LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => LA SALUTE, LA CULTURA, IL LAVORO, I GIOVANI, L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA E LA SOCIETA'. => Discussione aperta da: Admin - Novembre 04, 2007, 09:36:07 am



Titolo: Andrea CAMILLERI -
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2007, 09:36:07 am
Roman il Prode e il naufragio annunciato

Andrea Camilleri


Si capì subito, fin dal momento che il malandato barcone salpò, che l’imbarcazione avrebbe tenuto assai poco il mare. Per metterlo in condizione di navigare erano già occorsi giorni e giorni di paziente calafatura, pece e stoppa si erano sprecati per tappare le falle, ma il fasciame era troppo usurato e di certo non avrebbe potuto reggere a qualche ondata più forte delle altre. Il comandante Roman, detto il Prode, inoltre, aveva imbarcato un equipaggio eccessivo, più di cento tra ufficiali, sottufficiali e marinai, mentre il barcone avrebbe potuto contenerne al massimo una quindicina.

Questo sovraccarico faceva sì che la linea di galleggiamento fosse di circa mezzo metro sotto il limite di sicurezza, bastava insomma che un gabbiano si posasse sull’unico albero e il barcone sarebbe andato a fondo. L’equipaggio inoltre era troppo eterogeneo, c’erano alcuni teodem (popolazione nota per il fanatismo religioso), molti sempercoglion (popolazione famosa per la stupidità), qualche approfitt (popolazione celebre per ricavare il suo tornaconto da ogni situazione), numerosi lassafà (popolazione costituita da varie tribù ognuna delle quali pensava solo a se stessa) e perfino alcuni discendenti dei famosi tagliatori di teste del Borneo. Per di più Roman il Prode non aveva il polso necessario a mantenere l’indispensabile, ferrea disciplina, si dedicava esclusivamente ad inventariare lo scarso approvvigionamento stivato nella cambusa assieme al capocambusiere, Pad Schiopp, il quale, fin dalla partenza, aveva cominciato a razionare i viveri e li riduceva sempre più ogni giorno che passava. Il barcone apparteneva a una società (Unione spa) che si fondava su di un capitale irrisorio, appena 25 mila (ma alcuni dicevano di meno) euro, del tutto insufficiente per affrontare spese impreviste. Che la navigazione non sarebbe stata tranquilla, lo si vide immediatamente, una feroce guerra di religione scoppiò quasi subito: i teodem volevano buttare a mare due marinai omosessuali che intendevano farsi sposare dal comandante (il quale, come si sa, ne ha facoltà, essendo Capitano dopo Dio); al terzo razionamento i tagliatori di teste del Borneo, ritrovate le antiche tradizioni, arrivarono a minacciare la decapitazione dello stesso Roman il Prode; i lassafà chiedevano quotidianamente a Pad Schiopp un trattamento di favore minacciando ritorsioni. Allungatasi inspiegabilmente la navigazione, forse perché, per i venti contrari, l’imbarcazione scarrocciava e non manteneva la rotta prevista, i viveri scarseggiarono e in un battibaleno il barcone si tramutò nella zattera della Medusa, si verificarono infatti numerosi episodi di cannibalismo. In questa situazione, Roman il Prode dovette ordinare degli arresti, ma il commissario di bordo, tale Mas Tellah, un levantino, pensò bene di liberare i carcerati sostenendo che la cella era troppo piccola per contenerli tutti. Appena tornati in libertà, gli ex carcerati non solo si abbandonarono a furti e rapine, ma si misero a compiere atti di sabotaggio sotto la protezione dello stesso commissario di bordo. Qualcuno allora si mise in sospetto: perché Mas Tellah non perdeva occasione di proclamare che avrebbe abbandonato la nave se non si faceva quello che lui voleva? E perché frequentava nottetempo il timoniere? Uno tra i marinai più coraggiosi, penetrato nella cabina del commissario, scoprì la terribile verità. Il cuore di Mas Tellah batteva non per la Unione spa ma per un’altra potente soscietà marittima, la Medset, dotata di un capitale di 25 mila miliardi di euro, e frequentava il timoniere perché questi aveva il compito di portare l’imbarcazione a sbattere sugli scogli. I due avevano ricevuto dalla Medset l’assicurazione che per loro sarebbe stato approntato un canotto di salvataggio. Di tutto questo venne avvertito Roman il Prode, ma egli, essendo uomo di smisurato, caparbio orgoglio, non volle ammettere l’errore d’avere imbarcato Mas Tellah e non solo lo lasciò fare, ma approvò fuor da ogni logica il suo operato. E adesso gli scogli si ergono minacciosi davanti alla prua e il nostro destino è segnato. Tanto più che questo mare ribolle di feroci squali di razza Berlusc. Ho fatto appena in tempo a scrivere questo biglietto e a infilarlo in una bottiglia. Se qualcuno avrà modo di leggerlo, saprà perché abbiamo fatto naufragio. Che Dio abbia pietà della mia anima.

Questo breve racconto di Andrea Camilleri apre il nuovo numero della rivista MicroMega, tutto sul tema «La legalità è il potere dei senza potere», con articoli tra gli altri, di Carlo Lucarelli, Marco Travaglio, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Luigi De Magistris, Margherita Hack



Pubblicato il: 03.11.07
Modificato il: 03.11.07 alle ore 10.21   
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Titolo: Andrea Camilleri. 25 Aprile. La storia non si cancella
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2008, 11:45:58 pm
25 Aprile. La storia non si cancella

Andrea Camilleri


Un senatore, persona assai vicina al presidente Berlusconi, poco prima del voto, ha dichiarato che si sarebbe adoperato perché, nei libri di storia, almeno in quelli a uso scolastico, il «mito» del 25 aprile, cioè della Liberazione, venisse opportunamente ridimensionato.

Non è il primo e, certamente, non sarà l’ultimo a manifestare questo proposito. Che equivale, esattamente, a voler ridimensionare il Risorgimento. Il Risorgimento non è un mito, ma un fatto, come lo sono la Resistenza e la Liberazione.

Gli eventi storici che portarono alla Resistenza sono così semplici da essere assolutamente incontrovertibili, non possono essere né revisionati (la Storia non è un’automobile alla quale rilasciare tagliandi di validità a scadenze stabilite) né ridimensionati. Dopo l’ignominiosa fuga del re e di Badoglio da Roma, gli italiani e le forze armate italiane furono abbandonate a se stesse e il nostro paese venne militarmente occupato dai soldati di Hitler. Allora furono in molti a ribellarsi a questa occupazione diventando partigiani, combattenti per liberare la Patria dallo straniero.

Si trovarono fianco a fianco comunisti, socialisti, cattolici, liberali, uomini del partito d’azione, ufficiali dell’esercito, graduati, soldati, senza partito, reduci dai vari fronti.

Fu un movimento del tutto spontaneo e popolare. Solo dopo, solo quando il fantoccio Mussolini creò la Repubblica di Salò, la guerra di Liberazione divenne anche lotta contro i repubblichini che avevano così entusiasticamente affiancato i nazisti, autori d'innumerevoli stragi contro la popolazione inerme.

Non si trattò di una guerra civile, come affermano alcuni storici, e se lo fu in parte questo avvenne come conseguenza dell’intervento dei fascisti. I partigiani hanno segnato una pagina gloriosa della nostra storia. Hanno permesso che l’Italia si riscattasse dalle colpe del fascismo, prime tra tutte le leggi razziali, e riacquistasse la sua dignità di nazione. Hanno fatto sì che nascesse uno Stato democratico, hanno fatto sì che si potesse scrivere una Costituzione alla stesura della quale hanno contribuito tutti i rappresentanti delle diverse volontà popolari.

Hanno fatto rinascere l’Italia. Che c’è da revisionare?

Testo scritto per la rivista «Il Salvagente»


Pubblicato il: 24.04.08
Modificato il: 24.04.08 alle ore 13.10   
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Titolo: Camilleri in rima diventa «cattivo» Trivialità su Bossi e il suo dito medio
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2008, 08:38:15 am
«Poesie incivili» su MicroMega

Camilleri in rima diventa «cattivo» Trivialità su Bossi e il suo dito medio


ROMA — Andrea Camilleri ha dato un calcio al buonismo. Direte: ma si sapeva, basta vedere come ha trasformato in fedifrago il suo commissario Montalbano. Ma quello è niente: leggete l'ultimo numero di MicroMega. Il servizio di apertura: le «Poesie incivili» di Andrea Camilleri, scrittore esimio e di successo. Non è certo la prima volta che il papà di Montalbano si diletta in rime più o meno dissacranti. Ma è la prima volta che i suoi sussurri si sono trasformati in urla. Urla politiche. E senza tema di volgarità. Un esempio? Le rime scritte per il leader della Lega. Un inno al Senatur. Leggiamo il primo verso. Un verso d'autore, integrale: «Quel medio alzato all'inno di Mameli se lo metta nel culo Senatore, già fatto largo per averci infilato il Tricolore. Mi congratulo per la capienza!».

Ed è soltanto un assaggio. Perché Umberto Bossi è il primo della lista, ma la verità è che ne ha per tutti il papà del commissario più famoso della televisione. Fendenti e strilli che entrano in quel merito troppo spesso dimenticato dall'opposizione. Fendenti e strilli che colpiscono al cuore proprio la stessa opposizione. Ricordano tanto le urla di Nanni Moretti in Piazza Navona, quelle che aprirono le danze dei girotondini. Adesso ci pensa lui, Andrea Camilleri, milioni e milioni di copie di libri vendute. Milioni e milioni di telespettatori catturati sempre con le storie del suo ineffabile commissario Montalbano. Camilleri che in piazza Navona ci ha già fatto un salto l'estate scorsa, il giorno che Sabina Guzzanti ha massacrato dal palco Mara Carfagna, ministro per le Pari Opportunità.

Ci era arrivato un po' in punta di piedi nel luglio scorso in quella piazza, Camilleri. Ma adesso che il buonismo è sepolto, qualche settimana fa nella piazza ci è tornato per scendere accanto agli studenti in protesta contro la riforma. In senso metaforico, per carità. Meglio, letterario: «La Gelmini? Di sicuro non è un essere umano...». La strada è aperta. Spianata. Un'altra «Poesia incivile»: «Quando in pochi parlammo di regime fummo derisi. I politologi più sottili ci spiegarono che sbagliammo a demonizzarlo, non era il diavolo, infatti non indossava coda e corna regolamentari. Ora gli stessi politologi eminenti ogni tanto si fermano per strada, annusano l'aria, si chiedono perplessi: "Ma cos'è questa puzza di zolfo?". E ancora non se lo sanno spiegare». Fendenti e strilli. A destra: «Per partecipare al Family day è indispensabile aver sposato due mogli o avere avuto figli dall'amante mentre la moglie era in carica...». Ma anche a sinistra. Ai leader della sinistra. Senza sconto alcuno: «Spacciano agli elettori come dialogo il suo farneticante monologare, fanno qualche timorosa obiezione, ma se lui batte il pugno, si piegano e vendono alle tv le loro quotidiane sconfitte come accordi raggiunti con arte sottile. Pallide ombre di un governo ombra che non riesce a far ombra a nessuno».

Alessandra Arachi
29 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Andrea CAMILLERI e Saverio LODATO.
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2009, 06:19:16 pm
«Una lista di onesti e giovani. Perché la politica cambi»

di Saverio Lodato


Camilleri, lei una ne fa e cento ne pensa. Corre voce che adesso avrebbe intenzione di fare una “lista degli onesti” in vista delle prossime europee. Cosa c’è di vero? Ma, soprattutto, che significa?
«L’idea di una lista è sorta durante una conversazione telefonica fra Paolo Flores D’Arcais, Antonio Di Pietro e me, destinata alla pubblicazione su Micromega. Durante questa conversazione ho suggerito l’ipotesi di una lista di candidati che avesse alcune caratteristiche: essere suddivisa al cinquanta per cento fra uomini e donne; che gli eventuali candidati non abbiano più di 50 anni; una notevole partecipazione di extracomunitari con cittadinanza italiana. Suggerivo anche che questi partecipanti abbiano come comune segno di riconoscimento la fedina penale pulita. E la volontà di partecipare attivamente alla vita politica, anche se prima non l’avevano mai fatto».

Mi par di capire che la sua lista ideale dovrebbe esser composta da cittadini senza precedenti politici e senza precedenti penali. Giusto?
«Esattamente. Questo per rinnovare un certo quadro politico ormai consunto, immettendo forze nuove e generose. Probabilmente si tratta di un’utopia, ma è pur vero, per dirla con Max Weber, che “il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”. Non si tratta di fondare un nuovo partito, ma di far coagulare, attorno a un simbolo qualsiasi, una fortissima volontà di cambiamento».

Perché questa lista degli onesti dovrebbe affiancarsi a quella dell’Idv di Di Pietro? Non c’è il rischio di lanciare agli elettori un duplice messaggio: se vi riconoscete nella lista ispirata da Camilleri votatela, se invece pensate di non essere proprio immacolati al cento per cento votate l’altra?
«Questa è una domanda cattivella. Se la proposta mi è venuto spontanea farla a Di Pietro è perché Di Pietro ha dimostrato, nel compilare la sua lista, di essere aperto a certe istanze che provengono dalla cosiddetta società civile».

Insomma, caro Camilleri, mi par di capire che lei non investa granché sulla possibilità di rinnovamento del Pd e sulla sua eventuale affermazione alle europee.
«Hanno scritto che io avrei abbandonato il Pd, ma la verità è che non ne ho mai fatto parte. L’ho votato, questo sì. E se la mia proposta non avesse seguito continuerò a votarlo, ma questo non significa che io sia d’accordo sul modo di fare opposizione del Pd. Insomma: sto facendo il possibile perché io, e altri come me, non vadano ad ingrossare l’esercito dei non votanti».

Cosa rimprovera, in concreto, al Pd?
«Paradossalmente, il buonismo verso la maggioranza. Forse il Pd, per il fatto di essere nato una creatura con due teste, rischia di non poter muoversi con quella scioltezza che oggi è più che mai necessaria».
saverio.lodato@virgilio.it


29 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI e Saverio LODATO. Le mille balle di Berlusconi ...
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2009, 12:08:30 am
Lo chef consiglia

di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


L'articolo

Le mille balle di Berlusconi, unico premier eletto sulla sfiducia


Camilleri, parola di Obama: «Entro il 31 agosto 2010 la missione in Iraq finirà». Parole inequivocabili! Tommaso Buscetta, qualche mese prima di morire, mi disse: «Quando gli americani guardano gli uomini politici in tv sanno che se il politico dice di voler fare una cosa farà il possibile, ma se dice il contrario vuol dire che non la farà. Da noi, no: l’italiano sa che il politico dice proprio il contrario di quello che pensa». La sostanza delle cose non gli sfuggiva.

Anche se mi porta l’autorevole avallo di Buscetta, lei, caro Lodato, non mi dice niente di nuovo. Tutti i politici degli altri paesi, e quindi non solo americani, sanno che se non mantengono le promesse o non vengono rieletti o sono costretti alle dimissioni. A volte si dimettono preventivamente: veda per esempio il ministro delle finanze tedesco che ha rassegnato le dimissioni perché, a 65 anni, sentiva di non avere più l’energia per affrontare i problemi della grande crisi attuale.

Non solo: ma arrivano anche a precisare, come ha fatto Obama, mese, giorno, e a momenti il minuto, in cui manterranno l’impegno. Nel nostro perenne Carnevale, le cose vanno diversamente. Berlusconi è dal primo governo del 1994 che promette mari e monti agli italiani: non è mai riuscito a mantenere neanche il dieci per cento delle sue promesse.

E non ha mai dato la colpa dei suoi fallimenti a se stesso, ma ha sempre invocato giustificazioni indipendenti dalla sua volontà: i freni posti dagli alleati, gli effetti dell’11 settembre, lo tsunami… Il fatto è che l’Italia è un paese inverso. Mentre i politici stranieri sono eletti sulla fiducia, Berlusconi è eletto sulla sfiducia. Gli italiani sanno benissimo che non manterrà le promesse, che racconta solo balle mirabolanti, eppure continuano ad illudersi. Avranno, purtroppo, un risveglio tristissimo.

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI e Saverio LODATO. L'olio di ricino? Molti giornalisti già...
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2009, 09:51:25 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 

L'olio di ricino? Molti giornalisti già lo ingoiano da soli


Camilleri, leggo su Wikipedia, alla voce “olio di ricino”: “ Durante la dittatura fascista l’olio di ricino fu uno degli strumenti di tortura impiegati dalla Camicie nere... I dissidenti e gli oppositori presi di mira venivano obbligati a ingerirne grandi quantità, provocando gravi sofferenze gastroenteriche, diarrea e disidratazione che potevano condurre le vittime alla morte. Il mezzo di tortura fu ideato da Gabriele D’Annunzio, durante l’occupazione di Fiume”.

Ce lo vede Gasparri con l’imbuto in mano che fa trangugiare olio di ricino ai giornalisti non allineati? E sente nell’aria odore di olio di ricino? L’olio di ricino era un purgante in uso almeno sino agli anni trenta e credo sia stato il purgante ufficiale durante la guerra 15-18. Da piccolo mi è stato propinato in minime dosi da mia madre, che poi passò al calomelano, una specie di cioccolatino amarissimo, altrimenti detto «il bel nero». Il sapore dell’olio di ricino era abominevole, quasi quanto quello dell’olio di fegato di merluzzo. Il ricino aveva effetti immediati e dirompenti.

Apprendo da lei che il primo a farne un uso, diciamo così improprio, è stato D’Annunzio a Fiume. Può darsi, perché D’Annunzio la grande guerra l’aveva combattuta. Va ricordato che al fascismo il Vate nazionale fece un altro regalo , quell’ incomprensibile “eja, eja, alalà” che costituiva il saluto al duce. Gli squadristi usavano l’olio di ricino contro avversari isolati e inermi, in genere di età avanzata, per dileggiarli e umiliarli: splendido esempio di assoluta vigliaccheria.

Lei mi chiede se ce lo vedo Maurizio Gasparri con in mano l’imbuto e il bottiglione d’olio di ricino. Le rispondo che non ce lo vedo, perché non ce n’è più bisogno: sono talmente tanti i giornalisti che l’olio di ricino lo ingoiano di loro spontanea volontà! Per i rari dissenzienti non serve sprecarlo.

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI e Saverio LODATO. - Ingratitudine e volubilità, il taxista...
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2009, 10:30:49 am
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 

Ingratitudine e volubilità, il taxista romano e i difetti degli italiani


Camilleri, ai funerali di Luigi Petroselli, sindaco di Roma(1981), fu cospicua la rappresentanza dei taxisti. Lo consideravano: «uno di loro».
La settimana scorsa mi è capitato di salire su una ventina di taxi e tutti ce l’avevano con Veltroni per aver concesso 2500 licenze. Possibile che non mi sia capitato neanche uno di quelli freschi di licenza? Il taxista romano è come il vaso di Plotino, le cui verità teologiche sgorgano per emanazione del sentito dire dei clienti? O è lui il gran regista del chiacchiericcio qualunquista? Va bene il fine corsa, un po’ meno la fine della gratitudine.

Grazie per l’occasione di ricordare Luigi Petroselli, uno dei grandi sindaci di Roma, amato e stimato da tutti, non solo dai taxisti, che per lui facevano un’eccezione.
Almeno a Roma, i taxisti hanno due particolarità: si lamentano con il cliente per il traffico, cosa comprensibile, ma se il cliente ha altro per la testa e glielo fa capire, si vendicano accendendo la radio ad alto volume. Poi criticano sempre il sindaco che in quel momento è in carica, a qualsiasi partito appartenga.

E dal sindaco passano a mettere in discussione il presidente del consiglio, il capo dello Stato, l’Europa, l’America, il mondo. Anch’io li ho sentiti infurentiti contro Veltroni, e infatti sono stati fra i grandi elettori di Alemanno. Ora cominciano a essere delusi anche da lui. Non credo si tratti di riconoscenza o irriconoscenza, penso, piuttosto, che in essi si condensi la quintessenza delle caratteristiche italiane, come la volubilità delle opinioni, sostanziale qualunquismo, non celato razzismo, perenne supponenza. Ci sono le eccezioni, naturalmente. Ma se uno straniero mi chiedesse chi scegliere nel campionario per fare un ritratto dell’italiano, fra i primi indicherei un taxista romano.

da unita.it


Titolo: Lo stupro vale meno se a governare è Berlusconi.
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2009, 09:29:14 am
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 

Lo stupro vale meno se a governare è Berlusconi.

Come nell’era Minculpop


Camilleri, facciamoci i complimenti da soli: ricorda che definimmo buffi gli osservatori tv che non ci spiegano perché all’epoca di Prodi la «nera» veniva sbattuta in prima pagina e oggi - invece - molto meno (23 febbraio)? Ecco la risposta: durante i due anni di Prodi il peso della «nera» raddoppiò, oggi è dimezzato. Zampa (Pd): «ce ne siamo accorti a spese degli italiani». Caselli: «mali ingigantiti». E i diretti interessati? Cantano come usignoli. Mimun (Tg5): «Un’idea che lascia il tempo che trova». Mazza (Tg2): «imputare ai tg il fallimento delle elezioni non è accettabile». Giordano (ex Studio Aperto): «Impiegando la nera in chiave politica si fa un pessimo servizio». Ma davvero?


Niente di nuovo sotto il sole, caro Lodato. Durante il fascismo, gli ordini che il Minculpop inviava ai direttori di giornali erano severissimi: vietavano di riportare fatti di cronaca nera come furti, rapine, omicidi. L’Italia fascista doveva sembrare il migliore dei paesi possibili. Persino i nostri commediografi, se volevano raccontare un adulterio o un omicidio, li ambientavano all’estero. Si vede che qualche traccia di Minculpop si è trasmessa nel Dna di molti giornalisti di oggi. Durante il governo Prodi hanno talmente enfatizzato i reati contro la sicurezza che la sconcia campagna è rimasta nella nostra memoria, anche se siamo un popolo di smemorati. Ora che gli stupri si moltiplicano e l’insicurezza dilaga, gli stessi giornalisti non possono fare altro che mettere la sordina alle loro trombe. Per favorire coloro che, da Berlusconi ad Alemanno, ci avevano promesso un’Italia da bere, come la Milano di una volta. E per giustificare la loro supina acquiescenza, a questi giornalisti non resta che l’arrampicarsi sugli specchi. Che, come ognun sa, è tentativo che non riesce mai.

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI e Saverio LODATO. Niente inciuci.
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2009, 05:09:26 pm
16/03/2009

Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Niente inciuci.

Così Franceschini ribatte colpo su colpo a Berlusconi

Camilleri, de profundis per l’inciucio. Chissà cosa combinerebbe Berlusconi se dovesse vincere le europee. È il concetto espresso da Dario Franceschini che ha definito «clerico fascista» Berlusconi, il quale lo aveva definito «catto comunista». Franceschini ci fa correre un brivido gelido lungo la schiena, visto ciò che dice, dichiara, propone, progetta, congettura, almanacca, fa, trama, dispone, ordina, smentisce, Berlusconi, che ancora non ha vinto. Ma Franceschini ha il merito, quasi rivoluzionario, di non cedere alla tentazione dell’inciucio. Tante uova di Colombo sono state scoperte quasi per caso. che ne pensa?


Penso che Franceschini stia mettendo a fuoco il giusto modo di fare opposizione. Da un lato fa proposte concrete che mettono il governo in imbarazzo, come l’assegno ai disoccupati, reperendo la copertura necessaria con una dura lotta all’evasione fiscale. Il no del governo è stato stupefacente: sarebbe un incentivo per i licenziamenti. Come dire: non diamo soldi alla sanità se no le malattie aumentano. Dall’altro Franceschini reagisce colpo su colpo alle ingiurie di Piccolo Cesare, non gliene lascia passare una. Dato che Piccolo Cesare parla a ruota libera, è bene che le risposte che gli vengono date sottolineino il suo sproloquiare. Franceschini trema all’idea di quello che farà Berlusconi se stravincerà le europee. E c’è da esserne seriamente preoccupati. Il suo delirio di onnipotenza è ormai pericolosamente vicino all’incontrollabilità. Metterà mano alla Costituzione, ai poteri del capo dello Stato, del Parlamento, del Csm, travolgerà giustizia, libertà d’informazione, ogni cosa che possa dargli il minimo fastidio. La sua pericolosa ambizione non ha né freni né limi

da unita.it


Titolo: Camilleri: Cos’è un italiano
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2009, 03:43:26 pm
Appunti per una definizione

Camilleri: Cos’è un italiano

di Andrea Camilleri


[Questo saggio, già su Limesonline, uscirà a fine luglio su LIMES, rivista italiana di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo]

Non sono uno storico, un sociologo, un antropologo, niente di tutto questo. Sono soltanto un raccontastorie, un romanziere italiano particolarmente attento, questo sì, ai suoi connazionali.

E quindi non è un caso che tutte le citazioni a supporto o a pretesto siano tratte dalla letteratura, non da testi di storia.

Perciò tutto quello che segue, e che farà sicuramente storcere la bocca agli addetti ai lavori, va preso col beneficio d’inventario.

Premessa generale

Se si prova a cambiare la domanda in cosa sia un francese o un tedesco, si può rispondere abbastanza agevolmente, magari mettendo in fila tutta una serie di luoghi comuni.

Certo, anche per gli italiani sono stati coniati luoghi comuni, tipo «italiani brava gente», ma non credo che gli abissini gassati o i libici deportati siano dello stesso parere. E, senza andare troppo indietro nella storia, non penso che possano dichiararsi d’accordo nemmeno gli extracomunitari che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste.

Quando si fece l’Europa unita, molti italiani del Nord temettero di perdere, oltre ai soldini, anche la loro identità. Beati loro, che credevano di averne una. Alcuni padani, per affermarla, si sposarono col rito celtico che nessuno sa con esattezza in cosa consista.

Comunque è chiaro che i riti celtici o l’adorazione del fiume Po non hanno nulla da spartire con certi riti del Sud come lo scioglimento del sangue di san Gennaro o il Festino di Santa Rosalia.

Allora, come si fa a chiamare con lo stesso nome di italiano un contadino friulano e un contadino siciliano? Mi pare che ai suoi tempi anche il cancelliere Metternich, di fronte alle aspirazioni unitarie italiane, si sia posto suppergiù la stessa domanda. E aveva poi così tanto torto chi disse che l’Italia era solo un’espressione geografica? E il politico italiano il quale affermò che una volta fatta l’Italia bisognava fare gli italiani non ammetteva implicitamente che il senso di unità nazionale era da noi ancora del tutto assente?

Prima di andare oltre, occorre chiarire come ho inteso il termine «italiano». Diciamo che ho preso a esempio l’italiano cosiddetto medio («ammesso e non concesso / che l’italiano medio è un poco fesso», cantava Laura Betti un quarantennio fa), vale a dire i risultati di una media statistica e ho cercato d’individuare tra di essi un comune denominatore diverso dal titolo di studio, tipo d’impiego, stipendio mensile eccetera. Ma gli uomini non sono numeri, ciascun individuo ha una propria individualità che rende non solo difficile, ma altamente improbabile la precisione del risultato globale. In altre parole, una ricerca cosiffatta di un comune denominatore rischia di non tener conto di tutto quello che può contraddire l’assunto stesso.

Mi spiego meglio: non ricordo chi sosteneva che se un tale in un giorno si è mangiato due polli e un altro tale invece non ha neppure desinato, statisticamente risulterà che ne hanno mangiato uno a testa.

Allora: per fare un esempio pratico: italiani brava gente? La mia risposta è no, ma ciò non toglie che tra gli italiani ci sia tanta, tantissima brava gente.

Ad ogni modo, tratti comuni sono riscontrabili, alcuni visibili a occhio nudo, altri percepibili soltanto attraverso esami di laboratorio.

È stato durante il periodo fascista che si è messo in atto il massimo sforzo d’unificazione, con provvedimenti di migrazioni interne e d’abolizione di caratteri distintivi regionalistici.

Vennero soprattutto presi di mira i dialetti il cui uso fu severamente proibito a scuola, nei luoghi pubblici, in teatro, al cinema.

Ma subito dopo il Minculpop, ossia il ministero della Cultura popolare, emanò una circolare con la quale le compagnie teatrali dialettali di Gilberto Govi (genovese), dei fratelli De Filippo (napoletana) e di Cesco Baseggio (veneziana) erano esentate dalla proibizione.

Si trattava di una palese contraddizione, tanto più che le tre compagnie riscuotevano un grande successo su tutto il territorio nazionale, facendo un’indiretta propaganda dei dialetti.

Ma questa contraddizione mi offre l’occasione per stabilire un primo tratto comune.

L’uso dei dialetti

È fuor di dubbio che la letteratura dialettale, con Ruzante, Meli, Porta, Belli, Goldoni, Pirandello, De Filippo, abbia spesso prodotto capolavori entrati a far parte del patrimonio culturale dell’intera nazione.

Ma qual era, e qual è, l’uso dei rispettivi dialetti nel parlar comune?

In un articolo degli ultimi anni dell’Ottocento, intitolato «Prosa moderna», Luigi Pirandello così scriveva: «L’uso della lingua italiana, è cosa vecchia detta e ridetta, non esiste. A Milano si parla il dialetto lombardo, a Torino il piemontese, a Firenze il fiorentino, a Venezia il veneziano, a Palermo il siciliano e così via di seguito, ciascun dialetto ha il suo tipo fonetico, il suo tipo morfologico, il suo stampo sintattico particolare: mettete ora un siciliano e un piemontese, non del tutto illetterati, a parlare insieme. Bene, per intendersi (…) sentiranno il bisogno di appellarsi a una favella comune, alla nazionale, a quella che dovrebbe unir tutti i popoli, poiché l’Italia è unita, alla lingua italiana. (…) Ma dove trovarla, dove si parla questa benedetta lingua italiana? Si parla o si vuol parlare nelle scuole, e si trova nei libri. E il siciliano e il piemontese messi insieme a parlare, non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti, lasciando a ciascuno il proprio stampo sintattico, e fiorettando qua e là questa che vuole essere la lingua italiana parlatain Italia delle reminiscenze di questo o di quel libro letto.

Pirandello porta l’esempio di due «non del tutto illetterati». Ma se l’esempio si fosse riferito a due illetterati? Oppure decisamente a due analfabeti?

C’è un racconto di De Roberto, dal titolo La paura, che fotografa la realtà linguistica all’interno di una trincea della guerra ’15-’18: ogni soldato parla il dialetto della regione di provenienza. E tra di loro si intendono a gesti, a occhiate.

Dunque uno dei comuni denominatori degli italiani è stato, almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, la diversificazione dialettale. Come spesso capita da noi, un tratto unificante è costituito da una diversità.

Posso spiegarmi meglio facendo ancora ricorso a Pirandello. Egli dichiara, in un articolo intitolato «Teatro siciliano», che risale allo stesso periodo di quello citato in precedenza: «Un grandissimo numero di parole di un dato dialetto sono su per giù – tolte le alterazioni fonetiche – quelle stesse della lingua, ma come concetti delle cose, non come particolare sentimento di esse».

Semplificando: di una data cosa, la lingua ne esprime il concetto, mentre il dialetto ne esprime i sentimenti.

Il comune sentire italiano, cioè a dire il provare uno stesso sentimento di gioia o di esecrazione davanti a un certo evento, nascerebbe dunque dal pensar dialettale. La concettualizzazione operata dalla lingua porterebbe invece a reazioni non omogenee.

Forse, a ben considerare l’origine notarile del volgare («sao ko kelle terre» eccetera), le osservazioni pirandelliane non risultano tanto campate in aria.

L’avvento della televisione ha in un certo qual modo unificato, omologato in basso, la lingua italiana, ma non è riuscita a far scomparire del tutto le radici dialettali. Sono esse in definitiva che ancor oggi impediscono alla lingua italiana di diventare definitivamente una colonia dell’inglese.

Quella contro i dialetti è stata, per fortuna, un’altra guerra persa dal fascismo (la guerra alle mosche, la battaglia del grano, la battaglia demografica, la battaglia per l’autarchia eccetera).

Già, il fascismo…

La vulgata popolare racconta che il fascismo nacque perché i treni non arrivavano in orario a causa degli scioperi dei ferrovieri e perché i reduci della guerra ’15-’18 venivano vilipesi dai «rossi» imboscati e traditori della Patria. Mussolini, interventista, combattente, socialista, ex direttore dell’Avanti!, convinse gli industriali del Nord e gli agrari dell’Emilia Romagna, preoccupati dagli scioperi e dalla nascita di una forte organizzazione operaia ispirata dal Pc d’I. nato dalla scissione socialista del ’21, che il suo movimento non era una rivoluzione (anche se così la sbandierava) ma un sostanziale ritorno alla legge e all’ordine.

Se rivoluzione era, si trattava di una rivoluzione borghese con orizzonti borghesi e quindi bene accetta all’opinione pubblica e alla più importante stampa italiana. E infatti tanto la grande quanto la piccola borghesia vi si riconobbero.

La marcia su Roma, da Mussolini, fatta in vettura-letto e abilmente propagandata con toni epici, probabilmente sarebbe finita in una bolla di sapone davanti all’esercito pronto ad aprire il fuoco se Vittorio Emanuele III non avesse spalancato le porte al fascismo non firmando lo stato d’assedio.

Nel primo governo Mussolini, tra quelli dei fascisti, spiccano molti nomi di eminenti liberali, socialisti, cattolici, democratici. Da quel momento in poi, fatta eccezione per il brevissimo periodo immediatamente seguente al delitto Matteotti, il fascismo trovò la strada in discesa e in poco tempo seppe guadagnarsi il consenso degli italiani. I pochi che resistettero furono incarcerati, mandati al confino o comunque messi a tacere.

All’italiano del fascismo piacevano parecchie cose tra le quali l’autoritarismo, il decisionismo, il «me ne frego», il machismo e soprattutto piacque l’imposizione della divisa che permetteva una sorta di livellamento tra le classi.

Quando, all’inizio degli anni Trenta, il fascismo pretese il giuramento di fedeltà al partito da tutti coloro che in un modo o nell’altro erano dipendenti dallo Stato, non un magistrato, un burocrate, un poliziotto, un funzionario di qualsiasi ordine e grado si tirò indietro. Solo dodici docenti universitari opposero un netto rifiuto e furono mandati a casa.

Insomma, a un certo momento, la frequente scritta murale «Duce, tu sei tutti noi» rispecchiò la realtà italiana. Si disse che le adunate oceaniche di piazza Venezia erano il risultato di una precettazione capillare, ma non era assolutamente vero, l’italiano amava ascoltare la parola del capo sentendosi uno tra i tanti.

Oggi si può tranquillamente affermare che se Mussolini non avesse firmato il Patto d’acciaio con Hitler, costringendosi così a entrare nel conflitto, sarebbe morto di vecchiaia nel suo letto. Come accadde per Francisco Franco, che sul fronte italo-tedesco mandò pro forma una divisione o giù di lì e poi si tenne prudentemente in disparte.

Il consenso, come si sa, cominciò a calare a picco quando gli italiani si resero conto che la guerra era irrimediabilmente perduta.

Ma l’intervento a fianco di Hitler venne considerato dalla maggioranza degli italiani come il tragico errore di un Mussolini mal consigliato dai suoi gerarchi e dai suoi generali. La frase più comune in circolazione era: «Ha sbagliato a fare la guerra, ma è indubbio che cose buone ne ha fatte».

Insomma, una sorta d’assoluzione con tre avemarie e un paternoster per quell’unico sbaglio. La guerra era stata invece lo sbocco naturale, fatale, irreversibile della concezione fascista della ragione del più forte (nel caso specifico l’alleato tedesco) ma questo gli italiani non lo capirono o non lo vollero capire. Con conseguenze gravi.

Nel 1945, a Liberazione avvenuta, apparve sulla prestigiosa rivista politicoculturale Mercuriol’articolo di un grande giornalista, Herbert Matthews, intitolato: «Non l’avete ucciso». In esso, prendendo spunto dall’esecuzione di Mussolini e di molti suoi gerarchi, Matthews sosteneva non solo che il fascismo non era morto, ma che avrebbe continuato a vivere a lungo dentro gli italiani. Non certo nelle forme del ventennio, ma in certi modi di pensare e d’agire. E che l’infezione, profondamente diffusa, sarebbe durata molto, molto a lungo, decenni e decenni.

Allora, a chi scrive, quelle parole sembrarono esagerate, ma bastò pochissimo per modificare questo giudizio.

Quanto tempo dopo la caduta del fascismo l’Msi, che se ne proclamava l’erede, diventò una forza parlamentare? Parlino le date. Giorgio Almirante, già segretario di redazione e attivo collaboratore dell’infame rivista La difesa della razza, propugnatrice e sostenitrice delle leggi razziali, già sottosegretario nella repubblica di Salò, fonda il neofascista Msi nel 1946, meno di un anno dopo la caduta del fascismo, e nel 1948 (!) può sedersi con altri del suo partito alla Camera. Appena tre anni dopo la Liberazione, il neofascismo entra a far parte con pieno diritto dell’arco costituzionale.

Il fascismo insomma è una fenice che non ha bisogno di ridursi in cenere per rinascere. Sessantaquattro anni di democrazia ancora non sono bastati a ripulire il sangue dell’italiano dentro il quale tuttora vivono cellule infette, pronte a trasformarsi in ogni occasione in virus pericolosi.

A parte le sempre più frequenti manifestazioni dichiaratamente fasciste, che vanno dal saluto romano negli stadi alle aggressioni tanto violente quanto immotivate a giovani di sinistra, a barboni, a extracomunitari (a proposito, quanti sono i condannati per il reato di apologia del fascismo?), il fenomeno più diffuso e certamente più pericoloso è rappresentato da certi comportamenti fascisti da parte di chi è convinto di non esserlo. Alcuni esempi: la richiesta della destra di espellere dall’Italia i contestatori del governo israeliano per la sanguinosa invasione di Gaza è quanto di più fascista e meno democratico si possa immaginare. L’idea di prendere le impronte digitali ai bambini rom è razzista e fascista insieme. È fascismo che il governo siluri il prefetto di Roma perché non d’accordo con alcune proposte del sindaco il quale, tra l’altro, usa portare la croce celtica al collo. È fascista la volontà di Berlusconi di mettere mano alla Costituzione senza il concorso dell’opposizione. Ricorda tanto il «noi tireremo dritto» di mussoliniana memoria. E si potrebbe continuare a lungo.

Le particelle di Majorana

Quasi sempre, nella sua lunga storia, l’italiano ha dimostrato di essere esattamente come le particelle di Majorana. Il grande fisico teorico, misteriosamente scomparso nel 1938, elaborò un’ipotesi rivoluzionaria secondo la quale, adopero le parole del fisico Andrea Vacchi, «il partner di antimateria di alcune particelle siano loro stesse». Come dire che non la coesistenza, ma l’inscindibile fusione degli opposti costituisce l’identità.

C’è uno splendido racconto di Borges nel quale un eretico e un custode della fede a lungo e ferocemente si contrappongono. Quando l’eretico infine brucia sul rogo, il suo volto, per un attimo, si rivela essere quello stesso del custode della fede che l’ha fatto condannare a quell’atroce morte. Non le due facce di una stessa medaglia dunque, ma una medaglia che ha nel recto e nel verso la medesima immagine.

Lo stesso soldato italiano che, diciannovenne, a Caporetto scelse di non combattere, lo ritrovi poco più che quarantenne a El Alamein che si batte sino alla morte. E non certo per ragioni, come dire, equivalenti: nel primo caso infatti si trattava di difendere il territorio italiano, nel secondo di mantenere una postazione italiana in territorio straniero.

Lo stesso italiano che divenne emigrante e che venne aiutato in terra straniera da coloro che l’ospitavano, col fornirgli lavoro e abitazione, oggi mal sopporta che in Italia ci sia gente pronta ad accogliere gli extracomunitari.

Lo stesso italiano che amò intensamente Mussolini, che l’applaudì freneticamente a Milano, pochi giorni dopo l’appese per i piedi al distributore di benzina di piazzale Loreto, sempre a Milano.

Lo stesso italiano che una volta stentava a campare in Friuli e mandava la moglie a far la cameriera a Roma o altrove oggi disprezza la cameriera venuta dal Sud.

Più banalmente: lo stesso italiano che divorzia dalla moglie, e che vive con l’amante dalla quale ha avuto due figli, partecipa compunto a una dimostrazione contro il divorzio e firma contro i dico. Ma di fronte al duplice comportamento dell’italiano nei riguardi dei dettami della Chiesa si potrebbe scrivere un trattato piuttosto voluminoso. Gli esempi potrebbero continuare a centinaia.

Nell’italiano, dentro la medesima persona, possono insomma convivere contemporaneamente Galileo Galilei e Giordano Bruno, Tommaso Campanella e padre Bresciani, don Abbondio e Savonarola.

L’italiano è ritenuto all’estero persona inaffidabile in quanto spesso non mantiene la parola data o non porta a termine l’impegno preso. E gli stranieri fanno l’esempio della nostra politica estera, capace dall’oggi al domani di mutare radicalmente corso e indirizzo e di far diventare gli alleati di ieri i nemici di oggi.

Per esempio, questo avvenne prima della guerra ’15-’18, lo stesso è avvenuto verso la fine della guerra ’40-’45.

Non si tratta di scarsa serietà, a mio avviso, ma del fatto che nel momento in cui dava la sua parola d’onore, in quell’italiano, e in quel preciso momento, aveva la prevalenza il segno +, ma il suo opposto, il segno –, era pur sempre contestualmente presente e pronto a farsi avanti.

C’è nel film Il Terzo uomo un’esemplare battuta del personaggio interpretato da Orson Welles (ma il regista dichiarò che a scriverla era stato lo stesso Welles) dove viene detto che il Rinascimento in Italia ebbe origine proprio nel periodo più acuto delle guerre fratricide, dei tradimenti, degli assassini.

Mentre dalla lunga, tranquilla, secolare pace degli svizzeri non è nato che l’orologio a cucù.

Questo paradossale segno di contraddizione non solo è riscontrabile con uno sguardo panoramico, ma lo si può continuare a vedere, zoommando lentamente, anche dentro un paese rinascimentale, dentro una via rinascimentale, dentro una casa rinascimentale, dentro un appartamento rinascimentale, dentro un italiano rinascimentale.

E, naturalmente, anche dentro un italiano d’oggi.

Il rutto del pievano

Ossia gli italiani e il loro passato. Cantava Curzio Malaparte negli anni del consenso al fascismo: «Val più un rutto del tuo pievano/ che l’America e la sua boria./ Dietro all’ultimo italiano/ c’è cento secoli di storia».

Senonché sono gli italiani a essere boriosi e non dei cento secoli di storia, che ignorano del tutto, ma dei rutti del loro pievano.

L’italiano non ha una visione totale della storia d’Italia, ha semmai una certa visione di dettaglio, limitata cioè alle minute vicende del suo vicino territorio, del suo paese d’origine, e addirittura del quartiere dove è avvenuta la sua nascita.

Può tuttalpiù rapportarsi con le vicende del paese limitrofo, ma solo perché esso è il suo rivale diretto nel campionato di calcio.

L’italiano è come un marziano caduto nottetempo al centro di quattro case abitate. Gli basterà venire a sapere dove si trova la sua abitazione, la parrocchia, l’osteria, il municipio. La sua curiosità non si spingerà oltre.

Il Palio di Siena con le sue rivalità tra contrade, che arrivano a un fanatismo sconosciuto persino ai tifosi della curva Sud, è lo specchio del forte legame che unisce l’italiano al suo habitat.

E questo spiega in parte il grande successo politico della Lega Nord. All’infuori di questo perimetro, l’orizzonte dell’italiano è da miopi.

Durante la guerra ’15-’18 il maggior numero di renitenti alla leva (mi rifaccio a documenti dello Stato maggiore) e di disertori fu riscontrato tra i contadinisoldati che provenivano dal Sud, specialmente siciliani e calabresi, i quali non capivano perché dovessero andare a difendere i cavolfiori dei contadini del Nord.

Alla domanda se amava la sua patria, Brecht un giorno rispose che non aveva nessuna ragione d’amare la finestra dalla quale era caduto bambino. Gli italiani amano invece quella finestra e il terreno sottostante sul quale hanno battuto la testa.

Nel 1942, mi pare, sulla rivista Primato che dirigeva il ministro Bottai, venne pubblicata una vignetta di Amerigo Bartoli. Mostrava Benedetto Croce seduto nel suo studio intento a scrivere. Alle sue spalle Hegel sbirciava quello che Croce andava scrivendo e poi diceva: «Ciò che più ammiro in Lei, Maestro, è il senso della Storiella».

Ecco, gli italiani non hanno il senso della Storia, ma della Storiella.

Facendo un certo sforzo, riescono a prendere in considerazione la microstoria, ma da queste visioni parziali e minute non riescono a ricostrure la grande visione generale.

Del Risorgimento sanno appena che lo zio Lello, fratello del nonno della madre, era quello scapestrato, quello sventato che abbandonò la famiglia per andare a farsi ammazzare da uno che manco conosceva.

L’unica storia che l’italiano conosce veramente, e a fondo, è quella del gioco del calcio. Non solo sa a memoria nomi, soprannomi, vizi, difetti, gol segnati, mogli e amanti di ogni giocatore che della sua squadra ha fatto parte dalle origini ai giorni nostri, ma anche di quelli delle squadre rivali.

Per la Storia invece è un’altra storia.

Perché la Storia comporta l’uso critico della memoria e gli italiani essenzialmente tendono ad essere smemorati o ad avere la memoria corta. Se la Storia è veramente magistravitae, gli italiani non hanno mai frequentato quella scuola.

La memoria corta

Quella parte del cervello che ha il compito d’archiviare la nostra vita nel suo insieme (non solo i fatti accaduti nel corso dell’esistenza, ma anche le letture che abbiamo fatto, gli spettacoli visti, i concerti ai quali abbiamo assistito, le mostre alle quali siamo andati) possiede, nell’italiano, una sorta di deleteautomatico che entra in azione assai presto, consentendo una scarsissima autonomia alla memoria.

Fatti sgradevoli già ripetutamente accaduti nel corso degli anni, quando si ripresentano, all’italiano sembrano sempre nuovi.

«Non si è mai vista un’inondazione simile a Roma!».

Poi si va a guardare nelle facciate dei palazzi romani e si scopre che alcune lapidi ci mostrano che l’acqua nel Seicento o nel Settecento raggiunse livelli di gran lunga superiori a quelli attuali.

È un esempio banale, lo so.

Ma mi pare che sia stato T.S. Eliot a dire che l’inferno consiste nella memoria, ai dannati viene fatto ricordare tutto, persino quanto costava un etto di margarina nel 1928.

Se l’inferno fosse veramente la memoria, l’italiano andrebbe direttamente in paradiso.

Di un evento che l’ha appassionato, soprattutto perché strombazzato dai giornali e dalle televisioni, l’italiano ne conserva il ricordo solo per qualche settimana, al massimo per qualche mese.

A meno che non si tratti di cronaca nera, allora la persistenza mnemonica è assai più lunga. Ma per una ragione semplicissima e cioè che gli italiani immediatamente si dividono in due partiti ferocemente contrapposti: gli innocentisti e i colpevolisti. Senza la minima cognizione delle carte processuali, senza essere a conoscenza dei dettagli dell’indagine, decidono a primo acchito se l’accusato è innocente o colpevole. A pelle. Al solo guardarlo.

L’innocentista, sia detto per inciso, resterà fermamente ancorato alla propria convinzione anche quando i giudici della Cassazione, di fronte a prove schiaccianti, avranno condannato all’ergastolo il colpevole.

A proposito di giudici e di giustizia. Essendo siciliano, citerò alcuni modi di dire della mia terra.

Cu havi dinari e amicizia / teni ’n culu la giustizia.
(Chi ha denari e amici / se ne può fregare della giustizia.)
Fari la giustizia a manicu di mola. (Far giustizia in modo storto.)
Judici, presidenti e avvucati / ’n Paradisu nun ne attrovati.
(Giudici, presidenti e avvocati / in Paradiso non ne troverete.)
La furca è pi lo poviru, la giustizia pi lu fissa.
(La forca è per il povero, la giustizia per il fesso.)
La liggi per l’amici s’interpreta, pi l’autri s’applica.
(La legge per gli amici s’interpreta, per tutti gli altri s’applica.)
Lu codici è fattu da li cappeddri pi ghiri ’n culo a li coppuli.
(Il codice è fatto dai signori per andare in culo ai berretti.)

Potrei continuare a lungo. La sfiducia nella giustizia è totale, basandosi sulla convinzione diffusa che essa sia uno strumento dei ricchi (che non incappano mai nelle sue maglie) usato contro i poveri. Una giustizia di classe.

E credo che in ogni regione del Sud d’Italia ci siano modi di dire similari.

Colpa dell’amministrazione della giustizia borbonica, m’è capitato di leggere da qualche parte. Le cose non stanno così: se la giustizia borbonica non fu un modello, quella italiana postunitaria non migliorò per niente la situazione, a volte la peggiorò.

L’inchiesta Franchetti-Sonnino del 1876 è in proposito assai esplicita.

Scriveva Pirandello su quegli anni ne I vecchi e i giovani: «Povera Isola, trattata come terra di conquista! (…) e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo, e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi al servizio dei deputati ministeriali (…) l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori…».

Questo divario sull’amministrazione della giustizia al Sud e al Nord, salvo la parentesi fascista, continuò anche dopo la Liberazione, con la magistratura del Sud completamente asservita al potere, cioè alla Dc.

Si deve ad alcuni eroici magistrati siciliani in prima linea nella lotta contro la mafia, e che ci lasciarono la vita, il risveglio della solidarietà dei cittadini verso la giustizia.

Ma il punto massimo del consenso si verificò al tempo di Mani Pulite, quando la magistratura milanese fece piazza pulita della corruzione partitica e, praticamente, spazzò via la Prima Repubblica.

Dalle ceneri di essa nacque inopinatamente un affarista milanese che seppe trasformarsi in uomo politico. Aveva molti conti aperti con la giustizia. E quindi, appena arrivato al potere, si è dedicato anima e corpo alla distruzione del sistema giudiziario, con continue leggi ad personam e addirittura arrivando ad affermare che i giudici sono esseri mentalmente tarati. È singolare come, in un’occasione, abbia usato contro i giudici le stesse parole adoperate dal gran capo mafioso Totò Riina.

Ad ogni modo, dato il larghissimo seguito di cui dispone, ha abolito il divario tra Sud e Nord: l’italiano di Palermo e quello di Bergamo ora sono felicemente concordi nella sfiducia totale verso la giustizia.

L’italiano che ha preso una multa per sosta vietata, oggi si sente autorizzato a dichiararsi vittima della giustizia.

(10 marzo 2009)
da micromega-online


Titolo: Andrea CAMILLERI: Cos’è un italiano
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2009, 11:07:06 pm
Appunti per una definizione

Camilleri: Cos’è un italiano

di Andrea Camilleri


[Questo saggio, già su Limesonline, uscirà a fine luglio su LIMES, rivista italiana di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo]

Non sono uno storico, un sociologo, un antropologo, niente di tutto questo. Sono soltanto un raccontastorie, un romanziere italiano particolarmente attento, questo sì, ai suoi connazionali.

E quindi non è un caso che tutte le citazioni a supporto o a pretesto siano tratte dalla letteratura, non da testi di storia.

Perciò tutto quello che segue, e che farà sicuramente storcere la bocca agli addetti ai lavori, va preso col beneficio d’inventario.

Premessa generale

Se si prova a cambiare la domanda in cosa sia un francese o un tedesco, si può rispondere abbastanza agevolmente, magari mettendo in fila tutta una serie di luoghi comuni.

Certo, anche per gli italiani sono stati coniati luoghi comuni, tipo «italiani brava gente», ma non credo che gli abissini gassati o i libici deportati siano dello stesso parere. E, senza andare troppo indietro nella storia, non penso che possano dichiararsi d’accordo nemmeno gli extracomunitari che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste.

Quando si fece l’Europa unita, molti italiani del Nord temettero di perdere, oltre ai soldini, anche la loro identità. Beati loro, che credevano di averne una. Alcuni padani, per affermarla, si sposarono col rito celtico che nessuno sa con esattezza in cosa consista.

Comunque è chiaro che i riti celtici o l’adorazione del fiume Po non hanno nulla da spartire con certi riti del Sud come lo scioglimento del sangue di san Gennaro o il Festino di Santa Rosalia.

Allora, come si fa a chiamare con lo stesso nome di italiano un contadino friulano e un contadino siciliano? Mi pare che ai suoi tempi anche il cancelliere Metternich, di fronte alle aspirazioni unitarie italiane, si sia posto suppergiù la stessa domanda. E aveva poi così tanto torto chi disse che l’Italia era solo un’espressione geografica? E il politico italiano il quale affermò che una volta fatta l’Italia bisognava fare gli italiani non ammetteva implicitamente che il senso di unità nazionale era da noi ancora del tutto assente?

Prima di andare oltre, occorre chiarire come ho inteso il termine «italiano». Diciamo che ho preso a esempio l’italiano cosiddetto medio («ammesso e non concesso / che l’italiano medio è un poco fesso», cantava Laura Betti un quarantennio fa), vale a dire i risultati di una media statistica e ho cercato d’individuare tra di essi un comune denominatore diverso dal titolo di studio, tipo d’impiego, stipendio mensile eccetera. Ma gli uomini non sono numeri, ciascun individuo ha una propria individualità che rende non solo difficile, ma altamente improbabile la precisione del risultato globale. In altre parole, una ricerca cosiffatta di un comune denominatore rischia di non tener conto di tutto quello che può contraddire l’assunto stesso.

Mi spiego meglio: non ricordo chi sosteneva che se un tale in un giorno si è mangiato due polli e un altro tale invece non ha neppure desinato, statisticamente risulterà che ne hanno mangiato uno a testa.

Allora: per fare un esempio pratico: italiani brava gente? La mia risposta è no, ma ciò non toglie che tra gli italiani ci sia tanta, tantissima brava gente.

Ad ogni modo, tratti comuni sono riscontrabili, alcuni visibili a occhio nudo, altri percepibili soltanto attraverso esami di laboratorio.

È stato durante il periodo fascista che si è messo in atto il massimo sforzo d’unificazione, con provvedimenti di migrazioni interne e d’abolizione di caratteri distintivi regionalistici.

Vennero soprattutto presi di mira i dialetti il cui uso fu severamente proibito a scuola, nei luoghi pubblici, in teatro, al cinema.

Ma subito dopo il Minculpop, ossia il ministero della Cultura popolare, emanò una circolare con la quale le compagnie teatrali dialettali di Gilberto Govi (genovese), dei fratelli De Filippo (napoletana) e di Cesco Baseggio (veneziana) erano esentate dalla proibizione.

Si trattava di una palese contraddizione, tanto più che le tre compagnie riscuotevano un grande successo su tutto il territorio nazionale, facendo un’indiretta propaganda dei dialetti.

Ma questa contraddizione mi offre l’occasione per stabilire un primo tratto comune.

L’uso dei dialetti

È fuor di dubbio che la letteratura dialettale, con Ruzante, Meli, Porta, Belli, Goldoni, Pirandello, De Filippo, abbia spesso prodotto capolavori entrati a far parte del patrimonio culturale dell’intera nazione.

Ma qual era, e qual è, l’uso dei rispettivi dialetti nel parlar comune?

In un articolo degli ultimi anni dell’Ottocento, intitolato «Prosa moderna», Luigi Pirandello così scriveva: «L’uso della lingua italiana, è cosa vecchia detta e ridetta, non esiste. A Milano si parla il dialetto lombardo, a Torino il piemontese, a Firenze il fiorentino, a Venezia il veneziano, a Palermo il siciliano e così via di seguito, ciascun dialetto ha il suo tipo fonetico, il suo tipo morfologico, il suo stampo sintattico particolare: mettete ora un siciliano e un piemontese, non del tutto illetterati, a parlare insieme. Bene, per intendersi (…) sentiranno il bisogno di appellarsi a una favella comune, alla nazionale, a quella che dovrebbe unir tutti i popoli, poiché l’Italia è unita, alla lingua italiana. (…) Ma dove trovarla, dove si parla questa benedetta lingua italiana? Si parla o si vuol parlare nelle scuole, e si trova nei libri. E il siciliano e il piemontese messi insieme a parlare, non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti, lasciando a ciascuno il proprio stampo sintattico, e fiorettando qua e là questa che vuole essere la lingua italiana parlatain Italia delle reminiscenze di questo o di quel libro letto.

Pirandello porta l’esempio di due «non del tutto illetterati». Ma se l’esempio si fosse riferito a due illetterati? Oppure decisamente a due analfabeti?

C’è un racconto di De Roberto, dal titolo La paura, che fotografa la realtà linguistica all’interno di una trincea della guerra ’15-’18: ogni soldato parla il dialetto della regione di provenienza. E tra di loro si intendono a gesti, a occhiate.

Dunque uno dei comuni denominatori degli italiani è stato, almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, la diversificazione dialettale. Come spesso capita da noi, un tratto unificante è costituito da una diversità.

Posso spiegarmi meglio facendo ancora ricorso a Pirandello. Egli dichiara, in un articolo intitolato «Teatro siciliano», che risale allo stesso periodo di quello citato in precedenza: «Un grandissimo numero di parole di un dato dialetto sono su per giù – tolte le alterazioni fonetiche – quelle stesse della lingua, ma come concetti delle cose, non come particolare sentimento di esse».

Semplificando: di una data cosa, la lingua ne esprime il concetto, mentre il dialetto ne esprime i sentimenti.

Il comune sentire italiano, cioè a dire il provare uno stesso sentimento di gioia o di esecrazione davanti a un certo evento, nascerebbe dunque dal pensar dialettale. La concettualizzazione operata dalla lingua porterebbe invece a reazioni non omogenee.

Forse, a ben considerare l’origine notarile del volgare («sao ko kelle terre» eccetera), le osservazioni pirandelliane non risultano tanto campate in aria.

L’avvento della televisione ha in un certo qual modo unificato, omologato in basso, la lingua italiana, ma non è riuscita a far scomparire del tutto le radici dialettali. Sono esse in definitiva che ancor oggi impediscono alla lingua italiana di diventare definitivamente una colonia dell’inglese.

Quella contro i dialetti è stata, per fortuna, un’altra guerra persa dal fascismo (la guerra alle mosche, la battaglia del grano, la battaglia demografica, la battaglia per l’autarchia eccetera).

Già, il fascismo…

La vulgata popolare racconta che il fascismo nacque perché i treni non arrivavano in orario a causa degli scioperi dei ferrovieri e perché i reduci della guerra ’15-’18 venivano vilipesi dai «rossi» imboscati e traditori della Patria. Mussolini, interventista, combattente, socialista, ex direttore dell’Avanti!, convinse gli industriali del Nord e gli agrari dell’Emilia Romagna, preoccupati dagli scioperi e dalla nascita di una forte organizzazione operaia ispirata dal Pc d’I. nato dalla scissione socialista del ’21, che il suo movimento non era una rivoluzione (anche se così la sbandierava) ma un sostanziale ritorno alla legge e all’ordine.

Se rivoluzione era, si trattava di una rivoluzione borghese con orizzonti borghesi e quindi bene accetta all’opinione pubblica e alla più importante stampa italiana. E infatti tanto la grande quanto la piccola borghesia vi si riconobbero.

La marcia su Roma, da Mussolini, fatta in vettura-letto e abilmente propagandata con toni epici, probabilmente sarebbe finita in una bolla di sapone davanti all’esercito pronto ad aprire il fuoco se Vittorio Emanuele III non avesse spalancato le porte al fascismo non firmando lo stato d’assedio.

Nel primo governo Mussolini, tra quelli dei fascisti, spiccano molti nomi di eminenti liberali, socialisti, cattolici, democratici. Da quel momento in poi, fatta eccezione per il brevissimo periodo immediatamente seguente al delitto Matteotti, il fascismo trovò la strada in discesa e in poco tempo seppe guadagnarsi il consenso degli italiani. I pochi che resistettero furono incarcerati, mandati al confino o comunque messi a tacere.

All’italiano del fascismo piacevano parecchie cose tra le quali l’autoritarismo, il decisionismo, il «me ne frego», il machismo e soprattutto piacque l’imposizione della divisa che permetteva una sorta di livellamento tra le classi.

Quando, all’inizio degli anni Trenta, il fascismo pretese il giuramento di fedeltà al partito da tutti coloro che in un modo o nell’altro erano dipendenti dallo Stato, non un magistrato, un burocrate, un poliziotto, un funzionario di qualsiasi ordine e grado si tirò indietro. Solo dodici docenti universitari opposero un netto rifiuto e furono mandati a casa.

Insomma, a un certo momento, la frequente scritta murale «Duce, tu sei tutti noi» rispecchiò la realtà italiana. Si disse che le adunate oceaniche di piazza Venezia erano il risultato di una precettazione capillare, ma non era assolutamente vero, l’italiano amava ascoltare la parola del capo sentendosi uno tra i tanti.

Oggi si può tranquillamente affermare che se Mussolini non avesse firmato il Patto d’acciaio con Hitler, costringendosi così a entrare nel conflitto, sarebbe morto di vecchiaia nel suo letto. Come accadde per Francisco Franco, che sul fronte italo-tedesco mandò pro forma una divisione o giù di lì e poi si tenne prudentemente in disparte.

Il consenso, come si sa, cominciò a calare a picco quando gli italiani si resero conto che la guerra era irrimediabilmente perduta.

Ma l’intervento a fianco di Hitler venne considerato dalla maggioranza degli italiani come il tragico errore di un Mussolini mal consigliato dai suoi gerarchi e dai suoi generali. La frase più comune in circolazione era: «Ha sbagliato a fare la guerra, ma è indubbio che cose buone ne ha fatte».

Insomma, una sorta d’assoluzione con tre avemarie e un paternoster per quell’unico sbaglio. La guerra era stata invece lo sbocco naturale, fatale, irreversibile della concezione fascista della ragione del più forte (nel caso specifico l’alleato tedesco) ma questo gli italiani non lo capirono o non lo vollero capire. Con conseguenze gravi.

Nel 1945, a Liberazione avvenuta, apparve sulla prestigiosa rivista politicoculturale Mercuriol’articolo di un grande giornalista, Herbert Matthews, intitolato: «Non l’avete ucciso». In esso, prendendo spunto dall’esecuzione di Mussolini e di molti suoi gerarchi, Matthews sosteneva non solo che il fascismo non era morto, ma che avrebbe continuato a vivere a lungo dentro gli italiani. Non certo nelle forme del ventennio, ma in certi modi di pensare e d’agire. E che l’infezione, profondamente diffusa, sarebbe durata molto, molto a lungo, decenni e decenni.

Allora, a chi scrive, quelle parole sembrarono esagerate, ma bastò pochissimo per modificare questo giudizio.

Quanto tempo dopo la caduta del fascismo l’Msi, che se ne proclamava l’erede, diventò una forza parlamentare? Parlino le date. Giorgio Almirante, già segretario di redazione e attivo collaboratore dell’infame rivista La difesa della razza, propugnatrice e sostenitrice delle leggi razziali, già sottosegretario nella repubblica di Salò, fonda il neofascista Msi nel 1946, meno di un anno dopo la caduta del fascismo, e nel 1948 (!) può sedersi con altri del suo partito alla Camera. Appena tre anni dopo la Liberazione, il neofascismo entra a far parte con pieno diritto dell’arco costituzionale.

Il fascismo insomma è una fenice che non ha bisogno di ridursi in cenere per rinascere. Sessantaquattro anni di democrazia ancora non sono bastati a ripulire il sangue dell’italiano dentro il quale tuttora vivono cellule infette, pronte a trasformarsi in ogni occasione in virus pericolosi.

A parte le sempre più frequenti manifestazioni dichiaratamente fasciste, che vanno dal saluto romano negli stadi alle aggressioni tanto violente quanto immotivate a giovani di sinistra, a barboni, a extracomunitari (a proposito, quanti sono i condannati per il reato di apologia del fascismo?), il fenomeno più diffuso e certamente più pericoloso è rappresentato da certi comportamenti fascisti da parte di chi è convinto di non esserlo. Alcuni esempi: la richiesta della destra di espellere dall’Italia i contestatori del governo israeliano per la sanguinosa invasione di Gaza è quanto di più fascista e meno democratico si possa immaginare. L’idea di prendere le impronte digitali ai bambini rom è razzista e fascista insieme. È fascismo che il governo siluri il prefetto di Roma perché non d’accordo con alcune proposte del sindaco il quale, tra l’altro, usa portare la croce celtica al collo. È fascista la volontà di Berlusconi di mettere mano alla Costituzione senza il concorso dell’opposizione. Ricorda tanto il «noi tireremo dritto» di mussoliniana memoria. E si potrebbe continuare a lungo.

Le particelle di Majorana

Quasi sempre, nella sua lunga storia, l’italiano ha dimostrato di essere esattamente come le particelle di Majorana. Il grande fisico teorico, misteriosamente scomparso nel 1938, elaborò un’ipotesi rivoluzionaria secondo la quale, adopero le parole del fisico Andrea Vacchi, «il partner di antimateria di alcune particelle siano loro stesse». Come dire che non la coesistenza, ma l’inscindibile fusione degli opposti costituisce l’identità.

C’è uno splendido racconto di Borges nel quale un eretico e un custode della fede a lungo e ferocemente si contrappongono. Quando l’eretico infine brucia sul rogo, il suo volto, per un attimo, si rivela essere quello stesso del custode della fede che l’ha fatto condannare a quell’atroce morte. Non le due facce di una stessa medaglia dunque, ma una medaglia che ha nel recto e nel verso la medesima immagine.

Lo stesso soldato italiano che, diciannovenne, a Caporetto scelse di non combattere, lo ritrovi poco più che quarantenne a El Alamein che si batte sino alla morte. E non certo per ragioni, come dire, equivalenti: nel primo caso infatti si trattava di difendere il territorio italiano, nel secondo di mantenere una postazione italiana in territorio straniero.

Lo stesso italiano che divenne emigrante e che venne aiutato in terra straniera da coloro che l’ospitavano, col fornirgli lavoro e abitazione, oggi mal sopporta che in Italia ci sia gente pronta ad accogliere gli extracomunitari.

Lo stesso italiano che amò intensamente Mussolini, che l’applaudì freneticamente a Milano, pochi giorni dopo l’appese per i piedi al distributore di benzina di piazzale Loreto, sempre a Milano.

Lo stesso italiano che una volta stentava a campare in Friuli e mandava la moglie a far la cameriera a Roma o altrove oggi disprezza la cameriera venuta dal Sud.

Più banalmente: lo stesso italiano che divorzia dalla moglie, e che vive con l’amante dalla quale ha avuto due figli, partecipa compunto a una dimostrazione contro il divorzio e firma contro i dico. Ma di fronte al duplice comportamento dell’italiano nei riguardi dei dettami della Chiesa si potrebbe scrivere un trattato piuttosto voluminoso. Gli esempi potrebbero continuare a centinaia.

Nell’italiano, dentro la medesima persona, possono insomma convivere contemporaneamente Galileo Galilei e Giordano Bruno, Tommaso Campanella e padre Bresciani, don Abbondio e Savonarola.

L’italiano è ritenuto all’estero persona inaffidabile in quanto spesso non mantiene la parola data o non porta a termine l’impegno preso. E gli stranieri fanno l’esempio della nostra politica estera, capace dall’oggi al domani di mutare radicalmente corso e indirizzo e di far diventare gli alleati di ieri i nemici di oggi.

Per esempio, questo avvenne prima della guerra ’15-’18, lo stesso è avvenuto verso la fine della guerra ’40-’45.

Non si tratta di scarsa serietà, a mio avviso, ma del fatto che nel momento in cui dava la sua parola d’onore, in quell’italiano, e in quel preciso momento, aveva la prevalenza il segno +, ma il suo opposto, il segno –, era pur sempre contestualmente presente e pronto a farsi avanti.

C’è nel film Il Terzo uomo un’esemplare battuta del personaggio interpretato da Orson Welles (ma il regista dichiarò che a scriverla era stato lo stesso Welles) dove viene detto che il Rinascimento in Italia ebbe origine proprio nel periodo più acuto delle guerre fratricide, dei tradimenti, degli assassini.

Mentre dalla lunga, tranquilla, secolare pace degli svizzeri non è nato che l’orologio a cucù.

Questo paradossale segno di contraddizione non solo è riscontrabile con uno sguardo panoramico, ma lo si può continuare a vedere, zoommando lentamente, anche dentro un paese rinascimentale, dentro una via rinascimentale, dentro una casa rinascimentale, dentro un appartamento rinascimentale, dentro un italiano rinascimentale.

E, naturalmente, anche dentro un italiano d’oggi.

Il rutto del pievano

Ossia gli italiani e il loro passato. Cantava Curzio Malaparte negli anni del consenso al fascismo: «Val più un rutto del tuo pievano/ che l’America e la sua boria./ Dietro all’ultimo italiano/ c’è cento secoli di storia».

Senonché sono gli italiani a essere boriosi e non dei cento secoli di storia, che ignorano del tutto, ma dei rutti del loro pievano.

L’italiano non ha una visione totale della storia d’Italia, ha semmai una certa visione di dettaglio, limitata cioè alle minute vicende del suo vicino territorio, del suo paese d’origine, e addirittura del quartiere dove è avvenuta la sua nascita.

Può tuttalpiù rapportarsi con le vicende del paese limitrofo, ma solo perché esso è il suo rivale diretto nel campionato di calcio.

L’italiano è come un marziano caduto nottetempo al centro di quattro case abitate. Gli basterà venire a sapere dove si trova la sua abitazione, la parrocchia, l’osteria, il municipio. La sua curiosità non si spingerà oltre.

Il Palio di Siena con le sue rivalità tra contrade, che arrivano a un fanatismo sconosciuto persino ai tifosi della curva Sud, è lo specchio del forte legame che unisce l’italiano al suo habitat.

E questo spiega in parte il grande successo politico della Lega Nord. All’infuori di questo perimetro, l’orizzonte dell’italiano è da miopi.

Durante la guerra ’15-’18 il maggior numero di renitenti alla leva (mi rifaccio a documenti dello Stato maggiore) e di disertori fu riscontrato tra i contadinisoldati che provenivano dal Sud, specialmente siciliani e calabresi, i quali non capivano perché dovessero andare a difendere i cavolfiori dei contadini del Nord.

Alla domanda se amava la sua patria, Brecht un giorno rispose che non aveva nessuna ragione d’amare la finestra dalla quale era caduto bambino. Gli italiani amano invece quella finestra e il terreno sottostante sul quale hanno battuto la testa.

Nel 1942, mi pare, sulla rivista Primato che dirigeva il ministro Bottai, venne pubblicata una vignetta di Amerigo Bartoli. Mostrava Benedetto Croce seduto nel suo studio intento a scrivere. Alle sue spalle Hegel sbirciava quello che Croce andava scrivendo e poi diceva: «Ciò che più ammiro in Lei, Maestro, è il senso della Storiella».

Ecco, gli italiani non hanno il senso della Storia, ma della Storiella.

Facendo un certo sforzo, riescono a prendere in considerazione la microstoria, ma da queste visioni parziali e minute non riescono a ricostrure la grande visione generale.

Del Risorgimento sanno appena che lo zio Lello, fratello del nonno della madre, era quello scapestrato, quello sventato che abbandonò la famiglia per andare a farsi ammazzare da uno che manco conosceva.

L’unica storia che l’italiano conosce veramente, e a fondo, è quella del gioco del calcio. Non solo sa a memoria nomi, soprannomi, vizi, difetti, gol segnati, mogli e amanti di ogni giocatore che della sua squadra ha fatto parte dalle origini ai giorni nostri, ma anche di quelli delle squadre rivali.

Per la Storia invece è un’altra storia.

Perché la Storia comporta l’uso critico della memoria e gli italiani essenzialmente tendono ad essere smemorati o ad avere la memoria corta. Se la Storia è veramente magistravitae, gli italiani non hanno mai frequentato quella scuola.

La memoria corta

Quella parte del cervello che ha il compito d’archiviare la nostra vita nel suo insieme (non solo i fatti accaduti nel corso dell’esistenza, ma anche le letture che abbiamo fatto, gli spettacoli visti, i concerti ai quali abbiamo assistito, le mostre alle quali siamo andati) possiede, nell’italiano, una sorta di deleteautomatico che entra in azione assai presto, consentendo una scarsissima autonomia alla memoria.

Fatti sgradevoli già ripetutamente accaduti nel corso degli anni, quando si ripresentano, all’italiano sembrano sempre nuovi.

«Non si è mai vista un’inondazione simile a Roma!».

Poi si va a guardare nelle facciate dei palazzi romani e si scopre che alcune lapidi ci mostrano che l’acqua nel Seicento o nel Settecento raggiunse livelli di gran lunga superiori a quelli attuali.

È un esempio banale, lo so.

Ma mi pare che sia stato T.S. Eliot a dire che l’inferno consiste nella memoria, ai dannati viene fatto ricordare tutto, persino quanto costava un etto di margarina nel 1928.

Se l’inferno fosse veramente la memoria, l’italiano andrebbe direttamente in paradiso.

Di un evento che l’ha appassionato, soprattutto perché strombazzato dai giornali e dalle televisioni, l’italiano ne conserva il ricordo solo per qualche settimana, al massimo per qualche mese.

A meno che non si tratti di cronaca nera, allora la persistenza mnemonica è assai più lunga. Ma per una ragione semplicissima e cioè che gli italiani immediatamente si dividono in due partiti ferocemente contrapposti: gli innocentisti e i colpevolisti. Senza la minima cognizione delle carte processuali, senza essere a conoscenza dei dettagli dell’indagine, decidono a primo acchito se l’accusato è innocente o colpevole. A pelle. Al solo guardarlo.

L’innocentista, sia detto per inciso, resterà fermamente ancorato alla propria convinzione anche quando i giudici della Cassazione, di fronte a prove schiaccianti, avranno condannato all’ergastolo il colpevole.

A proposito di giudici e di giustizia. Essendo siciliano, citerò alcuni modi di dire della mia terra.

Cu havi dinari e amicizia / teni ’n culu la giustizia.
(Chi ha denari e amici / se ne può fregare della giustizia.)
Fari la giustizia a manicu di mola. (Far giustizia in modo storto.)
Judici, presidenti e avvucati / ’n Paradisu nun ne attrovati.
(Giudici, presidenti e avvocati / in Paradiso non ne troverete.)
La furca è pi lo poviru, la giustizia pi lu fissa.
(La forca è per il povero, la giustizia per il fesso.)
La liggi per l’amici s’interpreta, pi l’autri s’applica.
(La legge per gli amici s’interpreta, per tutti gli altri s’applica.)
Lu codici è fattu da li cappeddri pi ghiri ’n culo a li coppuli.
(Il codice è fatto dai signori per andare in culo ai berretti.)

Potrei continuare a lungo. La sfiducia nella giustizia è totale, basandosi sulla convinzione diffusa che essa sia uno strumento dei ricchi (che non incappano mai nelle sue maglie) usato contro i poveri. Una giustizia di classe.

E credo che in ogni regione del Sud d’Italia ci siano modi di dire similari.

Colpa dell’amministrazione della giustizia borbonica, m’è capitato di leggere da qualche parte. Le cose non stanno così: se la giustizia borbonica non fu un modello, quella italiana postunitaria non migliorò per niente la situazione, a volte la peggiorò.

L’inchiesta Franchetti-Sonnino del 1876 è in proposito assai esplicita.

Scriveva Pirandello su quegli anni ne I vecchi e i giovani: «Povera Isola, trattata come terra di conquista! (…) e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo, e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi al servizio dei deputati ministeriali (…) l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori…».

Questo divario sull’amministrazione della giustizia al Sud e al Nord, salvo la parentesi fascista, continuò anche dopo la Liberazione, con la magistratura del Sud completamente asservita al potere, cioè alla Dc.

Si deve ad alcuni eroici magistrati siciliani in prima linea nella lotta contro la mafia, e che ci lasciarono la vita, il risveglio della solidarietà dei cittadini verso la giustizia.

Ma il punto massimo del consenso si verificò al tempo di Mani Pulite, quando la magistratura milanese fece piazza pulita della corruzione partitica e, praticamente, spazzò via la Prima Repubblica.

Dalle ceneri di essa nacque inopinatamente un affarista milanese che seppe trasformarsi in uomo politico. Aveva molti conti aperti con la giustizia. E quindi, appena arrivato al potere, si è dedicato anima e corpo alla distruzione del sistema giudiziario, con continue leggi ad personam e addirittura arrivando ad affermare che i giudici sono esseri mentalmente tarati. È singolare come, in un’occasione, abbia usato contro i giudici le stesse parole adoperate dal gran capo mafioso Totò Riina.

Ad ogni modo, dato il larghissimo seguito di cui dispone, ha abolito il divario tra Sud e Nord: l’italiano di Palermo e quello di Bergamo ora sono felicemente concordi nella sfiducia totale verso la giustizia.

L’italiano che ha preso una multa per sosta vietata, oggi si sente autorizzato a dichiararsi vittima della giustizia.

(10 marzo 2009)
da micromega-online


Titolo: Andrea CAMILLERI Saverio LODATO. Berlusconi i colonnelli o i tonni di An
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2009, 11:57:06 am
Lo chef consiglia di

Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Berlusconi i colonnelli o i tonni di An


Camilleri, il copione vuole che nel congresso di scioglimento di AN, l’ “Ultimo dei Mohicani” sarà sconfitto. L’indiano è Fini. E la Storia è più atroce degli uomini che pretendono di farla, scriverla, interpretarla. Scherzando, si può parafrasare Lino Banfi: “In Italia un dittatore è poco, due sono troppi”. In “Una tigre in redazione” (Marsilio), sono raccolte le corrispondenze di Emilio Salgari, quando Buffalo Bill venne in Italia con seguito di indiani e cowboy (1890). Fra un secolo, chi farà parte del circo? E dove saremo?

Dove saremo non ha nessuna importanza. Né mi sento di fare pronostici, se fra cento anni esisterà ancora il circo Barnum della politica come è intesa oggi o saranno tempi più seri. Noto che Berlusconi non interverrà al congresso di An. Dicono che lo farà per cortesia, per lasciare il palcoscenico tutto a Fini. Non credo sia così: sotto quello che vorrebbe apparire come un commosso rito d’addio si svolgerà una lotta senza quartiere fra Fini e i suoi colonnelli e tra i colonnelli fra loro. La presenza di Berlusconi acuirebbe le faide. Non tutti i colonnelli di Fini, a cominciare dall’ineffabile Gasparri, condividono le sue esternazioni, sentendosi ormai più vicini a Berlusconi che a lui.

Inoltre il partito unico comporterà un sensibile dimagrimento delle poltrone in dotazione ai due partiti satelliti di FI, la quale farà la parte del leone. È inevitabile una notte dei lunghi coltelli. Ha mai assistito a una mattanza, caro Lodato? Quando la rete, detta “camera della morte”, comincia a essere tirata in superficie, le decine e decine di tonni che vi sono intrappolati prendono a contendersi il poco spazio acquatico rimasto fino a quasi uccidersi fra loro. Solo in quel momento il rais, nel caso specifico Berlusconi, ordina di arpionare.


da unita.it
21/03/2009


Titolo: Montalbano è allibito: le «mele marce» di Genova e i precedenti di Bolzaneto
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2009, 05:02:41 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato


Montalbano è allibito: le «mele marce» di Genova e i precedenti di Bolzaneto


Camilleri, alle notizie di Genova, Montalbano sarà rimasto di sasso: scoperta una banda di 25 poliziotti dedita a cocaina, bische clandestine, festini con prostitute. Agghiaccianti le telefonate fra i Rambo di cartapesta: «Voglio fare una rissa della Madonna, finisce che ammazzo tutti»; «Sei dei tanti che consumano droga, sei nella norma».
Di un neofita, un veterano dice: «Non vorrei che finisse lì, e poi ci tocca buttarlo nella spazzatura». Della storia i giornali hanno parlato un giorno solo. In fondo, sono italiani come noi.

Montalbano, caro Lodato, è allibito e nauseato. E vorrebbe rivolgere qualche domanda a chi di ragione. La prima è per il Questore di Genova che ha dichiarato, a stare al Corriere della Sera, che si tratta di «poche mele marce». Sappiamo che è consuetudine delle Questure il ridurre sempre a un terzo i partecipanti a una manifestazione a esse non gradita. A logica di Questura, dunque, i poliziotti dovrebbero essere molti di più che 25. Ma anche restando a questo numero, non pare al signor Questore che 25 mele marce siano un po’ troppe? Ne basta una sola in un cesto per infettare tutte le altre. Il contadino lo sa e si affretta a gettarle via. Come mai alla Questura di Genova nessuno si è accorto di quello che stava succedendo? E pare che uno degli arrestati avesse subito una condanna a 3 anni e 2 mesi per avere massacrato a Bolzaneto la mano di un no global.
Lo stesso agente, nel 2007, era stato indagato perché accusato di avere violentato con alcuni suoi colleghi tre prostitute straniere proprio nei locali della Questura genovese. Ecco le altre domande: come mai un tipo simile ha potuto continuare a vestire la divisa della polizia? Anche allo spirito di corpo c’è un limite, passato il quale, lo spirito di corpo diventa complicità.

da unita.it


Titolo: Biotestamento sarà il grimaldello per scassinare altre libertà
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2009, 12:30:23 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 

Biotestamento, una vergogna. Sarà il grimaldello per scassinare altre libertà


Camilleri, ha visto come è andata al Senato? Tanto tuonò che piovve. Testamento biologico bay bay. E Berlusconi può concedersi anche il lusso di bistrattare i parlamentari che stanno lì solo «a far numero», insomma «pansa e presenza». Fra poco, le cronache parlamentari diventeranno assai più snelle: «Il numero 1 ha votato a favore della legge proposta da lui medesimo». Fine della seduta. Prosit!


A quanto mi è parso di capire dai resoconti giornalistici, la legge che si è votata sul testamento biologico è risultata essere ancora più dura e infame di quanto si pensasse. L’intransigenza invocata il giorno avanti dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, è stata messa in atto da Berlusconi e dai suoi, con l’esclusione di ogni possibilità di discussione e di mediazione. Senza la più lontana preoccupazione di salvare un minimo di laicità dello Stato. Ho ancora la libertà di dire che è stata scritta una pagina vergognosa della nostra storia? Ho sostenuto altrove, e qui lo ripeto, che questa legge verrà usata come un grimaldello per scassinare altre nostre libertà fondamentali, altre regole del vivere civile. Infatti, malgrado questo felice risultato, che apre a Berlusconi l’onore degli altari, egli non ha esitato ha dichiararsi insoddisfatto. Piccolo Cesare avverte le regole della democrazia come fastidiose remore che gli impediscono di fare ciò che gli torna personalmente utile. Considera i deputati come semplicissimi numeri. Fini gli ha ricordato che le regole vanno rispettate da tutti, a cominciare dal premier. Piccolo Cesare ha replicato, al solito, che le sue parole sono state travisate. È vero. Ciò che in realtà voleva dire, si trova già scritto nei libri di storia e le parole sono queste: «Farò di quest’aula sorda e bigia un bivacco per i miei manipoli».

da unita.it


Titolo: Camilleri, il comunista che scrive storie d’amore è una mosca...
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2009, 09:34:51 am
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 

Le più belle storie d'amore del Novecento le hanno scritte comunisti


Camilleri, il comunista che scrive storie d’amore è una mosca bianca o, visti i tempi, è prevedibile la nascita di un nuovo autentico filone?
Glielo chiedo perché è appena uscito “Ricordi di Rosa e di come la storia ne attraversò la vita” (Navarra editore) che è, ma non solo, una struggente storia d’amore.

A scriverlo è Gianni Parisi, palermitano, che negli anni 70, mentre alla guida del Pci c’era Enrico Berlinguer, fu segretario della Federazione di Palermo e poi segretario regionale del PCI; per tre volte parlamentare siciliano. Fra i tanti che lo conoscono, non è stata poca la sorpresa.


Mi scusi, caro Lodato, ma non ho ancora letto il libro di Gianni Parisi e non appartengo alla categoria di persone che dissertano su un libro senza averlo letto, o avendo appena dato un’occhiata al risvolto di copertina. Però mi meraviglio che Lei si meravigli del fatto che un comunista abbia scritto una struggente storia d’amore.
 
Forse Lei continua a credere, seguendo l’alto insegnamento berlusconiano, che i comunisti erano, e sono - perché a Dio piacendo ancora qualcuno ce n’è -, quegli esseri feroci, crudeli, disumani, che a pranzo e a cena si nutrivano di bambini? O vuole semplicemente prendermi in giro? Comunque le dirò che le più belle poesie d’amore di tutta la letteratura del novecento, le hanno scritte tre comunisti, due dei quali hanno patito l’esilio e la galera per le loro idee: Nazim Hikmet, Pablo Neruda e Paul Eluard.
E in quanto ai romanzi, Le dirò che non tutti nella stessa Urss seguivano i dettami del realismo socialista.

Guardi, tanto per fare un esempio, “Il dottor Zivago”.

Non è un romanzo d’amore? In patria, Pasternak venne duramente attaccato , la circolazione del suo libro non fu consentita, ma, checché se ne dica, il romanzo non può essere spacciato per anticomunista. Come la mettiamo?

da unita.it


Titolo: Gran venditore Silvio. In una luccicante scatola ci rifila un discorso scaduto..
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2009, 12:44:52 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Gran venditore quel Silvio. In una luccicante scatola ci rifila un discorso scaduto


Camilleri, è forte l’Italia! Dopo 14 anni, Berlusconi è costretto a fondare il nuovo partito nuovo e presentarlo come fosse sempre verde. Un politologo stupisce, perché la Thatcher e Kohl, dopo avere rivoltato i loro paesi, furono pensionati. Già. Forse la spiegazione è che, da noi, la «novità promessa» non arriva mai, e Berlusconi, ogni quinquennio, deve far la cerimonia del varo della nuova arca, con nuove madrine, nuovi padrini. Uno spot tv di acqua minerale mostra «lo zio», «la zia», «il parroco», «il nipotino» e «la nonna», ormai ottuagenari, ma con faccia da ragazzini. I registi sembrano quelli che hanno allestito il congresso Pdl alla Fiera di Roma.

Cro Lodato, ma lei ha trovato un motivo di novità nel congresso Pdl? Berlusconi, strepitoso venditore, non ha fatto altro che mettere in una diversa, sfavillante confezione, un prodotto scaduto, con la certezza che nuovi sprovveduti clienti si lasceranno incantare e l’acquisteranno fiduciosi. Non si è divertito alla sfilata dei Caldoro, Rotondi, De Gregorio, Mussolini, Baccini, Bonardi, Bonocore, che chiudevano le loro piccole bancarelle per confluire nell’ iper mercato berlusconiano? E dato che mi parla di vecchiaia, devo ricordarle che Scapagnini afferma d’aver reso immortale Berlusconi dandogli a bere - parole sue - la stessa pozione che bevono i centenari abitanti a sud di Urumpi, fra il deserto di Taklamakhan e il Gobi. Parola di sciamano, sotto mentite spoglie di dottore in medicina. Premesso che Berlusconi avrebbe il dovere morale di regalare un sorso del decotto miracoloso almeno al fedelissimo Bondi, che sembra tenere l’anima coi denti, può darsi che l’intruglio mantenga l’aspetto giovanile, ma blocchi lo sviluppo cerebrale? Se no come spiega che Berlusconi ha rifatto sostanzialmente lo stesso discorso di 14 anni fa?

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - Se non ora, quando? Domani tutti al Circo Massimo
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2009, 05:10:26 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Se non ora, quando? Domani tutti al Circo Massimo


Camilleri, domani, in centinaia di migliaia andranno al Circo Massimo, su invito di Guglielmo Epifani e della Cgil. Saranno un milione o di più? Lo capiranno solo i fortunati presenti. I Tg faranno riprese raso terra, non superando il ginocchio dei manifestanti. Vedute aeree e dirette tv, per questo governo, sono un lusso. La Questura, con il bilancino d’ordinanza, ridurrà le cifre di tre quarti. Seguiranno Sacconi, Brunetta, Quagliarello: ecco i «fannulloni». Consiglio agli italiani? Andate al Circo Massimo a 4 a 4, se volete che almeno uno di voi sia registrato dal pallottoliere di Palazzo Chigi.

Non ho alcun dubbio che questa volta questure e Tg opereranno non la solita diminuzione del numero dei partecipanti, ma passeranno direttamente alla decimazione. Bisognerà dimostrare, a tutti i costi, che solo pochi pazzi possono dichiararsi scontenti di tutto quello che il governo Berlusconi sta facendo contro la crisi. Tremonti, infastidito, replica dicendo: «Abbiamo già dato». Ma chi ricorda più le elemosine prenatalizie e di pochi spiccioli? E mentre i soldi per le banche si trovano, non si trovano per i disoccupati che crescono esponenzialmente, per gli ammortizzatori sociali, per intervenire sulle famiglie in povertà. Il nostro paese rischia una catastrofe, e lorsignori fan finta di niente e insultano chi non accetta il loro demenziale ottimismo.

Per il comico Brunetta i manifestanti, naturalmente, non saranno che mascalzoni venuti a Roma per una gitarella. E Sacconi è troppo occupato a pensare a come farli morire cattolicamente, piuttosto che a come farli sopravvivere.

Ci sono i benpensanti che dicono che una manifestazione così ora non è opportuna.

E se non ora, quando? Mi associo con tutto il cuore al suo invito, caro Lodato: domani tutti al circo Massimo.

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - I rischi che tutto il Paese corre con questo terremoto
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2009, 03:51:23 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


I rischi che tutto il Paese corre con questo terremoto


Camilleri, ci voleva Giorgio Napolitano per diradare la melassa dell’efficientismo, ricordare che la tragedia rimanda a responsabilità anche umane, rifuggire dai fotografi. Notte del 15 gennaio 1968, terremoto del Belice: 370 i morti. Leonardo Sciascia scrisse su “L’Ora”: “E al presidente della Repubblica che oggi è qui sentiamo di dover dire che egli rappresenta un paese tremendo. Dilacerato da contrasti e ingiustizie che sotto quiete apparenze non sono meno gravi di quelli che in altri paesi del mondo sanguinosamente si dispiegano. E’ che la Sicilia è stanca, che muore ogni giorno anche senza l’aiuto delle calamità naturali.” I terremoti non cambiano e in Italia continuano a trovare terreno fertile.

Il terremoto del Belice, come Lei ha ricordato, successe nel gennaio 1968. Le sensibilissime antenne di Sciascia captarono le sotterranee vibrazioni di un altro terremoto che di lì a poco si sarebbe scatenato: quello dei movimenti del ’68. La differenza, fra allora e oggi, è data dal fatto che non solo non esistono più gli Sciascia, i Moravia, i Pasolini, e se esistessero non sarebbero ascoltati, ma che gli odierni politici e i sedicenti giornalisti, anche se con tessera dell’ordine, si servono di questo terremoto per coprire gli inquietanti segnali di un altro devastante sisma. Che la cig sia aumentata del 925 per cento, rispetto allo stesso mese dell’ anno scorso, è un segnale che dovrebbe sconvolgere i nostri governanti, invece stanno lì a litigare sulle ronde. E se qualcuno domanda cosa stiano facendo rispondono spacciando fragili castelli di sabbia come solidi provvedimenti. Nel terremoto del Belice, Sciascia avvertì che la Sicilia poteva restarne travolta. Nel terremoto dell’ Aquila è l’Italia intera a correre il rischio. Solo che tutti fanno finta di non accorgersene.

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - Com'è fashion sfilare in Abruzzo.
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2009, 03:01:09 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Com'è fashion sfilare in Abruzzo.

Unico assente è Maroni, per le ronde


Camilleri, mi ha colpito, in questi giorni di Tv Terremoto, il cappello, nero e molto chic, di un’inviata di Rai1.
Un modello che si ispira a quello degli alpini, senza penna, però. Scelto con raziocinio estetico.

Mi ha colpito il casco, da terremotato fra terremotati, di Berlusconi che per ogni location calza un copricapo acconcio. Tutti hanno il medesimo casco, ma si vede subito che con Lui è anche una collezione che si sta arricchendo.

Mi ha colpito il colore delle tende: un bellissimo blu cobalto. Nel Belice e in Irpinia, ho il ricordo di tende da guerra, verde militare.
Insomma, questo è il primo terremoto davvero fashion, molto chic.

Ovvero, come si trasforma un’immane tragedia in passerella elettorale.

A L’Aquila è andato mezzo governo, portando grande fastidio ai soccorritori per l’imponente corteo di segretari, portaborse, portavoci e uomini di scorta che i ministri si trascinano dietro.

L’unico a non esserci andato subito è proprio chi aveva il dovere di andarci per primo, il ministro dell’interno, Maroni.
Non perché gli abruzzesi non facciano parte della Padania, ma perché arrabbiato con Berlusconi che gli avrebbe mandato in vacca le ronde.

Essendo una passerella, ognuno sfila con il look che ritiene più appropriato.
Berlusconi non poteva perdere l’occasione di mostrarsi con un diverso copricapo, dopo essere apparso con uno sfavillante cappello di capostazione.
E neanche quella di fare qualche gaffe da padrone delle ferriere: «andate tutti al mare, paghiamo noi!». Che dirle, caro Lodato? Lei ha notato il blu cobalto delle tende, io no. Non guardo più le immagini delle rovine e degli attentati trasmesse dai Tg.

Ho paura, veramente, di veder comparire un intrattenitore da villaggio vacanze che dica: «allegria!» e inizi a presentare uno show.

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - "Vi racconto la vera faccia del mio Montalbano"
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2009, 04:47:21 pm
SPETTACOLI & CULTURA     

"Vi racconto la vera faccia del mio Montalbano"

di ANDREA CAMILLERI


Ogni tanto qualche lettore mi domanda: ma com'è fatto il vero Montalbano? La domanda non sottintende che ci sia in circolazione un Montalbano falso: quel "vero" vuole riferirsi al personaggio dei miei romanzi, diversificandolo da quello, ormai famoso in quasi tutto il mondo, egregiamente codificato in tv da Luca Zingaretti. Io lo so com'è fatto il mio Montalbano, non perché ne abbia disegnato i tratti scrivendolo, ma perché mi è capitato d'incontrarlo in carne e ossa. Naturalmente non si chiamava Montalbano e non faceva il poliziotto. Un giorno della primavera del 1998, mi pare, mi scrisse dall'Università di Cagliari il professor Giuseppe Marci invitandomi a un incontro con gli studenti che avevano seguito un corso dedicato al mio Birraio di Preston. Gli risposi accettando. Dopo qualche giorno mi telefonò per stabilire la data dell'incontro. Concludemmo i dettagli e lui mi disse che sarebbe venuto a prendermi all'aeroporto. "Come faremo a riconoscerci?", gli domandai. E il professore mi rispose che avrebbe tenuto in mano una copia del "Birraio".

Fu così che incontrai Salvo Montalbano all'aeroporto di Cagliari con un mio romanzo sottobraccio. Era veramente impressionante la sua somiglianza col mio personaggio. Dirò di più: la vista del professore unificò in me l'immagine del commissario che fino a quel momento era ancora come un puzzle mancante di alcuni pezzi di sfondo.

Qualche tempo dopo, Carlo Degli Esposti, il produttore, cominciò a pensare alla serie televisiva e mi domandò delucidazioni sull'aspetto fisico di Montalbano. E io me la cavai pregando il professor Marci di mandargli alcune sue fotografie. Ma non si trovò un attore che gli somigliasse e allora decisero di prescindere. Infatti il bravissimo Luca Zingaretti non ha nulla a che fare col Montalbano dei miei romanzi, basta pensare che il mio commissario ha capelli e baffi.

Assai divertente è vedere come immaginano Montalbano all'estero. Alcune traduzioni recano, in copertina, un disegno che raffigura il commissario. Negli Stati Uniti compare con un volto, duro e deciso, che appartiene più agli investigatori privati americani dell'hard-boiled che a un commissario della Polizia di Stato, per di più siciliano e gran mangiatore. In Giappone il disegno di copertina raffigura un signore con cappello e valigetta in mano, barbetta alla Cavour e occhiali! Sembra un alto funzionario del fisco. Ma come può venire in mente di mettere gli occhiali a Montalbano che li odia e addirittura rimprovera Augello perché li porta!

Una volta, quando già era apparsa in tv la prima serie di Montalbano, venne indetto un concorso tra cartonisti per "tradurre" in fumetti alcune novelle con protagonista il commissario. Quando alla fine mi mandarono i tre finalisti, ebbi sì la soddisfazione di vedere che nessuno di loro si era lasciato suggestionare da Zingaretti, ma nello stesso tempo rimasi alquanto deluso perché non erano riusciti a centrare l'immagine. Tra questi disegnatori ce n'è uno, di Genova, che ha ormai "fumettato" una gran quantità di racconti per divertimento personale: ebbene, anche lui si è lasciato sopraffare dai tratti somatici di Zingaretti.

Meglio è andata con i tre giochi interattivi editi da Sellerio e dovuti a un gruppo di disegnatori palermitani. Essi si sono ispirati alla figura del commissario Ciccio Ingravallo di Gadda, cinematograficamente interpretato da Pietro Germi. E qui devo confessare che, quando ho cominciato a immaginare il mio Montalbano, l'immagine di Germi-Ingravallo mi è stata molto presente. Solo che il mio commissario non è così alto e ha la faccia un po' più larga, da contadino.

Ora a Montalbano il mio paese, Porto Empedocle, dedica una statua. Autore ne è lo stesso scultore che ha già fatto il monumento a Sciascia a Racalmuto. E, come quello di Sciascia, anche quello di Montalbano troverà la sua collocazione in mezzo alla strada. Sciascia passeggia fumando una sigaretta, Montalbano se ne sta appoggiato a un lampione. So già che molti diranno che non somiglia a Montalbano. E che altrettanti diranno invece che gli somiglia. È inevitabile: ogni lettore si crea un suo Montalbano.
Come ogni personaggio romanzesco, Montalbano è, pirandellianamente, uno, nessuno e centomila.

(19 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: Entusiasti collaboratori dei nazisti sempre concordi nel perseguitare gli ebrei
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2009, 11:42:53 pm
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di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Gli entusiasti collaboratori dei nazisti sempre concordi nel perseguitare gli ebrei

Camilleri, facile dire che con un poco di zucchero la pillola va giù la pillola… Per Silvio Berlusconi, Resistenza, 25 aprile, Costituzione, non sono il frutto di un movimento di popolo che ci liberò dal nazifascismo. Ma solo la faccia di una medaglia. L’altra faccia, e lo ha detto ieri dopo aver reso omaggio all’ Altare della Patria, è rappresentata dai repubblichini di Salò: «Coloro che credendosi nel giusto hanno combattuto per una causa che era persa». Una causa «persa», non una causa «sbagliata». Le parole sono pietre, diceva Carlo Levi.


Berlusconi, con il 25 aprile, ci sta come i cavoli a merenda, ha scritto Michele Serra. E continua a darne prova con la frase da Lei citata, caro Lodato. Combattere per una causa che si sa persa, può anche essere sacrosanto, come ci ha spesso dimostrato la Storia. Combattere per una causa non solo sbagliata, ma che va contro i principi dell’umanità, è comunque disonorante. Cade a taglio un articolo di “Repubblica” che recensisce uno studio di Monica Fioravanzo la quale, documenti alla mano, racconta che, durante il periodo repubblichino, Mussolini e i suoi non furono semplici marionette azionate dai nazisti, come spesso si è voluto far credere; esecutori d’ordini privi di volontà propria. Al contrario, essi ebbero posizioni non allineate sui dettagli, e mai si dimostrarono «feriti» o «languenti», secondo la definizione di La Russa e soci, ma entusiasti e fedeli collaboratori. Tedeschi e repubblichini si trovarono sempre d’accordo, senza se e senza ma, su un punto preciso: l’implacabile persecuzione contro gli ebrei. Basta questa concordia da carnefici a qualificare la repubblica di Salò. Pietà è una parola, assoluzione un’altra.

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - Io non credo alle aperture del premier
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2009, 06:04:03 pm
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di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Io non credo alle aperture del premier


Camilleri, sarà mossa mediatica. Sarà il bicchiere di cicuta che va trangugiato pur di restare in sella in vista della candidatura a capo dello Stato. Sarà una delle dichiarazioni di quel milione di dichiarazioni che ha smentito il giorno dopo prendendosela con giornalisti e telegiornali che l’avevano travisato.

Ma se le parole del 25 aprile sono pietre, lo sono anche quelle dell’indomani. E il 26 aprile, Silvio Berlusconi ha annunciato solennemente: “il disegno di legge sull’equiparazione di partigiani e repubblichini di Salò” sarà ritirato.


Ma Lei davvero intende cascarci come stanno facendo in tanti del centrosinistra?
Lei crede che Berlusconi bloccherà davvero il disegno di legge che equipara partigiani e repubblichini? Guardi che ha esordito dicendo che lui della faccenda non sapeva nulla e quando dice che non sa niente di una cosa viene a dire che sa benissimo tutto. Esordì così anche per la Englaro e andò a finire come sappiamo. Equiparare i repubblichini ai partigiani non è concedere una pensioncina a degli ultraottantenni, come sostiene il furbo Storace, ma significa l’implicito riconoscimento giuridico di Salò.

Questa è una legge che Berlusconi farà ritirare nella forma attuale, ma che di sicuro riproporrà in mondo diverso alla prima occasione, magari infilandola fra una norma per la coltivazione del ficodindia e una per l’incremento per la fabbricazione dei lacci per scarpe. Farà come per la legge salva manager che metterebbe in sicurezza personaggi come quelli della Tyssen: nessuno la vuole, tutti proclamano che sarebbe una vergogna, Tremonti ha addirittura minacciato le dimissioni, eppure, com’è, come non è , un abile manina, ultima quella del ministro Sacconi, la fa ricomparire dove uno meno se l’aspetta. Questi, più che politici, sono maestri nel gioco delle tre carte

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - Il cumenda dei cumenda da Colpo Grosso alle liste europee
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2009, 05:01:58 pm
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di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Il cumenda dei cumenda da Colpo Grosso alle liste europee


Camilleri, Fini prende le distanze dalla scelta di Silvio Berlusconi di rimpolpare le liste Pdl per le europee con letterine e letteronze. Ma molti non sanno che Berlusconi fu l’autore principale di «Colpo grosso», con le celebri ragazze Cin Cin che, su Italia 7, mostravano seno e lato B. Sarà anche per questo che centri di bellezza, centri massaggi e palestre, stanno diventando le nuove sezioni del Pdl che, più che partito leggero o pesante, sembra ispirarsi a un modello di partito adamitico.
E qualche politologo proporrà un partito delle «ragazze coccodè», le altrettanto celebri ragazze di Renzo Arbore, per fare vera opposizione in Italia.


Era antica tradizione meneghina quella del cumenda che, dopo essersi sbracciato ad applaudire le girls che sfilavano in passerella con la Osiris o con Macario, ne eleggeva una a compagna di notti o, più raramente, di vita. Ma mai il cumenda si sarebbe sognato di farla partecipare ai suoi affari. Una cosa è il letto, un’altra i danè. La mutazione è avvenuta col cumenda dei cumenda, ossia il nostro cavaliere che pensa di utilizzare queste bellezze, ora provenienti dalle tv, a scopo elettorale. Si fosse limitato a farle comparire sui cartelloni, poco male. Il grave è che le mandi nel Parlamento, nostrano o europeo che sia, dopo un breve, ma indispensabile, corso di educazione politica, in modo che queste creature sappiano almeno distinguere il presidente del Senato da un vigile urbano. E questo conferma quale altissimo concetto Berlusconi abbia delle istituzioni e del Parlamento. D’altra parte, i finiani che protestano sono quanto mai patetici: non hanno ancora capito chi è il padrone del vapore. Comunque, caro Lodato, è meglio pescare onorevoli nei sottoboschi tv che nei grandi vivai mafiosi, camorristi e piduisti.

da unita.it



Titolo: Andrea CAMILLERI - Quella norma voluta dagli imprenditori siciliani e annullata
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2009, 06:34:02 pm
04/05/2009

Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Quella norma voluta dagli imprenditori siciliani e annullata da Alfano


Camilleri, i Maroni e i Mantovano, che vorrebbero far la voce grossa con i mafiosi pretendendo l’obbligo per l’imprenditore di denunciare le estorsioni del racket, hanno il candore dei boy scouts. Ispirano quasi tenerezza perché poi è arrivato il ministro della giustizia, Angelino Alfano, che ha detto papale papale che di un simile obbligo non se ne parla proprio. E la norma che imponeva all’imprenditore di informare la giustizia, è stata colpita e affondata. Maroni si accontenti se i medici denunciano i clandestini. Che i mafiosi, invece, votano e tornano sempre utili.

Nella cancellazione della norma che avrebbe dovuto costringere gli imprenditori di appalti pubblici a denunciare le eventuali estorsioni mafiose, c’è un retroscena. La norma venne inserita da Maroni e da Mantovano su insistente richiesta di Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia, e di Cristina Coppola, dell’ antiracket campano: Lo Bello era riuscito, già dall’anno scorso, a far sì che gli imprenditori siciliani che non denunciavano il pizzo venissero espulsi dalla Confindustria. Posizione inedita, coraggiosa e rischiosa, che stava cominciando a dare buoni risultati. Quindi la cancellazione voluta da Alfano, che si è consultato con chi di dovere a palazzo Chigi, in realtà serve a vanificare il coraggioso atteggiamento degli imprenditori siciliani onesti e segna un bel punto a favore della mafia. D’accordo con lei, caro Lodato, che la norma avrebbe irritato mafia e camorra che si sarebbero vendicate dirottando altrove la loro riserva di voto. Ma non si tratta solo di voto. Ci sono il ponte sullo stretto, la ricostruzione dell’ Abruzzo, la fiera di Milano… Torte grandiose e succulente che fanno gola ai mafiosi, agli amici dei mafiosi, agli amici degli amici dei mafiosi.

Diamo loro un aiutino

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - Signora Veronica vittima del torvo rancore di Piccolo Cesare
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2009, 05:44:24 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Signora Veronica vittima del torvo rancore di Piccolo Cesare


Camilleri, pioggia di fango in arrivo. Camerieri, schiavi e schiavetti dell’ informazione daranno il meglio: come si permette la «signora Veronica» di dire che non può stare con un marito, il “papi nazionale”, perché «frequenta le minorenni»? E poiché un divorzio si porta dietro una scia di contenziosi, al fango seguirà la valanga di «lodi» in materia di diritto di famiglia: il primo a far capolino è stato l’avvocato Ghedini; il resto del circo sta già affilando gli argomenti in difesa di “papi”.
Bruno Vespa se ne occuperà con un “Porta a porta” a base di Dna?


Due considerazioni, fra le tante che la signora Veronica fa sulle ragioni che l’hanno costretta a chiedere il divorzio, vanno oltre la vicenda familiare.«Mi domando in che paese viviamo» - si chiede - e «come sia possibile accettare un metodo politico come quello che si è cercato di utilizzare per la composizione delle liste elettorali».

Cara signora Veronica,
molti di noi ci chiediamo da tempo in che paese stiamo vivendo, e non solo per la formazione delle liste elettorali.

Un vecchio detto si domanda se sia più imbecille Carnevale o chi gli va appresso. Dalle sue parole, comincia a trapelare una risposta. Oltretutto credo che Lei stia sperimentando sulla sua pelle il torvo rancore di Piccolo Cesare, uso ad aizzare contro le sue vittime i suoi indecenti giornalisti, i suoi ringhianti adoratori, i suoi boia, i suoi deliranti servi.

E tutto l’esercito di coloro che lo votano ad occhi chiusi, non sai più se colpevoli o infelici.

Lei afferma di avere pregato invano i sedicenti amici di suo marito di stargli vicino «come si farebbe con un persona che non sta bene».

Perché Le è venuto in mente questo paragone? Sarebbe importante per tutti noi sapere come la pensa sulle reali condizioni del futuro Imperatore d’Italia.

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - Berlusconi ha gettato la maschera e si è «pontidizzato»
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2009, 03:40:50 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Berlusconi ha gettato la maschera e si è «pontidizzato»


Camilleri, l’Italia non applica più l’articolo 5 del regolamento del penitenziario di Alcatraz: «Avete diritto a vitto, alloggio, indumenti e assistenza. Tutto il resto consideratelo un privilegio». E ricaccia i Bongo Bongo, direbbe Bossi, nei lager dai quali scappano. Posti in tram solo per «milanesi». Il ghigno di Maroni. Noemi al Times: «Berlusconi lo chiamo papi, ma non è il mio papà». I finlandesi: Berlusconi non è mai stato in visita ufficiale nel nostro paese. Lui dice il contrario. Ed esulta: «Ho il 75 per cento». Vero è che per noi: «il fine giustifica i mezzi» e che è sempre arduo far capire agli stranieri chi sono gli italiani. Ma di questo passo, sarà arduo spiegare l’Italia agli italiani.


Ma che bisogno c’è di spiegare l’Italia agli italiani? Quelli che hanno votato e votano Berlusconi, sanno benissimo cos’è l’Italia. E se la godono alla grande, fra un’evasione fiscale e l’altra, un falso in bilancio e l’altro, un condono e l’altro, un rigurgito razziale e l’altro, un papi e l’altro. Parlo di quelli che l’hanno votato sapendo ciò che facevano, non dei poveracci illusi. La minoranza lo sa anch’essa e soffre la sua diversità. D’altra parte ha ragione Lei, caro Lodato. Come spiegare ai non milanesi l’incommensurabile imbecillità della proposta dei posti in tram riservati ai meneghini? Come si fa a spiegare quanta disumana crudeltà ci sia dietro l’intercettazione e la deportazione in Libia degli extracomunitari? Berlusconi ha gettato la maschera schierandosi coi leghisti, tanto che Calderoli ha affermato che Berlusconi è stato “ pontidatizzato”. Infatti non vuole un’Italia multietnica, il che dimostra quanto egli sempre più si allontani dalla realtà. Mentre noi, costretti tra ignominia e stupidità, questa orrenda realtà italiana la dobbiamo ogni giorno vedere e patire».

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - Così Berlusconi offende la memoria di suo padre
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2009, 10:20:00 am
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 

Delinquenti, dentisti e Pm.

Così Berlusconi offende la memoria di suo padre


Camilleri, per molto tempo avevamo pensato che Silvio Berlusconi sfuggisse alla regola, simile agli dei di cui parla Sallustio: «Ogni dio è imperituro e ingenerato». Invece anche lui ebbe un papà, non un papi, che è altro tipo di parentela. Dal quale papà, come tutti noi, ricevette perle di saggezza e scampoli di educazione. Berlusconi, un po’ di tempo fa: «Papà mi insegnò che se vuoi far male al prossimo o fai il delinquente, o il dentista o il Pm». Forse, il papà si era fermato ai «delinquenti». E il bambino prodigio ci ha messo del suo.


Se di mamma ce n’è una sola, anche di padre dovrebbe, almeno in teoria, essercene uno solo.

Quindi Berlusconi parla di quello stesso padre che l’avrebbe, in tenera età, condotto in un cimitero di guerra americano per fargli giurare eterna amicizia agli Usa difensori della libertà. Sembra una scena da libro Cuore, ma passi. Però che il padre gli abbia detto la frase che Lei, caro Lodato, riporta, mi suona falso. Come del resto anche Lei sospetta. A quell’epoca i Pm non esistevano, si chiamavano giudici istruttori. E non erano né le toghe rosse, né i Torquemada, né i malati di mente che Berlusconi descrive ai suoi affascinati elettori. Quelli semmai vennero dopo, quando misero gli occhi su alcuni affarucci non tanto limpidi del cavaliere, ma allora il papà del nostro Silvietto mi pare che non ci fosse più.

Con questa battutaccia, Berlusconi ha offeso, a parte Pm e dentisti che non fanno più male, la memoria di suo padre.

Perché o quella frase non fu detta , o se lo fu significa che anche suo padre aveva avuto da temere dalla giustizia. No, sono sicuro che si tratta di una bugia.

E mi permetta di lasciar perdere Sallustio e citare Marziale: «Non sei un mentitore abituale, sei la Menzogna stessa fatta persona».

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - da gran seduttore a gran cornuto potrebbe ...
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2009, 07:42:49 pm
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di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Il passaggio da gran seduttore a gran cornuto potrebbe risultare rovinoso al Sud


Camilleri, li ho visti palliducci e tiratelli. Cicchitto appare con la testa insaccata, più del solito. Gasparri, il 2 giugno, sembrava si fosse messo il vestitino della comunione per condividere le parole di Giorgio Napolitano che aveva invitato alla moderazione. Cota e Bricolo hanno parlato solo di quanto è brava la Lega, altro che squadra di governo. Vittorio Feltri, direttore sedicente direttore indipendente, qualche settimana fa titolava: «Noemi? E chi se ne frega». Poi ci ha preso gusto: «Veronica ha un compagno». Bocchino e Lupis latitano. Capezzone no; Capezzone è, e Capezzone resta.

E oggi si vota.

Spero che tra un po’ di anni il comportamento dei giornalisti e dei politici berlusconiani, durante quella che passerà alla storia come «la crisi di Casoria», venga studiato da chi si occupa della psicologia del servilismo, prezzolato o volontario. Mi lasci mettere da parte i Cicchitto, i Capezzone, i Gasparri, ormai vecchi dischi da bancarella, usurati e inascoltabili. Lei mi porta un lampante esempio ricordando il fascistico «chi se ne frega» di “Libero” nei riguardi di Noemi e il successivo «ha un compagno» nei riguardi della signora Veronica. Su quest’ultima, Berlusconi ha evidentemente impartito precisi ordini di distruzione della sua immagine, anche a costo di apparire cornuto davanti a tutti. Però faccio notare che il passaggio da gran seduttore a comune cornuto può risultare ai fini elettorali, soprattutto nel meridione, semplicemente rovinoso. Sempre a proposito di “Libero”, ha notato il violento attacco che la fondazione vicina a Fini “Fare Futuro”, evidentemente insufflata dalla sinistra, ha rivolto al quotidiano? Fu proprio “FareFuturo” a sollevare per prima la questione delle veline candidate. Che intenda aprire un secondo, spinoso, fronte contro la stampa berlusconiana?

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - Una sconfitta bruciante che sarà spenta da un fiume di parole
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2009, 05:35:35 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Una sconfitta bruciante che sarà spenta da un fiume di parole


Camilleri, si esprime con note scritte, si astiene dalla tv, manda giannizzeri in avanscoperta per spiegare l’accaduto. Si sa solo che Berlusconi è visibilmente contrariato e che cercano di calmarlo con brodini e pannicelli caldi: colpa dei sondaggi e dell’astensionismo. Domenico Nania, a Sky: «Berlusconi si aspettava un altro tipo di campagna elettorale». E come la voleva? Solo nella nottata delle amministrative, un primo sfogo privato. Possiamo sperare che resti tale?

No, non ci speri. L’afasia è solo momentanea. Il tempo di riprendersi, di organizzarsi mentalmente per dimostrare che la perdita di punti alle europee è colpa delle sinistre, che hanno architettato lo scandalo Noemi – vallette - viaggi di Stato, della magistratura che ha condannato Mills, della vendita di Kakà, dell’astensionismo in Sicilia e persino di sua moglie, e lo vedrà tornare a inondarci di parole. Saremo investiti da uno tsunami, da un’onda anomala di discorsi, il solito fritto misto di proclami, promesse, autocelebrazioni, ingiurie, malcelati propositi di vendetta. Vede, caro Lodato, Berlusconi è senza dubbio politicamente più intelligente di coloro che l’assecondano nel suo delirio di grandezza. E penso che i risultati delle amministrative abbiamo aggravato il suo malumore. Perché c’è da considerare un curioso fenomeno. Berlusconi era capolista in tutte le circoscrizioni per le europee. E il suo partito è pesantemente arretrato. Non si presentava in prima persona in nessuna provincia e in nessun comune, e il suo partito ha ottenuto un buon risultato. Morale della favola: avrà capito che si tratta di una sconfitta assolutamente personale. Per quanto i suoi giannizzeri si affannino a mascherare la verità con i più svariati argomenti, questa ferita resta aperta e bruciante. Perché è una brutta ferita che può fare cancrena.

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI La scossa di D'Alema e l'incrinatura di Berlusconi continua...
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2009, 03:03:07 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


La scossa di D'Alema e l'incrinatura di Berlusconi continua ad allargarsi


Camilleri, c’è Berlusconi e c’è Massimo D’Alema. Berlusconi grida al «complotto». Minaccia il ritorno al voto, perché vuole fare la fine del leone, non quella di Leone. Argomenti gravi, come l’ora che sta vivendo la Patria. Stride, però, che , andando da Obama, si sia detto «bello e abbronzato» e che voglia la testa degli 007 perché, se sull’albero c’è stato il fotografo, poteva starci il cecchino. Era meglio astenersi dai pigiama party, all’aperto, e con tanta gente in mutande. Quanto a D’Alema, prevede «scosse». Il Pd lo ascolti. Come avremmo fatto bene ad ascoltare il professore che, in Abruzzo, aveva previsto il sisma. Dopo, è troppo tardi. A quei livelli certe cose si sentono. E basta.


In questo paese di incertezze, poche le cose certe. Una l’ho detta ieri: quando capita un vero rivolgimento politico in Sicilia, poi succede qualcosa di grosso in campo nazionale. E già se ne avvertono le avvisaglie. La situazione è nota: un Berlusconi azzoppato, tenuto su dalla stampella leghista. E questo non può che preoccupare gli italiani che hanno a cuore le sorti del paese in un momento difficile. «La ricreazione è finita» ha detto Emma Marcegaglia. Ed è indubbio che Berlusconi sia, tutt’al più, buono per una brevissima ricreazione. Si ricorda, caro Lodato, della mia teoria dell’incrinatura sul parabrezza? Berlusconi continua a correre, ma l’incrinatura si allarga. Straparla di complotti. Rivolga l’accusa ai due milioni e passa di elettori che gli hanno voltato le spalle. E fa bene D’Alema a mettere in guardia l’opposizione a non farsi trovare impreparata di fronte a qualche possibile scossa. D’Alema non ha aggiunto «di terremoto» forse per rispetto verso i terremotati d’Abruzzo, già duramente colpiti dal sisma e dalle assillanti visite del premier cacciaballe, per dirla con Dario Fo.

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - Alitalia e la Sicilia scomparsa
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2009, 03:06:47 pm
17/6/2009 - LA STORIA
 
Alitalia e la Sicilia scomparsa

 
ANDREA CAMILLERI
 
A quanto pare la rivista Ulisse, quella distribuita sugli aerei nazionali, pubblicando la carta geografica dell’Italia, ha dimenticato di metterci la Sicilia. È un grave errore, e per due motivi.

Spiego il primo, raccontando un episodio capitatomi moltissimi anni fa. Ero andato al cinema del mio paese, accanto a me sedeva un tale in tuta da operaio. A un certo momento del film, che si svolgeva in Sicilia, un maresciallo dei carabinieri, esasperato dai delitti di mafia, di corna, d’onore e di quant’altro, si alzava, andava verso una grande carta geografica che rappresentava l’Italia e metteva la mano aperta sulla Sicilia in modo che non fosse più visibile. Dopo di che sorrideva compiaciuto. Fu a questo punto che il mio vicino esclamò ad alta voce: «Attentu ca sciddrica!», attento che scivola. Intendendo dire che, senza l’isola, lo Stivale sarebbe inesorabilmente scivolato in basso.

L’altro motivo è letterario. La rivista prende il nome, e giustamente, da Ulisse il leggendario viaggiatore errante. Ora c’è da notare che uno scrittore inglese, Samuel Butler, l’autore di Così muore la carne, ha dato alle stampe nel 1897 un libro intitolato L’autrice dell’Odissea nel quale sostiene, con buoni argomenti, che a scrivere appunto l’Odissea era stata una donna siciliana e che il famoso viaggio di Ulisse non fu, in realtà, che il periplo dell’Isola. Allora, se scompare la Sicilia, scompare anche Ulisse. E, di conseguenza, anche la rivista a lui intitolata.

 
da lastampa.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - La dieta del Monte Athos, Berlusconi e gli amori del «gioveRd
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2009, 05:06:26 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 

La dieta del Monte Athos, Berlusconi e gli amori del «gioveRdì»


Camilleri, sul Monte Athos, da mille anni sede di una comunità monastica che vieta presenze femminili, i monaci sono più refrattari al cancro di tutti i mortali. La dieta: mai carne, poco pesce, in abbondanza legumi, verdura e frutta. C’è di più: olio d’oliva e formaggi, mai nei giorni dispari. La dieta Scapagnini, per l’eternità di Berlusconi, si ispira a quella del monte Athos? Mike Bongiorno da Berlusconi si vide offrire «un minestrone». Quanto alle presenze femminili, la dieta Scapagnini pare sia meno tassativa: presenze femminili sì, ma solo nei giorni pari. E qualche abbuffata è concessa, come per i formaggi.

Dato l’alto rigore scientifico con il quale il professor Scapagnini illustra gli elisir di lunga vita propinati a Berlusconi, non mi sembra fuori luogo ricordare una storiella vecchia come il cucco. A un giovane, un medico prescrive che può praticar con donne solo nei giorni con la R. Il giovane, di fresco sposatosi con un’avvenente fanciulla, una notte si avvicina alla moglie con chiare intenzioni. «Ma che giorno è oggi?», domanda la sposa. E il giovane, su lei avventandosi: «gioverdì!». Berlusconi, su questo particolare punto, spesso e volentieri infrange la regola. Quanto ai frati del Monte Athos, penso che molti italiani ne seguiranno le prescrizioni. Non perché convinti della loro bontà, ma perché costretti dalle circostanze: con le pensioni di fame, con la disoccupazione, quanti saranno in grado di comperarsi una fettina? O il pesce, che costa un occhio? Si contenteranno di un po’ di verdura scondita, una patata, un pezzo di pane, ma vivranno più sani dei monaci del Monte Athos, grazie a Berlusconi. Sempre che non muoiano prima di inedia. Quanto al sesso non avranno la forza di alzare, diciamo così, un dito.

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - La profezia di Martinazzoli
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2009, 10:50:59 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato


La profezia di Martinazzoli

Camilleri, quando il berlusconismo non era ancora l’osceno fenomeno che è diventato, ma Berlusconi si era già fatto abbondantemente conoscere, Mino Martinazzoli, figura prestigiosa della vecchia Dc, fu intervistato proprio su Berlusconi. Gli chiesero come immaginava, un giorno, la sua uscita di scena. La risposta la ricordo ancora: «quello, per gli italiani, sarà un giorno traumatico». Quasi quindici anni fa, Martinazzoli si accorse della faglia di Sant’Andrea, ancor prima che delle scosse. Ma sempre di sismologia si tratta. D’altra parte è noto che per i cinesi un terremoto era un segno che gli dèi disapprovavano la legittimità dell’Imperatore. E chi vuole capire capisca...

Credo che il vecchio Martinazzoli sia stato buon profeta e i fatti lo confermeranno. E l’ingegner Carlo De Benedetti, in tempi più recenti, mi pare che abbia detto suppergiù la stessa cosa. Lei, caro Lodato, ricorda che quando la Fininvest stava attraversando una grave crisi economica, brillantemente risolta poi con la discesa in campo del suo capo, Berlusconi usava una frase sottilmente ricattatoria: «non si possono mandare a spasso quarantamila dipendenti»? Ora la faccenda diventerebbe assai più grave. L’uscita da campo di Berlusconi sarebbe come il fallimento di una grossa azienda i cui dipendenti non godrebbero di nessuna cassa integrazione. Non parlo della Fininvest, ovviamente. Lei ha mai contato quante centinaia e centinaia di persone Berlusconi ha tratto dal nulla e che nel nulla ritornerebbero nella ferale eventualità che il loro principale uscisse di scena? Che farebbero, sono i primi nomi che mi vengono in mente, i ministri Gelmini, Alfano, Bondi, Carfagna? E le centinaia di onorevoli e senatori, eletti come tanti cavalli di Caligola, che tornerebbero a non essere nessuno? E la cerchia di quelli che si sono salvati dalle patrie galere perché Berlusconi li ha fatti eleggere? Un grande esercito di nulla facenti che alzerebbe, e di molto, il tasso di disoccupazione. Forse, per loro, bisognerà pensare a un nuovo ammortizzatore sociale.

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - Il premier che non lascerà mai
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2009, 10:37:27 pm
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato 


Il premier che non lascerà mai

Camilleri, per il Financial Times, «alleati e ministri del premier già pensano a un futuro senza Berlusconi». Ma papi non si dimetterà mai, «perché la sua immunità dipende dalla carica». Ora la constatazione del giornale inglese, francamente, è di solare evidenza. Eppure, a questo, non aveva pensato neanche Angelino Alfano, il guardasigilli di papi. Il quale credeva, grazie al suo Lodo, di blindarne il passato, non di ibernarne anche il futuro. Di papi, intendo. Non aveva messo in conto che, così legiferando, creava un premier astronauta che, una volta lanciato nello spazio con il propellente dell’impunibilità, non sarebbe più potuto tornare alla base.

Rischierebbe infatti di sfracellarsi.


Uno dei motivi che renderanno traumatico, come profetizzò Mino Martinazzoli, l’allontanamento, quando sarà, di Berlusconi dal potere, sarà quello individuato dal Financial Times. Se vengono a cadere tutti gli scudi spaziali che nel tempo si è fatto cucire addosso dai vari Cirami, Alfano e compagnia, l’astronauta non arriverà nemmeno a sfracellarsi al suolo, ma si disintegrerà in fase di rientro. E farà il possibile perché ciò non accada. Gli daranno man forte le centinaia e centinaia di politici, giornalisti, portaborse, collaboratori vari, sino alle veline, che con lui avevano trovato la pacchia. Prepariamoci all’assalto di una canea urlante che vomiterà ingiurie, calunnie, offese, e metterà in atto ricatti e trabocchetti. Ma fra gli altri motivi, oltre a quello indicato dal Financial Times, c’é la tragedia della perdita del potere in sé. La Daddario ci ha raccontato il cerimoniale preamatorio di papi. Solo, in mezzo a una trentina di ragazze, si fa proiettare un interminabile filmone nel quale si vede sempre lui mentre abbraccia capi di Stato, viene osannato dalla folla, gli rendono gli onori militari, eccetera. Questo polpettone gli serve come ad altri può servire la preventiva visione di un filmetto hard. No, sarà difficile mandarlo via. E supporre che lui se ne vada da sé, è pura utopia.

da unita.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - Attenti alla bellezza di Lucifero
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2009, 11:04:01 am
14/11/2009

Attenti alla bellezza di Lucifero
   
ANDREA CAMILLERI


Metto le mani avanti: non ho visto il film «La Prima Linea» e scrivo basandomi su quello che ne hanno scritto persone degne di fede.
Mi pare sia concorde l’opinione che si tratti di un film molto serio, che non intende esaltare posizioni estremiste, che è recitato senza inutile enfasi.

Eppure sono in tanti, alla fine, a dichiarare di averne ricavato una sensazione di disagio, consistente nell’avere apprezzato la narrazione e l’interpretazione datane fino a raggiungere un certo grado di coinvolgimento, pur sapendo che mai, per loro educazione, cultura, vicende personali e politiche, avrebbero potuto avere punti di contatto con i terroristi del film. E non credo che ciò sia dovuto solo al fatto che Scamarcio e la Mezzogiorno siano belli e bravi. Esistono anime celestiali in corpi sgradevoli e viceversa. E Lucifero era un angelo bellissimo o un orrendo essere deforme? Sono convinto che libri e film che eleggono a protagonisti degli appartenenti, in un modo o nell’altro, al terrorismo, siano assai più difficili a scriversi e a farsi che non libri e film su boss mafiosi o capi camorristi, già di per sé temi assai problematici.
Anche con le migliori intenzioni del mondo, si rischia un effetto boomerang.

E questo soprattutto perché dietro a ogni gesto terroristico c’è una complessa miscela esplosiva di ideologia deviata e deviante, di «missione da compiere», di «estasi verso il basso» (per dirla con Malraux), di esaltazione, di autoreferenzialità, di indifferenza verso il dolore altrui, di amore per il rischio, e tantissime altre componenti che non possono essere, non dico analizzate, ma nemmeno accennate in un film. Così lo spettatore rimane in una condizione emozionale per quei gesti, è coinvolto dall’emozione allo stato puro di uno spettacolo che esclude del tutto l’intervento della ragione.

Alla quale perciò, anche non volendolo coscientemente fare, in sostanza non vengono forniti né i mezzi né l’opportunità di calibrare quell’emozione. Saviano ha saputo dimostrare che si può scrivere un ottimo libro sulla camorra evidenziandone la ferocia e l’orrore. Ma il film che dal libro è stato tratto è allo stesso livello?

Ancora: mi è capitato di leggere uno splendido romanzo su un terrorista. Era firmato Conrad. E qualcosa del modo di pensare terroristico me l’hanno suggerito certe pagine di Dostoevskij.

E questo qualcosa deve significare.

DA lastampa.it


Titolo: Andrea CAMILLERI - "Rischio fascismo siamo pronti a disubbidire"
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2010, 11:47:15 am
LA POLEMICA

Camilleri: "Rischio fascismo siamo pronti a disubbidire"

Scrittori antibavaglio. Laterza: "Impossibile fare libri di inchiesta"

di ALBERTO D'ARGENIO



ROMA - Così torniamo al fascismo. I protagonisti del reading contro la legge-bavaglio sulle intercettazioni non hanno dubbi: uccide la coscienza dell'opinione pubblica e con essa la democrazia. Partite ieri in uno stracolmo teatro Quirino di Roma, le "Letture per la libertà di stampa" organizzate da un centinaio di editori insieme a librai e scrittori andranno avanti tutta la settimana in tutta Italia. "La legge sulle intercettazioni non tocca solo giornali e giornalisti, ma anche le Case editrici che pubblicano libri d'inchiesta, anch'essi potenziali destinatari del ddl", ha detto l'editore Giuseppe Laterza, tra gli organizzatori insieme a Marco Cassini (Minimum Fax) e Stefano Mauri (Mauri-Spagnol).

Ad aprire le letture dei brani è stato Andrea Camilleri, che ha proposto l'appello agli studenti che il rettore dell'università di Padova, Concetto Marchesi, pronunciò il primo dicembre 1943 lasciando l'ateneo per non sottomettersi al fascismo. Un discorso (vibrante la lettura dello scrittore siciliano) che si chiude così: "Liberate l'Italia dalla schiavitù dell'inganno". Passaggio che per Camilleri definisce perfettamente "lo sporco e il luridume dell'attacco alla libertà che oggi si ripropone sotto altre forme". Difendiamo l'informazione - ha proseguito il padre di Montalbano - anche se con la legge-bavaglio non ci sarà proprio più nulla di cui scrivere perché i magistrati non potranno più lavorare "lasciando i mafiosi e la cricca liberi di fregarci nel silenzio". Quindi Camilleri si è congedato dal pubblico con un laconico "buona fortuna". E di grande attualità anche il discorso di Pericle agli Ateniesi, che Paolo Rossi non riuscì a leggere in tv e ieri proposto da Rosetta Loy.

Sul palco anche Stefano Rodotà, secondo il quale "quando si blocca la conoscenza dei fatti si impedisce di deliberare e mettendo a repentaglio la vita democratica: è proprio dei regimi totalitari obbligare i propri cittadini a leggere su siti stranieri le notizie del proprio Paese". Quindi è intervenuto il politologo Giovanni Sartori, che ha definito "vergognosa" la legge-bavaglio: "È l'ultima risorsa per creare una falsa, disinformata e stupida opinione pubblica che non sa nulla del mondo e sa quasi solo cose false dell'Italia". E Marco Travaglio è stato tra coloro che hanno evocato l'inosservanza della legge. Come Massimo Carlotto, per il quale "non resta che la disobbedienza civile". Chi non c'era, come Dacia Maraini, ha affidato ad altri le proprie riflessioni. La serata è stata chiusa da Gianrico Carofiglio, magistrato, scrittore e senatore del Pd: "Il bavaglio che citava Camilleri era lo stesso programma della loggia P2. Non a caso vi erano iscritti anche esponenti del governo".

(01 giugno 2010) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/politica/2010/06/01/news/camilleri_disobbedire-4482679/?ref=HRER2-1


Titolo: Andrea CAMILLERI - L'abecedario di Camilleri: Banana, da rarità a metafora
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2010, 12:25:18 pm
L'abecedario di Camilleri: Banana, da rarità a metafora

Oggi la banana, naturalmente, è diventata una metafora. Diciamo che il vero massimo della metafora lo fece Joséphine Baker quando – dall’alto della sua bellezza – ballava cantando J'ai deux amours mon pays et Paris e ballava a tette nude (scandalo per l’epoca), con solo un gonnellino di banane al bacino, che erano abbastanza allusive e metaforiche. Purtroppo, poi la metafora è decaduta in politica con «lo Stato delle banane», per indicare uno Stato da quattro soldi.

Nella mia giovinezza le banane erano una rarità. Erano piccole e picchettate. Provenivano dalla Somalia. Io diffidai immediatamente della banana, che veniva molto elogiata perché si diceva proteinica. Finalmente un giorno cedetti alle insistenze di mia madre e sbucciai questa banana floscia, mi sembrò di aver messo in bocca una saponetta. Da allora, passarono anni – dovette cadere il fascismo, venire la liberazione –, prima che arrivassero le banane col bollino.

Gigantesche e leggermente oscene. Non avevano più il sapore della saponetta, ma erano quasi plastica; avevano un sapore plastificato e leggermente pungente nella parte centrale che mi disgustò. Quindi detesto le banane, posso amarle solo metaforicamente.

23 luglio 2010
http://www.unita.it/news/culture/101579/labecedario_di_camilleri_banana_da_rarit_a_metafora


Titolo: Andrea CAMILLERI - «Oggi i potenti danno ordini alla Questura proprio come ...
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2010, 05:24:22 pm
«Mi hanno chiesto tante volte i diritti, ma questo è il primo film che viene fatto davvero»

«Oggi i potenti danno ordini alla Questura Proprio come ai tempi del Gattopardo...»

Andrea Camilleri al Festival di Roma per la trasposizione cinematografica de «La scomparsa di Patò»


ROMA - «Mi chiedono cos’è cambiato a Vigata dal 1890 a oggi. E io faccio finta di non capire»: Andrea Camilleri parla del film di Rocco Mortelliti, «La scomparsa di Patò», tratto dal suo omonimo romanzo del 2000, con Neri Marcoré protagonista accanto a Nino Frassica, Antonio Casagrande e Roberto Herlizka, presentato tra gli Eventi Speciali del Festival Internazionale del Cinema di Roma. La storia della misteriosa scomparsa del ragionier Antonio Patò è ambientata nella cittadina siciliana che fa da sempre da sfondo alle storie di Montabano, ma stavolta siamo alla di fine dell’800. Continua Camilleri: «Adesso nella questura di Milano arrivano telefonate eccellenti a dettar legge, allora a Vigata il telefono non c’era, ma i funzionari di carabinieri e polizia ugualmente ricevevano dall’alto ordini e imposizioni. Non amo le tesi di Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo, però in questo caso ha ragione Tancredi di Salina: “Cambiamo tutto perché non cambi nulla”… ».

EDUARDO E LA TV - Lo scrittore, che venerdì 5 alle 14 incontrerà il pubblico in un incontro alla Salacinema Alitalia, passa a raccontare la differenza tra i suoi romanzi storici e quelli di ambiente contemporaneo: «Nei romanzi storici voglio che la storia “stinga” sulla realtà di oggi: come una lavatrice in cui i panni colorati lasciano traccia sui bianchi. A volte la macchia è più evidente, a volte più sfumata». Ma la storia cambia molto dal libro e al cinema?«La sceneggiatura ha dato più compattezza alla vicenda principale. E’ un tradimento necessario. Nelle sceneggiature cerco di entrare il meno possibile. Intervengo nei dialoghi. L’ho imparato quando ero delegato di produzione in Rai: lavoravamo alle commedie di Eduardo e lui cambiava le parole dialettali, per renderle più comprensibili». Dunque non esiste la “sacralità” del testo? «Macché sacralità… “Ricordati che non c’è niente di sacro” mi diceva Eduardo, “nemmeno la poesia”. E aveva proprio ragione».

UCCIDERE MONTALBANO? - «La scomparsa di Patò» è il primo film tratto da un suo romanzo: prima c’è stato solo Montalbano per la tv… «Vero. Ogni tanto dò i diritti per realizzare film che poi non vengono mai fatti. In alcuni casi magari c’è il problema dei costi, ma per altri davvero non so… Il fatto è che Montalbano ci ha fottuti. Se scrivo un romanzo e ci metto l’anima e la sofferenza, arrivo al 4° o al 5° posto delle classifiche. Esce Montalbano e in un attimo schizza al primo posto con 60 punti di vantaggio su Ken Follett. Ma quello che mi scoccia di più è che il commissario continua a mangiare quel che vuole e io ormai non posso. Mi sa che gli farò venire qualche cosa, un giorno o l’altro…» Ammazzerà il suo eroe? «Anni fa alla fiera del libro di Parigi, a una tavola rotonda con Jean-Claude Izzo e Manuel Vasquez Montalban si parlava proprio di come far morire i nostri personaggi. Izzo avrebbe voluto ferire gravemente il suo Fabio e l’avrebbe lasciato andare su una barca. Montalban pensava a qualcosa di molto complicato e contorto per far sparire Pepe Carvalho. Io fui interrotto da un imprevisto e non risposi mai. Risultato: i miei due colleghi sono morti con i loro protagonisti, e io col cavolo….».

Laura Ballio

31 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://cinema-tv.corriere.it/cinema/speciali/2010/roma-film-festival/notizie/camilleri-montalbano-pato-telefonata-questura-berlusconi_2644a6dc-e537-11df-8ccb-00144f02aabc.shtml


Titolo: Camilleri: “Firmare il sistema migliore per snidare gli amici della mafia”
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2012, 06:48:40 pm
 Sei in: Il Fatto Quotidiano > Giustizia & impunità

Camilleri: “Firmare il sistema migliore per snidare gli amici della mafia”

di Marco Travaglio | 14 agosto 2012



Ho subito firmato la petizione del Fatto Quotidiano in difesa dei magistrati di Palermo e Caltanissetta isolati e aggrediti, e vorrei fare un applauso al vostro giornale per questa bella iniziativa. Ma soprattutto alle decine di migliaia di persone che l’hanno subito appoggiata: segno che molti italiani non si sono lasciati imprigionare la testa dall’afa ferragostana e dall’ossessione dello spread”. Andrea Camilleri si riposa, come sempre lavorando, al fresco di un piccolo paese sul monte Amiata. La sua voce roca ma pimpante, al telefono, spiega al Fatto le ragioni e le speranze della sua adesione all’appello per i magistrati che indagano sulle trattative Stato-mafia.

Perché ha firmato?

Perché mai come ora e mai come su questa vergogna nazionale della trattativa o delle trattative fra pezzi dello Stato e capi della mafia, abbiamo bisogno di verità. Questa valanga di firme mi pare il sistema migliore, insieme alle indagini dei magistrati, per snidare gli amici della mafia di ieri, di oggi e di domani.

Le pare di conoscerli?

E certo, mi pare di conoscerli: anche perché la politica italiana non cambia mai, sono sempre le stesse facce, e dunque è molto verosimile che chi vent’anni fa trattò con Cosa Nostra sia ancora al potere. O forse se n’è andato qualcuno e mi sono perso qualcosa?

Quale risultato spera di ottenere, con la sua firma?

Intanto che chi indaga venga lasciato libero di farlo, senza ostacoli, senza attacchi e senza procedimenti disciplinari o manovre sotterranee. E poi mi è piaciuta molto l’intervista di Claudio Martelli al Fatto. Martelli ha ragione: Ingroia non deve andarsene in Guatemala, deve restare a Palermo. La sua partenza per il Centroamerica sarebbe una sconfitta per la democrazia e per la verità. Cioè per tutti noi.

Non crede che, dopo vent’anni di indagini e di processi ad alto rischio e di attacchi e insulti continui dai massimi vertici della politica, abbia diritto a essersi stufato e a voler cambiare aria per un po’?

Ma certo, è più che comprensibile: chiunque al posto suo, dopo avere indagato su mafia e politica con quella serietà, quell’onestà, quella correttezza e quella dignità e averne ricevuto in cambio quei trattamenti, sognerebbe di andarsene non in Guatemala, ma molto più lontano. Però io lo invito a ripensarci: Palermo, la Sicilia, l’Italia hanno più che mai bisogno di magistrati come lui per cercare la verità. Soprattutto ora che la verità è così vicina.

Forse sarebbe meglio che glielo dicessero i rappresentanti delle istituzioni e della politica, che invece sembrano quasi tutti ben felici di vederlo partire.

Eh certo, sarebbe bello, ma non facciamo gli ingenui: siccome chi ha trattato con la mafia è ancora al potere, non possiamo certo illuderci che si dia da fare per far emergere la verità. Sarebbe autolesionismo puro. Niente è più difficile che ammettere i propri errori e chiedere scusa. Per questo il potere sta facendo di tutto perché la verità su quel che accadde vent’anni fa non venga alla luce. Gli errori commessi nel 1992-’94 e forse anche dopo dai rappresentanti delle istituzioni sono gravissimi non solo in sé ma anche perché hanno prodotto metastasi cancerose vastissime, ramificate. Lo Stato, diceva Sciascia, non processa se stesso.

E allora c’è poco da fare…

Eh no, c’è moltissimo da fare. Sono convinto che sia essenziale la pressione dal basso, di cui le 100 mila firme raccolte in pochi giorni dal Fatto sono l’ennesima testimonianza. Io alla spinta dal basso credo ogni giorno di più. Non dimentichiamo che è stato grazie alla spinta dal basso se lo scorso anno si sono vinti i referendum sul nucleare, l’acqua pubblica, il legittimo impedimento e se si sono eletti sindaci perbene a Milano e in altre grandi città. Io sono fiducioso, siamo in tanti, molti più di quanti non pensiamo. E iniziative come la vostra hanno anche il merito di ricordarcelo.

dal Fatto Quotidiano del 14 agosto 2012

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/08/14/camilleri-firmare-sistema-migliore-per-snidare-amici-della-mafia/325476/


Titolo: Andrea CAMILLERI. - Vita, storie e racconti - di ANTONIO GNOLI
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2012, 04:41:06 pm
Vita, storie e racconti di Camilleri: dalla Roma di Pasolini a Montalbano

Lo scrittore ricorda l'infanzia in Sicilia, il suo passaggio dall'essere fascista al comunismo, l'esperienza culturale del dopoguerra.

E parla del suo presente: "Penso tre romanzi alla volta e non mi deprimo". "Ma oggi mi manca la noia lucida di Moravia"

di ANTONIO GNOLI


Alla quattordicesima sigaretta, numero verificato sommariamente nel posacenere accanto alla poltrona, Andrea Camilleri tira un sospiro. Non è il segnale di un congedo. Ma sono trascorse due ore durante le quali lo scrittore ha snodato e riavvolto la sua vita. Ama parlare e lo fa con affabulazione e quel tanto di civetteria di chi ha una naturale consuetudine con il teatro. Camilleri, e in questo è davvero poco siciliano, è un estroflesso. Mi fa pensare a uno scrittore acustico, le cui sonorità, rumori, voci riempiono la sua produzione fluviale.

Alla quattordicesima sigaretta, dicevo, quest'uomo che sta per entrare nell'ottantottesimo anno, sospira. Ed è un suono lungo e lieve. Come il fiato di un animale di bosco che va a cadere su una frase che regge tutta la conversazione: "Delle cose che ho fatto di nessuna mi pento. E se le turbolenze si sono a volte scatenate nella mia vita ho imparato, come Conrad, a non considerarle una minaccia ma la prova che possiamo uscirne salvi".

Ho appreso da qualche parte che Joseph Conrad fu tra le sue prime letture.
"Beh, sì. Insieme a Melville e agli scrittori russi. Ero un bambino fragile che si ammalava di frequente, passando delle meravigliose giornate a letto. La televisione non era ancora stata inventata. La radio era intrasportabile. Esauriti i fumetti, soprattutto L'Avventuroso e L'Audace non restava che chiedere a mio padre di leggere i suoi libri. Mi imbattei ne La follia di Almayer di Conrad. E poi in Moby
Dick, di cui capii solo l'avventura, ma non quello che la balena stava a significare. Nella biblioteca di papà, che aveva un fiuto per le buone letture, colsi i primi Simenon, quando ancora si firmava Georges Sim".

Suo padre cosa faceva?
"Era ispettore delle compagnie portuali della Sicilia del Sud. Un posto rispettabile che si era trovato dopo il fallimento della miniera di zolfo del nonno, dove lui lavorava. Del resto il matrimonio tra mio padre e mia madre era stato un "matrimonio di zolfo"".

Ossia?
"Quelle unioni che avvenivano tra proprietari di solfatare. Era una specie di dote che veniva assegnata in cantare di zolfo. Una "cantara" era poco più di un quintale. Ho un documento in cui c'è scritto che il figlio di Stefano Pirandello, Luigi, sposerà la figlia di Giuseppe Portolano. Quei matrimoni erano il solo modo che i siciliani facoltosi immaginarono per contrastare la forza delle compagnie minerarie".

Dove avveniva tutto questo?
"Nella zona di Porto Empedocle dove sono nato. C'era un grande porto, poi decaduto e un vasto retroterra contadino. I miei nonni avevano una bella proprietà di terreno a mandorle e frumento. Ci andavo finita la scuola. E mia nonna Elvira, essendo io figlio unico, divenne la mia compagna di giochi. Parlava con gli oggetti, inventava le parole e una volta mi presentò a un grillo con nome e cognome. Fu lei a raccontarmi le avventure di Alice nel paese delle meraviglie. Aprì la mia fantasia. Era un personaggio, come del resto suo fratello medico: lo zio Alfredo, la pecora nera della famiglia".

Di cosa era accusato lo zio Alfredo?
"Di essere un antifascista. Eravamo tutti fascisti. Mio padre aveva fatto anche la Marcia su Roma. Io ero un giovane balilla. Lui niente. Lui era lo stravagante. Pensi che in certe giornate si sdraiava in perizoma sul terrazzo di casa, dopo essersi spalmato di miele le giunture. Si faceva pungere dalle api dicendo che faceva bene alle articolazioni. Non credeva nella medicina tradizionale. Scoprii nella sua biblioteca un manuale di Yoga, che però non lessi".

Diceva di essere stato fascista.
"Come tanti. Smisi di esserlo nel 1942 in seguito a due fatti scatenanti. Il primo fu un libro che cambiò la mia vita: La condizione umana di André Malraux. Mi turbò profondamente. Rivelandomi, tra l'altro, che i comunisti non erano come ce li avevano raccontati a casa".

Il secondo?
"Partecipai a Firenze alla riunione internazionale della gioventù fascista. C'erano giovani come Giorgio Strehler e Ruggero Jacobbi. Parlò il capo della "Hitler-Jugend", Baldur von Schirach, e spiegò cosa era per lui l'Europa: cioè un'enorme caserma nazista abitata da un pensiero unico. Non ci sarebbe stato altro. Tornai sconvolto e abbandonai il fascismo".

E cosa accadde a quel punto?
"Molte cose successero. Diventai comunista. Finì la guerra. E cominciai a mandare in giro i primi racconti e alcune poesie. Con un certo successo. Ungaretti mi incluse in un'antologia di poeti scelti da lui. Era il 1947 e volevo andarmene dalla Sicilia. Nel 1949 vinsi la borsa di studio per l'Accademia nazionale d'Arte drammatica. Venni a Roma e cominciai a studiare regia con Orazio Costa".

Che città trovò?
"Bellissima. Potevi avvicinare qualsiasi persona e questa ti dava retta. Cominciai a frequentare il giro degli artisti. Si incontravano da Canova, allora il Luxor: Ciccio Trombadori, Giulio Turcato, Mario Mafai, a volte Alberto Savinio, al cui genio ci si poteva solo inginocchiare. Sì, Roma era straordinaria. Solare. Unica. In alcuni punti, per esempio dove io abitavo, in piazza della Giovane Italia, c'erano ancora le mandrie che risalivano".

Era un mondo la cui sparizione Pasolini avrebbe rimpianto.
"Pasolini era un antropologo delle borgate. Con lui, che conobbi a fondo, mi lasciai male".

Perché?
"Pretendeva di applicare i suoi principi cinematografici al teatro. Io, che allora lavoravo alla Rai, gli dissi: tu vuoi fare recitare sul palcoscenico gente che non l'ha mai fatto. Ma a teatro non funziona. Discutemmo ferocemente a casa di Laura Betti. Poi ci lasciammo con l'idea di riprendere la discussione. Invece è morto nel modo che sappiamo".

Che idea si è fatto della sua morte?
"L'hanno ammazzato per bullaggine. Non credo al delitto politico. Personaggi come lui - pieni di irruenza anche se non sempre erano nel giusto - oggi mancano. Sento perfino la mancanza di uno come Moravia: noioso, ma lucido. Ma chi mi manca veramente è la Betti".

Cosa aveva in più?
"Era una donna straordinaria. Meravigliosa. Un giorno a Torino, uscendo da un ristorante, vediamo una grande scritta dentro l'androne di un palazzo: "Non abusate dei luoghi comuni". Porca miseria dico io: che portiere intelligente! Entriamo e Laura gli grida: siamo perfettamente d'accordo con lei. E lui serio: lasciano sempre carrozzine e biciclette. Ci deluse".

Cos'è il fraintendimento?
"È ciò che manda all'aria un sacco di relazioni umane. Ma senza il fraintendimento non ci sarebbe l'interpretazione. La lingua perderebbe una risorsa fondamentale. E di conseguenza anche i romanzi ne risentirebbero".

So che il suo primo romanzo ha avuto molti rifiuti.
"Furono dieci gli editori che dissero no. Alla fine ne feci una riduzione per uno sceneggiato televisivo e a quel punto un editore di libri a pagamento lo pubblicò in cambio di una pubblicità sui titoli di coda. Fu come togliere un tappo. Scrissi immediatamente il secondo romanzo che inviai a Garzanti: Un filo di fumo. E poi un saggio, La strage dimenticata che Elvira Sellerio pubblicò. Da allora passarono otto anni senza che io scrivessi più nulla".

Cosa la frenava?
"Il teatro. Mi assorbiva e mi condizionava. Poi una sera, alla fine di uno spettacolo su Majakovskij, Elvira, di cui ero diventato molto amico, venne a salutarmi e mi disse: quando mi dai il prossimo romanzo? Aveva intuito che una fase della mia vita si era conclusa".

Come fu il rapporto con la Sellerio?
"Fu una donna straordinaria, dotata di un'intelligenza calda. Negli ultimi anni Elvira, che era stata molto bella, cominciò a sentirsi giù fisicamente. Non le piaceva più apparire. E ora che ci penso anche Sciascia negli ultimi tempi tese a scomparire. In genere, la vecchiaia e la malattia producono questo effetto. Che in noi siciliani si amplifica. Somigliamo ai gatti che si vanno a nascondere prima di morire".

Lei come vive questa stagione della sua vita?
"Con la consapevolezza che in ognuno di noi avvengono mutamenti legati all'età. Non capisco certi miei coetanei che si deprimono perché non possono andare più a donne o si devono infilare la dentiera. Io dico spesso che quando veniamo al mondo ci hanno dato un ticket nel quale è compreso tutto: la giovinezza, la felicità, la speranza, la malattia, la morte. È inutile farsi venire la depressione. C'è un tempo fisiologico che ci dice cosa fare".

A volte facciamo di tutto per non ascoltarlo.
"Lo so benissimo. E si spaventerebbe se le dicessi che c'è stato un tempo in cui ogni mattina bevevo una bottiglia di whisky. Lo reggevo benissimo e questo fu il male. Poi, un giorno ero a Vienna con mia moglie e una delle tre figlie. Avvertii un peso spaventoso sul cervello e cominciai a farfugliare parole incomprensibili. In quel momento il sangue esplose dal naso con violenza inaudita".

Era un ictus?
"Sì, per fortuna si spezzò senza arrivare al cervello. Nella clinica in cui fui ricoverato il dottore - che aveva un cognome inquietante, si chiamava Sodoma - lasciò che il sangue defluisse per alcune ore. E mi salvai. La mia paura non fu tanto quella di morire ma di restare nell'impossibilità di pronunciare una frase di senso comune. Capii che il bere era stata la causa. Tornai a casa. Presi una bottiglia di whisky e la misi sulla scrivania. Duellai per una settimana. Alla fine dissi a mia moglie: prendila e offrila agli amici. Così smisi di bere".

Ma vedo che non ha smesso di fumare.
"La sigaretta mi piace. La lascio a metà e non l'aspiro. Anche il medico che mi ha visitato tre mesi fa si è meravigliato: le vene sono sgombre, il cuore funziona alla perfezione. Se smetto di fumare muoio".

E a tavola?
"Mangiare mi piaceva. Devo controllarmi. La pasta, i fritti, gli insaccati, li faccio mangiare a Montalbano. Mi fa rabbia! A volte mi viene la tentazione di farlo ammalare".

È così forte il coinvolgimento?
"È una nostra proiezione".

Quanti romanzi ha scritto su Montalbano?
"Mi pare venti, più quattro libri di racconti".

Se vi aggiunge il resto ha una produzione impressionante.
"Non ho "negri" come qualcuno insinua. Lo giuro".

Come fa?
"Penso a due o tre romanzi contemporaneamente. Poi, come di incanto, una di queste storie prende il sopravvento. E perché questo accada occorre che la forma e il tempo narrativo siano in me evidenti. Mi alzo molto presto, mi faccio la barba, mi vesto perché detesto la trasandatezza, vado al computer e dalle sei e mezza fino alle dieci scrivo".

Scrive molto. Legge altrettanto?
"Meno. Purtroppo dall'occhio sinistro non vedo più e l'altro è affetto da un glaucoma".

Le provoca ansia?
"Ansia no. Impaccio sì. Pazienza".

Grazie ai libri è diventato ricco.
"Non me l'aspettavo. Immaginavo una vecchiaia dignitosa da pensionato Rai. E invece questa grande ricchezza mi ha dato il gusto di poter donare molte cose. Però il tenore di vita mio e di mia moglie è rimasto quello che avevamo prima".

Come vive questa crisi che attanaglia il paese?
"Con mia moglie ci diciamo spesso una cosa. Tutti i soldi che abbiamo guadagnato si possono perdere. Ma siamo in un'età in cui non ci importa più niente. Con tutti i problemi che ti pone, la vecchiaia ha anche qualche piccolo vantaggio".

È in arrivo a gennaio il suo nuovo romanzo: Tuttomio, una storia di amore e di perdizione.
"Una storia decisamente sgradevole. In passato mi hanno accusato di essere buonista. In realtà mi piace sperimentare il buono e il cattivo. Qui entro nel mondo femminile".

Da siciliano?
"La cosa più precisa di noi uomini siciliani la disse Verga e poi la riprese Brancati. Ci definì degli ingravida balconi".

(30 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2012/12/30/news/straparlando_camilleri-49659642/?ref=HRERO-1


Titolo: ANDREA CAMILLERI. - LETTERA APERTA Candidati sostenete la lettura
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2013, 10:40:54 am
EDITORIALI
08/02/2013 - LETTERA APERTA

Candidati sostenete la lettura

ANDREA CAMILLERI

Ho aderito alla lettera aperta del Forum del Libro ai candidati alle elezioni perché, malgrado tutto, credo che si debba dare una chance al ceto politico: queste occasioni è necessario darle, perché senza politica una nazione esiste, la politica è la ragion d’essere di ogni nazione. Si tratta di dare chances naturalmente alla buona politica, cioè alla politica intesa nel senso del lavorare per il bene comune.
 
Certo, lanciare una proposta al momento della campagna elettorale è un’arma a doppio taglio. Durante la campagna elettorale i politici si distinguono per fare promesse. Si diceva una volta, da marinaio. Ma qui vedo fare promesse da ammiraglio, che poi puntualmente non si mantengono, neppure in minima parte. Questo è il coté negativo, il lato positivo è invece chiedere ai candidati di occuparsi della lettura… vuoi vedere che qualcuno poi mantiene l’impegno preso? 
 
Bisognerebbe far capire ai politici che la lettura non è né un passatempo né un fenomeno di nicchia. Una volta, prima dell’ultima guerra, il teatro era veramente per pochi, per una élite, ma nel dopoguerra grazie all’opera di uno come Paolo Grassi o di Giorgio Strehler, il teatro riuscì a diventare un servizio pubblico, un po’ come sono le biblioteche. Bisognerebbe far capire che andare a teatro o leggere un libro non è un passatempo: in realtà è anche un passatempo se vogliamo, ma è anche qualche cosa di più, cioè a dire un crescere da uomini, da cittadini, un capire il mondo, un conoscere l’infinita quantità di cose che ignoriamo, cioè un continuo arricchimento. Le nazioni dove più si legge sono le nazioni più civili.
 
Se dovessi aggiungere una mia proposta, consiglierei di regalare a ogni famiglia italiana dei libri: si potrebbe organizzare una sorta di mini-biblioteca domestica. Per esempio, io ho una gran quantità di libri e mi succede di avere dei doppioni: allora li mando alle biblioteche del carcere per esempio o a piccole biblioteche di paese che so che sono sfornite o si trovano in difficoltà. Se si potesse organizzare una specie di collettore e inviare in dono alle famiglie italiane un po’ di libri, credo che faremmo una cosa molto utile. In una casa dove sono presenti libri si crea un incentivo alla lettura, naturalmente, perché in un bambino o un ragazzo può nascere la curiosità e basta che cominci a leggerne uno perché venga, come un pesce, preso all’amo della lettura. Una casa senza libri è una casa che non ha sviluppo, che non ha futuro. Mio padre non era un intellettuale, era impiegato alla capitaneria di porto, ma era un uomo di buonissime letture e avevamo tantissimi libri in casa: da bambino, io ho imparato a leggere da solo, per poter leggere i libri di mio padre e al primo libro che ho domandato il permesso a papà di leggere, chiedendogli “papà, quali libri posso leggere?”, papà mi rispose “i libri si possono leggere tutti” e questa già fu una grande lezione. Lessi libri per adulti e solo dopo, verso i 16 anni, dovetti leggere libri per ragazzi, per colmare un vuoto, perché altrimenti sarebbe venuto a mancare un tassello di crescita.
 
Oggi è diverso anche il rapporto con la lingua. Mentre io, da ragazzino siciliano, e i miei coetanei abbiamo imparato la lingua italiana con una certa difficoltà, perché in casa parlavamo solo il dialetto, oggi i bambini, come dicono a Roma, “nascono imparati”, perché guardano la televisione e imparano l’italiano in questo modo. Parlano un italiano che Pasolini direbbe omologato, ma comunque è un buon italiano. Nei primi tempi della televisione c’era il leggendario maestro Manzi, che insegnava a leggere e a scrivere, che fece prendere la licenza elementare a tanti analfabeti… bene, io non capisco perché oggi la tv deve trattare la lettura o parlare dei libri come se fosse una cosa di nicchia, parlarne solo in trasmissioni specialistiche, alle tre di notte e in una sorta di ghetto per malati, per quei poveracci che alle tre di notte sono ancora svegli e soffrono d’insonnia. E invece il libro va trattato come un oggetto di consumo, perché lo è, solo che è un oggetto di consumo che costa poco ed è di un valore immenso. La televisione avrebbe possibilità infinite per la diffusione della lettura, ma solo se si adottasse una formula po-po-la-re, perché fin quando si considera il libro una cosa a parte, riservata a pochi, si sbaglia. La televisione rappresenta la quotidianità e il libro può entrare nella quotidianità. Perfino nelle trasmissioni di cucina, oggi che c’è la mania della cucina, perché non si parla mai dell’Artusi e del suo italiano meraviglioso? Si può abbinare il libro al divertimento e all’informazione: quando si parla di un problema o di un qualsiasi episodio, perché non dire c’è un libro che parla di quelle cose? Così faremmo entrare il libro nell’uso comune, quotidiano, e non solo in una trasmissione sontuosa o pretenziosa...
 
Il libro è, o almeno può essere un oggetto popolare. Dicono che i libri in Italia costano molto, ma non è vero, io me ne accorgo dalle mie traduzioni, che in altri paesi costano enormemente di più. Bisognerebbe fare qualcosa per rendere il libro e la letteratura più popolare, ma senza pretendere troppo. Qualche anno fa andai a parlare in una scuola elementare frequentata da una mia nipotina, e mi invitarono perché avevo successo come scrittore. Dopo, la nipotina mi disse “nonno, però il papà di un bambino che faceva il pompiere ha avuto più successo di te”. “Si capisce” le ho detto, “e meno male…”. Altre volte va meglio. Ricordo che qualche anno fa ho vinto un premio che mi ha francamente emozionato, era il premio per il libro straniero più letto nelle biblioteche pubbliche di Parigi.
 
Il ruolo delle biblioteche è fondamentale. Nel ‘46 la mia famiglia si trasferì ad Enna, nel centro della Sicilia, a 800 metri d’altezza, dove faceva un freddo terribile, non avevamo il riscaldamento. Un giorno dovetti andare al municipio per qualche cosa, una pratica, ora non ricordo. Nel grande atrio, dopo il portone, fui raggiunto da una dolcissima ondata di calore che veniva da una porta aperta sulla sinistra, guardai e c’era scritto Biblioteca comunale: entrai, era una bellissima biblioteca, tenuta perfettamente in ordine, c’era un signore in maniche di camicia che alimentava due grosse stufe, mi guardò e disse “desidera?”. “Vorrei parlare col direttore”, si mise la giacca e rispose “sono io”. Era l’avvocato Giorgio Fontanazza, il suo nome non l’ho dimenticato più. La biblioteca aveva i lasciti di due scrittori siciliani, Nino Savarese e Francesco Lanza, le riviste letterarie dell’inizio del ’900, e tanti bei libri. Mi feci una cultura in quei tre anni, sono stato dalla mattina alla sera buttato in biblioteca… Fu la mia salvezza.
 
(Testo raccolto da Giovanni Solimine, Presidente dell’Associazione Forum del libro) 
 

da - http://www.lastampa.it/2013/02/08/cultura/opinioni/editoriali/candidati-sostenete-la-lettura-jNUf8Wfa8j7rvLgj24EBrO/pagina.html