Titolo: Paolo Valentino Oggi Obama schiera la squadra Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2007, 11:16:48 am ESTERI
Il candidato sorpreso a ritoccare il suo passato dal giornale schierato con la rivale Hillay Una parabola corretta per descrivere come lui abbia saputo resistere alla tentazione della carriera "Obama, ecco tutte le bugie" Il Nyt smaschera l'epopea di Barack DAL nostro inviato VITTORIO ZUCCONI WASHINGTON - Più che un attacco politico frontale, è un calcio negli stinchi, un fallo da dietro, quello che il New York Times ha sferrato a Barack Obama, pizzicato a massaggiare la propria biografia. Reinventare sé stessi è una virtù cardinale americana, in una società che cambia ogni giorno. Ma inventarsi una vita immaginaria, una "second life" di comodo, è un rischio e Barack Obama, il solo avversario vero di Hillary per la "nomination" democratica, lo ha corso. Se il New York Times, i blog e i vecchi amici di giovinezza hanno ragione, ci è caduto e si è fatto male. La sua autobiografia, "In the Long Run", "sui tempi lunghi", che è all'ottavo posto nella classifica dei libri non di fiction più venduti e vorrebbe raccontare la storia della sua maratona personale di ragazzo di colore verso traguardi a lungo termine, sarebbe una sorta di Vangelo autoapocrifo. Una parabola riveduta e corretta per descrivere come lui abbia saputo resistere alla tentazione della carriera nel mondo delle grandi corporation, per diventare invece il campione della gente qualsiasi, e soprattutto della sua gente. Che sia stato il New York Times, schierato con la senatrice dello stato di New York, Hillary Clinton, a parte la più brillantemente dispeptica delle sue columnist, Maureen Dowd, che la sbrana con l'intensità che soltanto una donna può permettersi contro un'altra donna, a smascherare le licenze poetiche di Barack Hussein Obama, è naturale. Non soltanto per simpatie politiche, ma per la evidente ingenuità commessa da Obama, o da chi gli ha scritto il libro, nel reinventare una giovinezza a New York, nel cortile di casa del giornale. Il senatore afroamericano ha appena 46 anni, ha studiato alla Columbia University a Manhattan, ha trovato il primo lavoro nella stessa città e coetanei, colleghi, amici abbondano. Dunque trovare testimoni pronti a smentirlo è facile. "Appena uscito dall'università fui assunto in una finanziaria, per occuparmi di investimenti e fui sbalordito dal vedermi subito assegnata una segretaria, un ufficio, un ottimo stipendio. Mi guardavo allo specchio, nel mio completo scuro con camicia e cravatta e mi chiedevo: ma sono io, quello riflesso?". Certamente no, risponde dal proprio blog. Analyzethis. net, un analista finanziario che lavorava con lui, nella scrivania accanto e ricorda una storia molto diversa. "Non aveva nessun ufficio e nessuna segretaria", "era pagato malissimo come tutti noi" e il lavoro consisteva nel "tagliare e incollare rapporti economici fatti da altri per presentarli in una cartellina ai superiori". Un umile redattore da newsletter, che pare si tenesse anche alla larga dagli altri afroamericani in quell'ufficio, padre e figlio che lavoravano nell'ufficio posta, l'ultimo gradino. Per non dire della sua militanza nella Black Student Organization, fortemente derubricata da chi allora la guidava. O di dettagli epici, e oggi dubbi, sulla prima notte alla Columbia quando dovette dormire per strada con i barboni per lavarsi all'indomani con l'acqua di un idrante. Ma perché mai Barack Obama, onestissimo in altre pagine nell'ammettere di avere fumato marijuana senza ricorrere al leggendario "ma non ho mai aspirato" di Bill Clinton, dovrebbe aver mentito su un dettaglio così banale? La risposta è cattivella. Lo fa per raccontare "la Tentazione di Obama", per narrare la parabola di un messia tentato, ma non sedotto, dalle lusinghe del successo privato e del danaro, prima di scoprire la propria vocazione di attivista civile e di avvocato dei senza avvocati a Chicago. Ma in compenso è caduto nella tentazione della memoria agiografica. I libri, e le autobiografie, dei candidati importanti sono, notoriamente, propaganda. Quasi mai scritti da loro, come alle fine, e dopo querele e premi Pulitzer, risultò anche per il famoso "Profili del coraggio" firmato da John F. Kennedy ma scritto soprattutto da Theodore Soerensen, raramente vengono presi sul serio. Se il New York Times è andato a studiarlo con il microscopio, pizzicandolo su peccati in fondo assai veniali e su una sua oscura riluttanza a rendere pubblico il curriculum accademico alla Columbia (come Bush ha fatto sigillare il proprio curriculum di liceale) la vera ragione è politica. Il senatore figlio di un'americana del Kansas e di un kenyota, Barack sr., che lei aveva conosciuto alle Hawaii, cominciava a passare dalla interessante curiosità giornalistica che i media avevano coccolato nella noia di una campagna presidenziale troppo lunga, a una possibile minaccia reale per la regina già incoronata, per Hillary. Nei due stati chiave che apriranno le fase dei voti alle primarie, nel bianchissimo Iowa e nel sempre imprevedibile New Hampshire a gennaio, i sondaggi indicano che ormai il "nero" ha mosso e ha quasi raggiunto la "bianca". Se i voti destinati alla debole terza ruotina del triciclo democratico, John Edwards, tornassero in libertà, potrebbero riversarsi su Obama, non sulla sempre più formidabile e sempre meno amata signora Rodham in Clinton. La "Clinton Machine", che sta per raggiungere i 100 milioni di dollari di fondi elettorali ma vede Obama crescere e tallonarla con oltre 70 milioni, teme i suoi attacchi, soprattutto sul fronte della machiavellica ambiguità di Hillary sulle guerre passate e su quelle future, da lei votate e da lei disapprovate. Pudicamente, non essendo riuscita l'autrice dell'articolo ad ottenere rivelazioni sui "peccati" importanti di Obama, il New York Times ha relegato questo calcetto negli stinchi del senatore nella cronaca locale, ma il segnale è chiaro. Il duello degli scheletri negli armadi è cominciato e nessuno resisterà alla vera tentazione di ogni campagna, che è quella di scavare nei sepolcri degli altri. La prima regola delle elezioni americane rimane quella definita proprio da colui che salvò Billary, Bill e Hillary, dai guai, e ora li odia, il consulente Dick Morris: "Se tu non riesci a definire te stesso in positivo, saranno i tuoi nemici a definirti in negativo". (31 ottobre 2007) da repubblica.it Titolo: Washington, afroamericani in marcia per i diritti civili Inserito da: Admin - Novembre 18, 2007, 06:20:51 pm Washington, afroamericani in marcia per i diritti civili
Quarant´anni dopo le marce di Martin Luther King per i propri diritti civili, migliaia di afroamericani sono scesi ancora in piazza a Washington per manifestare per il loro riconoscimento, sostenendo che la giustizia americana usa due pesi e due misure: da un lato manifesta una fermezza considerata eccessiva nei confronti delle persone di colore colpevoli di reati, dall'altro non condanna con analoga fermezza i reati a sfondo razzista commessi dai bianchi. Leader dei diritti civili come Al Sharpton e Martin Luther King III sono sfilati davanti al Dipartimento di Giustizia americano. Come riporta l'emittente televisiva Cnn, la protesta arriva in un momento in cui la tensione razziale negli Stati Uniti è a livelli preoccupanti. Nell'ultimo anno e mezzo sono stati rilevati numerosi episodi motivati da sentimenti di odio razziale. In particolare ne sono una testimonianza i cappi - un simbolo legato alle violenze del Ku-Klux Klan - trovati appesi in scuole, università e altri luoghi pubblici in tutto il paese. Due mesi fa ha destato scalpore un cappio appeso fuori dall´ufficio di una professoressa della Columbia University a New York, uno dei tempi sacri della tolleranza e dell'antirazzismo in America. L´episodio più frustrante è avvenuto lo scorso anno, quando tre ragazzi appesero cappi ad un albero del cortile di una scuola superiore a Jena, in Louisiana e le autorità non intrapresero azioni legali contro i responsabili dell'accaduto. Il gesto scatenò una serie di tensioni nella piccola città del sud degli Stati Uniti, sfociata nel pestaggio di un ragazzo bianco da parte di sei coetanei di colore. Seguirono poi proteste e altre marce per il modo in cui le autorità trattarono il fatto - le incriminazioni per tentato omicidio a uno dei ragazzi neri, Mychal Bell, sembrarono eccessive e discriminatorie. «Siamo qui per dire che il governo federale ha una responsabilità», ha detto il reverendo Al Sharpton - una delle figure pubbliche più carismatiche della comunità afroamericana. «Ci sono Jena dappertutto», ha proseguito Sharpton «Ed è per questo che siamo in migliaia qui oggi». Nel commentare la manifestazione, Lisa Krigsten, consigliere del Ministro della Giustizia per i diritti civili, ha detto che «il Dipartimento di Giustizia si sta impegnando seriamente per affrontare questi episodi di minacce e violenza a sfondo razziale». Pubblicato il: 17.11.07 Modificato il: 17.11.07 alle ore 12.44 © l'Unità. Titolo: USA - Bin Laden alle primarie Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2007, 12:28:28 pm 29/12/2007 -
Da destra e sinistra i candidati ne approfittano per rubare spazio sui media al Presidente Bin Laden alle primarie L’attentato irrompe nella campagna per le presidenziali americane Bush cerca un Piano B per il ritorno della democrazia a Islamabad George W. Bush lavora a un difficile «piano B» per la democrazia in Pakistan, mentre l’assassinio di Benazir Bhutto irrompe nella campagna presidenziale Usa spingendo tutti i maggiori candidati a schierarsi per dimostrare di essere all’altezza della situazione. Il «piano B» è stato all’ordine del giorno nella riunione tenuta ieri mattina dal presidente americano con il Consiglio per la sicurezza nazionale. Al termine il Segretario di Stato, Condoleezza Rice, ha rinnovato l’impegno «per la democrazia in Pakistan» ma non è chiaro in quale direzione Bush voglia procedere dopo la morte di Benazir, il cui ritorno in patria era stato sostenuto dagli Usa che scommettevano su una sua vittoria alle elezioni di gennaio. A complicare la definizione del «piano B» vi sono le molte indiscrezioni che imbarazzano il governo: Hussan Haqqani, docente a Boston ed ex collaboratore di Benazir, accusa Washington di non averla protetta come avrebbe dovuto mentre Mark Siegel, amico di vecchia data della Bhutto, ha rivelato l’esistenza di una email mandatagli di recente da Benazir, nella quale affermava che in caso di morte il colpevole sarebbe stato Musharraf. E il «Washington Post» chiama in causa la Rice, imputandole di aver spinto Benazir a tornare in Pakistan andando incontro alla morte. Sul fronte dell’intelligence vi sono frizioni con Islamabad: i servizi Usa confermano che l’Emiro del Waziristan del Sud, Baithullah Mashud, è il principale indiziato ma non escludono complicità dentro gli apparati delle forze di sicurezza. Con la Casa Bianca in evidente difficoltà nella gestione del dopo-Bhutto, sono i candidati presidenti a rubare la scena a Bush con una raffica di dichiarazioni tese a provare agli elettori di saper rispondere alla sfida del terrorismo evidenziata dalla crisi pakistana. I primi a reagire sono stati Rudolph Giuliani e Hillary Clinton. L’ex sindaco repubblicano di New York ha invaso i network tv con dichiarazioni che hanno anticipato i verbatim dei portavoce della stessa Casa Bianca: «Il terrorismo islamico è in guerra contro le democrazie, bisogna assicurare i responsabili alla giustizia e restare all’offensiva». Giuliani ha lanciato un nuovo spot tv, in cui si paragona la generazione di americani che ha risposto alla sfida degli attacchi dell’11 settembre 2001 con quella che vinse la Seconda Guerra Mondiale. Se l’offensiva mediatica dell’ex sindaco punta a presentarsi agli elettori come l’uomo giusto per fronteggiare il terrorismo del XXI secolo, sul fronte opposto Hillary Clinton ha affidato agli schermi delle tv una proposta da presidente in carica: «Musharraf non garantisce più nulla, deve accettare una commissione di inchiesta indipendente e internazionale, simile a quella condotta dall’Onu sulla morte dell’ex premier libanese Rafik Hariri». L’ex First Lady ricorda di aver conosciuto Bhutto «15 anni fa» e parla con disinvoltura di «accelerare democrazia e libere elezioni in Pakistan». «Siamo a pochi giorni di distanza dal voto in Iowa, su entrambi i fronti l’esito è incerto - commenta Bill Schneider, politologo della Cnn -. L’effetto-Benazir potrebbe giovare a chi ha maggiore esperienza internazionale». Questo è il motivo per cui i rivali di Giuliani e Hillary non vogliono cedere terreno sul fronte pakistano. In casa repubblicana John McCain assicura di «conoscere Musharraf e il Pakistan» meglio di Giuliani «che in Iraq non è mai stato», mentre Mitt Romney consegna ai media del New Hampshire un’improvvisata arringa contro «l’islam radicale e la jihad globale che minacciano tutti noi». Mike Huckabee, in testa nei sondaggi in Iowa, di politica estera sa poco e scivola su una incredibile gaffe: «Faccio le scuse al popolo pakistano per l’attentato». Fra i candidati democratici il più aggressivo è Bill Richardson, il governatore del New Mexico che fu l'ambasciatore all’Onu di Bill Clinton e oggi attacca «gli errori commessi dalla Casa Bianca» chiedendo a Bush di «bloccare gli aiuti a Musharraf perché è un dittatore ed è responsabile di quanto avvenuto». Barack Obama reagisce più lentamente e con minore efficacia, rispolverando l’opposizione alla guerra all’Iraq per ribadire che «il conflitto ha dilapidato risorse che avrebbero dovuto essere adoperate contro il terrorismo in Afghanistan e Pakistan». La tesi di John Kerry nel 2004. da lastampa.it Titolo: MARIO VARGAS LLOSA - "Ecco perchè vincerà Obama" Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2008, 03:02:46 pm 12/1/2008 (8:32) - LA RIVOLUZIONE COMINCIATA DALL'IOWA
"Ecco perchè vincerà Obama" Il candidato alla presidenza Usa Barack Obama Vargas Llosa: con la sua proposta di cambiamento ha già sconvolto la politica degli Stati Uniti MARIO VARGAS LLOSA Ho trascorso molte ore davanti alla tv seguendo le primarie che si sono tenute in Iowa e nel New Hampshire per designare i candidati democratico e repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti e sono convinto che, a prescindere da come finirà, il fenomeno centrale di questo processo che avrà il suo culmine a novembre, sia la presenza del senatore Barack Obama che ha messo completamente a soqquadro lo status quo politico statunitense. A differenza di quanto accadde in Francia o in America Latina le rivoluzioni, negli Stati Uniti, sono pacifiche; non si fanno sulle barricate, ma nelle urne, non con bombe o spari, ma con voti e parole (beh, spesso, si tratta di slogan). All’interno delle coordinate politiche degli Usa, Obama ha determinato - in un momento difficile d’incertezza economica, di divisioni e di odio politico interni e, per quanto riguarda l’estero, di disamore verso questo paese a causa della guerra in Iraq - un movimento di grande entusiasmo e di speranza, in particolare tra gli elettori indipendenti e i giovani, nel quale, curiosamente, si mescolano reminiscenze di ciò che fu la mobilitazione in difesa dei diritti umani e dell’integrazione razziale guidata da Martin Luther King e l’impatto determinato nella vita politica dall’irruzione di John Kennedy e del suo messaggio di riformismo idealista. Obama ha ottenuto una squillante vittoria in Iowa e perduto per poche migliaia di voti in New Hampshire nei confronti di Hillary Clinton e, con ciò, ha frenato (se non sepolto) la nomination, che pareva inarrestabile, della senatrice alla candidatura democratica cui ella lavorava da anni grazie anche all’apporto di astronomiche risorse e all’attivo impegno dell’apparato del partito. Ma nei caucuses dello Iowa si è visto, in modo inequivocabile, che l’ostilità suscitata dalla signora Clinton tra gli stessi democratici è, probabilmente, forte quanto quella che suscita tra i repubblicani: i votanti per i candidati democratici che non hanno raggiunto il 15% minimo fissato dalle norme nelle assemblee, hanno preferito appoggiare Obama invece di Hillary in una percentuale di 3 a 1. Nel New Hampshire i guru dell’immagine hanno inventato una messa in scena per dimostrare che la senatrice Clinton non è l’essere freddo e avido di potere che sembra e l’hanno fatta sciogliere in lacrime davanti alle telecamere in una caffetteria mentre balbettava che il futuro degli Usa era, per lei, «qualcosa di profondo e di personale». E queste lacrime e questo mento tremolante le hanno fruttato, a quanto si è visto, i 3-4 mila voti femminili con cui si è salvata dalla disfatta. Ma chiunque abbia seguito attentamente tutto lo svolgimento di queste primarie non può sbagliare: a uscire consacrato come forza dominante in questa prima tappa di elezioni, è Barack Obama, una candidatura improvvisata pochi mesi fa alla periferia del partito che è riuscita a radicarsi in ambito nazionale con grande efficacia grazie alla mobilitazione di massa di giovani studenti e indipendenti d’ogni razza, d’ogni credo e d’ogni tradizione, affratellati dal carisma personale e dal messaggio idealista e unificante del senatore. Appena concluse le primarie del New Hampshire, uno dei sindacati più influenti che fa riferimento alle lavanderie e ai lavoratori di alberghi e casinò degli Usa - the Unit Here, mezzo milione di iscritti - ha dato il proprio appoggio alla sua candidatura. Il discorso di Obama, tenuto alla mezzanotte dell’8 gennaio per ringraziare chi l’aveva sostenuto nel New Hampshire, ha toccato anche lo scottante tema - motivo di divisioni - della guerra in Iraq e riaffermato che le truppe dovrebbero tornare a casa quanto prima. Ma ha rappresentato, soprattutto, una nuova chiamata all’unità, al di là delle differenze partitiche, etniche o religiose, per dare battaglia alla povertà, alla crisi economica, al terrorismo, per instaurare un’assicurazione sanitaria estesa a tutti e per difendere l’ambiente. Obama rifugge dai cliché e dai luoghi comuni del linguaggio politico, trasmette convinzione, freschezza, sentimenti e quell’ingenuità che è, a volte, bersaglio dello scherno di quanti sono convinti che il «sogno americano» sia proprio come le lacrime e il mento tremolante della signora Clinton: solo un’invenzione dei creativi della pubblicità. Non lo è. Esiste un «sogno americano» che vive nelle origini stesse degli Stati Uniti come terra di libertà, di lavoro, di sovranità individuale e non di caste, in cui legge e morale si confondono al fine di garantire il bene comune all’interno della convivenza nella diversità e il continuo stimolo all’iniziativa e alla fantasia del cittadino. Questo sogno ha avuto stagioni di recessione e traumi, ma è sempre tornato. E’ quello che sta dietro i grandi episodi della storia americana, il prodigioso sviluppo industriale e scientifico, l’accettazione e l’integrazione di decine di milioni di immigrati d’ogni tradizione e cultura, il riformismo liberale che ha profonde radici nella società, la campagna in favore dei diritti civili, la lotta contro il fascismo e il nazismo nelle due guerre mondiali e la difesa del mondo occidentale dal totalitarismo negli anni della guerra fredda. Qualcosa di tutto ciò s’affaccia nella figura di questo figlio d’un africano e d’una bianca del Kansas d’origine nordica che, grazie al proprio talento, ha studiato nella migliore università degli Stati Uniti, Harvard, (proprio come Michelle, sua moglie) e, dopo aver conseguito un’eccellente formazione, invece di andare a farsi ricco in un grande studio di avvocati a New York o tra gli executive d’una multinazionale, ha preferito seppellirsi per dieci anni nei quartieri più miserabili di Chicago, lavorando per gli emarginati e i senzalavoro con l’intento d’offrire loro le risorse politiche e culturali per farli uscire dalla povertà. Il senatore Obama è il primo dirigente di colore degli Usa che ha toccato, contemporaneamente, il cuore dei bianchi, dei neri e degli ispanici con un linguaggio che non si richiama mai alla propria condizione razziale. Nelle sue interviste brillano per la loro assenza sia il vittimismo, sia il razzismo ed è costante il richiamo a superare le barriere artificiali alzate dalle ideologie, dal razzialismo (da non confondere con il razzismo benché sia da esso contaminato) dal femminismo e dall’ecologismo, appoggiandosi ai valori superiori di libertà, giustizia, legalità e opportunità, educazione e sicurezza per tutti, senza eccezioni. Si tratta, indubbiamente, di idee semplici, generali, ma che hanno fatto vibrare milioni di nordamericani, ricordando loro, di colpo, che la politica può essere qualcosa di più generoso e di più sincero rispetto alla versione che di essa danno i politici di professione. D’altro lato, l’immenso appeal che egli suscita è determinato dall’insensata sincerità con cui ha messo a nudo la propria vita nella sua autobiografia e nella sua campagna elettorale. La scorsa notte i commentatori della Cnn dicevano che il clan Clinton aveva già pronta una devastante guerra sporca contro Obama. Ma di quali peccatucci veniali o mortali potrebbero accusarlo che lui non abbia già riconosciuto, avvantaggiandosi, così, sui propri detrattori? I nordamericani sanno perfettamente chi è Obama: da dove viene, che cosa ha fatto, sino ad ora, della sua vita, gli errori che ha commesso - le droghe che hanno segnato la sua generazione, per esempio - e hanno tratto la conclusione che in questo bilancio prevalgano gli aspetti positivi. Per questo si sono mobilitati trasformando in realtà qualcosa che solo pochi mesi or sono era impossibile. Dopo quanto è successo in Iowa e nel New Hampshire, a meno d’una tragedia imponderabile - un attentato terrorista, per esempio - la possibilità che Barack Obama sia il primo presidente nero degli Usa non è una chimera, ma una possibilità molto realistica. da lastampa.it Titolo: L'Europa sedotta da Barack Obama Inserito da: Admin - Luglio 25, 2008, 11:20:32 pm ESTERI IL COMMENTO
L'Europa sedotta da Barack Obama DI ANDREA BONANNI COME capita a certe zitelle un po' inacidite, questa Europa che ha paura di cambiare e di sognare in proprio si è perdutamente innamorata di Barack Obama. Si è invaghita della sua capacità visionaria, della sua leadership, della sua giovinezza, della sua voglia di novità. Di tutto ciò che, in fondo, manca così dolorosamente a noi europei. Il discorso di ieri a Tiergarten, di fronte a una marea di berlinesi entusiasti, suggella un amore che era nell'aria da tempo. Può darsi che Obama diventi il nuovo Kennedy americano: di certo, da ieri, è il nuovo Kennedy europeo. Neppure Bill Clinton, che all'Europa ha dato molto guidandola con mano ferma nel labirinto delle guerre balcaniche, era riuscito a suscitare tanto entusiasmo. Neppure Reagan e Bush padre, che avevano reso possibile la riunificazione delle due Europa. Qualche settimana fa gli osservatori atlantici notavano con sorpresa che se gli europei potessero votare alle elezioni USA, Obama avrebbe già comodamente in tasca la vittoria. Si potrebbe aggiungere che, se gli europei potessero eleggere un proprio presidente, probabilmente il candidato americano straccerebbe tutti i rivali europei. L'ultimo sondaggio Gallup condotto in Europa rivela che il sessanta per cento degli inglesi, il sessantaquattro per cento dei francesi e il sessantadue per cento dei tedeschi sperano che Obama vinca le elezioni. Il povero McCain è surclassato: lo vogliono solo il quindici per cento dei britannici, il quattro per cento dei francesi e il dieci per cento dei tedeschi. Oltre alla straripante popolarità di Barak, queste cifre confermano che l'opinione pubblica europea è ormai di gran lunga più omogenea e coesa di quella americana. Anche se il momento in cui potremo eleggerci un presidente appare ancora lontano. Ma l'innamoramento degli europei non è senza motivo. Non si tratta solo dell'infatuazione per un candidato bello, giovane e visionario. Se indubbiamente pre-esisteva un fattore immagine, ieri Obama lo ha riempito di sostanza, con una abilità e una sottigliezza che sembrano smentire quanti gli rimproverano mancanza di esperienza e ingenuità nelle questioni internazionali. Innanzitutto, dalla tribuna berlinese, Obama non ha parlato ai tedeschi, come avrebbe fatto qualsiasi altro presidente americano (e come in parte fece lo stesso Kennedy nel suo famoso "ich bin ein Berliner"), ma ha parlato agli europei. Tutti i messaggi che ha lanciato, dalla necessità di abbattere i muri a quella di ricostruire una vera solidarietà atlantica, dalla richiesta di aiuto in Afghanistan all'apertura verso la Russia, dalla costruzione di una società aperta e globale all'impegno per combattere il riscaldamento del Pianeta, avevano come interlocutori l'America e l'Europa, intesa in modo quasi naturale come quell'"unicum" che vorrebbe essere, e che non è. Il secondo regalo che Obama presenta agli europei, è un atto di umiltà assortito al riconoscimento esplicito degli "errori" di George W. Bush. E' vero che l'uomo dell'Illinois parlava da candidato, e non ancora da presidente. Ed è ovvio che certe ammissioni sono più facili in questa veste. Ma ci vuole comunque coraggio sul fronte interno, e un notevole carisma, per permettersi in piena campagna elettorale di andare all'estero a dire: "So che il mio Paese non è perfetto. Ci sono state occasioni in cui abbiamo dovuto lottare per i nostri diritti. Abbiamo fatto degli errori", e per ammettere che l'invasione dell'Iraq è stata "ingiusta". Il terzo gesto di seduzione di Obama verso gli europei è certamente nel riconoscimento che la lotta al cambiamento climatico deve essere una priorità condivisa anche dagli Stati Uniti. L'inizio del divorzio tra Bush e l'Europa avvenne con il rifiuto americano di ratificare il protocollo di Kyoto. Un gesto che a molti parve l'atto di tracotanza di una iper-potenza che non vuole pagare il conto dei danni che produce, proprio mentre gli europei si sobbarcavano l'onere gravoso di tagliare le emissioni e di intraprendere in solitudine la strada in salita della terza rivoluzione industriale. Il discorso di ieri sembra promettere la ricomposizione di una ferita strategica che non è stata meno dolorosa dei quella irachena. Obama seduce. L'Europa è sedotta. Non resta che rispondere all'eterna e banale domanda: ma sarà poi vero amore? Da parte europea, ci sono tutte le premesse per rispondere di sì. Da parte americana, ammesso che Obama vinca davvero le elezioni, probabilmente la risposta è più complessa e legata a molti fattori: una crisi economica che naturalmente alzerà il tasso di protezionismo e di egoismo nazionale, una "costituency" democratica che tradizionalmente è più sensibile alle spinte isolazioniste; la difficoltà di creare un legame privilegiato con la vecchia Europa a scapito delle nuove e rampanti potenze orientali; la oggettiva divergenza di interessi su temi cruciali, non ultimo il rapporto euro-dollaro. Di certo, se c'è un uomo che promette di saper volare alto, sopra l'orizzonte accidentato di tante contingenze avverse per affermare una visione comune, quello è Barak Obama. E in fondo è proprio perciò che gli europei, non potendo votarlo, lo sognano. (25 luglio 2008) da repubblica.it Titolo: OBAMA: LA FORZA DELLA SPERANZA Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2008, 08:46:10 am Il percorso dell'ex Segretario di Stato dai repubblicani al sostegno ad Obama
Il dolore più forte l'aver dovuto mostrare all'Onu le false prove sulle armi in Iraq Il "tradimento" del vecchio soldato deluso da troppe scelte sbagliate di VITTORIO ZUCCONI Il vecchio generale torna in guerra, per salvare il soldato Obama. Colin Powell, il più grande e rispettato ufficiale e statista afroamericano della storia Usa, muove contro un reduce del Vietnam come lui, John McCain. Lo fa da ufficiale e gentiluomo, con dignità, con autorevolezza, quasi con dolore, con i sentimenti e gli atteggiamenti che mancano alla sempre più sguaiata campagna elettorale repubblicana. Una scelta venuta dopo settimane di dilemmi tormentosi per un vecchio soldato leale, per aiutare un candidato che promette all'America ciò di cui ha disperatamente bisogno dopo 8 anni di Bush: il cambiamento di generazione. Deve essergli costato, questo tradimento, nato dal disgusto per come il suo vecchio commilitone e coetaneo sta conducendo una campagna elettorale nel peggior stile bushista del "terrorizza e vinci". Powell va in guerra contro "Joe the Plumber", Beppe lo Stagnino, la macchietta spaventapasseri dell'"americano della strada" furioso con Obama, inventata dai repubblicani. Scende in trincea contro il razzismo sempre più esplicito, gridato ormai dalla folla nei comizi della graziosa nullità dell'Alaska a colpi di "tornatene in Africa, terrorista rosso", e sussurrato nei robocall, le telefonate registrate che stanno bombardando gli elettori per insinuare che il senatore nero sia "complice di terroristi". Lo fa per salvare la candidatura del figlio di un emigrato nero come lui. Quel Barack Obama improvvisamente a rischio di rimonta sotto le spallate di una propaganda calunniosa, ma, come tutte le calunnie, efficace. È una guerra fratricida, questa fra i due vecchi soldati, combattuta all'interno della stessa generazione di "figli del Vietnam", fra il 71enne Powell e il 72enne McCain, uniti dalla storia personale e politica e ora separati dalla lama di una scelte che proprio il loro atteggiamento rivela in tutta la sua potenza tagliente. Powell vuole che finalmente sia una nuova leva di americani ad assumere la responsabilità della nazione, gente con "idee nuove", capace di "ispirare e di motivare", dotata di quello che a Bush tragicamente mancava e che sta alla radice del suo fiasco come leader, la "curiosità intellettuale", dunque voglia di capire, di conoscere, di imparare, come ha detto ieri. E ha l'autorità per giudicare e consigliare, più dei pappagalli da talk show pagati dalle campagne, dalle star di Hollywood, o dei commentatori seduti davanti al loro computer. Powell, figlio di un tagliatore di "zafra", di canna da zucchero giamaicano emigrato a New York, è l'ufficiale che volontariamente combatté due volte in Vietnam, che guidò la strategia americana da Washington nella Tempesta sul Deserto agli ordini di George Bush il Vecchio nel �90-'91, che per quattro anni fu segretario di Stato per George il Giovane fra il 2001 e il 2005 e molti avrebbero voluto come presidente o vice presidente per il partito repubblicano. Da quando ricevette la prima barretta da sottotenente nel 1958, è l'incarnazione del fedele e leale soldato, con o senza l'uniforme. La sua defezione, la sua spietata critica di McCain e soprattutto di quella offensiva nullità che ha scelto come vice presidente sperando di attirare le donne, la reginetta di bellezza Sarah Palin, sono il segno di una ribellione morale e intellettuale alle menzogne e alle tattiche di una campagna condotta da un McCain che si proclama "il non Bush", ma poi adotta i metodi peggiori, e i personaggi più sinistri, che fecero Bush. L'effetto che l'investitura offerta da Powell a Obama avrà sugli indecisi non sarà necessariamente rivoluzionario, perché raramente questi endorsement, queste benedizioni elettorali di celebrità e di personalità, smuovono grandi numeri elettorali. McCain può vantare la sua brava pattuglia di ex segretari di Stato come Kissinger, Haig, Eagleburger, nel proprio campo, ma nessuno di questi tre, neppure Kissinger, ha la statura umana, la storia personale, il carisma di Colin Powell. Comunque vada la conta finale dei voti il 4 novembre il tradimento del vecchio generale divenuto statista è uno schiaffo personale bruciante per McCain, forse più di quanto sia una spinta a Obama. Powell è, e resta, un repubblicano, un moderato, un uomo della destra storica e pensante. Fu il consigliere per la sicurezza nazionale con Ronald Reagan. Fu capo degli stati maggiori riuniti, la massima carica militare, sotto Bush Primo. Divenne segretario di Stato con Bush Secondo. E fu l'autore di quella che sembrava essere divenuta la dottrina finale, e razionale, per l'impiego della forza armata, fondata sul principio che gli eserciti debbano muoversi soltanto se la missione è chiara, l'appoggio popolare forte e la vittoria ben definibile. Esattamente il contrario di quanto è stato fatto in Iraq e in Afghanistan. Il senso politico del suo annuncio è molto più profondo del mezzo punto percentuale che potrebbe smuovere. Powell ha ripudiato la degenerazione del grande partito di Lincoln, di Eisenhower, di Reagan, di Bush il vecchio, quella follia che lo portò al "giorno più umiliante della mia vita", disse lui, quella tragica mattina del marzo 2001 nella quale il generale segretario di Stato dovette recitare davanti alle Nazioni Unite la sequenza di invenzioni e propaganda spacciata come casus belli contro l'Iraq. Con 21 decorazioni e medaglie, con una storia personale inappuntabile, né pacifista né interventista, Powell vuol dare agli elettori la garanzia che il rischio, il prossimo 4 novembre, non è il giovane senatore dell'Illinois, ma il vecchio e confuso senatore dell'Arizona che sta disonorando sé stesso, e la generazione che si sacrificò in Indocina, con una campagna elettorale ignobile. Aveva torto il generalissimo MacArthur quando disse che "i vecchi soldati non muoiono, ma lentamente si dissolvono". A volte ritornano, per un'ultima carica. (20 ottobre 2008) da repubblica.it Titolo: Massimo Gaggi Il fattore Powell Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2008, 11:41:40 am REPUBBLICANI E POPULISMO
Il fattore Powell di Massimo Gaggi Chi pensava che la scelta di Sarah Palin come vicepresidente si sarebbe rivelata un boomerang per John McCain, oggi gongola. Annunciando il suo appoggio a Barack Obama, Colin Powell fa molto di più che allargare il fronte multietnico che già sostiene il candidato democratico: con la sua reputazione di patriota e di repubblicano moderato che ha servito il Paese con Reagan (consigliere per la Sicurezza nazionale), Bush padre (capo degli Stati Maggiori al Pentagono) e Bush figlio (ministro degli Esteri), Powell smonta l'ultima disperata offensiva — quella del discredito — messa in piedi dagli strateghi elettorali del senatore dell'Arizona. Obama amico di terroristi, Obama sospettato di essere un musulmano «nascosto». Insinuazioni pesanti affidate a qualche «spot» in tv o buttate là nei comizi arrembanti della Palin. «Ma siamo matti? Avvelenare la campagna con pure falsità in un momento così drammatico per l'America?», è sbottato alla fine il vecchio generale a quattro stelle, un «figlio del Vietnam» come Mc- Cain, un suo coetaneo, ma, soprattutto, un suo sostenitore. Powell, infatti, aveva appoggiato McCain (proprio contro l'attuale presidente) nelle primarie repubblicane del 2000 e lo aveva consigliato anche durante questa campagna elettorale. Tanto che il senatore dell'Arizona ne parlava come di un possibile capo della politica estera Usa. Tutto è cambiato quando la campagna è divenuta (anche) scambio di colpi bassi e con l'entrata in scena della Palin. Scelta geniale, coraggiosa ma anche molto rischiosa, si era detto subito. La governatrice dell'ultimo Stato-frontiera d'America come incarnazione di un popolo che vorrebbe tornare allo spirito dei pionieri; il resto, in termini d'immagine, lo avevano fatto la sua freschezza e la «narrativa» cresciuta intorno alla hockey mom d'Alaska capace di trasformarsi in statista. Col fallimento della banca Lehman che ha fatto precipitare una crisi finanziaria rapidamente divenuta anche cataclisma economico e sociale, gli americani hanno, però, perso interesse per le suggestioni, mentre sono tornate in primo piano le banalità quotidiane: la competenza, l'esperienza in campo economico, i rapporti internazionali. È qui che è arrivato il boomerang Powell: «Mi dispiace deludere il mio amico McCain, ma Obama ha un'agenda politica più convincente ed è un personaggio maggiormente in grado, col suo team, di avviare le trasformazioni di cui il Paese ha bisogno; di superare steccati etnici, razziali, generazionali». Parole che, più che allargare il già vasto consenso di Obama nelle minoranze etniche, spuntano le armi di McCain nella battaglia per la conquista dei moderati. Lo smottamento, in casa repubblicana, rischia di andare anche oltre l'orizzonte delle elezioni del 4 novembre. Parliamo della deriva populista che può dilagare, non più arginata dal pensiero di intellettuali come William Buckley, padre del moderno conservatorismo americano, scomparso pochi mesi fa, e con i portabandiera del pensiero liberista ammutoliti davanti al «neostatalismo» di Bush. McCain si sta servendo del populismo, ma non è un populista. Se il 4 novembre verrà sconfitto, uscirà di scena. La Palin e i populisti no. Mentre prima Bloomberg e poi Powell, due possibili riformatori del partito, hanno scelto altri lidi. 21 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: OBAMA: LA FORZA DELLA SPERANZA Inserito da: Admin - Novembre 05, 2008, 06:52:46 am 2008-11-05 06:13
OBAMA: OGGI PROVA CHE NULLA IN AMERICA E' IMPOSSIBILE NEW YORK - "Se qualcuno pensa che in America ci sia qualcosa di impossibile, questa notte è la risposta". Lo ha detto il presidente eletto Barack Obama sul palco del Grant Park di Chicago dove la folla in delirio lo ha accolto con una pioggia di applausi. IL CAMBIAMENTO E' ARRIVATO IN AMERICA "Con questa elezione il cambiamento è arrivato in America". Lo ha detto il presidente eletto Barack Obama nel discorso della vittoria a Chicago. SIAMO E SAREMO STATI UNITI D'AMERICA "Siamo e saremo gli Stati Uniti d'America, e abbiamo dimostrato al mondo intero che non siamo semplicemente una collezione di individui di tutti i tipi". Lo ha detto il presidente eletto degli Usa Barack Obama prendendo la parola davanti ai suoi sostenitori a Chicago, dopo avere citato tutte le minoranza del paese, dalle donne ai gay, dai bianchi ai neri. -------------------------------------------------------------------------------- BARACK OBAMA 44° PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI di Giampiero Gramaglia ROMA - Barack Obama e' divenuto questa notte il 44.o presidente degli Stati Uniti, e' il primo nero a conquistare la Casa Bianca: un risultato storico. L'affluenza record ha allungato le code ai seggi nell'Unione e ha reso piu' lento lo spoglio dei suffragi, ritardando l'annuncio della vittoria del candidato democratico. La certezza, non matematica, ma politica, e' stata acquisita quando il candidato democratico s'e' aggiudicato l'Ohio, uno Stato chiave, lo Stato che tutti i candidati repubblicani divenuti presidenti hanno vinto. L'America e' andata al voto nel pieno d'una crisi finanziaria che le toglie fiducia e che deve ancora fare sentire l'impatto sull'economia reale, mentre le difficolta' militari e politiche in Iraq e in Afghanistan incrinano le certezze e le sicurezze della Super-Potenza unica. In un momento difficile, con un esercizio di democrazia che la conferma fucina di coraggio per l'Occidente, l'America ha scelto e ha scelto il cambiamento: un presidente giovane, nero e relativamente inesperto, ma che e' un simbolo di speranza e che impersona il sogno americano. All'Est e al Sud, Obama s'e' imposto in alcuni Stati Chiave di questa competizione: ha fatto suo il New England, ed era scontato, i Grandi Laghi, ma soprattutto ha confermato il potere democratico in Pennsylvania e ha strappato ai repubblicani l'Ohio e lo Iowa, oltre ad altri Stati contesi. I risultati dell'Ohio e dello Iowa sono stati il segnale della disfatta per il candidato repubblicano John McCain, arrivato all'Election Day in forte ritardo in tutti i sondaggi. E che neppure i suoi sostenitori ci credessero lo diceva la differenza di immagini tra l'attesa della festa per Obama a Chicago, dove c'erano decine di migliaia di persone entusiaste, e l'attesa a Phoenix, dove i sostenitori di McCain erano pochi e disorientati. Per McCain, non e' stato un tracollo. Per Obama, non e' stata una vera e propria valanga, specie in termini di voto popolare - ma il computo esatto dei suffragi non e' ancora definitivo -. Ma dalle urne esce un'America nuova, che Barack Obama dovra' guidare dal 20 gennaio, quando s'insediera', fuori dalla crisi, ridandole fiducia in se stessa e restituendole la simpatia del Mondo. -------------------------------------------------------------------------------- VOTO CALIFORNIA DA' CERTEZZA VITTORIA A OBAMA NEW YORK - Il candidato democratico alla Casa Bianca, Barack Obama, ha vinto le elezioni presidenziali in California (55 voti), diventando matematicamente presidente degli Usa con 275 voti elettorali. da ansa.it Titolo: OBAMA: E conclude: "Il credo americano è Yes, we can (si, possiamo)". Inserito da: Admin - Novembre 05, 2008, 08:12:11 am 5/11/2008
Obama: "Questa vittoria dimostra che negli Stati Uniti tutto è possibile" Il discorso del nuovo presidente americano CHICAGO La giornata di oggi dimostra che «gli Stati Uniti sono il posto dove tutto è possibile» ha esordito dalla piazza di Chicago Barack Obama nel suo discorso subito dopo la vittoria elettorale. «Il cambiamento per gli Stati Uniti è arrivato». Obama ribadisce la parola chiave dalla sua campagna elettorale, "we need change" (abbiamo bisogno del cambiamento) e parlando di fronte a decine di migliaia di persone nel parco di Grant Park, a Chicago, annuncia che il cambiamento è finalmente arrivato. L’America può, perché è un paese unito; l’America può, perché sa sognare. «Ho pensato stanotte a una donna che ha votato a Atlanta» ha detto Obama. «Somiglia molto ai milioni di persone che si sono messe in fila per far sentire la loro voce in questa elezione, salvo un dettaglio: Ann Nixon Cooper ha 106 anni». È stato un discorso pieno di accenni alla lunga storia dei diritti civili che ha condotto all’elezione del primo presidente nero, incluso un accenno a Martin Luther King, il «predicatore di Atlanta che disse ’we shall overcome». Obama ha ringraziato per il loro amore e il loro sostegno la moglie Michelle («la prossima first lady degli Usa»), le figlie Sasha e Malia e la nonna materna, scomparsa proprio il giorno prima del voto. La moglie e le figlie lo hanno accompagnato sul palco, vestite di rosso e nero, poi, dopo un bacio, lo hanno lasciato solo per il suo primo discorso da presidente eletto degli Usa. Dal palco della vittoria Obama ha promesso alle figliolette il cane che tanto desiderano: «Vi voglio tanto bene» ha detto Obama «Vi siete meritate il nuovo cagnolino che verrà con noi alla Casa Bianca». Malia, 10 anni, e Sasha, 7, sono poi tornate sul palco con la mamma. Nessun dettaglio per ora sulla razza o sul nome di questo cagnetto che seguirà le orme dei cani Bush, gli Scottish Terrier Barney e Miss Beazley. Poi Obama ha ringraziato il suo staff e i volontari che lo hanno sostenuto. “Questa vittoria appartiene a voi – continua - La nostra campagna è partita dal basso grazie a giovani e volontari, al loro coraggio. Questa è la vostra vittoria. Anche se stanotte festeggiamo, sappiamo le sfide che ci attendono domani. Sappiamo che siamo nel mezzo di una grande crisi economica, che ci sono soldati che continuano a morire in Iraq, che ci sono nuove scuole da costruire. Forse non in un anno, ma vinceremo queste sfide, ve lo prometto". «Il cammino davanti a noi sarà duro» e per questo ci «sarà bisogno di stare uniti» contro le avversità. La giornata di oggi dimostra che «gli Stati Uniti sono il posto dove tutto è possibile». E dopo otto anni di un presidente come che non ha ascoltato nessuno, il suo successore ha promesso agli americani una Casa Bianca aperta, che saprà ascoltare la gente: «Sarò sempre onesto con voi - ha detto, nel discorso della vittoria alla folla di Grant Park, a Chicago - vi ascolterò, anche se la penseremo diversamente». E conclude: "Il credo americano è Yes, we can (si, possiamo)". da lastampa.it Titolo: DANIELE MASTROGIACOMO. Kenya grande festa dall'alba tutti in strada a... Inserito da: Admin - Novembre 05, 2008, 11:46:29 am ESTERI - ELEZIONI USA 2008
Dal piccolo villaggio di Kogelo all'Africa intera: "Un sogno si è avverato" E nel Paese dov'è parte della sua famiglia proclamata la festa nazionale Kenya, inizia la grande festa dall'alba tutti in strada a ballare dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO NAIROBI - L'urlo squarcia il silenzio dell'alba. Arriva dalle case, dai bar, dalle strade che inziano a riempirsi. E' ancora buio, ma le tv e le radio annunciano la vittoria di Barack Obama. La gente esulta, riparete la musica, apre le porte, si incontra sui pianerottoli. Così com'è: in pigiama, i capelli arruffati, gli sguardi stanchi, stravolti, segnati da una notte insonne. Ma felici, raggianti. L'impossibile è accaduto. Il sogno si è realizzato. Le prime parole del 44 presidente Usa, il primo presidente nero, si sentono in diretta da Chicago. Gli occhi della gente, che entra ed esce dalle case, che festeggia nei vicoli e nelle piazze del piccolo villaggio di Kogelo, a Kisumu e poi via via nel resto del paese, adesso sono lucidi, pieni di orgoglio, con le lacrime che iniziano a scendere, a rigare i visi. L'Africa intera è impazzita, stretta attorno ad un presidente che considera anche il suo. Barack Omana alla Casa Bianca qui significa più eguaglianza, più diritti, più certezze, più rispetto. E' un uomo di colore, è un afroamericano, ha quella sensibilità che centinaia di milioni di persone cercavano da tempo. Barack vuole dire speranza per nuovo lavoro, rilancio economico per lo sviluppo, impegni per nuovi rapportio internazionali. Chi è povero spera in un futuro più dignitoso; chi è ricco di continuare ad esserlo. Barack non fa paura, è il simbolo di un riscatto tanto atteso. E' il figlio dell'Africa e l'Africa oggi sente di contare di più. Di aver fornito l'uomo ora alla guida della più potente e influente nazione del mondo. La festa è esplosa subito a Kogelo, il piccolo villaggio dell'ovest del Kenya dove il nuovo presidente ha parte della sua famiglia. Lo spoglio delle schede è stato seguito per tutta la notte. Migliaia, forse decine di miglaiaia di persone, si sono radunate nella piazza principale e attraverso un mega schermo hanno visto le immagini che arrivavano dall'altra parte dell'Atlantico. Quando è stato annunciata ufficialmente la vittoria, quando è stato raggiunto il quorum, la folla ha iniziato ad abbracciarsi, a ballare, a muoversi in lungo in largo in danze, passi, ritmi che hanno finito per contagiare tutti. Il presidente del Kenya, Mwai Kibaki si è subito congratulato con Barack Obama con una telefonata fatta pochi minuti dopo la vittoria. Si è rivolto al popolo kenyota e ha annunciato che domani, venerdì, in tutto il paese ci sarà festa nazionale. Non si lavorerà, gli uffici resteranno chiusi, la gente avrà modo di festeggiare un elezione che Kibaki ha definito "storica". "Il presidente Obama", ha detto Kibaki, "è il nostro presidente. Dio ha risposto alle nostre preghiere. Questa vittoria ci fa del bene. Ne siamo orgogliosi. Obama ha qui parte delle sue radici, qui ha trovato parte del suo spirito, anche da qui ha ottenuto quella forza che lo ha portato verso un obiettivo che credevamo impossibile". Nel resto del Kenya, ma sappiamo anche in tanti altri paesi africani, la gente è come frastornata, fatica a credere quanto sia avvenuto. Sogna, pensa, immagina, si proietta in un futuro con nuove speranze, nuovi desideri, nuovi obiettivi. La vita scorre, uomini e donne vanno a lavorare, i ragazzi a scuola, gli albulanti nei mercati, gli impiegati nei ministeri, gli operai nelle fabbriche. Ma oggi è diverso. Si coglie negli sguardi sorridenti, bianchissimi, stampati sui visi neri, raggianti. Alzano le due dita in segno di vittoria, salutano, si muovono quasi ballando. Sorge il sole, la musica torna a rimepire strade e piazze. Barack Obama è salito sul podio più alto. Da stasera si festeggia davvero. Per due giorni consecutivi. (5 novembre 2008) da repubblica.it Titolo: Le reazioni del mondo: da Napolitano a Sarkozy Inserito da: Admin - Novembre 05, 2008, 11:50:39 am Le reazioni del mondo: da Napolitano a Sarkozy
Il democratico Barack Obama ha vinto la storica sfida contro il repubblicano John McCain dopo due anni di campagna elettorale, diventando il primo presidente nero degli Stati Uniti. E subito sono giunte le reazioni del resto del mondo. «Per noi italiani che ci sentiamo intimamente legati sul piano storico e politico, culturale e umano, al popolo americano e agli Stati Uniti d'America, questo è un grande giorno - è il messaggio che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano -: traiamo dalla sua vittoria e dallo spirito di unità che l'accompagna nuovi motivi di speranza e di fiducia per la causa della libertà, della pace, di un più sicuro e giusto ordine mondiale». «Le giungano le più calorose felicitazioni mie personali e del popolo italiano - scrive Napolitano ad Obama - siamo profondamente impressionati della ineguagliabile prova di forza e di vitalità che la democrazia americana ci ha dato, grazie a una partecipazione senza precedenti alla campagna elettorale e al voto, e grazie alla larghissima adesione a un programma ricco di idealità e di impegni di rinnovamento». «Con il mondo in tumulto e nel dubbio, il popolo americano, fedele ai valori che hanno sempre definito l'identità americana, ha espresso con forza la sua fiducia nel progresso e nel futuro», ha detto il presidente francese Nicolas Sarkozy. «In un momento in cui dobbiamo fronteggiare difficili sfide insieme, le vostre elezioni hanno suscitato enorme speranza in Francia, in Europa e altrove. La Francia e l'Europa ... troveranno nuova energia per lavorare insieme all'America per preservare la pace e la prosperità nel mondo». «Spero di incontrare presto il presidente eletto per poter continuare a rafforzare il legame speciale che esiste tra il Canada e gli Stati Uniti», ha detto il primo ministro canadese Stephen Harper. «Nelle settimane e nei mesi che verranno funzionari e diplomatici canadesi lavoreranno a stretto contatto con membri del team di transizione del presidente eletto Obama. I ministri del nostro governo vogliono costruire forti relazioni di lavoro con le controparti nella nuova amministrazione di Obama». «Il governo neozelandese desidera caldamente lavorare con la nuova amministrazione di Obama», ha detto il primo ministro neozelandese Helen Clark. «Il senatore Obama assumerà l'incarico in un momento critico. Ci sono molte difficili sfide che la comunità internazionale deve fronteggiare, inclusa la crisi finanziaria globale e il riscaldamento globale. Noi vogliamo lavorare a stretto contatto con il presidente eletto Obama e la sua squadra su queste sfide». Hamas crede che l'elezione di Obama possa offrire agli Stati Uniti l’«occasione per un cambiamento, dopo che il suo predecessore George Bush ha distrutto i rapporti con il mondo esterno». Restando in Medio Oriente, il premier israeliano Olmert si è congratulato per la «vittoria eclatante e storica» del candidato democratico, auspicando il «rafforzamento» delle relazioni bilaterali e dei progressi nel processo di pace sotto il nuovo mandato. In Russia la notizia del nuovo presidente non sembra scatenare particolare entusiasmo: il vicepremier Igor Sechin spiega che Mosca è pronta «a cooperare con qualsiasi presidente legittimamente eletto di un paese». Si augura che la vittoria di Obama promuova «la pace e la stabilità nella regione» il primo ministro pachistano, Yousuf Raza Gilani. Mentre in Afghanistan, il presidente Amid Karzai si è augurato che le elezioni negli Stati Uniti possano «portare pace in Afghanistan, prosperità per il popolo afghano e per il resto del mondo» e si è complimentato con «il popolo americano per il coraggio e la grande moralità che ha mostrato». Pubblicato il: 05.11.08 Modificato il: 05.11.08 alle ore 10.13 © l'Unità. Titolo: Obama subito al lavoro per il team Inserito da: Admin - Novembre 06, 2008, 08:55:04 am ESTERI - ELEZIONI USA 2008
Il neo eletto presidente Usa entrerà in carica fra 76 giorni ma vuole far presto Molto delicata, a causa della crisi economica, la successione di Paulson al Tesoro Obama subito al lavoro per il team Nominato il capo di gabinetto Il deputato di Chicago Rahm Emanuel ha accettato il posto di chief of staff Alle porte anche la riunione del 15 novembre del G20 per analizzare la crisi WASHINGTON - Niente riposo per Barack Obama. Dopo il trionfo elettorale, il neo presidente Usa deve affrontare la prima sfida, formare la squadra che per i prossimi quattro anni guiderà insieme a lui gli Stati Uniti. Alcuni nomi stanno già arrivando. Il deputato di Chicago Rahm Emanuel ha accettato il posto di chief of staff (capo di gabinetto) nella nuova amministrazione. E' la prima nomina del nuovo presidente eletto. Lo ha annunciato la rete tv Cnbc. Emanuel, attualmente, è capogruppo democratico alla Camera, con ambizioni di diventarne presidente. E' il primo passo della transizione verso una nuova amministrazione democratica che prende le mosse dalla sfida più imponente che attende il presidente eletto: la peggior crisi dell'economia dai tempi della Grande Depressione. E, ovviamente, gli occhi sono puntati sul successore di Henry Paulson al Tesoro. Obama entrerà in carica tra 76 giorni (il giuramento avverrà il 28 gennaio) ma non vuole ripetere l'errore commesso da Clinton che nel '92 nominò il suo staff solo a pochi giorni dall'insediamento. Anche se per ora non figura nessun appuntamento sull'agenda del senatore dell'Illinois, che domani probabilmente volerà alle Hawaii per partecipare ai funerali della nonna, la macchina è già in movimento. La guida della squadra di governo sarà probabilmente affidata a John Podesta, ex capo del gabinetto Clinton. E a stretto giro potrebbe essere designato anche il segretario al Tesoro, anche in vista del primo test ufficiale: il G20 straordinario di Washington sulla crisi finanziaria. L'appuntamento, fissato per il prossimo 15 novembre, è cruciale e si pone come obiettivo quello di esaminare i progressi per fronteggiare l'attuale crisi finanziaria, approfondire una comprensione comune delle cause e concordare una serie di misure per una riforma dei regimi regolatori e istituzionali dei settori finanziari mondiali. La squadra che guiderà il Tesoro - secondo indiscrezioni - potrebbe essere già resa nota entro la settimana. Fra i nomi più accreditati a ricoprire l'importante ruolo di segretario figurano: Lawrence Summers (già ex segretario al Tesoro sotto Bill Clinton), Paul Volcker (ex presidente della Fed), Timothy Geithner (presidente della Fed di New York, il braccio operativo della banca centrale americana) e Rahm Emanuel. Secondo il network Abc, Obama avrebbe già offerto la poltrona a Emanuel che, però, non avrebbe ancora sciolto le riserve. Nei giorni scorsi erano circolate voci su una possibile candidatura del finanziere Warren Buffett. Nella lista dei 'papabili' per la successione a Condoleeza Rice, come segretario di Stato, risultano invece il democratico John Kerry, l'ex diplomatico Richard Holbrooke, il repubblicano uscente Chuck Hagel e l'ex senatore democratico Sam Nunn. All'incontro di Washington non è ancora stato reso noto se Obama parteciperà o meno, o se incontrerà qualche leader europeo, magari nella cena in programma che potrebbe rappresentare una buona occasione informale per avviare i primi contatti. Intervenendo sul risultato elettorale, comunque, Bush ha cercato di rassicurare, promettendo "una cooperazione completa" nel corso della transizione. Uscendo dal silenzio che ha caratterizzato gli ultimi giorni della campagna elettorale, Bush ha dichiarato di aver invitato Obama ad andare alla Casa Bianca "il prima possibile" durante una conversazione "calorosa" seguita all'annuncio della vittoria del senatore dell'Illinois alle presidenziali 2008. "Ho detto al presidente eletto che può contare su una cooperazione completa della mia amministrazione nel corso della transizione verso la Casa Bianca". (5 novembre 2008) da repubblica.it Titolo: L'America resterà il buon-cattivo poliziotto Inserito da: Admin - Novembre 06, 2008, 11:54:25 am «La crisi? Subito un asse anti-petrolio con la Cina»
Paul Berman: la guerra cambierà solo di nome. L'America resterà il buon-cattivo poliziotto DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK — «Obama ha una tale stoffa da trascinante oratore che, volendo, potrebbe essere un pericoloso demagogo. Nel suo discorso della vittoria, martedì sera, il neoeletto presidente ha dimostrato, al contrario, di voler volare alto». Paul Berman, il saggista, docente universitario e autore di "Terrore e Liberalismo" e "Sessantotto" giudica «perfetto» l'esordio di Obama. «La sua arringa a Chicago era deliberatamente strutturata per eccitare con moderazione, mantenendo un tono sobrio, intelligente e profondo. Insomma: ha iniziato sulla nota giusta. Geniale anche il suo citare Abramo Lincoln, il senatore dell'Illinois come lui, che guidò il Paese durante la Guerra Civile del 1861, emancipando gli schiavi». Qual è il significato di questa vittoria? «È un evento di portata monumentale che può essere compreso solo in rapporto alle altre pietre miliari della nostra storia: la rivoluzione americana, la nascita della costituzione americana, la Guerra Civile». Cosa intende dire? «Che l'America è stata fondata su gigantesche e tragiche contraddizioni. Nasce come la prima grande democrazia e rifugio per uomini liberi al mondo mentre, sin dagli albori, è maledetta dalla schiavitù e dal razzismo». A cosa possiamo paragonare queste elezioni? «Alla vittoria di Andrew Jackson, che nel 1828 fu il primo plebeo a insediarsi alla Casa Bianca, inaugurando la democrazia delle masse. Tutti i suoi predecessori furono aristocratici con una posizione privilegiata nella società e infatti la sua effige decora la banconota da 20 dollari». Alcuni tracciano il parallelo con l'elezione di JFK. «Eleggere il primo cattolico è stata una tappa importante ma nessun gruppo, tranne forse i Nativi Americani, sono stati oppressi quanto i neri». È sorpreso che non vi sia mai stato un presidente ebreo? «Gli ebrei non hanno sofferto poi così tanto in America e la loro esperienza di persecuzione nel nuovo Continente non è certo paragonabile a quella dei neri. E comunque nel 2000 l'America aveva eletto un ebreo nelle presidenziali rubate da Bush: Joe Lieberman, il vice di Al Gore». È vero che l'America tornerà ad essere amata nel mondo? «Gli europei occidentali commettono spesso l'errore di pensare che le loro opinioni sono condivise dall'intero pianeta, dimenticando che George W. Bush è ammirato in Africa e Est Europa. Per quanto riguarda Obama penso che cambierà soprattutto l'immagine che l'America ha di sé stessa, perché ha dimostrato che i valori americani di opportunità e giustizia sono vivi e veri». Quali saranno per Obama le sfide future più pressanti? «Il suo talento oratorio del tutto assente in Bush l'aiuterà ad essere enormemente popolare all'estero. Ma dopo la luna di miele bisognerà vedere cosa farà in concreto per risolvere la crisi finanziaria che, alla fine, l'ha aiutato a diventare presidente». Che consigli gli darebbe? «Per risolvere la crisi finanziaria dovrà spostare l'asse dell'economia americana dalla dipendenza al petrolio verso forme energetiche alternative. Ciò gli consentirà anche di affrontare l'emergenza della Sicurezza Nazionale che emana dai paesi produttori di petrolio. La politica estera e quella economica saranno indistinguibili». Le sue previsioni per le guerre in Iraq e Afghanistan? «Purtroppo non finiranno con Obama che, come molti presidenti, non potrà mantenere le promesse elettorali. Retoricamente si dirà che la guerra è finita ma di fatto le truppe Usa resteranno nella regione». Quali altre promesse elettorali non potrà mantenere? «Dubito che la crisi gli permetterà di realizzare gli ambiziosi programmi sociali, educativi e sanitari. Tassare i ricchi? Neppure lui sa bene cosa e come fare con quella promessa elettorale». Assisteremo ad una nuova fase di rapporti con l'Iran? «Lo sforzo per ristabilire contatti diplomatici fallirà subito, finendo per essere solo un escamotage retorico da parte di Obama. Che dovrà fare qualcosa di drammatico per fermare la proliferazione nucleare di Ahmadinejad». E i rapporti con la Cina? «La vera sfida sarà coinvolgere il gigante asiatico nell'imminente rivoluzione anti-petrolio, costruendo nuove autorità regolatorie mondiali che includano la Cina invece di escluderla. Il pericolo è che Pechino costruisca un sistema economico rivale e alternativo basato sul petrolio che porterebbe a tensioni molto pericolose». Obama potrebbe far cadere l'embargo contro Cuba? «Obama deve solo gestire l'attuale transizione, dalla dittatura dei fratelli Castro a ciò che verrà dopo. Il tutto nell'ambito di una strategia più ampia che deve includere Hugo Chavez, riallacciandosi alla nuova politica energetica che riduca il potere dei paesi produttori di petrolio: Iran, Arabia Saudita, Russia e Venezuela». E il futuro dei rapporti bilaterali Italia- Usa? «Miglioreranno perché Obama sarà molto più capace di farsi ascoltare e rispettare dagli italiani. Purtroppo anche lui, come Bush, non ha viaggiato molto e non porta grande esperienza in politica estera alla Casa Bianca». Si farà aiutare da Joe Biden? «La diplomazia di Obama sarà quella del "buon poliziotto-cattivo poliziotto". Lui sarà il leader amato e popolare nel mondo che di fronte alle gatte da pelare spedirà Biden. Un mastino così difficile e ostico che le capitali estere concederanno qualsiasi cosa ad Obama pur di non dover trattare direttamente col suo vice». Alessandra Farkas 06 novembre 2008 da corriere.it Titolo: La rivoluzione della sobrietà e il presidente in stile Humphrey Bogart Inserito da: Admin - Novembre 06, 2008, 11:55:34 am La rivoluzione della sobrietà e il presidente in stile Humphrey Bogart
DAL NOSTRO INVIATO CHICAGO Smaltita l'eccitazione di una notte che ha cambiato la sua storia, l'America si è svegliata stamani in una nuova era: quella della Grande Sobrietà obamiana. Sobrio nel vestire, nel mangiare, nello stile di vita familiare, nella mimica, nel modo di porsi coi suoi interlocutori, Barack Obama passa per un freddo calcolatore che si è imposto un livello estremo di autocontrollo come precondizione della sua corsa alla vetta della politica nazionale. Uno strumento che ha imparato a maneggiare con perizia e che ora gli servirà per rimettere ordine nel suo caotico partito, nei rapporti col Congresso, nel dialogo con la minoranza repubblicana. Ma anche uno stile personale che, forte del suo carisma, cercherà di trasferire nel comportamento quotidiano degli americani: sobrietà sarà il presupposto, se non la parola d'ordine, della sua politica di risparmio energetico e di sviluppo di fonti alternative. Ma sarà anche l'atteggiamento suggerito a un popolo che, reduce da anni di sbornia consumistica e di indebitamento elevatissimo, sta cominciando a vivere il clima angoscioso della recessione. Un esperimento non privo di rischi, quello del nuovo presidente: anche gli eccessi, gli sprechi, nella mentalità di molti americani — non necessariamente conservatori — sono libertà che meritano di essere difese. A un italiano viene naturale il paragone con l'austerità berlingueriana. Ma se oggi il mondo deve fronteggiare crisi economiche ed energetiche esattamente come negli anni '70 di Berlinguer, va però tenuto presente che la sobrietà obamiana non ha connotati ideologici e nasce in tutt'altro contesto. Ed è un atteggiamento considerato «cool» dai giovani: può fare tendenza. A Barack non piace essere avvicinato, come fanno molti suoi ammiratori, all'immagine di George Clooney o del Sidney Poitier di «Indovina chi viene a cena?». I suoi eroi al cinema sono Spencer Tracy e Humphrey Bogart, interpreti di personaggi leali, diretti, magari tenebrosi, che non alzano mai la voce. La sobrietà obamiana parte da un assunto di base: l'americano medio non è ostile al nero in quanto tale. Non lo spaventa il colore della pelle, ma è infastidito dalla «fisicità» degli afroamericani: il loro gesticolare, l'abbigliamento spesso esagerato, le catene d'oro, il parlare a voce alta, una diffusa tendenza all'indisciplina nella vita familiare (altissimo livello di abbandono del tetto coniugale da parte dei maschi) come in quella sociale. Nell'interpretare un personaggio speculare allo stereotipo del nero chiassoso c'è sicuramente del calcolo, ma Obama non può avere studiato a tavolino l'autodisciplina, il senso della misura che sono da decenni il suo stile di vita. Per lui la sobrietà è stata dapprima — come racconta un giornalista di Nairobi che lo ha conosciuto e che è stato amico del padre — la reazione a un genitore (lontano ma che aleggiava nella vita del giovane Barack) pirotecnico, eccessivo, dotato di un'umanità travolgente, ma anche arrogante. Obama è tutt'altro. Cerebrale, calcolatore, dapprima ha capito che la sua naturale sobrietà, che rischia di renderlo noioso nella vita privata, poteva essergli molto utile nella costruzione di un'immagine pubblica diversa da quella di tanti leader abituati a usare il potere in modo sguaiato. Ed ha anche costruito la squadra elettorale a sua immagine e somiglianza: la «forza tranquilla» dello stratega David Axelrod, perennemente immerso in pulloveroni sbrindellati, David Plouffe, il manager campagna che ha governato una macchina estremamente complessa senza mai alzare la voce: una formazione compatta, con un forte senso di cameratismo, a differenza dei team rissosi, pieni di «primedonne» (e, quindi, andati inevitabilmente in frantumi) messi in piedi da Hillary Clinton, o quattro anni fa, da John Kerry. Un minimalismo austero ma che piace, quello del leader democratico: l'eleganza di un pantalone scuro, una camicia candida, un mocassino liscio. Nessun «accessorio» ad eccezione del braccialetto di plastica donato dalla madre di un soldato ucciso in Iraq (usato solo dopo che McCain aveva cominciato a mostrare nei comizi quello avuto dalla madre di Mattew Stanley, un altro caduto). A tavola molti broccoli e spinaci, pochi fritti, niente mayonnaise. Poche bibite gassate: meglio l'acqua. "Unamerican" direbbe Sarah Palin. Invece ha funzionato: forse perché col suo garbo e un atteggiamento "inclusivo", Obama non ha mai demonizzato il colesterolo degli hamburger. La sobrietà è anche nemica di ogni integralismo: i suoi sentimenti in materia di ambiente non impediscono, ad esempio, a Obama di girare il Paese a bordo di grossi "suv" neri blindati, che «risparmiosi» certo non sono. Anche i discorsi pubblici del leader nero sono diventati più asciutti, essenziali. Nei dibattiti televisivi con McCain, più che sobrio, è stato attento a non cadere in trappola: anche a costo di apparire un po' rinunciatario, nessuna replica dura agli attacchi di un avversario che, indietro nei sondaggi, cercava di spingerlo a una reazione da "nero attaccabrighe". Anche l'altra notte, nel prato del Grant Park, assediato da un'intera metropoli in festa, Obama non si è fatto prendere la mano dal trionfalismo: c'era il lutto per la scomparsa della nonna, certo, ma le sue parole asciutte, la faccia sofferta, scavata dalla durissima campagna, la commozione senza sorrisi, erano già un richiamo alla situazione difficile che l'America e il suo nuovo presidente dovranno fronteggiare: «Stasera abbiamo conquistato solo il diritto a tentare di realizzare il cambiamento che sognamo». Massimo Gaggi 06 novembre 2008 da corriere.it Titolo: La madre Ann, spirito libero e giramondo, dalle Hawaii all'Indonesia Inserito da: Admin - Novembre 06, 2008, 11:56:42 am Il padre poligamo venuto dal Kenya che rivide il figlio una volta sola
La madre Ann, spirito libero e giramondo, dalle Hawaii all'Indonesia DAL NOSTRO INVIATO CHICAGO — La frase è già parte integrante della mistica del presidente-eletto: «Un padre dal Kenya, una madre dal Kansas, una Storia che sarebbe stata possibile soltanto negli Stati Uniti d'America». La sintesi meticcia che Barack Obama fa delle sue origini è uno squarcio sui percorsi di due persone e due famiglie, che il destino ha voluto incrociare, cambiando per sempre il cammino della Storia. Non solo. Le improbabili biografie dei suoi genitori si dipanano, subendone l'influenza, nel solco di passaggi cruciali del Dopoguerra: la decolonizzazione, l'era kennedyana, la battaglia per i diritti civili. Rafforzando così il simbolismo e il senso di predestinazione, che accompagnano l'ascesa del primo afro-americano al vertice della prima potenza mondiale. Fu anche la generosità dei Kennedy, oltre a quella di personaggi come Harry Belafonte e Sidney Poitier, alla fine degli Anni Cinquanta, che consentì a Tom Mboya, leader nazionalista kenyano deciso a formare una nuova classe dirigente per l'Africa uscita dal colonialismo, a finanziare le prime 81 borse di studio nei college americani. A Barack Hussein Obama senior, della tribù dei Luo, toccò quella della University of Hawaii. Aveva 24 anni, grande talento e infinita ambizione. Uno dei suoi compagni di studio, Philip Ochieng, che sarebbe diventato celebre giornalista kenyano, lo ricorda «affascinante, generoso, straordinariamente bravo», ma anche «imperioso, crudele e sempre pronto a vantare la sua intelligenza e la sua ricchezza ». Poligamo impunito, come il padre e patriarca della famiglia, Hussein Onyango Obama, Barack senior si era lasciato dietro una moglie, Kezia (la prima di quattro), e due figli, i primi di otto. Fu nel clima dello Stato più multiculturale e integrato d'America, che il giovane africano conobbe a un corso di russo Ann Dunham, figlia trasognata di Stanley e Madeleyn, emigrati dal Kansas eternamente all'inseguimento del sogno americano e della prossima frontiera. Lei aveva 18 anni, era ingenua, idealista, stregata dall'eloquenza e dal carisma di quell'uomo dalle opinioni forti e dai modi seducenti. Lo sposò, come si sposa un sogno proibito, tra i dubbi dei genitori e le minacce del vecchio Onyango, che dall'Africa mandò una lettera, deciso a impedire che «il sangue degli Obama fosse sporcato da quello di una donna bianca». E nacque Barack. Ci vollero solo due anni perché Obama senior prendesse il volo. Lasciò Ann col bambino e andò ad Harvard, ancora una borsa di studio. Lei divorziò un anno dopo. Senza polemiche: gli scrisse sempre del piccolo Barack. Lui conobbe un'altra donna, Ruth Nidesand, sposò anche questa e la portò in Kenya. Ma anche con Ruth non visse a lungo, anche se prima le fece fare due figli. Fu lei a lasciarlo, stanca di essere picchiata. Nel Kenya delle illusioni perdute, Obama senior visse un triste autunno: lavorò con Mboya, il suo vecchio mentore, fin quando questi venne assassinato. Il suo carattere, gli antichi odii tribali e l'alcol fecero il resto. Morì in un incidente stradale, nel 1982. E anche se era diventato ateo, la famiglia volle un funerale musulmano. Barack Obama aveva rivisto suo padre una volta sola, quando aveva 10 anni, alle Hawaii. Un incontro ormai trasfigurato nella memoria. Cos'è stata la sua educazione sentimentale, se non la caccia a quest'ombra per esorcizzarla? Cos'altro sono i Dreams from my father se non il percorso a ritroso sulle orme del padre che non c'era, in Africa, ad Harvard, alla scoperta dell'identità nera, in parte nascosta dall'adolescenza coi nonni del Kansas? Neanche di Ann Dunham, il presidente- eletto può dire di aver condiviso molto tempo. Ma quello speso insieme ha creato un rapporto fortissimo con la madre giramondo. A 6 anni, si era portata il piccolo Barack in Indonesia, seguendo il secondo marito, Lolo Soetoro. Era lei, nelle umide albe di Giakarta, a svegliarlo alle 4 del mattino per approfondire il poco inglese della scuola locale. O a raccontargli le storie dell'America, la rivoluzione delle colonie e la Guerra Civile. Ma Ann era anche uno spirito libero: «Sentiva che avventurandosi su territori sconosciuti, possiamo imbatterci in qualcosa che ci riveli chi siamo dentro veramente», ha raccontato Maya, figlia di Lolo e sorellastra di Barack. Anche per questo, era tornata in Indonesia a lavorare con la cooperazione, pioniera dei micro-finanziamenti per l'imprenditoria povera. Barack non l'aveva seguita, fermandosi alle Hawaii. Le veci di Ann le avrebbe fatte sua madre «Toot», la nonna che lo ha cresciuto e come in un dramma shakespiriano è morta alla vigilia del trionfo di Barack Obama. Nel 1992, tre anni prima di morire di cancro, Ann Dunham aveva completato il suo dottorato di ricerca, con una tesi sui contadini indonesiani. L'aveva dedicata a Barack e Maya, «che non si sono mai lamentati, se la loro mamma era spesso in missione». Oggi sarebbe stata fiera. Gli ha dato tanto esempio e poco tempo. Ma anche da solo, Barack Obama è arrivato sul tetto del mondo. Paolo Valentino 06 novembre 2008 da corriere.it Titolo: Clintoniani e colleghi di Harvard Obama al lavoro sul 'dream team' Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 10:18:26 am In attesa dei primi impegni ufficiali e dell'incontro con Bush alla Casa Bianca il futuro presidente sta mettendo a punto la lista della squadra di governo
Clintoniani e colleghi di Harvard Obama al lavoro sul 'dream team' Rahm Emanuel ha accettato l'offerta di diventare capo dello staff CHICAGO - Archiviato il trionfo elettorale e in attesa dei primi impegni ufficiali in qualità di presidente designato, Barack Obama si sta concentrando in queste ore sulla formazione della squadra di governo, quella che in molti, anche in virtù della sua passione per il basket, hanno già ribattezzato dream team. L'ormai ex senatore dell'Illinois venerdì, dopo una lunga consultazione con i suoi consiglieri economici, parlerà al Paese attraverso una conferenza stampa. Poi, lunedì, si recherà insieme alla moglie Michelle alla Casa Bianca dove sarà ricevuto da George W. e Laura Bush per un primo "passaggio delle consegne". Tra un appuntamento e l'altro Obama continuerà a cercare di mettere insieme il miglior staff possibile. Il primo nome certo è quello di Rahm Emanuel, deputato dell'Illinois, amico di chiara matrice clintoniana, a cui è stato offerto l'incarico di capo di staff. Sarà lui a guidare la squadra nei due mesi e mezzo che separano dal giorno dell'entrata in carica del nuovo presidente, prevista per il 20 gennaio. Emanuel oggi ha accettato infatti ufficialmente l'offerta. "Sono felice - ha detto - che i miei genitori siano ancora vivi per vedere un figlio che diventa capo di gabinetto del presidente degli Stati Uniti". Fondamentali per un presidente che ha incentrato sull'economia la sua campagna elettorale saranno le scelte del dipartimento al Tesoro: le ultime indiscrezioni danno in ascesa le quotazioni di Timothy Geithner, presidente della Fed di New York, ma molto gettonato resta anche l'ex ministro del Tesoro Lawrence Summers. Nella scia di un'amministrazione 'clintoniana' rientra anche possibile la scelta di John Podesta, ex capo di gabinetto dell'ex presidente democratico. Tra i volti nuovi promessi da Obama in molti aspettano di trovare qualche amico di Harvard come Micheal Froman e Janet Napolitano (governatore dell'Arizona), mentre l'apertura promessa ai repubblicani potrebbe concretizzarsi attraverso la scelta di Robert Gates per il Pentagono. Come segretario di Stato infine Obama starebbe pensando all'ex candidato democratico alla presidenza John Kerry. Gli uffici per la transizione di Washington apriranno i battenti già lunedì. Oggi Obama riceve il primo briefing dall'intelligence Usa, un antipasto dell'appuntamento quotidiano che lo attenderà per l'intera durata del suo mandato. Prenderà visione dei rapporti dei servizi segreti, gli stessi che riceverà contemporaneamente George W. Bush. Il rapporto sarà presentato da Michael McConnell, lo 'zar delle spie', direttore e coordinatore delle 16 agenzie di intelligence americane. (6 novembre 2008) da repubblica.it Titolo: ALICE WALKER Caro Obama, ridacci il sorriso Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 10:21:11 am 7/11/2008
Caro Obama, ridacci il sorriso ALICE WALKER Caro fratello Obama, non hai idea di quanto sia sentito questo momento da noi, il popolo nero del Sud degli Stati Uniti. Pensi di saperlo, perché sei un uomo profondo e hai studiato la nostra storia. Ma vederti impugnare quella torcia che così tanti, prima di te, hanno portata, anno dopo anno, secolo dopo secolo, solo per essere abbattuti prima d’aver acceso la fiamma della giustizia, è quasi più di quanto il cuore possa reggere. Questa osservazione non intende scaricare quel peso sulle tue spalle, perché tu sei di un’epoca diversa e perché, grazie a tutti i portatori di torcia che t’hanno preceduto, il Nord America è davvero un posto diverso. Sapevamo, attraverso le generazioni, che tu eri con noi, in noi, il meglio dello spirito dell’Africa e delle Americhe. Sapere che un giorno tu saresti davvero apparso, era parte della nostra forza. Vederti occupare il posto che ti spetta grazie alla saggezza, all’energia e alla forza di carattere, è un balsamo per gli stremati guerrieri della speranza, di cui si cantavano le gesta. Vorrei ricordarti che non sei stato tu a creare il disastro in cui si dibatte il mondo e che non sei tu l’unico che ha la responsabilità di riportarlo in equilibrio. Una responsabilità fondamentale che hai è di coltivare la felicità nella tua vita. Scandisci gli impegni in modo che ti lascino abbastanza tempo per riposare e giocare con la tua magnifica moglie e le due deliziose bambine. Siamo abituati a vedere chi va ad abitare alla Casa Bianca perdere il brio e il nero dei capelli. Vediamo mogli e figlie con l’aria affaticata. Hanno sorrisi così privi di gioia che sembrano forbici. Non è un buon modo di governare. E la tua famiglia non si merita questo destino. In uno stato d’animo felice e disteso potrai creare un autentico successo, che è quello che tantissime persone al mondo vogliono davvero. Possono comprare automobili, case, pellicce, terreni ma questa bulimia deriva dal fatto che non hanno ancora chiaro che il successo è un lavoro interiore. Ed è alla portata di chiunque. Vorrei anche consigliarti di non imbarcare i nemici altrui. La maggior parte del male che altri ci fanno, vien fatto per paura, umiliazione, dolore. Sentimenti che ci toccano tutti, non solo chi di noi professa una religione o una devozione razziale. Dovremmo imparare a non avere nemici, ma solo avversari disorientati, che sono poi dei «noi» travestiti. Sei il comandante in capo degli Stati Uniti e giurerai di proteggere il nostro amato Paese. Tuttavia, come amava ripetere mia madre citando una Bibbia con la quale sono spesso stata in disaccordo, «odia il peccato ma ama i peccatori». Non ci devono più essere scontri tra le comunità, non più torture, non più disumanizzazione come mezzi per governare lo spirito della gente. Questo è già successo alla gente di colore, ai poveri, alle donne, ai bambini. Abbiamo visto dove questo atteggiamento ha portato, dove porta. Un buon modello di come «lavorare col nemico» in modo interiore è offerto dal Dalai Lama, nel suo ininterrotto prendersi cura della sua anima quando affronta il governo cinese che ha invaso il Tibet. Perché, alla fine, è l’anima che dev’essere preservata, se uno vuole restare un leader credibile. Tutto il resto può andare perduto, ma quando muore l’anima, muore anche la connessione con la terra, le persone, gli animali, i fiumi, le maestose catene montuose. E il tuo sorriso, con il quale ti vediamo fare gentili battaglie contro caratterizzazioni ingiuste, distorsioni e bugie, è quell’espressione di consapevolezza del proprio valore, di spirito e di anima che, mantenuta felice e libera e serena, può trovare un sorriso di risposta in tutti noi, illuminando il nostro cammino e facendo brillare il mondo. *Alice Walker è l’autrice di «The Color Purple» (Colore di porpora) con cui ha vinto il Pulitzer per la narrativa 1983 Copyright The New York Times Syndicate da lastampa.it Titolo: OBAMA: LA FORZA DELLA SPERANZA Inserito da: Admin - Novembre 08, 2008, 10:03:41 am Dopo la vittoria ecco gli "Election junkies", gli orfani della campagna elettorale
Appena eletto, il presidente ha già creato il nuovo sito per ricevere proposte Obama, passata al festa democrat in astinenza dal nostro inviato ANAIS GINORI CHICAGO - Passata la sbornia elettorale, molti militanti democratici faticano a tornare alla normalità. "Election junkies", li ha soprannominati il Wall Street Journal, persone che hanno sviluppato una dipendenza da elezioni. Le migliaia di supporter che hanno sostenuto Barack Obama hanno vissuto la più eccitante avventura politica degli ultimi decenni: dall'improbabile nomination democratica fino alla Casa Bianca. Mesi passati sulla cresta dell'onda, trascinati in uno straordinario movimento fatto di email, telefonate continue, incontri, riunioni, viaggi. E ora che il traguardo è finalmente raggiunto sembrano smarriti. Qualcuno su internet ha fatto dei video per ironizzare su questa "crisi di astinenza". Una sorta di Obama-blues, come il baby-blues che hanno le donne subito dopo il parto. Sono i giovani a sentire di più la mancanza di comizi, dibattiti, conferenze democratiche. E' la generazione Obama, ragazzi cresciuti negli anni Novanta, che hanno passato la loro adolescenza tra Bush, l'11 settembre e la guerra in Iraq. Sono cresciuti con un'informazione catastrofista come quella della Fox, e senza nessuna prospettiva economica. "Eppure questi giovani sono diventati più idealisti e attenti all'informazione di qualità delle generazioni nate fino agli anni Ottanta" spiega Peter Levine, esperto di voto giovanile. L'analisi di queste elezioni è chiara: il 66% degli elettori tra i 18 e i 29 anni ha votato per Obama. E la loro partecipazione è aumentata del 6%, fino al 55% dell'elettorato giovanile. Un record. Obama ha messo questi giovani al centro della campagna elettorale. A loro ha dedicato il video mandato sul grande schermo di Grant Park poco prima del discorso della vittoria. Girato come uno spot pubblicitario è stato l'omaggio del leader democratico al popolo che gli ha regalato la vittoria. "Stiamo costruendo il prossimo grande capitolo" dice Obama nel video, che è già diventato uno dei tormentoni del web. Obama ha promesso di mantenere un legame diretto con i militanti anche quando sarà alla Casa Bianca. Appena eletto, ha già creato il nuovo sito (www.change.gov) per ricevere proposte e domande sulla transizione fino a gennaio. Sarà un "governo aperto" promette sul sito. E' il suo modo per dire: ho ancora bisogno di voi. (7 novembre 2008) da repubblica.it Titolo: Casa Bianca, dolce casa Inserito da: Admin - Novembre 08, 2008, 05:44:35 pm 8/11/2008 (7:9) - RETROSCENA
Casa Bianca, dolce casa La famiglia presidenziale troverà 132 stanze, 28 caminetti, 35 bagni, 37 ripostigli... JACOPO IACOBONI WASHINGTON Chi gli taglierà i capelli, chi gli laverà quegli abiti di Hart Schaffner Marx così metrosexual, cosa troverà nel frigo, e soprattutto, dove andrà a nascondersi per starsene un po’ in santa pace? Bisogna sapere tante cose, quando si varca il cancello della Casa Bianca. E gliele stanno dicendo, a Barack. Cosa fare, cosa non fare, chi ti farà da mangiare, come scappare, quante macchine puoi parcheggiare nel vialetto (tre), cosa puoi fare nel tempo libero (?) senza uscire di lì, chi puoi portarti dietro, chi no, chi di nascosto... Di sicuro Obama non ne avrà bisogno, innamorato com’è di Michelle, ma alla Casa Bianca esistono (almeno) due passaggi segreti, e uno di questi al pianterreno si chiama «ingresso di Marilyn». Jfk amava moltissimo quella strettoia, e i suoi biografi ci hanno costruito mitologie. La Casa Bianca è un universo per molte ragioni misterioso, per un presidente eletto, una gigantesca suite palladiana (è del 1792) che a noi europei stucca un po’, ma anche un labirinto, 132 stanze, sei piani, otto scalinate, tre ascensori, 35 stanze da bagno, 11 camere da letto, 43 uffici, 28 caminetti, 147 finestre, 412 porte, 824 maniglie, 37 ripostigli, tre cucine, 16 frigoriferi, 40 lavandini... Potresti aver vinto con Hillary e John McCain e perderti lì dentro, nonostante benefit e trattamento sette stelle; e in effetti la storia recente è ricchissima di presidenti che al 1600 di Pennsylvania Avenue non è che ci volessero stare tantissimo (Bush ha passato 98 giorni lontano di lì, suo padre 135 giorni, Reagan 41). Così ci sono un po’ di cose che il team del neopresidente già gli sta comunicando. Per dire, il barbiere non c’è (a differenza di Montecitorio), come non ci sono manicure, estetista, massaggiatrice. La lavanderia sì, ma le spese sono a carico della famiglia presidenziale. Il guardaroba della first lady, si spera non dotato di soli Narciso Rodriguez, è una stanzetta luminosa all’estremità sud ovest del secondo piano, anche luogo d’intimità, pare, uno dei rari in cui gli agenti del secret service non entrano. Il bancomat, l’ufficio postale e l’ambulatorio sono nel seminterrato. Per firmare Barack avrà penne Parker, se vuole nuotare una piscina, se vuole vedere un film li ha tutti in anteprima, cinema privato, poltrone di prima fila reclinabili marca La-Z-Boy (e c’è la macchinetta dei popcorn! superiorità della cultura americana). Michelle può cambiare l’arredamento, come fece Hillary; ma sarebbe imperdonabile modificare la scrivania dello studio ovale, donata dalla regina d’Inghilterra. È tradizione che la poltrona sia marca Gunlocke, modello progettato dal fisioterapista di Jfk nel ‘61 per placare i suoi mal di schiena. In ogni caso chi cambia paga, o usa fondi privati, non soldi federali (sì sì, come l’Italia); e sceglie se possibile mobili di produzione nazionale. Nelle cucine si può al limite modificare stile culinario ma dovrebbero bastare le tre che ci sono, cinque chef, un pasticciere, venti part time. Possono servire fino a 140 ospiti seduti e mille apertivi. Nei 16 frigoriferi tra uffici e appartamenti ci sono tutte le bevande dei gruppi Coca e Pepsi, e gli M’M’s con stemma presidenziale. Alle cinque tutti i giorni vengono servite patatine fritte per gli uffici dell’ala ovest. Nonostante tutto questo, diventi poi un uomo braccato, seguito 24 ore non solo dagli agenti ma dall’ufficiale con la Nuclear Football, la valigetta coi comandi per l’attacco nucleare, e persino dal maggiordomo, che ha un indicatore di posizione se il presidente si trova in aree non private della Casa Bianca. Ti danno una Cadillac V8 , ma né tu né tua moglie potete guidarla. Le figlie (qui però troppo piccole) sì, ma sempre avvisando di ogni spostamento gli agenti: restò memorabile la povera Susan, figlia di Gerald Ford, che una sera si fiondò con l’auto fuori dai cancelli aperti per far entrare un’altra auto. Barack dovrà, come ogni presidente, saper fare almeno un giro di valzer. Potrà, come Reagan, fare i pisolini che vorrà, i ritmi di lavoro li decide lui, vedremo se sarà workaholic come Clinton, che lavorava dalle 7 fino a sera tardi, e poi restava al telefono fino alle tre di notte. Guadagnerà 400 mila dollari l’anno (più 50 mila di spese), i ricevimenti privati se li pagherà da sé, avrà una pensione di appena 160 mila euro. Se vorrà invitare qualcuno, ha un apposito «segretario per gli eventi»: alzi la mano chi al momento gli direbbe di no, come fece Thom Yorke, il cantante dei Radiohead, dinanzi a un invito di Tony Blair. Ma ora ha detto che con Barack «comincia una nuova èra». Nella Casa Bianca di sempre. da lastampa.it Titolo: OBAMA: LA FORZA DELLA SPERANZA Inserito da: Admin - Novembre 09, 2008, 12:19:47 am 2008-11-05 21:13
OBAMA: LA FORZA DELLA SPERANZA di Cristiano Del Riccio WASHINGTON - Ha vinto la speranza. La parola magica che per due anni è stata l'anima della campagna elettorale di Barack Obama ha trionfato martedì in America spingendo a votare milioni di persone che non l'avevamo mai fatto prima e portando per la prima volta un candidato nero alla Casa Bianca. Per Barack Obama la "audacia della speranza" non è stato solo il bel titolo di un suo libro o lo slogan che ha conquistato milioni di americani. E' stato anche un modo di vivere. Non c'é stato discorso di Obama, in questa campagna elettorale infinita, che non abbia toccato questo tema. E non c'é stata una sola volta in cui le sue parole, pronunciate abbassando all'improvviso la sua potente voce baritonale, riducendola ad un mormorio, non abbiamo messo i brividi agli ascoltatori. "Speranza è quella cosa dentro ognuno di noi - aveva sussurato Obama nel suo discorso di vittoria in Iowa, ad una folla piombata nel silenzio assoluto, per non perdere una sola sillaba - che insiste nel credere, malgrado tutto sembri dimostrare il contrario, che qualcosa di migliore ci aspetta se abbiamo il coraggio di combattere per questo". E' esattamente quello che è successo in questa campagna elettorale. Quella che alcuni ritenevano solo una frase retorica, "i bei discorsi" tanto sbeffeggiati dal suo rivale John McCain, si è rivelato un progetto operativo messo a punto con la precisione di un intervento neuro-chirurgico. Lo "spacciatore di speranza", l'uomo convinto che "insieme persone ordinarie possono fare cose straordinarie", è riuscito a far diventare realtà le sue parole. Il suo invito a "scegliere la speranza sulla paura", in un'America governata da un presidente pronto a calpestare numerose libertà civili nel nome della guerra al terrorismo, si è trasformato da esortazione evangelica a programma elettorale. Un programma senza barriere perché ognuno ha potuto leggere a suo modo la parola "speranza". Se per gli afro-americani era la liberazione da catene antiche, prima materiali e poi sociali, per i poveri, per gli ispanici, per i giovani, lo stesso messaggio faceva scattare chiavi di lettura e reazioni positive diverse tutte volte comunque a mobilitare e a dare una voce a parti della popolazione americana che finora si era sentita esclusa dalla partecipazione al processo elettorale. "Speranza non è ottimismo cieco, non è sedere in panchina evitando la lotta": il messaggio di Obama ha trasformato le minoranze passive in una grande maggioranza attiva che ha trascinato il senatore nero, come una grande ondata irresistibile, verso la vittoria, verso la Casa Bianca, verso la Storia. da ansa.it Titolo: De-bushificare' l'America. Inserito da: Admin - Novembre 10, 2008, 09:55:12 am OBAMA, CAMBIERO' IL VOLTO DELL'AMERICA
(AGI) Washington, 10 nov. - 'De-bushificare' l'America. Questo la parola d'ordine dell'amministrazione 'in pectore' di Barack Obama, che questa sera sara' ricevuto alla Casa Bianca dal predecessore George W. Bush. Per Obama si tratta della sua seconda visita alla Casa Bianca dopo la riunione convocata d'urgenza il 25 settembre dal presidente Bush con l'equipe economica del governo per affrontare la crisi finanziaria. Obama arrivera' accompagnato dalla moglie Michelle che, insieme a Laura Bush, avra' l'occasione di vedere per la prima volta la parte privata della Casa Bianca, riservata alla residenza del Presidente. Il team di transizione del presidente eletto ha definito una lista di circa 200 provvedimenti dell'amministrazione Bush da eliminare non appena il presidente eletto si insediera' alla Casa Bianca il 20 gennaio del prossimo anno. E' quanto scrive il "Washington Post" citando fonti dello staff di Obama e dei democratici al Congresso, secondo cui saranno circa 8.000 i funzionari pubblici da sostituire Nel mirino le normative sul finanziamento pubblico per la ricerca sulle cellule staminali, il cambiamento climatico, l'aborto e le trivellazioni petrolifere e di gas.. Secondo il quotidiano, quella lista gia' messa a punto potrebbe ulteriormente allungarsi nei prossimi giorni, se il presidente uscente decidesse di approvare in 'zona cesarini' altri provvedimenti prima di lasciare la Casa Bianca. In particolare il capo del team di transizione, John Podesta ha confermato alla Abc che Obama ricorrera' alla prerogativa dei decreti presidenziali per rimuovere rapidamente, senza attendere il Congresso, i "guasti" dell'era Bush. Tra i provvedimenti targati Bush che Obama intende cambiare quello che di fatto ostacola la ricerca sulle cellule staminali embrionali limitando in termini estremamente restrittivi i finanziamenti pubblici ai laboratori. Il neo presidente intende eliminare il veto imposto da Bush alla legislazione che limita le emissione di anidride carbonica e gas serra da tutti i veicoli a motore adottata dalla California del governatore repubblicano Arnold Schwarzenegger Sempre il Post scrive che in vista del "piu' importante trasferimento di poteri nella storia americana" e alla avvio dell' "Era Obama", a Washington si registra un insolito clima collaborativo tra l'amministrazione Bush e quella Obama: stanno collaborando in maniera "eccezionale" sui dossier piu' scottanti, dai conflitti in Iraq e in Afghanistan, alla lotta al terrorismo e la crisi finanziaria. A conferma del clima collaborativo la Casa Bianca intende organizzare una simulazione di attacco terroristico per vedere come i responsabili per la sicurezza nazionale di Obama risponderanno in caso di un attentato. "Se ci fosse una crisi il 21 gennaio (giorno successivo all'insediamento, ndr) sarebbero loro quelli chiamati ad affrontarla. Dobbiamo assicurarci che siano il piu' preparati possibile", ha spiegato Joshua B. Bolten, capo di gabinetto di Bush Oltre al pericolo terrorismo, sempre presente sullo sfondo, le due squadra si stanno concentrando per evitare eventuali "scossoni" durante il passaggio di consegne per contrastare la crisi economica globale. Un'emergenza autentica al momento. Agli uomini del presidente eletto, ad esempio, e' stato concesso "un livello di accesso insolito al dipartimento del Tesoro e alle altre agenzie coinvolte nel tentativo di stabilizzare l'economia", sottolinea il Post perche', come ha chiarito il portavoce della Casa Bianca Tony Fratto, l'obiettivo e' quello di "non sorprendere i mercati". Ma a parte i cambiamenti a otto anni di Bush a costo zero Obama dovra' fare scelte oculate sul resto. Come scrive il New York Times. La squadra del presidente eletto stanno valutando, alla luce della crisi economica e del deficit record del budget federale, quali delle ambiziose promesse fatte in campagna elettorale avranno la precedenza e quali saranno rinviate. Il primo obiettivo resta quello di favorire la ripresa economica ma senza accantonare, per quanto possibile, altre emergenze come la riforma del sistema sanitario, l'ambiente e l'indipendenza energetica Obama e' destinato ad avere inizialmente le mani legate dai vincoli del bilancio federale che il piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari rischia di far toccare un nuovo record. Lui stesso poi ha annunciato che ritiene necessario un secondo pacchetto di stimoli economici da oltre 150 miliardi di dollari. Rham Emanuel, il capo di gabinetto di Obama, ha comunque confermato all'Abc che il piano di taglio delle tasse del 95% degli americani non sara' abbandonato. Allo stesso tempo il presidente, una volta insediato, introdurra' immediatamente il parallelo inasprimento del prelievo fiscale sui redditi superiori a 250.000 dollari annui. (AGI) da www.agi.it Titolo: OBAMA si tranquillizzi Berlusconi lo protegge con i suoi consigli... (ndr) Inserito da: Admin - Novembre 11, 2008, 11:59:35 pm 11/11/2008 (17:14)
"A Obama dico: ricucire con Mosca" Berlusconi: «Più importante dell'Iraq, il neopresidente ha il nostro sostegno» ROMA «A Obama ho dato il consiglio che non continui l’escalation dei rapporti negativi con la Russia, credo che sia più importante della crisi irachena». Lo afferma Silvio Berlusconi durante la conferenza congiunta con il presidente brasiliano Lula Da Silva. «Obama oggi - prosegue - si trova in una situazione molto difficile, tutti i problemi interni ed esterni gli cadranno addosso, dall’Iraq, all’Afghanistan al Medio Oriente. Ma credo che il consiglio più importante da dargli sia quello di porre fine alla contrapposizione tra il suo paese e la Federazione russa». Il premier ha poi assicurato che «presto» ci sarà un incontro tra il presidente eletto degli Stati Uniti e il leader del Cremlino, Dmitri Medvedev. «Me lo ha detto proprio Obama», ha spiegato Berlusconi. «Il supporto dell’Italia alla nuova Amministrazione americana è il più totale e convinto possibile», ha poi sottolineato con insistenza il premier Berlusconi. da lastampa.it Titolo: Massimo Gaggi Obama, le prime delusioni Inserito da: Admin - Novembre 12, 2008, 12:28:55 pm 12/11/2008 - USA 2008. IL NUOVO CORSO
Obama apre all'Iran alleati contro Al Qaeda La nuova strategia per la guerra afghana "Coinvolgere Teheran, parlare coi ribelli" CORRISPONDENTE DA NEW YORK Barack Obama pensa a un'offensiva militare massiccia per catturare Bin Laden, vuole coinvolgere l'Iran nella composizione della crisi afghana, affronta i timori del Pentagono sul ritiro dall'Iraq e avrebbe autorizzato contatti con Hamas: le indiscrezioni che rimbalzano da Washington e Gaza lasciano intendere che più novità sono arrivo in politica estera. Il Washington Post cita stretti collaboratori del presidente eletto anticipando che avrà in cima all'agenda di sicurezza l'Afghanistan con una «strategia regionale». Sul fronte militare verrà aumentato l'impiego contro Al Qaeda, schierando 2 o 3 brigate in più per operare su un campo di battaglia che «include anche le aree tribali del Pakistan» al fine di catturare o eliminare Osama bin Laden, il vice al Zawahiri e i loro colonnelli. Il messaggio è diretto a Islamabad: Obama chiederà libertà di movimento per le truppe Usa nelle aree oltre confine in modo più energico di Bush. La pressione militare su Al Qaeda si accompagnerà a «forme di dialogo con i taleban» come suggerito dal generale David Petraeus, sul modello di quanto fatto in Iraq con le tribù sunnite. Sul fronte politico la maggiore novità in vista è l'intenzione di coinvolgere l'Iran. «Guardiamo al futuro e sarebbe utile avere un interlocutore per verificare l'esistenza di comuni obiettivi» dicono le fonti vicine a Obama, secondo cui Usa e Iran condividono l'opposizione agli «estremisti sunniti». Lo scenario di un'apertura a Teheran sull'Afghanistan si somma a quanto detto da Obama in campagna elettorale sul dialogo con l'Iran e secondo il direttore dell'Agenzia atomica dell'Onu, El Baradei, questo approccio «potrebbe giovare al negoziato sul nucleare». Sull'Iraq Obama si trova invece di fronte alle resistenze del Pentagono a dare inizio al ritiro delle truppe in 16 mesi da lui promesso agli elettori. Secondo i generali infatti farlo «sarebbe pericoloso». Da qui l'ipotesi che Obama aspetti qualche mese prima di decidere cosa fare. La questione Iraq si lega al futuro di Robert Gates, il ministro della Difesa che molti democratici vorrebbero confermare ma che non condivide l'idea di un calendario per il ritiro. Non a caso i gruppi anti-guerra della galassia liberal, come CodePink, stanno mettendo sotto pressione Obama per chiedergli di «liberarsi degli uomini di Bush» affrettandosi a sostituire Gates con personaggi più favorevoli a ritirare le truppe come ad esempio Chuck Hagel, senatore repubblicano del Nebraska. Un'ulteriore novità è rimbalzata da Gaza, dove Ahmed Yusef, consigliere del leader di Hamas Ismail Haniyeh, ha svelato al giornale Al Hayat l'esistenza di contatti con consiglieri di Obama «iniziati mesi fa ma tenuti segreti per timori di conseguenze elettorali». Da questi incontri, ai quali potrebbe aver partecipato il clintoniano Robert Malley, Yusef afferma di aver tratto l'impressione che Obama «avrà un approccio diverso al Medio Oriente». A dispetto delle molte indiscrezioni Obama ieri è rimasto in silenzio in coincidenza con il Veteran Day, nel quale l'America rende omaggio ai veterani, recandosi al Milite Ignoto di Chicago per portare una corona di fiori assieme a Tammy Duckworth, che in Iraq perse le gambe. A parlare è stato invece John Podesta, il responsabile del team di transizione, rendendo pubbliche le disposizioni con cui Obama impedisce ai lobbisti in attività di lavorare nel team della transizione: non potranno dare contributi finanziari né consulenze, mentre chiunque ha lavorato con Barack nei 12 mesi successivi alla conclusione del rapporto non potrà fare lobbing. La moglie di Barack, Michelle, ha intanto telefonato a Hillary chiedendo suggerimenti sulla scuola dove mandare le figlie a Washington e l'inattesa chiamata ha causato qualche irritazione fra i clintoniani perché Obama continua a rifiutarsi di aiutare l'ex First Lady a ripianare 7,3 milioni di debiti elettorali. da lastampa.it Titolo: Obama e McCain pronti a lavorare insieme: «Serve nuova era di riforme» Inserito da: Admin - Novembre 17, 2008, 05:47:25 pm 2008-11-17 08:15
OBAMA: RITIRO DA IRAQ, CHIUDERE GUANTANAMO, PRENDERE BIN LADEN NEW YORK - Crisi dell'auto e dei mercati finanziari, guerra in Iraq e lotta al terrorismo, ma aspetti privati del futuro imminente della prima famiglia afro-americana che conquista la Casa Bianca: per la prima volta da quando e' stato eletto presidente Barack Obama si e' seduto per un'intervista a tutto campo con una televisione Usa. Affiancato dalla moglie Michelle, nel faccia a faccia con la Cbs registrata venerdi' alla vigilia del vertice del G20 di Washington, Obama ha detto che una delle sue priorita' sara' ''restituire un senso di equilibrio'' al regolamento dei mercati finanziari ma si e' detto contario a un cosiddetto 'nuovo New Deal' per l'America. Obama ha ammesso che ci sono paralleli tra la crisi di oggi e i problemi della Grande Depressione, ma ha detto di essere a favore di soluzioni ''in linea con i nostri tempi'' perche' ''ricreare oggi quello che esisteva negli anni Trenta sarebbe come perdere l'autobus''. Il presidente eletto si e' detto convinto che ''il governo abbia un ruolo nel rimettere in moto un'economia che si e' fermata, anche che il principio del libero mercato che ha funzionato per noi, che crea innovazione, debba essere egualmente difeso''. Secondo Obama l'economia americana sta attraversando ''circostanze straordinarie'': il presidente eletto si e' pronunciato a favore di un piano di assistenza a favore del settore dell'auto, ''ma non di un assegno in bianco''. E ha ricordato che ''le banche non fanno piu' credito, neanche alle aziende che vanno bene, ancor meno a quelle che vanno male. In queste condizioni le opzioni abituali non sono forse piu' possibili'': per questo la bancarotta per Gm potrebbe essere fatale. Si e' parlato di lotta al terrorismo: catturare Osama bin Laden e' una priorita': ''Un aspetto cruciale della eliminazione di al Qaida'', perche' bin Laden ''non e' soltanto un simbolo, e' il capo operativo di una organizzione che trama attacchi contro interessi americani''. Il presidente eletto ha anche confermato la volonta' di avviare il ritiro delle truppe Usa dall'Iraq dopo il suo arrivo alla Casa Bianca il 20 gennaio 2009 ''particolarmente alla luce di quel che succede in Afghanistan''. Si' anche alla chiusura di Guantanamo: ''Un gesto per permettere all'America di ritrovare il suo rango sul piano morale''. La transizione e' in corso e Obama, che si sta preprando agli onori e agli oneri dell'Oval Office leggendo gli scritti del ''saggio'' Abraham Lincoln, ha gia' annunciato le prime nomine del suo staff. Alla Cbs che lo ha intervistato venerdi' a Chicago, il presidente eletto ha confermato che portera' al governo almeno un repubblicano, ma di piu' non ha voluto dire. L'intervista ha permesso a lui e Michelle di parlare del futuro della loro famiglia alla Casa Bianca: ''La cosa che piu; mi preme e' che le nostre figlie possano continuare a sentirsi normali'', ha detto il presidente eletto annunciando che ''probabilmente'' sua suocera verra' a vivere con loro e che il cane promesso a Talia e Sasha non arrivera' che dopo l'insediamento. Molte cose cambieranno, anzi sono gia' cambiate, nella vita della famiglia Obama. Ora che e' stato eletto presidente ed e' seguito a stretto contatto di gomito dalla scorta del Secret Service, Obama si e' reso conto cosa significa aver perso la privacy: ''E' la cosa che mi manca di piu'. Non poter andare a fare una passeggiata indisturbato. Andare a farmi tagliare i capelli dal mio barbiere: ora e' lui che deve raggiungermi in un luogo top secret. Le piccole routine che ti tengono con i piedi per terra''. IRAQ: OK GOVERNO A ACCORDO, TRUPPE USA VIA ENTRO IL 2011 BAGHDAD- Ieri il governo iracheno ha approvato l'accordo di sicurezza con gli Stati Uniti che prevede il ritiro totale delle truppe americane entro la fine del 2011. Lo ha riferito una fonte ufficiale. L'accordo è stato approvato con 28 voti favorevoli su 38. C'era bisogno di una maggioranza di due terzi perché si potesse procedere a presentare l'accordo al parlamento. In questa sede per l'approvazione basta la maggioranza semplice. L'accordo è il risultato di un negoziato durato un anno e che spesso è stato condotto con toni aspri. Prevede la partenza dei circa 150mila soldati americani, che attualmente sono distribuiti su oltre 500 basi. Dalle città i soldati se ne andranno entro il 2009 e da tutto il territorio iracheno entro la fine del 2011, vale a dire otto anni dopo il crollo del regime di Saddam Hussein. La riunione del consiglio dei ministri è durata circa due ore. Il premier Nuri al Maliki, che ha fortemente voluto l'accordo, era già praticamente certo di ottenerne l'approvazione perché poteva contare sul sì della coalizione sciita e dei partiti curdi, che insieme hanno 19 ministri. Aveva anche l'appoggio degli indipendenti e di una parte dei ministri sunniti. Il parlamento deve ora procedere a una doppia lettura con un voto definitivo a distanza di almeno sei giorni. Seguirà la ratifica da parte del consiglio presidenziale e solo a questo punto si potrà procedere alla firma ufficiale dell'accordo, presumibilmente a Washington, da parte di Maliki e del presidente americano George W. Bush. La Casa Bianca ha definito il testo un buon accordo, soddisfacente per entrambe le parti. Anche il grande ayatollah Sistani, maggiore autorità religiosa sciita del paese, ha dato un suo informale consenso. L'accordo dà un quadro giuridico certo alla presenza militare americana in Iraq alla scadenza del mandato Onu, alla fine di quest'anno. da ansa.it Titolo: Obama e McCain pronti a lavorare insieme: «Serve nuova era di riforme» Inserito da: Admin - Novembre 18, 2008, 05:42:40 pm Obama e McCain pronti a lavorare insieme: «Serve nuova era di riforme»
WASHINGTON (17 novembre) - In America c'è bisogno «di una nuova era di riforme» per affrontare gli sprechi del governo e superare «la dura divisione che esiste Washington». Il presidente eletto Barack Obama e il suo ex avversario John McCain si sono incontrati oggi a Chicago e al termine del faccia a faccia hanno diffuso una dichiarazione comune in cui si dicono pronti a lavorare insieme «sulle sfide critiche, come risolvere la crisi finanziaria, creare una nuova economia energetica e proteggere la sicurezza nazionale». «In questo momento decisivo nella storia - afferma la dichiarazione comune, diffusa dall'ufficio del presidente eletto - crediamo che gli americani di ogni parte politica vogliano e abbiano bisogno di leader che si uniscono e che cambino le cattive abitudini di Washington, così che possiamo risolvere le sfide comuni e urgenti della nostra epoca». Obama e McCain hanno aggiunto che è stato «in questo spirito che abbiamo avuto oggi una conversazione produttiva sul bisogno di lanciare una nuova era di riforme nella quale affrontare gli sprechi del governo e la dura divisione che esiste a Washington, per ristabilire la fiducia nel governo e riportare prosperità e opportunità a ogni famiglia americana che lavora duramente». I due ex rivali nella campagna elettorale, hanno concluso dicendo di sperare «di lavorare insieme nei giorni e nei mesi che ci aspettano su sfide critiche, come risolvere la crisi finanziaria, creare una nuova economia energetica e proteggere la sicurezza nazionale». da ilmessaggero.it Titolo: Massimo Gaggi Obama, le prime delusioni Inserito da: Admin - Novembre 23, 2008, 10:57:19 pm 23/11/2008
Obama farà quel che potrà GUIDO CERONETTI Quando fu eletto Franklin Delano Roosevelt (1932) un inviato speciale italiano (penso fosse Luigi Barzini, ma non ho certezza) nella sua prefazione a un libro sull’America concludeva così - altro non ricordo, l’avrò trovato in casa dopo il 1945: «Oggi col nuovo Presidente raggia la luce di una nuova aurora, ma la vita è triste, è meccanica come prima». Meno l’altra metà (la destruens) della frase, la prima contiene in sintesi la maggior parte dei commenti mondiali all’elezione 2008 di Obama. Ma una riflessione, che propizia questa interminabile Transizione, in cui il President elect ha tempo di far yoga, rilassarsi, inseguire una propria immagine di mondo, se voglia essere meno facilmente messianica e più comprensiva, non deve trascurare la seconda osservazione. È un dittico: un sinologo può vedere quella lontana, e nuovamente attualissima frase, come immagine bilanciata di Yang e di Yin, e in tal modo stringiamo più America. Stringere l’inafferrabile. Yes we can... No, non possiamo. Un nostro filosofo (nostro, intendo, in quanto europeo), Jean Baudrillard, che sull’America, visitata classicamente da Est a Ovest, ha scritto libro bellissimo (lo trovi anche in italiano: America, SE, 2000), tutto meditabile, arrivato in California definisce gli Stati Uniti «carrellata infinita attraverso il minerale e le autostrade», e lo sguardo telescopico europeo che li osserva come proiezione di «una cultura critica allo stato agonico». La misura europea non può adeguarsi alla dismisura americana. Non basta ad avvicinarle il fatto che la meccanicità e il malessere esistenziale propri della Via Americana si siano estesi in crescenti cumuli alle contrade europee, unificate da accordi astratti (o senza criterio, come Schengen), non basta neppure il fatto che la terrificante violenza della realtà americana abbia un parallelismo impressionante in quella delle città europee, perché mi pare che le modalità di questa violenza non combacino. (E l’africana e l’asiatica sono ancora altre violenze). Il crimine di sangue all’europea resta principalmente legato all’ambiente familiare e alla perdita radicale di tutte le ragioni ideali del vivere; in America la causa e l’effetto sono caos senza confini, e la violenza è eruzione vulcanica permanente perché è provocata da tutto. Che cosa avrà potuto capire Obama nella sua tournée in Europa, candidato in cerca di consenso futuro? Che cosa, di Obama, può capire una Europa politica, tutta materialista e pratica, della misteriosa, fondamentale, persistente a tutto, spiritualità (non papistica) americana? Gli umori antiobamisti dei cattolici europei non sono accidentali: si accentueranno. Vaticano e Casa Bianca potranno risparmiarsi la spesa telefonica, salvo lo scambio di Buon Natali di indigesta rifrittura. C’è anche qui un ricorsino storico: un papa molto e chiaramente filotedesco all’epoca di Roosevelt, e ora un papa tedeschissimo, di grande Kultur agonica, di fronte al raggiare aurorale di Obama. E grazie a Dio che così sia: che non ci siano, a distanza di oceani, una grinta e una crocchetta, come in Italia, ma due grinte grintose, una rissa di dure superiorità contrapposte. Una definizione di Obama, nel cono d’ombra in fermento della Transizione, valevole per tutti gli anni di potere che gli avrà assegnato il Fato, è facile: il Presidente degli incurabili. Incurabile tutta è la realtà mondiale. Incurabile è l’ideologia dominante, tutta centrata (per inaudita deviazione mentale e linguistica) su una ipotesi di economia il cui fondamento è indefinibile ma è certamente né economico né politico. Correggibile, emendabile (con molti forse) lo stato delle guerre, perché la guerra - è la sua unica bontà - ha due corni risolutivi, alla fine si vince o si perde, salvo ad avere un destino ebraico - e l’America non può perdere. Se si riesce a vedere la Cosa detta Economia al di sopra dell’orbita consueta che è da Paese dei Ciechi, possiamo anche vederne trascendentalmente l’inevitabile incorreggibilità. E questo basterebbe a differenziare radicalmente la presidenza cui fu raddrizzamente un New Deal ripetuto da quella di un governatore d’incurabili come l’imminente, bisognosa di infinitamente più dilatazione della visione, e di una visione senza frontiere. Linguaggio, that is the question. Non è per spregio o per ignoranza dei suoi nodi (pur essendo questa, in me, ignoranza provata) che scrivo la parola economia deglutendo saliva, ma per la sua inadeguatezza espressiva che non si sa come surrogare per avvicinare la cosa. Se ne parla torrenzialmente, morbosamente, teocraticamente, in un chiacchiericcio piramidale, di vertice in vertice, di mondialità in mondialità, perfino con la ridicola aggiunta, per darle un vago colorito vitale, di reale. Dov’è la realtà in relazioni umane in cui la totalità del flusso della vita è violentemente sottomessa a monete galleggianti nel vuoto della pura moltiplicazione simbolica? Anche se la casa è l’America o l’Europa, l’ètimo, vagina delle parole, dà per economia: legge della casa. E il rapporto degli Stati, casa di tutti, governati da esperti senza illuminazione, impregnati di virtuale, attaccati a una slot-machine sghignazzante, con la realtà-reale, somiglia alla casetta della Febbre dell’Oro di Chaplin oscillante sull’orlo di un precipizio. Per costringere tutta questa assenza di parole vere, questa immane bocca da statistiche di Borsa, a vomitare un’idea di realtà, la chiamerei economia tragica. Se Obama, messa da parte la formula elettorale vittoriosa ma falsa yes we can, pervenisse a porsi davanti agli occhi il Tragico fondamentale di questa economia capitalista mondiale da tempo e oggi crucialmente nel vicolo cieco del dilemma tra sviluppo produttivo e tecnoscientifico senza tregue né limiti e distruzione-abbrutimento di esseri umani in spazi sempre più ristretti e micidiali per la vita, sarebbe, proprio in quanto cosciente di essere il presidente degli incurabili del suo e di ogni paese, il più illuminato, il più rischiarato dal lume della ragione, dalla percezione autentica di ciò-che-è, dei presidenti americani oggi possibile, pur governando il timone di una nave impazzita, con le stive strapiene di anonima poltiglia umana in permanente zuffa. Un dilemma tragico è tale perché privo di soluzione, e nello stesso tempo incalzato dall’obbligo di una scelta responsabile. Lo sforzo mentale che questo implica schiaccerebbe chiunque. «I cannot: ciò che potrò farò»: questa è la giusta promessa. Al President elect, impazienti di vederlo all’opera e sollevati dal non essere al suo posto, un voto guerriero di Buona Fortuna. da lastampa.it Titolo: Massimo Gaggi Obama, le prime delusioni Inserito da: Admin - Novembre 25, 2008, 12:22:58 pm 25/11/2008
Barack e le sirene del New Deal ALBERTO BISIN La politica economica dell’amministrazione Obama comprenderà certamente un importante stimolo fiscale. I tagli fiscali di Bush saranno resi permanenti per coloro i cui redditi non superino i 200-250 mila dollari, come promesso in campagna elettorale. Inoltre, un grosso piano di spesa in infrastrutture sarà finanziato per limitare gli effetti della crisi sull’occupazione. Nel discorso di sabato alla radio Obama ha usato una retorica da New Deal: «Il fatto che il Sogno Americano sia sopravvissuto per oltre due secoli è testimonianza non solo del potere del sogno stesso, ma anche del grande sforzo, sacrificio e coraggio del popolo americano», «questa è la chance che il nostro nuovo inizio ci offre», e così via. Ma Obama, allo stesso tempo, non ha affatto ceduto alle sirene che nelle scorse settimane gli hanno suggerito politiche fiscali irresponsabili, proponendo forse implicitamente se stesse per attuarle. L’esortazione di Paul Krugman sul New York Times del 31 ottobre, «Obama decida di quanta spesa il Paese ha bisogno, e poi spenda il 50 per cento in più», non pare fortunatamente aver avuto alcun effetto. Né quelle simili di Jeff Sachs su Slate.com o di Joe Stiglitz su The Economist's Voice. Al contrario, Obama ha lanciato espliciti segnali di pace ai mercati per mezzo della scelta della squadra che lo accompagnerà nelle decisioni di politica economica. Si è innanzitutto circondato di esperti di prim’ordine: da Larry Summers, economista di Harvard che agirà da consulente personale del Presidente, a Timothy Geithner, che guiderà il ministero del Tesoro dopo aver gestito la crisi finanziaria con competenza dalla sua posizione di governatore della Fed di New York. Ma, soprattutto, Obama ha scelto personaggi noti per le loro posizioni di difesa della responsabilità fiscale, del libero mercato e del commercio estero, e per la fiducia dei mercati che essi hanno ripetutamente coltivato e guadagnato nelle loro precedenti posizioni pubbliche. Per quanto Obama si sia ben guardato dal produrre una stima del costo del piano di stimolo fiscale che sta preparando, i numeri che circolano sulla stampa e per i blog sembrano prefigurare un piano enorme, forse addirittura di più di 500 miliardi in due anni. Troppi. Troppi perché le tasse future su famiglie e imprese, necessarie per finanzare una spesa di tale entità, finirebbero per limitare la crescita del Paese e quindi per ritardarne l’uscita dalla recessione. Non solo, le aspettative di alte tasse in futuro potrebbero avere l’effetto di rallentare l’attività economica prima ancora che la spesa abbia modo di avere gli effetti espansivi desiderati. È vero che il piano di stimolo prevede non solo spesa anti-congiunturale, ad esempio generosi sussidi alla disoccupazione, ma anche investimenti. Gli investimenti, si dice, si pagano da soli. Ma questo può avvenire solo per investimenti produttivi. Obama aveva visto giusto in campagna elettorale proponendo un piano di investimento sul sistema scolastico elementare. Ma ora si parla insistentemente solo di investimenti pubblici in infrastrutture. Questi investimenti sono purtroppo spesso sinonimo di spreco e bassa produttività: l’immagine tipica negli Stati Uniti è quella del «ponte verso il nulla». Non che non esistano investimenti produttivi, anche necessari. Ma il processo politico finisce per favorire di per sé quelli poco produttivi. Questo in condizioni economiche normali. E quindi a fortiori quando l’obiettivo principale della spesa non è l’investimento stesso ma i posti di lavoro creati dall’investimento. L’idea keynesiana che in una recessione sia utile assumere operai anche per fare buchi e poi ricoprirli è un’enorme stupidaggine. A meno che non si possano finanziare i buchi senza nuove tasse future e senza stampare moneta, risultato che nemmeno i poteri magici di Obama possono raggiungere. Allo stesso modo, è necessario evitare di gettare denaro pubblico ad imprese in fallimento, sventando una necessaria ristrutturazione. È il caso dell’industria dell’auto a Detroit. Per quanto faccia uso della retorica del New Deal, Obama questo lo sa. E fortunatamente lo sanno anche Summers e Geithner. da lastampa.it Titolo: "Quando verrà ucciso Obama?", in Usa si aprono le scommesse Inserito da: Admin - Novembre 25, 2008, 05:31:14 pm 25/11/2008 (15:27) - LA MACABRA TROVATA DI UN COMMERCIANTE IN MAINE
"Quando verrà ucciso Obama?", in Usa si aprono le scommesse Un dollaro per puntare. Il promotore: «Speriamo che qualcuno vinca» NEW YORK Un pò per scherzo e un pò no continuano negli Stati Uniti episodi di minacce di morte contro il presidente eletto Barack Obama. L’ultima macabra trovata arriva da Standish, cittadina del Maine di poco più di 9.000 anime, in cui il proprietario di un negozio ha lanciato l’iniziativa «Osama Obama Shotgun Pool», che invita a scommettere un dollaro sulla data in cui Obama verrà assassinato. Come riportato dal sito dell’emittente Abc, il cartello pubblicitario, accompagnato dalla scritta «Speriamo che qualcuno vinca», ha attirato un gran numero di scommettitori che hanno voluto fare la propria puntata. Il proprietario del negozio - inutile sottolinearlo - non è un elettore democratico. Il consiglio comunale di Standish, pur condannando all’unanimità la scommessa e deprecando ogni incitazione alla violenza, non ha però ritenuto opportuno adottare alcuna misura per vietare l’iniziativa, difendendo il diritto alla libertà di pensiero dell’esercente. da lastampa.it Titolo: Massimo Gaggi Obama, le prime delusioni Inserito da: Admin - Novembre 29, 2008, 09:49:30 am LE CRITICHE ALLA SQUADRA
Obama, le prime delusioni di Massimo Gaggi Gente seria, onesta, preparata. Ma sono davvero loro le persone più adatte per realizzare quel cambiamento che è stato il motivo dominante di tutta la campagna di Obama? Dopo gli apprezzamenti della prima ora per la scelta di Tim Geithner e Larry Summers come ministro del Tesoro e superconsigliere economico, ora sono in molti a chiedersi, in casa democratica, dov'è che il nuovo presidente intende portare il partito e il Paese. Obama spiega che ha bisogno di gente esperta e che sarà lui in prima persona il fattore di novità, ma nel «ring» televisivo di This Week le «firme» conservatrici George Will e David Brooks inneggiano alle sue scelte, mentre i progressisti Robert Kuttner e Arianna Huffington sono perplessi, ostentano freddezza. Durissimo William Greider su The Nation, la rivista della sinistra radicale: «Per il Tesoro sono state scelte una persona e idee sbagliate. Lunedì, proprio mentre veniva designato, Geithner ha salvato, coi soldi dei contribuenti, Citigroup: il colosso che lui stesso ha contribuito a creare, con Summers, Rubin e Greenspan, durante la presidenza Clinton. Obama deve spiegare dove sta andando» alla base progressista che si è mobilitata per lui. Kuttner, il direttore di American Prospect, organo della sinistra «bostoniana », è più possibilista: «Obama si è circondato di tecnocrati centristi. Perfino Hillary Clinton avrebbe scelto facce più fresche. Ma forse vuole governare da sinistra dopo aver rassicurato l'establishment: un presidente progressista in abiti pragmatici». Che la concretezza di Obama avrebbe finito, prima o poi, per deludere i radicali, se lo aspettavano in molti. E' accaduto prima del previsto, anche per l'incalzare di una crisi che non lascia spazio per i collaudi. E i conservatori ne approfittano: il Wall Street Journal sottolinea le credenziali liberiste di Summers, grande sostenitore della deregulation degli anni '90, mentre alla Cnbc l'economista-conduttore Larry Kudlow esulta: «McCain non avrebbe potuto fare scelte migliori, la "blogosfera" radicale è furiosa ». Qualche dubbio ce l'hanno anche i democratici moderati. Nessuno contesta l'autorevolezza dei prescelti, ma, in una tempesta che ha ormai le caratteristiche di una crisi di sistema, tutti quelli che hanno partecipato, anno dopo anno, alla costruzione del modello Usa di capitalismo finanziario, si portano dietro qualche responsabilità. A parte Bush, biasimato sia da destra che da sinistra, l'imputato principale è Alan Greenspan. L'ex capo della Fed, osannato ancora due anni fa come il «maestro» dell'orchestra economica mondiale, viene ora dipinto come uno stregone malefico e pasticcione. Ma sui magazine che lo mettevano in copertina come il Salvatore del mondo, non era solo: alle sue spalle c'erano Summers e Rubin (anche lui, ora, con Obama). Quanto a Geithner le critiche non riguardano solo lo scarso successo dei salvataggi che ha fin qui attuato (sotto la guida di Paulson e Bernanke), ma anche il fatto che negli anni del «denaro facile» di Greenspan, lui sedeva nel suo board (dal 2003) e non si è mai opposto. Certo, non era facile per un giovane banchiere tagliare la strada al «Maestro ». Oggi, però, il New York Times promuove con riserva il team di Obama: «Sono bravi ma hanno fatto i loro errori. Devono ammetterli e mostrare che sono cambiati». 27 novembre 2008 da lastampa.it Titolo: Franco Venturini IL TERRORE E OBAMA Avvertimento al presidente Inserito da: Admin - Novembre 29, 2008, 09:50:23 am IL TERRORE E OBAMA
Avvertimento al presidente di Franco Venturini Una vera azione di guerra a Mumbai, un'autobomba nei pressi dell'ambasciata Usa a Kabul, le credibili minacce di attentato contro la metropolitana di New York. Il risveglio è brusco, e un terrorismo per nulla «indebolito» piomba sulla scrivania dello Studio Ovale prim'ancora che Barack Obama ne abbia preso possesso. Gli episodi, certo, sono diversi. Nella capitale economica dell'India non è ancora chiaro quale delle tante formazioni islamiste si sia macchiata della strage negli alberghi «occidentali ». Ma è chiarissimo che l'accurata preparazione degli attacchi e la presa di un gran numero di ostaggi alzano il livello della sfida in un Paese che pure con il terrore è abituato a convivere. L'autobomba nella zona più protetta di Kabul rientra invece in una triste banalità. Quattro morti non sono molti nell'Afghanistan di oggi, e non sorprende più che talebani o qaedisti siano in grado di colpire dove e come vogliono gli «invasori» stranieri. L'allarme decretato a New York per le feste in arrivo, poi, può essere tutto: l'individuazione di un effettivo piano di attacco oppure una mossa dei terroristi per seminare paura e memoria, indipendentemente dalla reale volontà di colpire. Episodi diversi. Ma un filo comune esiste, e si chiama Barack Obama. La campagna elettorale per la Casa Bianca era ancora in corso quando cominciarono a circolare interessanti teorie. Se Obama fosse stato eletto, si disse, la minaccia terroristica avrebbe ritrovato tutto il suo vigore. Perché Obama si sarebbe rivelato debole. Perché la sua politica estera diversa da quella di Bush avrebbe dato nuovo impulso allo «scontro di civiltà». Perché, in definitiva, Obama era incline ad abbassare la guardia. Argomentazioni simili si infilarono persino nell'ubriacatura generale per la vittoria (anche in Italia, con le improvvide dichiarazioni dell'on. Gasparri). Ma è davvero ragionevole pensare che Obama presidente piaccia a Al Qaeda? Semmai, è ragionevole pensare il contrario. Il nuovo capo della Casa Bianca avrà da gestire la pesante eredità di George Bush, della quale difficilmente potrebbe essere considerato responsabile. Ma non basta. Obama ha promesso con grande enfasi, e ripetutamente, di catturare o uccidere quel Bin Laden cui ormai pochi pensano. E soprattutto, Obama rappresenta per qaedisti e affini un serio pericolo di perdita d'influenza in quel mondo arabo-islamico le cui lotte interne tanta parte hanno nel terrorismo islamista. Se ne rende ben conto Ayman al Zawahiri, quando definisce Obama un house negro traditore dell'islam. Infatti, il presidente eletto non è islamico ma ha un padre islamico. È nero ed è stato votato in massa dai neri più diseredati. Anche per questo è popolare nel mondo arabo mille volte più di Bush. Insomma, in attesa delle opportune verifiche è un antidoto temibile alla propaganda di Al Qaeda contro gli arroganti infedeli d'Occidente. E dunque va combattuto raddoppiando gli sforzi, nelle stragi come nel discredito. 28 novembre 2008 da lastampa.it Titolo: Paolo Valentino Oggi Obama schiera la squadra Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2008, 03:29:15 pm Ufficializzati anche i nome di gates alla difesa e jones alla sicurezza
Oggi Obama schiera la squadra Hillary sul podio al suo fianco Delineato il «nocciolo duro» dell'Amministrazione: è la «squadra di rivali» sognata da Barack Dal nostro corrispondente Paolo Valentino WASHINGTON - Il "team of rivals", la squadra di rivali sognata da Barack Obama sulle orme di Abraham Lincoln, diventa realtà. Il presidente-eletto annuncia oggi a Chicago i nomi dei suoi tre moschettieri per la politica estera, confermando di voler privilegiare pragmatismo, flessibilità e talento, anche a rischio di dover conciliare personalità forti e opinioni a volte contrastanti. Come anticipato da giorni, Obama designerà Hillary Clinton alla guida del Dipartimento di Stato, il generale James Jones a consigliere per la Sicurezza nazionale e confermerà l'attuale ministro della Difesa, Robert Gates, al vertice del Pentagono. «Un triumvirato che ispirerà fiducia all'interno e all'estero», ha commentato il senatore repubblicano della Virginia, Mark Warner, secondo cui la scelta «rafforza il crescente rispetto per il coraggio e la capacità del presidente-eletto di selezionare i migliori». Ma le posizioni centriste dei tre fanno parlare altri di «squadra di falchi», che mette in allarme la blogosfera progressista, delusa dal non vedere nomi amici nei posti più importanti del nuovo team e agitata dal sospetto che Obama stia per allontanarsi dal corso promesso durante la campagna. In realtà, viste da vicino, le scelte del presidente-eletto non sono poi così in contraddizione con la linea di politica estera messa a punto durante la lunga stagione elettorale. Obama e Clinton, per cominciare, non hanno differenze significative. Il loro contrasto nelle primarie fu soprattutto sul carattere (che secondo Hillary lui non aveva) e sul giudizio (che secondo Obama a lei era mancato, al momento di votare sulla guerra in Ira1). Hanno sicuramente uno stile diverso, più tendente alla voce grossa quello dell'ex first-lady, più freddo e misurato quello di Obama. Ma entrambi sono per il ritiro cadenzato dalla Mesopotamia, vogliono spostare il focus dell'azione sull'Afghanistan, puntano sulla diplomazia aggressiva con l'Iran e la Russia. Scintille potrebbero certo venire dalle rispettive personalità e dal ruolo di Bill Clinton. Ma nel primo caso la disciplina di gabinetto costringerà Hillary a stare nei ranghi, nel secondo la mina sembra ora disinnescata: l'ex presidente ha infatti dato il suo accordo a rivelare tutti i nomi dei donatori della sua fondazion ed ha accettato di sottoporre preventivamente alla Casa Bianca i testi dei suoi futuri discorsi. Anche con Jones, il primo militare di carriera nel posto di Consigliere per la Sicurezza nazionale dopo Colin Powell nel 1987-88, il presidente-eletto ha poche divergenze sostanziali. Un anno fa, Jones si era detto contrario a fissare una data arbitraria per il ritiro delle truppe dall'Iraq. Ma l'ex comandante della Nato concorda in pieno con Obama che la Mesopotamia sia stata una distrazione dall'Afghanistan, vero fronte della lotta al terrorismo. Jones porta a Obama il suo spirito bipartisan (che non lo ha mai fatto schierare con uno o l'altro partito) e la profonda conoscenza del mondo militare e dell'inteligence. Più problematico, sulla carta, potrebbe essere il rapporto con Robert Gates, unico sopravvissuto dell'Amministrazione Bush e fin qui solo repubblicano del futuro governo di Obama. Le differenze esistono, come la difesa missilistica di cui Gates è sostenitore mentre il presidente-eletto favorisce solo se si dimostrasse realizzabile. O come le armi nucleari, dove Gates appoggia una nuova generazione di testate atomiche, contro il parere della maggior parte dei consiglieri di Obama. Eppure, Gates favorisce forme di dialogo con Teheran, chiede una linea di maggior impegno con la Russia, si è discretamente espresso per un più rapido ritiro dall'Iraq, ha più volte criticato, fatto insolito per un ministro della Difesa, la «crescente militarizzazione della politica estera americana». Più importante, Gates porta in dote al futuro presidente un Pentagono unito e motivato dietro la sua leadership, dopo il disastro degli anni di Rumsfeld. Tre personalità così forti e con opinioni non sempre convergenti porranno sicuramente qualche problema di scelta a Barack Obama. Ma come osservano i suoi fedelissimi, questa è esattamente la situazione preferita dal presidente-eletto: una squadra di rivali per decidere meglio, in nome del pragmatismo e dell'interesse nazionale. 01 dicembre 2008 da corriere.it |