Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Inserito da: Admin - Novembre 02, 2007, 02:53:59 pm 2/11/2007
Le leggi non bastano GIOVANNA ZINCONE La violenza gratuita non è propria della cultura Rom. Dopo la tragedia di Tor di Quinto ce lo hanno ricordato alcuni di loro. Il furto o la questua importuna sono però comportamenti considerati normali da buona parte della comunità. E qualche intervistato Rom ieri lo ha candidamente confermato. Un’esistenza non gravata dall’onere del lavoro appare meritevole dei rischi che si corrono a praticare il borseggio e il furto con scasso. Anche perché il modesto impegno profuso dagli apparati dello stato nell’individuare i colpevoli di reati non troppo gravi, l’utilizzo di minori, le clemenze, i condoni e le amnistie abbassano notevolmente i rischi. Si tratta di reati non cruenti, ma certo poco idonei ad attirare simpatia sociale. Infatti, se andiamo a rivedere le classifiche di popolarità delle minoranze presenti in Italia, troviamo da tempo gli zingari in fondo alla classifica, ben prima dell’autista pirata e dell’aggressore di Tor di Quinto. Chi ha ascoltato anche le ragioni delle organizzazioni dei Rom sa che pure per gli zingari poveri e poco nocivi è difficile trovare solidarietà pubblica. Lo è sempre di più, perché anche gli stati sociali un tempo indiscriminatamente generosi sempre di più tendono a comportarsi secondo la diagnosi di Milton Friedman: «Nessun pasto è gratis». Chi vuole sostegno, se non è invalido, deve impegnarsi a cercare un lavoro. Ma per gli zingari trovare lavoro non è facile e non solo perché il lavoro non è al centro della loro cultura, ma perché di loro non ci si fida. Nicolae, l’accusato, comunque ci provava a lavorare: faceva il manovale a giornata. Non guadagnava abbastanza, il che poteva spingerlo a rubare. Ma secondo la vecchia cultura Rom, la vittima non si stupra, non si malmena a morte. Infatti, in tal caso i rischi di finire dentro crescono, e l’approvazione della comunità declina. E poi, perché danneggiare la mucca che si munge? Dietro la violenza gratuita si profila la distruzione di un tessuto sociale, di una (sia pure discutibilissima) etica ricevuta. Quello che ora si ruba non è più un bene sostituibile: l’integrità della persona non ha succedanei, chi la danneggia di proposito vuole nuocere. Lo fa per abitudine alla violenza, forse per rabbia accumulata contro il piccolo o grande agio di normali vite borghesi. Di questa nuova propensione alla violenza i Rom che si trovano da generazioni in Italia, che sono spesso cittadini italiani, accusano i nuovi venuti: i rumeni, in particolare. La Romania, che ovviamente non esporta solo Rom, è la prima nazionalità straniera tra i denunciati e arrestati sia per il reato di violenze sessuali (sono il 16% degli stranieri e il 6,2 del totale), sia per gli omicidi volontari (15,4 e 5,3%). Ma occorre osservare pure che quella rumena è la prima minoranza immigrata in Italia: con 556 mila presenze rappresenta il 15,1% degli stranieri. E si distingue semmai per la maggiore propensione ad altri reati: ad esempio, il furto con destrezza (in cui rappresenta il 37% del totale degli stranieri denunciati e il 24,8 del totale dei denunciati), i furti di autovetture (il 29,8 e l’11,2%), le rapine in esercizi commerciali (il 26,9 e l’8,7%). Questo confronto tra le percentuali di presenze regolari e percentuali di incidenza sui reati è tuttavia piuttosto azzardato, perché i protagonisti dell’attività delittuosa sono gli immigrati irregolari, che sommando tutte le nazionalità, per alcuni reati (sfruttamento della prostituzione, estorsione, contrabbando, ricettazione) raggiungono 4 casi su 5. La promozione incondizionata - non più sottoposta a requisiti di reddito e di lavoro - di molti immigrati rumeni da irregolari a regolari potrebbe modificare il quadro statistico, ma non la realtà dei fatti. Ricordiamoci infatti di un dato di fondo. Sono i più sradicati che delinquono, quelli che delle regole se ne infischiano. Sappiamo infatti che gran parte degli immigrati oggi regolari sono stati in passato irregolari: ma hanno fatto di tutto per rientrare nelle regole. Sono, ad esempio, le nostre badanti. Chi invece si mantiene sfruttando prostitute dopo averle domate a suon di botte può infischiarsene della regolarità del permesso di soggiorno. Il decreto varato d’urgenza dal governo, che prevede la possibilità di espulsione a opera dei prefetti anche nei confronti dei comunitari, se rappresentano un rischio per l’ordine pubblico, può essere utile se il nostro esecutivo riuscirà, come sta cercando di fare, a ottenere la collaborazione dei Paesi di origine. Teniamo però conto del fatto che immigrati di origine albanese e marocchina, nazionalità non comunitarie e quindi già espellibili, competono con la comunità rumena nella classifica dei reati commessi. Le leggi vanno fatte per il buon motivo che non abbiamo molti altri strumenti a nostra disposizione, ma non contiamo troppo sull’immediatezza dei loro risultati. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Inserito da: Admin - Giugno 05, 2008, 10:28:28 am 5/6/2008
Immigrati, il bastone e la carota GIOVANNA ZINCONE E’ stato un bel colpo di scena, quello del presidente del Consiglio che si dissocia «a titolo personale» dal reato di immigrazione clandestina: un po’ nel genere teatro dell'assurdo, essendo lui, infatti, il primo firmatario del progetto di legge che lo contiene. Perché questa stravagante, ancorché forse utile, marcia indietro? Perché tutto il pacchetto sicurezza è stato costruito in fretta, per pagare a rotta di collo la cambiale politica emessa quando il centro-destra era all'opposizione e sotto elezioni. Di questa fretta ora subiscono i contraccolpi. La fretta ha prodotto un'altra mossa surreale ma significativa. I luoghi dove si tengono gli immigrati irregolari non si chiamano più «Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza», ma «Centri di Identificazione ed Espulsione». Per cambiare nome è stato utilizzato il decreto legge. Non si capisce dove stesse l'urgenza di questo repentino colpo di spugna linguistico, se non si guarda dietro le due etichette date ai centri. Dai nomi traspaiono con chiarezza atteggiamenti tradizionalmente tipici della sinistra e della destra. Da una parte, il pudore nell'uso degli strumenti repressivi, dall'altra un non meditato ricorso a quegli stessi strumenti, con un sovrappiù di minacciosi proclami. Ma qual è la reale sostanza dei provvedimenti presi, progettati o ripensati? Quando è stato al governo, il centro-sinistra ha adottato importanti misure repressive. Ha introdotto i suddetti Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza. Ha varato norme punitive nei confronti del trasporto e dello sfruttamento dell'immigrazione clandestina. Ha previsto l'espulsione successiva o alternativa alla pena. Ha persino inserito l'espulsione preventiva, in via amministrativa, per motivi di sicurezza dello Stato e di ordine pubblico. Ma, soprattutto, il centro-sinistra ha adottato a suo tempo le ricette teoricamente più efficaci per contenere gli ingressi clandestini: più controlli sul lavoro nero, più accordi bilaterali con i Paesi di provenienza e di transito. Perché la strategia del centro-sinistra non ha convinto? Perché le sue leggi non sono state applicate con la dovuta fermezza. Perché - anche in seguito all'indulto, ma non solo - in Italia è tutt'altro che garantita l'efficacia dissuasiva dell'intero sistema delle norme penali. Perché comunque e dovunque il controllo dell'immigrazione è un obiettivo troppo difficile da raggiungere. Infine, perché ha tardato a presentarsi esplicitamente all'elettorato come tutore dell'ordine, e su questo terreno ha conosciuto profonde divisioni interne. Come risultato adesso tocca di nuovo al centro-destra. Questa compagine ha pensato, al contrario, che fosse utile promettere molto e fare la voce grossa. Ed è proprio questa voce grossa che le ha procurato pesanti e autorevoli rimbrotti. Eppure l'apparato repressivo proposto dal centro-destra non viaggia poi molto al di fuori dei binari europei. È vero, ad esempio, che altri Paesi hanno adottato il reato di immigrazione clandestina. Peraltro, il fatto che altri Paesi abbiano imboccato una strada non significa che quella strada li abbia portati lontano. In Gran Bretagna il reato c'è, ma la fattispecie è poco utilizzata. Anche in Francia c'è, ma le badanti irregolari sono tante e in rivolta. Come tutti i reati, il nostro non può essere retroattivo, riguarderebbe inoltre solo l'ingresso clandestino, quindi non toccherebbe né i clandestini che sono già qui, né in futuro chi avesse il permesso scaduto, né i temutissimi romeni inclusa la loro componente Rom, perché, come comunitari, possono entrare liberamente. A loro semmai si applica, e solo in casi estremi, l'espulsione. Ed è possibile - come sostiene Calderoli - che lo strumento intenda solo rimandare a casa chi attraversi illegalmente la frontiera. Tuttavia, visto che l'azione penale è obbligatoria, cosa accadrebbe se si arrivasse comunque - come teme pure Berlusconi - a colpire troppi clandestini con processi per direttissima e incarcerazioni? Già oggi i tribunali sono intasati e le carceri scoppiano, con una percentuale di stranieri detenuti che arriva al 38%. Pensiamo a quanto può costare allo Stato, in termini di spesa per processi e detenzione, perseguire pure gli immigrati, clandestini sì, ma onesti. È questa una priorità per le magre finanze pubbliche nazionali? Bene quindi il ripensamento di Berlusconi, ma sarebbe da estendere ad altri aspetti del pacchetto. Se si vuole alzare la detenzione nei Centri fino a 18 mesi, mentre il termine massimo di carcerazione preventiva prevedibile per reati di questo tipo è di 9 mesi, bisognerebbe ribattezzarli ancora una volta, e chiamarli «Centri di Minaccia e Pena». Anche i 18 mesi, però, non sono un'invenzione nostrana: li prevede pure la proposta di direttiva europea che la prossima presidenza francese caldeggia. Come si spiega, allora, la subitanea levata di scudi contro l'attuale politica italiana? Non credo che la motivazione chiave delle riprovazioni nazionali ed estere stia nei dubbi di costituzionalità e conformità alla normativa internazionale, che pure circolano, anche sulla clandestinità come aggravante. Persino nella versione attuale si tratta di norme forse inutili, forse controproducenti, ma non liberticide. La dissonanza dipende soprattutto dai toni e dall'assenza di contrappesi «benevoli». Le politiche di controllo in altri Paesi sono state bilanciate da misure di apertura e tolleranza. Così mentre Sarkozy propone, come prossimo presidente dell'Unione, una linea ferma contro gli ingressi clandestini, la bilancia con una riduzione dei tempi d'ingresso in Francia dei lavoratori di Paesi che hanno aderito nel 2004. Per funzionare, le politiche migratorie del centro-destra hanno dunque bisogno di ripensare tre punti: una comunicazione meno aggressiva, una valutazione realistica dei costi-benefici dei provvedimenti che intendono adottare sia in termini economici sia di consenso interno e internazionale, un bilanciamento delle misure repressive con misure di apertura. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZUCCONI Se la Sinistra si rifugia nel privato Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 09:36:10 am 10/10/2008
Se la Sinistra si rifugia nel privato GIOVANNA ZUCCONI Sergio Cofferati annuncia di non volersi più candidare a sindaco di Bologna per «ragioni private». Un modo pudico e asciutto per dire che un figlio piccolo e una nuova famiglia, a sessanta anni, possono anche entrare in conflitto con gli oneri della vita pubblica. Voci non amichevoli dicono che i sondaggi vedono favorito, in un eventuale match tra personalità mature, il redivivo Guazzaloca. E che sarebbe un presagio di sconfitta, non una libera scelta personale, la vera ragione dell’abbandono di campo. Ma una volta tanto la motivazione ufficiale è più «calda», e interessante, dei retroscena politici e partitici. Non si hanno molte notizie di maschi che lasciano la politica, e il potere, per dedicarsi agli affetti. E dunque, benvenuto lo «scandalo» di un padre celebre che può far venire utili dubbi ad altri padri. In America i due campi hanno confini meno netti, la famiglia è spesso un trofeo da esibire davanti alle telecamere, e Sarah Palin è l’esempio lampante (non si sa se più passionale o più cinico) di uso pubblico del privato, con tutti quei figli, una a sua volta contenente un piccino, usati per fare da sherpa alla sua dura scalata alla Casa Bianca. Da noi non funziona (ancora) così, il «colore» familiare dei politici è appunto soltanto colore, non pesa più di tanto sulla scena pubblica e mediatica: prova ne sia la fitta presenza di politici clericali ma divorziati, che negli Usa sarebbero massacrati dalle critiche e dalla diffidenza. A far pesare le vicende private in politica, in questo caso, è una dichiarata inconciliabilità tra le due vite, quella affettiva e quella pubblica: «Mia moglie e mio figlio abitano a Genova - ha spiegato Cofferati - e un bambino non può crescere in autostrada». Probabilmente ha contato anche una speciale ritrosia, da parte di un uomo in fin dei conti «all’antica», sobrio fino alla scorbuticità, di giocarsi la paternità tardiva anche come una carta politica, come forse un leader americano avrebbe saputo fare con disinvoltura, e tra gli applausi. Fin qui la vicenda privata di una persona che, a quanto pare, sceglie di spostare le sue energie dalle mura di un palazzo comunale così insigne alle sue stanze private. In più, e oltre, naturalmente c’è da riflettere sulla decaduta, scolorita passione politica di un leader che, fino a pochi anni fa (anche se sembra un secolo), era tra le bandiere della sinistra italiana, capace di portare in piazza milioni di persone. Se il luogo chiamato sinistra fosse così seducente, e carico di attese, quanto è stato per molti fino a pochi lustri, o peggio pochi mesi, or sono, forse Cofferati, arrivato al suo bivio, avrebbe esitato. Il sacrificio pubblico, la dedizione politica sono stati, per la sua generazione, una ragione di vita: fino a morirne, come accadde a Enrico Berlinguer, caduto sul suo palco, tra le bandiere. E le famiglie (a volte più di una per ciascuno) erano tenute rigorosamente al riparo, quasi sempre grazie al sacrificio privato di mogli silenziose e pazienti: tanto che a nessun maschio di potere veniva il dubbio di dover rinunciare all’auto blu per il passeggino. Per quali ideali, ora, per quale futuro si può tirare fino allo stremo la corda dell’impegno pubblico? Se un figlio e una famiglia hanno maggiore appeal di una piazza gremita, viene da pensare che un ciclo sia chiuso e un altro ancora non sia aperto, e che lo sfinimento politico sia uno dei sentimenti più evidenti, e ingombranti, per la sinistra italiana. In questo senso Cofferati il Vecchio è forse meno vecchio della politica. È nuovamente paradigmatico in quanto non-leader, come gli accadde di essere pochi anni fa in quanto leader. Il ritorno al suo campicello è un segnale di fine della corsa, di gioco che non vale più la candela. La sua stanchezza, in mezzo a tanti vecchi finto-giovani, scalpitanti e rifatti, è onesta. È riflessiva e invita, magari, a riflettere, ognuno come meglio crede, sui costi umani del potere. Sarà disposto all’elogio chi chiede alla politica (perfino alla politica) una misura più umana. Sarà incline alla critica, forse anche alla derisione, chi gode dello spettacolo di una sinistra sfiduciata, ripiegata su se stessa. La verità vera comunque è destinata a sfuggirci. La conosce solo Cofferati, e non sembra disposto a farne materia di dibattito. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2008, 09:06:13 am 16/10/2008
Purché sia un ponte GIOVANNA ZINCONE La fretta non è buona consigliera né per chi propone, né per chi si oppone. L’osservazione calza anche rispetto alla mozione leghista che vuole introdurre «classi ponte» per ragazzi stranieri con carenze linguistiche. L’ingresso di studenti di questo tipo, soprattutto ad anno scolastico già iniziato, crea problemi a tutti. Li crea ai ragazzi stessi, in particolare se sono già in un’età in cui imparare in fretta un’altra lingua diventa più difficile e gli studi che si devono affrontare sono più complessi. Per le loro carenze linguistiche, gli stranieri possono essere inseriti in classi arretrate rispetto all’età e rischiano, più spesso degli italiani, la bocciatura. Perciò accumulano più ritardi. Ma, fatto ancora più grave, si concentrano negli istituti tecnici e professionali, lì vengono talora indirizzati anche studenti che, nel loro paese, frequentavano licei più sofisticati. In un percorso di istruzione semplificato non conoscere bene la lingua costituisce uno svantaggio minore. Questo fenomeno rappresenta un grave svantaggio non solo per i ragazzi stranieri, ma anche per il nostro paese, che così spreca potenziali talenti. Insomma il problema c’è ma va affrontato seriamente e serenamente. Quali sono i pro e i contro delle «classi ponte» o «di inserimento» che dir si voglia? Il grande pro consiste certamente nel far conoscere in anticipo la lingua della scuola che si frequenterà. Però i contro o almeno i dubbi connessi a questa specifica soluzione non mancano. Innanzitutto, a chi si fa il test? Anche ai bambini nati in Italia? Anche a quelli arrivati qui in fasce? Ma allora perché non farlo a tutti i bambini, italiani e non? Un certo numero di bimbi connazionali viene infatti da famiglie dove si parla un italiano piuttosto approssimativo. Un altro «contro» riguarda il quando. Il termine massimo di inserimento dei bambini e dei ragazzi stranieri nelle classi ordinarie, previsto dalla mozione approvata, è il 31 dicembre.< Quindi, entro quella data, o si è imparata la lingua e si è persa una bella fetta di programma, o non si è imparata la lingua e si prosegue fino all’anno seguente in segregazione. Come già nella situazione attuale, gli stranieri rimangono indietro. Ma il tempo è solo un tassello della controindicazione. In alcuni cantoni svizzeri «le classi di accoglienza» possono durare da due mesi fino ad un anno e mezzo. Ed è evidente che in Italia, ancor più che in Svizzera, ci si trova di fronte ad un insieme di allievi terribilmente differenziati: si va da bambini con una lingua madre di ceppo latino ad adolescenti analfabeti o con lingue madri assai distanti. I tempi di apprendimento possono essere completamente diversi e, a volte, lunghi. Però, nelle classi svizzere lavorano, a turno, tutti gli insegnanti che avranno in futuro quegli stessi allievi. C’è quindi una familiarizzazione tempestiva con la scuola «normale». Insomma si cerca di evitare che le classi ponte diventino classi scivolo verso la segregazione e la discriminazione. Ma il metodo implica che tutti gli insegnanti, di qualunque materia, debbano imparare a insegnare la propria lingua in modo semplice ed efficace, che debbano tutti sapere comunicare con allievi stranieri. Purtroppo, i corsi di insegnamento dell’italiano come seconda lingua, destinati a chi lavora nella nostra scuola, non sono seguiti dai titolari di tutte le discipline e sono spesso poco utili in termini pratici. E qui qualche cambiamento serve ed è pure ideologicamente neutro. A me sembra, inoltre, che in Italia si siano già sperimentate formule interessanti, degne di essere diffuse. Mi riferisco, ad esempio, ad una soluzione che, almeno per un certo numero di potenziali allievi, elimina o riduce gli sprechi di tempo. Si tratta di utilizzare le iniziative di aggregazione operative nei mesi di giugno, luglio e agosto, note come «estate ragazzi». In quel momento dell’anno e in quelle sedi - come è stato già fatto ad esempio a Torino - si può insegnare italiano e insieme farlo praticare. Perché giocando, facendo sport con ragazzi italiani, quelli stranieri fanno, per forza e con piacere, pratica linguistica. E in più non percepiscono esclusione. A questo scopo bisognerebbe incentivare il ricongiungimento familiare dei minori alla fine del loro anno scolastico e a ridosso dell'inizio delle vacanze del nostro. I piccoli hanno e creano meno problemi. Un tempo si distingueva tra «governi ponte» e «governi balneari», questi ultimi erano eminentemente estivi. Propongo è di riflettere sull’idea di diffondere «classi balneari» che rendano superflue o più brevi le «classi ponte». da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZINCONE Immigrati, il "rubinetto" inceppato Inserito da: Admin - Novembre 19, 2008, 06:01:26 pm 19/11/2008
Immigrati, il "rubinetto" inceppato GIOVANNA ZINCONE A essere conservatori non si sfigura mai: è una convinzione che ho difficoltà a condividere. Non mi pare che oggi lo stile conservatore vada per la maggiore. Assistiamo semmai a un’ambiziosa corsa al cambiamento. Però, quando si toccano questioni che intrecciano esigenze forti e difficili da conciliare, quella convinzione ci torna utile. Così, svariati governi italiani, hanno spesso presentato decreti sui flussi migratori che erano la fotocopia di quelli precedenti, magari già votati da una maggioranza antagonista. L’hanno fatto nel tentativo, da una parte, di non spaventare l’opinione pubblica con grandi numeri e, dall’altra, di non contrariare imprenditori e famiglie con numeri troppo risicati. Anche per il 2009, si pensa di riproporre gli ormai quasi classici 170 mila ingressi, lo stesso numero degli ultimi anni. Il fatto è che le esigenze di forza lavoro cambiano nel tempo e questo è un tempo in cui stanno mutando drammaticamente. Si aggiunga che a farne le spese, come sta emergendo dai dati sulla disoccupazione, sono soprattutto gli immigrati. La proposta di bloccare il «flusso» per due anni Questa constatazione ha suggerito alla Lega di proporre il blocco dell’immigrazione per i prossimi 2 anni. Non si tratta di una proposta inusitata. Piace anche a qualche sindacalista Cgil. Governi non tacciabili di xenofobia, come quelli di Spagna e Inghilterra, stanno prospettando misure simili. In passato, dopo lo shock dell’aumento del petrolio nel 1973, molti Stati europei chiusero le frontiere. Per la verità con scarso successo. Bisogna semplicemente chiedersi se si tratti di una strategia utile e praticabile. È necessario il blocco per evitare ingressi superflui? No, perché gl’immigrati ai quali viene concesso di risiedere e lavorare in Italia devono avere comunque un datore di lavoro disposto ad assumerli. Inoltre, i «nuovi» immigrati sarebbero tali per modo di dire: i permessi servono in larga misura a regolarizzare chi è già qui con un lavoro. La proposta leghista affronta un problema reale, quello di fare i conti con una forte crisi economica. Ma non convince del tutto. La moratoria dei flussi pretende di proteggere lavoratori nazionali e immigrati colpiti dalla disoccupazione. Ma le liste di mobilità non funzionano per tutti, perché il mercato del lavoro non è fluido: la hostess che perde il posto non va a fare la badante, il pizzaiolo egiziano non va a fare la baby sitter. Semmai è il tempo troppo breve previsto dalla Bossi-Fini per trovare lavoro prima di perdere il diritto al soggiorno che non consente al pizzaiolo di trovare posto in un’altra pizzeria. Comunque, se si vogliano favorire gli immigrati rimasti disoccupati occorre seguire almeno in parte la ricetta Epifani: dare più tempo ai licenziati per cercare lavoro. Urgente la radicale riforma del sistema d’ingresso Insomma il problema c’è, ma non ammette soluzioni scorciatoia. Inoltre, la crisi economica rende particolarmente vistosa un’inadeguatezza di regole troppo rigide nella gestione dei permessi di soggiorno che non sono mai state valide. Al di là della crisi, è l’intero meccanismo dei flussi programmati e dei rinnovi dei permessi di soggiorno che appare poco funzionale. Infatti, non siamo stati in grado di gestirlo neppure in condizioni normali: restano da assegnare permessi dello scorso anno, mentre una montagna di domande di rinnovo degli anni passati giace inevasa. In particolare è la patente finzione di lavoratori che entrerebbero chiamati a evidenziare l’incongruenza del meccanismo, la sua incapacità di gestire i fenomeni reali. La finzione della chiamata dall’estero è tanto nota ai nostri attuali governanti che, per i 170 mila programmati per l’anno a venire, hanno pensato di attribuire i «nuovi» permessi utilizzando la vecchia lista delle richieste presentate in occasione del decreto del 2007. Non è pensabile che per più di un anno imprenditori e famiglie che avevano fatto richiesta siano rimasti in attesa di singoli lavoratori sconosciuti. Allora erano pervenute più di 750 mila domande per i soliti 170 mila posti disponibili. Quelli che non ce l’avevano fatta nei click days dello scorso anno, potrebbero farcela ora, purché abbiano ancora un datore di lavoro italiano. Per i datori di lavoro stranieri si vuole seguire una procedura più selettiva, che prevede l'obbligo della carta di lungo soggiorno al fine di evitare assunzioni fasulle. Tutto sommato, con alcuni aggiustamenti, è la vecchia ricetta. Ma neppure la proposta di blocco è davvero innovativa perché si basa anche essa su un rubinetto rudimentale. Un rubinetto che si apre lasciando passare più o meno la stessa quantità di immigrazione o che si chiude del tutto per un po’ di tempo. Credo che sia arrivato il tempo di disfarsi del rubinetto. Occorre una più attrezzata e tempestiva rilevazione delle necessità di forza lavoro, una diluizione nel tempo delle concessioni, un maggiore decentramento e snellimento delle procedure di rilascio e di rinnovo. La ristrettezza dei tempi impedisce forse per il 2009 di cambiare radicalmente il nostro sistema di gestione dell’immigrazione, ma non vieta né di iniziare a sperimentare, né di riflettere su ipotesi di radicale riforma. Su questa necessità mi pare si stia profilando un largo accordo. Perché a essere conservatori qualche volta non solo si sfigura, ma ci si mette pure nei guai. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZINCONE Patrie e lavoro Inserito da: Admin - Marzo 17, 2009, 03:57:31 pm 17/3/2009
Patrie e lavoro GIOVANNA ZINCONE Lavoro prima agli italiani» è una ricetta politicamente appetitosa. La crisi economica in corso sta producendo disoccupazione e la situazione è destinata a peggiorare, anche se non si arrivasse a sfondare il 10%, come prevede la Cgil. Si capisce quindi che i lavoratori italiani chiedano protezioni e tutele. Finora l’immagine dell’immigrato «ruba lavoro» aveva attecchito poco dalle nostre parti. I sondaggi effettuati in anni passati rivelavano la presenza di questo timore soprattutto in Germania a partire dagli Anni 90 e, di recente, in Gran Bretagna. Da noi l’immigrazione finora aveva generato soprattutto paure legate a flussi fuori controllo: troppo rapidi e consistenti, pieni di irregolari e con una componente criminale vistosa. Si tratta di preoccupazioni non prive di riscontri nella realtà, anche se amplificate dalla tradizionale diffidenza che gli umani provano nei confronti degli stranieri non danarosi. A questi incubi, già sufficientemente lievitati, se ne sta sommando un altro: quello di un’occupazione scarseggiante sottratta agli italiani da mani straniere. In un punteggio che va da 1 a 10, questa paura ha già superato la media del 5, mentre in passato il timore di essere spiazzati dagli stranieri riguardava solo un terzo circa degli intervistati. La ricetta che il leader leghista propone vuole sfamare una paura in crescita. Ma non è priva di controindicazioni. La nostra appartenenza alla Ue implica l’impossibilità di discriminare comunitari, quindi i romeni che sono la prima comunità immigrata in Italia. In secondo luogo, il meccanismo discriminatorio costituirebbe una lungaggine burocratica in più, dunque un passo indietro rispetto alla maggiore libertà e allo snellimento nelle pratiche di assunzione messi in atto con l’abolizione delle liste di collocamento. E in una congiuntura che richiede di non incentivare chiusure di attività in Italia e delocalizzazioni all’estero, rimettere fardelli burocratici e divieti nella gestione della forza lavoro sul territorio nazionale non giova. Aggiungo che forse neppure funzionerebbe. In Italia c’è già l’obbligo di verificare che non ci siano italiani o comunitari disponibili al momento di rilasciare permessi di lavoro a immigrati non comunitari. Quindi, in teoria, a nuovi immigrati da fuori. In pratica, tutti sappiamo che il grosso dei «nuovi» immigrati è costituito da individui che hanno già un datore di lavoro, di solito poco propenso a cercarsi un altro dipendente. Perciò la verifica di mancanza di alternative nazionali o comunitarie allo straniero riguarda già una parte di lavoratori stranieri, quelli teoricamente inseriti nei decreti flussi. E, in questo caso sperimentato, la precedenza si è risolta quasi sempre in un atto formale: i Centri per l’Impiego appendono in bacheca l’avviso di richiesta, lo mettono sul sito e spesso non si presentano candidati italiani. E poi, come in tutti i Paesi del mondo, anche nel nostro una gran parte delle assunzioni non avviene attraverso i Centri dell’Impiego, ma segue la via del passa parola, via sulla quale il semaforo rosso agli immigrati non si colloca agilmente. Infine, si tratterebbe d’imporre per legge quello che i datori di lavoro italiani già fanno in pratica. L’Ilo, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ha commissionato ricerche empiriche sulla discriminazione in vari Paesi europei. Il metodo adottato consiste nel far rispondere ad annunci di lavoro squadre di candidati assolutamente identici sotto tutti i punti di vista, a parte l’appartenenza: una squadra è costituita da cittadini di etnia nazionale, l’altra è fatta da membri di minoranze immigrate. E si vede, ad esempio, che già al momento della prima telefonata il posto per il nazionale c’è ancora, mentre all’altro candidato si comunica che è stato assegnato. Oppure, al nazionale si danno opportunità di prova che all’altro non vengono offerte. Il metodo ha ovvi limiti: pochi casi, solo annunci, lavori di un certo tipo. Il risultato è comunque che in tutti i Paesi osservati si discrimina, e in Italia più che altrove. Insomma, a parità di merito, sembra che il datore di lavoro italiano tenda già a privilegiare il connazionale senza che la legge glielo imponga. Eppure i dati, almeno fino allo scoppio della crisi, rivelavano un incremento relativamente più forte delle assunzioni degli immigrati. I tassi di attività e di occupazione erano più alti tra gli immigrati, ma lo era anche il tasso di disoccupazione. Prima della crisi la manodopera immigrata funzionava, quindi, come un polmone che aspira ed espira lavoro più intensamente e velocemente. È ipotizzabile che la crisi porti a più rapide e forti «espirazioni». Già nel secondo trimestre del 2008 il tasso disoccupazione generale è aumentato dell’1% rispetto al trimestre dell’anno precedete, quello degli immigrati dell’1,2%. Ma un dato più recente seppure parziale, quello dell’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, segnala una situazione drammatica: a gennaio 2009 il 24% della disoccupazione nel Veneto era costituito da stranieri, con un picco del 32% a Treviso. Le piccole aziende, dove si concentra il lavoro immigrato, sono poco tutelate dagli ammortizzatori sociali, e il rischio di perdere, con il lavoro, il permesso di soggiorno e quindi di diventare irregolare è alto. Gli imprenditori sono preoccupati. È vero che molti lavoratori stranieri stanno rientrando nel Paese d’origine, ma cosa accadrebbe se a quelli che rimangono, disoccupati e con scarse tutele, fosse davvero sbarrata anche la via verso una nuova occupazione? Le tensioni sociali che può comportare una massa di stranieri emarginati sono notoriamente gravi. Anche in questi giorni le rivoltose banlieues francesi ce lo ricordano. Imporre agli imprenditori (e alle famiglie) l’obbligo di assumere un italiano meno capace e diligente a scapito dell’immigrato meritevole che si sarebbero liberamente scelti non funziona. Certo non è una via burocraticamente facile ed economicamente fruttuosa. È un colpo alla coesione sociale e non so neppure se sia eticamente accettabile. La condizione di cittadino comporta per definizione dei privilegi; però l’essere nato sotto un altro cielo è un caso, non una colpa. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZUCCONI La vera vita in diretta Inserito da: Admin - Marzo 27, 2009, 11:44:23 am 27/3/2009
La vera vita in diretta GIOVANNA ZUCCONI Ieri per una volta la «vita in diretta» è stata davvero tale. Vita vera. Nel pomeriggio di Raiuno, Lino Banfi ha detto: «C’è una donna bella che amo, che adoro, che ha 45 anni e ha il tumore». È sua figlia Rosanna. Come sono semplici e pure le parole, quando toccano davvero. Anche la sera prima, l’altro ieri, è andata in onda la vita: la verità del male, di un altro male, nel monologo di Roberto Saviano sulla terza rete, a Che tempo che fa. «Voglio fare strategia di me e della mia parola», contro le mafie che tutto corrodono, così come Rosanna Banfi ha chiesto al padre di parlare del suo cancro, perché altre donne sappiano e non ne vengano corrose. Difficile immaginare due persone e due denunce più diverse, in situazioni televisive più lontane. È uguale però il sentimento, quasi inconfessabile, di noi che guardiamo: sollievo. Dunque si può. Dunque la vita può esserci, lì dentro. Con un formidabile uno-due, improvviso e inatteso, la televisione italiana ha demolito quel vecchio mantra reazionario. Non è più vero che il mezzo è il messaggio, condannati entrambi al nulla, alla simulazione, al blob. Il mezzo è appunto un mezzo, il resto dipende dal chi e dal come. Altrove, su altri canali, stavano stravaccati i ragazzi del Grande Fratello (guardateli, sono sempre sdraiati, sbracati, sfatti). Roberto Saviano e Lino Banfi avevano, hanno la schiena dritta di chi ha fatto invece vero servizio pubblico. Perché il vero servizio al pubblico è mostrargli che non è idiota come vorrebbero i mercanti di falsi sentimenti, gli spacciatori del nulla in diretta e in differita. Con la scusa che è quello che la gente vuole («Mangiate merda, miliardi di mosche non possono avere torto»). La televisione è soltanto una cornice, che fa risaltare quello che ci mettono dentro: il vuoto, anche cerebrale, oppure una materia umana viva e vera. E la verità è inversamente proporzionale al tornaconto di chi in televisione ci va. Le amebe dei reality andranno a fare serate milionarie nelle discoteche, particina dopo contrattino. Saviano è uscito (forse il momento più commovente) circondato dai carabinieri che l’hanno sorvegliato, in piedi, in studio, per tutta la puntata, visibili soltanto quando sono tornati insieme, scorta e scortato, alla non-vita che condividono. Lino Banfi sarà rientrato, immaginiamo, alla sua angoscia domestica, dopo avere pronunciato un’altra frase memorabile: «Ho promesso a me stesso che non devo piangere, quindi non lo devo fare», detto da un attore che dell’esibizione ha fatto il suo mestiere, detto in un luogo dove fiottano lacrime sceneggiate e il pudore non fa audience. La vita esiste, anche se i manovratori della televisione vogliono tenerla lontana dai nostri occhi. La vita è anche il male potente, quello della camorra e delle collusioni e omissioni dove fermenta, e quello della malattia («Ha il tumore, molti di noi abbiamo vergogna a dire questa parola»). «Vergogna» è un’altra parola che ha riacquistato la sua intensità, ieri pomeriggio e l’altro ieri sera, sulle reti della Rai. E anche «privacy» ha cambiato tonalità. Se ne spogliano quelli che smaniano per diventare personaggi e vendono la propria oscenità al primo fotografo o alla telecamera compiacente. Jade Goody, famosa per il Big Brother inglese, ha invece avuto il coraggio di trasformare il voyeurismo del gossip in sguardo collettivo sulla sua sofferenza. Popolarissimi, ciascuno a suo modo, con le loro paure Lino Banfi e Roberto Saviano in televisione non erano neanche più personaggi: ma persone. «Io voglio essere un fenomeno mediatico», ha detto Saviano, come può esserlo soltanto la vita, vera, che perfora. Grazie a quei due è il messaggio che ha fatto il mezzo, finalmente. E così la televisione italiana ha preso una clamorosa rivincita contro se stessa. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZINCONE. Clandestini, la macchina inceppata Inserito da: Admin - Aprile 23, 2009, 02:53:09 pm 23/4/2009
Clandestini, la macchina inceppata GIOVANNA ZINCONE Le decisioni pubbliche sono macchine imperfette, si fermano davanti agli ostacoli, fanno marce indietro, non sempre portano a destinazione. Anche la nuova guida dell’immigrazione, che si annunciava ferma e severa, non conduce alle mete prefissate. A rendere difficile uno dei suoi obiettivi prioritari, la gestione dei flussi irregolari, si frappongono ostacoli esterni. Il caso del mercantile «Pinar», carico di clandestini soccorsi in mare, e le riluttanze di Malta ad accoglierlo hanno ribadito la necessità di utilizzare macchine con targa europea, se si vogliono ottenere certi obiettivi. Quanto alla macchina con targa italiana è stata spesso costretta a cambiare percorso e qualche volta la sua azione sembra aggravare i problemi che voleva risolvere. L’idea di bloccare i clandestini considerando il loro comportamento un reato, con annessi più solerti processi e incarcerazioni, si è trasformata con il tempo in una minaccia di ammenda pecuniaria e di immediata espulsione. Il progetto, seppure più moderato, continua a incutere timore e ha prodotto un effetto perverso: ha incentivato una corsa in massa ad arrivare prima che scatti la misura. La norma è infatti contenuta nel disegno di legge sulla sicurezza ancora in discussione alla Camera. La stessa molla che spinge a evitare ostacoli all’orizzonte si applica probabilmente anche all’accordo con la Libia che entrerà in vigore il 15 maggio e dovrebbe limitare gli arrivi da quelle sponde. Stando ai dati di Frontex, l’agenzia europea che si occupa delle frontiere comuni, gli sbarchi in Italia, nel secondo semestre del 2008, sono aumentati del 107% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il ministero dell’Interno segnala invece risultati più confortanti per i primi mesi del 2009. Ma è sensato ipotizzare che la fuga in anticipo da leggi e accordi internazionali più restrittivi abbia fatto crescere i flussi clandestini, certo non li ha bloccati. Si può credere, però, che, una volta che le misure di contrasto dell’immigrazione clandestina siano approvate e applicate, le cose migliorino. Non la pensano così gli oltre 240 tra magistrati e avvocati torinesi che hanno rivolto un appello ai deputati perché non passino la sanzione contro gli irregolari, temono infatti un ingorgo di ricorsi in Cassazione da parte di irregolari riluttanti ad accettare ammende ed espulsioni. La giustizia italiana ha altre priorità anche in tema d’immigrazione. A questo proposito non pare che il muso duro contro la criminalità straniera abbia moderato l’ondata di reati odiosi. E la confusione tra irregolari e criminali non aiuta. Punire gl’immigrati che non rispettano le regole dell’ingresso e del soggiorno nel Paese non scoraggia i delinquenti veri. Chi stupra una ragazzina, chi spacca la testa a un commerciante, chi sequestra e massacra una coppia di anziani coniugi non si spaventa all’ipotesi di essere trattenuto qualche mese in un centro di detenzione temporanea o di pagare un’ammenda per il fatto di avere un permesso scaduto o per aver attraversato la frontiera di straforo. Con questo non sostengo che si debbano smantellare gli strumenti di controllo dei flussi irregolari. Del resto quelli che un tempo si chiamavano ipocritamente Centri di permanenza temporanea (Cpt) e oggi ottimisticamente Centri di identificazione ed espulsione (Cie) non sono un’invenzione dei governi di centro-destra. In Italia, sono stati introdotti nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano. Dovevano servire a identificare e rimandare in patria gli immigrati non in regola. Di fatto dai centri di detenzione temporanea passa solo una goccia del vasto mare di irregolari e clandestini. E sono ancora di meno quelli che, fermati nei Cie, si rimandano davvero in patria. I Cie servono ad affermare un principio: abolirli significherebbe accettare che chiunque possa entrare e stare in Italia senza rispettare le regole, vorrebbe dire eliminare le frontiere non solo italiane, ma indirettamente anche quelle europee. Il fatto è che questi centri stracolmi e mal gestiti si sono trasformati in intollerabili luoghi di pena, in focolai di rivolta, in occasioni di sproporzionate repressioni. Lo strumento che doveva produrre ordine è diventato una fucina di dolore e disordine. Perciò, in Senato l’articolo che voleva alzare i tempi di permanenza fino a 18 mesi non è passato e il tentativo di riproporlo con una riduzione a 6 mesi nel decreto anti-stalking è fallito. Per ora, perché gira l’ipotesi di ripresentarlo nella versione aumento a 4 mesi,massimo 6. Insomma questa è una macchina che va a singhiozzo. Resta il fatto che, più i tempi aumentano, più i centri si riempiono e degradano. Intanto la proposta di consentire e di fatto obbligare gli operatori sanitari, in quanto incaricati di pubblico servizio, a denunciare i pazienti senza permesso di soggiorno stava anch’essa producendo guai prima di essere approvata. Innanzitutto, promesse e dichiarazioni di disobbedienza civile che hanno coinvolto la gran parte del personale sanitario, inclusi molti elettori dei partiti di governo. Ma soprattutto la paura di essere denunciati aveva già drasticamente ridotto il numero degli irregolari che si facevano curare. In alcuni ospedali erano già state rilevate diminuzioni intorno al 15%, in altri fino al 50%. Anche se le strutture specificamente dedicate agli immigrati erano riuscite a tranquillizzare gli animi, questo non valeva per tutti gli ospedali e gli ambulatori, con la conseguenza di casi di malati ridotti in fin di vita pur di evitare il ricovero. Le associazioni dei medici hanno evidenziato anche la potenziale espansione di malattie infettive: un pericolo non vistoso e diluito nel tempo, quindi elettoralmente poco temibile. L’insieme di queste considerazioni pare che possa spingere a stralciare questa norma dal disegno di legge sulla sicurezza e a ripresentarla a parte magari debitamente riformata. Insomma si parte in quarta spensierati e poi si fa marcia indietro con un po’ più di pensiero. Si annuncia, si propone perché spesso quel che conta a livello elettorale è più l'altoparlante che la macchina: la retorica pubblica, la proclamazione di intenti, i comportamenti vistosi. Come nelle vecchie campagne elettorali, di fatto, le macchine delle decisioni pubbliche si muovono lentamente, cambiano percorso, possono persino cappottare e andare fuori strada, ma gli altoparlanti continuano ad andare a tutto volume. L’elettore spesso ci casca. Però il gioco della strombazzante macchina inconcludente non regge in eterno. Ma quella macchina è sempre e necessariamente inconcludente? Se così fosse, staremmo freschi. Faccio solo due esempi positivi riferiti al governo in carica. La legge anti-stalking contro i comportamenti persecutori ha dato subito buoni frutti: solo nel primo mese sono state 54 le persone messe sotto accusa per minacce e molestie ripetute. Anche i vari provvedimenti voluti dal ministro Brunetta stanno avendo successo. Ad esempio, l’assenteismo nel settore pubblico si è molto ridotto rispetto ai dati di partenza, con una media che si può valutare intorno al 45%, ma con punte massime come quelle dell’Ispra che hanno raggiunto il 94%. E, quanto al referendum elettorale, la Lega fa bene a temerne il successo, perché, consegnando al partito che ha semplicemente più voti la maggioranza assoluta sufficiente a governare, renderebbe il suo ruolo superfluo. Come pure superfluo risulterebbe l’eventuale ruolo dell’Udc come possibile ruota di scorta in caso di defezione leghista. Berlusconi completerebbe in tal modo e senza colpo ferire l’opera di controllo sui suoi dopo aver contribuito a scompaginare con successo la squadra avversaria. Ma l’esito di un sì vittorioso dovrebbe impensierire un po’ tutti: quel che verrebbe fuori somiglia infatti in modo preoccupante alla legge Acerbo di fascista memoria. Insomma, talvolta le macchine delle decisioni pubbliche fanno retromarcia o avanti e indietro, vanno persino fuori strada, talvolta raggiungono le mete prefissate o almeno ci si accostano molto. Altre volte le mete le raggiungono sì, ma sono luoghi piuttosto insalubri per la democrazia. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZINCONE Gli immigrati rendono più di quanto costano Inserito da: Admin - Maggio 30, 2009, 10:20:40 am 30/5/2009
Gli immigrati rendono più di quanto costano GIOVANNA ZINCONE La relazione della Banca d’Italia per il 2008 presenta un quadro dell’immigrazione in Italia già noto. Si tratta di un’immagine variegata: molti studenti, ma troppi di loro in ritardo sul percorso scolastico; molti lavoratori, persino più occupati degli italiani, ma non abbastanza istruiti. Inoltre, sappiamo che gli stranieri stanno oggi perdendo il lavoro più in fretta degli italiani. Insomma, un’immigrazione importante, ma sulla quale bisognerebbe investire, soprattutto in formazione. Spicca tra gli altri un dato particolarmente positivo: gli immigrati rendono per ora più di quanto non costino. Versano il 4% del gettito fiscale e contributivo, mentre assorbono solo il 2,5% delle spese per scuola, pensioni, sanità e altri interventi sociali. Questo ottimistico bilancio si basa su dati 2006, quindi parla di uno ieri, sia pure recente. Proprio per questo la stessa relazione usa prudenza rispetto al domani. Un numero crescente di lavoratori immigrati arriverà a riscuotere la pensione, e potrebbe costituire una piccola onda d’urto sul sistema. Si spera che un numero crescente di figli di immigrati utilizzi e «consumi» istruzione pubblica, e anche questo comporterà costi aggiuntivi. Si deve poi osservare che nel bilancio Banca d’Italia non sono computate le spese che derivano da quella che possiamo definire la parte «scura» dell’immigrazione: ad esempio, i costi dei respingimenti e delle detenzioni nei Centri di identificazione, quelli degli immigrati processati e detenuti. Ma fortunatamente la Relazione Draghi guarda soprattutto alla parte «chiara» dell’immigrazione. Meno male, una volta tanto è salutare che i riflettori siano puntati su un versante positivo e troppo spesso trascurato: quello degli immigrati che lavorano, studiano, contribuiscono al benessere nazionale. Nel 2008 gli immigrati erano l’8,9% dei lavoratori dipendenti e il 4,5% degli autonomi. Insomma Banca d’Italia ci ha confermato ieri quello che Istat ci aveva detto qualche giorno fa: gli immigrati regolari costituiscono una componente stabile della nostra società, utile, anzi necessaria al suo funzionamento quotidiano: basti ricordare che al 1 gennaio 2009 gli immigrati regolari in Italia erano quasi 4 milioni. Purtroppo l’azione pubblica italiana appare oggi prevalentemente, se non esclusivamente, interessata a governare la parte «scura» dell’immigrazione. E lo fa a volte con misure e stili che ci valgono richiami a livello internazionale. Questo comportamento non costituisce soltanto un grave errore strategico sui tempi lunghi, perché non cura gli italiani di domani, ma è un abbaglio anche sui tempi brevi. Questa maggioranza così attenta agli umori della opinione pubblica, così pronta a cogliere le paure e gli spaesamenti degli italiani di fronte all’immigrazione, non si è accorta che nel Paese ci sono anche disponibilità e aperture. Un recente sondaggio svolto in vari Paesi europei e negli Stati Uniti rileva in Italia un persistente favore a concedere il voto locale agli immigrati, una larga maggioranza (79%) propensa a rendere più facili gli ingressi per studio e per lavoro, una schiacciante maggioranza (90%) contro la discriminazione, e (86%) che appoggia l'idea di combattere l’immigrazione clandestina destinando maggiori aiuti ai paesi svantaggiati. Peccato che l'Italia dia solo un misero 0,11% del suo Pil, e si trovi così in fondo alla lista dei donatori. Insomma una politica che si occupasse non solo di punire i comportamenti illegali, ma anche di valorizzare e premiare i molti immigrati onesti e produttivi, non solo gioverebbe all’Italia di domani, ma non dispiacerebbe neppure ai suoi elettori di oggi. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZINCONE Il voto agli immigrati uno spazio per i laici Inserito da: Admin - Settembre 16, 2009, 03:44:21 pm 16/9/2009
Il voto agli immigrati uno spazio per i laici GIOVANNA ZINCONE Gli immigrati in Italia già votano alle elezioni amministrative e possono ottenere la cittadinanza dopo 4 anni di residenza. Purché siano comunitari, ad esempio quei rumeni che costituiscono, come è noto, la prima nazionalità nel nostro paese. Visto che i figli minori seguono la cittadinanza dei genitori, ne consegue che un bambino rumeno potrà sperare di diventare italiano dopo 4, mentre il figlio di filippini o canadesi dovrà aspettare 10 anni, il termine previsto attualmente per i non comunitari. Nella discussione su una possibile riforma della cittadinanza alla Commissione Affari Costituzionali della Camera pare che la maggioranza voglia tener duro sui 10 anni. C’è però anche una proposta trasversale, condivisa da una parte di maggioranza e opposizione: prevede la conoscenza dell’italiano, ma abbassa gli anni di attesa a 5. Non si tratta di un coniglio uscito dal cappello a cilindro di Fini: era il tempo previsto per tutti gli stranieri dalla legge del 1912, nell’Italia liberale. È il tempo che si ritrova più di frequente nelle legislazioni di altri paesi europei, ad esempio in Francia, Svezia e Regno Unito. Il Portogallo, che condivideva con l'Italia i 10 anni, il termine più alto in Europa, lo ha abbassato a 6. Ma i bambini nati nel paese di immigrazione normalmente hanno l’opportunità di diventare cittadini prima e più facilmente dei genitori. Il principio dello ius soli, della facilitazione a chi nasce sul territorio, è accettato ovunque, con modalità diverse. I paesi di immigrazione da popolamento, come Usa, Australia, Argentina o Canada avevano interesse, specie in passato, a rendere stabile la presenza di immigrati e quindi cercavano di trasformarli subito in cittadini, a partire dai bambini nati lì, adottando soluzioni radicali, come l’attribuzione automatica e immediata della cittadinanza ai nuovi nati. Ma poi si è capito che bisognava evitare una cittadinanza casuale, attribuita a figli di genitori recalcitranti, così come lo shopping all’estero di cittadinanze utili da parte di genitori affettuosamente opportunisti, e si sono introdotti requisiti supplementari di residenza. Negli stati europei si richiede un certo tempo di residenza dei bambini e/o dei genitori, e nessuno in Italia vuole trasformare in cittadini bambini nati qui per caso, o scodellati da genitori furbescamente interessati ad avere pargoli targati Unione Europea. Ma un tempo irragionevolmente lungo blocca i percorsi di integrazione e crea alienazione politica. Le proposte dei «finiani» non caratterizzerebbero insomma il Pdl come un partito di sinistra, ma come un normale partito di centro europeo. Il Presidente della Camera peraltro guarda alla Europa non solo per la cittadinanza, ma anche per il voto locale agli immigrati. Tutti i paesi scandinavi, Irlanda e Olanda lo hanno adottato da tempo, il Belgio e altri paesi europei, specie tra i nuovi membri, hanno seguito a ruota. È vero che la Francia per anni ha guidato il fronte anti-voto amministrativo, ma il Governo ci sta ripensando e soprattutto ci ripensano i francesi. Un sondaggio internazionale sull’immigrazione (Tti) segnala una maggioranza favorevole al voto locale tra gli intervistati francesi (74%) e, sia pure meno ampia, tra gli italiani (57%). Ancora più interessanti sono i dati dei deliberative polls, i «sondaggi istruiti» che registrano il cambiamento di opinione dopo che gli intervistati sono stati meglio informati sui temi, attraverso dibattiti condotti da esperti favorevoli o contrari ad una specifica proposta, come il passaggio al nucleare o il voto agli immigrati. Ebbene, dopo avere ascoltato varie tesi pro e contro e aver dibattuto tra loro in piccoli gruppi, gli intervistati in tutti i paesi dove è stato fatto l’esperimento, Italia inclusa, sono emersi più favorevoli a concedere diritti agli immigrati, tra cui il voto locale. Insomma, i suggerimenti del Presidente della Camera, se debitamente argomentati presso l’opinione pubblica, potrebbero giovare al Pdl rispetto a un rischio che sta correndo: lasciare scoperto uno spazio politico vitale per le sue sorti future. È uno spazio che in questo momento nessuno dei partiti italiani copre con coerenza: una posizione rispettosa della religione, ma fermamente laica, attenta alla sicurezza, ma anche al rispetto delle minoranze e dei diritti umani. Per ora il Pdl può sperare di vincere le prossime partite elettorali appiattendosi sulle posizioni xenofobe della Lega, ma se un Pd redivivo o una nuova formazione riuscissero a coprire, in un paese ben più secolarizzato di quanto comunemente si creda, lo spazio laico moderato che un tempo occupavano i repubblicani, i socialdemocratici, i liberali e i socialisti di Craxi, il partito di Berlusconi potrebbe trovarsi spiazzato nel suo stesso elettorato. Già adesso ha dimostrato di trovare ostacoli notevoli nella sua classe dirigente che da quel mondo in gran parte proviene: infatti, i «medici spia» e altri pezzi indigesti della politica dell’immigrazione sono stati affossati in parlamento o hanno avuto bisogno della stampella del voto di fiducia. Forse è questo lo scenario che qualcuno nel Pdl comincia a temere: una competizione da parte di un attore politico laico e moderato, radicato nella cultura democratica europea. Qualcun altro, magari, ci spera. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2009, 10:27:39 am 22/10/2009
Un nuovo binario per l'immigrazione GIOVANNA ZINCONE Un gruppo trasversale di parlamentari (PdL, Pd, Udc, IdV) appare decisamente intenzionato a rimettere in moto il treno dell’integrazione. La linea su cui il treno è avviato è chiara: ai doveri, ai comportamenti virtuosi che esigiamo dagli immigrati, devono corrispondere anche meritati diritti. Riparte quindi la proposta di fare uno sconto sui tempi di attesa per ottenere la cittadinanza italiana: uno sconto riservato a quegli immigrati regolari che dimostrino di conoscere sufficientemente la nostra lingua, la vita civile e i valori costituzionali del nostro Paese. Torna sul tappeto l’idea di favorire i bambini nati in Italia o che, arrivati da piccoli, vi abbiano studiato e quindi siano qui presumibilmente bene inseriti. Di nuovo, si profila la possibilità di concedere, a certe condizioni, il voto locale anche agli immigrati non comunitari. I comunitari, romeni in primis - come si sa - godono già di questo diritto. Il vice-ministro Urso vorrebbe anche mettere un mattone nella costruzione di un Islam italiano; propone, infatti, di sottrarre l’insegnamento religioso dei bambini musulmani dall’influenza di possibili cattivi maestri per consegnarlo ad insegnanti affidabili, nelle rassicuranti mura della nostra scuola pubblica. Questo è un vagone più isolato, sia per motivi tecnici che per ragioni culturali. È difficile trovare un interlocutore unitario in un ambiente complesso e conflittuale come quello dei musulmani in Italia ed è un problema trovare oggi insegnanti adeguati. C’è poi un arroccamento difensivo da parte di una sezione del mondo cattolico. E però va detto che a simili ostacoli in alcuni Laender tedeschi una soluzione si è trovata, e che la costruzione di un Islam europeo è da tempo un’ispirazione di fondo in diversi Paesi dell’Unione. Comunque, nell’insieme, tira proprio un’aria nuova nelle politiche migratorie italiane. E non solo e non tanto per i contenuti delle proposte: si tratta, infatti, di misure ampiamente sperimentate in Europa e che, seppure con diverse sfumature, sono già state presentate in passato nel Parlamento italiano. La grossa novità sta nel modo, nell’evidente unione trasversale dei proponenti. Sta nel timing, nel momento, nel clima politico in cui cadono queste proposte. La recente politica italiana si è infatti caratterizzata per un severo contrasto dell’immigrazione irregolare. È un contrasto che prevede la classica mistura di «slittamento» e «sovrapposizione» delle frontiere. Da una parte, si fa «slittare» la nostra frontiera al di fuori dei confini, in particolare attraverso il rafforzamento degli accordi con la Libia che dovrebbero bloccare la principale rotta via mare, e lo si fa anche a rischio di ledere diritti umani. Dall’altra, si «sovrappongono» alle barriere agli ingressi le barriere ai diritti: il reato di immigrazione clandestina e di permanenza irregolare, l’attestazione di regolarità per la fruizione di servizi e diritti servono a sbarrare l’accesso a prestazioni sociali e al compimento di atti civili. E anche quando - come nel caso della sanità - la nuova legge sulla sicurezza non ha annullato il divieto per medici e operatori sanitari di denunciare i pazienti non in regola con il permesso di soggiorno, la paura diffusa opera come potente dissuasore. Insomma, mentre gli ultimi provvedimenti legislativi avevano aumentato la repressione sugli irregolari, non si profilava nessun bilanciamento a favore dei regolari. Anzi, troppe volte abbiamo ascoltato leader di maggioranza dichiarare di non volere che l’Italia diventasse un Paese multietnico, detto altrimenti, un Paese di immigrazione, quale peraltro l’Italia è già ed è destinata ad essere in futuro. Né sono mancate offese gratuite alle comunità immigrate, in particolare a quella musulmana. Ora il bilanciamento finalmente si profila, e il treno guidato dal gruppo politicamente trasversale appare instradato su un binario decisamente nuovo. C’è il rischio che si riveli un binario morto? In modo più o meno brusco, qualcuno sta già manovrando sugli scambi ferroviari, ma sarebbe un peccato per il Paese. In ogni caso, dovunque vada a finire, il nuovo treno costituisce un evento positivo. Dimostra sia che c’è una parte del centro-destra italiano che vuole essere europeo, alla Merkel e alla Sarkozy, sia che c’è una parte del centro-sinistra che non si limita a contrastare, ma che è disposto a collaborare per costruire. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZINCONE Immigrati una risorsa incompresa Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2009, 10:26:56 am 29/10/2009 - DOSSIER CARITAS
Immigrati una risorsa incompresa GIOVANNA ZINCONE È rapida, consistente, supera ormai la media europea, ha cospicue immissioni di irregolari, è ben radicata nel tessuto sociale. Nel Dossier Statistico sull’immigrazione italiana, presentato ieri da Caritas, questi caratteri emergono chiaramente. Gli immigrati sono circa 4.300.000, il 7,2% della popolazione. Con Spagna (+726%) e Irlanda (+400%), l’Italia (+292%) è tra i Paesi europei che hanno visto moltiplicare più in fretta la quantità di stranieri negli ultimi 10 anni. A nutrire la rapida moltiplicazione dei nostri immigrati sono stati anche, e molto, flussi irregolari. Lo dimostrano le cifre delle numerose regolarizzazioni, inclusa l’ultima, quella che ha registrato 300.000 richieste, ed erano solo lavoratori domestici. È una cifra enorme, se si pensa che esclude neo-comunitari come i romeni perché non ne hanno più bisogno. È una cifra enorme, se si considera che la crisi economica sta producendo importanti controesodi e che anche dall’Italia i rientri sono iniziati. In Spagna e in Germania il numero dei residenti immigrati è già sceso. Ma certo gli esodi non modificheranno il fatto che in Europa e in Italia l’immigrazione ha un carattere strutturale. I nostri immigrati - stando ai dati Caritas - sono lavoratori (2 milioni), studenti (629.000). Sono fonti di benessere perché producono il 10% della ricchezza nazionale e versano 7 miliardi di contributi previdenziali. Caritas, mentre evidenzia questi e altri aspetti confortanti, cerca di attenuare quelli preoccupanti: sbarchi di clandestini, immigrazione come fonte di aumento della criminalità e sfida all’ordine pubblico. Il Dossier, a ragione, rileva che gli sbarchi rappresentano una quota minima (1%) degli ingressi e soprattutto osserva che quelle navi trasportano disperati, molti dei quali hanno diritto all’asilo. Caritas ritorna a segnalare che la percentuale di devianti tra gli immigrati regolari corrisponde a quella tra gli italiani. Rileva pure che i tassi di attività e di occupazione degli stranieri sono più alti di quelli dei nazionali. Consiglia di non temere la comunità musulmana perché la vede in gran parte pacifica. Questa determinazione all’ottimismo deriva dal suo impegno etico a difesa dei deboli. È degno perciò del massimo rispetto, anche se la realtà ne esce un po’ trasfigurata. Resta il fatto che il tasso di criminalità immigrata nel complesso è troppo alto. L’aumento della disoccupazione tra gli stranieri, che si accompagna a un aumento seppur minore tra gli italiani, genera tensioni. La quieta comunità musulmana ospita in grembo piccoli nuclei sovversivi che potrebbero produrre guai, come l’attentato milanese insegna. L’immigrazione non è un valzer per signorine. È un percorso doloroso e difficile per chi emigra. È un fatto duro da metabolizzare per gli abitanti dei Paesi di immigrazione. A chi ha oggi difficoltà a metabolizzare suggerisco una visita, anche solo virtuale, al neonato Museo Nazionale dell’Emigrazione: sfata molti luoghi comuni e aiuta a mettersi nei panni degli altri. Gli italiani sono emigrati in massa anche dalla Padania, non solo dallo sciagurato Mezzogiorno. Nel 1890 il Prefetto di Vicenza informa che «all’emigrazione si abbandonano moltissimi contadini, i quali vi devono essere spinti non tanto dalla speranza di trovare in America di che arricchire rapidamente, quanto dall’impossibilità di campare più oltre la vita nella loro Patria». Anche i nostri immigrati varcavano le frontiere di frodo o con poco credibili permessi turistici. L’emigrazione italiana ha portato con sé non solo potenti mafie, ma anche gruppuscoli sovversivi e autori di attentati eccellenti. Le nostre comunità erano quindi considerate pericolose per l’ordine pubblico. Come se non bastasse, agli italiani si rimproverava pure di rubare il posto ai lavoratori locali. E, mentre il grosso dei nostri emigrati di fatto contribuiva ad arricchire i Paesi ricettori, indebite generalizzazioni anti-italiane da parte di politici e opinionisti di spicco finivano per legittimare cacce all’uomo e stragi. Come nel caso del linciaggio di 11 lavoratori italiani ad Aigues-Mortes, seguito dal prevedibile processo farsa. L’immigrazione purtroppo non è un valzer per signorine, perciò è bene che ci si impegni tutti, classi dirigenti italiane e straniere in testa, per evitare che degeneri in una danza macabra. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZINCONE Integrare con regole flessibili Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2009, 04:01:40 pm 4/12/2009
Integrare con regole flessibili GIOVANNA ZINCONE Il rapporto privilegiato Bossi Berlusconi è una premessa e una conseguenza delle tensioni con Fini. Se, come è probabile, lo scontro recente accentuerà il patto tra i due leader, a farne le spese potrebbero essere gli immigrati. Perché i loro diritti fanno parte di un facile baratto politico. Non se ne torneranno a casa loro, come Bossi ha auspicato di recente. Questo significherebbe il collasso della nostra società e della nostra economia. E troppi produttori e famiglie che votano Lega lo sanno. Il punto è se sarà ancora politicamente possibile adottare provvedimenti che facilitino la loro integrazione. Dopo l’ondata di misure repressive, si tratterebbe di varare qualche misura di inclusione per immigrati operosi e rispettosi della legge, per i loro figli. Il recente sondaggio del Transatlantic Trends sull’immigrazione conferma che gli italiani giudicano gli immigrati troppi e in prevalenza irregolari. Non conoscono i dati reali ed hanno paura. Ma nonostante i timori e le campagne contro sono ancora favorevoli a concedere diritti agli immigrati regolari. Su questa linea di integrazione dei regolari, nel Pdl sono posizionati non solo i finiani, ma anche una parte di ex socialisti e di cattolici. C’è per loro ovviamente ben di più di una sponda nell’opposizione. Ma il carattere trasversale di alcune proposte pro immigrati è stato considerato, all’interno della maggioranza, come un regalo al nemico. Il fatto è che riformare la cittadinanza o estendere il diritto al voto locale significa riformare le regole del gioco democratico. Si stabilisce, infatti, chi ha diritto a partecipare al gioco: esattamente come quando si decise per il voto alle donne o ai diciottenni. Di fatto, tutte le riforme della cittadinanza dal 1992 ad oggi sono state approvate all’unanimità e nessuno ha mai gridato al tradimento. La sola eccezione ha riguardato l’innalzamento degli anni di matrimonio con un cittadino italiano necessari per naturalizzarsi, norma inserita nel pacchetto sicurezza. Peraltro questa misura era già inclusa nel progetto di riforma della cittadinanza dell’ultimo governo di centro-sinistra, anche se ovviamente non da sola. Insomma, un ampio consenso, come è sempre successo in passato, si può trovare, purché i diritti degli immigrati non siano oggetto di baratto tra Lega e presidente del Consiglio. Se si evita, come è auspicabile, questa trappola, si possono trovare soluzioni sensate. Ma lo si può fare solo partendo da un’onesta conoscenza dei fatti. In Italia non è solo l’opinione pubblica ad avere opinioni infondate. Il voto locale agli immigrati può non piacere, ma non lo si può considerare - come ha fatto di recente il senatore Bossi - un’assurdità. Perché, nelle elezioni amministrative, in Italia gli immigrati comunitari (quindi ad esempio i romeni) già votano e i non comunitari votano in un sacco di civilissimi Stati europei: ad esempio in tutti i Paesi scandinavi e in Olanda. Si aggiunga che secondo il sondaggio di Transatlantic Trends il 53% degli italiani si dichiara tuttora favorevole al voto locale. Neppure si può considerare un’ignominia la proposta di abbassare i tempi di attesa per fare domanda di naturalizzazione a cinque anni di residenza regolare, perché è il termine più frequentemente adottato in Europa. Si tratta di cose sapute e risapute, da chi le vuole sapere, ovviamente. D’altra parte, in molti Paesi europei si osserva una crescente selezione dei potenziali cittadini e pure dei possibili residenti attraverso l’adozione di indicatori di integrazione. Il timore di includere individui pericolosi per l’ordine pubblico, suscitato dagli attentati in Inghilterra, in Olanda, in Spagna, la volontà di accogliere stranieri più facili da inserire socialmente hanno spinto molti Paesi a introdurre corsi più o meno obbligatori e test di integrazione e di lingua, giuramenti di accettazione di valori condivisi anche prima di arrivare alla tappa conclusiva della cittadinanza: per la concessione della carta di soggiorno, per il rinnovo e persino per il rilascio del permesso e pure per i ricongiungimenti familiari. Il test di lingua è previsto per la domanda di permesso di soggiorno di lungo periodo anche da noi: è stato inserito dalla legge sicurezza approvata nel luglio scorso. Questo tipo di provvedimenti ispirati da giustificate motivazioni politiche dovrebbe essere guidato da principi di ragionevolezza. Si tratta insomma di individuare criteri flessibili ed adattabili a circostanze diverse: la nonna cinese non imparerà mai un italiano da conferenziere, ma vogliamo obbligarla a rinnovare faticosamente per lei e per i nostri uffici il permesso dopo che sta già qui da svariati anni? E’ possibile trovare punti di incontro, purché i conti delle attuali tensioni interne alla maggioranza non vengano presentati agli immigrati. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2010, 09:48:32 pm 12/1/2010
Diventeranno tutti italiani GIOVANNA ZINCONE Le decisioni pubbliche italiane presentano falle ricorrenti, che prescindono dal colore politico dei proponenti. La prima consiste in annunci di fondamentali novità che, una volta illustrate, finiscono per rivelarsi come suggerimenti a fare quel che in gran parte già si faceva. È andata così con il tetto del 30% per i bambini stranieri. La nota ministeriale è partita prudentemente elastica, consentendo possibili eccezioni per chi sapesse l’italiano, quindi presumibilmente per i nati in Italia o, comunque, in caso di bisogno. Poi per gli studenti nati nel nostro Paese il tetto è stato del tutto scoperchiato. La necessità di non sovraccaricare le classi con allievi che hanno difficoltà di apprendimento è cosa che i direttori scolastici sanno benissimo, e applicano già questa regola di buon senso, per l’appunto quando possono: magari, per renderla davvero efficace, vorrebbero le risorse umane ed economiche che ora finalmente il ministro promette. La falla della misura-novità di solito si allarga: all’annuncio di grandi svolte, da una parte, si contrappongono denunce di lesione di fondamentali diritti umani, dall’altra, spostare un po’ di bambini in bus può essere invece una buona mossa contro la segregazione. In fondo il sistema del bus non fu usato negli Usa per fare uscire i bambini neri dalle scuole ghetto, con grandi opposizioni dei bianchi razzisti? La seconda falla consiste nel non valutare i possibili effetti di provvedimenti diversi combinati tra loro. Con la Bossi-Fini il tempo di tolleranza della disoccupazione per mantenere il permesso di soggiorno era stato accorciato da un anno a 6 mesi, poi la recente Legge Maroni sulla sicurezza ha introdotto il reato di immigrazione clandestina che, si noti, non vale solo per gli ingressi clandestini, ma anche per chi si ferma con un permesso scaduto. Dopo 6 mesi di disoccupazione, dunque, il permesso di soggiorno non è più rinnovabile e il lavoratore può essere incriminato, obbligato a pagare una salata multa, espulso. Siamo in un periodo di crisi e i lavoratori stranieri stanno pagando un prezzo particolarmente alto: tra il III trimestre del 2008 e quello del 2009 la disoccupazione tra gli italiani è aumentata dell’1,2%, tra gli stranieri del 3,8.%. Per evitare di perdere, insieme al lavoro, anche il permesso, i lavoratori immigrati non-comunitari accettano qualunque condizione. Non tutti i braccianti di Rosarno erano clandestini, ma anche i regolari stavano perdendo quella miserevole ombra di occupazione, e con essa la condizione di regolarità. Le aggressioni di cui sono stati vittime hanno solo acceso la miccia di una polveriera sociale che ha scatenato la rivolta. Se le rivoluzioni - come proclamava il compagno Mao - non sono pranzi di gala, neppure le rivolte sono picnic sull’erba. Non c’era bisogno di Rosarno per ricordarcelo. Sono eventi spaventosi, violenti che dobbiamo in tutti i modi cercare di prevenire. Ma certo non aiuta a farlo un’altra falla ricorrente nelle decisioni pubbliche nostrane: il ricorso a succedanei-patacca. Oggi c’è chi propone di affossare o svuotare la riforma della cittadinanza come risposta alla rivolta di Rosarno. Boicottare la riforma è certamente utile per speculare sui sentimenti anti-immigrati e agguantare voti, ma non si capisce in che modo possa risolvere problemi di ordine pubblico. Chi vuole ottenere la cittadinanza italiana deve giurare fedeltà alla Repubblica, impegnarsi a rispettare la nostra Costituzione e le nostre leggi. Se è stato regolare per dieci anni come prevede la legge attuale, o cinque come vorrebbe la riforma Granata-Sarubbi, significa che per tutto quel tempo ha regolarmente lavorato, guadagnato, pagato le tasse e non ha commesso reati. Il progetto Granata-Sarubbi, in cambio dello sconto sul tempo di soggiorno, chiede poi agli aspiranti cittadini di sapere l’italiano: che è un altro indicatore di avvenuta integrazione. Qualcuno pensa che 5 anni siano pochi e che la conoscenza della lingua non basta, altri preferiscono comunque un processo graduale. Discutiamone, ma smettiamo - per favore - di contrapporre la cittadinanza come premio di un percorso di integrazione in contrapposizione alla cittadinanza come strumento di integrazione. È ovvio che debba essere tutte e due le cose. Facilitare la cittadinanza, o dare il voto locale anche ai non-comunitari, non esclude rischi di rivolta, ma contribuisce almeno a diminuirli. Un grande liberale e studioso di fenomeni sociali, Ralf Dahrendorf, sosteneva che i conflitti sociali si tengono sotto controllo se lo scontento trova a sua disposizione canali di espressione legittimi. Lavoratori che non possono far sentire le proprie ragioni attraverso strumenti di rappresentanza politica o sindacale ricorrono allo sciopero; se neanche lo sciopero funziona, se sono repressi, sfruttati, possono passare a comportamenti pericolosi, violenti. La rappresentanza ovviamente non basta a prevenire la violenza: in assenza di condizioni di vita accettabili e di rispetto umano, chi non riesce a ottenere qualcosa con le buone, può sempre cercare di farlo con le cattive. Ma essere inclusi come cittadini abbassa il pericolo di essere sfruttati come lavoratori, consente di esprimersi politicamente con gli strumenti della democrazia. Oggi un’apertura ai diritti per gli immigrati costituirebbe soprattutto un segnale di rispetto da parte della classe politica nei confronti di tutti coloro che, comunque, prima o poi, cittadini italiani lo diventeranno. Ma la principale falla delle nostre decisioni pubbliche è, in generale, una certa miopia. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2010, 10:07:02 am 8/2/2010
I super-doveri degli immigrati GIOVANNA ZINCONE La cittadinanza dell’Ue e quelle dei singoli Paesi membri seguono due logiche antitetiche. Il permesso di soggiorno a punti rischia di imitare quella sbagliata. Vediamo perché. L’Ue, in quanto figlia non troppo degenere della Comunità economica, adotta una cittadinanza che segue la logica della libera circolazione: incentiva le persone a muoversi dove ci sono più opportunità. La cittadinanza nazionale segue la tradizionale logica dello stato-nazione: pretende comunanza di cultura e di lingua, incentiva le persone a radicarsi sul territorio. Per diventare cittadino europeo basta avere la nazionalità di uno dei Paesi membri, poi si va e si lavora dove si vuole. Non si chiede ai cittadini comunitari di conoscere la lingua, la cultura, le istituzioni dei paesi dell’Unione in cui emigrano. Al contrario, le singole cittadinanze nazionali chiedono assimilazione, vogliono e inducono stabilità. Per naturalizzarsi occorre essere lungo-residenti, oppure essere nati sul territorio, o avervi studiato per un po’ di anni. L’europeo è invitato ad andare negli altri Paesi dell’Unione senza vincoli, mentre il non comunitario che vuole diventare cittadino del singolo Paese deve restare fermo e assimilarsi. La differenza è comprensibile. Per concedere un diritto che segna l’appartenenza ad una comunità civile lo Stato chiede garanzie. Non vuole dare un titolo importante a chi stia lì quasi per caso, deve capire se chi vuole entrare nel club fa sul serio, anche se alcuni segnali di questo «fare sul serio» variano. Oggi nell’Unione il requisito della residenza va dal minimo di 3 anni in Belgio al massimo di 12 in Grecia (ma quel governo intende ridurlo a 5 anni). Per gli altri segnali di integrazione stiamo assistendo, invece, ad un trend convergente. In quasi tutti i Paesi europei una certa conoscenza della lingua è sempre stata valutata quando si trattava di concedere la naturalizzazione, ma per lo più non si chiedevano prove formali. Da quando, nel 1999, la Germania ha inserito per legge la conoscenza del tedesco, molti Paesi hanno seguito il suo esempio. Poi sono arrivati i test di integrazione, introdotti in Gran Bretagna nel 2002. Anche i test hanno attecchito alla grande, e servono non solo a valutare la competenza linguistica, ma anche la conoscenza della cultura, della storia, della vita civile del Paese di immigrazione. Per fornire le conoscenze ritenute necessarie si sono allestiti corsi di integrazione: ad aprire la pista in questo caso è stata l’Olanda, e di lì i corsi si sono diffusi a macchia d’olio. L’asticella da superare per diventare cittadino si è talvolta abbassata sui tempi, ma si è alzata per le prove di integrazione. Alcuni esperti considerano queste richieste eccessive e inutili: se un individuo se la cava a vivere e a lavorare senza conoscere bene una lingua, se la può cavare altrettanto bene a votare, una volta che sia stato promosso a cittadino. D’altronde i regimi democratici, con il suffragio universale, hanno concesso la cittadinanza politica anche agli analfabeti. Quanto al caso italiano, fin troppi commentatori hanno già osservato che si pretende dai nuovi cittadini una cultura pubblica che non dimostrano di avere neppure molti parlamentari. Ma questi argomenti funzionano solo se vogliamo continuare ad accontentarci di una democrazia scadente. Altrimenti, proprio dai requisiti che imponiamo agli immigrati perché vogliamo nuovi cittadini competenti, dovremmo prendere spunto per chiedere altrettanto ai nostri concittadini per diritto ereditario. Anziché abbassare l’asticella per gli stranieri, dovremmo saltare tutti un po’ più in alto. Questo implica prendere molto più sul serio l’educazione civica, proporre palinsesti radiotelevisivi appetibili ed eticamente intensi. L’esigente approccio nei confronti dei nuovi cittadini potrebbe offrire uno spunto per chiedere maggiore competenza ai candidati alle elezioni di ogni ordine e grado. Si tratterebbe sia di ristabilire un cursus honorum, una carriera basata sull’apprendimento graduale, sia di restituire ai partiti quella funzione di educatori civili che svolgevano utilmente in passato. Ma se la severità nelle richieste che facciamo ai nuovi cittadini può essere utile per costruire una democrazia più adulta, non si capisce invece a cosa servano pretese di assimilazione rivolte a chi è qui solo per lavorare. È sensato imporre una buona conoscenza della cultura storica e civica, dei meccanismi del welfare del nostro Paese anche a chi non intende radicarsi e non vuole diventare cittadino? Lo si è già fatto con il pacchetto sicurezza per la concessione della carta di soggiorno, che si può ottenere dopo 5 anni di residenza regolare, adesso pare che lingua e cultura diventino una condizione per restare a lavorare in Italia dopo un tempo di residenza anche più breve. Ma se uno straniero investe tanto per imparare lingua e cultura del luogo, sarà poi riluttante a spostarsi altrove, a tornare in patria. Il suo progetto iniziale, magari a breve termine, si trasformerà in un progetto stanziale a lungo termine. Se si può accettare la sfasatura tra una cittadinanza europea mobile, concepita in una logica economica, e una cittadinanza nazionale stanziale, concepita in una logica da stato-nazione, non si capisce perché calare la cappa della logica statuale anche ai permessi di soggiorno per motivi di lavoro. Perché imporre ai lavoratori stranieri l’obbligo di assimilarsi? Non ci basta che rispettino le nostre leggi e i valori portanti delle nostre democrazie? Meraviglia che forze politiche convinte dei benefici di un’immigrazione circolare, fluida, si adoperino per spingere gli immigrati a diventare stanziali. da lastampa.it Titolo: GIOVANNA ZINCONE. Immigrazione, corsa a ostacoli per Obama Inserito da: Admin - Luglio 03, 2010, 04:17:32 pm 3/7/2010
Immigrazione, corsa a ostacoli per Obama GIOVANNA ZINCONE Nel mito americano e in quello italiano le immagini delle migrazioni sono speculari. Il Presidente Obama ha voluto ricordare con forza nel suo discorso all’American University che gli Stati Uniti sono diventati una grande nazione grazie all’immigrazione. L’Italia, invece, sente ancora l’impronta del suo passato di Paese di emigrazione. Nel nostro dibattito pubblico, alla visione idealizzata dell’emigrato italiano, si contrappone quella dell'immigrato in Italia, presentato fin troppo spesso come un fastidioso e talvolta pericoloso estraneo. Questa persistente diversità tra i due Paesi nella rispettiva raffigurazione del fenomeno migratorio si riflette, in particolare, nelle leggi che regolano la trasformazione da straniero in cittadino. Negli Stati Uniti, i figli di immigrati diventano cittadini alla nascita e agli adulti bastano cinque anni di residenza per naturalizzarsi. I nati nel nostro Paese devono aspettare di arrivare a 18 anni, e dimostrare di essere sempre vissuti qui, per diventare italiani. D’altra parte, per i discendenti di americani all’estero non è facile ereditare la cittadinanza: già i figli dei primi emigrati nati all’estero devono avere entrambi i genitori americani, o uno solo dei due ma con un provato periodo di residenza nella madre patria. Da noi, invece, basta un solo nonno italiano per poter diventare cittadini. Ma, al di là dei miti speculari radicati nel passato dei due Stati e delle loro persistenti diversità giuridiche, Italia e Stati Uniti si trovano oggi ad affrontare problemi simili. L’immigrazione irregolare è certamente uno dei grossi nodi, duri da sciogliere per entrambi. È una di quelle questioni in cui la politica si trova in trappola, perché non esiste una soluzione priva di costi. Come ha ricordato Obama, non regolarizzare implica una perdita per il fisco: gli irregolari che lavorano in nero non possono pagare né tasse, né contributi. Favorisce lo sfruttamento di quei lavoratori e quindi una potenziale concorrenza al ribasso con i lavoratori nazionali. Pone limiti all’ordine pubblico perché se vittime di reati gli irregolari non possono denunciare. Ma non è immaginabile - ed anche questo Obama ha ricordato - espellere numeri così elevati di persone sia per questioni logistiche, sia perché sono di fatto tasselli troppo importanti dell’economia nazionale. Aggiungo che lasciare le cose come stanno significa pure aggravare dannose tensioni con gli Stati di provenienza. I governi di quei Paesi potrebbero essere disposti a rafforzare i controlli sull’emigrazione clandestina, ma vogliono avere in cambio la regolarizzazione dei loro cittadini già emigrati. Non solo Obama, ma anche le precedenti amministrazioni hanno avuto forti pressioni in tal senso dal Messico. Inoltre, irregolari, regolari, immigrati naturalizzati appartengono spesso alle stesse famiglie, alle stesse comunità, e ciò significa che le pressioni in favore delle regolarizzazioni provengono anche da attuali o potenziali elettori. In Italia, quella degli immigrati diventati cittadini non è ancora una lobby forte, come lo è ad esempio la comunità ispanica negli Stati Uniti, ma in entrambi i Paesi contano le influenti pressioni dei datori di lavoro e delle benevole organizzazioni religiose. Questo insieme di fattori sposta la bilancia tutta in favore delle regolarizzazioni? Direi proprio di no. Sull’altro piatto pesa e molto il giudizio prevalentemente negativo dell’opinione pubblica, della maggioranza dell’elettorato. Nell’ultimo sondaggio Transatlantic Trends, effettuato in vari Paesi europei e negli Stati Uniti, il 48% degli intervistati americani si dichiara contrario (44% favorevoli, 6% dipende), contrario è pure il 51% degli italiani (36% favorevoli, 13% dipende). Si capisce quindi perché gli Stati Uniti abbiano aspettato tanti anni, dal 1986, a lanciare un’altra regolarizzazione di massa. E perché i recenti tentativi bipartisan di Bush nel 2006 e nel 2007 siano falliti. Quanto a noi, a partire dallo stesso 1986, ne abbiamo fatte ben sei di regolarizzazioni, sempre però promettendo che sarebbe stata l’ultima, e poi vantando di volta in volta l’adozione di criteri più severi rispetto a quelle varate da governi di colore diverso. Da un certo momento in poi, i decisori italiani, di qualunque maggioranza, hanno messo molta cura nel contrapporre «sanatoria» a «regolarizzazione». La prima, tipica del passato, viene presentata come un colabrodo privo di requisiti, la seconda, quella varata dal governo in carica, è invece una seria e severa selezione dei meritevoli. La prima rappresenterebbe un semplice regalo all’illegalità, la seconda è invece accompagnata da dure ed efficaci misure di contrasto dell’immigrazione clandestina. La differenza tra i due tipi di misure è in parte reale, in parte retorica, ma in politica la retorica è un elemento costituivo della realtà. Obama lo sa, e la sua proposta di regolarizzazione è un po’ in salsa italiana. Dichiara di non voler fare la «blanket amnesty», una sanatoria indiscriminata sgradita agli americani; non approva ma capisce le paure che hanno spinto recentemente l’Arizona a negare diritti fondamentali agli immigrati clandestini; accompagna la proposta di regolarizzazione con l’obbligo per i regolarizzandi di seguire un percorso di rientro nella legalità. Obama vanta un già avvenuto maggiore contrasto dell’immigrazione clandestina attraverso il controllo delle frontiere. Promette controlli ulteriori e punizioni per chi impiega irregolari, ma soprattutto promette di alleggerire i gravami burocratici per chi vuole entrare regolarmente. È presto per dire se Obama riuscirà a convincere di nuovo un po’ di repubblicani. Non sappiamo quanto conteranno le spinte e le lobby a favore e contro, né quanto peserà l’apertura della campagna per le elezioni di medio termine. Non è chiaro, quindi, se questa volta, dopo tanti anni, la regolarizzazione di massa riuscirà a sfondare anche al di là dell’Atlantico. Ma sia noi che loro potremmo provare ad assaggiare una ricetta spagnola. Lì non si espellono quegli irregolari che mostrano un radicamento nel Paese: ad esempio quelli che lavorano, che mandano i figli a scuola. Eviteremmo così di non volere le regolarizzazioni, ma di volere, allo stesso tempo, regolarizzare il papà di quello studente tanto buono e bravo, quel decoratore così puntuale e capace. Qualunque misura, se a piccole dosi, si nota meno. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7553&ID_sezione=&sezione= Titolo: GIOVANNA ZINCONE Una difficile strada obbligata Inserito da: Admin - Aprile 08, 2011, 10:31:35 pm 4/4/2011
Una difficile strada obbligata GIOVANNA ZINCONE Sono in troppi ad avere un disperato bisogno di consenso. Tutti i principali soggetti coinvolti nell’emergenza immigrazione in Italia non possono farne a meno. E questo complica di molto le cose. Partiamo da Sarkozy, che si trova con le elezioni presidenziali alle porte e il fiato di Marine Le Pen sul collo. Perché non dovrebbe applicare il Trattato di Chambéry che prevede la restituzione al mittente degli irregolari che valichino i confini tra i due Paesi? L’accordo era del 1997. Peraltro l’agognato ingresso dell’Italia nell’area Schengen, a partire dal 1998, ci impone di riprenderci i «nostri» irregolari da qualunque Paese dell’area in cui fossero arrivati. Per inciso, siamo anche tenuti a riprenderci eventuali richiedenti asilo che siano arrivati da noi e volessero essere accolti in un altro Paese europeo. Il Trattato di Dublino prevede, infatti, che a occuparsene sia il primo «Paese sicuro» dove sono approdati, e certo l’Italia è (fortunatamente) considerato tale. Si sostiene che la direttiva Ue del 2001 sui rifugiati imporrebbe una ridistribuzione del carico tra i Paesi dell’Unione in caso di flussi straordinari. Ma si riferisce, appunto, ai rifugiati e non ai clandestini, e la valutazione della straordinarietà degli arrivi è comunque affidata alla discrezione degli altri Paesi. La distribuzione dei carichi all’interno dell’Unione europea ha una discutibile base giuridica, e soprattutto si profila molto difficile in pratica. Non siamo infatti nei tempi migliori per giocare la carta della solidarietà europea. La Germania e altri partner pesanti sono da tempo molto critici sulla gestione degli irregolari da parte dei Paesi del Sud Europa: troppe regolarizzazioni di massa e magari poca capacità di controllo. Difficilmente Merkel può intenerirsi proprio ora, dopo la batosta elettorale nella sua ex roccaforte del Baden-Württemberg; anche lei ha oggi un disperato bisogno di consenso. Non stupisce invece la solidarietà all’Italia espressa dal presidente Barroso: viene non a caso da un esponente del Sud Europa, area che condivide i nostri problemi migratori, ma per la quale la necessità di supporti finanziari da parte dell’Unione di fronte alla crisi del debito pubblico rende difficile giocare un ruolo determinante su altri temi. La commissaria Malmström ha espresso la posizione dominante nell’Ue: l’Italia ha ricevuto molte risorse per il controllo delle frontiere, per l’integrazione degli immigrati, per i rimpatri assistiti; si può al massimo ragionare sulla possibilità di una diversa utilizzazione di quei fondi che privilegi i rimpatri. È possibile persino che l’Italia spunti un aumento delle risorse, molto meno probabile appare una redistribuzione su scala europea dei clandestini. Anche il governo italiano ha un dannato bisogno di consenso, perché si avvicina un test elettorale che vede coinvolte città molto significative. E al consenso elettorale conquistato in passato dal centrodestra non è stata indifferente la promessa di controllare l’immigrazione, anzi, soprattutto il successo della Lega deve molto a quella promessa. Si capisce quindi che le incrinature che già si profilavano nel patto di ferro Bossi-Berlusconi si stiano evidenziando e rischino di trasformarsi in crepe, e il premier non può certo rischiare che queste aprano il varco a una frattura. La proposta, da poco ventilata, di applicare l’articolo 20 del Testo Unico sull’immigrazione concedendo ai tunisini sbarcati in Italia un permesso di soggiorno di protezione temporanea per motivi umanitari ha suscitato forti obiezioni leghiste. Non sono infondate. È dubbio che una misura, nata per affrontare esodi di massa dovuti a condizioni drammatiche del Paese di partenza, si possa applicare oggi alla Tunisia impegnata in una transizione democratica attualmente pacifica. Quella misura fu infatti adottata in Italia nel 1999 a fronte del dramma del Kosovo e, non a caso, in quell’occasione anche altri Paesi, europei e non, accettarono di accogliere quote di rifugiati. Ma il punto non è il fondamento giuridico della misura, visto che di norme in Italia se ne stiracchiano parecchie. Il fatto è che questa decisione equivarrebbe a gettare la spugna: visto che l’esecutivo non è in grado di trattenere nei centri i clandestini, visto che non riesce a imporne l’accoglienza neanche ad alcune delle regioni e delle città che governa, visto che, insomma, non è in grado di gestire la situazione, lascia liberi tutti. Dunque, trattare con Tunisi appare oggi come l’unica residua strategia credibile, ma non vuol dire che sia facile da praticare. Infatti, anche il fragile governo tunisino ha un disperato bisogno di consenso: deve ancora affrontare il test delle prime elezioni libere. Disfarsi di giovani maschi disoccupati e potenzialmente riottosi gli fa molto comodo, e se tra quegli emigrati ci fossero pure alcuni criminali, la capacità di scaricare all’estero anche quel fardello rappresenterebbe solo un vantaggio in più. Se Tunisi non dirà di no, di certo alzerà molto il prezzo per concedere l’applicazione, anzi il rafforzamento del vecchio accordo di riammissione, che la obblighi a riprendersi gli emigrati clandestini. I contatti con Sarkozy, il suo appoggio, l’appoggio dell’intera Unione su questa strategia potrebbero servire molto. E su questa linea anche Barroso potrebbe credibilmente influire. Ma nell’insieme, ora, quella di Berlusconi che parte per Tunisi, stressato dalle sue vicende giudiziarie e da iter legislativi ad esse collegate, appare tutt’altro che un’impresa facile. Come cittadini italiani, però, siamo tenuti ad augurargli «in bocca al lupo». Contenere almeno parzialmente gli esodi non solo solleverebbe il nostro Paese da un serio problema, ma ridurrebbe le sofferenze, i rischi, le morti di coloro che attraversano il Mediterraneo sognando un’Europa che non è pronta a riceverli. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Egoismi, furbizie e piagnistei Inserito da: Admin - Aprile 10, 2011, 04:53:45 pm 10/4/2011
Egoismi, furbizie e piagnistei GIOVANNA ZINCONE La destabilizzazione del Nord Africa sta creando contraccolpi sull’Unione europea, che già non godeva di ottima salute. Il flusso d’immigrati da quell’area ha esacerbato le tensioni, peraltro già ben presenti, tra un’Europa settentrionale, che si sente più efficiente e giudiziosa, e un Sud Europa in affanno per tante ragioni. È prioritario raffreddare una situazione incandescente, che rischia di far esplodere le tensioni tra i partner dell’Unione, prima ancora di cercare di capire dove stia la ragione. Anche perché assegnare torti e ragioni in questa storia non è facile. Da un punto di vista formale, l’Italia è libera di concedere tutti i permessi di soggiorno che vuole, e proprio nel corso della recente emergenza migratoria questo diritto è stato confermato dalla commissaria Ue Malmström. Se ne deduce, quindi, che il nostro Paese possa concedere liberamente anche permessi temporanei di protezione umanitaria. È quanto ha fatto il governo applicando l’articolo 20 del Testo Unico sull’immigrazione: ha assegnato un permesso a chi è sbarcato dal Nord Africa in Italia dall’1 gennaio al 5 aprile. Si tratta di una mossa inizialmente proposta e sempre condivisa anche dall’opposizione. Il permesso dovrebbe autorizzare gli immigrati sbarcati in Italia a circolare, per un periodo di tre mesi, nell’area Schengen: che poi non si fermino irregolarmente nel Paese prescelto, anche con permessi scaduti, non lo garantisce nessuno. E proprio questo è l’aspetto che preoccupa i partner europei, Francia in primis. È una preoccupazione politica ovvia; ma si può imputare all’Italia una palese violazione delle regole? Ora, il Trattato di Schengen ha subito così tanti interventi e regolamenti attuativi da essere diventato un testo di difficile interpretazione e ambigua applicazione, ma la tesi italiana giuridicamente sembra reggere, perché anche il Regolamento 562 del 2006 esclude dai permessi che abilitano i cittadini dei Paesi terzi a circolare solo quelli rilasciati in attesa di risposta alla domanda di asilo o di un altro titolo di soggiorno. Gli Stati aderenti alla convenzione di Schengen sono poi tenuti a fornire un elenco dei permessi che essi stessi non considerano validi a quello scopo, e l’Italia ha aggiunto alla lista degli esclusi dalla libera circolazione soltanto il permesso per cure mediche e quello per ragioni di giustizia. Lo stesso regolamento richiede come principale requisito ulteriore il «disporre di mezzi di sussistenza», ed è sul verificarsi di questo requisito che le autorità francesi minacciano di esercitare un esame puntiglioso. Fin qui, insomma, appaiono sostenibili le ragioni giuridiche italiane. Per capire la contestazione dei francesi, e ancor più dei tedeschi, bisogna però entrare nel merito di questa «concessione di permesso per ragioni umanitarie». In Italia, il decreto di venerdì si basa sull’articolo 20 della legge Turco-Napolitano, secondo il quale la protezione si rivolge a sfollati da Paesi non Ue a causa di «conflitti, disastri naturali e situazioni di particolare gravità». Si può affermare che tutti coloro che sono venuti dal Nord Africa, tra l’1 gennaio e il 5 aprile, si sono sottratti alle gravi situazioni? E che questo valga - in particolare - per i recenti afflussi dalla Tunisia? La risposta è incerta, ma nessuno può vietare all’Italia di interpretare le proprie leggi come crede. D’altra parte cosa intenda l’Ue per la protezione temporanea per motivi umanitari emerge dalla lettura della direttiva n. 55 del 2001, che l’Italia ha recepito nel 2003. Secondo la direttiva la misura è applicabile a fronte di un «massiccio afflusso di sfollati provenienti da Paesi non appartenenti all’Ue che non possono rientrare nel loro Paese d’origine» perché il loro «rimpatrio in condizioni sicure e stabili risulta momentaneamente impossibile in dipendenza della situazione nel Paese stesso». A fronte di eventi del genere, i Paesi membri devono sentirsi impegnati a condividere il carico degli sfollati. Pure quando non lo dicono apertamente, i nostri partner più robusti ci accusano di aver trasformato in «sfollati» quelli che sono di fatto clandestini. Quegli stessi che autorevoli esponenti politici italiani erano adusi descrivere come un branco di lupi, sono stati convertiti - secondo i nostri critici - in un pacifico gregge di agnelli. I clandestini sono stati troppo spesso equiparati nella retorica politica nostrana ad altrettanti potenziali o reali delinquenti, ed era una fesseria; ma oggi potrebbe non essere facile identificare tra gli sbarcati quanti sono fuggiti dalle carceri tunisine. Inoltre, gli immigrati dalla Tunisia sono, come sostengono alcuni politici italiani e come penso sia vero, in gran parte bravi ragazzi accomunati dal sano desiderio di fare fortuna in Francia. Ma se è così, perché dovrebbero essere titolari di un permesso per ragioni umanitarie, visto che si muovono non per scampare a disastri, ma per trovare lavoro? E se invece riteniamo che i disastri nella loro patria ci siano davvero, perché la protezione dovrebbe riguardare solo chi è arrivato dopo l’1 gennaio e fino alla mezzanotte del 5 aprile? Il governo italiano ritiene che applicare questa gabbia temporale serva a evitare che la prospettiva di altri permessi attiri altri flussi verso le nostre sponde. È lecito, però, dubitare che una gabbia così fragile funzioni, e che comunque i flussi si arrestino. Il dato di fondo è che l’Italia in questo momento ha dovuto affrontare un’emergenza che non è in grado di controllare, ed è stata lasciata sola. La concessione del permesso per ragioni umanitarie è stata insieme un’uscita di sicurezza e una ripicca contro l’insufficiente solidarietà europea. Di fronte alla destabilizzazione del Nord Africa non bastano i soldi messi a disposizione dall’Unione, l’Italia ha bisogno non solo di più risorse, ma di una cooperazione europea a più ampio raggio. Gli Stati europei che godono di più alta considerazione, che aspirano a ragione a un ruolo guida nell’Unione, non possono pensare di far gravare solo o soprattutto sull’Italia i problemi che derivano dalla fragilità dei nuovi regimi sulla sponda Sud del Mediterraneo. Con questi regimi è necessario rilanciare la prospettiva di un’area euro-mediterranea. Deve essere una strategia forte e concertata fra tutti i membri dell’Unione, in particolare proprio tra Francia e Italia. Non è il caso di trastullarsi con accuse reciproche, non c’è tempo da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Se l'Europa imparasse da Obama Inserito da: Admin - Maggio 12, 2011, 11:00:16 am 12/5/2011 - IMMIGRAZIONE
Se l'Europa imparasse da Obama GIOVANNA ZINCONE Parlando a El Paso, su quel confine con il Messico da cui sono transitati milioni di immigrati, Obama ha ricordato che anche oggi gli Usa devono la loro posizione nel mondo alla capacità di alimentare la vita economica con nuovi talenti ed energie, quindi anche all’immigrazione. Lo provano grandi, recenti successi nell’informatica dovuti a immigrati: Intel, Yahoo, Google, eBay. A El Paso Obama ha perciò soprattutto rilanciato il Dream Act, dove Dream è la sigla che sintetizza il contenuto della proposta di legge ma anche un richiamo simbolico al «sogno» americano. Se passasse, i giovani immigrati irregolari diplomati negli Usa potrebbero ottenere un permesso di soggiorno permanente. Il Dream Act ha una storia complicata. Era già stato proposto nel 2001, riproposto nel 2009 alla Camera, ma nel dicembre 2010, per la defezione di vari senatori repubblicani prima favorevoli, si è di nuovo bloccato. Obama ha invitato gli elettori a convincere i loro rappresentanti sia democratici che repubblicani ad appoggiare il provvedimento e ha promesso di fare la sua parte. Insomma, ha fatto capire che i sistemi decisionali degli Stati democratici sono meccanismi complessi. Bisogna farsene una ragione, perché questa complessità non è solo un costo: riduce i rischi di errori, ma soprattutto le minacce alla libertà. Il che non vuol dire che si debba desiderare il massimo di complessità possibile. In questo senso l’Unione Europea esagera. I suoi processi sono complicatissimi: prevedono passaggi tra una Commissione che elabora proposte, un Parlamento eletto dai cittadini e un Consiglio che rappresenta i governi degli Stati membri, entrambi chiamati a decidere. L’Unione, in più, funziona male non solo perché è complicata, ma perché le spettano solo spezzoni di competenze. Gli Stati membri prendono decisioni determinanti che seguono logiche incongrue rispetto agli spezzoni delle regole comunitarie. Su questo sfondo, oggi si riunisce un Consiglio straordinario dei ministri degli Interni dell’Unione per valutare una Comunicazione della Commissione sull’immigrazione. Si tratta di un altro passo in un percorso di riforma. A dare il via è stata la confusa gestione dei flussi di clandestini dalla Tunisia, confusione dovuta proprio alla incongruenza tra decisioni di competenza dei singoli Stati e spezzoni di regole di livello europeo. C’è uno spazio comune, condiviso da tutti i Paesi che hanno aderito a Schengen, ma il diritto ad entrarci dipende da permessi di soggiorno concessi dai singoli Stati. L’incongruenza ha creato tensioni tra l’Italia, che ha dato ai clandestini tunisini i permessi di soggiorno, e la Francia recalcitrante ad accettarli. Schengen è quindi entrato in crisi - lo dimostra anche la scelta della Danimarca di investire sui controlli alle frontiere - e le sue regole hanno bisogno di un ripensamento che non faccia venir meno il principio di fondo: far circolare merci e persone senza intoppi. Comunque vada il Consiglio di oggi, inciderà marginalmente sul nucleo del problema, sulla generale discrepanza tra spazi, regole e diritti a livello europeo e la possibilità di accedervi, tenuta ben salda nelle mani dei singoli Stati. Per questa Europa a spezzoni non si profilano potenti riforme, ma si può sperare in una serie di ragionevoli emendamenti. La Comunicazione della Commissione Europea ne prospetta due. A decidere se reintrodurre temporaneamente controlli limitati alle frontiere non dovrebbero più essere i singoli Stati, ma l’Unione. In pratica, se ci fosse un accordo sulla nuova procedura e scoppiasse un altro caso Ventimiglia, spetterebbe all’Unione l’arbitraggio tra Italia e Francia. La Comunicazione propone, come secondo rimedio alla discrepanza, l’introduzione di procedure comuni per la concessione dell’asilo: sono enormi infatti le differenze nell’accettazione delle domande dei diversi Paesi dell’Unione, e questo rende difficile qualsiasi ridistribuzione dei carichi. Quanto al supporto ai Paesi più esposti nei confronti dei flussi, la Commissione osserva che oggi non ci sono sufficienti strumenti di intervento. Quindi soprattutto l’Italia potrebbe sperare in maggiori aiuti, anche se la Germania non manca occasione per farci notare che ha sempre accolto molti più rifugiati di noi, e senza fare una piega. E l’invito a una maggiore solidarietà verso i Paesi alla frontiera dell’Unione riguarda soprattutto la gestione dei rifugiati, che arrivano numerosi a Lampedusa. Ma di solidarietà europea avrebbero bisogno anche i Paesi al confine con la Libia dove si muove la stragrande maggioranza dei rifugiati. Ancora di solidarietà, e di soccorsi immediati, avrebbero bisogno coloro che affrontano il mare con mezzi di fortuna, ed è proprio questa solidarietà che a volte drammaticamente latita. La Comunicazione prevede di rafforzare le frontiere esterne con più fondi per Frontex, l’agenzia Ue che gestisce la difesa di confini comunitari, e torna a ragionare su un corpo europeo di guardie di frontiera. Insomma, tra l’atteggiamento generale dell’Europa nei confronti dell’immigrazione e la visione che ne ha dato Obama a El Paso c’è una bella differenza, per essere precisi c’è una brutta differenza. Oggi l’Unione Europea ha paura degli immigrati: è riluttante anche nei confronti di nuovi flussi regolari. Al contrario, Obama ha mostrato apertura, gratitudine e fiducia. Non ha trascurato l’aspetto della legalità, ma non lo ha drammatizzato. Ha proposto, piuttosto, di facilitare gli ingressi legali, soprattutto i ricongiungimenti familiari. Ha ricordato ai repubblicani i successi ottenuti dalla sua amministrazione nel controllo delle frontiere. Non ha evitato di citare i rischi che il lavoro di irregolari comporta, per lo sfruttamento dei lavoratori stessi e per la concorrenza sleale degli imprenditori che li utilizzano. Ma ha pure osservato che è bene non enfatizzare il problema, anzi ha prospettato un rigoroso ma ampio programma di regolarizzazione degli irregolari. E negli Stati Uniti ce ne sono 11 milioni. Un approccio equilibrato - suggerisce Obama - consente di concentrare gli strumenti repressivi sul pericolo reale, quello dei delinquenti. Concentrando gli sforzi l’amministrazione Obama è riuscita ad aumentare del 70% l’espulsione di spacciatori e malfattori vari. Il Presidente ha parlato così perché l’America sa di essere un Paese di immigrazione e ne è fiera, mentre l’Europa, nonostante episodici proclami, non vuole ancora accettarlo. E sbaglia, perché nell’ultimo decennio come bacino di immigrazione ha superato decisamente gli Stati Uniti. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Anche i cattivi alla fine sono buoni Inserito da: Admin - Maggio 25, 2011, 04:30:29 pm 25/5/2011
Anche i cattivi alla fine sono buoni GIOVANNA ZINCONE Per buonismo si intende quell’insieme di lassismo e di eccessive generosità a favore di minoranze svantaggiate. Chi usa il termine - ovviamente per biasimarne la pratica - mai lo utilizzerebbe a proposito di lassismo o eccessive generosità a favore di appartenenti alla maggioranza, specie alla componente benestante, come i condoni fiscali o edilizi. Il buonismo, considerato appannaggio del centrosinistra, di fatto lo attraversa come un’incrinatura, perché non pochi dei suoi esponenti lo ritengono responsabile delle proprie sconfitte elettorali. Al contrario, quando provvedimenti simili, come le regolarizzazioni di massa di immigrati, sono varati da governi di centrodestra non si parla mai di buonismo, né se ne paventano i costi elettorali. Ma un’incrinatura di segno opposto attraversa pure il centrodestra. Infatti lì c’è chi punta sul «cattivismo», cioè sul fare ricorso ai cattivi sentimenti e alla faccia feroce, pensando anche che, rispetto alla banalità del bene, le attitudini da spiriti robusti esprimano una superiore intelligenza. Può darsi che questa tattica continui a spostare un po’ di voti nell’immediato, ma produce pesanti contraddizioni interne e costringe a vistose retromarce. La campagna elettorale milanese esemplifica bene i problemi del cattivismo. Il candidato Pisapia è accusato di voler consentire la costruzione di una moschea. Intanto il nostro Paese ha ottenuto un seggio alla Commissione straordinaria per la tutela e la protezione dei diritti umani dell’Onu e il ministro Frattini, non arruolato tra i cattivisti, ha dichiarato che «l’Italia intende farsi portatrice di una visione dei diritti umani improntata ad alcuni temi prioritari» e ha citato come primo obiettivo «la promozione della libertà di religione e di culto». È lecito chiedersi se questa priorità debba valere anche nel nostro Paese, nella città di Milano. Poter usufruire di luoghi di culto adeguati è un elemento essenziale della libertà religiosa. Lo hanno ribadito, proprio a proposito del progetto di moschea milanese, il cardinale Tettamanzi e, a nome della Conferenza episcopale, il segretario generale monsignor Cruciata. Si tratta di una reazione prevedibile, perché sarebbe contraddittorio per chi rivendica questo diritto per le minoranze cristiane nel mondo, come fa giustamente la Chiesa cattolica, negarlo ai musulmani che stanno da noi. A tale banale argomentazione, il «lucido» cattivismo ribatte che le moschee sono sedi di terrorismo, mentre le chiese non lo sono e non lo sono mai state. Bisogna però ricordare che in un passato non remoto i papisti venivano considerati nel mondo protestante come pericolosi sovversivi; quanto ai rischi di trame islamiste si deve osservare che, se e quando le moschee fossero pure focolai del terrore, avrebbero il vantaggio, già sperimentato, di essere facili da monitorare e infiltrare. Di norma, però, oltre a essere luoghi di culto, erogano e facilitano l’accesso ai servizi, quindi sono potenziali strumenti di integrazione. Talora fungono persino da ponti tra culture, in particolare lo sono proprio le grandi moschee come quella di Parigi, che ha favorito l’emergere di un Islam francese non prigioniero del fondamentalismo. Per il cattivismo un bersaglio ancora più facile dei musulmani è rappresentato dai rom e sinti, minoranza piuttosto impopolare, per la verità non senza qualche fondato motivo. Ed ecco che la campagna elettorale milanese propone puntualmente l’incubo della metropoli lombarda trasformata in zingaropoli. Lo sprovveduto candidato buonista vorrebbe niente meno che trovare una sistemazione abitativa per i rom, magari coinvolgendoli nella costruzione dei loro alloggi. La strategia dell’autocostruzione, dove è stata provata come nel caso Dado in Piemonte, ha avuto un buon successo. Alla base di questa come di altre misure di integrazione dei rom c’è l’idea che aiutarli ad avere una vita decorosa serva anche all’intera comunità: a liberare forza lavoro (oggi il tasso di disoccupazione tra i rom supera il 70 per cento), a drenare un fertile terreno di devianza. L’istruzione è comunemente considerata lo strumento principe dell’integrazione, e quella rom è una minoranza fatta di moltissimi ragazzi e bambini in età scolare. Da una recente rilevazione campionaria della Croce Rossa emergeva che quasi il 43 per cento dei rom aveva meno di sedici anni e che oltre il 29 per cento era sotto gli 11. Per minori che vivono in campi igienicamente disastrati, non collegati con mezzi di trasporto, l’istruzione è un’impresa. Infatti sono particolarmente alti tra i rom gli abbandoni scolastici e i ritardi. Sui bambini, anche i cattivisti sono costretti al cordoglio quando qualcuno brucia o soffoca in catapecchie o camper riscaldati con la carbonella. Tutti concordano sulla necessità di trovare alternative ai campi fatiscenti. E, al di là della retorica feroce esibita sotto elezioni, chiunque assuma posizioni di governo, al centro o in periferia, di fatto deve affrontare il problema e, a prescindere dal partito o dalla coalizione di appartenenza, lo fa. Magari non subito, perché appena arrivato al potere deve pagare la cambiale emessa ai suoi elettori, e per farlo smantella campi senza troppo giudizio. Ma poi deve pensare a dove destinare decentemente i loro abitanti, quindi investe risorse. Ci sono anche fondi europei disponibili per integrare i rom. Il commissario Ue Andor, responsabile per l’occupazione, gli affari sociali e l’inclusione, ha espressamente invitato gli Stati membri a utilizzare i fondi strutturali per migliorare le condizioni di vita di queste minoranze. L’Italia ne utilizza ancora pochi, ma più per difficoltà burocratiche che per avversione ideologica. Comunque, amministrazioni e governi non solo di centrosinistra, ma anche di centrodestra, stanziano, assegnano e spendono fondi per rom e sinti. La commissione straordinaria per la tutela dei Diritti umani del Senato ha prodotto un importante documento conoscitivo sulla condizione dei rom e sinti approvato all’unanimità. Se ne consiglia la lettura. Nella fase preparatoria la commissione ha compiuto varie audizioni. In una di queste il prefetto di Roma Pecoraro ha dichiarato: «Ad oggi abbiamo potuto disporre complessivamente di circa 32 milioni di euro (…). Nello specifico i fondi erogati dal ministero ammontano complessivamente a 19 milioni e 447.000 euro, quelli della Regione Lazio a 5 milioni e i fondi messi a disposizione dal Comune di Roma sono pari a circa 7 milioni e 900.000 euro». Insomma, anche coloro che in campagna elettorale demonizzano stanziamenti in bilancio per rom e sinti, quando devono amministrare sul serio destinano denaro pubblico per farlo. Viene il dubbio perciò che il cattivismo sia, alla fin fine, anche più impraticabile e irrealistico del buonismo. Certamente è più antipatico. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Il buon cibo che serve all'Italia Inserito da: Admin - Giugno 20, 2011, 08:37:04 am 19/6/2011
Il buon cibo che serve all'Italia GIOVANNA ZINCONE La politica in difficoltà rischia di produrre junk food, cibo spazzatura che riempie e non nutre. Deve sfamare l'elettore inquieto con decisioni magari poco utili, alla lunga persino nocive ma attraenti. Le misure adottate, o anche solo annunciate, devono essere apparentemente sazianti, e soprattutto vistosamente confezionate. I piatti forti del momento sono due, tasse e immigrazione con contorno di pezzetti ministeriali al Nord. Non è detto che il contenuto sia sempre nocivo: qualche volta semplicemente non corrisponde all'etichetta. Questo è il caso del decreto sul rimpatrio degli irregolari approvato il 16 giugno. Nell'involucro appaiono gli intenti severi. Il decreto viene presentato al pubblico di Pontida con l'allettante promessa di ridurre l'immigrazione clandestina e di farlo a muso duro. Di fatto, la parte che prevede una stretta repressiva avrà effetti limitati, mentre non sono poche le misure che renderanno la vita degli immigrati, anche degli irregolari, meno aspra. Il decreto ristabilisce sì la possibilità di espulsione immediata e coatta degli irregolari, ma la circoscrive a casi specifici. Il provvedimento più vistoso, quello che ha scatenato le indignate proteste dell'opposizione e dell'associazionismo, prevede l'aumento fino a 18 mesi del tempo di custodia nei Cie, i centri di identificazione ed espulsione. È un aumento consentito, come tetto massimo, dalla direttiva europea del dicembre 2008 sui rimpatri degli irregolari. E si tratta del terzo incremento introdotto dal centro-destra rispetto agli iniziali 30 giorni della legge Turco-Napolitano: nel 2002 il tetto è salito a 60 giorni, nel 2009 a 6 mesi. Quest'ultimo scatto ha fatto aumentare del 40% le identificazioni, ma dubito che quello nuovo produca simili effetti: se non si individuano gli estremi di una persona in 6 mesi è difficile riuscirci nei tempi supplementari. E 18 mesi rappresentano comunque una privazione della libertà del tutto sproporzionata rispetto all'infrazione commessa: reati come il furto o la truffa sono punibili da 6 mesi a 3 anni di carcere, ma un incensurato se la può cavare con meno del minimo. Per chi crede che rinchiudere sia comunque un buon rimedio, il problema della congruità del danno inflitto non si pone. Di qualcosa altro però anche lui dovrebbe preoccuparsi. I Cie ospitano già troppe persone che ci vivono in condizioni di degrado. Si può reggere l'ulteriore affollamento derivante dall'allungamento dei tempi senza rischiare altre sommosse? Il bilancio dello Stato e quello specifico del ministero dell'Interno sono alla disperata ricerca di fondi: si può tenere un anno in più nei Cie un soggiornante che costa da 40 a 50 euro il giorno? La risposta è un doppio «no». Anche l'associazione nazionale dei funzionari di polizia non crede alla promessa di Maroni di riuscire a espellere tutti alzando il tetto a 18 mesi, anche loro paventano rivolte. Ma il decreto non impone di rinchiudere tutti gli irregolari intercettati, né di espellerli coattivamente. Nei casi non pericolosi, il Cie e le espulsioni forzate si evitano e si applica il foglio di via; nel tempo necessario al rimpatrio il questore può imporre misure di garanzia come la consegna del passaporto o l'obbligo di dimora. Il decreto è insomma meno feroce di quanto voglia far credere. Per esempio, agevola l'ingresso e il soggiorno dei familiari stranieri dei cittadini comunitari. E chi infrange le misure alternative imposte, chi non se ne va a tempo debito, chi rientra di nuovo irregolarmente, non è più punito con il carcere, ma solo con un'ammenda. Certo, anche queste cifre (da 3 mila a 18 mila euro) sono sproporzionate, quando in Italia per lesioni colpose gravissime si pagano da 309 a 1239 euro. Ma sappiamo che i nullatenenti comunque non pagano, per il buon motivo che non possono. Dubito quindi che dagli irregolari ribelli si possano spremere grandi multe. La principale ragione per la quale nella minacciosa scatola del decreto si trovano nascoste anche misure che stemperano le politiche repressive non è un accesso di resipiscenza buonista. Il fatto è che il decreto, come dice il suo titolo, attua due direttive comunitarie. Il governo ne ha dovuto tenere conto anche perché una sentenza della Corte di giustizia europea del 28 aprile ha invitato il legislatore italiano ad adeguarsi. Lo ha fatto rigettando la pena del carcere per irregolari recidivi, ed è ovvio che dopo questa tirata di orecchie tutto l'impianto andava cambiato. Ma la sindrome junk food impone, nel vituperato decreto, una forma più dura della sostanza. Sempre con l'intento di quietare i malumori dei propri elettori, molti esponenti del centrodestra prospettano una mossa che potrebbe rivelarsi un junk food assai più preoccupante di quello migratorio: tagli fiscali non bilanciati da altre entrate e da consistenti riduzioni di spesa. L'effetto di provvedimenti del genere potrebbe essere devastante. Il presidente dell'eurogruppo Jean-Claude Juncker ha appena ricordato che siamo tra i Paesi a rischio di contagio per l'eventuale crac greco. Il Fondo monetario internazionale ci ha appena fatto osservare che il nostro debito pubblico è troppo alto e non accenna a diminuire. Moody, pur mantenendo un giudizio relativamente ottimista sulla tenuta dei conti, minaccia di abbassarci il voto se non prendiamo provvedimenti; Standard & Poor’s lo ha già abbassato. Qualunque persona responsabile sa che non si possono tagliare le imposte se questo implica l'incremento del deficit, e quindi del debito. D'altra parte, è urgente curare la debolezza della nostra crescita economica con consistenti apporti proteici. L'Italia oggi non può permettersi junk food, ma non può neppure aspettare. Ha bisogno di fast food di qualità che combinino con equilibrio tagli di spesa, nuove entrate e incentivi alla ripresa. Dovrebbe evitare di spendere soldi in provvedimenti costosi e di dubbia utilità come l’apertura di sedi di rappresentanza ministeriali al Nord. Le misure serie che si potrebbero adottare sono state suggerite da più fonti, anche in questo giornale, in particolare da Mario Deaglio, che ha proposto tra l'altro di vendere parte della nostra riserva di oro. Un'ottima proposta che andrebbe seguita anche dalla Bce per liberare risorse da investire in infrastrutture che darebbero lavoro ai cittadini dei Paesi membri. Restando al nostro Paese, si tratta non solo di colpire ulteriormente l'evasione, ma di eliminare privilegi ed esenzioni. Bisognerebbe snellire le istituzioni riducendo drasticamente il numero dei comuni e delle province, se proprio non si riesce a eliminarle. Si dovrebbero ridurre costi e numeri del ceto politico, se non altro per dare il buon esempio. L'Italia ha un disperato bisogno di misure urgenti che incidano sul precariato e la disoccupazione giovanile, il costo del lavoro va alleggerito per favorire investimenti e consumi. Quindi certo le imposte devono essere sforbiciate, ma è questione di sequenze e selezione: lo si può fare solo quando si siano acquisite entrate e tagliate spese. Per continuare con l'allegoria della ristorazione, l'economia italiana non può neanche permettersi di ignorare lo slow food, in particolare le lunghe cotture: gli investimenti sui nodi strutturali del Paese, che sono essenzialmente l'istruzione, la ricerca, l'energia, la lotta al crimine organizzato, la radicale revisione delle procedure burocratiche, perché da questi interventi dipende il nostro futuro. Quella che dovremmo praticare è una dieta fatta sia di tagli sia di investimenti mirati, una dieta per l'oggi e per il domani. Credo sia sana, ma non particolarmente gradita al palato di una parte cospicua della classe politica e probabilmente dei cittadini. Non è facile quindi individuare una maggioranza sociale e politica capace di assumersi lo sgradito compito di imporla. Certo non può essere una minoranza di governo risicata o ostaggio di populismi di qualunque colore. In fondo a suo tempo gli italiani votarono a favore dell'abolizione della scala mobile, forse è possibile risvegliare quel senso di responsabilità collettiva. Ma le diete necessarie ce le facciamo prescrivere solo da medici competenti e fidati. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8870&ID_sezione=&sezione= Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - La lezione delle "nonne" Inserito da: Admin - Luglio 10, 2011, 04:01:00 pm 10/7/2011
La lezione delle "nonne" GIOVANNA ZINCONE Il movimento delle donne riprende finalmente fiato: le manifestazioni di febbraio e le assise di Siena di questi giorni lo testimoniano. Auguriamoci però che funzioni meglio del suo antenato prossimo. Il femminismo degli Anni Settanta è stato come l’algebra: erano poche quelle che sapevano insegnarlo, non abbastanza quelle che avevano voglia di impararlo. Una quota troppo significativa delle femministe di allora era assorbita dall’autocoscienza in piccoli gruppi, talora persino impantanata in astruse teorie che si sforzavano di dimostrare l’insuperabile differenza tra i sessi allo scopo di promuovere la separazione culturale e politica dal mondo maschile. Ma questo femminismo troppo introverso e isolazionista ha avuto il grande pregio di rivendicare autonomia e dignità. E, nell’insieme, nonostante questi limiti, il femminismo delle nonne - come hanno ricordato ieri Mariella Gramaglia su «La Stampa» e Benedetta Tobagi su «Repubblica» - ha ottenuto molto. Ma i successi pratici si devono soprattutto ad un’altra componente, quella pragmatica: alle reprobe che hanno dirazzato portando istanze femministe nei partiti e negli organismi rappresentativi, magari alleandosi con maschi non necessariamente radicali, ma fautori della parità di genere. Ad esempio, la riforma del diritto di famiglia, che ha decisamente riequilibrato i rapporti tra i coniugi, è stata frutto anche dell’impegno e della collaborazione di un pregevole studioso e politico moderato come Paolo Ungari. A partire dagli Anni Settanta la componente pragmatica è andata avanti ottenendo molto sotto il profilo dei diritti: basti ricordare l’ingresso in carriere tipicamente maschili come le Forze Armate o l'introduzione di nuovi strumenti contro la violenza sessuale e contro le molestie reiterate. Tuttavia molto resta da fare su quello stesso piano dei diritti e ancor più sul piano della dignità culturale dove più forte era stato l’impegno dell’altro femminismo, quello isolazionista. Anche in tempi recenti comportamenti inaccettabili, azioni inopportune o compiacenti reazioni segnalano l’insufficienza dell’impatto del femminismo pragmatico sul piano culturale, in particolare in alcuni Paesi europei. La diagnosi si applica pure a partiti progressisti che hanno preteso di interpretare il ruolo di super-paladini della parità di genere. In Francia Dominique Strauss-Kahn, candidato in pectore del Partito socialista alla Presidenza della Repubblica, sarà forse assolto dalle infamanti accuse di stupro, ma difficilmente potrà togliersi di dosso la fama di molestatore. A quanto pare, però, nei circoli influenti queste scomposte pulsioni erano note ed evidentemente tollerate. Non costituivano un impedimento alla candidatura di Dsk a cariche pubbliche di massimo livello. Infatti, appena il castello accusatorio per il reato di stupro ha cominciato a scricchiolare a New York, dalla Francia sono arrivate immediate offerte di rimandare i termini di iscrizione alle primarie che sceglieranno il candidato socialista alle prossime elezioni presidenziali. Questa subitanea esuberanza di fair play non ha coinvolto solo il concorrente maschio Hollande, ma anche le due donne: Martine Aubry e Ségolène Royal. I limiti del femminismo pragmatico si rivelano, insomma, quando si tratta di anteporre la dignità femminile alla logica di partito. Insomma il femminismo pragmatico si è occupato più della parità di diritti, sulla quale era più facile trovare alleanze, che di pari dignità. Anzi, sotto il manto pragmatico delle pari opportunità, qualche donna ha ottenuto qualcosa e ceduto molto sul piano del rispetto personale. La pari dignità è un obiettivo sul quale si incontrano non solo resistenze maschili, ma anche compiacenti disattenzioni femminili. Conferma questa tesi la strategia pubblicitaria adottata in tempi recenti da un giornale progressista, «L’Unità», all’epoca dei fatti diretto da una donna. Questi casi, che hanno molto infastidito il nuovo movimento femminista di «Se non ora quando?», toccano un aspetto assai meno pesante rispetto alle molestie sessuali in Francia, e però fastidioso: l’uso consumistico dell’immagine femminile. Ottobre 2008: «L’Unità» in nuova veste grafica è infilato in una tasca strategicamente piazzata sul didietro di una minigonna, e allegoricamente si presenta come «nuova, libera, mini». La direttrice sotto attacco risponde che anche Gramsci, il fondatore del giornale, avrebbe approvato, «perché il corpo di una donna questa volta viene usato per pubblicizzare un prodotto intellettuale. Mi sembra pertinente. È molto peggio quando è utilizzato per accompagnare la pubblicità di un’auto o di un detersivo per i piatti». Mah? In questo caso si tratta di un’autocitazione di Oliviero Toscani, la vecchia pubblicità dei Jeans Jesus: micro calzoncini siglati con il dissacrante «Chi mi ama mi segua». Giugno 2011: torna la polemica con la pubblicità del festival dell’Unità di Roma, dove il felice slogan «Cambia il vento» fa alzare le gonne di una giovinetta. Qui la citazione è di Marilyn Monroe in «Quando la moglie è in vacanza». Messaggio progressista? Marilyn fu attrice del tutto deliziosa, ma i suoi unici ruoli politicamente memorabili restano quelli erotici con entrambi i fratelli Kennedy. La comunicazione contemporanea ama farcirsi di allusioni sexy e citazioni del passato. Ma che almeno ci sia risparmiata nella politica. «Se non ora quando?» è un movimento pragmatico, ma trova la sua spinta iniziale proprio nella rivendicazione di pari dignità. Ma temo che per ottenere risultati in quel campo non bastino movimenti, e serva una massa critica di donne comuni capaci di farsi rispettare. Bisogna però augurarsi che il nuovo movimento riesca a suscitare una diffusa radicale richiesta di rispetto. A partire da Siena «Se non ora quando?» appare anche impegnato a far progredire il lavoro del femminismo pragmatico: trovare obiettivi comuni, individuare priorità. Se torniamo al confronto con la Francia ci accorgiamo che, se sul piano della pari dignità non sono molto avanti a noi, lo sono certo su quello delle pari opportunità. Faccio l’esempio più lampante: la maternità. Obiettivo prioritario per il femminismo pragmatico italiano è la conciliazione tra famiglia e lavoro. La Francia (non ai primissimi posti in Europa) spende comunque più del doppio dell’Italia per i nidi. Il 78% delle mamme francesi con 2 figli lavora, mentre delle italiane nella stessa condizione lavora solo il 54,1%. Lo squilibrio di genere nei tassi di attività nel nostro Paese (73,4% maschi, 51,7% donne) è decisamente più ampio che oltralpe (74,8% e 61,6%), e rappresenta un grosso vincolo per le nostre potenzialità di crescita economica. Al nuovo movimento italiano resta un sacco di lavoro da fare. Gli auguro di riuscire a farlo dosando con accuratezza il meglio dei due femminismi delle nonne: l’attenzione alla dignità di quello radicale, la capacità di raggiungere risultati di quello pragmatico. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8961&ID_sezione=&sezione= Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Il Paese dei liberali immaginari Inserito da: Admin - Luglio 17, 2011, 07:00:10 pm 17/7/2011
Il Paese dei liberali immaginari GIOVANNA ZINCONE Il fatto che il tuo avversario abbia torto non significa che tu abbia ragione. Questo grano di saggezza di origine anglosassone purtroppo non ha prodotto ricche messi. Alcuni liberali più o meno doc paiono non aver colto una tale incongruenza logica: Il fatto che Marx avesse torto non vuol dire che Hayek avesse ragione. Che sia impossibile raggiungere una condizione di piena uguaglianza economica e di conseguente piena libertà politica, come pretendeva Marx, non vuol dire che muoversi sulla strada di una maggiore uguaglianza comporti un necessario scivolamento verso la pianificazione centralizzata e una perdita di libertà politica, come credeva Hayek e come, ancor oggi, credono i suoi epigoni. Purtroppo, anche in occasione del recente dibattito sulla manovra finanziaria, la confusione logica tra torto dell’uno e ragione dell’altro - seppure senza riferimento esplicito ai due maestri - è tornata in campo. Sul banco degli accusati troviamo gli eccessi ugualitari del nostro Welfare che la finanziaria non correggerebbe restando così intrappolata nel deficit. E come origine del male e pietra dello scandalo vediamo citato l’articolo 3 della nostra Costituzione. «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza di cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione economica del Paese». La diagnosi ingloba almeno due errori: il primo è che l’articolo 3 contrasti con una possibile interpretazione liberale del ruolo dello Stato; il secondo è che questa finanziaria sia sbagliata perché conferma gli eccessi ugualitari dell’intervento pubblico. Primo errore. L’articolo 3 non indica come meta verso cui dirigersi una marxista utopia di uguaglianza, non invita le politiche pubbliche italiane a produrre in prospettiva una situazione in cui le classi sociali evaporino e tutti i cittadini abbiano parità di redditi e di beni. Propone, al contrario, di «rimuovere gli ostacoli» che impediscono lo sviluppo della persona, non qualunque diseguaglianza. Indica quindi l’esigenza che non sussistano situazioni di intollerabile privilegio e forti disparità nei punti di partenza. È una ricetta che dovrebbe solleticare i palati liberali: non obbligo i cittadini a realizzarsi a modo mio, ma li metto il più possibile in condizione di farlo a modo loro. Senza scomodare il liberale progressista Rawls, che considera eticamente accettabili solo le disuguaglianze che generino maggiore benessere per i più poveri, ricordiamo gli scritti e le prese di posizione di Dahrendorf: quella che propone è l’uguaglianza rispetto delle Life chances, delle opportunità di vita. Proprio in quest’ottica Dahrendorf ha dedicato particolare attenzione, anche nella sua attività politica, all’istruzione. Un settore al quale certi liberali odierni i danno poco peso. Dahrendorf, inoltre, già negli anni Ottanta in Al di là della Crisi criticava sì il «consenso socialdemocratico» che aveva dominato a lungo su tutti i partiti democratici europei, liberali inclusi, ma lo faceva perché questa politica aveva espanso il Welfare in modo irrazionale e con strumenti sbagliati, creando gruppi iper-protetti e gruppi senza protezione. Il percorso imboccato dalla manovra finanziaria merita di essere ripensato e corretto in base alla ricetta liberale: non solo spendere meno, ma prelevare e spendere in modo più equo; non cercare eguaglianza attraverso nuovi vincoli, ma rimuovere quelli vecchi che limitano le opportunità e ingessano immotivati privilegi. Secondo errore. La manovra non è abbastanza severa perché vuole essere troppo ugualitaria. Non è vero. Il suo nucleo incorpora, al contrario, alcuni strumenti destinati a incidere in modo tendenzialmente regressivo su redditi e patrimoni, a colpire cioè più intensamente se non le fasce più povere, almeno quelle intermedie rispetto ai redditi più alti. Vanno in questa direzione i tickets e i tagli orizzontali sulle detrazioni, come hanno già osservato diversi analisti. E vanno in questa direzione anche le norme relative all’imposta sul deposito titoli, che è marcatamente progressiva fino ai 500.000 euro, con i soliti effetti iniqui che derivano dalle soglie (chi sta subito sotto gode, chi sta subito sopra piange), per poi diventare piatta, e quindi sempre meno rilevante per i grandi patrimoni. L’effetto iniquo della soglia vale anche per il blocco all’adeguamento delle pensioni. L’esenzione dell’Ici sulla prima casa e sulle abitazioni utilizzate come prima casa da figli e parenti stretti dei proprietari non è stata introdotta ora, ma non è stata nemmeno ritoccata. Si tratta di un’altra norma che premia i più abbienti, perché le somme che dovrebbero pagare per le loro lussuose case sono molto più alte. Però anche la disuguaglianza è utile, presenta infatti un importante aspetto positivo: spinge a fare e premia il merito. Questo versante della disuguaglianza è molto apprezzato dai liberali: guadagni pure di più e rivesta ruoli più importanti chi è più capace e produttivo, l’intera società se ne gioverà. In un’ottica utilitarista non si vede però a cosa serva la dicotomia tra lavoratori inamovibili e ben pagati, da una parte, e lavoratori precari e poco pagati, dall’altra. Dal momento che le due categorie operano fianco a fianco nelle stesse amministrazioni, nelle stesse imprese, negli stessi media e la categoria dei protetti non è necessariamente più meritevole né più produttiva dell’altra. Non si capisce quale sia l’utilità economica e sociale di questa disuguaglianza. Al contrario, quando si attribuisce un’eccessiva sicurezza «a un determinato gruppo, l’insicurezza del resto della popolazione non può che aumentare» e non è un bene per nessuno, cito Hayek. Sulle diseguaglianze create e tutelate dall’ordinamento, sulle nicchie di rendita sociale che distribuiscono in modo insieme iniquo e inefficiente sicurezza e insicurezza, insomma sulle diseguaglianze certamente illiberali, poco o nulla è stato fatto. Latitano o si ammorbidiscono le misure volte ad abbattere ostacoli corporativi allo svolgimento delle attività economiche e professionali. Insomma, l’accusa rivolta a destra e sinistra da alcuni liberisti nostrani, di gonfiare il Welfare e di far proliferare regole per rincorrere un assurdo obiettivo di uguaglianza, dovrebbe essere riformulata. Il Welfare è stato spesso gonfiato a sproposito, nuove regole sono state imposte e vecchie regole non sono state soppresse soprattutto allo scopo di difendere piccoli e grandi privilegi. Il governo è intervenuto in fretta e l’opposizione non lo ha ostacolato perché era giusto e necessario agire subito. Ma sull’insieme delle strategie di fondo le forze politiche oggi in campo hanno bisogno di tornare a riflettere. Devono chiedersi quale Italia vogliono, con quali credibili strumenti intendono costruire un Paese meno antiquato ed iniquo, più capace di premiare merito e produttività senza però abbandonare i troppo deboli. Devono pensare con quali convincenti motivazioni possono costruire consensi intorno alle strategie che intendono adottare. E tutto questo, prima o poi, dovrebbero anche dircelo. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8986 Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Liberismo non sempre vuol dire libertà Inserito da: Admin - Luglio 20, 2011, 10:20:44 am 20/7/2011
Liberismo non sempre vuol dire libertà GIOVANNA ZINCONE Nel mio articolo di domenica non prendevo spunto da un' immaginaria opinione espressa da un immaginario liberale, come ipotizza Mingardi nella sua lettera di ieri al direttore: mi riferivo al concreto editoriale di un autorevole opinionista de Il Corriere della Sera. Si tratta peraltro di un amico, Piero Ostellino, con il quale ho condiviso una comune esperienza liberale. Il primo rilievo che mi era sembrato utile fare all'editoriale del Corriere riguardava la colpevolizzazione, a mio parere ingiustificata, dell'articolo 3 della Costituzione. Quell'articolo, che invita a limitare gli ostacoli che limitano la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, verrebbe preso troppo sul serio da un'ipotetica e trasversale ideologia egualitaria e starebbe quindi alla radice della malformazione del Welfare italiano e quindi della sua insostenibile espansione. Le cose non stanno così. Il nostro stato sociale ha deboli radici egualitarie, incorpora inaccettabili privilegi, tutela poco chi è fuori del sistema e non si preoccupa certo di garantire una base di pari opportunità. E la manovra da poco varata, osservavo - e Mingardi concorda nulla fa per rimediare a questi vizi, anzi li aggrava in più punti. Proprio la scarsa equità della manovra - resa manifesta dalla imbarazzante tutela dei privilegi di singoli ceti, in particolare di quello politico la rende meno accettabile, ed è quindi una delle ragioni, anche se certo non la sola, del suo fin qui inadeguato impatto. Il secondo motivo di dissenso riguarda la tesi secondo la quale un sistema economico caratterizzato da una sostenuta redistribuzione delle risorse anche attraverso la leva fiscale sia necessariamente fragile, incapace di crescere e quindi destinato a incassare le dure smentite del mercato, se non della storia. Su questa tesi concorda pure Mingardi. Tuttavia l'esperienza recente, così come le tendenze di lungo termine provano il contrario: si sono dimostrati più solidi e capaci di crescere alcuni paesi del Nord Europa caratterizzati rispetto a noi da livelli di tassazione non inferiori e da policies più egualitarie, ma al tempo stesso molto più attenti a evitare sprechi, a salvaguardare il corretto funzionamento del mercato, a fornirgli strumenti idonei. Aggiungo che attualmente le economie in più forte crescita, i famosi Bric (Brasile, Russia, India e Cina) non seguono certo ricette liberiste. Basti vedere come li colloca bassi in classifica l'Index of Economic Freedom del 2011. Concludo con un'ultima osservazione: non solo non è vero che più liberismo implichi necessariamente più crescita, ma non si accompagna neppure sempre a maggiore libertà politica. In cima alla classifica delle libertà economiche mondiali, con un brillante secondo posto, troviamo un stato come Singapore ed un ottimo piazzamento (decimo su 179) spetta al Bahrain. Sono luoghi dove un liberale attento alle libertà classiche non vorrebbe certo vivere: quindi - ne sono sicura - neanche Mingardi. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8997 Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Ma l'Italia è un'altra storia Inserito da: Admin - Agosto 12, 2011, 09:11:04 am 12/8/2011
Ma l'Italia è un'altra storia GIOVANNA ZINCONE La coesione sociale è un guscio fragile, costantemente attraversato da rischiose incrinature sociali. A volte basta un colpo per romperlo. Ci sono anche in Italia le condizioni perché si verifichi un’esplosione all’inglese? Per rispondere si può cominciare osservando - come è stato fatto da vari commentatori - che i rischi di deflagrazione aumentano quando le incrinature si sovrappongono: ad esempio quando la marginalità sociale e culturale riguarda ceti in difficoltà e minoranze etniche che si concentrano in pezzi di territorio. Ma, mentre a prima vista la rivolta inglese pareva avere una connotazione etnica, si è poi capito che il colpo iniziale dell’uccisione del ragazzo afro-caraibico ha solo dato l’avvio a un’orgia di rabbia e di giocosi saccheggi, una scorribanda senza confini razziali e alla quale hanno partecipato persino persone mature e gente non priva di mezzi. Concentriamoci, però, sull’avvio, e cioè sul rischio che in Italia possa verificarsi un’esplosione che abbia radici etniche. Se questo è il quesito, più che chiedersi «capiterà anche a noi?», si dovrebbe osservare che un po’ è già capitato. Qualche assaggio della sindrome «esplosione da concentrazione etnica» in Italia lo abbiamo già avuto. Basti ricordare le rivolte dei negozianti cinesi concentrati a Milano nella zona via Paolo Sarpi o quella dei braccianti neri a Rosarno. C’erano le incrinature, i cattivi rapporti dei cinesi con i vecchi abitanti del quartiere, lo sfruttamento estremo dei lavoratori africani. In entrambi i casi però la rottura è avvenuta in seguito ad un colpo esterno. All’origine della rivolta di Chinatown c’è una vigile forse troppo zelante e - secondo la comunità cinese - persino aggressiva. In Calabria, a far scattare la molla è stato il tragico tiro al piccione contro gli immigrati organizzato da malavitosi locali. Le sommosse inglesi di questi giorni e quelle nelle banlieue francesi del 2005 sono state entrambe quantomeno innescate dall’uccisione ingiustificata di un giovane appartenete alle minoranze. Per abbassare i rischi di esplosioni bisognerebbe quindi non solo tenere sotto controllo le incrinature sociali (cosa tutt’altro che semplice), ma anche prevenire i contraccolpi di azioni sbagliate. Una polizia rispettosa e ben addestrata è una condizione necessaria ad evitare abusi e conseguenti reazioni. Nelle devastazioni degli stadi così come nelle evoluzioni violente di manifestazioni politiche si assiste ad una guerra tra ribelli e forze dell’ordine. Non si giustificano i ribelli, se si osserva che a volte la scarsa esperienza delle forze dell’ordine, come nel caso delle sommosse inglesi di questi giorni, non aiuta. In Italia il reclutamento nella polizia prevede test e colloqui che dovrebbero verificare capacità di mantenere equilibrio anche in condizioni di forte stress. Non è chiaro però quanto funzionino. È evidente, comunque, che non si può puntare solo su una repressione per quanto ben temperata e temprata. La ricetta classica per la gestione dei conflitti richiede anche interventi sociali che ammorbidiscano i motivi di rivolta dei potenziali ribelli. Come ci hanno insegnato le ricerche di sociologia storica, quelle di Alber e Flora in primis, il primo serio Welfare nasce proprio per contenere i conflitti. Si tratta delle misure adottate nella Germania di Bismarck per tagliare l’erba sotto i piedi ai movimenti socialisti. Nei confronti dei quali il Cancelliere, prima di varare lo stato sociale, aveva adottato politiche repressive, ma non solo. Si deve anche all’intesa con Lasalle, il leader socialista morto prematuramente, l’introduzione del suffragio universale maschile assai prima che in altri Paesi europei. Tempi difficili richiedono strategie complesse. Anche oggi in Italia, per affrontare i rischi di conflitti dirompenti, servirebbero accordi che affrontino la crisi senza limitarsi a tappare i buchi. Occorre danaro pubblico da investire non solo per far ripartire l’economia, ma anche contrastare emergenze sociali e di disuguaglianze generazionali destinate a peggiorare. E non si capisce come sia possibile recuperare oggi le risorse necessarie senza riformare la struttura delle pensioni e senza tassare i patrimoni. Ma serve anche altro: servono misure innovative che contribuiscano a dare la speranza di ottenere considerazione sociale e soddisfazione individuale senza il possesso di uno smartphone di razza e di sneakers di alta gamma. Nel 2005, Sarkozy come ministro dell’Interno non è andato per il sottile con la repressione delle rivolte nelle banlieues, né nei toni, né nei fatti. Però ai ragazzi residenti nei quartieri svantaggiati ha offerto una grande opportunità: l’accesso facilitato alle Università di pregio. È un esempio di misure che non bastano certo a riformare una cultura trasversale del consumo come involucro e terapia dell’io, ma cercano almeno di andare nella giusta direzione. L’offerta di prospettive basate sull’impegno individuale, provvedimenti in grado di promuovere la mobilità sociale sono vie che l’Italia non ha mai imboccato. Per moderare le fratture esistenti dovrebbe iniziare a farlo, ad esempio con forti investimenti nell’istruzione, in particolare nella prima infanzia, quando si fondano le basi dell’apprendimento e si gettano i semi della morale collettiva. Se temiamo disordini dobbiamo tenere sotto osservazione l’impatto di quel tremendo «colpo esterno» che ci sta assestando la crisi economica. Ma dobbiamo essere consapevoli del fatto che, sotto il profilo della coesione sociale, il colpo è aggravato dai fari accesi su incrinature pregresse. Cresce la consapevolezza sociale dell’esistenza di sprechi assurdi, di insopportabili privilegi, di disuguaglianze di reddito che ben poco hanno a che fare con il merito. Un forte colpo che si abbatte su gravi fratture sociali rappresenta l’habitat ideale per l’azione di gruppi violenti più o meno politicizzati, più o meno legati alla criminalità. Insomma ancora più che Londra dobbiamo temere Atene: più che sommosse di origine etnica che si trasformano in distruttivi uragani consumistici, dobbiamo temere manifestazioni di origine politica aperte ad infiltrazioni che degenerano in violenza, vandalismo, saccheggio. Possiamo sforzarci di prevenirle. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9084 Titolo: GIOVANNA ZINCONE. Porti il burqa? Non puoi vivere in Italia Inserito da: Admin - Novembre 19, 2011, 12:10:52 pm 19/11/2011
Porti il burqa? Non puoi vivere in Italia GIOVANNA ZINCONE I treni superveloci devono fare poche fermate e stare attenti anche alle piccole sbandate. L’osservazione si applica ovviamente al governo Monti. Deve evitare di perdere tempo su questioni marginali e spinose. Purtroppo non sempre potrà scegliere, perché dalla società civile, dal Parlamento, dalla magistratura qualche problema minore, qualche sasso sulle rotaie gli verrà piazzato. È utile che sia pronto a toglierlo di mezzo senza sbandare, senza abbracciare posizioni partigiane, un governo di larghe intese non può permetterselo. Faccio un esempio di questioni oggi non in cima all’agenda politica, ma destinate a creare qualche fastidioso inciampo. Il velo islamico che fascia solo la testa è stato recentemente bandito da un tribunale torinese. Un testo base, approvato in Commissione e in arrivo in aula prima della caduta del governo Berlusconi, si occupava di vietare altri abbigliamenti: il niqab che copre tutto il corpo lasciando libera una fessura per gli occhi e il burqa che cela con una retina anche quella rischiosa fonte di ammiccamenti. È bene non confondere le due questioni: foulard e burqa non sono la stessa cosa. Equiparandolo al velo delle suore, due circolari nel 1995 e nel 2000 hanno esplicitamente consentito il foulard. Il solo articolo 129 del codice di procedura civile a cui si è appigliato il puntiglioso giudice subalpino continua a pretendere il capo scoperto nelle aule dei tribunali. Tuttavia non solo suore, ma anche carabinieri ed ebrei con la kippà non hanno mai subito questa ingiunzione. Del caso si occuperà il Consiglio Superiore della Magistratura. Speriamo che dia il buon esempio: il velo è già abbastanza diffuso e una sua superficiale repressione può creare seri problemi. Quanto al burqa e al niqab, partiamo da una constatazione di fatto: quante donne totalmente velate si vedono in giro? Anche in futuro è improbabile che frotte di involucri neri emigrino in luoghi abitati da impudiche cristiane. Non siamo dunque di fronte a un’emergenza, ma c’è chi si diverte a inventarne di finte anche quando ce ne sono fin troppe di vere. Perciò è meglio affrontare tempestivamente la questione con un approccio morbido. E questo invita a ragionare di tolleranza. Tollerare significa consentire idee e comportamenti che non piacciono per niente. Questo principio cardine dei regimi liberali è una virtù difficile da praticare. D’altra parte, uno Stato che accetti solo credenze e pratiche gradite alla maggioranza si può forse definire democratico (se si regge sul libero consenso), ma non certo liberale. I regimi liberali sono dunque obbligati ad un’estrema pazienza, che però non è infinita. Anche i fautori della tolleranza mettono dei paletti. Locke giustificava l’esclusione dei cattolici prevista dal Toleration Act del 1689 perché questi, più leali al Papa che alla Corona, erano possibili alleati di potenze straniere. Qui il paletto era la sicurezza dello Stato. Un altro illustre maestro della tolleranza, John Stuart Mill, ne ha piantato un altro: non provocare danni a terzi. Teorici piuttosto generosi della tolleranza non accettano neppure danni a carico di membri della stessa minoranza. Il principio è stato applicato nelle sentenze che hanno costretto Testimoni di Geova ad accettare trasfusioni necessarie alla sopravvivenza o al benessere dei figli. Libertà delle minoranze e vincoli sono iscritti in Convenzioni e Costituzioni, ma questo non risolve i conflitti. La loro interpretazione non è univoca e muta nel tempo. Le decisioni pratiche su dove piazzare i paletti restano quindi opinabili. Anche oggi in Italia chi vuole vietare e chi vuole consentire il velo integrale si basa su valide motivazioni e su norme in vigore. I primi propongono di estendere alle coperture di origine etnica il divieto che già riguarda caschi e passamontagna, quando rendono difficoltosa l’identificazione. A rinforzare questa ragione di ordine pubblico torna la tesi di Locke: indossare niqab e burqa indica un’appartenenza a comunità potenzialmente sleali. Inoltre chi vuole metterli al bando rileva una forte lesione della parità di genere. D’altra parte, chi vuole tollerarli si rifà al principio di Mill, quando osserva che non producono danni a terzi. A differenza di chi si copre il volto durante le manifestazioni per poter indulgere in azioni violente, nella velatura totale delle donne manca l’intenzione di nuocere, né è stata mai utilizzata di fatto allo scopo (almeno in Occidente). I critici del progetto di legge restrittivo sostengono, inoltre, che il danno che deriverebbe alle donne dal divieto sarebbe ben più grave di quello originato dal velo integrale: resterebbero recluse in casa. I contrari fanno pure osservare che, se è vero che Francia e Belgio hanno di recente messo al bando burqa e niqab, la Gran Bretagna si ostina a non farlo perché lo considera un divieto, secondo le dichiarazioni del ministro Greene, unbritish, cioè non consono alle tradizioni liberali del Paese. Le ragioni pro e contro appaiono dunque bilanciate e i riferimenti a principi e norme fondamentali insufficienti a dipanare la matassa. Se cerchiamo una soluzione di compromesso dobbiamo spostarci su un altro terreno e in un altro territorio. Teorie della tolleranza più avanzate suggeriscono di evitare imposizioni. Meglio ricercare il dialogo, strategia ritenuta possibile dal momento che tutte le religioni contengono qualche principio liberale e di tutela della dignità femminile. Basterebbe farli emergere e lavorarci su per trovare una base comune, l’overlapping consensus, le aree di sovrapposizione dei valori di cui parla Rawls. L’invito al dialogo viene oggi dal presidente dell’Ucoii, la principale associazione musulmana. È forse la via da seguire per coloro che già risiedono stabilmente in Italia. In generale, purtroppo, la ricetta del dialogo per essere praticata richiede una condizione fondamentale: che la distanza culturale tra i dialoganti non sia abissale. Se invece l’abisso esiste, che fare? Reprimerli, se si tratta di abitanti stabili, costituisce un trauma sia per chi subisce il divieto, sia per lo Stato liberale che lo impone. Meglio traslocare il problema al momento del rilascio del permesso di soggiorno. A torto o a ragione sempre più spesso i Paesi d’immigrazione cercano di anticipare le politiche d’integrazione, selezionando soggetti ipoteticamente più integrabili. Si tratta di una tecnica spesso inefficace e talvolta persino lesiva dei diritti umani, ma in questo caso potrebbe funzionare: se non troviamo un accordo sul fissare o meno il paletto burqa entro le nostre frontiere, proviamo a spostarlo fuori. È già in vigore in Italia l’Accordo di Integrazione in base al quale il permesso di soggiorno viene concesso solo a chi accetta la Carta dei valori condivisi, una carta elaborata nel 2007 su sollecitazione di Giuliano Amato, allora ministro dell’Interno. Tra i valori citati dalla carta si ribadisce in più punti la pari dignità e l’uguaglianza di diritti della donna dentro e fuori della famiglia, e il divieto di coercizione in tutti gli ambiti. Mi pare chiaro che chi imponga o indossi burqa e niqab dimostra di non accettare questi valori della carta, e quindi non possa ottenere un permesso di soggiorno. Non vedo come questa constatazione possa dividere destra e sinistra. Non reprime nulla, pone semplicemente una condizione che si può consapevolmente accettare o respingere. Basta dunque renderla più esplicita, come si è fatto con la poligamia. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9453 Titolo: GIOVANNA ZINCONE. Il nostro futuro multietnico Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2011, 03:53:08 pm 29/12/2011 -
2065, STRANIERI TRIPLICATI Il nostro futuro multietnico GIOVANNA ZINCONE Bisogna smettere, e pure in fretta, di pensare l’italiano tipo come un individuo dotato di nonni nati in Italia. Questo è un messaggio chiave che trasmette il rapporto dell’Istat sul futuro della popolazione del nostro Paese. Infatti, a vivere in Italia nel prossimo mezzo secolo saranno sempre di più persone e famiglie che hanno origini straniere, più o meno lontane nel tempo. E fin d’ora non sono poche. Già all’inizio del 2011 i residenti stranieri in Italia erano più di 4 milioni e mezzo, cioè il 7,5% del totale. E dal computo sono esclusi gli immigrati e i loro discendenti che hanno ottenuto la cittadinanza. L’Istat prevede, seppure con molte cautele metodologiche, che nel 2065 la percentuale degli stranieri arrivi nell’ipotesi più bassa al 22% e in quella più alta al 24% dell’intera popolazione residente. Possono sembrare dati impressionanti, ma non è il caso di lasciarsi impressionare. E per una serie di motivi. Come sanno bene i ricercatori dell’Istat, le previsioni sulla popolazione quando si proiettano su tempi molto lunghi possono presentare grosse sorprese. Su un arco di tempo più breve (20 anni), immaginando cioè nel 1987 cosa sarebbe successo nel 2007, l’Istat aveva previsto un impatto quasi irrilevante dell’immigrazione, e lo stesso aveva fatto l’Irp, cercando di prevedere nel 1988 cosa sarebbe successo 20 anni dopo. Insomma, in quegli anni il contributo dell’immigrazione alla popolazione del nostro Paese era stato largamente sottovalutato. Siamo sicuri di non cadere, oggi, nell’eccesso opposto? Probabilmente stiamo rischiando di sopravvalutare il numero dei nuovi arrivi. Non è, infatti, detto che il mercato del lavoro italiano, in futuro, sia ancora capace di attrarre potenti flussi dall’estero. Già con il decreto flussi del 2010 il Governo italiano ha offerto più permessi di soggiorno rispetto a quelli di fatto utilizzati. E il tasso di disoccupazione degli immigrati tra il 2008 e il 2010 è aumentato tre volte e mezzo di più di quello degli italiani. Così come non è detto che potenti esportatori di popolazione verso l’Italia, come la Romania o la Cina, abbiano in futuro condizioni economiche tanto peggiori delle nostre, e tali da spingere a emigrare in massa nel nostro Paese. Emigrare è costoso anche in termini emotivi e, se la differenza di prospettive economiche tra il posto che si lascia e quello verso cui si va non è abbastanza ampia, non si emigra. Non è detto neppure che gli stranieri che si fermano in Italia continuino a fare più figli degli italiani. Insomma, quando guardiamo a un futuro lontano, ci possiamo sbagliare sui numeri. E comunque se i numeri fossero alti sarebbe un bene: vorrebbe dire che nel nostro Paese c’è un’economia attraente. Quello di sbagliare sui numeri non sarebbe grave. L’Istat, inoltre, guardando al futuro, ha ritenuto opportuno distinguere tra immigrati che restano stranieri e coloro che hanno ottenuto la cittadinanza. Fa le sue previsioni in base alla legge attuale, ma osserva giustamente che la normativa sulla cittadinanza può cambiare. Ed è probabile che cambi. Un recentissimo sondaggio del Centro Italiano di Studi Elettorali dà un 71% di favorevoli a dare subito la cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia, e conclusioni analoghe vengono da Tti, il sondaggio annuale condotto da Gmf e Compagnia di San Paolo. A maggior ragione potrebbe essere accettata la riforma oggi in cantiere, che la concederebbe ai figli di immigrati che risiedono stabilmente da un certo numero di anni. Quindi, il numero di persone statisticamente straniere potrebbe ridursi parecchio, in seguito a una nuova normativa. Quest’osservazione apre un’altra questione più importante: basta la cittadinanza a fare il cittadino? L’immigrazione è un fenomeno complicato da interpretare, perché ci interessa non solo la sua accertata capacità di sopperire alle carenze di popolazione e forza lavoro, di aiutarci a tenere i conti pubblici in ordine, ma anche per l’impatto che può avere sulla coesione sociale. Se vogliamo ragionare su quest’aspetto, la distinzione giuridica tra immigrati rimasti stranieri e quelli divenuti cittadini non basta. Si può non essere immigrato ed essere comunque straniero e questo è proprio il caso dei bambini nati in Italia. Ma, se prendiamo in considerazione un altro aspetto, quello dell’identità, della cultura, osserviamo che molti che restano stranieri in base al diritto, sono italiani per identità e per cultura. Un’interessante inchiesta televisiva, che ha fatto incursione in varie scuole piene di bambini in gran parte ancora stranieri, ci ha dato un saggio di quanti di loro parlino un ottimo italiano, magari con un po’ di accento dialettale, di quanti tra loro conoscano la storia del Risorgimento, anche meglio di altri bambini con nonni italiani. Questo vale ovviamente anche per molti immigrati arrivati da adulti e rimasti stranieri, perché non vogliono scegliere o perché preferiscono evitare i lunghi tempi di attesa e le trafile della nostra burocrazia. Se ci sembra opportuno prevenire futuri conflitti tra italiani con nonni italiani e italiani con nonni stranieri, dobbiamo porci due obiettivi. Il primo consiste nel favorire una maggiore integrazione sociale e strutturale. Infatti, non possiamo segregare gli immigrati, specie le seconde generazioni, in percorsi scolastici di minore qualità, in occupazioni scarsamente remunerate e poco considerate socialmente, non possiamo farli vivere in quartieri degradati. Le rivolte delle Banlieue dovrebbero averci insegnato qualcosa. Ma non basta: dobbiamo mirare anche all’integrazione culturale, offrire rispetto, e questo è il secondo obiettivo. Non possiamo accettare che si traccino, come alcune forze politiche stanno facendo, barriere di disprezzo nei confronti degli immigrati in genere e di certe minoranze in particolare. Individui anche benestanti e colti, se si sentono estraniati, possono diventare membri attivi di gruppi eversivi, come dimostrano varie biografie di attentatori. Per tutti questi motivi è bene smettere di pensare all’Italia come un Paese di noi e di loro. Già ora ha poco senso, tra cinquant’anni sarà semplicemente ridicolo. O tragico. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9595 Titolo: GIOVANNA ZINCONE. Il salto che i sindacati devono fare Inserito da: Admin - Marzo 20, 2012, 06:32:54 pm 20/3/2012
Il salto che i sindacati devono fare GIOVANNA ZINCONE Paradossalmente proprio chi si propone come deciso difensore degli interessi dei lavoratori sembra aver dimenticato la lezione di Marx. Eppure una parte di quella lezione rappresenta un valido strumento per capire e gestire il passato prossimo e il presente. Il teorico del socialismo scientifico sosteneva - come è noto - che una profonda modificazione delle «forze di produzione», cioè delle tecnologie produttive, dei mezzi di trasporto e di comunicazione, della formazione e organizzazione del lavoro provoca un’altrettanto profonda modificazione dei rapporti di produzione, quindi dei rapporti di potere all’interno della sfera economica. Tralascio i passi successivi delle tesi marxiste, come quella del dominio assoluto dell’economia sulle altre sfere, perché sono assai meno convincenti e utili. Una radicale trasformazione delle forze di produzione ha modificato i rapporti di potere nelle relazioni industriali. Prodotti più leggeri, quindi più facili da trasportare, mezzi di trasporto più veloci e meno costosi, comunicazioni più rapide, efficaci e a basso prezzo hanno reso possibile delocalizzare. È diventato fattibile e conveniente spostare anche molto lontano dalla casa madre originaria, non solo spezzoni di produzione e servizi, ma anche gangli decisionali e persino la sede principale dell’impresa. Accordi e organizzazioni internazionali, in particolare la Wto, l’Organizzazione Internazionale del Commercio, istituita nel 1995 e nella quale a partire dal 2001 è stata accolta anche la Cina, hanno abbattuto barriere doganali che avrebbero inceppato il processo. Chi non gioca questa partita rischia di uscire dal gioco. Le imprese sono diventate sempre più multiformi e cosmopolite: non possono permettersi di privilegiare a tutti i costi gli interessi dei lavoratori della patria di origine. Anche se, potendo, lo farebbero e lo fanno. La delocalizzazione è una strategia macroscopica, ma costituisce solo uno degli strumenti che la trasformazione delle forze di produzione ha messo a disposizione dei datori di lavoro per affrontare situazioni di conflitto o di difficoltà. Dopo l’autunno caldo del 1969, che segnò un momento estremo di conflitto industriale (277.000 auto perse e 20 milioni di ore non lavorate alla Fiat) questa ed altre imprese reagirono introducendo tecnologie e organizzazioni produttive risparmia-lavoro. Rafforzarono anche la strategia del subappalto per trasferire su imprese minori l’onere di liquidare eventuali lavoratori in esubero e per ridurre il rischio di conflitti, più alto nei grandi stabilimenti. Anche l’afflusso di manodopera immigrata contribuisce a ridurre il potere contrattuale della forza lavoro autoctona nella misura in cui questi lavoratori hanno meno protezioni. Infatti, storicamente i sindacati dei Paesi di immigrazione hanno alternato richieste di blocco della immigrazione con azioni a favore dei diritti dei lavoratori immigrati per scongiurare una competizione al ribasso. Agli strumenti adottati per contenere i rischi e i costi di utilizzo della forza lavoro autoctona in attività produttive si è accompagnato un crescente distacco tra investimenti direttamente impiegati in quelle attività e strumenti finanziari basati su assicurazioni e contro assicurazioni, su scommesse sull’andamento dell’economia reale che assorbono ormai il grosso delle risorse finanziarie. Tutti questi sono processi iniziati da tempo e che da tempo sono stati abbondantemente analizzati. Lo hanno fatto anche le organizzazioni dei lavoratori, che però non hanno accettato di coglierne le conseguenze fino in fondo. Era ed è difficile per loro, perché una delle ovvie conseguenze è proprio la maggiore debolezza delle classi operaie nazionali. La controparte può contare sulle armi potenti che in parte ho citato. Al contrario, gli strumenti classici di lotta dei lavoratori, gli scioperi, i boicottaggi portati all’estremo provocano un effetto boomerang: perdita di competitività dell’impresa, meno profitti, meno uso di forza lavoro, più decisioni dannose per i lavoratori. C’è poco da essere soddisfatti. Fortunatamente, seppure in questa condizione di debolezza strutturale, le organizzazioni dei lavoratori possono agire a proprio vantaggio, ottenendo buoni risultati. Proprio in una situazione di svantaggio strutturale è cruciale per le sorti dei lavoratori che i sindacati non sbaglino strategia. Per evitare che i datori di lavoro cerchino di proteggersi dai lavoratori nazionali occorre aumentare il valore di quel lavoro, incrementarne la produttività. Questo non implica solo lavorare di più e in modo più flessibile: si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente e che può essere temperata adottando altre politiche convergenti. La produttività infatti aumenta quando si utilizzano mezzi di produzione più sofisticati, quando si opera in contesti più ricchi di infrastrutture e di servizi alle imprese, quando si può contare su una giustizia più rapida e prevedibile. Aumenta quando si riducono le specifiche imposte che aggravano il costo del lavoro; quando i lavoratori diventano più competenti, dotati di una formazione migliore che risponda alle richieste del mercato; quando gli addetti vengono occupati in imprese competitive. Tutto questo implica che i sindacati, sul terreno delle relazioni industriali, hanno oggi più interesse a cooperare che ad alzare il livello del conflitto. Non solo. Hanno pure interesse, ma questa è un’operazione assai più complessa, a contenere l’impatto negativo della globalizzazione e delle regole che l’accompagnano. La drastica riduzione dell’export cinese negli ultimi mesi potrebbe essere un fatto stagionale, ma in ogni caso dimostra che l’Europa resta un potente attore economico, un’indispensabile area di consumo globale. Quindi l’Europa è in grado di contrattare per proteggere le condizioni di vita dei propri lavoratori, dei propri cittadini. Se lo vuole. Per farlo - come ci ha ricordato su questo giornale l’ambasciatore tedesco a Roma - deve diventare un attore economico internazionale forte e coeso. È urgente e necessario che i sindacati abbiano voce in questi processi di trasformazione, che siano in grado di entrare in coalizioni trasversali vincenti, che diventino promotori di modernizzazione, capaci di muoversi su uno scacchiere internazionale. Se non ora, quando? da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9900 Titolo: GIOVANNA ZINCONE - Gli ostacoli del premier Inserito da: Admin - Aprile 15, 2012, 11:30:53 am 15/4/2012
Gli ostacoli del premier GIOVANNA ZINCONE Oltre allo scarso tempo a disposizione, sei fattori, sei oggettive e potenti limitazioni, hanno segnato il perimetro entro il quale il Governo Monti ha potuto agire. E, seppure con alcuni mutamenti, ancora lo condizionano. La crisi delle economie reali sud-europee, che colpisce con particolare durezza il nostro Paese, ormai incapace di crescita da anni, ha origini non solo in debolezze interne, ma anche in decisioni e comportamenti esterni sui quali la nostra presa, per quanto meno risibile rispetto al recente passato, non può che restare marginale. Un pesante debito pubblico, della cui tenuta gli investitori-creditori possono dubitare: ne conseguono alti interessi, e le stringenti regole di livello europeo per contenerlo, che implicano la necessità di ridurre la spesa pubblica e di aumentare la pressione fiscale, con il risultato di aggravare le condizioni dell’economia reale. Una maggioranza parlamentare ampia, ma il cui carattere eterogeneo e la cui indipendenza dall’esecutivo costituisce un altro vincolo. Un fattore di impedimento, un lato assai insidioso dell’esagono, è costituito dalla scarsa cooperazione tra le forze sociali e dalla presenza di organizzazioni sindacali poco coese al proprio interno e competitive tra loro. C’è poi il lato della crisi sociale, dove troviamo una cittadinanza stanca e invecchiata, resa insicura e impoverita dalla crisi, colpita dalla riduzione dei redditi, da fallimenti e perdite di lavoro, dalla pesante disoccupazione giovanile: tale insieme di difficoltà, che le riforme tese a contenere il debito pubblico sono destinate a esacerbare, è certo una ragione di preoccupazione etica e un fattore di rischio molto preoccupante per il governo. Questa base di grave frustrazione sociale, sommata allo scontento dei cittadini nei confronti di tutta la classe politica e delle élite in generale, può infine dar fiato a tribunizi leader di opposizione, nutrire pericolosi movimenti collettivi, offrire occasioni a gruppi eversivi. Proprio i primi due lati di questa sorta di esagono di ferro, cioè l’aggravarsi della crisi economica e dell’interconnessa crisi del debito pubblico, sono stati la forza motrice e il pilastro iniziale del Governo Monti. Incaricato di un compito salvifico - tirare fuori il Paese da un possibile prossimo tracollo - il governo aveva infatti bisogno di un ampio consenso politico e, seppure con eccezioni nello schieramento dei partiti e tentennamenti tra le organizzazioni sindacali, lo aveva ottenuto. Ma non appena l’azione del governo ha cominciato a dispiegare effetti positivi e gli interessi sul debito pubblico hanno iniziato rapidamente a scendere, il collante del consenso ha dato segni di cedimento. Su alcuni lati dell’esagono, attori importanti hanno fatto sentire il loro peso, hanno stretto la morsa sull’azione del governo. Ingenuità comunicative dello stesso esecutivo hanno contribuito a sollecitarli. La riforma del lavoro ha fornito il principale casus belli. Con una sorta di effetto domino, le fratture interne e le competizioni tra i sindacati si sono messe in moto: la pressione contro la riforma Fornero da parte della Fiom ha condizionato la Cgil, che a sua volta a cascata ha attratto nell’area della critica alla riforma la Cisl e la Uil, che inizialmente parevano pronte a un accordo su formulazioni più incisive. Il desiderio che una riforma del lavoro non fosse osteggiata proprio dai rappresentanti dei lavoratori, probabilmente anche il timore che vaste manifestazioni sindacali, radicalizzate all’insegna dello slogan «no a licenziamenti facili» potessero degenerare in tumulti, magari accesi da infiltrazioni sovversive, hanno spostato l’ago iniziale della bilancia della riforma verso sinistra. Questo spostamento ha provocato a sua volta una reazione delle organizzazioni dei datori di lavoro, in particolare la protesta troppo esplicita di Marcegaglia. Le posizioni degli ambienti imprenditoriali italiani hanno contribuito a suscitare, anche se certo non a determinare, reazioni di disapprovazione dell’operato del governo da parte di importanti organi di stampa stranieri e, cosa ben più grave, da parte dei mercati. La reazione negativa nei confronti della riforma del lavoro, combinata con il timore di uno scivolone ulteriore dell’economia spagnola, e di una conseguente crisi letale dell’euro, hanno ricondotto l’Italia nel bel mezzo dell’area di rischio, un’area dalla quale non era mai uscita, ma da cui pareva almeno aver trovato la direzione per allontanarsi. Non è un’osservazione consolante, ma proprio il ritorno in una situazione di pericolo, l’andamento negativo di produzione, Borse e spread, le gravi condizioni della Spagna, possono tornare a ridurre la morsa dell’esagono. Il riaggravarsi della crisi può indurre comportamenti più virtuosi, una qualche rinata propensione a cooperare. Anche altri recenti mutamenti indeboliscono di fatto la pressione di almeno un lato dell’esagono. Il principale partito di opposizione, la Lega, è corrosa dagli scandali e non in grado di incidere significativamente. La stessa eterogeneità della maggioranza può avere, a questo punto, anche risvolti positivi. In seguito alla presa di posizione del mondo imprenditoriale, il Pdl ha chiesto modifiche al disegno di legge di riforma del mercato del lavoro che potrebbero riportare verso il centro l’ago della bilancia di quel difficile equilibrio, anche se non sappiamo quali controspinte potrebbe innescare un eventuale distacco dalla linea del dialogo con Cgil. Ma il carattere composito della maggioranza e il suo parziale scollamento sta producendo soprattutto effetti negativi: una serie di iniziative da parte di singoli partiti e correnti della maggioranza che portano fuori rotta le strategie di riforma del governo. In prossimità delle elezioni amministrative e nella prospettiva non lontana di quelle politiche, l’eterogeneità dei gruppi parlamentari può ritrasformarsi in una rissa tra fazioni che pone ostacoli all’attività del governo. I segnali sono fin d’ora forti e chiari, ma è un rischio inevitabile: anche se a qualcuno piace ignorarlo, i regimi liberaldemocratici richiedono che l’esecutivo si basi sul voto del Parlamento, che ne accetti le critiche e i dissensi, che sia in grado di evitare le sue trappole e le sue manovre ostili. Il Parlamento italiano si distingue, purtroppo, per intemperanze a dir poco eccessive, ma i principali soggetti di poco commendevoli esternazioni sono stati ampiamente votati dai cittadini, e spesso sono tra i più apprezzati ospiti dei talk show nostrani. Evidentemente le loro dichiarazioni assurde, i loro sguaiati insulti non turbano a sufficienza l’elettorato italiano. Ma turbano un governo composto da individui che provengono da ambienti magari competitivi e conflittuali, dove però le soglie delle buone maniere vengono oltrepassate moderatamente e raramente. Da altri lati dell’esagono di ferro possono venire ancora più pesanti sfide al governo: la crisi economica può continuare ad aggravarsi oltre limiti tollerabili, la sfiducia dei mercati e la pressione sul debito possono aumentare, le difficoltà economiche degli italiani possono peggiorare ulteriormente, tribuni politici e sindacali possono suscitare nuovi e più ampi movimenti di opposizione al governo, minacciando di destabilizzare l’ordine pubblico. Tutto questo può generare nel Paese una percezione di partita persa. Il governo stesso potrebbe essere colto da una deprimente sensazione di sconfitta. È questo oggi uno dei principali fattori di rischio. A Monti e ai suoi ministri dovrebbe invece essere chiaro un dato di fatto: hanno dalla loro parte la convinzione, ampiamente diffusa tra l’opinione pubblica e tra le élite, che nessun esecutivo ipotizzabile in tempi brevi potrebbe fare di meglio. Anzi. Per non restare impantanato il governo minaccia di tanto in tanto le dimissioni, ma ha in mano un’arma ben più potente che sostiene di non volere usare, ma che costituisce comunque un temibile deterrente: se il Partito Monti si presentasse oggi alle elezioni arriverebbe probabilmente primo. I partiti tutt’altro che in buona salute della sua maggioranza lo sanno. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9997 Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Immigrati, dal panico al buonsenso Inserito da: Admin - Aprile 28, 2012, 11:35:49 am 28/4/2012
Immigrati, dal panico al buonsenso GIOVANNA ZINCONE La popolazione italiana è fatta sempre più di immigrati. E, come sappiamo, la nozione di abitante è sempre meno collegata a quella di cittadino. I primi dati del Censimento 2011 ci dicono come l’Italia abbia raggiunto il massimo storico nel numero di abitanti l’anno scorso, sfiorando i 60 milioni, e tenendo quindi il passo con le altre grandi nazioni europee, come Francia e Gran Bretagna, che hanno varcato questa soglia nell’ultimo decennio. Ci dicono anche come la popolazione sia cresciuta maggiormente al Nord, e come due grandi città, Roma e Torino, abbiano invertito la tendenza alla decrescita, recuperando abitanti rispetto al 2001. È uno scenario diverso da quello registrato 10 anni fa, e soprattutto è uno scenario del tutto difforme da quello che le migliori previsioni demografiche degli Anni 80 e 90 avevano ipotizzato. Rilevando la bassa natalità registrata tra la popolazione nazionale, prevedevano per il 2011 un’Italia più piccola - ben staccata dalla pattuglia di testa dei Paesi europei - e più vecchia, più meridionalizzata e de-urbanizzata. La variabile che ha cambiato radicalmente le carte in tavola, il singolo più importante fattore di mutamento ha un nome ben preciso: immigrazione. Rispetto al censimento 2001 la popolazione straniera «abitualmente dimorante» in Italia è quasi triplicata: da circa 1.300.000 a circa 3.770.000 (un dato provvisorio). E il censimento, per quanto ci dia i dati più approfonditi, non è l’ultima foto scattata, e non può utilizzare né il grandangolo né il macro: molti italiani si sottraggono alla rilevazione, e a maggior ragione questo accade per gli stranieri. Se guardiamo ai dati Istat basati sulle rilevazioni anagrafiche, gli stranieri residenti in Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, sono 4.570.317, pari a circa il 7,5% della popolazione. Ma anche così aggiornata, la consistenza degli stranieri in Italia resta sottovalutata dai dati ufficiali. Se ai residenti si aggiungono, secondo la stima del Dossier Caritas, le persone regolarmente presenti ma non registrate in anagrafe, e i veri e propri irregolari, la cifra sale ulteriormente e supera ampiamente i cinque milioni. Non meraviglia quindi che una trasformazione così rapida e importante abbia suscitato una sensazione di spaesamento: tanti immigrati, così in fretta, e per di più tanti irregolari, non sono un fenomeno al quale ci si adatti con disinvoltura. Soprattutto il carattere irregolare preoccupa, ma un po’ a ragione e un po’ a torto. A ragione, perché segnala un’immigrazione fuori controllo e potrebbe far supporre che le nostre frontiere siano porose. A torto, perché il grosso degli irregolari non è entrato clandestinamente pur di trovare una via di fuga da situazioni disperate. Gran parte degli irregolari entra legalmente, seppure da un uscio laterale: utilizzano cioè un permesso di soggiorno valido che poi scade, perché magari era stato rilasciato per improbabili motivi turistici, mentre i titolari volevano cercare lavoro e fermarsi. E, almeno finché la situazione economica non si è fatta dura, ci sono pure riusciti. Quegli immigrati di straforo sono diventati lavoratori in regola con il permesso di soggiorno. Dal 1998 al 2012 ci sono state tre sanatorie, per un totale di circa 1.160.000 persone, ma non si è trattato di grandiose estrazioni di biglietti tutti vincenti. Per essere regolarizzati c’era bisogno di un contratto di lavoro. Quindi quel vasto universo, quelle impressionanti cifre che oggi registriamo di lavoratori immigrati, di decorose famiglie e di cari bambini che hanno origini straniere, hanno attraversato la porta stretta dell’irregolarità. Meglio ricordarselo, quando siamo presi dal panico di perdita di controllo. Meglio consolarsi constatando che la stragrande maggioranza di chi entra, anche se di straforo, fa più bene che male al nostro Paese. E se si pensa che si debba contenere l’immigrazione, bisogna osservare che a dissuadere i potenziali immigrati a entrare, e a spingere quelli presenti a rientrare nella patria di origine, ben più della repressione sta cominciando ad agire la recessione. Gli immigrati continuano a crescere, ma di poco, a un ritmo più ridotto degli anni precedenti. La disoccupazione ha colpito in particolare i lavoratori immigrati. Il tasso annuale medio è passato dall’11,6% del 2010 al 12,1% del 2011, crescendo molto più di quanto non sia accaduto per gli italiani. E, se anche nel 2011 ci sono stati 170.000 lavoratori immigrati in più, il loro livello di occupazione è sceso dal 63,1% del 2010 al 62,3%, pur rimanendo comunque più alto di quello dei lavoratori italiani, che è al 56,6%. Insomma, gli immigrati sono formalmente - come detto all’inizio - il 7,5% della popolazione, ma costituiscono il 9,4% della forza lavoro. La presenza degli immigrati, dei lavoratori immigrati non è dunque un’opzione che si può rifiutare, si può semmai governare con buon senso. Gli italiani sembrano averne. In un sondaggio comparato che include vari Paesi europei, gli italiani risultano i meno preoccupati della concorrenza degli immigrati nel mercato del lavoro. Due terzi (69%) non ritengono che portino via posti agli italiani e tre quarti (76%) affermano che gli immigrati vengono impiegati per mansioni che non potrebbero essere svolte altrimenti. Insomma gli italiani sono pronti ad augurare anche ai lavoratori immigrati un buon 1˚ maggio. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10041 Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Come le donne possono difendersi Inserito da: Admin - Maggio 24, 2012, 11:40:54 am 23/5/2012
Come le donne possono difendersi GIOVANNA ZINCONE L’ uccisione di donne non accenna a rallentare. Durante la presentazione del Rapporto annuale Istat si è evidenziata una diminuzione generale degli omicidi nell’ultimo ventennio, ma non di quelli femminili. Nel 2011 sono state 137 le vittime in Italia, dieci in più dell’anno precedente, e nei primi mesi del 2012, già più di 50 donne hanno perso la vita, uccise da un maschio. Quasi sempre da un marito, un compagno, un ex. Sono diminuiti alcuni reati, ma gli stupri sono aumentati. Stando a una ricerca del 2006, il rischio di essere oggetto di qualunque tipo di violenza cresce con il crescere della vicinanza del colpevole. Una donna su tre (tra i 16 e i 70 anni) è stata vittima di comportamenti lesivi più o meno gravi. La diffusa sopraffazione sulle donne costituisce non solo un terreno di coltura che può generare esiti letali, ma un male sociale in sé. Si moltiplicano appelli e mobilitazioni contro questo intollerabile fenomeno. Ma perché abbiano un impatto rilevante non basta che risveglino le coscienze e attraggano la pigra attenzione dei media, devono anche informare le vittime sugli strumenti a loro disposizione, convincerle a reagire, spingere gli addetti a trovare nuovi strumenti di tutela. Inasprire ulteriormente le pene carcerarie è una scorciatoia inefficiente: i tempi di detenzione sono già stati allungati. Nel 2009, con una maggioranza bipartisan, è passato il provvedimento contro la violenza sessuale che prevede da 6 a 12 anni di carcere. Sempre nel 2009 è stato introdotto con voto quasi unanime il reato di stalking (molestie di vario grado): il carcere va da 6 mesi a 4 anni, aumentabili fino a 6 se il colpevole è un partner o un ex, in larghissima maggioranza si tratta maschi. Le pene detentive non costituiscono un deterrente efficace e non arginano la forma estrema di violenza, l’omicidio, che prevede sanzioni ben più gravi. Che fare? Partiamo dai casi che presentano maggiori rischi. In base alla legge anti-stalking, il giudice può imporre ai responsabili di atti persecutori l’obbligo di tenersi a distanza dalla vittima, ma ovviamente non si può contare sul fatto che proprio i soggetti più pericolosi lo facciano, né si può prospettare una sorveglianza continua e capillare delle forze dell’ordine. Nelle situazioni di maggior pericolo si potrebbero dotare le donne di strumenti di comunicazione semplice e immediata con il 113 o con lo speciale numero verde 1522 che, a sua volta, può attivare un intervento immediato. Occorre, però, che le donne stesse siano consapevoli dell’entità del rischio che corrono. Questo vale anche per i casi, almeno inizialmente, meno gravi: l’1522 può metterle in contatto con i Centri antiviolenza specializzati nel seguire questi fenomeni. Nella quasi totalità dei casi le donne maltrattate non lo fanno. Molte evitano persino di parlarne con amiche e parenti. Per spezzare il silenzio occorre partire dalla constatazione che parlare, a loro avviso, potrebbe avere costi troppo alti. Il primo costo, il più difficile da contenere è il rischio della perdita affettiva, la rinuncia a una relazione per quanto malata. Un secondo costo, temuto dalle vittime di aggressioni da parte di coniugi o conviventi, consiste nella perdita dello status sociale e della sicurezza economica garantiti dal partner. All’interno della coppia è ancora frequente uno squilibrio di genere di risorse e di status. Il rapporto annuale dell’Istat ha fotografato ancora una volta questo squilibrio. L’Italia è seconda solo a Malta per la presenza di famiglie in cui solo l’uomo lavora. La proprietà della casa in cui la coppia vive è più spesso del maschio. A picchiare non sono soltanto spiantati ubriaconi, ma anche individui benestanti, stimati lavoratori, professionisti apprezzati. E il divario di reddito tra maschi e femmine cresce con il crescere della posizione sociale. La legge prevede l’obbligo di versare un assegno periodico alle vittime di stalking, ma la denuncia, se si tratta di un convivente, potrebbe coincidere comunque con una rinuncia al benessere e alla considerazione sociale di cui la donna indirettamente gode. I centri anti violenza servono anche a far capire che le strategie sono molte e non necessariamente comportano una definitiva rottura. Perciò è necessario che i centri si rafforzino. Per arginare i costi temuti che favoriscono il silenzio, bisogna evitare almeno nei casi meno gravi ricorsi troppo immediati al giudice e alle misure detentive. Quello che vale nelle relazioni conflittuali internazionali, può valere anche nelle relazioni conflittuali di genere. Funziona meglio l’escalation piuttosto che la deterrenza dell’arma estrema. Occorre che le donne vittime di abusi sappiano che la normativa italiana prevede già la possibilità di chiedere aiuto senza pagare e far pagare subito costi troppo alti. Non infligge immediatamente ai colpevoli punizioni che le stesse vittime possono considerare troppo pesanti e con effetto boomerang. La legge anti stalking è uno strumento flessibile. Quando le donne si rivolgono alle forze di polizia, invece di sporgere immediatamente querela, e con ciò attivare un procedimento penale, possono fare una richiesta di ammonimento. E il questore può cercare di dissuadere il responsabile attraverso questo strumento. Il questore può anche aprire un’istruttoria, convocare il colpevole e la vittima per approfondire la questione. In molti casi l’ammonimento ha dimostrato di funzionare. E, comunque, a fronte di recidiva o di comportamenti gravi, non occorre neppure la querela, scatta la denuncia di ufficio e si apre il procedimento penale. Si potrebbe riflettere sulla possibilità di affinare ulteriormente le armi leggere di dissuasione, modulando ancora di più l’escalation: ad esempio, colpendo in misura crescente il capitale di onorabilità e di stima dei colpevoli. Se il questore rafforzasse le misure di sorveglianza, questo servirebbe non solo a tutelare materialmente la vittima, ma anche a estendere la conoscenza dei misfatti. I vicini potrebbero interrogarsi sul perché una macchina della polizia si trova di fronte a quel portone. La stessa estensione della conoscenza potrebbe essere attuata attraverso un allargamento delle testimonianze nel corso dell’istruttoria. La possibilità di modulare il numero e il tipo di persone coinvolte offrirebbe al Questore uno strumento dissuasivo di potenza variabile ed eventualmente crescente. Ma la minaccia o l’attuazione di un danno di immagine è efficace solo a tre condizioni. La prima è che le vittime la mettano in moto: che si rivolgano al numero verde o alle forze dell’ordine, che accettino almeno questa modica sanzione per il colpevole. La seconda si collega alla prima: le donne abusate non devono vergognarsi di essere vittime. Purtroppo spesso capita. La vergogna dovrebbe essere monopolio assoluto dei colpevoli. La terza è forse la condizione chiave e si collega alla seconda: comportamenti come lo stalking e la violenza domestica dovrebbero essere considerati vergognosi persino a giudizio degli stessi autori, o almeno agli occhi della stragrande maggioranza dell’universo maschile. Ma lo sono? da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10134 Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - All'Italia serve l'import di cervelli Inserito da: Admin - Agosto 19, 2012, 07:42:32 pm 19/8/2012
All'Italia serve l'import di cervelli GIOVANNA ZINCONE Non sono tempi felici. La crisi colpisce l’occupazione e si restringono le prospettive di nuove assunzioni, non solo per gli italiani, ma anche per gli stranieri. Gli stranieri, però, se la cavano relativamente meglio. Questo almeno è quanto emerge dalle previsioni per il 2012 dell’indagine Unioncamere–Ministero del Lavoro. La domanda complessiva di lavoratori immigrati (stagionali inclusi) dovrebbe diminuire quest’anno del 18% rispetto al 2011, quella degli italiani del 31,6%. Quindi l’incidenza degli stranieri sulle assunzioni complessive dovrebbe salire ulteriormente (dal 16,3% dello scorso anno al 17,9% di quest’anno). Si consolida, insomma, il carattere strutturale della forza lavoro immigrata nella nostra economia: si tratta di una componente che anche di fronte alla crisi perde colpi, ma resiste relativamente meglio. Le sue caratteristiche confermano, però, alcune pesanti debolezze del sistema Italia, che è bene non continuare a trascurare. La nostra economia attrae un’immigrazione meno istruita rispetto a quella che raggiunge altri paesi europei. Nel 2010 i laureati rappresentavano solo il 10% degli immigrati in età lavorativa residenti in Italia. Decisamente meno non solo delle incidenze che troviamo in Francia, Inghilterra e Svezia, ma anche in Portogallo e Spagna. In compenso questi ultimi paesi, i soliti nostri compagni degli ultimi banchi, «battono» l’Italia per la consistenza di lavoratori con livelli di istruzione minimi. Ma la cosa non consola. Perché anche se i nostri immigrati sono nell’insieme abbastanza istruiti, sebbene non quanto quelli che si dirigono verso economie più solide della nostra, lo sono meno degli italiani. Quindi non arricchiscono il nostro capitale di competenze. Come se non bastasse, la quota di stranieri con un titolo di studio più elevato è diminuita tra il 2001 e oggi. Si aggiunga che l’investimento formativo degli stranieri, quando c’è, spesso non è messo a frutto. Specie le lavoratrici straniere - mediamente più qualificate delle loro controparti maschili - fanno lavori assai poco qualificati rispetto alle loro capacità. Il fatto è che in Italia la domanda di addetti con alte competenze è scarsa in generale. Non solo: come ci segnala il Rapporto Isfol 2012, è pure in calo. Nel nostro paese la quota di professioni ad elevata specializzazione rappresenta solo il 18% del totale, contro il 23% della media Ue. E, mentre in Europa la percentuale di occupazione in quel tipo di professioni aumenta costantemente, in Italia invece negli ultimi 5 anni si è contratta dell’1,8%, contro un aumento che ha raggiunto il 4,3% in Germania, il 4,4% nel Regno Unito e il 2,8% in Francia. Insomma, non solo aumenta la disoccupazione e diminuiscono le opportunità di nuove assunzioni, ma la qualità della forza lavoro presente sul nostro territorio nel suo insieme peggiora. Certo, la crisi degli ultimi anni contribuisce ad accentuare il problema, ma non lo ha creato. È lo stesso sistema produttivo italiano, fatto di piccole imprese in molte delle quali si investe poco in innovazione e sviluppo, dove si fa scarso uso di lavoro specializzato, che spiega sia l’impoverimento qualitativo della nostra forza lavoro, sia la sua scarsa e decrescente produttività, sia la complessiva debolezza e inadeguata competitività della nostra economia. È apprezzabile il tentativo di attrarre lavoratori super specializzati, ma – rebus sic stantibus, cioè con questa economia reale – non sappiamo quanto successo possa avere. A favorire l’ingresso di immigrati istruiti mira il decreto, entrato in vigore da pochissimi giorni, che attua la Direttiva Europea sulla cosiddetta «carta blu», un permesso speciale attribuito proprio ai lavoratori stranieri specializzati (almeno una laurea triennale): per loro non si prevedono limiti di quote, purché dispongano di un’offerta di lavoro. Ma quanti ne faranno uso per venire a lavorare proprio in Italia? Temo pochi. Si può presumere che, invece, numeri più consistenti siano il risultato di un altro provvedimento; anch’esso recente. A metà luglio 2012, partendo dall’attuazione di una Direttiva Europea contro lo sfruttamento del lavoro immigrato irregolare, è stato votato un decreto legislativo che in pratica consentirà un’altra sanatoria. Assai probabilmente questa misura farà emergere un’ulteriore quota di lavoro immigrato destinato per lo più a mansioni poco qualificate. A completare questo quadro poco roseo per le prospettive del sistema Italia, si inserisce non solo un generico aumento (+4%) dell’emigrazione italiana, ma la costante perdita di giovani qualificati e di ricercatori. Secondo il centro studi «La fuga dei talenti» il 70% degli oltre 60.000 giovani che lasciano ogni anno l’Italia è laureato. Come porvi rimedio? Qualche anno or sono, una ricerca finanziata della Commissione Europea aveva messo in evidenza il fatto che non bastano incentivi monetari o fiscali per evitare fughe di cervelli e invogliare rientri: il più efficace rimedio all’esodo è costituito da centri di eccellenza, dove i ricercatori possono lavorare con profitto, in ambienti che si confrontano con i migliori standard. La stessa logica si dovrebbe applicare alle imprese. Occorre premiare fusioni o reti tra imprese che consentano di raggiungere economie di scala tali da incentivare investimenti in ricerca e sviluppo; si devono, al contrario, evitare trattamenti che disincentivino il superamento di un certo numero di addetti. La riforma Fornero si è mossa in questa direzione, ma non senza difficoltà, ostacoli e forzosi arretramenti. Il governo Monti sta facendo molto per evitare il disastro nei nostri conti pubblici. Non si può negare che stia pure tentando di riformare il sistema economico nel suo insieme, impresa non facile dato il contesto politico. Ma è necessario che continui con maggiore decisione su questa strada. Non si evita il disastro vivacchiando nel vecchio, come troppi pseudo innovatori politici vorrebbero. Abbiamo bisogno di riforme tali da rassicurare i mercati e i partner europei perché possano diminuire interessi sul debito, onerosi quanto ingiustificati. Ma non bisogna mai dimenticare che al centro della nostra attenzione e dell’azione dei governi italiani deve restare l’economia reale. Per non restare intrappolati in un presente ansiogeno, abbiamo bisogno di regalarci un futuro economico credibile. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10438 Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - La primavera araba non giova alle donne Inserito da: Admin - Settembre 09, 2012, 10:12:56 am 28/8/2012
La primavera araba non giova alle donne GIOVANNA ZINCONE Non sempre il progresso giova alle donne. La Tunisia ne ha offerto da poco un infelice esempio. Grazie al Codice del 1956 e a successive riforme, rappresentava un ammirato precursore dell’emancipazione femminile tra i Paesi arabi. E il nuovo corso tunisino è stato considerato il più assennato tra quelli scaturiti dalla Primavera araba. I risultati elettorali del 2011 non hanno premiato i partiti laici moderati, ma i rischi di chiusure islamiste parevano evitabili. Purtroppo la Commissione «Diritti e libertà» dell’Assembla Costituente tunisina, in disinvolta contraddizione con il proprio titolo, ha approvato un nuovo articolo 28 che retrocede le donne. Afferma infatti: «Lo Stato assicura la protezione dei diritti della donna», un’affermazione positiva solo all’apparenza; secondo Roberta Aluffi, studiosa di diritto delle religioni, si tratta di una rischiosa espressione islamista perché implica specifici diritti femminili (il dono matrimoniale e il mantenimento), cui potrebbero fare da pendant pesanti diritti maschili (il ripudio e l’obbedienza delle donne di famiglia). L’articolo 28, inoltre, vuole la donna «associata» o «complementare» all’uomo non solo nella sfera familiare, ma anche nella «edificazione della Patria»; quindi, a differenza di quanto normalmente teorizzato da pensatori islamisti, in Tunisia il paternalismo potrebbe toccare anche la sfera pubblica. Manifestazioni anti-articolo 28 hanno coinvolto un buon numero di tunisine indignate. Richiami e proteste sono arrivati da organizzazioni internazionali, in primis il Consiglio d’Europa. La partita non è formalmente chiusa. La nuova Costituzione deve ancora essere approvata in seduta plenaria. L’Assemblea costituente include anche una componente femminile, ma non è chiaro quanto e come inciderà: sebbene eletta con il 50% dei posti in lista riservati alle donne, le rappresentanti sono solo il 24%. Per la quasi totalità appartengono al partito islamista di maggioranza, che sostiene di ispirarsi all’AKP di Erdogan, ma che in commissione ha votato l’articolo 28. In quel contestato articolo si dà pure un contentino ai progressisti perché all’ambigua protezione dei «diritti della donna» si affianca la protezione delle «acquisizioni», cioè di quanto esse hanno finora ottenuto. Quante difenderanno le proprie «acquisizioni» si vedrà nel voto in aula. Torna, comunque, a farsi sentire quel sapore di dominanza maschile che troppo spesso ha accompagnato svolte istituzionali che parevano positive. La sindrome si è accompagnata al crollo di opprimenti dittature laiche, sostituite però da forme più o meno severe di regimi islamisti. L’autoritario Scià di Persia Reza Palhevi aveva comunque modernizzato il Paese e le sue donne, l’Iran degli ayatollah ha invertito la rotta. L’Afghanistan liberato dai comunisti è tenuto in scacco da talebani misogini. Siamo dolorosamente abituati all’idea che la sostituzione di regimi autoritari modernizzanti con islamisti al potere possa nuocere alle donne. Dimentichiamo quel che le donne persero nei nuovi Stati di impronta liberale. La nascita dell’Italia non giovò alle donne del Lombardo-Veneto. In quei territori, veniva applicato, fin dal 1816, il Codice civile austriaco che riconosceva a tutte le donne, mogli incluse, la capacità di agire, cioè di amministrare il patrimonio, stare in giudizio, concludere contratti senza l’autorizzazione del marito o di altri maschi. Al contrario, nel diritto civile del Regno di Sardegna le donne non avevano questo diritto e non lo ottennero con il Codice civile italiano del 1865; quindi le lombarde e le venete «liberate dal giogo austriaco» furono ridotte allo stato di minori, di incapaci. Solo con la riforma liberale del 1919 le maggiorenni italiane diventarono giuridicamente adulte. Ci pensò poi il Fascismo a imporre alle italiane notevoli passi indietro. Neppure la formazione degli Stati Uniti fu per tutte un guadagno. Ad esempio, la Costituzione del 1776 del New Jersey concedeva il diritto di voto «a tutti gli abitanti», quindi alle donne. Ma è nel 1920, con il XIX emendamento, che tutte le americane diventano pienamente elettrici. Quindi non solo la storia della democrazia fa passi indietro, ma procede anche a zigzag: acquisisce qualcosa, indipendenza nazionale, libertà per molti, ad esempio, ma perde altro, e quell’altro riguarda troppo spesso le donne. Oggi si guarda con orrore alla Siria, a una repressione che non trova limiti umanitari. Preoccupa anche il futuro di quel Paese dopo la caduta di Assad. Chiunque abbia visitato la Siria prima della rivolta e del terribile massacro in corso capisce questa preoccupazione. Si poteva cogliere visivamente come quel regime poliziesco e autoritario fosse riuscito ad imporre una convivenza religiosa. Meravigliava la stretta e pacifica contiguità fisica tra chiese delle più diverse confessioni cristiane, la compresenza di moschee di declinazioni musulmane tra loro tradizionalmente ostili. Donne di culture e religioni diverse formavano patchwork opportunamente stridenti, alcune occultate da neri paramenti, altre esibite in più che liberali scollature. Come agire per bloccare il massacro e favorire l’avvento di un nuovo regime non oscurantista? Basta sostenere militarmente le componenti più moderate? Questa strategia per funzionare dovrebbe riuscire a coalizzare moderati, non si sa quanto numerosi, che appartengono a gruppi religiosi diversi, in particolare dovrebbe attrarre i meno integralisti dei sunniti. Infatti, se i democratici risultassero minoritari e isolati, quando si andasse votare, averli sostenuti militarmente sarebbe servito a poco. Una delle contraddizioni della democrazia sta nel fatto che il demos , il popolo, non è sempre prevalentemente democratico, tollerante e femminista. Il pessimismo in casi come quello siriano è quindi quasi inevitabile, e riguarda molti aspetti. Sono stati finora espressi fondati timori per un futuro di endemici conflitti interreligiosi, di ulteriori scompensi nello scacchiere mediorientale. Dovremmo più spesso pensare alle donne siriane, agli strazi e ai lutti che stanno subendo, alle perdite di dignità e di diritti che potrebbero colpirle in futuro. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10466 Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Immigrati, i numeri e la realtà Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2012, 05:57:31 pm Editoriali
31/10/2012 - il dossier caritas Immigrati, i numeri e la realtà Giovanna Zincone Radiografando l’immigrazione con occhi aperti al mondo, il Dossier Statistico Caritas anche quest’anno ci parla dell’Italia. Rende evidenti emergenze del presente, pecche radicate, problemi strutturali. Secondo le stime Caritas, un po’ più generose come sempre di quelle Istat, gli stranieri nel nostro paese sono 5 milioni, una cifra appena più alta dell’anno precedente. La crisi, quindi, ha diminuito solo di poco il tasso d’incremento degli ingressi, ma non ha ancora intaccato il totale dei presenti. Siamo ormai sopra alla media europea, e la rapidità con cui il fenomeno si è sviluppato specie nell’ultimo decennio ha generato contraccolpi. Stando a vari sondaggi, per gli italiani gli immigrati sono troppi. In questa opinione si profilano due pecche nazionali: la riluttanza a fare i conti con la realtà e l’incongruenza dei giudizi. Questi 5 milioni sono troppi rispetto a cosa? Non rispetto alle esigenze della nostra economia: gli immigrati sono circa l’8% della popolazione, ma il 10% della forza lavoro. Si tratta di una componente poco concorrenziale, collocata in larga misura nelle fasce basse dell’occupazione e del reddito: l’83% dei comunitari e Il 90% dei non comunitari sono operai. Sempre secondo i sondaggi, gli italiani concordano sul fatto che i lavoratori stranieri ricoprano mansioni lasciate scoperte dagli autoctoni. Temono semmai che consumino più risorse pubbliche di quante ne producano, ma è vero il contrario, come conferma anche il rapporto Caritas. Il largo numero di immigrati alla base della piramide lavorativa non dipende solo dal fatto che molti italiani rifiutano certe mansioni, ma anche dal fatto che quella base è molto, troppo e crescentemente larga. La nostra economia attrae dall’estero soprattutto lavoratori non specializzati ed esporta giovani, anche specializzati, perché si colloca in settori arretrati nella divisione internazionale del lavoro. La nostra è un’economia seduta. È un sistema che scoraggia i giovani cervelli: il 62% per cento dei ricercatori italiani emigrati in Gran Bretagna ha meno di 35 anni, e lì solo il 9% di nostri accademici ha più di 50 anni. Che escano più persone qualificate di quante ne arrivino è inevitabile. Dubito che la Carta Blu dell’Ue, introdotta anche in Italia per favorire l’immigrazione di stranieri qualificati, rovesci il senso di marcia delle competenze in entrata e in uscita dal nostro paese. Abbiamo infatti un altro magnete di lavoro purtroppo spesso poco qualificato: un welfare marcatamente familiare che impiega numerose addette nelle funzioni di cura domestiche, anche e molto degli anziani. Questa strategia di delega alle famiglie può essere migliorata, ma evitare di internare gli anziani non autosufficienti è una buona cosa. Meno buono è che il welfare domestico costituisca un ricettacolo di lavoro nero. Anche la regolarizzazione del 2012 è stata utilizzata soprattutto da colf e badanti. Irregolarità e lavoro nero sono più facili da praticare in casa, ma lo sono anche in un tessuto di piccole imprese che, per quanto ricco di creatività ed esemplari successi, costituisce un altro limite e una fragilità del sistema Italia. In un contesto culturale che non ama le regole, le imprese non fanno eccezione. Nel 2011 il 61% per cento delle imprese controllate risulta non in regola, quindi talora più a rischio di incidenti sul lavoro. Per quanto in calo rispetto al passato, gli incidenti restano più alti della media europea e, per gli immigrati, addirittura in aumento (dal 15% al 15,9%). I «troppi» immigrati pagano quindi prezzi piuttosto alti: si collocano nella fascia più bassa dei redditi e delle occupazioni, sono più esposti a trattamenti irregolari e a rischi di incidenti. La crisi ha prodotto un aumento della loro disoccupazione che è decisamente più alta (12,1%) di quella dei nati in Italia. D’altra parte, il lavoro immigrato resta fondamentale per i datori di lavoro. Mentre gli occupati nati in Italia sono diminuiti, quelli nati all’estero sono aumentati di 170 mila unità. E non solo perché sono più flessibili: è alta infatti la loro quota tra gli assunti a tempo indeterminato. Gli immigrati costituiscono quindi un polmone sociale, ma è un polmone a rischio. Per loro, come per tutti i lavoratori, molto dipende dalla tenuta della nostra economia e da norme che aiutino ad affrontare la turbolenza in corso. È stato quindi opportuno rialzare il tempo di disoccupazione tollerata da 6 a 12 mesi, ma ancora meglio sarebbe lasciarlo alla valutazione dei singoli casi. Il rapporto Caritas fornisce numeri, ma nella sua introduzione ci ricorda che gli immigrati non sono numeri, sono individui e famiglie degni di rispetto. Nei loro confronti si evidenzia, invece, un altro grave vizio nazionale che irrompe nei rapporti sociali e politici: la mancanza di rispetto, l’uso di un linguaggio volgare. Anche nel Dossier Caritas emerge dunque un’Italia che - come ha affermato Monti - non necessita di interventi moderati, ma di riforme radicali. D’altra parte, il nostro paese ha un grande bisogno di moderazione nei toni, di quelle buone maniere pubbliche che Monti cerca di diffondere. Auguriamoci che questa non si riveli la più difficile delle sue riforme. da - http://www.lastampa.it/2012/10/31/cultura/opinioni/editoriali/immigrati-i-numeri-e-la-realta-MfabhHiXiKWChdp5x8sRJK/pagina.html Titolo: Giovanna Zincone. L’integrazione che serve all’Italia Inserito da: Admin - Agosto 13, 2013, 11:55:58 am Editoriali
13/08/2013 L’integrazione che serve all’Italia Giovanna Zincone L’incessante mancanza di rispetto che investe la Ministra Kyenge non nuoce solo a lei. Il dileggio e il disprezzo che piovono dall’alto – da importanti cariche dello Stato, da leader politici, compreso il pugnace Bossi, da accademici ed editorialisti – legittimano l’insulto stradale, l’aggressione spicciola. Espongono a un maggior rischio non solo le persone di origine immigrata che vivono in Italia, ma anche chi si trova nel nostro Paese come turista o come uomo d’affari straniero, se gli capita di avere una fisionomia poco europea. E questo ovviamente nuoce all’Italia, alla sua immagine internazionale, ai suoi rapporti commerciali, al suo turismo. Una commessa italiana di Zurigo che ha fatto notare alla supermiliardaria conduttrice nera Oprah Winfrey quanto il costo di una borsetta (27.000 euro, sic!) potesse risultare eccessivo per le sue tasche è finita in prima pagina; ma forse l’accorta commessa avrebbe messo in guardia qualunque signora priva di patenti indicatori di esagerata ricchezza. Chi dice a Kyenge che non può fare la Ministra, invece, lo dice proprio perché non vuole accettare in quella posizione una donna di colore. Dietro questo indecoroso rigetto individuale c’è un più ampio e pericoloso rigetto. C’è un rifiuto del presente destinato a produrre seri problemi nel futuro. La popolazione del presente italiano, che piaccia o meno, è fatta anche di immigrazione e di post-immigrazione. Gli stranieri residenti in Italia al primo gennaio 2013 erano 4.387.721, il 7,8% della popolazione, e tra questi non si computano gli individui che, pur essendo di origine straniera, come Kyenge o la sua ex collega Idem, sono diventati cittadini italiani: nel solo 2012 sono stati più di 65.000. I residenti stranieri aumentano: solo nell’ultimo anno di 334.000 unità, 8,2% in più rispetto all’anno precedente. E intorno a queste cifre, con varie oscillazioni, si sono assestati gli aumenti degli ultimi anni, anche se dobbiamo aspettarci nel breve termine un rallentamento legato alla crisi economica. Considerare l’immigrazione un fenomeno reversibile significa negare l’evidenza, affrontarlo a suon di insulti per incassare qualche voto è un atto di consapevole irresponsabilità. Anche se nel nostro Paese di atti di irresponsabilità politica se ne commettono in buon numero, non è un buon motivo per insistere. Partiamo dalla constatazione che la popolazione italiana futura sarà composta sempre più da individui e famiglie di provenienze nazionali e di etnie diverse. Occorre gestire questa potente trasformazione sociale con la prudenza che merita. Non è facile, perché le manifestazioni di insofferenza dimostrano che non si tratta solo di integrare gli immigrati, ma che si deve pure integrare quella parte non piccola di italiani che non accetta di vivere in un paese di immigrazione. Chi oggi non vuole cambiare la legge sulla cittadinanza, chi rifiuta forme moderate di ius soli, manifesta un più ampio rifiuto dell’immigrazione e dei suoi figli. Nel 2012 sono nati 80.000 bambini stranieri, ed è bene essere consapevoli che la stragrande maggioranza di loro resterà a vivere in Italia: farli diventare italiani prima dei 18 anni è solo ragionevole. Tuttavia, anche chi accetta l’immigrazione e vuole giustamente cambiare la legge sulla cittadinanza in senso più liberale, deve tener conto della realtà dei fenomeni migratori, dei loro aspetti presenti e delle probabili evoluzioni future. È bene non ripetere l’errore fatto con la riforma della cittadinanza del 1992, che guardava al passato: tutta rivolta a premiare i discendenti degli emigrati italiani all’estero, quando l’Italia era diventata più destinazione che fonte di emigrazione. Il grosso delle proposte in discussione mira a favorire i bambini nati e istruiti in Italia, e a ridurre i tempi di residenza richiesti agli adulti per fare domanda di naturalizzazione (ora sono tra i più lunghi d’Europa). Si tratta di proposte che circolano dalla fine degli anni Novanta: vanno benissimo ma hanno bisogno di una bella rinfrescata. È vero che il grosso degli immigrati è qui per restare, ma non tutti lo fanno o lo faranno. Gli stranieri (anche una volta naturalizzati) possono decidere di spostarsi in un altro Paese, o tornare in patria. Nel 2012 hanno lasciato l’Italia almeno 38.000 immigrati (probabilmente molti di più, visto che non tutti si cancellano all’anagrafe). Non sappiamo, invece, se e quanti «nuovi cittadini», immigrati naturalizzati italiani, abbiano lasciato il Paese. Chiediamoci se non sia il caso di individuare le condizioni in base alle quali si trasmette la cittadinanza da parte di naturalizzati che rientrano nella patria di origine o vanno altrove (e, in parallelo, ragionare sui requisiti da richiedere ai discendenti di emigrati italiani per ereditare la cittadinanza risiedendo all’estero). Insomma, occorre ideare una riforma della cittadinanza che tenga conto della mobilità. Il vecchio accordo italo-argentino del 1971 prevedeva che, a turno, la cittadinanza del Paese in cui non si risiedeva fosse «messa in sonno»: non era una cattiva soluzione. Invece, con la riforma costituzionale del 2001 abbiamo assegnato ai discendenti di emigrati italiani che magari non hanno mai visitato il nostro Paese il diritto di eleggere propri rappresentanti sulla base di stravaganti macro-circoscrizioni, e sappiamo quanti pasticci ne siano nati. D’altra parte, occorre regolare il pur auspicabile incremento delle carriere politiche dei «nuovi cittadini». Si vuole chiedere un supplemento di anni di residenza, dopo la naturalizzazione, per accedere alle massime cariche pubbliche? Si vuole riservare la carica più alta, quella della Presidenza della Repubblica, ai nati in Italia, come avviene negli Usa? Si vuole chiedere a chi viene eletto in Parlamento, o nei consigli regionali, di rinunciare alla cittadinanza del Paese di origine? Sono domande legittime, che non implicano necessariamente risposte affermative, ma richiedono una riflessione, specie in un contesto di crescente mobilità. Non vorrei, però, che la complessa questione dell’integrazione si avvitasse intorno al tema della cittadinanza e dei diritti politici. Abbiamo assistito a fallimenti nei percorsi di integrazione anche in Paesi a cittadinanza facile, come la Francia o la Gran Bretagna. Purtroppo non esistono ricette facili per integrare. C’è, però, una ricetta facile per sabotare l’integrazione e aumentare conflitti interetnici: esibire disprezzo culturale nei confronti degli immigrati. Se al rispetto umano non ci spinge un’auspicabile sensibilità, ci spinga almeno il calcolo razionale dei danni che fomentare i conflitti comporta. da - http://lastampa.it/2013/08/13/cultura/opinioni/editoriali/lintegrazione-che-serve-allitalia-Lgx2WbqZpgmFha5WSlAu2N/pagina.html Titolo: GIOVANNA ZINCONE. - Le paure che muovono l’Europa Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2014, 04:56:29 pm Editoriali
10/02/2014 Giovanna Zincone Il referendum di revisione costituzionale che ha vinto ieri in Svizzera mira a limitare l’immigrazione in generale, ma impatterà in specie su quella dei cittadini dell’Ue. Infatti, non si limita a introdurre la possibilità di programmare i flussi migratori imponendo tetti massimi, ma prevede pure la revisione degli accordi internazionali in contrasto con questa politica: di fatto, quelli con l’Unione Europa, rispetto ai quali vigeva una politica di libera circolazione. Il referendum promosso dal partito di destra Udc ha visto avversi il governo federale e il mondo imprenditoriale. Il copione classico si ripete: le imprese sono favorevoli all’immigrazione, così come lo sono i governi più ragionevoli, ma una ampia parte della popolazione, non solo in Svizzera, vede l’immigrazione come una minaccia e una somma di problemi. La vittoria non è quindi, nonostante i sondaggi che l’hanno preceduta, una grande sorpresa. Semmai dovrebbe positivamente sorprendere il fatto che si tratta di una vittoria di stretta misura (50,3%). Anche in Paesi membri dell’Unione, in tempi recenti, non sono mancate minacce di restrizione alla libera circolazione: Cameron in Gran Bretagna e la Csu in Germania hanno avanzato con insistenza la proposta di escludere bulgari e romeni, e anche lì ad opporsi sono stati soprattutto gli imprenditori. Ma anche lì, come in Svizzera, sono i lavoratori nazionali a temere la concorrenza al ribasso da parte degli stranieri. E i cittadini in generale non hanno solo paure economiche: conta pure la paura di essere spodestati, di non ritrovare più il proprio panorama urbano, le proprie consuetudini di vita. Per accrescere queste paure i partiti xenofobi sono pronti a esagerare. Anche in questa campagna svizzera sono ricomparse le immagini di donne musulmane ricoperte dalla testa ai piedi, insieme con fantasiose proiezioni demografiche sul numero di musulmani pronti a islamizzare la Svizzera del futuro prossimo. Le fantasie demografiche usate in campagna elettorale hanno riguardato più in generale gli stranieri, che secondo questi poco attendibili scenari, potrebbero uguagliare gli abitanti svizzeri entro il 2060. Di fatto, anche a causa della crisi economica che non ha risparmiato la Confederazione, il saldo migratorio è sceso nettamente dal 2008 al 2013. Ma la presenza di stranieri in Svizzera è decisamente alta ed è cresciuta anche nel nuovo millennio. Secondo i dati più recenti si tratta del 23,3% della popolazione, nel 2001 si era al 19,9%: perché, se gli ingressi rallentano, non vuol dire che si fermino e i tassi di fertilità degli stranieri sono comunque più alti (1,8) di quelli dei nazionali (1,2). Tutto sommato, al di là delle esagerazioni dei promotori del referendum, non si può negare che la percentuale di stranieri in Svizzera sia decisamente alta: in Italia si mugugna per un dato che si colloca a meno di un terzo del loro. Va osservato, peraltro, che quando di tratta di opportunità e di diritti degli stranieri, il referendum è un’arma poco leale, perché a tenerla in mano sono soltanto gli altri, i cittadini. Infatti in Svizzera ben tre referendum hanno respinto tutte le proposte di facilitare l’acquisizione della cittadinanza per i minori nati nella confederazione. In generale, il referendum funziona poco quando si tratta di promuovere o tutelare i diritti delle minoranze. Ma di quali minoranze stiamo parlando per questo specifico referendum? Vale la pena di osservare che negli ultimi anni a incrementare le presenze straniere in Svizzera non sono stati gli ingressi di immigrati che si potrebbero considerare culturalmente distanti, alieni. Secondo dati del 2013 sono infatti altri europei a costituire i due terzi della popolazione straniera, con un peso preponderante anche nei flussi, che hanno visto in testa tedeschi e sud-europei, questi ultimi in netta crescita anche a causa della crisi. Insomma, anche in questo referendum si è brandita la retorica della lotta alla islamizzazione e del rischio di perdita dell’identità culturale, ma sul piano della concorrenza economica lo sguardo degli elettori si è probabilmente posato molto più vicino. Qual è infatti la prima minoranza nazionale oggi residente in Svizzera? Siamo noi, gli italiani. E si noti che la nuova normativa costituzionale approvata con il referendum di ieri prevede pure la possibilità di limitare l’accesso ai frontalieri. Si tratta in gran parte di lombardi e piemontesi. E il cantone in cui il voto ha più entusiasticamente sostenuto il referendum anti-immigrazione è stato il Canton Ticino, con il 68% di favorevoli. A dimostrazione che del fatto che siamo tutti i «terroni» di qualcun altro. Da - http://lastampa.it/2014/02/10/cultura/opinioni/editoriali/le-paure-che-muovono-leuropa-i3Bnirg66bR4b1K05AXXCI/pagina.html |