destino sempre più legato ai processi di cui ha cercato invano di liberarsi e alla decisione della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento, la leggina votata in fretta e furia per dargli un po’ di respiro, in attesa di trovare una soluzione più duratura (vedi lodo Alfano costituzionale) per i suoi guai giudiziari. Le probabilità che questa via di fuga sia tracciata sono diminuite man mano che aumentava il contenzioso con il gruppo finiano. A un certo punto, non si sa come mai, Berlusconi ha deciso di giocare la carta delle dimissioni di Fini, impossibili da ottenere, finora. A dimettersi, nel frattempo, sono stati tre dei suoi, i ministri Scajola e Brancher e il sottosegretario Cosentino.

Ma anche Fini, dacché è esploso il caso Montecarlo, ha dovuto ridimensionare di molto i suoi disegni. Il discorso di Montebello è stato in qualche modo il suo canto del cigno. E il programma di fondare un nuovo partito fuori dal Pdl s’è rivelato via via più difficile del previsto: ieri, per dire, il presidente della Camera ha passato un pezzo della sua giornata a rimettere insieme le due ali, falchi e colombe, dei neonati gruppi parlamentari di Futuro e Libertà, fondati da due mesi e già organizzati in correnti. Così, in attesa di sapere quali altre sorprese gli riserva l’implacabile ministro di Santa Lucia che indaga sulla società proprietaria del famoso appartamentino di Montecarlo in cui vive suo cognato, l’ex leader di An ha optato per un’accostata. Il governo stasera avrà la fiducia. Poi tutto ricomincia come prima.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Al Carroccio questo stallo non conviene
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2010, 03:50:39 pm
1/10/2010 - TACCUINO

Al Carroccio questo stallo non conviene
   
MARCELLO SORGI

Finisce che ci tirano i cachi…»: era di questi tempi, la stagione dei frutti che insieme ai pomodori maturi meglio si prestano alle contestazioni pubbliche, e Umberto Bossi, già qualche anno fa, di fronte alla devolution che non arrivava, si preoccupava delle reazioni dei suoi lumbard, dipinti spesso a torto come una falange disposta a tutto per il proprio leader, e invece sensibili, proprio come il Senatùr, ai vuoti e ai ritardi di un governo inconcludente, di cui comunque la Lega fa parte.

Quello dell’aperta insoddisfazione di Bossi per la precarietà con cui è uscito il centrodestra dal passaggio parlamentare, che al contrario doveva rappresentare l’occasione del chiarimento, è un problema che Berlusconi sa di non dover trascurare nella situazione in cui si trova. A maggior ragione adesso che la Lega potrebbe essere corteggiata dalla minoranza finiana o dall’opposizione. Il ritiro, da parte del Pd, della mozione di sfiducia nata dalle infelici battute sui romani, delle quali peraltro il Senatùr ha dovuto scusarsi, si può leggere anche in questa chiave: il tentativo, simmetrico, di Fini e Bersani, di schivare un’altra occasione di voto parlamentare a rischio e possibile crisi, e di evitare di andare alle elezioni con questa legge elettorale, lavorando per cercare di arrivare a un governo d’emergenza che si dia l’obiettivo di cambiarla e coinvolgendo in questo processo anche la Lega.

Al momento, infatti, Bossi non ha nulla da guadagnare a stare fermo: se il governo va avanti così, le probabilità di veder completato l’iter del federalismo sono ridotte, a meno di aprire una trattativa parallela con Fini, che chiederà in cambio un rafforzamento dell’unità nazionale indigesto per la Lega e i suoi elettori.

E se la prospettiva diventa quella delle elezioni anticipate, il ritardo con cui ci si arriverebbe rispetto ai piani originari di Bossi, che le avrebbe volute subito, alle prime avvisaglie della divaricazione tra i due ex-cofondatori del Pdl, e comunque entro l’anno, cominciano a rendere più conveniente, per la Lega, presentarsi da sola.

Più avanti si va, infatti, e più il vantaggio dell’accordo a tavolino con il Cavaliere sul numero e sui nomi degli eletti al Nord, grazie alla legge attuale che consente di «nominare» i parlamentari, rischia di essere riequilibrato dall’handicap di correre con un Berlusconi appesantito dalla piega che hanno preso le cose e non in grado di uscire con certezza dal voto con una maggioranza al Senato oltre che alla Camera.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Nessun governo tecnico senza accordo sulla legge elettorale
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2010, 12:34:35 pm
5/10/2010 - TACCUINO

Nessun governo tecnico senza accordo sulla legge elettorale
   
MARCELLO SORGI


Di fronte al ministro dell’interno leghista Maroni, che ripete che se la maggioranza non terrà, in uno dei numerosi appuntamenti parlamentari delle prossime settimane, le elezioni diventeranno inevitabili, il leader del Pd Bersani e il capogruppo finiano Bocchino hanno sostenuto il contrario. In Parlamento, a loro giudizio, esistono i numeri per dar vita a un nuovo governo incaricato di riformare la legge elettorale «Porcellum» attualmente in vigore, e solo dopo, eventualmente, andare al voto. Dopo di loro, anche il leader del Mpa e governatore della Sicilia Lombardo, i cui deputati alla Camera sono stati decisivi a favore del governo nella votazione della settimana scorsa, s'è schierato in questo senso.

L’ipotesi poggia anche sulla ragionevole previsione che, in caso di dimissioni di Berlusconi concordate con la Lega per ottenere lo scioglimento delle Camere, il Capo dello Stato, basandosi sul precedente di due anni fa, non potrebbe evitare di fare un accertamento sull’esistenza o meno di altre maggioranze in Parlamento, e in quel caso dar vita al tentativo di formare un governo di fine legislatura.

Di per sè, l’obiettivo di riformare il «Porcellum» è legittimo. Ma diventa realistico solo se i partiti che se lo propongono sono in grado di raggiungere un’intesa di massima su come modificare la legge. Ma su questo, il consenso che pare maggioritario, al momento, sull’ipotetico governo d’emergenza, rischia di incrinarsi. Già solo nel Pd, che guarda a Fini come possibile alleato, ci sono almeno due posizioni in materia: quella, di matrice dalemiana, a favore di una riforma alla tedesca che consentirebbe di agganciare alla coalizione i centristi di Casini, e quella bipolare, recentemente ribadita da Veltroni, e a cui Fini è più vicino, che si oppone a questa prospettiva. Inoltre, una volta riaperto il discorso, Di Pietro e la sinistra radicale premerebbero per un abbassamento della quota di sbarramento, attualmente prevista al 4 per cento per la Camera e all’8 per cento su scala regionale per il Senato. Quanto alla Lega, è difficile prevedere cosa farebbe, partendo Bossi da una posizione proporzionalista. L’idea che Napolitano, senza avere tra le mani un’ipotesi di riforma condivisa dai partiti avversari del «Porcellum», apra la strada a un nuovo governo, destinato a uno scontro frontale con Berlusconi in nome delle scelte fatte dagli elettori nel 2008, è fuori discussione. I fautori del governo elettorale farebbero bene a prendere atto di questo dettaglio, che non è affatto indifferente.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Le ragioni della proliferazione
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2010, 05:34:15 pm
6/10/2010 - TACCUINO

Le ragioni della proliferazione
   
MARCELLO SORGI

Ci sono almeno tre ragioni per cui in Italia proliferano i partiti e ne nascono sempre di nuovi. La prima, ci si passi il termine, è storica: la Seconda Repubblica nacque, sì, bipolare e maggioritaria, come volevano gli elettori del referendum del 1993, ma, quando si trattò di mettere a punto la legge elettorale, fu subito reintrodotto un canale proporzionale per cui i cittadini votavano nei collegi scegliendo insieme il candidato e il partito, oltre che la coalizione e il governo. Questo consentì in breve, già nel corso della prima legislatura 1994-’96, di arrivare a una quarantina e passa di sigle presenti in Parlamento. La seconda ragione è politica e culturale: anche ora che eravamo arrivati a tentare di sostituire il bipolarismo rissoso delle coalizioni con un tendenziale bipartitismo di partiti a vocazione maggioritaria, a dettare la linea sono sempre i piccoli, la Lega e adesso Fini nel centrodestra, Di Pietro nel centrosinistra. Il potere di veto è l’unico vero potere che funziona in Italia.

Inoltre, essendo venuto meno qualsiasi cemento ideologico - ammesso che di cemento si trattasse - le fusioni sono diventate più facili, ma altrettanto le scissioni. Post-democristiani e post-comunisti si mettono insieme, poi scoprono che su un sacco di cose importanti non vanno d’accordo e si dividono o si scindono. E lo stesso accade tra riformisti e conservatori e ovviamente tra post-fascisti e berlusconiani. Con un’aggravante, in quest’ultimo caso: la Seconda Repubblica essendo stata fondata da Berlusconi, tutto quel che accade al suo interno si svolge in campo berlusconiano o antiberlusconiano. Chi non trova più spazio o non si sente più a suo agio nel primo, passa automaticamente nel secondo, avendo cura, prima di traghettare, di fondare un partito o almeno di minacciarne la fondazione. Vale anche il contrario, naturalmente. Vedi quel che è accaduto nei giorni scorsi alla Camera.

Terza e ultima ragione: fondare un partito è conveniente. Non esiste un Paese, come il nostro, in cui sotto la copertura del rimborso delle spese elettorali i partiti vengano foraggiati dallo Stato con fondi pubblici più generosi. E dire che quasi vent’anni fa s’era votato in un referendum per abrogare il finanziamento pubblico dei partiti. Abolito nelle urne, il sistema è rinato con una legge che ha fatto sì che negli ultimi dieci anni lo stesso finanziamento sia praticamente decuplicato, allargandosi alle spese per qualsiasi tipo di elezioni, comunali, provinciali, regionali ed europee, oltre che politiche. Tra poco, se la moda delle primarie prenderà piede in modo meno intermittente, si farà una nuova legge per rimborsare anche quelle. E i gazebi della Lega, per par condicio.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il duello non è finito ma solo sospeso
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2010, 01:01:48 pm
8/10/2010 - TACCUINO

Il duello non è finito ma solo sospeso
   
MARCELLO SORGI

Inaugurata due giorni fa con la conferenza stampa in cui il premier ha escluso ancora una volta le elezioni anticipate, la tregua Berlusconi - Fini ha ricevuto ieri una conferma da parte del Presidente della Camera.

Nell'intervista al programma di Santoro "Annozero", infatti, Fini ha spiegato di non credere all'ipotesi di scioglimento anticipato delle Camere, di essere disposto a collaborare all'approvazione del Lodo Alfano costituzionale e di immaginare d'ora in poi un rapporto di consultazione del Pdl con Futuro e libertà, dal momento che la maggioranza di centrodestra poggia adesso su tre gambe, e non più su due.

Di più l'ex-cofondatore non voleva e forse non poteva dire, la tregua essendo per ora appesa a uno stallo inevitabile e a un chiarimento neppure cominciato sulla possibilità che il governo arrivi a fine legislatura e sul percorso che dovrebbe assegnarsi. L'approvazione ieri in consiglio dei ministri di un'altra parte importante dell'attuazione del federalismo gratifica ovviamente la Lega, ma in nessun modo affronta le richieste venute da Fli in materia di rafforzamento dell'unità nazionale, che restano dunque sospese, e in mancanza dei quali il varo definitivo dello stesso federalismo resta appeso ai finiani. Il via libera alla ripresa della trattativa sul Lodo Alfano, dopo lo stop and go di fine estate, lascia aperto il problema dello scudo temporaneo, che Berlusconi rivendica fino alla conclusione del complesso iter parlamentare della legge costituzionale, ma che Fini e i suoi hanno bollato fin qui come l'ennesima inaccettabile legge ad personam. Anche il richiamo alla riforma della legge elettorale, che Berlusconi e Bossi hanno detto chiaramente di non volere (a meno di non introdurre ulteriori facilitazioni sul premio di maggioranza, come dice la proposta del Pdl presentata al Senato), fa capire che Fini non vuol chiudere del tutto il filo di comunicazione con l'opposizione, a partire dal Pd che spinge ancora per la cancellazione del Porcellum e per il varo di un governo d'emergenza, mirato proprio alla riforma elettorale, in caso di nuova rottura della maggioranza di centrodestra.

Siamo dunque ancora ben lontani da un'effettiva ripresa della collaborazione tra i due pezzi ormai separati del partito del premier. E più che di vero riavvicinamento, dopo aver ascoltato un giorno dopo l'altro Berlusconi e Fini, forse si può parlare di un assai diffidente scrutarsi a distanza. Il duello non è finito, non è neppure archiviato, forse è solo sospeso. E i due leader, nell'attesa, sono fermi, assolutamente fermi.

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Titolo: MARCELLO SORGI. I democratici e il tormentone anti-Berlusconi
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2010, 03:55:31 pm
9/10/2010

I democratici e il tormentone anti-Berlusconi
   
MARCELLO SORGI

Anche se non va giudicata prima della conclusione, la sfida nordista del Pd lanciata ieri da Malpensa fiere, in pieno territorio leghista, s'è aperta con un evidente strabismo. Invece di spiegare le ragioni della propria competizione con la Lega, che qui è nata vent'anni fa ed è oggi primo partito, il Pd, con la sua presidente Rosi Bindi che ha introdotto la discussione, è tornato ad attaccare Berlusconi, sorvolando tra l'altro elegantemente sulle ultime cadute di stile del premier nei suoi confronti.

Nei due giorni di dibattito interno, la lacuna potrà essere esaurientemente colmata. Eppure, da un'iniziativa del genere, presentata con enfasi, era lecito attendersi una specificità che non s'è vista, sia nell'analisi del perché il Carroccio ha potuto costruire il suo primato nell'area economicamente più forte del Paese, sia nella denuncia della sua omologazione alla più vecchia tradizione politica e partitica italiana, a cominciare dalle promesse mancate nei sedici anni da cui, a diverse riprese, la Lega è al governo con il centrodestra.

Basterebbe guardarsi attorno, o chiedere alla gente del luogo (ci sarà pure una sezione del Pd, tra Busto Arsizio e Varese), per sapere che i leghisti cominciarono a mettere radici in questo territorio con la storica battaglia contro i pedaggi alti della Milano-Varese e a favore dell'abolizione del casello autostradale. Bene: a vent'anni, quasi, da quella battaglia, il pedaggio continua a crescere (tra l'altro per pagare una parte dei progetti preparatori del ponte sullo Stretto di Messina) e il casello è stato ristrutturato e ingrandito. Per il Carroccio che partecipa al governo nazionale e a quello regionale e provinciale, e per un partito che ha fatto della rappresentanza del territorio la sua ragion d'essere, non è proprio un gran successo. E il Pd, al posto di parlare ancora una volta di Berlusconi, del Papa interno o straniero che deve eleggere e di primarie, se davvero vuol tentare di intercettare la gente del Nord, potrebbe candidarsi a rialzare la bandiera del pedaggio e dell'autostrada.

Era a questo genere di pragmatismo, a un'indispensabile prova di umiltà, alla necessità di ripartire dal basso, dai problemi veri dei cittadini, che il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, non più tardi di un mese fa, aveva cercato di richiamare il suo partito con un appassionato libro nordista e di sinistra, che perfino nel vecchio Pci avrebbe aperto subito una discussione. Ma il Pd, naturalmente, lo ha archiviato prima di leggerlo.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Le vicende personali hanno consumato l'esecutivo
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2010, 09:35:42 am
10/10/2010 (7:20)  - RITRATTO


Le vicende personali hanno consumato l'esecutivo

I problemi nati da aspetti della personalità del premier e da alcuni suoi guai giudiziari

MARCELLO SORGI
ROMA

Un paradosso evidente accompagna il midterm italiano - la metà della legislatura, segnata dall’ipoteca delle elezioni anticipate -, una scadenza che Berlusconi si accinge a celebrare con un opuscolo pubblicitario inviato nelle case dei cittadini.
Il paradosso, in sostanza, è questo: Berlusconi non è che non sappia governare, ma non sa far politica.

Se la valutazione si fermasse ai risultati dell’azione di governo, infatti, il paragone tra i due anni e mezzo di Berlusconi e i due anni scarsi di Prodi si risolverebbe chiaramente a favore del primo. Non solo per l’avvio brillante sulle montagne di rifiuti di Napoli lasciate in eredità dall’ultimo esecutivo di centrosinistra, o per la capacità di far fronte all’emergenza del terremoto dell’Aquila. Niente Dico, tanto per fare un esempio, e per ricordare il primo grande pasticcio che sulle coppie di fatto si aprì nella coalizione del Professore. E soprattutto, niente svolta rigorista, come quella, pur necessaria, della famosa manovra del 2006 del ministro Padoa-Schioppa, che agli italiani diede la sensazione di uno scuoiamento, più che di una tosatura. Piuttosto, in materia di economia, la prudenza di Tremonti, il taglio alle spese inutili e l’adesione disciplinata ai parametri europei. E più in generale, come regola, il pragmatismo, ancorato a un numero essenziale di missioni e di riforme.

Purtroppo i problemi sono nati da certi intuibili, ma al contempo imprevedibili, aspetti della personalità del premier, e dal tentativo di adattare all’inasprimento dei suoi problemi giudiziari la riforma della giustizia. Qui appunto, in frangenti così delicati, avrebbe dovuto venire in soccorso la politica. E se la politica forse sarebbe servita a poco, per un presidente del Consiglio che una sera a sorpresa del 2009 decide di partecipare alla festa di compleanno di una diciottenne a Casoria, nell’hinterland napoletano più degradato, o che si ritrova a letto con una escort che maneggia di nascosto un registratore, al contrario avrebbe potuto aiutarlo nella circostanza dei processi per corruzione che lo riguardano, svincolati dalla sentenza della Corte costituzionale un anno fa e ormai venuti a maturazione.

Si sa: Berlusconi è convinto che la politica sia solo «teatrino» e che la gente, la sua gente, non sopporti le contorte liturgie del potere. E tuttavia ce ne corre, da questo, a impostare la battaglia sulla giustizia come sua crociata personale, il giudizio di Dio tra se stesso e la magistratura politicizzata, l’undicesimo comandamento da scrivere sulle Tavole, per impedire che le toghe tocchino ciò che il popolo ha unto con il suo voto. Né vale scaricare tutto sull’alleato infedele, divenuto oggi quasi solo un rivale: perché Fini e i suoi avevano approvato ad inizio di legislatura il lodo Alfano, il salvacondotto che doveva proteggere Berlusconi dai processi per tutta la legislatura, e avevano riapprovato dopo la sentenza della Consulta il legittimo impedimento, una nuova e provvisoria forma di protezione, in attesa di arrivare appunto a quella definitiva, e costituzionale, che avrebbe dato al premier una definitiva tranquillità.

Invece un altr’anno è trascorso tra polemiche e scontri con lo stesso Fini che in quest’ambito doveva essere considerato (e trattato come) alleato privilegiato. È vero che Fini - con le sue posizioni in materia di immigrazione, sicurezza e sul tema della vita, con continui distinguo e polemiche, e con la rottura cominciata nella fatidica direzione Pdl del 22 aprile e conclusa a fine luglio dalla separazione dal partito e dalla nascita dei gruppi di Futuro e Libertà -, non ha fatto nulla per venire incontro al Cavaliere. Ma è anche vero che Berlusconi, approfittando della campagna sulla casa di Montecarlo venduta da An e occupata dal cognato del Presidente della Camera, ha giocato questa partita come un altro duello mortale, in cui alla fine uno dei due contendenti non doveva più rialzarsi da terra. Così che, malgrado i risultati non disprezzabili dell’azione di governo, sarebbe temerario oggi scommettere sulla durata del Berlusconi IV per l’intera legislatura. La tregua inaugurata in questi giorni dagli ex-cofondatori non deve ingannare: i due leader sono fermi ciascuno sulle sue posizioni, animati da un reciproco insaziabile desiderio di vendetta. E il terzo socio della coalizione, Bossi, non vede l’ora di andare alle elezioni per trarne i vantaggi che tutti pronosticano per la Lega.

La riduzione della politica a questione personale, fino alla sua pratica cancellazione, non ha solo consumato il governo, ma anche tutta l’idea della governance unica e personale di Berlusconi, il suo tentativo di applicare alla guida del Paese le regole aziendali, l’impazienza, i sotterfugi, le scorciatoie, i cui limiti emergono ogni giorno dall’estrema querelle sulla giustizia. Basta solo guardare quel che succede: come faceva ai tempi degli affari, e come se tutto gli fosse consentito, pur di arrivare al risultato, a trattare sul problema che per lui è ormai di vita o di morte, Berlusconi ha messo Alfano, Letta e Ghedini. Il ministro di giustizia talvolta indicato come suo delfino, il sottosegretario braccio destro che lo ha sempre salvato nei momenti più rischiosi, l’avvocato-deputato che ne sa una più del diavolo. Tre diversi emissari, con tre differenti stili e metodi, tre percorsi paralleli e la stessa limitata autonomia. Non gli passa neppure per la testa che stavolta, se davvero ha a cuore il governo e le sorti del centrodestra, dovrà cedere qualcosa di personale. E per questo, ancora una volta le sorti del Paese si identificano con quelle, incerte, di Berlusconi.

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201010articoli/59270girata.asp



Titolo: MARCELLO SORGI. Prove di tregua, ma le urne restano lì
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2010, 10:29:29 am
12/10/2010 - TACCUINO

Prove di tregua, ma le urne restano lì
   
MARCELLO SORGI

Preceduta da un’inattesa stretta di mano con Fini, la settimana di riposo forzato che i chirurghi hanno imposto a Berlusconi, dopo il piccolo intervento, per altro perfettamente riuscito, a cui si è sottoposto ieri, avrà certamente l'effetto di un raffreddamento del clima politico. Le ultime polemiche, a ridosso della morte dei quattro alpini in Afghanistan, riguardano la possibilità di rinforzare l’armamento degli aerei della missione italiana: una decisione che deve ovviamente essere presa in Parlamento, ma che ha riaperto il dibattito sulla durata dell’intervento e riproposto (da parte di Di Pietro e della sinistra radicale) le richieste di ritiro dei nostri soldati.

Ieri mattina l’ovvio scambio di saluti tra premier e Presidente della Camera ha moltiplicato le voci su un riavvicinamento dei due ex-cofondatori, dopo mesi e mesi di guerriglia a distanza. I collaboratori di entrambi si affannano a ripetere che ormai la prospettiva di elezioni anticipate s’è allontanata e presto o tardi si riuscirà anche a trovare una quadra sul salvacondotto giudiziario per Berlusconi: si tratti di una modifica del legittimo impedimento in vista del possibile intervento anche su questa legge della Corte costituzionale, o di altro. In realtà malgrado le speranze delle colombe dei due schieramenti, le ultime mosse dei duellanti non hanno del tutto cancellato l’ipotesi di uno scioglimento delle Camere. Fini lavora alacremente alla realizzazione del partito di Futuro e libertà, e all'interno del suo gruppo si continua a non escludere la possibilità che più avanti, se la scadenza del voto sarà a marzo, il Presidente della Camera possa dimettersi per tenersi le mani più libere e guidare in prima persona la campagna elettorale.

Anche lo scrollone domenicale di Berlusconi al Pdl va in questa direzione. La pezza pietosa messa da Bonaiuti alle estemporanee affermazioni del premier non ha dissolto minimamente la convinzione diffusa che il Cavaliere sia prossimo a rimettere le mani sulla sua creatura, perché considera l’attuale stato di degrado del partito alla base del calo dei sondaggi. Si torna a parlare di un nuovo «predellino», nel ricordo della fondazione a sorpresa in Piazza San Babila del Popolo della Libertà. Tutto accadde all’improvviso, una domenica di novembre del 2007. Cinque mesi dopo, con la caduta di Prodi, la legislatura s’interruppe, la parola passò agli elettori e Berlusconi si prese la rivincita.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7946&ID_sezione=&sezione=


Titolo: M. SORGI. La doppia sfida di Alfano il Guardasigilli a responsabilità limitata
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2010, 05:14:38 pm
13/10/2010 (7:48)  -

DOSSIER LEGISLATURA AL GIRO DI BOA / MISSIONE 3: PIU' SICUREZZA, PIU' GIUSTIZIA

La doppia sfida di Alfano il Guardasigilli a responsabilità limitata

Alla ricerca di un difficile armistizio con la magistratura e di un salvacondotto per i processi del premier

MARCELLO SORGI

Il fisico ce l'avrebbe. Scuola ed esperienza non gli mancano. Eppure ad Angelino Alfano, giovanissimo ministro Guardasigilli della Giustizia (compie quarant'anni a fine mese), nel cuore di Berlusconi che lo ha voluto al governo come simbolo del ricambio generazionale, e s'è spinto a parlarne come di un suo possibile successore, per ora tocca pedalare in salita.

La doppia sfida su cui si misurerà il suo destino - entrare nella ristretta cerchia dei candidati leader del centrodestra del futuro, o finire notabilizzato come molti degli stretti collaboratori del Cavaliere per nulla rassegnato a mollare - è legata al suo attuale e complicatissimo incarico. Alfano dovrà cercare prima di tutto di sfuggire alla maledizione che nella Seconda Repubblica ha accompagnato tutti i ministri della giustizia, impegnati a cercare un armistizio tra magistratura e politica, dopo il terremoto di Tangentopoli che mise a terra un'intera classe dirigente e aprì la strada - una strada strettissima - a quella attuale, senza mai riconoscerle il diritto di ristabilire il cosiddetto primato della politica.

Si tratti di anziani e collaudati professionisti della Prima Repubblica come Biondi, di emeriti studiosi come Conso, di altissimi, quanto eccentrici, magistrati come Mancuso, di avvocati di chiara fama come Flick, o di paracadutati come il leghista Castelli, che da quell'esperienza, com'è facile vedere quando si presenta in tv, è uscito quanto meno turbato, se la sono vista brutta tutti, dicasi tutti, i Guardasigilli succedutisi dal fatale 1992 ad oggi. Nella maggior parte dei casi la loro carriera politica ha subito una brusca interruzione, altre volte hanno dovuto sopportare emarginazioni, degradazioni e ingiuste punizioni, solo per aver cercato di svolgere un compito politico che, non solo i presidenti del consiglio, ma le intere coalizioni di cui facevano parte avevano loro affidato, inserendolo con grande evidenza nei programmi elettorali.

Si dice: riforma della giustizia. Ed è evidente che c'è riforma e riforma, quella del centrodestra essendo più radicale e di conseguenza più avversata dalla magistratura, e quella del centrosinistra leggermente più morbida, ma non per questo destinata a percorrere più tranquillamente i tortuosi corridoi parlamentari. Al dunque, con contorni più o meno forti, c'è la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistratura giudicante, che i giudici non vogliono mandar giù. C'è la duplicazione e la modifica del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura. C'è la limitazione delle intercettazioni, già tentata e fallita dal centrosinistra e poi riproposta ed abbandonata dal centrodestra. C'era, finché erano in campo i reduci della Prima Repubblica, la materia ingestibile del cosiddetto "colpo di spugna", l'impossibile riabilitazione, a qualsiasi titolo, del personale politico colpito dai processi di Mani pulite, che in molti casi tuttavia è riuscito a rimettersi in gioco lo stesso. E c'è ovviamente il problema dei problemi: il salvacondotto dai processi per corruzione che riguardano Berlusconi, su cui l'attuale maggioranza è divisa e rischia nuovamente di rompersi e arrivare a elezioni anticipate.

Qui s'innerva la seconda sfida del giovane Angelino. Va detto subito che la vittoria o la sconfitta in questo campo non dipendono dalle sue capacità. Diversamente da suoi anche recenti predecessori, Alfano deve infatti fare i conti con un ruolo - senza offesa - di ministro a responsabilità limitata. Formalmente, infatti, sono sue la titolarità dell'amministrazione della giustizia, dei rapporti con il potente sindacato Anm dei magistrati, con le personalità e le lobbies che agiscono in questo settore, con il Presidente della Repubblica che, come capo supremo della magistratura, ha un ruolo molto importante e può esercitare in quest'ambito una più forte moral suasion, con l'insieme del governo e con i partiti da cui è composta la maggioranza.

Ma di fatto, con l'attuale sistema di governance berlusconiana, il ministro deve condividere le sue competenze con Palazzo Chigi, e in particolare con Gianni Letta, incaricato della difficile ricucitura con i finiani, e con Niccolò Ghedini, il dottor Stranamore che il Cavaliere ha messo alle calcagna di Giulia Bongiorno, l'altra avvocata-deputata di cui Fini si fida ciecamente, quando non con il coordinatore Verdini e il sottosegretario Caliendo, che si danno appuntamento per strane cene con massoni e per condizionare la Consulta e finiscono inquisiti per la P3. Angelino insomma ha il suo bel da fare a darsi appuntamento con Italo Bocchino, il capogruppo di Futuro e libertà, nel bar vicino alla scuola frequentata dai loro bambini. Ammesso e non concesso che quell'incontro, come molti altri, possa servire, il risultato dovrà passare al setaccio degli altri due triumviri Letta e Ghedini e al vaglio dell'umorale volontà di Berlusconi.

Ce la farà il giovane ministro là dove tanti prima di lui hanno fallito? Difficile dirlo. La bocciatura da parte della Corte costituzionale del lodo che porta il suo nome e la necessità, per il premier, di sostituirlo con una leggina provvisoria (il "legittimo impedimento" che già richiede di essere prolungato), in attesa di una soluzione definitiva, hanno reso il suo compito più arduo. Resta il fatto che Angelino le carte in regola ce l'avrebbe: il curriculum democristiano (e siciliano, con le inevitabili, faticosamente e mai completamente chiarite, ombre paramafiose che subito si sono allungate sulla sua carriera, dopo la sua partecipazione al matrimonio della figlia di un boss), la tradizione di famiglia che gli viene dal padre sindaco e piccolo capo corrente Dc, il cursus honorum cominciato a soli 25 anni all'Assemblea regionale siciliana e approdato a 38 al governo nazionale. E ancora, il buon portamento, il look elegante e i vestiti di buona sartoria indispensabili per piacere a Berlusconi, una bella moglie, Tiziana, conosciuta ai tempi del liceo ad Agrigento, una famiglia tradizionale con due figli, Cristiano, otto anni, e Federico, quattro, che ormai vivono stabilmente a Roma con lui. La biografia c'è tutta, si direbbe. Ma vuoi mettere le incognite del berlusconismo calante?

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201010articoli/59371girata.asp


Titolo: MARCELLO SORGI. C'è nell'aria un'ipotesi di scambio
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2010, 05:15:17 pm
13/10/2010

C'è nell'aria un'ipotesi di scambio

MARCELLO SORGI

Contrariamente alla sensazione, - meglio sarebbe dire: al riflesso condizionato - che si diffonde nei corridoi parlamentari ogni qual volta Fini prende la parola, non è detto, come invece tutti sono disposti a scommettere, che il presidente della Camera lavori attivamente per arrivare alle elezioni anticipate. Si tratti della riforma della giustizia, di cui due giorni fa, con un gruppo di corrispondenti di giornali stranieri, ha parlato come di possibile causa di crisi di governo, o di quella elettorale, di cui ha chiesto ieri al presidente del Senato lo spostamento del dibattito alla Camera, Fini sta semplicemente facendo ciò che aveva annunciato un mese fa a Mirabello, quando presentò il programma del suo nuovo partito.

Si può discutere sul fatto che, giorno dopo giorno, il suo ritrovato ruolo di leader politico collida con i compiti di imparzialità propri di un presidente di assemblea: ed infatti Fini avrebbe fatto meglio a dimettersi nel momento in cui decideva di fondare un partito e assumerne la guida.

Ma sugli sviluppi dell’attuale legislatura, gravata da una rottura nella maggioranza che non si riesce a sanare, il nuovo capo di Futuro e libertà ha idee piuttosto chiare. Fini ritiene, infatti, che se Berlusconi e Bossi, anche per ragioni diverse, dovessero puntare allo scioglimento anticipato delle Camere, in Parlamento, grazie anche alla volontà di deputati e senatori di non andare a casa, potrebbe manifestarsi una maggioranza diversa dall’attuale, contraria al voto e favorevole al compimento di alcune indispensabili riforme.

Queste riforme - e qui sta la novità - andrebbero approvate con il concorso degli stessi Berlusconi e Bossi, in presenza dell’attuale governo, e in un libero confronto parlamentare tra forze di maggioranza e di opposizione. Quindi Fini non pensa di sottomettere Berlusconi e ridurlo in minoranza: al contrario è convinto che proprio la necessità del premier di definire rapidamente per se stesso un nuovo salvacondotto giudiziario, e nel contempo la difficoltà di mettere in cantiere una nuova «legge ad personam», possano creare un circuito virtuoso per uscire dall’attuale stato di paralisi. In altre parole uno scambio, in cui il Cavaliere accetterebbe di confrontarsi, e non di imporre una nuova diavoleria del suo solito Ghedini, ricevendo l’assicurazione che una soluzione verrebbe trovata, ma aprendo pure la strada alla riforma elettorale e abbandonando il veto posto finora sul «Porcellum».

Al momento, questa è l’unica possibilità di uscire dall’impasse, che offra alla legislatura una prospettiva, magari non fino al 2013, e crei i presupposti per una nuova competizione, aperta e non più fondata su una legge che assegna la maggioranza a chi prende i voti di poco più di un quarto degli elettori. Le probabilità che Berlusconi possa accostarsi a un’ipotesi del genere - va detto - sono pochissime. Ma motivare il rifiuto di una proposta così ragionevole, è altrettanto sicuro, non sarà facile, per il premier che anche i suoi medici, ormai, riconoscono sfiancato dal lungo conflitto degli ultimi mesi.

Del resto Fini, sulla base di questa impostazione, è determinato a rifiutare le offerte, ripetute da Bersani e dal Pd, di mettere su una sorta di Comitato di liberazione nazionale da Berlusconi. Il leader di Futuro e libertà riconosce al premier pieno diritto di governare, e in nessun modo intende contraddire la scelta degli elettori di due anni fa. Vuole però che la conclusione della legislatura - naturale o anticipata, ma non troppo, che sia, per effetto dell’approvazione della legge elettorale - coincida con un voto che non si traduca in un ennesimo referendum su Berlusconi e consenta di aprire una nuova fase.

Non è indifferente, poi, che allo stesso modo, più o meno, la pensino, sia il leader dell’Udc Casini, che non a caso ha precisato che un eventuale governo di «responsabilità nazionale» per fare le riforme dovrebbe essere guidato da Berlusconi. Sia il Capo dello Stato, determinato a spronare le forze politiche a por mano seriamente alle riforme più urgenti, a cominciare dalla giustizia, e risoluto a sgomberare il campo da soluzioni pasticciate di governi d’emergenza, da formare solo per evitare le elezioni anticipate.

Una maggioranza numerica, ma non politica, per il cambiamento della legge elettorale esiste d’altra parte alla Camera, ma non al Senato: e all’interno di questa ipotetica maggioranza le posizioni dei diversi partiti sono distanti e il tentativo di avvicinarle a forza, più in negativo (per esempio contro il premio di maggioranza), che in positivo (per tornare ai collegi uninominali), si presenta quanto mai avventuroso. Esiste invece, sia pure in linea teorica, l’eventualità che lo scontro che ha minato fin qui la legislatura si risolva. Occorre solo che Berlusconi, appena uscito dalla convalescenza, si renda conto che se torna a fare politica, uscendo dalla gabbia dei risentimenti personali, può ancora avere un ruolo di guida in una stagione che diventerebbe subito, nuovamente, importante.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7950&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. La riconferma della Bongiorno segnale politico del premier
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2010, 12:05:10 pm
14/10/2010 - TACCUINO

La riconferma della Bongiorno segnale politico del premier
   
MARCELLO SORGI

Merita un di più di attenzione la rielezione plebiscitaria (40 voti su 48) di Giulia Bongiorno alla presidenza della commissione giustizia della Camera, in una giornata che non ha visto sorprese anche nei rinnovi delle altre commissioni, ed è stata definita dal capogruppo del Pdl Cicchitto come la sconfitta degli “sfasciacarrozze”.

Pur essendo in Parlamento da due legislature, Bongiorno ha sempre mantenuto un profilo tecnico. Nota anche prima di entrare in Parlamento come l’avvocatessa del processo Andreotti, che accolse la sentenza favorevole al senatore con un “e vai!” da stadio, è diventata più di recente la consigliera in materia legale di Fini. E’ stata lei a trattare sul lodo Alfano, sulle intercettazioni e più in generale sulla riforma della giustizia con Nicolò Ghedini, l’avvocato di fiducia del Cavaliere. In quest’ambito, d’intesa con il Presidente della Camera, s’è mossa per trovare delle soluzioni, più che per far saltare il banco. E quando, alla fine di una di queste trattative, Berlusconi decise di far cadere il compromesso raggiunto sulle intercettazioni, Giulia Bongiorno fu la prima a restarne sorpresa.

Perché allora Giulia, che non s’è mossa mai fuori del suo campo, e ha gestito con grande cautela anche la spinosa questione estiva della casa di Montecarlo, s’è trovata a ricevere un consenso bipartisan al momento della rielezione alla presidenza della commissione giustizia, da quegli stessi deputati di opposizione che in aula avrebbero magari votato contro le soluzioni da lei concordate con Ghedini?

Innanzitutto perché, per alcuni giorni, non è un mistero, la Bongiorno è entrata nel mirino di Berlusconi, che avrebbe voluto trovare un candidato diverso per la guida della commissione. Questo ha spinto i gruppi di opposizione di Pd e Udc, che con i voti di Futuro e libertà avrebbero potuto raggiungere egualmente la maggioranza ed eleggerla, a farne una candidata a dispetto del premier. E di conseguenza ha portato anche il Pdl a rinunciare al suo ostracismo, evitando così che nel voto per le commissioni prendesse forma l’accordo trasversale tra Pd, Udc e Fli, che rappresenta ormai un incubo per il premier perchè potrebbe ripetersi, domani, a favore di un eventuale governo d’emergenza.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7955&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Un altro passo verso il baratro
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2010, 09:02:13 am
16/10/2010

Un altro passo verso il baratro

MARCELLO SORGI

È in qualche modo segno dei tempi, la convocazione a sorpresa di Berlusconi da parte della magistratura romana, per lo stralcio dell’inchiesta milanese sui fondi neri Mediaset. Uno stralcio, va detto subito, di assai modesta entità, grazie anche agli effetti della legge Cirielli, una delle tante norme «ad personam» volute dal premier, per accorciare i termini di prescrizione. L’accusa originaria per
l’azienda di famiglia del Cavaliere s’è negli anni ridimensionata, dai mille miliardi di lire ad alcune decine di milioni di euro di evasione, in una serie di transazioni sul mercato off-shore dei diritti di film destinati alle tv berlusconiane. A dispetto di tanti giudici onesti che vestono la toga con onore, infatti, la Procura di Roma da decenni si porta dietro l’ingiuria del «Porto delle nebbie». Governi e ministri di tutti i tempi, colpiti da inchieste, hanno sempre cercato di spostare i loro guai giudiziari nella Capitale.

Non perché speranzosi di un esame più benevolo delle accuse che li riguardavano, ma perché a Roma i tempi, già lunghissimi, dei processi, subiscono un ulteriore rallentamento. E nei meandri del «Palazzaccio», com’è chiamato l’edificio in riva al Tevere, che oggi ospita solo la Cassazione, i processi spesso si dissolvono senza una vera ragione, e soprattutto senza arrivare a sentenza. Ma se anche l’indolente liturgia delle toghe romane - già perseguita, anni fa, in una lotta fratricida, dai colleghi milanesi - ha avuto un soprassalto, significa che qualcosa sta cambiando. E senza andare tanto lontano, vuol dire che la magistratura della Capitale, la più contigua, non fosse che per ragioni geografiche e toponomastiche, ai Palazzi del potere politico, ha percepito i sintomi della dissoluzione del centrodestra sullo specifico e insidioso terreno della riforma della giustizia. Una riforma tante volte annunciata, a pezzi e nel suo insieme, e finora mai realizzata per mancanza di accordo. Ma sulla quale adesso il Cavaliere ha deciso di giocare in un sol colpo la posta dell’intera legislatura.

Saranno pure coincidenze, chi può dirlo. Eppure, se si mettono in fila le cronache giudiziarie degli ultimi mesi, la sensazione si rafforza. In passato quando mai si sarebbe vista un’inchiesta come quella che - stringendosi attorno alla «cricca» del costruttore Anemone e del Provveditore alle Opere pubbliche Balducci - è arrivata a sfiorare Palazzo Chigi, le Mura Vaticane e la felpata schiera dei gentiluomini di Sua Santità? Con la rivelazione, che ha fatto altro rumore, di una quinta colonna tra gli alti gradi della stessa magistratura inquirente, e le conseguenti dimissioni dal suo ufficio del procuratore aggiunto della capitale Achille Toro, accusato di aver passato informazioni riservate ai futuri imputati.

Vanno inquadrate in questo stesso filone l’inchiesta sulla cosiddetta P3, che coinvolge il coordinatore del Pdl Denis Verdini, e adesso anche quella che ha portato alla convocazione di Berlusconi. Convocazione tardiva, in extremis, se è vero che di qui a pochi giorni tutto l’incartamento sarebbe caduto in prescrizione, e invece la chiamata del presidente del Consiglio, che si avvarrà del «legittimo impedimento», darà un altro anno e mezzo di tempo agli inquirenti per inquisirlo.

Naturalmente nessuno può mettere in dubbio le ragioni della Procura, specie in casi in cui l’intreccio di interessi obliqui e illegali è evidente. Non è in discussione, in altre parole, che la giustizia debba fare il suo corso. Quel che colpisce è solo il cambio di velocità, dalla marcia lenta alla corsa. È inevitabile, ancorché indimostrabile, che il nuovo ritmo abbia risentito del rilancio della riforma della giustizia e dell’intenzione annunciata dal premier di andare allo scontro, non più con le toghe politicizzate, ma con la magistratura nel suo insieme.

Indipendentemente dalle nuove accuse piovutegli sul capo, è su questo che Berlusconi dovrebbe riflettere. Com’è impostata - una sorta di redde rationem con i magistrati -, la riforma non va da nessuna parte. Basta solo rileggere le proposte: la nuova bozza, tanto per fare un esempio, aggiunge anche l’ipotesi di obbligare la Corte Costituzionale ad approvare le sue sentenze con maggioranze di due terzi.
A parte il fatto che un’innovazione come questa richiederebbe una nuova legge costituzionale, come quella che faticosamente sta affrontando l’iter parlamentare per restaurare il lodo Alfano, si può pensare che una norma del genere trovi davvero l’appoggio di cui ha bisogno per essere approvata, a cominciare dal «sì» di Fini? E si può credere, nel caso in cui si ritenga di vararla con legge ordinaria, che la Consulta rinunci successivamente a dichiararla incostituzionale?

Purtroppo la scelta dello scontro frontale, maturata ancora una volta dal Cavaliere, potrà portare solo nuovi conflitti e pochi o nessun risultato pratico. Un fallimento già prevedibile, che sarebbe veramente un peccato, perché tra le riforme attese dal Paese, quella della giustizia è tra le più urgenti. Non a caso il Capo dello Stato non si stanca di sollecitarla. Ma una riforma contro i magistrati, oltre ad essere sbagliata, difficilmente vedrà la luce. Servirà piuttosto a creare nuove occasioni di rottura politica, ad aprire la strada a elezioni giocate sul tema della legalità e a una campagna elettorale orrenda: fatta di accuse contrapposte, spiate e denunce anonime, come quelle degli ultimi mesi, in un clima di fine regime. Un altro passo avanti verso il baratro, che ancora può essere evitato.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7960&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Fli al bivio deve scegliere dove collocarsi
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2010, 11:51:29 am
19/10/2010 - TACCUINO

Fli al bivio deve scegliere dove collocarsi
   
MARCELLO SORGI

In attesa di vedere gli sviluppi della trattativa sulla giustizia (già oggi, dopo l’incontro Fini-Alfano, si capirà qualcosa di più), all’interno del gruppo finiano ferve il dibattito sulle elezioni. Discussione al chiuso, ovviamente negata all’esterno, dato che Futuro e libertà è ufficialmente impegnato a sostenere il programma del centrodestra e ad assicurare la continuità della legislatura con il governo attuale. All’interno, invece, confronto aperto, dal momento che nessuno, né tra i Futuristi, né negli altri partiti, è in grado di escludere - ed anzi tutti sono pronti a scommettere -, che allo scioglimento anticipato delle Camere si arriverà, di qui a primavera.

Ma quale sarà appunto la collocazione dei finiani in questo caso? Al di là di molte sfumature, le ipotesi prevalenti sono due. Una parte del Fli preme perché Fini intensifichi la sua polemica con Berlusconi, anche a costo di prendersi la responsabilità di una rottura, e si prepari ad incarnare il ruolo del capo di una sorta di comitato nazionale di liberazione dal Cavaliere. Dunque un Fini con le mani libere, che fa accordi con chi ci sta, in nome dell’obiettivo strategico di vincere una tornata elettorale che più di altre si trasformerà in un referendum su Berlusconi. Fino al punto da tentare una convergenza con il Pd, che da sinistra, con Bersani, si sta muovendo nella stessa prospettiva? Fino a quel punto, rispondono dall’ala più radicale dei finiani, contraria alle proposte alternative di quella più moderata.

Escluso un accordo con Casini per dar vita a un «altro centrodestra», che farebbe la campagna elettorale contro il «tradimento» di Berlusconi (i sondaggi dicono che un Fini centrista perderebbe gran parte dei suoi voti), resta infatti solo la possibilità di candidarsi a destra da soli: partita assai rischiosa, perché Futuro e libertà dovrebbe essere sicuro di superare la soglia di sbarramento del 4 per cento nazionale e dell’8 per cento regionale previste dall’attuale legge elettorale.

In realtà, l’ala morbida del Fli non ha rinunciato all’ipotesi di una ricomposizione con il Pdl: magari alla fine di un periodo di collaborazione che, pur tra polemiche, consenta di realizzare almeno una parte del programma di governo e di presentarsi agli elettori con un bilancio meno esile dell’attuale. L’idea di una vera pace Berlusconi-Fini, tuttavia, continua a restare fuori della realtà, stando a quel che dicono i collaboratori più stretti dei due leader. Alcuni dei quali, anche in questi giorni di ricerca di una tregua, continuano a scuotere la testa sconfortati.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7972&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Fu vera svolta? Molto rumore per nulla
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2010, 04:55:46 pm
20/10/2010 - TACCUINO

Fu vera svolta? Molto rumore per nulla
   
MARCELLO SORGI

Anche se segnata da una dura contrapposizione tra Bersani e Fini - i due principali leader che in caso di crisi dovrebbero diventare alleati per sostenere un governo d’emergenza -, la polemica nata a proposito dell’emendamento al testo del Lodo Alfano, approvato al Senato dal centrodestra, non ha alcuna ragion d’essere, tolte quelle della campagna elettorale permanente in corso ormai da mesi in Italia.

Il Lodo Alfano infatti, già nella formulazione originaria cancellata dalla Corte Costituzionale, serviva a sospendere i processi intentati contro le alte cariche dello Stato (leggi: Berlusconi) per reati commessi in precedenza. Prova ne sia il fatto che, dopo la pronuncia della Consulta, gli stessi processi contro Berlusconi ripresero immediatamente al Tribunale di Milano, e fu necessario approvare la legge sul legittimo impedimento per garantire al premier un nuovo, benché provvisorio, salvacondotto.

Naturalmente può piacere o non piacere che Berlusconi possa usufruire di un’agevolazione del genere. Ed è evidente che nel momento in cui riapproderà nelle aule parlamentari il Lodo troverà lo stesso sbarramento delle opposizioni a cui andò incontro la prima volta. Ma votando, come ha fatto ieri, l’emendamento proposto dal Pdl Vizzini, per esplicitare più chiaramente il senso della protezione accordata al premier, il senatore finiano Saia non ha affatto cambiato posizione rispetto al suo partito. Anzi s’è mosso nell’ambito dell’unico accordo superstite tra Berlusconi e Fini, che riguarda appunto la costituzionalizzazione del Lodo, ed esclude qualsiasi altra scorciatoia anti-processi.

Come ha confermato già un mese fa (e ripetuto ieri), a nome del presidente della Camera, la Bongiorno a Ghedini, che lo ha subito riferito al Cavaliere, Futuro e libertà non ha alcuna ragione di rimangiarsi il «sì» dato al Lodo quando fu approvato in forma di legge ordinaria. Il problema, semmai, sono i tempi di approvazione della nuova legge, previsti, nella migliore delle ipotesi e vista la necessità di un doppio voto delle Camere, in un altro anno: durante il quale lo scudo assicurato dal legittimo impedimento cadrà e Berlusconi si ritroverà di nuovo nudo davanti ai giudici di Milano. Il pomeriggio che ha visto per la prima volta l’assalto del Pd ai finiani - rivelando, tra l’altro, le difficoltà dell’ipotetica alleanza di cui pure molti continuano a parlare - non ha dunque fatto segnare alcun passo avanti neppure nei rapporti in materia di giustizia tra Pdl e Futuro e libertà.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7977&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Nasce "Forza del Sud"
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2010, 08:46:07 am
23/10/2010 (7:55)  - DOSSIER

Nasce "Forza del Sud"

La Sicilia sfida la Lega Nord

Miccichè lascia il Pdl e Berlusconi, fonda un suo partito e diventa l’anti-Bossi

MARCELLO SORGI

Il nome sarà «Forza del Sud», l’eco della stagione vincente delle origini di Forza Italia, quando Berlusconi aveva il sole in tasca, e il senso di una rivincita fin troppo attesa della Sicilia, e presto del Mezzogiorno, che non vogliono più pagare il conto dell’asse Pdl-Lega e dello «strapotere» di Tremonti.

Gianfranco Miccichè, l’eretico sottosegretario palermitano che da tempo covava la creatura, ci ha messo un anno e mezzo a decidere: ma ormai il dado è tratto. Sabato prossimo, 30 ottobre, salirà sul palco del teatro Politeama a Palermo per presentare il suo nuovo partito e sciogliere il filo sottile che ormai lo legava al Popolo della libertà.

Sarà una Lega del Sud, e se davvero, dopo quella siciliana, nasceranno altre Forze del Sud anche in Campania, Puglia e Calabria, il contraccolpo sul già traballante equilibrio del Pdl potrebbe essere esiziale. Miccichè lo sa, ma non se ne preoccupa, perché il primo a esserne avvertito, sostiene, è proprio Berlusconi. Nei diciotto mesi trascorsi dal primo annuncio e dal primo convegno di una trentina di parlamentari meridionali - con la ministra Stefania Prestigiacomo, che alla fine resterà col Cavaliere, nel ruolo di donna simbolo del movimento e Antonio Martino in quello di autore del programma - il sottosegretario è stato sottoposto a una continua pressione, mirata a tenerlo a qualsiasi costo dentro i confini del partito. Ma stranamente, non è stato Berlusconi a stringerlo: il compromesso che aveva portato i transfughi siciliani ad accettare di distinguersi solo nel gruppo parlamentare dell’Assemblea regionale siciliana, come Pdl-Sicilia, e non anche nelle Camere, era stato imposto più dallo stato maggiore del partito, compreso Dell’Utri, che su Miccichè ha sempre avuto un forte ascendente, che non dal leader.

Anzi, un Berlusconi insolitamente tollerante, negli stessi giorni, quasi, in cui decideva l’espulsione di Fini dal Pdl, si rivelava molto paziente con il sottosegretario che conosce da sempre, da quando lavorava per lui a Publitalia, e i suoi puntuti seguaci. A chi gli chiedeva di intervenire subito, per stroncare sul nascere la nuova eresia, rispondeva: «Gianfranco lo conosco troppo bene: non farà nulla contro di me». Forse valutava l’irrequietezza di Miccichè - l’uomo che nove anni fa, nel 2001, gli aveva portato in dote lo storico risultato del 61 a zero, la vittoria alle politiche in tutti i collegi dell’isola - alla stregua di un’ubbia temporanea, frutto di imperscrutabili, ai suoi occhi, stati d’animo siciliani e delle rivalità con i nuovi astri palermitani del centrodestra, il presidente del Senato Renato Schifani e il ministro della Giustizia Angelino Alfano. E sotto sotto, magari condivideva alcune delle cose dette dai dissidenti sul degrado del partito. In ogni caso contava sul fatto che il sottosegretario - uno dei pochi ricevuti a casa sua come ospite permanente, con letto, camera e pigiama fresco di bucato riservati per l’accoglienza - non sarebbe mai diventato suo avversario diretto.

Ma ora che la separazione è decisa, e Miccichè ha fissato la data e la liturgia simil-berlusconiana, fin dal nome del nuovo partito, della convention e della sua personale discesa in campo, il Cavaliere deve fare i conti con il problema. Pur partendo da una ristretta pattuglia di parlamentari (nell’Assemblea siciliana sono rimasti in cinque, e altrettanti, più o meno, tra Camera e Senato) Miccichè - che vuole restare all’interno del centrodestra - controlla nell’isola un pacchetto di voti strategici per far scattare, a livello regionale, il premio di maggioranza, indispensabile al Cavaliere per riottenere una maggioranza anche al Senato. Lo stesso meccanismo si ripercuote a tutti i livelli istituzionali nell’isola, e non a caso tiene bloccata da settimane la formazione della nuova giunta al Comune di Palermo.

Pur consapevole che la lunga gestazione del progetto ha reso più difficile la sfida, Miccichè considera questa una sufficiente base di partenza. Anche se la vera riuscita dell’operazione è legata alla nascita di una vera e propria Lega del Sud, una sorta di federazione di tutti i fuorusciti dal Pdl alle soglie dell’implosione. Basta solo guardarsi attorno: se in Campania perfino Mara Carfagna, cioè una delle ministre più vicine a Berlusconi, arriva a dire che occorre fondare un nuovo partito per farla finita con il coordinatore inquisito del Pdl Nicola Cosentino, vuol dire che anche lì qualcosa si sta muovendo. Lo stesso accade in Puglia con l’ex An Adriana Poli Bortone, anche lei in marcia di avvicinamento a Forza del Sud con il suo movimento che, rimasto fuori per un soffio dal centrodestra, avrebbe potuto capovolgere il risultato delle regionali vinte da Vendola. Mentre in Calabria a decidere di muoversi autonomamente dal Pdl potrebbe essere, se non proprio direttamente il governatore Scopelliti, trionfatore alle ultime elezioni amministrative, un gruppo di persone a lui vicine e stanche dell’andazzo del Pdl.

Come accadrà in Sicilia alla fine della prossima settimana, anche la nascita delle altre Forze del Sud, in Campania, Puglia e Calabria, avverrebbe indipendentemente dalla possibile scadenza di elezioni anticipate, pur se è indubbio che un evento del genere finirebbe con il favorire lo scioglimento anticipato delle Camere. Al primo punto, infatti, la nuova Lega meridionale dei fuorusciti dal Pdl metterebbe il riequilibrio dell’attuale maggioranza impostata sull’asse con Bossi, la rinegoziazione della politica economica del governo nei confronti del Mezzogiorno e lo sblocco dei fondi strutturali nazionali ed europei che il governo tiene fermi da anni. La leva per ottenere ciò che finora Berlusconi e Tremonti hanno negato sarebbe la minaccia di formare in Parlamento nuovi gruppi parlamentari autonomi, con cui Palazzo Chigi dovrebbe negoziare separatamente, né più né meno di come sta facendo con Fini. Con la conseguenza, intuibile, di un’accelerazione dell’instabilità di cui il governo soffre già adesso. E la possibilità che il movimento centrifugo, dal Pdl, si estenda anche al Pd, o almeno alle sue inquiete frange centriste postdemocristiane, che non potrebbero restare indifferenti a una riarticolazione territoriale dei confini politici nel Centro-Sud, cioè nell’area dove sono più presenti e dove si gioca per davvero lo spostamento del baricentro politico dell’intero Paese.

Questo spiega perché la nascita, ormai annunciata, di Forza del Sud sia già inserita all’ordine del giorno dei vertici del Pdl, tra i problemi più urgenti. Se Berlusconi rifiuta di parlarne, e come sempre nei momenti difficili ne fa una questione personale - il tradimento di un giovane a cui ha voluto bene come a un figlio e ha dato tutto, da imprenditore e da leader -, gli stati maggiori del Popolo della libertà sono impegnati a valutare quanto possano pesare la mini-scissione siciliana e l’eventuale clonazione di Forza del Sud nelle altre regioni. Circola un dato, provvisorio, che vale quel che vale: sarebbero quaranta alla Camera, e una ventina al Senato, al netto degli altri trenta comunque contrari alle elezioni, i parlamentari del Sud pronti a distinguersi. Basta e assoverchia per mettere nuovamente con le spalle al muro il governo, appena uscito da un voto di fiducia.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201010articoli/59729girata.asp


Titolo: MARCELLO SORGI. Senza chiarimento tra i due leader l'immunità rimarrà bloccata
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2010, 06:52:59 pm
26/10/2010 - TACCUINO

Senza chiarimento tra i due leader l'immunità rimarrà bloccata
   
MARCELLO SORGI

Dopo un week-end segnato da un rialzo della tensione tra Pdl e Fli, e dopo una giornata, ieri, in cui il tema del governo di emergenza da sostituire a quello in carica ha animato le chiacchiere del lunedì, l'annuncio del ministro di giustizia che il governo è pronto a cercare una soluzione alternativa alla contestata reiterabilità del lodo Alfano ha dato il senso che non tutto sia perduto: si continua e si continuerà a trattare. Al Senato, di conseguenza, il presidente della commissione Affari Istituzionali Vizzini, destinatario della lettera del Capo dello Stato critica con la parte di testo approvata fin qui, ha riaperto i termini per la presentazione degli emendamenti, azzerando di fatto, oltre al coinvolgimento dei Presidente della Repubblica nella materia del salvacondotto giudiziario, anche tutto il lavoro fatto.

Malgrado la schiarita serale e l'offerta del Guardasigilli, infatti, la situazione rimane bloccata. Da Milano, dove è andato a presentare il suo nuovo partito, Fini ha detto ai suoi di preparare l'emendamento per cancellare la possibilità che, grazie al lodo, il premier possa usufruire della protezione dai processi più di una volta. Questa eventualità non era prevista nella versione originaria, varata due anni fa anche con i voti degli ex-An e cancellata l'anno scorso dalla Corte costituzionale, e secondo il Presidente della Camera non c'è alcuna necessità, salvo l'interesse personale di Berlusconi, di introdurla adesso.

Fini ha confermato anche pubblicamente che la materia della giustizia, non soltanto quella del lodo, continua ad essere ad alto rischio per il governo. Repliche dure dal Pdl, soprattutto dagli ex colonnelli di Fini. E anche se non è affatto una novità, gelo confermato tra gli ex cofondatori del Popolo della libertà, malgrado gli sforzi dei pontieri, che dai tronconi separati del centrodestra continuavano a sperare in un (impossibile, al momento) incontro tra i due leader.

Senza un chiarimento personale e senza una vera tregua, è difficile che la trattativa tenuta aperta, se non altro per buona volontà, possa portare a qualche risultato. Basta solo riflettere su quel che accadrà adesso al Senato al momento di votare gli emendamenti finiani contrari alla reiterabilità: Pdl e Fli voterebbero uno contro l'altro, ed anche se a Palazzo Madama Berlusconi avrebbe la maggioranza per bocciare l'emendamento, la perderebbe subito dopo alla Camera. Con il risultato di ritrovarsi con il lodo paralizzato già alla prima delle quattro votazioni previste dal complesso iter per costituzionalizzarlo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8003&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. La regola e l'eccezione
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2010, 09:43:12 am
27/10/2010

La regola e l'eccezione
   
MARCELLO SORGI

Anche se si tratta di vicende del tutto diverse, per peso, quantità e qualità, nella giornata che ha visto il proscioglimento di Gianfranco Fini dalle accuse che lo riguardavano per la vendita della famosa casa di Montecarlo, e il contemporaneo infittirsi delle voci su nuovi guai giudiziari per Silvio Berlusconi, c'è un dettaglio che colpisce. Alla fine di una durissima campagna giornalistica e politica durata quasi quattro mesi, il Presidente della Camera ha potuto conoscere l'esito favorevole delle inchieste che lo riguardavano contemporaneamente alla notizia che era stato indagato per gli stessi fatti. Così, una volta tanto, è stata evitata la consueta fuga di notizie che trasforma tutti i politici inquisiti in condannati prima del tempo. Un'eccezione che conferma la regola, purtroppo. Perché invece il meccanismo dello svergognamento preventivo s'è ripetuto quasi contemporaneamente nei confronti di Berlusconi. La differenza di trattamento tra i due leader ed imputati eccellenti ha preso corpo in tutta la sua evidenza proprio nelle stesse ore in cui al Senato il centrodestra riapriva la trattativa sul lodo Alfano.

Mentre infatti Fini, nei tempi giustamente brevi che si richiedono quando un'ombra giudiziaria può danneggiare un soggetto che ha responsabilità pubbliche, veniva dichiarato innocente, su Berlusconi, alle prese da anni con le accuse più disparate, si addensavano ulteriori sospetti. Al processo Mills pendente da tempo e sospeso provvisoriamente per effetto del legittimo impedimento, alla propaggine romana, emersa due settimane fa, dell'inchiesta sui diritti off-shore delle tv Mediaset, e alle indagini, divenute di dominio pubblico la settimana scorsa, sui rapporti tra il premier e l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, si aggiungevano ancora i dubbi sul coinvolgimento del premier, e non solo di suo fratello Paolo, nella divulgazione della famosa intercettazione di Fassino sul caso Antonveneta, e un'altra, torbida vicenda, legata a una ragazza marocchina che avrebbe accusato Berlusconi di aver avuto rapporti con lei quando aveva solo sedici anni.

Come possa influire la somma di tutti questi casi, vecchi e nuovi, che continuano a emergere e riemergere a ritmo quasi quotidiano, sulla trattativa sul lodo, da cui dipende la sopravvivenza stessa del governo, è chiaro. La già discutibile soluzione del problema della protezione del presidente del Consiglio da incombenze giudiziarie, che possano ostacolarne l'espletamento delle funzioni, sta diventando rapidamente del tutto indigesta e al limite dell'impraticabile. Mentre i partiti discutono della portata e dei limiti del provvedimento che dovrebbe proteggerlo, Berlusconi - cioè il primo che in linea teorica dovrebbe usufruire di una legge che come tutte resterebbe valida anche per i suoi successori - a poco a poco si sta trasformando in un soggetto indifendibile. L'addensamento - e in qualche caso l'accanimento - delle indagini nei suoi confronti, è evidente, porta a questo. La corruzione già in qualche modo anticipata con la condanna dell'avvocato Mills, l'evasione fiscale ipotizzata nell'inchiesta romana, la mafiosità connessa ai rapporti con Ciancimino, il commercio di materiale ricavato da intercettazioni, e adesso anche l'ombra di una relazione intima con una minorenne, non rappresentano più soltanto un'eterogenea serie di imputazioni, ma un insieme che ormai tende alla mostrificazione del personaggio. E a questo mostro che giorno dopo giorno, nelle carte che lo riguardano, assume sembianze grottesche, il Parlamento, non va dimenticato, dovrebbe trovare una scappatoia, che già era difficile, e adesso rischia di diventare impossibile.

Naturalmente Berlusconi ha il preciso dovere di rispondere a tutte le accuse che lo riguardano e fare chiarezza fino in fondo. Ma sarebbe auspicabile che potesse farlo più o meno nelle stesse condizioni in cui è stato consentito a Fini: difendendosi, cioè, e replicando agli attacchi politici dentro e fuori il Parlamento, e aspettando serenamente che la magistratura si pronunci sul suo conto senza neppure che si venga a sapere anticipatamente, e soprattutto prima del proscioglimento, che sulla sua testa pendeva un'imputazione.

La separazione tra il piano politico e quello giudiziario ha consentito, malgrado il clima pesante, al presidente della Camera di restare al suo posto e respingere le reiterate richieste di dimissioni che venivano dai suoi avversari. La commistione tra processi giudiziari e tiri al bersaglio politici, favoriti dalla facilità con cui viene resa nota qualsiasi accusa, anche la più infamante, contro Berlusconi, rischia al contrario di avvelenare definitivamente il confronto politico, paralizzando del tutto il governo, il Parlamento e il Paese.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8008&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. La linea del "no" è insufficiente
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2010, 05:22:57 pm
28/10/2010 - TACCUINO

La linea del "no" è insufficiente
   
MARCELLO SORGI


Se davvero l'esito del braccio di ferro in corso sul lodo Alfano sarà la nascita in commissione Affari istituzionali al Senato di una maggioranza alternativa a quella di centrodestra, formata da finiani, Mpa, Udc e, udite udite, Pd, disposto addirittura a votare il testo precedente della legge-salvacondotto al quale si era opposto duramente quando era stato approvato come legge ordinaria, si potrà dire che il progetto di sostituire quello di Berlusconi con un governo di emergenza avrà fatto un passo avanti.

Ma da questo a mettere veramente in piedi un esecutivo appoggiato da sinistra, centro e destra, con il Pdl e la Lega all'opposizione, ne corre. Fino a che i futuri alleati di questo governo si accordano solo sui «no» da dire al Cavaliere, per accentuarne il logoramento, ormai oltre il livello di guardia, sarà difficile che il Capo dello Stato, ammesso che Berlusconi sia costretto davvero a dare le dimissioni, assegni un nuovo incarico solo sulla base del rifiuto della nuova maggioranza di andare alle elezioni.

Per valutare se veramente possa nascere un nuovo governo, sorretto da una coalizione diversa da quella che ha vinto le elezioni, il Presidente della Repubblica ha bisogno di sapere se i suddetti alleati sono in condizione di portare avanti anche un progetto in positivo, che stia alla base di un programma minimo da realizzare in un tempo definito.

L'esempio più ricorrente, non a caso, è quello della legge elettorale. Si sa che gli stessi partiti che si preparano a bocciare al Senato la nuova versione del lodo Alfano, vorrebbero evitare di tornare al voto con l'attuale legge Porcellum. Ma se dal «no»allo scioglimento delle Camere si deve passare al «sì» a un progetto comune, sono in grado gli stessi partiti di concordarlo? Finora questa s'è rivelata una sfida impossibile, non solo perché le posizioni dei partiti sono diverse, ma perché, all'interno degli stessi partiti ce ne sono più d'una.

Di qui appunto l'idea che comincia a farsi strada, tra l'altro proprio all'interno del Pd, di discutere, non del nuovo sistema elettorale da scegliere, ma dei possibili sfrondamenti del Porcellum, per renderlo più accettabile. Esempio: invece di confrontarsi sul ritorno ai collegi uninominali, o sul turno unico o doppio di voto, perché non vediamo se siamo tutti d'accordo ad eliminare il premio di maggioranza? Si tratta, anche in questo caso, di una strada irta di ostacoli: taglia di qui taglia di là, premio di maggioranza contro soglia di sbarramento, il rischio è che si arrivi a trovare l'intesa solo sul ritorno alla vecchia proporzionale pura della Prima Repubblica.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8013&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Fini vuole evitare di essere visto come alleato di Bersani
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2010, 11:31:20 am
29/10/2010 - TACCUINO

Fini vuole evitare di essere visto come alleato di Bersani

MARCELLO SORGI

Un legame diretto certo non c'è: ma se ieri, ironicamente, alcuni deputati e senatori si sono scambiati sms in cui si parlava del «lodo bonga-bonga», dal nome del gioco erotico in voga nella villa di Arcore, è evidente che le ultime rivelazioni sulle feste a casa del premier, fatte dalla ragazza marocchina che Berlusconi stesso ammette di aver aiutato ad ottenere la libertà quand’era trattenuta in questura a Milano, non giovano certo alla trattativa sul salvacondotto giudiziario in corso al Senato.

Lo si deduce anche dal tenore degli emendamenti presentati ieri da Giulia Bongiorno, presidente della commissione giustizia della Camera e consigliere giuridico di Fini, insieme con l'Mpa. Ci si aspettava che Futuro e libertà si attestasse sulla semplice difesa del testo della vecchia legge, bocciata dalla Corte costituzionale ma votata dagli ex-An che allora stavano ancora dentro il Pdl. Ne è uscito invece un testo che sul tema della non reiterabilità della protezione dai processi del presidente del consiglio è perentorio, e non gioverà certamente alla ricerca di un accordo nel centrodestra.

Conti alla mano, Pdl e Lega sul lodo sono in minoranza anche al Senato, come ci si aspettava. Ma la sensazione è che Fini abbia voluto un testo specifico per gli emendamenti, e non solo quello della vecchia legge, anche per delimitare il campo delle alleanze (con Mpa, Udc e basta), nel momento in cui il Pd si offriva di votare con Futuro e libertà per far risaltare il fatto che il governo non ha più la maggioranza neanche a Palazzo Madama.

Se ne ricava che, pur mettendo in conto la crisi di governo sul lodo o sulla riforma della giustizia, Fini e Bersani per l'immediato hanno due strategie diverse. Il Presidente della Camera vuole che il percorso parlamentare del lodo e le eventuali conseguenze di una rottura procedano separatamente da un'eventuale trattativa sul dopo, dalla quale, in alternativa alle elezioni, possa sortire un eventuale governo di emergenza sostenuto insieme da destra, centro e sinistra. Fini insomma in questa fase non ha alcun interesse ad apparire come un potenziale alleato di Bersani. Il quale invece tende a mettere tutto insieme, forse perché in cuor suo considera lo scioglimento delle Camere lo sbocco più probabile, vista la difficoltà di tenere unito tutto il Pd in un negoziato difficile come quello sulla legge elettorale e di conseguenza lavora già al posizionamento del suo partito per la prossima campagna elettorale.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8017&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Il vuoto della politica
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2010, 06:29:07 pm
2/11/2010

Il vuoto della politica
   
MARCELLO SORGI


Al di là dei diversi giudizi, etici e politici, sul «caso Ruby», nato dalle telefonate in Questura a Milano del premier, per ottenere la liberazione della minorenne marocchina accusata di furto e fatta passare per nipote di Mubarak, la convinzione diffusa tra gli addetti ai lavori è che Berlusconi sia ormai cotto.

Per togliersi i dubbi, basta solo chiederlo, non ai membri dell’opposizione, ma a parlamentari qualsiasi del centrodestra, e perfino a membri autorevoli del suo governo.

Se un istituto di sondaggi, per ipotesi, potesse fare un’inchiesta, rigorosamente anonima, tra le centinaia di deputati e senatori nel panico che formano le file della sua maggioranza, non potrebbe che concludere che il governo abbia i giorni contati, per non dire le ore. Perché allora nulla accade di fronte a un caso così grave, in cui è assodato, a prescindere dalle versioni che ne vengono fornite, che il presidente del consiglio, nel bel mezzo della notte dello scorso 27 maggio, ha impiegato ore e ore a convincere i funzionari giustamente recalcitranti della Questura milanese a chiudere un occhio sull’arresto di una ragazza sbandata? La quale, per inciso - e sarebbe stato anche meglio per lei - doveva finire in una comunità per stranieri. Ed invece è stata consegnata a una collaboratrice del premier, che l’ha subito rigettata per strada, abbandonandola per giunta nelle mani di chi voleva avviarla alla prostituzione.

Come ha detto domenica Fini, il più recalcitrante degli alleati di Berlusconi, si è in presenza di evidente «uso privato di pubblico ufficio». Seppure nei prossimi giorni (il ministro dell’Interno Maroni è atteso in Parlamento) si dovesse dimostrare che s’è trovata una strada per far rientrare un fatto così inaudito nel formale rispetto delle regole, tutto quel che è accaduto è gravissimo. E non a caso rimbalza da giorni nei commenti stupefatti di partners internazionali e giornali stranieri.

Nella Prima Repubblica, dove a dire la verità le crisi erano assai più frequenti, un governo cadeva per molto meno. Ad esempio, quando solo aleggiò il sospetto che il ministro Donat Cattin fosse stato avvertito che il figlio terrorista Marco stava per essere arrestato, Cossiga, che lo aveva convocato a Palazzo Chigi, pur protestandosi innocente, dovette dimettersi. Altri tempi, si dirà: ed è vero. Ma la sensazione è che adesso l’inaccettabile comportamento del premier non produca gli stessi effetti, non perché siano cambiati gli standard di tolleranza (una regola è una regola, e aggirarla con l’aiuto di funzionari, firme e carte bollate non cambia la sostanza), ma perché è venuta meno la capacità di affrontare problemi e trovare soluzioni che servano a risolverli.

In altre parole, Berlusconi è, sì, cotto; ma non, o non solo, per il continuo esplodere di casi che lo riguardano (ultimo dei quali quello appena apertosi ieri sera a Palermo), si tratti delle escort di un anno fa, delle numerose e non sempre convincenti inchieste giudiziarie che lo vedono imputato, dei suoi spericolati investimenti immobiliari o dell’insistenza per «leggi ad personam» che sostituiscano quelle ottenute in passato e cancellate dalla Corte Costituzionale, per metterlo al sicuro dai processi penali. È cotto - e lo è veramente a questo punto -, per aver portato il suo governo e la sua maggioranza in uno stato di paralisi e non essere più in grado di districarsi dalla rete in cui lui stesso si è definitivamente impigliato.

Ma se almeno all’empasse del premier corrispondesse una chiara iniziativa degli altri leader politici che si trovano in questa difficile situazione, si potrebbe sperare che l’immobilismo, che si trascina da mesi, in qualche modo sia a termine. Con i tempi, inesorabilmente lenti, della politica, ci si potrebbe aspettare, o che Fini stacchi la spina al governo moribondo, dopo quel che ha detto domenica, o che Bersani, approfittando della parlamentarizzazione del «caso Ruby», si decida a proporre una mozione di sfiducia per accelerare un chiarimento.

Invece, niente di tutto questo. Fini e Bersani aspettano, e nell’attesa continuano a guardarsi negli occhi. Pur lontano oltremodo da Berlusconi e dal suo modo di far politica e di governare, il presidente della Camera ha timore ad assumersi la responsabilità di far cadere il governo. E il suo imbarazzo è a tal punto rispettato dal Pd e dal suo leader, che Bersani evita di proporre la sfiducia per non mettere Fini in condizione di dover schierarsi, con lui o con Berlusconi. Si è a uno stallo. Ruby o no, e domani o nei prossimi giorni potrebbe accadere anche qualcosa di più grave, su un palcoscenico che diventa ogni giorno più vischioso non si muove più nessuno degli attori che avrebbero il dovere di farlo. Una volta si diceva che la politica ha orrore del vuoto. Oggi, più malinconicamente, la politica italiana lo ha prodotto, il vuoto.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8030&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Ultima chiamata prima della rottura
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2010, 11:29:03 am
5/11/2010 - TACCUINO

Ultima chiamata prima della rottura
   
MARCELLO SORGI

Il patto di legislatura e il riconoscimento politico di Futuro e libertà come componente a tutti gli effetti del centrodestra, offerti da un Berlusconi insolitamente democristiano a Fini, come ultima chiamata prima della rottura definitiva, difficilmente riceveranno domenica a Perugia una risposta chiara dalla convention fondativa del nuovo partito del Presidente della Camera. Gli umori della base sono tali che qualsiasi segno di appeasement, specie all'indomani degli ultimi scandali personali del premier, sarebbero accolti malissimo.

Fini cercherà dunque di barcamenarsi ancora, alternando fuochi d'artificio e toni compromissori. L'eventuale accenno al passaggio all'appoggio esterno di Fli al governo verrebbe accolto come un segnale di indisponibilità a continuare dall'altra parte. Di qui, anche in queste ultime ore, il tentativo di accontentare, da una parte, le esigenze di un partito che vuol nascere battagliero e senza far mistero di avere come primo obiettivo l'uscita dall'epoca berlusconiana. E dall'altra quella di non ritrovarsi con tutto il peso della rottura sulle spalle. E' un sentiero molto stretto. E quali che siano i toni o le volute del ragionamento che Fini presenterà, il mancato esplicito accoglimento del patto di legislatura, per Berlusconi, significherebbe la fine dell'alleanza.

Berlusconi dalla tribuna della direzione ha fatto di tutto per far capire che le cose che diceva le diceva per dovere, ma senza crederci fino in fondo. Ha ricordato tutte le volte che il partito lo ha messo sotto, come prova di democrazia interna. Ha detto che avrebbe più volentieri parlato a braccio, e invece gli era stato imposto un testo scritto, preparato per altro dall'anima più mediatrice del vertice che per tutto il giorno mercoledì è rimasto riunito a casa sua.

Questa temporanea abdicazione alla sua sovranità assoluta, rimarcata in apertura della direzione di ieri, serve a creare le premesse, in caso di risposta ambigua o negativa da parte di Fini, per una pieno recupero della linea battagliera che il Cavaliere ha dispiegato nell'ultimo anno, prima durante e dopo la rottura con l'ex cofondatore. Dunque, niente subordinate, no al governo tecnico, se ci sarà crisi l'unica strada saranno le elezioni anticipate, sbocco che se le cose andranno come si prevede appare ormai più vicino. Se invece Fini, Bersani e Casini hanno il fegato per mettere su un governo senza Pdl e Lega, si accomodino. Berlusconi e Bossi andranno all'opposizione, insieme, a preparare la rivincita.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8045&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Il lungo autunno del Cavaliere
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2010, 07:12:54 pm
7/11/2010 (7:15)  - CENTRODESTRA, STAGIONE FINALE

Il lungo autunno del Cavaliere

Tormentato dagli scandali, con un governo diviso da feroci rivalità, stanco e malinconico, «Beati voi che andate a dormire», ha detto Berlusconi ai ministri. Lui sembra quasi non riuscirci più

MARCELLO SORGI

A vederlo così, come l’hanno visto all’ultimo Consiglio dei ministri, Silvio Berlusconi sembrava irriconoscibile. Curvo a vergare, quasi sotto dettatura di Tremonti, un richiamo scritto alla ribelle Prestigiacomo – obbligata a scusarsi con il responsabile dell’Economia -, il premier aveva l’aria rassegnata, lo sguardo velato dall’incurabile stanchezza che lo affligge e di tanto in tanto si scioglie cupamente in sonnolenza. L’autunno del Cavaliere sarà lungo, forse lunghissimo: ma il segno che è cominciato sta nella luce spenta degli occhi in cui tutti, finora, cercavano forza e incitamento.

Il primo a saperlo, ovviamente è lui, anche se non si rassegna e prova a fingere come può. Battute, barzellette, complimenti galanti alle signore, all’inizio di ogni riunione, Silvio fa sempre Silvio. Poi arriva inevitabilmente il momento in cui ogni discussione svela gli incubi che lo accompagnano e gli ostacoli insormontabili da cui è circondato. Così che nel gruppo di quelli che lo frequentano più assiduamente – gruppo assai eterogeneo e diviso al suo interno da tremende rivalità – c’è chi si è sentito fare cento volte lo stesso discorso. Il complotto delle procure che puntano a farlo fuori, l’inutile ricerca di un appeasement con Fini che lo vuole morto, i poteri forti che non lo hanno mai digerito, e l’Italia, quest’Italia piena di gente che lo ama, che lui ama, e vorrebbe accontentare senza riuscirci.

L’ossessione che gli uomini del governo e del partito confermano, tra mille cautele, ha avuto negli ultimi giorni un’escalation contro Italo Bocchino, il capogruppo del Fli che non perde occasione per attaccarlo in tv. Siccome, tra le altre accuse, Bocchino ripeteva da giorni che il premier aveva rinunciato alla lotta contro la prostituzione per evidenti motivi personali, il Cavaliere ha voluto che il ministro dell’interno inserisse anche questo capitolo nel pacchetto sicurezza varato venerdì scorso. La decisione, repentina, non è passata inosservata. Ed ha animato le chiacchiere che, non solo tra i ministri, hanno ormai sfatato il mito del leader senza contraddittorio.

A questo punto nessuno può negare infatti che Berlusconi non sia più il Berlusconi vincente di due anni fa; che in modo angoscioso lo tormentino gli scandali, soprattutto gli ultimi, ancora aperti, con i verbali delle escort al vaglio dei giudici di Milano; che la rottura con i finiani, inaccettabile per lui alla stregua di una qualsiasi manovra di Palazzo, lo abbia reso insieme impotente e sospettoso, al punto che anche quelli che sono convinti che alla fine una ricomposizione con il Presidente della Camera sia possibile, si spaventano a parlargliene.

Come ha detto Berlusconi stesso alla direzione del Pdl di giovedì, l’elaborazione del discorso d’apertura – una melassa, nella quale chiaramente non si riconosceva - è stata piuttosto laboriosa. Due giorni e due notti di lavoro, in cui al capezzale del premier in difficoltà si alternavano i ministri mediatori Alfano, Gelmini e Frattini, gli inossidabili coordinatori Verdini, Bondi e La Russa, Letta andava e veniva, Cicchitto rileggeva. Solo quando, finalmente, e faticosamente, alla vigilia, il testo è stato licenziato, verso le due di notte di giovedi, gli ultimi rimasti si sono alzati esausti per salutare. «Beati voi che andate a dormire – li ha congedati il premier, mentre ancora provava l’intonazione dei passaggi principali -. Io non so se ci andrò. E non so neanche dove».

Oltre a tenere in allarme costante le scorte, richiamate continuamente per fuori programma, questa dell’erraticità notturna - per cui a Roma il premier per dormire alterna Palazzo Grazioli con il castello di Tor Crescenza, e fuori dalla Capitale si divide tra Arcore, la nuova villa sul lago di Como e la Sardegna -, è un ulteriore segnale di inquietudine che s’è fatto notare negli ultimi tempi. Non che Berlusconi sia mai stato un abitudinario, anche prima. Ma chi gli è stato vicino ricorda alcuni punti fermi immutabili della sua agenda settimanale, a cominciare dal lunedì dedicato alla ditta di famiglia e all’immancabile cena ad Arcore con i leghisti.

Bene, con evidente sorpresa di tutto il vertice Mediaset, abituato a riceverlo con la familiarità di chi vuol sempre ricordargli quale sia la sua vera casa, Berlusconi negli ultimi mesi s’è visto meno accanto a Confalonieri e al ristretto gruppo di dirigenti ammessi alle riunioni con “il dottore”, come continuano a chiamarlo in azienda. E quando è andato, non è apparso brillante al solito, né pignolo, come quando ad esempio, ai tempi in cui Mediaset doveva decidere modi e tempi del passaggio al digitale, Berlusconi bruscamente aveva fatto sentire, anche ai suoi familiari, la sua autorità monarchica e il peso dell’esperienza imprenditoriale. Allo stesso modo, da mesi, lui che non s’era mai rassegnato a star fuori dalle sue tv, lui che chiamava continuamente anche per un dettaglio o per l’acconciatura di una conduttrice (una volta, di recente, s’era lamentato anche per le pose scomposte di una concorrente del Grande Fratello), è come se si fosse distratto. Negli studi di Cologno Monzese c’era perfino chi lo riconosceva, facendosi prendere dai rimpianti, quando a notte fonda lo sentivano irrompere con una telefonata a “Ballarò”: ciò che da mesi non accade.

Girano un sacco di voci e di ipotesi su questa forma d’assenza e sulla strana malinconia che si sono impadronite di Berlusconi. Ma al dunque, la spiegazione che si impone sulle altre è quella della solitudine. Sì, incredibile a dirsi, l’uomo che tutti immaginano al centro dei suoi festini, con le escort, con le minorenni, tra le bolle nella piscina dell’idromassaggio, soffrirebbe questa sopravvenuta condizione di single. Berlusconi è sempre stato un briccone con le donne, spiegano gli amici dei tempi migliori, ma alla fine tornava sempre a casa: dalla mamma o da Veronica, che sapevano capirlo e perdonarlo, e rappresentavano per lui l’unica vera lente d’ingrandimento con cui guardava il mondo.

Non a caso adesso che mamma Rosa se n’è andata, quando Berlusconi, e capita spesso, se la prende in privato con i magistrati: «Mi fanno sembrare un delinquente, chissà cosa avrebbe detto mia madre», si sfoga, con quel gesto, quasi un tic, di mettersi la mano sulla tasca posteriore dei pantaloni dove in genere si tiene il portafoglio. Quanto a Veronica, la sensazione delle persone più vicine è che dietro la corteccia di durezza che gli fa considerare chiusa una volta e per tutte la storia – e lo è sicuramente – sopravviva il sentimento di una vita, l’amore per i figli, l’immagine che ogni tanto salta fuori di loro due sul lettone con il piccolo Silvio, il nipotino adorato di cui al nonno capita di parlare con tenerezza nei momenti più disparati. Mai, proprio mai, Berlusconi si sarebbe aspettato l’attacco pubblico e diretto della moglie sui giornali, che per lui ha reso la rottura definitiva. E mai è riuscito a riflettere sulla spirale dei suoi inconfessabili svaghi privati, che lui stesso s’è stretta intorno, e a poco a poco ha scavato il solco incolmabile con Veronica.

E’ in quest’insieme complicato, di affetti e risentimenti, di nostalgie familiari e solitudine, di vita di corte, nelle stanze dove si consuma giornalmente la commedia del potere, e di vita notturna fatta di escort e ruffiani, che Berlusconi s’è incamminato sul viale del tramonto. Certi giorni, sembra proprio non abbia più voglia. Certi altri, pare animato dalla voglia di riscossa. Procede a scatti, ha ancora qualche lampo, eppure si muove senza costrutto. Inutilmente il tempo interminabile delle sue notti insonni è scandito dall’eco dei suoi passi solitari, nei corridoi infiniti dei palazzi berlusconiani disabitati.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201011articoli/60226girata.asp


Titolo: MARCELLO SORGI. La stagione delle trappole
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2010, 06:10:14 pm
9/11/2010 - TACCUINO

La stagione delle trappole
   
MARCELLO SORGI

La strada di Fini è tutta in salita. La crisi resta aperta, ma Berlusconi non ha alcuna intenzione di dimettersi. Se il presidente della Camera manterrà oggi l’impegno di ritirare la delegazione del suo partito dal governo, i dimissionari saranno rimpiazzati. Intanto, in attesa di partire per il G20, cosa che gli consentirà di tenere a bagnomaria per l’intera settimana Futuro e libertà, Berlusconi ha stretto nuovamente con la Lega. La promessa che il Senatur è riuscito a strappare al Cavaliere riguarda il federalismo, che verrebbe accelerato fino a tentare il varo definitivo entro l’anno. Se ne ricava che Berlusconi ha dato alla Lega ciò che nessun altro governo, ancora da costruire, potrebbe prometterle. E va da sé che il patto è destinato a valere sia in caso d’approvazione del federalismo, sia nel caso in cui nelle votazioni parlamentari il governo dovesse andare sotto, ciò che impedirebbe qualsiasi accordo futuro tra Carroccio, futuristi e Udc, che pur di far cadere Berlusconi affonderebbero anche la riforma a cui Bossi ha affidato il suo destino.

C’è però la possibilità che il governo cada lo stesso in Parlamento prima del voto sul federalismo e di quello, ancor più importante, sulla Finanziaria. Di questa seconda eventualità s’è preoccupato ieri il Quirinale, richiamando, anche se informalmente, i finiani a tener conto delle conseguenze, fatali per il Paese, dell’eventuale una mancata approvazione. Che potrebbe saltare, ed ecco il timore del Capo dello Stato, sia per uno scivolone sulle votazioni di fine anno, ma anche prima, in caso di aggravamento della crisi, se, com’è nei loro piani, Fli e Udc ormai alleati faranno di tutto per mettere sotto il governo in ogni occasione.

La più a portata di mano potrebbe essere la mozione di sfiducia individuale contro il ministro dei Beni culturali Bondi per il crollo di Pompei. Ad essere sfiduciato, se sulla mozione dovessero confluire i voti futuristi, dell’Udc e delle opposizioni di centrosinistra, sarebbe infatti il governo, che verrebbe colpito in uno dei suoi ministri più rappresentativi, e insieme uno dei tre coordinatori del Pdl più vicini al presidente del Consiglio. Difficilmente Berlusconi potrebbe continuare a far finta di niente. E a ogni buon conto Futuro e libertà prepara altre trappole parlamentari per i prossimi giorni. La politica dello struzzo, del tenere la testa sotto la sabbia, non servirà al premier, hanno ripetuto non a caso ieri diversi esponenti finiani.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8060&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Post-Porcellum per affondare l'esecutivo
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2010, 03:42:34 pm
10/11/2010 - TACCUINO

Post-Porcellum per affondare l'esecutivo
   
MARCELLO SORGI

Aggravato dalle votazioni in cui il governo è andato sotto perchè i finiani votavano con l’opposizione, lo stallo è solo apparente, in realtà tutti trattano con tutti. Bossi ieri ha detto di aver ricevuto mandato a negoziare da Berlusconi, e questo si sapeva. Ma anche da Fini: e questa è una novità da non trascurare. A sorpresa, domenica stessa, il leader Fli aveva incaricato il fidato ministro Ronchi di prendere contatto con il Carroccio, e il Senatur ha potuto così essere avvertito in anticipo della piega che stavano prendendo le cose e del riferimento mirato, che Fini avrebbe fatto nel suo discorso, alla riforma del Senato delle Regioni e al federalismo. Un segnale chiaro, che ha spinto in una prima fase, durante l’incontro di Arcore, Bossi a premere con Berlusconi per andare a vedere il gioco di Futuro e libertà. Inutilmente, dal momento che il Cavaliere non si fida e non ha intenzione di dimettersi, a meno che i finiani non gli votino contro in Parlamento.

Quella verso la Lega, tuttavia, non è l’unica mossa che il Fli ha fatto sullo scenario della crisi. Da ieri infatti i finiani veicolano una bozza di riforma elettorale, la cui paternità viene attribuita all’infaticabile Bocchino, che nel frattempo lavora a convincere altri parlamentari ad abbandonare il Pdl. La bozza prevede di lavorare sul Porcellum, senza metterlo definitivamente da parte, e dunque senza andare in cerca di un sistema elettorale radicalmente nuovo, ma procedendo a due significative modifiche. La prima prevede che il premio di maggioranza, oggi attribuito al partito o alla coalizione che prende più voti (e dunque, in teoria, anche a chi ottenga poco più di un terzo dei voti, che potrebbe così aggiudicarsi il 55 per cento dei seggi della Camera), possa essere conquistato solo superando una soglia più alta, per esempio il 40%. La differenza è che con il sistema attuale Berlusconi, anche indebolito, ma con l’appoggio della Lega, avrebbe la vittoria assicurata; con la riforma, no.

Il secondo cambiamento proposto, fermi gli sbarramenti del 4% nazionale per la Camera e dell’8 regionale per il Senato, introdurrebbe una sorta di diritto di tribuna, una trentina di seggi da assegnare ai partiti che non si coalizzano e non superano lo sbarramento, come ad esempio i vari pezzi della sinistra radicale, che in questo caso sarebbero meno portati ad allearsi con il centrosinistra. Così Futuro e libertà si muove a tutto campo: per ritrovare un accordo con il centrodestra, ma anche per l’eventuale governo d’emergenza appoggiato da sinistra e destra che domenica però non aveva avuto onore di menzione nel discorso di Fini.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8065&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Salto nel buio
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2010, 03:35:05 pm
12/11/2010

Salto nel buio
   
MARCELLO SORGI

E’ inutile rileggersi riga per riga le dichiarazioni con cui, in assenza di Berlusconi, leader e mezzi leader del centrodestra hanno passato il tempo a smentirsi l’un l’altro.

Aggravando il marasma che circonda da giorni la crisi. Dalla confusione crescente che si affaccia da ogni dove, emergono tuttavia due, chiamiamole così, tendenze. La prima è quella del presidente della Camera, deciso a far fuori Berlusconi. È la vendetta dell’uomo che l’estate scorsa, in uno dei suoi momenti più difficili, sotto i colpi della campagna sulla casa di Montecarlo finita dal patrimonio del suo ex partito nelle mani del suo attuale cognato, lanciò contro Berlusconi un anatema e una sfida: «O lui distruggerà me, o io distruggerò lui». Fini ha intimato per questo, domenica, le dimissioni al premier, e ha ribadito ieri questa richiesta a Bossi. Il quale, invece, sperava di poter mediare e credeva che Fini avesse alzato la posta per allargare il suo spazio di manovra: di fronte a un pieno riconoscimento del suo ruolo, alla promessa di rinegoziare la composizione del governo, e di accettare alcuni nuovi punti programmatici, tra cui la riforma della legge elettorale, Fini si sarebbe dunque ammorbidito, riteneva il Senatur, prima di essere costretto a ricredersi. E a prendere atto che il presidente della Camera, come ha voluto precisare personalmente, non è disponibile a impegnarsi neppure sull’eventualità di un Berlusconi-bis, né vuole che un’ipotesi del genere sia avanzata in questa fase, in cui l’unica risposta che aspetta dal premier sono le dimissioni. Se Berlusconi dovesse continuare a far finta di niente, ormai è chiaro, Fini, adesso con un piede dentro e uno fuori dalla maggioranza, anche a costo di scontare qualche defezione nel suo gruppo, li toglierebbe tutti e due. E passerebbe direttamente all’opposizione.

L’altra iniziativa, tenuta al riparo dal normale riserbo giudiziario, riguarda i giudici di Milano ed è legata all’arcinoto caso della marocchina Ruby sedicente nipote di Mubarak, arrestata per furto e liberata dopo una telefonata di Berlusconi in questura, la notte del 27 maggio. Pochi giorni fa il caso era stato dichiarato chiuso dal questore e dal procuratore della Repubblica di Milano, e successivamente anche dal capo della polizia. Il ministro dell’Interno Maroni aveva potuto riferire in Parlamento che tutto si era svolto in piena regolarità e con l’applicazione delle procedure previste. Che avrebbero portato, con il pieno consenso della magistratura competente, alla liberazione della minorenne e al suo temporaneo affidamento alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti, arrivata in questura come rappresentante del presidente del Consiglio.

Ma contro questa versione, mirata a spegnere le polemiche, s’è schierata a sorpresa la giudice dei minori Anna Maria Fiorillo, di turno la notte dell’arresto di Ruby, sostenendo di non aver mai acconsentito alla consegna della minorenne alla Minetti, e di non condividere la versione del governo. Nell’imbarazzo generale, il procuratore di Milano ha ripetuto che per lui il caso è chiuso. Maroni ha addirittura querelato la magistrata che lo accusa di non aver detto la verità in Parlamento. Ma dietro la controversia, finita nelle mani del procuratore generale della Cassazione, s’è cominciato a capire che c’è dell’altro. La decisione di chiudere così rapidamente il caso Ruby sarebbe dipesa, sì, dall’effettivo accertamento, malgrado evidenti anomalie, del rispetto formale delle regole. Ma anche dalla preoccupazione di evitare il coinvolgimento, nell’eventuale indagine che ne sarebbe seguita, della magistrata, e il conseguente spostamento a Brescia dell’inchiesta perché i giudici di Milano non avrebbero potuto occuparsi di una loro collega.

Le carte di Ruby avrebbero dovuto infatti lasciare il Palazzo di Giustizia di Milano insieme con quelle sull’eventuale traffico di prostituzione attorno alle residenze del presidente del Consiglio e ai suoi danni. Con inevitabile rallentamento e passaggio di mano di un’inchiesta, che ha ricevuto contributi anche da Palermo, ed è attualmente nelle mani della procuratrice Ilda Boccassini, altre volte in passato impegnata in indagini e in processi contro Berlusconi. Si possono intuire a questo punto l’interesse dei giudici milanesi a non essere esclusi da questo filone per via di Ruby, che ne rappresenta la minima parte, e le preoccupazioni di Berlusconi che si sente accerchiato.

E il cui naufragio, si capisce chiaramente, è scontato. Sia per la decisione di Fini di agire, se necessario, da kamikaze, pur di far saltare il governo, sia per il prossimo irrompere delle conseguenze giudiziarie delle cosiddette notti di Arcore. Per questo ormai si parla apertamente del dopo-Berlusconi e si fanno le scommesse più disparate su quel che sarà, anche se nessuno è in grado di prevederlo con un minimo di approssimazione. La sensazione più diffusa, al contrario, è proprio di incertezza. Come se appunto l’Italia si avviasse a uscire dal berlusconismo senza sapere cosa verrà, marciando diritta verso il vuoto.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8072&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Cavaliere tenta la riscossa
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2010, 05:35:17 pm
15/11/2010

Il Cavaliere tenta la riscossa

MARCELLO SORGI

Al di là dell'estemporaneità di certe proposte, come quella di chiedere lo scioglimento della sola Camera, e non anche del Senato, se i deputati dovessero negargli la sfiducia, c'è un aspetto determinante della crisi, che viene negato a dispetto della sua evidenza: Berlusconi non ha affatto deciso di farsi da parte, ed anzi è tornato da Seul deciso a battersi con tutte le sue forze. Per restare al suo posto, o per tornarci a furor di popolo dopo le elezioni.

Non lo sfiora minimamente l'idea di arrendersi al logoramento a cui è sottoposto da settimane, e a cui negli ultimi tempi era sembrato sul punto di soccombere.

Non lo preoccupano, né l'incalzante campagna dei finiani, che ha portato, tra l'altro, nuove defezioni dal Pdl verso il Fli. E neppure la nuova inchiesta dei magistrati milanesi sul giro di escort, forse di droga, e magari ai suoi danni, nelle sue ville e nelle sue residenze. Sulla nascita del terzo polo, la novità politica degli ultimi giorni di cui gli parlano continuamente i suoi collaboratori, si diverte addirittura a scherzare, prendendo in giro i tre grandi leader fondatori stretti in un ambito così piccolo.

Si dirà - e sono in tanti a dirlo - che l'uomo non è più lucido; che la storia ha visto prima di lui tanti altri personaggi avviarsi al tracollo senza rendersene conto; e che in un modo o nell'altro, quando il Parlamento gli imporrà le dimissioni, Berlusconi gioco forza dovrà adattarsi alla realtà. E' possibile. Ma proprio perché non è sicuro e siamo solo all'inizio della crisi, forse conviene non dare del tutto per scontato un Cavaliere finito e vicino ad arrendersi. Berlusconi, certo, è messo male. Ma ha ancora qualche freccia al suo arco.

La prima l'ha già scoccata con il rifiuto netto delle dimissioni, intimategli da Fini domenica scorsa. Non che il Presidente della Camera si fosse illuso di ottenerle tanto facilmente, ma neppure si aspettava che l'avversario fosse pronto a sfidarlo in Parlamento. In metà del quale, per inciso, Berlusconi è sicuro di vincere, potendo contare al Senato su una maggioranza senza il Fli. E nell'altra metà pensa di poterla giocare, a dispetto dei pronostici negativi nati dalle ultime votazioni sfavorevoli per il governo.

L'uscita sullo scioglimento della sola Camera, da questo punto di vista, non va valutata solo in base alla sua scarsa praticabilità. Ma come inizio di una campagna che in questi giorni, mentre si aspetta il varo della legge di stabilità, sarà condotta a tutti i livelli, porta a porta, singolo deputato per singolo deputato. Qualcosa di più e di diverso dal "calciomercato" tentato confusamente, e fallito, a settembre, in vista della fiducia sui cinque punti. Diversamente da un mese e mezzo fa, Berlusconi giudica più chiara, stavolta, l'alternativa tra sostegno al governo e scioglimento. Ogni deputato incerto, pur di non rimettere in gioco il proprio seggio, dovrà riconoscere che per evitarlo non c'è altra strada che votare la fiducia.

Quanto possa poi tirare avanti un governo che si salverebbe con una maggioranza raccogliticcia, al premier al momento non interessa, essendo persuaso che la sconfitta in aula della sfiducia porterebbe insieme una sua resurrezione e un azzeramento del progetto politico finiano.
E' difficile far capire a Berlusconi, come tentano inutilmente i suoi più stretti collaboratori, che questa non può essere una strategia. Anche perché il premier, con l'intervento morbido fatto all'ultima direzione del Pdl, considera pagati tutti i prezzi richiesti dall'ala più moderata del suo partito. Quella, per intendersi, contraria alla rottura con Fini, che ha preso atto a malincuore della richiesta di dimissioni venuta dal leader del Fli, e alla quale Berlusconi può dire risolutamente che quando c'è la guerra, si prendono le armi e si va alla guerra.

Per lo stesso motivo, al primo no alle dimissioni, Berlusconi si prepara a farne seguire altri due, contro il Berlusconi-bis che considera una trappola, e per il quale si aspetta condizioni inaccettabili, a cominciare dalla riforma della legge elettorale, e contro un altro governo di centrodestra, anche guidato da una persona di sua stretta fiducia come Gianni Letta, e corredato della promessa di un salvacondotto definitivo per i guai giudiziari. Quanto al governo tecnico, da Fini a Vendola, di cui si continua a parlare (ma di cui dubita che Napolitano si farebbe sostenitore), si accomodino, ripete il premier, Pdl e Lega staranno all'opposizione.

Tanta sicurezza, tanta determinazione, nascono da una precisa convinzione: basta stare fermo, per arrivare a elezioni. Berlusconi ci scommette e sostiene che alla fine giocherà a suo favore anche tutto il confuso agitarsi degli avversari: ovunque, in Parlamento, nel Paese e nei programmi televisivi che tutte le sere fanno a gara per ospitarli, diffondendo la sensazione di una sorta di golpe contro il voto di due anni fa che aveva riportato il centrodestra al governo, e creando un legittimo desiderio di rivincita tra gli elettori.

Naturalmente, è possibile che Berlusconi si sbagli, che queste riflessioni con cui è tornato in Italia, dopo i giorni neri di Seul, rappresentino l'ennesimo abbaglio di un leader che ormai da tempo non ci prende più ed è incapace di accettare l'uscita di scena.
Se invece, com'è già accaduto, alla fine dovesse aver ragione lui ancora una volta, si può star certi che avremo delle sorprese e ne vedremo di tutti i colori.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8088&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Palazzo Madama, il gol della bandiera per chiedere le elezioni
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2010, 05:30:56 pm
16/11/2010 - TACCUINO

Palazzo Madama, il gol della bandiera per chiedere le elezioni anticipate

MARCELLO SORGI

La crisi di governo “congelata”, dopo l’annuncio di Fini alla convention di Futuro e libertà, per la necessità di approvare al più presto la legge di stabilità, ha fatto ieri un altro passo in avanti con le dimissioni, annunciate da giorni e alla fine comunicate per lettera, della delegazione finiana e di quella dell’Mpa dal governo. Subito dopo c’è stata l’entrata in campo del Capo dello Stato. La convocazione da parte di Napolitano dei due presidenti delle Camere per oggi al Quirinale ha come primo obiettivo dirimere la controversia delle due mozioni, quella di sfiducia già presentata dall’opposizione alla Camera, e quella di appoggio al governo annunciata dal Pdl al Senato.

Dal calendario delle sedute dipende infatti il primo vero giro della crisi. Visto lo stato dei rapporti tra Fini e Schifani e l’evidente conflitto di interessi per il doppio ruolo del Presidente della Camera, è possibile che se Napolitano non fosse intervenuto gli uffici di presidenza dei due rami del Parlamento avrebbero deciso indipendentemente uno dall’altro, cercando di bruciare i tempi. Oltre a sottolineare il ruolo arbitrale del Capo dello Stato, irritato anche per l’accenno fatto da Berlusconi allo scioglimento della sola Camera, la chiamata al Quirinale dei due presidenti ha avuto l’effetto di far annullare le riunioni già convocate dei vertici di Montecitorio e di Palazzo Madama.

Il Pd preme per ottenere che sia messa per prima in discussione la mozione di sfiducia giacente alla Camera, che salvo sorprese dovrebbe essere accolta con una maggioranza formata da tutte le opposizioni più finiani e Mpa, e portare dunque alle dimissioni Berlusconi. Il quale, al contrario, vorrebbe cominciare, come ha chiesto, dal Senato, dove è sicuro di poter ottenere un voto favorevole.

Di qui l’importanza delle conclusioni che usciranno dal vertice dei tre Presidenti. In ogni caso Berlusconi ha interesse a che il Senato si pronunci, per mettere agli atti che può contare su una maggioranza almeno in una delle Camere. Se nel secondo giro della crisi, a un certo punto, dopo le dimissioni del premier che comunque arriveranno, e dopo l’approvazione della legge di stabilità, il Capo dello Stato dovesse decidere di dare l’incarico ma non a Berlusconi, il Cavaliere potrebbe far valere il fatto che qualsiasi nuovo governo, grazie all’opposizione di Pdl e Lega, si troverebbe in minoranza al Senato. E nell’impossibilità di dar vita a un nuovo governo diverso dall’attuale, Napolitano, questo è il calcolo di Berlusconi, non potrebbe che ricorrere ad elezioni anticipate.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8095&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Una partita a scacchi di 27 giorni
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2010, 06:28:57 pm
17/11/2010 - TACCUINO

Una partita a scacchi di 27 giorni
   
MARCELLO SORGI

La conferma che, d’intesa tra Napolitano, Fini e Schifani, il dibattito nei due rami del Parlamento, al Senato sulla mozione di sostegno al governo, e alla Camera su quella di sfiducia, si svolgerà e si concluderà con i rispettivi voti contemporaneamente, il 13 e il 14 dicembre, non esclude che alla fine il governo si ritrovi con la maggioranza espressa da Pdl e Lega a Palazzo Madama e vada invece sotto, senza i finiani, a Montecitorio.

Berlusconi avrebbe preferito una sfalsatura temporale dei due dibattiti, sia per ottenere prima il voto favorevole del Senato e farlo pesare nella ricerca di una maggioranza anche solo numerica tra i deputati. E sia per presentarsi al Quirinale, al momento delle dimissioni, con solo una mezza sfiducia, o se si preferisce con una fiducia e una sfiducia insieme. Secondo il premier questo dovrebbe bastare al Capo dello Stato ad escludere il tentativo di dar vita a un altro governo, con qualsiasi formula, che si troverebbe sicuramente in minoranza al Senato per l’opposizione dello stesso asse Pdl-Lega che si prepara a sostenere ad ogni costo Berlusconi. Un ragionamento del genere, va da sé, reggerebbe anche se i due voti contrastanti di Camera e Senato fossero espressi nello stesso giorno, e non uno dopo l’altro.

Ma che questo basti a condizionare le scelte di Napolitano e ad imporgli subito lo scioglimento, è da vedere. Non perché il Presidente della Repubblica sia orientato a promuovere la nascita di un nuovo governo anche a dispetto dei santi. Tutt’altro. Napolitano, come ha già fatto in circostanze del genere, si atterrà ai risultati delle consultazioni, e se da un certo numero di partiti verrà la richiesta di fare il tentativo, c’è da attendersi che il Presidente lo farà solo se emergerà la possibilità che un’eventuale nuova maggioranza si possa ritrovare, oltre che in un governo, attorno a un programma chiaro e condiviso.

Tuttavia la semplice espressione del voto a favore di Berlusconi da parte del Senato non è detto che basti al Capo dello Stato per escludere con una ragionevole certezza la possibilità di un nuovo governo. Napolitano in altre parole potrebbe avere la necessità di verificare che tra i senatori che dovrebbero schierarsi a maggioranza con il Cavaliere non esista la disponibilità ad appoggiare successivamente, anche se temporaneamente, un esecutivo diverso, prima di andare ad elezioni. Un tentativo analogo a quello che su praticato dopo la caduta di Prodi, e ovviamente carico di insidie per Berlusconi. Ma che potrebbe rivelarsi indispensabile se dalle consultazioni dovesse venire un’indicazione in questo senso.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8099&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Ma subito riparte il Vietnam parlamentare
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2010, 12:31:15 pm
18/11/2010 - TACCUINO

Ma subito riparte il Vietnam parlamentare
   
MARCELLO SORGI

L’armistizio sulla doppia votazione, al Senato e alla Camera, sul governo, è durato poco. E mentre a Palazzo Madama i senatori saranno impegnati nell’esame della legge di stabilità, dalla prossima settimana a Montecitorio andrà in scena, per dirla con i deputati in partenza ieri, una sorta di «Vietnam parlamentare». Nel giro di dieci giorni ci saranno ben quattro importanti occasioni per fare andare sotto il governo, in attesa del grande appuntamento del 14 dicembre.

A nulla sono valse ieri mattina le proteste della maggioranza in conferenza dei capigruppo con il presidente Fini. Così si andrà già lunedì a discutere e votare la mozione sulla Rai e sul pluralismo che è in realtà una ghigliottina per il direttore generale Mauro Masi, al centro di forti polemiche, sia per l’andamento dell’informazione dei Tg, sia per gli esiti del programma di Fazio e Saviano, con Maroni che chiede di poter esercitare il contraddittorio rispetto alle accuse di collegamento tra criminalità organizzata e Lega al Nord. Il giorno dopo toccherà al ministro leghista Calderoli, di cui le opposizioni puntano a ridimensionare le deleghe di governo. A seguire il voto sulla riforma universitaria, di cui Fini in persona ha chiesto il ritiro. Infine, martedì 29, è stata calendarizzata la mozione di sfiducia individuale contro il ministro Bondi, per il crollo di Pompei.

Oltre a rappresentare quattro pesanti insidie per il governo, in un momento assai incerto, le votazioni dei prossimi giorni saranno un banco di prova della possibile alleanza tra opposizioni e finiani, che puntano a costruire un governo d’emergenza in caso di caduta di Berlusconi. Sulla Rai c’è piena intesa e le mozioni anti-Masi dovrebbero passare senza difficoltà, facendo soccombere l’asse Pdl-Lega. Le mozioni contro Calderoli sono state presentate dalle opposizioni, ma non dal Fli: l’eventuale convergenza dei finiani porterebbe a un’ulteriore rafforzamento di quest’alleanza inedita, anche se Fini, mercoledì, per rassicurare le colombe del suo partito, ha detto che il Fli non si schiererà automaticamente con la sinistra. Sull’università, a parte le riserve esplicite del Presidente della Camera, l’Api di Rutelli, che in un primo momento aveva votato la riforma, potrebbe far marcia indietro, mentre l’Udc potrebbe votare con il governo. Infine, sull’appuntamento più atteso, la mozione contro Bondi presentata dal centrosinistra, i finiani hanno già fatto sapere che non si schiereranno, preferendo arrivare direttamente al 14 dicembre, senza passare per scorciatoie che non è detto che portino alla caduta del governo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8103&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Così il quadro torna in movimento
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2010, 10:49:57 pm
19/11/2010 - TACCUINO

Così il quadro torna in movimento
   
MARCELLO SORGI

Se non si trattasse di Fini, si potrebbe dire davvero «contrordine compagni». E non è detto che al fondo del videomessaggio diffuso ieri su Internet e indirizzato ai militanti di Futuro e Libertà non ci sia, prima di tutto, l'esigenza di rassicurarli sul fatto che il nuovo partito nasce a destra e lì resterà. La precisazione potrebbe essersi resa necessaria dopo le critiche, a cui Fini ha fatto riferimento, arrivate dalla base via mail nei giorni in cui, a crisi aperta, si sente dire di tutto e di più, compreso che Fli potrebbe appoggiare un governo con Udc e Pd, ma con Pdl e Lega all'opposizione, o che in caso di elezioni potrebbe collocarsi al centro con Casini e Rutelli.

Ma al di là di questa precisazione, il messaggio, giunto in una giornata di fortissima presenza alla Camera per le votazioni sulla Finanziaria, ha colpito per la novità dei toni di apertura rivolti verso Berlusconi: lo stesso Berlusconi di cui solo due settimane fa il leader di Futuro e Libertà aveva chiesto le dimissioni e contro il quale aveva ritirato lunedì la delegazione del suo partito dal governo. Ora invece il premier è invitato a presentare una nuova agenda di qui al 13 dicembre, giorno previsto per il dibattito su fiducia e sfiducia in entrambe le Camere, e va da sé che se l'agenda dovesse contenere alcune delle richieste avanzate da Fini alla convention di Perugia l'atteggiamento di Futuro e Libertà potrebbe cambiare. Fino a firmare una nuova cambiale a Berlusconi per consentirgli di affrontare la seconda parte della legislatura? Fini non lo ha detto, né aveva in mano elementi per dirlo: ma tutti si sono chiesti lo stesso le ragioni del suo nuovo intervento.

E' probabile che il presidente della Camera abbia sentito la necessità di un aggiustamento di tiro di fronte all'aggravarsi della crisi economica in Europa e all'allarme determinato dal peggioramento della situazione di Paesi a rischio come Irlanda e Portogallo, come se volesse chiarire che il suo non è il partito della crisi a qualsiasi costo. Ed è possibile che in questo modo abbia anche voluto calmare la fibrillazione a cui una parte dei parlamentari del Fli è sottoposta sia di fronte all'ipotesi di votare contro il governo e accanto alla sinistra, sia per le pressioni che sono riprese per convincerli a rientrare nel Pdl. A loro è come se Fini avesse detto che la rottura con Berlusconi non è più scontata come sembrava e avverrà solo se il premier non farà nulla per evitarla. Per questo si può dire che da ieri il quadro della crisi è di nuovo in movimento.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8108&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Come si dissolve una crisi
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2010, 09:12:07 am
20/11/2010

Come si dissolve una crisi

MARCELLO SORGI

Nessuno ancora è disposto a dirlo a voce alta, ma è chiaro lo stesso: la crisi di governo è finita prima di cominciare, anche se le turbolenze del caso Carfagna vengono a ricordarci quanto provvisoria sia la sopravvivenza del governo. A meno di un mese dall’appuntamento alle Camere il 14 dicembre, Berlusconi, non si sa come, ha di nuovo la maggioranza e Fini è libero di decidere se tornare all’ovile o andare all’opposizione con la sua pattuglia di temerari. La cosa più incredibile è che, a cominciare da Berlusconi, non c’è chi sia in grado di dare una spiegazione razionale, politica, di come la rottura più sanguinosa mai vissuta nel centrodestra dalla sua nascita all’improvviso sia rientrata.

E non perché, diversamente da settembre, il «calciomercato» dei deputati incerti abbia sortito risultati migliori. Semplicemente, per averla vinta, a Berlusconi è bastato resistere, forzare la liturgia istituzionale che avrebbe richiesto le sue dimissioni due settimane fa, al solo annuncio dell’uscita dal governo della delegazione di Futuro e libertà, e far capire che, pur ridotto come è ridotto, lui è un osso più duro di come se lo immaginavano i finiani e l’opposizione.

La crisi di governo è finita per questo: perché anche prima che gli ambasciatori berlusconiani, rischiando di fare la solita confusione, dessero il via alla compravendita dei «sì» per il voto a rischio del 14 dicembre, la fila degli onorevoli disposti a concedersi gratuitamente, anche solo per evitare di perdere il seggio, s’è allungata dietro la porta del presidente del Consiglio. Uno dopo l’altro, si sono fatti vivi i componenti del gruppo misto quasi al completo. Più sommessamente, in tono quasi supplichevole, e sperando alla fine di non essere costrette alla conta, le cosiddette colombe finiane hanno dato un colpo al cerchio del loro leader e un altro alla botte del presidente del Consiglio. A un certo punto è comparso anche Pannella, con i suoi sei deputati alla Camera, cercando di intavolare un «dialogo costruttivo». Poi, di ora in ora, ha cominciato a ingrossarsi la fila dei singoli obiettori di coscienza.

Se Berlusconi davvero puntava alle elezioni, e se non vorrà, su suggerimento di Bossi, fare come il Fanfani d’antan che si dimise egualmente malgrado la fiducia ritrovata, non potrà che prendere atto che la situazione è mutata e gli tocca continuare a governare. Ma se veramente, a meno di colpi di scena (e tra le scosse d’assestamento, significativo ieri è stato l’endorsement del ministro Maroni a Tremonti come futuro premier) di qui al 14 dicembre, questa sarà la conclusione di una delle crisi più pazze della storia repubblicana, fin d’ora se ne possono ricavare alcune non trascurabili conclusioni. La prima non è una novità: è il fattore «c», la fortuna innata, chiamiamola così, di Berlusconi, anche in questo avanti di un bel po’ a Prodi, che pure ne menava vanto. Ciò che ha tolto il sonno all’intera Europa, la recrudescenza della crisi economica, con l’area euro messa a rischio dal precipitare di Paesi come Irlanda, Portogallo e presto, sembra purtroppo, anche Spagna, per il Cavaliere s’è trasformato in atout. Il solo rischio che un’Italia sgovernata, e proiettata verso elezioni incerte più di altre volte, potesse essere contagiata in modo grave dal virus irlandese, ha di colpo modificato tutte le riflessioni sulla partita elettorale, a cominciare da quelle del Capo dello Stato, già contrario, ma che s’è esposto pubblicamente ed esplicitamente per spingere tutti verso un atteggiamento più responsabile.

Il videomessaggio e il ripensamento di Fini di giovedì sono nati così. La seconda è più che altro una constatazione: non è stato né affrontato né risolto nessuno dei problemi alla base della crisi, dai rapporti personali tra Berlusconi e Fini a quelli politici tra i loro due partiti, al riequilibrio necessario, dopo la nascita e il riconoscimento di Futuro e libertà come terza gamba della coalizione di centrodestra, dell’asse Pdl-Lega, a una comune visione di tutti i punti del programma su cui esiste dissenso, vedi legalità, immigrazione, sicurezza, Sud, pubblica istruzione, giustizia, oltre ovviamente al punto dolente per eccellenza del controverso salvataggio di Berlusconi dai suoi problemi giudiziari. Al momento, non è manco chiaro se alla fine del percorso i finiani, tutti o in parte, resteranno membri della coalizione, o se la maggioranza assumerà una diversa connotazione, con l’asse B-B al suo centro e una miriade di piccoli partiti satelliti, o anche singoli parlamentari, reclutati per la bisogna.

La terza conclusione è conseguenza delle altre due: se non sceglierà di incassare la fiducia come provvisoria salvezza, in attesa di andare egualmente alle elezioni un altr’anno, Berlusconi si troverà a governare, nel momento in cui le scelte di governo diventeranno più difficili, con una maggioranza numerica e politicamente ectoplasmica, costruita su conversioni personali e convergenze trasformistiche, che lui magari cercherà di strutturare alla meglio, e alla sua maniera, in un nuovo partito, di cui si sente dire che sta già cercando nome e simbolo per rottamare il Pdl.

Non è un gran risultato. E se a crisi finita si potrà dire che Fini ha voluto scherzare con il fuoco ed è rimasto bruciato, è evidente che, se le cose non cambiano, Berlusconi avrà vinto anche stavolta, ma rimane seduto su un vulcano.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8110&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. La crisi è del metodo leaderistico
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2010, 09:54:18 am
23/11/2010 - TACCUINO

La crisi è del metodo leaderistico
   
MARCELLO SORGI

Si può leggere il problema insolubile dei rifiuti di Napoli, che oppone di nuovo il Quirinale a Palazzo Chigi, la ministra Carfagna a Berlusconi e Alessandra Mussolini alla stessa Carfagna, come un caso emblematico di come sarà il governo nel prossimo futuro, se davvero il premier deciderà di risolvere la crisi aggirando le questioni politiche che l’hanno originata e costruendo la maggioranza alla Camera sulla base di voti singoli o di gruppetti nati per la bisogna.

Quello che è manifestamente in difficoltà, infatti, è il metodo di governo basato sul confronto diretto tra il capo e i suoi sottoposti. In caso di scontro interno, come accade in Campania tra tutti coloro che vorrebbero gestire l’appetitosa torta della realizzazione dei termovalorizzatori, ciascuno degli interessati cerca di interloquire direttamente con Berlusconi, e alle prime difficoltà minaccia le dimissioni o addirittura di passare in campo avverso. Un governo e un partito in cui è solo il capo a decidere, mentre sul territorio e a tutti i livelli infuriano le risse, è naturalmente destinato a un ingorgo decisionale. Di qui, appunto, il decreto sui rifiuti annunciato e mai presentato, dal momento che affidare la gestione dei fondi in Campania alla Regione, alle Province o ai Comuni, significa, nell’ordine, accontentare Caldoro e Carfagna, che vogliono mantenere buoni rapporti con finiani e Udc alleati nel governo regionale, o Cosentino e il pezzo di Pdl che si oppone al governatore neo-eletto, o perfino l’opposizione, se si ricorda che il sindaco di Salerno De Luca è stato il candidato sconfitto del centrosinistra alle ultime regionali. Berlusconi non a caso non sa che pesci pigliare.

Allo stesso modo la lite Carfagna-Mussolini, con la nipote del Duce che annuncia che non voterà la fiducia in mancanza di scuse della ministra che l’ha definita “vajassa”, si risolve, se si risolve, solo con un intervento diretto del premier, nei confronti del quale le due sono manifestamente in concorrenza per stabilire chi sia la preferita. In un quadro del genere, infine, sono destinati all’insuccesso, sia il “senso di responsabilità” manifestato da Fini nel famoso videomessaggio in cui è parso rinunciare alla sfiducia contro il governo, sia l’”armistizio” proposto da Casini. E questo perché, a dispetto dei problemi a cui sta andando incontro, Berlusconi continua ad essere convinto che rimettersi in casa due alleati-avversari, come il Presidente della Camera e il leader dell’Udc, sia molto più oneroso che non sfilargli i parlamentari che gli daranno la fiducia il 14.

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Titolo: MARCELLO SORGI. L'obiettivo è dividere gli Udc dai futuristi
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2010, 09:13:43 am
25/11/2010 - TACCUINO

L'obiettivo è dividere gli Udc dai futuristi
   
MARCELLO SORGI

Qualche giorno fa Umberto Bossi aveva consigliato pubblicamente a Berlusconi di non accontentarsi di ottenere la maggioranza nelle prossime votazioni sulla fiducia, ma nel caso in cui il vantaggio in termini di voti sull’opposizione fosse risicato, di recarsi ugualmente Quirinale per dimettersi e chiedere le elezioni, come fece Fanfani un bel po’ di anni fa.

Nella conferenza stampa tenuta ieri a Palazzo Chigi con la ministra dei giovani Giorgia Meloni il Cavaliere a sorpresa ha sposato in pieno la strategia del Senatur, confermando di non aver dubbi sul fatto di ritrovare la maggioranza e di ottenere la fiducia in entrambe le Camere il 14 dicembre. Ma se l’appoggio al governo dovesse risultare insufficiente a realizzare le riforme, Berlusconi ha aggiunto che non esiterebbe a chiedere lo scioglimento delle Camere, addossandone la responsabilità a quei partiti che, o hanno ritirato il loro sostegno al governo, o non sono stati disponibili a farlo in un momento difficile come l’attuale. Anche in questo caso, tuttavia, non sarebbe affatto automatico che il Capo dello Stato dichiarasse finita la legislatura: l’esistenza di una maggioranza, sia pure stentata, potrebbe anzi indurlo a tentare la strada di un altro governo di centrodestra non guidato da Berlusconi, al quale sia Fli sia Udc si affretterebbero a dare i loro voti.

Il premier ha tuttavia fatto una distinzione tra Fini e l’Udc, ripetendo che Fini non deve far altro che una marcia indietro e chiedendo invece a Casini di concedere l’appoggio esterno al governo, in attesa, è sottinteso, di negoziare successivamente l’ingresso a pieno titolo dei propri ministri. Chiaro l’obiettivo del premier di dividere Casini da Fini e di verificare se è disposto a rinunciare alla richiesta di dimissioni per aprire una trattativa. Per ora l’Udc ha confermato di non essere disponibile. In mancanza di questa disponibilità, e con i finiani che hanno confermato ieri il loro orientamento per la sfiducia, Berlusconi, anche nel caso in cui dovesse riottenere la fiducia, non avrebbe una maggioranza solida e si troverebbe esposto continuamente al rischio di andare sotto.

Basta solo rivedere quel che è accaduto ieri, dopo la tormentata seduta di martedì: mentre gli studenti manifestavano davanti al Senato contro la riforma Gelmini, i finiani, appena è rimbalzata a Montecitorio la battuta del presidente del consiglio su Fini, hanno bloccato per un’ora i lavori alla Camera, costringendo la ministra dell’istruzione a riscrivere due emendamenti. E il governo è stato battuto una volta.

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Titolo: Anche MARCELLO SORGI se ne è accorto il governo ha l'alito pesante...
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2010, 12:00:50 am
26/11/2010 - TACCUINO

Nella maggioranza è scomparso il respiro riformatore

MARCELLO SORGI


L’inabissamento, ormai più che temuto, della riforma dell'università, dopo un'altra giornata di passione alla Camera e il rinvio a martedì del voto finale, dimostra, non solo che il governo non riesce ad andare avanti senza i voti dei finiani, ma anche che l'empasse politica è in grado di affossare una delle leggi più urgenti, sulla quale, in tempi piu sereni, il ministro Gelmini aveva potuto registrare anche significative aperture di parte dell'opposizione.

Pur criticabile sotto diversi aspetti, infatti, la riforma mira a realizzare due obiettivi indispensabili: la riduzione dei costi in uno dei settori più costosi del bilancio pubblico e l'introduzione, sia pure con forti limiti, di criteri di merito per insegnanti e ricercatori. Il rinvio dell'approvazione della riforma da luglio ad ora, a causa del'insorgere della rottura tra Berlusconi e Fini, ha fatto coincidere la fase finale dell'iter parlamentare con l'apertura, in molti casi problematica, dell'anno accademico, e con le proteste studentesche, che ieri hanno dilagato in tutta Italia. Al Fli che vota contro il governo per dimostrare che i propri voti sono indispensabili, all'Udc impegnato in un braccio di ferro con Berlusconi dopo la richiesta, giudicata inaccettabile, di appoggio esterno al governo fatta dal premier, si sono aggiunti i voti contrari del Pd, schierato con gli studenti.

Tra la Gelmini (che ha minacciato di ritirare la riforma) e Bersani, che mercoledì era salito sul tetto dell'università di Roma per portare la solidarietà al movimento, c'è stato anche un confronto diretto, perché la Gelmini aveva dato ironicamente a Bersani del «fuoricorso», e il segretario democratico ha messo on line il suo libretto universitario di studente modello laureato con 110 e lode, sfidando la ministra a fare lo stesso.

Così, tra polemiche di sapore apertamente elettorale, la riforma si è impantanata e il governo è andato nuovamente sotto nell'aula della Camera, dove, per inciso, la confusione era tale che in una delle votazioni decisive la stessa Gelmini e il suo collega Alfano hanno votato per errore contro il governo.

L'epilogo, annunciato, della riforma, che dovendo passare al Senato difficilmente potrà essere approvata entro il 14 dicembre, data fissata per le votazioni di fiducia, contiene in sè tutti gli aspetti della situazione attuale: legislature brevi e maggioranze che si disfanno non consentono alcun respiro riformatore anche a governi, come quello di Berlusconi, usciti da una forte vittoria elettorale.

Al premier, che si dice sicuro che Casini e Fini puntino a farlo fuori, non è rimasto che consolarsi con il recupero della Carfagna, che ieri ha ritrovato l'accordo con il Pdl e ha ritirato la minaccia di dimissioni.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il governo di minoranza ultima carta del premier
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2010, 05:52:18 pm
27/11/2010

Il governo di minoranza ultima carta del premier

MARCELLO SORGI

Questa del governo di minoranza, che da due giorni passa di bocca in bocca come via d'uscita più probabile della crisi, è un'ipotesi con troppi padri. Ne parlano, forse temendola, ma fingendo di esserne i veri strateghi, finiani e centristi, che la presentano come l'estrema umiliazione di Berlusconi. E la sussurrano, con molta più circospezione, gli uomini più vicini al Cavaliere, secondo i quali invece rappresenta l'unico modo di ottenere la sconfitta della sfiducia annunciata da Fini e Casini. Certo, è difficile capire cosa avrebbe da festeggiare Berlusconi all'idea del suo governo, nato con più di cento voti di maggioranza alla Camera, che in due anni e mezzo non riesce neppure a superare la fatidica soglia 316, la metà più uno dei deputati. Ma tant’è: ognuno si consola come può. Ed è bastato cominciare a contare sulla possibilità di un esito come questo il 14 dicembre a far cambiare da un giorno all'altro gli umori a Palazzo Chigi.

A cominciare da quello del capo che condiziona tutti gli altri. Il piano, spiegano, è abbastanza semplice. Piuttosto che inseguire l'obiettivo pericoloso dei 316 voti a favore, che alla fine potrebbero esserci o non esserci, basterà ottenere la maggioranza dei presenti in aula. Muoversi, insomma, verso un risultato simile, anche se non eguale, a quello che consentì di salvare a luglio il malcapitato sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo, una delle prime vittime della guerra interna al Pdl. Allora Fini con la sua pattuglia decise di astenersi, e Caliendo fu salvo. Bisognerà vedere cosa accadrà con il passaggio di Futuro e libertà all'opposizione. Qui sta l'incognita e qui diventano decisive le assenze che abbassano il quorum per il governo. In questi mesi, in seno al neonato gruppo di minoranza del centrodestra, ci sono state molte discussioni, ma al dunque Fini ha dimostrato finora di poter condurre il suo drappello dove vuole. Stavolta vuol portarli a sfiduciare il governo, ed è con questa prospettiva che Berlusconi ha dovuto fare i conti. Nell’attesa, ha attraversato tutti i possibili stati d'animo.

Prima ha negato che fosse possibile sfiduciarlo, promettendo di esibire una lettera, che nessuno ha visto, con dodici firme di finiani lealisti che giuravano di non voler votare contro il governo. Poi ha cominciato a rendersi conto delle reali difficoltà. E benché riluttante, s'è rassegnato a piegarsi alla scorciatoia del governo di minoranza. Non c'è altra strada: gliel’hanno detto tutti, da Letta a Bossi, al suo vecchio amico Confalonieri. L'ultima offerta, prima di questa settimana di guerriglia, al solito era venuta da Casini. Tu ti dimetti, aveva proposto Pier a Silvio, fai un appello a tutti, in nome della serietà del momento e dei rischi per la crisi economica europea, e noi dell’Udc siamo i primi ad accoglierlo. Dietro di noi, non ha altro da fare, tornerà a casa anche Fini. Bersani invece dovrà dire di no, altrimenti gli salta per aria il partito. E il gioco è fatto. Ma Berlusconi non s'è fidato. Se mi dimetto, ha ragionato a voce alta, chi mi dice che quei due non si alleano di nuovo per darmi una fregatura, e chiedere un governo di centrodestra non guidato da me?

Di qui, mercoledì, la richiesta all'Udc dell'appoggio esterno: sorprendente per Casini, che l'ha subito respinta, e imprevedibile da uno come il Cavaliere che ha sempre rifuggito le tattiche da Prima Repubblica. Avuto chiaro che Casini, per muoversi, non rinunciava all'apertura formale della crisi, al Cavaliere non è rimasto che il governo di minoranza. Ora, ammesso che in una situazione talmente confusa si riesca a pilotare una votazione in cui Pdl e Lega riescano a far respingere la sfiducia con 306-308 voti e un margine minimo di vantaggio sulle opposizioni, cosa se ne farebbe Berlusconi di un tale governo? Nella lunga storia parlamentare repubblicana infatti, non esistono precedenti. Capitò a Prodi, ai tempi della sua prima esperienza e dell' appoggio altalenante di Bertinotti, di trovarsi in una congiuntura simile, ma gli venne in soccorso Diliberto con la scissione da Rifondazione. Durò poco. Il suo successore D'Alema, pur di avere una vera maggioranza, non esitò a reclutare Cossiga, Mastella, i "Quattro gatti", e perfino l'ex-missino transfuga Misserville.

Che divenne sottosegretario, fu accusato per questo da Fini di essere un "puttano", e dopo aver rivendicato con orgoglio di essere rimasto fascista, dovette dimettersi dal primo governo guidato da un post-comunista. Ma a parte questi non fulgidi esempi, che rimandano all'endemica debolezza degli esecutivi di centrosinistra, per il resto c'è stato di tutto. Governi balneari come quelli di Leone e Rumor, destinati a sopravvivere un'estate. Governi "amici", come quello di Pella, con cui la Dc manteneva le distanze. E ancora, monocolori cosiddetti "di decantazione", a cui le correnti democristiane davano e toglievano l'appoggio in attesa dei congressi: le vere sedi, fuori dal Parlamento, dove si decidevano gli assetti del Paese. Prima e dopo, c'erano stati i famosi governi delle "convergenze parallele" di Moro con i socialisti, e quello di solidarietà nazionale di Andreotti, che per consentire ai comunisti di appoggiarlo senza votarlo, si inventò la "non sfiducia", cioè l'astensione, di tutti i gruppi che lo sostenevano. Bene: pur trattandosi della più larga coalizione mai creatasi in Parlamento, oltre il novanta per cento dei parlamentari, le diffidenze interne non mancavano.

La gestione quotidiana di questa maggioranza sui generis era affidata a Franco Evangelisti, il fantasista braccio destro di Andreotti, e a Fernando Di Giulio, il brillante vicecapogruppo del Pci, dal momento che il capogruppo, Alessandro Natta, aveva giurato pubblicamente che con un democristiano non avrebbe preso neanche un caffè. A una delle prime riunioni nello studio di Evangelisti, il capogruppo socialista Vincenzo Balzamo notò che Di Giulio si dirigeva con sicurezza verso il bagno, come uno che conoscesse da tempo l'appartamento. Così intuì che i due plenipotenziari, democristiano e comunista, si frequentavano anche al di fuori delle riunioni ufficiali, e s'insospettì. Avvertito da Balzamo, anche Craxi se ne dispiacque e cominciò a prendere le sue contromisure. In una rassegna tanto varia di formule, tuttavia, di governi di minoranza non c'è traccia. Per una ragione abbastanza semplice: i governi italiani stentano già quando hanno la maggioranza, figurarsi quando non ce l'hanno più. Berlusconi è il primo a saperlo: ed è per questo, non è difficile intuirlo, che non vorrà restare a lungo in una posizione palesemente scomoda.

Se riuscirà davvero ad avere la fiducia del Senato e una mezza fiducia della Camera, le userà innanzitutto per proclamare in tv di aver sconfitto Fini. Successivamente, e ufficialmente per senso di responsabilità, il governo s'impegnerà a portare all'approvazione il cosiddetto decreto "mille proroghe", se possibile la riforma universitaria, e i decreti del federalismo, che per la Lega sono una ragione di vita o di morte. E finalmente, all'inizio del 2011 salirà al Quirinale per chiedere le elezioni. Una partita assolutamente nuova si aprirà a quel punto per il Capo dello Stato: quella di un governo che sta in piedi, seppure su una gamba e mezza, ma vuole ripresentarsi davanti agli elettori. E' presumibile che Napolitano voglia fare un approfondimento. Ma se, legittimamente, obiettasse che si possono sciogliere le Camere solo quando non c'è più una maggioranza, Berlusconi ha pronto l'ultimo colpo di scena: sarà Bossi ad aprire per conto suo una vera crisi. E ad innescare la scintilla finale della legislatura.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Una virata che rischierebbe di terremotare tutte le opposizioni
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2010, 05:30:27 pm
30/11/2010 - TACCUINO

Una virata che rischierebbe di terremotare tutte le opposizioni

MARCELLO SORGI

Anche se è ancora presto per capire se davvero si tratti di una scelta definitiva e quali siano le vere ragioni che possono averla indotta, la rinuncia di Fini alla sfiducia verso il governo Berlusconi e il più che probabile ritorno all'astensione saranno molto difficili da spiegare.

Per temeraria che fosse, l'accelerata verso la crisi sancita a Bastia Umbra alla convention di Futuro e libertà aveva comunque una sua logica. Se Fini, con l'aiuto di Casini, fosse davvero riuscito a far dimettere Berlusconi, avrebbe potuto contare anche su una variegata gamma di soluzioni per il dopo. Ammesso che fosse difficile liberarsi in un sol colpo del governo e di Berlusconi, avrebbe potuto costringere il Cavaliere a una trattativa durissima, magari per concedergli un accordo rinegoziando programma e compagine ministeriale.

Dell'astensione, al contrario, non si capisce lo scopo. A luglio, subito dopo la rottura, nella votazione su Caliendo aveva rappresentato l'occasione di aggregare un largo schieramento centrale, in cui si riconoscevano insieme Fini, Casini e Rutelli, e di fare apparire chiaramente che il governo aveva perso la maggioranza. Ma alla fine di un periodo come questo, contrassegnato da una guerriglia parlamentare fine a se stessa, dato che poi, come accadrà oggi con la riforma dell'università, i finiani approvano le leggi che hanno appena smesso di criticare, l'astensione è destinata a perdere di senso. Servirà solo a rendere cronica la debolezza del governo, ad allungare i tempi delle trattative e in conclusione ad aumentare l'instabilità, cosa di cui Fini potrebbe rischiare di dover pagare un conto salato in termini di immagine. E se veramente ciò che ha spinto il presidente della Camera a mollare sulla sfiducia è stato il dissenso di otto irriducibili colombe di Futuro e libertà, il peso di questa minoranza decisiva è destinato a crescere.

Nell'immediato la svolta verso cui Fini si sta muovendo si ripercuoterà su tutta l'opposizione, terremotandola. Se solo si riflette che Casini fino a domenica ha ribadito la linea della sfiducia, che avrebbe dovuto concretizzarsi in una mozione comune con il Fli, l'effetto più probabile del ripensamento finiamo sarà una sorta di liberi tutti, in cui ognuno si riprende la sua autonomia. Discorso che vale ovviamente anche per il Pd, impegnato a promuovere alleanze sempre più larghe, e a questo punto sempre più impossibili, per abbattere Berlusconi. Il quale, invece, premiato dalla sua resistenza, e sol che sia capace di approfittarne, ha di nuovo una chance per tentare di rilanciare il governo con un vero accordo di fine legislatura.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Le pistole sul tavolo
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2010, 12:12:24 pm
2/12/2010

Le pistole sul tavolo

MARCELLO SORGI

La decisione maturata ieri a sorpresa di chiudere la Camera fino al 13 dicembre, data di inizio del dibattito sulla sfiducia, dà purtroppo la misura della gravità a cui è giunta la crisi politica. Una crisi che si trascina da settimane e negli ultimi giorni ha visto il Parlamento trasformato in campo di guerriglia, neppure di guerra, in cui la regola sono trappole e agguati, e l’eccezione, piuttosto, la normale discussione e approvazione delle leggi che il Paese s’aspetta dai propri onorevoli.

Ma evidentemente il livello di guardia già superato varie volte nelle ultime sedute - e oltre il quale, va detto, c’è solo il degrado delle istituzioni - rischiava di essere travolto anche nelle prossime. Di qui, a male estremo, l’estremo rimedio adottato dalla (ex) maggioranza di centrodestra, con l’appoggio imprevisto dei finiani - i più impegnati di recente nelle avventurose scorribande tra i banchi di Montecitorio -, e tra le proteste delle opposizioni.

Una parte delle quali, l’Udc di Casini, che solo qualche giorno fa aveva proposto un armistizio, ha annunciato ieri stesso la presentazione di un’altra mozione di sfiducia, che si affiancherà a quella del centrosinistra, e presto, si sa già, sarà seguita da una terza di Fini e Lombardo.

Si dirà che un’accelerata come questa rischia di chiudere le ultime esili linee di collegamento tra gli spezzoni separati del centrodestra, ma per inaudita che possa apparire, è la logica reazione alla campagna acquisti praticata spavaldamente, e apertamente, da Berlusconi, che già si sentiva al sicuro e aveva dichiarato di aver messo in cassaforte i voti necessari a battere la sfiducia alla Camera. La prossima presentazione delle mozioni, con le firme dei parlamentari sui documenti, chiuderà formalmente il calciomercato costringendo gli eventuali transfughi a venire allo scoperto.

Non è un mistero infatti che nell’approssimarsi della resa dei conti, sia all’interno del Fli, il neonato gruppo finiano, sia nell’Udc, le divisioni tra falchi e colombe si fossero fatte sentire anche all’esterno. E agli incerti, ma non ancora disposti ad abbandonare i propri gruppi, il Cavaliere aveva fatto sapere che si sarebbe accontentato anche delle assenze: per ricavarne, con un abbassamento del quorum, il raggiungimento della maggioranza in aula ed evitare le dimissioni, pur restando a capo di un governo di minoranza incapace di superare la fatidica quota 316, la metà più uno dei membri della Camera. E’ stata proprio questa espressa intenzione del Cavaliere, di aggirare un vero chiarimento politico con Fini e Casini, e puntare a una maggioranza numerica e raccogliticcia pur di umiliarli, in attesa di sfidarli nelle urne, a provocare l’anticipo delle mozioni di sfiducia e l’anomala chiusura della Camera.

Fin qui, però, nessuno degli avversari in campo ha prevalso. Berlusconi per la seconda volta, dopo settembre, ha dovuto prendere atto che neppure uno come lui può comperarsi una maggioranza. Quanto a Fini e Casini, hanno dovuto rassegnarsi al fatto che far dimettere il Cavaliere non era così facile come pensavano. Ma paradossalmente, adesso, questa specie di azzeramento maturato dopo una serie infinita di colpi bassi può diventare, o ridiventare, la base di quella trattativa che finora s’è rivelata impossibile.

E’ inutile negarlo: al punto in cui sono giunte le cose, è davvero arduo scommettere su un ripensamento di leader come Berlusconi e Fini, che nel fuoco di uno scontro personale sembrano aver smarrito da tempo le ragioni della politica. Ed è quasi certamente destinata a rivelarsi un’illusione l’idea che, dopo aver perseguito con un tale accanimento l’eliminazione ciascuno dell’altro, ci ripensino e si accorgano di essersi cacciati in un vicolo cieco.

Eppure chissà perché, a guardare i due duellanti stanchi, a fine corsa, seduti uno di fonte all’altro con le pistole posate sul tavolo, viene da pensare che è più facile che se le rimettano in tasca, che non che premano il grilletto.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8160&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Con tre carte il Senatur vince sempre
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2010, 03:59:06 pm
7/12/2010

Con tre carte il Senatur vince sempre


MARCELLO SORGI

Pressing sulla Lega, a una settimana dal voto di fiducia. Più che alle dichiarazioni quotidiane, che vengono dai due fronti contrapposti, occorre guardare al lavorìo sotterraneo, già orientato al momento successivo al 14 dicembre, in cui si apriranno le trattative per risolvere la crisi o per dichiarare conclusa la legislatura.

Oltre al Quirinale, arbitro istituzionale in questa fase, sarà Bossi ad avere un peso decisivo: se deciderà di restare legato fino all’ultimo a Berlusconi, lo sbocco più probabile della crisi sarà il voto anticipato. Se invece dal Carroccio verrà anche solo un accenno di disponibilità all’ipotesi di un nuovo governo, tutti i giochi si riapriranno. Compreso quello, che ieri ha ripreso a circolare con insistenza, di un governo a guida leghista affidato al ministro dell’Interno Maroni, perfettamente titolato, come responsabile del Viminale, a guidare un esecutivo a termine mirato a una riforma della legge elettorale.

Forse è proprio per questo che Maroni, ad ogni occasione, ribadisce che la posizione della Lega è rimasta immutata: o si rimette in piedi questo governo o si va ad elezioni. E in effetti Bossi non ha alcuna necessità di cambiare il suo atteggiamento prima di conoscere il risultato della votazione. Tiene presente le offerte che continuano a giungergli specie dal fronte dell’assedio (Fini non a caso ieri ha ribadito che non punta a un ribaltone, ma a un nuovo governo di centrodestra, e Bocchino per la stessa ragione ha dichiarato che non si può escludere anche un Berlusconi bis), ma aspetta.

Se il 14 dicembre alla fine Berlusconi dovesse prevalere anche per un solo voto, e con un governo che resterebbe comunque al di sotto della fatidica soglia dei 316 deputati, Bossi sarebbe al suo fianco per aiutarlo ad andare avanti, almeno fino all’approvazione dei decreti sul federalismo, e forse anche per valutare le mosse dello sconfitto Terzo polo e gli eventuali smarcamenti dei tre leader che lo compongono. Il Cavaliere a quel punto potrebbe anche fare il famoso appello alla responsabilità, e misurare su questo se Casini, dopo il mancato successo della mozione di sfiducia, sarebbe disposto, a certe condizioni, a muoversi anche senza Fini. Nel caso invece fosse il Terzo polo a prevalere il 14, sia pure di poco, Bossi manterrebbe il suo asse con il Cavaliere solo se il Pdl si schierasse compatto con il proprio leader. Al primo accenno di ripensamento, al Senato o alla Camera, e a fronte di rassicurazioni sul percorso del federalismo, non potrebbe invece che valutare la possibilità di un nuovo governo. Specie se, come ripete Fini, si trattasse di un esecutivo di centrodestra.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8177&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. An, la lite infinita degli ex colonnelli
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2010, 12:33:42 pm
Politica

08/12/2010 - ANALISI

An, la lite infinita degli ex colonnelli

Dietro la battaglia un cumulo di legami infranti. Come nello scontro tv La Russa- Bocchino

MARCELLO SORGI

ROMA
Prima o poi ci si dovrà decidere a valutare quanto pesa, in questa crisi che rischia di segnare per sempre il destino del centrodestra, il vissuto di un partito, o un ex partito, come An. Perché appunto, al centro della crisi, c’è certamente lo scontro personale tra Berlusconi e Fini. Ma a renderne impossibile la ricomposizione, ha giocato certamente anche tutto il groviglio di amicizie, militanza e passioni politiche che ruota attorno agli ex eredi di Almirante. Il gruppo dei colonnelli, un tempo al fianco di Fini, ed ora stretti attorno a Berlusconi.
I nuovi pretoriani, quelli che l’altra sera il ministro della Difesa e coordinatore del Pdl Ignazio La Russa, davanti al capogruppo di Futuro e libertà Italo Bocchino, ha definito con disprezzo «caporali».

E ancora, l'insieme dei camerati, e perfino dei federali del vecchio Msi, che osserva questa lotta intestina tra i due tronconi di quello che, sia pure cambiando pelle, era rimasto il loro vecchio partito, come se dovesse dissolversi per sempre. Sì, bisognava proprio trovarsi lunedì sera nello studio di «Porta a porta» per vedere La Russa e Bocchino dar vita ad uno dei duelli più sanguinosi, a memoria di tutti i presenti, che annoveri la storia recente della Seconda Repubblica. I due camerati si scrutavano con gli sguardi pieni di odio, si rovesciavano addosso ondate di accuse infamanti, ma si vedeva chiaramente che lo facevano in sofferenza. E proprio per questo, di tanto in tanto, prendevano fiato rinfacciandosi il passato in comune, il pezzo di vita, ancora palpitante, vissuta uno accanto all'altro. «Ti ricordi, Italo?». «E tu, Ignazio?». «Quello che abbiamo fatto, lo abbiamo fatto sempre insieme», incalzava La Russa.

«Non è vero - ribatteva Bocchino - quando Berlusconi ci ha espulso dal partito voi eravate d’accordo». «Bugiardo - reagiva il ministro - siete stati voi ad andarvene, non noi a cacciarvi». E il capogruppo: «Sei tu a mentire. Lo sai benissimo perché sono stato cacciato!». Nello studio televisivo pieno di tensione, con La Russa che frenava a fatica un fremito, e Bocchino immobile nel suo sguardo assassino, si è arrivati a temere perfino che la lite potesse arrivare allo scontro fisico, come ai vecchi tempi in cui i due camerati andavano davanti alle scuole. Non era difficile intuire che, al di là dello sbocco della crisi, la vera ragione del contendere era l’infamia, per gente che ha sempre avuto una certa idea dell’onore politico, di sentirsi trattati reciprocamente da traditori. Si capiva benissimo, ad esempio, quando Bocchino, in un intervallo pubblicitario della trasmissione, ha tirato fuori dalla tasca il telefonino e ha fatto vedere a La Russa gli effetti della campagna sul tradimento inaugurata da Berlusconi e rilanciata da «Libero», che ha messo in prima pagina nomi, foto e indirizzi mail dei deputati finiani.

«Guarda Ignazio, se fossi quello di una volta dovresti ancora indignarti: c’è uno che mi scrive per augurare a mia figlia un cancro al cervello!». «Calma, Italo, se mi dovessi indignare come vuoi tu, da anni sarei sempre indignato». Ma dietro questo psicodramma che somigliava molto a una lite in famiglia, come quelle in cui le ragioni e i torti risalgono indietro per generazioni, ci sono naturalmente ragioni politiche, prima tra tutte l’inaccettabilità di una guerra intestina per persone che hanno condiviso la stessa esperienza politica.
Come Bocchino accusa La Russa e tutti gli altri colonnelli dell’ex An, Gasparri, Matteoli e Alemanno, di aver svenduto la tradizione del partito ed essersi messi al servizio di Berlusconi, per far fuori Fini, così La Russa rimprovera a Bocchino, e agli altri «caporali» del neonato partito finiano, di aver stretto attorno al leader un cordone asfissiante e averlo portato nel vicolo cieco della sfiducia. Poi, c’è una sorta di non detto, che rimbomba nel silenzio degli sguardi inferociti.

E’ come se ciascuno si rivolgesse all’altro per dire: ma come, eravamo gli unici veri politici di quell’armata Brancaleone che è il centrodestra, i più titolati a cogliere l’eredità di Berlusconi, e invece siamo finiti così. Eppure, nessuno vuol tirare fuori quelle che considera le vere cause di una divisione insanabile. Bocchino pensa (ma non lo dirà mai a voce alta) che La Russa e gli altri colonnelli si sono piegati, non a una scelta politica di Berlusconi, ma all’inaccettabile capriccio del Cavaliere di fargli pagare, senza neppure chiedersi se fossero veri, i gossip sulla storia tra lui e la Carfagna. La Russa e gli altri sono convinti che Fini, come dicono a Roma, sia stato «inzigato», cioè spinto sotto sotto a scegliere la linea radicale della rottura, non solo dalla nuova moglie, che avrebbe su di lui un’influenza superiore a qualsiasi altro, ma anche dalla mancata reazione, o addirittura dalla irragionevole propensione estremista, di «caporali» come Briguglio e Granata, gente a cui nella vecchia An non si dava alcuna importanza, che ora mirano a farli fuori per prendere i loro posti. E siccome Bocchino è l'unico del vecchio gruppo per il quale gli ex colonnelli nutrano malgrado tutto un po' di rispetto residuo, e' su di lui che si concentrano le accuse piu' pesanti.

Al dunque, e' come se dopo aver consumato il parricidio di un leader assoluto come Fini, gli ex-colonnelli si guardassero intorno, avvertendone la mancanza e non sapendo come occuparne il vuoto. Gasparri, il primo a veder incrinato il suo rapporto con Gianfranco gia' ai tempi del precedente governo, dopo la legge sulla tv che porta il suo nome e che gli costo' il posto da ministro, oggi fatica a fare il berlusconiano tutto d'un pezzo, come vuole il Cavaliere. Matteoli, che di Fini era sempre stato l'ombra, non fa mistero di aver vissuto la separazione come un dolore personale. La Russa ricorda a tutti che a volere il partito unico «e' stato Fini. Fosse dipeso da me, potevamo fare le liste insieme con Berlusconi e aspettare, formare una federazione e stare a vedere».

Quanto a Alemanno, che se non fosse sindaco di Roma, con l'obbligo di tenere insieme una maggioranza in cui gli ex-Forza Italia sono determinanti, sarebbe il meno berlusconiano di tutti, ha cercato fino all'ultimo di convincere Fini a non rompere. «Gli ho detto: Gianfranco, ma se poi si arriva alle elezioni, mi dici dove vai a prendere i voti? Vedrai - mi ha risposto -. Se mi guardo intorno, vedo tante reazioni che non mi aspettavo. Non sai quanti vecchi federali missini mi chiamano per incoraggiarmi». Una risposta del tutto inattesa, di fronte alla quale il sindaco e' rimasto stupito: «Dopo quindici anni, tutto mi sarei aspettato, ma non di dover tornare al Msi!».

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/379104/


Titolo: MARCELLO SORGI. Processo alla brutta politica
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2010, 06:32:15 pm
11/12/2010

Processo alla brutta politica

MARCELLO SORGI

Eravamo appena usciti - e non del tutto - dagli strascichi giudiziari dell’ultima campagna elettorale, in cui entrambi gli schieramenti avevano scelto di combattersi fino all’ultimo nelle aule di giustizia, per cercare di impedire, l’uno all’altro, di competere con la propria lista, e magari vincere a tavolino per assenza di avversario, ed ecco che ci ritroviamo alle prese con l’inchiesta della Procura romana sul cosiddetto calciomercato dei parlamentari, che potrebbe avere un peso decisivo nella votazione sulla sfiducia prevista per martedì alla Camera.

Intendiamoci: che qualcosa di strano sia accaduto e stia accadendo, nelle ultime ore che precedono il dibattito, è sicuro. Giorno dopo giorno si allunga la fila dei deputati che si presentano davanti alle telecamere, per esprimere i propri dubbi e riserve rispetto alle posizioni dei partiti a cui appartengono - meglio sarebbe dire appartenevano. Un leader come Di Pietro, che se ne è visti portare via due, e teme che la diaspora non sia finita, s’è rivolto ai suoi vecchi colleghi magistrati perché sospetta che questi ripensamenti non siano soltanto politici e che qualcuno di quelli che hanno deciso di passare dall’opposizione alla maggioranza lo abbia fatto per convenienza, o addirittura per soldi.

La reazione della magistratura romana è stata immediata, e l’inchiesta subito aperta, nello spazio di un solo giorno e a distanza di soli tre dall’inizio del dibattito in Parlamento. Cosa, quest’ultima, che ha determinato una furiosa reazione e un controesposto del partito del presidente del Consiglio.

Ma l’indagine, è fin troppo evidente, si presenta assai complicata. A partire dal fatto che gli indagati, i presunti colpevoli di aver messo in vendita i propri voti, hanno reso pubblica confessione in Parlamento, presentandosi in sala stampa, chiedendo di parlare con i giornalisti e rivendicando il loro diritto a cambiare idea. Non avrebbero mai pensato, per questo, di fornire una «notizia criminis» alla magistratura, attivare il meccanismo dell’obbligatorietà dell’azione penale, subire un interrogatorio e probabilmente anche dei controlli patrimoniali, oltre a doversi discolpare dal sospetto ignominioso di essersi venduti ed essere stati comperati. Ciò che - va detto - finora hanno accolto con sdegno, anche quando non sono stati in grado di spiegare le ragioni politiche e le motivazioni ideali del loro cambio di casacca. Se non fosse che chi ha elencato le tariffe - da 350 a 500 mila euro - per cui un deputato indeciso sarebbe disposto a mettersi all’asta è un signore benestante come l’ex pd Calearo, si potrebbe anche dire che la curiosità è legittima e la necessità di far chiarezza è evidente.

E tuttavia, che succede se la magistratura non trova entro domenica un deputato con il portafoglio o il conto corrente in banca fumante?
E peggio ancora, che succede se lo accerta il 15 o il 16 dicembre, o perfino un mese dopo, quando la votazione, comunque sia andata, sarà già stata archiviata? Nel primo caso, si potrebbe pensare che un normale deputato, che magari senza essere stato sollecitato da nessuno all’ultimo momento stava per cambiare idea, potrebbe essere stato portato a soprassedere per timore di finire sotto inchiesta. Nel secondo, invece, è davvero difficile immaginare le conseguenze: già, che si fa? Si ripetono dibattito e votazione? Si annulla tutto? Si decide a seconda se il governo era caduto o se era rimasto in piedi?

Se non se le erano poste prima, i magistrati della Procura di Roma troveranno tutte queste domande sulla strada della loro inchiesta.
Un’inchiesta sulla brutta politica, certamente. Che ha superato ogni livello sopportabile di bruttezza, eppure non è detto che possa o debba essere sanzionata facilmente dalla giustizia o dai magistrati. I quali, appunto, avrebbero fatto bene a non mescolarsi con una vicenda già abbastanza complicata come la crisi di governo. In fondo, bastava solo aspettare qualche giorno. Né più né meno come hanno deciso i più saggi giudici della Corte Costituzionale, che nello stesso giorno in cui la Procura di Roma ha addentato il calciomercato di Montecitorio hanno fatto sapere che sul legittimo impedimento decideranno a gennaio.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8188&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Il sipario sulla Seconda Repubblica
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2010, 08:29:33 am
14/12/2010

Il sipario sulla Seconda Repubblica

MARCELLO SORGI

E’ inutile nasconderlo o cercare di relativizzare: ciò che abbiamo visto ieri per ore e ore, trasmesso in diretta dalle tv nelle case degli italiani, non è solo la crisi del governo Berlusconi - nato, non va dimenticato, meno di tre anni fa, sull’onda di una straordinaria vittoria elettorale con oltre cento deputati di maggioranza. Ma quella, evidente, della Seconda Repubblica. Una Repubblica nuova, anzi fondata sul «nuovismo», venuta a riempire nel 1994 il vuoto lasciato dalla Prima, inghiottita a sua volta da Tangentopoli e dalla propria incapacità di autoriformarsi. E’ precisamente questo sistema, che doveva dare agli elettori il potere di scegliersi direttamente i propri rappresentanti senza sottostare alle prepotenze dei partiti, e al contempo di stabilire da chi farsi governare, che è franato tutt’insieme sotto gli occhi dei cittadini-telespettatori. Paradossalmente, lo spettacolo a cui si è assistito in un giorno interminabile aveva le caratteristiche dell’inverosimile e della veglia funebre, così che a tratti sembrava di rivedere l’indimenticabile «Prova d’orchestra» di Fellini.

Nel momento terribile e fantastico del film in cui il maestro tenta per l’ultima volta di dirigere i suoi orchestrali, mentre tutto vien giù, il teatro, il palco, i leggii con le ultime note, sepolte da un cupo rimbombo. A somigliare al maestro felliniano erano appunto i due avversari che si fronteggiano da mesi, e che ieri si scambiavano reciprocamente gelide occhiate di disprezzo. Berlusconi s’è alzato a parlare tre volte, due nell’aula del Senato, una in quella della Camera, sforzandosi in ogni modo di apparire sicuro di sé. Ha lasciato intendere che è pronto a trattare su tutto, dalla legge elettorale al rimpasto di governo, ma che la trattativa, per lui, può cominciare solo un minuto dopo la vittoria, anche stentata, sulle mozioni di sfiducia. Quanto a Fini, mostrava qualche segno di sofferenza per le voci di dissenso e le grida di dolore dei più incerti tra i suoi, usciti allo scoperto. Ma al dunque, è riuscito a recuperarli, riunificando il suo gruppo parlamentare, mentre pure gli toccava coordinare, da presidente, una delle sedute più difficili della Camera.

Tal che, a fine giornata, i pronostici inizialmente favorevoli al Cavaliere erano di nuovo incerti. Se le tre deputate in gravidanza, per cui è stato già disposto un servizio di assistenza con sedie a rotelle, riusciranno a partecipare al voto di oggi, i due schieramenti, numeri alla mano, dovrebbero essere pari. La vittoria dell’uno o dell’altro dipenderà dal ripensamento di Guzzanti (ricollocato all’opposizione dopo un repentino passaggio alla maggioranza), dallo spostamento di Calearo (eletto con il Pd, traghettato nel gruppo misto e tentato dalla fiducia) e da quello eventuale di Scilipoti, transfuga dipietrista che all’ultimo momento potrebbe passare con il Cavaliere. Dove poi possa andare un governo appeso dichiaratamente a questi tre, è meglio non chiederselo.

Né vale interrogarsi, se per caso a vincere dovesse essere Fini, dove potrà arrivare il largo fronte della sfiducia. Consumata l’ipotesi di un governo di emergenza appoggiato anche dalla sinistra, esaurita la speranza di riunire in qualsiasi modo forze eterogenee per cambiare la legge elettorale Porcellum e poi riandare a votare, preclusa anche la strada di un restauro, forse sarebbe meglio dire un accomodamento, del centrodestra, la verità è che se cade Berlusconi non c’è alcuna alternativa pronta. I lunghi mesi impiegati a prepararla sono finiti nel nulla. Il confuso ribaltone del ‘94, costruito davanti a una scatola di sardine da Bossi e D’Alema, oggi appare sproporzionatamente come un esempio di architettura politica, a confronto dell’inconcludenza e del vicolo cieco in cui si sono cacciate le opposizioni. Anche per questo, la solenne seduta parlamentare e bicamerale officiata ieri resterà a suo modo nella storia per aver calato in un colpo il sipario sul centrodestra come lo avevamo conosciuto, su Berlusconi e il berlusconismo, e forse anche, definitivamente, sull’intera Seconda Repubblica.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8198&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Strategia di sopravvivenza ora il pallino è al Senatur
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2010, 03:47:18 pm
16/12/2010 - TACCUINO

Strategia di sopravvivenza ora il pallino è al Senatur

MARCELLO SORGI

La nascita, o la rinascita, del Terzo polo, dopo la botta della sconfitta subita alla Camera, è la diretta reazione alla strategia dell’allargamento della maggioranza per singole chiamate di deputati annunciata da Berlusconi dopo il voto con cui ha salvato il governo, e ribadita ieri in un’intervista a Mattino 5. E’ come se gli ottanta deputati dei gruppi che avevano presentato la mozione di sfiducia avessero risposto al premier che se vuole trattare, deve farlo con tutti insieme, senza cercare di separare i buoni dai cattivi, Casini da Fini e i parlamentari dai loro leader.

La delusione per l’esito della due giorni in Parlamento era palpabile nell’assemblea a due passi da Montecitorio ieri pomeriggio e attorno al tavolo a cui si sono seduti, oltre a Casini, Fini e Rutelli, tutti gli altri che hanno giocato la partita della sfiducia, da Giorgio La Malfa a Paolo Guzzanti. I terzopolisti ovviamente, piuttosto che le elezioni subito come annunciato dall’asse BB (Berlusconi-Bossi) in caso di impossibilità, per il governo, di andare avanti, preferirebbero che il Cavaliere riuscisse a galleggiare per un annetto, tenendolo a bagnomaria e magari aprendo la strada all’approvazione finale della riforma Gelmini o lasciando passare il decreto milleproroghe. Ma costringendolo anche ad affrontare altri passaggi rischiosi e logoranti, come le sfiducie personali contro i ministri Bondi e Calderoli o la mozione sulla Rai, che verranno discusse a gennaio. Tra le speranze inconfessabili, ma sussurrate da più d’uno dei leader del Polo ritrovato, c’è anche quella che la Corte costituzionale a gennaio annulli il legittimo impedimento, riconsegnando Berlusconi ai magistrati milanesi, e costringendolo a negoziare con gli avversari un nuovo salvacondotto per evitare di affrontare i processi.

Si tratta, come è evidente di una strategia di sopravvivenza, di un’alleanza finora abbastanza occasionale, che comincia a fare i conti con la sconfitta subita martedì e mette in conto l’eventualità che lo scioglimento anticipato delle Camere diventi inevitabile di qui a poco. La blindatura dei parlamentari incerti, sui quali il premier ha puntato immediatamente dopo il modesto risultato dei 314 voti alla Camera per allargare la maggioranza, potrebbe infatti produrre un effetto opposto a quello che i terzopolisti si propongono, accelerando le ambizioni elettorali di Berlusconi e Bossi. Approvato il federalismo, a fine gennaio, potrebbe essere il Senatur, d’intesa con il Cavaliere, a decidere di staccare la spina al governo.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8206&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Le scarcerazioni e il rischio di una nuova fiammata (!?)
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2010, 09:07:19 pm
17/12/2010 - TACCUINO

Le scarcerazioni e il rischio di una nuova fiammata

MARCELLO SORGI


La scarcerazione, sia pure in attesa di giudizio, dei giovani fermati per il pomeriggio di violenza e devastazione del centro storico di Roma di giovedì, ha provocato una dura reazione del sindaco di Roma Alemanno, a cui è seguita una replica risentita del presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara. Alemanno, come gran parte della popolazione romana del centro storico teatro della guerriglia, si aspettava una punizione esemplare che non è venuta.

I giudici del Tribunale, oltre ad accogliere le richieste della difesa, hanno contestato il quadro delle accuse messe insieme dalle forze di polizia, ed hanno disposto un approfondimento di molti aspetti ancora da chiarire, sia degli attacchi e delle distruzioni ad opera degli studenti, sia delle reazioni e del piano di ordine pubblico predisposto per le manifestazioni, che cadevano nel giorno del dibattito e del voto sulla sfiducia alla Camera.

Ma al di là delle polemiche tra il sindaco e i magistrati, la decisione di rimettere a piede libero gli arrestati rischia di ripercuotersi la prossima settimana sulla discussione finale, e sulla prevista approvazione, al Senato, della riforma Gelmini, che ha riportato in piazza gli studenti e dato sfogo alle frange più dure del movimento.

Mentre infatti il percorso parlamentare della riforma si annuncia tranquillo, vista la posizione, annunciata da finiani e Udc, di votare la legge, fuori del Palazzo il rischio di un ritorno di fiamma delle manifestazioni e di nuovi scontri con la polizia è fortissimo.

Giovedì sera il ministro dell'interno Maroni si era congratulato con le forze dell'ordine, oltre che per il comportamento professionale, anche per aver evitato conseguenze più gravi, che le prime immagini degli scontri avevano fatto temere. In altre parole il governo aveva esultato perché in situazioni del genere, in un attimo, può scapparci il morto, come accadde a Genova a margine del G8 del 2001. In questo senso erano stati in molti, tra governo e responsabili dell'intervento sulle strade, a tirare un sospiro di sollievo.

Ora al contrario - anche se le intenzioni del Tribunale non erano queste, e i giudici si sono limitati a riconoscere il diritto degli imputati ad attendere il giudizio fuori dal carcere - il rischio che il prossimo passaggio definitivo della riforma Gelmini al Senato sia accompagnato da una nuova ondata di manifestazioni è tornato ad essere concreto.

Un peso in più in questa difficile fine d'anno del governo, su cui dopo l'ultima battaglia parlamentare grava una lunga scia di incertezza.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8210&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. I 150 anni dell'Italia unita dividono Bossi e Berlusconi ...
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2010, 10:32:41 pm
21/12/2010 - TACCUINO

I 150 anni dell'Italia unita dividono Bossi e Berlusconi sui tempi delle elezioni

MARCELLO SORGI


Con il suo deciso no alle elezioni anticipate, Napolitano s'è rivolto non solo al governo e all'opposizione, specie a quella, neonata, del Presidente della Camera, ma anche alla Lega, il partito che con più convinzione continua a chiedere lo scioglimento anticipato delle Camere. Le tensioni tra Pdl e Carroccio, che negli ultimi giorni si sono fatte evidenti, a partire dall'uscita del ministro Gasparri sugli arresti preventivi degli studenti più violenti, che ha messo in imbarazzo il Viminale guidato da Roberto Maroni, hanno al fondo una ragione basata sulla percezione che ogni giorno che passa, in sintonia con il Capo dello Stato, Berlusconi sia sempre meno convinto di andare alle urne e punti a un accomodamento per andare avanti.

Oltre a non essere per niente sicuro che il cosiddetto gruppo dei responsabili, che dovrebbe costituirsi e registrare nuovi ingressi di transfughi da Fli e Udc per sostenere il governo, sia effettivamente in grado di esistere, Bossi non vede chiaro sulla questione dei tempi del chiarimento. Che per il Senatur non dovrebbero superare la boa di fine gennaio, in modo da consentire, tra scioglimento delle Camere e convocazione dei comizi, una chiamata alle urne entro la fine di marzo. E per il Cavaliere invece sarebbero più lunghi, fino a mettere in conto la possibilità di un accorpamento tra amministrative e politiche nella primavera inoltrata, tipo maggio.

A questa ipotesi di slittamento Berlusconi, stando a quel che dicono i suoi più stretti collaboratori, sarebbe stato indotto anche dal tenore dei due più recenti colloqui con il Capo dello Stato. Incontri mirati, per il premier, a ristabilire un rapporto positivo con il Quirinale, indispensabile sia nel caso di un proseguimento dell'attività di governo, con un rimpasto che verrebbe deciso già nei primi giorni del nuovo anno, sia in caso di elezioni anticipate, con un percorso tutto in mano al Presidente della Repubblica e l'insidia, per la verità molto affievolita dopo la sconfitta della sfiducia alla Camera, dei tentativi di dar vita a un nuovo governo.

Napolitano nel corso di questi colloqui con il premier avrebbe anticipato la sua convinzione della necessità di portare avanti la legislatura, sottolineando, come poi ha fatto in pubblico, la sua preferenza per la stabilità. E parlando delle prossime scadenze, avrebbe accennato alla ricorrenza dei 150 anni dell'Unità d'Italia e alla necessità di celebrarla degnamente, evitando possibilmente di farla finire al centro delle solite polemiche.

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Titolo: MARCELLO SORGI. E adesso tutti guardano alla Consulta
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2010, 03:37:46 pm
22/12/2010 - TACCUINO

E adesso tutti guardano alla Consulta

MARCELLO SORGI

Visti ieri a poche ore di distanza per la prima volta dopo lo scontro alla Camera, che doveva essere - ma non è stato - finale, Berlusconi a Fini sono apparsi vogliosi di riprendere il duello più di quel che ragionevolmente ci si potrebbe aspettare, come se appunto il risultato della battaglia sulla sfiducia in cui uno ha vinto e l'altro ha perso per poco, lungi dal chiudere la partita tra i due, ne abbia invece aperto i tempi supplementari.

Berlusconi è sicuro di se e all'avversario che sostiene che la legislatura può arrivare alla sua scadenza naturale replica che quest'auspicio non è coerente con la sfiducia tentata pochi giorni fa alla Camera. In realtà, al di là dei numeri risicati della fiducia, Berlusconi sa di avere davanti a se almeno un anno di governo grazie alla disponibilità, ogni giorno più marcata, dell'Udc di farsi carico dell'approvazione dei provvedimenti più importanti per evitare le elezioni. Anche tra i finiani la linea del galleggiamento, nel senso di consentire al governo di andare avanti e non offrire pretesti per elezioni anticipate, s'è fatta strada come conseguenza obbligata della sconfitta subita a Montecitorio e della necessità di un lavoro di medio termine, sul territorio, per costruire lo scheletro del partito neonato di Futuro e libertà.

Questa calma apparente - sempre che la giornata di oggi smentisca le previsioni più allarmate di una ripresa della guerriglia studentesca in vista dell'approvazione della riforma Gelmini al Senato - deve ancora passare per l'esame del legittimo impedimento da parte della Corte Costituzionale e affrontare la possibilità, per il premier, di ritrovarsi di nuovo a sorpresa al centro di un'emergenza giustizia.

Sotto sotto, è quel che sperano sia Casini che Fini. Ma con due atteggiamenti differenti. Il leader dell'Udc, che già l'anno scorso fu quasi il costruttore materiale della discussa legge ad personam sul legittimo impedimento, è pronto a bissare l'esperienza e a venire in soccorso al Cavaliere in nome del fatto che l'Udc è contraria a qualsiasi scorciatoia giudiziaria per farlo fuori, e che un eventuale cancellazione del legittimo impedimento finirebbe a spingere Berlusconi verso una campagna elettorale tutta giocata contro la magistratura e impostata come un ennesimo referendum su se stesso. Quanto a Fini, ne approfitterebbe per rientrare in gioco, visto che il presidente del consiglio dovrebbe negoziare anche con Fli la messa a punto di un nuovo salvacondotto che gli consenta di andare avanti.
Galleggiare al prezzo del logoramento: questa è per Berlusconi l'altra faccia della tregua terzo polista.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il gioco duro delle ministre immagine
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2010, 05:40:59 pm
23/12/2010

Il gioco duro delle ministre immagine

MARCELLO SORGI

La toppa messa a tarda sera da Palazzo Chigi non risolve il problema. Secondo, ma solo in ordine di tempo, a quello della Carfagna, il caso della ministra Prestigiacomo - che ieri ha lasciato il Pdl in polemica con Cicchitto per il mancato accoglimento della richiesta di rinvio di un provvedimento poi approvato alla Camera - ha politicamente le stesse caratteristiche e le stesse conseguenze di quello esploso neppure un mese fa. Con l’aggravante che Stefania Prestigiacomo, del Pdl, non è un volto nuovo, come la Carfagna, chiamato a rinfrescare l’immagine di un partito logorato ormai da parecchi anni di potere, ma una delle fondatrici, a fianco di Berlusconi, già di Forza Italia, fin dal lontano 1994. Bella, alta, bionda, siciliana di ascendenze normanne, appartiene cioè a quel gruppo di allora giovanissimi, provenienti dalla società civile, che si lanciarono con entusiasmo nell’avventura un po’ folle della prima discesa in campo del Cavaliere.

E che a sorpresa, dato che nessuno, a quei tempi, era disposto a scommettere un soldo bucato su di loro, approdarono quasi 17 anni fa dietro di lui al governo.
Quel governo semirivoluzionario che fu abbattuto dopo soli otto mesi dal ribaltone.
Qui finiscono le differenze - tra l’ex soubrette televisiva che ha messo in gioco il suo posto al governo di ministra delle Pari opportunità e l’ex giovane imprenditrice che ha rotto con il partito che aveva contribuito a fondare - e cominciano le analogie tra i due casi. Come infatti c’era per la Carfagna, deciso a sbarrarle la strada, l’ex sottosegretario Nicola Cosentino, dimissionario dal governo dopo il coinvolgimento in un’inchiesta di camorra, ma rimasto coordinatore e padrone del Pdl in Campania, c’è per la Prestigiacomo il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto che ieri in aula a Montecitorio s’è rifiutato di aiutarla.

Cosentino e Cicchitto, va detto, sono completamente diversi per ruolo e per storia personale: ma appartengono entrambi, sia pure a livelli diversi - e Cicchitto più per il suo compito istituzionale che non come capocorrente - al gruppo di comando che negli ultimi tempi, specie dopo l’uscita dei finiani, s’è strutturato al vertice del partito del presidente del consiglio. Un partito diviso, non è più un mistero, tra cordate verticali e territoriali e gruppi di potere organizzati, che preparano vendette e dossieraggi l’uno contro l’altro, come s’è visto di recente alle ultime elezioni regionali: vantandosi, e in molti casi riuscendoci per davvero, di riuscire perfino a condizionare Berlusconi.

È da questo partito che le ministre predilette del Cavaliere, la Carfagna, la Prestigiacomo, ma anche la Gelmini, si sono sentite a poco a poco emarginate. È con questo partito che hanno visto il loro leader amato e indiscusso scendere a patti inconfessabili. Ed è in questo partito che hanno cercato in extremis di ritrovare spazi, arrivando a fondare anche loro, pochi mesi fa, inaspettatamente e forse troppo tardivamente, la corrente subito detta «delle tre ministre».

Da quel momento in poi il gioco per le donne-immagine del governo s’è fatto più duro. La loro trasparente contrarietà alla rottura con Fini, i tentativi fatti fino all’ultimo per evitarla, ha portato molti zelanti consiglieri interni del Pdl ad additarle come potenziali traditrici, e a cercare di prosciugare attorno a loro l’acqua in cui, malgrado tutto, continuavano faticosamente a nuotare. Così, venato di striature maschiliste, quando non di aperte volgarità, il braccio di ferro tra i due sessi e le due diverse anime berlusconiane s’è trascinato a lungo, mentre il rischio della crisi di governo funzionava da silenziatore. Ora invece l’uscita annunciata dal gruppo della Camera della ministra dell’Ambiente è destinata a diventare detonatore di un chiarimento non più rinviabile per il premier. Visto che è diventato impossibile tenerli insieme, Berlusconi dovrà dire una volta e per tutte se il suo è il partito di Carfagna e Prestigiacomo, o quello di Cosentino e Cicchitto

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. I "lumbard" ormai stufi di galleggiare
Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2011, 04:09:36 pm
4/1/2011 - TACCUINO

I "lumbard" ormai stufi di galleggiare

MARCELLO SORGI

Se non passa il federalismo si va a votare», ripete Bossi, che da giorni non fa mistero del proprio disagio per il clima incerto della ripresa politica. Ancora qualche giorno e poi da lunedì prossimo la trattativa fin qui sottotraccia tra Berlusconi e Casini entrerà nel vivo. E sarà più probabile, a quel punto che si creino le condizioni per far passare il federalismo, che non il contrario. Al momento infatti non si vede chi possa mettersi di traverso rispetto a un appuntamento considerato nevralgico di fronte all’elettorato del Nord e posto da tempo in termini che non fanno prevedere alcun effetto pratico a breve.

In altre parole, anche se il ministro Tremonti da due anni deve ancora mettere a punto i conti, per consentire di misurare i possibili effetti del federalismo, gli effetti pratici della riforma verrebbero comunque scaglionati, e cioè spinti in avanti, limitando la portata della riforma, ma dando modo nello stesso tempo alla Lega di proclamare il raggiungimento dell'obiettivo perseguito da oltre vent’anni. Qui tuttavia le preoccupazioni di Bossi si fanno concrete, perché il leader della Lega si accontenterebbe di un risultato simbolico, ma a condizione di ottenerlo contro gli avversari «romani» Casini e Fini. Se invece il Terzo polo diventa determinante per far passare il federalismo, e se inoltre Casini potrà vantarsi di averne ottenuto sostanziali modifiche per evitare che il Sud venga penalizzato, o di averlo bilanciato con altre riforme, tipo quella fiscale del quoziente familiare, lo spazio per la Lega si riduce e il rischio che l'equilibrio del governo si sposti diventa concreto.

In realtà Casini (e ancor di più Fini, che continua a polemizzare con Berlusconi), non hanno grande interesse ad aiutare il premier a portare avanti il suo programma. L'ideale, per loro, sarebbe che il governo galleggiasse, trattando molto con il Terzo polo senza arrivare a veri accordi e logorandosi nel frattempo, senza andare a elezioni anticipate, ma celebrando intanto le amministrative, in cui i terzopolisti cercherebbero di approfittare ulteriormente della crisi di centrodestra e centrosinistra.

Oltre a fiaccare Berlusconi, un 2011 impiegato così, a vivacchiare, renderebbe anche la Lega meno competitiva rispetto al suo elettorato e al suo territorio. Anche di questo Bossi ha detto di aver cominciato a ricevere segnali concreti. Per questo, se il quadro non cambia, le probabilità che alla fine la rottura, a sorpresa, invece che tra opposizione e governo, avvenga tra Berlusconi e la Lega attualmente restano alte.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Le due strade del Cavaliere
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2011, 03:41:35 pm
5/1/2011 - TACCUINO

Le due strade del Cavaliere

MARCELLO SORGI

Un Berlusconi molto rassicurante è intervenuto per smentire indiscrezioni sulle voci di attriti con Tremonti e, per suo tramite, con la Lega, aggiungendo che entro fine mese confida di consolidare la sua maggioranza, al momento traballante e inesistente nelle commissioni chiave della Camera, e di evitare così le elezioni. Parola più, parola meno, è ciò che il premier va ripetendo da tre settimane.

Al momento infatti sono troppe le incognite che impediscono una valutazione chiara. E Berlusconi è avvezzo a tenere sempre in piedi una strategia di riserva. In attesa di sapere come si concluderà la prossima settimana l'udienza della Consulta sul legittimo impedimento, quale sarà la sorte dei suoi processi, è presumibile che il premier tenga presenti sia la possibilità di andare avanti, sia pure in un quadro di difficoltà appeso alla disponibilità di Casini di far passare i provvedimenti del governo in Parlamento al solo scopo di evitare lo scioglimento anticipato delle Camere, sia quella di andare al voto d'intesa con la Lega, che si assumerebbe la responsabilità della chiusura della legislatura per manifesta impossibilità di proseguire.

L'unica differenza tra due sbocchi che rimangono possibili e percorribili per Berlusconi, sta in questo: nel primo caso, di congelamento, in attesa di miglioramento del quadro politico, il premier sa di avere un forte alleato nel Presidente, che non a caso anche ieri ha voluto ricordare le difficoltà della situazione e la necessità di affrontarle. Vale per tutto quel che è accaduto a dicembre, quando Napolitano ha contribuito a far fissare un calendario parlamentare che ha depotenziato la mozione di sfiducia e messo al primo posto l’approvazione della legge di stabilità. E può valere per l'avvenire, visto che il governo, se decide di proseguire in queste condizioni, andrà incontro comunque a un percorso di guerra in Parlamento. Nel secondo caso invece Berlusconi e Napolitano si troverebbero su posizioni differenti. Ed anche se sarebbe molto difficile, senza Berlusconi, provare a mettere su un altro governo per evitare le elezioni, è sicuro che il Capo dello Stato, a cui spetta la decisione finale, prima di sciogliere le Camere eserciterebbe il suo ruolo fino in fondo.

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Titolo: MARCELLO SORGI. la campagna acquisti del Cavaliere rischia di ricompattare ...
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2011, 12:13:26 pm
7/1/2011

Ma la campagna acquisti del Cavaliere rischia di ricompattare il Terzo Polo

MARCELLO SORGI

Chi dice dieci (Moffa, ex finiano), chi dice quindici o sedici (lo stesso Berlusconi), chi continua a smentire (il finiano Della Vedova): nell’approssimarsi della ripresa parlamentare, con le prime votazioni delicate su cui potrebbe giocarsi il presente e il futuro della legislatura, torna di scena la campagna acquisti. Che neppure nella pausa festiva le trattative si siano fermate, è difficile credere. Ma il premier, che ha puntato apertamente sulla costituzione di un nuovo gruppo «dei responsabili» alla Camera, per assicurare di nuovo al governo una terza gamba, vorrebbe che venisse fuori al più presto, anche per uscire da questo clima di negoziato permanente che accentua la già evidente debolezza dell’esecutivo.

Ciò che il Cavaliere non può ignorare, tuttavia, è che la strategia della campagna acquisti e dello spostamento, in cambio di promesse, si tratti della semplice ricandidatura o di posti di governo, di singoli parlamentari dall’opposizione alla maggioranza, va in direzione opposta a quella dell’appeacement con i centristi di Casini, che tra l’altro hanno già pagato il loro prezzo alla campagna con l’uscita dal partito dell’Udc siciliana e dei suoi cinque deputati passati con il governo. Un conto insomma è aprire una trattativa politica con i centristi per cercare di riportarli nel centrodestra, o in subordine per ottenerne l’astensione nelle votazioni a rischio, a cominciare da quella ormai vicina sulla mozione di sfiducia contro il ministro Bondi. E un altro conto è invece cercare sottobanco di assottigliarne le file in Parlamento, o di pescare allo stesso scopo nel gruppo di Futuro e libertà.

In questo secondo caso la reazione del Terzo polo, attualmente in fase di riorganizzazione dopo la sconfitta subita per soli voti il 14 dicembre sulla sfiducia, non potrebbe che tornare ad essere di aperta ostilità. Berlusconi sa di avere una maggioranza traballante in ben otto commissioni della Camera e in cinque del Senato. È lì che si giocherà la partita finale della legislatura nella seconda metà del mese.
Berlusconi ha tutto il diritto di non accontentarsi dell’offerta di Casini di galleggiare negoziando di giorno in giorno il percorso parlamentare dei provvedimenti in agenda. Ma se punta a superare le difficoltà con le defezioni dei singoli deputati, si troverà a scommettere ogni volta sulla sopravvivenza o sulla caduta del suo governo.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il rumoroso silenzio del premier
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2011, 04:32:37 pm
8/1/2011

Il rumoroso silenzio del premier

MARCELLO SORGI

Parlava a Berlusconi, e non soltanto alla Lega, il presidente della Repubblica Napolitano, quando ieri a Reggio Emilia, nella città del Tricolore, ha difeso ancora una volta l’Unità d’Italia e ha criticato duramente l’ostentato disinteresse, e talvolta l’aperto sabotaggio, delle celebrazioni dei 150 anni del 1861. Tra le autorità di governo e locali raccolte attorno al Capo dello Stato spiccava infatti ancora una volta l’assenza dei rappresentanti del Carroccio, assurto di recente, proprio a Reggio Emilia, a secondo partito della città che una volta aveva il record dei consensi per il Pci. Il discorso di Napolitano, tuttavia, non partiva da ragioni contingenti, ma dalla preoccupazione, autentica, che in nome dell’asse nordista con Bossi, su cui (a malapena, per la verità) si regge ancora il governo, Berlusconi possa disimpegnarsi dai suoi doveri istituzionali nei confronti della ricorrenza e del significato dell’Unità. Nella lunga vigilia di preparazione del centocinquantesimo anniversario, le contestazioni della Lega sono state purtroppo continue.

Dalle punture di spillo diffuse qui e là in centri grandi e piccoli del Nord, alla mancata partecipazione del ministro dell’Interno Maroni alla Festa della Repubblica il 2 giugno, alle recenti ironie del governatore del Veneto Zaia sui costi delle celebrazioni. Ma mentre Napolitano non ha mai lasciato correre, Berlusconi, pur distinguendosi dall’atteggiamento scomodo del suo alleato - e assicurando al programma di manifestazioni istituzionali i fondi necessari, in un momento di conti difficili per lo Stato -, ha poi cercato di essere accomodante, per evitare di mettere in imbarazzo la Lega su un terreno assai delicato per il proprio elettorato. È questa sorta di compromesso strisciante, e inaccettabile man mano che s’avvicina la scadenza dell’anniversario, che l’intervento del Capo dello Stato è venuto a censurare, per far capire al presidente del Consiglio che il governo non può permettersi di tollerare equivoci che potrebbero diventare rischiosi. È necessario, in altre parole, che nel momento in cui ci si muove verso un’articolazione federale dello Stato, diventi chiaro che questa in primo luogo, come tutte le altre riforme proposte, non vuole in alcun modo mettere in discussione l’unità del Paese.

Il miglior modo per rendere esplicito questo concetto, a giudizio del Presidente, è proprio valorizzare le celebrazioni per il centocinquantenario, rendendole un momento di impegno comune e condiviso, tra istituzioni e forze politiche, e tra maggioranza e opposizione. Va detto: non c’è nulla di retorico in questo appello di Napolitano. E, proprio come ha ricordato il Presidente, non c’è al momento neppure alcuna iniziativa che contrasti con questo obiettivo. Nessuno, neppure Bossi o la Lega, ha avuto finora né la voglia né la petulanza di proporre modifiche alla prima parte della Costituzione, quella sui principi, che contiene anche l’articolo 13 sul rispetto della bandiera italiana. Di qui il richiamo di Napolitano alla coerenza e a evitare atteggiamenti contraddittori. Le reazioni di Bossi e Zaia all’intervento del Presidente e le promesse della Lega di celebrare l’Unità dopo l’approvazione del federalismo sono apparse come minimo imbarazzate: la Lega d’altra parte cerca da tempo di mantenere buoni rapporti, evitando di polemizzare, con il Quirinale, anche allo scopo di preservare l’approdo della riforma federalista, che dovrà essere firmata da Napolitano. Il silenzio del premier rischia invece di diventare molto rumoroso.

In passato, anche di recente, Berlusconi ha dimostrato di essere in grado di affrontare argomenti ostici per il centrodestra e lontani dalla sua cultura. Basta solo ricordare il suo intervento ad Onna sulla Resistenza il 25 aprile di due anni fa. Inoltre il premier ha un’innata capacità di comunicazione e un talento nella costruzione di eventi che tutti gli riconoscono. Sarebbe strano che proprio in questa occasione, e con il ruolo che ricopre, non li mettesse al servizio del governo e del Paese. Ecco perché, per una degna celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, prima dice come la pensa Berlusconi, e meglio sarà per tutti.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La sentenza e il crocevia del Cavaliere
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2011, 04:05:47 pm
11/1/2011 - TACCUINO

La sentenza e il crocevia del Cavaliere

MARCELLO SORGI

Il rinvio da oggi a giovedì della sentenza della Corte costituzionale sul legittimo impedimento avrà come conseguenza l'accrescimento della pressione politica sui giudici della Consulta. Mai come questa volta infatti, anche se i giudici si pronunceranno sulla base dei principi, le conseguenze della sentenza saranno politiche.

C'è già chi, nei corridoi parlamentari, semplifica dicendo che l'eventuale affondamento della legge-salvacondotto che ha fin qui preservato il premier dalle conseguenze dei suoi processi porterebbe rapidamente ad elezioni anticipate, così come un salvataggio in extremis aumenterebbe le possibilità per il governo di allargare la propria maggioranza e proseguire. Poi, come già alla vigilia della sentenza che dichiarò l'illegittimità del lodo Alfano, si moltiplicano le voci su un compromesso che i membri della Consulta starebbero cercando per salvare il legittimo impedimento limitandone però fortemente gli effetti. Almeno nelle indiscrezioni che ne circolano, si tratterebbe di un giudizio pilatesco, in cui il premier (che verrebbe privato della protezione automatica che la legge gli riserva per gli impegni connesso al suo mandato), e i giudici (che vedrebbero rigettata la loro richiesta di dichiarare l'illegittimità, ma confortati con un'interpretazione che verrebbe incontro alle loro richieste) verrebbero sostanzialmente invitati dalla Corte costituzionale a trovare un accordo tra gentiluomini sulle modalità per consentire a Berlusconi di governare e nello stesso tempo di fare l'imputato nei processi che lo riguardano.

Una decisione del genere, va detto, pur lasciando tutti scontenti e quindi confermando formalmente l'indipendenza della Corte, che diversamente dal precedente del lodo Alfano eviterebbe così di dar ragione a uno o all'altro dei contendenti, non offrirebbe tuttavia alcuna soluzione del problema. La ripresa, anche rallentata, dei processi, per Berlusconi contiene infatti la possibilità di una condanna per corruzione, sia pure in tempi non brevissimi, e di una possibile interdizione dai pubblici uffici, anche se appellabile. E per i magistrati il rischio che per alcune delle ipotesi accusatorie possa intervenire la prescrizione. Delle due incognite, la prima costringerebbe il premier a cercare subito una maggioranza in Parlamento, più difficile da trovare ora che i finiani ne sono fuori, per farsi approvare al più presto un nuovo salvacondotto. O in mancanza, ed è questo il rischio più grave, di tentare di nuovo la strada delle urne, trasformandole in un referendum tra lui e i giudici di Milano.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La Consulta e gli effetti del compromesso possibile
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2011, 06:39:42 pm
12/1/2011 - TACCUINO

La Consulta e gli effetti del compromesso possibile

MARCELLO SORGI

Anche dopo l’udienza pubblica di ieri e l’intervento del giudice relatore Sabino Cassese, i pronostici per la sentenza della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento continuano ad essere a favore di un compromesso, salvataggio parziale, magari con un rigetto interpretativo, della legge che difende il premier dai processi, ma riconoscimento del diritto dei giudici di verificare la congruità degli impegni che impedirebbero al presidente del Consiglio di presenziare alle udienze.

Se davvero questa dovesse essere domani la conclusione dei giudici della Consulta (ma va ricordato che anche la volta precedente, quando in discussione era il lodo Alfano, le previsioni di compromesso furono smentite dalla dichiarazione di illegittimità), anche la richiesta di referendum sul legittimo impedimento avanzata da Di Pietro potrebbe essere ammessa. La ragione è logica: se la legge viene cancellata, il tentativo di abrogarla diventa ovviamente inutile. Ma se la legge, tutta o in parte, resta in piedi, potrebbe anche essere riconosciuto il fondamento dell’iniziativa referendaria. In questo caso, la fissazione del referendum, che tra aprile e giugno tenterebbe di cancellare una legge i cui effetti, va ricordato, si esauriscono a ottobre, potrebbe funzionare da acceleratore verso le elezioni anticipate. Piuttosto che sottoporre se stesso e il destino dei suoi processi alle urne referendarie, Berlusconi potrebbe decidere di fare egualmente la campagna elettorale sul tema dei rapporti tra giustizia e politica, ma giocandosi in nuove elezioni la posta di una nuova e più solida maggioranza per il centrodestra in Parlamento.

Finora, come ha spiegato ieri sera al vertice del suo partito e ai ministri arrivati a Palazzo Grazioli per fare il punto dopo la pausa festiva, Berlusconi resta convinto che esista una concreta possibilità di evitare lo scioglimento delle Camere e che l’offerta di collaborazione fatta lunedì da Casini nell’intervista al Corriere vada valutata con attenzione. Per venire incontro ai segnali casiniani Berlusconi ha bloccato per il momento il calciomercato, che puntava ad allargare il numero dei deputati cosiddetti «responsabili», transfughi dall’opposizione per sostenere il governo. E ha inoltre avanzato verso l’Udc, che a Roma collabora già con il centrodestra nella giunta regionale, la proposta di entrare anche in quella del comune della Capitale, azzerata dal sindaco Alemanno e in fase di rimpasto.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Già pronta la soluzione di riserva
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2011, 12:08:49 pm
13/1/2011

Già pronta la soluzione di riserva

MARCELLO SORGI

La prima decisione della Corte Costituzionale, di ammettere il referendum proposto da Di Pietro sul legittimo impedimento, è parsa a molti un’anticipazione della seconda, prevista per oggi, con la sentenza sul merito della controversa legge-salvacondotto per il premier dai suoi processi penali. Anche se non è detto che la Consulta si pronunci necessariamente nello stesso senso (nel 2004 infatti, in una sola giornata, ammise la consultazione sul lodo Schifani e poi dichiarò illegittima la legge, annullando di fatto anche il voto referendario), non c’è dubbio che in poco più d’un anno, da quando fu cancellato il lodo Alfano, il clima sia molto mutato.

La stessa introduzione del giudice relatore Cassese nell’udienza pubblica di martedì lo ha lasciato chiaramente intendere.
La Corte si troverebbe in imbarazzo a cassare del tutto una legge che fa riferimento a un diritto.

Quello, appunto, dell’imputato di dichiarare la propria legittima indisponibilità a presenziare a un’udienza e chiederne conseguentemente il rinvio - contemperato dal codice di procedura penale attualmente in vigore. E di cui solo la specificazione «ad personam» prevista per Berlusconi viene messa in discussione. Così si sarebbe affacciata l’idea di un compromesso: non la cancellazione completa della legge, ma una sua ulteriore precisazione, che consentirebbe ai giudici di concordare con il premier la sua partecipazione al processo, senza lasciargli il privilegio di dichiarare le sue assenze con sei mesi di anticipo.

Se quest’orientamento dovesse essere confermato, e la legge dunque tutta o in parte salvata, il referendum a cui ieri è stata aperta ufficialmente la strada dovrebbe svolgersi, tra metà aprile e metà giugno di quest’anno. Si tratterebbe, è inutile nasconderlo, di un ennesimo referendum su Berlusconi, come furono già quelli sulla televisione, e come sono ormai da sedici anni più o meno tutte le chiamate alle urne, dacché il Cavaliere è sceso in politica. Viene da chiedersi cosa possa reputare più conveniente l’interessato, per sé e per il Paese: affrontare il voto referendario per difendere una legge che essendo temporanea avrà esaurito comunque a ottobre i suoi effetti, oppure scegliere direttamente la posta più grossa e andare alle elezioni anticipate per ricostruirsi una maggioranza in un nuovo Parlamento.

Nell’uno e nell’altro caso - la coincidenza è drammatica - i temi e i protagonisti della campagna elettorale o referendaria sarebbero immutati: da un lato Berlusconi, che già ieri definiva rudemente «un’anomalia» il comportamento della magistratura italiana nei suoi confronti, dal lato opposto tutti gli altri, da Casini a Vendola, che pur scettici, o comunque non convinti allo stesso modo del referendum, potrebbero cercare tuttavia di trasformarlo nella grande occasione per liberarsi del Cavaliere. Per questo, anche se i suoi oppositori hanno detto in tutte le salse di essere contrari allo scioglimento anticipato delle Camere, c’è da scommettere che Berlusconi, fin qui incerto, a questo punto farebbe di tutto per ottenerlo. Trovando pure Bossi pronto ad aiutarlo per raggiungere quest’obiettivo.

Inoltre l’avvitamento elettorale della legislatura, probabile di fronte a un referendum, diventerebbe certo se i giudici, come accadde esattamente sette anni fa, dopo essersi pronunciati a favore della consultazione, dovessero bocciare la legge che dovrebbe esserne oggetto. Privato dello scudo processuale, Berlusconi si troverebbe infatti a fronteggiare da dopodomani giorno per giorno i giudici dei suoi processi. Sarebbe suo dovere, anche nei casi in cui le accuse che lo riguardano suscitano perplessità, ma da tempo si rifiuta di farlo, dichiarandosi vittima di un accanimento giudiziario, che in verità anche molti suoi avversari gli riconoscono. Di qui la sua prevedibile propensione a sfidare la magistratura nelle urne, dov’è sicuro di vincere, piuttosto che nelle aule, dove teme di perdere.

Ma di qui, forse, anche la soluzione di riserva che ieri, non appena la Corte s’è pronunciata, ha cominciato a circolare tra i parlamentari spaventati di perdere il posto. In fondo, si diceva, per evitare elezioni e referendum, e salvare nuovamente - e ignominiosamente - Berlusconi, basterebbe non una legge, ma una leggina «ad personam». Sarebbe il capolavoro di un Paese che è sì la patria del diritto, ma non è riuscito finora a risolvere il problema dei rapporti tra politica e giustizia, ed è stato in grado invece di cacciarsi in un ginepraio così complicato. Al peggio non c’è fine, purtroppo. Forse ci toccherà vedere anche questa: Berlusconi salvato in nome di una qualche emergenza dagli stessi che un mese fa volevano seppellirlo.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Centrosinistra e centrodestra Due crisi in fotocopia
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2011, 11:26:24 am
14/1/2011 - TACCUINO

Centrosinistra e centrodestra

Due crisi in fotocopia

MARCELLO SORGI

Un tempo si diceva: simul stabunt, simul cadent. Forse si tornerà a ripeterlo a proposito dei due maggiori partiti, nati uno dopo l’altro ed ora alle prese con crisi simmetriche e parallele. La malattia che sta consumando il Pd somiglia stranamente a quella di cui ha sofferto il Pdl fino alla rottura, con Veltroni nella parte di Fini e Bersani in quella di Berlusconi.

Come Fini a Montebello, Veltroni ha convocato un’assemblea della sua corrente a Torino, città ad alto valore simbolico perché è lì che il partito fu fondato, dallo stesso ex-segretario adesso finito in minoranza. Bersani non ha gradito e ieri, in direzione, ha richiamato all’ordine i veltroniani, ricevendone per tutta risposta le dimissioni di Fioroni e Gentiloni dai loro incarichi di vertice. A questo punto il segretario ha frenato e la frattura è stata in qualche modo ricomposta. Ma la sensazione di tutti è che il Pd sia ormai alle soglie della dissoluzione, e che Bersani, pur godendo di una larga maggioranza interna (Franceschini e Fassino, che prima stavano con Veltroni, sono passati con il segretario), non sia in grado di governarlo e di imporre una sua linea.

In questo quadro il caso Fiat e il referendum di Mirafiori, più che l’ultima occasione di divisione sono apparsi come un pretesto per portare la situazione interna ai limiti di rottura. Che il maggior partito di opposizione decida di discutere di un problema importante, legato al mondo del lavoro, come l’accordo tra Fiat, Cisl e Uil, contestato da Cgil e Fiom, è del tutto legittimo. Ma che si riduca a farlo solo nel giorno in cui a Mirafiori si aprono le votazioni del referendum proclamato dall’azienda, e dopo che il fior fiore dei dirigenti, da Fassino a Livia Turco, da Chiamparino a D’Alema, fino ai cosiddetti rottamatori e al sindaco di Firenze Renzi, si sono espressi nei modi più svariati, è per lo meno singolare.

Se Bersani voleva schierare il partito con la Cgil, come è parso di capire alla vigilia della direzione, forse doveva pensarci un po’ prima. E in ogni caso doveva pensare per tempo ad aprire la discussione, senza aspettare l’ultimo momento. Tra l’altro non si capisce perché, dei tanti dirigenti che si sono schierati a favore del “sì” a Marchionne e al referendum, l’unico che sia stato severamente redarguito, come se non avesse titolo per esprimersi, sia Renzi. Sono queste incertezze, solo le ultime di una lunga serie, a dare la sensazione di un Pd alle soglie di un’implosione. Non è mai buona cosa, in una democrazia che per funzionare ha bisogno anche dell’opposizione, che il maggior partito della stessa opposizione si dissolva.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8295&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. La linea dura del Cavaliere e le incognite del voto segreto
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2011, 12:26:52 pm
19/1/2011 - TACCUINO

La linea dura del Cavaliere e le incognite del voto segreto

MARCELLO SORGI

La linea resta quella della resistenza e dello scontro frontale con i giudici di Milano inaugurata all'annuncio delle rivelazioni sui festini di Arcore e delle accuse di sfruttamento della prostituzione. Ma dopo la pubblicazione delle intercettazioni delle ragazze che frequentavano la sua villa, Berlusconi ha dovuto cominciare a fare i conti con un crescente isolamento, sia sul fronte istituzionale, sia su quello delicato dei rapporti con il Vaticano.

La nota con cui il presidente Napolitano ha invitato a fare al più presto chiarezza, per sensibilità nei confronti di un'opinione pubblica turbata da quanto sta venendo fuori, anche se non ha prodotto alcun cambiamento di linea nel premier, è destinata ad accorciare i tempi del confronto parlamentare sul "caso Ruby". Così che si può prevedere che a meno di due mesi dallo scontro sulla fiducia del 14 dicembre, la Camera sarà nuovamente chiamata ad esprimersi sul tentativo della magistratura milanese di processare il Cavaliere entro febbraio.

Berlusconi pensa di cavarsela anche stavolta puntando sui timori che le opposizioni lasciano trasparire di fronte all'ipotesi di elezioni anticipate. Ma il voto, probabilmente segreto, come sono in genere quelli che riguardano questioni personali, potrebbe rivelarsi per lui più insidioso dell’ultima volta.

A parte le sempre possibili defezioni in una maggioranza che può contare su uno scarto minimo di voti, l'occasione si presenta ghiotta anche per la Lega. Se veramente Bossi dovesse optare per lo scioglimento anticipato delle Camere, sarebbe facile ottenerlo facendo mancare, nel segreto delle urne, anche in minima parte l'appoggio al governo. E prima ancora di aprire la strada ai giudici, una sconfitta di Berlusconi in aula porterebbe alla crisi di governo e alla fine della legislatura.

Sul quadro politico che va facendosi ogni giorno più pesante, la presa di distanze dei vescovi, dovuta a un evidente diffuso disagio cattolico, non è certo piovuta come un toccasana. Sia Avvenire, sia l'agenzia Sir, hanno emesso sul caso Ruby un giudizio durissimo, e l'Osservatore romano ha pubblicato integralmente la nota del Capo dello Stato che invoca il chiarimento. Malgrado ciò nei i palazzi della politica - Quirinale compreso, visto che Napolitano e Berlusconi si sono incontrati, anche se ufficialmente solo per esaminare il programma delle celebrazioni dell’anniversario dell'Unità d'Italia - ieri sera s'è dovuto prendere atto che il Cavaliere non ha alcuna intenzione di fare il passo indietro che molti gli consigliano.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8311&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. La strategia dell'attacco incrociato porta al voto
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2011, 06:16:30 pm
20/1/2011 - TACCUINO

La strategia dell'attacco incrociato porta al voto

MARCELLO SORGI


Berlusconi contrattacca e si dice convinto di cavarsela anche stavolta. Le opposizioni insistono a chiederne le dimissioni, o in alternativa le elezioni.

A una settimana quasi dall’esplosione del caso dei festini di Arcore, il clima attorno al presidente del consiglio continua ad essere molto pesante ma la situazione è di stallo. In un secondo videomessaggio il premier ha ripetuto che, non solo non intende dimettersi, ma neppure presentarsi davanti ai magistrati che lo accusano, dei quali non è disposto a riconoscere la legittimità.

Basata su un videomessaggio al giorno e accompagnata da un coro di interventi delle ragazze che frequentavano le sue case (ieri sia Ruby, tra le lacrime, sia Sabina Began, si sono presentate davanti alle telecamere per protestare la loro innocenza e parlare di Berlusconi come di un benefattore), la strategia comunicativa del Cavaliere punta a sovvertire colpo su colpo il danno fattogli dalla pubblicazione di centinaia di pagine di intercettazioni, da cui la realtà delle feste ad Arcore emerge in tutto il suo lato grottesco.

Politicamente, però, queste iniziative non producono alcun risultato. L’irritazione silenziosa del Capo dello Stato, la reazione del vicepresidente del Csm Vietti alle accuse contro i giudici di Milano e la richiesta di dimissioni ribadita dal Presidente della Camera Fini segnalano che sul piano istituzionale il quadro è molto critico.

La nascita annunciata per oggi in Parlamento del cosiddetto “gruppo dei responsabili” non rimedia alla precarietà della maggioranza, dato che buona parte dei responsabili avevano già votato a favore del governo il 14 dicembre. E anche il tentativo di creare rapporti migliori con i centristi, in prospettiva, magari, di portarli al governo, è naufragata sull’onda dell’indignazione cattolica per le implicazioni dei comportamenti privati del premier.

Berlusconi può anche consolarsi, come ha fatto nel suo videomessaggio, per il voto favorevole alla relazione del ministro Alfano sullo stato della giustizia, o per il rinvio della giunta per le autorizzazioni a procedere che deve pronunciarsi sulle richieste della Procura di Milano. E il governo può pure mirare alla conclusione naturale della legislatura, ma sapendo che di qui al 2013 non potrà far altro che continuare a galleggiare. Ecco perché le elezioni anticipate sono destinate a restare sul tappeto ancora per qualche tempo.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Non è tardi per dire "Mi spiace" (non per lui è molto tardi!).
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2011, 05:43:06 pm
22/1/2011
 
Non è tardi per dire "Mi spiace"
 
 
MARCELLO SORGI
 
Sarebbe certamente un errore ridurre l’intervento di ieri del Papa a una requisitoria contro Berlusconi e i festini di Arcore.
Ma all’indomani del duro richiamo del cardinale Bertone alla «moralità» e alla «legalità», e alla vigilia della riunione della Conferenza dei vescovi, che come ha preannunciato il presidente, cardinale Bagnasco, si occuperà anche del «caso Ruby», non si può dire neppure che Benedetto XVI abbia sorvolato.

Quando ha espresso la sua preoccupazione per il «senso di insicurezza» diffuso nella società, acuito «dall’indebolimento della percezione dei principi etici della vita pubblica» e degli «atteggiamenti morali personali», il riferimento a quanto sta emergendo dalle notti del «bunga bunga» non poteva essere più chiaro. Come quelle di Bertone, preannunciate da esplicite prese di posizione della stampa cattolica, anche le riflessioni papali muovono dal «turbamento» della società civile - per usare l’espressione del presidente Napolitano ripresa letteralmente dalla Chiesa -, di fronte al fiume di rivelazioni che l’inchiesta di Milano ogni giorno lascia scorrere. La sensazione insomma è che a muovere il disagio, non sia soltanto la condotta privata del premier.

Ma anche quella, indotta dal sistema costruito attorno ad Arcore, delle sue ospiti e delle loro famiglie, le ragazze pronte a vendersi e a sgomitare per essere selezionate, e i genitori che le spingevano, incoraggiandole a prostituirsi, pur di trarne un vantaggio. Naturalmente nessuno può sapere quanto Berlusconi fosse effettivamente consapevole di questo degrado, e del mercato disumano alimentato dalle sue debolezze e impiantato nelle sue residenze. A leggere i verbali, non si può escludere il dubbio che molte volte l’offerta fosse superiore alla domanda e i tentativi di approfittarne assolutamente smodati.

E tuttavia l'aspetto che sembra aver colpito di più il Papa e i suoi cardinali è il comportamento del premier successivo allo scandalo. Diversamente da quanto aveva fatto in precedenza, quando, sia pure alla sua maniera, aveva confessato i suoi limiti ed era apparso contrito, stavolta Berlusconi, non solo non ha fatto un passo indietro, ma ha rivendicato in pieno il suo stile di vita. Nei videomessaggi con cui ha reagito alla pubblicazione dei documenti della magistratura ha parlato di «feste eleganti», di necessità di «rilassarsi», ha difeso tutte le sue abitudini, anche quelli più discutibili, e soprattutto ha avanzato un espresso rifiuto a lasciarsi giudicare, sia sul piano etico, sia su quello giudiziario, aggiungendo perfino che i giudici che intendono processarlo meritano una «punizione». Ora, non è detto, o almeno non è detto automaticamente, che l’etica cattolica e i valori professati dalla Chiesa debbano trasformarsi in un decalogo morale della vita pubblica, che ha da sempre in Italia un fondamento laico. Ma il capo del governo e di un partito, che hanno nei loro programmi l’attuazione di una politica sociale vicina a quei principi, in qualche modo dovrebbero tenerne conto.

Berlusconi a Palazzo Chigi s’è conquistato sul campo una credibilità maggiore di quella di Prodi e dei governi di centrosinistra grazie alle iniziative in materia di famiglia, vita e istruzione. Naturalmente queste politiche, agli occhi del Papa e del mondo cattolico, devono essere coerenti con i comportamenti di chi ha un ruolo nello Stato. Se invece rischiano di diventare un alibi, una sorta di biglietto pagato alla Chiesa, per poi poter fare quel che si vuole, è evidente che il rapporto virtuoso s’interrompe e scatta il corto circuito.

E’ esattamente questo che è accaduto tra Berlusconi, il Papa e i cardinali, a causa delle reazioni del premier nei giorni successivi allo scandalo. Tutt’insieme è sparito il «dovere di esemplarità» connesso alla responsabilità pubblica, come l’ha definito Avvenire. La rivendicazione assoluta della sua vita privata ha rischiato di apparire come un modello: più vicino, purtroppo, a quello delle ragazze sbandate che affollano le sue ville e ai loro disgraziati genitori, che non, appunto, al necessario contegno di un presidente del Consiglio.

Così Berlusconi è entrato in rotta di collisione con la Chiesa e i suoi fedeli. Il compromesso stipulato con il mondo cattolico s’era già molto indebolito di fronte agli altri casi, da Noemi alla D’Addario, ai festini in Sardegna, che avevano segnato la vita del premier negli ultimi due anni. Ruby e quel che il Cavaliere ha detto per difendersi, e per difenderla, sono state le gocce che hanno fatto traboccare il vaso.

Per questo, ma non solo, anche per rispetto dell’etica civile dei cittadini laici, che condividono in buona parte il disorientamento dei cattolici feriti nei loro valori, Berlusconi, senza ulteriori indugi, dovrebbe rassegnarsi a far chiarezza. Forse è ancora in tempo. Fatto salvo il diritto a difendersi al processo, in fondo, sul piano morale e politico, basterebbe che - scusandosi - dicesse che tutto quel che è accaduto gli dispiace. 

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Titolo: MARCELLO SORGI. Casini:"Governo assieme al Pdl ma senza Berlusconi"
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2011, 11:10:17 am
Politica

24/01/2011 - INTERVISTA

Casini:"Governo assieme al Pdl ma senza Berlusconi"

Appello dell'Udc ai leader del partito perché convincano il premier a un passo indietro

MARCELLO SORGI

ROMA
Presidente Casini, con il «caso Ruby» cambia tutto anche per voi?
«Non è il caso Ruby che cambia qualcosa, ma la reazione di Berlusconi che addirittura evoca il tentativo di un colpo di Stato».

Il Terzo Polo ritira la sua offerta di aiutare il governo sui provvedimenti più importanti?
«No, che c’entra. Se il governo porta avanti qualcosa di utile e necessario per il Paese avrà il nostro appoggio, com’è successo anche questa settimana per il decreto sui rifiuti di Napoli. Ma mi chiedo: è possibile che in queste condizioni il governo riesca a fare sul serio?».

Se lo chiede, ma non ci crede.
«Da quel che vedo, Berlusconi non è il solo impegnato a tempo pieno a difendersi. Anche tutti i suoi ministri hanno smesso di leggere i dossier che li riguardano per dedicarsi ai verbali dei festini di Arcore. Basta accendere la tv. E’ incredibile, invece di occuparsi dei problemi del Paese, il governo al gran completo pensa solo a dire che quel che tutti abbiamo visto e sentito non è vero e Berlusconi è vittima di una montatura».

Sta dicendo che Berlusconi non dovrebbe difendersi?
«No, come sa, se c’è uno che ha riconosciuto da tempo che Berlusconi, in certi casi, è stato vittima di accanimento giudiziario, quello sono io. Ma tra le accuse di reati finanziari commessi da Mediaset, per fare un esempio, e ciò di cui si discute in questi giorni, c’è differenza. Mi sarei aspettato che il premier ne tenesse conto e rispondesse in modo diverso».

Cosa avrebbe dovuto dire?
«Partiamo da quel che non avrebbe dovuto dire, o far dire alle ragazze che frequentavano le sue ville, o ai ministri obbligati a difenderlo. Berlusconi non può credere di convincere l'opinione pubblica che Ruby sia una santa, e che i magistrati che indagano su un caso di prostituzione minorile che lo coinvolge meritino addirittura “una punizione”. Ma per chi ci ha preso?».

Pensa piuttosto - e lo ha detto chiaramente - che ognuno a casa sua dovrebbe essere libero di far quello che vuole.
«A casa sua ciascuno fa quello che vuole, ma non possiamo permetterci un premier sotto ricatto, né è accettabile che si affanni a telefonare a funzionari di polizia per una minore. Il presidente del Consiglio non è una persona qualsiasi, e già il fatto che sembra non capirlo rende difficile qualsiasi riflessione seria».

Non sarà, Casini, che lei da cattolico s'è fatto influenzare dalle prese di posizione del cardinale Bagnasco e di papa Benedetto XVI?
«Da cattolico guardo bene di non strumentalizzare le prese di posizione delle gerarchie della Chiesa. Le condivido, naturalmente, ma non penso che debbano essere usate a favore o contro. La mia reazione è quella di un normale cittadino che dopo quello che ha letto, visto e sentito, aspetta che il presidente del Consiglio faccia chiarezza».

E cosa dovrebbe dire Berlusconi per consentire ai cittadini di superare il turbamento?
«Quanto meno dovrebbe spiegare. Non può continuare a negare il cento per cento di quel che è stato accertato dalle indagini. Poi dovrebbe scusarsi per il danno d’immagine che questa storia sta portando al Paese. Non solo a lui, ma all’Italia, rispetto a governi e Paesi con cui abbiamo relazioni stabili, e che vorrebbero sapere se siamo diventati il paese del bunga bunga».


Confessare, arrendersi e uscire di scena: è questo che sta proponendo al presidente del Consiglio?
«Non è così. Si parva licet…, semi consente il paragone, sto dicendo che il premier dovrebbe fare come ha fatto Clinton ai tempi dello scandalo Lewinsky. O come ha fatto Blair l'altro giorno, quando ha risposto sulle sue responsabilità per la guerra all'Iraq. Badi bene: nessuno dei due è uscito di scena. Clinton è ancora oggi uno stimatissimo leader in grado di spostare un sacco di voti e determinare le campagne elettorali americane. E Blair ha uno standing di livello europeo e un incarico delicato in Medio Oriente. Come vede, quando le cose si chiariscono, anche i giudizi diventano più razionali ».

E se invece, come ha fatto capire, Berlusconi prosegue per la sua strada e va allo scontro frontale con i giudici diMilano?
«Si accomodi. Vorrà dire che intende dedicarsi solo a questo, lasciando perdere i veri compiti del governo e i problemi del Paese. Noi dall’opposizione saremo qui a ricordarglieli, dalla crescita della disoccupazione alla condizione dei giovani, soprattutto nelMezzogiorno, alle opere pubbliche bloccate, alla faccia del ponte sullo Stretto di Messina».

Casini, sta cominciando la sua campagna elettorale?
«Sto parlando di problemi reali, che vediamo ogni giorno andando in giro per l’Italia».

Le rifaccio la domanda: parla così perché vede le elezioni anticipate dietro l’angolo ormai?
«Le elezioni in Italia non le decide né il governo né l’opposizione. Tocca al Capo dello Stato. Se si apre una crisi e il presidente Napolitano, dopo le consultazioni, ravvisa che non esiste più una maggioranza, ci saranno le elezioni.Altrimenti no».

E se dovesse scommettere?
«Non scommetto».

E se le dicessero che con la nascita del gruppo dei «Responsabili» la maggioranza è diventata meno debole e le elezioni più improbabili?
«Risponderei: vediamola alla prova questa maggioranza, che a conti fatti dispone ancora solo di 314 voti alla Camera. Quanto ai responsabili, se il loro atto di responsabilità consiste nel sostenere il governo per evitare le elezioni anticipate, debbo pensare che in caso di crisi potrebbero guardare anche altrove...».

Pensa a un gruppo di «responsabili» double face, pronti a passare da questa a un’altramaggioranza?
«No, guardi, qui nessuno sta pensando a ribaltoni. Sto dicendo che se nasce un altro governo di centrodestra, in grado di allargare la maggioranza e portare la legislatura a compimento, ritengo che i responsabili non sarebbero solo quelli che si sono costituiti in gruppo».

Ovviamente, ci sareste anche voi del Terzo Polo.
«Non è automatico, ma si potrebbe discuterne ».

Un governo di centrodestra senza Berlusconi? E le pare realistico che il premier lo consenta?
«Mi lasci dire che dipende non solo da lui,ma da tutto il Pdl. Dentro quel partito ci sono personalità autorevoli che potrebbero guidare un governo “senza”, ma non “contro”, Berlusconi, che potrebbe conservare il ruolo di leader del centrodestra e dedicarsi a chiarire la sua posizione personale. Al di là di quel che dicono tutti i giorni in tv, credo che nel Pdl siano in tanti a pensarla così. Sarebbe una via d'uscita ragionevole. Altrimenti non restano che le elezioni».

E voi terzopolisti siete pronti alle urne?
«Prontissimi».

Ma se ci si arriva, farete accordi elettorali con il Pd?
«Se si va al voto, ci saranno stavolta tre aree e tre scelte possibili per gli elettori: destra, centro e sinistra. Eventuali intese si vedranno al momento opportuno. Ieri Veltroni ha parlato con grande equilibrio e serietà e ha bocciato ancora una volta l'idea di una sinistra che sceglie di imbarcare tutto e il contrario di tutto. Bersani sa come la penso. Un dialogo proficuo richiede scelte chiare dal Pd».

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/385598/


Titolo: MARCELLO SORGI. L'episcopato tra disagio e buonsenso
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2011, 06:00:10 pm
25/1/2011 - TACCUINO

L'episcopato tra disagio e buonsenso

MARCELLO SORGI

Dopo quelli del segretario di Stato vaticano Bertone e del Papa, anche l’intervento del cardinale Bagnasco, presidente della Conferenza dei vescovi italiani ha ribadito il «disagio» e lo «sgomento» del Paese rispetto a quel che sta emergendo dal caso Ruby, e ha chiesto a Berlusconi di chiarire al più presto, nelle sedi opportune, le accuse e le rivelazioni che lo riguardano.

Bagnasco è anche disposto a riconoscere che nei confronti del premier sia stata usata «un’ingente mole di strumenti» di indagine, cioè un accerchiamento investigativo che in genere si riserva a reati ben più gravi. Ma visti i risultati «veri o presunti» dell’inchiesta, la necessità di un chiarimento da parte dell’interessato viene ormai considerata improcrastinabile. Al Cavaliere si chiede in sostanza di abbandonare la linea della contrapposizione frontale con i magistrati e prendere atto che lo stile di vita descritto dalle indagini è incompatibile con le responsabilità di chi deve guidare il governo di un Paese.

Dall’assemblea dei vescovi emerge inoltre la preoccupazione per i comportamenti, sia delle ragazze che frequentavano Arcore, sia delle loro famiglie che, stando a quanto emerge dalle intercettazioni, le spingevano a vendersi. Atteggiamenti, sembra di capire, che i vescovi vedono indotti anche da una certa cultura corrente e da una rappresentazione della vita dei giovani a cui non sono estranei certi programmi delle tv berlusconiane. Si tratta dunque della più acuta fibrillazione fin qui vissuta tra le gerarchie cattoliche e il centrodestra, dopo una lunga stagione di rapporti alterni, ma al fondo realistici e positivi. Proprio a questo proposito è significativo che l’intervento del cardinale Bagnasco si limiti a sottolineare le criticità emerse dal caso Ruby, insistendo con Berlusconi sulla necessità di far chiarezza, ma non indichi alcuna alternativa all’attuale governo, né suggerisca ai partiti della maggioranza o dell’opposizione cosa dovrebbero fare.

La sensazione è dunque che anche i vescovi prendano atto della difficoltà di delineare una soluzione politica dei problemi che l’ultimo scandalo piovuto in testa al presidente del consiglio ha messo in evidenza. Sia pure a prezzo del riconoscimento dei suoi errori personali e dell’impegno a un deciso cambiamento del suo stile di vita, il premier, agli occhi della Chiesa, ha ancora la possibilità di recuperare. Ma quanto in realtà sia disponibile a farlo e quali sarebbero le conseguenze di una pur parziale ammissione e di un conseguente pentimento, è difficile dire. Anche se tutti, e da ieri pure i vescovi, gli chiedono di fare un passo indietro, Berlusconi per ora sembra testardamente deciso a tenere duro.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8334&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Se anche i sondaggi non contano più
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2011, 11:54:43 pm
26/1/2011 - TACCUINO

Se anche i sondaggi non contano più

MARCELLO SORGI

Il Pdl, attorno al 30 per cento o appena più sotto, non ha risentito (o ha risentito pochissimo) del caso Ruby. Il Pd, che oscilla tra il 24 e il 26, di conseguenza non ne ha beneficiato. La Lega è sempre forte, 11-12. Il Terzo polo può arrivare al 13, ma mentre l’Udc è stabile attorno al 6, Fli si muove su una banda larga che va dal 3,5 all’8. Allo stesso modo Vendola e la sinistra radicale, attualmente fuori dal Parlamento, sono quotati, in caso di voto, fino al 15 per cento.

Con variazioni anche consistenti, ma con tendenze perfettamente concordanti, dati come questi sono stati esposti lunedì sera a «Porta a Porta» dai tre maggiori sondaggisti presenti sul mercato delle opinioni, Renato Mannheimer della Ispo, Alessandra Ghisleri di Euromedia e Roberto Weber di Swg, le cui divergenze semmai riguardano il tasso di fiducia su Berlusconi: ancora alto, oltre il 50 per cento, per la Ghisleri, che lavora per il centrodestra, e più basso, tra il 33 e il 35 per cento, per Weber che lavora per il centrosinistra, e per Mannheimer, che ha ricordato come i sistemi di misurazione dei tre istituti in questo caso siano diversi e non comparabili.

Sollecitati da Bruno Vespa, tutti i presenti in studio si sono esercitati ad analizzare i dati. Berlusconi è l'unico che può decidere senza riserve se andare o no a elezioni anticipate. La Lega ha un trend così favorevole che le conviene puntare sullo scioglimento delle Camere. Per tutti gli altri il voto è un’incognita, anche se per la sinistra radicale l’ora della rivincita sembra scoccata e il Pd non potrà non tenerne conto.

I sondaggisti accompagnavano queste opinioni con varie osservazioni, sul Fli ad esempio, simbolo ancora non troppo conosciuto e di conseguenza difficile da testare. O ancora sul caso Ruby, che al contrario essendo già noto da tempo, anche se adesso ne stanno uscendo i dettagli, non sposta consensi perché è già stato metabolizzato dagli elettori.

Ma a un certo punto Mannheimer Ghisleri e Weber hanno tirato fuori l’ultimo dato, relativo agli elettori che non si pronunciano, arrivati addirittura al 40 per cento. Se la metà ci ripensa, spiegavano - e non è affatto impossibile che accada, specie in caso di elezioni politiche -, dalle urne usciranno sorprese imprevedibili. Così, per la prima volta, davanti al record degli italiani nauseati dalla politica che sono diventati il primo partito, i sondaggisti hanno dovuto ammettere che anche i loro stessi sondaggi ormai non contano più.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il pericolo adesso è sfasciare tutto
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2011, 11:37:45 am
28/1/2011 - TACCUINO

Il pericolo adesso è sfasciare tutto


MARCELLO SORGI

Da due anni definito impropriamente finale, dato che non arriva mai al termine, lo scontro tra Berlusconi e Fini ha ieri superato il livello di guardia. Il premier ha usato il Senato e il ministro degli Esteri, come se fossero alle sue dirette dipendenze, per far conoscere e ufficializzare il contenuto dei documenti arrivati da Saint Lucia che attribuirebbero al cognato del presidente della Camera la proprietà della famosa casa di Montecarlo. Siccome Fini in questo caso si era impegnato a dimettersi, Futuro e libertà, il suo partito, ha denunciato Frattini alla magistratura, accusandolo di avere come «mandante» il Cavaliere, e ha attaccato Schifani.

Nel frattempo la maggioranza ha votato per restituire gli atti del caso Ruby ai giudici di Milano rifiutando l'autorizzazione a procedere. La conferma della decisione tocca all'aula e Berlusconi dovrà mettere insieme 316 voti, che al momento non ha, per ottenerla. Il tentativo di esautorare la procura milanese dall'inchiesta e spostare tutto al Tribunale dei ministri prelude probabilmente a un nuovo coinvolgimento della Corte Costituzionale nella contesa tra presidente del Consiglio e magistratura, anche se non subito.

Con uno scontro che coinvolge ormai, nell'ordine, il presidente del Consiglio, i presidenti delle due Camere, la magistratura, la Corte Costituzionale, per non dire il Quirinale, messo sotto pressione da tutto quel che sta accadendo, il timore che la stabilità stessa delle istituzioni sia messa a rischio comincia a circolare. In effetti, non si vede chi possa mettere pace tra pezzi di Stato schiacciati dal duello finale tra i due ex-cofondatori del Pdl.

Augurarsi che si faccia strada un ripensamento, e come tante altre volte si trovi modo di favorire una mediazione è inutile. Lo sconforto di Casini in serata lasciava intuire che la stagione delle colombe a questo punto è tramontata. Le elezioni anticipate sembrano più vicine, ma nessuno ha una strategia chiara né per arrivarci, né per evitarle. Ci si arriverà probabilmente per precipitazione. L'estate scorsa Fini, parlando del suo avversario Berlusconi, aveva detto: o io distruggerò lui o lui distruggerà me.

Va a vedere che cercando di distruggersi i duellanti finiranno a sfasciare tutto.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8346&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. E' partita la campagna elettorale
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2011, 04:49:57 pm
1/2/2011

E' partita la campagna elettorale

MARCELLO SORGI

Non poteva che finir male, com’è finita, l’estemporanea iniziativa di Berlusconi di riaprire in extremis un dialogo con l’opposizione, per trovare insieme una soluzione al problema del debito pubblico che affligge l’economia italiana e studiare un sistema per ridurre le tasse, allargando al contempo la base dei contribuenti. E non perché la proposta e il metodo adoperati siano sbagliati, tutt’altro. Magari il presidente del Consiglio cercasse tutti i giorni un filo di collaborazione con i suoi oppositori!

Invece, non soltanto negli ultimi giorni, ma dall’inizio della legislatura, il clima tra i due schieramenti è al di sotto del minimo storico e di ogni soglia accettabile, mentre l’aria di elezioni che ormai si respira sparge un po’ dappertutto veleni e diffidenze. Sperare di riaprire il dialogo tra centrodestra e centrosinistra in questo quadro era fuori dalla realtà.

Ma forse è stato proprio questo a muovere il Cavaliere. E dal suo punto di vista, non c’è dubbio che la mossa si sia rivelata azzeccata. Berlusconi che tutti, a cominciare da alcuni ministri del suo governo, descrivevano sotto botta per il caso Ruby e le intercettazioni delle ragazze che frequentavano le feste di Arcore, in un solo colpo è riuscito a girare l’asse del dibattito politico, dalle sue debolezze personali, che da settimane occupavano la scena, a un tema di grande interesse come quello della pesantezza del bilancio statale, che lascia pochi margini di manovra al governo, e della necessità di una riduzione delle tasse che è da sempre il primo obiettivo del centrodestra.

Inoltre - ed ecco l’aspetto più efficace - Berlusconi lo ha fatto a partire da una proposta che veniva dal campo del centrosinistra: quella, non nuova, di un’imposta patrimoniale sui redditi dei contribuenti più ricchi, una sorta di una tantum per abbassare drasticamente il debito pubblico, giunto oltre la soglia insopportabile di mille e ottocento miliardi di euro. Nelle ultime settimane, prima l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato, poi il banchiere cattolico Pellegrino Capaldo, in due interviste al «Corriere della Sera» avevano esaminato questa ipotesi, cercando di adattarla alla situazione attuale. Dopo di loro Veltroni al Lingotto la aveva rielaborata, proponendo di chiedere un contributo straordinario ai più ricchi, il dieci per cento della popolazione. Nessuno dei partiti del centrosinistra tuttavia aveva simpatizzato con queste uscite, che del resto, tutte le volte che vengono fuori, creano allarme tra i cittadini. Si suol dire, non a caso, che se proprio dev’essere adottata, la patrimoniale non va mai annunciata prima.

Berlusconi non voleva lasciarsi sfuggire un’occasione così ghiotta. La sua lettera al «Corriere» con cui ieri sfidava il Pd a collaborare partiva dichiaratamente da Amato e Capaldo, attribuendo alle loro considerazioni il valore di punti programmatici del centrosinistra.
Era come se dicesse a Bersani: lo so che stai pensando alla patrimoniale, ma lascia perdere, finché ci sono io non ci riuscirai.
Se invece ti convinci a darmi una mano, riusciremo insieme a ridurre le tasse.

Ovviamente Bersani non ha abboccato e ha ribadito la richiesta del Pd al Cavaliere di fare «un passo indietro». Berlusconi ha controreplicato duramente, accusando il Pd di essersi trasformato nel «partito della patrimoniale». Così, nel giro di mezza giornata, del dibattito sui veri problemi del Paese è rimasto soltanto un ennesimo spiacevole siparietto, dei peggiori, accompagnato dalla sensazione di un avvio di campagna elettorale che non promette niente di buono.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Voto decisivo per restare in vita
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2011, 05:12:45 pm
2/2/2011 - TACCUINO

Voto decisivo per restare in vita

MARCELLO SORGI

Le sorti del governo e della legislatura restano appese al voto di domani sul federalismo. Mentre infatti Berlusconi sa di poter contare su una maggioranza esigua ma solida nella votazione sull’autorizzazione a procedere richiesta dei magistrati, nella «bicameralina» che dovrebbe dare il via alla riforma federale i numeri sono ancora bloccati a quindici contro quindici. L’apertura fatta ieri sera dal ministro leghista Calderoli, che sta gestendo la trattativa in commissione, alla richiesta dell’opposizione di un fondo perequativo tra regioni forti e deboli, va in direzione della ricerca di un accordo. Ma il merito del testo conta fino a un certo punto in un passaggio che potrebbe portare a un’accelerata verso le elezioni.

Se, come sembra ormai da qualche giorno, le opposizioni preferiscono andare alle urne, difficilmente daranno una mano al governo sulla materia federale. E se la riforma dovesse restare bloccata, come ha detto il ministro dell’Interno Maroni, lo scioglimento delle Camere diventerebbe inevitabile. Ma non sono solo Bersani, Casini e gli altri avversari del Cavaliere a dover valutare bene il proprio comportamento. E’ lo stesso Berlusconi che deve capire se una volta ottenuto il federalismo Bossi si adatterebbe a sostenere il governo per un altro anno o se invece cercherebbe egualmente di andare al voto. Una Lega che potesse presentarsi davanti alla sua gente dopo aver incassato il federalismo, elettoralmente al Nord sarebbe fortissima. Lo sarebbe meno se dovesse ammettere per l’ennesima volta di aver mancato l’obiettivo.

Ecco perché lo stallo in «bicameralina» alla fine conviene a Berlusconi. Che intanto continua ad avere diverse gatte da pelare. La sortita sul debito pubblico e la proposta di riforma dell’articolo 41 della Costituzione, storico cavallo di battaglia tremontiano, hanno irritato il ministro dell’Economia, poco coinvolto nella svolta di lunedì. La manifestazione nazionale contro i magistrati, dopo essere stata accantonata, ieri è rispuntata fuori, provocando una reazione durissima di Giuliano Ferrara, che aveva proposto al premier di concentrarsi sull’economia. Nell’imbarazzo generale, tra comunicati che andavano e venivano per cercare di mettere d’accordo le contrastanti anime del partito del presidente, il vertice a Palazzo Grazioli è durato sei ore. Oggi Berlusconi ricomincia da Tremonti. Se si trova la quadra il governo sfornerà venerdì i primi provvedimenti per l’annunciato rilancio dell’economia e la riduzione del debito pubblico. Altrimenti tutto si ridurrà a un tentativo di cambiare argomenti per sviare l’attenzione dal caso Ruby.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Nuovi scenari nel rapporto con la Lega
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2011, 06:48:22 pm
3/2/2011

Nuovi scenari nel rapporto con la Lega

MARCELLO SORGI

Anche se non possono dirlo apertamente, Napolitano e Berlusconi non sono affatto d’accordo sulla piega che stanno prendendo le cose in Italia. Per la seconda volta in tre giorni il Capo dello Stato ha ribadito che la situazione è al livello di guardia, e lo stato di scontro permanente che coinvolge anche le istituzioni non è più sopportabile oltre. Il presidente del Consiglio gli ha subito risposto, dichiarandosi pienamente d’accordo e promettendo di mettere tutto a posto velocemente.

E’ evidente tuttavia che Napolitano, e non solo lui, pensi che Berlusconi sia ormai logorato al punto da non essere più in grado di andare avanti; e il Cavaliere, al contrario, ritenga che solo con lui a Palazzo Chigi la legislatura possa proseguire. Ci potrebbe essere un punto d’incontro tra questi due divergenti modi di vedere le cose, se solo i due presidenti concordassero, ad esempio, di darsi un termine per capire se si manifesta un’inversione di tendenza, rassegnandosi, in caso contrario, a un altro scioglimento delle Camere.

Ma non appena Napolitano ha dato segno di voler abbandonare la sua risoluta contrarietà a una nuova chiamata alle urne, Berlusconi, che fin qui la invocava quasi tutti i giorni, d’improvviso l’ha esclusa. La nuova linea moderata, inaugurata dal leader del Pdl su consiglio di Giuliano Ferrara, è fondata sulla semplice constatazione che prima di lasciare il certo di Palazzo Chigi per l’incerto delle urne, al premier convenga ritentare di governare, lasciando da parte il clima di guerriglia permanente a cui ha contribuito negli ultimi mesi.

Che Berlusconi, sopraffatto com’è dai suoi problemi personali, politici e giudiziari, riesca davvero a riprendersi e a rilanciare il suo governo, è possibile, data la sua nota capacità di fare miracoli, ma non è affatto scontato. Come s’è visto nei quattro videomessaggi dedicati al caso Ruby, nel lunghissimo vertice del Pdl di martedì e ieri sera nell’intervista al Tg1, il premier è evidentemente provato da quel che sta accadendo attorno a lui e dalle rivelazioni dell’inchiesta su Arcore. Le conseguenze politiche del suo stato di difficoltà sono evidenti: l’allargamento della maggioranza ridotta a soli 314 deputati alla Camera segna il passo; la trattativa sul federalismo è ancora bloccata malgrado le concessioni fatte alle opposizioni; la votazione sull’autorizzazione a procedere chiesta dalla magistratura di Milano si concluderà con un «no» scontato, ma solo dopo una seduta parlamentare, trasmessa probabilmente in tv, in cui i desolanti racconti delle ragazze di Arcore verranno utilizzati dall’opposizione per alzare il tiro sul premier. Il quale inoltre, subito dopo, è atteso alla ripresa dei suoi processi a Milano, oltre che dall’inchiesta sulla prostituzione che punta a un giudizio immediato.

E’ in questa cornice pesantissima che Berlusconi prova a uscire dall’angolo e a lanciare il piano di riforme economiche. Seppur ricevuto faccia a faccia, Tremonti, che non ne sapeva niente fino a martedì, nutre molte perplessità. Come del resto Maroni sulla possibilità che il federalismo possa uscire dal binario morto. Ma mentre le riserve del ministro dell’Economia si manifestano da tempo, con Berlusconi che cerca di barcamenarsi tra i suoi desideri e i limiti imposti al bilancio statale dalle rigidità dei vincoli europei, le ultime uscite del ministro dell’Interno rappresentano una novità e non promettono niente di buono.

In una settimana Maroni ha parlato due volte, per esprimere il suo scetticismo sulla trattativa sul federalismo, che rischia di snaturare la riforma, e ribadire la sua convinzione che il governo abbia i giorni contati. Meglio prenderne atto e attrezzarsi, ammoniva il ministro ancora ieri, che ritrovarsi tutt’insieme nei guai. Fin qui, poteva anche essere tattica, alla vigilia della delicata votazione di oggi. Ma Maroni, mettendo in conto il ritorno alle elezioni in caso di mancata approvazione del federalismo, ha aggiunto che non è automatico in quel caso che Berlusconi possa ricandidarsi a premier.

Un’incrinatura di questa portata, nel rapporto inossidabile tra il Cavaliere e la Lega, finora non s’era mai vista. Ma non si tratta di un dissenso interno al Carroccio o di una contestazione del potere fin qui assoluto di Bossi. Maroni dice soltanto quel che molti militanti leghisti pensano e sarebbero disposti a gridare, se i microfoni di Radio Padania negli ultimi giorni non fossero stati chiusi per evitare di dar voce alle loro proteste. L’elettorato del Nord ha capito perfettamente che con il compromesso inseguito dal ministro Calderoli in Parlamento, con le perequazioni tra Regioni settentrionali e meridionali, con i fondi di garanzia per limitare i dislivelli, alla fine non cambierà niente. Non a caso il testo del federalismo, discusso e rimaneggiato, proietta gli effetti pratici della riforma in avanti di anni e anni. La vecchia promessa dei soldi del Nord che dovevano restare al Nord è destinata così prestissimo ad apparire per quel che è già: un sogno.

Forse è proprio per questo che da qualche giorno, tra tante voci che circolano, ce n’è anche una che parla di un governo Maroni. Al Quirinale non ne sanno niente, ma è facile che sia arrivata fin lì. Sarà pure fantapolitica. Oppure è una strada per evitare (o rinviare) le elezioni, rimettere insieme i pezzi del centrodestra e riaprire più seriamente la discussione sul federalismo.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Premier più forte a scapito del Carroccio
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2011, 06:01:03 pm
4/2/2011 - TACCUINO

Premier più forte a scapito del Carroccio


MARCELLO SORGI

La giornata della doppia votazione - pareggio sul federalismo e vittoria del governo sull’autorizzazione a procedere contro il premier negata dalla Camera - ridisegna i rapporti interni alla maggioranza e quelli con l'opposizione. Berlusconi esce rafforzato sia per il voto in sé, che gli ha portato piena solidarietà del centrodestra, sia perché la maggioranza, se il premier fosse stato in aula e non in missione, avrebbe toccato la fatidica soglia dei 316 voti, liberando così il governo dall’incerta condizione di minoranza a cui lo aveva condannato la scissione dei finiani e tutti i confronti in aula seguiti al 14 dicembre.

Bossi e la Lega sono invece indeboliti dalla mancata approvazione del federalismo nella Bicameralina e al centro di una nuova tensione istituzionale con il Quirinale. Formalmente, infatti, non è logica la decisione del governo di considerare superfluo il parere che la Bicameralina non è riuscita a dare, per effetto del pareggio di ieri mattina.

Se il governo avesse potuto fare a meno del parere, il ministro Calderoli non si sarebbe adoperato tanto nelle ultime settimane per cercare di ottenerlo con l'appoggio anche di una parte dell’opposizione. L'idea di modificare la composizione interna della commissione per avere rapporti di forza interni più favorevoli e corrispondenti a quelli dell’aula non è a portata di mano. E se si riflette sul fatto che la Lega aveva cominciato la legislatura con l'obiettivo di costruire proprio sul federalismo un accordo più largo dei confini del centrodestra, anche politicamente quel che è accaduto ieri è inaccettabile per Bossi. Seppure riuscisse a far passare il federalismo a colpi di fiducia, il Carroccio correrebbe il rischio di vederlo affossare nel successivo referendum costituzionale, come accadde nel 2006 con la riforma dei saggi di Lorenzago. Aver puntato tutte le carte su Berlusconi proprio mentre le difficoltà del premier crescevano non s’è rivelata dunque una gran mossa per il Senatùr. Stretti nell’asse con il Cavaliere, Bossi e il federalismo pagano un conto che non li riguarda.

Infine anche l'opposizione esce ammaccata dalla giornata di ieri. La campagna acquisti del Cavaliere alla Camera prosegue e le possibilità di costruire un governo diverso, ipotesi accarezzata in particolare da Casini, diminuiscono. Il Pd continua a sperare che saranno i magistrati di Milano a toglierlo dall’imbarazzo, ma anche in quel campo lo scontro è destinato a complicarsi, ed è la stessa procura che comincia a rendersi conto che la questione della competenza posta dai legali di Berlusconi potrebbe rivelarsi non del tutto infondata.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Umberto berlusconiano per amore e per forza
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2011, 05:27:36 pm
8/2/2011 - TACCUINO

Umberto berlusconiano per amore e per forza


MARCELLO SORGI

L’asse Berlusconi-Bossi resiste anche dopo l’intoppo subito dal federalismo fiscale la scorsa settimana e l’inevitabile allungamento dei tempi determinato dall’intervento del Quirinale e dal rifiuto del Capo dello Stato di ricevere il decreto varato dal governo anche in mancanza del parere della Bicameralina. La linea della pazienza, chiamiamola così, è stata illustrata ieri con toni mielosi dal ministro Calderoli, che invano aveva cercato di convincere le opposizioni a votare il testo della riforma, offrendo disponibilità a modificarlo anche in parti importanti.

La Lega assicura che aspetterà senza colpi di testa né minacce di elezioni anticipate tutti i passaggi parlamentari necessari per recuperare il provvedimento affossato giovedì, ma chiede che la composizione della commissione bicamerale in cui s’è realizzato il pareggio tra maggioranza e opposizione, e la conseguente mancata decisione sul parere, venga modificata per renderla corrispondente ai rapporti di forza attuali nell’aula della Camera, dove il governo ha toccato quota 316 deputati. Il gruppo sovrarappresentato è quello dei finiani, che erano entrati a far parte della Bicameralina come rappresentanti del Pdl, e dunque della maggioranza, e sono ora schierati con l’opposizione. Si può immaginare con quale entusiasmo il presidente della Camera, a cui tocca intervenire per il riequilibrio dei posti, si accingerà a svolgere il suo compito.

L'ammorbidimento dei toni leghisti e la ritrovata sintonia con il premier saranno destinati a pesare anche sull’incontro tra Bossi e Napolitano, che si svolgerà domani e non oggi. Incontro promesso dal leader del Carroccio proprio il giorno dello scontro tra Palazzo Chigi e il Quirinale e atteso per verificare le vere intenzioni della Lega, dopo che per giorni era emerso un plateale disaccordo tra il ministro Calderoli, incaricato di seguire la pratica in commissione, e il suo collega Maroni, scettico sulla possibilità di far approvare il federalismo e convinto che per questa strada le elezioni anticipate sarebbero diventate inevitabili. A prevalere è stata la linea trattativista del primo, e sarà lo stesso Bossi a spiegarne le ragioni al Capo dello Stato. Il Senatur, al momento non trova sponde realistiche nell’opposizione. Se l’offerta è: Lega contro Berlusconi in cambio del varo del federalismo, non la ritiene accettabile. E anche il giro di manifestazioni antiberlusconiane del fine settimana ha rafforzato il leader leghista nella convinzione che al momento per il suo partito non c’è un’alternativa praticabile.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La tregua tra le istituzioni è finita prima di cominciare
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2011, 11:06:37 am
9/2/2011 - TACCUINO

La tregua tra le istituzioni è finita prima di cominciare

MARCELLO SORGI

Oltre a creare una singolare coincidenza con il tentativo di imporre una svolta, in materia economica, alla paralisi in cui da mesi si dibatte il governo, la decisione, annunciata dal procuratore della Repubblica di Milano Bruti Liberati, di chiedere oggi il processo abbreviato contro Berlusconi per i due reati di concussione e sfruttamento della prostituzione minorile legati al «caso Ruby», non lascia dubbi sul tema che si imporrà sull'agenda politica dei prossimi mesi.

La stessa successione degli incontri del premier ieri a Palazzo Grazioli - prima con i ministri dell'Economia e dello Sviluppo Tremonti e Romani, poi, molto più a lungo, con il Guardasigilli Alfano e i deputati avvocati Ghedini e Pecorella - fa capire con quale serenità il presidente del consiglio abbia potuto applicarsi ai provvedimenti che nei suoi piani avrebbero dovuto rappresentare una prova esplicita della sua intenzione di rimettersi a governare, sfuggendo alla morsa delle inchieste e delle rivelazioni sulla sua vita privata.

Insieme con l'annuncio del procuratore dal Palazzo di giustizia di Milano sono uscite le date in cui, per effetto della decisione della Corte costituzionale, riprenderanno i tre processi contro Berlusconi: il 28 febbraio quello per i diritti tv Mediaset, il 5 marzo l'udienza preliminare di Mediatrade e l'11 marzo quello in cui è già stato condannato l'avvocato Mills e in cui il premier risulta imputato di corruzione. E' prevedibile, come ha già fatto capire Ghedini, che da Palazzo Chigi partirà una reazione più simile a un fuoco di sbarramento che non alla «leale collaborazione» istituzionale a cui la Consulta ha fatto riferimento nella sua sentenza, tentando di convincere il Cavaliere e i magistrati che vorrebbero processarlo a uscire dalle trincee e a trovare un accordo ragionevole.

La sensazione invece è che il conflitto che la Corte ha tentato senza riuscirci di risolvere si riproporrà pari pari già a partire da oggi e dalla presentazione delle richieste della Procura di Milano in ordine al caso Ruby. L'accenno di Ghedini alla Costituzione violata dai magistrati sembra il preannuncio di un nuovo ricorso alla Corte, probabilmente per conflitto di attribuzione, dato che i difensori del premier sono convinti che i giudici di Milano si siano mossi al di fuori delle loro competenze e che spetti al Tribunale dei ministri eventualmente processare Berlusconi. Le conseguenze di tutto ciò sono chiare: la tregua tra le istituzioni chiesta dal presidente Napolitano, e quella politico-moderata suggerita da Giuliano Ferrara al presidente del consiglio, sono finite prima di cominciare.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Lo scenario drammatico del '93-'94
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2011, 11:41:39 am
10/2/2011

Lo scenario drammatico del '93-'94

MARCELLO SORGI

Chi ha vissuto i giorni più drammatici del ’93 e del ’94 - e siamo ancora in tanti a ricordarceli, tra politica, istituzioni, magistratura, giornali e tv - non può evitare di cogliere in quanto sta accadendo una serie di terribili analogie con quel che avvenne già diciassette anni fa.

Le immagini di Berlusconi in tv mentre illustra il deludente elenco dei provvedimenti economici del governo, accompagnato dalle dichiarazioni dei giudici di Milano sull’evidenza delle prove contro di lui, rievocano una serie di sensazioni che fanno presagire una conclusione funesta della crisi in corso.

Anche se non è detto che la Seconda Repubblica si inabissi come la Prima, ed anche se la magistratura non ha puntato sulla classe dirigente nel suo complesso, ma sui discussi comportamenti di un premier, che comunque - ed è la differenza più forte rispetto al passato - rifiuta di dimettersi, nel timore di un nuovo ribaltone, è evidente che lo scenario è lo stesso, se non peggiore.

Scontro a tutti i livelli, Berlusconi contro i giudici (è arrivato a dire di voler processare lo Stato), la sua maggioranza contro la Procura di Milano, il presidente della Camera contro il presidente del Consiglio, l’opposizione contro tutto e tutti, il Capo dello Stato e la Corte Costituzionale alle prese con una situazione che malgrado i loro sforzi potrebbe anche sfuggirgli di mano.

Dove possa portare il confuso ribollire senza criterio del sistema, è difficile dire. Ed altrettanto azzardare quale potrebbe essere il rimedio. Si può solo riflettere su una caratteristica comune a tutti i passaggi più complessi della storia recente, dai quali, a ben guardare, non si è mai usciti attraverso rotture, ma al contrario con forme diverse di continuità. Questo è valso paradossalmente per ogni sedicente rivoluzione ed ogni conseguente evoluzione della vicenda italiana. Dal fascismo alla democrazia, dalla monarchia alla repubblica, e perfino nell’imprevedibile avvento della Seconda Repubblica, gli elementi di ricomposizione del sistema alla fine hanno vinto su quelli di contrapposizione.

Berlusconi è stato in questo senso il prodotto specifico della rivolta anti-sistema nata dall’esplosione della corruzione all’inizio degli Anni Novanta e dall’incoraggiamento rivolto ai giudici di Mani Pulite dalla sinistra superstite del vecchio sistema. Caduto il quale, appunto, il vantaggio politico incassato dai sindaci della stessa sinistra alle elezioni amministrative, fu vanificato dalla scesa in campo, meglio sarebbe dire dall’irruzione, del Cavaliere nel ’94. Un imprenditore solo apparentemente «nuovo», in realtà uomo di garanzia del passato equilibrio anticomunista democristian-socialista, riaggregatosi attorno a lui, e che presto sarebbe stato rimesso in discussione dalle inchieste giudiziarie.

La difficile alternanza realizzatasi tra centrodestra e centrosinistra negli anni successivi confermava ulteriormente tutto ciò: l’Ulivo e l’Unione avendo in realtà molti più punti di contatto con il regime precedente che non il Polo e poi la Casa delle libertà. Ma a questo punto, dato per scontato - pur se non lo è - che Berlusconi sia ormai arrivato a fine corsa e possa resistere fino a un certo punto, se non vuole distruggere il centrodestra creato da se stesso, ci si libera più facilmente di lui organizzando l’assalto all’arma bianca di un fronte unico, magistratura, opposizione, ex-pezzi di maggioranza, o tentando di far emergere all’interno del suo stesso schieramento
l’alternativa a un leader fin troppo logorato?

Basandosi sull’esperienza, non c’è dubbio che la seconda strada sia più sicura, mentre la prima si presta ancora una volta al rischio di un consolidamento del Cavaliere in un quadro di crisi congelata. E tuttavia, se si guarda con attenzione all’escalation degli ultimi giorni, è sicuro che ad imporsi già da oggi sarà di nuovo la scelta della finta rivoluzione, contro il premier e il suo governo, contro una maggioranza parlamentare rafforzatasi anche grazie anche alla minacciosa avanzata del giacobinismo, e alla fine, purtroppo, anche contro le nostre martoriate istituzioni.

L’unico che nella sua saggezza ha ben presenti i pericoli della situazione attuale è il presidente Napolitano, a cui tra l’altro toccherà oggi ricevere un Berlusconi infuriato che accusa i magistrati di Milano di essersi trasformati in una cellula rivoluzionaria. Ma basteranno gli appelli quotidiani del Capo dello Stato a trattenerci sull’orlo del baratro in cui rischiamo ormai di precipitare?

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Titolo: MARCELLO SORGI. Le buone ragioni del premier
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2011, 10:54:58 am
15/2/2011 - TACCUINO

Le buone ragioni del premier

MARCELLO SORGI

Il dibattito sulle elezioni, pendente ormai da mesi, non è mai stato così aperto. Ne ha parlato il Presidente della Repubblica, con una nota del Quirinale. Insistono le opposizioni, che hanno smesso di accarezzare sogni di governi diversi, o d’emergenza, e vedono nelle urne la loro grande occasione. Berlusconi ha replicato avvertendo che non si può andare alle elezioni senza il suo consenso. La verità è che da quando i sondaggi hanno cominciato ad rivelare gli effetti del caso Ruby, e il consenso a Berlusconi e al centrodestra a perdere punti, si va allargando il fronte di quelli che guardano favorevolmente a uno scioglimento delle Camere fino a due mesi fa considerato un’incognita.

Qualche costituzionalista ha perfino avanzato l’ipotesi che il Capo dello Stato, di fronte al prolungarsi dello stato di paralisi in cui versano governo e Parlamento, possa decidere autonomamente di tagliare la legislatura, chiamando gli elettori al voto. La dottrina giuridica, si sa, conosce interpretazioni diverse. Ma è singolare che s’affacci un’opinione del genere quando esattamente vent’anni fa, davanti a Cossiga che sosteneva la stessa tesi e voleva sciogliere le Camere senza l’avallo della Dc, ci fu addirittura un appello dei costituzionalisti per dire che si sarebbe trattato di un colpo di Stato.

S’è discusso sempre sul modo di por fine in anticipo alle legislature. Nella Prima Repubblica a decidere erano i due partiti maggiori, Dc e Pci, ed era impossibile ottenere lo scioglimento contro la loro volontà. Nella Seconda tutto è più confuso, s’è avuta l’alternanza, si sono avute legislature brevissime o intere, ancorchè parimenti produttive, s’è arrivati a riformare mezza Costituzione (il centrodestra) salvo vederla bocciare subito dopo nel referendum confermativo, ma una procedura chiara per le elezioni anticipate ancora non s’è trovata.

In mancanza, forse la cosa migliore è affidarsi alla vecchia regola democratica che prevede che alle urne si vada quando a volerlo è la maggioranza del Parlamento. Un Parlamento, va da sé, che non sia più in grado di esprimere un governo. Berlusconi dunque non ha torto a rivendicare il fatto che, seppure ammaccato, il suo esecutivo è in carica a tutti gli effetti. Ma si capisce che sotto sotto anche lui sta riflettendo sul da farsi. Il rinvio a giudizio che sta per essere deciso dal gip di Milano potrebbe fare da detonatore all’avvio, anche da parte dell’asse tra Pdl e Lega, della nuova campagna elettorale, impostata dal Cavaliere come un referendum tra se stesso e i giudici.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: MARCELLO SORGI. In tribunale anche questa Repubblica
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2011, 04:46:44 pm
16/2/2011

In tribunale anche questa Repubblica

MARCELLO SORGI


Seppure attesa e in qualche modo scontata, la decisione del gip di Milano di rinviare a giudizio Berlusconi per i due reati - concussione e sfruttamento della prostituzione minorile - per i quali era sotto inchiesta da mesi, ha avuto l’effetto di un brusco richiamo alla realtà.

Malgrado i risultati delle indagini siano a tutti noti, pubblicati da tempo e diffusi da giorni anche in tv, fino a ieri si poteva pensare a uno dei tanti colpi di scena o forzature a cui il premier ci ha abituato, per aggirare o rinviare i suoi processi.

Le cinque righe uscite dal Palazzo di Giustizia milanese dicono che non sarà così. Berlusconi farà qualsiasi cosa per salvarsi, non esiterà a sollevare contro i magistrati un conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale (con quale possibile accoglienza lo lasciavano intendere qualche giorno fa le parole di risentimento, per gli insulti ricevuti, dello stesso presidente della Consulta), e magari giocherà il tutto per tutto in una nuova tornata di elezioni anticipate, pur di evitare di ritrovarsi alla sbarra. Ma allo stato delle cose quella del 6 aprile è la data d’inizio fissata per il processo del secolo.

La sola convocazione del presidente del Consiglio come imputato di reati così infamanti, che prevedono come pena accessoria l’interdizione dai pubblici uffici, in pochi minuti ha fatto il giro del mondo, rimbalzando tra tv, radio, giornali e siti Internet dell’intero pianeta. E’ da ciò che bisogna partire per capire quale potrà essere il peso politico dell’evento.

Riandare con la memoria alle udienze e agli imputati della famosa maxi-tangente Enimont, rivedere le immagini storiche di Craxi e Di Pietro faccia a faccia e di Forlani con la bava bianca agli angoli della bocca, può servire, ma non è detto che renda l’idea. Così come ricordarsi la paziente rassegnazione di Andreotti nel suo interminabile processo per mafia. L’unico punto in comune da tener presente è che allora come oggi non si procede solo contro uno o più imputati eccellenti, ma contro un’intera fase politica che potrebbe chiudersi anche stavolta, come diciotto anni fa, con una sentenza di condanna.

Qui però le similitudini finiscono e si snoda invece una vicenda diversa. Stiamo parlando infatti non di un tribunale che giudica la corruzione di una classe politica, o i suoi rapporti con la criminalità organizzata. Ma di valutare se il presidente del Consiglio è idoneo a proseguire nel suo ruolo in base alle sue debolezze private e all’eventualità che a causa di queste sia incorso nei reati contestati. Il collegio composto da tre donne togate chiamato a pronunciarsi lo farà, si può starne certi, avvalendosi non solo del rito abbreviato, che dovrebbe garantire meglio l’imputato, consentendogli di ottenere una sentenza in tempi ristretti, ma utilizzando tutti gli strumenti necessari per far emergere le prove a carico e discarico del premier.

Sotto gli occhi elettronici di telecamere delle tv di tutto il mondo, i cui inviati stanno già provvedendo a prenotare alberghi e postazioni per trasmettere, assisteremo a qualcosa di fronte a cui il già ricordato malinconico tramonto giudiziario della classe dirigente della Prima Repubblica dovrà impallidire. Una dopo l’altra, vedremo sfilare escort poliglotte, ballerine sudamericane, attrici o aspiranti tali, consigliere regionali già specialiste in igiene dentale, laureate alla Bocconi di ritorno dai reality-show, e insomma tutto il giro emerso grottescamente dalle intercettazioni e obbligato dalle liturgie processuali a ripetere o contestare in diretta gli squallidi dialoghi trascritti sulle carte dell’accusa. E’ prevedibile che alcune delle testimoni convocate, fin qui trattenute dalle pressioni dei legali del Cavaliere o dalla convenienza, anche economica, nel difenderlo, vedendolo seduto sul banco degli imputati e considerandolo ormai indifendibile, si lascino andare e mutino atteggiamento. Prima ancora della sentenza, questa terribile manifestazione di ostracismo e di ingratitudine, da parte delle ragazze che un tempo ne allietavano le serate, potrebbe essere la vera condanna pubblica di Berlusconi.

Da ultima, come vera protagonista del processo, in aula entrerà Ruby, la sedicente nipote di Mubarak: si capirà in quel momento da chi effettivamente dipendono ormai le sorti della Seconda Repubblica. Della quale tuttavia, adesso che se ne annuncia il naufragio, dovrà pur essere lecito dire che non meritava questa fine. Sì, se si misurano le aspirazioni e gli obiettivi iniziali con i risultati, sarà anche stato un ventennio sprecato. Ma non completamente da buttare. L’idea che tutto si risolva liberandosi di Berlusconi e tornando all’antico modo di far politica e far funzionare la Repubblica, alla fine potrebbe rivelarsi una pericolosa illusione.

da - lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. La nuova campagna acquisti e le paure della Lega dietro la ...
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2011, 05:11:41 pm
17/2/2011 - TACCUINO

La nuova campagna acquisti e le paure della Lega dietro la linea della prudenza

MARCELLO SORGI

Ha fatto molto discutere, nei conciliaboli di Montecitorio, il self-control con cui Berlusconi è riapparso ieri in pubblico, al fianco del ministro dell’Economia Tremonti, e all’indomani del rinvio a giudizio deciso dal Gip di Milano. Chi si aspettava un’intemerata contro la Procura milanese e la decisione di sottoporlo a un nuovo processo con rito abbreviato è rimasto deluso. Berlusconi ha mantenuto la calma e ha ripetuto che il governo pensa solo ad andare avanti e a realizzare le riforme che fin qui erano state rallentate dall’ostruzionismo dei finiani.

Quest’ostentazione di sicurezza, accompagnata da un silenzio assoluto sul fronte giudiziario si spiega con la riapertura, da parte del Cavaliere, della campagna acquisti che ha fatto segnare tra l’altro ieri un altro passaggio al Senato del fli Menardi al Pdl. Tra i consiglieri di Berlusconi s’è diffusa la convinzione, dopo il cattivo esito del congresso milanese di Futuro e libertà, che tra le file del Presidente della Camera si possano pescare altri parlamentari che verrebbero a rafforzare la maggioranza. Di qui appunto l’insistenza sul governo che punta alla fine naturale della legislatura e la rinuncia a qualsiasi polemica contro i giudici, argomento a cui i finiani sono sempre molto sensibili.

Al momento, Berlusconi sembra godere di un appoggio pieno da parte di Bossi. L’intervista alla Padania del leader del Pd Bersani non ha segnato alcun ripensamento o libera uscita, anche se nessuno conosce i termini veri dell’accordo tra il Cavaliere e il Senatur. A giudicare da quel che dice il leader del Carroccio il governo può andare avanti se ha i numeri, e quest’osservazione, di per se ovvia, sottende per Berlusconi la necessità di allargare ancora la sua maggioranza.

Qualcuno ha voluto vedere anche nei diversi obiettivi – 325 o 330 deputati – indicati da Berlusconi e dal ministro Calderoli, una dissenso sulle effettive possibilità di procedere in una condizione di endemica debolezza. Ma la sostanza vera dell’intesa tra il premier e Bossi potrebbe essere, non di darsi assicurazioni di andare avanti a qualsiasi costo, ma di impegnarsi sul fatto che se alla fine saranno costretti egualmente ad andare alle elezioni, i due leader lo decideranno insieme. A consigliare questa prudenza anche da parte del Carroccio sarebbero nuovi sondaggi che dopo il Pdl vedono anche la Lega in difficoltà. Andare alle urne senza il federalismo sarebbe impossibile per Bossi. Ma tra un po’, quando si capirà di che pasta è fatto il federalismo in via d’approvazione, potrebbe essere rischioso anche andarci dopo averlo approvato.

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Titolo: MARCELLO SORGI. E il premier si scopre moderato
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2011, 11:51:39 pm
23/2/2011

E il premier si scopre moderato

MARCELLO SORGI

Sarà anche vero che al punto in cui sono giunte le cose non ci si meraviglia più di niente. Ma se lo scontro - l'ennesimo - annunciato tra Quirinale e Palazzo Chigi alla fine è stato evitato, una ragione dev'esserci. A sorpresa, mentre tutti si aspettavano un nuovo braccio di ferro con il Colle, Berlusconi ha fatto invece sapere di condividere le obiezioni fatte dal Capo dello Stato contro il decreto «milleproroghe», dilatatosi a dismisura, e ha promesso di tenerne conto, anche se questo costerà al governo un rinvio del voto della Camera che voleva ottenere già oggi con la fiducia.

La moderazione con cui il premier ha accolto il nuovo richiamo del Presidente della Repubblica ha una logica e si spiega così. Nella sua attuale, improponibile, formulazione, non a caso paragonata a una specie di legge finanziaria, il decreto discendeva da una fase politica che il Cavaliere auspica stia per chiudersi: quella, appunto, della maggioranza risicata in aula e inesistente nelle commissioni, alla Camera. Di qui la necessità di procedere per atti di governo di dimensioni mostruose, ai limiti del tollerabile, da approvare con la fiducia, senza impegnare i parlamentari in votazioni frequenti che avrebbero potuto riservare sorprese, dati i numeri esigui su cui Berlusconi poteva contare fino a qualche giorno fa.

La crisi di Futuro e libertà e la serie di uscite, al Senato e alla Camera, dal partito del Presidente della Camera, stanno invece delineando rapidamente un nuovo quadro, in cui il governo, disponendo di nuovo di una maggioranza, può realmente darsi l'obiettivo di durare, contando, non solo sui transfughi già corsi in suo appoggio, ma su tutti quelli che potrebbero arrivare anche da gruppi diversi da quello del Fli, in una prospettiva di legislatura che tende ormai alla sua scadenza naturale.

Perfino l'iniziativa, giustamente censurata dal Quirinale, di chiedere il voto dell'aula della Camera senza passare dalle commissioni, in futuro non avrà più ragion d'essere. E' possibile pure che il premier vi abbia fatto ricorso, pur sapendo di forzare le regole, anche per sottolineare il problema dell'adeguamento delle commissioni a Montecitorio. Fino a quando poteva contare su meno dei 316 voti necessari per passare alla Camera, il governo infatti doveva rassegnarsi al fatto che in molte commissioni non sarebbe riuscito a passare, e tentare semmai qualche espediente. Ma adesso che il sostegno parlamentare dei deputati ha toccato quota 320, e tende ancora ad allargarsi, Berlusconi ha tutto il diritto di chiedere un rapido ridisegno della composizione delle commissioni per consentire anche in quelle sedi alla sua maggioranza di esprimersi.

Il problema è che la procedura per le commissioni - dove ancora in molti casi siedono i finiani, benché passati all'opposizione, e non sono rappresentati proporzionalmente i «responsabili» e gli altri gruppi schieratisi con il Cavaliere - deve essere messa in moto proprio da Fini, che finora ha preso tempo e ieri non a caso è stato tra i primi ad applaudire all'intervento di Napolitano.

Il premier stavolta ha chinato la testa perché ha capito che il Capo dello Stato, che avrebbe potuto pretendere che il «milleproroghe» ripartisse da capo, alla fine, riconoscendo che il governo s'è rafforzato ed è in condizione di approvarlo, s'è accontentato di una semplice correzione che consente di salvarne la maggior parte.

La questione delle commissioni però resta aperta e per Palazzo Chigi rappresenta la premessa della normalizzazione dei rapporti con il Parlamento. Anche grazie al suo appeasement con il Quirinale, Berlusconi in sostanza si aspetta, in caso di ulteriori ritardi, che il Presidente della Repubblica, la prossima volta, si rivolga a Fini per ricordargli quali sono i suoi doveri istituzionali nei confronti del governo.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Gianfranco preso nella tenaglia
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2011, 06:42:30 pm
2/3/2011 - TACCUINO

Gianfranco preso nella tenaglia

MARCELLO SORGI


La lettera con cui i capigruppo della maggioranza hanno chiesto ieri a Fini di sollevare conflitto di attribuzione contro i giudici di Milano inaugura l'offensiva politico-giudiziaria di Berlusconi per la verità fin troppo annunciata, dopo il rinvio a giudizio per il caso Ruby e dopo la ripresa dei processi contro di lui. L'iniziativa del centrodestra punta innanzitutto sul Presidente della Camera, schierato per la prima volta in una circostanza del genere contro il premier.

In tutti i casi precedenti infatti Fini, che era ancora dentro il Fli, sia pure facendo pesare le sue riserve, alla fine aveva agevolato le soluzioni trovate volta per volta e l'approvazione delle leggi ad personam grazie alle quali il Cavaliere era riuscito fin qui ad arginare i suoi problemi giudiziari. Oltre alla presidenza della Camera, cui spetta l'ultima parola nella decisione di sollevare il conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, Fini controlla grazie a Giulia Bongiorno la presidenza della commissione giustizia, dove arriveranno tra poco anche i testi di legge messi a punto dal ministro di giustizia Alfano, da Ghedini e dai legali del premier per intervenire sui procedimenti in corso, con termini di prescrizione accorciati e con il varo del processo breve, calendarizzato per il 14.

Se frena o si oppone, Fini rischia di trovarsi addosso l'intero centrodestra che da settimane - s'è visto nell'ultima seduta a Montecitorio con l'intervento del capogruppo pdl Cicchitto - lo contesta e pone il problema del conflitto tra i doveri di imparzialità connessi alla carica istituzionale che ricopre e il suo ruolo di leader di un partito d'opposizione. Se invece dà segni di cedimento, o accetta di sottoscrivere in modo notarile la richiesta di sollevare il conflitto, Fini si troverà contro il resto dell'opposizione, che si prepara a cavalcare la campagna berlusconiana sulla giustizia con iniziative durissime contro il premier.

Siamo solo agli inizi. Superato il voto di fiducia sul federalismo, lo scontro sulla giustizia che già s'annuncia difficilmente si fermerà nei confini delle aule parlamentari.

Dopo l'ultimo attacco del Cavaliere allo staff del Quirinale, il rischio che ormai tutti paventano, in attesa che la guerra ricominci, è che alla fine i diversi fronti schierati - governo e maggioranza, magistratura, opposizione - premano sul Capo dello Stato per un compromesso che già ora si presenta impossibile.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il destino del premier è nelle mani di Gianfranco
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2011, 03:10:11 pm
3/3/2011 - TACCUINO

Il destino del premier è nelle mani di Gianfranco


MARCELLO SORGI

Sarà molto più difficile del previsto per Berlusconi ottenere che la Camera sollevi conflitto di attribuzione contro i magistrati di Milano in ordine al processo sul caso Ruby. Ieri Gianfranco Fini ha illustrato la complessa procedura prevista dai regolamenti e dalla prassi di Montecitorio. Fini, che ha già investito la giunta per le autorizzazioni a procedere del problema, intende infatti ottenere, prima di sottoporre il problema all'ufficio di presidenza, anche un parere della giunta per il regolamento. Parere che, data la composizione di quest'organismo, si preannuncia negativo.

Sui tavoli dei membri dell'ufficio di presidenza arriverebbero dunque, non prima di una decina di giorni, due opinioni contrastanti: quella della giunta per le autorizzazioni a procedere, prevedibilmente più favorevole a sollevare il conflitto, dato che l'aula della Camera s'è già espressa contro le iniziative dei giudici di Milano quando ha votato contro l'autorizzazione alla perquisizione negli uffici del ragionier Spinelli, l'amministratore di Berlusconi che pagava le ragazze dopo le feste ad Arcore. E quella, prevedibilmente contraria, della giunta per il regolamento, in cui le opposizioni hanno i numeri per prevalere, e che probabilmente, Fini lo ha già preannunciato, suggerirà che sia solo l'ufficio di presidenza, e non anche l'assemblea dei deputati, a pronunciarsi alla fine sulla decisione di sollevare il conflitto.

Ma anche la composizione dell'ufficio di presidenza è sfavorevole a Berlusconi: attualmente infatti le opposizioni prevalgono per dieci membri a otto. E seppure si dovesse decidere di farvi entrare un rappresentante del nuovo gruppo dei «responsabili», i due schieramenti sarebbero pari, nove a nove. Inoltre se Fini, che presiede, decidesse di non pronunciarsi, com'è prassi, l'organismo non sarebbe in grado di determinare la decisione e in mancanza di un intervento dell'aula, dove Berlusconi invece la maggioranza ce l'ha, la discussione dovrebbe chiudersi lì.

La posizione di Fini sembrava proprio per mettere le mani avanti ed avvertire Berlusconi che il cammino verso la Corte costituzionale è in salita. Ma naturalmente, se le cose andassero com'è stato scritto, il conflitto negato davanti alla Consulta si riaprirebbe immediatamente tra la maggioranza e la presidenza della Camera. Fini dunque ha lasciato intendere che, come gli spetta, si riserva la decisione finale: che sarà, manco a dirlo, in un senso o nell'altro, a sorpresa. Il destino di Berlusconi più che mai è nelle mani del suo più fiero avversario.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Referendum, i rischi del voto politico
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2011, 06:43:44 pm
4/3/2011 - TACCUINO

Referendum, i rischi del voto politico

MARCELLO SORGI

La decisione del ministro dell'interno Maroni di fissare le elezioni amministrative il 15 e 16 maggio (con ballottaggi il 29 e 30) condanna i referendum, che dovrebbero svolgersi il 12 giugno, a una probabile morte per astensione e mancanza di quorum.

Le consultazioni ammesse dalla Corte costituzionale riguardano la privatizzazione degli acquedotti, il ritorno al nucleare e il legittimo impedimento. Se, come chiedono i promotori, fossero abbinati al secondo turno delle amministrative, aumenterebbero le probabilità di raggiungimento del quorum della metà più uno degli elettori, necessario per rendere valido il voto referendario. Se invece, com'è quasi certo, il governo alla fine imporrà il 12 giugno, la morte dei referendum per scarsa affluenza alle urne sarebbe difficile da evitare.

Maroni ha spiegato che intende rifarsi a una prassi consolidata che ha visto nelle ultime tornate elezioni e referendum separati nelle urne. La legge prescrive che le consultazioni referendarie si svolgano in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno, e la scelta del 12, seppure al limite, rientra tranquillamente nelle previsioni. Con i precedenti dalla sua parte, il ministro dell'interno non si farà convincere dalle proteste dell'opposizione e dei promotori dei referendum, che denunciano anche i costi aggiuntivi di voti separati.

Ma questa volta non è proprio del tutto scontato che i referendum debbano fallire. La collocazione in una domenica di inizio estate, certo, penalizza in partenza l'affluenza. Ma dei tre voti previsti - acqua, nucleare e legittimo impedimento - il terzo si presta ad essere politicizzato e trasformato in un referendum su Berlusconi. Anche se la legge-salvacondotto per i processi del premier è stata già ridimensionata dalla Corte costituzionale e cesserà i suoi effetti in autunno, la consultazione potrebbe subire un surriscaldamento a causa dell'andamento dei processo a Berlusconi e della battaglia, già cominciata, sul caso Ruby.

In altre parole se il Cavaliere in un modo o nell'altro, con il conflitto di attribuzione o con nuove leggi ad personam, riuscisse a fermare il procedimento, già convocato per il 6 aprile a Milano, il successivo voto referendario si trasformerebbe in un'occasione di rivincita per quella larga parte di opinione pubblica che vuole invece il presidente del consiglio processato e condannato. Un referendum su Berlusconi: che magari, come altre volte, lo stesso Berlusconi potrebbe vincere, ma del quale, nel dubbio che la mobilitazione contro di lui faccia raggiungere il quorum, non potrebbe certo disinteressarsi, puntando sull'astensione.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Sulla giustizia Berlusconi disorienta il Pd
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2011, 06:39:09 pm
8/3/2011 - TACCUINO

Sulla giustizia Berlusconi disorienta il Pd

MARCELLO SORGI

Anche se il Pd si comporta come se non esistesse, e prepara una mobilitazione di massa sul genere di quella dei dieci milioni di firme appena raccolte, il cambiamento di strategia di Berlusconi sulla giustizia è evidente. Al momento, il Cavaliere rinuncia alle leggi ad personam e sceglie la strada della riforma costituzionale, accompagnandola con l'impegno a presenziare ai processi che lo riguardano, e concordando il calendario delle udienze, come ha chiesto la Corte costituzionale, in una cornice di "leale collaborazione".

Naturalmente non è detto che questa strategia regga, ed anzi Berlusconi proprio su questa materia ha abituato a bruschi cambi di idea.
Ma finché la linea non cambia - e la solennità con cui è stato annunciato il Consiglio dei ministri straordinario di giovedì che dovrebbe varare il testo della riforma va in quel senso -, la novità esiste e occorre farci i conti. L'approccio costituzionale a una riforma che contiene alcuni punti su cui anche il centrosinistra s'è esercitato in passato (sia pure in una fase terminale della legislatura, mentre sarebbe stato meglio pensarci all'inizio) suona comunque come una sfida che il governo pone a se stesso, recuperando uno dei capisaldi del suo programma e trovando su questo nuovamente l'intesa con la Lega.

E la presenza annunciata alle udienze di Milano è sì ricca di incognite, ma in tutti i sensi.
Se la Procura di Milano aveva pensato a una riedizione del famoso procedimento per la maxi-tangente Enimont che segnò il tramonto di tutto il gruppo dirigente della Prima Repubblica, dovrà presto rendersi conto che non sarà facile riproporre un evento del genere.
In particolare per il processo sul caso Ruby che dovrebbe aprirsi il 6 aprile e presto trasformarsi in una sfilata di escort e personaggi da reality-show, chiamati a confermare o a smentire il contenuto delle intercettazioni.

L'ingresso in un teatro del genere di un supercomunicatore come Berlusconi rischia di avere effetti imprevedibili. Diciotto anni fa infatti era di scena la corruzione di un intero sistema. Qui si tratta di trasformare in reati le debolezze private di un premier settantaquattrenne, che lavorerà dal primo momento all'ultimo delle udienze per apparire come un perseguitato. L'idea di riproporre questo come un nuovo grande processo al Palazzo, dato lo squallore dell'insieme e l'amplificazione che ne faranno le tv di tutto il mondo, potrebbe alla fine trasformarsi in un boomerang, anche contro la volontà degli stessi magistrati che lo hanno imbastito.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La politica del cortile di casa
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2011, 06:46:15 pm
9/3/2011 - TACCUINO

La politica del cortile di casa

MARCELLO SORGI

Si tratti di un vecchio conto personale, oppure, speriamo di no, di qualcosa di più serio, lo scontro Gheddafi-Bossi - con l’oscuro riferimento del colonnello libico agli aiuti chiesti dalla Lega per la secessione e la maledizione lanciata dal leader del Carroccio contro il ras di Tripoli - s’impone all’attenzione, pur nel quadro tragico della difficile crisi internazionale, per due pesanti motivi.

Il primo è un dato di fatto: se con tutti i guai che ha, e sentendosi con qualche ragione tradito più dall’Italia, che gli aveva offerto un’amicizia smodata, che da tutti gli altri partner che di recente lo avevano riabilitato, Gheddafi se l’è presa con Bossi e non con Berlusconi, dev’esserci sotto qualcosa. Dio non voglia che la storia subito rispolverata di una missione del Carroccio di qualche anno fa, per chiedere finanziamenti al ricco dirimpettaio africano, non debba mostrare maggior consistenza di quanto la stessa leggenda leghista le attribuisce. Ma il secondo motivo è più grave: lo scontro Gheddafi-Bossi rivela e sottolinea purtroppo una carenza cronica che un partito come la Lega, dopo 25 anni di partecipazione alla vita politica nazionale, di cui dieci, circa, al governo, e con responsabilità di primo piano, non può più consentirsi.

Si tratta della mancanza di una politica estera, o peggio di una concezione della stessa basata su una sorta di empirismo senza principi e su piccole convenienze domestiche. L’idea che la collocazione internazionale, le alleanze, i valori condivisi dello stare con una parte o con l’altra del mondo, siano in sostanza indifferenti e vadano misurati, come tutto, con il fatturato politico contingente.

Nessuno ha ancora capito, ad esempio, dopo oltre un decennio, cosa sia andato a fare Bossi nel bel mezzo della crisi del Kosovo a Belgrado a parlare con Milosevic, quando appunto la Nato - e l’Italia di conseguenza - stavano per dichiarargli guerra. E neppure perché una sera a un Tg1 di qualche anno fa il ministro Calderoli abbia pensato di mettere in scena un siparietto per niente divertente, scoprendo all’improvviso sul suo torace una maglietta anti-Islam e fingendo di non accorgersi che così dava luogo a una provocazione che in quel momento creava il rischio di una rappresaglia terroristica verso l’Italia dei settori più radicali del fondamentalismo islamico.

Allo stesso modo, nessuno ha contestato in questi anni l’atteggiamento euroscettico, spinto fino al corteggiamento dei partiti xenofobi olandesi o austriaci, ostentato dal Carroccio. Si è preferito colpevolmente passarci sopra, soprattutto da parte di Berlusconi. Ma è una pura illusione ritenere che queste posizioni possano essere facilmente dimenticate, o non pesare per niente in Europa, ora che il ministro dell’Interno Maroni si trova ragionevolmente a chiedere ogni giorno un intervento della Comunità europea per affrontare l’emergenza umanitaria dei profughi africani.

Inoltre la stessa questione viene riproposta quotidianamente con toni e in termini via via più pressanti, ma sempre e solo con riferimento alla questione dell’arrivo in massa degli immigrati a Lampedusa. Ritenere di aver risolto tutto con la politica dei respingimenti, così tante volte vantata dallo stesso Maroni nei mesi scorsi, e sorprendersi adesso del riproporsi dell’allarme, è un altro esempio di mancata comprensione della portata globale e internazionale del problema. La Lega in altre parole dà l’impressione di dovere e di voler rispondere del ritorno dei barconi carichi di disperati solo agli elettori nordisti: ai quali, con una superficialità inadeguata al ruolo nazionale che ricopre, riteneva di aver fatto credere di averli dirottati una volta e per tutte su altri lidi. Va detto: la politica degli annunci, della comunicazione quotidiana, degli obiettivi raggiunti solo sulla carta o davanti alle telecamere, non è solo della Lega. E’ una cattiva abitudine comune purtroppo a tutti i partiti di maggioranza e d’opposizione. Ma il complicato frangente in cui l’Italia s’è trovata all’improvviso, con la costa più vicina a uno dei nostri confini infiammata da rivolte e da un vento di destabilizzazione che non è chiaro fin dove potrà arrivare, richiede in questo momento un di più di responsabilità. Capire, per esempio - ed è difficile che Bossi e Maroni, almeno in privato, non se ne rendano conto - che in uno scenario del genere l’Italia non è più arbitra da sola del proprio destino, che ha il dovere di stare al mondo come un Paese importante, strategico sia per collocazione geografica che per rapporti antichi e consolidati con l’area entrata in fibrillazione e con i suoi popoli e i suoi governi, ex o traballanti che siano. Un ruolo che richiede, oggi più che mai, di fare quel che si deve e non ciò che si vuole, senza fughe in avanti né di lato, e soprattutto senza stravaganze. Sapendo che alla fine ci toccherà di sicuro pagare per quel che sta accadendo un prezzo più o meno grande, e comunque non collegabile con l’esito non trascurabile, ma neppure così importante, delle elezioni amministrative a Varese o nei Comuni limitrofi.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Al Pdl conviene avere il Colle come alleato
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2011, 06:28:28 pm
10/3/2011 - TACCUINO

Al Pdl conviene avere il Colle come alleato

MARCELLO SORGI

Nel giorno dell’anteprima della riforma costituzionale della giustizia, presentata al Quirinale dal ministro Angelino Alfano, il Presidente della Repubblica, che aveva lasciato trapelare la propria irritazione per il ritardo con cui era stato messo a parte del progetto del governo, ha accolto ieri con attenzione l'illustrazione che gli è stata fatta.

La differenza tra questo atteggiamento di Napolitano e la rottura decisa ieri da Bersani sullo stesso tema, prima ancora che il testo della riforma sia ufficializzato, era evidente. Il leader Pd ha liquidato l'iniziativa del governo come una copertura di una nuova stagione di leggi «ad personam», che Berlusconi si accingerebbe a varare per salvarsi dai processi di Milano. Ma se Napolitano invece ha deciso di assumere un atteggiamento di cauta apertura non è solo per dovere «istituzionale». L'approccio di sistema ai problemi della giustizia corrisponde da sempre a una convinzione di fondo che il Presidente della Repubblica non ha mai nascosto. Nei vent’anni di transizione infinita tra Prima e Seconda Repubblica, vissuti nei ruoli-chiave di Presidente della Camera e ministro dell’Interno, Napolitano ha maturato la convinzione che un riequilibrio nei rapporti tra politica e giudici sia necessario e il modo di arrivarci sia quello di una riforma il più possibile condivisa.

In questo senso il Colle potrebbe rivelarsi un imprevisto e decisivo alleato di Palazzo Chigi nell’ennesimo tentativo di intervenire in un settore su cui finora si son rotti le ossa tutti i governi succedutisi da Tangentopoli ad oggi. Ad un patto però, anzi a due. Il primo è che Alfano, e prima di lui Berlusconi, tengano fede all'impegno, sbandierato in questi giorni, di procedere alla riforma senza avviare su canali paralleli provvedimenti parziali, come appunto le famose leggi ad personam, mirati a bloccare i processi del premier. E il secondo è che il governo s'impegni testardamente a cercare un confronto con tutte le forze politiche e con quella parte della magistratura che non condivide le chiusure pregiudiziali dell’Anm, il sindacato dei giudici, e ritiene di avere qualcosa da dire per migliorare i testi proposti. Sono due condizioni non facili da realizzare. Ed infatti ieri sera, malgrado l'ottimismo del ministro all'uscita dal Quirinale, non erano in tanti nei corridoi di Montecitorio a scommettere che la riforma vedrà veramente la luce.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il dilemma del centrosinistra e i dubbi sul muro contro muro
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2011, 04:25:22 pm
11/3/2011 - TACCUINO

Il dilemma del centrosinistra e i dubbi sul muro contro muro

MARCELLO SORGI

L’avvio della riforma costituzionale della giustizia vede Berlusconi (benché incerottato) e Alfano in accelerata e il Pd in imbarazzo. Il premier e il ministro della Giustizia giocano di complemento, il Cavaliere parlando della riforma come dell'occasione della sua vita politica e Alfano attento invece ad intercettare tutti i possibili accenni di dialogo provenienti dalle opposizioni.

I sondaggi del resto parlano chiaro: una maggioranza ampia di cittadini è a favore dei cambiamenti in materia di giustizia e una ancor più larga vede bene il ridisegno dei confini tra politici e magistrati. Oltre ad apparire conservatrice e a lasciare al centrodestra la palma dello schieramento riformatore, un "no" secco alla riforma rischierebbe quindi di essere impopolare. Il Terzo Polo, con Rutelli, apre, sia pure tenendosi a distanza da alcune delle frasi, come quelle contro Mani pulite, adoperate da Berlusconi in conferenza stampa. D'Alema prova a sostenere la chiusura pregiudiziale del giorno prima, dicendo che solo se Berlusconi si fa da parte il confronto sulla giustizia può cominciare. Ma a mettere in imbarazzo il Pd sono le dichiarazioni con cui Marco Boato, che fu relatore in materia di giustizia nella Bicamerale presieduta proprio da D'Alema, ricorda che il testo proposto dal governo ha molti punti coincidenti con l'ultimo tentativo bipartisan di riformare la Costituzione.

Che anche nel centrosinistra sia in corso un ripensamento lo dimostra in serata il confronto diretto a Porta a porta tra Alfano e la presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro. Dopo una scaramuccia iniziale, è chiaro che nel merito ci sono possibilità di convergenza, a cominciare, ad esempio, dall'ipotesi di sottrarre al Csm le procedure disciplinari per i giudici e affidarle a un organo terzo, un'Alta Corte, a cui l'esponente dell'opposizione vorrebbe dare, nel caso in cui siano reintrodotte, anche la competenza in materia di immunità parlamentare e di autorizzazione a procedere. Restano le distanze a proposito della limitazione dell'obbligatorietà dell'azione penale e della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistratura giudicante. Ma anche su questo le numerose bozze di riforme tentate in passato dal centrosinistra prevedevano una diversificazione delle funzioni e una sorta di sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura. Litigare quando si dicono quasi le stesse cose è difficile. Ma non impossibile, se c'è la volontà politica di farlo a tutti i costi e soprattutto se c'è Berlusconi di mezzo.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Per il Cavaliere effetto tsunami via referendum
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2011, 04:59:37 pm
15/3/2011 - TACCUINO

Per il Cavaliere effetto tsunami via referendum

MARCELLO SORGI

Il terremoto in Giappone e la paura di una contaminazione nucleare per i guasti provocati dal sisma nelle centrali sta riproponendo in Italia qualcosa di simile all'effetto Cernobil, che nel 1986, ormai venticinque anni fa, portò l'Italia alle urne per il primo referendum, e per un secco «no» allo sviluppo dell'energia nucleare.

Stavolta, fino a prima del terremoto e delle sue terribili conseguenze, sul nuovo referendum sul nucleare, previsto per il 12 giugno insieme a quelli sul legittimo impedimento e sulla privatizzazione dei servizi di distribuzione dell'acqua, nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato, data la difficoltà di portare ai seggi in una domenica estiva la metà più uno degli elettori indispensabile per la validità delle consultazioni. E' questo rigido quorum, come si sa, che ha portato sistematicamente negli ultimi dodici anni i referendum al fallimento e i loro promotori a convocarli nel tentativo, impossibile finora, di superarne la crisi trovando il modo di mobilitare i cittadini.

L'occasione insperata di riuscirci è data proprio dall'incubo nucleare. I tentativi di minimizzare gli effetti del sisma sulle centrali giapponesi, dopo i primi giorni, si sono infatti rivelati via via sempre più impacciati. Mentre le autorità giapponesi ricorrevano a black-out programmati per la scarsità di energia disponibile dovuta allo spegnimento delle centrali, ieri in Germania la Merkel ha annunciato a sua volta il blocco di due impianti giudicati obsoleti e da sottoporre ad accurata revisione.

Il combinato disposto del disastro giapponese e della decisione della cancelliera, dovuta, fin troppo evidentemente anche a una pressione dell'opinione pubblica tedesca, è destinato a ripercuotersi in Italia con un effetto di mobilitazione sugli elettori, ai quali non sembrerà vero poter ribadire il loro atteggiamento antinuclearista in una consultazione nata in tutt'altro clima e circostanze. E ancora, con la probabile, ancorché imprevista, riuscita dei referendum, e soprattutto con un trascinamento della reazione emotiva al terremoto anche sulle altre due consultazioni. Una delle quali, è bene ricordarlo, riguarda direttamente Berlusconi e i suoi guai giudiziari. A causa del terremoto giapponese, in altre parole, il premier, nel bel mezzo della discussione sulla riforma costituzionale della giustizia, potrebbe trovarsi a fare i conti con un referendum al quale fin qui non aveva dato grande importanza, e che invece potrebbe risolversi in un plebiscito contro di lui.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Silvio e lo scontento dei delusi
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2011, 12:00:51 pm
16/3/2011 - TACCUINO

Silvio e lo scontento dei delusi

MARCELLO SORGI

La crisi internazionale e le conseguenze gravissime del terremoto in Giappone hanno coperto negli ultimi giorni insistenti turbolenze in campo berlusconiano che ieri, alla fine, hanno avuto la meglio, mettendo sotto il governo alla Camera. Tutto ruota attorno alla promessa di rimpasto con la quale il premier e i suoi emissari hanno condotto la campagna acquisti in autunno e trovato i voti necessari per battere le mozioni di sfiducia nella famosa seduta del 14 dicembre.

Da quel giorno in poi, e sono ormai tre mesi, giorno dopo giorno s'è allungata la schiera degli aspiranti ministri e sottosegretari, pronti a ricoprire i posti lasciati liberi dai finiani e quelli che Berlusconi stesso aveva promesso di creare con una modifica della legge che regola la composizione del governo, attualmente fissata in dodici ministeri, limite già superato da tempo. In prima fila i cosiddetti Responsabili, cioè il gruppo eterogeneo che si è costituito proprio in appoggio al governo e per evitare la conclusione anticipata della legislatura. Poi i leghisti, che da un eventuale rimpasto sperano di ricavare la possibilità di rimettere in gioco il ministero dell’Agricoltura, strategico al Nord, al quale aspira tuttavia anche il capo dei transfughi siciliani dell’Udc, confluito nei Responsabili, Saverio Romano. Poi l'ex ministro Scajola, autoconvintosi che l'esilio dal governo determinato dallo scandalo della casa al Colosseo regalatagli dalla «cricca» fosse ormai durato abbastanza, e che minaccia di formare un nuovo gruppo parlamentare di venti deputati se non gli sarà garantito un rientro onorevole al governo o al partito. Poi ancora le donne, numerose nel partito del premier, e decise a guadagnare posizioni (ieri tra l'altro, a confermare il nervosismo femminile nel gruppo del Pdl, c'è stata una mezza rissa tra le deputate Carlucci e Giammanco). A tutto ciò vanno aggiunte le dimissioni di Bondi da ministro dei Beni culturali, congelate da mesi, e quelle minacciate dal sottosegretario alla Famiglia Giovanardi, sempre per mancanza di fondi.

Berlusconi aveva già deciso di rinviare il rimpasto e di fronte al ribollire interno del Pdl non potrà che confermare il suo orientamento. Gli avvertimenti, come quelli di ieri alla Camera, sono destinati a lasciare il tempo che trovano finché i franchi tiratori non dovessero decidere di far sul serio, per esempio nelle votazioni per la riforma costituzionale della giustizia. E in ogni caso promuovere qualcuno degli aspiranti non darebbe nessuna garanzia al Cavaliere che all'indomani lo scontento dei delusi non si ripresenti peggiore di prima.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Decisione saggia ma di bottega
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2011, 10:15:07 pm
18/3/2011

Decisione saggia ma di bottega

MARCELLO SORGI

Era ora: finalmente una saggia decisione. Dopo una settimana irrazionale di scontri ai limiti del ridicolo, i due fronti italiani - nuclearista e antinucleare - andranno a una tregua.

Ieri, infatti, è stata annunciata una ragionevole moratoria ai progetti di realizzazione di nuove centrali atomiche. Il fatto che a una decisione del genere si sia arrivati dopo un’intervista del premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia che spingeva a una pausa di riflessione e grazie alle argomentazioni del presidente dell’Agenzia per il nucleare Umberto Veronesi fa ben sperare, malgrado tutto. Ci sono ancora per nostra fortuna in questo Paese scienziati e studiosi di fama internazionale in grado di fermare con la loro autorevolezza la macchina impazzita della nostra politica, che anche in un caso delicato e importante non ha rinunciato a dividersi e a dilaniarsi.

Mentre la centrale di Fukushima, colpita dal terremoto giapponese, continuava a liquefarsi e il mondo intero si interrogava sulle conseguenze del più grave incidente della storia dell’energia nucleare dopo Cernobil, in Italia, infatti, come se niente fosse, complice il prossimo referendum fissato per il 12 giugno, centrodestra e centrosinistra continuavano a dirsene di tutti i colori restando fermi su posizioni strumentali. A un baldanzoso Di Pietro, che come promotore della consultazione referendaria si sentiva già la vittoria in tasca, facevano da contraltare sia il coro dei recenti convertiti all’ideologia dell’atomo, sia esponenti del governo che si sentivano chiamati a una nuova crociata in difesa di Berlusconi.

La ragione di uno scontro così mediocre, specie al cospetto di una sciagura di dimensioni immani, è legata infatti a una non del tutto evidente conseguenza politica dell’eventuale referendum. L’impressione generata nell’opinione pubblica dal disastro giapponese avrebbe favorito la mobilitazione dell’elettorato, fin qui non troppo coinvolto nella questione, né più né meno come accadde 25 anni fa dopo Cernobil, quando per la prima volta gli italiani sull’onda dell’emozione generata dall’incidente nella centrale ucraina si espressero con un secco rifiuto dello sviluppo dell’energia nucleare. E oltre al prevedibile nuovo «no» che sarebbe uscito dalle urne, la partecipazione avrebbe rischiato di interrompere la serie di fallimenti referendari che si verificano da dodici anni per mancanza di elettori ai seggi. Di qui la possibile riuscita anche delle altre due consultazioni, sulla privatizzazione dei servizi di distribuzione dell’acqua e sul legittimo impedimento, la legge nata per bloccare i processi contro Berlusconi, già ridimensionata dalla Corte Costituzionale e destinata a scadere a ottobre.

Con tutti i problemi che ha in questo periodo, il Cavaliere non poteva certo consentirsi di affrontare una consultazione su se stesso, e perdipiù spinta al successo da un avvenimento imprevisto come il terremoto in Giappone. Così è maturata la frenata, che se davvero, come già ieri si poteva intuire, porterà a un congelamento del nuovo piano nucleare del governo, potrebbe anche avere la conseguenza dell’annullamento dello stesso referendum. A quel punto la riuscita degli altri due, meno attraenti per gli elettori, tornerebbe a essere in forse. E Berlusconi potrebbe comunque affrontare con meno timori la campagna referendaria. Si tratti di una conseguenza dei consigli autorevoli degli esperti, di una questione di bottega, o malauguratamente del mix di tutt’e due, la moratoria annunciata ieri è tuttavia una scelta positiva. Con un altro «no» causato dalla paura di questi giorni, di nucleare in Italia non si sarebbe parlato per altri vent’anni. Con il rinvio di ieri invece, sempre che dal Giappone, presto o tardi, come tutti ci auguriamo, arrivino buone notizie, una discussione più seria di quella a cui abbiamo assistito in questi giorni potrà riprendere l’indomani.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il deciso colpo di freno di Berlusconi
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2011, 03:39:11 pm
22/3/2011 - TACCUINO

Il deciso colpo di freno di Berlusconi

MARCELLO SORGI

Non è ancora un contrordine o una ritirata, ma certo Berlusconi ha dato ieri un robusto colpo di freno agli entusiasmi bellicosi dei suoi ministri, che per due giorni si erano alternati in tv con il volto dell’arme, senza interrogarsi sull’evidente confusione che ha accompagnato fin dall’inizio la missione internazionale in Libia. Stretto tra Putin e Bossi, per fare un’estrema semplificazione, il premier s’è reso conto che un’adesione così pronta e acritica all’intervento correva il rischio di mettere in discussione le sue alleanze internazionali e quelle interne.

Per uno come il Cavaliere, che tanto si era speso nella costruzione di un’inedita amicizia con il leader russo, con la Turchia di Erdogan e lo stesso Gheddafi, il campanello d’allarme è suonato bruscamente con il mutamento evidente del quadro in cui la missione aveva preso il via: Mosca e Pechino ne denunciavano l’esorbitazione rispetto agli obiettivi indicati dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, Ankara insisteva per ricondurne il comando e il controllo sotto l’egida Nato. Di qui la dichiarazione, allineata con l’esigenza di un coinvolgimento
dell’Alleanza atlantica, del ministro Frattini, che ha subito provocato una dura reazione negativa dei francesi.

Sorprese anche peggiori sono uscite dal Consiglio dei ministri straordinario convocato per una valutazione della situazione, in cui Bossi ha ribadito le sue riserve sulla missione e ha annunciato che al prossimo dibattito parlamentare la Lega presenterà una sua mozione, per ribadire la necessità di imporre limiti precisi alla missione e di ancorarla all’impegno, per tutti i Paesi coinvolti, di accogliere una parte dei profughi che continuano ad approdare a Lampedusa. In pratica, se la maggioranza vuol restare tale alla Camera, il Pdl non potrà che confluire sul testo del Carroccio, dando la sensazione, ancora una volta, che è il Senatùr a stabilire la linea del governo.

Nel giro di ventiquattr’ore si è passati di conseguenza dal saluto entusiastico ai primi decolli dei caccia italiani, trasmessi in diretta dai tg, all’affermazione che i piloti si sono limitati a una ricognizione evitando di sganciare o missili o bombe, all’ipotesi che in mancanza di copertura Nato la disponibilità delle basi aperte alle forze della coalizione possa essere ritirata.
In appoggio a Berlusconi, per sua fortuna, sono arrivate anche le perplessità americane e le prime incrinature al vertice delle Nazioni Unite sull’andamento della missione «Alba dell’Odissea»: che fin dalle prime battute, in mancanza di risultati, rischia soltanto di fare maldestramente onore al suo nome.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il premier abbatte due ostacoli
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2011, 11:24:07 am
23/3/2011 - TACCUINO

Il premier abbatte due ostacoli


MARCELLO SORGI

L’approvazione a passo di carica ieri in commissione giustizia della norma che riduce i tempi di prescrizione per gli incensurati è in qualche modo una conseguenza della crisi internazionale. Indiretta, s’intende. Perché sarebbe stato certo più difficile per il Pdl, in tempi normali e a due settimane dalla presentazione del testo di riforma costituzionale della giustizia, venire allo scoperto con l’ennesima legge ad personam, che, una volta approvata (la settimana prossima va in aula alla Camera e poi al Senato), avvantaggerà Berlusconi in almeno due dei quattro processi ripresi a Milano contro di lui: quello per la corruzione legata al caso Mills e quello per i fondi neri Mediaset.

Se l’approvazione definitiva della legge avverrà nei termini in cui è stata varata in commissione alla Camera (con Udc e Pd che hanno abbandonato i lavori, mentre Di Pietro è rimasto) il processo Mills, per il quale la prescrizione sarebbe intervenuta all’inizio del 2012, potrebbe concludersi già quest’estate e il tribunale sarebbe conseguentemente portato a trattare in modo più rassegnato con i legali del premier, per assicurarne la presenza alle udienze.

Depotenziati Mills e fondi neri, aggredito con un’accorta serie di rinvii quello su Mediatrade, Berlusconi potrà concentrarsi dal 6 aprile su Ruby, che si prepara a diventare il vero processo del secolo, con la sfilata annunciata delle 33 escort o ballerine che secondo le accuse si sarebbero prostituite con il presidente del consiglio in cambio di consistenti pagamenti. Berlusconi ha annunciato che intende contrastare con tutti i suoi mezzi ciò che considera una montatura ai suoi danni. Non è escluso che nella sua strategia di difesa entri anche la nuova situazione in cui si trova l’Italia: processare per sfruttamento della prostituzione un premier mentre guida un Paese in guerra sarà per i magistrati più arduo di qualsiasi loro previsione.

L’accelerazione sulla prescrizione breve porta con sé il rallentamento della riforma della giustizia. Anche se il ministro Alfano non aveva fatto specifico riferimento al provvedimento varato ieri, l’impegno da lui assunto davanti a tutti era stato che il governo, proprio per l’importanza che attribuiva alla riforma, avrebbe evitato di accompagnarne l’iter con proposte specifiche che avrebbero potuto influire sui processi contro Berlusconi. Il fatto che l’iniziativa sia stata presa in sede parlamentare, e non sia venuta direttamente da parte del governo, fa calare solo un pallido velo formale su una promessa che non è stata mantenuta.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Una nomina in cambio di due voti
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2011, 05:24:23 pm
24/3/2011

Una nomina in cambio di due voti

MARCELLO SORGI

Fino a un po’ di tempo fa (e verrebbe da dire fino a qualche giorno fa) fare ministro un indagato era considerato inopportuno, se non proprio impossibile. Per dire: Bettino Craxi, che nel 1992 doveva addirittura essere nominato primo ministro, non lo fu perché sulla sua testa stava per abbattersi la tempesta di Tangentopoli, e al suo posto fu chiamato Giuliano Amato. Aldo Brancher, che era entrato nel governo in fretta e furia e senza compiti chiari, per salvarsi da un processo in cui di lì a poco sarebbe stato condannato, dovette uscirne dopo tre giorni non appena emerse chiaramente qual era la vera ragione che lo aveva spinto così in alto. Inoltre a Claudio Scajola, dimessosi da ministro per la storia ormai arcinota della casa al Colosseo in parte regalatagli dalla «cricca» delle Opere pubbliche, e deciso a rientrare in gioco dopo aver sistemato alla meno peggio lo scandalo, era stato opposto un deciso rifiuto motivato puntualmente con sondaggi commissionati da Palazzo Chigi.

Sondaggi che avrebbero dimostrato come Scajola, malgrado il «mea culpa», non si era ancora guadagnato il perdono dell’opinione pubblica, che sarebbe stata pronta a reagire indignata a un eventuale suo ritorno al potere. A deludere le ambizioni di Scajola, non più tardi di una settimana fa, è stato Berlusconi in persona. Lo stesso Berlusconi che ieri ha accompagnato al Quirinale il neo-leader dei transfughi siciliani dell’Udc e della componente più numerosa (cinque deputati) dei cosiddetti «Responsabili» Saverio Romano, nominato in gran fretta ministro dell’Agricoltura al posto di Giancarlo Galan, che a sua volta ha preso il posto di Sandro Bondi alla Cultura. Romano non aveva neppure finito di pronunciare il giuramento, che due dei suoi entravano alla chetichella nell’aula della Giunta per le autorizzazioni a procedere determinando, con i loro voti, la decisione a favore del conflitto di attribuzione tra i giudici di Milano e la Camera dei deputati davanti alla Corte Costituzionale, che dovrebbe rallentare, se non addirittura far saltare, il processo per il caso Ruby in cui Berlusconi è imputato di concussione e sfruttamento della prostituzione giovanile.

Che si sia trattato di uno scambio palese, tra un posto di ministro e due indispensabili voti parlamentari, non c’è dubbio. E che il premier non potesse in alcun modo farne a meno, altrettanto. Ancora, che Berlusconi, con i suoi quattro processi sulle spalle, consideri le indagini sui rapporti tra Romano e la mafia bazzecole è perfino logico, anche se non accettabile. Romano infatti non è solo in attesa di un pronunciamento del gip, annunciato per i primi di aprile, che dovrebbe stabilire se archiviare le accuse che lo riguardano, o proseguire le indagini, o rinviarlo a giudizio. Tra pochi giorni potrebbe trovarsi citato, come membro dello stesso gruppo politico dell’ex governatore siciliano, anche nelle motivazioni della sentenza della Cassazione con cui Totò Cuffaro è stato condannato a sette anni per favoreggiamento della mafia e per cui è entrato in carcere un mese e mezzo fa, rassegnato a scontare la pena.

Si dirà che in passato la regola dell’esclusione da incarichi di governo di uomini colpiti solo da accuse non dimostrate s’è rivelata ingiusta. Ed è vero. Nel caso di Craxi, le condanne, anche definitive, seguite alle inchieste, non hanno impedito di celebrarne a dieci anni dalla morte la riabilitazione politica e istituzionale e di farlo passare alla storia, oltre che per il ruolo avuto, anche come il capro espiatorio di un sistema di corruzione generale. Di qui a paragonare Craxi a Scajola, a Brancher, e adesso a Romano, tuttavia ce ne corre.

Sorgono, spontanee, due domande, che lo stesso Berlusconi dovrà porsi necessariamente nei prossimi giorni e che il presidente della Repubblica Napolitano deve avere ben presenti, a giudicare dalla durezza del comunicato con cui ha accompagnato il giuramento del nuovo ministro. Vista la portata delle accuse a Romano, e augurandosi ovviamente che possano essere chiarite definitivamente al più presto, non sarebbe stato meglio aspettare l’ormai prossima decisione del gip che lo riguarda e il deposito, egualmente vicino, delle motivazioni della Cassazione su Cuffaro? E cosa succederà quando nei prossimi giorni Scajola assumerà la guida di un gruppo di venti deputati - il quadruplo di quelli di Romano! -, sottratti alla già esile maggioranza di centrodestra alla Camera, e vorrà rinegoziare, con gli stessi argomenti del neo-responsabile dell’Agricoltura, il suo futuro personale?

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Titolo: MARCELLO SORGI. La Lega esce dall'isolamento
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2011, 06:51:33 pm
25/3/2011 - TACCUINO

La Lega esce dall'isolamento

MARCELLO SORGI

Siamo talmente disabituati a quel che può accadere in un Parlamento semiatrofizzato e ridotto com'è ridotto, che nei corridoi di Montecitorio ieri si faticava a capire il senso della doppia votazione sulla missione in Libia, in cui la maggioranza ha superato per appena 7 voti un'opposizione decisa a dimostrare che il centrodestra non tiene, e poco dopo ha, in modo apparentemente inspiegabile, approvato la mozione del Pd, che ha avuto così i voti di quasi tutto l'emiciclo, tolti quelli dei radicali.

Eppure è abbastanza chiaro quello che è successo: su una materia delicata come quella dei modi dell'intervento in Libia, la Lega, dopo essersi astenuta la settimana scorsa nel primo voto delle commissioni Esteri e Difesa riunite congiuntamente, ha dato una mano a Bersani a mettere in difficoltà Berlusconi e il suo governo. Quasi contemporaneamente il Pd, per bocca del presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani dava il via libera a un altro decisivo passo in avanti del federalismo, sul quale ora il governo potrà procedere per decreto.

A parte la convergenza unitaria, lodata dal Presidente Napolitano, che s'è realizzata sul terreno della politica estera, i voti parlamentari di ieri non dovrebbero lasciare conseguenze. La conferma del muro contro muro tra Pdl e Pd non è una novità, anche se il differente atteggiamento adottato tra Senato e Camera dal partito di Bersani dimostra che il nucleo più forte dell'antiberlusconismo rimane a Montecitorio. Il segnale di unità sarebbe stato più forte se anche il Pd, vista la genericità del testo della mozione governativa, la avesse votata. Ma anche a Palazzo Madama il tentativo della capogruppo Anna Finocchiaro di arrivare a una soluzione condivisa aveva incontrato ostacoli.

Con la sua decisione di votare il testo del Pd la Lega è uscita dall'isolamento in cui si era trovata dopo il primo «no» alla missione, ma pure stavolta ha marcato una distinzione. A denti stretti, per evitare di sottolineare lo scarto del Carroccio, anche il Pdl ha dovuto così acconciarsi a sostenere il testo dell'opposizione. Gli effetti pratici del complicato voto del Parlamento resteranno immutati e la missione continuerà come è già stato deciso. La mossa del cavallo leghista, però, oltre a creare un clima più favorevole per l'iter del federalismo, segnala che permane l'insoddisfazione del partito del Senatur per la piega imposta dal Cavaliere all'andamento del governo, a cominciare dal rimpasto. In che modo potrà svilupparsi nelle prossime settimane, e soprattutto nella prossima campagna elettorale per le elezioni amministrative, resta un'incognita. E sarà tutta da vedere.

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Titolo: MARCELLO SORGI. E con le toghe il premier si fa lo spot
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2011, 04:49:20 pm
29/3/2011 - TACCUINO

E con le toghe il premier si fa lo spot

MARCELLO SORGI


Dopo otto anni di assenza, il ritorno di Silvio Berlusconi al Palazzo di Giustizia di Milano non solo è stato spettacolare anche più del previsto, ma si è trasformato in uno spot a favore di quel che il premier sostiene da tempo: processare il presidente del Consiglio vuol dire sottrarlo ai suoi compiti istituzionali.

Con la crisi internazionale aperta e l’invasione degli immigrati alle porte, il momento d’emergenza non poteva essere più propizio a una rapida propalazione del messaggio berlusconiano. Chi ancora ricorda la scena del marciapiede davanti al tribunale milanese negli anni di Tangentopoli - con la folla silenziosa in attesa di conoscere dagli inviati delle tv la lista dei nuovi imputati eccellenti - avrà certo notato la differenza: da un lato una piccola folla di dimostranti pidiellini che scandivano slogan in difesa del premier e brandivano striscioni di attacco alla magistratura politicizzata. Sul marciapiede di fronte un gruppetto di militanti dipietristi (anche qui: quante cose son cambiate, se solo si riflette che diciotto anni fa Di Pietro era il più temuto pm di Mani pulite), schierati su posizioni opposte.

Ma al di là della regia orchestrata - e rivendicata - dall’organizzazione del Pdl, lo scopo evidente della partecipazione del premier all’udienza a porte chiuse del processo Mediatrade, con tutto quello che ne è seguito, è chiarissimo: far emergere il pezzo di opinione pubblica che, diversamente da quanto accadeva nel ’93 quando invece la gran parte dei cittadini era schierata con i giudici, adesso si oppone all’operato della magistratura e condivide le accuse di Berlusconi contro le toghe politicizzate. Occorrerà vedere se un’impostazione del genere reggerà anche alle prime udienze del processo per il caso Ruby, quando invece l’attenzione di tutte le tv del mondo sarà richiamata dalla sfilata delle 32 ragazze che frequentavano la villa di Arcore e che secondo l’accusa erano pagate dal premier per prostituirsi.

Ma in ogni caso il modo assolutamente personale con cui Berlusconi ha deciso di tornare nelle aule di giustizia - l’intervista preventiva a Canale 5, e poi la claque, i saluti dal predellino dell’auto, le brevi dichiarazioni all’uscita dall’udienza e la promessa che la battaglia continuerà - rappresenta un elemento imprevisto, almeno in questi termini, e da valutare attentamente, per la magistratura di Milano che ha voluto una rapida ripresa delle udienze, anche alla vigilia di elezioni importanti come quelle del prossimo maggio.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Dopo lo show i problemi torneranno
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2011, 06:00:40 pm
31/3/2011

Dopo lo show i problemi torneranno

MARCELLO SORGI

Se la vita fosse davvero solo uno show e tutto dipendesse dal modo in cui è allestita la messa in scena e sono puntate le telecamere, l’Italia sarebbe il Paese più felice del mondo e Berlusconi l’uomo più adatto a governarla.

Dopo aver assistito per giorni e giorni alle repliche di un film del genere catastrofico, che avrebbe potuto benissimo intitolarsi
«L’invasione», i cittadini telespettatori ieri si sono trovati di fronte a un’altra storia, titolabile, forse, «Lo sgombero» o «L’isola delle meraviglie».

L’arrivo di Berlusconi in una Lampedusa ridotta allo stremo, dove ormai migranti e isolani convivevano in condizioni di stenti e con la forza della disperazione, ha dato vita a un brusco cambio di programma. All’orizzonte, all’improvviso, si sono materializzate due navi, delle sei che, stando agli impegni, sarebbero dovute arrivare in nottata. Duemila poliziotti hanno preso il controllo del centro abitato e delle coste. Docce e gabinetti chimici invocati per giorni, da una comunità che ha rischiato l’epidemia, sono stati montati in bella vista. Gli immigrati, subito rifocillati e muniti di bottigliette d’acqua minerale, sono stati avviati gentilmente a bordo, dove i marinai li accoglievano quasi come croceristi.

Ma il clou, dopo un breve consiglio comunale, nella piazza gremita di una folla plaudente, è arrivato con il discorso pubblico del premier, che ha dato vita a uno spettacolo dei suoi. Si sa: non c’è uomo politico che al cospetto di una massa di gente non si lasci andare a promesse e non cerchi di incantarla con le armi della retorica. Ma Berlusconi - questo almeno gli va riconosciuto - è al di fuori e al di sopra di ogni tradizione e precedente. Annunciato da squadre di netturbini che lustravano ogni angolo della piazza, il Cavaliere ha esordito scusandosi per i disagi subiti dalla popolazione e impegnandosi a riconsegnare Lampedusa ai lampedusani entro 48-60 ore. Poi ha proseguito con un gioco pirotecnico di proposte, dal Nobel per la pace da assegnare all'isola per le sofferenze patite a causa della crisi internazionale, alla moratoria fiscale, previdenziale e bancaria, a un piano per il turismo, rovinato dalla trasformazione del luogo in un rudimentale campo profughi. Botto finale, l’annuncio dell’acquisto di una villa a Cala Francese, «Le due Palme», comperata per un milione e mezzo direttamente su Internet, senza neppure visitarla: perché da oggi, così ha concluso Berlusconi tra gli applausi, «anch’io diventerò lampedusano!».

Se meno della metà degli impegni assunti fosse realizzabile, occorrerebbe togliersi il cappello davanti a un presidente del Consiglio che ci mette la faccia e cerca di rimediare in prima persona all’incapacità dimostrata dal suo governo nelle settimane passate. Ma Berlusconi, purtroppo, è il primo a sapere che non sarà così. Lo sgombero dei seimila immigrati clandestini avverrà in un quadro di incertezza, perché per molti di loro non c’è ancora una destinazione certa e nei luoghi che dovrebbero accoglierli già si preparano proteste della popolazione civile, che contesta le parzialità di un piano messo a punto dal ministro leghista dell’Interno, che prevede di considerare le regioni del Nord in gran parte sature di immigrati regolari e destinare al Centro e al Sud i clandestini, in attesa di rispedirli a casa.

Anche l’operazione rimpatrio, però, si presenta problematica, a causa della scarsezza di interlocutori attendibili nei Paesi dell’Africa del Nord appena usciti da un cambio di regime, o ancora in piena transizione. Per non parlare dei migranti provenienti dalla Libia, i cui arrivi sono ripresi negli ultimi giorni, e che, fuggendo da un teatro di guerra, in nessun caso sono da considerarsi clandestini rimpatriabili. Nello scenario peggiore - ciò che è sempre prudente prevedere in emergenze come queste - Lampedusa potrebbe dunque essere evacuata per essere rapidamente rioccupata, complice il peggioramento della situazione libica e il miglioramento del clima che rende le traversate più agevoli.

Nelle stesse ore, più o meno, in cui Berlusconi dava vita al suo happening lampedusano, un portavoce della Commissione europea ribadiva che dall’Unione l’Italia non può aspettarsi alcun aiuto. Si potrà ancora negoziare, certo, e si potranno adoperare tutti gli strumenti diplomatici a disposizione: ma sarà opportuno cominciare a fare i conti con un’Europa rigida nel valutare quello di Lampedusa, non un aspetto delicato della crisi internazionale a cui, seppure con molte smagliature, la Comunità di Paesi del Vecchio Continente sta cercando insieme agli Usa di trovare una soluzione. Ma, più semplicemente, ed esclusivamente, «un problema italiano». Che poi l’Italia da sola non possa farcela a risolverlo e a fronteggiare un’ondata migratoria diretta anche verso Francia e Germania, dove vivono e lavorano i parenti di molti dei disperati approdati sulle coste lampedusane, al resto d'Europa non sembra importare un granché.

Così, prepariamoci: sgovernata e priva di aiuti qualificati, l’invasione cancellata frettolosamente dai teleschermi è destinata a riproporsi allo stesso modo, se non aggravata, nei prossimi giorni. Tal che è possibile prevedere anche il seguito del disastroso reality appena cominciato: senza la via d’uscita degli aiuti stranieri, riavremo la guerra civile tra le regioni che aveva già infangato l’immagine dell’Italia al tempo della crisi della mondezza di Napoli. Con la differenza che ad essere spediti avanti e indietro, o lasciati a marcire in mancanza di soluzioni, non saranno sacchi di rifiuti. Ma uomini, donne e bambini come quelli che tutte le sere dagli schermi delle tv ci guardano con i loro occhi tristi e ci mostrano le pance vuote.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Governo, dall'ottimismo alla preoccupazione
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2011, 10:29:29 pm
1/4/2011 - TACCUINO

Governo, dall'ottimismo alla preoccupazione

MARCELLO SORGI

Al di là dei pessimi e rinomati rapporti tra Fini e i suoi ex amici del Pdl e tra Fini e i suoi ex colonnelli, che hanno portato a una fortissima tensione alla Camera, quanto è accaduto a Montecitorio è servito a far emergere che il governo, che fino a qualche giorno fa si rallegrava per il possibile raggiungimento di una maggioranza di 330 deputati, versa in condizioni di effettiva difficoltà. Al punto che il mancato o il ritardato arrivo in aula di quattro ministri, combinato con lo zelo fin troppo evidentemente eccessivo del presidente della Camera, è in grado di mandarlo sotto, perfino in una votazione rituale e di nessuna importanza.

Ci sono ragioni nuove e nuovissime che hanno contribuito a un aggravamento della situazione. Tra le nuove, indubbiamente, il varo di solo metà del rimpasto, quando l'altra metà è impedita dall'impossibilità di allargare, senza prima approvare una legge apposita, il numero dei membri dell'esecutivo. La nomina del nuovo ministro dell'Agricoltura Romano ha deluso gli altri rappresentanti dei Responsabili, tra i quali serpeggia ormai la tentazione di qualche franco tiratore. Tra le nuovissime, o se si preferisce tra le più recenti, la crisi internazionale e l'emergenza immigrati. Il ministro dell'Interno Maroni ha spiegato che profughi e clandestini (Maroni tiene molto alla distinzione, nella realtà assai difficile da fare) saranno distribuiti in tutte le regioni escluso l'Abruzzo, che ha già i suoi guai. Rispetto al precedente piano che prevedeva che gli immigrati fossero suddivisi nella percentuale di uno ogni mille abitanti - ciò che rendeva salve, grazie alla forte presenza di migranti regolarizzati, le regioni del Nord -, è un passo avanti. Ma quale distanza passi tra questa linea istituzionale (per la quale ha spinto molto il Quirinale) e quella leghista del "fora d'i ball!" declinata da Bossi, è evidente.

Intanto Berlusconi a denti stretti ha confermato che la Tunisia non collabora e il rimpatrio dei clandestini si presenta quindi più problematico. Al momento, lo sgombero di Lampedusa darà vita a una rete di proteste locali, come quelle cominciate a Manduria in Puglia. E siamo solo agli inizi. Il Viminale prevede almeno altri diecimila arrivi nei prossimi giorni. Il governo va così incontro alla sua prova più dura nelle condizioni politiche più precarie.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il governo aspetta il voto con il fiato sospeso
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2011, 11:27:28 am
5/4/2011 - TACCUINO

Il governo aspetta il voto con il fiato sospeso

MARCELLO SORGI


Il voto di oggi a Montecitorio sulla richiesta di conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale tra la Camera e i giudici di Milano ha un valore politico pari a quello del 14 dicembre sulle mozioni di sfiducia, in cui Berlusconi si giocò tutto e alla fine prevalse grazie a tre deputati che all'ultimo momento passarono dall'opposizione alla maggioranza. Ma in un certo senso è anche più difficile, dato che il premier deve conquistare 316 voti e che la votazione si svolgerà a scrutinio segreto. Ci sono insomma tutte le condizioni, nel segreto dell'urna, per far cadere il governo e aprire la crisi che fu evitata in extremis alla fine dell'anno scorso.

Da allora ad oggi Berlusconi ha pian piano allargato la sua maggioranza, grazie alla crisi del Fli e al consolidamento del gruppo dei «Responsabili», uno dei quali, Saverio Romano, transfuga insieme a quattro colleghi siciliani dall'Udc di Casini, è anche diventato ministro dell'Agricoltura. Il Cavaliere ha solo iniziato il rimpasto, annunciato da tempo, che nei suoi piani dovrebbe servire a rafforzare la nuova coalizione, più esile ma politicamente più compatta dopo l'uscita dei finiani. Per una ragione molto semplice: ogni nuova nomina accontenta i desideri di uno e scontenta tutti gli altri. E' andata così anche per la promozione di Romano, che ha suscitato più di un mugugno nel suo gruppo, tacitato grazie a nuove promesse. Alla fine dell'operazione Berlusconi s'è impegnato a ricoprire tutti i posti scoperti, una decina, tra cui uno di ministro, uno di viceministro e il resto di sottosegretari, a cui presto, con una nuova legge ad hoc, dovrebbero aggiungersene un'altra decina.

Quanto possa giovare un allargamento dei posti di governo, e dunque di parlamentari che grazie ai nuovi impegni sono destinati ad allontanarsi dalle aule parlamentari, o ad arrivarci all'ultimo momento, com'è successo l'altro giorno nella votazione sul verbale d'assemblea in cui il governo è andato sotto, è tutto da vedere. Berlusconi è sicuro di prevalere nella votazione di oggi grazie al fatto che la sua nuova maggioranza, a sentire il coordinatore Verdini che si sta occupando del reclutamento, sfiorerebbe i 330 deputati. Per la verità negli ultimi voti il centrodestra s'è assestato sempre sui 305, a causa di assenze. Chiaramente oggi è previsto il pienone e chi non si presenterà sa di giocarsi il posto. Ma fino all'ultimo il governo resterà con il fiato sospeso, mentre alla porta premono irrisolti i gravi problemi di questi giorni.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Troppi rospi ingoiati dalla Lega
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2011, 03:53:12 pm
6/4/2011

Troppi rospi ingoiati dalla Lega

MARCELLO SORGI

Uno strano paradosso vuole che nel giorno in cui Maroni annuncia di aver concluso un accordo con la Tunisia - i cui effetti sono tutti da verificare - per limitare gli sbarchi di migranti, e mentre è alle prese con la più grave emergenza che il problema dell’immigrazione clandestina abbia mai posto negli ultimi 20 anni, la Lega, cioè il partito da cui proviene, sia sottoposta a una sorta di processo.

Processo politico, ovviamente, in cui gli avversari, ma anche molti osservatori accreditati dell’esperienza leghista - guardata ancor oggi, ad oltre vent’anni dalla nascita, come una stranezza - non perdono occasione per misurare e sottolineare le conseguenze di quel che sta accadendo, su un partito che sta, sì, al governo, ma continuando a proporsi come forza antagonista, o addirittura innalzando la bandiera dell’antipolitica, anche adesso che esprime ministri, presidenti di regione e sindaci di grandi città.

Ora, sul fatto che una serie di scadenze e avvenimenti previsti e imprevisti abbia messo a dura prova la maturazione della Lega, e al fondo la sua capacità di assumersi responsabilità nazionali, non ci piove. E altrettanto che soprattutto i suoi esponenti più vicini al territorio e ai sentimenti del «profondo Nord» lascino trasparire un ritardo a fare i conti con i compiti a cui è chiamata. Basti solo pensare all’approssimazione con cui il Carroccio s’è posizionato in materia di politica estera, senza alcuna attenzione, ieri come oggi, agli obblighi che riguardano l’Italia per il solo fatto di essere membro di alleanze internazionali, uno dei Paesi fondatori dell’Europa, nonché il territorio geograficamente e politicamente più vicino allo Stato del Vaticano; o a come ha affrontato la crisi dei Paesi del Nord Africa; all’iniziale rifiuto della missione in Libia; al palese disagio di fronte alla ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Per non dire, appunto, della sofferenza con cui collabora alla gestione del nodo dell’immigrazione clandestina, specie adesso che si propone, giorno dopo giorno, in dimensioni nuove e più serie da affrontare.

Il fatto che Maroni sia nel governo collocato in prima linea sulla frontiera degli sbarchi aggrava il travaglio del Carroccio. Qualche giorno fa, per dire, la Lega con un manifesto se l’è presa con il questore e il prefetto di Padova (una delle sue roccheforti), che volevano inserire il territorio della città tra quelli designati per la prima accoglienza della nuova ondata di immigrati. Peccato che la richiesta provenisse dal Viminale e fosse stata condivisa dal ministro dell’Interno.

Maroni in questi giorni incarna - e in qualche modo cavalca - la contraddizione dell’essere il Carroccio un partito di lotta e di governo, definizione che Berlinguer usava nella Prima Repubblica per il Pci: che però al governo non era mai arrivato e poteva consentirsi un maggior tasso di ambiguità, lasciando credere ai propri elettori che i molti compromessi, fino a quello «storico», con la Dc, non intaccavano minimamente la natura di opposizione dei comunisti italiani e la loro «diversità» dai partiti al potere.

Anche se il paragone è volutamente sproporzionato, per la Lega tutto ciò è più difficile. Ecco perché in questi giorni, mentre Maroni andava e veniva dall’Africa, alla ricerca dell’accordo con la Tunisia sul pattugliamento delle coste, salta fuori Bossi che cerca di cavarsela con il suo «Fora di ball!» rivolto agli immigrati. Ed ecco perché il presidente del consiglio regionale della Lombardia Davide Boni si lascia scappare che per la Lega, piuttosto che andare avanti così, sarebbe più conveniente una crisi di governo sull’immigrazione. Ecco ancora perché i fautori della linea dura come Calderoli, Castelli, Borghezio, pian piano si sono defilati dagli studi televisivi e mandano a parlare la seconda fila leghista, che affronta le telecamere con la fronte imperlata di sudore.

È per questo motivo che invece di continuare a processare la Lega, forse occorrerebbe capovolgere il ragionamento e provare a soppesare tutti gli indispensabili bocconi amari che ha dovuto ingoiare negli ultimi tempi, per coerenza con la sua collocazione al governo e con il ruolo nazionale che ha dovuto assumersi. L’elenco è recente e si può fare a memoria, tralasciando l’appoggio, duro da digerire per molti militanti - e confermato anche ieri nell’aula della Camera che ha dato il via al conflitto di attribuzione con i giudici di Milano sul caso Ruby -, alle strategie politico-giudiziarie del Cavaliere alle prese con i suoi processi.

Si parte proprio dal «Fora d’i ball» bossiano rimasto senza conseguenze, e contraddetto, anzi, non più tardi di lunedì, dall’accettazione dei permessi provvisori per gli immigrati evacuati da Lampedusa, voluti da Berlusconi. Nell’ordine, la Lega ha dovuto rimangiarsi tutti i punti su cui aveva cercato di distinguersi: il piano di un migrante ogni mille abitanti costruito apposta per evitare di portare al Nord, già saturo di regolari, nuovi clandestini; la missione in Libia che ha dovuto votare in Parlamento; la salvaguardia per le regioni del Nord da ulteriori insediamenti. E prima ancora, anche se non direttamente connesse alla situazione attuale, le celebrazioni per i centocinquanta anni del 1861, alle quali, obtorto collo, i leghisti hanno dovuto partecipare con i loro rappresentanti istituzionali, e contro le quali, quando qualcuno, come il governatore Cota, ha provato a schierarsi, ha dovuto prendere atto a suon di fischi di essere in minoranza.

Resta il dissenso di fondo con Berlusconi, che nella sua smania di accomodamento, in uno dei primi vertici dedicati all’emergenza, ha fatto letteralmente alzare dalla sedia Bossi, proponendo di suddividere i nuovi arrivati uno per ciascuno degli oltre ottomila comuni italiani. Un passo dopo l’altro, magari senza rinunciarci pubblicamente, la Lega dovrà prendere atto che anche l’obiettivo sbandierato dei rimpatri, accordo o non accordo con la Tunisia, si rivelerà assai arduo da mettere in pratica, vista la portata crescente dell’emergenza. Rimane poi la delusione per un’Europa sorda al grido di dolore del governo e del ministro dell’Interno italiani, che sembra quasi volersi prendere la rivincita della lunga predicazione euroscettica, quando non apertamente xenofoba, stile Haider o Pim Fortuyn, praticata dalla Lega delle origini. Infine, chissà cosa accadrà alla fine della legislatura quando il vaso di Pandora del federalismo svelerà la sua vera natura: e si scoprirà che i soldi del Nord non resteranno al Nord com’era stato promesso. Anche per questo, invece di processare la Lega nella sua primavera più difficile, è molto meglio incalzarla sulla strada del cambiamento.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il leader del Fli è tornato nel mirino
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 04:44:07 pm
7/4/2011 - TACCUINO

Il leader del Fli è tornato nel mirino

MARCELLO SORGI

Lo scontro sul processo breve a Montecitorio, con il ricorso all’ostruzionismo da parte del Pd, ha riproposto il problema Fini. Mai come in questi ultimi giorni il presidente della Camera si è trovato stretto nel muro contro muro tra maggioranza e opposizione, e ieri pomeriggio in conferenza dei capigruppo è stato apertamente contestato dal centrodestra per aver consentito in mattinata una dilatazione dei tempi del dibattito giudicata eccessiva.

L’obiettivo dell’opposizione è chiarissimo: dopo aver subito martedì una nuova sconfitta nella decisiva votazione sul conflitto di attribuzione chiesto da Berlusconi contro i giudici di Milano, poiché la maggioranza ha prevalso grazie ai voti di ben 14 ministri presenti in aula, il centrosinistra punta ad approfittare di tutti quei momenti in cui i membri del governo saranno richiamati ai loro doveri fuori dall’aula (oggi il Consiglio dei ministri sarà costretto a riunirsi in una pausa dei lavori) per dimostrare che in queste condizioni Berlusconi non può andare avanti.

Nella settimana seguita alla convocazione dei capigruppo al Quirinale da parte del Capo dello Stato per perorare un maggiore rispetto delle istituzioni, un ulteriore deterioramento del clima parlamentare e una situazione di paralisi in aula non sarebbero accettabili. Di qui le proteste del centrodestra sia con Fini sia con Napolitano, per denunciare le conseguenze di un ostruzionismo considerato strumentale.

Al momento, chi appare più in difficoltà è il presidente della Camera. Se parla fuori dall’aula, come ha fatto martedì sera nell’intervista a Ballarò in cui se l’è presa con Berlusconi e la sua strategia contro i giudici di Milano, viene accusato di tradire il ruolo super partes che gli è imposto dalla carica che ricopre. E in effetti non è dato al presidente di un’Assemblea di commentare le proposte di legge che sono in discussione. Ma se invece tace, o interviene di meno, come ha fatto per qualche tempo negli ultimi mesi, dopo la sconfitta del 14 dicembre e di fronte alla crisi del suo partito neonato, per Fini è anche peggio. Il sondaggio presentato nello stesso programma in cui era stata trasmessa l'intervista dava il Fli al 3,7 per cento, una delle percentuali più basse registrate dall’esordio del nuovo partito.

Fini aveva messo in conto le sue dimissioni dalla presidenza della Camera, per dedicarsi in pieno al suo ruolo di leader, in vista di possibili elezioni anticipate. La resistenza di Berlusconi e la prospettiva di una conclusione naturale della legislatura nel 2013 hanno reso la sua scelta più difficile. Ma non meno urgente.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il Nord pagherà
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2011, 10:30:48 pm
8/4/2011 - TACCUINO

Soluzione all'italiana

Il Nord pagherà

MARCELLO SORGI

La guerra diplomatica della Francia contro l'Italia, con la decisione di rafforzare la sorveglianza alle frontiere e la politica dei respingimenti, è la diretta conseguenza della decisione del governo italiano di scegliere i permessi provvisori per gli immigrati come soluzione dell'ultima ondata di sbarchi clandestini, che ha portato all'invasione di Lampedusa. Una soluzione, va detto, all'italiana, ricavata, non dalla convinzione che in un lasso di tempo ragionevole si possa trovare il modo di integrare i clandestini o di gestirne su scala europea la collocazione, ma dalla portata dello scontro politico interno alla maggioranza e dai timori delle conseguenze elettorali del problema.

Piuttosto che accettare di impiantare le tendopoli anche al Nord, e nell'impossibilita di ottenere dalla Tunisia il rimpatrio di clandestini, la Lega, a denti stretti, ha dovuto acconsentire alla politica dei permessi, annunciata ieri dal governo. Va da sé che la speranza rimane che una parte degli immigrati, una volta liberi, approfittino del diritto di libera circolazione garantito dal trattato di Schengen in Europa per trasferirsi in Francia o in Germania, dove molti potrebbero ricongiungersi a parenti o a gruppi familiari. Insomma, liberi di scappare. Di qui la reazione della Francia che ha gli stessi problemi dell'Italia, aggravati dalla prossima scadenza elettorale delle presidenziali e dal fatto che Sarkozy, oggi in difficoltà, la volta scorsa trionfò sull'onda di una durissima campagna anti-immigrati.

Il compromesso trovato tra Pdl e Lega, e fondato sul presupposto della possibile fuga dei clandestini dal territorio italiano, rischia dunque di sbattere sul rifiuto francese e sull'interpretazione rigida delle regole di Schengen, secondo la quale non basta che gli immigrati siano muniti di un permesso di soggiorno, ma è necessario che siano in grandi di dimostrare che sono in grado di garantirsi un sostentamento.

Se non sarà possibile trovare un accordo con la Francia, con la quale finora ogni trattativa è stata inutile, e se anche la Germania, com'è prevedibile, dovesse scegliere la linea dura, la prospettiva è di avere anche al Nord, dove la Lega si fa un merito di aver impedito le tendopoli, un aumento di immigrati senza tetto e nomadi. Non ci vuol molto a prevedere che il prossimo stadio di una politica incapace di trovare soluzioni vere sarà una nuova campagna sulla sicurezza e sui rischi di crescita della criminalità da immigrazione.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Propaganda a uso interno in vista del voto
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2011, 06:41:46 pm
12/4/2011 - TACCUINO

Propaganda a uso interno in vista del voto

MARCELLO SORGI

Stretto tra la Lega e il compito sempre più difficile di ministro dell’Interno alle prese con l’emergenza immigrati, Maroni ieri ha commentato duramente la decisione uscita da Bruxelles di lasciare all’Italia il compito di risolvere i suoi problemi. Il più esplicito è stato il tedesco Hans-Peter Friedrich, per il quale 23 mila clandestini da allocare in un Paese da 60 milioni di abitanti come il nostro dovrebbero tranquillamente essere gestibili. Ci sono state ondate peggiori, che ad esempio Germania o Belgio hanno superato senza gradi difficoltà.

Poteva Maroni aspettarsi qualcosa di diverso? Onestamente no. La posizione europea era stata anticipata dalla commissaria Malmström e il ministro leghista, invece di sbattere la porta, avrebbe potuto approfondire l’aspetto dei profughi, che cominciano ad arrivare dalla Libia, e rispetto ai quali l’Europa impegnata nella missione militare non può certo essere sorda. Riepilogando: se davvero Maroni ha ottenuto la scorsa settimana dalla Tunisia la possibilità di rimpatriare i migranti arrivati a Lampedusa dopo il 5 aprile, pur con i limiti (sessanta al giorno) previsti dall’accordo, i due voli quotidiani che sabato Berlusconi ha garantito agli isolani per alleggerire l’invasione dovrebbero risultare sufficienti ad arginare l’emergenza. Ci saranno ovviamente ostacoli, dovuti alla debolezza endemica del governo tunisino, e probabilmente il rimpatrio continuerà a subire intoppi. Ma se nel frattempo le operazioni congiunte di pattugliamento delle coste africane funzioneranno, la situazione, lungi dall’essere risolta, dovrebbe essere tenuta sotto controllo. Perché allora Berlusconi sabato e ieri Maroni sono tornati ad accusare l’Europa di indifferenza e addirittura a minacciare un’uscita dall’Unione, pur sapendo che per molti versi è impossibile? La spiegazione più semplice è che premier e ministro dell’Interno tengano presente i famosi cinque punti percentuali che secondo i sondaggisti berlusconiani l’emergenza immigrati potrebbe costare al centrodestra nelle prossime elezioni amministrative. Di qui il ricorso alla propaganda, anche a costo di deteriorare i rapporti con il Quirinale, preoccupato per la piega che stanno prendendo le cose, e l’indicazione di un capro espiatorio nell’Europa, che molti degli elettori del Pdl e leghisti consideravano già nemica.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il pericolo della paralisi (sic)
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2011, 11:27:14 am
13/4/2011

Il pericolo della paralisi

MARCELLO SORGI

Se perfino un uomo cauto e solitamente silenzioso come Gianni Letta ha definito quelle che stiamo vivendo «giornate incerte, affannose e amare», vuol dire che la situazione è davvero al livello di guardia. E lo spettacolo che si sta consumando alla Camera non è neppure l’aspetto più grave di ciò che sta accadendo, pur restando il più drammatico.

Da mesi, in realtà, il Paese è senza governo. E non perché i ministri abbiamo smesso di lavorare, ma perché la particolare forma di governo introdotta da Berlusconi, con un capo assoluto che decide su tutto, ha bisogno, appunto, che il capo sia in perfetta efficienza e si dedichi a pieno tempo alle urgenze del suo ufficio. Non a caso c’era un tempo in cui il presidente del Consiglio mostrava a tutti la sua scrivania sepolta di dossier da studiare a notte fonda.

Vero o falso che fosse, questo metodo di lavoro è stato archiviato. E non, come malignano i più cattivi tra gli amici e i nemici del premier, a favore della stagione delle feste e delle serate del «bunga bunga». Berlusconi in effetti ha finito di governare dal 13 gennaio in cui la Corte Costituzionale, cancellando in parte il legittimo impedimento, lo ha rimesso nei panni del plurimputato.

Da quel giorno l’uomo non è più lo stesso. Dedica alla sua ossessione giudiziaria - che nasce, va riconosciuto, anche da un particolare accanimento dei magistrati nei suoi confronti - tutto il suo tempo; trascorre intere giornate, e a volte nottate, con gli avvocati, studia e ristudia le carte; passa continuamente da stati di disperazione in cui impreca contro i giudici, a stati di eccitazione in cui scherza e racconta barzellette. Malauguratamente questo accade nel momento in cui l’Italia è teatro di una grave crisi internazionale, di un’invasione di immigrati clandestini tra le più gravi mai viste, di un peggioramento della situazione economica che renderà necessaria una nuova manovra sui conti pubblici, e di una campagna elettorale per il governo di molte importanti metropoli, che certo non contribuisce a rasserenare il clima.

Sottoposto com’è allo stress giudiziario, Berlusconi, anche se vorrebbe, non riesce a occuparsi di nessuno di questi problemi. Ci prova, quando ci prova, saltuariamente, con risultati molto al di sotto del suo standard, come s’è visto di recente a Lampedusa, e con effetti disastrosi, com’è accaduto con la minaccia di uscire dall’Europa, purtroppo reiterata dal ministro Maroni, e corretta ieri in extremis da un Bossi a sorpresa non più euroscettico, e dal ministro degli Esteri Frattini atterrato a Bruxelles proprio per far pace con i rappresentanti dell’Unione.

Malgrado le toppe si rivelino spesso peggiori dei buchi, la confusione continua a salire. Tra gli articoli della Costituzione letti ieri in aula a Montecitorio, D’Alema, presentandolo come «un auspicio», ha incluso quello che consente al Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere. Ma le probabilità che un evento del genere si avveri sono minime. D’Alema è il primo a sapere che Berlusconi vuole andare avanti a qualsiasi costo. E purtroppo andrà avanti così.

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Titolo: MARCELLO SORGI. I conti veri si faranno dopo il voto
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2011, 05:04:05 pm
14/4/2011 - TACCUINO

I conti veri si faranno dopo il voto

MARCELLO SORGI

Malgrado il clima pessimo in cui è maturata, aggravato dalla campagna elettorale in corso per le amministrative, l'approvazione del «processo breve» da parte della Camera era scontata. Berlusconi ha voluto sottolineare la sua sicurezza dando vita prima della votazione finale alla conferenza stampa con il ministro Tremonti dedicata ai progetti di riforme economiche del governo, e lasciando così intendere che per lui ieri era una normale giornata di lavoro.

Messa a dura prova dallo scontro parlamentare, la nuova maggioranza ristretta, nata dalla scissione del Fli e dalla nascita dei Responsabili, alla fine ha tenuto. Il premier sostiene che si tratta di una coalizione più esile ma anche più compatta. In realtà il collante di questa versione di fine legislatura del centrodestra è composto di due elementi abbastanza trasparenti: la paura delle urne, o se si preferisce la volontà di arrivare al 2013 dei parlamentari che non hanno elementi per valutare le probabilità di una loro eventuale riconferma o ricandidatura e al momento la considerano imprevedibile e quanto mai incerta. E l'aspirazione di molti di loro a salire sul carro del governo, sul quale di qui a poco dovrebbero liberarsi un paio di posti veri e una serie di strapuntini per sottosegretari.

La difficile primavera di Berlusconi procederà con queste incognite, che continueranno a manifestarsi nelle votazioni parlamentari con assenze e franchi tiratori, a meno che il presidente del consiglio non riesca a stabilizzare la sua maggioranza con un rimpasto, venendo incontro ai desideri dei più irrequieti tra i suoi nuovi sostenitori. Il compito si presenta arduo anche per le condizioni in cui versa il partito del presidente, che ha trascorso la nervosa vigilia del voto di ieri tra pranzi e cene di corrente, e risulta animato da un tutti contro tutti con un unico punto di coesione nell'obiettivo di ridimensionare lo strapotere del ministro Tremonti. Il quale, per nulla turbato dall'effervescenza interna del Pdl, che giudica, non del tutto a torto, inconcludente, prepara ormai apertamente una manovra di aggiustamento dei conti orientata, anche stavolta, su tagli ai fondi dei ministri per evitare di dover agire sulle tasse.

Governo e maggioranza escono dunque abbastanza provati dall'ennesima vicenda della nuova legge salva-premier. Ma la consolazione, per Berlusconi, è che anche l'opposizione, dopo la battaglia dell'ostruzionismo, si presenta sfiancata e priva di iniziativa. I conti di questa logorante prima metà dell'anno si faranno dopo il 15 maggio, risultati delle elezioni alla mano.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il premier si toglie un peso
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2011, 04:28:52 pm
20/4/2011

Il premier si toglie un peso

MARCELLO SORGI

Non capita molto spesso che Berlusconi e Bersani possano brindare insieme, ma stavolta invece sì. La decisione del governo di cancellare i piani per il nucleare, pur salvando l’Agenzia preposta al settore per non dare la sensazione di una completa (e prematura) smobilitazione, annulla di fatto il referendum promosso in materia da Di Pietro e dagli ambientalisti.

Anche se sarà la Corte di Cassazione a doversi pronunciare per sospendere materialmente la consultazione, la delusione dei promotori, accompagnata dalla moderata soddisfazione del Pd e dal silenzio governativo (è sempre spiacevole dover ammettere di esser tornati sui propri passi), lasciavano intendere già ieri che la sorte del referendum è segnata. E con quello del voto sul nucleare, probabilmente, anche il destino degli altri due, sul legittimo impedimento e sulla privatizzazione dei servizi di distribuzione dell’acqua.

L’unione di tre argomenti così eterogenei era stata considerata strategica per tentare di superare, dopo quasi tredici anni, l’endemica crisi attraversata dalle consultazioni referendarie, tutte fallite negli ultimi tempi perché l’affluenza alle urne non ha più raggiunto la fatidica soglia della metà più uno degli elettori prevista dalla legge per la validità del voto. Specie dopo l’incidente di Fukushima, dovuto al terremoto in Giappone, era sicuro che il referendum sul nucleare avrebbe fatto da traino agli altri due, uno dei quali, avendo al suo centro il legittimo impedimento, legge già depotenziata dalla Corte Costituzionale, e in scadenza ad ottobre, era stato proposto con l’intento di trasformarlo in una sorta di giudizio popolare su Berlusconi e sui suoi attacchi ai giudici.

In questo senso si può dire che il Cavaliere, già oberato dalla campagna elettorale per le amministrative e dalla ripresa dei processi di Milano, ha preferito non correre ulteriori rischi. Una ragionevole prudenza, in linea con atteggiamenti corrispondenti di altri governi europei - a cominciare dalla Merkel, che ne ha pagato il prezzo nelle recenti elezioni locali tedesche -, preoccupati degli effetti emotivi della paura del nucleare sui cittadini. E una frenata ragionevole, anche in giorni in cui il premier, fin dai primi comizi della corsa per i sindaci, ha alzato i toni della sua campagna fino all’inverosimile. Inoltre una decisione non sgradita, come s’è visto, al Pd, che aveva accolto di malavoglia la mobilitazione referendaria dipietrista e che si sarebbe cimentato ancor più svogliatamente nella campagna per il voto: il cui merito, in caso di sconfitta del premier, sarebbe andato tutto al leader di Italia dei Valori, e le cui conseguenze, in caso contrario, di vittoria del governo o dell’astensione, sarebbero ricadute sul maggior partito di opposizione.

A questo punto l’onere di sostenere le consultazioni rimaste in piedi, sottraendole all’apatia e alla scarsa partecipazione che potrebbe affossarle, oltre che alla calura estiva del 12 giugno, data assai poco mobilitante in cui non a caso è stato fissato l’appuntamento con le urne, pesa tutto sulle spalle di Di Pietro. Che non a caso - diversamente dal Pd che quasi ha festeggiato la moratoria nucleare del governo, attribuendosene non si sa perché il merito -, ha denunciato il nuovo attentato di Berlusconi ai referendum e alla volontà popolare.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La doppia inquietudine dei Responsabili
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2011, 06:04:44 pm
21/4/2011 - TACCUINO

La doppia inquietudine dei Responsabili

MARCELLO SORGI

Ci sono almeno due ragioni che motivano l’inquietudine dei Responsabili, l’eterogenea componente della maggioranza nata per salvare il governo dalla tagliola del 14 dicembre che ha spedito ieri il capogruppo Sardelli a trattare con il presidente del consiglio.

La prima, è evidente, sono i posti: Berlusconi ha accontentato il sottogruppo degli ex Udc assegnando il ministero dell’Agricoltura a Romano, s’è lasciato convincere da Storace a far sottosegretario Musumeci, ma ha scontentato tutti i singoli o le coppie o i tris confluiti a pezzo a pezzo nel centrodestra negli ultimi mesi. Per dire, uno come Pionati, che ha battuto il Transatlantico per trent’anni da giornalista e da due legislature come parlamentare, conoscendo le logiche del potere non si fida di dover aspettare ancora, teme che il treno non passi più.

Berlusconi ha tirato la corda sul processo breve, ma adesso che vuole arrivare rapidamente a far passare la legge sulle intercettazioni e la riforma della giustizia, sa di dover fare i conti con i più agitati dei suoi nuovi alleati. Con il rischio, sempre presente, di lasciarne tre scontenti per ciascuno che prova a soddisfarne. La seconda ragione è più contingente. I Responsabili hanno dato prova della loro proverbiale responsabilità anche in nome della promessa, fatta del Cavaliere nei giorni in cui la legislatura sembrava condannata, che il governo avrebbe fatto di tutto per portarla alla scadenza naturale del 2013. L’inasprimento del clima e la campagna elettorale per le amministrative cominciata in modo che non promette niente di buono hanno tuttavia reso questa prospettiva più incerta, tal che Berlusconi, nei momenti più duri, ha ricominciato a parlare con i suoi del rischio, che si ripropone, di elezioni anticipate in autunno.

A questo punto i Responsabili, già dubbiosi sulle loro future carriere di governo, hanno cominciato a temere anche per i loro posti in Parlamento. Se il Cavaliere non trova il modo di rassicurarli, non è da escludere, intanto che il flusso di deputati dall’opposizione alla maggioranza si arresti, in attesa di capire bene come vanno le cose. E perfino che qualcuno di quelli che sono già passati con il centrodestra ci ripensi e torni sui suoi passi, non foss’altro per valutare se il proprio senso di responsabilità può essere indirizzato altrove. Magari in direzione di un governo di emergenza, di cui a sorpresa, dopo mesi in cui l’ipotesi era stata messa da parte, s’è ricominciato a parlare non più tardi di una settimana fa.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Silvio e Giulio il vero confronto sarà dopo il voto
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2011, 05:37:17 pm
22/4/2011 - TACCUINO

Silvio e Giulio il vero confronto sarà dopo il voto

MARCELLO SORGI

Più che per l'attacco a Tremonti, durissimo ma non nuovo da parte dei ministri della ex-Forza Italia che vedono continuamente ridimensionato il loro budget dai tagli del ministero dell'Economia, l'intervista di Galan al Giornale colpisce per la preoccupazione elettorale che il ministro della Cultura manifesta. Galan, prudentemente, si riferisce alla scadenza naturale della legislatura, nel 2013, ma l'ansia di ottenere subito un’inversione di rotta, rispetto a una nuova manovra sui conti, ormai annunciata in Parlamento da Tremonti e prevista proprio all’indomani del voto amministrativo, lascia intuire che all’interno del governo si rafforzano i timori che Berlusconi si stia preparando anche all'eventualità di uno scioglimento anticipato delle Camere.

Galan è un uomo della prima ora di Forza Italia; appartiene al gruppo di quelli che si trasferirono direttamente dagli uffici di Publitalia al Parlamento, al governo o (nel suo caso) alla guida di una grossa regione. Oltre ad essere stabilmente riuniti in una corrente, i ministri dell'ex-partito del presidente si sentono stretti: dalla pattuglia di ex-socialisti che, da Tremonti a Cicchitto, controllano posizioni importanti nella geografia di potere del centrodestra; dall’invadenza dei Responsabili che premono sul Cavaliere grazie all’indispensabilità dei loro voti alla Camera; dalla nuova destra della Santanché e del Giornale, che ieri sono scesi in campo contro la Moratti e a favore dei manifesti contro le Procure che hanno determinato l’ultima crisi di rapporti tra Palazzo Chigi e il Quirinale.

Le conseguenze di questo diffuso stato d'animo, che prima di Galan erano stati in tanti ad esprimere, più o meno scopertamente, dalla Prestigiacomo a Miccichè, da Scajola alla Gelmini, non si sono fatte attendere. Ancora una volta Berlusconi ha dovuto difendere pubblicamente Tremonti, anche se in privato ha espresso più di una volta valutazioni non dissimili da quelle dei suoi ministri ribelli. La sensazione è che tra il premier e il ministro dell'Economia sia nuovamente intervenuta una tregua tattica in attesa di un chiarimento vero che verrà dopo il voto. Solo allora, dati alla mano, si capirà se Berlusconi, che vorrebbe a qualsiasi costo arrivare alla fine della legislatura, sarà veramente in grado di farlo, e in quali condizioni. E di conseguenza, se prevarrà la linea di rigore di Tremonti imposta dai vincoli europei, o se il governo chiederà al suo ministro una politica economica più elettorale in vista di una possibile nuova chiamata alle urne.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il referendum che il premier vuole evitare
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2011, 11:56:12 am
23/4/2011

Il referendum che il premier vuole evitare

MARCELLO SORGI

Fra i tanti timori di questa vigilia elettorale, segnata da una crisi evidente del berlusconismo e dalle prime, aperte contestazioni del leader dall’interno del centrodestra e dalla cerchia più ristretta degli uomini del presidente, si fa strada una paura crescente dei referendum.

Una paura apparentemente immotivata, dato che questo genere di consultazioni - dopo una vicenda ultraventennale che ha segnato molti passaggi storici, dal divorzio all’aborto, al passaggio al maggioritario e alla fine della Prima Repubblica - tredici anni fa sono entrate in una crisi quasi irreversibile, cadendo una dopo l’altra sotto la tagliola della scarsa partecipazione, che non ha più consentito di raggiungere la soglia della metà più uno degli elettori, indispensabile per la validità del quorum.

Inoltre, solo tre giorni fa il governo, cancellando il piano per il ritorno al nucleare, ha sgomberato il campo dal più sentito dei referendum che dovranno essere votati il 12 giugno. E ha precostituito le condizioni per un nuovo fallimento delle due consultazioni superstiti - sul legittimo impedimento e sulla privatizzazione dei servizi di distribuzione dell’acqua - non considerate in grado, da sole, di mobilitare l’elettorato fino al punto di ottenere un risultato valido.

Perché allora il ministro Romani, malgrado le proteste dei partiti e dei comitati promotori che parlano di attentato alla volontà popolare, ha annunciato che dopo lo stralcio del piano nucleare il governo si accinge a intervenire sui servizi idrici, in modo da disinnescare anche la mina del referendum sulla privatizzazione dell’acqua? La risposta è sostanzialmente la stessa. Come quella sul nucleare, fortemente rilanciata dall’incidente alla centrale di Fukushima, anche quella sull’acqua, seppur di meno, si presta a fare da traino alla terza consultazione, sul legittimo impedimento, che al di là del contenuto della legge che si vorrebbe abrogare (e che per inciso è già stata dimezzata a gennaio dalla sentenza della Corte Costituzionale e scadrà del tutto a ottobre) è in pratica un referendum su Berlusconi e sulla sua linea di aperta contestazione dei processi che lo riguardano e di continui attacchi alla magistratura.

Fino a qualche tempo fa Berlusconi avrebbe affrontato una prova del genere in tutta tranquillità, o pensando di superarla agevolmente, come fece, a metà degli Anni Novanta, e contro tutte le previsioni, con i referendum sulla televisione, che miravano a colpirlo sull’azienda di famiglia e sul conflitto di interesse, o ricorrendo all’astensione, che negli ultimi anni è diventata l’arma segreta di tutti i nemici del voto referendario. Se invece stavolta si sente meno sicuro e preferisce evitare di correre rischi, è per una ragione evidente. Legato com’è ai sondaggi quotidiani, che lo aggiornano su ogni minimo spostamento dell’opinione pubblica italiana, Berlusconi è il primo a sapere che malgrado il forte consenso personale che ancora lo sostiene, sia il centrodestra, sia il centrosinistra, sia il neonato Terzo polo, devono fare i conti con l’ondata di disillusione e di abulia che riguarda ormai quasi il quaranta per cento dei cittadini. Gente che è stufa di tutto e di tutti, e non vede alternative.

Si è insomma creato - o ricreato - un quadro simile, anche se non eguale, al precedente dei famosi referendum elettorali del 1991 e 1993: quelli su cui, per la specialità dell’argomento, nessun politico di professione avrebbe scommesso un soldo, e che Craxi, il più moderno dei leader della Prima Repubblica, pensò di liquidare invitando i cittadini «ad andare al mare» invece che a votare. Finì con oltre il novanta per cento degli elettori che imprevedibilmente si recarono alle urne, in odio ai partiti che li invitavano a fare il contrario, e seppellirono con i loro «sì» il sistema ormai troppo logoro, senza curarsi di quel che sarebbe venuto dopo.

Oggi, va detto, la situazione non è a questo punto: e non è affatto sicuro che i quasi vent’anni della Seconda Repubblica, in fatto di nausea degli elettori, valgano quanto i quaranta della Prima. Ma se Berlusconi ha deciso di cancellare i referendum uno dopo l’altro, vuol dire che gli è venuto qualche dubbio che l’ondata generale di ripulsa possa sfociare nuovamente in un voto referendario a sorpresa.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Silvio, Umberto e l'ennesima lite senza strappi
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2011, 02:45:11 pm
27/4/2011 - TACCUINO

Silvio, Umberto e l'ennesima lite senza strappi

MARCELLO SORGI

Dice Berlusconi che anche sulla Libia con Bossi è tutto a posto. Spiega il presidente del Consiglio che è bastato precisare meglio le modalità del nuovo impegno italiano contro Gheddafi (missili «intelligenti», così li ha definiti, e non bombardamenti e basta) per ritrovare l’intesa con il Senatur. Il fatto che Bossi, subito dopo, abbia ribadito il suo no, confermando le obiezioni di Calderoli, e che la Lega, come già accadde la volta scorsa, si prepari a ripetere il suo dissenso nella seduta congiunta delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato, in cui il ministro della Difesa La Russa andrà a riferire sull’evoluzione delle operazioni militari, sembra non preoccupare più di tanto il Cavaliere.

Come se appunto si trattasse di un prezzo da pagare all’alleanza con il turbolento ministro nordista, che parla, parla, alle volte sbraita, ma alla fine marcia sempre a sostegno del governo. Basta solo ripercorrere le ultime settimane: a parte la prima manifestazione di dissenso sulla Libia, il Carroccio non ha condiviso l’inasprimento della linea berlusconiana contro i magistrati, non ha mandato propri esponenti davanti al Palazzo di giustizia di Milano, dove ogni lunedì il Pdl raduna un drappello rumoroso di manifestanti. Ha poi preso le distanze da tutta la vicenda dei manifesti anti-Procure, lasciando chiaramente intendere che non gli è piaciuta né l’iniziativa in se, né il modo in cui Berlusconi la ha gestita, tra critiche pubbliche e incoraggiamenti privati. Un’altra levata di scudi enfatizzata sino al limite della rottura sulla Padania s’è avuta dopo l'intervista del ministro Galan contro Tremonti, che i leghisti hanno difeso a spada tratta, minacciando una vera rottura nel caso in cui le critiche al titolare dell’Economia da parte dei colleghi del Pdl si fossero riproposte.

Ora è di nuovo il turno della Libia e di una Lega pacifista, che teme di dover pagare un prezzo troppo alto in termini di immigrazione clandestina a causa dell’inasprimento delle ostilità contro il Rais di Tripoli. Ma anche in questo caso, al di là di un florilegio battutistico che ha in Calderoli al momento l'interprete più creativo, Palazzo Chigi non ritiene di aver nulla da temere. Al modo di fare la campagna elettorale di Bossi - che esordì, non va dimenticato, nel '94, chiamando a gran voce Berlusconi «Berluskaz» e «Berluskaiser» - il Cavaliere ha fatto il callo. Sa che di questi tempi anche il fido Umberto ha qualcosa da farsi perdonare dalla sua gente, in attesa da anni dei frutti che non arrivano di una collaborazione di governo ormai quasi ventennale.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Padani senza bussola
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2011, 06:25:57 pm
28/4/2011 - TACCUINO

Padani senza bussola

MARCELLO SORGI

Accompagnata dai lazzi e dallo scherno di tutti gli altri partiti, scettici già da martedì sull’eventualità che Bossi sulla Libia facesse sul serio, la crisi della Lega è esplosa tutta insieme ieri con un rincorrersi di dichiarazioni che prima sembravano ammorbidire la rottura sui bombardamenti e poi via via l'hanno confermata. Il paradosso è che il capogruppo alla Camera Reguzzoni nel giro di un paio d’ore ha offerto al governo un ramoscello d'ulivo e subito dopo, smentendo se stesso, ha confermato la linea dura ufficializzata dalla Padania, che per l'intera notte, a quanto ha raccontato il direttore Boriani a Paola Saluzzi su Sky, ha potuto usufruire di un collaboratore d'eccezione: il Senatùr in persona, rimasto in redazione a smaltire i fumi di rabbia che la conclusione del vertice italo-francese e la completa acquiescenza di Berlusconi a Sarkozy gli avevano provocato.

Ma il sarcasmo di partiti e osservatori non fa purtroppo il conto con le conseguenze del travaglio del Carroccio, in cui si mescolano chiaramente elementi personali oltre che politici. Bossi è ormai un leader più carismatico che esecutivo. Le sua presenza è spesso intermittente, sotto di lui non esiste uomo o struttura che possa esercitare supplenze di alcun tipo. In un sistema politico che richiede continue prese di posizione e reazioni a tempo di Internet, la Lega, in attesa che il leader si pronunci, allinea fin troppo spesso dichiarazioni contraddittorie o alla rinfusa, che richiedono robuste e continue correzioni di rotta. Tra le file inquiete del Carroccio è anche possibile riconoscere, se non proprio correnti, aree diverse: il cerchio magico che circonda il Senatùr, composto dai capigruppo Reguzzoni e Bricolo e dalla vicepresidente del Senato Rosi Mauro, l'ala istituzionale che fa capo a Maroni, al governatore del Veneto Zaia e alla schiera dei sindaci quarantenni, i battitori liberi come Calderoli e, su un piano diverso, Borghezio.

Per fare un solo esempio, e per non parlare solo della Libia, il fatto che dopo l'intervista in cui Galan attaccava Tremonti si siano dovute aspettare quarantotto ore per leggere sulla Padania una difesa del ministro che è considerato il punto di riferimento leghista nel partito berlusconiano, e che la stessa presa di posizione non abbia poi trovato grande eco nelle file del Carroccio, la dice lunga sulla confusione che regna all'interno del principale alleato di governo del Cavaliere.

Così che la Lega, per com'è messa, non può certo aprire una crisi di governo. Ma neppure essere di grande aiuto a governare.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Bossi scherza col fuoco
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2011, 06:31:33 pm
29/4/2011

Bossi scherza col fuoco

MARCELLO SORGI

Chi dice che in Italia la crisi della politica non aveva mai raggiunto i livelli di questi giorni - con un governo che ha perduto la maggioranza e rischia di perdere definitivamente la faccia sul terreno ultradelicato degli impegni e dei rapporti internazionali - ha purtroppo la memoria corta. L’Italia ha una tale gamma di esempi alle spalle, e una tale deplorevole assuefazione alle brutte figure, che è sempre possibile trovare un precedente simile o peggiore. Per dire, una volta le crisi in materia di politica estera erano considerate impossibili, perché la collocazione internazionale di un Paese europeo non dovrebbe mutare con il cambiamento dei governi. Eppure, già nella Prima Repubblica, ai tempi di Sigonella e dell’Achille Lauro, anche quel limite considerato invalicabile era stato superato.

Se c’è una differenza, tra allora e oggi, è che almeno, in passato, quando si apriva una crisi le ragioni erano chiare e l’approdo intuibile.

Oggi invece l’unica cosa comprensibile è che la Lega considera esaurite le ragioni della collaborazione con Berlusconi, ma non ha ancora deciso quando e come tirarsene fuori. Da mesi il partito di Bossi è in sofferenza: si tratti del federalismo declamato e mai in pratica declinato, delle politiche dell’immigrazione, delle contorsioni interne del Pdl, e adesso della guerra in Libia, che il Senatur considera un’avventura disastrosa, frutto di un atteggiamento servile verso la Francia e gli Usa, il Carroccio, che fino a qualche tempo fa considerava la sua permanenza nel centrodestra vantaggiosa per l’oggi e per il domani, e che in prospettiva accarezzava l’idea di trasformarsi nel primo partito del Nord, oggi comincia a temere che i suoi conti non tornino.

E lo fa apertamente - va detto -, incurante del difficile frangente in cui l’Italia si trova, dell’impossibilità per il Paese, a causa della sua collocazione politico-strategica, di tirarsi fuori da un conflitto rischioso come quello libico, e badando in sostanza solo ai sondaggi che dicono che l’elettorato leghista è insoddisfatto e alle prossime amministrative potrebbe punire il Carroccio. Di qui la rottura sui bombardamenti, decisione a cui l’Italia ha dovuto unirsi per onorare i suoi impegni con gli alleati, e l’annuncio di una prossima dissociazione dal voto parlamentare previsto il 3 maggio.

Dopo settimane di stenti, in cui ha prevalso alla Camera per pochi voti, tutti o quasi provenienti da transfughi dell’opposizione, il governo rischia così di trovarsi senza maggioranza in una votazione molto importante, o di dover accettare l’appoggio occasionale di una parte dell’opposizione che subito dopo correrebbe a dire che solo il proprio senso di responsabilità avrebbe evitato al Paese un disastro politico e a Berlusconi una brutta figura irrimediabile.

Questa della confusione e di un risultato difficilmente spiegabile ai partners stranieri non è l’unica incognita del prossimo dibattito parlamentare. E’ paradossalmente la più probabile e la meno temuta dalla Lega, pronta a dire all’indomani di un voto che sancirebbe la rottura della maggioranza che è pronta a ripensarci e non vuole affatto buttare giù il Cavaliere. Se davvero si arriverà al voto in aula non è detto tuttavia che finisca così; potrebbe anche andar peggio. Ciascuno dei protagonisti di questa vicenda fa finta di non accorgersi che sta scherzando col fuoco. E c’è perfino chi sostiene che tutto si aggiusterà calibrando diversamente il rimpasto e mollando qualche posto di governo in più al Senatur. Ma è fin troppo evidente che, seppure la crisi di governo non si aprirà, sarà molto improbabile, dopo quel che è successo in questi giorni, che il governo trovi la forza di risollevarsi e riesca ancora a governare.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Al Cavaliere si addice lo stile Prodi
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2011, 11:04:40 am
3/5/2011 - TACCUINO

Al Cavaliere si addice lo stile Prodi

MARCELLO SORGI


Alla vigilia dell’incontro con l’«amico» Umberto, che da una settimana si rifiuta di rispondergli al telefono, Berlusconi ha definito «condivisibile» il senso della mozione della Lega presentata alla Camera in vista del dibattito di domani. In una giornata già per altri versi difficile, trascorsa in buona parte al Palazzo di Giustizia di Milano, il premier ha voluto dare un segnale distensivo, mentre sul marciapiede da cui parlava i due fronti contrapposti dei suoi sostenitori e dei suoi avversari si davano nuovamente battaglia.

Ma come appunto possa diventare condivisibile una mozione che contrasta apertamente con la risoluzione dell’Onu che ha dato il via alla guerra contro la Libia, sarà da vedere. Le due questioni aperte sono i limiti temporali, che Bossi pretende espliciti, alla missione internazionale, e i costi, che non dovrebbero essere aggiuntivi e gravare dunque sulle spalle dei cittadini con aumenti anche indiretti di tassazione, come è avvenuto il mese scorso per i Beni culturali.

Nel primo caso Berlusconi conta di ricorrere più o meno al metodo delle verifiche periodiche della situazione adoperato da Prodi ai tempi delle precedenti missioni coi governi di centrosinistra, per guadagnarsi il consenso altalenante di Rifondazione comunista. Non è certo un bel precedente, per un governo come quello del Cavaliere, che fino a pochi giorni fa vantava più compattezza, seppure all’interno di una maggioranza limitata, ma tant’è. Nel secondo caso l’idea è di far rientrare il finanziamento della guerra nell’ambito dell’attuale bilancio della Difesa, con quale insoddisfazione del ministro La Russa è facile immaginare.

Ammesso che in questo modo sia possibile «ritrovare la quadra», per usare un’espressione ricorrente di Bossi, bisogna ancora capire se la Lega sarà disposta a ritirare o a emendare la sua mozione alla Camera, per far sì che sul testo concordato possano confluire anche i voti del Pdl e dei Responsabili, ricompattando così la maggioranza. Sarebbe in ogni caso una vittoria del Senatur, che riprenderebbe in questo modo il suo ruolo di capo-ombra della coalizione e di azionista di riferimento del governo. E sarebbe allo stesso tempo una mediocre figura rispetto ai partners stranieri, che non capiscono le contorsioni a cui sta andando incontro lo stesso governo che alla vigilia di Pasqua aveva dato ufficialmente via libera ai bombardamenti, e a una decina di giorni dal suo «sì» si ritrova ancora a non sapere se e come la parola data sarà rimessa in discussione, rimaneggiata o approvata dal Parlamento.

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Titolo: M. SORGI. Dietro il no al faccia a faccia la voglia di Bossi di contare di più
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2011, 05:17:17 pm
4/5/2011 - TACCUINO

Dietro il no al faccia a faccia la voglia di Bossi di contare di più

MARCELLO SORGI

L’assenza di Bossi al vertice di maggioranza, che ha sancito il ritrovato accordo nel centrodestra sui bombardamenti in Libia, lascia ancora aleggiare un filo di incertezza sul dibattito parlamentare alla Camera che dovrà confermare le scelte del governo. I leghisti più vicini al governo e più preoccupati della rottura imposta dal Senatur, come il capogruppo a Montecitorio Reguzzoni, sembravano impazienti, alla fine del vertice, di dire che tutto è a posto e le richieste del Carroccio sono state pienamente accolte, con l'aggiunta di un nuovo impegno a ridimensionare le altre missioni internazionali in corso, anche per trovare le risorse necessarie al costoso e crescente andazzo della guerra contro Gheddafi.

Com’è stato chiaro fin dal primo momento in cui nella maggioranza s’è aperta la crepa, Bossi non ha alcuna intenzione di provocare una crisi. Ma intende uscire da questo passaggio con un evidente riequilibrio della maggioranza a favore della Lega. Il rifiuto dell’incontro a due con Berlusconi fa parte di questa strategia; ed anzi, ogni volta che se ne torna a parlare e si diffonde la voce che l’appuntamento è stato fissato, il leader leghista per tutta risposta se ne va a Gallarate a far campagna elettorale nel paese in cui il Carroccio si presenta contro il Pdl.

Saranno i risultati delle amministrative, e in particolare quello di Milano, a dire se Bossi riuscirà nel suo intento. Ma già adesso, dopo dieci giorni in cui Berlusconi ha dovuto fare qualsiasi cosa per riottenere un po' d’ascolto dalla Lega, si può dire che il quadro politico è cambiato. Ferma restando la debolezza del governo, che non ha affatto una maggioranza più compatta, ma solo più esigua, il braccio di ferro sui bombardamenti concluso con il compromesso di ieri spazza via tutte le illusioni di ancorare gli ultimi due anni di legislatura ai Responsabili. La terza gamba, già claudicante di suo, non serve se la seconda, cioè la Lega, viene meno. E a questo punto anche il rimpasto, chiaramente rinviato a dopo il primo turno delle amministrative per rinegoziare le alleanze dei ballottaggi, rischia di diventare superfluo, se non inutile.

A giugno, all'indomani del voto nelle città, se Berlusconi riuscirà a salvare Milano, il suo vero problema sarà di fissare almeno mentalmente la data delle elezioni politiche anticipate. Se Milano sarà perduta, il centrodestra si troverà in un frullatore a metà strada tra un "liberi tutti" e un "si salvi chi può".

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Titolo: MARCELLO SORGI. La nuova tecnica di seduzione
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2011, 06:29:22 pm
5/5/2011

La nuova tecnica di seduzione

MARCELLO SORGI


Ci sarebbero molte buone ragioni per fare spallucce, di fronte a Berlusconi che candida Tremonti per la sua successione.

In fondo, nemmeno un mese fa, a cena con i principali corrispondenti stranieri in Italia, lanciò per lo stesso ruolo Alfano, e il giovane ministro s’affrettò a ridimensionare quella che magari era un’indicazione sincera, ma nei fatti rischiava di bruciarlo. Esistono tuttavia anche seri motivi per non considerare l’uscita di ieri sera del Cavaliere solo una boutade.

Il primo è la sede scelta per tornare su un argomento così delicato: «Porta a Porta», il programma di Bruno Vespa, è il luogo metapolitico che il presidente del Consiglio ha sempre prediletto per i suoi annunci importanti, dal «contratto con gli italiani», che lo riportò alla guida del governo nel 2001 dopo sette anni di opposizione, in poi. Il secondo è il modo in cui il messaggio è stato costruito da un leader che più di tutti tiene in considerazione il peso della comunicazione: prima, ovviamente, la sua disponibilità a ricandidarsi, poi, in caso di rinuncia, l’accenno al ministro dell’Economia, accompagnato dal ricordo delle confidenze di altri premier, come Blair e Brown, che hanno lasciato e che considerano quello dell’addio il migliore dei giorni vissuti al potere.

Ci sono ancora due dettagli strategici da non trascurare nell’intervista di Berlusconi. L’idea che seppure deciderà di non ricandidarsi a Palazzo Chigi, vorrebbe tenere per se la guida del Pdl, restando azionista di maggioranza del centrodestra e distinguendo in altre parole la leadership dalla premiership. E’ una novità fin troppo raffinata, per un uomo che ha sempre snobbato le sofisticherie della politica professionale, ma tant’è. Se Berlusconi sta pensando a un’ennesima reincarnazione democristiana, avrà il suo perché. Come pure - anche se non lo ha detto esplicitamente, in tanti hanno capito così - se ha messo le mani avanti lasciando intuire che il suo successore dovrà venire dal suo partito, inteso come l’ex Forza Italia, e dal giro delle persone più fidate.

Ricapitolando: da giorni, da settimane ormai, Berlusconi rimugina sulla situazione. Benché ufficialmente lo neghi, è il primo a rendersi conto del degrado della sua maggioranza, appesa al quotidiano ricatto dei deputati transfughi che chiedono posti in cambio di voti, della difficoltà di cambiare il Paese portando avanti riforme importanti come quelle che si era proposto, o anche semplicemente di governarlo, in ordinaria amministrazione, con tutte le resistenze a cui deve andare incontro. Chi crede che su questa base il Cavaliere stia per gettare la spugna, però, sbaglia di grosso: Berlusconi vede lucidamente l’assenza di un’alternativa che ieri anche Napolitano, rivolto al centrosinistra, ha riconosciuto pubblicamente, e cerca il modo di superare la fase di logoramento e rilanciare il centrodestra.

Questo rilancio può passare per un rafforzamento dell’azione di governo, che al momento, è inutile nasconderlo, è assai difficile; oppure, è più probabile, per un nuovo passaggio elettorale, rispetto al quale Berlusconi deve decidere se sia meglio per lui stare in prima linea per la sesta volta in vent’anni, sfidando qualsiasi ostacolo, le leggi di natura e le regole della politica, o altrimenti rassegnarsi a fare il famoso passo indietro, pronto magari a rifarne due avanti subito dopo.

Nessuna di queste decisioni è già presa. Ma a condizionarle giocheranno molto i risultati delle prossime elezioni amministrative, a cominciare da Milano, a cui il Cavaliere ha deciso di dare un valore politico nazionale. Non solo vuole vincere nella capitale del Nord da cui è partita nel 1994 la sua avanzata: ma è come se si rivolgesse al suo popolo, ai suoi elettori, con l’aria un po’ stanca con cui è apparso ieri sera nel salotto di Vespa, per dire che anche le sue inesauribili energie non sono infinite e stavolta ha bisogno di uno sforzo in più, di un aiuto pancia a terra da parte della sua gente, che non gli ha mai fatto mancare l’appoggio nei momenti difficili.

Con questa logica, e con buona pace di Tremonti e Alfano, Berlusconi ieri ha tutt’altro che annunciato la sua successione: ha solo messo a punto una studiata nuova tecnica di seduzione dei cittadini-telespettatori, i cui effetti misurerà di qui a poco nei sondaggi, e calato sul tavolo un’altra carta. Se anche questa mano del gioco gli va bene, può anche darsi che lasci Palazzo Chigi. Ma per puntare al Quirinale.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Se si attacca la magistratura per qualche voto in più
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2011, 11:57:42 am
10/5/2011 - TACCUINO

Se si attacca la magistratura per qualche voto in più

MARCELLO SORGI

Neppure la Giornata della Memoria dedicata dal Capo dello Stato ai magistrati vittime del terrorismo ha convinto Berlusconi a fermare la sua campagna contro i giudici. Anzi, a Milano per prendere parte a un’udienza del processo Mills, il Cavaliere ne ha approfittato per chiarire meglio il senso delle sue affermazioni.

Dunque, pieno rispetto per i magistrati caduti sotto il piombo delle Brigate rosse e delle altre formazioni terroristiche negli Anni Settanta e Ottanta, che il premier, davanti ai giornalisti, ha definito «eroi». E anche una chiara presa di distanza dai manifesti in cui si parlava di Br nelle procure. E ancora, parole di rispetto per il presidente Napolitano, dopo gli ultimi attriti relativi alla richiesta di un passaggio parlamentare dopo il rimpasto, che ha visto entrare nel governo deputati transfughi dall’opposizione.

Malgrado ciò Berlusconi non rinuncia alla sua campagna contro la procura di Milano (verso la quale, tra l’altro, a poca distanza da lui, la Santanchè ha lanciato attacchi irripetibili). Il premier insiste a presentarsi come la vittima numero uno di una persecuzione fin qui approdata a ben 24 processi, che lo hanno visto imputato e mai condannato (grazie anche, ma questo si guarda bene dal dirlo, alle numerose leggi ad personam che gli hanno consentito in alcuni casi di salvarsi con la prescrizione).

In realtà, dietro questa particolare contabilità giudiziaria c’è l’obiettivo del premier di focalizzare l’ultima settimana di campagna elettorale su Milano, che rappresenta la posta decisiva di tutta la tornata di amministrative, e in particolare sul potere della magistratura nella Capitale del Nord da cui partì quasi vent’anni fa Mani pulite. Sondaggi alla mano, Berlusconi è convinto che nel suo campo sia forte il timore di uno strapotere dei giudici, e che la coincidenza della ripresa dei processi e dei suoi lunedì in tribunale con la scadenza del voto renda ultrasensibili i suoi elettori a questi argomenti.

Di qui l’impostazione della campagna, non, o non esclusivamente, sullo scontro destra-sinistra o governo-opposizione, ma, appunto, sulla partita aperta con la magistratura e sul preteso potere dei giudici che giungerebbe a mettere in discussione il diritto dei cittadini a farsi governare da chi hanno scelto, e perfino degli imprenditori a muoversi in un regime di libera impresa. Argomento, quest’ultimo, che il premier ha sentito risuonare tra le file dei suoi ex colleghi specie dopo la sentenza sul caso Thyssen a Torino. E che ha subito messo a frutto in questi ultimi giorni di campagna in cui vuol far vestire ai giudici l’abito della vera, reale, opposizione.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Letizia copia la strategia del Capo
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2011, 10:55:54 am
12/5/2011 - TACCUINO

Letizia copia la strategia del Capo


MARCELLO SORGI

Cominciata con la storia della casa del Pio Albergo Trivulzio concessa alla compagna di Pisapia, e con quella del figlio della Moratti dalla ristrutturazione un po’ dubbia, la campagna elettorale del sindaco di Milano e del suo avversario di centrosinistra, sulle cui spalle pesa quasi per intero il risultato delle elezioni amministrative di domenica, s’è praticamente conclusa ieri con un faccia a faccia dalla coda avvelenata su Sky-tg 24, la tv che più di tutte s’è impegnata a promuovere confronti in diretta tra i candidati.

L’accusa, subito rivelatasi errata, del sindaco a Pisapia, vittima in realtà di un errore giudiziario che è stato riconosciuto con una assoluzione, di aver subito una condanna per furto, ha infiammato solo alla fine un programma in cui i due candidati si erano misurati tranquillamente su tutti i problemi locali della città e dell’attualità, al punto che uno spettatore ignaro, che non avesse già letto sulle agenzie quel che era capitato alla fine della registrazione, poteva illudersi di prendere una boccata d’aria e di assistere a un raro esempio di confronto civile in una stagione di scontri giocati fin qui a colpi bassi. Il traffico, l’inquinamento, i trasporti pubblici, le prospettive di crescita (e i ritardi) legati all’Expo 2015, le differenze con le principali metropoli italiane: al novanta per cento il dibattito s’era svolto su questi temi, con un ostentato fair-play dei due protagonisti.

Successivamente, riconoscendo implicitamente di essere stata trascinata in errore da un appunto che le era stato fornito per utilizzarlo durante la discussione, la Moratti, che per tutto l’andamento del faccia a faccia si era condotta con grande calma e sicurezza, ha reagito con una nota imbarazzata all’annuncio di querela di Pisapia. Ma sul piano politico, anche se di qui a domenica ci sono ancora due (fino a venerdì, la scadenza formale dei comizi), e forse perfino quattro (fino a domenica, apertura dei seggi) giorni, un rush finale in cui, è sicuro, non ci sarà fatto mancare niente, l’episodio si segnala come un inutile, controproducente ancorché inevitabile, tentativo di adeguamento del sindaco Moratti fin qui segnalatosi per il suo stile al mood imposto da Berlusconi alla corsa per Milano, sulla quale il premier sa di giocarsi di tutto. Invano anche ieri il Capo dello Stato, in un incontro con gli studenti, ha ribadito il suo appello ad abbassare i toni di una campagna elettorale che ormai sembra definitivamente sfuggita di mano ai suoi protagonisti.

da - lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. La sfida del Capo prolungare in eterno il viale del tramonto
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2011, 10:51:40 am
Elezioni 2011

15/05/2011 - ELEZIONI 2011

La sfida del Capo prolungare in eterno il viale del tramonto

In fondo basta tenere Milano per reggere. E se prende Napoli...

MARCELLO SORGI

Da qualche tempo, e soprattutto in queste settimane di campagna elettorale, in Italia s’è ripreso a parlare del dopo-Berlusconi. Non sono solo i suoi avversari a discuterne, tentando, com’è logico, di approfittare di un momento di evidente logoramento del premier, in sella a fasi alterne da 17 anni e alle prese con una concentrazione di ritorno dei suoi guai giudiziari e con gli scarsi risultati del suo terzo governo, oltre che con le conseguenze negative della guerra in Libia.

Ne parlano, anzi sussurrano, continuamente, anche i berlusconiani, e a sorpresa, su un tema così delicato su cui in passato aveva preferito al più scherzare, è intervenuto anche lui, il Cavaliere: lanciando nell’agone, prima il giovane ministro Alfano come delfino, e poi il suo pesante collega Tremonti come candidato, «in primis», alla successione.

Di qui a dire che nella sua mente - e con il funzionamento così atipico che ha quella mente - Berlusconi si stia preparando davvero a passare la mano, o a ritirarsi in un ruolo più da «padre del partito» che non da combattente di prima linea, onestamente ce ne corre. La cosa più probabile è che, avvertendo le difficoltà di un passaggio elettorale assai complicato, il premier abbia voluto concentrare al massimo l’attenzione su se stesso e cercare di mobilitare fino all’ultimo il suo elettorato, trasformando, come altre volte, il voto, in un ennesimo referendum sulla sua persona.

Non si spiegherebbe altrimenti la tecnica della «scelta di campo» portata all’esasperazione, con la descrizione grottesca di un Paese che senza di lui finirebbe in mano a magistrati-brigatisti prima ancora che a governi comunisti pronti a imporre tasse patrimoniali, l’obiettivo del ridimensionamento dei poteri del Capo dello Stato e della Corte Costituzionale, i soli che abbiano fatto da argine alla sua avanzata senza fine, quando cercava di imporsi fuori dalle regole, e il dilagare su tutti i mezzi di informazione, anche a costo di un evidente squilibrio della par condicio prevista nel periodo preelettorale.

Ma si tratti appunto di una effettiva convinzione, della consapevolezza che anche per un uomo eccezionale come lui esistono dei limiti, fisici o temporali, o di un’altra rappresentazione, stavolta conviene prendere sul serio Berlusconi. E ragionare, di conseguenza, sulla possibilità che le elezioni amministrative - un test limitato, sia pure in città importanti -, nel caso in cui dovessero andar male al centrodestra, possano veramente significare una svolta, e in qualche modo l’inizio dell’uscita di scena, del leader che dal 1994 sta condizionando la politica italiana e il destino del Paese. Del resto, va in questa direzione l’esperienza del 2005, quando il Cavaliere, a un anno dalla fine della sua prima intera legislatura di governo, perse le regionali ponendo le premesse della sua sconfitta, di misura, del 2006. Pende inoltre a favore di questa tesi il fattore tempo e l’esiguità dei risultati dell’azione di governo, resa più difficile dalla rottura della maggioranza e dall’uscita dei finiani dal Pdl. Infine, anche il rapporto con la Lega è assai logorato, e nel Carroccio sempre più spesso si avverte la suggestione di presentarsi da soli nel 2013, per liberarsi dall’ipoteca berlusconiana.

E tuttavia, se questa sembra o è la posta in gioco, va valutata anche la possibilità che Berlusconi vinca, o almeno non perda, e che abbia scelto le amministrative per mettersi di nuovo in gioco proprio perché convinto che il campo di battaglia gli sia favorevole. Per misurare la vittoria o la sconfitta, infatti, sono state scelte convenzionalmente le quattro principali città in cui si vota per i sindaci: Torino, Milano, Bologna e Napoli. Considerato che solo una delle quattro - Milano - è attualmente amministrata dal centrodestra, mentre nelle altre tre governa il centrosinistra, a Berlusconi, per prevalere, basterà tenere Milano, dove malgrado tutto parte favorito, e conquistare Napoli, dove ha dato fondo a qualsiasi risorsa per vincere, compresa la promessa di bloccare le demolizioni delle case abusive. A ben guardare, non è un obiettivo impossibile. L’ipotesi che lo consegua in due turni, anziché in uno, è realistica, non è affatto da trascurare, servirà ad animare le due settimane che ci separano dalla domenica dei ballottaggi, a dire, a ripetere, a scrivere sui giornali, che Berlusconi non è più lo stesso e il ventennio berlusconiano si avvia alla fine. Se però il 29 maggio, a Milano e a Napoli, rivince lui, non resterà che ricordare Andreotti, il più longevo uomo politico della storia italiana, quando diceva: «Il viale del tramonto è lungo e bello, Dio me lo conservi!».

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Titolo: MARCELLO SORGI. Nel Pdl si cerca di alleviare il peso del Capo
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2011, 06:07:56 pm
19/5/2011 - TACCUINO

Nel Pdl si cerca di alleviare il peso del Capo

MARCELLO SORGI

C’ era un candidato sindaco alternativo alla Moratti tra le file del Pdl milanese, in cui il timore della sconfitta, legata agli scarsi risultati dell’amministrazione e alle difficoltà di comunicazione con gli elettori di Donna Letizia, albergava da molto prima dell’inizio della campagna elettorale. Adesso che si tratta di fare quindici giorni di campagna ventre a terra per il ballottaggio, sapendo che sarà molto difficile rimontare un Pisapia ormai lanciato, si riaffaccia continuamente il ricordo di questa partita interna, che puntava a spostare dalla vicepresidenza della Camera a Palazzo Marino Maurizio Lupi, abile e sperimentato parlamentare della nuova generazione, e che Berlusconi in persona volle chiudere prima di cominciare, con l’argomento «Non mi sento di tradire un'amica come Letizia».

Lupi poteva farcela? E la rinuncia alla sua candidatura fu dovuta solo ai rapporti personali del Cavaliere con la Moratti, alla convinzione, poi rivelatasi illusione, che tanto con il suo aiuto anche una candidata debole poteva recuperare? O non piuttosto al dubbio che in una città in cui l’amministrazione regionale è da tempo in mano a un ex-leader di Comunione e liberazione come Formigoni, aggiungere un sindaco vicino a Cl avrebbe creato una concentrazione di potere interno al partito di quelle che al Cavaliere non piacciono?

Difficile trovare risposte, che del resto ormai sarebbero inutili, a queste domande. Lupi, più giovane e più avvezzo al contatto ravvicinato con qualsiasi genere di elettorato, anche quello popolare con cui la Moratti ha trovato difficoltà, avrebbe goduto anche di maggiori simpatie della Lega. Ma sulla sua mancata candidatura come sulla lealtà dei ciellini con il Pdl è difficile trovare riserve esplicite. Forse la questione vera è un’altra: in vista del ballottaggio milanese in cui, a meno di miracoli, Donna Letizia parte sfavorita, nel partito del premier, preoccupato che una seconda sconfitta possa ripercuotersi sul governo, si cominciano a mettere le mani avanti, per evitare, com'è accaduto lunedì, che tutto il peso di un risultato negativo si abbatta su Berlusconi. Impresa ardua, almeno quanto il tentativo di risalire al secondo turno la corrente contraria che ha generato il disastro di lunedì.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il Terzo polo guarda a sinistra
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2011, 08:57:41 am
18/5/2011 - TACCUINO

Il Terzo polo guarda a sinistra

Ma sottobanco

MARCELLO SORGI

L’annuncio del vertice del Terzo polo che oggi, con ogni probabilità, darà libertà di voto ai propri elettori nei ballottaggi, sta a significare che Casini, Fini e Rutelli si muoveranno, ove possibile, senza accordi espliciti, in aiuto al centrosinistra al secondo turno delle elezioni. Non lo diranno mai apertamente, ed anzi difenderanno fino all’ultimo la loro ufficiale scelta di non scegliere, ma ci sono vari indizi che fanno pensare che alla fine andrà così. Soprattutto a Milano e a Napoli, nelle due realtà dove, rispettivamente, un eventuale capovolgimento, o una conferma della tendenza manifestatasi domenica e lunedì, potrebbe consentire a Berlusconi di cancellare il brutto risultato del primo turno e proclamarsi vincitore.

Dall’interno del Fli si sono già levate le prime voci di Ronchi e Urso a favore di un ripensamento e di un appoggio ai candidati del centrodestra, ma Bocchino, premettendo che per i finiani sarebbe impossibile votare per un candidato della sinistra radicale come Pisapia, le ha subito qualificate come sortite personali. A trattare con il vincitore, intanto, pensa Tabacci, in nome della vecchia amicizia ambrosiana, suggerendogli anche - consiglio subito accolto - di fare la prima mossa a favore del candidato sindaco terzista battuto Palmieri. Pisapia ha aperto un canale di comunicazione anche con i grillini.

A Napoli la situazione è più complicata per le venature antipolitiche del candidato De Magistris, che ha fatto campagna contro tutti, a cominciare appunto dai terzisti, qui in gran parte ex democristiani provenienti da Margherita e Udc, e per la collocazione del partito di Casini nella giunta regionale a fianco del centrodestra. Ma quel dieci per cento di voti raccolti attorno al nome del rettore dell’Università di Salerno Pasquino fanno troppa gola a De Magistris, che ha già pronunciato, anche lui, un appello pubblico al Terzo polo.

Seppure nei ballottaggi non è automatico che gli elettori seguano le indicazioni dei leader dei partiti di riferimento, questa serie di movimenti, sotterranei e non, viene seguita con una certa apprensione da parte del Pdl. Lo schema di Berlusconi resta quello di spaccare il Terzo polo ed offrire a Casini la possibilità di tornare al governo con tutti gli onori. Ma è assai difficile che il leader dell’Udc accetti oggi di seguire la strada che considerava percorribile, a certe condizioni, a novembre, e che lo stesso Cavaliere ostruì con il suo rifiuto di aprire una crisi formale per rendere più evidente il passaggio a un esecutivo rinnovato. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e anche per Casini, ormai, la situazione è in movimento.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Ritorno alla Prima Repubblica
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2011, 09:18:40 am
20/5/2011

Ritorno alla Prima Repubblica

MARCELLO SORGI

La «verifica» annunciata ieri da Bossi all’uscita dal vertice con Berlusconi, in cui per la prima volta hanno discusso insieme del cattivo risultato delle amministrative, riporta in auge un antico termine, in voga negli anni della Prima Repubblica, quando appunto i governi duravano mediamente un anno e a metà del percorso spesso erano già cotti. In quei casi, appunto, i leader dei partiti e i capicorrente si raccoglievano attorno al capezzale dell’esecutivo malato per trovare una cura che, va detto, nove volte su dieci si rivelava inefficace e serviva solo a certificare l’inizio di un’agonia. La verifica, così, finiva quasi sempre in crisi. E dopo la crisi nasceva un altro governo.

Come possa adattarsi una procedura del genere a un contesto come quello della Seconda Repubblica e a un governo come quello di Berlusconi, è davvero difficile dire. Ma se Bossi, che del vecchio regime è l’ultimo esponente, ha deciso di usare quel termine, avrà pure le sue ragioni: rivelate, tra l’altro, dalla ricostruzione dello stesso vertice circolata in nottata.

Dopo settimane di gelo, in sostanza, i due leader una tantum si sarebbero trovati d’accordo nell’analizzare le ragioni della sconfitta. Inutile rinfacciarsela, e neppure scaricarla sulla Moratti, o su questa o quella componente del Pdl che non si sarebbe impegnata abbastanza, o sul tipo di campagna troppo politica e troppo aggressiva per una competizione municipale. Meglio ammettere chiaramente che la vera ragione del voltafaccia di larga parte dell’elettorato popolare del centrodestra sia stata dovuta agli effetti - o ai mancati effetti - delle politiche del governo. A cominciare, ovviamente, da quella economica, obbligata finché si vuole dalla crisi e dalla congiuntura europea, ma divenuta via via insostenibile per il grosso del blocco sociale che si aspettava da Berlusconi meno tasse e maggiori semplificazioni burocratiche, oltre che aiuti all’iniziativa d’impresa. E’ in questa delusione di buona parte dell’elettorato nordista, che voleva strumenti per uscire dalla crisi e ha visto invece il governo avvitarsi nello scontro con i giudici e nelle liti interne della maggioranza, che la sconfitta ha trovato le sue ragioni.

Ma se questo, per sommi capi, è ciò su cui Berlusconi e Bossi hanno concordato, rassegnandosi pertanto alla verifica e sperando di uscirne con un «nuovo progetto», piuttosto che con un nuovo governo, sulla prospettiva di fondo della fine della legislatura non si può dire che le visioni combacino. E non per polemica o per incompatibilità personale, dato che Bossi è convinto che al momento non ci siano alternative al governo e all’alleanza con Berlusconi. Il motivo per cui il Senatur, nel medio termine, potrebbe decidere di smarcarsi, magari offrendo solo un appoggio esterno del Carroccio al Cavaliere, sta nel dubbio che una diversa politica, meno rigorosa e più vicina alle aspettative degli elettori, sia praticabile nel contesto attuale; e che alla Lega, in una situazione del genere, convenga prendere le distanze e mettersi per conto proprio.

Ecco perché nei prossimi giorni vedremo Berlusconi e Bossi uniti e impegnati insieme a cercare di ribaltare in extremis, malgrado il pessimismo che li affligge, un risultato considerato da molti come l’inizio della fine. E subito dopo i ballottaggi li vedremo alle prese con una verifica assai difficile e che s’annuncia non diversa da quelle semestrali della Prima Repubblica. Alla fine della quale, per non dover litigare anche con Tremonti, Bossi, fin qui alleato-chiave del centrodestra, potrebbe andarsene per la sua strada.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Perché Bossi ritorna alla pernacchia
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2011, 04:27:35 pm
25/5/2011 - TACCUINO

Perché Bossi ritorna alla pernacchia

MARCELLO SORGI

Nei giorni in cui Gianantonio Stella e Sergio Rizzo danno alle stampe un nuovo libro che raccoglie le più recenti e più pesanti battute di Berlusconi, spesso al limite del cattivo gusto, e ne illustra il degrado progressivo del linguaggio, bisognerà pur riflettere sul ritorno di Bossi alla pernacchia. La prima - ma chi lo conosce e lo segue da vicino assicura che non fosse affatto la prima - l'ha riservata qualche giorno fa al governatore della Lombardia Formigoni, formalmente un alleato anche se è arcinoto che non si possono patire. Formigoni, in una successiva intervista, ha assicurato che non intendeva replicare. La seconda, ieri, ai giornalisti che gli chiedevano dei referendum, sui quali il leader leghista non si era ancora pronunciato e dei quali ha detto in sostanza che erano colpa di Berlusconi, che non è riuscito per tempo a fare una legge sull'acqua.

Ora, chi appunto segue Bossi da più tempo assicura che un certo ricorso alle volgarità, alla gestualità oscena, al turpiloquio, non è una novità per il Senatur, convinto, probabilmente, anche se non esistono prove scientifiche, che questo linguaggio lo avvicini di più al suo elettorato. Bastino, come precedenti, il celodurismo, il gesto dell'ombrello rivolto già quasi vent'anni fa alla Boniver, e dopo la malattia che lo ha spinto, gioco forza, a misurare le parole, proprio le pernacchie. Dalle quali, spiega chi è più avvezzo a far previsioni in materia di Lega, non necessariamente si devono ricavare conclusioni affrettate su eventuali mutamenti di strategia di Bossi.

Stanchezza per una campagna elettorale durissima, consapevolezza, forse, che il risultato di Milano è ormai compromesso, preoccupazione per il calo della Lega al Nord, difficoltà di recuperare voti da un elettorato che, basta ascoltare Radio Padania, protesta per l'alleanza con Berlusconi rivelatasi deludente rispetto ai veri obiettivi della Lega: questo è in sostanza quel che frulla per la testa del Senatur, che tuttavia ha già fatto capire ai suoi che anche in caso di nuova sconfitta del centrodestra ai ballottaggi il Carroccio non ne trarrà conseguenze affrettate. Se ne ricava che Bossi non ha deciso, seppure non lo ha escluso, di fare una pernacchia anche a Berlusconi. Ma nel caso, per niente improbabile, in cui dovesse risolversi a fargliela nel prossimo futuro, di qui alle prossime elezioni politiche, a cui è più che possibile che la Lega decida di andare da sola, si può star certi che ci arriverà preparato.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Quelle tre voci e la stanchezza della società
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2011, 05:05:44 pm
24/5/2011 - TACCUINO

Quelle tre voci e la stanchezza della società

MARCELLO SORGI

Nei giorni in cui la campagna elettorale per i ballottaggi conosce le sue ore più drammatiche, con violenze verbali e fisiche che si alternano agli inutili tentativi di abbassare i toni, tre autorevoli voci super partes si alzano a spiegare il disagio dei cittadini di fronte al corpo e corpo che ha già spinto una parte considerevole degli elettori a disertare le urne. La prima è quella del cardinale Presidente della Cei Angelo Bagnasco, che già altre volte aveva espresso la sofferenza della Chiesa e dei cattolici per il degrado della politica, ma mai in termini così duri e ultimativi. Politica «inguardabile», ridotta a «litigio perenne», «recita scontata e noiosa», «vaniloquio», tra l'altro incoraggiata colpevolmente da una parte della stampa che fa il tifo e non è in grado di svolgere il compito che le spetta e richiamare al necessario senso di responsabilità. Come altre volte i vescovi non fanno distinzioni tra candidati e schieramenti e ripetono che è necessaria una sorta di rifondazione della classe politica, a partire da una nuova generazione.

La seconda voce è quella del Procuratore generale antimafia Pietro Grasso, solitamente molto prudente e stavolta invece esplicito, di fronte al ministro di giustizia Angelino Alfano, nel dire che il dialogo tra un governo che arriva a definire un cancro parte della magistratura e gli stessi giudici è difficile per non dire impossibile. Grasso arriva a correggere il Guardasigilli quando usa una citazione di Falcone, proprio nell’anniversario della strage di Capaci, per portare acqua al mulino della propria riforma.

La terza, ma ovviamente non in ordine di importanza, è quella del Capo dello Stato, che parlando davanti alla stampa estera ha nuovamente ammonito i politici dai rischi di un’eccessiva partigianeria e ha avvertito che anche se lo tirano per la giacchetta continuerà per la sua strada.

Naturalmente non c'è alcun diretto collegamento tra questi tre diversi interventi che solo una coincidenza ha voluto venissero pronunciati sullo sfondo della quintultima giornata di campagna elettorale - una delle peggiori, sia detto per inciso, degli ultimi anni. Il problema è che, lungi dal rappresentare qualsiasi posizione di parte, Bagnasco, Grasso e Napolitano riecheggiano lo stato d’animo di parti consistenti di società civile, di categorie, di cittadini elettori, che gli urli di questi giorni vorrebbero scuotere da un’apparente abulia e che invece si sono allontanati dalle urne perché non si riconoscono ormai nello scontro permanente del Paese in cui vivono e alla fine non sanno più che fare.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La guerra civile del voto
Inserito da: Admin - Maggio 26, 2011, 05:49:24 pm
26/5/2011

La guerra civile del voto

MARCELLO SORGI

Se doveva servire a capovolgere i risultati del primo turno, deludenti per il centrodestra, la campagna elettorale per il ballottaggio, chiusa tra l’altro in anticipo ieri da Silvio Berlusconi con un ennesimo intervento in tv, difficilmente sortirà i suoi effetti.

Specie dopo che il premier, più esplicitamente, prima, davanti al vertice del suo partito, e con più cautela di fronte alle telecamere, ha scaricato la colpa della sconfitta, quella consumata e quella eventuale di lunedì, sulle spalle dei candidati sindaci di Milano e Napoli, lasciando così trasparire un suo insolito ancorché motivato pessimismo.

Per quanto cerchi di nasconderlo, Berlusconi infatti ha visto tutto ciò che è passato sotto gli occhi e le orecchie dei cittadini telespettatori negli ultimi giorni: il silenzio cupo, a cominciare dal suo, seguito alla «scoppola» di Milano, i mugugni della Lega Nord, la confusione nevrotica di proposte a chi più ne ha più ne metta, la disfida dei ministeri da trasferire, e su questo, ma non solo su questo, il Pdl diviso in fazioni che non solo si combattono apertamente, ma per la prima volta contestano il leader fin qui quasi indiscusso.

Dal sindaco di Roma Alemanno alla presidente della Regione Lazio Polverini, all’ex ministro Scajola, Berlusconi s’è trovato di fronte non, come aveva detto tante volte, a un partito che non c’è o è ancora da costruire; ma piuttosto a correnti strutturate e agguerrite che contestano quel che ha fatto finora, e il modo in cui intende muoversi in prospettiva. E per far capire fin dove possono arrivare, i capi di queste correnti, oltre a depositare le loro asce di guerra sulla scrivania del povero Letta, destinatario di tutte le lamentele, hanno cominciato a far circolare la possibilità di darsi anche un’identità precisa e alternativa a quella del Pdl, per poi trattare in Parlamento con chi ci sta.

Obiettivo di questa nuova fase di «mani libere», per usare una vecchia definizione da Prima Repubblica, da aprirsi all’indomani della nuova eventuale sconfitta, sarebbe, non, o non immediatamente, il governo, ma la possibilità di arrivare entro fine legislatura a una nuova legge elettorale che archiviando quella attuale maggioritaria e bipolare riapra i giochi a tutta una serie di partiti e partitini che nascerebbero dall’implosione di quello del presidente del Consiglio. Un ritorno all’antica: dal quale è difficile capire cosa potrebbe nascere in termini di assetto per governare il Paese. Ma che essendo fondato sul potere di veto dei piccoli verso i grandi, anche ammesso che i grandi sopravvivano, riporterebbe in vita l’instabilità già sperimentata dal sistema italiano per oltre quarant’anni.

C’è ovviamente molta presunzione nel credere che uno come Berlusconi si lasci liquidare con una sorta di colpo di Palazzo e non metta in campo tutta la forza che gli rimane e tutta la (scarsa, al momento) presa che ha ancora sull’elettorato per cercare di evitarlo. Ma a un gioco del genere, si capisce chiaramente, non è estranea neppure una parte del centrosinistra: quella centrista, che guarda con timore la nascita o la rinascita di un equilibrio di sinistra-sinistra, con ex Ds di prima fila che parlano chiaramente di una riunificazione con Vendola. Ma non solo: se è vero che D’Alema ha riproposto di recente l’ipotesi di una nuova legge elettorale di tipo tedesco guardata con simpatia dai post-democristiani di entrambe le sponde.

Ecco perché Berlusconi ieri sera a Porta a Porta ha detto che il Porcellum attualmente in vigore va bene così com’è. E perché ha riproposto pari pari il pacchetto di riforme del centrodestra - fisco, giustizia, Sud, architettura dello Stato - attualmente arenate in Parlamento. Che una tornata di amministrative potesse risolversi addirittura nella fine anticipata della Seconda Repubblica, non poteva prevederlo lui, né forse nessun altro. Ma che, comunque vadano i ballottaggi, di qui alla fine della legislatura Berlusconi cercherà di impedirlo con ogni mezzo, anche a costo di continuare la guerra civile in cui si sono trasformate queste elezioni, questo, purtroppo, è sicuro.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Berlusconi, le risposte che deve al Paese
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2011, 03:48:22 pm
31/5/2011

Berlusconi, le risposte che deve al Paese

MARCELLO SORGI

Sconfitti duramente anche nei ballottaggi e nella Milano città-simbolo da cui tutto era cominciato diciassette anni fa, Berlusconi e il berlusconismo sono davvero da considerarsi finiti? Il premier da Bucarest risponde di no, assicura che l’asse con Bossi reggerà e il rilancio del governo è possibile. E anche se è lecito nutrire dubbi su un leader che dopo anni di straordinaria sintonia con gli umori popolari, adesso non si rende conto che il suo rapporto con l’opinione pubblica è compromesso, occorre sempre ricordarsi che Berlusconi è apparso altre volte sull’orlo del precipizio, salvo poi riuscire a ritrarsene.

Era ridotto anche peggio nel 2005, alla fine della sua prima legislatura di governo e delle elezioni in quindici regioni su venti. Eppure nel 2006, quando fu battuto da Prodi, perse per soli ventiquattromila voti e dopo soli due anni riottenne la vittoria e il governo. Forse la vera domanda da porsi è dunque: può anche stavolta bissare il miracolo, e cosa potrebbe e dovrebbe fare realmente per riprendersi? Può seriamente pensare di salvarsi grazie a Bossi, che proprio in questi giorni ha confessato ai suoi che resta alleato di Berlusconi solo «perché c’è ancora tanta mobilia da portar via»? Può credere ulteriormente nell’alleanza con i «Responsabili» talmente volatile che una sottosegretaria appena nominata s’è dimessa proprio alla vigilia del voto? Può considerare la giustizia il primo punto del suo nuovo programma, anche se è chiaro che il problema lo riguarda da vicino e per gran parte dei cittadini le questioni più urgenti sono altre?

Sono interrogativi che ormai esplicitamente, anche all’interno del Pdl, tutti si pongono. In un partito normale e in una situazione normale un leader che ha fatto il suo tempo e ha subito uno schiaffo elettorale come quello delle amministrative verrebbe accompagnato alla porta. Ma Berlusconi, del suo partito, è ancora il padre-padrone. Ecco perché è possibile che nell’immediato possa resistere e imporre la sua visione delle cose. Molto dipenderà dal modo e dai contenuti delle sue proposte. Ma al momento, è sicuro, anche gli uomini a lui più vicini, quelli che hanno condiviso fin qui la sua avventura a qualsiasi prezzo, su almeno due punti si aspettano risposte chiare.

Il primo, ovviamente, riguarda il governo. Se non vuole lasciare Palazzo Chigi, è necessario che Berlusconi faccia capire di non sentirsi più il candidato premier del prossimo futuro. Scelga Tremonti o Alfano come suo vice e possibile successore. Accrediti e faccia apparire uno dei due come possibile perno di una svolta che non può più essere rinviata. Oppure, se non ne è convinto e vuole costruire diversamente la successione, proponga un metodo, con regole e tempi chiari. Nel centrodestra c’è ormai chi parla apertamente di primarie, metodo rivelatosi vincente, malgrado le incognite, per il centrosinistra. Berlusconi deve dire cosa ne pensa, e nell’eventualità che questa sia la scelta, se accetterebbe di non candidarsi in prima persona. Inoltre, valuti nuove priorità per il programma di fine legislatura, obiettivi realistici e visibili, risultati stabili e non provvisori, com’è stato appunto per il terremoto dell’Aquila e i rifiuti di Napoli. Dica la verità sull’economia: se è vero che il governo dovrà fare manovre molto rigorose nei prossimi tre anni per rientrare nei parametri europei, non cerchi di nasconderlo; e soprattutto non prometta tagli delle tasse se sa che non saranno possibili.

Il secondo punto è il partito. Giunte sull’onda della sconfitta, le dimissioni di Bondi, uno dei tre contestatissimi coordinatori del Pdl, hanno dato la sensazione che qualcosa finalmente sia in movimento e che sia direttamente Berlusconi (Bondi non se ne sarebbe mai andato senza il suo consenso) ad aver rimesso in moto tutto. Se è così, lo dica chiaro. Prenda immediatamente le distanze da tutte le soluzioni improbabili, stile Prima Repubblica, che alla vigilia del voto gli sono piovute sul tavolo. Il congresso proposto da La Russa. Il direttorio delle correnti propugnato da Frattini. La rifondazione democristiana sognata dai transfughi dell’Udc. Se pensa, come certe volte si fa scappare tra i muri di Palazzo Grazioli, che un partito così non è che non sia mai nato, ma è già bell’e morto, lo sciolga e lo rifondi: magari non dal predellino di una Mercedes, ma a partire da un manifesto, cinque o sei punti credibili e adeguati alla situazione, scritti e illustrati da personalità di un certo livello. Mentre è indispensabile che faccia saltare l’equilibrio delle correnti e dei notabili, interni, esterni e con un piede dentro e uno fuori, non è necessario che la rinascita avvenga solo a partire dai giovani. Nella Forza Italia delle origini c’erano tante persone autorevoli di cui non s’è mai capito perché siano state messe da parte, gli Urbani, i Martino, i Pera, solo per fare qualche esempio, che avevano dato al partito l’identità liberale di massa della prima ora e furono travolti dalla fusione con i postfascisti.

Già solo la metà di queste cose potrebbe dare la sensazione che Berlusconi vuol fare sul serio, riaprendo, a partire dai contenuti, il confronto con i moderati del Terzo polo, che hanno incassato platealmente la sua sconfitta ma non hanno potuto celebrare la loro vittoria. Ma sarà in grado, logorato com’è, il Cavaliere, di avviare una fase nuova? Ha due anni di tempo e di fronte un centrosinistra che già ieri sera, fin dai primi commenti, ha svelato due anime contrastanti: quella prudente di Bersani, che più che a un assalto finale alla diligenza pensa a un governo d’emergenza, per chiudere già in questa legislatura la ventennale era berlusconiana. E quella baldanzosa di Vendola e della sinistra radicale, che sognano nuove elezioni per tornare in Parlamento, portando all’incasso i risultati della vittoriosa corsa dei sindaci.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Da Napoli l'unica novità del voto
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2011, 06:02:27 pm
1/6/2011 - TACCUINO

Da Napoli l'unica novità del voto

MARCELLO SORGI

All’indomani della sua elezione plebiscitaria, le dimissioni di De Magistris dal suo partito, l’Italia dei Valori, sono l’unica notizia fornita dal neo sindaco di Napoli. L’ex magistrato l’ha spiegata bene, dicendo che lascerà anche il seggio di europarlamentare, e che il ruolo ricoperto nel partito – ovviamente, quello di responsabile dei problemi della giustizia – era incompatibile con i compiti che lo attendono. Ma a parte il fatto che essere sindaco è una carica amministrativa che fa riferimento a una maggioranza e ha contro un’opposizione, cioè qualcosa di diverso dalle cariche istituzionali che richiedono la rinuncia a un’appartenenza (e questa è la ragione per cui ci sono un sacco di sindaci del Pdl, del Pd, o di altri partiti che si tengono la tessera), la decisione di De Magistris sembra più facile da spiegare come logica conseguenza di una campagna elettorale, proprio la sua, giocata al primo turno tutta contro il Pd e al secondo contro il Pdl, e più in generale contro la partitocrazia. In questo senso De Magistris non è il primo, ma forse rappresenta l’esempio più riuscito, di sindaco antipolitico e antipartitocratico, che ha costruito nelle urne una sua maggioranza autonoma e ha preso giustamente tempo prima di decidere la sua giunta, perché sa che seppure con i partiti dovrà convivere, a livello locale e nazionale, ogni compromesso in quel campo sarà giudicato severamente dall’elettorato e dalla cittadinanza napoletana, disperata ed esausta per le promesse subite e non mantenute.

Si tratta di un esperimento nuovo e difficile da realizzare. Ma De Magistris ha dimostrato di avere capacità e fegato necessari per portarlo a termine. Quel che resta da capire, a parte l’ambizione logica di dimostrare che così Napoli può essere amministrata meglio di quel che hanno fatto le vecchie amministrazioni politiche classiche, è dove possa poi puntare, se le cose andranno come spera, il candidato che a sorpresa ha capovolto più di tutti il risultato elettorale, dando trenta punti di distacco al suo avversario, ed è diventato tutto insieme il capo di un nuovo partito personale. Su questo, De Magistris è comprensibilmente abbottonato. Ma alle prossime primarie del centrosinistra, quelle che al più tardi entro un anno dovranno laureare il prossimo aspirante premier, si può scommettere che accanto a Renzi, il sindaco di Firenze che ha già annunciato che entrerà in corsa, ci sarà anche il nuovo sindaco di Napoli.

DA - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/


Titolo: MARCELLO SORGI. La scelta obbligata del premier
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2011, 05:01:55 pm
2/6/2011

La scelta obbligata del premier

MARCELLO SORGI

La decisione della Corte di Cassazione di far votare anche sul nucleare, oltre che sulla privatizzazione dell’acqua e sul legittimo impedimento, fa del prossimo appuntamento alle urne per il 12 e il 13 giugno sempre più un nuovo referendum su Berlusconi, dopo quello delle amministrative, voluto dal premier in persona e conclusosi con la sua sconfitta personale e politica. Non servirà ad evitarlo la decisione assunta ieri sera dal Pdl di lasciare libertà di voto agli elettori sulla più insidiosa delle consultazioni.

Il ritorno del voto sul nucleare infatti rende assai probabile, per non dire certo, il raggiungimento del fatidico quorum della metà degli elettori più uno, richiesto dalla legge per la validità dei risultati e negli ultimi quattordici anni mancato anche grazie ad attive campagne per l’astensione. Se avesse deciso di puntare sulla diserzione degli elettori dai seggi, Berlusconi avrebbe corso il rischio di dover fronteggiare una doppia ondata di «sì» all’abrogazione.

La prima arriverà probabilmente da parte dei cittadini ancora impressionati dal recente disastro della centrale di Fukushima, e curiosi di sapere perché, se un Paese importante come la Germania ha prima sospeso e poi rinunciato del tutto all’utilizzo dell’energia atomica, l’Italia si ritrovi a indugiare, adoperando la tradizionale arma del rinvio e sotto sotto cercando di salvare il proprio piano nucleare. La seconda spinta verrà invece da tutti coloro che, soddisfatti per il recente crollo berlusconiano a Milano e a Napoli, non vedono l’ora di provocarne un secondo.

Dopo la decisione dei giudici della Suprema Corte, Berlusconi aveva pochi margini di manovra. Non poteva schierarsi certo per l’abrogazione di progetti fortemente voluti dal suo governo (vale per il nucleare, ma anche per l’acqua, e a maggior ragione per il legittimo impedimento). La scelta di mettere in libertà i suoi elettori - scorciatoia a cui i partiti ricorrono in genere quando sono in imbarazzo e temono delusioni - in qualche modo era obbligata. Servirà a tenere Berlusconi lontano da questa seconda campagna elettorale, anche se non potrà puntare sull’astensione adesso che l’affluenza ai seggi si preannuncia più forte. Dovrà tuttavia rinunciare a mettere la sordina a media e tv, con l’aggravante, ironia della sorte, che l’odiata (da lui) par condicio gli si riproporrà stavolta in modo perfetto, con una ripartizione esattamente a metà degli spazi televisivi tra «sì» e «no».

E’ davvero un cattivo momento, si sa, per il Cavaliere. E i referendum sono sempre bestie difficili da addomesticare anche per leader politici consumati, com’è ormai Berlusconi. La presenza, fra i tre temi soggetti al giudizio popolare, del legittimo impedimento, la legge salva-processi che già la Corte Costituzionale ha dimezzato e va in scadenza a ottobre, e che lo costringe da aprile a presentarsi tutti i lunedì in Tribunale a Milano, già da sola bastava a trasformare il 12 giugno in un altro giudizio di Dio su di lui. Dopo tutto quel che ha detto sulla giustizia e sui giudici, però, sarebbe veramente molto strano trovarlo assente anche in questo campo, proprio quando sono gli elettori a doversi pronunciare sull’argomento che più lo preme. Se poi, com’è possibile, la legge sul legittimo impedimento, o meglio quel che ne resta, dovesse essere abrogata, sul piano processuale nulla cambierebbe per il più eccellente degli imputati. Ma diventerebbe più difficile riproporla sotto altre forme da Palazzo Chigi come già fu fatto quando la Consulta cancellò il lodo Alfano.

Insomma una nuova delicata partita sta per aprirsi sull’orizzonte del Berlusconi declinante delle ultime settimane. Scriveva Leonardo Sciascia nel 1974, quasi quarant’anni fa, ai tempi del primo referendum sul divorzio: «Considero i referendum come gli avvenimenti più democratici mai verificatisi in Italia. Quelli che hanno dato veramente un’immagine di questo Paese che non si ha mai attraverso i risultati delle elezioni politiche o amministrative».

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Titolo: MARCELLO SORGI. Una nuova stagione a viale Mazzini
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2011, 02:17:57 pm
7/6/2011

Una nuova stagione a viale Mazzini

MARCELLO SORGI

In nessun Paese del mondo l’uscita di un conduttore da una tv e il suo probabile passaggio a un’altra rete hanno mai provocato quel che è accaduto ieri in Italia all’annuncio della separazione consensuale tra Michele Santoro e la Rai. Una scossa d’adrenalina in tutto il sistema politico, una tale ondata di reazioni, nella maggioranza e nell’opposizione, da far dimenticare le giornate più calde della rovente campagna elettorale appena conclusasi.

E’ un’anomalia alla quale è difficile abituarsi, e di fronte alla quale, anzi, non si finisce di stupirsi, anche se le guerre politiche attorno alla televisione, pubblica e privata, durano da oltre trent’anni in Italia, cioè da quando è finito il monopolio statale dell’emittenza, e hanno avuto una recrudescenza da quando il padrone delle tre maggiori reti private, divenuto presidente del Consiglio, ha esteso il suo controllo anche a quelle pubbliche.

Nel caso specifico c’è una ragione in più che spiega quanto sta accadendo: oltre a essere il bersaglio numero uno di Berlusconi, che lo aveva silurato già ai tempi della sua prima legislatura al governo nel famoso «editto bulgaro», e ne è stato cordialmente ricambiato in tutti questi anni in cui il famoso conduttore ha potuto trasmettere grazie a una sentenza della magistratura, Santoro è stato proclamato solo pochi giorni fa vincitore delle ultime elezioni, conclusesi, come si sa, con l’elezione dei sindaci Giuliano Pisapia a Milano e Luigi De Magistris a Napoli.

Naturalmente è tutto da dimostrare che l’endorsement venuto dallo studio di «Annozero» sia stato forte al punto da spingere così in alto i due principali vincitori e aprire un baratro talmente profondo per i candidati del centrodestra. Ma Berlusconi se ne è convinto e lo ha ripetuto fino alla noia ai suoi collaboratori e davanti al vertice del suo partito. Per molti di loro non era affatto una novità: nel 2001, parliamo di dieci anni fa, quando il centrodestra sfrattò di nuovo dal governo il centrosinistra, Berlusconi s’era addirittura fatto fare dai sondaggisti una tabella che faceva vedere a tutti e a suo parere dimostrava come ogni settimana Santoro gli portasse via da un punto e mezzo a due punti di vantaggio sui suoi avversari. E siccome aveva vinto per poco, non faceva che ripetere: «Se si fosse votato una settimana dopo, quello lì riusciva pure a farmi perdere!».

Se davvero, come ha annunciato Enrico Mentana ieri sera, Santoro è a un passo dall’accordo con La7, la tv di Telecom che s’avvia ormai a diventare stabilmente il terzo polo televisivo tra Rai e Mediaset, quella di Berlusconi sarà stata una vittoria di Pirro. Sai che soddisfazione, per lui che lo considera il peggior nemico, aver tolto Michele da Raidue per vederselo spuntare alla stessa ora, e magari con maggiori ascolti, su un altro canale. Per questo, all’interno della Rai eternamente in ebollizione, l’annuncio dell’accordo raggiunto con il conduttore ha sollevato reazioni negative anche all’interno del consiglio d’amministrazione, che è da sempre il tramite tra la tv di Stato e la politica, e nel fronte che fa capo al presidente del Consiglio. Curiosamente, sia da parte della sinistra che della destra del cda si sono levate voci che pretendevano che a Santoro, in caso d’uscita, fosse imposto una sorta di patto di non concorrenza per tenerlo lontano dalle telecamere per almeno due anni.

Ora, a parte la pretesa di difendere la libertà di stampa, e al suo interno quella del conduttore, imponendogli un bavaglio e cancellandolo dai teleschermi, è sicuro che a queste condizioni Santoro non avrebbe mai accettato di sciogliere il suo contratto con la Rai. In attesa di conoscere già oggi i dettagli dell’accordo e le intenzioni del leader del partito di «Annozero», si può tentare di stilare un provvisorio borsino dei vincitori del primo tempo di questa partita. Primo, ovviamente, Michele in persona: s’è tolto la soddisfazione di vedere uscire dalla Rai prima di lui Mauro Masi, il precedente direttore generale, che era arrivato a minacciarlo in diretta di sanzioni telefonandogli mentre il suo programma andava in onda, e alla fine di una trattativa abbastanza simile a quella che s’è conclusa ieri non era riuscito a convincerlo e aveva dovuto gettare la spugna. Inoltre, se quello di ieri è solo un arrivederci, e Santoro tornerà presto in scena da La7 o da un’altra emittente, non dovrà temere le proteste del suo pubblico, che si manifestarono sonoramente via Internet la volta scorsa, alle prime indiscrezioni della trattativa con Masi, e potrà togliersi la soddisfazione di far la concorrenza alla tv di Stato che lo ha messo alla porta e di continuare a criticare Berlusconi come gli aggrada.

La seconda vincitrice è Lorenza Lei, la nuova direttora generale della Rai. Si dirà che non può diventare un titolo di merito aver accontentato come prima mossa il più forte dei capricci del Cavaliere. Ma nel modo in cui lo ha fatto, riconoscendo a Santoro il valore della sua professionalità, lasciando aperto uno spiraglio a collaborazioni future, rifiutandosi di imporgli assurde clausole di non concorrenza, e trovando così il suo consenso, c’è una prova di autonomia che, pur nell’ambito ristretto in cui un manager della Rai deve muoversi, non è affatto comune. Immaginiamoci le facce dei consiglieri d’amministrazione che dovranno ratificare l’oneroso accordo di buona uscita di Santoro: per rifiutarlo, dovrebbero votare contro Berlusconi. E se lo accettano, dovranno invece riconoscere che la Lei ha deciso da sola, li ha messi di fronte al fatto compiuto e poi è passata all’incasso.

Quella della Rai è la storia di una guerra infinita, e anche il caso Santoro, c’è da scommetterci, non finisce qui. Ci sarà un contrattacco, non sarà il primo né l'ultimo. Ma dopo mesi, per non dire anni, di mediocre gestione e di andamento inconcludente, è possibile che dall’inatteso blitz di ieri pomeriggio al settimo piano di viale Mazzini venga un segno di cambiamento.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Fumata nera e poche concessioni
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2011, 04:02:40 pm
8/6/2011 - TACCUINO

Fumata nera e poche concessioni

MARCELLO SORGI

Se serviva una conferma che il vertice di maggioranza di lunedì è stato inutile, se non addirittura controproducente, nella giornata di ieri ne sono arrivate più d'una. La cautela con cui il ministro dell'Economia Tremonti ha evitato le domande dei giornalisti relative alle ipotesi di riduzioni fiscali, argomento su cui Berlusconi aveva insistito molto ad Arcore per rafforzare il rapporto con gli elettori delusi e costruire la ripresa del centrodestra nel fine legislatura, fa pensare che il ministro che ha in mano i conti dello Stato non abbia molte concessioni da fare su questo terreno.

L'altro fronte aperto è di nuovo quello dello spostamento dei ministeri a Milano, cavallo di battaglia della Lega negli ultimi giorni nella deludente campagna elettorale per le amministrative, su cui il premier aveva fatto qualche vaga apertura che aveva provocato la sollevazione del sindaco di Roma Alemanno e della governatrice del Lazio Polverini. Puntualmente le polemiche si sono riproposte ieri non appena il ministro Calderoli ha annunciato la presentazione di una proposta di legge per il trasloco ministeriale, sul quale il Carroccio sostiene di aver avuto un via libera da parte del Cavaliere. Berlusconi fa sapere di aver fatto un’apertura, al massimo, allo spostamento di qualche ufficio di rappresentanza. Ma questo non basta a placare le ire degli ex An romani e neppure a rassicurare i leghisti.v

La sensazione insomma è che malgrado la nomina di Alfano a segretario e l'avvio di una nuova fase del Pdl, sia il partito del presidente, sia la maggioranza nel suo complesso, fatichino ancora a digerire la sconfitta di Milano e Napoli, e soprattutto che non abbiano raggiunto alcuna intesa sulle prospettive. La continuazione della collaborazione tra i due alleati di governo come se nulla fosse accaduto si va rivelando impossibile per le difficoltà di Bossi di tenere a bada la base del suo partito sempre più inquieta, in vista dell’appuntamento di Pontida che per la prima volta dopo molti anni dovrà fare i conti con una sconfitta, e per le divisioni interne del Pdl, rimaste intatte, e anzi aggravatesi in qualche caso, anche dopo le rassicurazioni del presidente del Consiglio. Alla fine il partito è diviso tra chi ritiene che Berlusconi con un colpo d'ala possa ancora recuperare, e chi invece vorrebbe vedergli fissare fin d'ora tempi e modi della successione.

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Titolo: MARCELLO SORGI. I due alleati sono sulla stessa barca
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2011, 05:27:28 pm
9/6/2011 - TACCUINO

I due alleati sono sulla stessa barca

MARCELLO SORGI

Il terzo giorno consecutivo di vertici di maggioranza, mentre il governo al Senato viene battuto due volte, è il sintomo più evidente della difficoltà in cui si dibattono Berlusconi e Bossi insieme. La novità è questa: la sconfitta elettorale ha stretto nella stessa barca i due alleati e li ha messi di fronte alle stesse difficoltà. E mentre Berlusconi cerca di trovare una via d’uscita davanti al suo partito che da lui si aspetta sempre un miracolo, Bossi sta sapientemente alimentando l’attesa del consueto appuntamento con il popolo leghista sul pratone di Pontida, come se appunto in quell’occasione dovesse annunciare una svolta.

Cerimonia a metà tra il mistico e il carismatico, Pontida per la verità ha subito lo stesso logorìo che il gruppo dirigente della Lega cerca invano da tempo di nascondere. Ai tempi dell’irresistibile ascesa del Carroccio era il luogo da cui Bossi lanciava i suoi ultimatum, che servivano a dare uno scrollone al patto con il Cavaliere e a tentare di ottenere qualche vantaggio per rinegoziare l’alleanza. E’ a Pontida, per intendersi, che il federalismo è stato promesso e rinviato per anni, fino a quando, a un passo dall’approvazione definitiva, l’elettorato lumbard ha cominciato a capire che rischiava una fregatura e che lo slogan costitutivo della Lega, «I soldi del Nord resteranno al Nord», non sarebbe mai diventato mai realtà.

Poi con il tempo, come accadeva ai tempi della Prima Repubblica, anche gli ultimatum leghisti sono via via svaporati in penultimatum: si veda la rottura minacciata sulla guerra in Libia durante la recente campagna elettorale per le amministrative, subito rientrata in uno dei più classici compromessi parlamentari. Adesso l’idea che i ministeri al Nord, ancora allo stato di proposta di legge, con Berlusconi che promette una cosa a Calderoli e il contrario di quella cosa ad Alemanno e Polverini, possano diventare la nuova bandiera da far sventolare il 19 giugno, data della prossima adunata sul pratone, per placare gli animi più inquieti e spingere i leghisti alla riscossa, rischia di trasformarsi in un miraggio. Ci vorrebbe ben altro, e Bossi è il primo a saperlo. Ma anche lui non sa come cavarsi dall'impaccio. Seduto tra Berlusconi e Tremonti, testimone silenzioso di un braccio di ferro sulla riforma fiscale destinato a protrarsi senza fine, il Senatur ha ben chiaro che questa stagione del centrodestra volge alla conclusione. Ma non ha ancora deciso come uscirne.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Sul quorum regna ancora l'incertezza
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2011, 10:22:42 am
10/6/2011 - TACCUINO

Sul quorum regna ancora l'incertezza

MARCELLO SORGI

Il tardivo appello di Confindustria a votare «no» al referendum sulla privatizzazione dei servizi di distribuzione dell’acqua aggiunge certo probabilità all'eventuale raggiungimento del quorum per la consultazione di domenica e lunedì, ma rivela il clima di incertezza in cui si dibattono fino all'ultimo partiti e organizzazioni di categoria. Viene da pensare che la Marcegaglia disponga di sondaggi che non possono ovviamente essere resi noti, ma che assegnano buone percentuali a chi punta alla riuscita dei referendum. E che ovviamente la presidente degli industriali, mettendo in conto questa possibilità, non voglia ritrovarsi tra gli sconfitti, al fianco del presidente del consiglio e del governo che hanno puntato sull’astensione.

Anche il segretario del Pd Bersani, che fino a due giorni fa puntava deciso sulla vittoria dei «sì» e della partecipazione al voto, ieri ha aggiustato il tiro, suggerendo agli elettori più convinti di andare ai seggi prima delle dieci, in modo da dare un segnale fin dalla prima rilevazione del Viminale, che avverrà appunto a metà mattinata, e incoraggiare così gli altri elettori più pigri a muoversi per tempo. Ci si potrà aspettare con una certa tranquillità che il quorum sia raggiunto, se domenica sera avrà votato attorno al quaranta per cento degli aventi diritto; sotto il trenta, invece, il rischio dell’invalidità resterà molto forte, e solo una partecipazione eccezionale nella mezza giornata di lunedì potrebbe scongiurarlo.

Al di là dei «sì» e dei «no» che saranno segnati sulle schede (i «sì» abrogazionisti sono dati in vantaggio sia sul nucleare che su acqua e legittimo impedimento), la vera partita è questa. Non a caso, completata ormai la serie di dichiarazioni di voto dei partiti, i due fronti - partecipazionista e astensionista - riproducono grosso modo gli schieramenti delle recenti amministrative, con Berlusconi e Bossi (quest’ultimo pronunciatosi per tramite di Reguzzoni) che tentano di prendersi la rivincita su Terzo polo e centrosinistra, o almeno di dimostrare che la sconfitta di due settimane fa sia stata solo un episodio. E l’opposizione, al contrario, che in caso di superamento del quorum sarebbe pronta a dire che ormai il Cavaliere non ha più la maggioranza nel Paese. Nell’un caso o nell’altro non conterà se chi ha vinto ce l’ha fatta solo per una manciata di voti trovati o mancanti. La caratteristica dei referendum infatti è che, finito lo spoglio, chi vince, anche con un solo voto in più dell’avversario, prende tutto il piatto.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Tremonti nel mirino del premier
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2011, 06:19:03 pm
14/6/2011

Tremonti nel mirino del premier

MARCELLO SORGI

Dopo quella di un governo Tremonti, nata a cavallo del primo turno delle amministrative per arginare la crisi di Berlusconi e del centrodestra, l’ipotesi di un governo senza Tremonti s’è affacciata ieri sera in seguito alla terza sconfitta consecutiva del premier e del suo governo.

Battuti politicamente nelle urne dei referendum sull’astensione, sul nucleare e sull’acqua, e personalmente, il Cavaliere, sul legittimo impedimento o su quel che ne restava, dopo la mezza bocciatura della Corte Costituzionale: così che da oggi stesso tornerà ad essere un imputato senza alcuna protezione dai suoi processi.

Il capovolgimento che punta a rompere una volta e per tutte gli argini della politica economica di rigore, fin qui tenuti alti dal ministro dell’Economia, conferma nuovamente e drammaticamente la precarietà della situazione politica. Dopo esserne stato il migliore amico, Tremonti è diventato inviso a una Lega in preda alla disperazione, che preme sul Cavaliere minacciando di disarcionarlo. A urne aperte, domenica, prima il ministro dell’Interno Maroni con un’intervista al Corriere, poi lo stesso Bossi, hanno preso di mira il responsabile dell’Economia, parlando a suocera (Berlusconi) perché nuora (Tremonti) intenda. E Calderoli commentando a caldo i risultati ha annunciato che a Pontida, all’adunata del popolo padano di domenica prossima, il Carroccio detterà le sue condizioni.

Si tratterà probabilmente di richieste inaccettabili, tipo l’immediata chiusura delle missioni internazionali e la fine della guerra in Libia, tra le quali faranno capolino le vere condizioni del Senatur, prima tra tutte la svolta economica, la riduzione delle tasse e la liberazione dei sindaci del Nord dai limiti di spesa imposti dal patto di stabilità. Il fatto che per questa strada l’Italia possa avviarsi sulla china della Grecia non preoccupa il principale alleato di governo, convinto che l’orizzonte nazionale, e in qualche caso quello provinciale, debba prevalere su tutto.

A Berlusconi resta il compito scomodo di mediare tra un partner della coalizione e un ministro, entrambi e a loro modo indispensabili. Ma chi gli è vicino dice che non ne ha voglia. Il presidente del Consiglio ritiene che sotto sotto Bossi abbia ragione e le resistenze tremontiane che ha cercato inutilmente di piegare nell’ultimo mese siano tali da condannare la legislatura a un avvitamento e il centrodestra a una sicura sconfitta elettorale. Che l’elettorato, in tutte le occasioni in cui ha potuto, abbia voltato le spalle principalmente a lui e all’inconcludenza del suo governo, il Cavaliere non vuol sentirselo dire. Anche la forte affluenza degli elettori alle urne referendarie, in barba al suo invito a non andare a votare, non la considera una sconfitta personale. Se il 44 per cento degli elettori del Pdl e quasi il 40 di quelli della Lega sono andati a votare, obietta, è perché si sono sentiti liberi di fare così sapendo che non mettevano a repentaglio il governo.

Una così testarda difesa di se stesso tuttavia non sottovaluta i segnali di scollamento dati per tre volte dall’elettorato. Di qui l’urgenza della svolta economica che Berlusconi vuole a qualsiasi costo, perfino la testa di Tremonti. Non lo preoccupa la firma messa sotto il piano di rientro triennale dal deficit: se Sarkozy chiede all’Europa una dilazione, perché l’Italia non dovrebbe accodarsi? Non lo interessano i rischi e le ricadute di una linea così avventurosa, né la necessità di dar corso agli esiti del voto in tempi brevi, come ha promesso ieri nell’asettico comunicato con cui ha commentato i referendum, sia in materia di nucleare che di abbandono dei progetti di privatizzazione dei servizi di distribuzione dell’acqua.

Per questo, anche se molti tra i suoi consiglieri lo invitano alla ragionevolezza, Berlusconi non farà nulla di quel che sarebbe urgente e necessario: come mettere mano al partito e al governo, ormai divisi per bande e correnti, e aiutare il giovane Alfano a dar corpo alla propria leadership, al momento puramente formale; nominare i ministri che mancano e sostituire quelli che non funzionano; gestire la trattativa con la Lega negoziando, ma anche richiamandola al senso di responsabilità indispensabile per una forza di governo; preparare l’appuntamento parlamentare della verifica del 21 e 22 giugno con programmi seri e scadenze ravvicinate; prendere atto che il voto sul legittimo impedimento richiede un marcato cambiamento di toni e di argomenti in materia di giustizia. No, Berlusconi, su questo e altro non cambierà passo, procederà ancora alla sua maniera. Se il suo declino appare ormai irreversibile e la caduta s’annuncia fragorosa, il suo cammino non è ancora giunto alla fine.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Ma il Pdl non è pronto alle primarie
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2011, 12:12:39 pm
16/6/2011 - TACCUINO

Ma il Pdl non è pronto alle primarie

MARCELLO SORGI

I giornali vicini alla destra si affannano a scandagliare le reazioni interne del Pdl alla doppia sconfitta delle amministrative e del referendum e le eventuali alternative da discutere per imporre un deciso cambio di rotta che consenta di intercettare la protesta degli elettori di centrodestra. Ma anche le radiografie più precise, i sondaggi più approfonditi, gli esami più severi, non riescono a registrare segnali degni di nota. Tra il primo e il secondo turno delle amministrative, e poi tra i ballottaggi e i referendum, anzi, il numero dei partecipanti alla discussione s'è assottigliato, le voci si sono fatte più flebili, proposte chiare non se ne vedono o ascoltano.

E il paradosso è quello di un partito che sotto sotto vorrebbe che il leader che l'ha portato al disastro si facesse da parte, ma al dunque non è in grado di indicare un percorso per la successione o per un rafforzamento del vertice, o di individuare nuove e vere regole interne per uscire dal meccanismo della guida carismatica e delle decisioni che partono dall'alto e non vengono quasi mai discusse. L'esempio di questo malessere che neppure le scosse ricevute dalle urne sono riuscite a curare è dato dal nuovo segretario, Angelino Alfano, e dal suo primo mese di attività. Designato da Berlusconi come risposta visibile alla delusione elettorale, Alfano non potrà realmente insediarsi prima dell'inizio di luglio, quando la sua nomina sarà messa al voto del Consiglio nazionale. Nel frattempo, nessuno dei riti classici di inizio di una nuova leadership ha potuto essere messa in pratica dal nuovo segretario, apparso un paio di volte nel cortile di Arcore, solo per dichiarazioni di circostanza, mentre il fronte interno dei suoi oppositori si organizzava e si rafforzava. Così c'è chi dice che l'imprevista alleanza tra il governatore della Lombardia Formigoni, il sindaco di Roma Alemanno e il ministro dei Trasporti Matteoli sia nata proprio per contrastare Alfano, e che le stesse origini abbiano i mugugni di Scajola e l'accelerata del sottosegretario Micciché con il nuovo partito Forza del Sud.

Le assise del Pdl che dovrebbero segnare l'inizio di una nuova fase si annunciano di conseguenza come una specie di congresso democristiano fuori tempo, con le correnti e le sub correnti che si preparano a negoziare l'elezione di Alfano solo a patto di limitarne poteri e iniziative e di ottenere la lottizzazione dei vertici. Un patto per gestire il declino del berlusconismo, in attesa di vedere se il Cavaliere batte un colpo o si abbandona alla deriva.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Bossi-Bersani. È tutta questione di legge elettorale
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2011, 12:17:22 pm
22/6/2011 - TACCUINO
 
Bossi-Bersani

È tutta questione di legge elettorale
 
 
MARCELLO SORGI
 
Nel lungo elenco di riforme fatte, e soprattutto da fare, enunciato ieri da Berlusconi al Senato, mancava quella elettorale. L’unica, non a caso, a cui abbia accennato Bossi arrivando in Parlamento, e suggerendo di parlarne anche con l’opposizione. Il Senatùr è stato rassicurante e sulla linea pacificatrice che dovrebbe portare a una conclusione positiva, ancorché provvisoria, della verifica s’è schierato anche Maroni, dopo i boatos di Pontida.

Sotto traccia, ma in verità anche pubblicamente, si percepisce un lavorìo della Lega sul Pd per convincere Bersani alla cancellazione del Porcellum e a una sua rapida sostituzione con una legge proporzionale, senza premio di maggioranza, che salvi un minimo di aggregazione tra le forze superstiti, ma che consenta al Carroccio di presentarsi da solo e senza l’indicazione preventiva di un candidato premier, visto che il partito nordista non potrebbe schierare Bossi e non è ancora pronto, o non è tutto pronto, a correre dietro Maroni. Su questo punto, tra l’altro, significativa è stata la battuta del Senatùr che ha ricordato che il popolo della Lega ha gridato «secessione» e non «successione».

Bersani fin qui ha nicchiato. La Padania ieri, dopo l’incontro tra il ministro dell’Interno e il segretario del Pd, ha titolato «posizioni diverse, incontro proficuo». Ma tra i due partiti c’è un’oggettiva convergenza di interessi: a Bersani converrebbe che la Lega accelerasse il logoramento dell’alleanza con Berlusconi, per arrivare a una crisi in autunno e a un governo elettorale che, fatta la riforma, porti il Paese alle urne nella primavera del 2012. Per la Lega la modifica della legge è indispensabile per presidiare al massimo il territorio del Nord, mettendo in conto uno sfarinamento del Pdl dagli esiti imprevedibili, ma anche la possibilità che dal partito berlusconiano si stacchi un troncone nordista.

Finché il Pd resta attestato sulla posizione di una nuova legge maggioritaria a due turni, simile a quella in vigore per le comunali, l’intesa con la Lega è impossibile. Anzi Bossi valuta che se questa è la posizione, è più probabile che Bersani, visti i sondaggi che gli accreditano una vittoria anche con la coalizione mini con Di Pietro e Vendola, punti ad andare a elezioni con la legge attuale e nel tempo più breve possibile. Ma se nel Pd si apre uno spiraglio, molte cose potrebbero cambiare dopo l’estate.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Tutti deboli e il Cavaliere si rafforza
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2011, 10:13:33 am
23/6/2011 - TACCUINO

Tutti deboli e il Cavaliere si rafforza

MARCELLO SORGI

Può sembrare un paradosso: eppure Silvio Berlusconi è uscito dalla sua terribile primavera molto meglio di come ci era entrato. Ha perso le elezioni amministrative, ha perso i referendum, ha visto calare pericolosamente il suo consenso nel Paese, indietreggiare il suo partito nei sondaggi al secondo posto dopo il Pd, crescere nelle stesse tabelle virtuali la candidatura a premier del suo avversario Bersani, ma alla fine a Montecitorio e nella verifica ha vinto lui, e la sua maggioranza raccogliticcia ha superato per la prima volta la soglia dei 316 voti, ciò che ha scoraggiato l'opposizione dal presentare mozioni di sfiducia.

Si dirà che è un risultato illusorio, che l'appoggio dei Responsabili viene e va, che le turbolenze nel partito del presidente si fanno sempre più forti, che la Lega ha sotterrato solo a metà l'ascia di guerra, e così via. Resta il fatto che, minacciato di trappole e agguati in un percorso di guerra come quello che ha dovuto attraversare in questi mesi, alla fine Berlusconi è riuscito a metabolizzare il pessimo risultato elettorale di cui in gran parte portava la responsabilità, la serie di richieste inaccettabili dal suo principale alleato di governo, l'inizio di frammentazione con scissioni praticate e annunciate nel suo partito, oltre alle immancabili, per lui, grane giudiziarie, che dopo la mezza cancellazione del lodo Alfano da parte della Corte costituzionale, e dopo l'altra mezza operata dagli elettori nelle urne referendarie, lo vedono oggi più indifeso, ma a sorpresa, dopo il rinvio del processo Mills, anche un po' meno gravato. Rimane ovviamente l'appuntamento del processo Ruby, sul quale dovrà pronunciarsi nuovamente la Consulta: ma fino ad allora anche i giudici di Milano dovranno aspettare.

Il Berlusconi un po' democristiano, morbido, aperturista, lontano (ma chissà per quanto) dai suoi inevitabili attacchi alla magistratura, perfino gigione con Di Pietro, nasce di qui: dalla consapevolezza, che per due volte ha ripetuto in Parlamento, che il governo malgrado tutto non ha alternative, e seppure non gode di buona salute, né di un sostegno d'opinione men che sufficiente, sta messo meglio (o meglio, meno peggio), sia dei suoi avversari dichiarati, sia di quella parte di alleati che in questi mesi hanno provato con tutte le loro energie a mandarlo a gambe per aria.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Di Pietro il sensitivo della politica
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2011, 06:43:29 pm
25/6/2011

Di Pietro il sensitivo della politica

MARCELLO SORGI


Con una raffica di interviste contemporanee, stile Berlusconi, ai maggiori giornali, Antonio Di Pietro ieri ha cercato di svelare il rebus sul nuovo Di Pietro su cui si arrovellano da giorni i suoi alleati e avversari. Dire che ci sia pienamente riuscito forse è troppo, perché, si sa, il leader di Italia dei Valori comunica più col corpo e la sua inconfondibile mimica che non con le sue stesse parole. Ma adesso si capiscono almeno le ragioni dell'inquietudine che lo ha portato, a sorpresa, il 13 giugno a non proclamarsi vincitore dei referendum, pur voluti da lui, lasciandone il merito ai cittadini che si erano recati alle urne e criticando apertamente per la conversione tardiva al rito della democrazia diretta Bersani, che al momento della raccolta delle firme lo aveva accusato di fare un favore a Berlusconi. La polemica tra i due leader è poi continuata nell'aula della Camera il giorno della verifica, quando Di Pietro ha di nuovo attaccato il leader del Pd e accettato un pubblico ed estemporaneo colloquio tra i banchi dei deputati con Berlusconi. Un Berlusconi che dopo anni di scontri frontali, Di Pietro imprevedibilmente ora non attacca più. Questa serie di gesti inattesi - in uno scenario animato dall'attesa esasperante della fine della stagione del Cavaliere, che al contrario continua a dominare - ha motivato le ipotesi più disparate sulle mosse dipietriste. S’ è detto che Di Pietro, sentendo aria di elezioni, pensava a riposizionarsi.

S’è parlato apertamente di un suo patto con il Cavaliere. S’è immaginata ogni possibile sua nuova collocazione, al centro del centrosinistra, al centro del centrodestra o al centro e basta, anche se l'ex pm di Mani Pulite continua a professarsi bipolarista. S’è ragionato su certi malinconici accenni al passato familiare. Come quelli al padre contadino, iscritto alla vecchia Coldiretti e «d'ufficio» alla Dc. O alla propria fede cattolica, all'educazione in seminario, agli anni in cui faceva il poliziotto, prima ancora di diventare magistrato. Da questo a dire che il leader di Italia dei Valori si prepara a ribattezzarsi democristiano, l'ennesimo in un panorama un po' affollato, tuttavia ce ne corre. Seppure è chiaro che tra le ragioni che lo hanno spinto alla metamorfosi c’è una sorta di gelosia politica per Casini, il potenziale, corteggiato, e finora mancato, alleato con cui Bersani pensa di avere la vittoria in tasca. Per capire davvero cosa ha in testa Di Pietro forse bisogna allontanarsi dalle categorie classiche della politica, tipo geografia delle alleanze e chimica delle coalizioni e dei partiti. E riflettere sul fatto che Tonino è una sorta di sensitivo, nato in una terra dove forti sono ancora i culti irrazionali della magia e del destino. Non a caso, pur essendo ormai da quasi vent'anni uno dei protagonisti del teatrino della Seconda Repubblica, Di Pietro recita ancora la parte del personaggio provvisorio, sempre a disagio tra le maschere del potere, felice solo quando può tornare al suo amato trattore e alla terra da arare. Bene: poiché anche in questa sceneggiata c’è del vero, o del verosimile, si può intuire che Di Pietro sia rimasto colpito, di recente, da due avvenimenti che lo hanno toccato da vicino: il successo, superiore a qualsiasi previsione, di De Magistris a Napoli. E la vittoria dei referendum, ottenuta anche grazie a dieci milioni di elettori del centrodestra disobbedienti alla direttiva berlusconiana di disertare i seggi, che sono andati a votare umiliando il partito astensionista e costruendo il quorum inattaccabile di ben ventisette milioni di voti. E' chiaramente in quest'ambito che il leader di Italia dei Valori intende muoversi: convinto che la frana nel campo berlusconiano sia solo all'inizio e possa contagiare, tutto o in parte, anche quello del centrosinistra, all'interno del quale il voto cosiddetto di protesta ha eletto Pisapia a Milano e De Magistris a Napoli. Di Pietro sta rimuginando su un'alternativa che non sia di destra, né di sinistra, né di centro, ma cerchi piuttosto di pescare in più campi, partendo naturalmente da quello martoriato del Cavaliere. A modo suo, ha metabolizzato così, nel bene e nel male, la lezione di Segni e dei referendum del 1991 e '93.

Dopo quella grande prova di democrazia, infatti, nel '94, l'idea che dalla crisi della Prima Repubblica e dei partiti che l'avevano governata per quarant'anni si sarebbe usciti a sinistra si rivelò una fatale illusione, che aprì la strada a Berlusconi e alla destra. Vent'anni dopo ripetere quello stesso errore, nutrirsi dello stesso miraggio, scambiando il declino del berlusconismo per la crisi dell'opinione pubblica moderata e di centrodestra, è qualcosa che, prima ancora che accada, al sensitivo Di Pietro fa ribollire il sangue e drizzare i peli sulla pelle. Verrebbe da aggiungere: non a torto.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8896&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Sul Fisco una mossa preventiva
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2011, 04:03:40 pm
28/6/2011 - TACCUINO

Sul Fisco una mossa preventiva

MARCELLO SORGI

L'annuncio della riforma fiscale, fatta filtrare dal ministero dell’Economia in forma di bozza che prevede la riduzione dell’Irpef a tre sole aliquote del 20, 30 e 40 per cento, l’innalzamento dell’Iva di un punto e la cancellazione dell’Irap dal 2014, è una classica mossa preventiva. Tremonti non a caso l’ha decisa sotto pressione, mentre il vertice della Lega era riunito e dopo settimane in cui la tenaglia Berlusconi-Bossi inesorabilmente si stava stringendo attorno a lui.

Si tratta, com’è evidente, di dar contenuto alla scelta del governo di ricorrere nuovamente al meccanismo della legge-delega per realizzare la riforma più agognata, ma al momento anche più impossibile. Il premier, atteso invece nei prossimi giorni alla sottoscrizione della pesante manovra da quaranta miliardi finalizzata a proseguire la politica di rigore sui conti pubblici chiestaci dall’Europa, presentando insieme la nuova indispensabile torchiatura e la promessa (meglio sarebbe dire, la ripromessa) del taglio delle tasse, potrebbe cercare ancora di tenere a freno una maggioranza sempre più irrequieta e in particolare l'alleato leghista, uscito appena dalle turbolente assise di Pontida.

Non è un mistero che proprio da Pontida siano venute una serie di richieste, in parte inascoltabili come la cessazione delle missioni di pace internazionali, ma in parte al contrario presentate con l’urgenza di chi aspetta una risposta immediata. Tra queste, appunto, l’allentamento dei vincoli del patto di stabilità per i comuni virtuosi, misura di cui non a caso Tremonti non ha fatto cenno, e che difficilmente passerebbe nelle maglie strettissime delle autorità di Bruxelles.

La finanza locale è, non solo per la Lega, ma per tutto il governo e per il Pdl soprattutto, il fianco più esposto. Dopo l’abolizione dell’Ici, varata a inizio legislatura per onorare una promessa elettorale di Berlusconi, con l’impegno che i sindaci avrebbero ricevuto dallo Stato mezzi corrispondenti all’ammontare della tassa cancellata, gli enti locali non sono mai stati rimborsati, se non parzialmente, e il dissesto dei bilanci dei municipi ha raggiunto in molti casi livelli di guardia. Di qui i toni ultimativi di Bossi sul pratone davanti alla sua gente: i 121 sindaci del Carroccio d’altra parte insistono per riconquistare la propria autonomia. È del tutto ovvio che la riforma fiscale lanciata ieri da Tremonti in questo senso servirà a ben poco. Se i tempi della nuova legge delega saranno gli stessi di quella del federalismo fiscale, approvato in buona parte ma ancora inattivo, l’ira dei seguaci del Senatur continuerà a montare.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Palazzo Koch non è come la Rai
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2011, 11:27:27 pm
1/7/2011

Palazzo Koch non è come la Rai

MARCELLO SORGI


La Banca d’Italia trattata come la Rai.

La scelta del nuovo governatore, dopo che quello in carica è stato chiamato a Francoforte a presiedere la Bce, condotta più o meno come se si dovesse trovare un nuovo direttore di tg (tra l’altro nemmeno questo il governo riesce a fare).

Durissima contro il governo, la nota con cui il Capo dello Stato ha cercato ieri di riportare nei giusti canali istituzionali il difficile negoziato su Bankitalia covava da giorni.

Dall’Inghilterra dove si era recato per ricevere la laurea ad honorem a Oxford, Giorgio Napolitano ha seguito a distanza, con crescente imbarazzo, le polemiche sempre più velenose su via Nazionale, le molte dichiarazioni a vanvera registrate dai giornali, l’anomala convocazione di Mario Draghi, governatore uscente in partenza per la Bce, da parte di Berlusconi. E appena rientrato in Italia è intervenuto con la severità che ritiene necessaria su una questione così seria.

Per il Capo dello Stato non ha senso l’alibi di cui finora il governo s’è fatto schermo, la legge varata sei anni fa dopo le sofferte dimissioni di Antonio Fazio per l’inchiesta su Antonveneta, con il nuovo meccanismo di nomina che prevede una sorta di concerto tra Palazzo Chigi e il direttorio della Banca d’Italia sul nome del candidato individuato dal presidente del Consiglio. Berlusconi finora ha evitato di indicare un nome a via Nazionale perché teme che venga impallinato dal direttorio della Banca, il quale a sua volta s’è riunito solo per far notare che senza il candidato non può esprimere il parere richiesto dalla legge. Di qui una serie di ritardi, e da un paio di giorni, stando alle indiscrezioni, un rinvio definitivo all’autunno, visto che l’insediamento di Draghi a Francoforte è previsto per il primo novembre. Ciò che appunto ha convinto Napolitano, a cui spetta la firma finale sul decreto di nomina, a muoversi e a far sentire energicamente la sua voce.

L’idea che il rinnovo del vertice di un’istituzione così importante come la Banca d’Italia, una volta attivata la procedura di nomina, possa essere lasciato in sospeso - né più né meno come avviene periodicamente per le nomine Rai, soggette ad ogni leggero cambiamento di clima politico, e ridotte a un borsino delle quotazioni che ricorda le corse dei cavalli - è semplicemente fuori dalla realtà. La nuova legge sarà pure infelice, come molte leggi frutto di emergenze e di compromessi dell’ultima ora. Ma non è certo inapplicabile.

Se Berlusconi intende proporre un solo candidato, come sembra orientato a fare, avanzando il nome del direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli, è nel suo pieno diritto. Va detto che si tratterebbe di una candidatura autorevole, come quelle, alternative, del direttore generale di Bankitalia Fabrizio Saccomanni e dell’attuale membro italiano del Direttorio della Bce Lorenzo Bini-Smaghi. Ma se lo fa sapendo che sul nome del professor Grilli esistono riserve interne a via Nazionale, dovute, non alla persona, ma al fatto che è apparso chiaramente come il candidato del ministro dell’Economia Tremonti, il premier, prima, ha il dovere di esplorare a fondo queste perplessità. E proprio perché spetta a lui l’onere della proposta, o fare un nome diverso, o condurre informalmente una trattativa preliminare su più nomi, per arrivare a un accordo evitando alle istituzioni coinvolte nel procedimento di nomina la sensazione di un’imposizione.

Un negoziato chiaro, aperto e trasparente, ancorché riservato, vista la delicatezza del problema da risolvere: che parta dalla considerazione che tutti i candidati hanno le carte in regola per succedere a Draghi, che Palazzo Chigi non vuole a tutti i costi mettere un suo uomo in via Nazionale,ma arrivare alla scelta migliore e più condivisa. Si tratta semplicemente di rispettare lo spirito di una legge complicata, magari, ma esplicitamente mirata a far sì che la Banca d’Italia mantenga la sua indispensabile e connaturata autonomia. A farlo, inoltre, Berlusconi avrebbe tutto da guadagnarci: invece di apparire, come sembra, tirato da una parte e dall’altra e non in grado di arrivare a una decisione, se il prescelto non dovesse essere il candidato del ministro dell’Economia, o quello che appare tale anche a dispetto di se stesso, alla fine potrebbe dire a Tremonti che non è dipeso da lui.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8924&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Bankitalia, ora si rischia l'impasse
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2011, 11:32:41 pm
30/6/2011 - TACCUINO

Bankitalia, ora si rischia l'impasse

MARCELLO SORGI


La visita a Palazzo Grazioli di Mario Draghi ha dato il senso di un’accelerazione della complessa procedura per designare il nuovo governatore della Banca d'Italia. Da giorni i nomi dei possibili candidati, il direttore generale del Tesoro Grilli, quello di Bankitalia Saccomanni e il membro del direttorio della Bce Bini-Smaghi, tutti molto qualificati per un incarico insieme gravoso e prestigioso, entrano ed escono dai vertici politici dedicati alla incombente manovra finanziaria. Tremonti punta su Grilli, che è stato al suo fianco nel difficile lavoro di tenuta dei conti pubblici ma è giudicato troppo vicino al governo dai vertici della Banca d’Italia, che preferirebbero la soluzione interna di Saccomanni.

Il problema è dato dall’applicazione della nuova legge che dal 2005 - anno delle sofferte dimissioni a seguito dell’inchiesta su Antonveneta del precedente governatore, Fazio -, è stata varata per stabilire un termine al mandato, in precedenza a vita, e criteri di nomina più condivisi di quelli che in passato lasciavano più autonomia al vertice di via XX Settembre e rendevano il governatore praticamente inamovibile. Di qui il nuovo sistema che affida al presidente del consiglio la designazione del candidato, al direttorio di Bankitalia il gradimento e al Capo dello Stato la nomina.

Alla prova dei fatti il meccanismo si sta rivelando inapplicabile e tende a produrre candidature in contrasto. Il conclamato deterioramento dei rapporti istituzionali ha fatto sì che da Palazzo Chigi, nel timore che sia Bankitalia che il Colle possano respingerla, non sia venuta alcuna designazione formale; che il direttorio di via XX Settembre, sollecitato ad attivarsi, si sia riunito solo per constatare la mancanza di nomi su cui esprimere un parere; e che il Quirinale finora non abbia potuto far altro che premere per una decisione. Se non si arriverà a un'intesa tra i tre poteri chiamati in causa dalla nuova legge, è prevedibile che il risultato sarà lo scontro tra almeno due candidature: Grilli, che Berlusconi potrebbe condividere per accontentare Tremonti, ma che difficilmente troverebbe il consenso di Bankitalia e del Colle, contro Saccomanni, più gradito a questi ultimi. La soluzione sarebbe quella di formare una rosa di nomi, non prevista tuttavia dalla legge. Ma qui appunto la mentalità decisionista stile Seconda Repubblica si scontra con uno dei metodi più antichi - la moltiplicazione dei petali e dei nomi - in uso nella Prima. Intanto, di rinvio in rinvio, anche una scelta così delicata resta bloccata.

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Titolo: MARCELLO SORGI. L'ombra degli scontri torna a dividere in due la sinistra
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2011, 04:30:13 pm
5/7/2011 - TACCUINO

L'ombra degli scontri torna a dividere in due la sinistra

MARCELLO SORGI


Le polemiche seguite all’assalto, da parte dei black bloc, dei cantieri della Tav in Val di Susa non accennano a placarsi, ma le conseguenze più visibili si avvertono nel campo del centrosinistra. Il ministro dell’Interno Maroni va all’attacco e parla apertamente di terrorismo e di tentato omicidio per l’attacco deliberato alle forze dell’ordine, che hanno riportato sul campo centinaia di feriti. Dal centrodestra si arriva a paragonare i guerriglieri di domenica scorsa ai «khmer rossi» della Cambogia di Pol Pot, con un’evidente esagerazione mirata ad accentuare le divisioni nel campo opposto e a evitare qualsiasi distinzione con gli abitanti della Val di Susa che prima degli scontri avevano manifestato pacificamente il loro dissenso sulla ripresa dei lavori dell’Alta Velocità.

Mentre infatti Bersani ha subito preso posizione duramente nei confronti degli aggressori e in difesa di poliziotti e carabinieri, che hanno difeso i cantieri, tra l’altro presidiati dagli operai, Vendola, Ferrero, Ferrando, per citare solo i principali esponenti della sinistra radicale, pur condannando le violenze hanno eccepito sui comportamenti della polizia, sull’uso dei lacrimogeni e dei proiettili di gomma e insomma sullo svolgimento dell’operazione, in qualche caso paragonata al G8 di Genova del 2001, anche se è emerso chiaramente che stavolta le cose sono andate diversamente, e pur essendosi impegnati allo stremo per impedire ai black bloc di raggiungere l’area dei cantieri, le forze dell’ordine hanno operato con professionalità ed evitando qualsiasi forzatura non necessaria. Ferrando è arrivato a offrirsi pubblicamente come testimone a favore degli arrestati nel processo che seguirà. Evidentemente, a caldo, la sinistra radicale ha avvertito il rischio che a difendere i violenti restasse il solo Grillo, in termini tra l’altro che ieri, fatto inconsueto per lui, ha dovuto ritrattare.

Le tensioni avvertite ieri dopo la lunga battaglia di domenica approderanno presto in Parlamento, dove tuttavia la mancata presenza di deputati e senatori della sinistra radicale non consentirà un confronto pubblico tra Bersani e Vendola e forse anche un vero approfondimento dell’accaduto. L’attacco dei black bloc era infatti preannunciato da giorni, e insieme con la reazione di polizia e carabinieri a difesa dei cantieri, forse una azione preventiva per fermare a distanza gli assalitori avrebbe potuto meglio limitare i danni di una domenica da dimenticare.

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Titolo: MARCELLO SORGI. E alla fine il premier rimase solo
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2011, 05:18:00 pm
6/7/2011

E alla fine il premier rimase solo

MARCELLO SORGI

L’ affondamento dell’ultima norma «ad personam», inserita nel testo della manovra finanziaria di nascosto e ritirata precipitosamente ieri dal premier, porta con sé una novità, si direbbe un segno dei tempi, mai emerso finora così chiaramente: come ha dovuto ammettere nel comunicato vergato, non a caso, in prima persona, Berlusconi, al cospetto dei suoi guai giudiziari, è rimasto solo. Completamente solo. Gli uomini che gli sono sempre stati al fianco, in numerosi e difficili frangenti come questi, si sono defilati uno dopo l’altro.

Ghedini, proprio lui, il deputato-avvocato autore dei tanti lodi con cui il Cavaliere è riuscito a fasi alterne a limitare le conseguenze dei suoi processi, ha disconosciuto il testo con cui si tentava di dilazionare gli obblighi derivanti da sentenze civili che impongono risarcimenti molto onerosi. Tipo quello che l’azienda di famiglia del premier rischia di dover sopportare se i giudici di appello di Milano, nel prossimo fine settimana, confermeranno il verdetto che ha imposto il pagamento, prima di 750, poi di 490 milioni, per l’acquisizione della Mondadori, strappata al gruppo Cir di De Benedetti grazie alla decisione di un giudice condannato per corruzione.

Alfano, il ministro di Giustizia e neosegretario del Pdl che venerdì aveva auspicato dal palco della sua elezione un «partito degli onesti», è rimasto silenzioso. E Tremonti, che dopo una trattativa difficilissima aveva licenziato una manovra diversa da quella poi mandata al Quirinale con l’aggiunta della norma contestata, ha addirittura fatto saltare la conferenza stampa convocata per illustrare le misure del governo.

Un fuggi-fuggi generale. Poiché è impossibile, al di là di quel che vorrebbero far credere, che le persone più vicine e più direttamente coinvolte nella vicenda non sapessero, o non fossero intervenute, nel fine settimana in cui il testo da trasmettere al Capo dello Stato è stato rimaneggiato e adattato alla bisogna, se ne ricava che Berlusconi è stato abbandonato al suo destino e mandato a sbattere contro un muro proprio dai suoi, come il suo comunicato personale, al di là delle accuse di prammatica all’opposizione, testimonia chiaramente.

Si dirà che non c’era altra possibilità per evitare che il Capo dello Stato fosse costretto a respingere l’intero testo della manovra viziato dal codicillo «ad personam». Ed è un bene che la conclusione della vicenda sia stata questa: un rinvio della finanziaria avrebbe determinato conseguenze economiche gravissime e reazioni internazionali sconcertate, in un momento in cui l’Italia è un Paese sotto osservazione. Magari avranno provato tutti insieme - Ghedini, Alfano, Tremonti, per non dire di Letta, che doveva materialmente inviare il testo al Colle -, a convincere il Cavaliere dell’impraticabilità della soluzione proposta. In una manovra in cui - non è ancora certo, si vedrà - è atteso anche un taglio dei privilegi della classe politica, figuriamoci se poteva esserne inserito uno a parte, tutto nuovo, ritagliato su misura per soccorrere nuovamente il premier. Sia come sia, la novità sta nel fatto che alla fine Berlusconi è stato mollato. E, infuriato, ha dovuto suonarsi da solo la ritirata.

Intendiamoci, era già successo in passato che il Cavaliere avesse dovuto far marcia indietro sulla scelta di un ministro o su una proposta di riforma. Ma mai in materia di giustizia e mai sulla guerra senza quartiere che da anni lo oppone alla magistratura. Proprio perché il Pdl gli ha sempre riconosciuto la condizione di perseguitato, il terreno dei guai giudiziari è rimasto fuori da qualsiasi faida interna di partito, e talvolta ha funzionato, come lo stesso Alfano ha dovuto riconoscere all’atto della sua elezione a segretario, da comodo ombrello anche per quelli che in tutta evidenza perseguitati non erano. Per questo, fino a sei mesi fa, o a poche settimane fa, quando il Pdl a Milano organizzava manifestazioni davanti al Palazzo di giustizia nei fatali lunedì delle udienze del premier, nessuno si sarebbe sognato, non soltanto di dissentire, ma neppure di accarezzare il nervo più scoperto del Cavaliere.

Siamo dunque a una svolta. Maturata nel caos, come accade sempre attorno a Berlusconi, ma gravida di conseguenze. Se davvero il premier non è più padrone di se stesso, né del suo partito, le cose possono cambiare più rapidamente di quanto si poteva immaginare fino a qualche giorno fa. Il suo lento declino, che si trascina da mesi, potrebbe diventare inesorabile. Per ragioni politiche, oltre che giudiziarie, e con conseguenze terribili: come fa presagire il desiderio di vendetta che si affaccia tra le righe dell’ultimo, furioso, comunicato, uscito da Palazzo Chigi.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il Colle, il premier e il sorriso soddisfatto di Tremonti
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2011, 09:44:20 am
7/7/2011 - TACCUINO

Il Colle, il premier e il sorriso soddisfatto di Tremonti


MARCELLO SORGI

L’epilogo della dura battaglia combattuta in seno al governo, e tra Palazzo Chigi e il Quirinale, sulla «Salva-Fininvest» - poi ritirata da un Berlusconi deluso e sconfitto all' interno del suo partito e della sua maggioranza - sta in una firma e in un sorriso. La firma è quella che il Capo dello Stato alla fine ha messo sul decreto legge della manovra triennale, spiegando che ha potuto farlo solo dopo che il testo era stato ricondotto alla sua naturale materia economica e di bilancio, in altre parole dopo la rinuncia del premier alla contestatissima norma che avrebbe influito sul processo sul lodo Mondadori, condizionando gli effetti di una sentenza ormai prossima.

Il sorriso è quello che è tornato sulla bocca di Giulio Tremonti alla conferenza stampa convocata per illustrare le misure decise dal governo. Un Tremonti che s'è divertito a scherzare sulle voci di sue dimissioni che per settimane hanno accompagnato la lunga trattativa sulla manovra, e che formavano l'oggetto del desiderio di numerosi suoi colleghi ministri, che hanno dovuto accettare una nuova ondata di tagli, sia pure diluiti nel tempo. Tremonti ci teneva a sottolineare che all'uscita da tutto il tira e molla di questo mese i provvedimenti decisi sono quelli proposti dal suo ministero. Era come se dicesse: ci hanno fatto perdere tempo, ma hanno dovuto egualmente rendersi conto che non c'era altra strada da prendere.

Il messaggio era rivolto a Berlusconi, per tramite di Letta, presente alla conferenza stampa, e a cui non tanto velatamente il ministro dell'Economia ha passato davanti ai giornalisti la patata bollente della «SalvaFininvest». Ma anche, piuttosto esplicitamente, a Bossi, che ha tentato inutilmente di stringere con il premier la tenaglia mirata a sottomettere Tremonti. Pure in questo caso il messaggio politico rivolto al leader del Carroccio, che ha dovuto tener testa a un'offensiva interna alla Lega di Maroni contro la linea di politica economica rigorista, è di pensarci bene, prima di cambiare asse all'interno del centrodestra. Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa cosa lascia, ma non sa cosa trova.

Con queste premesse, la manovra approda in Parlamento in un clima pesante. Il monito del Capo dello Stato, indirizzato a tutti, è di svolgere seriamente un confronto parlamentare che per la materia a cui è dedicato, e per la condizione dell'Italia di paese sotto osservazione in Europa, non si svolge solo sotto i nostri occhi. Ma per come stanno le cose nel governo, nella maggioranza e nell'opposizione, non sarà facile che questa raccomandazione sia rispettata.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Per la manovra si annuncia un percorso a ostacoli in aula
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2011, 10:04:08 am
8/7/2011 - TACCUINO

Per la manovra si annuncia un percorso a ostacoli in aula

MARCELLO SORGI


Sarà un'altra estate in cui la politica non andrà in vacanza. Dopo quella 2010 oberata dallo scontro Berlusconi- Fini sulla casa di Montecarlo, il cammino parlamentare della manovra da luglio ai primi d'agosto si preannuncia ogni giorno più difficile a causa del deterioramento, che continua, dei rapporti interni nel governo e nella maggioranza. In particolare per tre ragioni. La prima sono le rivelazioni connesse all'inchiesta per corruzione dell'ex capo della segreteria del ministro dell'Economia, Milanese, dimessosi precipitosamente un paio di settimane fa. Dai verbali della richiesta d'arresto resi pubblici emerge un quadro di corruzione e un andazzo molto disinvolto che delinea attorno a Tremonti in un periodo recente una serie di comportamenti inammissibili. Tangenti chieste e pagate, in soldi o in natura (auto di lusso, orologi d'oro, vacanze di lusso), la sensazione chiarissima, diffusa tra le carte, che Milanese approfittasse del suo ruolo in ogni modo. Trovandosi in questa fase il ministro al centro di tensioni per l'avvio della manovra, con Palazzo Chigi e con altri ministri che hanno dovuto subire una nuova serie di tagli, le novità emerse dalle indagini sul suo stretto collaboratore non saranno certo accolte bene al Quirinale, con cui finora Tremonti aveva tenuto buoni rapporti, riuscendo a rappresentarne nelle fasi più complicate un sicuro punto di riferimento, ne' aiuteranno il prosieguo della finanziaria alle Camere.

Berlusconi inoltre ieri è stato duro con Tremonti: ha accusato lui e la Lega (ma Calderoli e Bossi hanno smentito) di essere stati messi al corrente nei dettagli della norma «salva-Fininvest», che successivamente, per ragioni di convenienza politica, avevano disconosciuto. E ha lasciato intendere che potrebbe decidere di ripresentarla in Parlamento come disegno di legge autonomo, riaprendo così il contenzioso che era stato appena chiuso.

Il terzo motivo di appesantimento della situazione sono i rapporti tra i ministri, giunti al livello di guardia. Nella stessa giornata s'è avuta notizia di un'intervista in cui Galan prende le distanze dalla manovra spiegando che il centrodestra con questa politica economica rischia di perdere le elezioni, e di uno scambio non proprio di affettuosità tra Tremonti e Brunetta. In un fuori-onda registrato dai microfoni aperti delle tv durante la conferenza stampa di mercoledì il primo definiva il secondo «un cretino». Ma poi, non si sa come, hanno trovato modo di siglare una pace, quanto mai provvisoria.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8955&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. Un altro passo verso la fine
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2011, 04:03:31 pm
10/7/2011

Un altro passo verso la fine

MARCELLO SORGI

Vent’anni sono un tempo lunghissimo. E sono le differenze che colpiscono nel caso Mondadori, scoppiato, o meglio riscoppiato dopo appunto un ventennio, a seguito della sentenza civile che ha condannato Silvio Berlusconi a pagare a Carlo De Benedetti 560 milioni di euro.

Una cifra che il Cavaliere dovrà versare nelle casse della Cir come risarcimento del modo illecito con cui si assicurò, dopo aver corrotto un giudice che lo aveva favorito sul piano giudiziario, la maggior casa editrice italiana.

Vent’anni fa si trattava di una grossa vicenda economica - la contesa senza esclusione di colpi, tra due imprenditori avversari, attorno a una società che controllava, tra l’altro, uno dei principali quotidiani italiani - nella quale alla fine di un’interminabile controversia giudiziaria la politica poté entrare dall’alto, con il tradizionale ruolo di mediatrice, il volto impassibile di Andreotti e il sorriso sornione di Ciarrapico, allora uno dei manutengoli del divo Giulio, che siglò materialmente la tregua e il patto di divisione dell’azienda tra i due contendenti.

Ieri invece il dispositivo della sentenza era stato appena reso noto, che già centrodestra e centrosinistra si alzavano, in difesa o contro Berlusconi, trasformando l’epilogo fuori tempo massimo della lunga battaglia sulla Mondadori in nuova occasione di scontro. Con la differenza che nel frattempo uno dei due protagonisti è diventato premier, ha lasciato che gli anni passassero senza mai voler affrontare il problema del conflitto tra i suoi interessi personali e familiari e il suo ruolo pubblico, e quando s’è trovato platealmente di fronte alle conseguenze dello stesso conflitto, non ha trovato di meglio che buttarla in politica, pur sapendo che questo non gli servirà a bloccare, né a limitare, i duri effetti della decisione dei giudici.

Berlusconi fin dalla vigilia della sentenza, che s’annunciava nefasta per lui, ha voluto dare la sensazione che la magistratura civile, che considera avversa come e forse più di quella penale da cui si sente perseguitato, stavolta aveva scelto lo strumento della rovina economica per farlo fuori. Intendiamoci: il mezzo miliardo e più di euro che De Benedetti, già domattina, per tramite di una banca, potrebbe ritirare dalle casse della Fininvest - in forza di una fideiussione concordata dopo la condanna di primo grado - è una cifra che fa spavento. Mal contati, sono mille miliardi delle vecchie lire. Ma non è, come il Cavaliere vuol far credere, e come la figlia Marina, presidente della Mondadori, ha ripetuto, un colpo tale da portare l’azienda di famiglia al fallimento. Inoltre Berlusconi ha a disposizione ancora un grado di giudizio, e se la Cassazione dovesse capovolgere il verdetto, la somma potrebbe anche tornare indietro. Perché allora padre e figlia, con il coro politico di un centrodestra ormai quasi completamente appiattito sugli interessi familiari della casa di Arcore, hanno scelto di drammatizzare?

Per una ragione chiarissima: essere colpito nei soldi è per Berlusconi la più inaccettabile delle pene, un danno materiale e insieme d’immagine, uno sfregio al mito, ormai calante, dell’uomo del fare che ha costruito la sua fortuna sul proprio talento e sui suoi sogni. Se infatti si viene a scoprire che ben altre sono le fondamenta di quel patrimonio, la sua stella potrebbe declinare anche più rapidamente di quanto sta avvenendo da mesi. Questo spiega perché il Cavaliere si sia preoccupato maggiormente di questo aspetto, che non della patente di «corruttore» che la sentenza dei giudici di Milano gli ha cucito addosso la prima volta nero su bianco. Un giudizio terribile, per un leader che si propone di restare alla guida dell’Italia per altri due anni. Ma sul quale, sorprendentemente, il premier sorvola.

Berlusconi ha fatto così un altro passo verso la fine della sua parabola, che giorno dopo giorno sembra avvicinarsi inesorabilmente. Forse dovrebbe cominciare a riflettere seriamente sull’opportunità di aspettarne a qualsiasi costo la conclusione. Dopo una settimana in cui la richiesta di arresto di uno stretto collaboratore di Tremonti ha fatto traballare per un’intera giornata l’incerto equilibrio economico del Paese, sono imprevedibili le conseguenze della sentenza civile di secondo grado (pronunciata non a caso a mercati chiusi) in cui il premier, al sodo, è stato condannato per corruzione. Ma non porteranno certo nulla di buono.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8960&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARCELLO SORGI. La paura che ha smosso il Cavaliere
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2011, 09:36:41 am
13/7/2011

La paura che ha smosso il Cavaliere

MARCELLO SORGI

Lo avrà fatto controvoglia, in extremis, tirato per i denti. Ma lo ha fatto, e questo è l’importante. Dopo giorni di silenzio ostentato anche di fronte alle più autorevoli sollecitazioni, Silvio Berlusconi, alla fine, con un comunicato di poche righe ha detto la verità, a se stesso prima che agli italiani: la crisi che stiamo attraversando è terribile. Il Paese rischia, anche se non lo merita, di ridursi come Grecia e Spagna. La fiducia che i vertici dell’Europa ci accordano, convinti come sono che ne verremo a capo, richiede il massimo di coesione e di senso di responsabilità.

Precedute da quelle di Giulio Tremonti, che aveva anticipato il suo ritorno da Bruxelles a metà di una mattinata drammatica, in cui ondate di vendite in blocco dei titoli di Stato italiani avevano fatto temere il peggio, le parole di Berlusconi sono servite a consolidare una svolta che già l’intervento del ministro dell’Economia aveva imposto, annunciando la rapida e preliminare chiusura del bilancio, come prova di serietà e come reazione alla speculazione accanitasi sull’Italia già da venerdì. La Borsa ha potuto così tirare un sospiro di sollievo, anche se non tutti i timori sono fugati.

Quel che resta da capire è perché Berlusconi abbia atteso tutto questo tempo, mentre la tempesta infuriava, ben sapendo che in frangenti del genere il compito del nocchiero è muoversi al più presto possibile, per mettere la nave in condizione di navigare, reggendo la forza del mare ingrossato, e per evitare il naufragio. Il premier invece ha aspettato l’ultimo momento, ed ha agito senza nascondere minimamente il proprio disappunto per tutto ciò che in sua assenza, o in mancanza di sue iniziative, era accaduto attorno a lui. Si è mosso solo quando gli è apparso chiaro che, insieme con quella sua personale, era in gioco la credibilità dell’Italia in Europa, e che il prolungarsi della sua inerzia rischiava di travolgere insieme il governo e il Paese.

Un errore di valutazione, più che un rischio calcolato. Che gli ha fatto temere, sbagliando, che dietro le pressioni che venivano dal Quirinale, rivolte al contempo al governo e all’opposizione, si celasse il tentativo di aprire la strada a un governo d’emergenza che lo avrebbe estromesso da Palazzo Chigi. Che qualcosa in questo senso sia avvenuto, in modo del tutto indipendente dall’attività del Capo dello Stato, e con la conseguenza di rallentarla, è possibile.

Lo fa pensare, tra l’altro, il richiamo a sorpresa di Romano Prodi, che essendo per esperienza più attrezzato a cogliere la gravità del momento nello scenario europeo, se n’è uscito con un appello a tutti, a cominciare dal centrosinistra, a mettere da parte ogni ipotesi bislacca di «governissimo» e cercare le convergenze necessarie - ma ognuno nel proprio ruolo, governo, maggioranza e Banca d’Italia -, per reagire alle speculazioni nel modo più efficace.

La manovra sarà così varata entro venerdì, o al più tardi entro domenica. Non ci saranno confusioni tra maggioranza e opposizioni. Bersani, Casini e Di Pietro garantiscono solo i tempi dell’approvazione, rinunciano all’ostruzionismo, ma voteranno contro misure che giudicano sbagliate. E il centrodestra s’impegna a ridurre al suo interno trattative ed emendamenti, per accelerare al massimo l’approvazione. La turbolenza dei mercati, a questo punto, dovrebbe allentarsi, anche se è chiaro che occorrerà stare all’erta per tutta l’estate.

Con la sua «supplenza», com’è stata definita nei lunghi giorni del silenzio berlusconiano, ma soprattutto con la flemma e la testardaggine che tutti gli riconoscono, Napolitano, grazie all’appoggio che Tremonti non gli ha fatto mancare, è il vero vincitore di questa tornata. Ma anche Berlusconi, in conclusione, ha dato prova di responsabilità. Gira molto male per il presidente del Consiglio, sul fronte personale e familiare e su quello politico. Se Dio non voglia la situazione dovesse tornare a complicarsi, o aggravarsi di nuovo oltre misura, di gente disposta a scommettere sulla durata del governo se ne troverebbe davvero poca. E tuttavia il Cavaliere ha dimostrato di aver capito - cosa di cui gli va dato atto - che in un momento come questo non poteva tirarsi indietro.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8976


Titolo: MARCELLO SORGI. Ma il premier deve dire cosa vuol fare
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2011, 06:33:52 pm
19/7/2011

Ma il premier deve dire cosa vuol fare

MARCELLO SORGI

Le voci che premono per un nuovo governo, di fronte a tutto quel che sta accadendo, si moltiplicano. E non si tratta solo di interventi interessati o ovvi, come sono appunto quelli dell’opposizione, ma anche di qualificati osservatori esterni.

Malgrado gli sforzi fatti negli ultimi giorni, è evidente che l’attuale esecutivo di centrodestra rischia di non farcela, di fronte alla tempesta che ha investito il Paese, e neppure di riuscire a risolvere i suoi aggravati problemi interni. Ma come ha fatto anche ieri sera al Quirinale, Silvio Berlusconi non vuole minimamente prendere in considerazione l’ipotesi di passare la mano e favorire un assetto più adeguato alle necessità del momento. Poiché in Parlamento la sua maggioranza si consolida ad ogni votazione (e questa, per inciso, è la sua previsione anche per i due incerti passaggi delle richieste di autorizzazione all’arresto dei due deputati Papa e Milanese, coinvolti nelle più gravi inchieste giudiziarie in corso), il presidente del Consiglio ritiene che sia, non solo suo dovere, ma suo preciso diritto andare avanti, ed è convinto di riuscire a superare le difficoltà.

Che sia un diritto, non ci piove. I governi, si sa, cadono quando non hanno più l’appoggio del Parlamento. Ma è altrettanto sicuro che tra i doveri di chi guida un Paese ci sia anche quello di dimostrare una speciale sensibilità, non limitata al conteggio matematico - e burocratico dei numeri delle singole votazioni. Se davvero è sicuro, come dice, di essere in grado di salvare l’Italia dal disastro - e in cui anche ieri i mercati hanno mostrato purtroppo di volerla trascinare - Berlusconi dovrebbe dire seriamente come vuol fare. Specie ora che la credibilità dei suoi annunci ad effetto sembra esaurita per sempre.

Proviamo a fare tre esempi, cominciando, ovviamente dall’allarme per la crisi finanziaria, che non accenna a placarsi. Rispetto a una manovra che si sta purtroppo rivelando insufficiente, Berlusconi ha avuto due atteggiamenti. Nella settimana che ha preceduto il «miracolo», per usare le parole del Capo dello Stato, dell’approvazione in cinque giorni delle misure del governo, ha detto chiaramente che non condivideva la linea scelta da Tremonti, che avrebbe sicuramente portato il centrodestra a una nuova sconfitta elettorale. In quella successiva, della discussione parlamentare, ha taciuto platealmente, ostentando un silenzio che non prometteva nulla di buono. Ma adesso che dai mercati continua a spirare un forte vento contrario, cosa intende fare il premier? E’ o no consapevole che potrebbe richiedersi da un momento all’altro un’altra stretta, e forse un anticipo delle iniziative rinviate al 2013-14? E se lo è, perché non lo dice? Sarebbe molto significativo se Berlusconi, finora scettico sulla necessità del rigore, dimostrasse che, proprio perché sa bene cosa bisogna fare, è pronto a farlo in prima persona.

Il secondo dossier aperto è quello del rilancio del governo, del rimpasto o del rinnovamento della compagine, e in sostanza dell’immagine di un esecutivo divenuto per certi versi impresentabile. Come dimostrano i due prossimi appuntamenti parlamentari che riguardano i due maggiori imputati delle inchieste sulla P4 e sulla corruzione nelle nomine pubbliche, il grosso del problema è concentrato nel Pdl. Il cui nuovo segretario Alfano, ministro di Giustizia in carica, ancorché dimissionario, ha annunciato di voler trasformare in «partito degli onesti», ammettendo che molti di quelli che vi militano, e ricoprono responsabilità importanti, tali non sono. Sono passate tre settimane da quando Alfano ha preso questo impegno, nel giorno della sua nomina. E Berlusconi, in proposito, cosa intende fare? Dovendo nominare al suo posto, per lasciarlo libero di dedicarsi pienamente al lavoro di segretario, un nuovo ministro Guardasigilli, forse potrebbe cogliere questa occasione, per dare un segnale inequivocabile: indicando una personalità il più possibile autonoma da un partito ancora da bonificare, e soprattutto evitando scelte che diano il senso di compromessi inaccettabili in questo frangente.

Infine l’agenda del governo. Saggezza suggerirebbe di concentrarsi su pochi obiettivi che realisticamente possano essere realizzati nei pochi mesi che restano della legislatura. E’ un fatto che dei famosi cinque punti lanciati con grande enfasi ormai quasi un anno fa, tolta l’Istruzione, gli altri giacciono arenati, quando non dimenticati. Per approvare grandi riforme, che richiedono leggi costituzionali, non c’è più tempo. Anche perché occorrerebbe discuterne, e in qualche caso condividerle, con l’opposizione, che non può essere chiamata al senso di responsabilità quando serve, com’è accaduto fino a tre giorni fa, e per il resto essere trattata con logica usa e getta. Già basterebbe vedere Berlusconi impegnato a favorire, con la stessa celerità usata per la manovra, un drastico taglio dei privilegi tuttora garantiti al governo, in attesa che il Parlamento faccia lo stesso. Questa sì, materia di sogno.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8994


Titolo: MARCELLO SORGI. Il premier aggrappato a Scilipoti
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2011, 09:59:37 am
20/7/2011 - TACCUINO

Il premier aggrappato a Scilipoti

MARCELLO SORGI

Il pasticcio in cui ieri il governo è andato a cacciarsi, durante la discussione parlamentare del decreto sui rifiuti di Napoli, non è certo di buon auspicio per la prossima votazione sulla richiesta di arresto del deputato Alfonso Papa, il braccio destro di Luigi Bisignani coinvolto nell' inchiesta sulla P4. Ancora una volta a bloccare il governo è stata la Lega, contraria alla norma che avrebbe dovuto consentire l'invio dei rifiuti in eccedenza fuori dalla Campania anche senza il consenso delle regioni. Per tener duro sul punto che la monnezza del Sud non deve andare al Nord, il Carroccio, prima ha fatto un po' di melina, e poi, quando era troppo tardi per far sì che il decreto fosse rinviato in commissione, ha visto soccombere la maggioranza in una votazione in cui appunto è stato deciso di proseguire la discussione in aula.

Ma se sui rifiuti una soluzione in qualche modo si troverà, accontentando la Lega magari in altri campi e in altre trattative aperte, come quella sul rimpasto di governo che dovrebbe vedere un leghista approdare al ministero delle Politiche comunitarie lasciato libero da Ronchi, sul caso Papa un'intesa di maggioranza è più difficile. Bossi ha oscillato parecchio nei giorni scorsi e i suoi tentativi di convincere la base del partito a non rischiare la crisi di governo sull'arresto di uno dei tanti deputati inquisiti non hanno sortito buon esito. Metà del Carroccio, con il ministro dell'Interno Maroni che probabilmente non parteciperà al voto, sarebbe per l'arresto, o almeno per non condividere la responsabilità del salvataggio di Papa. Berlusconi s'è detto convinto di riuscire a convincere il Senatur a non spaccare nuovamente la maggioranza, ma la sensazione è che almeno su questo terreno Bossi non sia in grado di imporre forzature.

Toccherà probabilmente ai Responsabili tirar fuori dai guai il premier, chiedendo, come ha già fatto intendere Scilipoti, il voto segreto. All'ombra del quale, Berlusconi spera di prevalere compensando i voti della Lega che mancheranno con quelli del largo partito trasversale degli inquisiti, che si allarga da destra a sinistra. Votazione con suspence, quindi. E in caso di arresto negato per Papa, prevedibile scambio di accuse tra governo e opposizione.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9000


Titolo: MARCELLO SORGI. Un altro passo deciso verso l'eutanasia del Berlusconismo
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2011, 05:55:18 pm
21/7/2011 - TACCUINO

Un altro passo deciso verso l'eutanasia del Berlusconismo

MARCELLO SORGI

L’eutanasia della legislatura, cominciata il 14 dicembre con la rottura del centrodestra e la nascita della maggioranza spuria con i Responsabili, ha subito una decisiva spinta in avanti con il voto che alla Camera ha aperto le porte del carcere per il deputato Papa, coinvolto nell'inchiesta sulla P4, mentre il Senato si esprimeva in modo opposto sulla richiesta di arresto del senatore Tedesco, accusato di corruzione nella sanità pugliese di cui era stato a lungo assessore.

Nelle due votazioni sono stati sconfitti insieme Berlusconi e Bersani. Il primo s'era presentato alla Camera sicuro o quasi che alla fine Papa si sarebbe salvato all'ombra del voto segreto e con l'aiuto silenzioso del largo partito trasversale degli inquisiti e del corporativismo parlamentare che da 27 anni rifiutava di consegnare un proprio membro alle manette. Il secondo aveva chiesto al Pd di schierarsi in tutti e due i casi per l'arresto - e a Tedesco di chiederlo in prima persona - proprio per evitare dubbi di scambi sotterranei con il centrodestra, e tra Camera e Senato, su un terreno così delicato. I risultati delle votazioni hanno smentito insieme il capo del governo e quello dell'opposizione.

E al di là di trattative segrete che al Senato hanno dato l'esito sperato e alla Camera no, centrale nelle due Camere è stato il ruolo della Lega. Una Lega che, assente Bossi, ufficialmente schierato per l'arresto, e capitanata dal ministro dell'Interno Maroni, ha articolato i propri voti in modo da trasmettere insieme la sensazione di un distacco ormai definitivo dal governo e della disponibilità a una soluzione ponte che archivi la legislatura e il ventennio berlusconiano.

Questa strategia ormai chiara del Carroccio costringerà in breve Berlusconi a un rapido riaggiustamento del tiro. L'idea di sopravvivere a qualsiasi costo non è più realistica se si tratta farsi rosolare al ritmo delle ultime settimane. L'appoggio dei Responsabili su cui tanto aveva puntato il premier s'è rivelato ancora una volta insufficiente. La controprova che tutti i giochi ormai si muovono alle sue spalle del Cavaliere la avrà nel prossimo voto sulla richiesta d'arresto per il fino a pochi giorni fa stretto collaboratore del ministro dell'Economia Milanese, inquisito con l'accusa di aver messo su un traffico di nomine comperate e vendute. Se come molti si aspettano la Lega troverà il modo di salvarlo, approfittando nuovamente del voto segreto, sarà come se dicesse che al posto di Berlusconi, ormai cotto, vuol mandare Tremonti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9004


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Cavaliere deciso a non mollare
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2011, 04:18:29 pm
22/7/2011 - TACCUINO

Il Cavaliere deciso a non mollare

MARCELLO SORGI

La telefonata di Maroni a Berlusconi, dopo il voto di mercoledì alla Camera che ha portato il deputato Papa nel carcere napoletano di Poggioreale, fa parte delle inevitabili, quanto tipiche, ipocrisie della politica, ma conferma che non ci saranno conseguenze immediate, malgrado la rottura plateale tra Lega e Pdl.

Formalmente, infatti, il Carroccio aveva dichiarato che si sarebbe schierato per l'arresto, anche se il discorso in aula del capogruppo Reguzzoni aveva sottolineato la via d'uscita della libertà di coscienza, lasciata ai parlamentari leghisti mercoledì per consentire il salvataggio nell'urna del parlamentare inquisito.

Ma le ragioni vere per cui, a meno di sorprese sempre possibili in un'estate in cui l'Italia resta esposta alla pesante tempesta finanziaria mondiale, Berlusconi continuerà a resistere, sono due. La prima è che non c'è una vera spaccatura tra Bossi e Maroni sul da farsi. Anche il gioco delle parti usato in quest' ultima circostanza, con Bossi che prometteva di dire una cosa e farne un'altra, e Maroni che sorvegliava i parlamentari in aula al momento del voto, fa parte della stessa strategia, che prevede che non sia la Lega ad aprire la crisi, ma rimanga pronta ad approfittarne sapendo che può arrivare da un momento all' altro. La Lega continuerà insomma a stare contemporaneamente al governo e all'opposizione, e Berlusconi, non avendo alternative e nutrendo timori su un possibile voto anticipato, non potrà far altro che adattarsi, pur sapendo che adattandosi continuerà a consumarsi.

La seconda ragione, che in realtà è la prima in ordine di importanza, è che Berlusconi, tolto quel che dice o fa capire da tempo in ogni occasione pubblica o privata, non ha alcuna intenzione di farsi da parte. E ritiene, giustamente dal suo punto di vista, che lo scudo ammaccato, ma pur sempre scudo, di Palazzo Chigi, sia indispensabile per lui nel momento in cui l'assedio della magistratura si fa più stringente.

Da questo punto di vista, discutibile ma realistico com'è sempre il modo di guardare le cose del Cavaliere, Berlusconi valuta che il guaio più grosso che gli sia capitato negli ultimi tempi è la sentenza che lo costringe a pagare i famosi 560 milioni di euro a De Benedetti e che rivela, a suo giudizio, la volontà dei magistrati di colpirlo anche sul piano civile e finanziario oltre che su quello penale. Di qui, al di là di una comprensibile disillusione per come gli vanno le cose, la testarda, sempre più testarda, volontà del Cavaliere di tener duro.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9008


Titolo: MARCELLO SORGI. Il mal comune di governo e opposizione
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2011, 11:16:59 am
26/7/2011 - TACCUINO

Il mal comune di governo e opposizione

MARCELLO SORGI

I molti guai di governo e maggioranza hanno avuto un effetto anestetico, se non proprio ridimensionatore, sui contemporanei problemi dell’opposizione, alle prese con un periodo assai negativo dopo la boccata d’aria delle amministrative e dei referendum. Limitiamoci ad analizzare i più importanti.

Nel Pd si allarga a macchia d’olio una questione morale che ha i suoi epicentri nei casi Tedesco e Penati. Salvato, il primo, dopo aver chiesto al Senato di autorizzare il proprio arresto, da un voto obliquo e contrario alla posizione ufficiale del partito di cui i senatori democratici hanno avuto in parte responsabilità, e che ha aperto nel partito una resa dei conti guidata dalla presidente del Pd Rosy Bindi contro lo stesso Tedesco, a cui ha chiesto invano di dimettersi per farsi arrestare. Il secondo, già capo della segreteria di Bersani, è invece circondato da una strana forma di solidarietà interna, malgrado la gravità delle accuse nei suoi confronti (le ultime: tangenti al ritmo di venti-trenta milioni di lire al mese), del tutto assente verso Tedesco.

In analoghe difficoltà versa il secondo pezzo di opposizione, il mai decollato Terzo polo di Casini, Fini e Rutelli. Oggetto di corteggiamento da parte del nuovo segretario del Pdl Alfano, il leader dell’Udc conferma, ma piuttosto stancamente, la linea del governo istituzionale. Quello del Fli, spingendosi in avanti, e rinnegando la propria tradizionale posizione anti-leghista, arriva a dire che appoggerebbe un governo Maroni. Con il risultato che il ministro dell’Interno, per evitare sospetti di intelligenza con l’avversario, ha reagito negativamente confermando l’alleanza con Berlusconi fino al 2013. E il Pd fa sapere che sarebbe indisponibile. Mentre i suoi due principali partners cercano in qualche modo di rientrare nel centrodestra, sia pure in un impossibile centrodestra deberlusconizzato, Rutelli prudentemente tace.

Prima d’ora l’inevitabile consunzione di un governo e di una maggioranza avevano sempre favorito, con Berlusconi e prima anche con Prodi, il rafforzamento dell’opposizione e la costruzione di una coalizione alternativa in grado di subentrare a quella in carica e prevedibilmente battuta alle successive elezioni. Invece è la prima volta, negli anni della Seconda Repubblica, che centrodestra e centrosinistra procedono parallelamente nel loro declino, senza che si intraveda una via d’uscita, lasciando che i loro problemi politici si avvitino in una crisi di sistema, che ci riporta indietro di vent’anni.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9022


Titolo: MARCELLO SORGI. Le diverse sensibilità istituzionali
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2011, 11:02:32 am
27/7/2011

Le diverse sensibilità istituzionali

MARCELLO SORGI

C’era da aspettarselo, l’intervento di Napolitano e la richiesta di chiarimenti sullo spostamento dei ministeri al Nord. Almeno dalla scorsa settimana, quando Berlusconi era salito al Colle per discutere di rimpasto e sostituzione del ministro di Giustizia, senza fare alcun accenno alla programmata iniziativa leghista. Qui viene allo scoperto la diversa sensibilità formale del Capo dello Stato e di quello del governo. Per Berlusconi, infatti, il trasloco è solo uno dei tanti capricci di Bossi, e neppure dei più importanti, pensando al calvario che il Senatùr ha inflitto al governo in questa inquieta stagione di declino.

Per Napolitano, invece, trovarsi una bella mattina con quattro ministri che, sia pure senza riuscire a trattenere i sorrisi per il ridicolo, inaugurano i loro ministeri a Monza, è del tutto inaccettabile. Specie se questo comporta l’emissione di decreti che devono passare per la scrivania del Presidente della Repubblica.

In realtà la mossa dei ministeri è solo l’ultima iniziativa di propaganda di un partito che si sente minacciato sul proprio territorio e che non sa più a che santo votarsi.

Siccome, appunto, l’anno prossimo si vota a Monza e le probabilità che il sindaco leghista Marco Mariani possa essere riconfermato sono davvero poche, ecco, per rafforzarlo, la messa in scena del trasferimento dei ministeri. Alla quale tuttavia non si sono sottratti due ministri del Pdl come Tremonti e Brambilla: si può immaginare la sorpresa di Napolitano nel vedere il titolare dell’Economia, negli stessi giorni in cui va e viene da Bruxelles per puntellare l’affidabilità economica dell’Italia, prendere parte a una commedia in cui tra l’altro era costretto a consegnare a Bossi un mazzetto di banconote, ufficialmente per pagare a spese proprie il costo del trasferimento degli uffici. A ciò si aggiunga che per quanto sia stato annunciato che le nuove sedi ministeriali non comporteranno costi aggiuntivi per il bilancio dello Stato, è già stato ampiamente dimostrato, nella pratica, come questo sia impossibile. Delle due l’una: o una volta aperti gli uffici di Monza al solo scopo di farli filmare dalle telecamere, li si richiude; oppure, se davvero si vuol renderli operativi, com’è inevitabile dal momento che il pubblico prima o poi vi affluirà, sarà inevitabile dotarli di strumenti di lavoro e di personale. Con nuove spese nel momento meno adatto, visto che è appena stata varata una manovra di tagli e di riduzione dei costi dell’apparato statale.

Meglio sarebbe stato sicuramente per Pdl e Lega interrogarsi sulle responsabilità del suddetto sindaco Mariani per l’insoddisfazione ormai evidente della popolazione monzese, che, solo per fare un esempio, ha visto il proprio primo cittadino difendere il tradizionale Gran Premio di Formula Uno dall’ipotesi di uno spostamento a Roma dicendo che era pronto ad allearsi con Al Qaeda e disposto a far saltare il Colosseo sulla testa dei romani. Una sorta di caricatura dell’originale bossiano. Che adesso, per rimediare alle stranezze di questo sindaco, il centrodestra pensi di trasferire i ministeri a Monza, Napolitano, buona parte dei cittadini monzesi, e forse non solo loro, non riescono a convincersene.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9025


Titolo: MARCELLO SORGI. Alfano e i rischi di una strategia tutta Dc
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2011, 05:27:55 pm
28/7/2011 - TACCUINO

Alfano e i rischi di una strategia tutta Dc

MARCELLO SORGI

L’annuncio delle dimissioni da ministro. E, prima ancora, l’adunata dei capicorrente, dei ministri e degli uomini eminenti delle istituzioni, con stile e metodo che ricordano la vecchia Dc. Ma Angelino Alfano, da ieri a tutti gli effetti segretario del Pdl, sa benissimo che la vecchia scuola scudocrociata può servire, ma non basta. I tempi sono cambiati.

Le ultime elezioni amministrative hanno liberato nuovamente un vento di antipolitica, che se dovesse durare o rafforzarsi, soffierebbe forte contro il partitone berlusconiano, che non ha più niente della natura movimentista impressagli dal suo fondatore.

Da allora in poi, Berlusconi è tornato al governo, ma alla fine della sua seconda legislatura a Palazzo Chigi la sua spinta propulsiva sembra ormai esaurita. Il primo problema per Alfano è: quanto vale, quanto può valere un Pdl che si presenti alle elezioni senza il Cavaliere, o ammesso che ci si possa pensare dato che nessuno ci crede, con un Cavaliere formato padre nobile? E quale dovrebbe essere il volto rinnovato del partito? Più moderato? Più centrista, come si dovrebbe ricavare dalla lezione delle ultime amministrative, che hanno vista sconfitta la linea radicale dell’attacco ai magistrati e della demonizzazione degli avversari?

Le prime mosse di Alfano, compreso l’atteggiamento tenuto ieri durante la conferenza stampa ai corrispondenti stranieri, lasciano pensare a questo. Ma che una forma partito più classica e più simile al modello Prima Repubblica della Dc possa bastare a riempire il vuoto che si aprirebbe, se veramente Berlusconi si facesse da parte, non è detto. Servirebbe, forse, a riavvicinare gli alleati separati Udc e Fli, anche se è improbabile che il Terzo polo rinunci a presentarsi da solo alle prossime elezioni, rendendo impossibile qualsiasi maggioranza al Senato, e riservandosi di trattare dopo con quelli che inevitabilmente sarebbero vincitori dimezzati. Inoltre non risolverebbe il problema di un appeal elettorale molto appannato e di un’immagine del Pdl schiacciata sulla politica professionale e su una classe dirigente che comincia ad assomigliare troppo all’odiata Casta.

Così, superati gli obblighi di rassicurazione dell’insediamento alla segreteria, Angelino è atteso all’« esame società»: quello che il Cavaliere ha sempre superato, anche nei momenti difficili, con la brillantezza e le capacità che perfino gli avversari gli riconoscono. E che Alfano dovrà affrontare senza la sua tutela, ed anzi prendendo il più possibile le distanze dal fondatore.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9031


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Senatur condannato ad andare avanti
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2011, 05:56:25 pm
29/7/2011 - TACCUINO

Il Senatur condannato ad andare avanti

MARCELLO SORGI

L’imbarazzo è evidente. Di Bossi in primo luogo e poi di tutto il governo, dato che la lettera del Capo dello Stato, di cui ieri è stato reso noto il testo, è lunga e circostanziata e muove una serie di rilievi costituzionali inoppugnabili al trasferimento dei ministeri al Nord. Ma il Senatur non avrebbe mai pensato di dover affrontare sul serio un problema che per lui serio non è mai stato. Occorre sempre ricordarsi che tipo è Bossi, uno che nella sua lunga, ormai, carriera politica, ne ha dette e fatte di ogni tipo e non s’è mai preoccupato delle conseguenze delle sue sparate.

Per uno che quindici anni fa metteva in scena la secessione, con la cerimonia, poi ripetuta ogni anno, dell’ampolla e del dio Po, la distinzione tra propaganda e politica intesa sul serio non esiste. L’idea che un giorno o l’altro sarebbe venuto il momento di rendere conto di tutte le balle messe in circolazione non l’ha mai presa in considerazione, anche perché - e in questo, ma solo in questo, non si può dargli torto - gran parte dei politici frequentati o con cui si è alleato Bossi, in molte occasioni, quanto a montare il fumo con la manovella gli davano delle piste.

Ci sono paradossalmente prese in giro più serie di questa dei ministeri al Nord, di cui Bossi teme le conseguenze. A cominciare dal federalismo e dallo slogan platealmente tradito, dei «soldi del Nord che devono restare al Nord», quando ormai sono i sindaci leghisti a dire che Tremonti gli ha svuotato le casse. Aspettarsi quindi che il leader del Carroccio faccia un passo indietro o si applichi a rispondere ai rilievi del Colle, purtroppo non è realistico. Ciò rende per Berlusconi e Letta, che anche ieri nel secondo consecutivo incontro con Napolitano in occasione del giuramento dei nuovi ministri si sono impegnati a replicare formalmente alla lettera del Presidente, più arduo stavolta trovare la quadra, per usare proprio la terminologia bossiana. Il Senatur, di toccare i nuovi uffici di Monza, non ha alcuna intenzione. Di litigare con Napolitano neppure, ma sta ancora chiedendosi perché il Quirinale abbia voluto creare un caso politico su una vicenda puramente inventata, com’è appunto quella del trasloco dei ministeri. Si tratta di due concezioni della politica e della vita pubblica manifestamente inconciliabili. In mezzo alle quali, al momento, è stretto Berlusconi, che ieri ha sperato di cavarsela facendo pubblica raccomandazione ai ministri di evitare ulteriori traslochi. Ma non sembra che Napolitano possa accontentarsi solo di questo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9035


Titolo: MARCELLO SORGI. Una mossa per arrivare all'autunno
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2011, 11:48:40 am
2/8/2011 - TACCUINO

Una mossa per arrivare all'autunno

MARCELLO SORGI


Di fronte al nuovo lunedì nero della Borsa - la peggiore, quella italiana, in un quadro di difficoltà mondiale che neppure l’accordo Usa sul debito è riuscito ad arginare - Berlusconi ha rotto gli indugi e ha deciso di presentarsi in Parlamento mercoledì e di incontrare l’indomani le parti sociali, che lo avevano sollecitato la scorsa settimana con un documento molto duro e mirato a sottolineare l’inadeguatezza del governo alla gravità della situazione.

Con un orizzonte nero come quello di questi giorni, il premier non potrà certo fare miracoli, né parlarne, come faceva ai bei tempi.
Ma la decisione di intervenire alle Camere, che ha sorpreso molti nel suo partito e ha contraddetto alcuni dei suoi più stretti collaboratori, che gli consigliavano prudenza, ha invece una logica precisa. A Berlusconi non è sfuggito che sia l’iniziativa delle parti sociali, Confindustria e sindacati in testa, sia quella della Lega, che per bocca di Calderoli ha proposto di rinunciare alle vacanze e mettere su una sorta di campus aperto alle opposizioni per studiare soluzioni per il Paese, avevano il chiaro obiettivo di spingere per un altro governo. D’emergenza, tecnico o istituzionale, non è questo il problema, dato che la scelta toccherebbe al Capo dello Stato.
Più dichiaratamente le parti sociali, e un po’ meno il Carroccio (che tuttavia, da un esecutivo del genere non vorrebbe a nessun costo restare escluso) si erano mossi nella prospettiva che la crisi economica nel corso dell’estate non potrà che peggiorare, e che in autunno un Berlusconi già cotto a puntino alla fine dovrà arrendersi.

Va detto che questo è l’esatto contrario di quel che il medesimo Berlusconi ha in testa. Il Cavaliere ha accolto molto negativamente il documento delle parti sociali e le mosse dell’opposizione. S’è chiesto: ma come, proprio nei giorni in cui Tremonti, cioè il massimo responsabile della situazione economica italiana, rischia di precipitare negli abissi a causa dei suoi traffici personali, tutti ancora una volta vengono addosso a me?

E, superata la rabbia per l’ultimo attacco che considera ancora una volta pregiudiziale, il premier ha deciso così di reagire. Qualsiasi cosa dirà mercoledì in Parlamento e giovedì alle parti sociali, il senso dei suoi prossimi interventi si può dunque anticipare già oggi: se pensate davvero di farmi fuori così, scordatevelo. In autunno, al massimo, se proprio volete un segno di cambiamento, vi darò la testa di Tremonti.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9049


Titolo: MARCELLO SORGI. La coalizione e il timore di un collasso
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2011, 04:22:15 pm
3/8/2011 - TACCUINO

La coalizione e il timore di un collasso

MARCELLO SORGI

La vigilia dell’intervento del presidente del consiglio alle Camere ha coinciso con un’altra giornata di sofferenza dell’Italia sui mercati, che ha portato la pressione sui titoli pubblici ormai oltre il livello di guardia. Non c’è ancora, è bene precisarlo, la convinzione che il Paese possa collassare, anzi i segnali che vengono dall’Europa dicono il contrario, anche se i dati sullo spread dei titoli ci avvicinano pericolosamente alla Spagna. Ma in un momento di forte speculazione l’Italia paga il prezzo di una persistente instabilità politica, determinata anche da fattori incommensurabili come il cattivo stato di relazioni interne della coalizione.

In altre parole: se il presidente del consiglio e il ministro dell’Economia - fatto segno peraltro per la prima volta di un duro giudizio del Financial Times - continuano ad avere rapporti tali che il primo decide di presentarsi in Parlamento senza avvertire il secondo e senza condividere minimamente il senso del suo intervento, che avrà un effetto cruciale sulle valutazioni dei mercati sull’Italia, il risultato di tutto ciò, fin dalla vigilia, è quel che è accaduto ieri. Rispetto a cui il richiamo che il Capo dello Stato, esplicitamente preoccupato, ha ribadito ieri - dopo un incontro, il secondo in pochi giorni, con il Governatore della Banca d’Italia -, rivolto sia alla maggioranza che all’opposizione, e la lunga riunione del comitato per la stabilità che Tremonti ha convocato al suo ministero erano chiaramente mirate a convincere gli osservatori esterni che la situazione, malgrado tutto, sia sotto controllo.

Ma naturalmente l’eventuale recupero di credibilità italiana resta legato soprattutto a quel che Berlusconi dirà oggi nel discorso in Parlamento. Un appuntamento a cui il premier arriva in condizioni tutt’altro che buone: con la Lega, timorosa di un nuovo giro di vite in materia di rigore, che minaccia addirittura di non presentarsi o di assicurare solo una rappresentanza simbolica. E l'opposizione, incurante degli appelli del Quirinale, che insiste perché Berlusconi passi la mano, o si rassegni, come ha fatto Zapatero, ad andare ad elezioni anticipate. Ma Berlusconi non ci pensa affatto.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9054


Titolo: MARCELLO SORGI. Un copione all'ennesima replica
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2011, 09:50:52 am
4/8/2011

Un copione all'ennesima replica

MARCELLO SORGI

Per unanime riconoscimento, il dibattito di ieri in Parlamento è stato una delusione. Chi si aspettava una risposta alla preoccupante, quotidiana, evoluzione della crisi non l'ha certo trovata. Così come nessuno ha visto quello scatto in avanti di Berlusconi, che tutti, a cominciare dai suoi più stretti collaboratori, ritenevano necessario. Purtroppo la ragione di questo passaggio inutile, se non proprio controproducente, è chiara: il Cavaliere è arrivato alla Camera per rispondere, non sul che fare, ma sul chi.

Dopo giorni e giorni in cui si vagheggiava di un premier ormai travolto dal vento impetuoso dei mercati finanziari, Berlusconi ha detto a tutti senza mezzi termini che non intende farsi da parte, né aprire a qualsiasi ipotesi di governo diverso dal suo.

Spalleggiato da Angelino Alfano, che parlava per la prima volta da segretario del Pdl, da cui tuttavia affiorano riserve sempre più forti sulla resistenza del leader, Berlusconi ha potuto così ripetere, parola più parola meno, la sua risaputa analisi all’acqua di rose della crisi. Una crisi americana, giapponese, mondiale, di cui a suo giudizio l’Italia fa le spese come altri e non peggio di altri, in attesa che si dispieghino gli effetti della manovra appena varata e pienamente condivisa dalle autorità europee. Per inciso, sarà la terza o quarta replica di un copione a cui Berlusconi, malgrado i consigli responsabili di esperti che meglio di lui sanno leggere i numeri inquietanti della congiuntura, non intende apportare alcun cambiamento, nel timore di giocarsi il consenso - quel poco che gli rimane - di un’opinione pubblica che prima o poi verrà nuovamente chiamata a votare.

Si dirà che è prova di incoscienza far finta di niente o quasi, davanti a quel che sta accadendo e in presenza di un estremo appello del Capo dello Stato al senso di responsabilità e all’indicazione di nuove misure - diffuso tra l’altro, da Napolitano, dopo due incontri consecutivi con il Governatore della Banca d’Italia. Oppure, che almeno un elemento di chiarezza, dal dibattito di ieri, è sortito: siccome Berlusconi non è affatto rassegnato a fare quel «passo indietro» in cambio del quale l’opposizione sarebbe disposta a fare un «passo avanti», sulla strada delle scelte dolorose invocate dagli osservatori più qualificati per fermare l’avvitamento dell’Italia sui mercati, bisognerà prendere atto che il Paese si salva - se davvero si salverà - con Berlusconi, e non senza di lui o con quel che potrebbe venire dopo di lui.

D’altra parte, anche se si tratta di un ragionamento puramente formale, che non tiene nel dovuto conto la realtà, in punta di principio non c’è nulla, se non il voto contrario del Parlamento, che obblighi il governo a dimettersi. E non è neppure una prepotenza il fatto che Berlusconi voglia avvalersi fino in fondo di questo, senza mostrare sensibilità per l’aggravarsi del quadro economico del Paese. E’ un suo diritto. Al dunque, il problema vero non sta nella sua insistenza ad andare avanti, ma nel non dire cosa vuol fare. Non lo dice, per altro, non perché non lo sappia, ma al contrario perché sa benissimo che ogni minimo spostamento da una manovra concordata tra mille difficoltà, e già contestata nella sua applicazione, aprirebbe una crepa forse insanabile nella fragile maggioranza che l’ha votata appena due settimane fa.

Stanno essenzialmente in questo, sia la debolezza del Cavaliere che i mercati percepiscono chiaramente, allontanando giorno dopo giorno i propri investimenti da noi, sia la profondità dell’abisso a cui anche ieri il Paese s’è avvicinato. Se stamane all’apertura le Borse gettano ancora più giù l’Italia, o Berlusconi dice cosa vuol fare per salvarla, o rischia di portarla al naufragio insieme a lui.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9056


Titolo: MARCELLO SORGI. Per Silvio le parti sociali preparano solo una trappola
Inserito da: Admin - Agosto 05, 2011, 04:59:20 pm
5/8/2011 - TACCUINO

Per Silvio le parti sociali preparano solo una trappola

MARCELLO SORGI

L'imbarazzo delle delegazioni era evidente, anche se Berlusconi ha finto di non accorgersene. E la riunione al ritrovato tavolo con le forze sociali s’è svolta in un indispensabile clima di ipocrisia, mentre di ora in ora le Borse facevano registrare un’altra giornata nera, che non sembra sia stata per nulla alleviata dagli esiti del dibattito parlamentare sulla crisi di mercoledì. Se non fosse che il ritorno a un clima di confronto è di per sé una buona notizia, pensando al livello delle relazioni degli ultimi mesi tra governo Confindustria e sindacati, sarebbe davvero difficile credere alla svolta del Cavaliere in materia di concertazione.

È stato il precipitare degli eventi degli ultimi giorni a convincere il premier che era necessario tornare sui propri passi e promuovere un’apertura alla trattativa. Ma il giudizio di Berlusconi sul documento messo a punto dalle parti sociali la settimana scorsa era e rimane duramente negativo. Più che l’offerta di disponibilità a trovare un terreno di incontro, il Cavaliere aveva colto in quel testo, messo a punto piuttosto precipitosamente e non del tutto condiviso all’interno delle organizzazioni che lo avevano firmato, una chiara minaccia al governo.

La sensazione, percepita anche dai più stretti collaboratori del premier, era che si trattasse di un modo di accelerare una soluzione d’emergenza, un governo tecnico o istituzionale da insediare al più presto, e che dunque le parti sociali si fossero risolte a far da sponda a una pressione che veniva dall’opposizione. Non si può certo dire che Berlusconi avesse completamente messo da parte questi pensieri quando ieri si è seduto al tavolo della concertazione.

A dimostrarlo era il nervosismo, tradito in più occasioni dal premier: come quando s’è lasciato andare a uno dei suoi consueti sfoghi contro la magistratura, o quando ha avuto un breve alterco con Tremonti sul ruolo della Banca centrale europea, durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi. Al di là degli impegni presi e delle reciproche assicurazioni, del governo e delle delegazioni, di accorciare al massimo le vacanze e tenersi pronti a qualsiasi emergenza, il bilancio delle due giornate anti-crisi, in Parlamento e a Palazzo Chigi, resta dunque assai modesto, e il futuro del governo assai incerto. La situazione è lontana dall’essere tornata sotto controllo. Finché la tempesta sui mercati non dà qualche segno di stanchezza, purtroppo, le buone intenzioni dovranno fare i conti con eventi imprevedibili che ormai non dipendono più da noi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9065


Titolo: MARCELLO SORGI. L'estremo rimedio
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2011, 09:08:05 am
12/8/2011

L'estremo rimedio

MARCELLO SORGI

Oltre a confermare la gravità e l’eccezionalità del momento, il rientro anticipato del presidente Napolitano a Roma e l’intervento diretto ed esplicito del governatore di Bankitalia, e futuro presidente della Bce, Draghi nella crisi, hanno sancito, se ancora ve ne fosse il dubbio, qual è il senso della giornata a cui abbiamo assistito e dell’anomala vigilia di Ferragosto che si prepara, con la probabile convocazione per oggi del Consiglio dei ministri che dovrebbe varare per decreto la manovra-bis. Come già nel 1992-’93, quando per la verità la malattia sembrava solo italiana, e il Paese rischiava di perdere l’appuntamento con l’euro, siamo nuovamente alle soglie di una temporanea (speriamo) sospensione della sovranità nazionale. A mali estremi...

Il potere politico e il governo che ci hanno portato (non da soli, va ricordato) al punto in cui siamo, saranno sostanzialmente commissariati per varare provvedimenti adeguati alla bisogna. Ieri mattina, mentre un imbarazzato - e apertamente contestato - Tremonti illustrava in Parlamento la cura da cavallo che l’Europa ci chiede, il Capo dello Stato e il Governatore di Bankitalia si preparavano a far digerire a Berlusconi la stessa amara medicina che già oggi il governo dovrebbe somministrare in massicce dosi al Paese.

Si dirà che, benché motivato dall’emergenza, tutto ciò non è perfettamente democratico. Ed è quel che hanno detto, parola più parola meno, gran parte dei leader intervenuti ieri nel dibattito parlamentare. Da Bossi, che ha rotto platealmente l’amicizia con Tremonti e ha accusato Draghi addirittura di voler far saltare il governo, ad alcuni esponenti di rilievo del Pdl, a tutti i capi dell’opposizione, che hanno preso a schiaffi metaforicamente il responsabile dell’Economia, sottoponendolo a una sorta di processo. Più il ministro andava avanti, nella drammatica elencazione delle misure necessarie suggerite dalla Bce con la sua famosa lettera, più Bersani, Casini, Rutelli, Bocchino, Di Pietro, per non dire dello stesso Presidente della Camera Fini, riscopertosi anche lui leader dell’opposizione, sgranavano gli occhi e si lasciavano andare a commenti pesantissimi, quasi appunto non fossero consapevoli come tutti della drammatica situazione da fronteggiare.

Ma, al di là di toni e parole usate, in qualche caso sconvenienti, va detto che questa discussione, pur legittima come qualsiasi dibattito si svolga in Parlamento, è del tutto inutile e purtroppo controproducente. Non c’è, né il tempo, né la possibilità di affrontare una tale questione. La tempesta sui mercati che sta mettendo a terra le economie occidentali ha svariate cause, alcune delle quali lungi dall’essere identificate, ma non c’è dubbio che l’incertezza e le fumisterie della politica, non solo di quella italiana, la incoraggino, accelerandola e in molti casi aggravandone le conseguenze. Qui si tratta di decidere, subito, cosa fare, senza perdersi in calcoli di convenienza o soppesare gli immancabili dati dei sondaggi.

Politicamente, è chiaro, la levata di scudi delle opposizioni - all’interno delle quali tuttavia Casini continua ad avere un atteggiamento più dialogante - sottende il desiderio di affidare il governo di una fase così dura a un nuovo esecutivo, sostenuto da una maggioranza più larga e ovviamente non guidato da Berlusconi. Obiettivo legittimo, anche questo, ma, va aggiunto, attualmente irrealizzabile, visto che il Cavaliere è deciso, e ha detto in tutte le salse, che se ne andrà solo quando il Parlamento provvederà a sfiduciarlo, ed è tuttora contrario all’allargamento della coalizione che Alfano quotidianamente gli propone. All’interno del governo c’è chi dice che il premier, tolta la sua viscerale contrarietà alla patrimoniale, o almeno alla patrimoniale fatta in questa fase, si sarebbe perfino rassegnato, e via via poi convinto, a giocare la scommessa del risanamento, specie dopo che la crisi negli ultimi giorni ha assunto dimensioni mondiali, e minaccia da vicino anche partners di prima grandezza come la Francia. Di qui l’insolito atteggiamento remissivo con cui s’è presentato ieri a Draghi e a Napolitano.

Malgrado ciò, sbaglierebbe Berlusconi a trascurare il malessere delle opposizioni, che dovranno gioco forza piegarsi, come sta facendo il governo, alle necessità di un passaggio così difficile. La stagione dei guai è appena cominciata, nessuno è in grado di dire quanto durerà. In circostanze del genere è giusto chiedere a tutti uno sforzo. Ma indispensabile anche essere riconoscenti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9086


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Presidente ruba la scena al Cavaliere
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2011, 04:15:37 pm
22/8/2011

Il Presidente ruba la scena al Cavaliere

MARCELLO SORGI

Per il luogo in cui s’è svolto e per le reazioni che ha suscitato - una serie ininterrotta di applausi e ovazioni - l’intervento di Napolitano ieri al Meeting di Cl è destinato a fissare un passaggio delicato della difficilissima crisi che l’Italia sta attraversando. E non solo perché le assise di Rimini sono da tempo il luogo dell’annuale, festosa celebrazione dell’amato «Silvio», da parte di una delle più vivaci componenti giovanili del mondo cattolico.

Ma perché, se non si fosse trattato di Napolitano, si potrebbe dire che anche Comunione e Liberazione, a dispetto della sua consolidata simpatia per il centrodestra, s’è affacciata tutt’insieme nelle affollate praterie dell’antipolitica.

Come altrimenti dovevano intendersi gli scroscianti battimano tributati al Presidente, che con il necessario vigore condannava la classe politica nel suo complesso, di governo e di opposizione, giudicandola esplicitamente non all’altezza dei suoi compiti, specie in un momento così grave per il Paese? Ma siccome, appunto, Napolitano non è minimamente suscettibile di cedimenti antipolitici e il suo discorso conteneva un monito chiarissimo, rivolto a tutti, a fare il proprio dovere, è evidente che questa consapevolezza doveva essere già diffusa tra i giovani di Cl, e che il Presidente ne ha dato un’interpretazione vicina alle loro preoccupazioni.

Chi ha assistito alle contorsioni dell’ultima settimana, dopo il varo del decreto di Ferragosto con la manovra-bis, non può che condividerla. All’accelerazione che aveva portato ad anticipare le misure per il pareggio di bilancio, nel tentativo di frenare la corsa pazza dei mercati, è seguito un rilassamento inaccettabile. Benché firmato di corsa dal Presidente, rientrato apposta in anticipo al Quirinale dalle vacanze, il testo del governo ha fatto appena in tempo ad apparire sulla Gazzetta Ufficiale per essere subito sottoposto a un incredibile tiro al bersaglio. Dissidenti, correnti organizzate, fuoco amico, esplicite prese di distanze di singoli e gruppi organizzati. E a sorpresa, lo stesso presidente del Consiglio, dal chiuso di una vacanza di sofferenza, dedicata, come ha fatto sapere, a una drastica quanto inevitabile dieta dimagrante, che ne disconosceva la paternità. Nei giorni più caldi della prima estate in cui, almeno mentalmente, gli italiani non sono potuti andare in vacanza, Berlusconi ha adoperato la sua collaudata tecnica dei messaggi doppi. Pubblicamente, e personalmente, nelle rare apparizioni pubbliche e nei pochi giorni che ha trascorso in Sardegna, ha tenuto fermo il registro dell’intoccabilità o quasi della manovra. Ma dietro le quinte, con tutti quelli che andavano a trovarlo, si dichiarava insoddisfatto, scaricava su Tremonti la colpa di averlo costretto a metter le mani nelle tasche degli italiani, si diceva pronto a fare ogni cosa per modificare le misure e renderle più digeribili.

È questo modo di comportarsi che deve avere particolarmente irritato il Capo dello Stato. Conseguentemente il primo bersaglio del suo discorso era senz’altro il presidente del Consiglio, e l’illusione, durata lo spazio di un mattino alla vigilia di Ferragosto, di un sussulto di responsabilità del governo di fronte al Paese che stava affondando. Ma anche l’opposizione, agli occhi del Capo dello Stato, è rimasta molto al di sotto del senso di responsabilità che le è richiesto. Nessuno in altre parole, neppure le parti sociali che pure avevano preso posizione duramente, è stato in grado di dare un segno di discontinuità e mostrare di aver capito l’eccezionalità della situazione. Arrivare in queste condizioni al confronto parlamentare che dovrebbe varare la manovra in tempi brevi, e svolgersi sotto i colpi quotidiani dei mercati, sarebbe più che rischioso. E soprattutto impossibile, solo a immaginarne le conseguenze.

D’altra parte Napolitano sa bene che l’atteggiamento dell’opposizione è condizionato alla richiesta, ribadita più volte, di un cambio di governo per fronteggiare meglio la crisi. Una richiesta legittima, ma che non può diventare pregiudiziale. Forse è proprio per questo che, in un discorso in cui non ha risparmiato nulla, ma proprio nulla, ai leader politici consultati appena una settimana fa al Quirinale, non ha voluto toccare il punto del cosiddetto «governo del Presidente», da più parti invocato negli ultimi giorni al bazar della politica nostrana. Senza nulla dire e senza nulla escludere in materia, Napolitano ha voluto chiaramente fare intendere che anche di un’ipotesi estrema come quella è necessario discutere con maggior serietà.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9113


Titolo: MARCELLO SORGI. Ora il premier si gioca tutto
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2011, 10:04:23 am
23/8/2011

Ora il premier si gioca tutto

MARCELLO SORGI

Il secco no a ogni ritocco delle pensioni ribadito ieri dalla segreteria della Lega al gran completo anticipa il braccio di ferro sulla manovra tornata in discussione al Senato. Malgrado l’esplicita richiesta ufficiale di un ripensamento avanzata ieri da Cicchitto a nome del Pdl, il testo uscito da via Bellerio non contiene alcuno spiraglio. E’ la prima risposta negativa, purtroppo, all’appello al senso di responsabilità e al rispetto dell’interesse nazionale lanciato dal Capo dello Stato domenica a Rimini. Ma prima di ogni cosa è l’effetto evidente dello scontro sotterraneo che sulla stessa manovra cova tra Berlusconi e il ministro dell’Economia Tremonti. Uno scontro in cui il Cavaliere preme sul Senatùr per convincerlo ad accettare una parziale riscrittura della manovra rompendo contemporaneamente l’asse con Tremonti ed agevolando un rapido iter parlamentare.

Su questo, come dimostra la nota diramata dal presidente del Consiglio ieri sera in appoggio alle richieste del Capo dello Stato e in difesa dei valori dell’unità d’Italia (in polemica con il rilancio della Padania e degli annunci secessionisti operati da Bossi), Berlusconi è disposto a giocarsi tutto. Sommerso (ma poi non tanto) nei giorni della convulsa preparazione del decreto, il dissenso è riesploso nei giorni successivi in modo singolare. Con Tremonti che ha fatto di tutto, tra visite a Bossi e pranzi di compleanno in Cadore, per mostrare pubblicamente la sua perfetta armonia con il Carroccio, con il quale è stata evidentemente concordata la selezione delle misure incluse e di quelle escluse dalla manovra. Mentre Berlusconi ha parlato per bocca dei «suoi» dissidenti, gran parte dei quali, è chiaro, sono tutt’altro che spontanei e rispondono invece direttamente al premier.

Basta guardare due come Crosetto e Napoli, da sempre fedelissimi del Cavaliere. L’idea che da un giorno all’altro abbiano autonomamente preso le distanze dal loro leader fa sorridere chi sa come funziona il partito del presidente. Così l’inverosimile emersione ferragostana di una ventina di obiettori di coscienza, sufficienti a mettere in discussione l’approvazione del decreto e a rendere evidente la necessità di una mediazione e di un riaggiustamento della manovra è chiaramente funzionale all’obiettivo di Berlusconi di ottenere un cambiamento delle misure e di renderle più digeribili per i suoi elettori.

E la parallela opposizione della Lega a qualsiasi riscrittura è quel che serve a Tremonti per dimostrare che la «sua» manovra è intoccabile. Nel Parlamento appena riaperto c’è chi dice che questo braccio di ferro finirà con Tremonti fuori dal governo e un tecnico come Grilli al suo posto. Ma c’è pure chi obietta che una sostituzione del genere sarebbe impossibile senza una crisi di governo. Al lavoro per tutti questi giorni nella speranza di costruire un accordo tra i due, anche gli ultimi pontieri si preparano a gettare la spugna. Stavolta più che mai Silvio e Giulio sono soli faccia a faccia.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9117


Titolo: MARCELLO SORGI. I tempi che si allungano sono sintomo di difficoltà
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2011, 09:53:33 pm
24/8/2011 - TACCUINO

I tempi che si allungano sono sintomo di difficoltà

MARCELLO SORGI

Se mancava ancora un sintomo di difficoltà per la manovra in discussione al Senato, basta solo applicarsi ai tempi della discussione e dell'approvazione del decreto varato alla vigilia di Ferragosto. È ormai chiaro che i senatori non riusciranno a licenziarlo prima del 15 settembre. L'esame in commissione sarà lungo e accurato. L'aula di Palazzo Madama non potrà cominciare ad occuparsene prima del 5. Quanto alla Camera, per breve che possa essere il passaggio a Montecitorio, occorrerà un'altra decina di giorni per portare a casa il varo definitivo del testo, sempre che non intervengano modifiche che rendano necessario un nuovo passaggio al Senato.

Come sembrano lontani i cinque giorni di luglio in cui un Parlamento improvvisamente risvegliatosi consapevole dei rischi a cui andava incontro il Paese riuscì ad approvare la prima manovra, rivelatasi purtroppo insufficiente e travolta dalla nuova ondata negativa dei mercati. Davanti alla quale, Berlusconi ha cercato fino all'ultimo di minimizzare, poi, di fronte a una malattia che aveva contagiato anche i più forti tra i partners europei, s'è rassegnato, si fa per dire, al decreto di Ferragosto. Ma con il retropensiero, esplicito fin primo momento, di portare presto alle Camere una serie di modifiche tali da rendere la manovra più digeribile e le conseguenze sul proprio elettorato meno pesanti.

Questo chiaro proposito, avversato altrettanto chiaramente dal ministro dell'Economia, che difende l'impianto delle misure così come sono e teme il classico assalto alla diligenza dei parlamentari con i loro emendamenti, ha portato allo stallo attuale. Ha un bel dire, giustamente, il presidente del Senato Schifani, che l'esame delle eventuali modifiche dovrebbe avvenire a prescindere dalla provenienza politica delle stesse e con un sincero spirito di collaborazione, per rendere al più presto efficaci le decisioni del governo. In mancanza di un serio accordo politico all'interno della maggioranza, che attualmente non si vede, i senatori non possono far altro che prendere tempo.

Si moltiplicano intanto le voci sulla possibilità che il braccio di ferro tra Berlusconi e Tremonti possa concludersi con l'uscita del ministro dal governo. Ma anche a questo proposito, il calendario dei lavori parlamentari non è indifferente. Se alla Camera la manovra approda davvero dopo il 15 settembre, i deputati si troveranno a discutere insieme della crisi economica e del voto sulla richiesta d'arresto del braccio destro di Tremonti, Milanese, previsto per il 19. Con quali conseguenze, ad oggi, è difficile prevedere.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9123


Titolo: MARCELLO SORGI. Ma è solo un provvisorio compromesso
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2011, 10:04:22 am
30/8/2011

Ma è solo un provvisorio compromesso

MARCELLO SORGI

Sarà bene non lasciarsi impressionare dalla seconda riscrittura della manovra uscita ieri dal lungo vertice di Arcore tra Pdl e Lega: si tratta di un ennesimo provvisorio compromesso tra i due maggiori alleati di governo (e prima di tutto tra Berlusconi e Tremonti), destinato quasi certamente ad essere rimesso in discussione nel corso nell’iter parlamentare del decreto di Ferragosto. Di qui al 13 ottobre, termine per la definitiva conversione in legge del testo, chissà quanti altri colpi di scena si preparano, mentre il centrodestra archivia lo scatto di reni decisionista di metà estate e torna all’eterno metodo italiano della trattativa infinita.

Nel merito, l’accordo sembra costruito per dare un contentino a tutti: esce l’odiato (da Berlusconi) contributo di solidarietà sui redditi oltre novantamila euro, si riducono, ma solo parzialmente, i discussi (da Lega e dissidenti Pdl) tagli agli enti locali, si rinviano, con la scusa di renderle più stringenti, le criticate (da tutti tranne Di Pietro) abolizioni delle Province, affidate a una norma costituzionale che non è detto vedrà la luce in questa legislatura. Entrano un ritocco delle pensioni, che bisognerà vedere come Bossi riuscirà a digerire, dopo aver passato l’estate a spiegare ai suoi militanti che grazie a lui le pensioni erano salve, riduzioni di detrazioni fiscali miste a più stringenti controlli antielusione, che serviranno a far dire a Calderoli (anche se non è vero) che è passata la sua proposta di tassa antievasione.

Ma al di là dell’effetto annuncio, quando le nuove misure saranno dettagliate, di fronte a ulteriori reazioni di contribuenti che già pagano e verrebbero ulteriormente colpiti, da sommare alla protesta nazionale dei sindaci costretti dai tagli ad aumentare le tasse locali, non è affatto da escludere un’altra marcia indietro del governo. O peggio, una volta creato allarme tra le più note categorie di evasori - sempre gli stessi, sempre perfettamente individuabili - dal miraggio della tassa antievasione potrebbe sortire, miracolosamente, nientemeno che un nuovo condono. Infine, come voleva Tremonti, e al contrario di quel che chiedeva Berlusconi, che su questo punto non è stato accontentato, non si interviene sull’Iva. Non ci vorrà molto a capire - basterà qualche nuova sventola dei mercati - che anche questa nuova versione della manovra non basta. S’è fatto troppo poco e troppo tardi.

Politicamente, al di là delle solite uscite di propaganda per cui tutti si dichiarano contenti, è abbastanza chiaro che la Lega ha avuto sugli enti locali meno di quanto ha dovuto cedere sulle pensioni. E che la lunga mediazione della scorsa settimana, ad opera del segretario Pdl Alfano, se è servita a qualcosa, ha portato a un risultato diverso da quello, abbastanza modesto, con cui si era conclusa. Quanto a Berlusconi e Tremonti, dopo giorni in cui lo stato dei rapporti tra i due era tale che neppure si parlavano al telefono, in conclusione hanno dovuto abbozzare. E rendersi conto che in questa situazione, e con l’autunno che si prepara, come dicevano gli antichi, «simul stabunt, simul cadent». Non rimane loro che puntellarsi a vicenda, per affrontare come possono i rovesci della crisi e le insidie di un comune declino. Non è detto che serva, ma non hanno alternative.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9143


Titolo: MARCELLO SORGI. L'esecutivo e l'arte antica della sopravvivenza
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2011, 10:18:31 am
31/8/2011 - TACCUINO

L'esecutivo e l'arte antica della sopravvivenza

MARCELLO SORGI

Da Bankitalia alla Corte dei conti, dai sindacati al Pd, la manovra bis (o ter, se si conta anche quella di luglio) ha sollevato un gran numero di reazioni critiche o contrarie, che certo non ne faciliteranno l'iter parlamentare in corso al Senato. L'unico veramente soddisfatto è Berlusconi, che è tornato in tv a Studio aperto per dire che le misure anti-crisi adesso sono più eque e per chiedere all'opposizione di collaborare.

In realtà, se si esamina il percorso del governo attraverso l'estate del terremoto finanziario sui mercati, occorre riconoscere che il Cavaliere, a dispetto di tutti quelli che precedevano che ne sarebbe rimasto travolto, è riuscito invece ad approfittarne. Se la misura di tutto è, come dovrebbe essere, la capacità dell'esecutivo di far fronte all'emergenza e l'adeguatezza dei rimedi messi a punto rispetto all'effettiva dimensione dei problemi, non c'è dubbio che il governo ha rivelato tutta la sua insufficienza e il premier ha rischiato grosso, tentando di nascondere la crisi fino a Ferragosto, e ritrovandosi in pratica commissariato dalla Bce, che lo ha costretto a cambiare passo e ad intervenire per decreto in fretta e furia.

Ma se invece il metro di Berlusconi è quello della sopravvivenza, come effettivamente accade dalla fine del'anno scorso, quando la maggioranza fortissima di cui il centrodestra godeva ha subito la defezione dei finiani, si può dire che ancora una volta il Cavaliere l’ha sfangata. L'affanno americano, il dilagare in tutta Europa della crisi, le difficoltà in cui gli stessi Merkel e Sarkozy si dibattono attualmente hanno messo il premier in condizione di relativizzare i guai italiani e di cercare di giustificare la riscrittura della manovra con la necessità di agire in modo più ponderato, dal momento che nessuno o quasi al momento è in grado di dire quando scenderà la febbre dei mercati.

Le vicende giudiziarie che toccano da vicino Tremonti gli hanno consentito di smussare le resistenze del ministro dell'Economia. Lo spazio, pur limitato, lasciato al suo delfino Alfano nelle trattative ha portato alla smussatura delle resistenze interne dell'ala maroniana della Lega. Così che il risultato, da una parte, è il pasticcio uscito da Arcore, che ha rinfocolato gli attacchi di tutti gli avversari. Ma dall'altro è il ricompattamento della maggioranza e, salvo qualche voce isolata, anche del Pdl. La manovra richiederà quasi certamente nuovi aggiustamenti, anche a breve. Ma il visionario Berlusconi può ricominciare a guardare sorridendo alla scadenza naturale della legislatura, nel 2013.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9147


Titolo: MARCELLO SORGI. Nel gioco dei veti incrociati si torna a parlare di elezioni ...
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2011, 05:56:10 pm
1/9/2011 - TACCUINO

Nel gioco dei veti incrociati si torna a parlare di elezioni anticipate

MARCELLO SORGI

Si tratti della conseguenza di una nuova impennata della Lega o di un ripensamento generale del centrodestra, dopo aver preso visione dei dati Inps che rivelano come sarebbero state almeno mezzo milione le vittime della riforma, l’abbandono del ritocco alle pensioni di anzianità, con la cancellazione dei riscatti previdenziali della laurea e del servizio militare, ha di nuovo gettato governo e maggioranza nel caos.

Berlusconi è furente sia con Tremonti, le cui valutazioni sui numeri della manovra bis si sarebbero rivelate differenti da quelle, più attendibili, della Ragioneria generale dello Stato, sia con Bossi, che rimette continuamente in discussione gli accordi sottoscritti il giorno prima.

La soluzione a questo nuovo rinvio delle misure sarà cercata oggi a margine del Consiglio dei ministri che dovrebbe occuparsi di giustizia civile. Ma di nuovo sono diventati molto stretti i margini per un compromesso che colmi il buco da 6 - 7 miliardi, apertosi nella manovra con la cancellazione del cosiddetto contributo di solidarietà e con la riduzione dei tagli ai comuni, che i sindaci tra l’altro continuano a considerare insufficiente.

È difficile tuttavia che già nella giornata di oggi il governo sia in grado di adottare nuovi provvedimenti e, malgrado le sollecitazioni del presidente del Senato Schifani, di definire il testo degli emendamenti che dovrebbero essere presentati a Palazzo Madama. D’altra parte, tutte le strade sembrano ostruite da veti reciproci e dalla comune volontà dei protagonisti di non continuare a perderci la faccia.

Se si recupera per tutti il contributo, che al momento è rimasto in piedi solo per i dipendenti pubblici e gli statali, Berlusconi non potrà più dire che è riuscito a evitare di mettere le mani nelle tasche degli italiani. Se si sceglie la strada dell' aumento dell’Iva, si sfida la contrarietà di Tremonti, ribadita fino a lunedì scorso ad Arcore.

E se si torna a lavorare sulle pensioni, magari tentando di fare una vera riforma, e non aggiustamenti parziali che poi si rivelano impraticabili, si dovranno fare i conti con Bossi. Il gioco della Lega, divisa al proprio interno tra il Senatur, più disponibile a un nuovo compromesso, purché non riguardi la previdenza, e Maroni, che pensa che il Carroccio non abbia più nulla da ricavare dalla presenza in questo governo, porta a continuare il logoramento praticato fin qui.

Forse è per questo che all’interno del Pdl, falchi come Napoli ad alta voce, ma anche altri con più prudenza, a sorpresa ieri hanno ricominciato a parlare di elezioni anticipate.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9151


Titolo: MARCELLO SORGI. Martinazzoli, l'uomo che seppellì la Dc
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2011, 11:07:27 am
5/9/2011

Martinazzoli, l'uomo che seppellì la Dc

MARCELLO SORGI

In una delle ultime interviste diceva: «Quando mi domandano dove vivo, rispondo, “A Brescia, in Svizzera’. L’Italia preferisco guardarla da lontano. Eppure non mi sono mai sentito antitaliano». Mino Martinazzoli, morto ieri fisicamente a quasi ottant’anni - e politicamente molto prima, nel 1993 passerà alla storia come il democristiano che seppellì la Dc. Che altro poteva fare in quell’anno tragico che si aprì con l’incriminazione per mafia di Andreotti, proseguì con il secondo referendum elettorale di Segni che introdusse il maggioritario, togliendo per sempre al partitone cattolico la centralità che ne aveva fatto il perno della Prima Repubblica, e si concluse con le prime elezioni dirette dei sindaci delle grandi città, in cui tutti i candidati democristiani furono esclusi al primo turno?

Subito dopo, la nascita, o la rinascita, del partito popolare, di cui tra l’altro Martinazzoli fu fondatore e brevemente primo segretario, segnò l’accelerazione di un declino che avvolse come una spirale la tradizione politica cattolica italiana, senza che nessuna forma di reincarnazione - che quella con Berlusconi, che vinse son piene le fosse - era impossibile quella casiniana dell’Udc, l’altra ru- collegandosi separatamente, e furba- che un politico raffinato e consumatelliana della Margherita e poi il Pd - mente, con la Lega e con i post-fasci- to come lui non avesse capito. Semriuscissero a restituirle il ruolo che le sti di Fini. plicemente, non volle o non potè spettava. Per questo, gli ultimi quasi E’ difficile dire se Martinazzoli adeguarsi, e ritenne che l’elettorato vent’anni di vita di Martinazzoli - an- non comprese la novità del maggio- democristiano non avrebbe sopporni di studio, di riflessione, di ritorno ritario, o se democristianamente tato il meccanismo semplificatorio alla professione di avvocato che ave- non volle adattar- dello stare da una va sempre esercitato con prestigio e visi. Calati nella parte o dall’altra. rigore - sono stati accompagnati dal realtà dei collegi C’era anche, tormento sulle sue ultime scelte da uninominali, i die- neltormento marleader: la decisione, appunto, di chiu- ci milioni di voti tinazzoliano di dere con la Dc dopo quasi cin- raccolti quell’an- questi ultimi anni, quant’anni di storia; e in seguito di no dal suo nuovo- la difficoltà, forse far presentare i Popolari da soli nelle vecchio partito fruttarono solo l’impossibilità di piegarsi all’ingiuprime elezioni della Seconda Repub- qualche decina di parlamentari, un stizia della sentenza che la Storia blica del ’94: al centro, in solitudine, numero insufficiente a formare una aveva inflitto alla Dc. Mentre altrorifiutando l’alleanza con i Progressi- maggioranza di centrosinistra e a ve, vedi la Germania, i cattolici erasti, la "gioiosa macchina da guerra" bloccare l’avanzata impetuosa del no usciti vincitori dal passaggio epopostcomunista con la quale Occhetto centrodestra. Ma con il senno di poi cale del 1989, che aveva travolto di andò incontro alla sconfitta, ma an- - del quale, sempre va ricordato, lì a poco tutto l’universo comunista dell’Europa dell’Est, in Italia lo stesso terremoto aveva atterrato lo Scudocrociato, dopo che per decenni aveva sbarrato la strada del governo al Pci. Il quale Pci inoltre, benché chiari fossero i rapporti, anche finanziari, con Mosca e con il regime del Cremlino, sopravviveva seppur sconfitto, lasciando alla Dc, e ai suoi storici alleati dei governi di pentapartito della Prima Repubblica, l’indecoroso conto di Tangentopoli da pagare.

Questa irrazionale piega storica, un’anomalia eccessiva perfino per un Paese come il nostro, era ancor più difficile da accettare per un democristiano alla Martinazzoli. Un cattolico colto, brillante, dotato di una personalissima oratoria infiorata di citazioni. Più volte ministro, capogruppo, alla guida di commissioni parlamentari di inchiesta, era nato e cresciuto nella temperie della sua Brescia, alla scuola del prete partigiano don Primo Mazzolari e della sinistra Dc di Alberto Marcora, che faceva, appunto, dell’essere cattolica di sinistra, il proprio tratto distintivo, e in questo si divertiva a competere con l’avversario-amico comunista.

Fino a quando, alla fine degli Anni Settanta, Craxi non arrivò e rompere le uova nel paniere delle relazioni diplomatiche tra i due maggiori partiti di governo e di opposizione, democristiani e comunisti continuavano infatti a trattarsi con grande rispetto e talvolta con complicità, prigionieri di una situazione internazionale bloccata e adagiati nella convinzione, comoda per entrambi, che nulla sarebbe mai cambiato. Ma anche quando Craxi si presentò sulla scena e in breve riuscì a soffiare alla Dc la presidenza del consiglio nel 1983, Martinazzoli, da bresciano, da lombardo, da nordico, fu svelto a coglierne le insidie e insieme la modernità, davanti a tanti democristiani che lo sottovalutavano, convinti di riuscire a logorarlo e archiviarlo in un anno. Toccò a lui, alla fine della legislatura a presidenza socialista, archiviarne l’esperienza e provocare le elezioni anticipate del 1987.

Questa della modernità, della laicità dei credenti, contrapposte all’integralismo di parte del pensiero cattolico, erano l’altra religione di Martinazzoli. Sembra ancora di vederlo, prendere la parola alla fine del convegno di Chianciano, l’annuale appuntamento autunnale in cui la corrente di sinistra celebrava una sorta di congresso separato, e mettere insieme, davanti agli occhi e alle orecchie stupite di molti peones che volevano sapere solo se il governoe la segreteria del partito sarebbero durate o cambiate, una lezione di etica e politica, filosofia e prassi, con un gustoso assemblaggio di aneddoti, aforismi e riferimenti alti.

Alto, magro, l’andatura dinoccolata di certi attori dei vecchi western, il viso sempre segnato da un’espressione sofferente, Martinazzoli parlava quasi sempre per ultimo, prima dell’anziano Benigno Zaccagnini, il leader che aveva rinnovato il partito dopo la crisi del divorzio e di metà Anni Settanta, e poi vissuto in prima persona la tragedia di Moro, di cui portava i segni nella figura curva e nel bastone esile a cui si appoggiava. Forse fu anche per questo che a un certo punto, all’interno della Dc, si cominciò a parlare di Martinazzoli come del "nuovo Zac". Anche se l’aria, ormai, era cambiata, e la speranza che con lui la Dc potesse ancora rinascere, e risalire la china, doveva inevitabilmente andare delusa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9164


Titolo: MARCELLO SORGI. Per la Lega meglio il voto di una nuova stretta sui conti
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2011, 03:12:20 pm
6/9/2011 - TACCUINO

Per la Lega meglio il voto di una nuova stretta sui conti

MARCELLO SORGI

L'ennesimo lunedì nero delle Borse europee, con l'Italia a fondo classifica, ha reso evidente che l'insufficienza della manovra di Ferragosto, pur approvata in commissione al Senato e in vista di essere trasferita alla Camera dopo l'approvazione definitiva dell'aula in un paio di giorni. Ci vuol altro, è il messaggio che continua ad arrivare dai mercati, ai quali non sono sfuggite le molte limature che il confronto parlamentare ha portato al testo del decreto. Ad appesantire ancora il clima, la notizia che Angela Merkel confidenzialmente paragona la situazione dell'Italia a quella della Grecia e che l'agenzia di rating Moody's è pronta a un ulteriore declassamento dell'Italia.

La giornata ha visto un particolare attivismo del ministro Tremonti, a lungo chiuso con Bossi e Calderoli nella sede leghista di via Bellerio a Milano. La sensazione è che il responsabile dell'Economia sia andato a tastare il polso agli alleati per verificare fino a che punto la rigidità su un ulteriore inasprimento delle misure possa essere ridotta, vista la piega che stanno prendendo le cose. Anche se tutto s'è svolto nel riserbo, la ricetta di Tremonti è nota: a malincuore il ministro si adatterebbe a un aumento dell'Iva, che all'interno del governo gli chiedono sia Berlusconi sia numerosi ministri, La Russa in testa, preoccupati della portata dei tagli previsti per i ministeri. E preferirebbe piuttosto tornare a intervenire sulle pensioni, magari con un provvedimento meno estemporaneo di quello messo a punto e poi ritirato dopo quarantott'ore dal collega Sacconi. Si tratterebbe piuttosto di un intervento strutturale, che in Europa è la Bce a sollecitare, per ridimensionare i costi della previdenza nel tempo e ristrutturare i meccanismi di accumulo dei trattamenti di quiescenza. Ciò che appunto Bossi e la Lega non vogliono digerire, dopo essersi presentati per mesi come i garanti dell'intoccabilità delle pensioni.

Il Senatur, e ancor di più il ministro dell'Interno Maroni non credono all'ipotesi, che continua a circolare, di un governo tecnico, che verrebbe insediato dal Quirinale se quello attuale continuasse a risultare incapace di gestire l'emergenza e andasse in crisi non riuscendo a trovare l'intesa con la propria maggioranza per definire misure alternative o aggiuntive rispetto a quelle attuali. Se cade il governo si va a votare, garantisce il Carroccio. Piuttosto che un ennesimo compromesso su un'ulteriore, al momento indispensabile ma anche molto incerta, nuova stretta, è questa l'alternativa che il Carroccio offre al Cavaliere.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9167


Titolo: MARCELLO SORGI. I mercati, il voto anticipato e le due anime dell'esecutivo
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2011, 05:24:54 pm
7/9/2011 - TACCUINO

I mercati, il voto anticipato e le due anime dell'esecutivo

MARCELLO SORGI

Basterà la versione quattro della manovra a placare la tempesta dei mercati? Benché il varo delle ennesime nuove misure sia avvenuto in modo abbastanza rapido, dopo il sollecito giunto lunedì sera dal Quirinale, nel Consiglio dei ministri convocato d’urgenza ieri in serata, sulla risposta da dare a questa domanda il governo resta diviso. Con Tremonti e la Lega contrari all’inseguimento infinito delle Borse e al nuovo giro di vite inflitto ieri con l’aumento dell’Iva, l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato e il recupero della tassa sugli alti redditi, e Berlusconi e gran parte dei ministri convinti che solo così si poteva tentare di risalire la china. Il premier in altre parole è disposto a pagare qualsiasi prezzo per evitare che il governo sia travolto dalla crisi. Bossi (e sotto sotto anche Tremonti) non escludono invece che a un certo punto risulti politicamente più conveniente andare ad elezioni anticipate, che non rassegnarsi alla rincorsa della speculazione finanziaria. Un’eventualità, quest’ultima, esclusa dal Quirinale, che ritiene che il governo debba fronteggiare la congiuntura cercando anche di apparire più credibile e accelerando al massimo l’iter parlamentare.

Sull’accelerata che stasera dovrebbe mettere i senatori in condizione di dare in aula la loro definitiva approvazione al testo, hanno pesato anche le scadenze dei prossimi giorni, il vertice Bce previsto per domani e il G7 dedicato all’economia annunciato per il fine settimana. Chi li ha visti ieri nell’ora delle decisioni descrive un Berlusconi rasserenato e sicuro che la nottata passerà, e un Tremonti incupito e in privato preoccupato dal continuo rimaneggiamento della manovra, che agli occhi degli osservatori stranieri rischia di contare alla fine di più dello stesso contenuto dei provvedimenti.

L’annuncio del voto di fiducia al Senato sul maxiemendamento ha ovviamente irritato l’opposizione, con cui il presidente Schifani s’era impegnato a garantire un confronto senza forzature, e i sindacati: nel giorno dello sciopero della Cgil, anche Cisl e Uil hanno reagito subito negativamente alle novità, in particolare alla decisione di tornare a cambiare le pensioni pochi giorni dopo aver solennemente rinunciato a toccarle. Il clima politico e sociale insomma è ulteriormente deteriorato, e non è affatto detto che la manovra quater non sia destinata a subire ulteriori aggiustamenti alla Camera. Come possa Berlusconi considerarsi soddisfatto del punto di arrivo del tortuoso percorso di queste settimane, davvero è difficile da capire.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9171


Titolo: MARCELLO SORGI. Si allontana l'ipotesi di un "governo d'emergenza"
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2011, 04:25:01 pm
8/9/2011 - TACCUINO

Si allontana l'ipotesi di un "governo d'emergenza"

MARCELLO SORGI

Il varo della manovra con il voto di fiducia del Senato ieri e la prossima approvazione del decreto anche alla Camera dovrebbero chiudere entro la settimana il tormentoso iter delle misure anticrisi, riscritte quattro volte prima di poter vedere la luce. Dire che il governo ne esce rafforzato, come hanno sostenuto ieri gli esponenti della maggioranza nel corso del dibattito a Palazzo Madama, è come minimo un'esagerazione. La buona accoglienza venuta dalla Commissione Europea all'ultima versione del testo e l'allentamento della pressione dei mercati almeno per tutta la giornata non garantiscono affatto da successivi assalti della speculazione che potrebbero verificarsi nelle prossime settimane.

Ma non c'è dubbio che portando a casa la manovra Berlusconi ha scongiurato il rischio di un naufragio a cui il governo è andato vicino più volte in questi giorni, prima per l’evidente sottovalutazione della congiuntura su cui il premier ha tenuto il punto fin quasi a Ferragosto, poi per la difficoltà di trovare un accordo nella maggioranza che ha causato le quattro riscritture del testo. Uno conosciuto per la sua caratteristica prudenza e per l'abitudine di sottrarsi alle dichiarazioni pubbliche come Gianni Letta ha ammesso che il governo sta vivendo settimane «difficili ed amare».

La situazione resta dunque al livello di guardia. E la ripresa, da martedì, degli impegni giudiziari del Cavaliere, a cominciare dall’interrogatorio che la Procura di Napoli andrà a fargli a Palazzo Chigi per approfondire l'inchiesta sul tentativo di estorsione di Tarantini e Lavitola, non gioveranno certo al rasserenamento del clima. Ma al momento può dirsi accantonata la prospettiva di un governo d'emergenza, di cui s'è parlato a lungo in tutto questo periodo nei corridoi, e che è stata riproposta con un'intervista a «Repubblica» dall’ex-ministro dell’Interno Pisanu, accolta positivamente da tutti i principali leaders dell’opposizione. Seppure il rapporto tra i principali partners del centrodestra esca assai logorato dalla trattativa sulla manovra (Berlusconi, Bossi e Tremonti alla fine hanno dovuto cedere ognuno qualcosa e il compromesso finale li ha scontentati tutti e tre), l'alternativa che rimane sul campo dell’affannoso periodo di fine legislatura - vista l'indisponibilità della Lega e del Pdl a sostenere qualsiasi ipotesi di larghe intese - è quella tra l'attuale governo, sempre più malconcio, e il ritorno ad elezioni anticipate.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9174


Titolo: MARCELLO SORGI. Intercettazioni nel mirino
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2011, 05:51:26 pm
9/9/2011 - TCCUINO

Intercettazioni nel mirino

Sarà un altro autunno caldo

MARCELLO SORGI

Berlusconi non ha fatto in tempo a godersi il rasserenamento dell’orizzonte economico, dopo il varo della manovra al Senato e l’approvazione venuta dal presidente della Bce Trichet, che subito i suoi guai giudiziari hanno avuto il sopravvento, e rischiano di aprire nuovamente uno scontro senza precedenti con l’opposizione su una materia diversa, ma anche più insidiosa.

I fronti aperti sono due. Quello dell’inchiesta della procura di Napoli in cui il premier risulta parte lesa, come possibile vittima dell’estorsione del trio Lavitola, Tarantini e moglie, attorno ai quali si muoveva il giro di escort baresi che frequentavano le ville di Berlusconi, ma nella quale potrebbe trasformarsi in imputato se fosse confermata la telefonata, rivelata dall’Espresso ma smentita dal deputatoavvocato Ghedini, in cui il Cavaliere, temendo gli sviluppi dell’inchiesta, avrebbe consigliato a Lavitola di non rientrare in Italia. Già martedì, quando Berlusconi si troverà davanti i magistrati che hanno condotto le indagini, si capirà se il barometro tende al peggio e se esiste il rischio che possa essere accusato di favoreggiamento. Ma da ieri sera l’opposizione, pur gravata in parte dalla parallela, pesante evoluzione del caso Penati, ha aggiustato il tiro, spostandosi dal terreno della manovra a quello politico-giudiziario.

Con quali conseguenze, è facile prevedere. Si andrà subito a un primo scontro alla Camera sulla richiesta di dichiarare inammissibili le intercettazioni del caso Ruby, ed è questo, appunto, il secondo fronte aperto. Ma quasi certamente, magari prendendo spunto proprio da questo braccio di ferro, Berlusconi pretenderà di riprendere, magari accelerandone l’approvazione, la legge sulle intercettazioni, accantonata oltre un anno fa.

Se ne ricava la facile previsione di un altro autunno caldo, l’ennesimo, sul fronte della giustizia, che il premier ha sempre considerato nevralgico e sul quale dovrà probabilmente giocare la sua partita finale. Con una differenza, tuttavia, rispetto a tutte le volte precedenti: che il Cavaliere stavolta arriva all’ultimo giro fin troppo logorato, e anche all’interno della sua fragile maggioranza qualche dubbio sull’esito della battaglia comincia ad affiorare.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9178


Titolo: MARCELLO SORGI. Quel fragile equilibrio Colle-premier
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2011, 10:55:45 pm
10/9/2011

Quel fragile equilibrio Colle-premier

MARCELLO SORGI

La crisi al vertice della Bce, con conseguenze ancora pesanti per la Borsa italiana, ha di nuovo fatto saltare il fragile punto di equilibrio trovato all'indomani dell' approvazione della manovra al Senato. Una svolta a cui ieri aveva voluto aggiungere il suo plauso il Capo dello Stato, augurandosi che anche la Camera possa dare rapidamente il suo «sì» definitivo alla trasformazione in legge del decreto.

Anche se non ci si poteva certo aspettare che Napolitano criticasse una manovra alla quale ha energicamente contribuito in queste ultime settimane, il suo giudizio, in una situazione aperta, come si vede, a evoluzioni critiche, acquista maggiore importanza. Non va dimenticato infatti che in Parlamento è tuttora in corso un duro scontro tra maggioranza e opposizione, destinato a proseguire, come già sta accadendo, spostandosi dall'economia alla giustizia e ai guai giudiziari del premier. A entrambe, è come se il Presidente avesse voluto ricordare la gravità della situazione, che non lascia spazio a polemiche di parte e richiede uno sforzo ulteriore di responsabilità.

Ma allo stesso modo, venendo in appoggio alla manovra, il Capo dello Stato ha dato anche una mano al governo in una situazione in cui continua a traballare. Alla fine di una settimana in cui, mentre il Senato esaminava la manovra, si faceva strada l'idea di un governo d'emergenza, da sostituire al più presto, se possibile con il consenso dello stesso Berlusconi, a quello in carica, l'intervento di Napolitano ha chiuso sul nascere questa discussione, nella quale, è ormai chiaro, il Presidente non ha intenzione di lasciarsi coinvolgere, perché la ritiene impropria mentre il governo è in carica e gode ancora di una maggioranza e ha già detto altre volte che il suo potere di intervento scatta solo quando s'è aperta una crisi.

D'altra parte Berlusconi non ha alcuna intenzione di passare la mano. Bastava ascoltarlo ieri sera di fronte ai giovani del Pdl, escludere categoricamente la prospettiva del governo tecnico e ripetere che andrà avanti fino al 2013, bissando l'esperienza di cinque anni di seguito a Palazzo Chigi, snocciolando la solita serie di accuse contro la magistratura e annunciando che il prossimo fronte sarà quello della riforma della giustizia. Va da se che non è detto, specie se la crisi economica continua a procedere di questo passo, che si arrivi davvero alla scadenza naturale della legislatura. Ma se dipende dal Cavaliere, cercherà di arrivarci a qualsiasi costo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9181


Titolo: MARCELLO SORGI. Probabile un altro giro di vite sui conti
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2011, 11:05:00 am
13/9/2011 - TACCUINO

Probabile un altro giro di vite sui conti

MARCELLO SORGI

L'improvvisa visita di Berlusconi a Strasburgo e a Bruxelles non poteva cadere oggi in un momento più delicato. La febbre dei mercati è ancora alta e non accenna a calare. Sulla Grecia per tutta la giornata di ieri si sono inseguite voci su possibile default. Sulle banche francesi pende il rischio di un declassamento. E come tutte quelle europee, anche la Borsa italiana ha vissuto un’altra giornata di sofferenza, mentre la Bce invitava i governi dei paesi in difficoltà a prendere in considerazione l’ipotesi di ulteriori manovre aggiuntive.

Le smentite diffuse a proposito di un’eventuale trattativa per convincere Berlusconi al famoso passo indietro, che dovrebbe aprire la strada a un governo d’emergenza, non sono bastate a fermare il lavorìo su un’ipotesi del genere. Ma a ben guardare, il problema non sono gli ambasciatori, veri o presunti (s’è parlato di Letta e Confalonieri) su cui i fautori del governo tecnico, Casini in testa, starebbero lavorando, convinti che l’attuale esecutivo, e soprattutto l’attuale presidente del consiglio non siano in condizione di superare il passaggio di una nuova stretta, che giorno dopo giorno si sta rivelando sempre più indispensabile, e che solo una larga maggioranza potrebbe essere in grado di sostenere in Parlamento e nel Paese. Il punto vero è che Berlusconi, come ha detto e ripetuto tante volte negli ultimi giorni, non intende prendere in considerazione nessuna ipotesi di uscita di scena concordata, e «garantita» (non si sa come), perchè non si fida dei suoi interlocutori e confida di riuscire ad uscire anche stavolta dai guai in cui si trova.

Non mancano - va detto - segni di insofferenza nel Pdl rispetto a quest’atteggiamento del Cavaliere. E tuttavia le varie anime del Pdl, in positivo, non sono in grado di proporre una soluzione sulla quale possa riaggregarsi una maggioranza. La reiterata offerta di Casini e dell’Udc (appoggio in cambio di un governo a guida diversa da Berlusconi) è destinata a non trovare sbocco. Nè c'è da aspettarsi una spinta in questo senso da parte del Quirinale, dato che Napolitano ha ripetuto anche di recente che non è prevedibile un suo intervento finché il governo poggia su una maggioranza. La Camera dovrebbe dare domani il via definitivo al decreto anti-crisi. E se nei prossimi giorni, come ha avvertito la Bce, le misure dovessero rivelarsi insufficienti, toccherà nuovamente al governo Berlusconi se possibile con più tempestività e decisione di quelle mostrate nelle cinque riscritture del testo attuale mettere mano a un altro giro di vite, che potrebbe ancora non essere l’ultimo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9193


Titolo: MARCELLO SORGI. Ora è chiaro: il famoso salvacondotto giudiziario è impossibile
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2011, 08:59:07 am
14/9/2011 - TACCUINO

Ora è chiaro: il famoso salvacondotto giudiziario è impossibile da realizzare

MARCELLO SORGI

Prima ancora di sapere come andrà a finire - se cioè si arriverà veramente alla richiesta al Parlamento di accompagnamento coatto del premier da parte della Procura di Napoli - la piega presa dallo scontro tra i pm dell'inchiesta su Tarantini e Berlusconi è servita a chiarire, se ancora c'era qualche dubbio, che è del tutto impossibile il famoso salvacondotto giudiziario offerto al Cavaliere in cambio di un suo volontario passo indietro, per poi aprire la strada a un governo d'emergenza. E d'altra parte, fosse stato vero il contrario e uno qualsiasi dei leader dell'opposizione fosse stato in grado di garantire un arretramento dei magistrati, simmetrico a quello eventuale del presidente del consiglio, non si sarebbe più potuto dire che quella di Berlusconi per la persecuzione delle toghe rosse è un'ossessione e che i giudici si muovono in modo assolutamente indipendente di fronte a tangibili ipotesi di reato. Naturalmente il premier avrebbe tutto l'interesse adesso ad accettare una delle quattro date che gli sono state proposte per l'interrogatorio sulla presunta estorsione ai suoi danni da parte di Tarantini e Lavitola: ma è da vedere se lo farà. L'idea di politicizzare lo scontro portandolo, grazie all'iniziativa minacciata dal procuratore di Napoli Lepore, fino a un voto della Camera, sullo sfondo di un momento così drammatico per il Paese, potrebbe pure risultare attraente per il premier. E da questo punto di vista la Procura non deve aver valutato bene gli effetti della propria iniziativa.

Le inchieste aperte e il problema del rapporto tra giustizia e politica stanno rapidamente diventando purtroppo il fronte più pericoloso di questa tormentata conclusione di legislatura, senza che i guai economici peraltro accennino a placarsi. Il voto favorevole a Milanese, braccio destro di Tremonti, e contrario al suo arresto, deciso dalla Lega due mesi dopo essersi schierata a favore del carcere per Papa, l'altro deputato inquisito nell'inchiesta sulla P4, non suona solo come un favore fatto da Bossi all'amico Giulio. Ma anche come volontà, in questo quadro confuso, di evitare un nuovo trauma che potrebbe portare a una crisi di governo, e andare avanti così finché si può. Anche se non è chiaro dove. Difficilmente però il ministro dell'Economia, indebolito da questa vicenda più che dai continui assalti dei mercati, trarrà vantaggio dal salvataggio opaco del suo collaboratore. Sempre che il voto dell'aula, malgrado nelle posizioni ufficiali prevalga la contrarietà all'arresto, nei prossimi giorni non riservi sorprese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9199


Titolo: MARCELLO SORGI. Il dovere di governare
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2011, 10:35:04 am
15/9/2011

Il dovere di governare

MARCELLO SORGI

La crisi rivelatasi ogni giorno più difficile da sconfiggere anche ieri ha segnato un’altra giornata drammatica, con scene di guerriglia davanti alla Camera, in cui deputati sordi in gran parte alla gravità della situazione e scollati dalla realtà approvavano una manovra già quasi del tutto insufficiente. Ma invece di risposte, dalla classe dirigente stressata dalla febbre dei mercati che non danno tregua, affiora una sensazione di panico e immobilismo, senza neppure la capacità di confrontarsi con esperienza e analogie del passato.

A ben guardare, infatti, il dissesto nei conti dello Stato causato dal debito pubblico senza controllo si era manifestato già nel 1991 - ‘92, giusto vent’anni fa, determinando la terribile manovra del governo Amato, che portò a un prelievo diretto dai conti correnti bancari dei contribuenti. Di lì a poco il mix letale della corruzione crescente e della delegittimazione evidente della classe politica, a causa delle inchieste giudiziarie che investivano giorno dopo giorno leader, ministri in carica e interi gruppi dirigenti dei partiti, rese necessario una sorta di commissariamento dell’esecutivo, con l’avvento del governo tecnico guidato da Ciampi, e una forma di desovranizzazione del potere politico, passato sotto il controllo dell’Ue per riconquistare credibilità al Paese e guadagnarsi il biglietto d’ingresso nell’euro.

Tra allora ed oggi ci sono molti aspetti coincidenti che potrebbero far pensare alla possibilità di ripercorrere la via virtuosa e la serie di sacrifici che ci condussero fuori dai guai. Per cominciare, lo stato dei nostri conti è tale che s’è rivelato tuttora inadeguato qualsiasi intervento, compresa la quarta riscrittura della seconda manovra che la Camera ha approvato definitivamente ieri sera. Inoltre, senza voler generalizzare, o cedere a superficialità e qualunquismi, anche il livello della corruzione ha superato ogni limite: al di là del complicato contenzioso che ha al centro il presidente del Consiglio, ci sono in questo momento almeno tre inchieste che riguardano i vertici del centrodestra e due che puntano a quelli del centrosinistra, oltre a una miriade di indagini grandi e piccole negli enti locali, comuni, province e regioni, per non dire delle amministrazioni straordinarie, protezione civile, terremoti, calamità, e insomma iniziative urgenti che si trasformano in vergognose occasioni per accaparrarsi, troppo spesso illegalmente, fondi pubblici e appalti privilegiati. Per quanto l’azione della magistratura si riveli non sempre convincente e non goda più dello stesso sostegno di opinione pubblica su cui poteva contare vent’anni fa, quando i giudici di Mani pulite erano diventati gli idoli della gente comune, è impossibile credere - come Berlusconi dice e ripete tutti i giorni - che dietro ogni inchiesta ci sia un pregiudizio politico e un abuso di potere della magistratura.

Di qui - ed è la terza trasparente analogia tra allora ed oggi - il ritorno al governo tecnico: come ipotesi, come estremo rimedio, come voce che corre di bocca in bocca e trova eco anche nei discorsi dei leader, non solo d’opposizione. Si dice: se Berlusconi fa un passo indietro, spontaneo o «spintaneo» che sia, tutto potrebbe cambiare e si potrebbe anche discutere con serenità del modo di assicurare una via d’uscita plausibile all’uomo che bene o male ha condizionato quasi vent’anni di vita pubblica, e s’è trasformato nel simbolo della Seconda Repubblica come Andreotti lo fu della Prima. Ma ad escludere una prospettiva del genere, è inutile nasconderselo, è proprio il Cavaliere, con la sua personalità e il suo modo di fare, che appunto non hanno precedenti nella politica italiana. Va detto poi che questa storia del salvacondotto non è mai stata praticabile e non lo è neppure adesso, a meno di voler dimostrare che i magistrati, invece di essere mossi da obblighi di legge, sono sensibili a ragioni di parte e concederebbero all’opposizione ciò che hanno sempre rifiutato al premier.

Non resta che sia lo stesso Berlusconi, proprio perché a nessun costo intende farsi da parte, a governare le difficoltà. Per paradossale che possa sembrare, è l’unica possibilità, anche se questo richiederebbe da parte sua un passo assolutamente diverso. Il Cavaliere, dunque, affronti senza ulteriori indugi se ne è capace i suoi guai giudiziari, a partire dalla testimonianza fin qui rifiutata alla Procura di Napoli, sapendo che la conclusione del suo calvario non è vicina e proprio per questo necessita di maggior pazienza e senso di responsabilità. Nel frattempo, dimostri che ha veramente a cuore il futuro del Paese uscendo dalle incertezze. Il compito è chiaro; la gravità di quel che sta accadendo non consente più rinvii. Oggi più che mai, governare vuol dire fare quel che si deve, e non ciò che si vuole. Nei prossimi giorni, è ormai chiaro, potrebbe rendersi necessaria una nuova manovra. L’accelerazione del debito pubblico, che ieri ha fatto un altro pericoloso passo verso la soglia dei duemila miliardi di euro, dev’essere fermata a qualsiasi costo. Sono in ballo misure eccezionali, che saranno efficaci solo se si riuscirà a prenderle senza il ridicolo balletto a cui è toccato assistere per tutta l’estate. Per chiudere la voragine, solo per fare qualche esempio, presto potrebbe essere necessario alienare una parte del patrimonio del Paese, o riaprire la ferita sanguinosa delle pensioni. Se dopo vent’anni di cabaret, troppo spesso degenerato in brutto spettacolo, Berlusconi sarà in grado di uscire dal suo scollamento e chiudere da statista, anche le analogie che ora gli giocano contro, a sorpresa, potrebbero risolversi a suo vantaggio.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9201


Titolo: MARCELLO SORGI. Quel macigno nei giorni della crisi
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2011, 04:27:01 pm
Quel macigno nei giorni della crisi

MARCELLO SORGI

Centomila intercettazioni, oltre un migliaio di pagine per descrivere il complicato intreccio di feste e favori promessi e mancati tra Arcore, Palazzo Grazioli e Villa Certosa, una trentina di ragazze, non tutte escort, non tutte disponibili, anche se tutte o quasi avvicinate con lo stesso miraggio della carriera in tv: dell'inchiesta di Bari, depositata ieri dai magistrati che l'hanno condotta, colpiscono, prima ancora dei dettagli, le cifre, la quantità di protagonisti, il giro vorticoso di viaggi ed appuntamenti messi insieme dal fantomatico "Giampi" Tarantini.

E non è che una, appena una delle inchieste che in questi giorni hanno al centro il premier. Nella sola Milano, sono ora diventati cinque - dopo la decisione del Gip di opporsi alla richiesta di proscioglimento per la famosa intercettazione di Fassino sulla scalata ad Antonveneta pubblicata sul "Giornale" chiedendo un nuovo rinvio a giudizio -, i processi contro il Cavaliere. Poi c'è il braccio di ferro aperto a Napoli tra la Procura che insiste a volerlo interrogare senza assistenza di legali, come parte lesa della presunta estorsione subita da Tarantini, e gli avvocati del presidente del consiglio che, pur di evitare che vada da solo, chiedono che sia considerato indagato per poter partecipare all'interrogatorio.

Nell'unico giorno di tregua tra la seconda manovra, approvata mercoledì alla Camera, e la terza che occorrerà quasi certamente mettere a punto nei prossimi giorni, forse perfino a partire da oggi, se le previsioni sul declassamento del debito italiano da parte di Moody's si riveleranno fondate, colpisce la portata del contenzioso giudiziario accumulato contro Berlusconi. L'insieme di cinque, sei, sette procedimenti da fronteggiare contemporaneamente è così impegnativo da assorbire molto tempo e molte energie. E in questo quadro è davvero difficile da accettare l'idea che, con un peso così grande sulle spalle, il premier possa mettersi serenamente a ragionare sul resto dei problemi del Paese e su una congiuntura negativa che non dà tregua.

A giorni alterni, come si vede, la crisi italiana mostra così entrambe le sue facce - economica e giudiziaria -, che si intrecciano e si sommano nella figura del premier. Berlusconi continua a dire a tutti che non si arrende e troverà il modo di venirne a capo. Sembra impossibile che possa riuscirci anche stavolta. Eppure, in queste condizioni, sarà un disastro se non ci riuscirà.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9209


Titolo: MARCELLO SORGI. La via incerta tra Procure e referendum
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2011, 05:42:02 pm
20/9/2011 - TACCUINO

La via incerta tra Procure e referendum

MARCELLO SORGI

Sui due fronti aperti - economico finanziario e giudiziario - anche ieri il barometro ha fatto segnare tempesta, con conseguenze politiche facilmente immaginabili di ulteriore appesantimento del quadro politico. La domenica in cui il Pdl ha cercato di stringersi attorno a un Berlusconi acciaccato dagli sviluppi delle inchieste e dalle rivelazioni contenute nelle intercettazioni è stata rapidamente archiviata da un ennesimo lunedì nero, in cui Bersani è arrivato a paragonare queste giornate a quelle che precedettero il 25 luglio e la caduta di Mussolini, ammettendo tuttavia che è difficile pensare a un simile epilogo in un partito, come appunto il Pdl, di cui il presidente del consiglio continua ad essere il padre-padrone.

Ferma restando la sfida alla Procura di Napoli, davanti alla quale continua a rifiutarsi di comparire senza la garanzia dei suoi legali, Berlusconi è andato ieri a Milano all'udienza del processo Mills. Anche da lì, cattive notizie: pur essendo il procedimento praticamente condannato alla prescrizione a gennaio, il tribunale ha tagliato la lista dei testi per accorciare i tempi e rendere così possibile la condanna del premier per corruzione almeno in primo grado.

Tutti gli occhi sono puntati alla votazione di giovedì sulla richiesta di arresto per il deputato Marco Milanese. Sulla carta, dopo che la Lega s'è dichiarata contraria al carcere, il braccio destro di Tremonti dovrebbe sfangarla, ma se il voto, su richiesta delle opposizioni sarà segreto, è possibile, com'è accaduto a luglio per Alfonso Papa, che nell'urna un gruppo di deputati leghisti capovolga le previsioni. Con conseguenze - anche se Tremonti ha già fatto sapere che non si dimetterebbe - assai più difficili da gestire di quest'estate.

Berlusconi continua dunque a navigare a vista e a cercare di resistere finché può ad ogni ipotesi di farsi da parte. La pressione su di lui cresce di giorno in giorno e non a caso, nei discorsi domenicali di Bossi e Alfano in difesa dell'attuale maggioranza, qualcuno, all'interno del gruppo dirigente del Pdl, ha creduto di avvertire un accentuarsi dei toni elettorali. Come se l'ipotesi di uno scioglimento anticipato delle Camere, magari incoraggiato dalla necessità di rinviare il referendum elettorale, resti in forte evidenza, se non verranno giorni migliori per il centrodestra.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9221


Titolo: MARCELLO SORGI. Il governo regge l'Italia no
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2011, 09:34:03 am
23/9/2011

Il governo regge l'Italia no

MARCELLO SORGI

La notizia del giorno è che il governo regge, seppure a malapena, ma il Paese non regge più. Basta solo confrontare, ancora una volta, ciò che ieri accadeva dentro e fuori il Palazzo, per capire fino a che punto è arrivato lo scollamento.

La Camera, per soli sei voti, e con un complicato intreccio di franchi tiratori, ha evitato l’arresto a uno dei deputati più impresentabili: quel Milanese, già braccio destro di Tremonti, che passava la vita a lucrare, grazie al suo incarico, su favori grandi e piccoli, si faceva regalare barche e auto di lusso, nonché la casa alle spalle di Montecitorio che aveva riservato al suo principale. Inoltre, sull’assenza del responsabile dell’Economia (in missione a Washington al Fondo monetario internazionale), a una votazione che lo riguardava così da vicino, è nato subito un caso: Berlusconi lo ha definito «ministro immorale», parlandone come di un disertore. Ma se c’era un problema di moralità, come mai il governo ha preteso di evitare l’arresto proprio a chi era accusato di averla violata?

E questa non è stata l’unica incongruenza della giornata. Mentre si votava a Montecitorio, la Borsa di Milano precipitava, anche a causa del declassamento di sette importanti banche italiane da parte di Standard & Poor’s, finendo come fanalino di coda dei mercati in sofferenza. Lo spread tra i titoli di Stato e quelli tedeschi nuovamente superava l’allarmante quota dei quattrocento punti. E nelle stesse ore il governo, rivedendo stime precedenti, fissava le previsioni di crescita dell’Italia per i prossimi tre anni sempre al di sotto di un punto percentuale, tra 0,6 e 0,9.

Ma di tutto ciò Berlusconi non sembrava particolarmente turbato: i suoi unici motivi di rammarico restavano Tremonti (anche se il ministro era a Washington a difendere la credibilità dell’Italia), e quei maledetti «soli» sei voti di scarto che gli avevano abbassato la media delle ultime performances parlamentari. D’altra parte, un esempio del metro di misura con cui il presidente del Consiglio valuta la gravità della situazione s’era avuto proprio qualche giorno fa, in occasione del down-grade del debito dell’Italia, quando il Cavaliere aveva accusato, ricevendone una replica secca e circostanziata, la stessa Standard & Poor’s di aver agito per ragioni politiche ed essersi basata solo sulla lettura dei giornali.

L’approssimazione e la superficialità con cui il premier continua a rapportarsi ai drammatici sviluppi della crisi sono inspiegabili, in un uomo che ha un passato da imprenditore e dovrebbe conoscere i fondamentali dell’economia nazionale. Ma tant’è. Se le banche italiane sono in difficoltà e cominciano a chiudere i rubinetti del credito, come ormai lamentano gran parte delle imprese, grandi, medie e piccole, e se la Confindustria lancia un allarme dopo l’altro, spiegando che la situazione non è più sostenibile, la risposta del governo non può essere che l’economia non c’entra e si tratta di un attacco politico mirato a far fuori il presidente del Consiglio. E neppure che è pronto un piano per rimettere tutto a posto. Piuttosto

che il piano, dopo quattro o cinque manovre insufficienti negli ultimi mesi, occorrono scelte immediate e precise, tre o quattro cose, non lunghi e inutili elenchi: tagli decisi, non il maquillage praticato finora, alla spesa pubblica e a quella per le pensioni; un altro pezzo importante di patrimonio nazionale messo in vendita per rianimare i mercati; semplificazioni e leggi innovative per attirare gli investimenti.

Ma al contrario, il timore è che il governo venga fuori con un altro libro dei sogni, grandi riforme costituzionali per le quali non c’è più tempo, alla fine della legislatura, lavori pubblici e infrastrutture che partono, o ripartono, sulla carta, mentre cresce il numero dei disoccupati. L’altro rischio concreto è che il Parlamento sia di nuovo ingorgato da leggi ad personam, invocate per aprire uno squarcio nella rete dei processi in cui il Cavaliere è imputato: questa sì, l’unica sua vera preoccupazione, che da mesi lo assorbe completamente e gli impedisce di dedicarsi ad altro.

Berlusconi ripete tutti i giorni che resisterà fino all’ultimo. Finché lo sostiene una maggioranza, per quanto malconcia, è suo diritto. Ma se vuol restare a Palazzo Chigi a qualsiasi costo, è suo dovere decidersi a governare.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9231


Titolo: MARCELLO SORGI. Parole dure che chiedono il passo indietro
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2011, 11:26:27 am
27/9/2011

Parole dure che chiedono il passo indietro

MARCELLO SORGI

Invocata da giorni dall’interno del mondo cattolico e da laici autorevoli, la condanna da parte dei vescovi italiani dello stile di vita di Berlusconi, e dei danni che procura all’Italia sul piano internazionale, è arrivata ieri con la dura prolusione del presidente della Cei, cardinale Bagnasco, ai suoi vescovi.

Va detto: la vicenda interminabile delle escort e delle feste erotiche del premier era già stata oggetto di condanne delle gerarchie e di un generale raffreddamento di rapporti tra il governo e l’episcopato, cominciato anche prima, fin dall’incidente della cancellazione della cerimonia della Perdonanza del 28 agosto 2009. Che nelle intenzioni doveva sancire una sorta di rappacificazione tra il Cavaliere e la Chiesa turbata dal «caso Boffo» (l’attacco da parte del «Giornale» della famiglia Berlusconi che portò alle dimissioni del direttore di «Avvenire») e finì invece per diventare l’occasione di una rottura, poi aggravatasi per tutto quello che venne fuori dopo.

Per questo, ci sarà anche stavolta chi dirà che non c’è niente di nuovo, che le critiche dei vescovi sono in qualche modo obbligate, che Bagnasco non a caso le ha inserite nel suo discorso tra svariati motivi di rammarico sulla situazione italiana.

Dall’«attonito sbigottimento» per la crisi economica «vasta e devastante», all’emergere di una «modernità liquida in cui tutto rischia di disperdersi» e di una «questione morale» che si allarga e generalizza, all’evasione fiscale che in un momento come questo costituisce un esempio di immoralità.

Ma la verità è che per la prima volta, nei due anni in cui sono emersi gli aspetti scandalosi della vita privata di Berlusconi, Bagnasco ha voluto mettere in chiaro che, seppure i risultati delle inchieste sono tutti da confermare e sono stati ottenuti dalla magistratura con un uso smodato di strumenti di indagine (le famose centomila intercettazioni dell’inchiesta di Bari), «la responsabilità morale ha una gerarchia interna che si evidenzia da sé, a prescindere dalle strumentalizzazioni che non mancano».

In altre parole, è inutile che Berlusconi continui a invocare a sua discolpa le manovre politiche e la persecuzione giudiziaria di cui si dichiara vittima: «I comportamenti licenziosi e le relazioni improprie sono in se stessi negativi e producono un danno sociale a prescindere dalla loro notorietà» - annota il cardinale. Concludendo pesantemente che «ammorbano l’aria e appesantiscono il cammino comune».

Parole dure, che chiedono un passo indietro del premier. Toni da sentenza definitiva, determinati - il testo lo lascia intuire tra le righe - dalle numerose sollecitazioni venute in questi giorni dalla stampa cattolica e dalle singole parrocchie: di fronte alle quali la Chiesa non può che ricordare, ribadendolo, quante volte in passato avesse già denunciato la mancanza di sobrietà nella vita pubblica, chiedendo «orizzonti di vita buona, libera dal pansessualismo e dal relativismo amorale».

Con una premessa del genere, è probabile che il prosieguo del dibattito dei vescovi al consiglio permanente della Cei darà altre occasioni per far lievitare il disagio espresso in apertura dal cardinale presidente. Ma è difficile che Berlusconi cerchi o trovi il modo per riflettere, ed eventualmente rispondere, alle pesanti critiche che lo chiamano in causa. Chiuso com’è nella convinzione di essere al centro di un complotto che punta a disarcionarlo, il Cavaliere, benché una descrizione dettagliata delle sue feste sia emersa nelle intercettazioni dalla sua stessa voce e da battute inequivocabili, continuerà a negare la realtà, rifiutandosi di prendere in considerazione anche i consigli di persone a lui vicine che gli chiedono di scusarsi pubblicamente.

E tuttavia le conseguenze dell’uscita dei vescovi non riguardano solo lui. Da questo punto di vista sarà interessante vedere nei prossimi giorni che effetto faranno le critiche della Cei sui numerosi esponenti cattolici del centrodestra, che su questi argomenti, finora, o sono rimasti zitti, o hanno preferito parlare d’altro.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9247


Titolo: MARCELLO SORGI. La strada resta ancora accidentata
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2011, 09:53:27 am
28/9/2011 - TACCUINO

Tregua fragile

La strada resta ancora accidentata

MARCELLO SORGI

Per varie ragioni, il compromesso siglato ieri a Palazzo Grazioli tra Berlusconi e Tremonti, dopo l'ultima lite per l'assenza del ministro alla votazione sul suo ex-braccio destro Milanese, si presenta piuttosto fragile. Ciascuno dei contendenti fa un passo indietro, il premier rinuncia alla cabina di regia che suonava come un'esautorazione del responsabile dell'Economia, ma quest'ultimo accetta di condividere le decisioni e le riunioni più importanti con i colleghi di governo, e soprattutto con Gianni Letta, che farà la spola tra Palazzo Chigi e gli uffici che furono di Quintino Sella. Non è proprio un commissariamento, ma poco ci manca. Tremonti lo ha accettato perché non aveva altra scelta e perché ancora una volta, in suo favore, proprio quando l'asse con il Carroccio sembrava incrinato, ha funzionato l'amicizia con Bossi, che con poche parole e con il realismo dei vecchi politici ha fatto capire al Cavaliere che era l'unica strada.

Nella cena più allargata che è seguita a Palazzo Grazioli, in pratica un vertice di maggioranza, il cosiddetto pacchetto sviluppo di cui si parla da giorni, e che dovrebbe essere varato dal prossimo Consiglio dei ministri, ha finalmente quasi visto la luce. Non è certo una gran cosa: si tratta di sbloccare i lavori pubblici già deliberati e bloccati dalle solite ragnatele burocratiche e definire l'insieme delle semplificazioni, improvvidamente anticipate lunedì da Brunetta, con l'aggiunta della nota gaffe sull'abolizione del certificato antimafia per gli appaltatori. Che davvero, grazie a queste misure, l'Italia possa ricominciare a crescere, non ci crede nessuno. Ma intanto, è meglio di niente.

Berlusconi continua a dire che la svolta della crisi è dietro l'angolo a tutti i suoi interlocutori, rassicurandoli anche sulla sua situazione personale. La quale, al contrario, continua ad essere appesantita dall'aggravarsi dei guai giudiziari. La sentenza del tribunale del riesame di Napoli che ha scarcerato Tarantini e la moglie ha creato le premesse per una nuova imputazione del premier, con l'accusa di aver cercato di ottenere coperture al limite della falsa testimonianza dall'imprenditore barese organizzatore del giro delle escort. Il processo di Milano per il caso Mills in cui Berlusconi è accusato di corruzione viaggia più speditamente verso la sentenza. Oggi si vota la sfiducia individuale verso il ministro Romano per le accuse di mafia. Il centrodestra non si aspetta sorprese, ma sulla strada accidentata del governo ogni giorno continua ad avere le sue pene.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9253


Titolo: MARCELLO SORGI. La doppia promessa del Cavaliere
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2011, 04:59:52 pm
29/9/2011 - TACCUINO

La doppia promessa del Cavaliere

MARCELLO SORGI

C'è una sola spiegazione per l’ennesima lite su Bankitalia, che ha inutilmente tenuto in sospeso per molte ore il Quirinale, Palazzo Chigi, il ministero dell’Economia, oltre naturalmente al vertice di via Nazionale.

Berlusconi ha promesso martedì a Tremonti che avrebbe fatto nominare Grilli, il direttore generale del Tesoro suo candidato, anche se aveva già lasciato intendere al Presidente della Repubblica la sua preferenza per il candidato interno della Banca. E bastava ieri affacciarsi a uno dei capannelli di parlamentari in attesa di votare il salvataggio del ministro Romano per sentirselo raccontare: senza alcuna meraviglia, quel che è peggio. Va da sé che un organo nevralgico come la Banca d’Italia, che sta per fornire all’Europa il presidente della Bce, avrebbe meritato una diversa attenzione. E che il muro contro muro che ha portato all’ultimo rinvio non faciliterà certo la soluzione del problema.

Si diceva da giorni che la lettera del presidente del consiglio con l’indicazione del nome di Saccomanni fosse pronta per essere spedita in via Nazionale, cui spetta dare il proprio parere prima che il Capo dello Stato firmi il decreto di nomina. Il colpo di scena è avvenuto in mattinata, quando l’attesa lettera non è arrivata a Bankitalia e s’è capito che qualcosa doveva essere cambiato il giorno prima, nell’incontro faccia a faccia tra Berlusconi e Tremonti. Di qui l’allarme di Draghi, governatore uscente e prossimo alla partenza per Francoforte, che s’è subito recato a Palazzo Chigi e al Quirinale. E la corrispondente reazione di Tremonti, anche lui in visita dal premier. Intanto Bossi, spalleggiando il ministro dell’Economia, si esprimeva pubblicamente a favore di Grilli.

Tutto questo movimento preannuncia l’esplosione, ormai vicina, del conflitto Tremonti-Draghi. Al di là del rapporto deteriorato con il premier, il ministro non gli ha perdonato, quest’estate, di essersi messo nelle mani del governatore sollecitando la famosa lettera della Bce che ha dato il via alla manovra estiva, perché da quel momento in poi s’è sentito commissariato. Il governatore, da parte sua, non ritiene di poter assolvere bene il suo compito in Bce senza avere in Bankitalia un punto di riferimento fidato. Nella Prima Repubblica una contesa del genere si sarebbe risolta allargando la rosa dei candidati e trovando al suo interno un terzo nome. Altri tempi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9259


Titolo: MARCELLO SORGI. Il documento di Bagnasco e la mossa Pd
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2011, 03:42:35 pm
30/9/2011 - TACCUINO

Il documento di Bagnasco e la mossa Pd

MARCELLO SORGI

Si può leggere la sconfitta subita alla Camera dal governo sull'ordine del giorno del Pd destinato a spostare sulle scuole pubbliche una parte dei fondi dell'8 per mille in vari modi. All'indomani del salvataggio del ministro Romano e del respingimento della mozione di sfiducia, è la prova che governo e maggioranza ormai reggono solo nelle votazioni palesi.

Nelle ultime due settimane le occasioni in cui il centrodestra è stato battuto si sono moltiplicate e la sensazione di scollamento è aumentata. Si può ancora osservare che nel clima di fine legislatura che s'è diffuso, dopo il raggiungimento delle cinquecentomila firme per i referendum elettorali che rendono più probabile lo scioglimento delle Camere a primavera, solo i parlamentari che ritengono di avere qualche probabilità di essere ripresentati frequentano il Parlamento nelle sedute normali.

Ma c'è un'altra spiegazione possibile, legata al contenuto del documento messo in votazione ieri e mirato a limitare il sostegno statale alle scuole cattoliche. L'iniziativa del Pd cade infatti a pochi giorni dall'intervento del presidente dei vescovi italiani Bagnasco e dal suo appello ai cattolici a riunirsi in un nuovo movimento.

Le conseguenze di questo appello sono più preoccupanti per il maggior partito del centrosinistra, all'interno del quale i cattolici manifestano da tempo il loro disagio, che non per il centrodestra, che pur essendo penalizzato dalla condanna dei «comportamenti licenziosi» di Berlusconi, ha nel post-democristiano Alfano un interlocutore qualificato per cercare di riallacciare il dialogo con le Gerarchie. Questa è almeno l'interpretazione corrente, e sufficiente a motivare la mossa del Pd.

In realtà il documento dei vescovi si presta anche ad altre letture. Nel testo, il punto centrale rimane la crisi della politica e la sua evidente incapacità di gestire le trasformazioni della società. Il mancato riferimento ai cosiddetti «valori non negoziabili» (famiglia, vita, procreazione artificiale), ai quali finora il centrodestra s'è mostrato più sensibile, delinea, non una rinuncia, ma la volontà di affrontare una discussione senza pregiudiziali con tutti. Anche con il centrosinistra, se riuscirà a temperare al suo interno le posizioni più radicali in materia. Non è la sola novità. La sensazione infatti è che per questa strada la Chiesa proponga per la guida del prossimo governo un cattolico, e chieda ai partiti che si preparano a fare le primarie di tenerne conto quando si tratterà di designare i candidati.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9263


Titolo: MARCELLO SORGI. Forte desiderio di urne tra i dirigenti Pdl meno nella base
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 04:55:19 pm
5/10/2011 - TACCUINO

Forte desiderio di urne tra i dirigenti Pdl meno nella base

MARCELLO SORGI

Nulla a volte è più rivelatore della «voce dal sen fuggita». E questa di Tremonti sulla Spagna che sta messa meglio dell'Italia, perché s'è tolta il dente delle elezioni anticipate e ha rimesso la posta in gioco, è veramente indicativa dei pensieri che passano per una delle menti più oberate dai fantasmi della crisi. Il desiderio dello scioglimento delle Camere è di certo più presente nel gruppo dirigente del Pdl, che non nella base parlamentare del centrodestra, conservatrice e riottosa a una nuova campagna elettorale anche perché molti sanno di dover perdere il posto di deputato o senatore. Invece tra i capi grandi e piccoli del partito del Cavaliere si fanno due ragionamenti, che portano entrambi a preferire le elezioni al referendum. Primo: se Berlusconi si candida e perde, risolve per sempre il problema della successione. Sarà difficile che la sinistra possa governare da sola a lungo, e presto o tardi si tornerà a votare e il centrodestra rinnovato potrà tornare a vincere. Secondo: se Berlusconi alla fine decide davvero di farsi da parte, il centrodestra, benchè abbacchiato, potrebbe addirittura farcela a questo giro.

Quasi impossibile è considerata la scommessa di una riforma elettorale fatta in fretta per evitare il referendum. E alto il rischio di rassegnarsi alle urne referendarie, perchè ricucire dopo con la Lega sarebbe veramente difficile. Una libera uscita data oggi al Carroccio, che presentandosi da solo ritiene di poter ricostruire il logorato rapporto con il proprio elettorato, non sarebbe poi la fine del mondo. Perchè per molti nel Pdl le probabili elezioni del 2012 potrebbero somigliare a quelle del "pareggio" del 2006. Naturalmente nessuno sa cosa pensi al riguardo Berlusconi, che a tutti sembra ancora non aver deciso.

Circola voce di una nuova approfondita serie di sondaggi che il premier avrebbe ordinato per testare una variegata serie di opportunità, dal cambio del nome del Pdl, alla creazione di un nuovo simbolo senza l'indicazione del nome di Berlusconi, al definitivo lancio del delfino Alfano. Ma la scelta è di là da venire e questo aumenta il nervosismo interno. La sensazione è che il leader aspetti per capire se la crisi economica possa evolvere verso una qualche stabilizzazione. Il solito eterno ottimismo berlusconiano. Ma qui appunto si fermano tutti i calcoli che si agitano nel tormentato partito del presidente.

DA - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9284


Titolo: MARCELLO SORGI. Lo sfilacciamento della maggioranza e il pessimismo di Bossi
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2011, 05:02:14 pm
7/10/2011 - TACCUINO

Lo sfilacciamento della maggioranza e il pessimismo di Bossi

MARCELLO SORGI

Berlusconi lo ammette: fare le nozze con i fichi secchi è difficile. E questo, al momento, pare sia lo stato dell'arte del famigerato decreto sviluppo, che continua a slittare di settimana in settimana e neppure questa vedrà la luce. Il lungo vertice a Palazzo Grazioli ieri ha prodotto un ennesimo rinvio, adesso sarà il ministro Romani a cercare di coordinare il lavoro preparatorio. Segno che continua la resistenza di Tremonti, seppure Berlusconi si ostina a negare che esista il dissenso del ministro dell'Economia, e la previsione del governo adesso è di mettere a punto il decreto entro il 20 ottobre. Lo sfilacciamento della maggioranza d'altra parte non consente di mettere molta carne al fuoco, e almeno per tutta la prossima settimana la Camera sarà occupata dall'esame della legge sulle intercettazioni, con un'opposizione ai limiti dell'ostruzionismo dopo la rottura di mercoledì.

A parte le battute di Berlusconi sui fichi secchi, ieri ha fatto molto discutere il pessimismo di Bossi sulla possibilità di arrivare in queste condizioni al 2013: il leader leghista s'è limitato a una constatazione ovvia del deterioramento del quadro politico e dell' aggravamento della situazione economica. Ma il malessere della Lega cresce giorno dopo giorno ed è chiaro che il Senatur sta valutando fino a che punto il Carroccio possa pagare il prezzo di un sostegno al governo che diventa sempre più gravoso.

Anche l'accenno del Presidente Napolitano al governo di tregua guidato da Pella nel '53 ha sollevato molta attenzione. Il Capo dello Stato parlava a Biella, e il suo riferimento al capo di quello che fu chiamato dalla Dc "governo amico", per sottolinearne la distanza da una piena rappresentanza partitica, era un omaggio a un illustre biellese. Pella tra l'altro restò in carica solo pochi mesi, prima di essere abbattuto dal suo partito, dopo le elezioni che avevano chiuso la fase del centrismo senza creare un nuovo equilibrio. Ma di questi tempi, anche una citazione storica può scaldare una classe politica che vive coi nervi a fior di pelle.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9294


Titolo: MARCELLO SORGI. Siamo tutti prigionieri del Cavaliere
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2011, 04:44:18 pm
10/10/2011

Siamo tutti prigionieri del Cavaliere

MARCELLO SORGI

Incredibile quanto si vuole, la situazione è questa: a diciott’anni dalla scomparsa della Dc, le sorti del governo, ogni giorno di più, dipendono da un gruppetto di democristiani, che vorrebbero democristianizzare Berlusconi.

Per chi ha ancora memoria della Balena bianca, la domenica di ieri ha avuto uno strano effetto déjà-vu: riuniti a Saint-Vincent, grosso modo nello stesso periodo e nello stesso luogo in cui si riunivano sempre i seguaci della corrente di Donat-Cattin, i nuovi Dc hanno cercato in tutti i modi di convincere il democristianissimo e contrarissimo segretario del Pdl Alfano che il Cavaliere deve trovare il coraggio di dimettersi, aprire la crisi, e magari ricandidarsi alla guida di un Berlusconi-bis per il fine legislatura. Che poi le probabilità per il premier di succedere a se stesso siano minime e le possibilità di aprire un negoziato sui posti e sul programma inesistenti, i Dc non lo danno per inteso.

Per loro infatti la crisi non sarebbe che una delle tante, decine e decine, vissute ai bei tempi della Prima Repubblica. E che alla fine Berlusconi possa essere sostituito da un altro presidente del Consiglio, la logica conseguenza di una normale alternanza e del rispetto della Costituzione.

Con quest’obiettivo, da giorni, il governatore della Lombardia Formigoni e gli ex-ministri Scajola e Pisanu, per citare i più attivi, rilasciano interviste a tutto spiano per illustrare il loro programma: ai primi posti, la cancellazione del cuore della manovra economica d’agosto, quei tagli agli enti locali e ai ministeri che, seppure insufficienti, costituiscono almeno un tentativo di adesione alle richieste sollecitate e inviateci dalla Banca centrale europea. E in prospettiva, una perfetta restaurazione dei metodi e delle regole di venti, trenta e quarant’anni fa, a cominciare dalla legge elettorale proporzionale che dovrebbe restituire ai partiti (agli attuali partiti!), togliendolo ai cittadini, il diritto di scegliersi i governi.

Ora, intendiamoci, se non fossimo di questi tempi, con l’Italia in bilico su un destino che i pessimisti, le cui file continuano ad infoltirsi, preconizzano simile a quello della Grecia, anche l’idea di una restaurazione non dovrebbe essere respinta pregiudizialmente. Che la Prima Repubblica, pur versando da tempo in una crisi senza rimedio, sia finita più per intervento della magistratura che non per effetto della sua malattia, è un fatto. E altrettanto che la Seconda, a quasi due decenni dalla cosiddetta «rivoluzione italiana», sia rimasta un’incompiuta, a causa, o per colpa, in gran parte di Berlusconi, ma anche dei governi di centrosinistra, che hanno perso per strada la spinta propulsiva per realizzare le riforme. Esiste ovviamente la necessità di riprendere il cammino virtuoso della modernizzazione. Ma ad essere sinceri, va detto, non è questo il momento.

A diciotto mesi dalla fine della legislatura e nel bel mezzo di un’emergenza di dimensioni mondiali, quel che ci si aspetta dal governo è di affrontare i problemi che abbiamo di fronte con urgenza, senza divagare né tergiversare. Sincerità per sincerità, non è detto che l’ultralogorato governo in carica possa farcela. Ma è assai più improbabile che possa riuscirci un nuovo governo che nascerebbe ammesso che il parto sia possibile sulla base del pensionamento forzato del premier e di una maggioranza raccogliticcia almeno quanto quella attuale.

Per questo, conoscendo la caratteristica prudenza e ambiguità dei democristiani, al fondo non si capisce a cosa puntino le loro manovre. Finora l’unico effetto è di ricordarci, dimostrandocelo fino all’asfissia, che siamo - e purtroppo restiamo - prigionieri di Berlusconi.
E se riusciranno davvero a far cadere il governo, di portarci alle elezioni in un clima, se possibile, ancora più confuso.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9302


Titolo: MARCELLO SORGI. Non è stato soltanto un infortunio
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2011, 11:22:00 am
12/10/2011

Non è stato soltanto un infortunio

MARCELLO SORGI

Malgrado i ripetuti tentativi di Berlusconi e del Pdl di minimizzare la bocciatura ricevuta ieri dalla Camera, la gravità di quanto è accaduto è evidente. Per il governo, l'approvazione ogni anno del rendiconto e del bilancio dello Stato non è una facoltà: è un obbligo preciso, stabilito dall'articolo 81 della Costituzione.

Non a caso nei due precedenti riaffiorati dalle memorie parlamentari, i presidenti del Consiglio che incorsero in simili incidenti - Andreotti e Goria - si dimisero senza indugi.

Berlusconi invece, pur visibilmente contrariato dall'accaduto (lo si è visto in tv lasciare l'aula di Montecitorio guardando gelido Tremonti e brandendo i fogli dei tabulati delle assenze), ha subito fatto sapere che intende ripresentarsi e chiedere la fiducia. Per dimostrare, come ha fatto altre volte, che solo di un infortunio s'è trattato, e non di un segnale politico dal profondo della pancia del centrodestra.

La giornata politica, in effetti, sembrava indirizzata in tutt'altra direzione. Un pranzo pacificatore a Palazzo Grazioli tra il Cavaliere e l'ex ministro Scajola sembrava aver sancito la tregua tra il premier e il capo della più temuta pattuglia di dissidenti del Pdl. La Camera e il Transatlantico erano affollati; ai banchi del governo, come nelle occasioni importanti, sedevano il presidente del Consiglio e i ministri, i cui voti sono indispensabili, data l'esiguità della maggioranza. La quale maggioranza, a dispetto delle previsioni, s'è liquefatta con ben 25 voti mancanti, 17 del Pdl tra cui quelli del ministro dell'Economia, pur presente, e del reduce dalla colazione pacificatrice Scajola; di 7 dei Responsabili tra cui l'uomo-simbolo Scilipoti e l'aspirante ministro Pionati; più Bossi che non è arrivato in tempo a inserire la scheda nella postazione per la votazione elettronica.

Questo approssimativo elenco dei colpevoli basta già ad escludere una congiura, non foss'altro perché i congiurati solitamente agiscono nell'ombra, e, dato che il governo è andato sotto soltanto per un voto, sarebbe bastato che uno solo di quelli che erano lì per lavorare, e hanno preferito fare altro, si fosse ricordato di fare il proprio dovere. Ma il fatto che non si sia trattato di un agguato, di una manovra, di un qualsiasi, anche irrazionale, disegno politico, com'erano appunto quelli dei franchi tiratori democristiani che riuscivano a far dimettere capi di governo del calibro di Andreotti, non è affatto una consolazione. O almeno non dovrebbe esserlo, né diventarlo. In questo senso, davvero non si capisce come possa Berlusconi ridimensionare l'accaduto e annunciare «d'intesa con il Capo dello Stato», prima ancora di andare al Quirinale per consultarlo, che ripresenterà il testo bocciato e lo farà approvare con la fiducia. Magari ci riuscirà pure, sempre che Napolitano non consigli un chiarimento parlamentare più approfondito. Ma un governo che non riesce ad andare avanti nel normale iter dei lavori parlamentari, e deve continuamente ricorrere al voto palese per convincere i parlamentari a rigare diritto, non va molto lontano.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9312


Titolo: MARCELLO SORGI. Tra Aventino e conto alla rovescia
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2011, 05:42:25 pm
13/10/2011 - TACCUINO



MARCELLO SORGI

L’Aventino dell'opposizione e l'intervento di Berlusconi pronunciato davanti a una Camera per metà deserta segneranno oggi il punto più basso della legislatura, dopo la bocciatura del governo sul rendiconto di martedì e il caos che ne è seguito per tutta la giornata di ieri. Il rifiuto del premier di prendere atto della gravità dell'accaduto e seguire la prassi adoperata dai suoi predecessori di presentarsi dimissionario al Quirinale ha determinato una battaglia procedurale e politica di inaudita durezza. Il centrodestra è prima stato messo in minoranza nella giunta del regolamento che ha considerato «chiuso» l'iter del provvedimento bocciato, bloccando la manovra del governo che tendeva a ripresentarlo subito al voto dell'aula. I capigruppo dell'opposizione hanno poi chiesto al presidente della Camera di recarsi al Quirinale e informare il Capo dello Stato dello sconcerto seguito alle mancate dimissioni dell'esecutivo.

Napolitano, che aveva diramato in mattinata una prima nota in cui chiedeva a Berlusconi di adoperarsi per trovare uno sbocco condivisibile all'incidente del giorno prima, quando Fini è salito al Quirinale, s'è trovato di fronte alla richiesta delle opposizioni di un suo diretto intervento sul premier, che, va detto, a parte le difficoltà di metterlo in atto, non avrebbe sortito alcun effetto, viste le resistenze del Cavaliere. Di qui una seconda nota del Capo dello Stato, che ringraziando Fini per la sua missione si limitava a prendere atto del malessere manifestato da centrosinistra e Terzo polo e invitava nuovamente governo e Parlamento a cercare una soluzione.

Difficilmente tuttavia questa soluzione nascerà da un accordo. Berlusconi infatti è deciso a portare a casa una nuova fiducia entro domani, se possibile con una maggioranza a numeri accresciuti. Il nuovo voto sul rendiconto, a suo giudizio, dovrebbe venire poi di conseguenza. Ma è proprio su questo punto che l'opposizione non intende fare sconti. È prevedibile che a conclusione del primo giro di dibattito e dopo il voto di fiducia la questione torni al giudizio del Capo dello Stato. Con l'aria irrespirabile di queste ultime settimane, Napolitano potrebbe trovarsi presto a decidere anche sulla conclusione anticipata della legislatura.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9316


Titolo: MARCELLO SORGI. Le rassicurazioni del premier non cancellano l'incertezza
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2011, 05:22:39 pm
14/10/2011 - TACCUINO

Le rassicurazioni del premier non cancellano l'incertezza

MARCELLO SORGI

Rispetto alla confusione del giorno prima, non ha portato grandi novità il breve discorso di Berlusconi alla Camera, anzi a mezza Camera, dato che le opposizioni, con l'eccezione dei cinque deputati radicali, avevano scelto di non partecipare ai lavori per protestare contro le mancate dimissioni del governo. Il Cavaliere ha ribattuto che la mancata approvazione del rendiconto non è stato altro che un infortunio, spiacevole quanto si vuole (ed infatti s'è scusato dell’accaduto), ma al quale non intende dare soverchia importanza politica. Il governo ha chiesto la fiducia e la otterrà oggi grazie anche al fatto che la gran parte dei dissidenti del centrodestra ha confermato che la darà, salvo poi dire che si tratterà di una fiducia a tempo, in attesa di vedere se le loro richieste saranno accontentate. Confermata anche l'intenzione di andare avanti fino al 2013 con il programma di riforme già esposto inutilmente altre volte.

Mai come oggi tuttavia il quadro rassicurante fornito dal premier cozza con la realtà di una crisi economica insistente e di una crisi politica latente. Berlusconi ha parlato con al fianco Bossi che non la finiva di sbadigliare. Nel consiglio dei ministri che ha preceduto il dibattito alla Camera c'è stato un nuovo scontro tra i ministri Tremonti e Romani sulla destinazione dei fondi ricavati dall’asta delle frequenze per i telefonini di quarta generazione: non è certo un buon viatico per le trattative sul prossimo decreto sviluppo, di cui Romani, a dispetto di Tremonti, è stato incaricato direttamente dal premier. La Bce ha ribadito ieri che i paesi europei a rischio, tra cui l'Italia, di cui ha sottolineato l'andamento sofferto e il doppio declassamento subito dalle agenzie di rating, devono prepararsi all' eventualità di manovre aggiuntive. La Borsa ha fermato la sua ripresa ed è tornata a scendere.

L'Aventino dell’opposizione s'è consumato a beneficio delle telecamere: e in effetti, le immagini dell’aula mezza vuota della Camera hanno fatto rapidamente il giro delle principali edizioni dei Tg. Ma i leader del centrosinistra e del Terzo polo sono rimasti in silenzio solo tra i muri di Montecitorio, affollandosi invece davanti alle telecamere per attaccare duramente Berlusconi e il centrodestra. La soluzione all' incidente di martedì sarà trovata ripresentando, previo esame della Corte dei conti, il rendiconto al Senato, e solo successivamente alla Camera. Ma la situazione resta molto tesa e a rischio, e difficilmente i prossimi giorni porteranno un chiarimento.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9319


Titolo: MARCELLO SORGI. Nuovo strappo a sinistra dopo la mossa di Di Pietro
Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2011, 04:51:54 pm
18/10/2011 - TACCUINO

Nuovo strappo a sinistra dopo la mossa di Di Pietro

MARCELLO SORGI

Preannunciato per oggi, con il discorso del ministro dell'Interno Maroni sugli incidenti di sabato a Roma, l'arrivo di nuove misure anti-violenza ha improvvisamente mutato il clima di muro contro muro con cui s'era concluso venerdì lo scontro sulla fiducia. A sorpresa, da ieri, per iniziativa di Di Pietro, c'è un tentativo di intesa bipartisan sull'emergenza Black-bloc, che rischia di riproporsi nelle prossime manifestazioni e di proliferare nel clima di crisi economica che durerà per i prossimi mesi.

Di Pietro ha fatto della legge Reale, il giro di vite che a metà degli Anni Settanta mise al primo posto le esigenze della sicurezza e dell'antiterrorismo rispetto alle garanzie tradizionali per gli imputati (allora ci fu chi parlò di «leggi speciali») il suo cavallo di battaglia. Maroni, accogliendo l'invito del leader di Italia dei Valori, ha confermato che oggi in Parlamento annuncerà misure adeguate alle dimensioni dell'emergenza. Si parla di inasprimento delle pene per reati come quelli commessi sabato (danneggiamenti, resistenza aggravata a pubblico ufficiale) e anche, tema più controverso, di consentire l'arresto in caso di pre-flagranza, ciò che potrebbe portare a iniziative contro i centri sociali, come reclama una parte del centrodestra. È esattamente su questa prospettiva, condivisa da Di Pietro in nome dell'allarme diffuso nell'opinione pubblica dopo la giornata di guerriglia romana, che rischia di aprirsi una divaricazione nel centrosinistra e nell'alleanza simboleggiata dalla famosa foto di Vasto con Bersani, Di Pietro e Vendola. A quest'ultimo, in particolare, la mossa dell'ex pm di Mani pulite non piacerà. I centri sociali sono infatti un punto di riferimento preciso per il leader di Sinistra e libertà ed è evidente che lo strappo di Di Pietro - e la possibilità che una parte dell'opposizione possa votare con il centrodestra, consentendo, come ha suggerito il ministro della Difesa La Russa, che le nuove misure siano presentate per decreto dal governo -, non vada a genio anche a una parte del Pd e all'Udc.

La protesta dei poliziotti, che stamane manifesteranno davanti a Palazzo Chigi contro i tagli al bilancio della sicurezza, sta sottolineare che il modesto risultato di contrasto ottenuto a Roma dalle forze dell'ordine contro i violenti è dipeso anche dall'indebolimento dei mezzi affidati a polizia e carabinieri per svolgere i loro compiti. Materia, questa, su cui l'opposizione si sarebbe esercitata volentieri se l'apertura di Di Pietro al governo ora non rendesse tutto più complicato.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9334


Titolo: MARCELLO SORGI. Il governo gioca la carta sicurezza
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2011, 11:17:38 pm
19/10/2011 - TACCUINO

Il governo gioca la carta sicurezza

MARCELLO SORGI

L’emergenza economica non dà cenni di miglioramento e sta di nuovo portando al limite di rottura i rapporti tra il governo e le parti sociali, tornate ieri alla carica con toni durissimi. Berlusconi non è in grado di fare concessioni e per la prima volta è costretto ad ammettere che lo stato dei conti non consente di prevedere alcun intervento a sostegno della ripresa: le misure del decreto sviluppo, nuovamente rinviato anche questa settimana, non potranno dunque che essere a costo zero.

Al contrario l’emergenza black-bloc sta invece trasformandosi in un’inaspettata occasione di ripresa per il governo. Non solo perché, pur preoccupando l’opinione pubblica, la distrae dai problemi insolubili della congiuntura. Ma anche perché, come ha spiegato ieri il ministro dell’Interno Maroni al Senato, obbliga il centrodestra a varare una serie di provvedimenti destinati a dividere le opposizioni e farle apparire restìe a condividere la linea dura antiterrorismo. Un alt preventivo alle proposte di Maroni è venuto ieri dalla capogruppo dei senatori Pd Anna Finocchiaro. Ma il ministro, nell’aula di Palazzo Madama, è andato giù duro lo stesso. Al preannunciato inasprimento delle pene e all’estensione della possibilità di arresto anche fuori dalla stretta flagranza di reato, Maroni ha aggiunto l’ipotesi di importare dall’Inghilterra il cosiddetto «Asbo» (antisocial behaviour order, una misura di sicurezza che consente di estendere la carcerazione preventiva contro soggetti pericolosi fino a cinque anni), e il dovere, per gli organizzatori delle manifestazioni, di garantire con mezzi propri gli eventuali danni che potrebbero essere causati nel corso dei cortei. Il ministro non s’è nascosto che si tratterebbe di misure fortemente limitative di diritti previsti dalla Costituzione: ma a mali estremi, ha spiegato, non restano che estremi rimedi.

A parte Di Pietro, che aveva sollecitato il governo a muoversi con l’obiettivo della massima severità, le reazioni del centrosinistra sono caute e tendono ad evitare di entrare nel merito, almeno fino a quando il consiglio dei ministri avrà messo nero su bianco il nuovo pacchetto sicurezza. Al momento le opposizioni sono attestate sulla linea che non sono le leggi a dover cambiare, ma il governo, che manifestamente, a loro giudizio, non è più in grado di affrontare la situazione. Polemiche ha generato anche la decisione di sospendere per un mese le manifestazioni già annunciate a Roma, tra cui uno sciopero della Fiom che doveva svolgersi nei prossimi giorni. È un altro segno che il fronte della sicurezza è destinato ulteriormente ad arroventarsi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9339


Titolo: MARCELLO SORGI. E Giulio resta impermeabile alle pressioni nel governo
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2011, 09:23:41 am
20/10/2011 - TACCUINO

E Giulio resta impermeabile alle pressioni nel governo

MARCELLO SORGI

Dopo le anticipazioni, in verità abbastanza deludenti, sul testo del decreto che viene rinviato di settimana in settimana, anche l'ultimo tentativo di convincere Tremonti a collaborare alla ricerca di misure anti-crisi minimamente presentabili, e in grado di essere accolte meglio dalle parti sociali, è naufragato ieri dopo il fallimento di un vertice lampo a Palazzo Grazioli.

Con Berlusconi e con il ministro dell'Economia c'erano Letta Romani e Matteoli, ma non c'è stato niente da fare. Anche se si moltiplicano, nel frattempo, le prese di posizione di parlamentari del Pdl, che premono su Berlusconi: ieri era il turno degli ex-finiani Ronchi e Urso, contrari a votare un decreto a costo zero, senza fondi per rimettere in moto l'economia. La sensazione è che Tremonti si rifiuti di entrare nel merito perché si ritiene l'unico titolato a mettere le mani sui conti dello Stato, e in questo senso non ha gradito, nè la delega data dal premier a Romani per cercare di coordinare i lavori sul decreto e mettere insieme le proposte dei vari ministri, nè il florilegio delle diverse idee che i membri del governo si sono diligentemente affrettati a tirar fuori, come ad esempio l'ultima, spiegata dal ministro Frattini al Foglio, di stringere i tempi per un accordo con la Svizzera per recuperare i capitali italiani espatriati all'estero. Per Tremonti, che ormai non ha remore a dirlo apertamente in faccia ai suoi colleghi nel corso delle riunioni, queste iniziative sono solo una prova di incompetenza, e pertanto si rifiuta di prenderle in considerazione.

Va detto che, conoscendo il carattere difficile del responsabile dell'Economia, non tutti i ministri si avventurano a fargli conoscere le loro proposte via interviste. Qualche giorno fa, cercando in ogni modo di lisciargli il pelo, il ministro della Difesa La Russa ha invitato Tremonti a colazione e gli ha fatto pressappoco un discorso così: vedi Giulio, tu credi che se esistesse veramente una legge buona per risolvere la crisi economica non la adotterebbero tutti, a cominciare da Obama? Ma poiché non esiste, si tratta di fare un decretino che tamponi la situazione e consenta a Berlusconi di andare in tv a tentare di raddrizzare l'immagine del governo. Giulio, se ci dai una mano, è una cosa che si può fare in due minuti. Risposta di Tremonti, che fino a quel momento aveva ascoltato pensieroso il suo interlocutore: mi spiace, ma se dico di no è perchè ho le mie buone ragioni. La Russa ha ingoiato amaro imprecando silenziosamente.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9343


Titolo: MARCELLO SORGI. I padani di fronte a un bivio decisivo
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 04:43:21 pm
25/10/2011 - TACCUINO

I padani di fronte a un bivio decisivo

Prendere tempo, o scivolare verso le urne

MARCELLO SORGI

La durissima nota antiSarkozy diffusa ieri prima del Consiglio dei ministri, per ufficializzare l'indignazione italiana per il tono sfottente della conferenza stampa a due dei leader francese e tedesco, aveva chiaramente l'obiettivo di rimettere insieme la maggioranza, ieri più che mai per tutto il giorno sull'orlo della rottura. Il fuoco di sbarramento usato fin dal mattino dalla Lega contro l'ipotesi di adottare per decreto anche la riforma delle pensioni ha reso necessario cercare su un altro terreno - appunto i rapporti interni nell'Unione - la ricomposizione. Per Bossi toccare le pensioni sotto il diktat dell'Europa era assolutamente inaccettabile. Ore e ore di trattativa hanno portato a separare i due aspetti del problema, optando per la nota di esplicito risentimento, nonché di sottolineatura della precarietà delle banche francesi e tedesche, da parte di Palazzo Chigi, seguita da una presa d'atto dell'Eliseo sotto forma di smentita del famoso sorriso ironico di domenica di Sarkozy.

Per quanto drammatizzata da una serie ininterrotta di dichiarazioni di tutto lo stato maggiore del Carroccio, a sera sulla durata e sulla resistenza del «no» leghista alla riforma delle pensioni tuttavia non erano in molti a scommettere. La lunga serie di precedenti anche recenti, vedi la contrarietà poi rientrata alla guerra in Libia e alle varie versioni della manovra estiva, ha fatto sperare in un ammorbidimento del leader leghista, che tuttavia anche a Consiglio dei ministri cominciato ha fatto trapelare che l'accordo non c'era.

Man mano che il tempo passava la sensazione era che la Lega avesse bisogno di tempo. Sia per separare le decisioni già condivise e contenute nei provvedimenti per lo sviluppo che alla fine hanno visto la luce, dopo una gestazione tormentata che durava da settimane. Sia per trovare un modo che le consenta, in caso di varo forzoso delle nuove regole della previdenza, di mantenere una esplicita riserva, che potrebbe tornare ad essere invalicabile nei prossimi mesi, quando il testo dovrà essere votato dal Parlamento, e soprattutto quando, avvicinandosi ormai la fine dell'anno, Bossi potrà prendere una decisione definitiva sulle elezioni anticipate. Le opposizioni tifano esplicitamente in questa direzione. Casini e Bersani ieri dopo un incontro hanno ribadito insieme che solo un governo diverso e non guidato da Berlusconi può avere l'ambizione di realizzare riforme così importanti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9361


Titolo: MARCELLO SORGI. L'Ue proverà a fidarsi
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 05:05:51 pm
26/10/2011 - TACCUINO

L'Ue proverà a fidarsi

Ma che faranno i mercati?

MARCELLO SORGI

Annunciata a più non posso per due giorni e confermata dallo stesso Bossi, rimasto alla Camera platealmente fuori dal vertice di maggioranza e insolitamente prodigo di dichiarazioni ai giornalisti, la crisi di governo almeno per ieri è stata evitata, secondo la visione ottimistica del segretario del Pdl Alfano, o congelata, secondo quella che viene da fonti vicine al ministro Maroni, considerato il leader dell'ala più dialogante del Carroccio.

L'escamotage che ha consentito di arrivare alla svolta è degno delle più sofisticate architetture democristiane della Prima Repubblica: in mancanza di accordo nella maggioranza, non potendo portare a Bruxelles uno straccio di provvedimento sulle pensioni, Berlusconi presenterà ai severi partners dell'Unione una lettera di intenti sulla stessa materia, con i titoli delle materie su cui nei prossimi giorni il governo dovrebbe prendere le sue decisioni. Collegata a questa, e preceduta dalla nota con cui lunedì Palazzo Chigi aveva protestato per la sceneggiata delle risatine di Sarkozy e Merkel, c'è una chiara pressione italiana per far sì che l'Europa si fidi dei buoni proponimenti del centrodestra e accordi a Berlusconi il tempo necessario a concludere il negoziato interno con gli alleati.

Al di là delle reazioni che potranno venire dall' Unione, si tratta di una soluzione debole per varie ragioni. Innanzitutto l'Europa con i suoi organi decisionali non é in grado di garantire che i mercati non si fidino e non riprendano a picchiare contro l'Euro e contro i titoli di Stato italiani. Poi non è detto che lo spiraglio aperto dal Carroccio sia così facile da allargare. L'ipotesi che Bossi non possa dir di no a una riproposizione della riforma Maroni, poi cancellata da Prodi, che prevedeva uno scalone dell' età pensionabile al 2008 e due successivi scalini al 2010 e al 2014, è legittima. Ma è chiaro che la trattativa si concentrerebbe, a quel punto, sulle nuove scadenze temporali da imporre alla riforma. E con un anno e mezzo a disposizione e un appuntamento elettorale fissato al più tardi nel 2013, il tentativo di spostare in avanti, a dopo le elezioni, l'effettivo innalzamento dell'età pensionabile, difficilmente sarebbe considerato accettabile in Europa. Pertanto si può dire che Berlusconi ha sicuramente evitato la crisi ieri sera, ma i conti veri con La Lega si faranno dopo la sua missione di oggi a Bruxelles.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9367


Titolo: MARCELLO SORGI. Dopo l'armistizio europeo un calvario verso le urne
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2011, 05:21:53 pm
27/10/2011 - TACCUINO

Dopo l'armistizio europeo un calvario verso le urne

MARCELLO SORGI

Il compromesso di Bruxelles che ha consentito a Berlusconi di evitare la crisi di governo è stato raggiunto a un prezzo alto e ha dimostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, che di fronte all’Unione le astuzie non funzionano. Dunque, o l’Italia è in grado di garantire che le riforme elencate nella famosa lettera di intenti - dalle pensioni ai licenziamenti più facili alle liberalizzazioni delle professioni, per fare gli esempi più controversi tra quelli indicati nelle quattordici pagine del testo - saranno realizzate entro tempi brevi e certi, o in caso di inadempienza si troverà quasi automaticamente fuori dal sistema di protezione dell’euro, nel pieno del vortice della crisi. Non a caso si è discusso della possibilità di mettere il testo nel verbale conclusivo del vertice Ue, cioè in pratica di trasformarla in una cambiale che avrebbe reso vincolanti da subito gli impegni presi da Berlusconi ma non ancora dettagliati né trasformati in provvedimenti. E questo malgrado il presidente Napolitano e il governatore e futuro presidente della Bce Draghi si fossero mossi simultaneamente ieri per garantire la serietà delle intenzioni messe per iscritto dal governo italiano e l’impossibilità, in questa fase, di evitare politiche impopolari pur di uscire dalla crisi.

Berlusconi non avrà molte possibilità di godersi il successo della sua missione al ritorno a Roma. A parte il contenzioso aperto con la Lega, e aggravato dalla polemica Fini-Bossi sulla baby-pensione della moglie del Senatùr, che ha infiammato la seduta della Camera, si muovono i sindacati, da sempre sensibili al tema della previdenza e irritati dalle decisioni annunciate dal governo senza consultazione preventiva, mentre le opposizioni continuano a dare battaglia in Parlamento (ieri il governo è andato sotto altre quattro volte).

La via d’uscita a questo calvario, che in tutta evidenza non potrà trascinarsi a lungo, è quella - inconfessabile ma ormai data per scontata nei corridoi di Montecitorio - delle elezioni anticipate. Un mese e mezzo di melina sulle riforme, all’ombra della quale Berlusconi cercherebbe di portare a casa la prescrizione breve e gli altri aggiustamenti procedurali che gli servono per i processi di Milano, e poi la rottura e lo scioglimento. Circola già la data dell’ultima domenica di marzo, come conseguenza di una conclusione anticipata della legislatura a fine anno, per andare a votare con l’attuale legge, rinviando il referendum e tutti i problemi aperti alle prossime Camere e al governo che verrà.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9372


Titolo: MARCELLO SORGI. L'ultima chance per un esecutivo boccheggiante
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2011, 05:04:28 pm
2/11/2011 - TACCUINO
 
L'ultima chance per un esecutivo boccheggiante

 
MARCELLO SORGI
 
Il consiglio dei ministri previsto per oggi, alla vigilia del G20 e a conclusione di una giornata in cui per molte ore le maggiori banche italiane sono apparse a rischio e il sistema dell'euro vicino all'implosione, rischia davvero di essere l'ultima chanche per un governo ormai boccheggiante. Dopo il lunedì nero in cui la febbre dei mercati aveva superato il livello di guardia, l'improvviso aggravarsi in tutta Europa delle conseguenze della situazione greca - e della decisione del premier Papandreou di sottoporre a un referendum popolare la strategia anticrisi ha imposto un'accelerazione all'evoluzione della situazione politica.

Di fronte al rischio concreto di un avvitamento della congiuntura, è tornata a farsi sentire al Quirinale la pressione delle opposizioni e delle parti sociali per arrivare al più presto a una svolta. Di qui il comunicato del Capo dello Stato in cui, oltre a sollecitare il governo in ritardo da giorni sugli impegni presi a Bruxelles con la famosa lettera di intenti, per la prima volta s'é fatto accenno, non solo all'urgenza delle decisioni, ma anche alla necessità che vengano prese con le più larghe intese possibili. Napolitano ha voluto dunque riferirsi esplicitamente all'offerta di disponibilità, che fin dal mattino gli era stata ribadita da Bersani e dagli altri leader delle opposizioni, annunciando che ritiene suo dovere verificarne la realizzabilità, ove appunto lo richiedessero la tenuta incerta del governo e la mancata efficacia delle iniziative annunciate e finora non messe in pratica per evidenti difficoltà politiche interne alla maggioranza.

La reazione di Berlusconi, rientrato anticipatamente a Roma, è stata un vertice a Palazzo Chigi, a cui ha preso parte anche il ministro Tremonti, sul quale per tutto il giorno erano circolate voci di sostituzione, l'ipotesi di convocare il consiglio dei ministri prima di partire per il G20 di Cannes, per varare subito le misure, e una precisazione del capogruppo Pdl Cicchitto sul fatto che i governi li decidono gli elettori e non i mercati.

Il dubbio che la tempesta finanziaria possa proseguire anche oggi, malgrado l'accelerazione dei rimedi messi a punto dal governo, ieri a tarda sera infatti era ancora molto forte. Ed è evidente che Berlusconi - convinto che l'evoluzione italiana sia strettamente connessa a quella europea, e non che l'Italia, con la Grecia, sia da considerarsi una sorta di ammalato speciale - abbia voluto così mettere le mani avanti.
 
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9389


Titolo: MARCELLO SORGI. Troppa incertezza, Napolitano rimuove la tutela al premier
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2011, 05:11:47 pm
3/11/2011 - TACCUINO

Troppa incertezza, Napolitano rimuove la "tutela" al premier

MARCELLO SORGI

Berlusconi sempre più in difficoltà: dopo il 14 dicembre e il 14 ottobre, è in arrivo un nuovo braccio di ferro parlamentare, come quelli in cui a malapena il governo s'è salvato due volte, e che potrebbe pure essere anticipato di qualche giorno, per tentare di abbattere il governo vieppiù indebolito negli ultimi giorni. Il Cavaliere è infatti arrivato oggi al G20 di Cannes in condizioni più difficili rispetto all'ultimo vertice europeo di due settimane fa, quand'era riuscito a strappare l'approvazione per la lettera di intenti con cui l'Italia si era impegnata su una serie di drastiche misure anticrisi.

La conclusione del consiglio dei ministri, dopo una giornata di indiscrezioni smentite su provvedimenti di portata eccezionale, è stata al di sotto delle attese anche dello stesso premier. Il braccio di ferro sul si o il no al decreto con Tremonti, concluso con l'approvazione di un maxiemendamento alla legge di bilancio ha messo in evidenza il permanere di divergenze insuperabili all'interno dell' esecutivo. Una nuova lettera di frondisti del Pdl, con firme pesanti di esponenti di prima linea del partito, ha reso se possibile ancora più incerte le previsioni sui numeri delle prossime votazioni in Parlamento.

Ma soprattutto le consultazioni avviate dal Presidente della Repubblica al Quirinale hanno fatto capire che la tutela fin qui assicurata da Napolitano al governo sta venendo meno di fronte all'incapacità di Berlusconi di uscire dall'incertezza, prendere provvedimenti adeguati al crescente aggravamento della congiuntura e mantenere gli impegni presi di fronte all'Europa. E se le elezioni anticipate restano lo sbocco più probabile dell' ormai possibile caduta del governo, è come se il Capo dello Stato, con questo giro irrituale di consultazioni preventive all'incombente rischio di crisi, si sia rivolto anche ai parlamentari incerti del centrodestra per rassicurarli, consentirgli di votare secondo coscienza nei prossimi decisivi appuntamenti parlamentari, e poi trarne le conseguenze.

Dopo l'esito del G20 in cui prima Papandreou e poi Berlusconi vengono sottoposti a un severissimo esame, il dibattito al Senato convocato per martedi 8 e il successivo voto sul rendiconto di bilancio e sulle prime misure richieste dalla Ue ridiventano cosi l'occasione in cui davvero il governo si gioca tutto. E se tuttavia il Cavaliere riuscisse a prevalere a Palazzo Madama, la lista di firme che si allunga sotto il testo della lettera dei dissidenti del Pdl ingrigisce qualsiasi previsione sulla Camera, dove il rendiconto, già bocciato il mese scorso, arriverà entro metà mese.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9393


Titolo: MARCELLO SORGI. I rischi dell'agonia prolungata
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 05:32:26 pm
7/11/2011

I rischi dell'agonia prolungata

MARCELLO SORGI

I cittadini che - sentendo da giorni suonare le campane a morto per il governo e vedendo allungarsi la fila dei dissidenti che chiedono a Berlusconi di farsi da parte - si aspettavano legittimamente la crisi per domani, in occasione della prima votazione parlamentare alla Camera, resteranno delusi a sapere che anche stavolta la caduta del Cavaliere potrebbe essere rinviata: se ne riparlerà, probabilmente, a metà mese.

La ragione di questo inatteso allungamento dei tempi di un’agonia che diventa giorno dopo giorno più tragica è presto detta: un po’ per senso di responsabilità e un po’ per furbizia, le opposizioni, che sembravano pronte a presentare un’ennesima mozione di sfiducia contro il governo (l’ultima, appena il 14 ottobre, non era stata approvata per soli due voti), avrebbero deciso di schierarsi nel voto di domani con un’astensione. Il senso di responsabilità sta nel fatto che trattandosi di rivotare il rendiconto dello Stato, che non era riuscito a passare un mese fa, troppo forte sarebbe il rischio che una nuova bocciatura si traducesse in un incoraggiamento alla speculazione contro l’Italia, specie in giorni in cui il Paese proprio su questo terreno traballa, ed è sottoposto a una speciale sorveglianza dell’Europa e del Fondo monetario internazionale.

La furbizia invece consiste nell’aprire la strada, proprio con un’astensione che in pratica garantisce al governo l’approvazione del rendiconto, a tutti i possibili ripensamenti e ai franchi tiratori della maggioranza. Una sorta di liberi tutti rivolto ai dissidenti, per contarli, al di là dell’incerto registro che ha visto molti di loro ondeggiare nelle ultime ore, specie a causa del pressing che Berlusconi in persona, appena rientrato a Roma, per un intero weekend ha somministrato loro in dosi massicce e con l’aggiunta di lusinghe, promesse e offerte di quelle che non si possono rifiutare. Piuttosto che ritrovarsi come ad ottobre, con un paio di dissidenti pentiti che all’ultimo momento entrano in aula e votano la fiducia, magari per diventare sottosegretari due ore dopo, le opposizioni sperano, con l’astensione, di portare Berlusconi a ottenere l’approvazione del rendiconto con un numero di voti sufficienti, sì, ma non bastanti a poter dire di contare ancora sulla maggioranza dei fatidici 316 voti, la metà più uno dei deputati della Camera.

La speranza, a quel punto, è che il Cavaliere prenda atto che non può governare un passaggio così difficile come quello che il Paese sta attraversando con l’appoggio di una maggioranza che, non solo è esile, ma non può più nemmeno dirsi tale. E di conseguenza, dimostrando a sua volta il senso di responsabilità che l’opposizione avrebbe manifestato con l’astensione, si rechi finalmente al Quirinale a dimettersi, senza aspettare l’onta di essere battuto in una delle successive votazioni e senza costringere di nuovo l’opposizione a proporre un’altra mozione di sfiducia.

Ora, sarà tutto da vedere se un sottile gioco parlamentare come questo, e il «gentlemen’s agreement» che dovrebbe consentire a Berlusconi un’uscita incruenta, possano essere capiti dai mercati internazionali, che da mesi ormai si interrogano sulla capacità dell’Italia di far fronte alla crisi economica con strumenti adeguati e con una capacità decisionale degna di un momento così grave. Già stamattina i sensibili indicatori a cui il Paese vive appeso da settimane, con gli occhi all’altalena dei tassi di interesse, degli spread e dei cambi, potrebbero dire che non è così. Ma altrettanto forte è il rischio che Berlusconi per primo, come ha fatto in questi giorni, non se ne dia per inteso. E invece di far buon viso a cattivo gioco e incamminarsi per la dolente strada delle dimissioni, incassi l’approvazione del rendiconto e continui a dispetto di tutti - e prima ancora del Paese - nella sua incomprensibile resistenza.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9405


Titolo: MARCELLO SORGI. Le divisioni portano alle urne
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2011, 10:01:25 am
8/11/2011 - TACCUINO

Le divisioni portano alle urne

MARCELLO SORGI

Alla fine di una giornata convulsa in cui Berlusconi ha dovuto smentire più volte l'ipotesi di dimissioni, confermando, in caso di caduta, che farà di tutto per andare ad elezioni, l'accelerata della Lega verso la crisi è giunta come il segno vero della fine. Il «no» del premier al Carroccio non rimedia alla frattura che s'è aperta platealmente con la visita del ministro Calderoli ad Arcore, da dove il Cavaliere, dopo un ultimo vertice con i suoi familiari, aveva annunciato che porrà nuovamente la mozione di fiducia sulla lettera di intenti inviata a Bruxelles per sfidare i «traditori» e garantire gli impegni dell'Italia sulle riforme.

La votazione di oggi sul rendiconto di bilancio alla Camera si risolverà dunque in un passaggio senza sorprese, con l'astensione dell' opposizione che ne consentirà comunque l'approvazione, e allo stesso tempo sarà un test per capire fino a che punto i dissidenti del centrodestra sono riusciti a sgretolare la fragile maggioranza berlusconiana.

Di qui alla prossima settimana invece, tutti gli sbocchi sono possibili. L'aggravamento della posizione italiana sul fronte dei mercati potrebbe anche non consentire di aspettare i tempi del Parlamento e spingere ulteriormente verso le dimissioni del premier. Non a caso nei corridoi di Montecitorio si parla apertamente del dopo-Berlusconi. Le elezioni restano la prospettiva più probabile, vista la difficoltà di formare un nuovo governo. Pdl e Lega sono contrari a un esecutivo di larghe intese, chiesto invece da Casini e dal Pd. Di Pietro punta dichiaratamente sullo scioglimento e sul voto anticipato.

La ricomposizione della maggioranza di centrodestra sui nomi di Letta e Alfano non basterebbe più a un allargamento della maggioranza all'Udc, a cui tra l'altro la Lega è contraria. Sotto sotto, dalla pancia del Pdl, sale anche la tentazione di lasciare all'asse CasiniBersani il compito di tentare le larghe intese (non tanto larghe per la verità) con le frange di dissidenti che si incaricheranno dell'abbattimento di Berlusconi, e di mettere in pratica le politiche rigoriste chieste dall' Europa. E il centrodestra? All'opposizione per un anno, per tentare la rivincita nel 2013.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9411


Titolo: MARCELLO SORGI. Dieci giorni utili per giocarsi un'altra chance
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2011, 05:53:43 pm
9/11/2011 - TACCUINO

Dieci giorni utili per giocarsi un'altra chance

MARCELLO SORGI

Nel mediocre finale della sua stagione, Berlusconi punta alle elezioni e a usare in chiave elettorale i dieci-quindici giorni necessari ad approvare la legge di stabilità e il maxiemendamento contenente le misure anticrisi concordate con l’Europa. La replica al comunicato con cui il Quirinale, dopo tre quarti d’ora di colloquio tra il premier e il Capo dello Stato e dopo il deludente voto sul rendiconto, ha fissato i tempi della crisi, non lascia dubbi. A Napolitano che annunciava l’intesa sulle dimissioni e subito dopo l’apertura delle consultazioni, Berlusconi ha risposto mettendo le mani avanti rispetto all’ipotesi di un governo di larghe intese e alla possibilità che in questo modo possano entrare in un nuovo governo di fine legislatura i partiti usciti sconfitti alle elezioni del 2008. Era un chiaro avvertimento a evitare qualsiasi formula di ribaltone che troverebbe ciò che rimane del centrodestra all’opposizione.

Ed è anche uno dei pochi punti su cui ancora regge l’asse tra Berlusconi e Bossi, dopo che il Senatur, senza neppure aspettare l’esito del voto della Camera, ha suggerito di tentare la carta di un governo Alfano, pur sapendo che in questa fase il premier non è favorevole a questo sbocco perché non vuole bruciare il suo pupillo. Piuttosto Berlusconi vuole vendicarsi della funesta giornata di ieri, dimostrando al Senato che è il centrosinistra ad essere indisponibile ad accogliere le riforme chieste da Bruxelles, e poi impostando la campagna elettorale, sull’abbattimento da parte della sinistra del suo governo, proprio mentre era impegnato a fronteggiare la crisi.

E tuttavia di qui allo scioglimento delle Camere, che anche abbreviando i tempi non potrebbe avvenire prima di un mese, tra impegni parlamentari, consultazioni ed eventuale incarico per un altro governo, se ne vedranno delle belle, anche se Napolitano ha intenzione di limitare al massimo i giochi. Mentre Casini (vero vincitore di questa mano), Bersani e Di Pietro, al di là delle posizioni ufficiali, non vedono l’ora di andare alle urne, mezzo Pdl e mezza Lega frenano con tutte le loro forze. Di andare alle urne per perdere, come dicono i sondaggi e com’è probabile, e poi ritrovarsi all’opposizione con i due rispettivi leader stracotti che insistono a voler comandare, non hanno alcuna voglia, ma non sanno come fare per evitarlo. Più che un governo, infatti, con due mezzi partiti si fa un governicchio.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9415


Titolo: MARCELLO SORGI. Addio poli si torna al centro
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2011, 04:56:54 pm
11/11/2011

Addio poli si torna al centro

MARCELLO SORGI

Se davvero, malgrado le fibrillazioni di queste ore, si arriverà domani all’approvazione della legge di stabilità e alle dimissioni di Berlusconi, domenica all'incarico a Monti e lunedì, o al massimo martedì, alla presentazione del nuovo governo, non saremo solo di fronte a uno dei più imprevedibili capovolgimenti della recente vicenda politica italiana, ma a qualcosa di più.

Infatti, sotto l’incalzare dei mercati internazionali, degli spread e delle ansie da titoli pubblici, in meno di una settimana e in un colpo avremo assistito insieme alla fine della Seconda Repubblica e della rivoluzione italiana.

Basta solo guardare quel che sta accadendo, per capire che la lunga infinita transizione che si trascinava da quasi vent’anni, invece di approdare a uno sbocco, sta finendo con l’autodistruzione di tutto ciò che pareva consolidato, ancorché incompiuto. Scompare il bipolarismo, cancellato dalle larghe intese, seppure nella versione tecno-politica imposta dal Quirinale, nell’ora dell’emergenza, con la scelta di un personaggio, come Monti, tra i pochi che possono ridare credibilità al Paese sul piano internazionale e mettere in pratica le riforme necessarie, chieste dall’Europa e finora edulcorate o rinviate. Le due coalizioni di centrodestra e centrosinistra, pilastri fragili dell’alternanza di governo in questi anni, sono implose: a destra e a sinistra, la Lega da una parte e l’Idv dall’altra vanno all’opposizione, mentre Pdl e Pd simmetricamente andranno a sostenere il nuovo governo. Che non lo faranno a cuor leggero, è evidente, e altrettanto che i mugugni e le sofferenze che si levano dalla pancia dei due maggiori partiti non sono destinati ad essere riassorbiti tanto facilmente.

Dopo ore e ore di vertici infruttuosi, il segretario del Pdl Alfano ha ammesso che il partito è spaccato. Incredibilmente, i dissidenti berlusconiani di oggi rivolgono al loro leader un’accusa molto simile a quella che gli faceva il centrosinistra ai tempi della discesa in campo, quando lo attaccava sul conflitto di interessi. Gli avversari di Berlusconi dicevano allora che Berlusconi aveva fondato il partito per salvare le sue aziende; oggi i suoi ex amici sostengono che per la stessa ragione se l'è venduto, e per questo ha deciso di aprire a Monti e al governo di larghe intese.

Ma anche dentro il Pd il travaglio è forte, mitigato appena dalla sordina del rispetto aggiuntivo dovuto a un Capo dello Stato che proviene dalle file della sinistra. La svolta pro Monti si porta dietro la rinuncia a una tornata elettorale in cui dopo molto tempo l’alleanza Pd-Idv-Sel partiva favorita; alla candidatura alla premiership di Bersani che in queste condizioni pareva possibile; al probabile aggancio di Casini e del Terzo polo, perseguito da anni e solo adesso giunto a maturazione.

Una dopo l’altra, con la rottura delle alleanze, vacillano ambizioni che parevano certezze e tutti davano quasi per scontate: non c’è più uno andrà al governo e l’altro all’opposizione il ticket Alfano-Maroni che doveva mandare in pensione l’assai usurato tandem Berlusconi-Bossi e aprire dopo un ventennio il ricambio generazionale nel centrodestra. È divisa anche la pattuglia di pretoriani ex An fino a ieri stretta attorno al Cavaliere: Gasparri resterà, se ne andrà La Russa, insospettito dal peso che la componente Cl di Formigoni e Lupi potrebbe avere nel nuovo governo, Matteoli e Alemanno sono già lontani, fedeli al motto mai al governo con i comunisti. Mentre Vendola, a sorpresa, e manco a farlo apposta, ha annunciato che sosterrà Monti.

I partiti liquidi, leggeri, evanescenti, fatti solo di comunicazione e presenze televisive, sono in via di scioglimento. Alla fine l’unica idea forte in questa fase, che accomuna il malessere di tanti ex diversi tra loro, è la convergenza al centro. Tutti gli ex democristiani di ogni parte ne avvertono il richiamo irresistibile. La resurrezione in qualsiasi forma della Dc, che fino a un mese fa sembrava solo il miraggio di alcuni nostalgici, ora invece prende forma. Sembra impossibile che come la fine della Prima Repubblica era scoccata con la spaccatura dello Scudocrociato tra sinistra e destra e il processo per mafia contro Andreotti, la fine della Seconda è segnata dal ritorno di Pomicino che riporta a casa la Carlucci.

Se il professor Monti non avesse già un bel da fare con la crisi economica e con la necessità di riguadagnare al più presto la fiducia dei mercati, sono tutti lì ad aspettare che magari in un intervallo delle consultazioni dica una parola sul proporzionale. Ma anche se non la dirà, questo è il logico approdo di quel che sta accadendo: il centrismo dopo anni di destra e sinistra incapaci di governare; i partiti, quelli veri, dopo le coalizioni tenute insieme a forza dagli stati di necessità. E un sistema elettorale normale, il più normale di tutti, che consenta a ciascuno di stare per conto suo e ricominciare a tessere, se ne è capace, la vecchia e intramontabile tela della politica.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9423


Titolo: MARCELLO SORGI. La trattativa è appena cominciata
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2011, 07:26:06 pm
14/11/2011 - TACCUINO
 
La trattativa è appena cominciata
 
MARCELLO SORGI
 
Nel giorno dell'incarico a Monti, gli interventi dei tre protagonisti attorno a cui ruota questa crisi hanno segnato una messa a punto del tentativo di formare un governo in grado di fronteggiare la crisi economica e l'attacco dei mercati finanziari all'Italia.

Cominciamo da Berlusconi. All'indomani delle dimissioni, della celebrazione del suo addio e delle folle vocianti contro di lui fin sotto il Quirinale, il premier uscente ha registrato un videomessaggio a Palazzo Chigi per dire che resta in campo e per far capire che senza il suo assenso il governo Monti non può nascere. Era scontato, ma le conseguenze si sono viste alle consultazioni al Quirinale, quando il segretario del Pdl Alfano ha dato, sì, via libera all'incarico a Monti, ma ha condizionato la fiducia del suo partito a tempi e modi della formazione del governo ancora da concordare.

La replica di Monti, appena incaricato, è stata l'annuncio di un nuovo giro di consultazioni e una sottolineatura del ruolo del Parlamento nella nascita del governo. Il governo insomma potrà essere tecnico tutto o in parte (questo Monti non lo ha detto) ma necessariamente politico e negoziale dovrà esserne il processo di formazione.

Di qui, oggi e domani, altri due giorni di lavoro e di trattative con i partiti prima di presentare la lista. Un allungamento dei tempi? Napolitano, già irritato per il toto-ministri prima dell'incarico, tanto da precisare con una nota ufficiale che il Quirinale non vi prendeva parte, ha negato che sia così. E ha spiegato che non era realistico immaginare che il governo potesse nascere in due ore e nella stessa sera dell'incarico. Ha inoltre voluto ricordare in termini drammatici i dati dell' emergenza, a partire da quei duecento miliardi di titoli di Stato da rinnovare di qui ad aprile.

Così il tentativo di Monti va avanti e non ha alternative. Ma da tutto quel che é stato detto, e dall'insieme dei tre interventi di ieri di Berlusconi, Monti e Napolitano, si ricava che incontra anche qualche difficoltà. Nulla che possa impedirne la nascita, ma qualcosa che necessariamente interverrà sul carattere e sull'identità del nuovo esecutivo. Sarà anche per questo che l'incaricato, mentre è stato estremamente preciso sui compiti e sugli obiettivi del governo che si accinge a formare, non è entrato nel merito della durata e ha parlato dei nomi che circolano dei probabili ministri come frutto di fantasia. Segno che almeno su questo terreno la trattativa è ancora tutta da fare.

 
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9436


Titolo: MARCELLO SORGI. Politici, vil razza desiderata
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2011, 11:56:54 am
15/11/2011 - TACCUINO

Politici, vil razza desiderata

MARCELLO SORGI

Il tono del nuovo appello del Presidente Napolitano non lascia dubbi: nel primo giorno di consultazioni dopo l'incarico il tentativo del professor Monti ha incontrato difficoltà. Di qui l'accenno del Capo dello Stato al momento "cruciale". Monti ha visto i rappresentanti dei partiti minori e non ha potuto incontrare la Lega, dato che Bossi, per confermare la scelta di stare all'opposizione, se l'è sbrigata con una telefonata. A tutti ha detto che non accetterebbe limiti temporali.

La questione che via via s'è complicata, in una giornata in cui la stretta dei mercati non accennava ad allentarsi, è quella dei ministri politici. A sorpresa Monti ha detto ai suoi interlocutori che la sua preferenza non era per un governo tecnico, ma se possibile composto anche da esponenti dei partiti, che avrebbero garantito meglio il raccordo con la larga maggioranza che dovrebbe sostenere l'esecutivo. Su questo, Di Pietro ha confermato il suo no e Rutelli il si del Terzo polo, mentre il Pdl, il cui vertice siede in permanenza a Palazzo Grazioli con Berlusconi, ha fatto sapere che è indisponibile.

Appesantito dalle indiscrezioni circolate prima dell'incarico e poi dal veto del Pd contro Gianni Letta, il problema dei ministri politici è diventato così difficile da risolvere proprio mentre Monti si rendeva conto che un governo tutto tecnico, nella situazione attuale, non riuscirebbe a muoversi agevolmente in un Parlamento attraversato dalle tensioni di fine legislatura. D'altra parte, Pdl e Pd sembrano ormai indisponibili ad impegnarsi in prima persona. Dopo aver preso male il veto contro Letta - emerso mentre circolavano nomi di probabili ministri di forte personalità politica di centrosinistra come Amato e Veronesi - il partito di Berlusconi punta a delimitare al massimo il terreno dell'accordo con Monti, limitandolo nel tempo e nel programma, a cominciare dall'esclusione della patrimoniale. Ma anche all'interno del Pd, al di là delle posizioni ufficiali, i mal di pancia sulle larghe intese sono forti: e a parte la contrarietà a Letta, che a giudizio di Bersani avrebbe dato troppo il segno di una continuità con il governo uscente, esistono riserve sui grandi nomi riconducibili al centrosinistra e una pregiudiziale sull'equità delle misure anticrisi, che eviti la rigida applicazione delle richieste di Bruxelles. Monti tuttavia ieri sera ha cercato di non drammatizzare: l'importante, ha spiegato, è che il governo possa godere di un largo appoggio a sostegno delle misure che dovrà prendere, e senza espliciti limiti temporali. Che tipo di appoggio e a quali misure, si vedrà oggi, dopo gli incontri con Pdl e Pd.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9440


Titolo: MARCELLO SORGI. Partiti non è tempo di veti
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2011, 11:45:46 am
16/11/2011

Partiti non è tempo di veti

MARCELLO SORGI

Se davvero, come dicono tutti (tranne Monti), la presentazione della lista dei ministri è stata rinviata da ieri sera a stamane per decidere se anche Gianni Letta e Giuliano Amato entreranno nel governo, dando così un connotato più politico a un esecutivo che s’annuncia tecnico, converrà approfondire il caso sul quale da tre giorni si consumano le energie dei principali protagonisti della crisi, da Napolitano all’incaricato, a Berlusconi e Bersani.

Il paradosso di questa storia è che a voler richiamare in servizio l’ormai ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nonché capo operativo del governo uscente, Letta, e il due volte presidente del Consiglio Amato, è in prima persona Monti, che non avrebbe potuto insistere su questo punto se anche il Capo dello Stato non fosse stato d’accordo.

Napolitano, si sa, ha smentito nella prima fase delle trattative di essersi occupato dei nomi della lista, che sarà l’incaricato a scegliere. Ma adesso che la crisi è finita e il Presidente, a norma dell’articolo 92 della Costituzione, dovrà, su proposta di Monti, nominare i ministri, dovrà pronunciarsi anche lui. A maggior ragione dato che quello di Monti sarà, a tutti gli effetti, un «governo del Presidente»: un esecutivo, cioè, voluto dal Capo dello Stato per far fronte a un’emergenza eccezionale, prima ancora che dai partiti che dovranno dargli la fiducia in Parlamento.

In realtà, al di là delle smentite di rito, Napolitano in questi giorni si è adoperato, non per aprire la porta del governo a Letta e Amato, compito che d'altra parte non gli tocca. Ma per sminare il percorso di Monti dai veti contrapposti che i due maggiori partiti che dovrebbero formare la maggioranza di larghe intese avevano manifestato. Veti capziosi in sé, al di là delle persone che riguardavano, perché tendevano a riportare la formazione del governo nell’alveo classico della contrattazione partitocratica tipica delle vecchie crisi.

Era evidente, in altre parole - ed era il secondo aspetto paradossale di questa storia - che Bersani e Berlusconi si opponevano rispettivamente a Letta e Amato perché, rafforzando la squadra di governo, avrebbero indebolito il loro potere di ritirare a Monti l’appoggio in tempi brevi, per tornare alle urne il più presto possibile. Di qui, tra l’altro, le polemiche parallele sulla necessità (secondo il Pdl) di imporre, oppure (secondo il Pd) di non imporre, un termine temporale, oltre che un vincolo programmatico al governo. E se questo è quel che è emerso pubblicamente in tre giorni, chissà quanti e quali altri cavilli e distinguo devono essere stati fatti nelle lunghe ore delle consultazioni. Inoltre, sarà pure un dettaglio, ma i veti contro Letta e Amato hanno toccato punte di sgradevolezza ingenerose, nei confronti di due servitori di lungo corso delle istituzioni: come quando, appunto, Bersani ha ribadito varie volte la necessità di una completa discontinuità della compagine ministeriale, o quando Rosy Bindi ha dichiarato che in nessun caso Amato poteva essere messo in conto al Pd, o Gasparri ha chiuso sbrigativamente all’ipotesi che potesse rientrare al governo chi aveva avuto precedentemente incarichi con il centrosinistra.

Nessuno che si sia posto il problema che, proprio per la loro caratteristica di essere stati, sì, al governo, ma con una coloritura politica assai più sbiadita di tanti loro colleghi, e con una competenza spesso superiore, Letta e Amato sono l’ideale per accompagnare Monti in un cammino che è forse il più difficile mai attraversato da un governo in epoca repubblicana. O, quel che è peggio, forse è proprio tenendo in considerazione quest’aspetto che i maggiori partiti del governo e della maggioranza che stanno per nascere hanno costruito il loro sordo boicottaggio alle due candidature.

Ma almeno, alla fine del mediocre tira e molla che, come si diceva, ha allungato inutilmente i tempi di soluzione della crisi e nell’attesa ci è costato anche qualche punto in più di spread che poteva essere evitato, i termini della questione sono chiari. Per la loro esperienza e al di là delle loro precedenti collocazioni personali, Letta e Amato, se malgrado tutto riusciranno a entrare, saranno una garanzia di maggior solidità del governo. I veti dei partiti, benché resistenti, non possono contare in circostanze eccezionali come quelle attuali e nell’ambito di un governo che nasce garantito dal Capo dello Stato e per sua espressa volontà. Insomma non c’è più tempo da perdere: Monti decida. E soprattutto, finché può, faccia di testa sua.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9442


Titolo: MARCELLO SORGI. Per poter agire l'esecutivo avrà ancora bisogno dell'aiuto ...
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2011, 04:50:56 pm
17/11/2011 - TACCUINO
 
Per poter agire l'esecutivo avrà ancora bisogno dell'aiuto del Colle
 
MARCELLO SORGI
 
Se il buon giorno si vede dal mattino, un generale effetto sedativo sembra essersi diffuso sulla ultratormentata politica italiana dopo la nascita e l'insediamento del governo Monti. Non ha lasciato tracce neppure l'esclusione finale di Letta e Amato, per giorni al centro di un braccio di ferro tra il Quirinale, il neo-presidente del consiglio e i due maggiori partiti della maggioranza, conclusosi con il prevalere dei veti di Pdl e Pd.

Per larghissimo riconoscimento, il governo è composto da personalità di alto livello e competenze. Il passaggio delle consegne a Palazzo Chigi é avvenuto serenamente. L'inusuale riconoscimento che il Capo dello Stato ha voluto tributare pubblicamente a Berlusconi e a Letta ha ulteriormente disteso il clima. L'attesa è per il discorso programmatico che Monti pronuncerà stamane alle 13 al Senato. Ed è a questa scadenza che è legato il primo problema da risolvere.

Dopo le lunghe consultazioni che hanno preceduto la nascita del governo, i partiti della maggioranza si aspettano che il premier non si discosti dalle intese raggiunte, sia sul piano dei contenuti, sia su quello delle prospettive del governo. La governance di un esecutivo tecnico, spiegano, non può essere diversa, e Monti deve mettere in conto che qualsiasi nuova iniziativa dovrà essere concordata preventivamente. Ma se veramente un metodo del genere dovesse essere applicato, il governo non andrebbe molto lontano. Pertanto, oltre a elencare gli obiettivi, non solo economici, del governo, Monti oggi al Senato chiederà di avere larghi margini di autonomia per poter trattare con l'Europa un percorso di risanamento accompagnato dall'Italia con severe misure anticrisi.

Le linee di questo piano emergono già dai criteri seguiti per la formazione del governo: la scelta di Elsa Fornero, tra le maggiori esperte di problemi previdenziali, prelude alla proposta di di rimettere le mani sulle pensioni. L'accorpamento dei ministeri dello sviluppo economico e delle infrastrutture, affidati a Corrado Passera, lascia intuire l'ipotesi di un'accordo con le autorità europee: pareggio di bilancio in cambio dello sblocco dei fondi che, facendo ripartire i lavori pubblici, darebbero un immediato sprone alla crescita.

Il varo del governo Monti contrassegna il successo, riconosciuto da tutti, dell'impegno del Capo dello Stato per la soluzione della crisi. Napolitano è riuscito a realizzare un risultato che sembrava impossibile fino a una settimana fa, con un consenso generale e senza intoppi. Per questo sarà importante che anche nei prossimi mesi Monti possa contare sull'aiuto e la collaborazione del Presidente della Repubblica.

 DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9445


Titolo: MARCELLO SORGI. Serietà e Fragilità
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2011, 05:11:42 pm
Serietà e Fragilità

Se ci si dovesse limitare alle reazioni ufficiali, il destino di Mario Monti sembrerebbe segnato: in positivo, naturalmente.
Il placet corale che gli è arrivato dall'Italia e dall'Europa conferma il prestigio di cui gode il nuovo presidente del Consiglio italiano. I capi di Stato e di governo dei Paesi alleati tradiscono una grande ansia di coinvolgerlo. Ai loro occhi, Monti ha il merito di reinserire a pieno titolo nell'Unione Europea un interlocutore prezioso, per ridurre il rischio che l'Ue sia schiacciata e sfigurata dal tandem franco-tedesco. Ma l'impasto di serietà, competenza e affidabilità che caratterizza il suo profilo, impone di chiedersi se non permanga anche una fragilità politica.

Si tratta di un aspetto da non tacere, nel momento in cui le aspettative nei confronti del premier e del suo esecutivo tecnico appaiono enormi. Probabilmente, fra oggi e domani Monti riceverà una larga fiducia dal Parlamento. E ha già detto di sentire il dovere e di coltivare l'ambizione di proiettarsi fino al termine della legislatura: l'unico modo per sperare che le misure economiche in incubazione riequilibrino un'Italia sbilanciata pericolosamente dal suo debito e dall'assenza di crescita. Ma proprio per questo non si possono ignorare le incognite con le quali dovrà fare i conti. Per neutralizzarle, Monti ha ripetuto il verbo «rasserenare». Si rivolgeva alla politica e ai mercati.

Non a caso. Il capo del governo sa che l'atteggiamento dei partiti è dettato da una miscela di convinzione e di costrizione; e che un anno e poco più li separa comunque dalle elezioni. Sa anche che la strada della coalizione incrocerà l'ultimo anno di mandato del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, vero artefice dell'operazione Monti; e che quando si intravedono scadenze così strategiche, lo sfondo può intorbidirsi e incresparsi rapidamente. La terza incognita sono i referendum elettorali di primavera, se saranno ammessi dalla Corte costituzionale. E in questo caso il rischio che le tensioni tra e dentro i partiti si scarichino su Palazzo Chigi sarebbe inevitabile.

Sullo sfondo rimane una situazione finanziaria in bilico. L'Europa sembra puntare molto sul «ritorno» dell'Italia, se di ritorno si tratta, per tentare una controffensiva contro la speculazione meno frustrante di quanto sia stata finora. Ma Monti è consapevole del tempo che si è perso, e di quanto l'Italia sia percepita tuttora come un Paese sotto osservazione. Dovrà convincere l'opinione pubblica interna che è il momento di farsi «formiche» serie e operose, dopo una stagione di diritti non compensati da un diffuso senso del dovere; e che la coesione sociale è davvero un fattore di sviluppo: almeno quanto la litigiosità lo è di regressione, facendo perdere energie, tempo e soldi.
Forse, l'incognita più grande è proprio questa: spingere l'Italia a ripensarsi. Ma se non ci si riesce, sarà difficile pretendere che gli altri cambino idea su di noi.

Massimo Franco

17 novembre 2011 | 9:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_17/serieta-e-fragilita-massimo-franco_3b4f7ce0-10e3-11e1-b811-fb0a2ca90bde.shtml


Titolo: MARCELLO SORGI. Un'opposizione aperta e una sotterranea
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2011, 10:42:34 am
18/11/2011 - TACCUINO

Un'opposizione aperta e una sotterranea

MARCELLO SORGI

Al suo esordio in Senato, Monti s’è trovato di fronte all’aperta e intransigente opposizione leghista e a quella sotterranea ma non meno dura di Berlusconi. Mentre i senatori del Carroccio in aula davano luogo a contestazioni tacitate a stento dal presidente, il Cavaliere con i suoi s’è sfogato dicendo che la nascita del nuovo governo contrassegna una sorta di sospensione della democrazia, che il Pdl potrà tollerare non a lungo e che a un certo momento si riserva di interrompere, per tornare ad elezioni.

Imperturbabile come sempre in questi giorni, Monti ha scelto di rispondere solo alla Lega, spiegando che il suo non può essere considerato il governo dei "poteri forti" e ricordando come in passato, quando faceva il commissario europeo, sia stato in grado di dimostrare la sua autonomia anche da interessi fortissimi come quelli delle multinazionali. A Berlusconi penserà oggi, quando invece delle indiscrezioni che arrivano da Palazzo Grazioli potrà ascoltare nell’aula della Camera il suo predecessore. Ma è chiaro che, se confermato anche pubblicamente, l’appoggio intermittente del leader Pdl per il neo-presidente del Consiglio rischia di trasformarsi nel problema numero uno.

Il discorso programmatico, che conteneva accenni chiari alla necessità di nuove tasse sulla casa e di ritocchi al sistema delle pensioni, in linea con la necessità di riguadagnare credibilità in Europa, ha avuto come si prevedeva un’accoglienza positiva da parte della nuova larga maggioranza che sosterà il governo, e in particolare da Casini e Bersani. Il leader del Terzo Polo, che più di tutti ha voluto la nascita del nuovo esecutivo tecnico dopo le dimissioni di Berlusconi, ha anche aggiunto che gli avvertimenti dell’ex premier sulla durata del governo sono fuori dalla realtà: l’emergenza è tale che occorre lasciare Monti in grado di lavorare serenamente fino alla conclusione della legislatura. Bersani ha ribadito che è sbagliato porre limiti di durata al governo. E mentre Di Pietro si prepara oggi a Montecitorio a dare una specie di fiducia condizionata, Vendola, che pure non è presente in Parlamento, s’è schierato comunque all’opposizione, annotando la differenza di toni del nuovo presidente del Consiglio, ma criticando la sostanziale continuità politica e programmatica, soprattutto in materia economica.

Nel suo primo giorno di lavoro Monti ha inoltre incassato una serie di segnali incoraggianti da parte di importanti partners europei. Uno dopo l’altro la Merkel, Barroso e Van Rompuy hanno voluto dare attestati di fiducia all’Italia, in attesa di vedere al lavoro il nuovo governo nei prossimi appuntamenti dell’Unione.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9450


Titolo: MARCELLO SORGI. Il valore del vincolo europeo
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2011, 12:36:14 pm
22/11/2011 - TACCUINO

Il valore del vincolo europeo

MARCELLO SORGI

Prevedibile finché si vuole, la differenza di toni con cui ieri il governo e il sindaco Alemanno hanno annunciato ieri il decreto legislativo per Roma Capitale era evidente. Mentre il sindaco si divideva tra una tv e l’altra, il consiglio dei ministri ne ha dato notizia in uno scarno comunicato in cui ha riferito anche che Monti, in parte della seduta ha ripetuto le considerazioni fatte a conclusione del dibattito sulla fiducia sull’importanza del ruolo del Parlamento, e in parte informato degli appuntamenti fissati a Bruxelles con Barroso e Van Rompuy e dei previsti incontri con Merkel e Sarkozy.

Benché la giornata di Borsa e i mercati non siano stati affatto incoraggianti, è chiaro che Monti attribuisce un’importanza decisiva alla sua missione in Europa. Anche se non è immaginabile che possano sortirne subito novità in termini di nuovi accordi, già solo il ristabilimento di rapporti formali regolari e di un clima di reciproca fiducia dovrebbero pesare su una situazione che rimane di emergenza.

Da un’evoluzione dello scenario europeo per l’Italia, inoltre, Monti, che a dispetto della natura tecnica del suo governo ha già dimostrato di avere una chiara visione politica, potrebbe ricavare un chiarimento dei rapporti con i partiti della sua larga maggioranza, non del tutto rasserenati dopo la svolta che ha portato alla caduta di Berlusconi. Le maggiori turbolenze riguardano i provvedimenti che il governo si accinge a presentare, dall’inasprimento delle tasse sulle case e dell’Iva alla riforma delle pensioni, e la scelta dei sottosegretari, sulla quale ancora una volta i partiti vorrebbero influire.

In questo quadro i risultati della missione europea saranno nevralgici. Al ritorno da Bruxelles e dopo gli incontri con i colleghi tedesco e francese, Monti potrebbe rafforzare la sua teoria del «vincolo esterno», spiegando a tutti i suoi interlocutori, politici e parti sociali, che il Paese ha in realtà margini molto ristretti di manovra in un quadro in cui la credibilità italiana dipenderà essenzialmente dalla capacità di realizzare le riforme chieste dall’Europa e fin qui rinviate. Un modo esplicito per capovolgere le polemiche, che, soprattutto da destra, tendono a presentare il nuovo governo come strumento di un’insopportabile sospensione del normale funzionamento democratico del sistema e di una sorta di desovranizzazione a favore del supergoverno franco-tedesco. Se davvero di questo si dovesse trattare, si prepara a obiettare Monti, la causa starebbe nella cattiva politica che ha dominato fin qui. E che solo un comportamento rigoroso dell’Italia potrebbe consentire di rimuovere.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9468


Titolo: MARCELLO SORGI. Un governo a geometria variabile
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2011, 12:31:00 pm
23/11/2011 - TACCUINO

Un governo a geometria variabile

MARCELLO SORGI

Riproposta ieri dalla discussione seguita all’intervento del Capo dello Stato sulla cittadinanza ai figli degli immigrati, la questione delle maggioranze variabili, o se si preferisce della piena agibilità del Parlamento in presenza di un esecutivo tecnico e in assenza di stretti vincoli politici di maggioranza, data da prima della nascita del governo Monti. Era stato lo stesso professore a parlarne in un’intervista prima di divenire premier. E in linea teorica, non si vede quale possa essere l’impedimento a discutere ed eventualmente votare con maggioranze diverse, che si formino in Parlamento al termine di un libero dibattito, provvedimenti sui quali esistono posizioni diverse tra partiti che invece si ritrovano insieme a sostenere il governo tecnico.

Chiarissimo, a questo proposito, l’esempio della cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia fatto da Napolitano, che troverebbe a favore nelle Camere Pd, Fli e parte dei cattolici che militano nel centrodestra e nel centrosinistra, mentre si scontrerebbe con l’opposizione intransigente, ma probabilmente minoritaria, della Lega e di parte del Pdl. E mentre fino a un mese fa il confine rigido tra i due poli avrebbe impedito a molti deputati e senatori di votare secondo coscienza, oggi un’eventuale legge potrebbe essere messa all’ordine del giorno e approvata in tempi brevi.

Ma che succederebbe se Monti provasse ad usare lo stesso metodo per far passare, poniamo, la riforma delle pensioni accettata dal Pdl e dai centristi e osteggiata da parte della sinistra, oppure la patrimoniale, sulla quale potrebbero convergere Pd e Udc, scontando la fiera contrarietà dei berlusconiani?

Qui la faccenda diventa più delicata, perché in caso di tentazioni elettorali di una parte o dell’altra, l’eventuale messa in discussione di un provvedimento controverso potrebbe fornire l’occasione di aprire una crisi, che fatalmente scivolerebbe nello scioglimento anticipato delle Camere. Al di là delle intenzioni manifestate nel discorso di presentazione alle Camere su cui ha ottenuto la fiducia, Monti dovrà quindi muoversi con cautela, rodando con attenzione il meccanismo della trattativa tecnica con i partiti che lo sostengono. Ma anche se è difficile immaginare fino a che punto potrà spingersi la trattativa e quali potrebbero esserne gli esiti, non c’è dubbio che la novità del governo tecnico ha rimesso in discussione sia equilibri politici consolidati sia i confini interni ed esterni dei partiti. In sedici mesi, quanti ne mancano alla scadenza naturale della legislatura, i risultati di un movimento del genere, appena cominciato, potrebbero rivelarsi imprevedibili.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9472


Titolo: MARCELLO SORGI. Tra i politici rispunta la voglia di elezioni
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2011, 06:36:49 pm
24/11/2011 - TACCUINO

Tra i politici rispunta la voglia di elezioni

MARCELLO SORGI

Colazione con i presidenti delle Camere, pomeriggio con il Capo dello Stato: al ritorno da Bruxelles e alla vigilia del suo incontro con Merkel e Sarkozy oggi a Strasburgo, Monti sembra preoccupato di assicurarsi il massimo di collaborazione istituzionale e garantirsi un iter spedito dei provvedimenti che si accinge a presentare in Parlamento. Sia Fini che Schifani si sono impegnati in questo senso.

Ma al di là della corsia preferenziale che le misure anticrisi del governo dovrebbero trovare alla Camera e al Senato, è il contenuto degli interventi che deve ancora essere messo alla prova del consenso dei partiti che hanno votato la fiducia a Monti. Dai quali partiti, giorno dopo giorno, arrivano segnali di fibrillazione preoccupanti. Ad esempio, non si farà il vertice a tre - Alfano, Bersani, Casini - che doveva servire a stabilire un accordo di massima almeno sull'agenda dei lavori. Il presidente del Consiglio incontrerà separatamente i leader della sua maggioranza, nel tentativo di definire rapidamente il da farsi. Il più presto possibile: questo è infatti l'imperativo che viene dall' Europa e che scandisce queste giornate in cui la febbre dei mercati non accenna a placarsi. Ieri anche per la Germania c'è stata una brutta sorpresa: l'asta dei titoli pubblici, i temutissimi «bund», è andata quasi deserta.

Nessuno è in grado di prevedere con qualche margine di certezza come potrebbe influire nei prossimi giorni un evento del genere nell'atteggiamento della Merkel, che oggi Monti avrà modo di verificare personalmente. Ma le difficoltà di stabilire una strategia comune contro la crisi a livello europeo, in quest'ambito, sono destinate a crescere, e lo scetticismo dei partiti italiani altrettanto. Non a caso il Pdl ha minacciato di far cadere il governo, in conseguenza dell'iniziativa del Pd, dopo la sollecitazione di Napolitano, favorevole a dare la cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia. Nelle stesse ore si apriva nel Pd il cosiddetto «caso Fassina», dal nome del responsabile economico di cui sono state chieste le dimissioni da alcuni esponenti dell'area liberal del partito, perché più volte nei giorni scorsi aveva preso posizione contro le misure annunciate da Monti in Parlamento. Bersani ha cercato di difenderlo anche per non dare per scontato un sostegno senza negoziato a Monti. Così sta diventando chiaro che per il presidente del Consiglio la strada del governo si presenta in salita anche più di quanto si poteva prevedere. Anche perché le tentazioni elettorali nei partiti sono tutt'altro che sopite.


da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9477


Titolo: MARCELLO SORGI. Tra Bruxelles e questioni spinose di sottogoverno
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2011, 10:53:02 pm
25/11/2011 - TACCUINO

Tra Bruxelles e questioni spinose di sottogoverno

MARCELLO SORGI

Polemiche su sottosegretari e mancato completamento della squadra di governo, nonché sui contenuti dei colloqui tra Monti, Sarkozy e Merkel, hanno rischiato di incrinare, ieri, l’esito in larga parte soddisfacente della delicata missione a Strasburgo del presidente del consiglio. Non che ci si potesse attendere qualcosa di risolutivo dall’incontro con il presidente francese e la cancelliera tedesca. Ma se l’obiettivo, appunto, era il ristabilimento di relazioni nevralgiche che negli ultimi tempi del governo Berlusconi si erano interrotte, dando luogo a decisioni che passavano sulla testa dell’Italia, danneggiandola, il risultato, stando proprio alle dichiarazioni di Merkel e Sarkozy, poteva considerarsi raggiunto, fermo restando un disaccordo di fondo, che permane, sul ruolo della Bce e sull’eventuale emissione di eurobond come misura anticrisi.

Ma proprio l’affermazione della Merkel sulle coraggiose misure che Monti avrebbe esposto nel corso della riunione a Strasburgo ha innescato a Roma curiosità politiche, a cominciare da quelle del centrodestra (Cicchitto), che sollecitava il governo ad informare il Parlamento e riceveva da Palazzo Chigi la precisazione che nessuna particolare rivelazione era stata fatta in sede europea.

A parte queste punture di spillo, resta ansiosa l’attesa della nomina dei sottosegretari. Il segretario del Pdl Alfano ci ha scherzato su, dicendo che gli aspiranti tecnici sono almeno il doppio di quanti erano i politici nel precedente governo Berlusconi, e tra l’altro in lizza per la metà dei posti. A un certo punto della giornata s’era diffusa voce che Monti avrebbe definito la lista al ritorno da Strasburgo, per presentarla al consiglio dei ministri di oggi. Poi, anche in questo caso, la precisazione che la nomina dei sottosegretari non è all’ordine del giorno: se ne riparlerà lunedì, al termine di un altro week-end di lavoro per il presidente.

Sullo sfondo, si percepisce la polemica, non risolta, sulla natura politica o tecnica dei sottosegretari. Ci sono spinte contrapposte in tutte e due le direzioni, e Monti ha fatto sapere che intende procedere con il suo metodo, esaminando i curriculum e a partire dal criterio di non riciclare gente che abbia già fatto parte di altri governi. Metodo e criterio destinati a lasciare molti scontenti sul campo e a costringere i partiti della maggioranza a rinunciare a candidature di diretta espressione e a scegliere nell’ambito di una nuova infornata di tecnici.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9481


Titolo: MARCELLO SORGI. L'ultimo assalto
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2011, 04:07:11 pm
29/11/2011

L'ultimo assalto

MARCELLO SORGI

Due settimane fa, al momento della nascita del governo, concepito in tre giorni, nessuno avrebbe immaginato che ci sarebbe volute due settimane per smaltire il successivo e in qualche modo conseguente assalto alle poltrone.

Ma è inutile nasconderlo: la lunghissima gestazione dei sottosegretari, culminata ieri sera nel parto faticoso di una lista di tecnici senza sorprese eclatanti - a parte la scelta, che ha già generato polemiche, del politico democristiano Giampaolo D’Andrea per i rapporti con il Parlamento -, sta a significare che i problemi, per il professor Monti, non sono solo sul fronte esterno della crisi dell'euro e della crisi economica, ma anche su quello interno dei partiti.

Tenuti a bada nel blitz, operato dal Quirinale, con cui il governo tecnico dell’ex-commissario Ue era stato insediato all'inizio del mese al posto del dimissionario Berlusconi, i componenti semiclandestini della maggioranza tripartita di larghe intese su cui l'esecutivo si regge sono andati all'arrembaggio delle superstiti cariche di viceministri e sottosegretari con brame degne di miglior causa. Da questo punto di vista, una sommaria lettura della lista segnala un bilanciamento romano del governo nato con un baricentro più spostato verso il Nord. Ma anche una forte resistenza del presidente del consiglio, che è riuscito a imporre le sue scelte sugli incarichi-chiave, a cominciare da quello del viceministro all’Economia, Vittorio Grilli, già direttore generale del ministero, che per il nuovo incarico ha rinunciato al ricco stipendio che percepiva fino a ieri.

Detto delle prime polemiche levatesi sul nome di D'Andrea, che per chi lo conosce ha tutta l'esperienza e la moderazione dc per farvi fronte senza conseguenze, è facile prevedere che qualche mugugno, dopo quelli già sentiti sul “governo dei banchieri”, si alzerà per la nomina alle Infrastrutture di Mario Ciaccia, provenienteanche lui, come il ministro Passera, da Banca Intesa. Il resto della lista è composta da tecnici di vario livello e provenienza: alti funzionari come l’exsegretario generale del Senato Malaschini (Rapporti con il Parlamento), alti magistrati come il capo della Procura di Roma Ferrara o il neo ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi (magistratura amministrativa), specialisti di problemi internazionali come Marta Dassù (ex-degli staff di D’Alema e Amato, proveniente da Aspen) o Staffan De Mistura (Onu). Meno bocconiani, insomma, e più tecnici di carriera, maturata anche come ufficiali di complemento di governi precedenti.

Così finalmente, dopo un record di lunghezza, s’è conclusala battaglia dei sottosegretari. E ammesso che valesse la pena fare una battaglia per questo (per giorni e giorni a Roma, negli ambienti politici e parapolitici non s’è sentito parlare d’altro, ed era frequente ascoltare da autocandidati aspiranti trombati la frase classica “ho preferito sottrarmi”), è caduto anche l'ultimo alibi per contrattare, rallentare, ostacolarel’azione del governo.

Non c’è dubbio: siamo in una situazione eccezionale, ed è logico che in queste prime settimane dell’imprevistastagione tecnica i politici abbiano faticato ad adattarsi alla novità che li spoglia in gran parte del potere e gli impone scelte ineluttabili. Ma al punto in cui siamo, dovrebbe esser chiaro che opporsi a un quadro come questo con i soliti metodi e le vecchie abitudini è del tutto inutile. E potrebbe pure rivelarsi controproducente.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9496


Titolo: MARCELLO SORGI. Il vento cambia per la Casta
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2011, 06:04:42 pm
30/11/2011

Il vento cambia per la Casta

MARCELLO SORGI

Diciamo la verità, ci vuole un certo coraggio a tagliare i vitalizi dei parlamentari proprio alla vigilia di una riforma sulle pensioni che gli stessi deputati e senatori dovranno votare di qui a poco.

Ma d’altra parte non c’era via d’uscita: era impossibile ridimensionare le pensioni dei lavoratori comuni salvando i privilegi degli onorevoli, specie in tempi di polemiche quotidiane sulla «Casta» e di delegazioni vocianti nella piazza di Montecitorio.

Elsa Fornero, la ministra del welfare che è anche una delle maggiori esperte del sistema della previdenza, non ha dovuto faticare molto per convincere i presidenti delle Camere. Fini e Schifani, immaginando quel che il governo stava per chiedere, hanno preferito anticipare ed evitare i soliti giochini per cui i tagli dei privilegi riguardavano sempre i parlamentari di futura nomina, che poi, quando arrivava il loro turno, trovavano il modo di spostarli ancora in avanti. Così, ciò che fino a pochi mesi fa sarebbe stato impensabile, o salutato come un’ingerenza nell’autonomia delle Camere da parte dell’esecutivo, ieri incredibilmente è avvenuto. In perfetto stile Monti e in modo ineluttabile, com’è appunto nelle caratteristiche della nuova stagione del governo tecnico.

Qualche mugugno ci sarà per forza, tra i 250 e passa onorevoli con una sola legislatura alle spalle (a cominciare dall’ex presidente della Camera Pivetti) che dovranno aspettare di avere sessantacinque anni per intascare il vitalizio. Ma ormai è deciso: il sistema contributivo, con cui di qui a poco le pensioni di tutti saranno calcolate solo sulla base dei contributi effettivamente versati durante l’intera vita lavorativa, scatterà da subito anche per i parlamentari.

E non è neppure la sola novità del giorno. Dopo la nomina e il giuramento dei sottosegretari, l’accelerata sulle pensioni segna infatti l’inizio del lavoro a pieno ritmo del governo (fin qui accusato di essersi mosso con eccessiva lentezza). Subito dopo, entro lunedì 5 dicembre, seguiranno altre misure anticrisi, che si preannunciano anche più dure di quanto trapelato fin qui. Tornato già ieri stesso in missione a Bruxelles, Monti in sede europea s’è trovato di fronte a un quadro che via via si sta presentando, se possibile,più duro del previsto.

Il commissarioRehn, in pratica il ministro dell’economia della Ue, ha insistito di nuovo, oltre che sulle pensioni, sulla necessità di stimolare la crescita, gelata dalle previsioni di recessione dell’Italia nel 2012, con norme su licenziamenti e ipotesi di gabbie salariali: provvedimenti che, al solo sentirne i titoli, solleveranno reazioni notevoli dei sindacati e non saranno accolti favorevolmente da una partedel centrosinistra.

Anche Berlusconi, nel confermare il suo appoggio al governo, di cui ha lodato le prime mosse, ha voluto ricordare a Monti che l’impegno del centrodestra a sostegno della maggioranza non prevede né patrimoniali né riforme elettorali, che non fanno parte del programma concordato. Insomma, seppure infiacchita, continua la resistenza dei partiti. Di fronte alla quale, Monti, se non vuole indebolirsi, ha solo una possibilità: tirare diritto per la sua strada.


da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9500


Titolo: MARCELLO SORGI. La solitudine del premier
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2011, 11:06:46 am
3/12/2011

La solitudine del premier

MARCELLO SORGI

La manovra che Monti si accinge a presentare lunedì rischia di provocare un terremoto politico e sindacale. Se le misure saranno quelle circolate ieri in una serie di circostanziate indiscrezioni, e se le reazioni saranno quelle minacciate, man mano che il quadro delle misure prendeva forma, la luna di miele tra il governo tecnico, la sua larga ancorché informale maggioranza tripartita e le parti sociali è destinata a interrompersi bruscamente.

Nulla che il presidente del Consiglio, chiamato a dolorose e impopolari scelte di rigore economico, non potesse prevedere fin dal primo momento. Ma la gelata che si prepara - e tra oggi e domani si farà sentire, in occasione degli incontri di Monti con partiti, sindacati e parti sociali coglie il governo in un momento difficile oltre che prematuro, prima ancora di poter sperimentare e rodare il rapporto con il Parlamento, e con il rischio di forti fibrillazioni nei due campi di centrodestra e centrosinistra.

Dato purtroppo per scontato l’inasprimento delle misure - a partire, sempre se sarà confermato, dall’inasprimento dell’Irpef, destinato ad abbattersi sui lavoratori dipendenti in parte già colpiti dalla manovra estiva -, e ricavato che Monti, nei suoi primi contatti con i partners europei dev’essersi trovato di fronte a interlocutori ancora più esigenti di quanto si aspettava, la svolta porterà molto probabilmente a un capovolgimento del quadro politico, quale si era manifestato all’atto della nascita del governo. Mentre infatti Monti aveva fin qui trovato appoggi più convinti nel centrosinistra, soddisfatto già solo per la caduta di Berlusconi, e meno entusiasti nel centrodestra, da cui subito si era staccata la Lega dopo vent’anni quasi di alleanza, adesso sta per accadere il contrario.

Occorre infatti mettere in conto il passaggio all’opposizione di Di Pietro, che ha già fatto sapere che all’incontro con il premier non andrà. Ma anche nel Pd la richiesta di Bersani a Monti, di spostare a sera l’appuntamento, lascia intuire che il segretario prende tempo per poter valutare meglio le conseguenze della probabile rottura tra Cgil (e forse non solo) con il governo. Trovarsi a votare il decreto anticrisi in un Parlamento assediato dagli scioperanti non sarebbe affatto facile per il maggior partito della sinistra.

A destra Berlusconi è cauto, ma la linea del Pdl è già decisa: in pubblico e in tv, il partito sarà recalcitrante e dichiaratamente contrario agli aumenti di tasse dirette e indirette che la manovra prevede, e che sarà compito di Alfano e dei principali dirigenti pidiellini scaricare sui tecnici e sul pezzo di maggioranza di sinistra che li sostiene. Ma alla fine nelle Camere il Pdl darà il suo assenso, accompagnato magari da mille distinguo.

Con l’urgenza che viene da Bruxelles (il 9 dicembre Monti parteciperà al vertice europeo in cui dovrebbero essere riscritti i rapporti tra i maggiori alleati), e con la scadenza di approvazione delle misure fissata in pochi giorni, entro Natale, i colloqui che il presidente del Consiglio avrà oggi e domani prima di licenziare il decreto saranno assolutamente nevralgici. Tempo per contrattare ce n’è poco, ed è chiaro che Monti ha convocato i suoi interlocutori per informarli e chiedergli uno sforzo di responsabilità. Ma è inutile nascondersi che una procedura del genere, che non ha precedenti (se non lo sfortunato vertice del tunnel di Palazzo Giustiniani, che ha provocato polemiche a non finire), è assolutamente a rischio. E il precedente della lunga gestazione della lista dei sottosegretari non depone certo a favore di un maggiore ottimismo.

La tentazione di prendere le distanze dal governo, sommergendolo di critiche e di propaganda, è purtroppo diffusa tra le diverse file dei dissidenti della maggioranza. Così, nel momento in cui avrebbe bisogno dell’appoggio del più forte, Monti rischia di ritrovarsi solo. C’è da sperare che non accada; che di qui a lunedì, nella politica stordita da quanto sta accadendo irrompa un soprassalto di ragionevolezza. Ma se così non dovesse essere, il professore non abbia timore della solitudine. E vada avanti lo stesso.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Le opposizioni tra alleanze e propaganda
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2011, 06:00:26 pm
15/12/2011 - TACCUINO

Le opposizioni tra alleanze e propaganda

MARCELLO SORGI

No, non devono trarre in inganno la dura contestazione leghista al Senato, che ha costretto il presidente Schifani a una sospensione della seduta, e l'aspro intervento di Di Pietro alla Camera, in cui il leader dell'Idv ha accusato Monti di fare nientemeno che voto di scambio, tra la fiducia al governo e la mancata asta per le frequenze televisive da giorni al centro di molte polemiche.

Malgrado la pesantezza dei toni delle opposizioni e la voluta teatralità, a favore di telecamere, dei comportamenti in aula, la manovra contenuta nel decreto “salva-Italia" infatti è entrata in dirittura d'arrivo: con la richiesta del voto di fiducia che arriverà questa mattina, il testo sarà approvato alla Camera entro la fine di questa settimana e passerà a partire dalla prossima al Senato, dove, se non ci saranno ulteriori modifiche, potrà definitivamente essere varato in tempo per le vacanze di Natale.

Gli incidenti a Palazzo Madama, dove Monti si era presentato solo per un'informativa sul vertice europeo, non erano affatto previsti. La Lega sta evidentemente usando la nuova collocazione all'opposizione per ritrovare l'intesa con la propria base, insofferente già in epoca berlusconiana alla politica di rigore imposta dalla crisi finanziaria e dall'Europa, e disorientata dalla mancanza di prospettive chiare in materia di elezioni.

Monti tuttavia, anche in prospettiva, dovrà affrontare il problema del rapporto tra l'esecutivo tecnico che presiede e le opposizioni. Se quello con i tre partiti della maggioranza ha richiesto un paio di settimane per essere risolto - passando dal regime dei vertici semiclandestini con Alfano, Bersani e Casini, alla trasparenza - la mancanza di canali di comunicazione con Lega e Idv, al di là di quello istituzionale del ministro per i rapporti con il Parlamento, è destinata ad aggravare il senso di esclusione dei due partiti, specie in una situazione in cui l'opposizione è fortemente minoritaria rispetto a una maggioranza larghissima, e sostanzialmente non in grado di influire sulla normale dialettica parlamentare. La tentazione di rifugiarsi nella propaganda, a questo punto, rischia di diventare quasi obbligata. E inevitabili le conseguenze di questo lavorìo sui due maggiori partiti, che per sostenere il governo hanno dovuto scontare la rottura delle rispettive coalizioni. Le critiche che Gasparri da destra e Bersani da sinistra hanno rivolto ieri al governo, in questo senso, sono solo un assaggio.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Parola d'ordine è votare sì ma dissentire dal governo
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2011, 07:01:57 pm
16/12/2011 - TACCUINO

Parola d'ordine è votare sì ma dissentire dal governo

MARCELLO SORGI

E’ inutile nasconderlo: il voto di fiducia con cui la Camera darà oggi la sua approvazione alla manovra del governo arriva in un clima deteriorato, non solo per gli incidenti che la Lega ha continuato a provocare in aula anche a Montecitorio, dopo le tensioni di mercoledì al Senato, ma anche per le evidenti prese di distanze dei due maggiori partiti della maggioranza da Monti.

Votare ma dissentire, per dare agli elettori la sensazione che solo cause di forza maggiore impongono di sostenere un governo impegnato a emanare provvedimenti impopolari come quelli chiesti dall’Europa e contenuti nel decreto «Salva-Italia»: questa sembra essere la strategia del sostegno critico che accomuna Pd e Pdl. Bersani, che si era detto «stupefatto» per la rinuncia alle liberalizzazioni contestate da farmacisti e tassisti, ieri ha confermato sia l’appoggio che le perplessità sulla manovra, e ha lasciato trasparire solidarietà per le proteste sindacali.

Quanto a Berlusconi, alla presentazione del libro di Bruno Vespa ha fatto anche un accenno all’eventualità di elezioni anticipate, spiegando che se un partito dovesse accorgersi dai sondaggi che è in grado di vincerle, sarebbe suo diritto chiederle. Il Cavaliere ha poi replicato a Bossi. E ha detto che già nei suoi primi giorni di lavoro Monti - e a suo giudizio sarebbe «disperato» per questo ha potuto sperimentare le difficoltà di governare con un sistema istituzionale che non risponde, e va riformato, e con un Parlamento che ancora una volta ha cercato di stravolgere la manovra con i suoi troppi emendamenti.

Interrogato sulle proteste leghiste, Monti ha cercato di minimizzare, raccontando solo di aver visto nell’aula di Palazzo Madama suoi «conterranei» in vivace attività. Chi invece ha fatto le spese della confusione generata dal Carroccio alla Camera è stato il ministro per i rapporti con il Parlamento Giarda, che a stento è riuscito ad annunciare la richiesta del voto di fiducia da parte del governo.

Salvo ulteriori sorprese, il voto di oggi dovrebbe essere scontato, data la larghissima maggioranza su cui, malgrado i mugugni, Monti può contare. Anche Di Pietro ha assicurato che voterà la fiducia e s’è fatto fotografare in plateale stretta di mano con Bersani. Dalla prossima settimana la manovra approderà al Senato. Il varo definitivo è previsto per il 23 dicembre, sempre che non intervengano ulteriori modifiche del testo che costringerebbero ad un nuovo passaggio alla Camera.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9555


Titolo: MARCELLO SORGI. Dopo i veti scatterà l'ora delle riforme
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2011, 07:32:45 pm
20/12/2011 - TACCUINO

Dopo i veti scatterà l'ora delle riforme

MARCELLO SORGI

Dopo l'approvazione della manovra - giunta in Senato per essere licenziata entro venerdì tutti danno per scontato che i tempi del governo si allunghino. Nel giro di due giorni i partiti della maggioranza hanno detto - e Berlusconi ieri ha ribadito - che non si può pensare ad elezioni di fronte a una situazione economica che continua ad essere allarmante. Ma, ecco il paradosso, se il governo prova a delineare i possibili contenuti di una fase due del proprio lavoro, gli scudi si rialzano.

Parte l'annuncio di uno sciopero fiscale della Lega contro l'Imu, e pazienza se si tratta del ritorno dell'unica tassa autenticamente federale in vigore in Italia. Si levano le proteste preventive dei sindacati contro l'ipotesi, ventilata dalla ministra Fornero, di aprire la discussione sulla riforma del mercato del lavoro "senza totem", in altre parole senza escludere l'ipotesi di rimettere mano al famigerato art. 18 che contiene le norme sui licenziamenti. E la presidente del Pd Rosi Bindi fiancheggia subito i sindacati, rivendicando, prima che il governo prenda le sue decisioni, un negoziato politico approfondito.

Ma se il governo resterà in carica fino al 2013, non potrà limitare la sua sfera di intervento all'economia, anche se si tratta della principale emergenza, fingendo di non accorgersi del resto. Quale che sarà a gennaio la decisione della Corte costituzionale in materia di referendum, ad esempio, è prevedibile che il tentativo di riformare il Porcellum sarà fatto in ogni caso, sia che la Consulta dia il via alle consultazioni referendarie, sia che decisa di evitarle. E non a caso Franceschini ha aperto la riflessione sul ritorno, anche temporaneo, al proporzionale, che darebbe ai partiti la possibilità di arrivare liberi da alleanze forzate alla scadenza elettorale del 2013 e trasformare la prossima in una legislatura costituente. Alla ripresa politica, passate le Feste, è probabile che il confronto si concentrerà sulle misure per la crescita. Ma dopo è inevitabile che il discorso si allarghi. Al di là degli atteggiamenti di facciata che tendono a rappresentarli distanti tra loro ed equidistanti dal governo, Pdl, Pd e Terzo polo hanno un'obiettiva convenienza a sfruttare questa fase di tregua per mettere a punto riforme che nessuno di loro singolarmente sarebbe in grado di realizzare.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9568


Titolo: MARCELLO SORGI. Legge elettorale Banco di prova per i leader
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2011, 12:31:30 pm
22/12/2011 - TACCUINO

Legge elettorale Banco di prova per i leader

MARCELLO SORGI

All’indomani dell’appello di Napolitano ai partiti della maggioranza per un più forte sostegno al governo, Bersani ha chiesto di sgomberare il campo da ipotesi di riforma dell’articolo 18, mirate a snellire le procedure di licenziamento (richiesta accolta in diretta a «Porta a porta» dalla ministra del lavoro Fornero). E Berlusconi, dopo un pranzo di due ore con Monti a Palazzo, incontrando i senatori ha ribadito che il Pdl è ancora l’arbitro della situazione e in qualsiasi momento può decidere di tornare ad elezioni. Se non fosse per Casini e il Terzo polo, che continuano a garantire il loro appoggio incondizionato al governo, verrebbe da dire che l’appello del Capo dello Stato non ha trovato l’accoglienza dovuta, e nella maggioranza tripartita che sostiene l’esecutivo tecnico la tensione continua ad essere alta.

In realtà, a parte qualche eccesso polemico (soprattutto da parte dei sindacati, che temono il bis della riforma delle pensioni decisa senza concertazione), il governo continua a godere di un forte appoggio politico, e grazie a questo la manovra dovrebbe essere licenziata oggi in Senato. Più che un gioco di veti, dunque, si sta delineando una sorta di schieramento preventivo in vista della cosiddetta fase 2 del lavoro di Monti e dei suoi ministri. Alfano, Bersani e Casini, in altre parole, devono trovare il modo di trasformare il loro accordo «tecnico» (le virgolette ormai sono d’obbligo, dopo un mese di vertici a tre) in una forma di collaborazione politica compatibile con il livello crescente di insofferenza dei rispettivi elettorati alla stagione dei sacrifici.

Prima di stabilire se davvero ci sia spazio per reimpostare il confronto sulle riforme istituzionali, come ha suggerito Napolitano, sarà la legge elettorale il banco di prova dell’intesa tra i tre leader. Se la Corte costituzionale, alla ripresa, darà via libera ai referendum, l’urgenza di trovare un accordo per evitare un voto che potrebbe portare alla reintroduzione del Mattarellum, la legge maggioritaria che inaugurò la stagione del bipolarismo, potrebbe spingerli ad accelerare la trattativa: in particolare Casini, che a causa del ritorno al Mattarellum potrebbe vedere compromesso il suo disegno terzista. Ma anche nel caso in cui la Consulta bocci i quesiti referendari, la necessità di mettersi attorno a un tavolo, non solo per decidere quali emendamenti proporre ai provvedimenti del governo, ma per dare un senso al finale della legislatura, potrebbe rivelarsi ineludibile.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Lo spread zittisce i partiti
Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2011, 11:50:14 am
24/12/2011

Lo spread zittisce i partiti

MARCELLO SORGI

La febbre dello spread di nuovo molto alta, oltre i 500 punti, all’indomani dell’approvazione definitiva della manovra economica in Senato, alla fine ha prevalso sulla serie di incontri di Monti con i partiti che sostengono il governo. Nel giro di due giorni, dal pranzo con Berlusconi e Letta seguito da un incontro con Bersani, il presidente del Consiglio ha completato le sue consultazioni, vedendo ieri di buon mattino la delegazione del Pdl guidata da Alfano con i due capigruppo Gasparri e Cicchitto, e più tardi Casini e Rutelli.

Sviluppo, lavoro, liberalizzazioni, con qualche accentuazione diversa secondo gli interlocutori, gli argomenti all’ordine del giorno; ma nulla che possa rimettere in discussione il percorso dei tecnici, ormai proiettato sulla fase due. E d’altra parte, fino a che la crisi europea non darà qualche segno di allentamento, i margini per distinguersi, per i partiti della maggioranza, sono molto stretti. I leader di Pdl e Pd sono in sofferenza perché sentono gli umori dei rispettivi elettori e temono di dover pagare un prezzo troppo alto in termini di voti, anche per il lavorio che fanno la Lega sul versante destro e l’Idv su quello sinistro, ora che le elezioni amministrative della prossima primavera si avvicinano. Casini e Rutelli invece insistono nel sostegno senza riserve al governo, perché ritengono, con una buona dose di certezza, che la legislatura arriverà alla scadenza naturale del 2013 e che per quella data il governo comincerà a misurare i risultati dell’azione di risanamento, premiando anche chi gli è stato vicino.

C’è poi anche un’altra insidia che, sondaggi alla mano, tutti i partiti mostrano di temere: l’eventualità che Monti e i suoi tecnici possano schivare le reazioni più forti degli elettori grazie agli effetti del proprio lavoro, che a un certo punto diventeranno più sensibili, e il conto della crisi e dell’emergenza, in termini di sacrifici che cambieranno la vita dei cittadini, debbano pagarlo solo i politici. Timori che sono legati, oltre che alle cifre delle tabelle che gli istituti di ricerca settimanalmente allineano sulle scrivanie dei leader, anche all’andamento dell’ultima tornata elettorale nelle città, conclusasi con risultati a sorpresa sia nelle primarie che nel voto vero e proprio, e con il successo, a Milano e Napoli, dei candidati sindaci più radicali. Difficile, al momento, paragonare la situazione attuale con quella di sette mesi fa, vista la rapida evoluzione della crisi. Ma anche assolutamente impossibile sperare che possa andare in modo molto diverso.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La riscoperta della mediazione
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2011, 10:49:52 pm
30/12/2011

La riscoperta della mediazione

MARCELLO SORGI

Un punto si può considerare finalmente chiarito dopo la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio: il governo Monti sarà pure «tecnico» per definizione, ma «politico», anzi eminentemente politico, è il lavoro che sta facendo. Questo non vuol dire che Monti o qualcuno dei suoi ministri nutra ambizioni particolari nel prossimo futuro, né che intenda candidarsi, al Quirinale (il premier) o ad altro. Ma l’ipocrisia che ha accompagnato fin qui le prime settimane di attività dei tecnici s’è finalmente dissolta ieri nel lungo ping-pong tra il senatore-professore e i giornalisti che lo interrogavano.

Monti è stato bene attento a evitare qualsiasi presunzione legata ai risultati di queste prime settimane di impegno e all’approvazione in tempi record del decreto «salva-Italia». Ma allo stesso modo, evitando giri di parole, ha spiegato chiaramente perché la distinzione tra «tecnica» e «politica», a proposito della natura dell’esecutivo, sia ormai da considerarsi fuori luogo, così come la contrapposizione tra partiti e governo che qualche volta ha scavato in Parlamento una specie di fossato tra il «noi» dei politici e il «voi» dei tecnici.

La ragione di questa operazione-verità, che il presidente del Consiglio non a caso ha voluto compiere davanti a giornali, tv e stampa straniera, è presto detta: Monti realisticamente si ritiene al centro di uno stato di necessità in cui una politica (attenzione: tutta la politica, non solo Berlusconi) giunta al capolinea, e non più in grado in alcun modo di prendere le decisioni necessarie per il bene del Paese, ha dovuto rassegnarsi all’emergenza dei tecnici. Ma d’altra parte è consapevole che il governo, per svolgere la sua opera di risanamento, deve trovare con i partiti e con la politica il massimo di intesa possibile.

Detta in altre parole, come l’avrebbe definita Andreotti, o un altro dei presidenti del Consiglio classici della Prima Repubblica, è una riscoperta della mediazione, strumento principe di una politica rivalutata e riproposta come arte del possibile, cancellata da anni di contrapposizioni frontali e bipolarismo muscolare. O, se si preferisce, è un rilancio della normalità della stessa politica, in cui il governo, soprattutto per quel che è nella sua responsabilità, propone, i partiti riflettono e fanno le loro controproposte, in Parlamento si discute e in tempi ragionevoli si arriva a una decisione.

Cosa tocchi fare all’Italia è ormai chiaro, e dove fosse arrivato il Paese prima di affrontare la «cura Monti» altrettanto. Come possa e debba essere praticata la terapia è ovviamente oggetto di dibattito: si tratta di salvare e non di ammazzare l’ammalato, che versa in condizioni gravi, i margini di intervento, tutti lo sanno, sono ridotti, e il tempo a disposizione è poco, anche se Monti ha dato appuntamento a fine 2012 per un’altra conferenza stampa, riconfermando implicitamente l’orizzonte del 2013, già delineato in Parlamento in occasione della fiducia.

Per questo, già pago della quantità di cose che deve realizzare, il governo si guarderà bene dall’intervenire in materie come la legge elettorale o le riforme istituzionali, solo per fare due esempi, che non rientrano nel suo programma e nell’elenco delle sue urgenze. Ma sbaglierebbero i partiti a non approfittare dell’occasione di questa tregua per affrontare questioni importanti come queste.

Alla fine, l’unica domanda che è rimasta in sospeso è se davvero, come molti politici continuano a pensare, questa del governo tecnico debba essere considerata una parentesi, e fino a che punto, in attesa del ritorno al passato, oppure no. Monti sicuramente aveva una risposta anche in questo caso, ma non ne ha parlato. Perché nessuno gliel’ha chiesto. E soprattutto perché certe verità sono difficili da dire.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9597


Titolo: MARCELLO SORGI. Quel dialogo che spaventa i grandi partiti
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2012, 11:41:31 am
3/1/2012 - TACCUINO

Quel dialogo che spaventa i grandi partiti

MARCELLO SORGI

Pur limitata nel tempo dalla necessità di verificare in breve la possibilità di un accordo, e legata alle scadenze della fitta agenda internazionale del governo a gennaio, l'apertura di Monti ai sindacati ha avuto l'effetto di muovere una certa fibrillazione nella maggioranza. Il centrodestra teme uno sbilanciamento dell'esecutivo a vantaggio del centrosinistra e rivendica, con Cicchitto e Quagliariello, una consultazione politica preventiva con il Pdl. Il centrosinistra sa che in materia di lavoro Monti è vincolato alle richieste europee di maggiore flessibilità (tuttora argomento di confronto interno nell'exopposizione), e insiste sulle liberalizzazioni.

In realtà tutti prendono tempo aspettando di vedere che piega prenderà la trattativa tra la ministra del lavoro Elsa Fornero e le delegazioni sindacali. Anche se il governo ha formalmente ritirato l'accenno alla possibilità di rimettere in discussione l'articolo 18, cioè la materia dei licenziamenti, le posizioni di partenza sono molto lontane. Da parte di Palazzo Chigi c'è disponibilità a intervenire per uno snellimento delle procedure e per uno sblocco dei lavori pubblici già finanziati, ma non ci sono soldi per piani di intervento vecchia maniera a sostegno dell'occupazione, come quelli che continuano a invocare i sindacati.

Se Monti ha preso l'iniziativa, tuttavia, dopo la mancata concertazione del decreto "salva-Italia", che aveva ricompattato Cgil, Cisl e Uil portandole allo sciopero generale, non dev'essere stato solo per fare un tentativo formale di riaprire un filo di comunicazione destinato a chiudersi rapidamente. Al contrario, il premier deve aver percepito la necessità per le organizzazioni sindacali di ritrovare un minimo di dialogo con il governo.

Dopo la prima reazione negativa del centrodestra, dunque, le difficoltà, una volta aperta la trattativa, potrebbero spostarsi nel centrosinistra, sottoposto a una notevole pressione che verrà, non solo dai sindacati, ma anche dal pezzo di società civile più vicino al Pd e più insoddisfatto dell'ondata di sacrifici che il partito sta condividendo. Al momento, data la dimensione dei problemi, è impossibile escludere una rottura. Ma se si ragiona sul metodo, più che sui contenuti della trattativa (per i quali, in certi casi, ma non subito, è lecito prevedere un secondo tempo), è difficile che, sia i sindacati, sia il centrosinistra, si lascino sfuggire l'occasione che il Presidente Napolitano nel suo discorso di Capodanno, e Monti con l'apertura del tavolo per la trattativa, hanno seriamente messo sul tavolo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9609


Titolo: MARCELLO SORGI. Cambia passo la strategia di Monti per la fase due
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2012, 07:53:08 pm
5/1/2012 - TACCUINO

Cambia passo la strategia di Monti per la fase due

MARCELLO SORGI

L’annuncio dell'incontro con la Merkel previsto per mercoledì prossimo e l'incontro informale della ministra del lavoro Fornero con la segretaria della Cgil Camusso hanno aggiunto ieri due elementi rilevanti alla strategia di Monti sta per la fase due del lavoro del governo.

Mettendo a segno a gennaio, prima del vertice europeo di fine mese, tre confronti decisivi come quelli con la cancelliera tedesca, con il presidente francese Sarkozy e con quello americano Obama, Monti intende, da un lato sottolineare come nel giro di due mesi l'Italia sia riuscita a risalire la china della propria credibilità internazionale, e ribadire, dall'altro, al suo ritorno a Roma, che il Paese proprio per questo dovrà continuare a tener conto dei vincoli che la crisi mondiale impone a tutti, e in special modo a chi in questo momento in Europa riveste il ruolo di sorvegliato speciale.

E' la classica tattica politica dello stato di necessità: in cui si inquadra perfettamente l'incontro a sorpresa Fornero-Camusso all'indomani delle dure polemiche della Cgil contro la decisione del governo di prevedere riunioni bilaterali con singole organizzazioni sindacali piuttosto che i classici tavoli collettivi. Scopo dell'incontro era appunto rimuovere qualsiasi pregiudiziale o equivoco che potessero rappresentare ostacoli alla procedura che il governo intende adottare per mettere a parte i sindacati della strategia del governo mirata a rimettere in moto la crescita, obiettivo irrinunciabile per cui viene da Bruxelles una pressione quotidiana, ribadita anche ieri in un intervento del capo dell'Eurogruppo Juncker.

Fornero ne ha approfittato per cercare di convincere Camusso che, pur essendo diverse e abbastanza divergenti dalle richieste sindacali, le decisioni che il governo si accinge a prendere puntano egualmente a dare una scossa al mercato del lavoro, afflitto dalla stagnazione e da una serie di complicati focolari di crisi aziendali, che non a caso hanno spinto i sindacati a lanciare l'allarme sul possibile inasprimento della tensione sociale.

Al di là di un reciproco impegno a fare ogni sforzo per trovare un'intesa, tuttavia l'incontro non ha portato effetti pratici, anche se da tutte e due le parti s'è lavorato per evitare la sensazione di un nulla di fatto. Ma se una vera trattativa alla fine non potrà aprirsi, sarebbe già un risultato riuscire ad evitare una vera rottura, che indebolirebbe il governo nella fase delicata in cui si prepara a negoziare con la Ue un percorso meno impervio di quello adottato finora per affrontare la crisi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9617


Titolo: MARCELLO SORGI. Il "riscatto" dei partiti passa per la legge elettorale
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2012, 10:21:53 am
10/1/2012 - TACCUINO

Il "riscatto" dei partiti passa per la legge elettorale

MARCELLO SORGI

La ripresa politica dopo la parentesi delle festività trova i partiti, e non solo quelli della larga maggioranza che sostiene il governo, in difficoltà. Nessuno lo ammetterà mai esplicitamente, ma è evidente che si sta allargando la distanza tra il presidente del consiglio proiettato a negoziare in Europa con Francia, Germania e Inghilterra le strategie anticrisi, e le forze politiche italiane, da destra a sinistra, impegnate a misurarsi sui contenuti della fase due del governo, dalle liberalizzazioni al mercato del lavoro, per cercare di contenerne gli effetti sul proprio elettorato.

Nei corridoi di Montecitorio si parla apertamente di una sorta di «resa» della politica al «ciclone» Monti, e dopo le prime, deboli reazioni di domenica sera, l'intervista del premier a Fabio Fazio su Rai 3 è stata letta come l'annuncio di una nuova serie di iniziative del governo sulle quali ai partiti resterà ben poco da dire. E che il Parlamento non potrà che approvare sollecitamente, sotto la spinta, sia dei mercati, sia di tutti gli indicatori di crisi che continuano ad essere allarmanti rispetto all'Italia.

Nell'immediato i due banchi di prova su cui la politica potrebbe cercare riscatto sono la legge elettorale e la riforma del mercato del lavoro. Sulla prima si comincia a vedere qualcosa di più di segnali di fumo tra centrodestra e centrosinistra, e la decisione della Corte costituzionale sui referendum, attesa per domani, non potrà che funzionare da acceleratore di un confronto fin qui pigro, specie se la sentenza che uscirà dal Palazzo della Consulta sarà a favore dell'ammissibilità delle consultazioni. Accanto alle due ipotesi prevalenti di sistemi più proporzionali, copiati da quello tedesco o da quello spagnolo, comincia a circolare un'ipotesi, ufficiosa ,a maturata tra i promotori dei referendum, di una specie di Mattarellum diluito, metà maggioritario con collegi uninominali e metà (non più un quarto, com'era fino al 2001) proporzionale: un tentativo di aggirare le resistenze del Terzo polo, che vedono nel ritorno alla vecchia legge, che potrebbe uscire dalle urne referendarie, un modo di riobbligarlo a dichiarare le proprie alleanze prima del voto.

Quanto al lavoro, il Pd sembra vicino all'uscita dal lungo travaglio che lo ha tormentato in queste settimane e al parto di una proposta unitaria sulla flessibilità che dovrebbe essere sottoposta al governo. Una svolta destinata ad influire anche sul confronto tra la ministra del lavoro Fornero e i sindacati, che fin qui ha segnato il passo.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Ora ci vuole l'operazione trasparenza
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2012, 11:38:03 am
11/1/2012

Ora ci vuole l'operazione trasparenza

MARCELLO SORGI

Le dimissioni del sottosegretario Malinconico - lungamente rifiutate dall’interessato per giorni e giorni, e velocemente ottenute da Monti ieri mattina - rappresentano il primo serio inciampo del governo o piuttosto una nuova prova del potere semiassoluto del presidente del consiglio? Visto l’andamento dei fatti, si sarebbe portati alla seconda risposta, dal momento che Malinconico, anche senza conoscerlo, sembra uno dei tecnici entrati nel governo più per effetto del compromesso finale sulla lista, tra Monti e i partiti, che non per diretta scelta del premier.

Da questo punto di vista il caso è a suo modo emblematico e rivelatore di un compromesso non riuscito - e forse neanche cercato - tra la squadra di professori, manager e funzionari di lungo corso europeo portati da Monti e il gruppo di grand commis, consiglieri di Stato e capi di gabinetto romani imbarcati per bilanciarli, quando non per controllarli o ostacolarli. Due mondi, due culture, due modi di muoversi, totalmente inconciliabili, come si sapeva da prima di metterli insieme. E costretti ciò malgrado a convivere solo in nome della provvisorietà con cui i partiti, i politici, la politica nel suo complesso, si sono adattati alla magra stagione dei tecnici.

Il curriculum di Malinconico, da questo punto di vista, era perfetto: da Andreotti a Dini, D’Alema, Prodi (con Berlusconi stava all’Antitrust e all’Autorità per l’energia), era stato a diverso titolo in quasi tutti i governi, al vertice o poco più sotto, sempre in buoni rapporti con chiunque e grato per la benevolenza d’Oltretevere, che accettava discretamente, senza ostentarla. Quel che invece non andava - e avrebbe dovuto tenerlo fuori dal governo Monti - era la già nota, dal 2009, e imperdonabile leggerezza con cui aveva accettato nel 2008 di farsi pagare una vacanza di lusso da un imprenditore appaltatore dello Stato; e la fiorente e privata attività di consulenza, solo di recente trasferita alla moglie, che si intrecciava alle sue rilevanti responsabilità pubbliche.

In linea di massima, va detto, non c’è nulla di male che un funzionario, un (ex) consigliere di Stato, uno specialista dei meccanismi, per non dire del malfunzionamento, della pubblica amministrazione, si trovi a servire più governi, anche di orientamento politico differente: perché ogni presidente del Consiglio e ogni ministro ha bisogno del suo tecnico per concretizzare le proprie decisioni e sfuggire alle lungaggini, talvolta alle paralisi, che la macchina amministrativa impone a tutti, senza distinzione di colore o di tessera.

Ma proprio per la delicatezza di questo lavoro e per l’immediata percezione che ne hanno i cittadini, è necessario che avvenga nella massima trasparenza, e se possibile con frequenti rotazioni: per impedire, sia la nascita di una casta, questa sì, un élite privilegiata, in cui gli incarichi vengono eternamente spartiti con gli stessi criteri; sia che le incrostazioni vengano coperte o rimosse seguendo logiche e interessi non sempre chiari, e lasciando la sensazione, alla fine, che una mano lava l’altra e non se ne parla più.

Esigenze come queste, già forti e irrinunciabili di per sé, lo diventano ancor di più quando i tecnici salgono di un gradino e vanno a sedere al posto dei politici. Bene ha fatto, dunque, Monti a pretendere le dimissioni che Malinconico non voleva dare. Ma non basta. A questo punto serve un’accelerata per la promessa operazione trasparenza che già un mese fa doveva portare a conoscere le radiografie dettagliate dei patrimoni e degli interessi di tutti i membri del governo. Una bella lenzuolata di dati sensibili: ecco quel che ci vuole, per ridare fiducia ai cittadini che proprio in questi giorni stanno facendo i conti con i sacrifici imposti dalla crisi. E per evitare, non si sa mai, che dalle pieghe di un passato che non passa venga fuori qualche altro caso, dopo quello risolto in fretta e furia solo ieri.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9636


Titolo: MARCELLO SORGI. Due ostacoli sulla strada di Monti
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2012, 12:23:55 pm
12/1/2012 - TACCUINO

Due ostacoli sulla strada di Monti

MARCELLO SORGI

Il buon risultato dell’incontro con la Merkel, e più in generale della missione europea condotta fin qui dal premier Monti, rischiano oggi di essere rimessi in discussione da due eventi molto attesi: la sentenza della Corte Costituzionale sui referendum e il voto sull’autorizzazione all’arresto del coordinatore campano del Pdl Nicola Cosentino.

Per la prima, il rinvio da ieri ad oggi da parte dei giudici della Consulta, riuniti dalle prime ore del mattino, ha avvalorato le indiscrezioni su una possibile sentenza «articolata» o «paralegislativa», come viene definita tecnicamente, che potrebbe mettere insieme il «no» alle consultazioni referendarie ma anche all’attuale legge elettorale Porcellum, che il Parlamento, come altre volte la Corte ha fatto in passato su materie spinose e politicamente sensibili, verrebbe invitato a cambiare in tempi brevi. Si tratterebbe di una decisione interlocutoria, sicuramente contestata dai promotori dei referendum, ma meno dai partiti che tornerebbero arbitri delle nuove regole da darsi di qui alle prossime elezioni politiche del 2013. Se invece la Consulta spianasse la strada al voto referendario, i tempi per mettere a punto una nuova legge elettorale aggirando la consultazione si accorcerebbero di molto, perché le urne, secondo la legge, dovrebbero aprirsi tra il 15 aprile e il 15 giugno. Di qui il timore che, piuttosto che ritrovarsi con il ritorno del Mattarellum, il risultato considerato più probabile, i partiti possano puntare ad elezioni anticipate con la vecchia legge, rinviando all’anno prossimo il confronto sulla nuova legge elettorale.

Più complesse le conseguenze del voto sull’arresto di Cosentino. La svolta di Bossi, che ieri sera ha trasformato il sì al carcere della Lega in un invito ai deputati ad agire secondo libertà di coscienza potrebbe sovvertire le previsioni favorevoli all’arresto. Per tutto il giorno s’è diffusa la sensazione di un lavorìo del Pdl e di Berlusconi in prima persona mirato a favorire un congruo numero di ripensamenti tra i deputati. Ma si tratterebbe di provocare almeno una cinquantina di cambi di campo, obiettivo non facile da ottenere. In un caso o nell’altro, si concluda cioè la vicenda con un «sì» o con un «no» all’arresto, la spaccatura che per la prima volta si aprirà nella maggioranza, tra il centrosinistra e il centrodestra, è destinata a lasciare strascichi, approfondendo, nel campo che risulterà sconfitto, le riserve sulla difficoltà di collaborare nella stessa maggioranza con quelli che fino a due mesi fa erano i propri avversari.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9641


Titolo: MARCELLO SORGI. Il doppio "no" rafforza il governo
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2012, 05:13:30 pm
13/1/2012 - TACCUINO

Il doppio "no" rafforza il governo

MARCELLO SORGI

Pur diversi ed eterogenei tra loro, i due no, della Camera all'arresto del coordinatore campano del Pdl Cosentino, e della Corte costituzionale ai referendum elettorali, avranno lo stesso effetto di consolidare il governo e la sua maggioranza. Il voto su Cosentino s'era politicizzato anche più del dovuto a causa dell'intervento in extremis di Bossi, mercoledì sera, per lasciare libertà di coscienza ai deputati del suo partito, che solo due giorni prima avevano votato in commissione a favore dell'autorizzazione al carcere. La spaccatura che ne è seguita nel gruppo parlamentare del Carroccio ha visto alla fine vincente Bossi contro Maroni e ha premiato la tenace insistenza di Berlusconi sulla linea del salvataggio a tutti i costi del suo ex sottosegretario. I numeri della votazione somigliano molto a quelli raggiunti le ultime volte dal governo del Cavaliere, ma nel segreto delle urne deve esserci stato parecchio movimento, al punto da far sospettare, nelle chiacchiere da Transatlantico, che sia il Terzo polo che il Pd, formalmente schierati per le manette a Cosentino, abbiano scontato un bel gruppetto di franchi tiratori, più o meno autorizzati, anche per evitare l'effetto destabilizzante che l'eventuale autorizzazione avrebbe potuto avere.

Un analogo ragionamento si può fare per i referendum. Per quanto preparata con due giorni di camera di consiglio volti a motivarla con raffinate argomentazioni giuridiche, la decisione della Consulta va politicamente nel senso del rafforzamento del governo, che in mancanza del voto referendario non dovrà più temere dai partiti che lo sostengono tentazioni di scioglimento delle Camere. Da adesso alle elezioni del 2013 c'è almeno un anno per trattare e arrivare a un accordo su una nuova legge elettorale, dato che la Consulta, nelle motivazioni della sentenza, quasi certamente sancirà una mezza incostituzionalità del Porcellum. Non sarà facile trovare un'intesa, ma cercarla senza la pressione della scadenza referendaria e la tendenza al restauro del Mattarellum sarà di sicuro meno arduo. Il grande sconfitto della giornata, su Cosentino e sui referendum, è Di Pietro. L'ha presa male: il pesante attacco da lui rivolto al Quirinale rivela uno sbalzo di pressione, oltre che una caduta di stile istituzionale, che un leader di lungo corso non dovrebbe mai avere.


da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9645


Titolo: MARCELLO SORGI. Guttuso, lunga marcia nelle molte Italie
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2012, 11:57:52 am
Cultura

15/01/2012 -

Guttuso, lunga marcia nelle molte Italie

Renato Guttuso (Bagheria, 26 dicembre 1911 - Roma, 18 gennaio 1987)

A 25 anni dalla morte (e cento dalla nascita) dell’artista siciliano

Dal fascismo al comunismo, dalla guerra al boom, ai dubbi religiosi

MARCELLO SORGI

Una parola, l’Italia di Guttuso. Meglio parlare delle sue molte Italie, quella di Garibaldi e poi di Giolitti, di Mussolini e degli intellettuali di regime, quella democristiana e comunista e poi craxiana, fino al sigillo finale di Andreotti. Una, due vite, a cavallo di uno, due secoli, percorsi insieme con leggerezza, cupezza e inguaribile ambiguità siciliana, molta curiosità, un certo uso di mondo e gusto della contraddizione.

Nato il 26 dicembre 1911 (ma denunciato all’anagrafe solo il 2 gennaio del ’12) a Bagheria, in una famiglia piccolo-borghese di provincia - padre agrimensore, nonno garibaldino combattente nella battaglia di Ponte Ammiraglio alle porte di Palermo, alta aristocrazia nelle amicizie giovanili e nell’innamoramento per la figlia del Duca di Salaparuta, Topazia Alliata -, Renato Guttuso, di cui in questi giorni ricorre il centenario della nascita e il venticinquennale dalla morte (18 gennaio 1987), si ricorda soprattutto per la sua irrequietezza da artista, per l’insofferenza a vivere entro un orizzonte limitato, per il desiderio continuo di allontanamento, evasione, conoscenze ed esperienze sempre nuove.

La madre Giuseppina lo voleva avvocato, il padre Gioacchino, che per diletto cantava, suonava il flauto e dipingeva acquarelli, riconobbe subito il suo talento. Guttuso non aveva ancora vent’anni quando, in pieno fascismo, superate le selezioni locali e con la sola scuola dei decoratori di carretti siciliani, esponeva i suoi primi quadri alla Quadriennale e poi alla Biennale, proiettandosi sul piano internazionale. Era arrivato nel ’31 nella Milano fascista, intellettuale e un po’ frondista di Bottai e della rivista Corrente, del premio Bergamo contrapposto al premio Cremona, a Farinacci e all’ortodossia del regime. Trova De Grada, Vittorini e Quasimodo, scrittori, che svernano nell’ambiziosa galleria «Il Milione»; lo scultore Manzù così povero che una sua figlia morirà di denutrizione; i pittori Birolli e Sassu che finiranno arrestati nel ’35 nella prima grande retata contro gli antifascisti.

Il momento della conversione, dal fascismo all’antifascismo, viene nel ’37 a Roma, alla vigilia delle leggi razziali, quando Guttuso incontra Francesco Trombadori e per suo tramite la scuola pittorica romana, il cinema di Luchino Visconti e successivamente, nel ’40, il Pci clandestino di Togliatti, non ancora rientrato in Italia, e Alicata. A Metelliano, in Toscana, nella villa del collezionista mecenate Umberto Morra di Lavriano, conosce Bobbio, Capitini e lo stato maggiore di «Giustizia e libertà», ritratti in un disegno storico che qualche anno fa ha rivisto la luce a Torino. Bernard Berendson lo accompagnerà a Firenze. Mentre Bottai tollererà finché potrà l’eresia del giovane e molto amato pittore siciliano: il momento della rottura è nel ’43, quando Guttuso dipinge la sua Crocifissione, con la Maddalena nuda che abbraccia il corpo di Gesù, e spunta la sconfessione di Farinacci, seguita dalla scomunica del Papa.

Nel ’48 Guttuso è a Wroclaw, con Picasso e Neruda alla prima grande marcia della Pace. Da Bagheria alla Polonia sovietizzata della guerra fredda e della cortina di ferro che divide l’Europa, ha già fatto molta strada. Intellettuale organico, ancorché intimamente ironico, del movimento comunista (e stalinista) internazionale, è passato definitivamente nell’altro campo.

Ma a questo punto, per seguire la sua evoluzione, si possono allineare come pietre miliari i suoi quadri più importanti. Per rileggere, nella Crocifissione, il dolore e la desolazione della guerra, e nell’Occupazione delle terre la disperazione e la fame dei contadini siciliani, su uno sfondo oppressivo da girone infernale dantesco. Gli Anni Cinquanta porteranno un brusco cambio di scena descritto in due quadri fortemente simbolici, La spiaggia e il Boogie-woogie, con i nuovi riti di massa dell’inurbamento e delle vacanze sfrenate, la scoperta dei balli, dei divertimenti, dello stile di vita consumista che vengono dall’America, il progresso e il boom economico che Guttuso, con logica quanto arretrata visione anticapitalistica, percepisce come autentica «tragedia metropolitana». Salvo poi ripensarci, avvertendo il bisogno di modernità, culture e idee innovative, e trovando nell’Edicola, luogo dell’informazione, una sorta di santuario laico a cui si accosta un cittadino avido di conoscenza.

Dopo un altro decennio, e siamo nel ’72, saranno I funerali di Togliatti - con l’immagine pop della bara circondata di fiori colorati, che ricorda la copertina del Sgt. Pepper’s dei Beatles -, a chiudere il periodo dell’impegno, quando già il leader comunista è scomparso da un pezzo. Ma prima c’è un curioso episodio che porta Guttuso, in libera uscita dai rigori comunisti antisessantotteschi del suo partito, ad affrescare un muro della facoltà romana di Architettura accanto a Paolo Liguori e agli extraparlamentari del gruppo degli «Uccelli». E c’è un documentario, La rabbia, girato con Pasolini, suo stretto amico.

La nuova epoca guttusiana che verrà è inizialmente malinconica, di ricerca. C’è, nel ’76, la Vucciria: il vecchio e variopinto mercato siciliano sintetizza tutto il mondo antico che scompare, è Palermo ma potrebbe essere Marrakech o Tashkent, operai, contadini e lotta di classe non ci sono più. La desolazione di un cimitero di auto abbandonate è solo una tappa, mentre premono, sulla tela, donne nude o seminude che parlano, ballano o spettegolano tra loro nel grande quadro della Piscina.

Non si può capire Guttuso senza considerare il suo grande amore per le donne. Due in particolare, tra le tante che affollarono la sua esistenza: la moglie Mimise Dotti, artefice del suo successo iniziale e dell’accreditamento nel difficile ambiente politico, culturale e mondano della Roma fascista dei gerarchi. E Marta Marzotto, musa dell’ultima stagione, simboleggiata nella tigre che si aggira nervosa nel giardino del suo studio, nel quadro La visita della sera.

L’ultimo è il periodo dell’Italia craxiana, che come a molti vecchi comunisti anche a lui non piaceva. E del ripiegamento, del rifiuto degli obblighi della vita pubblica da senatore, dell’anzianità combattuta con ritmi frenetici di lavoro nei tre studi di Roma, Velate e Palermo, di una vita più ritirata, con gli amici con cui amava giocare a scopone tutti i giorni. Sono anche gli anni della lite con Leonardo Sciascia, e di un dubbio religioso più esplicito, che, pur presente da tempo nella sua vita (si pensi, ancora una volta, alla Crocifissione, o al terribile Gott mitt uns, in cui Dio è schierato con i tedeschi), resterà segreto fino all’ultimo.

E sarà in qualche modo consacrato, alla fine, nella surreale messa celebrata in casa, poco prima della morte di Guttuso, dal cardinale andreottiano Angelini, davanti allo stesso Andreotti e a Tatò, segretario di Berlinguer. E dal funerale cattocomunista a Santa Maria della Minerva, in cui non a caso Bo e Moravia si alzano a parlare uno dopo l’altro, mentre Iotti e Fanfani, emblematicamente, aprono allineati il corteo che accompagna la bara.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/438290/


Titolo: MARCELLO SORGI. La strada obbligata per i partiti
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2012, 10:55:22 am
17/1/2012

La strada obbligata per i partiti

MARCELLO SORGI

Se doveva segnare la nascita della Grande coalizione e la fine della collaborazione stentata tra i tre partiti che sostengono il governo, il primo pranzo ufficiale tra Monti, Alfano, Bersani e Casini non ha raggiunto del tutto il suo obiettivo. La maggioranza politica e la svolta verso una piena alleanza che in tanti si aspettavano non ci sono ancora. Come hanno sottolineato, tra l'altro, i leader di Pdl e Pd, avversari diretti fino a due mesi fa, e non ancora pronti a stringere un patto senza riserve. Se invece si misura quanto è accaduto ieri a Palazzo Chigi con il metro dello scontro all'ultimo sangue e delle lotte intestine degli ultimi mesi del governo Berlusconi, il risultato, va detto, ha del miracoloso.

Basti solo considerare la disponibilità espressa dai nemici di ieri di firmare insieme di qui a poco una mozione unitaria, che dia a Monti tutto l'appoggio parlamentare di cui ha bisogno, per tornare a trattare con i partners europei una strategia comune mirata a uscire dalla crisi dell'euro.

Qualcosa del genere sarebbe stato impensabile nel Parlamento del 2011, in cui anche le questioni più piccole facevano da detonatore a incendi quotidiani, pericolosi quanto inutili.

Da questo punto di vista va dato atto ad Alfano e Bersani, al di là della loro ufficiale limitata disponibilità, di essersi mossi con serietà e consapevolezza. Forse non avevano altra scelta, in una giornata in cui il presidente della Bce Draghi e quello del Consiglio europeo Van Rompuy ribadivano il loro allarme, in termini drammatici mai usati prima, e in cui la Grecia di nuovo è apparsa vicina al default. Ma questo non sminuisce in alcun modo il valore del loro senso di responsabilità.

Resta il fatto che esiste una differenza tra Casini, per cui il sostegno a Monti è strategico, e i segretari di Pdl e Pd, che continuano a negoziare volta per volta l'appoggio al governo. E bisognerà capire quanto sia ancora un gioco delle parti e quanto al contrario riveli un'effettiva divergenza tra i tre. In altre parole, il leader del Terzo polo pensa, pur senza dirlo apertamente, che Monti e la larga maggioranza di cui il governo dispone siano indispensabili oggi e continueranno a restare necessari domani, anche dopo le elezioni del 2013, per completare l'azione di risanamento economico del Paese i cui tempi si annunciano ogni giorno più lunghi.

Mentre Alfano e Bersani - che fanno i conti, all'interno dei rispettivi partiti, con una vasta gamma di resistenze, e pagano per questo un prezzo più alto per la solidarietà al governo - non sanno ancora se sia più facile per loro stringere una vera alleanza o prepararsi a una nuova competizione. La decisione non è affatto semplice, dipende da molti fattori e in fondo non è neppure tutta nelle loro mani. Infatti, come s'è visto nelle ultime settimane, Monti in Europa è una garanzia per tutti ed è impossibile prescinderne. Se, Dio non voglia, la crisi dell'euro continuerà ad avvitarsi, l'ora di prendere atto di trovarsi su una strada obbligata arriverà anche per Pdl e Pd.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9658


Titolo: MARCELLO SORGI. Casini: sulla legge elettorale l’accordo in aula è possibile
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2012, 10:12:28 pm
Politica

16/01/2012 - intervista

Casini: sulla legge elettorale l’accordo in aula è possibile

"Questo governo non è una parentesi, chi lo pensa sbaglia. Deve lavorare in pace"

Marcello Sorgi
Roma

Presidente Casini, tutti i veli sono caduti: oggi Monti incontra voi segretari della maggioranza alla luce del sole, senza più doversi nascondere.

Com’è nata la svolta?
«Vede, in politica c’è sempre un po’ di ipocrisia: da quando è nato il governo, ci siamo visti con Monti, come tra noi della maggioranza, altre volte. Domani è la prima volta che accade ufficialmente, ma non direi che è un fatto sconvolgente».

Sarà soddisfatto, lei che ha tanto premuto per far uscire questa maggioranza dalla clandestinità.
«A me sembra normale che con tutto quel che sta accadendo e nel vivo di un cambiamento positivo di rapporti tra Italia e Europa, chi appoggia il governo discuta delle prospettive. Se vuole la mia valutazione, ritengo che noi abbiamo fatto il primo passo per uscire dall’isolamento in cui eravamo con il governo Berlusconi, abbiamo dimostrato di poter essere credibili con la manovra di dicembre, con gli impegni presi per il pareggio di bilancio nel 2013 e con il programma di liberalizzazioni che sta per essere varato. Adesso però dobbiamo trovare il modo di ottenere dall’Europa risposte concrete sul rafforzamento del fondo salva-Stati, sul ruolo della Bce e sull’effettiva difesa dell’euro dagli attacchi speculativi che continuano».

Non crede che l’Italia paghi ancora il prezzo dell’appoggio incerto dei partiti al governo? Non passa giorno che non si alzi qualcuno a dire che Monti deve avere più rispetto per i politici, altrimenti…
«Da parte mia come del Terzo polo non c’è nessuna intermittenza nell’appoggio al governo, che sosteniamo a testa alta. E per quanto riguarda la maggioranza, per noi è politica come sono tutte quelle che votano i governi in Parlamento, ci mancherebbe altro».

E allora perché tutte queste precisazioni? Non è il nostro governo, non è la nostra manovra: certi momenti sembra ci sia una gara a prendere le distanze da Monti.
«Se guarda la sostanza converrà che il governo finora ha potuto realizzare il suo programma. Che poi i partiti intervengano per chiedere qualche aggiustamento, anche questo rientra nella normalità dei rapporti politici. E che dopo vent’anni di bipolarismo imperniato sulla reciproca demonizzazione di Berlusconi e dei comunisti, Alfano e Bersani si muovano con cautela è comprensibile. Noi per questo avevamo proposto un armistizio politico con l’ingresso nel governo anche dei rappresentanti dei partiti. Sarebbe stata una soluzione più forte».

Per questo gira voce di un rimpasto per rafforzare il governo inserendo ministri politici?
«Lo escludo. Non ha più senso riaprire quel discorso. Ormai il governo così com'è deve poter lavorare in pace e arrivare alla sua scadenza».

La scadenza naturale del 2013, o le elezioni anticipate, di cui malgrado tutto si continua a parlare?
«Io quando sento ancora discutere di elezioni anticipate mi domando se chi ci pensa ha capito veramente in che situazione ci troviamo. L’idea che questo governo debba essere considerato una parentesi, da chiudere al più presto, per tornare alla normalità, circola purtroppo, ma è fuori dalla realtà. Occorre rendersi conto che se abbiamo dovuto chiamare Monti a fare quel che sta facendo è dipeso dall’incapacità della politica di affrontare i problemi che essa stessa aveva creato. Era tutto chiaro da tempo: ma né Prodi, né Berlusconi, con i loro due ultimi governi, sono stati in grado di trovare e mettere in pratica le soluzioni. Con questo non voglio dire che la colpa sia solo loro, anzi Alfano ha ragione quando dice che è ingiusto scaricare le responsabilità solo sul governo appena caduto».

Però c’è anche chi obietta che, dopo tutti gli sforzi imposti da Monti, la crisi è allo stesso punto.
«Chi pensa questo sbaglia. Abbiamo molti anni da recuperare. Per decenni la politica ha consentito al Paese di vivere al di sopra delle proprie possibilità, scaricando il debito sulle future generazioni. Magari fosse questione di settimane, o di mesi. La strada è molto lunga e sulla nostra capacità di resistenza ci giochiamo tutto, a cominciare dalla nostra credibilità in Europa. L’idea che non siamo capaci di darci regole severe per sempre in fondo è quel che giustifica le resistenze tedesche della Merkel e dell’opinione pubblica del suo Paese - a venirci incontro».

Tra i peones del Parlamento si teme che la permanenza del governo tecnico, specie se produrrà risultati, possa far apparire la politica come origine dei guai.
«Se la politica sa approfittare di questa fase per riformare se stessa, un timore del genere è ingiustificato. Abbiamo molto da fare: non si tratta solo di agire sui costi della politica, ma di riformare il bicameralismo, i regolamenti, la legge elettorale».

E lei crede davvero che si possa far questo nei pochi mesi di qui alla scadenza del 2013?
«Io penso che un'intesa su questi punti sia possibile e a portata di mano. Sulla distinzione di ruoli tra Senato e Camera c’è larga condivisione. La riduzione del numero dei parlamentari di almeno cento dalla prossima legislatura e di un terzo a partire dalla successiva è assolutamente necessaria. E sui regolamenti Luciano Violante ha messo a punto un progetto assai puntuale. Certo, si tratta di lavorare seriamente. Se invece continuiamo a vivacchiare, allora sì, il rischio che la sfiducia nella politica prevalga è reale».

Non le chiedo dell’antipolitica: se la sono presa con lei e con due suoi colleghi perché a Natale siete andati alle Maldive. Ma sia sincero: si è pentito di avere scelto quella vacanza in un clima come questo?
«Le dico la verità: se dopo tanti anni di vita politica messi continuamente al vaglio degli elettori, il rilievo è di essere andato in vacanza dieci giorni con la mia famiglia, me lo prendo e accetto le critiche. Ma attenti a spingere il qualunquismo, perché per questa strada si arriva a contestare il cotechino di Monti e a scoprire che se lo è pagato di tasca sua».

Secondo lei il voto della Camera che ha negato l’autorizzazione all’arresto di Cosentino incoraggia o no l’antipolitica?
«Duole dirlo: incoraggia. Quando un ex ministro dell’Interno appena uscito dal Viminale come Maroni sostiene che le accuse contro il deputato erano fondate e non c’era fumus persecutionis, il Parlamento avrebbe avuto il dovere di accontentare le richieste dei magistrati».

E come mai l’Udc ha dato libertà di voto ai suoi parlamentari?
«Sulle questioni personali noi garantiamo la libertà di coscienza. Ma la posizione del partito, per come è stata esposta in aula, era chiarissima».

Lei era contrario ai referendum elettorali. Adesso che la Corte costituzionale li ha bocciati, non crede sarà più difficile trovare un’intesa per cambiare il Porcellum?

«Non sono pessimista sulla legge elettorale. Credo che un accordo sia possibile se tutti mettiamo sul tavolo le nostre proposte e ci prepariamo a discuterne in modo costruttivo. Noi per esempio siamo favorevoli a un sistema proporzionale con sbarramento alla tedesca e siamo pronti a mantenere l’indicazione del candidato premier prima del voto, in modo che i cittadini possano scegliersi il governo, e non solo il partito. L’importante è uscire dai sistemi rigidi, dalle coalizioni forzose, che in tutti questi anni ci hanno dato governi che non riuscivano a governare. In Germania, quando si va a votare, gli elettori sanno che l’alternativa è tra democristiani e socialisti. Ma sanno anche che in caso di necessità può accadere che si faccia la grande coalizione».

Com’è accaduto in Italia?
«Zitto! Non lo sa che in Italia certe cose non si possono ancora dire?».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/438398/


Titolo: MARCELLO SORGI. Ritorna ad affacciarsi il rischio di voto anticipato
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2012, 04:50:37 pm
19/1/2012 - TACCUINO

Ritorna ad affacciarsi il rischio di voto anticipato

MARCELLO SORGI

Convocate per un giro d’orizzonte e perché Napolitano rimane il garante numero uno del governo, le mini-consultazioni dei partiti della maggioranza al Quirinale ieri e martedì avevano l’obiettivo, per il Capo dello Stato, di spronarli a una ripresa del confronto parlamentare sulle riforme, a cominciare dalla legge elettorale, dopo la bocciatura dei referendum, e di verificare lo stato d’animo dei leader, soprattutto di quelli di Pdl e Pd in cui si muovono due fronti di resistenza all’esperienza del governo tecnico.

Un mini programma di riforme istituzionali (differenziazione dei ruoli delle Camere, riduzione del numero dei parlamentari, nuovi regolamenti) sarebbe un toccasana per impegnare i partiti che appoggiano il governo, costretti finora a trangugiare l’amara pillola delle misure anticrisi. Se ne ricaverebbe un tentativo di rilegittimazione della politica, in tempi di antipolitica crescente, e nuove regole elettorali da usare nelle elezioni del 2013, accantonando l’usurato Porcellum e creando le condizioni per un avvio del tutto diverso della prossima legislatura.

Ma al di là di una disponibilità formale, che non può essere negata, lo stato d’animo e gli obiettivi di Alfano, Bersani e Casini sono di altro genere. I primi due scontano per varie ragioni un certo tasso di mugugno dei gruppi parlamentari rispetto al governo. Liberalizzazioni per il centrodestra e flessibilità sul lavoro per il centrosinistra sono simmetricamente difficili da mandar giù. E quanto alla legge elettorale, mentre Casini si dichiara pronto a trattare, pensando che quale che sia il modello scelto ci sarà comunque
un’iniezione di proporzionale favorevole al Terzo polo, dagli altri due partiti arriva un'ondata di scetticismo sulla possibilità di arrivare a un accordo: motivata, per il Pd, dal fatto che i sondaggi favorevoli consentirebbero a Bersani di puntare ad ottenere il premio di maggioranza alla Camera, e per il Pdl dalla volontà di non rinunciare a un impianto bipolare, con il quale comunque i due maggiori partiti farebbero la parte del leone.

Inutile nascondersi che in un clima del genere, come si ricomincia a sentir dire nei corridoi parlamentari, torna ad affacciarsi il rischio di elezioni anticipate. L’alta percentuale di indecisi e di tendenti al non voto, e il dubbio che la permanenza del governo tecnico possa motivare un aumento della sfiducia nella politica tradizionale, aumentano le incertezze di questo periodo. Ma per votare entro giugno, o al contrario per arrivare alla scadenza naturale del 2013, una decisione va presa entro marzo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9665


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Cavaliere ruggisce ma non morde
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2012, 11:01:14 pm
21/1/2012

Il Cavaliere ruggisce ma non morde

MARCELLO SORGI

Adesso in tanti diranno che Berlusconi ha dato lo sfratto a Monti e vuol rientrare a Palazzo Chigi. Ma non è vero. Anche se ha scelto una giornata simbolica, come quella del varo delle liberalizzazioni, il Cavaliere è il primo a riconoscere che solo «paradossalmente» può aspettarsi di tornare al suo posto.

Infatti, al momento, «non c’è una soluzione alternativa» ai tecnici e non rimane dunque che andare avanti così.

Ma se ha scelto di parlare appena fuori dall’aula del tribunale di Milano, c’è una ragione precisa. In fatto di comunicazione politica, Berlusconi non fa mai niente a caso. Il motivo immediato di un’uscita così forte è lo scontento, ormai evidente, di gran parte del gruppo dirigente del suo partito, che mal sopporta il sostegno forzato garantito a Monti.

Da settimane infatti i vertici del Pdl consultano nervosamente le cifre dei sondaggi che mostrano un consenso costantemente in calo e una distanza che si allunga rispetto al Pd. Di qui il timore che di questo passo, nel giro di un paio di mesi il partito si ritrovi al di sotto del 20% e si avviti in una spirale che potrebbe diventare esiziale. Mentre in campo moderato Casini modella e propone il Terzo Polo come alternativa attraente agli incerti del Pdl.

Gli uomini vicini al Cavaliere riconoscono tuttavia che in una situazione del genere far saltare il banco del governo potrebbe rivelarsi anche più pericoloso che sostenerlo, seppure svenandosi. Ma chiedono al loro leader di non rinunciare a valutare, se ce ne saranno le condizioni, la possibilità di uno scioglimento delle Camere e di un ricorso alle elezioni anticipate, in estate o in autunno.

Una prospettiva del genere, va detto, non convince Berlusconi. Intanto perché l’ex premier legge in maniera diversa i dati dei sondaggi e teme che un’accelerata verso il voto motivata dal panico possa rivelarsi controproducente, o addirittura portare a una secca sconfitta. Come ha detto lui stesso ieri, correggendo in parte il senso del suo attacco al governo, finché il quadro generale della crisi in Europa rimane allarmante, non ci sono alternative, e quindi nemmeno margini per rivolgersi agli elettori. Nello stesso tempo il Cavaliere ha il problema di tenere unito il partito e frenare i più scalpitanti del suo gruppo dirigente. Ecco perché, anche in pubblico, non perde occasione per far capire che ha perfettamente presenti le loro preoccupazioni e non s’è affatto trasformato in un sostenitore a oltranza di Monti. Del cui governo, anzi, continua a mettere in risalto quelli che a suo modo di vedere sono gli scarsi risultati.

Nelle due settimane trascorse dal ritorno dalle vacanze e dall’inizio della ripresa politica, non è la prima volta che Berlusconi prende la parola contro Monti e i suoi tecnici. Lo ha già fatto in privato, così che le voci hanno preso a circolare e sono arrivate anche al Quirinale, accolte con preoccupazione da Napolitano. Non perché esista un rischio concreto che il Pdl ritiri l’appoggio a Monti ed apra una nuova crisi. Ma perché i mercati valutano l’efficacia di azione dell’esecutivo, non solo dal tipo di misure che prende, ma anche dalla qualità dell’appoggio politico di cui gode. E sarebbe davvero un peccato, dopo aver visto scendere finalmente negli ultimi giorni lo spread al di sotto dei livelli di guardia, in coincidenza con l’annuncio della fase 2, vederlo risalire per un ritorno di polemiche politiche che si pensavano superate.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9676


Titolo: MARCELLO SORGI. Per Pd e Pdl opposti dubbi sulle urne
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2012, 10:08:51 am
24/1/2012 - TACCUINO

Per Pd e Pdl opposti dubbi sulle urne

MARCELLO SORGI

Accolto positivamente a Bruxelles insieme con il decreto sulle liberalizzazioni appena varato, Mario Monti deve ancora scontare in casa
l’inquietudine del Pdl. A cui ha dato voce, tra gli altri, ieri sera negli studi di Porta a porta l’ex ministro Paolo Romani. A una domanda sulle prospettive del percorso riformatore di qui alla conclusione della legislatura, Romani ha risposto: «Vediamo se ci arriviamo, al 2013». All’interno del Pdl, e soprattutto tra gli ex del governo Berlusconi, questo atteggiamento è molto diffuso, e l’attacco del Cavaliere a Monti venerdì nasceva anche dalle pressioni del suo partito. Da questo a togliere l’appoggio a Monti, certo, ce ne corre (e Berlusconi è il primo a frenare, quando parla con i suoi, e al di là delle sue uscite pubbliche): ma la novità è che sono sempre di più, in quello che si chiamava il partito del presidente, a non escluderlo. Il fatto che nei sondaggi il Popolo della libertà continui ad essere accreditato in ribasso non li preoccupa: di questo passo, obiettano, cosa succederà in un anno? Meglio frenare l'emorragia e giocarsi davvero la partita in una campagna elettorale, finché la rimonta è possibile.

Atteggiamenti come questi sono guardati con preoccupazione dai dirimpettai del Pd, per il quale, al contrario, l’allungamento dei tempi è strategico per affrontare le numerose divisioni interne o almeno per accantonarle. Sottovoce, gli uomini del partito di Bersani, che nei sondaggi al contrario del Pdl risulta favorito, non si nascondono i problemi che dovrebbero risolvere nel caso in cui si trovassero chiamati a stretto giro alle urne: la principale delle quali sarebbe la controversa (e osteggiata dalla minoranza interna) possibile candidatura del segretario alla premiership e il recupero della scomoda alleanza con Di Pietro e Vendola. Inoltre nessuno è in grado di valutare quanto peserebbe, in termini di disaffezione al voto, o peggio di voto di protesta, uno sgambetto fatto a un governo che, malgrado le proteste delle categorie colpite dalle liberalizzazioni, mantiene un alto tasso di consensi, come se l’opinione pubblica consideri la terapia adottata l’unica praticabile e Monti il solo in grado di portare il Paese fuori dalle secche. Un «montiano» doc come il vicesegretario Enrico Letta ammette che paradossalmente il rischio di elezioni crescerebbe se, come sembra indicare il calo ormai costante dello spread, le terapie del governo dovessero cominciare a produrre risultati.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9687


Titolo: MARCELLO SORGI. Dai giudici una base per trattare
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2012, 10:50:07 pm
25/1/2012 - TACCUINO

Dai giudici una base per trattare

MARCELLO SORGI

Pubblicata ieri dalla Consulta, la sentenza con cui sono stati bocciati i referendum elettorali per cui erano state raccolte un milione e duecentomila firme, andrebbe letta dalla fine verso l'inizio. E non perché le motivazioni che hanno portato alla bocciatura non siano interessanti, ancorchè prevedibili. La Corte ha infatti sostenuto che per il modo in cui erano stati formulati i quesiti referendari, in caso di abrogazione le Camere sarebbero rimaste paralizzate a causa della soppressione delle norme elettorali. E poiché «gli organi costituzionali non possono essere esposti neppure temporaneamente all'eventualità di paralisi di funzionamento, anche soltanto teorica», è indispensabile «la costante operatività delle leggi elettorali relative a tali organi».

Fin qui, nessuna novità e un no deciso alla tesi che, morto il Porcellum, sarebbe tornato in vita il Mattarellum. Dove invece il pronunciamento dei giudici fornisce materia di riflessione per politici e partiti, è appunto nelle conclusioni. La sentenza ribadisce, infatti, che «non spetta alla Corte, fuori di un giudizio di costituzionalità, esprimere valutazioni», ma subito dopo questa affermazione di principio elenca con fredda severità tutte le carenze del Porcellum, dall'attribuzione dei premi di maggioranza senza la previsione di una soglia minima di voti o seggi, all'esclusione dei voti degli elettori della Valle d'Aosta e della circoscrizione estero dal computo della maggioranza ai fini del conseguimento del premio, al meccanismo delle liste bloccate, alla difformità nel metodo di assegnazione del premio tra Camera e Senato, alla possibilità di presentarsi candidati in più di una circoscrizione.

Punto per punto, senza dimenticarne neppure uno, si potrebbe considerare l'elenco fatto dalla Corte come un ideale ordine del giorno e un'ordinata materia per il prossimo confronto parlamentare, se davvero si volesse arrivare a ripristinare una legge elettorale degna di questo nome. Sarà certo una coincidenza, ma la sentenza viene resa pubblica a pochi giorni dal giro di consultazioni svolto al Quirinale dal Presidente della Repubblica proprio per sollecitare i partiti ad assumersi le proprie responsabilità in materia. In passato, altre volte il monito della Consulta ha rappresentato la base per l'impostazione di una nuova legge. Al momento, però, al di là di una formale disponibilità ad affrontare il problema, non sembra che sulla strada delle riforme si siano fatti molti passi avanti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9691


Titolo: MARCELLO SORGI. Si rinsalda il patto tra i partiti
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2012, 09:19:04 am
26/1/2012 - TACCUINO

Si rinsalda il patto tra i partiti

MARCELLO SORGI

Oltre a rafforzare Monti alla vigilia del vertice dell’Unione di lunedì prossimo, l’approvazione della mozione di sostegno al governo nella trattativa sulle strategie anticrisi in Europa segna una decisa inversione di tendenza rispetto ai mugugni e alle tensioni interne alla maggioranza dei giorni scorsi. Non che il mal di pancia dei partiti sia scomparso come per incanto: ma di fronte all’impegno preso solennemente da Alfano, Bersani e Casini nel recente pranzo a Palazzo Chigi, la scrittura della mozione comune della maggioranza tripartita e poi la sua approvazione sono avvenute senza intoppi.

E Monti ieri sera ha potuto rallegrarsene, spiegando come i sacrifici affrontati fin qui dall’Italia e le riforme introdotte possono produrre risultati e portare il Paese fuori dalla crisi, solo se inquadrate nell’ambito di una forte iniziativa europea e in un sistema di relazioni con gli altri membri dell’Unione che veda rafforzato e riconosciuto il ruolo dell’Italia.
Il voto del Senato e della Camera erano molto attesi da Monti anche come base per un più stringente negoziato con la Germania e la Merkel per ottenere una riduzione dei tassi, che favorirebbe la ripresa, e cercare di sottrarre l’Italia alla recessione ormai annunciata da molti qualificati osservatori. Le premesse stanno nei due successivi interventi che il governo ha compiuto dalla sua nascita: la manovra sui conti pubblici varata a dicembre, che ha tolto il Paese dalla situazione di estrema emergenza in cui si trovava ed è servita a smorzare l’allarme europeo sul rischio di default; e il piano di liberalizzazioni della scorsa settimana che era già stato chiesto nella famosa lettera della Bce della scorsa estate e che dovrebbe sperabilmente incoraggiare il ritorno agli investimenti anche da parte di capitali stranieri.
Va detto che gran parte di questi argomenti non erano proprio al centro dei pensieri, per non dire che risultavano estranei a deputati e senatori che affollavano le aule parlamentari, per i quali invece le prossime scadenze elettorali delle amministrative e i problemi delle alleanze locali in vista della scelta di sindaci e presidenti di provincia sono molto più pressanti delle scadenze europee. Anche la bocciatura della mozione della Lega, contrapposta a quella della maggioranza alla Camera, a sentire i più, non dovrebbe influire più di tanto sulla trattativa che Berlusconi e Bossi hanno riaperto, riprendendo l’abitudine dei loro incontri a due, per salvare il salvabile del loro vecchio asse.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9693


Titolo: MARCELLO SORGI. Le elezioni amministrative aprono crepe bipartisan
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2012, 03:26:10 pm
27/1/2012 - TACCUINO

Le elezioni amministrative aprono crepe bipartisan

MARCELLO SORGI

La campagna elettorale per le amministrative si è aperta in grande anticipo con uno scontro Berlusconi-Bossi di quelli che non si vedevano da tempo. Non siamo tornati ai tempi del «Berluskaz» o «Berluskaiser», coniati dal Senatùr nella memorabile campagna del ‘94, quella in cui il centrodestra era la somma di due diverse e conflittuali alleanze di Berlusconi, al Nord con la Lega, e al Centro e al Sud con Fini e Casini. Ma poco ci manca: ieri Bossi ha definito il Cavaliere una «mezza calzetta» perché, a suo dire, non ha il coraggio di buttar giù Monti. Ed anche se l’interessato ha reagito al sanguinoso insulto in modo controllato, confermando l’appoggio al governo, se il buon giorno si vede dal mattino nelle prossime settimane se ne vedranno delle belle. Niente di particolarmente allarmante, perché, si sa, la Lega spara spara, come faceva negli ultimi tempi in cui era al governo, ma poi si scopre sempre che ha le armi caricate a salve e in ogni caso i due vecchi alleati trovano sempre il modo di far pace e curare i propri interessi. Nessuno infatti, a cominciare da Formigoni, crede che il Carroccio farà veramente cadere la giunta della Regione Lombardia se Berlusconi non ritirerà il sostegno al governo. E a ogni buon conto, il segretario del Pdl Alfano ha avvertito la Lega che se cade la Lombardia, cadono anche Piemonte e Veneto, le due regioni a guida leghista. Difficilmente però il Carroccio riuscirà a rimangiarsi anche l’annuncio che si sarebbe presentato da solo alle amministrative, a cominciare da Verona. E per questo il turno elettorale locale si preannuncia funesto per tutto il centrodestra, che di conseguenza, al di là delle rassicurazioni berlusconiane, continuerà ad avere rapporti altalenanti con il governo.

La scadenza elettorale è destinata ad aprire più di un problema anche in casa del centrosinistra. Ieri Di Pietro e Vendola, i due alleati di Bersani collocati come Bossi all’opposizione di Monti, in una conferenza stampa hanno esposto le loro ragioni e chiesto al leader del Pd di far qualcosa per rinsaldare l’alleanza, almeno sul piano locale. Ma oltre alla rumorosa Palermo (con il primo cittadino Pdl che ha gettato la spugna in anticipo sulla data del voto e almeno tre aspiranti successori di centrosinistra in corsa) sono molte le situazioni conflittuali aperte, in cui la scelta di candidati sindaci è lontana dall’essere definita, e le primarie che stanno per essere convocate non aiuteranno certo a migliorare i rapporti interni alla coalizione né a trovare soluzioni condivise.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9700


Titolo: MARCELLO SORGI. Dalla piazza i veri ostacoli alle riforme del governo
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2012, 03:48:03 pm
20/1/2012 - TACCUINO

Dalla piazza i veri ostacoli alle riforme del governo

MARCELLO SORGI

Lo sciopero dei tassisti, confermato a oltranza anche dopo una prima intesa tra governo e sindacati delle autopubbliche, e la protesta annunciata dai benzinai, che minacciano una serrata di dieci giorni consecutivi, sono i veri ostacoli ai decreti sulle liberalizzazioni che il governo si accinge a varare oggi in consiglio dei ministri.

Rispetto alle incognite, evidenti già dopo due giorni di blocco dei taxi, e ai rischi che la protesta possa degenerare a causa dell’esasperazione di alcune frange di autisti, i distinguo manifestati ieri dalle forze politiche sulle decisioni che il governo ha messo all'ordine del giorno non sono un gran problema. Ieri soprattutto il Pdl, con il segretario Alfano, ha illustrato una serie di suggerimenti che saranno probabilmente trasformati in emendamenti durante il percorso parlamentare dei decreti. Il Pd per ora spinge Monti a proseguire sulla strada delle liberalizzazioni, ma quando si passerà alle misure per il mercato del lavoro farà sentire la sua voce, anche se al momento sembra escluso qualsiasi intervento sull’articolo 18.

Attesa dagli osservatori europei presso i quali Monti ha svolto durante tutto questo mese un'opera di convincimento, la serie di decreti che arrivano stamane in consiglio dei ministri rappresenta la conferma che il governo intende mantenere gli impegni presi in sede Ue, e considera la fase due del proprio programma indispensabile per vedere riconosciuto il ruolo italiano nelle strategie anticrisi della Ue. Con la premessa delle liberalizzazioni, al vertice europeo di fine mese l'Italia si presenterà come il Paese che forse più rapidamente, nel corso degli ultimi due mesi, ha svolto i compiti che le erano stati assegnati. E su questo Monti conta per cercare di smuovere la Germania dalla sua resistenza.

Napolitano ha concluso ieri con Lega e Idv il giro di consultazioni sulle riforme e in particolare sulla nuova legge elettorale. Le delegazioni dei due partiti si sono presentate al Quirinale senza i leader Bossi e Di Pietro, ed anche se è stato chiarito che non avevano alcun significato polemico, le assenze hanno contribuito a confermare l'incertezza diffusa sulle prospettive di una riapertura del confronto in Parlamento. Specie sulla legge elettorale, a parole tutti si dicono d'accordo e manifestano disponibilità, ma la distanza tra i vari progetti rimane ampia e tra i partiti minori si moltiplicano i dubbi sulla possibilità che esista un tacito accordo tra Pd e Pdl per tornare a votare con il Porcellum.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9671


Titolo: MARCELLO SORGI. Il voto spinge Pd e Pdl a "smarcarsi" dal governo
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2012, 11:31:49 pm
31/1/2012 - TACCUINO

Il voto spinge Pd e Pdl a "smarcarsi" dal governo

MARCELLO SORGI

Accolto molto bene a Bruxelles, dove ha avuto tempo, prima di calarsi nella trattativa, di tenere un vertice estemporaneo con Merkel e Sarkozy, e dove ha ricevuto i complimenti del capo dell'Eurogruppo Juncker, Mario Monti dovrà nuovamente fronteggiare al ritorno una serie di difficoltà interne alla sua maggioranza. La campagna elettorale per le amministrative incalza e le conseguenze cominciano a farsi sentire, in termini di timori dei partiti per la propria visibilità e per le conseguenze che i provvedimenti presi finora dal governo potrebbero avere sull'elettorato. In un modo o nell'altro i due maggiori partner della maggioranza tripartita mostrano segni di difficoltà e manifestano la necessità di prendere le distanze dal governo.

Il Pdl risente della pressione giudiziaria su Berlusconi, che al momento è tornata ad essere la sua maggiore preoccupazione, e della prospettiva che il processo sul caso Mills, in cui il Cavaliere è accusato di corruzione, benché destinato alla prescrizione, possa egualmente andare a sentenza, caricando il leader del centrodestra di un ulteriore impedimento proprio nella stagione dei comizi. Ieri Berlusconi ha passato una mezza giornata in tribunale, dove erano in corso diverse udienze contemporanee dei processi in cui è imputato. Ed anche se la Corte d'appello ha dichiarato ammissibile l'istanza di ricusazione che Berlusconi ha proposto contro i giudici del processo Mills, facendo segnare un punto alla difesa dell'ex premier, l'ala dura del Pdl, la stessa che preme sul leader per spingerlo appena possibile a un disimpegno dal governo Monti, ora vorrebbe riprendere la campagna di polemiche contro i magistrati che già ebbe risultati funesti a primavera, nella corsa perduta per il Comune di Milano. Inoltre Berlusconi è in attesa della decisione della Corte costituzionale sull'eventuale spostamento al tribunale dei ministri del processo sul caso Ruby e sulle feste di Arcore.

In casa Pd si continua a discutere della riforma del mercato del lavoro. Anche l'ultima ipotesi avanzata dal governo (esclusione dell'articolo 18, che garantisce dal licenziamento, solo per i nuovi assunti) non ha entusiasmato i sindacati, e in particolare la segretaria della Cgil Camusso. Monti ha già ribadito che per fare una trattativa non bisogna avere pregiudiziali. Ma la sensazione è che anche l'incontro di domani con il ministro Fornero per proseguire la contrattazione non porterà risultati. E le conseguenze di questo stallo all'interno del centrosinistra non tarderanno a farsi sentire.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9716


Titolo: MARCELLO SORGI. Messaggio incalzante a tutti i partiti
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2012, 10:00:06 am
1/2/2012 - TACCUINO

Messaggio incalzante a tutti i partiti

MARCELLO SORGI

All’indomani delle contestazioni, a cui aveva reagito lunedì senza enfatizzarle, durante la cerimonia in cui gli veniva conferita la laurea ad honorem all’università, il presidente Napolitano, alla sua seconda giornata di visita a Bologna, ha voluto fare una messa a punto politica del momento che il Paese e il governo stanno attraversando. Dunque, pieno appoggio a Monti e all’opera di risanamento che ha messo in opera, richiamo alla necessità che il quadro dei sacrifici sia il più possibile equo, per essere meglio sopportato dai cittadini, rilancio delle riforme istituzionali, senza nascondersi che il tempo a disposizione in questa legislatura è poco. E, a sorpresa, un appello all’attuazione del federalismo fiscale, dopo le denunce fatte dalla Lega al proposito.

Il Capo dello Stato ne ha parlato come di un «dovere», dato che la riforma è stata approvata, e in questo senso ha espressamente risposto al Carroccio, che da tempo sostiene che con la nascita del governo Monti il federalismo sia stato invece abbandonato, e che perfino l’istituzione di un ministero per la coesione testimonierebbe la volontà di una decisa inversione di tendenza rispetto alla linea di politica istituzionale praticata dal governo Berlusconi.

Al contrario, il Presidente ha voluto far capire che la necessaria, prevalente attenzione del governo ai problemi economici e ai rapporti con l’Unione europea non deve in alcun modo significare la rinuncia al percorso di cambiamento istituzionale, e su questo terreno anzi i partiti dovrebbero tornare a confrontarsi seriamente. Anche perché - su questo Napolitano non ha fatto sconti - l’illusione, che di tanto in tanto si vuol diffondere, della crisi ormai in via di soluzione e della stagione dei sacrifici che volge al termine, è del tutto infondata: l’Italia ha purtroppo davanti a sé un periodo ancora abbastanza lungo di sofferenze, deve rendersi conto di aver vissuto troppo a lungo al di sopra delle proprie possibilità e dovrà abituarsi all’idea di un ridimensionamento del tenore di vita degli ultimi decenni. Senso di responsabilità, secondo il Capo dello Stato, suggerirebbe ai partiti della maggioranza che sostengono il governo di impegnarsi di più, invece di prendere le distanze al momento delle decisioni, e soprattutto di dire la verità ai propri elettori. In questo senso Napolitano è parso rivolgersi a tutti, non solo al Pdl che ieri ha deciso di rinunciare alla ripresa delle manifestazioni contro i giudici di Milano che stanno processando Berlusconi. Si vedrà oggi, alla ripresa della trattativa sul lavoro, se la campana ha suonato anche per Pd e sindacati.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9721


Titolo: MARCELLO SORGI. Sui giudici malessere bipartisan
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2012, 12:18:01 pm
3/2/2012

Sui giudici malessere bipartisan

MARCELLO SORGI

Se c’era un modo originale di celebrare l'anniversario di Tangentopoli che cadrà tra pochi giorni (il 17 febbraio di vent'anni fa, con l'arresto del «mariuolo» Mario Chiesa, partiva il terremoto che avrebbe fatto cadere la Prima Repubblica), ieri alla Camera i deputati di Pdl e Lega, con l'aiuto di almeno una cinquantina di franchi tiratori degli altri gruppi, hanno superato se stessi.

Inserito a sorpresa dal Carroccio nelle votazioni della legge comunitaria, l'emendamento che mira a introdurre una responsabilità civile rafforzata per i magistrati, esposti al rischio di un' azione diretta degli imputati contro gli errori giudiziari, pur approvato, non avrà alcun effetto pratico. Ma invece provocherà conseguenze politiche rilevanti, per tre ragioni.

La prima è che in pochi giorni è la seconda volta che Pdl e Lega ricostituiscono l'asse portante della vecchia maggioranza di centrodestra. Dopo il blitz delle nomine Rai, l'alleanza che s'era spaccata con la nascita del governo tecnico sostenuto da Berlusconi e con Bossi all'opposizione, s'è riproposta nella votazione di Montecitorio con un chiaro connotato anti-Monti. Che si tratti di una libera uscita autorizzata dal Cavaliere, insofferente proprio in questi giorni per la pressione a cui è sottoposto dai magistrati di Milano, o di un voto di protesta dei parlamentari di base, che mal sopportano il sostegno riconfermato fino a mercoledì da Berlusconi in persona al governo dei sacrifici, lo si vedrà presto al Senato, quando Monti, o per conto suo il ministro Severino, dovranno chiedere al Pdl di rientrare nei ranghi e annullare con un voto opposto il testo approvato alla Camera.

In un caso o nell'altro, la gravità della prima spaccatura della maggioranza tripartita a due mesi dalla nascita del governo rimane. E il contributo dato al partito trasversale antimagistrati dai franchi tiratori, in buona parte di centrosinistra, appesantisce il quadro d'insieme e non depone a favore della stabilità: il secondo risultato politico del voto di Montecitorio è questo. Quanto al rammarico e alla richiesta a Monti di un chiarimento da parte di Bersani, seppure in buona fede, in nessun modo sono serviti a ridimensionare l'evidente malessere che sale anche dalla pancia dell' ex-maggior partito d'opposizione.

Il terzo aspetto di questa storia è paradossale: nel 1987, cinque anni prima di Tangentopoli e di tutte le polemiche che ne sono seguite, gli italiani furono chiamati a votare per il referendum sulla responsabilità civile della magistratura. Un referendum sui giudici, più che su un aspetto della loro professionalità: conclusosi con l'inaspettato risultato di una maggioranza di cittadini schierata a favore del principio che se un magistrato sbaglia e commette un'ingiustizia deve pagare, né più né meno come il medico che a causa di un errore danneggia la salute del suo paziente o dell'ingegnere che facendo male i calcoli determina un crollo.

Dopo il voto referendario, la trasformazione di quel risultato in legge si rivelò più difficile del previsto, lasciando emergere il rischio di una limitazione dell'autonomia della magistratura garantita dalla Costituzione e di un parziale squilibrio tra i diversi poteri dello Stato. La discussione durò per anni. Le norme che ne uscirono, come altre volte per le novità introdotte dai referendum, servirono più ad annacquarle che a realizzarle. L'emendamento sconclusionato con cui ieri, dando un'ennesima prova d'anarchia, i deputati di centrodestra e Lega e i franchi tiratori di centrosinistra hanno tentato di riportare indietro le lancette dell'orologio, nasce anche da questa controversa vicenda di venticinque anni fa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9729


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Cavaliere riapre i giochi
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2012, 11:07:59 pm
6/2/2012

Il Cavaliere riapre i giochi

MARCELLO SORGI

Una novità imprevista si affaccia nel quadro politico congelato dal governo Monti: Berlusconi non sta pensando a restaurare l’asse con la Lega, ma a tentare l’accordo con il Pd su una nuova legge elettorale.

È il Cavaliere stesso a dirlo in un colloquio con Libero , mentre dal Giornale Giuliano Ferrara gli suggerisce di trattare a tutto campo, mettendo in conto anche la possibilità di una sistema maggioritario a doppio turno come quello francese. Le conseguenze di una simile riforma sarebbero di capovolgimento della tendenza considerata al momento più diffusa: mentre infatti in molti sono disposti a scommettere che la conclusione della legislatura segnerà, con o senza la riforma, la fine dell’assetto bipolare che ha caratterizzato la Seconda Repubblica, da un accordo PdlPd, sia il bipolarismo, sia i due partiti maggiori, uscirebbero molto rafforzati. Che poi Berlusconi sia disposto a spendersi fino in fondo per limitare le prospettive del Terzo polo e che il Pd sia in grado di mettere da parte una volta e per tutte l’antiberlusconismo pregiudiziale che, a parte la Bicamerale, lo ha sempre caratterizzato, per trattare con il Cavaliere, è ancora tutto da vedere.

Prove di intelligenza con il nemico sono in corso da un po’ al Senato e alla Camera. Ma risultati concreti ancora non se ne sono visti.

La ragione di queste difficoltà è presto detta: i partiti italiani da tempo non sono più in grado di trattare in modo pragmatico su singole issues, come avviene in tutte le democrazie occidentali, senza rimettere in discussione il resto. Per fare solo un esempio recente, in Inghilterra dopo le ultime elezioni politiche che non avevano sancito nessun vincitore, i conservatori di Cameron e i lib-dem di Clegg hanno formato un governo di coalizione basato anche sull’impegno reciproco di riformare il sistema uninominale maggioritario secco, che non sembrava più garantire l’alternanza tra laburisti e tories. Sottoposta a referendum, questa eventualità è stata scartata dagli elettori, senza che poi per questo si aprisse una crisi di governo. Una cosa del genere da noi sarebbe impensabile: e la vera ragione per cui la Lega minaccia di far cadere la giunta della Regione Lombardia in questi giorni, non è tanto il sostegno dato a Monti da Berlusconi mentre il Carroccio passava all’opposizione. Ma appunto il rischio, inaccettabile per Bossi, che all’ombra di questo governo Berlusconi trovi un’intesa con il Pd per cambiare la legge elettorale.

I referendum elettorali bocciati il mese scorso dalla Corte Costituzionale avrebbero potuto costringere tutti a una trattativa più serrata, essendo scontato che se fossero stati ammessi la maggioranza degli elettori avrebbe votato a favore dell’abrogazione dell’attuale contestatissimo Porcellum. Adesso invece i partiti si trovano nella scomoda posizione di temere, ciascuno per conto suo, che gli altri si mettano d’accordo a proprio discapito. Di qui la riapertura di un gioco in cui ognuno ha almeno due possibilità di scelta. E infatti, assodato che Berlusconi, per chiudere con il Pd, dovrebbe apertamente rompere con la Lega, la stessa cosa vale per i rapporti tra Bersani e Casini. Al Senato infatti (dove, sia detto per inciso, giacciono una quarantina di diverse proposte di riforma elettorale) l’ala veltroniana che fa capo a Morando, Tonini e Ceccanti ha un discorso aperto con il vicecapogruppo del Pdl Quagliariello. Obiettivo: salvare a qualsiasi costo il bipolarismo, per non consentire il propugnato (dai terzisti) ritorno a una riedizione del centrismo democristiano. Mentre alla Camera Violante (non più parlamentare, ma ancora autorevolmente in campo su questa materia), Franceschini e Bressa trattano più volentieri con Casini su un sistema di tipo tedesco o spagnolo (proporzionale ma anche bipolare), valutando in questo caso, non solo le regole elettorali, ma anche la possibilità di un alleanza tra Terzo polo e centrosinistra per il prossimo governo. Inoltre Franceschini ha avanzato la proposta cosiddetta «del proporzionale per una volta sola»: eleggere proporzionalmente, senza alcuna limitazione come ai tempi della Prima Repubblica, un Parlamento costituente che si incarichi una volta e per tutte della riforma della Costituzione, rinviando a subito dopo la gara, con regole elettorali da stabilirsi, per chi dovrà governare il Paese.

C’è dunque una complicata antologia di proposte, di fronte alla quale non c’è dubbio che la proposta di Berlusconi sposti in avanti la discussione. Se davvero, come dice, il Cavaliere non si sente più vincolato all’asse con Bossi (che d’altra parte ripete la stessa cosa), e se è disposto a trattare senza pregiudiziali con il Pd, approfittando del comune sostegno al governo Monti che lo pone in una posizione meno antagonistica rispetto a Bersani, la riforma, da improbabile che era, diventa possibile. E non perché i due maggiori partiti debbano farla necessariamente nel loro interesse e contro quello di tutti gli altri, a cominciare dal Terzo polo. Ma al contrario perché, se Pdl e Pd sono in campo, e prendono in considerazione un accordo diretto, anche gli altri devono necessariamente darsi una mossa.

Da questo punto di vista, il sistema francese a doppio turno, da sempre scartato in Italia, vuoi, a suo tempo, per le riserve democristiane, vuoi, più di recente per i timori della destra (entrambe ritenevano che la scelta secca incoraggiasse di più la maggioranza di elettori moderati a manifestarsi), da implausibile che era, è destinato a diventare almeno un buon argomento di discussione. Nel primo turno, infatti, contiene un buon tasso di proporzionale (tutti o quasi tutti i partiti possono presentarsi e le intese locali diventano necessarie per un’equilibrata rappresentanza parlamentare). Nel secondo turno costringe ad alleanze trasparenti, che difficilmente possono essere capovolte con il trasformismo o soggette al ribaltonismo.

Una cura possibile per le più recenti e insidiose malattie italiane, che nell’ultima legislatura, non va dimenticato, sono riuscite ad atterrare anche una maggioranza fortissima come quella (ex) di Berlusconi. Il cui impegno diretto nella trattativa, tuttavia, non è detto serva a sbloccare la discussione. La politica italiana, si sa, a volte preferisce convivere con i suoi mali. O peggio ancora, sopravvivere grazie ad essi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9741


Titolo: MARCELLO SORGI. L'asse Pdl-Lega e i dubbi di Bersani sulle riforme
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2012, 11:26:57 pm
7/2/2012 - TACCUINO

L'asse Pdl-Lega e i dubbi di Bersani sulle riforme

MARCELLO SORGI

Dopo l'iniziativa di Berlusconi sulla legge elettorale, la serie di incontri che oggi il Pdl avvia proprio sul tema della riforma servirà, se non altro, a capire se esiste la possibilità di avviare una trattativa concreta su una materia così delicata, o se invece, come altre volte, il negoziato è destinato ad arenarsi di fronte a pregiudiziali politiche.

Che nel Pdl Berlusconi, e non solo lui, pensi che all' ombra della maggioranza tripartita che sostiene il governo Monti i rapporti con il Pd, improntati per molti anni a una contrapposizione frontale, possano segnare un'evoluzione in positivo, è ormai chiaro. Ed effettivamente, nella consuetudine ormai accettata dei vertici a tre di Alfano, Bersani e Casini, il clima è improntato a un sano pragmatismo, che ha consentito finora al governo di superare anche ostacoli molto difficili.

Che invece sulla base di questo il Pd sia disposto a rivedere il proprio atteggiamento nei confronti di Berlusconi non è affatto sicuro. Per varie ragioni: innanzitutto è forte ancora all'interno del principale partito di centrosinistra l'antiberlusconismo, che è servito in tutti questi anni ai Democratici a cementare, pur senza risolverle, molte rilevanti divisioni interne. Il superamento di Berlusconi e del berlusconismo da parte del Pdl è insomma la condizione per avviare rapporti politici "normali" con il centrodestra: e sotto questo profilo a Bersani non dà alcuna rassicurazione l'atteggiamento del Cavaliere, che un giorno annuncia al Financial Times che ha deciso di ritirarsi dalla prima linea, e il giorno dopo torna in campo da leader per proporre un accordo a tutto campo.

Inoltre - e lo si vedrà dopo l'incontro con la delegazione della Lega - il leader del Pd non crede fino in fondo alla crisi di rapporti tra Pdl e Carroccio; nè vede, all' interno della Lega, segnali convincenti di disponibilità, per esempio da parte dei maroniani, a voler battere la strada di alleanze differenti fuori da quella decennale con il centrodestra. Berlusconi e Bossi, in altre parole, a giudizio dei Democratici, possono anche arrivare alle soglie di una rottura. Salvo poi decidere di far saltare il governo e tornare alle urne con la vecchia alleanza. Un'analisi del genere tiene ovviamente conto di interessi di parte, in nome dell'antiberlusconismo rifiuta di riconoscere a Berlusconi il ruolo di interlocutore politico, e di conseguenza non lascia molte speranze al prosieguo della trattativa sulla legge elettorale. Tuttavia, a sentire molte voci che si levano anche dall' interno del Pdl, non è affatto lontana dalla realtà.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9748


Titolo: MARCELLO SORGI. Nuove spine sulla strada di Monti
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2012, 12:05:57 pm
8/2/2012 - TACCUINO

Nuove spine sulla strada di Monti

MARCELLO SORGI

Il nuovo rinvio a giudizio di Berlusconi, che porta a quattro (caso Mills, fondi neri Mediaset, caso Ruby e adesso anche intercettazioni contro Fassino) il numero dei processi aperti a Milano contemporaneamente contro di lui, avrà certamente conseguenze politiche, su due diversi piani.

Il primo è il confronto sulla giustizia dopo il voto a sorpresa dell'emendamento leghista alla legge comunitaria che ha introdotto una rafforzata responsabilità civile personale per i magistrati. La settimana scorsa, subito dopo l'incidente, il Pd aveva chiesto che si ponesse rimedio al più presto all'incidente con una decisione opposta del Senato. Ma la trattativa in materia s'è rivelata immediatamente più complicata del previsto per la contrarietà del centrodestra a cancellare del tutto il principio introdotto. È prevedibile che dopo quanto deciso ieri dal gup milanese la posizione di Berlusconi in merito si rafforzi, rendendo ancora più difficile la ricerca di un accordo all'interno della maggioranza tripartita che sostiene il governo. Il Cavaliere è in attesa della decisione della Corte d'Appello sulla sua richiesta di ricusazione dei giudici del processo Mills e della sentenza della Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione sul caso Ruby, che potrebbe concludersi con uno spostamento del processo dal Tribunale di Milano a quello dei ministri. Anche questi due responsi condizioneranno la sua strategia per i prossimi mesi.

La seconda conseguenza di tutto ciò riguarda Monti. Il tentativo del presidente del consiglio di circoscrivere l'attività del governo all'emergenza economica per non farsi carico di tutto il contenzioso pregresso dei partiti si sta rivelando via via impossibile. Man mano che si avvicinano le elezioni amministrative la politica tende a riavere il sopravvento e i partiti non sembrano in grado di riprendere un filo di collaborazione tenendo il governo al riparo dalle loro tensioni.

L'intervista di Bersani a Repubblica dà prova di questo. Il leader del Pd non si spinge a mettere in discussione l'appoggio del suo partito a Monti, ma lo subordina alla soluzione di tutti i problemi aperti, dalla giustizia, appunto, alla Rai, e naturalmente al negoziato sul mercato del lavoro e sull'articolo 18. Ed anche se per la prima volta Bersani sembra sganciarsi dalla posizione della Cgil, che potrebbe alla fine non firmare l'accordo, è chiaro che l'atteggiamento del Pd dipenderà anche dal modo in cui il governo affronterà le altre due questioni, dimostrando di essere in grado di imporre al Pdl una soluzione.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9751


Titolo: MARCELLO SORGI. Così parte la campagna per corteggiare i centristi
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2012, 10:31:06 am
9/2/2012 - TACCUINO

Così parte la campagna per corteggiare i centristi

MARCELLO SORGI

Al di là delle diverse soluzioni all’esame dei tecnici, il primo giro di incontri sulla nuova legge elettorale, che dovrebbe sostituire il Porcellum prima delle prossime elezioni, s’è concluso in modo interlocutorio ma svelando un cambio di strategia dei due maggiori partiti: conseguenza, è lecito dedurre, della recente e tormentata collaborazione nella maggioranza che sostiene il governo Monti. Sia il Pdl, che per iniziativa di Berlusconi ha promosso la trattativa, sia il Pd, scelto come primo interlocutore, pensano che l’assetto da scegliere per presentarsi alle prossime elezioni sia quello di coalizioni spostate verso il centro, e non appesantite da alleanze con le estreme (Lega, Sinistra radicale e Di Pietro): Pdl e Terzo polo per il centrodestra, Pd e Terzo polo per il centrosinistra.

Se ne ricava che Alfano e Bersani hanno una comune convenienza nel riuscire a far passare una legge elettorale che salvi il bipolarismo e convinca/costringa Casini a scegliere con chi allearsi prima del voto, mentre il leader dell’Udc difenderà fino all’ultimo la sua esigenza di tenersi le mani libere e spostare il più possibile in avanti, a ridosso della data delle elezioni, e meglio ancora, dal suo punto di vista, dopo, il momento della scelta. Casini inoltre non esclude che la grande coalizione possa dover durare oltre il 2013.

Non essendo realistico un accordo in tempi brevi, vista la prossima scadenza delle amministrative, le elezioni nei Comuni e nelle Province della prossima primavera si trasformeranno in una straordinaria campagna di corteggiamento dell’Udc, e in qualche caso del Terzo polo, che in numerose realtà locali è già alleato con il centrodestra, e che il Pd cercherà di spostare verso il centrosinistra, se non altro per valutare gli effetti del lento ma costante avvicinamento tra Bersani e Casini nell’ultimo anno. Subito dopo il voto, risultati alla mano, si aprirà il confronto vero, che potrebbe concludersi con il varo della nuova legge elettorale, dato che Pdl e Pd ci hanno messo la faccia, ma potrebbe anche concludersi con un fallimento, visto che i partiti minori si stanno attrezzando, sentendosi minacciati dall’ipotesi di un accordo tra i due maggiori.

Casini ha sufficiente esperienza politica per non lasciarsi intenerire dal contemporaneo e simmetrico corteggiamento di Alfano e Bersani. Ma sbaglierebbe a sottovalutarne le intenzioni, non solo in materia elettorale. Pur di non morire democristiani, infatti, Pdl e Pd sono pronti a stipulare un patto a due.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9755


Titolo: MARCELLO SORGI. L'errore di non ascoltare gli elettori
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2012, 12:48:53 pm
14/2/2012

L'errore di non ascoltare gli elettori

MARCELLO SORGI

Dopo quelle di Milano e Cagliari nel 2011, la terza sconfitta del Pd alle primarie di Genova ha aperto una discussione nel partito che va oltre l'amarezza del momento. Siccome anche stavolta a vincere è stato il candidato di Vendola, Marco Doria, si confrontano due interpretazioni. Una, per così dire più tecnica, è del segretario Pierluigi Bersani, dispiaciuto, ovviamente, ma convinto che finché il Pd consentirà alle sue diverse anime di presentare più candidati - com'è accaduto a Genova, dove la sindaca uscente Marta Vincenzi si contrapponeva alla parlamentare Roberta Pinotti -, dovrà mettere in conto, disperdendo i voti, di andare incontro a rovesci: cioè, in altre parole, di essersela cercata, la sconfitta. L'altra, più politica, è dell'ex segretario della Cgil ed ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati, secondo cui il Pd ha perso nuovamente perché non riesce a incarnare la richiesta di cambiamento proveniente dal suo elettorato.

A dire la verità nessuna delle due spiegazioni è convincente, proprio perché Genova non è un caso isolato e il ragionamento dovrebbe necessariamente ripartire dai precedenti. Le passate affermazioni di Giuliano Pisapia e Massimo Zedda, che strapparono la guida delle due città al centrodestra, erano state salutate dal Pd come vittorie, ma anche come campanello d'allarme di un' ondata di antipolitica sottovalutata dai partiti.

Da tutti i partiti, non solo da quelli che erano usciti battuti. A Milano e a Cagliari, di conseguenza, pur sedendo al tavolo dei vincitori, il Pd doveva fare i conti con la propria crisi. Confermata tra l'altro, sia detto senza voler infierire, dal fatto che a Napoli a diventare sindaco era stato il candidato di Di Pietro, Luigi De Magistris, mentre il prefetto democratico Mario Morcone era rimasto escluso dal ballottaggio. E a Bologna, la capitale storica della sinistra italiana, il partito era sì riuscito a riconquistare il Comune - malgrado uno scandalo sentimental-amministrativo che aveva investito la giunta -, ma a stento. E la lista di Beppe Grillo toccava inaspettatamente il dieci per cento.

La sconfitta di Genova conferma che le difficoltà di rapporto tra il Pd e il suo elettorato non sono affatto superate. Anzi resistono immutate, a prescindere dalla collocazione del partito (l'anno scorso all'opposizione contro il governo Berlusconi, quest' anno in maggioranza con Monti), dal mutamento complessivo del quadro politico e da quel che è stato fatto, o non fatto, per affrontarle. Sbaglierebbe tuttavia Bersani, o qualsiasi altro membro della nomenklatura democratica, ad accontentarsi di trovare radici locali e motivazioni contingenti del problema, si tratti della recente alluvione genovese che ricevette una risposta inadeguata da parte dell'amministrazione, o dei sacrifici che anche con i voti del Pd Monti ha dovuto imporre agli italiani.

La questione è diversa e riguarda appunto quell'ondata di antipolitica che un anno fa i partiti avevano colto in ritardo, promettendo però di affrontarla con un cambiamento di pelle e venendo incontro alle reazioni, non sempre motivate, dei loro elettori. In un anno, appunto, niente è stato fatto, né dal Pd né dagli altri. Non c'è stato neppure un accenno di autoriforma. E contrariamente a quel che molti militanti democratici si aspettavano, il Pd proprio in questi ultimi giorni è apparso come il perno di un progetto di riforma elettorale proporzionale che punta a ridare pieni poteri ai partiti nella formazione dei governi, togliendo ai cittadini il diritto di sceglierseli.

Forse Bersani e i suoi hanno pensato che l'onda lunga della caduta di Berlusconi si sarebbe risolta naturalmente in vantaggio per loro, coprendo le carenze di un'opera di rinnovamento promessa e rinviata. Forse, sbagliando, hanno ritenuto che bastassero le primarie per rianimare gli elettori e restituirgli l'illusione di contare. Invece, come dimostra la scarsissima partecipazione alle primarie di Genova, l'errore di valutazione non poteva essere più grosso. E l'ostacolo maggiore che il partito s'è trovato ad affrontare non è stato tanto il voto di protesta, ma l'indifferenza del suo elettorato.

In questo senso, va detto, Genova parla anche al Pdl, e non solo al Pd. Da qualche tempo infatti la parola primarie ha cominciato a far capolino anche nel centrodestra, come esempio di buona volontà per abbandonare la gestione cesarista di Berlusconi e abbracciare le regole normali dei partiti democratici. Ma alla prova pratica, il nuovo metodo non è stato all'altezza dei propositi. Roberto Formigoni, governatore della Lombardia nonché avversario giurato del segretario Angelino Alfano, ha proposto di candidare alle primarie il ministro tecnico Corrado Passera. Alfano ha replicato che Passera, per candidarsi, deve iscriversi al partito, sapendo che non può farlo. Ne è nata una polemica: e s'è capito che anche in questo caso le primarie del dopo-Berlusconi saranno gestite dalle correnti del Pdl. Con quale entusiasmo degli abbacchiati elettori di centrodestra, è facile immaginare.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9771


Titolo: MARCELLO SORGI. Processo Ruby l'ultimo round giudici-cavaliere
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2012, 04:54:51 pm
15/2/2012

Processo Ruby l'ultimo round giudici-cavaliere

MARCELLO SORGI

La sentenza con cui la Corte Costituzionale ha negato a Berlusconi lo spostamento al Tribunale dei ministri del processo sul «caso Ruby» e le feste di Arcore con le «olgettine» apre la strada alla partita finale tra l’ex presidente del Consiglio e i magistrati di Milano. Uno scontro prevedibilmente durissimo, tenuto in sordina, negli ultimi tempi, dopo il voto sorprendente con cui il Cavaliere ottenne dalla sua maggioranza alla Camera di certificare la sua versione dei fatti. E’ la storia incredibile della notte in cui aveva telefonato alla Questura di Milano per ottenere il rilascio della ragazza marocchina, considerata, non una minorenne che prima di compiere diciott’anni aveva partecipato a un festino con altre ragazze nella sua villa, ma nientemeno una nipote un po’ sventata dell'ex presidente egiziano Mubarak, da liberare per evitare un incidente internazionale.

Che poi quella ragazza - sedicente nipote di tanto zio, e in grado di ingannare il presidente del Consiglio fino a convincerlo ad agire nel pieno dei suoi poteri per farla rilasciare - abbia raccontato di aver partecipato a una serata in cui ragazze seminude ballavano e facevano il gioco del trenino, e di aver subìto avances sessuali, è un dettaglio che nella decisione della Camera inspiegabilmente non ha avuto peso. Ma che i giudici della Corte Costituzionale, con la loro sentenza, hanno voluto rimettere a posto, stabilendo che il processo già cominciato a Milano continui di fronte al suo giudice naturale.

Berlusconi dunque non potrà più difendersi con la sua personalissima ragion di Stato e dovrà rispondere dell’abuso dei suoi poteri e di sfruttamento della prostituzione, le accuse che più di tutta la sua lunghissima vicenda giudiziaria gli hanno nociuto, anche sul piano internazionale, negli ultimi mesi in cui era a capo del governo. Ma quello che era solo alle prime battute, e adesso, con il via libera dei giudici della Consulta, sta per entrare nel vivo, può diventare un processo imprevedibile. Perché c’è una grande differenza, è inutile nasconderlo, tra il Berlusconi presidente del Consiglio e quello di adesso. La rievocazione di vicende ormai note, la descrizione di dettagli disgustosi, l’andirivieni di escort, prostitute professioniste e ragazze di ogni dove che si accusano a vicenda, in un’aula aperta al pubblico e davanti a un leader ormai sul viale del tramonto, a un uomo anziano, solo e malinconico, preda delle sue debolezze, potrebbe avere perfino l’effetto opposto. Rivelando alla fine che Berlusconi, in molti casi, non solo in questo, è stato anche vittima di se stesso. Che forse capiva o intuiva la spregiudicatezza di quelli e quelle che lo hanno raggirato, ma s’è lasciato andare lo stesso. Questo potrà forse ridimensionarne, non certo cancellarne del tutto le colpe. Che per fortuna, adesso che Berlusconi ha lasciato Palazzo Chigi, sono solo sue e dei giudici che dovranno giudicarle.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9774


Titolo: MARCELLO SORGI. Sul dopo "Porcellum" il Pd sfida il Cavaliere
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2012, 04:05:18 pm
10/2/2012 - TACCUINO

Sul dopo "Porcellum" il Pd sfida il Cavaliere

MARCELLO SORGI

L’arrivo sul tavolo di Berlusconi di una proposta scritta di riforma della legge elettorale firmata Violante ha imposto alla discussione che ha impegnato tutti i partiti (tranne Di Pietro) in questa settimana un imprevisto segno di concretezza. Finora infatti non si era arrivati più in là di un impegno generico. Adesso, invece, scripta manent: vuol dire che, come si era intuito fin dall’inizio, il Pd sta al gioco e vuole andare fino in fondo nel confronto con il Pdl: pazienza se qualcuno nel partito mugugnerà in nome dell’indimenticato antiberlusconismo.

Il fatto poi che il Cavaliere abbia subito voluto sottoporre al vertice del suo partito il testo inviato da Violante sta a significare che anche il Pdl vuole condurre la trattativa senza ripensamenti e senza lasciarsi condizionare da veti e pregiudiziali. D'altra parte la proposta Violante - bipolare e proporzionale, in grado di garantire una rappresentanza, sia pure simbolica, ai partiti più piccoli, concentrando però la sfida tra i due maggiori - è concepita in modo da portare il negoziato su un piano pragmatico e concreto.
Il Pd abbandona ufficialmente il maggioritario a doppio turno, per lunghissimo tempo la sua bandiera, e mette giù un'ipotesi flessibile, che tenta di contemperare le esigenze più diverse, e soprattutto che riconduce a un meccanismo proporzionale l'assegnazione dei seggi e di un eventuale premio di maggioranza. In questo senso l'ultima versione del Pd è un pefetto mix di sistema spagnolo e tedesco.
Con l’obiettivo di limitare fortemente la possibilità di garantire uno spazio sicuro al Terzo polo e a una prospettiva centrista. Lo schema Violante infatti prevede che Casini a un certo punto scelga tra centrosinistra e centrodestra.

Inoltre, anche se la soglia di sbarramento è ipotizzata a stadi diversi, proprio per consentire a tutti, anche ai più piccoli, di presentarsi e concorrere, un partito come la Lega, con il suo potenziale dieci per cento che gli assegnano i sondaggi, potrebbe gareggiare tranquillamente con i più forti e restare decisivo nella formazione dei governi. E tuttavia, come dimostra l'ostruzionismo del Carroccio ieri contro l'approvazione del decreto svuotacarceri, Bossi non se ne dà per inteso. E con lui Di Pietro, il cui futuro elettorale, e la possibilità di tornare alleato del Pd, si prospetterebbero più incerti. E ancora, Vendola, che nel 2013 si gioca la partita di riportare in Parlamento la sinistra radicale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9759


Titolo: MARCELLO SORGI. Il paradosso del possibile "disaccordo condiviso"
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2012, 04:06:27 pm
16/2/2012 - TACCUINO

Il paradosso del possibile "disaccordo condiviso"

MARCELLO SORGI

L’approdo sulla prima pagina dell'International Herald Tribune della storia del giovane precario italiano Luca Nicotra, dottorato di ricerca e lunga serie di contratti a termine alle spalle, come simbolo dell'Italia che «affronta la fine del lavoro a vita», conferma la distanza tra il modo in cui Monti viene percepito in Europa e la realtà di una trattativa sul lavoro che fa solo piccoli passi avanti, ma senza ancora risolvere il problema centrale della riforma dell'articolo 18.

Tutti i protagonisti della trattativa si sono posizionati in modo da fare il massimo sforzo per l'accordo, ma riservandosi anche una via d'uscita se alla fine non ci sarà. L'intenzione, confermata da Monti, di procedere comunque a una trasformazione della flessibilità in uscita dal lavoro, ridimensionando le garanzie fornite dalla legge in caso di licenziamento, si accompagna alla cautela della ministra Fornero, che ha accettato di procedere a rilento e con il ruolino di marcia imposto dai sindacati. Dunque, come ha chiesto la segretaria della Cgil Susanna Camusso, prima discussione su tutte le tematiche sensibili in materia di lavoro, come ad esempio la formazione, l'apprendistato e gli ammortizzatori sociali; e solo in un secondo momento, di conseguenza, confronto sull'osso duro dell'articolo 18.

Con un metodo come questo, se ci sarà intesa, ciascuno potrà dire di aver portato a casa un compromesso accettabile. E se invece non si troverà l'accordo, il governo potrà prendere egualmente le sue decisioni, senza rinnegare i risultati conseguiti nella prima parte della trattativa, e sapendo di poter contare su una reazione delle parti sociali dura, ma sopportabile. Questo perché difficilmente, su un terreno così delicato, i sindacati potrebbero muoversi in ordine sparso, o come altre volte dare per scontato il dissenso della Cgil senza tentare di recuperarlo. A quel punto, piuttosto che firmare un accordo separato, l'ipotesi di una sorta di disaccordo condiviso potrebbe alla fine risultare più praticabile. Mentre resta da escludere, per il governo, la possibilità che alla fine la parte più controversa del negoziato venga stralciata.

A Monti resterebbe il problema di far votare in Parlamento la riforma del mercato del lavoro, facendola digerire alla sua maggioranza e in particolare al Pd, finora molto attento ai movimenti della Cgil. Bersani in una recente intervista ha detto che è disposto ad accettare la conclusione della trattativa, schierandosi ovviamente per l'accordo, ma lasciando intendere che non lo dà per scontato, e anche che non intende impiccarsi a un eventuale «no» della Cgil.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9781


Titolo: MARCELLO SORGI. Per i forzisti la difficoltà di essere normali
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2012, 05:07:46 pm
17/2/2012 - TACCUINO

Per i forzisti la difficoltà di essere normali

MARCELLO SORGI

Anche se alcuni dei casi emersi (come quello di Salerno) non sono affatto trascurabili, e denotano, come ha denunciato l'ex ministro Frattini in un'intervista al «Riformista», una sorta di malattia sistemica del Pdl, la vicenda delle tessere false contro cui è duramente intervenuto ieri Alfano, svela difficoltà maggiori del previsto del partito di Berlusconi a trasformarsi in un'organizzazione «normale», in parte assimilabile alle altre figlie o nipoti di quel che resta della Prima Repubblica, e in grado di salvare, non si sa come, quel che rimane della sua giovane storia e tradizione e del piglio rivoluzionario delle origini.

Certo, nella storia delle tessere comperate e vendute, sembra di rivedere un po' della vecchia Dc. Ma il Pdl, nato nella famosa domenica del predellino da uno scatto di Berlusconi, malgrado le promesse di omologarsi, è stato ed è rimasto fino all'estate scorsa il «partito del presidente», in cui perfino la lottizzazione del vertice e dei coordinatori tra ex Forza Italia e ex An, formalmente improntata alla regola del 70/30, obbediva alle scelte dirette del fondatore. Che infatti, anche nel momento di maggior crisi, alla vigilia della caduta del suo governo, ha potuto proporre e fare approvare per acclamazione il segretario designato Alfano.

Era tuttavia già chiaro da tempo che in vista della caduta le correnti nel partito stessero già organizzandosi, e in alcuni casi (vedi la vicenda della mancata presentazione della lista a Roma alle regionali) puntando pure a prevalere sulla volontà del Cavaliere e del gruppo dirigente, o a dissolverla con le loro lotte intestine. La nomina di Alfano fu voluta, non solo per rilanciare con un leader giovane un partito uscito con le ossa rotte dalle elezioni locali, ma anche come baluardo ai potentati locali che rischiavano di avere la meglio.

L'opera di bonifica, se c'è stata, è andata avanti in silenzio, fino alla vigilia congressuale. Ma lo scontro adesso è riesploso, soprattutto al Sud, dove il tramonto di Berlusconi ha messo in discussione anche il potere dei raiss di periferia, e dove la ventilata stagione di ritorno al proporzionale rende indispensabile conquistare le posizioni di comando per poi avere mano libera nei giochi successivi. Da questo punto di vista Alfano non ha scelta: in un partito che si avvia per la prima volta ad abbandonare il cesarismo delle origini per avventurarsi nell'ignoto del suo futuro postberlusconiano, un compromesso con le correnti, per il segretario, sarebbe già rischioso al congresso. Ma, siglato prima, potrebbe addirittura risultare letale.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9785


Titolo: MARCELLO SORGI. La cura Monti e il malessere dei partiti
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2012, 12:18:35 pm
20/2/2012

La cura Monti e il malessere dei partiti

MARCELLO SORGI

Proverbiale e convenzionale quanto si vuole, la scadenza dei primi cento giorni di governo nella prossima settimana non sarà affatto un’occasione rituale. Non perché già sia tempo di bilanci, tutt’altro. Ma perché, è quasi inutile ripeterlo, quello di Monti è un esecutivo diverso da tutti i precedenti del vasto catalogo di formule ed espedienti sperimentati in oltre sessant’anni. E dopo il Berlusconi I del 1994, per non andare troppo indietro nel tempo, è senz’altro quello che ha portato il maggior tasso di discontinuità con il passato, quasi che con Monti sia morta la Seconda Repubblica e sia cominciata, o stia per partire, la Terza.

Sull’importanza delle novità introdotte fin qui, non c’è dubbio. Basti solo pensare al punto in cui eravamo poco più di tre mesi fa: dopo la rottura della maggioranza di centrodestra, a soli due anni e mezzo dalle elezioni, la legislatura si era avvitata su se stessa e il governo del Cavaliere boccheggiava, appeso a un’esigua manciata di voti negoziati uno per uno con i transfughi di diversi partiti, dall’Udc di Casini all’Idv di Di Pietro, senza riuscire a realizzare né il proprio programma, né le necessarie scelte di rigore imposte dalla crisi dell’euro. In una guerriglia quotidiana di tutti contro tutti Berlusconi versus Tremonti, o Bossi, o addirittura Scilipoti e Romano, quando non vittima delle faide intestine del suo stesso partito - il governo era paralizzato dai suoi problemi più che dalla durezza dell’opposizione.

L’agonia di un intero anno e la crescente incapacità di far fronte all’emergenza economica avevano posto l’Italia in una posizione simile, se non più grave, di quella dei Paesi europei «sorvegliati speciali» e «a rischio default»: la minaccia di vedere il nostro Paese «finire come la Grecia» era ormai all’ordine del giorno dei frequenti vertici dell’Unione a Bruxelles. Inoltre, in una cornice come questa, un’incredibile prorompente follia faceva sì che, sullo sfondo di una generale impotenza, politici di ogni partito e ogni grado si scontrassero tutte le sere in tv, dando la sensazione dell’irrimediabile divisione della classe dirigente e del suo senso di irresponsabilità.

Cento giorni dopo il quadro è talmente cambiato che il ricordo della gran confusione italiana sembra ormai perduto in un tempo lontano, molto più lungo di quello trascorso realmente. La «cura Monti» si è caratterizzata dal primo giorno per il completo capovolgimento di cattive e consolidate abitudini e il ricorso all’innovazione: zero propaganda, competenza, obiettivi e strumenti chiari, un pacchetto di riforme indispensabili per essere riabilitati in Europa. E poco importa nel senso che Monti non ha mai dato segno di curarsene - che queste stesse riforme siano state descritte «di destra» o «di sinistra» dagli stessi partiti che sostengono il governo. Il presidente del Consiglio s’è mosso allo stesso modo, sia quando si trovava ad affrontare le resistenze di Bersani e del Pd sulle pensioni, sia quando emergevano quelle berlusconiane e del Pdl sugli inasprimenti fiscali e sul ritorno dell’Ici sulla prima casa. Monti ha saputo alternare l’urgenza dei decreti «salva-Italia» e «cresci-Italia», con la pazienza adoperata con i sindacati sull’articolo 18 e la riforma del mercato del lavoro, e la prudenza usata, al termine di una lunga istruttoria, per dire «no» alla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2020. La credibilità riconquistata dall’Italia in Europa e nel mondo è frutto di questo metodo e di queste decisioni.

Sarebbe però un grave errore considerare tutto ciò effetto della «tecnicità» di un esecutivo che, diversamente da quelli politici, non deve rispondere agli elettori. Anche se questo è un vantaggio innegabile, specie quando si tratta di imporre sacrifici ai cittadini, la più grande sorpresa di Monti consiste nell’inattesa trasformazione politica sua e del suo governo. Un governo che fa le riforme che i suoi predecessori avevano solo enunciato e su cui avevano visto frantumarsi le loro opposte maggioranze. Un governo che è in grado di ridefinire sul piano della chiarezza e del rispetto reciproco le sue relazioni internazionali, si tratti dell’Europa, degli Usa o del delicato contenzioso sull’Ici con il Vaticano. Un governo che discute con sindacati e Confindustria, tratta quando può e quando è necessario, ma alla fine, con o senza accordo al tavolo delle parti sociali, decide entro le scadenze.

A malincuore, è di questo che hanno preso atto i leader dei partiti, di maggioranza e di opposizione. I primi, imbarazzati dal trovarsi a collaborare dopo un ventennio di dure contrapposizioni, all' inizio lo facevano in modo carbonaro, incontrandosi di nascosto e passando da entrate secondarie. Ma hanno finito col rendersi conto che hanno solo da guadagnare a offrire un sostegno aperto e leale a chi è in grado di realizzare le riforme che loro non erano stati in grado di fare. E i secondi, subito lanciati all’assalto e convinti che il «no» ai sacrifici li avrebbe resi più popolari tra le fasce deboli dell’elettorato, hanno dovuto pian piano modulare la loro azione di contrasto, rassegnandosi a interloquire, e in qualche caso condividere, le iniziative del governo.

In prospettiva quel che resta da capire, se come sembra l’orizzonte temporale di Monti è destinato ad allungarsi, non solo alle elezioni del 2013, ma anche oltre, è quali potrebbero essere le conseguenze della nuova fase per i partiti terremotati dall’avvento dei tecnici. Se si considera che il rapporto con l’opinione pubblica era già fortemente compromesso prima ancora dell’arrivo di Monti, non si può escludere che di qui a un anno l’attuale classe politica sia da rottamare in blocco. D’altra parte, se Berlusconi non perde occasione per ripetere che ha deciso di passare la mano, vuol dire che in questo senso affiorano dubbi, non solo nella mente del Cavaliere, fondatore e uomo simbolo della Seconda Repubblica, ma in tutta la prima fila dei leader di questa lunga stagione al tramonto. Sta a loro rassegnarsi a farsi da parte, o provare a riaccreditarsi. Tentativo difficile, ma non necessariamente impossibile, anche se ad alto costo. Si tratta di capire, infatti, che, lungi dal rappresentare un problema, Monti, per la politica italiana grande ammalata, può rivelarsi una vera opportunità.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9793


Titolo: MARCELLO SORGI. Il ritorno dello scontro vecchia maniera sul welfare
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2012, 11:53:17 am
22/2/2012 - TACCUINO

Il ritorno dello scontro vecchia maniera sul welfare

MARCELLO SORGI

Anche se un accurato e sotterraneo lavoro diplomatico ieri per tutta la giornata ha tentato di limitarne le conseguenze, l’attacco della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia al sindacato «che difende fannulloni e ladri» non è certo un toccasana per la trattativa sul mercato del lavoro, arenata sulla secca dell’articolo 18 e sull’irrigidimento che a questo proposito è emerso negli ultimi giorni, sia da parte della Cgil che del Pd.

Ora la Camusso pretende una marcia indietro della Marcegaglia da una posizione che, al di là della frase infelice che ha dato fuoco alle polveri, metteva in discussione i rapporti tra le parti sociali, proprio mentre il negoziato al tavolo del governo, dopo qualche iniziale progresso, segna il passo. La Confindustria ha cercato di chiarire, senza ovviamente smentire l’intervento della presidente, ma senza molti risultati.

D’altra parte la frenata della Cgil s’intuiva anche prima dello scontro tra Camusso e Marcegaglia. E la dura polemica interna al Pd, con il responsabile economico Fassina che ha criticato l’intervista di Veltroni favorevole all’intenzione del governo di riformare il mercato del lavoro, lascia capire le preoccupazioni del centrosinistra di ritrovarsi entro marzo di fronte a una decisione di Monti nel bel mezzo della campagna elettorale per le amministrative.

Stretto tra l’impossibilità di rompere con il governo e le pressioni del sindacato, Bersani, che in un primo momento era parso deciso a non lasciarsi condizionare dalla resistenza della Cgil, adesso preme di nuovo per l’accordo e aspetta di vedere se riprenderà e quali effetti produrrà la trattativa, che al momento, tuttavia, sembra bloccata. La strategia del governo, ribadita dalla ministra del Lavoro Fornero, punta a raggiungere un’intesa sul maggior numero possibile di problemi (come ad esempio ammortizzatori sociali, formazione, apprendistato), prima di andare all’osso duro dell’articolo 18. Con questo metodo, se anche alla fine non si dovesse trovare l’accordo, l’iniziativa autonoma del governo, di cui Monti ha parlato lunedì nell’incontro con gli operatori di Borsa a Milano, avverrebbe in un quadro meno dirompente, e forse potrebbe puntare a ottenere un sofferto «si» del Pd in Parlamento. È esattamente questo che i sindacati hanno capito, e, dopo un’iniziale disponibilità, ha motivato le riserve emerse al tavolo del negoziato, che il governo proverà a rimuovere nei prossimi giorni.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9803


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Pdl e il rischio dell'isolamento
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2012, 11:28:14 am
23/2/2012 - TACCUINO

Il Pdl e il rischio dell'isolamento

MARCELLO SORGI

Il segretario Angelino Alfano minimizza e sostiene che il Pdl andrà alle prossime elezioni amministrative con il proprio simbolo e la propria bandiera, scegliendo "il migliore candidato sindaco in base alle esigenze delle singole città". Ma è proprio quest'ultimo aspetto del problema che tiene ancora il partito in uno stato d'ansia: man mano che la scadenza si avvicina, infatti, il dato che sta venendo fuori è la difficoltà del Popolo della libertà di aggregare consensi e costruire alleanze. Nelle situazioni più in vista, quelle che da Vicenza a Palermo daranno la tendenza del risultato elettorale, l'alternativa per il Pdl sta tra sostenere un candidato di altri senza presentarne uno espresso dal partito, o presentarlo sapendo che molto probabilmente non arriverà al ballottaggio.

Con tutti gli aggiornamenti del caso è quel che capitò alla Democrazia cristiana nel '93 - '94, alle prime due tornate di elezioni dirette dei sindaci, in cui appunto il partito non riuscì ad eleggere alcun primo cittadino. Ma la Dc per sua natura era impreparata a correre nel maggioritario e aveva osteggiato in ogni modo la scelta di un sistema a doppio turno, com'è appunto quello dei sindaci. Mentre il Pdl è nato e cresciuto nella Seconda Repubblica e, pur avendo sempre affrontato con più sofferenza le elezioni amministrative, non s'era mai trovato in difficoltà del genere. L'appuntamento della prossima primavera trova i grandi partiti alle prese con le novità introdotte dalla cura Monti e con la dissoluzione delle precedenti alleanze, determinata dal fatto che Pd e Pdl stanno con il governo, mentre i loro alleati sono schierati all'opposizione. Così al Nord la Lega ha scelto di presentarsi da sola e minaccia in campagna elettorale di ritirarsi anche dai governi regionali di tutto il Nord, se Berlusconi continuerà a garantire il sostegno a Monti. E al Centro-Sud, grazie anche al doppio turno, il Terzo polo, in gran spolvero per il suo convinto appoggio al governo, non ha alcuna necessità di scegliere subito le alleanze e può puntare a portare al ballottaggio i propri candidati a spese, in molti casi, di quelli del Pdl.

E' la ragione per cui Alfano a Palermo, la maggiore delle città in cui si voterà, ha proposto di schierare il partito fin dall'inizio a favore del candidato terzista Massimo Costa, che sarebbe favorito in un ballottaggio con Rita Borsellino, candidata, per ora soltanto alle primarie, di Bersani e di una parte del Pd. Ma anche di fronte a questa disponibilità Casini nicchia, mentre Fini è dichiaratamente contrario. Il calvario amministrativo del Pdl per adesso è solo cominciato.


da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9808


Titolo: MARCELLO SORGI. Tremonti scommette sul declino del Pdl
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2012, 10:58:40 pm
24/2/2012 - TACCUINO

Tremonti scommette sul declino del Pdl

MARCELLO SORGI

Sull’onda del successo editoriale del suo ultimo libro, «Uscita di sicurezza», Rizzoli editore, Giulio Tremonti annuncia che andrà in giro per l'Italia per far conoscere le sue idee. Il libro è un manifesto contro le banche e la finanza che hanno schiacciato la politica e rischiano, a suo giudizio (vedi la Grecia), di imporre una sorta di «fascismo bianco», in cui il salvataggio della moneta e degli equilibri di bilancio potrebbe perfino cancellare la democrazia. Urge ritorno alla politica degli Stati e a un'Europa delle nazioni: Tremonti ricomincia da qui.

Post-berlusconiano e post-bossiano, per il suo movimento, non ancora partito, Tremonti punta chiaramente su un'ipotesi opposta a quella che Veltroni nel Pd e Berlusconi per il Pdl stanno lanciando in questi giorni: la prosecuzione, cioè, anche dopo il 2013, del governo Monti, che l’ex superministro invece vede solo frutto dell'emergenza e con un orizzonte temporale limitato, che dopo le elezioni dovrà chiudersi.

Dove andrebbe a collocarsi il nuovo movimento tremontiano si può solo intuire. L'uomo-chiave dei governi berlusconiani, il superministro dell'Economia, l'ideatore ante-litteram degli eurobond si è infatti ripresentato in una versione impropriamente definita «di sinistra»: anti-globalizzazione, a favore di un capitalismo più regolato e di un'economia incentivata, quando serve, dallo Stato, nel suo libro è arrivato a citare Toni Negri e manifesta una dichiarata simpatia per il presidente degli Usa Obama.

Ce n'è abbastanza per capire che Tremonti scommette sul collasso di tutto l'insieme berlusconiano, non crede alla possibilità che il Pdl possa sopravvivere al tramonto del Cavaliere, né costruire il suo futuro all'ombra di una reincarnazione democristiana o della subalternità a Casini e al Terzo polo. Tutte queste cose, però, nel libro non ci sono. Si percepiscono, invece, non solo nella mente di Tremonti, ma anche nei timori del Pdl e dei suoi ex-ministri, convinti ancora che il governo Berlusconi sia caduto per i capricci del superministro.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9813


Titolo: MARCELLO SORGI. Nostalgia bipolarista per Pd e Pdl
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2012, 05:36:38 pm
28/2/2012 - TACCUINO

Nostalgia bipolarista per Pd e Pdl

MARCELLO SORGI

Le reazioni, non ancora esaurite, alla sentenza di proscioglimento per prescrizione di Berlusconi dall'accusa di corruzione al processo Mills, per due giorni hanno fatto rivivere l'atmosfera del muro contro muro a cui il ventennio del Cavaliere ci aveva abituato e che era stata via via cancellata dall'avvento dei tecnici. Era un po' che i paladini delle due parti non scendevano in campo con tanta veemenza. Viene da chiedersi cosa sarebbe successo se, invece che prescritto, Berlusconi fosse uscito condannato dal tribunale di Milano, e quanto ne avrebbe risentito l'attuale governo che si regge su una tregua tra centrodestra e centrosinistra: quanto fragile s'è appena visto.

Casini resta l'unico a predicare tutti i giorni che Monti e la maggioranza a tre restano la soluzione per l'oggi e per il domani. Data la portata dell'emergenza, non si può escludere che si riveli necessario anche dopo le elezioni del 2013. Ma in realtà la stanca rimessa in scena dello scontro pro o contro Berlusconi rivela, più che un'insofferenza alla camicia di forza imposta da Napolitano con il governo tecnico a Pdl e Pd, una nostalgia del bipolarismo come unico terreno di sopravvivenza di partiti che solo formalmente si confrontano sull' eventualità di una serie di riforme mirate a riqualificare la politica davanti a elettori ormai scettici, e a una sorta di disarmo equilibrato dopo la guerra dei vent'anni, per uscire dalla lunghissima e inconcludente stagione della transizione italiana. Mentre i vertici trattano, infatti, la pancia dei diversi partiti mette in conto, e in parte punta apertamente, sul fallimento di ogni tentativo di intesa e sul ritorno alle elezioni, l'anno prossimo, o con la vecchia legge Porcellum o con un sistema elettorale leggermente modificato ma sostanzialmente uguale a quello tante volte ufficialmente vituperato. Di qui appunto il risveglio delle polemiche sulla giustizia dopo la sentenza Berlusconi. E di qui il probabile affondamento di ogni tentativo riformatore del settore da parte del ministro tecnico Severino, che sta andando incontro in Parlamento a difficoltà sempre maggiori sulla legge anticorruzione.

Anche il crescente discredito dei partiti nei sondaggi, che segnalano come la soglia di fiducia nelle forze politiche dei cittadini sia scesa sotto il dieci per cento, non sembra preoccupare più di tanto i sostenitori dello status quo. Ai loro occhi il bipolarismo serve anche a costringere gli elettori disillusi ad abbandonare le ubbie e a schierarsi a qualsiasi costo. Almeno al momento del voto.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9825


Titolo: MARCELLO SORGI. Ma la realtà è ancora allarmante
Inserito da: Admin - Febbraio 29, 2012, 10:00:31 am
29/2/2012 - TACCUINo

Ma la realtà è ancora allarmante

MARCELLO SORGI

Si può guardare il compromesso raggiunto dal governo sugli emendamenti al decreto sulle liberalizzazioni con la logica del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Troppi cedimenti alle lobbies e alle categorie più forti di parlamentari professionisti, come gli avvocati, accusa chi si aspettava più durezza da Monti. Nella normale dialettica tra governo e Parlamento è normale che un decreto subisca delle modifiche nel corso dell'iter che precede la conversione in legge, è la replica dei tecnici, che oggi porranno la fiducia per evitare un ulteriore annacquamento del testo.

Su taxisti, farmacisti e avvocati, effettivamente il compromesso raggiunto sposta verso il basso l'asticella delle novità a cui adeguarsi: l'istituzione della nuova Autorità dei trasporti, che richiederà mesi, e la rinuncia ai preventivi obbligatori per i professionisti imposta dai molti deputati avvocati, sono due dei prezzi pagati al via libera per il decreto.

È innegabile tuttavia che così Monti in tempi brevi porterà a casa il secondo impegnativo capitolo del suo programma, mentre le proteste dei vertici bancari contro i conti correnti gratuiti per i pensionati con i redditi più bassi indeboliscono le accuse al governo di proteggere gli interessi delle banche.

Resta il fatto che man mano che i problemi economici per l'Italia si allontanano dal livello di guardia, pur restando gravi, grazie agli effetti dei primi mesi di attività del governo, e via via che le scadenze elettorali si avvicinano, aumentano le resistenze dei partiti, che non vedono l'ora di recuperare il loro ruolo, rispetto alle iniziative riformatrici dei tecnici. Valutazioni che non fanno i conti con una realtà che continua a rimanere allarmante e in cui il quadro europeo non fa purtroppo registrare mutamenti significativi (bastino solo come esempi la crescente instabilità tedesca che riduce i margini di manovra della Merkel e l'ulteriore peggioramento della situazione della Grecia).

Inoltre, al di là della crisi economica che continua, il governo deve fronteggiare le altre emergenze. A cominciare da quella No-tav che non accenna a placarsi, ora che la fase degli espropri dei terreni è arrivata.

Non a caso ieri, dopo un'altra giornata di blocchi stradali e scontri tra manifestanti e polizia, la preoccupata ministra dell' Interno Cancellieri ha sottolineato la necessità di muoversi con cautela, e non solo con la forza, in uno scenario, come questo, ad alto rischio.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9829


Titolo: MARCELLO SORGI. "No Tav", svolta "tecnica" dalla trattativa alla fermezza
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2012, 10:55:57 am
1/3/2012 - TACCUINO

"No Tav", svolta "tecnica" dalla trattativa alla fermezza

MARCELLO SORGI

La svolta dal «dialogo» alla «fermezza assoluta» contro i «No Tav», annunciata ieri dalla ministra dell'Interno Cancellieri, non è stata determinata solo dall’aggravarsi della tensione tra forze dell’ordine e manifestanti sulle strade bloccate della Val di Susa. Piuttosto segnala un autentico ripensamento del governo rispetto alla prudenza iniziale adoperata di fronte alle manifestazioni e alle violenze delle frange più estreme del movimento che si oppone al passaggio all’Alta velocità in territorio piemontese.

Ieri il Comando generale dell'Arma dei Carabinieri ha voluto dare un encomio solenne al militare offeso dalle provocazioni di un «No Tav» filmate da una telecamera del Corriere Tv». Immagini diffuse da tutti i telegiornali, che rivelano le sopraffazioni, da una parte, e dall'altra la pazienza e la professionalità dei responsabili della sicurezza, a cui è affidato il controllo del territorio dov'è concentrato il movimento e il recupero delle strade bloccate dalle barricate. In un primo momento, dopo l'infortunio in cui era rimasto coinvolto il leader della protesta salito su un traliccio dell'alta tensione, la valutazione era stata che l'emozione sollevata dall'incidente aveva probabilmente contribuito a scaldare gli animi dei manifestanti, che si sperava potessero in seguito placarsi. Niente di tutto ciò. Ieri la nuova aggressione all'operatore dell'agenzia televisiva che aveva prodotto il filmato per il «Corriere Tv» ha confermato che i violenti non hanno alcuna intenzione di mollare. Parlare di dialogo con quello che sta succedendo, a questo punto, è difficile e può apparire fuori dalla realtà. Di qui, si capisce, la svolta del governo verso la linea dura, che ha portato alla rimozione dei blocchi stradali e allo sgombero forzato dei manifestanti, molti dei quali hanno dovuto essere sollevati di peso dal suolo stradale su cui avevano formato barriere umane.

Va da sé che i rischi veri cominciano adesso, visto che il movimento, finora, dopo qualche arretramento tattico, è sempre tornato sul campo il giorno dopo. In Val di Susa la fase degli espropri dei terreni destinati ai nuovi cantieri è appena cominciata con la recinzione delle aree previste. Successivamente si passerà alla presa di possesso da parte dello Stato, ed è in quella fase che il pericolo degli scontri e i tentativi di riconquistare posizioni e impedire l'avvio dei lavori si farà più forte. Preso finora soprattutto dai problemi economici, il governo comincia così a fare i conti con questa nuova emergenza, alla quale, forse, non era del tutto preparato.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9833


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Cavaliere torna in campo e scompiglia le file del Pd
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2012, 10:53:01 am

2/3/2012 - TACCUINO

Il Cavaliere torna in campo e scompiglia le file del Pd

MARCELLO SORGI

Mario Monti ha appena fatto in tempo, mercoledì, a dire che se il suo governo riuscirà a raggiungere i propri obiettivi non gli sarà chiesto di proseguire anche dopo il 2013: un modo elegante per far capire che i partiti lo aiutano fino a un certo punto a fare quel che è necessario e ad attuare il programma per cui è stato chiamato. Ed ecco Berlusconi di nuovo in campo, ieri, a obiettare che nel 2013 la formula della larga coalizione di Pdl, Pd e Terzo polo potrebbe rafforzarsi e continuare con l'ingresso nel governo di ministri politici dei tre partiti e con l'obiettivo di realizzare (o completare) il programma delle riforme più urgenti, dalla giustizia al fisco all'architettura istituzionale.

Mossa del tutto imprevista, visto che il leader del Pdl aveva annunciato che si sarebbe tenuto alla larga dalla campagna elettorale per le amministrative, non volendo mettere la faccia su una possibile sconfitta. E tuttavia logica, visto che salta del tutto l'appuntamento con le urne di maggio, per proiettarsi direttamente sulla partita grossa delle politiche dell’anno venturo, a cui tutti i partiti guardano con l'intenzione di chiudere insieme la parentesi del governo tecnico e la lunga epoca berlusconiana. Il Cavaliere, al contrario, con congruo anticipo, conferma che non ha intenzione di farsi da parte e punta a mettere in imbarazzo il Pd.

Bersani non ha potuto far altro - dando ascolto alle molte voci interne che si levano dal suo partito per escludere un prolungamento dell’attuale governo - che rispondere: un esecutivo fondato su un'alleanza pienamente politica e con ministri provenienti dai partiti della maggioranza per il Pd non esiste. Una dichiarazione secca, mirata a non indebolire Monti proprio nel momento più delicato del negoziato sul mercato del lavoro.

Così, per capire cosa ha spinto il Cavaliere alla sua inattesa uscita, non restano che due possibilità: una, più probabile, che l'abbia fatta proprio per mettere in difficoltà il Pd. L'altra, da non scartare, che abbia capito che il Pd non può vivere senza il suo innato antiberlusconismo e abbia provato di conseguenza a stuzzicarlo. Nell’un caso o nell’altro, Berlusconi è riuscito a scaldare una campagna elettorale fin qui addormentata dalla «cura Monti» e dalla rottura delle due coalizioni che si trovano simmetricamente metà al governo e metà all'opposizione. Con quali conseguenze, non ci sarà molto da attendere per vederlo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9836


Titolo: MARCELLO SORGI. Carroccio in picchiata e in totale isolamento
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2012, 05:23:18 pm
7/3/2012 - TACCUINO

Carroccio in picchiata e in totale isolamento

MARCELLO SORGI

A meno di due mesi dal voto amministrativo, lo scandalo milanese si abbatte su una Lega in piena crisi e in totale isolamento, specie dopo le ultime infelici uscite di Bossi su Monti che al Nord rischierebbe la vita. Le vicende giudiziarie hanno sempre avuto un peso particolare su un elettorato, come quello leghista, manettaro e antiromano, anche se negli anni l'atteggiamento del leader del Carroccio verso la magistratura è diventato via via più critico. Ma se solo si riflette sull'ultima fase della collaborazione con Berlusconi, sull'appoggio dato dai parlamentari della Lega alle leggi "ad personam" e nelle votazioni sulle autorizzazioni a procedere e all'arresto per gli esponenti del Pdl coinvolti in indagini, il rumore di fondo della pancia leghista nell'ultimo anno è sempre stato in crescendo.

Altri tempi: dopo tre anni al governo (più i cinque della legislatura 2001-2006), la Lega vive con evidente difficoltà il ritorno all'opposizione e il progressivo deterioramento dei rapporti con il Pdl. Alla nascita del governo Monti sembrava che il filo dell'alleanza, su cui tra l'altro si reggono le giunte delle tre principali regioni del Nord, potesse ancora reggere e sopravvivere a quella che il Pdl per primo presentava come una parentesi. Poi, man mano che i tecnici e la maggioranza tripartita hanno messo radici, con Berlusconi che parla apertamente di un proseguimento dell'esperienza anche dopo le elezioni del 2013, il solco tra i due partiti è divenuto più profondo, fino agli ultimi giorni in cui Bossi da una parte e Alfano dall'altra hanno parlato apertamente di fine dell'alleanza, che pure a fasi alterne durava da quasi vent'anni.

Tra le file del Carroccio, al di là delle prese di posizione ufficiali di Bossi e degli ex ministri, cresce la preoccupazione. I sondaggi, confortanti nel primo periodo di opposizione, cominciano a rivelare un' emorragia di voti, legata al consenso crescente che anche nell'elettorato nordista il governo si sta guadagnando con la sua opera di risanamento. Inoltre Berlusconi, inattivo in tutta la prima fase dopo la nascita del governo, da due settimane s'è rimesso in attività. Come è spesso accaduto, nessuno è in grado di valutare quali saranno gli effetti dell'imprevedibile campagna che il Cavaliere ha intrapreso a favore di Monti e di se stesso. Ma se la Lega puntava a pescare nel disorientamento degli elettori berlusconiani, conseguente alla caduta del governo di centrodestra, adesso dovrà mettere in conto che anche questo sarà più difficile.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9854


Titolo: MARCELLO SORGI. Il rischio paralisi del governo
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2012, 04:54:11 pm
8/3/2012

Il rischio paralisi del governo

MARCELLO SORGI

E’ inutile nasconderlo o tentare di minimizzarlo: la cancellazione del vertice di ieri tra Monti e i segretari di Pdl, Pd e Terzo polo, dopo il rifiuto di Angelino Alfano a prendervi parte, segna la prima aperta rottura della maggioranza che sostiene il governo.

E le rassicurazioni venute un po’ da tutte le parti - a cominciare ovviamente dal presidente del Consiglio, per dire che s’è trattato di un incidente passeggero, già praticamente risolto, e l’incontro a Palazzo Chigi potrà tenersi tranquillamente la prossima settimana -, rischiano di accantonare, senza risolverle, le questioni che hanno generato il corto circuito.

A cominciare dal problema di fondo, affacciatosi ieri da destra come in precedenza era emerso da sinistra: il governo Monti è pienamente titolato ad occuparsi della crisi generale del Paese, affrontando anche temi nevralgici come la giustizia, la sicurezza, le telecomunicazioni, la Rai, o deve prudentemente tenersene lontano per evitare divisioni, limitandosi all’emergenza economica?

Rivolta ieri ad Alfano o ad altri esponenti del Pdl, questa domanda avrebbe avuto molto probabilmente la seconda risposta.
Ma l’insofferenza emersa anche con toni sgradevoli da parte di parlamentari della destra nei confronti della ministra Severino, alberga parallelamente in molti ambiti del centrosinistra verso la Fornero e a margine della trattativa sulla riforma del mercato del lavoro, non a caso bloccata da due settimane.

In particolare, i nervi scoperti del partito berlusconiano si erano già elettrizzati nei giorni scorsi, quando la trattativa sulla nuova legge anticorruzione era entrata nel vivo, e in particolare quando la stessa Severino ne aveva parlato con Bersani e Casini, prima del vertice della discordia. Di qui l’irritazione di Alfano, che temeva un accordo tra il ministro e i due partners della maggioranza alle sue spalle, e la conseguente decisione di far saltare l’appuntamento con Monti in attesa di un chiarimento. Il cui onere, va da sé, adesso è destinato a ricadere interamente sul presidente del Consiglio, mentre la Severino ha dovuto incassare, senza neppure reagire, le accuse immotivate di aver tentato un accordo alle spalle del centrodestra.

Che il nervosismo diventi ogni giorno più forte all’interno del Pdl, è evidente. Basta solo considerare l’altro appuntamento saltato ieri all’ultimo momento, di Berlusconi con Bruno Vespa a «Porta a porta»: un ripensamento, si dice, consigliato da molte autorevoli voci del partito, già colpito dall’uscita (poi smentita) della scorsa settimana, in cui il Cavaliere aveva rimesso in discussione la leadership di Alfano. In difficoltà per la rottura dell’alleanza con la Lega e costretto ad affrontare le elezioni amministrative in solitudine, con il concreto rischio di una sconfitta annunciata, il Pdl in quest’ultimo periodo è sottoposto a una continua doccia fredda da parte del suo fondatore. A cosa punti Berlusconi, come sempre nessuno lo sa: ma dopo un paio di mesi di silenzio, digerita l’estromissione dal governo, il Cavaliere un giorno sì e l’altro pure lascia capire di essere insoddisfatto del suo partito, del nome Pdl che vuol cambiare perché gli ricorda il recente infausto passato, e del modo ai suoi occhi burocratico con cui il Pdl si sta avviando al congresso. Un congresso, appunto, classico, alla maniera dei partiti di un tempo, con tessere, delegati, e votazioni: indispensabili, se vuole diventare adulta, per una formazione nata quattro anni fa sul predellino di una Mercedes, ma chiaramente aborrite dal fondatore, che teme un’involuzione della sua creatura.

In un clima come questo, la legge anticorruzione, come l’ipotesi di riformare la governance della Rai, pur necessarie e all’ordine del giorno, in Parlamento o per il maturare di scadenze, sono diventate una sorta di campo minato per il governo, e tra il governo e il partito di Berlusconi. Né più né meno come era accaduto due settimane fa tra Monti, Bersani e i sindacati sull’articolo 18, tema tra l’altro più spinoso perché in nessun caso potrà essere accantonato.

Dopo lo sprint iniziale della riforma delle pensioni e del decreto «Salva-Italia», era abbastanza prevedibile che con l’approssimarsi delle amministrative e man mano che anche le politiche del 2013 si avvicinano, il governo dei tecnici sarebbe andato incontro a una navigazione più incerta. I tempi della politica, si sa, raramente coincidono con la velocità e la necessità delle decisioni e con l’efficacia delle soluzioni. Quando il rinvio serve a trovare un accordo, passi: ma la ricerca di un compromesso non può andare all’infinito. Inaccettabile sarebbe, non solo per l’Italia, ma per l’Europa che ha i suoi occhi puntati su di noi, se Monti - tra l’altro il Monti a cui Berlusconi per primo augura continuamente lunga vita -, a soli quattro mesi dal suo insediamento, dovesse essere ridotto dai veti dei partiti a una condizione di paralisi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9856


Titolo: MARCELLO SORGI. E il Pdl terrà alta la guardia sul governo
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2012, 11:21:33 am
9/3/2012 - TACCUINO

E il Pdl terrà alta la guardia sul governo

MARCELLO SORGI

Mario Monti avrebbe volentieri festeggiato il calo dello spread sui titoli italiani per la prima volta sotto quota 300, se a guastargli la festa non fosse arrivata la lettera di quarantacinque senatori del Pdl decisi a far pagare al ministro Riccardi il conto salato di una mozione di sfiducia individuale. Motivo: ancora la frase sfuggita a Riccardi sullo «schifo» provato per le manovre politiche tese a rendere più difficile la vita del governo. Battuta infelice, per la quale Riccardi aveva dovuto scusarsi, specie in una giornata come mercoledì, in cui la tensione politica interna alla maggioranza era salita a livelli di guardia dopo la decisione di Alfano di far saltare il vertice di maggioranza con Monti. Ma evidentemente le scuse non sono bastate ai senatori del Pdl.

Monti è corso in prima persona ai ripari con una dichiarazione in cui, sottolineando le buone notizie economiche, si augurava di non dover constatare una crescita «dello spread politico tra i partiti». Ma anche se difficilmente la mozione di sfiducia anti-Riccardi sarà presentata, dopo che Gasparri, capogruppo Pdl al Senato, s’è impegnato a parlare con i firmatari della lettera, l’episodio dimostra che da parte del centrodestra l’intenzione è di tenere la guardia alta nei confronti del governo, almeno fino a un completo chiarimento sui problemi aperti, dalla giustizia alla Rai, che dovrebbe arrivare nel vertice riconvocato per la prossima settimana. A campagna elettorale per le amministrative ormai aperta, il Pdl confida insomma di poter ricavare vantaggi da un atteggiamento meno acquiescente con l’esecutivo dei tecnici, ma non ha alcuna intenzione di mettere seriamente in difficoltà Monti.

Tra l’altro, bloccare del tutto la legge anticorruzione, proprio mentre le inchieste sugli episodi di malaffare si moltiplicano, potrebbe rivelarsi controproducente rispetto ai settori dell’opinione pubblica più sensibili al vento crescente dell’antipolitica. Per il secondo giorno consecutivo ieri lo stato maggiore della Lega è rimasto riunito a Milano per esaminare gli sviluppi del caso Boni, decidendo alla fine di una lunga discussione di far quadrato attorno al vicepresidente del consiglio regionale inquisito. Sorprese potrebbero venire anche per il Pd dal caso Lusi: in un’intervista a «Servizio pubblico» l’ex tesoriere della Margherita ha detto che dalle indagini su di lui potrebbe uscire materiale sufficiente «a far saltare tutto il centrosinistra».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9863


Titolo: MARCELLO SORGI. La Terza Repubblica nasce zoppa
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2012, 11:41:42 am
6/3/2012 - PRIMARIE, CAOS PD

La Terza Repubblica nasce zoppa

MARCELLO SORGI

Alle primarie di Genova in cui le due candidate del suo partito erano uscite battute da quello di Vendola, Pierluigi Bersani aveva reagito proponendo che il Pd negli appuntamenti successivi si presentasse con un solo candidato, e non più con diversi, per evitare di disperdere voti e concentrare nella competizione tutta la propria forza. Non si capisce quindi cosa lo abbia convinto ad affrontare poco dopo quelle di Palermo con tre candidati, andando incontro in poche settimane a una ben più grave seconda sconfitta. Inutile cercare scuse, o dire che c’erano già impegni presi; proprio facendo tesoro di Genova, c’era sicuramente modo di rivederli.

La verità è che anche stavolta Bersani non era in grado di imporre la sua opinione a un partito recalcitrante e diviso.

Le primarie infatti costituiscono ovunque una grande prova di democrazia e di apertura alla società. Ma non sono uguali dappertutto. In America, tanto per fare l’esempio più importante, sono primarie di partito. Se Obama, Hillary Clinton e Edwards nel 2008 avessero aperto a tutto il mondo della sinistra americana, il leader dei consumatori Ralph Nader avrebbe avuto la possibilità di giocare la sua partita, e perfino di vincerla: ma non è accaduto. Le primarie aperte, o di coalizione, o all’italiana, sono certamente più seducenti: votano i cittadini e non solo gli iscritti, tutti possono candidarsi, ma il risultato diventa imprevedibile, proprio com’è accaduto a Palermo e a Genova, e prima ancora a Milano, Napoli e Cagliari nel 2011. In tutti questi casi Bersani è sembrato uno che puntava un numero alla roulette, affidandosi alla sorte.

Se è andata così, tuttavia, la ragione è politica, perché il Pd non ha ancora deciso con chi governare, se in futuro gli si ripresenterà l’occasione ed evita finché può di fare una scelta. Alle ultime elezioni politiche del 2008 (ma allora era Veltroni a decidere) scelse come alleati Di Pietro e Pannella, lasciando fuori Vendola e gli altri partitini della sinistra radicale. Da novembre dell’anno scorso sostiene Monti in Parlamento insieme con Terzo polo e Pdl, ma mentre corteggia Casini, rifiuta, ricambiato, l’idea di un’alleanza politica con Berlusconi e Alfano. Intanto anche Di Pietro, dopo Vendola, è finito all’opposizione.

A questo punto, l’idea di tenere tutto insieme, da Casini a Vendola, non sta in piedi. Di accettare già adesso (dopo non si sa) la prospettiva di prolungare l’esperienza del governo a larga maggioranza, per Bersani non se ne parla. Ma neppure di sbilanciarsi sulla coalizione con cui puntare alla guida del Paese. Figurarsi, in questa situazione, come andrebbero a finire le eventuali primarie per il candidato premier del centrosinistra, seppure qualche mese fa il leader del Pd, almeno nei sondaggi, era indicato come possibile vincitore.

Da più parti si continua a sostenere che simili interrogativi tra poco non avranno più ragion d’essere perché la Seconda Repubblica e l’epoca bipolare in cui erano i cittadini a scegliere i governi nelle urne sta per finire. La Grande Riforma tante volte annunciata - e sulla quale però Pd, Pdl e Terzo polo avrebbero ormai raggiunto l’accordo - porterebbe un ritorno al sistema elettorale proporzionale. Nel nuovo (vecchio) assetto che si prepara, i partiti dovrebbero correre nuovamente ciascuno per conto suo, senza più dichiarare preventivamente le alleanze, e solo successivamente trattare in Parlamento per il governo. I governi, verrebbe da dire, pensando a quanti si facevano e disfacevano con tal metodo ai tempi della Prima Repubblica.

Ma anche ammesso che sia questa la prospettiva, per tornare alla partitocrazia servirebbero partiti un po’ meglio in arnese. La vicenda del Pd in questo senso è simbolica, non solo dell’epilogo a cui è giunta in breve tempo la parabola della fusione delle due maggiori forze del centrosinistra, ma più in generale della crisi della forma partito nella democrazia italiana. Nato nel 2007 da una spinta convergente, del personale politico ex democristiano ed ex comunista in periferia, e degli ex giovani leader al centro, il partito è stato divorato dagli appetiti e dalle spartizioni locali, al punto che in Sicilia non correvano tre candidati del Pd, ma tre avversari di tre sottospecie dello stesso: ectoplasmi, mutazioni genetiche, mostri assemblati contro natura con trapianti di pezzi diversi. Costruiti esclusivamente per combattersi e uniti soltanto nel rifiutare qualsiasi indicazione politica nazionale, oggi di Bersani come ieri di Veltroni. Tal che la prima dichiarazione del vincitore di Palermo, Fabrizio Ferrandelli, è stata: «Di qui comincia la liberazione!».

Così la primavera di Genova e Palermo del Pd ricorda e in qualche modo ripercorre quella di Milano, Roma e Napoli del Pdl nel 2010, quando l’allora «partito del presidente», con Berlusconi al governo, grazie alle risse interne fu addirittura capace di non riuscire a presentare le liste nella capitale. Dove possa arrivare una Terza Repubblica che nasca su queste basi, è difficile dirlo. Ma bisognerebbe pensarci per tempo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9849


Titolo: MARCELLO SORGI. Ma i partiti già guardano al dopo
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2012, 06:29:49 pm
20/3/2012 - TACCUINO

Ma i partiti già guardano al dopo

MARCELLO SORGI

Anche se i bookmakers fino all'ultimo restano cauti, l'annuncio da parte della Fiom dello sciopero di due ore in vista della conclusione della trattativa sulla riforma del mercato del lavoro è stato interpretato come una reazione preventiva alla possibilità che alla fine all'accordo si arrivi, e ci si arrivi anche con la firma della segretaria della Cgil Camusso, come ieri, nella giornata di vigilia, s'è augurato Monti. Il presidente del consiglio s'è riservato un intervento finale, per superare le ultime resistenze, ma il ministro Fornero ha ribadito che comunque il governo deciderà e che il tempo limite della decisione è fissato prima della partenza di Monti per l'Asia nel fine settimana.

È evidente che la conclusione del vertice di maggioranza di giovedì scorso, in cui i tre segretari della maggioranza si sono impegnati a sostenere la riforma del governo in Parlamento e a spingere le parti sociali all'accordo, ha influito. La posizione della Marcegaglia, presidente di Confindustria, che si appresta a passare la mano al suo successore, è considerata tattica, viste le circostanze, dal governo. Più caute sono le valutazioni sui sindacati, che ieri in un lungo vertice hanno cercato invano una posizione comune.

Politicamente, il quadro è più chiaro: Bersani tende a far apparire che è rassegnato all'intesa obtorto collo, in realtà non vede l'ora di superare il problema per dedicarsi agli altri argomenti toccati nel vertice di maggioranza. Sulla giustizia - e in particolare sulla trasformazione del reato di concussione - c'è un interesse congiunto dei partiti, e non solo di Berlusconi, che condividono un numero crescente di inchieste e di indagati di cui cercano di liberarsi prima della campagna elettorale del 2013. Non siamo al colpo di spugna, ma poco ci manca: la rimodulazione di gran parte dei processi, che si renderà necessaria con l'introduzione delle nuove figure di reato, cancellerà o sposterà verso la prescrizione gran parte delle cause aperte. Dopo di ciò resta la Rai, sulla quale il centrodestra sta alzando le barricate, e su cui invece Casini s'è avvicinato al segretario del Pd: se infatti al vertice s'è deciso che non devono più esserci materie intoccabili per il governo, è inevitabile che Bersani torni alla carica, puntando non solo al ricambio dei vertici della tv di Stato, ma anche a una ridefinizione della governance, al minimo con un potenziamento dei poteri del direttore generale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9903


Titolo: MARCELLO SORGI. Rossi Doria, in Italia il riformismo è un'utopia
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2012, 05:06:53 pm
Cultura

09/03/2011 -

Rossi Doria, in Italia il riformismo è un'utopia

Fu tra i fondatori del Partito d'Azione. Una biografia spiega l'attualità del suo pensiero


MARCELLO SORGI

Manlio Rossi Doria (1905-1988) è stata una singolare figura di intellettuale, economista e politico. Prima comunista poi tra i fondatori del Partito d’Azione non ha mai smesso il suo impegno meridionalista Simone Misiani ne ha curato la biografia per Rubettino Oltre a colmare un vuoto inspiegabile, a distanza di molti anni dalla scomparsa, la biografia di Manlio Rossi Doria (Simone Misiani, Manlio Rossi Doria un riformatore del Novecento, pagg. 722, euro 30, Rubbettino Editore), intellettuale, meridionalista, tra i fondatori del Partito d'Azione, tenta di dare una spiegazione alla difficoltà, per non dire l’impossibilità, del riformismo e dei riformisti in Italia. Prendendo a modello non solo un uomo, ma un’intera generazione di uomini e donne rilevanti, che trovandosi ad attraversare in qualità di antifascisti clandestini, e poi di protagonisti della politica, il passaggio tra la fine del fascismo e della guerra e la nascita della Repubblica, tentarono inutilmente di radicare nella nuova Italia un processo riformatore, rivelatosi, purtroppo, alla lunga e al di là della serietà delle loro intenzioni, impraticabile.

In questo senso sono illuminanti sia i materiali di prima mano - documenti, lettere, bibliografia mai riordinati prima d’ora - sia i capitoli centrali del libro, ambientati nei terribili quarantacinque giorni a cavallo tra il 25 luglio del Gran Consiglio del Fascismo che mise in minoranza Mussolini e l’8 settembre dell’armistizio con gli Angloamericani e della fuga del re Vittorio Emanuele III, della sua famiglia e del governo Badoglio da Roma. In una minuziosa ricostruzione che vede Rossi Doria entrare e uscire di galera, a Regina Coeli, insieme con i capi dell’antifascismo clandestino Pertini e Saragat da poco tornati dall’estero, l’avventura del Partito d’Azione si consuma nello scontro tra la sua anima massimalista, guidata da Emilio Lussu, e quella riformista di Ugo La Malfa, divise praticamente su tutto: il rapporto con socialisti e comunisti, la possibilità di collaborare con la monarchia, l’urgenza più o meno forte di insediare al governo il Comitato di Liberazione Nazionale e, più sullo sfondo, le prospettive di una situazione che da qualunque parte la si guardi appare «rivoluzionaria», con il Paese spaccato a metà, il territorio ancora occupato in parte dai tedeschi, che controllano Roma, e in parte da inglesi e americani, che stentano in un primo tempo a cacciare le truppe di Hitler, mentre il duce, liberato dalla sua prigione, è riuscito con l'appoggio nazista a rialzarsi e a fondare la Repubblica di Salò.

È in questo contesto che l’anima riformista del Pd’A finirà con il prevalere, ma anche con il restare schiacciata dall’asse tra i tre maggiori partiti saliti al potere dopo la Liberazione e la nascita della Repubblica. La discussione che si sviluppa all’interno del gruppo - oltre a La Malfa, Lussu e Rossi Doria, Leone Ginzburg, Eugenio Colorni, Franco Venturi, Leo Valiani, Giorgio Agosti, Carlo Levi, per citare solo i maggiori e annotare la forte presenza torinese tra i fondatori - è molto intellettuale. Le due anime, la radicale e la moderata, si sentono egualmente rivoluzionarie, ma hanno due modi diversi di intendere i loro compiti. In Lussu si avvertono le radici «sardiste» e il passato comunista. La Malfa e Rossi Doria pensano per l’Italia, piuttosto che a una continuazione della Resistenza armata, a una sorta di New Deal americano, con contadini e operai alleati in un grande partito di massa che gestisca la modernizzazione del Paese. E l’illusione di poter creare un largo consenso popolare su una prospettiva del genere dovrà presto fare i conti con l’approccio più ideologico e conservatore di socialisti e comunisti alleati nel Fronte Popolare.

Simone Misiani traccia di Rossi Doria un profilo da intellettuale e politico inquieto e anticonformista - nato in una famiglia borghese, figlio di un medico di tradizioni laico-massoniche -, all’inizio comunista, ma allontanatosi presto dalla sua prima esperienza malgrado i rapporti stretti con Giorgio Amendola, che invano cercherà a lungo di farlo rientrare nelle file del Pci. Dal ’48 in poi, dopo l’esperienza azionista, Rossi Doria come meridionalista sarà impegnato nell’opera di trasformazione dell’agricoltura del Sud sfociata nella riforma agraria. E per i successivi trent’anni, dai Cinquanta agli Ottanta, sarà protagonista critico ma molto rispettato della vita del Partito socialista, partecipando alla stagione riformatrice del primo centrosinistra ma denunciandone al contempo i limiti e i troppi compromessi e restando sempre molto vicino a La Malfa. L’eredità politica e culturale di Rossi Doria, raccolta nelle memorie, in centinaia di articoli e lettere e in un prezioso archivio a cui Misiani ha dedicato anni di studi, riguarda ormai più che le sue originali proposte riformatrici, legate al suo tempo, la critica dell’inadeguatezza delle classi dirigenti e dell’incapacità delle sinistre di costruire nel Novecento un autentico grande partito riformatore di massa. La lettura di questa biografia e delle considerazioni che accompagnano la vita di questo grande intellettuale e politico può aiutare a riflettere sui limiti e gli errori in cui il centrosinistra continua a dibattersi anche oggi.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/392400/


Titolo: MARCELLO SORGI. La sincerità dei partiti alla prova
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2012, 12:25:01 pm
21/3/2012

La sincerità dei partiti alla prova

MARCELLO SORGI

Diciamo la verità, almeno il pietoso tentativo di mascherare il fallimento della trattativa sul mercato del lavoro, governo e parti sociali potevano risparmiarselo. Una rottura è una rottura, come un divorzio è un divorzio e non c’è nessuna gentilezza formale, nessun rinvio dell’ultima ora e nessun verbale, come quello che ieri è sortito dal tavolo di Palazzo Chigi, che possa edulcorare la sostanza, la realtà dell’accaduto.

Alla fine l’accordo non c’è stato ed è molto difficile che possa essere trovato nelle prossime quarantotto ore.

Davanti a Monti (e a Napolitano, che ancora in mattinata aveva insistito, spronando tutte le parti a uno sforzo di generosità), l’Italia dei molti interessi, delle convenienze particolari, delle resistenze corporative, ha mostrato tutte le sue sfaccettature, le rughe profonde che le attraversano il volto, la stanchezza di muscoli anchilosati che non consentono più scatti in avanti. Invano fino all’ultimo osservatori qualificati cercavano nella storia vicina e lontana di altri negoziati politici e sindacali un precedente che potesse servire a sperare in un’intesa. No, non è andata come nel San Valentino della notte dei tempi del 1984 e del braccio di ferro tra Craxi e Berlinguer, sfociato nel decreto del governo a guida socialista e in un’insanabile spaccatura a sinistra. E neppure come finì nel ’93, quando per concludere l’accordo che doveva salvare l’Italia da una crisi economica pur meno grave di quella attuale, l’allora segretario della Cgil Bruno Trentin firmò contro il suo stesso sindacato e poi si dimise.

Stavolta invece ha prevalso la freddezza, o se si vuole l’incomunicabilità: la battaglia vera ciascuno l’ha combattuta nel suo campo, due ore di sciopero della Fiom sono bastate a trainare tutta la Cgil verso l’indisponibilità e gli slogan propagandistici contro «il governo dei licenziamenti facili»; Cisl e Uil, in passato più autonome, in conclusione hanno indugiato. Anche sul fronte imprenditoriale è accaduto qualcosa di simile: Rete Imprese ha fatto quattro conti, alla maniera svelta dei «padroncini» che rappresenta, e ha innescato la marcia indietro. Ed Emma Marcegaglia, la presidente di Confindustria alla fine di un quadriennio non proprio brillante, non aspettava altro per tirarsi da parte. A Monti e Fornero, dopo un mese e mezzo di illusioni e di inutile trattativa con interlocutori distanti, non è rimasto che stilare il verbale delle divergenze e rassegnarsi all’estremo rinvio.

Dopo di che, il governo ha confermato che prenderà le sue decisioni entro sabato, prima della partenza del presidente del Consiglio per l’Asia. Ma è inutile nascondersi che di queste decisioni peserà più il modo con cui saranno prese e comunicate al Parlamento, che non il dettaglio dei contenuti. Infatti se davvero Monti vorrà tener fede ai suoi ripetuti annunci che la riforma del mercato del lavoro (e al suo interno quella dell’articolo 18) sarebbe stata fatta comunque, con o senza l’accordo delle parti sociali, non gli resta che la strada del decreto: quella degli esordi positivi del suo governo, usata per riformare le pensioni e introdurre le liberalizzazioni. Se invece, come si sentiva dire ieri man mano che la speranza dell’accordo tramontava, la scelta sarà quella del disegno di legge o di una legge delega, cioè di un testo che impiegherà alcuni mesi prima di essere seriamente preso in considerazione dalle Camere, si dirà che abbiamo scherzato. E si vedrà, ciò che è più importante, se erano sinceri gli inviti ad andare avanti, rivolti a sorpresa, dopo frequenti esitazioni e frenate, dai partiti della maggioranza al governo; o se più semplicemente Alfano, Bersani e Casini, nel vertice di giovedì scorso, avevano mandato Monti a sbattere contro il muro della concertazione fallita, per poter riprendere senza intralci la campagna elettorale e fargli capire chi comanda ancora in Italia. A dispetto dell’Italia.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9908


Titolo: MARCELLO SORGI. Premier più forte in Europa Meno in patria
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2012, 03:23:12 pm
22/3/2012 - TACCUINO

Premier più forte in Europa Meno in patria

MARCELLO SORGI

Pdl a favore, Pd contro, Terzo polo al centro, nel ruolo di mediatore.

All'indomani dello strappo sull'articolo 18 la maggioranza a tre rammendata a fatica nel vertice di solo una settimana fa appare più che mai divisa. Scontato per tutti che il nuovo vertice di oggi a Palazzo Chigi non dovrebbe portare grandi novità, l'attenzione si sposta sul Parlamento, dove il testo della riforma e il verbale finale della trattativa dovrebbero arrivare la prossima settimana, e sul Paese, dato che la Camusso, ieri, dopo la rottura di martedì con il governo, ha annunciato ben sedici ore di sciopero e un'eccezionale mobilitazione all' insegna dello slogan "contro i licenziamenti facili".

Le difficoltà maggiori sono per il Pd. Come hanno spiegato Bersani, D'Alema e Rosi Bindi, la scelta di Monti di procedere lo stesso anche in mancanza di un accordo pieno contraddice l'impegno che il presidente del consiglio avrebbe assunto nel vertice di maggioranza di giovedì scorso. Ma che il premier si sia esplicitamente impegnato in questo senso è difficile crederlo, visto che in varie occasioni nelle ultime settimane aveva preannunciato ciò che poi ha fatto. La riforma del lavoro, d'altra parte, era contenuta nella famosa lettera della Bce all'Italia del 4 agosto 2011, al pari della riforma delle pensioni e della necessità di garantire il pareggio di bilancio.

Era indispensabile che, assolti i primi due compiti (bilancio e pensioni) il governo garantisse anche l'attuazione del terzo (lavoro), il più difficile.

Di qui appunto, diversamente dalle pensioni, riformate per decreto, la decisione di tentare la concertazione con le parti sociali.
E davanti a uno stallo, martedì sera, l'accelerata che ha portato allo strappo. Monti ha agito nella convinzione di contare su un solido appoggio dei partiti della sua maggioranza, verificato solo cinque giorni prima, e sulla disponibilità dei sindacati, Cgil compresa, a una sorta di "disaccordo concordato", cioè a condividere anche non interamente la riforma, distinguendo tuttavia le parti accettabili da quelle non condivise e lasciando il governo alla fine libero di decidere e di prendersi le sue responsabilità. L'irrigidimento della Cgil e la durissima reazione annunciata dalla Camusso non erano state messe in conto; almeno non in queste dimensioni.

Così è innegabile che nel giro di poche ore il quadro sia molto cambiato: paradossalmente, Monti, con l'annuncio della riforma, s'è rafforzato sul piano internazionale e agli occhi dell'Europa. Ma si prepara ad affrontare un difficile iter parlamentare in un clima pessimo, e indebolito dal fatto che un gran pezzo della sua maggioranza è entrato in fibrillazione.

I cento voti in meno sulla fiducia sulle liberalizzazioni sono già un primo segno.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9913


Titolo: MARCELLO SORGI. La macchina è in moto, muro contro muro pre-elettorale
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2012, 11:17:12 pm
23/3/2012 - TACCUINO

La macchina è in moto, muro contro muro pre-elettorale

MARCELLO SORGI

Dopo un incontro al Quirinale con Napolitano, Monti sta valutando la possibilità di inserire nel testo che sarà varato oggi dal Consiglio dei ministri qualche aggiustamento che possa servire a svelenire il clima che s'è creato, dopo la rottura con la Camusso, tra il governo e il Pd. Per tutta la giornata sono circolate indiscrezioni in questo senso, soprattutto di fonte sindacale, e questo fa capire che anche Cisl e Uil sarebbero favorevoli a tentare un riavvicinamento con la Cgil.

Così ieri le posizioni ufficiali non si sono spostate di un millimetro: preoccupata, la Fornero, di rassicurare sul fatto che il governo «non fa marcia indietro»; e altrettanto Bersani e Camusso di far capire a Monti che sta andando verso uno scontro pericoloso anche per la sopravvivenza del suo esecutivo. Se qualche limatura ci sarà alla fine si vedrà dopo il Consiglio dei ministri e nei giorni successivi. Un'altra articolazione delle decisioni che potrebbe favorire un raffreddamento dello scontro sarà quella dei provvedimenti con cui Monti proporrà al Parlamento la riforma del mercato del lavoro. Ad esempio, ma è solo un'ipotesi, la scelta di un decreto per la flessibilità in entrata (provvedimenti a favore dei precari), la proposta una legge delega per il nuovo sistema degli ammortizzatori sociali e di un disegno di legge per l'art. 18, consentirebbe di far svolgere la discussione alle Camere secondo un calendario che vedrebbe in prima linea le parti più condivise della riforma e solo successivamente quella più contrastata.

Anche se l'incontro tra il premier e il Capo dello Stato è rimasto avvolto nel riserbo, la frequenza dei contatti in queste ore tra Palazzo Chigi e Quirinale lascia intuire un serio timore sul possibile incremento della tensione sociale determinato dalla mobilitazione «contro i licenziamenti facili». Ma è difficile, nei prossimi giorni, che la situazione possa cambiare: la macchina della Cgil ormai è in moto, e, benché fortemente diviso al suo interno, il Pd ha tutto da guadagnare, in periodo elettorale, da una mobilitazione nazionale sul tema del lavoro, a cui l'elettorato di centrosinistra è molto sensibile. L'articolo 18 è destinato a diventare la bandiera della prossima campagna per le amministrative.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9917


Titolo: MARCELLO SORGI. Giorgio Napolitano, le ragioni di un annuncio in anticipo
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2012, 11:59:16 am
25/3/2012

Giorgio Napolitano, le ragioni di un annuncio in anticipo

MARCELLO SORGI

Maturato da tempo, comunicato a gennaio a una platea di studenti e reso noto ieri in occasione della trasmissione di un programma di Rai Storia dedicato alle istituzioni, il «no» di Napolitano all’ipotesi di un bis della sua presidenza, di cui per la verità sempre più spesso si sentiva parlare negli ultimi tempi, non va interpretato con il metodo delle letture trasversali con cui in genere si esaminano le mosse dei politici italiani.

Se dice che non si ricandida, insomma, vuol dire esattamente quel che ha detto, non il contrario, e neppure che lo ha fatto per stanare la sincerità o meno di quelli che puntualmente, come succede quando il settennato volge verso la fine, hanno cercato anche stavolta di avviare anzitempo la corsa per il Quirinale.

Semmai c’è da riflettere sul momento - gennaio 2012 - in cui Napolitano ha deciso di mettere agli atti la propria indisponibilità per un’eventuale ricandidatura.

Gennaio infatti, dopo il novembre 2011 che l’aveva preceduto, era il mese in cui legittimamente l’esperimento del governo tecnico voluto dal Capo dello Stato, dopo le dimissioni di Berlusconi, poteva già dirsi riuscito. L’esecutivo guidato dal professor Monti, il candidato, ex commissario europeo, richiamato con forza alla vita pubblica dal Presidente con la decisione a sorpresa di nominarlo senatore a vita, aveva rapidamente superato la fase di rodaggio con il varo in tempi brevi delle prime due riforme, pensioni e liberalizzazioni, che dovevano dare l’impronta all’azione di risanamento e di salvataggio dell’Italia da un’emergenza grave quanto mai.

Un’azione così risoluta, e dai risultati così immediatamente concreti, che proprio in quel periodo si moltiplicavano le voci a favore, sia di un consolidamento e di una prosecuzione, anche dopo le elezioni politiche del 2013, dell’esperienza del governo tecnico sostenuto dalla larga maggioranza dei tre maggiori partiti, sia di un rinnovo del mandato al Quirinale per Napolitano, che di Monti fin dal primo momento è stato il garante.

Se invece proprio in quegli stessi giorni il Presidente ha ritenuto, in un programma in cui, data la delicatezza della congiuntura, poteva tranquillamente cavarsela con risposte formali, di cogliere l’opportunità per fugare ogni dubbio sulla possibilità di una sua ricandidatura, le ragioni intuibili sono almeno tre. La prima sta nelle sue stesse parole e nella gravosità del compito che è stato chiamato a svolgere negli anni della sua presidenza: non dev’essere stato affatto facile assistere, giorno dopo giorno, all’avvitarsi del proprio Paese in una crisi che sembrava senza ritorno e al cospetto di una classe politica incosciente, che solo dopo aver messo un piede nel baratro ha deciso di fare un passo indietro.

La seconda, più implicita, è la consapevolezza di aver dato un senso alto e percepibile al proprio mandato. Intendiamoci, specie negli ultimi anni, tutte le presidenze che si sono succedute hanno segnato la storia contemporanea e le speranze, spesso tradite, del Paese. Pertini, con il suo carattere, scosse l’albero di una Repubblica cristallizzata. Cossiga, con il piccone, la demolì. Scalfaro timonò la nave nella tempesta della prima transizione. Ciampi si assunse il compito di ridare dignità allo Stato e alla nazione.

E Napolitano - anche perché la sua storia personale è quella del primo Presidente comunista, politicamente nato e cresciuto nel Pci e all’opposizione, e solo successivamente, negli ultimi venti anni, approdato al servizio delle istituzioni -, si è assegnato l’obiettivo più difficile. Quello di un ritorno alle regole, e se possibile di un loro rinnovamento, nello spirito della Costituzione, per un Paese che s’era illuso di poter vivere in una specie di rivoluzione permanente, in cui il risultato storico di una completa legittimazione politica di tutte le forze politiche e di una piena alternanza basata sulle scelte dirette degli elettori veniva costantemente tradito da una pratica di colpi bassi, tradimenti minacciati e perpetrati, voti comperati e venduti e disprezzo delle istituzioni, e in cui le coalizioni e gli esecutivi di diversi orientamenti, che pure si succedevano democraticamente, condividevano l’incapacità pratica di governare e affrontare i problemi italiani con le necessarie riforme. Dalla transizione all’emergenza, e non solo a quella economica con cui stiamo facendo i conti. Ma anche, inevitabilmente, a quella istituzionale: questa è stata la croce portata sulle spalle da Napolitano.

Volendo abbozzare un bilancio, si può dire che l’obiettivo che il Presidente si era dato è stato raggiunto soltanto a metà. Napolitano è riuscito a por fine all’epoca berlusconiana un momento prima che questa precipitasse nel disastro. Lo ha fatto con fermezza e serenità, adoperando i normali e limitati poteri che la Costituzione assegna al Capo dello Stato. Ma trovandosi ad agire in un quadro-limite, non ha potuto che sostituire a un assetto eccezionale, un altro, diverso, ma non proprio ordinario. Il risultato politico di aver convinto uno come Berlusconi a mettersi da parte c’è tutto e sarà scritto nella storia. Ma il problema del ritorno alla normalità, anche attraverso un percorso riformatore della Costituzione che lo consenta e lo agevoli, non è affatto risolto.

La terza ragione per cui Napolitano ha escluso il bis sta in questo. Forse il Presidente s’è reso conto che per arrivare al traguardo che ha accompagnato ogni giorno del suo settennato, ed è tornato in ciascuno dei suoi messaggi di Capodanno, il tempo e le risorse che gli rimangono non bastano, ed è indispensabile che qualcuno al posto suo raccolga il testimone e continui l’opera. Oppure, al contrario - e malgrado la mediocrità che proprio in questi giorni i partiti continuano a mostrare di fronte alla gravità degli impegni che il Paese ha di fronte -, ha inteso dire che di qui alla fine del suo mandato, nel maggio del 2013, nessuno dei suoi atti potrà e dovrà essere collegato all’eventualità di una riconferma, che non a caso ha voluto escludere con largo anticipo. Napolitano insomma farà ancora tutto quel che ritiene giusto e utile. E lo farà fino all’ultimo giorno del suo mandato.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9921


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Professore Monti e lo spettro di Andreotti
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2012, 07:23:15 pm
27/3/2012 - TACCUINO

Il Professore Monti e lo spettro di Andreotti

MARCELLO SORGI


L’'ardito paragone fatto ieri da Monti tra se stesso e il suo governo e quelli di Andreotti e della Prima Repubblica, va considerato come un monito del premier.

Il Divo Giulio, infatti, vent’anni or sono, ai tempi della sua ultima esperienza a Palazzo Chigi, a chi lo criticava per il suo immobilismo replicò con uno dei suoi storici aforismi: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia!». E Casini, che da giovane vecchio democristiano per l’uomo-simbolo di tutti i governi dc ha sempre nutrito ammirazione, due settimane fa al vertice di maggioranza, volendo fare un complimento al presidente del Consiglio, gli disse che lo considerava «più furbo di Andreotti».

Ma sono proprio questi precedenti e questi paragoni interessati che Monti ha voluto allontanare da sé, una volta e per tutte, ricordando che i tecnici sono stati chiamati al governo per realizzare appunto ciò che era necessario e i politici non riuscivano a fare. Di qui la necessità di misurarsi sui risultati e di portare a compimento in tempi brevi la riforma del mercato del lavoro, e al suo interno anche quella, assai contestata, dell’articolo 18. Se possibile, ha chiarito Monti - facendo eco a Fornero che aveva espresso il timore di vederla finire «in polpette» -, senza stravolgerla nel passaggio parlamentare che si annuncia lungo e defatigante.

La precisazione del premier è stata accompagnata da un ammorbidimentodella posizione del Pd, finora negativa. Dopo giorni e giorni di critiche per la decisione di chiudere la trattativa con le parti sociali senza accordo, e in aperta rottura con la Cgil, Bersani ha mandato segnali distensivi, allontanando i segnali di crisi, confermando il suo appoggio al governo, e augurandosi che il testo della riforma possa essere corretto in Parlamento e si arrivi a una formulazione condivisa. Il leader del Pd ha voluto anche ringraziare il presidente Napolitano per l’opera di mediazione svolta. Ma alcuni dei presenti hanno notato che, diversamente da altre volte, l’accenno al Capo dello Stato non è stato accompagnato da un applauso: segno che nel partito ancora prevalgono le riserve di chi forse avrebbe voluto dal Presidente una maggiore resistenza all’iniziativa del governo.In realtà Napolitanoè intervenuto sul metodo e sullo strumento più opportuno per dare il via al dibattito nelle Camere. Ma, nel merito, ha condiviso la necessità della riforma, perché è consapevole che era uno dei punti su cui l’Europa premeva sull’Italia e pertanto rientrava nel programma del governo fin dal momento della suaformazione.

Anche Pd e sindacati ne erano avvertiti: per questo, superata la campagna elettorale e il momento della propaganda, quando il confronto entrerà nel vivo, e la riforma dovrà essere trasformata in legge, anche il centrosinistra dovrà chiarire le sue vere intenzioni. Prendendo atto che una resistenza troppo ostinata alla modifica dell’articolo 18, al di là della assicurazioni che Bersani in persona ha voluto dare, alla lunga potrebbe compromettere la stabilità del governo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9931


Titolo: MARCELLO SORGI. Giochi di veti e spiragli sulle riforme istituzionali
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2012, 03:08:49 pm
28/3/2012 - TACCUINO

Giochi di veti e spiragli sulle riforme istituzionali

MARCELLO SORGI

Anche se Napolitano e Schifani, alla fine di un incontro al Quirinale, si sono affrettati a sottolinearne l’importanza, e il presidente del Senato, in particolare, ha garantito che a Palazzo Madama si farà di tutto per favorirne l’iter parlamentare, è lecito dubitare ancora una volta che l’accordo siglato ieri dai segretari dei tre partiti di maggioranza, assente Monti, sulle riforme istituzionali e sulla legge elettorale, sia da considerare definitivo.

E’ già accaduto in passato che intese come quelle di ieri sera siano state annunciate per essere subito dopo dimenticate o travolte dalle polemiche del giorno per giorno.

Negli ultimi sei mesi è stato svolto un buon lavoro istruttorio, più volte annunciata l’intesa su rafforzamento dei poteri del premier, distinzione delle funzioni tra le due Camere, riduzione del numero di deputati e senatori, oltre che su un sistema elettorale più proporzionale, in grado di seppellire il Porcellum e di rimettere la scelta dei candidati da eleggere nelle mani degli elettori.

Ma poi il percorso delle riforme s’è sempre arenato prima di partire, complici le tensioni politiche crescenti all’interno della maggioranza e tra i partiti e il governo.

Alfano, Bersani e Casini (quest’ultimo promotore dell’incontro a tre) giurano che questa sarà la volta buona, considerano ormai superato il gioco dei veti reciproci, e anche nel caso in cui le riforme istituzionali dovessero di nuovo fermarsi (per attivare la procedura di revisione costituzionale, che prevede quattro votazioni a intervalli non minori di tre mesi, il tempo di qui alla fine della legislatura è poco), la legge elettorale potrebbe procedere per conto proprio, a partire dall’impegno sancito ieri di muoversi per un sistema che non richieda di indicare prima del voto le alleanze e lasci ai partiti le mani libere per trattare sul governo dopo i risultati delle urne.

Di qui a trovare l’intesa anche sugli altri punti (due su tutti: la soglia dello sbarramento per i partiti minori e a chi assegnare, coalizioni o partiti, il premio di maggioranza), tuttavia ne corre. E al di là dei pubblici anatemi, l’ipotesi di votare ancora una volta con il Porcellum rimane nei retropensieri di tutti i leader dei partiti. I segretari della maggioranza promettono di riparlarne già la prossima settimana, in tempo per scambiarsi gli auguri di Pasqua. Passata la quale, la campagna elettorale riprenderà fino a maggio. Volenti o nolenti, di riforme e di articolo 18, Alfano, Bersani e Casini potranno seriamente ricominciare a occuparsi solo a giugno.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9934


Titolo: MARCELLO SORGI. Gli attacchi risvegliano la voglia di elezioni
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2012, 05:04:16 pm
29/3/2012 - TACCUINO

Gli attacchi risvegliano la voglia di elezioni

MARCELLO SORGI

Avrà il suo bel da fare, al ritorno in Italia, la prossima settimana, Mario Monti, per cercare di ricucire la sua maggioranza e far ripartire la riforma del mercato del lavoro sull'impervio percorso che la attende. Se infatti la sua prima uscita, tre giorni fa, quando aveva evocato Andreotti per dire che non era disposto a tirare a campare, aveva sollecitato una reazione in positivo dei partiti (vertice a tre dei segretari della maggioranza, direzione del Pd in cerca di un'intesa sull'articolo 18), la seconda, ieri, ha colto di sorpresa un po' tutti. Irritando oltremodo Bersani, che se n'è uscito sostenendo che, di questo passo, i politici (accusati da Monti di non trovare consenso nel Paese), e i tecnici (che secondo lo stesso Monti invece lo hanno), rischiano di andare a casa insieme.

Sarà pure, come sostiene Casini, nuovamente nel ruolo del pompiere, che Monti durante il suo road-show globale mirato a consolidare la credibilità dell'Italia sui mercati, si rivolge ad interlocutori che si aspettano di sentirlo parlare così e per questo ha abbandonato la sua proverbiale pazienza. Ma le conseguenze della campagna internazionale del presidente del consiglio si fanno sentire. Il governo non rischia affatto di cadere, come l'allarme lanciato da Monti all'estero lascerebbe credere. Ma se il premier continua a martellare così, va a finire che la voglia di elezioni sempre viva nei partiti si risveglia e poi non sarà facile farla passare. Qualche timore in questo senso s'è colto nell'intervento del Presidente della Repubblica: un Napolitano insolitamente irritato, con Monti o anche con Monti, verrebbe da dire. Altrimenti non si sarebbe detto convinto che il Paese, diversamente da quel che aveva sostenuto il premier, è pronto a comprendere la necessità di riforme rigorose come quella del mercato del lavoro.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9938


Titolo: MARCELLO SORGI. Il prezzo politico della paralisi
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2012, 06:14:30 pm
30/3/2012 - TACCUINO

Il prezzo politico della paralisi

MARCELLO SORGI

Il quadro preoccupante di un intero anno di recessione, fornito dal ministro dello sviluppo economico Passera al Parlamento, la giornata difficile in Borsa e lo spread dei titoli pubblici che torna a impennarsi, a parte le preoccupazioni che hanno generato, sono serviti a capire qual è il prezzo politico della paralisi imposta al governo Monti dopo l'avvio della riforma del mercato del lavoro e lo scontro sull'articolo 18.

Pur avviata sulla strada del risanamento, l'Italia non può permettersi di dare segni di ripensamento sul percorso virtuoso imboccato quattro mesi fa.

Le incombenze della campagna elettorale, che hanno spinto i partiti, e in particolare il Pd, a prendere le distanze dal governo proprio nell'ora delle scelte più difficili, non sono compatibili con il peso, ancora molto grave, della congiuntura economica determinata dalla crisi dell'euro.

Dopo due esternazioni consecutive, Monti ieri ancora in viaggio ha taciuto. La sua polemica contro i partiti ha sollevato reazioni trattenute ma consistenti, e al rientro a Roma il premier dovrà affrontare una situazione molto difficile.

I rapporti con Bersani e Camusso si sono molto raffreddati: il presidente del consiglio tuttavia considera grave soprattutto l'atteggiamento del leader del Pd. Mentre infatti Monti non s'era mai illuso (e non ne aveva fatto mistero) di poter arrivare a un'intesa con la Cgil, al contrario considera Bersani come uno dei contraenti del patto di governo, il cui programma prevedeva chiaramente fin dall'inizio l'intervento sui licenziamenti.

Il passo indietro del Pd, o anche semplicemente la necessità, che ormai traspare, di rinviare l'iter parlamentare del disegno di legge del governo a dopo le amministrative, è inaccettabile per Monti.

Che appena tornato a Roma proverà ad esaminare con i presidenti delle Camere la possibilità di accelerare il dibattito parlamentare e l'approvazione del provvedimento, se del caso ponendo la questione di fiducia, con la motivazione, appunto, che il Paese non può consentirsi né indugi né rallentamenti nella sua strategia anti-crisi.

In attesa di ritrovarsi faccia a faccia con il premier, i segretari dei tre partiti di maggioranza contano di rivedersi prima di Pasqua in un nuovo vertice di maggioranza, per cercare di definire la materia delle riforme istituzionali e di quella elettorale tratteggiate nel loro incontro di due giorni fa.

Ma a giudicare dalle reazioni che continuano a provenire dall'interno di Pd e Pdl, il compito si sta rivelando più arduo del previsto.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9943


Titolo: MARCELLO SORGI. Da Articolo 18 e voto il freno al governo
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2012, 09:50:51 am
3/4/2012 - TACCUINO

Da Articolo 18 e voto il freno al governo

MARCELLO SORGI

Nove giorni fa, al momento della partenza per l'Asia, Mario Monti sapeva di aver lasciato aperti due grossi problemi per il suo governo: la riforma del mercato del lavoro con lo scontro sull’articolo 18, e la legge anticorruzione bloccata in Parlamento, malgrado gli impegni presi nell’ultimo vertice di maggioranza.

Ieri sera, al momento del ritorno, il premier di questioni da risolvere ne ha ritrovate quattro: alle due principali, infatti, si sono aggiunte quella degli «esodati», cioè dei lavoratori che avevano firmato accordi per lasciare il lavoro e andare in pensione, e a causa dei nuovi parametri introdotti dalla riforma Fornero rischiano di ritrovarsi senza lavoro e senza pensione; e il pasticcio Imu, la mancanza, ormai in un tempo limite per consentire di fare i calcoli, dell’adeguamento delle tabelle che i comuni dovevano completare nei primi mesi dell’anno per consentire ai contribuenti e ai loro consulenti di conteggiare i versamenti della nuova tassa, ma che solo quattrocento delle oltre ottomila amministrazioni locali hanno messo a punto finora.

Monti non può assolutamente consentirsi che sulla sua scrivania si accumulino i faldoni dei dossier irrisolti. La sensazione, ormai evidente, che l'azione del governo sia rallentata, per non dire bloccata, dalle difficoltà politiche dei tre partiti che lo sostengono e dalla campagna elettorale che accentua la competizione, ha già portato, in assenza del presidente del consiglio, a un rialzo degli spread oltre la soglia di rischio consentita. Un danno sostanziale, oltre che d'immagine, che si riflette sui risultati positivi della missione in Asia e richiede un intervento immediato.

In una ricognizione con i ministri interessati, e successivamente con i tre leader di maggioranza, Alfano, Bersani e Casini, Monti cercherà di far ripartire l'attività dell’esecutivo. Le difficoltà maggiori riguardano ancora l'articolo 18. Al di là di una disponibilità formale offerta da Bersani a un'intesa che porti a far passare la riforma almeno alla Camera entro maggio, il nodo resta quello del reintegro, attualmente non previsto dalla riforma, e che il leader del Pd vorrebbe reintrodurre, per i licenziamenti economici. Casini spinge per un'intesa. Anche Alfano ha fatto una piccola apertura, ma tenendo ferma la pregiudiziale contraria ad accogliere le pressioni della Cgil. Il compito non facile della mediazione e della sintesi resta affidato a Monti. Che vorrebbe provare a risolvere la questione entro sabato, prima di ripartire per Israele.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9958


Titolo: MARCELLO SORGI. Umberto nel mirino dentro e fuori il partito
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2012, 05:06:31 pm
4/4/2012 - TACCUINO

Umberto nel mirino dentro e fuori il partito

MARCELLO SORGI

Lo scandalo dell’uso illecito dei finanziamenti pubblici da parte della Lega ha investito in pieno Bossi e la sua famiglia, destinatari secondo le accuse, dei fondi distratti dal tesoriere Francesco Belsito, e rischia di avere conseguenze anche più gravi del prevedibile proprio perché non è giunto inatteso. Anzi, il 22 gennaio, oltre tre mesi fa, di fronte alle prime rivelazioni sul comportamento del tesoriere, era stato lo stesso Bossi che solo ieri sera si è rassegnato a farlo dimettere - a insistere per difenderlo e ad attendere che fosse lui stesso a chiarire in che modo erano stati amministrati i fondi del partito. Ma naturalmente, nei mesi seguenti, Belsito si era ben guardato dal dare spiegazioni. Probabilmente anche perché sapeva che rischiavano di danneggiare il leader del Carroccio.

Ora tutti si chiedono se Bossi, colpito sia nella sua famiglia che nella rete di protezioni che il gruppo di dirigenti a lui più vicini, il cosiddetto «cerchio magico», gli assicurava, sarà in condizione di approntare una risposta credibile alle contestazioni dei giudici.
E soprattutto fino a che punto si spingerà la pressione di Maroni nei suoi confronti, mirata ad un’operazione trasparenza rispetto agli elettori. L’ex ministro dell’Interno, in vantaggio finora in tutti i precongressi locali della Lega in cui s’è votato, ha rilasciato ieri una dichiarazione molto dura e ha disertato il vertice con Bossi nella sede di via Bellerio. Ma nella Lega non esistono le condizioni per far si che il Senatur si rassegni a un passo indietro, né forse per immaginare una Lega senza Bossi. Bisognerà vedere quanto pagherà il Carroccio nelle prossime elezioni amministrative per uno scandalo che in gran parte, grazie alle rivelazioni dei giornali, era diventato noto alla base leghista, provocando reazioni molto dure nelle manifestazioni del partito, dove a un certo punto erano comparsi anche striscioni con su scritto «Tanzania», con un’evidente allusione agli investimenti sospetti del tesoriere del partito.

L’altra conseguenza riguarda i già sofferenti rapporti tra il Carroccio e il Pdl, schierati in maniera opposta di fronte al governo, e alla ricerca di una faticosa ricomposizione almeno per affrontare le amministrative al Nord. Anche se Berlusconi ieri si è affrettato a dichiarare pubblicamente la sua solidarietà a Bossi, sarà inevitabile, nei prossimi giorni, che il Pdl prenda le distanze dagli ex alleati e in alcuni casi cerchi di intercettare gli eventuali voti in libera uscita dalla base elettorale nordista disgustata dallo scandalo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9963


Titolo: MARCELLO SORGI. Accolta l'idea del Pd
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2012, 03:41:40 pm
5/4/2012 - TACCUINO

Accolta l'idea del Pd

MARCELLO SORGI

Quando si dice che la politica è l’arte del possibile: Mario Monti ed Elsa Fornero hanno confermato ieri il compromesso raggiunto dal presidente del consiglio nel vertice con Alfano, Bersani e Casini. Il reintegro ad opera del magistrato dei lavoratori licenziati ingiustamente torna ad essere possibile in tutti e tre i casi previsti dalla riforma dell’articolo 18, compresi dunque i licenziamenti economici, e non solo, com’era stato deciso in un primo momento, per quelli discriminatori e disciplinari. Alla fine, con il placet anche del segretario del Pdl inizialmente contrario, è stata accolta la richiesta di Bersani, e adesso il disegno di legge potrà marciare spedito verso l’approvazione.

Motivi di opportunità e ragioni politiche hanno spinto Monti a un sensibile aggiustamento. Nel giro di dieci giorni, come ha ammesso Fornero, non solo la Cgil e il Pd, ma anche tutte le organizzazioni sindacali, anche quelle che inizialmente avevano dato la loro adesione, avevano fatto marcia indietro. La tensione tra governo e maggioranza si era acuita ed era giunta al livello di guardia durante l’assenza di Monti per la missione in Asia. Di qui la necessità di svelenire e rimettere il governo in carreggiata.

Se Bersani incassa quel che chiedeva, anche il governo porta all’attivo il principio che adesso, in caso di serie e riconosciute difficoltà economiche, le imprese potranno ristrutturarsi senza temere che i loro piani siano sistematicamente contraddetti dall’intervento della magistratura. Migliorano inoltre le condizioni dell’accesso al lavoro per i giovani. E tutto questo dovrebbe, secondo le previsioni del governo, sollecitare investimenti stranieri nel nostro Paese o almeno rallentare il trasferimento di risorse all’estero.

Le ragioni politiche sono maturate negli ultimi giorni anche per altre ragioni. Non c’è dubbio che lo scandalo che ha investito la Lega, da una parte, e dall’altra la svolta di Di Pietro verso una linea di rottura oltre ogni limite con Monti (ieri in Parlamento il leader di Idv è arrivato a dargli la responsabilità dei suicidi di imprenditori e pensionati), spingono Pd e Pdl ad accantonare la nostalgia delle vecchie alleanze per fare i conti fino in fondo con la realtà attuale del governo e della larga (e scomoda, per certi versi) maggioranza a tre che lo sostiene adesso. E dovrà verosimilmente sostenerlo ancora a lungo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9966


Titolo: MARCELLO SORGI. Gli scandali avvicinano Pd e Pdl
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2012, 03:20:38 pm
6/4/2012 - TACCUINO

Gli scandali avvicinano Pd e Pdl

MARCELLO SORGI

Data per improbabile fino a qualche giorno fa, malgrado gli impegni presi da Alfano, Bersani e Casini, la riforma elettorale torna ad essere possibile per effetto degli ultimi avvenimenti. La crisi della Lega con le dimissioni di Bossi dopo lo scandalo dell'uso illecito dei fondi pubblici, l'escalation di Di Pietro dall'opposizione alle accuse immotivate a Monti di essere il responsabile dei suicidi legati alla crisi economica, la resistenza di Vendola e della sinistra radicale all' intesa sul mercato del lavoro e sull'articolo 18, hanno reso molto difficile, ai limiti dell'impraticabile, il ritorno dei due maggiori partiti alle vecchie coalizioni, in vista delle elezioni politiche del 2013. Alfano e Bersani insomma non hanno più un "secondo forno" da restaurare, in alternativa all'appoggio all'attuale governo, e devono mettere in conto la possibilità che la formula della larga coalizione, magari non necessariamente abbinata a ministri tecnici, prosegua anche nella prossima legislatura, con Monti alla guida, come tutti, tranne l'interessato danno per scontato.

Se questa è la prospettiva e se le prossime scadenze, di qui a un anno, dovessero consolidarla, non c'è dubbio che una legge elettorale proporzionale, come quella attorno a cui si sta lavorando, sia lo strumento più adatto per raggiungere l'obiettivo. Nessuno dei tre partiti maggiori infatti sarebbe in condizione di ottenere la maggioranza nelle urne da solo. E soltanto una coalizione dei primi due, Pdl e Pd, al momenti la più improbabile delle combinazioni, potrebbe puntare a superare il cinquanta per cento dei voti, scontando il rischio di una secessione dei rispettivi elettorati, fin qui aizzati anno dopo anno l'uno contro l'altro.

Problemi da risolvere ce ne sono, a cominciare dall'opportunità o meno di mantenere il premio di maggioranza, assegnandolo al partito vincitore o al primo e al secondo della classifica, dall'eventualità, per i partiti, di continuare a presentarsi con un candidato premier o no, dal momento che i governi tornerebbero ad essere formati in Parlamento, e non decisi nelle urne dagli elettori. E soprattutto dalla capacità, per gli stessi partiti, di abbinare al nuovo meccanismo elettorale un minimo di riforme istituzionali (riduzione del numero dei parlamentari, distinzione delle funzioni tra le Camere, rafforzamento dei poteri del premier), per cercare di recuperare ascolto presso i cittadini e di ricostruire una credibilità ormai quasi irrimediabilmente scossa dall' ultima serie di scandali.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9969


Titolo: MARCELLO SORGI. Una norma cercata alla svelta come alibi
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2012, 07:03:33 pm
11/4/2012 - TACCUINO

Una norma cercata alla svelta come alibi

MARCELLO SORGI

Anche se è comprensibile l’urgenza di dare risposte a un’opinione pubblica sbigottita dagli scandali, la fretta con cui si sta procedendo a definire il nuovo sistema di finanziamento pubblico (o di rimborsi, tanto è lo stesso) dei partiti rischia di essere cattiva consigliera. Una nuova legge approvata precipitosamente, perfino più velocemente di un decreto, in materia, rischia innanzitutto di trasformarsi in un alibi per tutti i coinvolti in inchieste che devono ancora essere definite: vale per la Lega, in cui bisognerà capire fino a che punto Bossi era veramente ignaro degli illeciti dei suoi familiari e famigli, ma vale anche per la Margherita, in cui le difese, ma anche le accuse, del tesoriere Lusi, dovranno essere attentamente riscontrate.

Inoltre fare una legge di finanziamento dei partiti senza sapere per che tipo di partiti la si fa è quanto meno singolare. Stando a pubblici e recenti impegni infatti, siamo alle soglie di un cambiamento istituzionale e politico per cui i partiti leggeri, liquidi, all’americana della Seconda Repubblica, cioè queste specie di comitati elettorali permanenti costruiti attorno ai leadercandidati premier, stanno per essere riconvertiti, grazie a una nuova-vecchia legge elettorale proporzionale, in una forma più simile a quella della Prima: partiti strutturati, partitoni con correnti di maggioranza e minoranza, sedi dislocate sul territorio, congressi biennali e così via. Costeranno di più o di meno? Nessuno lo dice, ma è chiaro che costeranno di più. E tanto per fare un esempio: se torneranno le preferenze, i rimborsi dovranno andare sempre ai partiti, o ai candidati che ne raccolgono di più, o essere ripartiti tra i primi e i secondi?

Sono questioni non di poco conto, le prime che vengono in mente. D’altra parte, se davvero si vuol procedere, come si dice, e com’è ormai indispensabile agli occhi di tutti, a un ridisegno dell’assetto istituzionale del Paese e di una parte della sua Costituzione, farlo precedere da una questione come quella del finanziamento, che di logica verrebbe dopo, rischia di aggiungere confusione a confusione. Tutto ciò, non per parlar d’altro o rinviare un problema ormai maturo, ci mancherebbe. Semmai, al contrario, per dare il giusto peso a una questione, come quella dell’esistenza e del funzionamento trasparente dei partiti, che non va trascurata, proprio perché nella Costituzione i partiti non certo questi attuali, e neppure forse quelli che verranno, se continua di questo passo - sono descritti come architravi della democrazia italiana. E se crollano, c’è da temere, finisce che viene giù tutto.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9983


Titolo: MARCELLO SORGI. L'alleanza obbligata Bobo-Umberto
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2012, 03:40:40 pm
12/4/2012

L'alleanza obbligata Bobo-Umberto

MARCELLO SORGI

La scelta di Roberto Maroni di recarsi in Procura, offrire il massimo di collaborazione della Lega a far luce sui propri conti interni e sullo scandalo dell’uso illecito dei rimborsi elettorali è un segno ulteriore, dopo la serata delle scope in cui l’ex ministro dell’Interno è apparso al fianco di Bossi per promettere pulizia nel partito, che il futuro del Carroccio si giocherà senza rotture, sulla base di un compromesso tra il fondatore e l’uomo che fu il suo delfino, e senza soluzioni precostituite sul dopo. Vuol dire insomma che Maroni potrà essere il successore di Bossi, che deve considerarsi caduto qualsiasi pregiudizio interno nei suoi confronti, dopo i mesi terribili di questo inizio d’anno in cui si era perfino tentato di impedirgli di parlare. Ma anche che alla fine lo sbocco potrà non essere quello e al congresso Bossi giocherà la sua partita.

Ci sono varie ragioni per cui alla fine è prevalsa questa linea. Anche prima dello scandalo, il congresso di un partito come la Lega, che non ne fa da dieci anni, si presentava problematico. Il Carroccio non è in grado di lasciare che Bossi sia travolto perché nessuno è in grado dire cosa diventerebbe e se davvero continuerebbe ad esistere la Lega senza Bossi. Il Senatur, da parte sua, come ha fatto pubblicamente martedì sera sul palco di Bergamo, accetta di fare la figura del leader ammalato e raggirato da familiari e famigli infedeli, anche se questo rappresenta lo sfregio più pesante del suo carisma storico. Le fibrillazioni dei veneti, in assenza di chiarezza sulla prossima legge elettorale, forse giocano di più del timore dell’esito imprevedibile delle prossime elezioni amministrative al Nord: non è detto insomma, non è scontato che la Lega possa restare unita con gli attuali confini interni. L’assenza di Flavio Tosi, sindaco di Verona, alla manifestazione di Bergamo, era molto eloquente: nessuno infatti era in grado di dire come sarebbe andata a finire. Fin qui è solo quel che è emerso in questi giorni: ma è chiaro che molte minacce interne, molte promesse di vendetta si agitano ancora sotto la superficie del partito scosso dallo scandalo.

Così, sulla base di un armistizio interno e della probabile cacciata di Rosy Mauro, dopo quella di Renzo Bossi, dal partito, i leghisti si attrezzano a un futuro di sopravvivenza. Sapendo che un certo modo di essere per loro è finito per sempre, ma non quale sarà quello nuovo, e soprattutto se ci sarà, dopo che lo scandalo ha fatto apparire il partito nato geneticamente diverso dagli altri vent’anni fa, come e forse peggio degli altri.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9984


Titolo: MARCELLO SORGI. L'esecutivo cerca la strada per uscire dalle secche
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2012, 12:00:56 pm
17/4/2012 - TACCUINO

L'esecutivo cerca la strada per uscire dalle secche

MARCELLO SORGI

Mario Monti prova a portare il suo governo fuori dalle secche in cui si è arenato. Il consiglio dei ministri di ieri, con l’approvazione delle delega fiscale, e il vertice di maggioranza di stasera, con Alfano, Bersani e Casini, sono due passi che vanno in quella direzione. La riforma fiscale, anche se i tempi si annunciano molto lunghi, dovrebbe almeno consentire di sperare, in caso di miglioramento della congiuntura economica, di ipotizzare una riduzione delle tasse almeno per la fascia di contribuenti più poveri. Preceduto da una telefonata di disgelo tra il presidente del consiglio ed Emma Marcegaglia, l’annuncio di un nuovo ritocco al testo della riforma del mercato del lavoro, per venire incontro alle richieste di Confindustria, dovrebbe servire a creare le condizioni per una conclusione positiva del vertice di stasera.

Per Monti, venire a capo dell’infinita trattativa sulla riforma è vitale. Dopo le resistenze di Pd e sindacati, superate con la reintroduzione della possibilità di reintegro anche per i licenziamenti economici, oltre a quelli disciplinari e discriminatori, il fronte aperto con le imprese e con il Pdl schierato al loro fianco rischiava di paralizzare l’iter parlamentare del disegno di legge. Altrettanto importante è sbloccare la legge anticorruzione, in mano alla ministra di giustizia Severino, impegolata in una serie di veti incrociati.

Ma è inutile nasconderlo: è tutto il clima attorno al governo che nel giro di pochi giorni s’è deteriorato. La campagna elettorale, i sondaggi negativi, il moltiplicarsi delle inchieste giudiziarie (negli ultimi giorni anche la posizione del governatore della Lombardia Formigoni s’è appesantita), che aggravano il rapporto con l’opinione pubblica, la questione del finanziamento pubblico sul quale i partiti hanno cercato senza riuscire a trovarla una soluzione, sono tutte cause che si sommano e indeboliscono la solidarietà interna della maggioranza a tre e il sostegno a Monti. Non è certo un buon segno il terzo vertice in poche settimane per trovare una soluzione concordata sul lavoro.

Per capire se davvero potrà essere considerato quello definitivo, basterà vedere se Monti, una volta ritrovata l’intesa, sarà in grado di presentare un maxiemendamento al testo giacente in Parlamento, sul quale poi porre la fiducia.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10006


Titolo: MARCELLO SORGI. Governo, ora serve una nuova investitura
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2012, 03:56:20 pm
18/4/2012

Governo, ora serve una nuova investitura

MARCELLO SORGI

Quando ci si chiede perché il governo dopo l’invidiabile sprint iniziale con cui aveva realizzato per decreto la riforma delle pensioni e ristabilito a tempo di record le relazioni con i principali partners europei e internazionali -, negli ultimi due mesi è ripiegato su se stesso, e si trascina da inizio d’anno in un’interminabile trattativa sul mercato del lavoro, non c’è molto da approfondire per trovare la risposta, che è sotto gli occhi di tutti. Un presidente del Consiglio che quasi tutte le settimane deve convocare un vertice di maggioranza per rimettere insieme la coalizione che lo sorregge - facendo i conti, ora con la sinistra, ora con la destra, e ogni volta ricominciando da capo perché sinistra e destra sono alleate e avversarie allo stesso tempo - in pratica non è messo in condizione di lavorare.

Neppure ai tempi della Prima Repubblica quando i debolissimi governi pentapartitici si trascinavano da una «verifica» a una crisi il ritmo delle rinegoziazioni programmatiche e dei continui compromessi tra le forze politiche era così frequente e nevrotico.

Se hanno sottoscritto un programma d’emergenza che prevede una serie di riforme, dure da far digerire agli elettori, ma indispensabili per uscire dalla crisi, i partiti non possono rimangiarsene ogni giorno un pezzetto, tal che, un emendamento oggi e uno domani, intanto i provvedimenti restano impantanati in Parlamento, e quando si arriva alla formulazione finale, spesso si tratta di una versione edulcorata e meno efficace del testo che si voleva approvare in partenza. Lo stesso vale per le parti sociali, si tratti della Cgil e dei sindacati che hanno premuto sul Pd per ottenere il ridimensionamento della nuova disciplina dei licenziamenti, o della Confindustria che ha chiesto e ottenuto l’appoggio del Pdl per annacquare le nuove norme sul precariato e sulle flessibilità in entrata.

Quel che i mercati hanno capito, o meglio non riescono a comprendere fino in fondo, è esattamente questo. Quegli stessi mercati che avevano accolto favorevolmente la decisione dei partiti di fare un passo indietro e affidare a un tecnico di prestigio come Monti le scelte dolorose che nessun governo politico era stato in grado di fare, adesso non si spiegano cosa stia succedendo in Italia. Tutto sarebbe più chiaro se qualcuno avesse cambiato idea, mettendo in campo un’altra ricetta, come ad esempio sta accadendo in Francia, dove il candidato socialista Hollande propone l’esatto contrario della linea seguita fin qui dal presidente Sarkozy. Ma finora non è accaduto. Alfano, Bersani e Casini si preoccupano, com’è naturale, dei loro elettori, sottoposti a una cura da cavallo di sacrifici che sta già lasciando i suoi segni, si lamentano della recessione e del fatto che non si riesca a far nulla di concreto e urgente per la crescita, ma al dunque concordano che non c’è alternativa, né a Monti né a quel che Monti sta facendo.

L’intiepidimento dei rapporti con il governo ha inoltre coinciso con l’esplosione di una serie di scandali, che hanno portato ai minimi termini la già mediocre fiducia dei cittadini nei partiti. I quali si lamentano del fatto che li si faccia apparire tutti uguali e tutti allo stesso modo corrotti, cosa che ovviamente non è. Ma se negli stessi giorni in cui la Lega Nord, vale a dire il campione dell’antipolitica nato e cresciuto sullo slogan «Roma ladrona», affondava nella vergogna dell’inchiesta sull’uso privato da parte di familiari e famigli di Bossi dei rimborsi elettorali, sull’inverosimile serie di investimenti di fondi pubblici in Tanzania e a Cipro e sugli acquisti personali di diamanti, il governatore della Lombardia Formigoni, mentre due assessori della sua giunta erano costretti alle dimissioni, veniva coinvolto in un’altra indagine su una fondazione a lui vicina, e quello della Puglia Vendola in un ennesimo scandalo sanitario, si dovrà pur riconoscere che il fenomeno della corruzione è più che diffuso, e abbraccia ormai gran parte delle forze politiche. Gli episodi recenti non devono far dimenticare i precedenti che a ritmo incessante hanno scandito fin qui tutta la legislatura, e riguardato partiti che adesso, dimentichi di quel che si portano dietro da mesi, si comportano vanamente da primi della classe. Con l’incredibile paradosso che, mentre emerge a tutti i livelli l’ignominia di uno Stato che paga il quadruplo, dicasi il quadruplo, di quel che i partiti spendono come gli pare, i loro leader, con qualche piccola eccezione, sostengono di non poter rinunciare neppure a una parte degli oltre cento milioni di euro da incassare entro luglio. Un suicidio politico a dispetto dell’indignazione dei loro stessi elettori.

E’ di fronte a tutto ciò che Monti è apparso in questi giorni per la prima volta in difficoltà. E non, paradossalmente, come sostiene qualcuno, perché un tecnico, sia pure di altissimo livello come lui, non ha gli strumenti per affrontare una situazione politica così complessa. Nell’attuale contesto, infatti, di politico non c’è molto. Le rassicurazioni che anche ieri il presidente del Consiglio ha ricevuto nell’incontro con i tre segretari della maggioranza possono servire, ma non certo bastare ad affrontare il quadro di logoramento in cui è immerso il governo. Serve un nuovo scatto, una nuova investitura, e soprattutto serve l’impegno a mettere il presidente del Consiglio in condizione di portare avanti il suo programma senza ulteriori intoppi.

Non è il momento della memoria corta. Si tratta in fondo di riconoscere a Monti il ruolo che fu di Ciampi quasi vent’anni fa, in un’analoga e altrettanto difficile circostanza. I partiti che si dimenano e rischiano di affogare avrebbero tutto da guadagnare. L’antipolitica, che dicono di temere, si batte anche togliendo il guinzaglio al governo tecnico. E mettendolo in condizione di svolgere pienamente il ruolo politico che gli spetta e il compito di guida del Paese che gli è stato affidato.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10009


Titolo: MARCELLO SORGI. Per il governo il rapporto con il Pdl si fa più delicato
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2012, 04:55:38 pm
19/4/2012 - TACCUINO

Per il governo il rapporto con il Pdl si fa più delicato

MARCELLO SORGI

Anche se nessuno martedì sera aveva creduto troppo alle promesse di solidarietà pronunciate anche da Alfano all'uscita dal vertice di maggioranza, da ieri Monti è di nuovo alle prese con il Pdl a causa della decisione, annunciata dal ministro Passera, e confermata dal presidente del Consiglio, di mettere all'asta le frequenze televisive che il precedente governo aveva deciso di assegnare con la discussa procedura del «beauty contest».

La notizia s'era già diffusa due sere fa subito dopo l'incontro, mentre i partecipanti alla cena di Palazzo Chigi negavano che se ne fosse parlato e insistevano sui lati positivi della discussione appena finita. Ma la successiva decisione di Berlusconi di far saltare l'appuntamento di oggi a colazione con Monti è suonata come conferma che un nuovo caso è aperto. Il Cavaliere ha detto che aveva deciso di non andare proprio per evitare polemiche. Ma il problema rimane. Passera ha infatti spiegato che il testo preparatorio dell'asta delle frequenze era stato messo a disposizione dei partiti di maggioranza, da cui non era venuto alcun rilievo formale. Durissime sono state invece, sia la reazione dell'ex ministro delle comunicazioni Paolo Romani, che ha parlato di «tradimento» del governo, sia quelle del gruppo Mediaset, che per bocca del suo presidente Fedele Confalonieri ha minacciato di disertare l'asta. In questo clima il faccia a faccia tra l'ex premier e quello attuale era assolutamente sconsigliato: anche perché Monti, nella conferenza stampa di presentazione del documento di programmazione economica (Def) varato ieri, s'è schierato per l'asta delle frequenze al fianco del suo ministro e ha fatto un richiamo generale ai partiti a non ostacolare il suo lavoro. Va da sé che qualsiasi tentativo di venire incontro al Pdl su questa delicata materia troverebbe il Pd contrario. Di qui la prospettiva di un altro rallentamento dei lavori parlamentari, già oberati da resistenze incrociate su tutti i provvedimenti in discussione.

Gli altri dati forniti durante l'illustrazione del Def purtroppo non sono confortanti: Monti ritiene che di crescita non si potrà parlare prima del prossimo anno e le difficoltà di quello attuale, in termini di congiuntura e con tutte le conseguenze di disoccupazione crescente e sofferenza per le aziende, continueranno. Sarà già un bene se il quadro non tenderà ad aggravarsi. E proprio questo ha determinato la richiesta di maggior senso di responsabilità rivolta ai partiti che sostengono il governo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10014


Titolo: MARCELLO SORGI. Un ponentino elettorale riduce lo spazio per le riforme
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2012, 11:15:05 pm
20/4/2012 - TACCUINO

Un ponentino elettorale riduce lo spazio per le riforme

MARCELLO SORGI

Uno strano vento elettorale - come se le elezioni politiche, e non solo quelle amministrative fossero alle porte - s’è diffuso ieri all’improvviso nella Capitale. Complice l’annuncio, che ha provocato molta attenzione, di Casini mercoledì sera sulla possibilità che qualcuno dei ministri tecnici, a partire da Passera, possano candidarsi nel suo nuovo partito, la giornata ha visto sommarsi una serie di segnali in tal senso, mentre in Parlamento dominava il nervosismo dopo la scoperta che col ddl lavoro per finanziare i nuovi ammortizzatori verrebbe tolta l’esenzione dei ticket ai disoccupati (cosa che il governo, consapevole dell’errore, s’è subito impegnato a correggere).

Ha cominciato lo stesso Casini, confermando lo scioglimento dell’Udc e la formazione di un nuovo partito con gli altri leader del Terzo Polo, Fini e Rutelli. L’ex-ministro dell’Interno Pisanu, da tempo in dissenso con Berlusconi, ha subito firmato insieme a più di venti senatori un documento che guarda in quella direzione. Nelle stesse ore s’è appreso di un incontro, all’inizio di aprile, tra il Cavaliere e Montezemolo. Argomento: la possibilità di dar vita a una sorta di alleanza sotto forma di lista civica nazionale e senza insegne di partiti.

Dove possa portare tutto questo movimento è difficile dirlo, dal momento che tutti, almeno ufficialmente, sostengono che non ci sono alternative a Monti almeno fino alla conclusione della legislatura. Ma è evidente che, in conseguenza delle difficoltà crescenti del governo e dell’aggravarsi della congiuntura economica (ieri lo spread ha di nuovo sfiorato quota 400) i leader dei partiti si tengano pronti a tutte le evenienze, anche a quella di uno scioglimento anticipato di pochi mesi delle Camere che porti alle urne in autunno. In questo quadro le possibilità di arrivare a una nuova legge elettorale, se non al varo di tutto il pacchetto di riforme istituzionali, si riducono.

La tentazione di accelerare i tempi, incoraggiata sia dal precipizio quotidiano dello scandalo leghista (ieri nuovi guai per l’ex-ministro Calderoli e per l’excapogruppo Reguzzoni), che dall’eccessivo timore di una crescita di Grillo e del suo movimento, gonfiati dall’antipolitica, sarebbe disastrosa per la difficile opera di risanamento economico che Monti sta portando avanti. Ma anche il fatto che se ne parli e che i partiti si preparino a ogni evenienza, appesantisce la sensazione di instabilità che aleggia da giorni attorno al governo. Ieri sera il presidente del consiglio è salito al Quirinale per esaminare con il Capo dello Stato la situazione.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Partiti di Francia e di governo
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2012, 05:28:25 pm
24/4/2012 - TACCUINO

Partiti di Francia e di governo

MARCELLO SORGI

L'ondata negativa per Borse e mercati, con spread di nuovo oltre quota 400, seguita ieri ai risultati del primo turno delle elezioni presidenziali francesi e al successo di Hollande contro Sarkozy, ha convinto Monti a ribadire la linea di equidistanza dell'Italia dai due candidati e a mantenere prudenza rispetto al tema della crescita, al centro di tutti i commenti al voto in Francia. Monti, si sa, è convinto che nel medio termine non esistano alternative alle politiche di contenimento dei conti pubblici, e in ogni caso non tocchi certo all'Italia, paese sotto osservazione all'interno dell'Unione, fare la prima mossa in questo campo.

Ma le reazioni politiche in Italia spingono in quella direzione, con la novità, prima annunciata dal solo Tremonti, di un Pdl freddo con il presidente sconfitto e attento, come ha sottolineato Cicchitto, alla contrarietà uscita dalle urne d'Oltralpe alla politica di esclusivo rigore portata avanti fin qui dall'asse Merkel-Sarkozy. Contro quest'ultimo, da parte del partito berlusconiano, pesa sicuramente l'atteggiamento avuto nei confronti del Cavaliere e gli indimenticabili sorrisini di sfottimento all'ultimo vertice europeo prima della caduta del governo. Ma non solo. L'ala ex An del Pdl celebra l'affermazione di Marine Le Pen con grande calore, ed anche questo è un segno dei cattivi rapporti tra la destra italiana e quella francese.

A sinistra i leader del Pd festeggiano come se si trattasse di una loro vittoria e come se a prescindere da quello che sarà il risultato finale delle presidenziali la svolta verso la crescita, per mitigare una politica di solo rigore sia da considerarsi irreversibile.

D'Alema in un'intervista al Tg3 ha sostenuto che anche la Merkel dovrà tenerne conto in futuro. Un modo di parlare a suocera perché nuora intenda, per spingere Monti a riflettere sulla necessità che in Italia si trovi la strada per allentare la stretta dei sacrifici. Su questo aspetto c'è una sostanziale convergenza tra i due maggiori partiti che appoggiano l'esecutivo tecnico e che considerano impossibile affrontare in queste condizioni l'anno che precede le elezioni del 2013.

Ieri sia la Corte dei conti, sia la Banca d'Italia sono nuovamente intervenute per ricordare che una pressione fiscale come quella raggiunta negli ultimi mesi in Italia dev'essere considerata eccezionale e temporanea, dunque non sopportabile a lungo, in vista di tornare a scadenza breve entro limiti più accettabili.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Sulle riforme i partiti non possono più attendere
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2012, 06:13:59 pm
26/4/2012 - TACCUINO

Sulle riforme i partiti non possono più attendere

MARCELLO SORGI

Pronunciati ieri in pubblico in occasione delle celebrazioni del 25 aprile, i due quasi simultanei «no» alle elezioni anticipate di Napolitano e Monti dovrebbero aver chiuso, al momento, ma non si sa per quanto, tutto il gran discutere nei giorni scorsi di scioglimento delle Camere. Il Presidente della Repubblica e quello del consiglio hanno fatto due discorsi perfettamente complementari, dedicati rispettivamente alle incognite della situazione politica e di quella della crisi economica: ammonendo, il primo, dai rischi di un ritorno alle urne senza aver realizzato le riforme che i partiti si sono impegnati a fare nell’ultima fase della legislatura, anche per contrastare la crescente disaffezione verso la politica che emerge dall’opinione pubblica. E avvertendo, il secondo, che attualmente non ci sono alternative alla linea di rigore portata avanti dal governo, e solo insistendo senza indugi in questa direzione l'Italia può sperare di coglierne i primi frutti l'anno venturo: insistere, come da un po’ stanno facendo i partiti della maggioranza, sulla necessità di avviare subito una svolta verso la crescita, per il capo dell’esecutivo tecnico significa dunque ignorare le difficoltà che continuano a manifestarsi in tutta l’area euro e rendere di conseguenza più difficile l’azione del governo. Di qui l’invito di Monti ai partiti che lo sostengono a recuperare lo slancio costruttivo che fu proprio della classe dirigente uscita dalla Liberazione e dalla guerra.

Napolitano nel suo intervento a Pesaro ha anche fatto accenno esplicito ai timori per l’antipolitica e alla necessità di non lasciare spazio «a qualche demagogo», allusione che è parsa rivolta contro Grillo. E che fa capire, conoscendo l’abituale cautela del Presidente, che al Quirinale devono essere arrivati segni concreti dello stato di ansia in cui versano i partiti di fronte alla crescita, rivelata dai sondaggi, del movimento del comico ligure, ormai vicino a un livello di sicurezza, attorno all'8 per cento, ben più alto di qualsiasi sbarramento elettorale, si tratti del quattro per cento (otto su scala regionale per il Senato) prevista dall’attuale legge Porcellum, o di un eventuale innalzamento della soglia.

Nuovi casi di corruzione, uso e abuso del finanziamento pubblico dei partiti, riforme istituzionali per ridurre il numero dei parlamentari, differenziare i compiti delle Camere e rafforzare il ruolo del premier: ogni giorno che passa i tempi sono più stretti, ma questi restano i nodi attorno a cui i partiti non possono più permettersi di girare intorno.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Tutti i voti che pesano sul governo
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2012, 07:29:05 pm
3/5/2012 - TACCUINO

Tutti i voti che pesano sul governo

MARCELLO SORGI

Il barometro del clima tra il governo (battuto ieri al Senato, con il voto determinante del Pdl, su un emendamento) e i partiti punta ancora verso il basso. E difficilmente si ristabilirà prima di conoscere i risultati delle elezioni di domenica prossima, quelli europei di Francia e Grecia e quelli meno decisivi, ma ugualmente importanti in un paese come l’Italia abituato a entrare in fibrillazione per ogni mini-test, delle amministrative. Fredda, e caratterizzata da un botta e risposta tra il presidente del consiglio e i partiti sull’Imu, la ripresa dopo il ponte del Primo maggio. Dopo le critiche ricevute in diretta tv dal premier lunedì sera, il segretario del Pdl Alfano ha ripetuto, sia le riserve sull’escalation di tasse introdotte dal governo, sia la proposta, che sarà tradotta in un testo di legge, per consentire la compensazione tra crediti e imposte agli imprenditori in attesa da troppo tempo di pagamenti da parte dello Stato.

Ma anche da parte del Pd arrivano segnali al governo: Bersani ha ricordato di aver avvertito per tempo che l’impatto sociale dell’Imu sarebbe stato «micidiale», obiettando che sarebbe stato meglio ridurre la tassa sulle case e introdurre una patrimoniale sui grandi patrimoni. Rosi Bindi, richiesta di un parere sui tecnici che ricorrono ai tecnici e sulla nomina di Bondi, Amato e Giavazzi, se l’è cavata laconicamente, lamentando che i partiti della maggioranza non fossero stati avvertiti.

Si dirà che negli ultimi giorni di campagna elettorale non c’era da aspettarsi altro, e lo scatenamento dei leader dell’opposizione impone anche a quelli di maggioranza di alzare i toni. Ieri Monti stesso, che ha ribadito come la propaganda antiImu sia in realtà un incitamento all’evasione, e il ministro dell’Interno Cancellieri, si sono fatti interpreti dei timori in seno all’esecutivo per la piega presa dalla campagna elettorale. Ormai non sono solo i sindaci leghisti, dal momento che a loro, sia pure con atteggiamenti differenti dall’invito alla rivolta fiscale, si sono aggiunti i primi cittadini di Milano e di Bologna. Inoltre, difficilmente gli umori dei partiti cambieranno subito dopo il 6 maggio: l’anno scorso, per metabolizzare i risultati delle amministrative, ci vollero parecchi mesi e la destabilizzazione portata dal mix di turbolenze politiche e crisi economica sfociò a novembre nella crisi del governo Berlusconi. Oggi nessuno ai vertici dei partiti pensa realmente a far cadere Monti: ma la crescente instabilità di fine legislatura, in mancanza di alternative che non ci sono, rischia di perpetuare lo stato di paralisi in cui l’esecutivo dei tecnici si dibatte da mesi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10060


Titolo: MARCELLO SORGI. Il ritorno (anche) del Cavaliere
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2012, 10:40:54 am
4/5/2012 - TACCUINO

Il ritorno (anche) del Cavaliere

MARCELLO SORGI

Dopo il Bossi del Primo maggio che a sorpresa si ricandida alla guida della Lega, ecco arrivare Berlusconi in versione comizio: il messaggio, anche in questo caso, è che il Cavaliere non ha alcuna voglia di farsi da parte.

La campagna elettorale è stata dura per entrambi: Bossi alle prese con lo scandalo familiare della Lega, da cui ieri, come notizie di giornata, sono uscite le lauree false, comperate a Tirana, del figlio Renzo e del fidanzato di Rosi Mauro Pier Mosca. E Berlusconi con le udienze del processo per il caso Ruby e le intercettazioni delle sue conversazioni con le ragazze dell'Olgettina.

Sul Senatur peserà lunedì il risultato del voto più difficile per il Carroccio; quanto al Cavaliere sarà a Mosca, in visita da Putin, ospite alla cerimonia del reinsediamento alla presidenza della Russia, quando in Italia Alfano e il Pdl cominceranno a fare i conti con cifre e percentuali, che s'annunciano dure da digerire per un partito già altre volte in difficoltà alle amministrative.

Perché allora i due leader da cui fino a sei mesi fa dipendeva l'equilibrio di governo del Paese, e che adesso mal sopportano la loro forzata emarginazione politica, hanno sentito il bisogno di rimettersi al centro della scena? Anche se quando si parla di Bossi e Berlusconi è inutile cercare una risposta scientifica, perché si tratta di due leader abituati a muoversi sempre sul piano istintivo, è evidente che né l'uno né l'altro considerano del tutto esaurita la stagione dei partiti personali, a guida carismatica, che ha caratterizzato il quasi ventennio della Seconda Repubblica. E non hanno neppure rinunciato all'ipotesi di rimettere in piedi la loro alleanza, grazie alla quale sono riusciti a vincere le elezioni nel 1994, 2001 e 2008.

Sotto quale forma, è prematuro dirlo. Ma è possibile che se davvero si dovesse arrivare a una nuova legge elettorale proporzionale, in cui i partiti correrebbero ciascuno per sé, Bossi e Berlusconi, invece di candidarsi con Lega e Pdl in un ruolo forzatamente defilato, potrebbero decidere di affiancarli con liste personali, costruite ancora una volta sui propri nomi.

Per il Senatur sarebbe il modo di evitare una conta congressuale in cui probabilmente uscirebbe battuto, e di dimostrare che un certo modo di essere del leghismo delle origini può continuare ad esistere solo con lui. E per il Cavaliere un modo di ottimizzare la raccolta dei voti a destra, suo obiettivo principale, lasciando ad Alfano fino all'ultimo il tentativo impossibile di ricostruire l'alleanza con Casini.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10063


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Pdl spaccato a metà aspetta il Cavaliere
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2012, 10:56:49 am
Politica

06/05/2012 - CENTRODESTRA

Il Pdl spaccato a metà aspetta il Cavaliere

MARCELLO SORGI

Il problema principale del Pdl in queste elezioni amministrative è il Pdl stesso. No, non è un gioco di parole. E neppure sono le correnti, abituate ad essere governate con pugno di ferro, e di nuovo in movimento da quando Berlusconi s’è messo in seconda fila. Il partito non ha ancora digerito la caduta del governo del Cavaliere, e meno ancora l’hanno metabolizzata gli elettori, che con percentuali bulgare, fino al settanta per cento nei sondaggi, si dichiarano all’opposizione di Monti.

Si sa: tra i vertici di un partito, non solo il Pdl, e la base, i tempi di comprensione di una svolta sono sempre diversi. È per questo che ai tempi della politica tradizionale si facevano i congressi, preceduti da una lunga campagna capillare di sensibilizzazione, per far capire che la linea era cambiata. Ora, nel Pdl non c’è mai stato niente di tutto questo. Per quanto si sia cercato, con la nomina di Alfano segretario a luglio 2011, e poi con l’avvio di una normalizzazione della vita politica interna, di trasformarlo, il partito è sempre quello nato sul predellino quattro anni e mezzo fa. Ed è a lui, a “Silvio”, che tutti guardano, aspettandosi da un giorno all’altro che torni in campo e dica cosa fare. Il silenzio, o il semi-silenzio, a cui il Cavaliere li ha condannati, dopo 18 anni di spettacolo continuo, aggiunge inquietudine a inquietudine.

Le tabelle dei sondaggi rivelano che il popolo del centrodestra non ha ancora capito perché Berlusconi s’è dimesso, né può accettare l’idea che abbia mollato. Il popolo vuol bene ad Angelino, ma reclama il suo "Silvio". Ma pur abituato a basarsi sull’istinto e a tener conto dei sentimenti metapolitici, più che delle dotte analisi che gli vengono quotidianamente fornite dai suoi dirigenti, Berlusconi, mai come in questo periodo, deve fare i conti con la realtà. Il suo governo, ridotto com’era ridotto, non poteva più andare avanti. La maggioranza elefantiaca con cui aveva vinto le elezioni s’era dissolta. La rottura con Fini, di cui entrambi portano responsabilità e sopportano conseguenze, lo aveva messo in una condizione di debolezza insostenibile.

Il rapporto con Casini, già allora ed oggi ancor di più, era ostruito dalle resistenze e dalle ambizioni del leader dell’Udc. Il governo Monti, ai suoi occhi, oltre ad essergli stato imposto da uno stato di necessità e dalla gravissima situazione in cui il Paese era precipitato, doveva rappresentare una tregua per preparare una riscossa. E per rimettere in piedi l’alleanza con la Lega finita a pezzi. Berlusconi a quelli che oggi gli chiedono chi gliel’ha fatto fare, e perché ha rinunciato ad andare alle elezioni, risponde che non c’era alternativa, e se le cose sono andate peggio del previsto è perché i patti non sono stati rispettati. Qui l’elenco delle doglianze diventa molto variegato e mescola una questione di fondo - la promessa che Monti sarebbe stato un continuatore, per realizzare ciò che il suo governo non era riuscito a mettere in pratica, e non una sorta di arbitro equidistante tra Alfano e Bersani - con gli insolubili problemi personali del Cavaliere: la giustizia irriformabile che continua a perseguitarlo, i magistrati che diffondono a tutto andare le intercettazioni delle sue conversazioni con le ragazze dell’Olgettina, l’azienda di famiglia aggredita in un momento di difficoltà con l’asta delle frequenze favorevolealla concorrenza.

L’elenco sarebbe anche più lungo: dipende dalle giornate e dagli stati d’animo del personaggio, che si sfoga volentieri con chi va a trovarlo e rivive continuamente nei racconti di chi lo incontra, e appena varca il portone di Arcore o di Palazzo Grazioli, corre in giro a raccontarlo. Le amministrative, in questo quadro, sono l’ultimo dei problemi. Tolta la volta in cui c’era D’Alema al governo e il centrodestra sfondò alle regionali, mai o quasi mai questo genere di consultazioni sono andate bene per il centrodestra, neppure ai tempi in cui Berlusconi aveva il sole in tasca, noleggiava le navi, ogni sera attraccava in un porto, metteva su un palco e radunava la sua gente. Il punto vero sono le politiche, a cui metà del Pdl vorrebbe andare a rotta di collo, rovesciando il tavolo di Monti e dei tecnici, mentre l’altra metà frena. Così nuovamente Berlusconi è a un bivio: il più difficile, forse l’ultimo, della sua ormai lunga vita politica.

da lastampa.it


Titolo: MARCELLO SORGI. Il voto che non aiuta il governo
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2012, 09:37:58 am
8/5/2012

Il voto che non aiuta il governo

MARCELLO SORGI

Per prima cosa, senso della misura. Le elezioni amministrative italiane - un test limitato, aperto a 10 milioni di elettori, di cui poco più della metà ha votato - non hanno molto a che vedere con quelle francesi o greche, anche se da oggi se ne parlerà all’infinito, come se fossero - e non lo sono - più importanti.

Il vincitore morale, oltre qualsiasi previsione, è stato Grillo con il suo movimento antipolitico, antipartitico, antitutto, che ha toccato quasi ovunque percentuali a due cifre, entrando in ballottaggio, o sfiorandolo in alcune delle maggiori città, e candidandosi, al secondo turno, ad eleggere più di un sindaco. Il maggior sconfitto è il partito maggiore, il Pdl ridotto al lumicino e battuto a Palermo, la città da cui partì undici anni fa l’offensiva del 61 a zero nei collegi, e dove il segretario Alfano, che viene dalla scuola siciliana del centrodestra, non era riuscito neppure a presentare un candidato del Pdl. Il paradosso dell’ex-partito del presidente è che con Berlusconi è impresentabile, ma senza è diventato inesistente. E soprattutto che i voti berlusconiani in libera uscita non vanno al Terzo polo, altra promessa tradita di queste elezioni.

Già oggi o domani o dopo, quando i risultati definitivi saranno acclarati, i leader ci spiegheranno che anche stavolta non è andata com’è andata, che il quadro è più variegato di quanto sembri, che esistono ampi margini di recupero e così via. Ma la vera tendenza di queste elezioni è emersa chiaramente fin dalle prime schede scrutinate: in tre delle quattro principali città, Verona, Genova e Palermo, in testa sono candidati di partiti che in Parlamento sono collocati all’opposizione, e sempre a Verona il sindaco leghista Flavio Tosi è riconfermato al primo turno, anche se questo non basta a bilanciare il risultato sofferto della Lega. Leoluca Orlando a Palermo, candidato di se stesso in rotta con tutti, fa da solo più della somma di tutti i suoi oppositori, e potrebbe alla fine giocarsi il ballottaggio con il centrosinistra e imporre al centrodestra l’umiliazione di restare fuori dal secondo turno. Cosa che è già accaduta a Parma, dove il candidato del centrosinistra Vincenzo Bernazzoli se la dovrà vedere con il grillino Federico Pizzarotti, che ha buone probabilità di capovolgere la classifica e vincere.

A denti stretti il Pd e il centrosinistra si dichiarano soddisfatti, ma sanno bene che, ammesso e non concesso che tante piccole affermazioni locali sommate facciano una vittoria, si tratta di una vittoria di Pirro. Da Genova a Palermo, il vento soffia contro i candidati usciti dalle primarie, spesso a dispetto delle indicazioni di Bersani. E il guaio per il Pd è che è costretto a difenderli anche senza averli scelti.

Da un voto come questo il governo non esce certo rafforzato. Anzi, a dirla tutta, esce ancora più debole di come lo aveva ridotto fin dall’inizio la campagna elettorale. La gamba destra della maggioranza è piegata in due, chissà se e quanto potrà reggere ancora. La gamba di centro, fin qui l’architrave o comunque, con Casini, l’unica disposta a sostenere Monti a qualsiasi costo, dovrà fare i conti con la delusione di un elettorato considerato governativo per natura e che alla resa dei conti è mancato all’appello. Resta la gamba sinistra: ma da sola può farcela a sostenere un esecutivo tutto proteso in una politica di rigore bocciata da gran parte dell’elettorato?

A questo punto non ha più molto senso chiedersi se quanto è accaduto spingerà nuovamente o no verso le elezioni anticipate, argomento discusso e accantonato a giorni alterni nella lunga vigilia elettorale. Elezioni a precipizio, sull’onda di un fuggi-fuggi generale, sarebbero un disastro. Ma di fronte a un quadro così incerto, e all’inevitabile disgregazione politica di fine legislatura, se i partiti di governo, d’intesa con il presidente del Consiglio e con quello della Repubblica, fossero in grado di trovare un minimo comune denominatore, e impegnarsi seriamente su un paio di riforme indispensabili, per poi andare alle urne, anche un piccolo anticipo non dovrebbe preoccupare. E forse potrebbe pure andare incontro all’impazienza con cui gli elettori chiedono risposte.

Quali dovrebbero essere queste riforme, non è difficile dirlo: per quella elettorale, con la piega che hanno preso le cose, non ci sono molte prospettive, anche perché nessuno sbarramento sarebbe in grado di fermare Grillo e il suo partito a due cifre. Inoltre un ritorno al proporzionale in queste condizioni avvicinerebbe per noi uno sbocco ingovernabile simile a quello della Grecia. A dare un segno di cambiamento, piuttosto, basterebbero la riduzione del numero dei parlamentari, il rafforzamento del premier e le nuove regole per il finanziamento dei partiti. L’ultima, va da sé, è la più indispensabile. E per questo, forse, la più improbabile.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10073


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Quirinale e i timori per la tenuta del governo
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2012, 02:40:14 pm
9/5/2012 - TACCUINO

Il Quirinale e i timori per la tenuta del governo

MARCELLO SORGI

All'indomani del voto amministrativo, mentre ancora i risultati erano in via di definizione, la polemica tra il Presidente della Repubblica e Beppe Grillo ha dato l'idea di quali siano le ambizioni del leader del Movimento 5 stelle, che si considera il vincitore morale delle elezioni. Napolitano si era limitato a rispondere con una battuta a una domanda sul boom di Grillo, dicendo appunto che l'unico vero boom di cui si ricorda è quello economico degli Anni Cinquanta. Immediata, e piuttosto sgarbata, la replica di Grillo, che ha ricordato al Presidente come di qui a un anno il suo mandato sia in scadenza e potrà quindi pensare a riposarsi.

Ma al di là dello scambio di battute, sono i grillini entrati in ballottaggio, come Pizzarotti a Parma, o andati molto vicino al secondo turno, come Putti a Genova, a pensare alla scadenza delle politiche del prossimo anno e a dirlo a voce alta. Molti di loro, dopo l'exploit di domenica e lunedì, si vedono già deputati o senatori e pregustano l'ingresso nell'arena della grande politica.

Nelle poche parole del Capo dello Stato sulle amministrative, tuttavia, e nel suo tentativo di non esagerare il risultato delle urne, si può anche leggere la preoccupazione per il rischio che la sconfitta del centrodestra e la mancata affermazione del Terzo polo (Casini ieri ha lanciato l'allarme per la disgregazione del voto moderato) si ripercuotano sulla stabilità del governo, e insieme l'amarezza per il comportamento dei partiti durante la lunga campagna elettorale che ha preceduto l'appuntamento del 6 maggio. Dal Quirinale infatti erano venuti ripetuti appelli ai partiti a concordare un'iniziativa sulle riforme più urgenti, istituzionali, elettorale e del finanziamento pubblico. Ma malgrado tanti impegni presi pubblicamente, nulla o quasi è stato fatto.

Adesso è come se Napolitano abbia voluto ricordare a tutti che se la politica è assente o inerte non ci si può lamentare poi dell'avanzata dell'antipolitica. Malgrado ciò sembra difficile che nel breve periodo i partiti siano in grado di riprendere il filo interrotto del confronto. Ad esempio, per ciò che riguarda la nuova legge elettorale, ieri è emerso chiaramente che l'ipotesi di un accordo si allontana (Bersani è tornato a puntare sul doppio turno).

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10081


Titolo: MARCELLO SORGI. Voto, gaffe e partiti indeboliscono il governo
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2012, 11:42:10 pm
10/5/2012 - TACCUINO

Voto, gaffe e partiti indeboliscono il governo

MARCELLO SORGI

Con quel che sta succedendo in Europa dopo la domenica elettorale del 6 maggio, tra la Grecia che, nell’impossibilità di dar vita a un nuovo governo, si prepara a tornare alle urne entro un mese in condizioni drammatiche, la Spagna in cui s’è subito avvertito il contraccolpo della possibile uscita di Atene dall’euro, e la stessa Italia, dove lo spread è risalito molto sopra quota 400, le conseguenze del voto amministrativo nostrano sembrano davvero sproporzionate, ai limiti del fuori dalla realtà.

Fino alla scorsa settimana il governo poteva dire, se non proprio di essere sostenuto da tre pilastri, almeno di poter contare su tre punti d’appoggio. Due di questi tre, nel breve volgere di qualche giorno, sono entrati in dissoluzione, e il lavorìo interno di ristrutturazione non si può dire che metta al primo posto il futuro dell’esecutivo. Uscito sconfitto dalle urne, il Pdl, a causa di una frase infelice pronunciata da Monti martedì sera a proposito delle responsabilità dei governi precedenti (subito, ma inutilmente, corretta con un plateale riconoscimento a Berlusconi), ha intrecciato una polemica infinita con il premier. Una lettera di oltre quaranta parlamentari, tra cui molti ex-ministri del Cavaliere, compresi quelli che finora erano considerati «montiani», ha portato ufficialmente all’esterno il malessere del partito. Monti è avvertito.

Nello stesso giorno, tra la sorpresa dei suoi partners Fini e Rutelli, Casini ha dichiarato morto il Terzo polo, uscito stabile, ma deluso, dalla tornata elettorale in cui puntava - e non c’è riuscito - a intercettare gli elettori berlusconiani in libera uscita. In realtà il leader centrista tentava da tempo di sciogliere un’alleanza che non ha funzionato, le urne avare sono diventate per lui il pretesto per liberarsi. Ovviamente tutti, compreso il Pd, che pure guarda preoccupato alle vicende degli altri membri della maggioranza, continuano a dire che una crisi sarebbe un disastro e occorre far di tutto per consentire al governo di arrivare alla conclusione naturale della legislatura. Ma in queste condizioni, come possa durare un altr’anno Monti non lo sa nessuno.

Ieri intanto gli stessi partiti della larga coalizione hanno rimesso le mani per l’ennesima volta alla controversa riforma del finanziamento pubblico: dal 33 per cento di taglio annunciato il giorno dei risultati sono tornati al 50 per cento. Ma anche stavolta non è detto che la scelta sia definitiva: sicuro è invece che la polemica tra chi prende i soldi dallo Stato e chi li rifiuta (Lega, Di Pietro, Grillo) sarà il cavallo di battaglia dei prossimi dieci giorni di campagna per i ballottaggi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10086


Titolo: MARCELLO SORGI. Il segnale tra rigore ed elezioni
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2012, 12:32:42 pm
11/5/2012 - TACCUINO

Il segnale tra rigore ed elezioni

MARCELLO SORGI

Chissà se Mario Monti voleva solo fare gli auguri a Napolitano per il sesto anno del suo mandato, oppure se, come molti ieri a caldo argomentavano nei corridoi della Camera, ha adoperato questo spunto per reagire alle difficoltà in cui si dibatte da tempo e alle voci che si accavallano su un governo ormai in difensiva e un presidente del consiglio amareggiato per gli ostacoli impostigli quotidianamente dai partiti.

Ma anche se le parole dette in pubblico dal premier, specie dopo gli ultimi risultati elettorali, vengono passate ai raggi "X" - soprattutto dal centrodestra, che per venire incontro alle resistenze dei propri elettori ha inaugurato una forma di appoggio critico all'esecutivo -, non c'è dubbio che Monti un segnale voleva darlo, e per questo non s'e limitato a inviare un augurio rituale al Capo dello Stato.

Ne sono usciti infatti due messaggi, che faranno riflettere i partiti: Monti intende portare a termine fino in fondo il suo mandato e in questo senso, va da sé, non darà più grande importanza alle polemiche che vengono dall'interno della sua maggioranza. L'accenno alla sensibilità politica e umana di Napolitano nei confronti dei cittadini che sopportano i sacrifici di questa fase può anche essere inteso come una sorta di autocritica all' eccessivo rigore e al modo esclusivamente «tecnico» con cui finora è stato imposto. D'altra parte negli ultimi giorni Palazzo Chigi, almeno sui problemi più urgenti (esodati e pagamenti sospesi della pubblica amministrazione) s'è impegnato a cercare soluzioni urgenti.

Il secondo segnale riguarda la natura del governo: Monti ha voluto ricordare a tutti, alleati e avversari, di aver ricevuto il suo mandato direttamente dal Capo dello Stato, e in questo senso, anche se non lo definito formalmente così, il suo deve intendersi come un «governo del Presidente», che non può essere costretto a negoziati infiniti e inconcludenti su ogni punto del suo programma. Se ne ricava che sulle questioni aperte da troppo tempo, Monti intende andare a un chiarimento risolutivo, e se necessario porre la questione di fiducia, sapendo di poter contare sulla solidarietà del Quirinale.

Nel clima confuso di questi giorni, sarà difficile tuttavia che il messaggio del presidente del consiglio ottenga subito gli effetti dovuti. Almeno a giudicare dalla giornata di ieri, che ha visto ancora una volta paralizzata la discussione sulla legge anticorruzione del ministro di Giustizia Severino, Berlusconi e il Pdl non hanno molte intenzioni di mollare la presa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10090


Titolo: MARCELLO SORGI. La sconfitta della Merkel e la lezione all'Italia
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2012, 11:34:27 am
15/5/2012 - TACCUINO

La sconfitta della Merkel e la lezione all'Italia

MARCELLO SORGI

La sconfitta della Merkel nel land del Nord Reno e le persistenti difficoltà della Grecia a dotarsi di un nuovo governo hanno causato ieri un'altra giornata pesante, soprattutto per i paesi a rischio dell'Eurozona: in Italia lo spread è arrivato a toccare quota 430, assestandosi su 425, e una gelata ha investito le principali Borse europee, a cominciare da Milano. Monti intanto è giunto per la riunione dell'Eurogruppo a Bruxelles, dove oggi per la prima volta sarà di scena Hollande.

Un generale e diffuso entusiasmo delle forze politiche e un tifo dichiarato per il nuovo presidente francese hanno accolto in Italia il primo serio inciampo della Cancelliera. Il paradosso di quest'atteggiamento è che valuta approssimativamente l'insuccesso della Merkel come una bocciatura della linea di rigore condotta fin qui, senza rendersi conto che in Germania, semmai, è accaduto il contrario. Come dimostra anche l'avanzata dei liberali, oltre che dei socialdemocratici tedeschi, Merkel ha invece pagato le sue timide aperture al nuovo corso francese con un elettorato preoccupato che il mutato quadro politico e la fine dell'asse con Sarkozy possano spingerla a un cedimento, o a un parziale abbandono della trincea scavata finora rispetto alle richieste dei partners europei.

Da questo punto di vista le attese concentrate sulla riunione di stamane potrebbero essere deluse. E' improbabile che possano uscirne subito decisioni. Al di là di un generico impegno a studiare misure che possano favorire la crescita, anche Hollande è vincolato a tener conto dei limiti della congiuntura e dei rischi che il precipitare della Grecia, con il ritorno alle urne che dovrebbe essere deciso entro giovedì, possa infliggere uno scossone a tutta l'Eurozona.

Monti è arrivato a Bruxelles con l'obiettivo di ottenere lo scorporo degli investimenti pubblici e dell'eventuale sblocco dei pagamenti alle imprese dai limiti stringenti delle politiche di rigore, ma anche il negoziato in questo campo si preannuncia difficile.

Napolitano a Milano per ascoltare un'assai pessimistica relazione del presidente della Consob Vegas ha risposto ai giornalisti con un filo di ottimismo, spiegando che l'Italia a suo giudizio ha la possibilità di superare la crisi a patto che la politica esca dalla paralisi e ritrovi capacità di decidere, varando entro la fine della legislatura le riforme che giacciono ferme in Parlamento.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10106


Titolo: MARCELLO SORGI. Il vicolo cieco di Atene e l'incredulità dell'Europa
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2012, 04:56:17 pm
16/5/2012 - TACCUINO

Il vicolo cieco di Atene e l'incredulità dell'Europa

MARCELLO SORGI

Per la prima volta da quando la crisi greca è cominciata, il direttore del Fondo monetario internazionale Cristine Lagarde ammette che alla fine un’uscita «ordinata» di Atene dall’euro potrebbe essere il minore dei mali. Per l’Europa, naturalmente, dato che è impossibile prevedere cosa accadrebbe con il ritorno alla dracma del paese considerato in questo momento il grande ammalato del Vecchio Continente. Una tentazione simile a quella della Lagarde potrebbe affacciarsi nei pensieri dei leader europei: ieri le loro bocche erano cucite, ma gli sguardi evidentemente sgomenti di fronte alle conseguenze, per il secondo giorno consecutivo, dell’incapacità dei partiti ellenici a formare un nuovo governo, dopo il risultato a sorpresa delle elezioni del 6 maggio che hanno reso decisivo il peso della sinistra estrema, e del ritorno alle elezioni come sbocco obbligato di una situazione bloccata.

Il calo generalizzato di tutte le borse, la crescita senza controllo dello spread sembrano ormai sfuggiti a qualsiasi controllo in tutta l’area euro. Ieri gli occhi erano puntati sul primo incontro a Berlino tra la Merkel e Hollande, che aveva accelerato l’insediamento all’Eliseo ed era partito subito dopo per la Germania. Malauguratamente il ritardo imposto da un fulmine che ha colpito l’aereo francese ha fatto sì che i due leader potessero vedersi solo in serata. Nell’attesa, le poche dichiarazioni pubbliche andavano ancora in direzione della ricerca di uno spiraglio per allentare la morsa del rigore e favorire la crescita, obiettivo che, giorno dopo giorno, con quel che sta accadendo, si fa più difficile.

L’Italia politica è alle prese con le conseguenze del declassamento di 26 banche deciso lunedì notte dall’agenzia di rating Moody’s, contro la quale c’è stata una generale levata di scudi, da Bersani a Casini a Berlusconi e Alfano. Nulla che possa influire sulle valutazioni della stessa agenzia e sugli effetti che produrranno sui mercati, ma un chiaro indice della diffusa inquietudine per l’instabilità crescente dell’Italia. In Parlamento intanto continuano le risse in materia di giustizia: dopo la lite sulla legge anticorruzione, è stata la volta di un incidente sulla nuova formulazione del falso in bilancio: con il parere favorevole del sottosegretario alla giustizia Mazzamuto, subito smentito dal ministro Severino, è passato un emendamento che neutralizzerebbe la riformulazione del reato. Anche in questo caso, rimettere a posto il testo non sarà facile, perchè il Pdl non ha intenzione di far marcia indietro.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10112


Titolo: MARCELLO SORGI. Palazzo Chigi e la difficile via tra partiti ed Europa
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2012, 05:03:12 pm
17/5/2012 - TACCUINO

Palazzo Chigi e la difficile via tra partiti ed Europa

MARCELLO SORGI

Stavolta non è stato uno dei soliti incontri in cui Berlusconi sciorina con aria pietosa il contenzioso con il governo, dalle leggi che lo consegnerebbero, a suo dire, alla persecuzione dei magistrati, all' asta delle frequenze tv da non fare, alla Rai da non toccare. No: il Cavaliere era seriamente preoccupato per la piega che sta prendendo la crisi europea, sperava di trovare in Monti una qualche consolazione, ma è uscito dal lungo incontro a Palazzo Chigi con la sensazione che anche un grande conoscitore dello scenario europeo e dei meccanismi globali dell'economia come il presidente del Consiglio non ha alcuna certezza da comunicare. L'avvitamento della crisi greca, con le conseguenze che sta portando in termini di spread, lo stallo nei rapporti tra Hollande e Merkel, per via della sconfitta della Cancelliera e della nuova scadenza elettorale che attende il presidente francese tra meno di un mese, l'incertezza degli Usa sulla tenuta dell'Europa comunicata da Obama direttamente a Monti: il quadro purtroppo è questo.

Berlusconi ha ribadito al premier il suo appoggio e lo ha pregato di non tener conto delle polemiche preelettorali che si levano dall' interno del suo partito contro il governo. All'uscita da Palazzo Chigi, il Cavaliere è stato assai parco di dichiarazioni, limitandosi a dire che tutto era andato bene ed era alla Camera per votare la fiducia. Malgrado le rassicurazioni, tuttavia, la maggioranza è stata più magra del solito, a testimonianza che le riserve del Pdl su un esplicito sostegno al governo sono effettive, e non solo dichiarate a scopi elettorali. La Russa, che nel centrodestra incarna la linea dell'appoggio esterno a Monti, non a caso si era detto contrario all'appuntamento a Palazzo Chigi prima del voto, nel timore che un appeacement troppo evidente con il premier possa influire negativamente sull'elettorato pidiellino, chiamato al voto domenica in undici ballottaggi e solitamente svogliato nel secondo turno.

Sul tavolo di Monti, oltre alle sofferenze interne del centrodestra, è arrivata anche la richiesta, preannunciata da Bersani a «Porta a porta» lunedì sera, di provare a rinegoziare, se possibile spostandolo in avanti, il termine del 2013 per il pareggio di bilancio sul quale l'Italia si era impegnata l'estate scorsa. Secondo il leader Pd esistono le condizioni per farlo, visto che altri Paesi europei hanno concordato scadenze più lunghe. E questo consentirebbe al governo di muoversi con limiti meno stringenti nell' affrontare la dura estate che si prepara.

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Titolo: MARCELLO SORGI. I partiti nemici di se stessi
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2012, 10:33:07 am
18/5/2012

I partiti nemici di se stessi

MARCELLO SORGI


Alla vigilia dei ballottaggi, un’imperdonabile leggerezzastaportandoipartiti a inscenare alla Camera una guerrigliasullaleggeanticorruzione.

Proprio negli stessi giorni in cui vengono a maturazione i due scandali che hanno investito, una dopo l’altra, la (ex) Margherita e la Lega.

Accomunati dagli imbrogli dei rispettivi tesorieri, Lusi e Belsito, i due casi avevano avuto finora sviluppi gravi, ma differenti. La Lega infatti è stata colpita alla testa, e per quanti tentativi siano stati fatti, anche da Maroni, che ne ha preso la guida, per salvare Bossi, o almeno per circoscriverne le colpe, la magistratura ha trovato prove del diretto coinvolgimento del Senatur, non solo dei suoi familiari e famigli, nella truffa dell’uso indebito dei rimborsi elettorali. E per questo si appresta a chiamarlo a rispondere in giudizio.

Diversamente, nel caso della Margherita, sembrava che i vertici del partito fossero riusciti a dimostrare di essere stati parti lese, e non complici, dell’amministratore fedifrago. Il comportamento di Lusi, che con fondi pubblici, ma per ragioni private, viaggiava in aereotaxi, frequentava alberghi e ristoranti costosi, aveva una particolare passione per certi spaghetti al caviale del costo di 180 euro a porzione, e si era costituito un patrimonio immobiliare familiare fatto di ville e attici al centro di Roma, aveva certo gettato più di uno schizzo di fango sul suo ex partito, in parte confluito nel Pd e in parte fuoriuscito, al seguito di Rutelli e della sua nuova formazione Alleanza per l’Italia. Ma lo stesso Rutelli, l’ex ministro dell’Interno Bianco e il sindaco di Firenze Renzi, per citare i principali, a dire del tesoriere, beneficiari di quel che restava dei fondi della Margherita, erano riusciti a smantellarne le insinuazioni e addirittura a dichiararsene vittime. Quando però i giudici hanno chiesto la carcerazione di Lusi, il senatore s’è presentato davanti alla giunta per le immunità, che doveva dare un primo responso sul suo arresto, e ha sfoderato una serie di accuse precise, con dati e cifre, che hanno riempito pagine e pagine di resoconto e sono state subito allegate ai fascicoli dell’inchiesta. Di modo che, seppure Rutelli, Bianco e Renzi hanno reagito nuovamente con durezza, annunciando una seconda serie di querele, i giudici - magari anche con l’intento di scagionarli da una vicenda così pesante - probabilmente firmeranno per loro gli ormai classici avvisi di garanzia.

Certo, per conoscere le conclusioni a cui approderanno le inchieste e per veder celebrare i processi, ci vorrà del tempo. E in ogni caso converrà attendere prima di dare un giudizio definitivo. Non tutto è chiaro. E non è detto che di fronte a contestazioni e a responsabilità personali più o meno evidenti ed equilibrate, i tribunali emettano la stessa sentenza. Ciò che al contrario si può valutare fin d’ora sono le conseguenze politiche di quel che è avvenuto, il quanto e il quando, dato che le ultime notizie e rivelazioni sono esplose disgraziatamente nel bel mezzo di una tornata elettorale: tutta giocata, per giunta, sul sussulto dell’antipolitica e sull’imprevedibile avanzata di Grillo e del suo Movimento Cinque Stelle.

Una coincidenza talmente malaugurata era davvero impensabile. Il risultato è che i due schieramenti di centrodestra e centrosinistra, i quali, pur divisi e tra mille difficoltà, cercavano di riorganizzarsi per le prossime elezioni politiche del 2013, adesso sono azzoppati. Tra Lega ed (ex) Margherita, mal contato, hanno perso un terzo a testa della loro forza. E se i ballottaggi, in cui si vota solo per i sindaci, non consentiranno facilmente di misurare la portata dell’emorragia, già i numeri del primo turno segnalavano che il calo subito ha messo le due coalizioni in condizione di non rappresentare più la maggioranza, neppure se dovessero sommare i loro voti. A dimostrarlo, basta prendere in esame i due maggiori partiti, Pdl e Pd, che alle elezioni del 2008 rappresentavano più del 70 per cento dei voti e adesso rischiano di non arrivare al 50. Un rischio già diventato realtà in molte delle città in cui s’è votato e il Pdl è sceso sotto al 15 per cento. Ma nel Sud anche i numeri del Pd sono spesso sconfortanti.

Siccome i dati sono disponibili, e sono stati analizzati, da più di dieci giorni, ci si poteva aspettare che nelle due settimane che separavano il primo turno dal secondo, la politica, così timorosa dell’antipolitica, avrebbe cercato riscatto con il proprio comportamento. C’erano almeno due occasioni a portata di mano: la riforma del finanziamento dei partiti e la legge anticorruzione. Ma per la prima, alla fine di una trattativa estenuante che ha visto cambiare troppe volte la portata dei tagli ai rimborsi elettorali, ora fissata al cinquanta per cento, si dovrà aspettare ancora una settimana. E per la seconda, la guerriglia alla Camera in corso da giorni e giorni - con il Pd che vota con l’Idv, e la Lega che si astiene, per isolare il Pdl e metterlo in minoranza - è ora giunta a minacciare il governo. Quali saranno gli effetti di tutto questo sul voto di domenica e lunedì, è fin troppo facile immaginarlo. Ma stavolta i partiti puniti il 6 maggio non hanno che da prendersela con se stessi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10118


Titolo: MARCELLO SORGI. Chi riempirà i vuoti della Destra
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2012, 04:08:44 pm
22/5/2012

Chi riempirà i vuoti della Destra

MARCELLO SORGI

La domanda sorge spontanea di fronte ai risultati dei ballottaggi: ma i partiti e il sistema politico che abbiamo conosciuto negli ultimi venti anni - e insomma la Seconda Repubblica - sopravviveranno all’ondata di piena che li ha investiti? Il quadro uscito dalle urne ha certamente esasperato le tendenze del primo turno: emblematica la vittoria dei grillini a Parma; accentuato il crollo del centrodestra e del Pdl; totale, in sette ballottaggi su sette, la sconfitta della Lega; e la tenuta del Pd, secondo come la si guardi, si può considerare accettabile o striminzita, dal momento che Bersani a Genova vince con un candidato che non era suo e a Palermo soccombe al plebiscitario ritorno di Orlando. Eppure, a dispetto anche delle prime reazioni emotive ai numeri e alle percentuali, non è detto che il virus che ha aggredito la politica italiana debba per forza essere considerato letale. Anzi, a sorpresa, e in vista della prossima e ravvicinata scadenza delle elezioni politiche del 2013, potrebbe rivelarsi un male curabile.

Seppure imprevedibile in queste dimensioni, la vittoria del Movimento 5 stelle non prelude a un’Italia governata da Grillo, che tra l’altro è il primo a non avere obiettivi del genere.

E fuori dalle principali città in cui s’è votato, non è affatto trascurabile il risultato del Pd al Nord, in centri come Monza, Como e Asti, strappati al centrodestra, e più in generale su tutto il territorio nazionale. Quando canta vittoria, Bersani certo esagera, ma la sua ditta non è in cattiva salute. Almeno uno dei due schieramenti che si contenderanno la guida del Paese è in condizioni di correre. Quanto a vincere, si vedrà, specie se l’alleanza con Nichi Vendola e la sinistra radicale si rivelerà determinante.

La malattia ha invece avuto conseguenze devastanti nell’altra metà. Il Pdl è in rotta da Nord a Sud. E se parte del suo elettorato a Parma ha incredibilmente votato per Federico Pizzarotti - portandolo alla vittoria e apprezzandone la natura tranquilla, da ceto medio, il contrario esatto di quella del suo leader Beppe Grillo -, il resto dell’esercito berlusconiano è disorientato. In maggioranza ha preferito disertare le urne. Non crede più nell’alleanza con la Lega: tutto quel che è emerso su Bossi e i suoi familiari e famigli è perfino più inaccettabile per gli elettori berlusconiani del Nord che non per quelli leghisti. I quali, a ogni buon conto, alla favola di Bossi vittima di una congiura della moglie e dei figli si sono rifiutati di credere e stanno ancora aspettando che Maroni dica una volta e per tutte cosa intende fare del Fondatore travolto dallo scandalo.

Inoltre, un Paese in cui quasi metà degli elettori (e occorrerà vedere quanti di centrodestra e quanti di centrosinistra) disertano i seggi, si rivela straordinariamente simile, una volta tanto, all’immagine che tutte le settimane ne diffondono i sondaggi. La gente non ne può più. Anche se non è vero, s’è convinta che i tecnici al governo continuino ad aumentare le tasse perché i politici non intendono rinunciare ai loro privilegi. E più sente parlare a vanvera di tagli del numero dei parlamentari e dei rimborsi ai partiti, senza vedere nulla che si concretizzi, più continua a ritenere che sia così. Malgrado ciò, non si può certo credere che la metà di un elettorato che stavolta s’è protestato assente se ne resti a casa anche alle prossime politiche, quando si tratterà di decidere chi deve governare il Paese. Non è possibile. Gli astensionisti, com’è sempre successo, torneranno a votare. E sarà il modo in cui torneranno e il loro numero a decidere gli equilibri del 2013.

Per certi versi, anche se le analogie negli ultimi tempi sono diventate pericolose, siamo in una situazione simile a quella del 1993. Il vecchio gruppo di comando berlusconiano è collassato, come Andreotti e Craxi vent’anni fa. E quel che è più grave, si tratta di un collasso politico, non giudiziario. C’è un governo tecnico (che somiglia, ma somiglia soltanto, a quello di Ciampi), alle prese con difficoltà peggiori di quelle d’allora e con l’appoggio sempre più intermittente dei partiti della sua maggioranza. Anche adesso il centrosinistra regge, ha qualche falla aperta nel suo fianco destro e in quello sinistro, ma è sopravvissuto, finora, alla tempesta che sembrava voler inghiottire tutto il sistema. C’è infine una fortissima spinta di protesta, che non è esclusivamente estremista (vedi Parma), e solo in condizioni eccezionali (vedi Palermo) può puntare al governo. Ma può anche essere recuperata, o addirittura diventare determinante, nella vittoria di uno o dell’altro schieramento.

Fin qui, tutto quasi come alla fine della Prima Repubblica. Ma a questa similitudine, per essere completa, manca Berlusconi. Lui o un altro, uno nuovo, che non è detto che ci sia, ma potrebbe saltar fuori all’ultimo momento, esattamente come nel ’94. Così se il centrodestra vuol tornare in campo deve solo decidere cosa fare: o manda in pensione il vecchio Silvio (e con lui il Pdl, ormai evidentemente in stato di liquidazione), o lo richiama in servizio. Il rischio è altissimo in entrambi i casi. E non è affatto sicuro che anche stavolta la sorpresa, la novità a destra, basti a fermare le ambizioni di un centrosinistra in lenta ma costante avanzata. Ma per risvegliare gli elettori moderati sonnolenti o disgustati per quel che sta accadendo - non c’è altra scelta.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10132


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Professore prova a venire incontro
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2012, 11:44:52 am
23/5/2012 - TACCUINO

Il Professore prova a venire incontro

MARCELLO SORGI

La visita di Monti ai terremotati emiliani e il decreto con cui il governo ha sbloccato i primi venti-trenta miliardi di pagamenti arretrati della pubblica amministrazione alle imprese contrassegnano la svolta post-elezioni del presidente del consiglio e il tentativo di venire incontro, per quanto possibile, alle esigenze dei partiti della sua maggioranza, usciti alquanto ammaccati (soprattutto il Pdl), delusi (l’Udc) o solo apparentemente soddisfatti (il Pd) dalla tornata elettorale del 6 e del 20 maggio.

Monti ha perfettamente presente che il quadro politico interno è mutato e per il governo i dieci mesi da ora alle elezioni del 2013 non saranno facili. Di qui la disponibilità verso i terremotati (a Sant’Agostino in provincia di Ferrara, uno dei comuni più colpiti, il premier è stato accolto con una piccola contestazione e qualche fischio) e l’impegno a sospendere i pagamenti delle tasse nell’immediato per le popolazioni colpite, oltre a mettere a punto un piano di aiuti fino alla ricostruzione, che Monti si augura rapida, e che vorrebbe, al di là dei soccorsi più urgenti, che prendesse in considerazione i siti industriali colpiti, in modo da rimettere in moto una delle più fiorenti economie regionali del Paese.

Quanto al decreto per i pagamenti alle imprese, presentato insieme a Passera, ministro competente, Monti ha voluto inquadrarlo nelle iniziative per la crescita continuamente rivendicate dai partiti stanchi della politica di esclusivo rigore. Ma ha tenuto a chiarire che non si tratta del primo provvedimento mirato a quest’obiettivo, e inquadrarlo nei piani di un governo che mai si rassegnerà alla vecchia politica «idraulica» - questo l’aggettivo scelto per definirla e per rievocare il pompaggio inutile di soldi pubblici in un sistema che, se non viene ristrutturato, non è in grado di assicurare ripresa.

Monti ha poi visto ieri sera il leader del Pd Bersani, terzo a salire a Palazzo Chigi dopo Berlusconi e Alfano e Casini. All’ordine del giorno le questioni aperte in Parlamento, a cominciare dalla riforma del mercato del lavoro, per la quale il governo si augura ormai una rapida approvazione, e la legge anti-corruzione, sulla quale invece la maggioranza ha registrato una profonda rottura preelettorale. Monti e Bersani non si vedevano da prima dell’ultimo vertice europeo e del G8. La sensazione che il leader del Pd ha tratto dall’incontro è che, pur in assenza di impegni concreti, la Germania si trovi stretta tra gli Usa e il resto dei Paesi europei, Francia in testa, decisi ad aprire uno spiraglio nella morsa rigorista della Merkel.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10136


Titolo: MARCELLO SORGI. L'autocoscienza dell'ex premier paralizza il suo partito
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 09:41:43 am
24/5/2012 - TACCUINO

L'autocoscienza dell'ex premier paralizza il suo partito

MARCELLO SORGI

Di solito, la prima riunione di un partito dopo una sconfitta elettorale serve a circoscrivere i confini dell’insuccesso e a delineare un abbozzo di strategia per affrontare la crisi. Ma se il partito è quello di Berlusconi, il vertice convocato ieri a due giorni dal più disastroso risultato elettorale che il centrodestra abbia mai conseguito in diciott’anni di vita politica si trasforma, com’è accaduto, in una sorta di autocoscienza in pubblico del Fondatore.

Berlusconi al momento ci tiene a dire che non ha deciso cosa fare e che le voci di un suo ritorno in campo in prima linea sono destituite di fondamento. Un atteggiamento del genere ovviamente paralizza il Pdl (perfino le ennesime dimissioni dell’ex ministro e coordinatore Bondi sono state respinte), che, a dispetto di quanto hanno ripetuto in tv tutti gli esponenti di qualsiasi livello chiamati a commentare i risultati, dipende ancora in tutto e per tutto dal Cavaliere. Il quale, naturalmente, è molto meno indeciso di come lascia apparire, ma vuole aspettare prima di scegliere e comunicare la sua strategia.

Al momento, di sicuro c’è solo l’appoggio a Monti fino al 2013 e le elezioni a scadenza naturale. Ma Berlusconi sa benissimo che qualsiasi annuncio da parte sua in questo momento, o anche prima, sarebbe logorato dalla macchina impazzita del suo partito e dell’intero centrodestra. L’obiettivo di tentare di nuovo di riportare Casini nella coalizione dei moderati rimane, ma viene perseguito con meno convinzione, perché il Cavaliere non ha alcuna intenzione di mettersi da parte, come chiede l’Udc, e perché il leader centrista non risponderà mai prima di vedere l’esito della trattativa che s’è riaperta sulla legge elettorale. L’ipotesi di una discesa in campo di Montezemolo preoccupa meno Berlusconi perché, come ha spiegato, comunque si candiderebbe in campo moderato.

Nel Pdl c’è chi dice che al dunque sono Pierferdi e Luca le due carte coperte del Cav. Altri sostengono che vuole ricavare da un attento studio dei sondaggi e delle loro variazioni, man mano che la scadenza elettorale si avvicina, l’ipotesi di mettere in campo più liste, riunite in una sorta di federazione, per limitare i danni dell’astensionismo e sfruttare al meglio il voto utile. Altri ancora che non vede l’ora di liberarsi del Pdl e della sua burocrazia, a cui attribuisce buona parte dei motivi della sconfitta. Ma chi lo conosce davvero sa che, malgrado tutto quel che ha detto e ripetuto ieri, Berlusconi sta solo cercando uno spiraglio per rimettersi in gioco personalmente.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10142


Titolo: MARCELLO SORGI. La riduzione dei finanziamenti non ferma l'insofferenza
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 09:42:23 am
25/5/2012 - TACCUINO

La riduzione dei finanziamenti non ferma l'insofferenza

MARCELLO SORGI

Nel giorno in cui il Tribunale del riesame ribadisce la richiesta di arresto per il tesoriere della Margherita Lusi, accusato di aver sottratto a scopo personale 23 milioni di euro di finanziamento pubblico destinato al partito, la Camera approva finalmente in prima lettura la riforma dei rimborsi elettorali. Alla fine, la decisione presa con uno striminzito voto di 291 deputati, la maggioranza più risicata che si sia manifestata da quando esiste il governo Monti, è di dimezzare i rimborsi, anche se un complicato meccanismo previsto tra le righe della legge prevede che ulteriori contributi dello Stato possano aggiungersi ad eventuali aiuti privati ai partiti.

Se la Camera fosse riuscita a licenziare il testo prima dei ballottaggi, il taglio dei rimborsi avrebbe potuto influire sui risultati del voto? Difficile dirlo. La sensazione è che al punto in cui è giunta l'insofferenza degli elettori aggravata dalle lungaggini a cui la riforma ha dovuto sottostare, con una lunga vigilia di settimane e di mesi in cui si oscillava tra il taglio di un terzo e quello totale -, difficilmente il dimezzamento dei fondi pubblici basterà a far rientrare l'ira di un'opinione pubblica sconcertata dagli scandali della Margherita e della Lega e dall'incapacità dei partiti di trovare rimedi seri alla corruzione. Infatti, anche la legge proposta dalla ministra di Giustizia Severino ha avuto un iter parlamentare molto tormentato ed è ancora lontana dal varo definitivo.

Inoltre i partiti che hanno votato contro la legge in Parlamento, a cominciare dall'Idv di Di Pietro, continuano una campagna tesa a dimostrare che si tratti di una finta riforma, nè più nè meno come sta facendo Grillo da tempo sulla rete. I cittadini hanno così cominciato a prendere confidenza con le cifre assolute del finanziamento statale, che restano enormi. In dieci anni il sostegno ai partiti è passato da cento miliardi delle vecchie lire a quasi mille: si è in pratica decuplicato! Il dimezzamento non fa che portare i miliardi da mille a cinquecento. Ma non esiste in Italia una categoria, pubblica o privata, che abbia potuto vedere i propri proventi moltiplicati per cinque volte nell'ultimo decennio. Anzi, a partire dallo scorso novembre, la necessaria strategia anticrisi del governo ha reso indispensabili tagli agli stipendi e alle pensioni, oltre ad aver allungato la vita lavorativa. Una ragione di più, per la gente, per giudicare il testo uscito ieri da Montecitorio una piccola riforma, lontana da quel che s'aspettava.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10147


Titolo: MARCELLO SORGI. Caso Catricalà, Monti detta la linea e urta il centrodestra
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2012, 11:08:24 am
29/5/2012 - TACCUINO

Caso Catricalà, Monti detta la linea e urta il centrodestra

MARCELLO SORGI

Seppure rientrato e chiuso anche formalmente con un comunicato di Monti, il «caso Catricalà» e le dimissioni minacciate e ritirate del sottosegretario alla Presidenza del consiglio per dissensi su due delicate questioni all'ordine del giorno sono serviti al premier a chiarire quale a suo giudizio dev'essere il funzionamento del governo e quale il reale equilibrio dei poteri.

Catricalà, ma non solo lui, si era infatti sbilanciato sia sull'ipotesi, poi rientrata, della discarica da collocare nei pressi di Villa Adriana, sia sul progetto, rivelato da «Repubblica», di riforma del Csm, che avrebbe spostato sui laici, cioè sui politici, a discapito dei magistrati togati, la responsabilità dei provvedimenti disciplinari nei confronti dei giudici. In entrambi i casi Monti s'è pronunciato contro e di qui è nato il rammarico del sottosegretario, che s'era spinto in direzione opposta e per questo ha sfiorato le dimissioni.

Non va dimenticato infatti che la scelta di Catricalà come sottosegretario alla presidenza - incarico che nel precedente esecutivo, quando era Gianni Letta a ricoprirlo, era considerato il più importante dopo quello dello stesso presidente del consiglio - era avvenuta al momento della nascita del governo dopo la rinuncia a inserire nella lista due ministri forti come lo stesso Letta e Giuliano Amato, che avrebbero dovuto assicurare il collegamento politico tra i due principali partiti della maggioranza e una compagine formata quasi interamente da tecnici estranei. Il centrodestra allora aveva insistito per aver Catricalà a Palazzo Chigi anche per marcare una qualche forma di continuità tra il governo uscente e quello entrante.

È esattamente questo aspetto che Monti, con il suo comunicato di ieri, ha voluto ridimensionare. Il chiarimento è rivolto all'interno, laddove precisa che Catricalà può ovviamente essere incaricato di istruire alcune pratiche prima che approdino in consiglio dei ministri, dato che gode della piena fiducia del premier, ma la decisione sulle stesse spetta sempre al Presidente del consiglio. E ancora - ciò che è più significativo -, all'esterno, per far capire a chi pensava, grazie a rapporti pregressi, di poter contare sul successore di Letta, per esaminare e accelerare la soluzione di questioni aperte, che appunto non è così. Oltre a non togliere l'amaro dalla bocca di Catricalà, il comunicato montiano non avrà dunque fatto molto piacere allo stato maggiore di Berlusconi.


da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10160


Titolo: MARCELLO SORGI. La rete e l'onda emotiva
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2012, 04:27:13 pm
30/5/2012 - TACCUINO

La rete e l'onda emotiva

MARCELLO SORGI

Aperta da un intervento di Cecilia Strada di "Emergency", con un hashtag, #no2giugno, subito sommerso da una valanga di interventi sulla rete, la polemica contro la parata militare di sabato i cui preparativi sono ormai alle ultime battute, e per destinarne i costi agli aiuti ai terremotati, s'è trasformata in un test molto interessante del panico che Internet è in grado di generare tra i politici, almeno tra quelli che si sentono più minacciati da Grillo, dopo i risultati delle ultime amministrative.

A parte il leader del Movimento 5 stelle, che l'ha prevedibilmente subito sposata, parlando di terremoto annunciato e richiamando in servizio il sedicente sismologo Giampaolo Giuliani, famoso perché sosteneva di aver previsto anche il terremoto dell' Aquila, uno dopo l'altro Di Pietro, Vendola, Ferrero, i Verdi, la Lega, e a sorpresa, su Twitter, anche il sindaco di Roma Alemanno, che poi però quasi subito ha fatto una più meditata mezza marcia indietro, si sono subito allineati al #no2giugno che impazzava sulla rete, insieme con una valutazione dei costi recuperabili della parata vicina ai tre milioni di euro. Cifra immediatamente smentita dal governo, che ha spiegato come la massima parte dei finanziamenti previsti per la parata siano già stati effettivamente spesi, e dunque non siano più recuperabili.

Per avere la prova che l'improvvisa - e diffusa, all' opposizione - levata di scudi anti-parata era spinta soprattutto dalla lettura dei messaggi sui social networks bastava confrontare le dichiarazioni dei leader con i testi, praticamente identici, della rete. Così per un pomeriggio - in modo, va detto, assai approssimativo - la maggior parte dell'opposizione ha tentato l'aggancio del popolo Internet e del suo guru più importante, Beppe Grillo, che solo due settimane fa aveva messo seriamente in crisi i titolari abituali del voto di protesta.

E' toccato al Presidente Napolitano, anche nella sua qualità di capo delle Forze Armate, frenare l'ondata emotiva anti-2 giugno e confermare, sia pure in versione ridotta, la parata, che ha tra l'altro il compito di onorare le numerose vittime italiane nelle missioni internazionali di pace, e sarà dedicata alla solidarietà verso i terremotati e agli interventi concreti dell'esercito nelle operazioni di soccorso. Anche Monti è subito intervenuto per annunciare oggi al consiglio dei ministri provvedimenti adeguati alla gravità dei danni provocati dal terremoto e aiuti alle popolazioni colpite.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10164


Titolo: MARCELLO SORGI. Tensioni Pd sul voto anticipato
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2012, 07:01:21 pm
5/6/2012 - BERSANI STOPPA FASSINA

Tensioni Pd sul voto anticipato

MARCELLO SORGI

Ma se la politica dell’emergenza continua a non dare risultati, non sarebbe meglio anticipare la finanziaria e andare ad elezioni in autunno? Per averlo detto, dando voce a un largo partito trasversale presente in Parlamento, il responsabile economico del Pd Stefano Fassina è stato sepolto dalle polemiche e tacitato con una nota ufficiale del portavoce di Bersani, Stefano Di Traglia. La posizione ufficiale del partito resta dunque quella del sostegno al governo fino al 2013.

E tuttavia, Fassina, uno dei giovani dirigenti portati in segreteria dal segretario Pd, non ha affatto proposto di far cadere Monti in un’imboscata. Diversamente, ha cercato di aprire una discussione sull’inutilità di tenere in vita il governo tecnico guidato da Monti in condizioni di semiparalisi, come in pratica sta avvenendo dall’inizio dell’anno, e come dimostra il fatto che una riforma importante come quella del mercato del lavoro abbia impiegato più di cinque mesi per ottenere il primo sì del Senato. E solo adesso sia arrivata alla Camera, da dove probabilmente, in caso di modifiche già annunciate dai partiti di maggioranza e di opposizione, dovrà tornare a Palazzo Madama. Per inciso, ieri i due ministri interessati, la Fornero e Patroni Griffi (il secondo ha la delega per il pubblico impiego), hanno reso esplicito il dissenso che covano da tempo sulla necessità (per la Fornero) che anche i dipendenti pubblici si adeguino alla nuova disciplina dei licenziamenti e sull’impossibilità (per Patroni Griffi) che questo accada. Ma il lavoro è solo uno degli scogli su cui il governo è da tempo arenato in Parlamento. Basti pensare alle norme anticorruzione, alle intercettazioni, alla responsabilità civile dei magistrati, alle nomine nelle authorities, alla Rai. Sono solo alcuni esempi. Per non parlare del voto sul trattato internazionale del Fiscal Compact che rischia già di slittare all’autunno.

Contro Fassina, le reazioni più dure sono venute dall’interno del Pd, soprattutto dalla componente veltroniana e da quella popolare, che con Gentiloni è arrivata a paragonarlo a Brunetta e Santanchè nel centrodestra. Ma al di là della controversa materia elettorale, nelle file del Pd s’intuiva un certo timore che la nuova generazione bersaniana prema per il voto anche per arrivare al dunque della formazione delle liste, da rinnovare radicalmente, per far fronte all’ondata di antipolitica. La preoccupazione di non poter godere delle deroghe che hanno consentito fino al 2008 a molti della vecchia guardia di aggirare la regola del limite di tre legislature era percepibile in alcune di quelle reazioni. A sorpresa, Fassina ha invece trovato appoggio da Sandro Bondi, il più eretico dei coordinatori del Pdl: a patto, sostiene Bondi, di anticipare il voto con un’intesa bipartisan che preluda a un governo di larghe intese anche per la prossima legislatura.

Va detto: è stato certamente un errore o un’imprudenza parlare di scioglimento anticipato delle Camere alla vigilia di un vertice europeo come quello convocato a Roma da Monti, con Merkel e Hollande, e mentre a ritmo affannoso continuano i tentativi dei leader dell’Unione per cercare di arginare la crisi dell’euro, che sembra giunta al suo giro finale.

Ma dire di no alle elezioni anticipate per continuare a non fare niente, tenendo il governo bloccato, è un errore altrettanto grande.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10193


Titolo: MARCELLO SORGI. Nuove spine per il vertice con la Merkel
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2012, 05:03:06 pm
6/6/2012 - TACCUINO

Nuove spine per il vertice con la Merkel

MARCELLO SORGI

Troppe tasse, impulsi recessivi, corruzione ancora presente specie nel settore della Sanità, rischio di avvitamento dei conti dello Stato, se non si porrà un deciso rimedio al più presto. Dopo quello del Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco, è arrivato anche il monito a due voci del presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino e dell'alto magistrato, Luigi Mazzillo, che ha coordinato le sezioni riunite, incaricate di stilare il rapporto sulla finanza pubblica. Il quadro che ne è uscito, pur riconoscendo che le misure di contenimento adottate fin qui dal governo funzionano, è impietoso e allarmato. E non avrà certo rallegrato Monti, intento in una serie ininterrotta di contatti con i leaders europei, in vista dell'incontro del 22 giugno con Merkel e Hollande a Roma e del vertice di fine mese, da cui dovrebbe uscire una risposta definitiva sulla volontà e la capacità dell'Unione di convincere la Merkel ad abbandonare le sue resistenze e a collaborare per affrontare la crisi dell'eurozona che rischia di sfuggire al controllo.

I dati forniti dalla Corte dei conti sono drammatici: il sistema italiano sconta ancora un'evasione di oltre 46 miliardi di Iva e avrebbe bisogno di sgravi fiscali quasi pari per uscire dalla recessione. Il "rischio di avvitamento", segnalato senza mezzi termini, nasce dal fatto che l'aumento delle tasse deciso dal governo, per cercare di mantenere gli impegni assunti con l'Europa, non ha finora portato, com'era auspicabile, un aumento del gettito. E ha invece determinato un calo del pil che rende ancora più squilibrati i conti italiani. Giampaolino e Mazzillo consigliano di ricorrere in tempi brevi a ulteriori vendite di patrimonio pubblico (che il governo fin qui ha preferito evitare, nella convinzione che con i mercati in difficoltà si tratterebbe piuttosto di svendite) e una forte riduzione della spesa pubblica, cosa che, malgrado la nomina del supercommissario ad hoc, Enrico Bondi, al momento ha obiettivi abbastanza limitati. Duro anche il richiamo sulla Sanità: senza una riorganizzazione e un'effettiva trasparenza, la corruzione non sarà mai sconfitta.

Dall'opposizione Lega e Idv brindano alla nuova denuncia dell'eccesso di carico fiscale, mentre Pd e Pdl sono più prudenti. E dal governo l'unico commento è quello del ministro responsabile della spending review, Piero Giarda, che ricorda come al momento all'ordine del giorno ci sia un ulteriore rialzo dell'Iva da ottobre. Il tono di Giarda lascia capire che sarebbe un miracolo, per come stanno andando le cose, riuscire ad evitarlo, lasciando dunque intatta la pressione fiscale senza doverla ulteriormente inasprire.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10197


Titolo: MARCELLO SORGI. Verso il rinvio delle ambizioni riformatrici
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2012, 10:39:13 pm
7/6/2012 - TACCUINO

Verso il rinvio delle ambizioni riformatrici

MARCELLO SORGI


Malgrado gli sforzi fatti dal Pdl, dopo l’accoglienza tiepida alla prima conferenza stampa con Berlusconi, la proposta del semipresidenzialismo, depositata al Senato sotto forma di emendamenti che ridisegnano la figura del Capo dello Stato, non ha del tutto fugato le riserve emerse finora sulla svolta berlusconiana. Diranno i tecnici e i costituzionalisti, che ieri le hanno riservato commenti più o meno critici, se si tratta di una riforma praticabile in meno di un anno, o se i necessari aggiustamenti finiranno a bloccarne il lungo iter parlamentare, che necessita di quattro votazioni a distanza non inferiore di tre mesi del medesimo testo.

Lo stesso segretario del Pdl Angelino Alfano ha ammesso che l’iniziativa del suo partito varrà, sia nel caso in cui si arrivi alla riforma, sia come bandiera della prossima campagna elettorale, nella quale, ha spiegato, di fronte a un «no» pregiudiziale del Pd, il centrodestra avrà buon gioco ad additare agli elettori chi ha avuto un atteggiamento conservatore e contrario alla possibilità di un effettivo cambiamento dell’assetto costituzionale del Paese.

Ma rispetto alla prima presentazione, con accanto un Berlusconi non troppo convinto dell’appeal politico della Grande riforma, Alfano ieri ha introdotto tre novità, mirate a favorire un vero confronto sulla materia: la prima è che anche nel caso in cui il semipresidenzialismo alla francese non passi, il Pdl non ostacolerà le altre proposte di riforma costituzionale su cui era stato raggiunto un accordo in commissione al Senato. Si tratta del potenziamento dei poteri del premier, della differenziazione dei compiti delle Camere e della riduzione del numero dei parlamentari. La seconda è un’offerta diretta al Pd: il Pdl è disposto a prendere in considerazione anche una legge elettorale a due turni per eleggere il Parlamento. La terza è l’impegno che Berlusconi non sarà automaticamente candidato al Quirinale: il Pdl sceglierà con le primarie.

È difficile tuttavia dire che fine faranno le riforme dopo la novità introdotta dal Pdl. A giudicare dalle perplessità espresse dal presidente del Senato Schifani, che s’era impegnato personalmente sulla fase costituente, non molte. E a sentire i commenti a mezza voce dei corridoi di Palazzo Madama, l’esito più probabile della sessione sarà un ennesimo rinvio, e dunque una nuova sepoltura, almeno per questa legislatura, delle ambizioni riformatrici dei ricostituenti della Seconda Repubblica.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10202


Titolo: MARCELLO SORGI. Maggioranza senza accordo nella settimana decisiva
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2012, 11:38:01 pm
12/6/2012 - TACCUINO

Maggioranza senza accordo nella settimana decisiva

MARCELLO SORGI

Il piano di aiuti per le banche spagnole non ha avuto l'effetto sperato e il quadro generale si è particolarmente appesantito per l'Italia, dove ieri lo spread è tornato a superare quota 470, e dove l'Istat ha confermato che il Paese continua a restare in recessione, con un ulteriore calo del pil dello 0,8. Nè ha giovato la comunicazione, sempre ieri, fonte Inps, che il numero degli esodati, fin qui incerto, tanto che il governo ha provveduto per decreto a sistemarne i primi 65 mila, è arrivato a 390 mila. Si tratta di previsioni, è bene dirlo, che non riguardano solo quest'anno, ma sono egualmente destinate a pesare sui conti pubblici. A giudizio del Wall Street Journal, l'Italia a questo punto rischia davvero di subire l'effetto contagio da parte della Spagna.

E' in questa cornice che il governo si accinge ad affrontare in settimana in Parlamento una serie di questioni delicate e finora irrisolte.
In estrema sintesi, si potrebbe dire che nella maggioranza non c'è accordo su nulla. Non sulla legge anticorruzione, per cominciare, che il Pd si dichiara pronto a votare nel testo uscito dalla commissione e che la ministra Severino vorrebbe far approvare sulla base di un maxiemendamento su cui ha annunciato per oggi la richiesta di un voto di fiducia. Il braccio di ferro è con il Pdl, scontento fin qui di tutte le formulazioni uscite da votazioni in cui spesso è andato sotto rispetto a maggioranze occasionali in cui il Pd ha votato con l'Idv.

Non vanno meglio le cose sulla Rai, dopo le nomine proposte da Monti e contestate, per ragioni diverse, dai partiti. Stamane il presidente della commissione di vigilanza Zavoli riunirà l'ufficio di presidenza per verificare se esistono le condizioni per eleggere i sette membri del consiglio d'amministrazione della tv di Stato che devono essere votati in Parlamento. Ma il Pdl contesta a Monti il diritto di designare, oltre al presidente e al rappresentante del ministro del Tesoro, anche il direttore generale. Bersani ha confermato che non intende avanzare candidature nè partecipare a votazioni sui consiglieri, a meno che il governo non proceda a un'effettiva riforma della governance della Rai.

Ma all'interno del Pd dissente l'ex ministro dell'Istruzione Fioroni, che chiede a Monti di indicare anche i nomi mancanti, che i partiti dovrebbero impegnarsi a votare per uscire dall'empasse. Proposta condivisa da Casini e osteggiata dal Pdl, mentre Di Pietro, provocatoriamente, chiede addirittura che prima di essere messa ai voti, la presidente designata Anna Maria Tarantola, attuale numero tre di Bankitalia, si presenti in commissione per dimostrare la sua competenza televisiva.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10220


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Professore e una giornata finalmente senza strappi
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2012, 11:54:07 pm
14/6/2012 - TACCUINO

Il Professore e una giornata finalmente senza strappi

MARCELLO SORGI

Dopo tanti momenti difficili, ieri è stata finalmente una buona giornata per Monti e il governo. Compatibilmente con il quadro generale ancora molto difficile, gli effetti del vertice improvviso convocato martedi sera a Palazzo Chigi con i tre segretari della maggioranza Alfano, Bersani e Casini si sono visti: il presidente del consiglio ha incassato tre voti di fiducia alla Camera sulla legge anticorruzione e, prima di partire per Berlino (dove ha ricevuto dal ministro degli esteri tedesco Wolfang Schauble apprezzamenti per il lavoro svolto fin qui e il prestigioso premio per la “leadership responsabile”), dal banco del governo ha voluto dare la sua valutazione sull’effettivo stato di salute dell’Italia. Dunque, stiamo messi meglio di sei mesi fa e non siamo affatto nelle stesse condizioni della Spagna, costretta la scorsa settimana a chiedere aiuti all’Unione europea per salvare le sue banche. Il cammino resta in salita, il quadro dell’eurozona rimane preoccupante, ma Monti confida nelle prospettive del prossimo vertice europeo, per allentare le resistenze finora insormontabili della Germania ad aprire qualche spiraglio nella politica di rigore. Nell’attesa, proprio da Berlino, sollecitato in conferenza stampa da una domanda sulle dimensioni enormi (duemila miliardi di euro) del debito pubblico italiano, Monti ha annunciato che presto per ridimensionarlo il governo potrebbe presentare un piano di alienazione parziale del patrimonio dello Stato.

Seppure i discorsi di Alfano, Bersani e Casini in aula a Montecitorio sono stati rassicuranti, nessuna delle pesanti questioni aperte sul cammino del governo può tuttavia dirsi risolta: sulla legge anticorruzione, restano riserve fortissime del Pdl, a cui s’è aggiunta ieri la contrarietà del Fli alla norma che solo nel 2018 farebbe scattare la non candidabilità dei condannati per corruzione. Sul problema degli esodati c’è stato un nuovo scontro tra Fornero e Camusso, oltre a una mozione di sfiducia contro il ministro del lavoro presentata dalla Lega. La riforma del mercato del lavoro, portata ad esempio nel suo intervento da Monti a Berlino, non fa passi avanti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10228


Titolo: MARCELLO SORGI. Con il turno unico rischiamo di ritrovarci come la Grecia
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2012, 11:19:55 pm
19/6/2012 - TACCUINO

Con il turno unico rischiamo di ritrovarci come la Grecia

MARCELLO SORGI

Oltre a stabilizzare, per quanto possibile, il paesi dell’eurozona in vista del vertice del 28, i risultati delle elezioni in Grecia (e in diverso modo anche quelli francesi) spingono a riflettere anche sul presente e sul futuro prossimo dell’Italia. In Grecia infatti, dopo aver vinto con poco più di un terzo dei voti, il leader del centrodestra Antoni Samaras si accinge a formare un governo con i socialisti, usciti molto ridimensionati dalle urne, e se possibile con i partiti minori, lasciando all’opposizione la sinistra radicale, giunta seconda con un quarto dei voti. Ma i partiti che dovrebbero allearsi con Samaras - che solo in coalizione con i socialisti avrebbe la maggioranza di 162 seggi su 300, e con gli altri toccherebbe i 200 non lo danno affatto per scontato. Chiedono che anche la sinistra estrema sia associata al governo, per condividere le responsabilità dei sacrifici che dovranno essere imposti ai cittadini greci. Il leader della sinistra, Tsipras, naturalmente non ci pensa proprio.

Un quadro del genere, capovolto, ma con la costante della sinistra che resiste al peso delle scelte impopolari, e con la necessità di associare il centrodestra, potrebbe crearsi alle prossime elezioni anche in Italia, specie se la tendenza che da mesi i sondaggi preannunciano, dando un Pd in vantaggio rispetto al Pdl, dovesse portare il centrosinistra a vincere, ma a non essere pienamente in grado di far accettare ai suoi alleati (in particolare a Vendola) il peso delle decisioni anticrisi che anche il prossimo governo dovrà continuare a prendere. Di qui a prevedere che la guida del governo possa restare affidata a Monti, e che anche la maggioranza che lo sorreggerà non sarà troppo diversa da quella attuale, il passo è breve.

La lezione francese invece è diversa ed è sempre legata al sistema a doppio turno che, dopo aver determinato il passaggio da Sarkozy a Hollande, ha assegnato ai socialisti una larga maggioranza all’Assemblea nazionale, neutralizzando l’ondata di protesta del primo turno e riducendo a due, dicasi due, i parlamentari eletti del Front national di Marine Le Pen. Vale per i nostri leader che si sono dati tre (ormai due) settimane per cambiare la legge elettorale. Magari (tutti se lo augurano) non finiremo come La Grecia.

Ma se la nuova legge che dovrebbe sostituire il Porcellum sarà ancora a turno unico, molto probabilmente non avremo un governo politico come quello francese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10244


Titolo: MARCELLO SORGI. Il governo e la corsa contro il tempo verso il vertice Ue
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2012, 11:15:08 pm
20/6/2012 - TACCUINO

Il governo e la corsa contro il tempo verso il vertice Ue

MARCELLO SORGI

L'esito interlocutorio del G20 in Messico e la decisione finale di non approfondire il confronto tra il presidente degli Stati Uniti Obama e i leader europei in un vertice dedicato alla crisi dell’eurozona hanno convinto Monti a dichiarare aperto il conto alla rovescia di qui al 28 giugno, per cercare di imporre una svolta al destino dell’Unione. In dieci giorni si decide tutto. E le premesse continuano a non essere buone, a giudicare almeno dalla freddezza con cui la Merkel ha accolto le richieste del premier incaricato greco Samaras per un allungamento dei tempi dei sacrifici richiesti al suo paese. Una dilazione concessa ad Atene, d’altra parte, aprirebbe la strada a un esame delle richieste degli altri partner, che premono perché gli interventi e gli investimenti in favore della crescita vengano in qualche modo svincolati dai limiti ultrarigidi delle strategie anticrisi, allargando i margini di manovra dei singoli governi.

Ieri il ministro Corrado Passera ha ripetuto che si sta cercando in ogni modo di evitare l’ulteriore rialzo di due punti dell’Iva previsto ad ottobre, ma che proprio per questo non c’è da aspettarsi a breve una riduzione del carico fiscale.

Monti, si sa, intenderebbe arrivare al 28 con la riforma del lavoro approvata definitivamente in Parlamento, ciò che farebbe conquistare dei punti all’Italia agli occhi di Bruxelles. E a questo scopo ieri la ministra Elsa Fornero si è sottoposta a un tour de force in Parlamento. Prima alla Camera, dove ha affrontato la questione degli esodati, quantificando il numero di quelli in attesa di soluzione in 55 mila e criticando, ma senza nominarlo, l’Inps che era arrivato a parlare di 390 mila. Fornero ha insistito sul fatto che il governo non intendeva minimamente trascurare il problema, ma occuparsene al momento opportuno. Con il decreto che aveva già regolarizzato i primi 65mila esodati, infatti, era stata trovata la soluzione fino a tutto il 2013. Con i successivi 55mila sarà coperto anche il 2014. Fornero intendeva così venire incontro alle richieste del Pd, che con Franceschini aveva spiegato che considera la questione esodati pregiudiziale all’approvazione della riforma del lavoro. Ma non è detto che anche con questi interventi la riforma riesca a passare in tempo: Maurizio Gasparri al Senato ha avvertito la ministra Fornero che il Pdl ha intenzione di prendersi tutto il tempo necessario prima di votarla.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10248


Titolo: MARCELLO SORGI. Pietra tombale sulla riforma della giustizia
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2012, 06:43:10 pm
21/6/2012 - TACCUINO

Pietra tombale sulla riforma della giustizia

MARCELLO SORGI

Per quanto scontato, il “sì” del Senato all’arresto del tesoriere della Margherita Lusi rappresenta la pietra tombale su qualsiasi speranza di trovare un compromesso sulla giustizia. Anzi, in qualche modo, è la diretta conseguenza del voto di fiducia con cui la legge anticorruzione è passata alla Camera. Anche a costo di scontare una pattuglia di dissidenti, Gasparri ha spiegato che il centrodestra non aveva alcuna intenzione di entrare in una resa dei conti interna al centrosinistra e per questo non avrebbe partecipato al voto.

Malgrado le evidenti responsabilità di Lusi, confermate dal vaglio di sette diversi magistrati e in qualche modo riconosciute anche dall’interessato, che le ha ammesse proprio per cercare fino all’ultimo di evitare il carcere, la vicenda dell’uso improprio del finanziamento pubblico da parte della Margherita - è evidente non si chiude qui, e il processo potrebbe riservare sorprese.

Il clima e i toni adoperati nel dibattito di ieri - complessivamente mediocri, a tratti minacciosi -, però non consentiranno a breve di riprendere il confronto sulla giustizia, già in forti difficoltà dopo il voto della scorsa settimana alla Camera. I due maggiori partiti della maggioranza sono infatti attestati su una serie di pregiudiziali contrapposte che non consentono in alcun modo di andare avanti: alla Camera il Pdl insiste per approvare rapidamente il testo sulle intercettazioni che il centrosinistra, in gran parte, ma anche il Fli, qualificano come “legge bavaglio”, e se approvata secondo i desiderata berlusconiani si risolverebbe in una drastica limitazione del diritto di cronaca.

Al Senato il Pd non è disponibile a fare concessioni all’ammorbidimento del testo dell’anticorruzione chiesto dal Pdl, che insiste anche su una formulazione della responsabilità civile dei magistrati inaccettabile per il centrosinistra. In queste condizioni, più che cercare una mediazione, la ministra Severino, per portare a casa le sue riforme, dovrebbe fare un miracolo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10252


Titolo: MARCELLO SORGI. La solitudine del Colle
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2012, 09:08:14 am
22/6/2012

La solitudine del Colle

MARCELLO SORGI

Con un’improvvisa drammatizzazione del caso che da giorni ha lambito il Quirinale, ieri è stato il Presidente Napolitano in persona a prendere la parola sulla «trattativa» tra Stato e mafia, per spiegare che non ha nulla da nascondere né da temere.

Trovandosi alla festa della Guardia di Finanza, i giornalisti che avevano circondato il Capo dello Stato si aspettavano che volesse parlare di evasione fiscale, che era un po’ il tema del giorno. Il Presidente invece ha reagito duramente a quella che ha definito «una campagna di insinuazioni e sospetti di alcuni giornali» e alle paginate di verbali di intercettazioni telefoniche tra il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Mancino è sotto inchiesta da parte della procura di Palermo con l’accusa di aver mentito sulla trattativa che nel 1993, all’ombra del Viminale, il generale dei Carabinieri Mario Mori, cioè l’uomo che pochi mesi prima aveva arrestato il capo dei capi di Cosa nostra Totò Riina, avrebbe intessuto con Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo mafioso e in affari con la grande mafia siciliana. Lo scambio tra un ammorbidimento del regime di carcere duro per i boss - che fu deciso dall’ex ministro di Giustizia Conso - e uno stop alla strategia stragista che aveva insanguinato l’Italia per due anni, da Capaci a Roma, Firenze e Milano, sarebbe stato, secondo l’inchiesta, il primo passo di un inconfessabile negoziato.

L’ex ministro dell’Interno si è sempre protestato innocente, e Napolitano entra nella vicenda perché è intervenuto, per tramite dei suoi collaboratori, a favore di un chiarimento tra le diverse procure siciliane, che hanno punti di vista differenti sull’inchiesta e sui suoi possibili imputati. Dopo un fallito approccio di D’Ambrosio con il capo della Superprocura Antimafia Piero Grasso, il 4 aprile il segretario generale della Presidenza Donato Marra ha scritto all’allora procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito. Per aver preso questa iniziativa - e per averlo fatto in piena trasparenza, tanto che ha reso noto il testo della lettera inviata ad Esposito -, Napolitano è da giorni sulla graticola. E pertanto ieri s’è deciso a reagire personalmente, ribadendo con orgoglio di essersi mosso nell’ambito delle proprie prerogative e nel pieno rispetto delle leggi.

Ma al di là del caso e dei molti conti aperti - non tutti chiari, e neppure tutti recenti, dato che la storia comincia quasi vent’anni fa c’è un aspetto del caso ancora del tutto inesplorato. E cioè che questa specie di impeachment mancato, con le reazioni o le mancate reazioni che ha provocato, è un esempio illuminante di cosa sta per diventare, o è già diventata, la politica in tempi di antipolitica. Sul campo, infatti, a muovere l’assedio al Quirinale, sono Grillo e Di Pietro, indipendentemente e per ragioni diverse. Per Grillo, uscito vincitore dalle ultime elezioni amministrative e accreditato di una crescita spropositata nei sondaggi, è la prima occasione per vendicarsi, dopo una campagna elettorale in cui, tra gli altri, aveva preso di mira anche il Colle, ricevendo in cambio dal Presidente il monito a non comportarsi da «demagogo». E quanto a Di Pietro, che con Napolitano ha sempre avuto pubblici cattivi rapporti, è una sorta di avvertimento inviato, via Colle, a Bersani e al Pd, che platealmente lo hanno appena scaricato, e si preparano, nelle prossime elezioni, a tenerlo fuori dalla coalizione, dopo quattro anni di turbolenta alleanza politica e un’amicizia che durava dai tempi di Mani pulite. Va da sé che se il centrosinistra facesse marcia indietro e riaccogliesse tra le sue file Italia dei Valori, anche Di Pietro potrebbe mutare atteggiamento. Ma se Bersani continua a fare l’offeso, il leader di Idv insisterà a tenere la mira puntata sul Quirinale.

E qui, prima di concludere, occorre guardare al comportamento degli altri partiti. Da Berlusconi, che tra l’altro è coinvolto nell’inchiesta palermitana ed è fin troppo impegnato a cercare di salvare se stesso dai suoi guai giudiziari, non c’era molto da aspettarsi. E quanto a Bersani o Casini, non è che non difendano il Presidente: ci mancherebbe. Ma lo fanno con una timidezza che tradisce il timore che le campagne dell’antipolitica abbiano ormai irrimediabilmente fatto breccia in un’opinione pubblica trattata alla stregua di una tifoseria da stadio. A questo siamo. Si vorrebbe non crederci, ma è così: poiché schierarsi con le istituzioni si sta rivelando elettoralmente e propagandisticamente poco conveniente, pur di non correre il rischio dell’impopolarità, Napolitano, in pratica, viene lasciato solo a difendersi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10255


Titolo: MARCELLO SORGI. Tv e partiti la malattia inguaribile
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2012, 10:55:16 am
5/7/2012

Tv e partiti la malattia inguaribile

MARCELLO SORGI

Ai partiti toccategli tutto - il governo, il sottogoverno, la politica, perfino i rimborsi elettorali - ma non la Rai. Più che una novità, è una legge non scritta del nostro Parlamento. Ma che dalla mancata elezione del nuovo consiglio d’amministrazione da parte della commissione di vigilanza si potesse arrivare, nientemeno, allo scontro tra i Presidenti delle Camere e a una conseguente crisi istituzionale, no: questo ancora non s’era visto.

Ricapitolando, da tre mesi, cioè da quando è scaduto il vecchio consiglio, in forza della legge Gasparri sette dei nove membri del cda Rai devono essere nominati con la procedura del voto in Vigilanza. Gli altri due, sempre come prescrive la legge, sono stati indicati per tempo dal governo, in realtà direttamente da Monti, che ha scelto la vicedirettrice della Banca d’Italia Anna Maria Tarantola come presidente e l’alto funzionario ministeriale Marco Pinto come rappresentante del Tesoro.

Oltre al prossimo direttore generale, Luigi Gubitosi, manager di provata esperienza, formatosi in Fiat e poi alla guida della compagnia telefonica Wind. Benché la salute dell’ente televisivo di Stato sia considerata preoccupante, Tarantola, Pinto e Gubitosi aspettano di insediarsi da quasi un mese. Il ritardo nelle procedure che riguardano gli altri consiglieri è dovuto al fatto che la commissione pone in votazione candidati scelti dai partiti, e tra i partiti soprattutto il Pdl non è riuscito a trovare un accordo interno per eleggere i suoi consiglieri.

Di qui i due tentativi andati a vuoto martedì sera, quando prima un finto errore su una scheda e poi un franco tiratore hanno portato al rinvio, con tutto quel che ne è seguito. Per il centrodestra, che nel consiglio uscente aveva la maggioranza e contava sul direttore generale, era già difficile rassegnarsi a perdere le due posizioni, a causa del cambio di governo e delle scelte di Monti. Ma passare dai quattro consiglieri previsti (una minoranza tutto sommato qualificata) a tre, era del tutto inaccettabile. Nella confusione delle due votazioni andate a vuoto, infatti, era uscito a sorpresa un nome votato a dispetto da Italia dei Valori, Fli e qualche parlamentare in prestito del centrosinistra: Flavia Nardelli, la quale, conosciutissima da tutti quelli che per lavoro o per studio frequentano l’Istituto Sturzo, sarebbe stata - sia detto per inciso - un’ottima consigliera d’amministrazione della Rai.

Ma l’altolà del Pdl - in spregio a una libera manifestazione di volontà parlamentare - non s’è limitato alla richiesta di annullamento del voto. Individuato il franco tiratore nel senatore Paolo Amato, che non aveva fatto mistero di non volersi piegare alle indicazioni del suo partito, il capogruppo pidiellino Gasparri ne ha preteso la sostituzione con il più fidato Pasquale Viespoli. E l’ha subito ottenuta dal Presidente del Senato Schifani, ciò che ha sollevato le proteste del presidente della Camera Fini, che ha fatto parlare per qualche ora di un possibile commissariamento della Rai da parte del governo, ma che oggi dovrebbe portare a una nuova votazione in cui molto probabilmente tutte le caselle della lottizzazione partitica torneranno al proprio posto.

Malgrado ciò, non si fosse arrivati allo scontro tra la seconda e la terza carica dello Stato, sarebbe stato un caso grave, ma purtroppo ordinario, visto come vanno le cose. In fondo, già all’inizio della legislatura, la Vigilanza era rimasta inchiodata per quasi un anno prima di riuscire ad eleggere il proprio presidente e successivamente quello della Rai. Malauguratamente, senza nulla togliere alla buona fede di Monti e all’indiscusso prestigio dei suoi candidati, l’irredimibilità politico-partitica della Rai non è ormai solo un dato di fatto; è un aspetto talmente connaturato all’azienda, che tutti i tentativi di combatterla, di cancellarla o anche solo di riformarla, finora sono sempre falliti. Resta solo da sperare che Monti, e per suo tramite Tarantola, Pinto e Gubitosi, stavolta ci riescano: e fargli molti auguri. Soprattutto a Tarantola, che per diventare presidente ha bisogno dei due terzi della commissione di vigilanza: ben 27 voti, cinque o sei volte di più di quelli che non sono bastati a Flavia Nardelli per diventare consigliere contro il diktat dei partiti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10298


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Monti bis di Berlusconi e i mal di pancia di mezzo Pdl
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2012, 11:10:05 am
6/7/2012 - TACCUINO

Il Monti bis di Berlusconi e i mal di pancia di mezzo Pdl

MARCELLO SORGI

Annunciata ormai a tutto il vertice del partito e ripetuta in più occasioni, l’imprevedibile scelta grancoalizionista di Silvio Berlusconi trova almeno tre diversi motivi di resistenza all’interno del Popolo della libertà. C’è innanzitutto una perplessità generale sul fatto che a proporla sia lo stesso leader che a inizio d’anno sembrava realmente orientato a farsi da parte, poi ha avuto una cotta passeggera per Beppe Grillo e s’è messo a imitarlo, e infine ha deciso di tornare in campo, ma per appoggiare dopo le elezioni una sorta di Monti-bis in cui dovrebbero entrare ministri politici.

Ma a parte la sua abituale instabilità politica (Berlusconi è uno che lavora molto d’istinto), dietro la svolta del Cavaliere c’è una realistica osservazione della realtà e una presa d’atto che difficilmente il centrodestra potrà puntare a vincere le prossime elezioni nella primavera del 2013. Di qui, piuttosto che andare all’opposizione, la prospettiva di attestarsi nella posizione di una minoranza di blocco, un po’ come è avvenuto nella vicenda del cambio del consiglio d’amministrazione della Rai, in cui il Pdl ha perduto il controllo dell’azienda, ma parteciperà a tutte le decisioni e difficilmente potrà essere emarginato. Una minoranza, insomma, parte indispensabile di una più larga maggioranza, che dovrebbe continuare a sostenere Monti, e alla quale anche il Pd dovrebbe rassegnarsi seppure il centrosinistra dovesse vincere le elezioni.

Ma a frenare gli entusiasmi dell’ex-presidente del Consiglio all’interno del Pdl si sta saldando un inedito asse: accanto all’ala ribelle SantanchèBrunetta, che puntava a far cadere Monti e anticipare le elezioni a ottobre, si muove la destra ex-An, che difficilmente potrebbe spiegare ai propri elettori un prolungamento della convivenza governativa con la sinistra.

E a sorpresa anche il vecchio centro del partito, che va da Verdini a Cicchitto e teme che una stabilizzazione della larga maggioranza e dello «strano» governo a tre con Partito democratico e Casini porti a un mutamento degli equilibri interni del partito, per sostituire la classe dirigente del ventennio dello scontro bipolarista con una più abituata ai rapporti pragmatici con gli (ex) avversari. Chi ha qualche capello bianco in più sulla testa sa, o ricorda, che dentro le larghe coalizioni, specie quelle che durano, si formano sempre delle maggioranze informali e dei nuovi equilibri di potere.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10305


Titolo: MARCELLO SORGI. Una risposta per i due Presidenti
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2012, 09:59:07 am
10/7/2012

Una risposta per i due Presidenti

MARCELLO SORGI

Seppure distanziate di un giorno dedicate a due diversi argomenti, le due allarmate uscite di Napolitano ieri e di Monti domenica sono invece strettamente connesse visto che nessuno come loro due ha chiari i pericoli che l’Italia continua a correre, e i timori che l’estate 2012, come e forse più di quella del 2011, si riveli purtroppo il terreno di caccia ideale delle speculazioni sui mercati internazionali, che prendono di mira in Europa soprattutto i Paesi in bilico.

Comuni ai due Presidenti non sono solo le preoccupazioni, ma anche il rifiuto della strafottenza che i partiti - non tutti, o almeno non tutti alla stessa maniera - continuano a manifestare rispetto alla crisi più difficile mai affrontata finora: come se appunto si trattasse solo di far passare la nottata, preparandosi intanto alla campagna elettorale, già cominciata ben prima che si arrivi alla conclusione naturale della legislatura e alla convocazione dei comizi.

Era chiaramente a questo che Napolitano ha inteso riferirsi ieri, quando con il gesto, volutamente drammatico, dell’invio di una lettera ai Presidenti delle Camere, per sollecitare la rapida fissazione di un dibattito parlamentare sulla legge elettorale, ha implicitamente inteso denunciare l’inutile tira e molla in cui la discussione politica su una materia così delicata si trascina da mesi e mesi. E dire che i tre segretari della maggioranza che sorregge il governo, Alfano, Bersani e Casini, si erano impegnati a risolvere tutto nel giro di venti giorni. Bene: dal giorno in cui quell’impegno fu assunto pubblicamente, sono passate ben cinque settimane!

Ora, mentre le varie ipotesi di riforma della legge elettorale - il famigerato Porcellum, a parole ripudiato da tutti - , dentro e fuori il Parlamento, vengono misurate dai leader dei partiti di maggioranza e di opposizione con il solo metro della singola convenienza - ragione per cui ognuno ha il suo modello preferito, il suo mix di proporzionale e maggioritario, il suo cocktail di spagnolo e tedesco, di preferenza unica o multipla -, in Europa questa straordinaria incertezza, vissuta con un’ostentata incoscienza, si traduce in una semplice domanda di tutti gli osservatori qualificati: ma se non sanno neppure con che legge andranno a votare, questi italiani, come possono sperare di uscire dalle elezioni con un equilibrio stabile, che gli consenta di continuare ad affrontare seriamente il prosieguo della crisi?

Ed era proprio a quest’interrogativo - che dev’essere risuonato varie volte nelle sue orecchie durante gli incontri internazionali a cui sta partecipando con sempre maggiore frequenza nelle ultime settimane, man mano che la crisi, invece di allentare, si fa più pressante -, che Monti domenica voleva accennare, quando in risposta alle domande dei giornalisti, dopo aver stigmatizzato l’ennesima uscita superficiale del presidente dei Confindustria, ha spiegato che, tra gli altri problemi che deve affrontare, per riportare l’Italia a una soglia di credibilità sufficiente in Europa, c’è anche quello dell’incertezza sugli assetti che potrebbero uscire dalle urne e sull’effettiva volontà, dell’eventuale schieramento vincitore e del governo che ne seguirà, di insistere nella dura strategia di risanamento dei conti pubblici.

La mediocre interpretazione che ne è seguita (”Monti si prepara a succedere a se stesso”) dà purtroppo conto del livello a cui è giunto il confronto politico negli ultimi tempi. Anche perchè, stranamente, in un Paese che è ormai abituato a discutere di tutto superficialmente, l’idea che Monti si preparasse a scendere in campo - e poi come? a margine di un vertice dell’Eurogruppo? - è stata accompagnata da un pesante silenzio ufficiale e da un chiacchiericcio incessante nei corridoi. Come una specie di incubo destinato a guastare la vigilia della fine della stagione dei tecnici e del ritorno alla politica fatta dai politici.

Eppure le intenzioni dei due Presidenti sono chiare. Napolitano ha appena detto che intende concludere il suo mandato nella primavera del 2013, e che nessuna iniziativa eccezionale - compresa l’ipotesi di un’Assemblea Costituente, alla quale non è contrario - potrebbe convincerlo a fare diversamente. E lo stesso ha fatto Monti, in varie occasioni pubbliche e anche in Parlamento, consapevole che la fine della legislatura coinciderà con quella del suo governo.

La coincidenza di queste due scadenze dovrebbe preoccupare i leader dei partiti, spronandoli a uscire dalla loro inconcludenza. E risolvere onorevolmente la questione della legge elettorale darebbe indubbiamente un bel segnale in questo senso.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10315


Titolo: MARCELLO SORGI. Il futuro del premier rimane un'incognita
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2012, 11:20:24 pm
11/7/2012 - TACCUINO

Il futuro del premier rimane un'incognita

MARCELLO SORGI

In un inciso della conferenza stampa al termine dell’Ecofin che ha confermato la scelta del fondo salva-spread, Monti ha confermato che non intende candidarsi a succedere a se stesso in vista delle elezioni del 2013. Lo aveva già detto e ripetuto in varie occasioni, ma ha ritenuto di ribadirlo per fermare il chiacchiericcio nato a proposito delle sue precedenti dichiarazioni sulla nocività, per l’Italia, dello stato di incertezza in cui versano partiti e politica.

L’idea di una candidatura di Monti entrerebbe in collisione con il ruolo tecnico che il presidente del consiglio s’è dato, al momento in cui ha formato il suo “strano” governo. Monti s’è messo a disposizione di un largo cartello di partiti che volevano fosse esplicito il carattere di emergenza del loro accordo, ferma restando la certezza di ritrovarsi avversari nella successiva campagna elettorale.

Nello stesso tempo Monti è consapevole che molto difficilmente la crisi dell’area euro potrà essere risolta in meno di un anno, e che l’affidabilità di cui l’Italia ha goduto fin qui in Europa, malgrado le condizioni gravissime in cui versa e gli spread altissimi che non riesce a domare, è dovuta alla sua credibilità personale nell’Unione e alle misure drastiche che è riuscito ad imporre, malgrado forti resistenze interne.

Di qui la possibilità che, al di là delle sue intenzioni, Monti possa essere richiamato in servizio, o addirittura continuare a guidare il governo nel 2013 senza soluzione di continuità. Sono in molti a pensarlo o a temerlo, anche se non si pronunciano esplicitamente. Qualcuno, come il capogruppo del Pd Franceschini, ha evocato il precedente di Ciampi, che guidò un governo tecnico-politico alla fine della Prima Repubblica, poi fu ministro dell’Economia con Prodi e condusse il Paese all’ingresso nell’Eurozona. Difficilmente però Monti potrebbe seguire lo stesso percorso, entrando in un governo sostenuto da una coalizione politica di centrosinistra, e con il centrodestra all’opposizione, o viceversa.

Solo Berlusconi finora si è spinto a prefigurare una riproposizione del governo a larga maggioranza dopo il voto. Ma per arrivarci occorrerebbe, al minimo, una nuova legge elettorale proporzionale, che renda superflue le coalizioni, riproponga la competizione diretta tra partiti e non tra alleanze, e faccia sì che chi vince, alla fine, vinca solo un po’, ed abbia bisogno degli altri per governare. È esattamente il punto su cui i partiti si sono nuovamente bloccati. Anche per questo è assolutamente prematuro parlare oggi del futuro di Monti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10320


Titolo: MARCELLO SORGI. SuperMonti, c'è già chi parla di staffetta al Quirinale
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2012, 05:11:26 pm
12/7/2012 - TACCUINO

SuperMonti, c'è già chi parla di staffetta al Quirinale

MARCELLO SORGI

Per essere un premier che solo l’altro ieri aveva annunciato che si considera in scadenza nel 2013, Monti ha dato ieri un’accelerata che lascia intendere che i mesi che gli restano non saranno certo di ordinaria amministrazione. In un intervento all’assemblea dell’Assobancaria ha detto infatti che l’Italia ha davanti a sè «un percorso di guerra», che non può certo considerarsi compiuto, e che molti dei mali contro cui l’Italia sta combattendo sono legati a un uso sbagliato della concertazione, il metodo di confronto con le parti sociali inaugurato nell’era Ciampi, grazie al quale furono firmati gli accordi che portarono l’Italia nell’Eurozona. Durissima, quanto prevedibile, la reazione dei sindacati, in particolare della segretaria della Cgil Camusso, a questa seconda affermazione.

Inoltre, più o meno nelle stesse ore in cui il premier pronunciava il suo discorso, Vittorio Grilli si preparava a salire al Quirinale per giurare da ministro dell’Economia. La promozione del viceministro, che è stato al fianco di Monti in questi difficilissimi otto mesi e nell’opera di riaccreditamento dell’Italia agli occhi dell’Unione, conferma la piena fiducia che Grilli si è guadagnato sul campo e la maturazione che gli consentirà nel prossimo futuro di gestire anche in prima persona parte del confronto con le autorità di Bruxelles. E ancora introduce un elemento di riequilibrio all’interno del governo: nel senso che prima c’era un solo superministro, Corrado Passera, e adesso, con Grilli all’Economia, ce ne sono due. Forse è anche per questo che Monti - ad evitare tensioni interne alla compagine ministeriale, e a confermare che soprattutto su questa materia il coordinamento dei lavori tocca a lui - ha voluto annunciare contemporaneamente la nascita, all’interno dell’esecutivo, di un comitato per la politica economica, da lui presieduto, alle cui riunioni prenderanno parte tutti i ministri coinvolti nelle scelte rigorose a cui il governo è chiamato e qualche volta anche il Governatore della Banca d’Italia in qualità di invitato. Una mossa politica, di un presidente del consiglio che tiene a definirsi tecnico, di una saggezza vecchio stampo.

Sarà anche per ciò che, negli stessi corridoi parlamentari che avevano accolto freddamente la denuncia di Monti dei timori europei sull’Italia dopo le elezioni del 2013, dopo la giornata di ieri s’è fatta più forte la consapevolezza che sarà difficile fare a meno di “SuperMario” l’anno prossimo. In quale ruolo, è difficile dire: ma già c’è chi non esclude la staffetta con Napolitano al Quirinale.


da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10324


Titolo: MARCELLO SORGI. L'ex premier scommette sul disastro e punta al dopo-euro
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2012, 10:23:32 am
13/7/2012 - TACCUINO

L'ex premier scommette sul disastro e punta al dopo-euro

MARCELLO SORGI

L’ ipotesi di un ritorno in campo di Berlusconi ha prodotto scarse reazioni ufficiali e molto movimento interno, sia nel partito che fuori. Non c’è sorpresa perché nessuno aveva creduto fino in fondo alle varie versioni (l’allenatore, il padre nobile, il fondatore) con cui il Cavaliere aveva cercato di far credere che si sarebbe fatto da parte. Ma c’è, soprattutto all’interno della generazione dei quarantenni vicini ad Alfano e degli ex ministri, la sensazione di una scelta precipitosa, tutta basata sull’istinto, in un momento in cui lo stato in cui versa il Paese avrebbe richiesto decisioni più meditate. Inoltre, non è un mistero, il ritorno di Silvio deciso alla sua maniera spazza via un anno di lavoro, di Alfano e del nuovo gruppo dirigente che il segretario aveva costruito, per trasformare il Pdl in un partito «normale» e credibile anche per gli elettori moderati stanchi della vecchia satrapia di Palazzo Grazioli.

Vi è poi un altro livello di analisi sulle conseguenze della scelta del Cavaliere. È il punto di vista di tutti gli osservatori qualificati, da Palazzo Chigi al Tesoro a Bankitalia e alle parti sociali, alle prese con la dura politica di rigore che la difesa dell’Eurozona comporta. In quegli ambienti si sta facendo strada un timore che, se fosse confermato, e se si diffondesse tra i partners dell’Unione, sarebbe destinato a provocare effetti imprevedibili. Si tratta della convinzione che Berlusconi si sarebbe risolto a tornare in campo, non per contestare le strategie anticrisi e la linea del rigore imposte dal suo successore, atteggiamento che di per sé risulterebbe devastante per la credibilità di un’Italia in bilico, com’è attualmente considerata in Europa. Ma, diversamente, perché convinto che gli sforzi a questo punto sarebbero inutili e che il crollo dell’euro sia ormai alle porte, dopo un agosto in cui si teme che l’assalto della speculazione supererà ogni limite. Un Berlusconi che, ragionando da imprenditore, valuta i numeri, legge le tabelle, constata che anche i Paesi come il Portogallo, che hanno fatto ricorso agli aiuti e si sono sottoposti alla severa disciplina della troika europea, non rivedono la luce, e decide di puntare tutto sul dopo, su «l’avevo detto io», e su un disastro di cui per una volta la responsabilità non potrebbe essergli attribuita.

A sostenere questa ipotesi sarebbero i dati di cui dispongono i suddetti osservatori e che probabilmente lo stesso Berlusconi non ha avuto difficoltà a procurarsi. Un quadro che non promette niente di buono per l’estate 2012. Ma che non autorizza a scommettere sul peggio.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10328


Titolo: MARCELLO SORGI. Lo statuto speciale e il piano del governo
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2012, 11:15:12 pm
18/7/2012 - TACCUINO

Lo statuto speciale e il piano del governo

MARCELLO SORGI

Ha già sollevato molte reazioni, non solo locali, in nome della speciale autonomia di cui gode la Regione, la lettera con cui Monti ha chiesto al governatore siciliano Lombardo di confermare le dimissioni annunciate mesi fa per il 28 luglio. La sollecitazione del presidente del Consiglio è legata al rischio di default del bilancio regionale denunciato dal vicepresidente siciliano di Confindustria Ivan Lo Bello e al comportamento dello stesso governatore, che dal momento in cui ha anticipato la sua uscita di scena, ha continuato a comportarsi come se niente fosse, nominando tre nuovi assessori, un vicepresidente e perfino un dirigente di una società pubblica poi risultato in carcere per stalking.

Al di là dell’autonomia, chiamata in causa anche a sproposito, Monti vorrebbe predisporre un piano di salvataggio. Preceduto, ovviamente, da una definitiva uscita di scena di Lombardo, che anche se non ha l’intera responsabilità del dissesto, certo non ha fatto nulla di importante per arginarlo. L’idea che la Sicilia, grazie al suo statuto speciale, possa essere considerata una specie di porto franco, è inaccettabile per Monti. Che teme che il dissesto amministrativo dell’isola possa ripercuotersi sull’immagine dell’Italia, sotto osservazione a Bruxelles.

Pochi mesi fa l’allarme per i dati siciliani era stato lanciato dalla Corte dei Conti. La sola presidenza della Regione Siciliana ha un numero di dipendenti, 1385, superiore a quelli a disposizione del primo ministro inglese Cameron a Downing Street, con un dirigente per ogni sei impiegati e funzionari. I dipendenti regionali, in totale, sono 17.995, 4857 dei quali avevano il contratto a termine fino all’anno scorso, ma sono stati stabilizzati dalla giunta Lombardo. Altri 2293 sono a tempo determinato e ben 7291 lavorano nelle 34 società a partecipazione regionale. Inoltre 24.880 sono i forestali e gli lsu (lavoratori socialmente utili) impegnati nei comuni ma di cui la regione paga in parte lo stipendio. Fatte tutte le somme, il costo di questa elefantiaca amministrazione tocca i 5,3 miliardi di euro e nel solo 2011 è cresciuto di 818 milioni, raddoppiandosi negli ultimi dieci. E fino all’anno scorso i dipendenti della Regione potevano andare in pensione con soli 25 anni di servizio, per assistere un genitore anziano o invalido. Sono dati come questi che hanno spinto Monti a intervenire e i politici siciliani a reagire, nel timore di un commissariamento. Ma cosa possano e vogliano fare, per evitare il fallimento della Regione a statuto speciale, nessuno ancora è in grado di dirlo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10345


Titolo: MARCELLO SORGI. Il faccia a faccia e i rischi di una tragica corsa elettorale
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2012, 10:05:37 pm
19/7/2012 - TACCUINO

Il faccia a faccia e i rischi di una tragica corsa elettorale

MARCELLO SORGI

Un incontro «urgente e imprevisto». Con queste parole, che dette davanti alle telecamere hanno subito acceso grande curiosità, il presidente Napolitano si è congedato in tutta fretta ieri mattina da un convegno in corso al Quirinale, per andare a incontrarsi con Monti. Avevano parecchie cose da dirsi, a cominciare dal crescente allarme generale per il deterioramento della situazione nell’Eurozona. Si vede benissimo dal mutato atteggiamento della Merkel, che giorno dopo giorno appare in difficoltà a gestire nel suo paese le conseguenze dell’accordo sul fondo antispread deciso nell’ultimo vertice di Bruxelles. E si è capito anche dalla cautela con cui il ministro dell’Economia Grilli ha confermato che la febbre del differenziale tra i titoli di Stato italiani e tedeschi, salita da giorni oltre i limite di guardia, stavolta non ha solo cause interne. Domani i leader europei tornano ad incontrarsi, in un clima - nessuno prova a nasconderlo reso più pesante dai timori per l’agosto della speculazione sui mercati.

Monti e Napolitano hanno parlato pure del caso Sicilia, alla luce della conferenza stampa tenuta dal governatore Lombardo dopo la lettera in cui il Presidente del consiglio gli aveva sollecitato una conferma delle dimissioni. Conferma che è arrivata, accompagnata però da reazioni molto dure del governatore sia contro Monti e il governo, al quale l’amministrazione siciliana chiede di pagare arretrati per un miliardo di euro (400 milioni sono stati versati ieri sera), sia contro Formigoni, che lo aveva preso in giro su Twitter. Chiaro poi il proposito di arrivare comunque allo scioglimento dell’Assemblea regionale e alle elezioni anticipate per rinnovarla a ottobre. Lombardo, in altre parole, punta ad evitare il commissariamento adombrato nella lettera di Monti e a lasciare in piedi per l’ordinaria amministrazione una sorta di governo elettorale guidato dal suo vicepresidente Russo.

L’idea di un assaggio, che sarebbe molto più di un assaggio, di campagna elettorale in autunno, preoccupa molto sia Napolitano che Monti, per le conseguenze destabilizzanti che potrebbe avere sull’Italia. Si tratterebbe in realtà di una corsa alle urne che, partendo dall’isola, proseguirebbe ininterrottamente fino alle elezioni politiche nazionali di primavera, con la conseguente paralisi del Parlamento, già oberato di una dozzina di decreti da approvare, del trattato fiscale europeo da ratificare e della legge elettorale da rifare. Così, nell’agenda complicata dei due Presidenti, adesso c’è anche l’incognita della sfida solitaria di Lombardo e dell’anomalo voto siciliano.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10348


Titolo: MARCELLO SORGI. Lo spettro di Madrid e l'urgenza di Monti
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2012, 10:22:06 am
20/7/2012 - TACCUINO

Lo spettro di Madrid e l'urgenza di Monti

MARCELLO SORGI

Lo spettro del default della Spagna - dove il governo ha ammesso in Parlamento di non essere più in grado di pagare i servizi e i dipendenti pubblici, e subito nelle strade è esplosa la protesta - s’è allungato ieri su tutti i paesi in bilico dell’Eurozona, compresa ovviamente l’Italia. S’è così capito meglio quale fosse la ragione urgente che aveva spinto mercoledì Monti a chiedere udienza, quasi senza preavviso a Napolitano, e quali siano i timori per i prossimi giorni dei due Presidenti, mentre l’agosto più temuto degli ultimi anni si avvicina pericolosamente.

Ieri il ministro Grilli ha detto di non aver nulla da aggiungere a quanto aveva spiegato già in Parlamento. E in effetti, proprio come aveva spiegato il responsabile dell’Economia, e come il suo collega Passera ha ribadito, ci sono molte differenze tra Spagna e Italia. A cominciare da quei cento punti di spread che tengono da mesi il paese iberico stabilmente sopra quota 500, e drammaticamente vicino a quota 600, come se appunto la malattia che Madrid non riesce a fronteggiare fosse diventata simile a quella della Grecia. L’Italia con le sue oscillazioni degli ultimi giorni tra 470 e 490, non ha certo da brindare. E proprio per questo è interesse di tutti i governi europei in difficoltà ottenere che lo scudo antispread, definito per grandi linee all’ultimo vertice di Bruxelles, sia messo in condizione di funzionare al più presto.

Non è un mistero però che, dopo aver sottoscritto l’impegno su pressione soprattutto di Monti, che aveva minacciato di far valere la riserva italiana in sede Ue, la Merkel in queste settimane ha cominciato una marcia indietro lenta ma inarrestabile. Non tanto sulla necessità degli aiuti per i partners in difficoltà e in grado di mettere a repentaglio la tenuta della moneta unica, ma sull’obbligo, per questi, di sottoporsi a un regime di controlli che si risolverebbe in una sostanziale desovranizzazione. Al momento il fondo salva spread, almeno nei termini in cui è stato concordato a Bruxelles, non prevede oneri di questo tipo. Ma la sensazione di tutti è che proprio su questo punto la Germania voglia riaprire la trattativa.

La Camera ha approvato ieri la ratifica del trattato fiscale, in quale clima è facile immaginare. Basti pensare che al Senato, dove la discussione sulla spending review è solo all’inizio, sono già stati presentati oltre mille e ottocento emendamenti. Il decreto dev’essere trasformato in legge entro settembre: mese per il quale la Cgil ha annunciato lo sciopero generale.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10352


Titolo: MARCELLO SORGI. La crisi pilotata sogno impossibile della politica italiana
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2012, 05:02:52 pm
24/7/2012 - TACCUINO

La crisi pilotata sogno impossibile della politica italiana

MARCELLO SORGI

In Italia non c’è mai stata una regola chiara per le elezioni anticipate, argomento di cui s’è ripreso fortemente a parlare in questi giorni.
La Costituzione laconicamente si limita a dire che la decisione spetta al Capo dello Stato, sentiti i Presidenti delle Camere.
Nella Prima Repubblica in realtà a decidere erano i due partiti maggiori, Dc e Pci, era una delle tante applicazioni di un potere consociativo per cui ai democristiani toccava governare, e ai comunisti porre (o no) il veto a qualsiasi decisione. Andò così nel 1972, nel ’76, nell’83 e nell’87, quando Craxi provò a opporsi e De Mita, pur di andare al voto, fece votare in Parlamento i suoi contro il governo guidato da Fanfani. Altri tempi. E, soprattutto alla fine, tempi di crisi generale del sistema, diversi, ma poi non tanto, da quelli attuali.

Poi arrivò la Seconda Repubblica e l’epoca infinita della transizione. L’indebolimento della politica era tale che un solo leader era in grado di imporre a tutti gli altri lo scioglimento anticipato delle Camere. Fu così nel ’94, quando Occhetto riuscì a ottenere da Scalfaro il voto anticipato in presenza di un governo, come quello di Ciampi, che stava lavorando bene, otteneva risultati (grazie anche alla concertazione, oggi vilipesa, con i sindacati) nell’azione di risanamento economico, ed era riuscito tra l’altro a far approvare una nuova legge elettorale.

Un governo in cui l’ex Pci-Pds era entrato per poi uscirne in sole ventiquattr’ore. E una tornata elettorale in cui Occhetto si aspettava di essere incoronato trionfatore, e che invece si concluse con l’inattesa vittoria di Berlusconi. Alle insistenze del quale si dovettero le successive elezioni anticipate del ’96, che il Cavaliere considerava l’occasione per tornare al governo dopo il brusco disarcionamento del «ribaltone», e che invece sancirono la nascita del primo governo Prodi e dell’Ulivo.

Sull’ultimo scioglimento, nel 2008, la dottrina è incerta. C’è chi ricorda che Berlusconi arrivò a comperare pagandoli in contanti i voti di alcuni senatori, chi dice che la colpa fu di Mastella, che provocò la caduta del secondo governo Prodi, e chi sostiene che alla fine lo stesso Prodi ci mise del suo. Come andò a finire si sa: vinse Berlusconi con una maggioranza mai vista e nel giro di un paio d’anni finì a gambe per aria.

Questo breve excursus, sommario quanto si vuole (la materia dello scioglimento delle Camere, come quella dei poteri del Presidente della Repubblica, è oggetto da decenni di un più approfondito dibattito costituzionale), dimostra una cosa: che una crisi concordata, pilotata, condivisa, per aprire le urne in anticipo, evitando risultati a sorpresa o rischiose conseguenze internazionali, in Italia non c’è mai stata.
E s’è rivelata impossibile anche quando è stata progettata con le migliori intenzioni.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10367


Titolo: MARCELLO SORGI La mossa al Senato è il primo segnale del ritrovato asse del Nord
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2012, 05:16:59 pm
25/7/2012 - TACCUINO

La mossa al Senato è il primo segnale del ritrovato asse del Nord

MARCELLO SORGI

Anche se il Pd lo considera un mero espediente elettorale, il voto con cui Pdl e Lega ieri al Senato, approfittando dei numeri che ancora gli assegnano la maggioranza a Palazzo Madama, hanno approvato il testo del semipresidenzialismo e della differenziazione dei compiti tra le due Camere, non è affatto un episodio trascurabile. E non perchè l’elezione diretta del Capo dello Stato abbia qualche probabilità di diventare legge costituzionale (manca il tempo, e alla Camera anche i voti), ma proprio perchè ha segnato il ritorno dell’asse del Nord che, seppure con difficoltà, aveva consentito a Berlusconi di resistere fino all’ultimo, dopo la disastrosa rottura con Fini.

Caduto Bossi, subentrato Maroni, nessuno avrebbe scommesso su una ripresa della collaborazione del Carroccio con il Cavaliere.
Invece l’ex-ministro dell’Interno, una volta salito alla guida del partito, si sta rivelando molto più prudente di quanto non voglia far credere. Non ha insistito per le dimissioni di Formigoni, malgrado lo scandalo montante alla Regione Lombardia e l’umor nero dell’elettorato leghista per la macchina della corruzione costruita attorno al Fondatore e ai suoi collaboratori. E neppure di fronte a questa abborracciata vicenda del semipresidenzialismo, recuperato in extremis da Berlusconi e Alfano a dispetto di qualsiasi possibilità di realizzarlo, Maroni ha alzato il prezzo. Di qui a trovare il modo, un qualche modo, per ricostruire l’alleanza nelle prossime elezioni, poco ci manca. E le conseguenze più immediate di questa ritrovata unità potrebbero arrivare anche prima nella trattativa sulla legge elettorale. Non è un mistero infatti che Berlusconi sia pronto a concedere qualsiasi cosa a Maroni e Casini, che spingono per una riforma il più possibile proporzionale, grazie alla quale sia possibile scegliere candidato premier e alleanze dopo, e non prima, del voto. Una tendenza che darebbe anche al Pdl la possibilità di far valere i propri voti in Parlamento anche in caso di sconfitta. E che potrebbe spingere il Pd, che insiste per salvare almeno un barlume di maggioritario e ha tentato fin qui di tenere agganciata l’Udc, in una posizione di isolamento. Casini non pensa affatto di riavvicinarsi al Cavaliere. Ma nulla esclude una convergenza occasionale, proprio sulla legge elettorale.

Di qui l’allarme che ieri, da Bersani a Finocchiaro, s’è levato dal centrosinistra. D’Alema come sempre lo aveva anticipato di un giorno, con un’intervista all’Unità in cui avvertiva che il gioco delle due maggioranze, dentro e fuori il governo, visto in questi giorni al Senato, e non solo, rischia di aumentare le difficoltà per Monti, in un momento in cui proprio non può consentirselo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10372


Titolo: MARCELLO SORGI. Quelle ombre ingiustificate allungate sulle istituzioni
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2012, 04:23:10 pm
27/7/2012 - TACCUINO

Quelle ombre ingiustificate allungate sulle istituzioni

MARCELLO SORGI

Comunicata in diretta da un Napolitano evidentemente provato, la morte di Loris D’Ambrosio, il consigliere giuridico degli ultimi due presidenti, sopraffatto dalle polemiche sui suoi colloqui con l’ex ministro Mancino, in relazione all’inchiesta della Procura di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia, è destinata a riaprire il caso nato dall’iniziativa dei magistrati siciliani e dallo scontro che ne è seguito con il Quirinale, approdato alla Corte Costituzionale perché anche il Capo dello Stato s’è trovato, seppure incidentalmente, intercettato.

A riaprirlo, s’intende, politicamente, dato che il giudizio della Consulta è di là da venire, e arriverà probabilmente solo quando le acque si saranno calmate. Sollecitato da Mancino e con il consenso di Napolitano, D’Ambrosio era infatti intervenuto con un tentativo di “moral suasion” presso i vertici della magistratura, prima che partisse la richiesta di rinvio a giudizio per l’ex ministro dell’Interno con l’accusa di falsa testimonianza. Mancino obiettava che mentre la procura di Palermo lo accusava di aver taciuto della trattativa tra Stato e mafia, volta ad ottenere un allentamento della strategia sanguinaria di Cosa nostra in cambio di un ammorbidimento (che in effetti avvenne) del carcere duro per i mafiosi detenuti, altre procure che indagavano sugli stessi fatti non erano giunte alla stessa conclusione. Di qui le pressioni di D’Ambrosio sui vertici della magistratura su insistenza di Mancino (come rivelavano le intercettazioni finite sui giornali), che per stessa ammissione del procuratore capo di Palermo non sortirono effetti, tanto che Mancino è stato formalmente accusato ed è in attesa con gli altri imputati, mafiosi e non, che il Gip si pronunci sulle richieste della procura.

Ma al di là del conflitto istituzionale, il problema posto dal Colle - prima da D’Ambrosio, poi dal segretario generale del Quirinale e ancora dallo stesso Napolitano - riguarda le conseguenze delle intercettazioni. Dopo la pubblicazione dei verbali e in coincidenza delle celebrazioni per il ventennale delle stragi del ’92 è passato il concetto che lo Stato trattò con la mafia e che fu questo a provocare l’agguato a Borsellino, invano oppostosi alla trattativa. Una trattativa che però resta ancora tutta da dimostrare e che il processo, se e quando si farà, potrebbe anche ridimensionare, o addirittura cancellare, lasciando ingiustificate le ombre allungate in questi ultimi tempi sulle istituzioni. Alle quali invano, tra gli altri, s’era opposto il povero dottor D’Ambrosio.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10380


Titolo: MARCELLO SORGI. In silenzio, il leader Pd ha lanciato la sua corsa
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2012, 04:29:22 pm
26/7/2012 - TACCUINO

In silenzio, il leader Pd ha lanciato la sua corsa

MARCELLO SORGI

Sulla nuova legge elettorale lo stallo è completo. La forte pressione venuta dal Colle in questi giorni e i due incontri avuti ieri da Monti con Bersani e Alfano non hanno purtroppo sortito alcun esito. Se ne ricava che anche l’ipotesi di una conclusione anticipata della legislatura, legata all’approvazione della riforma, si allontana. Con tutti quelli con cui ha parlato ieri (in serata ha avuto anche un lungo incontro con Casini e Fini), Bersani ha preso tempo, spiegando che non si fida del Pdl e che un accordo all’indomani dello sgambetto subito al Senato sul semipresidenzialismo è inaccettabile per il Pd. Siamo insomma nuovamente tornati alla fase delle pregiudiziali. Ed è evidente che il segretario del Pd, sulla carta favorito alle prossime elezioni, pur sapendo che alla fine la riforma andrà fatta, teme che l’obiettivo degli altri due partiti della maggioranza sia di fare una legge il più proporzionale possibile, per far sì che chi vince non sia automaticamente in grado di formare un governo subito dopo il voto, e debba necessariamente riaprire le trattative con gli altri per formare una maggioranza in Parlamento.

Sta tutta qui la differenza tra il premio al partito, chiesto da Alfano e gradito a Casini, e il premio alla coalizione, che, pur con tutti i se e i ma legati alle ultime esperienze delle variegate alleanze di centrosinistra, trasformerebbe Bersani quasi automaticamente nel candidato alla guida del governo di una coalizione che potrebbe puntare alla vittoria, soprattutto con Casini alleato.

Il leader dell’Udc, al suo solito, media. Sul ripristino delle preferenze (a cui il Pd contrappone i collegi, un po’ come accadeva col Mattarellum), potrebbe anche trovare l’intesa. Ma il problema, non sfugge a nessuno di quelli che stanno trattando, non è questo o quel tecnicismo, che può influire fino a un certo punto su un risultato elettorale che nessuno è in grado di prevedere. Il punto è un altro: mentre infatti Casini è convinto che dopo il voto, quale che sia il risultato, non c’è altro da fare che rinnovare il mandato a Monti, magari per un governo tecnico-politico sostenuto sempre dalla stessa maggioranza, e mentre Alfano e Berlusconi vedono in questa prospettiva la possibilità di mantenere una quota di potere, senza andare all’opposizione, anche in previsione di un risultato che s’annuncia problematico, Bersani la pensa in un altro modo. In silenzio, e mantenendo un atteggiamento responsabile in Parlamento sui provvedimenti del governo, il segretario Pd ha cominciato un’operazione di sganciamento da Monti e dall’idea di proseguire con la grande coalizione anche dopo il 2013. Non si nasconde le incognite: ma stavolta Bersani ha deciso di giocare fino in fondo la sua partita.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10375


Titolo: MARCELLO SORGI. L'ultimo appello a rimuovere le maschere
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2012, 04:37:06 pm
31/7/2012

MARCELLO SORGI

Togliere di mezzo l’ultima scusa accampata dai partiti per rinviare la nuova legge elettorale: era chiaramente questo l’obiettivo di Napolitano, quando per la seconda volta inunmese(laprecedenteerastata il 9 luglio) ieri è intervenuto sull’argomento. La scusa che ha bloccato la trattativa sulla riforma sono le elezioni anticipate: se la legge si fa adesso, dicono tutti, è sicuro che si andrà a votare a novembre. Per questoilCapodelloStatohavoluto ricordare che non è affatto ovvio. E spetta a lui, e a lui solo, la decisione sullo scioglimento delle Camere.

La dichiarazione del Presidente è stata diffusa non a caso prima dell’appuntamento di ieri pomeriggio con Monti, in partenza per un’altra delicata missione europea.Levocisulleelezioni,esull’improbabile crisi pilotata che avrebbe dovuto precederle, erano cominciate a girare la settimana scorsa, dopo il precedente incontro al Quirinale. La sensazione era che, piuttosto di continuare a stentare in un Parlamento proiettato su una campagna elettorale permanente, il premier avrebbe accettato un accorciamento del suo mandato, specie se nato da un impegno dei partiti della sua maggioranza, in vista delle urne, a non discostarsi dagli impegni di risanamento economico presi con l’Europa, e a impegnarsi all’indomani del voto a riprendere con maggior lena il lavoro condotto fin qui.

In quest’ambito, anche se Monti, come ha fatto varie volte negli ultimi tempi, si fosse detto disponibile a farsi da parte, era sottinteso che i partiti che lo hanno sostenuto in questi nove mesi avrebbero potuto, per non dire dovuto, invitarlo a continuare.

Ma è esattamente questa prospettiva che ha creato il subbuglio a cui stiamo assistendo. Il primo ad aver fatto capire di non condividerla è stato Bersani, il quale, non è un mistero, forte del consenso che i sondaggi gli assegnano, punta a costruire un’alleanza di centrosinistra in grado di vincere le elezioni, e ad allearsi con Casini se la vittoria non dovesse essere sufficiente a governare, per avere una solida maggioranza in Parlamento. Coerentemente con questa impostazione, il leader del Pd punta a una legge che assegni un premio elettorale alla coalizione vincente, favorendo così l’avvicinamento dei partiti che puntano a governare insieme, e vedrebbe bene un anticipo delle elezioni che gli consentisse di chiudere rapidamente la partita.

E a sorpresa, disposto ad accelerare, adesso è anche il Cavaliere, che fino a poco fa pensava di aver bisogno di tempo per recuperare. L’ex premier non si nasconde le difficoltà del suo ritorno in campo. Ma si sa: Berlusconi è Berlusconi, e non dispera affatto di poter rimontare. Soprattutto, ora si è convinto che il suo partito, popolato di transfughi pronti ad andarsene con chi gli promette la rielezione, non sopravviverebbe a un altro inverno. Di conseguenza, il primo passo è stato rimettere in piedi l’asse del Nord con la Lega, che ha votato la riforma semipresidenzialista, e sarebbe pronta a rivotare al Senato, dove ancora, seppure sulla carta, ha la maggioranza, il testo di una legge elettorale concordata all’interno del vecchio centrodestra. Un gesto di rottura che ha spinto il Pd a minacciare la crisi di governo. Ma se invece della crisi, in realtà improbabile, la forzatura annunciata dal Pdl bastasse a spostare la trattativa che il Colle è tornato a sollecitare, orientandola verso un’intesa con il Pd e verso una legge che consenta al centrodestra di vincere o di pareggiare senza andare all’opposizione, Berlusconi sarebbe contento.

Chi invece non vede di buon occhio le elezioni è Casini, infaticabile mediatore tra i due maggiori alleati-avversari della maggioranza. E non perché accrescerebbero le possibilità di un ritorno di Monti, stavolta per un governo di legislatura, al quale l’Udc ridarebbe volentieri il suo appoggio. Ma per una ragione più delicata di cui il leader centrista non vuol sentire parlare. Casini è infatti al momento un candidato accreditato alla successione al Quirinale, che si aprirà la prossima primavera. Se Monti si reinsedia a Palazzo Chigi, volenti o nolenti Pd e Pdl, i margini di Pierferdi per negoziare con Bersani e Berlusconi l’ascesa al Colle si riducono di molto. L’ideale, per l’ex presidente della Camera, che è giovane ma ha tutte le carte in regola per proporsi di sostituire Napolitano, sarebbe appunto che si votasse nel 2013, con una legge elettorale che non lo obblighi a dichiarare con chi si allea prima del voto, e trattare successivamente, con chi vince o si piazza meglio, l’appoggio al governo in cambio di quello per la Presidenza della Repubblica.

Legittimi fin che si vuole, ancorché astratti, tutti questi piani non tengono conto di quel che Napolitano ha ribadito ieri nella sua dichiarazione: la rissosità, l’inconcludenza dei partiti, in una fase come questa, in cui l’Italia si gioca ogni giorno il suo destino sui mercati, rischiano di apparire irresponsabili. Anzi, già lo sono. Il Capo dello Stato non può dirlo in questi termini: ma alla vigilia di un agosto come quello che ci aspetta, continuare con l’andazzo politico degli ultimi tempi rasenterebbe la follia. Non resta che augurarsi un precipitoso rinsavimento.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10391


Titolo: MARCELLO SORGI. Sicilia, via al gioco degli specchi.
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2012, 07:17:18 am
2/8/2012 - TACCUINO

Sicilia, via al gioco degli specchi

E il peggio deve ancora venire

MARCELLO SORGI

Anche se si ostina a ripeterlo con chiunque glielo chieda, sembra davvero difficile che il governatore dimissionario della Sicilia Raffaele Lombardo si ritiri a fare il Cincinnato. Lo farà, inevitabilmente, se le accuse sui suoi rapporti con la mafia dovessero essere confermate nel processo che lo attende di qui all’autunno. Ma nel caso, non impossibile, di un proscioglimento, sarà di nuovo in campo.

Le elezioni regionali anticipate ad ottobre rafforzano il ruolo, che la Sicilia ha avuto altre volte nella politica italiana, di laboratorio anticipatore, nel bene e nel male, di quel che sta per accadere a livello nazionale. Sono lontani i tempi in cui si sperimentavano a Palermo il primo centrosinistra o i governi di unità nazionale Dc-Pci. Più di recente, e assai più mediocremente, l’Assemblea Siciliana s’è trasformata in un’enorme provetta di ogni tipo di trasformismo e di frammentazione, con ben cinque maggioranze diverse che si sono trovate a sostenere Lombardo nelle sue giravolte, e un’infinità di scissioni e micro-fratture dei partiti, refrattari ormai a qualsiasi indicazione stabilita a livello nazionale. Al punto che, se i suoi guai giudiziari e il dissesto del bilancio siciliano non lo avessero travolto, il governatore avrebbe potuto continuare all’infinito il suo gioco, che prevedeva di mettersi in mezzo alla girandola impazzita dei novanta membri dell’Ars, per combinare ogni mese un nuovo governo appoggiato da una nuova maggioranza.

Eppure, malgrado la sua immagine arcilogorata, e i risultati catastrofici della sua gestione, politicamente Lombardo resta la prima, forse la principale incognita delle elezioni siciliane, ai cui nastri di partenza già s’affollano una decina di candidati alla successione. Il governatore può tentare di accordarsi con il centrodestra o con il centrosinistra, entrambi usciti scottati dalle precedenti alleanze con lui, ma interessati alla rete di clientele costruita ininterrottamente in questi anni e in grado mobilitare ancora un gran numero di voti. Oppure Lombardo potrebbe decidere di ricollocarsi al centro, per impedire a ciascuna delle due (o più) coalizioni di raggiungere la maggioranza. La legge elettorale siciliana agevola allo stesso modo l’aggregazione e la distinzione tra un partito e l’altro. E come s’è visto, il potere assoluto di sciogliere l’Assemblea e mandare a casa i deputati, fa del governatore (quello che c’è ancora per poco, e quello che verrà) l’unico vero dominus dei giochi politici nella regione. Alla luce di questo, il gioco degli specchi siciliano è appena cominciato. E purtroppo, c’è da temere, il peggio deve ancora venire.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10399


Titolo: MARCELLO SORGI. Il professore parla ai mercati non ai politici
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2012, 05:56:59 pm
8/8/2012

Il professore parla ai mercati non ai politici

MARCELLO SORGI

All’inizio dell’agosto più temuto degli ultimi anni, per i frequenti rovesci dell’Italia sui mercati, un caso politico come quello che s’è aperto ieri tra Monti e il centrodestra non era proprio da augurarsi. L’intervista in cui il premier ha detto tra l’altro che, senza il passaggio di discontinuità tra il suo governo e quello precedente, lo spread sarebbe arrivato a quota 1200, ha provocato reazioni di protesta del Pdl, che al Senato ha fatto mancare il suo appoggio. E ha reso necessaria una telefonata di chiarimento tra lo stesso premier e Berlusconi, preceduta da una nota in cui Palazzo Chigi spiegava che non c’era alcuna intenzione di attaccare il Cavaliere.

Ma al di là del nervosismo, sempre presente, nella base parlamentare e in parte del gruppo dirigente del Pdl nei confronti del Professore, un interrogativo ieri è rimasto a lungo sospeso.

Nel clima rarefatto della conclusione dei lavori parlamentari e nell’attesa di una pausa feriale che praticamente non ci sarà, la domanda è cosa ha spinto Monti, nel giro di pochi giorni, a rendere più accidentato del solito il cammino del suo governo con due interviste consecutive come quelle a «Der Spiegel» e al «Wall Street Journal». Interviste importanti e piene di cose, perché Monti ha un suo personale codice di comunicazione, e se sceglie di parlare raramente si occupa di questioni contingenti. Ma che tuttavia, seppure in parte contro la sua volontà, hanno determinato reazioni pesanti, costringendo il presidente del Consiglio a correre ai ripari.

Ieri appunto nei corridoi parlamentari, dove fioriscono spesso fantasiosi retroscena, c’era chi attribuiva quelli che a molti occhi politici consumati sono apparsi come infortuni alla stanchezza del premier e alle fatiche che ha dovuto affrontare negli ultimi tempi, tra inevitabili scadenze parlamentari indispensabili per tradurre in realtà la strategia anti-crisi del governo, road-show europei e internazionali per spiegare ad osservatori qualificati il senso del suo lavoro e delusioni per i risultati avari ottenuti finora sul fronte dei mercati, su cui l’Italia da quasi un anno sta combattendo la sua battaglia. È una spiegazione diffusa ma poco convincente, che tende ad assimilare Monti a tutti i governi che lo hanno preceduto e dei quali, con lo stesso cinismo, con la stessa approssimazione, a un certo punto s’è cominciato a dire che erano «cotti».

La verità è che il premier ha detto quel che ha detto nelle sue interviste per ragioni esattamente opposte. Per capirlo bisogna considerare che Monti, sia quando parla alla Camera e al Senato, sia quando si trova all’estero, ha davanti a sé lo stesso orizzonte. Un orizzonte non solo nazionale, ma europeo e in qualche modo globale, dato che non gli sfuggono, ed anzi gli sono costantemente presenti, le dimensioni e i risvolti della crisi economica mondiale. E all’interno del quale, a dispetto di quel che appare, l’Italia da qualche mese grazie ai suoi sforzi è guardata con rispetto e considerazione che non si vedevano da tempo. È a questo nuovo atteggiamento - meno esplicito, meno emergente spesso dell’immagine negativa che il Paese si porta dietro che Monti guarda, cercando di corrispondervi. È questo il motivo per cui insiste sul necessario «cambio di mentalità» degli italiani.

Se ne ricava che quando parla a un giornale o a una tv, stranieri o italiani, Monti segue un suo filo di ragionamento e non si preoccupa delle conseguenze che le sue affermazioni possono provocare ai margini del sistema politico. Vale per la Germania, nel senso che non lo hanno preoccupato i toni elettorali anti-italiani di alcuni politici tedeschi, mentre ha accolto con soddisfazione il gradimento della Merkel alle sue parole su «Der Spiegel». E vale anche per l’Italia. Non solo perché era evidente che i destinatari dell’intervista al «WSJ» non erano i senatori del centrodestra, ma i lettori più attenti dell’autorevole giornale finanziario americano (che non a caso ha presentato l’articolo con l’aggiunta di una serie di analisi e di pareri sul nuovo corso italiano). Piuttosto perché nessuno, a cominciare dagli esponenti del Pdl che lo hanno attaccato, può seriamente dubitare che Monti, per risultare più credibile, debba ricorrere all’antiberlusconismo. Argomenti del genere, semplicemente, non gli appartengono e neppure lo interessano. Li lascia volentieri ai politici che li usano tutti i giorni nella loro campagna elettorale. Ma se ritiene di dover dire che senza il cambio di governo lo spread sarebbe peggiorato, lo dice e basta. Perché pensa, e vuol far capire in tutte le occasioni possibili, che accanto all’Italia che non vuol fare il proprio dovere e ha nostalgia di un passato irripetibile, ce n’è un’altra che a furia di sacrifici sta venendo fuori. La sua Italia, l’Italia di Monti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10413


Titolo: MARCELLO SORGI. Tutti a consulto da Monti l'Italia ha di nuovo la febbre alta
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2012, 07:09:17 pm
13/6/2012 - TACCUINO

Tutti a consulto da Monti l'Italia ha di nuovo la febbre alta

MARCELLO SORGI

L’Italia ha di nuovo la febbre alta. E Mario Monti ha sentito il bisogno di richiamare ancora una volta i partiti a un maggior senso di responsabilità, senza il quale il governo dei tecnici non potrebbe proseguire. La convocazione a Palazzo Chigi dei tre segretari della maggioranza è arrivata in serata, dopo una giornata in cui alla forte tensione sui mercati, con spread altissimo e banche in grave sofferenza, si sommavano le solite contese interne, con il governo di nuovo bloccato alla Camera sulla legge anticorruzione e uno scontro aperto tra Fornero e Inps sulla valutazione ufficiale dell’istituto - contestata dal ministro - del numero degli esodati determinati dalla riforma delle pensioni, che avrebbe toccato quota 390 mila. Ad appesantire il clima, fin dal mattino, erano state le parole “inappropriate”, come le ha gelidamente definite Monti, del ministro delle finanze austriaco Maria Fekter, secondo la quale, dopo la Spagna, anche l’Italia sarebbe pronta a chiedere aiuti, per far fronte a una situazione non più gestibile con i propri mezzi. Malgrado le rassicurazioni del presidente del consiglio, l’uscita della Fekter era parsa il segnale della gravità dell’attacco della speculazione nei confronti del nostro Paese, destinata a protrarsi per settimane, lungo l’estate.

Monti reagiva ufficialmente con una durezza mai vista prima, e a Palazzo Chigi si confermava che il risentimento verso l’infelice battuta della Fekter, che è stata smentita anche con una nota dell’Eurogruppo, era molto forte. Che la crisi dell’Eurozona resti molto grave lo ha confermato pure il Fondo monetario internazionale, sottolineando come il destino della moneta unica si deciderà entro i prossimi tre mesi. In questa cornice il nuovo martedì nero vissuto dal governo in Parlamento sulla legge anticorruzione ha aggiunto ulteriori difficoltà, spingendo il presidente del consiglio a convocare un vertice a tre della sua maggioranza come non si vedevano ormai da prima delle elezioni amministrative. L’impossibilità, per la ministra Severino, di trovare un compromesso sul testo dell’anticorruzione dopo mesi di trattative, porterà infatti oggi alla Camera a un triplo voto di fiducia, stigmatizzato in aula da Fini per il lungo e inutile rinvio chiesto in precedenza. Ma al Senato, come ha lasciato intendere Cicchitto, il centrodestra si aspetta una riscrittura del testo a cui per ora darà la fiducia solo per evitare la crisi, ma bloccandone l’approvazione definitiva. Di rinvio in rinvio, anche la riforma del mercato del lavoro rischia di non essere varata prima
dell’estate; e tutto il pacchetto istituzionale, con la novità del semipresidenzialismo introdotta a sorpresa dal Pdl, ha ancor di più deteriorato i rapporti tra i partiti, portandoli a uno stallo generale. Affrontare la tempesta sui mercati di cui ieri si sono fatte sentire solo le prime raffiche, in queste condizioni, è molto difficile per il governo. E Monti ha detto chiaro ad Alfano, Bersani e Casini che così non si può andare avanti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10224


Titolo: MARCELLO SORGI. In campagna elettorale senza la data delle elezioni
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2012, 04:52:14 pm
29/8/2012 - TACCUINO

In campagna elettorale senza la data delle elezioni

MARCELLO SORGI

Alla fine di un’estate in cui quasi non è andata in vacanza, la politica italiana alla ripresa si presenta con un nuovo paradosso: la campagna elettorale è cominciata prima ancora di sapere se e quando saranno le elezioni. A luglio, dai colloqui tra i leader dei partiti e il presidente Napolitano, a cui spetta costituzionalmente la decisione finale sullo scioglimento (anticipato o no) delle Camere, era trapelata la sensazione che ci sarebbe stato uno sforzo comune, almeno dei partiti della maggioranza, per arrivare all’accordo sulla legge elettorale. Solo dopo l’approvazione della quale, ipotizzare un anticipo delle urne sarebbe stato possibile. Calendario alla mano, il termine oltre il quale lo scioglimento sarebbe diventato impraticabile era il 20 settembre, per votare l’11 e 12 novembre. Poi, non essendo realistico, anche in caso d’intesa, arrivare al varo del nuovo sistema elettorale entro quella data, s’è parlato di un ulteriore slittamento al 10 ottobre, che avrebbe comportato una chiamata alle urne entro l’inizio di dicembre. Ora che l’intesa si allontana (a parole ogni giorno è buono, anche oggi, ma poi si va sempre al rinvio), a meno di non voler ipotizzare elezioni a Natale - per altro, nelle previsioni, il più triste e austero di questo inizio di secolo - anche lo scioglimento delle Camere sta sfumando.

Ma non la campagna elettorale, che infuria, a destra come a sinistra, come se l’appuntamento con gli elettori fosse alle porte. Chi dice che è a causa del voto siciliano del 28 ottobre, anche se per la verità di tutto si sente parlare, tranne che di Sicilia. Chi sostiene che è colpa di Berlusconi, indeciso fino all’ultimo sul momento buono per tornare in campo. Chi accusa i sondaggisti, sempre pronti a consigliare di alzare la voce per muovere le cifre delle tabelle delle previsioni. Fatto sta che la situazione è bloccata, ma tutti si comportano «come se».

Anche Monti, che, prima di riprendere la serie di impegni europei mirati a mettere in pratica le decisioni del vertice di giugno, a partire dal fondo salva-spread, ha messo molta carne al fuoco dell’agenda del suo governo. Si direbbe che il presidente del Consiglio scommetta sul fatto che i partiti alla fine sceglieranno la scadenza naturale della legislatura, o rotoleranno lo stesso verso la primavera grazie alla loro incapacità. E di conseguenza, provi a riempire il vuoto dei prossimi mesi con una serie di nuovi provvedimenti (economici e non solo, si veda il ritorno del pacchetto giustizia già accantonato prima dell’estate). Che in queste condizioni, però, non avranno vita facile in Parlamento.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10471


Titolo: MARCELLO SORGI. Un Berlusconi indeciso rischia di far saltare l'accordo sul voto
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2012, 11:18:17 am
30/8/2012 - TACCUINO

Un Berlusconi indeciso rischia di far saltare l'accordo sul voto

MARCELLO SORGI

Annunciato da giorni e giorni, il nulla di fatto sulla legge elettorale è stato confermato ieri in Senato. Lo stallo non fa registrare né passi avanti né passi indietro, non serve che ci sia accordo sui due terzi del testo, se poi il terzo che manca contiene le innovazioni più pesanti, la quantità del premio di maggioranza, la scelta delle preferenze, la percentuale dei collegi rispetto alle liste bloccate.

La smentita a più voci diramata da Berlusconi sulle voci che martedì sera lo davano pronto all’accordo (o alla rottura, secondo altre indiscrezioni) per andare subito alle elezioni, come spesso accade contiene insieme una verità e una bugia. La verità è che, diversamente da quel che dicono alcuni dei suoi, che sparino che all’ultimo momento rinunci a ricandidarsi, togliendo l’ingombro della pregiudiziale sul suo nome e aprendo la strada ad alleanze di centrodestra più facili, Berlusconi ha sempre detto che preferirebbe una corsa breve a una corsa lunga. Da quando, dopo il disastro delle amministrative di maggio, un sondaggio della fida Ghisleri le rivelò che il suo nome ha ancora molte potenzialità di recupero, il Cavaliere ai suoi ha sempre detto che più tempo passa e più il Pdl, e con lui il centrodestra, andranno in disfacimento. Tanto vale accorciare i tempi: o la va o la spacca.

Ma è sul nuovo sistema elettorale che i suoi interlocutori non riescono a cavargli una parola chiara. Berlusconi si sveglia al mattino dicendo che alla fine, se restano il Porcellum e le coalizioni obbligate per ottenere il premio di maggioranza, l’unico che può rimettere insieme il centrodestra è lui. Ma al pomeriggio comincia a rimuginare sul peso di una sconfitta annunciata, con il Porcellum, da tutti i sondaggi e sulla possibilità di attenuarla con un sistema proporzionale grazie al quale nessuno vincerebbe e nessuno perderebbe davvero. Ma prima di dar via libera a uno dei compromessi che Quagliariello e Violante o Verdini e Migliavacca hanno messo a punto, Berlusconi chiede sempre: c’è proprio bisogno di fare un accordo? Non sarebbe meglio una prova di forza al Senato, dove Pdl e Lega hanno ancora la maggioranza e l’Udc, grazie alle preferenze, potrebbe convergere in tutto o in parte nelle votazioni, e poi trattare sulla base di un testo approvato in metà del Parlamento? Berlusconi non dà ascolto a chi gli fa osservare che di fronte a una nuova forzatura, come quella, inutile, sul semipresidenzialismo, il Pd chiuderebbe qualsiasi canale di comunicazione. E di questo passo, settimana dopo settimana, all’accordo sulla legge elettorale forse non si arriverà mai.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10475


Titolo: MARCELLO SORGI. Sicilia, una serie di colpi di scena ora il Pdl rischia di ...
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2012, 11:27:30 am
31/8/2012 - TACCUINO

Sicilia, una serie di colpi di scena ora il Pdl rischia di arrivare terzo

MARCELLO SORGI

Considerata da molti la prova generale di quel che accadrà di qui a poco alle elezioni politiche, l’intricatissima vicenda siciliana riserva ogni giorno un colpo di scena.

A destra si è partiti dalla candidatura, sostenuta da Berlusconi che però ha subito ritirato il sostegno per la rivolta dei pdl siciliani, del leader di Grande Sud Gianfranco Miccichè. Il quale puntava a ricostituire l’unità del centrodestra con la quale realizzò il famoso 61 a zero nelle politiche del 2001, ma una volta perso l’appoggio del suo ex partito ha fatto un passo indietro. E ha candidato al suo posto Nello Musumeci, della Destra di Storace, che ha ritrovato subito a suo favore il Pdl. Miccichè allora, pur di non ritrovarsi a fianco di quelli che, a dispetto perfino di Berlusconi, avevano tradito la sua candidatura, ha rifatto un passo avanti e s’è ricandidato. Stavolta con l’appoggio di Lombardo e di Fini, che in nome della vicinanza terzopolista punta a convincere anche Casini, attualmente schierato con Crocetta, candidato di Pd e Udc. Ricapitolando, a destra ci sono due candidati: uno, Musumeci, berlusconiano ma non del partito di Berlusconi; e l’altro, Miccichè, sostenuto da tutti i nemici di Berlusconi.

A sinistra invece al momento i candidati sono due (oltre a Crocetta, Fava, sostenuto da Vendola), ma presto diventeranno quattro, dato che Grillo e Orlando ne metteranno in lista altri due, contrapposti tra loro. Ricapitolando di nuovo: Crocetta, che era il favorito, e che da omosessuale dichiarato aveva stupito tutti con la sua promessa di astinenza sessuale in caso di vittoria, se dovrà dividere l’elettorato di centrosinistra con altri tre concorrenti, vedrà drasticamente calare le sue chanches di elezione alla presidenza della Regione. In questo caso le possibilità di un ulteriore rimescolamento (c’è tempo, il termine per le liste scade il 28 settembre) aumentano. E crescono le probabilità di un ripensamento, per esempio, di Casini, che nell’isola ha un consistente pacchetto di voti e s’era schierato subito per Crocetta forse un po’ prematuramente. Il suo obiettivo infatti è di sconfiggere Berlusconi in sede locale, per poi ribatterlo sul piano nazionale: ma nel quadro attuale sarebbe più a portata di mano appoggiando Crocetta o Miccichè? Questo il dilemma, non il solo. Anche Berlusconi aveva detto ai suoi: mi candido di nuovo a premier solo se vinciamo in Sicilia. Il Pdl invece, complice la rivolta dei dirigenti locali (se non incoraggiata, certo non ostacolata dal siciliano Alfano), adesso rischia di arrivare terzo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10478


Titolo: MARCELLO SORGI. Tutti ad aspettare che il Cavaliere batta un colpo
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2012, 05:03:23 pm
4/9/2012 - TACCUINO

Tutti ad aspettare che il Cavaliere batta un colpo

MARCELLO SORGI

Il vertice del Pdl convocato per domani da Berlusconi servirà certamente ad affrontare le molte questioni aperte della ripresa, dal pacchetto anticorruzione alla legge elettorale, al confronto riaperto dal governo con le parti sociali per stimolare la crescita nei prossimi mesi.

Ma all’interno del partito, non è un mistero, la domanda che tutti si fanno è ancora una volta sulle vere intenzioni di Berlusconi. Da mesi ormai il Cavaliere tiene tutti appesi all’ipotesi della sua ricandidatura: ma in mancanza di una conferma cresce la fibrillazione interna del centrodestra. Inoltre, nel Pdl, una volta l’ultima parola spettava sempre a Berlusconi. Ora invece appena prende una decisione si alza subito un pezzo del partito a contestarla, e spesso a costringerlo a far marcia indietro. L’ultimo caso riguarda il sindaco di Roma Alemanno: che ci sia stata o no (e naturalmente è stato smentito) una telefonata tra l’ex premier e il primo cittadino della Capitale, per convincerlo a rinunciare a una ricandidatura al Campidoglio dall’esito molto incerto, non è poi molto importante. Sondaggi alla mano, il bis di Alemanno, dopo una gestione insoddisfacente e costellata di scivolate, dalle assunzioni clientelari all’emergenza neve, non sta in piedi. E che Berlusconi si preoccupi di perdere il sindaco della Capitale, non è un mistero. Ma la reazione di Alemanno (una foto sul web seduto sulla poltrona di spalle, esageratamente copiata da quella con cui Obama ha replicato a Clint Eastwood dopo la convention repubblicana), fino a qualche mese fa, quando ancora Berlusconi era in sella, di sicuro sarebbe stata più prudente.

Più o meno alla stessa maniera è andata in Sicilia: Berlusconi aveva dato via libera a Miccichè come candidato del centrodestra, e i dirigenti siciliani del Pdl lo hanno affossato, incuranti della parola del Cavaliere. Lo stop and go ripetuto non giova certo al carisma del leader. E se Berlusconi non riesce in tempi brevi a riprendere il controllo della situazione, le divisioni nel Pdl sono destinate ad accentuarsi, insieme a spinte centrifughe che potrebbero vedere pezzi interi del partito spostarsi verso altre sponde, in vista delle elezioni. La spaccatura tra ex-Forza Italia ed ex-An negli ultimi tempi si è approfondita e La Russa ammette che nel caso in cui arrivi una nuova legge elettorale proporzionale la destra potrebbe essere tentata di presentarsi da sola. Ma anche all’interno dei berlusconiani la corrente moderata degli ex ministri e quella radicale incarnata dalla Santanchè sono sempre più lontane. Ognuno per conto proprio e tutti insieme si aspettano che domani Silvio batta un colpo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10489


Titolo: MARCELLO SORGI. Il tormentone delle elezioni e le convulsioni dei partiti
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2012, 03:38:22 pm
5/9/2012 - TACCUINO

Il tormentone delle elezioni e le convulsioni dei partiti

MARCELLO SORGI

Le elezioni anticipate, si sa, sono un trauma, anche se a volte necessario. Ma peggio ancora è il parlarne per mesi come se fossero l’unico sbocco possibile e poi rinunciarci perchè, come tutto in politica, vanno costruite ed è necessario un accordo per ottenerle.

Adesso che dopo mesi di dibattito è scontato che al voto si andrà nella prossima primavera, al massimo con un piccolo anticipo dello scioglimento delle Camere, per evitare, in tempi in cui la crisi non consente vuoti di potere, l’ingorgo istituzionale tra le elezioni politiche e la fine del settennato del Presidente della Repubblica, le prime conseguenze stanno venendo allo scoperto proprio in questi primi giorni dell’incerta ripresa autunnale.

La trattativa sulla legge elettorale è bloccata. Sembrava a un passo dal risultato quando si parlava ancora di scioglimento anticipato delle Camere entro settembre, ma adesso è tornata in alto mare. Il centrodestra, con Quagliariello, uno degli sherpa che aveva condotto la prima fase del negoziato, accusa il centrosinistra di aver cambiato idea perchè stretto tra l’anima ulivista del Pd (Prodi) che preme per salvare il maggioritario, e le pressioni del possibile futuro alleato di governo Casini a favore di un sistema proporzionale, in cui l’alleanza di governo e il leader chiamato a guidarla si decidano dopo, e non prima, del voto. Il centrosinistra replica sostenendo che sono le indecisioni di Berlusconi sull’eventualità di tornare in pista per Palazzo Chigi a rendere impossibile l’intesa.

Per la stessa ragione intanto nel Pd sono entrate in discussione anche le primarie. A chiederle, paradossalmente, sono ormai solo Bersani e Renzi. Il segretario le vuole per ricavarne la definitiva investitura a candidato premier. Il sindaco di Firenze per ridisegnare la mappa del potere interno, e soprattutto dell’ala centrale del partito. Da cui invece, al contrario, si levano le voci più dure contro le primarie: Bindi, Marini, Fioroni, Franceschini si appellano allo statuto, che prevede che il segretario sia automaticamente schierato nella corsa elettorale, anche perchè sarebbero i più direttamente danneggiati da un eventuale successo di Renzi. Il quale, se davvero riuscisse a coagulare un quarto degli elettori delle primarie sul suo nome, il giorno dopo potrebbe sedersi al tavolo delle candidature rivendicando un’uguale percentuale di candidati per la Camera e il Senato. E preparandosi, nella nuova legislatura, a esercitare il ruolo di ago della bilancia della nuova maggioranza, che i sondaggi continuano a dare per scontata.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10493


Titolo: MARCELLO SORGI. Discesa in campo, all'ex premier conviene prendere tempo
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2012, 04:22:21 pm
6/9/2012 - TACCUINO

Discesa in campo, all'ex premier conviene prendere tempo

MARCELLO SORGI

Ma l’autunno giudiziario di Berlusconi influirà e come sulla sua decisione di tornare in campo? Cominciato ieri con il lungo interrogatorio da testimone, senza assistenza di avvocati, davanti al procuratore capo di Palermo Messineo e all’aggiunto Ingroia, che stanno nuovamente indagando su Dell’Utri accusandolo di aver estorto al suo capo 40 milioni di euro, il calvario dell’ex premier si annuncia assai pesante. Entro novembre è prevista la sentenza del processo di Milano sul caso Ruby e in caso di condanna per concussione e prostituzione minorile il Cavaliere si troverebbe in una situazione oltremodo pesante.

Berlusconi ai suoi continua a spiegare che per prendere una decisione ha bisogno di sapere con che tipo di legge si andrà a votare, e non a caso ieri sera dal vertice del Pdl è uscito un nuovo invito a trovare l’intesa per cancellare il Porcellum. Ma la sensazione è che ci sia ancora molta tattica, e che il centrodestra segua molto da vicino le difficoltà emerse nel Pd per l’offensiva di Renzi. Bersani, pur sotto assedio anche da parte del suo gruppo dirigente, messo sotto accusa dal leader della «rottamazione», ha confermato le primarie, che invece molti al vertice del Pd preferirebbero evitare. Il centrodestra scommette sulla vittoria del sindaco di Firenze, al momento tutta da vedere, perché, come ha detto Casini, porterebbe all’implosione del fronte avversario, con la conseguenza, possibile, di una scissione all’interno dei Democrat.
Ma renderebbe molto difficile per il centrodestra correre con un leader ultrasettantenne contro un avversario di 37 anni.

Chi è vicino a Berlusconi sostiene che la pressione dei magistrati lo spinge verso il ritorno in campo. Si tratterebbe di un ritorno di fiamma della campagna che a fasi alterne ha già condotto contro i giudici, senza ricavarne gradi frutti elettorali. Lo scontro più duro avvenne nel 2011, durante la corsa per il Comune di Milano, quando Berlusconi entrava e usciva dal Palazzo di giustizia tra due ali di manifestanti pro e contro. Anche la Moratti, che correva per la riconferma a sindaco, provò a usare argomenti giudiziari contro il suo avversario Pisapia, ma uscì sconfitta. Non a caso un’intera ala del Pdl gli ex-ministri riuniti nella corrente moderata - raccomandano prudenza a Berlusconi. La rinuncia alle elezioni anticipate apre fino a febbraio un periodo in cui il quadro politico potrebbe subire cambiamenti. La concorrenza all’interno del centrodestra potrebbe crescere con l’entrata in scena dei movimenti di Montezemolo e di Giannino. All’orizzonte non c’è molto tempo. Ma ci sono per tutti molte ragioni per aspettare a vedere.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10496


Titolo: MARCELLO SORGI. Dal Pdl pressioni sul Cavaliere per andare al voto anticipato
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2012, 09:59:05 pm
7/9/2012 - TACCUINO

Dal Pdl pressioni sul Cavaliere per andare al voto anticipato

MARCELLO SORGI

Nel Pdl cresce la pressione per convincere Berlusconi a tentare nuovamente la strada delle elezioni anticipate. A premere sono soprattutto gli ex- An, convinti che votare con il Porcellum rappresenti il danno minore e che l’attesa fino a primavera darebbe libero sfogo alle spinte centrifughe nel centrodestra, e fiato ai concorrenti che si preparano, come Montezemolo e Oscar Giannino. I calcoli che gli ex-finiani fanno tra di loro sono molto semplici: stando ai sondaggi, il Pdl con l’attuale legge può arrivare si e no a centoventi deputati, trentatrentacinque dei quali andrebbero alla componente di destra. A questo punto la scelta è se restare insieme o separarsi: ma sul punto non c’è accordo. Il coordinatore La Russa e il vicecapogruppo Corsaro sono per la separazione, convinti che la struttura sopravvissuta dell’ex-partito finiano possa aggiudicarsi sul territorio un risultato migliore di quel che otterrebbe per concessione dal Cavaliere. Mentre Gasparri e Matteoli, convinti che il calo del centrodestra nei sondaggi sia il prezzo pagato - e non più pagabile ancora per molto - del sostegno del Pdl al governo Monti, preferirebbero convincere Berlusconi a staccare la spina e a gettarsi in campagna elettorale per cercare di recuperare.

A tutti quanti Berlusconi ha fatto capire di essere pronto a tornare in campo, ma di voler scegliere il momento più opportuno per l’annuncio. Subito, ovviamente, a partire dalla prossima festa giovanile del partito, se la prospettiva dello scioglimento anticipato delle Camere dovesse riaprirsi. Se invece i tempi si allungano, il Cavaliere vuole aspettare che il quadro sia chiaro.

All’interno del Pdl, le probabilità che si possa davvero arrivare a varare la nuova legge elettorale sono considerate esigue. La tattica scelta è quella di provare un blitz al Senato, dove il centrodestra con la Lega ha ancora la maggioranza, per cercare di ricostruire l’asse con il Carroccio e solleticare Casini con un’apertura alle preferenze. Non perchè Berlusconi si faccia illusioni sull’ex-alleato Pierferdi, che in privato giudica ormai stabilmente collegato a Bersani, ma perchè ritiene che all’interno della pattuglia dei senatori centristi sia forte la tentazione di schierarsi con una riforma di impianto proporzionale.

Il riavvicinamento tra il Cavaliere e Maroni è un altro dei motivi di inquietudine per gli ex-An, che non si fidano e vorrebbero chiudere i giochi al più presto, anche a costo di togliere l’appoggio a Monti. Una prospettiva che divide anche i berlusconiani, con Brunetta e Santanchè favorevoli alla rottura e gli ex ministri dell’ala moderata contrari.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10501


Titolo: MARCELLO SORGI. Casini, così nasce il partito del "bis"
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2012, 08:37:36 pm
9/9/2012

Casini, così nasce il partito del "bis"

Le mosse di Casini e l'appoggio della Marcegaglia

MARCELLO SORGI

Con la prontezza che tutti gli riconoscono, Pierferdinando Casini ha fatto la sua mossa.
Quello che, prima di tutti gli altri, ha presentato a Chianciano, luogo di antiche nostalgie democristiane, è il partito del Monti-bis. Come altrimenti può essere definito un partito che, nel simbolo, rinuncia al nome del suo leader per aprirsi a nuove componenti, e al momento della sua fondazione vede arrivare metà dei ministri dell’attuale governo?

Un conto è dire le cose, un’altra metterle in pratica. Dopo aver ripetuto per mesi che per l’Italia, anche dopo le prossime elezioni, non c’è altra prospettiva che lasciare la guida del Paese a SuperMario, l’unico in grado di portarci fuori dalla crisi, il leader centrista s’è alzato dalla sua poltrona e ha fatto seguire alle parole i fatti. E al di là delle effettive intenzioni di ciascuno di candidarsi con lui alle prossime elezioni, la fila degli «esterni», ministri e non, che si sono presentati, aderendo al suo invito, sta a significare che «la cosa» esiste.

Infatti l’ex-presidente di Confindustria Marcegaglia, il segretario della Cisl Bonanni, il presidente delle Acli (schierate fino a poco fa a sinistra) Olivero, il portavoce del Forum di Todi Forlani, il ministro Riccardi (presente anche come capo della Comunità Sant’Egidio, un altro pezzo importante di mondo cattolico), i suoi colleghi Passera, Ornaghi, Catania e Patroni Griffi, oltre all’ex ministro dell’Interno Pisanu e al presidente della Camera (e fondatore di Futuro e libertà) Fini, non si sarebbero mossi tutti insieme se non avessero voluto far capire che il loro posto, la loro collocazione politica, non può essere, né con il centrodestra, né con il centrosinistra. Ma appunto al centro.

Ora, che in questa fase non ci sia una corsa a mettersi con Berlusconi, è scontato. L’annuncio del ritorno in campo del Cavaliere come candidato premier ha semmai convinto i più incerti dei suoi alleati a prendere il largo. E in Sicilia, in vista delle prossime regionali, s’è addirittura formata dentro il centrodestra una coalizione di antiberlusconiani.

Ma che proprio nel momento in cui il Pd è considerato nei sondaggi il più accreditato vincitore delle prossime elezioni, e mentre Bersani ragiona sulla composizione del suo probabile prossimo governo, i membri di quello attuale si spostino da un’altra parte, rappresenta un fatto politico importante. E lo è altrettanto che una parte consistente del mondo cattolico, da cui è venuta negli ultimi mesi la rivendicazione di una nuova classe dirigente, invece di rafforzare la componente cattolica del centrosinistra, scelga il centro. Va ancora aggiunto che la Marcegaglia, come ex-presidente degli industriali, porta a questo composito schieramento l’appoggio di un mondo produttivo, magari non tutto, finora tiepido nel complesso verso la politica.

Potrà ben dire, Casini, di aver portato a casa un risultato superiore alle sue aspettative. Il sostegno senza riserve da lui dato all’esecutivo tecnico e il lavoro sottotraccia compiuto nell’ultimo anno hanno convinto un arco di forze più largo delle sue stesse ambizioni. Occorrerà vedere, però, se la mutazione genetica centrista troverà nella società civile e sul piano elettorale un appeal uguale a quello che ha dimostrato dal punto di vista mediatico. La novità ha molti aspetti positivi, ma vanno messe in conto alcune evidenti criticità.

La prima è che fare il partito del Monti-bis senza Monti è un problema. Va da sé che il presidente del Consiglio tecnico non può schierarsi politicamente in alcun modo: per questo SuperMario, a chi glielo chiede, continua a ripetere che il suo tempo sta esaurendosi e comincia ad assaporare l’idea di andare in vacanza. Che invece al contrario debba restare al suo posto non è escluso; ed è auspicabile, per come stanno andando le cose. Ma le condizioni politiche della sua permanenza, dovranno essere i partiti a crearle. Finora Casini è il solo che si sia mosso in questa direzione.

Quanto ai ministri tecnici presenti a Chianciano, che tutti già immaginano come capilista del partito nascituro, va ricordato, come ha spiegato Passera, che nessuno di loro potrebbe scendere in campo mentre è al governo. Se lo volesse, dovrebbe dimettersi per tempo. E le dimissioni di un gruppetto di ministri per motivi elettorali non sarebbero certo un toccasana per il governo tecnico. Nel fuoco di una campagna elettorale già cominciata, verrebbero tirati in mezzo. E ci sarebbe anche chi potrebbe accusarli di aver fatto una scelta di convenienza.

Le possibilità di successo di un partito centrista, cattolico-liberale, disposto a collaborare con sinistra e destra, ma senza rinunciare alle proprie convinzioni e al proprio programma, sono inoltre legate all’avvento di una legge elettorale proporzionale, di cui si parla da mesi ma che al momento non esiste. Una legge che chiuda, come Casini ha fatto in anticipo, la stagione dei partiti personali, dei candidati-premier con il nome sulla scheda e sul simbolo, e dei governi scelti dagli elettori, cancellando per sempre le coalizioni rissose degli ultimi anni e riportando in Parlamento, alla trattativa tra i partiti, dopo e non prima del voto, la scelta di chi deve governare. Se questa legge si farà - Casini, paradossalmente, ha più possibilità di realizzarla con il suo atavico avversario Berlusconi, che non con il suo potenziale alleato Bersani - il nuovo centro potrà decollare. Altrimenti sarà più difficile che ci riesca.

Alla fine il problema del nuovo partito, fondato alla vigilia di un appuntamento delicato come quello del 2013, resta quello di quanti voti riuscirà a conquistare. Di questi tempi, l’idea di costruire un’altra Dc, a cui il progetto è chiaramente ispirato, forse è fin troppo ambiziosa. Ma se il centro non cresce e resta ai livelli degli ultimi anni, la premiata capacità politica di Casini potrebbe non bastare. E anche le buone idee di Chianciano restare nel libro dei sogni.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10506


Titolo: MARCELLO SORGI. È la Marcegaglia a dividere Montezemolo e Casini
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2012, 10:13:31 pm
11/9/2012 - TACCUINO

È la Marcegaglia a dividere Montezemolo e Casini

MARCELLO SORGI

Celebrato sulla rete a colpi di blog, lo scontro al centro tra Montezemolo e Casini non è una vera lite. Gli antichi legami e la condivisione di un percorso che ha visto l’ex-presidente di Confindustria e il leader dell’Udc allontanarsi parallelamente da Berlusconi non si interromperanno per una polemica, tra l’altro mitigata dai toni morbidi della risposta casiniana, molto diversi da quelli dell’attacco della montezemoliana “Italia futura”.

Ma al di là delle accuse sulla debolezza del programma uscito dalla tre giorni di Chianciano e sull’insufficienza della parola d’ordine del Monti-bis, la vera questione che divide Montezemolo da Casini è l’arruolamento di Emma Marcegaglia, la presidente, fino al maggio scorso, degli industriali italiani, giunta al vertice di Confindustria nel 2008 con l’avallo del suo predecessore, anche se i rapporti pubblici tra i due si erano successivamente deteriorati. Va detto che la presidenza della Marcegaglia - a differenza di quella di Montezemolo segnata da successo e da provvedimenti governativi che andavano in direzione delle aspettative degli imprenditori -, ha attraversato uno dei periodi più difficili dell’organizzazione, con difficoltà progressive di interlocuzione con la politica industriale di Palazzo Chigi, crescita di peso, al vertice dell’organizzazione, delle grandi imprese pubbliche, e l’uscita finale della Fiat, pochi mesi prima della conclusione del mandato della presidente.

L’idea che adesso la Marcegaglia annunci a sorpresa il suo ingresso in politica (seppure non ancora la sua candidatura in Parlamento), a fianco dell’Udc, non dev’essere risultata gradita a Montezemolo, che da anni ormai ha messo in piedi un raffinato gioco di attese, conferme e smentite sulla sua discesa in campo, con il risultato di tenere sempre viva l’attenzione su “Italia Futura” e riservarsi all’ultimo, per coglierne sapientemente il maggior vantaggio possibile, la trattativa su candidature ed eventuali alleanze.

Al punto che molti tra osservatori e concorrenti mettevano in conto che alla fine Casini e Montezemolo avrebbero trovato il modo di collegarsi e presentarsi insieme. Il sostegno a Monti e la piena condivisione del suo programma di risanamento anche per la prossima legislatura dell’Udc potevano integrarsi con le tesi sostenute sulla rete dal think-tank montezemoliano. Sembravano insomma andar bene uno per l’altro. Prima che a dividerli, anche se non è detto definitivamente, arrivasse la Marcegaglia e la disputa tra i due ex-presidenti di viale dell’Astronomia.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10514


Titolo: MARCELLO SORGI. Un doppio intoppo incrina l'asse centro-sinistra
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2012, 04:05:55 pm
12/9/2012 - TACCUINO

Un doppio intoppo incrina l'asse centro-sinistra

MARCELLO SORGI

E’ inutile nasconderlo: l’asse tra Casini e Bersani, che fino al giorno prima sembrava solido, ha subito un colpo dopo le conclusioni di domenica del convegno dei centristi a Chianciano. Il doppio annuncio dell’Udc, a favore di un Monti-bis dopo il voto e di una legge elettorale riformata a colpi di votazioni parlamentari, anche in mancanza di un accordo preventivo, ha molto raffreddato i rapporti tra i due partiti. Oltre al «no» di Bersani, la prospettiva di far proseguire Monti dopo le elezioni del 2013 almeno fino a quando la crisi non potrà dirsi veramente superata, ha trovato la netta opposizione del Pdl. I due maggiori partiti si preparano a una campagna elettorale bipolare e di dura contrapposizione, per mobilitare fino in fondo i rispettivi elettorati, in cui si annidano forti strati di opposizione al governo dei tecnici e alla formula della larga coalizione. Di qui la loro parallela contrarietà alla proposta Casini, che tuttavia non si potrà escludere in caso di un risultato elettorale che non assegni una vittoria chiara ad uno degli schieramenti.

Ma è sulla legge elettorale che le conclusioni di Chianciano potrebbero riservare le maggiori sorprese. Berlusconi al suo rientro dal Kenya avrebbe intenzione di cercare di rimettere insieme la vecchia maggioranza di centrodestra sull’ipotesi di una riforma proporzionale, con le preferenze, che potrebbe risultare interessante anche per l’Udc. Bersani lo ha capito e già ieri ha messo le mani avanti, non per chiudere alla trattativa, ma per invocare una legge che «garantisca la governabilità». Il modello del Pd prevede un forte premio di maggioranza alla coalizione o al partito vincente (cosa che né Pdl, nè Lega e Udc vorrebbero concedere) e un meccanismo che consenta di conoscere le alleanze e i candidati alla guida del governo prima e non dopo il voto. E’ chiaro che se Berlusconi, Maroni e Casini vanno insieme in direzione di un sistema tedesco, più proporzionale e meno maggioritario, trovare un accordo per riformare il Porcellum sarebbe molto difficile. Per Bersani crescerebbe il rischio di isolamento e di rottura con il quasi alleato Casini. Il quale, a sua volta, difficilmente potrebbe schierarsi a fianco del Pdl che sta per rimettere in corsa Berlusconi. Così sarà da vedere, al di là degli spostamenti tattici degli ultimi giorni, fino a che punto ognuno dei giocatori in campo è disposto a forzare: una riforma elettorale approvata a dispetto di uno dei tre partiti dell’attuale larga maggioranza terremotorerebbe infatti il fragile equilibrio su cui si regge il governo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10518


Titolo: MARCELLO SORGI. Le lusinghe dei centristi e i paletti del Professore
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2012, 03:37:06 pm
13/9/2012 - TACCUINO

Le lusinghe dei centristi e i paletti del Professore

MARCELLO SORGI

Mario Monti ha accolto molto bene la sentenza della Corte Costituzionale tedesca che ha dato il via libera, seppure condizionato, all’Esm, il fondo salvaSpread nato nel vertice europeo di giugno proprio su proposta italiana, e subito dopo bloccato dal ricorso ai giudici della Corte, che adesso finalmente potrà diventare operativo già a partire dal prossimo ottobre. Ma alla soddisfazione per la buona notizia il presidente del Consiglio, in un’intervista al «Washington Post», accompagna la cautela per il quadro congiunturale della crisi che non accenna a migliorare e la preoccupazione per le prospettive italiane. Il timore di Monti è che gli sforzi fatti fin qui possano essere vanificati nel 2013 se il prossimo governo deciderà di allentare la linea economica di rigore sostenuta fin qui, magari per accontentare promesse elettorali fatte in vista delle elezioni.

Monti spiega che per completare il piano di riforme necessarie per ridare competitività all’Italia, e metterla in condizione di uscire dalle difficoltà in cui ancora si trova, occorreranno almeno cinque anni. E conferma che considererà concluso il suo impegno alla guida del governo alla scadenza del voto. Se ne ricava che non ha alcuna intenzione di lasciarsi tentare dalle lusinghe degli ultimi giorni: dopo la conclusione del convegno di Chianciano dell’Udc, favorevole a un Monti-bis anche per la prossima legislatura, anche all’interno del Pdl circolano voci secondo cui Berlusconi, se alla fine deciderà di non candidarsi a Palazzo Chigi, potrebbe proporre anche lui una prosecuzione dell’attuale governo. Una prospettiva alla quale il Pd resta contrario, malgrado le polemiche nate con Vendola a causa del referendum promosso dalla sinistra radicale contro la riforma dell’articolo 18, e gli ostacoli a cui va incontro, sia la trattativa sulla legge elettorale, sia l’ipotesi, che sembrava realistica fino a una settimana fa, dell’accordo con Casini per un governo di moderati e progressisti.

Prudentemente, di fronte alla confusione crescente degli ultimi giorni, Monti continua ad osservare tutto ciò con distacco. In questo senso l’intervista al «Washington Post», in cui esclude di avere un futuro politico, introduce un ulteriore paletto, facendo intendere che l’unica prospettiva che il premier potrebbe prendere in considerazione, ove fosse necessario, sarebbe quella della prosecuzione del governo tecnico: per completare il programma di risanamento che la scadenza elettorale rischia di interrompere e di lasciare incompiuto.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10523


Titolo: MARCELLO SORGI. La sensazione di una nuova frana che alimenta l'antipolitica
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 02:24:49 pm
26/9/2012 - TACCUINO

La sensazione di una nuova frana che alimenta l'antipolitica

MARCELLO SORGI

Nel giorno in cui l’Onu approva una risoluzione a favore della lotta alla corruzione, Napolitano interviene contro «malversazioni e fenomeni di corruzione inimmaginabili e vergognose»: il riferimento allo scandalo della regione Lazio che ha portato lunedì sera la Polverini alle dimissioni è evidente, e il Capo dello Stato spera di scuotere i partiti dallo stallo che ha finora impedito di affrontare seriamente il problema dei finanziamenti pubblici a partiti e gruppi consiliari.

Ma al di là di promesse e impegni generici (da Berlusconi a Bersani, ieri in tanti sono intervenuti per cercare di parare le conseguenze di quel che è accaduto), ancora niente di concreto si muove. In realtà cresce il timore che dalle inchieste aperte in varie regioni possano uscire storie simili a quelle del Lazio, e non a caso il leader del Pd ha proposto ieri di imporre per legge trasparenza e certificazione dei bilanci regionali. Dalla Lombardia all’Emilia, a Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, emergono situazioni a rischio. Mentre Berlusconi e Alfano prendevano tempo, convocando i coordinatori locali del Pdl, ieri Daniela Santanchè ha chiesto apertamente le dimissioni di Formigoni. L’inchiesta di Napoli intanto rivela versamenti di centinaia di migliaia di euro ai gruppi consiliari. E da Palermo arriva la notizia che il governatore Lombardo ha potuto disporre di oltre trecentomila euro di dotazione personale senza obbligo di rendiconto.

La sensazione di una frana alle porte è ormai diffusa. E la possibilità che nel giro di poche settimane una sorta di «Regionopoli» possa abbattersi a livello nazionale, a pochi mesi dalle elezioni politiche, tiene i partiti in uno stato d’ansia e in attesa di conseguenze imprevedibili. Ieri a Washington il ministro degli esteri Terzi ha sottolineato i rischi d’immagine di un paese come l’Italia, nel momento in cui la lotta alla corruzione diventa un impegno condiviso a livello globale.

Ma non sarà facile raggiungere un accordo in Parlamento su una materia così delicata. Napolitano ha ammonito i partiti: non lamentatevi dell’antipolitica, se non siete in grado di ridare credibilità alla politica. Eppure, gli sforzi fatti finora dal ministro di giustizia Severino non hanno raggiunto risultati. Toccherà a Monti, al ritorno dagli Usa, valutare se premere ancora in questa direzione e se promuovere un’iniziativa del governo sui meccanismi di spesa delle Regioni. Lo aveva fatto per la Sicilia, portando Lombardo alle dimissioni. Adesso deve decidere se c’è spazio per un generale taglio dei costi anticorruzione.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10571


Titolo: MARCELLO SORGI. I tagli decisi non bastano a fermare l’antipolitica
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2012, 02:33:03 pm
Editoriali

27/09/2012 - taccuino

I tagli decisi non bastano a fermare l’antipolitica

Marcello Sorgi

L’ipotesi delle dimissioni di Renata Polverini era stata testata in anticipo dai maggiori istituti di sondaggi italiani, con risultati che oscillavano tra il settanta e l’ottanta per cento a favore della decisione della presidente di lasciare. Le indagini di opinione si svolgevano, in pratica, mentre il consiglio regionale del Lazio tentava maldestramente la via del salvataggio, alla quale la stessa Polverini si era adattata, almeno in un primo momento. Cosa abbia determinato l’accelerazione che ha fatto precipitare tutto lunedì sera, è chiaro. I partiti, dati alla mano, avevano dovuto prendere atto dell’impossibilità di proseguire: così è partita la corsa alle dimissioni.

Allo stesso modo sono nati i tagli che la Conferenza delle Regioni ha deciso ieri e che sono stati presentati in serata al Presidente Napolitano. Secondo il verdetto dei sondaggisti infatti, nessuno dei membri uscenti del consiglio regionale del Lazio dovrebbe essere ripresentato alle prossime elezioni. Anche se l’opinione pubblica riconosce le responsabilità di “Francone” e “Franchino”, i due ex capigruppo del Pdl che si son fatti la guerra lasciando emergere la rete di sprechi, privilegi e ruberie che ha fatto scoppiare lo scandalo, la convinzione che tutti i consiglieri - com’era in effetti - godessero di privilegi ingiustificati è molto forte nell’opinione pubblica. Di qui la necessità, o di un repulisti generale, o di un’immediata approvazione di nuove regole che cancellino la situazione precedente.

È quel che la Conferenza delle Regioni ha cercato di fare. Come dimostra il fatto che anche il principale responsabile dello scandalo, il “Francone” di Anagni, andrà in pensione a 50 anni con 4000 euro al mese, il quadro che la vicenda laziale ha disvelato è inaccettabile. Nelle Regioni erano (e sono ancora) in vigore trattamenti da casta anche peggiori di quelli che la Camera e il Senato avevano dovuto ridurre nei mesi scorsi, per far fronte all’ondata di antipolitica esplosa nelle ultime elezioni amministrative. I tagli operati ieri dalla Conferenza ne hanno intaccato solo una parte, e non è escluso si arrivi a un nuovo giro di vite nelle prossime settimane, quando Monti potrebbe decidere di intervenire. 

Tra Polverini e il Pd ieri c’è stata una dura polemica perchè la presidente, dopo averle annunciata, non ha ancora materialmente presentato la lettera di dimissioni, e ha riunito la giunta per fare alcune nomine nella Sanità. La data delle elezioni regionali, novembre o primavera, in accoppiata con le politiche, dipende da quella lettera, che ieri il ministro dell’Interno Cancellieri ha sollecitato.

da - http://lastampa.it/2012/09/27/cultura/opinioni/editoriali/i-tagli-decisi-non-bastano-a-fermare-l-antipolitica-4ixg1FJ5RolbpZGhm9aMVP/index.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Messaggi ai mercati reazioni all’italiana
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2012, 02:08:00 am
Editoriali

28/09/2012 - taccuino

Messaggi ai mercati reazioni all’italiana

Marcello Sorgi

Ma cosa avrà mai detto di tanto importante Mario Monti, da mandare in fibrillazione tutta la politica italiana? La domanda che bisognerebbe farsi è questa, prima di entrare nel merito dell’inattesa apertura con cui il presidente del consiglio ha dichiarato la sua disponibilità a restare a Palazzo Chigi anche nella prossima legislatura.

Monti infatti parlava in America, e non è un mistero che tutti gli interlocutori con cui ha parlato, in una missione ricca di appuntamenti importanti, gli hanno chiesto cosa succederà in Italia dopo le elezioni del 2013. E dopo aver detto che non pensa affatto a candidarsi o a entrare in campagna elettorale, Monti non poteva escludere, a certe condizioni, e se fosse ancora necessario, di mantenere la guida del governo fino al completamento dell’azione di risanamento economico. È esattamente quel che all’estero volevano sentirsi dire.

Monti per primo tuttavia è consapevole delle difficoltà a cui va incontro una prospettiva del genere. Le due reazioni simmetriche di Berlusconi e Bersani, che hanno ripetuto che saranno i risultati elettorali a decidere chi dovrà governare in Italia, stanno a significare che i due leader non hanno alcuna intenzione di rassegnarsi fin d’ora a un prolungamento del governo tecnico, o a una sua riedizione in versione mista, con l’inserimento anche di ministri politici.

Bersani d’altra parte è impegnato nella campagna per le primarie da cui si aspetta la designazione a candidato premier del centrosinistra: non poteva dire nulla di diverso. E quanto a Berlusconi, il suo ritorno in campo alla presentazione del libro dell’ex-ministro Renato Brunetta, è servito, se non a dare una risposta alla domanda se il Cavaliere alla fine scenderà in campo o no, almeno a capire di che tenore sarà la sua campagna elettorale, in qualsiasi veste si troverà a farla: no ai vincoli di un’eurozona che così com’è, a suo giudizio, «è un imbroglio».
No all’Imu. No a Equitalia. È con questi argomenti che il centrodestra condurrà la sua campagna, mentre continua ad opporsi in Parlamento a una rapida approvazione della legge anticorruzione.

Se continua così, a Monti non basterà ripetere che il suo governo potrebbe continuare anche dopo il voto. E gli osservatori stranieri che premono per sapere in che direzione andrà l’Italia il prossimo anno, i loro dubbi dovranno tenerseli ancora per un bel po’. Ieri il clima sui mercati europei ha continuato a restare pesante, con spread in risalita, anche dopo l’approvazione da parte del governo spagnolo di una nuova manovra da quaranta miliardi, seguita da durissime manifestazioni di protesta.

da - http://lastampa.it/2012/09/28/cultura/opinioni/editoriali/messaggi-ai-mercati-reazioni-all-italiana-evwiWmQalaFJHycgiUHl1K/index.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Senza il proporzionale difficile ottenere le larghe intese
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2012, 11:29:18 am
Editoriali

02/10/2012 - taccuino

Senza il proporzionale difficile ottenere le larghe intese

Marcello Sorgi

All’indomani del week-end centrista in favore del Monti-bis, l’accenno del presidente del consiglio al momento in cui lascerà il governo “ad altri” ha creato ovviamente curiosità, (marcia indietro rispetto alla disponibilità a continuare manifestata in Usa, presa di distanze da un sostegno troppo partisan?). Ma nessun turbamento in Casini, che dell’ipotesi di continuare a far governare Monti anche dopo il voto del 2013 continua ad essere il principale sponsor. Parlando a Milano davanti al pubblico dell’Ispi, uno dei più qualificati think-tank di politica estera, il leader centrista ha spiegato che la sua proposta è legata alla necessità, per l’Italia, di recuperare credibilità sul piano internazionale, come appunto è accaduto finora con Monti: il cui ruolo «super partes», ha aggiunto, non dovrebbe essere intaccato da un’eventuale riedizione del governo con ministri politici nella prossima legislatura.

Una precisazione legata alla consapevolezza che per Monti sarebbe impossibile accettare di guidare un governo di centrosinistra o di centrodestra. Eppure per Casini non sarà facile riproporre le larghe intese alla vigilia di una campagna elettorale in cui Bersani e Berlusconi minacciano di darsele di santa ragione. Uno schema del genere potrebbe funzionare solo in caso di approvazione di una nuova legge elettorale proporzionale, in cui ogni partito giocherebbe per sé e la scelta delle alleanze di governo verrebbe rinviata a dopo il voto.
Se invece si dovesse tornare alle urne con il Porcellum, la contrapposizione tra destra e sinistra sarebbe obbligata, e lo spazio per il centro necessariamente ridotto. 

Casini, Fini, Montezemolo e tutti gli altri che nell’ultimo fine settimana si sono iscritti alla corsa al centro scommettono che sarà impossibile, per Pd e Pdl, aggrapparsi a una legge come il Porcellum, ormai disprezzata nei sondaggi dalla maggior parte degli elettori.
E’ un calcolo logico. Ma si sa: in politica mai dire mai.


da - http://lastampa.it/2012/10/02/cultura/opinioni/editoriali/senza-il-proporzionale-difficile-ottenere-le-larghe-intese-ybEXg8EudC837NJe7FTpHJ/index.html


Titolo: MARCELLO SORGI. L’incandidabilità dei condannati apre ad altre divisioni
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2012, 03:47:43 pm
Editoriali

04/10/2012 - taccuino

L’incandidabilità dei condannati apre ad altre divisioni


Marcello Sorgi

Spinto dalle reazioni sempre più forti dell’opinione pubblica di fronte alla moltiplicazione degli scandali, il governo prova a uscire dall’impasse sulla legge anticorruzione. Al Senato la discussione è bloccata perchè il centrodestra non condivide il testo uscito dalla Camera e perchè il Pd accusa il Pdl di voler far passare sottobanco gli emedamenti “salva-Ruby”, che dovrebbero servire ad aiutare Berlusconi nel processo sul “bunga-bunga”.

 

Il ministro Severino ha tentato finora senza successo una mediazione. Ma dalla proposta che dovrebbe essere resa nota oggi spunta il tema dell’incandidabilità per chi ha subito condanne definitive oltre i due anni, che il governo vorrebbe introdurre adoperando la delega di legge di cui dispone, ma che è destinato ad aprire nuove divisioni, in un Parlamento in cui sono oltre cento i deputati e i senatori incappati nelle maglie della giustizia. Inoltre l’Idv, e in parte il Pd, premono per stringere ulteriormente le maglie ed escludere dalle candidature anche i condannati in primo grado, mentre il Pdl frena e la discussione rischia nuovamente di arenarsi.

 

La legge anticorruzione non è la sola ad incontrare ostacoli. Dopo un incontro tra Monti e Bersani, anche la riforma elettorale, su cui martedì pareva profilarsi un compromesso, è tornata in alto mare. La proposta dell’ex-ministro leghista Calderoli s’è inabissata, e la sensazione è che giorno dopo giorno Pd e Pdl stiano rassegnandosi a lasciare in vigore il Porcellum, al massimo con piccole modifiche, perchè temono che qualsiasi passo in direzione del ritorno al proporzionale possa avvantaggiare l’Udc e il rinato centro di Casini, Fini, Montezemolo, che puntano ad intercettare i voti moderati in fuga dal centrodestra. Il Pdl in particolare fatica a prendere una posizione chiara su questa materia perchè il magro risultato annunciato dai sondaggi (un sostanziale dimezzamento dei seggi a disposizione nell’attuale Parlamento) rende sempre più difficile tenere insieme le diverse anime del partito. La separazione ormai annunciata tra le due componenti ex-Forza Italia ed ex-An sarebbe più agevole con il proporzionale; ma se il bipolarismo rimane in piedi, il centrodestra dovrà pur trovare il modo di farle convivere da separate in casa.

 

Anche nel Pd la prospettiva delle primarie carica di tensione la vigilia dell’Assemblea nazionale, che sabato dovrebbe fissare le regole della gara tra Bersani e Renzi. Non è un mistero che per gran parte delle componenti interne, che temono di uscire ridimensionate dalla corsa per la candidatura a premier, l’assemblea è l’ultima occasione per far saltare il banco, e le primarie prima che vengano indette ufficialmente. 

da - http://lastampa.it/2012/10/04/cultura/opinioni/editoriali/l-incandidabilita-dei-condannati-apre-ad-altre-divisioni-7sUCE6AmjBxwJZriqgKO6K/index.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Una manovra fatta pensando alla legge elettorale
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2012, 07:24:55 pm
Editoriali

10/10/2012 - taccuino

Una manovra fatta pensando alla legge elettorale

Marcello Sorgi

Deluso dalle reazioni scettiche di lunedì sera al suo annuncio - via Alfano - di una possibile rinuncia a candidarsi a premier per ottenere un ritorno del centrodestra all’unità, Berlusconi ieri mattina ha rilanciato, dicendo che se tutti i moderati, che in Italia sono la maggioranza, torneranno ad essere uniti, il loro leader potrebbe essere Monti. Un candidato da non mettere certo sulla scheda elettorale, vista la nota ritrosia del presidente del consiglio ad assumere posizioni di parte; ma da spingere egualmente verso il bis nel 2013.

 

Anche in questo caso tuttavia le reazioni degli interessati sono state scettiche. La più garbata è stata quella di Montezemolo che ha definito l’annuncio del ritiro del Cavaliere “un atto di responsabilità”. Casini e Fini hanno mantenuto le distanze, anche perchè la svolta di Berlusconi ha un evidente contenuto tattico. Più che alla premiership e al governo del dopo-elezioni, per i quali ancora molta acqua deve passare sotto i ponti, Berlusconi infatti pensa alle prossime votazioni sulla legge elettorale in programma al Senato. Già solo se la Lega si decidesse a votare con il suo vecchio alleato, la proposta del Pdl a Palazzo Madama potrebbe contare su una maggioranza ed essere approvata. E se Casini e l’Udc dovessero fare una minima apertura, magari in cambio di un ritorno alle preferenze, o per dare un segnale al Pd, si creerebbe un fatto politico difficile da affrontare per il centrosinistra, perchè alla Camera, successivamente, sarebbe assai complicato per Bersani affossare la riforma e presentarsi come l’unico difensore del Porcellum.

 

Ci riuscirà? La mossa di Berlusconi che non ha scaldato i cuori dei moderati, potrà invece favorire il disgelo in materia elettorale? E’ ancora presto per dirlo. La sensazione è che Casini e gli altri interlocutori centristi aspettino di capire, non solo se l’ipotesi del ritiro di Berlusconi è credibile, ma se, una volta compiuto il primo passo, il Cavaliere è disposto a farne un secondo, rinunciando, oltre che alla corsa per la premiership, anche alla candidatura per il Parlamento. In questo caso, al momento improbabile, oltre che con i suoi ex-alleati, Berlusconi dovrebbe vedersela con le diverse anime del suo partito: diviso già tra chi considera l’uscita di scena del Cavaliere come una diserzione, e chi invece vorrebbe già preparare le primarie per la successione. 

 da - http://lastampa.it/2012/10/10/cultura/opinioni/editoriali/una-manovra-fatta-pensando-alla-legge-elettorale-WGLrxiWh7N8Flw2GVYMxRO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il penultimatum del Carroccio e la sicumera del Celeste
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2012, 06:32:13 pm
Editoriali

11/10/2012 - taccuino

Il penultimatum del Carroccio e la sicumera del Celeste

Marcello Sorgi


Domanda: può restare in piedi una Regione in cui il presidente, cinque assessori e quattordici consiglieri sono inquisiti? La risposta è affidata alla Lega 2.0 di Roberto Maroni, che dovrà decidere se puntellare ancora una volta, come ha fatto finora, Formigoni, o aprire una crisi che porterebbe diritto alle elezioni anticipate la Lombardia, più o meno come il Lazio. L’ultimo arresto è risultato particolarmente indigesto al Carroccio: Domenico Zambetti del Pdl è accusato di aver comperato quattromila voti da un’organizzazione collegata alla ’ndrangheta (che ne aveva fornito altri trecento all’aspirante consigliera comunale Sara Giudice, chiamata l’«antiMinetti» perchè aveva preso di mira la regina del Bunga-bunga) e interessata alla ricca torta degli appalti legati all’Expo del 2015. Vedere il proprio partito alleato con uno del genere non dev’essere proprio gradevole per gli elettori leghisti. Ma Formigoni sembra sicuro di sé e pensa di poter andare avanti lo stesso.

La ragione degli indugi leghisti e della sicumera formigoniana s’intuisce: nel consiglio regionale lombardo nessuno può dare lezioni di moralità a nessuno. Il Carroccio è appena uscito dallo scandalo familiare di casa Bossi che ha portato alle dimissioni del figlio, il «Trota», e al siluramento del fondatore. Anche se c’è stato un taglio netto e un cambio al vertice, Maroni può avere interesse a prendere tempo, e aspettare di vedere come si concluderà sul piano nazionale la vicenda della legge elettorale. In ballo c’è l’aspirazione del Carroccio alla successione di Formigoni alla guida della Lombardia, che potrebbe essere negoziata con il Pdl nell’ambito di un accordo più generale per le politiche. Anche per questo, fino a domenica, quello del segretario regionale Matteo Salvini nei confronti del governatore è stato un penultimatum. Bisognerà vedere ora che peso avrà nelle valutazioni del vertice leghista la comparsa della ’ndrangheta in regione. Inoltre, sebbene azzoppato dal caso Penati, alle soglie del rinvio a giudizio, anche il Pd insiste per la caduta di Formigoni: se la Lega dovesse decidere per la crisi, Bersani non vuole lasciarla in vantaggio.

Intanto nel consiglio regionale in liquidazione del Lazio ieri c’è stato un altro colpo di scena: il capogruppo dell’Italia dei Valori Vincenzo Maruccio, accusato di uso improprio dei fondi pubblici riservati ai partiti, è stato dimissionato d’urgenza da Di Pietro. In queste condizioni, sia per chi ha scelto di andare al voto, sia per chi resiste, la campagna elettorale si annuncia molto difficile.

da - http://lastampa.it/2012/10/11/cultura/opinioni/editoriali/il-penultimatum-del-carroccio-e-la-sicumera-del-celeste-ZTDixa1xeTzKTpZDZ2AcON/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. I dilemmi del leader e il mezzo effetto-valanga
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2012, 04:19:59 pm
Editoriali
16/10/2012 - taccuino

I dilemmi del leader e il mezzo effetto-valanga

Marcello Sorgi

Diciamo la verità, nessuno si aspettava un “effetto valanga”. Ma se la mossa di Walter Veltroni, che domenica ha annunciato che non si ricandiderà in Parlamento alle prossime elezioni, puntava anche a mettere in imbarazzo i suoi compagni del gruppo dirigente con maggiore anzianità parlamentare e maggior numero di deroghe alla regola delle tre legislature, l’effetto c’è stato solo in parte.

Interrogato il giorno dopo, Massimo D’Alema, vale a dire il principale obiettivo della campagna di Matteo Renzi sulla “rottamazione” del gruppo dirigente del Pd, non si tira indietro e sposta la responsabilità delle scelte sul segretario. Fosse per lui non si candiderebbe, ma se il partito dovesse chiederglielo... Va da sé che tocca a Bersani decidere se sollecitare o meno le candidature più contestate. E in un modo o nell’altro il segretario, impegnato nella campagna per le primarie, dovrà pronunciarsi, perchè un suo silenzio non sarebbe accettabile, mentre il suo principale avversario plaude a Veltroni che ha deciso di farsi da parte e continua a battere per spingere i “rottamandi” verso l’uscita.

Gli interessati si sono perfettamente riconosciuti nella linea dettata dal “vecchio” Max. A parte qualche sporadico annuncio di addio, come quello dell’ex ministro Tiziano Treu, gli altri, come (ma non solo loro) Anna Finocchiaro o Livia Turco, condividono l’idea che debba essere il partito a dire se è opportuno o meno che un dirigente di lungo corso si ricandidi. Ma il vero problema è che a parte quella delle deroghe, non esistono nel Pd criteri o meccanismi per valutare. Finora, complice il Porcellum, la segreteria s’è sempre riservata una trentina di eccezioni al tetto delle tre legislature e il resto lo ha deciso meccanismo correntizio che fa sì che al tavolo in cui vengono decise le candidature, e di conseguenza gli eletti, ogni componente interna presenti il suo elenco. Ma adesso la campagna delle primarie rischia di svolgersi in gran parte sul meccanismo del “vecchio” e del “nuovo”, avvantaggiando così oltre il previsto Renzi.

Inoltre Bersani ha tutto l’interesse a pronunciarsi su una materia così delicata solo dopo che si capirà se la legge elettorale che ha mosso i primi passi in Senato arriverà a destinazione o no, e soprattutto se raggiungerà il traguardo con gli stessi connotati con cui è partita da Palazzo Madama. Basta solo pensare alle preferenze, che, se reintrodotte, toglierebbero di mezzo il problema, perchè il leader del Pd potrebbe promuovere il rinnovamento nelle teste di lista, lasciando ai “vecchi” le posizioni più difficili da rimontare, e agli elettori il compito di scegliere se riammetterli o meno in Parlamento. 

da - http://lastampa.it/2012/10/16/cultura/opinioni/editoriali/i-dilemmi-del-leader-e-il-mezzo-effetto-valanga-P5WaCQtwCIemKdoSLIdCRN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Solo se vincerà di poco il segretario potrà ricompattare i ...
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2012, 10:11:17 pm
Editoriali
17/10/2012 - taccuino

Solo se vincerà di poco il segretario potrà ricompattare i capicorrente

Marcello Sorgi

Il duro botta e risposta tra Bersani e D’Alema, a proposito della sua contestata candidatura, fa definitivamente della rottamazione il tema principale delle prossime primarie. Con Renzi gongolante, di fronte al Pd prigioniero della sua parola d’ordine, e sfottente con il segretario: «Gli stiamo dando una mano». E con il Partito democratico alle soglie di una crisi di nervi. 

 

A D’Alema, che lo chiamava in causa dicendo che è pronto a ricandidarsi se il partito glielo chiede, Bersani ha risposto a distanza, dallo studio di «Repubblica tv», che non glielo chiederà. Ed anche se formalmente, come ha spiegato, non tocca al segretario proporre le candidature, ma alla direzione approvarle, D’Alema ha capito benissimo che Bersani ha ormai preso le distanze e di non poter sperare in aiuti da parte sua. Se davvero vorrà tornare in lista, dunque, dovrà domandare e ottenere la deroga alla regola del tetto dei tre mandati parlamentari, ed accettare che la direzione voti su di lui.

 

Ma dietro l’ex-presidente del Consiglio, che ha raccolto la sfida, rumoreggia un bel pezzo di gruppo dirigente, consapevole di trovarsi in condizione di essere rottamato. Criticato dalla «Velina rossa», l’atteggiamento «pilatesco» di Bersani, che si rifiuta di entrare nel merito del problema, ieri è stato al centro di molti capannelli di deputati e di una riunione dei gruppi parlamentari.

Se la questione dovesse veramente essere affrontata secondo le vecchie regole interne, il segretario, che non si è certo espresso a favore del ritorno di D’Alema in Parlamento, dovrebbe prendere atto che s’è aperta una crepa nella sua maggioranza interna, di cui appunto l’ex-premier è un pilastro. Ma nel partito, ormai in corsa verso le primarie, tutte le regole sono saltate e le uniche cose che conteranno saranno le percentuali che usciranno dai gazebo del primo turno, il 25 novembre.

 

Come si vede già da ora, sarà un referendum sulla rottamazione. Se Bersani vince, ma senza superare la soglia del 50 per cento, sarà portato a spingere ancora sul rinnovamento, per conquistare più voti al secondo turno. Se invece sarà Renzi ad arrivare primo, il precario equilibrio interno del Pd non reggerà.

 

A quel punto, tutto diventerebbe possibile: dalle dimissioni del segretario a una scissione tra le diverse anime del partito. Solo se prevarrà, sì, ma con Renzi attaccato a un’incollatura, Bersani potrebbe essere spinto a cercare un nuovo compromesso con i capicorrente.

da - http://lastampa.it/2012/10/17/cultura/opinioni/editoriali/solo-se-vincera-di-poco-il-segretario-potra-ricompattare-i-capicorrente-hgBElWmxzkeiiSoFV5bSjO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Anticorruzione, resta l’incognita dei partiti
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2012, 05:29:32 pm
Editoriali

18/10/2012

Anticorruzione, resta l’incognita dei partiti

Marcello Sorgi

La presenza di Monti accanto al ministro Severino al Senato, al momento di porre la questione di fiducia sul maxi-emendamento, poi approvato, che apre la strada all’approvazione della legge anticorruzione, lascia capire quale importanza il governo dia a questo passaggio. La soluzione trovata, dopo un faticoso iter durato mesi, è stata quella di un alleggerimento generale del testo, dal quale sono usciti tutti gli emendamenti più controversi, a cominciare da quelli che dovevano servire a neutralizzare il processo contro Berlusconi per il «bunga-bunga» e il «caso Ruby». D’altra parte, dopo gli sviluppi degli scandali alle regioni Lazio e Lombardia, era obiettivamente difficile per il centrodestra insistere sulla linea della resistenza: ma è ancora presto per dire se, dopo l’approvazione al Senato, la legge potrà marciare speditamente anche alla Camera, dove il testo dovrà comunque tornare per il varo definitivo. 

 

Il ministro Severino non ha fatto mistero dell’urgenza di arrivarci, dopo tanti mesi di discussioni in Parlamento, e mentre in Europa l’immagine dell’Italia risente delle cronache milanesi e romane delle ultime settimane. 

 

Il governo osserva soddisfatto l’evoluzione della stretta economica che ha visto ieri lo spread scendere ai livelli di aprile e l’asta dei titoli pubblici rapidamente esaurita. Ma non si nasconde le difficoltà che la campagna elettorale ormai incombente scarica quotidianamente sulla sua attività. 

 

L’ultimo esempio sono le reazioni alle misure introdotte dalla legge di stabilità, che hanno provocato una levata di scudi quasi simultanea di centrodestra e centrosinistra. Ancora ieri, malgrado le modifiche annunciate dal ministro dell’Economia che cercavano di venire incontro alle riserve dei partiti, Bersani ha insistito sulla necessità di rimettere in discussione l’impianto della legge deciso dall’ultimo Consiglio dei ministri. Nessuno pensa di fermare il governo, soprattutto sul terreno delicato dei provvedimenti anticrisi che stanno al centro della sua ragion d’essere. Ma la prospettiva che nelle prossime settimane le trattative con i partiti diventino più faticose, per via delle esigenze elettorali, comincia a farsi concreta e a preoccupare Monti. La sensazione è che la confusione politica, che si trascina da tempo, sia destinata a durare almeno fino a quando non si capiranno le sorti della nuova legge elettorale, in via d’approvazione al Senato, ma attesa alla Camera da un fronte trasversale dei lunghi coltelli.

da - http://lastampa.it/2012/10/18/cultura/opinioni/editoriali/ma-resta-l-incognita-partiti-VIvgO9kxnSrfD9ScN4uncI/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il suicidio politico della Seconda Repubblica
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2012, 06:01:03 pm
Editoriali
03/10/2012 - taccuino

Il suicidio politico della Seconda Repubblica

Marcello Sorgi

L’ondata di corruzione che sta portando al suicidio politico la Seconda Repubblica non si arresta. Anzi, negli ultimi giorni ha subito una recrudescenza: ieri con l’arresto di Franco Fiorito, il «Batman» di Anagni, attorno a cui ruota lo scandalo del Pdl del Lazio. E lunedì con la richiesta di rinvio a giudizio di Penati, il regista del «sistema Sesto» che ha fatto emergere una rete di tangenti destinate al Pd e distribuite con un ingegnoso sistema di falsi acquisti e false caparre.

 

Ci si aspettava, di fronte a un quadro del genere, un’accelerata nell’approvazione della legge anti-corruzione giacente da mesi in Parlamento: ma per quanto il ministro della Giustizia Severino si sia impegnata, negli ultimi giorni, per arrivare a un compromesso che possa mettere d’accordo la maggioranza, il Pd continua ad accusare il centrodestra di voler far passare sottobanco gli emendamenti «salvaRuby» che dovrebbero servire a far cadere l’accusa di concussione pendente contro Berlusconi nel processo per il «bunga-bunga». Il segretario del Pdl Angelino Alfano ha tentato di parare, presentando un altro emendamento, cosiddetto «anti-Batman», per aumentare le pene per chi si appropria a fini personali dei fondi pubblici dei partiti. E il presidente del Senato Schifani, vista la confusione che continua a circondare la discussione, non ha potuto promettere di meglio che cercare di far concludere l’iter parlamentare del testo entro due settimane.

 

Nel frattempo, le novità che giorno dopo giorno vengono fuori dalle inchieste sono enormi. L’arresto di Fiorito (che ha dichiarato: «In carcere troverò gente migliore di quella del Pdl») è stato deciso perché dai primi accertamenti è emerso che si era appropriato di un milione e mezzo di euro (e su altri 4,6 sono in corso accertamenti), soldi usati anche per comperare la villa al Circeo e, lo scorso inverno, anche un fuoristrada (poi rivenduto) per far fronte alle nevicate che si erano abbattute su Roma!

 

In casa Pd la richiesta di rinvio a giudizio per Penati, fino a poco tempo fa vicepresidente del consiglio regionale lombardo, sta creando molta agitazione. Ci sono pressioni per farlo dimettere. Tra gli altri, insiste Pippo Civati, uno degli esponenti più critici della nuova generazione. Anche Bersani è in imbarazzo. Ma Penati continua a resistere: difeso, guarda caso, dal governatore Roberto Formigoni, anche lui alle prese con guai giudiziari e con richieste di dimissioni che si trascinano da mesi, e che potrebbero portare la Lombardia al voto regionale anticipato la prossima primavera.

 
http://lastampa.it/2012/10/03/cultura/opinioni/editoriali/il-suicidio-politico-della-seconda-repubblica-DWuL9JiGq5K6xgbq6Xs7eP/index.html


Titolo: MARCELLO SORGI. La nuova corsa al centro
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2012, 06:09:45 pm
Editoriali

01/10/2012

La nuova corsa al centro

Marcello Sorgi

Contrariamente a quel che gli chiedono due su tre dei suoi principali alleati, Mario Monti non deve affatto chiarire le sue vere intenzioni, né candidarsi alle prossime elezioni, in alternativa a Bersani (se vincerà le primarie del Pd) e a Berlusconi (se alla fine sceglierà di scendere di nuovo in campo). Dopo quel che ha detto a New York tre giorni fa, il presidente del Consiglio, per fare il bis a Palazzo Chigi, deve solo continuare a governare, limitando allo stretto necessario, come fa sempre, le sue esternazioni.

 

Quando è all’estero - e gli capita sovente, viste le dimensioni globali della crisi -, Monti, si sa, parla soprattutto ai suoi interlocutori stranieri e ai mercati, che gli chiedono sempre cosa sarà dell’Italia dopo di lui. In questo quadro, è bastato che dichiarasse la sua disponibilità a restare al suo posto anche dopo le elezioni del 2013, per provocare un terremoto politico dalla portata imprevedibile.

 

Basta solo rivedere cosa è successo nei fatidici tre giorni seguiti all’intervento al Council of Foreign Relations. A cominciare dalla novità di Montezemolo, che dopo un’attesa durata troppo a lungo, ha sciolto finalmente la sua riserva. 

 

E invece di scendere in campo in prima persona, ha deciso di schierarsi per il bis dell’attuale premier. Già prima che il presidente della Ferrari si pronunciasse, tuttavia, lo schieramento centrale che punta a un rassemblement dei moderati a sostegno di Monti era nato e cresciuto, e da ieri si presenta piuttosto affollato.

Quando Casini, il 7 settembre, aveva cominciato a dire chiaramente che non c’era altra strada, più di uno aveva arricciato il naso. Anche la fondazione «Italia futura», che fa capo a Montezemolo, aveva criticato l’accelerata centrista, in mancanza di un vero rinnovamento del personale politico. Ma adesso, dopo la disponibilità manifestata da Monti, sono in tanti a prendere atto che aveva ragione Pierferdy, e con il mestiere politico che tutti gli riconoscono, aveva colto subito il mutar del vento.

 

Così che oggi lo schieramento montiano può contare su Fini, sul suo Fli e sui nuovi movimenti di Oscar Giannino e Ernesto Auci. Altri probabilmente verranno nei prossimi giorni. E c’è perfino chi si chiede cosa succederebbe se Renzi, battuto nelle primarie, dovesse tuttavia raggiungere un risultato che gli consenta di influire sulla linea del Pd.

 

Quelle, simmetriche, di Bersani e Alfano, sono infatti al momento le resistenze che minacciano di ostacolare il successo dell’operazione. Dato che si tratta di posizioni meditate, conviene analizzarle e approfondirle: perché si tratta certamente di atteggiamenti coincidenti, ma frutto di percorsi diversi. Non va dimenticato che Bersani, oltre ad essere impegnato nelle primarie - e quindi impossibilitato, come possibile candidato premier, a farsi da parte in favore di Monti -, aveva già rinunciato a novembre 2011 a elezioni anticipate che lo avrebbero visto favorito e avrebbero colto Berlusconi nel suo momento più basso. Quindi il «no» del leader del Pd al bis è meditato e in qualche modo obbligato.

 

Il quadro del Pdl invece è differente. Pur sapendo che è impossibile, Alfano sfida Monti a candidarsi alle elezioni, e non esclude che il Pdl possa appoggiarlo. Sotto sotto, questo è il retropensiero di Berlusconi, che non a caso, seppure sollecitato dal suo partito, aspetta a dirsi pronto a riscendere in campo. Magari alla fine lo farà: ma se Monti, come ha fatto già capire, dovesse dichiarare che è disponibile a restare, se anche la larga maggioranza che lo sostiene sarà confermata, c’è da giurare che l’atteggiamento del Cavaliere potrebbe cambiare.

 

Stiamo insomma assistendo a una sceneggiata. Il leader del Pd e quello del Pdl sanno benissimo che una parte dei loro elettori non vogliono né il bis né restare alleati di quelli che considerano i loro avversari. Ma sanno altrettanto bene che gli toccherà farglieli digerire dopo il voto. Adesso è il momento dei sogni. Dopo verrà l’ora di fare i conti con la realtà.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/01/cultura/opinioni/editoriali/la-corsa-sul-carro-del-professore-u8Ld6ltGJF6hnfV8reQz0L/index.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Le primarie e il conflitto d’interessi di Soro
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2012, 03:58:32 pm
Editoriali
24/10/2012 - taccuino

Le primarie e il conflitto d’interessi di Soro

Marcello Sorgi

Nel Pd la corsa alle primarie diventa più dura e si arriva alla carta bollata. L’esposto che Matteo Renzi ha presentato all’Autorità garante della privacy, contro l’obbligo di sottoscrivere l’appello ed essere inseriti in un elenco per partecipare alle votazioni, segna un ulteriore passo avanti verso una campagna senza esclusione di colpi. Una tendenza già manifestatasi nei giorni scorsi, quando Bersani, dopo l’incontro di Renzi con un gruppo di uomini di finanza, lo aveva accusato di accompagnarsi troppo disinvoltamente con soggetti che frequentano i paradisi fiscali delle Cayman Islands.

Ma il ricorso di Renzi al Garante della privacy rischia di essere imbarazzante per un’altra ragione. A capo dell’Autorità, pochi mesi, fa è stato nominato Antonello Soro, l’ex capogruppo del Pd, e prima ancora della Margherita, che aveva lasciato il posto di presidente dei deputati alla Camera a Dario Franceschini. Soro, va detto, è una persona seria, non è tipo da prestarsi a giochi e giochini. Inoltre, trovandosi a capo di un organo collegiale, difficilmente potrebbe far passare una decisione politica camuffandola da ordinanza giuridica.

Ma con il clima che sta montando dentro e fuori il Pd (vedi le polemiche che hanno accompagnato la designazione di Giovanna Melandri alla presidenza del Maxxi), sarà inevitabile che il responso dell’Autorità venga attaccato. Se infatti accoglierà le obiezioni di Renzi, si dirà che lo ha fatto perché Soro, obbedendo alla sua natura democristiana, s’è schierato con lui contro Bersani. E se invece gli darà torto, si sosterrà che, per la stessa ragione, tra il sindaco cattolico di Firenze e i suoi avversari democristiani del Pd, ha scelto i secondi.

Forse Soro farebbe bene ad astenersi dal partecipare alla seduta del consiglio dell’Autorità che, «presto», come lui stesso ha assicurato, si occuperà del caso. Ma anche se lo farà, non è detto che la sua assenza non suoni da conferma alle obiezioni che tendono a sottolineare il possibile conflitto di interesse tra la sua lunga carriera politica e l’incarico di garanzia che adesso ricopre.

Quando Soro fu designato, a protestare contro la sua nomina, fu Romano Prodi in persona: disse che non erano più tempi di lottizzazione e che il Pd con quella scelta correva il rischio di farsi male. Non poteva immaginare che sarebbe accaduto così presto. Ma con quel che sta accadendo in questi giorni, oggi il monito dell’ex-presidente del consiglio e leader dell’Ulivo suona come un presagio.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/24/cultura/opinioni/editoriali/le-primarie-e-il-conflitto-d-interessi-di-soro-ZlDIpzDqc7HMvpNeGfDj1O/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Centrodestra, l’eredità difficile
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2012, 09:28:39 am
Editoriali

25/10/2012


Centrodestra, l’eredità difficile

Marcello Sorgi


Ci sono molti aspetti sorprendenti della caduta - stavolta, pare, definitiva - di Berlusconi. Il primo è che fino a ieri diceva il contrario, voleva restare in campo per fondare un nuovo partito, con le sue Amazzoni o con il marchio originario di Forza Italia. Il secondo è che voleva sciogliere il Pdl, e invece dal Pdl è stato sciolto. Il terzo è che non ha indicato un successore, e per trovarlo anche il centrodestra andrà alle primarie, il 16 dicembre. 

 

Questi tre fattori messi insieme dicono che il vecchio Silvio non è caduto da padre-padrone, come si era abituati a conoscerlo. Ma, più o meno, come uno dei tanti leader che prima o poi si ritrovano in minoranza, e a cui il vertice del partito fa sentire i rintocchi della fine.

Una conclusione così normale, così banalmente politica, era assolutamente imprevedibile per l’uomo che aveva guidato la rivoluzione della Seconda Repubblica, anche se da un anno almeno il Cavaliere girava a vuoto, sommando sconfitte su sconfitte, e il disastroso punto d’arrivo del suo ventennio era ormai sotto gli occhi di tutti. Basta solo paragonare la situazione attuale a quella del ’93, senza pretese di bilanci storici che certo richiederanno più approfondimento, e guardandosi anche dal caricare tutte le responsabilità del fallimento sul Cavaliere.

 

La corruzione, che fu alla base del crollo della Prima Repubblica, è oggi, se possibile, peggiorata. Se non altro, allora c’erano ragionevoli dubbi che una parte dei proventi delle tangenti pagate dai privati servissero al finanziamento occulto della politica. Ora è il contrario: i soldi pubblici, che lo Stato versa ai partiti e ai gruppi parlamentari e regionali, finiscono nelle tasche degli eletti, che li adoperano per i più disparati usi personali.

Le riforme, che furono la bandiera, non solo del Berlusconi vincente del ’94, ma anche dei suoi avversari che lo sostituirono al governo nel ’96 e nel 2006, sono rimaste in questi decenni, durante ben cinque legislature, una vuota declamazione e un’ennesima occasione di scontro. Le rare volte che si è riusciti, in fretta e per esigenze elettorali, ad approvarne qualcuna - federalismo e revisione costituzionale del centrodestra, decentramento e nuovo Titolo Quinto del centrosinistra - le conseguenze sono state tali da far rimpiangere subito l’antico testo della Costituzione.

 

A ben vedere anche il bipolarismo, l’apertura del gioco politico a tutto campo e la piena legittimazione di tutte le forze politiche - questo sì, un merito che a Berlusconi va riconosciuto - ora sta per essere cancellato, da una riforma elettorale che, in un modo o nell’altro, vuol riproporre il vecchio impianto proporzionale della Prima Repubblica e il sistema partitocratico che aveva nel Parlamento il laboratorio di ogni alchimia.

 

Sembra impossibile che questo possa essere davvero lo sbocco di un ventennio così tormentato. E che lo diventi proprio nel momento in cui i due maggiori partiti, consapevoli delle loro crisi - pur diverse, nella genesi e nell’entità - affidano ai rispettivi elettori il responso sul loro futuro. Se è finita o deve finire l’epoca del populismo e del plebiscitarismo, incarnata principalmente da Berlusconi, non si capisce perché leader aspiranti o sopravvissuti cerchino ancora la rilegittimazione nei gazebo. Se invece credono che solo il lavacro dell’opinione pubblica, prima ancora che il voto popolare vero e proprio, possa renderli di nuovo credibili, forse dovrebbero rivolgersi ai cittadini con maggiore sincerità. E con argomenti più convincenti, che non facce, storie familiari e promesse destinate purtroppo a essere smentite dai fatti.

 

Ma per tornare al centrodestra, terremotato, prima dal declino di Berlusconi, e adesso dal suo repentino addio, non è detto che riesca a ritrovare così presto un nuovo equilibrio. L’ipotesi che, uscito il Cavaliere, tutti i pezzi sparsi si ricompongano miracolosamente, varrà - se varrà - per il Pdl, che con le primarie potrà designare, finalmente in modo democratico, il successore del Cavaliere (Alfano è il candidato che parte più forte). Se invece, come sembra, e come ha riproposto di recente il presidente del Senato Schifani, l’obiettivo è di ricomporre la coalizione, da Casini a Storace, che ha sempre vinto le elezioni quando s’è presentata unita, il cammino sicuramente sarà più lungo.

 

I centristi infatti non hanno molta intenzione di farsi riattirare nel meccanismo dei due schieramenti alternativi, che si contendono la guida del Paese non riuscendo poi a governarlo. In questo senso, l’uscita dalla prima linea di Berlusconi fa chiarezza, ma non basta. E la partita torna al punto di partenza: dove deve andare l’Italia? Avanti o indietro? Verso che tipo di repubblica e democrazia? Con più o meno Europa?

Serietà vorrebbe, visto il pesante bilancio degli ultimi anni, che interrogativi del genere fossero affrontati con l’impegno, le riflessioni e la pacatezza che richiedono. E senza l’ansia di riconnetterli per forza alla corsa per la conquista, o la riconquista, del governo. Che per fortuna - speriamo ancora per un po’ di tempo - può restare nelle salde mani di Monti.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/25/cultura/opinioni/editoriali/centrodestra-l-eredita-difficile-ycG7TTULBVweWkZpywWdIO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Berlusconi, l’incognita della possibile ridiscesa in campo
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2012, 12:05:14 pm
Editoriali

26/10/2012 - taccuino

Berlusconi, l’incognita della possibile ridiscesa in campo

Marcello Sorgi

Ma sarà vero che ha mollato? Il giorno dopo tutti sono increduli, neppure il bis tv dell’addio, con la stessa scenografia della discesa in campo, riesce a fugare i timori che Berlusconi, sotto sotto, sia uscito da una porta girevole, come se fosse pronto a tornare sui suoi passi, se dovesse offrirsene l’occasione. Ora tutti gli occhi sono puntati su Alfano, il candidato favorito alle primarie, alle quali, già ieri, minacciavano di presentarsi una decina di aspiranti. Se va avanti così anche la consultazione interna del centrodestra, dopo quella del Pd, dovrà essere regolamentata, per evitare che sfocino in una specie di rissa tra gli eredi del berlusconismo. Il primo compito del segretario in carica del Pdl sarà proprio questo: governare il passaggio complicato della fine della leadership carismatica del Cavaliere, e portare il partito al voto che dovrà designare il candidato premier.

E’ un percorso pieno di ostacoli, e Alfano non se lo nasconde. L’avvio sarà condizionato dal risultato delle elezioni siciliane: la vittoria o la sconfitta del centrodestra peseranno particolarmente sul segretario, originario dell’isola, anche se non in modo definitivo. Più in generale, il destino di Alfano dipenderà dalla sua capacità di mostrarsi autonomo da Berlusconi, ora che Berlusconi s’è fatto da parte, smentendo l’immagine di obbediente «segretario del leader» che per oltre un anno è stata usata contro di lui.

Indicativo, in questo senso, sarà il test della riforma elettorale. Se davvero il Pdl vuole spendersi per ricostruire l’alleanza tra moderati che Berlusconi aveva distrutto, rompendo prima con Fini e poi con Casini, Alfano dovrà cercare di far approvare la nuova legge elettorale semiproporzionale. Per riagganciare l’Udc, questo, e non altro, è il prezzo da pagare: e la cautela mostrata da Casini, di fronte all’abbandono del Cavaliere, nasce proprio di qui. Se invece la riforma dovesse affondare, come teme il presidente del Senato Schifani, e come alla Camera molti danno per scontato, vorrebbe dire che anche dal suo esilio politico Berlusconi, più propenso a lasciare in vigore il Porcellum, è ancora in grado di dettare la linea. E i dubbi di chi si aspetta un suo plateale ritorno in scena, a quel punto, diventerebbero più fondati. Intanto anche i tempi della legge elettorale sono destinati ad allungarsi: sarà difficile che Alfano prima delle primarie possa muoversi con piena agibilità politica. Anche Casini e Maroni, potenziali alleati di ritorno, aspetteranno di vedere i risultati dei gazebi, per decidere se dar credito o no ad Angelino.

da - http://lastampa.it/2012/10/26/cultura/opinioni/editoriali/l-incognita-della-possibile-ridiscesa-in-campo-cdxSAQy3zV9MZqLU1KsaZP/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Presto Palermo sarà il solito incubo Ma la destra esce a pezzi
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2012, 05:38:21 pm
Editoriali
30/10/2012 - taccuino

Presto Palermo sarà il solito incubo

Ma la destra esce a pezzi

Marcello Sorgi


Se aveva qualche timore per l’esito del voto in Sicilia, Mario Monti può stare tranquillo: dal voto regionale nell’isola tutti i partiti tradizionali, anche quelli che hanno vinto, escono un po’ ammaccati. L’astensione di più della metà degli elettori - una percentuale mai vista prima - è il segno di uno scollamento dell’elettorato assai difficile da recuperare. La vittoria dell’alleanza Pd-Udc non basta a dare al nuovo presidente la maggioranza per governare (anche se le liste di Vendola hanno perso e resteranno fuori dall’assemblea regionale): Crocetta dovrà ricorrere all’appoggio di Miccichè, ma soprattutto a quello dell’ex governatore Lombardo, che, uscito dalla porta delle regionali a causa dei suoi guai giudiziari, avrà subito l’occasione per rientrare dalla finestra. Il «risultato storico» di cui ieri parlava Bersani presto si trasformerà nel solito «inciucio»; e verrà adoperato contro il Pd come argomento elettorale in una delle prossime votazioni.

 

La destra che si presentava divisa, con due candidati, esce a pezzi dalla competizione. Alfano in una conferenza stampa ha reagito confermando le primarie, ma senza prendere le distanze dal Berlusconi di lotta rientrato pienamente in campo sabato. Il destino del segretario del Pdl dipenderà da quanti candidati si presenteranno per sbarrargli la strada o farlo vincere, sì, ma con una percentuale modesta che lo costringerebbe a negoziare con tutte le varie anime del suo partito.

 

Grillo e il suo movimento, usciti primi dalle urne siciliane, restano la grande incognita delle prossime elezioni politiche del 2013. Ma anche lui, il comico giunto a nuoto sulle coste siciliane, ha vinto restando sotto il 20 per cento. Con un Parlamento fatto di piccoli partiti e di piccoli gruppi parlamentari, la situazione italiana non potrebbe che peggiorare. Di qui, da un lato l’incubo di vedere anche in Italia un quadro politico simile a quello della Grecia; e dall’altro la necessità, per tutti, di riflettere sul Monti-bis. Dicendo chiaramente, da ora, che quella è l’unica prospettiva per far sì che il Paese sia governato. E non agitando ancora inutili illusioni, a cui gli elettori, del resto, hanno già dimostrato di non credere.

 da - http://lastampa.it/2012/10/30/cultura/opinioni/editoriali/presto-palermo-sara-il-solito-incubo-ma-la-destra-esce-a-pezzi-pQzRRXJfYe0FTTN6e6FU9M/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Colle, la Consulta e la riforma necessaria
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2012, 05:58:21 pm
Editoriali
31/10/2012 - taccuino

Il Colle, la Consulta e la riforma necessaria

Marcello Sorgi

Il nuovo appello, ieri, di Napolitano sulla legge elettorale è strettamente connesso all’uscita di Berlusconi, sabato, dopo la sentenza di Milano, e ai risultati delle elezioni regionali in Sicilia di lunedì. Il Capo dello Stato, e non solo lui, ne ha tratto l’impressione che entrambi i fatti fossero destinati a ripercuotersi negativamente sul cammino della riforma, giunta faticosamente al Senato alla vigilia della discussione in aula. Di qui il suo ulteriore richiamo.

 

Nel caso del Cavaliere, infatti, il suo atteggiamento favorevole al mantenimento del Porcellum era esplicito. E l’incontro avuto due giorni fa con Bossi e Calderoli tendeva a rimettere in piedi, per quanto possibile, il vecchio asse del Nord Pdl-Lega. Quanto ai risultati delle elezioni siciliane, è evidente che un ritorno al proporzionale, che spingerebbe i partiti a presentarsi ciascuno per conto proprio, finirebbe con il favorire Grillo e il suo movimento in irresistibile ascesa.

 

Napolitano non è entrato nel merito del dibattito, che sotto sotto punta a sabotare la nuova legge. Ha solo inteso ricordare che il Porcellum, così com’è, non è una soluzione, e che una riforma è comunque necessaria. Da giorni, ormai, circola voce il Presidente potrebbe indirizzare al Parlamento un messaggio formale su questo argomento. E anche se non è detto che lo faccia a breve termine, Napolitano, a chi è andato a trovarlo per discuterne, ha ricordato che è stata la Corte costituzionale, in occasione della sentenza sui referendum, a dichiarare che il meccanismo del premio di maggioranza contenuto nel Porcellum dev’essere cambiato, perchè rischia di alterare la normale espressione della volontà popolare. Teoricamente, infatti, se al voto si presentassero diversi schieramenti, e non solo due coalizioni avversarie, come appunto è avvenuto in Sicilia, potrebbe darsi il caso che una delle liste, solo per il fatto che è arrivata prima e a prescindere dalla quantità di voti raccolti, conquistasse alla Camera, grazie al premio, il 55 per cento dei seggi. Per correggere questo meccanismo, ed eliminare le storture connesse, occorrerebbe stabilire una soglia a partire dalla quale far scattare il premio: minimo il 35-40 per cento, per far sì che la lista che se lo aggiudica possa almeno contare su una maggioranza relativa conquistata nelle urne.

 

Il Parlamento, in altre parole, non può scegliere se fare o no la riforma. La Consulta ha stabilito che deve farla comunque.


da - http://www.lastampa.it/2012/10/31/cultura/opinioni/editoriali/il-colle-la-consulta-e-la-riforma-necessaria-uMUrythFEMlCaJoqDoOVZP/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Le regole che cambiano i giochi del centro
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2012, 10:22:12 pm
Editoriali
06/11/2012 - taccuino

Le regole che cambiano i giochi del centro

Marcello Sorgi

A Mario Monti non piace l’idea che qualcuno dei suoi ministri si candidi alle prossime elezioni. Ma se proprio dev’essere - ha spiegato a Bruno Vespa in una lunga intervista per il suo prossimo libro - l’augurio è che siano pochi e distribuiti tra i diversi schieramenti. Fin qui, però, le ipotesi di candidature di ministri sono rimaste un po’ per aria. La tendenza è stata quella di avvicinarsi, più che a sinistra e a destra, al centro. Per la destra, in particolare, nessun ministro ha mostrato simpatie. A sinistra s’è parlato di una possibile candidatura del ministro per la coesione Barca. A settembre, un folto gruppo di rappresentanti del governo si presentò al convegno organizzato da Casini in vista di un allargamento dell’Udc. 

In realtà l’unico che in un paio di interviste ha lasciato intravedere la propria disponibilità a restare in politica (anche non necessariamente candidandosi per il Parlamento), e continuare nel proprio impegno, è Corrado Passera, che è anche il più corteggiato tra i membri del governo. Ma il problema della collocazione in lista dei possibili candidati è ancora aperto e resta legato a quale sarà la scelta finale di Casini, in attesa, a sua volta, di conoscere lo sbocco finale della riforma elettorale.

Se si arriverà a una nuova legge (e in questo senso il pressing del Quirinale diventa ogni giorno più forte) e se il risultato sarà il ritorno al proporzionale, Casini guiderà il centro e solo dopo il voto negozierà un’eventuale alleanza con la sinistra. L’obiettivo è quello di arrivare, anche grazie a candidature eccellenti come quella di Passera e ad alleanze con altre formazioni centriste come Italia Futura di Montezemolo, a uscire dall’attuale condizione di minoranza e raccogliere tra il dieci e il quindici per cento dei voti, un risultato che renderebbe i centristi determinanti nelle trattative per il nuovo governo. 

Se invece dovesse restare il Porcellum, così com’è o con una modifica che consenta l’assegnazione del premio solo alle coalizioni che raggiungono il quaranta per cento, Casini, che nei giorni scorsi ha detto che non rinnoverà l’alleanza con il centrodestra nelle regionali di Lombardia e Lazio, potrebbe anche decidere alla fine di stabilire un accordo con Bersani, seppure in termini da vedere. In questo caso, che è di là da venire, non bisogna dimenticarlo, i centri potrebbero diventare due: uno, appunto, alleato del centrosinistra. E l’altro dei possibili candidati ministri.

da - http://lastampa.it/2012/11/06/cultura/opinioni/editoriali/le-regole-che-cambiano-i-giochi-del-centro-eYgaVAZYtOg5TsoV9Ww0OL/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il compromesso possibile
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2012, 04:25:03 pm
Editoriali
07/11/2012

Il compromesso possibile

Marcello Sorgi


Il nuovo blitz sulla legge elettorale in commissione al Senato non dev’essere drammatizzato, anche se ieri ha provocato un mezzo putiferio. Già contrario al meccanismo con cui una maggioranza formata da Udc, Pdl e Lega aveva introdotto una soglia minima per l’ottenimento del premio di maggioranza, il Pd ha considerato quasi un golpe l’innalzamento della stessa soglia. Ed in effetti, passare dal 37,5 per cento al 42,5 per cento vuol dire rendere quasi irraggiungibile il premio, e tornare, in pratica, al sistema proporzionale. Quello adoperato per quasi mezzo secolo nella Prima Repubblica, in base al quale i partiti si presentavano ognuno per conto proprio e solo dopo il voto trattavano in Parlamento per decidere le alleanze con cui governare.

 

Attualmente, con il Porcellum, è l’opposto: la lista che prende più voti, indipendentemente da quanti ne prende, ottiene il premio e conquista il 55 per cento dei seggi alla Camera. Al Senato il meccanismo è diverso perché si vota su base regionale e si concorre, dunque, per tanti premi quante sono le regioni. Teoricamente (ma fin qui non s’è mai verificato, e il Porcellum ha fatto vincere una volta Prodi e una Berlusconi), con un quadro politico simile a quello delle regionali siciliane, il Movimento 5 stelle, giunto primo con il 18 per cento, avrebbe potuto ottenere ben 340 deputati a Montecitorio.

 

Ma anche prima che la campana suonasse in Sicilia, la Corte costituzionale era intervenuta per segnalare il rischio di uno stravolgimento del meccanismo elettorale, a prescindere da chi poi si fosse trovato a incassare un risultato «drogato» dal premio. Occorre ancora sottolineare, infatti, che in Sicilia, sempre per restare allo stesso esempio, più di metà degli elettori hanno disertato le urne. La tabella delle percentuali, di conseguenza, va dimezzata: il vincitore, che con la sua coalizione s’è piazzato poco oltre il 30 per cento, ha in realtà raggiunto solo il 15; lo sconfitto che è arrivato al 26, di fatto il 13. E così via, fino a Grillo, che è stato, sì, la rivelazione, non essendosi alleato con nessuno e avendo trionfato lo stesso, ma appunto ha messo insieme un 18 per cento che in sostanza vale 9.

 

Fuori dalle complicate alchimie dei numeri, se ne ricava che i giudici costituzionali avevano visto bene, e in anticipo, dove ci avrebbe portato l’idea di pompare i risultati elettorali, e rimediare così al deficit di politica che ha accompagnato tutto il ventennio della Seconda Repubblica. L’illusione che coalizioni rissose e incapaci di governare potessero essere sostituite da alleanze dai confini più ristretti, ma dalle dimensioni gonfiate artificialmente, s’è consumata nel corso di quest’ultima legislatura. Non ha funzionato per Berlusconi, che ha visto dissolversi tra risse e lotte intestine il Pdl e la sua maggioranza di oltre cento deputati. Né per Veltroni e il Pd, sconfitto alle ultime elezioni, e tornato precipitosamente con Bersani a cercare l’alleanza con la sinistra estrema. 

 

Di qui, prima ancora che la Corte si pronunciasse, l’esigenza di una nuova legge elettorale. E l’insistenza, anche in questi ultimi giorni, di Napolitano, per spingere i partiti verso l’accordo e verso un compromesso ragionevole. Diciamo la verità, ci sarebbe stato tutto il tempo, in cinque anni di legislatura, per portare a casa questa come altre riforme urgenti. Sarebbe pure servito a dare la sensazione di una politica che cerchi di ritrovare se stessa e provi a parare così gli attacchi dell’antipolitica. Invece, lungo tutto questo tempo, s’è assistito a un nulla di fatto, al suicidio di una classe dirigente, che, tra incapacità di decidere e incremento della corruzione, è riuscita solo a offrirsi come bersaglio a un’opinione pubblica indignata e disorientata.

A questo punto, tuttavia, è inutile recriminare. Con le poche settimane che rimangono, di qui allo scioglimento delle Camere, è diventato indispensabile scoprire le carte e rinunciare a qualsiasi sotterfugio o tentazione di propaganda, anche se le elezioni si avvicinano. Quella soglia del 42,5 per cento, uscita dalla commissione del Senato, e da ieri al centro delle polemiche, in una seria trattativa politica, potrebbe scendere al 40 per cento, o ancora di qualcosa: trasformandosi in un obiettivo possibile per un’alleanza bene assortita, con un programma condiviso, e una squadra di governo qualificata e in grado di affrontare i pesanti problemi che il Paese continuerà ad avere davanti nei prossimi anni.

 

Chiudere l’epoca della Seconda Repubblica è ormai diventato indispensabile. Ma non è affatto scontato, come preannunciano i venti di guerra che arrivano dalla Camera in direzione del Senato. Tutto dipenderà dal buon senso e dalla disponibilità dei principali leader politici. Riflettano. E trovino un punto di incontro, dal momento che la riforma, dopo la sentenza della Consulta, non è aggirabile, e potrebbe far da base a un nuovo inizio per un sistema politico esausto. Restare ancora nella terra di mezzo, invece, sarebbe veramente disastroso.

da - http://lastampa.it/2012/11/07/cultura/opinioni/editoriali/il-compromesso-possibile-XmuJzUKUNnob6UBwiqUyxJ/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Nessuno vuole arrivare in aula senza un patto preventivo
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2012, 11:20:55 pm
Editoriali
08/11/2012 - taccuino

Nessuno vuole arrivare in aula senza un patto preventivo

Marcello Sorgi

Il giorno dopo il voto a sorpresa in Senato sulla riforma elettorale, che ha alzato al 42,5 per cento la soglia per l’ottenimento del premio di maggioranza, il presidente Schifani, d’intesa con il Quirinale, insiste perchè il testo destinato all’aula possa uscire dalla commissione con un consenso il più largo possibile.

 

Il tentativo è di recuperare il Pd, che ha preso malissimo l’approvazione a sorpresa dell’emendamento che introduce un limite quasi insormontabile al premio, e di fatto reintroduce il proporzionale. Bersani accusa Casini di aver voluto in questo modo lavorare per una legge che riduca il quadro politico dopo le elezioni a una «palude», dalla quale poi anche un Monti-bis farebbe fatica a venir fuori. Casini ovviamente respinge le accuse, ma conferma che lasciando in vigore il Porcellum si darebbe all’alleanza Bersani-Vendola, valutata sul 30 per cento, la possibilità di prendersi il 55 per cento dei posti alla Camera: prospettiva, questa, da evitare a qualsiasi costo secondo l’Udc.

 

Dietro queste schermaglie, tuttavia, la trattativa è in corso. L’ipotesi di cui si parla è di ridurre la soglia di accesso al premio dal 42,5 al 40, sempre più del 37,5 per cento uscito dalla prima votazione sulla riforma. Una coalizione che sia in grado di raggiungere questo obiettivo, al momento, non c’è, né s’intravede all’orizzonte. 

Per questo Bersani resiste, accusando Udc, Pdl e Lega di voler far passare al Senato una legge contro il Pd. Una trattativa parallela si sta svolgendo sull’ipotesi di un premio più ridotto da assegnare alla lista che dovesse arrivare prima, anche senza ottenere la maggioranza. Si tratterebbe di una sorta di premio di consolazione, che rafforzando la posizione del primo partito, metterebbe comunque il leader vincitore nelle condizioni di ricevere l’incarico di formare il governo, seppure subordinato a una trattativa che si svolgerebbe dopo il voto.

 

In realtà nessuno ha interesse a portare in aula un testo che, pur se approvato al Senato, dove il centrodestra ha ancora la maggioranza, troverebbe alla Camera, dove il regolamento prevede il voto segreto, un’accoglienza densa di incognite e un probabile fronte trasversale di franchi tiratori. 

 

Napolitano spinge per convincere il Parlamento ad approvare la riforma, ma dopo quanto è accaduto martedì sa di doversi adoperare perchè anche il Pd sia soddisfatto. Berlusconi, tornato dalle vacanze, segue tutta la trattativa passo passo e ieri ha avuto un primo incontro con Alfano e il vertice del Pdl.

 da - http://www.lastampa.it/2012/11/08/cultura/opinioni/editoriali/nessuno-vuole-arrivare-in-aula-senza-un-patto-preventivo-fYXmp0HmcsELeebQj2ofvO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. La parentesi che non si chiude
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2012, 04:04:19 pm
Editoriali
11/11/2012

La parentesi che non si chiude

Marcello Sorgi

Il primo anniversario del governo Monti e della caduta di Berlusconi ci porta la conferma di una legge, non scritta, ma saldamente scolpita nel dna dell’Italia: l’impossibilità, per un Paese come il nostro, di essere o diventare normale. 

Anche in questi dodici mesi, che hanno segnato il crollo della Seconda Repubblica, l’Italia, più che alle regole della politica, ha continuato ad obbedire ad uno dei principi fondamentali della fisica: nulla si crea e nulla si distrugge. E basta solo confrontare quel che è accaduto nello stesso periodo nel resto del mondo per accorgersi che è così. 

In un modo o nell’altro, in Europa, anche le crisi più gravi hanno trovato uno sbocco, dal Belgio in cui da dicembre il socialista Elio Di Rupo ha posto fine a un vuoto di governo che durava da 540 giorni, alla Grecia in cui s’è dovuto votare due volte in un mese, alla Francia ex di Sarkozy e ora di Hollande, alla Spagna dove l’eredità di José Luis Zapatero pesa sulle spalle di Mariano Rajoy.

 

Da noi invece la parentesi che doveva servire a calmare le acque, fin troppo agitate, dell’ultimo governo, potrebbe allungarsi anche nella prossima legislatura, e Monti è il candidato più autorevole a succedere a se stesso. Mentre Berlusconi, dato politicamente per morto un anno fa, è ancora sulla scena, e nelle ultime settimane ha annunciato alternativamente, due o tre volte, il suo ritiro e il rientro in campo. Tornano, o stanno per tornare, gli irriducibili della sinistra radicale, fuorusciti dal Parlamento nel 2008 per la rottura dell’alleanza con il Pd voluta da Veltroni (che non si ricandiderà), e riammessi da Bersani, che li ha ripescati con Vendola. Bossi, a causa degli scandali che hanno investito la sua famiglia, non è più il capo della Lega, ma non s’è messo da parte. Le novità sono Grillo e Renzi: ma il primo, nello spettacolo, se non proprio nella politica-spettacolo, c’è da un bel po’. E il secondo è pur sempre il sindaco di Firenze: se perderà le primarie, non diventerà certo un Cincinnato.

 

Tutto si tiene: la discussione sulla nuova legge elettorale, indispensabile, vista l’insostenibilità di quella attuale, consiste nella ricerca del metodo migliore per consentire a chiunque di salvarsi, vincenti possibili e futuri perdenti. Se alla fine la riforma ci sarà, avremo tre, e non più due, schieramenti: sinistra, centro e destra, in cui vecchi e nuovi si mescoleranno, per regolare poi i conti in campagna elettorale. Se non ci sarà e resterà il Porcellum, vedremo rinascere il bipolarismo - centrodestra contro centrosinistra -, con amicizie e alleanze ritrovate, tra quelle che sembravano finite per sempre.

 

A ben vedere è abbastanza anomalo anche il modo in cui abbiamo fatto l’esperienza della larga coalizione, che in quest’anno ha sostenuto il governo Monti. Altrove, non c’è niente di strano, se per un periodo partiti abitualmente avversari si mettono insieme, per affrontare gravi problemi del loro Paese che richiedono uno sforzo comune. E’ successo in Germania e sta accadendo in Grecia. Qui al contrario è una soluzione praticata di nascosto, basata sul dire il contrario di ciò che è e sul «si fa, ma non si dice». Si cominciò, viene quasi da ridere a ricordarlo, con un vertice segreto, tra Monti, Alfano, Bersani e Casini, nel tunnel sotterraneo che collega il Senato a Palazzo Giustiniani. Si proseguì cercando di legittimare, se non una vera e propria alleanza, un regime di rapporti più civili e responsabili, dopo la mezza guerra civile che aveva caratterizzato il ventennio precedente. Ma appena i vertici «ABC», dalle iniziali dei partecipanti, divennero ufficiali e più frequenti, maturò un brusco pentimento. Ci fu perfino chi disse che erano legati a quei vertici, e non all’ondata di corruzione dilagante nelle regioni, l’irruzione dell’antipolitica, sfociata, sia nel successo di Grillo che nel ritorno di Leoluca Orlando a Palermo, sindaco per la quarta volta alle amministrative del 6 e 7 maggio.

 

Già mezzo secolo fa, nel «Giorno della civetta», Leonardo Sciascia sosteneva che in Italia la «linea della palma», del comparaggio, degli scandali, si era spostata troppo a Nord. A Roma ancora oggi si dice che «chi vo’ campa’, deve fa’ il morto». Monti seduto all’ombra di una palma è impossibile da immaginare. Ma se la politica italiana continua a restare così inconcludente, e indifferente a se stessa, dopo questo primo anno virtuoso del governo tecnico, non ci aspettano bei tempi.

da - http://lastampa.it/2012/11/11/cultura/opinioni/editoriali/la-parentesi-che-non-si-chiude-XxT5BglVTVBGmJsYsjj1mN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il rischio della sindrome democristiana
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2012, 07:40:55 pm
Editoriali
13/11/2012

Il rischio della sindrome democristiana

Marcello Sorgi


Se nel centrodestra temono che le primarie si risolvano in un flop, forse anche nel centrosinistra farebbero bene a cominciare a preoccuparsi: almeno dopo il dibattito di ieri sera. 

 

Doveva essere un confronto all’americana, quello su Sky, ma alla fine s’è risolto in una specie di congresso democristiano. Renzi ha cercato in ogni modo di ravvivarlo, giocando con la tattica dell’uno contro quattro. Gli altri hanno fatto spallucce, lasciandolo a sciorinare il solito campionario di battute, e continuando ognuno per conto proprio. Nel contesto, Tabacci è stato la rivelazione: l’usato sicuro che si impone per esperienza e capacità. Vendola, invece, la delusione (alla fine lui stesso ha ammesso di essere «un acchiappanuvole»). Quanto a Bersani,
dall’alto della sua responsabilità, ha mostrato un distacco che gli impone posizioni sfumate. 

 

Renzi è un contemporaneo che si sforza (e qualche volta ci riesce) di mostrarsi già collocato nel futuro, guarda tutto come se fosse alle sue spalle. Il suo pezzo forte resta D’Alema: quando ha detto che le previsioni del «líder máximo» sono come le profezie dei Maya, il pubblico si spellava le mani per gli applausi. E tuttavia non è riuscito a intaccare la calma inossidabile del segretario.

 

Bersani in certi momenti sembrava il notaio di un telequiz, in cui i concorrenti si affrontavano sotto i suoi occhi, ben sapendo che se alla fine il centrosinistra riuscirà a governare, il premier sarà lui. Se si scatenavano contro Casini, e tutti lo hanno fatto, con più o meno enfasi, il segretario sorrideva bonario, come se pensasse: «Divertitevi pure, che tanto poi ricucire tocca a me». Non ha mai attaccato nessuno, neppure Renzi, e in conclusione ha apprezzato che alla prima uscita pubblica in tv, la coalizione sia apparsa più unita che in passato: in fondo le primarie servono anche a questo.

 

Così che l’unico colpo basso lo ha giocato una sostenitrice di Renzi contro Laura Puppato, accusata di aver lasciato il posto di sindaco di Montebelluna per andare in consiglio regionale, e adesso, di lì, di volersi trasferire in Parlamento e forse al governo. Puppato ha incassato male, ma non malissimo, consapevole che essere l’unica candidata donna giocherà a suo favore, anche se la sua performance tv non è stata brillante.

 

Se Renzi s’è mosso da solo contro tutti gli altri è perché - il confronto di ieri sera lo ha dimostrato - difficilmente potrà vincere al primo turno. Chi per una ragione, chi per l’altra, Tabacci, Puppato e Vendola nelle urne delle primarie giocheranno contro di lui e a favore di Bersani. E non perché si siano messi d’accordo con il segretario, anche se si sono ben guardati dal criticarlo. Ma perché nessuno di loro, con evidenza, corre per arrivare al secondo turno, ma solo per presidiare una fetta precisa di elettorato di centrosinistra. In questo senso, ma solo apparentemente, dato che le primarie appartengono a un’altra epoca, il confronto tra i cinque riecheggiava i vecchi congressi della Dc: dove tutti fingevano di darsele di santa ragione dalla tribuna per due o tre giorni, salvo poi ritrovarsi uniti al momento di fare il governo e spartirsi le poltrone. 

da - http://lastampa.it/2012/11/13/cultura/opinioni/editoriali/il-rischio-della-sindrome-democristiana-5QBH2EsL9tJ6L2qUqOuZiN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. La parentesi che non si chiude
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2012, 05:20:21 pm
Editoriali
11/11/2012



Marcello Sorgi

Il primo anniversario del governo Monti e della caduta di Berlusconi ci porta la conferma di una legge, non scritta, ma saldamente scolpita nel dna dell’Italia: l’impossibilità, per un Paese come il nostro, di essere o diventare normale. 

Anche in questi dodici mesi, che hanno segnato il crollo della Seconda Repubblica, l’Italia, più che alle regole della politica, ha continuato ad obbedire ad uno dei principi fondamentali della fisica: nulla si crea e nulla si distrugge. E basta solo confrontare quel che è accaduto nello stesso periodo nel resto del mondo per accorgersi che è così. 

In un modo o nell’altro, in Europa, anche le crisi più gravi hanno trovato uno sbocco, dal Belgio in cui da dicembre il socialista Elio Di Rupo ha posto fine a un vuoto di governo che durava da 540 giorni, alla Grecia in cui s’è dovuto votare due volte in un mese, alla Francia ex di Sarkozy e ora di Hollande, alla Spagna dove l’eredità di José Luis Zapatero pesa sulle spalle di Mariano Rajoy.

 

Da noi invece la parentesi che doveva servire a calmare le acque, fin troppo agitate, dell’ultimo governo, potrebbe allungarsi anche nella prossima legislatura, e Monti è il candidato più autorevole a succedere a se stesso. Mentre Berlusconi, dato politicamente per morto un anno fa, è ancora sulla scena, e nelle ultime settimane ha annunciato alternativamente, due o tre volte, il suo ritiro e il rientro in campo. Tornano, o stanno per tornare, gli irriducibili della sinistra radicale, fuorusciti dal Parlamento nel 2008 per la rottura dell’alleanza con il Pd voluta da Veltroni (che non si ricandiderà), e riammessi da Bersani, che li ha ripescati con Vendola. Bossi, a causa degli scandali che hanno investito la sua famiglia, non è più il capo della Lega, ma non s’è messo da parte. Le novità sono Grillo e Renzi: ma il primo, nello spettacolo, se non proprio nella politica-spettacolo, c’è da un bel po’. E il secondo è pur sempre il sindaco di Firenze: se perderà le primarie, non diventerà certo un Cincinnato.

 

Tutto si tiene: la discussione sulla nuova legge elettorale, indispensabile, vista l’insostenibilità di quella attuale, consiste nella ricerca del metodo migliore per consentire a chiunque di salvarsi, vincenti possibili e futuri perdenti. Se alla fine la riforma ci sarà, avremo tre, e non più due, schieramenti: sinistra, centro e destra, in cui vecchi e nuovi si mescoleranno, per regolare poi i conti in campagna elettorale. Se non ci sarà e resterà il Porcellum, vedremo rinascere il bipolarismo - centrodestra contro centrosinistra -, con amicizie e alleanze ritrovate, tra quelle che sembravano finite per sempre.

 

A ben vedere è abbastanza anomalo anche il modo in cui abbiamo fatto l’esperienza della larga coalizione, che in quest’anno ha sostenuto il governo Monti. Altrove, non c’è niente di strano, se per un periodo partiti abitualmente avversari si mettono insieme, per affrontare gravi problemi del loro Paese che richiedono uno sforzo comune. E’ successo in Germania e sta accadendo in Grecia. Qui al contrario è una soluzione praticata di nascosto, basata sul dire il contrario di ciò che è e sul «si fa, ma non si dice». Si cominciò, viene quasi da ridere a ricordarlo, con un vertice segreto, tra Monti, Alfano, Bersani e Casini, nel tunnel sotterraneo che collega il Senato a Palazzo Giustiniani. Si proseguì cercando di legittimare, se non una vera e propria alleanza, un regime di rapporti più civili e responsabili, dopo la mezza guerra civile che aveva caratterizzato il ventennio precedente. Ma appena i vertici «ABC», dalle iniziali dei partecipanti, divennero ufficiali e più frequenti, maturò un brusco pentimento. Ci fu perfino chi disse che erano legati a quei vertici, e non all’ondata di corruzione dilagante nelle regioni, l’irruzione dell’antipolitica, sfociata, sia nel successo di Grillo che nel ritorno di Leoluca Orlando a Palermo, sindaco per la quarta volta alle amministrative del 6 e 7 maggio.

 

Già mezzo secolo fa, nel «Giorno della civetta», Leonardo Sciascia sosteneva che in Italia la «linea della palma», del comparaggio, degli scandali, si era spostata troppo a Nord. A Roma ancora oggi si dice che «chi vo’ campa’, deve fa’ il morto». Monti seduto all’ombra di una palma è impossibile da immaginare. Ma se la politica italiana continua a restare così inconcludente, e indifferente a se stessa, dopo questo primo anno virtuoso del governo tecnico, non ci aspettano bei tempi.

da - http://lastampa.it/2012/11/11/cultura/opinioni/editoriali/la-parentesi-che-non-si-chiude-XxT5BglVTVBGmJsYsjj1mN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il ritorno di Calderoli e la lenta agonia del Porcellum
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2012, 05:38:01 pm
Editoriali
14/11/2012 - taccuino

Il ritorno di Calderoli e la lenta agonia del Porcellum

Marcello Sorgi

La riapparizione in scena dell’ex ministro leghista Calderoli, padre pentito del Porcellum, ha sancito ieri un nuovo blocco della trattativa infinita sulla legge elettorale al Senato. Calderoli, in un ennesimo tentativo di mediazione, dopo la votazione sul 42,5 per cento come soglia di accesso al premio di maggioranza, ha proposto di ragionare su un calcolo del premio in percentuale dei voti raccolti: ad esempio, il 20, o il 25 per cento in più di quelli usciti effettivamente dalle urne per il vincitore.

 

Fatti due conti, la risposta del Pd, comunicata a stretto giro dalla capogruppo Anna Finocchiaro, è stata un «no». Se infatti con il 42,5 per cento di sbarramento il premio è praticamente irraggiungibile, perchè nessuna coalizione, al momento, è in grado di puntare a un obiettivo così alto, con il premio percentuale proposto da Calderoli diventerebbe impossibile anche puntare a una semplice maggioranza. Supposto che un’alleanza, con la propria lista, fosse in grado di arrivare al quaranta per cento, il 20 per cento aggiuntivo ipotizzato dall’esponente leghista la porterebbe al massimo al 48, due punti sotto il 50 per cento, e ben lungi da un livello in grado di garantire la governabilità.

 

Al dunque, e al di là dei tecnicismi su cui si continua a discutere, il problema resta quello della possibilità o meno per uno degli schieramenti di conquistare sul campo il diritto a governare. Il centrodestra, preoccupato che alla fine il centrosinistra possa riuscirci, frena su qualsiasi ipotesi che possa garantire questo sbocco. L’Udc, che vuole arrivare a una riforma che consenta di decidere dopo il voto, e non prima, quale tipo di governo costruire, al Senato s’è schierata con Pdl e Lega nelle votazioni pensando che questo avrebbe spinto il Pd a più miti consigli. Ma a giudicare dalle reazioni, non è così. E non lo è stato neppure ieri, quando Calderoli ha preso l’iniziativa di avanzare una nuova proposta.

 

Se la riforma non passa, a Bersani rimane la carta di riserva del mantenimento del Porcellum, che così com’è in caso di vittoria assegnerebbe al centrosinistra il 55 per cento dei seggi alla Camera. Il segretario del Pd sa bene che, dopo la sentenza della Corte costituzionale, lasciare il Porcellum intatto è impossibile. Ma dopo che Udc, Pdl e Lega si sono alleati alle sue spalle, non vuole in alcun modo aiutarli a venir fuori dall’impasse. Così, di giorno in giorno, ogni compromesso si allontana. Napolitano dal Quirinale preme, ma le risposte che arrivano dalla presidenza del Senato, visto quel che sta accadendo, non fanno affatto ben sperare.

da - http://lastampa.it/2012/11/14/cultura/opinioni/editoriali/il-ritorno-di-calderoli-e-la-lenta-agonia-del-porcellum-44fuv17bFKBkX3DGifQj6K/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Pier si schiera di nuovo col centrodestra
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2012, 04:47:01 pm
Editoriali
15/11/2012 - taccuino

Pier si schiera di nuovo col centrodestra

Marcello Sorgi

Il duro scontro sulla data delle elezioni, che ieri ha opposto Alfano a Bersani e ha fatto temere per qualche ora una crisi di governo, ha visto nuovamente Casini schierato dalla parte del Pdl. In meno di un mese, è la terza volta, dopo il voto a sorpresa con cui i centristi fecero passare in commissione al Senato la bozza di riforma e elettorale e quello con cui successivamente fu portata al 42,5 per cento la soglia di accesso al premio di maggioranza. 

 

Ma mentre il centrodestra ha le sue ragioni per preferire un election day unico per regionali e politiche, con una sola campagna nazionale, per puntare a far sbiadire il ricordo degli scandali che hanno posto fine alle amministrazioni della Lombardia e del Lazio, l’affiancamento dell’Udc ha una spiegazione diversa. Oltre a cercare di federare una più vasta area di centro, mettendo insieme i vari spezzoni che si stanno organizzando in vista del voto, Casini infatti è impegnato in una delicata iniziativa, per far sì che la «Lista per l’Italia» possa fregiarsi, prima della scadenza delle urne, del nome del presidente del Consiglio. Ora, non è un mistero che il centro sia schierato con Monti e punti a fargli fare il bis, contrariamente al centrosinistra e al centrodestra che otterranno dalle primarie i nomi dei loro candidati premier. Ma che Monti accetti, oltre alla lista, una sorta di partito a suo nome, è ancora tutto da vedere. 

 

La strategia casiniana punterebbe a un avallo del premier da rendere esplicito anche nel corso della campagna elettorale. Dato che Monti ha detto e ripetuto che non ritiene di prendervi parte, basterebbe, per i centristi, che si limitasse a dire che non può impedire a nessuno di richiamarsi all’esperienza dei tecnici: specie in elezioni politiche istituzionalmente dedicate a valutare l’attività di un governo e a decidere se confermarlo o cambiarlo. 

Ma anche in questa forma, l’eventuale ingresso del presidente del Consiglio in campagna elettorale avrebbe forti conseguenze: i candidati premier di Pd e Pdl, infatti, non potrebbero restare indifferenti all’entrata in campo di un concorrente così forte. E’ vero che, nel caso di un risultato elettorale orientato verso un bis, Monti ne ricaverebbe il vantaggio di non ritrovarsi come Prodi, che in tutte e due le sue esperienze dovette scontare la mancanza di un partito proprio e la difficoltà, per questo, di tenere unita la sua coalizione. Ma dopo una campagna in cui, seppure con un ruolo sfumato, il premier dovesse essere presente, non è detto che aumenterebbero le possibilità di rimettere insieme, se necessario, la larga maggioranza che lo ha sostenuto fin qui.

da - http://lastampa.it/2012/11/15/cultura/opinioni/editoriali/e-pier-di-nuovo-si-schiera-col-centrodestra-xrSV0R9qy7kPRfroZewPpN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Le ragioni del cambio di rotta
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2012, 03:41:57 pm
Editoriali
16/11/2012

Le ragioni del cambio di rotta

Marcello Sorgi


Sentire i segretari dei due maggiori partiti della maggioranza dire che non scommetterebbero un centesimo, o nemmeno un centesimo, sulla possibilità che il governo possa tentare un bis dopo le elezioni, non deve aver fatto molto piacere al professor Monti. 

 

Soprattutto se si tratta degli stessi leader che fino al giorno prima litigavano pesantemente sulla data delle elezioni, ma che due settimane fa si erano trovati concordi, ciascuno con le proprie richieste, nel demolire la legge di stabilità, che intanto ha avuto la sua prima approvazione in Parlamento. 

 

Alfano e Bersani, dopo essersi scambiati accuse mercoledì, ieri sembravano di nuovo d’amore e d’accordo nel prevedere poche settimane di vita per il governo: giusto il tempo della campagna elettorale, già cominciata prima ancora di sapere esattamente quando si voterà e con quale legge elettorale, e se si andrà alle urne in date diverse per regionali e politiche, oppure in una sola per tutte e due. 

 

Tanta fretta di far capire a Monti che non deve farsi illusioni sul futuro non può essere motivata da ambizioni che il Professore, per parte sua, non ha mai manifestato apertamente. A tutti quelli che gliel’hanno domandato in questi mesi, ragionando sul fatto che la crisi economica potrebbe richiedere un prolungamento della politica di rigore inaugurata un anno fa, e dell’azione diplomatica condotta incessantemente dal premier in Europa, Monti ha sempre risposto che considera la scadenza elettorale della prossima primavera come il termine naturale del suo impegno. Solo talvolta, quando gli interrogativi si sono fatti più insistenti, s’è spinto a dire che se gli sarà chiesto di restare, non si tirerà indietro. Ma solo, appunto, se e quando glielo chiederanno.

 

Perché allora Alfano e Bersani hanno colto al volo l’occasione di un dibattito pubblico, in cui sedevano uno di fronte all’altro, per preannunciare al presidente del Consiglio lo sfratto da Palazzo Chigi? Probabilmente hanno sentito anche loro quel che da giorni si va dicendo nei corridoi della politica (e che la Stampa ha riferito ieri) sull’eventualità che Monti, pressato dalla nuova formazione centrista che si sta organizzando attorno a Casini, Montezemolo e ad altri gruppi moderati, potrebbe cedere all’invito di consentire che la lista che ne verrà fuori possa essere fatta in suo nome. La «lista Monti», autorizzata - o non ostacolata pubblicamente - dall’interessato, avrebbe l’effetto di cambiare la geografia politica preelettorale, introducendo un’opzione che adesso è soltanto a livello di desiderio o di obiettivo da raggiungere, ma con il nome di Monti acquisterebbe concretezza e crescerebbe di peso.

 

L’avvertimento simultaneo dei due leader del Pd e del Pdl è venuto di qui. Con la loro scommessa, o mancata scommessa, di un centesimo, sul Monti-bis, hanno voluto chiarire che il sostegno fornito fin qui al governo dei tecnici verrebbe meno immediatamente nel caso in cui il presidente del Consiglio decidesse a qualsiasi titolo di entrare in campo, o di concedere che il suo nome fosse usato in campo per fini di parte in campagna elettorale.

Per quanto connesso a esigenze politiche (Alfano e Bersani, nelle prossime elezioni politiche, e nei rispettivi campi, si giocano tutto), il messaggio, soprattutto nei toni, è stato fin troppo duro. Nessuno dei due, va sottolineato, ha preso impegno contemporaneamente a proseguire nell’azione di risanamento promossa da Monti, pur sapendo che sarà necessario. Così, quel che è stato detto non gioverà di certo alla vita del governo, sia che duri soltanto poche settimane, sia che si trovi nella necessità di continuare, per le incognite adesso non del tutto prevedibili di una crisi ben lontana dall’essere risolta.

 

Fino a qualche tempo fa, si diceva che in politica le parole sono pietre, e per questo occorre usarle con riguardo. Questi lanciati da Alfano e Bersani all’indirizzo di Monti erano indubbiamente due sassi pesanti.

da - http://lastampa.it/2012/11/16/cultura/opinioni/editoriali/le-ragioni-del-cambio-di-rotta-CzKdn2FSQShycui4zdBwbO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Affluenza e secondo turno
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2012, 04:06:43 pm
Editoriali
21/11/2012 - taccuino

Affluenza e secondo turno

Le vere sfide di Renzi e Bersani

Marcello Sorgi

La lunga vigilia delle primarie del Pd alimenta sondaggi di ogni genere: Bersani in vantaggio più o meno grande secondo l’affluenza. Renzi, di conseguenza, secondo, con maggiore o minore distacco. Vendola, a sorpresa, in rimonta, soprattutto al Sud. Tabacci e Puppato in coda. 

Nessuno è in grado di prevedere se il segretario del Pd, superando il 50 per cento dei voti domenica prossima, sarà in grado di chiudere la partita al primo turno, oppure no. Le previsioni sono difficili proprio perchè legate all’affluenza, che tuttavia si prevede massiccia, ai seggi, visto il dato assoluto del Pd, in crescita nei sondaggi, che dimostra come la competizione per designa il candidato-premier sia sentita.

E tuttavia, una griglia, per quanto approssimativa, di valutazioni sui risultati domenica è già stata abbozzata. Con l’ufficiosa, ma praticamente certa, scelta di Prodi a suo favore, Bersani ha con sè il novanta per cento del partito e il leader storico, nonchè due volte presidente del consiglio, della coalizione: sulla carta, un sostegno sufficiente a vincere al primo turno. Quella parte del vertice del Pd che le primarie le avrebbe evitate volentieri (anche per risparmiarsi la polemica sulla rottamazione) sostiene che a questo punto, per lui, non sarebbe una gran prova restare al di sotto del cinquanta per cento e dover ricorrere al secondo. Vorrebbe dire che tra il sentire del gruppo dirigente e quello degli elettori c’è un evidente divario: è esattamente ciò su cui punta Renzi.

Per il quale, già andare al ballottaggio sarebbe una vittoria, e non arrivarci, ovviamente, una secca sconfitta. Certo, se Renzi al primo turno si qualifica dieci o più punti sotto al segretario, difficilmente potrà rimontare. Ma se gli arriva vicino, la partita resta aperta e fa riacquistare peso anche a Vendola. Il leader di Sel punta sul Sud, dove ha più sostenitori, per un risultato a due cifre. Se supera il 10 per cento e si avvicina al 15, infatti, sarà in grado di condizionare la corsa per il secondo turno, e, in caso di vittoria di Bersani, di dire che senza i voti dei suoi (non tutti, tra l’altro, perchè nella sinistra radicale saranno in molti ad astenersi al ballottaggio) non ce l’avrebbe fatta. Comunque le guardi, le primarie del Pd si giocano sui primi tre candidati. Gli altri due, pur non essendo in grado di influire granché sul risultato, se ne avvantaggeranno in termini di visibilità. A Tabacci è già accaduto nel faccia a faccia tv di Sky: candidato di riserva, da esponente della Prima Repubblica e vecchio dc, è riuscito a dimostrare come anche alle soglie della Terza la professionalità politica possa conquistarsi uno spazio.

da - http://lastampa.it/2012/11/21/cultura/opinioni/editoriali/affluenza-e-secondo-turno-le-vere-sfide-di-renzi-e-bersani-i5t5iRMJdkLO5icOyjeokN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Legge elettorale, l’asse Lega-Pd sull’”ascensore” spiazza il Pdl
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2012, 05:00:09 pm
Editoriali
22/11/2012 - taccuino

Legge elettorale, l’asse Lega-Pd sull’”ascensore” spiazza il Pdl

Marcello Sorgi


A furia di dire «al lupo, al lupo», finirà che nessuno crederà più alla possibilità di un accordo sulla legge elettorale e invece, a sorpresa, la riforma magari salterà fuori lo stesso. Dopo giorni e giorni di melina, ieri infatti c’è stata una novità rilevante: l’ex ministro Calderoli ha ripresentato la sua proposta cosiddetta «dell’ascensore» (premi elettorali diversi e crescenti, in percentuale dei voti presi dal partito vincente) e il Pd l’ha sostanzialmente sposata, facendola sua in un emendamento della Finocchiaro che aumenta, ma di poco, le quantità dei premi ma recepisce il meccanismo proposto dall’esponente leghista, già padre del vituperato Porcellum.

 

Prima di spiegare di che si tratta, però, occorre sottolineare che con l’avvicinamento tra la Lega e il Pd s’è rotta la maggioranza che al Senato aveva messo sotto il partito di Bersani, proponendo un testo che alzava così tanto, fino al 42,5 per cento, un livello irraggiungibile da qualsiasi partito o coalizione, la soglia necessaria per ottenere il premio, da reintrodurre in pratica il proporzionale puro stile Prima Repubblica e il ritorno ai governi non scelti dagli elettori, e formati dopo trattative in Parlamento. Questa maggioranza aveva visto uno schieramento che andava dall’Udc, appunto, alla Lega, passando per il Pdl, mentre il Pd era rimasto solo in minoranza. Adesso, se le cose continueranno ad andare in questa direzione, dopo il ribaltone di ieri sarà il Pdl a rischiare di restare isolato, mentre Lega, Pd e presto anche l’Udc potrebbero consolidare una nuova intesa.

 

Il punto d’incontro che ha portato alla svolta è la possibilità di conseguire un premio con qualsiasi tipo di vittoria, e non solo con il superamento della soglia. Nella versione proposta da Calderoli, un partito o una coalizione che raccolgano tra il 30 e il 35 per cento dei voti otterrebbero il 27,5 per cento di seggi in più del loro risultato. Nell’emendamento proposto dal Pd, a parità di condizioni e di risultati, si arriverebbe al 30 per cento. E al di là della complicata aritmetica che le accomuna, tra le due versioni la distanza, in termini assoluti, non è grande: 7 deputati e 3 senatori in più o in meno, secondo che si scelga Calderoli o Finocchiaro, un divario del tutto appianabile. Chi invece non vuol rinunciare alla supersoglia del 42,5 e alle preferenze sono gli ex-An. Ma ormai la trattativa s’è rimessa in moto e Napolitano dal Quirinale preme perchè si arrivi al più presto a uno sbocco.

da - http://lastampa.it/2012/11/22/cultura/opinioni/editoriali/legge-elettorale-l-asse-lega-pd-sull-ascensore-spiazza-il-pdl-w0AwQbNJbX0WhGn7amKMhN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Quello che manca a chi vota centrodestra
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2012, 05:29:15 pm
Editoriali
27/11/2012

Quello che manca a chi vota centrodestra

Marcello Sorgi

Il successo delle primarie del Pd, riconosciuto da tutti, fa sorgere spontanea qualche domanda: come sono andate a finire quelle del Pdl? E perché, dopo averle annunciate e smentite molte volte, il centrodestra, non si sa se per farle o non farle, sta andando verso una scissione? 

 

Di ora in ora si susseguono annunci infondati e continui aggiustamenti. Sembrava che già ieri mattina, in una delle sue frequenti telefonate a Canale 5, Berlusconi avrebbe comunicato il suo ritorno in scena e la fondazione di una nuova Forza Italia, il partito con cui diede la scalata al governo quasi vent’anni fa. Poi c’è stato un rinvio a giovedì. A distanza di un anno e mezzo dalla designazione di Alfano come delfino, il segretario si preparerebbe a separarsi dal Cavaliere, per restare alla guida del Pdl, in cui invano nel corso di questi mesi ha cercato di introdurre normali principi di democrazia, e che, svuotato della componente berlusconiana, resterebbe saldamente in mano agli uomini dell’ex An. 

 

Ma al di là dei dettagli della scissione, ormai annunciata, e degli elenchi di nomi di chi si prepara a passare da una parte o dall’altra, quella a cui stiamo assistendo è l’implosione, non solo del centrodestra, ma del modello del partito personale inventato e portato al successo da Berlusconi. Lui stesso, convinto che il declino sia dovuto, non ai suoi errori, ma al logoramento d’immagine del personale politico che lo ha accompagnato fin qui, ne progetta un’edizione ridotta, non un altro partito-azienda com’era quello delle origini, ma una specie di arca di Noè, con cui traghettare il meglio della sua gente verso prossime fortune.

 

Ora, cosa possa rappresentare in termini elettorali una nuova Forza Italia con le amazzoni del Cavaliere e senza i volti dei “vecchi” ex An, nessuno è in grado di dirlo. I sondaggisti, che considerano Berlusconi perfino più usurato di quelli che vuol rottamare, non azzardano più del dieci per cento. E quanto possa pesare un Pdl svuotato dagli ex Forza Italia e con Alfano alla guida, è altrettanto azzardato valutarlo. Dovrebbe oscillare sul quindici-diciotto per cento.

 

Ma anche ammesso che i due tronconi, che dovrebbero presentarsi separatamente alle elezioni, possano riunirsi dopo il voto, per partecipare a una maggioranza e sostenere un governo, quel che resta da capire è come si comporteranno gli elettori cosiddetti moderati in mancanza di un’offerta politica chiara, ancorché non del tutto condivisibile, com’era stato il centrodestra di Berlusconi nell’ultimo ventennio. Oltre a introdurre normali regole democratiche in un’area politica che le ha sempre rifiutate, le primarie che il Cavaliere si ostina a rifiutare avrebbero avuto anche un altro scopo: dare piena rappresentatività a tutte le anime interne, dalla Santanchè alla Gelmini e Frattini, e poi arrivare alla sintesi scelta dagli elettori.

 

Così invece Berlusconi sarà libero di fondare il suo nuovo movimento e condurre come crede la sua campagna elettorale, attaccando Equitalia e la politica di rigore imposta dal governo e forse lasciando anche sfogo a sentimenti antieuropei. Una forma di grillismo in doppio petto, il cui primo assaggio è stata la conferenza stampa a Villa Gernetto tre settimane fa. Quanto ad Alfano, se davvero resterà in sella al Pdl, dovrà cercare di recuperare i voti perduti. Gli elettori moderati che non vogliono votare per una destra divisa, ma non hanno ancora deciso di spostarsi al centro, sono avvertiti. Anche se Berlusconi, di qui a giovedì, ha tutto il tempo per cambiare ancora idea almeno un paio di volte.

da - http://lastampa.it/2012/11/27/cultura/opinioni/editoriali/quello-che-manca-a-chi-vota-centrodestra-bwAVGGoNYoBDnlovrMIDdN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Tra i duellanti è scattata l’ora dei colpi bassi
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2012, 11:44:46 pm
Editoriali

28/11/2012 - taccuino

Tra i duellanti è scattata l’ora dei colpi bassi

Marcello Sorgi


Nelle primarie del Pd è l’ora dei colpi bassi tra i due candidati in corsa verso il ballottaggio di domenica. Il fair play del primo faccia a faccia, quello con tutti e cinque i concorrenti del primo turno, dovrebbe essere archiviato stasera, quando Bersani e Renzi si affronteranno su Rai1 alle 21,10, davanti a una platea prevedibilmente più vasta dei tre milioni di elettori di tre giorni fa. Un dibattito che per forza di cose non potrà limitarsi al tema della rottamazione, che ha tenuto campo in gran parte della campagna per il voto del 25 novembre. Ma dovrà essere allargato ai prossimi programmi di governo dei due candidati, costringendo così Bersani e Renzi a scoprire tutte le loro carte.

 

Renzi preme per un allargamento delle regole che mirano a evitare grandi scostamenti tra gli elettori del primo e secondo turno. E già ieri sera, a Porta a porta, ha attaccato Bersani sostenendo che Equitalia, realizzata dal governo Berlusconi, fu in realtà concepita quando il segretario era al governo con Prodi e Visco. Ma Bersani, forte dei suoi nove punti di vantaggio sullo sfidante, finora s’è mostrato molto sicuro di sé e ha detto che non scommetterebbe un centesimo su un’eventuale rimonta dell’avversario.

 

Anche i sondaggisti, al lavoro già all’indomani del primo risultato, la considerano molto difficile. L’elettorato s’è già riposizionato per il ballottaggio e solo un 8 per cento dichiara di essere ancora indeciso. Il sindaco di Firenze, stando ai primi polls, difficilmente riuscirebbe a portare dalla sua parte più del 2 per cento degli elettori di Bersani. Potrebbe forse intercettare fino a una metà dei voti andati a Vendola, ma non basterebbero a portarlo al primo posto. La sua speranza resta legata a una fortissima crescita dell’affluenza, che non è affatto da escludere, dato che la sfida a due attira molto di più di quella a cinque e il faccia a faccia televisivo di stasera eserciterà un forte richiamo per tutti quei sostenitori dell’uno e dell’altro che domenica scorsa non sono andati a votare.

 

Sia Bersani che Renzi continuano ad escludere un compromesso a due dopo il voto, basato sul fatto che il partito, fino a prima delle primarie diviso tra un’infinità di correnti, da lunedì 3 dicembre avrà soltanto un leader e un capo della minoranza che peserà quasi metà del Pd. Ma si sa, in questa fase non possono dire altro. Ed è davvero difficile credere che dopo aver messo su un putiferio come questo, Matteo Renzi, in caso di sconfitta, se ne torni a Firenze.


da - http://lastampa.it/2012/11/28/cultura/opinioni/editoriali/tra-i-duellanti-e-scattata-l-ora-dei-colpi-bassi-VEDvVCYDjmFEKlKNT9kUNI/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Anti-Monti o moderato? Silvio indeciso sulla strategia
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2012, 11:30:11 am
Editoriali
30/11/2012 - taccuino

Anti-Monti o moderato?

Silvio indeciso sulla strategia

Marcello Sorgi


Annunciato ma non ancora formalizzato, l’addio alle primarie del Pdl, conseguente alla decisione di Berlusconi di tornare in campo, si lascia dietro uno strascico di polemiche, soprattutto di Giorgia Meloni e degli ex An, che nella nuova Forza Italia che il Cavaliere si prepara a rimettere in pista non troverebbero posto. Il paradosso così sarà che nel centrodestra chi si stava orientando verso una scelta filo-Monti (Alfano, Gelmini, Lupi e tutta l’aria moderata) e sperava che Berlusconi confermasse la sua decisione di ritagliarsi un ruolo da padre nobile, farà accanto al Fondatore una campagna elettorale dura col governo e con la «sudditanza» dell’Italia all’Europa. E chi invece (La Russa e gli ex An) aveva mal digerito la stagione dell’appoggio al governo tecnico e della larga maggioranza, e sperava appunto di andare alle elezioni con le mani libere, si ritroverà fuori dal nuovo partito.

 

La verità è che Berlusconi non ha ancora bene chiara la sua strategia. L’unica cosa è che ha deciso, dopo mesi di incertezza - culminati nel doppio annuncio dell’uscita di scena e del ritorno in campo di un mese fa - è di riprendere pienamente in mano il controllo del partito. Di qui il «serrate le file» che ha convinto anche Alfano a rinunciare alle primarie e che vedrà nel prossimo ufficio di presidenza il ritorno del Pdl (sarà una delle ultime volte che questo nome sarà usato) alla piena unità attorno al Fondatore, mentre La Russa e i suoi si preparano a calare in acqua la scialuppa con cui dovranno navigare da soli fino al voto. Dai sondaggi che riceve quotidianamente, il Cavaliere ha ricavato l’indicazione che una versione moderata del Pdl, con un nuovo nome e con alleanze più centriste (Casini e Montezemolo) potrebbe puntare a un’area di oltre un terzo dell’elettorato e competere così con il Pd, che nei sondaggi risulta primo partito con percentuali che oscillano attorno al 30%. Tutto ciò a patto, beninteso, di presentarsi senza Berlusconi, ciò che appunto il leader del centrodestra non può accettare.

 

C’è però un’altra indicazione che viene dai sondaggi: una larga parte dell’elettorato di centrodestra non ne può più di rigore, ritiene che l’Italia stia peggio di un anno fa e vorrebbe tornare al «meno tasse per tutti» che segnò la discesa in campo del primo Berlusconi vittorioso. Ed anche se questa linea oggi è fuori dalla realtà, di fronte alle dimensioni della crisi dell’area euro, c’è da scommettere su quale alla fine sarà la scelta del Cavaliere.

da - http://lastampa.it/2012/11/30/cultura/opinioni/editoriali/anti-monti-o-moderato-silvio-studia-la-strategia-0qVS0AgxgpHrTSebG1g8CM/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. L’anno nero di Berlusconi dalla sconfitta alla riscossa
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2012, 03:48:34 pm
Politica
07/12/2012 - personaggio

L’anno nero di Berlusconi dalla sconfitta alla riscossa


Deluso e solitario, Letta e Confalonieri non condividono l’avventura

Marcello Sorgi

Roma

Adesso tutti dicono evviva, finalmente, era ora, solo lui poteva decidere nello stesso giorno di liberarsi dell’odiato «governo dei banchieri» e guidare la riscossa del centrodestra. Parlano così, nel partito, anche quelli che fino a ieri erano i «montiani», fautori della svolta mirata a trasformare in leader del nuovo centrodestra lo stesso presidente del consiglio che ieri è stato affossato. 

 

Nel Pdl che prende la rincorsa, non c’è spazio per la domanda che tutti si fanno dopo quel che è accaduto: ma come fa un uomo di settantasei anni, giunto al termine della sua parabola politica, a decidere di rimettersi in gioco e ricandidarsi per la sesta volta alla guida del Paese?

 

Quando si parla di Berlusconi, si sa, la risposta non va cercata nella logica politica, ma in quell’impasto di intuito, senso dell’avventura e gusto per le sfide che lo ha caratterizzato nella sua lunga vita di imprenditore e di leader politico. Con l’aggiunta, però, di un di più di solitudine e di disperazione che lo hanno accompagnato nell’ultimo anno, da quel fatidico 15 novembre 2011 dell’annuncio delle dimissioni alla decisione di tornare in campo.

 

Chi gli è stato vicino in questi mesi sostiene che all’inizio, ma solo all’inizio, s’era rassegnato. La gazzarra di quella sera sotto casa sua lo aveva indignato, ma il giorno dopo la festa dei suoi supporters lo aveva riconfortato. Si sentiva sconfitto, sì. Ma anche sfinito e rassegnato all’impossibilità di cambiare il Paese come aveva sognato.

 

Se ne era stato tranquillo fino a Natale. E aveva accolto con soddisfazione il voto con cui l’11 gennaio 2012 la Camera evitava l’arresto a Nicola Cosentino, il discusso plenipotenziario della Campania. Un favore che il vecchio amico Bossi gli aveva reso, anche a dispetto delle proteste dei leghisti, e del prezzo da pagare con gli elettori nordisti per il salvataggio di un terrone inquisito per camorra. Altra buona notizia, il 9 marzo, era stato l’annullamento in Cassazione della condanna per mafia di Marcello Dell’Utri. Una decisione inattesa anche dall’interessato, che temeva il peggio, e subito contraddetta da nuove indagini della magistratura, sullo stesso Dell’Utri, sulla moglie e sull’aiuto datogli da Berlusconi con l’acquisto della villa brianzola del senatore, che in caso di sentenza infausta si preparava a emigrare a Santo Domingo.

 

Il fronte della magistratura, nel bilancio dell’annus horribilis del Cavaliere, ha pesato più di qualsiasi sconfitta politica. Non a caso Berlusconi non s’è mai rassegnato all’ingiunzione con cui i giudici del caso Mondadori lo hanno costretto a pagare più di mezzo miliardo di euro a Carlo De Benedetti. E per la stessa ragione, la condanna subita a Milano un mese fa, nel processo per l’evasione fiscale sui diritti cinematografici delle sue tv, lo ha convinto, nel giro di ventiquattrore, a rimangiarsi l’addio comunicato solennemente in televisione.

 

Politicamente, per tutta la durata di quest’anno, Berlusconi è apparso deluso, quando non disgustato dalla piega presa dal Pdl: il partito fondato in piazza San Babila in mezzo a gente osannante, e intitolato per questo al Popolo della libertà, lo vedeva sprofondare a poco a poco nelle liturgie classiche della politica. Vertici inconcludenti, correntismo, faide interne. Niente entusiasmo. Un linguaggio involuto, lontano dalle sofferenze inflitte dal «governo delle tasse» a chi aveva condiviso il suo sogno. E anche quando provava a rappresentare gli interessi delle partite Iva o dei piccoli e medi imprenditori, il Pdl lo faceva, ai suoi occhi, seduto insieme a tutti gli altri al tavolo delle trattative a Palazzo Chigi, non per strada e sul territorio.

 

Poi, sono arrivate le sconfitte. Il centrodestra che già veniva dalla batosta del 2011, la sorpresa dei sindaci di Milano e Napoli, l’avanzata dell’antipolitica, la novità di Grillo, non poteva permettersi di essere battuto due volte, alle comunali e alle regionali, a Palermo e nella Sicilia ch’era stata il granaio dei voti di Forza Italia nell’epoca precedente. E’ in questo quadro che anche il rapporto tra Berlusconi e il suo delfino ha cominciato a logorarsi. Non sul piano personale, perchè, soprattutto in questa stagione di solitudine, il Cavaliere non rinuncia ai suoi affetti. Ma su quello caratteriale, prima che politico. Avrebbe voluto sentire il suo pupillo più portato a osare, a scommettere sugli slanci e sulle mosse imprevedibili che hanno segnato in tutte le sue stagioni lo stile berlusconiano. E non avrebbe mai voluto vederlo innamorare delle primarie del Pd.

 

Quelle file ordinate degli elettori del Pd che Berlusconi si ostina a definire «comunisti» rappresentavano per lui «una prova generale del regime che vorrebbero imporre», oltre a significare l’esatto contrario della sua idea di democrazia. Berlusconi infatti pensa che la democrazia debba essere festa, canti, balli, karaoke, ola da stadio. Ancora oggi, a un anno dal suo ritiro, è felice quando lo fermano per strada o lo chiamano ad alta voce gridando il suo nome. Il suo odio per le primarie nasceva di lì: ecco perchè le ha fatte saltare.

 

Così è arrivato alla svolta. Covarla, la covava almeno da giugno. Ma nell’accelerata finale dell’ultimo mese, anche stavolta, come ai tempi della prima discesa in campo, s’è ritrovato isolato. Neppure Letta e Confalonieri, gli amici più fidati, gli hanno detto di sì. Mentre prepara il suo ritorno, il discorso, i manifesti, il simbolo del nuovo partito, le apparizioni in tv, con la sua maniacale cura dei dettagli, Berlusconi è solo. Ma non gliene importa niente.

da - http://lastampa.it/2012/12/07/cronaca/politica/l-anno-nero-di-berlusconi-dalla-sconfitta-alla-riscossa-C4Ku9MzPIHRaL5bj56pKsO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. La coalizione impossibile del Cavaliere ...
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2012, 06:42:17 pm
Politica

13/12/2012 - centrodestra. Silvio in campo

La coalizione impossibile del Cavaliere “Da Casini alla Lega contro la sinistra”

Berlusconi disposto a trattare sulle alleanze, ma con un punto fermo: vuole comandare lui

Marcello Sorgi
Roma

Alla fine di una giornata in cui frotte di Amazzoni si rincorrevano allarmate preannunciando un passo indietro del leader, e dopo una lunga intervista collettiva in occasione della presentazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa, Silvio Berlusconi ha confermato quel che ormai tutti avevano capito: non sarà candidato a Palazzo Chigi per la sesta volta. 

 

O meglio, lo sarà ancora per qualche giorno, in attesa di lasciare il posto a Monti, se lo vorrà, ad Alfano, se potrà, o a un candidato della società civile, un imprenditore di successo da trovare e di cui si continua a parlare, o Montezemolo, che si dovrebbe riavvicinare. 

La complicata strategia del Cavaliere ha un solo obiettivo, rimettere insieme il centrodestra da Casini a Maroni, ancora maggioritario nel Paese, e un’infinità di varianti. La migliore sarebbe che Monti rompesse gli indugi e si candidasse, impegnandosi per federare i moderati, schierandosi contro Bersani e il centrosinistra, e preparandosi a succedere a se stesso, ma non più alla guida di una larga coalizione come quella che ha sostenuto il governo dei tecnici. La subordinata è un accordo tra Pdl e Lega, o tra la Lega e le rinate Forza Italia e An, ribattezzata Centrodestra nazionale, per salvare il Nord e prendere più senatori possibile con l’aiuto dei premi elettorali regionali. Non è facile, ma Maroni nell’incontro di martedì sera ha lasciato capire che si potrebbe fare se Alfano, e non più Berlusconi, fosse il candidato alla presidenza del Consiglio. L’alternativa a tutto ciò è la solitudine e la sconfitta: non è da escludere, data la confusione che regna nel centrodestra. Ma Berlusconi non vuol metterla in conto e si dice sicuro che tutto si risolverà.

 

La sua uscita pubblica di ieri sera ha avuto il merito di portare allo scoperto quel che da giorni si intuiva o veniva sussurrato nei corridoi di Montecitorio. Il Pdl percorso da divisioni insanabili è stato messo sotto pressione e portato fino alle soglie dell’implosione dal ritorno in campo del Fondatore. Ma nei pochi giorni in cui ha ripreso pienamente la guida del partito, il Cavaliere ha dovuto constatare che la situazione era abbastanza diversa da quella che le Amazzoni, incitandolo a ricandidarsi, gli avevano prospettato. Le possibilità di ricomporre tutto il centrodestra e riportarlo alla vittoria sotto la sua guida sono molto poche. Ogni ipotesi di leadership divide e allontana un pezzo o l’altro dalla coalizione. A cominciare, ovviamente, da quella di Berlusconi, che non trova d’accordo neppure tutto il Pdl. Se il candidato è Monti, certo, ci sono più possibilità di recuperare Casini e i centristi, ma la Lega non ci sta. Ed è tutto da vedere che il presidente del Consiglio, appena scaricato dal Pdl, offra la sua disponibilità. Se invece si vuol ricostruire l’Asse del Nord con il Carroccio, la tassa da pagare è la presidenza della Regione Lombardia per Maroni e l’abdicazione in favore di Alfano per la candidatura a Palazzo Chigi. Ma i centristi, a quel punto, si tirerebbero indietro: si potrebbe tentare di riagganciarli con Montezemolo, incrociando le dita e sperando che alla fine Casini acconsenta. Ma anche in questo caso, la Lega non è detto che accetti.

 

L’unico dato certo, in conclusione, è che Berlusconi è tornato in campo. A richiamarlo alla lotta, scuotendolo dall’abulia in cui era precipitato nell’ultimo anno, sono state le sentenze dei magistrati, che continua a definire «un cancro», e lo sprone delle Amazzoni, schierate in doppia fila davanti a lui, a spellarsi le mani di applausi per il suo rientro in scena. Berlusconi darebbe qualsiasi cosa, pur di rivedere unito il centrodestra e battere Bersani e il centrosinistra. Ma se non ci riuscirà, è evidente cosa ha in testa e quale sarà l’obiettivo che condizionerà le sue prossime mosse. Essere o non essere candidato a Palazzo Chigi, guidare o no la coalizione o il partito, alla fine sono tutte possibilità che è disposto a mettere sul piatto dell’accordo. Su una sola cosa, però, non vuol trattare: quale che sarà la soluzione finale dell’ingarbugliata vicenda del centrodestra, a comandare vuol essere sempre lui.

da - http://lastampa.it/2012/12/13/italia/politica/la-coalizione-impossibile-del-cavaliere-da-casini-alla-lega-contro-la-sinistra-iUgmPG6VmFvhn0Ow933KxN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il grande freddo tra ex alleati
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2013, 04:18:21 pm
Editoriali
19/01/2013

Il grande freddo tra ex alleati

Marcello Sorgi

Se non fosse per la crisi internazionale tra Europa e Africa, che costringe gli ex-alleati di governo a riparlarsi, la campagna elettorale si presenta, se possibile, la più imprevedibile e irrazionale di quelle recenti. A cominciare, ovviamente, dal martellamento quotidiano di Berlusconi, che in una ventina di giorni ha totalizzato ore e ore di presenza in tv, tallonato da Monti, seppure non con la stessa efficacia comunicativa, e distanziato, a sorpresa, da Bersani, additato da tutti come il più probabile vincitore e forse per questo restìo a una sovraesposizione mediatica. 

 

Ma al di là della gara televisiva, colpisce l’implacabile guerriglia che infuria tra il presidente del Consiglio e il segretario del Pd. Dopo essere rimasti fino all’ultimo fedeli alleati, a dispetto del tradimento berlusconiano che ha portato alla caduta del governo, i due, giorno dopo giorno, non perdono occasione per attaccarsi, punzecchiarsi, promettersi tregue che regolarmente poi infrangono, senza risparmiarsi neppure pesanti apprezzamenti personali.

 

Si dirà che un epilogo del genere dell’alleanza che, pur con qualche tormento, era diventata un pilastro del fragile equilibrio dell’esecutivo, non a caso autodefinitosi «strano» oltre che tecnico, era in qualche modo scontato, dopo la decisione di Monti, invano avversata da Bersani, di scendere, anzi di «salire», in politica. Solo in seguito s’era capito che la prudenza preventivamente suggerita dal Colle al Professore non era fondata su alcun pregiudizio, ma sulla saggezza: Napolitano immaginava che sarebbe finita così; conoscendo da sempre e dall’interno il centrosinistra, sapeva bene che quando si sceglie un nemico non lo molla più, costi quel che costi.

 

Che per questa strada si sarebbe arrivati a veder soppiantare l’antiberlusconismo, che per vent’anni è stato il cavallo di battaglia di Pd, Ds e Pds, dall’antimontismo, che ha sua volta ha generato un crescente antibersanismo, però, questo no: nessuno era in grado di prevederlo. L’accoglienza alla «scelta civica», come lui stesso l’ha definita, del presidente del Consiglio è stata fredda dall’inizio. Bersani ha cominciato sostenendo che l’annuncio della lista centrista non era una «buona notizia», poi ha accusato Monti di volergli fare accettare «cose inaccettabili», di avergli mandato «segnali non incoraggianti», lo ha attaccato sugli esodati e sulla candidatura al Senato con i centristi dell’ex sindaco Albertini, candidato governatore anche alla Regione Lombardia («un modo di togliere le castagne a Berlusconi»), lo ha definito «marziano», s’è vantato di aver fatto più riforme di lui quand’era al governo e lo ha avvertito che la strada per il Quirinale, spianata fino a prima di Natale, a questo punto è diventata più impervia.

 

Anche Monti ha reagito colpo su colpo, con vigore inimmaginabile in un uomo così pacato. A chi dava per scontata un possibile accordo tra centro e centrosinistra, specie in caso di maggioranza difficile al Senato, ha spiegato che era «prematuro parlare di alleanze». Ha accusato la sinistra, non solo Vendola, ma anche parte del Pd, di essere «conservatrice», ha risposto per le rime alle punzecchiature del responsabile economico democratico Stefano Fassina, parlandone come di un «laureato della Bocconi» che, contro lo stile della casa, fa di tutto per far parlare di se, ha ripetuto varie volte che il centro «non farà la stampella di nessuno». E ha smentito duramente, solo un paio di giorni fa, un’indiscrezione uscita dal suo entourage: un vociferato incontro tra lui e Bersani per cercare, se non di trovare un’intesa, almeno di smetterla di danneggiarsi a vicenda, pestandosi i calli quotidianamente.

 

Seppure di tanto in tanto, saltuariamente per la verità, i duellanti si ricordano di attaccare Berlusconi, all’interno del Pd, ma anche nello schieramento centrista, questo scontro intestino tra i due ex-alleati ha moltiplicato i timori che, batti e ribatti, possa risultarne danneggiata la prospettiva di un ritorno alla collaborazione dopo il voto. Pontieri si sono mossi da entrambe le parti: e D’Alema ha dichiarato che l’alleanza tra centro e sinistra va fatta in ogni caso, non solo se obbligata dagli incerti numeri che potrebbero uscire dalle urne per il Senato. Un ramoscello d’ulivo seccato dall’immediato attacco di Bersani alle liste e ai partiti «personali», a cominciare naturalmente da quelle del premier.

 

Nei corridoi di Montecitorio, desertificati dall’incombente campagna elettorale, c’è chi dice che questo crescendo è solo un gioco delle parti, e sotto sotto Monti e Bersani sanno che dovranno tornare alleati. Può darsi, non sarebbe l’ultimo inganno, tra quelli tipici di ogni campagna elettorale. Ma intanto, Berlusconi ringrazia, e sembra improbabile l’ipotesi che dal 26 febbraio il presidente del Consiglio, come pensano in molti nel Pd, debba rassegnarsi ad abbracciare Bersani e Vendola insieme; o che al contrario, come invoca Monti, il leader del Pd si prepari a separarsi da quello di Sel, per ritrovare l’intesa con il Professore. Se davvero, come dicono i sondaggi, il Porcellum produrrà una situazione simile a quella del 2006, con nessun partito o coalizione che possa contare su una maggioranza stabile al Senato, Napolitano, prima di lasciare il Quirinale, dovrà ricorrere a tutta la sua fantasia ed esperienza per ridare un governo al Paese.

da - http://lastampa.it/2013/01/19/cultura/opinioni/editoriali/il-grande-freddo-tra-ex-alleati-hWDDrXiwwUL8YnWsvyO5PP/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. La sensazione di una nuova frana che alimenta l'antipolitica
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2013, 11:23:09 pm
26/9/2012 - TACCUINO

La sensazione di una nuova frana che alimenta l'antipolitica

MARCELLO SORGI

Nel giorno in cui l’Onu approva una risoluzione a favore della lotta alla corruzione, Napolitano interviene contro «malversazioni e fenomeni di corruzione inimmaginabili e vergognose»: il riferimento allo scandalo della regione Lazio che ha portato lunedì sera la Polverini alle dimissioni è evidente, e il Capo dello Stato spera di scuotere i partiti dallo stallo che ha finora impedito di affrontare seriamente il problema dei finanziamenti pubblici a partiti e gruppi consiliari.

Ma al di là di promesse e impegni generici (da Berlusconi a Bersani, ieri in tanti sono intervenuti per cercare di parare le conseguenze di quel che è accaduto), ancora niente di concreto si muove. In realtà cresce il timore che dalle inchieste aperte in varie regioni possano uscire storie simili a quelle del Lazio, e non a caso il leader del Pd ha proposto ieri di imporre per legge trasparenza e certificazione dei bilanci regionali. Dalla Lombardia all’Emilia, a Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, emergono situazioni a rischio. Mentre Berlusconi e Alfano prendevano tempo, convocando i coordinatori locali del Pdl, ieri Daniela Santanchè ha chiesto apertamente le dimissioni di Formigoni. L’inchiesta di Napoli intanto rivela versamenti di centinaia di migliaia di euro ai gruppi consiliari. E da Palermo arriva la notizia che il governatore Lombardo ha potuto disporre di oltre trecentomila euro di dotazione personale senza obbligo di rendiconto.

La sensazione di una frana alle porte è ormai diffusa. E la possibilità che nel giro di poche settimane una sorta di «Regionopoli» possa abbattersi a livello nazionale, a pochi mesi dalle elezioni politiche, tiene i partiti in uno stato d’ansia e in attesa di conseguenze imprevedibili. Ieri a Washington il ministro degli esteri Terzi ha sottolineato i rischi d’immagine di un paese come l’Italia, nel momento in cui la lotta alla corruzione diventa un impegno condiviso a livello globale.

Ma non sarà facile raggiungere un accordo in Parlamento su una materia così delicata. Napolitano ha ammonito i partiti: non lamentatevi dell’antipolitica, se non siete in grado di ridare credibilità alla politica. Eppure, gli sforzi fatti finora dal ministro di giustizia Severino non hanno raggiunto risultati. Toccherà a Monti, al ritorno dagli Usa, valutare se premere ancora in questa direzione e se promuovere un’iniziativa del governo sui meccanismi di spesa delle Regioni. Lo aveva fatto per la Sicilia, portando Lombardo alle dimissioni. Adesso deve decidere se c’è spazio per un generale taglio dei costi anticorruzione.

da - http://www1.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10571


Titolo: MARCELLO SORGI. L’incubo di un risultato“alla greca”
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2013, 06:02:47 pm
Editoriali
06/02/2013

L’incubo di un risultato“alla greca”

Marcello Sorgi


La svolta che nel giro di due giorni ha riportato l’armonia tra Monti e Bersani, dopo settimane di scontri quotidiani, ha colpito un po’ tutti. 

 

In effetti il presidente del Consiglio e il segretario del Pd se ne erano dette di tutti i colori: il Professore era arrivato a ribattezzare all’indietro il Pd fino al 1921, data della scissione di Livorno e della fondazione del Partito comunista d’Italia («Forse s’è confuso con la sua data di nascita», gli aveva replicato Matteo Renzi con una delle sue battute fulminanti). E Bersani non si dava pace, visto che in oltre un anno di leale collaborazione al governo, il premier non aveva mai trovato tanti difetti al suo partito.

 

In sole 48 ore invece l’alleanza è rinata. Il leader del Pd ha detto e ripetuto nelle piazze e in tv che anche se dovesse raggiungere il 51 per cento si comporterebbe egualmente come se fosse al 49, cercando la collaborazione dei centristi come è nei suoi programmi da tempo. 

 

Il Professore si è spinto più in là: oltre a confermare la prospettiva di un’intesa con Bersani, ha adombrato l’eventualità che si possa costruire una larga coalizione meno provvisoria e fragile di quella che ha sostenuto il suo primo governo e in grado di realizzare le riforme di cui il Paese ha bisogno per uscire dalla crisi.

Se solo si riflette sul fatto che Monti era entrato nella campagna elettorale con l’ambizione di scomporre le due coalizioni avversarie, emarginando le parti più conservatrici per far prevalere quelle più riformiste, la svolta è notevole. Il presidente del Consiglio, che si candida a succedere a se stesso, prende atto che solo in accordo con i partiti suoi avversari sarà possibile delineare un programma comune di iniziative che aiuti l’Italia a fare quel che l’Europa le chiede: più competitività sui mercati, più flessibilità sul lavoro, veri tagli alla spesa pubblica, e sul piano istituzionale la revisione della Costituzione, il rafforzamento del governo e lo snellimento del Parlamento, promesse tante volte e sempre rinviate.

 

Quella di Monti è naturalmente una sfida, più che una proposta: occorrerà vedere come reagirà Bersani, dopo le sue recenti aperture, all’ipotesi che non un centrosinistra più ampio, ma una larga coalizione, sia necessaria per la prossima legislatura. E soprattutto bisognerà vedere quali saranno gli effetti di un’iniziativa del genere all’interno del Pdl. Nel centrodestra, infatti, quando ancora sembrava che Berlusconi fosse orientato a farsi da parte, Alfano e gran parte della nuova generazione spingevano a favore di un rapporto più stretto con il premier, candidato ideale, dal loro punto di vista, a guidare lo schieramento moderato. Poi il ritorno in scena di Berlusconi ha mandato tutto per aria: e dopo le sparate degli ultimi giorni, e una campagna tutta giocata contro i «disastri» provocati da Monti, non si capisce come il Cavaliere possa tornare sui suoi passi.

 

In ogni caso siamo solo all’inizio di un processo che, se davvero si svilupperà, lo farà dopo il voto e con i risultati alla mano. Sarebbe stato meglio, certo, molto meglio, che pur riservandosi uno spazio di manovra e di propaganda in una campagna elettorale in cui è normale che ognuno punti a prendere un voto in più, i partiti che pur tra molte difficoltà avevano condiviso l’esperienza del governo dell’ultimo anno avessero concordato un perimetro protetto, entro il quale salvare ciò che di buono era stato realizzato, e tutto quel che restava da fare. Un tentativo impossibile, sapendo come vanno le cose in Italia, quando arriva il momento delle elezioni. Ma a maggior ragione ci si poteva almeno provare.

 

Invece è andata com’è andata: il ritiro in extremis dell’appoggio a Monti da parte del Pdl ha provocato la caduta del governo e le elezioni anticipate. La crisi ha preoccupato gli osservatori internazionali, in specie gli europei che consideravano l’Italia un paese in convalescenza. Questi timori si sono ribaltati su Monti, spingendolo a «salire» in politica. La nascita del suo partito ha irritato Bersani e ne è derivata la guerra che i due si sono fatti fin qui.

 

Adesso, è inutile nasconderlo, non sarà facile rimettere insieme i cocci. Mentre è abbastanza chiara la ragione del pentimento e del tentativo di ricostruire l’unica, forse, soluzione che consentirebbe all’Italia di risolvere i suoi problemi. Al momento attuale nessuno pensa di vincere. Né Bersani, che ha visto assottigliarsi il suo vantaggio, né Berlusconi, in rimonta, sì, ma fino a un certo punto. E neppure Monti, che stando agli ultimi sondaggi rischia perfino di arrivare quarto, dopo Grillo. All’improvviso è diventato più forte l’incubo di un risultato «alla greca», in cui una vera maggioranza non si trova. Così la paura fa novanta, e tutti cercano di ritrovare le amicizie perdute. Che questo sia il modo migliore di arrivare a una larga coalizione è tutto da vedere.

da - http://www.lastampa.it/2013/02/06/cultura/opinioni/editoriali/l-incubo-di-un-risultato-alla-greca-3b1pG5T6m219i6SpgM3BDN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. I tecnici e l’eredità rinnegata
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2013, 11:08:27 pm
EDITORIALI
23/02/2013

I tecnici e l’eredità rinnegata

MARCELLO SORGI

La campagna elettorale che s’è chiusa ieri in un clima apocalittico ha visto uno, e un solo, punto d’incontro tra partiti e coalizioni battutisi fino allo stremo: la cancellazione, anche a costo di rinnegare se stessi, di tutto ciò che di buono e di nuovo - oltre che di necessario - aveva portato l’esperienza del governo tecnico nell’ultimo anno. È stato come se un malato oppresso da una terapia pesante, ancorché inevitabile, vista la gravità del male, all’improvviso, con un gesto di rabbia o di disperazione, avesse gettato tra i rifiuti fiale, pillole e medicamenti. Un paziente così, superata la fase di euforia, sarebbe destinato a un sicuro peggioramento.
 
Eppure, alla presa di distanza dal governo voluta da Berlusconi il 6 dicembre, per anticipare la fine della legislatura e bruciare sui tempi i magistrati di Milano, che volevano infliggergli prima del voto una definitiva condanna sul caso Ruby, è seguita, a sorpresa, quella di Bersani. Il leader del Pd, già al suo primo comizio ha cominciato a rinnegare il sostegno dato a Monti nel duro lavoro di risanamento dei conti pubblici. Le riforme, difficili ma indispensabili, che lui stesso responsabilmente aveva contribuito a far approvare, in un Parlamento in cui spesso il centrodestra era latitante, le ha presentate ai suoi elettori come un percorso obbligato non scevro da errori.
 
E più d’una volta ha lasciato intendere che se il Pd lunedì sarà il vincitore delle elezioni, e potrà formare un governo di centrosinistra, tra i primi impegni da realizzare metterà la riforma delle riforme appena approvate.

Né più né meno come fece Prodi nel 2006, quando subito si dedicò a cancellare la nuova legge sulle pensioni approvata dal centrodestra, vanificandone i vantaggi già acquisiti sul bilancio dello Stato e costringendo i tecnici, sei anni dopo, a prescrivere la cura da cavallo della riforma Fornero, con il conseguente problema degli esodati. D’altra parte, è evidente, allora come oggi, che il centrosinistra, se davvero riuscirà a vincere, lo farà con l’appoggio degli iscritti alla Cgil e con l’ipoteca dei suoi programmi. Sarà già una fortuna che Bersani, una volta approdato a Palazzo Chigi, non sia costretto a mettere in pratica il piano-lavoro della Camusso, che prevede 175 mila assunzioni di pubblici dipendenti con un aggravio di spesa per lo Stato di dieci miliardi di euro.
 
Così a sorpresa, accanto a Berlusconi che non perdeva occasione per attaccare il governo, dopo averlo sostenuto, e per rivolgere al suo successore ogni genere di apprezzamenti negativi, in queste settimane di campagna è spuntato Bersani. Con tutt’altro stile, e con la bonomia da padre di famiglia con cui si presenta davanti alle telecamere, il leader del centrosinistra e candidato alla presidenza del consiglio ha ripetuto senza sosta in tv la versione del Pd costretto a votare decreti sbagliati per la testardaggine di un premier che non voleva sentire storie. Gliel’abbiamo detto in tutte le salse che sbagliava, ma lui niente: così Bersani ha ricostruito tante volte i rapporti con il Professore nell’ultimo anno di governo. Lasciando intendere che se adesso toccherà a lui, la musica cambierà.
 
Ma l’aspetto più sorprendente della campagna è stato che subito, quasi fin dall’inizio, al coro dei suoi critici s’é unito lo stesso Monti. Una cosa del tutto inattesa e per certi versi inspiegabile. Perché il presidente del consiglio ha, sì, attaccato quotidianamente i leader del Pdl e del Pd, accusandoli di resistenze simmetriche all’azione riformatrice del governo. E tuttavia, invece di contrapporre alla sorda opposizione interna dei partner della «strana» maggioranza, quel poco o tanto di buono che era riuscito a portare a casa, risalendo la corrente contraria di una politica riottosa, Monti è apparso sovente e immotivatamente un severo critico di se stesso, e s’é rassegnato, con visibile sofferenza, a fare anche qualche limitata concessione al metodo delle promesse elettorali.
 
Come dice chi gli è stato vicino in queste settimane durissime, in cui il Professore, abituato a muoversi nella rigida cornice dei consensi internazionali, ha dovuto imparare l’arte del talk-show, forse non poteva fare altrimenti, una volta fatta la scelta di «salire» in politica e prendere partito. O forse no: il dubbio è legittimo. Se Monti fosse rimasto il Monti che avevamo conosciuto, se avesse rivendicato, contro tutto e contro tutti, il rigore delle sue scelte e il senso dei sacrifici imposti ai cittadini, e di quello suo personale, anche questa campagna così inutile e ripetitiva sarebbe stata diversa. Invece di star qui a compulsare, fino all’ultimo, le tabelle segrete dei sondaggi, saremmo andati a votare più tranquilli. Sapendo che alla fine, con qualsiasi risultato, il tecnico che aveva rappresentato la speranza e la riserva della Repubblica era ancora lì al suo posto, pronto a ricominciare il suo lavoro.

da - http://www.lastampa.it/2013/02/23/cultura/opinioni/editoriali/i-tecnici-e-l-eredita-rinnegata-mcTNDsN6SOQfJjIM6rj0LM/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il flop di Monti: campagna sbagliata e molti rimpianti
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2013, 05:20:29 pm
Elezioni Politiche 2013
26/02/2013 - Il terzo polo

Il flop di Monti: campagna sbagliata e molti rimpianti

Grillo promette: “Niente inciuci, sarà una guerra”

Senza la salita in campo, il Prof sarebbe ancora premier

Marcello Sorgi

ROMA

E adesso che non c’è maggioranza al Senato, chi lo fa il governo? Immaginiamo, ma solo per un momento, che Monti non avesse compiuto la fatidica scelta di “salire” in politica, e se ne fosse rimasto appartato, fuori dalla peggior campagna elettorale mai vista. Ieri sera, questa domanda che circolava in molti e riservati conciliaboli istituzionali, avrebbe avuto una sola risposta: Monti, appunto.

 

Invece l’avventura del Professore s’è conclusa ben lontano dalle aspirazioni, che lo hanno accompagnato in quest’ultimo mese nel suo faticoso Calvario televisivo, fino a due o tre apparizioni al giorno, e negli ultimi giorni s’erano fatte più deboli. Monti ha cercato come poteva a tarda sera di minimizzare la sconfitta, che non lo ha reso determinante neppure al Senato. Ma i primi a rendersi conto che era un’illusione arrivare al 15 per cento, e rappresentare il punto di equilibrio in una possibile alleanza con Bersani per un governo di “moderati e progressisti”, erano stati i ministri, ormai quasi ex, non candidati. Dopo averlo apprezzato per un anno nei consigli dei ministri, e averlo visto all’opera nelle famose cene con ABC, più frequenti del previsto e in molti casi rimaste segrete, i membri del governo che avevano convintamente deciso di restare tecnici e tornare alle loro professioni, quasi non lo riconoscevano più.

 

Perché sarà anche vero che in Italia tutti i tentativi di aprire una “terza via” sono andati storicamente falliti, e che il “partito della borghesia” s’è rivelato, in epoche differenti, un’illusione che non ha mai trovato un’autentica base popolare. Ma questa annotazione non basta a spiegare il mistero di una campagna elettorale tutta giocata, da Monti, all’inseguimento di Berlusconi e Bersani. Il tentativo, legittimo, di dipingere i due maggiori schieramenti animati da speculari istinti conservatori, e contrari alle riforme per paralleli e contrapposti interessi elettorali, s’è rivelato, infatti, meno convincente quando il premier, per esigenze di comunicazione, s’è convinto a scendere sullo stesso terreno dei suoi avversari, a cominciare dalle tasse e dallo scontro sull’Imu e sulla patrimoniale. Così Monti è apparso alla rincorsa, invece che un passo avanti, a Pd e Pdl; ed è risultato schiacciato dal loro attacco concentrico. Dopo Berlusconi, Bersani ha atteso solo qualche giorno per prendere anche lui le distanze dal governo. Inoltre la novità della proposta rappresentata dalla lista civica del premier é risultata ridimensionata dall’alleanza con Casini e Fini, leader con ultraventennale carriera al vertice dei loro partiti e trentennale presenza parlamentare. Magari è troppo dire che Monti se ne sia pentito: ma ci dev’essere una ragione se in tutta la campagna elettorale non s’è mai fatto vedere, né fotografare, con loro. 

 

L’altro aspetto inatteso della campagna del Professore ha riguardato proprio l’azione dell’esecutivo. Comprensibile - tra l’altro non ne ha mai fatto mistero - che Monti fosse insoddisfatto dei risultati raggiunti, e che, dall’estenuante trattativa primaverile sulla riforma del lavoro in poi, si fosse ragionevolmente convinto che l’appoggio dei suoi principali alleati fosse solo formale, e in realtà Bersani e Berlusconi puntassero a fare il meno possibile nel tempo che ancora li separava dal voto. Ma questo non giustifica in alcun modo il silenzio quasi tombale che il presidente del Consiglio ha osservato su quel che era riuscito a realizzare, malgrado l’incerto appoggio di cui godeva. Giusto per fare un esempio, pensiamo a cosa sarebbe diventata, nelle mani di un qualsiasi leader politico più o meno professionista, la legge anti-corruzione, sicuramente insufficiente, ma approvata grazie a un braccio di ferro vinto alla fine anche platealmente dal Professore e subito dimenticata. Sarebbe diventata una bandiera. 

 

Allo stesso modo la sordina messa sul comportamento del premier in Europa - mai subalterno, spesso critico, e spinto, nello scorso giugno, fino a un aperto dissenso con la Merkel -, non gli ha certo giovato. Mentre i suoi (ex) alleati, sia pure con accenti differenti, presentavano la Cancelliera tedesca come un’avversaria e promettevano, in caso di vittoria, di darle filo da torcere e cercare alleanze in Europa con l’obiettivo di ridimensionarla, Monti, anche se non lo è stato, è apparso come il suo strenuo difensore. Vorrà pur dire qualcosa se uno dei pochi buoni risultati locali la lista di “Scelta civica” lo ha conseguito in Trentino-Alto Adige, non a caso uno dei pochi territori “tedeschi” di un Paese che, ragionando di pancia, sognava, seppure irrazionalmente, di prendersi una rivincita contro la Germania.

da - http://lastampa.it/2013/02/26/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/il-flop-del-professore-campagna-sbagliata-e-molti-rimpianti-6QldmZEpt7z6glO5Nd5hZI/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Pd-M5S, c’eravamo tanto amati
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2013, 11:19:48 am
Editoriali
28/02/2013

Pd-M5S, c’eravamo tanto amati

Marcello Sorgi

Chissà cosa avrà pensato Peer Steinbrueck, leader della Spd, che considera Berlusconi e Grillo «due pagliacci», nel vedere Pier Luigi Bersani proporre un’alleanza e la presidenza della Camera al fondatore del Movimento 5 Stelle.

 

La frase un po’ forte del candidato socialdemocratico alla Cancelleria nelle prossime elezioni tedesche, considerata «fuori luogo o peggio» da Napolitano, ha portato all’annullamento del previsto incontro con il Capo dello Stato in visita in Germania. Ma Steinbrueck, c’é da giurarci, non ne avrà compreso fino in fondo la ragione, dato che si sentiva in piena sintonia con i cugini del Pd.

 

Fino a domenica scorsa infatti Grillo era per Bersani «un fascista», o «fascista del web», che usava un «linguaggio fascista», tanto per ribadire il concetto.

 

La polemica, poi sviluppata per mesi e ripetuta durante la campagna elettorale, era nata tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, quando un gruppo di grillini avevano accolto alla Festa Democratica il leader del Pd a Bologna al grido di «zombie». Epiteto particolarmente sanguinoso, se si considera che, prima d’allora, solo Bossi lo aveva usato nei confronti di Occhetto («zombie coi baffi») quasi vent’anni prima, nel 1994. E che al segretario e candidato primo ministro del Pd ovviamente aveva fatto saltare la mosca al naso, specie quando Grillo lo aveva ribadito sul web, aggiungendo che Bersani, «cadavere ambulante», avrebbe dovuto considerarlo quasi un complimento perché gli si dava atto di avere ancora un alito di vita.

 

Se questo era appunto il tenore dei rapporti tra il partito e il movimento che presto dovrebbero allearsi e governare insieme, dopo il risultato «monstre» di M5S alle elezioni, si può immaginare lo choc del collega tedesco per l’annuncio a sorpresa del Pd. Anche perché, per tutta la fase precedente all’ascesa di Grillo, i Democratici italiani avevano mostrato di condividere in pieno il giudizio durissimo della sinistra europea, e non solo, sui movimenti populisti, che ovunque predicano la fine dell’Europa e dell’euro e rastrellano voti nelle fasce di elettorato più deboli. Grillo e i suoi seguaci, per il Pd, non erano altro che la propaggine italiana di quell’anomalia manifestatasi in Olanda con Pim Fortuyn, in Austria con Jorg Heider, in Francia con Le Pen padre e figlia, e da ultimo, in Grecia, con Alba Dorata di Nikòlaos Michaloliàkos, anche se ciascuno di questi movimenti faceva storia a sè, e non tutti avevano posizioni di estrema destra o solo razziste o xenofobe. Eppure per il centrosinistra italiano era niente di più che un virus, una malattia della democrazia, da combattere sul piano continentale e europeo, quasi come l’influenza russa o cinese, rafforzando le strutture comunitarie e rendendo più fecondo il confronto tra Stati e partiti alleati all’interno dell’Unione.

 

Un’analisi come questa rivelava, già prima del boom del Movimento 5 Stelle, una qualche forma di superficialità e presunzione. Mentre Berlusconi, nel ritiro che precedeva la riscossa, confessava di studiare il linguaggio e le mosse di Grillo sui palcoscenici dei suoi spettacoli, avendone da tempo colto l’insidia, non solo Bersani, ma la sinistra italiana nel suo complesso - con l’eccezione di Bertinotti non lo considerava un vero pericolo. In un Paese cattolico e in cui ancora esiste, grazie al centrosinistra, una politica «sana» e un accettabile tasso di fiducia nelle istituzioni democratiche, si dicevano tra loro i dirigenti dello schieramento che dalle urne di domenica e lunedì si aspettava la vittoria, il populismo non potrà mai attecchire più di tanto. E avevano continuato a dirselo anche dopo le amministrative del maggio 2012, e la conquista, da parte di M5S, del comune di Parma con il sindaco Pizzarotti.

 

In realtà sarebbe bastato leggere il bel libro di due studiosi, Piergiorgio Corbetta e Elisabetta Gualmini dell’Istituto Cattaneo, che lavorano a Bologna, proprio nella capitale delle regioni rosse, per capire che Grillo con Haider, Fortuyn e con tutti gli altri campioni europei del populismo, c’entra poco o niente: è un prodotto italiano artigianale e genuino, nato all’ombra delle amministrazioni democratiche e post-comuniste del Centro Italia, che una volta erano il fiore all’occhiello del Pci, e nel tempo si erano burocratizzate e sclerotizzate, finendo a non reggere i ritmi e i problemi di una società mutata, globalizzata e indebolita da normali problemi e contrapposizioni sociali, di quelli che il «welfare-state» socialdemocratico non é più stato in grado di riassorbire. Di lì, grazie alla crisi economica, all’aumento della disoccupazione e alla rigorosa, seppur necessaria, politica fiscale imposta dalla congiuntura, i grillini nostrani sono dilagati a Nord-Est verso il Veneto, andando a intaccare la solida riserva leghista, a Nord-Ovest nelle valli piemontesi dove si combatte la guerra contro i treni ad Alta Velocità, e a Sud e nelle isole, verso l’ultima pianura democristiana e il granaio siciliano di voti del Cavaliere. Tal che se non se ne fosse accorto in tempo, e non vi avesse posto rimedio con il suo ritorno in campo e l’imprevedibile rimonta, anche Berlusconi oggi piangerebbe le stesse lacrime che piange Bersani. Ma con l’aggravante che, pure a volersi perdonare la sottovalutazione del fenomeno M5S, rivelato via via dai sondaggi durante la campagna elettorale, e confermato dalle urne quando ormai era troppo tardi, il Pd aveva in casa un antidoto di sicura efficacia come Matteo Renzi, ma ha preferito accantonarlo.

 

Ora invece Bersani cerca ascolto da Grillo per convincerlo/costringerlo ad accettare la responsabilità di sostenere un governo «di combattimento, come l’ha definito, che con il solo appoggio del centrosinistra non avrebbe la maggioranza al Senato. Lo fa usando il bastone e la carota, blandendo Grillo e minacciandolo al contempo che in caso contrario l’incubo di un secondo scioglimento delle Camere e di un altro, ravvicinato, passaggio elettorale, come in Grecia, potrebbe realizzarsi davvero. È un’impresa ardua. Le reazioni di scherno che provengono da Grillo dovrebbero scoraggiarla definitivamente. Anche Napolitano, a cui come ultimo atto del suo settennato toccherebbe benedire dal Quirinale il primo accordo organico di governo con i populisti in Europa, ha lasciato trapelare i suoi dubbi su una manovra così azzardata. Forse Bersani dovrebbe rifletterci, ripensare ai tempi non lontani in cui con Grillo si scambiavano insulti, cercare ancora una soluzione diversa. Per salvare, non solo il governo, ma l’ultimo pezzo di credibilità del Paese.

da - http://lastampa.it/2013/02/28/cultura/opinioni/editoriali/pd-m-s-c-eravamo-tanto-amati-rR8s2ipYNeiD57JKu1LtrI/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Un macigno sulle trattative per il Governo
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2013, 12:18:05 am
Editoriali
08/03/2013

Un macigno sulle trattative per il Governo

Marcello Sorgi


Accolta da Berlusconi e dal Pdl quasi come un colpo di Stato, la condanna del leader del centrodestra, per rivelazione di segreto d’ufficio della famosa intercettazione di Fassino («Abbiamo una banca») sulla scalata Unipol alla Bnl, è solo la prima di una serie che in tempi assai brevi dovrebbe abbattersi sulla testa dell’imputato più eccellente d’Italia. E di una tempesta giudiziaria, che condizionerà non poco la ricerca di un minimo equilibrio dopo il controverso risultato del voto e la possibilità che in tempi brevi il Paese debba tornare alle urne.

 

Non solo per la grandinata di sentenze attese da Berlusconi. Ma anche e soprattutto per la grande manifestazione di piazza che sta organizzando e che, seppure con un florilegio di parole d’ordine dedicate alla crisi economica e alla battaglia anti-fisco, ha in realtà come obiettivo principale la messa sotto accusa della magistratura «politicizzata», definita di recente dal Cavaliere addirittura «un cancro». Sarà questo, più delle ulteriori e assai probabili condanne che l’imputato si aspetta, a rendere il centrodestra, se non proprio inutilizzabile, molto, ma molto difficilmente coinvolgibile in qualsiasi tentativo di trovare un assetto parlamentare per il governo che Napolitano dovrebbe cercare di formare, dopo l’annunciato, e per molti versi scontato, fallimento del tentativo di Bersani di costruire un’intesa con Grillo o almeno con una parte del suo movimento. 

 

L’innesto di una crisi istituzionale - visto che il Capo dello Stato non potrà consentire l’attacco indiscriminato alla magistratura nel suo complesso - in quella politica già in corso, e vieppiù complicata dai risultati elettorali, renderà praticamente impossibile la quadratura di un cerchio già di per sè azzardata. Rafforzando la pregiudiziale del Pd a ogni e qualsivoglia forma d’intesa con un Berlusconi che, una tegola dopo l’altra, potrebbe presto ritrovarsi giudicato colpevole di esercizio della prostituzione; condannato, anche se in primo grado, all’inibizione dai pubblici uffici oltre che al carcere; e confermato, in appello, nella sentenza che gli ha già inflitto quattro anni per l’evasione fiscale dei diritti cinematografici della Fininvest. Tutto ciò mentre la procura di Napoli indaga sulla corruzione, con tre milioni di euro, confessata dal senatore De Gregorio ai tempi del governo Prodi, e su un’analoga ipotesi di reato per il passaggio dall’opposizione dei deputati Razzi e Scilipoti, i cosiddetti «responsabili» di uno dei più clamorosi episodi di salvataggio dell’ultimo governo Berlusconi. Un’inchiesta, sia detto per inciso, in cui in coincidenza delle resistenze del Cavaliere s’è già avvertito tintinnìo di manette, rivolto tra l’altro a un Parlamento in cui per la prima volta l’eventuale richiesta di arresto del leader del centrodestra potrebbe contare su una maggioranza.

 

Ce n’è abbastanza per considerare purtroppo realistica l’ipotesi di un nuovo scioglimento delle Camere, fino a ieri evocata come un disastro da evitare, perché rischierebbe di portare l’Italia in condizioni simili a quelle della Grecia. Berlusconi infatti spera ancora di trovare un accordo con il Pd. Ma Bersani non lo vuole perché cerca a sua volta un’impossibile intesa con Grillo (che il leader del Movimento 5 Stelle a sua volta esclude), e perché spera - inutilmente finora - che il centrodestra, o almeno una sua parte, abbandoni Berlusconi al suo destino.
Il risultato di questo carosello di incomunicabilità e la somma di questi anomali fattori ci porteranno quasi certamente a nuove elezioni.
Ma non elezioni qualsiasi: stavolta infatti, molto più di altre, l’Italia rischia davvero di andare a rompersi l’osso del collo.

da - http://lastampa.it/2013/03/08/cultura/opinioni/editoriali/un-macigno-sulle-trattative-per-palazzo-chigi-nSYgAlG8NCanvVkk32hkyI/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il capolavoro della confusione
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2013, 05:38:06 pm
Editoriali
16/03/2013

Il capolavoro della confusione

Marcello Sorgi


Il caos che per tutto il giorno di ieri ha accompagnato l’apertura della legislatura, e la fallita elezione dei due presidenti delle Camere, non deve impressionare: era in qualche modo scontato che le prime votazioni si sarebbero risolte in fumate nere, così come è certo, o almeno molto probabile, che stasera conosceremo i nomi della seconda e della terza carica dello Stato. Quello della seconda, in serata, correva di bocca in bocca nei corridoi del Senato: Anna Finocchiaro. 

 

Donna e senatrice di grande esperienza, già capogruppo del Pd, ha trovato il consenso, non solo del suo partito, ma a sorpresa anche della Lega Nord, realizzando un’inedita convergenza bipartizan tra sinistra e destra che è il miglior viatico per l’ascesa a un ruolo istituzionale.
E collocandosi, se sarà eletta, in pole position per la guida di un governo di tregua come quello che Napolitano tenterà di formare a partire dalla prossima settimana.

 

Perché allora, se si era delineata una prospettiva, s’è lasciato che la giornata precipitasse nella confusione più totale, senza un filo di comunicazione, né di interlocuzione, tra le forze politiche che avrebbero dovuto affrontare e risolvere il problema? Una dopo l’altra, tutte le ipotesi messe in campo sono naufragate senza speranza. Bersani, il leader della «vittoria mancata» del Pd, è partito dall’idea di agganciare il Movimento 5 Stelle con l’offerta della presidenza della Camera e coinvolgerlo nell’elezione del presidente del Senato, che nei suoi piani avrebbe dovuto essere un esponente della lista di Monti, possibilmente l’ex capogruppo del Pdl Mario Mauro, passato con il partito del presidente del Consiglio. Ma Grillo non gli ha dato ascolto, ha dato ordine ai suoi di votare per i candidati del M5S e basta. Quanto a Monti, a sorpresa, ha detto che non avrebbe accettato un’intesa solo con il centrosinistra e s’è candidato in prima persona alla presidenza del Senato.

 

Oltre a preoccupare Napolitano per le conseguenze delicate che provocherebbe (Monti dovrebbe dimettersi da Palazzo Chigi, affidando provvisoriamente la guida del governo a un vicepresidente ad interim da nominare in extremis, forse il ministro dell’Interno), l’imprevista ambizione del premier, manifestata in assenza di un patto politico per realizzarla, ha ulteriormente complicato le cose. Il regolamento del Senato prevede infatti che dalla quarta votazione in poi venga eletto presidente in un ballottaggio il candidato che raccoglie più voti. Teoricamente, se il Pd, per non ritrovarsi a votare insieme con il Pdl, dovesse decidere di votare per un proprio candidato, Monti potrebbe essere eletto lo stesso con i voti dei suoi senatori e di quelli berlusconiani, che scenderebbero in suo appoggio al solo scopo di mettere ancor di più in difficoltà Bersani. Ed é anche per questo che la Lega, in dissenso, s’è detta pronta a confluire sulla Finocchiaro.

 

Una partita così complicata - una specie di terremoto che prosegue per successivi smottamenti - ha nel Pd il suo epicentro. Il partito che ha la maggioranza assoluta alla Camera (grazie al premio elettorale del Porcellum) e quella relativa al Senato avrebbe potuto agevolmente puntare ad eleggere autonomamente due suoi esponenti, come forse alla fine dovrà fare. Ma forse anche per lasciarsi le mani più libere nella successiva corsa per il Quirinale, ha scelto legittimamente di confrontarsi e di allargare la ricerca di una soluzione condivisa. Puntando tuttavia sull’unico interlocutore - Grillo - che in tutte le salse gli aveva preannunciato un «no» pregiudiziale, e dando per scontato un alleato - Monti - che, pur consultato, non aveva dato alcuna disponibilità. Così facendo Bersani è andato a sbattere contro un primo e un secondo muro.

 

Il terzo lo ha visto alzarsi in nottata all’interno del suo partito. Se voleva a tutti i costi far presiedere la Camera da un grillino - gli é stato fatto notare - non doveva far altro che votare subito per il candidato del M5S. Se invece pensava di approfittare dell’occasione favorevole, e intanto portare a casa le due presidenze per due esponenti del Pd, non avrebbe dovuto perder tempo appresso a Grillo, e una volta incassato il primo «no», ripiegare sui propri candidati, Finocchiaro al Senato e Franceschini alla Camera. Però, a questo punto, dopo aver presentato all’esterno per giorni e giorni la scelta dell’alleanza con Grillo come una ineludibile svolta di rinnovamento imposta dai risultati del voto, la proposta dei due rispettabilissimi ex-capigruppo della scorsa legislatura per la promozione alle presidenze delle Camere rischia di essere attaccata perchè troppo conservatrice, o non necessariamente audace, come appunto il voto degli italiani avrebbe richiesto. Parola più, parola meno, è quel che non pochi parlamentari del Pd hanno fatto notare a Bersani nell’assemblea notturna dei gruppi. Con il risultato finale che a Franceschini è stata opposta la candidatura di Andrea Orlando, e che oggi, nella votazione in cui i 345 deputati del partito dovrebbero eleggersi da soli il loro presidente, basterebbero una trentina di franchi tiratori per impallinarlo.

 

Si sa, la politica italiana è complicata, e il passaggio dalla logica «militare», si fa per dire, delle coalizioni maggioritarie, a quella più tradizionale del proporzionale e della partitocrazia, non l’ha certo aiutata a migliorare. Ma un simile capolavoro, all’inaugurazione di una legislatura nata già zoppa, va oltre qualsiasi previsione. Comunque vada a finire, una sola cosa è certa: Grillo ringrazia. Alle prossime elezioni - non ci vorrà poi molto - in uno dei suoi spettacoli, gli basterà far rivedere il film di questa giornata per accrescere i suoi voti.

da - http://lastampa.it/2013/03/16/cultura/opinioni/editoriali/il-capolavoro-dellaconfusione-kBznjPQIc2mfrb3bmeT6RN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Monti: “Volevo solo la governabilità
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2013, 04:37:08 pm
Elezioni Politiche 2013
18/03/2013 - intervista

Monti: “Volevo solo la governabilità

Ecco la verità sulle trattative con Pd, Pdl e Quirinale”

Il premier: “Non ero d’accordo con il no del Presidente ma ho obbedito”

Marcello Sorgi
Roma

Se è dispiaciuto, non vuol certo darlo a vedere. Lo studio del presidente del Consiglio a Palazzo Chigi è aperto anche di domenica, le pile dei dossier ordinate con cura sulla scrivania non danno certo l’idea di uno che sta per andarsene. «Lo so, è tempo di organizzare il trasloco - sorride Mario Monti -. Ma dicono che non sarà tanto presto». 

La trattativa per le presidenze delle Camere, che lo ha visto potenziale candidato al Senato in una candidatura mai decollata, è stata più lunga e tortuosa del previsto. Monti accetta di ripercorrerla.

 

Presidente, in questa occasione lei è apparso a molti come uno che voleva a tutti i costi aggiudicarsi una poltrona. Un’immagine ben diversa da quella alla quale lei ci aveva abituati. 

«Vediamo un po’. Nel gennaio 1995, quando il presidente Scalfaro, spinto dal centrosinistra, mi propose di guidare il governo dopo le dimissioni di Berlusconi abbandonato da Bossi, dissi che avrei accettato solo con l’accordo dello stesso Berlusconi, che mi aveva da poco nominato Commissario europeo. Il Cavaliere disse no e nacque il governo Dini. In seguito declinai l’offerta, questa volta di Berlusconi, del ministero degli Esteri nel 2001 e di quello dell’Economia nel 2004. Non mi pare di aver rincorso poltrone. Nel novembre 2011 ho accettato la presidenza del Consiglio ma solo perché me lo ha chiesto il presidente Napolitano, con l’accordo delle tre principali forze politiche, in condizioni di emergenza».

 

E stavolta cosa è successo? Non sarà che l’essere diventato un politico ha complicato tutto? Standosene tranquillo a Palazzo Chigi - è opinione generale - lei sarebbe stato in pole position per il Quirinale o per un nuovo governo. Come mai, di colpo, questa voglia di presidenza del Senato? 

«Me lo chiedo anch’io! Non ho mai espresso, né avuto, questo particolare desiderio. Ma, dato che la proposta a Scelta Civica e a me era stata prospettata, abbiamo voluto approfondire in quale contesto politico avrebbe avuto senso accettarla e in quale no». 

 

Proviamo a ricostruire dall’inizio. Lei ha trattato, e con chi, per la presidenza del Senato? 

«Quando ho invitato Pierluigi Bersani a Palazzo Chigi il 7 marzo in preparazione del Consiglio Europeo, il segretario del Pd mi ha semplicemente espresso il suo orientamento per decisioni condivise in merito ai vertici delle istituzioni, sul quale mi sono dichiarato d’accordo. Il 13 marzo Luigi Zanda ha incontrato Andrea Olivero, coordinatore di Scelta Civica, ed è stato confermato un consenso sul metodo. In parallelo, alcuni esponenti del Pd in via informale erano più espliciti, proponendo la presidenza del Senato a me a fronte di un appoggio al Pd per la presidenza della Camera. Nel frattempo, all’interno di Scelta Civica era stato convenuto che avremmo insistito per una convergenza larga sulle cariche istituzionali, in coerenza con l’impostazione affermata fin dalla nascita del movimento dati i gravi problemi che l’Italia ha di fronte a sé e le profonde riforme necessarie; e che, se ci fosse stato consenso su ciò, saremmo stati disponibili ad una mia candidatura al Senato, proprio per contribuire ad un quadro ampio di governabilità». 

 

E poi cosa è accaduto? Ha avuto ulteriori contatti con Bersani? 

«Sì. Mi ha telefonato nel pomeriggio del 14 mentre ero a Bruxelles per il Consiglio europeo. Ha accennato alle sue difficoltà ad allargare il gioco al Pdl, all’indisponibilità del M5S e all’importanza che almeno Scelta Civica partecipasse alle decisioni condivise, indicando un proprio nome per il Senato o per la Camera, purché non fosse il mio poiché gli risultavano obiezioni da parte di ambienti del Quirinale». 

 

Ma lei era al corrente di queste riserve del Capo dello Stato? 

«Me ne aveva fatto cenno, alcuni giorni prima, Napolitano. Gli avevo fatto presente che difficilmente si sarebbero verificate le condizioni politiche che avrebbero indotto Scelta Civica a contribuire alle decisioni; ma che, in quel caso, avrei ritenuto importante non sottrarmi al compito di far evolvere il quadro politico nel senso desiderato. L’attività del governo, con il Consiglio europeo che si sarebbe svolto da lì a poco, il 14-15 marzo, avrebbe potuto considerarsi conclusa e vi sarebbe stato modo di continuare per i giorni, o le poche settimane, ancora necessari affidando la guida del governo al ministro più anziano o a un vicepresidente del Consiglio. In quell’incontro, e in un altro avvenuto la sera del 15 marzo al mio rientro dal Consiglio europeo, il Presidente mantenne ferma la sua obiezione, motivata su elementi giuridici (dai quali, fatti fare a mia volta approfondimenti, mi permisi di dissentire rispettosamente) ma soprattutto, mi è parso, su valutazioni di ordine politico-istituzionale, in seguito espresse in un comunicato».

 

Insomma non è riuscito a convincere Napolitano. 

«Non mi restava che “obbedire” al capo dello Stato che così grande fiducia aveva dimostrato di avere in me, affidandomi la guida del Paese nel tempestoso novembre 2011. Dato il rapporto di stima e, se mi è permesso dire, di amicizia che il presidente mi ha consentito di avere con lui, non gli ho nascosto la mia amarezza. Mi sono sentito onorato dalle valutazioni del Presidente sul mio ruolo al governo ma al tempo stesso un po’ “prigioniero”. E mi dispiace che, su due piani completamente diversi di dignità e di senso di responsabilità verso il Paese, il divieto impostomi dal Quirinale possa aver fatto piacere a più d’uno degli “uomini di Stato” subdoli e manovrieri, che a volte si ritengono anche depositari esclusivi dei criteri della “moralità” nella politica».

 

A quel punto perché non ha proposto un altro nome di Scelta Civica? 

«Infatti ho prospettato questa possibilità ai miei colleghi il mattino del 16 marzo, prima della terza votazione. Ho anche detto loro che dal Quirinale mi era giunto il suggerimento di valutare l’ipotesi di indicare un nome per la Camera. Poi, anche perché si sentissero completamente liberi da ogni possibile disagio, mi sono assentato. Ma i gruppi parlamentari riuniti hanno escluso di indicare un altro nome».

 

Dopo di ciò è stato il Pdl a premere su di lei per ottenere che i voti dei senatori di Scelta Civica si spostassero su Schifani. Com’è andata questa seconda tornata di trattative? 

«Ne ho parlato con Gianni Letta. La trattativa riguardava esclusivamente la possibilità che Scelta Civica sostenesse la candidatura del Pdl per il Senato, a condizione però che il Pdl dichiarasse che non avrebbe frapposto ostacoli pregiudiziali alla nascita di un eventuale governo di centrosinistra presieduto da un esponente Pd (verosimilmente Bersani), sia pure senza votargli la fiducia, nell’interesse della governabilità. Proposta respinta. Così Scelta Civica, in coerenza con se stessa, ha votato scheda bianca, al Senato come alla Camera».

 

Resta un’ultima domanda da farle: dica la verità, non è un po’ pentito di essere entrato in politica? 

«Me lo hanno detto in tanti e mi hanno fatto capire che se ne fossi rimasto fuori avrei potuto aspirare ad altre e più importanti collocazioni. Eppure non sono affatto pentito. Al contrario penso di aver realizzato, insieme a quelli che mi hanno aiutato a mettere su un partito in pochi giorni, un risultato importante: se non ci fossero stati i nostri tre milioni di voti, Berlusconi avrebbe vinto le elezioni e oggi sarebbe lui a scegliere se tornare a Palazzo Chigi o farsi eleggere al Quirinale. Quanto a Bersani, al centrosinistra e al tentativo di allearsi con M5S, dovrebbero pensarci bene: il cammino che abbiamo fatto insieme per ritrovare un posto in Europa è stato tutto in salita. Si fa presto a rimettere in gioco un patrimonio di credibilità per timore di un nuovo passaggio elettorale e per un pugno di voti. Spero che ci riflettano bene».

da - http://lastampa.it/2013/03/18/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/monti-volevo-solo-la-governabilita-ecco-la-verita-sulle-trattative-con-pd-pdl-e-quirinale-G5gn7LVR06nJWiJzGNOoUJ/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Le incognite di una corsa a ostacoli
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2013, 05:51:34 pm
Editoriali
23/03/2013

Le incognite di una corsa a ostacoli

Marcello Sorgi

Se serviva una conferma delle condizioni di estrema difficoltà in cui ha preso avvio il tentativo di Bersani di formare il governo, è stato il presidente Napolitano a darcela in diretta ieri sera. Nel settennato che sta per concludersi, pur essendo passato per tanti momenti drammatici e situazioni da trincea, mai prima d’ora il Capo dello Stato aveva ritenuto di presentarsi in prima persona a spiegare le ragioni di un incarico che parte gravido di incognite. E se lo ha fatto, è perché il tasso di anomalia della situazione politica ha superato anche l’alto livello di tolleranza a cui l’Italia ci ha purtroppo abituato.

 

La chiamata di Bersani era in qualche modo motivata dal risultato elettorale che ha visto il centrosinistra prevalere (seppure «di poco», ha annotato il Presidente), ottenere la maggioranza alla Camera grazie al premio elettorale del Porcellum, e trovarsi invece ad avere al Senato solo una maggioranza relativa e nessuna alleanza in grado di portare i voti dei senatori mancanti. In questa situazione non c’erano che due possibilità: un accordo Pd-5 Stelle, che Bersani ha inseguito e visto naufragare giorno dopo giorno, fino alla certificazione dell’indisponibilità di Grillo registrata mercoledì dalle consultazioni. E un governo di larga coalizione, come quelli che in Europa sono nati e continuano a nascere (vedi Olanda) in questi casi: eventualità, questa, favorita da una disponibilità di Berlusconi ma esclusa da Bersani e dal Pd. 

 

Perché allora, in assenza dei soli sbocchi possibili, Napolitano s’è risolto egualmente a incaricare Bersani? Perché, è evidente, non vuole rassegnarsi. E spera, testardamente, che alla fine prevalgano il senso di responsabilità e la necessità di dare un governo al Paese - a parole dichiarati da tutti i componenti delle delegazioni salite al Quirinale. Di qui anche i vincoli espliciti e i paletti con cui il Presidente ha voluto accompagnare un mandato che in realtà, sia detto con tutto il rispetto, è assai limitato, un incarico dimezzato, rivolto ad accertare se in tutte e due le Camere si possa formare una maggioranza, e solo in quel caso proseguire nella formazione del governo. Su richiesta di Napolitano, Bersani ha dunque dovuto abbandonare la sua idea originaria, di comporre la lista dei ministri con personalità di spicco estranee ai partiti, e con quelle presentarsi alle Camere, confidando in una nuova ribellione dei senatori stellati.

 

Ma se queste sono le condizioni di partenza del tentativo del leader del Pd, è inutile nasconderlo: le sue possibilità di riuscita sono ridotte al minimo. La chiusura definitiva di Grillo (che tra l’altro ha messo sotto chiave i suoi dissidenti), l’impossibilità di accettare una qualche forma di accordo con Berlusconi, e l’esplicita limitazione imposta dal Capo dello Stato a progettare un approdo in Parlamento senza aver prima definito un accordo di maggioranza con possibili alleati riducono di molto i margini di manovra dell’incaricato. Bersani è un politico consumato e ha già dimostrato, nella vicenda dell’elezione dei presidenti delle Camere, di saper cambiar gioco, pur di arrivare al risultato. Ma stavolta, più che sperimentare una nuova tattica, si tratterebbe di fare un miracolo, come quello, s’intuisce da quel che è stato detto sul Colle, di convincere il Movimento 5 Stelle o il centrodestra, tutto o in parte, a lasciar partire il governo (con un’astensione o uscendo dall’aula del Senato) sulla base di un accordo-cornice sulle riforme istituzionali, che non necessariamente vincoli a far parte di una maggioranza.

 

Ovviamente tutto è possibile: la rottura di uno o più gruppi parlamentari al Senato e la nascita di sottogruppi, o gruppuscoli, motivati solo dall’intenzione di far nascere il governo ed evitare nuove elezioni anticipate. È già successo nel corso di altre legislature, non è detto che non possa capitare di nuovo, anche se i parlamentari sono ancora troppo freschi di elezione per navigare verso altre sponde. Oppure l’idea di un accordo limitato a una parte del centrodestra, vedi la Lega che si dice disposta a far patti con il diavolo, o un’altra qualsiasi forma di intesa sotterranea con il Pdl. Ma è da vedere che un governo con un compito così importante, come quello che Bersani si è assegnato, possa cominciare, o addirittura decollare, sulla base di un accordicchio, un «accrocchio», come lo chiamano a Roma, stipulato tra ambiguità e mezze promesse. Che un’intesa che si preannuncia così incerta possa allungare le sue ombre anche sulle prossime scadenze, a cominciare dalla corsa per il Quirinale. E soprattutto, che davvero sarebbe meglio questo, un governo che nasca zoppo e cerchi, non si sa come, di risanarsi cammin facendo, invece che il terribile, ma già sperimentato, «inciucio» Bersani-Berlusconi.

da - http://www.lastampa.it/2013/03/23/cultura/opinioni/editoriali/le-incognite-di-una-corsa-a-ostacoli-cx3khKOgFJmqVSD19lyjyJ/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. La lunga notte della Seconda Repubblica
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2013, 07:46:18 pm
Editoriali
30/03/2013

La lunga notte della Seconda Repubblica

Marcello Sorgi

Se davvero sperava, a oltre un mese dalle elezioni, e sotto l’incalzare della crisi economica che ha visto di nuovo salire la febbre degli spreads, di riuscire a imporre una soluzione ormai non più rinviabile, Giorgio Napolitano, alla fine del terzo giro di consultazioni (dopo il primo che aveva portato al preincarico di Bersani e quello successivo del leader del Pd), ha dovuto prendere atto che è molto difficile trovare una via d’uscita per ridare un governo al Paese.

 

L’imbarazzo del Quirinale trapelava dal modo in cui s’è chiusa la giornata, con l’annuncio di una nuova pausa di riflessione del Capo dello Stato. I dati allineati con cura sullo scrittoio del Presidente segnalano un completo stallo, aggravato dalla chiara indisponibilità tra i partiti che dovrebbero concorrere a individuare uno sbocco. Malgrado gli alti e bassi che lo hanno accompagnato, il tentativo di Bersani si è arenato sul “no” pregiudiziale di Grillo, ribadito anche ieri, e sulla richiesta di Berlusconi, inaccettabile per il centrosinistra, di indicare il candidato alla successione di Napolitano. L’ipotesi di un rinvio di Monti alle Camere, per sancire un periodo anche breve di tregua in attesa di un’alternativa più solida o di nuove elezioni, s’è sciolta negli ultimi giorni, con l’incresciosa conclusione del caso dei marò, le dimissioni del ministro Terzi non concordate con nessuno e la drammatica richiesta alle Camere del presidente del consiglio di essere sollevato al più presto dalla sua responsabilità. Infine anche la possibilità di un nuovo governo tecnico, o del Presidente, spedito direttamente dal Colle in Parlamento per cercarsi una maggioranza, è franata di fronte all’opposizione di Berlusconi e Maroni, che ripropongono, ma senza molta convinzione, il governo di larga coalizione che il Pd non può nè vuole accettare.

 

Se non fosse che Napolitano, grazie alla sua esperienza e al carisma di cui gode, ci ha abituato a dei colpi di scena che intervengono sempre quando tutto sembra perduto, si dovrebbe ammettere che stavolta il Presidente non ha più carte da giocare. Chi gli è stato vicino in queste lunghe ore di consultazioni s’è accorto che la sequela di incontri reiterati con tutti gli esponenti della classe politica vecchia e nuova ha provocato in lui una specie di sconforto. Non tanto per la distanza delle posizioni e per la scarsa disponibilità a farsi carico dei problemi del momento, ma per l’assoluta incomunicabilità tra i leader e i vertici dei partiti. Se solo si riflette sul fatto che Bersani, in sei giorni di lavoro come per incaricato, non ha mai avuto un colloquio diretto con Berlusconi, neppure una telefonata, accontentandosi dei contatti informali tra i suoi luogotenenti e quelli del Cavaliere, si può capire fino a che punto sono caduti i rapporti interni alla classe dirigente. Quel telefono rosso, che, anche nei momenti peggiori della Prima Repubblica, suonava nelle stanze dei grandi avversari del tempo, oggi non solo tace, ma praticamente non esiste più. Ed è questo pesante silenzio, interrotto dal crepitare continuo di insulti e dichiarazioni di guerra, che, più di ogni altro aspetto, a Napolitano ha dato per la prima volta la sensazione di una crisi insolubile: di sistema, di uomini, di strategie.

 

L’unica cosa chiara è che i leader che non hanno vinto e non hanno perso le ultime elezioni non esitano a sfidarsi nuovamente e a trovare nel ricorso alle elezioni l’unico modo di camuffare la loro impotenza e impedire l’avvento di un cambiamento, che invano invocano, ma in realtà temono. Berlusconi sfoglia i sondaggi che hanno riportato in testa il Pdl e sogna di rigettarsi in campagna elettorale. Bersani teme la resa dei conti con il suo partito e sa che le urne subito sgombererebbero dal campo il rischio di vedersi sostituito - da Renzi o da altri - alla guida del Pd. Grillo conta di avvantaggiarsi dal fallimento evidente di centrosinistra e centrodestra, seguito ai risultati del 25 febbraio.

 

È di fronte a un quadro così scomposto che il Capo dello Stato si trova a riflettere. Non gli sfugge che il suo mandato giunto agli ultimi giorni, e i suoi poteri limitati dal ritorno del semestre bianco dopo il voto, lo mettono in una condizione di maggiore difficoltà, rispetto all’egoismo e alle volontà contrastanti delle forze politiche. La leva dello scioglimento anticipato delle Camere, l’unica che forse potrebbe spingere a un ripensamento i suoi interlocutori (perché un conto è parlare di ritorno al voto, e un conto è trovarcisi davvero), Napolitano non ce l’ha più. Ed è un’ulteriore debolezza di fronte a una situazione che richiede interventi d’eccezione.

 

Forse è anche per questo che tra le riflessioni ascoltate dal Presidente qualcuno dei suoi interlocutori ha creduto di cogliere anche una disponibilità a dimettersi in anticipo e ad accelerare l’elezione del suo successore, che tornerebbe nel pieno dei poteri. Un rovello carico di incognite, a cominciare dalle reazioni degli osservatori stranieri, che considerano Napolitano l’ultimo punto di riferimento stabile in un Paese da tempo sull’orlo di un baratro e da mesi privo di un governo in grado di funzionare. E una decisione che il Presidente sta maturando in piena solitudine e che potrebbe essere annunciata nelle prossime ore. Così, «nave senza nocchiero in gran tempesta», l’Italia e la Seconda Repubblica sono entrate tutt’insieme nella loro notte più lunga.

da - http://lastampa.it/2013/03/30/cultura/opinioni/editoriali/la-lunga-notte-della-seconda-repubblica-dYNks5jLTG6DY4258BYJWM/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Se il Professore fosse di tutti
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2013, 12:14:17 am
Editoriali
15/04/2013

Se il Professore fosse di tutti

Marcello Sorgi


A quattro giorni dall’inizio delle votazioni per il Capo dello Stato, s’è aperto un nuovo caso, che rischia di pregiudicare definitivamente le già scarse possibilità d’intesa per l’elezione di un Presidente di larga condivisione, che possa essere già proclamato al primo scrutinio delle Camere riunite, come accadde per Ciampi nel ’99. Il caso riguarda Romano Prodi: è bastato che il nome dell’ex presidente del Consiglio ed ex presidente della Commissione europea saltasse fuori a sorpresa, sia pure in compagnia di altri candidati più vicini al Movimento, dalle Quirinarie convocate sulla rete da Beppe Grillo, per attizzare un incendio di polemiche, non solo tra i militanti 5 Stelle, che sospettano un inquinamento della loro consultazione, ma anche tra centrodestra e centrosinistra: da quasi due mesi, come si sa, alla ricerca di un accordo impossibile sul Colle e sul governo.

Coincidenza ha voluto che sabato pomeriggio, proprio mentre Berlusconi, nell’affollatissima manifestazione di Bari, che a tutti ha dato la sensazione di una riapertura della campagna elettorale, additava Prodi al pubblico ludibrio del suo popolo (”Impazzireste di gioia se il nuovo Presidente della Repubblica fosse Romano Prodi?”. “Noooooo!”), il faccione dell’ex capo dell’Ulivo spuntasse dalla decina dei selezionati nelle Quirinarie. 

Preso dal tripudio della sua gente, che urlava a perdifiato «Silvio, Silvio!», Berlusconi aveva sferrato il suo attacco senza saperlo e senza che nessuno lo avvertisse per tempo. Ma quando, a cose fatte, la notizia gli è stata comunicata, il Cavaliere ha ordinato un fuoco di sbarramento, che ieri è andato avanti per tutto il giorno.

La ragione di questa controffensiva è facile da capire: poiché le possibilità di un accordo tra Pdl e Pd sono ridotte al lumicino, si allontana di conseguenza, giorno dopo giorno, l’eventualità che il successore di Napolitano possa essere eletto alla prima votazione, o in una delle tre che richiedono, Costituzione alla mano, due terzi dei Grandi elettori. Dalla quarta in poi, quando basterà la maggioranza assoluta di 504 voti, Prodi, sulla carta, e anche grazie alla designazione uscita ieri dalle Quirinarie grilline, potrebbe diventare il candidato che ha più voti per essere eletto: né più né meno come avvenne per Napolitano nel 2006.

La differenza tra i due sta nel fatto che per Napolitano, anche se informalmente, Berlusconi aveva dato via libera («Non lo voto ma posso conviverci», rispose a Fassino che glielo proponeva). Mentre su Prodi ha alzato le barricate: chiunque, ma non lui. Parola più, parola meno, è ciò che ha ripetuto a Bersani dall’inizio della trattativa. Il resto delle condizioni poste dal Cavaliere per votare un candidato del Pd, a partire da quella di un governo con ministri anche del Pdl, sono pesanti. Ma, come s’è capito via via, negoziabili: perché veramente, dopo un ventennio di divisioni e contrapposizioni, il Cavaliere stavolta vuol dimostrare che solo lui è in grado di siglare l’armistizio, nel momento in cui il Paese ne ha bisogno.

Sul nome di Prodi, invece non transige: e occorre riconoscere che qualche ragione ce l’ha. Arrendersi all’unico leader del centrosinistra che per due volte, nel ’96 e nel 2006, lo ha battuto nelle urne, è un po’ troppo per chi ama elencare i sei che ha mandato a stendere, da Occhetto a Veltroni. Prodi inoltre è il solo che, anche dopo la fine della competizione diretta, non ha mai rivolto al «nemico» Silvio un cenno di pacificazione. In un modo o nell’altro, magari sottobanco e solo in certe delicate occasioni, gli altri hanno trattato: chi più, chi meno. Prodi mai.

E tuttavia è proprio questo particolare e intrinseco aspetto dell’avversario che dovrebbe convincere Berlusconi a ripensarci. Il paradosso di questa vicenda, infatti, è che se l’ex leader dell’Ulivo dovesse trasformarsi in candidato di ampia condivisione, e potesse essere eletto al primo scrutinio con una larga e qualificata maggioranza – comprensiva, oltre che del Pd, anche del Pdl e, tutto o in parte, del Movimento 5 Stelle – non sarebbe più la stessa persona e non potrebbe più comportarsi come uomo di parte. Non solo perché lo richiede il ruolo di Presidente della Repubblica, che rappresenta istituzionalmente l’unità del Paese. Ma soprattutto perché i voti del centrodestra, e di Grillo, diventerebbero vincolanti come e più di quelli del centrosinistra. 

L’elezione del nuovo Capo dello Stato avverrebbe nel pieno rispetto della Costituzione, che richiede espressamente larghe intese per la più delicata delle scelte istituzionali. E la tregua siglata in un’occasione così rilevante consentirebbe poi, nell’immediato prosieguo, ma senza scambi che la Carta non contempla, di esaminare con spirito più sereno la questione del governo e la gravità di una crisi come quella italiana, lasciata ormai a marcire da troppo tempo dopo il voto del 24 febbraio.

Sarebbe bello, dopo sette settimane di testarde contrapposizioni, un sussulto di ragionevolezza. Eppure, siamo pronti a scommettere sul contrario. Bersani e Berlusconi, che già sabato, dai palchi dei rispettivi comizi, se ne sono dette di tutti i colori, troveranno nuovi argomenti di rottura. A meno di un miracolo, l’accordo per una larga condivisione, e un’elezione al primo scrutinio, non si farà. Il nuovo Presidente sortirà da una delle votazioni successive, con una maggioranza appena sufficiente, raggiunta, com’è accaduto altre volte in passato, senza accordi espliciti e grazie all’aiuto dei franchi tiratori. Questa, malauguratamente, è la più attendibile previsione della vigilia. A meno che Berlusconi, e ovviamente anche Prodi, non ci ripensino e si stringano finalmente la mano.

da - http://lastampa.it/2013/04/15/cultura/opinioni/editoriali/se-il-professore-fosse-di-tutti-7QJbBYrAmbN1r7f1nfh2uK/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il peso del fattore “vecchia Dc”
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2013, 06:26:15 pm
Editoriali
18/04/2013

Il peso del fattore “vecchia Dc”

Marcello Sorgi


La corsa al Quirinale, si sa, è tradizionalmente ricca di colpi di scena, e la tela che si fa di giorno, si disfa la notte. Questa per il dodicesimo Presidente, poi, è una trattativa così difficile e impervia, per il risultato sterile delle urne del 25 febbraio, che c’è poco da scommettere su come finirà. 

Ma se davvero sarà Franco Marini ad essere eletto Presidente della Repubblica, questa mattina alla prima votazione delle Camere riunite, si potrà dire, a ragion veduta, che a vincere, o a rivincere, è la vecchia Dc. Parafrasando il grande Luigi Pintor, fondatore del «manifesto», che esattamente trent’anni fa titolò speranzoso «non moriremo democristiani», a denti stretti si dovrà ammettere che sarà proprio grazie ai democristiani, invece, se anche stavolta sopravviveremo. 

La ragione di questa conclusione - che ieri notte, va detto, è stata quasi capovolta nell’assemblea dei grandi elettori Pd e rifiutata da Vendola - è molto semplice: in mezzo a un mare di suoi colleghi, intenti, chi per dilettantismo e chi per risentimento, a farsi una guerra senza esclusione di colpi, Marini, senza muovere un dito, come insegna la più antica scuola Dc, ha infilzato uno dopo l’altro i suoi concorrenti. A far fuori Prodi, il suo più insidioso rivale, ci hanno pensato Berlusconi e Grillo. Di eliminare Amato, che fino a martedì sera era in pole position, se ne sono fatti carico Rosy Bindi e i prodiani. D’Alema, pur non dichiaratamente, aveva contro Bersani, perché un comunista al Quirinale avrebbe sbarrato al leader del Pd la strada per Palazzo Chigi.

E con il suo attacco frontale contro la Finocchiaro e lo stesso Marini, Renzi ha sortito l’effetto opposto. Quanto a Berlusconi, avrebbe votato chiunque, l’ha detto fin dal primo momento, pur di non andare all’opposizione. 

Servirgli su un piatto d’argento il candidato Marini, legato a Gianni Letta dalle comuni radici e da una consuetudine inossidabile, è stato un altro capolavoro del leader Pd, che oggi rischia di essere contraddetto dai suoi parlamentari. Bersani, d’altra parte, non poteva fare altro. La strada dell’intesa con i 5 Stelle s’era chiusa con il tentativo fallito di farci insieme un governo. E se Grillo avesse voluto riaprirla, doveva gigioneggiare un po’ meno, e smetterla di giocare per due giorni con la Gabanelli. Quanto ai professori, ai tecnici e agli alti magistrati che si sono affacciati nella trattativa, da Cassese, a Mattarella a De Rita, entrando e uscendo dalle molte rose circolate in questi giorni, avevano quasi tutti in comune una caratteristica e un limite: o erano democristiani o parademocristiani. Ma tra un Dc surgelato o spedito in pensione, e uno genuinamente ancora in servizio, come Marini, non c’era match. Bersani, come titolare della trattativa, ha pensato che questa fosse l’unica via d’uscita. Senza tener conto degli umori ribollenti delle varie anime del suo partito che sono esplosi nella notte e adesso puntano a sconfessare l’intesa siglata dal segretario.

Diceva Giulio Andreotti, suo mentore e avversario nell’epica battaglia per la presidenza del Senato, l’ultima combattuta dal Divo Giulio: «Il viale del tramonto è lungo e bello, Dio me lo conservi!». Marini, già leader sindacale, ministro, segretario del Ppi, con un soprannome, «lupo marsicano», che tradisce le sue radici abruzzesi, quel viale non ha fatto in tempo a imboccarlo, che subito è stato richiamato in servizio. Eppure, come erede della grande tradizione scudocrociata, Franco il lupo, che ha appena compiuto ottant’anni, occorre riconoscerlo, è un po’ anomalo. Gran parte della carriera, infatti, l’ha costruita nella Cisl, che ha guidato per sei anni, dal 1985 al ’91, in tempo per ereditare, alla morte di Carlo Donat-Cattin, la corrente di Forze Nuove e il posto di ministro del Lavoro nel VII governo Andreotti.

Nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica Marini aveva dato un contributo notevole, con la sua testardaggine abruzzese, a salvare il salvabile di quel ch’era rimasto della Dc.
E di Prodi che voleva scioglierla nell’Ulivo, non a caso, è sempre stato un leale oppositore. Come segretario, dal ’97, del Ppi, primo erede del vecchio partitone cattolico (Margherita e Pd verranno dopo), aveva stretto due rapporti, solidi e decisivi, con D’Alema e Berlusconi, che gli sono tornati utili anche adesso. Era stato Marini, in alleanza con Cossiga, che aveva fondato apposta un suo partitino personale, a portare D’Alema, primo (post) comunista a Palazzo Chigi, nel ’98. E sempre lui a impostare il rapporto con il Cavaliere in termini di amicizia, alla democristiana, e solo successivamente di collaborazione-competizione. La battaglia del 2006, con il centrodestra che gli schierò contro come avversario per la presidenza del Senato nientemeno che Andreotti, poté svolgersi così in termini civili. Tanto, come dimostrarono i franchi tiratori, gli avversari di Marini stavano più nel centrosinistra che tra i berlusconiani, e l’osso più duro sarebbe stato naturalmente un Dc, Clemente Mastella.

Il passaggio decisivo, con Berlusconi, avvenne due anni dopo: Marini, ricevuto il mandato esplorativo come presidente del Senato, dopo la crisi del secondo governo Prodi, quando Berlusconi gli comunicò che non c’era spazio per il suo tentativo, non si espresse né in un senso né in un altro. Non insistette, non fece una piega, limitandosi a una pura registrazione istituzionale. «Con la sua correttezza, lei s’è guadagnato un credito», si congedò da lui, soddisfatto, il Cavaliere. Chissà se il lupo marsicano con la coppola e la pipa immaginava che il tempo di riscuoterlo sarebbe arrivato così presto.

da - http://lastampa.it/2013/04/18/cultura/opinioni/editoriali/il-peso-del-fattore-vecchia-dc-xqCtmj3xEzzSJXySy3MX1L/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Le riforme per ritrovare credibilità
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2013, 05:18:28 pm
Editoriali
21/04/2013

Le riforme per ritrovare credibilità

Marcello Sorgi

Giorgio Napolitano é atteso a un impegno molto duro, anche più di quel che farebbe immaginare l’eccezionalità del secondo mandato, affidatogli ieri sera da una larghissima maggioranza parlamentare. Le divisioni che per due giorni avevano reso impossibile l’elezione di un nuovo presidente non sono affatto risolte.

E sono appena cominciati, purtroppo, gli effetti dell’implosione che ha portato il Pd, partito di maggioranza relativa, dopo aver rivendicato per quasi due mesi la guida del governo, ad affossare uno dopo l’altro i suoi candidati, e a far apparire l’aula della Camera una specie di Somalia dominata da capitribù. La tregua accordata dal centrodestra al centrosinistra è nata dal sospiro di sollievo, tirato da Berlusconi di fronte alla rottura tra Pd e Movimento 5 Stelle, e tra Pd e Sel. Ma riguarda, al momento, solo il Quirinale; mentre sul governo che adesso dovrebbe nascere, tra avversari che dovrebbero tornare alleati, al di là di un consenso di massima, c’è molto sottinteso e qualche intuibile malinteso.

 

Diciamo la verità: il gesto di Napolitano di accettare di restare al Quirinale è una grande prova di generosità, perché davanti ai suoi occhi c’è una distesa di macerie. Ricomporle, convincere i terremotati del Parlamento a cominciare subito un’opera di ricostruzione, non sarà affatto semplice. E sarà una responsabilità che peserà, almeno nei primi tempi, sulle spalle del Capo dello Stato. Napolitano sarà, dovrà essere necessariamente, una specie di presidente-commissario: non è solo all’inizio di un nuovo mandato, ma alle soglie di una nuova complicata trasformazione del suo ruolo. Ecco perché, fin dal momento di annunciare la propria disponibilità, e successivamente, quando gli è stata formalmente comunicata dai presidenti delle Camere la rielezione, il Presidente ha voluto richiamare i partiti e i parlamentari finora impotenti a prendersi le proprie responsabilità. E a fare il proprio dovere, di fronte a un’opinione pubblica annichilita da quel che è accaduto negli ultimi giorni.

 

Se solo si riflette sul programma che il Presidente si era assegnato al momento della sua prima elezione, era già chiaro da tempo che gli obiettivi prefissi erano stati centrati solo a metà. Napolitano era, sì, riuscito, grazie anche a qualche energico colpo di barra al timone, a imporre un’evoluzione del quadro politico resa necessaria dal progressivo logoramento del centrodestra e dello stesso Berlusconi. Ma sul piano delle riforme, di cui aveva sottolineato l’urgenza, e la necessità, per le forze politiche, di collaborare al fine di colmare i ritardi, il Presidente, malgrado la sua incessante opera di persuasione, aveva dovuto misurare una delusione.

 

Il suo lavoro riparte da qui. E non gli basterà - lui è il primo a saperlo - ammonire, suggerire, consigliare, come ha fatto nei suoi primi sette anni. A giudicare da quel che s’è visto in Parlamento, in una delle settimane più nere della storia della Repubblica, gli toccherà adoperare la frusta e alzare la voce quando serve. Questo, ovviamente, a cominciare dal suo ex-partito, che dopo aver provocato un disastro incommensurabile, umiliando il Parlamento in una delle occasioni più rilevanti, come le votazioni a Camere riunite per eleggere il Capo dello Stato, è andato a scongiurare Napolitano di rimettersi a disposizione per trovare una soluzione. Ma senza escludere che possa servire anche per gli altri, sia quelli che hanno accompagnato la rielezione, sia quelli che non l’hanno condivisa, scegliendo l’opposizione e i vantaggi di parte come Vendola, o rivendicando, con parole a vanvera, come Grillo, una sorta di inammissibile libera uscita.

 

C’è da mettere su un governo che governi e possa contare su una maggioranza in grado di approvare le decisioni necessarie per far fronte alla crisi economica e ai pesanti problemi del Paese. Ci sono riforme urgenti, come quelle indicate nel programma dei saggi, che Napolitano pensava di lasciare in eredità, e che potrebbero servire, se realizzate, a far recuperare credibilità a una classe politica piegata dal vento dell’antipolitica. Serve tagliare il numero dei parlamentari, limitarne i privilegi, differenziare i compiti delle Camere, rafforzare i poteri del premier. È indispensabile riformare il Porcellum: lo ha dimostrato, tra l’altro, l’inutile ricerca di un candidato non condiviso al Quirinale, che non poteva essere eletto con la sola forza del premio elettorale.

Poi, con un po’ di coraggio, a conclusione di questa vicenda bisognerebbe riflettere anche sul Capo dello Stato, chiamato non da oggi, ma particolarmente oggi, a un ruolo che supera quello formalmente assegnatogli dalla Costituzione. In questo senso, quando avrà finito il suo compito, Napolitano potrà diventare non solo il primo Presidente ad essere stato riconfermato al Quirinale. Ma anche l’ultimo ad essere stato eletto dal Parlamento e non dal popolo.

da - http://www.lastampa.it/2013/04/21/cultura/opinioni/editoriali/le-riforme-per-ritrovare-credibilita-YeVIclrFrFveW4PskOgOvK/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. La sindrome del “governo amico”
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2013, 05:33:55 pm
Editoriali
27/04/2013

La sindrome del “governo amico”

Marcello Sorgi

A dispetto di molte previsioni ottimistiche, l’ultima notte di vigilia è stata inquieta. E non, come vuole la tradizione, perché, si sa, la lista dei ministri può considerarsi definitiva solo quando viene letta al Quirinale, e la storia delle crisi italiane è piena di aneddoti su cancellazioni e sostituzioni di nomi avvenute un minuto prima. Ovviamente, come aveva previsto anche Enrico Letta, il toto-ministri infuria. Ma s’intuisce che il problema vero è un altro.

 

Malgrado gli sforzi fatti da Napolitano, infatti, il Pd non riesce a digerire l’idea di far parte di un governo di larghe intese con Berlusconi. I tentativi di indorare la pillola dandogli un nome diverso, «del Presidente», «di convergenza», «di servizio», finora non sono serviti a niente. Gli artifizi sulla delegazione che per conto del partito dovrebbe affiancare Letta non hanno egualmente portato a nulla: non funziona né l’idea di un paio di ministri giovani (anche se l’incaricato ha detto che non vuole gente che «debba fare la scuola guida») affiancati da super tecnici (tipo Saccomanni), né quella delle vecchie glorie (Amato e D’Alema) che facciano da nave scuola.

 

E la ragione per cui nessuna di queste ipotesi rappresenta una soluzione è politica, non necessariamente legata ai nomi. Il Pd, in altre parole, non ha ancora risolto il nodo della pacificazione, seppur temporanea, con il Giaguaro che fino a poco fa voleva «smacchiare». E cerca il modo di far nascere il governo senza aderirvi fino in fondo: un po’ come la vecchia Dc ai tempi dei «governi amici», guidati e composti da propri esponenti, ma senza poter contare sull’effettivo appoggio del partito. Le dichiarazioni esplicite allineate fino a ieri, si tratti dell’ex-presidente del partito Bindi o dell’ex-ministro del lavoro Damiano - per non dire del giovane Civati, che ha lanciato l’allarme sui «traditori che diventeranno ministri» - sono una chiara conferma di tutto ciò. E preoccupante è il computo di una cinquantina di parlamentari indisponibili, o magari disposti solo a denti stretti, a votare la fiducia, e di conseguenza pronti a trasformarsi in franchi tiratori nelle prime votazioni sui provvedimenti del governo.

 

Ma accanto a queste più o meno esplicite riserve, c’è un interrogativo di fondo che investe tutto o quasi il corpo del partito: perché mai noi Democrat dovremmo entrare, non in un esecutivo di larghe intese voluto/imposto da Napolitano, ma in una coalizione di cui Berlusconi è il vero padrone, come azionista di riferimento che può togliere la fiducia quando gli pare? E di cui Letta, anche come nipote di suo zio, non è il vero presidente del Consiglio, ma una sorta di sottoposto del Cavaliere? A dimostrazione di questo ragionamento, che in tanti, nel Pd, svolgono a bassa voce con queste stesse parole, si cita il fatto che le consultazioni hanno subito un intoppo preventivo, con la dura dichiarazione di Alfano sul «governo balneare», quando Berlusconi ha ordinato di frenare. E sono poi proseguite sul velluto, quando lo stesso Berlusconi, richiesto da Napolitano, da Dallas ha dato pubblicamente il suo via libera.

 

È innegabile che sia esattamente quel che è accaduto. Ma l’errore del Pd - non di tutto, ma di una sua parte consistente - sta nello scambiare per causa quel che invece è manifestamente l’effetto del proprio atteggiamento. Berlusconi, e con lui tutto il Pdl, hanno detto dal primo giorno dopo le elezioni che il risultato uscito dalle urne non lasciava altra scelta che un governo di larghe intese o il ritorno ad elezioni. Era la stessa indicazione venuta dal Quirinale: tanto che il Presidente, quando ancora non pensava di poter essere rieletto, rendendosi conto che i suoi sforzi in questa direzione non trovavano ascolto presso il suo vecchio partito, aveva voluto egualmente connotare, con la nomina della commissione dei saggi e il documento che ne era sortito, la conclusione del settennato. Ma anche in questo caso, tolto Renzi ed escluso Violante, che era uno dei saggi, da parte Pd non era venuto alcun segno di ripensamento. Almeno fino alla rielezione di Napolitano e al secondo giro di consultazioni, in cui il vertice del partito, dopo le dimissioni di Bersani, finalmente s’era espresso ufficialmente a favore della nascita del governo.

 

Si dirà che bisogna tener conto del travaglio in cui il Pd è immerso e che una pacificazione, provvisoria per quanto sia, con il nemico di una guerra durata vent’anni, non si fa da un giorno all’altro. O ancora che gli effetti della distruttiva battaglia interna, che ha portato al siluramento di ben due candidati per il Colle, non si digeriscono tanto facilmente. Inoltre, seppure si sia stabilita una tregua, quanto solida non si sa, tra le diverse correnti, alla guida del partito in questo momento non c’è nessuno. Lo stesso Letta, che come vicesegretario s’era assunto il compito di gestire questa fase fino al congresso, ricevendo l’incarico da Napolitano è diventato fatalmente parte, e non più garante dell’armistizio. Occorre, insomma, più comprensione per un passaggio di una complessità inaudita.

 

Tutto vero. E immaginarsi se qualcuno sottovaluta le complicazioni di un accordo di larghe intese. Anche in Germania, quando l’hanno fatto, non è stato di certo dalla sera al mattino. E in Italia, se pensiamo al governo Andreotti del lontano 1976, ci vollero più di centoventi giorni, quattro mesi, prima di mettere le firme. Con la differenza che sia in Germania, sia in Italia, i partiti già avversari, che dovevano divenire alleati, lavoravano convintamente al raggiungimento del risultato.

 

A ben vedere, la debolezza del Pd sta in questo: nel credere di potersi consentire incertezze e divisioni, e di arrivare, in conclusione, a un mezzo accordo o a un’intesa poco convinta sul governo, perché tanto a volere la grande coalizione è soprattutto Berlusconi. Una strana convinzione, chissà fondata su cosa, che parte da un’ulteriore sottovalutazione del Cavaliere. Al contrario, quest’atteggiamento del Pd non cambia, la sorpresa delle prossime ore potrebbe essere opposta: il governo, o si fa oggi, o non si fa più. Il centrodestra dà legittimamente la colpa al centrosinistra. E torna il rischio di elezioni, con i sondaggi che danno già Berlusconi per favorito.

da - http://lastampa.it/2013/04/27/cultura/opinioni/editoriali/la-sindrome-del-governo-amico-HBoHlMva81AqiyCd5mpArJ/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Per Letta la trappola balneare
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2013, 03:41:59 pm
Editoriali
04/05/2013

Per Letta la trappola balneare

Marcello Sorgi


A dar retta agli ultimi rumors di Palazzo e ai quotidiani avvertimenti che Silvio Berlusconi manda a Enrico Letta, l’esecutivo nato una settimana fa con il marchio di garanzia del Presidente Napolitano, e destinato, almeno nei programmi, a durare minimo due anni, varando a tempo di record un piano di riforme per ridare solidità all’Italia e credibilità alla politica, sarebbe, non si sa come, già diventato un «governo balneare». Uno di quei governicchi che si facevano negli Anni Sessanta e Settanta per far passare l’estate in attesa di una vera soluzione. 

 

Come questo sia potuto accadere, nessuno lo dice chiaramente. Ma l’insofferenza simmetrica dei due maggiori partiti della maggioranza, oltre a sentirsi, si vede. C’è un Pdl timoroso che il proprio segretario, Angelino Alfano, vicepresidente e ministro dell’Interno, si affezioni troppo all’idea della pacificazione, sacrificando su quest’altare l’autonomia del partito e i suoi legittimi interessi elettorali, accresciuti dal rialzo dei sondaggi. E c’é un Pd, incapace di digerire il disastroso effetto della mancata formazione del governo Bersani e della truculenta esecuzione dei suoi due candidati al Quirinale, che non si rassegna all’idea delle larghe intese con il centrodestra. 

 

E in gran parte spera, anche a voce alta, al più presto in una via d’uscita. Se l’anima crisaiola del Pdl ha in Berlusconi il suo portavoce - un Berlusconi che, si sa, con una mano prende il microfono per minacciare la rottura sull’Imu, e con l’altra telefona ad Alfano per rassicurarlo -, quella del Pd, a tutt’oggi privo di un leader dopo le dimissioni di Bersani, non sa neppure a chi rivolgersi. Quando il successore di Bersani arriverà - si tratti dell’ex-segretario della Cgil Guglielmo Epifani o del dalemiano Gianni Cuperlo - è prevedibile che sarà quasi completamente assorbito dal compito di replicare, a tutte le ore del giorno, agli attacchi diretti o per interposta persona del Cavaliere al centrosinistra. Con quali conseguenze, per un governo già affaticato a pochi giorni dalla nascita, è facile immaginare.

 

Non è chiaro, invece, è se ciò a cui stiamo assistendo sia veramente l’insorgere di un virus destinato a consumare in pochi mesi Letta e la sua compagine di ministri tutti nuovi, o non piuttosto una sorta di inevitabile metabolismo della scelta di collaborazione tra i due schieramenti, impegnati per quasi vent’anni a farsi la guerra. In altre parole, prima di stabilire se si tratti o no di una vera pacificazione politica, e anche ammesso che lo sia, bisognerebbe chiedersi se un processo del genere possa avvenire in tranquillità; e soprattutto se possa realizzarsi da un giorno all’altro, dopo quel che abbiamo visto in Italia. La domanda, naturalmente, è retorica. E la risposta è che sarebbe del tutto impossibile.

 

Perché allora Pdl e Pd hanno messo le mani avanti, a cominciare dall’Imu, come se la cosa che più gli preme sia tenere innescato il detonatore di una crisi fin dal giorno del l’avvio del governo? Ci sono ragioni politiche, ovviamente: i due partiti rappresentano strutturalmente interessi contrastanti. Tra la ricetta di Berlusconi della cancellazione della tassa già
quest’anno, accompagnata alla restituzione di quella pagata l’anno scorso, e quella di Letta e del Pd della rimodulazione, cioè del diverso carico tra gruppi sociali diversi, c’è appunto la differenza tra destra e sinistra. La prima si oppone alla redistribuzione della ricchezza che la seconda persegue come sua ultima ragione di vita. Ma siccome sia Pdl che Pd sapevano prima di mettersi insieme che avrebbero dovuto trovare il modo di superare quest’ostacolo, l’Imu è, sì, un motivo di divisione, ma non può essere la causa della rottura.

 

La verità è che allo stesso modo, simmetricamente appunto, i due partiti hanno cominciato a temere, prima ancora che prenda corpo, la novità, chiamiamola impropriamente così, di un governo guidato da un democristiano - se non da tre: Letta, Alfano e Franceschini - che manifestamente intende riproporre il metodo della vecchia Dc. Vituperato quanto si vuole, travolto, non del tutto giustamente, da Tangentopoli e dall’introduzione del maggioritario via referendum del 1991 e ’93, ma ancor oggi, duole ammetterlo dopo vent’anni di Seconda Repubblica e rivoluzione ininterrotta, insuperato unico modo di governare un Paese anarchico come l’Italia. E non solo di mandarlo avanti tra rinvii e mezze soluzioni, come vogliono certe ricostruzioni parodistiche dell’epoca che fu. Ma anche di guidarlo, con un sapiente stop and go - e d’intesa con alcuni partners europei che adesso più o meno fanno lo stesso -, facendo le riforme necessarie, come appunto è accaduto in certi passaggi non remoti della vicenda italiana.

 

L’arte di «governare con la crisi», per citare il titolo di un vecchio libro di Andreotti. Anche se non è affatto scontato che il gruppetto di ex giovani Dc ci riescano, ed è da vedere che quel modo di governare sia da rimpiangere, e sia ancora adatto ai nostri tempi, è esattamente questo che temono Berlusconi e il gruppo dirigente terremotato del Pd. Anche perché, loro, con o senza la crisi, non è che siano riusciti in questi anni a dare grandi prove di governo.

da - http://www.lastampa.it/2013/05/04/cultura/opinioni/editoriali/per-letta-la-trappola-balneare-YlYsUL1aM0LPRGltvzQuzN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Ma il Cavaliere non farà saltare il governo
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2013, 04:33:36 pm
Editoriali
09/05/2013

Ma il Cavaliere non farà saltare il governo

Marcello Sorgi


Attesa e in qualche modo scontata (l’avvocato-deputato Ghedini ci aveva pure scommesso su), la condanna in appello di Silvio Berlusconi nel processo per frode fiscale sui diritti cinematografici Mediaset appesantisce, certo, l’insieme delle pendenze giudiziarie del super-imputato leader del Popolo della Libertà. Ma non altrettanto, e non necessariamente, il quadro politico e il percorso del neonato governo delle larghe intese. 

Da una settimana, infatti, il Cavaliere ha inaugurato un nuovo corso della sua condotta processuale. 

La chiamata, al fianco dei suoi abituali legali impegnati anche in politica, del professor Franco Coppi, un professionista puro, legale di Andreotti nel «processo del secolo» per le accuse di mafia, dovrebbe preludere (ma con Berlusconi non si sa mai) a un maggior rispetto per i magistrati chiamati a giudicarlo e alla fine della commistione tra ruolo politico e condizione giudiziaria, che aveva portato, solo due mesi fa, il Pdl all’occupazione del Palazzo di Giustizia di Milano. 

Berlusconi insomma non farà saltare il governo, come pure erano in molti a temere, in attesa della sentenza, nei corridoi di Montecitorio, e come lui stesso aveva minacciato martedì, dopo il doppio siluramento del suo candidato Francesco Nitto Palma alla presidenza della commissione giustizia del Senato. Ottenuta la quale, seppure con un giorno di ritardo, si metterà invece ad aspettare l’esito della Cassazione. Al proposito circolano una voce maliziosa e un dato di fatto. La prima è che la nomina, decisa con una spaccatura del Csm, al vertice della Suprema Corte, del dottor Giorgio Santacroce, magistrato che in passato era stato sentito, in relazione ai suoi rapporti con l’ex ministro berlusconiano Cesare Previti, dalla principale inquisitrice di Berlusconi Ilda Boccassini, non sarebbe affatto una cattiva notizia per il leader del centrodestra. E il secondo è che la Cassazione, prima di esaminare la sentenza d’appello, dovrà prendere atto di un altro giudizio della Corte costituzionale, che potrebbe concludersi a breve con l’annullamento parziale o totale del lavoro fatto fin qui dai giudici di Milano. Il complicato intreccio di competenze e interventi delle diverse magistrature porterebbe, o a rifare da capo interamente il processo, o almeno in secondo grado. E Berlusconi, in caso di nuova condanna, potrebbe ancora rivolgersi alla Cassazione, aspettando la scadenza dei termini di prescrizione il prossimo anno.

Questo spiega perché, malgrado la sentenza porti con sé anche la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, che se confermata chiuderebbe d’imperio la carriera parlamentare, se non proprio quella politica, del Cavaliere, la reazione dello stato maggiore del centrodestra, salvo qualche acuto della Santanchè, è stata controllata. Niente manifestazioni, nessun tavolo è stato rovesciato. E i legali del Pdl, Ghedini in testa, hanno accolto il verdetto con rassegnazione.

Berlusconi, in altre parole, si sta innamorando del suo nuovo ruolo: è diventato l’azionista di riferimento del governo, non passa giorno che chieda e ottenga quel che vuole, ieri s’è concesso il lusso di cancellare, dichiarandola inutile, perfino la Convenzione per le riforme istituzionali. I ritardi e gli intoppi che inevitabilmente si presentano, di tanto in tanto, sulla strada del governo, li mette in conto al Pd. Un partito impallato nei propri guai, in difficoltà a scegliersi un segretario, dopo le dimissioni di Bersani, e diviso al contempo sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’esecutivo guidato dal proprio vicesegretario. Il Cavaliere assiste gongolando alle contorsioni dei suoi ex avversari, divenuti nuovi alleati. Ai quali, tra l’altro, se non vogliono essere loro a mettere nei guai Letta, adesso toccherà digerire anche la sua ultima condanna. A denti stretti, senza applausi né esultanza, al contrario di tutte le volte precedenti.

da - http://www.lastampa.it/2013/05/09/cultura/opinioni/editoriali/ma-il-cavaliere-non-fara-saltare-il-governo-QGAA2JKlgWQc8c4ewVHnPP/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. - Giorno della Memoria Tarantelli ...
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2013, 04:46:58 pm
Cultura
09/05/2013 - Giorno della Memoria

Tarantelli “Papà, mi spieghi che cos’è l’inflazione?


Nel giorno dedicato alle vittime del terrorismo, il figlio Luca ricorda in un libro Ezio l’economista assassinato dalle Br perché osò sfidare il tabù della scala mobile: “Era un uomo libero”

Marcello Sorgi

Il 27 marzo 1985, quando le Brigate Rosse ammazzarono l’economista Ezio Tarantelli, l’inventore del taglio della scala mobile su cui poi si divisero
l’Italia e la sinistra italiana, era solo tre giorni dopo il compleanno di Luca, suo figlio. Che adesso ha scritto un libro (Il sogno che uccise mio padre, Rizzoli, pp. 280, € 18), non solo per ritrovarlo, ma anche per descrivere le resistenze e il conservatorismo di un Paese che in qualche modo - un modo inconsapevole e distratto - lasciò che attorno all’uomo, al professore, all’originale riformista, costruttore di nuove teorie economiche, si chiudesse a poco a poco un cerchio di indifferenza, di isolamento, di incomprensione, che doveva farne il bersaglio dei suoi assassini. 

Per fare un solo esempio, Tarantelli – che rivendicava di non essere l’autore del famoso decreto di San Valentino con cui Craxi tagliò tre punti di contingenza in aperta rottura con il Pci e la componente comunista della Cgil, ma solo del modello di inflazione programmata che ne era alla base – non aveva mai incontrato il leader socialista presidente del Consiglio. Si batteva per le sue idee, facendo lezione all’università, scrivendo sui giornali, collaborando con la Banca d’Italia e animando un Centro studi, con il solo appoggio della Cisl di Carniti, che fu protagonista del successivo referendum voluto da Berlinguer e vinto da Craxi.

Luca Tarantelli ha spiegato molto bene la doppia sofferenza a cui è sottoposto il figlio di un uomo ucciso dalle Br. Perché non c’è solo il dolore della perdita, aggravato dalla violenza dell’improvvisa privazione (si accetta con più rassegnazione la morte naturale o per malattia).
Ma anche quello dell’«esproprio» della memoria privata: la vittima sopravvive quasi esclusivamente nel ricordo pubblico, e uno sta lì a sforzarsi di ritrovare il ricordo personale di quando tuo padre ti insegnava a nuotare, o quando, a soli otto anni, sentendone parlare a casa da mattina alla sera, avevi trovato il coraggio di chiedergli: «Papà mi spieghi cos’è l’inflazione?».

Ezio Tarantelli era un personaggio eccezionale. Abruzzese, testardo, nato ricco e impoverito a causa del fallimento della banca di famiglia, allievo di un mostro sacro della dottrina economica come Federico Caffè, si era laureato benissimo, era entrato presto in Banca d’Italia, ma subito aveva rivelato una sorta di inquietudine e di incapacità a liturgie formali e carriere tradizionali. Con una borsa di studio se n’era andato a Cambridge, prima, e poi in Massachusetts, al Mit, vale a dire nelle due più prestigiose scuole economiche del mondo. 

Durante la sua carriera accademica aveva collaborato con quattro premi Nobel: Franco Modigliani, Paul Samuelson, Robert Solow e Joseph Stiglitz.
Quando la futura moglie Carol Beebe lo incontrò – nel ’65, alle soglie di un ’68 che li avrebbe cambiati – in una serata studentesca di balli esotici, jugoslavi, greci e italiani, gli erano rimasti in tasca 45 dollari e una voglia matta di restare in America. Si sposarono. Festeggiarono in un pic-nic, «con una torta tremenda comperata in un supermarket». Poi Ezio ripartì per l’Italia, per chiedere un supplemento di aspettativa alla Banca d’Italia, che gli fu concesso, ma senza stipendio e scatti di anzianità. 

«Al ritorno devi scegliere: o l’università o la Banca»: fu Carlo Azeglio Ciampi, che lo aveva individuato come uno dei giovani più brillanti di via Nazionale, a capire il tratto caratteriale che contrassegnava la personalità di Ezio. Tarantelli amava troppo la sua libertà, il limpido confronto tra intellettuali e studiosi, ed era così curioso del mondo, in un’epoca in cui l’Italia era ancora terribilmente chiusa, da non volersi legare a nessuno. Era insomma un sognatore che adorava far sognare anche gli altri, predestinato a sacrificarsi per le proprie idee. 

L’ipotesi di un freno all’inflazione, tramite un tetto programmato agli incrementi del costo del lavoro, era nata da questo metodo di confronto aperto tra scuole e paesi diversi, e dal tormento di escogitare un antidoto alla disoccupazione crescente e a una condizione giovanile inaccettabile in Italia. Piuttosto che vedere un quarto del salario mangiato da un incremento fuori controllo dei prezzi, riteneva, i sindacati e i lavoratori accetteranno di bloccare la spirale degli adeguamenti dei salari. S’illudeva. E quando cominciò a spiegare la sua teoria, mancava poco che lo prendessero per matto.
Gli disse di no il Pci, il partito per cui votava. Lama, il segretario della Cgil, gli spiegò che non si poteva fare. Perfino alcuni amici lo trattenevano, e sua moglie gli diceva che in certi momenti sembrava fuori di testa. Se non ci fossero stato l’eretico Carniti e, sulla sua scia, Craxi e De Michelis, quell’ipotesi sarebbe finita in un cassetto.

Così Tarantelli andò incontro alla sua morte annunciata. Prima che a lui, le Br spararono a Gino Giugni, l’autore dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Chi era più vicino a Ezio, come Rita Di Leo e Aris Accornero, gli consigliava di stare attento, di smetterla per un po’ di scrivere sui giornali, di prendersela con più calma e meno passione. Ma lui non li capiva, non riusciva a credere che un’idea, per quanto innovativa, per non dire eversiva, rispetto al corso immobile delle cose italiane, potesse davvero metterlo in pericolo.

A Luca Tarantelli questo faticoso viaggio alla ricerca del padre è servito a far chiarezza anche su certe cose sue. Ha capito perché, a lui studente negli anni delle occupazioni dei licei e della «Pantera» all’università, certi stereotipi del movimento, di punto in bianco, non sono piaciuti più.
Ha sentito nascere e crescere la stessa passione di famiglia per l’anticonformismo e la libertà. E a un certo punto – si capisce leggendo questo libro – è come se avesse sentito suo padre ricominciare quasi a vivere dentro di sé.

 
da - http://lastampa.it/2013/05/09/cultura/papa-mi-spieghi-che-cos-e-l-inflazione-8GfLBBQEM3dH6cmW6TqiCO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. La confusione tra partito e istituzioni
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2013, 06:33:11 pm
Editoriali
12/05/2013

La confusione tra partito e istituzioni

Marcello Sorgi

Nata in una giornata in cui la tensione attorno al governo ha toccato il suo apice - con l’assemblea del Pd riunita per eleggere il nuovo segretario e assediata dai militanti contrari alle larghe intese, e con il Pdl di nuovo in piazza contro i magistrati -, la polemica sulla presenza dei ministri berlusconiani alla manifestazione di Brescia dimostra che i due maggiori partiti, avversari fino a ieri e oggi alleati, sono ancora attraversati da timori simmetrici di non trovarsi in sintonia con i propri elettori. Per quanto la collaborazione venga spiegata come «obbligata», «temporanea», «eccezionale», a dettare la linea sono ancora le frange estreme dei due schieramenti, contrarie a qualsiasi tregua o pacificazione e orientate a riprendere appena possibile la guerra civile degli ultimi venti anni. 

 

La prudenza con cui Berlusconi aveva accolto in un primo momento la condanna in appello inflittagli dai giudici di Milano non a caso è durata neppure un giorno. E dopo le parole ascoltate ieri dal palco di Brescia, è evidente che il Cavaliere non può e non vuole rinunciare allo scontro frontale con la magistratura. E s’illude di poter continuare a farlo, senza mettere a repentaglio la stabilità del governo a cui promette quotidianamente il suo appoggio.

 

Alla vigilia del ritiro in abbazia del governo, ideato per favorire la conoscenza e lo spirito di squadra tra ministri di opposte sponde, Letta e Alfano, vale a dire il presidente e il vicepresidente del Consiglio, sono finiti così nel tritacarne delle rispettive tifoserie, che alle accuse contro il ministro dell’Interno per la sua partecipazione alla manifestazione di Brescia hanno risposto denunciando l’intervento del premier all’assemblea romana del suo partito. Ora, a parte la natura diversa delle due iniziative e dei toni e degli slogan adoperati (ma anche dall’interno dell’assise Pd s’è alzata qualche voce contro il governo), forse sarebbe meglio, almeno in questa fase d’avvio di un quadro politico così difficile da tenere insieme, che i membri dell’esecutivo si tenessero a distanza dalla vita di partito. Specie quando è prevedibile, già da prima, che il risultato sarà di indebolire l’equilibrio del governo.

 

Non è un mistero che i ministri del Pdl, e in particolare Alfano, avessero riflettuto a lungo fino alla vigilia sull’opportunità di recarsi a Brescia. Venerdì era perfino circolata voce, poi smentita, che Letta e il suo vice si fossero consultati in proposito. Perché Alfano, come ministro dell’Interno, non è solo il responsabile dell’ordine pubblico e della sicurezza, ma anche del funzionamento della macchina elettorale e della libera e ordinata manifestazione della volontà popolare. Un compito della cui rilevanza istituzionale, così come della necessaria cautela che richiede di stare sempre un passo indietro, il ministro s’è subito mostrato avvertito, con il suo stile abituale, fin dal giorno in cui il battesimo del governo era avvenuto con la tragica sparatoria davanti a Palazzo Chigi e con il ferimento dei due carabinieri. Una consapevolezza che avrebbe mantenuto anche ieri, se le pressanti richieste del leader del suo partito non lo avessero condotto a Brescia, nel clima infuocato di una piazza in cui a tratti s’è rischiato l’incidente.

 

Si sa che è inutile chiedere a Berlusconi di non essere Berlusconi. Anche se di tanto in tanto riesce a farlo contro se stesso. Anche stavolta, avrebbe certamente fatto meglio a lasciare al suo posto il ministro dell’Interno. Senza coinvolgerlo nell’ennesima battaglia sulla giustizia: tornata, dopo un breve ripensamento, ai suoi esagerati toni di sempre.

da - http://lastampa.it/2013/05/12/cultura/opinioni/editoriali/la-confusione-tra-partito-e-istituzioni-rRMaYAAqqYDe6yrNksA6dO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il paradosso del leader resuscitato
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2013, 11:10:39 am
Editoriali
20/06/2013

Il paradosso del leader resuscitato

Marcello Sorgi

La sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dato torto a Berlusconi e ragione ai giudici di Milano - rifiutatisi di rinviare un’udienza tre anni fa, di fronte a un’ennesima richiesta di aggiornamento dell’allora premier - non cambierà di molto, a meno di sorprese, il percorso politico del centrodestra, né gli equilibri del governo di larghe intese. 

 

È stato il Cavaliere in persona a garantirlo, pochi minuti dopo il comunicato della Consulta. E seppure in passato s’è sempre distinto per i bruschi ripensamenti dell’indomani, è la logica a dire che stavolta difficilmente cambierà idea. Terrà aperto l’ombrello del governo sui suoi guai, almeno fino alla conclusione dell’iter giudiziario dei processi - non solo quello per i fondi neri Fininvest per cui è stato condannato in appello, ma anche del caso Ruby e della controversia civile con De Benedetti, che gli è già costata oltre cinquecento milioni di euro. Non a caso le dimissioni in massa dei parlamentari Pdl, minacciate a sorpresa in mattinata dal vicepresidente del Senato Gasparri, anche prima che Berlusconi dettasse la sua reazione alla sentenza, hanno trovato scarsissima accoglienza tra i deputati e i senatori del centrodestra. 

 

Ciò che cambia davvero, però – e sensibilmente –, dopo il pronunciamento dei giudici costituzionali è il rapporto tra la condizione dell’imputato e quella del leader. Dopo il «no» al ricorso dei legali del Cavaliere è diventato tecnicamente possibile - anche se non si può ancora dire quanto probabile - che la Cassazione, in autunno, confermando il verdetto dei giudici di Milano, chiuda d’imperio la carriera di Berlusconi, dichiarando in via definitiva la sua interdizione dai pubblici uffici. Questo è il dato politico e la conseguenza più forte della sentenza. Ed è un passaggio simbolico, pesante e praticamente finale, che forse non poteva non avere Berlusconi al centro della lunghissima guerra tra politica e giustizia in corso ormai da decenni.

 

La Seconda Repubblica era nata, sulle macerie della Prima, anche per affrontare questo problema. Un’infinità di tentativi, da destra e da sinistra, non hanno tuttavia portato a nulla. E sarà adesso la Cassazione a decidere se la storia dell’uomo simbolo di questo ventennio debba concludersi sul piano giudiziario, e non su quello politico, come accadde per l’altro protagonista del mezzo secolo precedente, Giulio Andreotti.

 

Naturalmente non è detto che finisca così. Berlusconi, lo dicono gli osservatori che hanno letto le carte, potrebbe, sì, essere condannato, ma anche no: prescritto o sottoposto a un nuovo processo, se la sentenza d’appello dovesse essere annullata con rinvio a un’altra corte. Ma quel che resta da capire è se l’imputato, in caso di condanna, smetterebbe di far politica, o ne coglierebbe l’occasione per un’estrema battaglia: trasformandosi in un Berlusconi alla Grillo, che fa campagna elettorale senza candidarsi, e una volta presi i voti di milioni di italiani, detta le sue condizioni stando fuori dal Parlamento. Conoscendolo, la seconda è l’ipotesi più probabile. E il paradosso di un Berlusconi resuscitato, invece che abbattuto da una sentenza, quando ormai era avviato verso il declino, è purtroppo destinato a pesare ancora sul governo, sul Paese, sullo scorcio di una legislatura nata morta, e sul tramonto – cupo, sterile, infinito – di un’altra inutile stagione repubblicana.


da - http://lastampa.it/2013/06/20/cultura/opinioni/editoriali/il-paradosso-del-leader-resuscitato-bNw9a566X7r6sc2lM7kgHO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il sipario sull’era del Cavaliere
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2013, 12:07:30 am
editoriali
25/06/2013

Il sipario sull’era del Cavaliere

Marcello Sorgi

La sentenza con cui il tribunale di Milano ha condannato Berlusconi a sette anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici segna insieme la fine dell’avventura politica del Cavaliere, e più in generale quella della Seconda Repubblica, di cui per altro l’ex-Presidente del consiglio è stato l’uomo simbolo, come Andreotti lo era della Prima. In passato, anche in tempi recenti (si pensi alle elezioni politiche del 24 febbraio), Berlusconi ci ha abituato ad improvvise cadute e a subitanee resurrezioni. Ma stavolta è peggio di tutte le altre, come lui stesso sa o incomincia a capire, anche se ieri ha preferito negarlo nella prima reazione ufficiale. 

Vent’anni fa, quando Craxi fu colpito dal primo avviso di garanzia, non tutti scommettevano sul suo declino. 

 

Lo capirono dopo qualche mese, quando il leader socialista era ormai sommerso da una sequela di comunicazioni giudiziarie, e prima degli ordini di cattura scelse la strada dell’esilio. Lo stesso accadde quando Andreotti fu accusato di rapporti con la mafia e c’era chi sorrideva sulla scena inverosimile del bacio con Totò Riina. Al di là dei caratteri, e delle scelte opposte dei due illustri predecessori, sul modo di gestire i propri guai giudiziari, è fin troppo evidente che la magistratura ha riservato a Berlusconi lo stesso destino. La lezione di vent’anni fa ci dice che è inutile far finta di no, o evitare di prendere atto: tanto è così. 

 

Si potrà discutere - anzi si dovrà - sul comportamento dei giudici di Milano che hanno fatto calare la ghigliottina sul collo del Cavaliere. La condanna a una pena superiore a quella chiesta dalla pubblica accusa, la scelta di riconoscere la fattispecie più grave del reato di concussione appena riformato dall’ex ministro Severino (con l’introduzione, va ricordato, anche di una contestata versione più lieve che aveva consentito di recente all’ex-Presidente della Provincia di Milano, il Pd Penati, di salvarsi), la pena aggiuntiva dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, cioè dalla vita pubblica e parlamentare, oltre alla decisione sorprendente di chiedere alla Procura di incriminare per falsa testimonianza i testi della difesa, sono tutti segnali inequivocabili. 

 

Presto, molto presto, come hanno dimostrato i giudici di appello che in soli tre mesi hanno confermato l’altra condanna a quattro anni per i fondi neri Fininvest, anche questo verdetto subirà la stessa sorte. A Berlusconi a quel punto resterà solo la carta della fuga, come qualcuno già ieri sera si spingeva a prevedere, o quella, estrema ancorché più regolare, della Cassazione: ma sarebbe ingenuo illudersi che sentenze così pesanti, ribadite in secondo grado, non influenzino i membri della Suprema Corte, caricando l’imputato di pesanti precedenti che non potranno non condizionare il giudizio definitivo che lo aspetta.

 

La fine, meglio sarebbe dire l’abbattimento per via giudiziaria, della Seconda Repubblica (già in corso da tempo, va detto, non solo a causa di Berlusconi, ma anche all’ondata generalizzata di corruzione che ha investito le amministrazioni locali) apre un vuoto anche peggiore di quello lasciato dal crollo della Prima. Allora, infatti, l’onda d’urto di Tangentopoli era stata affiancata, per non dire sovrastata, dalla reazione di indignazione, accompagnata anche dal desiderio di rinnovamento, espressi dai referendum elettorali del 1991 e ’93. E dall’introduzione del maggioritario e dei collegi uninominali, che offrivano ai cittadini, non va dimenticato, l’occasione - svanita purtroppo assai presto - di poter scegliere direttamente i governi e rinnovare radicalmente i rappresentanti da mandare in Parlamento.

 

La transizione cominciata in quegli anni doveva purtroppo arenarsi in breve tempo, approdando alla confusione e allo scontro continuo in cui l’Italia si trascina da quasi un ventennio. Così, giorno dopo giorno, siamo arrivati a oggi. Un sistema politico ormai indebolito e incapace di autoriformarsi non ha potuto che soccombere a una magistratura forte; anzi resa più forte, in pratica l’unico potere sopravvissuto alla crisi delle istituzioni, dalla mancanza di riforme.

 

La caduta di Berlusconi, per quel pezzo del Paese - una metà ridottasi via via a un terzo - che lo aveva seguito come un idolo, affidandogli tutti i propri sogni e i propri timori, cancella di colpo ogni illusione. Il centrosinistra non è più in grado, al momento, di rappresentare l’alternativa, con o senza l’ausilio della dissidenza grillina e di qualche maggioranza raccogliticcia. Il governo delle larghe intese, che doveva favorire la pacificazione, dopo l’inutile e infinita epoca della guerra civile, sopravviverà, in una sorta di sospensione, magari ancora per un po’. Ma senza alcuna agibilità politica e senza la forza necessaria per affrontare la gravità del momento. Saranno in tanti, malgrado tutto, ad aggrapparcisi. Come a una zattera in mezzo alla tempesta.

DA - http://www.lastampa.it/2013/06/25/cultura/opinioni/editoriali/il-sipario-sullera-del-cavaliere-kaxePlZBLVkZv5rBBTgoLM/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Berlusconi, la sua stagione ora è chiusa
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2013, 11:20:36 am
EDITORIALI
02/08/2013

Berlusconi, la sua stagione ora è chiusa

MARCELLO SORGI

Dopo la condanna definitiva al carcere subita dalla Corte di Cassazione, Silvio Berlusconi ha una sola strada davanti a sé. 
 
Prendere atto della parola «fine» scritta dai giudici della Suprema Corte e gestire al meglio la sua uscita di scena, il famoso «passo indietro» che promette da anni e una volta arrivò anche ad annunciare in tv, salvo poi rimangiarselo dopo due giorni. Se lo farà, ci vorrà un po’ di tempo a capirlo, anche se da tempo il leader del centrodestra è consapevole che la sua stagione s’è chiusa. A giudicare dal video messaggio diffuso ieri sera, non sembra che il leader del centrodestra ne abbia alcuna intenzione, al momento. 
 
Ma non bisogna dare troppo peso alle parole, dette a caldo, da un uomo tramortito, che fino all’ultimo aveva sperato di cavarsela, ed ora deve scegliere tra carcere, arresti domiciliari o affidamento ai servizi sociali. La questione vera non è se Berlusconi deciderà di farsi da parte, e neppure quando; ma soprattutto, trattandosi di un uomo come Berlusconi, come lo farà. In altre parole, se davvero ha deciso di adoperarsi per salvare il governo, scaricando furbamente sul Pd il compito di trovare il modo di continuare la collaborazione con un centrodestra guidato da un pregiudicato per frode fiscale, la battaglia contro la giustizia politica, che ha annunciato di voler riprendere subito, non potrà essere condotta com’è avvenuto in tempi recenti, con manifestazioni sui gradini dei palazzo di giustizia e slogan incendiari. E neppure con accuse alla magistratura di essere «irresponsabile», come Berlusconi ha detto ieri, o «cancro della democrazia», come l’aveva definita qualche settimana fa. Così facendo, infatti, il governo non dura neppure una settimana, e la stessa legislatura va a rischio.
 
Non c’è alcun dubbio, infatti, che la sentenza contro Berlusconi abbia un contenuto e un peso politico. E che la condanna al carcere dell’uomo-simbolo di questo ventennio faccia calare il sipario sulla Seconda Repubblica né più né meno come già accadde per la Prima. La consapevolezza di uno squilibrio che ha visto poco a poco soccombere il potere politico rispetto a quello della magistratura è diventata via via sempre più evidente ed è salita in questi anni ai più alti livelli delle istituzioni, fino al Quirinale. Non è un caso che il Capo dello Stato, prima ancora che il verdetto della Cassazione fosse reso noto, abbia voluto ricordare che il problema esiste, ed è venuto il momento di risolverlo.
 
Ma per trovare la soluzione occorrono due cose. Berlusconi per primo, e con lui tutti i leader politici che hanno a cuore la questione, devono prendere atto che non si può affrontare una questione così delicata restando appesi al destino dei singoli. Anche perché, a parte Berlusconi, dai politici negli ultimi anni sono venuti una serie di cattivi esempi, sparsi su tutto il territorio nazionale e un po’ in tutti i partiti, che hanno convinto l’opinione pubblica, non tutta ma non sempre a torto, che la politica sia diventata quasi solo un sistema per arricchirsi e accaparrarsi privilegi.
 
La seconda cosa necessaria è che il centrosinistra, e principalmente il Pd, rinuncino alla tentazione di una gogna. Le difficoltà a cui va incontro il partito di Epifani sono evidenti: alla sua sinistra, Sel e Movimento 5 Stelle si preparano a condurre una battaglia parlamentare per la decadenza di Berlusconi da senatore, anche prima che la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, come ha deciso la Cassazione, sia rideterminata dalla Corte d’appello di Milano. E al suo interno è destinato a ingrossarsi il fronte che preferisce la scorciatoia, basta governo di larghe intese e ghigliottina per il Cavaliere. Non sarà facile, in questo clima, far sì che prevalga la razionalità e sia sciolto finalmente il nodo del rapporto tra politica e giustizia. Eppure bisogna provarci lo stesso.

da - http://www.lastampa.it/2013/08/02/cultura/opinioni/editoriali/berlusconi-la-sua-stagione-ora-chiusa-LssrpCK56dGPoxYWwT64YO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. I dioscuri alla prova
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2013, 11:35:31 pm
Editoriali
22/08/2013

I dioscuri alla prova

Marcello Sorgi

Al di là dell’esito inutile dell’incontro tra Letta e Alfano – il presidente e il vicepresidente del Consiglio che avevano collaborato benissimo, fino alla condanna di Silvio Berlusconi davanti alla Corte di Cassazione, e magari avrebbero continuato volentieri a farlo, se il muro che s’è alzato tra i rispettivi partiti non lo avesse impedito –, forse c’è qualcosa di meno contingente che rende impossibile la ricerca di una soluzione, per uscire dall’impasse in cui è caduto il governo, e rischia di conseguenza di precipitare l’Italia. 

 

Questo qualcosa è la mancanza di un normale rapporto di convivenza, di rispetto reciproco, che in tutte le democrazie del mondo, tranne da noi, consente a partiti e coalizioni opposte di scontrarsi, sì, duramente, in campagna elettorale, per contendersi la guida del Paese, ma poi di confrontarsi all’interno delle istituzioni, dissentendo o trovando accordi, senza mai superare il livello di guardia.

 

Ciò che aveva permesso, nell’anomalo «sistema bloccato» della Prima Repubblica, alla Dc, ai socialisti e ai tradizionali alleati di governo, di interloquire, pur cimentandosi aspramente, con i comunisti eternamente condannati all’opposizione, paradossalmente è venuto meno quando ogni limitazione è finita, e agli eredi di entrambi gli schieramenti si sono dischiuse le porte del governo.

 

Di qui sono nati la Seconda Repubblica e il bipolarismo muscolare, «all’italiana», basati sulla venerazione e sulla dannazione del berlusconismo, oltre che sulla guerra civile quotidiana che dura da venti anni e adesso volge a un terribile epilogo. Da una parte e dall’altra il finale del «Caimano», il tragico film di Nanni Moretti in cui l’epopea del Cavaliere si chiude per mano giudiziaria lasciandosi dietro solo macerie, viene citato come una profezia, o come un’intenzione nascosta che prova a realizzarsi. Ed è in una cornice, in un clima come questi, che Letta e Alfano ieri avrebbero dovuto trovare la via d’uscita dal cul di sacco in cui si sono cacciati i due maggiori alleati del loro governo.

 

Che l’abbiano cercata seriamente, non c’è dubbio. I due dioscuri dell’esecutivo di larghe intese, in questi primi mesi di collaborazione, sono stati accusati varie volte, velatamente e apertamente, di andare fin troppo d’accordo, al punto che nel centrosinistra e nel centrodestra erano in molti a chiedersi se l’asse tra il numero uno e il numero due di Palazzo Chigi non celasse l’ambizione di costruire un diverso assetto politico, una larga coalizione un po’ più ristretta, stabilizzata al centro dalla vocazione moderata e da un taglio generazionale. A luglio la fermezza con cui il premier aveva difeso il suo vice, minacciato dalla richiesta di dimissioni del Pd per il caso Shalabayeva, aveva rafforzato i sospetti. Ma se davvero questi erano i loro obiettivi, bisogna riconoscere che o li hanno perseguiti con una timidezza del tutto inadeguata o sono stati travolti dal rumoroso andazzo di partiti capaci solo di andare ciecamente allo scontro finale. 

 

Non c’era infatti migliore occasione per imprimere una svolta a una situazione bloccata da troppo tempo e in grado di gelare l’attesa delle pallide opportunità di ripresa che si manifestano dopo anni di crisi. La fine di Berlusconi è nei fatti: non sarà il carcere (in cui peraltro non entrerà) a sancirla. L’epopea del Cavaliere s’era chiusa già nell’estate tremenda di due anni fa in cui l’Italia s’era ritrovata, in completo isolamento internazionale, a un passo dal naufragio, e nel novembre successivo, quando il leader del centrodestra aveva dovuto abbandonare Palazzo Chigi, lasciando a Monti il compito di gestire l’emergenza. Da allora in poi il fatto che Berlusconi abbia oscillato tra la tentazione dell’abbandono e quella del ritorno in campo, non ha impedito che il numero dei voti riconquistati, e orgogliosamente da lui rivendicati, si sia pericolosamente avvicinato al tetto di quelli perduti. L’idea che possa tornare a vincere facendo la campagna elettorale dagli arresti domiciliari, diciamo la verità, fa ridere: la metà e più di elettori che alle ultime elezioni ha preferito astenersi ricorda a tutti, se non altro, che il tempo delle illusioni e dei sogni è finito. La gente è abbastanza smagata per cogliere le incapacità che i due schieramenti, messi alla prova del governo in questi vent’anni, sono stati capaci di dimostrare.

 

La strada per cercare di superare una situazione bloccata e densa di pericoli l’aveva tracciata, all’indomani del contestatissimo, dal centrodestra, verdetto della Cassazione, il presidente Napolitano. Trovandosi in presenza di una sentenza definitiva che non può che essere eseguita, si trattava di farlo nel modo meno dirompente possibile, cercando le disponibilità reciproche a salvare il salvabile. In altre parole, occorreva fare quel che la politica fa in questi frangenti, e per cui non a caso è definita l’arte del possibile: prendere tempo, fare in modo che Berlusconi maturasse la consapevolezza di trovarsi senza via d’uscita, garantire che scontasse una pena – non una gogna – com’è già accaduto in passato, evitando che il condannato trascinasse con sé nel declino un intero Paese. E nel contempo, liberati del macigno attorno al quale s’è consumata l’agonia del sistema, affrontare una volta e per tutte il problema della giustizia e del rapporto tra politica e magistratura, che dopo aver affossato la Prima Repubblica, è giunto a far fuori anche la Seconda.

 

Esattamente a questo erano attesi Letta e Alfano. Una prova di autorevolezza e di senso delle istituzioni. Un tentativo difficile, ma indispensabile, di mostrare autonomia dai rispettivi partiti, in corsa per un ennesimo – quanto inutile, al momento – lavacro elettorale. Senza i quali, anche la breve stagione delle larghe intese è destinata a un malinconico tramonto.

da - http://lastampa.it/2013/08/22/cultura/opinioni/editoriali/i-dioscuri-alla-prova-SAUO90PECML7J6OvUPBu9K/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Torna il modello Einaudi
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2013, 05:19:28 pm
Editoriali
31/08/2013 - I senatori a vita dal 1949 a oggi

Torna il modello Einaudi

Meno politica e più cultura

Ogni presidente ha “interpretato” l’istituto, celebri i no di Iotti e Montanelli

Marcello Sorgi


Lo si è capito subito, un minuto dopo la nomina: non avranno vita facile i quattro senatori a vita scelti da Napolitano, con un criterio che lo stesso Presidente ha voluto definire «einaudiano».

Scienza e cultura - piuttosto che la politica - come ambiti di provenienza, grande prestigio personale e internazionale, proprio come recita l’articolo 59 della Costituzione, che elenca come requisiti l’aver «illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario».

E da questo punto di vista, checché ne dicano i parlamentari del centrodestra che ieri hanno criticato l’iniziativa del Presidente -
dall’immancabile Daniela Santanchè, che avrebbe, pensa un po’, voluto Berlusconi, a Pietro Liuzzi, che sponsorizzava Riccardo Muti e Giorgio Albertazzi, al leghista Roberto Calderoli, sospettoso che il centrosinistra, con i nuovi arrivati, conquisti quattro voti decisivi al Senato - Napolitano non poteva scegliere meglio. Basta scorrere i curriculum dei nuovi senatori, conosciuti e apprezzati in tutto il mondo: Claudio Abbado per aver diretto a lungo le più importanti orchestre di Parigi, Londra, Vienna, Berlino; Carlo Rubbia per la sua lunga missione a Ginevra, le 28 lauree honoris causa che sottolineano l’impegno per la ricerca nella fisica delle particelle elementari e un asteroide perso nello spazio e intitolato a suo nome; Renzo Piano per le innumerevoli «tracce» architettoniche e artistiche seminate nelle grandi metropoli, da Tokyo a Sidney, a Parigi, Berlino, Dallas, e la grande passione per il mare che lo ha spinto a disegnare per sé una delle barche più belle di tutti i tempi; Elena Cattaneo, la più giovane, per la lunga e testarda esperienza di ricercatrice in America e il suo parlar chiaro contro ogni limitazione ideologica o integralista della ricerca e dell’uso delle cellule staminali.

Ma il punto è che da tempo - e particolarmente negli ultimi tempi - la questione dei senatori a vita ha assunto una dimensione controversa, e come tante altre questioni più futili su cui si esercita quotidianamente la politica italiana, è diventata oggetto di scontro e di polemiche. Lontana, lontanissima è l’epoca in cui un altro grande maestro di musica come Arturo Toscanini, o un poeta come Trilussa, o un archeologo come Umberto Zanotti Bianco - i primi senatori a vita della Repubblica, scelti da Einaudi, che nel suo settennato, per via della morte imprevista di tre dei suoi cinque, ne nominò otto - potevano frequentare il Senato tranquillamente, come e quando volevano, rispettati da tutti, senza neppure dover immaginare di incorrere nei fischi del centrodestra che avrebbero accompagnato Rita Levi Montalcini tra il 2006 e il 2008, quando a fatica, già sofferente per gli acciacchi della vecchiaia, si recava a votare per il governo Prodi.

La prima questione che si pose fu quella del numero: la Costituzione doveva intendersi nel senso che il Presidente della Repubblica, come organo istituzionale, oppure ogni Presidente, poteva nominare cinque senatori? E qui, anche agli albori della Prima Repubblica, si creò subito qualche attrito, più o meno esplicito, tra gli inquilini del Quirinale. Agli otto senatori di Einaudi, per dire, ne seguì uno solo di Gronchi. E quando anche Cossiga volle scegliere i suoi cinque, incurante delle perplessità degli uffici del Senato, in quel momento non proprio sguarnito di senatori di nomina, Scalfaro, che fu il suo successore, non ne nominò nessuno.

Bisogna considerare che le pressioni a cui i Presidenti erano sottoposti, man mano che la clessidra dei loro settennati scorreva, si facevano più forti. Ad Einaudi fu consentito di scegliere in piena libertà tra intellettuali, scienziati, letterati, artisti e scultori. Ma quando, ai tempi di Segni, il laticlavio cominciò a cadere sulle spalle di politici, certo anziani e togati, ma pur sempre politici, si affacciò la seconda questione: il Presidente è libero di scegliere chi vuole, senza preoccuparsi degli equilibri interni del Senato, o deve articolare la sua scelta senza turbarli? Saragat se la cavò affiancando al presidente della Fiat Vittorio Valletta e al poeta Eugenio Montale un democristiano di lungo corso come Giovanni Leone (che quando venne il suo turno scelse Fanfani) e lo storico leader socialista Pietro Nenni. Pertini chiamò Leo Valiani e Camilla Ravera, in nome della comune militanza nella Resistenza, un grande regista e autore di teatro, Eduardo De Filippo, e due accademici come Carlo Bo e Norberto Bobbio. Il quale, dopo un decennio di serena frequentazione di Palazzo Madama, divenne decisivo nella votazione all’ultimo sangue tra Giovanni Spadolini e Carlo Scognamiglio per la presidenza del Senato nel 1994, anno primo dell’era berlusconiana. In quel periodo Bobbio, dopo
l’esperienza della candidatura forzata (e mancata) al Quirinale di due anni prima, frequentava meno. Raggiunto da una telefonata di Gianni Agnelli (nel frattempo, anche lui, divenuto senatore a vita per nomina di Cossiga), che tifava per Spadolini, in nome di una vecchia amicizia, il professore fu portato a Roma in fretta da un aereo della Fiat. Ma anche il suo voto non bastò a impedire l’elezione di Scognamiglio, che vinse per un voto.

Di tutte le tornate, certo la più difficile fu quella di Cossiga. Non solo per il problema del numero, ma anche perché l’allora più giovane presidente dovette scontare, per la prima volta, dei rifiuti. A dire di no fu Nilde Iotti, che preferì restare alla Presidenza della Camera, e più clamorosamente Indro Montanelli, che rinunciò con una spiritosissima lettera in cui accusava Cossiga, in pratica, di volergli legare le mani. Fino a quel momento non era mai successo che qualcuno si opponesse pubblicamente a un incarico così prestigioso. Il solo Toscanini, in passato, aveva preferito lasciare, a un certo punto, per ragioni di salute.

Ma fu l’unico precedente, come lo stesso Cossiga potè sperimentare qualche anni dopo. Nel 2002, e poi nel 2006, il Picconatore tentò inutilmente di lasciare il Senato. La prima volta perché, divenuto oggetto di un’inchiesta giudiziaria di Henry John Woodcock, allora sostituto procuratore a Potenza, sosteneva che Ciampi, che non poteva farlo, non lo aveva difeso. La seconda ce l’aveva con Andreotti, suo vicino di stanza a Palazzo Giustiniani, che con una delle sue battute lo aveva accusato di lavorare poco e «non fare neppure l’orario dei barbieri». Stavolta toccò a Franco Marini, appena eletto presidente del Senato, convincerlo a restare in carica. Lo fece in tutti i modi, pressandolo, supplicandolo, richiamandolo all’antica e comune militanza. Cossiga alla fine accettò, ma a malincuore, dopo aver chiesto un dotto approfondimento giuridico all’ufficio studi di Palazzo Madama: «Mi è stato risposto che l’unico modo di smettere di fare il senatore a vita è togliersi la vita», fu il suo velenoso epitaffio finale.


da - http://lastampa.it/2013/08/31/cultura/opinioni/editoriali/torna-il-modello-einaudi-meno-politica-e-pi-cultura-4azVA0BGiNBSGRZl5weWgI/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Mancanza di alternative
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2013, 05:06:46 pm
Editoriali
25/09/2013

Mancanza di alternative

Marcello Sorgi


Annunciata da giorni, la verifica di governo, ieri, in assenza del premier, impegnato a New York, ha avuto come protagonista Napolitano.

 

Un uomo solo al comando, diversamente e più di altre volte: così è apparso il Capo dello Stato, nella cornice drammatica di una giornata in cui, alla conferma del passaggio di Telecom agli spagnoli di Telefonica, s’è aggiunta la previsione, praticamente la certezza, della prossima cessione di Alitalia ai francesi di Air France. 

Due notizie importanti, e in qualche modo sintomatiche dello stato di salute assai malfermo dell’Italia, alle quali la politica reagiva nel suo solito modo isterico. Ma mentre appunto centrodestra e centrosinistra continuavano a scambiarsi accuse e insulti come e peggio degli altri giorni, il Presidente della Repubblica, che aveva incontrato Letta prima della sua partenza per gli Usa, ha convocato al Quirinale in rapida successione il segretario del Pdl (nonché vicepresidente del Consiglio) Alfano, quello del Pd Epifani e il ministro dei Rapporti con il Parlamento Franceschini. Per consultarli, malgrado tutto, sulla prossima verifica programmatica, resa necessaria dal peggioramento dei rapporti interni della maggioranza, e sull’urgenza di far presentare in Parlamento al più presto il governo, sorretto da un nuovo accordo, per illustrare i suoi prossimi impegni, ottenere la fiducia e riprendere il cammino con la prospettiva di lavorare almeno per tutto il 2014.

Si dirà che con il clima che aleggia da un po’ di tempo – dalla conferenza dei capigruppo all’iter della legge sull’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, ieri tutto è saltato per aria – l’iniziativa di Napolitano testimonia della sua testardaggine di non volersi arrendere all’incapacità della classe politica nel suo complesso di far fronte al proprio ruolo; oppure, come diceva in serata sottovoce qualche parlamentare a Montecitorio, di un’inesatta percezione del deterioramento dei rapporti politici tra centrodestra e centrosinistra, giunti con tutta evidenza a un livello irrecuperabile e a una sorta di guerriglia quotidiana. 

Ma non è così. Il Presidente della Repubblica ha perfettamente chiaro lo stato delle cose, sia perché ne viene informato quasi tutti i giorni dal premier Letta, la cui tenuta nervosa e il cui approccio razionale a una situazione del genere sono comunque motivo di conforto per Napolitano; sia perché ha molte più antenne di quante si possa pensare, che gli consentono di valutare l’andamento della febbre, e l’altalena di sintomi in continuo peggioramento, dall’alto della sua lunga esperienza di politico e di parlamentare, che ha visto momenti anche peggiori di questo.

Dunque, non è che Napolitano non veda che la stagione delle larghe intese è giunta al capolinea, dopo la condanna definitiva di Berlusconi in Cassazione che ha paralizzato il Pdl, e in concomitanza con la vigilia congressuale che ha fatto implodere il Pd. Piuttosto, il Presidente cerca di fare valutazioni meno contingenti di quelle che echeggiano nei due maggiori partiti, con l’occhio al ruolo internazionale del Paese e all’eventualità, al momento remota eppure esistente, che l’Italia possa intercettare la tendenza alla ripresa dell’economia europea, a prezzo di scelte politiche rigorose e non rinviabili. Soprattutto, Napolitano non crede che un ennesimo passaggio elettorale, impossibile tra l’altro perché la legge elettorale sta per essere dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale, possa essere risolutivo, segnando la vittoria di uno schieramento sull’altro e creando le premesse per un governo più stabile.

Il dramma è questo: non c’è purtroppo alcuna novità rispetto a quanto la legislatura aveva già rivelato dal suo inizio, dopo un risultato elettorale senza né vincitori né vinti. Le larghe intese nostrane saranno anche le nozze con i fichi secchi di un sistema politico esausto, neppure l’ombra di quel che fra qualche settimana ci farà vedere il ritorno della grande coalizione in Germania. Ma un’alternativa non c’è. L’idea di una maggioranza di riserva tra Pd e M5s non esiste, visto lo stato delle relazioni tra i due partiti, se possibile peggiorate rispetto ai giorni terribili delle votazioni per il Quirinale. Di un Letta-bis affidato a transfughi e traditori di ogni parte, disponibili a tutto per non perdere il posto, neanche a parlarne: il primo a non starci sarebbe lo stesso presidente del Consiglio. Non resta quindi che rimettere in carreggiata la malconcia coalizione all’italiana degli avversari-alleati, e convincere i soci riottosi che ne fanno parte che potranno separarsi, se davvero lo vorranno, solo dopo aver rispettato gli impegni che li aspettano e conoscono benissimo.

Al ritorno dal Quirinale, questo è ciò che Alfano, Epifani e Franceschini hanno riferito a propri interlocutori. Le loro parole, è inutile nasconderlo, valgono meno, purtroppo assai meno, di quanto valevano qualche mese fa. Sull’agenda del segretario del Pdl, il 15 ottobre, previsto giorno d’inizio della detenzione di Berlusconi, è cerchiato con un grosso punto interrogativo, legato al mutevole stato d’animo del condannato e alla sua dichiarata indisponibilità a credere ancora in un’alleanza con quelli che considera i suoi carnefici. Sul calendario del leader democratico, la data-chiave è l’8 dicembre, con le primarie che dovrebbero incoronare Renzi e sancire la rivoluzione nel Pd. Così, non è che Alfano e Epifani non vogliano impegnarsi: diciamo che sono coscienti dei loro limiti. Lo è, ovviamente, anche Napolitano. Ma per fortuna non s’arrende.

da - http://lastampa.it/2013/09/25/cultura/opinioni/editoriali/mancanza-di-alternative-F9fDM6q04zlKcqygzCMDOJ/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il Cavaliere versione Santanchè tradisce il partito-Mediaset
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2013, 11:05:06 am
politica
29/09/2013

Il Cavaliere versione Santanchè tradisce il partito-Mediaset

Il Cavaliere e i veri motivi della crisi di governo

L’estate in villa ha sovvertito le gerarchie e convinto il leader

Sconfitta la linea della fiducia in una “soluzione politica” dei processi

Marcello Sorgi
Roma


Adesso tutti dicono che si doveva fermarla in tempo, non sottovalutarla, capire subito che aveva trovato la chiave per entrare nel cuore del Cav. Sì, perché i ministri «dimissionati», rappresentano l’ultima, fatale vittoria della «Pitonessa» Daniela Santanchè sul Pdl. 

Un partito sconvolto da due mesi per la condanna definitiva del proprio leader, oltre al rischio che di qui a poco possa finire arrestato, dopo l’espulsione dal Parlamento che il Senato si accinge a votare. E terremotato dal repentino cambio di strategia del Cavaliere, che fino a venerdì sera diceva a tutti «non voglio la crisi», e subito dopo ha affondato il governo. 

Ieri mattina, a un amico che l’aveva chiamata per chiederle se davvero, dopo le dimissioni dei parlamentari, il centrodestra avesse di nuovo fatto marcia indietro, la Santanchè rispondeva: «Non è vero. Non hanno capito niente. Lui ha deciso una settimana fa e me l’ha detto. Vado a pranzo ad Arcore e nel pomeriggio, vedrai, ci saranno novità». A tavola con il Cavaliere c’era anche Denis Verdini, l’unico che dal primo momento è sempre stato con lei. La dichiarazione con cui Berlusconi ha colto di sorpresa mezzo Pdl è nata così, come il punto d’arrivo di un discorso che dal primo agosto ad oggi la Santanchè avrà ripetuto mille volte al suo leader. «Non fidarti di loro, tanto hanno già deciso di farti fuori. E non fidarti nemmeno dei nostri che ti dicono che li convinceranno. Tanto non ce la fanno».
 
Una profezia così semplice, fatta di pochi argomenti, come piace a lui, Berlusconi l’ha vista avverarsi giorno dopo giorno, in questa che considera la peggiore estate della sua vita. Invece della prescrizione, con cui si era salvato molte volte in passato, dalla Cassazione è arrivata la condanna. Al posto del «salvacondotto» in cui tanto aveva sperato, la nota del Quirinale che a Ferragosto confermava l’obbligo di scontare la pena. Di lì in poi Berlusconi ha cominciato ad angosciarsi, a sentire un sordo risentimento e a non fidarsi più di nessuno. La conseguenza di questo stato d’animo, una forma di depressione in un uomo che ha sempre reagito alle difficoltà con il piglio del guerriero, è stata, da una parte, la scelta della solitudine, e dall’altra la completa scomposizione del vecchio gruppo dirigente di sempre.

Attorno a lui, capo assoluto di un partito personale, c’era infatti una sorta di gerarchia non scritta, con Gianni Letta numero due, Fedele Confalonieri al terzo posto, Ennio Doris e Bruno Ermolli ai gradini immediatamente successivi e poi tutti i dirigenti e gli ex ministri del Pdl, più o meno a pari merito. È esattamente questo stato maggiore che la condanna di Berlusconi ha cancellato, lasciando il leader solo con i suoi familiari proprio come il condannato che aspetta l’esecuzione, e aprendo il varco in cui la Pitonessa s’è infilata. Chi l’ha vista arrivare da Forte dei Marmi tutti i giorni - non ne ha mancato uno, ad agosto, a volte con due turni di autisti - non riusciva immaginare che la sua frequentazione e predicazione quotidiana sarebbero riusciti a scuotere il leader dall’abulia con cui rispondeva al telefono a tutti quelli che dal partito lo chiamavano, per cercare di tirarlo su. Ma la Pitonessa spiegava a tutti che non c’era alcun bisogno di convincerlo perché lui era già convinto di suo, e stufo semmai di chi insisteva a raccomandargli prudenza. Il 24 agosto, quando Berlusconi, dopo aver convocato un vertice ad Arcore aveva lanciato un nuovo ultimatum, s’era già capito che aveva ragione lei.

Ora che è accaduto l’irreparabile, per la prima volta nel Pdl si discute. Il lungo braccio di ferro tra «falchi» e «colombe» s’è combattuto fino alla vigilia della crisi, e venerdì sera, malgrado la tensione in consiglio dei ministri, sembrava che ci fossero ancora dei margini per evitare la rottura. L’accelerazione degli ultimi giorni, con le inaudite dimissioni di massa dei parlamentari, aveva visto in aperto dissenso il ministro Gaetano Quagliariello, e accanto a lui, in qualità di frenatori, il vicepresidente del consiglio Angelino Alfano e il responsabile dei Trasporti Maurizio Lupi. Sono stati loro, ieri, prima di adeguarsi formalmente alla decisione del capo, a dire chiaro e tondo a Berlusconi che la crisi rischiava di trasformarsi in un salto nel buio, mentre Fabrizio Cicchitto protestava apertamente per la mancata consultazione dei capigruppo e del gruppo dirigente. Qualcuno, con la dovuta cautela, s’è spinto a dire che anche i timori espressi da Marina Berlusconi per la situazione del Paese vanno inquadrati nel campo delle perplessità. Non è così, ma è un fatto che la figlia del leader in queste settimane ha giocato nel campo delle colombe. E che per quattro o cinque esponenti di prima linea del Pdl che parlano, ce ne sono altri che mugugnano in silenzio sulla scelta di far saltare il banco e puntare sulle elezioni anticipate.

Così, tra le pieghe della crisi, ha preso corpo una partita interna che rappresenta un’assoluta novità per il partito padronale del Cavaliere. Una sorta di secondo tempo, che punta a capovolgere la conclusione disastrosa del primo. Non per rompere con Berlusconi e dare via libera a un Letta-bis, come sotto sotto si augurano gli amici del premier. Ma per convincerlo a tornare sui suoi passi, e a non precipitare nel baratro, in cui rischia di trascinare dietro di sé il governo e il Paese.

da - http://lastampa.it/2013/09/29/italia/politica/il-cavaliere-versione-santanch-tradisce-il-partitomediaset-nRAwueVaWY7UZW9jBq946M/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. La fine del leader carismatico
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2013, 12:21:14 am
Editoriali
03/10/2013

La fine del leader carismatico

Marcello Sorgi

Per la prima volta negli ultimi vent’anni, la crisi di governo è stata evitata, non grazie, o malgrado, Berlusconi: ma nell’assoluta indifferenza a quel che il Cavaliere ha fatto o non ha fatto, nella spirale nevrotica che per giorni e giorni gli aveva fatto cambiare posizione almeno una decina di volte. In una giornata parlamentare convulsa, e a suo modo storica, il fatto che alla fine, nella sorpresa generale, il leader del centrodestra, impietrito, abbia annunciato personalmente al Senato che avrebbe votato la fiducia (anche se sabato aveva fatto dimettere i suoi ministri e poco prima aveva chiesto ai suoi senatori di sfiduciare il governo) non ha influito sull’esito finale della complicata partita giocata in questi giorni. 
 Esito che era già deciso da quando, nella notte tra martedì e ieri, i dissidenti del Pdl avevano annunciato che non avrebbero abbandonato il governo, potendo contare sull’appoggio di un gruppo di parlamentari sufficiente a garantire una nuova maggioranza a Palazzo Madama.
 Così l’uomo simbolo della Seconda Repubblica, il perno di ogni passaggio politico del ventennio, il leader che era sempre riuscito a condizionare in modo determinante, non solo la sua parte, ma anche quella avversaria, è diventato tutt’insieme superfluo. Berlusconi non credeva a se stesso e ha impiegato alcune ore a rendersi conto di quel che era successo. Poi, quando ha capito, s’è rassegnato a essere aggiuntivo, e votare per il governo, pur di non assistere alla spaccatura formale del suo partito. La leadership carismatica che fino a lunedì sera gli aveva consentito di evitare bruscamente ogni forma di dibattito interno s’è disciolta all’improvviso. Finita in un attimo. Giustiziata in un falò di insulti e prese in giro sui forum telematici degli elettori del centrodestra: disorientati, a dir poco, dall’incomprensibile confusione con cui Berlusconi ha condotto il suo tentativo fallito di far cadere il governo.
 Adesso tutti pensano che insieme alla nuova maggioranza - nei numeri quasi uguale alla precedente, ma ancorata all’accordo tra il premier e la parte più responsabile del centrodestra - sia nato un nuovo leader, nella persona del vicepresidente del Consiglio. E non c’è dubbio che Angelino Alfano abbia giocato un ruolo centrale in tutto l’andamento della crisi, rifiutandosi fin dal primo momento di provocare una scissione nel Pdl, cercando fino all’ultimo di persuadere il Cavaliere a tornare sui suoi passi, e riuscendoci, non solo grazie alla sua capacità di convinzione, ma al consenso che nel frattempo si era guadagnato nei gruppi parlamentari, tra i senatori e i deputati pronti, mai visto prima, a disobbedire a Berlusconi. Alfano, a cui in passato i suoi avevano sempre rimproverato una certa carenza di coraggio, e il Cavaliere, con una battuta famosa, la «mancanza di un quid», stavolta ha mostrato i muscoli. Ha detto di sentirsi «diversamente berlusconiano», anche se non è ancora chiaro come sarà veramente.
 



Al di là delle contorsioni e della crisi di una leadership logorata da tempo - malgrado il forte seguito elettorale, le grida di «Silvio, Silvio!» e la partecipazione emotiva della gente alle sue vicende personali - quel che è accaduto in questi giorni, e culminato nella spettacolare giornata di ieri, era già scritto nelle premesse della nascita delle larghe intese. Non la pacificazione, che Berlusconi immaginava a torto come la fine dei suoi guai, e tutte le sue ultime mosse hanno contribuito a impedire. Piuttosto, la nascita, benedetta da Napolitano, di un asse d’emergenza, rivelatosi inossidabile, tra Letta e Alfano, i dioscuri del governo. E di una tregua, si vedrà quanto solida, tra Letta e Renzi, l’unico che poteva contendergli la guida del governo e ora ha deciso di puntare sul Pd e di aspettare il prossimo turno.
Dove porterà un passaggio di questa portata, solo apparentemente improvviso e sorprendente, è presto per dirlo. Tra l’altro, siamo di fronte al compimento di un ricambio generazionale, con tutti i contraccolpi che è logico attendersi. Può darsi che all’uscita della crisi economica, e alla fine di una legislatura che a questo punto ha guadagnato almeno un anno di vita, assisteremo di nuovo a una competizione tra un centrodestra e un centrosinistra profondamente mutati e divenuti più simili a quelli che si confrontano nei maggiori Paesi europei. Ma è inutile nascondersi che la tradizione italiana, oltre che le radici da cui provengono Letta, Alfano e Renzi, i protagonisti della nuova fase, avranno il loro peso. In altre parole è possibile, forse più che probabile, e temibile secondo i punti di vista, che nella Terza Repubblica moriremo democristiani.
Da repubblica,it


Titolo: MARCELLO SORGI. La spinta del Quirinale alla politica
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2013, 04:17:01 pm
EDITORIALI
09/10/2013

La spinta del Quirinale alla politica

MARCELLO SORGI

Sulla carta, l’amnistia su cui Napolitano ha sollecitato il Parlamento a riflettere, non ha purtroppo molte probabilità, forse nessuna, di essere approvata in tempi brevi. 
 
E basterebbe la misera, nonché miserabile, reazione di Grillo, che ne ha parlato come di un salvacondotto per Berlusconi, incurante delle condizioni inaccettabili in cui versano i detenuti, per temere che il Parlamento non sia in grado di affrontare il problema con la dovuta serietà. 
Una questione di mancanza di civiltà, di quelle che trascinano l’Italia in fondo alle classifiche mondiali, che ormai da troppo tempo la politica nel suo complesso ha lasciato sulle spalle dell’indomito Pannella, l’unico a battere su questo tasto, con i suoi periodici digiuni che lo riducono in fin di vita.
 
Se davvero, pur di non offrire al Cavaliere una via d’uscita, il punto fosse di rinunciare a qualsiasi aiuto umanitario per gli oltre settantamila carcerati italiani, che languono in celle che ne potrebbero contenere appena la metà, sarebbe proprio una ragione per parlarne. Tra l’altro Berlusconi, per la quantità di pene che sta accumulando passo dopo passo, potrebbe avvalersi solo parzialmente di un provvedimento di clemenza: non sarebbe insomma la soluzione dei suoi guai.
 
La verità è un’altra, come sanno bene i mille parlamentari a cui è rivolto il messaggio del Capo dello Stato. Da venti anni a questa parte l’amnistia è diventata impossibile a causa di una legge approvata alla vigilia di Tangentopoli che prevede che la decisione debba essere presa con una maggioranza di due terzi del Parlamento. Un obiettivo irraggiungibile, dal momento che basta che un partito si sfili, candidandosi a usare in modo strumentale il suo rifiuto presso un’opinione pubblica allarmata dal rischio di veder rimessi per strada delinquenti comuni, per bloccare qualsiasi iniziativa in questo senso. Ed è così che in questo lungo periodo le Camere non sono mai riuscite a varare nuove amnistie, neppure quando a chiederglielo era arrivato a Montecitorio il Papa, e quando le condizioni carcerarie avevano superato ogni limite di sopportabilità.
 
Ma se Napolitano, consapevole di tutte le difficoltà, s’è deciso a porre nuovamente la questione - dopo esser rimasto sgomento, nella sua recente visita a Napoli, dell’inferno del carcere di Poggioreale -, non è certo perché possa razionalmente sentirsi sicuro che il suo appello venga accolto. Piuttosto, perché non si stanca di richiamare la classe politica nel suo complesso, e la maggioranza di larghe intese che sostiene il governo, a farsi carico dei reali e urgenti problemi del Paese, invece di perdere il proprio tempo a far polemiche in tv. In questo senso - va detto con la dovuta cautela - lo sprone del Presidente, diversamente da altre volte, ha più possibilità di essere accolto, anche se l’ostacolo dei due terzi di maggioranza resta difficile da superare.
 
Basta solo vedere, con l’eccezione dei 5 stelle e con quella prevedibile della Lega, il rispetto con cui il messaggio del Quirinale è stato subito comunicato al Parlamento e ascoltato con attenzione nelle aule dai deputati e senatori presenti. In altri tempi, ed ecco risaltare la differenza, i messaggi, o erano stati accantonati in un clima di imbarazzo generale, come accadde a quello di Leone, o discussi superficialmente, come capitò quando Cossiga pose con fermezza la questione delle riforme istituzionali. Invece l’intervento di Napolitano è stato accompagnato da un appoggio niente affatto formale del presidente del consiglio Letta, da un’accoglienza molto positiva del Pdl (fino a ieri polemico con il Presidente per il suo comportamento dopo la condanna di Berlusconi), e da un impegno esplicito del Pd ad affrontare di nuovo la riforma della giustizia, finora tabù per il centrosinistra, di cui l’amnistia e la soluzione del problema delle carceri rappresenterebbero un punto di arrivo.
 
Perché questa è in sostanza la spinta che Napolitano ha voluto dare al governo e al Parlamento: per farli uscire dal particolare del caso Berlusconi, in un modo o nell’altro ormai avviato a conclusione con il prossimo voto in Senato sulla decadenza da parlamentare, e spingerli ad applicarsi al ben più complesso nodo dei rapporti tra politica e giustizia. Un muro che da vent’anni blocca ogni evoluzione del sistema politico e tiene il Paese arenato sulle sabbie di una transizione infinita. 

Da : http://www.lastampa.it/2013/10/09/cultura/opinioni/editoriali/la-spinta-del-quirinale-alla-politica-nUlJhgAECtyoYpx25tv7fN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Liturgie democristiane al centro
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 09:56:01 am
Editoriali
19/10/2013

Liturgie democristiane al centro

Marcello Sorgi

Chi s’aspetta che il gran movimento al centro che ha portato a improvvise e irrevocabili dimissioni il professor Monti dalla guida del suo partito produca chissà quali conseguenze, di qui a giorni, non conosce, o non si ricorda, le liturgie democristiane, adagiate su tempi medio-lunghi. Ma certo, la brusca defenestrazione dell’uomo che nel 2011 s’era assunto la responsabilità di guidare un’Italia ridotta sull’orlo della bancarotta, e per un anno e mezzo era stato salutato come il salvatore della patria, vorrà pur dire qualcosa. 

Dal giorno della caduta del suo governo, Monti, va detto, non ne aveva più azzeccata una: era stato un azzardo la stessa fondazione del suo partito, un ircocervo in cui avrebbero dovuto convivere il «vecchio» dell’intramontabile tradizione Dc di Casini, il «nuovo» di Montezemolo e Italia futura, con la destra-sinistra di Fini e i tecnici superstiti dell’esecutivo. E un inevitabile fallimento, di conseguenza, l’idea di candidarsi a ereditare i voti di Berlusconi: il quale, pur avendone perduti tanti, ne aveva riportati a casa quasi nove milioni, arrivando a sfiorare il partito di Bersani, vincitore annunciato e mancato. 

Attorno al professore, poi, gli scricchiolii si erano moltiplicati dopo lo sfortunato tentativo fallito di farsi eleggere presidente del Senato. I sondaggi avari di promesse, e la turbolenza interna che non accennava a scemare, hanno fatto il resto. 

Ma è inutile nascondersi che la divergenza finale, che ha portato alla rottura tra Casini e il ministro della Difesa Mauro, da una parte, e l’ex presidente del consiglio dall’altra, è stata su Berlusconi. Monti, che s’era sempre vantato di aver impedito la vittoria di Berlusconi a febbraio con i tre milioni di voti raccolti da Scelta civica, non ha affatto gradito il plateale riavvicinamento che ha portato due giorni fa il ministro Mauro a pranzo con Berlusconi e Alfano a Palazzo Grazioli. Una scelta frettolosa, a suo giudizio: sarebbe stato meglio aspettare l’uscita di scena del Cavaliere.

Casini e Mauro invece, che da tempo lavoravano a quest’obiettivo, pensavano che fosse giunto il momento. Non occorreva più attendere: c’era un’urgenza politica e una personale che potevano combinarsi. Quella politica è rappresentata dalle elezioni europee della prossima primavera, in cui per la prima volta si voterà, sì, con il proporzionale, ma anche con una soglia di sbarramento del 4 per cento, che Scelta civica non era più in grado di superare agevolmente. Quella personale, è ovvio, appartiene al Cavaliere, niente affatto rassegnato al destino della decadenza da senatore che lo attende dal giorno in cui gli è arrivata sul capo la sentenza della Cassazione. Così adesso la prima occasione in cui la nuova alleanza verrà messa alla prova sarà proprio la votazione del Senato che riguarda Berlusconi. Se si deciderà a voto segreto, come vuole il regolamento del Senato e come Pd e M5s vorrebbero impedire, e se gli ex Udc voteranno compatti per il salvataggio del Cavaliere, insieme al partito dei franchi tiratori che in queste occasioni s’ingrossa sempre, la legislatura che sembra minacciata tutti i giorni dal rischio di un nuovo scioglimento delle Camere prenderà un passo più lungo.

Si vedrà allora di che pasta sono fatti gli ex Dc, e soprattutto chi l’avrà vinta, tra loro che non hanno troppa fretta di giustiziare politicamente il pluricondannato leader del centrodestra (tanto, pensano, il suo destino è segnato), e lo stesso Berlusconi. Che sogna appunto di salvarsi in extremis, a dispetto di tutti, uscire vincitore dalla ghigliottina allestita per lui in Senato, e puntare a un’impossibile resurrezione.

Da - http://www.lastampa.it/2013/10/19/cultura/opinioni/editoriali/liturgie-democristiane-al-centro-YZYWZlk8rZZnApKdMx6bEO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. I neo-iscritti al partito del rinvio
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2013, 07:02:47 pm
Editoriali
30/10/2013

I neo-iscritti al partito del rinvio

Marcello Sorgi

Nel Paese dell’eterno ricorso, rischia di slittare all’infinito anche la decadenza da senatore di Berlusconi, annunciata come la fine del ventennio, dopo la sentenza della Cassazione che ha definitivamente condannato il leader del centrodestra per frode fiscale.

Ieri la giunta del regolamento del Senato, mentre discuteva se la fine della carriera parlamentare dell’ex premier dovesse essere stabilita con voto palese o segreto, s’è imbattuta in una nuova questione, considerata decisiva dal centrodestra e irrilevante, va da sé, dal centrosinistra. Secondo i giudici di appello di Milano, che, sempre su richiesta della Cassazione, hanno ridotto la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per il Cavaliere da cinque a due anni, la sanzione prevista dalla legge Severino, cioè la decadenza e l’incandidabilità, «è riservata all’autorità amministrativa», ovvero alla Camera d’appartenenza. Tanto è bastato ai parlamentari del centrodestra per dire che la Severino, proprio perché prevede una conseguenza amministrativa, non può essere applicata a Berlusconi retroattivamente, per reati commessi prima dell’entrata in vigore della stessa legge. 

C’era un vecchio detto ai tempi della Prima Repubblica che diceva che quando una crisi politica finisce in mano agli avvocati è un guaio. Niente come quel che sta accadendo al Senato attorno al caso del Cavaliere lo conferma. Nella giunta del regolamento di Palazzo Madama, che nel suo piccolo ha già votato la decadenza, delegando all’aula dei senatori la decisione finale, si confrontano due pattuglie di irriducibili. Secondo quella del centrodestra guidata dall’ex ministro (ed ex giudice) Nitto Palma la decadenza di Berlusconi equivale a un’esecuzione sommaria, se votata senza aver la certezza che la legge Severino sia costituzionale (cioè senza chiedere prima alla Consulta di pronunciarsi in materia). E le motivazioni della sentenza dei giudici di Milano, in questo senso aggiungerebbero altri dubbi, spingendo in favore di un approfondimento. Secondo quella di sinistra pilotata dall’ex magistrato Felice Casson, invece, questi dubbi sono infondati, il centrodestra sta facendo melina e si rifiuta di applicare la legge anticorruzione, che pure aveva votato, solo perchè riguarda Berlusconi.

Queste argomentazioni potrebbero validamente essere sostenute in un’aula di giustizia, o anche in quella suprema della Corte Costituzionale. Ma stavolta, non va dimenticato, a pronunciarsi è il Senato, che prenderà, appunto, una decisione politica e non giurisdizionale. In altre parole l’argomento in base al quale i senatori si pronunceranno, ridotto all’essenziale, sarà: conviene o non conviene? E non c’è dubbio che in base a quest’argomento negli ultimi giorni sia intervenuta una novità non trascurabile. Mentre infatti il 2 ottobre, rispondendo a questa domanda, ventitré senatori del centrodestra avevano firmato un documento per dire che la decadenza del loro leader era un prezzo da pagare pur di tener in piedi il governo, venerdì scorso, lo stesso Berlusconi, che in Senato aveva dovuto sottomettersi a quest’impostazione, ha fatto votare all’unanimità dal vertice del suo partito un documento in cui si dice chiaramente il contrario: se la decadenza sarà votata, in sostanza, il governo cadrà. 

A questo punto le cose sono cambiate. Anche se gli irriducibili del centrosinistra continuano a dire che l’uscita dal Parlamento del condannato non può essere rinviata, ieri la proposta del Movimento 5 stelle di anticipare il voto dell’aula del Senato è stata bocciata. Non si voterà almeno fino al 22 novembre. E anche dopo, sarebbe quanto meno azzardato pensare di intrecciare le votazioni sulla legge di stabilità con quella sulla decadenza dell’uomo che un minuto dopo, o cercherebbe di far cadere il governo, come ha già annunciato, o metterebbe in campo una sorta di ostruzionismo contro l’approvazione del testo più indispensabile che il Parlamento deve approvare entro la fine dell’anno. La sensazione è insomma che molti degli argomenti portati dagli irriducibili di centrodestra potranno anche risultare pretestuosi. Ma anche che nel centrosinistra cominci a farsi strada una consistente pattuglia di meno irriducibili: che in silenzio, senza far proclami, preferiscono aspettare a far decadere Berlusconi, pur di salvare il governo e la legislatura.

Da - http://lastampa.it/2013/10/30/cultura/opinioni/editoriali/i-neoiscritti-al-partito-del-rinvio-pdrrfKFAbjuU029186VWGI/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Inizia una nuova stagione
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2013, 11:51:22 am
Editoriali
04/11/2013

Inizia una nuova stagione

Marcello Sorgi

La toppa che domani sarà messa, in un modo o nell’altro, al caso Cancellieri, purtroppo non servirà a riportare il governo in carreggiata. 

È fin troppo chiaro infatti che il salvataggio avverrà senza che sia stata siglata una tregua tra i due principali partiti del governo di larghe intese, che nella circostanza, gravata dalla mozione di sfiducia personale presentata in entrambe le Camere dal Movimento 5 stelle, si sono mossi ciascuno per proprio conto: il Pdl difendendo la ministra, più che altro, per sottolineare la differenza di trattamento tra la telefonata della Cancellieri in aiuto di Giulia Ligresti e quella, assai diversa, di Berlusconi in difesa di Ruby Rubacuori, per la quale l’ex premier è stato condannato a sette anni. E il Pd accettando a denti stretti, e con pesanti dissensi interni, di ridare la fiducia alla Guardasigilli solo per salvare il governo. 

Ma dietro il fragile compromesso che dovrebbe portare alla chiusura del caso, già si avverte il soffio dei venti che annunciano il cambio di stagione.

La novità più importante non è la scelta maturata da Berlusconi di aprire la crisi e andare all’opposizione, con tutto o in gran parte il suo partito. 

Piuttosto, la volontà del Pd - che emerge anche tra le righe dell’intervista a Epifani che pubblichiamo - di non farsi più carico automaticamente di un esecutivo che presto potrebbe avere una maggioranza più risicata. Affidata, oltre che al centrosinistra, a quel che rimane del partito di Monti e al gruppetto di dissidenti del Pdl raccolti attorno al vicepresidente del consiglio Alfano. Siamo a questo: nel giro di un mese, già langue quella che il 2 ottobre - quando appunto i 23 senatori del centrodestra costrinsero un riluttante Berlusconi a rimangiarsi la crisi e a votare a denti stretti la fiducia - era stata salutata da Enrico Letta come un’operazione chiarificatrice, che finalmente poteva dar respiro al governo. 

 

La ragione di questa difficoltà, di cui a malincuore hanno cominciato a prendere atto gli alfaniani, e a stretto giro anche il vertice del Pd, è che con la decadenza di Berlusconi da senatore cadranno simultaneamente anche le larghe intese. Si può anche provare a governare con un’altra maggioranza: ma non sarà facile, e tutti se ne stanno accorgendo. Tra il capirlo, e l’ammetterlo apertamente, tuttavia, ne corre. Pertanto, da dopodomani, quando il caso Cancellieri sarà archiviato, la turbolenza si trasferirà sulla legge di stabilità. Da documento essenziale per rimettere a posto i dissestati conti pubblici italiani, il testo messo a punto dal ministro dell’Economia Saccomanni si trasformerà così in pochi giorni in nuova occasione di scontro, di crisi, e se possibile di scioglimento delle Camere, per andare a votare a primavera per le elezioni politiche, e non solo per le europee.

Va detto che per criticare la legge di stabilità, motivi non ne mancano. Si pensi solo al fatto che, nella formulazione attuale, il documento prevede che dopo aver saldato i debiti con il fisco mettendo mano alla tredicesima, i contribuenti italiani, a metà gennaio, dovrebbero prepararsi a un nuovo prelievo: con quali mezzi non si sa, dato che i bilanci di molte famiglie si chiuderanno in rosso e sotto l’albero di Natale si vedranno segni evidenti di austerità. Ma all’attacco della manovra di fine anno - ecco il fatto nuovo - non andrà soltanto, e con metodi da «guerriglia», il centrodestra, come già annunciato da Brunetta. Con un’altra piattaforma, ma con pari risolutezza, si muoverà anche il Pd. L’effetto di questo attacco a tenaglia potrebbe, ovviamente, essere la crisi. Ma anche no: perché le leggi di bilancio vanno sempre approvate, costi quel che costi, e i due maggiori alleati-avversari del governo potrebbero accontentarsi, al momento, di imporre un ulteriore logoramento a Enrico Letta. 

A una prospettiva del genere - difficilmente sopportabile in Europa per un Paese nelle condizioni dell’Italia - concorre anche un dettaglio che a giorni sarà concreto e sul quale occorrerebbe cominciare a riflettere. Nel giro di un mese, giorno più, giorno meno, tutti e tre i leader dei maggiori partiti - Pd, Pdl e M5s - saranno fuori dal Parlamento. Grillo lo è già: l’altro giorno s’è affacciato in tribuna, al Senato, giusto il tempo per fiutare l’aria e correre per strada a sparare contro le istituzioni. Berlusconi, con la decadenza, uscirà anche lui da Palazzo Madama. E Renzi, che si prepara a prendere la guida del Pd, in Parlamento semplicemente non c’è mai entrato. Immaginare che questo non porti conseguenze è impossibile, per non dire irrealistico. Sta per partire la prima campagna elettorale di tre leader che da Genova, da Arcore e da Firenze si contenderanno i voti di quei pochi italiani che ancora vanno alle urne attaccando Bruxelles e gli eurocrati che ogni giorno ci impongono nuove dosi di rigore, e Roma e la politica piagnona e incapace di decidere. 

Da - Editoriali
04/11/2013
http://www.lastampa.it/2013/11/04/cultura/opinioni/editoriali/inizia-una-nuova-stagione-0UvNTTUuNImH7LDYIpteDO/pagina.html 


Titolo: MARCELLO SORGI Berlusconi-Alfano, il parricidio va in scena ma senza ...
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2013, 06:42:24 pm
politica
17/11/2013

Berlusconi-Alfano, il parricidio va in scena ma senza spargimento di sangue
Silvio e Angelino dopo la scissione hanno evitato attacchi diretti

Marcello Sorgi
Roma

Un terzo al governo, due terzi all’opposizione: ecco la nuova strategia di Berlusconi. E chi s’aspettava ieri dal leader del centrodestra un’intemerata contro i «traditori» - come Alfano e i suoi sono chiamati da tempo, da falchi e lealisti della rinata Forza Italia -, ha dovuto assistere tutt’al più alla ramanzina di un genitore: amareggiato, sì, ma al fondo generoso, verso il figliolo ribelle che si spera possa tornar prodigo. 

Pur prendendo atto che i rapporti tra governativi e lealisti si sono irrimediabilmente deteriorati, il Cavaliere ha raccomandato ai suoi di evitare polemiche con i «cugini» governativi, tenendo solo per sé la licenza di sfotterli, di dire che come ministri non valgano granché e hanno scelto un nome che non funziona per il loro partito. Tuttavia, sul fatto che un domani i due tronconi dell’ex-Pdl potrebbero riunificarsi, in vista di elezioni, come alleati di una coalizione, non ci piove. E quindi, per Berlusconi, va evitato un ulteriore peggioramento delle relazioni interne, e salvato invece il legame di fondo destinato a rimanere tra chi ha vissuto insieme la gran parte dell’avventura del ventennio. 

Metà marketing e metà politica, com’è sempre nei disegni dell’ex premier, il piano di Berlusconi è questo. Chi gli ha parlato nelle ore terribili che hanno accompagnato la scissione lo ha trovato a sorpresa determinato e sicuro di sé, come se appunto la spaccatura del suo partito e la conseguente rottura delle larghe intese le abbia decise con la consapevolezza che il governo non cadrà né ci saranno elezioni anticipate. Per questo Berlusconi uscirà dalla maggioranza a cuor leggero, ma non subito (probabilmente in occasione del voto sulla legge di stabilità). E andrà a fare l’opposizione, compito che considera più congeniale a una lunga campagna elettorale come quella che prepara, per il voto europeo che sta per arrivare e per quello politico che verrà nel 2015. Inoltre, temendo colpi di coda imprevedibili delle procure da cui si sente perseguitato (oltre un terzo del discorso di rifondazione di Forza Italia lo ha dedicato alla magistratura politicizzata), anche senza dichiararlo apertamente, pensa che sia più difficile arrestarlo, dopo la decadenza da senatore, come capo dell’opposizione, che non nel ruolo di alleato del governo ricoperto fin qui. 

Il primo test del Berlusconi di lotta e di governo saranno appunto le europee. Da affrontarsi con un programma anti-euro, anti-Banca centrale europea e in definitiva anti-europeista, di cui l’intervento di ieri ha fornito il primo assaggio. In questo, il Cavaliere, che ha già fiutato l’aria e studia da tempo l’avversario più temuto, intende far la concorrenza a Grillo, e se possibile riprendersi una parte dei voti di centrodestra trasmigrati al Movimento 5 stelle.

Il tema della giustizia, che da sempre costituisce un cavallo di battaglia del Cavaliere, diventerà un tormentone quotidiano dopo la decadenza. Mentre resta in sospeso quello della discesa in campo della figlia Marina, prevista in caso di impedimento generato dall’esecuzione della pena, seppure sotto forma di affidamento ai servizi sociali. Ma non è detto. Proprio perché l’appuntamento elettorale più importante, con le elezioni politiche, slitterà al 2015, Berlusconi ritiene di arrivarci avendo saldato il conto più urgente con la giustizia e potendo riacquistare la sua piena o quasi completa, ancorché provvisoria, agibilità da leader.

Se questa è a grandi linee l’agenda del Cavaliere, l’aspetto più sorprendente della giornata è stata la singolare coincidenza del progetto berlusconiano con quello che poche ore dopo ha illustrato Alfano a nome dei governativi. Intanto, la scissione che s’è compiuta nel Pdl venerdì sera si ricomporrà, seppure temporaneamente, in occasione del voto sulla decadenza, annunciato per il 27 novembre, in cui anche il «Nuovo centrodestra» si opporrà alla cacciata del Cavaliere dal Senato, schierandosi con i separati in casa di Forza Italia. E fin d’ora, pur sapendo di non poter essere accontentato, Alfano ha invitato il Pd a valutare attentamente l’ipotesi di un nuovo rinvio. Al governo, ha spiegato il vice-premier, il gruppo degli scissionisti intende restare per marcare la propria presenza in senso anti-estremista e anti-sinistra.

E riproponendo tutti i punti programmatici finora appartenuti al Pdl, dal taglio delle tasse, alla riforma istituzionale in senso semipresidenzialista, a quella della giustizia, fin qui accantonata proprio perché ritenuta «divisiva», e per la quale gli alleati del Pd non faranno certamente gridolini di gioia. Infine, a Berlusconi che confessava di aver provato dolore nel veder allontanare Angelino, perchè lo considerava come un figlio, Alfano ha replicato che i figli a volte litigano con i padri, ma questo non deteriora certo il rapporto, né mette in discussione l’affetto familiare.

In conclusione, per essere due avversari che dovevano dichiararsi guerra a distanza, nel primo giorno dopo la scissione, Berlusconi e Alfano sono sembrati vicendevolmente fin troppo attenti a misurare le parole, a condividere più le cose che li uniscono rispetto a quelle che li dividono, a cominciare dalla decisione dell’uno di mollare il governo, e dell’altro di restarci. Ancora, a far apparire il loro divorzio come una sorta di separazione consensuale, inevitabile ma forse non definitiva, tenendo teso il filo di fondo che li lega e difficilmente si spezzerà. Così che sì, forse, tanto tuonò che piovve, e il parricidio a lungo annunciato alla fine s’è consumato. Ma il sangue che doveva scorrere alla fine non s’è visto.

http://lastampa.it/2013/11/17/italia/politica/berlusconialfano-il-parricidio-va-in-scena-ma-senza-spargimento-di-sangue-c21hv9jR5doILOkghg7K0O/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il primo atto del “dopo Berlusconi”
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2013, 05:27:15 pm
Editoriali
16/11/2013

Il primo atto del “dopo Berlusconi”
Marcello Sorgi

La rottura maturata nel partito berlusconiano, con la decisione di Alfano e dei governativi del Pdl di dar vita a gruppi parlamentari distinti dalla rinata «Forza Italia», e intitolati a un «Nuovo centrodestra italiano», avrà conseguenze politiche immediate e di prospettiva. La prima e più importante è che il governo è salvo, ha una nuova maggioranza più ristretta, ma (ci si augura) più coesa, e di fronte a sé un’opposizione più forte, in cui Berlusconi e Grillo faranno a gara ad assestare colpi a Letta e a rendergli la vita impossibile in Parlamento e nel Paese. 

Nel giorno in cui la Commissione europea ha duramente richiamato l’Italia per i conti pubblici a rischio, le incertezze della legge di stabilità e per lo spettacolo intollerabile delle Camere sepolte da migliaia di emendamenti, la svolta potrà essere salutata positivamente a Bruxelles, perché consente una ridefinizione più rapida delle scelte più difficili di politica economica, e perché Letta, da oggi, guiderà una coalizione legata a più forti convinzioni europeiste, anche se questo farà sì che parallelamente, nel campo più largo delle opposizioni, aumentino le pulsioni anti-euro, con tutto quel che comportano in vista della prossima campagna elettorale per il Parlamento di Strasburgo. 

La nuova maggioranza delle piccole-larghe intese (occorrerà trovare un altro modo per definirla, ma intanto questa è, dal momento che Alfano e i suoi insistono a definirsi di centrodestra) ha contorni abbastanza frastagliati e in via di definizione. Contemporaneamente alla rottura nel Pdl ieri non a caso maturava un’altra scissione in ambito montiano: il leader dell’Udc Casini e il ministro della Difesa Mauro abbandonavano il sofferente partito dell’ex presidente del Consiglio, in vista, par di capire, di accasarsi con i transfughi del Pdl o comunque di favorire un rassemblement nel centro che guarda al centrodestra. Tra i motivi di quest’altra rottura le critiche, indurite di recente, di Monti nei confronti di Letta, anche se il senatore a vita non pensa certo a passare all’opposizione.

Inoltre nel Pd che ribolle di divisioni, in vista delle primarie e della riapertura del caso Cancellieri - dopo le rivelazioni su nuove telefonate, della ministra o di suoi familiari, al fratello di Ligresti, Antonino -, quel che è accaduto nel centrodestra è di sicuro destinato a provocare conseguenze. Non solo perché negli ultimi giorni, man mano che la scadenza del voto dell’8 dicembre e dell’annunciata vittoria di Renzi si avvicina, crescono le tensioni interne e da qualche parte si è arrivati a minacciare scissioni, ma per il semplice motivo che i contorni della nuova maggioranza scaricano sul Pd il peso maggiore del sostegno al governo. Immaginare che effetto avrà questo sul sindaco di Firenze, fin qui il più tiepido sostenitore delle larghe intese, è prematuro. Ma è impossibile che possa piacergli il nuovo scenario: con il governo che tutti i giorni fa i compiti rigorosi richiesti da Bruxelles, e Berlusconi e Grillo che gli sparano addosso.

 

Per valutare bene le prospettive del nuovo quadro politico, occorrerà dunque mettere in conto anche una robusta dose di movimentismo renziano, che nell’immediato si eserciterà sulla riforma elettorale, la più urgente delle scadenze, dopo l’approvazione della legge di stabilità che a questo punto si potrebbe dare per scontata. Il paradosso è che Matteo Renzi è rimasto il solo, o quasi il solo, a sostenere il bipolarismo, anche di fronte a un panorama politico in cui i poli, con Grillo, sono diventati tre, e da ieri quattro o cinque o non si sa quanti. La maggior parte degli alleati del governo infatti puntano chiaramente a un ritorno al proporzionale puro, cioè alla legge che garantisce l’esistenza di qualsiasi partito o partitino da solo, e toglie la scelta dei governi agli elettori, che con il maggioritario l’avevano sempre avuta negli ultimi vent’anni, tranne nel 2013. Può darsi che, imprevedibilmente, Renzi, se vorrà opporsi al ritorno all’indietro, trovi sulla sua strada come inaspettato alleato proprio Berlusconi. Ma è inutile nasconderlo: il Cavaliere è ormai stanco, sta per decadere da senatore e finire ai servizi sociali, l’altro giorno s’è perfino lasciato scappare che se ne andrebbe volentieri ad Antigua. Ed è il primo a sapere che quel che è accaduto nel suo campo, contro la sua volontà, ha il sapore amaro del dopo-Berlusconi. L’uomo-simbolo del Ventennio, che resterà famoso per le sue intuizioni, non poteva immaginare che dalle ceneri della Seconda Repubblica sarebbe nato qualcosa che ricorda molto la Prima.

Da - http://lastampa.it/2013/11/16/cultura/opinioni/editoriali/il-primo-atto-del-dopo-berlusconi-Q2WOzO7Xhw3JZ8DOCu8bwL/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Francesco alleato di Napolitano
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2013, 05:45:42 pm
Editoriali
15/11/2013

Francesco alleato di Napolitano
Marcello Sorgi

Ha parlato al vecchio cuore comunista di Napolitano. E, per suo tramite, al governo e a tutta la classe dirigente schierata davanti a lui. Ha detto che la crisi della politica, l’inadeguatezza delle risposte che si stanno dando alla congiuntura economica si ripercuotono sulla parte più debole della società. Ha ricordato il suo primo viaggio a Lampedusa, portando ad esempio la solidarietà della gente comune e dei soccorritori agli immigrati che rischiano, e purtroppo spesso perdono, la vita per fuggire dalla miseria. Ha rievocato il suo intervento a Cagliari, al fianco degli operai che avevano perso il lavoro, contro il capitalismo selvaggio. E in questo senso, con il pensiero ad Assisi, ha spiegato la sua decisione di scegliere il nome del patrono d’Italia. Già a partire da questi accenni, si può capire che la visita di Papa Francesco al Quirinale non è stata affatto un appuntamento rituale. Mai prima d’ora un pontefice aveva parlato così chiaro nelle sale che un tempo appartennero a Urbano VIII e Alessandro VII. 

Così che ogni dettaglio, ogni gesto precedente, ricostruiti con cura dal Papa nel messaggio rivolto a Napolitano, hanno acquistato una luce diversa, come se Francesco avesse voluto illustrare nel modo semplice che gli è congeniale qual è e sarà la strategia del suo pontificato. Non sono cadute a caso le due omelie della settimana scorsa contro la corruzione, l’anatema mirato anche contro chi ruba per dare alla chiesa o contro il pubblico amministratore disonesto che dà pane sporco ai suoi figli. Proprio perché non poteva pronunciare queste accuse in un’occasione ufficiale, di fronte ai vertici dello Stato italiano, Francesco, riservandole per la vigilia, aveva voluto far capire come la pensa in materia.

Cosa abbia potuto convincerlo, dopo soli otto mesi, a levare parole tanto dure, non è solo l’attenta osservazione dell’Italia in cui sente di avere le proprie radici, ma forse anche la sua lunga esperienza di primate vissuto in fondo al mondo: Bergoglio è pur sempre l’arcivescovo di Buenos Aires che assistette al default argentino del 2001, e di lì, a diretto contatto con una delle crisi più recenti e più gravi, ha ricavato la convinzione che sono gli strati più deboli e marginali della società a soffrire gli effetti peggiori della recessione.
 
Di qui viene il richiamo alla classe politica e alla necessaria qualità morale della vita pubblica, che possono determinare, a seconda se esistono, il benessere o la decadenza di un Paese. Una classe dirigente che non si dimostri in grado di affrontare la crisi economica - è la convinzione del Papa - si assume la responsabilità di aumentare la sofferenza dei poveri e della parte più bisognosa della società.

Se non avesse affrontato, com’era ovvio, i problemi delle famiglie, si potrebbe dire che siamo di fronte a un completo cambiamento dei temi del confronto tra Stato e Chiesa: almeno di quello a cui ci aveva abituato la lunga predicazione di Giovanni Paolo II e il breve ma intenso interregno di Benedetto XVI. Dalla bioetica, dalle questioni dell’inizio e della fine della vita, dalla contestazione di divorzio, aborto, coppie di fatto e inseminazione artificiale, a una brusca virata sul sociale, sulle ferite di una società alle prese con problemi economici gravissimi, le fabbriche chiuse, il lavoro perduto, i giovani a spasso, la pensione che non arriva o non basta. È su questo terreno che il Papa cerca un ruolo per la sua Chiesa nella società secolarizzata e tenta un nuovo tipo di rapporto con la classe dirigente italiana: non più basata sull’aderenza di una legislazione - che necessariamente divide la politica - ai cosiddetti principi non negoziabili (che tali, tuttavia, rimangono). Ma, piuttosto, indirizzata all’effettiva capacità di assolvere al proprio ruolo e di incidere su una realtà sempre più degradata.

Non ci sarebbe neppure bisogno di dire, tanto è scontato, che un approccio del genere ha trovato nel Capo dello Stato un interlocutore molto attento. Il Presidente della Repubblica che ha accettato la rielezione solo come sfida al cambiamento di una politica ammalata, che non si stanca di denunciare il clima sterile e avvelenato del confronto tra i partiti, e ha minacciato di rinunciare al mandato e dimettersi se gli obiettivi che si è dato non si realizzeranno, non poteva che accogliere con sincero entusiasmo il messaggio del Papa. Dopo le molte delusioni e i tanti giorni di amarezza, vissuti in pubblico, per la piega negativa e inconcludente che hanno preso le cose, Napolitano non potrà mai dire apertamente di aver trovato un inaspettato alleato. Ma certo, nelle parole di Francesco, ha avvertito un sincero incoraggiamento a non perdersi d’animo e a proseguire sulla sua strada. 

Da - http://lastampa.it/2013/11/15/cultura/opinioni/editoriali/francesco-alleato-di-napolitano-oriulwsEu6GssIv31SiW6H/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. La tempesta per il governo non è finita
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2013, 11:37:25 am
Editoriali
21/11/2013

La tempesta per il governo non è finita
Marcello Sorgi


Pagato a carissimo prezzo, agli occhi dell’opinione pubblica, il salvataggio della Cancellieri, e appresso a lei del governo, che non avrebbe retto alle sue dimissioni, non è servito purtroppo a ridare un po’ di stabilità a Letta e al suo sofferente esecutivo. A giudicare dal tenore del dibattito di ieri alla Camera, anzi, dopo la rottura del centrodestra maturata nel fine settimana, il virus corrosivo della divisione adesso ha di nuovo aggredito il centrosinistra. 

L’idea che con la nascita di una destra di governo, alternativa a quella populista e berlusconiana che si accinge a passare all’opposizione, la maggioranza sarebbe subito diventata più omogenea e più forte, al momento è ancora lontana dalla realtà. Le due destre infatti marciano divise per colpire unite. E soprattutto quella di governo, il Nuovo Centrodestra che avrebbe dovuto incassare il salvataggio della Cancellieri come una propria vittoria, sembra in primo luogo preoccupato di non apparire subalterno al premier e al suo partito. Di qui attacchi simmetrici a Renzi, trattato da avversario, non come possibile nuovo alleato dei prossimi mesi, e additato, per propri interessi congressuali, come vero responsabile della messa in stato d’accusa della Guardasigilli.

Nel centrosinistra inoltre il voto di ieri lascia uno strascico di polemiche e un forte desiderio di rivincite che non tarderanno a manifestarsi. Bastava guardare i visi lunghi dei parlamentari del Pd, che hanno votato per pura disciplina la fiducia alla ministra, o ascoltare l’intervento alla Camera del segretario Epifani - concluso con un invito alla Cancellieri ad adoperarsi per fugare le ombre rimaste sul suo comportamento nei confronti dei Ligresti -, per capire che quello a cui si è assistito a Montecitorio è solo il primo tempo di una partita, che necessariamente si concluderà con le primarie dell’8 dicembre e l’annunciata ascesa del sindaco di Firenze alla segreteria del Pd. Si vedranno allora, dicono tutti, le vere intenzioni del nuovo leader. Ma se anche Renzi all’inizio avesse pensato di stare a guardare, anche per non dar ragione a tutti quelli che si aspettano che alla prima occasione faccia cadere il governo, ciò che è accaduto tra martedì e ieri - con la decisione di Letta di «metterci la faccia», malgrado il sindaco, e prossimo segretario, lo avesse invitato a fare esattamente il contrario, e con dalemiani e bersaniani che giravano per il Transatlantico facendo il gesto «tiè!» -, non costituisce certo un invito al futuro leader a porgere l’altra guancia. 

Si dirà che forse era troppo presto, per aspettarsi un rasserenamento della tempesta continua in cui il governo è costretto a navigare fin quasi dalla sua nascita. Ed è vero. Tra qualche giorno, quando le due destre si divideranno sul voto per la legge di stabilità, e quando Berlusconi, dichiarato decaduto, sarà fuori dal Parlamento, il nuovo quadro politico fondato sull’asse tra Letta e Alfano, a cui si deve il salvataggio della Cancellieri, e sulla prosecuzione del governo fino al 2015, dovrebbe prendere corpo e consistenza. E a quel punto si capirà quale dei due nuovi poli della politica italiana sarà più forte, tra quello dei due «dioscuri» di Palazzo Chigi, su cui vigila il Quirinale, e quello movimentista di Renzi, che guarda più alla società civile e alla competizione con Berlusconi e Grillo, che non alle responsabilità istituzionali del partito che si accinge a guidare. Ma intanto, nelle due settimane e mezza che allineano, una dopo l’altra, le tre scadenze dell’approvazione della legge di stabilità, del voto sulla decadenza di Berlusconi e delle primarie del Pd, conviene tenersi pronti a continuare a ballare: perché la tempesta non è affatto finita e il governo dovrà ancora navigare alla cappa. 

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/21/cultura/opinioni/editoriali/la-tempesta-per-il-governo-non-finita-F5cnPnL61Mdsn4v0qZP29N/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Inizia una nuova stagione
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2013, 11:40:42 am
Editoriali
04/11/2013

Inizia una nuova stagione
Marcello Sorgi

La toppa che domani sarà messa, in un modo o nell’altro, al caso Cancellieri, purtroppo non servirà a riportare il governo in carreggiata. 

È fin troppo chiaro infatti che il salvataggio avverrà senza che sia stata siglata una tregua tra i due principali partiti del governo di larghe intese, che nella circostanza, gravata dalla mozione di sfiducia personale presentata in entrambe le Camere dal Movimento 5 stelle, si sono mossi ciascuno per proprio conto: il Pdl difendendo la ministra, più che altro, per sottolineare la differenza di trattamento tra la telefonata della Cancellieri in aiuto di Giulia Ligresti e quella, assai diversa, di Berlusconi in difesa di Ruby Rubacuori, per la quale l’ex premier è stato condannato a sette anni. E il Pd accettando a denti stretti, e con pesanti dissensi interni, di ridare la fiducia alla Guardasigilli solo per salvare il governo. 

Ma dietro il fragile compromesso che dovrebbe portare alla chiusura del caso, già si avverte il soffio dei venti che annunciano il cambio di stagione.

La novità più importante non è la scelta maturata da Berlusconi di aprire la crisi e andare all’opposizione, con tutto o in gran parte il suo partito. 

Piuttosto, la volontà del Pd - che emerge anche tra le righe dell’intervista a Epifani che pubblichiamo - di non farsi più carico automaticamente di un esecutivo che presto potrebbe avere una maggioranza più risicata. Affidata, oltre che al centrosinistra, a quel che rimane del partito di Monti e al gruppetto di dissidenti del Pdl raccolti attorno al vicepresidente del consiglio Alfano. Siamo a questo: nel giro di un mese, già langue quella che il 2 ottobre - quando appunto i 23 senatori del centrodestra costrinsero un riluttante Berlusconi a rimangiarsi la crisi e a votare a denti stretti la fiducia - era stata salutata da Enrico Letta come un’operazione chiarificatrice, che finalmente poteva dar respiro al governo. 

La ragione di questa difficoltà, di cui a malincuore hanno cominciato a prendere atto gli alfaniani, e a stretto giro anche il vertice del Pd, è che con la decadenza di Berlusconi da senatore cadranno simultaneamente anche le larghe intese. Si può anche provare a governare con un’altra maggioranza: ma non sarà facile, e tutti se ne stanno accorgendo. Tra il capirlo, e l’ammetterlo apertamente, tuttavia, ne corre. Pertanto, da dopodomani, quando il caso Cancellieri sarà archiviato, la turbolenza si trasferirà sulla legge di stabilità. Da documento essenziale per rimettere a posto i dissestati conti pubblici italiani, il testo messo a punto dal ministro dell’Economia Saccomanni si trasformerà così in pochi giorni in nuova occasione di scontro, di crisi, e se possibile di scioglimento delle Camere, per andare a votare a primavera per le elezioni politiche, e non solo per le europee.

Va detto che per criticare la legge di stabilità, motivi non ne mancano. Si pensi solo al fatto che, nella formulazione attuale, il documento prevede che dopo aver saldato i debiti con il fisco mettendo mano alla tredicesima, i contribuenti italiani, a metà gennaio, dovrebbero prepararsi a un nuovo prelievo: con quali mezzi non si sa, dato che i bilanci di molte famiglie si chiuderanno in rosso e sotto l’albero di Natale si vedranno segni evidenti di austerità. Ma all’attacco della manovra di fine anno - ecco il fatto nuovo - non andrà soltanto, e con metodi da «guerriglia», il centrodestra, come già annunciato da Brunetta. Con un’altra piattaforma, ma con pari risolutezza, si muoverà anche il Pd. L’effetto di questo attacco a tenaglia potrebbe, ovviamente, essere la crisi. Ma anche no: perché le leggi di bilancio vanno sempre approvate, costi quel che costi, e i due maggiori alleati-avversari del governo potrebbero accontentarsi, al momento, di imporre un ulteriore logoramento a Enrico Letta. 

A una prospettiva del genere - difficilmente sopportabile in Europa per un Paese nelle condizioni dell’Italia - concorre anche un dettaglio che a giorni sarà concreto e sul quale occorrerebbe cominciare a riflettere. Nel giro di un mese, giorno più, giorno meno, tutti e tre i leader dei maggiori partiti - Pd, Pdl e M5s - saranno fuori dal Parlamento. Grillo lo è già: l’altro giorno s’è affacciato in tribuna, al Senato, giusto il tempo per fiutare l’aria e correre per strada a sparare contro le istituzioni. Berlusconi, con la decadenza, uscirà anche lui da Palazzo Madama. E Renzi, che si prepara a prendere la guida del Pd, in Parlamento semplicemente non c’è mai entrato. Immaginare che questo non porti conseguenze è impossibile, per non dire irrealistico. Sta per partire la prima campagna elettorale di tre leader che da Genova, da Arcore e da Firenze si contenderanno i voti di quei pochi italiani che ancora vanno alle urne attaccando Bruxelles e gli eurocrati che ogni giorno ci impongono nuove dosi di rigore, e Roma e la politica piagnona e incapace di decidere. 

http://www.lastampa.it/2013/11/04/cultura/opinioni/editoriali/inizia-una-nuova-stagione-0UvNTTUuNImH7LDYIpteDO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. La tempesta per il governo non è finita
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2013, 07:58:35 pm
Editoriali
21/11/2013

La tempesta per il governo non è finita
Marcello Sorgi

Pagato a carissimo prezzo, agli occhi dell’opinione pubblica, il salvataggio della Cancellieri, e appresso a lei del governo, che non avrebbe retto alle sue dimissioni, non è servito purtroppo a ridare un po’ di stabilità a Letta e al suo sofferente esecutivo. A giudicare dal tenore del dibattito di ieri alla Camera, anzi, dopo la rottura del centrodestra maturata nel fine settimana, il virus corrosivo della divisione adesso ha di nuovo aggredito il centrosinistra. 


L’idea che con la nascita di una destra di governo, alternativa a quella populista e berlusconiana che si accinge a passare all’opposizione, la maggioranza sarebbe subito diventata più omogenea e più forte, al momento è ancora lontana dalla realtà. Le due destre infatti marciano divise per colpire unite. E soprattutto quella di governo, il Nuovo Centrodestra che avrebbe dovuto incassare il salvataggio della Cancellieri come una propria vittoria, sembra in primo luogo preoccupato di non apparire subalterno al premier e al suo partito. Di qui attacchi simmetrici a Renzi, trattato da avversario, non come possibile nuovo alleato dei prossimi mesi, e additato, per propri interessi congressuali, come vero responsabile della messa in stato d’accusa della Guardasigilli.
 

Nel centrosinistra inoltre il voto di ieri lascia uno strascico di polemiche e un forte desiderio di rivincite che non tarderanno a manifestarsi. Bastava guardare i visi lunghi dei parlamentari del Pd, che hanno votato per pura disciplina la fiducia alla ministra, o ascoltare l’intervento alla Camera del segretario Epifani - concluso con un invito alla Cancellieri ad adoperarsi per fugare le ombre rimaste sul suo comportamento nei confronti dei Ligresti -, per capire che quello a cui si è assistito a Montecitorio è solo il primo tempo di una partita, che necessariamente si concluderà con le primarie dell’8 dicembre e l’annunciata ascesa del sindaco di Firenze alla segreteria del Pd. Si vedranno allora, dicono tutti, le vere intenzioni del nuovo leader. Ma se anche Renzi all’inizio avesse pensato di stare a guardare, anche per non dar ragione a tutti quelli che si aspettano che alla prima occasione faccia cadere il governo, ciò che è accaduto tra martedì e ieri - con la decisione di Letta di «metterci la faccia», malgrado il sindaco, e prossimo segretario, lo avesse invitato a fare esattamente il contrario, e con dalemiani e bersaniani che giravano per il Transatlantico facendo il gesto «tiè!» -, non costituisce certo un invito al futuro leader a porgere l’altra guancia. 
 

Si dirà che forse era troppo presto, per aspettarsi un rasserenamento della tempesta continua in cui il governo è costretto a navigare fin quasi dalla sua nascita. Ed è vero. Tra qualche giorno, quando le due destre si divideranno sul voto per la legge di stabilità, e quando Berlusconi, dichiarato decaduto, sarà fuori dal Parlamento, il nuovo quadro politico fondato sull’asse tra Letta e Alfano, a cui si deve il salvataggio della Cancellieri, e sulla prosecuzione del governo fino al 2015, dovrebbe prendere corpo e consistenza.
E a quel punto si capirà quale dei due nuovi poli della politica italiana sarà più forte, tra quello dei due «dioscuri» di Palazzo Chigi, su cui vigila il Quirinale, e quello movimentista di Renzi, che guarda più alla società civile e alla competizione con Berlusconi e Grillo, che non alle responsabilità istituzionali del partito che si accinge a guidare. Ma intanto, nelle due settimane e mezza che allineano, una dopo l’altra, le tre scadenze dell’approvazione della legge di stabilità, del voto sulla decadenza di Berlusconi e delle primarie del Pd, conviene tenersi pronti a continuare a ballare: perché la tempesta non è affatto finita e il governo dovrà ancora navigare alla cappa. 

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/21/cultura/opinioni/editoriali/la-tempesta-per-il-governo-non-finita-F5cnPnL61Mdsn4v0qZP29N/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. L’addio che è mancato
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2013, 06:50:44 pm
Editoriali
28/11/2013

L’addio che è mancato
Marcello Sorgi

Non è affatto scontato, come ieri al contrario erano in molti a sostenere, che il voto per la decadenza di Berlusconi da senatore corrisponda alla sua fine politica. E tuttavia, la sua esclusione dal Parlamento, la condanna definitiva per frode fiscale, e quelle che tra poco lo saranno per concussione e sfruttamento della prostituzione minorile, oltre ai processi appena aperti per compravendita di parlamentari e corruzione di testimoni, mettono il Cavaliere in condizioni precarie. 

Inoltre, hanno il loro peso l’età ormai avanzata e il normale logoramento di vent’anni in politica. Se non è proprio la fine, è chiaramente l’inizio di un declino che potrebbe essere rapido e ripido.

Ma anche prima di assistere alla conclusione del suo ciclo, occorre farsi la domanda che in Italia è difficile porre per qualsiasi uomo politico, ma per il leader del centrodestra diventa improponibile. E cioè: Berlusconi è stato o no l’uomo-simbolo della Seconda Repubblica, che con la sua improvvisa e imprevedibile discesa in campo, la legittimazione a sorpresa di Fini e della destra estrema fino a quel momento emarginata, e di Bossi e della Lega come forza di governo, ha introdotto il bipolarismo in Italia e per la prima volta ha reso possibile che gli elettori scegliessero i governi o li mandassero a casa, tal che per due volte il centrodestra e il centrosinistra si sono alternati alla guida del Paese?

E prima ancora, Berlusconi è stato o no l’imprenditore innovativo che con il talento, gli animal spirits e le male arti di molti altri esponenti della sua categoria, ha introdotto in Italia la tv commerciale e ha contribuito a una modernizzazione e a un mutamento culturale del Paese paragonabile solo a quello della Rai dei primi Anni Cinquanta e Sessanta? 

Oppure - ecco il centro del problema - Berlusconi è stato solo uno spregiudicato corruttore, della politica, del costume, della vita pubblica, un personaggio privo di qualsiasi fondamento di etica, di senso delle istituzioni, di consapevolezza del bene comune, uno che insomma ha badato sempre e solo agli affari suoi? 

In attesa che gli storici - ma ci vorrà del tempo - sciolgano questo dilemma, si potrà osservare che quella che oggi concerne Berlusconi è una questione che in passato ha riguardato quasi tutta la classe dirigente della Prima Repubblica e buona parte di quella della Seconda. Da Tangentopoli in poi, infatti, leader e premier italiani incappati nelle maglie della giustizia sono stati archiviati con l’infamia di essere, o essere stati, dei criminali. Non politici responsabili, occasionalmente o prevalentemente, di attività illegali, ma delinquenti tout-court. E se per Craxi, dieci anni dopo la scomparsa, è dovuto intervenire il Presidente della Repubblica Napolitano, per ristabilire la verità storica e affermare che, al di là di singoli fatti giudicati nei processi, il leader socialista era stato un politico di prima grandezza, capace di imporre una spinta innovatrice a un Paese anchilosato, e se per Andreotti, malgrado la mezza assoluzione e la mezza condanna, legata alla prescrizione, dalle accuse di mafia, nessuno s’è sognato, al momento della morte, di considerarlo un boss della criminalità organizzata, è esattamente l’opposto il destino riservato a Berlusconi. Di non poter, in sostanza, essere in alcun modo disgiunto, e anzi di essere sopraffatto, dal peso della sua biografia giudiziaria rispetto a quella politica, di non poter assistere, nell’ora del tramonto, a una serena valutazione dei risultati, degli errori e dei meriti (qualcuno ce ne sarà pure) della sua vita pubblica.

È per questo motivo che Berlusconi avrebbe fatto meglio a presentarsi al Senato - come Craxi appunto fece alla Camera - e pronunciare il suo ultimo intervento, invece di arringare la folla infreddolita di via del Plebiscito e disertare l’aula di Palazzo Madama. Avrebbe potuto dimettersi, un minuto prima di farsi cacciare via dai suoi avversari, dicendo con franchezza: io almeno ho provato a cambiare, su alcune delle cose che volevo fare, anche senza ammetterlo, molti di voi eravate d’accordo, ma piuttosto che darvi la soddisfazione di farmi fuori grazie a un infortunio giudiziario, me ne vado. Una conclusione del genere, impossibile conoscendo il personaggio, lo avrebbe fatto uscire di scena da statista. Invece, per non passare alla storia come un pregiudicato, e tentare impropriamente di cancellare l’onta della condanna con il voto dei cittadini, Berlusconi ha scelto di combattere fino allo stremo la sua ultima, disperata, battaglia. E così, la Seconda Repubblica finisce esattamente come la Prima.

Da - http://lastampa.it/2013/11/28/cultura/opinioni/editoriali/laddio-che-mancato-Elba9wsyxO7BjC7A1IldUL/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Ora la verifica ma il calvario non è finito
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2013, 04:27:23 pm
Editoriali
03/12/2013

Ora la verifica ma il calvario non è finito
Marcello Sorgi

Non saranno affatto una passeggiata la fine delle larghe intese e l’avvio della fase nuova, che dovrebbe prendere corpo dopo il dibattito e il voto di fiducia della prossima settimana. Il comunicato quasi a doppia firma, uscito dal Quirinale dopo un’ora di colloquio tra Napolitano e Letta, conferma che c’è una perfetta unità di vedute tra i due presidenti. Ma la lunga vigilia che ha preceduto il varo della verifica formale, in Parlamento, della maggioranza ristretta, ha già fatto capire che il calvario del governo non è finito.

Non è un mistero, infatti, che Letta, e in un primo momento anche Napolitano, puntassero a evitare lo stress di un altro passaggio parlamentare nel bel mezzo dell’interminabile discussione sulla legge di stabilità, tra l’altro ancora in corso e con la grana infinita dell’Imu che stenta a chiudersi. D’altra parte, il governo aveva dimostrato di avere la maggioranza al Senato, cioè nella Camera dai numeri più incerti, anche dopo la decisione di Berlusconi di passare all’opposizione. 

Ufficialmente perché insoddisfatto dei contenuti della manovra di fine anno, di fatto come reazione al voto del Pd in favore della sua decadenza. Ma l’atteggiamento intransigente di Forza Italia, reso esplicito da una delegazione salita a questo scopo al Quirinale, ha convinto Napolitano dell’impossibilità di evitare la liturgia della verifica. La scelta del Presidente della Repubblica è racchiusa tutta in quella parola - «discontinuità» - inserita nel comunicato di ieri sera e subito sottolineata con soddisfazione dai due capigruppo di Forza Italia Brunetta e Romani. Era quel che volevano i berlusconiani, per dimostrare che la rottura è seria e le conseguenze non stanno affatto trascurabili.

Per capire di che tenore sarà l’epoca successiva alle larghe intese, però, non occorrerà aspettare la prossima settimana. Basta già guardare quel che sta accadendo in questi primi giorni di sperimentazione dopo il cambiamento del quadro politico. Le due destre, nate dalla scissione del Pdl e presentate dal Cavaliere come se fossero rimaste apparentate, sono invece entrate in una fase di guerriglia, in cui praticamente ogni giorno Alfano e il suo Nuovo centrodestra sono sottoposti a un fuoco di fila di tutta la pattuglia berlusconiana, che tende a raffigurarli deboli e sottomessi al centrosinistra. Alfano, per reagire a queste polemiche, pesanti da sopportare per un partito che sta ridefinendo i confini della propria offerta politica, deve necessariamente aggiustare il tiro su Letta e il Pd: cosicché adesso scricchiola, per la prima volta, il famoso asse tra i dioscuri di Palazzo Chigi - il premier e il suo vice - che fin qui erano stati i due principali pilastri del governo. Inoltre, non appena Alfano ha alzato la testa, invocando, prima della verifica, la definizione di un vero e proprio «contratto di governo», stile Merkel, con il Pd, Renzi, che si comporta già da segretario, con una delle sue battute caustiche («Voi siete trenta e noi trecento») gli ha sparato addosso, per fargli capire come intende i rapporti di forza nel governo di qui a venire.

Sarà pur vero, come sostiene Letta, che anche questo fa parte della campagna per le primarie che si conclude domenica. E sarà ovvio, per Renzi, che puntava non da adesso a spostare verso di sé una parte dei voti del centrodestra, che la scissione del Pdl in due tronconi e la nascita di due destre, una più centrista e governativa e l’altra più radicale, non giovano certo ai suoi propositi, specie in vista delle elezioni europee.

Ma insomma, anche senza drammatizzare - non ce n’è affatto bisogno -, chi pensava che la fine delle larghe intese, non foss’altro per stanchezza, dopo sei mesi di risse, potesse coincidere con una tregua - e magari con l’approvazione di qualcuna delle riforme più urgenti, a partire dalla legge elettorale su cui oggi si pronuncerà la Corte Costituzionale - purtroppo dovrà ricredersi. La guerra continua.

DA - http://www.lastampa.it/2013/12/03/cultura/opinioni/editoriali/ora-la-verifica-ma-il-calvario-non-finito-5KHAiqLC5ey36Hfh8DziHJ/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il progetto del segretario marziano
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2013, 06:07:07 pm
Editoriali
18/12/2013

Il progetto del segretario marziano
Marcello Sorgi

I primi giorni di Matteo Renzi a Roma - dopo l’elezione plebiscitaria a leader del Pd, sull’onda di primarie che hanno coinvolto quasi tre milioni di cittadini - ricordano il famoso racconto di Ennio Flaiano, «Un marziano a Roma». Atterrato all’improvviso a Villa Borghese, il marziano veniva ricevuto al Quirinale e in Vaticano, coinvolto in faticose kermesse di incontri politico-cultural-mondani, e addirittura commercializzato, con visite a pagamento alla sua astronave. 

Ma alla fine, su di lui, scendeva il velo dell’indifferenza, la vita nella Capitale riprendeva il suo andazzo, e il povero marziano cominciava a pensare di tornarsene su Marte. 

L’accoglienza riservata al giovane segretario del maggior partito italiano, in effetti, ricorda abbastanza quella fatta al protagonista dell’apologo. Si guarda a come va vestito, ai suoi modi spicci, chi saluta e chi no. E già si mormora sulla dosata permanenza a Roma e sulla manifesta insofferenza alle liturgie istituzionali: tanto che quasi nasceva un caso lunedì pomeriggio, quando Renzi ha lasciato il Quirinale, appena finito il discorso di auguri del Presidente della Repubblica, senza neppure rilasciare una dichiarazione, e solo una successiva telefonata tra i due, resa pubblica proprio per fugare voci maliziose, ha impedito che si continuasse ad almanaccare sui loro difficili rapporti.

Agli occhi di una città millenaria che ha sempre digerito tutti i nuovi arrivati, dai barbari ai leghisti, e con qualche difficoltà in più sta provando a metabolizzare anche i grillini, Renzi insomma si presenta come un uomo che resiste all’integrazione, che si vanta di «non sopportare i buffet», e si muove a bella posta senza il minimo rispetto per il contesto in cui ha assunto repentinamente un ruolo chiave. Che poi il nuovo leader possa pure divertirsi, per restare nella metafora, a fare il marziano, sono in molti a sospettarlo, a cominciare dalla ex nomenklatura del suo partito, da lui cancellata di colpo. Ma sul suo progetto, ormai noto da anni e ripetuto in varie lingue negli ultimi mesi, almeno all’apparenza nessuno s’interroga. Come fosse un’utopia irrealizzabile in un paese con le caratteristiche dell’Italia, a cui il segretario-marziano presto o tardi dovrà rinunciare.

Naturalmente Renzi non la pensa affatto così. È un uomo che punta alla guida del governo, considera legittimo il suo obiettivo, dichiarato da tempo e che oggi non si può far finta di ignorare. Chi gli è stato vicino dall’inizio della sua carriera politica spiega che il sindaco ha sempre avuto chiaro il percorso che doveva portarlo da Firenze a Palazzo Chigi, è convinto di aver rispettato tutte le regole e non aver sbagliato una mossa fin qui. Il milione e ottocentomila voti raccolti l’8 dicembre, le primarie che sarebbe pronto a ripetere, se il partito glielo chiedesse e ci fosse uno sfidante, a suo giudizio rappresentano la legittimazione popolare e la regola per competere. È su questa base che Renzi vuol essere riconosciuto dall’insieme del sistema politico, anche da chi lo snobbava, considerandolo al massimo una tempesta passeggera.

 

Un’impostazione del genere, però, si porta dietro alcune conseguenze e qualche inevitabile conflitto. Se ciò che fa la differenza è la spinta dal basso, se ne ricava che Letta e Alfano, i dioscuri e il loro governo, per Renzi sono più o meno abusivi. Passi per una fase transitoria, purché ci siano risultati visibili. Ma al più presto, per il segretario del Pd, si deve tornare alla normalità democratica. Inoltre, se potevano avere una giustificazione le larghe intese, soluzione d’emergenza comune a tutti i paesi europei in cui dalle urne non è uscita una maggioranza, le piccole, cioè l’accordo tra il Pd e quello che spregiativamente Renzi si ostina a chiamare «il partito di Giovanardi», ai suoi occhi non ne hanno alcuna. Il segretario non riesce a immaginare, esaurita la legge di stabilità, cosa potrà fare il governo da gennaio in avanti. Teme un «balbettamento» senza sbocchi pratici. E intanto preme per una rapida approvazione parlamentare della legge elettorale, costruita trattando a tutto campo anche con Berlusconi e Grillo. Fatta quella, senza urgenza ma anche con una scadenza chiara, legata alla (in)capacità dell’esecutivo di fare le cose, non dovrebbero più esserci ostacoli per tornare a votare: ovviamente per le politiche, dato che Renzi non ama particolarmente la prospettiva di un voto per le europee, dopo una forsennata campagna anti-euro di tutte le opposizioni, a cui fatalmente il Pd non potrebbe unirsi, dovendone tuttavia sopportare gli effetti.

Resta da dire del rapporto con Napolitano. Diversamente dalla vulgata romana, che tende a presentarlo in aperta contrapposizione con il Capo dello Stato, Renzi sa di doverci costruire un’intesa. Non lo hanno particolarmente interessato le rassicurazioni sul fatto che il Presidente ha fiducia nelle nuove generazioni: non a caso ha affidato a un quarantenne la guida del governo e ha nominato una cinquantenne senatrice a vita. La verità è che Renzi pensa che l’Italia possa uscire dall’angolo in cui s’è cacciata solo facendo un balzo in avanti e interpreta così la spinta degli elettori delle primarie. Ecco perché vuol sapere da Napolitano se è disposto ad aprirgli la strada, o se considera il passo che Renzi vuol compiere, e per il quale si sente legittimato, rischioso per l’Italia e l’anticamera di un salto nel buio.

Da - http://lastampa.it/2013/12/18/cultura/opinioni/editoriali/il-progetto-del-segretario-marziano-wkMLs153QHkeYyQFlyhoKM/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Operazione credibilità
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2014, 02:57:08 pm
Editoriali
02/01/2014

Operazione credibilità
Marcello Sorgi

Se avesse dovuto pronunciare ieri, e non ieri l’altro, il suo messaggio televisivo, Napolitano avrebbe forse aggiunto alle sette storie di italiani oppressi dalla crisi economica, scelte per il suo discorso, l’ottava.

Cioè la decisione del governo indiano - attesa ma purtroppo confermata, così da segnare negativamente l’inizio dell’anno -, di annullare il contratto da 560 milioni di euro con Finmeccanica per la fornitura di dodici elicotteri Agusta Westland. 

Non fosse che per la sfortunata coincidenza temporale, non ci sarebbe alcun punto di contatto tra la grave, ancorché prevista, notizia che arriva da New Delhi e gli sfoghi a cui il Capo dello Stato dal Colle ha voluto dar voce, del piccolo imprenditore che ha chiuso l’azienda, dell’esodato, del quarantenne che ha perso il lavoro e non lo ritroverà, della laureata disoccupata, dell’agricoltore che tira la cinghia, dell’impiegato pubblico che deve scegliere tra far la spesa e pagare le tasse, dell’anziano che ricorda l’epoca della ricostruzione e si domanda perché sia perduto, speriamo non definitivamente, l’entusiasmo e la voglia di fare di quegli anni. 

Effettivamente niente può collegare la perdita di una grande commessa internazionale con le vicende della gente comune: se non un aspetto, che pur impropriamente le accomuna. Malgrado tutti gli sforzi che il governo ha messo in atto, e malgrado la timida inversione di tendenza dei dati macroeconomici della crisi, l’Italia e la sua classe dirigente infatti non riescono da tempo a godere, né della fiducia interna degli italiani, né di quella di partners e osservatori internazionali.

Non basta la buona fede dei singoli, si tratti del premier Letta o di alcuni dei suoi ministri; e neppure l’ansia di rinnovamento di Renzi, il più giovane leader affacciatosi sulla scena da molti anni. Né serve separare la parte propagandistica, dal legittimo diritto di critica e di denuncia delle opposizioni. La sensazione diffusa rimane quella di una barca che naviga nell’incertezza, senza accorgersi di una falla che rischia di portarla a fondo. Un Paese consapevole di quelle poche cose, delle due o tre riforme che basterebbero a rimetterlo in carreggiata. Ma che tuttavia non riesce a realizzarle, e invece di superarlo continua a girare attorno all’ostacolo.

È questo sentimento, che Il Presidente coglie quotidianamente nel contatto con i cittadini - un rapporto, sia detto per inciso, che a giudicare dai dati d’ascolto del messaggio a reti unificate non ha affatto risentito della campagna di boicottaggio lanciata da parte di centrodestra e Lega. E che ha voluto esplicitare scegliendo, tra le molte missive che riceve, sette lettere particolarmente significative. Così, per la prima volta, il discorso di auguri del Presidente agli italiani s’è trasformato nel messaggio dei cittadini alla classe politica, con un portavoce d’eccezione impersonato da Napolitano.

Sarebbe significativo, certo, che se non proprio nella prima settimana dell’anno, ma magari nel primo mese, governo e Parlamento fossero in grado di affrontare almeno una delle questioni poste dalla gente che scrive al Quirinale. Per dire, una volta e per tutte, il problema degli esodati. Oppure, almeno in tendenza, quello dell’accesso al lavoro dei giovani disoccupati. O ancora quello della riduzione, non simbolica ma effettiva, del carico fiscale a carico delle classi meno abbienti. Purtroppo non c’è da illudersi: anche se da domani, ci si può scommettere, fioccheranno promesse pubbliche di ogni tipo e in qualsiasi ambito, finché il sistema italiano rimane bloccato non ci sono grandi possibilità che una soluzione, anche una soltanto, sia trovata.

In sintesi, è ciò che Napolitano ha riconosciuto nella seconda parte del suo discorso, ripercorrendo con evidente amarezza gli otto mesi trascorsi dalla sua rielezione: chiesta, come ha ricordato, da un arco larghissimo di forze politiche e votata dalle Camere riunite con una maggioranza di oltre il 72 per cento, ma accompagnata purtroppo fin qui dall’inutile rete di veti reciproci degli stessi che l’avevano voluta, da un nulla di fatto in materia di riforme e dall’incapacità di realizzare quel che si deve e si sa che è necessario.

È in questo quadro sconfortante che il Presidente ha rinnovato il suo appello: a concordare e approvare al più presto la riforma elettorale, dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha cancellato il Porcellum; ad avviare, almeno avviare, il processo delle riforme istituzionali, dato che i tempi di una legislatura nata morta come l’attuale non consentiranno di portarle a termine; e insomma a ritrovare uno straccio d’intesa, che consenta ai partiti di uscire dall’impasse in cui si sono cacciati e ricostruire un minimo di credibilità di fronte agli elettori.

Ancora una volta Napolitano ha legato a quest’obiettivo il suo impegno e quel che resta del suo mandato. Un mandato breve, come ha confermato, ma non tale da vedersi imporre scadenze da campagne «ridicole», così le ha definite, come quelle degli ultimi mesi di Grillo e Berlusconi, dichiaratamente mirate a intimidirlo. Senza conoscere, e senza valutare, l’incognita del carattere dell’inquilino del Quirinale, e della sua testardaggine nel voler portare l’Italia fuori dalla crisi in cui s’è impantanata.

Da - http://lastampa.it/2014/01/02/cultura/opinioni/editoriali/operazione-credibilit-JUTYRmT3lguqJfvZoj3PvO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Lo strano bivio del Pd
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2014, 10:22:08 pm
Editoriali
07/01/2014

Lo strano bivio del Pd
Marcello Sorgi

Sospesa temporaneamente - e opportunamente - per l’ondata di commozione che ha accompagnato il malore di Bersani, la polemica tra Fassina e Renzi è tutt’altro che risolta. 

In discussione, infatti, non è il rapporto personale tra i due esponenti della nuova generazione del Pd, schierati su sponde opposte anche alle primarie. Piuttosto, quello tra il Pd e il governo: una turbolenza da tempo nell’aria, sotto forma di sorda opposizione alle larghe intese, manifestatasi anche prima, nei giorni terribili dell’affossamento, ad opera dei franchi tiratori, delle candidature di Marini e Prodi alla presidenza della Repubblica. E che il passaggio di Berlusconi all’opposizione e l’arrivo di Renzi alla guida del Pd hanno oltremodo aggravato, fino a farne il tormento quotidiano del premier Letta e una questione che la direzione del partito, convocata per il 16, dovrà in qualche modo dirimere.

È abbastanza illusoria, va detto, l’idea di venirne fuori calmierando il movimentismo del nuovo segretario e convincendolo a rispettare le regole (quali regole, poi?) della politica romana, contro cui manifestamente morde il freno. Perché anche qui, non si tratta dell’amicizia o meno tra il leader e il presidente del Consiglio, o del rispetto, che per altro non ha mai fatto mancare, al Capo dello Stato. Il punto è un altro: l’elezione del nuovo segretario del Pd da parte di una base di circa tre milioni di cittadini, che lo ha plebiscitato nel nuovo ruolo con il sessanta per cento dei voti, ha riproposto, anche a chi se n’era dimenticato, la caratteristica tipica della Seconda Repubblica, per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi vent’anni. E cioè il rapporto diretto tra i cittadini elettori e la scelta dei governi, prima, e adesso anche del segretario del maggior partito di governo. 

Fino alle elezioni del 2013 - con la brusca eccezione dell’ultimo, imprevedibile risultato che ha suddiviso il campo politico in tre, e non in due, schieramenti - il meccanismo aveva più o meno funzionato, per governi che poi, però, per varie ragioni, non erano riusciti a governare. Nel 1994, nel 2001 e nel 2008, vincitore e premier del centrodestra era stato Berlusconi. Nel 1996 e nel 2006 era toccato a Prodi e al centrosinistra.

I guai sono cominciati quando il Cavaliere, per incapacità di tenere insieme la sua larga maggioranza, di affrontare la crisi economica (o a sentir lui anche per un complotto consumato ai suoi danni), nel 2011 è stato costretto a mollare. E diversamente da quanto era accaduto nel 2008, alla caduta del governo Prodi, il presidente Napolitano, considerata la gravità della situazione, e per evitare nuove elezioni, ha preferito insediare Monti e il suo esecutivo tecnico sostenuto da una larghissima maggioranza, con centrosinistra e centrodestra alleati.

Che dovesse trattarsi di una parentesi, non c’erano dubbi. L’indicazione per un nuovo governo politico, di lì a poco, sarebbe dovuta sortire dalle urne elettorali del 2013. Invece per la prima volta dopo vent’anni questo non è accaduto. Con le esorbitanti conseguenze degli ultimi mesi: il tentativo fallito, di Bersani, di mettere insieme un governo di centrosinistra alleandosi con il Movimento 5 stelle; il disastro della mancata elezione presidenziale; la conseguente, ancorché eccezionale, rielezione di Napolitano, chiesta, da destra e sinistra, da un larghissimo schieramento di forze che tentavano così di arginare la loro impotenza. Una rielezione subordinata, all’atto stesso della sua accettazione, dal candidato riluttante a succedere a se stesso, all’impegno degli stessi partiti che l’avevano voluta, di varare in tempi brevissimi un programma di riforme, per affrontare la crisi di sistema in cui l’Italia era caduta. Si trattava di scegliere, appunto, tra il modello di democrazia diretta, necessariamente da aggiornare dato il suo esaurimento, in cui sono i cittadini a scegliersi i governi, e quando cadono a sostituirli con una nuova tornata elettorale. O un altro diverso modello, tra quelli delle maggiori democrazie europee, inevitabilmente da adattare all’eterna specialità italiana. In questo quadro il governo Letta, sostenuto da un’altra maggioranza di larghe intese, doveva costituire una nuova eccezione, a garanzia di un processo riformatore e di una collaborazione politica - che tutti si auguravano brevi - tra schieramenti politici opposti che sarebbero tornati a contendersi la guida del Paese.

Quel che è seguito è stato purtroppo un ennesimo nulla di fatto. Il Pdl, di fronte alla condanna definitiva di Berlusconi in Cassazione e alla conseguente, seppure combattuta, decadenza da senatore, s’è diviso tra una maggioranza che ha preferito ritirare l’appoggio al governo, andando all’opposizione con il leader storico e rifondando Forza Italia, e una minoranza guidata da Alfano, che ha alzato le insegne del Nuovo centrodestra e ha deciso di mantenere il sostegno a Letta. Mentre il Pd, dopo le dimissioni di Bersani, ha puntato a risolvere i propri problemi interni con la scelta delle primarie e l’elezione popolare nel nuovo segretario. Quanto al processo della Grande Riforma, su cui tra molti sussulti la legislatura s’era avviata, è evidente che la fine delle larghe intese ne ha condizionato le prospettive e aumentato le difficoltà. Tal che lo stesso Capo dello Stato, nel suo messaggio di Capodanno, ha consigliato di concentrarsi sulla legge elettorale, indispensabile dopo la cancellazione del Porcellum operata nel frattempo dalla Corte Costituzionale.

 Così l’Italia ancora una volta è ferma davanti al bivio della sua interminabile transizione: deve decidere se e come salvare la Seconda Repubblica morente, mantenendone gli elementi di democrazia diretta e riducendone le lungaggini parlamentari che s’è portata in eredità dalla Prima, o trovare un’altra strada per la Terza. Allo stesso bivio è fermo il Pd: che con Renzi ha fatto scegliere al popolo il proprio leader, ben sapendo che dopo l’8 dicembre le gerarchie di partito avrebbero contato meno. Ma un mese dopo, con Fassina (e non solo con lui), comincia incredibilmente a pentirsene.

Da - http://lastampa.it/2014/01/07/cultura/opinioni/editoriali/lo-strano-bivio-del-pd-Og7glJLryVGpjgdoGZ6xSM/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Norberto Bobbio, dieci anni dopo Il dovere della verità anche...
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2014, 11:49:17 am
Cultura
08/01/2014

Norberto Bobbio, dieci anni dopo
Il dovere della verità anche se scomoda
Il grande filosofo moriva il 9 gennaio 2004.


Il ricordo di Marcello Sorgi.

Marcello Sorgi


Aveva l’espressione austera e corrucciata del filosofo e la severità del professore stampata in viso, Norberto Bobbio. Nella casa di via Sacchi, accolti dalla signora Valeria, e dal suo modo speciale di far reagire il marito all’umor nero del tramonto, si entrava col timore di rompere il silenzio della meditazione. Bobbio passava il suo tempo nello studio, curvo su un tavolino traballante carico di libri e illuminato da una lampada fioca.

La morte si è dimenticata di me!», esordiva, sollevando il capo nella penombra. Ma era un vezzo. Subito dopo, la stanchezza, il peso della vecchiaia, la sensazione di sentirsi fuori posto, in un mondo che non gli apparteneva più, lasciavano spazio alla curiosità, al gusto della conversazione, ai lampi di intelligenza e a un sorriso avaro, concesso con parsimonia da uno consapevole di non aver più ragioni per gioire.

Era uscito da questa sofferenza uno dei suoi ultimi libri, il De senectute che gli era valso la strana amicizia tardiva con Gianni Agnelli. Anche l’Avvocato, di tanto in tanto, andava a trovarlo: cosa potesse unire due uomini così diversi, a cui era toccata in sorte la nomina a senatori a vita, nessuno lo ha mai saputo. Forse, appunto, era la torinesità e il sentirsi parte di un’epoca che stava scomparendo. Quanto a me, prima di frequentarlo a Torino, da editorialista e nume tutelare di questo giornale, lo avevo conosciuto a Roma nel ’92, nei giorni in cui, a dispetto di se stesso, era diventato il candidato alla Presidenza della Repubblica dell’«altra» Italia. Lui ovviamente non voleva crederci, resisteva, anche quando, camminando a piccoli passi con me che lo accompagnavo dal suo albergo al Pantheon verso Montecitorio, la gente lo fermava per stringergli la mano, o tifava per lui - Forza professore! -, manifestandogli così, alla romana, una simpatia spontanea.

Alla vigilia della caduta della Prima Repubblica, mentre i partiti morenti non riuscivano a trovare un nome per il Quirinale, Bobbio, a sorpresa, si era trasformato nel candidato della società civile, che solo un anno prima, con il referendum elettorale, aveva dato una forte spallata al sistema. La sinistra spingeva a suo favore, cresceva a sorpresa, per lui, il consenso, anche tra i deputati e i senatori chiusi nel Palazzo e costretti a due votazioni al giorno, in odio ad altri candidati di peso da trombare, come Andreotti e Forlani, o nel vano tentativo di ricostruire credibilità di fronte all’elettorato preso, già allora, da un’ondata di antipolitica. Dopo nove giorni (le Camere erano riunite in permanenza dal 13 maggio), una mattina Bobbio, prendendo una camicia da un cassetto nella sua stanza d’albergo, sbattè la testa su un soffitto spiovente e si ferì. Fine della corsa e sollievo del candidato riluttante, che poteva tornarsene a casa e ai suoi studi.

Di quest’avventura in cui si era trovato quasi senza rendersene conto, il professore aveva conservato un ricordo indelebile: nel settembre del ’98, appena arrivato a Torino come direttore della Stampa, ricevetti una sua lettera nella quale, anche a distanza di tempo, ripercorreva quelle giornate trascorse insieme e tratteggiava tutte le sensazioni contrastanti che aveva provato, insieme con gli interrogativi che l’esperienza gli aveva lasciato, ai quali invano aveva cercato di dare risposta.

Di lì in poi i nostri appuntamenti divennero settimanali: si andava in delegazione, con Alberto Papuzzi, che aveva da poco ultimato la sua biografia, e con Cesare Martinetti, che dirigeva le pagine culturali della Stampa. Qualche volta sì, qualche altra no, non c’era una regola, si tornava con l’abbozzo di un articolo, che Bobbio ci avrebbe mandato il giorno dopo, con piccole, preziose, correzioni a mano, di cui si preoccupava al telefono: «Era tutto chiaro? Occorre rileggerlo?».

Fu in una di questa circostanze, divenute abbastanza rituali nella vita del giornale, che ci trovammo a gestire un’altra emergenza, assai lontana da quella del Quirinale. Benché dissuaso dal giro più stretto dei suoi amici e della sua accademia, Bobbio, il 12 novembre ’99, aveva accettato di rilasciare un’intervista a Pietrangelo Buttafuoco del Foglio. Era un pezzo esplosivo, in cui per la prima volta parlava di quella parte del suo passato, legata agli inizi della carriera universitaria. Come se volesse liberarsi di un segreto imbarazzante custodito con vergogna troppo a lungo, Bobbio ricostruiva i tempi della «doppiezza», in cui era stato «fascista con i fascisti e antifascista con gli antifascisti». Si rifiutava di accettare la lettura storica del suo intervistatore, secondo il quale tutti o quasi gli intellettuali italiani avevano condiviso un percorso del genere, ma per citare ad esempio il suo maestro, Gioele Solari, o il suo amico Leo Valiani, e per far risaltare il coraggio di chi non si era arreso, finiva col ribadire le proprie responsabilità.

Dopo la pubblicazione dell’intervista si scatenò un putiferio. Bobbio essendo il maggiore intellettuale azionista, e uno dei più rispettati maître-à-penser della sinistra, lo sconcerto, nel suo campo, era evidente. Su Repubblica Gad Lerner scrisse che era stato attirato in una «trappola». Nel giro più stretto degli amici torinesi, qualcuno gli suggeriva di smentire il testo di Buttafuoco, che invece aveva riletto e approvato parola per parola.

Anche per noi della Stampa il momento era complicato. C’era da capire perché il nostro più importante collaboratore, il custode delle radici culturali del giornale, avesse scelto un altro quotidiano per fare le sue rivelazioni. E soprattutto c’era da trovare la forza di chiamarlo, proprio mentre l’ondata di reazioni mediatiche e politiche rompeva la quiete di via Sacchi. Toccò a me il compito. Gli telefonai per informarlo che avremmo pubblicato un’intervista di Alessandro Galante Garrone, l’altro grande azionista di Torino e come lui editorialista della Stampa, che, contrariamente a chi ne aveva criticato l’imprudenza, gli offriva solidarietà. Inoltre, da storico, rilevava il fatto che la tessera fascista fosse obbligatoria per i professori universitari, e solo quattordici, in tutto il corpo docente nazionale, si fossero rifiutati di prenderla. Gli domandai perché avesse scelto Il Foglio, e non La Stampa, per fare la sua confessione; mi rispose candidamente che noi non gliel’avevamo chiesta. Insistetti, per sapere se intendesse dare un seguito alle polemiche. Ci pensò su, ma replicò soltanto: «Mi lasci riflettere». La mattina dopo, senza preavviso, mandò un articolo limpido, in cui spiegava di non essere stato vittima di alcun tranello e di aver avvertito un autentico desiderio di liberarsi del peso che lo aveva oppresso per tanti anni. Concordammo il titolo: «Io e il fascismo, lasciatemi dire».

Dieci anni dopo la sua scomparsa, ci sarebbero tanti altri episodi da narrare, di un uomo straordinario come Bobbio. Ma questi due racchiudono le principali caratteristiche del personaggio: la schiettezza tutta torinese, la sincerità, il distacco tipico di una grande cultura, e soprattutto il gusto della verità: anche quella, scomoda, che volle rivelare di sé.

Da - http://lastampa.it/2014/01/08/cultura/norberto-bobbio-dieci-anni-dopo-il-dovere-della-verit-anche-se-scomoda-r87IpV7vb4hkfrlUs9ADjN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. L’incredibile ritorno del Cavaliere
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2014, 04:15:24 pm
Editoriali
16/01/2014

L’incredibile ritorno del Cavaliere
Marcello Sorgi

Qualche anno fa, parlando di ben altri personaggi come Fanfani e Andreotti, si sarebbe detto: rieccolo! La grande sorpresa del nuovo anno appena cominciato, infatti, è il ritorno di Berlusconi. Condannato definitivamente ad agosto 2013 dalla Cassazione, espulso dal Senato a novembre per effetto della decadenza prevista dalla legge Severino, e in attesa di sapere se dovrà scontare la pena agli arresti domiciliari o ai servizi sociali, il Cavaliere è stato riportato in scena, nientemeno, da Renzi, che ieri ha reso esplicito, alla sua maniera spiccia, quel che da giorni era nell’aria: l’intenzione, cioè, di chiudere con il leader di Forza Italia un accordo sulla nuova legge elettorale. 

Certo, ci vuole coraggio. Chi si ricorda come andò a finire 16 anni fa, all’epoca della Bicamerale, la lunga trattativa tra D’Alema e Berlusconi – conclusa con il famoso «patto della crostata» siglato a casa di Gianni Letta e smentito il giorno dopo in Parlamento dallo stesso Cavaliere –, non può non vedere un azzardo eccessivo nel percorso scelto dal giovane segretario del Pd.

La minoranza del partito, tra l’altro con in testa dalemiani e bersaniani, è in subbuglio. L’antiberlusconismo, sopito per la progressiva emarginazione del Cavaliere, improvvisamente s’è risvegliato. La direzione di oggi, convocata ad appena un mese dalle primarie che hanno incoronato il sindaco di Firenze, potrebbe riservare qualche sorpresa, con il Pd pronto a dividersi come ha fatto in tutti i frangenti importanti di questa tormentata legislatura, a cominciare dall’assalto dei franchi tiratori nelle votazioni per la Presidenza della Repubblica.

Ma Renzi non sembra affatto turbato dai mugugni interni del suo partito, né disposto a cambiare idea, privilegiando prima un accordo interno alla maggioranza che sostiene il governo, e solo successivamente la trattativa con Forza Italia. A suo giudizio non basta mettersi d’accordo con Alfano, che in caso contrario minaccia la crisi di governo, e dopo di lui con Monti e Casini. Conti alla mano, il sindaco di Firenze spiega che la maggioranza di governo, al Senato, può contare solo su sette voti di vantaggio: otto senatori dissidenti basterebbero ad affossarla. Di qui l’insistenza sulla necessità di assicurarsi anche l’appoggio del Cavaliere.


Ma le ragioni vere che spingono Renzi ad accelerare, anche a rischio di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano, come capitò a suo tempo a D’Alema, sono due. La prima, sembra incredibile, è che il segretario sente più aria di fregatura dalle parti di Palazzo Chigi, che non da quelle di Palazzo Grazioli. Lo ha detto chiaramente che lui e Letta non si prendono e il presidente del Consiglio non si fida. Inoltre, avendo scommesso sulla sua capacità di realizzare le riforme, a partire proprio da quella elettorale, non può permettersi di fallire al primo esordio.

La seconda è che il Berlusconi di oggi non è quello di ieri, e nei panni in cui si trova dovrebbe pensarci quattro volte prima di portare in giro Renzi, per buttarlo fuori strada all’ultima curva. Ridotto com’è ridotto, il Cavaliere in sostanza ha davanti l’ultima vera occasione di rientrare al centro del gioco, persa la quale, il suo destino politico e quello giudiziario non potrebbero che coincidere.

Resta da capire se una strategia come questa, specie se messa in pratica con il metodo e alla velocità di Renzi, porterà alla crisi di governo, perché Alfano e gli altri partners di Letta non accetteranno di farsi scavalcare, o se invece alla fine produrrà una nuova legge maggioritaria e bipolare e un riordino delle forze politiche, magari con la riunificazione dei due tronconi separati del centrodestra e con l’archiviazione conclusiva di ogni ipotesi centrista. Nell’un caso e nell’altro, va detto, il rischio di elezioni anticipate torna ad essere alto. Anche per questo nei prossimi giorni sarebbe utile, necessario, forse perfino indispensabile capire cosa davvero passa per la testa di Berlusconi. In altre parole: Cavaliere, se ci sei, batti un colpo!

Da - http://www.lastampa.it/2014/01/16/cultura/opinioni/editoriali/lincredibile-ritorno-del-cavaliere-iWn4rlgCTEqrKXp4XqktjJ/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. L’ultima chance anche per Letta
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2014, 06:00:56 pm
Editoriali
23/01/2014

L’ultima chance anche per Letta

Marcello Sorgi

Il caos che ieri ha accompagnato la presentazione del testo della riforma elettorale non deve necessariamente impressionare. Era prevedibile e in qualche modo logico che una legge nata da un accordo che avrebbe dovuto cancellare, e solo successivamente s’è risolto a ridimensionare, i partiti minori, generasse una reazione così forte degli stessi.

Il fronte del No che ha accolto con una levata di scudi l’inizio dell’iter parlamentare della riforma si presenta pertanto variegato, ma anche accomunato dallo spirito di sopravvivenza. Questo, e solo questo, ha potuto riunire Monti e Casini, ormai separati da tempo, con Bossi e Vendola, due leader che a malapena si salutano quando si incontrano alla Camera. Che poi l’inedita alleanza possa attirare nelle sue file, come qualcuno si spinge a dire nei corridoi di Montecitorio, anche D’Alema e la minoranza dalemian-bersanian-cuperliana del Pd e il Nuovo centrodestra di Alfano, è tutto da vedere. Sarebbe una sorpresa non di poco conto, per una ragione molto semplice: mentre infatti il primo gruppo di oppositori appartiene alla schiera di quelli che sono stati colti di sorpresa dall’accordo tra Renzi e Berlusconi, il secondo fa parte di diritto dei partiti che hanno partecipato alla trattativa e siglato l’accordo.

Per tutti era fin troppo chiaro che l’intesa siglata tra il leader del maggior partito di governo e quello del maggior partito d’opposizione aveva come primo obiettivo sbloccare il percorso riformatore dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato il Porcellum; e come secondo, dare al governo una prospettiva meno incerta di quella attuale e un orizzonte di almeno un anno per poter lavorare in tranquillità. La prima e la seconda parte dell’accordo sono state esplicite, pubbliche e trasparenti fin dal primo momento. Berlusconi non aveva ancora girato l’angolo della sede del Pd al Nazareno, sabato scorso, che Renzi le illustrava soddisfatto in una conferenza stampa.

Se quelle a cui si è assistito ieri per l’intera giornata non fossero ragionevoli difficoltà da affrontare e risolvere, senza stravolgere l’impianto della riforma, e dovessero invece rivelarsi come fuoco di sbarramento o come inizio di una manovra ostruzionistica, simili a quelle a cui si assistette al Senato nell’ultima parte della precedente legislatura e nella prima parte di questa, le conseguenze diventerebbero gravi. Perché, è evidente, se vacilla o s’impantana la prima parte dell’accordo, cade immediatamente anche la seconda, come Renzi ha ripetuto dal primo momento. E l’obiettivo del premier Letta di chiudere rapidamente la trattativa sul patto di governo e andare al più presto a illustrarlo in Europa andrebbe necessariamente incontro a forti difficoltà.

L’idea che il Parlamento non possa introdurre alcuna modifica a un testo blindato, ovviamente, è irreale. Ma lo è altrettanto l’ipotesi di smontare pezzo per pezzo il nuovo sistema elettorale a colpi di emendamenti votati da maggioranze parlamentari occasionali e trasversali, che finirebbero per snaturarne l’impianto. Il quale impianto, lo hanno detto espressamente i due maggiori contraenti dell’accordo, punta a ricostruire il bipolarismo messo in crisi dagli ultimi risultati elettorali e dall’irruzione in Parlamento del Movimento 5 Stelle. In nome di quest’obiettivo ognuno ha ottenuto e ha dovuto rinunciare a qualcosa: Berlusconi ha accettato il doppio turno, che non gli era mai piaciuto, e ha avuto l’innalzamento della soglia di sbarramento al 5 per cento. Renzi ha messo da parte le preferenze, ma ha portato a casa il sì, non solo alla riforma elettorale, ma anche a quelle istituzionali. Alfano ha incassato la cancellazione del sistema spagnolo, che tendeva a ridurre il quadro a due soli partiti, e insieme a Letta ha ricevuto assicurazioni sulle prospettive del governo.

Dubbi, riserve, mugugni sono emersi un po’ da tutte le parti, e principalmente nel Pd, come s’è visto a conclusione della direzione terminata con le dimissioni del presidente Gianni Cuperlo. Ma da qui a rimettere in discussione la riforma, ce ne corre. Ci sono tutti gli elementi per chiarire, approfondire, limare, senza cercare di capovolgerlo, un testo di legge che non riguarda solo la materia elettorale, ma anche un’occasione, forse l’ultima, di uscire dall’inerzia di una transizione infinita a cui l’Italia è condannata da vent’anni.

Da - http://lastampa.it/2014/01/23/cultura/opinioni/editoriali/lultima-chance-anche-per-letta-ZIP0J6pQ1l7BpuPNBRyThL/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il rischio di far saltare il tavolo
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2014, 05:53:30 pm
Editoriali
28/01/2014

Il rischio di far saltare il tavolo
Marcello Sorgi

È inutile nasconderlo: la pioggia di emendamenti, a centinaia, caduta sul testo della riforma elettorale, ha dato la dimensione effettiva delle difficoltà che accompagnano la nuova legge dal momento della sua presentazione. Finora si poteva pensare che nell’atteggiamento dei partiti o delle correnti che avevano minacciato di rovesciare l’accordo siglato da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, e allargato al Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, ci fosse una percentuale di bluff e un normale tasso di propaganda: nel senso che, mettendo in conto la possibilità che alla fine l’Italicum potesse non vedere la luce, ciascuno logicamente pensava ad attrezzarsi a quest’eventualità e a evitare di dover condividere la responsabilità di un naufragio. 

Ma di fronte ad oltre trecento ulteriori proposte di modifica del testo presentate ieri in commissione alla Camera (anche se Renzi a tarda sera ne ha imposto il ritiro di una trentina firmate Pd), occorre guardare in faccia alla realtà: se non si troverà un’intesa, almeno tra i tre principali contraenti del patto per le riforme, per arrivare a cambiare il testo in modo condiviso, il processo riformatore potrebbe realmente arenarsi prima di cominciare, e la discussione partita a Montecitorio, con l’obiettivo di concludersi in tempi brevissimi, trasformarsi in un grimaldello in grado di far cadere il governo e portare ad elezioni anticipate.

Che questa, e non altra, sia la posta in gioco, lo ha detto chiaramente Renzi. E dopo giorni di polemiche e un evidente, ostentato, raffreddamento dei rapporti personali, a sorpresa è stato Enrico Letta a schierarsi con il segretario del Pd, spingendo contro ogni ipotesi di rottura e a favore dell’accordo, per salvare insieme la legge, il governo e la legislatura. Quanto a Forza Italia, insiste perché non sia snaturato ciò che era stato concordato tra Renzi e Berlusconi, e in particolare per far sì che il ritorno alle preferenze, escluso su richiesta del Cavaliere, non venga riammesso, magari grazie a una votazione parlamentare in cui i franchi tiratori potrebbero risultare determinanti. 

Renzi, Letta e Berlusconi, in altre parole, si rivolgono ad Alfano. Il vicepresidente del consiglio e leader di Ncd, fin qui, proprio sulle preferenze, ha tenuto duro. Lasciare le liste bloccate, anche se piccole liste in cui i candidati sarebbero più riconoscibili, significherebbe per lui perpetuare il meccanismo del Porcellum, odiato dai cittadini e condannato nei sondaggi, dei parlamentari «nominati» dai capipartito e non scelti effettivamente dagli elettori. Si tratta di un argomento forte e sicuramente popolare, che ha trasformato Alfano, perfino al di là della sua volontà, nel leader di uno schieramento parlamentare trasversale, che annovera la minoranza del Pd, Scelta civica nei suoi due tronconi, Sel e Lega: un «fronte del No» che in commissione e in aula potrebbe riservare sorprese, e non solo sul controverso punto delle preferenze; ma che tuttavia ha nel rallentamento dell’iter della riforma l’unico vero punto di contatto.

Non va dimenticato infatti che Alfano, Monti e Casini, diversamente da Cuperlo, Vendola e Salvini, non hanno alcun interesse ad affossare la legge elettorale perché sanno che il governo difficilmente sopravviverebbe a questo. Il ritardo imposto dal rilancio delle riforme al nuovo patto per il 2014 che il premier stava negoziando depone in questo senso. E non a caso Alfano, previdente, alterna in questi giorni la pressione sulle modifiche da apportare alla legge elettorale ai richiami a Renzi e al Pd a sostenere più convintamente il governo. Occorrerà vedere, da oggi, che effetto avrà sul vicepresidente del consiglio, il nuovo atteggiamento di Letta, schieratosi più vicino a Renzi grazie anche alle sollecitazioni del presidente Napolitano, che a nessun costo ammetterebbe una marcia indietro, ora che il risultato è a portata di mano. L’accordo, sia sulla legge elettorale che sulle modifiche da apportarvi, non è affatto facile, comporta sicuramente dei sacrifici, e al momento, dopo la valanga di emendamenti depositati alla Camera, ha quasi le stesse probabilità di riuscita e di fallimento, ancorché le conseguenze, in un caso o nell’altro, sarebbero assai diverse. Per questo, sarebbe bene che tutti riflettessero e si impegnassero, prima di correre per davvero il rischio di far saltare il tavolo delle riforme.

Da - http://lastampa.it/2014/01/28/cultura/opinioni/editoriali/il-rischio-di-far-saltare-il-tavolo-ki6a3IIyjjUJdGce2gRqSP/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Ma la strada è ancora in salita
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2014, 04:21:59 pm
Editoriali
30/01/2014

Ma la strada è ancora in salita

Marcello Sorgi

Non è soltanto una buona notizia l’accordo sulla riforma elettorale siglato ieri sera da Renzi, Berlusconi e Alfano, dopo lunghi giorni di trattativa. 

Se solo si riflette che da anni ogni tentativo di por fine alla stagione del Porcellum si era infranto contro la gelosa difesa degli interessi di parte, occorre riconoscere che ha qualcosa di incredibile. Messa alle strette dalla sentenza della Corte costituzionale, che, oltre a cancellare la vecchia legge, aveva esplicitamente sottolineato l’incapacità del Parlamento di produrne una nuova, la politica, in modo del tutto inatteso, ha dato un colpo di reni. 

Naturalmente tutto è perfettibile: il sistema scelto non sarà certo il massimo, ma contiene indubbi elementi innovativi e cancella le principali storture contenute nel Porcellum. Le novità, coerenti con le indicazioni della Consulta, sono la soglia da raggiungere (37 per cento) per ottenere il premio di maggioranza, e quelle di sbarramento (4,5, 8 o 12 per cento, secondo che un partito si presenti alleato con una delle due formazioni maggiori, o da solo, o cerchi di formare una coalizione con le forze minori); l’introduzione del secondo turno elettorale, in ballottaggio tra primo e secondo qualificato; la possibilità per i partiti a forte radicamento locale, ma non nazionale, come la Lega, di entrare in Parlamento se la loro consistenza elettorale è forte in almeno tre regioni, e per i leader di presentarsi in più circoscrizioni. Se ne ricava che l’impianto bipolare è stato mantenuto, la tagliola per i partiti minori pure, ma il confronto finale avverrà tra due coalizioni, e non tra due partiti come accade in gran parte d’Europa.

Renzi è il leader che può esprimere maggior soddisfazione: in un mese e mezzo dalle primarie ha puntato sulla riforma, s’è spinto, malgrado le contestazioni interne del Pd, a trattare con Berlusconi, invitandolo nella sede del suo partito, ha saputo gestire anche la fase difficile dell’avvio parlamentare, ritrovando in breve l’appoggio del premier Letta e l’intesa con il vicepremier Alfano.

Anche Berlusconi, a soli quaranta giorni dalla decadenza da senatore, dopo la sentenza della Cassazione che lo aveva messo in un angolo, incassa una completa rilegittimazione politica, e ritrova il ruolo di leader del centrodestra grazie al meccanismo salva-Lega che è riuscito a ottenere nella fase finale della trattativa.

Quanto ad Alfano, ha ottenuto quel che voleva: è riuscito a cancellare il «modello spagnolo», che avrebbe lasciato spazio a una gara tra due soli partiti, cancellando o quasi tutti gli altri, ha dovuto rinunciare alle preferenze, ma ha avuto in cambio un abbassamento della soglia di sbarramento dal 5 al 4,5 per cento, strategico per un partito come il suo, nato da pochi mesi e in fase di radicamento sul territorio.

 

L’iter parlamentare della nuova legge, malgrado l’accordo, resta difficile, a causa dell’ostruzionismo annunciato dal Movimento 5 stelle e della virulenta campagna contro Napolitano, attaccato proprio per il suo impegno a favore delle riforme. Teoricamente, se oggi il testo andrà in aula, la Camera potrebbe licenziarlo entro la fine di febbraio. Un altro ragionevole mese (ma forse anche meno) per ottenere anche il «sì» del Senato, e a marzo si potrebbe arrivare all’approvazione definitiva. A quel punto si apriranno due problemi, uno istituzionale e uno politico.

Quello istituzionale riguarda il destino delle altre riforme - la trasformazione del Senato in Camera delle Autonomie, composta da rappresentanti delle Regioni scelti all’interno dei consigli regionali, e la riscrittura del Titolo V, che regola i rapporti tra lo Stato e amministrazioni regionali - che rientrano a tutti gli effetti nello stesso accordo sulla legge elettorale. Ce la farà il Parlamento a portarle a casa, malgrado la prevedibile opposizione dei senatori alla propria, annunciata, cancellazione? Nel nuovo clima, va detto, tutto è possibile. Il pessimismo che fino a dicembre aveva accompagnato l’incedere del processo riformatore è stato superato con l’irruzione sulla scena politica di Renzi e del suo movimentismo. A Capodanno il Presidente della Repubblica, spronando all’approvazione della legge elettorale, aveva lasciato intendere che si sarebbe accontentato di un «avvio» delle riforme istituzionali, come se avesse preso atto della difficoltà di approvarle nell’attuale, traballante, legislatura. Ma oggi il leader del Pd si spinge a promettere a Napolitano che anche quelle potrebbero essere realizzate nel giro di un anno; e portarle avanti è interesse di tutti i contraenti dell’accordo.

Il problema politico nasce di qui. Letta, grazie all’accelerazione sulla legge elettorale, potrà ottenere presto il rafforzamento del suo governo e la conclusione di un nuovo patto che duri oltre il 2014 e la conclusione della presidenza italiana del semestre europeo. E tuttavia la «maggioranza istituzionale», inaugurata dopo l’incontro tra Renzi e Berlusconi, ha dimostrato di funzionare meglio di quella più ristretta che ha sostenuto l’esecutivo dopo il passaggio di Forza Italia all’opposizione. Non è ipotizzabile, certo, che dopo averlo rilegittimato gioco forza sulla legge elettorale, Renzi possa pensare di restaurare le larghe intese, aprendo la strada a un ritorno del partito del Cavaliere al governo. Ma proprio per questo, non è sicuro che Berlusconi si accontenti per un altr’anno di fare solo il padre costituente.

Da - http://lastampa.it/2014/01/30/cultura/opinioni/editoriali/ma-la-strada-ancora-in-salita-tYAVrQPOU9mUodMKQEs1JN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Verso la Terza Repubblica
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2014, 06:40:40 pm
Editoriali
12/02/2014
Verso la Terza Repubblica
Marcello Sorgi

L’accelerata che nel giro di un paio di giorni dovrebbe portare alla staffetta tra Letta e Renzi ha un che di sbalorditivo. Se appena si riflette che in appena due mesi il sindaco di Firenze ha conquistato tra la gente la segreteria del Pd ed è ora in grado di proporsi per la guida del Paese, il solo precedente che si ricordi è quello del Berlusconi di vent’anni fa: la forza propulsiva del nuovo leader, la tendenza inarrestabile a centrare un obiettivo dopo l’altro, la resa generale, e in qualche caso la disponibilità, di tutto il mondo circostante e di un sistema giunto ormai alla fine fanno tornare in mente proprio la primavera del ’94 e l’incredibile entrata in campo del Cavaliere. 

Lo stesso atteggiamento di Berlusconi, che non s’oppone e sotto sotto incoraggia l’ascesa del giovane leader, riservando per sé il ruolo di oppositore, ma anche di interlocutore, dà il segno della nuova fase che si apre.

Finisce tutt’insieme la Seconda Repubblica, l’epoca delle coalizioni rissose, che a mala pena resistevano il tempo di una campagna elettorale, e dei governi eternamente impossibilitati a realizzare il proprio programma per i veti e le resistenze dei piccoli alleati o delle minoranze interne dei partiti. E nel tempo di mezzo che si apre, in attesa che il varo delle riforme faccia nascere la Terza Repubblica e rinascere il bipolarismo, quello a cui si assiste è un imprevedibile ritorno della politica. 

Basta mettere in fila gli eventi degli ultimi mesi per capire che è così. La rottura degli schemi precedenti, la fine dell’antiberlusconismo pregiudiziale, l’incontro al Nazareno con Berlusconi e il patto sulle riforme, che richiedono un lungo percorso elettorale, sono stati per Renzi i presupposti per proporsi al partito come candidato premier, e non solo come segretario. L’occasione, forse l’ultima, di cambiare le cose, è diventata per il Pd una sfida che ha subito capovolto gli equilibri interni, spostando anche buona parte dei sostenitori di Enrico Letta in direzione della svolta. La convinzione con cui Renzi ha sposato il progetto delle riforme è diventata determinante per convincere all’ascolto anche il presidente Napolitano, finora il più strenuo difensore della stabilità del governo attuale. 

Il resto, Renzi lo ha costruito e lo sta costruendo mescolando i suoi metodi e il linguaggio da rottamatore con liturgie che inaspettatamente ricordano quelle della Prima Repubblica. Le «visite di calore», come quella che ieri gli ha fatto Bruno Tabacci, un democristiano che era giovane ai tempi della vecchia Dc ma ha avuto la capacità di correre alle primarie due anni fa. Messaggi affidati ad ambasciatori riservati, come quello che reca l’offerta per Letta del ministero degli Esteri con l’aggiunta della delega per l’Europa. Dialogo spregiudicato, molto più che franco, con gli alleati del governo in carica, a cominciare da coloro, come Alfano, con cui inizialmente il feeling era stato freddo, ai quali ha fatto intravedere la prospettiva di una legislatura che arrivi al suo termine naturale del 2018, sull’onda del processo riformatore. Confronto aperto con i «cugini separati» di Sel, o almeno di quella parte dei vendoliani che non vogliono consegnarsi alla prospettiva greca della «lista Tsypras», e perfino con quelli del Movimento 5 stelle: ma non solo i dissidenti, l’offerta è rivolta a chi non ha amato la guerriglia parlamentare dei giorni scorsi e non vuole restare a galleggiare in Parlamento.

Sullo sfondo, certo, c’è il rischio di bruciare una leadership nata sull’onda dell’opinione pubblica montante e del consenso delle primarie in una prova di governo che resta densa di incognite, data la fase ancora critica che il Paese attraversa. Si vede chiaramente che molti applausi della vigilia nascondono il desiderio di rosolare il sindaco vincente, proprio come faceva la vecchia Dc con i leader che mandava a Palazzo Chigi. Il pericolo esiste, ed è inutile ripetere o sentirsi dire che questa è l’ultima vera occasione per l’Italia di rinnovarsi e mettersi al passo con i tempi, ed è insieme l’assicurazione sulla vita del prossimo governo che sta per nascere. Anche questo, Renzi lo sa benissimo. Solo che adesso non ha tempo per pensarci.

Da - http://lastampa.it/2014/02/12/cultura/opinioni/editoriali/verso-la-terza-repubblica-OgdNjZDZDYEgnpMHSteKxN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. - Il ritorno del leader dimezzato
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2014, 11:26:16 pm
Editoriali
11/04/2014

Il ritorno del leader dimezzato

Marcello Sorgi

Anche se nessuno dei giudici che dovevano decidere sulla sua sorte aveva mai pensato di mandarlo in galera o agli arresti domiciliari (non c’erano i presupposti giuridici, trattandosi di un uomo di quasi 78 anni, incensurato fino ad agosto scorso e con un anno solo da scontare), Silvio Berlusconi, dopo l’intervento del Pg di Milano che ha aperto la strada al suo affidamento ai servizi sociali, può di sicuro tirare un sospiro di sollievo.

Ci vorrà qualche giorno per sapere se il collegio giudicante terrà ferma l’ipotesi di impegnare per una mattina alla settimana il Cavaliere nell’assistenza agli anziani, o se accetterà la proposta dell’imputato di dedicarsi ai disabili a casa propria. In ogni caso, la sostanza non cambia: di qui alla prossima settimana, potrà considerarsi chiusa la vicenda cominciata il primo agosto del 2013, con la condanna definitiva per frode fiscale inflitta dalla Cassazione al leader del centrodestra. Sul cui capo, è vero, pesano ancora pendenze giudiziarie di un certo rilievo, dal processo ai testimoni del caso Ruby a quello per la corruzione dei senatori. Ma per il quale, l’incubo di una forzata esclusione dalla vita pubblica e dalla campagna elettorale per le Europee adesso è da considerarsi scongiurato.

Da oggi in poi il problema di Berlusconi torna ad essere essenzialmente politico: vuole o no continuare con il cupio dissolvi che lo ha portato alla demolizione, in pratica, del centrodestra, di cui era stato per vent’anni il Capo e l’indiscusso mattatore? La risposta che quasi tutti nel suo campo danno a questa domanda è che quel che è accaduto non è dipeso da lui: perseguitato da una magistratura politicizzata, espulso dal Senato da una sinistra che non lo ha mai battuto nelle urne e non vedeva l’ora di liberarsene in altro modo, il Cavaliere, a detta dei suoi, ha mostrato una straordinaria capacità di resistenza ed ora è pronto a tornare in campo.

Questa risposta ufficiale, ripetuta a piè sospinto da falchi e colombe del centrodestra, ha il difetto di non essere vera. Ma non come lo sono, o non lo sono, il novanta per cento delle affermazioni dei politici, che contengono sempre un certo tasso di demagogia. Basta solo ricordare ciò che si sono detti qualche giorno fa il consigliere politico del Cavaliere Giovanni Toti e l’ex ministra dell’Istruzione Maria Stella Gelmini per capire. Di Berlusconi, in un fuori onda, parlavano, sì, con affetto, ma anche come di un nonno che fatica ormai a reggersi in piedi e non ne azzecca più una. L’idea che stesse ricoverato, a curarsi un’artrite non grave, tutto sommato li rendeva tranquilli, come se in altri momenti dovessero sempre sorvegliare che non ne combini una delle sue. E soprattutto come se la degenza ospedaliera fosse il solo modo di rallentare la trottola impazzita delle mille visite e delle mille rivalità interne di Forza Italia, che si manifestano quotidianamente davanti al leader, per ottenere, o dire di aver ottenuto, piena ragione.

 
Da agosto ad ora Berlusconi ha perso lucidità. È un dato di fatto, che in privato qualsiasi esponente del centrodestra riconosce senza difficoltà. Che la condanna lo abbia colto di sorpresa, perché fino all’ultimo aveva sperato di evitarla, è possibile. Ma è altrettanto sicuro che, superato il disorientamento, avrebbe potuto scegliere con più raziocinio una strategia diversa.

Non si trattava di annunciare al mondo il suo ritiro dalla politica. Ma più semplicemente di accettare la sentenza, pur ritenendola ingiusta, con tutte le sue conseguenze; e sulla base di questo – e non del suo rifiuto della decisione della Cassazione – porre il problema della propria agibilità politica. La decadenza imposta dalla legge Severino che il centrodestra aveva votato (e successivamente ha deciso di contestare), lungi dal diventare caso politico, occasione di scontro parlamentare, e far saltare la maggioranza di larghe intese nata all’inizio della legislatura, sarebbe stata una conseguenza inevitabile, forse ingiusta come la condanna da cui era dipesa, ma non avrebbe messo in discussione il diritto del Cavaliere di continuare a dispiegare la sua leadership e svolgere i suoi compiti, seppure senza cariche pubbliche. In questo caso, inoltre, sarebbe diventata concreta la possibilità di un atto di clemenza da parte del Capo dello Stato, nei termini in cui la nota del Quirinale del 13 agosto lo aveva prefigurato. Ed anche se la storia non si fa con i se, la scissione del Pdl in due tronconi, uno di governo e l’altro di opposizione, non sarebbe avvenuta; e in caso di crisi, Renzi avrebbe trattato con Berlusconi, oltre che sulle riforme, sull’ingresso al governo di tutto il centrodestra, e non solo di una parte.

Ma ora che il disastro s’è compiuto, ed è sotto gli occhi di tutti, a cominciare dai suoi, il Cavaliere, pur nella condizione di leader dimezzato e affidato ai servizi sociali, ha ancora un compito importante da svolgere. Un centrodestra come quello attuale, che cambia posizione ogni giorno, anche più volte al giorno, e assiste a un’ininterrotta guerra civile del suo gruppo dirigente, non serve a niente. Proprio perché nel centrosinistra, dopo anni e anni di lotte intestine seguite da sconfitte, è maturata una nuova leadership che ha impresso un diverso andamento al Pd e all’intero campo democratico, è necessario che anche nell’altro campo maturi un processo del genere. Berlusconi, va detto, è perfettamente in grado di innescarlo; sebbene, realisticamente, non sia in grado di condurlo fino in fondo. Scelga un programma, lo esponga alla sua gente, accetti che sia messo in discussione. E poi agevoli un ricambio, prepari, non a parole, ma in modo democratico, una nuova leadership. Se sarà in grado di far così per davvero, non uscirà di scena, non sarà emarginato, non perderà ruolo: anzi, paradossalmente, ne acquisterà uno nuovo.

Da - http://lastampa.it/2014/04/11/cultura/opinioni/editoriali/il-ritorno-del-leader-dimezzato-JBm6he5TDKhPCWoJhMbQcP/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI - La fretta cattiva consigliera
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2014, 06:59:22 pm
Editoriali
10/05/2014

La fretta cattiva consigliera
Marcello Sorgi

I primi sondaggi, fatti a tambur battente dopo l’esplosione dello scandalo Expo e l’arresto dell’ex ministro Claudio Scajola, dicono che l’effetto di quanto è accaduto rischia di essere quello di un terremoto. L’idea che la ragnatela della corruzione si riproponga pari pari, nella stessa città e quasi con gli stessi protagonisti della Tangentopoli di vent’anni fa, sta già lavorando in modo imprevisto sull’opinione pubblica. Quasi metà dell’elettorato, non solo dei pochi e svogliati elettori che finora si erano interessati alla scadenza del 25 maggio, dichiarano che, o cambieranno il loro voto, o sceglieranno comunque di presentarsi ai seggi, abbandonando la tentazione astensionista.

In due parole, la campagna elettorale s’è riaperta. E chi potrebbe trarne i vantaggi maggiori - anche questo confermano i sondaggisti - è Grillo, che ieri, dopo un giorno di riflessione, s’è presentato come il padre dell’inchiesta di Milano e ha detto che solo dopo la sua visita ai cantieri dell’Expo i magistrati si sono sentiti garantiti e hanno preso le loro decisioni.

La campagna del leader di M5s va avanti senza soste e con continui colpi di scena, come ad esempio la visita all’acciaieria di Piombino la scorsa settimana, oppure, sempre ieri, il riferimento ad Aldo Moro, inserito nel Pantheon grillino come vittima di uno Stato che non volle o non poté salvarlo.

E che il timore di un’accelerata 5 stelle monti, a questo punto, è evidente. Lo stesso Renzi ne ha parlato, sebbene per esorcizzarlo, attaccando Grillo perché punta a spostare i sondaggi con lo sciacallaggio sull’inchiesta Expo. Poi ha annunciato per martedì una visita a Milano e ha accolto senza commenti le dichiarazioni del governatore della Lombardia Maroni e del sindaco di Milano Pisapia, favorevoli a chiudere al più presto, almeno sul piano amministrativo, la vicenda dell’Expo: confermando la fiducia all’amministratore delegato Sala e sollevando dal l’incarico il direttore generale Paris, che secondo le accuse era il perno del sistema di corruzione messo su dalle vecchie conoscenze di Mani pulite, il «compagno G» Greganti, collettore delle tangenti destinate al Pci venti anni fa, e l’ex segretario democristiano Frigerio, anche lui coinvolto nella prime indagini di quell’epoca.

Va detto che l’idea di una soluzione rapida che potrebbe essere percepita come un colpo di spugna, seppure delimitando i confini e le persone colpite dall’inchiesta, non sarebbe senza pericoli. Anche se le responsabilità penali sono in corso di accertamento, far riprendere l’attività dell’azienda Expo prima che tutto sia chiarito e mentre la magistratura parla di una «cupola» che si sarebbe insediata a Milano, all’interno della struttura incaricata dell’organizzazione dell’esposizione universale e degli appalti necessari per realizzarla, dal punto di vista politico comporta più di un rischio. Se nei prossimi giorni l’inchiesta dovesse avere nuovi sviluppi, magari con nuovi arresti, a partire dagli interrogatori degli imputati e nell’eventualità che saltino fuori altri personaggi inquisiti, i politici e le parti politiche che avessero cercato di circoscrivere le conseguenze dello scandalo si renderebbero sospettabili, proprio agli occhi di quell’opinione pubblica che vede come un incubo il ritorno di Tangentopoli, di non aver voluto far pulizia fino in fondo. È anche per questo che dall’arrivo di Renzi a Milano martedì prossimo è lecito aspettarsi sorprese.

DA - http://lastampa.it/2014/05/10/cultura/opinioni/editoriali/la-fretta-cattiva-consigliera-tWys5aqavEy7nonjo55tkL/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. L’eterno balletto dell’immunità
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2014, 10:43:13 pm
Editoriali
23/06/2014

L’eterno balletto dell’immunità

Marcello Sorgi

Malgrado l’accordo fatto, o quasi fatto, tra Pd e Forza Italia per votare la riforma del Senato a partire dal prossimo 3 luglio, le polemiche non si fermano. E non solo perché il Movimento 5 stelle ha interesse ad alimentarle, in vista dell’incontro di mercoledì con la delegazione del partito del presidente del Consiglio. 

E neppure perché i dissidenti interni dello stesso Pd, che erano arrivati quasi alla scissione dopo l’esclusione dei più battaglieri del loro gruppo, Vannino Chiti e Corradino Mineo, dalle votazioni in commissione sul testo della riforma, confermano che daranno battaglia anche in aula. Lo scontro si sta concentrando su due punti: l’immunità, che dovrebbe esser ridata ai senatori depotenziati della futura Camera delle autonomie, e le preferenze.

Le preferenze al momento sono escluse dal progetto di legge elettorale, ma rischiano di aprire una crepa nella maggioranza di governo, perché Ncd ha deciso di farne la propria bandiera. 

Ora, intendiamoci: tutto è discutibile, specialmente in una materia così delicata come quella degli assetti fondamentali dello Stato, e proprio mentre si sta per decidere di abbandonare uno dei capisaldi della Costituzione, il principio-chiave del bicameralismo perfetto.

L’immunità per i nuovi senatori, che non saranno eletti direttamente, ma scelti tra consiglieri regionali e sindaci, potrebbe effettivamente rivelarsi sbilanciata, visto che il loro ruolo e i loro poteri diventeranno molto differenti da quelli dei deputati. Ma il diritto di eleggerli con le preferenze, se davvero dovesse passare la linea di sceglierli nelle assemblee locali, con un’elezione di secondo grado a cui i cittadini non parteciperebbero, sarebbe semplicemente un non senso.

Più che il quadro in cui il doppio restauro di immunità e preferenze verrebbe a inserirsi, colpisce il modo in cui la discussione si sta sviluppando. Invece di ricordare che l’una e le altre facevano parte legittimamente della Carta costituzionale, e vennero abolite, tutte o in parte, nel bel mezzo della rivoluzione italiana (l’immunità sull’onda di Tangentopoli, come si trattasse di un privilegio incomprensibile, le preferenze, ma solo quelle multiple, con il referendum del 1991), e invece di valutare se entrambe quelle cancellazioni appaiano ancora oggi motivate, o possano essere ripensate, si è delineato un fronte dei contrari che porta argomenti opposti alla realtà delle cose.

 Così, per questo fronte, che annovera in prima linea Movimento 5 stelle, Lega e dissidenti Pd, l’immunità, che i Padri costituenti vollero come garanzia della separazione tra il potere legislativo e quello giudiziario - e la cui abolizione ha fatto sì che qualsiasi magistrato possa indagare senza vincoli su qualsiasi parlamentare, con l’unica limitazione di dover chiedere un voto parlamentare in caso di arresto -, viene presentata, tout court, come un privilegio di casta, la reintroduzione del quale andrebbe contro il desiderio dell’opinione pubblica di vedere i politici pagare lo scotto dei loro imbrogli nelle patrie galere.

E poco importa che tutte, o quasi tutte, le ultime volte in cui le Camere hanno votato su casi che riguardavano membri del Parlamento, la scelta è sempre stata quella del carcere, per la pesantezza della accuse a cui gli accusati erano sottoposti e per lo scandalo provocato dalle inchieste. La sola idea che venga reintrodotto un filtro, specie in presenza di un inasprimento della macchina anti-corruzione e di leggi più severe per questo genere di reati, fa saltare per aria il folto partito trasversale dei magistrati in Parlamento e i suoi alleati che pensano così di ingraziarsi l’opinione pubblica. Tutto, ovviamente, con buona pace dei Costituenti e del dettato costituzionale.

Un analogo capovolgimento riguarda le preferenze, presentate da Ncd e dalle frange centriste che le vorrebbero reintrodurre, per rimettere gli elettori in condizione di scegliersi i propri parlamentari, ribellandosi alla dittatura dei capi partito e delle liste bloccate con cui imporrebbero solo parlamentari di loro stretta fiducia. A questo aggiungono che le preferenze sono in vigore sia nelle elezioni europee che in quelle regionali e comunali: perché dunque escludere il Parlamento da una scelta di libertà? Naturalmente i nostalgici del voto multiplo si guardano bene dal ricordare le ragioni del plebiscitario voto referendario (affluenza 95 per cento, più o meno il doppio di quella attuale) con cui le preferenze furono cancellate nel ’91. I vituperati partiti della Prima Repubblica, che pure avevano ancora un barlume di regole democratiche al loro interno, erano stati completamente sopraffatti da bande autonome, locali e trasversali, che si scambiavano, e talvolta rivendevano, pacchetti di voti; con l’aggravante, al Sud, che questo mercato era chiaramente infestato dalla criminalità organizzata. Senza nessuna esagerazione, funzionava così: il senatore di un dato partito diceva ai suoi galoppini di convincere gli elettori a votare per il deputato di un altro partito. Un assessore regionale, con l’ausilio di un paio di sindaci di paesoni meridionali (ma anche al Nord, purtroppo, avveniva lo stesso) era in grado di condizionare l’elezione di candidato e l’esclusione di un altro. La regola era questa. E la risposta degli elettori ai quali Craxi, con una battuta rimasta famosa, aveva consigliato di «andare al mare» (se non avesse votato almeno la metà più uno degli italiani il referendum sarebbe stato invalido), fu una rivolta, imprevedibile, a un sistema divenuto soffocante.

Sarà anche vero che il Porcellum, consentendo ai capipartito di scegliersi uno per uno i parlamentari, lo era diventato altrettanto. Ma attenzione a scegliere un rimedio peggiore del male: per ridare agli elettori il diritto di decidere, basta guardare a sistemi che funzionano in Paesi democratici a noi vicini: le liste brevi, i collegi uninominali (tra l’altro sperimentati con il Mattarellum) e tutto ciò che può consentire a chi vota, se il candidato proposto non gli piace, di votargli contro. Per limitare il potere dei capipartito, basta già questo: non c’è affatto bisogno di tornare alle preferenze.

Da - http://lastampa.it/2014/06/23/cultura/opinioni/editoriali/leterno-balletto-dellimmunit-1bVwV7yL7Qs25OxgeZIDHL/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. L’inizio di una nuova transizione
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2014, 11:51:38 pm
Editoriali
11/07/2014

L’inizio di una nuova transizione

Marcello Sorgi

Perduto e ritrovato nel giro di poche ore, l’accordo che consentirà lunedì di far approdare nell’aula di Palazzo Madama il testo della riforma del Senato non sarà storico (troppe volte l’aggettivo è stato usato a vanvera).

Ma questo testo è certamente rilevante, anche se occorrerà aspettare la fine del primo giro di votazioni per valutarne in pieno la portata. Dopo tanti fallimenti (sono trenta e più anni che si parla di cambiare la Costituzione) l’intesa tra centrosinistra, centrodestra e Lega, pur destinata a scontare una folta pattuglia trasversale di dissidenti, con tutti i limiti possibili rappresenta un’applicazione del metodo costituente, quello con cui, quasi settant’anni fa, partiti di diverse o opposte tradizioni e culture politiche cercarono e trovarono un compromesso sul testo della Carta che oggi si cerca di rinnovare. 

In tempi in cui la politica è ridotta com’è ridotta, non è poco. A risultato raggiunto, se davvero ci si arriverà – non va dimenticato che questa è la prima di quattro letture, da svolgersi a intervalli non inferiori a tre mesi –, Renzi incasserà la maggior parte del merito, ma tutti i contraenti del patto, Berlusconi, Alfano, Salvini, i centristi delle diverse sponde, ne ricaveranno un vantaggio in termini di credibilità e di ruolo politico.

La lunga transizione degli ultimi vent’anni si era infatti arenata sulla convinzione sbagliata che ognuno potesse farsi la Costituzione da solo. Dopo la fine della Prima Repubblica e la nascita della Seconda con i referendum elettorali del 1991 e ’93, tutti i tentativi di incontro, le commissioni bicamerali, i patti segreti provati e riprovati nel corso di due decenni erano miseramente falliti. Il risultato era stato che, prima il centrosinistra, con la raffazzonata riforma del Titolo V (poteri esclusivi delle regioni) nel 2001, e poi il centrodestra con la Devolution (versione assai approssimativa del federalismo chiesto dalla Lega) nel 2006, si erano fatti ciascuno la propria riforma. Un fallimento dopo l’altro e una quantità di conflitti istituzionali finiti sulle scrivanie dei giudici della Corte Costituzionale erano stati i soli effetti di quest’anomala stagione riformatrice.

Per ritentare, e costringere forze politiche ormai incapaci di costruire relazioni politiche, neppure normali, ma minimamente serie, ci voleva Renzi, con la sua voglia di cambiare e la sua volontà di ferro. Ma prima ancora, va ricordato, c’era voluto Napolitano. Quando un sistema politico giunto all’impotenza e non in grado di eleggere la carica più alta dello Stato s’era rivolto a lui, poco più d’un anno fa, per chiedergli la disponibilità ad accettare un secondo mandato, l’anziano Presidente aveva posto una sola condizione: si facciano le riforme, e se non si fanno, il primo a dimettermi sarò io. Ciò che è accaduto dopo è dipeso da questo.

Non siamo tuttavia alla fine della transizione. Siamo purtroppo nuovamente all’inizio. La riforma del bicameralismo era indispensabile per cercare di avvicinare l’Italia a tutte le democrazie moderne in cui i meccanismi istituzionali funzionano più rapidamente e con più efficacia del nostro. Ma il problema, è inutile nasconderselo, non era solo la ripetitività del lavoro di due Camere che facevano esattamente le stesse cose. Piuttosto che le facevano con due maggioranze differenti e, nei fatti, spesso opposte: tal che il governo che proponeva ai deputati un certo provvedimento sapeva che a un sì eventuale o condizionato della Camera sarebbe corrisposto poco dopo un no secco del Senato, o viceversa.

Da questo punto di vista, va detto, la riforma che sta per essere votata non dà affatto la garanzia di fornire una soluzione al problema. Perché, è vero che il compito di dare la fiducia ai governi e di affrontare la gran parte delle materie legislative sarà riservato ai deputati; ma è altrettanto vero che sui testi più delicati i senatori avranno il diritto di contestare, richiamandole e discutendole autonomamente, le decisioni appena prese dai loro colleghi di Montecitorio, che dovranno a loro volta riconfermarle con nuove votazioni se non vorranno accettare le richieste di modifiche avanzate dalla Camera alta. Inoltre, con l’elezione indiretta dei senatori da parte dei consigli regionali, e con la distribuzione proporzionale dei seggi tra tutte le Regioni, ciò che prima era possibile (ma è sempre accaduto), le maggioranze diverse tra Camera e Senato, diventa sicuro. Avremo, anzi, un Senato a maggioranze variabili, politiche e geografiche, in cui le appartenenze politiche si mescoleranno, chissà come, alle radici locali e ai caratteri personali. In altre parole, usciamo da un’anomalia – il bicameralismo perfetto – per infilarci in un’altra, che non a caso doveva chiamarsi Senato delle autonomie, al plurale. Che Dio ce la mandi buona.

DA - http://lastampa.it/2014/07/11/cultura/opinioni/editoriali/linizio-di-una-nuova-transizione-ru5TQdT1xj9tMLGZFyF0eO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il timore del secondo tempo
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2014, 05:54:26 pm
Il timore del secondo tempo

02/09/2014
Marcello Sorgi

Convocata con la solennità delle grandi occasioni, la conferenza stampa in cui Matteo Renzi a Palazzo Chigi ha spiegato il piano dei mille giorni, per il quale il presidente del Consiglio e i suoi ministri si impegnano a realizzare entro il 2017 le riforme contenute nel programma, ha di fatto sancito il passaggio al secondo tempo del governo. 

Dalla fretta di cambiare («una riforma al mese») alla consapevolezza che tra il dire e il fare, magari non c’è sempre di mezzo il mare, ma una complessità e una serie di ostacoli che conviene non trascurare.

La sensazione che Renzi ha voluto dare è di essere rimasto colpito dalle critiche, non solo dell’opposizione, ma anche di settori della società civile, della classe dirigente e dell’opinione pubblica. I quali, in principio, avevano accolto favorevolmente l’avvento del suo governo, ma adesso lo accusano di «annuncite», la malattia dell’annuncio, non seguito da fatti, da cui sarebbe affetto il premier. Di qui appunto la sua decisione di darsi un orizzonte più lungo e comunicare via Internet il quotidiano stato d’avanzamento dei lavori dell’esecutivo: dato che Renzi, non è manco il caso di dirlo, ritiene che certe accuse siano ingiustificate e il bilancio delle realizzazioni dei primi sei mesi parli da solo.

Chi lo conosce, tra l’altro, non crede affatto che Renzi si sia davvero rassegnato a mostrarsi più accorto e ad accogliere le obiezioni che riceve, passando in sostanza dal galoppo al trotto e tenendo in maggiore considerazione le autorevoli raccomandazioni che gli vengono da più parti. Anche perché i consigli che ascolta non sempre sono concordanti: imprese e sindacati vanno in direzioni opposte, da Francoforte Draghi sprona il governo a concretizzare al più presto le riforme economiche e del lavoro, dal Quirinale Napolitano condivide, ma è attento agli equilibri politici interni e parlamentari. Un compromesso tra queste diverse tendenze è effettivamente difficile. E non solo perché Renzi è Renzi e sa benissimo che piace, a chi piace, perché è fatto così. 

Ma soprattutto perché, dopo mezzo anno a Palazzo Chigi, si è arciconvinto che la politica delle scosse, della rottamazione e di quella che esagerando definisce rivoluzione, sia l’unica cura possibile per un Paese ridotto com’è ridotta l’Italia.

In questo quadro la conferenza di ieri ha avuto solo il senso di un passaggio tattico, un sorprendente (per un leader giovane) ricorso alla classica arte dei politici che dicono il contrario di quel che pensano. Di un secondo tempo improntato alla cautela, a mediazioni e intese a qualsiasi costo come quelle che a lungo hanno scandito la vita dei governi italiani, Renzi, in realtà, non ha alcuna voglia; e forse neppure ne è capace.

È da vedere, inoltre, se con 51 decreti da convertire e dieci disegni di legge da esaminare, un programma che interviene in settori fondamentali come giustizia, scuola e lavoro, oltre agli impegni legati a scadenze di bilancio e alla manovra economica contenuta nella legge di stabilità, la strada più sicura per far seguire i fatti alle parole sia quella di una trattativa ininterrotta, o non servano piuttosto una serie di spinte, e qualche volta perfino di spallate, del genere di quelle che hanno portato l’8 agosto al primo voto sulla riforma del Senato.

Difficile dirlo, ma la lezione del secondo tempo dei governi recenti spinge nella seconda direzione. Basta solo ricordare ciò che è accaduto nei tre anni più gravi della crisi: Monti esordì brillantemente, approfittando dell’emergenza in cui era nato il suo esecutivo tecnico, e nei primi due mesi portò a casa la riforma delle pensioni e l’aggiustamento di bilancio che doveva evitare all’Italia il commissariamento da parte della Trojka di Bruxelles. Ma già all’alba del terzo mese, il Professore non era più se stesso, piegato dalla rissosità della maggioranza di larghe intese e dalle vendette di sindacati e parti sociali. Né andò meglio a Enrico Letta, nella breve e sfortunata esperienza a Palazzo Chigi e a dispetto delle sue apprezzate capacità: perso per strada l’appoggio di Berlusconi, a causa delle vicende giudiziarie del Cavaliere, il giovane premier non ebbe neanche la possibilità di vivere il suo primo tempo, e si ritrovò proiettato direttamente nel secondo. 

Nel bel mezzo del quale, costretto dalle pressioni degli alleati a una provvisoria cancellazione dell’Imu, di cui ancora si patiscono le conseguenze, dovette cedere, prematuramente e molto controvoglia, il posto al suo successore. Per Renzi questi precedenti, più che i consigli e le raccomandazioni che continua a incassare ogni giorno, sono alla base della strategia per affrontare i prossimi mesi. Ecco perché giocherà il tutto per tutto, per non soccombere alla sindrome del secondo tempo e non aggiungere anche il suo nome alla lista degli ultimi fallimenti.

Da - http://www.lastampa.it/2014/09/02/cultura/opinioni/editoriali/il-timore-del-secondo-tempo-f58I0YxyzoFkPoO1EtZz7L/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Chiudere col passato che non passa
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2014, 03:43:30 pm
Chiudere col passato che non passa

20/09/2014
Marcello Sorgi

No, non è solo l’articolo 18 a dividere Renzi dalla pattuglia dei suoi avversari nati nel Pci. È un groviglio di passioni, un vissuto che sta sotto le insegne del «lavoro» e dei «lavoratori», ma richiama alla memoria tutto l’insieme «comunista», in cui rientrano a pieno titolo le celebrazioni di Togliatti e Berlinguer.

Entrambi emarginati prima e oggi pienamente riabilitati: il partito, il sindacato, le sezioni, la fabbrica, le assemblee, i cortei, le lotte, le vittorie e le sconfitte di mezzo secolo di vita di un’organizzazione che a dispetto della sua cuginanza con l’Urss, s’è sempre sentita molto italiana. Un edificio - meglio sarebbe dire una cultura, un gran pezzo della recente storia italiana - che sembrava ormai sepolto. Almeno da quando, nel 2007, è nato il Pd, sulle ceneri novecentesche dei grandi partiti di massa, e con l’intenzione di scrivere una pagina nuova nell’esperienza della sinistra al governo.

Ma ora che il ciclone renziano, dopo aver rottamato gli ultimi eredi di quella tradizione, si appresta a cancellarne anche le tracce - il complesso di slanci e dubbi, di convinzione e ambiguità, quei due passi avanti e uno indietro che accompagnano da sempre l’evoluzione della sinistra -, Bersani, D’Alema e Cofferati dicono no. Il paradosso è che i leader che più si sono spesi per costruire una sinistra riformista, ora invece si oppongono e non riconoscono a Renzi, non tanto il diritto di fare ciò che ha in testa, ma di farlo alla sua maniera.

Così difendono un mondo che loro stessi hanno contribuito a superare: il comunismo italiano condannato, da limiti ideologici e internazionali, a stare all’opposizione per quasi cinquant’anni; ma non per questo escluso dalle grandi scelte. Il vecchio partito «di lotta e di governo», il gruppo dirigente «forgiato nella lotta antifascista», il Pci berlingueriano del «non si governa senza di noi». 

Ora che il Pd ha un segretario nato nel ’75, e una segreteria fatta di trenta-quarantenni, è difficile spiegare ai ragazzi che hanno preso il loro posto che una stagione, finita quanto si vuole (e finita da venticinque anni, verrebbe da aggiungere), non può essere messa da parte sbrigativamente. Senza quelle riflessioni, liturgie, pedagogie, di cui appunto si nutriva il Pci. Il partito delle grandi battaglie e manifestazioni popolari, eternamente riconvertite negli accordi e negli inevitabili compromessi di cui è fatta la politica. Il partito del centralismo democratico, in cui tutti discutevano, ma presto o tardi dovevano adeguarsi alla linea del segretario. Il partito dei grandi intellettuali, Moravia, Calvino, di cineasti come Visconti e Pasolini, di pittori come Guttuso. Il partito in cui un buon dirigente, per crescere, non doveva fare a botte con la polizia e doveva andare a distribuire i volantini davanti ai cancelli della Fiat.

 

La dimensione dell’antagonismo - operai contro capitalisti - era sempre fondata sul rispetto. Gianni Agnelli ricordava che «per un periodo i segretari comunisti parlavano solo piemontese». Quando Agnelli morì, nel gennaio 2003, gli operai torinesi, inaspettatamente, per un giorno e una notte sfilarono davanti al feretro, in segno di rimpianto. Questo perché la fabbrica era, sì, il teatro dello scontro: eppure, il sistema di relazioni tra parti avversarie prevedeva di fermarsi un attimo o un centimetro prima dell’irrimediabile: non a caso - e fu l’eccezione che confermava la regola - l’unica volta che quest’imperativo non venne rispettato, dalla fabbrica insorse la rivolta dei «colletti bianchi». 

La «marcia dei quarantamila» del 14 ottobre 1980 a Torino, con quasi dieci anni di anticipo sull’89 della caduta del Muro di Berlino, rappresentava la fine di quel mondo e di quel modo di essere, in cui perfino il calendario era segnato da scadenze corrispondenti: la riunione delle «Alte direzioni» Fiat in cui i vertici del gruppo si confrontavano sul modo di accrescere i profitti e aumentare la produttività, anche a costo di ridurre i posti di lavoro. E, parallelamente, la «Conferenza di produzione» in cui Pci e Cgil facevano il lavoro opposto. A quel tempo - è trascorso più di un trentennio, lo Statuto dei lavoratori aveva dieci anni, Craxi e il grande scontro sul taglio della scala mobile evocato in questi giorni erano alle porte - la fabbrica fordista era già finita. Dario Fo continuava a cantare nei teatri la ballata del lavoratore «parcellizzato» sottoposto alla rigorosa «misurazione dei tempi e dei metodi» («Prima prendere/poi lasciare/destra sinistra/ quindi posare/dare un giro/poi sorridere/questa è la vita del parcellizzato/l’operaio sincronizzato»), ma negli stabilimenti era già stata introdotta la lavorazione «a isola», che integrava il rispetto dell’autonomia artigiana del singolo dipendente con l’esigenza di contrarre gli organici.

È il periodo in cui il capitalismo nostrano comincia a interrogarsi sulle conseguenze della globalizzazione e la sinistra di opposizione, al contrario, si rifiuta di farlo. Errore imperdonabile, che condizionerà tutto il decennio successivo, quello in cui sulle macerie della Prima Repubblica arriva a sorpresa Berlusconi. E il Pci, poi Pds e Ds, invece di competerci sul piano dei programmi di governo, decide di combatterlo e basta, magari a ragion veduta, ma senza porsi il problema di cosa accadrà se e quando ad andare al governo sarà la sinistra. Così che quando succede, nei sette anni complessivi dei governi Prodi, D’Alema, Amato e ancora Prodi, il partito ha cambiato nome varie volte, ma sotto sotto è ancora quello «di lotta e di governo»: pro e contro i magistrati, secondo se se la prendono con Berlusconi o con i primi gravi casi di corruzione che affiorano all’interno del centrosinistra; pro e contro le riforme economiche, se è al governo o all’opposizione; e addirittura pro e contro la tv privata, con D’Alema che in campagna elettorale va a Cologno Monzese a elogiare Mediaset come parte importante del patrimonio culturale del Paese, ma poi cambia idea quando il Cavaliere torna a Palazzo Chigi.

Per questa strada si arriva alla grande manifestazione del 23 marzo 2002, contro la cancellazione dell’articolo 18 decisa da Berlusconi. Tre milioni di persone a Roma, nel catino del Circo Massimo, Cofferati sul palco e il governo di centrodestra, spaventato dalla prova di forza, che fa marcia indietro. È l’ultima foto di gruppo della generazione post-comunista, prima della confluenza nel Pd e della diaspora correntizia. Da quella radiosa «giornata di lotta», alla malinconica chiusura della campagna elettorale del 2013, quando Bersani si rivolge ai suoi dal palcoscenico dell’Ambra Jovinelli, un teatro romano di cabaret, sembra passato un secolo. A riempire la piazza del Primo maggio, una San Giovanni traboccante, è arrivato Grillo. È la vigilia della terribile sconfitta, pardon, della «non vittoria», come sarà definita, del 25 febbraio, che porterà Renzi alla guida del partito e poi a Palazzo Chigi, e riporterà Napolitano al Quirinale.

 Ma se tutto era finito da un pezzo, viene da chiedersi cosa c’entri ancora questo con l’articolo 18 e l’accelerata impressa dal premier al Jobs Act. In fondo in fondo, quasi niente. Bersani e D’Alema lo sanno, anche se vorrebbero che questo pezzo di storia, il passato che non passa mai e gli errori di questi anni, venissero archiviati con un po’ più di cura. Senza i calci nel sedere e le maniere spicce con cui Renzi li ha trattati finora.

Da - http://lastampa.it/2014/09/20/cultura/opinioni/editoriali/chiudere-col-passato-che-non-passa-yCYBfxgUji766eGhCvt5HI/pagina.html


Titolo: Marcello Sorgi Che tristezza la “lotteria” sul Quirinale
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2014, 06:03:31 pm
Che tristezza la “lotteria” sul Quirinale

10/11/2014
Marcello Sorgi

La nota con cui ieri il Quirinale «non conferma e non smentisce» l’ipotesi di dimissioni di Napolitano fotografa la situazione incredibile che s’è generata, non appena s’è diffusa la voce che il Capo dello Stato potrebbe lasciare il suo incarico poco dopo la fine del semestre europeo di presidenza italiana. Il paradosso consiste in questo: invece di valutare il senso di un’intenzione che il Presidente aveva preannunciato fin dal momento in cui aveva accettato la sua rielezione, un anno e mezzo fa, è subito scattata una specie di toto-ministri, in cui politici di un po’ tutti i partiti, con l’eccezione di Renzi e pochi altri, sembrano impegnati soltanto a scommettere sul successore, con una ventina di nomi che già si affollano al borsino dei bookmakers. 

Ora, a parte l’amarezza che traspare dalle righe della nota, è evidente che Napolitano, quando ha fatto accenno, in ripetute occasioni, alla possibilità che il suo secondo mandato si concludesse in anticipo, si aspettava da tutti un atteggiamento più responsabile. Se non altro perché la sua rielezione era maturata in circostanze drammatiche e, almeno negli auspici, irripetibili. 

Drammatiche e irripetibili: il Parlamento riunito in seduta comune e manifestamente non in grado di provvedere all’elezione del nuovo Presidente; due candidati dotati, sulla carta, di solide maggioranze, bruciati dai franchi tiratori; la processione dei leader politici, e perfino dei delegati regionali, sul Colle, per convincere l’inquilino, che aveva già ultimato il trasloco, a rimanere al suo posto. 

L’eco di questo insopportabile fallimento, che aveva superato tutto d’un colpo le grandi manovre che accompagnano le elezioni presidenziali, con una continuità che attraversa più di sessant’anni di vita della Repubblica, si era subito avvertito nel discorso che lo stesso Napolitano aveva pronunciato, appena rieletto, davanti ai deputati e ai senatori ancora riuniti: ho accettato di restare, ma non per scaldare la sedia, aveva detto in sostanza il Presidente. E se non sarete in grado di provvedere alle riforme indispensabili che il Paese non può più aspettare, me ne andrò, mi dimetterò, denunciando la vostra incapacità ai cittadini.

Ma ora sembra che neppure questo abbia più voglia di fare Napolitano. L’anno e mezzo che è trascorso gli ha inflitto una lunga serie di delusioni: è durato pochi mesi il governo di larghe intese che aveva messo su faticosamente, dopo un risultato elettorale che non assegnava a nessuno la maggioranza; la querelle con Berlusconi, dopo la condanna definitiva subita dal leader di Forza Italia in Cassazione, è arrivata al limite dell’insulto; le riforme costituzionali, ripartite in un clima non certo di collaborazione, si sono impantanate prima del previsto; le riforme economiche chieste dall’Europa hanno acceso nel Paese uno scontro sociale stile autunno caldo, ma del tutto fuori stagione; la riforma elettorale approvata solo alla Camera è tutta da rifare.

E per finire, last but not least, si riparla di elezioni anticipate. Ce n’è abbastanza per convincere anche un uomo della tempra di Napolitano, per nulla avvezzo a rassegnarsi, che il suo sforzo non è bastato; e l’istinto suicida del sistema politico italiano ha avuto o sta per aver di nuovo il sopravvento.

Malgrado ciò, quando verrà il momento - e la nota del Quirinale ricorda a tutti che il momento non è arrivato, questo è ancora il tempo della riflessione - Napolitano forse non farà quel che aveva promesso. Bacerà la bandiera davanti ai militari schierati nel cortile del Quirinale, come vuole la liturgia dell’addio al Colle, ma se ne andrà in silenzio, senza parlare, né gridare, né denunciare, consapevole che il rispetto delle istituzioni, che ha informato tutto il suo doppio mandato, richiede questo ulteriore esercizio di pazienza, e le parole non dette peseranno più delle tante pronunciate invano in questi otto anni.

Proprio per questo, da adesso ad allora, nel breve lasso di tempo - qualche settimana o qualche mese - che ci separa dalle dimissioni ormai certe del Capo dello Stato, sarebbe auspicabile un ripensamento, un rigurgito di coscienza, un ritorno alla realtà degli stessi politici che in questi giorni hanno approcciato la questione della successione al Quirinale con tanta faciloneria. Basterebbe prendere in considerazione che l’uscita di scena di Napolitano, per l’Italia, rappresenta un problema, non solo sul piano interno, ma internazionale, dato che in questi ultimi tre anni in cui la crisi italiana ha toccato punte di acume allarmanti, l’uomo del Colle è diventato il garante della credibilità del nostro Paese anche agli occhi degli osservatori più scettici: quelli, per intenderci, che non facevano differenza tra noi e la Grecia. È un primo aspetto che dovrebbe influire nel tracciare l’identikit di un possibile successore; insieme all’esperienza, che Napolitano ha riversato nel suo lavoro quotidiano, dopo oltre mezzo secolo di vita politica, e vent’anni, dalla presidenza della Camera al Viminale, al servizio delle istituzioni. Aspettarsi un miracolo del genere forse è impossibile. E tuttavia sarebbe un giusto segno di gratitudine, una forma di risarcimento, un modo per non rendere vano il sacrificio chiesto al Presidente.

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/10/cultura/opinioni/editoriali/che-tristezza-la-lotteria-sul-quirinale-jbd5wOkY0bcnySAzkbp5CN/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Tre nomi per il Colle anzi di più
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2014, 06:03:18 pm
Tre nomi per il Colle anzi di più

16/12/2014
Marcello Sorgi

Si tratti o no dell’incontro della riconciliazione, come molti lo hanno interpretato, in vista di una nuova candidatura al Quirinale dopo la terribile esperienza dei 101 franchi tiratori della volta scorsa, l’arrivo di Prodi a Palazzo Chigi e le due ore trascorse con Renzi, dopo il lungo silenzio che li aveva allontanati, sono le prime conseguenze della conclusione dell’assemblea del Pd. 

Una riunione nata sotto l’incubo di una scissione, e finita con la ricostruzione di una difficile unità interna, presupposto indispensabile della trattativa, ormai aperta, sul nome del successore di Napolitano.

Prodi e la tormentata stagione dell’Ulivo sono stati evocati da Renzi come esempio del vizio antico del centrosinistra di farsi del male. Ma i prodiani che avevano ritenuta ostile quest’affermazione, hanno dovuto riconoscere la novità dell’atteggiamento del premier, il prender atto di non poter fare a meno del due volte ex-presidente del Consiglio per rimettere insieme il Pd.

Di qui a dire che Prodi sia effettivamente in corsa, ovviamente ce ne corre. 

Il suo curriculum, oltre ad essere prestigioso, contiene sicuramente tutti gli elementi che si richiedono in questo momento per la candidatura a Capo dello Stato: standing internazionale, preparazione economica, esperienza europea (è stato presidente della Commissione Ue). Ma è inutile nascondersi che, proprio perché è stato l’unico a battere due volte Berlusconi nel confronto diretto per Palazzo Chigi, il Prof. è destinato a sollevare reazioni assai dure da parte dell’ex-Cavaliere e di un centrodestra che sentono franare, proprio sul terreno del Quirinale, quell’intesa preferenziale che sembrava siglata una volta e per tutte con il patto del Nazareno.

Ora invece il gioco s’è riaperto: e la seconda conseguenza dell’unità ritrovata in casa Pd è che appunto il partito tratterà con tutti, e con nessuno in via privilegiata, con una rosa di nomi da cui alla fine dovrà essere estratto il nome del candidato più gradito ai Grandi Elettori. Prodi è dunque - meglio sarebbe dire è tornato ad essere - uno dei candidati, ma non sarà certo l’unico. Se Grillo e il Movimento 5 stelle avessero voglia di far politica, basterebbe che lo indicassero come il loro preferito (tra l’altro era uno di quelli usciti dalle «Quirinarie» tenute sulla rete), per farlo eleggere. Ma con la confusione che regna nel M5s non è facile che questo avvenga.

 

Ecco perché nel Pd, accanto al suo nome, ne circolano altri due. Parliamo, ovviamente, di candidati sorretti da una logica, dato che l’elenco degli aspiranti è lungo, e Renzi stesso ha spiegato di averne una lista di ben diciannove. Il primo dei due è Bersani, sì, proprio l’ex-segretario sconfitto dalla «non-vittoria» alle elezioni del 2013 e triturato dal fallimento del suo tentativo di formare un governo e dalle manovre dei franchi tiratori nella precedente tornata per il Quirinale. Tra il Bersani di allora - che per usare le sue stesse parole non era riuscito a «smacchiare il giaguaro», e aveva dovuto soccombere all’inarrestabile avanzata dell’ex-sindaco di Firenze - e quello di oggi, c’è una fondamentale differenza: non è più l’avversario diretto di Renzi, e negli ultimi tempi anzi s’è adoperato con tutte le sue forze per aiutarlo a guidare il Paese e il partito, a dispetto di tutto l’ostruzionismo interno che il governo ha dovuto scontare sulle riforme. Inoltre, la malattia che a inizio d’anno gli fece temere un’uscita di scena e il successivo, dignitoso rientro, nel ruolo un po’ da padre della patria, hanno molto addolcito le asperità di rapporti legate al periodo in cui era in prima linea. Seppure, certo, non fino al punto da poter aggirare la pregiudiziale della lunga militanza anti berlusconiana, che anche in questo caso farebbe sollevare gli scudi al centrodestra.

Per questa strada si arriva al terzo nome, il più coperto, e insieme quello su cui si sta ragionando in queste ore: Pier Carlo Padoan. Il ministro dell’Economia ha parecchie frecce al suo arco da scoccare: è un tecnico, in un momento in cui, a causa degli scandali, non è facile trovare un politico in grado di mettere d’accordo il largo fronte di elettori necessari per eleggere il nuovo Capo dello Stato; ha cominciato la sua vita pubblica a Palazzo Chigi con D’Alema sedici anni fa, mantenendo con lui una collaborazione nella fondazione «Italiani europei», ma ha saputo costruire un’intesa anche con Renzi. Senza Padoan, che non ha esitato a mettersi contro la nomenklatura del suo ministero, parte della quale è giunta a minacciare le dimissioni, gli ottanta euro in busta paga non sarebbero mai arrivati. E senza la sua paziente tessitura a Bruxelles e a Berlino, il premier non si sarebbe potuto consentire gli strattoni con cui ha riequilibrato il rapporto con Merkel e Juncker. Infine, negli anni in cui non affiancava D’Alema o Renzi, Padoan se n’era andato a Washington a lavorare al Fondo Monetario Internazionale. E si sa che il quarto di nobiltà atlantica è una dote utile, a volte indispensabile, per spiccare il balzo verso la sommità del Colle.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/16/cultura/opinioni/editoriali/tre-nomi-per-il-colle-anzi-di-pi-W5Tov0cpMZaCt4wfyTfaMJ/pagina.html


Titolo: Marcello SORGI. Contro le invasioni di campo
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 26, 2015, 11:11:53 pm
Contro le invasioni di campo

22/12/2015
Marcello Sorgi

Sergio Mattarella aveva detto fin dal giorno del suo insediamento, il 3 febbraio, che sarebbe stato un arbitro imparziale, a patto che i giocatori rispettassero le regole, e in caso contrario non avrebbe esitato a intervenire. Se ieri l’arbitro ha fischiato - e lo ha fatto piuttosto sonoramente, nella solenne occasione degli auguri alle alte cariche dello Stato - è perché nella settimana appena trascorsa, a cavallo del caso politico delle banche commissariate dal governo, il Capo dello Stato ha dovuto assistere a troppe invasioni di campo.  

«Competizione, sovrapposizione di ruoli, se non addirittura conflitto»: così, misurando le parole com’è nel suo stile, il Presidente ha definito la confusione generata dalla scelta di Renzi di affidare all’Autorità anticorruzione presieduta dall’ex-pm Cantone gli arbitrati che dovrebbero portare al risarcimento dei risparmiatori truffati dalle banche colpite dal decreto di Palazzo Chigi. Una decisione che ha provocato la malcelata irritazione (anche se non la minaccia di dimissioni) del governatore della Banca d’Italia Visco, che guida l’istituzione normalmente deputata al controllo e alla regolamentazione degli istituti di credito grandi e piccoli.  

E il successivo chiarimento intervenuto tra Cantone e lo stesso Visco, pronti adesso a collaborare.

Per il modo che ha di intendere il suo ruolo, Mattarella non si sarebbe neppure sognato di occuparsi di una vicenda in cui il governo ha diritto di prendere i provvedimenti che ritiene opportuni, senza che il Quirinale, in questa come in altre questioni di stretta competenza dell’esecutivo, abbia titolo per intromettersi. Se lo ha fatto, non è per dare un giudizio sull’operato del premier e dei suoi ministri, che per altro, in una seconda parte del suo discorso, ha espresso positivamente; ma per marcare il suo dissenso sul modo in cui l’iniziativa è stata presentata da Renzi, con quell’accenno alla necessaria «terzietà» dell’autorità chiamata a occuparsi dei rimborsi, che poteva lasciar intendere che le stesse indispensabili autonomia e indipendenza non potessero essere assicurate da Bankitalia, ciò che appunto ha causato il risentimento del Governatore.  

Ora che il conflitto è stato superato, l’armonia tra le istituzioni ricostituita e assicurata la collaborazione tra Cantone e Visco, Mattarella si augura pubblicamente che non debbano ripetersi casi del genere e che il bisogno di trovare una soluzione urgente, ancorché non miracolosa, per casi delicati come quello delle banche, non porti a valutare solo o prevalentemente l’aspetto mediatico dei rimedi da proporre, senza prenderne in considerazione tutte le implicazioni, a cominciare appunto da quelle istituzionali. Nello specifico, non a caso, il Presidente si augura norme chiare per consentire al meccanismo di selezione dei risarcimenti di funzionare, e indagini rigorose a tutti i livelli, senza alcuna fretta di chiudere il caso.

Un analogo esempio - anche questo non direttamente desumibile dalle parole del Presidente, che s’è guardato bene dal farne in modo esplicito - potrebbe riguardare la commissione d’inchiesta sulle banche commissariate. Dall’annuncio di Renzi non s’è capito di che tipo di organismo si tratti, mono o bicamerale, dotato o meno degli stessi poteri della magistratura, o incaricato solo di un’indagine conoscitiva. L’intenzione lodevole della massima trasparenza, per fugare ogni sospetto di conflitto di interesse del governo, anche dopo la discussione parlamentare e il voto sulla mozione di sfiducia contro la ministra Boschi, dovrà fare i conti obbligatoriamente con un testo legislativo che dia vita alla commissione - se davvero si è dell’intenzione di istituirla - e ne elenchi i poteri, correlandoli a quelli della magistratura che sta indagando sulle ipotesi di truffa e della Banca d’Italia che continua a vigilare sulla stessa materia; ed evitando - va da sé - le sovrapposizioni e gli eventuali conflitti stigmatizzati dal Capo dello Stato.

Così, per concludere, se si vuole evitare la «sfiducia» che i cittadini continuano a manifestare, ogni volta che sono chiamati alle urne, Mattarella ricorda a tutti che non basta evitare le invasioni di campo tra le diverse istituzioni. Occorre pure che si ristabilisca lo spirito di collaborazione e la normale comunicazione tra i palazzi e i loro inquilini, che fin qui sono evidentemente mancate.

Da - http://www.lastampa.it/2015/12/22/cultura/opinioni/editoriali/contro-le-invasioni-di-campo-oCIR6mKjKzL4EjhX7YhpXK/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. L’establishment contro il ribelle
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 18, 2016, 11:47:03 am
L’establishment contro il ribelle

18/02/2016
Marcello Sorgi

Lo scontro in aula al Senato tra Monti e Renzi, sul presente e sul futuro dei rapporti con L’Europa, ha stupito per la sua durezza, ma non è certo avvenuto a sorpresa. Da settimane, l’ex capo del governo tecnico che nel 2011 salvò l’Italia dal crac e dal commissariamento stile Grecia minacciato da Bruxelles, non fa mistero della sua contrarietà alla sfida lanciata da Renzi a inizio d’anno alla Commissione presieduta da Juncker e a tratti anche alla Merkel.

Da ex commissario e profondo conoscitore dei meccanismi che regolano il funzionamento dell’Unione, oltre che da economista, l’ex presidente del Consiglio teme che il disastro evitato a costo di grandi sacrifici, imposti agli italiani cinque anni fa, possa riproporsi pari pari per un’errata valutazione, sia dell’evoluzione della congiuntura economica, di nuovo a rischio di crisi dopo un pallido accenno di ripresa, sia dei rapporti di forza tra Italia e Ue. Monti non lo dice a voce alta - sebbene il suo intervento di ieri a Palazzo Madama sia stato chiaro - ma il rischio che vede profilarsi è lo stesso a cui l’Italia andò incontro nella drammatica, ultima estate del governo Berlusconi, quando il Paese apparve all’improvviso in default rispetto al severo metro di misura praticato dalle autorità europee e l’ex Cavaliere dovette arrendersi allo sfratto da Palazzo Chigi, considerato alla stregua di un «colpo di Stato». 

Le analogie tra allora e oggi, tuttavia, non sono così evidenti. La tendenza alla risalita dello spread tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi si è, sì, manifestata, ma senza la virulenza del passato. La congiuntura negativa si fa sentire, ma è diffusa a livello globale, e ciò che fa più preoccupare gli economisti sono le contrazioni della ripresa americana e lo stallo in cui è caduta quella cinese. Anche la crisi bancaria, apparsa come un incubo all’alba del nuovo anno, non riguarda solo i nostri istituti di credito, ma come s’è visto anche uno dei più importanti tra quelli tedeschi. In sintesi, la situazione non è affatto rassicurante; ma non è detto che stia per precipitare, come ha lasciato intendere Monti.

Perché dunque l’ex presidente del Consiglio, tra l’altro fondatore di un partito che sostiene il governo, s’è risolto a un attacco così duro? La spiegazione è che Monti, e non solo lui, rappresenta un establishment europeista che è abituato a frequentare Bruxelles e Strasburgo come un vecchio socio, avvezzo alle regole del club al quale è iscritto, e consapevole che la violazione delle stesse può avere conseguenze molto gravi. In questo, tra l’altro, Monti non è solo: nella recente intervista a «Repubblica» dell’ex presidente della Repubblica Napolitano, in più di un accenno del recente intervento del presidente della Banca centrale europea Draghi, e nei silenzi eloquenti dell’attuale capo dello Stato Mattarella si possono ritrovare le stesse argomentazioni, sebbene articolate con sensibilità e linguaggi diversi. Tralasciando i dettagli, è come se un coro di così alto livello si levasse per dire a Renzi: fermati finché sei in tempo, oltre un certo limite non potrai più tornare indietro.

Ma a giudicare dalla replica del premier, che in Senato ha risposto per le rime a Monti, la sensazione è che questo genere di raccomandazioni difficilmente saranno accolte. Renzi infatti ha scelto una linea, diversa da quella dei suoi critici interni e esterni, che punta a rimettere la politica, sottomessa finora al rigore delle regole di Bruxelles, in capo a ogni discussione sul futuro dell’Europa: a suo giudizio le scelte economiche, e più in generale la cooperazione e l’idea di solidarietà che stanno alla base del sogno europeo, non sopravvivranno, se l’Unione non sarà in grado di rinunciare alle sue rigidità e far fronte alle nuove sfide, come quella dell’immigrazione, che i Paesi partners tentano inutilmente di aggirare. L’Europa intera, non solo l’Italia rischia di essere travolta dai propri egoismi: ecco cosa pensa Renzi. Il guaio è che non è detto che abbia torto.

Da - http://www.lastampa.it/2016/02/18/cultura/opinioni/editoriali/lestablishment-contro-il-ribelle-70X8WQGQdLiO9yvyWIDJhI/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Ora per Renzi arriva la prova più difficile
Inserito da: Arlecchino - Aprile 18, 2016, 12:18:02 pm
Ora per Renzi arriva la prova più difficile
Il premier dovrà rimettere mano alla strategia per il 2016, risulta divisiva sul complesso dell’elettorato, e perfino aggregante, sul versante opposto al suo

ANSA
18/04/2016
Marcello Sorgi

Dalle urne del referendum sulle trivelle arriva un segnale chiaro per Renzi: la consultazione è fallita, per mancato raggiungimento del quorum, e il premier può a ragion veduta cantar vittoria, avendola definita «una bufala» ed essendosi schierato apertamente per l’astensione. Il numero dei votanti, in maggioranza schierati per il «Sì», che in pratica era un «No» a Renzi, in nessuna provincia - tranne Matera - ha raggiunto il cinquanta per cento degli elettori necessario per rendere valido il voto, è rimasto lontano complessivamente anche dal quaranta per cento che gli organizzatori si erano assegnati come traguardo significativo della loro iniziativa, sebbene quattordici milioni e mezzo di persone che vanno a votare siano un dato politicamente non irrilevante.

LEGGI ANCHE Tutti i risultati del referendum sulle trivellazioni 

Forse è presto per dire che tra Movimento 5 stelle, minoranza Pd, sinistra ambientalista e radicale, Lega e Fratelli d’Italia, tutti schierati contro l’astensione e per la riuscita del referendum, sebbene con posizioni di merito differenti, sia nato una sorta di fronte popolare, che partendo dalla sconfitta di ieri sera, punta a prendersi la rivincita nelle prossime amministrative, in vista delle quali la condizione dei candidati sindaci renziani nelle grandi città si fa giorno dopo giorno più difficile, o nel referendum costituzionale sulla riforma Boschi a ottobre. 

Ma che gli avversari del presidente del Consiglio, dentro e fuori il Pd, ci proveranno ancora, è sicuro, anche se non è detto che riusciranno nel loro intento.

 Il voto di ieri riflette infatti alcune caratteristiche contingenti: l’affluenza è stata più forte, ad esempio, nella Basilicata toccata (e sensibilizzata) dallo scandalo trivelle, e nella Puglia del governatore Emiliano, a tutti gli effetti capo dello schieramento trasversale antirenziano; non così in altre regioni, come la Campania, la Calabria e la Sicilia; e non parliamo di quelle non direttamente interessate al problema, ma chiamate lo stesso a pronunciarsi. Insomma un risultato deludente, seppure non del tutto negativo, per uno schieramento trasversale destinato a dividersi nel prossimo voto per i Comuni tra sinistra, destra e 5 stelle. Non sarà così facile rimetterlo insieme in autunno, dopo averlo smontato a giugno.
Al di là della soddisfazione espressa a caldo a tarda sera, anche in nome dei lavoratori che avrebbero perso il posto se il referendum fosse riuscito con la conseguente vittoria dei «Sì», Renzi dovrà dunque rimettere mano alla strategia per il 2016, prendendo atto che la sua narrazione è ancora mobilitante nel suo mondo di riferimento, ma risulta divisiva sul complesso dell’elettorato, e perfino aggregante, sul versante opposto al suo, e in vista di un’altra e più importante consultazione referendaria, senza quorum, in cui la somma dei voti dell’eterogeneo insieme dei suoi avversari potrebbe ritrovare consistenza e rivelarsi più rischiosa.

Inoltre la pur breve campagna per il referendum ha rivelato come, a causa di imprevisti, un appuntamento elettorale nato morto (nel senso che fino a pochi giorni prima dell’apertura dei seggi una larga parte degli elettori coinvolti apparivano freddi sul contenuto della consultazione) si sia rivitalizzato via via a causa dello scandalo esploso pochi giorni prima e delle reazioni, favorevoli alla partecipazione al voto, delle alte cariche istituzionali e di leader ed ex leader del Pd. Sollecitati, va detto, dalla stessa campagna astensionista del premier.

Resta il fatto che Renzi, alla fine, se l’è cavata anche stavolta, tirandosi fuori da una strettoia che non prometteva nulla di buono per lui. Di qui a giugno, e soprattutto di qui a ottobre, la strada sarà ancora in salita, con due incognite - migranti e situazione economica - che potrebbero di nuovo pesare sulle convinzioni degli elettori, più delle promesse di tagli di tasse o aiuti materiali che il premier continua a sfornare senza sosta. Da un lato l’annunciata (e contestata dal governo italiano) chiusura del Brennero, dall’altro la pressione crescente degli sbarchi di immigrati provenienti dalla Libia, potrebbero creare una nuova emergenza, assai difficile da gestire. Il resto potrebbe farlo il ristagno di un quadro economico che non reagisce (o reagisce appena appena) alle stimolazioni della Bce e alla spinta delle riforme economiche varate dall’esecutivo.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/04/18/cultura/opinioni/editoriali/ora-per-renzi-arriva-la-la-prova-pi-difficile-er4sgWMD0CL1LZJ6ntwMeJ/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. L’urgenza di fare pulizia
Inserito da: Arlecchino - Aprile 28, 2016, 06:02:58 pm
L’urgenza di fare pulizia

27/04/2016
Marcello Sorgi

I quattro sostituti procuratori D’Alessio, Giordano, Landolfi e Sanseverino, coordinati dal procuratore aggiunto antimafia Giuseppe Borrelli, che ieri hanno ordinato 9 arresti tra Campania e Lazio, e hanno mandato carabinieri e guardia di finanza a perquisire casa e ufficio dell’ormai ex presidente regionale del Pd Stefano Graziano, non pensavano certo, con i loro provvedimenti, di dare una risposta a Matteo Renzi, dopo la dura polemica che lo ha opposto a Pier Camillo Davigo. Le loro indagini erano partite da tempo, erano già al lavoro quando, la settimana scorsa, il presidente del Consiglio e quello dell’Anm hanno incrociato metaforicamente le armi. E Davigo, in un’intervista ad Aldo Cazzullo del «Corriere della Sera», ha detto che secondo lui i politici rubano più di prima e neppure si vergognano. 

Ma anche se non c’è chiaramente alcun nesso tra le pesanti parole che hanno inaugurato la nuova fase dell’ultraventennale guerra tra politici e magistrati e l’inchiesta di Napoli, così come non ce n’erano tra l’inchiesta di Potenza e le mozioni di sfiducia seguite alle dimissioni della ministra Guidi, per le incaute telefonate con il suo compagno, nell’immaginario comune, e ancor più nel corto circuito politico-mediatico che si determina ogni volta che succedono fatti del genere, questo collegamento esiste, si rinnova e si rafforza. Il silenzio di Renzi e la formale dichiarazione di fiducia del vicesegretario Guerini nel lavoro della magistratura non bastano certo a ridimensionare gli effetti di un altro disegno grottesco che prende forma. 

E così come dall’inchiesta di Potenza saltavano fuori le risse tra le correnti del Pd per aggiudicarsi vantaggi e assunzioni da fare sul territorio grazie al petrolio, da quella della Campania esce un quadretto incredibile, del quale, siamo pronti a scommettere, Renzi non sapeva nulla, anche se gli toccherà pagarne le conseguenze. Allora: il principale imputato, il sindaco di Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta si chiama Biagio Di Muro e ha un padre che solo qualche anno fa è stato condannato per tangenti e s’è visto confiscare un palazzo storico, nel quale, sembra, a suo tempo, abbia trovato dimora Garibaldi. Questo stesso palazzo, di padre in figlio, era adesso al centro di un complicato restauro affidato a un imprenditore trentenne in odore di rapporti con il clan dei casalesi che di nome fa Alessandro Zagaria, ed è omonimo, e si dichiara solo tale, del più importante boss di camorra arrestato negli ultimi anni. Detto Zagaria, non parente ma invischiato con i casalesi, è stato uno dei principali galoppini elettorali del presidente (fino all’altro ieri) del Pd campano, nonché consulente (fino al governo Letta) di Palazzo Chigi, Stefano Graziano. Per quali meriti Graziano, un modesto politico di provincia che dopo un’esperienza al Parlamento nazionale aveva preferito ritirarsi nella sua regione, sia potuto arrivare fino a Palazzo Chigi, non si sa. Si sa al contrario che Renzi, senza neppure conoscerlo, preferì rinunciare alla sua collaborazione, sia pure consentendo che in cambio Graziano si candidasse al Consiglio regionale e potesse essere nominato presidente del Pd campano. Come invece lo stesso Graziano sia riuscito ad uscire secondo degli eletti tra i consiglieri del Pd lo hanno capito i magistrati: facendosi aiutare da Di Muro e Zagaria, che al telefono non si stancavano di prodigarsi in suo favore.

Più in filigrana, l’inchiesta lascia emergere una novità che, se confermata, dovrebbe preoccupare, prima ancora dei magistrati, e forse più delle pesanti conseguenze politiche e d’immagine sollevate da arresti e perquisizioni, il governo e il Pd. In Campania, nella Campania in cui l’amministrazione regionale, d’intesa con Palazzo Chigi, si prepara a investire in opere pubbliche dieci miliardi di fondi europei, il sistema Cosentino, cioè il presunto accordo tra il clan dei casalesi e l’allora luogotenente del centrodestra (detenuto da due anni) che aveva in questa porzione di Sud la sua roccaforte, sta per essere sostituito da un altro sistema, parallelo e convergente, in cui la criminalità organizzata ha smesso di trafficare con la destra, che ha perso potere, e s’è voltata verso sinistra: trovando, tra l’altro, compiacenti sguardi d’intesa. È un’altra urgente ragione per cercare di far pulizia, prima che sia troppo tardi.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/04/27/cultura/opinioni/editoriali/lurgenza-di-fare-pulizia-x39XxNwhfGx9VI1DGb36xH/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. La marcia per i nuovi diritti è inarrestabile
Inserito da: Arlecchino - Maggio 21, 2016, 04:33:35 pm
La marcia per i nuovi diritti è inarrestabile

21/05/2016
Marcello Sorgi

Da commenti e analisi dedicate alla morte di Marco Pannella è venuta una domanda, legata, seppure non esclusivamente, all’emozione sollevata dalla sua scomparsa. E cioè: ci sarà ancora un futuro, e quale, per i diritti civili in Italia, adesso che il paladino di quei diritti se n’è andato?

Senza girarci attorno, la risposta non può che essere sì. Intanto perché in quel campo, va riconosciuto, una parte del lavoro è stato fatto. L’Italia non è più, com’era ancora all’alba degli Anni Settanta, un Paese arretrato, uno degli ultimi che continuava a imporre per legge il dogma del matrimonio indissolubile. Per merito di Pannella e dei radicali - ma anche dei laici, dei socialisti e perfino dei comunisti, che abbandonarono la loro iniziale e irrazionale resistenza, e a discapito dei democristiani che si opposero, dapprima con decisione e via via sempre meno -, il divorzio è legale da quarantasei anni, e l’aborto da trentotto.

I due referendum promossi per cancellarli nel 1974 e nel 1981 si conclusero con il 59 e il 68 per cento dei voti in difesa di quei diritti (compresi moltissimi cattolici che si espressero in dissenso dalle indicazioni della Chiesa e della Dc). E da due settimane, anche stavolta, in ritardo sul resto d’Europa e del mondo, il Parlamento ha approvato la legge sulle unioni civili, che assegna per la prima volta anche agli omosessuali conviventi diritti uguali a quelli delle altre coppie di fatto e assimilabili ai coniugi uniti in matrimonio. Ciò è avvenuto per merito (o responsabilità, secondo i punti di vista) di Matteo Renzi, presidente del Consiglio appartenente a una generazione di giovani scout che d’estate, quando partecipavano alle Giornate della Gioventù, la sera, dopo aver cantato in coro con Wojtyla, si coricavano all’aperto e facevano l’amore nei sacchi a pelo, confidando nella benevolenza del Papa. 

E tuttavia, dal testo varato alla fine della tormentata, ma niente affatto superflua, discussione parlamentare, sono state stralciate, com’è noto, le adozioni dei figli dei partners. Si riprenderà a discuterne, forse non si farà in tempo a inserirle in un’altra legge in questa legislatura, ma è inutile nascondersi che prima delle Camere arriveranno, anzi sono già arrivate, le sentenze che hanno riconosciuto il diritto ad essere genitori per uomini e donne gay uniti stabilmente, e in grado, secondo i giudici, di dare amore sincero e buona educazione ai loro figli. Per un numero limitato di casi di questo genere di adozioni già approvate, ci sono decine, forse centinaia, di bambini in attesa dei loro diritti di figli: anche questo è bene saperlo.

 La legalizzazione dell’uso di droghe leggere, formalmente per uso medico, appare e scompare dai calendari delle commissioni parlamentari; il testamento biologico e l’eutanasia si affacciano all’inizio di ogni legislatura e poi immancabilmente si perdono per strada. Ma questo non vuol dire che il cammino dei diritti si sia fermato o sia condannato a fermarsi, perché la velocità del cambiamento della società civile ė tale che anche i politici più ciechi non possono non vederlo. Non si tratta, in altre parole, dei casi di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, protagonisti delle battaglie più recenti dell’ultimo Pannella per dare ai familiari di malati senza speranza il diritto di por fine alle loro sofferenze. In molti ospedali italiani, anche questo si sa, si cerca di supplire alla mancanza di norme in questo settore adoperando pietosamente, ai limiti della legge, le risorse più avanzate della scienza medica. Ed è la generosità, alle volte sorprendente, di parenti di moribondi, a incoraggiare il salvataggio di altre vite, grazie agli espianti e ai trapianti di organi.

Le carceri, non a caso motivo di un’altra predicazione laica e degli azzardati digiuni di Pannella, sono ancora il luogo di indicibili barbarie, che la civiltà giuridica non dovrebbe consentire, in quella che si vanta di essere la patria del diritto. Ma almeno, grazie all’impegno di due ministri come Paola Severino e Andrea Orlando, si ė riusciti a limitare il problema del sovraffollamento delle celle, avendo il coraggio di trovare forme alternative alla carcerazione e ponendo limiti alla condizione miserabile e disumana di moltissimi detenuti. Molto resta da fare, infine, in materia di cittadinanza, e tutto o quasi sul terreno irto di ostacoli dell’immigrazione extracomunitaria, gravata da insorgenti egoismi europei e uso esasperato di convenienze elettorali interne. Anche in questo campo gli italiani sono migliori, oggi, di quel che sembra l’Italia. La marcia verso il riconoscimento dei nuovi diritti è per questo inarrestabile. Resta solo da capire perché la politica seguiti ad essere più lenta della società che dovrebbe rappresentare.

Era così quaranta e più anni fa, quando il solitario Pannella si alzò a contestare il predominio consociativo di Dc e Pci: per salvare il patto sotterraneo con cui dal governo e dall’opposizione, ma in realtà in piena collaborazione, controllavano il Parlamento, i due grandi partiti di massa avevano messo da parte la questione dei diritti, destinata a dividerli. E avrebbero preferito continuare a ignorarla. Ma ora che la Dc non c’è più e i post-comunisti sono ridotti a minoranza del partito del premier, adesso che Papa Francesco («Chi sono io per giudicare i gay?») lascia ai vescovi il compito di protestare, giusto un atto dovuto, contro le unioni civili, ma poi consente la comunione per i divorziati e apre alle donne diacono, che ragione c’è di continuare a frenare l’evoluzione della società italiana, divenuta moderna malgrado tutto? Tra Prima e Seconda Repubblica, è duro ammetterlo, non c’è stato alcun passo avanti. Anzi s’è aggravato il meccanismo sterile delle interdizioni reciproche. Nella Terza, che dovrebbe uscire dal referendum di ottobre, chissà come andrà. La vigilia è lunga, il pessimismo dell’intelligenza sovrasta l’ottimismo della volontà. Seminare trappole per avversari mai considerati degni di diventare interlocutori, non sforzandosi di far altro, rischia di rendere la politica e i politici italiani sempre più lontani dalle attese dei cittadini. E purtroppo, non solo in materia di diritti.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/05/21/cultura/opinioni/editoriali/la-marcia-per-i-nuovi-diritti-inarrestabile-yDiL1issanp8wHttU298xL/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il congresso anticipato tra Enrico e Matteo.
Inserito da: Arlecchino - Maggio 28, 2016, 11:59:39 am
Il congresso anticipato tra Enrico e Matteo. Una sfida democristiana senza più la Dc
Distanti dai dualismi Fanfani-Moro o Forlani-De Mita, e destinati a scontrarsi
Il prossimo congresso del Pd, sarà il terreno di sfida tra Renzi e la minoranza del partito


25/05/2016
Marcello Sorgi
Roma

Annunciato ieri dal nuovo, duro scontro personale tra Enrico Letta e Matteo Renzi, il congresso del Pd è cominciato molto prima della scadenza ravvicinata che il segretario-premier aveva offerto ai suoi avversari nell’ultima direzione. La novità è che rispetto alle volte precedenti - e alla tormentata esistenza del partito fondato nel 2007 da Veltroni e sottoposto, in soli otto anni, a ben cinque cambi di leader con modalità da rodeo e disarcionamenti di quelli che non si vedevano neppure nella Prima Repubblica -, non sarà una riedizione della tradizionale partita tra post-comunisti e post-democristiani, alternatisi finora al vertice del partito tra fragili tregue correntizie e guerriglie permanenti. No, sarà un vero congresso Dc, con due candidati - appunto Renzi e Letta - che vengono dalla stessa matrice cattolica di sinistra, e con i comunisti, o quel che ne rimane, nella parte che a suo tempo giocavano i dorotei, il ventre molle dello Scudocrociato, che sapevano sempre fiutare l’aria e schierarsi in tempo nei momenti di svolta.

Per Letta l’inizio della corsa e la fine dell’esilio francese in cui si era ritirato dopo la brusca esclusione da Palazzo Chigi - il famoso tweet «Enricostaisereno» seguito dall’apertura della crisi da parte di Renzi - datano poco più di un mese fa, il 12 aprile. In quella data l’ex-premier, dal suo studio di professore a Sciences Po a Parigi, rilascia un’intervista alla «Stampa» in cui annuncia che voterà «Sì», in accordo dunque con Renzi e la sua riforma, al referendum costituzionale di ottobre; e invece, in dissenso dalla campagna astensionista del premier, tornerà invece in Italia il 17 aprile per votare «No» alla consultazione sulle trivelle.

Cinque settimane dopo, il 21 maggio, quattro giorni fa, il leader della minoranza Pd Bersani, in un’altra intervista alla «Stampa», attacca Renzi per l’eccessiva personalizzazione data sul referendum e la sovrapposizione tra le due campagne che può danneggiare la corsa per i sindaci. E a una domanda su Speranza e Letta, i due possibili candidati anti-Renzi alle prossime assise Democrat, lascia intendere che il primo, rispettabilissimo, non è in discussione, mentre il secondo potrebbe essere l’uomo adatto per separare il ruolo del premier da quello del segretario del partito. Se a ciò si aggiunge che Bersani, nell’intervista, insiste sull’errore di Renzi di legare le sorti del governo all’esito del voto referendario e sostiene che anche in caso di vittoria del «No» la legislatura dovrebbe proseguire, la strategia precongressuale degli avversari del leader è chiaramente delineata.
Al primo punto ci sarà la difesa delle riforme costituzionali che anche gli esponenti della minoranza Pd hanno votato in Parlamento, seppure considerandole «perfettibili». Così che se Renzi a ottobre dovesse andare incontro a una sconfitta, non si potrà dire che è stata colpa loro. Al secondo, la garanzia che chi nel Pd dovesse schierarsi con il «No» non dovrà essere trattato da reietto. Al terzo, la ridefinizione delle regole di convivenza interna che da tempo Bersani e i bersaniani rivendicano, ripetendo che non esiste più uno spazio per la discussione interna e il partito è ridotto a cinghia di trasmissione dei «tweet» del segretario, il quale poi va a braccetto con notabili locali che due anni fa avrebbe rottamato e si accorda con pezzi dell’ex-centrodestra come Verdini, assurti al ruolo di alleati privilegiati e in grado di snaturare l’originaria anima di centrosinistra del Pd.

Per una battaglia come questa, va da sé, Letta è un candidato perfetto. Nonché per un eventuale ritorno a Palazzo Chigi, se le cose a ottobre per Renzi dovessero andare proprio male, con il governo, oltre che il partito, terremotati da un’eventuale vittoria del «No», e il Capo dello Stato nelle condizioni di dover costruire un esecutivo di emergenza, per rattoppare lo sbrego istituzionale, rimettere le mani sulla legge elettorale (che nel frattempo potrebbe essere in parte cassata dalla Corte costituzionale) e portare il Paese a elezioni alla scadenza naturale del 2018.

Sono scenari di cui si parla, in questi giorni, nei corridoi semi deserti del Parlamento, mentre ogni giorno una polemica, uno scambio di accuse, un annuncio di vendetta dilania il maggior partito di governo. I democristiani che affollano il partito, formalmente, ma solo formalmente, renzianizzato, sentono l’odore del sangue e non vedono l’ora della sfida. I due toscani, Matteo e Enrico, il fiorentino e il pisano, sembrano fatti apposta per scendere nell’arena congressuale. Sebbene, a parte le inguaribili nostalgie dc, della Balena bianca, del partitone che sapeva dividersi ma anche ricomporsi, sia ormai rimasto ben poco. I due avversari non somigliano né ai «gemelli di San Ginesio» Forlani e De Mita, che si alternarono per oltre un ventennio sullo scranno più alto di piazza del Gesù, né ai «cavalli di razza» Fanfani e Moro, divisi dal potere e uniti contro la «linea della fermezza» nella tragica primavera brigatista del ’78. 

Non a caso, quando gli fu suggerito di prenderlo come ministro degli Esteri nel suo governo, Renzi rifiutò anche soltanto di ipotizzare la proposta, che forse Letta avrebbe rifiutato. Di lì è partita l’ultima guerra democristiana di questi due ex-ragazzi, cresciuti nel mito dei loro padri. 
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Titolo: MARCELLO SORGI. La democrazia anomala dei frammenti
Inserito da: Arlecchino - Giugno 09, 2016, 11:17:25 am
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OPINIONI
La democrazia anomala dei frammenti

07/06/2016
Marcello Sorgi

Le elezioni amministrative rappresentano da sempre in Italia una sorta di mid-term, un test per gli equilibri politici presenti e quelli futuri. Fu così per le prime giunte di centrosinistra negli Anni Sessanta. E così per la svolta del 1975, che portò i primi sindaci comunisti alla guida delle grandi città fuori dal perimetro delle «regioni rosse», annunciando la svolta dei governi di unità nazionale ’76-’79. 

E ancora, con l’elezione diretta dei primi cittadini nel ’93, la definitiva esclusione dei democristiani dai ballottaggi e la prima legittimazione del bipolarismo, che doveva portare nel ’94 alla vittoria del centrodestra con Berlusconi. Sepolto, non a caso, dopo quasi un ventennio, dall’ondata dei sindaci arancione, da Pisapia a De Magistris, che nel 2011 avrebbe anticipato di pochi mesi l’uscita da Palazzo Chigi dell’ex-Cavaliere.

Con lo stesso criterio ci si potrebbe chiedere se il voto di domenica scorsa nelle città, la vittoria della Raggi e l’affermazione dell’Appendino e dei 5 Stelle a Roma e a Torino, il risultato in bilico di Sala a Milano, la rivincita dello stesso De Magistris nella Napoli in cui il premier era andato personalmente a lanciargli il guanto di sfida, anticipino la crisi di Renzi e del renzismo. Gli elementi per pensarlo ci sono, e lo stesso presidente del Consiglio, a caldo, ha ammesso la delusione del Pd, sebbene non la consideri decisiva per le sorti del governo. Né va dimenticato che si tratta del primo turno di un’elezione che prevede i ballottaggi, e solo allora, tra due settimane, si potrà fare una valutazione completa.

Al momento la svolta - se di svolta si può parlare - non ha nessuna delle caratteristiche che si erano palesate nel passato; non si sono insomma manifestati un nuovo quadro politico e neppure, per quanto provvisorio, un diverso equilibrio. Il successo, anche oltre ogni previsione, delle candidate M5S a Roma e a Torino non va confuso con il risultato di De Magistris (che è tutt’altra cosa, e già mescola, dopo cinque anni di potere, aspetti di trasformismo e clientele locali con il voto di protesta), e non basta a dire che si va verso un’Italia a 5 Stelle. La resurrezione del centrodestra, a Milano con il tecnico Parisi, a Bologna con la leghista Borgonzoni e a Napoli con l’usato sicuro Lettieri, dimostra che la coalizione ex-berlusconiana ha ancora delle prospettive, ma non risolve la sfida letale tra l’anima moderata del leader-fondatore e quella radicale salvinian-meloniana. Al dunque, l’unico vero obiettivo di Berlusconi era punire e far cadere la leader ribelle di Fratelli d’Italia, e a Roma questo è accaduto, anche al prezzo di una sorta di liquidazione dell’alleanza.

A conferma di questo insieme così frammentato, le percentuali dei partiti, ricavate finalmente ieri sera dopo un calcolo assai complicato, sono di una tale modestia che la nuova carta politico-geografica dell’Italia rivela sintomi di alopecia del potere locale assai difficili da curare e impossibili da riunificare in qualcosa che abbia l’ambizione di tornare ad essere di dimensione nazionale. Il Pd e Forza Italia, per dire del maggior partito della coalizione di centrosinistra e dell’ex-maggiore del centrodestra, si erano presentati con il loro simbolo in un’assoluta minoranza di casi, per il resto si erano camuffati e mescolati a un’indecifrabile ragnatela notabilare di piccolo cabotaggio. Temuto fin dalla vigilia, il guazzabuglio delle liste locali - diffuse ovunque, presenti in qualsiasi schieramento, con la sola eccezione del Movimento 5 Stelle, che dove si è presentato, non certo dappertutto, lo ha fatto da solo - lascia già presagire cosa diventeranno, al termine dei ballottaggi, le trattative per la formazione delle giunte, e subito dopo le vite precarie delle amministrazioni, tenute in pugno da ras locali che non hanno vincoli di appartenenza, né, figuriamoci, di obbedienza, ad alcun partito o organizzazione, si nascondono sotto le sigle più strane e rispondono, in realtà, solo a se stessi. I disgraziati elettori che domenica, malgrado tutto, sono andati a votare, grazie alle coalizioni locali che sostenevano i candidati sindaci, si sono trovati di fronte all’esatto contrario delle più collaudate offerte pubblicitarie dei supermercati. Lì, almeno, in certe stagioni, paghi una e ricevi tre confezioni del prodotto che avevi scelto. Qui, invece, votando un candidato sostenevi un intero schieramento e diventavi sostenitore di certi arnesi che mai avresti voluto avere al tuo fianco.

La crisi del Pd, che comunque, tolta Napoli, resta in gioco da Nord a Sud, lo scatto delle due donne 5 Stelle (non accompagnato da un successo complessivo, dato che alla fine il movimento andrà in ballottaggio in 20 comuni su 1300), e la rinascita isolata del centrodestra saranno pure gli aspetti più evidenti dei risultati. Ma il vero profilo del Paese che vien fuori dalle urne del 5 giugno è quello frastagliato appena descritto. Sarebbe ora che qualcuno in Italia - a cominciare da Renzi e almeno finché è possibile - s’impegnasse a pensare di riorganizzare dei normali partiti, come quelli che finora sono stati distrutti, per ricostruire una democrazia normale.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La democrazia anomala dei frammenti
Inserito da: Arlecchino - Giugno 17, 2016, 08:07:20 am
La democrazia anomala dei frammenti

07/06/2016
Marcello Sorgi

Le elezioni amministrative rappresentano da sempre in Italia una sorta di mid-term, un test per gli equilibri politici presenti e quelli futuri. Fu così per le prime giunte di centrosinistra negli Anni Sessanta. E così per la svolta del 1975, che portò i primi sindaci comunisti alla guida delle grandi città fuori dal perimetro delle «regioni rosse», annunciando la svolta dei governi di unità nazionale ’76-’79. 

E ancora, con l’elezione diretta dei primi cittadini nel ’93, la definitiva esclusione dei democristiani dai ballottaggi e la prima legittimazione del bipolarismo, che doveva portare nel ’94 alla vittoria del centrodestra con Berlusconi. Sepolto, non a caso, dopo quasi un ventennio, dall’ondata dei sindaci arancione, da Pisapia a De Magistris, che nel 2011 avrebbe anticipato di pochi mesi l’uscita da Palazzo Chigi dell’ex-Cavaliere.

Con lo stesso criterio ci si potrebbe chiedere se il voto di domenica scorsa nelle città, la vittoria della Raggi e l’affermazione dell’Appendino e dei 5 Stelle a Roma e a Torino, il risultato in bilico di Sala a Milano, la rivincita dello stesso De Magistris nella Napoli in cui il premier era andato personalmente a lanciargli il guanto di sfida, anticipino la crisi di Renzi e del renzismo. Gli elementi per pensarlo ci sono, e lo stesso presidente del Consiglio, a caldo, ha ammesso la delusione del Pd, sebbene non la consideri decisiva per le sorti del governo. Né va dimenticato che si tratta del primo turno di un’elezione che prevede i ballottaggi, e solo allora, tra due settimane, si potrà fare una valutazione completa.

Al momento la svolta - se di svolta si può parlare - non ha nessuna delle caratteristiche che si erano palesate nel passato; non si sono insomma manifestati un nuovo quadro politico e neppure, per quanto provvisorio, un diverso equilibrio. Il successo, anche oltre ogni previsione, delle candidate M5S a Roma e a Torino non va confuso con il risultato di De Magistris (che è tutt’altra cosa, e già mescola, dopo cinque anni di potere, aspetti di trasformismo e clientele locali con il voto di protesta), e non basta a dire che si va verso un’Italia a 5 Stelle. La resurrezione del centrodestra, a Milano con il tecnico Parisi, a Bologna con la leghista Borgonzoni e a Napoli con l’usato sicuro Lettieri, dimostra che la coalizione ex-berlusconiana ha ancora delle prospettive, ma non risolve la sfida letale tra l’anima moderata del leader-fondatore e quella radicale salvinian-meloniana. Al dunque, l’unico vero obiettivo di Berlusconi era punire e far cadere la leader ribelle di Fratelli d’Italia, e a Roma questo è accaduto, anche al prezzo di una sorta di liquidazione dell’alleanza.

A conferma di questo insieme così frammentato, le percentuali dei partiti, ricavate finalmente ieri sera dopo un calcolo assai complicato, sono di una tale modestia che la nuova carta politico-geografica dell’Italia rivela sintomi di alopecia del potere locale assai difficili da curare e impossibili da riunificare in qualcosa che abbia l’ambizione di tornare ad essere di dimensione nazionale. Il Pd e Forza Italia, per dire del maggior partito della coalizione di centrosinistra e dell’ex-maggiore del centrodestra, si erano presentati con il loro simbolo in un’assoluta minoranza di casi, per il resto si erano camuffati e mescolati a un’indecifrabile ragnatela notabilare di piccolo cabotaggio. Temuto fin dalla vigilia, il guazzabuglio delle liste locali - diffuse ovunque, presenti in qualsiasi schieramento, con la sola eccezione del Movimento 5 Stelle, che dove si è presentato, non certo dappertutto, lo ha fatto da solo - lascia già presagire cosa diventeranno, al termine dei ballottaggi, le trattative per la formazione delle giunte, e subito dopo le vite precarie delle amministrazioni, tenute in pugno da ras locali che non hanno vincoli di appartenenza, né, figuriamoci, di obbedienza, ad alcun partito o organizzazione, si nascondono sotto le sigle più strane e rispondono, in realtà, solo a se stessi. I disgraziati elettori che domenica, malgrado tutto, sono andati a votare, grazie alle coalizioni locali che sostenevano i candidati sindaci, si sono trovati di fronte all’esatto contrario delle più collaudate offerte pubblicitarie dei supermercati. Lì, almeno, in certe stagioni, paghi una e ricevi tre confezioni del prodotto che avevi scelto. Qui, invece, votando un candidato sostenevi un intero schieramento e diventavi sostenitore di certi arnesi che mai avresti voluto avere al tuo fianco.

La crisi del Pd, che comunque, tolta Napoli, resta in gioco da Nord a Sud, lo scatto delle due donne 5 Stelle (non accompagnato da un successo complessivo, dato che alla fine il movimento andrà in ballottaggio in 20 comuni su 1300), e la rinascita isolata del centrodestra saranno pure gli aspetti più evidenti dei risultati. Ma il vero profilo del Paese che vien fuori dalle urne del 5 giugno è quello frastagliato appena descritto. Sarebbe ora che qualcuno in Italia - a cominciare da Renzi e almeno finché è possibile - s’impegnasse a pensare di riorganizzare dei normali partiti, come quelli che finora sono stati distrutti, per ricostruire una democrazia normale.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Un rifiuto per compattare il Movimento
Inserito da: Arlecchino - Settembre 23, 2016, 11:40:08 am
Un rifiuto per compattare il Movimento

22/09/2016
MARCELLO SORGI

Atteso, ma fino all’ultimo non scontato, il «no» di Virginia Raggi alla candidatura di Roma alle Olimpiadi segna una svolta dura nell’amministrazione della Capitale, fin qui impantanata nella propria incapacità, e rischia di trasformarsi in una dichiarazione di sfiducia, della sindaca e dell’intero M5S, verso se stessi. 
 
Nelle settimane e nei mesi ormai che hanno preceduto l’annuncio di ieri, Raggi e il vertice stellato infatti avrebbero potuto motivare più seriamente la propria convinzione, basandosi su un’approfondita analisi delle opportunità e dei rischi e trovando un sostegno più forte alle loro posizioni. Invece, non c’è uno solo degli argomenti portati dalla sindaca in conferenza stampa che non possa essere contraddetto.
 
Dire che queste sarebbero state le «Olimpiadi del mattone, un pretesto per nuove colate di cemento», è come negare a priori che la nuova amministrazione - insediata con un voto plebiscitario degli elettori romani che invocavano il cambiamento, dopo le fallimentari esperienze di Alemanno e Marino e dopo l’ondata di corruzione sfociata nell’inchiesta «Mafia Capitale» - non sarebbe stata in grado di impedirlo, cogliendo l’occasione per impegnare i consistenti fondi pubblici che il governo aveva messo a disposizione per ricostruire l’immagine e la sostanza di una grande città derelitta, che non aspettava altro.
 
Ancora, dire che il settanta per cento dei romani si erano espressi contro le Olimpiadi con il voto del ballottaggio del 19 giugno che ha segnato il trionfo dei 5 stelle, equivale a dimenticarsi che in campagna elettorale era stato promesso di dare ai cittadini l’ultima parola, perfino con un referendum. Tra l’altro, i sondaggi svolti in questi ultimi giorni, rivelano che a certe condizioni l’opinione pubblica capitolina è in maggioranza favorevole ai Giochi. 
 
Citare il residuo di debito a bilancio del Comune per quelli del 1960 come esempio di un nuovo dissesto finanziario da evitare, per non caricare i romani di nuovi debiti, significa ignorare quale grande trasformazione le Olimpiadi portarono cinquantasei anni fa, in una Capitale che era rimasta una sorta di grande paesone e per una popolazione di oltre tre milioni di persone che da quell’esperienza uscirono proiettate verso la dimensione di una moderna metropoli. Inoltre, lasciare dietro la porta il presidente del Coni, dopo averlo convocato per discutere, non è stato solo un gesto di maleducazione da parte di una sindaca che in fatto di buone maniere s’è già fatta conoscere Oltretevere, ma una mancanza di riguardo verso un’istituzione che rappresenta l’Italia nel mondo. Infine, non c’è bisogno di essere sportivi per sapere che le Olimpiadi non sono solo quell’appaltificio a cui Raggi le vorrebbe ridurre: sono innanzitutto un insieme di passione, orgoglio ed entusiasmo giovanile, come ci hanno ricordato proprio in questi giorni i ragazzi italiani delle Paralimpiadi, pronti ad approfittarne per gettare il cuore oltre l’ostacolo del loro ingrato destino.
 
Ma di tutte queste obiezioni, come degli innumerevoli post dei loro elettori che ieri su Internet hanno protestato contro il «no» alle Olimpiadi, Raggi, Grillo, Di Maio, Di Battista e tutto il gruppo dirigente 5 stelle - c’è da giurarci - se ne fregheranno. Giunti in pessime condizioni alla vigilia dell’assemblea di Palermo, che dovrebbe delineare il futuro del Movimento e superare le rissose divisioni che la vicenda del Campidoglio ha fatto emergere, i grillini erano a caccia di un annuncio a effetto, che servisse a sollevare un terremoto di reazioni avversarie, e sull’onda di queste una ragione per ricompattarsi, per reagire all’assedio e ribadire la propria diversità. Tal che, pur essendo inaccettabile la scelta del Movimento 5 stelle e della sindaca Raggi, nonché il modo e il momento in cui è maturata ed è stata annunciata, a malincuore bisognerà rassegnarsi a questa ennesima prova di nullità. In fondo, non vale neppure la pena di approfondirne le motivazioni. Ragionarci servirebbe solo a fare il loro gioco, per sentirsi ripetere che le obiezioni «delle lobbies e dei giornaloni» sono la prova che la decisione era giusta.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il partito al canto del cigno
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 15, 2016, 08:00:38 pm
Il partito al canto del cigno

11/10/2016
Marcello Sorgi

La crepa che s’è aperta nel Pd e rende più incerto l’esito del referendum, dal momento che il partito avrebbe dovuto essere (e non sarà) il traino del «Sì», per una volta è soprattutto politica, e non, o non esclusivamente, connessa al groviglio di odii e risentimenti personali che da sempre dividono i Democrat. 

S’è capito benissimo ascoltando il dibattito che per tutto il pomeriggio s’è svolto al Nazareno, nel quale, dopo la relazione con cui Renzi ha formalizzato la sua apertura ad eventuali modifiche dell’Italicum, s’è affacciato chiaramente il fantasma del proporzionale. Cioè, per intendersi, l’esatto contrario dei sistemi maggioritari su cui s’è retta per oltre un ventennio, con tutti i suoi limiti, la Seconda Repubblica, consentendo ai cittadini di scegliersi direttamente i governi, poi rivelatisi non sempre in grado di governare.

Contro questo meccanismo, che ha nell’Italicum una delle sue applicazioni, frutto di un compromesso e di un tentativo di migliorare il Porcellum dichiarato incostituzionale, la minoranza bersaniana, che non aveva votato la nuova legge elettorale in Parlamento, s’è spinta ad annunciare che voterà «No» alla riforma costituzionale il 4 dicembre. 

Nel tentativo di dare «rappresentanza» - è la parola chiave adoperata da Roberto Speranza, l’ex capogruppo dei deputati che proprio per non approvare l’Italicum si dimise - a quella parte della sinistra che con i partigiani dell’Anpi, l’Arci, le associazioni antimafia e altri pezzi della società civile sono già schierati contro Renzi.

Qui la discussione interna al partito del premier è arrivata a un punto di svolta. Perché la minoranza non ha chiesto solo di correggere questo o quel punto dell’Italicum, che piuttosto vorrebbe interamente riscritto. Ma di dare legittimazione a chi vuole opporsi nelle urne, alla legge elettorale e alla riforma costituzionale insieme, approfittando della prima occasione disponibile, appunto il 4 dicembre. Un ragionamento come questo - Speranza non ha parlato di numeri, ma la minoranza da tempo ne dispone - poggia sulla valutazione, emersa da recenti sondaggi, secondo la quale il 36 per cento dell’elettorato Pd, più di un terzo, in valori assoluti il 12-13 per cento del totale dei voti degli elettori, è ormai risolutamente per il «No». E questo 12-13, sommato al 4-5 che sta fuori del partito, alla sua sinistra, guarda caso fa il 16-17 per cento che il Pds, erede, dopo il cambio del nome, del vecchio partito comunista, prese nel ’92, nell’ultima occasione in cui si votò con il proporzionale.

 In altre parole, se al referendum Renzi e il «Si» saranno sconfitti, e perfino se la Corte Costituzionale, quale che sia il risultato, riscriverà l’Italicum, per esempio rendendo obbligatorio il premio di maggioranza per le coalizioni, e non com’è adesso solo per il partito vincente, il Pci, o come si vorrà chiamare, è pronto a rinascere a sinistra del Pd. Va da sé che per Bersani, Speranza, Cuperlo e tutti coloro che si preparano a far campagna per il «No» insieme a D’Alema, che li aveva preceduti su questo fronte, sarebbe più adatto il proporzionale, che gli consentirebbe più comodamente di riorganizzarsi in proprio, sapendo che su questo terreno troveranno disponibili in Parlamento tutti o quasi gli altri partiti, incapaci di collaborare, ma pronti a unirsi in nome del sistema che nella Prima Repubblica garantiva governi brevi e facili da sostituire, alleanze mutevoli e occasionali e una sorta di diritto al trasformismo.

Dunque il percorso è chiaro. Chiarissimi anche l’obiettivo e le vittime designate: Renzi, il suo governo e la sua riforma. Il Pd, per come lo si conosceva, da ieri non c’è più. Quel che resta da vedere è se con la - assai meno probabile, dopo quel che è accaduto, ma non del tutto impossibile, non si sa mai con i referendum -, vittoria del «Sì», dopo il Pci vedremo rinascere la Dc.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Così nasce il partito di Matteo
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 08, 2016, 06:06:29 pm
Così nasce il partito di Matteo

Pubblicato il 08/12/2016
Marcello Sorgi

Il 7 dicembre verrà ricordato, non solo come il giorno delle dimissioni formali del premier e della fine del suo governo, ma anche del battesimo del Partito di Renzi. Un partito nuovo, nato domenica nelle urne del referendum in cui la riforma costituzionale è stata sconfitta, ma oltre tredici milioni di elettori hanno votato «Sì». Un partito che forse non sarà del 40 per cento, il numero magico che ha accompagnato fin qui la carriera del leader del Pd - dalla sconfitta alle primarie del 2012 contro Bersani, alla vittoria alle Europee del 2014, alla crisi di governo, provocata dall’exploit del «No» al 60 per cento -, ma secondo gli studiosi dei flussi elettorali può puntare tranquillamente al consenso di un italiano su quattro, una percentuale ragguardevole, per giocare nella nuova (o vecchia?) stagione che sta per aprirsi del ritorno al proporzionale e alla Repubblica partitocratica. 

Renzi ha detto che i risultati referendari, a suo giudizio, hanno abbattuto la riforma, il Parlamento che l’aveva votata sei volte e il governo che conseguentemente va a casa. 

Ma non lui, che solo temporaneamente si fa da parte per prepararsi alle prossime elezioni, portando il bilancio dei suoi mille giorni, le riforme fatte e non fatte, il miglioramento delle condizioni del Paese, che magari avrebbe voluto più consistente ma considera non trascurabile. Va da sé che Renzi, anche se non lo ha detto esplicitamente, considera irrimediabile la frattura aperta dalla minoranza del suo partito schierandosi con il «No»; e per definire i contorni della sua iniziativa guarda al popolo del «Sì» e alla linea di fondo che ha accompagnato il suo lavoro a Palazzo Chigi, «più diritti e meno tasse»: sarà questo lo slogan con cui si ripresenterà presto davanti agli elettori. Guardando, a sinistra, non ai suoi avversari interni, che sdegnosamente non ha neppure citato, ma al progetto dell’ex sindaco di Milano Pisapia: mirato, tra molte difficoltà, a riunire in Italia le possibili frange di uno schieramento frastagliato, dentro e fuori il Pd, con la sola discriminante di volersi impegnare in una prospettiva riformista, e non nella serie infinita di vendette che animano il partito dalla sua fondazione. L’addio a D’Alema, Bersani, Speranza e agli ex comunisti del «No» non potrà certo essere stabilito nei termini di uno sfratto: ma è ormai consumato, e Renzi, sforzandosi di non mostrare rancore, ha fatto capire che non intende tornare indietro. Del resto, bastava guardare sotto la sede del Nazareno la folla degli iscritti divisa in due schiere che stavano per venire alle mani, per capire che la separazione tra le due anime del Pd, che dev’essere ancora formalizzata al vertice, nella base è già avvenuta.

 

Resta ancora da capire quali saranno le conseguenze della svolta di ieri sulla crisi. Renzi non parteciperà neppure alle consultazioni, al Presidente della Repubblica ha spiegato che è disposto ad appoggiare un nuovo governo, per il tempo breve necessario all’approvazione della nuova legge elettorale, solo se anche gli altri partiti di opposizione saranno disposti a condividerne la responsabilità. In altre parole, pur rispettoso delle prerogative del Capo dello Stato, si dichiara indisponibile a pagare il conto presentato dagli elettori a Bersani nel 2013, dopo che il centrodestra era passato all’opposizione e il peso delle scelte del governo Monti era ricaduto per intero sulle spalle del centrosinistra.

Il Quirinale avvia oggi le consultazioni: ma a parte Berlusconi, che non s’è pronunciato chiaramente, Salvini, Meloni e Grillo hanno già detto che vogliono il voto. Se non ci saranno novità, dunque, a Mattarella non resterà che decidere se mandare in Parlamento un governo del Presidente, tecnico o istituzionale, a cercarsi la maggioranza, oppure, a sorpresa, in assenza di alternative, chiedere a Renzi di fare il bis.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Una sentenza che apre altri problemi
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 12, 2017, 12:28:11 pm
Una sentenza che apre altri problemi
Il «no» della Corte Costituzionale al referendum sul Jobs Act allontana per il momento, sebbene non del tutto, il rischio di elezioni anticipate

Pubblicato il 12/01/2017
MARCELLO SORGI

Il «no» della Corte Costituzionale al referendum sul Jobs Act, e in particolare sull’articolo 18, allontana per il momento, sebbene non del tutto, il rischio di elezioni anticipate. Se si faranno, infatti, non sarà per rinviare la consultazione sulla riforma che ha cancellato, se non in casi eccezionali, il diritto al reintegro nel posto di lavoro del dipendente licenziato. E da questo punto di vista, determinante sarà la prossima decisione dei giudici della Consulta, attesa per il 24 gennaio, sull’Italicum, la legge elettorale maggioritaria a doppio turno con la quale sarebbe stata eletta soltanto la nuova Camera dei Deputati, nel caso, che non s’è verificato dati i risultati delle urne del 4 dicembre, in cui la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi avesse ricevuto l’approvazione degli elettori. 
 
Sospesa tra un referendum e l’altro: questa è in sostanza la condizione precaria della politica italiana, a cui l’improvviso ricovero in ospedale di Paolo Gentiloni, sottoposto con successo a un intervento di angioplastica, ha aggiunto un ulteriore elemento di incertezza che l’annunciata, rapida convalescenza del premier dovrebbe prevedibilmente eliminare nei prossimi giorni. Ecco perché, pur avendo sgomberato il campo dal rischio della cancellazione di una delle riforme più significative, e più apprezzate in Europa, del governo precedente (l’articolo 18 rappresentava uno dei maggiori motivi di resistenza agli investimenti stranieri in Italia), ammettendo invece la consultazione sui voucher, e quella, meno importante, sugli appalti, la Corte Costituzionale ha risolto un problema, ma ne ha creato un altro, che adesso toccherà all’estenuato Parlamento che si avvia alla conclusione della legislatura tentare di risolvere.
 
Per il modo in cui è stato proposto, chiedendo la completa abrogazione della normativa sui voucher attualmente in vigore, il referendum, per essere aggirato, richiederebbe una sostanziale riscrittura della legge, che dovrebbe successivamente essere esaminata dalla Corte di Cassazione per valutare l’eventuale venir meno dei presupposti della consultazione. Ci sono attualmente sei diverse proposte giacenti nelle commissioni, che verosimilmente potrebbero essere ridotte a una, da approvare in tempo utile con un iter accelerato. In passato, ad esempio per il referendum sulle liquidazioni del 1981, era accaduto perfino che il governo fosse intervenuto per decreto alla vigilia del voto, previsto per legge tra il 15 aprile e il 15 giugno, e la Cassazione avesse ritenuto legittimo e valido l’intervento, a sostegno di una maggioranza parlamentare che aveva già raggiunto un accordo di massima.
 
È inutile nascondersi che rispetto a un esito come questo, possibile sulla carta, congiurano due difficoltà, non insormontabili, ma da affrontare. La prima è che il pallino della riforma dei voucher da riformare è nelle mani della sinistra Pd, che si muove di sponda con una Cgil che, oltre ad aver raccolto tre milioni di firme per i referendum, ha depositato da tempo alle Camere il testo di una legge d’iniziativa popolare che mira a riscrivere tutta la materia del diritto del lavoro, cancellando la deregulation imposta dalle riforme e restaurando in buona parte il regime del vecchio Statuto dei lavoratori degli Anni Settanta. La stessa Cgil - ed è la seconda difficoltà - ha accolto molto male la sentenza della Corte Costituzionale, e per bocca della segretaria Susanna Camusso ha annunciato un ricorso alla Corte europea dei diritti, accusando in sostanza i giudici della Consulta di aver voluto privare gli elettori italiani del loro diritto a pronunciarsi sul Jobs Act. Una posizione durissima, che non lascia ben sperare anche sul modo in cui il maggior sindacato intende accompagnare il percorso parlamentare della nuova legge sui voucher.
 
Infine vi è una terza difficoltà, meno esplicita ma non per questo meno pressante: a Renzi non dispiacerebbe che le elezioni anticipate, fin qui legate al presente e al futuro di una legge elettorale da riscrivere, arrivassero invece per la scorciatoia del rinvio del referendum. È un’altra incognita di cui tener conto.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/12/cultura/opinioni/editoriali/una-sentenza-che-apre-altri-problemi-5G1e7jt3Rz4KlnQSwGRRMJ/pagina.html?wtrk=nl.direttore.20170112.


Titolo: MARCELLO SORGI. Raro dialogo a distanza fra ex rivali
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 23, 2017, 11:22:18 am

Raro dialogo a distanza fra ex rivali

Pubblicato il 23/01/2017
Marcello Sorgi

Non sembri un’esagerazione: le interviste a Prodi e a Berlusconi che pubblichiamo oggi su La Stampa rappresentano un eccezionale documento politico contemporaneo. 

I due leader, presidenti del Consiglio e avversari dei primi quasi vent’anni della Prima Repubblica concordano a distanza, inaspettatamente, nell’analisi della situazione, su più punti rispetto a quelli su cui non sono d’accordo. Comune è l’attesa, venata di timori non nascosti, per l’esordio di Trump alla presidenza Usa e per le conseguenze sull’economia mondiale, gravata ancora dalle incertezze e dai sintomi non del tutto scomparsi della crisi di questi anni; comune la sollecitazione per un riavvicinamento alla Russia di Vladimir Putin, «amicizia» la definisce Berlusconi, che secondo Prodi addirittura l’Europa dovrebbe cominciare prima dell’America.

LEGGI ANCHE - Prodi: “I progressisti devono rispondere al malessere della classe media” 

Comune la preoccupazione per lo stato dell’Europa, divisa da muri anti-immigrati e da tensioni distruttive, soffocata da burocrazie opprimenti, minacciata dalla rincorsa del populismo, incalzante in varie forme e sotto diverse facce anche in Paesi fondatori come Francia e Germania; comune, ancora, l’apprezzamento per Gentiloni e per il modo pacato e razionale con cui sta cercando di affrontare la complicata eredità di problemi ricevuta da Renzi (del quale, in modo più o meno esplicito, entrambi mostrano di non avere uguale considerazione); comune, infine, la consapevolezza che dalle difficoltà del momento, che riguardano l’Italia non meno che l’Europa o il resto del mondo, si possa uscire sfidando il decadimento della politica, non con gli stessi argomenti con cui si manifesta, ma con un di più di riformismo e di serietà. 

 LEGGI ANCHE - Berlusconi: “Trump ha ragione su Putin. Ma l’isolazionismo è un errore” 

Tal che, non senza sorpresa, si potrebbe osservare che i due uomini-simbolo della stagione del bipolarismo, impegnati da sempre a presentarsi come alternativi, nelle rispettive convinzioni ideali, nei programmi, nella scelta dei metodi, delle persone e degli alleati per portarli avanti, confermano come nei frangenti più difficili, come l’attuale, governare sia sempre più far quel che si deve e non quel che si vuole, e due avversari rimasti tali, ma in grado di mostrare senso di responsabilità, già solo per questo mantengono un ruolo anche in una stagione che non è più la loro. 
Dove invece la distanza tra il Professore e il Cavaliere è rimasta intatta, e se possibile s’è accresciuta, è sul terreno della politica interna. Mentre Prodi - a dispetto di una realtà in cui agisce ormai stabilmente un terzo polo (primo nei consensi nel 2013 e oggi ancora in testa ai sondaggi), rappresentato dal Movimento 5 Stelle -, rimpiange la stagione del bipolarismo e suggerisce, per riproporla, di superare le divergenze tra alleati per ricostruire le coalizioni, Berlusconi non sembra più nutrire quella speranza.   

Sarà perché un pezzo del populismo nostrano ce l’ha in casa, con Salvini, Meloni e con quelli nel suo partito, come Toti, che pensano di schierarsi con loro, sarà anche per via della stabilità delle sue imprese minacciata dall’estero, ma l’ex-premier appare ormai tutto interno alla logica del proporzionale e della partitocrazia rinascenti, che proprio in forza dell’impossibilità di guadagnarsi una maggioranza da soli, costringerebbe i partiti singoli alle larghe coalizioni, ridando un peso indispensabile a Forza Italia.

Che questa, poi, possa essere la soluzione del futuro per l’Italia, dopo oltre un ventennio di inconcludente transizione, sarà tutta da vedere. Ma non ci sarà molto da aspettare: l’ultima parola in materia, infatti, la dirà domani la Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla legge elettorale.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/23/cultura/opinioni/editoriali/raro-dialogo-a-distanza-fra-ex-rivali-S4aUBJ8eJnqveS7t6tKZaI/pagina.html?wtrk=nl.direttore.20170123.


Titolo: MARCELLO SORGI. All'ombra della grande coalizione
Inserito da: Arlecchino - Aprile 03, 2017, 05:36:59 pm
All'ombra della grande coalizione

Pubblicato il 01/04/2017
Ultima modifica il 01/04/2017 alle ore 07:15

MARCELLO SORGI

Anche se ha fatto infuriare i suoi ex, e insieme potenziali alleati Salvini e Meloni, non c’è dubbio che la posizione assunta da Berlusconi nell’incontro con la Merkel sia giusta. In tutta Europa, dall’Olanda di Rutte alla Francia di Macron alla Germania dell’inossidabile Cancelliera, la partita contro i populisti la stanno giocando i moderati di centrodestra. 

 
È il fatto che ci sia, in Italia, un doppio fronte, in cui Renzi da una parte, e Salvini e Meloni dall’altra, provano a combattere Grillo quasi con i suoi stessi argomenti e con il suo stesso stile di comunicazione, non fa affatto ben sperare, perché il rischio è che tra diversi messaggi di protesta gli elettori finiscano per preferire l’originale alle imitazioni, e come dicono i sondaggi, settimana dopo settimana, si spostino progressivamente verso il M5S, l’unico che al di là delle modeste prove date alla guida della Capitale e di altre città non sia stato ancora sperimentato alla guida del Paese, in funzione anti-establishment e per una nuova rottamazione. Non ci vuole particolare abilità a criticare l’Europa, attaccandone la linea di rigore in economia, o a parlare di doppia moneta e di ritorno alla lira, o a promettere nuovi muri anti-migranti stile-Trump, senza neppure curarsi del fatto che andrebbero eretti, chissà come, nel Canale di Sicilia o nel deserto libico. 
 
Ma prima di farlo, o prima di continuare a provarci, forse occorrerebbe chiedersi a chi fanno gioco queste predicazioni: e a giudicare dalle condizioni in cui versano il Pd, la Lega e Fratelli d’Italia, non sembra proprio che sia questa, per loro, la miglior cura ricostituente.
 
Sull’Europa e sui rischi di dissoluzione dell’Unione nell’anno in cui si sono celebrati i sessant’anni della sua nascita, sull’euro malgrado tutto e sull’immigrazione come fenomeno epocale, che richiede una capacità strategica adeguata, ci sarebbe invece spazio per un discorso di verità, sol che si abbia la voglia di pronunciarlo. Un centrodestra unito come oggi non è, e un centrosinistra miracolosamente guarito dalle sue croniche lotte intestine avrebbero entrambi la capacità per tentare un’operazione come quella che il candidato centrista Macron in Francia, con l’appoggio, perfino, dell’ex primo ministro socialista Valls, e sotto sotto anche del presidente Hollande, stanno realizzando, a discapito di Marine Le Pen; e che la Merkel, coerentemente con la sua lunga militanza europeista, sta conducendo in Germania, pagando i prezzi che è necessario pagare in questi casi.
 
Ma Berlusconi e Renzi avranno il coraggio di farlo? È lecito dubitarne. Del Cavaliere, si sa che le sue svolte, anche quelle più importanti, sono sempre accompagnate da ripensamenti: fu così anche quando annunciò in diretta tv il suo ritiro, salvo pentirsene due giorni dopo. E per il leader, in attesa di riconferma, del Pd, la tentazione di rovesciare il tavolo e gettarsi a capofitto in una nuova campagna elettorale, per cercare la rivincita dopo il referendum, diventerà più forte, specie se, come sembra ormai scontato, la sua vittoria alle primarie del 30 aprile sarà più forte delle previsioni.
 
Al dunque, a pesare sulle loro scelte strategiche, molto più dello scenario europeo sarà quello italiano, e in particolare la legge elettorale su cui continuano a rinviare il confronto in Parlamento. Se la legge sarà maggioritaria, o comunque riuscirà a salvare una parvenza di maggioritario, sotto forma di premio elettorale o di ritorno ai collegi uninominali tipo Mattarellum, Berlusconi cercherà a qualsiasi costo l’accordo con i suoi vecchi alleati, tornati, c’è da aspettarsi, disponibili, in vista dei vantaggi riservati a una coalizione o a una lista comune. E Renzi, da parte sua, farà in modo di ricomporre la scissione del suo partito, nata più che altro da incompatibilità personali e da un ispessimento dei rapporti interni, più che da pretese divisioni politiche, che di solito, normalmente, si risolvono. Se invece la legge sarà proporzionale, come al momento sembra, dato che tutti la considerano l’antidoto più sicuro al possibile approdo dei 5 stelle al governo, ognuno andrà per conto suo, a destra e a sinistra. Nessuno vincerà. Forse non ci sarà maggioranza neppure con le larghe intese. Non vorremmo crederci: ma per impedire a Grillo di andare a Palazzo Chigi, i nostri eroi sarebbero capaci di consegnare l’Italia all’ingovernabilità.
 
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Titolo: MARCELLO SORGI. Una svolta che riapre la partita
Inserito da: Arlecchino - Aprile 11, 2017, 06:21:42 pm
Una svolta che riapre la partita

Pubblicato il 11/04/2017 - Ultima modifica il 11/04/2017 alle ore 06:56

MARCELLO SORGI

Per carità, siamo tutti uguali davanti alla legge. E un errore, o una svista, possono capitare. Ma cosa dovrebbe dire un cittadino comune, se un’intercettazione che, a detta di chi l’ha valutata, «assume straordinario valore e consente di inchiodare alle sue responsabilità» l’indagato, si rivela inesistente, falsa o manipolata? 

Si dà il caso che il cittadino, in questo caso, sia Tiziano Renzi, e l’indagine in cui è coinvolto quella relativa ai famosi appalti Consip per i quali l’imprenditore napoletano Romeo avrebbe corrotto un funzionario, che poi ha confessato. Da questo, che forse è l’unico passaggio incontestabile delle indagini, il sostituto procuratore Woodcock, coadiuvato dai carabinieri del Noe, il nucleo ecologico dell’Arma, è risalito al padre dell’ex presidente del Consiglio, accusato di traffico di influenze, e al ministro dello Sport Lotti e allo stesso comandante generale dei carabinieri Del Sette, a cui si contesta di aver messo in guardia i Renzi, padre e figlio, rivelando illecitamente che un’inchiesta a loro carico era in corso. E che in un’intercettazione lo stesso Romeo riferiva di un incontro con Renzi padre, a cui sarebbe seguita un’annotazione su un bigliettino, trovato a pezzi tra i sacchi di rifiuti dell’azienda di Romeo, in cui si faceva accenno a pagamenti da trentamila euro a un certo «T.»: presumibilmente Tiziano?
 
Nelle stesse carte veniva sottolineato che la perquisizione degli uffici di Romeo in piazza Nicosia a Roma, e il recupero della mondezza in cui si celava il «pizzino», erano avvenuti sotto gli occhi intimidatori di un elemento dei servizi segreti, che a ogni buon conto gli ufficiali dei carabinieri avevano fotografato, per poterlo successivamente identificare e per dimostrare come lo Stato, o qualche pezzo deviato dello Stato, come usa dire, con una mano fa e con l’altra disfa. Per inciso, va ancora ricordato che Lotti, a causa di tutto ciò, ha dovuto difendersi in Parlamento da una mozione di sfiducia che, va da sé, avrebbe riguardato Matteo Renzi, se ancora fosse stato in carica e non si fosse dimesso prima per gli esiti del referendum costituzionale del 4 dicembre. Inoltre, per le stesse ragioni, la riconferma del generale Del Sette, alla fine prorogato per un anno, è stata accompagnata da diverse contestazioni politiche.
 
Adesso si viene a sapere che il carabiniere che mise per iscritto che Romeo aveva parlato di un incontro con Renzi si era sbagliato o - ipotesi peggiore, per la quale viene perseguito - aveva commesso un falso. Non Romeo, ma l’ex-parlamentare Italo Bocchino, che di Romeo era divenuto consulente, aveva parlato di quell’incontro. Bocchino, a scanso di equivoci, afferma che si riferiva a Renzi figlio, e ovviamente si era trattato di una casualità di quelle che possono capitare ogni giorno ai politici, uno scambio di battute sulla situazione, nello studio televisivo di un talk-show o in Parlamento. Quanto all’agente segreto fotografato vicino a Piazza Nicosia, era una persona qualsiasi, identificata come un abitante di quella zona. Magari stava tornando a casa, o era appena uscito, e il trambusto della perquisizione attirò, per qualche istante la sua attenzione.
 
Ricostruire la verità non è stato affatto difficile: è bastato guardare con attenzione le carte, nelle quali altri due carabinieri più attenti di quello successivamente inquisito avevano correttamente riferito che a parlare era stato Bocchino e non Romeo, e in cui l’identificazione del passante scambiato per agente segreto, con tanto di nome e cognome, veniva formalmente verbalizzata. A spulciare più attentamente i documenti ė stata la Procura di Roma, nella persona del procuratore capo Giuseppe Pignatone. Il sostituto procuratore napoletano Henry John Woodcock, che aveva dato vita all’inchiesta, non si era accorto di niente.
 
Cose che capitano. E Renzi, che comunque ha subito le conseguenze del polverone levatosi attorno al padre, alla fine potrà legittimamente - seppure limitatamente, come sempre accade dopo - giovarsi di questa specie di proscioglimento politico anticipato. Ma a parte il carabiniere distratto - o infedele, si vedrà - c’è qualcun altro che dovrebbe rispondere di un verbale di intercettazione sbagliato o manipolato e di una storia ridicola o incredibile che un altro po’, e facevano cadere il governo?

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/11/cultura/opinioni/editoriali/una-svolta-che-riapre-la-partita-yJmguj15xtGVdMotbzJObO/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Video sul giornalismo.
Inserito da: Arlecchino - Aprile 21, 2017, 09:42:10 am
http://www.lastampa.it/2017/04/21/multimedia/speciali/150-anni/sorgi-la-sfida-del-futuro-dare-prova-della-necessit-del-giornalismo-S9ZJqxZom6JRpiLtbZ1xHL/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Quel dialogo tra M5S e vescovi
Inserito da: Arlecchino - Aprile 21, 2017, 11:31:30 pm
Quel dialogo tra M5S e vescovi

Pubblicato il 20/04/2017
Ultima modifica il 20/04/2017 alle ore 06:54

MARCELLO SORGI
C’è stata un’epoca - ormai superata - in cui i giornali di partito, o legati a determinate aree culturali o religiose, anticipavano svolte politiche rilevanti. Altri tempi. Ma come va interpretata l’intervista a Beppe Grillo, annunciata ieri con grande evidenza in prima pagina da «Avvenire», quotidiano della Conferenza episcopale italiana, e uscita insieme a un’altra intervista al «Corriere della Sera», in cui il direttore dello stesso giornale dei vescovi, Marco Tarquinio, dice che «su tre quarti dei grandi temi (dal lavoro alla lotta alla povertà), cattolici e 5 Stelle hanno la stessa sensibilità»? 
 
Con una dichiarazione all’agenzia ufficiale «Sir», in serata, Tarquinio stesso ha cercato di ridimensionare il caso che stava per nascere, spiegando che l’intervista a Grillo era solo un’iniziativa giornalistica e le sue affermazioni a titolo personale.
Qualche risentimento nella Curia, sommessamente, può esserci stato, data la coincidenza con la lunga attesa del cambio dei vertici dell’assemblea vescovile e le cautele che la accompagnano. 
 
Eppure, assodato che non siamo di fronte a una repentina svolta pro-5 Stelle delle Gerarchie, e neppure di Papa Francesco (che ha avuto, proprio in coincidenza della Via Crucis alla vigilia di Pasqua, un breve colloquio riservato con la sindaca di Roma Virginia Raggi, mentre Luigi Di Maio, domenica, era a Piazza San Pietro), la domanda rimane. Al di qua e al di là del Portone di bronzo di San Pietro, si sta muovendo qualcosa tra Grillo e i grillini, le eminenze cardinalizie, e più in giù, i parroci e i fedeli che di qui a poco saranno chiamati alle urne come tutti gli elettori?
 
Forse la risposta giusta è che se qualcosa è accaduto - una forma di attenzione, se non proprio un esplicito avvicinamento - non è avvenuto solo negli ultimi giorni. Sono almeno due anni, e forse più, se vogliamo risalire alle elezioni siciliane del 2012, quelle della traversata a nuoto dello Stretto di Messina da parte di Grillo, pochi mesi prima della vittoria alle politiche del 2013, che nel largo perimetro del mondo cattolico di base è in corso una sorta di annusamento, ciò che ha fatto dire a un vescovo siciliano «questi qui stanno venendo a mangiare nel nostro campo»: sulla legalità (alla quale Roberta Lombardi e una parte dei 5 stelle romani avrebbero voluto dedicare una parte del Giubileo), sulla lotta alla corruzione e alle mafie, sul reddito di cittadinanza e più in generale sulle azioni di contrasto della povertà, la convergenza s’è ormai realizzata. Il vecchio Movimento 5 Stelle, che trattava la Chiesa di Benedetto XVI come una parte dell’establishment teso a puntellare il sistema delle ingiustizie, ha cambiato pelle e ha scoperto (tra proteste iniziali della base sul web) Papa Francesco come alleato. I «tre quarti di sensibilità comune» di cui parlava Tarquinio si riferiscono a questi temi e che una parte del cattolicesimo di base e di quello che una volta, con la Dc, si chiamava «collateralismo», voti o abbia simpatia per i 5 Stelle non è un mistero. Già a luglio 2015, all’uscita dell’enciclica «Laudato si’», dedicata ai temi dell’ambiente, materia su cui affondano le radici un po’ catastrofiste del Movimento, i parlamentari stellati ostentavano il loro interesse e citavano a memoria le parole del Papa. Con qualche approssimazione non sempre rispettosa, tipo: «Beppe l’ha sempre detto che Francesco dev’essere iscritto al blog».
 
Di qui a dire che i vescovi italiani, lontani da rapporti preferenziali diretti con la politica italiana almeno dalla fine del partitone cattolico democristiano, adesso siano pronti a cavalcare la tigre di Grillo, ce ne corre. E non perché non siano in grado di schierarsi (in passato, ad esempio, quando mollarono Prodi e scelsero Berlusconi, salvo poi restare delusi, lo fecero capire chiaramente), ma perché quel tanto di ambiguità, che ancora contrassegna il grillismo, pesa eccome. Un anno fa, quando i senatori stellati decisero all’ultimo momento di scaricare il Pd e non votare la legge sulle unioni civili, lo fecero sulla base del rifiuto della scorciatoia regolamentare voluta da Renzi per approvare in fretta il testo, e non su una ragionata affermazione di valori: che una parte del loro elettorato avrebbe capito, ma un’altra avrebbe rifiutato. Grillo stesso, nell’intervista ad «Avvenire», si rifiuta di prendere posizione su temi sensibili come l’eutanasia e le manipolazioni genetiche.
 
Al dunque, si può dire che l’attenzione della Chiesa per i 5 Stelle, magari è motivata dalla delusione per Renzi (primo leader cattolico a tornare alla guida del governo dopo un lungo periodo), per le politiche da lui portate avanti o per le promesse mancate in materia di vita, famiglia, scuola, povertà. Ma è anche trattenuta da quel quarto di argomenti che mancano, da parte di Grillo e dei suoi, sugli stessi punti.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La variante a 5 stelle sulle elezioni
Inserito da: Arlecchino - Giugno 03, 2017, 11:27:00 am

La variante a 5 stelle sulle elezioni

Pubblicato il 31/05/2017 - Ultima modifica il 31/05/2017 alle ore 07:02

Marcello Sorgi

Per dirlo già in gestazione, forse è ancora presto. Ma di sicuro, dopo l’accordo a tre sulla nuova legge elettorale, il governo prossimo venturo 5 stelle-Lega è diventato possibile, se non addirittura probabile. A confermarlo, non sono solo i sondaggi come quello letto in tv da Mentana, che assegna alla coalizione «populista-sovranista», sulla carta, con il nuovo sistema, più seggi di quella considerata scontata, di larghe intese, tra Renzi e Berlusconi. Piuttosto è la piena legittimazione ottenuta dal movimento di Grillo, con la decisione di far votare i propri militanti sulla rete e uscirne con l’appoggio plebiscitario al proporzionale italo-tedesco. 

Diciamo la verità: se avessero ragionato come hanno fatto per gran parte della legislatura, i 5 stelle, rispetto al loro elettorato, avrebbero avuto tutte le convenienze a presentare il nuovo patto tra il segretario del Pd e il patron di Forza Italia come una truffa, l’ennesimo inciucio per togliere ai cittadini il diritto di scegliere da chi farsi governare, l’imbroglio fatto apposta per fregare M5s. Invece, a sorpresa, hanno fatto una mossa politica classica quanto imprevedibile, seguiti subito a ruota dal potenziale alleato Salvini, riconfermato a furor di popolo leader dal suo partito e risoluto a spendersi nella nuova avventura con Grillo, e non in un rabberciato accordo di centrodestra con l’ex-Cavaliere.

Come sempre, quando una novità si presenta e si impone con il suo carico di incognite, c’è chi tende a minimizzare, sostenendo che tra Grillo e Salvini da tempo erano in corso annusate, ma troppe diversità impediranno alla fine una vera alleanza. Eppure, se al leader leghista si può ancora rimproverare qualche oscillazione di troppo, il percorso dell’ex-comico e del suo giovane co-leader Davide Casaleggio verso una sorta di istituzionalizzazione e completa legittimazione del movimento è andato avanti negli ultimi mesi - con la sola eccezione dello scivolone sui vaccini - quasi senza ripensamenti, passando per convegni economici e culturali aperti a intellettuali e studiosi «esterni», avviando una serie di contatti riservati che grazie al vicepresidente della Camera, e futuro candidato premier Luigi Di Maio, hanno fatto arrivare fino alle orecchie del Quirinale la promessa di maggiore serietà, disponibilità e affidabilità, in considerazione dei problemi che l’Italia deve affrontare e della consapevolezza che ognuno deve fare la sua parte. 

Adesso che la svolta è arrivata, realizzandosi nel sì alla nuova legge elettorale chiesta dal presidente Mattarella come sforzo estremo a un Parlamento stremato, e nell’impegno a mettere a disposizione i propri voti per approvarla anche in Senato, dove i numeri non ci sarebbero senza la disponibilità del polo grillino, cosa possono concretamente aspettarsi i 5 stelle dal Capo dello Stato? In caso di vittoria, cioè di conferma, per M5s, di essere ridiventato il primo partito per voti come nel 2013, e soprattutto se la somma degli elettori stellati e leghisti - nonché di quelli di Fratelli d’Italia, dato che la Meloni troverà il modo di essere della partita, malgrado lo sbarramento del 5 per cento -, dovesse raggiungere la maggioranza (al momento i sondaggi attribuiscono all’alleanza 5 stelle-Lega 313 seggi alla Camera, solo tre in meno del necessario), Grillo e Casaleggio, nel corso delle consultazioni, chiederebbero l’incarico di formare il governo per un esponente del Movimento. E il Presidente della Repubblica difficilmente potrebbe negarglielo.

L’incognita delle elezioni d’autunno è esattamente questa. In mezzo ci sarà la «campagna sotto gli ombrelloni» di cui già molto si parla e si sorride in questi giorni. Nella quale Grillo, a parte il copyright sul salario di cittadinanza, condividerà con Salvini temi caldi caldi come immigrazione, anti-euro (magari con un po’ meno enfasi, viste le sorprese di Francia e Olanda) e la necessità di un ritorno all’intervento statale sull’economia e sul lavoro. Insieme faranno desistenza per favorirsi a vicenda nei collegi e nelle circoscrizioni più incerte. E si ritroveranno con D’Alema e Bersani (forse anche con Pisapia), nel denunciare l’inciucio «Renzusconi». Così, anche nelle urne delle elezioni politiche, sta rinascendo il fronte del 60 per cento, animato dall’odio per Renzi, che ha trionfato al referendum del 4 dicembre. A tutto vantaggio di un’Italia a 5 stelle.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Enzo Bettiza, esule in viaggio nella storia del Novecento
Inserito da: Arlecchino - Luglio 30, 2017, 05:38:10 pm
Enzo Bettiza, esule in viaggio nella storia del Novecento
È morto a 90 anni. Tra i più grandi inviati italiani del dopoguerra, firma della Stampa, intuì per primo la crisi Cina-Urss.
Il sodalizio con Montanelli, la politica, i Balcani
Bettiza ha lavorato a Epoca, La Stampa, Corriere della Sera e ha fondato il Giornale con Montanelli Bettiza in un ritratto di Ettore Viola.
I due collaborarono a lungo per la serie “L’archivio del non detto” che usciva una volta a settimana sulle pagine di Cultura della Stampa

Pubblicato il 29/07/2017 - Ultima modifica il 29/07/2017 alle ore 07:17

MARCELLO SORGI

Parlava ancora con il suo caratteristico accento che lo faceva sembrare un aristocratico russo, Enzo Bettiza, uno dei più grandi giornalisti italiani, ma forse bisognerebbe dire, come lui stesso si definiva, «scrittore prestato al giornalismo», in un Paese, l’Italia, in cui la sola pubblicazione di libri non sarebbe mai bastata a finanziare il suo modo principesco di vivere. Fino all’ultimo, a parte gli ultimi mesi in cui la malattia non glielo ha più consentito, ha fatto l’editorialista per La Stampa , il giornale in cui aveva cominciato giovane una fortunata carriera all’estero e dove aveva fatto ritorno all’inizio degli Anni Novanta, dopo una lunga stagione al Corriere della Sera , la secessione e la fondazione del Giornale nuovo insieme a Montanelli nel 1974, l’esperienza parlamentare a Strasburgo e al Senato. 
 
LEGGI ANCHE - Il ritorno nella mia Dalmazia alla ricerca della tata serba (Enzo Bettiza) 
 
Era un giornalista metodico, attento, scientifico e letterario al tempo stesso, con una particolare, maniacale attenzione all’aspetto fisico dei suoi interlocutori, vivi o morti, e ogni eventuale connessione tra un tic, un bitorzolo sulla testa, un mento sporgente, una macchia sulla pelle, e il carattere e la personalità dei soggetti che incontrava. Come grande inviato, aveva viaggiato molto, in Europa, America, Brasile, India, Cina, Giappone, ma il suo cuore l’aveva lasciato a Mosca, dove tra i corrispondenti di tutto il mondo era stato il solo a intuire la rottura tra cinesi e sovietici e ad azzardare che questo avrebbe consentito agli Usa alla fine di vincere la Guerra Fredda.
 
LEGGI ANCHE - Addio all’editorialista de La Stampa Enzo Bettiza, raccontò il mondo e la fine del comunismo (Ugo Magri) 
 
Si era alla fine dei Sessanta: la vita e il lavoro nella capitale dell’impero sovietico erano gravati da mille difficoltà, la censura, il divieto di libero uso del telefono, i controlli del regime, l’impossibile accesso alle fonti. Eppure Bettiza, da una semplice occhiata, da una virgola fuori posto di un articolo della Pravda, dalla frequentazione, più facile per lui grazie alla conoscenza della lingua, dei paludati giornalisti e intellettuali russi, sapeva cogliere l’indizio di ogni minimo cambiamento. Tal che gli dispiacque molto quando Giulio Debenedetti, il temuto direttore della Stampa nei primi vent’anni del dopoguerra, che lo perseguitava con telegrammi minacciosi per i ritardi nella trasmissione dei pezzi («Lei non sa scrivere e non sa neppure telefonare!»), per indisciplina lo licenziò e gli tolse la casa, lasciandolo senza un tetto sotto la neve e costringendolo a cercare ospitalità da un collega. Bettiza cercò inutilmente un chiarimento, presentandosi in redazione senza aver chiesto appuntamento, dopo aver guidato ininterrottamente per tre giorni e tre notti da Mosca a Torino. Ma non lo ebbe e dovette rientrare in Italia. Di quel periodo, e poi degli anni successivi, resteranno memorabili le descrizioni di uno Stalin mummificato, paffuto, ben conservato ed esposto nei sotterranei della Piazza Rossa, a confronto del Lenin incartapecorito che gli stava accanto.
 
Andò a Praga per l’invasione dei carrarmati Urss, finì nella stessa stanza d’albergo con Lino Jannuzzi, l’inviato dell’Espresso che in Italia aveva fatto lo scoop del tentato colpo di stato del Sifar, e annotò spiritosamente un piccolo spasmo nervoso dell’amico con cui divideva un letto matrimoniale mezzo sfondato, che lo costringeva, prima d’addormentarsi, a roteare a lungo il piede sinistro fuori dalle coperte, nella penombra della stanza popolata da scarafaggi. Conosceva tutte le razze e sottorazze dei paesi dell’Est, dai morlacchi ai circassi, parlava contemporaneamente in molte lingue, in serbo croato con la tata Mare, in francese con Simone Veil a cui fu molto vicino quando presiedeva il Parlamento europeo, in tedesco con Helmut Schmidt, in dialetto veneziano, da ragazzo, con il padre, che continuava a sognare anche da vecchio. E si muoveva benissimo in ambiti religiosi a lui estranei, con una sotterranea ammirazione per i dittatori più sanguinari di cui non faceva mistero. Dopo aver scritto decine di articoli contro Milosevic, il genocidio dei kosovari lo lasciò stupefatto per la geometrica e minuziosa organizzazione con cui si svolgeva. Come uomo mediterraneo dell’altra sponda adriatica, dove aveva vissuto felice l’infanzia in una delle più ricche famiglie di costruttori di Spalato, e da dove era fuggito, dopo l’esproprio socialista di tutti i suoi beni, per approdare in un campo profughi pugliese gestito con inutile crudeltà dagli inglesi occupanti, arrivò a proporre un protettorato per l’Albania, riscoprì la Turchia, prima del baratro islamico, e si schierò in varie occasioni in difesa degli slavi: ad esempio, quando furono ingiustamente accusati dell’orribile delitto di Novi Ligure, in cui una ragazza e il suo fidanzato, italiani e nativi del luogo, avevano sterminato mezza famiglia. Bettiza portò a esempio di civiltà slava i polacchi papa Wojtyla e Jas Gawronski, uno dei suoi più cari amici. Da questo avventuroso pezzo di vita nacque Esilio, il suo libro più bello, con il racconto dei giorni in cui fu costretto a trasformarsi in contrabbandiere per sbarcare il lunario nell’Italia del dopoguerra.
 
Il lungo sodalizio con Montanelli fu tempestoso come il matrimonio tra due star. Come direttore e condirettore condividevano una stanza con due scrivanie. Indro non tollerava che Enzo s’intrattenesse con Frane Barbieri (anche lui poi approdato alla Stampa) a parlare in ostrogoto, né che si fosse fatto attrarre dalla politica ed eleggere in Parlamento. In realtà si era ingelosito perché Bettiza, come Alberto Ronchey - altro grande esempio di quella generazione, l’inventore del «fattore K» per definire il muro invisibile che impediva al Pci di andare al governo - aveva forgiato uno dei più durevoli neologismi di quel tempo, il «lib-lab», per contrassegnare la fase nuova di collaborazione tra socialisti e liberali. Maliziosamente sosteneva che Montanelli, sotto sotto, fosse rimasto democristiano, tanto da suggerire ai suoi lettori di «votare Dc turandosi il naso». Mentre a lui piaceva Craxi, con cui per qualche tempo aveva abitato al famoso hotel Raphaël di Roma: descrivendone, furtivo, la fisicità cinghialesca, e i maldestri, quotidiani corpo a corpo con la doccia del suo bagno, una sorta di lotta libera con le pareti di una cabina che faticava a contenere il gigantesco leader socialista.
 
A tavola era parco, ma esigente. Gran parlatore, amava di tanto in tanto riunire gli amici nella casa romana dove viveva con la moglie Laura Laurenzi e con i figli, per serate di gulasch e altre piccanti delizie slave. Quando veniva a Torino da Milano, sempre accompagnato, all’andata e al ritorno, da un autista della Stampa, anche quando questo genere di privilegi non erano più riservati a nessun collaboratore, il «Barone» - questo il suo soprannome - amava sempre tornare nel suo ristorante preferito, il Vintage di piazza Solferino. L’oste Umberto, conoscendolo, apparecchiava la tavola allineando cinque o sei fettine di salame ungherese e prosciutto spagnolo davanti al suo piatto, e lo corteggiava sciorinando una serie di proposte di delizie sapide e molto speziate, secondo i suoi gusti. Enzo accettava di buon grado le attenzioni, ma delle porzioni che gli venivano servite assaggiava solo un quarto, più o meno, separando chirurgicamente gli altri tre dalla razione che si era assegnata, e rifiutando i contorni. Tra le sue fissazioni c’era infatti anche quella che verdure e insalate fossero «una perdita di tempo».
 
La previsione di Enzo Bettiza: “I muri da abbattere non finiranno mai”
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/29/cultura/enzo-bettiza-esule-in-viaggio-nella-storia-del-novecento-RrLDu05DrPLNoSuovhH4hK/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il partito unico dei condoni
Inserito da: Arlecchino - Agosto 27, 2017, 09:11:47 pm
Il partito unico dei condoni

Pubblicato il 24/08/2017

MARCELLO SORGI

È inutile rimpiangere o versare lacrime da coccodrillo: siamo un popolo di abusivi. E abbiamo avuto e continuiamo ad avere una classe dirigente - non tutta ma neppure esclusivamente locale, come quella di Ischia e della Campania - che in nome della «necessità» ha incoraggiato e legittimato l’abusivismo negli ultimi trent’anni e più, dal 1983, quando il governo Craxi annunciò per la prima volta un decreto per rilegittimare le costruzioni abusive, con l’obiettivo di risanare, almeno in parte, i conti pubblici, a oggi. 

Se poi di condono in genere, e non solo edilizio, si vuol parlare, si può risalire indietro di altri dieci anni, al 1973 del IV governo Rumor che varò una delle tante sanatorie fiscali (allora non c’era la fantasia di definirle «scudo»). Di lì in poi, la cadenza subì un’accelerazione: 1982, governo Spadolini e nuovo condono per gli evasori; 1985, entrata in vigore del già citato provvedimento del governo Craxi; 1991, nuova sanatoria fiscale del VI governo Andreotti; 1995, doppio condono, edilizio e fiscale, del governo Dini; 2003, nuova doppietta, stavolta di Berlusconi, che replica nel 2009 con la norma per agevolare il rientro dei capitali, cosiddetti «scudati», illecitamente portati all’estero.
 
Complessivamente, secondo un calcolo della Cgia di Mestre, giudicato ottimistico da altri osservatori tecnici, i condoni di qualsiasi tipo degli ultimi tre decenni avrebbero portato nelle casse dello Stato 104,5 miliardi di euro, meno di quanti ne sottragga (anche in questo caso la stima è limitata) l’evasione fiscale in un solo anno. A conti fatti, un pessimo affare, anche se c’è chi dice, non si sa se per celia o sul serio, che bisognerebbe aggiungere, ricalcolandolo in valuta di oggi, il ricavato in sesterzi del primo, primissimo condono, voluto nel 119 dopo Cristo dall’imperatore romano Adriano. 
 
Ma al di là della convenienza economica inesistente per i governi, e dei rischi per le popolazioni di abitanti di case edificate illegalmente, in spregio alle più elementari regole di sicurezza, è interessante anche ricostruire la genesi politica di questo genere di provvedimenti, varati sempre senza quasi opposizione - anzi, in una sorta di regime di unità nazionale - e riproposti, rimodellati e ampliati localmente, come appunto è accaduto in Campania per la legge del governatore De Luca (impugnata dal governo Gentiloni di fronte alla Corte Costituzionale) e come stava per accadere in Sicilia per le case al mare costruite sulla battigia. Se si esclude una piccola pattuglia di coraggiosi giornalisti come Antonio Cederna, Mario Fazio, Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo, associazioni povere di mezzi come, ma non solo, Italia Nostra, e i Verdi, ma non tutti, nessuno ha fatto battaglie vere contro l’abusivismo. Ai tempi dello storico decreto Nicolazzi - il ministro dei Lavori pubblici di Craxi che concepì la prima sanatoria nazionale e ne reiterò il decreto per 21 volte, anche per dilatarne i tempi di efficacia -, in Parlamento, formalmente, si opponeva il Pci. 
 
Ma nelle piazze era il sindaco comunista di Ragusa Paolo Monello a guidare le manifestazioni degli abusivi «per necessità». Monello, antesignano dell’esponente marxista leninista Gennaro Savio - che portò in piazza 600 dei 27 mila abusivi di Ischia nel 2010, minacciando di far saltare le elezioni regionali e ottenendo dall’allora ministra Mara Carfagna e dal candidato, poi eletto governatore della Campania, Stefano Caldoro la promessa di un nuovo decreto per bloccare le demolizioni - era stato il primo a coniare gli slogan più espliciti e efficaci della lotta contro l’antiabusivismo, tipo «Il popolo costruisce, il governo demolisce», oppure «No all’adeguamento antisismico», che sarebbe quasi un invito al suicidio legalizzato, stando ai terremoti verificatisi, dopo Belice, Friuli e Irpinia, nel periodo successivo, dall’Umbria all’Abruzzo al Centro Italia, con migliaia di vittime, senza-tetto e case crollate anche con scosse di media entità, alle quali, come a Ischia, avrebbero dovuto invece resistere.
 
Nell’isola ultima colpita da un sisma, dal 1981 al 2006 sono stati costruiti oltre centomila vani abusivi; nel solo 2004 e soltanto nel Comune di Forio sono stati sequestrati 200 cantieri fuorilegge; una famiglia ischitana ogni 2,5 (in pratica quasi tutte, considerando cuginanze e parentele di secondo grado) ha chiesto il condono. Nel resto d’Italia nei quindici anni tra il 1982 e il ’97 i nuovi manufatti abusivi sono stati quasi un milione (970 mila). Un’enormità del genere non ha eguali in Europa, forse perfino nel mondo.
 
E dopo il pentapartito e i comunisti negli Anni Ottanta, i marxista-leninisti nei Novanta e il centrodestra all’inizio del millennio, sono ora i 5 stelle, in Sicilia, a unirsi al partito unico nazionale dell’abuso. Lo ha fatto, pur vantandosi di aver fatto prima demolire una palazzina da 700 metri quadri di un mafioso, il sindaco stellato di Bagheria Patrizio Cinque, autore di una delibera comunale che tenderebbe a dare abitabilità provvisoria alle costruzioni abusive occupate per necessità; e lo hanno fatto, negli stessi termini, il candidato governatore M5S della regione Giancarlo Cancelleri, spalleggiato dall’aspirante premier Luigi Di Maio, negli stessi giorni in cui il sindaco Angelo Cambiano, l’unico a battersi davvero per l’abbattimento delle orrende villette costruite sulla spiaggia siciliana di Licata, veniva fatto fuori in consiglio comunale da una maggioranza trasversale e riceveva la solidarietà dei comici Ficarra & Picone, protagonisti del film «L’ora legale» che sembra una parodia della sorte del primo cittadino, ma è stato notevolmente superato dalla realtà. Così che non c’è alcun dubbio sul fatto che - chiunque vinca le regionali del 5 novembre - il prossimo condono partirà dalla Sicilia. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/24/cultura/il-partito-unico-dei-condoni-N3pe8GG9g0Cljw1hbwyRkK/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. La zampata di D’Alema sul governo
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 05, 2017, 11:11:48 am
La zampata di D’Alema sul governo

Pubblicato il 04/10/2017
MARCELLO SORGI

Quello che si temeva è accaduto: Mdp, il gruppo degli scissionisti bersanian-dalemiani, ha messo il primo piede fuori dalla maggioranza e si prepara a compiere anche il secondo passo. All’indomani dell’incontro tra Pisapia e il premier Gentiloni, in cui entrambi si erano impegnati a condurre un negoziato sulla politica economica del governo contenuta nella Nota di aggiornamento del Def e nella prossima legge di stabilità, Roberto Speranza ha annunciato che Articolo 1 - Mdp uscirà dall’aula per marcare il proprio dissenso dall’illustrazione fatta ieri in Senato dal ministro dell’Economia Padoan e voterà a favore dell’aggiornamento solo per evitare che scattino le clausole di salvaguardia sottoscritte di fronte alle autorità di Bruxelles. In altre parole, è la minaccia di una rottura che porterebbe alla crisi di governo. La zampata promessa da tempo da D’Alema è dunque arrivata, sia pure per interposto Speranza.
 
Va detto che nulla preludeva a un esito come questo. E forse, ad accelerarlo, è stata proprio la conclusione - interlocutoria ma non negativa - del faccia a faccia Gentiloni-Pisapia di lunedì. Sebbene Padoan avesse fatto qualche prudente apertura alle richieste della sinistra bersaniana, ricordando tuttavia che i margini sono stretti pure in presenza di una ripresa che si manifesta più marcatamente del previsto, la risposta di Speranza è stata un «no» secco. E a nulla è valso che nella stessa giornata la Banca d’Italia e la Corte dei Conti avessero fatto sentire le loro voci autorevoli, raccomandando cautela in un quadro economico che rimane delicato per l’Italia, rammentando che la priorità resta la riduzione dell’enorme (oltre due milioni di miliardi) debito pubblico e ammonendo dai rischi di tornare indietro rispetto a riforme, come quella delle pensioni, che hanno recato sollievo ai nostri sofferenti conti pubblici. 
 
La sensazione è che proprio nei gruppi parlamentari di Mdp, schieratisi all’unanimità, sia prevalsa la linea di D’Alema, che da mesi spiega pubblicamente che è necessario, per Articolo 1, passare il più velocemente possibile all’opposizione, lasciando al governo la responsabilità di condurre la sua politica economica, necessariamente (ma inaccettabilmente, per D’Alema), rigorosa, e inaugurando prima della fine della legislatura una campagna elettorale anti-Renzi e anti-Pd.
 
Di fronte a questa strategia, di cui ieri è stato dispiegato il primo atto, qualsiasi tentativo del governo di recuperare la parte sinistra della propria maggioranza rischia di trasformarsi in un insuccesso. Mentre infatti sono abbastanza chiare le implicazioni dello scontro e la suggestione di una campagna tutta all’attacco, con qualsiasi legge elettorale si vada a votare, per portare Renzi alla sconfitta e dargli la botta finale, per capire se esista uno spiraglio per convincere gli scissionisti a tornare indietro, basta porsi una semplice domanda: il giorno dopo, come spiegherebbero ai loro elettori di aver ritrovato l’intesa con il premier e il Pd, dopo aver descritto questo governo come un esempio di servilismo verso il rigore imposto da Bruxelles? La riduzione dei cosiddetti «superticket» sanitari, o impegni inevitabilmente contenuti nei campi della sanità pubblica, del lavoro e del diritto allo studio, in che modo potrebbero camuffare quella che apparirebbe una calata di brache, dopo aver dichiarato da tempo che con questo esecutivo non si può più venire a patti? Quando Speranza ha dichiarato che Mdp si sente ormai fuori dalla maggioranza, ha in sostanza detto questo. Con buona pace di Pisapia che, dopo il suo primo giorno da leader, è stato senza alcun rispetto smentito e costretto a fare una figura barbina di fronte a Gentiloni.
 
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Titolo: MARCELLO SORGI. Scelte casuali e convergenze parallele
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 18, 2017, 07:06:31 pm
Scelte casuali e convergenze parallele

Pubblicato il 17/10/2017

MARCELLO SORGI

È sempre complicato, in Italia, dedurre i cambiamenti della politica dai comportamenti parlamentari. Il Paese delle convergenze parallele è diventato quello degli incontri occasionali. Nella Prima Repubblica i radicali denunciavano spesso, come prova di consociativismo mai archiviato, il gran numero di votazioni che vedevano insieme Dc e Pci. Nella Seconda la stagione del bipolarismo non riuscì mai a impedire gli agganci tra centristi di qualsiasi natura e governi di ogni indirizzo. 

Per non dire del «ribaltone» che disarcionò Berlusconi diventando oggetto di studio nelle università. 
 
Nella terra di mezzo tra fine della Seconda Repubblica e mancata nascita della Terza, l’attenzione ovviamente è sull’avvicinamento tra Pd e Forza Italia: legittimo, alla luce del sole, all’inizio della legislatura e grazie all’incubatrice rappresentata dal patto del Nazareno, tra Berlusconi e Renzi. E continuato sotto traccia dopo la rottura tra i due sul Quirinale se è vero che al Senato, dove i governi Renzi e Gentiloni hanno avuto sempre maggioranze ballerine, il soccorso azzurro, magari in forma di assenze e uscite dall’aula, è stato decisivo nei momenti delicati.
 
Poi a un certo punto, dal fondo delle aule parlamentari, ha preso a soffiare più forte anche il vento dell’opposizione, rinvigorito dall’incontro di Lega e Movimento 5 stelle, che alleati con Fratelli d’Italia, soprattutto sull’immigrazione, hanno dato spesso battaglia, quasi prefigurando un nuovo polo populista e dandosi appuntamento dopo le elezioni per provare a mettere insieme una maggioranza e forse anche un governo. La rottura sul Rosatellum, lo schieramento del Carroccio con Pd, Ap e Forza Italia, gli insulti tra Grillo e Salvini, i malumori della Meloni verso la nuova legge elettorale hanno fatto a pezzi quell’embrione ancora tutto da coltivare. I sondaggi oggi dicono che per Lega e FdI la partita più interessante resta quella del centrodestra, con Berlusconi che promette che se non avrà la maggioranza è pronto a ritirarsi. Così anche quel terzo o poco più di votazioni in cui il partito dell’ex Cavaliere s’è trovato accanto al Pd non basta certo a rappresentare l’anticipo di quel che potrà avvenire nella prossima legislatura. 
 
Perché la verità è che in quella che va a concludersi è successo tutto e il contrario di tutto. A ogni stormir di fronde le strategie, chiamiamole così, sono cambiate. E deve ancora arrivare il 5 novembre, con i risultati delle regionali siciliane, per farci assistere a un nuovo terremoto: stavolta, c’è chi è pronto a scommetterci, tra Pd e centrosinistra.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/17/cultura/opinioni/editoriali/scelte-casuali-e-convergenze-parallele-Pdja9EiVTG00hCqFs3c60J/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il territorio laboratorio di leadership
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2017, 06:11:42 pm
Il territorio laboratorio di leadership

Pubblicato il 24/10/2017

MARCELLO SORGI

Dalle urne del referendum di Veneto e Lombardia, oltre a un risultato politico che influirà anche sulle prossime elezioni, esce un modello di leadership destinato a far riflettere, a destra come a sinistra. È quello del trionfatore del Veneto Zaia e del - già, come definirlo, vincitore o vinto? - sindaco di Bergamo Gori, schierato con il «Sì» dei leghisti promotori delle consultazioni, ma contraddetto dalla posizione ufficiale del suo partito, il Pd, che con il vicesegretario nazionale e ministro dell’Agricoltura, il milanese Martina, aveva lanciato alla vigilia del voto un appello all’astensione.
 
Al di là della possibile - e dall’interessato sempre negata - candidatura alla guida dell’eventuale, e adesso sempre più possibile, prossimo governo di centrodestra, ipotesi lanciata tempo fa da Berlusconi, Zaia, che in una tempestosa domenica di pioggia ha portato la maggioranza dei veneti alle urne e a esprimersi a favore di una maggiore autonomia locale, ha alcune caratteristiche in comune con Gori. Il quale ha raccolto le firme dei sindaci lombardi per lo stesso obiettivo, e magari avrebbe preferito rinunciare al referendum, perché non gli era sfuggito che a incassarne i vantaggi sarebbe stata soprattutto la Lega, compreso il governatore lombardo Maroni, che lo stesso sindaco si prepara a sfidare alle prossime regionali, e che pur non avendo eguagliato il successo di Zaia, ne ha comunque ricavato una bella lucidatura della propria immagine. Ma una volta avviata la macchina, appunto, Gori non s’è tirato indietro, né ha atteso di aver indicazioni dal confuso vertice del Pd, che oscillava tra il dare la libertà di voto ai propri elettori, vale a dire non prendere posizione, e il tardivo schierarsi per l’astensione, cioè a scommettere sulla sconfitta dell’avversario, senza entrare in partita. Al contrario il sindaco, coerente con l’impegno preso insieme ai suoi colleghi primi cittadini dei comuni della Lombardia, s’è messo lo zaino in spalla, è andato in campagna elettorale, e dopo aver condiviso in parte la vittoria, ha proposto al Pd di votare all’unanimità in consiglio regionale con il centrodestra, per avviare la trattativa con il governo. 
 
Siccome anche Salvini, leader del partito di Zaia, non era proprio entusiasta del referendum nordista proposto dai presidenti leghisti delle due regioni, e lo ha digerito con qualche difficoltà, è abbastanza facile capire qual è la caratteristica che accomuna il governatore veneto e il sindaco lombardo: essere allo stesso modo rappresentanti del territorio, conoscerne i problemi e il comune sentire, e soprattutto comportarsi di conseguenza, senza piegare il capo - o piegandolo il meno possibile - alle scelte nazionali del proprio partito, e sapendo ascoltare la propria gente anche quando questo potrebbe risultare non esattamente conveniente.
 
La questione settentrionale - ma non solo: basti pensare alla Puglia di Emiliano, e per certi versi anche alla Napoli di De Magistris o alla Palermo di Orlando - sta tutta qui. Quando i cittadini di un determinato territorio percepiscono che i loro rappresentanti, o quelli che li governano, non hanno a cuore i loro problemi specifici, li trascurano e come soluzioni cercano di applicare astratti modelli nazionali, che faticano a produrre effetti in periferia, o scelgono di farsi rappresentare da altri, oppure, se non trovano nessuno o nulla di convincente, si buttano nell’astensione o nelle braccia dell’antipolitica.
 
Ecco perché una politica moderna, non inutilmente ideologica, dovrebbe partire di qui per ridefinire i propri obiettivi e governare con sapienza le inevitabili spinte centrifughe di questo sistema.
 
Stupisce che ci riesca il centrodestra, seppure, come abbiamo visto, un po’ a dispetto di se stesso. E non ci riesca invece il centrosinistra, e all’interno di esso il maggior partito di governo: con un leader come Renzi, che aveva costruito la sua fortuna facendo il sindaco di una grande città come Firenze, arrivando a incontrare Berlusconi premier per fare gli interessi della propria città, e diventando poi, chissà perché, centralista a Palazzo Chigi; e ancora, tra i suoi dirigenti, un uomo come Chiamparino, già primo cittadino di Torino e attuale governatore del Piemonte, che qualche anno fa era arrivato a proporre l’eresia di un Pd del Nord, e per questo era stato politicamente - e inutilmente - massacrato.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il paradosso dell’alternativa a Cinque Stelle
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 29, 2017, 09:12:20 pm
Il paradosso dell’alternativa a Cinque Stelle

Pubblicato il 29/10/2017 - Ultima modifica il 29/10/2017 alle ore 07:12

MARCELLO SORGI

Può sembrare un paradosso che il declino della sindaca di Torino Chiara Appendino somigli straordinariamente a quello della sua collega romana Virginia Raggi. 

E come la seconda era stata costretta a far saltare il cerchio dei suoi collaboratori più stretti in Campidoglio, anche la prima ieri ha dovuto far fuori il suo capo di gabinetto Paolo Giordana, per un’assai poco esemplare richiesta all’azienda dei trasporti di far cancellare una multa presa su un autobus. 
 
Va detto che il personaggio Giordana, funzionario comunale collaboratore in passato sia di politici di centrodestra sia di centrosinistra, non somiglia per niente ai Morra, Frongia e Romeo che circondavano di attenzioni la Raggi, intestandole perfino delle polizze di assicurazione, prima di finire agli arresti domiciliari o sotto inchiesta per svariati reati. Ma allo stesso modo era stato lo chaperon nei meandri della politica torinese della giovane Appendino, approdata in Consiglio comunale quando era sindaco Piero Fassino, e subito distintasi per un’opposizione puntuale e pervicace, alla quale certo non erano estranei i consigli di quel suo collaboratore, divenuto poi amico e assurto al ruolo di capo di gabinetto e quasi alter ego della sindaca subito dopo la conquista del Palazzo di Città.
 
Eppure non potevano sembrare più diverse, agli inizi, le due sindache ora precipitate verso simili destini e simmetricamente imputate per falso in bilancio. Un’avvocatessa nata borgatara e professionalmente formatasi alla scuola dell’ex ministro e avvocato berlusconiano Cesare Previti, la Raggi. Una giovane signora borghese, figlia di imprenditore, poliglotta e educata nelle migliori scuole, l’Appendino. Una miracolata dal collasso per corruzione di entrambi gli schieramenti di centrodestra e centrosinistra a Roma e dall’azzeramento della giunta Marino voluto da Renzi, la prima cittadina della Capitale. Una nata con la camicia che ereditava a sorpresa una delle amministrazioni più efficienti e una città vetrina in gran spolvero negli ultimi dieci anni dopo le Olimpiadi, quella di Torino. Tanto che mentre Raggi si dibatteva, puntellata giorno dopo giorno da Grillo e Casaleggio e via via commissariata da personale di fiducia dei vertici 5 Stelle, di Appendino si arrivava a parlare come volto-simbolo e possibile candidata-premier del Movimento al posto di Luigi Di Maio, oltre che interlocutrice rispettata di un Pd frastornato dalla sconfitta nella capitale industriale del Paese e deciso a insidiarne il successo affiancandola, invece che contestandola.
 
Altri tempi: dal tragico 3 giugno del panico, del morto innocente e delle centinaia di feriti a Piazza San Carlo, all’avviso di garanzia per falso in bilancio, la caduta d’immagine della sindaca e il suo progressivo avvitamento nelle difficoltà sembrano ormai irreversibili. Senza tuttavia - e anche questo è un punto di contatto tra le due vicende di Torino e Roma - che il consenso attorno a lei risulti significativamente intaccato o si affacci il benché minimo rimpianto delle amministrazioni passate. Hanno un bel dire, Chiamparino e Fassino, che l’aspetto nuovo della città, l’integrazione del suo tradizionale tessuto imprenditoriale con le nuove vocazioni culturali e turistiche è stato costruito da loro, con il paziente e duro lavoro ventennale delle amministrazioni di centrosinistra. È sicuramente vero, anche se non sempre è tutto oro quel che riluce, ma nell’opinione della maggioranza dei cittadini, l’ora del cambiamento era arrivata e ancora non è passata.
 
A ben vedere questo è ancora il problema, non solo di Torino, ma dell’Italia e degli italiani nel rapporto con i 5 Stelle: sebbene abbiano rivelato grandi e piccole incapacità in tutte le realtà in cui sono stati chiamati a governare, Grillo e i suoi (le sue, verrebbe da dire, pensando alle sindache che insieme nel 2016 portarono il Movimento alla vittoria più importante) appaiono ancora a una larga fetta di elettori come l’unica vera alternativa possibile alla sclerotizzata politica tradizionale, si tratti del ritorno in campo di Berlusconi e del centrodestra, seppure con l’iniezione di populismo di Salvini e Meloni, o delle pulsioni suicide del solito centrosinistra, con Renzi che non potendo più rottamare Bersani se la prende con il governatore della Banca d’Italia, il governo Gentiloni e alla fine, in un inspiegabile crescendo autolesionista, perfino con se stesso. Così se è difficile, forse impossibile, spingere M5S a essere diverso da quel che è, sarà almeno lecito, alla vigilia delle elezioni regionali siciliane di domenica prossima e delle politiche ormai prossime, chiedere agli altri di fare uno sforzo, finché c’è tempo, per tornare a essere affidabili. Anche se è molto difficile credere che ci riusciranno.

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Titolo: MARCELLO SORGI. L’alternativa che nasce dalla fragilità
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 06, 2017, 09:02:34 pm
L’alternativa che nasce dalla fragilità

Pubblicato il 05/12/2017

MARCELLO SORGI
Del lungo e appassionato intervento con cui domenica Pietro Grasso s’è assunto la responsabilità di guidare verso il voto la sinistra di Mdp, Si e «Possibile», colpivano essenzialmente due cose. 
 
La prima era l’amarezza personale, un dolore esplicitato fino all’intimità, che ha portato il presidente del Senato a lasciare il Pd, che lo aveva candidato e in maggioranza eletto alla seconda carica dello Stato. 
 
Una decisione sofferta, eppure ineludibile, determinata, è parso di capire, non solo dalla mancata condivisione delle scelte fondamentali di questa legislatura, a cominciare dalla tentata cancellazione del Senato, ma dall’assoluta impossibilità di esprimere le sue riserve e trovare un minimo d’ascolto in un luogo di dibattito.
 
Grasso insomma, catapultato da Bersani al vertice di Palazzo Madama, dopo l’arrivo di Matteo Renzi alla segreteria del Pd s’è sentito solo. Con il nuovo leader immaginava di poter costruire lo stesso tipo di rapporto che aveva avuto con il predecessore, invece ha trovato il silenzio, la cortina di indifferenza, l’assenza di consigli (e sì che ne aveva bisogno, trovandosi alla sua prima esperienza parlamentare), di cui faticava a trovare le ragioni, sentendosi a mala pena sopportato. 
 
Così il distacco maturato apertamente dopo la fiducia imposta sulla nuova legge elettorale, che aveva praticamente impedito ai senatori di discutere il testo del Rosatellum, in realtà era cominciato molto prima, quando già un anno fa Grasso, sottovoce, aveva fatto sapere di sentirsi più vicino al «No» che non al «Sì» al referendum.
 
Chi ha memoria di rapporti difficili tra autorevoli «esterni» siciliani e sinistra, paragona impropriamente la rottura tra Renzi e Grasso a quella, assai più sanguinosa, tra Enrico Berlinguer e Leonardo Sciascia alle elezioni del 1979. Ma pur essendo difficile avvicinare la storia del supermagistrato antimafia amico di Falcone e Borsellino con quella dello scrittore eretico, entrato in Parlamento con Pannella e sull’onda del pamphlet «L’affaire Moro», in cui senza clemenza inchiodava la Dc alle proprie responsabilità per l’assassinio del leader sequestrato dalle Brigate rosse, qualcosa che le collega c’è di sicuro, non fosse solo il carattere dei siciliani, l’ombrosità, la permalosità, il modo antico di litigare togliendosi il saluto e la possibilità di parlarsi per sempre.
 
In questo senso la seconda cosa, strettamente connessa alla prima, del discorso di Grasso, è che se qualcuno dei suoi compagni d’avventura, all’indomani del voto, e magari in presenza di un risultato buono o discreto, dovesse lontanamente pensare di andarselo a spendere nel campo di una rinegoziazione con il Pd, Grasso non ci starà. Non a caso, dalla tribuna su cui è salito per assumere la leadership e dire «Io ci sono!», ha parlato di valori, di giustizia, di eguaglianza, della sua storia personale piena di sacrifici e lutti non rimarginabili, ma non ha inserito alcun accenno alle alleanze possibili, come invece normalmente usa fare un leader politico, e come perfino Renzi fa, fingendo di crederci, quando ancora si augura «la vittoria del centrosinistra», inteso come insieme separato che dovrà prima o poi ritrovare l’unità.
 
Si sa: D’Alema e Bersani sperano che il leader del Pd alle politiche prenda la botta definitiva che lo spinga a togliersi di mezzo, e solo allora ritengono che possa chiudersi la ferita che ha portato alla scissione. Ma Grasso, sul futuro di Renzi e sulla sua capacità di resistenza, è più pessimista: non considera così semplice una ricomposizione a breve termine. Pensa piuttosto a un’alternativa che - nascendo da quel pezzo di società civile impegnata da cui lui stesso proviene, forgiata nella lotta antimafia e in buona parte rifluita verso l’astensionismo o il voto ai 5 Stelle - non si inquadri obbligatoriamente nello schema politica-antipolitica, populismo-antipopulismo, sinistra di governo o di opposizione, ma delinei una prospettiva diversa, che i mutati (molto più, spera, nella prossima legislatura) rapporti di forza potrebbero rendere realistica. Una scomposizione trasversale dei gruppi parlamentari che il ritorno al proporzionale e la fragilità dichiarata in partenza delle attuali alleanze potrebbero alla fine incoraggiare. Trasformando Grasso e la pattuglia della sinistra che lo sostiene in interlocutori, forse alleati, di un prossimo governo a 5 Stelle.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Prove di alleanze all'ombra del Colle
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 08, 2017, 10:34:28 am
Prove di alleanze all'ombra del Colle

Pubblicato il 07/12/2017

MARCELLO SORGI

Sarà per via dell’imprevedibile (almeno nelle dimensioni di questi giorni) successo di Berlusconi al suo ennesimo ritorno in campo, ma attorno ai 5 stelle si registrano strani movimenti. Il corteggiamento di Mdp e altri pezzi di sinistra, compresa la parte di Campo progressista di Pisapia non ancora rassegnata all’accordo con Renzi, punta a rendere più esplicita la disponibilità di Di Maio, al momento solo intuibile, a un’alleanza di governo post-elettorale, e a capire se e a quali condizioni potrebbe veramente realizzarsi. L’intervista che pubblichiamo oggi in cui il candidato-premier di M5s fa un’inattesa apertura all’Europa, oltre a essere una novità, sembra un altro passo in quella direzione.

 Per tutto il largo fronte - dai cattolici tradizionali alla Scalfaro o democratici alla Rosi Bindi, al centro tecnocratico stile Monti, alla sinistra post-comunista di Bersani, alla sinistra-sinistra - che nel ventennio berlusconiano viveva di antiberlusconismo e in quell’ambito trovava le ragioni di una fragile unità, tendere un filo verso i 5 stelle, sempre che questi siano disposti a raccoglierlo, potrebbe rappresentare un’alternativa all’inevitabile - come ora viene descritto, nel caso dalle urne di primavera non esca una maggioranza - ritorno alle larghe intese tra Pd e Forza Italia. 
 
Si tratterebbe, non di delineare subito un accordo, per il quale Grillo, Casaleggio e Di Maio non sarebbero pronti, ma di inaugurare un confronto, magari sorvegliato dal Quirinale, simile a quello che nella Prima Repubblica serviva ad ammorbidire la cortina di ferro stesa per ragioni interne e internazionali attorno al Pci; oppure, più di rado e sempre senza successo fino all’arrivo di Berlusconi, a tentare di scongelare a destra i voti parlamentari del Msi. Nel primo caso, grazie anche al comune lavoro e alle radici piantate all’epoca della Costituente, l’asse trasversale tra il partito di Togliatti e Berlinguer e parti consistenti di tutte le forze che stavano al governo divenne un’architrave dell’intero edificio repubblicano, fondato sul consociativismo, a dispetto di un anticomunismo più declamato che praticato. Tal che, dopo De Gasperi, e con pochissime e limitate eccezioni, per più di trent’anni quasi tutti i governi democristiani, fino a quelli di solidarietà nazionale 1976-’79 che lo ebbero come alleato, cercarono sempre di stabilire buoni rapporti con il Pci. Cosa che fece anche Spadolini, primo presidente laico del Consiglio, all’inizio degli Anni Ottanta, e subito dopo non volle fare Craxi, teorico, nel periodo della presidenza socialista, delle maggioranze delimitate di pentapartito e di una competizione dura con i comunisti, volta a farne emergere le ambiguità para-sindacali e le difficoltà ad accettare pienamente il rapporto con la modernità capitalistica e industriale dell’Italia. Ciò finì col destabilizzare l’assetto consolidato, ancorché instabile, della Prima Repubblica, malgrado la sorda opposizione di mezza Dc, e ne accelerò la crisi con conseguenze che poi portarono alla caduta del sistema nel fatale 1993. 
 
Può bastare, questo, a immaginare che adesso, al tramonto della Seconda Repubblica - e alla vigilia di un passo verso l’ignoto, dato che tutti prevedono che la nuova legge elettorale non darà vita ad alcuna solida maggioranza - si apra (o si riapra, dato che fu Andreotti a inventarlo) un secondo forno a 5 stelle, per far fuori insieme i dioscuri del patto del Nazareno Renzi e Berlusconi? Si sa, ragionare su quel che è già accaduto, spesso è utile. Ma paragonare quel passato, che tanti oggi cominciano a rimpiangere, con l’incerto presente attuale, è impossibile: troppe cose sono cambiate. E tuttavia colpisce che già in vista del ritorno del proporzionale, e senza ancora averne misurato gli effetti nel voto, certi meccanismi politici si ripropongano, come se nulla fosse.

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Titolo: MARCELLO SORGI. I grillini e l’arte del possibile
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 22, 2017, 04:17:45 pm
I grillini e l’arte del possibile

Pubblicato il 19/12/2017

MARCELLO SORGI

Non è il passato che non passa, ma che ritorna. Oltre a segnare una svolta del M5S dal percorso duro e puro seguito fin qui, e a dimostrare che anche Grillo e Casaleggio si muovono nella logica del proporzionale, stile Prima Repubblica, l’offerta di Di Maio di infrangere la severa regola del «no» a qualsiasi alleanza con i partiti tradizionali, per aprire a un eventuale governo di coalizione, con «Liberi e uguali» e se necessario con un Pd derenzizzato, ha uno storico precedente, che risale a trentacinque anni fa. 

Nel novembre 1982, dopo la caduta del governo Spadolini a causa della famosa «lite delle comari» tra i ministri Formica e Andreatta, alle consultazioni che si aprirono per risolvere la crisi, il leader del Pci Berlinguer fu autore di una strana uscita. «Accetteremmo un governo diverso, che segnasse una discontinuità», disse, rivolgendo a De Mita la proposta di varare un governo Dc-Pri, senza i socialisti, e con l’appoggio esterno dei comunisti. I democristiani non potevano accettare di rompere la già compromessa collaborazione con il Psi, così non se ne fece niente e si andò alle elezioni anticipate. Ma il passaggio segnò egualmente una fibrillazione dei cristallizzati rapporti politici del tempo, e nella nuova legislatura, complice un forte calo elettorale dello Scudocrociato, i socialisti alzarono il prezzo e ottennero la presidenza del consiglio per Craxi.

Tra allora e oggi, va detto, tutto, o quasi tutto, è cambiato. E non c’è alcuna analogia tra un grande, tradizionale e novecentesco partito di massa come il Pci e un movimento imbevuto di logica antisistema come i 5 Stelle. E tuttavia il meccanismo dell’offerta di Di Maio è lo stesso. Il candidato premier pentastellato si smarca dalla rigida divisione di campo che lo ha tenuto fin qui dentro i confini del populismo nostrano, per proporsi come attore a tutto campo della partita politica che si aprirà dopo il voto di marzo, quando l’assenza di una maggioranza chiara uscita dalle urne (la nuova legge elettorale non è in grado di assicurarla) costringerà il Presidente della Repubblica a esercitare tutta la sua fantasia, per cercare di dare al Paese un governo pienamente legittimato.

Fino a ieri, prima dell’ultima mossa di Di Maio, lo scenario più probabile era uno solo: a meno di una chiara, quanto incerta, vittoria del centrodestra, l’unico sbocco sarebbe stato il ritorno a un esecutivo di larghe intese, come quello guidato da Enrico Letta, che inaugurò la legislatura che sta per chiudersi. Di Maio invece, con congruo anticipo in modo che anche gli elettori possano capirla e rifletterci su, ha messo in campo una seconda possibilità: un governo 5 Stelle-Liberi e uguali-Pd (ma senza Renzi, nell’ipotesi terremotato da una sconfitta non improbabile e convinto a farsi da parte), costruito in Parlamento su un programma condiviso.

Naturalmente non basta esprimere una disponibilità, e specie in campagna elettorale, come ormai siamo, è lecita qualsiasi domanda e qualsivoglia retropensiero. Viene da chiedersi, ad esempio, se Di Maio sarebbe disposto a rinunciare a guidare un siffatto governo, qualora i potenziali alleati lo richiedessero per riequilibrare la coalizione. E in questo caso chi potrebbe assumere il ruolo di presidente del Consiglio: lo stesso Gentiloni, o il veto espresso dal M5S nei confronti di Renzi dovrebbe intendersi automaticamente esteso all’attuale premier? O il presidente del Senato Grasso, leader di «LeU», neonata formazione di sinistra non programmaticamente ostile a Grillo, Casaleggio, Di Maio e al loro Movimento? E nel Pd - un Pd bastonato dai risultati, perché questo è il presupposto -, piuttosto che ritrovarsi all’opposizione, davvero potrebbe maturare il capovolgimento dell’attuale sfida anti-populista e anti-5 Stelle? Sono domande destinate in gran parte a restare senza risposta, almeno fino al voto.

Eppure la novità esiste, e sarà interessante capire in che modo l’accoglierà Mattarella, quando Di Maio, oggi stesso, andrà a spiegargliela. Per il momento non resta che prendere atto del cambiamento in corso: la logica binaria politica/antipolitica, populismo/antipopulismo, sinistra di governo/di opposizione, che aveva accompagnato il tramonto della Seconda Repubblica, è finita tutt’insieme. Le larghe intese, che di questa logica erano figlie, non sono più ineluttabili. È aperto il cantiere di un «governo diverso», e chissà che stavolta non vada come trentacinque anni fa. Nella stagione del ritorno al passato, chi ha più filo tesse, la politica è di nuovo l’arte del possibile.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La legislatura nel segno delle sorprese
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2017, 10:16:06 pm
La legislatura nel segno delle sorprese

Pubblicato il 27/12/2017
MARCELLO SORGI

Si chiude una legislatura tra le più complicate e imprevedibili della storia repubblicana. Complicata, come si sa, perché nata morta, con la cosiddetta «non vittoria» del Pd di Bersani e l’assenza di maggioranze precostituite al Senato; e imprevedibile, a parte la durata naturale di 5 anni su cui nessuno avrebbe scommesso nel 2013, perché ha messo a segno inaspettatamente una serie di riforme importanti (anche quelle bocciate nel referendum del 4 dicembre 2016), mai approvate tutte insieme nel corso di un solo mandato parlamentare. 

Se solo si riflette sulle leggi realizzate nei mille giorni del governo Renzi, dal Jobs Act, alla scuola, alla legge elettorale (pur emendata chirurgicamente dalla Corte costituzionale), alle unioni civili, e ancora - va detto e ripetuto - alle riforme costituzionali, che avrebbero potuto essere migliori, e probabilmente non cadere sotto la mannaia delle urne referendarie, se a un certo punto del percorso non si fosse arrivati al muro contro muro tra Palazzo Chigi, indisponibile a riscrivere parte dei testi, e le opposizioni, decise a impedirne a qualsiasi costo il varo; e se si aggiungono i risultati del governo Gentiloni, dal salvataggio delle banche al biotestamento, è quasi impossibile rintracciare nel passato il precedente di una legislatura così prodiga di risultati. E i differenti punti di vista, le legittime contrapposizioni sui contenuti delle riforme, sia di quelle cancellate prima di entrare in vigore, sia delle altre sopravvissute, compreso il Rosatellum, la nuova e discussa (ma pur sempre preferibile al nulla determinatosi dopo l’affossamento dell’Italicum da parte della Consulta) legge elettorale che ci consentirà di tornare al voto nel prossimo marzo, non dovrebbero impedire a nessuno di constatare l’eccezionalità del lavoro di questo Parlamento. Un Parlamento, non va dimenticato, in cui anche le opposizioni, certo non tutte, non sempre e al di là dei normali interessi di propaganda, hanno saputo dar prova di responsabilità, e in molte circostanze, soprattutto al Senato, consentire il passaggio di provvedimenti altrimenti destinati al fallimento e di politiche azzardate ma indispensabili, vedi la soluzione trovata per il problema degli sbarchi fuori controllo degli immigrati, costruita dal ministro Minniti con paziente tessitura.

Come tutto ciò abbia potuto realizzarsi, non è semplice da spiegare. Le larghe intese e il «patto del Nazareno», pensati all’inizio per una situazione d’emergenza, si sono dissolte dopo pochi mesi. Il governo Letta ne ha fatto le spese; è stato sostituito in corsa da quello guidato dal leader del Pd e sostenuto da una più precaria maggioranza, da ricercarsi volta per volta a Palazzo Madama, a causa delle divisioni (poi sfociate in scissione) insorte nel frattempo all’interno del partito di Renzi. Il quale, a sua volta, ha dovuto mollare, dopo la cocente sconfitta nel referendum costituzionale. A quel punto, ancorché fosse necessario, se non altro per non gelare i primi refoli di una ripresa economica arrivata dopo otto lunghi anni di crisi, nessuno s’aspettava che le cose potessero continuare. Invece, dal cilindro di Renzi e con la benedizione di Mattarella, è uscito Gentiloni, una sorta di uomo del destino: da anni e anni non s’era più visto uno così capace di navigare nella tempesta, con le vele stracciate e il timone che fatica a rispondere.

Malgrado ciò si sbaglierebbe a dire che è stata tutta opera della Provvidenza, sebbene sicuramente ci abbia messo del suo. Si sa che gli italiani danno il meglio di loro nei momenti difficili: ed è accaduto pure in queste Camere formate per metà e più di deputati e senatori di prima nomina, senza o quasi esperienza. Lo avranno fatto, non è un mistero, anche per salvarsi il posto, che perderanno (e in molti, difficilmente riavranno) di qui a poco. Anche per questo è giusto tributare un minimo di onore al merito ai «morituri» dell’ultimo Parlamento della Seconda Repubblica.

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Titolo: MARCELLO SORGI. La sfida decisiva fra Movimento e centrodestra
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 27, 2018, 05:51:13 pm
La sfida decisiva fra Movimento e centrodestra

Pubblicato il 26/02/2018

Marcello Sorgi

A una settimana dal voto di domenica, grande è la confusione che regna sotto il cielo. E grandissima l’impazienza dei corridori in gara di attribuirsi una vittoria che ancora non c’è. Il leader del M5S, Di Maio, s’è presentato al Quirinale preannunciando una lista di ministri prima ancora di aver ricevuto l’incarico e sapere se avrà la maggioranza per governare. L’aspirante premier di centrodestra Salvini è salito sul palco a Milano in giacca e cravatta presidenziali; giurando sul rosario, ha detto che il Vangelo sarà il suo programma. E «Berlusconi presidente», come recita il simbolo della sua lista, continua a far finta che una sentenza non gli impedisca di candidarsi ed essere spendibile per il governo.

Ma è soprattutto tra M5S e centrodestra che lo scontro negli ultimi giorni è diventato senza esclusione di colpi. Nei due schieramenti è diffusa la convinzione che la partita finale si giochi nel Sud, tra Campania e Sicilia, in un pugno di collegi uninominali, chi dice 50, chi ormai 30, dove la vittoria potrebbe andare agli uni o agli altri solo per un pugno di voti. 

Se i 5 Stelle, che al Sud sono dati in crescita giorno dopo giorno, riuscissero a prevalere, il centrodestra, pur avvicinandosi, non avrebbe la maggioranza parlamentare. E viceversa: se Berlusconi, Salvini, Meloni e Noi per l’Italia dovessero farcela, centrando in pieno o sfiorando la stessa maggioranza, la sera stessa del risultato sarebbero pronti a chiedere al Quirinale di formare il loro governo. 

Il paradosso di questo rush finale è che da entrambe le parti si ragiona come se tutto fosse già accaduto e quel che deve seguire si possa realizzare in pochi giorni. Così Di Maio sostiene apertamente che gli avversari potranno reclamare l’incarico solo se avranno numeri pieni che gli assicurino di potersi presentare alle Camere per chiedere la fiducia. E lascia intendere di avere un coniglio nel cilindro, da tirar fuori al momento opportuno: un governo M5S-Pd-LeU-+Europa, una specie di centrosinistra rivisitato, a cui Renzi e gli altri si adatterebbero per non andare all’opposizione. Quanto a Berlusconi, il più fiero avversario degli «incompetenti», definiti così in tutti i suoi comizi e interviste tv, non prende affatto in considerazione l’ipotesi di una «non vittoria», come quella di Bersani nel 2013, o peggio ancora di subire un sorpasso all’ultima curva da parte del suo alleato Salvini, ciò che cambierebbe completamente il quadro del preteso, finora, successo del centrodestra. Follie, fantasie? In verità sono discorsi a vanvera, destinati a soccombere di fronte ai numeri veri che usciranno dalle urne. Chi li fa, si tratti del giovane Di Maio o dell’attempato Berlusconi, dimostra solo di essere un neofita del proporzionalismo, di non conoscere trucchi, segreti, e soprattutto incognite, del gioco vecchio/nuovo che comincerà la notte del 4 marzo.

Per certi versi, si tratta di una partita inedita. Anche quando il proporzionale era in voga, nella Prima Repubblica, il confine tra le forze di governo e quelle di opposizione - sempre le stesse, da una parte e dall’altra - era segnato da rigide questioni internazionali e dal vento gelato della Guerra Fredda. Tal che, in un modo o nell’altro - salvo eccezioni rimaste nella Storia, come quelle dei governi di solidarietà nazionale degli anni 1976-79 sostenuti anche dal Pci -, l’esecutivo nasceva all’interno del solito recinto della Dc e dei suoi alleati. Stavolta invece la partita sarà a 360 gradi, approcci e rotture verranno praticati da tutti contro tutti, e infinite diventeranno le combinazioni che ciascuno potrà progettare o minacciare per condizionare i movimenti di alleati e avversari.

Ad esempio, l’idea di Di Maio che il Pd e gli alleati del centrosinistra possano acconciarsi a un «accordo di programma» con i 5 Stelle «senza scambi di poltrone», è semplicemente fuori dal mondo: da sempre programmi e composizione del governo sono andati di pari passo, ed è verosimile che fin dall’inizio della trattativa i potenziali alleati chiedano di discutere anche sul presidente del Consiglio. Allo stesso modo la regola del centrodestra - «chi ha un voto in più indicherà il premier» - è scritta sull’acqua: se i numeri dovessero consentire un esecutivo di larghe intese, Berlusconi sarebbe il primo a dimenticarsene, e forse non solo lui. Infine, le strane ipotesi che continuano ad affacciarsi dagli studi televisivi o dalle piazze delle manifestazioni hanno il difetto di fare i conti senza l’oste: il Presidente della Repubblica, che dal 5 marzo sarà il solo a dare le carte e a cercare di riportare i sognatori di oggi al duro impatto con la realtà. 

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il risultato che spaventa l’Europa
Inserito da: Arlecchino - Marzo 06, 2018, 02:21:01 pm
Il risultato che spaventa l’Europa

Pubblicato il 05/03/2018

MARCELLO SORGI

Dalle urne del 4 marzo è uscito qualcosa che l’Europa temeva e l’Italia forse non s’aspettava di queste dimensioni: la vittoria di un insieme populista e sovranista che va dal Movimento 5 Stelle alla Lega. Nella lunga notte in cui i dati affluivano lentamente dalla macchina del Viminale, sono cresciuti costantemente i numeri di queste liste, formalmente schierate su fronti opposti, ma al bisogno pronte a convergere. Soprattutto se si considera l’elemento che accomuna il successo pentastellato, il fiato caldo alitato sul collo di Berlusconi da Salvini prima di sorpassarlo e l’avanzata di Fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni: la portata del voto antisistema, da considerare non più come sfogo o protesta, perché punta dichiaratamente al governo. E lo fa, in nome di parole d’ordine e obiettivi opposti a quelli dell’establishment nazionale e sovrannazionale che finora ha tenuto ferma la barra dei rapporti con l’Unione europea. Così, dopo quella che nel ’94 seppellì la Prima Repubblica, partorendo la Seconda, una nuova rivoluzione è partita in Italia. Il populismo, sconfitto dappertutto in Europa, qui ha vinto: o riuscirà a governare, o sarà in grado di inceppare il sistema.

Con il voto di un elettore su tre, se davvero il Movimento 5 Stelle potrà dire di aver superato il 30 per cento, sarà grazie al consenso plebiscitario raccolto da Roma in giù. Percentuali che sfiorano quelle storiche della Dc nella sua età dell’oro, quando i ras dello scudo crociato, i «signori della miseria», amministravano un sistema clientelare efficiente e costosissimo, che lo Stato a un certo punto non poté più permettersi.

Il grande «vaffa» dei populisti parla di questo pezzo di popolazione abbandonata, di giovani che non hanno frequentato le università d’eccellenza o neppure si sono laureati, per metà, uno su due, disoccupati, che rifiutano competitività e globalizzazione, in nome di una parola magica, «pubblico», cioè statale, che dia il senso di una protezione. Pensioni, assunzioni, sussidi, redditi di sopravvivenza, tempo pieno nelle scuole, raddoppio degli insegnanti, lavoro a domicilio, manuale - altro che robot! -, e basta emigrazione. È esattamente con questo modello, alternativo all’indispensabile adeguamento alla modernità propugnato da Renzi e dai governi a guida Pd, che Luigi Di Maio ha stravinto al Sud, raccontando, da rinato Masaniello, agli orfani della stagione democristiana, un sogno irrealizzabile che ricorda i film di Massimo Troisi e Checco Zalone, anche se non c’è niente da ridere.

Chi non ha votato per i 5 stelle, sempre al Sud, ha scelto Salvini. Questa è la seconda sorpresa uscita dalle urne: il leader di un partito nordista, tradizionalmente arroccato nel Settentrione, dove ha sfondato i suoi record storici, che conquista percentuali ragguardevoli anche nelle regioni meridionali, e sommandole conquista il primato nel centrodestra, con il diritto di proporre se stesso come candidato premier, se alla fine la coalizione di centrodestra avrà una maggioranza autonoma in Parlamento, o riuscirà a sfiorarla. La coalizione ex berlusconiana ha cambiato pelle, metà dell’alleanza cosiddetta moderata è dominata dal radicalismo populista e sovranista, stile Le Pen e Orban: ora tocca a Berlusconi decidere in fretta se adattarsi al nuovo corso, prima che i suoi decidano per lui.

Quanto al centrosinistra, il Pd e la sua mini-coalizione sono gli sconfitti di questa tornata. Prevedibili, in un campo percorso da un feroce desiderio di vendetta, lotte intestine, scambi di accuse, specialmente tra i due tronconi separati che facendosi la guerra nei collegi uninominali hanno contribuito a peggiorare le cose. Forte, fortissima, manifestata già alla vigilia del voto, è la tentazione di mettere sul banco degli imputati il solo Renzi, caricandogli sulle spalle tutte le colpe e gli errori fatti dal referendum costituzionale in poi. Ma attenzione a farne un capro espiatorio, com’è nella tradizione della casa, da Tangentopoli e Craxi ai giorni nostri. Perché sconfitto non è Renzi soltanto, ma anche i governi di questa legislatura, Gentiloni compreso, malgrado i meriti e i risultati in termini di risanamento economico del Paese; sconfitto, ancora, è il disegno degli scissionisti dalemian-bersaniani guidati da Pietro Grasso, aspiranti a un risultato a due cifre rimasto una chimera.

Un quadro così confuso, da stamane, è sulla scrivania del Presidente della Repubblica. Con le rituali dimissioni del governo, si aprirà l’iter per individuare una soluzione. Sul tappeto, è inutile nasconderlo, c’è anche la possibilità che Di Maio e Salvini provino a convergere, in nome di un programma minimo: abolizione della legge Fornero, riscrittura dei trattati con l’Europa, blocco dell’immigrazione clandestina. Anche se per il leader leghista sarebbe più logico assumere la guida del centrodestra, piuttosto che tentare l’alleanza con i 5 stelle. Ma in Italia, a questo punto, di logico e normale è rimasto ben poco: c’è da aspettarsi un giro sull’ottovolante, prima di ritrovare, speriamo, il filo della ragione.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Fantasia e potere a fisarmonica: così il Quirinale torna crucial
Inserito da: Arlecchino - Marzo 09, 2018, 05:13:29 pm
Fantasia e potere a fisarmonica: così il Quirinale torna cruciale
Dal governo tecnico-militare alla non sfiducia: ecco gli escamotage dei Presidenti nelle scorse legislature

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dovrà gestire la crisi di governabilità
Pubblicato il 07/03/2018 - Ultima modifica il 07/03/2018 alle ore 09:45

MARCELLO SORGI
ROMA

Da qualche giorno lettori e telespettatori stanno acquisendo familiarità con un termine - fisarmonica -, che non riguarda lo strumento musicale, ma i poteri del Presidente della Repubblica. Non riuscendo a descriverli diversamente, e dopo essersi scervellati a lungo sul Capo dello Stato, la figura meno definita dalla nostra Costituzione, i costituzionalisti, con questa parola, hanno spiegato che il ruolo del Presidente si allarga e si restringe, proprio come il mantice dello strumento, a seconda dei momenti. Il Presidente «non è l’evanescente personaggio, il maestro di cerimonie, il motivo di pura decorazione che si volle vedere in altre costituzioni», chiarì uno dei padri costituenti, Meuccio Ruini.

È stato sempre così, dalle origini della Repubblica, quando la frequenza continua delle crisi di governo impose subito una liturgia, che s’era molto semplificata negli anni della Seconda Repubblica, quando i governi, grazie ai sistemi elettorali maggioritari, li sceglievano i cittadini, e il Capo dello Stato svolgeva - ma poi non sempre, non tanto -, un compito più notarile.

La storia dei 64 governi dal 1946 a oggi è ovviamente piena di intoppi, infortuni, imprevisti, ripensamenti. E i Presidenti della Repubblica sempre sono stati chiamati a risponderne, non foss’altro perché sono loro (articolo 92 della Costituzione) a nominare il premier e i ministri. Lo fanno in base alla percezione del quadro politico maturata nelle consultazioni. Ma anche, questo è il bello, usando la “fantasia” e seguendo la propria “personalità”, concetti entrati a ragione nei manuali di diritto costituzionale. Ad esempio, quando Giovanni Gronchi, il 26 marzo 1960, incaricò Fernando Tambroni di formare un monocolore democristiano per sbrigare «adempimenti urgenti», non poteva immaginare che in Parlamento si sarebbe ritrovato con l’appoggio del Msi, il partito post-fascista allora ai margini della vita politica.

Tambroni dopo la seduta alla Camera in cui i missini, solitari, lo votarono, pensò bene di dimettersi. Ma Gronchi, che pure veniva dalla sinistra democristiana ed era stato eletto al Quirinale con i voti dei comunisti, s’impuntò, respinse le dimissioni e lo mandò al Senato, dove i missini lo rivotarono, in un clima di tensione. A fine giugno, dopo la decisione del Msi di convocare il proprio congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, in tutt’Italia avvennero scontri tra polizia e manifestanti, con una decina di morti e varie centinaia di feriti.

Quattro anni dopo, alla fine di giugno ’64, Antonio Segni era alle prese con la crisi del primo governo di centrosinistra guidato da Aldo Moro. La discussione ruotava attorno al ruolo dei socialisti, al prezzo troppo alto che volevano imporre per mantenere in piedi l’alleanza. Il 15 luglio Segni a sorpresa inserì nelle consultazioni il comandante dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo e lasciò filtrare la voce che in mancanza di accordo politico tra i partiti, avrebbe varato un governo tecnico-militare, a cui si opposero subito Moro, il leader socialista Pietro Nenni e quello socialdemocratico Giuseppe Saragat. Nel corso di un chiarimento, chiamiamolo così, assai franco, con Moro e Saragat, il 7 agosto Segni fu colto da un ictus. Così finì la sua presidenza, avvelenata, anni dopo, da accuse mai provate fino in fondo di aver coperto il progetto di un colpo di Stato (il “piano Solo”) affidato allo stesso De Lorenzo.

Fu anche per questa ragione che a Saragat, successore di Segni, fu inibito l’esercizio della “fantasia” presidenziale. A ogni crisi di governo, si limitava ad affidare l’incarico raccomandando di formare un esecutivo «nell’ambito del centrosinistra» e dettagliando pure «la formula quadripartito» (Dc-Psi-Psdi-Pri). Ma non potendo sbizzarrirsi con i governi, Saragat, vecchio capo partigiano che aveva sempre avuto ammirazione per le belle donne, quando Sofia Loren partorì suo figlio, le inviò un telegramma di congratulazioni.

A metà del suo settennato, nel 1976, dopo elezioni finite con un risultato vagamente simile a quello di questi giorni (due vincitori, Dc e Pci, ma nessuna maggioranza possibile) Giovanni Leone dovette gestire la complicatissima crisi che portò per la prima volta i comunisti nell’area di governo, con l’espediente della «non sfiducia», cioè dell’astensione, data ad Andreotti. Le trattative durarono quattro mesi e si conclusero con la storica stretta di mano tra Moro e Berlinguer. Ma al Quirinale salirono solo ministri democristiani.

Subito dopo Sandro Pertini, primo presidente socialista, nel 1978 fece capire che la Dc, dopo trent’anni, avrebbe dovuto rinunciare alla presidenza del consiglio. Ci provò una prima volta nel ’79 con Craxi, che si presentò sul Colle in jeans e fu rispedito indietro per riapparire in veste più istituzionale. Ma la Dc fece le barricate. Pertini si intestardì, e alla fine nell’81, dopo lo scandalo P2, incaricò Spadolini, a cui, dopo le elezioni dell’83, seguì Craxi, che restò a Palazzo Chigi quattro anni.

Cossiga è passato alla storia come “picconatore” per le rivelazioni su Gladio, la rete segreta anticomunista, che fecero sussultare l’ultimo governo Andreotti, i “pesci in faccia” con gli amici del suo partito, le clamorose dimissioni con cui lasciò il Quirinale. Ma qualche avviso del terremoto che si prospettava lo aveva dato anche prima, con una strana lettera mandata a Craxi per sapere chi avrebbe dovuto comandare le Forze Armate in caso di conflitto armato. Si avvicinava la guerra del Golfo, il leader socialista non pensava che fosse così urgente decidere: d’intesa con il Capo dello Stato, fu nominata una commissione, che impiegò qualche anno per dirimere la controversia.

Oscar Luigi Scalfaro, nel ’94, ricevette Berlusconi. Il primo incontro fu piuttosto freddo: il Cavaliere reclamava l’incarico «conformemente al risultato elettorale», in nome della novità inaugurata dei governi scelti dagli elettori. Il Presidente ci rimase male, rivendicava il potere assegnatogli dalla Costituzione. Così, prima di nominare il governo, pretese che Berlusconi e Fini firmassero un documento di piena adesione ai valori della Resistenza.

Le crisi che Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano hanno dovuto affrontare, riguardavano quella più complessiva delle istituzioni, man mano che fallivano i tentativi di riformarle. Così gli ultimi due Presidenti, e particolarmente “re Giorgio”, l’unico eletto due volte, hanno dovuto intervenire continuamente sulla qualità delle leggi, dalla riforma del sistema tv Gasparri alla legge sulle ronde metropolitane. Napolitano, dopo la caduta di Berlusconi, fece sentire con forza il suo potere presidenziale con l’invenzione di Mario Monti e del suo governo tecnico, per affrontare la crisi economica e i rapporti con le autorità europee.

Adesso tocca a Mattarella. Chi lo conosce sa che è preparato al suo compito già dai tempi in cui insegnava diritto costituzionale all’università, e ha una grande esperienza, compiuta in molti passaggi difficili della storia repubblicana. Essendo noto per calma e pacatezza, tutti si chiedono come potrà combinare questa sua personalità con la fantasia necessaria per uscire da una delle crisi più complicate degli ultimi tempi. Lo saprà fare. E lo farà a modo suo, a voce bassa ma con fermezza, se necessario. A chi gli ha chiesto qualche giorno fa, se il suo lavoro sarebbe diventato più difficile dal 5 marzo in poi, ha risposto soltanto: «Perché, finora?».

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Da - http://www.lastampa.it/2018/03/07/italia/politica/fantasia-e-potere-a-fisarmonica-cos-il-quirinale-torna-cruciale-mLUtm9ose8vmqYnRDIqGhP/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il tavolo della partita decisiva
Inserito da: Arlecchino - Marzo 25, 2018, 06:16:12 pm


Pubblicato il 22/03/2018 - Ultima modifica il 22/03/2018 alle ore 10:40

MARCELLO SORGI

Uscita dal vertice del centrodestra alla vigilia delle prime sedute di deputati e senatori, non ha precedenti la proposta di riunire oggi intorno a un tavolo tutti i partiti entrati in Parlamento, per concordare le presidenze delle Camere e la composizione degli uffici di presidenza. Neppure nei momenti più drammatici della storia repubblicana - e ce ne sono stati più complicati di quello attuale - si riuscì a trovare una completa unità, sia pure per stabilire un confronto e assicurarsi una forma di rispetto reciproco. Se dunque assisteremo a una novità del genere, la legislatura nata all’insegna di una durissima contrapposizione avrà realizzato questo imprevedibile e positivo paradosso: dal tutti contro tutti al tutti insieme.

Come e perché si sia arrivati alla svolta è evidente. Dopo due settimane passate a disegnare le assi più estemporanee, Di Maio-Salvini, Cinque Stelle-Pd, Forza Italia-Pd, e così via, senza neppure usare gli algoritmi che vanno tanto di moda, i due vincitori, a cui si attribuivano gran parte di queste manovre, han dovuto prendere atto che il primo partito e la prima coalizione usciti dalle urne sono in realtà due grosse minoranze. E prima ancora di parlare di formule di governo, se non costruiscono le alleanze necessarie per trovare i voti in aula, non saranno in grado di eleggere i presidenti delle Camere.

Per essere più chiari: se Salvini, d’accordo con Di Maio, provasse a fare eleggere al Senato un presidente leghista con l’aiuto dei 5 Stelle, offrendo i voti leghisti in cambio per portare un grillino al vertice della Camera, il giorno stesso andrebbe in frantumi il centrodestra, di cui è appena diventato leader. 

E anche Di Maio, se s’acconciasse a un’intesa del genere, avrebbe la brutta sorpresa di scoprire franchi tiratori nelle folte file dei gruppi parlamentari pentastellati.

Di qui nasce la decisione del leader leghista di tenersi nei ranghi della sua coalizione e chiedere a Di Maio di trattare con tutto il centrodestra, compreso Berlusconi, che qualche tempo fa, non va dimenticato, sul blog di Beppe Grillo veniva apostrofato con insulti tipo «lo psiconano». Del resto, dopo aver avanzato la richiesta di avere il presidente della Camera, i 5 Stelle si erano detti disposti a confrontarsi con tutti: adesso sono messi alla prova con la proposta “dell’incontrone”, com’è stato ribattezzato, alla romana. Per impegnarli anche su un altro criterio, sul quale avevano nicchiato negli incontri preliminari: gli uffici di presidenza - vicepresidenti, questori, segretari - devono essere composti da esponenti di tutti i gruppi, non possono essere spartiti come un bottino di guerra tra i vincitori. Non solo per una questione di rappresentanza, ma di garanzia dei lavori parlamentari: in caso di forzature, che di tanto in tanto si affacciano nella vita parlamentare, talvolta anche soltanto sull’onda di risentimenti, il pluralismo nei vertici delle Camere serve proprio a riportare il rispetto delle regole.

Con queste premesse, stabilito il metodo, indicato il percorso, tra venerdì e sabato si potrebbe arrivare all’elezione dei presidenti, e nei giorni successivi al completamento degli uffici di presidenza. Qualsiasi defezione dall’ «incontrone», sempre possibile, complicherebbe le cose, ma non fino al punto da far saltare ogni approccio. In fondo il centrodestra, al Senato, ha i numeri per eleggersi da solo il proprio presidente. E i 5 Stelle, se davvero vogliono la Camera, dovranno accettare il «patto col diavolo», come Di Maio definiva l’ex-Cavaliere, e passar sopra al rifiuto di votare i condannati, che renderebbe più difficile la candidatura al Senato del capogruppo di Forza Italia Romani. Un loro eventuale rifiuto, infatti, ridarebbe una chance al Pd, fin qui in disparte e intento a elaborare la propria sconfitta. Riserve e indurimenti sono emersi in serata, com’era da aspettarsi: ma occorrerà vedere se ci sarà davvero chi si assumerà la responsabilità di sabotare “l’incontrone”.

Dietro al quale, c’è sì la volontà di far partire senza risse la XVIII Legislatura. Ma anche la più completa diffidenza, che accomuna i rapporti tra le forze politiche, senza differenze tra alleati e avversari. Se tutti siedono allo stesso tavolo, va da sé, è più difficile manovrare sottobanco. Ma resta da vedere se il metodo funzionerà. Per questo è proprio inutile, sebbene siano in tanti a chiederselo da ieri, stabilire se dopo le presidenze «di tutti» verrà il governo «di tutti». Una cosa per volta. Dice un vecchio proverbio: non dire gatto se non ce l’hai nel sacco.

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Titolo: MARCELLO SORGI. È finita la pazienza del Colle
Inserito da: Arlecchino - Aprile 19, 2018, 01:52:59 pm
È finita la pazienza del Colle

Pubblicato il 19/04/2018 - Ultima modifica il 19/04/2018 alle ore 08:49

MARCELLO SORGI

Tanto tuonò che piovve. Il mandato esplorativo (da non confondersi con incarico di governo), affidato da Mattarella alla presidente del Senato Alberti Casellati colpisce, non per la scelta in sé, già nell’aria da qualche giorno, dopo il fallimento del secondo giro di consultazioni, ma per il contenuto limitato e la scadenza temporale brevissima: già domani, quando l’Esploratrice - che ieri sera aveva già ricevuto le delegazioni dei partiti del centrodestra e del Movimento 5 stelle e oggi procederà a un nuovo giro di incontri -, dovrà tornare sul Colle a riferire. Con il vento che tira, e con le prime reazioni registrate, si può dire che invece di approfondire l’eventualità di un’alleanza tra centrodestra e M5S, la presidente si trova a certificarne l’impossibilità. E potrà dirsi fortunata, se riuscirà a non restare coinvolta nello scambio di accuse, veleni e tossine che inevitabilmente accompagneranno il naufragio dell’ipotetico governo dei vincitori.

Ma dalle parole del comunicato del Colle è lecito trarre anche qualche impressione sullo stato d’animo e sul cambio di strategia del Capo dello Stato. Mattarella, s’intuisce, s’è stancato di aspettare. Se l’attesa servisse a qualcosa, avrebbe la pazienza necessaria per sopportarla.

Ma con partiti che rispetto all’attacco missilistico sulla Siria e alla grave crisi che ne è seguita, o sono rimasti indifferenti, o peggio hanno colto l’occasione per mettere in discussione le alleanze storiche e la collocazione internazionale dell’Italia, e per sottolineare le divisioni createsi all’interno dell’Unione europea, è naturale che il Presidente della Repubblica sia stufo. Né avrà avuto ragioni di tornare fiducioso davanti al leader della Lega Salvini, che, fissandoli a metà maggio, dettava i tempi della formazione del nuovo governo, senza accorgersi di entrare in un campo di specifica competenza del Capo dello Stato. Di qui il tono, i contenuti e i tempi prefissati della sua iniziativa.

A meno di miracoli che non sembrano all’ordine del giorno, il tentativo della Alberti Casellati è destinato a un rapido fallimento. Dopo di che, avuta la conferma dell’impraticabilità della formula centrodestra-5 stelle, non è da escludere che Mattarella si rivolga al presidente della Camera Fico, per affidargli un’analoga esplorazione sul versante 5 stelle-Pd.

Tutto è possibile, e in queste ore si moltiplicano sforzi di ogni tipo in questo senso: ma che in pochi giorni il partito di Martina, affaticato da un implacabile scontro interno, ritrovi miracolosamente l’unità, per correre all’abbraccio con Di Maio, è difficile. Sicuramente non sarebbero di questo avviso Renzi e la pattuglia dei senatori renziani che sono in grado con i loro numeri a Palazzo Madama di impedire che si formi una maggioranza siffatta. E se il prezzo di un’intesa fosse la rinuncia di Di Maio alla presidenza del Consiglio, si può scommettere che sarebbero i 5 stelle a tirarsi indietro. Così, nel giro di una settimana o poco più, la melina che finora ha alimentato le chiacchiere sulla crisi di governo e la propaganda per le elezioni regionali in Molise e Friuli, verrebbero definitivamente svelate. E il Presidente sarebbe finalmente libero di imporre una propria soluzione, in nome dell’urgenza, per i cittadini e il Paese, di avere un esecutivo nel pieno dei suoi poteri.
Si tratterebbe, com’è ovvio, di un governo di transizione, di durata limitata - e con queste caratteristiche sostenuto in Parlamento sperabilmente da tutti o quasi tutti -, incaricato di provvedere di qui alla fine dell’anno agli impegni più urgenti: i documenti economici che l’Europa aspetta, la manovra finanziaria e le leggi di bilancio, i vertici internazionali già programmati, la sorveglianza del delicato quadrante mediterraneo, con gli imprevedibili aspetti di coinvolgimento che potrebbero riguardare l’Italia. Solo successivamente, e sempre che l’evoluzione politica dei rapporti tra le diverse forze in campo lo consenta, si potrebbe pensare a un nuovo tentativo di comporre una maggioranza.

Da ieri, com’è ovvio, tutti si chiedono cosa abbia spinto Mattarella all’accelerata. C’è chi risponde che, chiusa ormai la finestra per un ritorno alle urne prima dell’estate, il Presidente, consapevole che i parlamentari neoeletti non hanno alcuna voglia di tornare a casa, ha rotto gli indugi, cercando di indirizzare su binari di trasparenza e razionalità una crisi che rischiava l’impazzimento. C’è chi sostiene che è una mossa azzardata, perché i partiti dimostratisi irresponsabili finora potrebbero arrivare a dire di no anche a una soluzione dettata da uno stato di necessità, inscenando una sfida inaudita con il vertice delle istituzioni. Dio non voglia, sarebbe un suicidio. La verità è che Mattarella ha agito serenamente, convinto che non c’era altro da fare, perché la situazione stava ormai superando i limiti della decenza.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Apprezzamenti e segnali di fumo programmatici oltre gli ostacoli
Inserito da: Arlecchino - Aprile 19, 2018, 01:54:28 pm

Apprezzamenti e segnali di fumo programmatici oltre gli ostacoli
Pubblicato il 18/04/2018 - Ultima modifica il 18/04/2018 alle ore 07:04

Marcello Sorgi

Si fa strada un’ipotesi, che dovrebbe vedere la luce insieme con la nomina dell’esploratore, più probabilmente esploratrice, la presidente del Senato Alberti Casellati, alla quale sarebbe affidato il compito di testarla nel corso del terzo giro di consultazioni. Si tratterebbe di acclarare, una volta e per tutte, l’indisponibilità dei 5 stelle a stringere con tutto il centrodestra e quella di Salvini a separarsi dalla coalizione per allearsi da solo con Di Maio, ciò che renderebbe impossibile un governo dei due vincitori del 4 marzo. Dopo di che, si passerebbe al tentativo di costruire un’intesa nel perimetro 5 stelle-Pd. Segnali di fumo programmatici in questa direzione si sono avuti ieri tra il reggente Martina e i due capigruppo Toninelli e Grillo, con apprezzamenti reciproci, anche se restano molti ostacoli da superare. Primo, la possibilità che Di Maio rinunci alla premiership in cambio di un’intesa non provvisoria, che porti al varo di un esecutivo destinato a durare, guidato da una personalità scelta dal Capo dello Stato. E viceversa, l’eventualità che il Pd accetti a certe condizioni la presidenza Di Maio. Oppure, nel caso in cui il governo assuma una natura istituzionale, che Di Maio acconsenta che sia Fico, in qualità di presidente della Camera, ad andare a Palazzo Chigi, con una tutela diretta del Quirinale. Oppure ancora, che il Pd, non sentendosi pronto per un’alleanza esplicita con i 5 stelle, si disponga a far partire un loro governo con un’astensione che solo successivamente, al maturare di certe condizioni, si trasformerebbe in appoggio. 

L’asse Di Maio-Salvini, su cui si era lavorato in queste settimane, sembra ormai definitivamente rotto. E il leader leghista, piuttosto che sciogliersi dalla coalizione di centrodestra di cui ambisce a prendere un più forte controllo, metterebbe in conto di restare all’opposizione, puntando su una durata breve della legislatura. Mentre Berlusconi, pur restando formalmente fuori da qualsiasi combinazione di governo, assicurerebbe comunque una certa benevolenza, o almeno un’opposizione meno radicale di quella leghista, al nuovo esecutivo.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/04/18/cultura/opinioni/editoriali/apprezzamenti-e-segnali-di-fumo-programmatici-oltre-gli-ostacoli-i3X3TuQw1Oc7FCCdPUKAEI/pagina.html


Titolo: MARCELLO SORGI. Il rischio di tre temibili conseguenze
Inserito da: Arlecchino - Aprile 25, 2018, 04:23:52 pm
Il rischio di tre temibili conseguenze

Pubblicato il 24/04/2018 - Ultima modifica il 24/04/2018 alle ore 16:58

MARCELLO SORGI

Senza voler essere pessimisti a tutti i costi, il mandato esplorativo al presidente della Camera Fico, per approfondire l’ipotesi di una maggioranza tra 5 Stelle e Pd, rischia di essere dirompente come e forse più del precedente, appena concluso, dalla presidente del Senato. Se l’effetto dell’esplorazione della Alberti Casellati, infatti, è stato l’esplosione del centrodestra - che poi ha miracolosamente, e un po’ misteriosamente vinto le elezioni in Molise l’altro ieri, e risulta ben piazzato anche per domenica prossima in Friuli - le conseguenze prevedibili del nuovo compito affidato al primo inquilino di Montecitorio sono tre, una più temibile dell’altra.

La prima, emersa subito, anche prima che Fico annunciasse il calendario dei suoi colloqui, è un’altra, simmetrica deflagrazione, questa volta del Pd. Cioè del partito che, giova ricordarlo, per tutta la campagna elettorale era stato additato da Di Maio e dal suo stato maggiore, premiati con il 32 per cento dell’elettorato, come causa di tutti i mali, ruberie bancarie e non, e accaparramenti di poltrone, da battere e da condannare con il voto. E adesso, solo poche settimane dopo, viene presentato come partner naturale del contratto di governo che dovrebbe portare lo stesso Di Maio a premier.

I renziani, non a caso, hanno già fatto capire di non aver alcuna intenzione di stringere con il Movimento, e visti i numeri su cui possono contare al Senato, si può già dire che una maggioranza o un governo con queste due gambe non riuscirebbe a camminare. Inoltre non è impossibile che uno dei più brillanti esponenti del partito o del più largo campo del centrosinistra se ne esca obiettando che con Di Maio non si può fare, ma con Fico, che è stato ribattezzato di sinistra anche oltre le sue stesse intenzioni, invece si potrebbe.

Con il bel risultato - e sarebbe la seconda conseguenza - di provocare una reazione contrariata quanto legittima del capo politico pentastellato, che ricorda continuamente di aver raccolto undici milioni di voti sulla propria candidatura a Palazzo Chigi. E pur fidandosi pienamente dell’amico che ha appena innalzato sullo scranno più alto della Camera, non accetterebbe una tale eventuale conclusione dell’esplorazione, che potrebbe far pensare, magari non a lui stesso, ma a qualcuno di quei militanti che hanno scritto sul Blog delle stelle che Fico esploratore è «la rovina del Movimento», che il presidente della Camera voglia lavorare per sé.

La terza conseguenza, più che verosimile, annunciata, è che la sola ipotesi - al momento fuori dalla realtà - di un’intesa 5 Stelle - Pd spinga Di Maio e Salvini, veri soci mancati della non-vittoria del 4 marzo e del non-governo di questi due mesi di trattative infruttuose, ad adoperarsi in ogni modo affinché il loro asse, già pieno di crepe, non si spezzi. Qualcosa hanno già cominciato a fare in serata (Salvini annunciando anche, con toni non proprio concilianti, una manifestazione a Roma), a riprova che l’incubo della convergenza a sorpresa dei due maggiori avversari dell’ultima campagna elettorale è destinato a turbare le loro notti insonni.

È inutile nascondersi, poi, che la somma di queste conseguenze - che speriamo non si verifichino tutte e tre insieme - sarebbe esiziale anche per l’ultima scialuppa che dal Quirinale, e dalla nave impazzita della politica italiana, ci si stava apprestando a calare in mare, malgrado la tempesta non accenni a placarsi, per consentire al Paese una navigazione d’emergenza, difficile quanto si vuole ma necessaria, per i prossimi mesi, in attesa che la guerra di tutti contro tutti si plachi, o che, ultimati gli adempimenti più urgenti, gli elettori debbano malauguratamente essere richiamati alle urne. Aspettarsi un gesto razionale o una prova di generosità da chi ha già ricominciato la campagna elettorale non è logico. Lo stato d’animo sconfortato ed esasperato che il presidente Mattarella ha lasciato trapelare in queste ore, per l’irresponsabilità dei partiti sordi a qualsiasi richiamo, è del tutto motivato. Tra un po’, altro che scialuppe: siamo al si salvi chi può.

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Titolo: MARCELLO SORGI. All'orizzonte si profila il ballottaggio
Inserito da: Arlecchino - Maggio 01, 2018, 12:11:47 pm
All'orizzonte si profila il ballottaggio

Pubblicato il 01/05/2018 - Ultima modifica il 01/05/2018 alle ore 07:44

MARCELLO SORGI

Dai risultati del voto regionale in Friuli arriva una spinta molto forte verso nuove elezioni anticipate, un rischio mai escluso, del resto, nei due mesi di inutili trattative per il governo dopo il 4 marzo. È abbastanza semplice capire perché, sebbene le dimensioni esigue della consultazione locale, rispetto alla posta in gioco nazionale, non siano paragonabili. 

Pesa ovviamente di più l’inconcludenza del negoziato, la liturgia, incomprensibile ai più, delle consultazioni e delle esplorazioni, la mancata nascita del governo dei (non) vincitori, i tentativi confusi di mescolare, nella stessa improbabile maggioranza (che mai s’è manifestata come tale), il più radicale movimento d’opposizione premiato con il primo posto in termini percentuali con il maggior partito (ex) di governo, uscito sconfitto dalle urne. L’insieme di questi fattori s’è tradotto così nel voto dei cittadini del Nord-Est. 

La Lega ha stravinto, trainando dietro di sé anche gli alleati Forza Italia e Fratelli d’Italia, incoronando nuovo governatore della regione Massimiliano Fedriga, fino a qualche mese fa capogruppo salviniano del Carroccio alla Camera, e confermando definitivamente Salvini leader di tutta la coalizione. Il Pd, che aveva fino a ieri l’amministrazione del Friuli, ha perso, collocandosi più o meno ai livelli delle politiche e un po’ meglio come centrosinistra. Il Movimento 5 Stelle è crollato al di sotto di ogni possibile previsione negativa, al punto da far pensare a una diserzione del temuto esercito dei suoi militanti, demotivati dal pendolo di Di Maio tra centrodestra e Pd. 

Se ne ricava che finisce qui la serie di tentativi di fare un governo mettendo insieme due delle tre forze politiche protagoniste del voto di due mesi fa. Salvini adesso è il meglio piazzato per una nuova tornata elettorale che il suo rivale/alleato Di Maio, augurandosi che si possa tenere entro giugno, ha già definito il «ballottaggio» del 4 marzo. Il leader leghista non ha ceduto alle sirene pentastellate che lo allettavano con un ruolo di primo piano al governo se solo avesse lasciato per strada Berlusconi e Meloni, e s’è invece aggrappato con tutte le sue forze all’alleanza di cui è divenuto padrone. Inoltre il fallito dialogo tra M5S e Pd gli ha fornito un argomento prezioso per la prossima campagna elettorale. Potrà ben dire: noi avevamo vinto, abbiamo cercato un compromesso per dare un governo al Paese, ma il regime ce lo ha impedito proponendo un inciucio tra il movimento del finto cambiamento di Di Maio e il Pd dei passati governi rifiutati dagli elettori. Ora ci servono i voti che mancano per governare davvero.

Anticipato da Grillo, che sempre lo precede quasi ad autorizzarlo, Di Maio aveva già deciso la svolta pro-elezioni, dopo aver sentito Renzi in tv far saltare il confronto con i 5 Stelle di cui il Pd s’apprestava a discutere nella direzione convocata il 3 maggio. La doccia fredda dei risultati del Friuli lo ha vieppiù indirizzato verso il voto. La solidarietà ricevuta da Di Battista, leader dell’ala autenticamente movimentista, sta a significare che il capo politico e mancato premier del governo del cambiamento avrà bisogno di un aiutino per riciclarsi, dalla sonnolenta tattica «democristiana», com’è stata impropriamente definita nelle ultime settimane, alla caffeina della prossima campagna elettorale. Dirà anche lui: eravamo i vincitori, ma il regime ci ha messo i bastoni tra le ruote; pur consapevole che dell’odiato regime, per otto lunghe settimane, è apparso un esponente di primo piano, in giacca e cravatta istituzionale.

Quanto al Pd, peggio di com’è messo, non potrebbe. Gli manca un leader, un condottiero adatto a guidarlo nell’estrema battaglia che lo aspetta, questione di vita o di morte. Il ritorno in campo televisivo di Renzi può significare che il leader dimissionario è pronto a riprendersi il suo posto, se il Pd accetterà o si arrenderà al suo ritorno, o a fondare un suo nuovo partito, sulle macerie di quello moribondo, per tentare una rivincita, al momento assai improbabile.

Resta da dire di Mattarella: ha fatto tutto il possibile, finora, per cercare di riportare alla ragionevolezza partiti e movimenti assurdamente convinti che il 4 marzo fosse solo il primo tempo di un regolamento di conti epocale, e subito proiettati verso il secondo turno, che da ieri invocano a gran voce. Con la stessa legge elettorale e senza neppure la possibilità di tentare di riformarla, all’ombra di un governo chiamato a sbrigare gli affari più urgenti, è alto il rischio che il prossimo risultato non si discosti molto dall’esito sterile dell’ultima volta, precipitando l’Italia in una condizione a metà strada tra la Spagna e la Grecia di questi ultimi anni. Non di semplice scioglimento delle Camere, si tratterebbe, in quel caso: ma di dissoluzione.

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Titolo: MARCELLO SORGI. Il Presidente, un uomo solo al Quirinale
Inserito da: Arlecchino - Maggio 06, 2018, 06:29:46 pm
Il Presidente, un uomo solo al Quirinale

Pubblicato il 04/05/2018 - Ultima modifica il 04/05/2018 alle ore 10:59

MARCELLO SORGI

Il laconico comunicato con cui il Quirinale ha annunciato per lunedì un terzo giro di consultazioni, «per verificare se i partiti abbiano altre prospettive di maggioranza di governo», ha dato il senso di una condizione che è emersa via via più evidente dai meandri della crisi irrisolta. Mattarella è solo: venuta meno la solidarietà dei 5 Stelle, il Movimento che, paradossalmente, per tutta la durata delle trattative si era mosso più di sponda con il Quirinale, accettando il ruolo pedagogico del Capo dello Stato e lasciandosi in sostanza condurre per mano, la solitudine del Presidente si allarga in uno spazio senza confini, dove i partiti restano lontani e immobili, fermi nei loro veti.

Mai come stavolta il costituzionalista siciliano, ex ministro ed ex giudice costituzionale, cresciuto in una stagione di forti conflitti ma anche di solidi e radicati rapporti tra le forze politiche, s’era trovato a fronteggiare una situazione di incomunicabilità: e non perché i protagonisti della crisi non si parlino, o non si scambino proposte e ambasciate informali, o non facciano quel gioco di sponda tra parti del tutto che sempre è stato l’anticamera di ogni intesa. Si parlano, ma non si capiscono. E non si intendono perché appartengono ancora all’epoca maggioritaria del «tutto o niente».

E non hanno né voglia, né capacità di adattarsi ai compromessi tipici della partitocrazia proporzionale. Nessuno dei predecessori di Mattarella ha dovuto scontare fino a tal punto questa difficoltà. Cossiga no: pur trasformatosi in «picconatore», nei giorni della rottura con la Dc trovò l’appoggio di Craxi; e neanche Scalfaro, che dovette fronteggiare l’ondata distruttiva di Tangentopoli e quella arrembante del berlusconismo; né Ciampi, chiamato a convivere con le più discutibili scelte dei governi guidati dal Cavaliere, ma al quale non mancò mai la solidarietà del centrosinistra; né Napolitano, chiamato a cimentarsi con il Parlamento dei «non vincitori».

Invece, sull’attuale inquilino del Colle, per primo è sceso il gelo del suo (ex) partito, con il pesante silenzio di Renzi, sia nell’ultima stagione della sua segreteria, quando il motivo della rottura è stato la riconferma del governatore di Bankitalia Visco, sia dopo la sconfitta che lo ha portato a rinunciare - solo formalmente, a quanto sembra - alla guida del Pd. Ma un Capo dello Stato che non possa contare neppure sul sostegno di chi lo ha voluto al Quirinale, che sente sprezzantemente definire «collisti» i vecchi amici della Margherita che lo cercano per recargli conforto, che addirittura si vede additato come stratega-ombra di un complotto che avrebbe dovuto portare al governo Di Maio-Pd, non può che essere amareggiato, e per forza di cose indebolito, dal comportamento dell’ex premier, oggi senatore di Firenze e Scandicci, che dovrebbe essere suo naturale interlocutore.

Quanto al rapporto con i 5 Stelle, e segnatamente con il capo politico e candidato premier del Movimento, il Presidente, alla luce del sole, è partito dall’idea che i «grillini», fin qui emblema del populismo e dell’antipolitica, dopo il risultato elettorale che li ha confermati prima forza politica per consensi, con il voto di un italiano su tre, dovessero essere ricondotti nell’alveo di un normale confronto politico e costituzionale. Questo sarebbe potuto avvenire solo riconoscendogli piena dignità nelle trattative per il governo, e chiedendogli altrettanto piena disponibilità a non impuntarsi sui veti. Tra Mattarella e Di Maio, insomma, non è mai esistito un patto per portare il capo politico pentastellato alla presidenza del consiglio. In un certo senso, il Presidente s’è comportato come Moro, che considera suo maestro, e non diceva mai né di sì né di no. Il risultato finale del negoziato su cui è piovuta la doccia fredda televisiva di Renzi si sarebbe visto alla fine di un lavoro che, necessariamente, non sarebbe stato né breve né facile, e alla fine avrebbe anche potuto concludersi con Di Maio al governo, in un ruolo di primo piano, ma magari non a Palazzo Chigi, insieme a una delegazione ministeriale rappresentativa del peso elettorale dei 5 Stelle.

Il Capo dello Stato si era comportato allo stesso modo nei giorni in cui sembrava che dovesse maturare l’accordo tra Di Maio e Salvini, poi tramontato, dopo l’esplorazione della Casellati, per la pregiudiziale antiberlusconiana dei 5 Stelle. E mentre con Berlusconi - al di là del teatrino inscenato nelle consultazioni, mentre parlava il leader leghista alla prima uscita pubblica del centrodestra unito -, se non altro, s’è ristabilito un rapporto di reciproca comprensione, dopo la fredda accoglienza accordata tre anni fa alla sua elezione, tra Mattarella e Salvini non è rimasto nulla, oltre all’indispensabile formalità che richiede di fingere di aver dimenticato i numerosi attacchi del Carroccio al Colle.

Con questo non certo ingente, nel complesso, patrimonio di rapporti, il Presidente si avvia a sedersi di nuovo lunedì davanti alle delegazioni dei partiti. Cercherà di fare della solitudine la sua forza, mettendoli di fronte alle loro responsabilità e prospettandogli il bivio finale a cui è giunta la crisi: o accettano un governo d’emergenza, che metta mano ai problemi economici insorgenti e rassicuri i partners europei, o dovrà necessariamente por fine alla farsa e alla tragedia di questa legislatura nata morta.

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